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Gaetano Mosca nacque a Palermo il primo aprile 1858.
Si laureò in giurisprudenza nel 1881 all'università di
Palermo e presso la stessa università ottenne la libera
docenza in diritto costituzionale nel 1885. Fu poi insegnante a Roma
dal 1888 al 1896 e successivamente a Torino e a Milano alla Bocconi.
Dal 1923 al 1933 insegnò storia delle dottrine politiche
nuovamente all'università di Roma.
Fu deputato dal 1909 al 1919 e senatore dal 1919. Dal 1914 al 1916
fu sottosegretario alle colonie.
Nel 1884 uscì la sua prima opera, Sulla teorica dei governi e
sul governo parlamentare, nella quale, mettendo a nudo incongruenze
e malefatte del sistema parlamentare italiano, iniziava ad elaborare
la sua teoria della classe politica in contrapposizione al paravento
democratico. È proprio in questo testo che vengono fissate le
linee generali di un pensiero che evolverà e si
articolerà rimanendo sempre coerente alle premesse iniziali.
Nel 1887 uscì Le costituzioni moderne nel quale, tra le altre
cose, vengono formulate proposte di riforme costituzionali tese a
favorire il ceto degli intellettuali a svantaggio dei privilegi
derivati dal censo.
La sua opera principale (Elementi di scienza politica) uscì
nel 1896, e nel 1923 ne fu fatta una seconda edizione rinnovata ed
ampliata. È in questo testo che prende la sua forma
definitiva la teoria della classe politica proposta dall'autore e
viene dettagliatamente esaminato in che modo una classe politica si
forma, evolve ed esercita il potere. Parallelamente, in base a
questa teoria, propone una interpretazione della teoria
costituzionale antica e moderna.
Le idee del Mosca in proposito si inseriscono nel filone di pensiero
aperto dagli scritti di Saint-Simon, Taine e Gumplowicz, che Mosca
lesse fin dall'adolescenza, e si trovano ad essere in stretta
analogia con la teoria che qualche anno dopo proporrà Pareto
sulle élites e sulla loro circolazione. In estrema sintesi,
il nucleo della teoria afferma che in ogni regime politico chi
detiene il potere proviene sempre da una minoranza organizzata, la
quale, in virtù di tale vincolante organizzazione, si impone
alla maggioranza disorganizzata, giustificando il proprio dominio
sulla base di "principi astratti" o "formula politica" che risulta
essere l'insieme delle credenze sulle quali una classe politica
fonda la legittimizzazione della propria occupazione del potere.
Nella pratica si tratta dell'operazione che consente di trasformare
un potere di fatto in un potere di diritto. L'obiettivo di questa
teoria è, secondo Mosca, di dimostrare che la
"sovranità popolare" è una finzione anche in regime
democratico, nel quale la minoranza organizzata in classe politica
adopera i procedimenti elettorali, manipolati a dovere, per giungere
al potere e per conservarlo.
Sulla base di questa teoria il Mosca tenta una classificazione dei
regimi politici, individuandone, nel corso della storia, quattro: la
città-stato dell'antichità, lo stato feudale, lo stato
burocratico e lo stato rappresentativo. Tutto questo gli
servì per osservare e stigmatizzare la degenerazione della
classe politica al potere, la sua corruzione, i privilegi della
ricchezza.
Non c'è dubbio che oggi affrontando questi argomenti si abbia
decisamente più presente, sia tra i fautori di una
riproposizione del liberalismo che fra gli avversari dello stesso,
il pensiero di Pareto. Nonostante il nucleo originario delle idee
sviluppate dal Pareto trovi le sue fondamenta appunto nel pensiero
di Mosca (nel quale, per quasi unanime consenso a livello
internazionale, risiedono gli elementi fondanti della scienza
politica contemporanea) tuttavia la maggiore flessibilità e
la più articolata esposizione ha finito per porre la dottrina
delle élites tutta interna alla versione paretiana. Forse le
ragioni di questo possono ritrovarsi nel fatto che Mosca accusa il
politico in quanto tale; più in linea con il senso comune, il
politico si trova ad essere costantemente individuato come fonte di
corruzione. Forse porre l'accento sull'opera di Pareto invece che su
quella di Mosca concorre a mettere in secondo piano questo sospetto;
resta tuttavia evidente come l'opera paretiana abbia largamente
attinto dall'opera di Mosca.
