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Introduzione

Alessandro Campi

«Venuta la sera, mi ritorno in casa, et entro nel mio scrittoio; et in su l’uscio mi spoglio quella veste coti- diana, piena di fango et di loto, et mi metto panni reali et curiali; et rivestito condecentemente entro nelle antique corti degli antiqui huomini, dove, da loro ricevuto amorevolmente, mi pasco di quel cibo, che solum è mio, et io nacqui per lui; dove io non mi vergogno parlare con loro, et domandarli della ragione delle loro actioni; et quelli per loro umanità mi rispon- dono; et non sento per 4 hore di tempo alcuna noia, sdimenticho ogni affanno, non temo la povertà, non mi sbigottisce la morte: tucto mi transferisco in loro. E perché Dante dice che non fa scienza senza lo rite- nere lo havere inteso, io ho notato quello di che per la loro conversazione ho fatto capitale, et composto uno opuscolo De principatibus, dove io mi profondo quanto io posso nelle cogitationi di questo subbietto, disputando che cosa è principato, di quale spetie sono, come e’ si acquistono, e’ si mantengono, perché e’ si perdono. Et se vi piacque mai alcuno mio ghiribizo, questo non vi doverrebbe dispiacere; et a un principe, et maxime a un principe nuovo, doverrebbe essere accetto; però io lo indirizzo alla Magnificienza di Giuliano. Philippo Casavecchia l’ha visto; vi potrà ragguagliare in parte et della cosa in sé, et de’ ragio- namenti ho hauto seco, anchor che tuttavolta io l’in- grasso et ripulisco».

Quando Machiavelli scriveva queste parole all’amico e corrispondente Francesco Vettori, il 10 dicembre 1513, era ben consapevole – al di là della contingenza, politica e personale, che lo aveva spinto alla composizione di un breve trattato nel quale condensare, ad uso d’un discendente di casa Medici e nella speranza di un reintegro nel ruolo di cancelliere che aveva perduto con la caduta della repubblica fiorentina, le cognizioni politiche apprese grazie ad «una lunga esperienza delle cose moderne e una conti- nua lezione delle antiche» –; era ben consapevole, si diceva, della radicale novità delle sue riflessioni e della frattura che stava determinando rispetto alla consoli- data tradizione di pensiero all’interno della quale anch’egli per molti versi s’era formato. Ma certo non poteva immaginare, sebbene dotato di una fantasia fervida e di un’intelligenza acutissima e persino premonitrice, che un testo tanto stringato ed essenziale, che sarebbe stato stampato e diffuso solo dopo la sua morte, peraltro in una versione che forse il suo autore non avrebbe approvato o avrebbe voluto diversa, potesse trasformarsi nell’opera politica al tempo stesso più celebrata e vilipesa, la più letta e al contempo la più fraintesa, degli ultimi cinquecento anni.

Nonché in un autentico caso editoriale, se è vero che Il Principe è, con ogni probabilità (insieme alla Divina Commedia dantesca e al Pinocchio di Collodi), l’opera della letteratura italiana più conosciuta al mondo, tradotta in tutti i principali idiomi (ma anche in parecchie lingue minori), pubblicata in una quantità di versioni e stampata a ritmo continuo, in edizioni popolari ed economiche vista la sua ridotta mole, ma spesso anche in raffinate versioni destinate al colle- zionismo librario. Un’opera che ha conosciuto – già prima di essere data alle stampe – contraffazioni e rimaneggiamenti (a partire da quello celebre di Agostino Nifo nel 1523), e che nei decenni e secoli a seguire ha sollecitato o determinato repliche polemi- che, rifacimenti satirici, plagi veri e propri, adatta- menti anonimi, appropriazioni più o meno indebite, riscritture più o meno integrali, edizioni censurate o manipolate, false versioni e apocrifi, apologie, ma soprattutto condanne e reprimende d’ogni sorta, per ragioni insieme religiose e politiche.

Per giungere infine ai giorni nostri, che hanno visto Il Principe trasformarsi, da testo di dottrina politica e da docu- mento storico imprescindibile per immergesi nei segreti dell’epoca rinascimentale, in breviario, poten- zialmente ad uso delle masse, sul modo di conquistare e conservare potere, prestigio e influenza anche fuori dall’ambito strettamente politico-statuale. Per cui nulla di più facile oggi che trovare nelle librerie e nei cataloghi degli editori, soprattutto nell’area culturale anglosassone, edizioni integrali o versioni ridotte o rimaneggiamenti sotto forma di massime e aforismi dello scritto machiavelliano, come se questo fosse un pratico manuale per chiunque – manager e imprendi- tori, cultori di strategia e capi militari, giocatori di poker o di tennis, donne in carriera, mafiosi o narco- trafficanti, venditori porta a porta e specialisti del marketing – nella vita o nella professione ambisca a primeggiare e a dominare il prossimo. Testi che hanno segnato in profondità la riflessione politico-sociale nell’età cosiddetta moderna ne abbia- mo avuti molti: a questo novero appartengono, giusto per fare qualche esempio, il Leviatano di Hobbes, la Scienza Nuova di Vico, il Contratto sociale di Rous- seau, la Ricchezza delle nazioni di Smith, il Capitale di Marx. Ma la storia del Principe machiavelliano – della sua fortuna e incidenza, della sua diffusione – è per molti versi unica, senza termini di paragone con altre opere di analogo tenore, non foss’altro per l’obli- qua fama che esso ha finito per riverberare sullo stesso Machiavelli e per il carattere quasi proverbiale che hanno assunto certi passi o brani tra i più noti del testo (anche se nessuno vi ha mai trovato scritto che «il fine giustifica i mezzi»).

Ciò che colpisce, nel caso del Principe, è soprattutto la varietà di interpretazioni che ne sono state date e il fatto che non esiste pensatore, ancorché mediocre, che non abbia ritenuto di dover fare i conti con esso e di offrirne una sua personale visione. In quelle poche pagine, a seconda delle epoche e della sensibilità, ma anche dei pregiudizi di chi lo leggeva, si è visto in effetti di tutto. Un’archeologia del potere, condotta con tale precisione e libertà di giudizio da poter offrire argomenti e suggerimenti pratici sia ai potenziali tiranni sia ai difensori della libertà e del governo popo- lare. Un testo fondante della moderna scienza della politica, nel quale si spiega come si possano, attraverso l’uso della ragione e attingendo agli insegnamenti della Storia, governare i conflitti e fondare ordinamenti stabili. Una dissertazione disincantata sulla natura umana, sulle passioni e i sentimenti elementari che in ogni epoca orientano le azioni individuali e collettive. Una composizione letteraria nel segno dell’empietà, della critica ai precetti della religione cristiana e del rifiuto di qualunque norma morale. Un’apologia della forza e dell’inganno che esprime il cinismo dell’epoca in cui l’opera fu scritta. Un manifesto politico che ha avuto la forza di anticipare le aspirazioni degli Italiani all’unità nazionale e statuale. E si potrebbe continuare, tante sono state le chiavi interpretative utilizzate per penetrare l’essenza o il segreto del Principe.

Ciò spiega perché non sia facile – a cinquecento anni dalla sua stesura originaria, così come attestata dalla mano dell’Autore (lasciando dunque da parte le discussioni sulla data eventuale entro la quale il testo sarebbe stato completato) – offrirne una lettura che, per quanti progressi abbia fatto nel frattempo la critica scientifica, possa dirsi definitiva, autentica o la più rispondente alle intenzioni effettive di Machiavelli. Siamo infatti in presenza di uno scritto che trae gran parte del suo originario e perdurante fascino intellet- tuale proprio dall’ambiguità, meglio, dall’ambivalenza intrinseca, che lo caratterizza.

Un testo all’apparenza semplice e d’immediata comprensione, vergato con uno stile essenziale e di precisione all’apparenza chirurgica, ma che ad una lettura attenta si scopre essere complesso e stratificato, non esente da contrad- dizioni interne, strutturato in modo asimmetrico, capace di condensare in poche pagine una massa enorme di suggestioni, argomenti e prospettive, che si presenta oscillante quanto all’oggetto realmente trattato sin dal titolo, che suona De principatibus in latino, e dunque parrebbe riferirsi primariamente ad un modello politico, ad un tipo di regime o ordine politico, e Il Principe nella sua versione volgare e oggi da tutti accettata, il che significa porre invece l’accento sui fattori caratteriali e psicologici, sui comportamenti e le scelte, che debbono caratterizzare un capo politico che voglia lasciare il proprio segno nella storia o più semplicemente porsi alla guida di una comunità con mano ferma.

Non esiste insomma un modo di leggere Il Principe che possa dirsi più esatto o giusto o corretto degli altri, e che magari cerchi di piegarlo, beninteso con le migliori intenzioni, alla scala di valori e alla sensibilità degli uomini del XXI secolo. Se ciò fosse possibile non si spiegherebbero le dispute e le controversie che lo hanno accompagnato nel corso dei secoli e i fraintendimenti (ivi compresi certi suoi utilizzi che sfiorano il grottesco o il ridicolo) ai quali ancora oggi risulta esposto. Al momento di organizzare una mostra dedicata appunto al cinquecentenario dell’opuscolo machiavelliano, la scelta migliore che si potesse fare è stata dunque quella di rispettare, senza pretendere di risolverla una volta per tutte, la sua ambigua vitalità, di mantenere la molteplicità degli spunti interpretativi e delle chiavi di lettura che esso continua a sollecitare in chiunque lo legga con una qualche attenzione. Semmai si è rite- nuto utile – obbedendo ad un intento sanamente didat- tico, ma senza alcun fine pedagogico – inserire Il Prin- cipe all’interno di una vasta e dettagliata cornice storico-documentaria, con l’idea di illustrare nel modo più essenziale e preciso possibile il contesto politico- culturale all’interno del quale Machiavelli l’ha conce- pito, i suoi contenuti qualificanti, le figure storiche che in esso ricorrono con più forza e le fonti letterarie (a partire da quelle classiche) che lo hanno nutrito. Ma questo in prima e necessaria battuta.

Vi erano poi da raccontare altri aspetti, non meno interessanti e significativi, della storia del Principe: quello, ad esem- pio, riferito alla sua complessa e affascinante vicenda editoriale, dalle prime versioni a stampa del 1532 sino alla massiccia diffusione del testo ai giorni nostri, passando per le molte edizioni e traduzioni del Prin- cipe realizzate nel corso dei secoli, alcune delle quali di assoluto pregio tipografico, di quelle che i bibliofili si contendono sul mercato antiquario; e quello della sua fortuna e incidenza in senso lato intellettuale, per come si è determinata nei diversi contesti culturali e geografici, nelle differenti epoche storiche, attraverso il lavoro d’esegesi di interpreti e lettori d’eccezione.

I saggi che in questo volume precedono il catalogo vero e proprio delle opere in mostra scandiscono appunto un tale percorso: si parte dalla discussione degli equilibri politico-militari che hanno arricchito l’esperienza di Machiavelli cancelliere e stimolato le sue riflessioni post res perditas e si arriva agli usi (ed abusi), alle interpretazioni e alle letture che del Prin- cipe sono state date in età contemporanea. Nel mezzo, come accennato, il lettore potrà trovare – a firma di alcuni dei maggiori machiavellisti attivi sulla scena italiana ed internazionale – tutte le notizie che possono ritenersi indispensabili per comprendere la genesi e il contenuto di quest’opera, per farsi un’idea della sua diffusione libraria e delle molte forme (alcune decisa- mente bizzarre) che quest’ultima ha assunto, per seguirne la penetrazione – spesso influenzata da fattori storici esterni – nei diversi Paesi e nelle più diverse aree linguistiche (questa sezione del volume, forse la più originale, è stata coordinata con grande perizia dal prof. Roberto De Pol), per comprendere infine quali reazioni – di sdegno, di critica o di approvazione –, quali spunti di riflessione e quali originali vedute intellettuali, esso ha suscitato nel corso dei secoli tra pensatori e studiosi d’ogni orientamento. Alla fine della lettura – grazie anche al conforto di un vasto apparato iconografico, che integra il contenuto del volume e non si limita ad abbellirlo – la comprensione del Principe (e della stessa figura di Machiavelli) dovrebbe risultare largamente agevolata dal punto di vista storico-culturale, così come dovrebbero risultare rimossi o chiariti molti luoghi comuni e molte cattive semplificazioni che nel corso del tempo hanno accom- pagnato sia l’opera sia il suo autore.

Del testo, come detto, non viene avanzata un’interpretazione univoca o che aspiri ad essere più avanzata e rigorosa rispetto a quelle del passato, dal momento che il destino del Principe, sin da quando fu scritto, è evidentemente quello di restare avvolto da un velo di doppiezza e indecifrabilità che giustifica le molteplici e contrastanti letture che ne sono state date. Ma se a conclusione del volume, e dopo aver visitato la mostra o sfogliato il catalogo che la illustra, l’impulso sarà di saperne di più su Machiavelli, al di là degli stereotipi che si sono depositati su tale nome, e di mettere mano alla lettura (o rilettura) del Principe, per misurarne direttamente e in autonomia il valore e il significato, il compito di chi ha voluto sia l’omaggio espositivo al Principe sia questo denso tomo di approfondimento, e natural- mente di tutti coloro che hanno contribuito a realizzare le due iniziative, potrà dirsi ampiamente assolto, e con grande soddisfazione.

Presentazione

Gennaro Sasso

La domanda che lo studioso di Machiavelli non può non rivolgersi quando sia stato invitato a presentare il catalogo di una mostra dedicata al cinquecentenario del Principe è cosa sappiano di questo piccolo libro non, com’è ovvio, i cultori della materia, che è da ritenere sappiano tutto, ma quanti a visitarla saranno stati spinti da una generica curiosità o da qualche circostanza comunque estrinseca. La sua non è tuttavia una domanda retorica. Nasce anch’essa da una forma di curiosità, dal desiderio di sapere che cosa, nella media coscienza degli Italiani, rappresenti questo piccolo libro, che fu per secoli giudicato come il manuale di tutte le nefandezze, di tutte le astuzie, di tutte le crudeltà di cui s’intesse la politica intesa come espressione non del diritto, ma della forza, non dell’etica, ma della sua sistematica violazione, come il codice dei tiranni, che gli uomini liberi non possono non odiare. Nasce anche, debbo ammetterlo, dalla curiosità relativa alla conoscenza effettiva che oggi, mediamente, si ha, non solo delle sue pagine e dell’età alla quale appartengono, ma dell’autore stesso che le scrisse. L’uomo che aveva avuto un volto, che era stato parte attiva e importante della politica fiorentina dal 1497 al 1512, e che, post res perditas, aveva scritto, insieme ad altre cose, il libro del Principe, fu presto reso vittima di una leggenda che lo trasformò in una maschera, lo assunse come l’Idealtypus dell’uomo malvagio, maestro di trame e di inganni.

La conseguenza sul serio paradossale fu che, a misura che la fama del suo nome si spandeva per il mondo, e le edizioni delle sue opere si moltiplicavano, il suo pensiero subiva le più gravi deformazioni, la conoscenza stessa della sua vita decadeva ai più bassi livelli: non senza una ragione, del resto, perché a quale scopo ci si sarebbe dovuti interessare alla ricostruzione della vita di uno che era presto stato trasformato nella maschera tragica e grottesca di un figlio del demonio, venuto al mondo per riempire le menti di sogni delittuosi e per demolire dalle fondamenta la Chiesa di Cristo? Così il Machiavelli della storia divenne l’old Nick della commedia elisabettiana. Come presunto consigliere di inganni, doppiezze, e varia malvagità, divenne anche il simbolo di un popolo che da tempo non era più un soggetto attivo di storia, e, nella rappresentazione che gli stranieri ne davano, coniugava la rassegnazione politica con l’arte di sopravvivere nel segno della doppiezza e del tradimento.

A rimettere le cose a posto, a porre fine alla leggenda nera che accompagnava il suo nome, non bastarono coloro che nel tempo lo lessero con altro animo, che apprezzarono i suoi pensieri e li rivendicarono alla scienza della politica. Non bastò Francis Bacon, non bastò Spinoza, non bastò Vico, che lo mise fra gli atei e, per questo verso, pronunziò anche lui la sua condanna, ma per un altro studiò le sue opere, e se ne servì, nelle Scienze nuove, nell’interpretazione che vi fornì della storia romana. Nelle Considérations sulle cause della grandezza e della decadenza dei Romani Montesquieu dette un notevole rilievo a quel che Machiavelli aveva detto nei primi capitoli del primo libro dei Discorsi a proposito dei contrasti politici nella prima repubblica romana. Ma nemmeno questo fu sufficiente perché, nei meglio disposti a studiarla per comprenderla, la considerazione della sua opera andasse oltre il Principe, al quale persino Hegel guardò come se il pensiero di Machiavelli stesse tutto e solo lì. Ma i personaggi che sono stati ricordati furono pur sempre gli isolati rappresentanti di una disposizione interpretativa che non fu in grado di strappare dalle menti dei più l’uomo della leggenda. Anche per questo, la domanda formulata sopra è legittima. Tanto più, direi, lo è in quanto la sparizione dei dati elementari della sua biografia è un evento che si determinò con impressionante precocità: come se dell’uomo che era stato si volesse cancellare ogni memoria.

In effetti, a pochi anni dalla sua morte, avvenuta nel 1527, chi ebbe occasione di scrivere di lui già mostrava molta incertezza, non solo nell’assegnare date non errate agli eventi della sua vita, ma nel dar conto, con precisione, di questi e del loro specifico significato. Non è un’esagerazione dire che, iniziata non prima del XVIII secolo, e a opera non di studiosi italiani, la rivendicazione alla storia della sua biografia avvenne per merito di storici (Gaspar Amico, Francesco Nitti, Pasquale Villari e Oreste Tommasini) che si impegnarono nel narrare la sua vita e nell’illustrare il suo pensiero con spirito di obiettività, ponendolo in relazione ai tempi nei quali visse. Per quanto riguardava la vita, e anche le opere, alla storia Machiavelli cominciò dunque a essere restituito non prima che circa tre secoli fossero trascorsi dal giorno della sua morte. Il che conferma che al suo essere assai più noto che conosciuto contribuì non solo l’interdizione del suo nome messa in atto per secoli dalla Chiesa cattolica, ma la situazione stessa dell’Italia, che soltanto fra il 1860 e il 1870 era divenuta uno Stato unitario, e soltanto nei decenni del Risorgimento aveva preso a interessarsi sul serio al personaggio che, dopo tutto, aveva scritto l’Exhortatio dell’ultimo capitolo del Principe, aveva parlato di Italiani e di barbari e aveva incitato i primi a liberarsi dei secondi. Con non poche, tuttavia, anzi moltissime, anche in questo periodo, eccezioni.

