da
http://www.treccani.it/machiavelli/saggi_e_approfondimenti/
Introduzione
Alessandro Campi
«Venuta la sera, mi ritorno in casa, et entro nel mio
scrittoio; et in su l’uscio mi spoglio quella veste coti- diana,
piena di fango et di loto, et mi metto panni reali et curiali; et
rivestito condecentemente entro nelle antique corti degli antiqui
huomini, dove, da loro ricevuto amorevolmente, mi pasco di quel
cibo, che solum è mio, et io nacqui per lui; dove io non mi
vergogno parlare con loro, et domandarli della ragione delle loro
actioni; et quelli per loro umanità mi rispon- dono; et non sento
per 4 hore di tempo alcuna noia, sdimenticho ogni affanno, non temo
la povertà, non mi sbigottisce la morte: tucto mi transferisco in
loro. E perché Dante dice che non fa scienza senza lo rite- nere lo
havere inteso, io ho notato quello di che per la loro conversazione
ho fatto capitale, et composto uno opuscolo De principatibus, dove
io mi profondo quanto io posso nelle cogitationi di questo
subbietto, disputando che cosa è principato, di quale spetie sono,
come e’ si acquistono, e’ si mantengono, perché e’ si perdono. Et
se vi piacque mai alcuno mio ghiribizo, questo non vi doverrebbe
dispiacere; et a un principe, et maxime a un principe nuovo,
doverrebbe essere accetto; però io lo indirizzo alla Magnificienza
di Giuliano. Philippo Casavecchia l’ha visto; vi potrà ragguagliare
in parte et della cosa in sé, et de’ ragio- namenti ho hauto seco,
anchor che tuttavolta io l’in- grasso et ripulisco».
Quando Machiavelli scriveva queste parole all’amico e corrispondente
Francesco Vettori, il 10 dicembre 1513, era ben consapevole – al di
là della contingenza, politica e personale, che lo aveva spinto
alla composizione di un breve trattato nel quale condensare, ad uso
d’un discendente di casa Medici e nella speranza di un reintegro nel
ruolo di cancelliere che aveva perduto con la caduta della
repubblica fiorentina, le cognizioni politiche apprese grazie ad
«una lunga esperienza delle cose moderne e una conti- nua
lezione delle antiche» –; era ben consapevole, si diceva,
della radicale novità delle sue riflessioni e della frattura che
stava determinando rispetto alla consoli- data tradizione di
pensiero all’interno della quale anch’egli per molti versi s’era
formato. Ma certo non poteva immaginare, sebbene dotato di una
fantasia fervida e di un’intelligenza acutissima e persino
premonitrice, che un testo tanto stringato ed essenziale, che
sarebbe stato stampato e diffuso solo dopo la sua morte, peraltro in
una versione che forse il suo autore non avrebbe approvato o avrebbe
voluto diversa, potesse trasformarsi nell’opera politica al tempo
stesso più celebrata e vilipesa, la più letta e al contempo la
più fraintesa, degli ultimi cinquecento anni.
Nonché in un autentico caso editoriale, se è vero che Il Principe
è, con ogni probabilità (insieme alla Divina Commedia dantesca e
al Pinocchio di Collodi), l’opera della letteratura italiana più
conosciuta al mondo, tradotta in tutti i principali idiomi (ma anche
in parecchie lingue minori), pubblicata in una quantità di versioni
e stampata a ritmo continuo, in edizioni popolari ed economiche
vista la sua ridotta mole, ma spesso anche in raffinate versioni
destinate al colle- zionismo librario. Un’opera che ha conosciuto –
già prima di essere data alle stampe – contraffazioni e
rimaneggiamenti (a partire da quello celebre di Agostino Nifo nel
1523), e che nei decenni e secoli a seguire ha sollecitato o
determinato repliche polemi- che, rifacimenti satirici, plagi veri e
propri, adatta- menti anonimi, appropriazioni più o meno indebite,
riscritture più o meno integrali, edizioni censurate o manipolate,
false versioni e apocrifi, apologie, ma soprattutto condanne e
reprimende d’ogni sorta, per ragioni insieme religiose e politiche.
Per giungere infine ai giorni nostri, che hanno visto Il Principe
trasformarsi, da testo di dottrina politica e da docu- mento storico
imprescindibile per immergesi nei segreti dell’epoca rinascimentale,
in breviario, poten- zialmente ad uso delle masse, sul modo di
conquistare e conservare potere, prestigio e influenza anche fuori
dall’ambito strettamente politico-statuale. Per cui nulla di più
facile oggi che trovare nelle librerie e nei cataloghi degli
editori, soprattutto nell’area culturale anglosassone, edizioni
integrali o versioni ridotte o rimaneggiamenti sotto forma di
massime e aforismi dello scritto machiavelliano, come se questo
fosse un pratico manuale per chiunque – manager e imprendi- tori,
cultori di strategia e capi militari, giocatori di poker o di
tennis, donne in carriera, mafiosi o narco- trafficanti, venditori
porta a porta e specialisti del marketing – nella vita o nella
professione ambisca a primeggiare e a dominare il prossimo. Testi
che hanno segnato in profondità la riflessione politico-sociale
nell’età cosiddetta moderna ne abbia- mo avuti molti: a questo
novero appartengono, giusto per fare qualche esempio, il Leviatano
di Hobbes, la Scienza Nuova di Vico, il Contratto sociale di Rous-
seau, la Ricchezza delle nazioni di Smith, il Capitale di Marx. Ma
la storia del Principe machiavelliano – della sua fortuna e
incidenza, della sua diffusione – è per molti versi unica, senza
termini di paragone con altre opere di analogo tenore, non
foss’altro per l’obli- qua fama che esso ha finito per riverberare
sullo stesso Machiavelli e per il carattere quasi proverbiale che
hanno assunto certi passi o brani tra i più noti del testo (anche
se nessuno vi ha mai trovato scritto che «il fine giustifica i
mezzi»).
Ciò che colpisce, nel caso del Principe, è soprattutto la varietà
di interpretazioni che ne sono state date e il fatto che non esiste
pensatore, ancorché mediocre, che non abbia ritenuto di dover fare
i conti con esso e di offrirne una sua personale visione. In quelle
poche pagine, a seconda delle epoche e della sensibilità, ma anche
dei pregiudizi di chi lo leggeva, si è visto in effetti di tutto.
Un’archeologia del potere, condotta con tale precisione e libertà
di giudizio da poter offrire argomenti e suggerimenti pratici sia ai
potenziali tiranni sia ai difensori della libertà e del governo
popo- lare. Un testo fondante della moderna scienza della politica,
nel quale si spiega come si possano, attraverso l’uso della ragione
e attingendo agli insegnamenti della Storia, governare i conflitti e
fondare ordinamenti stabili. Una dissertazione disincantata sulla
natura umana, sulle passioni e i sentimenti elementari che in ogni
epoca orientano le azioni individuali e collettive. Una composizione
letteraria nel segno dell’empietà, della critica ai precetti della
religione cristiana e del rifiuto di qualunque norma morale.
Un’apologia della forza e dell’inganno che esprime il cinismo
dell’epoca in cui l’opera fu scritta. Un manifesto politico che ha
avuto la forza di anticipare le aspirazioni degli Italiani
all’unità nazionale e statuale. E si potrebbe continuare, tante
sono state le chiavi interpretative utilizzate per penetrare
l’essenza o il segreto del Principe.
Ciò spiega perché non sia facile – a cinquecento anni dalla sua
stesura originaria, così come attestata dalla mano dell’Autore
(lasciando dunque da parte le discussioni sulla data eventuale entro
la quale il testo sarebbe stato completato) – offrirne una lettura
che, per quanti progressi abbia fatto nel frattempo la critica
scientifica, possa dirsi definitiva, autentica o la più rispondente
alle intenzioni effettive di Machiavelli. Siamo infatti in presenza
di uno scritto che trae gran parte del suo originario e perdurante
fascino intellet- tuale proprio dall’ambiguità, meglio,
dall’ambivalenza intrinseca, che lo caratterizza.
Un testo all’apparenza semplice e d’immediata comprensione, vergato
con uno stile essenziale e di precisione all’apparenza chirurgica,
ma che ad una lettura attenta si scopre essere complesso e
stratificato, non esente da contrad- dizioni interne, strutturato in
modo asimmetrico, capace di condensare in poche pagine una massa
enorme di suggestioni, argomenti e prospettive, che si presenta
oscillante quanto all’oggetto realmente trattato sin dal titolo, che
suona De principatibus in latino, e dunque parrebbe riferirsi
primariamente ad un modello politico, ad un tipo di regime o ordine
politico, e Il Principe nella sua versione volgare e oggi da tutti
accettata, il che significa porre invece l’accento sui fattori
caratteriali e psicologici, sui comportamenti e le scelte, che
debbono caratterizzare un capo politico che voglia lasciare il
proprio segno nella storia o più semplicemente porsi alla guida di
una comunità con mano ferma.
Non esiste insomma un modo di leggere Il Principe che possa dirsi
più esatto o giusto o corretto degli altri, e che magari cerchi di
piegarlo, beninteso con le migliori intenzioni, alla scala di valori
e alla sensibilità degli uomini del XXI secolo. Se ciò fosse
possibile non si spiegherebbero le dispute e le controversie che lo
hanno accompagnato nel corso dei secoli e i fraintendimenti (ivi
compresi certi suoi utilizzi che sfiorano il grottesco o il
ridicolo) ai quali ancora oggi risulta esposto. Al momento di
organizzare una mostra dedicata appunto al cinquecentenario
dell’opuscolo machiavelliano, la scelta migliore che si potesse fare
è stata dunque quella di rispettare, senza pretendere di risolverla
una volta per tutte, la sua ambigua vitalità, di mantenere la
molteplicità degli spunti interpretativi e delle chiavi di lettura
che esso continua a sollecitare in chiunque lo legga con una qualche
attenzione. Semmai si è rite- nuto utile – obbedendo ad un intento
sanamente didat- tico, ma senza alcun fine pedagogico – inserire Il
Prin- cipe all’interno di una vasta e dettagliata cornice
storico-documentaria, con l’idea di illustrare nel modo più
essenziale e preciso possibile il contesto politico- culturale
all’interno del quale Machiavelli l’ha conce- pito, i suoi contenuti
qualificanti, le figure storiche che in esso ricorrono con più
forza e le fonti letterarie (a partire da quelle classiche) che lo
hanno nutrito. Ma questo in prima e necessaria battuta.
Vi erano poi da raccontare altri aspetti, non meno interessanti e
significativi, della storia del Principe: quello, ad esem- pio,
riferito alla sua complessa e affascinante vicenda editoriale, dalle
prime versioni a stampa del 1532 sino alla massiccia diffusione del
testo ai giorni nostri, passando per le molte edizioni e traduzioni
del Prin- cipe realizzate nel corso dei secoli, alcune delle quali
di assoluto pregio tipografico, di quelle che i bibliofili si
contendono sul mercato antiquario; e quello della sua fortuna e
incidenza in senso lato intellettuale, per come si è determinata
nei diversi contesti culturali e geografici, nelle differenti epoche
storiche, attraverso il lavoro d’esegesi di interpreti e lettori
d’eccezione.
I saggi che in questo volume precedono il catalogo vero e proprio
delle opere in mostra scandiscono appunto un tale percorso: si parte
dalla discussione degli equilibri politico-militari che hanno
arricchito l’esperienza di Machiavelli cancelliere e stimolato le
sue riflessioni post res perditas e si arriva agli usi (ed abusi),
alle interpretazioni e alle letture che del Prin- cipe sono state
date in età contemporanea. Nel mezzo, come accennato, il lettore
potrà trovare – a firma di alcuni dei maggiori machiavellisti
attivi sulla scena italiana ed internazionale – tutte le notizie che
possono ritenersi indispensabili per comprendere la genesi e il
contenuto di quest’opera, per farsi un’idea della sua diffusione
libraria e delle molte forme (alcune decisa- mente bizzarre) che
quest’ultima ha assunto, per seguirne la penetrazione – spesso
influenzata da fattori storici esterni – nei diversi Paesi e nelle
più diverse aree linguistiche (questa sezione del volume, forse la
più originale, è stata coordinata con grande perizia dal prof.
Roberto De Pol), per comprendere infine quali reazioni – di sdegno,
di critica o di approvazione –, quali spunti di riflessione e quali
originali vedute intellettuali, esso ha suscitato nel corso dei
secoli tra pensatori e studiosi d’ogni orientamento. Alla fine della
lettura – grazie anche al conforto di un vasto apparato
iconografico, che integra il contenuto del volume e non si limita ad
abbellirlo – la comprensione del Principe (e della stessa figura di
Machiavelli) dovrebbe risultare largamente agevolata dal punto di
vista storico-culturale, così come dovrebbero risultare rimossi o
chiariti molti luoghi comuni e molte cattive semplificazioni che nel
corso del tempo hanno accom- pagnato sia l’opera sia il suo autore.
Del testo, come detto, non viene avanzata un’interpretazione univoca
o che aspiri ad essere più avanzata e rigorosa rispetto a quelle
del passato, dal momento che il destino del Principe, sin da quando
fu scritto, è evidentemente quello di restare avvolto da un velo di
doppiezza e indecifrabilità che giustifica le molteplici e
contrastanti letture che ne sono state date. Ma se a conclusione del
volume, e dopo aver visitato la mostra o sfogliato il catalogo che
la illustra, l’impulso sarà di saperne di più su Machiavelli, al
di là degli stereotipi che si sono depositati su tale nome, e di
mettere mano alla lettura (o rilettura) del Principe, per misurarne
direttamente e in autonomia il valore e il significato, il compito
di chi ha voluto sia l’omaggio espositivo al Principe sia questo
denso tomo di approfondimento, e natural- mente di tutti coloro che
hanno contribuito a realizzare le due iniziative, potrà dirsi
ampiamente assolto, e con grande soddisfazione.
Presentazione
Gennaro Sasso
La domanda che lo studioso di Machiavelli non può non rivolgersi
quando sia stato invitato a presentare il catalogo di una mostra
dedicata al cinquecentenario del Principe è cosa sappiano di questo
piccolo libro non, com’è ovvio, i cultori della materia, che è da
ritenere sappiano tutto, ma quanti a visitarla saranno stati spinti
da una generica curiosità o da qualche circostanza comunque
estrinseca. La sua non è tuttavia una domanda retorica. Nasce
anch’essa da una forma di curiosità, dal desiderio di sapere che
cosa, nella media coscienza degli Italiani, rappresenti questo
piccolo libro, che fu per secoli giudicato come il manuale di tutte
le nefandezze, di tutte le astuzie, di tutte le crudeltà di cui
s’intesse la politica intesa come espressione non del diritto, ma
della forza, non dell’etica, ma della sua sistematica violazione,
come il codice dei tiranni, che gli uomini liberi non possono non
odiare. Nasce anche, debbo ammetterlo, dalla curiosità relativa
alla conoscenza effettiva che oggi, mediamente, si ha, non solo
delle sue pagine e dell’età alla quale appartengono, ma dell’autore
stesso che le scrisse. L’uomo che aveva avuto un volto, che era
stato parte attiva e importante della politica fiorentina dal 1497
al 1512, e che, post res perditas, aveva scritto, insieme ad altre
cose, il libro del Principe, fu presto reso vittima di una leggenda
che lo trasformò in una maschera, lo assunse come l’Idealtypus
dell’uomo malvagio, maestro di trame e di inganni.
La conseguenza sul serio paradossale fu che, a misura che la fama
del suo nome si spandeva per il mondo, e le edizioni delle sue opere
si moltiplicavano, il suo pensiero subiva le più gravi
deformazioni, la conoscenza stessa della sua vita decadeva ai più
bassi livelli: non senza una ragione, del resto, perché a quale
scopo ci si sarebbe dovuti interessare alla ricostruzione della vita
di uno che era presto stato trasformato nella maschera tragica e
grottesca di un figlio del demonio, venuto al mondo per riempire le
menti di sogni delittuosi e per demolire dalle fondamenta la Chiesa
di Cristo? Così il Machiavelli della storia divenne l’old Nick
della commedia elisabettiana. Come presunto consigliere di inganni,
doppiezze, e varia malvagità, divenne anche il simbolo di un popolo
che da tempo non era più un soggetto attivo di storia, e, nella
rappresentazione che gli stranieri ne davano, coniugava la
rassegnazione politica con l’arte di sopravvivere nel segno della
doppiezza e del tradimento.
A rimettere le cose a posto, a porre fine alla leggenda nera che
accompagnava il suo nome, non bastarono coloro che nel tempo lo
lessero con altro animo, che apprezzarono i suoi pensieri e li
rivendicarono alla scienza della politica. Non bastò Francis Bacon,
non bastò Spinoza, non bastò Vico, che lo mise fra gli atei e, per
questo verso, pronunziò anche lui la sua condanna, ma per un altro
studiò le sue opere, e se ne servì, nelle Scienze nuove,
nell’interpretazione che vi fornì della storia romana. Nelle
Considérations sulle cause della grandezza e della decadenza dei
Romani Montesquieu dette un notevole rilievo a quel che Machiavelli
aveva detto nei primi capitoli del primo libro dei Discorsi a
proposito dei contrasti politici nella prima repubblica romana. Ma
nemmeno questo fu sufficiente perché, nei meglio disposti a
studiarla per comprenderla, la considerazione della sua opera
andasse oltre il Principe, al quale persino Hegel guardò come se il
pensiero di Machiavelli stesse tutto e solo lì. Ma i personaggi che
sono stati ricordati furono pur sempre gli isolati rappresentanti di
una disposizione interpretativa che non fu in grado di strappare
dalle menti dei più l’uomo della leggenda. Anche per questo, la
domanda formulata sopra è legittima. Tanto più, direi, lo è in
quanto la sparizione dei dati elementari della sua biografia è un
evento che si determinò con impressionante precocità: come se
dell’uomo che era stato si volesse cancellare ogni memoria.
In effetti, a pochi anni dalla sua morte, avvenuta nel 1527, chi
ebbe occasione di scrivere di lui già mostrava molta incertezza,
non solo nell’assegnare date non errate agli eventi della sua vita,
ma nel dar conto, con precisione, di questi e del loro specifico
significato. Non è un’esagerazione dire che, iniziata non prima del
XVIII secolo, e a opera non di studiosi italiani, la rivendicazione
alla storia della sua biografia avvenne per merito di storici
(Gaspar Amico, Francesco Nitti, Pasquale Villari e Oreste Tommasini)
che si impegnarono nel narrare la sua vita e nell’illustrare il suo
pensiero con spirito di obiettività, ponendolo in relazione ai
tempi nei quali visse. Per quanto riguardava la vita, e anche le
opere, alla storia Machiavelli cominciò dunque a essere restituito
non prima che circa tre secoli fossero trascorsi dal giorno della
sua morte. Il che conferma che al suo essere assai più noto che
conosciuto contribuì non solo l’interdizione del suo nome messa in
atto per secoli dalla Chiesa cattolica, ma la situazione stessa
dell’Italia, che soltanto fra il 1860 e il 1870 era divenuta uno
Stato unitario, e soltanto nei decenni del Risorgimento aveva preso
a interessarsi sul serio al personaggio che, dopo tutto, aveva
scritto l’Exhortatio dell’ultimo capitolo del Principe, aveva
parlato di Italiani e di barbari e aveva incitato i primi a
liberarsi dei secondi. Con non poche, tuttavia, anzi moltissime,
anche in questo periodo, eccezioni.
