INDICE
Prefazione
I. Due spiragli sull'interno del reale
II. L'alterazione ottimistica della
realtà
III. L'arte di mascherare le contraddizioni
IV. Il significato delle contraddizioni
V. Il significato della storia
VI. Tempo e spazio, categorie dell'assurdo
VII. La storia è caso
VIII. La storia è ripetizione
IX. Conclusione
LA FILOSOFIA DELL'ASSURDO
All'amico
Romolo Valeri
Non v'è altro bene che il non essere: non v'ha altro di
buono che quel che non è; le cose che non son cose: tutte
le cose sono cattive.
LEOPARDI, Zibaldone, 4174
Là dove, amico, non si nasca, non s'invecchi, non si muoia,
non si abbandoni un precedente stato di essere, non si giunga ad
un nuovo stato di essere, una fine del mondo in cui ciò
abbia luogo, non può, per quanto ci si aggiri, essere
conosciuta, scorta, raggiunta: così io dico. Ma ti dico
anche, amico, che senza raggiungere la fine del mondo non si
può trovare la fine del dolore.
Parole di Buddha al Dio Rohitassa
Anguttara Nikādya, II, 48
So müssen wir anerkennen, dass dem Menschengeschlechte das
Absurde, in gewissen Grade, angemessen, ja, ein Lebenselement und
die Täuschung ihm unentbehrlich ist.
SCHOPENHAUER, Parerga und
Paralipomena, II, 177
Die Welt will hören, dass sie löblich und vortrefflich
sei, und die Philosophen wollen der Welt gefallen. Mit mir steht
es anders: ich habe gesehn was der Welt gefällt und werde
daher, ihr zu gefallen, keinen Schritt vom Pfade der Wahrheit
abgehn.
SCHOPENHAUER, Über den Willen
in der Natur
PREFAZIONE
Questo libro è l'illustrazione d'una visuale: d'una visuale
scettica e pessimista. Giacché, sebbene da molti
astrattisti della critica si ponga il dilemma: o pessimismo (che
è affermazione d'una conoscenza della realtà) o
scetticismo (che è dichiarazione dell'impossibilità
di conoscere), e riguardo al Leopardi si dica: non fu
definitivamente scettico perché fu pessimista; chiunque non
si limita ad anatomizzare, magari acutamente, le situazioni
dall'esterno, ma le vive interiormente, sente con perfetta
chiarezza che scetticismo e pessimismo sono rami del medesimo
tronco. Dalla intuizione scettica la cui affermazione finale
è: la realtà è irrazionale ed assurda e
perciò incomprensibile, scaturisce ovviamente, e
naturalmente con essa si congiunge, l'intuizione pessimista
cioè: e appunto perché irrazionale ed assurda questa
realtà è dolorosa e disperante. Del resto, meglio di
qualsiasi discussione credo che questo libro stesso fornisca la
prova che scetticismo e pessimismo (quantunque non sempre e
necessariamente avvenga che il pollone scettico dia fuori quello
pessimista e talvolta o spesso accada che il primo cresca e
perduri pur senza generare il secondo) rampollano spontaneamente
dalla medesima radice.
Ritengo che l'illustrazione della visuale scettico-pessimista che
questo libro offre, non sia priva d'una certa forza ed efficacia.
Ma quantunque la convinzione (fondata o meno) che un proprio
scritto possegga tali qualità produca generalmente
nell'autore un senso di soddisfazione e d'orgoglio, io invece
provo un senso quasi di melanconico imbarazzo nel vedere che dalla
mia mente è uscita una così sufficientemente
vigorosa e precisa (com'io penso) impostazione di quella visuale,
e nell'aver dovuto scriverla: dovuto, dico: e mi capisce chi ha
esperimentato che un conto è mettersi al tavolino col
proposito di scrivere, e un conto è sentir fluire dal
cervello come una piccola corrente di lava, di cui la penna non
è se non il canale che la conduce a solidificarsi sulla
carta. Provo, dunque, nel porre davanti al nostro tempo pieno di
chiasso, di gaudio, spesso di speranze, sempre di fiducia nel suo
fare, questa visuale, lo stesso imbarazzo e rimorso che prova un
uomo quando, per qualsiasi ragione, è costretto a turbare
un giuoco vivace e romoroso di allegri bimbi innocenti.
L'esattezza della visuale qui svolta non possono vedere né
i vincitori né i giovani. Non ai vincitori, ma ai vinti, ai
seguaci d'ogni idea vinta, non ai seguaci d'un'idea nell'effimero
momento del suo trionfo, ma ai seguaci d'ogni idea nel momento in
cui è vinta, l'esattezza della concezione che io illustro
si può, soltanto, svelare. Poiché è quando
l'uomo vede che la sua idea è prostrata e trionfa quella
contraria alle sue più profonde convinzioni (cioè
l'assurdo), che il velo di Māyā gli si squarcia ed egli scorge che
il mondo è irrazionale. Non è quando gli ebrei
dall'alto del tempio di Gerusalemme tenevano testa alle legioni di
Tito, sicuri che Geova avrebbe data loro la vittoria, ma quando
assistettero alle fiamme da cui il tempio fu divorato, che essi
poterono vedere la verità. Né, in generale, alcun
uomo che abbia meno di quarant'anni può capire (e
s'intende, non già concettualmente, ma mediante intimo
afferramento) il pensiero di questo libro. I più giovani
non possono vedervi che o quella unilaterale esagerazione, quella
foschia malata di sguardo, che per solito le storie della
letteratura compatiscono nella grandezza di Leopardi come una
macula che la diminuisce, e contro la quale mettono in guardia i
lettori di lui (mentre per me ciò è che mi rende il
suo pensiero più profondamente affine e mi fa quasi
così sentire di discendere e dipendere da lui1 che in ogni
sua pagina mi par che parli non un uomo, ma lo stesso Reale); o la
solita ripetizione del vecchio motivo della vanitas vanitatum,
ripetizione che secca e fa sorridere; o l'incapacità, degna
di compatimento, di sollevarsi all'altezza comprensiva d'uno o
dell'altro dei sistemi oggi furoreggianti, nei quali tutto
è, come sa chi vi si è innalzato, spiegato e messo
appagantemente a posto. Quantunque nulla sia più certo di
questo, che basta il trascorrere di poco tempo perché un
evento dopo l'altro d'una più ricca e matura esperienza
faccia finalmente sprigionare agli occhi di chi ora giudica
così un lampo inaspettato: ma guarda! chi lo avrebbe detto?
le cose stanno proprio come lui diceva! È il processo che
tutti attraversiamo, e la conclusione – quella cioè che il
mondo è il regno del caso, della pazzia, della
malvagità – a cui ogni uomo riflessivo, «aus den
ersten Jugendträumen erwacht», come direbbe
Schopenhauer,2 finisce riluttantemente e dolorosamente per
arrivare.
Quanto a me, come potrei dubitare un solo momento dell'esattezza
di questa visuale? Sono giunto ad essa, ho, in generale,
incominciato a scrivere i pensieri miei, scettici e pessimisti
(miei non certo perché li abbia scoperti per la prima volta
io, ma perché in essi si esprime interamente e
perfettamente si immedesima il fondo più proprio della mia
mentalità) dopo aver letto, per così dire, tutto
quel che avevano scritto gli altri, dopo aver preso notizia di
tutte le soluzioni, ed aver fatto del mio meglio per persuadermi
di questa o di quella e per appropriarmela – e dopo aver
constatato la fallacia e la manchevolezza di tutte e
l'impossibilità per una mente sincera di non vedere che
ogni filosofia che vuol essere soluzione lo è solo
nascondendo a se medesima le obbiezioni mortali che dal seno
stesso della soluzione affacciata si levano a colpirla. Di
più. Come potrei supporre un solo momento che questa
visuale sia falsa? Se l'avesse formata in me un io, e quindi forse
per i suoi comodi o interessi, per il desiderio di costruirsi una
molle chaise longue su cui tranquillamente disteso fare il suo
chilo spirituale, o per ottenere plausi, successo, seguaci nel
mondo, potrei pensare o intravvedere o dubitare nel mio intimo che
essa sia stata forse da tale io fabbricata falsamente. Ma quali
interessi o comodi? Non so forse che una filosofia negativa non
diviene mai «ufficiale», mai «autorevole»,
non entra mai nel quadro o nella serie delle dottrine
«accettate», la cui parola ha «peso», che
esercitano «influenza» anche nel campo letterario,
politico, sociale, che suscitano discepoli, commentatori,
espositori, applicatori? Non so forse che questa messe non
è colta se non dalle filosofie che dicono di sì, che
giustificano (almeno da ultimo) cose, mondo, vita, e che proprio
soltanto il fatto che una filosofia contenga tale giustificazione
delle cose è quello che dà alla gente il coraggio di
professarla, mentre il negare siffatta giustificazione attribuisce
immediatamente ad una filosofia il carattere
«reprobo», «impossibile»? Non so forse che
altresì, poggiando la fama su di una consuetudine cieca
d'ammirazione ciecamente trapassante da una generazione all'altra,
solo chi è stato abbastanza furbo per assicurarsi i plausi
dei suoi contemporanei ha grande probabilità di avere anche
quelli dei posteri e chi invece ha suscitato il malcontento,
l'antipatia, l'ira violenta e chiassosa dei procaccianti, dei
protervi, degli influenti della sua età, è sicuro
che le loro romorose denigrazioni lascieranno ombra e disfavore
sul suo nome anche nell'avvenire; e che insomma, anche la
giustizia resa dalla storia è illusione e mito? Or dunque,
invece, questa visuale (poiché l'esperienza della mia vita
di pensiero mi induce a dar ragione alla tesi del James che l'io o
coscienza non esiste, e non è che un avverbio di luogo, lo
spazio ideale, il qui, dove si presentano sentimenti e pensieri)
questa visuale si è formata da sé qui (= in me), da
sé, come si forma una pianta sulla terra o una nube in
cielo. Essa può dunque tanto poco essere falsa, quanto poco
lo può essere una pianta o una nube. E se, per avventura,
questo medesimo criterio d'attendibilità d'una visuale
potesse essere invocato da altri per la loro visuale opposta alla
mia, tanto meglio per la mia tesi. Ne uscirebbe, infatti,
riconfermato che ognuno ha la sua verità e la sua ragione,
che vi sono innumerevoli verità e ragioni, attraverso le
quali non corre affatto il filone o il substrato d'una ragione o
verità una.
Non voglio però nascondere che potrebbe darsi che a formare
in me questa concezione irrazionalista e pessimista abbiano
contribuito amare esperienze che ho dovuto fare nel campo del
pensiero politico-sociale. Giacché, avendo io, come tutti o
molti, in questo campo mutato idee, ma con la differenza
significante che i più mutano in modo da essere sempre
accanto alla causa che vince, ed io ho mutato anche a costo di
essere sempre accanto alla causa volta a volta perdente;
così avvenne che in questo campo ho sempre visto l'assurdo
(= ciò che è in opposizione alle nostre idee)
trionfare. Di più. In due momenti assai gravi per la storia
d'un paese e del pensiero di un uomo, ho visto due idee opposte,
storicamente assai importanti, nelle quali avevo successivamente
scorto l'incarnazione del razionale e del vero, prendere,
nell'atto del loro realizzarsi, le forme concrete più
insensate, proprio quelle che parevano pensate apposta per far
risultare l'idea inaccettabile, errata, impossibile, per offrirne
la confutazione, per ricondurre gli spiriti a persuadersi della
necessità dell'idea contraria. Le ho viste deformarsi,
snaturarsi, corrompersi, proprio pel solo fatto del loro diventar
reali, pel solo fatto che le teste dissennate degli uomini si
erano messe a realizzarle – tanto è (come sostengo
più oltre) anche delle ragioni umane propria, non la
ragione, ma l'irrazionalità, tanto anche nell'opera della
mente umana è insito l'assurdo, che, appena questa si mette
a realizzare un'idea, la realizza in modo così pazzo che la
sua realizzazione diviene la sua confutazione. Ho visto
così il mio razionale essere tale finché era irreale
e trasformarsi in irrazionale appena accennava a diventar reale.
Più. Mi fu presente quello che dice Montaigne: «Et
chez nous icy, j'ay veu telle chose qui nous estoit capitale,
devenir legitime; et nous, qui en tenons d'aultres, sommes
à mesme, selon l'incertitude de la fortune guerriere,
d'estre un jour criminels de leze maiesté humaine et
divine, nostre iustice tumbant à la mercy de l'iniustice,
et en l'espace de peu d'annes de possession, prenant une essence
contraire».3 – Queste le mie esperienze.
Ma poiché ogni cervello è un apparato Marconi che
riceve le onde hertziane dall'ambiente (con la sola differenza che
uno le riceve da maggior distanza di spazio e maggior lontananza
di tempo futuro d'un altro), così potrebbe darsi che le
stesse «onde» che il mio ha ricevuto avesse ricevuto
anche quello di qualche altro, cioè che esperienze come le
mie ricordate non fossero del tutto isolate, e che quindi
ciò che dico in questo libro trovasse eco in qualche altra
coscienza. A me pare che una fondamentale conformità col
loro sentimento dovrebbero trovarvi (vedi la Conclusione) quegli
spiriti religiosi che vivono profondamente soprattutto
quell'aspetto della religione che è la condanna del mondo,
ed anche quei politici sperimentati che sapendo con quali arti non
abbiano potuto a meno di maneggiare il mondo, sanno anche il
giudizio che devono farne. In generale poi mi pare che un insieme
di idee come quelle qui espresse possa ravvisarsi come la
più o meno consapevole ripercussione teoretica che
dà, forse in più d'una mente, un mondo
politico-sociale, quale il presente, sempre più fosco,
truce, aspro, malsicuro, senza direzione, senza senno, senza lume
– un mondo in cui l'antica sconfortata esigenza di tutti i tempi
di dissoluzione («latenter vivere») diventa, per gli
spiriti che sanno vedere le cose nelle loro reali fattezze, ogni
giorno più pressante.
A scusa di presentare un libro che, per non contenere
declamazioni, ditirambi, lirismi, per non essere gaudioso,
chiassoso, esilarante, è così unzeitgemäss,
vorrei anch'io pronunciare il mio piccolo «eppur si
muove»; e cioè: non ci trovo nessun gusto a spiacere
ai miei simili, a urtarli, indispettirli, malcontentarli; vorrei
poter enunciare verità che li facessero lieti e sereni e
andassero a loro genio; ma, pur troppo, le cose stanno invece
così com'io le dico. A patrocinarmi la liceità di
dirle così come sono, senza rispetti umani, valgano due
sentenze di due filosofi in tutto il resto i più opposti
che si possano pensare, ma in ciò d'accordo. Una di Hegel:
«Die Philosophie aber muss sich hüten, erbaulich sein
zu wollen».4 L'altra del Mill: «The person who has to
think more of what an opinion leads to, than of what is the
evidence of it, cannot be a philosopher, or a teacher of
philosophers».5
Ma è poi veramente questo libro del tutto
unzeitgemäss? Nel senso ora detto, sì. Ma in
realtà i non molti che pensano lo sentiranno come il vero
riflesso filosofico dell'epoca, come la nostra epoca stessa che si
traduce direttamente in filosofia. E quando si considera che i
pensieri qui contenuti furono da me già enunciati fin dal
1924, nel volume Interiora rerum (Unitas, Milano), quando si
considera quanto numerose affermazioni filosofiche di pessimismo e
irrazionalismo posteriormente a quella data la nostra epoca abbia
suscitato negli altri paesi, si converrà forse che io sono
stato in ciò un precursore, uno dei primi che abbia saputo
farsi voce filosofica dell'epoca e per poco non direi, pensando a
come da allora i fatti mi abbiano dato e continuino a darmi
ragione, pressoché un profeta.
Comunque, io non ho mai ambito di appartenere alla schiera degli
«illustri saggi» di cui parla Nietzsche nella seconda
parte di Zarathustra; di incanalarmi cioè automaticamente a
pensare in servizio di opinioni consacrate e seguite dai
più, di idee ufficiali, correnti, comuni, consuete, allo
scopo di «andare avanti», innalzarmi, procacciarmi
autorità, prestigio, lucro e codazzi di plaudenti e
seguaci, come gli «illustri saggi» sanno e sogliono
fare. «Libera dalla felicità degli schiavi,
svincolata da dèi e da adorazioni, impavida e formidabile,
grande e solitaria: tale è la volontà del veritiero.
Nel deserto dimorarono sempre i veritieri, i liberi spiriti, come
signori del deserto; ma nelle città dimorano i ben pasciuti
illustri saggi – le bestie da tiro».6 O, per esprimere la
cosa al modo di Schopenhauer: si tratta qui dell'antitesi tra
vivere della filosofia e vivere per la filosofia.7
Del resto, i miei libri io li scrivo per me, per il bisogno e la
soddisfazione di tener nota dei miei pensieri, come si fa d'un
«giornale intimo». Perché li pubblichi?, si
domanderà. Per la stessa ragione, rispondo, per cui si
trova soddisfazione nel trascrivere o far trascrivere i propri
pensieri dallo «zibaldone» informe e pieno di
cancellature in «bella copia», in
«pulito», con nitida calligrafia, su carta uniforme.
Li stampo, cioè, per vederli «messi in bello».
Considero la stampa dei miei pensieri – la pubblicazione dei miei
libri – unicamente come la «bella copia» di quelli,
nella quale ho piacere di vederli trascritti. Sono pago che essi
soddisfino me perché sono l'espressione di ciò che
penso, e contento poi oltre ogni mia aspettativa se tutt'al
più essi destano una piccola eco amichevole in qualche raro
spirito, vicino o lontano, che abbia la medesima tonalità
del mio.
I
DUE SPIRAGLI
SULL'INTERNO DEL REALE
Due fatti sono venuti a poco a poco, spontaneamente e quasi da
sé, sollevandosi ad assumere nella mia mente un significato
specifico, saliente, decisivo. Due fatti assai comuni e familiari,
ma l'impressione dei quali su di me, l'angolo di visuale sotto cui
in modo sempre più tagliente e quasi violentemente colorito
a me si prospettano, non è l'impressione che gli altri ne
ricavano o la visuale sotto cui altri li vede. Due fatti, la cui
diversa interpretazione, il significato diverso o la diversa
importanza che diamo ad essi, mi vado sempre più
convincendo sia ciò in cui essenzialmente sta la
diversità delle nostre concezioni della vita e quindi
ciò che esprime la diversità dei nostri
temperamenti, ché non da logiche dimostrazioni, ma
dall'irriducibile intuizione che monta su dal profondo del nostro
temperamento, nascono le nostre concezioni della vita e le nostre
filosofie.
Questi due fatti sono: le contraddizioni o divergenze o dispareri,
e la storia.
Che cosa significa che ogni tipico sistema filosofico svolga
un'intuizione antitetica a quella d'ogni altro, e delle quali pure
tanto poco una qualsiasi può dirsi errata che se tu segui
il corso di pensiero dei filosofi più opposti, Hegel e
Herbart, Schopenhauer e Lotze, Rosmini e Ardigò; se ti poni
sul loro punto di partenza; se non assumi – per la preoccupazione
di salvaguardare ad ogni costo in te un determinato insieme di
idee a cui tieni ad aderire – quello che si potrebbe chiamare lo
spirito del «pubblico ministero», lo spirito che ha di
proposito fin da principio deciso di lumeggiare e interpretare
quanto più può sotto una luce condannevole;
bensì se, suscettibile di rivivere in te, fin nella sua
scaturigine e nel suo motivo iniziale, una vita e un pensiero
altrui così come sta (vale a dire senza trasfigurarlo nel
tuo, secondo usano fare pensatori tra noi molto in vista), ti
lasci trasportare simpaticamente dalla china del pensiero a cui ti
affacci; se così fai, senti che tutte quelle opposte
intuizioni si reggono perfettamente, che tutti quegli opposti
filosofi hanno ragione? Che significa che, non solo ogni sistema
filosofico tipico incarna un'intuizione diversa, ma, per di
più, noi uomini, in ciò che forma la nostra vita
vera e profonda, arte o morale, religione o politica, la pensiamo
diversamente, abbiamo visuali antitetiche, abbiamo ciascuno un
mondo spirituale esclusivamente nostro proprio, e tanto più
specifico e distinto quanto più la civiltà avanza,
sicché ormai, se su di un elemento di esso possiamo essere
d'accordo con costui e su di un altro elemento con colui, nel suo
insieme inscindibile non siamo più d'accordo con nessuno?
Anzi, che significa che non solo discordiamo tra di noi, ma
discordiamo in noi; che, come si dice, il pensiero procede, e oggi
non pensiamo più quel che pensavamo ieri, non troviamo
più vero quel che ieri trovavamo tale; che ciascuno di noi
contraddice successivamente se stesso? Che significa che,
altresì, ciascuno di noi si contraddice non pure
successivamente, ma contemporaneamente, né solo l'uomo
comune mantiene nella sua coscienza l'uno accanto all'altro,
perché non li analizza, elementi contraddittori, opinioni
religiose che stridono tra di loro o con le sue convinzioni
scientifiche o pratiche, opinioni politiche che si urtano a
vicenda o confliggono con le convinzioni morali o economiche, ma
eziandio chi fa professione di pensare e coordinare ad un tutto
sistematico i pensieri, il filosofo, se è un pensatore vivo
e ricco, si contraddice anch'egli? Poiché non v'è
filosofo grande e significante in cui non siano state additate
delle innegabili contraddizioni; ed anche colui nel quale altri
non abbia potuto scoprirle o non se ne sia curato, avverte,
percorrendo con occhiata d'insieme e con la perfetta e interiore
conoscenza della propria fattura, il suo sistema, che (se ha
pensato con passione e sincerità e senza preoccuparsi
d'altro che di vivere il suo pensiero) vi ha collocato elementi
contraddittori, gli uni o gli altri dei quali potrebbe, sì,
eliminare, ma solo a costo di sopprimere ciò che anche
percepisce come verità, ed i quali quindi eliminare non
vuole perché sente che tutti, per quanto contraddittori,
corrispondono a verità, e che, qualunque di essi
sacrificasse, sacrificherebbe verità. Si può anzi
dire che l'esservi o no contraddizioni in un pensatore, segna la
differenza tra chi pensa pel bisogno di pensare e chi pensa per
far libri. Quest'ultimo, che sente soltanto la
responsabilità del sistema, evita le contraddizioni,
com'è facilissimo fare, cioè tutte le linee di
pensiero, pure esistenti, pure profilantisi anche nella sua mente,
ma non interamente congruenti con quella che ha voluto porre a
centro del suo sistema, tacendo o sopprimendo. Ma il primo non si
preoccupa che di fare del suo pensiero quasi un delicato barometro
che si risenta variamente della varia e multiforme pressione della
realtà, o, per dirla altrimenti, di lasciare che il suo
pensiero plasmi e vegga liberamente sorgere in sé, a
seconda dell'incessante successivo alzarsi ed abbassarsi del suo
fiotto, un'immagine della realtà. Perciò si
contraddice.
Mi contraddico? Sicuro.
Perché te ne meravigli?
Non siamo
noi forse i figli
Del dubbio e dello spergiuro?
Non sai (mistero giocondo!)
Che la contraddizione
È
l'anima, la ragione,
Tutta la vita del mondo?
Essere uno e diverso
E coerente e sconnesso,
Vuol dire rifare in
se stesso
Il glorïoso universo.8
Che è, del resto, un sistema? A quella guisa che l'oggetto
da noi percepito non è (come la lunga discussione ed
elaborazione filosofica di questa questione sembra dover finir per
concludere) se non una selezione, una sintesi selettiva, di
elementi, tutti presenti, e anche in quella concatenazione, nella
realtà extramentale, ma, per così dire, in questa
nuotanti in numerosi altri elementi e concatenazioni di elementi
diverse da quelle costituenti la sintesi nostra, la sintesi che
dà l'oggetto per noi;9 come la storia è essa pure
formata unicamente da una sintesi selettiva, per cui alcuni fatti
presenti nella realtà extramentale sono a preferenza di
altri investiti di valore e vengono concatenati insieme in un
complesso costituito esso pure mediante un giudizio di valore e un
riferimento a valori, pur rimanendo nella realtà storica
infiniti altri fatti e concatenazioni di fatti, che, data una
diversa attribuzione di valore, divengono essi «la
storia» invece di quelli;10 così il sistema non
è che la selezione d'una linea di pensieri concatenantisi
tra sé, d'una tra le tante linee differenti, tutte, al pari
di quella scelta, esistenti e presenti nel regno mentale generale.
Tale una melodia che si svolge logicamente dal motivo iniziale
scelto e data la scelta di esso, accanto a infinite altre melodie
possibili data la scelta d'un motivo iniziale diverso, e presenti
ed esistenti nel campo musicale generale. Tale lo sviluppo d'un
ragionamento in matematica (la quale, nota lo Spengler, «nei
suoi momenti sublimi si comporta in forma visionaria, non
già astraendo»),11 ragionamento che, da certi
postulati postivi a capo, conduce, per un corso di formule che,
quasi a dire, genera esso stesso, ad una «scoperta», e
che sta allato a infiniti altri sviluppi, conducenti da altri
postulati ad altre «scoperte», ed esistenti, con lo
stesso valore di verità di quello, nell'ambito matematico
generale. – Perciò, tutti i sistemi filosofici sono
«veri», come sono «vere» tutte le melodie
diverse, e tutti questi diversi sviluppi di tesi, tutte queste
diverse «scoperte» in matematica. E lo stesso
individuo può quindi legittimamente costrurre i sistemi
filosofici più opposti, precisamente come lo stesso
musicista può rivestire di note i motivi musicali
più disparati. Non diceva già Socrate che la
filosofia è μελίστη μουσική?12
Or dunque, che cosa significa questo fatto delle contraddizioni? E
che cosa significa l'altro che c'è storia, ossia processo,
progresso – cambiamento? Si noti: i due fatti si riducono in fondo
ad uno solo. Perché, che cosa è la storia? È
la contraddizione, il sistema o la serie delle contraddizioni.
C'è unicamente perché ogni oggi è diverso da
ogni ieri e ogni domani da ogni oggi, cioè ogni oggi
contraddice ogni ieri e ogni domani ogni oggi. L'eterno diverso da
quel che in ogni momento c'è, ossia l'eterno cambiare e
contraddire quel che c'è, è ciò in cui
consiste la storia. C'è storia perché gli uomini si
contraddicono, la pensano diversamente, hanno dispareri, e
continuano a realizzare nel fatto pareri diversi da quelli
realizzati poc'anzi; perché ogni parere che si realizza nel
fatto proietta di fronte a sé un disparere che vuol alla
sua volta realizzarvisi invece di quello, e vi riesce, ma dando
origine ad un nuovo disparere, che vuol alla sua volta tradursi in
fatto, e traducendovisi genera o accresce e fortifica un altro
parere diverso che diventerà poi fatto; e così via
all'infinito. Contraddizioni e storia sono unum et idem.
Quale è, dunque, il significato delle contraddizioni e
della storia? Il significato che vi scorgiamo, dicevo, è
quello che sopra ogni altra cosa rivela quel che siamo e permette
di classificarci. Vedete le contraddizioni come qualcosa di
secondario e subordinato, che sempre un qualche opportuno
«ma» può liquidare, che sparisce nello sfondo
mentre l'armonia resta sul proscenio? E vedete la storia sotto un
aspetto consolantemente finalistico, il quale, nella tesi che essa
serva a qualcosa, per esempio ad effettuare lo svolgimento dello
spirito, e quindi abbia un senso, e quindi presenti uno spettacolo
la cui contemplazione soddisfa mente e cuore, può essere
presente anche quando essa è concepita quale senza meta?
Siete razionalisti, idealisti, dogmatici, deisti ed il vostro
temperamento è ottimista. Vedete le contraddizioni come
qualcosa di predominante, che giganteggia su ogni armonia ed ogni
armonia distrugge, e la storia semplicemente come l'arena,
sanguinosa o dolorosa, senza senso e soluzione, delle
contraddizioni stesse? Siete irrazionalisti, sensisti, scettici,
atei, ed il vostro temperamento è pessimista.
Si può dunque dal mio canto soltanto trattare, non
già di dimostrare, ché nulla si dimostra nell'ambito
di quella individuale intuizione della vita che è la
filosofia (la quale perciò dovrebbe una buona volta
deporre, per usare l'espressione del Lange,13 la maschera di
scienza dimostrativa «die Truggestalt einer beweisenden
Wissenschaft», e riconoscersi come una poesia di concetti,
«Begriffsdichtung», «dichtende
Spekulation»), ma di cercar di far percepire con la medesima
spiccata vivezza che è in me, quel significato di cui,
nella luce cruda ove mi sono venuti sempre più emergendo,
vedo rivestiti io questi due fatti delle contraddizioni e della
storia – significato che per me è quello che dà
veramente l'accesso a ciò che baconianamente si chiamerebbe
interiora rerum.
II
L'ALTERAZIONE OTTIMISTICA
DELLA REALTÀ
Gli uomini sono in generale ostinatamente e inguaribilmente
ottimisti. Il potente e invincibile istinto di vita e
felicità impedisce loro di tener gli occhi aperti e fissi
sul dolore e sul male. Come il ragno avvolge la mosca caduta nella
sua rete in un bozzolo, in cui i contorni del corpo di essa non
sono più visibili, così da quell'istinto
fondamentale umano si sprigionano innumerevoli fili di raziocini
che tessono attorno ad ogni fatto doloroso o cattivo un bozzolo o
un sudario entro il quale il fatto non è più quello,
perde i suoi contorni netti, sparisce. «Per questi vostri
consigli davvero ci sembra che voi soli stimiate l'avvenire
più evidente delle cose che vedete, e le cose incerte le
considerate come già esistenti, perché le
volete». Questo atteggiamento mentale, questo
«umore», che gli Ateniesi rimproveravano ai Meli nel
formidabilmente realistico dialogo tra gli uni e gli altri presso
Tucidide,14 non è proprio soltanto dei Meli, ma è
una caratteristica comune, costante, tenace di tutti gli uomini in
generale. La volontà di credere, nascente dall'istinto di
vita e dal bisogno di felicità, foggia e trasforma i fatti
a suo talento agli occhi dell'uomo, ché l'intelletto, come
diceva Schopenhauer,15 non ha altra funzione che quella di
escogitare e far presenti alla volontà i motivi per quel
che essa già vuole.
