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Enciclopedia online
Branca della filosofia che, tradizionalmente, mira a individuare
la natura ultima e assoluta della realtà al di là
delle sue determinazioni relative, oggetto delle scienze
particolari.
1. Origine e impiego del termine
Il nome della m., che si presenta nella tradizione come il vertice
della gerarchia dello scibile, deve la sua origine a una singolare
combinazione bibliografica. Nella edizione degli scritti
aristotelici, curata nel 1° sec. a.C. da Andronico di Rodi, le
trattazioni concernenti i problemi più universali della
filosofia furono posposte alle trattazioni riferentisi agli
aspetti e alle leggi della natura: queste furono raccolte sotto il
titolo complessivo di τὰ ϕυσικά («le trattazioni concernenti
la natura») e quelle ebbero il nome di τὰ μετὰ τὰ ϕυσικά
(«le trattazioni posteriori a quelle circa la
natura»). Il μετά non esprimeva quindi che il susseguirsi di
un gruppo di scritti all’altro, senza alcuna allusione al
reciproco rapporto di valore del loro contenuto. Solo dal
carattere intrinseco che possedevano gli aristotelici μετὰ τὰ
ϕυσικά derivò la nuova interpretazione linguistica, che nel
μετά espresse il carattere di superiorità e trascendenza
proprio delle realtà studiate dalla m. nei confronti di
quelle studiate dalla fisica. Questa interpretazione si afferma
soprattutto nel Medioevo: così il termine m. s’incontra nel
lessico della scolastica medievale derivato dalle versioni
greco-latine e arabo-latine di Aristotele e dei commentatori
arabi.
Gli scritti aristotelici compresi sotto il nome di m. sono
costituiti da diverse trattazioni nelle quali Aristotele si
propone la determinazione dei principi ultimi, da cui si debba far
dipendere l’esistenza di tutte le cose. A questa scienza che
studia la realtà assoluta Aristotele dà il nome di
‘filosofia prima’ e la definisce, nella fase più matura
della sua evoluzione, come teoria dell’‘ente in quanto ente’,
cioè della realtà considerata in quei soli caratteri
universalissimi che la fanno esser tale, a esclusione di tutti
quei caratteri specifici che le conferiscono la natura di
realtà determinata, oggetto di una scienza particolare.
Intrinseco alla m. è il concetto di una fondamentale
distinzione, quella per cui una realtà assoluta e
universale si contrappone a una realtà relativa e
particolare, costituendone la base ultima e conferendo così
alla conoscenza teoretica di quella realtà il carattere di
conoscenza assoluta, rispetto alla relatività di tutte le
altre. Nei sistemi filosofici realistici od oggettivistici, che
individuano il fondamento ultimo delle cose in una realtà
esistente in sé antecedentemente al pensiero, la m. appare
come ontologia, o teoria dell’essere; mentre nei sistemi
idealistici o soggettivistici, che pongono la realtà ultima
nel principio conoscitivo e intellettivo, la m. viene a combaciare
con la psicologia o con la gnoseologia o con la logica o con la
dialettica, o anche con l’etica, quando il regno dell’assoluto sia
scorto soltanto nella sfera dei valori morali.
2. Storia della metafisica
2.1 LA M. CLASSICA
La storia della m. è ben più ampia di quella
dell’uso che di tale termine si fece. Esiste, anzitutto, una m.
classica, sia prearistotelica sia postaristotelica. Non sono anzi
mancati interpreti che hanno fatto coincidere l’inizio della
storia del problema metafisico addirittura con quello della storia
del pensiero greco, osservando come gli stessi ‘principi’ posti
dai ‘fisiologi’ della scuola di Mileto a fondamento delle cose
trascendessero, nella loro universalità ed eternità,
il mondo empirico, e fossero quindi realtà metafisiche. La
prima netta e consapevole distinzione di una realtà
assoluta dalla realtà empirica è tuttavia opera
della scuola eleatica che, con Parmenide, contrappone il puro e
unico ente alla varietà molteplice e transeunte delle cose
sensibili. D’allora in poi il problema metafisico finisce per
identificarsi con il problema fondamentale della filosofia, e la
storia della difesa del concetto e del termine di m., e della
polemica contro di esso (culminante nel 19° sec. con il
positivismo), non potrebbe tracciarsi senza richiamare l’intera
storia della filosofia.
2.2 IL 20° SECOLO
Nel Novecento la polemica contro la m. è stata ripresa dal
neopositivismo. Pensatori come M. Schlick, R. Carnap, O. Neurath e
A.J. Ayer convennero nel considerare le proposizioni metafisiche
come prive di senso in quanto asserenti qualcosa che sta al di
là dell’osservazione. All’interno del neopositivismo sorse
quindi la tendenza a concepire la m. come un sostituto
dell’espressione artistica e dell’esperienza mistica; così
secondo Carnap le proposizioni della m. non hanno alcun contenuto
e non sono altro che espressioni di sentimenti che tendono a loro
volta a suscitare sentimenti in coloro che le ascoltano.
Un’interpretazione che invece attenua soltanto il rilievo
conoscitivo della m. è rintracciabile nel pragmatismo: W.
James sosteneva che l’unico punto di vista pertinente per una
valutazione delle diverse m. è quello di un esame delle
loro conseguenze sul piano pratico. K.R. Popper, invece, pur
separando nettamente la m. dalla scienza, ha sottolineato il
valore euristico delle tesi metafisiche, in quanto queste
fornirebbero agli scienziati utili suggerimenti per la spiegazione
dei fenomeni naturali.
Accanto a queste tendenze troviamo nel 20° sec. altre linee di
pensiero (oltre quelle che proseguono posizioni tradizionali), le
quali intendono la m. in un senso nuovo, come descrizione delle
strutture della nostra esperienza o del nostro linguaggio; in
questa linea s’inseriscono le opere di fenomenologi come E.
