Ideologia

 

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di Kurt Lenk

Sommario: 1. Introduzione. 2. La critica della mitologia e della religione nell'età dell'illuminismo. 3. Il concetto di ideologia in Marx. 4. Il concetto di ideologia dopo Marx. 5. L'autocritica della ragione. 6. La concezione positivistica dell'ideologia. 7. Il concetto di ideologia nella sociologia della conoscenza. 8. Il concetto di ideologia nella teoria critica. 9. La tesi della fine delle ideologie. 10. Il concetto gramsciano di ideologia. 11. Condizioni per una critica dell'ideologia.

1. Introduzione

Il termine 'ideologia' è usato oggi in una varietà di accezioni: da quella di autoillusione collettiva e di espressione di determinati interessi a quella di organizzazione consapevole del dominio mediante la manipolazione; in ogni caso per la sua genesi storica e fattuale il concetto di ideologia è stato sempre inteso criticamente. Esso acquistò rilevanza nell'età dell'illuminismo borghese, quando ebbe inizio, all'insegna della conoscenza scientifica della natura, la riflessione sistematica sui contesti economici e sociali e storico-culturali.

2. La critica della mitologia e della religione nell'età dell'illuminismo

Nell'illuminismo europeo del XVII e del XVIII secolo si manifestò per la prima volta un rivolgimento nella coscienza degli strati sociali: la borghesia illuminata in nome del progresso scientifico contestò i privilegi dell'aristocrazia feudale e l'assolutismo monarchico. Contemporaneamente nacque l'idea che nel pensiero tradizionale vi fosse un elemento ideologico, in quanto quel pensiero non corrispondeva all'ideale di una conoscenza in continuo progresso proprio delle scienze naturali e si presentava quindi come coscienza puramente conservatrice, tendente a legittimare gli interessi costituiti della Chiesa, del trono e della nobiltà.

La critica dell'ideologia si sviluppò come strumento della ragione borghese in via di emancipazione. Tutte le posizioni illuministiche, fino a Marx, si proposero anzitutto di abbattere, analizzando le origini delle ideologie, gli ostacoli che si opponevano al pensiero, allo scopo di eliminare ideologie e pregiudizi. La critica dell'ideologia era rivolta quindi a liberare il pensiero irretito nell'idolatria. Inizialmente alla critica delle distorsioni soggettive della conoscenza razionale si affiancò l'idea che il carattere ideologico del pensiero fosse un difetto insito nella ragione (dottrina baconiana degli idoli); logici sviluppi di questa prima fase della ricerca furono l'interpretazione dell'ideologia in base alla psicologia dell'interesse, proposta dagli enciclopedisti francesi, e la riduzione di tutte le idee e le rappresentazioni a elementi sensoriali definibili scientificamente, operata dalla scuola degli 'ideologi'.
Il termine 'ideologia' ha le sue origini nella tradizione dell'illuminismo francese. Destutt de Tracy (1754-1836) definiva come ideologia la dottrina delle idee, intese come manifestazioni di impressioni sensoriali, e questa concezione favorì nei filosofi della sua scuola una dottrina delle idee di orientamento sensistico. Il problema dell'ideologia era emerso già all'inizio del Seicento, in Inghilterra, negli scritti di Francesco Bacone (1561-1626), che per primo indicò il carattere ideologico del pensiero, considerandolo un difetto intrinseco della ragione umana.

In ogni società l'uomo è esposto all'influsso di determinati 'idoli', che può essere contrastato solo con un metodo conoscitivo specifico, quello dell'induzione fondata sull'esperienza. Bacone distingue quattro specie di idoli: gli idola tribus, propri del genere umano, gli idola specus, propri dell'individuo, gli idola fori, derivanti dalla natura sociale dell'uomo, e gli idola theatri, rappresentati dalle idee e dalle opinioni tradizionali. Secondo Bacone questi idoli sono errori della ragione, ai quali l'uomo soggiace per vari motivi.

La funzione chiarificatrice di questa dottrina consisteva soprattutto nell'elaborazione di un metodo filosofico critico che si opponeva alla commistione di filosofia e teologia. Decisivo in proposito fu il fatto che Bacone mettesse sullo stesso piano l'influsso esercitato sulla conoscenza dalle superstizioni e il danno arrecato alle scienze dagli idoli, rendendo possibile così adoperare la dottrina degli idoli quale strumento critico contro tutti i dogmi tramandati, come avrebbero fatto nel Settecento gli illuministi francesi. La lotta di Bacone contro gli idoli comprendeva quindi già un elemento essenziale di ogni successiva critica della società e dell'ideologia. Dalla presa di posizione a favore di una conoscenza scientifica prese il via la lotta contro i pregiudizi religiosi e poi contro gli interessi pseudoreligiosi del clero.Bacone fu dunque il primo teorico moderno a richiamare l'attenzione - sia pure in maniera ancora statica e astorica - sul carattere ideologico del pensiero. Alle sue idee si ispirarono non solo gli illuministi francesi, ma anche Ludwig Feuerbach e Karl Marx. È importante notare che per Bacone non vi è ancora nessuna contraddizione tra esistenza sociale e coscienza: per lui le idee possono concordare in linea di principio con la realtà, nonostante gli idoli, e il compito del filosofo è di rimuovere tutte le barriere che possono innalzarsi contro la ricerca del vero, arrivando così a comprendere le leggi che governano la natura. Che possa esservi una conoscenza autentica era per Bacone un assioma indubitabile. Il concetto di verità non viene messo in questione dalla dottrina degli idoli, in quanto l'intelletto umano è ritenuto capace di cogliere concettualmente l''essenza' dei fenomeni, così come lo scienziato è in grado di mettere al proprio servizio le forze della natura mediante l'osservazione sperimentale dei fenomeni. Ciò che impediva a Bacone di mettere in dubbio la concordanza tra la ragione umana e l'essenza delle cose conosciute era l'idea, derivata dalla tradizione teologica, della comune origine divina dell'uomo e della natura. L'illuminista francese Étienne Bonnot de Condillac (1714-1780) tradusse il termine baconiano 'idolum' con 'préjugé'. Nell'illuminismo francese la lotta contro i pregiudizi si ampliò in un attacco filosofico contro la Chiesa e contro lo Stato dispotico da essa sostenuto.

Per l'illuminismo borghese, ultima istanza di ogni critica delle idee e dei pregiudizi è la verità insita nella natura stessa, che va scoperta con la ragione. Come la conoscenza delle leggi naturali consente di dominare la natura, così la conoscenza delle leggi secondo cui si formano i pregiudizi può aprire la strada alla vera comprensione e contribuire a una eventuale trasformazione della società.

L'ipotesi di partenza è l'esistenza di un'unica fonte ultima della verità: l'autentica ragione umana, emancipata e liberata da ogni costrizione, davanti alla quale devono legittimarsi tutte le asserzioni che abbiano pretesa di verità. Si suppone che quest'unica ragione, presente in ogni uomo almeno come predisposizione, possa essere ostacolata sia dalle passioni e dagli affetti, sia dall'autorità dispotica di pochi. La vocazione dell'uomo consiste nell'organizzare la vita degli individui e della società secondo i dettami di questa ragione, concepita come universale.

Il problema centrale degli enciclopedisti Holbach (1723-1789) e Helvétius (1715-1771) era quello della dipendenza delle idee dalle condizioni sociali. Partendo dall'analisi della sensibilità, essi sviluppavano un'indagine sui condizionamenti esercitati dall'ambiente sui processi psichici, ossia sul rapporto che intercorre tra le sensazioni, nonché tutte le altre forme di coscienza, e il contesto sociale che in ultimo le determina.

