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Giuseppe Rensi nacque a Villafranca di Verona il 31 maggio 1871. Il
padre Gaetano era medico e la madre si chiamava Emilia Wallner. Dopo
il liceo, frequentato a Verona, frequentò giurisprudenza
dapprima a Padova e infine a Roma dove conseguì la laurea nel
1893.
Molto giovane iniziò a collaborare a periodici di ispirazione
socialista, come «Rivista popolare», diretta da
Napoleone Colajanni e «Critica Sociale», diretta da
Filippo Turati. Proprio su invito di quest'ultimo si trasferì
a Milano dove iniziò a frequentare più assiduamente
gli ambienti socialisti. Collaborò anche con il periodico
«La lotta di classe».
Fu costretto a riparare in Svizzera in seguito ai moti del 1898. In
contumacia venne condannato a 11 anni di carcere. Nel 1903, ottenuta
la cittadinanza svizzera, divenne il primo deputato socialista del
parlamento del Canton Ticino. Visse a Bellinzona dove lavorò
come avvocato e si sposò con la pedagogista Lauretta
Perucchi, dalla quale ebbe due figlie, Emilia e Algisa.
Anche in Svizzera collaborò con diversi giornali locali tra i
quali «Il Dovere» di Luigi Colombi e
«L'Azione» diretto da Carlo Maggini. Fu caporedattore di
«Coenobium» di Enrico Bignami. Al rientro in Italia
conobbe a Como Mussolini, anche lui reduce dall'esilio a Lugano. Si
concentrò quindi sugli studi filosofici, sviluppando nei
volumi Il genio etico ed altri saggi e La trascendenza un
neoidealismo trascendente influenzato dal pensiero di Josiah Royce.
Fu eletto nel consiglio comunale e provinciale di Verona.
Nel 1911 ebbe la libera docenza in filosofia morale a Bologna, ma si
trasferì subito a Ferrara dove insegnò nel biennio
1913-1914, a Firenze nel 1914-16. Dopo una breve permanenza a
Messina si trasferì stabilmente a Genova dove abitò in
via Palestro.
L'esperienza della prima guerra mondiale mandò in crisi le
sue convinzioni idealistiche conducendolo verso le scetticismo;
«Fu mentre ero all'università di Messina, intorno al
1916 – Scrive nella sua autobiografia intellettuale – che acquistai
io stesso piena consapevolezza dell'indole scettica della mia mente
e che gli sparsi ingredienti scettici sempre presenti nel mio
spirito, vennero a fondersi in un tutto armonico e completo. E
ciò che produsse in me questa "illuminazione" fu soprattutto
la guerra».
La prima formulazione teorica di questa linea scettica del suo
pensiero sono i Lineamenti di filosofia scettica del 1919. In
quell'opera Rensi sosteneva che la guerra aveva distrutto la fede
ottimistica nell'universalità della ragione, sostituendola
con lo spettacolo tragico della sua pluriversalità. Espose
nella Filosofia dell'autorità (1921) la traduzione politica
di questa concezione.
Dopo una prima simpatia per il regime fascista divenne oppositore.
Certamente anche la "vecchia ira" nei confronti della filosofia
idealista concorse a questa sua scelta nel momento in cui la
dottrina idealistico-gentiliana divenne copertura ideologica del
regime. Rensi caldeggiò infatti il progetto di una "rivistina
snella e polemica" contro i neoidealisti, progetto nel quale
cercò di coinvolgere Guglielmo Ferrero, Antonio Aliotta,
Ettore Romagnoli, Ernesto Bonaiuti, Ernesto Lugaro, Alfredo Cesareo,
Piero Martinetti e Adriano Tilgher.
Nel 1925 sottoscrisse il Manifesto degli intellettuali antifascisti
di Benedetto Croce, nonostante i rapporti tra i due fossero
tutt'altro che buoni. Dopo un intenso e a tratti cordiale rapporto
epistolare nel primo decennio del Novecento, anche con Gentile i
rapporti furono in seguito tesi e da avversari dichiarati.
Iniziò qui una vera persecuzione nei suoi confronti da parte
del fascismo: nel 1927 fu sospeso dall'insegnamento per
incompatibilità col regime; fu momentaneamente riammesso
all'insegnamento, ma nel 1930 fu arrestato assieme alla moglie per
cospirazione politica, arresto al quale seguì una breve
reclusione, e nel 1934 fu definitivamente destituito
dall'insegnamento con la perdita della cattedra di filosofia morale
all'Università di Genova e con il suo confinamento in un
ufficio della biblioteca universitaria finalizzato alla stesura di
una bibliografia ligure.