Husserl e M. Scheler. M. Heidegger, accortosi dell’inadeguatezza
del linguaggio della m. che, trascurando l’aspetto della
temporalità e identificando l’essere con l’ente, ha sempre
posto quest’ultimo in primo piano, si è concentrato sul
linguaggio stesso per coglierlo nella sua dimensione non
oggettivante, in uno sforzo di superamento della m. stessa.
All’interno della filosofia analitica del Secondo dopoguerra,
insieme a un tentativo d’individuare la logica propria delle
proposizioni metafisiche (L. Wittgenstein, F. Waismann e J.
Urmson), si è delineato il progetto di costruire una vera e
propria m. descrittiva : ne è un saggio Individuals (1959)
di P.F. Strawson, che si propone di cogliere le strutture con cui
pensiamo il mondo, privilegiando il carattere descrittivo della
ricerca in contrapposizione al tentativo delle m. post-kantiane
d’individuare una struttura immutabile del pensiero umano. La m.
descrittiva, che vari esponenti della filosofia analitica (S.
Hampshire, D.F.S. Pears) hanno cercato di elaborare, recupera in
parte il programma kantiano d’individuazione delle strutture della
ragione e quello fenomenologico di descrizione delle essenze dei
vari settori dell’esperienza; a ciò si aggiunge come
elemento originale la convinzione che oggetto proprio delle
descrizioni metafisiche debba essere il linguaggio umano.
Dizionario di filosofia (2009)
Termine non utilizzato nella filosofia antica, ed entrato
nell’uso in epoca tardo-antica e medievale, dapprima per designare
i trattati di Aristotele che seguono quelli di fisica («μετὰ
τὰ φυσικά», da cui la forma contratta μεταφυσικά), raccolti
ed editi da Andronico di Rodi (1° sec. a.C.), e
successivamente per indicare la «scienza prima» o
«delle cose prime», logicamente e ontologicamente
collocata in rapporto fondante e subordinante rispetto alle altre
scienze. In tal senso Aristotele la designa come «filosofia
prima» (πρῶτη φιλοσοφία), concernente le «sostanze
separate», distinta e fondante rispetto alla
«filosofia seconda», o fisica, come anche rispetto
alle conoscenze etiche e produttive. Le molte accezioni secondo
cui tale ambito della conoscenza è stato trattato, hanno
moltiplicato, nello svolgimento storico, la già ampia gamma
di significati o specificazioni presenti nello scritto di
Aristotele, nel Medioevo principalmente in rapporto alla teologia
naturale, in età moderna relativamente allo studio
dell’essere (ontologia). In epoca kantiana si assiste alla messa
in crisi della possibilità della m. intesa come scienza,
mentre con Hegel essa viene recuperata mediante la concezione
dialettica della filosofia come sapere assoluto, per poi di nuovo
essere criticata in quanto «stadio intermedio» della
conoscenza, da superare, evolvendo in una reale comprensione
scientifica, nel positivismo.
Nel pensiero del Novecento, con il prevalere della problematica
fenomenologica ed esistenziale, la m. si è specificata in
‘ontologia’ , mentre una ripresa della m. di impianto classico,
seppur con profonde rielaborazioni, si è avuta in indirizzi
filosofici quali il neotomismo o, in prospettiva opposta,
l’idealismo. Sempre in età contemporanea, a partire dal
riconoscimento del ruolo ineliminabile, seppur impreciso, della m.
nell’elaborazione di teorie scientifiche o filosofiche, sono state
proposte nuove integrazioni, settoriali o meramente ‘regolative’,
della m. nell’ambito delle filosofie analitiche o della
riflessione epistemologica, quali, per es., la m. descrittiva o la
m. funzionale.
Antichità.
Parlando di m. in relazione all’antichità
e alla tarda antichità si intende, in primo luogo, lo
studio dell’essere, della sostanza, dei principi primi della
realtà e della conoscenza e delle cause prime, ma anche la
riflessione sul divino (teologia) e sull’uno, principalmente nel
neoplatonismo antico (per es., in Plotino e Proclo, il quale
indica la m. appunto con il termine «teologia»). In
questo ultimo senso la m. viene a convergere con aspetti del
platonismo rigettati nell’originario progetto aristotelico, dove
la riflessione intorno all’«essere in quanto essere»
(«τὸ ὄν ᾗ ὄν»; Metafisica, IV, 2, 1003 a 20; la futura
‘ontologia’) assorbe la riflessione sull’uno quale si è
venuta configurando nella filosofia dell’Accademia, guidata, negli
anni in cui opera Aristotele, da Speusippo: «l’essere e
l’uno sono identici e hanno una sola natura» (1003 b 22-23);
«l’uno non è nulla al di fuori dell’essere»
(1003 b 32). Aristotele, nel determinare lo statuto scientifico
della «scienza prima», intesa come conoscenza delle
cause, ripercorre le dottrine dei suoi predecessori (Metafisica,
I, 3-9) rilevandone l’insufficienza principalmente nella mancata
identificazione delle cause finali ed efficienti. I naturalisti,
come Talete, si sono limitati alle cause materiali; Platone si
è limitato alle cause formali. Problematiche risultano
inoltre la concezione pitagorica del numero come principio e
dunque sostanza, e la teoria platonica delle idee come cause
formali ‘separate’, da cui ha preso avvio la speculazione sull’uno
e la diade, centrale nella riflessione condotta presso l’Accademia
di Speusippo.
In Aristotele la m. si connota come scienza
teoretica del divino («ϑεολογική»; Metafisica, VI, 1,
1026 a 19; 1064 b 2) proprio in quanto studio della sostanza
(οὐσία) e, in partic., della sostanze prime, separate e immobili.