Per la coscienza cattolica del Paese, Machiavelli restava un personaggio pericoloso, un nemico della religione cristiana, un teorico, se si vuol dire così, del paganesimo politico: salvo che, anche in questo campo, presso i migliori, la grandezza del suo pensiero s’imponeva, dando luogo a situazioni singolari. Per citare un documento di alta e raffinata letteratura, chi non ricorda, nei Promessi sposi, il giudizio che di Machiavelli dava un esperto conoscitore della Ragion di Stato e dei suoi teorici seicenteschi qual era don Ferrante, che lo definiva «mariuolo sì, ma profondo»? Manzoni conosceva bene Machiavelli. Se faceva che, a differenza di Giovanni Botero da lui ritenuto «galantuomo» bensì, ma «acuto», il suo personaggio lo giudicasse «profondo», non era per caso. Delle sue pagine si era servito quando aveva scritto, in margine all’Adelchi, il Discorso sulla storia dei Longobardi in Italia. Era troppo intelligente per non apprezzarne, appunto, la profondità. Ma anche in lui Machiavelli suscitava inquietudini. Pur riconoscendone l’ingegno, nella Morale cattolica aveva, nel suo nome, criticato coloro che fondano la moralità sull’utile. E Manzoni era Manzoni. Del resto, non si potrebbe nemmeno non dar rilievo a un altro accorgimento al quale, nel secolo del patrio Risorgimento, si fece ricorso per impedire che quella che De Sanctis aveva una volta chiamata la sua «brutta esteriorità», e cioè le crude sentenze che s’incontrano nei suoi scritti, s’imponesse in primo piano e turbasse il quadro. L’accorgimento, che tale naturalmente non era per chi lo proponeva, consisteva nel fare di lui il profeta dell’unità nazionale, il precursore degli uomini del Risorgimento e del loro pensiero. Era uno dei tanti modi estrinseci ai quali, per evitare il contatto con l’inquietante quadro dei suoi pensieri, allora si fece ricorso perché la statua di Machiavelli fosse collocata e mantenuta nel Pantheon dei grandi Italiani.

In realtà, Machiavelli non fu il profeta della unità d’Italia quale si realizzò alla fine del XIX secolo, non fu, nella sua realtà storica, un precursore degli uomini del Risorgimento. Sebbene anche lui partecipasse di questo sentimento, e quando gli giunse notizia della breccia di Porta Pia, con profonda convinzione rendesse grazie a Machiavelli del quale, in quel momento, era intento a scrivere, De Sanctis non disse in quel caso quel che avrebbe dovuto. La riconoscenza dichiarata a coloro che con quell’impresa restituivano Roma all’Italia da nessun uomo moderno avrebbe mai potuta essere disconosciuta. Ma De Sanctis riuscì più felice quando disse che sulla tomba di Machiavelli in Santa Croce, in luogo delle parole tanto nomini nullum par elogium, che vi furono incise e davano al suo orecchio un suono retorico, avrebbe voluto che, con semplicità, fosse stato scritto: «al fondatore dei tempi moderni». Sembrerebbe, in ogni caso, che, almeno sul piano della conoscenza dei fatti essenziali della sua vita e del suo pensiero, fosse ormai finito il tempo delle imprecisioni e, talvolta, delle autentiche nefandezze perpetrate ai danni della verità. Sembrerebbe che, passato nei libri scolastici, nelle storie della letteratura e della filosofia, il lavoro dei dotti avesse dato i suoi frutti.

Ricordo che quando, molti decenni fa, sedevo sui banchi del liceo classico, il Principe costituiva, per gli studenti del secondo anno, una lettura obbligatoria, che veniva ad affiancarsi a quella del Purgatorio dantesco. Non sempre veniva letto e commentato sul serio. Ma il libro era fra quelli che si dovevano possedere; e poteva capitare o che un professore migliore di altri iniziasse i suoi scolari alla lettura diretta del testo, o che, in assenza di quel professore, qualche studente supplisse lui alla mancanza e per suo conto si avventurasse in quella terra fin lì sconosciuta. Terra pericolosa, senza dubbio, ricca di insidie non sempre facili a essere evitate, anche perché, a parte quelle presenti nelle parti più ardue, e più crude, del testo, il peso dei secolari pregiudizi poteva ben farsi sentire nei commenti, non sempre eccezionali, da cui il libro machiavelliano era corredato. Credo che oggi, nelle scuole, il Principe non costituisca più una lettura obbligatoria. Ma non sarà, tuttavia, questa la ragione per la quale vieti luoghi comuni hanno ripreso a circolare anche nel mondo delle ‘persone colte’ e sui giornali si leggono talvolta cose a dir poco sorprendenti. Caduta la barriera che, almeno nei licei, era rappresentata dalla diretta, anche se incompleta, conoscenza dei testi, l’impressione è che l’onda dei pregiudizi sia ritornata a farsi impetuosa, forse, anzi senza forse, perché le cose nel nostro Paese hanno da tempo preso un indirizzo che giustifica chi lo dipinge come abitato non da cittadini virtuosi, ma da sudditi della doppiezza e dell’astuzia.

Che, nella coscienza stessa degli Italiani, l’immagine di Machiavelli risenta di questa vicenda, non sorprende. A misura che i suoi concittadini tornano, con i loro comportamenti, a dar ragione ai detrattori dei loro costumi, anche il Segretario fiorentino dismette i panni curiali e regali dei quali, come scrisse a Francesco Vettori nella famosa lettera del 10 dicembre 1513, soleva idealmente rivestirsi quando entrava nella corte degli antichi per ascoltare la loro parola e indirizzare a essi la sua; e di nuovo si rende simile alla maschera che i pregiudizi e la mala fede hanno, per secoli, sovrapposta al suo volto. Non escluderei, tuttavia, che al riguardo sia all’opera qualcosa di più profondo, che non concerne Machiavelli più di quanto non coinvolga il rapporto che, da anni, gli Italiani intrattengono, o piuttosto non intrattengono, con la loro storia. Un rapporto che sempre fu reso problematico dall’essere l’Italia un’unità letteraria pensata all’interno di realtà politiche particolari, che con quella non potevano coincidere adeguando a essa, assunta perciò come un’idea, non più letteraria ma politica, la propria particolarità. Un rapporto che restò problematico anche dopo il conseguimento dell’unità nazionale a causa della persistenza di caratteri che erano insieme ancora particolari, per un verso, e astrattamente universali (la Chiesa cattolica e la sua dottrina) per un altro; e che a tal punto ha accentuato la sua problematicità in questi nostri anni di decadenza politica e morale da aver perduto la sua natura stessa di rapporto, quasi che gli Italiani non avessero più un passato al quale rivolgere domande per ottenere risposte e dare a se stessi un orientamento. È come se mille anni di storia fossero il luogo non di significati da cercare e interpretare, ma di una generale insignificanza.

Il Principe, di cui questa mostra offre ai suoi visitatori tante e tante edizioni, fu scritto non, come si riteneva fino a qualche tempo, fra il luglio e il dicembre del 1513, ma, con buona probabilità e com’è comunque opinione dello scrivente, fra il luglio di quell’anno e il maggio del successivo, dopo che il suo primo disegno, che si fermava forse al cap. XI, fu riconsiderato per essere ampliato fino alla misura dei suoi ventisei. Fu composto, dunque, nei primissimi tempi dell’esilio dalla politica attiva che a Machiavelli fu imposto dai Medici, tornati a Firenze nel 1512, e decisi a tener lontano dalla Cancelleria l’uomo che per anni era stato il principale collaboratore del deposto Gonfaloniere perpetuo Piero Soderini. A differenza dei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, per i quali non è stato possibile indicare un precedente a cui riferirli, di precedenti il Principe ne ha più d’uno, dal De regime principum di Tommaso d’Aquino proseguito da Tolomeo da Lucca al De principe di Giovanni Pontano. Ma, senza negare che di questa letteratura egli fosse in parte informato, e che il modello del trattato gli stesse comunque in mente, è certo che Machiavelli non aveva torto quando nel cap. XV scrisse le famose parole che, se qui si ricordano, non è per celebrare il mito dell’originalità intesa in senso numerico, ma per dar conto della consapevolezza che egli aveva della rivoluzione che stava introducendo nella trattazione dell’argomento. Non erano solo gli autori dei predetti trattati de principe a esser messi in questione, ma un’intera tradizione di pensiero politico. Il riferimento andava a quegli scrittori che si erano «imaginati republiche e principati che non si sono mai visti né conosciuti essere in vero»; che avevano scambiato con l’essere il dover essere, la realtà quale è con l’auspicio di una realtà diversa, mentre a lui, Machiavelli, interessava la «verità effettuale della cosa, non l’imaginazione di essa».

Parole famose che, se le si considera con tutta l’attenzione che meritano, non soltanto spiegano perché nel Principe siano state scritte pagine come quelle che costituiscono i capp. XVII e XVIII, e nelle quali è spiegato perché l’idea della legge che regola, secondo natura e ragione, i rapporti politici fra gli uomini debba cedere a quella imposta dalla necessità che le cose durino, gli Stati non crollino, i principi e i legislatori repubblicani non siano travolti dalla rovina. Quelle parole chiariscono fino in fondo, e senza mezzi termini, perché l’assunto sia, con necessità pari a quella enunziata dalla formula opposta, che pacta non sunt servanda: il che potrà sembrare, ed è, duro da accettare, e nondimeno discende dalla premessa se questa è che il principe deve avere «uno animo disposto a volgersi secondo ch’e venti della fortuna e le variazioni delle cose li comandano e [...] non partirsi dal bene, potendo, ma sapere intrare nel male, necessitato». Quelle parole infine spiegano perché, a partire di qui, il trattato politico riveli il suo reale sottosuolo; che, nel suo emergere e rendersi visibile, fa comprendere che quello scritto da lui era in realtà un dramma che aveva della tragedia, perché nell’orizzonte della politica niente si dà che agli uomini consenta di venirne fuori e trovare serenità e pace in un superiore universo.

Come attore di un dramma che è piuttosto una tragedia, il principe è per intero integrato in questo mondo in cui il bene e il male si distinguono solo in relazione al diverso scopo che si tratta di conseguire; e in cui l’etica non è, come si dice volgarmente, negata, ma, in quanto pretenda all’assolutezza, è assegnata a un universo che non ha a che fare con la politica quale è nella realtà effettuale delle cose. In questo universo, segnato dall’incertezza, dominato dalla fortuna e dal suo tremendo potere, la politica impone al principe il dovere della salvezza e della sopravvivenza. Nell’universo machiavelliano, la politica conosce una relazione inscindibile, non con l’etica, ma con la fortuna. Che questo significhi che ogni volta che sia necessario, l’etica debba uscire di scena e lasciare il posto alla politica, è innegabile. Ma il punto è che mai Machiavelli cercò di assegnare alla politica, che discacciava l’etica dal suo nido, un significato superiore al suo, un significato provvidenziale. Il bene era il bene. Ma anche il male era e restava il male.

Non si può metter fine a questa Presentazione senza dire almeno una parola a proposito del contesto teorico in cui il Principe prese la sua forma specifica. Questo universo è costituito, innanzi tutto, dai già ricordati Discorsi. Che sono un’opera fondamentalmente, anche se in modo non esclusivo, dedicata alle repubbliche; un’opera che rivela che repubblicano è l’animo di colui che li compose. Questo, per altro, non significa che fra le due opere vi sia contraddizione. Il principe è richiesto da, e agisce in, situazioni nelle quali l’assetto repubblicano, o non è mai esistito, o ha conosciuto una crisi e una consumazione dei suoi «ordini» così profonda da richiedere l’intervento di una mano «regia»; salvo che la forma principesca alla quale Machiavelli accorda la sua preferenza è quella del principato civile, in cui, per dirla in breve, la sostanza è popolare, la finalità è antiottimatizia, e, nella parte più profonda del nuovo assetto, vibra ancora, non spenta, la passione repubblicana. A coloro che visiteranno questa mostra dedicata al Principe, con le poche considerazioni che precedono ho inteso suggerire che, certo, il suo autore non è uno che contribuisca alla tranquillità dell’anima, al sereno distacco dalle cose del mondo, e autorizzi a coltivare l’illusione che questo sia diverso da come è. È tuttavia un testimone di verità scomode e, comunque le si giudichi, alla fine ineludibili; ed è anche un grande scrittore che, come pochi altri, invita a riflettere sul senso della nostra storia.

Gli equilibri politico-diplomatici negli anni di Machiavelli

Claudio Finzi

Se osserviamo una carta geografica dell’Italia della seconda metà del XIV secolo, vediamo un gran numero di organismi politici, città, Stati e staterelli, uno soltanto da potersi definire grande, alcuni di medie dimensioni, la maggioranza minuscoli e piccolissimi; in mano straniera sono soltanto la Sicilia e la Sardegna oltre alcune altre minori presenze sparse. Se ripetiamo la nostra osservazione nel 1454, dopo la pace di Lodi e la Lega Italica, il quadro è cambiato; gli organismi politici sono drasticamente diminuiti di numero e cinque Stati (Venezia, Milano, Firenze, Roma, Napoli) si spartiscono la maggior parte della penisola, avendo assorbito molti dei più piccoli. Se, infine, guardiamo nuovamente la carta d’Italia negli anni Trenta del Cinquecento, troviamo che la situazione politica si è ulteriormente semplificata, ma soprattutto constatiamo che ben più ampie parti d’Italia, il Milanese e il Regno di Napoli oltre le due isole maggiori, sono ormai sotto il controllo della Spagna imperiale.

Leggendo geograficamente i tre momenti storici abbiamo la sensazione immediata dell’evoluzione politica dell’Italia in due secoli cruciali della nostra storia: un faticoso semplificarsi della geografia politica, che però, invece di condurre a duraturi risultati di formazione di uno Stato o di pochi Stati consolidati, raggiunge soltanto lo stadio drammatico di una sostanziale, benché non totale, sottomissione alle potenze straniere. Mentre, allo stesso tempo, il pensiero politico, la filologia, la letteratura, le arti, conseguono uno sviluppo e una raffinatezza, quale per un certo tempo non sarà possibile riscontrare negli altri Paesi d’Europa, che se ne nutriranno. Un contrasto tra prestigio culturale e crisi politica, che non è certamente l’unico nella storia d’Italia.

Gli anni dal cadere del Trecento fino alla pace di Lodi sono anni di guerre continue in ogni parte d’Italia.
Il regno di Napoli è governato dagli Angiò, dinastia francese, che nel 1442, dopo una lunga guerra complicata da continue variazione politiche, deve cederlo ad Alfonso V d’Aragona, il Magnanimo. Napoli manterrà la dinastia aragonese fino ai primi anni del Cinquecento, ma il Regno è italiano per interessi politici e centro di gravità. Non a caso Alfonso il Magnanimo scelse di risiedere in Napoli e non in Barcellona, av valendosi di collaboratori in gran parte italiani. Politica continuata dal figlio Ferdinando I (Ferrante), che ebbe per primo ministro uno dei massimi intellettuali del Quattrocento: l’umbro Giovanni Pontano.

Molto più articolata e frammentata era a quei tempi la situazione dell’Italia centrale e settentrionale, dove alcune città, Milano, Venezia, Firenze, erano impegnate nel costruirsi un dominio di dimensione almeno regionale. Ma mentre Milano cerca un’espansione, che coinvolge buona parte dell’Italia settentrionale e centrale, la politica di Firenze finisce per essere soprattutto una politica di contenimento, tendente ad arginare Milano senza riuscire a contrapporle una pari forza espansiva.
Più volte i Visconti, signori di Milano, scendono sotto il Po verso l’Emilia, la Romagna, la Toscana, l’Umbria, impadronendosi di molte città di queste regioni, nonché di Genova. ogni volta però trovano sulla loro strada la repubblica di Firenze, che intanto occupa Arezzo, Pisa e altre città toscane; non passa i confini della regione, ma vi si consolida. Quando nel 1402 Gian Galeazzo Visconti, che è ormai signore di Perugia, Assisi, Siena, sembra sul punto di circondare definitivamente Firenze e conquistarla, ecco che a favore di Firenze interviene il destino, facendo morire il milanese di improvvisa malattia. Lo stesso avverrà nel 1414, quando Ladislao d’Angiò durazzo, re di Napoli, muore, anch’egli improvvisamente, mentre sta mettendo in grave pericolo Firenze. Cosicché Niccolò Machiavelli, commentando i due fatti, scrive: «E così la morte fu sempre più amica a’ Fiorentini che niuno altro amico, e più potente a salvargli che alcuna loro virtù».  osservazione, che ci induce a domandarci quanto e come sarebbe stata diversa la nostra storia, se Gian Galeazzo avesse conquistato Firenze.

Domanda tutt’altro che inutile, qualsiasi cosa affermi in contrario chi sostiene che la storia non si fa né con i se né con i ma.
Chiedersi che cosa sarebbe avvenuto se …, è invece strumento molto utile a comprendere come e perché la storia sia andata in un certo modo. Perché la storia non ha un senso e una direzione prestabiliti e inevitabili; è fatta dagli uomini e dalla loro libertà. Niccolò Machiavelli ci dice infatti che la fortuna controlla la metà del nostro agire, ma l’altra metà sta nelle nostre mani.

