www.treccani.it
di Kurt Lenk
Sommario: 1. Introduzione. 2. La critica della mitologia e della
religione nell'età dell'illuminismo. 3. Il concetto di
ideologia in Marx. 4. Il concetto di ideologia dopo Marx. 5.
L'autocritica della ragione. 6. La concezione positivistica
dell'ideologia. 7. Il concetto di ideologia nella sociologia della
conoscenza. 8. Il concetto di ideologia nella teoria critica. 9. La
tesi della fine delle ideologie. 10. Il concetto gramsciano di
ideologia. 11. Condizioni per una critica dell'ideologia.
1. Introduzione
Il termine 'ideologia' è usato oggi in una varietà di
accezioni: da quella di autoillusione collettiva e di espressione di
determinati interessi a quella di organizzazione consapevole del
dominio mediante la manipolazione; in ogni caso per la sua genesi
storica e fattuale il concetto di ideologia è stato sempre
inteso criticamente. Esso acquistò rilevanza nell'età
dell'illuminismo borghese, quando ebbe inizio, all'insegna della
conoscenza scientifica della natura, la riflessione sistematica sui
contesti economici e sociali e storico-culturali.
2. La critica della mitologia e della religione nell'età
dell'illuminismo
Nell'illuminismo europeo del XVII e del XVIII secolo si
manifestò per la prima volta un rivolgimento nella coscienza
degli strati sociali: la borghesia illuminata in nome del progresso
scientifico contestò i privilegi dell'aristocrazia feudale e
l'assolutismo monarchico. Contemporaneamente nacque l'idea che nel
pensiero tradizionale vi fosse un elemento ideologico, in quanto
quel pensiero non corrispondeva all'ideale di una conoscenza in
continuo progresso proprio delle scienze naturali e si presentava
quindi come coscienza puramente conservatrice, tendente a
legittimare gli interessi costituiti della Chiesa, del trono e della
nobiltà.
La critica dell'ideologia si sviluppò come strumento della
ragione borghese in via di emancipazione. Tutte le posizioni
illuministiche, fino a Marx, si proposero anzitutto di abbattere,
analizzando le origini delle ideologie, gli ostacoli che si
opponevano al pensiero, allo scopo di eliminare ideologie e
pregiudizi. La critica dell'ideologia era rivolta quindi a liberare
il pensiero irretito nell'idolatria. Inizialmente alla critica delle
distorsioni soggettive della conoscenza razionale si affiancò
l'idea che il carattere ideologico del pensiero fosse un difetto
insito nella ragione (dottrina baconiana degli idoli); logici
sviluppi di questa prima fase della ricerca furono l'interpretazione
dell'ideologia in base alla psicologia dell'interesse, proposta
dagli enciclopedisti francesi, e la riduzione di tutte le idee e le
rappresentazioni a elementi sensoriali definibili scientificamente,
operata dalla scuola degli 'ideologi'.
Il termine 'ideologia' ha le sue origini nella tradizione
dell'illuminismo francese. Destutt de Tracy (1754-1836) definiva
come ideologia la dottrina delle idee, intese come manifestazioni di
impressioni sensoriali, e questa concezione favorì nei
filosofi della sua scuola una dottrina delle idee di orientamento
sensistico. Il problema dell'ideologia era emerso già
all'inizio del Seicento, in Inghilterra, negli scritti di Francesco
Bacone (1561-1626), che per primo indicò il carattere
ideologico del pensiero, considerandolo un difetto intrinseco della
ragione umana.
In ogni società l'uomo è esposto all'influsso di
determinati 'idoli', che può essere contrastato solo con un
metodo conoscitivo specifico, quello dell'induzione fondata
sull'esperienza. Bacone distingue quattro specie di idoli: gli idola
tribus, propri del genere umano, gli idola specus, propri
dell'individuo, gli idola fori, derivanti dalla natura sociale
dell'uomo, e gli idola theatri, rappresentati dalle idee e dalle
opinioni tradizionali. Secondo Bacone questi idoli sono errori della
ragione, ai quali l'uomo soggiace per vari motivi.
La funzione chiarificatrice di questa dottrina consisteva
soprattutto nell'elaborazione di un metodo filosofico critico che si
opponeva alla commistione di filosofia e teologia. Decisivo in
proposito fu il fatto che Bacone mettesse sullo stesso piano
l'influsso esercitato sulla conoscenza dalle superstizioni e il
danno arrecato alle scienze dagli idoli, rendendo possibile
così adoperare la dottrina degli idoli quale strumento
critico contro tutti i dogmi tramandati, come avrebbero fatto nel
Settecento gli illuministi francesi. La lotta di Bacone contro gli
idoli comprendeva quindi già un elemento essenziale di ogni
successiva critica della società e dell'ideologia. Dalla
presa di posizione a favore di una conoscenza scientifica prese il
via la lotta contro i pregiudizi religiosi e poi contro gli
interessi pseudoreligiosi del clero.Bacone fu dunque il primo
teorico moderno a richiamare l'attenzione - sia pure in maniera
ancora statica e astorica - sul carattere ideologico del pensiero.
Alle sue idee si ispirarono non solo gli illuministi francesi, ma
anche Ludwig Feuerbach e Karl Marx. È importante notare che
per Bacone non vi è ancora nessuna contraddizione tra
esistenza sociale e coscienza: per lui le idee possono concordare in
linea di principio con la realtà, nonostante gli idoli, e il
compito del filosofo è di rimuovere tutte le barriere che
possono innalzarsi contro la ricerca del vero, arrivando così
a comprendere le leggi che governano la natura. Che possa esservi
una conoscenza autentica era per Bacone un assioma indubitabile. Il
concetto di verità non viene messo in questione dalla
dottrina degli idoli, in quanto l'intelletto umano è ritenuto
capace di cogliere concettualmente l''essenza' dei fenomeni,
così come lo scienziato è in grado di mettere al
proprio servizio le forze della natura mediante l'osservazione
sperimentale dei fenomeni. Ciò che impediva a Bacone di
mettere in dubbio la concordanza tra la ragione umana e l'essenza
delle cose conosciute era l'idea, derivata dalla tradizione
teologica, della comune origine divina dell'uomo e della natura.
L'illuminista francese Étienne Bonnot de Condillac
(1714-1780) tradusse il termine baconiano 'idolum' con
'préjugé'. Nell'illuminismo francese la lotta contro i
pregiudizi si ampliò in un attacco filosofico contro la
Chiesa e contro lo Stato dispotico da essa sostenuto.
Per l'illuminismo borghese, ultima istanza di ogni critica delle
idee e dei pregiudizi è la verità insita nella natura
stessa, che va scoperta con la ragione. Come la conoscenza delle
leggi naturali consente di dominare la natura, così la
conoscenza delle leggi secondo cui si formano i pregiudizi
può aprire la strada alla vera comprensione e contribuire a
una eventuale trasformazione della società.
L'ipotesi di partenza è l'esistenza di un'unica fonte ultima
della verità: l'autentica ragione umana, emancipata e
liberata da ogni costrizione, davanti alla quale devono legittimarsi
tutte le asserzioni che abbiano pretesa di verità. Si suppone
che quest'unica ragione, presente in ogni uomo almeno come
predisposizione, possa essere ostacolata sia dalle passioni e dagli
affetti, sia dall'autorità dispotica di pochi. La vocazione
dell'uomo consiste nell'organizzare la vita degli individui e della
società secondo i dettami di questa ragione, concepita come
universale.
Il problema centrale degli enciclopedisti Holbach (1723-1789) e
Helvétius (1715-1771) era quello della dipendenza delle idee
dalle condizioni sociali. Partendo dall'analisi della
sensibilità, essi sviluppavano un'indagine sui
condizionamenti esercitati dall'ambiente sui processi psichici,
ossia sul rapporto che intercorre tra le sensazioni, nonché
tutte le altre forme di coscienza, e il contesto sociale che in
ultimo le determina.