Da ciò anche il fenomeno psicologico, così
interessante e così poco studiato, della speranza. La
speranza, infatti, l'atto della quale, come rilevava
significatamente il Leopardi, «è ordinariamente un
tuttuno, quasi, coll'atto di desiderio, e la speranza una quasi
stessa, o certo inseparabil, cosa col desiderio»16 – col
desiderio, ossia con l'avvertimento della mancanza – la speranza
è una forma di ragionamento, e più propriamente una
forma di induzione. Un'induzione che, al contrario di quella
descritta dalla logica ordinaria, la quale procede sulla base del
principio della «uniformità della natura»,
della conformità di ciò che non è ancora
conosciuto con ciò che lo è, procede invece sulla
base del principio opposto, su quella cioè della
disformità di ciò che non è ancor dato con
ciò che è dato. La speranza è un'induzione
che da ciò che non è ricava che ciò che non
è sarà, che da ciò che non accade ricava che
ciò che non accade accadrà. Ed è un'induzione
che procede in tal guisa con tanto maggior slancio e sicurezza,
quanto più l'attuale non è, il presente non accade,
è chiaro, indiscutibile, implacabile. Un'induzione,
insomma, che precisamente dalla maggiore assenza nel noto (nel
presente) dei dati di cui essa compagina l'ignoto (il futuro)
inferisce la presenza nell'ignoto (futuro) di tali dati. Ognuno
sa, per vero, che le più solide, tangibili, ferme
costruzioni di speranza – più reali agli occhi di chi le
nutre delle cose che si toccano con mano – si formano negli
individui e nei popoli quanto più sono miseri: e si formano
così appunto perché quanto più sono miseri,
tanto meno senza di esse potrebbero vivere. Sono soprattutto i
poveri che giuocano al lotto. Fu soprattutto nella Polonia ed
è tra gli ebrei, che si costruì, si trasmise, si
intensificò di generazione in generazione un edificio di
speranza misticamente colorito e particolareggiato nella
risurrezione della nazionalità. E se siamo capaci di
richiamarci le esperienze psichiche più vibranti e profonde
che abbiamo vissuto durante la guerra, ricorderemo che
precisamente nei momenti in cui essa andava peggio la speranza
costruiva con più tenacia e sicurezza. La speranza è
in proporzione diretta dell'infelicità. Si spera tanto
più quanto più si è sfortunati. L'uomo
fortunato e felice non ha bisogno di sperare perché ha
già, e se pure (poiché nessuno è contento)
spera ulteriormente, spera però senza eccessivo ardore e
senza cocente intensità. È l'uomo infelice che mette
nella speranza tutta la sua passione e la sua vita, che spera
freneticamente, che quasi a dire, spera disperatamente, e proprio
contro speranza, παρ΄ ἐλπίδα ἐπ΄ ἐλπίδι ἐπίστευσεν, come dice san
Paolo,17 appunto perché, nulla avendo egli al presente,
anzi avendo meno di nulla, cioè il fatto negativo male e
dolore, egli non possiede di positivo che la speranza e non
può vivere che di speranza. I sogni di speranza sono quindi
tanto più fiammeggianti e fantasiosi nei colpiti dalla
sorte, nei caduti in basso, nei perseguitati, nelle persone
finanziariamente rovinate, nei poveri, nei mendicanti.
Probabilmente la più insensatamente miracolosa speranza –
una del tutto inverosimile catastrofe interna o internazionale che
faccia crollare il potentissimo Stato in cui vive – risplende
davanti agli occhi del condannato a morte; probabilmente un'ancora
più insensatamente miracolosa speranza – un delfino che si
presti a trasportarlo a riva o l'uccello di Zeus che discenda ad
afferrarlo – brilla nell'animo del naufrago che sente di star per
affogare. Infine l'eccesso dell'infelicità acuisce la
speranza sino all'aspettazione del vero e proprio miracolo:
Giovanni da Giscala e Simone Bar Ghiora, gli eroi della resistenza
ebrea ai romani, ridotti a ripararsi nelle fogne di Gerusalemme di
fronte all'irrompere delle legioni vittoriose di Tito, sperano
fermamente nell'intervento dì Yahvéh, che si
manifesta solo a chi resisterà sino all'ultimo e al momento
estremo della resistenza; ed è quando uno è
disperatamente afflitto per la perdita d'una persona cara o
disperatamente terrorizzato dalla paura della propria morte che
gli si colora di certezza la speranza d'una vita futura. E
più vera dell'affermazione socratica che piacere e dolore
sono attaccati ad un unico capo, è quella che lo sono
infelicità e speranza. Lo sono perché la speranza
è la List della natura, o la «funzione
fabulistica»,18 che, nell'economia della vita, serve a tener
testa all'effetto micidiale dell'infelicità, della
sfortuna, del dolore e quindi a questi si accompagna, in uguale
misura di essi, come al veleno il contravveleno. – La speranza
è veramente, come aveva veduto Leopardi, una cosa sola col
desiderio, e quindi tanto più intensa e ferma quanto
maggiore il desiderio, ossia quanto maggiore la sensazione della
mancanza.
«Così non può sempre andare; dunque
così non andrà sempre, non andrà più
domani». Questo è il sillogismo induttivo della
speranza. E se circa esso si osservasse, in opposizione a quanto
si è detto testé, che anche un siffatto sillogismo
ha per base il principio dell'uniformità, bisognerebbe
rispondere che tale obbiezione si fonda su di una pura apparenza
verbale. È, infatti, se mai l'uniformità della
disformità che vi sta alla base. Cioè: le vicende
del mondo cambiano, questo cambiare lo abbiamo sempre visto,
dunque continuerà; non abbiamo mai visto piovere sempre,
dunque, se piove da un mese, fra poco farà bello. Comunque,
l'importante è il fatto che la speranza è un
ragionamento, un sillogismo, un'induzione. Perché
ciò riconferma che appunto i nostri ragionamenti, le nostre
interpretazioni, costruzioni, trasformazioni, eliminazioni dei
fatti, sono sempre il frutto del nostro desiderio, della nostra
«volontà» – riconferma, cioè,
poiché la speranza è un ragionamento, un'induzione,
che sempre il nostro modo di ragionare, ossia di costruire con la
ragione il mondo, è determinato da questi elementi,
è tutt'uno con essi.
Il contenuto rappresentativo della forma o categoria
«speranza» non ha lo stesso significato del contenuto
rappresentativo della fantasticheria o del sogno ad occhi aperti.
Una cosa sperata non è una cosa sognata o fantasticata. Il
contenuto rappresentativo della speranza non è
realtà, ma non è nemmeno pura e semplice
irrealtà; è un alcunché di non reale, ma che
scorgiamo in procinto di divenir reale, qualcosa che sta di mezzo
tra la realtà e l'irrealtà, una semirealtà.
La speranza è, dunque, una categoria dello spirito, e una
categoria speciale, destinata a costrurre un tertium quid oltre e
tra la realtà e l'irrealtà. Essa impronta ai nostri
occhi sul suo contenuto un certo colorito o grado, ancora, per dir
così, incerto ed embrionale di realtà, ma sempre di
realtà; grado di realtà che poi, se la speranza si
adempie, si svolge, cresce e si fonde con l'oggetto sensibile,
precisamente come, per applicare qui una teoria del James,19 il
concetto d'un oggetto che, in assenza di questo, ho in mente,
è un accenno, un principio, una preformazione della stessa
realtà sensibile dell'oggetto, e si sviluppa e si fonde con
questa quando l'oggetto sensibile mi torna dinanzi. Chiunque ha
nutrito lungamente una qualche fervida speranza e l'ha vista
realizzata, avverte chiaramente la verità di tutto questo:
avverte cioè che è come se dalla speranza alla sua
realizzazione vi sia stato soltanto un processo graduale di
maggiore realtà di cui quella conteneva già il primo
accenno; e quando dice: «ho sperato giusto; era naturale;
non era possibile che questa cosa da me tanto sperata non
accadesse» – quando così nel realizzarsi della
speranza questa viene a combaciare ed a fondersi col fatto – egli
scorge la sua speranza iniziale come avente già contenuto
in embrione, ma infallibilmente, la realtà del fatto
futuro.
Quindi tra speranza, credenza e certezza, non v'è
distinzione essenziale, ma solo di grado, ed i tre momenti
costituiscono una serie ininterrotta. La credenza non è che
una forma più precisa, più ferma e fissa, più
particolareggiatamente scolpita che non la speranza, di foggiare
la realtà, di dar foggia di realtà, o, come si
potrebbe efficacemente dire se la lingua lo concedesse, una forma
più marcata e accentuata di realificazione; e, come la
speranza procede dal non essere all'essere, cioè muove
dall'impossibilità di accettare la mancanza del fatto
sperato; così la credenza spessissimo non è generata
che dalla inaccettabilità dell'inesistenza del fatto
creduto: Ercole, l'eroe infaticabilmente benefico, Gesù, il
giusto sconfitto e suppliziato nel mondo sensibile, non possono
essere finiti così, e devono essere stati assunti in cielo.
Ma poiché, infine, anche la certezza contiene un elemento
fondamentale di credenza, poiché (come ha dimostrato
Hume)20 ogni vera e propria realtà, ogni realtà nel
senso ordinario della parola, ogni affermazione di realtà,
compresa la realtà visibile e tangibile, è da ultimo
un fatto di credenza, richiede che un indefinibile sentimento,
quello espresso dalle parole «ciò è»,
ossia il sentimento della credenza, ravvivi la semplice immagine o
concezione della cosa; poiché, insomma, anche la
realtà più evidente, indiscussa, comune a tutti, di
cui nessuno dubita, come quella del mondo esterno o dell'io, non
può essere affermata se non con un atto di credenza;
così speranza, credenza, certezza o realtà
costituiscono tre fasi tra cui i confini scompaiono, che
trapassano, si spostano, fluiscono l'una nell'altra. E come per
Hume lo stato meramente psicologico di aspettazione sicura diventa
la necessità (causale), così la premente speranza,
il profondo desiderio, lo spasmodico bisogno diventano certezza
che una cosa sia o avvenga.
È ovvio quindi (come quest'analisi ci ha ora reso ancora
più chiaro) che, stante tale incertezza e fluttuazione di
confini tra speranza, credenza e realtà, gli uomini
riescano a trasformare o cancellare i fatti secondo i loro
bisogni, desideri, istinti, secondo la loro
«volontà» – o (che è enunciare in altre
parole ciò che abbiamo detto sin qui) riescano a
trasformarli o cancellarli in forza di quelli che Bacone chiamava
«idola tribus» e il Guastella «sofismi
a-priori», «errori strutturali della nostra
intelligenza», i quali da quei bisogni, desideri, istinti,
«volontà» scaturiscono inevitabilmente;
inevitabilmente per l'immensa maggioranza umana che non sa
strapparsi al sentimento ed alla visuale antropomorfica,
necessaria generatrice, mediante i suoi peculiari bisogni ed
istinti, di quei sofismi a-priori ed errori strutturali. E
poiché appunto indagini come quelle di Hume e di Guastella
ci provano che ogni affermazione di realtà, compresa quella
che pare più evidente di tutte, quella cioè che
riguarda il mondo esterno o l'io, deriva – o almeno non si
può mai essere sicuri che non derivi – da un atto di
sentimento, di credenza, dal voler credere così, dall'aver
bisogno di credere così, e quindi dal particolare
atteggiarsi nell'uomo del sentimento, dei bisogni, della
«volontà», dall'essere insomma umanamente
condizionati, dall'essere uomini; così è d'uopo
concludere che a quella visuale antropomorfica ed ai sofismi
a-priori ed alle trasformazioni o cancellazioni dei fatti che vi
sono congiunte, non si sottraggono se non i pochissimi che hanno
la forza di astenersi nel campo teoretico da qualsiasi
affermazione e di tener fermo a quella scettica ἐποχή con la quale
soltanto pienamente si adempie il dantesco consiglio:
E questo ti sia sempre piombo a' piedi,
Per farti mover lento,
com'uom lasso,
E al sì e al no che tu non vedi.21
Frattanto nulla dimostra il ciecamente ostinato ottimismo umano e
la sua sorprendente capacità di far sparire i fatti che lo
contrastano, meglio della seguente constatazione.
Non v'è fatto più palmare, innegabile,
quotidianamente avvertito fin da quando l'umanità ebbe il
primo barlume di pensiero, di quello che gli uomini muoiono. Ma
è un fatto immensamente doloroso, doloroso disperantemente,
cioè senza più possibilità di speranza. Un
fatto, dunque, che sommamente urta l'inguaribile ottimismo umano,
e contro il quale quindi questo (per il processo induttivo ex
contrario dianzi descritto) doveva erigere tanto più viva,
solida, evidente la speranza-credenza-certezza dell'opposto. E
così anche questo fatto toccato con mano con evidenza
meridiana da millenni, l'ottimismo umano è riuscito a
cancellare. È riuscito a persuadere, a far certi, d'una
certezza per molti più sicura che non l'esistenza delle
cose sensibili, che quel fatto, in cui si è sempre dato di
cozzo ogni giorno, non esiste; che gli uomini non muoiono; che la
loro morte, pure di continuo sperimentata, non è morte,
è una morte parvente, una morte della loro scorza, ma che
nel loro nucleo essenziale essi non muoiono mai.
«L'âme,» scrive Montaigne, che in tal guisa
appunto spiega la fede dell'immortalità «par son
trouble et sa foiblesse, ne se pouvant tenir sur son pied, va
questant de toutes parts des consolations, esperances et
fondements, et des circonstances estrangieres où elle
s'attache et se plante; et pour legiers et fantastiques que son
inventions les lui forge, s'y repose plus seurement qu'en soy, et
plus volentiers».22 In tal guisa l'uomo, per l'irrepremibile
e onnipotente azione alteratrice del suo ottimismo, per il suo
voler credere così, voler che sia così, avendone
egli bisogno, ossia perché, secondo il Leopardi esprime la
cosa in uno dei suoi scritti più profondi e meno letti,
è evidente come esso
Ciò che d'aver per fermo ha stabilito
Creda talmente che
dal creder quello
Nol rimuova ragion, forza o partito23
è riuscito a cancellare anche l'incontrastabile fatto della
morte.
Ma poiché, come pure il Leopardi constata,
Non è filosofia se non un'arte
La qual di ciò che
l'uomo è risoluto
Di creder circa a qualsivoglia
parte,
Come meglio alla fin l'è conceduto,
Le ragioni
assegnando, empie le carte,24
così non poteva non darsi che tutta la filosofia non fosse
al servizio di questo bisogno, di questa
«volontà» che ha l'uomo di non morire, e quindi
della costruzione della speranza-credenza-certezza che non si
muore. E infatti tutta la filosofia, dal Fedone all'idealismo
«attuale», si può prospettare come uno sforzo,
sempre più complicato e sottile, sempre meno ingenuo,
sempre più astuto, infaticabile a cercare nuove vie,
elaborate, tortuose, strane, evanescenti, man mano che ognuna
delle più semplici e chiare precedenti veniva distrutta,
perdentesi infine nella nebbia, ma incoercibile e sempre
risorgente, per cancellare il fatto della morte.
Ora, se il fatto della morte cruccia e appunto perciò deve
non esistere, il fatto delle contraddizioni dà fastidio.
Nulla irrita generalmente di più dell'essere presi in
contraddizione; e la presenza d'una circostanza contraddittoria,
ossia per noi assurda, nella quale cioè la contraddizione
che vi vediamo non concede alla nostra mente di trovare il
bandolo, lascia questa in una perplessità, in un imbarazzo,
in un'incertezza, in un'oscillazione da cui vogliamo liberarci,
trovando il bandolo ad ogni costo. Poiché le contraddizioni
fastidiscono come la morte strazia, così, alla stessa guisa
della morte, le contraddizioni devono non esistere. E di
conseguenza tutta la filosofia, come, sotto un aspetto, può
essere prospettata quale lo sforzo per far sparire il fatto della
morte, può essere, sotto un altro aspetto, prospettata come
lo sforzo o la prestidigitazione per far sparire il fatto delle
contraddizioni.
III
L'ARTE DI MASCHERARE
LE CONTRADDIZIONI
Il periodo, tra i ben noti, più interessante del pensiero
umano, è forse quello greco che va press'a poco dalle
guerre persiane alla guerra del Peloponneso. Perché in esso
assistiamo a questo spettacolo drammatico: la mente umana, finora
vivente di vita, a così dire, istintiva, finora immersa nel
costume che nei vari luoghi la attorniava, la mente umana che
finora era tutta nel costume e il costume era in essa tutto e per
cui il suo costume era l'universale e l'assoluto, riesce per la
prima volta a levar su il capo e a guardarsi attorno; e fa allora
la constatazione stupefacente che il costume non è assoluto
e universale, che è diverso di luogo in luogo, che giusto,
bello, buono, santo è alcunché di differente in
Atene e in Sparta, in Grecia e in Persia, in Egitto e in Fenicia.
E davanti a questa sbalorditiva esperienza che gli uomini la
pensano diversamente, che ciò che è evidentemente e
incrollabilmente vero (qui e per me) pur non lo è
(là e per te), la mente umana, dopo un istante di
smarrimento, lancia coi Sofisti, i più grandi pensatori
della Grecia e forse del mondo, il grido della sua superba
scoperta.
I Sofisti sono i primi che si svincolarono dalla prigionia del qui
e dell'ora. I primi che riuscirono a vedere il presente, il
vicino, il familiare sotto l'angolo visuale del lontano,
dell'inconsueto, del diverso. I primi che seppero non vivere
soltanto nel vicino, non far centro esclusivamente nel vicino e
dove si è, ma anche nel lontano e dove non si è.
Dunque, per quanto riguarda le cose dello spirito, i primi
copernicani. Coi Sofisti l'umanità comincia ad acquistare
il senso copernicano. Qui, noi, non è l'assoluto, non
è tutto. Qui vale come là; noi come loro; la nostra
verità come la loro. Quindi la nostra verità
(nessuna nostra, la nostra di nessuno) non è la
verità. Il centro della verità non è qui,
attorno a noi, in noi. Ma, del pari, non è in nessun altro
qui, in nessun altro noi. Il centro della verità non
è in nessun luogo. Non esiste. Questo è pieno
copernicismo spirituale. Ed è anche pieno scetticismo.
Poiché il copernicismo, discentrandoci,
disassolutizzandoci, relativizzandoci, mettendo il noi allo stesso
livello del non-noi, deprimendo il nostro angolo visuale, il punto
di vista da cui guardiamo l'universo (cioè la nostra
verità) al grado d'uno qualunque dei diversissimi, e tutti
ugualmente illusori, angoli visuali donde altrove (in altri
pianeti) si vede o si vedrebbe l'universo – il copernicismo, dico,
non è che un capitolo dello scetticismo.
«Se giusto, santo, bello, buono è alcunché di
diverso da luogo a luogo, da popolo a popolo, da uomo a uomo,
allora nulla c'è di assoluto; nulla quindi che sia
apoditticamente razionale, cioè che venga alla luce quale
risultato d'una necessaria formazione e determinazione della
ragione, perché se alcunché si generasse così
dovrebbe valere universalmente e trovarsi quindi dappertutto,
essere sempre e dovunque uno, quello, la ragione non essendo tale
che in quanto sia universale ed una. Ogni prodotto spirituale,
adunque, è formazione non della ragione, ma della pressione
o autorità arazionale del fatto naturale o sociale esterno
accidentalmente qua e là diverso. L'uomo individuo è
la misura delle cose e vero è quel che a ciascuno
appare». – Così suonò nei Sofisti quel grido
di scoperta. Questo è il significato delle contraddizioni,
nella schietta immediatezza di visione con cui scorgendole per la
prima volta, lo colse allora la mente umana; per la quale, nella
sua freschezza di giudizio, il venir meno dell'unità, della
comunità, dell'universalità di pensiero sui fatti
concreti, sui contenuti positivi e particolari dello spirito,
sulle idee e sugli ideali determinati, è venir meno
irreparabilmente dell'assoluto e dell'universale, è
l'ineluttabile irruzione dell'irrazionalismo e dello scetticismo,
mentre solo successivamente, sospinta dal bisogno dianzi descritto
di far sparire i fatti spiacevoli, essa si decide a contentarsi
d'una unità e d'una comunità, non più sui
contenuti concreti, ma, come ora vedremo, sulla semplice buccia di
essi.
Infatti, sulla scoperta dei Sofisti s'affrettò a calare lo
spegnitoio socratico-platonico, tipico insigne esempio d'arte
abilissima nel collocare i fatti nel bozzolo che li trasforma e
nel soverchiare e nel mettere in silenzio la voce fastidiosa di
chi li aveva presentati nudi. «Di che contraddizioni o
diversità andate cianciando? Contraddizioni vi sono nei
vostri pensieri solo finché non sapete coglierne il fondo
essenziale. Contraddizioni nelle cose, nei fatti, nei contenuti,
solo finché li guardate nella loro individualità
percepibile di esistenze singole. Ma se io vi guiderò al
fondo dei vostri pensieri e vi condurrò a vedere che voi
stessi scorgete come essenza delle cose, dei contenuti spirituali,
delle azioni d'una data specie, i caratteri sostanziali che come
tale essenza scorgo anch'io, ecco che allora esse cose non sono
più quel che a ciascuno appare, bensì, nei loro
caratteri fondamentali, in quanto cioè vera cosa, cosa
pensata e non meramente percepita, sono le stesse per me, per voi,
per tutte le menti. In questi caratteri basilari (cioè nel
concetto o idea della cosa) s'accomunano così, non solo le
nostre menti tra loro, ma tra loro le singole cose o azioni stesse
di ciascun ordine, che voi, perché le guardate nella loro
accidentalità, superficialità, particolarità
singola, vi ostinate a chiamare diverse e contraddittorie. Il
Buono, per esempio, come fatto o contenuto concreto e singolo,
può essere diverso in Grecia e in Persia, o anche per un
guerriero e per un magistrato; ma in tutti i più
esteriormente diversi fatti concreti o casi ed esempi singoli e
particolari di buono, s'incarna, come la loro anima, la conoscenza
di ciò che va fatto, la conoscenza del bene, l'idea del
bene. Questa è che fa essere ognuno di quei diversi casi di
buono, ugualmente buono. Questa è dunque la vera essenza di
tutti. Essenza che è quindi in tutti unica sotto la
diversità o contraddizione superficiale, e in cui
perciò si accomunano nella loro apparente contraddizione,
tutti i fatti buoni e tutte le cose buone, come nel riconoscerla
quale vera essenza di queste s'accomunano tutte le menti. E come
nel caso dei singoli fatti o delle singole cose buone, così
rispetto ogni altra cosa, i caratteri fondamentali di essa, questa
sua essenza o concetto, sono ciò che forma la vera
realtà delle cose, sono le vere cose, mentre quella
percepibile, individuale, singola, in cui esistono le
contraddizioni, è una loro realtà soltanto
superficiale e apparente». – Tale l'espediente con cui lo
spegnitoio socratico-platonico operò.25
Espediente il quale si trova riprodotto in tutte quelle filosofie
successive che, maschere della realtà, sono al servizio del
bisogno di far scomparire il fatto fastidioso delle
contraddizioni. Lo ritroviamo quindi tale quale nell'epoca
moderna; solo che qui esso procede maggiormente per tappe e gradi
e mette capo ad una ancor più risoluta accentuazione
dell'astrazione che non nel pensiero antico. E quando Hobbes
rinnova l'identica posizione dei Sofisti, negando la perseitas del
vero e del bene, affermando che questi non scaturiscono da
un'universalità della natura umana, non sono tali per
natura («neque ulla boni, mali et vilis, communis regula ab
ipsorum objectorum naturis derivata»),26 non sono
universali, ma sono resi qua e là variamente vero e bene
dall'autorità del fatto sociale eterno (o, com'egli diceva,
«ad habente potestatem summam»);27 contro questa
rinnovazione hobbesiana del pensiero sofistico i platonisti di
Cambridge, Cudworth e More, e Cumberland si sforzano di additare
un «consensus gentium», delle «communes
notiones», una «eternal and immutable morality».
Quest'è la prima tappa. E poiché tale sforzo crolla
sotto i colpi di Locke, il quale dimostra che non v'è
nessun «consensus» su nessuna questione spiritualmente
importante, che non esistono «notiones» (cioè
idee aventi un contenuto concreto) che siano
«communes», si abbandona questa trincea smantellata,
per resistere su di una linea più interna: visto
impossibile sostenere, contro Hobbes, l'universalità
facendo capo a contenuti concreti di idee, a princìpi
concreti, per quanto generalissimi, si ritorna a poco a poco –
quest'è la seconda tappa – al tentativo platonico di
collocarla nella pura forma vuota d'ogni contenuto.
Così, l'antico espediente finisce per riprodursi tutto
intero nel pensiero moderno e contemporaneo, con la sostituzione
al nome platonico di idea, in Rousseau del nome di
«volontà generale» e «interesse
comune» (che, privo di ogni contenuto determinato,
consistente solo in quel qualunque ciò che il voto della
maggioranza desidera, è quindi concetto puramente formale,
pura forma solo nella quale si ricostituisce l'unità o
unanimità di maggioranza e minoranza);28 in Kant del nome
di categorie, che non sono se non il raffinamento delle
«notiones communes» dei platonisti di Cambridge; negli
idealismi successivi e contemporanei del nome di forma o
attività dello spirito. Tutti diversi nomi per dire
l'identica cosa che Socrate e Platone avevano detto, per rinnovare
l'identico espediente che il primo con la parola
«concetto», il secondo con la parola
«idea» avevano già messo in opera: con la sola
differenza che (come si rende necessario ogni qualvolta contro un
precedente tentativo di far sparire le contraddizioni e
ristabilire l'unità, le critiche diventano più
stringenti) l'unità, l'universalità, l'assolutezza
è collocata ancor più lontana dal mondo concreto e
sensibile; la buccia, in cui essa è fatta consistere,
diventa ancor più vaporosa, lata, generica; e se Socrate e
Platone potevano contentarsi di sostenere che l'unità,
infranta dalle contraddizioni nei singoli fatti concreti, pur
esisteva da esse immune, perché esisteva nel concetto o nei
tipi ideali eterni delle specie o generi di fatti e di cose,
quando una lunga esperienza dei dibattiti filosofici rese accorti
che neppure ciò bastava più, soccorsero all'uopo
astrazioni o genericizzazioni ancora più ampie, le
categorie, le forme, o attività dello spirito, ed infine la
forma delle forme, lo spirito come forma di tutto e che dà
forma a tutto: quest'ultimo, dunque, nient'altro che una diversa
denominazione dell'ens generalissimum e realissimum dei realisti
scolastici medioevali, cui questi attribuivano la maggior
realtà appunto perché possedeva la maggior
universalità (e indeterminazione) e in grazia della
partecipazione graduale al quale pensavano giungessero all'essere
le singole cose. – Poiché così per quanto riguarda
la non-morte, come per quanto riguarda la non-contraddizione ossia
l'universalità e l'assolutezza, il processo per farle
risultare esistenti malgrado che i singoli fatti percepibili e le
individue cose concrete vi stiano contro, consiste sempre nello
spingere non-morte e non-contraddizioni continuamente più
in là, più oltre il mondo, più
nell'impalpabile, rendendole quindi un bersaglio sempre più
difficile da colpire; e insieme nel cercar di far sì che
nel pensiero degli uomini il centro o il perno della vera
realtà si trasferisca dalle singole cose individue a
quell'impalpabile.
Ma l'espediente è in sé sempre lo stesso. Allora si
diceva: l'assoluto, la verità, l'unità, esente dalle
contraddizioni, sta nell'idea che si incarna nelle cose, che ne
costituisce l'anima e l'essenza, che dà loro l'essere, che
è il loro vero essere. Oggi si dice: assoluto,
universalità, verità, librantesi sopra le
contraddizioni e le diversità dei fatti empirici e concreti
e da queste non tocca, sta nelle forme o attività
spirituali, e in ultimo nella forma-spirito, che sono ciò
che dà esistenza a tutto. – Chiunque sappia cogliere le
cose nella loro radice essenziale e guardarle con l'occhio sgombro
dalla nebbia che i particolari e le minuzie affastellano, scorge
tosto che l'espediente è identico.
E l'espediente è, in entrambi i casi, un giuoco di parole.
Non ci doveva essere bisogno della penetrante e ampia analisi del
Simmel,29 per rendere chiaro che, come concetto o idea,
così forma, categoria dello spirito, spirito, coscienza, in
quanto in esse e mediante esse si pretenda di ritrovare
quell'universalità e assolutezza che vien meno nei loro
contenuti concreti, sono forme o buccie assolutamente vuote, puri
circuiti che, qualunque più opposto contenuto accogliendo
indifferentemente in sé, sono del tutto insignificanti, un
nulla, un vero flatus vocis. La forma «dovere», per
esempio, in quanto, se pensata rigorosamente come pura forma,
dev'essere tenuta presente come separabile da ogni contenuto,
anche da quelli in cui per noi uomini d'una determinata
società il dovere consiste, e congiungibile coi contenuti
più antitetici e ripugnanti a questi nostri; in quanto,
insomma, non è che il colorito d'uno speciale sentimento
che può avvolgere, improntare, informare di sé
azioni diversissime, anche le più opposte a quelle su cui
per noi, ora e qui, si imprime (e che, in fatto, su tali azioni
più opposte sappiamo che si è impresso nel passato,
si imprime altrove, si imprimerà nell'avvenire); la forma
«dovere», dico, il dovere come forma, appunto
perché può essere tutto, qualunque più
opposta cosa, è assolutamente insignificante, il nulla. E
v'è, a provarlo, un argomento decisivo, non mai, che io
sappia, accampato. La parola «dovere» è usata
anche dal delinquente; la forma «dovere» opera anche
in lui nella sua attività criminale; è così
indifferente ad ogni contenuto, e quindi così nulla, che
informa di sé, chiama in sé (cioè come
dovere) alla luce, chiama all'esistenza di dovere, anche l'azione
delittuosa. Il delinquente anziano e maestro dirà al suo
giovane affiliato: «tu devi appostarti qui, devi nascondere
così quest'arma, devi aver colpo d'occhio, sicurezza e
coraggio, e se sei preso non devi mai tradire ». E le
istruzioni o gli ordini del superiore susciteranno nell'altro (che
vive tutto di tale vita ed il cui spirito da questa disciplina
soltanto è foggiato) un vero senso di dovere, una vera voce
della coscienza, appunto l'imperativo categorico o «tu
devi» kantiano, disinteressato così, così
obbedito soltanto per «rispetto al dovere», che spesso
per seguirlo egli esporrà la vita. È proprio
ciò che constata il Manzoni quando della vecchia del
castello dell'Innominato scrive: «L'idea del dovere, deposta
come un germe nel cuore di tutti gli uomini, svolgendosi nel suo,
insieme co' sentimenti d'un rispetto, d'un terrore, d'una
cupidigia servile, s'era associata e adattata a quelli».30
Tanto la forma «dovere» (e così ogni altra), la
quale come pura forma si inscrive su tutto e può prendere
qualunque contenuto, la quale può abbracciare in sé
anche il delitto, è interamente insignificante; tanto sono
insignificanti un'universalità e un'unità fatte
consistere in detta forma, posto che in esse si accomunano persino
delitti e buone opere. Chiunque ha saputo pensare sino in fondo ed
ha chiaro davanti (quale diventa, ad esempio, nelle pagine del
Simmel) che cosa voglia dire forma assolutamente pura, cioè
non qualificata o caratterizzata dalla natura e dal riflesso
d'alcun contenuto particolare, e come proprio qualunque sia il
contenuto che la forma, se è davvero soltanto tale,
dev'essere concepita come suscettibile di accogliere, non
può più dubitare un momento di tale insignificanza.
