[Txt: Niccolò Machiavelli - Il Principe - L'Arte della guerra - Discorsi sopra la prima Deca di Titio Livio]
[Ant.: Machiavelli]
[Mat. Bibl.: Aggiornamenti Treccani su Machiavelli]
§1 Il carattere fondamentale del Principe è quello di non essere una trattazione sistematica ma un libro «vivente», in cui l’ideologia politica e la scienza politica si fondono nella forma drammatica del «mito». Tra l’utopia e il trattato scolastico, le forme in cui la scienza politica si configurava fino al Machiavelli, questi dette alla sua concezione la forma fantastica e artistica, per cui l’elemento dottrinale e razionale si impersona in un condottiero, che rappresenta plasticamente e «antropomorficamente» il simbolo della «volontà collettiva».
Il processo di formazione di una determinata volontà collettiva, per un determinato fine politico, viene rappresentato non attraverso disquisizioni e classificazioni pedantesche di principii e criteri di un metodo d’azione, ma come qualità, tratti caratteristici, doveri, necessità di una concreta persona, ciò che fa operare la fantasia artistica di chi si vuol convincere e dà una più concreta forma alle passioni politiche.
Il carattere utopistico del Principe è nel fatto che il «principe» non esisteva nella realtà storica, non si presentava al popolo italiano con caratteri di immediatezza obbiettiva, ma era una pura astrazione dottrinaria, il simbolo del capo, del condottiero ideale; ma gli elementi passionali, mitici, contenuti nell’intero volumetto, con mossa drammatica di grande effetto, si riassumono e diventano vivi nella conclusione, nell’invocazione di un principe, «realmente esistente».
Nell’intero volumetto Machiavelli tratta di come deve essere il Principe per condurre un popolo alla fondazione del nuovo Stato, e la trattazione è condotta con rigore logico, con distacco scientifico: nella conclusione il Machiavelli stesso si fa popolo, si confonde col popolo, ma non con un popolo «genericamente» inteso, ma col popolo che il Machiavelli ha convinto con la sua trattazione precedente, di cui egli diventa e si sente coscienza ed espressione, si sente medesimezza: pare che tutto il lavoro «logico» non sia che un’autoriflessione del popolo, un ragionamento interno, che si fa nella coscienza popolare e che ha la sua conclusione in un grido appassionato, immediato. La passione, da ragionamento su se stessa, ridiventa «affetto», febbre, fanatismo d’azione.
Ecco perché l’epilogo del Principe non è qualcosa di estrinseco, di «appiccicato» dall’esterno, di retorico, ma deve essere spiegato come elemento necessario dell’opera, anzi come quell’elemento che riverbera la sua vera luce su tutta l’opera e ne fa come un «manifesto politico».
Il moderno principe, il mito‑principe non può essere una persona reale, un individuo concreto, può essere solo un organismo; un elemento di società complesso nel quale già abbia inizio il concretarsi di una volontà collettiva riconosciuta e affermatasi parzialmente nell’azione. Questo organismo è già dato dallo sviluppo storico ed è il partito politico, la prima cellula in cui si riassumono dei germi di volontà collettiva che tendono a divenire universali e totali.
Nel mondo moderno solo un’azione storico‑politica immediata e imminente, caratterizzata dalla necessità di un procedimento rapido e fulmineo, può incarnarsi miticamente in un individuo concreto: la rapidità non può essere resa necessaria che da un grande pericolo imminente, grande pericolo che appunto crea fulmineamente l’arroventarsi delle passioni e del fanatismo, annichilendo il senso critico e la corrosività ironica che possono distruggere il carattere «carismatico» del condottiero (ciò che è avvenuto nell’avventura di Boulanger).
Ma un’azione immediata di tal genere, per la sua stessa natura, non può essere di vasto respiro e di carattere organico: sarà quasi sempre del tipo restaurazione e riorganizzazione e non del tipo proprio alla fondazione di nuovi Stati e nuove strutture nazionali (come era il caso nel Principe del Machiavelli, in cui l’aspetto di restaurazione era solo un elemento retorico, cioè legato al concetto letterario dell’Italia discendente di Roma e che doveva restaurare l’ordine e la potenza di Roma), di tipo «difensivo» e non creativo originale, in cui, cioè, si suppone che una volontà collettiva, già esistente, si sia snervata, dispersa, abbia subito un collasso pericoloso e minaccioso ma non decisivo e catastrofico e occorra riconcentrarla e irrobustirla, e non già che una volontà collettiva sia da creare ex novo, originalmente e da indirizzare verso mete concrete sì e razionali, ma di una concretezza e razionalità non ancora verificate e criticate da una esperienza storica effettuale e universalmente conosciuta.
Una delle prime parti dovrebbe appunto essere dedicata alla «volontà collettiva», impostando così la quistione: quando si può dire che esistano le condizioni perché possa suscitarsi e svilupparsi una volontà collettiva nazionale‑popolare? Quindi un’analisi storica (economica) della struttura sociale del paese dato e una rappresentazione «drammatica» dei tentativi fatti attraverso i secoli per suscitare questa volontà e le ragioni dei successivi fallimenti. Perché in Italia non si ebbe la monarchia assoluta al tempo di Machiavelli? Bisogna risalire fino all’Impero Romano (questione della lingua, degli intellettuali ecc.), comprendere la funzione dei Comuni medioevali, il significato del Cattolicismo ecc.: occorre insomma fare uno schizzo di tutta la storia italiana, sintetico ma esatto.
La ragione dei successivi fallimenti dei tentativi di creare una volontà collettiva nazionale‑popolare è da ricercarsi nell’esistenza di determinati gruppi sociali, che si formano dalla dissoluzione della borghesia comunale, nel particolare carattere di altri gruppi che riflettono la funzione internazionale dell’Italia come sede della Chiesa e depositaria del Sacro Romano Impero ecc. Questa funzione e la posizione conseguente determina una situazione interna che si può chiamare «economico‑corporativa», cioè, politicamente, la peggiore delle forme di società feudale, la forma meno progressiva e più stagnante: mancò sempre, e non poteva costituirsi, una forza giacobina efficiente, la forza appunto che nelle altre nazioni ha suscitato e organizzato la volontà collettiva nazionale‑popolare e ha fondato gli Stati moderni. Esistono finalmente le condizioni per questa volontà, ossia quale è il rapporto attuale tra queste condizioni e le forze opposte?
Tradizionalmente le forze opposte sono state l’aristocrazia terriera e più generalmente la proprietà terriera nel suo complesso, col suo tratto caratteristico italiano che è una speciale «borghesia rurale», eredità di parassitismo lasciata ai tempi moderni dallo sfacelo, come classe, della borghesia comunale (le cento città, le città del silenzio). Le condizioni positive sono da ricercare nell’esistenza di gruppi sociali urbani, convenientemente sviluppati nel campo della produzione industriale e che abbiano raggiunto un determinato livello di cultura storico‑politica.
Ogni formazione di volontà collettiva nazionale‑popolare è impossibile se le grandi masse dei contadini coltivatori non irrompono simultaneamente nella vita politica. Ciò intendeva il Machiavelli attraverso la riforma della milizia, ciò fecero i giacobini nella Rivoluzione francese, in questa comprensione è da identificare un giacobinismo precoce del Machiavelli, il germe (più o meno fecondo) della sua concezione della rivoluzione nazionale.
Tutta la storia dal 1815 in poi mostra lo sforzo delle classi tradizionali per impedire la formazione di una volontà collettiva di questo genere, per mantenere il potere «economico‑corporativo» in un sistema internazionale di equilibrio passivo.
Una parte importante del moderno Principe dovrà essere dedicata alla quistione di una riforma intellettuale e morale, cioè alla quistione religiosa o di una concezione del mondo. Anche in questo campo troviamo nella tradizione assenza di giacobinismo e paura del giacobinismo (l’ultima espressione filosofica di tale paura è l’atteggiamento maltusiano di B. Croce verso la religione). Il moderno Principe deve e non può non essere il banditore e l’organizzatore di una riforma intellettuale e morale, ciò che poi significa creare il terreno per un ulteriore sviluppo della volontà collettiva nazionale popolare verso il compimento di una forma superiore e totale di civiltà moderna.
Questi due punti fondamentali – formazione di una volontà collettiva nazionale‑popolare di cui il moderno Principe è nello stesso tempo l’organizzatore e l’espressione attiva e operante, e riforma intellettuale e morale – dovrebbero costituire la struttura del lavoro. I punti concreti di programma devono essere incorporati nella prima parte, cioè dovrebbero «drammaticamente», risultare dal discorso, non essere una fredda e pedantesca esposizione di raziocini.
Può esserci riforma culturale e cioè elevamento civile degli strati depressi della società, senza una precedente riforma economica e un mutamento nella posizione sociale e nel mondo economico? Perciò una riforma intellettuale e morale non può non essere legata a un programma di riforma economica, anzi il programma di riforma economica è appunto il modo concreto con cui si presenta ogni riforma intellettuale e morale.
Il moderno Principe, sviluppandosi, sconvolge tutto il sistema di rapporti intellettuali e morali in quanto il suo svilupparsi significa appunto che ogni atto viene concepito come utile o dannoso, come virtuoso o scellerato, solo in quanto ha come punto di riferimento il moderno Principe stesso e serve a incrementare il suo potere o a contrastarlo. Il Principe prende il posto, nelle coscienze, della divinità o dell’imperativo categorico, diventa la base di un laicismo moderno e di una completa laicizzazione di tutta la vita e di tutti i rapporti di costume.
§3 Oltre che dal modello esemplare delle grandi monarchie e assolute di Francia e Spagna, il Machiavelli fu mosso alla sua concezione politica della necessità di uno Stato unitario italiano dal ricordo del passato di Roma. Occorre far risaltare però che non perciò il Machiavelli è da confondere con la tradizione letteraria‑retorica. Intanto perché questo elemento non è esclusivo e neanche dominante, e la necessità di un grande Stato nazionale non è dedotta da esso, e poi anche perché lo stesso richiamo a Roma è meno astratto di quanto paia, se collocato puntualmente nel clima dell’Umanesimo e del Rinascimento. Nel libro VII dell’Arte della guerra si legge: «questa provincia (l’Italia) pare nata per risuscitare le cose morte, come si è visto della poesia, della pittura e della scultura», perché dunque non ritroverebbe la virtù militare? ecc. Saranno da raggruppare gli altri accenni del genere per stabilirne l’esatto carattere.
§4 Prendendo le mosse dall’affermazione del Foscolo, nei Sepolcri, che il Machiavelli «temprando lo scettro ai regnatori, gli allor ne sfronda, ed alle genti svela di che lacrime grondi e di che sangue», si potrebbe fare una raccolta di tutte le massime «universali» di prudenza politica contenute negli scritti del Machiavelli e ordinarle con un commento opportuno (forse una raccolta di tal genere esiste già).
§5 Grande politica (alta politica) ‑ piccola politica (politica del giorno per giorno, politica parlamentare, di corridoio, d’intrigo). La grande politica comprende le quistioni connesse con la fondazione di nuovi Stati, con la lotta per la distruzione, la difesa, la conservazione di determinate strutture organiche economico‑sociali. La piccola politica le quistioni parziali e quotidiane che si pongono nell’interno di una struttura già stabilita per le lotte di preminenza tra le diverse frazioni di una stessa classe politica.
È pertanto grande politica il tentare di escludere la grande politica dall’ambito interno della vita statale e di ridurre tutto a piccola politica (Giolitti, abbassando il livello delle lotte interne faceva della grande politica; ma i suoi succubi, erano oggetto di grande politica, ma facevano essi della piccola politica). È invece da dilettanti porre le quistioni in modo tale che ogni elemento di piccola politica debba necessariamente diventare quistione di grande politica, di radicale riorganizzazione dello Stato.
Gli stessi termini si ripresentano nella politica internazionale: 1) la grande politica nelle quistioni che riguardano la statura relativa dei singoli Stati nei confronti reciproci; 2) la piccola politica nelle quistioni diplomatiche che nascono nell’interno di un equilibrio già costituito e che non tentano di superare l’equilibrio stesso per creare nuovi rapporti.
Il Machiavelli esamina specialmente le quistioni di grande politica: creazione di nuovi Stati, conservazione e difesa di strutture organiche nel complesso; quistioni di dittatura e di egemonia su vasta scala, cioè su tutta l’area statale. Il Russo nei Prolegomeni fa del Principe il trattato della dittatura (momento dell’autorità e dell’individuo) e dei Discorsi quello dell’egemonia (momento dell’universale e della libertà). L’osservazione del Russo è esatta, sebbene anche nel Principe non manchino gli accenni al momento dell’egemonia o del consenso accanto a quelli dell’autorità o della forza. Così è giusta l’osservazione che non c’è opposizione di principio tra principato e repubblica, ma si tratti piuttosto della ipostasi dei due momenti di autorità e universalità.
§9 Lo Schopenhauer avvicina l’insegnamento di scienza politica del Machiavelli a quello impartito dal maestro di scherma che insegna l’arte di ammazzare (ma anche di non farsi ammazzare) ma non perciò insegna a diventare sicari e assassini. (Trovare il riferimento esatto).
§13 Accanto ai meriti della moderna «machiavellistica» derivata dal Croce, occorre segnalare anche le «esagerazioni» e le deviazioni cui ha dato luogo. Si è formata l’abitudine di considerare troppo il Machiavelli come il «politico in generale», come lo «scienziato della politica», attuale in tutti i tempi.
Bisogna considerare maggiormente il Machiavelli come espressione necessaria del suo tempo e come strettamente legato alle condizioni e alle esigenze del tempo suo che risultano: 1) dalle lotte interne della repubblica fiorentina e dalla particolare struttura dello Stato che non sapeva liberarsi dai residui comunali‑municipali, cioè da una forma divenuta inceppante di feudalismo; 2) dalle lotte tra gli Stati italiani per un equilibrio nell’ambito italiano, che era ostacolato dall’esistenza del papato e dagli altri residui feudali, municipalistici della forma statale cittadina e non territoriale; 3) dalle lotte degli Stati italiani più o meno solidali per un equilibrio europeo, ossia dalle contraddizioni tra le necessità di un equilibrio interno italiano e le esigenze degli Stati europei in lotta per l’egemonia.
Su Machiavelli opera l’esempio della Francia e della Spagna che hanno raggiunto una forte unità statale territoriale; il Machiavelli fa un «paragone ellittico» (per usare l’espressione crociana) e desume le regole per uno Stato forte in generale e italiano in particolare.
Machiavelli è uomo tutto della sua epoca e la sua scienza politica rappresenta la filosofia del tempo che tende all’organizzazione delle monarchie nazionali assolute, la forma politica che permette e facilita un ulteriore sviluppo delle forze produttive borghesi. In Machiavelli si può scoprire in nuce la separazione dei poteri e il parlamentarismo (il regime rappresentativo): la sua «ferocia» è rivolta contro i residui del mondo feudale, non contro le classi progressive. Il Principe deve porre termine all’anarchia feudale e ciò fa il Valentino in Romagna, appoggiandosi sulle classi produttive, mercanti e contadini.
Dato il carattere militare‑dittatoriale del capo dello Stato, come si richiede in un periodo di lotta per la fondazione e il consolidamento di un nuovo generale statale: se le classi urbane vogliono porre fine al disordine interno e all’anarchia esterna devono appoggiarsi sui contadini come massa, costituendo una forza armata sicura e fedele di tipo assolutamente diverso dalle compagnie di ventura.
Si può dire che la concezione essenzialmente politica è così dominante nel Machiavelli che gli fa commettere gli errori di carattere militare: egli pensa specialmente alle fanterie, le cui masse possono essere arruolate con un’azione politica e perciò misconosce il significato dell’artiglieria.
Da una concezione del Machiavelli più aderente ai tempi deriva subordinatamente una valutazione più storicistica dei così detti «antimachiavellici», o almeno dei più «ingenui» tra essi. Non si tratta, in realtà, di antimachiavellici, ma di politici che esprimono esigenze del tempo loro o di condizioni diverse da quelle che operavano sul Machiavelli; la forma polemica è pura accidentalità letteraria.
L’esempio tipico di questi «antimachiavellici» mi pare da ricercare in Jean Bodin (1530‑96) che fu deputato agli Stati Generali di Blois del 1576 e vi fece rifiutare dal Terzo Stato i sussidi domandati per la guerra civile. (Opere del Bodin: Methodus ad facilem historiarum cognitionem (1566) dove indica l’influenza del clima sulla forma degli Stati, accenna a un’idea di progresso ecc.; La Republique (1576) dove esprime le opinioni del Terzo Stato sulla monarchia assoluta e i suoi rapporti col popolo; Hentaplomores (inedito fino all’epoca moderna) in cui confronta tutte le religioni e le giustifica come espressioni diverse della religione naturale, sola ragionevole, e tutte egualmente degne di rispetto e di tolleranza.