La questione della priorità (in merito al conoscere e
all’essere) si poneva già in Platone sia relativamente al
rapporto fra le diverse idee – anche in relazione alla
centralità e superiorità dell’idea del Bene (ἀγαϑόν;
«oggetto della massima disciplina è l’idea del
bene», Repubblica, VI, 504 a) – sia relativamente allo
statuto dell’essere in rapporto al divenire e al non-essere (temi
affrontati nel Parmenide, nel Sofista e nel Teeteto) ossia
dell’uno in rapporto al molteplice. Tale problematica comportava
quella dell’anteriorità dell’uno (ἕν) rispetto all’essere
stesso, che sarebbe poi andata precisandosi nel neoplatonismo
antico, fino a giungere alle posizioni radicali di Plotino e di
Proclo: «l’uno è il primo, mentre l’intelligenza
[νοῦς], le forme, e l’essere [ὄν] non sono primi» (Enneadi,
VI, 9, 2); «l’uno non è neppure essere»
(Enneadi, VI, 9, 3; VI, 8, 14-16); «vi è un uno
anteriore all’essere, che fa esistere l’essere ed è sua
causa in modo primario» (Teologia platonica, 3, 8).
Per
Platone la conoscenza, mediante la dialettica (διαλεκτική,
procedimento conoscitivo conforme alla struttura metafisica del
reale), supera il sensibile e perviene al livello della scienza
(ἐπιστήμη) attingendo mediante la ragione discorsiva (διάνοια) gli
oggetti matematici e mediante l’intelletto (νοῦς) le idee. Il fine
della dialettica, e dunque della scienza, è la conoscenza
dell’idea del bene (Repubblica, VI, 534 b-d). La contrapposizione
fra l’idea o forma (εἶδος), che si connota come universale e come
uno, e il molteplice attestato sia dall’esperienza sia dalla
pluralità delle idee stesse, conduce alla critica della
tesi parmenidea dell’essere come unico e identico, scevro da
molteplicità (Parmenide, Περί φύσηως, «Intorno alla
natura», framm. 8) in favore della concezione dell’essere
come «potenza» o «possibilità»
(δύναμις) esposta nel Sofista (241 d-242 a; 247 d-e).
Contrariamente a quanto avviene in Platone, Aristotele riconduce
sia il divino sia l’uno all’essere, che già risolve e fonda
la sostanza, la causa e i principi. In tale prospettiva la m.
è, in primo luogo, scienza della sostanza (οὐσία), che
è a sua volta prioritaria rispetto alle successive
determinazioni categoriali, ossia ai «molti modi» in
cui «l’essere si dice» («πολλαχῶς λέγεται τὸ
ὄν»; Metafisica, VI, 2, 1026 a 32-b 2; V, 7, 1017 a 9; XIV,
2, 1089 a 26-28). In tal modo, poiché l’essere non è
un predicato univoco, la m. aristotelica risolve il problema del
molteplice e le aporie fra essere e non-essere, simile e
dissimile, identico e altro, uno e molteplice (Metafisica, IV,
1-2).
L’indirizzo prevalente nella m. antica successivamente ad
Aristotele è quello di un’integrazione fra temi platonici
(e pitagorici), legati alla trascendenza dell’uno rispetto
all’essere, e riflessione ontologica aristotelica, che culmina,
come si è detto, nel neoplatonismo di Plotino, Porfirio e
Proclo. All’incentrarsi della speculazione sulla trascendenza
dell’uno rispetto all’essere consegue anche una riflessione
sull’uno come causalità effettivamente produttiva che, in
luogo dell’aristotelico «motore immobile», in cui
culmina la risalita aristotelica verso una «causa
prima» che senza muoversi suscita il movimento (Metafisica,
XII, 7, 1072 b 3-4; Fisica, VIII, 10), pone una realtà
trascendente (l’uno) autocostituentesi («αὐτὸ ποιεῖ»),
la quale è ‘attivamente’ «causa di sé
stessa» (Enneadi, VI, 8, 7). In Proclo dalla
‘sovrabbondanza’ di tale attività produttiva causante
deriva, secondo una struttura triadica di processioni conseguenti
che governa la derivazione della realtà, una serie di
«enadi» che, in certa misura, colmano lo spazio di
trascendenza e ineffabilità che separa l’uno dall’essere,
articolandosi in «permanere» o «manenza»
(μονή), «processione» (πρόοδος), che deriva dal
principio precedente, e «ritorno» o
«conversione» (ἐπιστϱοφή) verso il principio (Elementi
di teologia, 30-35; Teologia platonica, 3, 7-9). In tale legge di
derivazione del reale Hegel vedrà una prefigurazione della
propria dialettica (Geschichte der Philosophie, 1833-36, III;
trad. it. Lezioni sulla storia della filosofia) e sarà per
questo stigmatizzato da Feuerbach come «il Proclo
tedesco». Di un indirizzo rigorosamente aristotelico nella
tarda antichità è testimone Alessandro di
Afrodisiade, che insegna ad Atene fra il 198 e il 211, ma la
storia della m. aristotelica è destinata a migrare verso
gli studiosi arabi per essere poi riassorbita in Occidente nel
corso del Medioevo. In opposizione alla m. si svolgono invece le
riflessioni legate agli altri grandi sistemi filosofici antichi:
l’epicureismo, lo stoicismo e lo scetticismo.
Nell’epicureismo la
centralità della riflessione morale comporta, a livello
della fisica, il recupero dell’atomismo democriteo integrato,
mediante il concetto di «deviazione» (παρέγκλισις; che
Lucrezio nel De natura rerum traduce con clinamen), con una teoria
della causalità che, ovviando al determinismo meccanico,
restituisce all’uomo il compito di controllare e dominare le
passioni. Dal rifiuto della «filosofia prima» e dalla
centralità della fisica, intesa come studio della
corporeità e materialità del reale, si avvia la
riflessione del capostipite dello stoicismo, Zenone. Egli nega la
priorità delle idee, che sono soltanto «formazioni
mentali» (ἐννοήματα) o «impressioni secondarie»
(ἀνατυπώματα) ricavate dalla mente sulla base dell’impressione
corporea (τύπωσις; I frammenti degli stoici antichi, I, 65).