Gli illuministi francesi postulavano una dipendenza diretta di tipo
causale della coscienza dalla realtà sociale, e concepivano
l'uomo come prodotto dell'ambiente sociale e culturale in cui
è di volta in volta inserito. In questa concezione, per
banale che possa sembrare, è insita una critica radicale
dell'ancien régime. La conoscenza della verità
può svilupparsi infatti solo quando vengano meno la tutela e
la costrizione della ragione umana da parte dello Stato dispotico e
della Chiesa sua alleata. Il credo dell'illuminismo francese
imponeva quindi l'eliminazione dei pregiudizi religiosi che avevano
fatto del popolo uno strumento passivo, in cui il clero riusciva a
far penetrare la volontà di dominio dell'autorità
secolare fin negli angoli più riposti dell'animo umano.
All'autonomia dello Stato e della Chiesa si sostituiva la naturale
autonomia della ragione, dinanzi alla quale le dottrine religiose
erano tenute a giustificarsi. L'opera della filosofia illuministica
francese culmina nella teoria secondo cui i pregiudizi che
intralciano la ragione sono prodotti e consolidati dagli interessi
di dominio di alcuni potenti, per garantire la conservazione della
situazione sociale esistente (teoria dell'impostura del clero).
La formazione dell'ideologia viene qui motivata, sul piano della
psicologia dell'interesse, con la brama di dominio del clero e dei
monarchi che manipolano, in un complotto di potenti, il popolo
tenuto sotto tutela. Anziché un inevitabile autoinganno della
coscienza derivato da una determinata struttura della
società, l'ideologia viene considerata ora una consapevole
mistificazione dei sottomessi da parte dei potenti, ossia una
menzogna finalizzata alla legittimazione dell'assolutismo feudale
attraverso l'interiorizzazione delle idee religiose nei ceti
subordinati. L'ingenuità che oggi avvertiamo nella teoria
dell'impostura del clero è dovuta alla sua impostazione
psicologistica, per cui al consapevole inganno da parte di pochi
corrisponde nelle masse un errore risultante dalla mancanza di
libertà.
Le insufficienze della teoria in questione sono evidenti.
L'impostura presuppone che gli ingannati siano del tutto passivi e
non contribuiscano in alcun modo alla riuscita della manovra; ma se
così fosse, per affrancarsi dal carattere ideologico delle
rappresentazioni religiose basterebbe lo 'smascheramento'
dell'inganno. Inoltre la teoria dell'impostura ignora la stretta
connessione tra le illusioni religiose e la situazione oggettiva
della società, riducendo in sostanza questa situazione a una
deficienza intellettuale (ignoranza, credulità, ecc.) e a
fattori essenzialmente psicologici (paura della morte, ansia,
bisogno di consolazione). Viene così trascurata la relazione
tra immaginazione religiosa e condizioni di vita reali; si critica
infatti solo l'aspetto negativo - assoggettamento e ostacolo
all'emancipazione - ma non viene individuato il nesso necessario tra
un determinato stadio della conoscenza e l'autointerpretazione. Il
primo a svelare il carattere di proiezione antropomorfica della
religione fu Ludwig Feuerbach (18041872), secondo il quale alla
radice della fede in Dio vi è la tendenza universale
dell'uomo a personificare in un soggetto ultraterreno i suoi intimi
desideri e aspirazioni. La religione non è mera invenzione e
inganno, ma una forma storicamente necessaria di autoillusione
dell'umanità, che cerca con essa di trascendere la propria
finitezza. Se il potere dei pregiudizi e delle superstizioni poggia
sul fatto che l'uomo è dominato dagli appetiti (Hobbes),
dall'immaginazione (La Mettrie), dagli interessi e dalle passioni
(Condillac, Helvétius), la liberazione dagli stati emotivi
consentirà alla ragione di comprendere liberamente e
obiettivamente i processi sociali e i nessi nomologici esistenti
nella natura, all'esterno e all'interno dell'uomo, rendendo
così possibile un agire autonomo.
Il principale difetto della critica illuministica delle ideologie,
fondata sulla psicologia dell'interesse, consiste nel riferire in
modo puramente estrinseco l'origine delle ideologie agli interessi
di gruppo e all'affettività degli uomini, partendo dal
presupposto che questi abbiano una struttura psichica
sostanzialmente immutabile. Al problema del condizionamento
ambientale dei processi psichici viene data così una
soluzione statica e meccanicistica. La dinamica delle idee è
spiegata come un prodotto delle 'circostanze', ignorando il fatto,
importante per l'analisi del fenomeno dell'ideologia, che queste
'circostanze' sono già esse stesse il risultato di
un'attività pratica degli uomini.
3. Il concetto di ideologia in Marx
Nella critica marxiana dell'ideologia il rapporto fra la
realtà e la coscienza dell'uomo socializzato, considerato
fino a quel momento in modo schematico, perde il suo carattere
statico e astorico. Tema di questa forma classica di analisi critica
dell'ideologia è la necessità oggettiva e socialmente
condizionata delle forme di coscienza ideologiche, intese come
'apparenze socialmente necessarie'. Per 'ideologia' Karl Marx
(1818-1883) intende essenzialmente due cose. In primo luogo -
soprattutto negli scritti giovanili, dai Manoscritti
economico-filosofici all'Ideologia tedesca - essa è il
pensiero metafisico, svincolato da ogni prassi (anche se talvolta
può autoconcepirsi come pensiero 'critico'). In secondo luogo
essa è espressione dell'autonomizzazione del mondo delle
merci nella società capitalistica ('cosificazione',
'reificazione', 'feticismo delle merci') e delle conseguenze che
tale autonomizzazione provoca nella coscienza: in questo caso
l'ideologia si identifica con la falsa coscienza. Queste due
concezioni si mescolano spesso nei testi marxiani; va tenuto
però presente che esse si riferiscono a livelli di analisi
diversi. Mentre la prima definizione, formulata da Marx nella sua
critica della metafisica e dell'idealismo, riguarda i fenomeni di
autonomizzazione del pensiero rispetto alla prassi, la seconda
riguarda la struttura economica della società capitalistica e
rappresenta una critica dell'economia politica. Tuttavia, accanto
alla falsa coscienza come feticismo delle merci, la società
borghese produce sempre anche ideologie nel primo senso. Marx
critica sia il materialismo meccanicistico degli illuministi
francesi come Holbach e Helvétius, sia il sistema hegeliano,
in cui il mutamento storico è concepito come processo della
ragione che torna a se stessa. Secondo Marx le ideologie non si
possono far derivare da un'incapacità congenita degli uomini
di riflettere le condizioni sociali della loro esistenza, né
sono riducibili a messe in scena intenzionali di sovrani, sacerdoti
o membri di consorterie avidi di potere: si tratta piuttosto di
forme di falsa coscienza, di apparenza socialmente necessaria. La
teoria marxiana è una critica sia della concezione
meccanicistica e deterministica dell'ideologia, sia di quella
idealistica, che considera le idee e i principî spirituali
come forze metastoriche: contro le interpretazioni idealistiche
della storia, Marx insiste sul fatto che non sono i principî
astratti, le idee e le entità metafisiche a produrre
ciò che chiamiamo storia e società, bensì gli
individui reali, socializzati e cooperanti tra loro.