Durante le guerre civili in Francia, il Bodin è l’esponente del terzo partito, detto dei «politici», che si pone dal punto di vista dell’interesse nazionale, cioè di un equilibrio interno delle classi in cui l’egemonia appartiene al Terzo Stato attraverso il Monarca. Mi pare evidente che classificare il Bodin fra gli «antimachiavellici» sia quistione assolutamente estrinseca e superficiale.
Il Bodin fonda la scienza politica in Francia in un terreno molto più avanzato e complesso di quello che l’Italia aveva offerto al Machiavelli. Per il Bodin non si tratta di fondare lo Stato unitario‑territoriale (nazionale) cioè di ritornare all’epoca di Luigi XI, ma di equilibrare le forze sociali in lotta nell’interno di questo Stato già forte e radicato; non il momento della forza interessa il Bodin, ma quello del consenso.
Col Bodin si tende a sviluppare la monarchia assoluta: il Terzo Stato è talmente cosciente della sua forza e della sua dignità, conosce così bene che la fortuna della Monarchia assoluta è legata alla propria fortuna e al proprio sviluppo, che pone delle condizioni per il suo consenso, presenta delle esigenze, tende a limitare l’assolutismo. In Francia il Machiavelli serviva già alla reazione, perché poteva servire a giustificare che si mantenesse perpetuamente il mondo in «culla» (secondo l’espressione di Bertrando Spaventa), quindi bisognava essere «polemicamente» antiMachiavellici.
È da notare che nell’Italia studiata dal Machiavelli non esistevano istituzioni rappresentative già sviluppate e significative per la vita nazionale come quelle degli Stati Generali in Francia. Quando modernamente si osserva tendenziosamente che le istituzioni parlamentari in Italia sono state importate dall’estero, non si tiene conto che ciò riflette solo una condizione di arretratezza e di stagnazione della storia italiana politica sociale dal 500 al 700, condizione che era dovuta in gran parte alla preponderanza dei rapporti internazionali su quelli interni, paralizzati e assiderati.
Che la struttura statale italiana, per le preponderanze straniere, sia rimasta alla fase semifeudale di un oggetto di «suzeraineté» straniera, è forse «originalità» nazionale distrutta dall’importazione delle forme parlamentari che invece danno una forma al processo di liberazione nazionale? e al passaggio allo Stato territoriale moderno (indipendente e nazionale)?
Del resto istituzioni rappresentative sono esistite, specialmente nel Mezzogiorno e in Sicilia, ma con carattere molto più ristretto che in Francia, per il poco sviluppo in queste regioni del Terzo Stato, cosa per cui i Parlamenti erano strumenti per mantenere l’anarchia dei baroni contro i tentativi innovatori della monarchia, che doveva appoggiarsi ai «lazzari» in assenza di una borghesia. Ricordare lo studio di Antonio Panella sugli Antimachiavellici pubblicato nel «Marzocco» del 1927 (o anche 26? in undici articoli): vedere come vi è giudicato il Bodin in confronto al Machiavelli e come è posto in generale il problema dell’antimachiavellismo.
Che il programma o la tendenza di collegare la città alla campagna potesse avere nel Machiavelli solo un’espressione militare si capisce riflettendo che il giacobinismo francese sarebbe inesplicabile senza il presupposto della cultura fisiocratica, con la sua dimostrazione dell’importanza economica e sociale del coltivatore diretto.
§14 Altro punto da fissare e da svolgere è quello della «doppia prospettiva» nell’azione politica e nella vita statale. Vari gradi in cui può presentarsi la doppia prospettiva, dai più elementari ai più complessi, ma che possono ridursi teoricamente a due gradi fondamentali, corrispondenti alla doppia natura del Centauro machiavellico, ferina ed umana, della forza e del consenso, dell’autorità e dell’egemonia, della violenza e della civiltà, del momento individuale e di quello universale (della «Chiesa» e dello «Stato»), dell’agitazione e della propaganda, della tattica e della strategia ecc.
Alcuni hanno ridotto la teoria della «doppia prospettiva» a qualcosa di meschino e di banale, a niente altro cioè che a due forme di «immediatezza» che si succedono meccanicamente nel tempo con maggiore o minore «prossimità».
Può invece avvenire che quanto più la prima «prospettiva» è «immediatissima», elementarissima, tanto più la seconda debba essere «lontana» (non nel tempo, ma come rapporto dialettico) complessa, elevata, cioè può avvenire come nella vita umana, che quanto più un individuo è costretto a difendere la propria esistenza fisica immediata, tanto più sostiene e si pone dal punto di vista di tutti i complessi e più elevati valori della civiltà e dell’umanità.
§15 Nella nozione di grande potenza è da considerare anche l’elemento «tranquillità interna» cioè il grado e l’intensità della funzione egemonica del gruppo sociale dirigente; (questo elemento è da ricercare nella valutazione della potenza di ogni Stato, ma acquista maggiore importanza nella considerazione delle grandi potenze. Né vale ricordare la storia dell’antica Roma e delle lotte interne che non impedirono l’espansione vittoriosa ecc.; oltre agli altri elementi differenziali, basta considerare questo, che Roma era la sola grande potenza dell’epoca, e che non aveva da temere la concorrenza di rivali potenti, dopo la distruzione di Cartagine).
Si potrebbe perciò dire che quanto più forte è l’apparato di polizia, tanto più debole è l’esercito e quanto più debole (cioè relativamente inutile) la polizia, tanto più forte è l’esercito (di fronte alla prospettiva di una lotta internazionale).
§16 Il «troppo» (e quindi superficiale e meccanico) realismo politico porta spesso ad affermare che l’uomo di Stato deve operare solo nell’ambito della «realtà effettuale», non interessarsi del «dover essere», ma solo dell’«essere». Ciò significherebbe che l’uomo di Stato non deve avere prospettive oltre la lunghezza del proprio naso. Questo errore ha condotto Paolo Treves a trovare nel Guicciardini e non nel Machiavelli il «vero politico».
Bisogna distinguere oltre che tra «diplomatico» e «politico», anche tra scienziato della politica e politico in atto. Il diplomatico non può non muoversi solo nella realtà effettuale, perché la sua attività specifica non è quella di creare nuovi equilibri, ma di conservare entro certi quadri giuridici un equilibrio esistente. Così anche lo scienziato deve muoversi solo nella realtà effettuale in quanto mero scienziato. Ma il Machiavelli non è un mero scienziato; egli è un uomo di parte, di passioni poderose, un politico in atto, che vuol creare nuovi rapporti di forze e perciò non può non occuparsi del «dover essere», certo non inteso in senso moralistico.
La quistione non è quindi da porre in questi termini, è più complessa: si tratta cioè di vedere se il «dover essere» è un atto arbitrario o necessario, è volontà concreta, o velleità, desiderio, amore con le nuvole.
Il politico in atto è un creatore, un suscitatore, ma né crea dal nulla, né si muove nel vuoto torbido dei suoi desideri e sogni. Si fonda sulla realtà effettuale, ma cos’è questa realtà effettuale? È forse qualcosa di statico e immobile o non piuttosto un rapporto di forze in continuo movimento e mutamento di equilibrio?
Applicare la volontà alla creazione di un nuovo equilibrio delle forze realmente esistenti ed operanti, fondandosi su quella determinata forza che si ritiene progressiva, e potenziandola per farla trionfare è sempre muoversi nel terreno della realtà effettuale ma per dominarla e superarla (o contribuire a ciò). Il «dover essere» è quindi concretezza, anzi è la sola interpretazione realistica e storicistica della realtà, è sola storia in atto e filosofia in atto, sola politica.
L’opposizione Savonarola‑Machiavelli non è l’opposizione tra essere e dover essere (tutto il paragrafo del Russo su questo punto è pura belletristica) ma tra due dover essere, quello astratto e fumoso del Savonarola e quello realistico del Machiavelli, realistico anche se non diventato realtà immediata, poiché non si può attendere che un individuo o un libro mutino la realtà ma solo la interpretino e indichino la linea possibile dell’azione.
§25 «Doppiezza» e «ingenuità» del Machiavelli. Cfr articolo di Adolfo Oxilia Machiavelli nel teatro («Cultura» dell’ottobre‑dicembre 1933). Interpretazione romantico‑liberale del Machiavelli (Rousseau nel Contratto Sociale, III, 6; Foscolo nei Sepolcri; Mazzini nel breve saggio sul Machiavelli). Mazzini scrive: «Ecco ciò che i vostri principi, deboli e vili quanti sono, faranno per dominarvi: or pensateci». Rousseau vede nel Machiavelli un «gran republicano», il quale fu costretto dai tempi – senza che ne derivi alcuna menomazione della sua dignità morale – a «déguiser son amour pour la liberté» e a fingere di dare lezioni ai re per darne «des grandes aux peuples».
Filippo Burzio ha notato che una tale interpretazione, invece di giustificare moralmente il machiavellismo, in realtà prospetta un «machiavellismo al quadrato»: giacché l’autore del Principe non solo darebbe consigli di frode bensì anche con frode, a rovina di coloro stessi cui sono rivolti.
Bisogna ricostruire i tempi, e le esigenze che il Machiavelli vedeva in essi. In realtà, pare si possa dire, nonostante che il Principe abbia una destinazione precisa, che il libro non è scritto per nessuno e per tutti: è scritto per un ipotetico «uomo della provvidenza» che potrebbe manifestarsi così come si era manifestato il Valentino o altri condottieri, dal nulla, senza tradizione dinastica, per le sue qualità militari eccezionali.
La conclusione del Principe giustifica tutto il libro anche verso le masse popolari che realmente dimenticano i mezzi impiegati per raggiungere un fine se questo fine è storicamente progressivo, cioè risolve i problemi essenziali dell’epoca e stabilisce un ordine in cui sia possibile muoversi, operare, lavorare tranquillamente.
Nell’interpretare il Machiavelli si dimentica che la monarchia assoluta era in quei tempi una forma di reggimento popolare e che essa si appoggiava sui borghesi contro i nobili e anche contro il clero. (L’Oxilia accenna all’ipotesi che l’interpretazione democratica del Machiavelli nel periodo 700‑800 sia stata rafforzata e resa più ovvia dal Giorno del Parini, «satirico istitutore del giovin signore, come il Machiavelli – in altri tempi, con altre nature e misure d’uomini – sarebbe stato il tragico istitutore del principe»).
Storiografia
§17 Analisi delle situazioni: rapporti di forza. È il problema dei rapporti tra struttura e superstrutture che bisogna impostare esattamente e risolvere per giungere a una giusta analisi delle forze che operano nella storia di un determinato periodo e determinare il loro rapporto. Occorre muoversi nell’ambito di due principii: 1) quello che nessuna società si pone dei compiti per la cui soluzione non esistano già le condizioni necessarie e sufficienti o esse non siano almeno in via di apparizione e di sviluppo; 2) e quello che nessuna società si dissolve e può essere sostituita se prima non ha svolto tutte le forme di vita che sono implicite nei suoi rapporti (controllare l’esatta enunciazione di questi principii).
«Una formazione sociale non perisce, prima che non siano sviluppate tutte le forze produttive per le quali essa è ancora sufficiente e nuovi più alti rapporti di produzione non ne abbiano preso il posto, prima che le condizioni materiali di esistenza di questi ultimi siano state covate nel seno stesso della vecchia società. Perciò l’umanità si pone sempre solo quei compiti che essa può risolvere; se si osserva con più accuratezza si troverà sempre che il compito stesso sorge solo dove le condizioni materiali della sua risoluzione esistono già o almeno sono nel processo del loro divenire» (Introduzione a Critica dell’Economia Politica).
Dalla riflessione su questi due canoni si può giungere allo svolgimento di tutta una serie di altri principii di metodologia storica.
Intanto nello studio di una struttura occorre distinguere i movimenti organici (relativamente permanenti) da i movimenti che si possono chiamare di congiuntura (e si presentano come occasionali, immediati, quasi accidentali). I fenomeni di congiuntura sono certo dipendenti anch’essi da movimenti organici, ma il loro significato non è di vasta portata storica: essi danno luogo a una critica politica spicciola, del giorno per giorno, che investe i piccoli gruppi dirigenti e le personalità responsabili immediatamente del potere. I fenomeni organici danno luogo alla critica storico‑sociale, che investe i grandi aggruppamenti, di là dalle persone immediatamente responsabili e di là dal personale dirigente.
L’errore in cui si cade spesso nelle analisi storico‑politiche consiste nel non saper trovare il giusto rapporto tra ciò che è organico e ciò che è occasionale: si riesce così o ad esporre come immediatamente operanti cause che invece sono operanti mediatamente, o ad affermare che le cause immediate sono le sole cause efficienti; nell’un caso si ha l’eccesso di «economismo» o di dottrinarismo pedantesco, dall’altro l’eccesso di «ideologismo», nell’un caso si sopravalutano le cause meccaniche; nell’altro si esalta l’elemento volontaristico e individuale.
(La distinzione tra «movimenti» e fatti organici e movimenti e fatti di «congiuntura» o occasionali deve essere applicata a tutti i tipi di situazione, non solo a quelle in cui si verifica uno svolgimento regressivo o di crisi acuta, ma a quelle in cui si verifica uno svolgimento progressivo o di prosperità e a quelle in cui si verifica una stagnazione delle forze produttive).
Il nesso dialettico tra i due ordini di movimento e quindi di ricerca difficilmente viene stabilito esattamente e se l’errore è grave nella storiografia, ancor più grave diventa nell’arte politica, quando si tratta non di ricostruire la storia passata ma di costruire quella presente e avvenire: i proprii desideri e le proprie passioni deteriori e immediate sono la causa dell’errore, in quanto essi sostituiscono l’analisi obbiettiva e imparziale e ciò avviene non come «mezzo» consapevole per stimolare all’azione ma come autoinganno. La biscia, anche in questo caso, morde il ciarlatano ossia il demagogo è la prima vittima della sua demagogia.
Intanto nel «rapporto di forza» occorre distinguere diversi momenti o gradi, che fondamentalmente sono questi:
1) Un rapporto di forze sociali strettamente legato alla struttura, obbiettivo, indipendente dalla volontà degli uomini, che può essere misurato coi sistemi delle scienze esatte o fisiche. Sulla base del grado di sviluppo delle forze materiali di produzione si hanno i raggruppamenti sociali, ognuno dei quali rappresenta una funzione e ha una posizione data nella produzione stessa. Questo rapporto è quello che è, una realtà ribelle: nessuno può modificare il numero delle aziende e dei suoi addetti, il numero delle città con la data popolazione urbana ecc. Questo schieramento fondamentale permette di studiare se nella società esistono le condizioni necessarie e sufficienti per una sua trasformazione, permette cioè di controllare il grado di realismo e di attuabilità delle diverse ideologie che sono nate nel suo stesso terreno, nel terreno delle contraddizioni che esso ha generato durante il suo sviluppo.
2) Un momento successivo è il rapporto delle forze politiche, cioè la valutazione del grado di omogeneità, di autocoscienza e di organizzazione raggiunto dai vari gruppi sociali. Questo momento può essere a sua volta analizzato e distinto in vari gradi, che corrispondono ai diversi momenti della coscienza politica collettiva, così come si sono manifestati finora nella storia. Il primo e più elementare è quello economico‑corporativo: un commerciante sente di dover essere solidale con un altro commerciante, un fabbricante con un altro fabbricante, ecc., ma il commerciante non si sente ancora solidale col fabbricante; è cioè sentita l’unità omogenea, e il dovere di organizzarla, del gruppo professionale, ma non ancora del gruppo sociale più vasto.
Un secondo momento è quello in cui si raggiunge la coscienza della solidarietà di interessi fra tutti i membri del gruppo sociale, ma ancora nel campo meramente economico. Già in questo momento si pone la quistione dello Stato, ma solo nel terreno di raggiungere una eguaglianza politico‑giuridica coi gruppi dominanti, poiché si rivendica il diritto di partecipare alla legislazione e all’amministrazione e magari di modificarle, di riformarle, ma nei quadri fondamentali esistenti.