L’essere e la causa sono corporei e materiali, e la realtà
dell’Universo si risolve in un tutto fluido e compatto ove una
forza di tipo fisico e di natura ignea (πῦρ o αἰϑήρ; coincidente,
negli stoici successivi, con lo πνεῦμα) agisce su una
«materia prima» (πρώτη ὔλη) amorfa e priva di
qualità. Le determinazioni qualitative e formali sono in
tal modo ricondotte alla corporeità e la sostanza alla
materia prima (I frammenti degli stoici antichi, I, 85-88).
Lo
svilupparsi della vita è prodotto da un processo razionale
immanente che, al modo del seme (σπέρμα), determina lo svolgersi
della vicenda cosmobiologica; concezione che sarà recepita
nella tarda antichità come tesi dei λόγοι σπεματικοί
(Plotino, Enneadi, II, 3, 16) e che il pensiero cristiano
integrerà mediante la nozione delle «rationes
seminales» (Agostino, De diversis quaestionibus, 83, q. 46).
Nello scetticismo il livello della conoscenza metafisica è
ritenuto inattingibile; la scienza prima, metaempirica, per il suo
carattere fondativo incarna l’esigenza stigmatizzata come
«dogmatica» nel Contro i matematici, ed è per
confutarne le pretese che viene dispiegato l’armamentario dei
«tropi» presentato da Sesto Empirico negli Schizzi
pirroniani.
Dal Medioevo all’età moderna.
Nel pensiero cristiano la
riflessione sulla m. si ridetermina in rapporto a concetti
estranei all’accezione antica, quali quelli di creazione e di
divinità personale e provvidente, secondo un percorso che
condurrà alla convergenza fra m. ontologica e teologia
razionale, come avverrà, esemplarmente, nella sintesi
tomista. Filone di Alessandria, mediante l’impiego di tecniche
allegoriche, utilizzate dai mitografi antichi per interpretare i
testi poetici (principalmente Esiodo e Omero) ma anche nello
studio dei miti platonici, opera un’integrazione della m.
dell’essere entro l’orizzonte della religione, mediante il
trattamento ontologico dello stesso essere di Dio, sulla base del
testo di Esodo 3, 14: «ἐγώ εἰμι ὁ ὤν » in Settanta;
«ego sum qui sum» in Vulgata (Quod deterius potiori
insidiari soleat, 44, 160; De mutatione nominum, 2, 7-14). Fino al
sec. 13° prevalgono, in m., indirizzi di pensiero platonici,
legati al richiamo all’interiorità presente in Agostino,
allo strutturarsi di una m. gradualistica fondata su una gerarchia
di essenze che trova il suo trattamento logico (e ontologico)
nelle opere di Porfirio, Boezio e dello pseudo-Dionigi, e
successivamente in un platonismo legato ai temi plotiniani e
procliani dell’anima del mondo e dell’ipostatizzarsi dell’essere,
in Scoto Eriugena e nella Scuola di Chartres.
Il ritorno della m.
aristotelica è legato alla penetrazione dei testi originali
accompagnati dai grandi commenti arabi di Avicenna e di
Averroè, come anche dalla tradizione ebraica di Maimonide o
da testi quali il Liber de causis (di ispirazione procliana, ma a
lungo ritenuto aristotelico). In Tommaso d’Aquino la m.,
incentrata sull’ontologia, si dispiega in teologia naturale,
attingibile con la sola ragione, senza la rivelazione
soprannaturale (ossia in una «theologia
philosophica»), proprio in forza dell’identificazione fra
Dio ed essere che Tommaso recupera da Aristotele e trasporta nella
prospettiva cristiana, facendo coincidere il Dio biblico,
creatore, personale e provvidente, con il ‘divino’, inteso in
senso aristotelico come la «causa prima» o il
«primo motore immobile» della Fisica (VIII, 10) e
della Metafisica (XII, 7). In passi cruciali della sua opera,
Tommaso richiama (come già Filone) l’interpretazione
metafisica del Dio biblico come essere (Summa contra gentiles, I,
22, 6; II, 52, 7); tale identificazione è presente
emblematicamente nell’introdurre le prove dell’esistenza di Dio,
cioè le cinque vie (Summa theologiae, I, q. 2 a. 3). La
differenza fra ente (esistente) ed essenza – modulata nel De ente
et essentia ( essere) in modo da ovviare a un essenzialismo di
tipo platonico – perviene alla concezione di Dio come «actus
essendi» ossia come atto di esistere.
La m. medievale
conosce uno svolgimento antitomista sia con la ripresa
dell’ilemorfismo in ambito platonico agostiniano (per es., in
Bonaventura) sia nella ‘m. della luce’, che approfondisce il tema,
già plotiniano, della derivazione dell’essere come
diffusione di luce corporea, intermedia fra spirituale e
materiale. È tuttavia nell’alveo stesso delle posizioni
aristoteliche, con Duns Scoto e Occam, che si ha un rifiuto della
subordinazione fra teologia e m., realizzata da Tommaso proprio in
virtù della centralità dell’essere, come elemento
comune (per analogia) fra Dio e creatura. Ciò comporta,
altresì, il rifiuto della teologia rivelata come scienza
‘subalternante’ nei confronti della teologia naturale (che assume
gli assiomi tratti da quella e li utilizza come media di
dimostrazioni scientifiche) e, in Occam, il rifiuto della
distinzione, sia mentale sia reale, fra essenza ed esistenza e la
centralità dell’individuo esistente, sempre singolare e
oggetto di conoscenza intuitiva.