Nel sistema di Hegel (1770-1831) la pretesa di validità
universale della ragione è salvaguardata sul piano filosofico
dal fatto che la ragione viene storicizzata e la storia
razionalizzata. Il mutamento storico è visto come il processo
attraverso cui lo spirito ritorna gradualmente a se stesso, e
l'unità della verità è conservata in quanto il
processo storico che abbraccia i vari popoli e le varie epoche
è inteso come "graduale divenire dell'unica verità",
concepita da Hegel come l'Intero, la Totalità, che si attua
solo in tale processo storico e attraverso esso.
Anche per Marx la storia universale è un processo
progressivo, ma il suo soggetto non è più, come in
Hegel, lo spirito del mondo, bensì gli uomini in carne e
ossa, nel loro processo produttivo socialmente organizzato; la
storia non è quindi un'entità a sé, ma è
legata alle contingenze del processo produttivo e riproduttivo del
genere umano. Esso, che è alla base della realtà
sociale, comprende sia le forze produttive (strumenti,
capacità, conoscenze e coscienza, ecc.), sia i rapporti di
produzione (rapporti sociali fra gli individui e relative forme di
proprietà).
Nella sua critica dell'ideologia Marx attacca le scuole che si
riallacciano alla filosofia hegeliana perché vede in esse il
culmine di quel pensiero idealistico che si attendeva dalla riforma
della coscienza filosofica l'eliminazione delle contraddizioni
socioeconomiche reali. Nell'Ideologia tedesca, scritta nel 18451846
in collaborazione con Engels, Marx intende mostrare il carattere
illusorio di una rivoluzione puramente teorica che si accontenta di
una critica di costrutti concettuali. Marx non intendeva solo
dimostrare che le speculazioni della filosofia post-hegeliana erano
avulse dalla realtà, ma anche cogliere la limitatezza delle
teorie idealistiche nei riguardi della situazione tedesca del
momento. Feuerbach aveva mostrato che nel mondo delle
rappresentazioni religiose le divinità prodotte dall'uomo
appaiono come entità autonome; un meccanismo analogo viene
individuato da Marx nella sfera concettuale della metafisica
tedesca, in cui i costrutti intellettuali, che pure sono prodotti
dell'attività umana, hanno la parvenza di forze che
trascendono la storia. In una società capitalistica i
complessi concettuali ideologici si irrigidiscono in potenze
soverchianti sotto le quali vengono sussunti gli individui. Gli
idealisti sono portati di conseguenza a vedere la storia come un
prodotto delle idee e non come risultato dell'azione e interazione
di esseri umani reali. Questa inversione, questo qui pro quo nella
coscienza rappresenta per Marx l'espressione teoretica di
un'inversione reale nella società mercificata, in cui il
processo di produzione e riproduzione della vita materiale si
è reso indipendente rispetto ai bisogni degli uomini.
Nel processo di scambio i prodotti del lavoro umano acquistano
un'esistenza autonoma, diventano oggetti dotati di valore, che
sembrano possedere una dinamica propria, svincolata
dall'attività umana. Tutti i beni circolanti sul mercato
capitalistico cessano di essere oggetti concreti e si riducono a
merci, il cui valore è percepito non come espressione dei
rapporti sociali, ma come qualità intrinseca delle cose. In
analogia con questa feticizzazione del mondo delle merci, Marx
riteneva che anche i prodotti del pensiero umano vengono reificati
in forze autonome che sembrano guidare la storia.
Ciò che accomuna l'alienazione economica e quella ideologica
è la scomparsa del contesto sociale dei prodotti
dell'attività umana, che si rendono autonomi rispetto
all'uomo perché gli individui producono indipendentemente
l'uno dall'altro. I prodotti si reificano così in 'forme
naturali', ossia in fenomeni apparentemente inevitabili e quindi
immutabili, sottratti all'intervento degli individui.
L''offuscamento' ideologico è pertanto il correlato,
socialmente necessario, del mondo mercificato capitalistico e del
feticismo delle merci che lo caratterizza.
Feuerbach aveva scoperto che il culto degli dei è in sostanza
l'adorazione di forze interiori dell'uomo proiettate verso
l'esterno, e che quindi la religione consiste nell'attribuire
caratteri umani ai fenomeni rappresentati, la cui natura
soprasensibile deriva dall'autonomizzazione di speranze e di
desideri dell'uomo. Analogamente Marx vide nel valore di scambio
delle merci un elemento immateriale e soprasensibile, espressione
dell'incapacità dei produttori di appropriarsi dei loro
stessi prodotti; all'origine di questa incapacità vi era per
Marx la struttura di potere dei rapporti lavorativi e salariali.
Ciò che nei fenomeni si manifesta agli individui come
processo reificato non coincide con la struttura sociale che
è alla base dei fenomeni stessi. L'idea che fenomeno e
struttura interna, forma e contenuto sociale possano essere
esplorati nella loro connessione solo mediante un lavoro concettuale
è fondamentale per tutte le analisi critiche marxiane.
Secondo tale principio, non sempre il pensiero è una semplice
sovrastruttura ideologica (come invece verrà considerato in
seguito nella dogmatica schematizzazione base-sovrastruttura).
Per Marx la verità o falsità di una teoria sociale non
può essere dedotta né dal suo grado di connessione con
determinati interessi, né dal suo preteso carattere
avalutativo, ma soltanto dalla misura in cui essa riesce a rendere
visibili nei loro principî l'intima connessione e le leggi di
sviluppo dei processi sociali che condizionano la vita degli uomini.
Secondo Marx, il pensiero può accostarsi alla verità -
a una verità sempre provvisoria - solo se nell'analizzare i
mutamenti strutturali della società s'interroga sulle
possibilità oggettive e sulle tendenze in essa esistenti;
tuttavia quest'esigenza di verità non è
intrinsecamente teoretica, ma può essere soddisfatta solo
all'interno dello sviluppo storico.Le caratteristiche della 'falsa
coscienza' possono essere così definite: a) è un
prodotto della società e non una ideazione di pochi diretta a
manipolare le masse; b) non è sostituibile a volontà,
ma è una coscienza socialmente necessaria, anche se falsa; c)
ha un carattere anonimo. La coscienza ideologica è falsa in
quanto non è capace di riflettere le condizioni sociali della
sua genesi.
4. Il concetto di ideologia dopo Marx
Gli ulteriori sviluppi della critica marxiana dell'ideologia sono
consistiti da un lato in una riduzione del modello
base-sovrastruttura a uno schema privo di contenuto, e dall'altro in
una specificazione delle intenzioni di Marx.
All'interpretazione 'ufficiale' della teoria marxiana fornita sul
finire del XIX secolo dalle correnti ortodosse e da quelle
revisionistiche della socialdemocrazia tedesca (Kautsky, Bernstein)
fece seguito dopo la prima guerra mondiale una rivalutazione della
critica dell'ideologia e del materialismo storico, attuata in
Germania da alcuni studiosi indipendenti di orientamento marxista.
La dottrina dell'ideologia propria del marxismo volgare denunziava
ogni prodotto spirituale come mero strumento della lotta di classe e
quindi come sovrastruttura ideologica, perdendo così di vista
anche gli elementi storici di verità contenuti nelle
ideologie. A questa tendenza si contrappose diametralmente la nuova
interpretazione di Marx affermatasi negli anni venti del nostro
secolo, nella quale si cercava piuttosto di differenziare le analisi
critiche dalle ideologie in modo da intendere (come già aveva
fatto Marx) il lavoro teoretico e i suoi risultati come elementi
costitutivi del processo sociale. Contro l'indiscriminata
svalutazione di ogni pensiero come mera ideologia, prevalente nel
marxismo volgare, emergeva ora il ruolo importante svolto
dall'attività spirituale nello sviluppo storico. Contro
l'idea che la dinamica sociale si attui solo attraverso il potere
delle grandi forze produttive e delle istituzioni, veniva riscoperta
la funzione del 'fattore soggettivo'. La coscienza di classe non era
più vista come un dato di fatto automaticamente connesso con
la condizione proletaria, ma come il risultato di un'elaborazione
teorica e politica.
