Solipsismo

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Termine filosofico con cui si indica l’orientamento di chi considera il soggetto come l’unica autentica realtà, sia dal punto di vista pratico, ponendo l’interesse individuale a fondamento determinante dell’azione, sia da quello gnoseologico-metafisico, intendendo la realtà esterna come semplice rappresentazione della coscienza soggettiva.

È soprattutto in quest’ultima accezione, comunque, che il problema del s. è stato discusso, e probabilmente la formula solipsistica per eccellenza è l’esse est percipi di G. Berkeley, il cui idealismo soggettivo nega che la realtà esterna possieda un’esistenza indipendente dal soggetto conoscente. Avversato già da T. Reid e dalla scuola scozzese del senso comune (➔ senso), il s. è successivamente oggetto di critica da parte di I. Kant, che ne mostra l’infondatezza gnoseologica attraverso la nozione di ‘io penso’ o ‘soggetto trascendentale’, la cui caratteristica è quella dell’intersoggettività e quindi di una forma di universalità. Nel pensiero contemporaneo il problema è riproposto da L. Wittgenstein, che nel Tractatus logico-philosophicus sostiene un s. di tipo linguistico per il quale ‘i limiti del mio linguaggio sono i limiti del mondo’, intendendo affermare non tanto una forma di idealismo soggettivo quanto l’impossibilità di trascendere il piano linguistico nell’attività conoscitiva. In Der logische Aufbau der Welt, R. Carnap sostiene un rigoroso fenomenismo sulla base di un ‘s. metodologico’ che, ritenendo in ogni caso infondato il tradizionale s. gnoseologico-metafisico, considera come punto di partenza della conoscenza le esperienze elementari vissute senza tuttavia rinunciare al conseguimento dell’intersoggettività. La questione del s. è inoltre ampiamente discussa nella filosofia analitica (Wittgenstein, A.J. Ayer, P.F. Strawson, J.T. Wisdom) nell’ambito del cosiddetto ‘problema delle altre menti’, il problema cioè del modo in cui un soggetto individuale sa o accerta che anche gli altri hanno esperienze e stati mentali simili a quelli che egli stesso può sperimentare in sé stesso per via introspettiva.


Dizionario di Filosofia (2009)

Dal lat. solus «solo» e ipse «stesso». L’atteggiamento di chi risolve ogni realtà in sé medesimo, o dal punto di vista pratico (ponendo a metro delle azioni il proprio interesse personale) o da quello gnoseologico-metafisico (considerando l’Universo come semplice rappresentazione della propria, particolare coscienza). Nel Settecento esso ha piuttosto il primo significato (in questo senso lo usa Kant, che definisce solipsista colui che assume quale metro delle proprie azioni soltanto il proprio interesse personale), il secondo essendo espresso dal termine egoismo logico o teoretico. Nell’Ottocento, al contrario, di egoismo si parla soprattutto in senso etico, di s. in senso gnoseologico-metafisico. È soprattutto in quest’ultima accezione, comunque, che il problema del s. è stato discusso, e probabilmente la formula solipsistica per eccellenza è l’esse est percipi di Berkeley, il cui idealismo soggettivo nega che la realtà esterna possieda un’esistenza indipendente dal soggetto conoscente. Con ciò il s., rigorosamente inteso, è la posizione propria di ogni idealismo empirico e relativistico, identificante cioè il soggetto del pensiero con la coscienza empirica, particolare e finita, la quale, in quanto tale, non può conoscere il reale che in forma particolare e finita, senza potersi elevare a una conoscenza universale e oggettiva, comune a tutti i soggetti pensanti. Avversato già da Reid e dalla cosiddetta scuola del senso comune (➔), il s. è stato successivamente criticato da Kant, che ne mostrava l’infondatezza gnoseologica attraverso la nozione di «Io penso» o «soggetto trascendentale», la cui caratteristica è quella dell’intersoggettività e quindi di una forma di universalità. Mentre poi la problematica si estingue nell’idealismo postkantiano, in forza della risoluzione del noumeno nell’attività dell’Io assoluto o del sapere speculativo, essa ritorna in Schopenhauer, che dichiara l’invincibilità del s., sia pure soltanto sul piano teoretico, una volta risolta in chiave soggettivistica (cioè in termini di volontà e di rappresentazione) la «cosa in sé». Nella prima metà del Novecento, il tema del s. è tornato di attualità, intrecciandosi spesso a quello dello scetticismo, come attesta anche il confronto che in Italia ha avuto come protagonisti Levi (Sceptica, 1921) e Pastore (Il solipsismo, 1924). Va in partic. ricordato il s. linguistico sostenuto da Wittgenstein nel Tractatus logico-philosophicus (1922), e sintetizzabile nella tesi «i limiti del mio linguaggio sono i limiti del mondo» (prop. 5.62-5.64), posizione, questa, che intendeva sostenere non tanto una forma di idealismo soggettivo, quanto l’impossibilità di trascendere il piano linguistico nell’attività conoscitiva, la coincidenza dell’esistente con il dicibile. In Der logische Aufbau der Welt (1928; trad. it. La costruzione logica del mondo: pseudoproblemi della filosofia), Carnap, sotto l’influenza di Mach, si è fatto invece sostenitore di un rigoroso fenomenismo sulla base di un «s. metodologico», che, ritenendo in ogni caso infondato il tradizionale s. gnoseologico-metafisico, considera come punto di partenza della conoscenza le esperienze elementari vissute (Erlebnisse) senza tuttavia rinunciare al conseguimento dell’intersoggettività. La questione del s. è stata inoltre ampiamente discussa nella filosofia analitica (Wittgenstein, Ayer, Strawson, Wisdom) nell’ambito del cosiddetto «problema delle altre menti», il problema cioè del modo in cui un soggetto individuale sa o accerta che anche gli altri hanno esperienze e stati mentali simili a quelli che egli può sperimentare in sé stesso per via introspettiva.