La m., superando il trattamento
tomista dell’essere come «analogo», riacquista la sua
priorità, fondata, in Scoto, sull’unicità e
l’univocità del concetto di ente, riferito sia a Dio (ente
infinito) sia alla creatura (l’ente finito), e la sua indipendenza
dalla teologia rivelata. Si configura in tal modo, in epoca
rinascimentale, da una parte la ripresa della m. aristotelica in
termini radicalmente a-cristiani (con il ritorno ai commenti di
Alessandro di Afrodisiade) nell’ambito dell’aristotelismo
padovano, dall’altra, il recupero di un platonismo più
marcatamente coeso con prospettive mistiche e iniziatiche
dell’ermetismo, dell’orfismo, del pitagorismo e anche della
speculazione cabalistica, che connotano il neoplatonismo di Ficino
e di G. Pico della Mirandola, e il successivo svolgimento di
indirizzi di pensiero di carattere ermetico in pensatori quali
John Dee, Robert Fludd e ancora, in ambito cattolico e nel pieno
del Seicento, Athanasius Kircher, ove è forte la componente
pitagorica legata ai temi dell’armonia del mondo e della geometria
divina, che variamente improntano anche il platonismo di Kepler.
Contemporaneo all’aristotelismo e al platonismo rinascimentali
è, in Telesio, lo svolgimento di un naturalismo monista,
incentrato su una materia ilozoisticamente animata e vitale grazie
all’azione dei principi attivi del caldo e del freddo, cui
nell’uomo si «aggiunge dal di sopra» (è
cioè «superaddita») l’anima infusa da Dio. Tale
naturalismo evolve con la m. bruniana, nella concezione
dell’infinità dell’Universo come coincidenza di atto e
potenza infinita in Dio, inteso come causa, principio e uno, e, in
Campanella, nella m. delle primalità, sapienza, potenza e
amore, in ordine, rispettivamente, al conoscere, all’essere e
all’agire. Nell’ambito della teologia filosofica di matrice
metafisico-scolastica, si assiste, con le Disputationes
metaphysicae di Francisco Suárez (1597), all’emancipazione
della m. dal genere del commento al testo aristotelico, che
inaugura l’autonomia della disciplina concepita ormai come studio
dell’ente e avvia la linea che condurrà in età
cartesiana all’‘ontologia’ dapprima, in Clauberg (1647; 1660;
1664; seppure il conio del termine sia già registrato nel
1606 in J. Lorhard, Ogdoas scholastica, e nel 1613 nel Lexicon
philosophicum di R. Goclenius) e poi sistematicamente in Wolff
(Ontologia, 1730).
Dall’età cartesiana all’idealismo.
In Descartes la m. torna
a essere filosofia prima ( Meditazioni metafisiche), distinta sia
dalla teologia, che si fonda tout-court sulla rivelazione (Lettera
al decano e ai dottori della sacra facoltà teologica che
apre le Meditazioni metafisiche), sia dalla m. dell’essere
(ontologia) della tradizione scolastica. La priorità
fondante della m. nei confronti della fisica (la fisica ‘deve’
avere un fondamento metafisico) è sottolineata nella
lettera-prefazione a Picot che apre la versione francese (1647)
dei Principia philosophiae (1644; trad. it. Principi di
filosofia): «Tutta la filosofia è come un albero, di
cui le radici sono la m., il tronco è la fisica, e i rami
che sortono da questo tronco sono tutte le altre scienze».
La m. si incentra sulla coscienza e sul suo contenuto, le idee,
sull’evidenza attuale e sulla causalità, cui Descartes
riconduce la stessa esistenza di Dio («non vi è cosa
alcuna esistente della quale non si possa domandare la causa per
la quale esiste. Poiché ciò stesso si può
domandare di Dio», Risposte alle Seconde obiezioni).
L’autoproduttività del divino diventa, nelle Risposte prime
e quarte, autocausazione in senso positivo («sui
causa»). La sostanza è ridefinita come in sé e
per sé (Principi della filosofia, I, 51), unicamente in
base al principio della ‘distinzione reale’, al di fuori dello
schema categoriale e delle concezioni aristoteliche di sostrato e
forma (o di sostanza e attributo) come sostanza che si esprime
compiutamente quale estensione (finita o indefinita, nel caso
dell’Universo nel suo insieme) o come pensiero, il
«cogito»; ove il sum è già un esistere,
senza che vi sia passaggio dall’essenza all’esistenza. Tale
esistenza, in quanto conservata, necessita di una causa
creante-conservante, Dio.
La centralità della
causalità comporta, secondo Descartes, la produzione
causale (sotto la specie della causalità efficiente e
totale) delle stesse verità eterne, dunque del
‘necessario’, rimodulando il rapporto fra verità eterne e
possibili. Tale dottrina, già presente nelle lettere che
Descartes scrive a Mersenne fra aprile e maggio del 1630 e
presentata poi nelle Risposte alle Seste obiezioni, non viene
accolta dai cartesiani occasionalisti e da Malebranche, ed
è osteggiata da Leibniz. La nuova concezione – dualistica –
della sostanza, come estensione e come pensiero, in Spinoza si
compone con la causalità autoproduttiva nel concetto di
sostanza unica, infinita, eterna, che assorbe e supera la
centralità della coscienza, evidenziata da Descartes,
integrandola nell’infinito ed evidenziando il carattere negativo
della delimitazione («poiché in realtà
l’essere finito è parzialmente una negazione, e l’essere
infinito è una assoluta affermazione dell’esistenza di una
natura, risulta […] che ogni sostanza deve essere infinita»,
Etica, I, 8, scol. 1) da cui sorge l’individualità
determinata, discoprendo, in ultima analisi, il carattere
illusorio dell’individualità personale. In Leibniz la
concezione metafisica della sostanza si riverbera dal divino a un
numero infinito di individualità, le monadi, ciascuna delle
quali rispecchia in maniera completa, sebbene ‘prospetticamente’
peculiare, la totalità dell’Universo.
