Gaetano Mosca

 

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Gaetano Mosca nacque a Palermo il primo aprile 1858.

Si laureò in giurisprudenza nel 1881 all'università di Palermo e presso la stessa università ottenne la libera docenza in diritto costituzionale nel 1885. Fu poi insegnante a Roma dal 1888 al 1896 e successivamente a Torino e a Milano alla Bocconi. Dal 1923 al 1933 insegnò storia delle dottrine politiche nuovamente all'università di Roma.

Fu deputato dal 1909 al 1919 e senatore dal 1919. Dal 1914 al 1916 fu sottosegretario alle colonie.

Nel 1884 uscì la sua prima opera, Sulla teorica dei governi e sul governo parlamentare, nella quale, mettendo a nudo incongruenze e malefatte del sistema parlamentare italiano, iniziava ad elaborare la sua teoria della classe politica in contrapposizione al paravento democratico. È proprio in questo testo che vengono fissate le linee generali di un pensiero che evolverà e si articolerà rimanendo sempre coerente alle premesse iniziali.

Nel 1887 uscì Le costituzioni moderne nel quale, tra le altre cose, vengono formulate proposte di riforme costituzionali tese a favorire il ceto degli intellettuali a svantaggio dei privilegi derivati dal censo.

La sua opera principale (Elementi di scienza politica) uscì nel 1896, e nel 1923 ne fu fatta una seconda edizione rinnovata ed ampliata. È in questo testo che prende la sua forma definitiva la teoria della classe politica proposta dall'autore e viene dettagliatamente esaminato in che modo una classe politica si forma, evolve ed esercita il potere. Parallelamente, in base a questa teoria, propone una interpretazione della teoria costituzionale antica e moderna.

Le idee del Mosca in proposito si inseriscono nel filone di pensiero aperto dagli scritti di Saint-Simon, Taine e Gumplowicz, che Mosca lesse fin dall'adolescenza, e si trovano ad essere in stretta analogia con la teoria che qualche anno dopo proporrà Pareto sulle élites e sulla loro circolazione. In estrema sintesi, il nucleo della teoria afferma che in ogni regime politico chi detiene il potere proviene sempre da una minoranza organizzata, la quale, in virtù di tale vincolante organizzazione, si impone alla maggioranza disorganizzata, giustificando il proprio dominio sulla base di "principi astratti" o "formula politica" che risulta essere l'insieme delle credenze sulle quali una classe politica fonda la legittimizzazione della propria occupazione del potere. Nella pratica si tratta dell'operazione che consente di trasformare un potere di fatto in un potere di diritto. L'obiettivo di questa teoria è, secondo Mosca, di dimostrare che la "sovranità popolare" è una finzione anche in regime democratico, nel quale la minoranza organizzata in classe politica adopera i procedimenti elettorali, manipolati a dovere, per giungere al potere e per conservarlo.

Sulla base di questa teoria il Mosca tenta una classificazione dei regimi politici, individuandone, nel corso della storia, quattro: la città-stato dell'antichità, lo stato feudale, lo stato burocratico e lo stato rappresentativo. Tutto questo gli servì per osservare e stigmatizzare la degenerazione della classe politica al potere, la sua corruzione, i privilegi della ricchezza.

Non c'è dubbio che oggi affrontando questi argomenti si abbia decisamente più presente, sia tra i fautori di una riproposizione del liberalismo che fra gli avversari dello stesso, il pensiero di Pareto. Nonostante il nucleo originario delle idee sviluppate dal Pareto trovi le sue fondamenta appunto nel pensiero di Mosca (nel quale, per quasi unanime consenso a livello internazionale, risiedono gli elementi fondanti della scienza politica contemporanea) tuttavia la maggiore flessibilità e la più articolata esposizione ha finito per porre la dottrina delle élites tutta interna alla versione paretiana. Forse le ragioni di questo possono ritrovarsi nel fatto che Mosca accusa il politico in quanto tale; più in linea con il senso comune, il politico si trova ad essere costantemente individuato come fonte di corruzione. Forse porre l'accento sull'opera di Pareto invece che su quella di Mosca concorre a mettere in secondo piano questo sospetto; resta tuttavia evidente come l'opera paretiana abbia largamente attinto dall'opera di Mosca.