E se contro l'esempio che abbiamo dato si obbiettasse che la
coscienza del giovane delinquente lo avverte che ciò che
gli si ordina è male, mediante la riluttanza che a
ciò da principio egli prova, bisognerebbe rispondere che
tale riluttanza, fatto anch'esso meramente formale, è tanto
poco l'indice dell'essere un'azione cattiva, che essa accompagna
spessissimo azioni altamente morali,31 quando non consuete o
contrarie alla valutazione dominante (ad esempio, il mettersi in
opposizione con la religione da tutti seguita, che si giudica
falsa, o con l'ordine sociale esistente, che si giudica ingiusto).
Precisamente così come il rimorso, fatto pur esso soltanto
formale, è tanto poco congiunto esclusivamente con le
azioni cattive e quindi specifico rivelatore della qualità
cattiva d'un'azione, che si riflette assai di sovente anche su
azioni buone, anzi forse più di sovente che non sulle
cattive. V'è un rimorso del bene forse più frequente
del rimorso del male. È il rimorso che, nell'uomo divenuto
sperimentato della vita, al ricordo di atti di rinuncia,
astensione, rigidità, intransigenza virtuosa,
compìti tempo addietro per entusiasmo morale giovanile, si
esprime col pensiero: «quanto sono stato semplice! in
quest'altra guisa dovevo agire». È il rimorso che il
poeta indiano Amaru32 fa parlare così nella fanciulla:
«Come sono stata sciocca!
Ho sottratto la mia bocca,
Alle
sue labbra di foco!...»
E le punge ignota cura
D'esser stata
così dura.
Giuseppe Ferrari scrisse: «Se il sentimento del dovere fa
vergognare quelli che gli resistono, se rode col rimorso, anche
l'interesse trae al suo seguito una legione di pentimenti e di
dolori; anch'esso ci punisce col rimorso, e si vale della vergogna
per farsi obbedire. Guardate ai fatti: quella fanciulla geme, le
pesa la sua verginità; quel re è afflitto, ha
commesso l'errore d'esser giusto... quel ministro è
infelice, vorrebbe aver violata la fede. Tito era mesto il giorno
in cui non era stato benefico; il condottiero Cabrino Fondulo
moriva disperato per non aver morto il papa e l'imperatore quando
li aveva ospitati a Cremona».33 Pienamente conforme è
il pensiero dello Spencer: «a feeling which prompted a wrong
action, but was effectually resisted, will, in some cases,
afterwards generate regret that the act prompted was not
committed; while, conversely, a good action at variance with the
habitual bad actions may be followed by repentance».34
È quel rimorso a cui il Croce, che non può a meno
anch'egli di riconoscerlo («quel ladro o quell'assassino
avrà rimorso non di aver fatto il male, ma di non averlo
fatto») chiama «rimorso economico».35
La forma «dovere» e quest'altre pure forme della
riluttanza, del rimorso, della voce della coscienza, della
coscienza, dello spirito, appunto perché pure forme che si
applicano a tutto, vasi in cui qualunque materia può essere
contenuta, non significano nulla, e nulla perciò significa
un'unità, universalità, assolutezza, asserita
superante le contraddizioni dei contenuti, in quelle pure forme
riposta.
Insomma. Dire: poiché fatti o contenuti, sia pure diversi
oggi rispetto a ieri e domani rispetto a oggi o là rispetto
a qui, nell'atto che passano davanti allo schermo dello spirito,
sono però da questo sempre del pari sussunti nella sua,
eternamente una, sfera del vero o del bello o del buono;
poiché ad essi contenuti diversi (ieri al contenuto
«cieli di cristallo», oggi al contenuto «sistema
copernicano») è dallo spirito impressa la stessa,
eternamente una, qualifica, o definizione o nome di
«vero»; perciò siamo sollevati sopra il turbine
delle contraddizioni e della relatività e posiamo
nell'assoluto – è un giuoco di parole e un nonsenso.
Infatti, appunto questo assumere nella medesima sfera di spirito
cose diverse, questo qualificare ugualmente contenuti diversi,
applicarvi la stessa definizione, darvi lo stesso nome, appunto
questo è la quintessenza della contraddizione e la prova
che non esiste né ragione né verità.36
È insomma precisamente come allorché qualcuno
picchia alla tua porta e alla tua domanda «chi
è?» risponde «io». Egli crede con questa
parola d'aver designato indubitabilmente la cosa assolutamente
specifica e inconfondibile, una individualità precisa ed
unica. Ma tu (se non ne conosci la voce) constati allora che io
è una pura forma e quindi insignificante, perché
significa del pari e designa indifferentemente tutti gli individui
diversi.
Ma quando, poi, nell'epoca moderna, sorse un altro pensatore,
Hegel, che, al pari e forse più dei Sofisti, ebbe
estremamente viva ed acuta la sensibilità delle
contraddizioni; quando egli più spiccatamente d'ogni altro
(a tacere di Herbart, che ebbe pure vivissima la
sensibilità delle contraddizioni, ma che merita minor
attenzione per la maggior debolezza del suo tentativo di
superarle) seppe vedere che ogni cosa, ogni situazione di
coscienza, ogni stadio sociale e storico sviluppa in sé i
germi che lo fanno trapassare nel suo opposto, che ogni posizione
di pensiero origina in sé gli elementi che la rovesciano,
che ogni sì genera contro il suo no (questo è
veramente «ciò che vi è di vivo» in
lui); e quando concomitantemente a ciò egli eliminò
la ragione dal reale (questo è, contro l'interpretazione
comune, come diluciderò fra un momento, il suo
«segreto») – fu egli medesimo che si sforzò di
applicare lo spegnitoio alla sua stessa intensissimamente lucida
visione del significato dei contrasti, sostenendo che essi
costituiscono un momento secondario e subordinato, perché
si coordinano ad armonia nel tutto, perché sono parti
integranti d'una verità superiore, perché da ogni
contraddizione, cioè negazione d'una posizione precedente,
si passa, mediante la fusione di quella con questa, ad una sintesi
affermativa e positiva superiore. Quasiché anche questa non
venisse tosto travolta da un'altra negazione e così via
incessantemente, per cui il momento perennemente saliente è
sempre quello della contraddizione, della negazione, del
rovesciamento. Quasiché le cose non ci presentassero,
secondo la espressione oraziana,37 una concordia discors.
Concordia discors, e non già discordia concors:
un'apparente e iniziale unità che si dirompe sempre e
termina nella disunione e nella contraddizione, non già
un'iniziale disunione di cui l'unità e la pace stabilmente
definita e raggiunta sia il punto terminale. Quasiché,
insomma, il non esserci mai questa unità e questa pace
definitiva e permanente, l'essere invece ogni situazione
instabile, mobile, sempre in processo di divenir altro e mutarsi,
cioè in ogni puntuale istante minata e progressivamente
travolta da alcunché di altro da essa, dalla sua negazione,
non dimostrasse che l'elemento veramente permanente, dominante,
signore della realtà, è l'elemento della negazione e
della contraddizione; che nella successiva distruzione e caduta di
tutto quello che solo per un momento è, ciò che
è indistruttibile e veramente eterno ed assoluto è
solo la molla, il motore, il fermento della dissoluzione, della
caduta, della distruzione; che solo lo «spirito che
nega» trasvola, perpetuo e irrovesciabile sovrano, sui mari
e sulle terre.
E quando, infine, sulla falsariga hegeliana pensatori
contemporanei sostengono che non esiste bensì
fissità della verità, ma ciò non toglie
l'esistenza della verità, e non ci lascia quindi in balia
delle contraddizioni, perché è lo spirito che fa la
sua verità, ed esso quindi, poiché la fa
progressivamente sempre più vera, poiché passa
eternamente da una verità inferiore a una verità
superiore, è sempre in un presente di verità; quando
dicono così, costoro fingono di non vedere che lo spirito
non passa per fasi unitarie, totali e compatte da una ad un'altra
verità, ma ad ogni fase e ad ogni momento è, nei
vari pensatori, su tutti i campi scisso in visuali, ossia
verità, micidialmente contrarie e negantisi a vicenda,
senza che sopra queste esista autorità o criterio per
stabilire se una di esse vi sia e quale di esse sia che coincida
con la verità.38
IV
IL SIGNIFICATO
DELLE CONTRADDIZIONI
Nessun sotterfugio filosofico riesce dunque a togliere, velare o
mutare il significato delle contraddizioni, per chi sappia
guardarle senza i paraocchi speculativi. Ed è appunto
questo fatto triviale e puerile che ci contraddiciamo, quello che,
affacciandomisi con la stessa estremamente vivace genuinità
con cui colpì coloro che lo percepirono per la prima volta,
cioè i Sofisti, mi dà sempre più
l'impressione d'essere il fatto decisivo per l'interpretazione del
mondo.
L'impressione, cioè, che esso mi suscita è la
seguente.
Hegel, ho detto, elimina in verità la ragione dal reale.
Nell'Aufklärung, la ragione umana, la ragione soggettiva,
aveva sottoposto alla sua critica demolitrice storia, costumi,
credenze religiose. No, dice Hegel. Non si tratta di criticare il
reale con la nostra ragione soggettiva; non è possibile;
è ridicolo farlo: come potremmo esser noi, soggettivamente,
noi minuscoli prodotti dello stesso reale, come potrebbero essere
i pareri che ci vengono in testa, il metro per giudicare
legittimamente questo reale immenso che ci genera e porta nel suo
seno? La realtà occorre, non criticarla, ma intenderla. E
la si intende solo se la si concepisce come l'estrinsecazione
d'una ragione, ma non già della nostra soggettiva,
bensì d'una ragione obbiettiva, impersonale,
extracosciente, la quale è la stessa che viene in noi alla
coscienza, qualora, rinunciando ai nostri pareri soggettivi, noi
aderiamo con la nostra mente a quella ragione obbiettiva,
cioè alla realtà in cui essa unicamente si
estrinseca e si rivela; col quale aderirvi e riconoscerla la
nostra ragione combacia con essa, nel che sta l'intendere, e si
ricongiunge e fonde con la ragione obbiettiva da cui la
realtà si è sviluppata.
Che è ciò? Poiché l'unica attività
ragionatrice di cui percepiamo e possiamo affermare l'esistenza
è la nostra, dire «ragione obbiettiva, non soggettiva
nostra», è come dire «ragione che non è
ciò che solo conosciamo come ragione», ossia è
dire «non-ragione». E dire che la nostra ragione
subbiettiva deve aderire a tale ragione obbiettiva, e, per essa,
alla realtà, in cui soltanto essa si estrinseca, è
dire che il fatto in quanto semplicemente fatto, titolato di
ragione come e perché è, è sovrano.39
Ma questo, in diverse parole, non è altro che affermare con
Hume che «necessity is something, that exists in the mind,
not in objects».40 Non è altro che riportarsi
all'intuizione di Spinoza, la cui essenza e grandezza consiste
appunto in ciò, che la «perfezione» (o
razionalità) delle cose è ridotta all'essere delle
cose come sono; che essa è un magnifico sforzo per far
contemplare lo sviluppo eterno delle cose con obbiettività
assoluta, come uno sviluppo che si fa in sé e da sé
senza cura per noi; che essa è dunque lo sradicamento dalle
cose d'ogni nostra categoria e veramente la soppressione d'ogni
nostro «dover essere» a beneficio del puro e semplice
essere (e che l'intuizione spinoziana sia tale è un fatto
che proietta luce sul «segreto» dell'idealismo
assoluto tedesco, che si volse a Spinoza con tanta simpatia e con
tanto senso di intima affinità). Non è, dunque, che
riportarsi all'intuizione di Spinoza, secondo il quale
«Perfectio igitur et imperfectio revera modi solummodo
cogitandi sunt, nempe notiones quas fingere solemus»41 per
cui egli dichiara: «Me Naturae non tribuere pulchritudinem,
deformitatem, ordinem, neque confusionem. Nam res non, nisi
respective ad nostram imaginationem, possunt dici pulchrae aut
deformes, ordinatae aut confusae».42 E per cui, ancora,
più risolutamente insiste: «Pulchritudo... non tam
objecti, quod conspicitur, est qualitas, quam in eo, qui
conspicit, effectus... adeo ut res, in se spectatae, vel ad Deum
relatae, nec pulchrae nec deformes sint»; e «Perfectio
atque Imperfectio sunt denominationes, quae non multum a
denominationibus pulchritudinis et deformitatis
differunt».43 Non è altro, infine, quella posizione
hegeliana, che riconoscere con colui al cui sguardo potente la
realtà lasciò lampeggiare i suoi lati più
profondi, col Leopardi, che «Le cose non sono quali sono, se
non perch'elle son tali. Ragione preesistente, o dell'esistenza o
del suo modo, ragione anteriore e indipendente dall'essere e dal
modo di essere delle cose, questa ragione non v'è,
né si può immaginare. Quindi nessuna
necessità né di veruna esistenza, né di tale
o tale, e così o così fatta esistenza... Niente
preesiste alle cose. Né forme, o idee, né
necessità né ragione di essere, e di essere
così o così. Tutto è posteriore
all'esistenza».44 Non è, insomma, se non dire, che la
realtà si sottrae alla valutazione razionale, che è
incommensurabile alla coscienza logica, che ad essa non trova
applicazione la categoria razionale-irrazionale, perché
tale valutazione e tale categoria nascono solo nelle nostre menti,
così come nell'Orsa Maggiore non è insita la figura
d'un carro, per il fatto che il nostro occhio ve la compone, e
anche se nessun occhio la guardasse. Ossia, secondo, ancora, Hume
esprime la cosa nel libro dove viene più chiaramente in
luce che l'irrazionalismo è la base della sua filosofia,45
tutto ciò equivale a chiedersi «quale particolare
privilegio ha questa piccola agitazione del cervello che noi
chiamiamo pensiero, perché noi dobbiamo farla così
il modello dell'intero universo»; equivale a domandarsi,
«poiché il pensiero, come possiamo ben supporre,
è confinato solamente a questo piccolo angolo ed ha anche
qui una così limitata sfera d'azione, con quale
attendibilità ci è lecito designarlo come la causa
originaria di tutte le cose»; equivale a constatare con lui
che quanto più si spingono avanti le ricerche circa i
procedimenti della natura, tanto più ci risulta che la
causa universale di tutto è «vastly different from
mankind»46 vale a dire (poiché
«umanità» vale «ragione», non
conoscendosi, come egli stesso avverte,47 altra «mind»
che l'umana) dalla ragione.
Ma come dunque la realtà si sottrae alla valutazione
razionale, come essa è non-ragione, così neppure
delle nostre ragioni si può dire che esse siano ragione,
che esse si trovino nel punto o centro certo della ragione, che
ineriscano ad esso (centro certo, dico, perché, se la
ragione esiste, non potendo essa essere che sempre una, quella,
deve consistere in un punto centrico unico, quasi a dire inesteso,
che non lasci latitudine a deviazioni). L'obbiezione che
Windelband muove a Schopenhauer, cioè che egli si sia
contraddetto perché non si capisce come
l'«irrazionale volontà originaria abbia avuto l'idea
di manifestarsi nella forma della coscienza razionale», come
«la volontà cieca abbia generato la coscienza
razionale, che è chiamata a vincerla»48 – tale
obbiezione, seppure regge contro Schopenhauer, non regge contro i
fatti, perché la coscienza o la mente che la realtà
originaria ha generato non è meno irrazionale di questa
stessa realtà. Aristotele e Kant concordano nel dire che il
carattere distintivo tra la veglia e il sogno è che nella
prima abbiamo tutti un mondo comune, nel secondo ciascuno un mondo
proprio. Ora, il fatto è che anche nella veglia il mondo
che abbiamo comune è limitatissimo ed elementarissimo e si
estende probabilmente soltanto al mondo della percezione sensibile
(fin qui soltanto, adunque, si estende la ragione come quel punto
centrico unico ed inesteso, che non lasci spazio a deviazioni, in
cui essa non può non consistere). Ma in tutto ciò in
cui siamo veramente noi, non è più così. In
un interessante, e istruttivo al riguardo, dialoghetto tra Ippia e
Socrate, riferito da Senofonte,49 Socrate ad Ippia, che lo
derideva pel suo ripetere sempre le stesse cose, risponde:
«ma e tu non dici forse sempre che due per cinque fa
dieci?». «Circa questi argomenti, sì,»
replica Ippia «dico sempre lo stesso, ma intorno al giusto
ho ora da dire una cosa nuova, alla quale nessuno potrà
contraddire». «Hai fatto dunque» ribatte Socrate
«una scoperta meravigliosa, se i giudici cesseranno dal
votare in senso contrario gli uni agli altri, e i cittadini
cesseranno dal contendere, dal litigare, dall'insorgere gli uni
contro gli altri circa la giustizia, e gli Stati cesseranno dal
dissentire intorno al giusto e dal guerreggiarsi».
Scetticismo di Ippia di fronte a Socrate e di Socrate di fronte ad
Ippia. In tutto ciò, adunque, in cui siamo veramente noi,
nelle nostre convinzioni più vitali, nelle nostre visuali
più intime e profonde, nel nostro modo (tanto nostro che
spessissimo non è nemmeno trasferibile in parole) di
scorgere complessivamente la vita, ciascuno vive chiuso in un
mondo esclusivamente suo proprio – nel suo mondo di convinzioni
religiose, di sentimenti morali, di idee artistiche, di
particolari concezioni di condotta pratica, di sfumature di
opinioni politiche –, universo spirituale che, come ho detto, nel
suo inscindibile complesso, non condividiamo con nessun altro, di
cui nessun altro può compartecipare. Veramente ogni monade
è un «miroir de l'univers à sa mode», lo
rappresenta «à sa manière»50 e
veramente, come accenna il Simmel,51 tutto al contrario di quanto
pensano gli idealisti, siamo, se mai, diventati uni e identici
solo nel nostro io superficiale ed empirico, ma invece proprio nel
nostro io profondo, metafisicamente unici, assolutamente diversi
da ogni altro.
Di questo avere ciascuno di noi, nel nostro più vero e
profondo io, il nostro mondo particolare – di questo fatto che per
Aristotele e Kant vuol dire vivere non nella razionalità
della coscienza sveglia ma nell'irrazionalità del sogno –,
riceve la percezione sempre più accentuata chiunque
possegga larga esperienza della vita e sguardo acuto a penetrare e
comprendere le più disparate situazioni psicologiche. Si
sappia osservare e rivivere in sé la coscienza del
religioso fervente e devoto e dell'incredulo militante, dello
scienziato pel quale il perno della vita è una serie di
riuscite esperienze di laboratorio e della signora elegante per la
quale esso sta nell'indossare un vestito di taglio squisito in una
società distinta – e si avrà la sensazione di questi
mondi spirituali irrimediabilmente diversi e dell'assoluta loro
incomunicabilità. Ora, ciò che in questo fatto della
eterogeneità e incomunicabilità dei nostri mondi
spirituali fa scorgere la prova della situazione di
irrazionalità in cui giacciono tutte le nostre menti,
è che ciascuno di questi mondi respinge l'altro come
irrazionale. Lo scienziato giudicherà la signora elegante
un cervellino vuoto, ma la signora elegante sorriderà dello
scienziato come di un pover'uomo, d'un «originale»,
d'un allucinato, cui un'ostinata fissazione toglie la visuale
semplice e sensata della vita. Un uomo d'affari o un agricoltore
non può non considerare come un monomane, come una persona
la cui mente è alterata da un'assurda idea fissa, in
sostanza come in qualche lato un pazzo, colui che, come noi
pensatori e scrittori, vive sotto il sentimento dominatore che la
vita vera consista nello scrivere i propri pensieri, che se non si
potesse più scrivere la vita diventerebbe inutile: colui
che fa consistere la vita nello scrivere. E viceversa il pensatore
e lo scrittore spesso considera l'uomo d'affari e di politica come
uno che si lascia abbacinare e stordire da superficialità
effimere e per esse perde di vista le cose eterne e sole
importanti della vita: lo considera, cioè, in sostanza,
anch'esso come un pazzo. Il che non toglie che l'uomo d'affari
abbia talvolta come un lampo che gli fa pensare: «ma tutto
questo mio agitarmi per cose triviali, piccole, prive di ogni
valore spirituale, per merci e dogane, per titoli e cambiali,
può dar senso ad un'esistenza umana?»; e al pensatore
una voce talvolta sussurri: «a che questo eterno e inutile
mulinare con fantasmi cerebrali, aggirantisi fuori della
realtà concreta e mondana? non sarebbe più serio
piantare e far crescere un albero fruttifero?». In tal guisa
ogni ragione, ogni mente, chiusa nel proprio universo spirituale,
riscontra in ogni altra (quando non talvolta in se stessa) una
non-ragione. E la constatazione, che da ciò scaturisce,
d'una universale non-ragione, della (come diceva Schopenhauer)
«ursprüngliche Unvernünftigkeit unsers
Wesens»,52 è quella che quasi tutti i pensatori i
quali hanno saputo guardar le cose umane più in fondo,
dovettero fare. Così già anche Socrate, il quale
chiaramente scorgeva che il fatto del discordare è indice
di pazzia: οὐ ταὐτὰ δοξάζειν ἀλλήλοις, ἀλλὰ τοῖς μαινομένοις
ὁμοίως διακεῖσϑαι πρὸς ἀλλήλους.53 Così Schopenhauer stesso
quando constata «che l'uomo è sempre aperto
all'illusione, poiché è preda di tutte le
immaginabili chimere che gli si instillano, le quali, agendo come
motivo della sua volontà, possono spingerlo a stoltezze e
pazzie d'ogni specie e alle più inaudite
stravaganze»,54 e quando altrove conferma che la
considerazione dei comportamenti umani lo ha pienamente convinto
dell'antica sentenza «humani generis mater nutrixque
profecto stultitia est».55 Così il Leopardi, quando
rileva che «la cosa più rara nella società
è di trovare un uomo che veramente non sia, come si dice,
un originale» e «che rade volte ti avverrà di
usare lungamente anche con una persona civilissima, che tu non
iscuopra in lei e ne' suoi modi più di una stranezza o
assurdità o bizzarria tale che ti farà
maravigliare».56 Così il La Rochefoucauld,57 quando
vergava questa sua massima, piena anche tra le righe di
così ampia verità: «La folie nous suit dans
tous les temps de la vie. Si quelqu'un paroît sage c'est
seulement parce que ses folies sont proportionnées à
son âge et à sa fortune». Così un
religiosissimo scrittore come Hilty, quando riconosce che
«in ogni uomo vi è qualcosa di stravolto (Verkehrtes)
circa le sue inclinazioni, che talvolta confina realmente con la
pazzia (Verrücktheit) nel senso letterale della
parola».58 Così, un pensatore, egli pure
profondamente religioso, il Pascal, quando, con la sua
estremamente vibrante sensibilità, percepisce la situazione
spirituale umana come segue: «Les hommes sont si
nécessairement fous, que ce serait être fou par un
autre tour de folie de n'être pas fou»;59 cioè
nell'irrazionalità (pazzia) universale e connaturata alla
mente umana, stante vale a dire il fatto che la mente non coincide
o inerisce coll'inesteso punto centrale unico di ragione, pazzia
sarebbe pretendere di possedere una mente che vi inerisse,
seppure, inoltre, fosse possibile aver un criterio per determinare
quando a quel punto centrale (supposto che esso esistesse) una
mente inerisce e quando no.
Giacché tale criterio non c'è. Prendiamo un'antitesi
estrema. La visuale del teppista, pel quale l'unica vita da vivere
è quella notturna e losca di ozio, di sangue, di vizio, e
quella dell'ordinario ben costumato cittadino e padre di famiglia.
Qui pochi saranno disposti a riconoscere che entrambe queste
visuali, viste dall'interno, appariscano razionali, e che la
seconda per giudicare della prima possegga solo un metro in nulla
superiore a quel che possiede la prima per giudicare la seconda,
cioè un modo di vedere soggettivo, un individuale parere.
Qui si griderà facilmente che è evidente, che
è indiscutibile, che solo la seconda visuale è
quella razionale e normale. Ma attenuiamo alquanto l'antitesi.
Poniamo di fronte la visuale dell'uomo che, vivente nei limiti
dell'ordinaria correttezza, è abile e pronto a sfruttare
senza riservatezze e scrupoli le occasioni propizie e ama vivere
la sua vita con larga grossolanità gaudente; e la visuale
dell'uomo attaccato rigorosamente ai princìpi, non
procacciante, alieno da transazioni o intrighi, che perde in causa
di ciò occasioni di farsi strada o arricchirsi, e si
attiene ad una vita semplice, modesta, ristretta: la visuale
dell'uomo «puro», dalle «mani nette». Qui
crescerà d'assai il numero di coloro che riconosceranno
legittima l'incertezza circa la decisione quale delle due visuali
sia quella razionale e normale. Il caso precedentemente addotto,
del rimorso del bene, del giudicare, cioè, che noi
facciamo, ingenuo, sciocco, irrazionale un precedente atto
d'impeccabilità da noi compiuto – con grande rilievo il
caso di Pafnuzio60 – sta là a provarlo. La stessa
«normalità» di pensiero e di vita, infatti, non
è forse un modo di vedere, una «fissazione»?
Non sarebbe, invece, vera l'altra visuale? Già solo che
l'altro veda così è una ragione d'incertezza. E non
infrequentemente l'uomo «normale»,
«virtuoso», il «puro», si sente assillato
dal dubbio se non sia egli pazzo, se veramente non sia egli che
sacrifica la vita per delle ubbie. La «virtù»
del resto, non appena si fa fervida, conseguente, tenace (come, ad
esempio, teoreticamente in un Fichte, o praticamente, poniamo, in
un Savonarola) non diventa essa (e, tipicamente, per uno che si
affatica da tempo a sedurre una donna, l'ostinata
«virtù» di costei) un'idea fissa,
un'eccentricità, una cocciutaggine, una cecità, una
pazzia? E se Bruto alla soglia della morte poteva riassumere
l'esperienza conclusiva della sua vita con la famosa frase
«o virtù miserabile eri una parola nuda e io ti
seguivo come tu fossi una cosa», perché questo
pensiero non potrà balenare come una verità
razionale a chiunque altro in una o altra fase dell'esistenza?
Anche qui colui che ha pronunciata la parola insuperabilmente
risolutiva è stato Pascal. «Ceux qui sont dans le
dérèglement disent à ceux qui sont dans
l'ordre que ce sont eux qui s'éloignent de la nature, et
ils la croient suivre: comme ceux qui sont dans un vaisseau
croient que ceux qui sont au bord fuient. Le language est pareil
de tous côtés. Il faut avoir un point fixe pour en
juger. Le port juge ceux qui sont dans un vaisseau; mais où
prendrons-nous un port dans la morale?».61 La mancanza del
«porto», del punto fisso universalmente riconosciuto
di riferimento, è ciò che impedisce di decidere
quale dei nostri eterogenei e incomunicabili mondi spirituali
coincida con la razionalità, anzi se uno solo vi coincida.
Ma, per di più, si osservi. Dove noi siamo assolutamente
certi di essere nella verità e nella razionalità,
dobbiamo ritener fuori della ragione, ossia pazzo, chi la pensa
diversamente. E, infatti, quanto più siamo certi della
verità d'una nostra idea tanto più riteniamo
così. Se riguardo a talune nostre idee su cui altri
dissentono da noi, ammettiamo che anche quelle di questi altri
potrebbero essere vere, cioè che essi non sono pazzi
professando idee diverse dalle nostre, vi sono casi in cui questo
non possiamo ammettere. Vi sono casi, vale a dire, in cui
scorgiamo l'idea contraria alla nostra come assolutamente
incompatibile con la ragione, contraria all'essenza di questa.
Potrò ammettere, per esempio, che senza essere pazzi, si
possa dare delle contraddizioni un'interpretazione diversa da
quella che qui svolgo. Ma mi sarà assolutamente impossibile
di ammettere che si possa ritenere per vero questo o quel dogma di
religioni positive – poniamo quello che un Dio sia diventato uomo
e che mediante un'azione magica sacerdotale si reincarni ogni
giorno nel pane azimo – senza essere (almeno in una certa sfera,
ché v'è una pazzia parziale) del tutto fuori della
ragione, del tutto pazzi. Qui non potrò a meno di pensare
con Spinoza che si tratta di «absurdos errores», di
«hujus Ecclesiae horribilia secreta, quae, quo magis rectae
Rationi repugnant, eo ipso intellectum trascendere
credis».62 Qui dunque incorre una sfida a morte tra mente e
mente, tra ragione e ragione. O è pazza la ragione in colui
che ritiene per vere tali cose, o è pazza la ragione in me
che è certa che per ritenerle vere bisogna essere pazzo.
Pure anche qui, gli aderenti a queste idee sono certi della
verità di esse, e considerano aberranti coloro che la
negano, e dicono con Pascal: «Que je hais ces sottises
(cioè pazzie), de ne pas croire l'Eucharistie!».63
Ciascuna ragione accusa l'altra di irragione, è certa che
l'altra è irragione. Alla mia pare pazzia la ragione
dell'altro, a quella di costui pare pazzia la ragione mia. Quale
prova più decisiva che, proprio per giudizio di tutte le
menti, di tutte le ragioni, non v'è una ragione, non
v'è una ragione una, ossia non v'è la ragione? Che
l'unico elemento di universalità, di comunità, ossia
veramente di certezza, che v'è nella ragione, è
questo qualificare che essa fa se medesima, per opera di ciascuna
ragione riguardo a ciascun'altra, di irrazionalità?
Che se gli esempi che ho dati a sostegno della mia argomentazione
sembrassero triti e superficiali, ci si immerga un momento nella
concezione della storia umana che ci offre il genialissimo libro
dello Spengler,64 uno dei più atti a rompere le
incrostazioni intellettuali consuetudinarie. Si apprenda
colà che non c'è né un'umanità,
né una storia dell'umanità, ma solo fasi di
civiltà umana, esistenti distinte e staccate l'una
dall'altra come i vari organismi animali e vegetali, che
percorrono ciascuna il loro ciclo di vita, alla fine del quale
muoiono definitivamente, senza che nulla trapassi e riviva da una
di esse in un'altra, e ciascuna delle quali ha la propria
verità, la propria filosofia, la propria matematica,
limitate ad essa, valevoli solo per essa, e che muoiono con essa.
Si apprenda a considerare queste fasi di civiltà, ossia la
storia universale, liberandosi dal nostro «casuale punto di
osservazione». E si comprenderà allora che non
bisogna prendere le verità «occidentali» per
verità universali; che «universalità è
sempre una conclusione falsamente tratta da sé agli
altri»; che «per il vero conoscitore degli uomini non
ci sono punti di vista assolutamente giusti o falsi»; che di
fronte a questa morfologia storica comparata non rimane se non la
possibilità dello scetticismo, cui, anzi, essa potenzia
grandemente rispetto a quello antico non storico. Si
comprenderà, insomma, che come attraverso le menti
individuali non corre il substrato comune d'una ragione una, della
ragione, così, se allarghiamo il nostro sguardo a quegli
organismi infinitamente più grandi che sono le fasi di
civiltà umana, scorgiamo che neppure attraverso ad esse,
poiché ciascuna di esse ha il proprio incomunicabile mondo
spirituale, la propria incomunicabile ragione, corre una ragione
una, che neppure su di esse, cioè, domina quell'una ragione
che solo potrebbe dirsi la ragione.