L’intera
realtà è gradazione di livelli di attività
spirituale ordinata secondo principi costitutivi di ordine logico
e ontologico, ossia metafisici: l’individualità della
sostanza (confermata dal principio degli indiscernibili), il
rapporto di reciprocità preordinata e predeterminata, senza
che si dia interferenza o interazione concreta fra le sostanze (in
base al principio dell’armonia prestabilita, che risolve anche il
problema dell’interazione fra sostanze posto dalla teoria
cartesiana e il pericolo del fatalismo, fato), il principio
dell’ottimo che Dio necessariamente sceglie (come si evince in
base al principio di ragion sufficiente). I capisaldi della m.
leibiniziana, presenti a partire dal Discorso di metafisica
(1686), vanno precisandosi nella Teodicea (1710) e nella
Monadologia (1714) e comportano il rifiuto della realtà
della sostanza materiale e l’identificazione delle verità
eterne (o identiche) e verità di fatto (o contingenti) che
coesistono con Dio (contro la teoria cartesiana della loro
creazione) e da cui deriva l’articolazione logica e metafisica del
reale (basata sul principio di inerenza del predicato;
Verità prime, § 2) in cui la grazia e la natura
(Principi della natura e della grazia fondati in ragione, 1714) si
conseguono integrando il miracolo stesso (ossia l’intervento che
infrange l’ordine naturale) e la teleologia entro una concezione
che trova la sua sistematizzazione nelle opere di Wolff
(Vernünftige Gedanken von Gott, der Welt und der Seele des
Menschen, auch allen Dingen überhaupt, 1719, solitamente
indicata negli studi come Metafisica tedesca; Philosophia prima
sive ontologia, methodo scientifica pertractata, qua omnis
cognitionis humanae principia continetur, 1730, indicata come
Metafisica latina). Da tale sistematizzazione originerà la
suddivisione (che ricorda, terminologicamente, quella di
Suárez) della m. in ontologia generale (scienza
dell’essere) e ontologia speciale, a sua volta suddivisa in
cosmologia razionale, psicologia razionale, teologia razionale,
aventi per oggetto, rispettivamente, il mondo, l’anima e Dio.
È la classificazione che diventa classica nelle
università tedesche (è presente, per es., in
Baumgarten) e che viene ripresa da Kant, nella Critica della
ragion pura (1781), che proprio alla linea lebniziano-wolffiana si
richiamerà per stigmatizzare la sterilità dogmatica
della metafisica. Parallelamente allo strutturarsi della m.
moderna si assiste allo sviluppo di critiche all’approccio
metafisico, incentrato sulla possibilità di conoscenze
prime e universali in ambito sia scientifico sia morale, che,
sulla scorta dello scetticismo e del probabilismo antichi,
caratterizza la polemica scettica e relativista rinascimentale
(basti pensare a Montaigne e alla tradizione libertino erudita), e
che in età moderna si consolida in costruzioni
antimetafisiche quali l’empirismo di Gassendi, ove la concessione
alla metafisica – cristiana – è presente soltanto come
cauta estensione probabilista al di sopra delle conoscenze
storiche ed empiriche, e successivamente in Locke e Hume. Per
Locke la conoscenza è possibile unicamente a partire dal
dato empirico e come cauta estensione probabilistica a partire
dalle assunzioni empiriche. Anche dell’Io, di Dio e del mondo si
può avere conoscenza su tali basi: «dico dunque che
noi mediante l’intuizione conosciamo la nostra propria esistenza,
mediante dimostrazione conosciamo l’esistenza di Dio, e mediante
la sensazione conosciamo l’esistenza delle cose» (An essay
concerning human understanding, 1690, IV, 9, 2; trad. it. Saggio
sull’intelletto umano). «Proposizioni, ragionamenti e
conclusioni della metafisica» sono «irrilevanti»
e, pur essendo indubitabili, non accrescono la conoscenza (IV, 8,
9).
Kant.
Per Kant, che sottopone a critica la possibilità di
una m. come scienza, le idee trascendentali della m., ossia i
concetti della ragion pura, hanno a che fare non con
l’unità sintetica delle rappresentazioni (l’«Io
penso»), quanto con l’unità sintetica incondizionata
di tutte le condizioni in generale, e hanno dunque carattere
metaempirico. Tali idee «si possono ricondurre a tre classi:
la prima contiene l’unità assoluta (incondizionata) del
soggetto pensante [anima]; la seconda contiene l’unità
assoluta della serie delle condizioni del fenomeno [mondo]; la
terza contiene l’unità assoluta della serie della
condizione di tutti gli oggetti del pensiero in generale
[Dio]» (Critica della ragion pura, Dialettica
trascendentale, lib. I, sez. III). Esse non possono essere oggetto
di conoscenza scientifica né originare giudizi, ma
sillogismi che si risolvono in paralogismi (anima), antinomie
(mondo) o restano comunque indimostrabili (Dio). Le pretese
scienze metafisiche che concernono tali idee, ossia la psychologia
rationalis, la cosmologia rationalis e la theologia
transcendentalis, sono in realtà pseudo-scienze. Su esse
opera la «logica dell’apparenza», la dialettica, che
Kant definisce «arte sofistica di dare […] alle proprie
volontarie illusioni, la tinta delle verità» (ibid.,
Logica trascendentale, Introduzione III). Tali ‘illusioni’ sono
però inscindibilmente legate alla ragione umana che non
può fare a meno di porle, seppure discoprendone,
criticamente, l’inconcludenza. Se la m. non può essere
scienza, infatti, come Kant assume e dimostra, essa resta comunque
sullo sfondo della conoscenza conferendole una «unità
sistematica». Le idee hanno dunque un uso euristico,
‘regolativo’; mediante esse la ragione, benché non si
riferisca direttamente a un oggetto, si riferisce
«all’intelletto, attraverso il quale accede al proprio uso
empirico» e in tal modo, pur non creando ‘concetti’ (come
invece fa l’intelletto), «si limita a ordinarli e a dar loro
quella unità che essi possono acquisire nella loro maggior
estensione possibile, cioè rispetto alla totalità
delle serie» (ibid., Appendice alla dialettica
trascendentale).