Mosca combattè altresì le nuove istanze "proletarie"
mettendone in evidenza miti, errori, prepotenze. Improntò la
sua azione parlamentare alla difesa di una classe media
intellettuale coerentemente alla sua convinzione che tendeva a
privilegiare l'intelligenza riguardo alla ricchezza. Tutto il suo
pensiero e atteggiamento fu coerente con questa sua linea. Fu quindi
liberista in economia, si affiancò ai liberali nel
contrastare il potere ecclesiastico, estremamente conservatore nella
politica sociale. Egli stesso si autodefiniva "liberale ma non
democratico". Tuttavia all'avvento del fascismo moderò il suo
istintivo antiparlamentarismo e a tal uopo la seconda edizione degli
Elementi contiene l'esortazione ai giovani di mantenere il regime
politico ereditato dai padri e coerentemente si oppose in senato al
disegno di legge fascista sulle prerogative del capo di governo.
Anche nel suo breve scritto La mafia il Mosca resta fedele al quadro
d'insieme del suo pensiero. La mafia viene infatti presentata come
un'élite che è stata capace di trarre vantaggio al
meglio dai contrasti delle grandi potenze, dalle debolezze degli
stati dinastici e dal collasso dell'organizzazione
clericale-cattolica.
Suoi articoli si trovano su riviste come «Riforma
Sociale», «Il circolo giuridico», «Bandiera
Liberale», «Il pensiero moderno», «Social
Forces».
Scrisse, (nel 1910) la prefazione al testo di Giovanni Sabini La
riforma del sistema elettorale in Italia e (nel 1922) al libro di
Luigi Federici Saint-Simon.
Le sue principali opere sono tradotte in inglese e francese.
Morì a Roma l'8 novembre 1941.
*
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di Furio Ferraresi
MOSCA, Gaetano. – Nacque a Palermo il 1° aprile 1858 da Luigi e
da Maria Camilla Gulì.
Secondogenito di sette figli, oltre a lui tre maschi (Emanuele,
Alessandro e Giovanni Battista) e tre femmine (Giuseppina, Costanza
e Maria), apparteneva a una famiglia della media borghesia. Il padre
fu prima segretario generale al Municipio, quindi ispettore delle
Poste nel capoluogo siciliano; la madre era figlia di un medico.
Precocemente dotato, grazie alla frequentazione della biblioteca
paterna, di una vasta cultura personale, nel 1877 si iscrisse alla
facoltà palermitana di giurisprudenza, dove nel 1881 si
laureò con una tesi da cui trasse il suo primo scritto (I
fattori della nazionalità, in Rivista europea, XIII [1882],
pp. 703-720). Dopo la laurea si trasferì a Roma per
perfezionarsi negli studi presso la Scuola economico-amministrativa,
dove seguì corsi di storia, statistica, economia politica e
analisi comparata delle costituzioni. Stabilì proficui
rapporti con i professori Angelo Messedaglia, direttore della
Scuola, Francesco Protonotari e Luigi Palma, dai quali ricevette
consigli e incoraggiamenti a proseguire negli studi.
Tornato a Palermo, stampò, sul finire del 1883, presso la
tipografia dello Statuto, il suo primo libro, Sulla teorica dei
governi e sul governo parlamentare. Studi storici e sociali (edito
poi nel 1884 da Loescher a Torino).
In quest’opera Mosca getta le basi del metodo, degli obiettivi e
dell’oggetto della scienza politica in quanto disciplina distinta
sia dal diritto costituzionale sia dalla filosofia politica. Sulla
base di un’ampia messe di dati studiati in chiave
storico-comparativa delinea le «grandi leggi che regolano la
organizzazione dei governi» (Scritti politici, 1982, I, p.