In altre parole. Perché si potesse stabilire che, o se, le
menti ineriscono alla ragione, occorrerebbe uno di questi due
fatti: o che la ragione fosse un oggetto o modulo extramentale
riconosciuto come quello su cui le menti possono controllarsi e in
confronto del quale essere giudicate; ovvero che le menti fossero
tutte e su tutti i punti interamente une, assolutamente d'accordo.
Si noti che i due fatti ne formano in sostanza uno solo. O, detta
altrimenti: sia che si prenda le mosse dall'oggetto, dal
contenuto, dalla materia, sia che si prenda le mosse dal soggetto
o dalla forma, la situazione è sempre la stessa. Nel primo
caso, occorre che l'accordo delle menti vi sia nel riconoscimento
d'un contenuto o materia (d'alcunché che la forma trova
dinanzi a sé, che le è dato) come vero, bello, bene.
Nel secondo caso occorre che tale accordo vi sia in ciò
che, come tale, la forma stessa dal suo seno genera. L'accordo
delle menti è, nell'uno come nell'altro caso, la condizione
necessaria perché si possa dire che alcunché
è conosciuto con validità di assolutezza, ossia come
la ragione.
E poiché (quantunque sembri impossibile che un fatto
così palmare come questo, che certezza, verità,
ragione c'è solo dove c'è l'accordo delle menti,
possa essere revocato in dubbio) invece i dogmatici non solo lo
impugnano, ma non si peritano di volerlo far apparire come una
puerilità o una ridicolaggine; poiché essi vi
oppongono in sostanza, lo spinoziano «verum index sui et
falsi»65 (fingendo di non vedere che la mancanza d'ogni
criterio per l'applicabilità di tale principio è
dimostrata proprio dalle righe immediatamente precedenti con cui
Spinoza vi perviene, nelle quali egli asserisce di esser certo
della verità della sua filosofia «eodem modo ac tu
scis, tres Angulos Trianguli aequales esse duobus rectis»:
donde risulta che quel principio diceva a Spinoza che la medesima
apoditticità, costringente logicamente tutte le ragioni,
che hanno gli Elementi di Euclide, la verità eterna e
immutabile, era posseduta dalla sua dottrina) – così non
sarà inutile ricordare come il fatto che certezza,
verità, ragione v'è solo dove le menti sono unanimi,
è un caposaldo esplicitamente posto dallo stesso Kant. Non
solo, infatti, questi, nelle Prefazioni della Critica della Ragion
pura, dice che un campo di sapere dove «non è
possibile render concordi i diversi collaboratori sul modo col
quale debba esser perseguito lo scopo comune» è in
istato di «semplice brancolamento»; e, constatato che
in tale condizione si trova la metafisica (al contrario della
logica, la quale dimostra il suo carattere di vera scienza in
ciò che da Aristotele in poi «non ha dovuto fare
nessun passo indietro» e «non ha potuto fare nessun
passo innanzi»), si propone di ridurla a scienza che la
posterità non abbia più se non da adattare
«per la maniera didascalica alle sue vedute, senza
però poter accrescerne minutamente il contenuto», a
scienza che rimanga «come un utile possesso al quale nulla
potrà essere aggiunto». Non solo. Ché,
altresì, altrove Kant ancor più esplicitamente
dichiara che «la verità riposa sull'accordo con
l'oggetto, rispetto al quale per conseguenza i giudizi di tutti
gli intelletti devono (müssen, si badi) essere
d'accordo»,66 e che «io non posso affermare nulla
(cioè esprimere alcunché come un giudizio
necessariamente valevole per ognuno), tranne ciò che opera
una convinzione».67 Ed ecco così, il principio della
necessità dell'accordo delle menti per la verità, la
certezza, la ragione, autorevolmente suffragato, quantunque sia
cosa penosa e pietosa constatare che di suffragarlo con
l'adduzione di autorità vi fosse bisogno.
Ma ora dunque, né l'uno né l'altro dei due fatti
dianzi prospettati ha luogo: né è la ragione un
modulo extramentale con cui le menti, indiscutibilmente,
indisconoscibilmente, possano e debbano confrontarsi, misurarsi,
controllarsi; né le menti sono d'accordo.
Allora, la posizione in cui noi ci troviamo resta perfettamente
chiarita dal seguente esempio.
Quando i nostri orologi non concordano tra di loro, noi possiamo
conoscere l'ora che è, e rettificarli su questa,
perché questa noi la constatiamo in un fatto esteriore ai
nostri singoli orologi, riconosciuto indiscutibilmente come quello
su cui i nostri orologi devono misurarsi e controllarsi, e che
giudica obbiettivamente di questi, stabilendo quale è
giusto e quale sbaglia: il moto degli astri. Ma supponiamo che
tale fatto esteriore ai nostri orologi, destinato al controllo di
questi, non esistesse, e che i nostri orologi continuassero a
discordare. Come potremmo allora, in mancanza di quel fatto
esteriore obbiettivo e nel discordare dei singoli nostri orologi,
conoscere l'ora che è? Ora questo appunto è il caso
delle nostre ragioni. Non c'è l'oggetto esterno ad esse,
l'esterno modulo-ragione, su cui controllarle e che le giudichi,
ed esse discordano fra di loro. Come conoscere l'ora che è
della ragione?
Ma questo è ancora dir poco. Nel discordare dei nostri
orologi, e supposto inesistente il fatto esterno ad essi con cui
controllarli, si potrebbe mai dire che c'è l'ora che
è? E quale dunque sarebbe? Quella del mio, del tuo o del
suo orologio? Così per le nostre ragioni. Nel discordare di
esse, e mancando il fatto o modulo-ragione esterno di controllo,
poco è chiedersi: come si fa a conoscere l'ora che è
della ragione? Bisogna invece chiedersi: poiché esse, senza
possibilità di controllo per opera d'un modulo esterno,
discordano, si può mai dire che c'è l'ora che
è della ragione? Ossia, che c'è la ragione, il punto
determinato, centrico, in cui la ragione stia e consista?
In pagine precedenti ho lasciato tacitamente correre la
supposizione dell'ammissibilità di questo punto centrico,
unico, inesteso (cioè senza latitudine e deviazioni)
soltanto nel quale la ragione può consistere. Non si sa se
e quando le ragioni vi ineriscano, si diceva allora; il che
permetteva di supporre che, pur non sapendosi ciò,
però esso esistesse. L'ultima parte dell'indagine costringe
invece a concludere che esso – ossia la ragione – non c'è.
Poiché su tutte le questioni, grandi e piccole, la ragione
non potrebbe essere che una, quella, e poiché invece su
tutte le questioni le nostre menti divergono, questo fatto della
divergenza non vuol già dire soltanto che esse tutte, o
tutte meno una (che però, in ogni modo, non si sa quale
sia) escon fuori dal punto della ragione; ma vuol dire che questo
punto di ragione, ossia la ragione, non c'è, precisamente
come, nel divergere dei nostri orologi (supposto soppresso il
fatto esterno che serve a controllarli) non c'è più
l'ora che è.
Si noti che questa e nient'altro è l'essenza e la molla di
tutto il profondo e appassionato pensiero di Pascal. Cioè:
la mente umana non può uscire da una situazione di assoluto
pirronismo; essa non può affatto sapere dove sia la
verità e la ragione. Solo la rivelazione le dice ove queste
sieno; la rivelazione è dunque l'unica àncora in
quel mare di pirronismo in cui senza di essa la mente non
può non trovarsi, che senza di essa è lo stato
necessario della mente, la sua unica verità. I due termini
fissi del pensiero pascaliano sono: lo stato per la mente umana di
totale inconoscibilità, anzi inesistenza della
verità (pirronismo), ed il fatto extramentale della
rivelazione da parte di un'autorità indiscutibile e
superumana che dà alla mente umana la verità (l'ora
che è). Se non ci fosse quest'ultimo fatto, non rimarrebbe
se non il primo. – E Pascal ha veduto del tutto giusto. Egli ha
scorto con rara chiarezza che gli orologi della mente,
discordando, hanno bisogno d'un fatto esterno per regolarsi, che
senza tale fatto esterno non c'è più per la mente
l'ora che è. Tale fatto esterno egli lo aveva, sicuro,
sfolgorante: la rivelazione. Tolto questo, lasciata a sé la
mente umana, considerata la mente umana in sé sola, nel suo
divergere, nell'impossibilità d'avere un punto fermo, egli
riconosceva che non rimaneva se non l'altra alternativa: lo
scetticismo. O lo stabile, fisso, preciso punto d'orientamento,
comunicato, con autorità, contro cui non è possibile
sollevare nessun dubbio, alle menti umane da un'intelligenza
l'infallibilità della quale è assicurata, e che
è quindi sottratto alle discussioni e alle divergenze delle
menti umane medesime; ovvero, precisamente in forza di tali
discussioni e divergenze, la necessità di riconoscere che
non v'è nessuna cosa (tocca da queste) di cui si possa dire
che si conosce, che si sa. Cioè: o scetticismo o
rivelazione. Il dilemma è esattissimo. Io lo accetto in
pieno. Naturalmente poco tempo è bastato perché la
scelta tra i suoi due termini venisse decisa. Caduta
definitivamente, come modulo di verità, la rivelazione,
è lo stesso Pascal che ci dice che non rimane se non lo
scetticismo, l'inesistenza della verità, l'inesistenza
dell'una ragione.
Non esiste la ragione, questo punto centrico a cui le menti
ineriscano o possano inerire: questa entità o
attività (stessa cosa), che, superiore e precedente ad ogni
singola mente, fluisca ed operi in tutte le menti e, non
già sia fatta esistere dalle singole menti, ma sia essa che
come menti le fa essere. Non esiste la ragione. Esistono solo le
ragioni. Non esiste ragione; esistono solo opinioni (δόξαι). –
Tale, dunque, la conclusione a cui io pervengo.
«Opinioni», come, per bocca di Didimo Chierico, e in
conformità a tutto il pensiero genuinamente italiano,
pronunciava anche il Foscolo.68 E quando i dogmatici, i
razionalisti, gli idealisti, gli «illustri saggi»
nietzschiani, cercano di sfuggire a questa conclusione facendo
capo, in una o nell'altra forma, al concetto che nel Windelband69
si esprime con l'asserire una coscienza normale
(Normalbewusstsein), i valori valutati dalla quale come valori
sarebbero ciò che obbiettivamente ha valore, essi ricorrono
ad un espediente che si ha diritto di chiamare filosoficamente
miserabile: perché chi pensa e determina quale sia questa
«coscienza normale» se non, ancora, un criterio, un
sentimento, un parere individuale, cioè un giudizio
soggettivo, un'«opinione»? Che cosa parla dunque per
mezzo di questa «coscienza normale» se non, sempre, la
mia opinione?
Ma che altro ha detto un razionalista come Spinoza? Egli scrive:
«homines pro dispositione cerebri de rebus judicare, resque
potius imaginari, quam intelligere. Res enim si intellixissent,
illae omnes, texte mathesi, si non allicerent, ad minimum
convincerent».70 Cioè: se gli uomini capissero, se in
essi ci fosse la ragione, ciò si attesterebbe col fatto che
tutti avrebbero circa tutte le cose l'identica convinzione, che
tutti penserebbero medesimamente; poiché ciò non
è, vuol dire che essi non hanno la ragione (intelligere),
ma solo immaginazioni, opinioni (imaginari). E che altro
può dire il positivismo, quando esso sia conseguente e non
già, per non suscitare le antipatie del volgo leggente, per
paura delle parole, o per altri consimili rispetti umani, si
arretri dall'andar sino in fondo del suo pensiero? Poiché
(come giustamente dice il Windelband)71 se l'«empirismo
viene sviluppato con completa conseguenzialità esso deve
finir per diventare soggettivismo e scetticismo», e in linea
di fatto noi vediamo che «lo scetticismo empirico» di
Hume è «il vero ed unico padre del
positivismo»; e come precedentemente aveva, con uguale
esattezza, osservato il Ravaisson,72 lo scetticismo (di Mill)
discende a giusto titolo dal positivismo di Comte. Ora, infatti,
quando Ardigò73 descrive la ragione (il pensiero) come la
fiamma che, mentre sembra costante e sempre quella, in
realtà è costituita ad ogni momento dalla
combustione di sempre diverse molecole d'ossigeno; come la fiamma
che cresce e diminuisce, si alza, s'abbassa, si spegne, lingueggia
qua e là; quando usa per il pensiero questo paragone della
fiamma che gli idealisti, nella loro incoscienza, hanno tanto
deriso, mentre è poi quello stesso con cui una delle
più antiche e profonde concezioni religiose, il buddhismo,
preferisce appunto definire la vita in generale e la coscienza in
particolare;74 quando paragona la ragione (il pensiero) al
mutabile lampeggiamento che si sprigiona tra le nubi, o ad una
«meteora passeggiera con intensità e forme varianti
ad ogni istante», o alla fermentazione «non causa, ma
effetto delle miscele fermentabili»; e quando, in seguito a
ciò, rileva che «cambiandosi lo stato del sentimento
si cambia del pari la ragione del vero e del falso, del giusto e
dell'ingiusto» – che cosa dice egli di differente da quel
che dico io con l'espressione che non esiste la ragione, ma solo
pensieri diversi, visuali molteplici, opinioni varie, per nulla
attraversati, permeati, dominati, fatti esistere da una ragione
una? E unicamente in tal guisa, si badi, il pensiero è
veramente soltanto un «farsi» anziché una cosa
«fatta»; non in mano degli idealisti che pretendono
mettere insieme il «farsi» del pensiero con una
qualsivoglia assolutezza della ragione o dello spirito, fingendo
di non vedere l'antitesi insormontabile (o il giuoco d'equivoco
verbale), che v'è in tale abbinamento. Poiché se si
tratta davvero unicamente d'un «farsi», che c'è
solo nell'assoluto presente del suo «farsi», bisogna
che questo «farsi», questa
«fermentazione», avvenga in modo del tutto
individualmente libero e indipendente in ogni punto singolo del
suo «fermentare» (in ogni mente). Se davanti ai
singoli punti del «fermentare» sta una tavola della
legge della fermentazione (ragione assoluta, la quale dunque
nell'idealismo odierno, è l'identica cosa dell'intellectus
agens dei filosofi medioevali e particolarmente degli
averroisti);75 se una «specie intenzionale» di
fermentazione (spirito assoluto o intellectus agens) costituisce
il prius d'ogni punto fermentante, ciò che si incarna in
tutti e li fa fermentare tutti; se, per dirla con Ardigò,
è la preesistente qualità occulta, energia
potenziale, virtus, o attività «fermentazione»
(ragione assoluta), la causa delle singole miscele fermentanti
(singole ragioni o menti) e non ciascuna di queste la causa che
quella in ciascuna indipendentemente, singolarmente e variamente
si produca; allora, si voglia o no, non si tratta solo d'un
«farsi», ma davanti ad ogni punto del
«farsi» c'è qualcosa di «fatto». E
quando poi l'Ardigò nega76 che il vero sia un fatto
extrapsichico per la medesima ragione per cui non esiste un caldo
trascendente e assoluto all'infuori dei singoli fenomeni di calore
avverantisi nei singoli corpi; quando afferma insomma che non
esiste il vero ma i fenomeni psichici di verità, come non
esiste il caldo ma i corpi caldi; quale è la conclusione a
cui da ciò non si può non pervenire se non quella
appunto che non c'è verità, ma solo i nostri vari,
singoli, individualmente generantisi fenomeni psichici di
verità, cioè le nostre personali, soggettive,
diverse, contrastanti, irreconciliabili
«verità», le quali, appunto perché si
negano a vicenda, sono altresì «non
verità», semplici «opinioni»?
E bisogna finalmente render ben chiaro a se stessi, fuor degli
equivoci in cui si ama spesso lasciar fluttuare il proprio
pensiero, che cosa significa credere che esiste la verità,
la ragione. – Per i positivisti, anzitutto. Se esiste la ragione,
la verità, una, tipica, quella, principio unico superiore
che domina, controlla, informa le singole menti, allora essa non
può essere il prodotto dell'organo cerebrale, ma dev'essere
un principio, un'energia, un'attività, un soffio, una
facella (si chiami come si vuole) immateriale, ideale, eterno che
si incarna nei nostri organi cerebrali e di cui questi sono lo
strumento e almeno la condizione. Dunque si cade nell'idealismo.
Altrimenti, se la ragione è il prodotto dell'organo
cerebrale, ossia dei singoli organi cerebrali, vi sono le ragioni
e le verità, non la ragione. – Poi, per gli idealisti e i
positivisti insieme. Se esiste una certa cosa, o attività,
energia, ecc., non riducibile alle singole e diverse menti
individuali (ai loro pareri), non semplice prodotto vario e
indipendente di ciascuna di esse, bensì superiore ad esse,
universale, che, come sempre quell'una, prende dimora nelle
singole menti, ed è ciò che le costituisce e le fa
vivere come menti; questo alcunché, quando anche si chiami
coscienza trascendentale o spirito, non è nulla di diverso
dall'anima sostanziale degli scolastici, quid immateriale che
movendo dal di fuori del tempo e dello spazio, prende stanza nei
nostri corpi, conservando in tutti le stesse essenziali
proprietà. Che cosa, infatti, finisce per essere
l'anima-sostanza degli scolastici se non una scintilla, o
principio, o motore ideale eterno, non spaziale e non temporale,
di logica e di morale, di vero e di bene, che non già
è (cioè non possiede le note percettive le quali
unicamente sono per noi le note dell'essere), ma piuttosto
possiede solo (per ricorrere ad un concetto del Lotze) l'esistenza
ideale, eterna, immutabile di valore-ragione, di valore-bene? O
che cosa, tranne (come scrive un valente espositore contemporaneo
della scolastica) «the ultimate principle by which we feel,
think, and will»,77 credono che sia l'anima-sostanza, che
cosa tranne (anziché un occulto substrato) il puro e
semplice carattere dell'esistere, tale quale la «coscienza
trascendentale», per sé e senza dipendere da
alcunché d'altro,78 credono che sia la sua
sostanzialità, coloro che ritengono d'aver cancellato essa
anima-sostanza perché a questa parola hanno sostituito
l'altra parola di spirito o coscienza trascendentale, e che
ritengono di averla respinta, mentre tengono fermo al pensiero che
esiste la verità e la ragione? – Più decisamente:
l'affermazione che esiste la verità e la ragione non
è che l'inconscia sopravvivenza atavica dell'animismo,
della credenza primitiva in un'entità aeriforme dimorante
dentro di noi, quella credenza «che i popoli indoeuropei
hanno recato seco dai loro primitivi stadi di evoluzione».79
La ragione (verità), come qualcosa d'assoluto, d'uno in
tutti e che ogni mente ha o deve avere, di universale, di
imperante su tutti e in tutti inserentesi, in tutti uguale, in
tutti quell'una (e non già come alcunché di generato
variamente e con diverse e fuggevoli accidentalità dagli
organi cerebrali, e quindi divergente, incerta, soggettiva, ossia
non-ragione) non è che l'ultima elaborazione, e
vaporizzazione, di ciò che era per i primitivi
l'«anima»; ossia è una superstizione atavica,
come i demoni, il tabù o la stregoneria, che, attraverso
mutata denominazione, ci siamo trascinati dietro e ci è
rimasta radicata nel sangue.
Un filosofo irrazionalista e pessimista espresse una volta in
forma estrema questa negazione della ragione, con la teoria della
pazzia dell'assoluto. Il frammentarsi dello Spirito assoluto in
tanti spiriti individuali discordanti fu il diventar pazzo
dell'Assoluto, come è pazza una coscienza individuale che
si dirompe in idee che non possono più coordinarsi tra di
loro, ossia si frantuma in tante coscienze separate non aventi
più un centro d'unità. Voglio, tale negazione della
ragione, esprimerla a mio modo in forma estrema. Perché
discorriamo? La parola, si dice, è l'espressione della
ragione, è sorta ad un parto con la ragione. Ma non sarebbe
essa piuttosto l'indice dell'irragione e della pazzia? Noi
discorriamo per comunicarci a vicenda le nostre idee, cioè
perché abbiamo idee diverse. Ma se nelle menti dimorasse la
ragione, cioè la ragione una, penseremmo tutti, sempre e su
ogni argomento, la stessa cosa, e perciò non avremmo nulla
da comunicarci, e perciò non parleremmo. Nell'Epître
à Lucien che Fontenelle premette ai suoi spiritosi
Dialogues des Morts, egli dice di questi: «Je croirois
même sans peine qu'ils devroient être assés
éclairés pour convenir de tout les uns avec les
autres, et par conséquent pour ne se parler presque jamais;
car il me semble qu'il n'appartient de disputer qu'à nous
autres ignorans, qui ne découvrons pas la
vérité; de même qu'il n'appartient qu'à
des aveugles qui ne voyent pas le but où ils vont, de
s'entre-heurter dans un chemin». Che la mente abbia prodotto
la parola – il mezzo o ponte di comunicazione (ma comunicazione
che serve, non già a unificare, bensì solo a
notificare il distacco, e spesso ad accrescerlo)80 – è la
prova, non già che nella mente alberghi la ragione, sibbene
che le menti umane nel loro insieme vivono nella scoordinazione e
nell'irrazionalità: precisamente come la presenza di ponti
indica che la regione è accidentata, che vi sono burroni,
abissi, tagli e distacchi tra un luogo e l'altro. Gli animali,
quasi per intero immersi nel profondo livellamento della natura,
in quella sua inconscia centrale unità, dalla quale lo
spirito, col sollevarvisi sopra dividendosi in innumeri canali di
spirito, si staccò per sempre, gli animali non parlano. Non
si parlerebbe in un concilio di Dei, perché, se fossero
veramente Dei, tutti avrebbero l'identica mente, l'identico
ciò costituente il contenuto della mente d'uno di essi
costituirebbe il contenuto della mente di tutti gli altri.
Ma perché si potesse pensare tutti la stessa cosa,
perché il contenuto di tutte le menti potesse essere
identico, occorrerebbe che il mondo fosse assolutamente uniforme,
identico a sé, uno; e quindi, anche perciò,
occorrerebbe altresì che la mente fosse assolutamente una,
una sola, che esistesse un'unica mente. Ma mondo uniforme,
identico, uno significa (come chiarirò meglio più
oltre) mondo inesistente, non-mondo. E, del pari, mente
perfettamente una significa non-mente. Una mente unica ed una, la
mente d'un Dio, non potrebbe, infatti, pensare. Ché il
pensare è un discorrere o dialogizzare interno, un passare
da un'idea ad un'altra, abbandonarne una, scoprirne una nuova.
Tutte cose che renderebbero una mente non più perfettamente
identica a sé ed una, tutte cose inammissibili nella mente
d'un Dio. Quell'unità delle menti, che la
razionalità esige, rende dunque impossibile il mondo e la
stessa mente; e, viceversa, l'esistenza del mondo, della mente,
del reale, ha come sua necessaria conseguenza e condizione (ci
imbatteremo in seguito in una conclusione conforme) quella
diversità e divergenza delle menti in cui consiste
l'irrazionalità. – E, del resto, neppure vivere un Dio
potrebbe: ché lo stesso vivere è passaggio da uno
stato ad uno diverso, è diventar continuamente altro da
ciò che si è, e senza questo passaggio e diventar
altro – incompatibile in Dio – c'è la stasi e la morte.
Dio, se esistesse, non potrebbe essere che la natura più
immobile e morta, la cosa più cosa che si possa immaginare.
Ovvero la natura più morta, la cosa più cosa, questa
è Dio.
Ma che, dunque, nelle nostre menti non alberghi la ragione, che
(neppure in esse) la ragione non esista, non può far
meraviglia; poiché le nostre menti sono il prodotto di
quella realtà che s'è precedentemente visto non
essere suscettibile di valutazione razionale, cui la categoria
razionale-irrazionale non trova applicazione. Sono salito da tale
realtà alla mente. Ridiscendo ora un momento dalla mente
alla realtà. Questa, ho detto, si sottrae all'applicazione
della categoria razionale-irrazionale. Ma bisogna ora
esplicitamente aggiungere che, a stregua della nostra visuale
(«ragione»), essa risulta assurda.
Vano è il tentativo di interpretare la realtà come
spirito (nel senso preciso della parola: spirito cosciente o io).
Vi osta, non fosse altro, l'incancellabile presenza d'una vita
animale e vegetale, che non può farsi passare per nostro
fenomeno, che ha indubbiamente esistenza di realtà in
sé, e non è spirito (in quel senso: tranne che per
opera di frasi di proposito ingannatrici). Se si può
applicar qui un'espressione di Spinoza,81 lo spirito (intellectus)
appartiene alla natura naturata non alla natura naturante, ossia
(per usare la proposizione con cui il Fischer schematizza questa
parte della filosofia spinoziana) «ad Dei naturam neque
intellectus neque voluntas pertinet».82 Più giusto
è, col Bergson e col Simmel, interpretare la realtà
come vita (e se, quando si dice che è spirito, per
«spirito» s'intende, non «spirito» nel
senso suo proprio anzidetto, ma semplicemente «vita»,
la questione è di parole); come impulso o
«slancio» vitale cieco, che solo subordinatamente in
qualche sua ristretta estrinsecazione (l'uomo) prende l'aspetto
anche di «spirito». È, tale concezione
dell'universo come d'una cosa viva, quella che già
affermò Bruno. «Mi par che detrhano alla divina
bontà et all'eccellenza di questo grande animale, e
simulacro del primo principio, quelli che non vogliono intendere
né affirmare il mondo con gli suoi membri essere,
animato... sia pur cosa quanto piccola, e minima si voglia, ha in
sé parte di sostanza spirituale, la quale, se trova il
soggetto disposto, si stende ad esser pianta, ad esser animale, e
riceve membri di qualsivoglia corpo, che comunemente se dice
animato: perché spirto si trova in tutte le cose, e non
è minimo corpuscolo che non contenga cotal porzione in
sé, che non inanimi... Se dunque il spirto, la anima, la
vita si ritrova in tutte le cose, e secondo certi gradi empie
tutta la materia: viene certamente ad essere il vero atto, e la
vera forma di tutte le cose... Ergo quidquid est, animal
est» (dove, com'è chiaro, per Bruno,
«spirito» non vuol dire altro che
«vita»).83 È, la medesima concezione, in
sostanza (e non ostante le opinioni contrarie), quella di Spinoza.
In lui è veramente implicito Bergson, e chi si voglia
sforzare di raffigurarsi, quasi a dire in forma visiva, la
«natura naturans» se la vede diventare dinanzi agli
occhi «evoluzione creatrice». Platone (nel Timeo e nel
Filebo), Schelling e Fechner professarono la medesima concezione
del mondo materiale come di un essere animato. Essa si può,
nella sua forma bergsoniana, esprimere così. Quale è
il quadro che l'evoluzionismo in generale vi suscita dinanzi? Voi
vedete la vita cominciata con una forma elementarissima,
limitatissima, appena accennata, un rudimentale protoplasma,
plastidule, monere. Guardando ora allo sviluppo assunto
attualmente dalla vita, nelle sue forme innumerevoli e grandemente
complesse, scorgete chiaramente che vi fu un continuo crescere
della vita su se stessa, un aumentarsi, uno svilupparsi, un
diventar più, sempre più di quel che era contenuto
nel momento precedente. E tutto l'universo – come attesta il
formarsi dei sistemi solari dalle nebulose, e lo stesso prodursi
in esso di quelle forme di vita primitive – tutto l'universo, che
è così un incessante muoversi e formarsi, non si
può dunque nella sua totalità pensare che come
l'ardente fucina della continua autoproduzione d'un più di
quel che era contenuto nel momento precedente, il continuo venir
su d'alcunché che non c'era, una creazione dunque, una
sovracreazione, di tutti i giorni, di tutti i minuti. Cioè
l'intero universo non si può pensare che come vita, come
organismo vivo, come costituito nel suo intimo della medesima
attività o «forza» del germe che nel suo
sviluppo a pianta autodiviene un sempre più. Tale l'idea
fondamentale dell'«evoluzione creatrice». La quale
dunque si distingue però da quella darwinistico-spenceriana
essenzialmente per ciò: in quest'ultima c'è,
sì, un continuo cambiamento, ma è, per così
dire, un cambiamento superficiale e più di apparenza che di
sostanza, perché il tutto c'è già fin dal
principio. Si tratta, per usare l'espressione di Ardigò,84
d'una trasformazione di forze anche prima esistenti in qualche
forma, sebbene in forma diversa da quella di ora (per esempio
nella forma della nebulosa primitiva). L'evoluzione, qui, non
è che una serie di successive trasformazioni di quel tutto
che, in fondo, c'è già, e nulla reca fuori che non
sia in quello già contenuto. Ma come
«creatrice», nel Bergson, l'evoluzione produce invece
di continuo qualcosa che prima non c'era assolutamente e in
nessuna forma, qualcosa di veramente e sostanzialmente nuovo.
Ora è appunto in questa sua interpretazione come vita,
interpretazione più d'ogni altra verosimile, che la
realtà ci apparisce un assurdo tanto più mostruoso.
Ciò non solo per l'illogicità in cui ad ogni momento
ci imbattiamo nelle singole formazioni organiche: ecco, per
esempio, nelle forme animali, la presenza l'uno accanto all'altro
dell'esofago e della trachea, cioè di due organi il
funzionamento d'uno dei quali costituisce per l'altro un pericolo
che è mortale; ecco nelle forme vegetali, la
contiguità degli organi maschili e femminili nel medesimo
fiore, mentre poi la fecondazione tra di essi è anormale e
produce un individuo intristito, e occorre per la buona
generazione la fecondazione incrociata, ossia che il polline d'un
fiore fecondi il pistillo d'altro, mediante l'opera del vento o
degli insetti, queste combinazioni stupefacenti, che riempiono
molta buona gente d'una sconfinata ammirazione per la riposta
sapienza della natura e che invece in realtà non provano
evidentemente altro se non che tutto si è formato per mezzo
del caso più cieco; ecco insomma, quella generale
costituzione e quell'abituale comportamento della natura, la cui
illogicità, odiosità, mostruosità fu
così profondamente sentita ed efficacemente esposta in uno
scritto postumo da uno dei maggiori pensatori positivisti, il
Mill, il quale assomma il suo sentimento al riguardo nelle
proposizioni: che l'ordine della natura «is such as no
being, whose attributes are justice and benevolence, would have
made, whith the intention that his rational creatures should
follow it as an example», e che «All which people are
accustomed to deprecate as "disorder" and its consequences, is
precisely a counterpart of Nature's ways».85 Non solo,
ancora, per quel che mette in luce il Simmel nell'ultima fase
della sua filosofia, che cioè la vita non può vivere
se non racchiudendosi entro forme, e, nell'istesso tempo, per
continuar a vivere, ha bisogno di spezzare incessantemente le
forme in cui da sé si chiude e di cui non può fare a
meno. Non solo per tutto ciò la realtà interpretata
come vita ci si palesa tanto più assurda; ma altresì
per una considerazione ancor più decisiva e che colpisce
maggiormente la cosa nella sua essenza e nel suo centro.