Un terzo momento è quello in cui si raggiunge la coscienza che i propri interessi corporativi, nel loro sviluppo attuale e avvenire, superano la cerchia corporativa, di gruppo meramente economico, e possono e debbono divenire gli interessi di altri gruppi subordinati. Questa è la fase più schiettamente politica, che segna il netto passaggio dalla struttura alla sfera delle superstrutture complesse, è la fase in cui le ideologie germinate precedentemente diventano «partito», vengono a confronto ed entrano in lotta fino a che una sola di esse o almeno una sola combinazione di esse, tende a prevalere, a imporsi, a diffondersi su tutta l’area sociale, determinando oltre che l’unicità dei fini economici e politici, anche l’unità intellettuale e morale, ponendo tutte le quistioni intorno a cui ferve la lotta non sul piano corporativo ma su un piano «universale» e creando così l’egemonia di un gruppo sociale fondamentale su una serie di gruppi subordinati.
Lo Stato è concepito sì come organismo proprio di un gruppo, destinato a creare le condizioni favorevoli alla massima espansione del gruppo stesso, ma questo sviluppo e questa espansione sono concepiti e presentati come la forza motrice di una espansione universale, di uno sviluppo di tutte le energie «nazionali», cioè il gruppo dominante viene coordinato concretamente con gli interessi generali dei gruppi subordinati e la vita statale viene concepita come un continuo formarsi e superarsi di equilibri instabili (nell’ambito della legge) tra gli interessi del gruppo fondamentale e quelli dei gruppi subordinati, equilibrii in cui gli interessi del gruppo dominante prevalgono ma fino a un certo punto, non cioè fino al gretto interesse economico‑corporativo.
Nella storia reale questi momenti si implicano reciprocamente, per così dire orizzontalmente e verticalmente, cioè secondo le attività economico‑ sociali (orizzontali) e secondo i territori (verticalmente), combinandosi e scindendosi variamente: ognuna di queste combinazioni può essere rappresentata da una propria espressione organizzata economica e politica.
Ancora bisogna tener conto che a questi rapporti interni di uno Stato‑nazione si intrecciano i rapporti internazionali, creando nuove combinazioni originali e storicamente concrete. Una ideologia, nata in un paese più sviluppato, si diffonde in paesi meno sviluppati, incidendo nel gioco locale delle combinazioni. (La religione, per es., è sempre stata una fonte di tali combinazioni ideologico‑politiche nazionali e internazionali, e con la religione le altre formazioni internazionali, la massoneria, il Rotary Club, gli ebrei, la diplomazia di carriera che suggeriscono espedienti politici di origine storica diversa e li fanno trionfare in determinati paesi, funzionando come partito politico internazionale che opera in ogni nazione con tutte le sue forze internazionali concentrate; ma religione, massoneria, Rotary, ebrei ecc., possono rientrare nella categoria sociale degli «intellettuali», la cui funzione, su scala internazionale, è quella di mediare gli estremi, di «socializzare» i ritrovati tecnici che fanno funzionare ogni attività di direzione, di escogitare compromessi e vie d’uscita tra le soluzioni estreme).
Questo rapporto tra forze internazionali e forze nazionali è ancora complicato dall’esistenza nell’interno di ogni Stato di parecchie sezioni territoriali di diversa struttura e di diverso rapporto di forza in tutti i gradi (così la Vandea era alleata con le forze internazionali reazionarie e le rappresentava nel seno dell’unità territoriale francese; così Lione nella Rivoluzione Francese rappresentava un nodo particolare di rapporti ecc.).
3) Il terzo momento è quello del rapporto delle forze militari, immediatamente decisivo volta per volta. (Lo sviluppo storico oscilla continuamente tra il primo e il terzo momento, con la mediazione del secondo). Ma anche esso non è qualcosa di indistinto e di identificabile immediatamente in forma schematica; si possono anche in esso distinguere due gradi: quello militare in senso stretto o tecnico‑militare e il grado che si può chiamare politico‑militare. Nello sviluppo della storia questi due gradi si sono presentati in una grande varietà di combinazioni.
Altra quistione connessa alle precedenti è quella di vedere se le crisi storiche fondamentali sono determinate immediatamente dalle crisi economiche. La risposta alla quistione è contenuta implicitamente nei paragrafi precedenti, dove sono trattate quistioni che sono un altro modo di presentare quella ora trattata, tuttavia è sempre necessario, per ragioni didattiche, dato il pubblico particolare, esaminare ogni modo di presentarsi di una stessa quistione come fosse un problema indipendente e nuovo.
Si può escludere che, di per se stesse, le crisi economiche immediate producano eventi fondamentali; solo possono creare un terreno più favorevole alla diffusione di certi modi di pensare, di impostare e risolvere le quistioni che coinvolgono tutto l’ulteriore sviluppo della vita statale. Del resto, tutte le affermazioni che riguardano i periodi di crisi o di prosperità possono dar luogo a giudizi unilaterali.
Nel suo compendio di storia della Rivoluzione francese (ed. Colin) il Mathiez, opponendosi alla storia volgare tradizionale, che aprioristicamente «trova» una crisi in coincidenza con le grandi rotture di equilibri sociali, afferma che verso il 1789 la situazione economica era piuttosto buona immediatamente, per cui non si può dire che la catastrofe dello Stato assoluto sia dovuta a una crisi di immiserimento (cfr l’affermazione esatta del Mathiez). Occorre osservare che lo Stato era in preda a una mortale crisi finanziaria e si poneva la quistione su quale dei tre ordini sociali privilegiati dovevano cadere i sacrifizi e i pesi per rimettere in sesto le finanze statali e regali. Inoltre: se la posizione economica della borghesia era florida, certamente non era buona la situazione delle classi popolari delle città e delle campagne, specialmente di queste, tormentate da miseria endemica.
In ogni caso, la rottura dell’equilibrio delle forze non avvenne per cause meccaniche immediate di immiserimento del gruppo sociale che aveva interesse a rompere l’equilibrio e di fatto lo ruppe, ma avvenne nel quadro di conflitti superiori al mondo economico immediato, connessi al «prestigio» di classe (interessi economici avvenire), ad una esasperazione del sentimento di indipendenza, di autonomia e di potere.
La quistione particolare del malessere o benessere economico come causa di nuove realtà storiche è un aspetto parziale della quistione dei rapporti di forza nei loro vari gradi. Possono prodursi novità sia perché una situazione di benessere è minacciata dal gretto egoismo di un gruppo avversario, come perché il malessere è diventato intollerabile e non si vede nella vecchia società nessuna forza che sia capace di mitigarlo e di ristabilire una normalità con mezzi legali.
Si può dire pertanto che tutti questi elementi sono la manifestazione concreta delle fluttuazioni di congiuntura dell’insieme dei rapporti sociali di forza, nel cui terreno avviene il passaggio di questi a rapporti politici di forza per culminare nel rapporto militare decisivo.
Se manca questo processo di sviluppo da un momento all’altro, ed esso è essenzialmente un processo che ha per attori gli uomini e la volontà e capacità degli uomini, la situazione rimane inoperosa, e possono darsi conclusioni contradditorie: la vecchia società resiste e si assicura un periodo di «respiro», sterminando fisicamente l’élite avversaria e terrorizzando le masse di riserva, oppure anche la distruzione reciproca delle forze in conflitto con l’instaurazione della pace dei cimiteri, magari sotto la vigilanza di una sentinella straniera.
Ma l’osservazione più importante da fare a proposito di ogni analisi concreta dei rapporti di forza è questa: che tali analisi non possono e non debbono essere fine a se stesse (a meno che non si scriva un capitolo di storia del passato) ma acquistano un significato solo se servono a giustificare una attività pratica, una iniziativa di volontà.
Esse mostrano quali sono i punti di minore resistenza, dove la forza della volontà può essere applicata più fruttuosamente, suggeriscono le operazioni tattiche immediate, indicano come si può meglio impostare una campagna di agitazione politica, quale linguaggio sarà meglio compreso dalle moltitudini ecc. L’elemento decisivo di ogni situazione è la forza permanentemente organizzata e predisposta di lunga mano che si può fare avanzare quando si giudica che una situazione è favorevole (ed è favorevole solo in quanto una tale forza esista e sia piena di ardore combattivo); perciò il compito essenziale è quello di attendere sistematicamente e pazientemente a formare, sviluppare, rendere sempre più omogenea, compatta, consapevole di se stessa questa forza.
Ciò si vede nella storia militare e nella cura con cui in ogni tempo sono stati predisposti gli eserciti ad iniziare una guerra in qualsiasi momento. I grandi Stati sono stati grandi Stati appunto perché erano in ogni momento preparati a inserirsi efficacemente nelle congiunture internazionali favorevoli e queste erano tali perché c’era la possibilità concreta di inserirsi efficacemente in esse.
Politologia
§2 Le note scritte a proposito dello studio delle situazioni e di ciò che occorre intendere per «rapporti di forza». Lo studio di come occorre analizzare le «situazioni», cioè di come occorre stabilire i diversi gradi di rapporto di forze può prestarsi a una esposizione elementare di scienza ed arte politica, intesa come un insieme di canoni pratici di ricerca e di osservazioni particolari utili per risvegliare l’interesse per la realtà effettuale e suscitare intuizioni politiche più rigorose e vigorose. Insieme è da porre l’esposizione di ciò che occorre intendere in politica per strategia e tattica, per «piano» strategico, per propaganda e agitazione, per organica, o scienza dell’organizzazione e dell’amministrazione in politica.
Gli elementi di osservazione empirica che di solito sono esposti alla rinfusa nei trattati di scienza politica (si può prendere come esemplare l’opera di G. Mosca: Elementi di scienza politica) dovrebbero, in quanto non sono quistioni astratte o campate in aria, trovar posto nei vari gradi del rapporto di forze, a cominciare dai rapporti delle forze internazionali (in cui troverebbero posto le note scritte su ciò che è una grande potenza, sugli aggruppamenti di Stati in sistemi egemonici e quindi sul concetto di indipendenza e sovranità per ciò che riguarda le potenze piccole e medie) per passare ai rapporti obbiettivi sociali, cioè al grado di sviluppo delle forze produttive, ai rapporti di forza politica e di partito (sistemi egemonici nell’interno dello Stato) e ai rapporti politici immediati (ossia potenzialmente militari).
I rapporti internazionali precedono o seguono (logicamente) i rapporti sociali fondamentali? Seguono indubbiamente. Ogni innovazione organica nella struttura modifica organicamente i rapporti assoluti e relativi nel campo internazionale, attraverso le sue espressioni tecnico‑militari. Anche la posizione geografica di uno Stato nazionale non precede ma segue (logicamente) le innovazioni strutturali, pur reagendo su di esse in una certa misura (nella misura appunto in cui le superstrutture reagiscono sulla struttura, la politica sull’economia ecc.).
D’altronde i rapporti internazionali reagiscono passivamente e attivamente sui rapporti politici (di egemonia dei partiti). Quanto più la vita economica immediata di una nazione è subordinata ai rapporti internazionali, tanto più un determinato partito rappresenta questa situazione e la sfrutta per impedire il sopravvento dei partiti avversari (ricordare il famoso discorso di Nitti sulla rivoluzione italiana tecnicamente impossibile!).
Da questa serie di fatti si può giungere alla conclusione che spesso il così detto «partito dello straniero» non è proprio quello che come tale viene volgarmente indicato, ma proprio il partito più nazionalistico, che, in realtà, più che rappresentare le forze vitali del proprio paese, ne rappresenta la subordinazione e l’asservimento economico alle nazioni o a un gruppo di nazioni egemoniche (un accenno a questo elemento internazionale «repressivo» delle energie interne si trova negli articoli pubblicati da G. Volpe nel «Corriere della Sera» del 22 e 23 marzo 1932).
§24 A proposito dei confronti tra i concetti di guerra manovrata e guerra di posizione nell’arte militare e i concetti relativi nell’arte politica è da ricordare il libretto della Rosa [Luxemburg ndc]tradotto in italiano nel 1919 da C. Alessandri (tradotto dal francese). Nel libretto si teorizzano un po’ affrettatamente e anche superficialmente le esperienze storiche del 1905: la Rosa infatti trascurò gli elementi «volontari» e organizzativi che in quegli avvenimenti furono molto più diffusi ed efficienti di quanto la Rosa fosse portata a credere per un certo suo pregiudizio «economistico» e spontaneista. Tuttavia questo libretto (e altri saggi dello stesso autore) è uno dei documenti più significativi della teorizzazione della guerra manovrata applicata all’arte politica.
L’elemento economico immediato (crisi, ecc.) è considerato come l’artiglieria campale che in guerra apriva il varco nella difesa nemica, varco sufficiente perché le proprie truppe facciano irruzione e ottengano un successo definitivo (strategico) o almeno un successo importante nella direttrice della linea strategica.
Naturalmente nella scienza storica l’efficacia dell’elemento economico immediato è ritenuta molto più complessa di quella dell’artiglieria pesante nella guerra di manovra, perché questo elemento era concepito come avente un doppio effetto: 1) di aprire il varco nella difesa nemica dopo aver scompaginato e fatto perdere la fiducia in sé e nelle sue forze e nel suo avvenire al nemico stesso; 2) di organizzare fulmineamente le proprie truppe, di creare i quadri, o almeno di porre i quadri esistenti (elaborati fino allora dal processo storico generale) fulmineamente al loro posto di inquadramento delle truppe disseminate; 3) di creare fulmineamente la concentrazione ideologica dell’identità di fine da raggiungere. Era una forma di ferreo determinismo economistico, con l’aggravante che gli effetti erano concepiti come rapidissimi nel tempo e nello spazio; perciò era un vero e proprio misticismo storico, l’aspettazione di una specie di fulgurazione miracolosa.
Gli stessi tecnici militari che ormai si sono fissati sulla guerra di posizione come prima lo erano su quella manovrata, non sostengono certo che il tipo precedente debba essere considerato come espunto dalla scienza; ma nelle guerre tra gli Stati più avanzati industrialmente e civilmente esso deve considerarsi ridotto a funzione tattica più che strategica, deve considerarsi nella stessa posizione in cui era prima la guerra d’assedio in confronto a quella manovrata.
La stessa riduzione deve avvenire nell’arte e nella scienza politica, almeno per ciò che riguarda gli Stati più avanzati, dove la «società civile» è diventata una struttura molto complessa e resistente alle «irruzioni» catastrofiche dell’elemento economico immediato (crisi, depressioni ecc.); le superstrutture della società civile sono come il sistema delle trincee nella guerra moderna.
Come in questa avveniva che un accanito attacco d’artiglieria sembrava aver distrutto tutto il sistema difensivo avversario ma ne aveva solo invece distrutto la superficie esterna e al momento dell’attacco e dell’avanzata gli assalitori si trovavano di fronte una linea difensiva ancora efficiente, così avviene nella politica durante le grandi crisi economiche; né le truppe assalitrici, per effetto della crisi, si organizzano fulmineamente nel tempo e nello spazio, né tanto meno acquistano uno spirito aggressivo; per reciproca, gli assaliti non si demoralizzano né abbandonano le difese, pur tra le macerie, né perdono la fiducia nella propria forza e nel proprio avvenire.
Le cose certo non rimangono tali e quali, ma è certo che viene a mancare l’elemento della rapidità, del tempo accelerato, della marcia progressiva definitiva come si aspetterebbero gli strateghi del cadornismo politico.
L’ultimo fatto del genere nella storia della politica sono stati gli avvenimenti del 1917. Essi hanno segnato una svolta decisiva nella storia dell’arte e della scienza della politica.
Si tratta dunque di studiare con «profondità» quali sono gli elementi della società civile che corrispondono ai sistemi di difesa nella guerra di posizione.
§27 Il cesarismo. Cesare, Napoleone I, Napoleone III, Cromwell, ecc. Compilare un catalogo degli eventi storici che hanno culminato in una grande personalità «eroica». Si può dire che il cesarismo esprime una situazione in cui le forze in lotta si equilibrano in modo catastrofico, cioè si equilibrano in modo che la continuazione della lotta non può concludersi che con la distruzione reciproca. Quando la forza progressiva A lotta con la forza regressiva B, può avvenire non solo che A vinca B o B vinca A, può avvenire anche che non vinca né A né B, ma si svenino reciprocamente e una terza forza C intervenga dall’esterno assoggettando ciò che resta di A e di B. Nell’Italia dopo la morte del Magnifico è appunto successo questo, come era successo nel mondo antico con le invasioni barbariche.
Ma il cesarismo, se esprime sempre la soluzione «arbitrale», affidata a una grande personalità, di una situazione storico‑politica caratterizzata da un equilibrio di forze a prospettiva catastrofica, non ha sempre lo stesso significato storico. Ci può essere un cesarismo progressivo e uno regressivo e il significato esatto di ogni forma di cesarismo, in ultima analisi, può essere ricostruito dalla storia concreta e non da uno schema sociologico.
