Avvertenza
Le note contenute in questo quaderno, come negli altri, sono state scritte a penna corrente, per segnare un rapido promemoria. Esse sono tutte da rivedere e controllare minutamente, perché contengono certamente inesattezze, falsi accostamenti, anacronismi. Scritte senza aver presenti i libri cui si accenna, è possibile che dopo il controllo, debbano essere radicalmente corrette perché proprio il contrario di ciò che è scritto risulti vero.
Storiografia
§9 Ettore Ciccotti. Il suo volume: Confronti storici, Biblioteca della «Nuova Rivista Storica» n. 10, Società Ed. Dante Alighieri, 1929, pp. XXXIX‑262, è stato recensito favorevolmente da Guido De Ruggiero nella «Critica» del gennaio 1930 e invece con molta cautela e in fondo sfavorevolmente da Mario de Bernardi nella Riforma Sociale (vedere).
Uno degli errori teorici più gravi del Ciccotti pare consista nell’interpretazione sbagliata del principio vichiano che il «certo si converte nel vero». La storia non può essere che certezza (con l’approssimazione della ricerca della «certezza»). La conversione del «certo» nel «vero» può dar luogo a costruzioni filosofiche (della così detta storia eterna) che non hanno che poco in comune con la storia «effettuale»: ma la storia deve essere «effettuale» e non romanzata: la sua certezza deve essere prima di tutto certezza dei documenti storici (anche se la storia non si esaurisce tutta nei documenti storici, la cui nozione d’altronde è talmente complessa ed estesa, da poter dare luogo a concetti sempre nuovi sia di certezza che di verità).
La parte sofistica della metodologia del Ciccotti appare molto chiara là dove egli afferma che la storia è dramma, perché ciò non vuol dire che ogni rappresentazione drammatica di un dato periodo storico sia quella «effettuale», anche se viva, artisticamente perfetta, ecc. Il sofisma del Ciccotti porta a dare un valore eccessivo alla belletristica storica come reazione all’erudizione pedantesca e petulante: dalle piccole «congetture» filologiche si passa alle «grandiose» congetture sociologiche, con poco guadagno per la storiografia.
§11 Corrado Barbagallo. Il suo libro L’oro e il fuoco deve essere esaminato, tenendo conto del partito preso dell’autore di trovare nell’antichità ciò che è essenzialmente moderno, come il capitalismo, la grande industria e le manifestazioni che ad essi sono collegate.
Questioni di metodo
§49 L’osservazione contenuta nella Sacra Famiglia che il linguaggio politico francese equivale al linguaggio della filosofia classica tedesca è stata espressa «poeticamente» dal Carducci nell’espressione: «decapitaro, Emmanuel Kant, Iddio – Massimiliano Robespierre, il re».
A proposito di questo riavvicinamento carducciano tra la politica pratica di M. Robespierre e il pensiero speculativo di E. Kant, B. Croce registra una serie di «fonti» filologiche molto interessanti, ma che per il Croce sono di portata puramente filologica e culturale, senza alcun significato teorico o «speculativo». Il Carducci attinse il motivo da Enrico Heine (terzo libro del Zur Geschichte der Religion und Philosophie in Deutschland del 1834). Ma il riavvicinamento di Robespierre a Kant non è originale dello Heine.
Il Croce, che ha ricercato l’origine del riavvicinamento, scrive di averne trovato un lontano cenno in una lettera del 21 luglio 1795 dello Hegel allo Schelling (contenuto in Briefe von und an Hegel, Lipsia, 1887, I, 14‑16), svolto poi nelle lezioni che lo stesso Hegel tenne sulla storia della filosofia e sulla filosofia della storia.
Nelle prime lezioni di storia della filosofia, Hegel dice che «la filosofia del Kant, del Fichte e dello Schelling contiene in forma di pensiero la rivoluzione», alla quale lo spirito negli ultimi tempi ha progredito in Germania, in una grande epoca cioè della storia universale, a cui «solo due popoli hanno preso parte, i Tedeschi e i Francesi, per opposti che siano tra loro, anzi appunto perché opposti»; sicché, laddove il nuovo principio in Germania «ha fatto irruzione come spirito e concetto» in Francia invece si è esplicato «come realtà effettuale» (cfr Vorles. über die Gesch. d. Philos., 2 ed., Berlino, 1844, III, 485).
Nelle lezioni di filosofia della storia, Hegel spiega che il principio della volontà formale, della libertà astratta, secondo cui «la semplice unità dell’autocoscienza, l’Io, è la libertà assolutamente indipendente e la fonte di tutte le determinazioni universali», «rimase presso i Tedeschi una tranquilla teoria, ma i Francesi vollero eseguirlo praticamente» (Vorlesungen über die Philosophie der Geschichte, 3 ed., Berlino, 1848, pp. 531‑32).
(Questo passo di Hegel è appunto, pare, parafrasato dalla Sacra Famiglia dove si difende un’affermazione di Proudhon contro i Bauer, o, se non la si difende, la si spiega secondo questo canone ermeneutico hegeliano.
Ma il passo di Hegel pare assai più importante come «fonte» del pensiero espresso nelle Tesi su Feuerbach che «i filosofi hanno spiegato il mondo e si tratta ora di mutarlo», cioè che la filosofia deve diventare politica per inverarsi, per continuare ad essere filosofia, che la «tranquilla teoria» deve essere «eseguita praticamente», deve farsi «realtà effettuale», come fonte dell’affermazione di Engels che la filosofia classica tedesca ha come erede legittimo il «popolo» tedesco e infine come elemento per la teoria dell’unità di teoria e di pratica.
Il paragone venne ripetuto moltissime volte nel corso dell’Ottocento (dal Marx, per es., nella Critica della filosofia del diritto di Hegel) e «dilatato» dallo Heine. In Italia, qualche anno prima del Carducci, lo si ritrova in una lettera di Bertrando Spaventa, dal titolo Paolottismo, positivismo e razionalismo, pubblicata nella «Rivista bolognese» del maggio 1868 e ristampata negli Scritti filosofici (ed. Gentile, p. 301).
Il Croce conclude facendo delle riserve sul paragone in quanto «affermazione di un rapporto logico e storico». «Perché se è vero che al Kant giusnaturalista risponde assai bene nel campo dei fatti la rivoluzione francese, è anche vero che quel Kant appartiene alla filosofia del secolo decimottavo, che precesse e informò quel moto politico; laddove il Kant che apre l’avvenire, il Kant della sintesi a priori, è il primo anello di una nuova filosofia, la quale oltrepassa la filosofia che s’incarnò nella rivoluzione francese».
Si capisce questa riserva del Croce che però è impropria e incongruente, poiché le stesse citazioni del Croce da Hegel mostrano che non del particolare paragone di Kant col Robespierre si tratta, ma di qualcosa di più esteso e comprensivo, del moto politico francese nel suo complesso e della riforma filosofica tedesca nel suo complesso.
Che il Croce sia favorevole alle «tranquille teorie» e non alle «realtà effettuali», che una riforma «in idea» gli sembri la fondamentale e non quella in atto, si capisce: in tal senso la filosofia tedesca ha influito in Italia nel periodo del Risorgimento, col «moderatismo» liberale (nel senso più stretto di «libertà nazionale»), sebbene nel De Sanctis si senta l’insofferenza di questa posizione «intellettualistica» come appare dal suo passaggio alla «Sinistra» e da alcuni scritti, specialmente Scienza e vita, e gli articoli sul verismo, ecc.
§65 Filosofia‑politica‑economia. Se queste tre attività sono gli elementi costitutivi necessari di una stessa concezione del mondo, necessariamente deve esserci, nei loro principii teorici, convertibilità da una all’altra, traduzione reciproca nel proprio specifico linguaggio di ogni elemento costitutivo: uno è implicito nell’altro, e tutti insieme formano un circolo omogeneo (cfr le note precedenti sulla traducibilità reciproca dei linguaggi scientifici).
Da queste proposizioni (che devono essere elaborate), conseguono, per lo storico della cultura e delle idee, alcuni criteri d’indagine e canoni critici di grande significato. Può avvenire che una grande personalità esprima il suo pensiero più fecondo non nella sede che apparentemente dovrebbe essere la più «logica», dal punto di vista classificatorio esterno, ma in altra parte che apparentemente può essere giudicata estranea.
Un uomo politico scrive di filosofia: può darsi che la sua «vera» filosofia sia invece da ricercarsi negli scritti di politica. In ogni personalità c’è una attività dominante e predominante: è in questa che occorre ricercare il suo pensiero, implicito il più delle volte e talvolta in contraddizione con quello espresso ex professo. È vero che in un tale criterio di giudizio storico sono contenuti molti pericoli di dilettantismo e che nell’applicazione occorre esser molto cauti, ma ciò non toglie che il criterio sia fecondo di verità.
Realmente il «filosofo» occasionale più difficilmente riesce ad astrarre dalle correnti che dominano nel suo tempo, dalle interpretazioni divenute dogmatiche di una certa concezione del mondo ecc.; mentre invece come scienziato della politica si sente libero da questi idola del tempo o del gruppo, affronta più immediatamente e con tutta originalità la stessa concezione, vi penetra nell’intimo e la sviluppa in modo vitale.
A questo proposito è ancora utile e fecondo il pensiero espresso dalla Luxemburg sulla impossibilità di affrontare certe quistioni della filosofia della prassi in quanto esse non sono ancora divenute attuali per il corso della storia generale o di un dato aggruppamento sociale. Alla fase economico‑corporativa, alla fase di lotta per l’egemonia nella società civile, alla fase statale corrispondono attività intellettuali determinate che non si possono arbitrariamente improvvisare o anticipare. Nella fase della lotta per l’egemonia si sviluppa la scienza della politica; nella fase statale tutte le superstrutture devono svilupparsi, pena il dissolvimento dello Stato.
Appunti per una introduzione e un avviamento allo studio della filosofia e della storia della cultura
I. Alcuni punti preliminari di riferimento.
§12 Occorre distruggere il pregiudizio molto diffuso che la filosofia sia un alcunché di molto difficile per il fatto che essa è l’attività intellettuale propria di una determinata categoria di scienziati specialisti o di filosofi professionali e sistematici.
Occorre pertanto dimostrare preliminarmente che tutti gli uomini sono «filosofi», definendo i limiti e i caratteri di questa «filosofia spontanea», propria di «tutto il mondo», e cioè della filosofia che è contenuta: 1) nel linguaggio stesso, che è un insieme di nozioni e di concetti determinati e non già e solo di parole grammaticalmente vuote di contenuto; 2) nel senso comune e buon senso; 3) nella religione popolare e anche quindi in tutto il sistema di credenze, superstizioni, opinioni, modi di vedere e di operare che si affacciano in quello che generalmente si chiama «folclore».
Avendo dimostrato che tutti sono filosofi, sia pure a modo loro, inconsapevolmente, perché anche solo nella minima manifestazione di una qualsiasi attività intellettuale, il «linguaggio», è contenuta una determinata concezione del mondo, si passa al secondo momento, al momento della critica e della consapevolezza, cioè alla quistione: è preferibile «pensare» senza averne consapevolezza critica, in modo disgregato e occasionale, cioè «partecipare» a una concezione del mondo «imposta» meccanicamente dall’ambiente esterno, e cioè da uno dei tanti gruppi sociali nei quali ognuno è automaticamente coinvolto fin dalla sua entrata nel mondo cosciente (e che può essere il proprio villaggio o la provincia, può avere origine nella parrocchia e nell’«attività intellettuale» del curato o del vecchione patriarcale la cui «saggezza» detta legge, nella donnetta che ha ereditato la sapienza dalle streghe o nel piccolo intellettuale inacidito nella propria stupidaggine e impotenza a operare) o è preferibile elaborare la propria concezione del mondo consapevolmente e criticamente e quindi, in connessione con tale lavorio del proprio cervello, scegliere la propria sfera di attività, partecipare attivamente alla produzione della storia del mondo, essere guida di se stessi e non già accettare passivamente e supinamente dall’esterno l’impronta alla propria personalità?
Nota I. Per la propria concezione del mondo si appartiene sempre a un determinato aggruppamento, e precisamente a quello di tutti gli elementi sociali che condividono uno stesso modo di pensare e di operare. Si è conformisti di un qualche conformismo, si è sempre uomini‑massa o uomini‑collettivi. La quistione è questa: di che tipo storico è il conformismo, l’uomo‑massa di cui si fa parte?
Quando la concezione del mondo non è critica e coerente ma occasionale e disgregata, si appartiene simultaneamente a una molteplicità di uomini‑massa, la propria personalità è composita in modo bizzarro: si trovano in essa elementi dell’uomo delle caverne e principii della scienza più moderna e progredita, pregiudizi di tutte le fasi storiche passate grettamente localistiche e intuizioni di una filosofia avvenire quale sarà propria del genere umano unificato mondialmente.
Criticare la propria concezione del mondo significa dunque renderla unitaria e coerente e innalzarla fino al punto cui è giunto il pensiero mondiale più progredito. Significa quindi anche criticare tutta la filosofia finora esistita, in quanto essa ha lasciato stratificazioni consolidate nella filosofia popolare.
L’inizio dell’elaborazione critica è la coscienza di quello che è realmente, cioè un «conosci te stesso» come prodotto del processo storico finora svoltosi che ha lasciato in te stesso un’infinità di tracce accolte senza beneficio d’inventario. Occorre fare inizialmente un tale inventario.
Nota III. Se è vero che ogni linguaggio contiene gli elementi di una concezione del mondo e di una cultura, sarà anche vero che dal linguaggio di ognuno si può giudicare la maggiore o minore complessità della sua concezione del mondo. Chi parla solo il dialetto o comprende la lingua nazionale in gradi diversi, partecipa necessariamente di una intuizione del mondo più o meno ristretta e provinciale, fossilizzata, anacronistica in confronto delle grandi correnti di pensiero che dominano la storia mondiale. I suoi interessi saranno ristretti, più o meno corporativi o economistici, non universali.
Se non sempre è possibile imparare più lingue straniere per mettersi a contatto con vite culturali diverse, occorre almeno imparare bene la lingua nazionale. Una grande cultura può tradursi nella lingua di un’altra grande cultura, cioè una grande lingua nazionale, storicamente ricca e complessa, può tradurre qualsiasi altra grande cultura, cioè essere una espressione mondiale. Ma un dialetto non può fare la stessa cosa.
Nota IV. Creare una nuova cultura non significa solo fare individualmente delle scoperte «originali», significa anche e specialmente diffondere criticamente delle verità già scoperte, «socializzarle» per così dire e pertanto farle diventare base di azioni vitali, elemento di coordinamento e di ordine intellettuale e morale. Che una massa di uomini sia condotta a pensare coerentemente e in modo unitario il reale presente è fatto «filosofico» ben più importante e «originale» che non sia il ritrovamento da parte di un «genio» filosofico di una nuova verità che rimane patrimonio di piccoli gruppi intellettuali.
Connessione tra il senso comune, la religione e la filosofia. La filosofia è un ordine intellettuale, ciò che non possono essere né la religione né il senso comune. Vedere come, nella realtà, neanche religione e senso comune coincidono, ma la religione è un elemento del disgregato senso comune. Del resto «senso comune» è nome collettivo, come «religione»: non esiste un solo senso comune, ché anche esso è un prodotto e un divenire storico. La filosofia è la critica e il superamento della religione e del senso comune e in tal senso coincide col «buon senso» che si contrappone al senso comune.
Relazioni tra scienza ‑ religione ‑ senso comune. La religione e il senso comune non possono costituire un ordine intellettuale perché non possono ridursi a unità e coerenza neanche nella coscienza individuale per non parlare della coscienza collettiva: non possono ridursi a unità e coerenza «liberamente» perché «autoritativamente» ciò potrebbe avvenire come infatti è avvenuto nel passato entro certi limiti. Il problema della religione intesa non nel senso confessionale ma in quello laico di unità di fede tra una concezione del mondo e una norma di condotta conforme; ma perché chiamare questa unità di fede «religione» e non chiamarla «ideologia» o addirittura «politica»?
Non esiste infatti la filosofia in generale: esistono diverse filosofie o concezioni del mondo e si fa sempre una scelta tra di esse. Come avviene questa scelta? È questa scelta un fatto meramente intellettuale o più complesso? E non avviene spesso che tra il fatto intellettuale e la norma di condotta ci sia contraddizione? Quale sarà allora la reale concezione del mondo: quella logicamente affermata come fatto intellettuale, o quella che risulta dalla reale attività di ciascuno, che è implicita nel suo operare? E poiché l’operare è sempre un operare politico, non si può dire che la filosofia reale di ognuno è contenuta tutta nella sua politica?
Questo contrasto tra il pensare e l’operare, cioè la coesistenza di due concezioni del mondo, una affermata a parole e l’altra esplicantesi nell’effettivo operare, non è dovuto sempre a malafede. La malafede può essere una spiegazione soddisfacente per alcuni individui singolarmente presi, o anche per gruppi più o meno numerosi, non è soddisfacente però quando il contrasto si verifica nella manifestazione di vita di larghe masse: allora esso non può non essere l’espressione di contrasti più profondi di ordine storico sociale.
Significa che un gruppo sociale, che ha una sua propria concezione del mondo, sia pure embrionale, che si manifesta nell’azione, e quindi saltuariamente, occasionalmente, cioè quando tal gruppo si muove come un insieme organico, ha, per ragioni di sottomissione e subordinazione intellettuale, preso una concezione non sua a prestito da un altro gruppo e questa afferma a parole, e questa anche crede di seguire, perché la segue in «tempi normali», cioè quando la condotta non è indipendente e autonoma, ma appunto sottomessa e subordinata.
Ecco quindi che non si può staccare la filosofia dalla politica e si può mostrare anzi che la scelta e la critica di una concezione del mondo è fatto politico anch’essa.
Occorre dunque spiegare come avviene che in ogni tempo coesistano molti sistemi e correnti di filosofia, come nascono, come si diffondono, perché nella diffusione seguono certe linee di frattura e certe direzioni ecc. Ciò mostra quanto sia necessario sistemare criticamente e coerentemente le proprie intuizioni del mondo e della vita, fissando con esattezza cosa deve intendersi per «sistema» perché non sia capito nel senso pedantesco e professorale della parola. Ma questa elaborazione deve essere e può solo essere fatta nel quadro della storia della filosofia che mostra quale elaborazione il pensiero abbia subito nel corso dei secoli e quale sforzo collettivo sia costato il nostro attuale modo di pensare che riassume e compendia tutta questa storia passata, anche nei suoi errori e nei suoi delirii, che, d’altronde, per essere stati commessi nel passato ed essere stati corretti non è detto non si riproducano nel presente e non domandino di essere ancora corretti.
Quale è l’idea che il popolo si fa della filosofia? Si può ricostruire attraverso i modi di dire del linguaggio comune. Uno dei più diffusi è quello di «prendere le cose con filosofia», che, analizzato, non è poi da buttar via del tutto. È vero che in esso è contenuto un invito implicito alla rassegnazione e alla pazienza, ma pare che il punto più importante sia invece l’invito alla riflessione, a rendersi conto e ragione che ciò che succede è in fondo razionale e che come tale occorre affrontarlo, concentrando le proprie forze razionali e non lasciandosi trascinare dagli impulsi istintivi e violenti.
Si potrebbero raggruppare questi modi di dire popolari con le espressioni simili degli scrittori di carattere popolare – prendendole dai grandi vocabolari – in cui entrano i termini di «filosofia» e «filosoficamente» e si potrà vedere che questi hanno un significato molto preciso, di superamento delle passioni bestiali ed elementari in una concezione della necessità che dà al proprio operare una direzione consapevole.