535), ossia le tendenze fondamentali e costanti riscontrate nella
distribuzione del potere nelle diverse società. La più
importante di esse è riassunta nella teoria della
«classe politica», grazie alla quale Mosca si attesta
come il precursore della teoria delle élites formulata, dopo
di lui, da Vilfredo Pareto e Robert Michels. Influenzato dalla
lezione degli storici francesi (Hippolyte Adolphe Taine e Alexis de
Tocqueville), degli economisti e dei sociologi inglesi (John Stuart
Mill e Herbert Spencer), dei costituzionalisti tedeschi (Rudolf von
Gneist e Johann Kaspar Bluntschli) e convinto, sulla scorta
dell’adozione di un non semplicistico positivismo metodologico, che
le scienze politico-sociali debbano ambire alla stessa
scientificità di quelle naturali, Mosca conduce un’analisi
realistica del regime politico instauratosi in Italia dopo
l’unificazione. Lo studio sfocia in una critica radicale del sistema
di governo parlamentare e del connesso sistema dei nascenti partiti
politici. L’obiettivo di questa critica è svelare la
contraddizione tra la «formula politica», termine
utilizzato per indicare un principio astratto di legittimazione del
potere, riconducibile, dopo la Rivoluzione francese, al ‘mito’ della
sovranità popolare e della democrazia elaborato da
Jean-Jacques Rousseau, e la realtà empirica del governo
parlamentare, che, come quella di ogni governo, si compendia nel
dominio di una «minoranza organizzata» (la «classe
politica») su masse disorganizzate e apolitiche. Il rapporto
tra «classe politica» e «formula politica»
è così lapidariamente espresso da Mosca: «Non
bisogna mai dimenticare che non è la formula politica che
determina il modo di formazione della classe politica, ma al
contrario è questa che sempre adotta quella formula che
più le conviene» (ibid., p. 227). La conseguente
contrapposizione tra il «paese legale» dipinto nello
Statuto del Regno (in cui i poteri sono distribuiti tra la Corona e
l’elettorato) e il «paese reale», basato invece sul
potere effettivo del Gabinetto come espressione della maggioranza
della Camera dei deputati, mette capo nella Teorica a una cruda
descrizione del «mercato politico» nella Camera elettiva
e a una rappresentazione altrettanto disincantata del processo
elettorale, secondo la quale «non sono gli elettori che
eleggono il deputato, ma ordinariamente è il deputato che si
fa eleggere dagli elettori» (ibid., p. 476). I rimedi ai vizi
del parlamentarismo proposti da Mosca sono il rafforzamento del
potere del re come capo della gerarchia burocratica, con conseguente
sottrazione dei ministri all’indicazione della maggioranza dei
deputati, e la riforma del Senato, che dovrebbe essere scelto da una
classe di funzionari, indipendenti sia dal governo sia dalle
elezioni popolari, e composto dagli elementi più colti e
indipendenti della nazione.
Dopo un breve periodo durante il quale insegnò storia e
geografia all’Istituto tecnico di Palermo, nel 1885 Mosca
conseguì l’abilitazione alla libera docenza in diritto
costituzionale presso l’Università di Palermo, con una tesi
dal titolo Dei rapporti fra il parlamento ed il potere giudiziario,
pubblicata dalla tipografia dello Statuto di Palermo. Nell’anno
accademico 1886-87 tenne per incarico il corso di diritto
costituzionale presso questo ateneo e lesse la prolusione intitolata
Studi ausiliari del diritto costituzionale (pubblicata in Il Circolo
giuridico, XVII [1886], pp. 101-110), in cui, riflettendo sul
rapporto tra storia e analisi scientifica della politica,
attribuì alla storia il significato di scienza ausiliaria di
un diritto costituzionale inteso come «scienza che scruta le
leggi regolatrici dell’ordinamento politico delle varie
società umane». Il valore della storia, infatti,
consiste nel contributo da essa fornito all’eliminazione dallo
studio dei fenomeni politici di pregiudizi e concezioni
aprioristiche; un giudizio, questo, cui Mosca rimase fedele anche
nelle opere successive.
Tentò quindi la carriera universitaria, partecipando a una
serie di concorsi per la cattedra di diritto costituzionale presso
le Università di Modena, Pavia, Catania e Messina. Deluso dai
risultati negativi, nel 1887 vinse il concorso per revisore dei
resoconti parlamentari presso la Camera dei deputati. Nel frattempo
pubblicò la sua seconda opera di rilievo, Le Costituzioni
moderne. Saggio (Palermo 1887), in cui stempera la critica al
sistema parlamentare, contrapponendo al privilegio della
«ricchezza» e alla forza numerica del
«lavoro» il «merito» della cultura come
fattore di selezione della «classe politica».
Trasferitosi a Roma alla fine del 1887, nel febbraio del 1888
sposò Maria Giuseppa Salemi, figlia di Bernardo Salemi Pace,
direttore dell’Ospedale psichiatrico provinciale di Palermo. Nel
1890 nacque la prima figlia, Maria Camilla.
Nel 1891 diventò segretario particolare di Antonio Starabba
di Rudinì, allora presidente del Consiglio, e fece sentire la
sua influenza riguardo alla questione della riforma
dell’amministrazione dello Stato, in cui le ragioni
dell’accentramento si contemperavano con quelle del decentramento.