La vita totale, in cui la realtà consiste, si frammenta o
si individua in tante vite particolari; l'unica esistenza che essa
ha, è l'esistenza che possiede come queste vite
particolari. Ora, ciascuna di tali vite, che sole formano la vita
e la realtà, ha bisogno di distruggerne altre per
mantenersi in vita e deve essere da altre distrutta perché
queste possano mantenersi in vita. Sono dunque tutte mezzi una
dell'altra; e quindi mezzi di nessun fine. Voglio anche qui
esprimere in forma estrema l'aspetto ingenuo, quasi fanciullesco,
sotto cui io vedo la cosa. Mi diventa sempre più
sbalorditiva e violenta l'impressione che la vita sia fondata su
questo fatto semplicissimo e famigliarissimo: il mangiare.
Perché, che cosa vuol dire mangiare? Che una vita distrugge
lietamente, saporosamente un'altra vita per incorporarsela; che
deve distruggerla per conservarsi. Ma che vuol dire dunque che per
vivere occorra necessariamente mangiare, che la vita per reggersi
abbia imprescindibile bisogno del mangiare? Vuol dire che la vita
(la realtà) per esistere ha bisogno di distruggere se
stessa. Una realtà che si mantiene solo annientandosi, che
si afferma solo togliendosi, che si pone solo negandosi. Non
è forse ciò, per la nostra mentalità,
l'espressione stessa dell'assurdo? Schopenhauer aveva bene
avvertito questa intima contraddizione della Volontà con se
stessa per cui la vita «die Zähne in sein eigenes
Fleisch schlägt», per cui essa «sein eigenes
Fleisch gierig verzehrt».86 Ma assai più
elementarmente e tangibilmente che non per opera dei dolori che
reciprocamente ci cagioniamo nella vita sociale (coi quali
Schopenhauer esemplifica quella sua affermazione), la
contraddizione e l'assurdo sono posti in luce da questo fatto
normale, fondamentalmente istintivo, piacevole,
«innocente», in cui nessuno si sogna di scorgerli: il
mangiare.
Né si creda che tale assurdo, nell'aspetto con cui fu ora
formulato, possa venir eliminato (almeno da parte dell'uomo) col
vegetarianismo, che pure alcune sette religiose o mistiche
caldeggiano per questo fine.
Tu vuoi nutrirti in modo da non distruggere nessun essere vivente,
e perciò hai arato o vangato il tuo campo dove farai
crescere i vegetali che soli formano il tuo cibo. Ecco il tuo
campo ben ripulito e lavorato, tutto nero di buona terra smossa.
Tu lo guardi soddisfatto. «Com'è in ordine!».
Ma codesto che è ordine per te e per i tuoi occhi, veduto
con gli occhi dell'Altro, o forse con gli occhi del Tutto,
è catastrofe, rovina, caos. Per mettere il tuo campo
nell'ordine necessario a farvi crescere i vegetali di cui soltanto
ti nutri onde non offendere nessuna vita, hai dovuto distruggere
un'infinità di vite; passare senza accorgertene, come un
flagello devastatore ben più terribile di quello di Attila,
su case e città, con faticosa diligenza costrutte da
innumeri colonie di insetti; fare il deserto e il cimitero dove la
vita varia, operosa, intensa, fioriva, pulsava, traboccava tutto
all'intorno. Il campo che hai arato per nutrirti in modo da non
ledere esseri viventi, è il deserto e il cimitero. –
«Le jaïnisme se voit aussi contraint de
réprouver l'agriculture, parce que le sol ne peut
être labouré sans qu'il en résulte blessure et
souffrance pour les êtres que l'habitent». Ma,
prosegue ad osservare giustamente A. Schweitzer, questa etica del
non-uccidere è dunque irrealizzabile. «La
pensée indienne ne se rend pas compte de cette
impossibilité. Elle persiste dans l'illusion que quiconque
prend au sérieux le commandement de l'ahimsā peut parvenir
à le remplir rigoureusement. Les jaïnistes passent
devant ce grand problème sans y prêter
attention».87
Ma non basta. Le piante, tra le quali e gli animali non v'è
nessuna differenza essenziale, vivono e sentono, soffrono,
«e se non sempre manifestano con qualche reazione la loro
sensibilità... ciò è dovuto al fatto che
saldate al suolo e impacciate come sono, non possono farlo, come
non potrebbe farlo un uomo legato ad un palo, con la bocca tappata
e colle palpebre cucite».88 È solo un pregiudizio
antropomorfico che ci vincola ineluttabilmente all'intuizione che
per sentire occorrano occhi, orecchi, naso, mani, sistema nervoso,
che questi siano l'unico possibile tramite di sensazione, che non
si possano dare forme e mezzi di sensazioni incomparabilmente
diversi da quelli e quindi da noi non concepiti e non avvertiti.
Ma certamente le piante sentono (come probabilmente sente ogni
dolore la coscienza di chi subisce un'operazione in istato di
anestesia, sebbene il corpo non possa dare i segni abituali del
dolore, o sebbene la coscienza in cui il dolore si presenta non
sia quella che poi è sveglia e concatena i ricordi). Il
precetto, perciò, con cui per esempio il buddhismo pensava
di superare quell'assurdo, pure da esso colto con tanta
profondità, il precetto che ingiungeva non solo al monaco
ma anche al credente laico: «non uccida alcun essere vivente
né lo lasci uccidere, e se altri vuole ucciderlo non lo
permetta»,89 tale precetto è fondato unicamente sul
fatto non solo di non vedere uccisione se non in quella di animali
grandi, ben percepibili, che cadono grossolanamente sotto i sensi,
ma altresì sul fatto di non aver saputo ancora nettamente
scorgere che la pianta stessa è un essere vivente, che
sente, che soffre. «Un tempo» scrive Campanella degli
abitanti della sua Città del Sole «non volevano
uccidere gli animali, sembrando azione barbara, ma considerando
essere pure crudeltà lo spegnere erbe che godono d'un senso
e d'una vita propria, onde non morissero di fame,
conchiusero»...90 Una volta, infatti, avvertito che anche la
pianta vive, sente, soffre, per sottrarsi ad essere uno stromento
di quell'assurdo, non rimarrebbe che lasciarsi morire di fame.
Questo però è uccidere la vita in se stessi. O
uccidere la vita in sé, o ucciderla in altri; l'alternativa
è senza via d'uscita. E la vita (la realtà) è
dunque ineluttabilmente e senza nessun rimedio introducibile da
parte dell'attività morale umana, imprigionata nell'assurdo
di doversi uccidere per esistere, togliersi per porsi, ridursi al
non-essere per rimanere nell'essere.
Qui si potrebbe muovere un'obbiezione. Il parlare di
irrazionalità suppone la razionalità. Bisogna posare
il piede su di una base o su di un terreno di razionalità,
per potere, da esso, giudicare qualcosa come irrazionale.
Così, o si posa il piede sulla base della
razionalità della realtà (naturale e sociale) di qui
giudicando irrazionale la mente che se ne distacca, o si posa il
piede sulla base della razionalità della mente, di qui
giudicando irrazionale la realtà che non vi quadra. Ma se
tutto è irrazionale, non c'è più il pinnacolo
o l'osservatorio da cui checchessia possa essere giudicato
irrazionale.
In verità, si scorge che base o terreno di
razionalità su cui posar sicuramente il piede e prender le
mosse pel giudizio non c'è. Non la realtà,
ché ad ogni momento siamo costretti a convenire che essa,
una qualche realtà sociale o del costume ad esempio,
è assurda, ed è nel giusto la mente che se ne
distacca e la condanna. Non la mente, ché ad ogni momento
siamo costretti a convenire che il suo distaccarsi da questa o
quella realtà naturale o sociale e l'insorgere contro di
essa, è eccentricità, aberrazione, pazzia. Né
la realtà, dunque, né la mente ci offre con costanza
e sicurezza il metro della razionalità, la base o terreno
sicuramente fissato come quello della razionalità, su cui
posare i piedi pel giudizio. – O, in altre parole. La
realtà risulta irrazionale alla mente: e la stessa mente
(non foss'altro, con le divergenze e le contraddizioni che
attestano che essa non inerisce al punto centrico inesteso della
ragione) risulta irrazionale a se medesima.
Senonché ora: questo stesso non esserci punto d'appoggio o
di partenza di razionalità per giudicare da esso della
razionalità o irrazionalità di checchessia – questo
fatto che ci riporta alla posizione precedente, ma allargata, che
cioè la categoria razionale-irrazionale non trova alcun
campo d'applicazione – questo fatto, che altro significa se non
appunto l'estremo dell'irrazionalismo, l'irrazionalismo assoluto?
Ma da tutto questo discende anche che ciò che ha generato
l'irrazionale è stata appunto la presenza della
«ragione». – Balena talora l'impressione che la svolta
mortalmente nefasta dell'evoluzione sia stata il momento in cui
un'improvvisa e causale alterazione cellulare nei centri nervosi
d'un pitecoide (secondo l'ipotesi affacciata recentemente da
qualche naturalista, e che mi par la più probabile),
produsse in quella specie un individuo anomalo,
«degenerato» rispetto al tipo della specie stessa, un
individuo che l'alterazione, la dislocazione, la
«degenerazione» cerebrale in lui avvenuta dotava del
potere di ragionare. Da questo momento, e proprio col sorgere del
potere di ragionare, la natura è diventata irrazionale
(incomprensibile, cattiva, crudele); e, come si vide, al giudizio
ed al lume dello stesso potere di ragionare, irrazionale è
diventata persino la mente che lo contiene. È la
realtà col sorgere della ragione diventata irrazionale,
cattiva, crudele, appunto perché questi aggettivi
«modi cogitandi sunt», «notiones quas fingere
solemus», valutazioni che non esisterebbero nella
realtà lasciata a sé, ma esistono nella
realtà fusa con noi, che non esisterebbero in una
realtà che semplicemente fosse e vengono ad esistere in una
realtà che, invece, oltre che semplicemente essere,
è conosciuta e pensata. Posso applicare nel mio senso le
parole di Schopenhauer: «Finché noi ci comportiamo
puramente percependo (intuendo, anschauend) tutto è chiaro,
fermo, sicuro. Non ci sono né questioni, né dubbi,
né errori: non si vuole né si può niente di
più, si possiede la quiete nella percezione (Anschauen), la
contentezza nel presente... Ma con la conoscenza astratta, con la
ragione, è penetrato nel campo teoretico il dubbio e
l'errore, nel campo pratico la preoccupazione e il
pentimento».91 Finché l'evoluzione era giunta allo
stadio dell'animalità (allo stadio della natura sentita e
non pensata) tutto andava perfettamente bene. Per l'animale, unito
d'un'intimità immediata con la natura, per l'animale che
non fa se non ciò che soltanto il vivente come tale deve
fare, vivere cioè, mangiare, amare, giuocare, dormire, per
l'animale tutto va bene; non vi sono cose incomprensibili, non vi
è morte (perché l'animale non sa di morire), la
natura non è né irrazionale, né cattiva,
né ingiusta, poiché anche il dolore che l'animale
soffre non è nulla più che un fatto, una cosa che
è, non già altresì una cosa che non dovrebbe
essere, vale a dire lumeggiata in questo senso da una valutazione
mentale. Per l'animale tutto va bene, e non esiste
l'irrazionalità, la crudeltà, l'ingiustizia,
l'imperfezione delle cose, precisamente come e perché tutto
va bene e non esiste nulla di ciò rispetto alle cose
stesse, ai pianeti, ai soli, alle nebulose, ai minerali, alle
erbe, alle acque, rispetto alle cose nel loro puro e semplice e
quasi a dire cieco essere, al di fuori del loro venir conosciute e
valutate. Ma quando, in seguito all'accidentale deformazione
cerebrale prodotta improvvisamente in una specie affine alla
scimmia sorse il potere di ragionare e si formò la
spiritualità; quando con ciò si ebbero viventi che
con la sola esistenza della loro ragione commisero l'enorme pazzia
di non essere più semplice natura, ma di separarsi dalla
cieca immediatezza della vita naturale e in questo senso di
opporsi alla natura; quando così si compì, secondo
la profonda interpretazione di Leopardi, quell'alzarsi della
ragione sopra l'istinto che è ciò che la Bibbia
adombra con la leggenda del peccato originale, il quale «non
consiste in altro che nella ragione»;92 quando ciò
accadde, tosto, come al tocco della verga magica d'un incantatore
malefico, si sollevò dal fondo della natura, sinora
indifferente e tranquilla perché non faceva che essere
senza vedersi essere, il nembo delle contraddizioni, degli
assurdi, delle incomprensibilità, del male, del peccato,
delle ingiustizie e crudeltà naturali, nonché dei
problemi eterni ed eternamente tormentosi di indole spirituale e
sociale. Perfettamente al contrario degli idealisti che fanno
consistere (con ridicolo antropomorfismo) nello spirito il pregio
della realtà ed in questa dell'uomo che ne è il
veicolo, bisogna, in conformità alla potente intuizione
leopardiana, «considerar come corruttrice dell'uomo la
ragione»,93 cioè ravvisare ragione e spirito come una
funesta deviazione dalla natura, quella deviazione che veramente
creò tutto il male e l'assurdo, poiché prima non
v'erano che cose, che fatti, che essere, e non già anche
insito in quelle per sé la qualifica o valutazione
«male» ed «assurdo». È stata dunque
proprio la «ragione» – cioè questo scarto dalla
natura e dalla immedesimezza con essa, compiuto da un
impercettibilmente piccolo nucleo di viventi, che pretese
così, esso, particula menoma della natura universa, di
sollevarsi sopra e fuori di questa e dal di sopra vederla,
conoscerla, giudicarla – che costituì la pazzia. E
perciò, altresì, ogni intensificazione,
accentuazione, elevazione della spiritualità non fa che
peggiorare la situazione ed accrescere il male e l'assurdo,
com'è ovvio, posto che è essa che li ha creati; e
conviene, se mai, all'incontro, sopirla, smorzarla, rituffarla
più che sia possibile nell'indifferente sonno inconscio
della natura, degli istinti, dell'animalità (è
ciò che, empiricamente, si ammette quando si constata che
le costruzioni politiche e sociali complesse, le civiltà
progredite, finiscono per non poter reggere e per dover
dissolversi in forme economiche primitive, nell'insieme più
felici, o che la vita umana più invidiabile è quella
d'un contadino analfabeta che non sa né di vivere né
di morire e coltiva il suo campo). Ciò che di meglio
avrebbe da far l'uomo, se potesse, sarebbe di eliminare quello
scarto, quella deviazione dalla natura, che fu la ragione o lo
spirito, e ridiventare animale. Tutto il male, l'assurdo, le
difficoltà, i problemi, sparirebbero una nuova volta in
quello stesso nulla in cui erano prima del sorgere della ragione,
e, ritornato alla pura animalità (cioè, secondo la
grande interpretazione leopardiana, alla condizione in cui era nel
paradiso terrestre), l'uomo, avendo così in sé non
il puro Essere, bensì l'Essere sentito, ma solamente
sentito, congiungendo all'Essere soltanto il sentirsi essere,
recherebbe in sé la piena e giusta sufficienza di
sé, che ha travalicato ed infranto quando ha in sé
congiunto all'Essere sentito l'Essere pensato. Occorrerebbe,
cioè, la magia di Circe. E il fatto che coloro i quali
prendendo le mosse da tale mito, e immaginando dialoghi di Ulisse
coi suoi compagni resi animali, ci abbiano rappresentati questi
come quasi sempre assolutamente alieni dal voler riemergere fuori
dal tranquillo fondo uniforme dell'animalità e della
natura, contento dell'immediatamente vissuto, per tornar a passare
nell'inquieto distacco umano dalla natura stessa; questo fatto
è significante, e mostra quanto largamente la tesi qui
accennata sia, anche senza espressa formulazione, condivisa. Essa
è altresì, in sostanza (come si disse) la tesi che
sta in fondo alle filosofie degli Stoici, di Spinoza, di Hegel.
Guardate da un certo punto di vista, queste filosofie sono lo
sforzo per ritornare alla visuale della natura pura, in quanto
puramente è, non fa che essere, dell'animalità pura,
per condurre la mente umana a vedere con la ragione le cose come
le sente l'animalità, come sono nel loro puro e semplice
essere non soggettivamente (razionalmente; secondo la ragione
umana) valutato; sono lo sforzo per far vedere, considerare e
accettare le cose in quanto non altro che essenti, e non
già essenti in questo o quel tale altro modo che noi
diciamo buono o cattivo; per persuadere che le cose non sono se
non essenti, non fanno che essere, e in questo essere
semplicemente essenti si esaurisce ogni loro dover essere. Forse,
dunque, poiché, come ho detto, questa appunto è la
visuale dell'animalità; poiché cioè per
l'animale gli oggetti naturali che gli servono o lo ostacolano, il
suo piacere e il suo dolore, sono semplicemente cose che sono, su
cui egli non eleva una valutazione mentale propria di approvazione
o disapprovazione, non innalza il lume d'un giudizio suo di bene o
di male, non proietta la luce d'una sua categoria di dover essere
o dover non essere (lontano, così, da ogni sorta di
quell'Aufklärung tanto antipatica a Hegel); bensì sono
cose che per lui non fanno che essere, che consistono interamente
e unicamente nell'essere essenti e di cui l'essere essenti
è l'unico significato, cose, insomma, che egli non fa che
constatare e accettare come essenti; così le filosofie
nominate, ed in particolare quella di Hegel, nella sua reiezione
dell'Aufklärung, cioè della ragione umana, si
potrebbero definire – in quanto costituiscono la reimmersione
nella pura natura, nelle cose constatate come puramente essenti e
come esaurienti in ciò loro dover essere – una forma
veramente superiore della magia di Circe o del
«s'abêtir» pascaliano.
Ma, per ritornare in cammino: l'impressione che il sempre maggiore
rilievo preso ai miei occhi dal fatto delle contraddizioni ha
finito per suscitarmi, si può riassumere nel dilemma: o
completa unità e identità delle menti, o inesistenza
della ragione (s'intende, non come potere di ragionare, ma come la
ragione una, che coglie e sta nel centro del bersaglio del vero).
Manca l'unità delle menti, dunque non rimane che
l'inesistenza della ragione. Il formarsi del potere di ragionare
non è stato punto il formarsi della ragione nel senso ora
detto, che sola avrebbe a quello dato una giustificazione ed un
senso.
Il dilemma ora posto è, si badi, lo stesso che sta in fondo
alla dottrina cattolica ed a tutte le «filosofie
assolutiste», compresi i vari idealismi e tra questi quello
odierno. Esse dicono: o con noi (cioè o unità nel
punto centrico della ragione = noi), o fuori della ragione. Ma le
cose si incaricano di risolvere il dilemma nel senso contrario a
quello che è nell'intenzione di quei pensatori.
Poiché, infatti, gli altri continuano a rifiutare di unirsi
in quel centro di ragione, in quel noi; poiché, anzi,
facendo perno in un altro centro come centro della ragione, in un
altro noi, nel loro, dichiarano che appunto quei primi, se non si
uniscono in questo centro, in questo noi, sono coloro che si
trovano fuori della ragione; così è proprio nel
senso del secondo corno, nel senso del «fuori della
ragione» per tutti, nel senso dell'inesistenza della
ragione, che il dilemma resta di fatto risolto.
V
IL SIGNIFICATO DELLA STORIA
Ho detto che la storia è la serie o il sistema delle
contraddizioni. Ma, considerandola attentamente, essa ci si rivela
sotto un aspetto alquanto più preciso. – Perché, non
solo la Firenze medioevale, ma tutta l'umanità dai suoi
primordi, ha continuamente mutato e rimutato, legge, ufficio,
costume? Che bisogno c'era e c'è di questo cambiare? Quale
è il perché di questo bisogno di cambiare?
Perché, insomma, c'è storia, ossia cambiamento? –
Questo, il secondo dei due fatti, elementari, familiari, che io
vedo sotto una luce sempre più singolare e nuova, luce in
cui essi mi si illuminano d'un significato decisivo.
La filosofia che fa professione di presentare le cose mascherate,
dice: la storia è il processo della vita dello spirito,
processo che dev'essere eterno, altrimenti la vita stessa dello
spirito si arenerebbe nell'immobilità ossia nella morte, e
che perciò dev'essere senza fine e meta; ma processo in cui
incessantemente lo spirito dispiega tutte le sue
virtualità, sprigiona l'infinita novità delle sue
creazioni, e posa ad ogni presente sempre nel vero e nel bene,
anzi in un eterno meglio e più vero; processo che è
dunque teofania, vita di Dio, o piuttosto lo stesso Dio.
Quale si rivela essere, con ciò, la vera anima di tale
filosofia, che ai superficiali appare così profonda? – Uno
sguardo riflessivo e maturo dato alla vita, mostra che questa
è sostanziata essenzialmente e ad ogni suo minuto di dolore
e di male (δεινὸς ὁ βίος):94 dalla morte che vediamo far strage
tra i nostri cari e fra poco colpirà noi pure, agli urti e
ai contrasti coi nemici, alle contraddizioni e ai dissensi con le
persone che vogliamo amare, alle ingiustizie ed amarezze di cui
facciamo così larga messe lungo il corso della nostra
carriera mortale e che si inscrivono indelebilmente sul viso
d'ogni uomo di età avanzata («Rivedendo in capo di
qualche anno una persona ch'io avessi conosciuta giovane, sempre
alla prima giunta mi è paruto vedere uno che avesse
sofferto qualche grande sventura»).95 La sensibilità
umana è veramente nient'altro che una lente di
concentrazione dei raggi del dolore, o una pila generatrice di
dolore. E l'uomo che ha esperimentato ciò nella sua propria
vita, scorge ad un tratto, e quasi con stupore, quasi facendo
allora la scoperta che è sempre la stessa cosa, l'identico
dolore ritessere la trama nella vita dei figli, dalla bambola che
si rompe, trapassa, alle prime contrarietà subite nel
mondo, agli ostacoli, alle spine, alle delusioni, che egli vede
cominciare e continuar sempre più a turbare e a molestare,
senza che egli possa impedirlo, anche coloro cui, appunto
perché egli tutto ciò ha conosciuto, vorrebbe che
ciò fosse risparmiato. Così invano l'uomo maturo che
ha visto definitivamente che cos'è la vita, guardando i
suoi figli pensa: «questo non lo dirò loro per non
funestarli»; ché dopo breve tempo anch'essi scorgono
la medesima cosa. Allora egli ode veramente lo scroscio perpetuo
del torrente di dolore che accompagna la vita dell'umanità.
E quando osservando il nostro affezionato animale domestico, il
nostro cane o il nostro gatto, ci accorgiamo che le sue eleganti e
agili movenze sono svanite, che esso è anchilosato, frusto,
prossimo a diventar cieco; quando vediamo così, senza,
anche qui, che noi ci possiamo far nulla, calare su di lui la
stessa ombra che abbiam visto calare sul nostro padre o sul nostro
avo; allora abbiamo l'intuizione viva che lo stesso scroscio del
torrente di dolore accompagna perpetuamente tutta la natura
senziente. «Se tutti i monti fossero libri e tutti i mari
inchiostro e tutti gli alberi penne, ciò non basterebbe
ancora per descrivere tutto il dolore» pensava Jakob
Boehme.96 E con grandiosità veramente epica esprime la
perfetta verità al riguardo il testo buddhistico che si
dirige, più che soltanto ai monaci, a tutti gli uomini,
così: «Che cosa è più, l'acqua nei
quattro grandi oceani o le lagrime da voi fluite e versate, mentre
voi per questo lungo cammino errate e girate e v'affliggete e
piangete, perché vi tocca ciò che odiate e non vi
tocca ciò che amate? Durante lunghi tempi avete subito la
morte della madre, la morte del padre, la morte del fratello, la
morte della sorella, la morte del figlio, la morte della figlia,
la perdita dei parenti, la perdita degli averi. E mentre subivate
ciò durante lunghi tempi, furono più le lagrime da
voi fluite e versate che l'acqua nei quattro grandi
oceani».97 Così, alla madre che piange la morte della
figlia e la chiama: «Jiva! Jiva!», la grave parola
buddhista rivolge il richiamo: «Ottantaquattromila
fanciulle, che tutte si chiamavano Jiva, sono state cremate qui;
quale dunque fra queste è quella che tu piangi?».98 –
Forse, l'oscuro avvertire che da ultimo l'anima umana fa di questo
assoluto predominio del dolore, è ciò che ha finito
per dare con l'epoca moderna la grande prevalenza alla musica
sulle altre arti: ché la musica, anche quando non sia di
proposito dolorosa, è sempre, e rievoca nelle coscienze in
cui veramente penetra, come un ineffabile e misterioso rimpianto
per alcunché di mancato, di irraggiunto, di perduto per
sempre, e che pure ci dovrebbe essere, e quasi mediante un lento
rimescolio del profondo, per solito lasciato tranquillo, fa salire
alla superficie, appannandola, in nube ciò che giace
colà deposto, il senso dell'eterno malcontento, dolore,
rimorso per tutto ciò che eternamente è non fatto,
mancato, irraggiunto, perduto. Come si spiegherebbe che in alcuni
animali (per esempio i cani), i quali gemono con espressione
d'infinita profondissima sofferenza morale nell'udire la musica,
questa rechi sempre alla luce una così netta ripercussione
di dolore, se essa non fosse già essenzialmente in
sé quasi la quintessenza delle lacrimae rerum, e non ne
risvegliasse l'eco nei viventi in cui penetra?
Ora, se all'uomo comune, che vive la sua vita d'ogni giorno senza
pensare ad altro, e va avanti in essa con la testa nel sacco, voi
additate i fatti per cui la vita è essenzialmente dolore,
egli vi risponde: è vero; ma che sciocchezza! non bisogna
pensarci; non bisogna fissare l'attenzione su idee così
nere; questa è ipocondria. Cioè stornar gli occhi
dalla realtà, non pensarci, è l'unico mezzo di
conforto che resti all'uomo.
Aiutar l'uomo a «non pensarci», a stornare gli occhi
dalla realtà, è l'anima di quella filosofia per cui
la storia o il processo è luminosa estrinsecazione
dell'assoluto e del divino. È, dunque, in fondo,
nient'altro che l'anima del grossolano gaudente, che vuole ad ogni
costo chiudere occhi e cuore alle afflizioni, alle sofferenze,
alle angustie della gente, perché la sua allegria non sia
turbata; che vuole in prima linea e ad ogni prezzo conservare il
suo buon umore. È l'anima del «carpe diem»,
quella di chi vive tutto nel momento presente, inteso a goderselo.
L'anima di chi non vuol saperne di seccarsi con l'idea della morte
e del dolore, ne scaccia da sé il pensiero e il ricordo, e
fissa questi unicamente sulle occasioni di tripudio. Male, morte,
dolore, sono, per questa filosofia, cose effimere, secondarie,
subordinate, anzi inesistenti. Non vanno guardate; va guardata
solo la bella vita, la vita gioconda, la vita rosea, l'esuberanza,
l'intensità, il gaudio, il ballo tondo, e in ciò
solo sta la verità e la realtà; il resto non
è che piccola ombra inconsistente, cosa trascurabile.
È, insomma, l'anima di chi alza le spalle dinanzi alla
gente che muore perché tanto ne nascerà dell'altra.
Della piatta alterazione ottimistica della realtà che
questa filosofia in tal guisa compie, è spiccata
espressione e simbolo perspicuo l'altrettanto piatta
falsificazione che essa fa del Leopardi. Questi è appunto
l'immortale potentissima chiarificazione della realtà come
essenzialmente male, dolore, morte. Ma no; che la più
grande figura della letteratura italiana sia quella d'un
pessimista e d'uno scettico non può, non deve darsi; come
la realtà dev'essere a tutta forza allegria, così
nemmeno Leopardi può essere pessimismo e scetticismo
definitivo. Sbagliano quelli che così lo qualificano,
sbaglia lui a pensare di sé così. Egli, invece,
è felice nella perfetta soddisfazione di dare espressione
artistica appunto al pessimismo; e con un paziente giuocar a dama
coi suoi pensieri e scritti si dimostra che egli ha infine
«ricostruito».
Qui si noti che la concezione del processo come realizzante in
sé l'assoluto, il divino, la perfezione, e quindi come
pienamente appagante, questa concezione tipica dell'idealismo
tedesco, è, in un suo tratto essenziale, anche quella di
Nietzsche nella fase di Zarathustra. Questi non sta, come si
volle, in opposizione a quell'idealismo, ma si trova invece
esattamente sulla stessa linea di esso, anzi ne è il pieno
coronamento (quantunque, insieme, la piena smascheratura); e lo
avverte tosto chi sappia già solo scorgere come la
concezione più clamorosa di Nietzsche,
l'«immoralismo», non sia altro se non quel formalismo
morale, cioè quella reiezione dall'etica d'ogni contenuto o
materia fissa e perenne, introdotto da Kant e proseguito dai suoi
successori. Egli è, in particolare, il coronamento e la
smascheratura di quella direzione del pensiero filosofico tedesco
che pone la vera realtà nel «processo», e
specialmente in quanto rappresentata da Fichte. Già nel
campo morale, Nietzsche non è che la trascrizione in chiave
di maggiore lirismo della filosofia di Fichte. Nient'altro che
fichtismo morale è la sentenza che «Gutes und
Böses, das unvergänglich wäre – das giebt es nicht!
Aus sich selber muss es sich immer wieder
überwinden».99 Cioè, come tutto il capitolo
illustra, non c'è un fatto, un oggetto, un contenuto
concreto che possa essere perennemente designato come il bene
(morale materiale), ma la volontà che afferma la sua
potenza superando continuamente se stessa, questo è il
bene. Il bene è nella volontà, nel volere
continuamente, nella volontà sempre tesa ed attiva, che non
si affloscia mai, che realizza sempre un meglio di quanto ha
già realizzato. «Thut immerhin, was ihr wollt – aber
seid erst Solche, die wollen können!».100 Tale
concetto, che Nietzsche liricizza, con forza maggiore che mai nel
luogo ora indicato, è pretto fichtismo. Interamente
fichtiana è pure la sua concezione (negazione) di Dio.