È questo il nucleo sano del senso comune, ciò che appunto potrebbe chiamarsi buon senso e che merita di essere sviluppato e reso unitario e coerente. Così appare che anche perciò non è possibile disgiungere quella che si chiama filosofia «scientifica» da quella filosofia «volgare» e popolare che è solo un insieme disgregato di idee e opinioni.
Ma a questo punto si pone il problema fondamentale di ogni concezione del mondo, di ogni filosofia, che sia diventata un movimento culturale, una «religione», una «fede», cioè che abbia prodotto un’attività pratica e una volontà e in esse sia contenuta come «premessa» teorica implicita (una «ideologia» si potrebbe dire, se al termine ideologia si dà appunto il significato più alto di una concezione del mondo che si manifesta implicitamente nell’arte, nel diritto, nell’attività economica, in tutte le manifestazioni di vita individuali e collettive), cioè il problema di conservare l’unità ideologica in tutto il blocco sociale che appunto da quella determinata ideologia è cementato e unificato.
La forza delle religioni e specialmente della chiesa cattolica è consistita e consiste in ciò che esse sentono energicamente la necessità dell’unione dottrinale di tutta la massa «religiosa» e lottano perché gli strati intellettualmente superiori non si stacchino da quelli inferiori. La chiesa romana è stata sempre la più tenace nella lotta per impedire che «ufficialmente» si formino due religioni, quella degli «intellettuali» e quella delle «anime semplici».
Una delle maggiori debolezze delle filosofie immanentistiche in generale consiste appunto nel non aver saputo creare una unità ideologica tra il basso e l’alto, tra i «semplici» e gli intellettuali. Nella storia della civiltà occidentale il fatto si è verificato su scala europea, col fallimento immediato del Rinascimento e in parte anche della Riforma nei confronti della chiesa romana.
Questa debolezza si manifesta nella quistione scolastica, in quanto dalle filosofie immanentistiche non è stato neppur tentato di costruire una concezione che potesse sostituire la religione nell’educazione infantile, quindi il sofisma pseudo‑storicistico per cui pedagogisti areligiosi (aconfessionali), e in realtà atei, concedono l’insegnamento della religione perché la religione è la filosofia dell’infanzia dell’umanità che si rinnova in ogni infanzia non metaforica.
(Forse è utile «praticamente» distinguere la filosofia dal senso comune per meglio indicare il passaggio dall’uno all’altro momento: nella filosofia sono specialmente spiccati i caratteri di elaborazione individuale del pensiero, nel senso comune invece i caratteri diffusi e dispersi di un pensiero generico di una certa epoca in un certo ambiente popolare. Ma ogni filosofia tende a diventare senso comune di un ambiente anche ristretto – di tutti gli intellettuali –.
Si tratta pertanto di elaborare una filosofia che avendo già una diffusione, o diffusività, perché connessa alla vita pratica e implicita in essa, diventi un rinnovato senso comune con la coerenza e il nerbo delle filosofie individuali: ciò non può avvenire se non è sempre sentita l’esigenza del contatto culturale coi «semplici»).
Una filosofia della prassi non può che presentarsi inizialmente in atteggiamento polemico e critico, come superamento del modo di pensare precedente e del concreto pensiero esistente (o mondo culturale esistente). Quindi innanzi tutto come critica del «senso comune» (dopo essersi basata sul senso comune per dimostrare che «tutti» sono filosofi e che non si tratta di introdurre ex novo una scienza nella vita individuale di «tutti», ma di innovare e rendere «critica» un’attività già esistente) e quindi della filosofia degli intellettuali, che ha dato luogo alla storia della filosofia, e che, in quanto individuale (e si sviluppa infatti essenzialmente nell’attività di singoli individui particolarmente dotati) può considerarsi come le «punte» di progresso del senso comune, per lo meno del senso comune degli strati più colti della società, e attraverso questi anche del senso comune popolare.
Ecco quindi che un avviamento allo studio della filosofia deve esporre sinteticamente i problemi nati nel processo di sviluppo della cultura generale, che si riflette solo parzialmente nella storia della filosofia, che tuttavia, in assenza di una storia del senso comune (impossibile a costruirsi per l’assenza di materiale documentario) rimane la fonte massima di riferimento per criticarli, dimostrarne il valore reale (se ancora l’hanno) o il significato che hanno avuto come anelli superati di una catena e fissare i problemi nuovi attuali o l’impostazione attuale dei vecchi problemi.
Il rapporto tra filosofia «superiore» e senso comune è assicurato dalla «politica», così come è assicurato dalla politica il rapporto tra il cattolicismo degli intellettuali e quello dei «semplici». Le differenze nei due casi sono però fondamentali. Che la chiesa debba affrontare un problema dei «semplici» significa appunto che c’è stata rottura nella comunità dei «fedeli», rottura che non può essere sanata innalzando i «semplici» al livello degli intellettuali (la chiesa non si propone neppure questo compito, idealmente ed economicamente impari alle sue forze attuali), ma con una disciplina di ferro sugli intellettuali perché non oltrepassino certi limiti nella distinzione e non la rendano catastrofica e irreparabile.
La posizione della filosofia della praxis è antitetica a questa cattolica: la filosofia della praxis non tende a mantenere i «semplici» nella loro filosofia primitiva del senso comune, ma invece a condurli a una concezione superiore della vita. Se afferma l’esigenza del contatto tra intellettuali e semplici non è per limitare l’attività scientifica e per mantenere una unità al basso livello delle masse, ma appunto per costruire un blocco intellettuale‑morale che renda politicamente possibile un progresso intellettuale di massa e non solo di scarsi gruppi intellettuali.
Autocoscienza critica significa storicamente e politicamente creazione di una élite di intellettuali: una massa umana non si «distingue» e non diventa indipendente «per sé» senza organizzarsi (in senso lato) e non c’è organizzazione senza intellettuali, cioè senza organizzatori e dirigenti, cioè senza che l’aspetto teorico del nesso teoria‑pratica si distingua concretamente in uno strato di persone «specializzate» nell’elaborazione concettuale e filosofica.
Ma questo processo di creazione degli intellettuali è lungo, difficile, pieno di contraddizioni, di avanzate e di ritirate, di sbandamenti e di riaggruppamenti, in cui la «fedeltà» della massa (e la fedeltà e la disciplina sono inizialmente la forma che assume l’adesione della massa e la sua collaborazione allo sviluppo dell’intero fenomeno culturale) è messa talvolta a dura prova.
Il processo di sviluppo è legato a una dialettica intellettuali‑massa; lo strato degli intellettuali si sviluppa quantitativamente e qualitativamente, ma ogni sbalzo verso una nuova «ampiezza» e complessità dello strato degli intellettuali è legato a un movimento analogo della massa di semplici, che si innalza verso livelli superiori di cultura e allarga simultaneamente la sua cerchia di influenza, con punte individuali o anche di gruppi più o meno importanti verso lo strato degli intellettuali specializzati. Nel processo però si ripetono continuamente dei momenti in cui tra massa e intellettuali (o certi di essi, o un gruppo di essi) si forma un distacco, una perdita di contatto, quindi l’impressione di «accessorio», di complementare, di subordinato.
L’insistere sull’elemento «pratico» del nesso teoria‑pratica, dopo aver scisso, separato e non solo distinto i due elementi (operazione appunto meramente meccanica e convenzionale) significa che si attraversa una fase storica relativamente primitiva, una fase ancora economico‑corporativa, in cui si trasforma quantitativamente il quadro generale della «struttura» e la qualità‑superstruttura adeguata è in via di sorgere, ma non è ancora organicamente formata.
È da porre in rilievo l’importanza e il significato che hanno, nel mondo moderno, i partiti politici nell’elaborazione e diffusione delle concezioni del mondo in quanto essenzialmente elaborano l’etica e la politica conforme ad esse, cioè funzionano quasi da «sperimentatori» storici di esse concezioni. I partiti selezionano individualmente la massa operante e la selezione avviene sia nel campo pratico che in quello teorico congiuntamente, con un rapporto tanto più stretto tra teoria e pratica quanto più la concezione è vitalmente e radicalmente innovatrice e antagonistica dei vecchi modi di pensare.
Perciò si può dire che i partiti sono gli elaboratori delle nuove intellettualità integrali e totalitarie, cioè il crogiolo dell’unificazione di teoria e pratica intesa come processo storico reale e si capisce come sia necessaria la formazione per adesione individuale e non del tipo «laburista» perché, se si tratta di dirigere organicamente «tutta la massa economicamente attiva» si tratta di dirigerla non secondo vecchi schemi ma innovando, e l’innovazione non può diventare di massa, nei suoi primi stadi, se non per il tramite di una élite in cui la concezione implicita nella umana attività sia già diventata in una certa misura coscienza attuale coerente e sistematica e volontà precisa e decisa.
Perché e come si diffondono, diventando popolari, le nuove concezioni del mondo? In questo processo di diffusione (che è nello stesso tempo di sostituzione del vecchio e molto spesso di combinazione tra il nuovo e il vecchio) influiscono, e come e in che misura, la forma razionale in cui la nuova concezione è esposta e presentata, l’autorità (in quanto sia riconosciuta ed apprezzata almeno genericamente) dell’espositore e dei pensatori e scienziati che l’espositore chiama in suo sostegno, l’appartenere alla stessa organizzazione di chi sostiene la nuova concezione (dopo però essere entrati nell’organizzazione per altro motivo che non sia il condividere la nuova concezione)?
Questi elementi in realtà variano a seconda del gruppo sociale e del livello culturale del gruppo dato. Ma la ricerca interessa specialmente per ciò che riguarda le masse popolari, che più difficilmente mutano di concezione, e che non le mutano mai, in ogni caso, accettandole nella forma «pura», per dir così, ma solo e sempre come combinazione più o meno eteroclita e bizzarra. La forma razionale, logicamente coerente, la completezza del ragionamento che non trascura nessun argomento positivo o negativo di un qualche peso, ha la sua importanza, ma è ben lontana dall’essere decisiva; essa può essere decisiva in via subordinata, quando la persona data è già in condizioni di crisi intellettuale, ondeggia tra il vecchio e il nuovo, ha perduto la fede nel vecchio e ancora non si è decisa per il nuovo ecc.
Così si può dire per l’autorità dei pensatori e scienziati. Essa è molto grande nel popolo, ma di fatto ogni concezione ha i suoi pensatori e scienziati da porre innanzi e l’autorità è divisa; inoltre è possibile per ogni pensatore distinguere, porre in dubbio che abbia proprio detto in tal modo ecc.
Si può concludere che il processo di diffusione delle concezioni nuove avviene per ragioni politiche, cioè in ultima istanza sociali, ma che l’elemento formale, della logica coerenza, l’elemento autoritativo e l’elemento organizzativo hanno in questo processo una funzione molto grande subito dopo che l’orientamento generale è avvenuto, sia nei singoli individui che in gruppi numerosi. Da ciò si conclude però che nelle masse in quanto tali la filosofia non può essere vissuta che come una fede.
La religione, e una determinata chiesa, mantiene la sua comunità di fedeli (entro certi limiti, delle necessità dello sviluppo storico generale) nella misura in cui intrattiene permanentemente e organizzatamente la fede propria, ripetendone l’apologetica indefessamente, lottando in ogni momento e sempre con argomenti simili, e mantenendo una gerarchia di intellettuali che alla fede diano almeno l’apparenza della dignità del pensiero. Ogni volta che la continuità dei rapporti tra chiesa e fedeli è stata interrotta violentemente, per ragioni politiche, come è avvenuto durante la Rivoluzione francese, le perdite subite dalla chiesa sono state incalcolabili e se le condizioni di difficile esercizio delle pratiche abitudinarie si fossero protratte oltre certi limiti di tempo, è da pensare che tali perdite sarebbero state definitive e una nuova religione sarebbe sorta, come del resto in Francia è sorta in combinazione col vecchio cattolicismo.
Se ne deducono determinate necessità per ogni movimento culturale che tenda a sostituire il senso comune e le vecchie concezioni del mondo in generale: 1) di non stancarsi mai dal ripetere i propri argomenti (variandone letterariamente la forma): la ripetizione è il mezzo didattico più efficace per operare sulla mentalità popolare; 2) di lavorare incessantemente per elevare intellettualmente sempre più vasti strati popolari, cioè per dare personalità all’amorfo elemento di massa, ciò che significa di lavorare a suscitare élites di intellettuali di un tipo nuovo che sorgano direttamente dalla massa pur rimanendo a contatto con essa per diventarne le «stecche» del busto. Questa seconda necessità, se soddisfatta, è quella che realmente modifica il «panorama ideologico» di un’epoca.
Pare necessario che il lavorio di ricerca di nuove verità e di migliori, più coerenti e chiare formulazioni delle verità stesse sia lasciato all’iniziativa libera dei singoli scienziati, anche se essi continuamente ripongono in discussione gli stessi principi che paiono i più essenziali. Non sarà del resto difficile mettere in chiaro quando tali iniziative di discussione abbiano motivi interessati e non di carattere scientifico. Non è del resto impossibile pensare che le iniziative individuali siano disciplinate e ordinate, in modo che esse passino attraverso il crivello di accademie o istituti culturali di vario genere e solo dopo essere state selezionate diventino pubbliche ecc.
Sarebbe interessante studiare in concreto, per un singolo paese, l’organizzazione culturale che tiene in movimento il mondo ideologico ed esaminarne il funzionamento pratico. Uno studio del rapporto numerico tra il personale che professionalmente è dedito al lavoro attivo culturale e la popolazione dei singoli paesi sarebbe anche utile, con approssimativo calcolo delle forze libere. La scuola, in tutti i suoi gradi, e la chiesa sono le due maggiori organizzazioni culturali in ogni paese, per il numero del personale che occupano. I giornali, le riviste, e l’attività libraria, le istituzioni scolastiche private, sia in quanto integrano la scuola di Stato, sia come istituzioni di cultura del tipo Università popolare. Altre professioni incorporano nella loro attività specializzata una frazione culturale non indifferente, come quella dei medici, degli ufficiali dell’esercito, della magistratura.
Ma è da notare che in tutti i paesi, sia pure in misura diversa, esiste una grande frattura tra le masse popolari e i gruppi intellettuali, anche quelli più numerosi e più vicini alla periferia nazionale, come i maestri e i preti. E che ciò avviene perché, anche dove i governanti ciò affermano a parole, lo Stato come tale non ha una concezione unitaria, coerente e omogenea, per cui i gruppi intellettuali sono disgregati tra strato e strato e nella sfera dello stesso strato. L’università, eccetto che in alcuni paesi, non esercita nessuna funzione unificatrice; spesso un pensatore libero ha più influsso di tutta la istituzione universitaria ecc.
§51 Serie di concetti e di posizioni filosofiche da esaminare in una introduzione allo studio della filosofia: trascendenza, teologia, filosofia speculativa, storicismo speculativo. La «speculazione» (in senso idealistico) non ha introdotto una trascendenza di nuovo tipo nella riforma filosofica caratterizzata dalle concezioni immanentistiche? Pare che solo la filosofia della prassi sia la concezione conseguentemente «immanentistica». Sono specialmente da rivedere e criticare tutte le teorie storicistiche di carattere speculativo. Si potrebbe scrivere un nuovo Anti‑Dühring che potrebbe essere un «Anti‑Croce» da questo punto di vista, riassumendo non solo la polemica contro la filosofia speculativa, ma anche quella contro il positivismo e il meccanicismo e le forme deteriori della filosofia della prassi.
§59 Cosa è la filosofia? Un’attività puramente ricettiva o tutto al più ordinatrice, oppure una attività assolutamente creativa? Occorre definire cosa s’intende per «ricettivo», «ordinatore», «creativo». «Ricettivo» implica la certezza di un mondo esterno assolutamente immutabile, che esiste «in generale»; obbiettivamente nel senso volgare del termine. «Ordinatore» si avvicina a «ricettivo»: sebbene implichi un’attività nel pensiero, questa attività è limitata e angusta. Ma cosa significa «creativo»? Significherà che il mondo esterno è creato dal pensiero? Ma da qual pensiero e di chi? Si può cadere nel solipsismo e infatti ogni forma di idealismo cade nel solipsismo necessariamente.
Per sfuggire al solipsismo e nello stesso tempo alle concezioni meccanicistiche che sono implicite nella concezione del pensiero come attività ricettiva e ordinatrice, occorre porre la quistione «storicisticamente» e nello stesso tempo porre a base della filosofia la «volontà» (in ultima analisi l’attività pratica o politica), ma una volontà razionale, non arbitraria, che si realizza in quanto corrisponde a necessità obbiettive storiche, cioè in quanto è la stessa storia universale nel momento della sua attuazione progressiva; se questa volontà è rappresentata inizialmente da un singolo individuo, la sua razionalità è documentata da ciò che essa viene accolta dal gran numero, e accolta permanentemente, cioè diventa una cultura, un «buon senso», una concezione del mondo con una etica conforme alla sua struttura.
§53 Filosofia speculativa. Non bisogna nascondersi le difficoltà che presenta la discussione e la critica del carattere «speculativo» di certi sistemi filosofici e la «negazione» teorica della «forma speculativa» delle concezioni filosofiche. Quistioni che nascono: 1) l’elemento «speculativo» è proprio di ogni filosofia, è la forma stessa che deve assumere ogni costruzione teorica in quanto tale cioè «speculazione» è sinonimo di filosofia e di teoria? 2) oppure è da farsi una quistione «storica»: il problema è solo un problema storico e non teorico nel senso che ogni concezione del mondo, in una sua determinata fase storica, assume una forma «speculativa» che ne rappresenta l’apogeo e l’inizio del dissolvimento? Analogia e connessione collo sviluppo dello Stato, che dalla fase «economico‑corporativa» passa alla fase «egemonica» (di consenso attivo).
Si può dire cioè che ogni cultura ha il suo momento speculativo o religioso, che coincide col periodo di completa egemonia del gruppo sociale che esprime e forse coincide proprio col momento in cui l’egemonia reale si disgrega alla base, molecolarmente, ma il sistema di pensiero, appunto perciò (per reagire alla disgregazione) si perfeziona dogmaticamente, diventa una «fede» trascendentale: perciò si osserva che ogni epoca così detta di decadenza (in cui avviene una disgregazione del vecchio mondo) è caratterizzata da un pensiero raffinato e altamente «speculativo».
La critica pertanto deve risolvere la speculazione nei suoi termini reali di ideologia politica, di strumento d’azione pratica; ma la critica stessa avrà una sua fase speculativa, che ne segnerà l’apogeo. La quistione è questa: se questo apogeo non sia per essere l’inizio di una fase storica di nuovo tipo, in cui necessità‑libertà essendosi compenetrate organicamente non ci saranno più contraddizioni sociali e la sola dialettica sarà quella ideale, dei concetti e non più delle forze storiche.
Concetti
§63 Concetto di «ideologia». L’«ideologia» è stata un aspetto del «sensismo», ossia del materialismo francese del XVIII secolo. Il suo significato originario era quello di «scienza delle idee» e poiché l’analisi era il solo metodo riconosciuto e applicato dalla scienza, significava «analisi delle idee» cioè «ricerca dell’origine delle idee». Le idee dovevano essere scomposte nei loro «elementi» originari e questi non potevano essere altro che le «sensazioni»: le idee derivano dalle sensazioni. Ma il sensismo poteva associarsi senza troppa difficoltà colla fede religiosa, con le credenze più estreme nella «potenza dello Spirito» e nei suoi «destini immortali» e così avviene che il Manzoni, anche dopo la sua conversione o ritorno al cattolicismo, anche quando scrisse gli Inni Sacri, mantenne la sua adesione di massima al sensismo, finché non conobbe la filosofia del Rosmini.
Come il concetto di Ideologia da «scienza delle idee», da «analisi sull’origine delle idee», sia passato a significare un determinato «sistema di idee» è da esaminare storicamente, poiché logicamente il processo è facile da cogliere e comprendere.