In questi anni la sua produzione intellettuale si frammentò e
prese prevalentemente la forma di diario (Scheggie, 1930, Impronte,
1931; Cicute, 1931; Sguardi, 1932; Scolii, 1934; Frammenti di una
filosofia dell'errore e del dolore, del male e della morte, 1937).
Negli ultimi anni scrisse ancora i Paradossi d'estetica (1937),
Dialoghi dei morti (1937), Autobiografia intellettuale. La mia
filosofia. Testamento filosofico (1939). Postumi sono usciti le
Lettere spirituali (1943) e Il sale della vita. Saggi filosofici
(1951).
Morì il 14 febbraio del 1941 in seguito a complicazioni
seguite a un intervento chirurgico addominale. È sepolto al
cimitero di Staglieno e sulla sua lapide è inciso il motto
"Etsi omnes non ego".
Le figlia Emilia, nota libera pensatrice e collaboratrice di riviste
anarchiche («Volontà») e di iniziative editoriali
in ambito libertario, ha donato l'abbondante archivio di lettere e
documenti del padre all'Università Statale di Milano.
È deceduta del 1990. La sorella Algisa prese gli ordini
monastici e visse nel convento di Lugo di Romagna dove è
morta nel 1994.
*
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A cura di Tiziana Giuffrè
Giuseppe Rensi nacque a Villafranca di Verona nel 1871 e morì
a Genova (città in cui tenne la cattedra di filosofia morale)
nel 1941. Giovane avvocato socialista, fu costretto a riparare in
Svizzera in seguito ai disordini del 1898.
La “filosofia dell'assurdo” elaborata da Rensi rappresenta un
momento particolarmente significativo del pensiero italiano nel
Novecento e degno di essere analizzato dal punto di vista sia
teoretico che etico. Infatti essa si pone non solo come esempio di
una riflessione originale, che è il frutto dello spirito con
cui il Rensi ha interpretato preesistenti correnti di pensiero come
il realismo e lo scetticismo, ma anche come momento di rottura nei
confronti della tradizione filosofica dominante e come espressione
di un tormento esistenziale che non si acquieta né con
l'ottimismo filosofico, né con la dittatura di regime. Il
dramma vissuto dal Rensi coincide con quello che vivono tutti coloro
nei quali domina per qualche tempo una fede altissima e assoluta,
che fa, poi, posto al dubbio più tetro. Nei quarant'anni di
attività svolta in qualità di scrittore filosofico e
polemista, egli ha tentato di approfondire i fondamenti primi del
conoscere e dell'agire umano, sfidando i più consolidati
ermeneuti e storiografi senza scoraggiarsi di essere fuori corrente.
La sua ambizione è stata quella di sviluppare un pensiero che
rimanesse pur sempre legato al vissuto, ma non più nel
tentativo di ricomporne i frammenti secondo le classiche
prevaricazioni sistematiche, bensì nell'intento di accettarne
e riprodurne l'instabile morfologia. Fu questa la via che lo
condusse allo scetticismo inteso come «filosofia della
vita» e come «filosofia dell'epoca». Tutto
ciò serve a spiegare il carattere altamente problematico del
suo approccio alla tradizione filosofica.
Essendosi volto con grande fervore all'analisi della filosofia
hegeliana, questa gli rivelò contraddizioni e antinomie tali
da insinuare in lui un dubbio, che non era quello metodico e sereno
di Cartesio, ma, invece, il segno di uno scetticismo tragico e
disperato, tale da non poter essere colmato da nessuna certezza
duratura. Ma anche il realismo non è esente da
contraddizioni. Esso, infatti, afferma che le cose esistono da
sé, spazializzate, temporalizzate, categorialmente
concatenate, avendo in sé le forme proprie della
conoscibilità, le quali sono anche forme del loro Essere, del
loro essere cose: esse sono, perciò, del tutto conoscibili.
Di fatto, invece, esse si sottraggono per grandissima parte alla
conoscenza; sono ciascuna un infinito, di cui noi, in un processo
senza fine, scopriamo sempre nuove proprietà, così che
quelle ancora da scoprire prevalgono infinitamente su quelle
già scoperte. Emerge, dunque, il dramma
dell'incomprensibilità della natura e della realtà da
parte dell'uomo, in quanto ciò che è irrazionale
è reale e ciò che è razionale è irreale
e questo è anche il dramma dell'uomo che non ha legge
interiore stabile e assoluta ed è perciò incapace di
responsabilizzarsi.