Quando egli dice che Dio, l'«Essere», non può
esserci, perché allora, essendovi nella realtà
l'Essere sommo, la sommità dell'Essere, tutto sarebbe
già fatto, nulla rimarrebbe da fare («was wäre
denn zu schaffen, wenn Götter – da wären!»),101
mentre l'essenza della volontà, ossia dell'uomo, sta
appunto nel fare, far divenire, divenire – egli esprime appunto il
pensiero centrale del fichtismo. Quando egli dice102 che lo
spirito è la vita che fa male a se stessa, è un
animale da sacrificio, perché il suo progresso, ogni sua
nuova conoscenza, è pagata al prezzo del sacrificio di una
vecchia, amata e consuetudinaria, quindi lo spirito cresce in
quanto si sacrifica («des Geistes Glück ist diess:
gesalbt zu sein und durch Thränen geweiht zum
Opferthier»); egli formula poeticamente l'idea della
«negatività», elemento necessario e propulsore
del processo, propria dello hegelianismo, e quella, più
particolare dell'«attualismo», del processo eterno da
verità inferiore a verità superiore con la
conseguente perpetua permanenza e presenza dello spirito nel
«vero», perché il falso, quando divien tale,
divien anche passato. In generale, la dottrina idealistica
dell'eterno processo come unica realtà, trova il suo pieno
e perfetto simbolo nella concezione del superuomo, in quella
cioè che ogni generazione o fase di spirito non ha alcun
valore in sé, ma solo per la nuova fase che
genererà, e che ogni generazione o fase non è che un
ponte, una «corda tesa», tra ciò che ci fu
prima e ciò che ci sarà poi – il suo perfetto
simbolo e insieme la piena messa in luce del carattere di assurdo
che essa imprime alla realtà e alla vita.
Giacché se Nietzsche è il coronamento della
direzione idealistica del pensiero tedesco, ne è anche la
smascheratura. Egli, sebbene abbia comune con Fichte la concezione
che il «fare» è tutto e l'«Essere»
non c'è, non mantiene equivocamente, come Fichte, a quel
«fare» o divenire senza Essere, il nome di Dio, ma
accentua espressamente che tale concezione è la negazione
di Dio, che essa è assoluto ateismo, che essa vuol dire
caso, assenza di fine, assenza di eterna volontà che diriga
il processo. E quando egli ripete nient'altro che quel che gli
idealisti tedeschi avevano detto da Kant in poi, cioè che
il contenuto della morale è continuamente mutevole, che
continuamente una nuova morale (nuove tavole di valori)
sostituisce l'antica, egli non pallia questa concezione col nome
di «assolutezza della morale», assolutezza riposta
nella mera forma, nel fatto che esiste sempre una morale, ma la
chiama come va chiamata: immoralismo, ossia inesistenza della
morale (assoluta).
Ciò non ostante, Nietzsche si trova in accordo con gli
idealisti, contro l'intuizione svolta in queste pagine, per
ciò che riguarda la valutazione del processo. Se, riducendo
la realtà al divenire, nega ad essa l'esteriore etichetta
di «assoluto», di «divino», che gli
idealisti amano appiccicarvi, vi conserva il carattere di
appagante, il carattere d'alcunché che è bene che ci
sia, a cui egli dice di sì (sebbene talvolta riconosca:
«immer ja sagen – das lernte allein der Esel, und wer seines
Geistes istl»),103 quindi, in fondo, il carattere razionale.
Nietzsche, se è l'idealismo senza la mascheratura di Dio e
dell'assoluto, continua ad aver comuni con quello i concetti
dell'ottimismo e del progresso. Corregge l'idealismo riguardo al
primo punto, resta aderente ad esso riguardo al secondo. Riconosce
la non-assolutezza, restaura il Caso invece del Logos sul trono
del mondo, ma tien fermo al carattere consolante del processo. In
questa sua direzione, non coerente con quella, la dottrina di
Nietzsche si riduce, se si guarda bene, alla volgare teoria del
progresso. L'uomo è qualcosa che dev'essere superato;
cioè ogni stadio d'umanità deve trapassare ed
evolversi in uno stadio superiore. Superuomo vale: continuo
superamento del momento umano attuale, formazione di
un'umanità continuamente superiore (il «nobile»
è colui che non si sente come il punto d'arrivo d'un
passato, ma come punto di passaggio, veicolo, ponte, «bis es
ihm Brücke würde»);104 cioè appunto, in
parole povere, il solito progresso. Quindi, la solita condanna per
chi dice che non c'è nulla da fare,105 che non si
può se non lasciare che il mondo vada come vuole, e invece
la suggestione che bisogna operare, migliorare il mondo, farlo
progredire. Quindi la solita affermazione che nulla importa la
sofferenza degli individui purché il progresso ci sia.106
Quindi l'ancor più comune tentativo di trovare un senso del
mondo nel compito di lavorare a fare i figli migliori di noi,107
cioè di lavorare per la generazione ventura, pensiero
questo che colloca il senso del mondo nell'assurdo che la
generazione a vale per la successiva b, ma questa alla sua volta
non vale per sé bensì per la successiva c, e questa
solo per l'ancor successiva d, senza che in nessuna risieda quel
valore per sé stante, conclusivo e finale che solo darebbe
qualche carattere di ragionevolezza e appagamento a tale
concezione.
Ora, nulla v'è di più risibile ed urtante del
concepire sia come corso divino, come vita di Dio, sia come
soltanto pienamente appagante e razionale spiegazione della
realtà, un corso senza fine e meta, cioè senza
scopo, cioè, in tale assenza di scopo, marcato di quello
che è il marchio tipico dell'assurdo; un corso che, nella
sua necessaria assenza di raggiungimento (necessaria,
perché, se raggiungimento vi fosse, questo solo sarebbe
importante e il corso perderebbe ogni significato), è la
riproduzione esatta di ciò in cui gli antichi, viceversa,
scorgevano giustamente il maggior tormento infernale, il lavoro
vanamente rinnovato e ripreso da capo, il lavoro delle Danaidi, di
Tantalo, di Sisifo, di Issione; un corso, proprio la constatazione
del quale, come essenzialmente costituito di cose che nascono e
periscono, come rivelante la verità che
Was irgend auch entstanden ist
Muss alles wieder untergehen,108
come definito nella domanda-risposta quasi catechistica:
«ciò che è transeunte è doloroso o
piacevole? – doloroso, signore»109 offriva, invece, per il
profondo pensiero buddhistico il motivo della sua rinnegazione,
l'aspirazione al suo annientamento, il fondamento della fuga dal
mondo e dall'Essere, del pessimismo. «"Tutti gli elementi
dell'esistenza sono transitori", chi ciò ha visto e
riconosciuto, si disgusta dei dolori dell'esistenza: questo
è il sentiero della purità».110 Un corso in
cui l'oggi ha significato solo per domani, e questo, quando
è oggi, solo ancora per domani, e quindi ogni presente pel
poi, e perciò ogni presente, ossia il presente, che
è l'unica realtà vitale, non ha mai nessun
significato; un corso, la cui interpretazione come vita divina
(che Nietzsche, almeno, respinge, ma che invece celebrano, come il
loro rito più specialmente solenne, fichtiani, hegeliani o
idealisti «attuali») non è dunque che il
tentativo di elevare a dottamente speculativa filosofia religiosa,
la banale spiritosaggine che si legge ancora sopra qualche banco
di drogheria di villaggio: «oggi non si fa credenza, domani
sì».
Nessun uomo che pensi, non per cincischiarsi a mettere insieme
sistemi dal taglio corretto ed elegante, come un sarto principe fa
coi vestiti, ma perché pulsa in lui il bisogno genuino,
ardente e profondo di sforzarsi di vedere nel cuore del reale,
può appagarsi d'una interpretazione come questa, lustra di
mere parole. E continuerà di fronte ad essa a ridomandarsi:
ma perché, dunque, c'è storia? perché
c'è cambiamento?
E la risposta è ovvia. Per la ragione diametralmente
opposta al fatto che la filosofia suaccennata pretende costituisca
l'essenza della storia. Non è già, cioè, che
il corso o il processo sia tale che in ogni momento di esso lo
spirito si trovi nel vero e nel bene, in ogni presente adunque in
un eterno più vero e meglio: giacché, se lo spirito
si sentisse nel vero e nel bene, vi dimorerebbe, e il processo,
ossia la storia, si arresterebbe. C'è storia, viceversa, la
storia si spiega soltanto, perché, così
l'umanità, come l'individuo, in ogni presente avverte di
essere nell'assurdo, nel falso e nel male, e vuole uscirne.
Nam gaudere novis rebus debere videtur,
Cui veteres obsunt.
Lucrezio, V, 171-72
C'è storia, dunque, perché ogni presente, ossia la
realtà, è sempre falsa, assurda e cattiva, e
perciò si vuol venirne fuori, passare ad altro, quel
passare ad altro in cui, unicamente, la storia consiste. Non
perché lo spirito è sempre nel vero, ma
perché è sempre nel falso, perché cioè
avverte che ogni presente sua spiegazione delle cose è
sbagliata ed è perciò inappagante, procede a
cercarne un'altra, cioè c'è storia della filosofia e
storia della scienza. Non perché lo spirito è sempre
nel bene, ma perché è sempre nel male, perché
cioè ogni presente suo principio, pratica, costume,
istituzione, è deficiente, fallace, condannevole, procede a
foggiarne altre, ossia c'è storia della morale, del
costume, della politica, storia in generale. La storia non
è che un continuo voler uscire dal presente e uscirne di
fatto; mosso da ciò che il presente (la realtà)
è sempre male. C'è storia perché di fronte
all'assurdo e al male presente balena innanzi agli uomini
nell'avvenire un razionale ed un bene che vogliono rendere
presente. Ma, appena reso presente, esso diventa ancora assurdo e
male di fronte a un nuovo razionale e bene che sta ancora davanti,
nell'avvenire.
La razionalità e il bene stanno sempre davanti, sempre
nell'avvenire, come il mazzetto di fieno attaccato al timone
davanti alla bocca del cavallo che questo trasporta sempre
più in là con la sua stessa corsa. Sono sempre un
«dover essere» che non diventa mai un
«essere». Poiché, quando sono, quando da
semplice «dover essere» acquistano la qualità
di «essere», istantaneamente nell'acquistare la
qualità «essere» perdono quella
«razionalità» e «bene». Facendosi
realtà e presente diventano assurdo e male, tanto è
vero che si vuole ancora uscirne, si vuole ancora passare ad
altro, cioè prosegue la storia. La verità meridiana
e tangibile, contrariamente alla celebre sentenza hegeliana,
è che il reale è irrazionale (tanto è vero
che malcontenta e si disapprova, cosicché sempre si vuol
cambiarlo, ossia c'è storia), e il razionale è
irreale (perché è sempre oltre il presente,
cioè fuori della realtà, cioè nel futuro).
Come si può non vedere una cosa così palmare, che
cioè la storia dell'umanità ha proprio soltanto la
medesima ragione che scorgeva Dante come l'unica ragione del
cambiare, ossia della storia, della sua Firenze, vale a dire lo
sforzo di schermire, dando volta, il dolore, il male, l'assurdo,
il continuo giacere nel quale d'ogni presente, ossia della
realtà, è provato appunto dall'eternità del
dar volta, cioè della storia?
Aristotele ha una sentenza veramente profonda, che, se ci si
pensa, racchiude in nuce ciò che qui sostengo e ne è
la mirabile conferma. Il cambiamento (egli dice) è la cosa
più dolce, in forza di qualche nostro cattivo stato;
perciò l'uomo facile a cambiare è in cattivo stato,
come lo è una natura che ha bisogno di cambiamento: essa
non è pura e ben proporzionata; μεταβολὴ δὲ πάντων γλυκύ
κατὰ τὸν ποιητήν (il poeta è Euripide, Oreste, 234), διὰ
πονηρίαν τινά· ὥσπερ γὰρ ἂνϑρωπος εὐετάβολος ὁ πονηρός, καὶ ἡ
φύσις ἡ δεομένη μεταβολῆς· οὐ γὰρ ἀπλῆ οὐδ΄ ἐπιεικής.111
C'è storia, insomma, l'umanità corre nella storia,
per la medesima ragione per cui corre un uomo che posa i piedi su
di un sentiero cosparso di spine o di carboni ardenti.
Perché ha bisogno di levare i piedi dalla sofferenza che il
posarli gli dà, e, speri vagamente o no che portandosi
più in là sfuggirà alla sofferenza, in ogni
modo, poiché non può tenerli fermi nella sofferenza
che in ciascun posarli è attuale, così corre di
continuo.
La storia non è che questo. Lo sforzo, vano perché
eterno, di fuggire dall'assurdo e dal male. Essa è dunque
la riprova che quello che – posto che vana perché eterna
è la fuga o lo sforzo di allontanarsi da esso, ossia la
storia – rimane sempre presente, vale a dire la realtà,
è sempre l'assurdo e il male. La storia non è che lo
sforzo per allontanarsi dal presente, perché questo
è sempre assurdo e male; la prova dunque che è
assurdo e male. La storia conferma, perciò, il risultato a
cui è approdata la precedente indagine circa le
contraddizioni; com'è naturale poiché se quella
indagine considerava le contraddizioni quasi a dire nella
categoria dello spazio, cioè nella loro coesistenza
contemporanea, la storia non è che le contraddizioni stesse
nella categoria del tempo, cioè nella loro successione
temporale. Conferma, così, la storia, quel risultato in
pieno, anche per questo, che essa ci fa vedere come
l'umanità, cambiando, cioè condannando sempre se
stessa, accertando (quando ogni suo presente è diventato
passato) di avere in quell'ogni suo presente – in ogni suo
presente visto alla luce del presente di poi – ritenuto errori e
superstizioni come verità, e mostruosità come fatti
leciti o virtuosi; ci fa vedere, dico, come l'umanità con
ciò dia di se stessa l'attestazione che la sua mente si
è sempre trovata nella irrazionalità.
Si noti che tale attestazione della propria irrazionalità
che dà la mente dell'umanità con la sua storia, la
dà altresì di sé la mente d'ogni individuo,
mediante la storia piccola o vita di lui. In questo caso, come in
quello, la storia è la prova evidente che la mente è
sempre irrazionale. Anche nella (storia) vita dell'individuo,
infatti, la ragione continua a condannare se stessa, la mente ad
accertare che è (stata) sempre nella stoltezza. Tutta la
nostra vita individuale, considerata retrospettivamente, ci
risulta seminata di azioni che ora vediamo non avremmo dovuto
compiere e di idee che ora respingiamo. E considerata nel suo
svolgersi all'innanzi ci si vien manifestando come l'impotenza
della ragione di attuare in essa nostra vita se medesima,
cioè come il divergere di infinite azioni che faremo dal
proposito o piano dalla ragione precedentemente fissato, e
ciò perché quella che era avvertita precedentemente
come ragione viene soppiantata al momento dell'azione da una
diversa, che in siffatto momento ci apparisce essere, essa
soltanto, ragione, senza che, quando, come si dice, ritorniamo su
noi stessi e vediamo ancora che la vera ragione era la prima,
possiamo sentirci sicuri di ciò con una sicurezza che
escluda tra poco o molto il ritorno dell'altra visuale. Tutta la
nostra giornata, se la esaminiamo attentamente, è composta
di piccole cose che la nostra stessa mente ha stabilito essere
irrazionali e previamente deciso che per ciò non debbano
aver luogo (la sigaretta fumata, il boccone di troppo, il libro di
lettura amena o il giornale preso in mano invece di scrivere, la
partita di chiacchiere troppo lunga e vivace). Ogni nostra
giornata rappresenta una catena di atti minuti che (per usare il
linguaggio idealistico) il vero io ricusa e rinnega ed ha
già stabilito che sono irrazionali; la deviazione da
ciò che esso ha scorto e deciso come razionale; la caduta
costante nell'irrazionalità; il fuori di sé che
trascina continuamente il sé. «Combien diversemente
iugeons nous des choses!» scrive Montaigne, lungamente e
acutamente insistendo su questa situazione. «Combien de fois
changeons nous nos fantasies! Ce que ie tiens aujord'huy, et ce
que ie croy, ie le tiens et le croy de toute ma croyance... mais
ne m'est il pas advenu, non une fois, mais cent, mais mille, et
tous les jours, d'avoir embrassé quelque autre chose,
à tout ces mesmes instruments, en cette mesme condition,
que depuis i' ay iugee faulse?». «Nous nous amendons
par la privation de nostre raison et son assopissement... Cecy est
plaisant à considerer: par la dislocation que les passions
apportent à nostre raison, nous devenons vertueux».
«L'humaine science ne se peult maintenir que par raison
desraisonnable, folle et forcenee».112 Ogni nostra giornata
è la prova che la ragione non può per sole
ventiquattr'ore della nostra esistenza vivere secondo il suo
ordine. Ma c'è forse, dunque, almeno la ragione in quella
nostra mente, in quel nostro io, che ha scorto e stabilito o
riscorgerà e ristabilirà, che tale catena d'azioni
è irrazionale? Come accertarlo, se tale nostra mente, tale
nostro io è, essa appunto, respinta via, quale ubbia,
pedantismo, stoltezza, dall'altra, pur nostra, mente che compie le
azioni da quella scorte come irrazionali? Se anzi quella, la mente
che vuol tenerci nella «regola», nella
«ragionevolezza», ci balena talvolta dinanzi come
nient'altro che pusillanime amore del quieto vivere, codardia,
mancanza del coraggio di affrontare conseguenze rischiose pur di
strappare al destino la conquista d'un piacere raro o d'un
vantaggio fuor del comune? Se, insomma, come diceva Carneade
(poiché probabilmente questo pensiero è suo),113 con
espressione che coglie proprio il centro decisivo della questione,
appare a tutti chiaro che «quem ad modum ratione recte fiat
sic ratione peccetur»? O se come, del tutto conformemente,
diceva, ancora, Montaigne, «la raison va tousiours, et
torte, et boiteuse, et deshanchee, et avecques le mensonge, comme
avecques la verité»?114 Lotze (il cui oscillare circa
tutti i massimi problemi tra il sì e il no, profondo e
delicato, vago ed elegante ad un tempo, procura ad uno scettico un
perfetto godimento estetico) ha, come spesso, una parola di
scultoria esattezza circa questo mutarsi e inclinarsi nei sensi
più opposti della nostra ragione. «Spannung und
Abspannung wechseln auch hier wie in dem körperlichen
Befinden und unsere Gedanke sind Festtags anders als
Werktags».115 E un testo buddhistico suona press'a poco
così. Anche l'uomo comune, che non ha inteso la dottrina,
può distornarsi dal corpo e liberarsi dai desideri che vi
si riferiscono, perché egli percepisce che esso cresce e
decade. Ma invece l'uomo comune, che non ha inteso la dottrina,
non riesce a distornarsi dal pensiero, dalla conoscenza, dallo
spirito (dalla ragione) e liberarsi dai desideri che vi si
riferiscono, perché dice «questo è mio, questo
son io, questo è il mio sé». Ora, sarebbe meno
male prendere quale proprio io il corpo formato dai quattro
elementi che non prendere come tale lo spirito. Il corpo, infatti,
può apparire permanente per due, tre, cento anni; ma lo
spirito cangia ad ogni momento. «Come una scimmia, o monaci,
che in un bosco, aggirandosi tra le piante, afferra un ramo e lo
lascia andare e ne afferra un altro, così sorge e passa
ciò che vien chiamato spirito o pensiero o conoscenza,
cangiando sempre giorno e notte».116 Questa è della
nostra «ragione», tanto teoretica quanto pratica,
l'immagine più esatta.
Siamo stolti. È questa la costante constatazione che noi
stessi – noi come lo stoico; noi come l'uomo religioso (al cui
sguardo, per esempio con sant'Agostino, la stessa serie di tutte
le formazioni sociali e statali che la storia umana svolge, si
presenta come un seguito di regni di perversità ed assurdo,
diabolici, materia d'inferno – concezione alla quale è
perfettamente analoga quella del Renouvier,117 secondo cui non
potendo mai la ragione negli uomini «se vouloir
elle-même toute entière», l'uomo non riesce a
vivere nello stato di razionalità, nello «stato di
pace», ed è costretto a sostituirlo con lo
«stato di guerra» o di irrazionalità, quello
cioè in cui, poiché sulla ragione non è
possibile contare, la morale pura si trasforma e trapassa in
diritto e Stato); noi come il moralista, nel senso classico e non
degenerato della parola, colui cioè che, non già
vuol escogitare o dimostrare o illustrare un «dover
essere», ma sa cogliere perspicuamente le fattezze di
«ciò che è», un Teofrasto, un La
Bruyère, un La Rochefoucauld, un Vauvenargues,
«moralistes français», un Leopardi autore di
operette morali; noi, in quanto issandoci momentaneamente sullo
scoglio isolato di quella che talvolta ci par di intravvedere come
ragione, scorgiamo nel mondo d'attorno «la compagnia
malvagia e scempia»,118 ma sappiamo anche considerare noi
medesimi in esso – è, dico, la constatazione che noi stessi
abbiamo sempre fatto. Siamo stolti; la stoltezza alberga
naturalmente in noi come l'assurdo all'esterno; e quando vediamo
la nostra stoltezza con la nostra ragione, non siamo nemmeno
sicuri che proprio questa sia ciò che è ragione, e
in ogni modo come ragione essa non ci resta ferma dinanzi.
Stoltezza inerente alla mente, che si manifesta già in
questo, che sebbene sappiamo che ogni desiderio o passione, anzi
ogni atto di volere, finisce per darci non la felicità ma
anzi il dolore, pure, nel momento del volere, non possiamo a meno
di sentire il raggiungimento come necessario alla felicità.
Stoltezza che permetteva a Schopenhauer di scrivere che «il
mondo apparisce, considerato dal lato estetico, un'esposizione di
caricature, considerato dal lato intellettuale, un manicomio,
considerato dal lato morale, un covo di briganti».119 –
Accade con noi rispetto a noi esattamente come col
«saggio» d'Orazio di fronte agli altri. Nel
«saggio» stoico risiede fermamente la ragione. Egli
addita con tutta precisione le pazzie che fanno gli altri, la
pazzia che domina sovrana nella mente di tutti gli altri.
«Insanis et tu stultique prope omnes... accipe, quare
desipiant omnes acque ac tu». La pazzia alberga nella mente
di tutti gli altri, non, s'intende, nella sua, che negli altri
giustamente la vede e l'accusa. Ma come stabilire se abbia torto
l'altro quando dice invece al «saggio»: il pazzo
maggiore sei tu? «O major tandem parcas, insane,
minori»?120 Come stabilire se, sia rispetto a quella nostra
mente che accusa di irrazionali le azioni che noi stessi facciamo,
sia rispetto al «saggio», che accusa le menti altrui
di essere pazze, non sia giusto ripetere che appunto «cette
exacte et tendue apprehension de la raison... l'a mis sans
raison»?121 Infatti lo sforzo più risoluto per
regolare rigorosamente la vita secondo la ragione, che la storia
del pensiero presenti, quello dei Cinici e degli Stoici, è
sempre apparso, quando, uscendo da affermazioni generiche, ha
voluto concretarsi nelle azioni particolari, come la massima e la
più «curiosa» delle stravaganze. – E, nel campo
teoretico, la mente dell'individuo progredisce, cioè passa
da un'idea ad un'altra: in quanto, anche nell'individuo, la mente
teoretica è storia, proprio perché è
processo, progresso, è quindi continua condanna di se
stessa.
L'ipotesi, adunque, che si prospettava Descartes, quella del
«trompeur très puissant et très rusé,
qui employe toute son industrie à me tromper
toujours»;122 tale ipotesi, di cui egli escludeva con
assoluta sicurezza ogni effetto almeno in un punto, quello del
cogito-sum, e proprio invece anche in ciò (decisiva
confutazione della parte costruttiva della sua dottrina e di
qualsiasi altra certezza, «chiarezza ed evidenza» la
mente umana creda tenere in pugno) cadendo in preda all'inganno,
ché poco dopo Hume mostrava che lo stesso cogito-sum,
inteso sostanzialisticamente, come «chose qui
pense»,123 era tanto poco certo che poteva essere
vittoriosamente negato; tale ipotesi è precisamente quella
che, anche senza l'intervento di entità mitiche, si
realizza nel fatto ora descritto: nel fatto che quel che ci appare
nostra ragione che vede la nostra stoltezza, non ci resta come
ragione ferma dinanzi, perché espulsa da una opposta, ma
sempre apparenteci, nel momento del suo emergere, come ragione;
nel fatto che ogni nostra visuale, che ci appare con evidenza
volta a volta visuale di ragione, ci diventa volta a volta, quando
subentra l'opposta e considerata dal punto di vista di questa, una
visuale di non-ragione; nel fatto dunque che le cose vanno proprio
come se ci fosse il «mauvais génie», il
«trompeur très puissant», che voglia ingannarci
e ci riesca pienamente e alla perfezione, dal momento che in ogni
nostra visuale di ragione noi ci troviamo sempre (come risulta
alla visuale opposta, pur sempre, vedi Carneade, di ragione,
quando subentra) nell'inganno e nella non-ragione. Il non trovarci
mai, almeno con permanenza ed esclusiva sicurezza, nella ragione:
l'esser sempre in noi la razionalità mutevole, oscillante,
incerta; il giacere perciò le nostre menti sempre in uno
stato di irrazionalità; quest'è, letteralmente,
l'effettuarsi di quell'ipotesi del «trompeur très
puissant» che pure solo come provvisoria concessione
dell'impossibile Descartes poneva innanzi. L'irrazionalità
in cui al pari della realtà si trova la mente, questa
è la presenza davvero esistente e l'azione del
«trompeur» di Descartes.
Or dunque, la storia, sia nell'individuo che nella specie,
è l'attestazione che dà la mente di sé
dell'assurdo in cui si aggira e che la costituisce.
Hegel e Schopenhauer sono veramente gli esponenti delle due
concezioni filosofiche antitetiche della vita (e quindi dei due
temperamenti opposti), e ciò anche, e specialmente, su
questa questione della storia. Il processo come corso divino e il
processo come corso infernale. Ma poiché, come per
Schopenhauer il processo è senza scopo, così per
Hegel è senza meta; e poiché le due cose significano
in sostanza lo stesso; così l'esattezza della definizione
schopenhaueriana del processo in confronto di quella hegeliana
è evidente. Se il processo è senza meta, ossia senza
scopo, esso non può essere che processo d'una realtà
(«volontà») la quale, quantunque le singole
incarnazioni di essa (gli individui) abbiano un obbiettivo o un
fine nel loro volere, non ha, nella sua totalità, né
fine né obbiettivo,124 non vuole che per volere, non si
sforza che per sforzarsi, cioè è essenzialmente
irrazionale ed assurda. O il processo ha una meta, e allora nega
se stesso come processo, pone capo al contrario di se stesso,
cioè all'immobile pace, alla stasi, e questa meta essendo
allora la vera realtà, il processo come tale viene
destituito di realtà. O il processo non ha meta e
poiché così diventa palesemente una cosa assurda,
non può essere che processo d'alcunché
d'irrazionale, della «volontà»
schopenhaueriana, non già d'alcunché cui, col nome
di «idea» o di «spirito assoluto», sia
lecito ascrivere come carattere essenziale la razionalità.
Gli hegeliani dicono: non vedete che l'immobile pace cui il
processo mettesse capo, la stasi, il punto d'arrivo dopo il quale
non ci fosse altro, non sarebbe se non la fine di tutto, la morte,
e che affinché si abbia non la fine e la morte, ma la vita,
affinché questa continui, bisogna che il processo continui,
sia eterno? Hanno ragione. Ma ciò non toglie che la
conclusione giusta di ciò possa essere, ancora, quella di
Schopenhauer. Poiché il processo è assurdo,
poiché è processo dell'irrazionale, la conoscenza,
che ha veduto questo, guidi la realtà (la
«volontà») a rivolgersi contro se stessa, ad
annientarsi; la guidi alla meta, alla fine, alla stasi, pur non
potendo essere questa meta che il nulla, pur potendo solo il nulla
far uscire la realtà dall'assurdo d'un processo senza
scopo, pur non potendo cioè la realtà liberarsene
senza nullificarsi. Meglio – così, con Schopenhauer, si
può, con piena legittimità, rispondere a quel
richiamo hegeliano – meglio il nulla che l'assurdo.
E perciò è pienamente nel giusto Leibniz. Questo il
migliore dei mondi possibili. Togliete dalla realtà
l'assurdo, e, poiché essa non è altro che processo
senza meta, ossia senza scopo, ossia precisamente non è che
l'assurdo, la annientate. O (come si può esprimere la cosa
in linguaggio hegeliano): se la contraddizione, ossia l'assurdo,
è la radice del movimento, il motore del processo, e quindi
la ragione della vita, questa è una cosa con l'assurdo,
perché sparito l'assurdo essa stessa sparisce. – O
l'assurdo o il nulla.
Durante e dopo la guerra un buon numero di ottime persone
insorgeva con sincera indignazione contro quell'obbrobrio
insensato e sanguinoso che la guerra era. Avevano ragione. E non
solo la guerra, ma il vizio, il delitto, la slealtà, i
tradimenti, gli intrighi, gli impudenti arrivismi, sono un
obbrobrio. Volete che tutto ciò scompaia? D'accordo.
Sopprimiamo l'Essere; tutto ciò scomparirà.
«Ah, questo poi no!». No? Non volete sopprimere
l'Essere? Volete che l'Essere ci sia e continui ad esserci?
«Ma certo; bisognerebbe essere pazzi per non volerlo».
Allora dovete tenervi anche guerra, vizio, intrighi, delitti,
tutto questo male e questo assurdo, che sempre costituì e
costituirà la sostanza del mondo, perché l'Essere
non è altro che siffatta somma di irrazionalità.
Concepite il mondo migliore, e voi lo annientate. Perché se
voi ritenete di aver diritto di concepirlo migliore, dovete
ammettere che uguale diritto di concepire un mondo migliore
abbiano i vostri figli, le generazioni che vi seguiranno. Poter
concepire e fare il mondo migliore, significa dunque concepirlo e
farlo continuamente migliore, cioè spingere fuori da esso
l'assurdo ed il male; ossia condurlo alla meta dove il processo
s'arresta, dove non c'è più nulla da fare, da
cambiare, da pensare, non si fa, non si pensa, si è morti,
tutto giace, sta, è morto – alla stasi, alla fine, vale a
dire alla morte, all'annientamento. Anzi, se fosse possibile
concepire un mondo migliore, il mondo, stante l'infinità
del tempo, sarebbe già divenuto perfetto, cioè
avrebbe già raggiunta la meta dove non c'è
più processo, la fine, il nulla.125 Perché il mondo
ci sia, cioè continui ad essere, bisogna che non possa
migliorare. Se lo potesse, andrebbe (anzi sarebbe già
andato) a poco a poco a finire in quella che è l'unica
perfezione, l'uscita dal processo, la fine di esso,
l'immobilità completa, la morte, il nulla. Perché il
mondo continui ad essere, bisogna che sia sempre com'è.
Contro Leibniz, Schopenhauer dice126 che questo è il
peggiore dei mondi possibili. Possibile (ragiona) significa, non
già immaginario, ma che può realmente esistere. Ora
questo mondo è costituito come doveva per poter esistere
col massimo di dolore. Se fosse solo d'un atomo peggiore non
potrebbe più sussistere. Dunque, uno peggiore, appunto
perché non potrebbe esistere, non è possibile, e
quindi l'attuale è il peggiore dei possibili. Contro
Schopenhauer (ma con più risoluta conferma della sua
visuale pessimista) io do ragione a Leibniz: questo è il
migliore dei mondi possibili perché se lo si suppone
migliorabile lo si annienta. Scorgere che, pur essendo pessimo,
è il migliore possibile, poiché farlo migliore
vorrebbe dire annientarlo, poiché dunque uno migliore non
può esserci, è cogliere il male ancor più
alla radice di quel che, con la sua tesi ora ricordata, abbia
fatto Schopenhauer.