Gli illuministi francesi postulavano una dipendenza diretta di tipo causale della coscienza dalla realtà sociale, e concepivano l'uomo come prodotto dell'ambiente sociale e culturale in cui è di volta in volta inserito. In questa concezione, per banale che possa sembrare, è insita una critica radicale dell'ancien régime. La conoscenza della verità può svilupparsi infatti solo quando vengano meno la tutela e la costrizione della ragione umana da parte dello Stato dispotico e della Chiesa sua alleata. Il credo dell'illuminismo francese imponeva quindi l'eliminazione dei pregiudizi religiosi che avevano fatto del popolo uno strumento passivo, in cui il clero riusciva a far penetrare la volontà di dominio dell'autorità secolare fin negli angoli più riposti dell'animo umano. All'autonomia dello Stato e della Chiesa si sostituiva la naturale autonomia della ragione, dinanzi alla quale le dottrine religiose erano tenute a giustificarsi. L'opera della filosofia illuministica francese culmina nella teoria secondo cui i pregiudizi che intralciano la ragione sono prodotti e consolidati dagli interessi di dominio di alcuni potenti, per garantire la conservazione della situazione sociale esistente (teoria dell'impostura del clero).

La formazione dell'ideologia viene qui motivata, sul piano della psicologia dell'interesse, con la brama di dominio del clero e dei monarchi che manipolano, in un complotto di potenti, il popolo tenuto sotto tutela. Anziché un inevitabile autoinganno della coscienza derivato da una determinata struttura della società, l'ideologia viene considerata ora una consapevole mistificazione dei sottomessi da parte dei potenti, ossia una menzogna finalizzata alla legittimazione dell'assolutismo feudale attraverso l'interiorizzazione delle idee religiose nei ceti subordinati. L'ingenuità che oggi avvertiamo nella teoria dell'impostura del clero è dovuta alla sua impostazione psicologistica, per cui al consapevole inganno da parte di pochi corrisponde nelle masse un errore risultante dalla mancanza di libertà.

Le insufficienze della teoria in questione sono evidenti. L'impostura presuppone che gli ingannati siano del tutto passivi e non contribuiscano in alcun modo alla riuscita della manovra; ma se così fosse, per affrancarsi dal carattere ideologico delle rappresentazioni religiose basterebbe lo 'smascheramento' dell'inganno. Inoltre la teoria dell'impostura ignora la stretta connessione tra le illusioni religiose e la situazione oggettiva della società, riducendo in sostanza questa situazione a una deficienza intellettuale (ignoranza, credulità, ecc.) e a fattori essenzialmente psicologici (paura della morte, ansia, bisogno di consolazione). Viene così trascurata la relazione tra immaginazione religiosa e condizioni di vita reali; si critica infatti solo l'aspetto negativo - assoggettamento e ostacolo all'emancipazione - ma non viene individuato il nesso necessario tra un determinato stadio della conoscenza e l'autointerpretazione. Il primo a svelare il carattere di proiezione antropomorfica della religione fu Ludwig Feuerbach (18041872), secondo il quale alla radice della fede in Dio vi è la tendenza universale dell'uomo a personificare in un soggetto ultraterreno i suoi intimi desideri e aspirazioni. La religione non è mera invenzione e inganno, ma una forma storicamente necessaria di autoillusione dell'umanità, che cerca con essa di trascendere la propria finitezza. Se il potere dei pregiudizi e delle superstizioni poggia sul fatto che l'uomo è dominato dagli appetiti (Hobbes), dall'immaginazione (La Mettrie), dagli interessi e dalle passioni (Condillac, Helvétius), la liberazione dagli stati emotivi consentirà alla ragione di comprendere liberamente e obiettivamente i processi sociali e i nessi nomologici esistenti nella natura, all'esterno e all'interno dell'uomo, rendendo così possibile un agire autonomo.

Il principale difetto della critica illuministica delle ideologie, fondata sulla psicologia dell'interesse, consiste nel riferire in modo puramente estrinseco l'origine delle ideologie agli interessi di gruppo e all'affettività degli uomini, partendo dal presupposto che questi abbiano una struttura psichica sostanzialmente immutabile. Al problema del condizionamento ambientale dei processi psichici viene data così una soluzione statica e meccanicistica. La dinamica delle idee è spiegata come un prodotto delle 'circostanze', ignorando il fatto, importante per l'analisi del fenomeno dell'ideologia, che queste 'circostanze' sono già esse stesse il risultato di un'attività pratica degli uomini.

3. Il concetto di ideologia in Marx

Nella critica marxiana dell'ideologia il rapporto fra la realtà e la coscienza dell'uomo socializzato, considerato fino a quel momento in modo schematico, perde il suo carattere statico e astorico. Tema di questa forma classica di analisi critica dell'ideologia è la necessità oggettiva e socialmente condizionata delle forme di coscienza ideologiche, intese come 'apparenze socialmente necessarie'. Per 'ideologia' Karl Marx (1818-1883) intende essenzialmente due cose. In primo luogo - soprattutto negli scritti giovanili, dai Manoscritti economico-filosofici all'Ideologia tedesca - essa è il pensiero metafisico, svincolato da ogni prassi (anche se talvolta può autoconcepirsi come pensiero 'critico'). In secondo luogo essa è espressione dell'autonomizzazione del mondo delle merci nella società capitalistica ('cosificazione', 'reificazione', 'feticismo delle merci') e delle conseguenze che tale autonomizzazione provoca nella coscienza: in questo caso l'ideologia si identifica con la falsa coscienza. Queste due concezioni si mescolano spesso nei testi marxiani; va tenuto però presente che esse si riferiscono a livelli di analisi diversi. Mentre la prima definizione, formulata da Marx nella sua critica della metafisica e dell'idealismo, riguarda i fenomeni di autonomizzazione del pensiero rispetto alla prassi, la seconda riguarda la struttura economica della società capitalistica e rappresenta una critica dell'economia politica. Tuttavia, accanto alla falsa coscienza come feticismo delle merci, la società borghese produce sempre anche ideologie nel primo senso. Marx critica sia il materialismo meccanicistico degli illuministi francesi come Holbach e Helvétius, sia il sistema hegeliano, in cui il mutamento storico è concepito come processo della ragione che torna a se stessa. Secondo Marx le ideologie non si possono far derivare da un'incapacità congenita degli uomini di riflettere le condizioni sociali della loro esistenza, né sono riducibili a messe in scena intenzionali di sovrani, sacerdoti o membri di consorterie avidi di potere: si tratta piuttosto di forme di falsa coscienza, di apparenza socialmente necessaria. La teoria marxiana è una critica sia della concezione meccanicistica e deterministica dell'ideologia, sia di quella idealistica, che considera le idee e i principî spirituali come forze metastoriche: contro le interpretazioni idealistiche della storia, Marx insiste sul fatto che non sono i principî astratti, le idee e le entità metafisiche a produrre ciò che chiamiamo storia e società, bensì gli individui reali, socializzati e cooperanti tra loro.