Se la filosofia ha una storia, sostiene il Rensi, ciò basta a
mostrare che gli uomini non hanno mai conosciuto la verità,
in quanto dire che la filosofia ha una storia equivale a dire che un
sistema non offre mai una visione compiuta della verità e che
nuovi sistemi intervengono, se non sempre a negare, a criticare
quelle verità che li hanno preceduti. Il pensiero di Rensi
finisce, cosí, col muoversi con un ritmo paradossale,
attraverso, cioè, la pura negazione e la pura affermazione:
negazione della ragione, affermazione della volontà.
All'interno della volontà deve emergere la libertà,
intesa come causalità. La libertà è imparentata
con l'idea dell'essere, la quale è la base esplicita e
diretta del conoscere: entrambe - idea dell'essere e libertà
- sono come due facce di un'unica medaglia. La ragione - o la
conoscenza - ha bisogno dell'intervento della libertà per la
propria esplicazione; mentre la libertà, quando si è
pienamente realizzata, è totalmente autonoma, e contiene in
sé anche il conoscere: ciò avviene nell'amore.
Infatti, l'uomo che ama - o che conosce - non è altro che
l'essere umano pienamente realizzato. L'uomo è essenzialmente
libertà; e quest'ultima altro non è che amore. E
l'amore è pienamente autonomo, anzi è la stessa
autonomia: l'amore ha in sé le sue ragioni e il conoscere.
La filosofia del Rensi si può suddividere in tre periodi ben
distinti tra di loro, secondo l'indicazione che lui stesso
tracciò nell' “Autobiografia intellettuale” (1939): nel primo
domina il misticismo idealistico; nel secondo lo scetticismo e il
realismo; nel terzo il misticismo spiritualistico. Durante il primo
periodo, che dura fino alla vigilia della prima guerra mondiale,
Rensi tenta la fondazione di un misticismo venato di
religiosità, che si rifà a Platone, San Paolo e
Malebranche. Ne costituiscono un valido documento i volumi: “Le
Antinomie dello spirito”; “Sic et Non: metafisica e poesia”; “Il
genio etico e altri saggi”; “La trascendenza: studio sul problema
morale”. Successivamente, l'urto delle ragioni espresso dalla
violenza del conflitto europeo e mondiale portò il Rensi alla
negazione della razionalità del reale: se gli uomini fanno
ricorso alla violenza, ciò vuol dire che la ragione non
esiste, ma che esistono solo le ragioni, in un mondo caotico e
irrazionale che è pluriverso e non universo. Egli
approfondì, perciò, la sua riflessione
sull'irrazionalità del reale, che risulta centrale in tutta
una serie di opere quali: “I lineamenti di filosofia scettica”; “La
filosofia dell'autorità”; “La scepsi estetica”; “Introduzione
alla scepsi etica”; “Apologia dell'ateismo”; ”Le aporie della
religione”; e, infine, “Critica della morale”. Proprio nel corso di
tale approfondimento il Rensi associa lo scetticismo
all'irrazionalismo e si accosta al positivismo e al materialismo in
funzione polemica nei confronti dell'idealismo del Croce e del
Gentile.
Siamo, cosí, nel pieno del secondo periodo al quale
appartengono opere come: “Polemiche antidogmatiche”; ”Interiora
rerum”; “Realismo”; “Spinosa”; “Le aporie della religione”;
“Raffigurazioni Schizzi d'uomini e di dottrine”; “Le ragioni
dell'irrazionalismo”; “Motivi spirituali platonici”; “Il
materialismo critico”; “Vite parallele di filosofi: Platone e
Cicerone; Ardigò e Gorgia”.
Infine, nell'ultimo periodo prevale una forma di misticismo che non
sorge, però, improvvisamente, essendo già chiaramente
presente nelle opere maggiormente influenzate dallo scetticismo.
Quest'ultimo fu, infatti, sempre sollecitato da un'innata, profonda
religiosità, sicché non stupisce che il filosofo si
apra alla voce del divino, poiché egli cerca nella negazione
assoluta un criterio positivo che consenta la negazione stessa.