Si può affermare che il Freud sia l’ultimo degli Ideologi e che un «ideologo» sia il De Man, per cui appare tanto più strano l’«entusiasmo» per il De Man del Croce e dei crociani, se non ci fosse una giustificazione «pratica» di tale entusiasmo.
§ 27. Concetto di «ortodossia». Da alcuni punti svolti precedentemente, appare che il concetto di «ortodossia» deve essere rinnovato e riportato alle sue origini autentiche. L’ortodossia non deve essere ricercata in questo o quello dei seguaci della filosofia della praxis, in questa o quella tendenza legata a correnti estranee alla dottrina originale, ma nel concetto fondamentale che la filosofia della praxis «basta a se stessa», contiene in sé tutti gli elementi fondamentali per costruire una totale ed integrale concezione del mondo, una totale filosofia e teoria delle scienze naturali, non solo, ma anche per vivificare una integrale organizzazione pratica della società, cioè per diventare una totale, integrale civiltà. Questo concetto così rinnovato di ortodossia, serve a precisare meglio l’attributo di «rivoluzionario» che si suole con tanta facilità applicare a diverse concezioni del mondo, teorie, filosofie. Il cristianesimo fu rivoluzionario in confronto del paganesimo perché fu un elemento di completa scissione tra i sostenitori del vecchio e del nuovo mondo.
Una teoria è appunto «rivoluzionaria» nella misura in cui è elemento di separazione e distinzione consapevole in due campi, in quanto è un vertice inaccessibile al campo avversario. Ritenere che la filosofia della praxis non sia una struttura di pensiero completamente autonoma e indipendente, in antagonismo con tutte le filosofie e le religioni tradizionali, significa in realtà non aver tagliato i legami col vecchio mondo, se non addirittura aver capitolato.
La filosofia della praxis non ha bisogno di sostegni eterogenei, essa stessa è così robusta e feconda di nuove verità che il vecchio mondo vi ricorre per fornire il suo arsenale di armi più moderne ed efficaci. Ciò significa che la filosofia della praxis comincia ad esercitare una propria egemonia sulla cultura tradizionale, ma questa, che è ancora robusta e soprattutto è più raffinata e leccata, tenta di reagire come la Grecia vinta, per finire di vincere il rozzo vincitore romano.
Nota I. Una delle cause dell’errore per cui si va alla ricerca di una filosofia generale che stia alla base della filosofia della praxis e si nega implicitamente a questa una originalità di contenuto e di metodo pare consista in ciò: che si fa confusione tra la cultura filosofica personale del fondatore della filosofia della praxis, cioè tra le correnti filosofiche e i grandi filosofi di cui egli si è fortemente interessato da giovane e il cui linguaggio spesso riproduce (sempre però con spirito di distacco e facendo notare talvolta che così vuol far capire meglio il suo proprio concetto) e le origini o le parti costitutive della filosofia della praxis.
Lo studio della cultura filosofica di un uomo come il fondatore della filosofia della praxis non solo è interessante ma è necessario purché tuttavia non si dimentichi che esso fa parte esclusivamente della ricostruzione della sua biografia intellettuale e che gli elementi di spinozismo, di feuerbachismo, di hegelismo, di materialismo francese, ecc., non sono per nulla parti essenziali della filosofia della praxis né questa si riduce a quelli, ma che ciò che più interessa è appunto il superamento delle vecchie filosofie, la nuova sintesi o gli elementi di una nuova sintesi, il nuovo modo di concepire la filosofia i cui elementi sono contenuti negli aforismi o dispersi negli scritti del fondatore della filosofia della praxis e che appunto bisogna sceverare e sviluppare coerentemente.
In sede teorica la filosofia della praxis non si confonde e non si riduce a nessun’altra filosofia: essa non è solo originale in quanto supera le filosofie precedenti, ma specialmente in quanto apre una strada completamente nuova, cioè rinnova da cima a fondo il modo di concepire la filosofia stessa. In sede di ricerca storico‑biografica si studierà da quali interessi il fondatore della filosofia della praxis ha preso occasione per il suo filosofare, tenendo conto della psicologia del giovane studioso che volta per volta si lascia attrarre intellettualmente da ogni nuova corrente che studia ed esamina, e che si forma una sua individualità per questo stesso errare che crea lo spirito critico e la potenza di pensiero originale dopo avere sperimentato e messi a confronto tanti pensieri contrastanti, – quali elementi ha incorporato rendendoli omogenei al suo pensiero, ma specialmente ciò che è nuova creazione. È certo che l’hegelismo è il più importante (relativamente) dei motivi al filosofare del nostro autore, anche e specialmente perché l’hegelismo ha tentato di superare le concezioni tradizionali di idealismo e di materialismo in una nuova sintesi che ebbe certo una importanza eccezionale e rappresenta un momento storico‑mondiale della ricerca filosofica.
VI. Appunti miscellanei.
§50 Storia della terminologia e delle metafore. L’espressione tradizionale che l’«anatomia» della società è costituita dalla sua «economia» è una semplice metafora ricavata dalle discussioni svoltesi intorno alle scienze naturali e alla classificazione delle specie animali, classificazione entrata nella sua fase «scientifica» quando appunto si partì dall’anatomia e non più da caratteri secondari e accidentali. La metafora era giustificata anche dalla sua «popolarità», cioè dal fatto che offriva anche a un pubblico non intellettualmente raffinato, uno schema di facile comprensione (di questo fatto non si tiene quasi mai il conto debito: che la filosofia della prassi, proponendosi di riformare intellettualmente e moralmente strati sociali culturalmente arretrati, ricorre a metafore talvolta «grossolane e violente» nella loro popolarità).
Lo studio dell’origine linguistico‑culturale di una metafora impiegata per indicare un concetto o un rapporto nuovamente scoperto, può aiutare a comprendere meglio il concetto stesso, in quanto esso viene riportato al mondo culturale, storicamente determinato, in cui è sorto, così come è utile per precisare il limite della metafora stessa, cioè ad impedire che essa si materializzi e si meccanicizzi. Le scienze sperimentali e naturali sono state, in una certa epoca, un «modello», un «tipo»; e poiché le scienze sociali (la politica e la storiografia) cercavano di trovare un fondamento obbiettivo e scientificamente adatto a dar loro la stessa sicurezza ed energia delle scienze naturali, è facile comprendere che a queste si sia ricorso per crearne il linguaggio.
D’altronde, da questo punto di vista, occorre distinguere tra i due fondatori della filosofia della prassi, il cui linguaggio non ha la stessa origine culturale e le cui metafore riflettono interessi diversi.
Un altro spunto «linguistico» è legato allo sviluppo delle scienze giuridiche: si dice nell’introduzione alla Critica dell’economia politica che «non si può giudicare un’epoca storica da ciò che essa pensa di se stessa», cioè dal complesso delle sue ideologie. Questo principio è da connettere a quello quasi contemporaneo per cui un giudice non può giudicare l’imputato da ciò che l’imputato pensa di se stesso e dei propri atti od omissioni (sebbene ciò non significhi che la nuova storiografia sia concepita come un’attività tribunalizia), principio che ha portato alla radicale riforma dei metodi processuali, ha contribuito a far abolire la tortura e ha dato all’attività giudiziaria e penale una base moderna.
A questo stesso ordine di osservazioni appartiene l’altra quistione riguardante il fatto che le soprastrutture sono considerate come mere e labili «apparenze». Anche in questo «giudizio» è da vedere più un riflesso delle discussioni nate sul terreno delle scienze naturali (della zoologia e della classificazione delle specie, della scoperta che l’«anatomia» deve essere posta alla base delle classificazioni) che un derivato coerente del materialismo metafisico, per il quale i fatti spirituali sono una mera apparenza, irreale, illusoria, dei fatti corporali. A questa origine storicamente accertabile del «giudizio» si è venuto in parte sovrapponendo e in parte addirittura sostituendo ciò che si può dire un mero «atteggiamento psicologico» senza portata «conoscitiva o filosofica», come non è difficile dimostrare, in cui il contenuto teorico è scarsissimo (o indiretto, e forse si limita a un atto di volontà, che in quanto universale, ha un valore filosofico o conoscitivo implicito) e predomina la immediata passione polemica non solo contro una esagerata e deformata affermazione in senso inverso (che solo lo «spirituale» sia reale) ma contro l’«organizzazione» politica‑culturale di cui tale teoria è espressione.
Sul saggio popolare di Bucharin
II. Osservazioni e note critiche su un tentativo di «Saggio popolare di sociologia».
§13 Un lavoro come il Saggio popolare, destinato essenzialmente a una comunità di lettori che non sono intellettuali di professione, avrebbe dovuto prendere le mosse dall’analisi critica della filosofia del senso comune, che è la «filosofia dei non filosofi», cioè la concezione del mondo assorbita acriticamente dai vari ambienti sociali e culturali in cui si sviluppa l’individualità morale dell’uomo medio. Il senso comune non è una concezione unica, identica nel tempo e nello spazio: è il «folclore» della filosofia e come il folclore si presenta in forme innumerevoli: il suo tratto fondamentale e più caratteristico è di essere una concezione (anche nei singoli cervelli) disgregata, incoerente, inconseguente, conforme alla posizione sociale e culturale delle moltitudini di cui esso è la filosofia. Quando nella storia si elabora un gruppo sociale omogeneo, si elabora anche, contro il senso comune, una filosofia omogenea, cioè coerente e sistematica.
Il Saggio popolare sbaglia nel partire (implicitamente) dal presupposto che a questa elaborazione di una filosofia originale delle masse popolari si oppongano i grandi sistemi delle filosofie tradizionali e la religione dell’alto clero, cioè le concezioni del mondo degli intellettuali e dell’alta cultura. In realtà questi sistemi sono ignoti alla moltitudine e non hanno efficacia diretta nel suo modo di pensare e di operare. Certo ciò non significa che essi siano del tutto senza efficacia storica: ma questa efficacia è d’altro genere. Questi sistemi influiscono sulle masse popolari come forza politica esterna, come elemento di forza coesiva delle classi dirigenti, come elemento quindi di subordinazione a una egemonia esteriore, che limita il pensiero originale delle masse popolari negativamente, senza influirvi positivamente, come fermento vitale di trasformazione intima di ciò che le masse pensano embrionalmente e caoticamente intorno al mondo e alla vita.
Gli elementi principali del senso comune sono forniti dalle religioni e quindi il rapporto tra senso comune e religione è molto più intimo che tra senso comune e sistemi filosofici degli intellettuali. Ma anche per la religione occorre distinguere criticamente. Ogni religione, anche la cattolica (anzi specialmente la cattolica, appunto per i suoi sforzi di rimanere unitaria «superficialmente», per non frantumarsi in chiese nazionali e in stratificazioni sociali) è in realtà una molteplicità di religioni distinte e spesso contraddittorie: c’è un cattolicismo dei contadini, un cattolicismo dei piccoli borghesi e operai di città, un cattolicismo delle donne e un cattolicismo degli intellettuali anch’esso variegato e sconnesso. Ma nel senso comune influiscono non solo le forme più rozze e meno elaborate di questi varii cattolicismi, attualmente esistenti; hanno influito e sono componenti dell’attuale senso comune le religioni precedenti e le forme precedenti dell’attuale cattolicismo, i movimenti ereticali popolari, le superstizioni scientifiche legate alle religioni passate ecc.
Nel senso comune predominano gli elementi «realistici», materialistici, cioè il prodotto immediato della sensazione grezza, ciò che d’altronde non è in contraddizione con l’elemento religioso, tutt’altro; ma questi elementi sono «superstiziosi», acritici. Ecco pertanto un pericolo rappresentato dal «Saggio popolare»; il quale spesso conferma questi elementi acritici, per cui il senso comune è ancora rimasto tolemaico, antropomorfico, antropocentrico, invece di criticarli scientificamente.
Ciò che si è detto sopra a proposito del Saggio popolare che critica le filosofie sistematiche invece di prender le mosse dalla critica del senso comune, deve essere inteso come appunto metodologico, e in certi limiti. Certo non vuol dire che sia da trascurare la critica alle filosofie sistematiche degli intellettuali. Quando, individualmente, un elemento di massa supera criticamente il senso comune, accetta, per questo fatto stesso, una filosofia nuova: ecco quindi la necessità, in una esposizione della filosofia della praxis, della polemica con le filosofie tradizionali. Anzi per questo suo carattere tendenziale di filosofia di massa, la filosofia della praxis non può essere concepita che in forma polemica, di perpetua lotta. Tuttavia il punto di partenza deve sempre essere il senso comune, che spontaneamente è la filosofia delle moltitudini che si tratta di rendere omogenee ideologicamente.
Nella letteratura filosofica francese esistono trattazioni del «senso comune» più che in altre letterature nazionali: ciò è dovuto al carattere più strettamente «popolare‑nazionale» della cultura francese, cioè al fatto che gli intellettuali tendono, più che altrove, per determinate condizioni tradizionali, ad avvicinarsi al popolo per guidarlo ideologicamente e tenerlo collegato al gruppo dirigente. Si potrà trovare quindi nella letteratura francese molto materiale sul senso comune da utilizzare ed elaborare; l’atteggiamento della cultura filosofica francese verso il senso comune può offrire anzi un modello di costruzione ideologica egemonica. Anche la cultura inglese e americana possono offrire molti spunti, ma non in modo così completo e organico come quella francese.
Il «senso comune» è stato considerato in vari modi; addirittura come base della filosofia; o è stato criticato dal punto di vista di un’altra filosofia. In realtà, in tutti i casi, il risultato fu di superare un determinato senso comune per crearne un altro più aderente alla concezione del mondo del gruppo dirigente.
Ciò che si è detto finora non significa che nel senso comune non ci siano delle verità. Significa che il senso comune è un concetto equivoco, contradditorio, multiforme, e che riferirsi al senso comune come riprova di verità è un non senso. Si potrà dire con esattezza che una certa verità è diventata di senso comune per indicare che essa si è diffusa oltre la cerchia dei gruppi intellettuali, ma non si fa altro in tal caso che una constatazione di carattere storico e un’affermazione di razionalità storica; in questo senso, e purché sia impiegato con sobrietà, l’argomento ha un suo valore, appunto perché il senso comune è grettamente misoneista e conservatore ed essere riusciti a farci penetrare una verità nuova è prova che tale verità ha una bella forza di espansività e di evidenza.
Ricordare l’epigramma del Giusti: «Il buon senso, che un dì fu caposcuola – or nelle nostre scuole è morto affatto. – La scienza, sua figliola, – l’uccise per veder com’era fatto». Può servire per introdurre un capitolo e può servire a indicare come si impieghi il termine di buon senso e di senso comune in modo equivoco: come «filosofia», come determinato modo di pensare, con un certo contenuto di credenze e di opinioni, e come atteggiamento benevolmente indulgente, nel suo disprezzo, per l’astruso e il macchinoso. Era perciò necessario che la scienza uccidesse un determinato buon senso tradizionale, per creare un «nuovo» buon senso.
Un accenno al senso comune e alla saldezza delle sue credenze si trova spesso in Marx. Ma si tratta di riferimento non alla validità del contenuto di tali credenze ma appunto alla loro formale saldezza e quindi alla loro imperatività quando producono norme di condotta. Nei riferimenti è anzi implicita l’affermazione della necessità di nuove credenze popolari, cioè di un nuovo senso comune e quindi di una nuova cultura e di una nuova filosofia che si radichino nella coscienza popolare con la stessa saldezza e imperatività delle credenze tradizionali.
§14 Sulla metafisica. Si può ricavare dal Saggio popolare una critica della metafisica e della filosofia speculativa? Occorre dire che all’autore sfugge il concetto stesso di metafisica, in quanto gli sfuggono i concetti di movimento storico, di divenire e quindi della stessa dialettica.
La filosofia del Saggio popolare (implicita in esso) può essere chiamata un aristotelismo positivistico, un adattamento della logica formale ai metodi delle scienze fisiche e naturali. La legge di causalità, la ricerca della regolarità, normalità, uniformità sono sostituite alla dialettica storica. Ma come da questo modo di concepire può dedursi il superamento, il «rovesciamento della praxis»? L’effetto, meccanicamente, non può mai superare la causa o il sistema di cause, quindi non può aversi altro svolgimento che quello piatto e volgare dell’evoluzionismo.
Se l’«idealismo speculativo» è la scienza delle categorie e della sintesi a priori dello spirito, cioè una forma di astrazione antistoricistica, la filosofia implicita nel Saggio popolare è un idealismo alla rovescia, nel senso che dei concetti e delle classificazioni empiriche sostituiscono le categorie speculative, altrettanto astratte e antistoriche di queste.
§26 Quistioni generali. Una delle osservazioni preliminari è questa: che il titolo non corrisponde al contenuto del libro. «Teoria della filosofia della praxis» dovrebbe significare sistemazione logica e coerente dei concetti filosofici che sono sparsamente noti sotto il nome di filosofia della praxis (e che molti spesso sono spurii, di derivazione estranea e come tali dovrebbero essere criticati ed esposti). Nei primi capitoli dovrebbero essere trattate le quistioni: che cosa è la filosofia? in che senso una concezione del mondo può chiamarsi filosofia? come è stata finora concepita la filosofia? la filosofia della praxis innova questa concezione? cosa significa una filosofia «speculativa»? la filosofia della praxis potrà mai avere una forma speculativa? quali rapporti esistono tra le ideologie, le concezioni del mondo, le filosofie? quali sono o debbono essere i rapporti tra teoria e pratica? questi rapporti come sono concepiti dalle filosofie tradizionali? ecc. ecc. La risposta a queste ed altre domande costituisce la «teoria» della filosofia della praxis.
Così non è giustificato il nesso tra il titolo generale Teoria ecc. e il sottotitolo Saggio popolare. Il sottotitolo sarebbe il titolo più esatto se al termine di «sociologia» si desse un significato molto circoscritto. Infatti si presenta la quistione di che cosa è la «sociologia»? Non è essa un tentativo di una cosidetta scienza esatta (cioè positivista) dei fatti sociali, cioè della politica e della storia? cioè un embrione di filosofia? La sociologia non ha cercato di fare qualcosa di simile alla filosofia della praxis?
Bisogna però intendersi: la filosofia della praxis è nata sotto forma di aforismi e di criteri pratici per un puro caso, perché il suo fondatore ha dedicato le sue forze intellettuali ad altri problemi, specialmente economici (in forma sistematica): ma in questi criteri pratici e in questi aforismi è implicita tutta una concezione del mondo, una filosofia. La sociologia è stata un tentativo di creare un metodo della scienza storico‑politica, in dipendenza di un sistema filosofico già elaborato, il positivismo evoluzionistico, sul quale la sociologia ha reagito, ma solo parzialmente. La sociologia è quindi diventata una tendenza a sé, è diventata la filosofia dei non filosofi, un tentativo di descrivere e classificare schematicamente fatti storici e politici, secondo criteri costruiti sul modello delle scienze naturali.
La sociologia è dunque un tentativo di ricavare «sperimentalmente» le leggi di evoluzione della società umana in modo da «prevedere» l’avvenire con la stessa certezza con cui si prevede che da una ghianda si svilupperà una quercia.
Nota I. Le cosidette leggi sociologiche, che vengono assunte come cause – il tal fatto avviene per la tal legge ecc. – non hanno nessuna portata causativa; esse sono quasi sempre tautologie e paralogismi. Di solito esse non sono che un duplicato del fatto stesso osservato. Si descrive il fatto o una serie di fatti, con un processo meccanico di generalizzazione astratta, si deriva un rapporto di somiglianza e questo si chiama legge, che viene assunta in funzione di causa. Ma in realtà cosa si è trovato di nuovo? Di nuovo c’è solo il nome collettivo dato a una serie di fatterelli, ma i nomi non sono novità. (Nei trattati del Michels si può trovare tutto un registro di tali generalizzazioni tautologiche: l’ultima e più famosa è quella del «capo carismatico»). Non si osserva che così si cade in una forma barocca di idealismo platonico, perché queste leggi astratte rassomigliano stranamente alle idee pure di Platone che sono l’essenza dei fatti reali terrestri.