Per i neomarxisti (Ernst Bloch, György Lukács, Karl
Korsch, ecc.) il marxismo non è, come per i socialdemocratici
di fine Ottocento, una visione del mondo chiusa, ma fa parte
anch'esso della realtà storica: la sua verità non
può essere affermata in astratto, ma deve trovare una
conferma concreta nella prassi sociale. Il marxismo va inteso come
una dottrina essenzialmente rivoluzionaria, che trova proprio nella
coscienza degli uomini la premessa indispensabile per trasformare
nella prassi le condizioni della vita sociale. Nella teoria
leninista sono presenti entrambe le interpretazioni dell'ideologia,
quella negativa e quella positiva. In senso negativo, l'ideologia
è la falsa coscienza del nemico, la borghesia; in senso
positivo, è la scienza dell'azione rivoluzionaria, in
particolare di quella del partito comunista. L'ideologia proletaria
- come teoria del socialismo scientifico - coincide con la coscienza
sociale da instillare nelle masse proletarie mediante l'agitazione e
la propaganda del partito comunista.
5. L'autocritica della ragione
Nella filosofia tedesca dell'Ottocento il problema dell'ideologia
ebbe anche sviluppi indipendenti dalla teoria marxiana: Arthur
Schopenhauer (1788-1860) e Friedrich Nietzsche (1844-1900)
ripresero, sia pure modificandoli in vario modo, i motivi di critica
dell'ideologia propri dell'illuminismo francese. Schopenhauer
partiva dalla tesi che l'intelletto umano, benché generato
dalla cieca 'volontà di vita', può in linea di
principio liberarsi dalla condanna della sua origine. Nietzsche per
contro riduceva il tradizionale concetto filosofico di verità
a mero strumento della 'volontà di potenza'. Come in
Schopenhauer e in Nietzsche, così anche nella teoria dei
residui e delle derivazioni di Vilfredo Pareto (1848-1923) il
livello istintuale elementare (la vita, le pulsioni, i residui,
ecc.) è visto come la base a cui sono riducibili tutti gli
impulsi spirituali. Mentre in Nietzsche i risentimenti e le
valutazioni che nascono dalla volontà di potenza hanno ancora
una componente storica, per Pareto i residui, da cui hanno origine
le azioni umane e le corrispondenti derivazioni, sono complessi
istintuali relativamente costanti, che cambiano ben poco nelle varie
epoche. Il nucleo istintuale, alogico dell'uomo assicura una certa
uniformità di comportamento, che costituisce il correlato e
al tempo stesso la conditio sine qua non del metodo paretiano,
orientato verso l'ideale conoscitivo delle scienze naturali. Punto
di partenza di Pareto è la struttura psichica dell'individuo.
A differenza degli animali gli uomini possono, per mezzo del
linguaggio, far passare per comportamenti razionali, conformi al
codice etico convenzionale, azioni che sono invece guidate dagli
istinti.
Nell'ambito della cultura gli atti istintivi e gli affetti che non
si conformano alle aspettative sociali sono oggetto di tabù;
da ciò nasce negli individui l'esigenza di giustificare i
desideri e gli atti proibiti, dando ai comportamenti alogici una
parvenza di ragionevolezza mediante le razionalizzazioni. Questa
funzione è assolta da quelle che Pareto chiama 'derivazioni'.
Nella coscienza degli individui, che per mezzo di esse nascondono a
sé e agli altri l'origine irrazionale del loro agire, questo
agire sembra essere il risultato di considerazioni razionali.
L'inversione tra causa ed effetto nella coscienza del soggetto si
attua solo dopo il decorso immediato dell'azione, che rappresenta il
risultato di residui, ossia di forze istintuali relativamente
costanti. Nella coazione all'autogiustificazione del comportamento
umano si esprime l'elemento di dominio di tutte le culture finora
esistite.
Come in Schopenhauer manca una motivazione del fatto che
l'intelletto umano può liberarsi dalla 'volontà di
vita' che in esso agisce, così in Pareto rimane enigmatica la
teoria della costante coazione alla razionalizzazione dell'uomo, che
porta a rivestire con una vernice di logicità l'action non
logique. Come per miracolo, dal livello istintuale scaturisce un
elemento a esso estraneo. Tuttavia questo distacco è solo
apparente, giacché tutte le concezioni dell'ideologia
ispirate da Schopenhauer, Nietzsche e Pareto hanno in comune la
tendenza a riconoscere nell'intelletto umano i caratteri essenziali
della volontà di vita e di potenza che in esso si esprimono.
Spirito e intelletto sarebbero quindi manifestazioni di una
volontà cieca e dinamica, che a sua volta sarebbe possibile
cogliere solo attraverso le sue espressioni intellettuali. Il
dualismo di intelletto e volontà di vita si rivela quindi
superficiale. In realtà si assume che lo spirito non sia
altro che un'espressione della vita, sicché appare vana ogni
sua aspirazione all'autonomia.
La critica della cultura e della civiltà di Schopenhauer e di
Nietzsche deve molto alle idee dei grandi moralisti
dell'illuminismo, ma se ne discosta radicalmente su un punto
essenziale. Mentre i primi teorici dell'illuminismo borghese avevano
cercato di fare della critica dell'ideologia uno strumento della
ragione che si andava emancipando, ora questa tendenza
razionalistica di fondo si converte nel suo opposto e la ragione
critica, affrancata da ogni tutela, si volge contro i suoi stessi
fondamenti.
Nelle opere tarde di Nietzsche questa svalutazione degli ideali
illuministici prende il sopravvento, e ciò porta infine a
invertire radicalmente il senso della critica dell'ideologia. Gli
uomini "attribuiscono solo alla natura l'intenzione, l'inganno e la
morale": si trova qui la riflessione sul piano psicologico della
fatale coazione che spinge lo 'spirito libero' a ridurre le
verità alla verità.Nell'ultimo Nietzsche ragione e
intelletto vengono criticamente demoliti. La critica dell'ideologia
non investe più soltanto la falsità del pensiero, ma
distrugge addirittura la volontà di discriminare criticamente
il vero dal falso. Dall'analisi dei fattori soggettivi del conoscere
nasce la concezione della volontà di potenza; l'incremento
della volontà di potenza sarà il problema cui si
dedicherà l'ultimo Nietzsche.
Mentre Schopenhauer, pur partendo dall'idea che l'intelletto dipende
dalla volontà di vita, era arrivato alla conclusione che il
filosofo è comunque tenuto a perseguire la verità, per
Pareto la debolezza della ragione diventa un'obiezione alla ragione
stessa. Tutto ciò che giova allo Stato, alla patria, al
prestigio nazionale è un 'bene', in quanto è 'utile
alla vita', e analogamente tutte le verità che non si
adeguano alla volontà di potere di chi domina al momento sono
un 'male' e vanno bandite. Al fine di sottomettere le masse, ogni
forma di ideologia prescritta dallo Stato è più utile
della libertà di pensiero, che va riservata tutt'al
più a pochi eletti. Ciò che Pareto cerca di
legittimare, partendo da una premessa naturalistica, è
l'antagonismo fra le élites che si succedono al potere; anche
se le caratteristiche sociali dei ceti dirigenti cambiano, resta il
fatto che nella storia vi sono sempre stati - e sempre vi saranno -
capi e subordinati. Per evitare il proprio declino le élites
devono tenere a bada le masse e mobilitarle, facendo appello ai loro
interessi, mediante ideologie e formule politiche.