Mosca combattè altresì le nuove istanze "proletarie" mettendone in evidenza miti, errori, prepotenze. Improntò la sua azione parlamentare alla difesa di una classe media intellettuale coerentemente alla sua convinzione che tendeva a privilegiare l'intelligenza riguardo alla ricchezza. Tutto il suo pensiero e atteggiamento fu coerente con questa sua linea. Fu quindi liberista in economia, si affiancò ai liberali nel contrastare il potere ecclesiastico, estremamente conservatore nella politica sociale. Egli stesso si autodefiniva "liberale ma non democratico". Tuttavia all'avvento del fascismo moderò il suo istintivo antiparlamentarismo e a tal uopo la seconda edizione degli Elementi contiene l'esortazione ai giovani di mantenere il regime politico ereditato dai padri e coerentemente si oppose in senato al disegno di legge fascista sulle prerogative del capo di governo.

Anche nel suo breve scritto La mafia il Mosca resta fedele al quadro d'insieme del suo pensiero. La mafia viene infatti presentata come un'élite che è stata capace di trarre vantaggio al meglio dai contrasti delle grandi potenze, dalle debolezze degli stati dinastici e dal collasso dell'organizzazione clericale-cattolica.

Suoi articoli si trovano su riviste come «Riforma Sociale», «Il circolo giuridico», «Bandiera Liberale», «Il pensiero moderno», «Social Forces».

Scrisse, (nel 1910) la prefazione al testo di Giovanni Sabini La riforma del sistema elettorale in Italia e (nel 1922) al libro di Luigi Federici Saint-Simon.

Le sue principali opere sono tradotte in inglese e francese.

Morì a Roma l'8 novembre 1941.

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di Furio Ferraresi

MOSCA, Gaetano. – Nacque a Palermo il 1° aprile 1858 da Luigi e da Maria Camilla Gulì.

Secondogenito di sette figli, oltre a lui tre maschi (Emanuele, Alessandro e Giovanni Battista) e tre femmine (Giuseppina, Costanza e Maria), apparteneva a una famiglia della media borghesia. Il padre fu prima segretario generale al Municipio, quindi ispettore delle Poste nel capoluogo siciliano; la madre era figlia di un medico.

Precocemente dotato, grazie alla frequentazione della biblioteca paterna, di una vasta cultura personale, nel 1877 si iscrisse alla facoltà palermitana di giurisprudenza, dove nel 1881 si laureò con una tesi da cui trasse il suo primo scritto (I fattori della nazionalità, in Rivista europea, XIII [1882], pp. 703-720). Dopo la laurea si trasferì a Roma per perfezionarsi negli studi presso la Scuola economico-amministrativa, dove seguì corsi di storia, statistica, economia politica e analisi comparata delle costituzioni. Stabilì proficui rapporti con i professori Angelo Messedaglia, direttore della Scuola, Francesco Protonotari e Luigi Palma, dai quali ricevette consigli e incoraggiamenti a proseguire negli studi.

Tornato a Palermo, stampò, sul finire del 1883, presso la tipografia dello Statuto, il suo primo libro, Sulla teorica dei governi e sul governo parlamentare. Studi storici e sociali (edito poi nel 1884 da Loescher a Torino).