Nel sistema di Hegel (1770-1831) la pretesa di validità universale della ragione è salvaguardata sul piano filosofico dal fatto che la ragione viene storicizzata e la storia razionalizzata. Il mutamento storico è visto come il processo attraverso cui lo spirito ritorna gradualmente a se stesso, e l'unità della verità è conservata in quanto il processo storico che abbraccia i vari popoli e le varie epoche è inteso come "graduale divenire dell'unica verità", concepita da Hegel come l'Intero, la Totalità, che si attua solo in tale processo storico e attraverso esso.
Anche per Marx la storia universale è un processo progressivo, ma il suo soggetto non è più, come in Hegel, lo spirito del mondo, bensì gli uomini in carne e ossa, nel loro processo produttivo socialmente organizzato; la storia non è quindi un'entità a sé, ma è legata alle contingenze del processo produttivo e riproduttivo del genere umano. Esso, che è alla base della realtà sociale, comprende sia le forze produttive (strumenti, capacità, conoscenze e coscienza, ecc.), sia i rapporti di produzione (rapporti sociali fra gli individui e relative forme di proprietà).

Nella sua critica dell'ideologia Marx attacca le scuole che si riallacciano alla filosofia hegeliana perché vede in esse il culmine di quel pensiero idealistico che si attendeva dalla riforma della coscienza filosofica l'eliminazione delle contraddizioni socioeconomiche reali. Nell'Ideologia tedesca, scritta nel 18451846 in collaborazione con Engels, Marx intende mostrare il carattere illusorio di una rivoluzione puramente teorica che si accontenta di una critica di costrutti concettuali. Marx non intendeva solo dimostrare che le speculazioni della filosofia post-hegeliana erano avulse dalla realtà, ma anche cogliere la limitatezza delle teorie idealistiche nei riguardi della situazione tedesca del momento. Feuerbach aveva mostrato che nel mondo delle rappresentazioni religiose le divinità prodotte dall'uomo appaiono come entità autonome; un meccanismo analogo viene individuato da Marx nella sfera concettuale della metafisica tedesca, in cui i costrutti intellettuali, che pure sono prodotti dell'attività umana, hanno la parvenza di forze che trascendono la storia. In una società capitalistica i complessi concettuali ideologici si irrigidiscono in potenze soverchianti sotto le quali vengono sussunti gli individui. Gli idealisti sono portati di conseguenza a vedere la storia come un prodotto delle idee e non come risultato dell'azione e interazione di esseri umani reali. Questa inversione, questo qui pro quo nella coscienza rappresenta per Marx l'espressione teoretica di un'inversione reale nella società mercificata, in cui il processo di produzione e riproduzione della vita materiale si è reso indipendente rispetto ai bisogni degli uomini.

Nel processo di scambio i prodotti del lavoro umano acquistano un'esistenza autonoma, diventano oggetti dotati di valore, che sembrano possedere una dinamica propria, svincolata dall'attività umana. Tutti i beni circolanti sul mercato capitalistico cessano di essere oggetti concreti e si riducono a merci, il cui valore è percepito non come espressione dei rapporti sociali, ma come qualità intrinseca delle cose. In analogia con questa feticizzazione del mondo delle merci, Marx riteneva che anche i prodotti del pensiero umano vengono reificati in forze autonome che sembrano guidare la storia.

Ciò che accomuna l'alienazione economica e quella ideologica è la scomparsa del contesto sociale dei prodotti dell'attività umana, che si rendono autonomi rispetto all'uomo perché gli individui producono indipendentemente l'uno dall'altro. I prodotti si reificano così in 'forme naturali', ossia in fenomeni apparentemente inevitabili e quindi immutabili, sottratti all'intervento degli individui. L''offuscamento' ideologico è pertanto il correlato, socialmente necessario, del mondo mercificato capitalistico e del feticismo delle merci che lo caratterizza.

Feuerbach aveva scoperto che il culto degli dei è in sostanza l'adorazione di forze interiori dell'uomo proiettate verso l'esterno, e che quindi la religione consiste nell'attribuire caratteri umani ai fenomeni rappresentati, la cui natura soprasensibile deriva dall'autonomizzazione di speranze e di desideri dell'uomo. Analogamente Marx vide nel valore di scambio delle merci un elemento immateriale e soprasensibile, espressione dell'incapacità dei produttori di appropriarsi dei loro stessi prodotti; all'origine di questa incapacità vi era per Marx la struttura di potere dei rapporti lavorativi e salariali. Ciò che nei fenomeni si manifesta agli individui come processo reificato non coincide con la struttura sociale che è alla base dei fenomeni stessi. L'idea che fenomeno e struttura interna, forma e contenuto sociale possano essere esplorati nella loro connessione solo mediante un lavoro concettuale è fondamentale per tutte le analisi critiche marxiane. Secondo tale principio, non sempre il pensiero è una semplice sovrastruttura ideologica (come invece verrà considerato in seguito nella dogmatica schematizzazione base-sovrastruttura).

Per Marx la verità o falsità di una teoria sociale non può essere dedotta né dal suo grado di connessione con determinati interessi, né dal suo preteso carattere avalutativo, ma soltanto dalla misura in cui essa riesce a rendere visibili nei loro principî l'intima connessione e le leggi di sviluppo dei processi sociali che condizionano la vita degli uomini. Secondo Marx, il pensiero può accostarsi alla verità - a una verità sempre provvisoria - solo se nell'analizzare i mutamenti strutturali della società s'interroga sulle possibilità oggettive e sulle tendenze in essa esistenti; tuttavia quest'esigenza di verità non è intrinsecamente teoretica, ma può essere soddisfatta solo all'interno dello sviluppo storico.Le caratteristiche della 'falsa coscienza' possono essere così definite: a) è un prodotto della società e non una ideazione di pochi diretta a manipolare le masse; b) non è sostituibile a volontà, ma è una coscienza socialmente necessaria, anche se falsa; c) ha un carattere anonimo. La coscienza ideologica è falsa in quanto non è capace di riflettere le condizioni sociali della sua genesi.

4. Il concetto di ideologia dopo Marx

Gli ulteriori sviluppi della critica marxiana dell'ideologia sono consistiti da un lato in una riduzione del modello base-sovrastruttura a uno schema privo di contenuto, e dall'altro in una specificazione delle intenzioni di Marx.

All'interpretazione 'ufficiale' della teoria marxiana fornita sul finire del XIX secolo dalle correnti ortodosse e da quelle revisionistiche della socialdemocrazia tedesca (Kautsky, Bernstein) fece seguito dopo la prima guerra mondiale una rivalutazione della critica dell'ideologia e del materialismo storico, attuata in Germania da alcuni studiosi indipendenti di orientamento marxista. La dottrina dell'ideologia propria del marxismo volgare denunziava ogni prodotto spirituale come mero strumento della lotta di classe e quindi come sovrastruttura ideologica, perdendo così di vista anche gli elementi storici di verità contenuti nelle ideologie. A questa tendenza si contrappose diametralmente la nuova interpretazione di Marx affermatasi negli anni venti del nostro secolo, nella quale si cercava piuttosto di differenziare le analisi critiche dalle ideologie in modo da intendere (come già aveva fatto Marx) il lavoro teoretico e i suoi risultati come elementi costitutivi del processo sociale. Contro l'indiscriminata svalutazione di ogni pensiero come mera ideologia, prevalente nel marxismo volgare, emergeva ora il ruolo importante svolto dall'attività spirituale nello sviluppo storico. Contro l'idea che la dinamica sociale si attui solo attraverso il potere delle grandi forze produttive e delle istituzioni, veniva riscoperta la funzione del 'fattore soggettivo'. La coscienza di classe non era più vista come un dato di fatto automaticamente connesso con la condizione proletaria, ma come il risultato di un'elaborazione teorica e politica.