La connotazione negativa oggi prevalente del concetto di ideologia -
intesa come vana speculazione, mera illusione, utopia priva di
fondamento - risale in parte a Napoleone, che per le circostanze in
cui aveva conquistato il potere diffidava profondamente degli
'ideologi', ritenendoli gli ultimi rappresentanti dell'illuminismo
prerivoluzionario. Napoleone chiamava 'ideologi' quegli
intellettuali che pur non partecipando alla gestione dello Stato,
pretendevano ugualmente di diffondere idee politiche inadatte a
guidare le masse. Il loro appello alla verità e al diritto
gli appariva come il prodotto di un'immaginazione ingenua, in
contrasto con le esigenze della Realpolitik. 'Ideologo' per
Napoleone era sinonimo di 'metafisico' e di 'fanatico', 'ideologia'
di vuota speculazione, lontana da ogni rapporto con la prassi
politica. In questa accezione negativa il termine 'ideologia' venne
usato per denunziare gli oppositori e tutti coloro che si
richiamavano ai principî della Rivoluzione francese.
L'avversione di Napoleone per gli ideologi era dovuta fra l'altro
all'intento di reintegrare la religione negli antichi diritti
mediante un concordato col Vaticano (1801). Gli ideologi, ritenuti
atei negatori di ogni morale, erano d'ostacolo a questo progetto.
Questa accezione negativa del concetto di ideologia si
conservò in Prussia durante la reazione assolutistico-feudale
e dopo il fallimento della rivoluzione del 1848. Ogni idea di stampo
illuministico e antifeudale fu fatta passare per ateistica e
utopistico-rivoluzionaria dai detentori del potere politico."Ritorna
in Pareto [...] un tipo di argomentazione che già aveva avuto
un ruolo preminente nella reazione antilluministica alle ideologie
al tempo di Napoleone: le masse non sono adeguate all'illuminismo e
hanno quindi bisogno di ideologie, e le élites, che mediante
il sapere hanno una chiara coscienza della loro funzione, le
adoperano consapevolmente per guidare e attivare le masse" (v.
Lieber, 1985, p. 62). La scelta di valore su cui si fonda la teoria
delle élites implica la rinunzia a concepire la storia come
un processo evolutivo. È possibile allora vedere nel potere
politico una categoria metastorica che deve continuamente
provvedere, come autorità statale a fondamento dell'ordine,
alla composizione dei contrasti di interessi; in tal modo politica e
società perdono la loro determinatezza di contenuti concreti
riducendosi a categorie antropologiche astratte. L'originaria
tendenza illuministica della critica dell'ideologia si converte nel
suo opposto e diventa antilluministica.
6. La concezione positivistica dell'ideologia
La dottrina positivistica di Pareto rappresentò una ripresa
della concezione soggettivistica dell'ideologia. Il concetto
paretiano di derivazione fu ampliato dal sociologo tedesco Theodor
Geiger (1891-1952) che lo interpretò come giustificazione
teorica degli investimenti vitali e affettivi come tali. Al tempo
stesso egli attribuì ai residui il carattere,
sociopsicologicamente determinato, di disposizioni psichiche
condizionate dall'ambiente, designandole come 'mentalità'. Il
requisito dell'avalutatività posto da Geiger per i giudizi
sociologici mise il problema dell'ideologia in stretta relazione col
dibattito sui giudizi di valore sviluppatosi verso la fine
dell'Ottocento.
Partendo dal presupposto secondo il quale il concetto di ideologia
può avere un senso solo nel quadro della critica della
conoscenza, Geiger rifiutò sia la critica dell'ideologia di
Marx, sia il concetto di ideologia 'totale' di Karl Mannheim (v.
sotto). La critica dell'ideologia non può avere come oggetto
né la realtà sociale, né la struttura della
coscienza che a quella realtà si richiama; bisognerà
invece rivolgersi al giudizio scientifico individuale per sapere se
e in qual misura esso concordi con la realtà spazio-temporale
conosciuta empiricamente.
Per Geiger la commistione di idee di valore e di enunciati fattuali
esistente nelle analisi di tipo ideologico sta a indicare - come
già per Max Weber - che l'individuo giudicante è
prigioniero di fattori extrateoretici. L'interesse di Geiger
è rivolto soprattutto alla pura teoria scientifica,
rapportata al modello della logica tradizionale. L'intenzione che
nel soggetto conoscente si cela dietro ai singoli giudizi
ideologicamente condizionati rimane peraltro al di fuori della
critica positivistica dell'ideologia: in quanto 'mentalità',
tale intenzione è esclusa dal vero e proprio ambito della
critica sociologica del pensiero. Le ideologie hanno certamente
origine dalle mentalità, ma per Geiger esse sono, come la
realtà sociale, indifferenti al vero e al falso. Unici
rappresentanti delle ideologie sono i singoli soggetti conoscenti e
giudicanti, e quindi gli elementi di coscienza ideologici possono
essere superati solo nell''ascesi intellettuale delle emozioni' e
nell'autocontrollo dell'individuo. Il concetto geigeriano di
ideologia si colloca così nel solco della tradizione
inaugurata dalla dottrina baconiana. Anche in questo caso le
implicazioni soggettive del pensiero sono viste come offuscamenti
non teoretici della conoscenza. Considerare il rapporto vitale del
soggetto giudicante con l'oggetto come causa ultima della formazione
delle ideologie significa ricondurre la concezione critica della
società nella sfera della psicologia. Identificare le
ideologie con i giudizi di valore appare necessario a Geiger in
quanto egli non vede nell'ideologia l'intero complesso di contenuti
spirituali determinati, ma un semplice giudizio individuale avente
una connotazione emotiva. Alla distinzione tra giudizi di fatto e
giudizi di valore operata da Geiger si ricollega il neopositivismo.
Il problema della scientificità del pensiero o del suo
carattere ideologico viene risolto per mezzo del concetto di
verità proprio delle scienze empiriche.
Tipica della concezione neopositivistica dell'ideologia è la
separazione tra conoscenze scientifiche e valutazioni politiche o
comunque connesse con una visione del mondo. In conformità di
quest'orientamento empirico-scientistico di base, le valutazioni non
appartengono all'ambito della conoscenza, ma sono di natura
puramente soggettiva, sono espressioni dei sentimenti, degli stati
d'animo e della volontà.
Ernst Topitsch (n. 1919) si riallaccia al meccanismo di proiezione
di entità metafisiche descritto da Feuerbach e da Freud e lo
applica coerentemente ai miti sociali, arrivando alla conclusione
che i contesti d'esperienza immediati formano sempre la base e il
punto di partenza per interpretare ciò che è lontano
ed estraneo. Poiché - come già aveva notato Feuerbach
- il meccanismo della proiezione rimane celato agli uomini al
livello di coscienza mitologico, gli ordinamenti cosmici che da esso
nascono possono anche fornire dei principî per il
comportamento pratico nella vita politica e sociale.
7. Il concetto di ideologia nella sociologia della conoscenza
Il concetto di ideologia 'generale' e 'totale', che Karl Mannheim
(1893-1947) ha ampliato a principio ermeneutico attraverso l'ipotesi
di una connessione o determinazione esistenziale
(Seinsverbundenheit) del pensiero, era stato già delineato
nei suoi tratti essenziali dalla critica della cultura di Nietszche
e dalla teoria delle derivazioni di Pareto. Nella sua sociologia
della conoscenza Mannheim cerca di definire il concetto di ideologia
'in modo neutrale rispetto ai valori'. Quando egli parla di una
'connessione esistenziale' di giudizi e di idee, ciò non
implica alcun atto valutativo. Tutti gli enunciati sull'uomo, sulla
società e sulla storia hanno una loro collocazione storica,
sociale e temporale, e vanno quindi considerati come ugualmente
relativi rispetto a una 'verità' che si può cogliere
solo nel complesso dei punti di vista espressi nel corso della
storia dell'umanità. Ogni pensiero storico è
socialmente determinato e non può quindi aspirare alla
conoscenza oggettiva del vero; tuttavia rappresenta sempre, in
quanto 'sapere connesso con una visione del mondo', una
verità parziale, che erroneamente si ritiene assoluta.