In quest’opera Mosca getta le basi del metodo, degli obiettivi e dell’oggetto della scienza politica in quanto disciplina distinta sia dal diritto costituzionale sia dalla filosofia politica. Sulla base di un’ampia messe di dati studiati in chiave storico-comparativa delinea le «grandi leggi che regolano la organizzazione dei governi» (Scritti politici, 1982, I, p. 535), ossia le tendenze fondamentali e costanti riscontrate nella distribuzione del potere nelle diverse società. La più importante di esse è riassunta nella teoria della «classe politica», grazie alla quale Mosca si attesta come il precursore della teoria delle élites formulata, dopo di lui, da Vilfredo Pareto e Robert Michels. Influenzato dalla lezione degli storici francesi (Hippolyte Adolphe Taine e Alexis de Tocqueville), degli economisti e dei sociologi inglesi (John Stuart Mill e Herbert Spencer), dei costituzionalisti tedeschi (Rudolf von Gneist e Johann Kaspar Bluntschli) e convinto, sulla scorta dell’adozione di un non semplicistico positivismo metodologico, che le scienze politico-sociali debbano ambire alla stessa scientificità di quelle naturali, Mosca conduce un’analisi realistica del regime politico instauratosi in Italia dopo l’unificazione. Lo studio sfocia in una critica radicale del sistema di governo parlamentare e del connesso sistema dei nascenti partiti politici. L’obiettivo di questa critica è svelare la contraddizione tra la «formula politica», termine utilizzato per indicare un principio astratto di legittimazione del potere, riconducibile, dopo la Rivoluzione francese, al ‘mito’ della sovranità popolare e della democrazia elaborato da Jean-Jacques Rousseau, e la realtà empirica del governo parlamentare, che, come quella di ogni governo, si compendia nel dominio di una «minoranza organizzata» (la «classe politica») su masse disorganizzate e apolitiche. Il rapporto tra «classe politica» e «formula politica» è così lapidariamente espresso da Mosca: «Non bisogna mai dimenticare che non è la formula politica che determina il modo di formazione della classe politica, ma al contrario è questa che sempre adotta quella formula che più le conviene» (ibid., p. 227). La conseguente contrapposizione tra il «paese legale» dipinto nello Statuto del Regno (in cui i poteri sono distribuiti tra la Corona e l’elettorato) e il «paese reale», basato invece sul potere effettivo del Gabinetto come espressione della maggioranza della Camera dei deputati, mette capo nella Teorica a una cruda descrizione del «mercato politico» nella Camera elettiva e a una rappresentazione altrettanto disincantata del processo elettorale, secondo la quale «non sono gli elettori che eleggono il deputato, ma ordinariamente è il deputato che si fa eleggere dagli elettori» (ibid., p. 476). I rimedi ai vizi del parlamentarismo proposti da Mosca sono il rafforzamento del potere del re come capo della gerarchia burocratica, con conseguente sottrazione dei ministri all’indicazione della maggioranza dei deputati, e la riforma del Senato, che dovrebbe essere scelto da una classe di funzionari, indipendenti sia dal governo sia dalle elezioni popolari, e composto dagli elementi più colti e indipendenti della nazione.

Dopo un breve periodo durante il quale insegnò storia e geografia all’Istituto tecnico di Palermo, nel 1885 Mosca conseguì l’abilitazione alla libera docenza in diritto costituzionale presso l’Università di Palermo, con una tesi dal titolo Dei rapporti fra il parlamento ed il potere giudiziario, pubblicata dalla tipografia dello Statuto di Palermo. Nell’anno accademico 1886-87 tenne per incarico il corso di diritto costituzionale presso questo ateneo e lesse la prolusione intitolata Studi ausiliari del diritto costituzionale (pubblicata in Il Circolo giuridico, XVII [1886], pp. 101-110), in cui, riflettendo sul rapporto tra storia e analisi scientifica della politica, attribuì alla storia il significato di scienza ausiliaria di un diritto costituzionale inteso come «scienza che scruta le leggi regolatrici dell’ordinamento politico delle varie società umane». Il valore della storia, infatti, consiste nel contributo da essa fornito all’eliminazione dallo studio dei fenomeni politici di pregiudizi e concezioni aprioristiche; un giudizio, questo, cui Mosca rimase fedele anche nelle opere successive.

Tentò quindi la carriera universitaria, partecipando a una serie di concorsi per la cattedra di diritto costituzionale presso le Università di Modena, Pavia, Catania e Messina. Deluso dai risultati negativi, nel 1887 vinse il concorso per revisore dei resoconti parlamentari presso la Camera dei deputati. Nel frattempo pubblicò la sua seconda opera di rilievo, Le Costituzioni moderne. Saggio (Palermo 1887), in cui stempera la critica al sistema parlamentare, contrapponendo al privilegio della «ricchezza» e alla forza numerica del «lavoro» il «merito» della cultura come fattore di selezione della «classe politica». Trasferitosi a Roma alla fine del 1887, nel febbraio del 1888 sposò Maria Giuseppa Salemi, figlia di Bernardo Salemi Pace, direttore dell’Ospedale psichiatrico provinciale di Palermo. Nel 1890 nacque la prima figlia, Maria Camilla.