È progressivo il cesarismo, quando il suo intervento aiuta la forza progressiva a trionfare sia pure con certi compromessi e temperamenti limitativi della vittoria; è regressivo quando il suo intervento aiuta a trionfare la forza regressiva, anche in questo caso con certi compromessi e limitazioni, che però hanno un valore, una portata e un significato diversi che non nel caso precedente.
Cesare e Napoleone I sono esempi di cesarismo progressivo. Napoleone III e Bismark di cesarismo regressivo.
Si tratta di vedere se nella dialettica «rivoluzione‑restaurazione» è l’elemento rivoluzione o quello restaurazione che prevale, poiché è certo che nel movimento storico non si torna mai indietro e non esistono restaurazioni «in toto».
Nel mondo moderno, con le sue grandi coalizioni di carattere economico‑sindacale e politico di partito, il meccanismo del fenomeno cesarista è molto diverso da quello che fu fino a Napoleone III. Nel periodo fino a Napoleone III le forze militari regolari o di linea erano un elemento decisivo per l’avvento del cesarismo, che si verificava con colpi di Stato ben precisi, con azioni militari ecc. Nel mondo moderno, le forze sindacali e politiche, coi mezzi finanziari incalcolabili di cui possono disporre piccoli gruppi di cittadini, complicano il problema. I funzionari dei partiti e dei sindacati economici possono essere corrotti o terrorizzati, senza bisogno di azione militare in grande stile, tipo Cesare o 18 brumaio.
Si riproduce in questo campo la stessa situazione esaminata a proposito della formula giacobina‑quarantottesca della così detta «rivoluzione permanente». La tecnica politica moderna è completamente mutata dopo il 48, dopo l’espansione del parlamentarismo, del regime associativo sindacale e di partito, del formarsi di vaste burocrazie statali e «private» (politico‑private, di partiti e sindacali) e le trasformazioni avvenute nell’organizzazione della polizia in senso largo, cioè non solo del servizio statale destinato alla repressione della delinquenza, ma dell’insieme delle forze organizzate dallo Stato e dai privati per tutelare il dominio politico ed economico delle classi dirigenti. In questo senso, interi partiti «politici» e altre organizzazioni economiche o di altro genere devono essere considerati organismi di polizia politica, di carattere investigativo e preventivo.
Lo schema generico delle forze A e B in lotta con prospettiva catastrofica, cioè con la prospettiva che non vinca né A né B nella lotta per costituire (o ricostituire un equilibrio organico, da cui nasce (può nascere) il cesarismo, è appunto un’ipotesi generica, uno schema sociologico (di comodo per l’arte politica). L’ipotesi può essere resa sempre più concreta, portata a un grado sempre maggiore di approssimazione alla realtà storica concreta e ciò può ottenersi precisando alcuni elementi fondamentali.
Così, parlando di A e di B si è solo detto che esse sono una forza genericamente progressiva e una forza genericamente regressiva: si può precisare di quale tipo di forze progressive e regressive si tratta e ottenere così maggiori approssimazioni. Nel caso di Cesare e di Napoleone I si può dire che A e B, pur essendo distinte e contrastanti, non erano però tali da non poter venire «assolutamente» ad una fusione ed assimilazione reciproca dopo un processo molecolare, ciò che infatti avvenne, almeno in una certa misura (sufficiente tuttavia ai fini storico‑politici della cessazione della lotta organica fondamentale e quindi del superamento della fase catastrofica). Questo è un elemento di maggiore approssimazione.
Un altro elemento è il seguente: la fase catastrofica può emergere per una deficienza politica «momentanea» della forza dominante tradizionale e non già per una deficienza organica necessariamente insuperabile. Ciò si è verificato nel caso di Napoleone III. La forza dominante in Francia dal 1815 al 1848 si era scissa politicamente (faziosamente) in quattro frazioni: quella legittimista, quella orleanista, quella bonapartista, quella giacobino‑repubblicana. Le lotte interne di fazione erano tali da rendere possibile l’avanzata della forza antagonista B (progressista) in forma «precoce»; tuttavia la forma sociale esistente non aveva ancora esaurito le sue possibilità di sviluppo, come la storia successiva dimostrò abbondantemente. Napoleone III rappresentò (a suo modo, secondo la statura dell’uomo, che non era grande) queste possibilità latenti e immanenti: il suo cesarismo dunque ha un colore particolare. È obbiettivamente progressivo sebbene non come quello di Cesare e di Napoleone I.
Il cesarismo di Cesare e di Napoleone I è stato, per così dire, di carattere quantitativo‑qualitativo, ha cioè rappresentato la fase storica di passaggio da un tipo di Stato a un altro tipo, un passaggio in cui le innovazioni furono tante e tali da rappresentare un completo rivolgimento. Il cesarismo di Napoleone III fu solo e limitatamente quantitativo, non ci fu passaggio da un tipo di Stato ad un altro tipo, ma solo «evoluzione» dello stesso tipo, secondo una linea ininterrotta.
Nel mondo moderno i fenomeni di cesarismo sono del tutto diversi, sia da quelli del tipo progressivo Cesare‑Napoleone I, come anche da quelli del tipo Napoleone III, sebbene si avvicinino a quest’ultimo. Nel mondo moderno l’equilibrio a prospettive catastrofiche non si verifica tra forze che in ultima analisi potrebbero fondersi e unificarsi, sia pure dopo un processo faticoso e sanguinoso, ma tra forze il cui contrasto è insanabile storicamente e anzi si approfondisce specialmente coll’avvento di forme cesaree.
Tuttavia il cesarismo ha anche nel mondo moderno un certo margine, più o meno grande, a seconda dei paesi e del loro peso relativo nella struttura mondiale, perché una forma sociale ha «sempre» possibilità marginali di ulteriore sviluppo e sistemazione organizzativa e specialmente può contare sulla debolezza relativa della forza progressiva antagonistica, per la natura e il modo di vita peculiare di essa, debolezza che occorre mantenere: perciò si è detto che il cesarismo moderno più che militare è poliziesco.
§28 Sullo sviluppo della tecnica militare. Il tratto più caratteristico e significativo dello stadio attuale della tecnica militare e quindi anche dell’indirizzo delle ricerche scientifiche in quanto sono connesse con lo sviluppo della tecnica militare (o tendono a questo fine) pare sia da ricercare in ciò, che la tecnica militare in alcuni suoi aspetti tende a rendersi indipendente dal complesso della tecnica generale e a diventare un’attività a parte, autonoma.
Fino alla guerra mondiale la tecnica militare era una semplice applicazione specializzata della tecnica generale e pertanto la potenza militare di uno Stato o di un gruppo di Stati (alleati per integrarsi a vicenda) poteva essere calcolata con esattezza quasi matematica sulla base della potenza economica (industriale, agricola, finanziaria, tecnico‑culturale).
Dalla guerra mondiale in poi questo calcolo non è più possibile, almeno con pari esattezza o approssimazione, e ciò costituisce la più formidabile incognita dell’attuale situazione politico-militare. Come punto di riferimento basta accennare ad alcuni elementi: il sottomarino, l’aeroplano da bombardamento, il gas e i mezzi chimici e batteriologici applicati alla guerra. Ponendo la questione nei suoi termini limite, per assurdo, si può dire che Andorra può produrre mezzi bellici in gas e bacteri da sterminare l’intera Francia.
Questa situazione della tecnica militare è uno degli elementi più «silenziosamente» operanti di quella trasformazione dell’arte politica che ha portato al passaggio, anche in politica, dalla guerra di movimento alla guerra di posizione o di assedio.
§31 Il teorema delle proporzioni definite. Questo teorema può essere impiegato utilmente per rendere più chiari e di uno schematismo più evidente molti ragionamenti riguardanti la scienza dell’organizzazione (lo studio dell’apparato amministrativo, della composizione demografica ecc.) e anche la politica generale (nelle analisi delle situazioni, dei rapporti di forza, nel problema degli intellettuali ecc.).
S’intende che occorre sempre ricordare come il ricorso al teorema delle proporzioni definite ha un valore schematico e metaforico, cioè non può essere applicato meccanicamente, poiché negli aggregati umani l’elemento qualitativo (o di capacità tecnica e intellettuale dei singoli componenti) ha una funzione predominante, mentre non può essere misurato matematicamente. Perciò si può dire che ogni aggregato umano ha un suo particolare principio ottimo di proporzioni definite.
Politicamente il teorema si può vedere applicato nei partiti, nei sindacati, nelle fabbriche e vedere come ogni gruppo sociale ha una propria legge di proporzioni definite, che varia a seconda del livello di cultura, di indipendenza mentale, di spirito d’iniziativa e di senso della responsabilità e della disciplina dei suoi membri più arretrati e periferici.
La legge delle proporzioni definite è così riassunta dal Pantaleoni nei Principii di Economia pura: «... I corpi si combinano chimicamente soltanto in proporzioni definite e ogni quantità di un elemento che superi la quantità richiesta per una combinazione con altri elementi, presenti in quantità definite, resta libera; se la quantità di un elemento è deficiente per rapporto alla quantità di altri elementi presenti, la combinazione non avviene che nella misura in cui è sufficiente la quantità dell’elemento che è presente in quantità minore degli altri».
Si potrebbe servirsi metaforicamente di questa legge per comprendere come un «movimento» o tendenza di opinioni, diventa partito, cioè forza politica efficiente dal punto di vista dell’esercizio del potere governativo; nella misura appunto in cui possiede (ha elaborato nel suo interno) dirigenti di vario grado e nella misura in cui essi dirigenti hanno acquisito determinate capacità.
L’«automatismo» storico di certe premesse (l’esistenza di certe condizioni obbiettive) viene potenziato politicamente dai partiti e dagli uomini capaci: la loro assenza o deficienza (quantitativa e qualitativa) rende sterile l’«automatismo» stesso (che pertanto non è automatismo): ci sono astrattamente le premesse, ma le conseguenze non si realizzano perché il fattore umano manca.
Perciò si può dire che i partiti hanno il compito di elaborare dirigenti capaci, sono la funzione di massa che seleziona, sviluppa, moltiplica i dirigenti necessari perché un gruppo sociale definito (che è una quantità «fissa», in quanto si può stabilire quanti sono i componenti di ogni gruppo sociale) si articoli e da caos tumultuoso diventi esercito politico organicamente predisposto.
§34 Sull’origine delle guerre. Come si può dire che le guerre tra gli Stati possono avere la loro origine nelle lotte dei gruppi nell’interno di ogni singola nazione? È certo che in ogni nazione deve esistere una certa (e specifica per ogni nazione) espressione della legge delle proporzioni definite nella composizione sociale: i vari gruppi cioè devono trovarsi in certi rapporti di equilibrio, il cui turbamento radicale potrebbe condurre a una catastrofe sociale. Questi rapporti variano a seconda che un paese è prevalentemente agricolo o industriale e a seconda dei diversi gradi di sviluppo delle forze produttive materiali e del tenore di vita.
Il gruppo dirigente tenderà a mantenere l’equilibrio migliore per il suo permanere, non solo, ma per il suo permanere in condizioni determinate di floridezza, e anzi a incrementare tali condizioni. Ma siccome l’area sociale di ogni paese è limitata, sarà portato a estenderla nelle zone coloniali e d’influenza e quindi a entrare in conflitto con altri gruppi dirigenti che aspirano allo stesso fine o ai cui danni l’espansione di esso dovrebbe necessariamente avvenire, poiché anche il globo terrestre è limitato. Ogni gruppo dirigente tende in astratto ad allargare la base della società lavoratrice da cui prelevare plusvalore, ma la tendenza astratta diventa concreta e immediata quando il prelevamento di plusvalore nella sua base storica è diventato difficile o pericoloso oltre certi limiti che sono tuttavia insufficienti.
§35 Arte politica e arte militare. Lo scrittore italiano di cose militari generale De Cristoforis nel suo libro Che cosa sia la guerra
§36 Sulla burocrazia. 1) Il fatto che nello svolgimento storico delle forme politiche ed economiche si sia venuto formando il tipo del funzionario «di carriera», tecnicamente addestrato al lavoro burocratico (civile e militare) ha un significato primordiale nella scienza politica e nella storia delle forme statali. Si è trattato di una necessità o di una degenerazione in confronto dell’autogoverno (self‑government) come pretendono i liberisti «puri»?
È certo che ogni forma sociale e statale ha avuto un suo problema dei funzionari, un suo modo di impostarlo e risolverlo, un suo sistema di selezione, un suo tipo di funzionario da educare. Ricostruire lo svolgimento di tutti questi elementi è di importanza capitale. Il problema dei funzionari coincide in parte col problema degli intellettuali. Ma se è vero che ogni nuova forma sociale e statale ha avuto bisogno di un nuovo tipo di funzionario, è vero anche che i nuovi gruppi dirigenti non hanno mai potuto prescindere, almeno per un certo tempo, dalla tradizione e dagli interessi costituiti, cioè dalle formazioni di funzionari già esistenti e precostituiti al loro avvento (ciò specialmente nella sfera ecclesiastica e in quella militare).
L’unità del lavoro manuale e intellettuale e un legame più stretto tra il potere legislativo e quello esecutivo (per cui i funzionari eletti, oltre che del controllo, si interessino dell’esecuzione degli affari di Stato) possono essere motivi ispiratori sia per un indirizzo nuovo nella soluzione del problema degli intellettuali che di quello dei funzionari.
2) Connessa con la quistione della burocrazia e della sua organizzazione «ottima» è la discussione sui cosidetti «centralismo organico» e «centralismo democratico» (che d’altronde non ha niente a che fare con la democrazia astratta, tanto che la Rivoluzione francese e la terza Repubblica hanno sviluppato delle forme di centralismo organico che non avevano conosciuto né la monarchia assoluta né Napoleone I).
Saranno da ricercare ed esaminare i reali rapporti economici e politici che trovano la loro forma organizzativa, la loro articolazione e la loro funzionalità nelle diverse manifestazioni di centralismo organico e democratico in tutti i campi: nella vita statale (unitarismo, federazione, unione di Stati federati, federazione di Stati o Stato federale ecc.), nella vita interstatale (alleanza, forme varie di «costellazione» politica internazionale), nella vita delle associazioni politiche e culturali (massoneria, Rotary Club, Chiesa cattolica), sindacali economiche (cartelli, trusts), in uno stesso paese, in diversi paesi ecc.
Occorre intanto distinguere nelle teorie del centralismo organico tra quelle che velano un preciso programma di predominio reale di una parte sul tutto (sia la parte costituita da un ceto come quello degli intellettuali, sia costituita da un gruppo territoriale «privilegiato») e quelle che sono una pura posizione unilaterale di settari e fanatici, e che pur potendo nascondere un programma di predominio (di solito di una singola individualità, come quella del papa infallibile per cui il cattolicismo si è trasformato in una specie di culto del pontefice), immediatamente non pare nascondere un tale programma come fatto politico consapevole. Il nome più esatto sarebbe quello di centralismo burocratico.
L’«organicità» non può essere che del centralismo democratico il quale è un «centralismo» in movimento, per così dire, cioè una continua adeguazione dell’organizzazione al movimento reale, un contemperare le spinte dal basso con il comando dall’alto, un inserimento continuo degli elementi che sbocciano dal profondo della massa nella cornice solida dell’apparato di direzione che assicura la continuità e l’accumularsi regolare delle esperienze: esso è «organico» perché tiene conto del movimento, che è il modo organico di rivelarsi della realtà storica e non si irrigidisce meccanicamente nella burocrazia, e nello stesso tempo tiene conto di ciò che è relativamente stabile e permanente o che per lo meno si muove in una direzione facile a prevedersi ecc.
Questo elemento di stabilità nello Stato si incarna nello sviluppo organico del nucleo centrale del gruppo dirigente così come avviene in più ristretta scala nella vita dei partiti. Il prevalere del centralismo burocratico nello Stato indica che il gruppo dirigente è saturato diventando una consorteria angusta che tende a perpetrare i suoi gretti privilegi regolando o anche soffocando il nascere di forze contrastanti, anche se queste forze sono omogenee agli interessi dominanti fondamentali (per es. nei sistemi protezionistici a oltranza in lotta col liberismo economico).
Nei partiti che rappresentano gruppi socialmente subalterni l’elemento di stabilità è necessario per assicurare l’egemonia non a gruppi privilegiati ma agli elementi progressivi, organicamente progressivi in confronto di altre forze affini e alleate ma composite e oscillanti.