§17 La così detta «realtà del mondo esterno». Tutta la polemica contro la concezione soggettivistica della realtà, con la quistione «terribile» della «realtà oggettiva del mondo esterno», è male impostata, peggio condotta e in gran parte futile e oziosa (mi riferisco anche alla memoria presentata al Congresso di storia delle scienze, tenuto a Londra nel giugno‑luglio 1931). Dal punto di vista di un «saggio popolare» tutta la trattazione risponde più a un prurito di pedanteria intellettuale che ad una necessità logica. Il pubblico popolare non crede neanche che si possa porre un tale problema, se il mondo esterno esista obbiettivamente. Basta enunziare così il problema per sentire un irrefrenabile e gargantuesco scoppio di ilarità. Il pubblico «crede» che il mondo esterno sia obbiettivamente reale, ma qui appunto nasce la quistione: qual è l’origine di questa «credenza» e quale valore critico ha «obbiettivamente»? Infatti questa credenza è di origine religiosa anche se vi partecipa è religiosamente indifferente. Poiché tutte le religioni hanno insegnato e insegnano che il mondo, la natura, l’universo è stato creato da dio prima della creazione dell’uomo e quindi l’uomo ha trovato il mondo già bell’e pronto, catalogato e definito una volta per sempre, questa credenza è diventata un dato ferreo del «senso comune» e vive con la stessa saldezza anche se il sentimento religioso è spento o sopito. Ecco allora che fondarsi su questa esperienza del senso comune per distruggere con la «comicità» la concezione soggettivistica ha un significato piuttosto «reazionario», di ritorno implicito al sentimento religioso; infatti gli scrittori o gli oratori cattolici ricorrono allo stesso mezzo per ottenere lo stesso effetto di ridicolo corrosivo.
Nella memoria presentata al Congresso di Londra, l’autore del Saggio popolare implicitamente risponde a questo appunto (che è poi di carattere esterno, sebbene abbia la sua importanza) notando che il Berkeley, al quale si deve la prima enunziazione compiuta della concezione soggettivistica, era un arcivescovo (quindi pare si debba dedurre l’origine religiosa della teoria) e poi dicendo che solo un «Adamo» che si trova per la prima volta nel mondo, può pensare che questo esista solo perché egli lo pensa (e anche qui si insinua l’origine religiosa della teoria, ma senza molto o nessuno vigore di convinzione).
Il problema invece è questo, mi pare: come si può spiegare che una tale concezione, che non è certo una futilità, anche per un filosofo della praxis, oggi, esposta al pubblico, possa solo provocare il riso e lo sberleffo? Mi pare il caso più tipico della distanza che si è venuta formando tra scienza e vita, tra certi gruppi di intellettuali, che pure sono alla direzione «centrale» dell’alta coltura e le grandi masse popolari: e come il linguaggio della filosofia sia diventato un gergo che ottiene lo stesso effetto di quello di Arlecchino. Ma se il «senso comune» si esilara, il filosofo della praxis dovrebbe lo stesso cercare una spiegazione e del reale significato che la concezione ha, e del perché essa sia nata e si sia diffusa tra gli intellettuali, e anche del perché essa faccia ridere il senso comune.
È certo che la concezione soggettivistica è propria della filosofia moderna nella sua forma compiuta e avanzata, se da essa e come superamento di essa è nato il materialismo storico, che nella teoria delle superstrutture pone in linguaggio realistico e storicistico ciò che la filosofia tradizionale esprimeva in forma speculativa. La dimostrazione di questo assunto, che qui è appena accennato, avrebbe la più grande portata culturale, perché metterebbe fine a una serie di discussioni futili quanto oziose e permetterebbe uno sviluppo organico della filosofia della praxis, fino a farla diventare l’esponente egemonico dell’alta cultura. Fa anzi meraviglia che il nesso tra l’affermazione idealistica che la realtà del mondo è una creazione dello spirito umano e l’affermazione della storicità e caducità di tutte le ideologie da parte della filosofia della praxis, perché le ideologie sono espressioni della struttura e si modificano col modificarsi di essa, non sia stato mai affermato e svolto convenientemente.
La quistione è strettamente connessa, e si capisce, alla quistione del valore delle scienze così dette esatte o fisiche e alla posizione che esse sono venute assumendo nel quadro della filosofia della praxis di un quasi feticismo, anzi della sola e vera filosofia o conoscenza del mondo.
La formulazione di Engels che «l’unità del mondo consiste nella sua materialità dimostrata... dal lungo e laborioso sviluppo della filosofia e delle scienze naturali» contiene appunto il germe della concezione giusta, perché si ricorre alla storia e all’uomo per dimostrare la realtà oggettiva. Oggettivo significa sempre «umanamente oggettivo», ciò che può corrispondere esattamente a «storicamente soggettivo», cioè oggettivo significherebbe «universale soggettivo». L’uomo conosce oggettivamente in quanto la conoscenza è reale per tutto il genere umano storicamente unificato in un sistema culturale unitario; ma questo processo di unificazione storica avviene con la sparizione delle contraddizioni interne che dilaniano la società umana, contraddizioni che sono la condizione della formazione dei gruppi e della nascita delle ideologie non universali concrete ma rese caduche immediatamente dall’origine pratica della loro sostanza. C’è quindi una lotta per l’oggettività (per liberarsi dalle ideologie parziali e fallaci) e questa lotta è la stessa lotta per l’unificazione culturale del genere umano. Ciò che gli idealisti chiamano «spirito» non è un punto di partenza, ma di arrivo, l’insieme delle soprastrutture in divenire verso l’unificazione concreta e oggettivamente universale e non già un presupposto unitario ecc.
La scienza sperimentale è stata (ha offerto) finora il terreno in cui una tale unità culturale ha raggiunto il massimo di estensione: essa è stata l’elemento di conoscenza che ha più contribuito a unificare lo «spirito», a farlo diventare più universale; essa è la soggettività più oggettivata e universalizzata concretamente.
Il concetto di «oggettivo» del materialismo metafisico pare voglia significare una oggettività che esiste anche all’infuori dell’uomo, ma quando si afferma che una realtà esisterebbe anche se non esistesse l’uomo o si fa una metafora o si cade in una forma di misticismo. Noi conosciamo la realtà solo in rapporto all’uomo e siccome l’uomo è divenire storico anche la conoscenza e la realtà sono un divenire, anche l’oggettività è un divenire ecc.
§18 Giudizio sulle filosofie passate. La superficiale critica del soggettivismo nel Saggio popolare rientra in una quistione più generale, che è quella dell’atteggiamento preso verso le filosofie e i filosofi passati. Giudicare tutto il passato filosofico come un delirio e una follia non è solo un errore di antistoricismo, perché contiene la pretesa anacronistica che nel passato si dovesse pensare come oggi, ma è un vero e proprio residuo di metafisica perché suppone un pensiero dogmatico valido in tutti i tempi e in tutti i paesi, alla cui stregua si giudica tutto il passato. L’antistoricismo metodico non è altro che metafisica.
§19 Sull’arte. Nel capitolo dedicato all’arte, si afferma che anche le più recenti opere sull’estetica pongono l’identità di forma e contenuto. Questo può essere assunto come uno degli esempi più vistosi dell’incapacità critica nello stabilire la storia dei concetti e nell’identificare il reale significato dei concetti stessi a seconda delle diverse teorie. Infatti l’identificazione di contenuto e forma è affermata dall’estetica idealistica (Croce) ma su presupposti idealistici e con terminologia idealistica. «Contenuto» e «forma» non hanno quindi il significato che il Saggio suppone.
Che forma e contenuto si identifichino significa che nell’arte il contenuto non è l’«astratto soggetto» cioè l’intrigo romanzesco e la particolare massa di sentimenti generici, ma l’arte stessa, una categoria filosofica un momento «distinto» dello spirito ecc. Né quindi forma significa «tecnica» come il Saggio suppone.
§21 La scienza e gli strumenti scientifici. Si afferma, nel Saggio popolare, che i progressi delle scienze sono dipendenti, come l’effetto dalla causa, dallo sviluppo degli strumenti scientifici. È questo un corollario del principio generale, accolto dal Saggio, e di origine loriana, sulla funzione storica dello «strumento di produzione e di lavoro» che viene sostituito all’insieme dei rapporti sociali di produzione.
Quanto sia superficiale l’affermazione del Saggio si può vedere dall’esempio delle scienze matematiche, che non hanno bisogno di strumento materiale alcuno (lo sviluppo del pallottoliere non credo si possa avanzare) e che sono esse stesse «strumento» di tutte le scienze naturali.
§29 Lo «strumento tecnico». La concezione dello «strumento tecnico» è completamente errata nel Saggio popolare. Dal saggio di B. Croce su Achille Loria (Materialismo storico ed economia marxistica) sembra che appunto il Loria sia stato il primo a sostituire arbitrariamente (o per vanità puerile di scoperte originali) l’espressione di «strumento tecnico» a quella di «forze materiali di produzione» e di «complesso dei rapporti sociali».
§22 Quistioni generali. I. Non è trattato questo punto fondamentale: come nasce il movimento storico sulla base della struttura. Tuttavia il problema è almeno accennato nei Problemi fondamentali del Plekhanov e si poteva svolgere. Questo è poi il punto cruciale di tutte le quistioni che sono nate intorno alla filosofia della praxis e senza averlo risolto non si può risolvere l’altro dei rapporti tra la società e la «natura», al quale nel Saggio è dedicato uno speciale capitolo.
III. È possibile scrivere un libro elementare, un manuale, un Saggio popolare di una dottrina che è ancora allo stadio della discussione, della polemica, dell’elaborazione? Un manuale popolare non può essere concepito se non come l’esposizione, formalmente dogmatica, stilisticamente posata, scientificamente serena, d’un determinato argomento; esso non può essere che un’introduzione allo studio scientifico, e non già l’esposizione di ricerche scientifiche originali, destinato ai giovani o a un pubblico che dal punto di vista della disciplina scientifica è nelle condizioni preliminari dell’età giovanile e che perciò ha immediatamente bisogno di «certezze», di opinioni che si presentano come veridiche e fuori discussione, almeno formalmente.
Se una determinata dottrina non ha ancora raggiunto questa fase «classica» del suo sviluppo, ogni tentativo di «manualizzarla» deve necessariamente fallire, la sua sistemazione logica è solo apparente e illusoria, si tratterà, invece, come appunto il Saggio, di una meccanica giustapposizione di elementi disparati, e che rimangono inesorabilmente sconnessi e slegati nonostante la vernice unitaria data dalla stesura letteraria. Perché allora non porre la quistione nei suoi giusti termini teorici e storici e accontentarsi di un libro in cui la serie dei problemi essenziali della dottrina sia esposta monograficamente? Sarebbe più serio e più «scientifico». Ma si crede volgarmente che scienza voglia assolutamente dire «sistema» e perciò si costruiscono sistemi purchessia, che del sistema non hanno la coerenza intima e necessaria ma solo la meccanica esteriorità.
IV. Nel Saggio manca una trattazione qualsiasi della dialettica. La dialettica viene presupposta, molto superficialmente, non esposta, cosa assurda in un manuale che dovrebbe contenere gli elementi essenziali della dottrina trattata e i cui riferimenti bibliografici devono essere rivolti a stimolare allo studio per allargare e approfondire l’argomento e non sostituire il manuale stesso. L’assenza di una trattazione della dialettica può avere due origini; la prima può essere costituita dal fatto che si suppone la filosofia della praxis scissa in due elementi: una teoria della storia e della politica concepita come sociologia, cioè da costruirsi secondo il metodo delle scienze naturali (sperimentale nel senso grettamente positivistico) e una filosofia propriamente detta, che poi sarebbe il materialismo filosofico o metafisico o meccanico (volgare).
Posta così la quistione, non si capisce più l’importanza e il significato della dialettica che, da dottrina della conoscenza e sostanza midollare della storiografia e della scienza della politica viene degradata a una sottospecie di logica formale, a una scolastica elementare. Il significato della dialettica può essere solo concepito in tutta la sua fondamentalità, solo se la filosofia della praxis è concepita come una filosofia integrale e originale che inizia una nuova fase nella storia e nello sviluppo mondiale del pensiero in quanto supera (e superando ne include in sé gli elementi vitali) sia l’idealismo che il materialismo tradizionali espressioni delle vecchie società. Se la filosofia della praxis non è pensata che subordinatamente a un’altra filosofia, non si può concepire la nuova dialettica, nella quale appunto quel superamento si effettua e si esprime.
§24 Il linguaggio e le metafore. In alcuni punti del Saggio si afferma, così, senz’altra spiegazione, che i primi scrittori della filosofia della praxis impiegano i termini di «immanenza» e «immanente» solo in senso metaforico; pare che la pura affermazione sia in se stessa esauriente. Ma la quistione dei rapporti tra il linguaggio e le metafore non è semplice, tutt’altro. Il linguaggio, intanto, è sempre metaforico. Se forse non si può dire esattamente che ogni discorso è metaforico per rispetto alla cosa od oggetto materiale e sensibile indicati (o al concetto astratto) per non allargare troppo il concetto di metafora, si può però dire che il linguaggio attuale è metaforico per rispetto ai significati e al contenuto ideologico che le parole hanno avuto nei precedenti periodi di civiltà. Un trattato di semantica, quello di Michel Bréal per esempio, può dare un catalogo storicamente e criticamente ricostruito delle mutazioni semantiche di determinati gruppi di parole.
Dal non tener conto di questo fatto, e cioè dal non avere un concetto critico e storicista del fenomeno linguistico, derivano molti errori sia nel campo della scienza che nel campo pratico:
Ma è possibile togliere al linguaggio i suoi significati metaforici ed estensivi? È impossibile. Il linguaggio si trasforma col trasformarsi di tutta la civiltà, per l’affiorare di nuove classi alla coltura, per l’egemonia esercitata da una lingua nazionale sulle altre ecc., e precisamente assume metaforicamente le parole delle civiltà e culture precedenti. Nessuno oggi pensa che la parola «dis‑astro» sia legata all’astrologia e si ritiene indotto in errore sulle opinioni di chi la usa; così anche un ateo può parlare di «dis‑grazia» senza essere ritenuto seguace della predestinazione ecc. Il nuovo significato «metaforico» si estende con l’estendersi della nuova cultura, che d’altronde crea anche parole nuove di zecca e le assume in prestito da altre lingue con un significato preciso, cioè senza l’alone estensivo che avevano nella lingua originale. Così è probabile che per molti il termine di «immanenza» sia conosciuto e capito e usato per la prima volta solo nel nuovo significato «metaforico» che gli è stato dato dalla filosofia della praxis.
§30 La «materia». Che cosa intende per «materia» il Saggio Popolare? In un saggio popolare ancor più che in un libro per i dotti, e specialmente in questo che pretende di essere il primo lavoro del genere, occorre definire con esattezza non solo i concetti fondamentali, ma tutta la terminologia, per evitare le cause di errore occasionate dalle accezioni popolari e volgari delle parole scientifiche. È evidente che per la filosofia della praxis la «materia» non deve essere intesa né nel significato quale risulta dalle scienze naturali (fisica, chimica, meccanica ecc., e questi significati sono da registrare e da studiare nel loro sviluppo storico) né nei suoi significati quali risultano dalle diverse metafisiche materialistiche. Le diverse proprietà fisiche (chimiche, meccaniche ecc.) della materia che nel loro insieme costituiscono la materia stessa (a meno che non si ricaschi in una concezione del noumeno kantiano) sono considerate, ma solo in quanto diventano «elemento economico» produttivo.
La materia non è quindi da considerare come tale, ma come socialmente e storicamente organizzata per la produzione e quindi la scienza naturale come essenzialmente una categoria storica, un rapporto umano.
§32 Quantità e qualità. Nel Saggio popolare si dice (occasionalmente, perché l’affermazione non è giustificata, valutata, non esprime un concetto fecondo, ma è casuale, senza nessi antecedenti e susseguenti) che ogni società è qualcosa di più della mera somma dei suoi componenti individuali. Ciò è vero astrattamente, ma cosa significa concretamente? La spiegazione che ne è stata data, empiricamente, è spesso stata una cosa barocca. Si è detto che cento vacche una per una sono ben diverse da cento vacche insieme che allora sono un armento, facendo una semplice quistione di parole. Così si è detto che nella numerazione arrivati a dieci abbiamo una decina, come se non ci fosse la coppia, il terzetto, il quartetto, ecc., cioè un semplice diverso modo di numerare.
La spiegazione teorico‑pratica più concreta si ha nel I volume della Critica dell’Economia politica, dove si dimostra che nel sistema di fabbrica, esiste una quota di produzione che non può essere attribuita a nessun lavoratore singolo ma all’insieme delle maestranze, all’uomo collettivo. Qualcosa di simile avviene per l’intera società che è basata sulla divisione del lavoro e delle funzioni e pertanto vale più della somma dei suoi componenti. Come la filosofia della praxis abbia «concretato» la legge hegeliana della quantità che diventa qualità è un altro di quei nodi teorici che il Saggio popolare non svolge, ma ritiene già noti, quando non si accontenta di semplici giochi di parole come quelli sull’acqua che col cambiare di temperatura cambia di stato (ghiacciato, liquido, gasoso), che è un fatto puramente meccanico, determinato da un agente esterno (il fuoco, il sole, o l’evaporazione dell’acido carbonico solido ecc.).
Nell’uomo chi sarà questo agente esterno? Nella fabbrica è la divisione del lavoro ecc., condizioni create dall’uomo stesso. Nella società l’insieme delle forze produttive. Ma l’autore del Saggio non ha pensato che se ogni aggregato sociale è qualcosa di più (e anche di diverso) della somma dei suoi componenti, ciò significa che la legge o il principio che spiega lo svolgersi delle società non può essere una legge fisica poiché nella fisica non si esce mai dalla sfera della quantità altro che per metafora. Tuttavia nella filosofia della praxis la qualità è sempre connessa alla quantità, e anzi forse in tale connessione è la sua parte più originale e feconda. Infatti l’idealismo ipostatizza questo qualcosa in più, la qualità, ne fa un ente a sé, lo «spirito», come la religione ne aveva fatto la divinità. Ma se è ipostasi quella della religione e dell’idealismo, cioè astrazione arbitraria non processo di distinzione analitica praticamente necessario per ragioni pedagogiche, è anche ipostasi quella del materialismo volgare, che «divinizza» una materia ipostatica.
§31 La causa ultima. Una delle tracce più vistose di vecchia metafisica nel Saggio popolare è la ricerca di ridurre tutto a una causa, la causa ultima, la causa finale. Si può ricostruire la storia del problema della causa unica e ultima e dimostrare che essa è una delle manifestazioni della «ricerca di dio». Contro questo dogmatismo ricordare ancora le due lettere di Engels pubblicate nel «Sozialistische Akademiker».