Questo criterio, che ad alcuni critici è parso assimilabile
al "Dio cristiano", il Rensi lo definisce, piú semplicemente,
come "il divino in me". Appartengono a quest'ultimo periodo:
”Apologia dello scetticismo”; “Lo scetticismo”; “Schegge”; “Cicute”;
“Impronte”; “Passato, presente e futuro”; “Sguardi”; “Frammenti
d'una filosofia del dolore e dell'errore, del male e della morte”;
“Paradossi di estetica e dialoghi dei morti”; “Poemetti in prosa e
in verso”; “Testamento filosofico”; “La morale come pazzia”;
“Lettere spirituali”; “Sale della vita”.
Il realismo da una parte e lo scetticismo (politico, giuridico,
etico ed estetico) dall'altra, non sono considerati dal Rensi
contrastanti, contraddittori e inconciliabili tra loro. Per il
realista esiste una realtà oggettivamente costituita fuori
della coscienza del soggetto percipiente ed essa ha una sua
struttura ordinata, è, cioè, costituita da «cose
categorialmente concatenate tra di loro, che si rivestono da
sé degli elementi categoriali, si unificano o si sintetizzano
a mondo a sé». Per lo scettico la verità altro
non è che la non verità, perché lo scetticismo
si riduce alla negazione della razionalità del reale e della
deducibilità di esso dalla ragione, cioé alla
negazione del razionalismo e dell'idealismo. Lo scetticismo,
infatti, nega che il mondo, il reale, i fatti abbiano una ragione,
siano una ragione e che questa possa approdare al reale medesimo.
Esso non si è mai sognato di negare la verità dei
fatti, ma ha negato che questi siano deducibili dalla ragione pura,
che vi sia una formula di ragione iniziale dalla quale tutti gli
eventi si ricavano. Lo scetticismo nega l'esistenza di una
verità assoluta: il reale è; è per questa non
ragione che è; è senza essere deducibile dalla
ragione; è e non è ragione Il reale non ha ragione,
solo l'uomo possiede la ragione, intesa non come ragione pura ed
assoluta, ma come potere di ragionare. L'uomo pretende che tutto
l'essere abbia un perchè, che il suo bisogno di
razionalizzazione e di spiegabilità diventi una
proprietà di tutto l'essere. Ma per lo scetticismo c'è
la verità intesa come certezza dei fatti, non la
deducibilità di essi dalla ragione; ci sono i fatti e non la
ragione dei fatti. Questi ultimi hanno verità nel senso di
certezza; ma non c'è verità nel senso di ragione di
essi. La verità non è afferrabile in quanto non
c'è: l'inesistenza della verità vuol dire
l'inesistenza dell'Essere. Essere è, perciò, una
parola con la quale noi definiamo un certo fatto; ma un fatto
d'altra natura non sarebbe più quello che noi chiamiamo
Essere. Sarebbe la sua negazione, il non-Essere, il Nulla.
L'Essere è un'idea o una determinazione nostra; è solo
ciò che è tale per noi, ma nulla di assoluto; è
solo ciò che è suscettibile di cadere nella
percezione, cioè di essere visto e toccato, ciò che
è spaziale- temporale, vale a dire ciò che è
fenomenico. L'uomo, in quanto coscienza, possiede delle forme a
priori che sono forme del reale; l'uomo stesso è un frammento
del reale diventato cosciente. L'uomo intuisce a priori le forme
come necessarie a cogliere la realtà, nonostante non abbia
sperimentato tutta la realtà. Infatti egli sa a priori che
tutto quello che si presenterà alla sua coscienza si
presenterà nelle forme dello spazio e del tempo: ogni cosa,
per essere entità manifesta, rivelabile, conoscibile, deve
apparire nello spazio e nel tempo. La Ragione metafisica sostiene
che il vero Essere Assoluto debba essere inspaziale e intemporale,
che esista e permanga solo nel pensiero stesso. Ciò che non
permane ma passa, ossia diviene, non è. Il divenire, infatti,
è l'antitesi e la negazione dell'Essere, ma quest'ultimo
è solo ciò che è spaziale- temporale-
categoriale, fatto, cosa, fenomeno. Solo il Nulla (la morte)
è ciò che è sempre uguale a sé, solo
esso possiede la permanenza. Ma, essendo quest'ultima la
caratteristica dell'Essere, solo il Nulla è il vero Essere e
solo in esso si realizza il carattere dell'Essere vero, permanente e
assoluto che si andava cercando.