In ogni caso occorre rilevare che le manifestazioni morbose di centralismo burocratico sono avvenute per deficienza di iniziativa e responsabilità nel basso, cioè per la primitività politica delle forze periferiche, anche quando esse sono omogenee con il gruppo territoriale egemone (fenomeno del piemontesismo nei primi decenni dell’unità italiana). Il formarsi di tali situazioni può essere estremamente dannoso e pericoloso negli organismi internazionali (Società delle Nazioni).
Il centralismo democratico offre una formula elastica, che si presta a molte incarnazioni; essa vive in quanto è interpretata e adattata continuamente alle necessità: essa consiste nella ricerca critica di ciò che è uguale nell’apparente disformità e invece distinto e anche opposto nell’apparente uniformità per organare e connettere strettamente ciò che è simile, ma in modo che l’organamento e la connessione appaiano una necessità pratica e «induttiva», sperimentale e non il risultato di un processo razionalistico, deduttivo, astrattistico, cioè proprio degli intellettuali puri (o puri asini).
Questo lavorio continuo per sceverare l’elemento «internazionale» e «unitario» nella realtà nazionale e localistica è in realtà l’azione politica concreta, l’attività sola produttiva di progresso storico. Esso richiede una organica unità tra teoria e pratica, tra ceti intellettuali e masse popolari, tra governanti e governati. Le formule di unità e federazione perdono gran parte del loro significato da questo punto di vista, mentre conservano il loro veleno nella concezione burocratica, per la quale finisce col non esistere unità ma palude stagnante, superficialmente calma e «muta» e non federazione ma «sacco di patate», cioè giustapposizione meccanica di singole «unità» senza nesso tra loro.
§39 Italo Chittaro, La capacità di comando, Casa Editrice De Alberti, Roma.
§40 G. Gentile e la filosofia della politica. Cfr l’articolo pubblicato da G. Gentile nello «Spectator» del 3 novembre 1928 e ristampato nell’«Educazione Fascista».
Stato
§19 Elementi per calcolare la gerarchia di potenza fra gli Stati: 1) estensione del territorio, 2) forza economica, 3) forza militare. Il modo in cui si esprime l’essere grande potenza è dato dalla possibilità di imprimere alla attività statale una direzione autonoma, di cui gli altri Stati devono subire l’influsso e la ripercussione: la grande potenza è potenza egemone, capo e guida di un sistema di alleanze e di intese di maggiore o minore estensione. La forza militare riassume il valore dell’estensione territoriale (con popolazione adeguata, naturalmente) e del potenziale economico. Nell’elemento territoriale è da considerare in concreto la posizione geografica. Nella forza economica è da distinguere la capacità industriale e agricola (forze produttive) dalla capacità finanziaria.
Un elemento «imponderabile» è la posizione «ideologica» che un paese occupa nel mondo in ogni momento dato, in quanto ritenuto rappresentante delle forze progressive della storia (esempio della Francia durante la Rivoluzione del 1789 e il periodo napoleonico).
Questi elementi sono calcolati nella prospettiva di una guerra. Avere tutti gli elementi che, nei limiti del prevedibile, danno sicurezza di vittoria, significa avere un potenziale di pressione diplomatica da grande potenza, cioè significa ottenere una parte dei risultati di una guerra vittoriosa senza bisogno di combattere.
Partiti
§6 La quistione della classe politica, come è presentata nelle opere di Gaetano Mosca, è diventata un puzzle.
§21 Continua del «Nuovo Principe». Si è detto che protagonista del Nuovo Principe non potrebbe essere nell’epoca moderna un eroe personale, ma il partito politico, cioè volta per volta e nei diversi rapporti interni delle diverse nazioni, quel determinato partito che intende (ed è razionalmente e storicamente fondato a questo fine) fondare un nuovo tipo di Stato.
È da osservare come nei regimi che si pongono come totalitari, la funzione tradizionale dell’istituto della corona è in realtà assunta dal partito determinato, che anzi è totalitario appunto perché assolve a tale funzione.
Sebbene ogni partito sia espressione di un gruppo sociale, e di un solo gruppo sociale, tuttavia determinati partiti appunto rappresentano un solo gruppo sociale, in certe condizioni date, in quanto esercitano una funzione di equilibrio e di arbitrato tra gli interessi del proprio gruppo e gli altri gruppi, e procurano che lo sviluppo del gruppo rappresentato avvenga col consenso e con l’aiuto dei gruppi alleati, se non addirittura dei gruppi decisamente avversari.
La formula costituzionale del re o del presidente di repubblica che «regna e non governa» è la formula giuridica che esprime questa funzione di arbitrato; la preoccupazione dei partiti costituzionali di non «scoprire» la corona o il presidente, le formule sulla non responsabilità, per gli atti governativi, del capo dello Stato, ma sulla responsabilità ministeriale, sono la casistica del principio generale di tutela della concezione dell’unità statale, del consenso dei governati all’azione statale, qualunque sia il personale immediato di governo e il suo partito.
Col partito totalitario queste formule perdono di significato e sono quindi diminuite le istituzioni che funzionavano nel senso di tali formule; ma la funzione stessa è incorporata dal partito, che esalterà il concetto astratto di «Stato» e cercherà con vari modi di dare l’impressione che la funzione «di forza imparziale» è attiva ed efficace.
§23 Osservazioni su alcuni aspetti della struttura dei partiti politici nei periodi di crisi organica (da connettere con le note sulle situazioni e i rapporti di forza). A un certo punto della loro vita storica i gruppi sociali si staccano dai loro partiti tradizionali, cioè i partiti tradizionali in quella data forma organizzativa, con quei determinati uomini che li costituiscono, li rappresentano e li dirigono non sono più riconosciuti come loro espressione dalla loro classe o frazione di classe.
Quando queste crisi si verificano, la situazione immediata diventa delicata e pericola, perché il campo è aperto alle soluzioni di forza, all’attività di potenze oscure rappresentate dagli uomini provvidenziali o carismatici.
Come si formano queste situazioni di contrasto tra rappresentanti e rappresentati, che dal terreno dei partiti (organizzazioni di partito in senso stretto, campo elettorale‑parlamentare, organizzazione giornalistica) si riflette in tutto l’organismo statale, rafforzando la posizione relativa del potere della burocrazia (civile e militare), dell’alta finanza, della Chiesa e in generale di tutti gli organismi relativamente indipendenti dalle fluttuazioni dell’opinione pubblica?
In ogni paese il processo è diverso, sebbene il contenuto sia lo stesso. E il contenuto è la crisi di egemonia della classe dirigente, che avviene o perché la classe dirigente ha fallito in qualche sua grande impresa politica per cui ha domandato o imposto con la forza il consenso delle grandi masse (come la guerra) o perché vaste masse (specialmente di contadini e di piccoli borghesi intellettuali) sono passati di colpo dalla passività politica a una certa attività e pongono rivendicazioni che nel loro complesso disorganico costituiscono una rivoluzione. Si parla di «crisi di autorità» e ciò appunto è la crisi di egemonia, o crisi dello Stato nel suo complesso.
La crisi crea situazioni immediate pericolose, perché i diversi strati della popolazione non possiedono la stessa capacità di orientarsi rapidamente e di riorganizzarsi con lo stesso ritmo. La classe tradizionale dirigente, che ha un numeroso personale addestrato, muta uomini e programmi e riassorbe il controllo che le andava sfuggendo con una celerità maggiore di quanto avvenga nelle classi subalterne; fa magari dei sacrifizi, si espone a un avvenire oscuro con promesse demagogiche, ma mantiene il potere, lo rafforza per il momento e se ne serve per schiacciare l’avversario e disperderne il personale di direzione, che non può essere molto numeroso e molto addestrato.
Il passaggio delle truppe di molti partiti sotto la bandiera di un partito unico che meglio rappresenta e riassume i bisogni dell’intera classe è un fenomeno organico e normale, anche se il suo ritmo sia rapidissimo e quasi fulmineo in confronto di tempi tranquilli: rappresenta la fusione di un intero gruppo sociale sotto un’unica direzione ritenuta sola capace di risolvere un problema dominante esistenziale e allontanare un pericolo mortale.
Quando la crisi non trova questa soluzione organica, ma quella del capo carismatico, significa che esiste un equilibrio statico (i cui fattori possono essere disparati, ma in cui prevale l’immaturità delle forze progressive) che nessun gruppo, né quello conservativo né quello progressivo, ha la forza necessaria alla vittoria e che anche il gruppo conservativo ha bisogno di un padrone (cfr Il 18 brumaio di Luigi Napoleone).1
Questo ordine di fenomeni è connesso a una delle quistioni più importanti che riguardano il partito politico, e cioè alla capacità del partito di reagire contro lo spirito di consuetudine, contro le tendenze a mummificarsi e a diventare anacronistico.
I partiti nascono e si costituiscono in organizzazione per dirigere la situazione in momenti storicamente vitali per le loro classi; ma non sempre essi sanno adattarsi ai nuovi compiti e alle nuove epoche, non sempre sanno svilupparsi secondo che si sviluppano i rapporti complessivi di forza (e quindi posizione relativa delle loro classi) nel paese determinato o nel campo internazionale.
Nell’analizzare questi sviluppi dei partiti occorre distinguere: il gruppo sociale; la massa di partito; la burocrazia e lo stato maggiore del partito. La burocrazia è la forza consuetudinaria e conservatrice più pericolosa; se essa finisce col costituire un corpo solidale, che sta a sé e si sente indipendente dalla massa, il partito finisce col diventare anacronistico, e nei momenti di crisi acuta viene svuotato del suo contenuto sociale e rimane come campato in aria. Si può vedere cosa avviene a una serie di partiti tedeschi per l’espansione dell’hitlerismo. I partiti francesi sono un campo ricco per tali ricerche: essi sono tutti mummificati e anacronistici, documenti storico‑politici delle diverse fasi della storia passata francese, di cui ripetono la terminologia invecchiata: la loro crisi può diventare ancora più catastrofica di quella dei partiti tedeschi.
Nell’esaminare questo ordine di avvenimenti di solito si trascura di fare un giusto posto all’elemento burocratico, civile e militare, e non si tiene presente, inoltre, che in tali analisi non devono rientrare solo gli elementi militari e burocratici in atto, ma gli strati sociali da cui, nei complessi statali dati, la burocrazia è tradizionalmente reclutata.
La prima ricerca da fare è questa: esiste in un determinato paese uno strato sociale diffuso per il quale la carriera burocratica, civile e militare, sia elemento molto importante di vita economica e di affermazione politica (partecipazione effettiva al potere, sia pure indirettamente, per «ricatto»)?
Nell’Europa moderna questo strato si può identificare nella borghesia rurale media e piccola che è più o meno diffusa nei diversi paesi a seconda dello sviluppo delle forze industriali da una parte e della riforma agraria dall’altra. Certo la carriera burocratica (civile e militare) non è un monopolio di questo strato sociale, tuttavia essa gli è particolarmente adatta per la funzione sociale che questo strato svolge e per le tendenze psicologiche che la funzione determina o favorisce; questi due elementi danno all’insieme del gruppo sociale una certa omogeneità ed energia di direttive, e quindi un valore politico e una funzione spesso decisiva nell’insieme dell’organismo sociale.
Gli elementi di questo gruppo sono abituati a comandare direttamente nuclei di uomini sia pure esigui e a comandare «politicameme», non «economicamente»; cioè nella loro arte di comando non c’è attitudine a ordinare le «cose», a ordinare «uomini e cose» in un tutto organico, come avviene nella produzione industriale, perché questo gruppo non ha funzioni economiche nel senso moderno della parola.
Esso ha un reddito perché giuridicamente è proprietario di una parte del suolo nazionale e la sua funzione consiste nel contendere «politicamente» al contadino coltivatore di migliorare la propria esistenza, perché ogni miglioramento della posizione relativa del contadino sarebbe catastrofica per la sua posizione sociale. La miseria cronica e il lavoro prolungato del contadino, col conseguente abbrutimento, sono per esso una necessità primordiale. Perciò spiega la massima energia nella resistenza e nel contrattacco a ogni minimo tentativo di organizzazione autonoma del lavoro contadino e a ogni movimento culturale contadino che esca dai limiti della religione ufficiale.
Questo gruppo sociale trova i suoi limiti e le ragioni della sua intima debolezza nella sua dispersione territoriale e nella «inomogeneità» che è intimamente connessa a tale dispersione; ciò spiega anche altre caratteristiche: la volubilità, la molteplicità dei sistemi ideologici seguiti, la stessa stranezza delle ideologie talvolta seguite.
La volontà è decisa verso un fine, ma essa è tarda e ha bisogno, di solito, di un lungo processo per centralizzarsi organizzativamente e politicamente. Il processo si accelera quando la «volontà» specifica di questo gruppo coincide con la volontà e gli interessi immediati della classe alta; non solo il processo si accelera, ma si manifesta subito la «forza militare» di questo strato, che talvolta, organizzatosi, detta legge alla classe alta, almeno per ciò che riguarda la «forma» della soluzione, se non per il contenuto.
Si vedono qui funzionare le stesse leggi che sono state notate per i rapporti città‑campagna nei riguardi delle classi subalterne: la forza della città automaticamente diventa forza della campagna, ma poiché in campagna i conflitti assumono subito una forma acuta e «personale», per l’assenza di margini economici e per la normalmente più pesante compressione esercitata dall’alto in basso, così in campagna i contrattacchi devono essere più rapidi e decisi.
Questo gruppo capisce e vede che l’origine dei suoi guai è nelle città, nella forza delle città e perciò capisce di «dover» dettare la soluzione alle classi alte urbane, affinché il focolaio principale sia spento, anche se ciò alle classi alte urbane non conviene immediatamente o perché troppo dispendioso o perché pericoloso a lungo andare (queste classi vedono cicli più ampi di sviluppo, in cui è possibile manovrare e non solo l’interesse «fisico» immediato). In questo senso deve intendersi la funzione direttiva di questo strato e non in senso assoluto; tuttavia non è piccola cosa.
Un riflesso di questo gruppo si vede nell’attività ideologica degli intellettuali conservatori, di destra. Il libro di Gaetano Mosca Teorica dei governi e governo parlamentare (II ed. del 1925, I ed. del 1883) è esemplare per questo rispetto; fin dal 1883 il Mosca era terrorizzato da un possibile contatto tra città e campagna. Il Mosca, per la sua posizione difensiva (di contrattacco) comprendeva meglio nel 1883 la tecnica della politica delle classi subalterne di quanto non la comprendessero, anche parecchi decenni dopo, i rappresentanti di queste forze subalterne anche urbane.
(È da notare come questo carattere «militare» del gruppo sociale in quistione, che era tradizionalmente un riflesso spontaneo di certe condizioni di esistenza, viene ora consapevolmente educato e predisposto organicamente. In questo movimento consapevole rientrano gli sforzi sistematici per far sorgere e per mantenere stabilmente associazioni varie di militari in congedo e di ex‑combattenti dei vari corpi ed armi, specialmente di ufficiali, che sono legate agli Stati Maggiori e possono essere mobilitate all’occorrenza senza bisogno di mobilitare l’esercito di leva, che manterrebbe così il suo carattere di riserva allarmata, rafforzata e immunizzata dalla decomposizione politica da queste forze «private» che non potranno non influire sul suo «morale», sostenendolo e irrobustendolo. Si può dire che si verifica un movimento del tipo «cosacco», non in formazioni scaglionate lungo i confini di nazionalità, come avveniva per i cosacchi zaristi, ma lungo i «confini» di gruppo sociale).
In tutta una serie di paesi, pertanto, influenza dell’elemento militare nella vita statale non significa solo influenza e peso dell’elemento tecnico militare, ma influenza e peso dello strato sociale da cui l’elemento tecnico militare (specialmente gli ufficiali subalterni) trae specialmente origine.
Questa serie di osservazioni sono indispensabili per analizzare l’aspetto più intimo di quella determinata forma politica che si suole chiamare cesarismo o bonapartismo, per distinguerla da altre forme in cui l’elemento tecnico militare, come tale, predomina, in forme forse ancor più appariscenti ed esclusive.
Nell’analisi del terzo grado o momento del sistema dei rapporti di forza esistenti in una determinata situazione, si può ricorrere utilmente al concetto che nella scienza militare è chiamato della «congiuntura strategica» ossia, con più precisione, del grado di preparazione strategica del teatro della lotta, uno dei cui principali elementi è dato dalle condizioni qualitative del personale dirigente e delle forze attive che si possono chiamare di prima linea (comprese in queste quelle d’assalto).