Nei primi decenni del Quattrocento Venezia, fino al quel momento limitata al primitivo spazio lagunare e a Treviso, presa nel Trecento, inizia la sistematica occupazione delle regioni di terraferma, a ovest, a nord e a nord-est della sua laguna, così da controllare le principali vie di comunicazione con l’Europa, sulle quali passano le merci, fonte della sua ricchezza. occupa Vicenza (1404), Verona (1405), Padova (1406); prende Udine e il Friuli (1420), dove cessa di esistere il Patriarcato di Aquileia; si spinge in Lombardia, ottenendo Brescia (1426) e Bergamo (1427); cerca di controllare la Romagna. Non è una politica abbracciata senza contrasti interni nel ceto di governo; chi vuole l’espansione in terraferma deve vincere le ostinate resistenze di chi vuole invece una Venezia ancora proiettata esclusivamente sui mari, ma prevalgono le tesi di Francesco Foscari, che salirà al dogato nel 1423 e porterà Venezia allo scontro con la Milano di FilippoMaria Visconti. Ciò non significa però l’abbandono della politica marittima, che conserva tutta la sua importanza vitale per Venezia, ma soltanto una nuova apertura verso terraferma accanto al tradizionale impegno in Adriatico e nel Levante. Durante il grande scisma, terminato soltanto nel 1418, il Papato ha perso di fatto il controllo del suo territorio, che di diritto comprendeva il Lazio, l’Umbria e le Marche, la Romagna e parte dell’Emilia. I papi dunque devono fare i conti con una serie di città e signorie, che sono diventate autonome e non intendono tornare sotto il controllo papale. Inizia un difficile processo di consolidamento, che durerà a lungo con fasi di prevalenza del Papato e fasi di recupero delle città, fino alla chiusura definitiva nel 1631, quando si estinguerà il ducato di Urbino. Unico organismo sopravvissuto e rimasto indipendente fino a oggi: la Repubblica di San Marino.

L’altro inevitabile aspetto di questo ristrutturarsi del sistema politico è il continuo stato di guerra e di conflitto tra gli Stati italiani. Guerre e paci si susseguono in tutto il periodo, segnato anche da frequenti cambiamenti di fronte e di alleanze. Infine un punto fermo è costituito dalla pace di Lodi del 9 aprile 1454 tra Venezia e Milano.

Alla pace di Lodi segue nel febbraio 1455 la costituzione della Lega Italica venticinquennale tra Milano, Venezia, Firenze, Roma e Napoli: i cinque maggiori Stati italiani depongono le armi e giurano di muovere insieme contro chiunque rompa la pace in Italia. Il risultato auspicato fu in buona parte raggiunto. Nei cinquant’anni tra il 1454 e il 1494 l’Italia vide ben pochi conflitti, se facciamo il confronto coi decenni precedenti. Non che la pace sia stata assoluta: guerre e contrasti vi furono, ma non così vasti e duraturi come prima. Di fatto tale pace fu opera di quella che è stata definita la «politica dell’equilibrio». L’Italia risulta organizzata su tre livelli: le cinque potenze maggiori; alcuni organismi medi come il ducato di Savoia, il ducato di Ferrara, le repubbliche di Genova e Siena; numerosi organismi minori. L’alternarsi delle alleanze mantiene sempre in vita tutte le cinque potenze maggiori, quasi fosse in atto una tacita convenzione: nessuno dei cinque può essere distrutto.
Il sistema italiano è in sostanza un sistema autonomo, che si regge però anche grazie a un altro fattore fondamentale: gli Stati europei, che pure sono comunque presenti in Italia, non dimostrano forte interesse ai fatti italiani o non sono capaci di intervenire in modo pesante; almeno fino al 1494 non c’è, dunque, un vero problema di difesa dello spazio italiano contro i Transalpini. Ne consegue però che il sistema regge più per le debolezze dei Transalpini che per la forza degli Italiani.

L’Italia quattrocentesca ha un notevole sviluppo economico, tanto produttivo quanto commerciale. I mercanti italiani operano in buona parte del Mediterraneo e dell’Europa. Le città godono di un notevole sviluppo demografico, urbanistico e monumentale; nessun altro paese in Europa ha tante grandi città come l’Italia. Creazione italiana è la nuova cultura umanistica, che a partire da Francesco Petrarca si è sviluppata potentemente, segnando un mondo nuovo, che sta già espandendosi oltre le Alpi. Se molte scuole, soprattutto alle origini dell’Umanesimo, sono opera di maestri privati, che hanno tra i loro allievi il meglio delle classi dirigenti, ben presto alcune città provvedono a istituire scuole pubbliche. Politica e cultura sono strettamente intrecciate. Scegliere come testo di studio della lingua greca la Ciropedia di Senofonte, invece della Politica di Aristotele, non è una scelta soltanto culturale, ma anche e soprattutto politica: significa dare la preferenza a un regime principesco invece che a un regime repubblicano. E viceversa.
Eppure questa Italia, che appare così fiorente per la cultura e l’economia, è ricca di problemi, che si mostreranno in tutta la loro perversa efficacia tra la fine del Quattrocento e i primi decenni del Cinquecento, quando essa cederà di fronte alle invasioni francese e spagnola.

Milano, Firenze e Napoli sono assillate da gravi problemi istituzionali e di legittimità dei governanti. A Milano è tutto un fare e disfare. Alla morte del signore spesso lo Stato viene diviso tra gli eredi, con conseguenti lotte fratricide, fino a quando si ristabilisce il governo di un solo. Verso la metà del Quattrocento l’esaurirsi della famiglia Visconti dà spazio al breve esperimento della Repubblica Ambrosiana, rapidamente soppiantata dagli Sforza, famiglia di condottieri, con Francesco, che sposa Bianca Maria Visconti e su questa base rivendica il suo diritto alla successione. Alla fine del secolo, però, le lacerazioni esplodono anche dentro gli Sforza, quando Ludovico il Moro cerca, riuscendoci, di impadronirsi di Milano.

A Firenze balza in primo piano la famiglia Medici, contro la quale si batte la vecchia oligarchia, che nel 1433 riesce a colpire Cosimo il Vecchio de’ Medici, mandandolo in esilio; ma nel 1434 Cosimo rientra in Firenze e stabilisce una signoria di fatto, benché non di diritto. Formalmente Cosimo resta un cittadino come gli altri, che partecipa alle cariche pubbliche ma niente di più; in realtà governa Firenze tanto che, come è stato detto, le decisioni sono prese nel suo studio e non a Palazzo Vecchio. Alla sua morte, nel 1464, segue il breve periodo di Piero il Gottoso, quindi dal 1469 al 1492 abbiamo Lorenzo il Magnifico.

Intricata è anche la situazione di Napoli. Alla morte di Alfonso il Magnanimo (1458), per sua volontà il Regno di Napoli si stacca dagli altri domini catalano-aragonesi e diventa autonomo. Il trono passa a Ferdinando I d’Aragona, che però è figlio illegittimo di Alfonso, fatto che viene sfruttato da chi ambisce al trono e da molti tra i nobili del Regno, che cercano sempre di irrobustire la loro autonomia. E spesso si tratta di uomini molto potenti, come Giovanni Orsini, principe di Taranto, signore di un territorio vasto, che potrebbe diventare uno Stato autonomo. Appena salito al trono, Ferdinando I deve combattere una durissima guerra di successione contro i baroni; la vince, ma negli anni ottanta deve reprimere un’altra rivolta baronale, ancor più pericolosa, di fatto una vera e propria guerra civile.

Questi contrasti interni provocano due fenomeni: i fuorusciti e le congiure. La durezza delle lotte intestine induce o costringe molti a lasciare la propria città per salvarsi la vita o anche soltanto per poter vivere più tranquillamente. Ma è ovvio ed evidente che i fuorusciti cercano di rientrare in ogni modo e con qualsiasi mezzo, cosicché sono duri e tenaci nemici del governo del proprio Paese e buoni alleati dei suoi nemici. «Il nemico del mio nemico è mio amico» dice un vecchio proverbio.
Frequenti e pericolose le congiure. La più famosa è quella dei Pazzi, ordita a Firenze contro i Medici e posta in atto nel 1478. Giuliano de’ Medici viene ucciso, mentre si salva il fratello Lorenzo il Magnifico, che dà il via a una robusta repressione. Ma Milano non è da meno: nel 1476 Galeazzo Maria Sforza è ucciso in una congiura.

Lo Stato più solido d’Italia è certamente la Serenissima Repubblica di Venezia. Anche senza voler indulgere al mito di Venezia, che nel 1421 celebra il millenario della sua fondazione di città unica e singolare, libera fin dalle origini perché «fundata in mari», sempre stabile nelle istituzioni, pacifica al suo interno,  forte per mare e per terra, dobbiamo però riconoscere che tra Venezia e gli altri Stati italiani la differenza è notevole. Non che manchino a Venezia tensioni politiche ed economiche, ma non raggiungono la virulenza che hanno altrove, e inoltre restano coperte, nascoste dietro una calma e concordia generale. Concordia che peraltro è reale, se misurata con le discordie altrui.

Anche le sue istituzioni sono più stabili di quelle di Firenze o di Milano. Al Maggior Consiglio partecipano tutti i nobili; il Senato dirige la vita politica; il Consiglio dei dieci, sul quale più tardi si svilupperà una vera e propria leggenda nera, è organo molto attento a tutelare gli interessi dello Stato. Anche coloro che sono esclusi dalla politica e dal governo mostrano solitamente un’affezione altrove sconosciuta. In buona sostanza, Venezia è l’unica città italiana nella quale possiamo vedere una vera sensibilità statale. Inoltre, anche nella seconda metà del Quattrocento, nonostante la conquista turca di Costantinopoli (1453), il dominio veneziano nel Levante non soltanto resta saldo, ma si allarga col controllo di Cipro.

Tra i protagonisti della nostra storia tra Quattrocento e primo Cinquecento ecco anche i condottieri. Il sistema militare adottato dai nostri Stati si fonda sulla condotta: un comandante ha ai suoi ordini un gruppo di armati, che da lui dipendono sempre, in pace e in guerra. Questi gruppi, veri Stati mobili, combattono e agiscono per chi li assolda mediante un regolare contratto col condottiero. Un sistema in atto da tempo, collaudato e funzionante, contro il quale a poco valgono le accorate difese del sistema antico del cittadino soldato, perché il problema vero è di avere soldati professionisti, cittadini o mercenari che siano.
Il sistema delle condotte ha alcuni difetti; il primo dei quali è la possibilità, frequentemente avveratasi, che il condottiero abbandoni il committente e passi agli ordini di un altro; talvolta per vero e proprio tra dimento, ma anche per lo scadere di un contratto, che lascia libero il condottiero di accordarsi con chiunque, anche un nemico del primo committente. Inoltre, i condottieri possono anche ambire a un proprio dominio e combattere per ottenerlo. Possiamo peraltro riscontrare spesso un rapporto diretto tra solidità dello Stato e fedeltà dei condottieri; la fedeltà mag giore è quella ottenuta da Venezia, che può anche contare sulle qualità militari delle famiglie nobili della sua terraferma.

La politica dell’equilibrio e gli Stati italiani vanno in crisi nel 1494, quando Carlo VIII re di Francia scende col suo esercito in Italia per conquistare il Regno di Napoli, al quale ritiene di avere diritto in quanto erede degli Angiò. L’attacco francese opera sia sul mare, verso Genova, sia per terra, lungo la via della Toscana. Firenze si spacca: Piero de’ Medici, il figlio di Lorenzo il Magnifico morto due anni prima, abbandona la politica filofrancese, mentre gli ottimati antimedicei la continuano. Il risultato è tragico: Piero si reca al campo francese, dove deve accettare condizioni umilianti, inclusa la cessione di Pisa. da quel momento la marcia verso Napoli sembra ed è inarrestabile. Nel gennaio 1495 Carlo VIII è a Roma, il 22 febbraio entra in Napoli. Ma proprio allora muta la fortuna, muta il quadro di riferimento. A Napoli l’opinione pubblica diventa ostile ai Francesi; mentre gli altri Stati italiani, a cominciare dalla Milano di Ludovico il Moro, capiscono di essere tutti minacciati e firmano un accordo generale, la Lega Santa, alla quale aderiscono Venezia, Milano, Roma, la Spagna e l’Impero. Il 20 maggio Carlo VIII lascia Napoli e col suo esercito si dirige a nord, cercando di forzare il passo dell’Appennino a Fornovo di Taro, dove avviene una di quelle battaglie strane, che en trambi i contendenti possono pretendere di avere vinto. Carlo VIII, infatti, riesce a passare, ma deve abbandonare l’artiglieria e l’equipaggiamento, mentre le truppe spagnole e napoletane risalgono la penisola, costringendo alla resa le guarnigioni francesi rimaste a presidiare il territorio. Nello stesso tempo Venezia occupa alcuni porti pugliesi, sperando di trasformarli in possessi definitivi.

Perché questo crollo improvviso degli Stati italiani, così incapaci di affrontare la situazione?
Il problema non è certamente militare. Gli Stati italiani hanno buoni soldati e ottimi comandanti. d’altronde gli stessi Stati stranieri utilizzano per le loro guerre comandanti italiani. L’artiglieria italiana è buona, quella del duca di Ferrara forse la migliore in Europa. L’industria delle armi è efficiente e abili e competenti sono i tecnici militari. L’arsenale e i marinai di Venezia non hanno rivali.

Il vero problema è strettamente politico. Il quadro transalpino è cambiato: gli Stati si sono consolidati e mostrano ormai interesse per lo spazio italiano peninsulare. Non solo, ma intendono anche sfruttare appieno i diritti, più o meno validi, che accampano su varie regioni italiane. Come non bastassero le pretese di Carlo VIII al Regno di Napoli, ecco che un altro francese, Luigi d’orléans, accampa diritti di origine matrimoniale
sul ducato di Milano. Anche la Spagna guarda al Regno di Napoli, pochi decenni prima legato alla Corona d’Aragona. L’Impero da anni conduce un’opera di penetrazione nel Nord-Est d’Italia, dal Trentino all’Istria.

È dunque venuto meno il primo presupposto per la sopravvivenza dello spazio italiano, del quale abbia mo detto sopra: il disinteresse transalpino per l’Italia. Al contrario, la questione italiana si è trasformata in questione europea; ormai la penisola è destinata a essere il campo di battaglia delle potenze transalpine.

Ma soprattutto si rivelano qui tutte le debolezze degli Stati italiani. Restano vivissimi, anzi peggiorati, tutti i problemi, dei quali abbiamo già detto. Ma c’è un altro elemento da sottolineare: il difficile rapporto tra città dominante e città sottomesse o collegate. Gli Stati italiani non sono veri Stati territoriali, ma sono costituiti da una serie di rapporti tra la città dominante e le singole città del dominio, nelle quali i ceti che le governavano non hanno abbandonato la speranza e il desiderio di riprendersi tutto il potere precedente e di ritrovare la perduta autonomia. Lo Stato in Italia è debole per la sua forma istituzionale, ancora legata alla città-Stato, ormai in grave crisi, o a una forma principesca che conserva molti dei difetti della cittàStato, ma dove, soprattutto, i signori non riescono a fondare una dinastia duratura. Gli Stati italiani si sfasciano perché non sono corpi organici, ma la somma di una serie di corpi minori in lotta fra loro e col centro del potere. Non a caso chi ne uscì meglio fu Venezia, lo Stato italiano più solido.

Carlo VIII muore improvvisamente nell’aprile del 1498; al trono sale Luigi d’orléans, Luigi XII di Francia, che senza perdere tempo si accorda con Venezia per un’azione congiunta contro la Milano di Ludovico il Moro. In agosto iniziano le operazioni; le truppe francesi sono comandate da Gian Giacomo Trivulzio, abile generale, nonché fuoruscito milanese. A metà settembre la campagna è già finita e nessun risultato ha un contrattacco di Ludovico il Moro nel febbraio successivo. Il Milanese è ormai francese, tranne alcune terre passate a Venezia, che però deve immediatamente reggere un robusto attacco dei Turchi, che compiono scorrerie persino in Friuli.

Passa appena un anno, e nel novembre del 1500 Ferdinando II di Aragona (detto il Cattolico) e Luigi XII rinnovano un precedente accordo del 1497 per la spartizione del Regno di Napoli, che nel 1501 è attaccato con una grande operazione a tenaglia. da Nord scendono i Francesi, che attraversano senza contrasto tutta la penisola, da Sud risalgono gli Spagnoli. Federico, ultimo re aragonese di Napoli, per il quale il comportamento del sovrano spagnolo è un vero e proprio tradimento, preferisce consegnarsi ai Francesi e si imbarca per la Francia.

Ma non è ancora finita. Nella primavera del 1502 Francesi e Spagnoli incominciano a guerreggiare tra loro per il Regno di Napoli. Il 28 aprile, a Cerignola, Consalvo di Cordoba, il Gran Capitano, distrugge l’esercito francese; un altro esercito francese è annientato al Garigliano il 28 dicembre, grazie al piano di uno dei più geniali condottieri italiani: Bartolomeo d’Alviano. Il Regno di Napoli è ormai spagnolo. Approfittando della situazione, Venezia occupa numerose città tra Romagna ed Emilia. ovviamente questo non piace al pontefice Giulio II, cosicché i rapporti tra Papato e Venezia diventano sempre più tesi. Inoltre, l’imperatore Massimiliano intende scendere in Italia, ma per farlo deve attraversare il territorio della Serenissima, che rifiuta il transito. Massimiliano risponde con le armi, ma mal gliene incoglie: le truppe veneziane, comandate da Bartolomeo d’Alviano, gli infliggono dure sconfitte, cosicché varie terre in Friuli e in Istria passano sotto il dominio veneziano. Purtroppo, questa manifestazione di forza dell’ultimo Stato italiano solido, forte e indipendente, allarma tutti: Impero, Spagna, Francia e Papato stringono un’alleanza, la Lega di Cambrai, il cui scopo è lo smembramento dello Stato veneziano.