Nel 1891 diventò segretario particolare di Antonio Starabba di Rudinì, allora presidente del Consiglio, e fece sentire la sua influenza riguardo alla questione della riforma dell’amministrazione dello Stato, in cui le ragioni dell’accentramento si contemperavano con quelle del decentramento. Se infatti, come scrisse nella Teorica, il problema italiano era la tendenza a concentrare tutta la direzione della «macchina politica» nella «burocrazia regolare», priva di «responsabilità» e «indipendenza» perché totalmente subordinata ai ministri, la soluzione non poteva essere il rafforzamento dell’autonomia dei funzionari eletti a livello locale, privi di vincoli disciplinari nei confronti del governo centrale. La soluzione proposta da Mosca, in cui risuonava l’interesse per la storia dell’amministrazione dei Comuni e delle Contee inglesi e per la pratica del self-government, si ispirava al principio della responsabilità diretta degli impiegati dello Stato e mirava alla «formazione di una classe di funzionari liberi», non elettivi, nominati dal governo, nonché all’estensione delle competenze delle Province con la contestuale riduzione di quelle dei Comuni. L’intenzione di ridurre l’influenza dei corpi elettivi a livello locale rivisse nei disegni di legge annunciati da Rudinì nel 1891, ma realizzati solo parzialmente nel 1896, con la creazione del Commissariato civile per la Sicilia, dotato delle attribuzioni politico-amministrative proprie dei ministri, ma svincolato dai ministeri competenti.

Nel 1893 nacque la seconda figlia, Graziella (che morì nel 1911), e l’anno seguente il figlio Luigi. Durante il soggiorno romano, accanto all’attività di funzionario parlamentare, Mosca tenne per un biennio un corso pareggiato di diritto costituzionale, succedendo pro tempore a Saverio Scolari, e approfondì i propri studi, culminanti nella pubblicazione della sua opera fondamentale, Elementi di scienza politica (Torino 1896; II ed., ampliata di una seconda parte inedita, 1923), stampata, senza prefazione, presso la tipografia della Camera dei deputati già nell’ottobre 1895. Grazie a questo lavoro, nel 1896 diventò professore straordinario di diritto costituzionale presso la facoltà di giurisprudenza dell’Università di Torino.

Negli Elementi Mosca porta a compimento il processo, già avviato nella Teorica, di fondazione metodologica e disciplinare della scienza politica come scienza empirica, obiettiva e storico-comparativa, avente per oggetto l’individuazione delle «leggi o tendenze costanti» che regolano la vita dei regimi politici e come fine la guida dell’azione politica. Approfondisce quindi il metodo realistico nello studio dei fenomeni politici, come l’unico in grado di andare oltre le ideologie cui le «classi politiche» ricorrono per legittimare il proprio potere, e di guardare ai fenomeni sociali che stanno dietro le forme delle istituzioni, a cominciare dallo Stato. Su queste basi introduce la distinzione, assente nella Teorica, tra forme di Stato e forme di governo: le prime sono la città-stato antica e medievale (il Comune), lo Stato feudale, lo Stato burocratico e lo Stato rappresentativo moderno, distinte in base ai diversi criteri di formazione e organizzazione delle rispettive classi politiche e ai diversi principi di legittimazione del loro potere. Riconosciuto a Claude-Henri de Saint-Simon il merito di avere delineato per primo la dottrina della «classe politica», Mosca ne approfondisce e sviluppa le implicazioni. Una delle più rilevanti è la critica della tradizionale teoria delle forme di governo. Se, infatti, in tutti gli organismi politici è fatale la prevalenza di una minoranza organizzata sulla maggioranza disorganizzata, tutti i governi sono, di fatto, delle oligarchie, sebbene non del tutto uguali fra di loro, dal momento che le qualità richieste per far parte della «classe politica» (valore guerriero, ricchezza, sacerdozio, preminenza intellettuale) variano a seconda delle epoche storiche. Mosca affronta quindi i temi decisivi della formazione (e del ricambio) e dell’organizzazione della «classe politica». Riguardo al primo tema individua due tendenze: alla chiusura («aristocratica») e all’apertura («democratica») delle classi politiche. Riguardo al secondo, enuncia due opposti principi di organizzazione: quello «autocratico» (cui si ispirano le classi politiche in cui il potere è trasmesso dall’alto in basso) e quello «liberale» (secondo il quale il potere è trasmesso dal basso in alto). Vi sono quindi sistemi politici aperti o chiusi al ricambio, e ciascuno di essi, a propria volta, può essere organizzato in modo autocratico o liberale, a seconda che in essi si dia maggiore peso all’elemento burocratico o a quello elettivo. Negli Elementi Mosca approfondisce anche la nozione di «formula politica» e dunque il problema del consenso e della legittimazione del potere delle classi politiche. L’implicazione più notevole si registra sul piano della critica dell’ideologia democratica: poiché la sovranità popolare è una «formula politica» (l’altra essendo l’idea che il potere sia di origine divina), la democrazia, se si prescinde dal suo essere una «tendenza» all’apertura delle classi politiche, è un principio di giustificazione ex post del potere; dunque sicuramente una finzione, ma efficace perché soddisfa un autentico bisogno della natura sociale dell’uomo: la sua propensione a obbedire più volentieri a principi astratti che non a persone concrete. Tra le maggiori innovazioni teoriche degli Elementi va annoverata la nozione di «difesa giuridica», con la quale Mosca intende quei meccanismi sociali che regolano la disciplina del senso morale e che assurgono a criterio di valutazione per distinguere le forme buone di governo da quelle cattive. Tra le condizioni di un’efficace «difesa giuridica» vi è la separazione del potere laico da quello ecclesiastico, di quello politico da quello economico e militare e, infine, il controllo dell’elemento burocratico, in cui consiste la tutela più efficace della «libertà politica». Mosca finisce così con il rivalutare, modificando sostanzialmente le proprie tesi precedenti, lo Stato rappresentativo, di cui nella seconda edizione degli Elementi auspica una «restaurazione». Esso è superiore a ogni altro sistema, perché dà modo a una molteplicità di forze sociali di partecipare al regime politico, controllando e limitando l’azione di altre forze sociali, quali la burocrazia. È inoltre l’unico in grado di garantire le condizioni di un ordinato ricambio delle classi dirigenti, presupposto indispensabile per la stabilità degli organismi politici, che «possono essere a rigor di termine immortali purché sappiano continuamente trasformarsi senza mai dissolversi» (Scritti politici, 1982, II, p. 1080). Il sistema rappresentativo, infine, può scongiurare le principali minacce che incombono sui regimi politici dopo la prima guerra mondiale: il «socialismo», il «sindacalismo» e l’«assolutismo burocratico».