Il grado di preparazione strategica può dare la vittoria a forze «apparentemente» (cioè quantitativamente) inferiori a quelle dell’avversario.
Si può dire che la preparazione strategica tende a ridurre a zero i così detti «fattori imponderabili», cioè le reazioni immediate, di sorpresa, da parte, in un momento dato, delle forze tradizionalmente inerti e passive. Tra gli elementi della preparazione di una favorevole congiuntura strategica sono da porre appunto quelli considerati nelle osservazioni su l’esistenza e l’organizzazione di un ceto militare accanto all’organismo tecnico dell’esercito nazionale.
Un elemento da aggiungere al paragrafo dell’economismo, come esemplificazione delle teorie così dette dell’intransigenza, è quello della rigida avversione di principio ai così detti compromessi, che ha come manifestazione subordinata quella che si può chiamare la «paura dei pericoli». Che l’avversione di principio ai compromessi sia strettamente legata all’economismo è chiaro in quanto la concezione su cui si fonda questa avversione non può essere altro che la convinzione ferrea che esistano per lo sviluppo storico leggi obbiettive dello stesso carattere delle leggi naturali, con in più la persuasione di un finalismo fatalistico di carattere simile a quello religioso: poiché le condizioni favorevoli dovranno fatalmente verificarsi e da esse saranno determinati, in modo alquanto misterioso, avvenimenti palingenetici, risulta l’inutilità non solo, ma il danno di ogni iniziativa volontaria tendente a predisporre queste situazioni secondo un piano.
Accanto a queste convinzioni fatalistiche sta tuttavia la tendenza ad affidarsi «in seguito» ciecamente e scriteriatamente alla virtù regolatrice delle armi, ciò che però non è completamente senza una logica e una coerenza, poiché si pensa che l’intervento della volontà è utile per la distruzione, non per la ricostruzione (già in atto nel momento stesso della distruzione). La distruzione viene concepita meccanicamente non come distruzione‑ricostruzione.
In tali modi di pensare non si tiene conto del fattore «Tempo» e non si tiene conto, in ultima analisi, della stessa «economia» nel senso che non si capisce come i fatti ideologici di massa sono sempre in arretrato sui fenomeni economici di massa e come pertanto in certi momenti la spinta automatica dovuta al fattore economico è rallentata, impastoiata o anche spezzata momentaneamente da elementi ideologici tradizionali, che perciò deve esserci lotta cosciente e predisposta per far «comprendere» le esigenze della posizione economica di massa che possono essere in contrasto con le direttive dei capi tradizionali.
Una iniziativa politica appropriata è sempre necessaria per liberare la spinta economica dalle pastoie della politica tradizionale, per mutare cioè la direzione politica di certe forze che è necessario assorbire per realizzare un nuovo, omogeneo, senza contraddizioni interne, blocco storico economico‑politico, e poiché due forze «simili» non possono fondersi in organismo nuovo che attraverso una serie di compromessi o con la forza delle armi, alleandole su un piano di alleanza o subordinando l’una all’altra con la coercizione, la quistione è se si ha questa forza e se sia «produttivo» impiegarla.
Se l’unione di due forze è necessaria per vincere un terza, il ricorso alle armi e alla coercizione (dato che se ne abbia la disponibilità) è una pura ipotesi metodica e l’unica possibilità concreta è il compromesso, poiché la forza può essere impiegata contro i nemici, non contro una parte di se stessi che si vuole rapidamente assimilare e di cui occorre la «buona volontà» e l’entusiasmo.
§29 Volontarismo e masse sociali. In tutta una serie di quistioni, sia di ricostruzione della storia passata, sia di analisi storico‑politica del presente, non si tiene conto di questo elemento; che occorre distinguere e valutare diversamente le imprese e le organizzazioni di volontari, dalle imprese e dalle organizzazioni di blocchi sociali omogenei (è evidente che per volontari non si deve intendere l’élite quando essa è espressione organica della massa sociale, ma del volontario staccato dalla massa per spinta individuale arbitraria e in contrasto spesso con la massa o indifferente per essa).
Questo elemento ha importanza specialmente per l’Italia: 1) per l’apoliticismo e la passività tradizionali nelle grandi masse popolari che hanno come reazione naturale una relativa facilità al «reclutamento di volontari»; 2) per la costituzione sociale italiana, uno dei cui elementi è la malsana quantità di borghesi rurali o di tipo rurale, medi e piccoli, da cui si formano molti intellettuali irrequieti e quindi facili «volontari» per ogni iniziativa anche la più bizzarra, che sia vagamente sovversiva (a destra o a sinistra); 3) la massa di salariati rurali e di lumpenproletariat, che pittorescamente in Italia è chiamata la classe dei «morti di fame».
Nell’analisi dei partiti politici italiani si può vedere che essi sono sempre stati di «volontari», in un certo senso di spostati, e mai o quasi mai di blocchi sociali omogenei. Un’eccezione è stata la destra storica cavourriana e quindi la sua superiorità organica e permanente sul così detto Partito d'Azione mazziniano e garibaldino, che è stato il prototipo di tutti i partiti italiani di «massa» successivi, che non furono tali in realtà (cioè non ordinarono gruppi omogenei sociali) ma furono attendamenti zingareschi e nomadi della politica. Si può trovare una sola analisi di tal genere (ma imprecisa e gelatinosa, da un punto di vista solo «statistico‑sociologico») nel volume di Roberto Michels su Borghesia e proletariato.
La posizione del Gottlieb fu appunto simile a quella del Partito d’Azione, cioè zingaresca e nomade: l’interesse sindacale era molto superficiale e di origine polemica, non sistematico, non organico e conseguente, non di ricerca di omogeneità sociale, ma paternalistico e formalistico.
§30 Il numero e la qualità nei regimi rappresentativi. Uno dei luoghi comuni più banali che si vanno ripetendo contro il sistema elettivo di formazione degli organi statali è questo, che il «numero sia in esso legge suprema» e che la «opinione di un qualsiasi imbecille che sappia scrivere (e anche di un analfabeta, in certi paesi), valga, agli effetti di determinare il corso politico dello Stato, esattamente quanto quella di chi allo Stato e alla Nazione dedichi le sue migliori forze» ecc. (le formulazioni sono molte, alcune anche più felici di questa riportata, che è di Mario da Silva, nella «Critica Fascista» del 15 agosto 1932, ma il contenuto è sempre uguale). Ma il fatto è che non è vero, in nessun modo, che il numero sia «legge suprema», né che il peso dell’opinione di ogni elettore sia «esattamente» uguale.
I numeri, anche in questo caso, sono un semplice valore strumentale, che danno una misura e un rapporto e niente di più. E che cosa poi si misura? Si misura proprio l’efficacia e la capacità di espansione e di persuasione delle opinioni di pochi, delle minoranze attive, delle élites, delle avanguardie ecc. ecc. cioè la loro razionalità o storicità o funzionalità concreta. Ciò vuol dire che non è vero che il peso delle opinioni dei singoli sia «esattamente» uguale.
Le idee e le opinioni non «nascono» spontaneamente nel cervello di ogni singolo: hanno avuto un centro di formazione, di irradiazione, di diffusione, di persuasione, un gruppo di uomini o anche una singola individualità che le ha elaborate e presentate nella forma politica d’attualità.
La numerazione dei «voti» è la manifestazione terminale di un lungo processo in cui l’influsso massimo appartiene proprio a quelli che «dedicano allo Stato e alla Nazione le loro migliori forze» (quando lo sono). Se questo presunto gruppo di ottimati, nonostante le forze materiali sterminate che possiede, non ha il consenso della maggioranza, sarà da giudicare o inetto o non rappresentante gli interessi «nazionali» che non possono non essere prevalenti nell’indurre la volontà nazionale in un senso piuttosto che in un altro. «Disgraziatamente» ognuno è portato a confondere il proprio «particulare» con l’interesse nazionale e quindi a trovare «orribile» ecc. che sia la «legge del numero» a decidere; è certo miglior cosa diventare élite per decreto.
Non si tratta pertanto di chi «ha molto» intellettualmente che si sente ridotto al livello dell’ultimo analfabeta, ma di chi presume di aver molto e che vuole togliere all’uomo «qualunque» anche quella frazione infinitesima di potere che egli possiede nel decidere sul corso della vita statale.
§33 Sul concetto di partito politico. Quando si vuol scrivere la storia di un partito politico, in realtà occorre affrontare tutta una serie di problemi molto meno semplici di quanto creda, per es., Roberto Michels che pure è ritenuto uno specialista in materia. Cosa sarà la storia di un partito? Sarà la mera narrazione della vita interna di una organizzazione politica? come essa nasce, i primi gruppi che la costituiscono, le polemiche ideologiche attraverso cui si forma il suo programma e la sua concezione del mondo e della vita? Si tratterebbe in tal caso, della storia di ristretti gruppi intellettuali e talvolta della biografia politica di una singola individualità. La cornice del quadro dovrà, adunque, essere più vasta e comprensiva.
Si dovrà fare la storia di una determinata massa di uomini che avrà seguito i promotori, li avrà sorretti con la sua fiducia, con la sua lealtà, con la sua disciplina o li avrà criticati «realisticamente» disperdendosi o rimanendo passiva di fronte a talune iniziative. Ma questa massa sarà costituita solo dagli aderenti al partito? Sarà sufficiente seguire i congressi, le votazioni, ecc., cioè tutto l’insieme di attività e di modi di esistenza con cui una massa di partito manifesta la sua volontà?
Evidentemente occorrerà tener conto del gruppo sociale di cui il partito dato è espressione e parte più avanzata: la storia di un partito, cioè, non potrà non essere la storia di un determinato gruppo sociale. Ma questo gruppo non è isolato; ha amici, affini, avversari, nemici. Solo dal complesso quadro di tutto l’insieme sociale e statale (e spesso anche con interferenze internazionali) risulterà la storia di un determinato partito, per cui si può dire che scrivere la storia di un partito significa niente altro che scrivere la storia generale di un paese da un punto di vista monografico, per porne in risalto un aspetto caratteristico. Un partito avrà avuto maggiore o minore significato e peso, nella misura appunto in cui la sua particolare attività avrà pesato più o meno nella determinazione della storia di un paese.
Ecco quindi che dal modo di scrivere la storia di un partito risulta quale concetto si abbia di ciò che è un partito o debba essere. Il settario si esalterà nei fatterelli interni, che avranno per lui un significato esoterico e lo riempiranno di mistico entusiasmo; lo storico, pur dando a ogni cosa l’importanza che ha nel quadro generale, poserà l’accento soprattutto sull’efficienza reale del partito, sulla sua forza determinante, positiva e negativa, nell’aver contribuito a creare un evento e anche nell’aver impedito che altri eventi si compissero.
Politica internazionale
§32 Sul concetto di grande potenza. La misura decisiva per stabilire cosa deve intendersi per grande potenza è data dalla guerra. Il concetto di grande potenza è strettamente legato alle guerre. È grande potenza quello Stato che entrato in un sistema di alleanze per una guerra – (e oggi ogni guerra presuppone dei sistemi di forze antagonistiche) al momento della pace è riuscito a conservare un tale rapporto di forze con gli alleati da essere in grado di far mantenere i patti e le promesse fatte all’inizio della campagna.
Ma uno Stato che per entrare in guerra ha bisogno di grossi prestiti, ha bisogno continuo di armi e munizioni per i suoi soldati, di vettovaglie per l’esercito e per la popolazione civile, di navi per i trasporti, che cioè non può far la guerra senza l’aiuto continuo dei suoi alleati e che per qualche tempo anche dopo la pace ha ancora bisogno di aiuti, specialmente di vettovaglie, di prestiti o altre forme di sussidi finanziari, come può essere uguale ai suoi alleati e imporsi perché mantengano i patti?
Un simile Stato è considerato grande potenza solo nelle carte diplomatiche, ma nella realtà è considerato come un probabile fornitore di uomini per la coalizione che ha i mezzi non solo di sostenere le proprie forze militari ma anche per finanziare quelle degli altri alleati.
§37 Note sulla vita nazionale francese. Il partito monarchico in regime repubblicano, come il partito repubblicano in regime monarchico, o il partito nazionale in regime di soggezione del paese a uno Stato straniero, non possono non essere partiti sui generis: devono essere, cioè, se vogliono ottenere successi relativamente rapidi, le centrali di federazioni di partiti, più che partiti caratterizzati in tutti i punti particolari dei loro programmi di governo; partiti di un sistema generale di governo e non di governi particolari (in questa stessa serie spetta un posto a parte ai partiti confessionali, come il Centro tedesco o i diversi partiti cristiano‑sociali o popolari).
Il partito monarchico si fonda in Francia sui residui ancora tenaci della vecchia nobiltà terriera e su una parte della piccola borghesia e degli intellettuali. Su che sperano i monarchici per diventare capaci di assumere il potere e restaurare la monarchia? Sperano sul collasso del regime parlamentare‑borghese e sulla incapacità di qualsiasi altra forza organizzata esistente ad essere il nucleo politico di una dittatura militare prevedibile o da loro stessi preordinata; in nessun altro modo le loro forze sociali sarebbero in grado di conquistare il potere.
In attesa, il centro dirigente dell’Action Française svolge sistematicamente una serie di attività: un’azione organizzativa politico‑militare (militare nel senso di partito e nel senso di avere cellule attive fra gli ufficiali dell’esercito) per raggruppare nel modo più efficiente l’angusta base sociale su cui storicamente il movimento s’appoggia. Essendo questa base costituita di elementi in generale più scelti per intelligenza, cultura, ricchezza, pratica di amministrazione ecc. che qualsiasi altro movimento, è possibile avere un partito notevole, imponente persino, ma che però si esaurisce in se stesso, che non ha, cioè, riserve da gettare nella lotta in una crisi risolutiva.
La crisi endemica del parlamentarismo francese indica che c’è un malessere diffuso nel paese ma questo malessere non ha avuto finora un carattere radicale, non ha posto in gioco quistioni intangibili. C’è stato un allargamento della base industriale e quindi un accresciuto urbanesimo. Masse di rurali si sono riversate in città, ma non perché ci fosse in campagna disoccupazione o fame insoddisfatta di terra; perché in città si sta meglio, ci sono più soddisfazioni ecc. (il prezzo della terra è bassissimo e molte terre buone sono abbandonate agli Italiani).
La crisi parlamentare riflette (finora) piuttosto uno spostamento normale di masse (non dovuto ad acuta crisi economica), con una ricerca laboriosa di nuovi equilibri di rappresentanza e di partiti e un malessere vago che è solo premonitore di una possibile grande crisi politica. La stessa sensibilità dell’organismo politico porta ad esagerare formalmente i sintomi del malessere.
Finora si è trattato di una serie di lotte per la divisione dei carichi e dei benefici statali, più che altro, perciò crisi dei partiti medi e di quello radicale in primo luogo, che rappresenta le città medie e piccole e i contadini più avanzati. Le forze politiche si preparano alle grandi lotte future e cercano un migliore assestamento; le forze extrastatali fanno sentire più sensibilmente il loro peso e impongono i loro uomini in modo più brutale.
Il punto culminante della crisi parlamentare francese fu raggiunto nel 1925 e dall’atteggiamento verso quegli avvenimenti, ritenuti decisivi, occorre partire per dare un giudizio sulla consistenza politica e ideologica dell’Action Française. Maurras gridò allo sfacelo del regime repubblicano e il suo gruppo si preparò alla presa del potere.
Maurras è spesso esaltato come un grande statista e come un grandissimo Realpolitiker: in realtà egli è solo un giacobino alla rovescia. I giacobini impiegavano un certo linguaggio, erano convinti fautori di una determinata ideologia; nel tempo e nelle circostanze date, quel linguaggio e quella ideologia erano ultrarealistici, perché ottenevano di mettere in moto le energie politiche necessarie ai fini della Rivoluzione e a consolidare permanentemente l’andata al potere della classe rivoluzionaria; furono poi staccati, come avviene quasi sempre, dalle condizioni di luogo e di tempo e ridotti in formule e divennero una cosa diversa, una larva, parole vacue e inerti.
Il comico consiste nel fatto che il Maurras capovolse banalmente quelle formule, creandone altre che sistemò in un ordine logico‑letterario impeccabile, le quali non potevano anche esse che rappresentare il riflesso del più puro e triviale illuminismo.
In realtà è proprio Maurras il più rappresentativo campione dello «stupido secolo XIX», la concentrazione di tutti i luoghi comuni massonici meccanicamente rovesciati: la sua relativa fortuna dipende appunto da ciò che il suo metodo piace perché è quello della ragione ragionante da cui è nato l’enciclopedismo, e tutta la tradizione culturale massonica francese.