Per la coscienza cattolica del Paese, Machiavelli restava un
personaggio pericoloso, un nemico della religione cristiana, un
teorico, se si vuol dire così, del paganesimo politico: salvo che,
anche in questo campo, presso i migliori, la grandezza del suo
pensiero s’imponeva, dando luogo a situazioni singolari. Per citare
un documento di alta e raffinata letteratura, chi non ricorda, nei
Promessi sposi, il giudizio che di Machiavelli dava un esperto
conoscitore della Ragion di Stato e dei suoi teorici seicenteschi
qual era don Ferrante, che lo definiva «mariuolo sì, ma
profondo»? Manzoni conosceva bene Machiavelli. Se faceva che,
a differenza di Giovanni Botero da lui ritenuto
«galantuomo» bensì, ma «acuto», il suo
personaggio lo giudicasse «profondo», non era per caso.
Delle sue pagine si era servito quando aveva scritto, in margine
all’Adelchi, il Discorso sulla storia dei Longobardi in Italia. Era
troppo intelligente per non apprezzarne, appunto, la profondità. Ma
anche in lui Machiavelli suscitava inquietudini. Pur riconoscendone
l’ingegno, nella Morale cattolica aveva, nel suo nome, criticato
coloro che fondano la moralità sull’utile. E Manzoni era Manzoni.
Del resto, non si potrebbe nemmeno non dar rilievo a un altro
accorgimento al quale, nel secolo del patrio Risorgimento, si fece
ricorso per impedire che quella che De Sanctis aveva una volta
chiamata la sua «brutta esteriorità», e cioè le crude
sentenze che s’incontrano nei suoi scritti, s’imponesse in primo
piano e turbasse il quadro. L’accorgimento, che tale naturalmente
non era per chi lo proponeva, consisteva nel fare di lui il profeta
dell’unità nazionale, il precursore degli uomini del Risorgimento e
del loro pensiero. Era uno dei tanti modi estrinseci ai quali, per
evitare il contatto con l’inquietante quadro dei suoi pensieri,
allora si fece ricorso perché la statua di Machiavelli fosse
collocata e mantenuta nel Pantheon dei grandi Italiani.
In realtà, Machiavelli non fu il profeta della unità d’Italia
quale si realizzò alla fine del XIX secolo, non fu, nella sua
realtà storica, un precursore degli uomini del Risorgimento.
Sebbene anche lui partecipasse di questo sentimento, e quando gli
giunse notizia della breccia di Porta Pia, con profonda convinzione
rendesse grazie a Machiavelli del quale, in quel momento, era
intento a scrivere, De Sanctis non disse in quel caso quel che
avrebbe dovuto. La riconoscenza dichiarata a coloro che con
quell’impresa restituivano Roma all’Italia da nessun uomo moderno
avrebbe mai potuta essere disconosciuta. Ma De Sanctis riuscì più
felice quando disse che sulla tomba di Machiavelli in Santa Croce,
in luogo delle parole tanto nomini nullum par elogium, che vi furono
incise e davano al suo orecchio un suono retorico, avrebbe voluto
che, con semplicità, fosse stato scritto: «al fondatore dei
tempi moderni». Sembrerebbe, in ogni caso, che, almeno sul
piano della conoscenza dei fatti essenziali della sua vita e del suo
pensiero, fosse ormai finito il tempo delle imprecisioni e,
talvolta, delle autentiche nefandezze perpetrate ai danni della
verità. Sembrerebbe che, passato nei libri scolastici, nelle storie
della letteratura e della filosofia, il lavoro dei dotti avesse dato
i suoi frutti.
Ricordo che quando, molti decenni fa, sedevo sui banchi del liceo
classico, il Principe costituiva, per gli studenti del secondo anno,
una lettura obbligatoria, che veniva ad affiancarsi a quella del
Purgatorio dantesco. Non sempre veniva letto e commentato sul serio.
Ma il libro era fra quelli che si dovevano possedere; e poteva
capitare o che un professore migliore di altri iniziasse i suoi
scolari alla lettura diretta del testo, o che, in assenza di quel
professore, qualche studente supplisse lui alla mancanza e per suo
conto si avventurasse in quella terra fin lì sconosciuta. Terra
pericolosa, senza dubbio, ricca di insidie non sempre facili a
essere evitate, anche perché, a parte quelle presenti nelle parti
più ardue, e più crude, del testo, il peso dei secolari pregiudizi
poteva ben farsi sentire nei commenti, non sempre eccezionali, da
cui il libro machiavelliano era corredato. Credo che oggi, nelle
scuole, il Principe non costituisca più una lettura obbligatoria.
Ma non sarà, tuttavia, questa la ragione per la quale vieti luoghi
comuni hanno ripreso a circolare anche nel mondo delle ‘persone
colte’ e sui giornali si leggono talvolta cose a dir poco
sorprendenti. Caduta la barriera che, almeno nei licei, era
rappresentata dalla diretta, anche se incompleta, conoscenza dei
testi, l’impressione è che l’onda dei pregiudizi sia ritornata a
farsi impetuosa, forse, anzi senza forse, perché le cose nel nostro
Paese hanno da tempo preso un indirizzo che giustifica chi lo
dipinge come abitato non da cittadini virtuosi, ma da sudditi della
doppiezza e dell’astuzia.
Che, nella coscienza stessa degli Italiani, l’immagine di
Machiavelli risenta di questa vicenda, non sorprende. A misura che i
suoi concittadini tornano, con i loro comportamenti, a dar ragione
ai detrattori dei loro costumi, anche il Segretario fiorentino
dismette i panni curiali e regali dei quali, come scrisse a
Francesco Vettori nella famosa lettera del 10 dicembre 1513, soleva
idealmente rivestirsi quando entrava nella corte degli antichi per
ascoltare la loro parola e indirizzare a essi la sua; e di nuovo si
rende simile alla maschera che i pregiudizi e la mala fede hanno,
per secoli, sovrapposta al suo volto. Non escluderei, tuttavia, che
al riguardo sia all’opera qualcosa di più profondo, che non
concerne Machiavelli più di quanto non coinvolga il rapporto che,
da anni, gli Italiani intrattengono, o piuttosto non intrattengono,
con la loro storia. Un rapporto che sempre fu reso problematico
dall’essere l’Italia un’unità letteraria pensata all’interno di
realtà politiche particolari, che con quella non potevano
coincidere adeguando a essa, assunta perciò come un’idea, non più
letteraria ma politica, la propria particolarità. Un rapporto che
restò problematico anche dopo il conseguimento dell’unità
nazionale a causa della persistenza di caratteri che erano insieme
ancora particolari, per un verso, e astrattamente universali (la
Chiesa cattolica e la sua dottrina) per un altro; e che a tal punto
ha accentuato la sua problematicità in questi nostri anni di
decadenza politica e morale da aver perduto la sua natura stessa di
rapporto, quasi che gli Italiani non avessero più un passato al
quale rivolgere domande per ottenere risposte e dare a se stessi un
orientamento. È come se mille anni di storia fossero il luogo non
di significati da cercare e interpretare, ma di una generale
insignificanza.
Il Principe, di cui questa mostra offre ai suoi visitatori tante e
tante edizioni, fu scritto non, come si riteneva fino a qualche
tempo, fra il luglio e il dicembre del 1513, ma, con buona
probabilità e com’è comunque opinione dello scrivente, fra il
luglio di quell’anno e il maggio del successivo, dopo che il suo
primo disegno, che si fermava forse al cap. XI, fu riconsiderato per
essere ampliato fino alla misura dei suoi ventisei. Fu composto,
dunque, nei primissimi tempi dell’esilio dalla politica attiva che a
Machiavelli fu imposto dai Medici, tornati a Firenze nel 1512, e
decisi a tener lontano dalla Cancelleria l’uomo che per anni era
stato il principale collaboratore del deposto Gonfaloniere perpetuo
Piero Soderini. A differenza dei Discorsi sopra la prima deca di
Tito Livio, per i quali non è stato possibile indicare un
precedente a cui riferirli, di precedenti il Principe ne ha più
d’uno, dal De regime principum di Tommaso d’Aquino proseguito da
Tolomeo da Lucca al De principe di Giovanni Pontano. Ma, senza
negare che di questa letteratura egli fosse in parte informato, e
che il modello del trattato gli stesse comunque in mente, è certo
che Machiavelli non aveva torto quando nel cap. XV scrisse le famose
parole che, se qui si ricordano, non è per celebrare il mito
dell’originalità intesa in senso numerico, ma per dar conto della
consapevolezza che egli aveva della rivoluzione che stava
introducendo nella trattazione dell’argomento. Non erano solo gli
autori dei predetti trattati de principe a esser messi in questione,
ma un’intera tradizione di pensiero politico. Il riferimento andava
a quegli scrittori che si erano «imaginati republiche e
principati che non si sono mai visti né conosciuti essere in
vero»; che avevano scambiato con l’essere il dover essere, la
realtà quale è con l’auspicio di una realtà diversa, mentre a
lui, Machiavelli, interessava la «verità effettuale della
cosa, non l’imaginazione di essa».
Parole famose che, se le si considera con tutta l’attenzione che
meritano, non soltanto spiegano perché nel Principe siano state
scritte pagine come quelle che costituiscono i capp. XVII e XVIII, e
nelle quali è spiegato perché l’idea della legge che regola,
secondo natura e ragione, i rapporti politici fra gli uomini debba
cedere a quella imposta dalla necessità che le cose durino, gli
Stati non crollino, i principi e i legislatori repubblicani non
siano travolti dalla rovina. Quelle parole chiariscono fino in
fondo, e senza mezzi termini, perché l’assunto sia, con necessità
pari a quella enunziata dalla formula opposta, che pacta non sunt
servanda: il che potrà sembrare, ed è, duro da accettare, e
nondimeno discende dalla premessa se questa è che il principe deve
avere «uno animo disposto a volgersi secondo ch’e venti della
fortuna e le variazioni delle cose li comandano e [...] non partirsi
dal bene, potendo, ma sapere intrare nel male, necessitato».
Quelle parole infine spiegano perché, a partire di qui, il trattato
politico riveli il suo reale sottosuolo; che, nel suo emergere e
rendersi visibile, fa comprendere che quello scritto da lui era in
realtà un dramma che aveva della tragedia, perché nell’orizzonte
della politica niente si dà che agli uomini consenta di venirne
fuori e trovare serenità e pace in un superiore universo.
Come attore di un dramma che è piuttosto una tragedia, il principe
è per intero integrato in questo mondo in cui il bene e il male si
distinguono solo in relazione al diverso scopo che si tratta di
conseguire; e in cui l’etica non è, come si dice volgarmente,
negata, ma, in quanto pretenda all’assolutezza, è assegnata a un
universo che non ha a che fare con la politica quale è nella
realtà effettuale delle cose. In questo universo, segnato
dall’incertezza, dominato dalla fortuna e dal suo tremendo potere,
la politica impone al principe il dovere della salvezza e della
sopravvivenza. Nell’universo machiavelliano, la politica conosce una
relazione inscindibile, non con l’etica, ma con la fortuna. Che
questo significhi che ogni volta che sia necessario, l’etica debba
uscire di scena e lasciare il posto alla politica, è innegabile. Ma
il punto è che mai Machiavelli cercò di assegnare alla politica,
che discacciava l’etica dal suo nido, un significato superiore al
suo, un significato provvidenziale. Il bene era il bene. Ma anche il
male era e restava il male.
Non si può metter fine a questa Presentazione senza dire almeno una
parola a proposito del contesto teorico in cui il Principe prese la
sua forma specifica. Questo universo è costituito, innanzi tutto,
dai già ricordati Discorsi. Che sono un’opera fondamentalmente,
anche se in modo non esclusivo, dedicata alle repubbliche; un’opera
che rivela che repubblicano è l’animo di colui che li compose.
Questo, per altro, non significa che fra le due opere vi sia
contraddizione. Il principe è richiesto da, e agisce in, situazioni
nelle quali l’assetto repubblicano, o non è mai esistito, o ha
conosciuto una crisi e una consumazione dei suoi
«ordini» così profonda da richiedere l’intervento di
una mano «regia»; salvo che la forma principesca alla
quale Machiavelli accorda la sua preferenza è quella del principato
civile, in cui, per dirla in breve, la sostanza è popolare, la
finalità è antiottimatizia, e, nella parte più profonda del nuovo
assetto, vibra ancora, non spenta, la passione repubblicana. A
coloro che visiteranno questa mostra dedicata al Principe, con le
poche considerazioni che precedono ho inteso suggerire che, certo,
il suo autore non è uno che contribuisca alla tranquillità
dell’anima, al sereno distacco dalle cose del mondo, e autorizzi a
coltivare l’illusione che questo sia diverso da come è. È tuttavia
un testimone di verità scomode e, comunque le si giudichi, alla
fine ineludibili; ed è anche un grande scrittore che, come pochi
altri, invita a riflettere sul senso della nostra storia.
Gli equilibri politico-diplomatici negli anni di Machiavelli
Claudio Finzi
Se osserviamo una carta geografica dell’Italia della seconda
metà del XIV secolo, vediamo un gran numero di organismi
politici, città, Stati e staterelli, uno soltanto da potersi
definire grande, alcuni di medie dimensioni, la maggioranza
minuscoli e piccolissimi; in mano straniera sono soltanto la Sicilia
e la Sardegna oltre alcune altre minori presenze sparse. Se
ripetiamo la nostra osservazione nel 1454, dopo la pace di Lodi e la
Lega Italica, il quadro è cambiato; gli organismi politici
sono drasticamente diminuiti di numero e cinque Stati (Venezia,
Milano, Firenze, Roma, Napoli) si spartiscono la maggior parte della
penisola, avendo assorbito molti dei più piccoli. Se, infine,
guardiamo nuovamente la carta d’Italia negli anni Trenta del
Cinquecento, troviamo che la situazione politica si è
ulteriormente semplificata, ma soprattutto constatiamo che ben
più ampie parti d’Italia, il Milanese e il Regno di Napoli
oltre le due isole maggiori, sono ormai sotto il controllo della
Spagna imperiale.
Leggendo geograficamente i tre momenti storici abbiamo la sensazione
immediata dell’evoluzione politica dell’Italia in due secoli
cruciali della nostra storia: un faticoso semplificarsi della
geografia politica, che però, invece di condurre a duraturi
risultati di formazione di uno Stato o di pochi Stati consolidati,
raggiunge soltanto lo stadio drammatico di una sostanziale,
benché non totale, sottomissione alle potenze straniere.
Mentre, allo stesso tempo, il pensiero politico, la filologia, la
letteratura, le arti, conseguono uno sviluppo e una raffinatezza,
quale per un certo tempo non sarà possibile riscontrare negli
altri Paesi d’Europa, che se ne nutriranno. Un contrasto tra
prestigio culturale e crisi politica, che non è certamente
l’unico nella storia d’Italia.
Gli anni dal cadere del Trecento fino alla pace di Lodi sono anni di
guerre continue in ogni parte d’Italia.
Il regno di Napoli è governato dagli Angiò, dinastia
francese, che nel 1442, dopo una lunga guerra complicata da continue
variazione politiche, deve cederlo ad Alfonso V d’Aragona, il
Magnanimo. Napoli manterrà la dinastia aragonese fino ai
primi anni del Cinquecento, ma il Regno è italiano per
interessi politici e centro di gravità. Non a caso Alfonso il
Magnanimo scelse di risiedere in Napoli e non in Barcellona, av
valendosi di collaboratori in gran parte italiani. Politica
continuata dal figlio Ferdinando I (Ferrante), che ebbe per primo
ministro uno dei massimi intellettuali del Quattrocento: l’umbro
Giovanni Pontano.
Molto più articolata e frammentata era a quei tempi la
situazione dell’Italia centrale e settentrionale, dove alcune
città, Milano, Venezia, Firenze, erano impegnate nel
costruirsi un dominio di dimensione almeno regionale. Ma mentre
Milano cerca un’espansione, che coinvolge buona parte dell’Italia
settentrionale e centrale, la politica di Firenze finisce per essere
soprattutto una politica di contenimento, tendente ad arginare
Milano senza riuscire a contrapporle una pari forza espansiva.
Più volte i Visconti, signori di Milano, scendono sotto il Po
verso l’Emilia, la Romagna, la Toscana, l’Umbria, impadronendosi di
molte città di queste regioni, nonché di Genova. ogni
volta però trovano sulla loro strada la repubblica di
Firenze, che intanto occupa Arezzo, Pisa e altre città
toscane; non passa i confini della regione, ma vi si consolida.
Quando nel 1402 Gian Galeazzo Visconti, che è ormai signore
di Perugia, Assisi, Siena, sembra sul punto di circondare
definitivamente Firenze e conquistarla, ecco che a favore di Firenze
interviene il destino, facendo morire il milanese di improvvisa
malattia. Lo stesso avverrà nel 1414, quando Ladislao
d’Angiò durazzo, re di Napoli, muore, anch’egli
improvvisamente, mentre sta mettendo in grave pericolo Firenze.
Cosicché Niccolò Machiavelli, commentando i due fatti,
scrive: «E così la morte fu sempre più amica a’
Fiorentini che niuno altro amico, e più potente a salvargli
che alcuna loro virtù». osservazione, che ci
induce a domandarci quanto e come sarebbe stata diversa la nostra
storia, se Gian Galeazzo avesse conquistato Firenze.
Domanda tutt’altro che inutile, qualsiasi cosa affermi in contrario
chi sostiene che la storia non si fa né con i se né
con i ma.
Chiedersi che cosa sarebbe avvenuto se …, è invece strumento
molto utile a comprendere come e perché la storia sia andata
in un certo modo. Perché la storia non ha un senso e una
direzione prestabiliti e inevitabili; è fatta dagli uomini e
dalla loro libertà. Niccolò Machiavelli ci dice
infatti che la fortuna controlla la metà del nostro agire, ma
l’altra metà sta nelle nostre mani.