Se infatti, come scrisse nella Teorica, il problema italiano era la
tendenza a concentrare tutta la direzione della «macchina
politica» nella «burocrazia regolare», priva di
«responsabilità» e «indipendenza»
perché totalmente subordinata ai ministri, la soluzione non
poteva essere il rafforzamento dell’autonomia dei funzionari eletti
a livello locale, privi di vincoli disciplinari nei confronti del
governo centrale. La soluzione proposta da Mosca, in cui risuonava
l’interesse per la storia dell’amministrazione dei Comuni e delle
Contee inglesi e per la pratica del self-government, si ispirava al
principio della responsabilità diretta degli impiegati dello
Stato e mirava alla «formazione di una classe di funzionari
liberi», non elettivi, nominati dal governo, nonché
all’estensione delle competenze delle Province con la contestuale
riduzione di quelle dei Comuni. L’intenzione di ridurre l’influenza
dei corpi elettivi a livello locale rivisse nei disegni di legge
annunciati da Rudinì nel 1891, ma realizzati solo
parzialmente nel 1896, con la creazione del Commissariato civile per
la Sicilia, dotato delle attribuzioni politico-amministrative
proprie dei ministri, ma svincolato dai ministeri competenti.
Nel 1893 nacque la seconda figlia, Graziella (che morì nel
1911), e l’anno seguente il figlio Luigi. Durante il soggiorno
romano, accanto all’attività di funzionario parlamentare,
Mosca tenne per un biennio un corso pareggiato di diritto
costituzionale, succedendo pro tempore a Saverio Scolari, e
approfondì i propri studi, culminanti nella pubblicazione
della sua opera fondamentale, Elementi di scienza politica (Torino
1896; II ed., ampliata di una seconda parte inedita, 1923),
stampata, senza prefazione, presso la tipografia della Camera dei
deputati già nell’ottobre 1895. Grazie a questo lavoro, nel
1896 diventò professore straordinario di diritto
costituzionale presso la facoltà di giurisprudenza
dell’Università di Torino.
Negli Elementi Mosca porta a compimento il processo, già
avviato nella Teorica, di fondazione metodologica e disciplinare
della scienza politica come scienza empirica, obiettiva e
storico-comparativa, avente per oggetto l’individuazione delle
«leggi o tendenze costanti» che regolano la vita dei
regimi politici e come fine la guida dell’azione politica.
Approfondisce quindi il metodo realistico nello studio dei fenomeni
politici, come l’unico in grado di andare oltre le ideologie cui le
«classi politiche» ricorrono per legittimare il proprio
potere, e di guardare ai fenomeni sociali che stanno dietro le forme
delle istituzioni, a cominciare dallo Stato. Su queste basi
introduce la distinzione, assente nella Teorica, tra forme di Stato
e forme di governo: le prime sono la città-stato antica e
medievale (il Comune), lo Stato feudale, lo Stato burocratico e lo
Stato rappresentativo moderno, distinte in base ai diversi criteri
di formazione e organizzazione delle rispettive classi politiche e
ai diversi principi di legittimazione del loro potere. Riconosciuto
a Claude-Henri de Saint-Simon il merito di avere delineato per primo
la dottrina della «classe politica», Mosca ne
approfondisce e sviluppa le implicazioni. Una delle più
rilevanti è la critica della tradizionale teoria delle forme
di governo. Se, infatti, in tutti gli organismi politici è
fatale la prevalenza di una minoranza organizzata sulla maggioranza
disorganizzata, tutti i governi sono, di fatto, delle oligarchie,
sebbene non del tutto uguali fra di loro, dal momento che le
qualità richieste per far parte della «classe
politica» (valore guerriero, ricchezza, sacerdozio, preminenza
intellettuale) variano a seconda delle epoche storiche. Mosca
affronta quindi i temi decisivi della formazione (e del ricambio) e
dell’organizzazione della «classe politica». Riguardo al
primo tema individua due tendenze: alla chiusura
(«aristocratica») e all’apertura
(«democratica») delle classi politiche. Riguardo al
secondo, enuncia due opposti principi di organizzazione: quello
«autocratico» (cui si ispirano le classi politiche in
cui il potere è trasmesso dall’alto in basso) e quello
«liberale» (secondo il quale il potere è
trasmesso dal basso in alto). Vi sono quindi sistemi politici aperti
o chiusi al ricambio, e ciascuno di essi, a propria volta,
può essere organizzato in modo autocratico o liberale, a
seconda che in essi si dia maggiore peso all’elemento burocratico o
a quello elettivo. Negli Elementi Mosca approfondisce anche la
nozione di «formula politica» e dunque il problema del
consenso e della legittimazione del potere delle classi politiche.