L’illuminismo creò una serie di miti popolari, che erano solo la proiezione nel futuro delle più profonde e millenarie aspirazioni delle grandi masse, aspirazioni legate al cristianesimo e alla filosofia del senso comune, miti semplicistici quanto si vuole, ma che avevano un’origine realmente radicata nei sentimenti e che, in ogni caso, non potevano essere controllati sperimentalmente (storicamente); Maurras ha creato il mito «semplicistico» di un passato monarchico francese fantastico; ma questo mito è stato «storia» e le deformazioni intellettualistiche di essa possono essere facilmente corrette: tutta la istruzione pubblica francese è una implicita rettifica del mito monarchico, che in tal modo diventa un «mito» difensivo più che creatore di passioni.
Una delle formule fondamentali di Maurras è «Politique d’abord», ma egli è il primo a non seguirla. Per lui, prima della politica c’è sempre l’«astrazione politica», l’accoglimento integrale di una concezione del mondo «minuziosissima», che prevede tutti i particolari, come l’anno le utopie dei letterati, che domanda una determinata concezione della storia, ma della storia concreta di Francia e d’Europa, cioè una determinata e fossilizzata ermeneutica.
La concezione empirica che si può ricavare da tutta l’attività dell’Action Française è questa: il regime parlamentare repubblicano si dissolverà ineluttabilmente perché esso è un «monstrum» storico‑razionale, che non corrisponde alle leggi «naturali» della società francese rigidamente stabilite dal Maurras. I nazionalisti integrali devono pertanto: 1) appartarsi dalla vita reale della politica francese, non riconoscendone la «legalità» storico‑razionale (astensionismo, ecc.) e combattendola in blocco; 2) creare un antigoverno, sempre pronto a insediarsi nei «palazzi tradizionali» con un colpo di mano: questo antigoverno si presenta già oggi con tutti gli uffici embrionali, che corrispondono alle grandi attività nazionali.
Nella realtà furono fatti molti strappi a tanto rigore; nel 19 furono presentate alcune candidature, e riuscì eletto per miracolo il Daudet. Nelle altre elezioni l’Action Française appoggiò quei candidati di destra che accettavano alcuni suoi principii marginali (questa attività pare sia stata imposta al Maurras dai suoi collaboratori più esperti di politica reale, ciò che dimostra che l’unità non è senza crepe). Per uscire dall’isolamento fu progettata la pubblicazione di un grande giornale d’informazione, ma finora non se ne fece nulla (esiste solo la «Revue Universelle» e lo «Charivari» che compiono ufficio di divulgazione indiretta tra il grande pubblico).
L’acre polemica col Vaticano e la riorganizzazione del clero e delle associazioni cattoliche che ne fu una conseguenza, ha rotto il solo legame che l’Action Française aveva con le grandi masse nazionali, legame che era anch’esso piuttosto aleatorio. Il suffragio universale che è stato introdotto in Francia da tanto tempo ha già determinato il fatto che le masse, formalmente cattoliche, politicamente aderiscano ai partiti repubblicani di centro, sebbene questi siano anticlericali e laicisti: il sentimento nazionale, organizzato intorno al concetto di patria, è altrettanto forte, e in certi casi è indubbiamente più forte, del sentimento religioso‑cattolico, che del resto ha caratteristiche proprie. La formula che «la religione è una quistione privata» si è radicata come forma popolare del concetto di separazione della Chiesa dallo Stato.
Inoltre, il complesso di associazioni che costituiscono l’Azione Cattolica è in mano all’aristocrazia terriera (ne è capo, o era, il generale Castelnau), senza che il basso clero eserciti quella funzione di guida spirituale‑sociale che esercitava in Italia (in quella settentrionale). Il contadino francese, nella quasi totalità, rassomiglia piuttosto al nostro contadino meridionale, che dice volentieri: «il prete è prete sull’altare, ma fuori è un uomo come tutti gli altri» (in Sicilia: «monaci e parrini, sienticci la missa e stoccacci lirini»).
L’Action Française attraverso lo strato dirigente cattolico pensava di poter dominare, nel momento decisivo, tutto l’apparato di massa del cattolicismo francese. In questo calcolo c’era un po’ di verità e molta illusione: in epoche di grandi crisi politico‑morali, il sentimento religioso, rilassato in tempi normali, può diventare vigoroso e assorbente; ma se l’avvenire appare pieno di nubi tempestose, anche la solidarietà nazionale, espressa nel concetto di patria, diventa assorbente in Francia, dove la crisi non può non assumere il carattere di crisi internazionale e allora la «Marsigliese» è più forte dei Salmi penitenziali. In ogni caso, anche la speranza in questa riserva possibile è svanita per Maurras.
Il Vaticano non vuole più astenersi dagli affari interni francesi e ritiene che il ricatto di una possibile restaurazione monarchica sia divenuto inoperante: il Vaticano è più realista di Maurras, e concepisce meglio la formula «politique d’abord». Finché il contadino francese dovrà scegliere tra Herriot e un Hobereau, sceglierà Herriot: bisogna perciò creare il tipo del «radicale cattolico» cioè del «popolare», bisogna accettare senza riserve la repubblica e la democrazia e su questo terreno organizzare le masse contadine, superando il dissidio tra religione e politica, facendo del prete non solo la guida spirituale (nel campo individuale‑privato) ma anche la guida sociale nel campo economico‑politico.
La sconfitta di Maurras è certa (come quella di Hugenberg in Germania). È la concezione di Maurras che è falsa per troppa perfezione logica: questa sconfitta, d’altronde, fu sentita dallo stesso Maurras proprio all’inizio della polemica col Vaticano, che coincise con la crisi parlamentare francese del 1925 (non certo per caso).
Maurras è definibile per i suoi odii ancor più che per i suoi amori. Odia il cristianesimo primitivo (la concezione del mondo contenuta negli Evangeli, nei primi apologisti ecc., il cristianesimo all’editto di Milano, insomma, la cui credenza fondamentale era che la venuta di Cristo avesse annunziato la fine del mondo e che perciò determinava la dissoluzione dell’ordine politico romano in una anarchia morale corrosiva di ogni valore civile e statale) che per lui è una concezione giudaica. In questo senso Maurras vuole scristianizzare la società moderna.
Per Maurras la Chiesa cattolica è stata e sarà sempre più lo strumento di questa scristianizzazione. Egli distingue tra cristianesimo e cattolicismo ed esalta quest’ultimo come la reazione dell’ordine romano all’anarchia giudaica. Il culto cattolico, le sue devozioni superstiziose, le sue feste, le sue pompe, le sue solennità, la sua liturgia, le sue immagini, le sue formule, i suoi riti sacramentali, la sua gerarchia imponente, sono come un incantesimo salutare per domare l’anarchia cristiana, per immunizzare il veleno giudaico del cristianesimo autentico.
§38 Maurras e il «centralismo organico». Il cosidetto «centralismo organico» si fonda sul principio che un gruppo politico viene selezionato per «cooptazione» intorno a un «portatore infallibile della verità», a un «illuminato dalla ragione» che ha trovato le leggi naturali infallibili dell’evoluzione storica, infallibili anche se a lunga portata e se gli eventi immediati «sembrano» dar loro torto. L’applicazione delle leggi della meccanica e della matematica ai fatti sociali, ciò che non dovrebbe avere che un valore metaforico, diventa il solo e allucinante motore intellettuale (a vuoto). Il nesso tra il centralismo organico e le dottrine di Maurras è evidente.
§18 Alcuni aspetti teorici e pratici dell’«economismo». Economismo ‑ movimento teorico per il libero scambio ‑ sindacalismo teorico. È da vedere in che misura il sindacalismo teorico abbia avuto origine dalla filosofia della praxis e in quanto dalle dottrine economiche del libero scambio, cioè, in ultima analisi, dal liberalismo. E perciò è da vedere se l’economismo, nella sua forma più compiuta, non sia una filiazione diretta del liberalismo e abbia avuto, anche alle origini, ben pochi rapporti colla filosofia della praxis, rapporti in ogni modo solo estrinseci e puramente verbali.
Da questo punto di vista è da vedere la polemica Einaudi‑Croce, determinata dalla prefazione nuova (del 1917) al volume sul Materialismo storico: la esigenza, prospettata dall’Einaudi, di tener conto della letteratura di storia economica suscitata dall’economia classica inglese, può essere soddisfatta in questo senso, che una tale letteratura, per una contaminazione superficiale con la filosofia della praxis, ha originato l’economismo; perciò quando l’Einaudi critica (in modo, a dir vero, impreciso) alcune degenerazioni economistiche, non fa altro che tirare sassi in piccionaia.
Il nesso tra ideologie libero‑scambiste e sindacalismo teorico è specialmente evidente in Italia, dove sono note l’ammirazione per Pareto dei sindacalisti come Lanzillo e C. Il significato di queste due tendenze è però molto diverso: il primo è proprio di un gruppo sociale dominante e dirigente, il secondo di un gruppo ancora subalterno, che non ha ancora acquistato coscienza della sua forza e delle sue possibilità e modi di sviluppo e non sa perciò uscire dalla fase di primitivismo.
L’impostazione del movimento del libero scambio si basa su un errore teorico di cui non è difficile identificare l’origine pratica: sulla distinzione cioè tra società politica e società civile, che da distinzione metodica viene fatta diventare ed è presentata come distinzione organica. Così si afferma che l’attività economica è propria della società civile e che lo Stato non deve intervenire nella sua regolamentazione. Ma siccome nella realtà effettuale società civile e Stato si identificano, è da fissare che anche il liberismo è una «regolamentazione» di carattere statale, introdotto e mantenuto per via legislativa e coercitiva: è un fatto di volontà consapevole dei propri fini e non l’espressione spontanea, automatica del fatto economico. Pertanto il liberismo è un programma politico, destinato a mutare, in quanto trionfa, il personale dirigente di uno Stato e il programma economico dello Stato stesso, cioè a mutare la distribuzione del reddito nazionale.
Diverso è il caso del sindacalismo teorico, in quanto si riferisce a un gruppo subalterno, al quale con questa teoria si impedisce di diventare mai dominante, di svilupparsi oltre la fase economico‑corporativa per elevarsi alla fase di egemonia etico‑politica nella società civile e dominante nello Stato.
Per ciò che riguarda il liberismo si ha il caso di una frazione del gruppo dirigente che vuole modificare non la struttura dello Stato, ma solo l’indirizzo di governo, che vuole riformare la legislazione commerciale e solo indirettamente industriale (poiché è innegabile che il protezionismo, specialmente nei paesi a mercato povero e ristretto, limita la libertà di iniziativa industriale e favorisce morbosamente il nascere dei monopoli): si tratta di rotazione dei partiti dirigenti al governo, non di fondazione e organizzazione di una nuova società politica e tanto meno di un nuovo tipo di società civile.
Nel movimento del sindacalismo teorico la quistione si presenta più complessa: è innegabile che in esso l’indipendenza e l’autonomia del gruppo subalterno che si dice di esprimere sono invece sacrificate all’egemonia intellettuale del gruppo dominante, poiché appunto il sindacalismo teorico non è che un aspetto del liberismo, giustificato con alcune affermazioni mutilate, e pertanto banalizzate, della filosofia della praxis. Perché e come avviene questo «sacrifizio»? Si esclude la trasformazione del gruppo subordinato in dominante, o perché il problema non è neppure prospettato (fabianesimo, De Man, parte notevole del laburismo) o perché è presentato in forme incongrue e inefficienti (tendenze socialdemocratiche in generale) o perché si afferma il salto immediato dal regime dei gruppi a quello della perfetta eguaglianza e dell’econornia sindacale.
È per lo meno strano l’atteggiamento dell’economismo verso le espressioni di volontà, di azione e di iniziativa politica e intellettuale, come se queste non fossero una emanazione organica di necessità economiche e anzi la sola espressione efficiente dell’economia; così è incongruo che l’impostazione concreta della quistione egemonica sia interpretata come un fatto che subordina il gruppo egemone.
Il fatto dell’egemonia presuppone indubbiamente che sia tenuto conto degli interessi e delle tendenze dei gruppi sui quali l’egemonia verrà esercitata, che si formi un certo equilibrio di compromesso, che cioè il gruppo dirigente faccia dei sacrifizi di ordine economico‑corporativo, ma è anche indubbio che tali sacrifizi e tale compromesso non possono riguardare l’essenziale, poiché se l’egemonia è etico‑politica, non può non essere anche economica, non può non avere il suo fondamento nella funzione decisiva che il gruppo dirigente esercita nel nucleo decisivo dell’attività economica.
Un punto di riferimento per lo studio dell’economismo e per comprendere i rapporti tra struttura e superstrutture è quel passaggio della Miseria della Filosofia dove si dice che una fase importante nello sviluppo di un gruppo sociale è quella in cui i singoli componenti di un sindacato non lottano solo più per i loro interessi economici, ma per la difesa e lo sviluppo dell’organizzazione stessa (vedere la affermazione esatta; la Miseria della Filosofia è un momento essenziale nella formazione della filosofia della praxis; essa può essere considerata come lo svolgimento delle Tesi su Feuerbach, mentre la Sacra Famiglia è una fase intermedia indistinta e di origine occasionale, come appare dai brani dedicati al Proudhon e specialmente al materialismo francese.
Il brano sul materialismo francese è più che altro un capitolo di storia della cultura e non un brano teoretico, come spesso viene interpretato, e come storia della cultura è ammirevole. Ricordare l’osservazione che la critica contenuta nella Miseria della Filosofia contro Proudhon e la sua interpretazione della dialettica hegeliana può essere estesa al Gioberti e allo hegelismo dei liberali moderati italiani in genere. Il parallelo Proudhon‑Gioberti, nonostante rappresentino fasi storico‑politiche non omogenee, anzi appunto per questo, può essere interessante e fecondo).
È da ricordare insieme l’affermazione di Engels che l’economia solo in «ultima analisi» è la molla della storia (nelle due lettere sulla filosofia della praxis pubblicate anche in italiano) da collegarsi direttamente al passo della prefazione della Critica dell’Economia politica, dove si dice che gli uomini diventano consapevoli dei conflitti che si verificano nel mondo economico sul terreno delle ideologie.
Alcuni punti caratteristici dell’economismo storico: 1) nella ricerca dei nessi storici non si distingue ciò che è «relativamente permanente» da ciò che è fluttuazione occasionale e si intende per fatto economico l’interesse personale e di piccolo gruppo, in senso immediato e «sordidamente giudaico». Non si tiene conto cioè delle formazioni di classe economica, con tutti i rapporti inerenti, ma si assume l’interesse gretto e usurario, specialmente quando coincide con forme delittuose contemplate dai codici criminali; 2) la dottrina per cui lo svolgimento economico viene ridotto al susseguirsi dei cangiamenti tecnici negli strumenti di lavoro.
Avviene spesso che si combatte l’economismo storico, credendo di combattere il materialismo storico. È questo il caso, per esempio, di un articolo dell’«Avenir» di Parigi del 10 ottobre 1930 (riportato nella «Rassegna Settimanale della Stampa Estera» del 21 ottobre 1930, pp. 2303‑4) e che si riporta come tipico: «Ci si dice da molto tempo, ma sopratutto dopo la guerra, che le quistioni d’interesse dominano i popoli e portano avanti il mondo. Sono i marxisti che hanno inventato questa tesi, sotto l’appellativo un po’ dottrinario di “materialismo storico”. Nel marxismo puro, gli uomini presi in massa non obbediscono alle passioni, ma alle necessità economiche. La politica è una passione. La Patria è una passione. Queste due idee esigenti non godono nella storia che una funzione di apparenza perché in realtà la vita dei popoli, nel corso dei secoli, si spiega con un gioco cangiante e sempre rinnovato di cause di ordine materiale. L’economia è tutto. Molti filosofi ed economisti “borghesi” hanno ripreso questo ritornello. Essi assumono una certa aria da spiegarci col corso del grano, dei petroli o del caucciù, la grande politica internazionale. Essi si ingegnano a dimostrarci che tutta la diplomazia è comandata da quistioni di tariffe doganali e di prezzi di costo. Queste spiegazioni sono molto in auge. Esse hanno una piccola apparenza scientifica e procedono da una specie di scetticismo superiore che vorrebbe passare per una eleganza suprema. La passione in politica estera? Il sentimento in materia nazionale? Suvvia! Questa roba è buona per la gente comune. I grandi spiriti, gli iniziati sanno che tutto è dominato dal dare e dall’avere. Ora questa è una pseudo‑verità assoluta.