Abbandonato definitivamente, alla fine del gennaio 1897, l’incarico di funzionario parlamentare, in febbraio si trasferì con la famiglia a Torino, dove lo stesso anno nacque il suo quarto e ultimo figlio, Bernardo. Cominciò la collaborazione con La Riforma sociale, la rivista diretta prima da Francesco Saverio Nitti e Luigi Roux, quindi da Luigi Einaudi, pubblicando un articolo sull’opera di Guglielmo Ferrero (Il fenomeno Ferrero, in La Riforma sociale, VII [1897], pp. 1017-1031). Vinse il concorso per professore ordinario di diritto costituzionale a Padova, ma preferì rimanere nel capoluogo piemontese, dove nel 1899 fu promosso ordinario. Si vide affidati anche l’incarico per il corso complementare di storia della scienza politica, che tenne fino all’anno accademico 1908-09, e quello per il corso di economia politica, che tenne nel periodo compreso tra la scomparsa del collega Salvatore Cognetti De Martiis (1900) e la chiamata di Achille Loria (1903). Nel 1898 entrò nel comitato direttivo del Congresso delle società economiche e nel 1902 assunse la presidenza dell’Associazione per la libertà economica di Torino, nata nel 1900 per iniziativa di alcuni economisti di orientamento marginalista, tra i quali Maffeo Pantaleoni e Antonio De Viti De Marco, fondatori nel 1890 del Giornale degli economisti. Nel 1914 aderì alla Lega antiprotezionista promossa da Edoardo Giretti, Einaudi e Gaetano Salvemini. Curò la rubrica Finanza ed economia del quotidiano L’Opinione di Roma e nel 1900 tenne una conferenza sulla mafia alla Cultura di Torino e a Milano (pubblicata con il titolo Che cos’è la mafia, in Giornale degli economisti, 1900, vol. 20, pp. 236-262). Nel 1902 lesse la prolusione torinese, dal titolo Il principio aristocratico ed il democratico nel passato e nell’avvenire (pubblicata nell’Annuario dell’Università degli Studi di Torino per l’anno accademico 1902-1903, pp. 7-32).