Venezia resiste. Il suo esercito è comandato da Niccolò orsini conte di Pitigliano, che ha in subordine Bartolomeo d’Alviano. Il 14 maggio 1509 presso Agnadello, in Lombardia, vicino a Treviglio, avviene una delle battaglie decisive della storia d’Italia. I Veneziani sono sconfitti e l’idea, che pure era balenata soprattutto nell’Alviano, di conquistare rapidamente Milano svanisce. Anzi, è la terraferma veneziana ad andare quasi completamente perduta.
Venezia però reagisce e nel luglio riconquista Padova, dove poi ci sarà un’epica difesa contro i tentativi nemici di recuperarla. A Padova si battono anche quasi duecento patrizi veneziani, tra i quali due figli del doge Leonardo Loredan. Lo Stato veneziano mostra ancora una volta la sua solidità. Mentre buona parte delle aristocrazie cittadine accoglie i vincitori, artigiani e contadini restano fedeli a San Marco, facendosi impiccare piuttosto che rinnegarne il nome. Situazione che si ripeterà quasi identica alla fine del Settecento in occasione di un’altra invasione francese, quella napoleonica.

Ben presto però i rapporti tra i collegati antiveneziani si incrinano. Giulio II comprende che con la vittoria la Francia si avvia a conquistare l’egemonia sulla penisola italiana e si riavvicina a Venezia, che gli restituisce le città della Romagna. Nell’ottobre 1511 si conclude una Lega Santissima tra il Papato, Venezia e la Spagna, alla quale aderisce subito dopo anche l’Inghilterra. L’11 aprile 1512, presso Ravenna, l’esercito francese, agli ordini di Gastone di Foix, comandante tanto giovane quanto abile, ottiene una clamorosa vittoria, ma le loro perdite – tra le quali lo stesso Gastone di Foix – sono tali da rendere insostenibile la situazione.

Poco meno di un anno dopo ecco un ulteriore rovesciamento di alleanze: Francia e Venezia sono di nuovo insieme, ma sono sconfitte entrambe. Cambiano anche i protagonisti di queste vicende. Papa Giulio II muore nel febbraio 1513; col nome di Leone X gli succede Giovanni de’ Medici, figlio di Lorenzo il Magnifico. Nella notte tra il 31 dicembre 1514 e il primo gennaio 1515 muore Luigi XII di Francia. Gli succede Francesco d’Angoulême, re di Francia come Francesco I, che rivendica anche il titolo di duca di Milano. Si conferma l’alleanza tra la Francia e Venezia. Il 13 e 14 settembre 1515 a Marignano (oggi Melegnano), a poca distanza da Milano, gli Svizzeri affrontano i Francesi e i Veneziani, comandati ancora una volta da Gian Giacomo Trivulzio e da Bartolomeo d’Alviano. Il primo giorno sembra favorire gli Svizzeri, ma il giorno seguente il coordinamento fra Trivulzio e Alviano funziona: la vittoria è della coalizione franco-veneziana. Milano torna ai Francesi, mentre continua la guerra di Venezia per il recupero della terraferma.

Meno di un anno dopo si arriva alla pace di Noyon tra Francesco I di Francia e Carlo I d’Asburgo, nuovo re di Spagna. Nel gennaio 1517 Venezia ha sostanzialmente recuperato i suoi domini di terraferma.

Gli anni che seguono la pace di Noyon fino alla pace di Cambrai (1529) e al ritorno definitivo dei Medici a Firenze (1530) sono segnati dal continuare e acuirsi del contrasto tra la Francia di Francesco I e la Spagna di Carlo d’Asburgo, eletto imperatore nel 1519. Sono più gli anni di guerra che gli anni di pace, guerra spesso molto dura per i combattenti, ma anche e persino di più per le popolazioni sia cittadine sia rurali.

L’Italia è quasi esclusivamente spettatrice e vittima degli avvenimenti. La stessa Venezia, che pure è solida e ancora potente, non riesce a influire sostanzialmente sulle vicende italiane di quel tempo. Paradossalmente, invece, gli Italiani sono ben presenti e attivi sulla scena politica e militare in entrambi i campi. Italiano è Mercurino Arborio marchese di Gattinara, gran cancelliere di Carlo V, uomo di ottima cultura e di notevoli capacità. Gattinara è un convinto sostenitore della tesi secondo la quale l’imperatore è signore universale, signore dell’intero mondo. Non a caso Gattinara vorrebbe dare alle stampe l’allora ancora inedita Monarchia di dante Alighieri, testo fondamentale del pensiero politico filoimperiale del tardo Medioevo, dove si sostiene appunto la tesi dell’imperatore signore universale. Per la cura dell’edizione Gattinara si rivolge a Erasmo da Rotterdam, ma il celebre umanista lascia cadere la cosa.

La tesi universalista sarà invece radicalmente negata dal grande pensiero politico spagnolo del Cinquecento. «Imperator non est dominus totius orbis» scrive Francisco de Vitoria. Ma non lo è neppure il papa, scrive ancora Vitoria, benché sia un frate domenicano. Affermazioni condivise dagli altri principali scrittori di politica spagnoli fino a Francisco Suárez alla fine del secolo: non esistono poteri universali.

In Italia, ormai, sia Francesco I sia Carlo V hanno due robuste basi: Milano il primo, il Regno di Napoli il secondo. Ma poiché entrambi mirano al controllo globale della penisola, lo scontro è inevitabile. E infatti la primavera del 1521 riporta la guerra, che dopo varie vicende e molti scontri campali, quasi sempre vittoriosi per le armate imperiali, si conclude il 25 febbraio 1525 con una terribile sconfitta francese nella battaglia di Pavia; non soltanto muoiono in combattimento i migliori generali di Francesco I, veterani di infinite battaglie, ma lo stesso sovrano cade prigioniero di Carlo V. La Lombardia è nelle mani degli Spagnoli. E questo provoca molta paura, soprattutto a Venezia e a Roma, dove si teme che Carlo V voglia farsi signore di tutta l’Italia. Il 14 gennaio 1526 si conclude il trattato di Madrid con condizioni pesan tissime per la Francia, che Francesco I, dopo la sua liberazione, rifiuterà di rispettare perché firmate sotto costrizione.

In questa situazione è ovvio che più che di una pace si è trattato soltanto di una tregua; infatti passa ben poco tempo prima che si ricominci a combattere. Nella primavera del 1526 si forma una nuova coalizione contro Carlo V, la Lega di Cognac tra la Francia, il pontefice Clemente VII, Venezia e Milano, dove domina nuovamente Francesco Sforza.

Dall’Austria calano in Italia 12.000 lanzichenecchi tedeschi, quasi senza contrasto da parte delle truppe della Lega. Passano il Po a ostiglia, dove in un singolo episodio di disturbo cade Giovanni de’ Medici (Giovanni dalle Bande Nere). I lanzichenecchi vanno avanti sfruttando quanto offre il territorio attraversato, con saccheggi e distruzioni, animati anche dall’odio verso Roma e il Papato. Giunti a Roma, la mettono a sacco con distruzioni umane e materiali immense. Fu un avvenimento che impressionò profondamente i sentimenti, lasciando un segno duraturo negli animi. Nello stesso tempo a Firenze crollava il dominio dei Medici e tornava un regime repubblicano.

Francesco I tenta un contrattacco inviando verso Napoli un esercito al comando di Odet de Foix, signore di Lautrec, mentre dal mare la città è bloccata dalla flotta di Andrea doria, il quale però passa dalla parte di Carlo V, abbandona il blocco di Napoli e occupa Genova. L’impresa francese di Napoli è fallita. Si va verso la pace, che sarà conclusa a Cambrai il 5 agosto 1529 da Luisa di Savoia, madre di Francesco I, e da Margherita d’Austria, zia di Carlo V: è la «pace delle due dame».

Carlo V è di fatto il padrone d’Italia; i dettagli sono definiti poco dopo in un incontro a Bologna col pontefice Clemente VII; sostanzialmente soltanto Venezia resta libera e indipendente, ma da comprimaria e spettatrice, non più grande protagonista. Nel 1530, a Bologna, Clemente VII incorona imperatore Carlo V. Nello stesso anno Firenze è espugnata dalle truppe imperiali, che la assediano da tempo; tornano definitivamente i Medici.

Sempre nel 1530 muoiono due grandi protagonisti di quei tempi: Mercurino Arborio di Gattinara − Carlo V non avrà mai più un altro «gran cancelliere» − e Margherita d’Austria. L’anno dopo muore anche Luisa di Savoia.

Un profilo biografico

Giorgio Inglese

Niccolò Machiavelli nacque a Firenze il 3 maggio 1469, da Bernardo (dottore in legge di modesta condizione economica, m. 1500) e Bartolomea de’ Nelli (m. 1496). Studiò grammatica, dal 1476; abaco, dal 1480; dal 1481 seguì le lezioni di grammatica di ser Paolo Sasso da Ronciglione, nello Studio fiorentino. Alla sua piena giovinezza dovrebbe appartenere una lettura filosoficamente impegnativa come quella di Lucrezio, documentata dal ms. Vaticano Rossiano 884, copia autografa e firmata del De rerum natura (nonché dell’Eunuchus terenziano).

Anche si può ipotizzare che Machiavelli frequentasse le lezioni di Marcello Virgilio Adriani, docente di poetica e oratoria allo Studio dal 1494; non c’è tuttavia prova che conoscesse il greco.

Espulsi i Medici da Firenze (9 novembre 1494) e affermatasi l’autorità del Savonarola, Machiavelli si era avvicinato a quei settori di aristocrazia che, dopo una fase di ambiguo consenso, passarono all’opposizione aperta nei confronti del Frate. Tali legami danno forse ragione del fatto che, entrato in concorso fin dal febbraio per un minore ufficio, subito dopo il supplizio del Frate (23 maggio 1498) Machiavelli fosse designato (28 maggio) e nominato (19 giugno) segretario della Seconda cancelleria; dal 14 luglio, fu anche segretario dei Dieci. Può darsi che la nomina fosse favorita anche da Marcello Virgilio, dal febbraio primo cancelliere.

L’attività ufficiale di Machiavelli, «Segretario fiorentino», è documentata da un’imponente mole di scritti, per lo più corrispondenza tenuta, in nome degli organi di governo centrali, con i funzionari e i comandanti militari sparsi per il dominio fiorentino (una gran parte dei documenti sono riferibili alla guerra per la riconquista di Pisa, che si era ribellata nel 1494). Ma è anche più importante, per quella «esperienza delle cose moderne» che viene rivendicata nella prima pagina del Principe, il servizio diplomatico che a Machiavelli toccò di svolgere presso le principali corti italiane e straniere, con la qualifica di «mandatario» del governo (non con quella politica di «oratore»). Poteva inoltre avvenire che a Niccolò venissero richiesti, da membri della signoria o di organi assembleari, speciali rapporti su questioni del Dominio ovvero sui risultati delle missioni oltre confine.

Sceso in Italia il re di Francia, Luigi XII, alla conquista di Milano e di Napoli, i fiorentini si fecero suoi alleati (22 ottobre 1499), anche per ottenerne sostegno nella guerra contro Pisa. Dal 18 luglio 1500 al gennaio 1501 Machiavelli fu inviato, con Francesco Della Casa, al re di Francia per richiedere all’alleato un maggiore impegno bellico e, contemporaneamente, contenere le sue esose richieste di tributi. La missione permise a Machiavelli di mettere alla prova, sulla scena della grande politica internazionale, le sue meditazioni sulla virtù degli antichi (lo si rammenta nel cap. III del Principe).
Sulla scia dell’invasione francese, le imprese di Cesare Borgia in Romagna acuivano l’instabilità di tutta l’Italia centrale. Alla fine del giugno 1502, Niccolò (che nell’autunno del 1501 aveva sposato Marietta Corsini, dalla quale avrebbe avuto sette figli) coadiuvò Francesco Soderini nell’ambasciata al Borgia, allora impadronitosi di Urbino. In realtà, la posizione del Duca era piuttosto fragile, come fu rivelato dalla ribellione dei suoi luogotenenti (Vitellozzo Vitelli, Oliverotto da Fermo, Paolo Orsini) nel settembre. In coincidenza con questa crisi, dal 5 ottobre 1502 al 21 gennaio 1503 Machiavelli svolse una seconda legazione al Valentino, per offrirgli il sostegno di Firenze; e poté assistere al capolavoro di astuzia e crudeltà grazie al quale il Borgia liquidò i suoi nemici, e anche i meno fidati tra gli amici (come Ramiro de Lorqua). Machiavelli fu presente anche alla conclusione della parabola politica borgiana. Dal 26 ottobre al 18 dicembre del 1503 seguì il conclave da cui uscì eletto Giulio II (Giuliano della Rovere), e vide e commentò lucidamente gli errori del Duca in quella, pur difficilissima, congiuntura. L’esperienza di queste tre legazioni si trova tutta rielaborata nel cap. VII del Principe.

Intanto, subito dopo la gravissima crisi seguita alla ribellione di Arezzo, recuperata il 27 agosto 1502 grazie alle armi francesi, era stato eletto Gonfaloniere perpetuo della repubblica fiorentina Piero Soderini (20 settembre): Machiavelli si legò a lui di sincera fedeltà. Nella discussione e nei conflitti, ben presto aspri, fra il Gonfaloniere e gli ottimati, Machiavelli intervenne indirettamente, attraverso la redazione di promemoria e documenti consultivi, e in prima persona col poemetto in terzine dantesche Compendium rerum decemnio in Italia gestarum (dato alle stampe solo nel febbraio 1506, col titolo Decennale).

Fra le prose consultive, hanno speciale importanza le Parole da dirle sopra la provisione del danaio, datate «marzo 1503» e composte probabilmente per lo stesso Piero Soderini, in vista della consulta del 28 marzo (vi è fissato il principio che «sanza forze, le città non si mantengono, ma vengono al fine loro»); e il discorso Del modo di trattare i popoli della Valdichiana ribellati (incompleto), databile al luglio 1503, impostato sul parallelismo tra il savio comportamento dei Romani contro i Latini ribelli e l’atteggiamento incerto dei Fiorentini nei confronti di Arezzo: l’esempio romano insegna che «i popoli ribellati si debbono o beneficare o spegnere, e che ogni altra via sia pericolosissima». Quanto al Decennale, gli ultimi versi («...ma sarebbe il cammin facile e corto / se voi il tempio riaprissi a Marte») ne svelano il senso politico. Machiavelli si era infatti dedicato, con speciale passione, al progetto di una milizia «propria» della repubblica, ossia formata da cittadini e sudditi, non da mercenari né da alleati stranieri. Al progetto erano fortemente avversi coloro che paventavano un eccessivo rafforzamento del Gonfaloniere; sì che soltanto dopo l’ennesimo fallimento dei mercenari sotto Pisa (13 settembre) si poté dare inizio al reclutamento e all’addestramento dei primi contingenti, che Machiavelli curò personalmente (dicembre 1505-marzo 1506).
Dal 25 agosto al 26 ottobre 1506, Machiavelli svolse un’altra legazione di grande rilievo, ancora presso la corte papale, cioè al seguito di Giulio II in marcia attraverso l’Umbria e la Romagna per ridurre all’obbedienza Perugia (dove entrò il 13 settembre) e Bologna (11 novembre).

Da un evento cruciale in quella spedizione – l’imprevista resa del «tiranno» perugino Giampaolo Baglioni al male armato Giulio –traggono spunto i famosi Ghiribizzi a Giovan Battista Soderini, in cui si teorizza che solo il felice «riscontro» fra il «modo di procedere» dell’uomo e la «qualità dei tempi», in cui ci si trovi a operare, dà luogo alla vittoria. La materia dell’epistola passò in gran parte nel coevo capitolo Di Fortuna, in terzine, indirizzato al medesimo Soderini; e di qui, con sensibili aggiustamenti, nel cap. XXV del Principe e in Discorsi III 9.

Nel giugno 1507, Machiavelli fu designato per una missione all’imperatore Massimiliano, ma poco dopo, per l’opposizione della parte aristocratica, cassato e sostituito da Francesco Vettori. Sembra che Niccolò, risentito per essere stato debolmente difeso da Piero Soderini, scrivesse in questi tempi un capitolo in terzine a Giovanni Folchi, intitolato appunto all’Ingratitudine (motivi analoghi ritornano, d’altra parte, nel Canto de’ ciurmadori, scritto per il carnevale del 1509). Solo alla fine del 1507, il gonfaloniere riuscì a far partire per il Tirolo anche Machiavelli, sia pure con la funzione ufficiale di «mero cancellieri» del Vettori: era infatti troppo importante che fosse valutata con esattezza la possibilità e la pericolosità, per Firenze, di una discesa in Italia dell’Imperatore in opposizione ai Francesi. Al rientro in patria, giugno 1508, il Segretario stese un Rapporto di cose della Magna, in cui sono appunto messi in luce i limiti politici personali di Massimiliano e, soprattutto, il difetto strutturale, la «disunione», che teneva la Germania in stato di inferiorità rispetto a Francia e Spagna.

Tornato ai suoi uffici militari, Machiavelli ebbe parte notevole nella riconquista di Pisa, fino a controfirmare la resa della città (4 giugno 1509). Era quello, in effetti, il culmine delle fortune della repubblica fiorentina, e di Machiavelli stesso: da allora in avanti, la ruota avrebbe girato inesorabilmente verso il basso.

Il 10 dicembre 1508, a Cambrai, era stata firmata una lega europea contro Venezia. Il 14 maggio 1509 l’esercito al soldo dei Veneziani subiva una durissima sconfitta ad Agnadello, e la Terraferma veneta cadeva nelle mani di Francesi e Imperiali. Nel luglio, tuttavia, la reazione di San Marco si dimostrava già forte ed efficace. In questa situazione, nel novembre-dicembre, Machiavelli si recò a Mantova, presso Isabella d’Este, e a Verona, come latore di un tributo all’Imperatore, e qui poté constatare nuovamente l’impotenza di Massimiliano, ma anche osservare la convinta adesione dei contadini veneti alla causa di San Marco (lettera del 26 novembre). Al tempo del soggiorno veronese appartiene probabilmente il capitolo Dell’ambizione, a Luigi Guicciardini.