Perché, dunque, il mondo continui ad essere bisogna che sia
sempre un processo che in sostanza non fa che ripetersi, appunto
perché è infinito, perché deve durar sempre,
perché non può mettere a capo a nessun punto
d'arrivo (e quindi sia un processo apparente, un falso processo,
un non-processo, una stasi – donde si vede come la filosofia
idealistica attuale appunto in quanto concepisce la realtà
esclusivamente come processo infinito, toglie nel fatto alla
realtà proprio il carattere di processo che a parole
celebra quale spiegazione appagante e natura divina di essa,
perché un processo che non è serie di tappe verso
una meta, ma deve continuare eternamente, non può che
essere in sostanza stasi). Bisogna, insomma (per usare le parole
con cui K. E. Neumann sintetizza il concetto che il buddhismo ha
del «processo»), che «non ci sia da aspettare un
futuro migliore, sempre più perfezionantesi, oh no! ma da
riconoscere questo terrificante mondo della morte e del dolore
come l'eterno correlato d'un processo mondiale senza principio e
senza fine che si tiene sempre in equilibrio».127 Bisogna
perciò che gli sforzi che fanno i buoni per migliorare il
mondo riescano, sì, per così dire, localmente, ma
non complessivamente, ossia che (come avviene) a tanto di
miglioramento qui corrisponda altrettanto di peggioramento
là o a tanto di miglioramento oggi altrettanto di
peggioramento domani, cosicché sia forza dire «il
mondo sempre essere stato ad un medesimo modo, ed in quello essere
tanto di buono quanto di cattivo; ma variare questo tristo e
questo buono di provincia in provincia, come si vede per quello si
ha notizia di quelli regni antichi, che variavano dall'uno
all'altro per la variazione de' costumi, ma il mondo restava quel
medesimo».128 Bisogna che resti dunque nel mondo sempre lo
stesso assurdo e lo stesso male, quello che – libertà che
va a finire in rivoluzioni sanguinose, autorità che sbocca
in cieca tirannide, politici che sfruttano pei loro interessi
princìpi e idealità, finzioni e ciarlataneria che
assicurano il successo, superstizione, plutocrazia, vizio,
servilità, «molti sospetti,» come scrive L. B.
Alberti in quella sua così amara e vera rappresentazione
della vita politica «mille invidie, infinite
inimistà, niuna ferma amicizia, abundanti promesse, copiose
profferte, ogni cosa piena di finzione, vanità e
bugie»129 – quello che qualunque uomo che ha aperto gli
occhi alla luce, in Babilonia o nell'antico Egitto, in Atene e in
Roma, a Parigi e a New York, si è sempre trovato dinanzi,
e, sotto qualunque latitudine e in qualunque epoca, ogni
«saggio», giunto alla sua maturità
sperimentata, ha lamentato pressoché con le medesime
parole.
O il mondo, così com'è, e sempre fu e sarà, o
il nulla.
O questo mondo, o il nulla.
VI
TEMPO E SPAZIO
CATEGORIE DELL'ASSURDO
Siffatte considerazioni circa il significato della storia
permettono forse di ricavare almeno un barlume di quel che
c'è in fondo agli occhi delle due sfingi che stanno assise
sulla soglia della filosofia: il tempo e lo spazio.
Che è il tempo, questa cosa misteriosa, e che pur sembra
fatta da noi, tanto che, secondo lo stato (noia, attesa, piacere)
della nostra coscienza, s'allunga e s'accorcia, in dormiveglia
passa con fantastica rapidità, nel sonno lo saltiamo
addirittura? Se nello spazio si vedono le cose stare una accanto
all'altra, nel tempo, non si vedono stare ma si sentono venire
cose, o avvenimenti, una dopo l'altra. Si sente, si vive questo
loro venire successivo, la «direzione». Il tempo,
proprio degli enti che mutano, che vivono, il quale è
ciò che fa sentire ad essi, fa essere per essi, la serie
successiva di avvenimenti in cui consiste la loro vita, è
una cosa sola con la vita stessa. Il tempo è la nostra
stessa vita, il processo di questa, ossia (per l'individuo e per
l'umanità) la nostra storia. Se, infatti, è ancora
possibile rappresentarsi uno spazio vuoto, un tempo vuoto, senza
che nulla vi accada, è assolutamente irrappresentabile: se
ogni movimento, cangiamento, accadimento cessasse, scomparirebbe
totalmente anche il tempo. Tempo e vita, tempo e storia sono
perciò la stessa cosa. C'è, dunque, il tempo per la
medesima ragione per cui c'è la storia. C'è un tempo
– se si vuole, lo spirito fa il tempo –, dopo ogni ora viene
sempre un altro ora, dopo il presente sempre qualche altra cosa
(ché ciò è esservi tempo, idest storia),
unicamente perché essendo ogni presente sempre assurdo e
male, cioè essendo la realtà, che è assoluto
presente, sempre irrazionale, si fa di continuo un poi per uscire
sempre dall'ora, per liberarsi, passando ad un altro momento, dal
male che in ogni adesso c'è. Tempo e male sono gemelli,
sono due faccie della medesima medaglia, uno suppone e richiama
necessariamente l'altro. Il tempo non è che l'eterna (e
quindi inutile) fuga dal male eternamente presente. Il tempo (per
usare, rimaneggiandolo alquanto, d'un pensiero di Schopenhauer)
scorre, fugge, c'è, proprio unicamente per questa ragione,
che non v'è nulla che sia bene, cioè che meriti di
permanere.130 Ossia, c'è un futuro, il presente va sempre
via, ci precipitiamo di continuo verso l'avvenire, perché
ogni presente ci malcontenta, perché a nessun presente
potremmo, davvero ed in tutto, dire «t'arresta!»,
perché in ogni presente manca qualche cosa che ci dovrebbe
essere, in ogni presente quindi siamo nel male, tutta la
realtà è nel male.
... denn alles, was entsteht,
Ist wert, dass es zugrunde
geht;
Drum besser wärs, dass nichts entstünde.131
Il tempo è dunque la categoria dell'irrazionale e del male,
la condizione e la concomitanza necessaria dell'esistenza di
questi. Se si fosse nel bene, non ci sarebbe più tempo, si
starebbe.132 E che cos'è d'altro lo spazio?
Lo spazio è il mezzo mediante cui soltanto possono esistere
le cose e le parti diverse in luogo dell'assoluto identico; il
modo con cui l'Uno può diventare Più, dar fuori in
parti, in cose diverse l'una dall'altra; diverse, disformi, che si
contraddicono. Cioè, anch'esso, il modo per cui può
esistere la contraddizione. C'è spazio, perché
invece di esistere l'Uno eleatico, ci sono i Più. Ma quello
soltanto è razionale; con questi passiamo nel campo
dell'incomprensibile e dell'assurdo. Lo attestano i vani sforzi
della filosofia per spiegarli, e per spiegare le situazioni che ne
conseguono, cangiamento, causa, relazioni, moto,
l'impossibilità razionale del quale dimostra, dimostrano e
volevano appunto dimostrare gli argomenti di Zenone comprovanti
che esso non può razionalmente esistere, che quando siamo
nel regno dei Più siamo insieme nel regno dell'irrazionale.
Quello, l'Uno eleatico, soltanto è razionale, dico. Ma
provatevi un po' a vedere che è. Provatevi a raffigurarvi i
Più, cioè il mondo, raggrinzarsi in quell'Uno
assolutamente identico, senza cose diverse e senza parti, e voi
vedrete i Più, il mondo, sparire, diventar nulla. Esso,
l'Uno eleatico, è la razionalità, ma è anche
il nulla. I Più, cioè il mondo, sono l'assurdo, ma
sono anche la realtà. Una nuova volta si fa palese che la
razionalità è uguale a zero, a morte, a nulla, e
realtà è uguale ad assurdo. – O, come si potrebbe
anche esprimere questo pensiero: il preteso non fenomenico
(razionale) in sé delle cose, il noumeno in cui le cose,
per così dire, si raccolgano e riposino, fuori della
irrazionalità fenomenica, nell'unità e nella pace
dell'assoluto razionale, non è che il nulla.133 Di qui si
comprenda (e di qui se ne valuti la profondità) la sentenza
del Foscolo: «al nostro intelletto la sostanza della Natura
ed il nulla furono sono e saranno sinonimi».134
Vero è che per la mistico-metafisica questo nulla è
ancora qualcosa, anzi il supremo qualcosa. Ma si tratta d'un
inganno che giuoca la tendenza ad amalgamare il residuo di antiche
cieche credenze e ciechi impulsi di carattere religioso, ormai
palesantisi insostenibili, coi risultati irrecusabili cui il
progresso del pensiero e la constatazione dei fatti mettono capo.
Accade, cioè, qui, quel che circa la scienza constata il
Wundt: «Lo sviluppo delle singole scienze non può poi
in genere sottrarsi al perdurare dell'azione delle vecchie
filosofie e con queste si affermano di regola contemporaneamente
idee che in origine si connettono con motivi religiosi».135
– Pur, vale a dire, sospinti a poco a poco ineluttabilmente alla
constatazione che oltre il mondo visibile non c'è che il
nulla, non si riesce né si vuole, stante la persistente
azione psicologica dei primitivi motivi religiosi, chiaramente
ammetterlo. Ciò pare «volgare materialismo». E
si assume, come posizione che, mentre appaga quei motivi, ha anche
l'aria di essere intellettualmente superiore, quella di dichiarare
che proprio quel «nulla» è l'Essere sommo.
Due interessanti movimenti di pensiero, la teologia negativa e il
buddhismo, possono fornire di tutto questo la prova e
l'esemplificazione.
Qual è il movente psicologico della teologia negativa?
Evidentemente, il seguente. In un primo momento, il pensiero
afferma con tenacia, sicurezza, appassionata e profonda
convinzione, l'esistenza d'un Essere supremo, dotato di certi
attributi precisabili. Il processo del pensiero e l'osservazione
dei fatti sospingono all'irreparabile conclusione che un tale
Essere è contraddittorio e impossibile. Pure il residuo
atavico della prima fase di pensiero continua ad operare in questa
seconda. Non si vuole né si riesce perciò ad
approdare nettamente all'affermazione dell'inesistenza di questo
Essere supremo, e, non potendosene nemmeno più affermare
l'esistenza, si dichiara che esso è alcunché a cui
nessuna delle nostre categorie intellettuali si può
applicare, qualcosa che non possiede alcuna di quelle che sono per
noi le note dell'essere, qualcosa quindi che non si può
designare se non con un non, pur essendo, in qualche modo a noi
inaccessibile, la suprema, anzi la sola vera, esistenza.136
Più interessante ancora è il caso del buddhismo,
questa teologia negativa dell'io, e su di esso gioverà
quindi fermarsi un momento di più.
Procedente dallo stato di ansiosa ardentissima ricerca della vita
immortale in unione con Brahmā, che costituiva già
precedentemente il carattere essenziale della vita spirituale
indiana, il buddhismo (e fin da quel Sermone di Benares, la cui
immensa superiorità, del resto, sopra il Sermone sul Monte
è indisconoscibile) si presenta con l'affermazione, a cui
dopo lunghe intense meditazioni e mortificazioni il Buddha
perviene: la liberazione dalla morte, l'immortalità,
è trovata.137 E in che cosa consiste? Spogliatevi dei
cinque sensi, spogliatevi delle sensazioni, delle percezioni,
dell'immaginazione e inoltre della conoscenza; quello che resta
è libero dalla morte, è immortale. Immortali siete
se riuscite a sentirvi in essenza immedesimati con quello che
resta tolti i sensi e la conoscenza. In esso, se con esso soltanto
vi sentite siffattamente immedesimati da aver spento ogni
desiderio di sensazioni e conoscenza, potete trapassare nel
Nirvāna. La nostra essenza, insomma, non consiste nella coscienza,
nella personalità, in ciò che chiamiamo abitualmente
io, ma in un nucleo profondo e senza coscienza, che
sottostà a tutto ciò, che, inafferrato e
inafferrabile dalle nostre categorie conoscitive, è dunque
inconoscibile e imperscrutabile (l'«io» noumenico di
Kant), e che, in sé indistruttibile, lungi dal perire col
perire del corpo di cui volta a volta si riveste, non appena,
perito il suo corpo, esce dalla sfera spaziale, temporale,
fenomenica, di là riafferra, qualora conservi ancor sempre
sete di vita, un germe fecondato (d'uomo o d'animale, di Dio o di
demonio, a seconda delle sue tendenze) per costruirsi su quello,
una nuova volta, dei sensi, un corpo, un apparato conoscitivo, una
conoscenza con cui soddisfare la sua sete di vita ossia di
sensazioni; mentre, se ha estinto in sé la sete di vita e
di sensazioni, trapassa nell'eterna immutabile pace del Nirvāna.
Se riusciamo a rinunciare a sentirci io nella mera superficie
delle sensazioni, delle percezioni, della conoscenza, se riusciamo
a raccoglierci in quel nucleo profondo e a rinunciare a riemergere
da esso alla superficie della coscienza, cioè a riprendere
questa, siamo nella immortalità beata del Nirvāna, non
più tocca e travolta da ciò che è passeggero
e doloroso. – Tale il tentativo buddhistico di stabilire
l'immortalità, non privo certo di fascino e di coerenza.
Coerenza che scaturisce appunto dal capovolgimento della
concezione che stabilisce invece la incoerenza del tentativo
immortalistico da parte dell'idealismo; vale a dire dal negare che
la ragione o spirito appartenga alla nostra essenza. Ché
ridicolo è parlare di una nostra immortalità se la
nostra essenza sta in quella ragione o in quello spirito che con
tutta evidenza scorgiamo in ogni morte d'uomo continuamente
perire; e, se mai, solo può sostenersi l'immortalità
se, col buddhismo (e così, del resto, con Schopenhauer) la
nostra essenza è riposta in alcunché che sta al di
fuori e al disotto della ragione, dello spirito, della conoscenza,
e l'affermazione della cui immortalità non è quindi
visibilmente ad ogni minuto smentita.
Senonché, ora, tolti i sensi e la conoscenza, che cosa
resta? Nulla, si direbbe; e nulla si direbbe essere il Nirvāna,
sede di questo nulla che resta. Ma ecco anche qui operare il
processo accennato circa la teologia negativa. Il residuo atavico
della precedente posizione di pensiero, secondo cui la vita di
là è una esistenza luminosa, ricca, consapevole,
piena di beatitudini sensibili, precisabili e descrivibili, si
ripercuote e perdura nella seconda fase di pensiero, in cui pure
si fa ineluttabilmente chiaro che un'esistenza ultraterrena
è contraddittoria e impossibile, e che l'estinzione dei
sensi e della conoscenza (pur scorti ora come alcunché che
definitivamente trapassa e si spegne) significa l'annientamento.
Allora quel nulla che resta, tolti i sensi e la conoscenza, questo
semplice non, prende il nome di vera nostra essenza, il non-essere
del Nirvāna, in cui può trapassare questo nulla che resta,
prende il nome di suprema beata esistenza, e liberazione dalla
morte, immortalità è il nome che prende precisamente
l'uscita dall'essere, ossia proprio il morire. E Schopenhauer, con
la tesi che il nulla è soltanto relativo, nulla solo
rispetto a qualcosa (cioè circa alla presente questione,
nulla solo rispetto al nostro mondo, al mondo creatoci davanti
dalle nostre categorie mentali) ripete esattamente su questo punto
la posizione del buddhismo.138 Così, mentre, da un lato,
egli commette l'errore di interpretare l'Erscheinung kantiana
(venir alla luce, essere in condizione da poter apparire) come
Vorstellung (apparire di fatto a qualcuno), dando in questa
direzione a Kant un'interpretazione decisamente idealistica,
commette, dall'altro lato, l'inverso errore di far diventare il
noumeno (che per Kant è spesso pressoché il nulla
perché l'impensabile, ciò a cui non giungono le
categorie della conoscenza e perciò nemmeno dell'esistenza)
«la più alta realtà metafisica» col che
«anche il concetto del carattere intelligibile acquista
un'impronta assai più determinata e diventa volontà
come cosa in sé»139 – dando così, in questa
direzione, a Kant una interpretazione decisamente realistica.
Il buddhismo, dunque, nel suo affermare la immortalità e
intender questa come l'uscita dall'Essere, il morire definitivo,
prende rispetto all'io la medesima posizione che prende rispetto a
Dio la religione generale, allorché lo afferma, ne mantiene
il nome, e vagamente anche il concetto, pur quando, sospinta dallo
stesso sempre più profondo esame dialettico dell'idea di
Dio e dalla crescente conoscenza dei fatti, è costretta
(come teologia negativa, o anche approdando al Tutto-Uno del
panteismo) a farlo diventare alcunché che ne è la
negazione.
Ora, con l'assumere siffatta posizione il buddhismo si avvolge in
contraddizioni inestricabili, che non sarà inutile, a
maggior chiarimento della tesi qui sostenuta, porre brevemente in
luce.
Vi sono del punto in discussione del buddhismo due interpretazioni
opposte.
L'una è quella stata poc'anzi enunciata, secondo la quale
l'io, anche dopo la dissoluzione del corpo e anche nel Nirvāna,
è sempre, per quanto ineffabilmente, qualcosa. A questa
interpretazione, pur con prudenza e con riserva, non senza
rendersi conto delle oscillazioni dei testi al riguardo (e
propendendo a ritenere che l'esistenza dell'io nel Nirvāna sia non
più quella d'un io individuale, ma quella dell'io
universale) inclina l'Oldenberg.140 Questa stessa interpretazione
altri, senza riserve, calorosamente sostiene ed espone come
l'unica possibile del punto in discorso della dottrina
buddhistica.141 – Ma con essa, questa cade nella contraddizione
seguente. La coscienza, la conoscenza, è, pel buddhismo,
fuor di discussione, alcunché di puramente fenomenico, non
proprio dell'essenza dell'io, che questo aggiunge e sovrappone
alla sua essenza col costruirsi un corpo, che sorge per mezzo del
corpo e passa con questo. La coscienza appartiene alle cose che
sorgono e passano, nascono e tramontano, al regno della
transitorietà, non a quello di ciò che è, di
ciò che è mio, di ciò che è io.142
Ciò non ostante il Nirvāna è uno stato di suprema
beatitudine, di immobile pace, sentito, avvertito (cioè
conosciuto) come tale. A colui che è «estinto»,
«liberato», «redento», viene attribuito,
come constata l'Oldenberg, «Bewusstsein seiner
Erlöstheit»;143 e così questa coscienza, che il
buddhismo prima con tanta forza proclama transeunte e fenomenica,
viene poi resa parte costitutiva dell'io noumenico, dell'io che
passa nel Nirvāna, allo scopo di salvare quello e questo
dall'identificarsi col nulla. Giacché è chiaro che
nell'atto in cui si cancella col pensiero dall'io del Nirvāna ogni
coscienza di questo suo stato, tutto ripiomba nel buio del nulla,
il mistico castello di carte istantaneamente si sfascia,
cioè la vita «suprema» ci si rivela, sotto i
nebulosi slanci concettuali e verbali, nelle sue vere fattezze di
nulla.
L'altra interpretazione è quella, la quale, avvertendo la
contraddizione ora accennata, si appiglia risolutamente al partito
di dichiarare che, pel buddhismo, il passaggio dell'io nel Nirvāna
è la sua totale estinzione, il suo completo
nullificarsi.144 Per essa (che in tale suo modo di intendere l'io
sfiora assai dappresso l'idealismo «attuale»), dietro
i cinque sensi e la conoscenza o coscienza fenomenica non
c'è alcun elemento permanente o sostanziale, e l'io non
è che puro atto, ossia ogni io (poiché, però,
per questa interpretazione ogni io è una forza individuale
e per sé stante senza cominciamento, e non esiste io
universale) è un processo di combustione o di fermentazione
spirituale, «Verbrennungsprozess», «der
geistigfermentative Prozess»,145 che non ha principio, che
prosegue se stesso afferrando nei corpi successivi la materia per
continuar a bruciare e che nel santo, nel «perfetto»,
arriva, esattamente come una fiamma che non ha più alimento
e si spegne, alla sua totale estinzione. – Questa interpretazione
da un lato va incontro a una mortale contraddizione con altre
dottrine buddhistiche, e da un lato precipita nel più
patente non-senso. Va incontro a una contraddizione con la
dottrina del karman, giacché, se l'io non ha nulla di
sostanziale, se non è se non come un fiammeggiare che solo
in apparenza è sempre quello, ma in realtà si
produce mediante il rapidissimo succedersi e avvicendarsi le une
alle altre di cangianti molecole di ossigeno, allora non si vede
né come né per quale ragione (ed è questa
un'obbiezione stata spesso sollevata dai monaci buddhisti, con
grande irritazione del maestro, ma senza che egli sapesse
soddisfacentemente risolverla)146 le azioni compiute da una fase o
momento di questo io, semplice processo fermentativo (non cosa che
fermenta), possano ripercuotersi sopra una sua fase successiva,
precisamente al modo che in quella psicologia contemporanea, che
(analogamente alla concezione buddhistica) riduce l'io al pensiero
che passa, è difficile giustificare perché il
pensiero che passa oggi nel corpo che porta un dato nome possa
essere punito per ciò che ha compiuto ieri un pensiero
diverso da esso, solo pel fatto che anche questo passava nel corpo
del medesimo nome.147 – Inoltre: in questa interpretazione viene
in piena luce la pura mitologia sulla quale il lato speculativo
del buddhismo si regge. Perché in ogni morte di persona
umana noi vediamo la fiamma-io spegnersi. Ritenere che una nuova
fiamma che si accende (la nascita d'un nuovo vivente) sia la
prosecuzione d'uno di quei processi di combustione che abbiamo
visto spegnersi, è altrettanto arbitrario e fantastico
quanto il pensare che la fiamma che accendo stasera su questa
candela sia la continuazione di quella che ho acceso iersera su di
un'altra candela (e, certo, un'analoga mitologia sta,
nell'«io noumenico», nel «soggetto
trascendentale», nell'«atto puro», al fondo di
tutti gli idealismi, compreso quello «attuale», che
affermano lo spirito sia alcunché di diverso da un puro e
semplice vario prodotto singolo dei vari singoli cervelli; anzi
questa mitologia buddhistica della forza-io che persiste,
attraverso la distruzione dei suoi corpi successivi, indipendente
da questi e sta extraspazialmente ad aspettar di afferrare un
nuovo germe fecondato, rivela palesemente ciò che, con
quelle concezioni, essi idealismi enunciano solo in aenigmate).148
– Infine l'interpretazione in discorso mette capo al non-senso
più palese. Vi si manifesta, anzitutto, in piena luce
quella, quasi direi, amara ironia con cui il lato speculativo del
buddhismo ci illude e ci delude, quella cioè che
l'immortalità è uguale a non-vita, che
affinché ci sia l'immortalità occorre che non ci sia
vita («die Totlosigkeit ist da, aber sie ist erkauft mit dem
Leben»);149 ironico vuoto finale tanto necessariamente
insito nel buddhismo che anche l'altra interpretazione è
ben lungi dal poter sfuggirvi.150 E poi, e soprattutto, resta, con
tale interpretazione, in pieno rilievo l'assurdo della concezione
d'un io come mero processo senza principio, a cui, e nella
inesistenza d'un substrato o persona a cui il processo appartenga,
che sia responsabile della direzione di esso, che permanga
identica a sé durante le millenarie fasi di esso, si
comandano sacrifici inenarrabili e costanti per secoli e secoli
col premio della prospettiva veramente paradisiaca della sua
totale assoluta estinzione, con la meta lautamente ricompensante
del nulla. Il nulla conquistato faticosamente mediante l'ascesi
più aspra, questo lo stridente non-senso e l'ironia che sta
a base di tale seconda interpretazione del buddhismo.
Qui si manifesta intero il puerile truism del buddhismo in quanto
vuole essere filosofia speculativa; truism il cui spuntare, per
quanto velato, come l'approdo d'una riflessione alla quale han
posto mano e cielo e terra, è il solito scherzo che, come
si disse, giuoca il perdurare di motivi mistico-filosofici d'una
fase di pensiero oltrepassata dallo sviluppo di questo, in una
fase successiva che di quei motivi costituisce in realtà la
negazione. Esso dice: sacrificati, rinnega te stesso, annienta
ogni tuo desiderio, estirpa la sete di vita, perché
così otterrai la beatitudine, l'uscita dal dolore,
cioè l'estinzione. Tu sei immortale: immortale nel nulla.
Diventa «perfetto» e «santo» e allora...
riuscirai a morire. Quasiché il semplice fatto della morte
non mostrasse visibilmente – sebbene questa visibilità sia
palliata nel buddhismo da quella pura mitologia che è la
dottrina della rinascita – che ad ognuno, senza bisogno affatto
che sia «santo» o «perfetto», questa
beatitudine dell'estinzione è compartita! Il truism adunque
che la morte estingue l'uomo – truism che basta aprir gli occhi
per scorgere – è quello che mediante ardue speculazioni,
sottili elaborazioni delle dottrine religiose precedenti, ampio
apparato di trascendentalismo, finisce per tralucere chiaramente
come l'unica conclusione del buddhismo speculativo. E questo
processo che mette capo ad un elementare truism mediante
difficilissime e complicate speculazioni e movendo da un punto di
partenza lontanissimo ed opposto – dovuto sempre all'accennato
sopravvivere di motivi filosofici o religiosi propri d'una fase di
pensiero ormai sorpassata, e al loro ripercuotersi e perdurare in
una fase successiva in cui il pensiero, pur avendone scorto
l'insostenibilità, non sa risolversi ad eliminarli
recisamente – questo processo è il tipo di tutti i
consimili che troviamo in ogni filosofia idealista. Così
nel kantismo, che (come illustrerò meglio fra poco)
attraverso un siffattamente aspro lavoro di pensiero finisce per
dire: l'esistenza delle cose sta nel loro poter essere viste e
toccate. Così nello hegelianismo, che (come si vide)
mediante elucubrazioni ancora più momentose, finisce per
dire: i fatti, le cose, vengono all'esistenza da sé, per
forza propria, e la nostra mente non ha che da constatarli, da
adeguarvisi, da inchinarvisi. – Ma per chi non accetta la confusa
ed equivoca indeterminatezza della mistico-metafisica, l'Uno
eleatico, l'immortalità buddhistica, il Dio della teologia
negativa, non sono che il nulla, non sono se non parole che
s'ingegnano di coprire quel nulla che non ci si vuol rassegnare a
riconoscere e confessare.
Ciò non toglie che resti nel buddhismo una profonda
verità: il suo nucleo vero sotto l'elemento speculativo e
mistico, quel nucleo che basta pienamente a dare alla concezione
buddhistica l'impronta d'una insuperata e solenne
grandiosità. Quello cioè che il processo è
assurdo e dolore; che questo processo di assurdo e di dolore si
perpetua vanamente dall'uno all'altro vivente, nel corso vitale
della specie, il quale rappresenta il solo significato positivo
della dottrina della rinascita (e già in qualche testo
buddhistico balena lontanamente una siffatta interpretazione di
questa),151 ché veramente ogni nuovo vivente è lo
stesso di chi l'ha preceduto quaggiù in questo senso, che
è anch'esso vita, incarnazione di vita, anello, veicolo,
mezzo di prosecuzione di quel corso eterno di dolore e di assurdo
che è la vita – quello, infine, che la sola
possibilità della cessazione di questo processo di dolore e
d'assurdo è la nullificazione del processo stesso, e
perciò il nulla.
Qui – nella realtà, nell'Essere – domina l'assurdo e il
dolore. Questi sono la sola cosa patente. Veramente,
Arcano è tutto,
Fuor che il nostro dolor.152
Tale la constatazione realistica, tale il fatto. Per trovare una
via d'uscita fuori dei fatti, per cancellarseli idealmente
dinanzi, per liberarsene, si creano mitologie di varia natura,
teologiche e filosofiche: tipica, tra queste ultime, quella del
Bradley,153 il cui ragionamento, del tutto pari a quello del
buddhismo, è proprio questo: qui c'è l'assurdo,
perciò vi deve essere una sfera in cui l'assurdo non
c'è. Donde la legittimità di quel perciò?
Tale e quale è il ragionamento dell'elemento speculativo
del buddhismo. Il torto di questo è che esso vuole – in
sostanza esattamente come tutte le altre religioni – saltar fuori
dai fatti, e, mediante il sillogismo della speranza che ho
illustrato in principio, ragiona: i fatti sono così,
perciò, c'è una realtà vera ed ultima
(Nirvāna) che è l'opposto.154 Ma realisticamente,
sperimentalmente, per chi vuole il fatto accertato e nessuna
costruzione mitologica in più, fa d'uopo arrestarsi alla
prima metà della concezione buddhistica, alla semplice
constatazione (perché questa appunto è l'unica
realtà constatabile) che il dolore e l'assurdo sono
immanenti all'Essere, che la realtà è dolore, che
ogni volere è dolore – verità che dal punto di vista
morale ha l'importantissima conseguenza di servire, secondo
l'espressione di Schopenhauer,155 di quietivo della volontà
– e che, poiché l'Essere è un'unica cosa con
l'assurdo e il dolore, solo nel non-essere senza maschera, nel
nulla, questi possono aver fine.
Il concetto che sta sotto a tutta questa disamina è il
seguente.
Bisogna, appunto in questo momento di rispumeggiare dello
spiritualismo più arrogante e di rigurgito di tutte le
vecchie superstizioni, coraggiosamente affermare che il pensiero
più sicuramente dominante nella dottrina di Kant, e la
più solida eredità che questi ci ha lasciato,
è che – come chiarirò più largamente fra un
momento – poiché non esiste (o almeno noi non possiamo
sapere e affermare che esista) se non ciò che cade entro le
categorie, e quindi nella percezione, così non esiste (o
almeno noi non possiamo sapere e affermare che esista) se non
ciò che può essere visto, toccato, udito, gustato,
odorato: percepito. Ogni affermazione d'esistenza di ciò
che non si percepisce sensibilmente – e fin tanto che questo
ciò non venga a manifestarsi nella nostra percezione
sensibile – è pura possibilità fantastica, ossia
puro sogno, che può sognarsi in qualunque guisa, e
qualunque guisa in cui lo si sogni ha il medesimo valore di
qualsiasi altra: tanto è vero che da venticinque o trenta
secoli lo si è continuato e lo si continua, cioè nei
vari sistemi metafisici e religiosi, a sognare così nelle
guise più diverse. Di qui l'identificazione che
(quand'anche con parole oscure) Kant fa dell'io con ciò che
di esso cade nella percezione, ossia col corpo. Identificazione di
cui, sia detto tra parentesi, la vita dell'amore ci offre la
conferma. Una persona, infatti, può essere amata per le sue
doti spirituali, perché è grande musicista, grande
poeta, perché sa conversare con spirito e brio e simili. Ma
nei momenti dell'amplesso viene in chiaro che essere amati per
ciò, è come essere amati per le proprie ricchezze,
perché si porta una bella pelliccia o si può andare
in automobile – per ciò che si ha, non per ciò che
si è. Si sente di essere amati veramente per ciò che
si è solo quando si è amati per l'attrattiva fisica
che il nostro corpo suscita. Questo soltanto – si capisce allora –
sono io; il resto, le doti spirituali, è mio, lo ho; ma non
è me.