Nei primi decenni del Quattrocento Venezia, fino al quel momento
limitata al primitivo spazio lagunare e a Treviso, presa nel
Trecento, inizia la sistematica occupazione delle regioni di
terraferma, a ovest, a nord e a nord-est della sua laguna,
così da controllare le principali vie di comunicazione con
l’Europa, sulle quali passano le merci, fonte della sua ricchezza.
occupa Vicenza (1404), Verona (1405), Padova (1406); prende Udine e
il Friuli (1420), dove cessa di esistere il Patriarcato di Aquileia;
si spinge in Lombardia, ottenendo Brescia (1426) e Bergamo (1427);
cerca di controllare la Romagna. Non è una politica
abbracciata senza contrasti interni nel ceto di governo; chi vuole
l’espansione in terraferma deve vincere le ostinate resistenze di
chi vuole invece una Venezia ancora proiettata esclusivamente sui
mari, ma prevalgono le tesi di Francesco Foscari, che salirà
al dogato nel 1423 e porterà Venezia allo scontro con la
Milano di FilippoMaria Visconti. Ciò non significa
però l’abbandono della politica marittima, che conserva tutta
la sua importanza vitale per Venezia, ma soltanto una nuova apertura
verso terraferma accanto al tradizionale impegno in Adriatico e nel
Levante. Durante il grande scisma, terminato soltanto nel 1418, il
Papato ha perso di fatto il controllo del suo territorio, che di
diritto comprendeva il Lazio, l’Umbria e le Marche, la Romagna e
parte dell’Emilia. I papi dunque devono fare i conti con una serie
di città e signorie, che sono diventate autonome e non
intendono tornare sotto il controllo papale. Inizia un difficile
processo di consolidamento, che durerà a lungo con fasi di
prevalenza del Papato e fasi di recupero delle città, fino
alla chiusura definitiva nel 1631, quando si estinguerà il
ducato di Urbino. Unico organismo sopravvissuto e rimasto
indipendente fino a oggi: la Repubblica di San Marino.
L’altro inevitabile aspetto di questo ristrutturarsi del sistema
politico è il continuo stato di guerra e di conflitto tra gli
Stati italiani. Guerre e paci si susseguono in tutto il periodo,
segnato anche da frequenti cambiamenti di fronte e di alleanze.
Infine un punto fermo è costituito dalla pace di Lodi del 9
aprile 1454 tra Venezia e Milano.
Alla pace di Lodi segue nel febbraio 1455 la costituzione della Lega
Italica venticinquennale tra Milano, Venezia, Firenze, Roma e
Napoli: i cinque maggiori Stati italiani depongono le armi e giurano
di muovere insieme contro chiunque rompa la pace in Italia. Il
risultato auspicato fu in buona parte raggiunto. Nei cinquant’anni
tra il 1454 e il 1494 l’Italia vide ben pochi conflitti, se facciamo
il confronto coi decenni precedenti. Non che la pace sia stata
assoluta: guerre e contrasti vi furono, ma non così vasti e
duraturi come prima. Di fatto tale pace fu opera di quella che
è stata definita la «politica dell’equilibrio».
L’Italia risulta organizzata su tre livelli: le cinque potenze
maggiori; alcuni organismi medi come il ducato di Savoia, il ducato
di Ferrara, le repubbliche di Genova e Siena; numerosi organismi
minori. L’alternarsi delle alleanze mantiene sempre in vita tutte le
cinque potenze maggiori, quasi fosse in atto una tacita convenzione:
nessuno dei cinque può essere distrutto.
Il sistema italiano è in sostanza un sistema autonomo, che si
regge però anche grazie a un altro fattore fondamentale: gli
Stati europei, che pure sono comunque presenti in Italia, non
dimostrano forte interesse ai fatti italiani o non sono capaci di
intervenire in modo pesante; almeno fino al 1494 non c’è,
dunque, un vero problema di difesa dello spazio italiano contro i
Transalpini. Ne consegue però che il sistema regge più
per le debolezze dei Transalpini che per la forza degli Italiani.
L’Italia quattrocentesca ha un notevole sviluppo economico, tanto
produttivo quanto commerciale. I mercanti italiani operano in buona
parte del Mediterraneo e dell’Europa. Le città godono di un
notevole sviluppo demografico, urbanistico e monumentale; nessun
altro paese in Europa ha tante grandi città come l’Italia.
Creazione italiana è la nuova cultura umanistica, che a
partire da Francesco Petrarca si è sviluppata potentemente,
segnando un mondo nuovo, che sta già espandendosi oltre le
Alpi. Se molte scuole, soprattutto alle origini dell’Umanesimo, sono
opera di maestri privati, che hanno tra i loro allievi il meglio
delle classi dirigenti, ben presto alcune città provvedono a
istituire scuole pubbliche. Politica e cultura sono strettamente
intrecciate. Scegliere come testo di studio della lingua greca la
Ciropedia di Senofonte, invece della Politica di Aristotele, non
è una scelta soltanto culturale, ma anche e soprattutto
politica: significa dare la preferenza a un regime principesco
invece che a un regime repubblicano. E viceversa.
Eppure questa Italia, che appare così fiorente per la cultura
e l’economia, è ricca di problemi, che si mostreranno in
tutta la loro perversa efficacia tra la fine del Quattrocento e i
primi decenni del Cinquecento, quando essa cederà di fronte
alle invasioni francese e spagnola.
Milano, Firenze e Napoli sono assillate da gravi problemi
istituzionali e di legittimità dei governanti. A Milano
è tutto un fare e disfare. Alla morte del signore spesso lo
Stato viene diviso tra gli eredi, con conseguenti lotte fratricide,
fino a quando si ristabilisce il governo di un solo. Verso la
metà del Quattrocento l’esaurirsi della famiglia Visconti
dà spazio al breve esperimento della Repubblica Ambrosiana,
rapidamente soppiantata dagli Sforza, famiglia di condottieri, con
Francesco, che sposa Bianca Maria Visconti e su questa base
rivendica il suo diritto alla successione. Alla fine del secolo,
però, le lacerazioni esplodono anche dentro gli Sforza,
quando Ludovico il Moro cerca, riuscendoci, di impadronirsi di
Milano.
A Firenze balza in primo piano la famiglia Medici, contro la quale
si batte la vecchia oligarchia, che nel 1433 riesce a colpire Cosimo
il Vecchio de’ Medici, mandandolo in esilio; ma nel 1434 Cosimo
rientra in Firenze e stabilisce una signoria di fatto, benché
non di diritto. Formalmente Cosimo resta un cittadino come gli
altri, che partecipa alle cariche pubbliche ma niente di più;
in realtà governa Firenze tanto che, come è stato
detto, le decisioni sono prese nel suo studio e non a Palazzo
Vecchio. Alla sua morte, nel 1464, segue il breve periodo di Piero
il Gottoso, quindi dal 1469 al 1492 abbiamo Lorenzo il Magnifico.
Intricata è anche la situazione di Napoli. Alla morte di
Alfonso il Magnanimo (1458), per sua volontà il Regno di
Napoli si stacca dagli altri domini catalano-aragonesi e diventa
autonomo. Il trono passa a Ferdinando I d’Aragona, che però
è figlio illegittimo di Alfonso, fatto che viene sfruttato da
chi ambisce al trono e da molti tra i nobili del Regno, che cercano
sempre di irrobustire la loro autonomia. E spesso si tratta di
uomini molto potenti, come Giovanni Orsini, principe di Taranto,
signore di un territorio vasto, che potrebbe diventare uno Stato
autonomo. Appena salito al trono, Ferdinando I deve combattere una
durissima guerra di successione contro i baroni; la vince, ma negli
anni ottanta deve reprimere un’altra rivolta baronale, ancor
più pericolosa, di fatto una vera e propria guerra civile.
Questi contrasti interni provocano due fenomeni: i fuorusciti e le
congiure. La durezza delle lotte intestine induce o costringe molti
a lasciare la propria città per salvarsi la vita o anche
soltanto per poter vivere più tranquillamente. Ma è
ovvio ed evidente che i fuorusciti cercano di rientrare in ogni modo
e con qualsiasi mezzo, cosicché sono duri e tenaci nemici del
governo del proprio Paese e buoni alleati dei suoi nemici. «Il
nemico del mio nemico è mio amico» dice un vecchio
proverbio.
Frequenti e pericolose le congiure. La più famosa è
quella dei Pazzi, ordita a Firenze contro i Medici e posta in atto
nel 1478. Giuliano de’ Medici viene ucciso, mentre si salva il
fratello Lorenzo il Magnifico, che dà il via a una robusta
repressione. Ma Milano non è da meno: nel 1476 Galeazzo Maria
Sforza è ucciso in una congiura.
Lo Stato più solido d’Italia è certamente la
Serenissima Repubblica di Venezia. Anche senza voler indulgere al
mito di Venezia, che nel 1421 celebra il millenario della sua
fondazione di città unica e singolare, libera fin dalle
origini perché «fundata in mari», sempre stabile
nelle istituzioni, pacifica al suo interno, forte per mare e
per terra, dobbiamo però riconoscere che tra Venezia e gli
altri Stati italiani la differenza è notevole. Non che
manchino a Venezia tensioni politiche ed economiche, ma non
raggiungono la virulenza che hanno altrove, e inoltre restano
coperte, nascoste dietro una calma e concordia generale. Concordia
che peraltro è reale, se misurata con le discordie altrui.
Anche le sue istituzioni sono più stabili di quelle di
Firenze o di Milano. Al Maggior Consiglio partecipano tutti i
nobili; il Senato dirige la vita politica; il Consiglio dei dieci,
sul quale più tardi si svilupperà una vera e propria
leggenda nera, è organo molto attento a tutelare gli
interessi dello Stato. Anche coloro che sono esclusi dalla politica
e dal governo mostrano solitamente un’affezione altrove sconosciuta.
In buona sostanza, Venezia è l’unica città italiana
nella quale possiamo vedere una vera sensibilità statale.
Inoltre, anche nella seconda metà del Quattrocento,
nonostante la conquista turca di Costantinopoli (1453), il dominio
veneziano nel Levante non soltanto resta saldo, ma si allarga col
controllo di Cipro.
Tra i protagonisti della nostra storia tra Quattrocento e primo
Cinquecento ecco anche i condottieri. Il sistema militare adottato
dai nostri Stati si fonda sulla condotta: un comandante ha ai suoi
ordini un gruppo di armati, che da lui dipendono sempre, in pace e
in guerra. Questi gruppi, veri Stati mobili, combattono e agiscono
per chi li assolda mediante un regolare contratto col condottiero.
Un sistema in atto da tempo, collaudato e funzionante, contro il
quale a poco valgono le accorate difese del sistema antico del
cittadino soldato, perché il problema vero è di avere
soldati professionisti, cittadini o mercenari che siano.
Il sistema delle condotte ha alcuni difetti; il primo dei quali
è la possibilità, frequentemente avveratasi, che il
condottiero abbandoni il committente e passi agli ordini di un
altro; talvolta per vero e proprio tra dimento, ma anche per lo
scadere di un contratto, che lascia libero il condottiero di
accordarsi con chiunque, anche un nemico del primo committente.
Inoltre, i condottieri possono anche ambire a un proprio dominio e
combattere per ottenerlo. Possiamo peraltro riscontrare spesso un
rapporto diretto tra solidità dello Stato e fedeltà
dei condottieri; la fedeltà mag giore è quella
ottenuta da Venezia, che può anche contare sulle
qualità militari delle famiglie nobili della sua terraferma.
La politica dell’equilibrio e gli Stati italiani vanno in crisi nel
1494, quando Carlo VIII re di Francia scende col suo esercito in
Italia per conquistare il Regno di Napoli, al quale ritiene di avere
diritto in quanto erede degli Angiò. L’attacco francese opera
sia sul mare, verso Genova, sia per terra, lungo la via della
Toscana. Firenze si spacca: Piero de’ Medici, il figlio di Lorenzo
il Magnifico morto due anni prima, abbandona la politica
filofrancese, mentre gli ottimati antimedicei la continuano. Il
risultato è tragico: Piero si reca al campo francese, dove
deve accettare condizioni umilianti, inclusa la cessione di Pisa. da
quel momento la marcia verso Napoli sembra ed è
inarrestabile. Nel gennaio 1495 Carlo VIII è a Roma, il 22
febbraio entra in Napoli. Ma proprio allora muta la fortuna, muta il
quadro di riferimento. A Napoli l’opinione pubblica diventa ostile
ai Francesi; mentre gli altri Stati italiani, a cominciare dalla
Milano di Ludovico il Moro, capiscono di essere tutti minacciati e
firmano un accordo generale, la Lega Santa, alla quale aderiscono
Venezia, Milano, Roma, la Spagna e l’Impero. Il 20 maggio Carlo VIII
lascia Napoli e col suo esercito si dirige a nord, cercando di
forzare il passo dell’Appennino a Fornovo di Taro, dove avviene una
di quelle battaglie strane, che en trambi i contendenti possono
pretendere di avere vinto. Carlo VIII, infatti, riesce a passare, ma
deve abbandonare l’artiglieria e l’equipaggiamento, mentre le truppe
spagnole e napoletane risalgono la penisola, costringendo alla resa
le guarnigioni francesi rimaste a presidiare il territorio. Nello
stesso tempo Venezia occupa alcuni porti pugliesi, sperando di
trasformarli in possessi definitivi.
Perché questo crollo improvviso degli Stati italiani,
così incapaci di affrontare la situazione?
Il problema non è certamente militare. Gli Stati italiani
hanno buoni soldati e ottimi comandanti. d’altronde gli stessi Stati
stranieri utilizzano per le loro guerre comandanti italiani.
L’artiglieria italiana è buona, quella del duca di Ferrara
forse la migliore in Europa. L’industria delle armi è
efficiente e abili e competenti sono i tecnici militari. L’arsenale
e i marinai di Venezia non hanno rivali.
Il vero problema è strettamente politico. Il quadro
transalpino è cambiato: gli Stati si sono consolidati e
mostrano ormai interesse per lo spazio italiano peninsulare. Non
solo, ma intendono anche sfruttare appieno i diritti, più o
meno validi, che accampano su varie regioni italiane. Come non
bastassero le pretese di Carlo VIII al Regno di Napoli, ecco che un
altro francese, Luigi d’orléans, accampa diritti di origine
matrimoniale
sul ducato di Milano. Anche la Spagna guarda al Regno di Napoli,
pochi decenni prima legato alla Corona d’Aragona. L’Impero da anni
conduce un’opera di penetrazione nel Nord-Est d’Italia, dal Trentino
all’Istria.
È dunque venuto meno il primo presupposto per la
sopravvivenza dello spazio italiano, del quale abbia mo detto sopra:
il disinteresse transalpino per l’Italia. Al contrario, la questione
italiana si è trasformata in questione europea; ormai la
penisola è destinata a essere il campo di battaglia delle
potenze transalpine.
Ma soprattutto si rivelano qui tutte le debolezze degli Stati
italiani. Restano vivissimi, anzi peggiorati, tutti i problemi, dei
quali abbiamo già detto. Ma c’è un altro elemento da
sottolineare: il difficile rapporto tra città dominante e
città sottomesse o collegate. Gli Stati italiani non sono
veri Stati territoriali, ma sono costituiti da una serie di rapporti
tra la città dominante e le singole città del dominio,
nelle quali i ceti che le governavano non hanno abbandonato la
speranza e il desiderio di riprendersi tutto il potere precedente e
di ritrovare la perduta autonomia. Lo Stato in Italia è
debole per la sua forma istituzionale, ancora legata alla
città-Stato, ormai in grave crisi, o a una forma principesca
che conserva molti dei difetti della cittàStato, ma dove,
soprattutto, i signori non riescono a fondare una dinastia duratura.
Gli Stati italiani si sfasciano perché non sono corpi
organici, ma la somma di una serie di corpi minori in lotta fra loro
e col centro del potere. Non a caso chi ne uscì meglio fu
Venezia, lo Stato italiano più solido.
Carlo VIII muore improvvisamente nell’aprile del 1498; al trono sale
Luigi d’orléans, Luigi XII di Francia, che senza perdere
tempo si accorda con Venezia per un’azione congiunta contro la
Milano di Ludovico il Moro. In agosto iniziano le operazioni; le
truppe francesi sono comandate da Gian Giacomo Trivulzio, abile
generale, nonché fuoruscito milanese. A metà settembre
la campagna è già finita e nessun risultato ha un
contrattacco di Ludovico il Moro nel febbraio successivo. Il
Milanese è ormai francese, tranne alcune terre passate a
Venezia, che però deve immediatamente reggere un robusto
attacco dei Turchi, che compiono scorrerie persino in Friuli.
Passa appena un anno, e nel novembre del 1500 Ferdinando II di
Aragona (detto il Cattolico) e Luigi XII rinnovano un precedente
accordo del 1497 per la spartizione del Regno di Napoli, che nel
1501 è attaccato con una grande operazione a tenaglia. da
Nord scendono i Francesi, che attraversano senza contrasto tutta la
penisola, da Sud risalgono gli Spagnoli. Federico, ultimo re
aragonese di Napoli, per il quale il comportamento del sovrano
spagnolo è un vero e proprio tradimento, preferisce
consegnarsi ai Francesi e si imbarca per la Francia.
Ma non è ancora finita. Nella primavera del 1502 Francesi e
Spagnoli incominciano a guerreggiare tra loro per il Regno di
Napoli. Il 28 aprile, a Cerignola, Consalvo di Cordoba, il Gran
Capitano, distrugge l’esercito francese; un altro esercito francese
è annientato al Garigliano il 28 dicembre, grazie al piano di
uno dei più geniali condottieri italiani: Bartolomeo
d’Alviano. Il Regno di Napoli è ormai spagnolo. Approfittando
della situazione, Venezia occupa numerose città tra Romagna
ed Emilia. ovviamente questo non piace al pontefice Giulio II,
cosicché i rapporti tra Papato e Venezia diventano sempre
più tesi. Inoltre, l’imperatore Massimiliano intende scendere
in Italia, ma per farlo deve attraversare il territorio della
Serenissima, che rifiuta il transito. Massimiliano risponde con le
armi, ma mal gliene incoglie: le truppe veneziane, comandate da
Bartolomeo d’Alviano, gli infliggono dure sconfitte, cosicché
varie terre in Friuli e in Istria passano sotto il dominio
veneziano. Purtroppo, questa manifestazione di forza dell’ultimo
Stato italiano solido, forte e indipendente, allarma tutti: Impero,
Spagna, Francia e Papato stringono un’alleanza, la Lega di Cambrai,
il cui scopo è lo smembramento dello Stato veneziano.