§28 L’immanenza e la filosofia della praxis. Nel Saggio si nota che nella filosofia della praxis i termini di «immanenza» e «immanente» sono usati bensì, ma che «evidentemente» questo uso è solo «metaforico». Benissimo. Ma si è così spiegato cosa «metaforicamente» immanenza e immanente significhino? Perché questi termini sono continuati ad essere usati e non sono sostituiti? Solo per l’orrore di creare nuovi vocaboli? Di solito quando una nuova concezione del mondo succede a una precedente, il linguaggio precedente continua ad essere usato ma appunto viene usato metaforicamente. Tutto il linguaggio è un continuo processo di metafore, e la storia della semantica è un aspetto della storia della cultura: il linguaggio è insieme una cosa vivente ed un museo di fossili della vita e delle civiltà passate. Quando io adopero la parola disastro nessuno può incolparmi di credenze astrologiche e quando dico «per Bacco» nessuno può credere che io sia un adoratore delle divinità pagane, tuttavia quelle espressioni sono una prova che la civiltà moderna è uno sviluppo anche del paganesimo e dell’astrologia.
Il termine «immanenza» nella filosofia della praxis ha un suo preciso significato, che si nasconde sotto la metafora e questo occorreva definire e precisare; in realtà questa definizione sarebbe stata veramente «teoria». La filosofia della praxis continua la filosofia dell’immanenza, ma la depura di tutto il suo apparato metafisico e la conduce sul terreno concreto della storia. L’uso è metaforico solo nel senso che la vecchia immanenza è superata, è stata superata, tuttavia è sempre supposta come anello nel processo di pensiero da cui è nato il nuovo. D’altronde, il nuovo concetto di immanenza è completamente nuovo? Pare che in Giordano Bruno, per esempio, ci siano molte tracce di una tale concezione nuova; i fondatori della filosofia della praxis conoscevano il Bruno. Lo conoscevano e rimangono tracce di opere del Bruno postillate da loro. D’altronde il Bruno non fu senza influenza sulla filosofia classica tedesca ecc. Ecco molti problemi di storia della filosofia che non sarebbero senza utilità.
Idealismo
§6 Giovanni Gentile. Sulla filosofia del Gentile è da confrontare l’articolo della «Civiltà Cattolica» (Cultura e filosofia dell’ignoto, 16 agosto 1930) che è interessante per vedere come la logica formale scolastica può essere idonea a criticare i banali sofismi dell’idealismo attuale che pretende essere la perfezione della dialettica.
§8 Antonino Lovecchio, Filosofia della prassi e filosofia dello spirito, Palmi, Zappone, 1928, pp. 112, L. 7.
Altri filosofi
§7 A. Rosmini. Da vedere il suo Saggio sul comunismo e sul socialismo, pubblicato a cura e con prefazione di A. Canaletti‑Gaudenti, in 16°, pp. 85, Roma, Signorelli, L. 6. Da confrontare con le encicliche papali emanate prima del 1848 e citate nel Sillabo, per servire da commento storico italiano al primo paragrafo del Manifesto: cfr anche il capitolo bibliografico nel Mazzini di «Rerum Scriptor».
§10 Giuseppe Rensi. Esame di tutto il suo sviluppo politico‑intellettuale. È stato collaboratore della «Critica Sociale» (è stato anche fuoruscito in Isvizzera dopo il 1898). Il suo atteggiamento moralistico e lacrimoso attuale (cfr i suoi articoli nella «Nuova Rivista Storica» di qualche anno fa) è da confrontare con le sue manifestazioni letterarie e giornalistiche del 21‑22‑23, in cui giustifica un ritorno della schiavitù e dà del Machiavelli una interpretazione stupidamente cinica.
Ricordare la sua polemica col Gentile nel «Popolo d’Italia» dopo il Congresso dei filosofi tenuto a Milano nel 1926: deve aver firmato il cosiddetto Manifesto degli Intellettuali steso dal Croce.
Txt: G. Rensi - La filosofia dell'assurdo
Antonio Labriola
§1 Antonio Labriola. Per costruire un compiuto saggio su Antonio Labriola occorre tener presenti, oltre gli scritti suoi, che sono scarsi e spesso soltanto allusivi o estremamente sintetici, anche gli elementi e i frammenti di conversazione riferiti dai suoi amici ed allievi (il Labriola ha lasciato memoria di eccezionale «conversatore»). Nei libri di B. Croce, sparsamente, si possono raccogliere parecchi di tali elementi e frammenti. Così nelle Conversazioni Critiche (Serie Seconda), pp. 60‑61: «Come fareste a educare moralmente un papuano?» domandò uno di noi scolari, tanti anni fa al prof. Labriola, in una delle sue lezioni di Pedagogia, obiettando contro l’efficacia della Pedagogia. «Provvisoriamente (rispose con vichiana ed hegeliana asprezza l’herbartiano professore), provvisoriamente lo farei schiavo; e questa sarebbe la pedagogia del caso, salvo a vedere se pei suoi nipoti e pronipoti si potrà cominciare ad adoperare qualcosa della pedagogia nostra». Questa risposta del Labriola è da avvicinare alla intervista da lui data sulla quistione coloniale (Libia) verso il 1903 e riportata nel volume degli Scritti vari di filosofia e politica. È da avvicinare anche al modo di pensare del Gentile per ciò che riguarda l’insegnamento religioso nelle scuole primarie. Pare si tratti di un pseudo‑storicismo, di un meccanicismo abbastanza empirico e molto vicino al più volgare evoluzionismo.
Si potrebbe ricordare ciò che dice Bertrando Spaventa a proposito di quelli che vorrebbero tenere sempre gli uomini in culla (cioè nel momento dell’autorità, che pure educa alla libertà i popoli immaturi) e pensano tutta la vita (degli altri) come una culla.
Mi pare che storicamente il problema sia da porre in altro modo: se, cioè, una nazione o un gruppo sociale che è giunto a un grado superiore di civiltà non possa (e quindi debba) «accelerare» il processo di educazione dei popoli e dei gruppi sociali più arretrati, universalizzando e traducendo in modo adeguato la sua nuova esperienza. Così quando gli Inglesi arruolano reclute tra popoli primitivi, che non hanno mai visto un fucile moderno, non istruiscono queste reclute all’impiego dell’arco, del boomerang, della cerbottana, ma proprio le istruiscono al maneggio del fucile, sebbene le norme di istruzione siano necessariamente adattate alla «mentalità» di quel determinato popolo primitivo.
Il modo di pensare implicito nella risposta del Labriola non pare pertanto dialettico e progressivo, ma piuttosto meccanico e retrivo, come quello «pedagogico‑religioso» del Gentile che non è altro che una derivazione del concetto che la «religione è buona per il popolo» (popolo = fanciullo = fase primitiva del pensiero cui corrisponde la religione ecc.) cioè la rinunzia (tendenziosa) a educare il popolo.
Lo storicismo del Labriola e del Gentile è di un genere molto scadente: è lo storicismo dei giuristi per i quali il knut non è un knut quando è un knut «storico». Si tratta d’altronde di un modo di pensare molto nebuloso e confuso. Che nelle scuole elementari sia necessaria una esposizione «dogmatica» delle nozioni scientifiche o sia necessaria una «mitologia» non significa che il dogma debba essere quello religioso e la mitologia quella determinata mitologia. Che un popolo o un gruppo sociale arretrato abbia bisogno di una disciplina esteriore coercitiva, per essere educato civilmente, non significa che debba essere ridotto in schiavitù, a meno che non si pensi che ogni coercizione statale è schiavitù. C’è una coercizione di tipo militare anche per il lavoro, che si può applicare anche alla classe dominante, e che non è «schiavitù», ma l’espressione adeguata della Pedagogia moderna rivolta ad educare un elemento immaturo (che è bensì immaturo, ma è tale vicino ad elementi già maturi, mentre la schiavitù organicamente è l’espressione di condizioni universalmente immature).
Lo Spaventa, che si metteva dal punto di vista della borghesia liberale contro i «sofismi» storicistici delle classi retrive, esprimeva, in forma sarcastica, una concezione ben più progressiva e dialettica che non il Labriola e il Gentile.
Txt.: A. Labriola - Del materialismo storico
§5 Antonio Labriola (cfr § a p. 3). Hegel aveva affermato che la servitù è la culla della libertà. Per Hegel, come per il Machiavelli, il «principato nuovo» (cioè il periodo dittatoriale che caratterizza gli inizi di ogni nuovo tipo di Stato) e la connessa servitù sono giustificatisolo come educazione e disciplina dell’uomo non ancora libero. Però B. Spaventa (Principii di etica, Appendice, Napoli, 1904) commenta opportunamente: «Ma la culla non è la vita. Alcuni ci vorrebbero sempre in culla».
(Un esempio tipico della culla che diventa tutta la vita è offerto dal protezionismo doganale, che è sempre propugnato e giustificato come «culla» ma tende a diventare una culla eterna).
§70 Antonio Labriola. Sarebbe di grande utilità un riassunto obbiettivo e sistematico (anche se di tipo scolastico‑analitico) di tutte le pubblicazioni di Antonio Labriola sulla filosofia della prassi per sostituire i volumi esauriti. Un lavoro di tal genere è preliminare per ogni iniziativa rivolta a rimettere in circolazione la posizione filosofica del Labriola che è pochissimo conosciuta all’infuori di una cerchia ristretta. È stupefacente che nelle sue Memorie Leone Bronstein [Trotzky ndc] parli di «dilettantismo» del Labriola (rivedere). Non si capisce questo giudizio (almeno non significasse il distacco tra teoria e pratica nella persona del Labriola, ciò che non pare il caso) se non come un riflesso inconsapevole della pedanteria pseudoscientifica del gruppo intellettuale tedesco che ebbe tanta influenza in Russia. In realtà il Labriola, affermando che la filosofia della prassi è indipendente da ogni altra corrente filosofica, è autosufficiente, è il solo che abbia cercato di costruire scientificamente la filosofia della prassi. La tendenza dominante si è manifestata in due correnti principali:
1) Quella cosidetta ortodossa, rappresentata dal Plekhanov (cfr I Problemi fondamentali) che in realtà nonostante le sue affermazioni in contrario, ricade nel materialismo volgare. Non è stato bene impostato il problema delle «origini» del pensiero del fondatore della filosofia della prassi: uno studio accurato della cultura filosofica del Marx (e dell’ambiente filosofico generale in cui egli si formò direttamente e indirettamente) è certo necessario, ma come premessa allo studio, ben più importante, della sua propria e «originale» filosofia, che non può esaurirsi in alcune «fonti» o nella «cultura sua personale»: occorre, prima di tutto, tener conto della sua attività creatrice e costruttrice. Il modo di porre il problema da parte del Plekhanov è tipicamente proprio del metodo positivistico e mostra le sue scarse facoltà speculative e storiografiche.
2) La tendenza «ortodossa» ha determinato la sua opposta: di collegare la filosofia della prassi al kantismo o ad altre tendenze filosofiche non positivistiche e materialistiche, fino alla conclusione «agnostica» di Otto Bauer che nel suo libretto sulla «Religione» scrive che il marxismo può essere sostenuto e integrato da una qualsiasi filosofia, quindi anche dal tomismo. Questa seconda non è quindi una tendenza in senso stretto, ma un insieme di tutte le tendenze che non accettano la così detta «ortodossia» del pedantismo tedesco, fino a quella freudiana del De Man.
Perché il Labriola e la sua impostazione del problema filosofico, hanno avuto così scarsa fortuna? Si può dire a questo proposito ciò che la Rosa disse a proposito dell’economia critica e dei suoi problemi più alti: nel periodo romantico della lotta, dello Sturm und Drang popolare, tutto l’interesse si appunta sulle armi più immediate, sui problemi di tattica, in politica e sui minori problemi culturali nel campo filosofico. Ma dal momento in cui un gruppo subalterno diventa realmente autonomo ed egemone suscitando un nuovo tipo di Stato, nasce concretamente l’esigenza di costruire un nuovo ordine intellettuale e morale, cioè un nuovo tipo di società e quindi l’esigenza di elaborare i concetti più universali, le armi ideologiche più raffinate e decisive. Ecco la necessità di rimettere in circolazione Antonio Labriola e di far predominare la sua impostazione del problema filosofico. Si può così porre la lotta per una cultura superiore autonoma; la parte positiva della lotta che si manifesta in forma negativa e polemica con gli a‑ privativi e gli anti‑ (anticlericalismo, ateismo, ecc.). Si dà una forma moderna e attuale all’umanesimo laico tradizionale che deve essere la base etica del nuovo tipo di Stato.
La trattazione analitica e sistematica della concezione filosofica di Antonio Labriola potrebbe diventare la sezione filosofica di una rivista del tipo medio «Voce», «Leonardo» («Ordine Nuovo») di cui si parla nella rubrica del giornalismo. Bisognerebbe compilare una bibliografia internazionale sul Labriola («Neue Zeit», ecc.).
Problematiche filosofiche
§20 Oggettività e realtà del mondo esterno. Il neoscolastico Casotti (Mario Casotti, Maestro e scolaro, p. 49) scrive: «Le ricerche dei naturalisti e dei biologi presuppongono già esistenti la vita e l’organismo reale», espressione che si avvicina a quella di Engels dell’Antidühring.
Accordo del cattolicismo con l’aristotelismo sulla quistione dell’oggettività del reale.
Per intendere esattamente i significati che può avere il problema della realtà del mondo esterno, può essere opportuno svolgere l’esempio delle nozioni di «Oriente» e «Occidente» che non cessano di essere «oggettivamente reali» seppure all’analisi si dimostrano niente altro che una «costruzione» convenzionale cioè «storico‑culturale» (spesso i termini «artificiale» e «convenzionale» indicano fatti «storici», prodotti dallo sviluppo della civiltà e non già costruzioni razionalisticamente arbitrarie o individualmente artificiose).
È da ricordare anche l’esempio contenuto in un libretto di Bertrand Russell tradotto in italiano e stampato in una collezione nuova scientifica della Casa ed. Sonzogno (è uno dei primi volumetti della collezione) Bertrand Russell, I problemi della filosofia (N. 5 della «Sezione Scientifica Sonzogno», L. 5). Il Russell dice presso a poco così: «Noi non possiamo pensare, senza l’esistenza dell’uomo sulla terra, all’esistenza di Londra e di Edimburgo, ma possiamo pensare all’esistenza di due punti nello spazio, dove oggi sono Londra ed Edimburgo, uno a Nord e l’altro a Sud». Si può obbiettare che senza pensare all’esistenza dell’uomo non si può pensare di «pensare», non si può pensare in genere a nessun fatto o rapporto che esiste solo in quanto esiste l’uomo.
Cosa significherebbe Nord‑Sud, Est‑Ovest senza l’uomo? Essi sono rapporti reali e tuttavia non esisterebbero senza l’uomo e senza lo sviluppo della civiltà. È evidente che Est e Ovest sono costruzioni arbitrarie, convenzionali, cioè storiche, poiché fuori della storia reale ogni punto della terra è Est e Ovest nello stesso tempo. Ciò si può vedere più chiaramente dal fatto che questi termini si sono cristallizzati non dal punto di vista di un ipotetico e malinconico uomo in generale ma dal punto di vista delle classi colte europee che attraverso la loro egemonia mondiale li hanno fatti accettare dovunque.
§57 La realtà del mondo esterno. Cfr Tolstoi, I vol. dei Racconti autobiografici (Infanzia‑Adolescenza, ed. «Slavia», Torino, 1930) p. 232 (cap. XIX dell’Adolescenza intitolato proprio «L’Adolescenza»): «Ma da nessuna corrente filosofica fui affascinato come dallo scetticismo, che ad un certo momento mi portò ad uno stato vicino alla follia. Immaginavo che fuori di me nessuno e nulla esistesse in tutto il mondo, che gli oggetti non fossero oggetti, ma immagini, le quali mi apparivano solo quando vi fissavo l’attenzione, e che appena cessavo di pensarci quelle immagini subito svanissero. In una parola mi trovavo d’accordo con Schlegel nel ritenere che esistono non gli oggetti, ma il nostro rapporto con essi. C’erano momenti, quando, sotto l’influenza di questa idea fissa arrivavo a rasentare la follia, al punto che rapidamente mi voltavo dalla parte opposta, sperando di sorprendere il vuoto (le néant) là dov’io non ero».
§34 La oggettività del mondo esterno. L’espressione di Engels che «la materialità del mondo è dimostrata dal lungo e laborioso sviluppo della filosofia e delle scienze naturali» dovrebbe essere analizzata e precisata. S’intende per scienza l’attività teorica o l’attività pratico‑sperimentale degli scienziati? o la sintesi delle due attività? Si potrebbe dire che in ciò si avrebbe il processo unitario tipico del reale, nell’attività sperimentale dello scienziato che è il primo modello di mediazione dialettica tra l’uomo e la natura, la cellula storica elementare per cui l’uomo, ponendosi in rapporto con la natura attraverso la tecnologia, la conosce e la domina. È indubbio che l’affermarsi del metodo sperimentale separa due mondi della storia, due epoche e inizia il processo di dissoluzione della teologia e della metafisica, e di sviluppo del pensiero moderno, il cui coronamento è nella filosofia della praxis. L’esperienza scientifica è la prima cellula del nuovo metodo di produzione, della nuova forma di unione attiva tra l’uomo e la natura. Lo scienziato‑sperimentatore è anche un operaio, non un puro pensatore e il suo pensare è continuamente controllato dalla pratica e viceversa, finché si forma l’unità perfetta di teoria e pratica.
§64 «Obbiettività» della conoscenza. Per i cattolici «... tutta la teoria idealista riposa sulla negazione dell’obbiettività di ogni nostra conoscenza e sul monismo idealista dello “Spirito” (equivalente, in quanto monismo, a quello positivista della “Materia”) per cui il fondamento stesso della religione, Dio, non esiste obbiettivamente fuori di noi, ma è una creazione dell’intelletto. Pertanto l’idealismo, non meno del materialismo, è radicalmente contrario alla religione». (Cfr articolo del padre Mario Barbera nella «Civiltà Cattolica» del 1° giugno 1929).
§58 Etica. La massima di E. Kant: «Opera in modo che la tua condotta possa diventare una norma per tutti gli uomini, in condizioni simili» è meno semplice e ovvia di ciò che appare a prima vista. Cosa si intende per «condizioni simili»? Le condizioni immediate in cui si opera, o le condizioni generali complesse e organiche, la cui conoscenza richiede una ricerca lunga e criticamente elaborata? (Fondamento sull’etica socratica, in cui la volontà – morale – ha la sua base sull’intelletto, sulla sapienza, per cui il male operare è dovuto all’ignoranza ecc. e la ricerca della conoscenza critica è la base di una superiore morale o della morale senz’altro). La massima kantiana può essere considerata un truismo, poiché è difficile trovare uno che non operi credendo di trovarsi nelle condizioni in cui tutti opererebbero come lui. Chi ruba per fame ritiene che chi ha fame ruberebbe, chi ammazza la moglie infedele ritiene che tutti i mariti traditi dovrebbero ammazzare ecc. Solo i «matti» in senso clinico, operano senza ritenere di essere nel giusto.
La quistione è connessa con altre: 1) ognuno è indulgente con se stesso, perché quando opera non «conformisticamente» conosce il meccanismo delle proprie sensazioni e dei propri giudizi, della catena di cause ed effetti che l’hanno portato ad operare, mentre per gli altri è rigorista, perché non ne conosce la vita interiore; 2) ognuno opera secondo la sua cultura, cioè la cultura del suo ambiente, e «tutti gli uomini» per lui sono il suo ambiente, quelli che la pensano come lui: la massima di Kant presuppone una sola cultura, una sola religione, un conformismo «mondiale». L’obbiezione che non pare esatta è questa, che «condizioni simili» non esistono perché tra le condizioni è compreso chi opera, la sua individualità ecc.
Si può dire che la massima di Kant è connessa al tempo, all’illuminismo cosmopolita, e alla concezione critica dell’autore, cioè è legata alla filosofia degli intellettuali come ceto cosmopolitico. Pertanto chi opera è il portatore delle «condizioni simili», ossia il creatore di esse; cioè egli «deve» operare secondo un «modello» che vorrebbe diffuso tra tutti gli uomini secondo un tipo di civiltà per l’avvento del quale lavora o per la cui conservazione «resiste» contro le forze disgregatrici ecc.