La conoscenza oggettiva della realtà empirica, come pure di
determinati valori, è possibile solo attraverso un
autocontrollo del soggetto conoscente, fondato sulla sociologia del
sapere. Il soggetto diventa così relativamente autonomo
rispetto alla posizione della sua classe, del suo ceto, ecc., di cui
condivide sempre le forme di pensiero tipiche. Chi è capace
di attuare un simile processo cognitivo, nel senso dell'autoanalisi
della sociologia del sapere, fa parte per Mannheim di quel "sottile
strato sociale" che ha maggiori possibilità di conoscenza
rispetto agli individui ciecamente coinvolti. Sulla scia di Alfred
Weber, Mannheim definisce questo strato sociale "intelligencija
liberamente fluttuante" (freischwebende) e gli attribuisce il
compito specifico di elaborare, attraverso una continua autocritica,
'sintesi relative' di tutti gli elementi di verità esistenti
nelle diverse posizioni spirituali e politiche di un'epoca.
Ciò è possibile solo per mezzo di 'concetti fluidi'
capaci di adeguarsi allo sviluppo storico della società
('sintesi culturali'). Un concetto di ideologia formulato in termini
così generali non può costituire uno strumento critico
atto a identificare e a superare la falsa coscienza.
Viene dunque meno in Mannheim l'aspirazione dei critici
dell'ideologia a separare gli enunciati teoretici, scientifici e
analitici da quelli ideologici. In questo mutamento storico - dal
concetto critico-valutativo di ideologia, proprio dell'illuminismo
borghese e di Marx, a quello avalutativo che considera relativi
tutti i punti di vista - si manifesta una consapevole rinunzia a
incidere in senso innovatore sulla situazione politica e sociale
esistente. Una volta svincolato il problema dell'ideologia dal
contesto teorico marxiano scompare la sua radice economica, il
feticismo delle merci. In questo modo ridiviene attuale la
possibilità di una derivazione psicosociologica
dell'ideologia, possibilità prefigurata nell'illuminismo
francese dalla riduzione dei fenomeni spirituali alla sfera della
psicologia dell'interesse. L''essere sociale' diventa un dato di
fatto precostituito, privo di qualsiasi relazione definibile con
elementi storico-sociali concreti come lo scambio o i rapporti di
proprietà. Per poter cogliere l'elemento specificamente
sociale Mannheim esclude coerentemente dalla sfera dei concetti
sociologici ogni componente economica.
Ma in tal modo il piano esistenziale al quale le creazioni del
pensiero dovrebbero essere funzionalizzate diventa una grandezza
limite irrazionale priva di determinazioni positive. La base
economica si trasforma in un'entità metafisica, fondata
sull'idea di una 'vita' che si manifesta nel processo storico. Il
corso della storia viene ipostatizzato in un 'assoluto in divenire'
e il problema dell'ideologia viene svincolato dal contesto della
teoria sociale.
8. Il concetto di ideologia nella teoria critica
La teoria critica, formulata soprattutto da Max Horkheimer
(1895-1973) e da Theodor W. Adorno (1903-1969), non opera alcuna
separazione ontica fra realtà sociale e sovrastruttura
ideologica: la totalità sociale, che si presenta come "mondo
amministrato" (Adorno), possiede invece una universalità e
una capacità di penetrazione che rendono obsoleta tale
separazione. La riproduzione sociale si compie attraverso l'azione e
il pensiero degli individui, così che i meccanismi sociali
non fanno che duplicarsi nella forma di coscienza di volta in volta
dominante: l'ideologia si manifesta allora nel funzionamento dei
processi sociali stessi. Il suo apparire è un prodotto del
sistema sociale, di cui gli individui diventano agenti. "Man mano
che le ideologie cessano di essere rappresentazioni concrete
riguardanti la società, viene meno il loro contenuto
specifico ed esse tendono irresistibilmente a trasformarsi in
reazioni soggettive, presenti a un livello psichico più
profondo di quello dei contenuti ideologici manifesti e quindi
dotate di maggior efficacia. L'ideologia viene sostituita da
istruzioni sui modi di comportamento e diventa infine una
characteristica formalis dell'individuo" (v. Adorno, 1962, p. 63);
essa rappresenta il duplicato della situazione sociale esistente
nella coscienza soggettiva, che obbedisce alla forza normativa della
fattualità.
In modo analogo Herbert Marcuse (1898-1979) definisce nella sua
critica dell'"uomo a una dimensione" l'ideologia dominante nelle
società industriali avanzate dell'Occidente. Essa è
una conseguenza della repressione operata dalla società ed
equivale alla perdita della funzione critico-utopica del pensiero
concettuale e dell'immaginazione sociale. La coazione che i rapporti
dominanti esercitano sul comportamento e sulla coscienza dei
consumatori si riflette nella rinunzia alla riflessione critica. Il
totale conformismo indotto dai media produce oggi un adattamento
privo di attriti a norme e a modelli di comportamento prestabiliti
("tolleranza repressiva").
Caratteristica delle odierne ideologie non è più
l'autonomizzazione di costrutti mentali, ma la 'duplicazione' e la
legittimazione su un piano più elevato, della situazione
esistente. Tutto ciò che accade viene imposto all'uomo come
'necessario' per motivi superiori ("razionalità tecnica").
Secondo la teoria critica, ideologia è tutto ciò che
favorisce l'adattamento senza attriti alle strutture sociali
dominanti e impedisce una riflessione critica sulle condizioni
esistenti. Le idee di una società siffatta sono senza
eccezioni immanenti a essa e non si richiamano mai a una situazione
diversa, ma solo a un perfezionamento di quella attuale. Uno degli
assiomi della teoria critica è che il controllo, che si
appresta a diventare totale, sulla sfera individuale e la
correlativa eliminazione di tutto ciò che è connesso
con una sia pur relativa autonomia del singolo non sono fatti
casuali, ma sintomi del fatale processo evolutivo delle
società tecnicoi-ndustriali.
Ciò incide anche sul metodo della critica dell'ideologia, che
non ha più come oggetto primario i contenuti dei prodotti
spirituali per i quali un tempo era possibile porre la domanda 'cui
bono?'. Il fenomeno del dominio perde così i suoi connotati
sociali. Oggi l'ideologia va cercata proprio nel 'realismo delle
necessità oggettive', apparentemente estraneo a ogni
ideologia, al quale gli uomini devono sottomettersi in silenzio. Ma
se l'ideologia non è più un'apparenza svincolata dal
processo di riproduzione sociale, bensì l'accettazione dei
meccanismi e delle funzioni della società esistente, allora
si tratta solo dell'aspetto soggettivo di quel processo in una
società in cui la tecnica è diventata uno schermo che
impedisce di vedere le retrostanti forze produttive umane il cui
fine un tempo era l'appagamento dei bisogni dell'uomo e non il suo
assoggettamento attraverso il processo di riproduzione reificato.La
teoria critica ha in comune con l'illuminismo borghese soprattutto
la speranza che quando in una società gli individui sono in
grado di rielaborare concettualmente dei rapporti che in un primo
momento sembrano agire come meccanismi ciechi, l'incantesimo che
quei rapporti esercitano sugli individui comincia a dissolversi.