Per i neomarxisti (Ernst Bloch, György Lukács, Karl Korsch, ecc.) il marxismo non è, come per i socialdemocratici di fine Ottocento, una visione del mondo chiusa, ma fa parte anch'esso della realtà storica: la sua verità non può essere affermata in astratto, ma deve trovare una conferma concreta nella prassi sociale. Il marxismo va inteso come una dottrina essenzialmente rivoluzionaria, che trova proprio nella coscienza degli uomini la premessa indispensabile per trasformare nella prassi le condizioni della vita sociale. Nella teoria leninista sono presenti entrambe le interpretazioni dell'ideologia, quella negativa e quella positiva. In senso negativo, l'ideologia è la falsa coscienza del nemico, la borghesia; in senso positivo, è la scienza dell'azione rivoluzionaria, in particolare di quella del partito comunista. L'ideologia proletaria - come teoria del socialismo scientifico - coincide con la coscienza sociale da instillare nelle masse proletarie mediante l'agitazione e la propaganda del partito comunista.

5. L'autocritica della ragione

Nella filosofia tedesca dell'Ottocento il problema dell'ideologia ebbe anche sviluppi indipendenti dalla teoria marxiana: Arthur Schopenhauer (1788-1860) e Friedrich Nietzsche (1844-1900) ripresero, sia pure modificandoli in vario modo, i motivi di critica dell'ideologia propri dell'illuminismo francese. Schopenhauer partiva dalla tesi che l'intelletto umano, benché generato dalla cieca 'volontà di vita', può in linea di principio liberarsi dalla condanna della sua origine. Nietzsche per contro riduceva il tradizionale concetto filosofico di verità a mero strumento della 'volontà di potenza'. Come in Schopenhauer e in Nietzsche, così anche nella teoria dei residui e delle derivazioni di Vilfredo Pareto (1848-1923) il livello istintuale elementare (la vita, le pulsioni, i residui, ecc.) è visto come la base a cui sono riducibili tutti gli impulsi spirituali. Mentre in Nietzsche i risentimenti e le valutazioni che nascono dalla volontà di potenza hanno ancora una componente storica, per Pareto i residui, da cui hanno origine le azioni umane e le corrispondenti derivazioni, sono complessi istintuali relativamente costanti, che cambiano ben poco nelle varie epoche. Il nucleo istintuale, alogico dell'uomo assicura una certa uniformità di comportamento, che costituisce il correlato e al tempo stesso la conditio sine qua non del metodo paretiano, orientato verso l'ideale conoscitivo delle scienze naturali. Punto di partenza di Pareto è la struttura psichica dell'individuo. A differenza degli animali gli uomini possono, per mezzo del linguaggio, far passare per comportamenti razionali, conformi al codice etico convenzionale, azioni che sono invece guidate dagli istinti.

Nell'ambito della cultura gli atti istintivi e gli affetti che non si conformano alle aspettative sociali sono oggetto di tabù; da ciò nasce negli individui l'esigenza di giustificare i desideri e gli atti proibiti, dando ai comportamenti alogici una parvenza di ragionevolezza mediante le razionalizzazioni. Questa funzione è assolta da quelle che Pareto chiama 'derivazioni'. Nella coscienza degli individui, che per mezzo di esse nascondono a sé e agli altri l'origine irrazionale del loro agire, questo agire sembra essere il risultato di considerazioni razionali. L'inversione tra causa ed effetto nella coscienza del soggetto si attua solo dopo il decorso immediato dell'azione, che rappresenta il risultato di residui, ossia di forze istintuali relativamente costanti. Nella coazione all'autogiustificazione del comportamento umano si esprime l'elemento di dominio di tutte le culture finora esistite.

Come in Schopenhauer manca una motivazione del fatto che l'intelletto umano può liberarsi dalla 'volontà di vita' che in esso agisce, così in Pareto rimane enigmatica la teoria della costante coazione alla razionalizzazione dell'uomo, che porta a rivestire con una vernice di logicità l'action non logique. Come per miracolo, dal livello istintuale scaturisce un elemento a esso estraneo. Tuttavia questo distacco è solo apparente, giacché tutte le concezioni dell'ideologia ispirate da Schopenhauer, Nietzsche e Pareto hanno in comune la tendenza a riconoscere nell'intelletto umano i caratteri essenziali della volontà di vita e di potenza che in esso si esprimono. Spirito e intelletto sarebbero quindi manifestazioni di una volontà cieca e dinamica, che a sua volta sarebbe possibile cogliere solo attraverso le sue espressioni intellettuali. Il dualismo di intelletto e volontà di vita si rivela quindi superficiale. In realtà si assume che lo spirito non sia altro che un'espressione della vita, sicché appare vana ogni sua aspirazione all'autonomia.

La critica della cultura e della civiltà di Schopenhauer e di Nietzsche deve molto alle idee dei grandi moralisti dell'illuminismo, ma se ne discosta radicalmente su un punto essenziale. Mentre i primi teorici dell'illuminismo borghese avevano cercato di fare della critica dell'ideologia uno strumento della ragione che si andava emancipando, ora questa tendenza razionalistica di fondo si converte nel suo opposto e la ragione critica, affrancata da ogni tutela, si volge contro i suoi stessi fondamenti.

Nelle opere tarde di Nietzsche questa svalutazione degli ideali illuministici prende il sopravvento, e ciò porta infine a invertire radicalmente il senso della critica dell'ideologia. Gli uomini "attribuiscono solo alla natura l'intenzione, l'inganno e la morale": si trova qui la riflessione sul piano psicologico della fatale coazione che spinge lo 'spirito libero' a ridurre le verità alla verità.Nell'ultimo Nietzsche ragione e intelletto vengono criticamente demoliti. La critica dell'ideologia non investe più soltanto la falsità del pensiero, ma distrugge addirittura la volontà di discriminare criticamente il vero dal falso. Dall'analisi dei fattori soggettivi del conoscere nasce la concezione della volontà di potenza; l'incremento della volontà di potenza sarà il problema cui si dedicherà l'ultimo Nietzsche.
Mentre Schopenhauer, pur partendo dall'idea che l'intelletto dipende dalla volontà di vita, era arrivato alla conclusione che il filosofo è comunque tenuto a perseguire la verità, per Pareto la debolezza della ragione diventa un'obiezione alla ragione stessa. Tutto ciò che giova allo Stato, alla patria, al prestigio nazionale è un 'bene', in quanto è 'utile alla vita', e analogamente tutte le verità che non si adeguano alla volontà di potere di chi domina al momento sono un 'male' e vanno bandite. Al fine di sottomettere le masse, ogni forma di ideologia prescritta dallo Stato è più utile della libertà di pensiero, che va riservata tutt'al più a pochi eletti. Ciò che Pareto cerca di legittimare, partendo da una premessa naturalistica, è l'antagonismo fra le élites che si succedono al potere; anche se le caratteristiche sociali dei ceti dirigenti cambiano, resta il fatto che nella storia vi sono sempre stati - e sempre vi saranno - capi e subordinati. Per evitare il proprio declino le élites devono tenere a bada le masse e mobilitarle, facendo appello ai loro interessi, mediante ideologie e formule politiche.