Scetticismo e realismo, perciò, sono tra loro complementari:
infatti «solo se l'Essere e il Pensiero sono distinti e il
secondo si trova dinanzi il primo come alcunché di diverso da
sé che deve faticosamente penetrare a poco a poco, senza
riuscirci mai del tutto, solo in questo caso, cioè
nell'ipotesi del realismo, lo scetticismo è concepibile; non
lo è più nell'ipotesi dell'idealismo, il quale
identificando Essere e Pensiero rende quello a questo e
poiché le cose per esistere hanno bisogno di essere percepite
o pensate da un soggetto, esse stesse necessitano delle forme dello
spazio, del tempo e delle categorie.
Per il Rensi «il soggetto puro non è se non la mera
possibilità dell'esperienza o conoscenza, una situazione o
stato del mondo o delle cose che sia una possibilità di
conoscenza di queste: e tale stato è semplicemente lo stato
della loro esistenza, il loro esistere, se
"esistere"="manifestarsi". Soggetto puro, vuol dire conoscenza
potenziale, e perciò ancora cose puramente esistenti, mondo
esistente, poiché "cose"="entità manifeste",
conoscibili, agnoscibilia». «La realtà fenomenica
esiste dunque a tutto suo agio da sé, indipendentemente da
ogni coscienza o pensiero effettivo, vivente o in atto; esiste di
questa sua esistenza assolutamente indipendente dal soggetto
effettivo, pur consistendo tale esistenza nella manifestazione di
sé, quindi nella conoscibilità, quindi nel riferimento
ad un soggetto possibile, futuro che sopravvenga» Un punto
nodale del binomio realismo-scetticismo è costituito dal modo
in cui Rensi interpreta Spinoza, in quanto egli, da pensatore
realista, immanentista e materialista, è interessato a
celebrare l'identità spinoziana fra assoluto e finito. Ed
infatti, parla dello spinozismo, come di un «perfetto
ateismo» che si accompagna ad un «radicale
irrazionalismo e un'ampia venatura di scetticismo» Esiste un
ordine eterno delle cose, in cui le leggi determinano il prodursi,
il perire, l'avvicendarsi delle singole cose; e questa legge eterna
che fa sì che ogni cosa si possa produrre: si tratta di
ciò che per Spinoza costituisce l'Essere. La Sostanza o l'
Essere costituisce, perciò, il presupposto delle cose;
ciò vuol dire che continuano ad esistere un "primo", che
è il fondamento dell'essere, e un "derivato", che è
l'universo dei fenomeni. Anche in Spinoza, Rensi incontra l'assenza
della storia. Infatti sottolinea: «Ma se per Spinoza nella
realtà dell'Essere, il tempo non c'è, non c'è
nemmeno la storia, non c'è evoluzione, l'una e l'altra sono
illusioni... Il nascere e il perire, il fiorire e lo sfiorire, la
sofferenza e la gioia, il successo e la rovina, la guerra e la pace,
la democrazie e le tirannidi, il formarsi e il dissolversi di
imperi, sono sempre allo stesso modo presenti in ogni punto del
tempo dell'universo considerato come totalità, in quell'ogni
punto che è adunque sempre lo stesso punto».
L'esperienza del conflitto mondiale rappresentò per il Rensi,
a livello teorico, una sorta di illuminazione che saldò gli
elementi scettici presenti nella sua riflessione in una critica alla
filosofia dell'assoluta libertà, ossia all'idealismo. Il
nucleo centrale della filosofia idealistica è lo spirito
considerato universale sia nel campo teoretico che in quello
pratico. Secondo gli idealisti, infatti, noi predichiamo come bella,
o vera, o buona qualche cosa, quando vi siamo costretti dalla
potente evidenza di un'intuizione; ma, affinché il bello, il
vero, il buono (così riconosciuti) abbiano valore di
obiettività, bisognerebbe che a tutti si presentassero con la
stessa evidenza, con un identico atto intuitivo. In breve,
perché abbia luogo una universalità di diritto, questa
deve essere accompagnata da una universalità di fatto: alla
universalità razionale deve corrispondere
un'universalità empirica. Allo spirito, per essere assoluto e
universale, occorrerebbe l'universalità di fatto, ma questa,
per gli idealisti non c'é. Ciascuno ha una propria
intuizione, una propria evidenza, ed ognuna di esse ha uguale valore
ed è degna di universalizzazione: la vita non è che un
urto di queste evidenze e, quando l'urto si fa troppo forte, allora
si determina la guerra. La guerra mondiale non è altro che un
grandioso esempio di tutto ciò ed infatti il Rensi sottolinea
come in essa, «tutti noi, popoli combattenti l'un contro
l'altro, avevamo ragione. A ciascuno la ragione, proprio la ragione,
forniva inesauribili ragioni, a sostegno dei principî da cui
partivano, principî opposti e costanti, ma ognuno provveduto
di eguale sovrana e incontrollabile legittimità»
rispetto all'altro. Le cause intime della guerra non sono state
cause occasionali, ma sono, invece, da identificarsi nelle
differenti visuali della ragione umana che si sono tradotte in
ragioni diverse e inconciliabili.