Raggiunto l’obiettivo di fiaccare la potenza veneta e arrestarne definitivamente l’espansionismo, Giulio II passò alla fase successiva del suo disegno, rovesciando le alleanze contro i Francesi: il 15 febbraio 1510 il Papa e Venezia firmarono una pace. Nel giugno-ottobre Machiavelli tornò per la terza volta in Francia; a missione conclusa, anche in questo caso, per elaborare la sua «esperienza» scrisse un Ritratto di cose di Francia (lasciato, imperfetto, dopo il 1512), molto ricco di dati: soprattutto, vi è limpidamente individuata, nel solido rapporto fra casa reale e baroni, la principale «cagione» della potenza francese.

La posizione della repubblica fiorentina, stretta fra le pressioni di un alleato lontano e quelle di un nemico vicino, si faceva sempre più difficile. I primi mesi del 1512 vedono Firenze ancora incerta, incapace di una netta scelta di campo e Machiavelli dedito agli ultimi, disperati, preparativi di difesa (reclutamento di fanti, organizzazione della milizia a cavallo). Dopo la terribile battaglia di Ravenna (1° aprile 1512) e il ritiro dei Francesi dalla Lombardia (maggio), forze militari spagnole al seguito del cardinale Giovanni, capo della famiglia de’ Medici e legato pontificio, entrarono in Toscana a mezzo agosto 1512. Le fanterie fiorentine furono annientate e Prato furiosamente saccheggiata (29 agosto). Il 31 Piero Soderini dovette fuggire da Firenze. Dopo un breve interregno, i Medici presero il potere (16 settembre).

Il 7 novembre Machiavelli fu cassato dall’ufficio; il 10, condannato a un anno di confino entro il dominio fiorentino. Sospettato di implicazione nella congiura repubblicana ordita da Agostino Capponi e Pietropaolo Boscoli (con qualche complicità di due amici suoi: Niccolò Valori e Giovanni Folchi), il 12 febbraio del 1513 fu arrestato e sottoposto al tormento della fune. Nell’angustia del momento cercò aiuto in Giuliano de’ Medici (cui inviò due sonetti: Io ho, Giuliano, in gamba un paio di geti e In questa notte, pregando le Muse) e in amici potenti come Paolo e Francesco Vettori. Mentre Capponi e Boscoli furono mandati a morte, Machiavelli fu condannato, per quel che sembra, a pagare una cauzione: ma dopo pochi giorni uscì senz’altro di prigione grazie all’amnistia seguita all’elezione papale di Giovanni de’ Medici (Leone X, 11 marzo).

Post res perditas (l’espressione è machiavelliana), Niccolò si ritirò nel podere dell’Albergaccio, a Sant’Andrea in Percussina. E qui, mentre pur tentava di ottenere, contando sul (tiepido) interessamento dei fratelli Vettori, qualche incarico dai nuovi governanti, poté dedicare la parte migliore delle sue giornate al colloquio con gli antichi e alla composizione letteraria. Va dal 13 marzo 1513 al 31 gennaio 1515 il carteggio con Francesco Vettori: studiate epistole «familiari» (una, 4 dicembre 1514, è in latino), talora dense di riflessioni politiche, talora vivacissime nella rappresentazione di episodi e personaggi.

Si colloca, secondo alcuni, nei mesi centrali del 1513 la stesura di quel «trattato sulle repubbliche» cui allude il cap. II del Principe, destinato a trasfondersi nei Discorsi su Livio. Di poco successivi (1514?) saranno il secondo Decennale (incompiuto: narra eventi dal 1505 al 1509) e la «memoria» sul Tradimento del Duca Valentino al Vitellozzo Vitelli, Oliverotto da Fermo e altri.

La lettera del 10 dicembre 1513 a Francesco Vettori annuncia la composizione di «uno opusculo de principatibus». Nel testo a noi noto, il libro si apre con una dedica a Lorenzo di Piero de’ Medici, cui Leone X aveva affidato la guida del potere familiare a Firenze. Un certo riscontro positivo non dovette mancare, dato che fra l’estate del 1514 e la primavera del 1515 Machiavelli fu consultato da Lorenzo in materia militare; mentre Giuliano, aspirante a una signoria su Parma, Piacenza, Modena e Reggio, meditava, forse, di prenderlo al suo servizio (lettera di Machiavelli a Francesco Vettori, 31 gennaio 1515). Ma nel febbraio del 1515 dalla corte di Roma, vero centro del potere mediceo, venne un fermo diniego a ogni riabilitazione. Si spiegano così l’amarezza e lo sconforto che traspaiono da una lettera di Machiavelli al nipote (figlio della sorella Primavera) Giovanni Vernacci: «i tempi ... sono stati e sono di sorte che mi hanno fatto sdimenticare di me medesimo» (18 agosto 1515).
Nei mesi successivi, al più tardi nel 1516, Machiavelli si accostò pertanto al gruppo di giovani letterati che si riuniva nei celebri Orti Oricellari, attorno a Cosimo Rucellai. Il gruppo coltivava idee repubblicane, senza con ciò escludere aristocratici filomedicei, come il futuro storico Filippo de’ Nerli (a lui Machiavelli dedicò, in data imprecisabile, l’epigramma Dell’occasione, libera traduzione da Ausonio). Al Rucellai e a Zanobi Buondelmonti sono dedicati i Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, il capolavoro di Machiavelli, grandiosa opera di meditazione storico-politica in forma di libera glossa al testo liviano.

La vita pubblica di Machiavelli, in questi anni, è pressoché inesistente: si ricorda solo un viaggio a Genova (marzo-aprile 1518), per conto di mercanti fiorentini implicati in un fallimento. Fervida, invece, è l’attività letteraria: dall’amaro poemetto satirico in terzine Asino (incompiuto; è ricordato nella lettera a Lodovico Alamanni del 17 dicembre 1517, in curiosa congiunzione con l’Orlando furioso, da poco pubblicato); alla perfetta Favola misogina di Belfagor arcidiavolo, spedito sulla terra per indagare sulla malizia delle femmine; da una bella Serenata in ottave di materia ovidiana, alla versione dell’Andria di Terenzio (una prima stesura della traduzione è invece di datazione incerta), esperimento ed esercizio di vivace prosa dialogica. C. Rucellai e Z. Buondelmonti (già ricordati), con Battista della Palla e Luigi Alamanni, sono interlocutori del protagonista Fabrizio Colonna nei dialoghi De re militari, ambientati nel 1516 (più noti come Arte della guerra), ma composti fra il novembre del 1519 e il settembre del 1520. In sette libri, è ribadita la necessità di ritornare ai principi dell’arte militare romana, e soprattutto al modello della «popolazione armata» contro l’uso moderno dei mercenari.

Dopo la morte del duca Lorenzo (4 maggio 1519), la diffidenza della famiglia dominante nei confronti di Machiavelli parve finalmente attenuarsi. Grazie ai buoni uffici di Lorenzo Strozzi, fu ricevuto dal cardinale Giulio de’ Medici (marzo 1520). All’incirca nello stesso periodo, fu rappresentata in Firenze la Mandragola, che papa Leone, subito dopo, volle vedere a Roma (lettera di Battista della Palla a Machiavelli, 26 aprile 1520).

Nell’estate del 1520 (9 luglio-10 settembre), Machiavelli svolse una missione semiufficiale a Lucca, a tutela di interessi fiorentini minacciati dal fallimento di un certo Michele Guinigi; allora compose un Sommario delle cose di Lucca (sull’ordinamento politico di quella piccola repubblica) e un esercizio di prosa storiografica, la Vita di Castruccio Castracani, dedicata a Luigi Alamanni e Z. Buondelmonti. L’8 novembre, infine, Machiavelli fu «condotto» dallo Studio per comporre gli annali fiorentini e sbrigare altre incombenze politico-letterarie («ad componendum annalia et cronicas florentinas et alia faciendum»): fra queste bisognerà annoverare anche il parere costituzionale, Discursus florentinarum rerum post mortem iunioris Laurentii Medices, novembre 1520-gennaio 1521, in cui Machiavelli sosteneva la restaurazione di un regime repubblicano basato su quel Consiglio Maggiore che i Medici avevano soppresso nel 1512.

Lasciata cadere una proposta d’impiego presso Prospero Colonna (lettera di Piero Soderini a Machiavelli, Roma, 13 aprile 1521), Machiavelli nel maggio si recò, per conto degli Otto di Pratica, al capitolo dei Frati minori in Carpi, con la richiesta di costituire un’autonoma ‘provincia’ francescana fiorentina. La trasferta, in verità, è memorabile soltanto perché in quella occasione si approfondì l’amicizia fra Machiavelli e Francesco Guicciardini, allora governatore di Modena, e tra i due cominciò uno scambio epistolare straordinario per finezza psicologica e vivacità letteraria.

Mentre continuava a lavorare agli annali fiorentini, Machiavelli intervenne ancora nel dibattito sulla nuova Costituzione da dare a Firenze dopo la morte di Leone X (1° dicembre 1521), scrivendo un Ricordo al cardinale Giulio e una Minuta di provvisione, in cui riproponeva alcune ipotesi del Discursus. Ma poco dopo il dibattito si concluse bruscamente, con la scoperta e la repressione di una congiura antimedicea ordita da Z. Buondelmonti e Luigi Alamanni: mentre i due principali imputati scamparono con la fuga, Luigi di Tommaso Alamanni e Iacopo da Diacceto finirono sul patibolo (6 giugno 1522). Machiavelli tornò allora a concentrarsi sulla composizione delle Istorie fiorentine.

Quasi a siglare la conclusione della grande opera, nel gennaio 1525 fece rappresentare a Firenze, in casa del ricco Iacopo Falconetti (detto il Fornaciaio), la Clizia, basata sulla Casina di Plauto: la commedia è pervasa da franca autoironia sull’innamoramento senile per la cantante Barbara Salutati (per lei Machiavelli scrisse almeno due madrigali, Amor, i’ sento l’alma e S’alla mia immensa voglia, il primo dei quali fu musicato da Philippe Verdelot). All’autunno precedente potrebbe invece risalire un bizzarro Discorso o Dialogo sulla «lingua fiorentina» di Dante, con il quale Niccolò prendeva posizione, in polemica con l’«italianista» Trìssino, accanto ai difensori del primato fiorentino, quali Lodovico Martelli.

Nel giugno del 1525, Machiavelli presentò al dedicatario Giulio de’ Medici (che dal novembre del 1523 era papa Clemente VII) gli otto libri delle Istorie fiorentine. Queste vanno dalla fondazione della città al 1492, ma hanno per principale e vero soggetto il conflitto civile in Firenze, dallo scontro fra guelfi e ghibellini alla vittoria dei Medici; Machiavelli ripensa la storia della sua città, straziata dalla partigianeria, a contrasto con quella di Roma antica, dove la disunione della plebe e del senato, come si legge nei Discorsi, fece libera e potente la repubblica.

La situazione politica andava intanto facendosi perigliosa. Il 12 dicembre del 1524 Clemente VII aveva stretto un accordo segreto con Francesco I, re di Francia (dal 1515); ma il 24 febbraio 1525, a Pavia, questi era stato battuto da Carlo V (imperatore, dal 1519), e addirittura catturato. Nel giugno-luglio, Machiavelli fu inviato dal Papa in Romagna, presso Francesco Guicciardini, per organizzarvi una milizia, ma il disegno fallì a causa delle aspre lotte di fazione in corso in quella provincia.

Francesco I fu liberato il 18 marzo del 1526, ma violò subito i patti cui era stato obbligato e promosse una lega antimperiale, cui aderirono anche il Papa e Firenze (lega di Cognac, 22 maggio). In clima già di guerra, Machiavelli ricevette altri modesti incarichi militari.

I lanzichenecchi imperiali di Georg Frundsberg entrarono in Italia all’inizio di novembre; il 25 si scontrarono con le «bande nere» di Giovanni de’ Medici, che restò ferito a morte. Il 30 Machiavelli fu inviato a Modena, presso il Guicciardini, per meglio considerare «l’ordine tutto di questa matassa»; raccolte le informazioni sulle forze in campo e constatata l’impossibilità di qualsiasi trattativa diretta con i lanzi, se ne tornò a Firenze (4 dicembre). Dopo la pausa invernale, Machiavelli tornò ad affiancare il Guicciardini nei suoi ultimi tentativi di riorganizzare le forze della lega (Parma, Bologna, Forlì, 3 febbraio-13 aprile 1527), ma non poté nulla contro le indecisioni e le riserve mentali degli alleati (duca d’Urbino, veneziani), mentre il papa stesso continuava a sperare in un accordo col nemico.

Si trattava, ormai, di difendere Roma dall’attacco dei lanzi, passati sotto il comando del transfuga Charles de Bourbon. Con le residue truppe della Chiesa, Guicciardini mosse verso il Lazio, preceduto di qualche giorno da Machiavelli, incaricato di provvedere agli alloggiamenti. Ma i lanzi furono più veloci, e Roma fu messa a sacco il 6 maggio. Sembra che Machiavelli si trovasse a Bracciano, o a Civitavecchia (donde scriveva al luogotenente il 22 maggio), quando, nel rovescio generale della lega, i Medici furono scacciati da Firenze e fu restaurata la repubblica (17 maggio 1527). Ai nuovi governanti, di estrazione savonaroliana, Machiavelli era inviso per lungo e ininterrotto dissenso (a tacere della fama di ateismo, che sempre lo aveva accompagnato), e non venne richiamato in Cancelleria: nel ruolo di Segretario fu invece confermato il mediceo Francesco Tarugi (10 giugno).

Niccolò era, in effetti, già minato nel fisico e si spense il 21 giugno tra pochi amici: Buondelmonti, Alamanni, Strozzi, Nardi.

Mussolini, Craxi, Berlusconi: Il Principe e lo specchio del potere

Filippo Ceccarelli

Gli allor ne sfronda, d’accordo. Ed alle genti svela, non c’è dubbio. Ma tralasciando per un attimo le lacrime e il sangue, che pure non mancano in questa avvincente storia di biblio-politica, vale innanzi tutto prendere in esame la straordinaria coincidenza per cui nell’arco di quasi un secolo ben tre presidenti del Consiglio, o aspiranti tali, comunque tre autentici leader italiani, insomma Mussolini, Craxi e Berlusconi, si sono sentiti in dovere di scrivere di loro pugno, o almeno di firmare per interposto ghost-writer, una prefazione al Principe1. E la prima notazione che viene in mente, prosaicamente, a un giornalista politico, è che quegli scritti non hanno portato fortuna a nessuno dei tre. Come se il loro avventurarsi in quel testo gli fosse stato fatale. Di più, e anche peggio: come se l’aver ceduto alla tentazione di misurarsi con la scienza esatta del comando mischiando storia e attualità, passato e opportunità; come se il vezzo di presentarsi come statisti in grado di colloquiare con la grande anima di Niccolò Machiavelli, ecco, l’impressione che si ricava è che tali prove abbiano comportato per ciascuno dei tre capintesta uno speciale e personalizzatissimo castigo. Una specie di contrappasso legato proprio a ciò che nelle loro prefazioni si erano inorgogliti di sottolineare. Che poi, a pensarci bene, indica una concezione un po’ punitiva della storia, e ancor più del potere, specie quando questo perde di vista la sua insostituibile funzione per automagnificarsi, esercizio di norma eseguito schermando le proprie magagne e cialtronerie dietro la prepotenza e la menzogna. Oppure, come in questo caso, dietro una coltre intellettuale, per giunta invocando a sostegno l’autorità del Segretario fiorentino. Ma senza rendersi conto che proprio questa gli si sarebbe poi ritorta contro.

E allora, con la piena coscienza che il senno di poi è chiave suggestiva, ma non sempre esaustiva delle umane vicende, si comincia col dire che il Preludio al Machiavelli dell’allora quarantenne Benito Mussolini fu composto all’inizio del 1924 come prolusione da pronunciarsi in occasione di una laurea honoris causa conferitagli dall’Università di Bologna2. Ma al dunque l’erogazione si rivelò affrettata, per non dire raffazzonata, sorsero dubbi e difficoltà in seno al corpo accademico, lo stesso Mussolini si ritrovò impegnato nella campagna elettorale che si svolgeva in quel periodo, probabilmente si scocciò anche dei rinvii, e alla fine – che poi in tale genere di faccende non è mai la vera fine – rinunciò e mise una pietra su questa benedetta laurea e sull’annessa cerimonia3. Sennonché, all’insegna del motto giornalistico secondo il quale «non si butta mai niente», il suo Preludio trovò pronta ospitalità sulla rivista «Gerarchia», di cui era animatrice Margherita Sarfatti, che lo pubblicò in forma di articolo alla fine del mese di aprile del 1924. Da appena tre settimane, stavolta dopo aver vinto le elezioni, il duce era presidente del Consiglio. Anche per questo il testo venne passato ai maggiori quotidiani, che lo ripubblicarono suscitando la dovuta impressione e, come presto si vedrà, le opportune polemiche.

Di sicuro Mussolini conosceva e amava l’opera di Machiavelli. Di lì a poco la Sarfatti, nella sua popolarissima biografia Dux, lo avrebbe raffigurato, bersagliere in licenza, mentre davanti al focolare della casa di Predappio si alternava con il padre nella lettura ad alta voce del Principe. Per cui, anche al netto delle rappresentazioni oleografiche, c’è da credere che quella prefazione fosse per lui il compimento e insieme il riconoscimento di una passione personale. Che Mussolini, oltretutto, si riprometteva addirittura di approfondire con un’opera organica e scopertamente didattica di cui nella mancata lectio magistralis indicava il titolo: Vademecum per l’uomo di governo.

Altra questione, e per tanti aspetti anche più rilevante, è che questo suo amore per Machiavelli entrò certamente nel novero degli elementi che furono adeguatamente segnalati e celebrati, nel senso autentico della parola, in quella che al giorno d’oggi si potrebbe definire la costruzione e la manutenzione dell’immagine del Capo del governo. E quindi otto anni dopo la pubblicazione del Preludio, il numero di «Gerarchia» che lo conteneva e gli appunti manoscritti che l’avevano preparato furono esposti quale autentico oggetto di culto nella Mostra per il decennale della Rivoluzione Fascista, allestita nel 1932 al Palazzo delle Esposizioni di Roma4.