La connotazione negativa oggi prevalente del concetto di ideologia - intesa come vana speculazione, mera illusione, utopia priva di fondamento - risale in parte a Napoleone, che per le circostanze in cui aveva conquistato il potere diffidava profondamente degli 'ideologi', ritenendoli gli ultimi rappresentanti dell'illuminismo prerivoluzionario. Napoleone chiamava 'ideologi' quegli intellettuali che pur non partecipando alla gestione dello Stato, pretendevano ugualmente di diffondere idee politiche inadatte a guidare le masse. Il loro appello alla verità e al diritto gli appariva come il prodotto di un'immaginazione ingenua, in contrasto con le esigenze della Realpolitik. 'Ideologo' per Napoleone era sinonimo di 'metafisico' e di 'fanatico', 'ideologia' di vuota speculazione, lontana da ogni rapporto con la prassi politica. In questa accezione negativa il termine 'ideologia' venne usato per denunziare gli oppositori e tutti coloro che si richiamavano ai principî della Rivoluzione francese. L'avversione di Napoleone per gli ideologi era dovuta fra l'altro all'intento di reintegrare la religione negli antichi diritti mediante un concordato col Vaticano (1801). Gli ideologi, ritenuti atei negatori di ogni morale, erano d'ostacolo a questo progetto.

Questa accezione negativa del concetto di ideologia si conservò in Prussia durante la reazione assolutistico-feudale e dopo il fallimento della rivoluzione del 1848. Ogni idea di stampo illuministico e antifeudale fu fatta passare per ateistica e utopistico-rivoluzionaria dai detentori del potere politico."Ritorna in Pareto [...] un tipo di argomentazione che già aveva avuto un ruolo preminente nella reazione antilluministica alle ideologie al tempo di Napoleone: le masse non sono adeguate all'illuminismo e hanno quindi bisogno di ideologie, e le élites, che mediante il sapere hanno una chiara coscienza della loro funzione, le adoperano consapevolmente per guidare e attivare le masse" (v. Lieber, 1985, p. 62). La scelta di valore su cui si fonda la teoria delle élites implica la rinunzia a concepire la storia come un processo evolutivo. È possibile allora vedere nel potere politico una categoria metastorica che deve continuamente provvedere, come autorità statale a fondamento dell'ordine, alla composizione dei contrasti di interessi; in tal modo politica e società perdono la loro determinatezza di contenuti concreti riducendosi a categorie antropologiche astratte. L'originaria tendenza illuministica della critica dell'ideologia si converte nel suo opposto e diventa antilluministica.

6. La concezione positivistica dell'ideologia

La dottrina positivistica di Pareto rappresentò una ripresa della concezione soggettivistica dell'ideologia. Il concetto paretiano di derivazione fu ampliato dal sociologo tedesco Theodor Geiger (1891-1952) che lo interpretò come giustificazione teorica degli investimenti vitali e affettivi come tali. Al tempo stesso egli attribuì ai residui il carattere, sociopsicologicamente determinato, di disposizioni psichiche condizionate dall'ambiente, designandole come 'mentalità'. Il requisito dell'avalutatività posto da Geiger per i giudizi sociologici mise il problema dell'ideologia in stretta relazione col dibattito sui giudizi di valore sviluppatosi verso la fine dell'Ottocento.

Partendo dal presupposto secondo il quale il concetto di ideologia può avere un senso solo nel quadro della critica della conoscenza, Geiger rifiutò sia la critica dell'ideologia di Marx, sia il concetto di ideologia 'totale' di Karl Mannheim (v. sotto). La critica dell'ideologia non può avere come oggetto né la realtà sociale, né la struttura della coscienza che a quella realtà si richiama; bisognerà invece rivolgersi al giudizio scientifico individuale per sapere se e in qual misura esso concordi con la realtà spazio-temporale conosciuta empiricamente.

Per Geiger la commistione di idee di valore e di enunciati fattuali esistente nelle analisi di tipo ideologico sta a indicare - come già per Max Weber - che l'individuo giudicante è prigioniero di fattori extrateoretici. L'interesse di Geiger è rivolto soprattutto alla pura teoria scientifica, rapportata al modello della logica tradizionale. L'intenzione che nel soggetto conoscente si cela dietro ai singoli giudizi ideologicamente condizionati rimane peraltro al di fuori della critica positivistica dell'ideologia: in quanto 'mentalità', tale intenzione è esclusa dal vero e proprio ambito della critica sociologica del pensiero. Le ideologie hanno certamente origine dalle mentalità, ma per Geiger esse sono, come la realtà sociale, indifferenti al vero e al falso. Unici rappresentanti delle ideologie sono i singoli soggetti conoscenti e giudicanti, e quindi gli elementi di coscienza ideologici possono essere superati solo nell''ascesi intellettuale delle emozioni' e nell'autocontrollo dell'individuo. Il concetto geigeriano di ideologia si colloca così nel solco della tradizione inaugurata dalla dottrina baconiana. Anche in questo caso le implicazioni soggettive del pensiero sono viste come offuscamenti non teoretici della conoscenza. Considerare il rapporto vitale del soggetto giudicante con l'oggetto come causa ultima della formazione delle ideologie significa ricondurre la concezione critica della società nella sfera della psicologia. Identificare le ideologie con i giudizi di valore appare necessario a Geiger in quanto egli non vede nell'ideologia l'intero complesso di contenuti spirituali determinati, ma un semplice giudizio individuale avente una connotazione emotiva. Alla distinzione tra giudizi di fatto e giudizi di valore operata da Geiger si ricollega il neopositivismo. Il problema della scientificità del pensiero o del suo carattere ideologico viene risolto per mezzo del concetto di verità proprio delle scienze empiriche.

Tipica della concezione neopositivistica dell'ideologia è la separazione tra conoscenze scientifiche e valutazioni politiche o comunque connesse con una visione del mondo. In conformità di quest'orientamento empirico-scientistico di base, le valutazioni non appartengono all'ambito della conoscenza, ma sono di natura puramente soggettiva, sono espressioni dei sentimenti, degli stati d'animo e della volontà.

Ernst Topitsch (n. 1919) si riallaccia al meccanismo di proiezione di entità metafisiche descritto da Feuerbach e da Freud e lo applica coerentemente ai miti sociali, arrivando alla conclusione che i contesti d'esperienza immediati formano sempre la base e il punto di partenza per interpretare ciò che è lontano ed estraneo. Poiché - come già aveva notato Feuerbach - il meccanismo della proiezione rimane celato agli uomini al livello di coscienza mitologico, gli ordinamenti cosmici che da esso nascono possono anche fornire dei principî per il comportamento pratico nella vita politica e sociale.

7. Il concetto di ideologia nella sociologia della conoscenza

Il concetto di ideologia 'generale' e 'totale', che Karl Mannheim (1893-1947) ha ampliato a principio ermeneutico attraverso l'ipotesi di una connessione o determinazione esistenziale (Seinsverbundenheit) del pensiero, era stato già delineato nei suoi tratti essenziali dalla critica della cultura di Nietszche e dalla teoria delle derivazioni di Pareto. Nella sua sociologia della conoscenza Mannheim cerca di definire il concetto di ideologia 'in modo neutrale rispetto ai valori'. Quando egli parla di una 'connessione esistenziale' di giudizi e di idee, ciò non implica alcun atto valutativo. Tutti gli enunciati sull'uomo, sulla società e sulla storia hanno una loro collocazione storica, sociale e temporale, e vanno quindi considerati come ugualmente relativi rispetto a una 'verità' che si può cogliere solo nel complesso dei punti di vista espressi nel corso della storia dell'umanità. Ogni pensiero storico è socialmente determinato e non può quindi aspirare alla conoscenza oggettiva del vero; tuttavia rappresenta sempre, in quanto 'sapere connesso con una visione del mondo', una verità parziale, che erroneamente si ritiene assoluta.