Esclusa dunque come scienza, la m. conserva
comunque un suo ruolo ‘regolativo’ sia in ordine alla speculazione
sia in ordine alla pratica, rispettivamente in quanto m. della
natura e in quanto m. dei costumi (ibid., Dottrina trascendentale
del metodo, cap. 3). Nella Fondazione della metafisica dei costumi
(Grundlegung der Metaphysik der Sitten, 1785) Kant distingue
la filosofia in empirica, in quanto fondata sull’esperienza, e
pura, in quanto interamente desunta da principi a priori, e
questa, a sua volta, in logica, quando è solo formale, e in
m. «quando è circoscritta a determinati oggetti
dell’intelletto». Da ciò deriva una duplice m.:
«della natura e dei costumi. La fisica avrà quindi
una sua parte empirica, ma anche una razionale; lo stesso
l’etica» (Prefazione). Nei Principi metafisici della scienza
della natura (1786) Kant indaga l’applicazione della matematica
alla natura (senza la quale non potrebbe esservi scienza), la
quale presuppone una costruzione metafisica della materia, ossia
lo studio dei rapporti fra attrazione e repulsione quali suoi
principi. In tale prospettiva il termine m. ha un senso molto
diverso da quello tradizionale di conoscenza di una realtà
soprasensibile e assoluta, e concerne piuttosto il livello
concettuale intermedio tra l’a priori e l’empirico.
Hegel.
Seppure in polemica con Kant, Hegel si avvale della critica
alla m. precedente, la «vecchia m. quale si trovava
costituita prima della filosofia kantiana», che riconduce
alla «mera veduta intellettualistica degli oggetti della
ragione» (Enciclopedia delle scienze filosofiche in
compendio 1817, § 27). Essa culminava in un dogmatismo
sterile in quanto perveniva all’opposizione fra due affermazioni
diverse, l’una delle quali doveva esser vera e l’altra falsa
(§ 32) relativamente all’ontologia, ossia ai «caratteri
astratti dell’essenza» (§ 33), alla psicologia
razionale (§ 34), alla cosmologia (§ 35) e alla teologia
(§ 36). Hegel riordina tali materiali alla luce della
concezione dialettica, che coincide con la m. e che discopre
l’identità fra reale e razionale rigettando la logica
formale o puramente analitica di Kant. Dopo aver posto le
questioni fondamentali della vecchia m., Hegel le svolge a partire
dalla fondamentale scansione: essere-essenza-concetto. La
posizione di un concetto come «limitata astrazione»,
inteso come «cosa che è e sussiste per
sé» (pensiero come intelletto, § 80), comporta
il sopprimersi di questo concetto e delle sue
«determinazioni finite mediante il loro passaggio nelle
opposte» (momento dialettico, § 81), e produce la
sintesi dei due precedenti momenti, che conserva «ciò
che vi ha di affermativo nella loro soluzione e nel loro
trapasso» (momento speculativo, § 82). Su tali
presupposti la scienza della logica si articola al tempo stesso
come metodo della conoscenza e come riconoscimento della struttura
dialettica del reale, in una dottrina dell’essere, dell’essenza e
del concetto.
È nella filosofia dello spirito (soggettivo,
oggettivo e assoluto) che Hegel mostra i frutti della concezione
dialettica del sapere come sapere assoluto. Nello spirito
oggettivo, ossia nell’oggettività in cui l’essere è
assunto come concreto, si realizza l’unità fra
«essere» e «concetto» (che nella
«vecchia» m. si esprimeva mediante l’argomento
ontologico). La razionalità oggettiva del reale in tal modo
è assunta non sulla base di una concezione formale del
pensiero e della logica (come nel kantismo), ma come realizzarsi
del concetto nella realtà stessa. Nello spirito assoluto si
realizza la coincidenza fra «intuizione» (arte),
«rappresentazione» (religione) e
«concetto» (filosofia), ossia il conoscere assoluto in
cui «l’idea eterna in sé e per sé, si attua,
si produce e gode sé stessa eternamente come spirito
assoluto» (Enciclopedia delle scienze filosofiche, §
577) richiamando, in rinnovata prospettiva l’aristotelico
«pensiero di pensiero» (νόησις νοήσεως, Metafisica,
XII, 7).
Dall’età del positivismo al Novecento.
Già nella
prima metà dell’Ottocento, alla concezione hegeliana della
m., proseguita dall’hegelismo (di destra), si contrappone
Schopenhauer, con la sua m. dell’arte, evocata in Il mondo come
volontà e rappresentazione (1819) che segna
un’originale sviluppo della critica kantiana, cui anche il primo
Nietzsche è vicino ( La nascita della tragedia).
Contemporaneamente si assiste anche al riavviarsi di tradizioni
spiritualiste quali quelle di Cousin, che, in Francia, recupera la
m. cartesiana entro moduli hegeliani, avviando una tradizione cui,
nel Novecento, da diversa angolazione afferisce lo spiritualismo
di Bergson. Se la critica antimetafisica del positivismo, con
Comte, identifica nel pensiero metafisico uno stadio intermedio
che deve evolvere verso lo stadio positivo della conoscenza
scientifica, nel Novecento il neotomismo francese e italiano
(Maritain – che parla di una m. esistenziale–, Gilson, Bontadini),
da un lato, e il neoidealismo italiano, inteso come filosofia
dell’assoluto, fondata su un ritardato assorbimento delle opere di
Hegel a opera principalmente di Croce e Gentile, dall’altro,
propongono, da opposte prospettive, un recupero della m. come
ambito proprio e primo della coscienza. In altra prospettiva,
inoltre, si colloca, nella prima metà del sec. 20°, il
rinnovato interesse per la m. in quanto ontologia ,
riscontrabile nella fenomenologia di Husserl, nell’analitica
esistenziale di Heidegger o anche nell’esistenzialismo di Sartre.
Husserl riscopre come compito della fenomenologia
l’identificazione di un’ontologia formale: «l’ontologia
formale racchiude nello stesso tempo in sé le forme di
tutte le ontologie […] e prescrive alle ontologie materiali una
comune legalità formale»; «l’ontologia formale
sempre intesa come logica pura nella sua piena estensione in
quanto mathesis universalis» (Idee per una fenomenologia
pura, I, 10).