È completamente falso che i popoli non si lasciano guidare che da considerazioni di interesse ed è completamente vero che essi obbediscono più che mai al sentimento. Il materialismo storico è una buona scemenza. Le nazioni obbediscono sopratutto a delle considerazioni dettate da un desiderio e da una fede ardente di prestigio. Chi non comprende questo non comprende nulla».
La continuazione dell’articolo (intitolato La mania del prestigio) esemplifica con la politica tedesca e italiana, che sarebbe di «prestigio» e non dettata da interessi materiali. L’articolo racchiude in breve una gran parte degli spunti più banali di polemica contro la filosofia della praxis, ma in realtà la polemica è contro l’economismo sgangherato di tipo loriano.
D’altronde lo scrittore non è molto ferrato in argomento anche per altri rispetti: egli non capisce che le «passioni» possono essere niente altro che un sinonimo degli interessi economici e che è difficile sostenere essere l’attività politica uno stato permanente di esasperazione passionale e di spasimo; proprio la politica francese è presentata come una «razionalità» sistematica e coerente, cioè depurata di ogni elemento passionale ecc.
Nella sua forma più diffusa di superstizione economistica, la filosofia della praxis perde una gran parte della sua espansività culturale nella sfera superiore del gruppo intellettuale, per quanta ne acquista tra le masse popolari e tra gli intellettuali di mezza tacca, che non intendono affaticarsi il cervello ma vogliono apparire furbissimi ecc.
§7 Quistione dell’«uomo collettivo» o del «conformismo sociale». Compito educativo e formativo dello Stato, che ha sempre il fine di creare nuovi e più alti tipi di civiltà, di adeguare la «civiltà» e la moralità delle più vaste masse popolari alle necessità del continuo sviluppo dell’apparato economico di produzione, quindi di elaborare anche fisicamente dei tipi nuovi d’umanità. Ma come ogni singolo individuo riuscirà a incorporarsi nell’uomo collettivo e come avverrà la pressione educativa sui singoli ottenendone il consenso e la collaborazione, facendo diventare «libertà» la necessità e la coercizione? Quistione del «diritto», il cui concetto dovrà essere esteso, comprendendovi anche quelle attività che oggi cadono sotto la formula di «indifferente giuridico» e che sono di dominio della società civile che opera senza «sanzioni» e senza «obbligazioni» tassative, ma non per tanto esercita una pressione collettiva e ottiene risultati obbiettivi di elaborazione nei costumi, nei modi di pensare e di operare, nella moralità ecc.
Concetto politico della così detta «rivoluzione permanente» sorto prima del 1848, come espressione scientificamente elaborata delle esperienze giacobine dal 1789 al Termidoro. La formula è propria di un periodo storico in cui non esistevano ancora i grandi partiti politici di massa e i grandi sindacati economici e la società era ancora, per dir così, allo stato di fluidità sotto molti aspetti: maggiore arretratezza della campagna e monopolio quasi completo dell’efficienza politico‑statale in poche città o addirittura in una sola (Parigi per la Francia), apparato statale relativamente poco sviluppato e maggiore autonomia della società civile dall’attività statale, determinato sistema delle forze militari e dell’armamento nazionale, maggiore autonomia delle economie nazionali dai rapporti economici del mercato mondiale ecc.
Nel periodo dopo il 1870, con l’espansione coloniale europea, tutti questi elementi mutano, i rapporti organizzativi interni e internazionali dello Stato diventano più complessi e massicci e la formula quarantottesca della «rivoluzione permanente» viene elaborata e superata nella scienza politica nella formula di «egemonia civile».
Avviene nell’arte politica ciò che avviene nell’arte militare: la guerra di movimento diventa sempre più guerra di posizione e si può dire che uno Stato vince una guerra in quanto la prepara minutamente e tecnicamente nel tempo di pace. La struttura massiccia delle democrazie moderne, sia come organizzazioni statali che come complesso di associazioni nella vita civile costituiscono per l’arte politica come le «trincee» e le fortificazioni permanenti del fronte nella guerra di posizione: essi rendono solo «parziale» l’elemento del movimento che prima era «tutta» la guerra ecc.
La quistione si pone per gli Stati moderni, non per i paesi arretrati e per le colonie, dove vigono ancora le forme che altrove sono superate e divenute anacronistiche. Anche la quistione del valore delle ideologie (come si può trarre dalla polemica Malagodi‑Croce) – con le osservazioni del Croce sul «mito» soreliano, che si possono ritorcere contro la «passione» deve essere studiata in un trattato di scienza politica.
§11 Una concezione del diritto che deve essere essenzialmente rinnovatrice. Essa non può essere trovata, integralmente, in nessuna dottrina preesistente (neanche nella dottrina della così detta scuola positiva, e particolarmente nella dottrina del Ferri). Se ogni Stato tende a creare e a mantenere un certo tipo di civiltà e di cittadino (e quindi di connivenza e di rapporti individuali), tende a far sparire certi costumi e attitudini e a diffonderne altri, il diritto sarà lo strumento per questo fine (accanto alla scuola ed altre istituzioni ed attività) e deve essere elaborato affinché sia conforme al fine, sia massimamente efficace e produttivo di risultati positivi.
La concezione del diritto dovrà essere liberata da ogni residuo di trascendenza e di assoluto, praticamente di ogni fanatismo moralistico, tuttavia mi pare non possa partire dal punto di vista che lo Stato non «punisce» (se questo termine è ridotto al suo significato umano) ma lotta solo contro la «pericolosità» sociale. In realtà lo Stato deve essere concepito come «educatore» in quanto tende appunto a creare un nuovo tipo o livello di civiltà. Per il fatto che si opera essenzialmente sulle forze economiche, che si riorganizza e si sviluppa l’apparato di produzione economica, che si innova la struttura, non deve trarsi la conseguenza che i fatti di soprastruttura debbano abbandonarsi a se stessi, al loro sviluppo spontaneo, a una germinazione casuale e sporadica.
Lo Stato, anche in questo campo, è uno strumento di «razionalizzazione», di accelerazione e di taylorizzazione, opera secondo un piano, preme, incita, sollecita, e «punisce», poiché, create le condizioni in cui un determinato modo di vita è «possibile», l’«azione o l’omissione criminale» devono avere una sanzione punitiva, di portata morale, e non solo un giudizio di pericolosità generica. Il diritto è l’aspetto repressivo e negativo di tutta l’attività positiva di incivilimento svolta dallo Stato. Nella concezione del diritto dovrebbero essere incorporate anche le attività «premiatrici» di individui, di gruppi ecc.; si premia l’attività lodevole e meritoria, come si punisce l’attività criminale (e si punisce in modi originali, facendo intervenire l’«opinione pubblica», come sanzionatrice).
Benedetto Croce
§8 La concezione del Croce, della politica‑passione, esclude i partiti, perché non si può pensare a una «passione» organizzata e permanente: la passione permanente è una condizione di orgasmo e di spasimo, che determina inettitudine all’operare. Esclude i partiti ed esclude ogni «piano» d’azione concertato preventivamente. Tuttavia i partiti esistono e piani d’azione vengono elaborati, applicati, e spesso realizzati in misura notevolissima; c’è adunque nella concezione del Croce un «vizio».
Né vale dire che se i partiti esistono, ciò non ha grande importanza «teorica», perché al momento dell’azione il «partito» che opera non è la stessa cosa del partito che esisteva prima; in parte ciò può esser vero, tuttavia tra i due «partiti» le coincidenze sono tante che in realtà si può dire trattarsi dello stesso organismo.
Ma la concezione, per esser valida, dovrebbe potersi applicare anche alla «guerra» e quindi spiegare il fatto degli eserciti permanenti, delle accademie militari, dei corpi di ufficiali. Anche la guerra in atto è «passione», la più intensa e febbrile, è un momento della vita politica, è la continuazione, in altre forme, di una determinata politica; bisogna dunque spiegare come la «passione» possa diventare «dovere» morale e non dovere di morale politica, ma di etica.
Sui «piani politici» che sono connessi ai partiti come formazioni permanenti, ricordare ciò che Moltke diceva dei piani militari; che essi non possono essere elaborati e fissati in precedenza in tutti i loro dettagli, ma solo nel loro nucleo e disegno centrale, perché le particolarità dell’azione dipendono in una certa misura dalle mosse dell’avversario. La passione si manifesta appunto nei particolari, ma non pare che il principio di Moltke sia tale da giustificare la concezione del Croce: rimarrebbe in ogni caso da spiegare il genere di «passione» dello Stato Maggiore che ha elaborato il piano a mente fredda e «spassionatamente».
§10 La quistione iniziale da porre e da risolvere in una trattazione sul Machiavelli è la quistione della politica come scienza autonoma, cioè del posto che la scienza politica occupa o deve occupare in una concezione del mondo sistematica (coerente e conseguente) – in una filosofia della praxis –. Il progresso fatto fare dal Croce, a questo proposito, agli studi sul Machiavelli e sulla scienza politica, consiste precipuamente (come in altri campi dell’attività critica crociana) nella dissoluzione di una serie di problemi falsi, inesistenti o male impostati.
§20 Charles Benoist nella prefazione al Le Machiavélisme, Prima parte: Avant Machiavel (Parigi, Plon, 1907) scrive: «C’è machiavellismo e machiavellismo: c’è un machiavellismo vero e un machiavellismo falso; vi è un machiavellismo che è di Machiavelli e un machiavellismo che è qualche volta dei discepoli, più spesso dei nemici di Machiavelli; sono già due, anzi tre machiavellismi, quello di Machiavelli, quello dei machiavellisti, e quello degli antimachiavellisti; ma eccone un quarto: quello di coloro che non han mai letto una riga di Machiavelli e che si servono a sproposito dei verbi (!), dei sostantivi e degli aggettivi derivati dal suo nome. Machiavelli perciò non dovrebbe essere tenuto responsabile di quel che dopo di lui il primo o l’ultimo venuto si sono compiaciuti di fargli dire» Un po’ allumacato, il signor Carlo Benoist.
La innovazione fondamentale introdotta dalla filosofia della praxis nella scienza della politica e della storia è la dimostrazione che non esiste una astratta «natura umana» fissa e immutabile (concetto che deriva certo dal pensiero religioso e dalla trascendenza) ma che la natura umana è l’insieme dei rapporti sociali storicamente determinati, cioè un fatto storico accertabile, entro certi limiti, coi metodi della filologia e della critica.
Pertanto la scienza politica deve essere concepita nel suo contenuto concreto (e anche nella sua formulazione logica) come un organismo in sviluppo.
È da osservare tuttavia che l’impostazione data dal Machiavelli alla quistione della politica (e cioè l’affermazione implicita nei suoi scritti che la politica è una attività autonoma che ha suoi principii e leggi diversi da quelli della morale e della religione, proposizione che ha una grande portata filosofica perché implicitamente innova la concezione della morale e della religione, cioè innova tutta la concezione del mondo) è ancora discussa e contraddetta oggi, non è riuscita a diventare «senso comune». Cosa significa ciò?
Significa solo che la rivoluzione intellettuale e morale i cui elementi sono contenuti in nuce nel pensiero del Machiavelli non si è ancora attuata, non è diventata forma pubblica e manifesta della cultura nazionale? Oppure ha un mero significato politico attuale, serve a indicare il distacco esistente tra governanti e governati, a indicare che esistono due colture, quella dei governanti e quella dei governati, e che la classe dirigente, come la Chiesa, ha un suo atteggiamento verso i semplici dettato dalla necessità di non staccarsi da loro da una parte, e dall’altra di mantenerli nella convinzione che il Machiavelli è niente altro che un’apparizione diabolica?
Si pone così il problema del significato che il Machiavelli ha avuto nel tempo suo e dei fini che egli si proponeva scrivendo i suoi libri e specialmente il Principe. La dottrina del Machiavelli non era, al tempo suo, una cosa puramente «libresca», un monopolio di pensatori isolati, un libro segreto che circola tra iniziati.
Lo stile del Machiavelli non è quello di un trattatista sistematico, come ne avevano e il Medio Evo e l’Umanesimo, tutt’altro: è stile di uomo d’azione, di chi vuole spingere all’azione, è stile da «manifesto» di partito. L’interpretazione «moralistica» data dal Foscolo è certo sbagliata, tuttavia è vero che il Machiavelli ha svelato qualcosa e non solo teorizzato il reale; ma quale era il fine dello svelare? Un fine moralistico o politico?
Si suol dire che le norme del Machiavelli per l’attività politica «si applicano, ma non si dicono»; i grandi politici, si dice, cominciano con maledire Machiavelli, col dichiararsi antimachiavellici, appunto per poterne applicare le norme «santamente». Non sarebbe stato il Machiavelli poco machiavellico, uno di quelli che «sanno il gioco» e stoltamente lo insegnano, mentre il machiavellismo volgare insegna a fare il contrario?
L’affermazione del Croce che essendo il machiavellismo una scienza, serve tanto ai reazionari quanto ai democratici, come l’arte della scherma serve ai gentiluomini e ai briganti, a difendersi e ad assassinare, e che in tal senso occorre intendere il giudizio del Foscolo, è vera astrattamente.
Il Machiavelli stesso nota che le cose che egli scrive sono applicate e sono sempre state applicate dai più grandi uomini della storia; non pare perciò che egli voglia suggerire a chi già sa, né il suo stile è quello di una disinteressata attività scientifica (cfr in una delle pagine precedenti quanto è scritto a proposito del significato dell’invocazione finale del Principe e dell’ufficio che essa può compiere per riguardo all’intera operetta), né può pensarsi che egli sia giunto alle sue tesi di scienza politica per via di speculazione filosofica, ciò che in questa materia particolare avrebbe un po’ del miracoloso al tempo suo, se anche oggi trova tanto contrasto e opposizione.
Si può quindi supporre che il Machiavelli abbia in vista «chi non sa», che egli intenda fare l’educazione politica di «chi non sa», educazione politica non negativa, di odiatori di tiranni, come parrebbe intendere il Foscolo, ma positiva, di chi deve riconoscere necessari determinati mezzi, anche se propri dei tiranni, perché vuole determinati fini. Chi è nato nella tradizione degli uomini di governo, per tutto il complesso dell’educazione che assorbe dall’ambiente famigliare, in cui predominano gli interessi dinastici o patrimoniali, acquista quasi automaticamente i caratteri del politico realista. Chi dunque «non sa»?
La classe rivoluzionaria del tempo, il «popolo» e la «nazione» italiana, la democrazia cittadina che esprime dal suo seno i Savonarola e i Pier Soderini e non i Castruccio e i Valentino. Si può ritenere che il Machiavelli voglia persuadere queste forze della necessità di avere un «capo» che sappia ciò che vuole e come ottenere ciò che vuole, e di accettarlo con entusiasmo anche se le sue azioni possono essere o parere in contrasto con l’ideologia diffusa del tempo, la religione.
Questa posizione della politica del Machiavelli si ripete per la filosofia della praxis: si ripete la necessità di essere «antimachiavellici», sviluppando una teoria e una tecnica della politica che possono servire alle due parti in lotta, quantunque esse si pensa finiranno col servire specialmente alla parte che «non sapeva», perché in essa è ritenuta esistere la forza progressiva della storia e infatti si ottiene subito un risultato: di spezzare l’unità basata sull’ideologia tradizionale, senza la cui rottura la forza nuova non potrebbe acquistare coscienza della propria personalità indipendente.
Il machiavellismo è servito a migliorare la tecnica politica tradizionale dei gruppi dirigenti conservatori, così come la politica della filosofia della praxis; ciò non deve mascherare il suo carattere essenzialmente rivoluzionario, che è sentito anche oggi e spiega tutto l’antimachiavellismo, da quello dei gesuiti a quello pietistico di P. Villari.
§26 Egemonia politico‑culturale. È ancora possibile, nel mondo moderno, l’egemonia culturale di una nazione sulle altre? Oppure il mondo è già talmente unificato nella sua struttura economico‑sociale, che un paese, se può avere «cronologicamente» l’iniziativa di una innovazione, non ne può però conservare il «monopolio politico» e quindi servirsi di tale monopolio come base di egemonia? Quale significato quindi può avere oggi il nazionalismo? Non è esso possibile come «imperialismo» economico‑finanziario ma non più come «primato» civile o egemonia politico‑intellettuale.
§22 Bibliografia.
§12 Bacone ha chiamato «Re Magi» i tre re che operano più energicamente per la fondazione delle monarchie assolute: Luigi XI di Francia, Ferdinando il Cattolico in Spagna, Enrico VII in Inghilterra.