A Torino strinse rapporti di amicizia con i colleghi Einaudi, Francesco Ruffini e Gioele Solari; frequentò Cesare Lombroso, tramite il quale conobbe Ferrero, con cui entrò in corrispondenza, e Michels, del quale nel 1912 recensì la Sociologia del partito politico (La Sociologia del partito politico nella democrazia moderna, in Il Pensiero moderno, I [1912], 3, pp. 310-316). Intervenne nel dibattito politico italiano con l’articolo Il programma dei liberali in materia di politica ecclesiastica (apparso nel Giornale degli economisti, 1897, 15, pp. 458-471) e si candidò alle elezioni amministrative di Torino del giugno 1905 per l’Unione liberale-monarchica Umberto I. Nell’articolo citato specificava meglio la sua proposta liberal-conservatrice, la quale, mettendo a frutto la nozione di «difesa giuridica», si nutriva della convinzione che solo il pluralismo delle forze, delle funzioni e delle gerarchie sociali potesse garantire un’efficace separazione dei poteri e un salutare equilibrio tra le diverse frazioni che componevano la «classe politica». In quest’ottica si comprendono sia la sua opposizione al protezionismo economico, sia il suo impegno a favore della separazione di Stato e Chiesa, ma anche di politica ed economia, sia, ancora, la sua consapevolezza della necessità di un controllo politico della burocrazia, in un’età in cui la nascente democrazia di massa imponeva allo Stato inediti compiti di regolazione sociale, estendendo vieppiù i processi di burocratizzazione.

Nel 1902 ottenne l’incarico d’insegnamento di diritto costituzionale e amministrativo e di storia delle dottrine politiche nella neocostituita Università commerciale Luigi Bocconi di Milano, incarico che conservò, con alcune interruzioni, fino all’anno accademico 1917-18. Nel 1903 scrisse Dopo il primo anno dell’università commerciale Luigi Bocconi (in La Riforma sociale, XIII [1903], pp. 797-801), a commento della sua esperienza didattica nell’ateneo milanese. Nel 1904 concesse a Mario Calderoni un’intervista per la rivista nazionalista Il Regno, nella quale si professò antidemocratico proprio perché liberale, rinnovando la sua polemica contro la democrazia e il falso mito dell’uguaglianza, la cui colpa più grave era di avere reso inevitabile la rivendicazione dell’uguaglianza sostanziale, declinata come «democrazia sociale», termine con cui Mosca si riferiva a tutte le forme di socialismo, da quello riformista a quello rappresentato dalle correnti del sindacalismo rivoluzionario.

Nel 1906 fu eletto membro del Consiglio superiore della pubblica istruzione, di cui fece parte fino al 1910. Preside della facoltà di giurisprudenza di Torino nel biennio 1907-09, pubblicò gli Appunti di diritto costituzionale (Milano 1908), più volte rieditati e ampliati a partire dalla terza edizione (1921). Nel 1924 si trasferì all’Università di Roma per insegnare prima diritto pubblico interno presso la facoltà di giurisprudenza e successivamente storia delle istituzioni e delle dottrine politiche presso la facoltà di scienze politiche, cattedra che conservò fino al 1° maggio 1933, data del suo collocamento a riposo.

Il 5 febbraio 1924 lesse la sua prolusione romana, intitolata Lo Stato-città antico e lo Stato rappresentativo moderno (in La Riforma sociale, XXXV [1924], pp. 97-112), salutata da Piero Gobetti come «la prolusione della libertà». In essa riprese e approfondì il tema del confronto tra la città-stato dell’antica Grecia e lo Stato rappresentativo moderno, già tratteggiato nella seconda edizione degli Elementi, stabilendo una significativa connessione tra i criteri organizzativi delle due forme di Stato, all’insegna dell’affermazione del principio della libertà politica.

L’attività pubblicistica di Mosca fu intensa: collaborò con La Stampa di Torino dal 1897 e con il Corriere della Sera dal 1901 al 1925, pubblicando anche su altre testate, come L’Opinione e La Tribuna di Roma, La Gazzetta del Popolo di Torino, Il giornale di Sicilia di Palermo. Curò egli stesso la pubblicazione della raccolta degli articoli scritti sulla campagna di Libia e apparsi sulla Tribuna e sul Corriere della Sera (Italia e Libia. Considerazioni politiche, Milano 1912). Intervenne a più riprese sul Corriere della Sera contro l’introduzione del suffragio universale maschile negli anni precedenti la riforma elettorale del 1912 e contro l’introduzione del suffragio femminile (Il suffragio femminile in Italia, in Corriere della Sera, 18 marzo 1907). Era altresì scettico riguardo allo scrutinio di lista e alle modificazioni del collegio uninominale, mentre il 19 luglio 1919 alla Camera accettò l’introduzione della rappresentanza proporzionale soltanto come riforma atta a superare «la terribile crisi morale» del dopoguerra. Nel 1922, tuttavia, si schierò a favore del ritorno al collegio uninominale (L’urgenza della riforma elettorale. Una petizione al Parlamento per il ritorno al collegio uninominale, in Gazzetta del Popolo, 29 agosto 1922) e il 13 novembre 1923 in Senato espresse il proprio consenso alla legge Acerbo, con cui venne introdotto il collegio unico nazionale (su cui però manifestò forti riserve) e il premio di maggioranza.