§23 La teleologia. Nella concezione di «missione storica» non potrebbe scoprirsi una radice teleologica? E infatti in molti casi essa assume un significato equivoco e mistico. Ma in altri casi essa ha un significato, che, dopo il concetto kantiano della teleologia, può essere sostenuto e giustificato dalla filosofia della praxis.
§35 La teleologia. Nella quistione della teleologia appare ancora più vistosamente il difetto del Saggio nel presentare le dottrine filosofiche passate su uno stesso piano di trivialità e banalità, così che al lettore pare che tutta la cultura passata sia stata una fantasmagoria di baccanti in delirio. Il metodo è riprovevole da molti punti di vista: un lettore serio, che estenda le sue nozioni e approfondisca i suoi studi, crede di essere stato preso in giro ed estende il sospetto a tutto l’insieme del sistema. È facile parere di aver superato una posizione abbassandola, ma si tratta di pura illusione verbale. Presentare così burlescamente le quistioni può avere un significato in Voltaire, ma non è Voltaire chiunque voglia, cioè non è grande artista.
§52 Regolarità e necessità. Come è sorto, nel fondatore della filosofia della prassi, il concetto di regolarità e di necessità nello sviluppo storico? Non pare che possa pensarsi a una derivazione dalle scienze naturali, ma pare invece debba pensarsi a una elaborazione di concetti nati nel terreno dell’economia politica, specialmente nella forma e nella metodologia che la scienza economica ricevette da Davide Ricardo. Concetto e fatto di «mercato determinato», cioè rilevazione scientifica che determinate forze decisive e permanenti sono apparse storicamente, forze il cui operare si presenta con un certo «automatismo» che consente una certa misura di «prevedibilità» e di certezza per il futuro delle iniziative individuali che a tali forze consentono dopo averle intuite o rilevate scientificamente.
«Mercato determinato» equivale pertanto a dire «determinato rapporto di forze sociali in una determinata struttura dell’apparato di produzione», rapporto garantito (cioè reso permanente) da una determinata superstruttura politica, morale, giuridica. Dopo aver rilevato queste forze decisive e permanenti e il loro spontaneo automatismo (cioè la loro relativa indipendenza dagli arbitrii individuali e dagli interventi arbitrari governativi) lo scienziato ha, come ipotesi, reso assoluto l’automatismo stesso, ha isolato i fatti meramente economici dalle combinazioni più o meno importanti in cui realmente si presentano, ha stabilito dei rapporti di causa ed effetto, di premessa e conseguenza e così ha dato uno schema astratto di una determinata società economica (a questa costruzione scientifica realistica e concreta si è in seguito venuta sovrapponendo una nuova astrazione più generalizzata dell’«uomo» come tale, «astorico», generico, astrazione che è apparsa la «vera» scienza economica).
Date queste condizioni in cui è nata l’economia classica, perché si possa parlare di una nuova «scienza» o di una nuova impostazione della scienza economica (il che è lo stesso) occorrerebbe aver dimostrato che si sono venuti rilevando nuovi rapporti di forze, nuove condizioni, nuove premesse, che cioè si è «determinato» un nuovo mercato con un suo proprio nuovo «automatismo» e fenomenismo che si presenta come qualcosa di «obbiettivo», paragonabile all’automatismo dei fatti naturali. La economia classica ha dato luogo a una «critica dell’economia politica» ma non pare che finora sia possibile una nuova scienza o una nuova impostazione del problema scientifico.
La «critica» dell’economia politica parte dal concetto della storicità del «mercato determinato» e del suo «automatismo» mentre gli economisti puri concepiscono questi elementi come «eterni», «naturali»; la critica analizza realisticamente i rapporti delle forze che determinano il mercato, ne approfondisce le contraddizioni, valuta le modificabilità connesse all’apparire di nuovi elementi e al loro rafforzarsi e presenta la «caducità» e la «sostituibilità» della scienza criticata; la studia come vita ma anche come morte e trova nel suo intimo gli elementi che la dissolveranno e la supereranno immancabilmente, e presenta l’«erede» che sarà presuntivo finché non avrà dato prove manifeste di vitalità ecc.
Che nella vita economica moderna l’elemento «arbitrario» sia individuale, sia di consorzi, sia dello Stato abbia assunto un’importanza che prima non aveva e abbia profondamente turbato l’automatismo tradizionale è fatto che non giustifica di per sé l’impostazione di nuovi problemi scientifici, appunto perché questi interventi sono «arbitrari», di misura diversa, imprevedibili. Può giustificare l’affermazione che la vita economica è modificata, che c’è «crisi», ma questo è ovvio; d’altronde non è detto che il vecchio «automatismo» sia sparito, esso si verifica solo su scale più grandi di quelle (di) prima, per i grandi fenomeni economici, mentre i fatti particolari sono «impazziti».
Da queste considerazioni occorre prendere le mosse per stabilire ciò che significa «regolarità», «legge», «automatismo» nei fatti storici. Non si tratta di «scoprire» una legge metafisica di «determinismo» e neppure di stabilire una legge «generale» di causalità. Si tratta di rilevare come nello svolgimento storico si costituiscano delle forze relativamente «permanenti», che operano con una certa regolarità e automatismo. Anche la legge dei grandi numeri, sebbene sia molto utile come termine di paragone, non può essere assunta come la «legge» dei fatti storici.
Per stabilire l’origine storica di questo elemento della filosofia della prassi (elemento che è poi, nientemeno, il suo particolare modo di concepire l’«immanenza») occorrerà studiare l’impostazione che delle leggi economiche fu fatta da Davide Ricardo. Si tratta di vedere che il Ricardo non ha avuto importanza nella fondazione della filosofia della prassi solo per il concetto del «valore» in economia, ma ha avuto un’importanza «filosofica», ha suggerito un modo di pensare e d’intuire la vita e la storia. Il metodo del «posto che», della premessa che dà una certa conseguenza, pare debba essere identificato come uno dei punti di partenza (degli stimoli intellettuali) delle esperienze filosofiche dei fondatori della filosofia della prassi. È da vedere se Davide Ricardo sia mai stato studiato da questo punto di vista.
(Così è da vedere il concetto filosofico di «caso» e di «legge», il concetto di una «razionalità» o di una «provvidenza» per cui si finisce nel teleologismo trascendentale se non trascendente e il concetto di «caso», come nel materialismo metafisico «che il mondo a caso pone»).
Appare che il concetto di «necessità» storica è strettamente connesso a quello di «regolarità» e di «razionalità». La «necessità» nel senso «speculativo‑astratto» e nel senso «storico‑concreto». Esiste necessità quando esiste una premessa efficiente e attiva, la cui consapevolezza negli uomini sia diventata operosa ponendo dei fini concreti alla coscienza collettiva e costituendo un complesso di convinzioni e di credenze potentemente agente come le «credenze popolari». Nella premessa devono essere contenute, già sviluppate o in via di sviluppo, le condizioni materiali necessarie e sufficienti per la realizzazione dell’impulso di volontà collettiva, ma è chiaro che da questa premessa «materiale», calcolabile quantitativamente, non può essere disgiunto un certo livello di cultura, un complesso cioè di atti intellettuali e da questi (come loro prodotto e conseguenza) un certo complesso di passioni e sentimenti imperiosi, cioè che abbiano la forza di indurre all’azione «a tutti i costi».
Come si è detto, solo per questa via si può giungere a una concezione storicistica (e non speculativa‑astratta) della «razionalità» nella storia (e quindi dell’«irrazionalità»).
§62 Storicità della filosofia della prassi. Che la filosofia della prassi concepisca se stessa storicisticamente, come cioè una fase transitoria del pensiero filosofico, oltre che implicitamente da tutto il suo sistema, appare esplicitamente dalla nota tesi che lo sviluppo storico sarà caratterizzato a un certo punto dal passaggio dal regno della necessità al regno della libertà. Tutte le filosofie (i sistemi filosofici) finora esistite sono state la manifestazione delle intime contraddizioni da cui la società è stata lacerata. Ma ogni sistema filosofico a sé preso non è stato l’espressione cosciente di queste contraddizioni, poiché tale espressione poteva essere data solo dall’insieme dei sistemi in lotta tra loro. Ogni filosofo è e non può non essere convinto di esprimere l’unità dello spirito umano, cioè l’unità della storia e della natura; infatti, se una tale convinzione non fosse, gli uomini non opererebbero, non creerebbero nuova storia, cioè le filosofie non potrebbero diventare «ideologie», non potrebbero nella pratica assumere la granitica compattezza fanatica delle «credenze popolari» che assumono la stessa energia delle «forze materiali».
Hegel rappresenta, nella storia del pensiero filosofico, una parte a sé, poiché, nel suo sistema, in un modo o nell’altro pur nella forma di «romanzo filosofico», si riesce a comprendere cos’è la realtà, cioè si ha, in un solo sistema e in un solo filosofo, quella coscienza delle contraddizioni che prima risultava dall’insieme dei sistemi, dall’insieme dei filosofi, in polemica tra loro, in contraddizione tra loro.
In un certo senso, pertanto, la filosofia della prassi è una riforma e uno sviluppo dello hegelismo, è una filosofia liberata (o che cerca liberarsi) da ogni elemento ideologico unilaterale e fanatico, è la coscienza piena delle contraddizioni, in cui lo stesso filosofo, inteso individualmente o inteso come intero gruppo sociale, non solo comprende le contraddizioni ma pone se stesso come elemento della contraddizione, eleva questo elemento a principio di conoscenza e quindi di azione. L’«uomo in generale», comunque si presenti, viene negato e tutti i concetti dogmaticamente «unitari» vengono dileggiati e distrutti in quanto espressione del concetto di «uomo in generale» o di «natura umana» immanente in ogni uomo.
Ma se anche la filosofia della prassi è una espressione delle contraddizioni storiche, anzi ne è l’espressione più compiuta perché consapevole, significa che essa pure è legata alla «necessità» e non alla «libertà» che non esiste e non può ancora esistere storicamente. Dunque, se si dimostra che le contraddizioni spariranno, si dimostra implicitamente che sparirà, cioè verrà superata, anche la filosofia della prassi: nel regno della «libertà» il pensiero, le idee non potranno più nascere sul terreno delle contraddizioni e della necessità di lotta. Attualmente il filosofo (della prassi) può solo fare questa affermazione generica e non andare più oltre: infatti egli non può evadere dall’attuale terreno delle contraddizioni, non può affermare, più che genericamente, un mondo senza contraddizioni, senza creare immediatamente una utopia.
Ciò non significa che l’utopia non possa avere un valore filosofico, poiché essa ha un valore politico, e ogni politica implicitamente è una filosofia sia pure sconnessa e in abbozzo. In questo senso la religione è la più gigantesca utopia, cioè la più gigantesca «metafisica», apparsa nella storia, poiché essa è il tentativo più grandioso di conciliare in forma mitologica le contraddizioni reali della vita storica: essa afferma, invero, che l’uomo ha la stessa «natura», che esiste l’uomo in generale, in quanto creato da Dio, figlio di Dio, perciò fratello degli altri uomini, uguale agli altri uomini, libero fra gli altri e come gli altri uomini, e che tale egli si può concepire specchiandosi in Dio, «autocoscienza» dell’umanità, ma afferma anche che tutto ciò non è di questo mondo e per questo mondo, ma di un altro (– utopico –). Così le idee di uguaglianza, di fraternità, di libertà fermentano tra gli uomini, in quegli strati di uomini che non si vedono né uguali, né fratelli di altri uomini, né liberi nei loro confronti. Così è avvenuto che in ogni sommovimento radicale delle moltitudini, in un modo o nell’altro, sotto forme e ideologie determinate, siano state poste queste rivendicazioni.
Se la filosofia della prassi afferma teoricamente che ogni «verità» creduta eterna e assoluta ha avuto origini pratiche e ha rappresentato un valore «provvisorio» (storicità di ogni concezione del mondo e della vita), è molto difficile far comprendere «praticamente» che una tale interpretazione è valida anche per la stessa filosofia della prassi, senza scuotere quei convincimenti che sono necessari per l’azione. Questa è, d’altronde, una difficoltà, che si ripresenta per ogni filosofia storicistica: di essa abusano i polemisti a buon mercato (specialmente i cattolici) per contrapporre nello stesso individuo lo «scienziato» al «demagogo», il filosofo all’uomo d’azione, ecc. e per dedurre che lo storicismo conduce necessariamente allo scetticismo morale e alla depravazione. Da questa difficoltà nascono molti «drammi» di coscienza nei piccoli uomini e nei grandi, gli atteggiamenti «olimpici» alla Volfango Goethe.
Ecco perché la proposizione del passaggio dal regno della necessità a quello della libertà deve essere analizzata ed elaborata con molta finezza e delicatezza.
Perciò avviene anche che la stessa filosofia della prassi tende a diventare una ideologia nel senso deteriore, cioè un sistema dogmatico di verità assolute ed eterne; specialmente quando, come nel Saggio popolare, esso è confuso col materialismo volgare, con la metafisica della «materia» che non può non essere eterna e assoluta.
È anche da dire che il passaggio dalla necessità alla libertà avviene per la società degli uomini e non per la natura (sebbene potrà avere conseguenze sull’intuizione della natura, sulle opinioni scientifiche ecc.).
Si può persino giungere ad affermare che mentre tutto il sistema della filosofia della prassi può diventare caduco in un mondo unificato, molte concezioni idealistiche, o almeno alcuni aspetti di esse, che sono utopistiche durante il regno della necessità, potrebbero diventare «verità» dopo il passaggio ecc. Non si può parlare di «Spirito» quando la società è raggruppata, senza necessariamente concludere che si tratti di... spirito di corpo (cosa che è riconosciuta implicitamente quando, come fa il Gentile nel volume sul « modernismo», si dice, sulle tracce di Schopenhauer, che la religione è la filosofia della moltitudine, mentre la filosofia è la religione degli uomini più eletti, cioè dei grandi intellettuali), ma se ne potrà parlare quando sarà avvenuta l’unificazione ecc.
§54 Unità della teoria e della pratica. È da ricercare, analizzare e criticare la diversa forma in cui si è presentato nella storia delle idee il concetto di unità della teoria e della pratica, poiché pare indubbio che ogni concezione del mondo e ogni filosofia si è preoccupata di questo problema.
Affermazione di S. Tomaso e della scolastica: «Intellectus speculativus extensione fit practicus», la teoria per semplice estensione si fa pratica, cioè affermazione della necessaria connessione tra l’ordine delle idee e quello dell’azione.
Aforisma del Leibnitz, tanto ripetuto dagli idealisti italiani: «quo magis speculativa, magis practica» detto della scienza.
La proposizione di G. B. Vico «verum ipsum factum» tanto discussa e variamente interpretata (cfr il libro del Croce sul Vico e altri scritti polemici del Croce stesso) e che il Croce svolge nel senso idealistico che il conoscere sia un fare e che si conosce ciò che si fa, in cui «fare» ha un particolare significato, tanto particolare che poi significa niente altro che «conoscere» cioè si risolve in una tautologia (concezione che tuttavia deve essere messa in relazione colla concezione propria della filosofia della prassi).
§25 Riduzione della filosofia della praxis a una sociologia. Questa riduzione ha rappresentato la cristallizzazione della tendenza deteriore già criticata da Engels (nelle lettere a due studenti pubblicate nel «Sozialistische Akademiker») e consistenti nel ridurre una concezione del mondo a un formulario meccanico che dà l’impressione di avere tutta la storia in tasca. Essa è stata il maggiore incentivo alle facili improvvisazioni giornalistiche dei «genialoidi». L’esperienza su cui si basa la filosofia della praxis non può essere schematizzata; essa è la storia stessa nella sua infinita varietà e molteplicità il cui studio può dar luogo alla nascita della «filologia» come metodo dell’erudizione nell’accertamento dei fatti particolari e alla nascita della filosofia intesa come metodologia generale della storia. Questo forse volevano dire quegli scrittori che, come accenna molto affrettatamente il saggio nel primo capitolo, negano si possa costruire una sociologia dalla filosofia della praxis e affermano che la filosofia della praxis vive solo nei saggi storici particolari (l’affermazione, così nuda e cruda, è certamente erronea e sarebbe una nuova curiosa forma di nominalismo e di scetticismo filosofico).
Negare che si possa costruire una sociologia, intesa come scienza della società, cioè come scienza della storia e della politica, che non sia la stessa filosofia della praxis, non significa che non si possa costruire una compilazione empirica di osservazioni pratiche che allarghino la sfera della filologia come è intesa tradizionalmente. Se la filologia è l’espressione metodologica dell’importanza che i fatti particolari siano accertati e precisati nella loro inconfondibile «individualità», non si può escludere l’utilità pratica di identificare certe «leggi di tendenza» più generali che corrispondono nella politica alle leggi statistiche o dei grandi numeri che hanno servito a far progredire alcune scienze naturali.
§16 Quistioni di nomenclatura e di contenuto. Una delle caratteristiche degli intellettuali come categoria sociale cristallizzata (che cioè concepisce se stessa come continuazione ininterrotta nella storia, quindi indipendentemente dalla lotta dei gruppi e non come espressione di un processo dialettico, per cui ogni gruppo sociale dominante elabora una propria categoria di intellettuali) è appunto di ricongiungersi, nella sfera ideologica, a una precedente categoria intellettuale attraverso una stessa nomenclatura di concetti. Ogni nuovo organismo storico (tipo di società) crea una nuova superstruttura, i cui rappresentanti specializzati e portabandiera (gli intellettuali) non possono non essere concepiti come anch’essi «nuovi» intellettuali, sorti dalla nuova situazione e non continuazione della precedente intellettualità. Se i «nuovi» intellettuali si pongono come continuazione diretta della precedente intellighenzia essi non sono affatto «nuovi», cioè non sono legati al nuovo gruppo sociale che rappresenta organicamente la nuova situazione storica, ma sono un rimasuglio conservatore e fossilizzato del gruppo sociale superato storicamente (ciò che poi è lo stesso che dire che la nuova situazione storica non è ancora giunta al grado di sviluppo necessario per avere la capacità di creare nuove superstrutture, ma vive ancora nell’involucro tarlato della vecchia storia).
È tuttavia da tener conto che nessuna nuova situazione storica, sia pur essa dovuta al mutamento più radicale, trasforma completamente il linguaggio, almeno nel suo aspetto esterno, formale.
D’altronde non è detto che tutta l’eredità del passato debba essere respinta: ci sono dei «valori strumentali» che non possono non essere accolti integralmente per continuare ad essere elaborati e raffinati. Ma come distinguere il valore strumentale dal valore filosofico caduco e da respingere senz’altro? Spesso avviene che perché si è accettato un valore filosofico caduco di una determinata tendenza passata, si respinge poi un valore strumentale di altra tendenza perché contrastante con la prima, anche se tale valore strumentale sarebbe stato utile ad esprimere il nuovo contenuto storico culturale.
Così si è visto il termine «materialismo» accolto con contenuto passato e invece il termine «immanenza» respinto perché nel passato aveva un determinato contenuto storico culturale. La difficoltà di adeguare l’espressione letteraria al contenuto concettuale e di confondere le quistioni di terminologia con le quistioni sostanziali e viceversa è caratteristica del dilettantismo filosofico, della mancanza di senso storico nel cogliere i diversi momenti di un processo di sviluppo culturale, cioè di una concezione antidialettica dogmatica, prigioniera degli schemi astratti della logica formale.