«Tutto nasce da Lui – si poteva leggere su un grande cartello. Tutti ricorrono a Lui. L’Italia si sveglia ogni mattina con Lui». Disposta fra la Galleria dei Fasci e il Sacrario dei Martiri come cuore palpitante e spettacolare della mostra, la Sala T, che il genio ideativo, decorativo e anche adulatorio di Leo Longanesi aveva dedicato alla figura del Duce, offriva in visione ai visitatori libri, foto, lettere, telegrammi, stampe, stampelle e altri cimeli, feticci e reliquie, tra cui fazzoletti sporchi di sangue dopo attentati, sciarpe e decorazioni perforate da colpi di rivoltella e perfino l’intero arredamento dello studio di Mussolini al «Popolo d’Italia», trasportato da Milano. Verso l’uscita, in due vetrine sormontate dalla scritta «Assai più che gli uomini ebbero influenza su di me le cose, le stagioni, il paesaggio», c’erano appunto i risultati dell’ardore mussoliniano per il Principe. E come si vedrà, anche le premesse della sua conseguente nemesi.

Ora, nello specifico, non si hanno titoli per stabilire quali influenze e quali eventuali apporti – Roberto Michels, Giuseppe Rensi – contribuirono alla redazione del testo. Restando prudentemente nell’ambito di una diagnosi superficiale, del Preludio colpisce l’energica e astuta prontezza con cui il pessimismo sulla natura umana è posto al servizio di una pregiudiziale giustificazione della forza, del potere personale, in pratica della dittatura. In estrema e libera sintesi si può dire che Mussolini approfitta di Machiavelli per mettere le mani avanti e al tempo stesso per tenersele libere. Quanto sta per avvenire in Italia, d’altra parte, è già esposto in quelle pagine in cui la sovranità del popolo è ridotta al rango di «tragica burla».

Ma a parte l’approccio stilistico così sbrigativo da suonare infastidito, e a parte l’efficace megalomania che porta l’autore a trattare con Machiavelli da pari a pari, pure rivelando qui e là impellenze di scoperto narcisismo (là dove scrive, ad esempio, «ben prima del mio famoso articolo»), in un tempo specialmente attento alle forme e alle immagini ciò che oggi più impressiona di quel testo sono le primissime righe. Lo spunto cioè per il quale Mussolini ha troncato gli indugi che evidentemente lo trattenevano dall’iniziare quel testo: «Accadde che un giorno mi fu annunciato da Imola – dalle legioni nere di Imola – il dono di una spada con inciso il motto di Machiavelli “Cum parole non si mantengono li Stati”».

Ora, ha senz’altro ragione Riccardo Fubini notando che la citazione sulla lama è «alquanto maccheronica»5. Ma si rimane comunque sgomenti nel pensare che quell’esordio a filo di spada stava per accompagnare un passaggio d’epoca. Qualcosa di terribile che tiene assieme sangue e potere, vittime e assassini, proprio nel nome di Machiavelli.

È davvero una questione di giorni. il 6 aprile si svolgono le elezioni politiche: vince il «listone». il 28, sempre di aprile, i maggiori quotidiani danno conto che il capo del nuovo governo ha pubblicato il Preludio al Machiavelli. un mese dopo, il 30 maggio, a Montecitorio il leader socialista riformista Giacomo Matteotti pronuncia il suo fatidico discorso nel quale chiede di annullare le elezioni. il 10 giugno è rapito e ucciso. il 26 giugno i parlamentari dell’opposizione si ritirano nella Sala della Lupa dando inizio all’aventino.

Ma nei primi giorni di luglio, quando non si è ancora ritrovato il cadavere del capo socialista (accadrà il 16 agosto), su una rivista inglese, «english life», esce postumo l’ultimo scritto di Matteotti. ed è proprio una risposta allo scritto del Duce, tanto da essere intitolato: Machiavelli, Mussolini and fascism. Sono due pagine precedute da una significativa nota in corsivo: «Dopo aver scritto questo articolo, il signor Matteotti fu rapito da alcuni fascisti e ancora non si sa quale sorte gli sia toccata»6.

Presente in originale e in traduzione, sia pure a mano, negli atti della prima istruttoria, è grazie alla cortese generosità del professor Mauro Canali che si può prendere in considerazione questo articolo che finora la storiografia aveva trattato solo di sfuggita.

E rispetto al piglio di Mussolini, al suo andare subito al sodo e senza complessi, si resta subito colpiti dal modo riflessivo e sorvegliato con cui Matteotti procede nella sua critica al Preludio e all’implicita lettura cui sottopone l’opera di Machiavelli. in buona sostanza egli accusa lucidamente il capo del fascismo di porsi al riparo di Machiavelli per meglio esercitare dispotismo e immoralità. Ridimensiona quindi l’efficacia della forza; sostiene che i profeti armati possono sì conquistare il potere, ma tale conquista non è permanente. Scrive Matteotti, poco prima di andare incontro al suo destino: «Mussolini stesso con grande energia ha creato una forma di governo sorretta dalla spada, dalla violenza e dal pervertimento politico. il vigore delle sue vedute, la potenza dei suoi sradicati seguaci hanno soppresso la democrazia in italia». Ma quest’ultima, ne è sicuro il futuro martire, «risorgerà».

Riepiloga meticolosamente il capo socialista, e con lunghe citazioni, le tesi del Preludio per rovesciarle addosso al suo potente autore. Richiama, ad esempio, i capp. iX e XViii del Principe, il favore del popolo e l’osservanza delle leggi, con l’intento di sottolineare che Mussolini è in realtà impotente prigioniero di forze da lui stesso scatenate: «avrebbe Machiavelli permesso una situazione simile? non di certo. egli ben sapeva che uno Stato deve perire se dei bravacci privilegiati possono commettere crimini senza restrizioni di sorta». nel chiudere, non senza aver di nuovo ribadito il convincimento che la democrazia «si risveglierà» dal sonno della «pigrizia morale», Matteotti sembra quasi offrire al Duce quella che, pur nell’intento polemico, finisce per assomigliare a una specie di soluzione politica o via d’uscita: anziché dedicarsi alle «crude effusioni» su Machiavelli, pensi a «epurare», «purificare» (to cleansing) il fascismo, «la cui pubblica azione tende a infamare l’italia di fronte al mondo intero».

E nel rileggere queste parole sapendo in anticipo ciò che attende chi le ha messe nero su bianco, ma anche ripensando alla fine ingloriosa del regime e a quella spaventosissima che toccherà in sorte al suo capo, di nuovo acquista un terribile valore di verità la scritta istoriata sulla lama della spada delle nere legioni.

Con le parole non si mantengono gli Stati. anche perché a un certo punto il popolo, quest’entità così svalutata da Mussolini, si impossessa di quella spada e trova il modo di levarsi di torno chi l’ha portato alla fame e alla disfatta.

Dopo di che, con qualche ragionevole superficialità, si può dire che per tanti anni il Principe uscì dall’orizzonte funzionale della politica. all’indomani del fascismo era salita al comando una classe dirigente di cattolici che di Machiavelli e della sua pedagogia diffidavano istintivamente, come sentendovi puzza di zolfo e/o di bruciato, comunque un supplemento demoniaco che andava ad aggiungersi ai normali guai che comportava il potere.

Vero è che i democristiani disponevano di altri canoni per dare voce alle loro ombre e coltivare quella specifica malizia che si ispirava semmai a modelli gesuitici e curiali. incardinati e al tempo stesso lacerati e talvolta addirittura giustificati dalla coscienza del peccato originale, gli uomini dello scudo crociato esercitarono per quasi mezzo secolo una forma di realismo a tratti anche spietato di cui fanno fede celebri formule andreottiane quali «il potere logora chi non ce l’ha» o «a pensar male si fa peccato, ma ci si azzecca sempre» (quest’ultima, non per nulla, presa in prestito dalla sconsolata sapienza del cardinal Marchetti Selvaggiani).

E tuttavia questa particolare variante di cinismo, non a caso costantemente qualificata dai reverendi padri della «Civiltà cattolica» come «machiavellismo pratico», doveva essere per sua natura incompleta e intermittente, non potendo cioè interamente e permanentemente condizionare le sorti della DC. Quando ciò avvenne, ossia quando la più insensibile spudoratezza prevalse su qualsiasi ispirazione democratica e cristiana, la DC cessò semplicemente di esistere. e a riprova vale qui riportare ciò che disse nel 1994 Giuseppe Dossetti, tornato brevemente a far politica per difendere la Costituzione dopo l’esperienza nel deserto, della terra Santa e dei monasteri: «noi in queste ore siamo discepoli non certo di Cristo, ma neppure di Platone o di Kant. Siamo tutti piuttosto figli di Machiavelli»7.

Nel frattempo si era quasi bruciata l’esperienza di bettino Craxi, il secondo illustre prefatore del Principe, un altro della triade di personalità le cui avventure politiche, partite da Milano, raggiungono il culmine e vengono degnamente celebrate a Roma, ma sempre nel capoluogo lombardo sono destinate inesorabilmente a ritornare, anche in questo percorso secondo una comune fatalità.

Personaggio di passaggio e di cerniera assai più di quanto potesse sembrare ai suoi tempi, che furono gli anni ottanta, Craxi era un leader moderno nel senso che certamente sapeva conquistare l’attenzione coltivando l’arte di sorprendere e in qualche modo anche quella, se necessario, di fare scandalo. Specie presso gli intellettuali di sinistra, che lui riteneva in massima parte influenzati dalla cultura del Partito comunista.

Dotato di un forte temperamento, nel corso della sua presidenza aveva destato accuse, ironie e punzecchiature per certi suoi atteggiamenti bruschi e arroganti che nell’immaginario italiano ridestavano un tratto vagamente mussoliniano. il principe dei vignettisti, ad esempio, Giorgio Forattini, lo raffigurava con la mascella pronunciata e gli stivali. all’inizio, sinceramente offeso nei suoi sentimenti familiari, che erano certamente antifascisti, Craxi provò a protestare ribellandosi a quella identificazione. in seguito, da più parti si ebbe la sensazione che non gl’importasse poi tanto; e infine che il paragone con la ‘buon’anima’, come lui stesso aveva preso a parlare di Mussolini, a suo modo addirittura lo solleticasse.
nell’estate del 1988, dopo quattro anni passati con un certo successo a Palazzo Chigi, il leader del PSi ebbe l’occasione di épater les communistes e non se la fece sfuggire. a fornirgliela fu il nuovo direttore di «epoca!», alberto Statera, che nel rilanciare il settimanale della Mondadori aveva aggiunto un punto esclamativo alla testata e messo in piedi una collana di classici della politica, «i libri del punto esclamativo», appunto, da accludere al giornale; e come prima uscita propose al segretario del PSi di introdurre il Principe.

L’idea era quella di ripetere la sorpresa culturale, l’impatto politico e il successo editoriale che proprio dieci anni prima aveva suscitato un piccolo saggio che lo stesso Craxi, dal 1976 alla guida del partito, aveva scritto, o meglio si era fatto scrivere a suo nome da uno studioso a lui vicino, Luciano Pellicani, a proposito di Pierre-Joseph Proudhon e del socialismo utopico8. Con quel testo, pubblicato sull’«espresso» nell’estate del 1978 con il titolo Il Vangelo socialista, il nuovo leader socialista aveva «tagliato la barba al Profeta»: così, alludendo a Marx, aveva sintetizzato eugenio Scalfari.

Ma per tornare al Principe, e proprio alla luce di quel precedente, occorre chiarire che Craxi firmò sì la prefazione richiestagli da Statera9. Ma anche in quel caso non la scrisse lui, e anzi nel caso specifico nemmeno una correzione volle apportare a quel testo, pur assumendosene per intero la titolarità, inclusi vantaggi e svantaggi.
Non è, rispetto al Preludio di Mussolini, una differenza da poco. Ma i tempi erano mutati, la vocazione politica si era parecchio professionalizzata e anche in italia i maggiori leader cominciavano a disporre di ghostwriter, in particolare il segretario del garofano che proprio in quegli anni aveva preso a siglare, anche se non sempre a scrivere di suo pugno, dei pungenti corsivi pubblicati sull’«avanti!» con la sigla Gdt, che stava per «Ghino di tacco», uno pseudonimo ispiratogli due anni prima da eugenio Scalfari, che a sua volta aveva paragonato Craxi a un leggendario brigante – poi si disse anche gentiluomo – comunque vissuto nella toscana del XIII secolo.

Ebbene, l’uomo che materialmente stese la prefazione al Principe firmata da Bettino Craxi per i libri di «epoca!» era il giornalista e a lungo direttore dell’«avanti!», Franco Gerardi, cui si devono molti dei discorsi pronunciati da Craxi negli anni di Palazzo Chigi, nonché la maggior parte dei corsivi usciti sul quotidiano del PSi a firma Gdt.

Ormai a un quarto di secolo da quell’impegno, nel riconoscere per iscritto di essere stato «effettivamente l’autore di quel non felice articolo», Gerardi ha anche avuto la gentilezza di esporre in sintesi i termini della sua collaborazione: «il mio rapporto con Craxi era semplicissimo: mai nessuna consultazione. Io conoscevo i suoi pensieri e scrivevo i suoi discorsi pubblici (quelli parlamentari li curava lui stesso) cominciando con “illustri signori” e finendo con gli auguri; e nove volte su dieci Craxi non aggiungeva o toglieva nulla»10.

In quel frangente, come si può ricostruire grazie ai documenti messi a disposizione on line dalla Fondazione Craxi, alla fine di agosto del 1988 Gerardi consegnò nove fogli dattiloscritti, tutti in stampatello, al capo della segreteria del PSi, Gennaro acquaviva. Questi si limitò a correggere qualche parola, a segnalare qualche maiuscola, a mettere qualche virgola e a spedire il tutto via fax a hammamet, dove il leader del garofano si trovava in vacanza, per ottenere il definitivo via libera. Craxi lasciò il testo così com’era partito dai suoi uffici di via del Corso11. Venne anticipato alle agenzie e ai quotidiani alla metà di settembre del 1988.

Brillante, nella sua più giornalistica accezione, risulta ancora oggi l’esordio o attacco che dir si voglia: «narrano le cronache del tempo che il Duca Lorenzo gradì molto di più il dono di una coppia di fini segugi che non l’omaggio del Principe che il Machiavelli aveva voluto dedicargli». Mentre l’immediato prosieguo scorreva piuttosto scolastico; così come il finale della prefazione si distingueva per la volontà di piegarla in un senso genericamente riformista, ma con il tono che di norma si usa per concludere comizi e relazioni: «il nuovo Principe, il Principe definitivo siamo tutti noi [...], in una continua e sempre più matura dialettica che non risparmierà crisi, emozioni, battute d’arresto [...], ma che puntualmente chiuderà i suoi cicli con nuovi passi avanti sulla via dell’uguaglianza, della giustizia e della pace».

L’edificante conclusione, insieme alla modestia delle argomentazioni per così dire scientifiche, suscitarono il sarcasmo di uno storico come Luigi Firpo, che terminò la sua nota sulla «Stampa» con una sorta di invocazione contro l’uso del Machiavelli da parte dei politici: «Lasciate in pace le scienze e la storia. Per i comizi bastano le belle parole fiorite, sennò c’è il rischio di sentire sghignazzare tra la folla il “Machia”, beffardo»12.

E tuttavia il cuore politico e il pretesto polemico dell’operazione risiedevano in un attacco alla lettura gramsciana dell’opera di Machiavelli, secondo cui il moderno Principe si identificava nel partito. in tale impostazione che, come ricorda Gerardi con qualche riserva, «mi valse una accusa di asineria da parte dell’“Unità”», giocavano soprattutto, per non dire esclusivamente, motivi di attualità politica: «erano i tempi dell’orgoglio socialista – spiega oggi lo pseudo Craxi di allora – e ogni occasione era buona per sottolineare le differenze con il comunismo. Così sottolineai, troppo, quel fine che giustifica i mezzi, quel machiavellismo deteriore che poi era la versione italiana del leninismo del PCi, lasciando in ombra la grande figura di Machiavelli, il fondatore dello Stato moderno».

Si può aggiungere che il PCI reagì a quell’articolo esattamente come ci si poteva aspettare, e cioè con sdegnosa alterigia letteraria di scuola togliattiana, rilevando il professor Luciano Canfora che nel suo scritto il leader socialista se «l’era cavata da par suo addottrinandoci per il lungo e per il largo, e spesso ingarbugliando le carte»13. Gli replicò, come al solito per le rime, ugo intini. Ma già alla fine di settembre la polemica era, come si dice in redazione, «morta». Ma sepolta no, o almeno: non ancora e non del tutto. E a tale riguardo, sia pure con la dovuta cautela, tocca sfiorare ferite recenti. Se non altro perché, fatta salva la sua onesta autocritica sul Machiavelli forzatamente arruolato in chiave anticomunista, il vero autore di quella prefazione, Gerardi, nella sua cortese nota, fa notare di essere stato al dunque «buon profeta, perché qualche anno dopo fu con vero furore comunista che il PCi di occhetto e D’alema distrusse il partito di Craxi».

Ci si astiene ovviamente dall’individuazione dei colpevoli, e non solo perché nel caso specifico sembra di poterne identificare anche altri, ma soprattutto perché la natura insegna che quando i poteri devono finire, finiscono.

Ma certo c’è un brano, di questa seconda prefazione al Principe, o forse appena un frammento, che fa riflettere – e di nuovo quasi in termini di chiaroveggenza. Là dove si legge: «L’errore è in quel machiavellismo di comodo che ha preteso di costruire un diritto personale e privato per i potenti e uno diverso per la gente, uno per chi governa e un altro per chi è governato».
e viene il dubbio che sia esattamente in questa procurata disparità, nell’inconsapevole ma confortevole arroganza del privilegio, nell’impossibilità di distinguere ormai il pubblico dal privato, che il potere di Craxi, al dunque, inciampò rovinando nella polvere e nel fango. e così come la spada evocata nel Preludio di Mussolini chiama in causa il sangue versato, nel caso del leader del garofano grondano lacrime. Lacrime di paura, di dolore, di rabbia; lacrime sparse attorno alla fuga o all’esilio che sia. Lacrime artistiche, addirittura, che nelle ore morte di hammamet questo ex potente ormai ammalato e caduto in disgrazia prese a far colare su vasi di terracotta per una serie che lui stesso battezzò «L’italia che piange». Le lacrime, comunque, per la fine cui va incontro la vicenda non solo di  Bettino Craxi, ma di un glorioso partito. E però, o forse anche a causa di questi eventi, la leggenda politica di Machiavelli pare destinata a continuare con i suoi imprevedibili rilanci e le sue sintomatiche coincidenze.