Venezia resiste. Il suo esercito è comandato da
Niccolò orsini conte di Pitigliano, che ha in subordine
Bartolomeo d’Alviano. Il 14 maggio 1509 presso Agnadello, in
Lombardia, vicino a Treviglio, avviene una delle battaglie decisive
della storia d’Italia. I Veneziani sono sconfitti e l’idea, che pure
era balenata soprattutto nell’Alviano, di conquistare rapidamente
Milano svanisce. Anzi, è la terraferma veneziana ad andare
quasi completamente perduta.
Venezia però reagisce e nel luglio riconquista Padova, dove
poi ci sarà un’epica difesa contro i tentativi nemici di
recuperarla. A Padova si battono anche quasi duecento patrizi
veneziani, tra i quali due figli del doge Leonardo Loredan. Lo Stato
veneziano mostra ancora una volta la sua solidità. Mentre
buona parte delle aristocrazie cittadine accoglie i vincitori,
artigiani e contadini restano fedeli a San Marco, facendosi
impiccare piuttosto che rinnegarne il nome. Situazione che si
ripeterà quasi identica alla fine del Settecento in occasione
di un’altra invasione francese, quella napoleonica.
Ben presto però i rapporti tra i collegati antiveneziani si
incrinano. Giulio II comprende che con la vittoria la Francia si
avvia a conquistare l’egemonia sulla penisola italiana e si
riavvicina a Venezia, che gli restituisce le città della
Romagna. Nell’ottobre 1511 si conclude una Lega Santissima tra il
Papato, Venezia e la Spagna, alla quale aderisce subito dopo anche
l’Inghilterra. L’11 aprile 1512, presso Ravenna, l’esercito
francese, agli ordini di Gastone di Foix, comandante tanto giovane
quanto abile, ottiene una clamorosa vittoria, ma le loro perdite –
tra le quali lo stesso Gastone di Foix – sono tali da rendere
insostenibile la situazione.
Poco meno di un anno dopo ecco un ulteriore rovesciamento di
alleanze: Francia e Venezia sono di nuovo insieme, ma sono sconfitte
entrambe. Cambiano anche i protagonisti di queste vicende. Papa
Giulio II muore nel febbraio 1513; col nome di Leone X gli succede
Giovanni de’ Medici, figlio di Lorenzo il Magnifico. Nella notte tra
il 31 dicembre 1514 e il primo gennaio 1515 muore Luigi XII di
Francia. Gli succede Francesco d’Angoulême, re di Francia come
Francesco I, che rivendica anche il titolo di duca di Milano. Si
conferma l’alleanza tra la Francia e Venezia. Il 13 e 14 settembre
1515 a Marignano (oggi Melegnano), a poca distanza da Milano, gli
Svizzeri affrontano i Francesi e i Veneziani, comandati ancora una
volta da Gian Giacomo Trivulzio e da Bartolomeo d’Alviano. Il primo
giorno sembra favorire gli Svizzeri, ma il giorno seguente il
coordinamento fra Trivulzio e Alviano funziona: la vittoria è
della coalizione franco-veneziana. Milano torna ai Francesi, mentre
continua la guerra di Venezia per il recupero della terraferma.
Meno di un anno dopo si arriva alla pace di Noyon tra Francesco I di
Francia e Carlo I d’Asburgo, nuovo re di Spagna. Nel gennaio 1517
Venezia ha sostanzialmente recuperato i suoi domini di terraferma.
Gli anni che seguono la pace di Noyon fino alla pace di Cambrai
(1529) e al ritorno definitivo dei Medici a Firenze (1530) sono
segnati dal continuare e acuirsi del contrasto tra la Francia di
Francesco I e la Spagna di Carlo d’Asburgo, eletto imperatore nel
1519. Sono più gli anni di guerra che gli anni di pace,
guerra spesso molto dura per i combattenti, ma anche e persino di
più per le popolazioni sia cittadine sia rurali.
L’Italia è quasi esclusivamente spettatrice e vittima degli
avvenimenti. La stessa Venezia, che pure è solida e ancora
potente, non riesce a influire sostanzialmente sulle vicende
italiane di quel tempo. Paradossalmente, invece, gli Italiani sono
ben presenti e attivi sulla scena politica e militare in entrambi i
campi. Italiano è Mercurino Arborio marchese di Gattinara,
gran cancelliere di Carlo V, uomo di ottima cultura e di notevoli
capacità. Gattinara è un convinto sostenitore della
tesi secondo la quale l’imperatore è signore universale,
signore dell’intero mondo. Non a caso Gattinara vorrebbe dare alle
stampe l’allora ancora inedita Monarchia di dante Alighieri, testo
fondamentale del pensiero politico filoimperiale del tardo Medioevo,
dove si sostiene appunto la tesi dell’imperatore signore universale.
Per la cura dell’edizione Gattinara si rivolge a Erasmo da
Rotterdam, ma il celebre umanista lascia cadere la cosa.
La tesi universalista sarà invece radicalmente negata dal
grande pensiero politico spagnolo del Cinquecento. «Imperator
non est dominus totius orbis» scrive Francisco de Vitoria. Ma
non lo è neppure il papa, scrive ancora Vitoria,
benché sia un frate domenicano. Affermazioni condivise dagli
altri principali scrittori di politica spagnoli fino a Francisco
Suárez alla fine del secolo: non esistono poteri universali.
In Italia, ormai, sia Francesco I sia Carlo V hanno due robuste
basi: Milano il primo, il Regno di Napoli il secondo. Ma
poiché entrambi mirano al controllo globale della penisola,
lo scontro è inevitabile. E infatti la primavera del 1521
riporta la guerra, che dopo varie vicende e molti scontri campali,
quasi sempre vittoriosi per le armate imperiali, si conclude il 25
febbraio 1525 con una terribile sconfitta francese nella battaglia
di Pavia; non soltanto muoiono in combattimento i migliori generali
di Francesco I, veterani di infinite battaglie, ma lo stesso sovrano
cade prigioniero di Carlo V. La Lombardia è nelle mani degli
Spagnoli. E questo provoca molta paura, soprattutto a Venezia e a
Roma, dove si teme che Carlo V voglia farsi signore di tutta
l’Italia. Il 14 gennaio 1526 si conclude il trattato di Madrid con
condizioni pesan tissime per la Francia, che Francesco I, dopo la
sua liberazione, rifiuterà di rispettare perché
firmate sotto costrizione.
In questa situazione è ovvio che più che di una pace
si è trattato soltanto di una tregua; infatti passa ben poco
tempo prima che si ricominci a combattere. Nella primavera del 1526
si forma una nuova coalizione contro Carlo V, la Lega di Cognac tra
la Francia, il pontefice Clemente VII, Venezia e Milano, dove domina
nuovamente Francesco Sforza.
Dall’Austria calano in Italia 12.000 lanzichenecchi tedeschi, quasi
senza contrasto da parte delle truppe della Lega. Passano il Po a
ostiglia, dove in un singolo episodio di disturbo cade Giovanni de’
Medici (Giovanni dalle Bande Nere). I lanzichenecchi vanno avanti
sfruttando quanto offre il territorio attraversato, con saccheggi e
distruzioni, animati anche dall’odio verso Roma e il Papato. Giunti
a Roma, la mettono a sacco con distruzioni umane e materiali
immense. Fu un avvenimento che impressionò profondamente i
sentimenti, lasciando un segno duraturo negli animi. Nello stesso
tempo a Firenze crollava il dominio dei Medici e tornava un regime
repubblicano.
Francesco I tenta un contrattacco inviando verso Napoli un esercito
al comando di Odet de Foix, signore di Lautrec, mentre dal mare la
città è bloccata dalla flotta di Andrea doria, il
quale però passa dalla parte di Carlo V, abbandona il blocco
di Napoli e occupa Genova. L’impresa francese di Napoli è
fallita. Si va verso la pace, che sarà conclusa a Cambrai il
5 agosto 1529 da Luisa di Savoia, madre di Francesco I, e da
Margherita d’Austria, zia di Carlo V: è la «pace delle
due dame».
Carlo V è di fatto il padrone d’Italia; i dettagli sono
definiti poco dopo in un incontro a Bologna col pontefice Clemente
VII; sostanzialmente soltanto Venezia resta libera e indipendente,
ma da comprimaria e spettatrice, non più grande protagonista.
Nel 1530, a Bologna, Clemente VII incorona imperatore Carlo V. Nello
stesso anno Firenze è espugnata dalle truppe imperiali, che
la assediano da tempo; tornano definitivamente i Medici.
Sempre nel 1530 muoiono due grandi protagonisti di quei tempi:
Mercurino Arborio di Gattinara − Carlo V non avrà mai
più un altro «gran cancelliere» − e Margherita
d’Austria. L’anno dopo muore anche Luisa di Savoia.
Un profilo biografico
Giorgio Inglese
Niccolò Machiavelli nacque a Firenze il 3 maggio 1469, da
Bernardo (dottore in legge di modesta condizione economica, m. 1500)
e Bartolomea de’ Nelli (m. 1496). Studiò grammatica, dal
1476; abaco, dal 1480; dal 1481 seguì le lezioni di
grammatica di ser Paolo Sasso da Ronciglione, nello Studio
fiorentino. Alla sua piena giovinezza dovrebbe appartenere una
lettura filosoficamente impegnativa come quella di Lucrezio,
documentata dal ms. Vaticano Rossiano 884, copia autografa e firmata
del De rerum natura (nonché dell’Eunuchus terenziano).
Anche si può ipotizzare che Machiavelli frequentasse le
lezioni di Marcello Virgilio Adriani, docente di poetica e oratoria
allo Studio dal 1494; non c’è tuttavia prova che conoscesse
il greco.
Espulsi i Medici da Firenze (9 novembre 1494) e affermatasi
l’autorità del Savonarola, Machiavelli si era avvicinato a
quei settori di aristocrazia che, dopo una fase di ambiguo consenso,
passarono all’opposizione aperta nei confronti del Frate. Tali
legami danno forse ragione del fatto che, entrato in concorso fin
dal febbraio per un minore ufficio, subito dopo il supplizio del
Frate (23 maggio 1498) Machiavelli fosse designato (28 maggio) e
nominato (19 giugno) segretario della Seconda cancelleria; dal 14
luglio, fu anche segretario dei Dieci. Può darsi che la
nomina fosse favorita anche da Marcello Virgilio, dal febbraio primo
cancelliere.
L’attività ufficiale di Machiavelli, «Segretario
fiorentino», è documentata da un’imponente mole di
scritti, per lo più corrispondenza tenuta, in nome degli
organi di governo centrali, con i funzionari e i comandanti militari
sparsi per il dominio fiorentino (una gran parte dei documenti sono
riferibili alla guerra per la riconquista di Pisa, che si era
ribellata nel 1494). Ma è anche più importante, per
quella «esperienza delle cose moderne» che viene
rivendicata nella prima pagina del Principe, il servizio diplomatico
che a Machiavelli toccò di svolgere presso le principali
corti italiane e straniere, con la qualifica di
«mandatario» del governo (non con quella politica di
«oratore»). Poteva inoltre avvenire che a Niccolò
venissero richiesti, da membri della signoria o di organi
assembleari, speciali rapporti su questioni del Dominio ovvero sui
risultati delle missioni oltre confine.
Sceso in Italia il re di Francia, Luigi XII, alla conquista di
Milano e di Napoli, i fiorentini si fecero suoi alleati (22 ottobre
1499), anche per ottenerne sostegno nella guerra contro Pisa. Dal 18
luglio 1500 al gennaio 1501 Machiavelli fu inviato, con Francesco
Della Casa, al re di Francia per richiedere all’alleato un maggiore
impegno bellico e, contemporaneamente, contenere le sue esose
richieste di tributi. La missione permise a Machiavelli di mettere
alla prova, sulla scena della grande politica internazionale, le sue
meditazioni sulla virtù degli antichi (lo si rammenta nel
cap. III del Principe).
Sulla scia dell’invasione francese, le imprese di Cesare Borgia in
Romagna acuivano l’instabilità di tutta l’Italia centrale.
Alla fine del giugno 1502, Niccolò (che nell’autunno del 1501
aveva sposato Marietta Corsini, dalla quale avrebbe avuto sette
figli) coadiuvò Francesco Soderini nell’ambasciata al Borgia,
allora impadronitosi di Urbino. In realtà, la posizione del
Duca era piuttosto fragile, come fu rivelato dalla ribellione dei
suoi luogotenenti (Vitellozzo Vitelli, Oliverotto da Fermo, Paolo
Orsini) nel settembre. In coincidenza con questa crisi, dal 5
ottobre 1502 al 21 gennaio 1503 Machiavelli svolse una seconda
legazione al Valentino, per offrirgli il sostegno di Firenze; e
poté assistere al capolavoro di astuzia e crudeltà
grazie al quale il Borgia liquidò i suoi nemici, e anche i
meno fidati tra gli amici (come Ramiro de Lorqua). Machiavelli fu
presente anche alla conclusione della parabola politica borgiana.
Dal 26 ottobre al 18 dicembre del 1503 seguì il conclave da
cui uscì eletto Giulio II (Giuliano della Rovere), e vide e
commentò lucidamente gli errori del Duca in quella, pur
difficilissima, congiuntura. L’esperienza di queste tre legazioni si
trova tutta rielaborata nel cap. VII del Principe.
Intanto, subito dopo la gravissima crisi seguita alla ribellione di
Arezzo, recuperata il 27 agosto 1502 grazie alle armi francesi, era
stato eletto Gonfaloniere perpetuo della repubblica fiorentina Piero
Soderini (20 settembre): Machiavelli si legò a lui di sincera
fedeltà. Nella discussione e nei conflitti, ben presto aspri,
fra il Gonfaloniere e gli ottimati, Machiavelli intervenne
indirettamente, attraverso la redazione di promemoria e documenti
consultivi, e in prima persona col poemetto in terzine dantesche
Compendium rerum decemnio in Italia gestarum (dato alle stampe solo
nel febbraio 1506, col titolo Decennale).
Fra le prose consultive, hanno speciale importanza le Parole da
dirle sopra la provisione del danaio, datate «marzo
1503» e composte probabilmente per lo stesso Piero Soderini,
in vista della consulta del 28 marzo (vi è fissato il
principio che «sanza forze, le città non si mantengono,
ma vengono al fine loro»); e il discorso Del modo di trattare
i popoli della Valdichiana ribellati (incompleto), databile al
luglio 1503, impostato sul parallelismo tra il savio comportamento
dei Romani contro i Latini ribelli e l’atteggiamento incerto dei
Fiorentini nei confronti di Arezzo: l’esempio romano insegna che
«i popoli ribellati si debbono o beneficare o spegnere, e che
ogni altra via sia pericolosissima». Quanto al Decennale, gli
ultimi versi («...ma sarebbe il cammin facile e corto / se voi
il tempio riaprissi a Marte») ne svelano il senso politico.
Machiavelli si era infatti dedicato, con speciale passione, al
progetto di una milizia «propria» della repubblica,
ossia formata da cittadini e sudditi, non da mercenari né da
alleati stranieri. Al progetto erano fortemente avversi coloro che
paventavano un eccessivo rafforzamento del Gonfaloniere; sì
che soltanto dopo l’ennesimo fallimento dei mercenari sotto Pisa (13
settembre) si poté dare inizio al reclutamento e
all’addestramento dei primi contingenti, che Machiavelli curò
personalmente (dicembre 1505-marzo 1506).
Dal 25 agosto al 26 ottobre 1506, Machiavelli svolse un’altra
legazione di grande rilievo, ancora presso la corte papale,
cioè al seguito di Giulio II in marcia attraverso l’Umbria e
la Romagna per ridurre all’obbedienza Perugia (dove entrò il
13 settembre) e Bologna (11 novembre).
Da un evento cruciale in quella spedizione – l’imprevista resa del
«tiranno» perugino Giampaolo Baglioni al male armato
Giulio –traggono spunto i famosi Ghiribizzi a Giovan Battista
Soderini, in cui si teorizza che solo il felice
«riscontro» fra il «modo di procedere»
dell’uomo e la «qualità dei tempi», in cui ci si
trovi a operare, dà luogo alla vittoria. La materia
dell’epistola passò in gran parte nel coevo capitolo Di
Fortuna, in terzine, indirizzato al medesimo Soderini; e di qui, con
sensibili aggiustamenti, nel cap. XXV del Principe e in Discorsi III
9.
Nel giugno 1507, Machiavelli fu designato per una missione
all’imperatore Massimiliano, ma poco dopo, per l’opposizione della
parte aristocratica, cassato e sostituito da Francesco Vettori.
Sembra che Niccolò, risentito per essere stato debolmente
difeso da Piero Soderini, scrivesse in questi tempi un capitolo in
terzine a Giovanni Folchi, intitolato appunto all’Ingratitudine
(motivi analoghi ritornano, d’altra parte, nel Canto de’ ciurmadori,
scritto per il carnevale del 1509). Solo alla fine del 1507, il
gonfaloniere riuscì a far partire per il Tirolo anche
Machiavelli, sia pure con la funzione ufficiale di «mero
cancellieri» del Vettori: era infatti troppo importante che
fosse valutata con esattezza la possibilità e la
pericolosità, per Firenze, di una discesa in Italia
dell’Imperatore in opposizione ai Francesi. Al rientro in patria,
giugno 1508, il Segretario stese un Rapporto di cose della Magna, in
cui sono appunto messi in luce i limiti politici personali di
Massimiliano e, soprattutto, il difetto strutturale, la
«disunione», che teneva la Germania in stato di
inferiorità rispetto a Francia e Spagna.
Tornato ai suoi uffici militari, Machiavelli ebbe parte notevole
nella riconquista di Pisa, fino a controfirmare la resa della
città (4 giugno 1509). Era quello, in effetti, il culmine
delle fortune della repubblica fiorentina, e di Machiavelli stesso:
da allora in avanti, la ruota avrebbe girato inesorabilmente verso
il basso.
Il 10 dicembre 1508, a Cambrai, era stata firmata una lega europea
contro Venezia. Il 14 maggio 1509 l’esercito al soldo dei Veneziani
subiva una durissima sconfitta ad Agnadello, e la Terraferma veneta
cadeva nelle mani di Francesi e Imperiali. Nel luglio, tuttavia, la
reazione di San Marco si dimostrava già forte ed efficace. In
questa situazione, nel novembre-dicembre, Machiavelli si recò
a Mantova, presso Isabella d’Este, e a Verona, come latore di un
tributo all’Imperatore, e qui poté constatare nuovamente
l’impotenza di Massimiliano, ma anche osservare la convinta adesione
dei contadini veneti alla causa di San Marco (lettera del 26
novembre). Al tempo del soggiorno veronese appartiene probabilmente
il capitolo Dell’ambizione, a Luigi Guicciardini.