Il 19 ottobre 1907 pubblicò sul Corriere della Sera l’articolo Feudalesimo funzionale, in cui criticò i germi dissolutivi del moderno Stato rappresentativo, individuati in categorie, classi professionali e sindacati, i quali, sfruttando la crescente specializzazione delle funzioni imposta dalla moderna divisione del lavoro, minacciavano di mettere in pericolo il funzionamento e l’unità dello Stato. Lo «Stato sindacale», infatti, era l’esito di un processo di ri-feudalizzazione, non più su base locale-territoriale, come avveniva nello «Stato feudale», ma su base «funzionale», cioè burocratica. Il 25 luglio 1916 intervenne sul Corriere della Sera a proposito dei danni economici prodotti dalla guerra e delle sue conseguenze sulle classi sociali, mettendo in guardia dal pericolo di un impoverimento delle classi medie impiegatizie, principale serbatoio di quella classe dirigente allargata da cui venivano selezionati i membri della più ristretta «classe politica» (I danni economici della guerra, in Corriere della Sera, 25 luglio 1916). Nel dicembre 1917 pubblicò il primo di tre articoli per L’Unità di Salvemini (L’esempio della Germania, VI, 27 dicembre 1917, pp. 335 s.). Il 27 gennaio 1924 prese posizione contro il progetto di costituzione di una Camera corporativa (Parlamento e sindacalismo, in Corriere della Sera, 27 gennaio 1924), attirandosi gli strali della stampa fascista.

L’attività politica di Mosca era iniziata dopo la morte del marchese di Rudinì, avvenuta nel 1908. Fu eletto deputato nella XXIII e XXIV legislatura, dal 1909 al 1919, nello stesso collegio di Caccamo, in provincia di Palermo, che era stato del suo mentore politico. Ricoprì l’incarico di sottosegretario al ministero delle Colonie nei due governi presieduti da Antonio Salandra (1914-16). Fu nominato senatore del Regno il 6 ottobre 1919 per le categorie 3ª e 19ª previste dall’art. 33 dello Statuto. In qualità di senatore fu membro della commissione per la politica estera (1921-23), della commissione d’accusa dell’Alta Corte di giustizia (1925-29) e della commissione per la verifica dei titoli dei nuovi senatori (1925-1929). Fu inoltre commissario di vigilanza al Fondo per l’emigrazione (1920-23) e membro del Consiglio superiore coloniale (1923-27).

Negli interventi parlamentari si occupò prevalentemente di temi riguardanti le riforme elettorali del 1912 e del 1919, la politica scolastica e universitaria, la politica estera e coloniale, la crisi economica del dopoguerra, le trasformazioni dello Stato liberale introdotte dal fascismo, i problemi del Mezzogiorno e in particolare della Sicilia. Il suo primo discorso, il 9 luglio 1909, fu dedicato alla critica della riduzione del dazio sull’importazione del grano. In questa occasione il liberismo e l’anti-protezionismo furono sacrificati a una logica meridionalistica, secondo cui le importazioni di grano avrebbero danneggiato le produzioni del Mezzogiorno. Durante la guerra svolse diversi interventi su questioni attinenti l’agricoltura e il fabbisogno alimentare dell’Italia, auspicando, per fare aumentare la produzione agricola, l’abbandono degli eccessi di dirigismo e della politica di calmieramento dei prezzi dei grani.

Molti discorsi sia alla Camera sia in Senato furono dedicati alla politica coloniale italiana. Inizialmente scettico nei confronti dell’impresa libica, il 3 dicembre 1912 prese la parola alla Camera sul trattato di pace di Losanna. Svolse un dotto intervento, in cui difese la clausola del trattato che riconosceva al sultano di Costantinopoli il ruolo di califfo della Tripolitania, interpretandola non come una lesione della nuova sovranità italiana, ma come l’opportuno riconoscimento delle consuetudini islamiche. Lo stesso tema fu ripreso nel discorso alla Camera del 13 febbraio 1914, in cui Mosca richiamandosi alla centralità dell’islam nella vita dei libici, sottolineò l’impossibilità di giungere a una facile assimilazione della popolazione autoctona. Mise inoltre in evidenza le differenze fra la Tripolitania, dove la colonizzazione italiana era avvenuta più facilmente sfruttando le storiche rivalità fra le tribù beduine, e la Cirenaica, dove la presenza dei Senussi rendeva più ardua la penetrazione coloniale. In successivi interventi richiamò l’attenzione sui rischi del crescente risentimento anti-italiano da parte delle tribù della Tripolitania e sulla minaccia del nascente movimento panarabo e panislamico. A testimonianza del particolare interesse nutrito da Mosca per la questione coloniale, il suo ultimo discorso, pronunciato il 21 maggio 1926 in Senato, riguardò proprio l’impegno coloniale italiano.