Non si deve parlare, perciò, di universalità della
ragione, ma di pluriversalità: non si può parlare di
una sola ragione necessaria e assoluta, ma di molte ragioni, aventi
ciascuna una propria verità, salde in essa con un
attaccamento verso il veritismo. Rensi maturò, cosí,
l'idea che «la ragione non è una, ma più
antitetiche, e che queste più ed opposte ragioni sono certe
sino al sangue e alla morte delle loro ragioni, e ciascuna sente che
cedere circa queste sarebbe rinunciare alla ragione, e che di fatto
la guerra è l'effetto e la prova» conducendo la sua
critica alla filosofia della libertà in maniera analitica in
tutti i campi, da quello teoretico a quello estetico, da quello
pratico a quello giuridico e politico.
I presupposti della filosofia dell'assurdo di Rensi, che può
essere considerata la negazione teorica dell'ottimismo storicistico
degli idealisti, sono facilmente rintracciabili in quello
scetticismo che, come si è sottolineato, caratterizza tutta
la sua riflessione filosofica. Non è, quindi, difficile
riscontrare elementi di tale filosofia in tutta la produzione del
Rensi, ma, poiché egli ha affidato ad un'opera specifica,
appunto "La filosofia dell'assurdo" le sue convinzioni in proposito,
l'analisi di questo testo può costituire un ottimo punto di
partenza per illustrare il suo pensiero. È opportuno
precisare, preliminarmente, che l'opera fu pubblicata in un periodo
di «dolorosi avvenimenti esterni», come lo stesso Rensi
afferma, e ciò contribuisce, indubbiamente, a spiegarne il
profondo pessimismo. Questi dolorosi avvenimenti esterni sono da
identificarsi con le delusioni politiche determinate dalla crisi del
socialismo nell'immediato dopoguerra e dal consolidarsi del regime
fascista, che perseguitò il filosofo, per il suo pubblico
impegno contro il regime, fino a privarlo della cattedra di
”Filosofia morale” presso l'università di Genova nel 1934.
Per il Rensi scetticismo e pessimismo emergono parallelamente nel
corso della riflessione. Infatti gli scettici giudicano la
realtà irrazionale, assurda e incomprensibile, ed offrono
dunque il fondamento teorico ai pessimisti per affermare che essa,
in quanto irrazionale, è dolorosa e disperante. C'è,
alla base di tutto ciò un antropologia negativa,
poiché il Rensi considera l'uomo cattivo per natura,
irrimediabilmente minato dal «male radicale». Ma
poiché il mondo presente è in preda al male e
all'assurdo, diventa necessario immaginare un mondo che sia
radicalmente diverso da quello originale, che sia altro da esso,
indipendente da esso e che si configuri come la sua recisa
negazione, sicché proprio la constatazione che l'assurdo
regna nella realtà e nelle menti degli uomini diventa il
fondamento della religione. La filosofia dell'assurdo è,
soprattutto, una filosofia della storia il cui processo, secondo il
Rensi, è interamente retto dal caso. Ed a sottolinearne
l'identità egli riprende, invertendone i termini, una formula
che era già stata propria di Schopenauer, sicché
l'eadem sed aliter di quest'ultimo diviene l'aliter sed eadem. Nella
sfera del reale emergono due fatti: le contraddizioni, come è
provato dall'analisi della storia della filosofia e delle singole
teorie filosofiche, al cui interno le contraddizioni emergono
innegabili, e la storia, la quale altro non è che il sistema
o la serie delle contraddizioni che si determinano nel reale. La
storia consiste nell'eterno diverso da quel che in ogni momento
c'è, ossia nell'eterno cambiare e contraddire quel che
c'è. C'è storia proprio perché gli uomini,
pensando in modo diverso, si contraddicono, hanno dispareri.