L’implicazione più notevole si registra sul piano della
critica dell’ideologia democratica: poiché la
sovranità popolare è una «formula
politica» (l’altra essendo l’idea che il potere sia di origine
divina), la democrazia, se si prescinde dal suo essere una
«tendenza» all’apertura delle classi politiche, è
un principio di giustificazione ex post del potere; dunque
sicuramente una finzione, ma efficace perché soddisfa un
autentico bisogno della natura sociale dell’uomo: la sua propensione
a obbedire più volentieri a principi astratti che non a
persone concrete. Tra le maggiori innovazioni teoriche degli
Elementi va annoverata la nozione di «difesa giuridica»,
con la quale Mosca intende quei meccanismi sociali che regolano la
disciplina del senso morale e che assurgono a criterio di
valutazione per distinguere le forme buone di governo da quelle
cattive. Tra le condizioni di un’efficace «difesa
giuridica» vi è la separazione del potere laico da
quello ecclesiastico, di quello politico da quello economico e
militare e, infine, il controllo dell’elemento burocratico, in cui
consiste la tutela più efficace della «libertà
politica». Mosca finisce così con il rivalutare,
modificando sostanzialmente le proprie tesi precedenti, lo Stato
rappresentativo, di cui nella seconda edizione degli Elementi
auspica una «restaurazione». Esso è superiore a
ogni altro sistema, perché dà modo a una
molteplicità di forze sociali di partecipare al regime
politico, controllando e limitando l’azione di altre forze sociali,
quali la burocrazia. È inoltre l’unico in grado di garantire
le condizioni di un ordinato ricambio delle classi dirigenti,
presupposto indispensabile per la stabilità degli organismi
politici, che «possono essere a rigor di termine immortali
purché sappiano continuamente trasformarsi senza mai
dissolversi» (Scritti politici, 1982, II, p. 1080). Il sistema
rappresentativo, infine, può scongiurare le principali
minacce che incombono sui regimi politici dopo la prima guerra
mondiale: il «socialismo», il «sindacalismo»
e l’«assolutismo burocratico».
Abbandonato definitivamente, alla fine del gennaio 1897, l’incarico
di funzionario parlamentare, in febbraio si trasferì con la
famiglia a Torino, dove lo stesso anno nacque il suo quarto e ultimo
figlio, Bernardo. Cominciò la collaborazione con La Riforma
sociale, la rivista diretta prima da Francesco Saverio Nitti e Luigi
Roux, quindi da Luigi Einaudi, pubblicando un articolo sull’opera di
Guglielmo Ferrero (Il fenomeno Ferrero, in La Riforma sociale, VII
[1897], pp. 1017-1031). Vinse il concorso per professore ordinario
di diritto costituzionale a Padova, ma preferì rimanere nel
capoluogo piemontese, dove nel 1899 fu promosso ordinario. Si vide
affidati anche l’incarico per il corso complementare di storia della
scienza politica, che tenne fino all’anno accademico 1908-09, e
quello per il corso di economia politica, che tenne nel periodo
compreso tra la scomparsa del collega Salvatore Cognetti De Martiis
(1900) e la chiamata di Achille Loria (1903). Nel 1898 entrò
nel comitato direttivo del Congresso delle società economiche
e nel 1902 assunse la presidenza dell’Associazione per la
libertà economica di Torino, nata nel 1900 per iniziativa di
alcuni economisti di orientamento marginalista, tra i quali Maffeo
Pantaleoni e Antonio De Viti De Marco, fondatori nel 1890 del
Giornale degli economisti. Nel 1914 aderì alla Lega
antiprotezionista promossa da Edoardo Giretti, Einaudi e Gaetano
Salvemini. Curò la rubrica Finanza ed economia del quotidiano
L’Opinione di Roma e nel 1900 tenne una conferenza sulla mafia alla
Cultura di Torino e a Milano (pubblicata con il titolo Che
cos’è la mafia, in Giornale degli economisti, 1900, vol. 20,
pp. 236-262). Nel 1902 lesse la prolusione torinese, dal titolo Il
principio aristocratico ed il democratico nel passato e
nell’avvenire (pubblicata nell’Annuario dell’Università degli
Studi di Torino per l’anno accademico 1902-1903, pp. 7-32).
A Torino strinse rapporti di amicizia con i colleghi Einaudi,
Francesco Ruffini e Gioele Solari; frequentò Cesare Lombroso,
tramite il quale conobbe Ferrero, con cui entrò in
corrispondenza, e Michels, del quale nel 1912 recensì la
Sociologia del partito politico (La Sociologia del partito politico
nella democrazia moderna, in Il Pensiero moderno, I [1912], 3, pp.