La conoscenza oggettiva della realtà empirica, come pure di determinati valori, è possibile solo attraverso un autocontrollo del soggetto conoscente, fondato sulla sociologia del sapere. Il soggetto diventa così relativamente autonomo rispetto alla posizione della sua classe, del suo ceto, ecc., di cui condivide sempre le forme di pensiero tipiche. Chi è capace di attuare un simile processo cognitivo, nel senso dell'autoanalisi della sociologia del sapere, fa parte per Mannheim di quel "sottile strato sociale" che ha maggiori possibilità di conoscenza rispetto agli individui ciecamente coinvolti. Sulla scia di Alfred Weber, Mannheim definisce questo strato sociale "intelligencija liberamente fluttuante" (freischwebende) e gli attribuisce il compito specifico di elaborare, attraverso una continua autocritica, 'sintesi relative' di tutti gli elementi di verità esistenti nelle diverse posizioni spirituali e politiche di un'epoca. Ciò è possibile solo per mezzo di 'concetti fluidi' capaci di adeguarsi allo sviluppo storico della società ('sintesi culturali'). Un concetto di ideologia formulato in termini così generali non può costituire uno strumento critico atto a identificare e a superare la falsa coscienza.

Viene dunque meno in Mannheim l'aspirazione dei critici dell'ideologia a separare gli enunciati teoretici, scientifici e analitici da quelli ideologici. In questo mutamento storico - dal concetto critico-valutativo di ideologia, proprio dell'illuminismo borghese e di Marx, a quello avalutativo che considera relativi tutti i punti di vista - si manifesta una consapevole rinunzia a incidere in senso innovatore sulla situazione politica e sociale esistente. Una volta svincolato il problema dell'ideologia dal contesto teorico marxiano scompare la sua radice economica, il feticismo delle merci. In questo modo ridiviene attuale la possibilità di una derivazione psicosociologica dell'ideologia, possibilità prefigurata nell'illuminismo francese dalla riduzione dei fenomeni spirituali alla sfera della psicologia dell'interesse. L''essere sociale' diventa un dato di fatto precostituito, privo di qualsiasi relazione definibile con elementi storico-sociali concreti come lo scambio o i rapporti di proprietà. Per poter cogliere l'elemento specificamente sociale Mannheim esclude coerentemente dalla sfera dei concetti sociologici ogni componente economica.

Ma in tal modo il piano esistenziale al quale le creazioni del pensiero dovrebbero essere funzionalizzate diventa una grandezza limite irrazionale priva di determinazioni positive. La base economica si trasforma in un'entità metafisica, fondata sull'idea di una 'vita' che si manifesta nel processo storico. Il corso della storia viene ipostatizzato in un 'assoluto in divenire' e il problema dell'ideologia viene svincolato dal contesto della teoria sociale.

8. Il concetto di ideologia nella teoria critica

La teoria critica, formulata soprattutto da Max Horkheimer (1895-1973) e da Theodor W. Adorno (1903-1969), non opera alcuna separazione ontica fra realtà sociale e sovrastruttura ideologica: la totalità sociale, che si presenta come "mondo amministrato" (Adorno), possiede invece una universalità e una capacità di penetrazione che rendono obsoleta tale separazione. La riproduzione sociale si compie attraverso l'azione e il pensiero degli individui, così che i meccanismi sociali non fanno che duplicarsi nella forma di coscienza di volta in volta dominante: l'ideologia si manifesta allora nel funzionamento dei processi sociali stessi. Il suo apparire è un prodotto del sistema sociale, di cui gli individui diventano agenti. "Man mano che le ideologie cessano di essere rappresentazioni concrete riguardanti la società, viene meno il loro contenuto specifico ed esse tendono irresistibilmente a trasformarsi in reazioni soggettive, presenti a un livello psichico più profondo di quello dei contenuti ideologici manifesti e quindi dotate di maggior efficacia. L'ideologia viene sostituita da istruzioni sui modi di comportamento e diventa infine una characteristica formalis dell'individuo" (v. Adorno, 1962, p. 63); essa rappresenta il duplicato della situazione sociale esistente nella coscienza soggettiva, che obbedisce alla forza normativa della fattualità.

In modo analogo Herbert Marcuse (1898-1979) definisce nella sua critica dell'"uomo a una dimensione" l'ideologia dominante nelle società industriali avanzate dell'Occidente. Essa è una conseguenza della repressione operata dalla società ed equivale alla perdita della funzione critico-utopica del pensiero concettuale e dell'immaginazione sociale. La coazione che i rapporti dominanti esercitano sul comportamento e sulla coscienza dei consumatori si riflette nella rinunzia alla riflessione critica. Il totale conformismo indotto dai media produce oggi un adattamento privo di attriti a norme e a modelli di comportamento prestabiliti ("tolleranza repressiva").

Caratteristica delle odierne ideologie non è più l'autonomizzazione di costrutti mentali, ma la 'duplicazione' e la legittimazione su un piano più elevato, della situazione esistente. Tutto ciò che accade viene imposto all'uomo come 'necessario' per motivi superiori ("razionalità tecnica"). Secondo la teoria critica, ideologia è tutto ciò che favorisce l'adattamento senza attriti alle strutture sociali dominanti e impedisce una riflessione critica sulle condizioni esistenti. Le idee di una società siffatta sono senza eccezioni immanenti a essa e non si richiamano mai a una situazione diversa, ma solo a un perfezionamento di quella attuale. Uno degli assiomi della teoria critica è che il controllo, che si appresta a diventare totale, sulla sfera individuale e la correlativa eliminazione di tutto ciò che è connesso con una sia pur relativa autonomia del singolo non sono fatti casuali, ma sintomi del fatale processo evolutivo delle società tecnicoi-ndustriali.

Ciò incide anche sul metodo della critica dell'ideologia, che non ha più come oggetto primario i contenuti dei prodotti spirituali per i quali un tempo era possibile porre la domanda 'cui bono?'. Il fenomeno del dominio perde così i suoi connotati sociali. Oggi l'ideologia va cercata proprio nel 'realismo delle necessità oggettive', apparentemente estraneo a ogni ideologia, al quale gli uomini devono sottomettersi in silenzio. Ma se l'ideologia non è più un'apparenza svincolata dal processo di riproduzione sociale, bensì l'accettazione dei meccanismi e delle funzioni della società esistente, allora si tratta solo dell'aspetto soggettivo di quel processo in una società in cui la tecnica è diventata uno schermo che impedisce di vedere le retrostanti forze produttive umane il cui fine un tempo era l'appagamento dei bisogni dell'uomo e non il suo assoggettamento attraverso il processo di riproduzione reificato.La teoria critica ha in comune con l'illuminismo borghese soprattutto la speranza che quando in una società gli individui sono in grado di rielaborare concettualmente dei rapporti che in un primo momento sembrano agire come meccanismi ciechi, l'incantesimo che quei rapporti esercitano sugli individui comincia a dissolversi.