Contraddizioni e storia sono unum et idem A partire da questo
presupposto il Rensi chiarisce la genesi psicologica dell'ottimismo
e della speranza, non senza fare ricorso all'autorità del
Leopardi, il filosofo che egli pensa di poter contrapporre al Croce
ed al suo ottimismo storicistico. Per Leopardi la speranza
«è ordinariamente un tutt’uno, quasi, coll'atto di
desiderio, e la speranza una quasi stessa, o un certo inseparabil
cosa col desiderio»; per il Rensi essa è un'induzione
che si fonda sulla disformità tra ciò che non è
ancor dato e ciò che è già dato, poiché
da ciò che non è ricava che esso sarà, da
ciò che non accade ricava che esso accadrà. E, mentre
l'uomo felice spera, ma non in misura eccessiva, l'uomo infelice
spera in maniera frenetica e disperata. La speranza è,
perciò, una cosa sola con il desiderio e diventa sempre
piú intensa a mano a mano che il desiderio aumenta e, come
tutti i nostri ragionamenti, le nostre interpretazioni, costruzioni,
trasformazioni del reale, essendo frutto del desiderio, è una
creazione della nostra volontà. E tuttavia, per le sue stesse
caratteristiche, la speranza è una categoria dello spirito
dotata di propria autonomia e destinata a costituire un tertium quid
tra realtà ed irrealtà, poiché ha per oggetto
ciò che non è reale ma che giudichiamo prossimo a
divenire tale. Speranza, credenza, che è una forma più
marcata di realificazione spesso generata dall'incapacità di
accettare l'inesistenza del fatto creduto, e certezza, che viene ad
identificarsi con la stessa realtà, costituiscono una serie
ininterrotta e si distinguono solo per grado d'intensità. La
filosofia può, quindi, essere considerata «come lo
sforzo o la prestidigitazione per far sparire il fatto delle
contraddizioni».
La storia altro non è che l'esplicazione di una realtà
irrazionale, di una serie di casi, ossia di assurdi: «Tutta la
storia procede per assurdi. L'illusione del razionalista è
quella che, contemplando egli la storia, in senso retrogrado, dal
punto in cui egli si trova all'indietro, contemplando la storia
già fatta, e scorgendovi dappertutto la concatenazione
causale che certo v'è, fantastica che proprio quella
concatenazione causale vi fosse già prima, preesistesse
potenzialmente all'accadere effettivo, cosicché l'accedere
effettivo non potesse aver luogo che secondo quella concatenazione,
cosicché la logica e la ragione lo obbligassero previamente a
svolgersi soltanto secondo quella; mentre qualunque altro
svolgimento l'accadere avesse preso, avrebbe presentato la medesima
concatenazione causale. Così il razionalista dimostra
dottamente che per logica e ragione la storia doveva svolgersi
appunto come si è svolta». La filosofia giustifica le
contraddizioni affermando che lo stesso processo della vita e dello
spirito si articola in un sistema dialettico all'interno del quale
non vanno considerati il male ed il negativo, ma solo il loro
contrario. E tuttavia il processo dello spirito ha sempre fuori di
sé il suo punto di arrivo, sicché la
razionalità ed il bene diventano un dover essere che, nello
stesso momento in cui sta per acquistare le qualità
dell'essere perde quelle della razionalità e del bene.
Si giunge, così, al capovolgimento della formula hegeliana:
per il Rensi il reale è irrazionale ed il razionale è
irreale.
La storia, perciò, altro non è che un continuo voler
uscire dal presente, poiché esso è assurdo e cattivo.
Si può dire, insomma, che vi è storia perché
per sfuggire all'assurdo e al male presenti gli uomini tendono ad
una razionalità e ad un bene che si offrono a loro
nell'avvenire. La critica del Rensi a qualsiasi filosofia che si
fondi sul presupposto di una processualità mai compiuta, sta
nel fatto che essa, automaticamente, priva il presente di ogni
senso, perché lo proietta in un futuro mai realizzato e mai
realizzabile, con il risultato che la realtà appare assurda.