Raggiunto l’obiettivo di fiaccare la potenza veneta e arrestarne
definitivamente l’espansionismo, Giulio II passò alla fase
successiva del suo disegno, rovesciando le alleanze contro i
Francesi: il 15 febbraio 1510 il Papa e Venezia firmarono una pace.
Nel giugno-ottobre Machiavelli tornò per la terza volta in
Francia; a missione conclusa, anche in questo caso, per elaborare la
sua «esperienza» scrisse un Ritratto di cose di Francia
(lasciato, imperfetto, dopo il 1512), molto ricco di dati:
soprattutto, vi è limpidamente individuata, nel solido
rapporto fra casa reale e baroni, la principale
«cagione» della potenza francese.
La posizione della repubblica fiorentina, stretta fra le pressioni
di un alleato lontano e quelle di un nemico vicino, si faceva sempre
più difficile. I primi mesi del 1512 vedono Firenze ancora
incerta, incapace di una netta scelta di campo e Machiavelli dedito
agli ultimi, disperati, preparativi di difesa (reclutamento di
fanti, organizzazione della milizia a cavallo). Dopo la terribile
battaglia di Ravenna (1° aprile 1512) e il ritiro dei Francesi
dalla Lombardia (maggio), forze militari spagnole al seguito del
cardinale Giovanni, capo della famiglia de’ Medici e legato
pontificio, entrarono in Toscana a mezzo agosto 1512. Le fanterie
fiorentine furono annientate e Prato furiosamente saccheggiata (29
agosto). Il 31 Piero Soderini dovette fuggire da Firenze. Dopo un
breve interregno, i Medici presero il potere (16 settembre).
Il 7 novembre Machiavelli fu cassato dall’ufficio; il 10, condannato
a un anno di confino entro il dominio fiorentino. Sospettato di
implicazione nella congiura repubblicana ordita da Agostino Capponi
e Pietropaolo Boscoli (con qualche complicità di due amici
suoi: Niccolò Valori e Giovanni Folchi), il 12 febbraio del
1513 fu arrestato e sottoposto al tormento della fune. Nell’angustia
del momento cercò aiuto in Giuliano de’ Medici (cui
inviò due sonetti: Io ho, Giuliano, in gamba un paio di geti
e In questa notte, pregando le Muse) e in amici potenti come Paolo e
Francesco Vettori. Mentre Capponi e Boscoli furono mandati a morte,
Machiavelli fu condannato, per quel che sembra, a pagare una
cauzione: ma dopo pochi giorni uscì senz’altro di prigione
grazie all’amnistia seguita all’elezione papale di Giovanni de’
Medici (Leone X, 11 marzo).
Post res perditas (l’espressione è machiavelliana),
Niccolò si ritirò nel podere dell’Albergaccio, a
Sant’Andrea in Percussina. E qui, mentre pur tentava di ottenere,
contando sul (tiepido) interessamento dei fratelli Vettori, qualche
incarico dai nuovi governanti, poté dedicare la parte
migliore delle sue giornate al colloquio con gli antichi e alla
composizione letteraria. Va dal 13 marzo 1513 al 31 gennaio 1515 il
carteggio con Francesco Vettori: studiate epistole
«familiari» (una, 4 dicembre 1514, è in latino),
talora dense di riflessioni politiche, talora vivacissime nella
rappresentazione di episodi e personaggi.
Si colloca, secondo alcuni, nei mesi centrali del 1513 la stesura di
quel «trattato sulle repubbliche» cui allude il cap. II
del Principe, destinato a trasfondersi nei Discorsi su Livio. Di
poco successivi (1514?) saranno il secondo Decennale (incompiuto:
narra eventi dal 1505 al 1509) e la «memoria» sul
Tradimento del Duca Valentino al Vitellozzo Vitelli, Oliverotto da
Fermo e altri.
La lettera del 10 dicembre 1513 a Francesco Vettori annuncia la
composizione di «uno opusculo de principatibus». Nel
testo a noi noto, il libro si apre con una dedica a Lorenzo di Piero
de’ Medici, cui Leone X aveva affidato la guida del potere familiare
a Firenze. Un certo riscontro positivo non dovette mancare, dato che
fra l’estate del 1514 e la primavera del 1515 Machiavelli fu
consultato da Lorenzo in materia militare; mentre Giuliano,
aspirante a una signoria su Parma, Piacenza, Modena e Reggio,
meditava, forse, di prenderlo al suo servizio (lettera di
Machiavelli a Francesco Vettori, 31 gennaio 1515). Ma nel febbraio
del 1515 dalla corte di Roma, vero centro del potere mediceo, venne
un fermo diniego a ogni riabilitazione. Si spiegano così
l’amarezza e lo sconforto che traspaiono da una lettera di
Machiavelli al nipote (figlio della sorella Primavera) Giovanni
Vernacci: «i tempi ... sono stati e sono di sorte che mi hanno
fatto sdimenticare di me medesimo» (18 agosto 1515).
Nei mesi successivi, al più tardi nel 1516, Machiavelli si
accostò pertanto al gruppo di giovani letterati che si
riuniva nei celebri Orti Oricellari, attorno a Cosimo Rucellai. Il
gruppo coltivava idee repubblicane, senza con ciò escludere
aristocratici filomedicei, come il futuro storico Filippo de’ Nerli
(a lui Machiavelli dedicò, in data imprecisabile, l’epigramma
Dell’occasione, libera traduzione da Ausonio). Al Rucellai e a
Zanobi Buondelmonti sono dedicati i Discorsi sopra la prima deca di
Tito Livio, il capolavoro di Machiavelli, grandiosa opera di
meditazione storico-politica in forma di libera glossa al testo
liviano.
La vita pubblica di Machiavelli, in questi anni, è
pressoché inesistente: si ricorda solo un viaggio a Genova
(marzo-aprile 1518), per conto di mercanti fiorentini implicati in
un fallimento. Fervida, invece, è l’attività
letteraria: dall’amaro poemetto satirico in terzine Asino
(incompiuto; è ricordato nella lettera a Lodovico Alamanni
del 17 dicembre 1517, in curiosa congiunzione con l’Orlando furioso,
da poco pubblicato); alla perfetta Favola misogina di Belfagor
arcidiavolo, spedito sulla terra per indagare sulla malizia delle
femmine; da una bella Serenata in ottave di materia ovidiana, alla
versione dell’Andria di Terenzio (una prima stesura della traduzione
è invece di datazione incerta), esperimento ed esercizio di
vivace prosa dialogica. C. Rucellai e Z. Buondelmonti (già
ricordati), con Battista della Palla e Luigi Alamanni, sono
interlocutori del protagonista Fabrizio Colonna nei dialoghi De re
militari, ambientati nel 1516 (più noti come Arte della
guerra), ma composti fra il novembre del 1519 e il settembre del
1520. In sette libri, è ribadita la necessità di
ritornare ai principi dell’arte militare romana, e soprattutto al
modello della «popolazione armata» contro l’uso moderno
dei mercenari.
Dopo la morte del duca Lorenzo (4 maggio 1519), la diffidenza della
famiglia dominante nei confronti di Machiavelli parve finalmente
attenuarsi. Grazie ai buoni uffici di Lorenzo Strozzi, fu ricevuto
dal cardinale Giulio de’ Medici (marzo 1520). All’incirca nello
stesso periodo, fu rappresentata in Firenze la Mandragola, che papa
Leone, subito dopo, volle vedere a Roma (lettera di Battista della
Palla a Machiavelli, 26 aprile 1520).
Nell’estate del 1520 (9 luglio-10 settembre), Machiavelli svolse una
missione semiufficiale a Lucca, a tutela di interessi fiorentini
minacciati dal fallimento di un certo Michele Guinigi; allora
compose un Sommario delle cose di Lucca (sull’ordinamento politico
di quella piccola repubblica) e un esercizio di prosa storiografica,
la Vita di Castruccio Castracani, dedicata a Luigi Alamanni e Z.
Buondelmonti. L’8 novembre, infine, Machiavelli fu
«condotto» dallo Studio per comporre gli annali
fiorentini e sbrigare altre incombenze politico-letterarie
(«ad componendum annalia et cronicas florentinas et alia
faciendum»): fra queste bisognerà annoverare anche il
parere costituzionale, Discursus florentinarum rerum post mortem
iunioris Laurentii Medices, novembre 1520-gennaio 1521, in cui
Machiavelli sosteneva la restaurazione di un regime repubblicano
basato su quel Consiglio Maggiore che i Medici avevano soppresso nel
1512.
Lasciata cadere una proposta d’impiego presso Prospero Colonna
(lettera di Piero Soderini a Machiavelli, Roma, 13 aprile 1521),
Machiavelli nel maggio si recò, per conto degli Otto di
Pratica, al capitolo dei Frati minori in Carpi, con la richiesta di
costituire un’autonoma ‘provincia’ francescana fiorentina. La
trasferta, in verità, è memorabile soltanto
perché in quella occasione si approfondì l’amicizia
fra Machiavelli e Francesco Guicciardini, allora governatore di
Modena, e tra i due cominciò uno scambio epistolare
straordinario per finezza psicologica e vivacità letteraria.
Mentre continuava a lavorare agli annali fiorentini, Machiavelli
intervenne ancora nel dibattito sulla nuova Costituzione da dare a
Firenze dopo la morte di Leone X (1° dicembre 1521), scrivendo
un Ricordo al cardinale Giulio e una Minuta di provvisione, in cui
riproponeva alcune ipotesi del Discursus. Ma poco dopo il dibattito
si concluse bruscamente, con la scoperta e la repressione di una
congiura antimedicea ordita da Z. Buondelmonti e Luigi Alamanni:
mentre i due principali imputati scamparono con la fuga, Luigi di
Tommaso Alamanni e Iacopo da Diacceto finirono sul patibolo (6
giugno 1522). Machiavelli tornò allora a concentrarsi sulla
composizione delle Istorie fiorentine.
Quasi a siglare la conclusione della grande opera, nel gennaio 1525
fece rappresentare a Firenze, in casa del ricco Iacopo Falconetti
(detto il Fornaciaio), la Clizia, basata sulla Casina di Plauto: la
commedia è pervasa da franca autoironia sull’innamoramento
senile per la cantante Barbara Salutati (per lei Machiavelli scrisse
almeno due madrigali, Amor, i’ sento l’alma e S’alla mia immensa
voglia, il primo dei quali fu musicato da Philippe Verdelot).
All’autunno precedente potrebbe invece risalire un bizzarro Discorso
o Dialogo sulla «lingua fiorentina» di Dante, con il
quale Niccolò prendeva posizione, in polemica con
l’«italianista» Trìssino, accanto ai difensori
del primato fiorentino, quali Lodovico Martelli.
Nel giugno del 1525, Machiavelli presentò al dedicatario
Giulio de’ Medici (che dal novembre del 1523 era papa Clemente VII)
gli otto libri delle Istorie fiorentine. Queste vanno dalla
fondazione della città al 1492, ma hanno per principale e
vero soggetto il conflitto civile in Firenze, dallo scontro fra
guelfi e ghibellini alla vittoria dei Medici; Machiavelli ripensa la
storia della sua città, straziata dalla partigianeria, a
contrasto con quella di Roma antica, dove la disunione della plebe e
del senato, come si legge nei Discorsi, fece libera e potente la
repubblica.
La situazione politica andava intanto facendosi perigliosa. Il 12
dicembre del 1524 Clemente VII aveva stretto un accordo segreto con
Francesco I, re di Francia (dal 1515); ma il 24 febbraio 1525, a
Pavia, questi era stato battuto da Carlo V (imperatore, dal 1519), e
addirittura catturato. Nel giugno-luglio, Machiavelli fu inviato dal
Papa in Romagna, presso Francesco Guicciardini, per organizzarvi una
milizia, ma il disegno fallì a causa delle aspre lotte di
fazione in corso in quella provincia.
Francesco I fu liberato il 18 marzo del 1526, ma violò subito
i patti cui era stato obbligato e promosse una lega antimperiale,
cui aderirono anche il Papa e Firenze (lega di Cognac, 22 maggio).
In clima già di guerra, Machiavelli ricevette altri modesti
incarichi militari.
I lanzichenecchi imperiali di Georg Frundsberg entrarono in Italia
all’inizio di novembre; il 25 si scontrarono con le «bande
nere» di Giovanni de’ Medici, che restò ferito a morte.
Il 30 Machiavelli fu inviato a Modena, presso il Guicciardini, per
meglio considerare «l’ordine tutto di questa matassa»;
raccolte le informazioni sulle forze in campo e constatata
l’impossibilità di qualsiasi trattativa diretta con i lanzi,
se ne tornò a Firenze (4 dicembre). Dopo la pausa invernale,
Machiavelli tornò ad affiancare il Guicciardini nei suoi
ultimi tentativi di riorganizzare le forze della lega (Parma,
Bologna, Forlì, 3 febbraio-13 aprile 1527), ma non
poté nulla contro le indecisioni e le riserve mentali degli
alleati (duca d’Urbino, veneziani), mentre il papa stesso continuava
a sperare in un accordo col nemico.
Si trattava, ormai, di difendere Roma dall’attacco dei lanzi,
passati sotto il comando del transfuga Charles de Bourbon. Con le
residue truppe della Chiesa, Guicciardini mosse verso il Lazio,
preceduto di qualche giorno da Machiavelli, incaricato di provvedere
agli alloggiamenti. Ma i lanzi furono più veloci, e Roma fu
messa a sacco il 6 maggio. Sembra che Machiavelli si trovasse a
Bracciano, o a Civitavecchia (donde scriveva al luogotenente il 22
maggio), quando, nel rovescio generale della lega, i Medici furono
scacciati da Firenze e fu restaurata la repubblica (17 maggio 1527).
Ai nuovi governanti, di estrazione savonaroliana, Machiavelli era
inviso per lungo e ininterrotto dissenso (a tacere della fama di
ateismo, che sempre lo aveva accompagnato), e non venne richiamato
in Cancelleria: nel ruolo di Segretario fu invece confermato il
mediceo Francesco Tarugi (10 giugno).
Niccolò era, in effetti, già minato nel fisico e si
spense il 21 giugno tra pochi amici: Buondelmonti, Alamanni,
Strozzi, Nardi.
Mussolini, Craxi, Berlusconi: Il Principe e lo specchio del
potere
Filippo Ceccarelli
Gli allor ne sfronda, d’accordo. Ed alle genti svela, non c’è
dubbio. Ma tralasciando per un attimo le lacrime e il sangue, che
pure non mancano in questa avvincente storia di biblio-politica,
vale innanzi tutto prendere in esame la straordinaria coincidenza
per cui nell’arco di quasi un secolo ben tre presidenti del
Consiglio, o aspiranti tali, comunque tre autentici leader italiani,
insomma Mussolini, Craxi e Berlusconi, si sono sentiti in dovere di
scrivere di loro pugno, o almeno di firmare per interposto
ghost-writer, una prefazione al Principe1. E la prima notazione che
viene in mente, prosaicamente, a un giornalista politico, è che
quegli scritti non hanno portato fortuna a nessuno dei tre. Come se
il loro avventurarsi in quel testo gli fosse stato fatale. Di più,
e anche peggio: come se l’aver ceduto alla tentazione di misurarsi
con la scienza esatta del comando mischiando storia e attualità,
passato e opportunità; come se il vezzo di presentarsi come
statisti in grado di colloquiare con la grande anima di Niccolò
Machiavelli, ecco, l’impressione che si ricava è che tali prove
abbiano comportato per ciascuno dei tre capintesta uno speciale e
personalizzatissimo castigo. Una specie di contrappasso legato
proprio a ciò che nelle loro prefazioni si erano inorgogliti di
sottolineare. Che poi, a pensarci bene, indica una concezione un po’
punitiva della storia, e ancor più del potere, specie quando questo
perde di vista la sua insostituibile funzione per automagnificarsi,
esercizio di norma eseguito schermando le proprie magagne e
cialtronerie dietro la prepotenza e la menzogna. Oppure, come in
questo caso, dietro una coltre intellettuale, per giunta invocando a
sostegno l’autorità del Segretario fiorentino. Ma senza rendersi
conto che proprio questa gli si sarebbe poi ritorta contro.
E allora, con la piena coscienza che il senno di poi è chiave
suggestiva, ma non sempre esaustiva delle umane vicende, si comincia
col dire che il Preludio al Machiavelli dell’allora quarantenne
Benito Mussolini fu composto all’inizio del 1924 come prolusione da
pronunciarsi in occasione di una laurea honoris causa conferitagli
dall’Università di Bologna2. Ma al dunque l’erogazione si rivelò
affrettata, per non dire raffazzonata, sorsero dubbi e difficoltà
in seno al corpo accademico, lo stesso Mussolini si ritrovò
impegnato nella campagna elettorale che si svolgeva in quel periodo,
probabilmente si scocciò anche dei rinvii, e alla fine – che poi in
tale genere di faccende non è mai la vera fine – rinunciò e mise
una pietra su questa benedetta laurea e sull’annessa cerimonia3.
Sennonché, all’insegna del motto giornalistico secondo il quale
«non si butta mai niente», il suo Preludio trovò pronta
ospitalità sulla rivista «Gerarchia», di cui era
animatrice Margherita Sarfatti, che lo pubblicò in forma di
articolo alla fine del mese di aprile del 1924. Da appena tre
settimane, stavolta dopo aver vinto le elezioni, il duce era
presidente del Consiglio. Anche per questo il testo venne passato ai
maggiori quotidiani, che lo ripubblicarono suscitando la dovuta
impressione e, come presto si vedrà, le opportune polemiche.
Di sicuro Mussolini conosceva e amava l’opera di Machiavelli. Di lì
a poco la Sarfatti, nella sua popolarissima biografia Dux, lo
avrebbe raffigurato, bersagliere in licenza, mentre davanti al
focolare della casa di Predappio si alternava con il padre nella
lettura ad alta voce del Principe. Per cui, anche al netto delle
rappresentazioni oleografiche, c’è da credere che quella prefazione
fosse per lui il compimento e insieme il riconoscimento di una
passione personale. Che Mussolini, oltretutto, si riprometteva
addirittura di approfondire con un’opera organica e scopertamente
didattica di cui nella mancata lectio magistralis indicava il
titolo: Vademecum per l’uomo di governo.
Altra questione, e per tanti aspetti anche più rilevante, è che
questo suo amore per Machiavelli entrò certamente nel novero degli
elementi che furono adeguatamente segnalati e celebrati, nel senso
autentico della parola, in quella che al giorno d’oggi si potrebbe
definire la costruzione e la manutenzione dell’immagine del Capo del
governo. E quindi otto anni dopo la pubblicazione del Preludio, il
numero di «Gerarchia» che lo conteneva e gli appunti
manoscritti che l’avevano preparato furono esposti quale autentico
oggetto di culto nella Mostra per il decennale della Rivoluzione
Fascista, allestita nel 1932 al Palazzo delle Esposizioni di Roma4.