310-316). Intervenne nel dibattito politico italiano con l’articolo
Il programma dei liberali in materia di politica ecclesiastica
(apparso nel Giornale degli economisti, 1897, 15, pp. 458-471) e si
candidò alle elezioni amministrative di Torino del giugno
1905 per l’Unione liberale-monarchica Umberto I. Nell’articolo
citato specificava meglio la sua proposta liberal-conservatrice, la
quale, mettendo a frutto la nozione di «difesa
giuridica», si nutriva della convinzione che solo il
pluralismo delle forze, delle funzioni e delle gerarchie sociali
potesse garantire un’efficace separazione dei poteri e un salutare
equilibrio tra le diverse frazioni che componevano la «classe
politica». In quest’ottica si comprendono sia la sua
opposizione al protezionismo economico, sia il suo impegno a favore
della separazione di Stato e Chiesa, ma anche di politica ed
economia, sia, ancora, la sua consapevolezza della necessità
di un controllo politico della burocrazia, in un’età in cui
la nascente democrazia di massa imponeva allo Stato inediti compiti
di regolazione sociale, estendendo vieppiù i processi di
burocratizzazione.
Nel 1902 ottenne l’incarico d’insegnamento di diritto costituzionale
e amministrativo e di storia delle dottrine politiche nella
neocostituita Università commerciale Luigi Bocconi di Milano,
incarico che conservò, con alcune interruzioni, fino all’anno
accademico 1917-18. Nel 1903 scrisse Dopo il primo anno
dell’università commerciale Luigi Bocconi (in La Riforma
sociale, XIII [1903], pp. 797-801), a commento della sua esperienza
didattica nell’ateneo milanese. Nel 1904 concesse a Mario Calderoni
un’intervista per la rivista nazionalista Il Regno, nella quale si
professò antidemocratico proprio perché liberale,
rinnovando la sua polemica contro la democrazia e il falso mito
dell’uguaglianza, la cui colpa più grave era di avere reso
inevitabile la rivendicazione dell’uguaglianza sostanziale,
declinata come «democrazia sociale», termine con cui
Mosca si riferiva a tutte le forme di socialismo, da quello
riformista a quello rappresentato dalle correnti del sindacalismo
rivoluzionario.
Nel 1906 fu eletto membro del Consiglio superiore della pubblica
istruzione, di cui fece parte fino al 1910. Preside della
facoltà di giurisprudenza di Torino nel biennio 1907-09,
pubblicò gli Appunti di diritto costituzionale (Milano 1908),
più volte rieditati e ampliati a partire dalla terza edizione
(1921). Nel 1924 si trasferì all’Università di Roma
per insegnare prima diritto pubblico interno presso la
facoltà di giurisprudenza e successivamente storia delle
istituzioni e delle dottrine politiche presso la facoltà di
scienze politiche, cattedra che conservò fino al 1°
maggio 1933, data del suo collocamento a riposo.
Il 5 febbraio 1924 lesse la sua prolusione romana, intitolata Lo
Stato-città antico e lo Stato rappresentativo moderno (in La
Riforma sociale, XXXV [1924], pp. 97-112), salutata da Piero Gobetti
come «la prolusione della libertà». In essa
riprese e approfondì il tema del confronto tra la
città-stato dell’antica Grecia e lo Stato rappresentativo
moderno, già tratteggiato nella seconda edizione degli
Elementi, stabilendo una significativa connessione tra i criteri
organizzativi delle due forme di Stato, all’insegna
dell’affermazione del principio della libertà politica.
L’attività pubblicistica di Mosca fu intensa:
collaborò con La Stampa di Torino dal 1897 e con il Corriere
della Sera dal 1901 al 1925, pubblicando anche su altre testate,
come L’Opinione e La Tribuna di Roma, La Gazzetta del Popolo di
Torino, Il giornale di Sicilia di Palermo. Curò egli stesso
la pubblicazione della raccolta degli articoli scritti sulla
campagna di Libia e apparsi sulla Tribuna e sul Corriere della Sera
(Italia e Libia. Considerazioni politiche, Milano 1912). Intervenne
a più riprese sul Corriere della Sera contro l’introduzione
del suffragio universale maschile negli anni precedenti la riforma
elettorale del 1912 e contro l’introduzione del suffragio femminile
(Il suffragio femminile in Italia, in Corriere della Sera, 18 marzo
1907). Era altresì scettico riguardo allo scrutinio di lista
e alle modificazioni del collegio uninominale, mentre il 19 luglio
1919 alla Camera accettò l’introduzione della rappresentanza
proporzionale soltanto come riforma atta a superare «la
terribile crisi morale» del dopoguerra. Nel 1922, tuttavia, si
schierò a favore del ritorno al collegio uninominale
(L’urgenza della riforma elettorale. Una petizione al Parlamento per
il ritorno al collegio uninominale, in Gazzetta del Popolo, 29
agosto 1922) e il 13 novembre 1923 in Senato espresse il proprio
consenso alla legge Acerbo, con cui venne introdotto il collegio
unico nazionale (su cui però manifestò forti riserve)
e il premio di maggioranza.