Il termine di «materialismo» nel primo cinquantennio del secolo XIX occorre intenderlo non solo nel significato tecnico filosofico stretto, ma nel significato più estensivo che venne assumendo polemicamente nelle discussioni sorte in Europa col sorgere e lo svilupparsi vittorioso della cultura moderna. Si chiamò materialismo ogni dottrina filosofica che escludesse la trascendenza dal dominio del pensiero e quindi in realtà tutto il panteismo e l’immanentismo non solo, ma si chiamò materialismo anche ogni atteggiamento pratico ispirato al realismo politico, che si opponesse cioè a certe correnti deteriori del romanticismo politico, come le dottrine di Mazzini popolarizzate e che non parlavano che di «missioni», di «ideali» e di altre consimili nebulosità vaghe e astrattezze sentimentalistiche. Nelle polemiche anche odierne dei cattolici il termine di materialismo è spesso usato in questo senso; materialismo è l’opposto di spiritualismo in senso stretto, cioè di spiritualismo religioso e quindi si comprende in esso tutto lo hegelismo e in generale la filosofia classica tedesca, oltre al sensismo e illuminismo francese.
Così, nei termini del senso comune, si chiama materialismo tutto ciò che tende a trovare in questa terra, e non in paradiso, il fine della vita. Ogni attività economica che uscisse dai limiti della produzione medioevale era «materialismo» perché pareva «fine a se stessa», l’economia per l’economia, l’attività per l’attività, così come oggi per l’europeo medio è «materialista» l’America, perché l’impiego delle macchine e il volume delle aziende e degli affari eccede un certo limite che all’europeo medio appare il «giusto», quello entro il quale le esigenze «spirituali» non sono mortificate. Così una ritorsione polemica della cultura feudale contro la borghesia in isviluppo è oggi fatta propria dalla cultura borghese europea contro un capitalismo più sviluppato di quello europeo da una parte e dall’altra contro l’attività pratica dei gruppi sociali subalterni per i quali, inizialmente e per una intera epoca storica, cioè fino a quando essi non avranno costruito una propria economia e una propria struttura sociale, l’attività non può non essere prevalentemente economica o almeno esprimersi in termini economici e di struttura. Tracce di questa concezione del materialismo rimangono nel linguaggio: in tedesco geistlich significa anche «clericale», proprio del clero, così come nel russo dukhoviez; e che essa sia la prevalente si può ricavare da molti scrittori di filosofia della praxis, per i quali, giustamente, la religione, il teismo ecc. sono i punti di riferimento per riconoscere i «materialisti conseguenti».
Una delle ragioni, e forse la prevalente, della riduzione al materialismo metafisico tradizionale del materialismo storico, è da ricercare in ciò che il materialismo storico non poteva non essere una fase prevalentemente critica e polemica della filosofia, mentre si aveva bisogno di un sistema già compiuto e perfetto. Ma i sistemi compiuti e perfetti sono sempre opera di singoli filosofi, e in essi, accanto alla parte storicamente attuale, cioè corrispondente alle contemporanee condizioni di vita, esiste sempre una parte astratta, «astorica», nel senso che è legata alle precedenti filosofie e risponde a necessità esteriori e pedantesche di architettura del sistema o è dovuta a idiosincrasie personali; perciò la filosofia di un’epoca non può essere nessun sistema individuale o di tendenza: essa è l’insieme di tutte le filosofie individuali e di tendenza, più le opinioni scientifiche, più la religione, più il senso comune. Si può formare un sistema di tal genere artificiosamente? per opera di individui e di gruppi? L’attività critica è la sola possibile, specialmente nel senso di porre e risolvere criticamente i problemi che si presentano come espressione dello svolgimento storico. Ma il primo di questi problemi che occorre impostare e comprendere è questo: che la nuova filosofia non può coincidere con nessun sistema del passato, comunque esso si chiami. Identità di termini non significa identità di concetti.
§67 Passaggio dal sapere al comprendere, al sentire, e viceversa, dal sentire al comprendere, al sapere. L’elemento popolare «sente», ma non sempre comprende o sa; l’elemento intellettuale «sa», ma non sempre comprende e specialmente «sente». I due estremi sono pertanto la pedanteria e il filisteismo da una parte e la passione cieca e il settarismo dall’altra. Non che il pedante non possa essere appassionato, anzi; la pedanteria appassionata è altrettanto ridicola e pericolosa che il settarismo e la demagogia più sfrenati.
L’errore dell’intellettuale consiste nel credere che si possa sapere senza comprendere e specialmente senza sentire ed essere appassionato (non solo del sapere in sé, ma per l’oggetto del sapere) cioè che l’intellettuale possa essere tale (e non un puro pedante) se distinto e staccato dal popolo-nazione, cioè senza sentire le passioni elementari del popolo, comprendendole e quindi spiegandole e giustificandole nella determinata situazione storica, e collegandole dialetticamente alle leggi della storia, a una superiore concezione del mondo, scientificamente e coerentemente elaborata, il «sapere»; non si fa politica‑storia senza questa passione, cioè senza questa connessione sentimentale tra intellettuali e popolo‑nazione. In assenza di tale nesso i rapporti dell’intellettuale col popolo‑nazione sono o si riducono a rapporti di ordine puramente burocratico, formale; gli intellettuali diventano una casta o un sacerdozio (così detto centralismo organico).
Se il rapporto tra intellettuali e popolo‑nazione, tra dirigenti e diretti, tra governanti e governati, è dato da una adesione organica in cui il sentimento‑passione diventa comprensione e quindi sapere (non meccanicamente, ma in modo vivente), solo allora il rapporto è di rappresentanza, e avviene lo scambio di elementi individuali tra governati e governanti, tra diretti e dirigenti, cioè si realizza la vita d’insieme che sola è la forza sociale, si crea il «blocco storico».
Il De Man «studia» i sentimenti popolari, non con‑sente con essi per guidarli e condurli a una catarsi di civiltà moderna: la sua posizione è quella dello studioso di folclore che ha continuamente paura che la modernità gli distrugga l’oggetto della sua scienza. D’altronde c’è nel suo libro il riflesso pedantesco di una esigenza reale: che i sentimenti popolari siano conosciuti e studiati così come essi si presentano obbiettivamente e non ritenuti qualcosa di trascurabile e di inerte nel movimento storico.
Italiani
§2 Alessandro Levi. Sono da ricercare i suoi scritti di filosofia e di storia. Come Rodolfo Mondolfo, il Levi è di origine positivistica (della scuola padovana di R. Ardigò).
§3 Alessandro Chiappelli (morto nel novembre 31). Verso la metà del decennio 1890-1900, quando uscirono i saggi di Antonio Labriola e di B. Croce, il Chiappelli scrisse sulla filosofia della prassi. Deve esistere del Chiappelli un volume o un saggio su Le premesse filosofiche del socialismo; è da vedere la bibliografia.
§68 La «nuova» Scienza. G. A. Borgese e Michele Ardan. Nel romanzo di Jules Verne Dalla terra alla luna, Michele Ardan, nel suo discorso programmatico dice liricamente che «lo spazio non esiste, perché gli astri sono talmente vicini gli uni agli altri che si può pensare l’universo come un tutto solido, le cui reciproche distanze possono paragonarsi alle distanze esistenti fra le molecole del metallo più compatto come l’oro o il platino». Il Borgese, sulle tracce di Eddington, ha capovolto il ragionamento del Verne e sostiene che la «materia solida» non esiste, perché il vuoto nell’atomo è tale che un corpo umano, ridotto alle parti solide, diverrebbe un corpuscolo visibile solo al microscopio. È la «fantasia» di Verne applicata alla Scienza degli scienziati e non più a quella dei ragazzi. (Il Verne immagina che nel momento in cui l’Ardan espone la sua tesi, Maston, una delle figurette con cui rende arguti i suoi libri, nel gridare con entusiasmo: «Sì, le distanze non esistono!» stia per cadere e provare così, sulla sua pelle, se le distanze esistono o no).
Stranieri
§4 Luciano Herr. Un Rapport sur l’état des études hégéliennes en France di A. Koyré è riprodotto nei Verhandlungen des ersten Hegelskongresses, vom 22 bis 25 april 1930 im Haag, Mohr, Tübingen, 1931, in 8° gr., pp. 243.
§69 Sorel, Proudhon, De Man (continuazione pagina 70 bis sgg.). Mario Missiroli ha pubblicato nel 1932 presso le «Edizioni Corbaccio» di Milano, l’«annunziata» raccolta di articoli scritti da Giorgio Sorel nei giornali italiani dal 1910 al 1921, col titolo L’Europa sotto la tormenta.
§56 Buon senso e senso comune. Il Manzoni fa distinzione tra senso comune e buon senso (cfr Promessi Sposi, cap. XXXII sulla peste e sugli untori). Parlando del fatto che c’era pur qualcuno che non credeva agli untori, ma non poteva sostenere la sua opinione contro l’opinione volgare diffusa, scrive; «Si vede che era uno sfogo segreto della verità, una confidenza domestica; il buon senso c’era; ma se ne stava nascosto, per paura del senso comune».
§15 Il concetto di «scienza». La posizione del problema come una ricerca di leggi, di linee costanti, regolari, uniformi è legata a una esigenza, concepita in modo un po’ puerile e ingenuo, di risolvere perentoriamente il problema pratico della prevedibilità degli accadimenti storici. Poiché «pare», per uno strano capovolgimento delle prospettive, che le scienze naturali diano la capacità di prevedere l’evoluzione dei processi naturali, la metodologia storica è stata concepita «scientifica» solo se e in quanto abilita astrattamente a «prevedere» l’avvenire della società. Quindi la ricerca delle cause essenziali, anzi della «causa prima», della «causa delle cause».
Ma le «Tesi su Feuerbach» avevano già criticato anticipatamente questa concezione semplicistica. In realtà si può prevedere «scientificamente» solo la lotta, ma non i momenti concreti di essa, che non possono non essere risultati di forze contrastanti in continuo movimento, non riducibili mai a quantità fisse, perché in esse la quantità diventa continuamente qualità. Realmente si «prevede» nella misura in cui si opera, in cui si applica uno sforzo volontario e quindi si contribuisce concretamente a creare il risultato «preveduto». La previsione si rivela quindi non come un atto scientifico di conoscenza, ma come l’espressione astratta dello sforzo che si fa, il modo pratico di creare una volontà collettiva.
E come potrebbe la previsione essere un atto di conoscenza? Si conosce ciò che è stato o è, non ciò che sarà, che è un «non esistente» e quindi inconoscibile per definizione. Il prevedere è quindi solo un atto pratico che non può, in quanto non sia una futilità o un perditempo, avere altra spiegazione che quella su esposta. È necessario impostare esattamente il problema della prevedibilità degli accadimenti storici per essere in grado di criticare esaurientemente la concezione del causalismo meccanico, per svuotarla di ogni prestigio scientifico e ridurla a puro mito che fu forse utile nel passato, in un periodo arretrato di sviluppo di certi gruppi sociali subalterni (vedere una nota precedente).
Ma è il concetto stesso di «scienza», quale risulta dal Saggio popolare, che occorre distruggere criticamente; esso è preso di sana pianta dalle scienze naturali, come se queste fossero la sola scienza, o la scienza per eccellenza, così come è stato fissato dal positivismo. Ma nel «Saggio popolare» il termine di scienza è impiegato in molti significati, alcuni espliciti altri sottintesi o appena accennati. Il senso esplicito è quello che «scienza» ha nelle ricerche fisiche. Altre volte però pare indichi il metodo. Ma esiste un metodo in generale e se esiste non significa poi niente altro che filosofia? Potrebbe significare altre volte niente altro che la logica formale, ma si può chiamare questa un metodo e una scienza?
Occorre fissare che ogni ricerca ha un suo determinato metodo e costruisce una sua determinata scienza, e che il metodo si è sviluppato ed è stato elaborato insieme allo sviluppo e alla elaborazione di quella determinata ricerca e scienza, e forma tutt’uno con esse. Credere di poter far progredire una ricerca scientifica applicandole un metodo tipo, scelto perché ha dato buoni risultati in altra ricerca alla quale era connaturato, è uno strano abbaglio che ha poco che vedere con la scienza. Ci sono però anche dei criteri generali che si può dire costituiscano la coscienza critica di ogni scienziato, qualunque sia la sua «specializzazione» e che devono sempre essere spontaneamente vigili nel suo lavoro.
Così si può dire che non è scienziato chi dimostra scarsa sicurezza nei suoi criteri particolari, che non ha una piena intelligenza dei concetti adoperati, che ha scarsa informazione e intelligenza dello stato precedente dei problemi trattati, che non è molto cauto nelle sue affermazioni, che non progredisce in modo necessario ma arbitrario e senza concatenamento, che non sa tener conto delle lacune che esistono nelle cognizioni raggiunte ma le sottace e si accontenta di soluzioni o nessi puramente verbali invece di dichiarare che si tratta di posizioni provvisorie che potranno essere riprese e sviluppate ecc. (Ognuno di questi punti può essere sviluppato, con le opportune esemplificazioni).
III. La scienza e le ideologie «scientifiche».
§36 L’affermazione di Eddington: «Se nel corpo di un uomo eliminassimo tutto lo spazio privo di materia e riunissimo i suoi protoni ed elettroni in una sola massa, l’uomo (il corpo dell’uomo) sarebbe ridotto a un corpuscolo appena visibile al microscopio» (cfr La natura del mondo fisico, edizione francese, p. 20) ha colpito e messo in moto la fantasia di G. A. Borgese (cfr il suo libretto). Ma che significa concretamente l’affermazione di Eddington? A rifletterci un po’, non significa proprio nulla, oltre il suo significato letterale. Se anche la riduzione su descritta venisse fatta (da chi?) e fosse però estesa a tutto il mondo, i rapporti non muterebbero, le cose rimarrebbero tali come sono. Le cose muterebbero se solamente gli uomini o determinati uomini subissero questa riduzione in modo da avere, nell’ipotesi, una realizzazione di alcuni capitoli dei Viaggi di Gulliver, con i Lillipuziani, i giganti e Borgese‑Gulliver tra di loro.
In realtà si tratta di puri giochi di parole, di scienza romanzata, non di un nuovo pensiero scientifico o filosofico, di un modo di porre le questioni atto solo a far fantasticare le teste vuote. Forse la materia vista al microscopio non è più materia realmente oggettiva, ma una creazione dello spirito umano che non esiste oggettivamente o empiricamente?<7
Si tratta, in ogni modo, di una fase transitoria e iniziale di una nuova epoca scientifica, che ha prodotto, combinandosi con una grande crisi intellettuale e morale, una nuova forma di «sofistica», che richiama i classici sofismi di Achille e della tartaruga, del mucchio e del granello, della freccia scoccata dall’arco che non può non essere ferma ecc. Sofismi che tuttavia hanno rappresentato una fase nello sviluppo della filosofia e della logica e hanno servito a raffinare gli strumenti del pensiero.
§37 Raccogliere le principali definizioni che sono state date della scienza (nel senso di scienza naturale). «Studio dei fenomeni e delle loro leggi di somiglianza (regolarità), di coesistenza (coordinazione), di successione (causalità)». Altre tendenze, tenendo conto dell’ordinamento più comodo che la scienza stabilisce tra i fenomeni, in modo da poterli meglio far padroneggiare dal pensiero e dominarli per i fini dell’azione, definiscono la scienza come «la descrizione più economica della realtà». La quistione più importante da risolvere intorno al concetto di scienza è questa: se la scienza può dare, e in che modo, la «certezza» dell’esistenza obbiettiva della così detta realtà esterna.
Per il senso comune la quistione non esiste neppure; ma da che cosa è originata la certezza del senso comune? Essenzialmente dalla religione (almeno dal cristianesimo in occidente); ma la religione è un’ideologia, l’ideologia più radicata e diffusa, non una prova o una dimostrazione. Si può sostenere come sia un errore domandare alla scienza come tale la prova dell’obbiettività del reale, poiché questa obbiettività è una concezione del mondo, una filosofia e non può essere un dato scientifico. Cosa può dare la scienza in questa direzione? La scienza seleziona le sensazioni, gli elementi primordiali della conoscenza: considera certe sensazioni come transitorie, come apparenti, come fallaci perché dipendono da speciali condizioni individuali e certe altre come durature, come permanenti, come superiori alle condizioni speciali individuali.
Il lavoro scientifico ha due aspetti principali: uno che incessantemente rettifica il modo della conoscenza, rettifica e rafforza gli organi delle sensazioni, elabora principi nuovi e complessi di induzione e deduzione, cioè affina gli strumenti stessi dell’esperienza e del suo controllo; l’altro che applica questo complesso strumentale (di strumenti materiali e mentali) a stabilire ciò che nelle sensazioni è necessario da ciò che è arbitrario, individuale, transitorio. Si stabilisce ciò che è comune a tutti gli uomini, ciò che tutti gli uomini possono controllare nello stesso modo, indipendentemente gli uni dagli altri, purché essi abbiano osservato ugualmente le condizioni tecniche di accertamento. «Oggettivo» significa proprio e solo questo: che si afferma essere oggettivo, realtà oggettiva, quella realtà che è accertata da tutti gli uomini, che è indipendente da ogni punto di vista che sia meramente particolare o di gruppo. Ma in fondo anche questa è una particolare concezione del mondo, è una ideologia. Tuttavia questa concezione, nel suo insieme e per la direzione che segna, può essere accettata dalla filosofia della praxis mentre è da rigettare quella del senso comune, che pure conclude materialmente nello stesso modo.
Il senso comune afferma l’oggettività del reale in quanto la realtà, il mondo, è stato creato da dio indipendentemente dall’uomo, prima dell’uomo; essa è pertanto espressione della concezione mitologica del mondo; d’altronde il senso comune, nel descrivere questa oggettività, cade negli errori più grossolani, in gran parte è ancora rimasto alla fase dell’astronomia tolemaica, non sa stabilire i nessi reali di causa ed effetto ecc., cioè afferma «oggettiva» una certa «soggettività» anacronistica, perché non sa neanche concepire che possa esistere una concezione soggettiva del mondo e cosa ciò voglia o possa significare. Ma tutto ciò che la scienza afferma è «oggettivamente» vero? In modo definitivo?
Se le verità scientifiche fossero definitive, la scienza avrebbe cessato di esistere come tale, come ricerca, come nuovi esperimenti e l’attività scientifica si ridurrebbe a una divulgazione del già scoperto. Ciò che non è vero, per fortuna della scienza. Ma se le verità scientifiche non sono neanche esse definitive e perentorie, anche la scienza è una categoria storica, è un movimento in continuo sviluppo. Solo che la scienza non pone nessuna forma di «inconoscibile» metafisico, ma riduce ciò che l’uomo non conosce a un’empirica «non conoscenza» che non esclude la conoscibilità, ma la condiziona allo sviluppo degli elementi fisici strumentali e allo sviluppo della intelligenza storica dei singoli scienziati.
Se è così, ciò che interessa la scienza non è tanto dunque l’oggettività del reale, ma l’uomo che elabora i suoi metodi di ricerca, che rettifica continuamente i suoi strumenti materiali che rafforzano gli organi sensori e gli strumenti logici (incluse le matematiche) di discriminazione e di accertamento, cioè la cultura, cioè la concezione del mondo, cioè il rapporto tra l’uomo e la realtà con la mediazione della tecnologia. Anche nella scienza cercare la realtà fuori degli uomini, inteso ciò nel senso religioso o metafisico, appare niente altro che un paradosso.
Senza l’uomo, cosa significherebbe la realtà dell’universo? Tutta la scienza è legata ai bisogni, alla vita, all’attività dell’uomo. Senza l’attività dell’uomo, creatrice di tutti i valori, anche scientifici, cosa sarebbe l’«oggettività»? Un caos, cioè niente, il vuoto, se pure così si può dire, perché realmente, se si immagina che non esiste l’uomo, non si può immaginare la lingua e il pensiero. Per la filosofia della praxis l’essere non può essere disgiunto dal pensare, l’uomo dalla natura, l’attività dalla materia, il soggetto dall’oggetto; se si fa questo distacco si cade in una delle tante forme di religione o nell’astrazione senza senso.