«Tutto nasce da Lui – si poteva leggere su un grande cartello.
Tutti ricorrono a Lui. L’Italia si sveglia ogni mattina con
Lui». Disposta fra la Galleria dei Fasci e il Sacrario dei
Martiri come cuore palpitante e spettacolare della mostra, la Sala
T, che il genio ideativo, decorativo e anche adulatorio di Leo
Longanesi aveva dedicato alla figura del Duce, offriva in visione ai
visitatori libri, foto, lettere, telegrammi, stampe, stampelle e
altri cimeli, feticci e reliquie, tra cui fazzoletti sporchi di
sangue dopo attentati, sciarpe e decorazioni perforate da colpi di
rivoltella e perfino l’intero arredamento dello studio di Mussolini
al «Popolo d’Italia», trasportato da Milano. Verso
l’uscita, in due vetrine sormontate dalla scritta «Assai più
che gli uomini ebbero influenza su di me le cose, le stagioni, il
paesaggio», c’erano appunto i risultati dell’ardore
mussoliniano per il Principe. E come si vedrà, anche le premesse
della sua conseguente nemesi.
Ora, nello specifico, non si hanno titoli per stabilire quali
influenze e quali eventuali apporti – Roberto Michels, Giuseppe
Rensi – contribuirono alla redazione del testo. Restando
prudentemente nell’ambito di una diagnosi superficiale, del Preludio
colpisce l’energica e astuta prontezza con cui il pessimismo sulla
natura umana è posto al servizio di una pregiudiziale
giustificazione della forza, del potere personale, in pratica della
dittatura. In estrema e libera sintesi si può dire che Mussolini
approfitta di Machiavelli per mettere le mani avanti e al tempo
stesso per tenersele libere. Quanto sta per avvenire in Italia,
d’altra parte, è già esposto in quelle pagine in cui la sovranità
del popolo è ridotta al rango di «tragica burla».
Ma a parte l’approccio stilistico così sbrigativo da suonare
infastidito, e a parte l’efficace megalomania che porta l’autore a
trattare con Machiavelli da pari a pari, pure rivelando qui e là
impellenze di scoperto narcisismo (là dove scrive, ad esempio,
«ben prima del mio famoso articolo»), in un tempo
specialmente attento alle forme e alle immagini ciò che oggi più
impressiona di quel testo sono le primissime righe. Lo spunto cioè
per il quale Mussolini ha troncato gli indugi che evidentemente lo
trattenevano dall’iniziare quel testo: «Accadde che un giorno
mi fu annunciato da Imola – dalle legioni nere di Imola – il dono di
una spada con inciso il motto di Machiavelli “Cum parole non si
mantengono li Stati”».
Ora, ha senz’altro ragione Riccardo Fubini notando che la citazione
sulla lama è «alquanto maccheronica»5. Ma si rimane
comunque sgomenti nel pensare che quell’esordio a filo di spada
stava per accompagnare un passaggio d’epoca. Qualcosa di terribile
che tiene assieme sangue e potere, vittime e assassini, proprio nel
nome di Machiavelli.
È davvero una questione di giorni. il 6 aprile si svolgono le
elezioni politiche: vince il «listone». il 28, sempre di
aprile, i maggiori quotidiani danno conto che il capo del nuovo
governo ha pubblicato il Preludio al Machiavelli. un mese dopo, il
30 maggio, a Montecitorio il leader socialista riformista Giacomo
Matteotti pronuncia il suo fatidico discorso nel quale chiede di
annullare le elezioni. il 10 giugno è rapito e ucciso. il 26 giugno
i parlamentari dell’opposizione si ritirano nella Sala della Lupa
dando inizio all’aventino.
Ma nei primi giorni di luglio, quando non si è ancora ritrovato il
cadavere del capo socialista (accadrà il 16 agosto), su una rivista
inglese, «english life», esce postumo l’ultimo scritto
di Matteotti. ed è proprio una risposta allo scritto del Duce,
tanto da essere intitolato: Machiavelli, Mussolini and fascism. Sono
due pagine precedute da una significativa nota in corsivo:
«Dopo aver scritto questo articolo, il signor Matteotti fu
rapito da alcuni fascisti e ancora non si sa quale sorte gli sia
toccata»6.
Presente in originale e in traduzione, sia pure a mano, negli atti
della prima istruttoria, è grazie alla cortese generosità del
professor Mauro Canali che si può prendere in considerazione questo
articolo che finora la storiografia aveva trattato solo di sfuggita.
E rispetto al piglio di Mussolini, al suo andare subito al sodo e
senza complessi, si resta subito colpiti dal modo riflessivo e
sorvegliato con cui Matteotti procede nella sua critica al Preludio
e all’implicita lettura cui sottopone l’opera di Machiavelli. in
buona sostanza egli accusa lucidamente il capo del fascismo di porsi
al riparo di Machiavelli per meglio esercitare dispotismo e
immoralità. Ridimensiona quindi l’efficacia della forza; sostiene
che i profeti armati possono sì conquistare il potere, ma tale
conquista non è permanente. Scrive Matteotti, poco prima di andare
incontro al suo destino: «Mussolini stesso con grande energia
ha creato una forma di governo sorretta dalla spada, dalla violenza
e dal pervertimento politico. il vigore delle sue vedute, la potenza
dei suoi sradicati seguaci hanno soppresso la democrazia in
italia». Ma quest’ultima, ne è sicuro il futuro martire,
«risorgerà».
Riepiloga meticolosamente il capo socialista, e con lunghe
citazioni, le tesi del Preludio per rovesciarle addosso al suo
potente autore. Richiama, ad esempio, i capp. iX e XViii del
Principe, il favore del popolo e l’osservanza delle leggi, con
l’intento di sottolineare che Mussolini è in realtà impotente
prigioniero di forze da lui stesso scatenate: «avrebbe
Machiavelli permesso una situazione simile? non di certo. egli ben
sapeva che uno Stato deve perire se dei bravacci privilegiati
possono commettere crimini senza restrizioni di sorta». nel
chiudere, non senza aver di nuovo ribadito il convincimento che la
democrazia «si risveglierà» dal sonno della
«pigrizia morale», Matteotti sembra quasi offrire al
Duce quella che, pur nell’intento polemico, finisce per assomigliare
a una specie di soluzione politica o via d’uscita: anziché
dedicarsi alle «crude effusioni» su Machiavelli, pensi a
«epurare», «purificare» (to cleansing) il
fascismo, «la cui pubblica azione tende a infamare l’italia di
fronte al mondo intero».
E nel rileggere queste parole sapendo in anticipo ciò che attende
chi le ha messe nero su bianco, ma anche ripensando alla fine
ingloriosa del regime e a quella spaventosissima che toccherà in
sorte al suo capo, di nuovo acquista un terribile valore di verità
la scritta istoriata sulla lama della spada delle nere legioni.
Con le parole non si mantengono gli Stati. anche perché a un certo
punto il popolo, quest’entità così svalutata da Mussolini, si
impossessa di quella spada e trova il modo di levarsi di torno chi
l’ha portato alla fame e alla disfatta.
Dopo di che, con qualche ragionevole superficialità, si può dire
che per tanti anni il Principe uscì dall’orizzonte funzionale della
politica. all’indomani del fascismo era salita al comando una classe
dirigente di cattolici che di Machiavelli e della sua pedagogia
diffidavano istintivamente, come sentendovi puzza di zolfo e/o di
bruciato, comunque un supplemento demoniaco che andava ad
aggiungersi ai normali guai che comportava il potere.
Vero è che i democristiani disponevano di altri canoni per dare
voce alle loro ombre e coltivare quella specifica malizia che si
ispirava semmai a modelli gesuitici e curiali. incardinati e al
tempo stesso lacerati e talvolta addirittura giustificati dalla
coscienza del peccato originale, gli uomini dello scudo crociato
esercitarono per quasi mezzo secolo una forma di realismo a tratti
anche spietato di cui fanno fede celebri formule andreottiane quali
«il potere logora chi non ce l’ha» o «a pensar
male si fa peccato, ma ci si azzecca sempre» (quest’ultima,
non per nulla, presa in prestito dalla sconsolata sapienza del
cardinal Marchetti Selvaggiani).
E tuttavia questa particolare variante di cinismo, non a caso
costantemente qualificata dai reverendi padri della «Civiltà
cattolica» come «machiavellismo pratico», doveva
essere per sua natura incompleta e intermittente, non potendo cioè
interamente e permanentemente condizionare le sorti della DC. Quando
ciò avvenne, ossia quando la più insensibile spudoratezza prevalse
su qualsiasi ispirazione democratica e cristiana, la DC cessò
semplicemente di esistere. e a riprova vale qui riportare ciò che
disse nel 1994 Giuseppe Dossetti, tornato brevemente a far politica
per difendere la Costituzione dopo l’esperienza nel deserto, della
terra Santa e dei monasteri: «noi in queste ore siamo
discepoli non certo di Cristo, ma neppure di Platone o di Kant.
Siamo tutti piuttosto figli di Machiavelli»7.
Nel frattempo si era quasi bruciata l’esperienza di bettino Craxi,
il secondo illustre prefatore del Principe, un altro della triade di
personalità le cui avventure politiche, partite da Milano,
raggiungono il culmine e vengono degnamente celebrate a Roma, ma
sempre nel capoluogo lombardo sono destinate inesorabilmente a
ritornare, anche in questo percorso secondo una comune fatalità.
Personaggio di passaggio e di cerniera assai più di quanto potesse
sembrare ai suoi tempi, che furono gli anni ottanta, Craxi era un
leader moderno nel senso che certamente sapeva conquistare
l’attenzione coltivando l’arte di sorprendere e in qualche modo
anche quella, se necessario, di fare scandalo. Specie presso gli
intellettuali di sinistra, che lui riteneva in massima parte
influenzati dalla cultura del Partito comunista.
Dotato di un forte temperamento, nel corso della sua presidenza
aveva destato accuse, ironie e punzecchiature per certi suoi
atteggiamenti bruschi e arroganti che nell’immaginario italiano
ridestavano un tratto vagamente mussoliniano. il principe dei
vignettisti, ad esempio, Giorgio Forattini, lo raffigurava con la
mascella pronunciata e gli stivali. all’inizio, sinceramente offeso
nei suoi sentimenti familiari, che erano certamente antifascisti,
Craxi provò a protestare ribellandosi a quella identificazione. in
seguito, da più parti si ebbe la sensazione che non gl’importasse
poi tanto; e infine che il paragone con la ‘buon’anima’, come lui
stesso aveva preso a parlare di Mussolini, a suo modo addirittura lo
solleticasse.
nell’estate del 1988, dopo quattro anni passati con un certo
successo a Palazzo Chigi, il leader del PSi ebbe l’occasione di
épater les communistes e non se la fece sfuggire. a fornirgliela fu
il nuovo direttore di «epoca!», alberto Statera, che nel
rilanciare il settimanale della Mondadori aveva aggiunto un punto
esclamativo alla testata e messo in piedi una collana di classici
della politica, «i libri del punto esclamativo»,
appunto, da accludere al giornale; e come prima uscita propose al
segretario del PSi di introdurre il Principe.
L’idea era quella di ripetere la sorpresa culturale, l’impatto
politico e il successo editoriale che proprio dieci anni prima aveva
suscitato un piccolo saggio che lo stesso Craxi, dal 1976 alla guida
del partito, aveva scritto, o meglio si era fatto scrivere a suo
nome da uno studioso a lui vicino, Luciano Pellicani, a proposito di
Pierre-Joseph Proudhon e del socialismo utopico8. Con quel testo,
pubblicato sull’«espresso» nell’estate del 1978 con il
titolo Il Vangelo socialista, il nuovo leader socialista aveva
«tagliato la barba al Profeta»: così, alludendo a Marx,
aveva sintetizzato eugenio Scalfari.
Ma per tornare al Principe, e proprio alla luce di quel precedente,
occorre chiarire che Craxi firmò sì la prefazione richiestagli da
Statera9. Ma anche in quel caso non la scrisse lui, e anzi nel caso
specifico nemmeno una correzione volle apportare a quel testo, pur
assumendosene per intero la titolarità, inclusi vantaggi e
svantaggi.
Non è, rispetto al Preludio di Mussolini, una differenza da poco.
Ma i tempi erano mutati, la vocazione politica si era parecchio
professionalizzata e anche in italia i maggiori leader cominciavano
a disporre di ghostwriter, in particolare il segretario del garofano
che proprio in quegli anni aveva preso a siglare, anche se non
sempre a scrivere di suo pugno, dei pungenti corsivi pubblicati
sull’«avanti!» con la sigla Gdt, che stava per
«Ghino di tacco», uno pseudonimo ispiratogli due anni
prima da eugenio Scalfari, che a sua volta aveva paragonato Craxi a
un leggendario brigante – poi si disse anche gentiluomo – comunque
vissuto nella toscana del XIII secolo.
Ebbene, l’uomo che materialmente stese la prefazione al Principe
firmata da Bettino Craxi per i libri di «epoca!» era il
giornalista e a lungo direttore dell’«avanti!», Franco
Gerardi, cui si devono molti dei discorsi pronunciati da Craxi negli
anni di Palazzo Chigi, nonché la maggior parte dei corsivi usciti
sul quotidiano del PSi a firma Gdt.
Ormai a un quarto di secolo da quell’impegno, nel riconoscere per
iscritto di essere stato «effettivamente l’autore di quel non
felice articolo», Gerardi ha anche avuto la gentilezza di
esporre in sintesi i termini della sua collaborazione: «il mio
rapporto con Craxi era semplicissimo: mai nessuna consultazione. Io
conoscevo i suoi pensieri e scrivevo i suoi discorsi pubblici
(quelli parlamentari li curava lui stesso) cominciando con “illustri
signori” e finendo con gli auguri; e nove volte su dieci Craxi non
aggiungeva o toglieva nulla»10.
In quel frangente, come si può ricostruire grazie ai documenti
messi a disposizione on line dalla Fondazione Craxi, alla fine di
agosto del 1988 Gerardi consegnò nove fogli dattiloscritti, tutti
in stampatello, al capo della segreteria del PSi, Gennaro acquaviva.
Questi si limitò a correggere qualche parola, a segnalare qualche
maiuscola, a mettere qualche virgola e a spedire il tutto via fax a
hammamet, dove il leader del garofano si trovava in vacanza, per
ottenere il definitivo via libera. Craxi lasciò il testo così
com’era partito dai suoi uffici di via del Corso11. Venne anticipato
alle agenzie e ai quotidiani alla metà di settembre del 1988.
Brillante, nella sua più giornalistica accezione, risulta ancora
oggi l’esordio o attacco che dir si voglia: «narrano le
cronache del tempo che il Duca Lorenzo gradì molto di più il dono
di una coppia di fini segugi che non l’omaggio del Principe che il
Machiavelli aveva voluto dedicargli». Mentre l’immediato
prosieguo scorreva piuttosto scolastico; così come il finale della
prefazione si distingueva per la volontà di piegarla in un senso
genericamente riformista, ma con il tono che di norma si usa per
concludere comizi e relazioni: «il nuovo Principe, il Principe
definitivo siamo tutti noi [...], in una continua e sempre più
matura dialettica che non risparmierà crisi, emozioni, battute
d’arresto [...], ma che puntualmente chiuderà i suoi cicli con
nuovi passi avanti sulla via dell’uguaglianza, della giustizia e
della pace».
L’edificante conclusione, insieme alla modestia delle argomentazioni
per così dire scientifiche, suscitarono il sarcasmo di uno storico
come Luigi Firpo, che terminò la sua nota sulla
«Stampa» con una sorta di invocazione contro l’uso del
Machiavelli da parte dei politici: «Lasciate in pace le
scienze e la storia. Per i comizi bastano le belle parole fiorite,
sennò c’è il rischio di sentire sghignazzare tra la folla il
“Machia”, beffardo»12.
E tuttavia il cuore politico e il pretesto polemico dell’operazione
risiedevano in un attacco alla lettura gramsciana dell’opera di
Machiavelli, secondo cui il moderno Principe si identificava nel
partito. in tale impostazione che, come ricorda Gerardi con qualche
riserva, «mi valse una accusa di asineria da parte
dell’“Unità”», giocavano soprattutto, per non dire
esclusivamente, motivi di attualità politica: «erano i tempi
dell’orgoglio socialista – spiega oggi lo pseudo Craxi di allora – e
ogni occasione era buona per sottolineare le differenze con il
comunismo. Così sottolineai, troppo, quel fine che giustifica i
mezzi, quel machiavellismo deteriore che poi era la versione
italiana del leninismo del PCi, lasciando in ombra la grande figura
di Machiavelli, il fondatore dello Stato moderno».
Si può aggiungere che il PCI reagì a quell’articolo esattamente
come ci si poteva aspettare, e cioè con sdegnosa alterigia
letteraria di scuola togliattiana, rilevando il professor Luciano
Canfora che nel suo scritto il leader socialista se «l’era
cavata da par suo addottrinandoci per il lungo e per il largo, e
spesso ingarbugliando le carte»13. Gli replicò, come al
solito per le rime, ugo intini. Ma già alla fine di settembre la
polemica era, come si dice in redazione, «morta». Ma
sepolta no, o almeno: non ancora e non del tutto. E a tale riguardo,
sia pure con la dovuta cautela, tocca sfiorare ferite recenti. Se
non altro perché, fatta salva la sua onesta autocritica sul
Machiavelli forzatamente arruolato in chiave anticomunista, il vero
autore di quella prefazione, Gerardi, nella sua cortese nota, fa
notare di essere stato al dunque «buon profeta, perché
qualche anno dopo fu con vero furore comunista che il PCi di
occhetto e D’alema distrusse il partito di Craxi».
Ci si astiene ovviamente dall’individuazione dei colpevoli, e non
solo perché nel caso specifico sembra di poterne identificare anche
altri, ma soprattutto perché la natura insegna che quando i poteri
devono finire, finiscono.
Ma certo c’è un brano, di questa seconda prefazione al Principe, o
forse appena un frammento, che fa riflettere – e di nuovo quasi in
termini di chiaroveggenza. Là dove si legge: «L’errore è in
quel machiavellismo di comodo che ha preteso di costruire un diritto
personale e privato per i potenti e uno diverso per la gente, uno
per chi governa e un altro per chi è governato».
e viene il dubbio che sia esattamente in questa procurata
disparità, nell’inconsapevole ma confortevole arroganza del
privilegio, nell’impossibilità di distinguere ormai il pubblico dal
privato, che il potere di Craxi, al dunque, inciampò rovinando
nella polvere e nel fango. e così come la spada evocata nel
Preludio di Mussolini chiama in causa il sangue versato, nel caso
del leader del garofano grondano lacrime. Lacrime di paura, di
dolore, di rabbia; lacrime sparse attorno alla fuga o all’esilio che
sia. Lacrime artistiche, addirittura, che nelle ore morte di
hammamet questo ex potente ormai ammalato e caduto in disgrazia
prese a far colare su vasi di terracotta per una serie che lui
stesso battezzò «L’italia che piange». Le lacrime,
comunque, per la fine cui va incontro la vicenda non solo di
Bettino Craxi, ma di un glorioso partito. E però, o forse anche a
causa di questi eventi, la leggenda politica di Machiavelli pare
destinata a continuare con i suoi imprevedibili rilanci e le sue
sintomatiche coincidenze.