Tuttavia la riuscita di questo processo chiarificatore dipende in gran parte dallo spazio che una data società può concedere ai suoi membri perché sviluppino le loro facoltà critiche. Senza tale potenziale coscienza la ragione non ha più alcun ruolo nella vita sociale dell'uomo.In Horkheimer il concetto di ideologia è sempre collegato con quello di verità: "Il termine 'ideologia' dovrebbe essere riservato, in contrapposizione a 'verità', al sapere che non è cosciente della sua dipendenza ma che può essere penetrato storicamente, all'opinione che è ormai decaduta ad apparenza rispetto al conoscere più avanzato" (v. Horkheimer, 1972, p. 67). Questo riferimento del concetto di verità allo stato di volta in volta più progredito della conoscenza sta a indicare che la ricerca della verità può essere promossa solo da una continua critica e autocritica. In contrasto con la pretesa di assolutezza avanzata dallo status quo di volta in volta esistente la ricerca della verità può consistere solo in una continua correzione delle verità parziali e nella verifica critica dei risultati del pensiero, ossia nello sforzo dialettico "di dedurre geneticamente [...] i singoli aspetti della vita sociale, di distinguere l'apparenza dall'essenza, di indagare i fondamenti delle cose e cioè, in poche parole, di conoscerle veramente" (v. Horkheimer, 1974, p. 289). Tuttavia neppure i risultati così ottenuti possono considerarsi come un sapere definitivo. Solo l'intero processo del pensiero, ivi compresa la sua genesi, può essere fermento del vero.

La teoria critica si presenta dunque come una forma di riflessione che fa parte essa stessa dei processi storici e sociali che si sforza di conoscere, e ciò influisce anche sulla definizione del concetto di ideologia. Ad esempio, la consapevolezza del condizionamento storico-sociale delle proprie categorie preserva la teoria critica dal voler parlare ex cathedra di una ragione superiore, capace di sottrarsi alla mancanza di autonomia connessa con tale condizionamento. Perché il pensiero critico possa svilupparsi, occorre rinunziare all'erronea opinione illuministica che la dialettica valga solo per le forme di coscienza del passato. Esso rimane uno strumento dell'illuminismo solo se e finché è consapevole del proprio carattere non definitivo e si rende conto in modo autocritico di essere superabile. Nessun pensiero trascende l'epoca in cui è stato formulato; la genesi del pensiero è quindi parte integrante della sua verità. Le condizioni materiali del costituirsi, del sussistere e dell'estinguersi del pensiero sono oggetti legittimi del pensiero stesso, non meno delle sue possibili ipostatizzazioni in una ragione universale 'assoluta'. In tal senso la possibilità di una conoscenza autentica è legata all'analisi delle condizioni concrete della sua genesi e del contesto sociale cui appartiene. Questa possibilità sussiste solo se il pensiero riconosce il proprio condizionamento. La riflessione, infatti, come metodo critico-genetico nel senso indicato da Feuerbach, è essa stessa un elemento della critica, alla cui attività negatrice rimane legato il progresso della conoscenza.

9. La tesi della fine delle ideologie

La tesi della fine delle ideologie, che ha cominciato a essere proclamata verso la metà degli anni cinquanta, è fondata in genere sul presupposto che ormai nelle società occidentali non vi siano più problemi gravi da affrontare. Le strutture dello Stato del benessere - così si diceva e si continua a dire - avrebbero risolto tutte le questioni sociali più importanti. Tale concezione della società è stata sviluppata ad esempio in America da David Riesman (n. 1909) e in Germania da Helmut Schelsky (1912-1984), con la sua tesi della 'società livellata del ceto medio'.In una versione più recente la fine delle ideologie viene identificata con la fine della politica. Una tesi che è al centro del modello politico di Schelsky culmina nell'affermazione che oggi tutte le principali decisioni dello Stato devono seguire criteri tendenzialmente tecnico-scientifici, fondati su leggi oggettive, poiché a seguito dello sviluppo autonomo delle tecniche dell'organizzazione, basate sui principî scientifici, non resta più spazio per decisioni connesse con i valori, ossia politico-ideologiche nel senso tradizionale. Tutte le scelte macropolitiche sarebbero preparate oggi da esperti, e i politici si limiterebbero ad attuarle. Una politica così deideologizzata ubbidisce solo alle necessità oggettive, nel senso della one best way. Ne deriva la tendenza a squalificare come ideologica ogni teoria critica della società che guardi al di là dello status quo. In ciò si rivela il carattere fazioso della tesi in questione, che si pone come avalutativa e quindi libera da condizionamenti ideologici. La tesi della fine delle ideologie tende a confondere ideologia e utopia, ossia a rigettare ogni teoria critica escludendo al tempo stesso il carattere di dissimulazione della propria ideologia. I sostenitori di questa tesi infatti considerano ideologica una politica che mette in luce i conflitti, ma non quella interessata alla stabilizzazione della situazione esistente. Ogni opposizione e ogni critica di principio sono quindi considerate puramente ideologiche.

10. Il concetto gramsciano di ideologia

Con le sue teorie del 'senso comune', della 'società civile', degli intellettuali, dei blocchi egemonici e dello Stato ampliato Antonio Gramsci (1891-1937) ha dato un contributo importante allo sviluppo della teoria materialistica della sovrastruttura. Al centro della sua problematica non vi è, come di solito avviene nei marxisti, l'analisi dei rapporti economici e delle forme di coscienza connesse alle forme di produzione proprie della socializzazione alienata. Gramsci non mette in questione, 'in ultima istanza', l'idea di una sovrastruttura determinata dalla base sociale, ma critica come "infantilismo primitivo" il riduzionismo meccanicistico ed economicistico del marxismo. "La pretesa (presentata come postulato essenziale del materialismo storico) di presentare ed esporre ogni fluttuazione della politica e dell'ideologia come una espressione immediata della struttura deve essere combattuta come un infantilismo primitivo" (v. Gramsci, 1975, p. 871).

Secondo Gramsci le società borghesi evolute non possono più essere sconvolte dalle crisi economiche, e in esse è cresciuta d'importanza la funzione socializzante delle istanze ideologiche. Il suo interesse si concentra pertanto sul problema di come la classe dominante eserciti il suo potere e di come un sistema di istituzioni culturali organizzi, mediante gruppi di intellettuali 'tradizionali' e 'organici', il consenso che lega le classi subalterne. Gramsci definisce questo sistema culturale mediante il concetto di 'società civile'. Questa comprende le istituzioni, gli organismi e le strutture private come la Chiesa, i sindacati, i partiti e le associazioni, che plasmano l'autoimmagine di una società e il senso comune degli uomini, assicurando il consenso sociale e l'egemonia del blocco dominante. Il potere borghese si organizza sul piano "della forza e del consenso, dell'autorità e dell'egemonia, della violenza e della civiltà" e la sua supremazia "si manifesta [...] come 'dominio' e come 'direzione intellettuale e morale"' (ibid., pp. 1576 e 1621).

Per definire con esattezza le aree in cui vengono esercitati il dominio e la guida ideologica, Gramsci opera una distinzione analitica all'interno della sovrastruttura: "Tra la struttura economica e lo Stato con la sua legislazione e la sua coercizione sta la società civile" (p. 1253).Gramsci riprende l'idea di una divisione della sovrastruttura in più livelli gerarchici da Antonio Labriola (1843-1904), per il quale lo Stato era una derivazione di primo grado della base socioeconomica, mentre arte, cultura e ideologia costituivano derivazioni di secondo grado, manifestazioni secondarie di determinate condizioni sociali. Egli distingue così due livelli, attribuendo a essi funzioni differenti: quello che si può definire 'società civile', ossia il complesso di organismi che sono detti comunemente 'privati', e quello della 'società politica' o dello Stato. Al primo corrisponde la 'funzione egemonica' esercitata dal gruppo dominante sull'intera società, al secondo la funzione del 'dominio diretto' o del comando, che trova espressione nello Stato e nel governo 'giuridico'.