All’avvento del fascismo Mosca era su posizioni attendiste, nutrite di qualche soverchia illusione riguardo alle intenzioni di Mussolini di ripristinare la legalità costituzionale dopo la presa del potere, ben esemplificate dall’intervento pronunciato in Senato il 27 novembre 1922 in cui, con un’ingenuità messa in ridicolo dall’amico Ferrero, richiamò il capo del fascismo al gravoso compito della «restaurazione del governo rappresentativo», dopo aver «resa lode grandissima all’onorevole Mussolini» per avere allontanato «il pericolo della così detta dittatura del proletariato» (Discorsi parlamentari, 2003, p. 330). Dopo l’assassinio di Matteotti crebbe la sua opposizione al regime, culminata nell’adesione, nel maggio 1925, al Manifesto degli intellettuali antifascisti di Benedetto Croce e nell’intervento, pronunciato in Senato il 19 dicembre di quello stesso anno, sul disegno di legge relativo alle «Attribuzioni e prerogative del Capo del Governo, primo ministro segretario di Stato» con cui prese nettamente le distanze dal progetto mussoliniano.

Preso atto con stupore di «dover essere il solo a fare l’elogio funebre del regime parlamentare» (ibid., p. 362), proprio lui che non aveva certo lesinato critiche al suo indirizzo, citò, rivolgendosi alle giovani generazioni, l’addio che nell’Iliade Ettore rivolgeva al figlio Astianatte e concluse il suo discorso con queste parole: «Questo è l’augurio che la generazione vecchia fa oggi alla nuova, ma nello stesso tempo noi vecchi abbiamo il dovere di ammonirla e di non approvare quei cambiamenti che giudichiamo intempestivi. Da parte mia se li approvassi voterei contro la mia coscienza, contro le mie intime convinzioni, e perciò sono costretto a dare il voto contrario alle proposte che ci sono ora davanti» (ibid., p. 363). Riprese questo tema in Crisi e rimedi del regime parlamentare (1928): un testo nato come risposta a un’inchiesta internazionale dell’Unione interparlamentare sulla crisi del sistema parlamentare, in cui, di fronte al rischio dei nuovi dispotismi che si profilavano all’orizzonte (dittatura burocratica, dittatura del proletariato e «feudalesimo» sindacalista) richiamava la necessità di una sua riforma che lo adattasse alle mutate condizioni storiche.

A partire dal 1927 la sua attività parlamentare si diradò vieppiù, mentre era fatto oggetto di rinnovati attacchi da parte della stampa fascista.

Congedatosi dalla politica attiva, negli ultimi anni di vita Mosca si dedicò sia al perfezionamento del quadro delineato nella sua opera maggiore (è del 1939 la terza edizione degli Elementi), sia allo studio della storia del pensiero politico, come testimoniano Il “Principe” di Machiavelli quattro secoli dopo la morte del suo autore, uscito in francese nel 1925, e poi pubblicato in italiano nei Saggi di storia della scienza politica (Roma 1927, pp. 7-84), nonché L’Utopia di Tommaso Moro ed il pensiero comunista moderno edito negli Scritti della Facoltà giuridica di Roma in onore di Antonio Salandra (Milano 1928, pp. 259-272). Le ultime energie le dedicò però soprattutto alla stesura delle sue Lezioni di storia delle istituzioni e delle dottrine politiche (1932), un compendio delle lezioni dettate nell’Università di Roma per otto anni. Il libro, pubblicato in veste definitiva da Laterza nel 1937 con il titolo Storia delle dottrine politiche, ebbe 16 ristampe e l’immediata traduzione in francese, polacco e spagnolo. Nel 1939 comparve l’edizione inglese degli Elementi, avviata già nel 1927 e curata da Arthur Livingston con il titolo The ruling class (New York-London-Toronto).

Morì a Roma l’8 novembre 1941.