Tuttavia la riuscita di questo processo chiarificatore dipende in
gran parte dallo spazio che una data società può
concedere ai suoi membri perché sviluppino le loro
facoltà critiche. Senza tale potenziale coscienza la ragione
non ha più alcun ruolo nella vita sociale dell'uomo.In
Horkheimer il concetto di ideologia è sempre collegato con
quello di verità: "Il termine 'ideologia' dovrebbe essere
riservato, in contrapposizione a 'verità', al sapere che non
è cosciente della sua dipendenza ma che può essere
penetrato storicamente, all'opinione che è ormai decaduta ad
apparenza rispetto al conoscere più avanzato" (v. Horkheimer,
1972, p. 67). Questo riferimento del concetto di verità allo
stato di volta in volta più progredito della conoscenza sta a
indicare che la ricerca della verità può essere
promossa solo da una continua critica e autocritica. In contrasto
con la pretesa di assolutezza avanzata dallo status quo di volta in
volta esistente la ricerca della verità può consistere
solo in una continua correzione delle verità parziali e nella
verifica critica dei risultati del pensiero, ossia nello sforzo
dialettico "di dedurre geneticamente [...] i singoli aspetti della
vita sociale, di distinguere l'apparenza dall'essenza, di indagare i
fondamenti delle cose e cioè, in poche parole, di conoscerle
veramente" (v. Horkheimer, 1974, p. 289). Tuttavia neppure i
risultati così ottenuti possono considerarsi come un sapere
definitivo. Solo l'intero processo del pensiero, ivi compresa la sua
genesi, può essere fermento del vero.
La teoria critica si presenta dunque come una forma di riflessione
che fa parte essa stessa dei processi storici e sociali che si
sforza di conoscere, e ciò influisce anche sulla definizione
del concetto di ideologia. Ad esempio, la consapevolezza del
condizionamento storico-sociale delle proprie categorie preserva la
teoria critica dal voler parlare ex cathedra di una ragione
superiore, capace di sottrarsi alla mancanza di autonomia connessa
con tale condizionamento. Perché il pensiero critico possa
svilupparsi, occorre rinunziare all'erronea opinione illuministica
che la dialettica valga solo per le forme di coscienza del passato.
Esso rimane uno strumento dell'illuminismo solo se e finché
è consapevole del proprio carattere non definitivo e si rende
conto in modo autocritico di essere superabile. Nessun pensiero
trascende l'epoca in cui è stato formulato; la genesi del
pensiero è quindi parte integrante della sua verità.
Le condizioni materiali del costituirsi, del sussistere e
dell'estinguersi del pensiero sono oggetti legittimi del pensiero
stesso, non meno delle sue possibili ipostatizzazioni in una ragione
universale 'assoluta'. In tal senso la possibilità di una
conoscenza autentica è legata all'analisi delle condizioni
concrete della sua genesi e del contesto sociale cui appartiene.
Questa possibilità sussiste solo se il pensiero riconosce il
proprio condizionamento. La riflessione, infatti, come metodo
critico-genetico nel senso indicato da Feuerbach, è essa
stessa un elemento della critica, alla cui attività negatrice
rimane legato il progresso della conoscenza.
9. La tesi della fine delle ideologie
La tesi della fine delle ideologie, che ha cominciato a essere
proclamata verso la metà degli anni cinquanta, è
fondata in genere sul presupposto che ormai nelle società
occidentali non vi siano più problemi gravi da affrontare. Le
strutture dello Stato del benessere - così si diceva e si
continua a dire - avrebbero risolto tutte le questioni sociali
più importanti. Tale concezione della società è
stata sviluppata ad esempio in America da David Riesman (n. 1909) e
in Germania da Helmut Schelsky (1912-1984), con la sua tesi della
'società livellata del ceto medio'.In una versione più
recente la fine delle ideologie viene identificata con la fine della
politica. Una tesi che è al centro del modello politico di
Schelsky culmina nell'affermazione che oggi tutte le principali
decisioni dello Stato devono seguire criteri tendenzialmente
tecnico-scientifici, fondati su leggi oggettive, poiché a
seguito dello sviluppo autonomo delle tecniche dell'organizzazione,
basate sui principî scientifici, non resta più spazio
per decisioni connesse con i valori, ossia politico-ideologiche nel
senso tradizionale. Tutte le scelte macropolitiche sarebbero
preparate oggi da esperti, e i politici si limiterebbero ad
attuarle. Una politica così deideologizzata ubbidisce solo
alle necessità oggettive, nel senso della one best way. Ne
deriva la tendenza a squalificare come ideologica ogni teoria
critica della società che guardi al di là dello status
quo. In ciò si rivela il carattere fazioso della tesi in
questione, che si pone come avalutativa e quindi libera da
condizionamenti ideologici. La tesi della fine delle ideologie tende
a confondere ideologia e utopia, ossia a rigettare ogni teoria
critica escludendo al tempo stesso il carattere di dissimulazione
della propria ideologia. I sostenitori di questa tesi infatti
considerano ideologica una politica che mette in luce i conflitti,
ma non quella interessata alla stabilizzazione della situazione
esistente. Ogni opposizione e ogni critica di principio sono quindi
considerate puramente ideologiche.
10. Il concetto gramsciano di
ideologia
Con le sue teorie del 'senso comune', della 'società civile',
degli intellettuali, dei blocchi egemonici e dello Stato ampliato
Antonio Gramsci (1891-1937) ha dato un contributo importante allo
sviluppo della teoria materialistica della sovrastruttura. Al centro
della sua problematica non vi è, come di solito avviene nei
marxisti, l'analisi dei rapporti economici e delle forme di
coscienza connesse alle forme di produzione proprie della
socializzazione alienata. Gramsci non mette in questione, 'in ultima
istanza', l'idea di una sovrastruttura determinata dalla base
sociale, ma critica come "infantilismo primitivo" il riduzionismo
meccanicistico ed economicistico del marxismo. "La pretesa
(presentata come postulato essenziale del materialismo storico) di
presentare ed esporre ogni fluttuazione della politica e
dell'ideologia come una espressione immediata della struttura deve
essere combattuta come un infantilismo primitivo" (v. Gramsci, 1975,
p. 871).
Secondo Gramsci le società borghesi evolute non possono
più essere sconvolte dalle crisi economiche, e in esse
è cresciuta d'importanza la funzione socializzante delle
istanze ideologiche. Il suo interesse si concentra pertanto sul
problema di come la classe dominante eserciti il suo potere e di
come un sistema di istituzioni culturali organizzi, mediante gruppi
di intellettuali 'tradizionali' e 'organici', il consenso che lega
le classi subalterne. Gramsci definisce questo sistema culturale
mediante il concetto di 'società civile'. Questa comprende le
istituzioni, gli organismi e le strutture private come la Chiesa, i
sindacati, i partiti e le associazioni, che plasmano l'autoimmagine
di una società e il senso comune degli uomini, assicurando il
consenso sociale e l'egemonia del blocco dominante. Il potere
borghese si organizza sul piano "della forza e del consenso,
dell'autorità e dell'egemonia, della violenza e della
civiltà" e la sua supremazia "si manifesta [...] come
'dominio' e come 'direzione intellettuale e morale"' (ibid., pp.
1576 e 1621).
Per definire con esattezza le aree in cui vengono esercitati il
dominio e la guida ideologica, Gramsci opera una distinzione
analitica all'interno della sovrastruttura: "Tra la struttura
economica e lo Stato con la sua legislazione e la sua coercizione
sta la società civile" (p. 1253).Gramsci riprende l'idea di
una divisione della sovrastruttura in più livelli gerarchici
da Antonio Labriola (1843-1904), per il quale lo Stato era una
derivazione di primo grado della base socioeconomica, mentre arte,
cultura e ideologia costituivano derivazioni di secondo grado,
manifestazioni secondarie di determinate condizioni sociali. Egli
distingue così due livelli, attribuendo a essi funzioni
differenti: quello che si può definire 'società
civile', ossia il complesso di organismi che sono detti comunemente
'privati', e quello della 'società politica' o dello Stato.