§38 Porre la scienza a base della vita, fare della scienza la concezione del mondo per eccellenza, quella che snebbia gli occhi da ogni illusione ideologica, che pone l’uomo dinanzi alla realtà così come essa è, significa ricadere nel concetto che la filosofia della praxis abbia bisogno di sostegni filosofici all’infuori di se stessa. Ma in realtà anche la scienza è una superstruttura, una ideologia. Si può dire, tuttavia, che nello studio delle superstrutture la scienza occupi un posto privilegiato, per il fatto che la sua reazione sulla struttura ha un carattere particolare, di maggiore estensione e continuità di sviluppo, specialmente dopo il Settecento, da quando alla scienza fu fatto un posto a patte nell’apprezzamento generale?
Che la scienza sia una superstruttura è dimostrato anche dal fatto che essa ha avuto dei periodi interi di ecclisse, oscurata come essa fu da un’altra ideologia dominante, la religione, che affermava di aver assorbito la scienza stessa: così la scienza e la tecnica degli arabi apparivano ai cristiani pura stregoneria. Inoltre: la scienza, nonostante tutti gli sforzi degli scienziati non si presenta mai come nuda nozione obbiettiva: essa appare sempre rivestita da una ideologia e concretamente è scienza l’unione del fatto obbiettivo con un’ipotesi o un sistema d’ipotesi che superano il mero fatto obbiettivo. È vero però che in questo campo è relativamente facile distinguere la nozione obbiettiva dal sistema d’ipotesi, con un processo di astrazione che è insito nella stessa metodologia scientifica, in modo che si può appropriarsi dell’una e respingere l’altro. Ecco perché un gruppo sociale può appropriarsi la scienza di un altro gruppo senza accettarne l’ideologia (l’ideologia dell’evoluzione volgare, per esempio) così che le osservazioni in proposito del Missiroli (e del Sorel) cadono.
§39 È da notare che accanto alla più superficiale infatuazione per le scienze, esiste in realtà la più grande ignoranza dei fatti e dei metodi scientifici, cose molto difficili e che sempre più diventano difficili per il progressivo specializzarsi di nuovi rami di ricerca. La superstizione scientifica porta con sé illusioni così ridicole e concezioni così infantili che la stessa superstizione religiosa ne viene nobilitata. Il progresso scientifico ha fatto nascere la credenza e l’aspettazione di un nuovo tipo di Messia, che realizzerà in questa terra il paese di Cuccagna; le forze della natura, senza nessun intervento della fatica umana, ma per opera di meccanismi sempre più perfezionati, daranno alla società in abbondanza tutto il necessario per soddisfare i suoi bisogni e vivere agiatamente. Contro questa infatuazione, i cui pericoli sono evidenti (la superstiziosa fede astratta nella forza taumaturgica dell’uomo, paradossalmente porta ad isterilire le basi stesse di questa stessa forza e a distruggere ogni amore al lavoro concreto e necessario, per fantasticare, come se si fosse fumato una nuova specie di oppio) bisogna combattere con vari mezzi, dei quali il più importante dovrebbe essere una migliore conoscenza delle nozioni scientifiche essenziali, divulgando la scienza per opera di scienziati e di studiosi seri e non più di giornalisti onnisapienti e di autodidatti presuntuosi.
In realtà, poiché si aspetta troppo dalla scienza, la si concepisce come una superiore stregoneria, e perciò non si riesce a valutare realisticamente ciò che di concreto la scienza offre.
Epistemologia
IV. Gli strumenti logici del pensiero.
§40 Cfr Mario Govi, Fondazione della Metodologia. Logica ed Epistemologia, Torino, Bocca, 1929, pp. 579. Il Govi è un positivista e il suo libro tende a rinnovare il vecchio positivismo classico, a creare un neopositivismo. In fondo per il Govi «metodologia» ha un significato molto ristretto, di «piccola logica»: si tratta per lui di costruire una nuova logica formale, astratta da ogni contenuto, anche dove egli parla delle varie scienze (classificate secondo la metodologia generale, ma sempre esteriormente) che sono presentate nella loro particolare logica astratta (specializzata, ma astratta), che il Govi chiama Epistemologia.
Il Govi appunto divide la Metodologia in due parti: Metodologia generale o Logica propriamente detta e Metodologia speciale o Epistemologia. La Epistemologia ha come scopo primario e principale la conoscenza esatta di quello speciale scopo conoscitivo a cui ciascuna diversa ricerca è diretta, per poter poi determinare i mezzi e il procedimento per conseguirlo.
Il Govi riduce a tre i diversi scopi conoscitivi legittimi della ricerca umana; questi tre scopi costituiscono lo scibile umano e sono irriducibili a uno solo, ossia sono essenzialmente diversi. Due sono scopi conoscitivi finali: la conoscenza teoretica o della realtà, la conoscenza pratica o di ciò che si deve o non si deve fare; il terzo consiste nelle conoscenze le quali sono mezzi per l’acquisizione delle precedenti. Si hanno dunque tre parti nella Epistemologia: scienza teorica o della realtà, scienza pratica, scienza strumentale. Da ciò tutta una analitica classificazione delle scienze.
La sua filosofia il Govi la chiama «empiristico‑integralista», distinguendola dalla concezione religiosa e da quella razionalistica, nella quale primeggia la filosofia kantiana: la distingue anche, ma in modo subordinato, dalla concezione «empiristico-particolaristica» che è il positivismo. Egli si distingue dal positivismo in quanto ne ribatte alcuni eccessi e cioè la negazione non solo di ogni metafisica religiosa o razionalistica, ma anche ogni possibilità e legittimità di una metafisica; il Govi ammette invece la legittimità di una metafisica, ma con fondamenti puramente empirici (!) e costruita, in parte, dopo e sulla base delle scienze reali particolari. (Cfr quanto delle teorie del Govi sono prese dai neo‑realisti inglesi e specialmente da Bertrand Russell).
§42 Valore puramente strumentale della logica e della metodologia formali. Si può accostare la logica formale e la metodologia astratta alla «filologia». Anche la filologia ha un valore schiettamente strumentale, insieme con l’erudizione. Una funzione analoga è quella delle scienze matematiche. Concepita come valore strumentale, la logica formale ha un suo significato e un suo contenuto (il contenuto è nella sua funzione) così come hanno un loro valore e un loro significato gli strumenti e gli utensili da lavoro. Che una «lima» possa indifferentemente essere usata per limare ferro, rame, legno, diverse leghe metalliche ecc., non significa che sia «senza contenuto», puramente formale ecc. Così la logica formale ha un suo sviluppo, una sua storia, ecc.; può essere insegnata, arricchita ecc.
§44 La tecnica del pensare. Su questo argomento è da confrontare l’affermazione contenuta nella prefazione dell’Antidühring (3a ed., Stoccarda, 1894, p. XIX) che «l’arte di operare coi concetti non è alcunché di innato o di dato nella coscienza comune, ma è un lavoro tecnico del pensiero, che ha una lunga storia, né più né meno della ricerca sperimentale delle scienze naturali» (citato dal Croce in Materialismo storico ed economia marxistica, 1921, IV, p. 31). Questo concetto è richiamato in parecchie note. È da vedere il testo originale di Engels, per collocare il brano nel suo nesso generale. Il Croce, citandolo, nota tra parentesi che non si tratta di un concetto «peregrino», ma che esso era diventato di senso comune già prima di Engels. Ma non si tratta della maggiore o minore originalità o peregrinità del concetto, in questo caso e per questa trattazione: si tratta della sua importanza e del posto che deve occupare in un sistema di filosofia della praxis e si tratta di vedere se esso ha quel riconoscimento «pratico e culturale» che deve avere.
A questo concetto occorre richiamarsi per intendere ciò che vuol dire Engels quando scrive che, dopo le innovazioni portate dalla filosofia della praxis, della vecchia filosofia rimane, tra l’altro, la logica formale, affermazione che il Croce riporta nel suo saggio sullo Hegel accompagnandola di un punto esclamativo. Lo stupore del Croce per la «riabilitazione» della logica formale che pare implicita nell’affermazione dell’Engels deve essere collegato alla sua dottrina della tecnica dell’arte, per esempio, e a tutta una serie di altre sue opinioni che costituiscono la somma del suo effettivo «antistoricismo» e astrattismo metodico (le «distinzioni», il cui principio «metodico» è vanto del Croce aver introdotto nella tradizione «dialettica», diventano da principio scientifico, causa di «astrattezza» e di antistoricismo nella loro formalistica applicazione). Ma l’analogia tra la tecnica artistica e la tecnica del pensiero è superficiale e fallace, almeno in un certo senso. Può esistere un artista che «consapevolmente» o «riflessamente» non conosce nulla dell’elaborazione tecnica precedente (la sua tecnica egli la prenderà ingenuamente dal senso comune); ma ciò non può avvenire nella sfera della scienza in cui esiste progresso e deve esistere progresso, in cui il progresso della conoscenza è strettamente connesso al progresso strumentale, tecnico, metodologico e ne è anzi condizionato, proprio come nelle scienze sperimentali in senso stretto.
È da porre addirittura la quistione se l’idealismo moderno e particolarmente il crocismo, con la sua riduzione della filosofia a una metodologia della storia non sia essenzialmente una «tecnica»; se lo stesso concetto di «speculazione» non sia essenzialmente una ricerca «tecnica», intesa certo in un significato superiore, meno estrinseco e materiale della ricerca che culminò nella costruzione della scolastica logica formale. Non pare che sia lontano da un tale punto di vista Adolfo Omodeo quando scrive («Critica» del 20 luglio 1932, p. 295): (Il Loisy) «che aveva fatto l’esperienza dei sistemi di teologia, diffida di quelli di filosofia. Teme che una formula di sistema uccida ogni interesse per la storia concreta, che una deduzione più o meno dialettica annienti la pienezza umana dell’effettiva formazione spirituale. E in vero, in tutte le filosofie post‑kantiane insieme con l’avviamento ad una visione panistorica, è attiva una tendenza metaistorica che vorrebbe dare di per sé un concetto metafisico dello spirito. Il Loisy avverte lo stesso bisogno che in Italia ha generato il tentativo di ridurre la filosofia a mera metodologia astratta della storia, contro la boria metafisica che disprezza “le grosse materialità della storia”.
Egli chiarisce assai bene il suo concetto nel problema della morale. Scarta le formole filosofiche perché esse, con una considerazione riflessa sulla morale, annullano il problema della vita e dell’azione morale, della formazione della personalità e della coscienza, ciò che noi siamo soliti chiamare la storicità dello spirito, la quale non è corollario di filosofia astratta. Ma forse l’esigenza è spinta troppo oltre, sino a disconoscere la funzione della filosofia come controllo metodico dei nostri concetti».
Nell’affermazione dell’Engels è da vedere, sia pure espressa in termini non rigorosi, questa esigenza metodica, che è tanto più viva quanto più il riferimento sottinteso è fatto non per gli intellettuali e per le così dette classi colte, ma per le masse popolari incolte, per le quali è necessaria ancora la conquista della logica formale, della più elementare grammatica del pensiero e della lingua. Potrà sorgere la quistione del posto che una tale tecnica deve occupare nei quadri della scienza filosofica, se essa cioè faccia parte della scienza come tale, già elaborata, o della propedeutica scientifica, del processo di elaborazione come tale. (Così nessuno può negare l’importanza, in chimica, dei corpi catalitici, perché di essi non rimane traccia nel risultato finale). Anche per la dialettica si presenta lo stesso problema: essa è un nuovo modo di pensare, una nuova filosofia, ma è anche perciò una nuova tecnica. Il principio della distinzione, sostenuto dal Croce, e pertanto tutte le sue polemiche con l’attualismo gentiliano, non sono anche quistioni tecniche? Si può staccare il fatto tecnico da quello filosofico? Lo si può però isolare ai fini pratici didascalici. E infatti è da notare l’importanza che ha la tecnica del pensiero nella costruzione dei programmi didattici. Né si può fare il paragone tra la tecnica del pensiero e le vecchie retoriche. Queste né creavano artisti, né creavano il gusto, né davano criteri per apprezzare la bellezza: erano utili solo per creare un «conformismo» culturale, e un linguaggio da conversazione tra letterati. La tecnica del pensiero, elaborata come tale, non creerà certo grandi filosofi, ma darà criteri di giudizio e di controllo e correggerà le storture del modo di pensare del senso comune.
Sarebbe interessante un esame comparativo della tecnica del senso comune, della filosofia dell’uomo della strada, e la tecnica del pensiero riflesso e coerente. Anche in questo riguardo vale l’osservazione del Macaulay sulle debolezze logiche della cultura formatasi per via oratoria e declamatoria.
§45 Esperanto filosofico e scientifico. Dal non comprendere la storicità dei linguaggi e quindi delle filosofie, delle ideologie e delle opinioni scientifiche consegue la tendenza, che è propria di tutte le forme di pensiero (anche di quelle idealistico‑storicistiche) a costruire se stesse come un esperanto o volapük della filosofia e della scienza. Si può dire che si sia perpetuato (in forme sempre diverse e più o meno attenuate) lo stato d’animo dei popoli primitivi verso gli altri popoli con cui entravano in rapporto. Ogni popolo primitivo chiamava (o chiama) se stesso con una parola che significa anche «uomo» e gli altri con parole che significano «muti» o «balbettanti» (barbari), in quanto non conoscono la «lingua degli uomini» (ne è venuto il bellissimo paradosso per cui «cannibale» o mangiatore di uomini significa originalmente – etimologicamente – «uomo per eccellenza» o «uomo vero»).
Per gli esperantisti della filosofia e della scienza tutto ciò che non è espresso nel loro linguaggio è delirio, è pregiudizio, è superstizione, ecc.; essi (con un processo analogo a quello che si verifica nella mentalità settaria) trasformano in giudizio morale o in diagnosi di ordine psichiatrico quello che dovrebbe essere un mero giudizio storico. Molte tracce di questa tendenza si trovano nel Saggio popolare. L’esperantismo filosofico è specialmente radicato nelle concezioni positivistiche e naturalistiche; la «sociologia» è forse il maggior prodotto di una tale mentalità. Così le tendenze alla «classificazione» astratta, al metodologismo e alla logica formale. La logica e la metodologia generale vengono concepite come esistenti in sé e per sé, come formule matematiche, astratte dal pensiero concreto e dalle concrete scienze particolari (così come si suppone che la lingua esista nel vocabolario e nelle grammatiche, la tecnica fuori del lavoro e dell’attività concreta ecc.).
D’altronde non bisogna pensare che la forma di pensiero «antiesperantistico» significhi scetticismo o agnosticismo o ecclettismo. È certo che ogni forma di pensiero deve ritenere se stessa come «esatta» e «vera» e combattere le altre forme di pensiero; ma ciò «criticamente». Dunque la quistione è sulle dosi di «criticismo» e di «storicismo» che sono contenute in ogni forma di pensiero. La filosofia della prassi, riducendo la «speculatività» ai suoi limiti giusti (negando cioè che la «speculatività» come l’intendono anche gli storicisti dell’idealismo sia il carattere essenziale della filosofia) appare essere la metodologia storica più aderente alla realtà e alla verità.
§41 La dialettica come parte della logica formale e della retorica. Cfr per il modo di concepire la dialettica dei neotomisti, il libretto Dialectica dei padri Liberatore e Corsi della Compagnia di Gesù (Napoli, Tipografia commerciale, 1930, in‑8°, pp. 80, L. 7). Il padre Liberatore è stato uno dei più celebri polemisti gesuiti e direttore della «Civiltà Cattolica».
Sono da confrontare anche i due volumi sulla Dialettica di B. Labanca, cattolico. Del resto nel suo capitolo su «Dialettica e logica» nei Problemi fondamentali Plekhanov concepisce la dialettica come una sezione della logica formale, come la logica del movimento in confronto alla logica della stasi.
Il legame tra dialettica e retorica continua anche oggi nel linguaggio comune, in senso superiore quando si vuole indicare una oratoria stringente, in cui la deduzione o il nesso tra causa ed effetto è di carattere particolarmente convincente e in senso deteriore per l’oratoria pagliettesca, che fa stare a bocca aperta i villani.
§43 Bibliografia. Vedere il libro di Tobias Dantzig, professore di matematica all’Università di Maryland, Le nombre (Payot, Parigi, 1931 o 32?), storia del numero e della successiva formazione dei metodi, delle nozioni, delle ricerche matematiche.
V. Traducibilità dei linguaggi scientifici e filosofici.
§46 Nel 1921 trattando di quistioni di organizzazione Vilici [Lenin ndc] scrisse e disse (press’a poco) così: non abbiamo saputo «tradurre» nelle lingue europee la nostra lingua.
§47 È da risolvere il problema: se la traducibilità reciproca dei vari linguaggi filosofici e scientifici sia un elemento «critico» proprio di ogni concezione del mondo o solamente proprio della filosofia della prassi (in modo organico) e solo parzialmente appropriabile da altre filosofie. La traducibilità presuppone che una data fase della civiltà ha una espressione culturale «fondamentalmente» identica, anche se il linguaggio è storicamente diverso, determinato dalla particolare tradizione di ogni cultura nazionale e di ogni sistema filosofico, dal predominio di una attività intellettuale o pratica ecc. Così è da vedere se la traducibilità è possibile tra espressioni di fasi diverse di civiltà, in quanto queste fasi sono momenti di sviluppo una dall’altra, e quindi si integrano a vicenda, o se un’espressione data può essere tradotta coi termini di una fase anteriore di una stessa civiltà, fase anteriore che però è più comprensibile che non il linguaggio dato ecc. Pare si possa dire appunto che solo nella filosofia della prassi la «traduzione» è organica e profonda, mentre da altri punti di vista spesso è un semplice gioco di «schematismi» generici.
§48 Giovanni Vailati e la traducibilità dei linguaggi scientifici. Passo della Sacra Famiglia in cui si afferma che il linguaggio politico francese del Proudhon corrisponda e possa tradursi nel linguaggio della filosofia classica tedesca. Questa affermazione è molto importante per comprendere alcuni aspetti della filosofia della prassi e per trovare la soluzione di molte apparenti contraddizioni dello sviluppo storico e per rispondere ad alcune superficiali obbiezioni contro questa teoria storiografica (anche utile per combattere alcuni astrattismi meccanicistici).
Nota II. A proposito dell’importanza che può avere la nomenclatura per le cose nuove.
§55 Originalità e ordine intellettuale. Una massima di Vauvenargues: «È più facile dire cose nuove che metter d’accordo quelle che sono già state dette». Si può analizzare questa massima nei suoi elementi. È più difficile instaurare un ordine intellettuale collettivo che inventare arbitrariamente dei principi nuovi e originali. Necessità di un ordine intellettuale, accanto all’ordine morale, e all’ordine... pubblico. Per creare un ordine intellettuale, necessità di un «linguaggio comune» (contro neolalismo intellettuale e bohemismo). Originalità «razionale»; anche il filisteo è un originale, così come lo scapigliato. Nella pretesa dell’originalità c’è molta vanità e individualismo, e poco spirito creatore ecc.
§61 Filosofi‑letterati e filosofi‑scienziati. Ha un qualsiasi valore il fatto che un filosofo abbia preso le mosse da una esperienza scientifica o da una esperienza «letteraria»? Cioè quale filosofia è più «realistica»: quella che muove dalle scienze «esatte» o quella che muove dalla «letteratura», cioè dall’osservazione dell’uomo in quanto intellettualmente attivo e non solo «parte meccanica della natura?»