Il 19 ottobre 1907 pubblicò sul Corriere della Sera
l’articolo Feudalesimo funzionale, in cui criticò i germi
dissolutivi del moderno Stato rappresentativo, individuati in
categorie, classi professionali e sindacati, i quali, sfruttando la
crescente specializzazione delle funzioni imposta dalla moderna
divisione del lavoro, minacciavano di mettere in pericolo il
funzionamento e l’unità dello Stato. Lo «Stato
sindacale», infatti, era l’esito di un processo di
ri-feudalizzazione, non più su base locale-territoriale, come
avveniva nello «Stato feudale», ma su base
«funzionale», cioè burocratica. Il 25 luglio 1916
intervenne sul Corriere della Sera a proposito dei danni economici
prodotti dalla guerra e delle sue conseguenze sulle classi sociali,
mettendo in guardia dal pericolo di un impoverimento delle classi
medie impiegatizie, principale serbatoio di quella classe dirigente
allargata da cui venivano selezionati i membri della più
ristretta «classe politica» (I danni economici della
guerra, in Corriere della Sera, 25 luglio 1916). Nel dicembre 1917
pubblicò il primo di tre articoli per L’Unità di
Salvemini (L’esempio della Germania, VI, 27 dicembre 1917, pp. 335
s.). Il 27 gennaio 1924 prese posizione contro il progetto di
costituzione di una Camera corporativa (Parlamento e sindacalismo,
in Corriere della Sera, 27 gennaio 1924), attirandosi gli strali
della stampa fascista.
L’attività politica di Mosca era iniziata dopo la morte del
marchese di Rudinì, avvenuta nel 1908. Fu eletto deputato
nella XXIII e XXIV legislatura, dal 1909 al 1919, nello stesso
collegio di Caccamo, in provincia di Palermo, che era stato del suo
mentore politico. Ricoprì l’incarico di sottosegretario al
ministero delle Colonie nei due governi presieduti da Antonio
Salandra (1914-16). Fu nominato senatore del Regno il 6 ottobre 1919
per le categorie 3ª e 19ª previste dall’art. 33 dello
Statuto. In qualità di senatore fu membro della commissione
per la politica estera (1921-23), della commissione d’accusa
dell’Alta Corte di giustizia (1925-29) e della commissione per la
verifica dei titoli dei nuovi senatori (1925-1929). Fu inoltre
commissario di vigilanza al Fondo per l’emigrazione (1920-23) e
membro del Consiglio superiore coloniale (1923-27).
Negli interventi parlamentari si occupò prevalentemente di
temi riguardanti le riforme elettorali del 1912 e del 1919, la
politica scolastica e universitaria, la politica estera e coloniale,
la crisi economica del dopoguerra, le trasformazioni dello Stato
liberale introdotte dal fascismo, i problemi del Mezzogiorno e in
particolare della Sicilia. Il suo primo discorso, il 9 luglio 1909,
fu dedicato alla critica della riduzione del dazio sull’importazione
del grano. In questa occasione il liberismo e l’anti-protezionismo
furono sacrificati a una logica meridionalistica, secondo cui le
importazioni di grano avrebbero danneggiato le produzioni del
Mezzogiorno. Durante la guerra svolse diversi interventi su
questioni attinenti l’agricoltura e il fabbisogno alimentare
dell’Italia, auspicando, per fare aumentare la produzione agricola,
l’abbandono degli eccessi di dirigismo e della politica di
calmieramento dei prezzi dei grani.
Molti discorsi sia alla Camera sia in Senato furono dedicati alla
politica coloniale italiana. Inizialmente scettico nei confronti
dell’impresa libica, il 3 dicembre 1912 prese la parola alla Camera
sul trattato di pace di Losanna. Svolse un dotto intervento, in cui
difese la clausola del trattato che riconosceva al sultano di
Costantinopoli il ruolo di califfo della Tripolitania,
interpretandola non come una lesione della nuova sovranità
italiana, ma come l’opportuno riconoscimento delle consuetudini
islamiche. Lo stesso tema fu ripreso nel discorso alla Camera del 13
febbraio 1914, in cui Mosca richiamandosi alla centralità
dell’islam nella vita dei libici, sottolineò
l’impossibilità di giungere a una facile assimilazione della
popolazione autoctona. Mise inoltre in evidenza le differenze fra la
Tripolitania, dove la colonizzazione italiana era avvenuta
più facilmente sfruttando le storiche rivalità fra le
tribù beduine, e la Cirenaica, dove la presenza dei Senussi
rendeva più ardua la penetrazione coloniale. In successivi
interventi richiamò l’attenzione sui rischi del crescente
risentimento anti-italiano da parte delle tribù della
Tripolitania e sulla minaccia del nascente movimento panarabo e
panislamico. A testimonianza del particolare interesse nutrito da
Mosca per la questione coloniale, il suo ultimo discorso,
pronunciato il 21 maggio 1926 in Senato, riguardò proprio
l’impegno coloniale italiano.