La genesi delle contraddizioni è spiegata dal Rensi secondo
una duplice prospettiva. Per la prima, che potremmo definire storica
e che richiama sia certe analisi del Rousseau, sia quel pessimismo
che nel Leopardi è stato appunto definito "storico", la
realtà è diventata irrazionale con il sorgere della
ragione. Per l'animale non esistono l'rrazionalità, la
crudeltà, l'ingiustizia, l'imperfezione delle cose, ma,
quando la scimmia si accorse di saper ragionare commise l'enorme
pazzia di separarsi dalla vita naturale e di opporsi ad essa. La
ragione creò tutto il male e l'assurdo, costituendo, infine,
la pazzia, in quanto dalla stessa natura si sollevò ed emerse
il nembo delle contraddizioni, degli assurdi, delle
incomprensibilità, del male, del peccato, delle ingiustizie,
insomma degli eterni problemi di carattere spirituale e sociale.
Solo eliminando questa deviazione dalla natura che fu la ragione, e
ridiventando animale, l'uomo potrebbe far sparire tutto il male,
l'assurdo nello stesso nulla in cui essi si trovavano prima
dell'avvento della ragione. Per la seconda è la visione del
reale caratterizzata dalla singolarità a generare le
contraddizioni. L'uomo è, infatti, misura di tutte le cose,
sicché risulta essere vero quel che a ciascuno appare tale.
Inoltre le cose vengono percepite nella loro fenomenicità e
particolarità, non nella loro essenza. Ogni ragione, ogni
mente, chiusa nel proprio universo spirituale, riscontra in ogni
altra una non-ragione. Per poter affermare che le diverse menti
ineriscono ad una sola ragione, esse dovrebbero essere assolutamente
d'accordo: è questa la condizione necessaria perché si
possa dire che qualcosa è conosciuto con validità
assoluta, ossia è razionale. Ma poiché le nostre menti
divergono su tutte le questioni la ragione non c'é,
cosí come, nel divergere dei nostri orologi non c'è
piú l'ora esatta. Non esiste la ragione, ma solo le ragioni.
Già Pascal aveva sostenuto che la mente umana, proprio per
l'impossibilità di trovare dei punti fermi di riferimento, si
rifugia alla fine nello scetticismo. Tempo e spazio sono le
condizioni dell'esistenza dell'assurdo, perché è solo
grazie ad essi che realtà si configura come molteplice. Nello
spazio si vedono le cose una accanto all'altra, mentre nel tempo
esse si sentono venire una dopo l'altra. Se ogni movimento e
accadimento cessassero, scomparirebbe del tutto il tempo: tempo e
vita, tempo e storia sono, perciò, la stessa cosa. Tempo e
male sono due facce della stessa medaglia, in quanto uno suppone e
richiama necessariamente l'altro: il tempo altro non è che
l'eterna ed inutile fuga dal male eternamente presente. Ogni
presente si precipita sempre verso l'avvenire, perché in esso
manca qualcosa che ci dovrebbe essere, proprio perché il
presente, la realtà è nel male. Il tempo è,
perciò, la categoria dell'irrazionale e del male: infatti se
si fosse nel bene, non ci sarebbe piú tempo. Proprio
perché storia e tempo sono l'eterna fuga dall'eterno presente
dell'assurdo e del male, la storia altro non è che il
permanere nell'assurdo e nel male, ed essa si pone sempre come
novità e ripetizione: «Ripetizione ed assurdo. Assurdo
perché ripetizione, ripetizione perché eternità
d'assurdo. Tale il concetto della storia che il senso di
storicità, nella sua piú moderna acutizzazione ed
intensificazione ci ribadisce» Lo spazio è il mezzo
mediante il quale possono esistere le cose e le parti diverse in
luogo dell'assoluto identico, il modo attraverso il quale l'Uno
può diventare Piú, dar fuori in parti, in cose diverse
l'una dall'altra che, in quanto tali, si contraddicono a vicenda.
L'Uno rappresenta la ragione ed il nulla; i Piú cioè
il mondo, sono l'assurdo e la realtà L'essere, la
realtà non è che il manifestarsi delle cose, il loro
essere percepibili o conoscibili, perciò ciò che si
sottrae alla percettibilità e non ne possiede gli elementi,
non possiede neppure la realtà e, quindi, non esiste.
Ciò che esiste, ciò che è, è costituito
da elementi percepibili, spaziali, temporali, estesi, cioé
materiali. Affermare che esiste qualcosa che non ha tali
caratteristiche è solo un non-senso.