Heidegger riprende ed espande le critiche che
Nietzsche aveva rivolto alla m. intendendola come «mondo
dietro il mondo» (Umano troppo Umano II, 1878, 17;
Così parlò Zarathustra, 1883-85, I, Di coloro che
abitano un mondo dietro il mondo), come «menzogna»
fondata su necessità psicologiche e vitali. Elaborando il
concetto di «differenza ontologica» fra essere ed ente
in polemica con la m. classica, Heidegger riconduce l’essere al
nulla e la m. dell’essere come ontoteologia, ossia come divino
pensato ontologicamente, al nichilismo . Per Heidegger la
scienza dell’essere si attua mediante il rinnovamento del metodo
fenomenolgico husserliano: «l’ontologia non è
possibile che come fenomenologia» (Essere e tempo, 1927,
§ 7). Nella seconda fase del suo pensiero Heidegger sviluppa
la teoria della verità come «ascolto
dell’essere» che si dà mediante il linguaggio
(Unterwegs zur Sprache, 1959; trad. it. In cammino verso il
linguaggio), incentrandosi sull’«essenza del
linguaggio». Tale prospettiva è al centro della
ripresa del pensiero heideggeriano nell’ermeneutica di Gadamer
(Wahrheit und Methode. Grund- züge einer philosophischen
Hermeneutik, 1960; trad. it. Verità e metodo. Lineamenti di
un’ermeneutica filosofica). Sull’attenzione posta da Husserl al
problema della comunità intermonadica, evocata nella quinta
delle Meditazioni cartesiane (1931), si incentra invece la
riflessione di Lévinas (Totalité et infini, 1961,
trad. it.Totalità e infinito; Autrement qu’être,
1974, trad. it. Altrimenti che essere), secondo il quale la m. e
la stessa ontologia come ricerca della totalità dell’essere
non coglie (in quanto, assorbendola nel tutto, la nega) la
dimensione dell’alterità, alla quale l’autore si accosta
secondo una peculiare prospettiva etica, che riprende temi morali
kantiani, in cui si realizza lo studio della soggettività.
Contraltare di tali indirizzi sono il neopositivismo logico, il
neoempirismo e l’empiriocriticismo, o anche la filosofia del
linguaggio, che nella m. vedono un ostacolo e l’origine di
pseudoproposizioni. Già nell’empiriocriticismo di Avenarius
(Kritik der reinen Erfharung, 1888-90; trad. it. Critica
dell’esperienza pura) la m. viene coinvolta nella critica radicale
a qualsiasi concettualizzazione filosofica (anche di carattere
scientifico) che non abbia carattere ‘strumentale’ riguardo
all’esperienza. Nell’ambito del neopositivismo o positivismo
logico Carnap critica la m. attribuendole proposizioni i cui
termini sono privi di significato o violano la sintassi, ossia le
regole in base a cui si producono gli enunciati. Tale concezione
è esplicitata da Carnap, con riferimento a Heidegger, nel
saggio pubblicato su Erkenntnis (1931), rivista dei neopositivisti
del Circolo di Vienna, e intitolato L’eliminazione della
metafisica mediante l’analisi del linguaggio (Überwindung der
Metaphysik durch logiche Analyse der Sprache; trad. it. in Il
neoempirismo). Le proposizioni della m. sono
«pseudo-proposizioni»; il pensiero non può
generare conoscenza senza riferirsi a oggetti empirici e gli
oggetti della m. sono metaempirici.
Secondo Popper, invece, pur
non essendo falsificabili, e dunque scientifiche, le proposizioni
della m. non possono essere liquidate come «prive di
senso», né ritenute del tutto sterili; dal punto di
vista storico e psicologico, infatti, «non si può
negare che, accanto alle idee metafisiche che hanno ostacolato il
cammino della scienza, ce ne sono state altre – come l’atomismo
speculativo – che ne hanno aiutato il progresso» (The logic
of scientific discovery, 1934; trad. it. Logica della scoperta
scientifica, I, 1, 4), pur tenendo fermo che la scienza deve
essere ‘empirica’ e che dunque sia necessario «tracciare una
linea di demarcazione tra la scienza e le idee della
metafisica». Per Popper, quindi, le idee della m., pur
essendo inconfutabili, «possono essere esaminate
criticamente» (Postscript). Relativamente al problema della
«demarcazione», ripresa del problema kantiano dei
limiti della conoscenza scientifica, la m. non può essere
confutata soltanto applicando la differenza fra ‘senso’ e
‘significato’ alle proposizioni metafisiche, per distinguerle da
quelle scientifiche, come assume il neopositivismo logico (cfr. in
partic. Schlick, Die Naturwissenschaften, 19, 1931), sulla scorta
del Tractatus logico-philosophicus di Wittgenstein; le leggi di
natura non sono infatti «riducibili alle asserzioni di
osservazione più di quanto non lo siano gli enunciati
metafisici» (Logica della scoperta scientifica, Nuove
appendici, 1). Nell’ambito delle filosofie analitiche o della
riflessione epistemologica, si collocano proposte che
ridefiniscono, delimitandolo, il ruolo della m.: Strawson
(Individuals. An essay in descriptive metaphysics, 1959; trad. it.
Individui. Saggio di metafisica descrittiva) elabora una m.
descrittiva che, diversamente dalla m. classica, che è
«correttiva», ossia propone strutture concettuali
ritenute migliori, si limita a ‘descrivere’ la realtà quale
è presentata nel linguaggio comune. J. Watkins in
Confirmable and influential metaphysics (Mind, 65, 1957) ha
proposto una «m. influente», rimodulando il rapporto
fra decidibilità empirica e falsificabilità delle
affermazioni della m., che possono influire sull’elaborazione e
sugli sviluppi della scienza.