A livello della società civile si trovano gli apparati ideologici che producono le ideologie 'storicamente organiche' capaci di dare unità al 'blocco sociale' nato dall'alleanza di classi diverse. Le sovrastrutture non sono per Gramsci semplici riflessi della base economica o mere apparenze, bensì realtà oggettive, dotate di una relativa autonomia, che retroagiscono sulla base. Con il concetto di 'blocco storico' viene indicato l'intreccio di struttura socioeconomica, lotta politica e lotta ideologica: "La struttura e le superstrutture formano un 'blocco storico', cioè l'insieme complesso e discorde delle superstrutture sono il riflesso dell'insieme dei rapporti sociali di produzione. Se ne trae che solo un sistema di ideologie totalitario riflette razionalmente la contraddizione della struttura e rappresenta l'esistenza delle condizioni oggettive per il rovesciamento della praxis" (ibid., p. 1051).

Rifacendosi a Marx, Gramsci osserva che quando gli uomini prendono coscienza della loro collocazione sociale e dei loro compiti sul terreno dell'ideologia, la lotta culturale per l'egemonia assume lo stesso valore della lotta socioeconomica. I concetti di 'egemonia' e di 'blocco storico' non si riferiscono soltanto alle forme etiche, culturali, ideologiche e politiche della socializzazione. L''egemonia' non è una pura categoria sovrastrutturale: perché possa nascere un'egemonia etico-politica occorre un fondamento economico. D'altra parte un 'blocco storico' può sussistere solo finché le ideologie che lo cementano non entrano in contrasto con gli sviluppi materiali. Qualora una classe riesca a superare i propri interessi economici corporativi e ad affrontare i problemi nazionali più gravi con un programma sovraclassista, in cui alle idee di riforma economica sia associata una visione del mondo che coinvolga più classi, può formarsi un 'blocco storico' fondato su un rapporto di "adesione organica tra intellettuali e popolo-massa, tra dirigenti e diretti, tra governanti e governati" (ibid., p. 452). Per conseguire l'egemonia è necessario esaminare attentamente la funzione sociale degli intellettuali come organizzatori di cultura e di consenso, il loro rapporto con la classe egemone e il terreno sul quale si riforma il senso comune.

Per accostarsi al concetto gramsciano di ideologia evitando ogni tentativo di riduzione e sistematizzazione occorre individuare i significati specifici che esso assume di volta in volta nel contesto delle analisi, delle problematiche e delle soluzioni proposte da Gramsci, in quanto egli usa il termine ideologia in modi diversi o addirittura contrastanti. Con riferimento al contenuto di verità, 'ideologia' si contrappone a 'scienza': ma in un passo Gramsci afferma che "anche la scienza è una superstruttura, una ideologia", e in un altro afferma che bisogna distinguere tra "ideologie storicamente organiche", capaci di organizzare le masse e unificare il blocco sociale, e "ideologie arbitrarie, razionalistiche, 'volute"' (ibid., p. 868). Questo concetto di ideologia comprende allora tutte le visioni del mondo. Senza dubbio Gramsci attribuisce alle 'ideologie' lo status di fatti storici reali, che esercitano un proprio influsso.

11. Condizioni per una critica dell'ideologia

Una critica dell'ideologia può essere condotta solo alle seguenti condizioni.
1. La ragione umana dev'essere per principio ritenuta in grado di cogliere i nessi strutturali e sostanziali della vita della società e di ordinarli concettualmente.
2. Non tutti i prodotti del pensiero umano vanno visti indiscriminatamente come falsati dall'ideologia, e quindi come semplici riflessi degli attuali rapporti di forza sociali.
3. La struttura della realtà sociale, alla cui conoscenza è rivolto il pensiero, non dev'essere irrigidita a un punto tale da rendere vano e illusorio a priori ogni tentativo di trasformarla.
Perché il pensiero umano e in particolare le ideologie possano diventare una forza socialmente efficace, occorrono due condizioni.
1. Le idee e le ideologie possono essere politicamente efficaci solo se i loro rappresentanti dispongono dei poteri e dei metodi per istituzionalizzarle, ossia per farle valere come universalmente vincolanti.
2. Le ideologie possono influenzare in modo stabile l'azione e il comportamento sociali solo se rispondono agli interessi e ai bisogni di una parte attiva della popolazione.

Per stabilire quale sia il valore conoscitivo, e quindi anche il valore di verità, degli enunciati sulla società e sullo Stato si può far riferimento, tra gli altri, ai seguenti criteri: a) in quale misura una data teoria va al di là della semplice descrizione degli stati di fatto e riesce a spiegare determinate trasformazioni sociali, ossia a chiarirne le cause e le conseguenze? Ciò può accadere solo se la teoria in questione non è selettiva né monocausale (valore conoscitivo di una teoria; sintesi dei fatti sociali); b) fino a che punto una teoria può fare previsioni corrette in base a un'analisi delle tendenze sociali dominanti? (contenuto predittivo); c) in quale misura una teoria riesce a rendere visibile l'intreccio, apparentemente inestricabile, delle facoltà decisionali e della ripartizione dei poteri nella società, chiarendone i principî e individuando le forze che condizionano i rapporti e le trasformazioni sociali? (analisi delle strutture di potere e di dominio); d) fino a che punto una teoria può spiegare in base a quali principî si sviluppa la totalità sociale e che cosa mantiene in funzione i suoi apparati? (analisi funzionale); e) in quale misura una teoria riesce a esplicitare le contraddizioni esistenti nella società, evitando ogni armonizzazione e ogni semplificazione finalizzata? La spiegazione fornita dalla teoria deve concettualizzare le contraddizioni concrete della realtà (rinunzia all'idealizzazione e all'armonizzazione della realtà); f) in quale misura la teoria, nonostante la sua rinunzia a mascherare la realtà sociale, può incoraggiare gli uomini a determinare in prima persona il proprio destino, stabilendo così nel loro agire sociale un collegamento fra teoria e prassi? (realizzabilità).

Non può esservi una definizione immutabile dell'ideologia, perché le ideologie sono prodotti dell'attività di uomini coscienti e operanti nel processo sociale, costantemente soggetti essi stessi a un mutamento storico che si esprime, fra l'altro, nelle ideologie politiche. Per contro, è senz'altro possibile tentare una definizione della molteplicità di funzioni ed effetti esercitati dalle ideologie nella vita politica e sociale. Se è vero che le ideologie possono rendersi indipendenti, spesso in misura notevole, rispetto alla prassi sociale, considerarle isolatamente come entità astoriche significherebbe tuttavia credere a ciò che esse pretendono di essere. La dialettica delle ideologie politiche consiste proprio nel fatto che esse, per quanto apparenza e falsa coscienza, sono anche componenti attive della realtà politica, elementi costitutivi della totalità sociale. Se da un lato le ideologie politiche devono la loro esistenza e la loro possibilità d'azione all'attività degli uomini reali socializzati, dall'altro, in quanto strutture divenute autonome, motivano e determinano in modo del tutto specifico e storicamente variabile il comportamento politico degli uomini.