Accade quindi che proprio nei giorni in cui, dicembre 1992, il leader socialista ricevette il primo avviso di garanzia dal pool di Mani Pulite, si fa avanti un nuovo prefatore. Come terza uscita della specialissima collana denominata «La biblioteca dell’utopia», dopo erasmo e tommaso Moro, la Silvio Berlusconi editore licenzia infatti una pregevole edizione del Principe annotato da Napoleone, addirittura, preceduto da una «proposta di lettura» di Vittore Branca, ma soprattutto con la prefazione del Signore di Arcore, inventore Silvio Berlusconi nel corso della campagna elettorale del 1994 che lo vide fondatore e leader del partito Forza italia, della televisione commerciale e di tante altre significanti iniziative14. Anche questo piccolo scritto verrà sommariamente celebrato diversi anni dopo, nel 2001, quando prima delle elezioni milioni di italiani si vedono arrivare per posta un opuscolo illustrato dai contenuti certamente apologetici intitolato Una storia italiana. nel capitolo I piccoli segreti di Silvio, si può leggere: «nelle sue biblioteche – le biblioteche del più importante editore italiano, l’editore della Mondadori, della einaudi, della Sperling e Kupfer e dell’electa – accanto a migliaia di volumi, trovano un posto particolare i libri di cui ha personalmente curato l’edizione, tra cui Il Principe di niccolò Machiavelli con le annotazioni di napoleone»15.

In realtà, come spiegato da Ermanno Paccagnini in una interessante nota in fondo al volume, i Commentaires napoleonici sono un raffinato falso, diffuso a Parigi dall’abbé aimé Guillon de Montléon nel 1816. Ma già l’intento di rinforzare Machiavelli con Bonaparte, per giunta attraverso un gioco di specchi distorti, e soprattutto l’eccezionale cura riservata all’edizione posta in stampa «su carta velata avorio della cartiera Sircas, espressamente fabbricata per questa tiratura», dicono che il cuore e il motore dell’iniziativa, come di tutti gli altri libri della collana dedicata ai classici dell’utopia, è da cercare in Marcello Dell’Utri, esperto bibliofilo e allora alla guida di Publitalia. È al futuro senatore, nonché animatore della biblioteca di Via Senato, che si rivolge Enrico Cuccia, grande vecchio del potere finanziario, anche lui appassionato di libri e lettore di Machiavelli, per prenotarne due copie. Dell’utri va personalmente a consegnargliele. Così, durante l’incontro, il banchiere apre la cassaforte e con l’orgogliosa complicità del collezionista gli mostra la rarissima edizione del Principe che a suo tempo ha realizzato insieme con Hans Mardersteig, celeberrimo stampatore a Verona16.

La presentazione di Berlusconi non occupa più di tre pagine e mezzo, in corsivo, e così inizia: «Sono lieto di presentare agli amici più cari, nella ricorrenza delle festività di fine 1992, questa nuova edizione [...] per accompagnare i nostri messaggi d’amicizia e d’augurio». Da subito si comprende che il volume è pensato come uno speciale omaggio il cui valore risiede, secondo codici ampiamente affermatisi nel marketing, nell’implicita scelta del target cui il regalo è destinato. non solo quindi gli «amici più cari», ma più precisamente quelli giudicati all’altezza del dono. Di qui le qualità costitutive del medesimo dono, il quale si connota per essere assai prestigioso nella sua esclusiva confezione e al tempo stesso, per via dello pseudo-napoleone, anche sorprendente nei contenuti, e in questo combinato disposto pare di scorgere un anticipo del berlusconismo applicato a una politica che sempre più va affermandosi con altri e nuovi mezzi. Quanto al tema del potere, posto che le finalità pedagogiche dell’opera del Machiavelli potessero essere apprezzate dai destinatari, che in massima parte secondo Dell’Utri erano inserzionisti pubblicitari e clienti Publitalia, viene da pensare che l’offerta si proponesse anche di solleticare i più acuti e astuti con una specie di chiamata alle armi.

Del resto era il tempo in cui, sollecitato a sintetizzare la sua vocazione, Berlusconi rispondeva di sentirsi «un suscitatore di entusiasmo», e pure in questo senso si può accogliere lo squillante congedo con cui l’ambizioso lettore, prefatore e donatore concludeva il suo scritto: «buona lettura!». Passano 14 mesi e nel febbraio del 1994, in singolare coincidenza con la campagna elettorale conseguente alla discesa in campo, la Silvio Berlusconi editore ripropone il volume in un’edizione economica (24.000 lire) e con una tiratura più ampia. Anche questo secondo Principe di ordine napoleonico-berlusconiano si configura come un perfetto prodotto dei tempi: una sorta di compromesso di sontuosa ricercatezza e rivendicata cultura aziendale, con tanto di pretese araldiche dispiegate nel logo della Fininvest che compare sulla copertina17.

La prefazione del Cavaliere è la stessa dell’edizione extralusso. Ma a seguire se ne aggiunge un’altra, due pagine e mezzo, sempre in corsivo, invero molto specialistiche a proposito del falsario napoleonico; e davvero molto attente agli aspetti filologici del Principe; e infine forse troppo severe nei confronti dei contenuti etici dell’opera di Machiavelli, su cui già Berlusconi aveva espresso delle riserve: «Queste pagine, pur geniali e affascinanti, mi sono parse talora troppo lucide e razionali, forse poco umane».

In questa seconda presentazione, con l’autorevole sussidio di un cardinale, di un diplomatico contemporaneo del Machiavelli e di un padre gesuita che lo giudica «dannato autore», il futuro presidente del Consiglio insiste sulla cattiva considerazione dell’opera da lui stesso riedita e già inviata come regalo di natale.
Come se temesse, in campagna elettorale, di presentarsi al pubblico come un alfiere della spregiudicatezza prestando il fianco a qualche polemica. Ma tant’è.

A domanda diretta e doverosa, Marcello Dell’Utri ci tiene a chiarire – in qualità di «testimone oculare e auricolare», come specificato nel corso di un cortese contatto telefonico – che a scrivere la prefazione del dicembre 1992 fu effettivamente Berlusconi. Con il debito scetticismo nei confronti delle prove letterarie degli uomini ricchi e potenti, non ci sarebbero poi troppe ragioni per dubitarne.

Se il Preludio di Mussolini colpisce per l’energica, sbrigativa intensità con cui il duce si prenotava un posto nella storia, e il testo giornalistico di Craxi-Gerardi si fa notare per la scoperta funzione di attacco politico al PCi, le paginette di berlusconi paiono poco più che di circostanza. anche se a loro modo sono rivelatrici.

Come i suoi predecessori, dopo un minimo di inquadramento storico, il Cavaliere giudica l’opera di Machiavelli valida «anche ai nostri giorni», ma ne estende l’utilità a «tutti coloro che gestiscono posizioni di responsabilità», quindi non solo ai politici, e lui allora non lo era. Ciò detto, sarebbe temerario azzardare l’ipotesi che nel menzionare in conclusione l’auspicio che «dopo tanto tempo l’italia vegga uno suo redentore», il futuro presidente stesse pensando a se stesso e a quell’impegnativo ruolo. Ma tra i molti suggerimenti che il Machiavelli trasmette, e che Berlusconi accoglie e raccomanda, oltre a quello di mirare sempre in alto «come gli arceri prudenti» e a quell’altro di saper essere a seconda dei casi leone e volpe, ce n’è un paio che egli doveva sentire particolarmente vicini al suo modo di essere e che riguardano la fama e la considerazione degli altri. In pratica quel complesso di segni, indizi, atteggiamenti e comportamenti che egli sintetizza nella necessità di «curare con la massima attenzione la propria immagine, perché – spiega citando Machiavelli – “ognuno vede quello che tu pari, pochi sentono quello che tu se”». Il motto ricorre, sopra lo stemma aziendale, anche nel segnalibro accluso all’edizione extralusso. e seppure è vano tirare bilanci sull’attualità, e tanto più in questa sede, è anche vero che tra gloria e successi, sconfitte e processi, fallimenti e scandali di ogni variopinto genere, la vicenda berlusconiana sembra essersi accesa e consumata proprio intorno alla fama e all’altrui considerazione, per non dire intorno all’attenta, ma anche alla mancata, cura dell’immagine dell’imprenditore, del leader, del presidente, oltre che dell’uomo.

Tutto è avvenuto, è vero, e seguita ad avvenire senza che grondino lacrime e sangue, come nel caso di Craxi e di Mussolini. Ma al giorno d’oggi è come se il potere se ne andasse a picco o in fumo o alla malora in un clima perturbante di ridanciana euforia, come dinanzi a un cataclisma lungamente annunciato da cafoni, buffoni, luminarie, coriandoli e cenere. E ancora una volta il Principe si conferma un testo radioattivo, che poi sarebbe un modo scombinato per dire che tutto alla fine si rende e un po’ anche si paga: «Perché si trova questo nell’ordine delle cose, che mai non si cerca fuggire uno inconveniente che non si incorra in uno altro», ed è una massima che si è cercata nelle tre illustri prefazioni, ma invano18.

1 Le prefazioni al Principe di Mussolini, Craxi e Berlusconi sono state pubblicate in Testi e pretesti. Tre presentazioni del «Principe», in «Il Ponte», LIV, 1998, 5, con introduzione di Paolo Sylos Labini e postfazione di Riccardo Fubini.
2 R. DE FELICE, Mussolini il fascista, Torino, Einaudi, 1966, pp. 465-466. E più in generale L. MITAROTONDO, Il Principe fra il «Preludio» di Mussolini e le letture del Ventennio, in Machiavelli nella storiografia e nel pensiero politico del XX secolo, Atti del Convegno (Milano, 16-17 maggio 2003), a cura di M. Bassani e C. Vivanti, Milano, Giuffrè, 2006, pp. 59-78.
3 Sulla laurea di Mussolini all’Università di Bologna: D. MARCEDDU, Il Duce dottore senza laurea, in «Avvenire», 28 ottobre 2010 e ID., Quando Mussolini, per paura di Matteotti, rifiutò la laurea honoris causa a Bologna, in «Il Fatto quotidiano», 29 gennaio 2012.
4 Catalogo della Mostra della Rivoluzione Fascista, rist. anast., Milano, Edizioni del Nuovo Candido, 1982, p. 226.
5 R. Fubini, Di Machiavelli e di tre machiavellici dei nostri tempi, in Testi e pretesti, cit., pp. 63-67. 6 G. Matteotti, Machiavelli, Mussolini and Fascism, in «english life», luglio 1924, pp. 87 e sgg. L’articolo di Matteotti (tradotto a mano in 7 fogli) è stato analizzato in M. Canali, Il delitto Matteotti, bologna, il Mulino, 1997.
7 M. Politi, Il monito di Dossetti, «Siamo tutti figli di Machiavelli», in «la Repubblica», 30 giugno 1995.
8 b. Craxi, Il vangelo socialista, in «l’espresso», 27 agosto 1978. Sul ruolo di Luciano Pellicani nella stesura del saggio e sulla reazione di Eugenio Scalfari, vedi S. Colarizi, M. Gervasoni, La cruna dell’ago, Roma-bari, Laterza, 2011, pp. 71-72.
9 La prefazione di bettino Craxi al Principe per la collana «i libri del punto esclamativo» di Epoca! è riportata anche in B. Craxi, Un’onda lunga. Articoli, interviste e discorsi, gennaio - dicembre 1988, introduzione di ugo intini, Roma, argomenti socialisti, 1989.
10 e-mail di Franco Gerardi a Filippo Ceccarelli, 7 novembre 2012.
11 Fondazione Craxi, catalogo on line, Sulla figura del principe, a partire dal libro di Machiavelli, 27/08/1988. Fondo: bettino Craxi - Livello: i. attività di partito/2. Vita interna del PSi/4. elaborazione della linea politica/2. Contributi di dirigenti politici e consiglieri.
12 L. Firpo, Machiavelli ghigna beffardo, in «La Stampa», 18 settembre 1988.
13 L. Canfora, Il liberto comprò undici schiavi istruiti, in «l’unità», 12 settembre 1988. La settimana seguente, sul supplemento satirico «tango» Michele Serra intervenne sull’intervento di bettino Craxi pubblicando: Gli appunti originali dai quali un pool di esperti guidato da Gennaro Acquaviva e Sabina Ciuffini ha elaborato la prefazione del «Principe» che tanto ha fatto discutere, in «l’unità», 19 settembre 1988.
14 Il Principe di Niccolò Machiavelli annotato da Napoleone Buonaparte, una proposta di lettura per Il Principe di Vittore branca, nota ai Commentaires di napoleone di ermanno Paccagnini, Milano, Silvio berlusconi editore, 1992.
15 Una storia italiana, Coordinamento Redazionale di Sandro bondi, p. 27.
16 A. Torno, Il suo breviario era «Principe» di Machiavelli, in «Corriere della Sera», 25 giugno 2000.
17 Il Principe di Niccolò Machiavelli annotato da Napoleone Buonaparte, cit., nuova ed., 1994.
18 Tratta dal cap. XXI, la frase di Machiavelli compare come esergo in P. MeLoGRani, La modernità e i suoi nemici, Milano, Mondadori, 1996. a Melograni si deve un’utile versione in lingua moderna (con testo originale a fronte) del Principe, Milano, Rizzoli, 1991.

L’attualità del Principe

Maurizio Viroli

Gli studiosi, soprattutto in italia, hanno identificato la durevole attualità del Principe nella scoperta dell’«autonomia della politica», vale a dire il principio che l’azione politica in generale, e quella volta a fondare nuovi ordini statali in particolare, non può essere giudicata secondo i criteri etici che valgono per le azioni umane in generale. Questa tesi è stata formulata e resa celebre da benedetto Croce: «ed è risaputo che il Machiavelli scopre la necessità e l’autonomia della politica, della politica che è di là, o piuttosto di qua, dal bene e dal male morale, che ha le sue leggi a cui è vano ribellarsi, che non si può esorcizzare e cacciare dal mondo con l’acqua benedetta. È questo il concetto che circola in tutta l’opera sua, e che, quantunque non vi sia formulato con quella esattezza didascalica e scolastica che sovente si scambia per filosofia, e quantunque anche vi si presenti talvolta conturbato da idoli fantastici, da figure che oscillano tra la virtù politica e la scelleraggine per ambizione di potere, è da dire nondimeno concetto profondamente filosofico, e rappresenta la vera e propria fondazione di una filosofia della politica»1. Sulle orme di Croce, anche Federico Chabod, uno degli interpreti più autorevoli di Machiavelli, ha ribadito la medesima idea: «Mentre invece cominciava a porsi, come centro della vita postuma del Machiavelli, quella che era la grande affermazione sua di pensatore, e rappresenta il vero e profondo contributo ch’egli arrecava nella storia del pensiero umano: il nettissimo riconoscimento, cioè, dell’autonomia e della necessità della politica [...]. Con ciò Machiavelli, buttando a mare la unità medievale, diveniva uno degli iniziatori dello spirito moderno»2.

Nonostante l’autorevolezza dei suoi sostenitori, il testo del Principe non offre sostegni sufficienti a questa interpretazione. i passi di Machiavelli sui quali poggia la detta dottrina provengono, è risaputo, soprattutto dai capp. XV, XVi, XVii e XViii che formano una sezione ben identificabile dell’opera, al pari dei capp. Xii, Xiii e XiV che vertono sul problema delle armi, e dei capp. Vi, Vii e Viii, dedicati rispettivamente ai principati nuovi che si acquistano con le armi proprie e con la virtù, ai principati nuovi che si acquistano con le armi di altri e la fortuna, ai principati nuovi acquistati con le scelleratezze. orbene, ed è davvero singolare che gli studiosi che hanno attribuito a Machiavelli l’idea dell’autonomia della politica non lo abbiano rilevato, il tema generale dei capitoli in questione (XV-XViii) è: Di quelle cose che li omini e spezialmente i principi sono laudati o biasimati. Machiavelli illustra qui in che modo tutti gli uomini e in special modo i principi devono agire se vogliono ottenere lode ed evitare biasimo: l’esatto opposto del principio dell’autonomia della politica, secondo il quale dovrebbero esistere regole etiche per giudicare l’agire degli uomini in generale e regole speciali per i principi. non c’è nulla nel testo che autorizzi a ritenere che Machiavelli pensasse che esistono regole per giudicare gli uomini e regole per giudicare i principi. La conclusione stessa dell’intera discussione, in chiusura del cap. XViii, è eloquente: «e nelle azioni di tutti li uomini, e massime de’ principi, dove non è iudizio a chi reclamare, si guarda al fine» (corsivo nostro).

Se davvero avesse enunciato la tesi dell’autonomia della politica, tale pensata sarebbe il suo peggior insegnamento, da ricordare come semplice curiosità storica. ben altro, e di grande valore, è quanto ci ha lasciato sul rapporto fra azione politica e principi etici.

In tutti i suoi scritti Machiavelli ha esortato ed educato chi vuole impegnarsi nell’azione politica a perseguire ideali di chiaro valore etico: la fondazione di buoni ordini politici che possano assicurare il bene comune e il governo della legge; la libertà e la dignità della patria; la lotta contro la corruzione politica, il riconoscimento della virtù quale unico titolo per accedere ai più alti onori; l’odio verso ogni forma di tirannide. altro che autonomia dall’etica! La politica trae da questa i fini e i mezzi. Questi ultimi valgono infatti – pace al trito e banale detto che per Machiavelli «il fine giustifica i mezzi» – in quanto servono un fine moralmente degno, non qualsiasi fine politico, da quello di un redentore a quello di un tiranno. Se il politico che persegue un fine moralmente degno è costretto ad essere «non buono» o ad «entrare nel male» la sua azione può essere scusata – mai giustificata – soltanto perché il fine è eticamente nobile e i mezzi necessari.