Accade quindi che proprio nei giorni in cui, dicembre 1992, il
leader socialista ricevette il primo avviso di garanzia dal pool di
Mani Pulite, si fa avanti un nuovo prefatore. Come terza uscita
della specialissima collana denominata «La biblioteca
dell’utopia», dopo erasmo e tommaso Moro, la Silvio Berlusconi
editore licenzia infatti una pregevole edizione del Principe
annotato da Napoleone, addirittura, preceduto da una «proposta
di lettura» di Vittore Branca, ma soprattutto con la
prefazione del Signore di Arcore, inventore Silvio Berlusconi nel
corso della campagna elettorale del 1994 che lo vide fondatore e
leader del partito Forza italia, della televisione commerciale e di
tante altre significanti iniziative14. Anche questo piccolo scritto
verrà sommariamente celebrato diversi anni dopo, nel 2001, quando
prima delle elezioni milioni di italiani si vedono arrivare per
posta un opuscolo illustrato dai contenuti certamente apologetici
intitolato Una storia italiana. nel capitolo I piccoli segreti di
Silvio, si può leggere: «nelle sue biblioteche – le
biblioteche del più importante editore italiano, l’editore della
Mondadori, della einaudi, della Sperling e Kupfer e dell’electa –
accanto a migliaia di volumi, trovano un posto particolare i libri
di cui ha personalmente curato l’edizione, tra cui Il Principe di
niccolò Machiavelli con le annotazioni di napoleone»15.
In realtà, come spiegato da Ermanno Paccagnini in una interessante
nota in fondo al volume, i Commentaires napoleonici sono un
raffinato falso, diffuso a Parigi dall’abbé aimé Guillon de
Montléon nel 1816. Ma già l’intento di rinforzare Machiavelli con
Bonaparte, per giunta attraverso un gioco di specchi distorti, e
soprattutto l’eccezionale cura riservata all’edizione posta in
stampa «su carta velata avorio della cartiera Sircas,
espressamente fabbricata per questa tiratura», dicono che il
cuore e il motore dell’iniziativa, come di tutti gli altri libri
della collana dedicata ai classici dell’utopia, è da cercare in
Marcello Dell’Utri, esperto bibliofilo e allora alla guida di
Publitalia. È al futuro senatore, nonché animatore della
biblioteca di Via Senato, che si rivolge Enrico Cuccia, grande
vecchio del potere finanziario, anche lui appassionato di libri e
lettore di Machiavelli, per prenotarne due copie. Dell’utri va
personalmente a consegnargliele. Così, durante l’incontro, il
banchiere apre la cassaforte e con l’orgogliosa complicità del
collezionista gli mostra la rarissima edizione del Principe che a
suo tempo ha realizzato insieme con Hans Mardersteig, celeberrimo
stampatore a Verona16.
La presentazione di Berlusconi non occupa più di tre pagine e
mezzo, in corsivo, e così inizia: «Sono lieto di presentare
agli amici più cari, nella ricorrenza delle festività di fine
1992, questa nuova edizione [...] per accompagnare i nostri messaggi
d’amicizia e d’augurio». Da subito si comprende che il volume
è pensato come uno speciale omaggio il cui valore risiede, secondo
codici ampiamente affermatisi nel marketing, nell’implicita scelta
del target cui il regalo è destinato. non solo quindi gli
«amici più cari», ma più precisamente quelli giudicati
all’altezza del dono. Di qui le qualità costitutive del medesimo
dono, il quale si connota per essere assai prestigioso nella sua
esclusiva confezione e al tempo stesso, per via dello
pseudo-napoleone, anche sorprendente nei contenuti, e in questo
combinato disposto pare di scorgere un anticipo del berlusconismo
applicato a una politica che sempre più va affermandosi con altri e
nuovi mezzi. Quanto al tema del potere, posto che le finalità
pedagogiche dell’opera del Machiavelli potessero essere apprezzate
dai destinatari, che in massima parte secondo Dell’Utri erano
inserzionisti pubblicitari e clienti Publitalia, viene da pensare
che l’offerta si proponesse anche di solleticare i più acuti e
astuti con una specie di chiamata alle armi.
Del resto era il tempo in cui, sollecitato a sintetizzare la sua
vocazione, Berlusconi rispondeva di sentirsi «un suscitatore
di entusiasmo», e pure in questo senso si può accogliere lo
squillante congedo con cui l’ambizioso lettore, prefatore e donatore
concludeva il suo scritto: «buona lettura!». Passano 14
mesi e nel febbraio del 1994, in singolare coincidenza con la
campagna elettorale conseguente alla discesa in campo, la Silvio
Berlusconi editore ripropone il volume in un’edizione economica
(24.000 lire) e con una tiratura più ampia. Anche questo secondo
Principe di ordine napoleonico-berlusconiano si configura come un
perfetto prodotto dei tempi: una sorta di compromesso di sontuosa
ricercatezza e rivendicata cultura aziendale, con tanto di pretese
araldiche dispiegate nel logo della Fininvest che compare sulla
copertina17.
La prefazione del Cavaliere è la stessa dell’edizione extralusso.
Ma a seguire se ne aggiunge un’altra, due pagine e mezzo, sempre in
corsivo, invero molto specialistiche a proposito del falsario
napoleonico; e davvero molto attente agli aspetti filologici del
Principe; e infine forse troppo severe nei confronti dei contenuti
etici dell’opera di Machiavelli, su cui già Berlusconi aveva
espresso delle riserve: «Queste pagine, pur geniali e
affascinanti, mi sono parse talora troppo lucide e razionali, forse
poco umane».
In questa seconda presentazione, con l’autorevole sussidio di un
cardinale, di un diplomatico contemporaneo del Machiavelli e di un
padre gesuita che lo giudica «dannato autore», il futuro
presidente del Consiglio insiste sulla cattiva considerazione
dell’opera da lui stesso riedita e già inviata come regalo di
natale.
Come se temesse, in campagna elettorale, di presentarsi al pubblico
come un alfiere della spregiudicatezza prestando il fianco a qualche
polemica. Ma tant’è.
A domanda diretta e doverosa, Marcello Dell’Utri ci tiene a chiarire
– in qualità di «testimone oculare e auricolare», come
specificato nel corso di un cortese contatto telefonico – che a
scrivere la prefazione del dicembre 1992 fu effettivamente
Berlusconi. Con il debito scetticismo nei confronti delle prove
letterarie degli uomini ricchi e potenti, non ci sarebbero poi
troppe ragioni per dubitarne.
Se il Preludio di Mussolini colpisce per l’energica, sbrigativa
intensità con cui il duce si prenotava un posto nella storia, e il
testo giornalistico di Craxi-Gerardi si fa notare per la scoperta
funzione di attacco politico al PCi, le paginette di berlusconi
paiono poco più che di circostanza. anche se a loro modo sono
rivelatrici.
Come i suoi predecessori, dopo un minimo di inquadramento storico,
il Cavaliere giudica l’opera di Machiavelli valida «anche ai
nostri giorni», ma ne estende l’utilità a «tutti coloro
che gestiscono posizioni di responsabilità», quindi non solo
ai politici, e lui allora non lo era. Ciò detto, sarebbe temerario
azzardare l’ipotesi che nel menzionare in conclusione l’auspicio che
«dopo tanto tempo l’italia vegga uno suo redentore», il
futuro presidente stesse pensando a se stesso e a quell’impegnativo
ruolo. Ma tra i molti suggerimenti che il Machiavelli trasmette, e
che Berlusconi accoglie e raccomanda, oltre a quello di mirare
sempre in alto «come gli arceri prudenti» e a
quell’altro di saper essere a seconda dei casi leone e volpe, ce
n’è un paio che egli doveva sentire particolarmente vicini al suo
modo di essere e che riguardano la fama e la considerazione degli
altri. In pratica quel complesso di segni, indizi, atteggiamenti e
comportamenti che egli sintetizza nella necessità di «curare
con la massima attenzione la propria immagine, perché – spiega
citando Machiavelli – “ognuno vede quello che tu pari, pochi sentono
quello che tu se”». Il motto ricorre, sopra lo stemma
aziendale, anche nel segnalibro accluso all’edizione extralusso. e
seppure è vano tirare bilanci sull’attualità, e tanto più in
questa sede, è anche vero che tra gloria e successi, sconfitte e
processi, fallimenti e scandali di ogni variopinto genere, la
vicenda berlusconiana sembra essersi accesa e consumata proprio
intorno alla fama e all’altrui considerazione, per non dire intorno
all’attenta, ma anche alla mancata, cura dell’immagine
dell’imprenditore, del leader, del presidente, oltre che dell’uomo.
Tutto è avvenuto, è vero, e seguita ad avvenire senza che grondino
lacrime e sangue, come nel caso di Craxi e di Mussolini. Ma al
giorno d’oggi è come se il potere se ne andasse a picco o in fumo o
alla malora in un clima perturbante di ridanciana euforia, come
dinanzi a un cataclisma lungamente annunciato da cafoni, buffoni,
luminarie, coriandoli e cenere. E ancora una volta il Principe si
conferma un testo radioattivo, che poi sarebbe un modo scombinato
per dire che tutto alla fine si rende e un po’ anche si paga:
«Perché si trova questo nell’ordine delle cose, che mai non
si cerca fuggire uno inconveniente che non si incorra in uno
altro», ed è una massima che si è cercata nelle tre illustri
prefazioni, ma invano18.
1 Le prefazioni al Principe di Mussolini, Craxi e Berlusconi sono
state pubblicate in Testi e pretesti. Tre presentazioni del
«Principe», in «Il Ponte», LIV, 1998, 5, con
introduzione di Paolo Sylos Labini e postfazione di Riccardo Fubini.
2 R. DE FELICE, Mussolini il fascista, Torino, Einaudi, 1966, pp.
465-466. E più in generale L. MITAROTONDO, Il Principe fra il
«Preludio» di Mussolini e le letture del Ventennio, in
Machiavelli nella storiografia e nel pensiero politico del XX
secolo, Atti del Convegno (Milano, 16-17 maggio 2003), a cura di M.
Bassani e C. Vivanti, Milano, Giuffrè, 2006, pp. 59-78.
3 Sulla laurea di Mussolini all’Università di Bologna: D. MARCEDDU,
Il Duce dottore senza laurea, in «Avvenire», 28 ottobre
2010 e ID., Quando Mussolini, per paura di Matteotti, rifiutò la
laurea honoris causa a Bologna, in «Il Fatto
quotidiano», 29 gennaio 2012.
4 Catalogo della Mostra della Rivoluzione Fascista, rist. anast.,
Milano, Edizioni del Nuovo Candido, 1982, p. 226.
5 R. Fubini, Di Machiavelli e di tre machiavellici dei nostri tempi,
in Testi e pretesti, cit., pp. 63-67. 6 G. Matteotti, Machiavelli,
Mussolini and Fascism, in «english life», luglio 1924,
pp. 87 e sgg. L’articolo di Matteotti (tradotto a mano in 7 fogli)
è stato analizzato in M. Canali, Il delitto Matteotti, bologna, il
Mulino, 1997.
7 M. Politi, Il monito di Dossetti, «Siamo tutti figli di
Machiavelli», in «la Repubblica», 30 giugno 1995.
8 b. Craxi, Il vangelo socialista, in «l’espresso», 27
agosto 1978. Sul ruolo di Luciano Pellicani nella stesura del saggio
e sulla reazione di Eugenio Scalfari, vedi S. Colarizi, M.
Gervasoni, La cruna dell’ago, Roma-bari, Laterza, 2011, pp. 71-72.
9 La prefazione di bettino Craxi al Principe per la collana «i
libri del punto esclamativo» di Epoca! è riportata anche in
B. Craxi, Un’onda lunga. Articoli, interviste e discorsi, gennaio -
dicembre 1988, introduzione di ugo intini, Roma, argomenti
socialisti, 1989.
10 e-mail di Franco Gerardi a Filippo Ceccarelli, 7 novembre 2012.
11 Fondazione Craxi, catalogo on line, Sulla figura del principe, a
partire dal libro di Machiavelli, 27/08/1988. Fondo: bettino Craxi -
Livello: i. attività di partito/2. Vita interna del PSi/4.
elaborazione della linea politica/2. Contributi di dirigenti
politici e consiglieri.
12 L. Firpo, Machiavelli ghigna beffardo, in «La
Stampa», 18 settembre 1988.
13 L. Canfora, Il liberto comprò undici schiavi istruiti, in
«l’unità», 12 settembre 1988. La settimana seguente,
sul supplemento satirico «tango» Michele Serra
intervenne sull’intervento di bettino Craxi pubblicando: Gli appunti
originali dai quali un pool di esperti guidato da Gennaro Acquaviva
e Sabina Ciuffini ha elaborato la prefazione del
«Principe» che tanto ha fatto discutere, in
«l’unità», 19 settembre 1988.
14 Il Principe di Niccolò Machiavelli annotato da Napoleone
Buonaparte, una proposta di lettura per Il Principe di Vittore
branca, nota ai Commentaires di napoleone di ermanno Paccagnini,
Milano, Silvio berlusconi editore, 1992.
15 Una storia italiana, Coordinamento Redazionale di Sandro bondi,
p. 27.
16 A. Torno, Il suo breviario era «Principe» di
Machiavelli, in «Corriere della Sera», 25 giugno 2000.
17 Il Principe di Niccolò Machiavelli annotato da Napoleone
Buonaparte, cit., nuova ed., 1994.
18 Tratta dal cap. XXI, la frase di Machiavelli compare come esergo
in P. MeLoGRani, La modernità e i suoi nemici, Milano, Mondadori,
1996. a Melograni si deve un’utile versione in lingua moderna (con
testo originale a fronte) del Principe, Milano, Rizzoli, 1991.
L’attualità del Principe
Maurizio Viroli
Gli studiosi, soprattutto in italia, hanno identificato la durevole
attualità del Principe nella scoperta dell’«autonomia
della politica», vale a dire il principio che l’azione
politica in generale, e quella volta a fondare nuovi ordini statali
in particolare, non può essere giudicata secondo i criteri
etici che valgono per le azioni umane in generale. Questa tesi
è stata formulata e resa celebre da benedetto Croce:
«ed è risaputo che il Machiavelli scopre la
necessità e l’autonomia della politica, della politica che
è di là, o piuttosto di qua, dal bene e dal male
morale, che ha le sue leggi a cui è vano ribellarsi, che non
si può esorcizzare e cacciare dal mondo con l’acqua
benedetta. È questo il concetto che circola in tutta l’opera
sua, e che, quantunque non vi sia formulato con quella esattezza
didascalica e scolastica che sovente si scambia per filosofia, e
quantunque anche vi si presenti talvolta conturbato da idoli
fantastici, da figure che oscillano tra la virtù politica e
la scelleraggine per ambizione di potere, è da dire nondimeno
concetto profondamente filosofico, e rappresenta la vera e propria
fondazione di una filosofia della politica»1. Sulle orme di
Croce, anche Federico Chabod, uno degli interpreti più
autorevoli di Machiavelli, ha ribadito la medesima idea:
«Mentre invece cominciava a porsi, come centro della vita
postuma del Machiavelli, quella che era la grande affermazione sua
di pensatore, e rappresenta il vero e profondo contributo ch’egli
arrecava nella storia del pensiero umano: il nettissimo
riconoscimento, cioè, dell’autonomia e della necessità
della politica [...]. Con ciò Machiavelli, buttando a mare la
unità medievale, diveniva uno degli iniziatori dello spirito
moderno»2.
Nonostante l’autorevolezza dei suoi sostenitori, il testo del
Principe non offre sostegni sufficienti a questa interpretazione. i
passi di Machiavelli sui quali poggia la detta dottrina provengono,
è risaputo, soprattutto dai capp. XV, XVi, XVii e XViii che
formano una sezione ben identificabile dell’opera, al pari dei capp.
Xii, Xiii e XiV che vertono sul problema delle armi, e dei capp. Vi,
Vii e Viii, dedicati rispettivamente ai principati nuovi che si
acquistano con le armi proprie e con la virtù, ai principati
nuovi che si acquistano con le armi di altri e la fortuna, ai
principati nuovi acquistati con le scelleratezze. orbene, ed
è davvero singolare che gli studiosi che hanno attribuito a
Machiavelli l’idea dell’autonomia della politica non lo abbiano
rilevato, il tema generale dei capitoli in questione (XV-XViii)
è: Di quelle cose che li omini e spezialmente i principi sono
laudati o biasimati. Machiavelli illustra qui in che modo tutti gli
uomini e in special modo i principi devono agire se vogliono
ottenere lode ed evitare biasimo: l’esatto opposto del principio
dell’autonomia della politica, secondo il quale dovrebbero esistere
regole etiche per giudicare l’agire degli uomini in generale e
regole speciali per i principi. non c’è nulla nel testo che
autorizzi a ritenere che Machiavelli pensasse che esistono regole
per giudicare gli uomini e regole per giudicare i principi. La
conclusione stessa dell’intera discussione, in chiusura del cap.
XViii, è eloquente: «e nelle azioni di tutti li uomini,
e massime de’ principi, dove non è iudizio a chi reclamare,
si guarda al fine» (corsivo nostro).
Se davvero avesse enunciato la tesi dell’autonomia della politica,
tale pensata sarebbe il suo peggior insegnamento, da ricordare come
semplice curiosità storica. ben altro, e di grande valore,
è quanto ci ha lasciato sul rapporto fra azione politica e
principi etici.
In tutti i suoi scritti Machiavelli ha esortato ed educato chi vuole
impegnarsi nell’azione politica a perseguire ideali di chiaro valore
etico: la fondazione di buoni ordini politici che possano assicurare
il bene comune e il governo della legge; la libertà e la
dignità della patria; la lotta contro la corruzione politica,
il riconoscimento della virtù quale unico titolo per accedere
ai più alti onori; l’odio verso ogni forma di tirannide.
altro che autonomia dall’etica! La politica trae da questa i fini e
i mezzi. Questi ultimi valgono infatti – pace al trito e banale
detto che per Machiavelli «il fine giustifica i mezzi» –
in quanto servono un fine moralmente degno, non qualsiasi fine
politico, da quello di un redentore a quello di un tiranno. Se il
politico che persegue un fine moralmente degno è costretto ad
essere «non buono» o ad «entrare nel male»
la sua azione può essere scusata – mai giustificata –
soltanto perché il fine è eticamente nobile e i mezzi
necessari.