All’avvento del fascismo Mosca era su posizioni attendiste, nutrite
di qualche soverchia illusione riguardo alle intenzioni di Mussolini
di ripristinare la legalità costituzionale dopo la presa del
potere, ben esemplificate dall’intervento pronunciato in Senato il
27 novembre 1922 in cui, con un’ingenuità messa in ridicolo
dall’amico Ferrero, richiamò il capo del fascismo al gravoso
compito della «restaurazione del governo
rappresentativo», dopo aver «resa lode grandissima
all’onorevole Mussolini» per avere allontanato «il
pericolo della così detta dittatura del proletariato»
(Discorsi parlamentari, 2003, p. 330). Dopo l’assassinio di
Matteotti crebbe la sua opposizione al regime, culminata
nell’adesione, nel maggio 1925, al Manifesto degli intellettuali
antifascisti di Benedetto Croce e nell’intervento, pronunciato in
Senato il 19 dicembre di quello stesso anno, sul disegno di legge
relativo alle «Attribuzioni e prerogative del Capo del
Governo, primo ministro segretario di Stato» con cui prese
nettamente le distanze dal progetto mussoliniano.
Preso atto con stupore di «dover essere il solo a fare
l’elogio funebre del regime parlamentare» (ibid., p. 362),
proprio lui che non aveva certo lesinato critiche al suo indirizzo,
citò, rivolgendosi alle giovani generazioni, l’addio che
nell’Iliade Ettore rivolgeva al figlio Astianatte e concluse il suo
discorso con queste parole: «Questo è l’augurio che la
generazione vecchia fa oggi alla nuova, ma nello stesso tempo noi
vecchi abbiamo il dovere di ammonirla e di non approvare quei
cambiamenti che giudichiamo intempestivi. Da parte mia se li
approvassi voterei contro la mia coscienza, contro le mie intime
convinzioni, e perciò sono costretto a dare il voto contrario
alle proposte che ci sono ora davanti» (ibid., p. 363).
Riprese questo tema in Crisi e rimedi del regime parlamentare
(1928): un testo nato come risposta a un’inchiesta internazionale
dell’Unione interparlamentare sulla crisi del sistema parlamentare,
in cui, di fronte al rischio dei nuovi dispotismi che si profilavano
all’orizzonte (dittatura burocratica, dittatura del proletariato e
«feudalesimo» sindacalista) richiamava la
necessità di una sua riforma che lo adattasse alle mutate
condizioni storiche.
A partire dal 1927 la sua attività parlamentare si
diradò vieppiù, mentre era fatto oggetto di rinnovati
attacchi da parte della stampa fascista.
Congedatosi dalla politica attiva, negli ultimi anni di vita Mosca
si dedicò sia al perfezionamento del quadro delineato nella
sua opera maggiore (è del 1939 la terza edizione degli
Elementi), sia allo studio della storia del pensiero politico, come
testimoniano Il “Principe” di Machiavelli quattro secoli dopo la
morte del suo autore, uscito in francese nel 1925, e poi pubblicato
in italiano nei Saggi di storia della scienza politica (Roma 1927,
pp. 7-84), nonché L’Utopia di Tommaso Moro ed il pensiero
comunista moderno edito negli Scritti della Facoltà giuridica
di Roma in onore di Antonio Salandra (Milano 1928, pp. 259-272). Le
ultime energie le dedicò però soprattutto alla stesura
delle sue Lezioni di storia delle istituzioni e delle dottrine
politiche (1932), un compendio delle lezioni dettate
nell’Università di Roma per otto anni. Il libro, pubblicato
in veste definitiva da Laterza nel 1937 con il titolo Storia delle
dottrine politiche, ebbe 16 ristampe e l’immediata traduzione in
francese, polacco e spagnolo. Nel 1939 comparve l’edizione inglese
degli Elementi, avviata già nel 1927 e curata da Arthur
Livingston con il titolo The ruling class (New York-London-Toronto).
Morì a Roma l’8 novembre 1941.