Questa lezione Machiavelli la trae anche dalla Bibbia, in particolare dal libro dell’Esodo, dove Mosè compie efferate crudeltà per poter condurre il popolo d’israele alla terra Promessa. il Principe, è bene tenerlo presente, si chiude con l’invocazione di un redentore che abbia Dio amico, come l’ebbe Mosè. Quanto al valore teorico del concetto dell’autonomia della politica, non sono necessarie molte parole per spiegare che la tesi è falsa in via di fatto e dissennata dal punto di vista educativo. È falsa in via di fatto, in quanto l’opera dei politici è sempre stata, e non può non essere, giudicata in base a criteri etici. È diseducativa, in quanto è un incoraggiamento a mal fare a chi è già in tal senso ben disposto. i politici corrotti, che invocano immunità o comprensione per le loro malefatte, proclamando che il loro operato non può essere giudicato con ordinari criteri morali, non possono in alcun modo citare in loro difesa Machiavelli.

Anche la convinzione che il Principe ha perenne valore teorico perché inaugura il moderno realismo politico – tesi ormai diventata luogo comune e accolta da tutte le enciclopedie di storia del pensiero politico e filosofico – è esposta a serie obiezioni. È vero che nel cap. XV Machiavelli scrive che «sendo l’intento mio scrivere cosa utile a chi la intende, mi è parso più conveniente andare drieto alla verità effettuale della cosa, che alla immaginazione di essa»; ma è difficile qualificare come esempio di realismo politico uno scritto, quale è appunto Il Principe, dedicato esplicitamente alle «azioni degli uomini grandi», alle «grandi cose», ai «grandissimi esempli». Per sua natura il realismo politico guarda all’azione politica ordinaria, consueta, comune e diffida degli esempi straordinari. Chiudere poi un’opera sul principe e sui principati con un’esortazione a liberare l’italia dai barbari è scelta del tutto inconciliabile con lo stile proprio del realismo politico. Se c’era un fine non realistico, agli inizi del Cinquecento, era proprio la liberazione dell’italia dal dominio straniero.
Machiavelli, nel Principe e in tutte le sue opere politiche è stato un realista sui generis che guardava alla realtà effettuale, ma sapeva anche immaginare realtà molto diverse da quella del suo tempo e ha cercato caparbiamente i modi per fare diventare reale la realtà immaginata e auspicata. ha scritto i Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio per esortare qualche giovane di animo generoso a mettere in pratica la saggezza politica dei Romani che egli aveva distillato dalle pagine di Livio; ha composto l’Arte della guerra nella speranza che qualcuno riuscisse a resuscitare gli ordinamenti e la disciplina militare dei Romani e potesse dotare l’italia della forza che le mancava; le Istorie fiorentine, sua ultima grande opera, sono ricche di insegnamenti atti a liberare Firenze e l’italia dalla piaga della corruzione politica. nessun realista politico ha mai scritto nulla di simile.

Compagna inseparabile della tesi che Machiavelli merita plauso in quanto fondatore del moderno realismo politico è l’idea che gli va riconosciuto il merito di aver dato impulso a studiare la politica in modo scientifico3. Ma anche questa idea riposa su basi fragili. non vi è dubbio che Machiavelli, nello scrivere di principati e principe abbia inteso fare opera di scienza. nella celebre lettera a Vettori del 10 dicembre 1513 spiegava: «e perché Dante dice che non si fa scienza sanza lo ritenere lo havere inteso, io ho notato quello che per la loro conversazione ho fatto capitale, et composto uno opuscolo De principatibus». ed è altrettanto vero che molte pagine del Principe sono scritte con stile, diremo oggi, analitico, ovvero attento a definire e distinguere concetti e termini. Ma è del pari vero che Machiavelli ha seguito dalla prima all’ultima pagina le regole della retorica classica. La lettera dedicatoria a Lorenzo funge da esordio e come tale ha per
fine di rendere il lettore benevolo, docile e ben disposto.

Per ottenere questo risultato Machiavelli sottolinea, come consigliavano i classici della retorica, le sue buone qualità, la sua esperienza, la sua conoscenza nelle cose di Stato, i sacrifici che ha sopportato per ottenere quell’esperienza e quella conoscenza, e la cattiva fortuna che lo perseguita e impedisce che i suoi meriti siano adeguatamente riconosciuti. Sottolinea infatti che egli ha condensato nella sua opera «la cognizione delle azioni delli uomini grandi», ottenuta «con una lunga esperienza delle cose moderne e una continua lezione delle antiche», conseguita «in tanti anni» e con tanti «disagi e periculi». Per rendere il lettore ben disposto ad accettare i suoi consigli e le sue esortazioni, Machiavelli deve inoltre rimuovere i dubbi o le opinioni ostili circa la sua persona e la sua autorevolezza a dare consigli politici, primo fra tutti il pregiudizio, presente nella Firenze del suo tempo, che un uomo del popolo non possa dare regole ai principi, e che tale privilegio spetti esclusivamente ai cittadini più ricchi e potenti. Per rimuovere questa convinzione, descrive il suo stato di uomo popolare come una condizione che gli permette di vedere le cose dello Stato meglio dei grandi: «a conoscere bene la natura de’ populi bisogna essere principe, e, a conoscere bene quella de’ principi conviene essere populare».

Promette, e mantiene, di non ornare né riempire la sua opera «di clausule ample o di parole ampullose e magnifiche o di qualunque altro lenocinio e ornamento estrinseco», e ritiene che «o veruna cosa la onori o che solamente la varietà della materia e la gravità del subietto la facci grata». Questa sua scelta di stile non è un ripudio della retorica bensì il risultato della perfetta conoscenza delle regole dell’arte, in particolare delle regole che governano la scelta dello stile e l’uso degli ornamenti (ornamenta). i maestri romani avevano infatti spiegato che un’orazione del genere deliberativo deve essere in stile semplice e grave (simplex et gravis), perché la materia trattata ha già in sé magnificenza e splendore. Ma lo stile semplice e grave non esclude gli ornamenti che rendono il discorso dell’oratore chiaro e persuasivo, in particolare gli esempi storici, e Machiavelli ne spiega la ragione: «non si meravigli alcuno se, nel parlare che io farò de’ principati al tutto nuovi, e di principe e di stato, io addurrò grandissimi esempli. Perché, camminando gli uomini sempre per le vie battute da altri e procedendo nelle azioni loro con le imitazioni, né si potendo le vie d’altri al tutto tenere né alla virtù di quegli che tu imiti aggiugnere, debbe uno uomo prudente entrare sempre per le vie battute da uomini grandi, e quegli che sono stati eccellentissimi imitare: acciò che, se la sua virtù non vi arriva, almeno ne renda qualche odore; e fare come gli arcieri prudenti, a’ quali parendo el luogo dove desegnano ferire troppo lontano, e conoscono fino a quanto va la virtù del loro arco, pongono la mira assai più alta che il luogo destinato, non per aggiugnere con la loro freccia a tanta altezza, ma per potere con lo aiuto di sì alta mira pervenire al disegno loro».

Com’è facile rilevare, quelli di Machiavelli non sono esempi da scienziato ma da oratore. non hanno lo scopo di dare validità empirica ad una legge scientifica, ma di rendere più persuasivo un consiglio politico e di stimolare il desiderio di imitare un partico lare modo di agire i classici della retorica insegnavano che il modo migliore per insegnare un concetto, è di renderlo visibile agli ascoltatori per mezzo di similitudini, immagini e metafore. anche in questo caso Machiavelli è discepolo fedele. Quando vuole fare intendere che un principe nuovo deve saper usare sia la forza sia la frode, ricorre alle immagini della volpe e del leone: «sendo dunque necessitato uno principe sapere bene usare la bestia debbe di quelle pigliare la golpe e il lione: perché el lione non si difende da’ lacci, la golpe non si difende da’ lupi; bisogna adunque essere golpe a conoscere e’ lacci, e lione a sbigottire e’ lupi»4. Per spiegare che un principe non deve mai affidare la sua difesa agli eserciti di un altro principe, si affida ad una «figura» del vecchio testamento: «offerendosi Davit a Saul d’andare a combattere con Golia provocatore filisteo, Saul per dargli animo lo armò dell’arme sua: le quali Davit, come l’ebbe indosso, recusò, dicendo con quelle non si potere bene valere di sé stesso; e però voleva trovare el nemico con la sua fromba e con il suo coltello»5.

La prova più chiara che Il Principe è un’orazione è l’Esortazione a liberare l’Italia dai barbari che conclude l’opuscolo. Le regole della retorica classica prescrivono infatti che l’orazione politica, per essere persuasiva, deve chiudersi, dopo un breve riassunto delle tesi proposte, con una peroratio o exhortatio in cui l’oratore tocca le passioni degli ascoltatori, o dei lettori, affinché deliberino o operino secondo i suoi consigli. a tal fine l’oratore deve usare soprattutto l’indignatio, per muovere allo sdegno, e la conquestio, per suscitare compassione. nel primo caso deve sottolineare che il fatto è tetro, crudele, nefario, e tirannico; nel secondo deve insistere soprattutto sull’innocenza della vittima ed enfatizzare la sua debolezza. Da buon oratore qual è, Machiavelli mette diligentemente in pratica gli insegnamenti dei maestri classici. il capitolo conclusivo dell’opera è un’esortazione costruita secondo la tecnica dell’indignatio e della conquestio. Per muovere allo sdegno un possibile redentore sottolinea le «crudeltà et insolenzie barbare»; per suscitare compassione descrive l’italia «più stiava che li ebrei, più serva ch’e’ persi, più dispersa che gli ateniesi: sanza capo, sanza ordine, battuta, spogliata, lacera, corsa» che ha sopportato «d’ogni sorte ruina».

Diversamente dai molti cultori contemporanei della scienza politica, che aborrono la retorica e prediligono le formule matematiche, ritengo che una delle lezioni più valide del Principe sia proprio la grande abilità che Machiavelli ha dimostrato di saper contemperare analisi rigorosa e scrittura coinvolgente: ragione ed eloquenza, come appunto insegnavano i maestri della retorica classica. Con le sue opere ci ha insegnato che non è affatto necessario che gli scritti sulla politica siano aridi o noiosi, o oscuri. Se facessimo tesoro del suo esempio, avremmo non solo migliori scritti politici, ma anche un’azione politica più nobile e degna di ammirazione.

Per altri interpreti, infine, il vero pregio del Principe consiste in primo luogo nell’essere un testo sul fondatore di Stati e sul redentore politico. Lo capì bene hegel, quando scrisse che la Germania doveva imparare la lezione del Principe di Machiavelli, se voleva conquistare l’unità politica e la dignità di nazione: «ci fu un uomo di Stato italiano che nel pieno sentimento di questa condizione, di miseria universale, di odio, di dissoluzione, di cecità concepì, con freddo giudizio, la necessaria idea che per salvare l’italia bisognasse unificarla in uno Stato. Con rigorosa conse quenzialità egli tracciò la via che era necessaria, sia in vista della salvezza sia tenendo conto della corruttela e del cieco delirio del suo tempo, ed invitò il suo principe a prendere per sé il nobile compito di salvare l’italia, e la gloria di porre fine alla sua sventura»6. Da Machiavelli, Hegel spiega, dobbiamo trarre, come articolo di fede e verità di saggezza politica, il principio che «la libertà è possibile solo là dove un popolo si è unito, sotto l’egida delle leggi, in uno Stato». Quando è in gioco un fine così alto, è puerile sostenere contro Machiavelli che il fine non giustifica i mezzi per la semplice ragione che «le membra cancrenose non possono essere curate con l’acqua di lavanda. una condizione nella quale veleno ed assassinio sono diventate armi abituali non ammette interventi correttivi troppo delicati. una vita prossima alla putrefazione può essere riorganizzata solo con la più dura energia»7. Invece di condannarlo come maestro di immoralità, Machiavelli merita di essere lodato per aver capito che «il destino di un popolo che precipita verso il suo tramonto politico» può essere salvato soltanto «dall’opera di un genio»8.

È stato tuttavia Antonio Gramsci a capire, meglio di ogni altro lettore, che il Principe è opera di permanente attualità perché è «libro “vivente”, in cui l’ideologia politica e la scienza politica si fondono nella forma drammatica del “mito”». tra l’utopia e il trattato scolastico, sottolinea Gramsci, le forme in cui la scienza politica si configurava fino al Machiavelli, questi dette alla sua concezione la forma fantastica e artistica, per cui l’elemento dottrinale e razionale si impersona in un condottiero, che rappresenta «plasticamente e “antropomorficamente” il simbolo della “volontà collettiva” ».

La magistrale rappresentazione del principe nuovo mette in movimento «la fantasia artistica di chi si vuol convincere e dà una più concreta forma alle passioni politiche». il nucleo intellettuale e politico del Principe sta dunque nell’Esortazione: «anche la chiusa del Principe è legata a questo carattere “mitico” del libro: dopo aver rappresentato il condottiero ideale, il Machiavelli con un passaggio di grande efficacia artistica, invoca il condottiero reale che storicamente lo impersoni: questa invocazione appassionata si riflette su tutto il libro conferendogli appunto il carattere drammatico».

Machiavelli, conclude Gramsci, ha scritto l’intero trattato con il pensiero rivolto al mito del redentore: «il carattere utopistico del Principe è nel fatto che il “principe” non esisteva nella realtà storica, non si presentava al popolo italiano con caratteri di immediatezza obbiettiva, ma era una pura astrazione dottrinaria, il simbolo del capo, del condottiero ideale; ma gli elementi passionali, mitici, contenuti nell’intero volumetto, con mossa drammatica di grande effetto, si riassumono e diventano vivi nella conclusione, nell’invocazione di un principe, “realmente esistente”»9.

Non si va lontani dal vero se si dice che la vera ragione della straordinaria longevità del Principe è che quel breve scritto disegna con mano da poeta le figure affascinanti e inquietanti del fondatore di Stati e del redentore. È questo il tratto che lo rende unico. né il pensiero politico classico, né quello moderno avevano trattato della fondazione di Stati e della redenzione politica con comparabile attenzione, profondità e potenza di eloquio. La fondazione di nuovi Stati e la redenzione politica sono esperienze assai rare nella storia. Richiedono qualità eccezionali nei capi che le guidano, profeti che le annunciano, popoli capaci di lottare e di sacrificarsi. Se hanno successo, ma a volte pure se falliscono, generano miti e racconti che a loro volta preparano il terreno spirituale per nuove fondazioni e nuove redenzioni, come sanno assai bene i realisti politici seri. Ma come aspirazione, la redenzione politica, sotto varie forme e con vari colori, è sempre presente nell’animo dei popoli. Per questa ragione un testo che ne tratta con profondità intellettuale e passione, quale è appunto Il Principe, rimane vivo.

Vivo perché genera pensieri, e passioni e aspirazioni, vale a dire vita morale e politica. Ma non è tutto. Machiavelli scrisse il Principe non solo per disegnare il mito del fondatore e del redentore; egli immaginava che la redenzione della patria sarebbe stata anche la sua redenzione dalla desolazione, dal disorientamento e dalla perdita di fiducia in se stesso nella quale era caduto dopo la rimozione dall’ufficio di Segretario e dopo il carcere. Quando scrive di fondatori e redentori, Machiavelli torna ad essere se stesso, vive finalmente nel mondo che è suo, dialoga con i grandi che sono la sua vera compagnia:
«entro nelle antique corti delli antiqui huomini, dove, da loro ricevuto amorevolmente, mi pasco di quel cibo che solum è mio e ch’io nacqui per lui; dove io non mi vergogno parlare con loro e domandarli della ragione delle loro azioni; e quelli per loro humanità mi rispondono; e non sento per quattro hore di tempo alcuna noia, sdimentico ogni affanno, non temo la povertà, non mi sbigottisce la morte: tutto mi transferisco in loro»10. i lettori più sensibili avvertono che Il Principe è testo sulla redenzione politica nel quale l’autore ha saputo trasferire la propria volontà e il proprio bisogno di redenzione. Per questa ragione Il Principe, dopo 500 anni è ancora attuale ed è facile prevedere che lo resterà a lungo. Quando nessuno lo leggerà più, vorrà dire che è morta l’aspirazione alla grande politica che sa redimere i popoli, e che i popoli si sono rassegnati alla penosa politica dei mediocri politici.

1 B. Croce, Elementi di politica [1925], in iD., Etica e politica, a cura di G. Galasso, Milano, adelphi, 1994, p. 292.
2 F. Chabod, Del «Principe» di Niccolò Machiavelli [1925], in iD., Scritti su Machiavelli, introduzione di C. Vivanti, Torino, Einaudi, 1993, pp. 99-100.
3 Si legga, fra i tanti possibili esempi, e. Cassirer, The myth of the State, new haven, Yale university Press, 1946, p. 130; G. PRezzoLini, Machiavelli anticristo, Roma, Casini, 1954, p. 18; a. Renaudet, Machiavel, Paris, Gallimard, 1942, p. 117.
4 Il Principe, XVIII.
5 Il Principe, XIII.
6 G. W. F. Hegel, La Costituzione della Germania, in iD., Scritti politici, 1798-1831, a cura di C. Cesa, torino, einaudi, 1972, pp. 102-103.
7 Ibid., p. 104.
8 Ibid., p. 107.
9 a. Gramsci, Note sul Machiavelli, sulla politica e sullo Stato moderno, in iD., Quaderni del carcere, a cura di V. Gerratana, Roma, Editori Riuniti-istituto Gramsci, 1977, pp. 34.
10 Niccolò Machiavelli a Francesco Vettori, 10 dicembre 1513, in N. Machi, Opere, a cura di C. Vivanti, vol. II, Torino, Einaudi Gallimard, 1999, p. 296.