Questa lezione Machiavelli la trae anche dalla Bibbia, in
particolare dal libro dell’Esodo, dove Mosè compie efferate
crudeltà per poter condurre il popolo d’israele alla terra
Promessa. il Principe, è bene tenerlo presente, si chiude con
l’invocazione di un redentore che abbia Dio amico, come l’ebbe
Mosè. Quanto al valore teorico del concetto dell’autonomia
della politica, non sono necessarie molte parole per spiegare che la
tesi è falsa in via di fatto e dissennata dal punto di vista
educativo. È falsa in via di fatto, in quanto l’opera dei
politici è sempre stata, e non può non essere,
giudicata in base a criteri etici. È diseducativa, in quanto
è un incoraggiamento a mal fare a chi è già in
tal senso ben disposto. i politici corrotti, che invocano
immunità o comprensione per le loro malefatte, proclamando
che il loro operato non può essere giudicato con ordinari
criteri morali, non possono in alcun modo citare in loro difesa
Machiavelli.
Anche la convinzione che il Principe ha perenne valore teorico
perché inaugura il moderno realismo politico – tesi ormai
diventata luogo comune e accolta da tutte le enciclopedie di storia
del pensiero politico e filosofico – è esposta a serie
obiezioni. È vero che nel cap. XV Machiavelli scrive che
«sendo l’intento mio scrivere cosa utile a chi la intende, mi
è parso più conveniente andare drieto alla
verità effettuale della cosa, che alla immaginazione di
essa»; ma è difficile qualificare come esempio di
realismo politico uno scritto, quale è appunto Il Principe,
dedicato esplicitamente alle «azioni degli uomini
grandi», alle «grandi cose», ai «grandissimi
esempli». Per sua natura il realismo politico guarda
all’azione politica ordinaria, consueta, comune e diffida degli
esempi straordinari. Chiudere poi un’opera sul principe e sui
principati con un’esortazione a liberare l’italia dai barbari
è scelta del tutto inconciliabile con lo stile proprio del
realismo politico. Se c’era un fine non realistico, agli inizi del
Cinquecento, era proprio la liberazione dell’italia dal dominio
straniero.
Machiavelli, nel Principe e in tutte le sue opere politiche è
stato un realista sui generis che guardava alla realtà
effettuale, ma sapeva anche immaginare realtà molto diverse
da quella del suo tempo e ha cercato caparbiamente i modi per fare
diventare reale la realtà immaginata e auspicata. ha scritto
i Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio per esortare qualche
giovane di animo generoso a mettere in pratica la saggezza politica
dei Romani che egli aveva distillato dalle pagine di Livio; ha
composto l’Arte della guerra nella speranza che qualcuno riuscisse a
resuscitare gli ordinamenti e la disciplina militare dei Romani e
potesse dotare l’italia della forza che le mancava; le Istorie
fiorentine, sua ultima grande opera, sono ricche di insegnamenti
atti a liberare Firenze e l’italia dalla piaga della corruzione
politica. nessun realista politico ha mai scritto nulla di simile.
Compagna inseparabile della tesi che Machiavelli merita plauso in
quanto fondatore del moderno realismo politico è l’idea che
gli va riconosciuto il merito di aver dato impulso a studiare la
politica in modo scientifico3. Ma anche questa idea riposa su basi
fragili. non vi è dubbio che Machiavelli, nello scrivere di
principati e principe abbia inteso fare opera di scienza. nella
celebre lettera a Vettori del 10 dicembre 1513 spiegava: «e
perché Dante dice che non si fa scienza sanza lo ritenere lo
havere inteso, io ho notato quello che per la loro conversazione ho
fatto capitale, et composto uno opuscolo De principatibus». ed
è altrettanto vero che molte pagine del Principe sono scritte
con stile, diremo oggi, analitico, ovvero attento a definire e
distinguere concetti e termini. Ma è del pari vero che
Machiavelli ha seguito dalla prima all’ultima pagina le regole della
retorica classica. La lettera dedicatoria a Lorenzo funge da esordio
e come tale ha per
fine di rendere il lettore benevolo, docile e ben disposto.
Per ottenere questo risultato Machiavelli sottolinea, come
consigliavano i classici della retorica, le sue buone
qualità, la sua esperienza, la sua conoscenza nelle cose di
Stato, i sacrifici che ha sopportato per ottenere quell’esperienza e
quella conoscenza, e la cattiva fortuna che lo perseguita e
impedisce che i suoi meriti siano adeguatamente riconosciuti.
Sottolinea infatti che egli ha condensato nella sua opera «la
cognizione delle azioni delli uomini grandi», ottenuta
«con una lunga esperienza delle cose moderne e una continua
lezione delle antiche», conseguita «in tanti anni»
e con tanti «disagi e periculi». Per rendere il lettore
ben disposto ad accettare i suoi consigli e le sue esortazioni,
Machiavelli deve inoltre rimuovere i dubbi o le opinioni ostili
circa la sua persona e la sua autorevolezza a dare consigli
politici, primo fra tutti il pregiudizio, presente nella Firenze del
suo tempo, che un uomo del popolo non possa dare regole ai principi,
e che tale privilegio spetti esclusivamente ai cittadini più
ricchi e potenti. Per rimuovere questa convinzione, descrive il suo
stato di uomo popolare come una condizione che gli permette di
vedere le cose dello Stato meglio dei grandi: «a conoscere
bene la natura de’ populi bisogna essere principe, e, a conoscere
bene quella de’ principi conviene essere populare».
Promette, e mantiene, di non ornare né riempire la sua opera
«di clausule ample o di parole ampullose e magnifiche o di
qualunque altro lenocinio e ornamento estrinseco», e ritiene
che «o veruna cosa la onori o che solamente la varietà
della materia e la gravità del subietto la facci
grata». Questa sua scelta di stile non è un ripudio
della retorica bensì il risultato della perfetta conoscenza
delle regole dell’arte, in particolare delle regole che governano la
scelta dello stile e l’uso degli ornamenti (ornamenta). i maestri
romani avevano infatti spiegato che un’orazione del genere
deliberativo deve essere in stile semplice e grave (simplex et
gravis), perché la materia trattata ha già in
sé magnificenza e splendore. Ma lo stile semplice e grave non
esclude gli ornamenti che rendono il discorso dell’oratore chiaro e
persuasivo, in particolare gli esempi storici, e Machiavelli ne
spiega la ragione: «non si meravigli alcuno se, nel parlare
che io farò de’ principati al tutto nuovi, e di principe e di
stato, io addurrò grandissimi esempli. Perché,
camminando gli uomini sempre per le vie battute da altri e
procedendo nelle azioni loro con le imitazioni, né si potendo
le vie d’altri al tutto tenere né alla virtù di quegli
che tu imiti aggiugnere, debbe uno uomo prudente entrare sempre per
le vie battute da uomini grandi, e quegli che sono stati
eccellentissimi imitare: acciò che, se la sua virtù
non vi arriva, almeno ne renda qualche odore; e fare come gli
arcieri prudenti, a’ quali parendo el luogo dove desegnano ferire
troppo lontano, e conoscono fino a quanto va la virtù del
loro arco, pongono la mira assai più alta che il luogo
destinato, non per aggiugnere con la loro freccia a tanta altezza,
ma per potere con lo aiuto di sì alta mira pervenire al
disegno loro».
Com’è facile rilevare, quelli di Machiavelli non sono esempi
da scienziato ma da oratore. non hanno lo scopo di dare
validità empirica ad una legge scientifica, ma di rendere
più persuasivo un consiglio politico e di stimolare il
desiderio di imitare un partico lare modo di agire i classici della
retorica insegnavano che il modo migliore per insegnare un concetto,
è di renderlo visibile agli ascoltatori per mezzo di
similitudini, immagini e metafore. anche in questo caso Machiavelli
è discepolo fedele. Quando vuole fare intendere che un
principe nuovo deve saper usare sia la forza sia la frode, ricorre
alle immagini della volpe e del leone: «sendo dunque
necessitato uno principe sapere bene usare la bestia debbe di quelle
pigliare la golpe e il lione: perché el lione non si difende
da’ lacci, la golpe non si difende da’ lupi; bisogna adunque essere
golpe a conoscere e’ lacci, e lione a sbigottire e’ lupi»4.
Per spiegare che un principe non deve mai affidare la sua difesa
agli eserciti di un altro principe, si affida ad una
«figura» del vecchio testamento: «offerendosi
Davit a Saul d’andare a combattere con Golia provocatore filisteo,
Saul per dargli animo lo armò dell’arme sua: le quali Davit,
come l’ebbe indosso, recusò, dicendo con quelle non si potere
bene valere di sé stesso; e però voleva trovare el
nemico con la sua fromba e con il suo coltello»5.
La prova più chiara che Il Principe è un’orazione
è l’Esortazione a liberare l’Italia dai barbari che conclude
l’opuscolo. Le regole della retorica classica prescrivono infatti
che l’orazione politica, per essere persuasiva, deve chiudersi, dopo
un breve riassunto delle tesi proposte, con una peroratio o
exhortatio in cui l’oratore tocca le passioni degli ascoltatori, o
dei lettori, affinché deliberino o operino secondo i suoi
consigli. a tal fine l’oratore deve usare soprattutto l’indignatio,
per muovere allo sdegno, e la conquestio, per suscitare compassione.
nel primo caso deve sottolineare che il fatto è tetro,
crudele, nefario, e tirannico; nel secondo deve insistere
soprattutto sull’innocenza della vittima ed enfatizzare la sua
debolezza. Da buon oratore qual è, Machiavelli mette
diligentemente in pratica gli insegnamenti dei maestri classici. il
capitolo conclusivo dell’opera è un’esortazione costruita
secondo la tecnica dell’indignatio e della conquestio. Per muovere
allo sdegno un possibile redentore sottolinea le
«crudeltà et insolenzie barbare»; per suscitare
compassione descrive l’italia «più stiava che li ebrei,
più serva ch’e’ persi, più dispersa che gli ateniesi:
sanza capo, sanza ordine, battuta, spogliata, lacera, corsa»
che ha sopportato «d’ogni sorte ruina».
Diversamente dai molti cultori contemporanei della scienza politica,
che aborrono la retorica e prediligono le formule matematiche,
ritengo che una delle lezioni più valide del Principe sia
proprio la grande abilità che Machiavelli ha dimostrato di
saper contemperare analisi rigorosa e scrittura coinvolgente:
ragione ed eloquenza, come appunto insegnavano i maestri della
retorica classica. Con le sue opere ci ha insegnato che non è
affatto necessario che gli scritti sulla politica siano aridi o
noiosi, o oscuri. Se facessimo tesoro del suo esempio, avremmo non
solo migliori scritti politici, ma anche un’azione politica
più nobile e degna di ammirazione.
Per altri interpreti, infine, il vero pregio del Principe consiste
in primo luogo nell’essere un testo sul fondatore di Stati e sul
redentore politico. Lo capì bene hegel, quando scrisse che la
Germania doveva imparare la lezione del Principe di Machiavelli, se
voleva conquistare l’unità politica e la dignità di
nazione: «ci fu un uomo di Stato italiano che nel pieno
sentimento di questa condizione, di miseria universale, di odio, di
dissoluzione, di cecità concepì, con freddo giudizio,
la necessaria idea che per salvare l’italia bisognasse unificarla in
uno Stato. Con rigorosa conse quenzialità egli tracciò
la via che era necessaria, sia in vista della salvezza sia tenendo
conto della corruttela e del cieco delirio del suo tempo, ed
invitò il suo principe a prendere per sé il nobile
compito di salvare l’italia, e la gloria di porre fine alla sua
sventura»6. Da Machiavelli, Hegel spiega, dobbiamo trarre,
come articolo di fede e verità di saggezza politica, il
principio che «la libertà è possibile solo
là dove un popolo si è unito, sotto l’egida delle
leggi, in uno Stato». Quando è in gioco un fine
così alto, è puerile sostenere contro Machiavelli che
il fine non giustifica i mezzi per la semplice ragione che «le
membra cancrenose non possono essere curate con l’acqua di lavanda.
una condizione nella quale veleno ed assassinio sono diventate armi
abituali non ammette interventi correttivi troppo delicati. una vita
prossima alla putrefazione può essere riorganizzata solo con
la più dura energia»7. Invece di condannarlo come
maestro di immoralità, Machiavelli merita di essere lodato
per aver capito che «il destino di un popolo che precipita
verso il suo tramonto politico» può essere salvato
soltanto «dall’opera di un genio»8.
È stato tuttavia Antonio Gramsci a capire, meglio di ogni
altro lettore, che il Principe è opera di permanente
attualità perché è «libro “vivente”, in
cui l’ideologia politica e la scienza politica si fondono nella
forma drammatica del “mito”». tra l’utopia e il trattato
scolastico, sottolinea Gramsci, le forme in cui la scienza politica
si configurava fino al Machiavelli, questi dette alla sua concezione
la forma fantastica e artistica, per cui l’elemento dottrinale e
razionale si impersona in un condottiero, che rappresenta
«plasticamente e “antropomorficamente” il simbolo della
“volontà collettiva” ».
La magistrale rappresentazione del principe nuovo mette in movimento
«la fantasia artistica di chi si vuol convincere e dà
una più concreta forma alle passioni politiche». il
nucleo intellettuale e politico del Principe sta dunque
nell’Esortazione: «anche la chiusa del Principe è
legata a questo carattere “mitico” del libro: dopo aver
rappresentato il condottiero ideale, il Machiavelli con un passaggio
di grande efficacia artistica, invoca il condottiero reale che
storicamente lo impersoni: questa invocazione appassionata si
riflette su tutto il libro conferendogli appunto il carattere
drammatico».
Machiavelli, conclude Gramsci, ha scritto l’intero trattato con il
pensiero rivolto al mito del redentore: «il carattere
utopistico del Principe è nel fatto che il “principe” non
esisteva nella realtà storica, non si presentava al popolo
italiano con caratteri di immediatezza obbiettiva, ma era una pura
astrazione dottrinaria, il simbolo del capo, del condottiero ideale;
ma gli elementi passionali, mitici, contenuti nell’intero volumetto,
con mossa drammatica di grande effetto, si riassumono e diventano
vivi nella conclusione, nell’invocazione di un principe, “realmente
esistente”»9.
Non si va lontani dal vero se si dice che la vera ragione della
straordinaria longevità del Principe è che quel breve
scritto disegna con mano da poeta le figure affascinanti e
inquietanti del fondatore di Stati e del redentore. È questo
il tratto che lo rende unico. né il pensiero politico
classico, né quello moderno avevano trattato della fondazione
di Stati e della redenzione politica con comparabile attenzione,
profondità e potenza di eloquio. La fondazione di nuovi Stati
e la redenzione politica sono esperienze assai rare nella storia.
Richiedono qualità eccezionali nei capi che le guidano,
profeti che le annunciano, popoli capaci di lottare e di
sacrificarsi. Se hanno successo, ma a volte pure se falliscono,
generano miti e racconti che a loro volta preparano il terreno
spirituale per nuove fondazioni e nuove redenzioni, come sanno assai
bene i realisti politici seri. Ma come aspirazione, la redenzione
politica, sotto varie forme e con vari colori, è sempre
presente nell’animo dei popoli. Per questa ragione un testo che ne
tratta con profondità intellettuale e passione, quale
è appunto Il Principe, rimane vivo.
Vivo perché genera pensieri, e passioni e aspirazioni, vale a
dire vita morale e politica. Ma non è tutto. Machiavelli
scrisse il Principe non solo per disegnare il mito del fondatore e
del redentore; egli immaginava che la redenzione della patria
sarebbe stata anche la sua redenzione dalla desolazione, dal
disorientamento e dalla perdita di fiducia in se stesso nella quale
era caduto dopo la rimozione dall’ufficio di Segretario e dopo il
carcere. Quando scrive di fondatori e redentori, Machiavelli torna
ad essere se stesso, vive finalmente nel mondo che è suo,
dialoga con i grandi che sono la sua vera compagnia:
«entro nelle antique corti delli antiqui huomini, dove, da
loro ricevuto amorevolmente, mi pasco di quel cibo che solum
è mio e ch’io nacqui per lui; dove io non mi vergogno parlare
con loro e domandarli della ragione delle loro azioni; e quelli per
loro humanità mi rispondono; e non sento per quattro hore di
tempo alcuna noia, sdimentico ogni affanno, non temo la
povertà, non mi sbigottisce la morte: tutto mi transferisco
in loro»10. i lettori più sensibili avvertono che Il
Principe è testo sulla redenzione politica nel quale l’autore
ha saputo trasferire la propria volontà e il proprio bisogno
di redenzione. Per questa ragione Il Principe, dopo 500 anni
è ancora attuale ed è facile prevedere che lo
resterà a lungo. Quando nessuno lo leggerà più,
vorrà dire che è morta l’aspirazione alla grande
politica che sa redimere i popoli, e che i popoli si sono rassegnati
alla penosa politica dei mediocri politici.
1 B. Croce, Elementi di politica [1925], in iD., Etica e politica, a
cura di G. Galasso, Milano, adelphi, 1994, p. 292.
2 F. Chabod, Del «Principe» di Niccolò
Machiavelli [1925], in iD., Scritti su Machiavelli, introduzione di
C. Vivanti, Torino, Einaudi, 1993, pp. 99-100.
3 Si legga, fra i tanti possibili esempi, e. Cassirer, The myth of
the State, new haven, Yale university Press, 1946, p. 130; G.
PRezzoLini, Machiavelli anticristo, Roma, Casini, 1954, p. 18; a.
Renaudet, Machiavel, Paris, Gallimard, 1942, p. 117.
4 Il Principe, XVIII.
5 Il Principe, XIII.
6 G. W. F. Hegel, La Costituzione della Germania, in iD., Scritti
politici, 1798-1831, a cura di C. Cesa, torino, einaudi, 1972, pp.
102-103.
7 Ibid., p. 104.
8 Ibid., p. 107.
9 a. Gramsci, Note sul Machiavelli, sulla politica e sullo Stato
moderno, in iD., Quaderni del carcere, a cura di V. Gerratana, Roma,
Editori Riuniti-istituto Gramsci, 1977, pp. 34.
10 Niccolò Machiavelli a Francesco Vettori, 10 dicembre 1513,
in N. Machi, Opere, a cura di C. Vivanti, vol. II, Torino, Einaudi
Gallimard, 1999, p. 296.