Al primo corrisponde la 'funzione egemonica' esercitata dal gruppo
dominante sull'intera società, al secondo la funzione del
'dominio diretto' o del comando, che trova espressione nello Stato e
nel governo 'giuridico'.
A livello della società civile si trovano gli apparati
ideologici che producono le ideologie 'storicamente organiche'
capaci di dare unità al 'blocco sociale' nato dall'alleanza
di classi diverse. Le sovrastrutture non sono per Gramsci semplici
riflessi della base economica o mere apparenze, bensì
realtà oggettive, dotate di una relativa autonomia, che
retroagiscono sulla base. Con il concetto di 'blocco storico' viene
indicato l'intreccio di struttura socioeconomica, lotta politica e
lotta ideologica: "La struttura e le superstrutture formano un
'blocco storico', cioè l'insieme complesso e discorde delle
superstrutture sono il riflesso dell'insieme dei rapporti sociali di
produzione. Se ne trae che solo un sistema di ideologie totalitario
riflette razionalmente la contraddizione della struttura e
rappresenta l'esistenza delle condizioni oggettive per il
rovesciamento della praxis" (ibid., p. 1051).
Rifacendosi a Marx, Gramsci osserva che quando gli uomini prendono
coscienza della loro collocazione sociale e dei loro compiti sul
terreno dell'ideologia, la lotta culturale per l'egemonia assume lo
stesso valore della lotta socioeconomica. I concetti di 'egemonia' e
di 'blocco storico' non si riferiscono soltanto alle forme etiche,
culturali, ideologiche e politiche della socializzazione.
L''egemonia' non è una pura categoria sovrastrutturale:
perché possa nascere un'egemonia etico-politica occorre un
fondamento economico. D'altra parte un 'blocco storico' può
sussistere solo finché le ideologie che lo cementano non
entrano in contrasto con gli sviluppi materiali. Qualora una classe
riesca a superare i propri interessi economici corporativi e ad
affrontare i problemi nazionali più gravi con un programma
sovraclassista, in cui alle idee di riforma economica sia associata
una visione del mondo che coinvolga più classi, può
formarsi un 'blocco storico' fondato su un rapporto di "adesione
organica tra intellettuali e popolo-massa, tra dirigenti e diretti,
tra governanti e governati" (ibid., p. 452). Per conseguire
l'egemonia è necessario esaminare attentamente la funzione
sociale degli intellettuali come organizzatori di cultura e di
consenso, il loro rapporto con la classe egemone e il terreno sul
quale si riforma il senso comune.
Per accostarsi al concetto gramsciano di ideologia evitando ogni
tentativo di riduzione e sistematizzazione occorre individuare i
significati specifici che esso assume di volta in volta nel contesto
delle analisi, delle problematiche e delle soluzioni proposte da
Gramsci, in quanto egli usa il termine ideologia in modi diversi o
addirittura contrastanti. Con riferimento al contenuto di
verità, 'ideologia' si contrappone a 'scienza': ma in un
passo Gramsci afferma che "anche la scienza è una
superstruttura, una ideologia", e in un altro afferma che bisogna
distinguere tra "ideologie storicamente organiche", capaci di
organizzare le masse e unificare il blocco sociale, e "ideologie
arbitrarie, razionalistiche, 'volute"' (ibid., p. 868). Questo
concetto di ideologia comprende allora tutte le visioni del mondo.
Senza dubbio Gramsci attribuisce alle 'ideologie' lo status di fatti
storici reali, che esercitano un proprio influsso.
11. Condizioni per una critica dell'ideologia
Una critica dell'ideologia può essere condotta solo alle
seguenti condizioni.
1. La ragione umana dev'essere per principio ritenuta in grado di
cogliere i nessi strutturali e sostanziali della vita della
società e di ordinarli concettualmente.
2. Non tutti i prodotti del pensiero umano vanno visti
indiscriminatamente come falsati dall'ideologia, e quindi come
semplici riflessi degli attuali rapporti di forza sociali.
3. La struttura della realtà sociale, alla cui conoscenza
è rivolto il pensiero, non dev'essere irrigidita a un punto
tale da rendere vano e illusorio a priori ogni tentativo di
trasformarla.
Perché il pensiero umano e in particolare le ideologie
possano diventare una forza socialmente efficace, occorrono due
condizioni.
1. Le idee e le ideologie possono essere politicamente efficaci solo
se i loro rappresentanti dispongono dei poteri e dei metodi per
istituzionalizzarle, ossia per farle valere come universalmente
vincolanti.
2. Le ideologie possono influenzare in modo stabile l'azione e il
comportamento sociali solo se rispondono agli interessi e ai bisogni
di una parte attiva della popolazione.
Per stabilire quale sia il valore conoscitivo, e quindi anche il
valore di verità, degli enunciati sulla società e
sullo Stato si può far riferimento, tra gli altri, ai
seguenti criteri: a) in quale misura una data teoria va al di
là della semplice descrizione degli stati di fatto e riesce a
spiegare determinate trasformazioni sociali, ossia a chiarirne le
cause e le conseguenze? Ciò può accadere solo se la
teoria in questione non è selettiva né monocausale
(valore conoscitivo di una teoria; sintesi dei fatti sociali); b)
fino a che punto una teoria può fare previsioni corrette in
base a un'analisi delle tendenze sociali dominanti? (contenuto
predittivo); c) in quale misura una teoria riesce a rendere visibile
l'intreccio, apparentemente inestricabile, delle facoltà
decisionali e della ripartizione dei poteri nella società,
chiarendone i principî e individuando le forze che
condizionano i rapporti e le trasformazioni sociali? (analisi delle
strutture di potere e di dominio); d) fino a che punto una teoria
può spiegare in base a quali principî si sviluppa la
totalità sociale e che cosa mantiene in funzione i suoi
apparati? (analisi funzionale); e) in quale misura una teoria riesce
a esplicitare le contraddizioni esistenti nella società,
evitando ogni armonizzazione e ogni semplificazione finalizzata? La
spiegazione fornita dalla teoria deve concettualizzare le
contraddizioni concrete della realtà (rinunzia
all'idealizzazione e all'armonizzazione della realtà); f) in
quale misura la teoria, nonostante la sua rinunzia a mascherare la
realtà sociale, può incoraggiare gli uomini a
determinare in prima persona il proprio destino, stabilendo
così nel loro agire sociale un collegamento fra teoria e
prassi? (realizzabilità).
Non può esservi una definizione immutabile dell'ideologia,
perché le ideologie sono prodotti dell'attività di
uomini coscienti e operanti nel processo sociale, costantemente
soggetti essi stessi a un mutamento storico che si esprime, fra
l'altro, nelle ideologie politiche. Per contro, è senz'altro
possibile tentare una definizione della molteplicità di
funzioni ed effetti esercitati dalle ideologie nella vita politica e
sociale. Se è vero che le ideologie possono rendersi
indipendenti, spesso in misura notevole, rispetto alla prassi
sociale, considerarle isolatamente come entità astoriche
significherebbe tuttavia credere a ciò che esse pretendono di
essere. La dialettica delle ideologie politiche consiste proprio nel
fatto che esse, per quanto apparenza e falsa coscienza, sono anche
componenti attive della realtà politica, elementi costitutivi
della totalità sociale. Se da un lato le ideologie politiche
devono la loro esistenza e la loro possibilità d'azione
all'attività degli uomini reali socializzati, dall'altro, in
quanto strutture divenute autonome, motivano e determinano in modo
del tutto specifico e storicamente variabile il comportamento
politico degli uomini.