Dire che esista una cosa che è in condizione da non dar mai
segno di sé, è un non-senso; perché esistere
vuol dire precisamente potere, e, in certe circostanze, dovere,
dar segno o manifestazione di sé (per esempio esser visto
se un occhio guarda). Ciò che è per essenza occulto,
ciò che nessun occhio, se anche guarda, può vedere,
nessuna mano, se anche si protende, può toccare, è
appunto vuoto fantasma, ombra, spettro, Hirngespinst, cioè
nulla. L'impercepibile è, almeno pel nostro pensiero, il
nulla, e tale rimane e deve rimanere se non si vuol sognare,
eternamente per esso. Esiste solo (o solo posso dire che esista)
ciò che, se vien portato davanti alla mia percezione,
può essere visto, toccato, sentito. Tale il pensiero di
Kant, il suo pensiero schietto, liberato dalla gramigna. Dire con
le mitologie religiose e metafisiche: cose o stati (e tra queste
l'io noumenico, il soggetto trascendentale, lo spirito assoluto o
come atto puro) che non possiamo percepire (conoscere), che sono
inconoscibili (perché impercepibili), che stanno fuori
delle nostre categorie mentali (perché fuori dalle
sensazioni) e sono toto coelo disformi da quelle, pure esistono e
sono in questa o quell'altra guisa; affermare il
non-essere-per-noi come ancora un Essere (l'uno eleatico, il Dio
della teologia negativa, l'Assoluto di Bradley, il Nirvāna
buddhistico) è anzitutto contraddizione, perché si
dichiara impercepibile, ossia inconoscibile, ciò di cui poi
si afferma l'esistenza, ossia che si dice possibile a conoscersi
almeno in questo elemento dell'esistenza; poscia è
mitologia. Perché questa impercepibilità è
appunto (almeno per noi) il nulla. Perché le cose che sono
fuori della percepibilità sono appunto quelle che dobbiam
dire fuori dell'essere. L'essere, la realtà non è
che il manifestarsi delle cose, il loro essere percepibili (o
conoscibili; né, si badi, come gli idealisti dico
conosciute, ossia investite dal pensiero in atto, e tanto meno
pensate, ma conoscibili mediante la percezione), cioè il
loro possedere gli elementi della percepibilità. Ciò
che si sottrae alla percepibilità, che non possiede gli
elementi di questa, non possiede nemmeno quelli dell'essere (che
sono precisamente gli stessi), cioè non esiste.
L'esistenza, ciò che esiste, o, almeno, ciò che,
solo, possiamo dire che esista, non può che essere
costituito di elementi percepibili (non percepiti di fatto, come
vuol Berkeley, o di fatto conosciuti, come vuole l'idealismo
assoluto), sensibili, spaziali, temporali, estesi, cioè
materiali. Questo è, per quanto velato, il fondo del
pensiero di Kant. Questo è l'esplicito pensiero del
Leopardi. «Tu non conosci cose che non sieno materia; non
conosci al mondo, anzi per qualunque sforzo non puoi concepire,
altro che materia».156 E l'Ardigò in un senso, non
identico, ma abbastanza vicino a quanto dico, scrive che
l'inconoscibile è soltanto relativo perché non vi si
può trovare nessun elemento «che non sia lo stesso
dato proprio della sensazione»:157 ossia, per interpretare
interamente secondo io intendo dire: ciò che non conosciamo
ancora e che potremo quandochessia trovarci dinanzi, e anche
ciò che non giungeremo mai a trovarci dinanzi e a
conoscere, che ci rimarrà sempre sconosciuto, che è
dunque in questo senso inconoscibile, non può che essere
costituito (non lo possiamo che pensare costituito) di elementi
sensibili, spaziali, temporali, estesi, materiali. Affermare che
esista alcunché non costituito di siffatti elementi
(perciò tale che le nostre categorie mentali non vi si
possano applicare, disforme da esse – il Nirvāna, l'Uno eleatico,
il Nulla relativo di Schopenhauer, l'io noumenico, il regno dei
fini, la ragione assoluta e simili) è un non-senso,
è sogno. Perciò la frase «è fuori dallo
spazio e dal tempo, senza tempo e senza spazio», che gli
idealisti, i metafisici, i religiosi usano ad ogni momento con
tanta disinvoltura e facilità, come una cosa ovvia e
liquida, e con cui pretendono dar fondamento a quelle loro
fantasie (Nirvāna, io noumenico, Dio, ragione assoluta, ecc.)
è una frase insensata, interamente manicomiale; enuncia un
concetto inconcepibile, dice: è ciò che non
è, dice: penso che sia ciò che non posso pensare che
sia. L'unica certezza di Essere, l'unico sapere di Essere ci
è dato dalla percepibilità: dalla spazialità,
temporalità, estensione, dalla visibilità, dalla
tangibilità, ossia dalla materialità. Al di
là non possiamo andare col sapere, ma solo col sogno.
Perciò, al di là, cominciano, con le nostre maniere,
tutte di pari legittimità, di sognar questo sogno, le
divergenze, e con esse il regno dello scetticismo. Si badi che con
tutto ciò intendo semplicemente: se il Nirvāna buddhistico,
il Cielo cristiano, l'io noumenico, il soggetto trascendentale,
l'Assoluto bradleyano esistono, devono essere spaziali, temporali,
sensibili, devono essere cose «rappresentabili», cose
che hanno la qualità per poter essere oggetto di
rappresentazione, cose che possono cadere nella percezione,
cioè che posseggono le forme a questa adeguate (estensione,
temporalità, concatenazione causale, ecc.). Dite voi che
ciò non è possibile, che è contraddittorio,
che devono invece essere qualcosa di diverso da tutto ciò?
Così dicendo voi cancellate in essi appunto le note
dell'Essere e li fate diventare inesistenti, nulla.
O, in altri termini, voglio semplicemente negare la
possibilità nel campo filosofico di fantasticare, di
sognare, di dire: ci possono essere, ci sono, esistenze senza
spazio, senza tempo, del tutto eterogenee al nostro concetto di
essere (ossia alle forme che la nostra mente ha per l'Essere,
forme che sono nella mente le stesse che nell'Essere o natura, non
perché la nostra mente le abbia date a questa, ma
perché questa le ha date alla nostra mente, com'è
ovvio, essendo la mente parte della natura o dell'Essere, essendo
anch'essa ciò che è e non potendo quindi essere da
ciò disforme). Né questo vuol dire che la mente e
l'Essere siano una cosa sola, che l'Essere per esistere debba
essere pensato, come vogliono gli idealisti. L'Essere travalica in
fatto di gran lunga la mente, così in estensione, come
nella possibilità per la mente di andare al di là
della constatazione di esistenza e di trovarne gli elementi
spiegativi. La certezza, insomma, come mette in luce con energia
Schopenhauer, c'è solo in quella che egli chiama
l'intuizione, nella percezione intuitiva, mentre nella
interpretazione concettuale di essa si insinua largamente la
possibilità dell'errore.158 (Il che potrebbe tradursi
così: tutto è per sé percepibile; ma solo se
noi percepissimo di fatto tutto, poniamo anche gli atomi e
l'etere, conosceremmo tutto, e potrebbe, solo allora, sostenersi
l'identità tra Essere e pensiero). Ovvero, come amava
ripetere Ardigò:159 il fatto è divino, la
spiegazione umana. Cioè: la constatazione che mediante la
percezione facciamo dell'esistenza di ciò che vien
percepito è infallibile: ciò che vediamo e
tocchiamo, sicuramente è. Ma qui s'arresta la nostra
certezza: alla pura constatazione percettiva d'esistenza. Gli
elementi spiegativi della parte di Essere che constatiamo (i quali
costituiscono anch'essi una parte di Essere, ma che non
constatiamo); questi elementi spiegativi, ossia la spiegazione di
ciò che è percepito, dato, mediante alcunché
che non lo è, la quale non è altro che un'induzione
da ciò che si percepisce a ciò che si percepirebbe
se... (se avessimo sensi più acuti, strumenti più
fini, ecc.); tali elementi spiegativi sono soggetti all'incertezza
e all'errore, appunto perché ed in quanto sfuggono alla
nostra constatazione percettiva.
L'Essere, dunque, travalica di gran lunga la mente. Dall'Essere
conosciuto noi possiamo dedurre la presenza d'un Essere
sconosciuto che esistette prima della conoscenza o esiste non
accompagnato da essa: per esempio dall'esistenza della crosta
terrestre quella di minerali per sempre nascosti nelle viscere
della terra, dallo stato attuale del nostro globo quello d'uno
stadio di esso precedente al formarsi dell'uomo e degli esseri
viventi, e quindi ad ogni pensiero, conoscenza,
sensibilità. La parte di Essere da noi constatata,
constatata dalle nostre scienze, ci rimanda necessariamente ad una
parte di Essere che non constatiamo, che non possiamo constatare e
conoscere (donde, per esempio, le ipotesi dell'etere e
dell'atomo); Essere che esiste, sebbene non constatato, ed esiste
indipendentemente dal nostro pensiero (tanto è vero che
questo non lo afferra con sicurezza, ma è largamente
esposto all'incertezza e all'errore nel determinarlo). Essere
dunque che esiste in sé e non perché sia dalla mente
pensato. – Ma (ed ecco il punto decisivo) dovunque sia esistito,
esista, o sia per esistere Essere, anche da noi non mai conosciuto
né conoscibile, esso non può essere che spaziale,
temporale, percepibile, munito di quelle forme che sono per noi le
forme dell'Essere, perché senza di queste sarebbe
appunto... il nulla (noi non possiamo che chiamarlo il nulla). Col
supporre un Essere non munito di queste forme noi pensiamo
precisamente il nulla. Niente di ciò che è, in una
parola, può negarsi alla percepibilità, alle forme,
spaziali, temporali, ecc., che nella nostra mente ci sono per
l'Essere. Come dice con tutta precisione il Wundt: «Possiamo
supporre che vi siano oggetti che in questo o quel momento non
sono da noi rappresentati, anzi che non entrano in alcuna
coscienza che se li rappresenti. Ma nella supposizione di tali
oggetti noi dobbiamo inevitabilmente assumere le qualità di
oggetti di rappresentazione».160
Spazio e tempo sono insiti nella realtà, nelle cose; non
sono dati a queste dalla coscienza. Perciò è assurdo
dire: solo la realtà fenomenica, intesa nel senso di
realtà per noi, fenomeno per noi, ha spazio e tempo, ma
oltre di essa vi è o vi può essere, una
realtà non spaziale e non temporale. Realtà non vuol
dir altro appunto che essere spaziale, temporale, esteso. Senza e
al di fuori di tali condizioni non v'è che il nulla.
Ma, del resto, siano spazio e tempo forme della realtà o
forme dello spirito, non è questo che importa. Anzi, a ben
guardare, dire l'una o l'altra cosa è perfettamente lo
stesso. È, per vero, un abbaglio ed un equivoco
interpretare la teoria kantiana del tempo e dello spazio nel senso
che essi emanino dal nostro io, dalla nostra coscienza, da
ciò che solo, in termini propri, si può chiamare
«coscienza» ed «io». Essi emanano per Kant
dalla coscienza in generale, überhaupt, la quale non è
altro che la conoscenza possibile (mögliche Erfahrung), la
possibilità della conoscenza, l'insieme delle condizioni
perché sia in generale possibile conoscere, ossia l'insieme
delle condizioni dell'esistenza, giacché l'esistenza delle
cose non è appunto altro che il loro uscir fuori (per dir
così) dall'x o nulla noumenico e il rendersi manifeste,
visibili, conoscibili, il farsi cioè fenomeni, il loro
apparire, ma non l'apparire effettivamente a qualcuno,
bensì l'apparire in sé, il rivestirsi delle forme
del poter apparire in generale, il loro essere fenomeni in
sé, non già solo fenomeni per noi,
«Erscheinung nicht nur für uns, sondern an sich»,
come diceva lo stesso Hegel,161 decisamente realista rispetto a
Kant. Dire, dunque, che tempo e spazio appartengono alla coscienza
überhaupt è dire che appartengono all'esistenza, alla
realtà, alle cose (fenomeni); che sono forme della mente
(conoscenza) perché e come sono forme delle cose (dei
fatti, ossia delle conoscibilità, agnoscibilia), che sono
forme della conoscibilità, presa tanto in senso passivo (=
possibilità di essere visto, avvertito, conosciuto =
esistenza), quanto in senso attivo (= possibilità di
conoscere, conoscenza). La dottrina di Kant viene a dire (come
quella del Mill): che significa essere? che significa che una cosa
è? non già che essa sia percepita, ma che è
percepibile, che si può vederla, toccarla, percepirla; che
essa dunque ha in sé i caratteri che la rendono avvertibile
(spazio, tempo, categorie), i quali sono i caratteri stessi della
sua esistenza. «Esse est percipi posse»; questa
(così si può esprimere la cosa) è la
correzione che Kant fa a Berkeley; ed è una correzione che
lo rovescia, perché restaura nelle cose stesse gli elementi
della conoscibilità che sono anche quelli dell'esistenza.
L'esistere delle cose significa che si possono vedere e toccare
(che sono oggetto di esperienza possibile, che sono fenomeni,
cioè apparenze, ma quell'apparenza che è la stessa
realtà, cioè apparenza nel senso di venire alla
luce, mostrarsi, presentarsi, affacciarsi allo sguardo).
Perché le cose siano visibili bisogna che abbiano
(acquistino) i caratteri della visibilità; o perché
siano percepibili quelli della percepibilità in generale.
Perché siano concepibili, pensabili, bisogna che abbiano
(acquistino) quelli della concepibilità e
pensabilità. Occorre per essere conoscibili che si
rivestano di queste forme. I primi caratteri sono le forme
dell'«intuizione» (nel senso kantiano); i secondi le
categorie. Poiché l'essere delle cose sta tutto nel loro
rendersi manifestabili, cioè nell'avere o acquistare quei
caratteri, esse le assumono col loro venir ad esistere. Questo
è ciò che s'intende con la proposizione kantiana: la
sensibilità e l'intelletto danno alle cose spazio, tempo,
categorie.
Tale il realismo che sta in fondo al pensiero di Kant; tale la
elementarissima concezione a cui la sua faticosamente elaborata
dottrina, con più riposti termini, mette capo. Realismo che
diviene anzi materialismo, quando Kant riconosce che l'unico quid
permanente a cui possiamo applicare la categoria di sostanza
(ossia ciò che è sostanza) è la materia,162 e
che, non potendosi all'anima applicare la categoria di sostanza,
perché a tal uopo occorre che la percezione ci offra
alcunché di permanente, e questo nel senso interno non
c'è, così la permanenza dell'anima si riduce alla
permanenza del corpo.163 Perciò avviene che Kant tanto
spesso insista nel dichiarare che per lui i fenomeni hanno valore
obbiettivo, cioè esistono fuori della nostra
rappresentazione di essi; che egli affermi che la percezione
dell'alcunché di permanente implica «una cosa fuori
di me» e non «la semplice rappresentazione d'una cosa
fuori di me»;164 che infine (esattamente come il Mill) dica
che esistono certo fenomeni o cose senza che siano effettivamente
o attualmente percepiti, e il loro esistere così significa
il loro poter essere quando che sia percepite («das wir im
Fortgange der Erfahrung auf eine solche Wahrnehmung treffen
müssen»),165 e che il concetto dell'esistenza, pure
indiscutibile, degli oggetti non mai percepiti, è «il
pensiero d'una possibile esperienza nella sua assoluta
completezza».166 Se si guarda bene in fondo si vede che Kant
è una mente, da un lato dominata dall'evidenza
dell'empirismo, dall'altro riluttante, per la sua educazione
religiosa e l'influenza subita dal razionalismo leibniziano, ad
accoglierlo con esplicita franchezza; e che quindi cerca, per vie
equivoche e traverse, di far salvi questi suoi preconcetti
razionalistici e religiosi pur accanto all'irresistibile evidenza
con cui l'empirismo gli si impone. Così, e solo
così, si spiega l'ambigua multeralità del suo
pensiero.167
Or dunque, poiché dire che spazio e tempo sono forme delle
cose o dire che sono forme dello spirito, è assolutamente
lo stesso, non è questa questione che importa. In ogni caso
sono modi con cui il diverso e il contraddicentesi può
venire alla luce, forme della contraddizione, ossia dell'assurdo,
forme soltanto con le quali una realtà consistente
nell'essere di continuo diversa da sé, nel contraddire se
stessa, cioè nell'essere irrazionale, poteva spiegarsi.
Sono le condizioni d'una realtà assurda e la prova che
è assurda. Sono le categorie dell'assurdo.
E, si badi, la constatazione di questo assurdo ultimo è
precisamente quella a cui finisce per far capo perfino il pensiero
d'uno dei maggiori propugnatori della filosofia dei valori, il
Windelband, quando egli conclude168 col dover riconoscere che
rimane un enigma insoluto (ungelöste Rätsel): come mai
la realtà intemporale abbia bisogno d'una realizzazione nei
processi temporali o perché ammetta un accadere nel cui
corso temporale ha luogo qualcosa di diverso dall'essenza propria
di essa. Noi non concepiamo (egli confessa) perché
ciò che è debba anche divenire e ancor meno
perché accada qualche altra cosa da ciò che in
sé è intemporale. Se nel processo si realizzano
valori eterni, perché non sono essi reali fin da principio
nella loro intemporalità? E se, invece, il processo
realizza soltanto interessi temporali d'una specie animale
destinata a scomparire, come possiamo noi parlare di valori che si
siano in ciò manifestati con validità intemporale?
Né il Windelband può a meno di dichiarare, proprio
nell'espressione conclusiva del suo pensiero, che la realtà
è in sé scissa («Durch die Wirklichkeit geht
ein Riss»);169 che in essa, accanto a valori che si
realizzano, permane l'oscura potenza di ciò che è
indifferente o contrario ad ogni valore; che non si può
concepire come la realtà (Dio) si sia spaccata in una tale
dualità, con cui essa contraddice a se medesima; e che la
dialettica, la quale, da Proclo a Hegel, cerca di risolvere il
problema col riconoscimento della necessità del momento
negativo nel processo di tesi, antitesi e sintesi, mediante cui
l'Uno si dualizza e torna in sé, non ha fatto altro se non
precisamente fissare e descrivere ciò che si constata, ma
non già comprenderlo e spiegarlo (e quest'è,
aggiungo io, la pecca accentuatasi fino alla comicità nelle
odierne filosofie nostrane ispirantesi più o meno allo
hegelianismo). «Es liegt im Wesen der Sache, dass dies
letzte Problem unlösbar ist». Anche la filosofia dei
valori è così costretta a riconoscere scetticamente
l'insolubilità di questo problema supremo e l'assurdo
insito indelebilmente in una realtà condizione essenziale
della cui vita è il diffondersi nello spazio e lo svolgersi
nel tempo.
VII
LA STORIA È CASO
Perciò la storia, poiché non è che vita ed
esplicazione d'una realtà irrazionale, non può
essere, e non è, che una serie di casi ossia di assurdi.
La veramente profonda teoria del caso di Ardigò si applica
non solo alla natura, ma anche alla storia, com'è ovvio,
poiché la natura (secondo risulta dall'identità
stabilita tra vita e storia e vita e realtà, e come
dirò meglio fra poco), la natura stessa non è che
storia. Tale teoria170 io intendo così. Perché non
ci fosse caso, bisognerebbe che l'universo avesse avuto una
situazione iniziale unica determinata, che si fosse poi svolta
secondo le potenzialità o gli effetti necessari dei fatti
precisabili in essa contenuti. Ma tale situazione unica iniziale
determinata e precisabile o principio determinabile delle cose (o
piano) non esistette mai. Poiché in ogni suo istante
l'universo fu costituito non mai di un complesso di fatti
determinato, precisabile, designabile, ma di infiniti fatti o
punti in corso diversissimo di sviluppo, quasi a dire di infiniti
differenti universi in stadi i più svariati di processo, da
ognuno dei quali infiniti su ciascuno degli infiniti altri, si
esercitano in ogni momento innumerevoli azioni causali. Quindi il
corso che l'universo ed ogni singolo fatto di esso,
nell'esercitarsi di queste infinite azioni causali, ad ogni
prossimo momento sarà per prendere, è
indeterminabile assolutamente ed in sé, non, cioè,
solo rispetto alla nostra conoscenza, ma anche rispetto alla
coscienza che di sé come totalità l'universo
possedesse: nemmeno il mondo stesso, vale a dire, potrebbe sapere
in ogni momento dove va, poiché non c'è in esso
nessun piano precostituito. Ad ogni istante sotto l'opera delle
infinite azioni causali che da ogni punto su di ogni punto
dell'universo si sferrano, in ciascun punto si abbozza un piano di
svolgimento, si accenna una direzione di sviluppo. Ma in un
momento successivo, sempre per opera delle infinite azioni causali
che si incrociano, quel piano e quella direzione deviano, e si
abbozza un piano e una direzione diversa, che, ancora, sotto
l'urto delle infinite azioni causali che si susseguono, devia per
dar posto a una terza direzione, e così di continuo:
precisamente come l'acqua di un ruscello ad ogni momento abbozza,
accenna, prende una direzione che ad ogni momento è
alterata e deviata dai sassi del letto. Ad ogni istante si forma
un equilibrio nuovo, che è sempre equilibrio, ma sempre
trovato e scaturito al momento per l'azione delle infinite forze
al momento operanti, e non mai predisposto. La linea di percorso
che l'universo e i suoi fatti hanno seguito, è dunque un
ordine, ma uno degli infiniti ordini che erano possibili. Ordine
necessariamente determinato, una volta realizzatosi, ma che
nell'atto del suo realizzarsi si produce, ad ogni istante, in
quella forma e in quella direzione per puro caso. Dopo che i fatti
sono avvenuti, insomma, noi abbiamo ragione di dire che essi sono
stati determinati con ferrea necessità dalla concatenazione
causale; ma prima che i fatti accadano, poiché non sono
precontenuti in nessuna precedente situazione determinata e
precisabile o piano, il loro modo e il loro corso è
assolutamente casuale perché ad ogni puntuale momento fatto
e disfatto, costrutto, distrutto, mutato, deviato, dall'operare di
infinite azioni causali non prevedibili assolutamente e non
designabili. L'universo, adunque, visto da ogni momento
all'indietro risulta assolutamente necessitato, visto da ogni
momento all'innanzi assolutamente causale. La necessità
(come si può anche esprimere la cosa) sta nella
«legge», nelle «proprietà»; il caso
nell'accadere effettivo (sotto determinate condizioni ogni acqua
si trova, per dir così, costretta a divenir ghiaccio, ma se
quest'acqua si troverà sottoposta o no a quelle condizioni
dipende da casi; ogni corpo cadendo, non può non cadere
secondo la legge di gravità, ma se questo corpo
cadrà o no è una circostanza causale). Ossia, come
si può altresì esporre tale concezione, ogni fatto
che avviene si aggancia con infrangibile necessità alla sua
causa; ma il fatto causa poteva agganciarsi a quello come a
infiniti altri fatti diversi, che, invece di quello, gli fossero
stati, per così dire, gettati dinanzi dalla situazione o
dal moto in ogni momento imprecisabile assolutamente
dell'universo; e ciascuno di tali fatti diversi ne sarebbe stato
allora ugualmente il necessario effetto. Diciamo la cosa con
parole del Lotze.171 Le leggi universali ci parlano «solo di
ciò che dev'essere, nel caso che qualche altra cosa ci sia,
e ci mostrano che cosa segue inevitabilmente a condizioni, circa
il cui presentarsi ci lasciano interamente nel dubbio. D'altra
parte, nessuna di quelle percezioni (Anschauungen), che ci
mostrano le fattezze effettive della realtà, ci fanno
apparire questa come necessaria; per quanto sia difficile alla
nostra immaginazione di liberarsi da quelle forme dell'essere e
dell'accadere a cui la totalità dell'esperienza ci ha
abituati, pure noi sentiamo che in esse non c'è alcun
fondamento della loro inevitabilità: esse potrebbero anche
non essere, o essere diversamente da quel che sono». E
altrove172 il Lotze accenna che il «regno delle leggi a cui
sembra che la realtà si conformi, non è in vero una
necessità preesistente a cui la realtà susseguente
potesse adattarsi», ma piuttosto l'unica realtà
è la natura creatrice, e le leggi meccaniche non sono se
non il modo di agire scaturente dalla sua stessa attività:
siamo noi che, come ci riesce di fare, stante la loro costanza, le
isoliamo dai singoli casi e le pensiamo come una necessità
e un limite esterno posto in precedenza alla realtà della
quale invece non sono se non l'intima natura.
Ma, per tornare ad Ardigò, vogliamo illustrarne la teoria
del caso con qualche esempio che la chiarifica assai bene e ne
conferma la verità.
Se, mentre tu stai per entrare di notte in un vagone di prima
classe vuoto, l'amico che ti ha accompagnato alla stazione ti dice
più o meno seriamente: «bada, potresti essere
assassinato», tu scoppi in una risata, entri tranquillamente
nel vagone e ti poni pacificamente a dormire.
Vuol dire che scorgi chiaramente che non c'è a priori
nessuna connessione causale necessaria tra il tuo trovarti in un
vagone di notte da solo e il venir assassinato.
Ma se poi l'assassinio avviene, allora, a posteriori cioè,
questo fatto apparisce a tutti connesso con necessità
causale con l'esserti trovato solo nel vagone, ossia apparisce
essere dalla legge universale di causalità agganciato
necessariamente con ciò.
Che andando a far una gita in automobile, tu sia sfracellato, ti
pare impossibile, tanto è vero che vi sali contento e
tranquillo: cioè, anche qui, non v'è a priori
nessuna concatenazione causale necessaria tra la gita e lo
sfracellamento: se vi fosse, questo non sarebbe stato forse anche
necessariamente preveduto? È solo quando lo sfracellamento
è avvenuto che esso risulta, non solo possibile, ma, date
le circostanze in cui il fatto si è svolto, necessario.
Così infinite cose (un furto per aver lasciato la casa
momentaneamente sola, un'aggressione subìta in una via da
cui si passa ogni giorno, ma per caso allora deserta, e simili) ci
sembrano o ci sono sembrate impossibili (cioè non
concatenate con necessità causale con nessun antecedente)
finché non ci sono veramente accadute. Solo con l'esserci
accadute ci si svela, come al sollevarsi d'un sipario, che esse
potevano davvero, anzi dovevano, accadere: ossia, si forma la
concatenazione causale.
La dottrina ardigoiana della causalità casuale e in
generale quella positivista del determinismo a posteriori e non a
priori è illustrata luminosamente da questi piccoli esempi.
Non c'è, adunque, nessuna predisposizione nelle cose. Ogni
fatto si concatena con un altro causalmente, ma a caso:
cioè senza che nessuno (nemmeno le stesse cose, se
potessero pensare, nemmeno l'universo stesso, supposto cosciente,
nemmeno un Dio) possa previamente stabilire – e proprio
perché è nelle cose stesse che tale previa
precisazione non c'è – se quello si concatenerà
causalmente con questo o con uno dei mille altri con cui
può del pari causalmente concatenarsi. In parole quasi
teologiche: solo la prescienza da parte di un'intelligenza
perfetta e completa (Dio), reale o supposta, toglierebbe il caso;
e, insieme, toglierebbe (non ostante tutti gli sforzi di
raziocinio fatti dai teologi su questa questione) la
libertà. Eliminata la prescienza, non solo reale, ma anche
possibile; stabilita l'impossibilità, assoluta ed in
sé, di saper prima; poiché ciò vuol dire
imprecisabilità assoluta ed in sé dell'accadere,
resta ripristinato il caso e (identificata ad esso) la
libertà; libertà, forse però, come per
Spinoza (pel quale libera è soltanto la Natura nella sua
essenza, o Dio, ma rigorosamente determinati tutti i suoi modi;
pel quale, dunque, «in verità c'è un solo
essere libero: la prima, unica, interna, libera causa di tutte le
cose, o Dio»);173 come per Schopenhauer (pel quale libera
è la «volontà» perché come
totalità essa non ha motivo, non i singoli individui
volenti che sono mossi con necessità dai loro motivi;
libera è la volontà totale, perché cosa in
sé sottratta alla categoria di causa, non le sue
individuali incarnazioni, perché fenomeni sottoposti ad
essa categoria),174 e, se si guarda in fondo, come per tutti gli
idealisti tedeschi e per Bergson, libertà appartenente al
corso dell'insieme, non appartenente agli elementi individuali di
esso e al corso di questi. «Se si conosce completamente la
natura della cosa» scrive Fichte «o la legge secondo
cui essa si comporta, si può predire in eterno come essa si
manifesterà. Invece ciò che avverrà nell'Io,
dal momento in cui è diventato Io e finché rimane
veramente un Io, non è predeterminato ed è
assolutamente indeterminabile».175 Alla luce della
concezione ardigoiana del caso è tutto l'universo, la
natura stessa, che è visto esattamente come qui Fichte
scorgeva l'io. Anzi, come Fichte scorgeva qui l'io, l'intera
natura è vista da tutta la nostra mentalità
contemporanea imbevuta di «evoluzione creatrice»
(senza contare che già come concepita dal De Vries
l'evoluzione degli organismi viventi è precisamente quella
serie «costituita da salti», e che «procede a
dir così, a scosse», la quale, secondo Fichte,
è propria delle «determinazioni libere» in
contrapposto alla serie naturale che invece «è
continua», e in cui «ciascun anello opera tutto quello
che può»).176 Cosicché la concezione
ardigoiana del caso e quella generale evolutiva-creativistica
della natura tolgono il carattere distintivo che Fichte credeva
scorgere nello spirito in contrapposto alla natura, perché
collocano in quest'ultima quella indeterminabilità,
casualità (libertà) che, secondo lui, era propria
soltanto del primo. – A stregua della concezione ardigoiana,
adunque, il futuro è casuale, o (per usare l'espressione
del Renouvier) assolutamente ambiguo. Non c'è fato
né finalità. Non c'è una necessità
logica precedente dell'accadere degli eventi in un senso o in un
altro. Come avevano benissimo veduto Hume e Leopardi, tale
necessità non è che (in linguaggio kantiano) una
Gedankending, un ens rationis, un disegno che la nostra mente
compone nei fatti quando sono già avvenuti, precisamente
come il disegno regolare che il nostro occhio scova e compone ad
arbitrio nei ghirigori d'una tappezzeria, o il ritmo che il nostro
orecchio riesce a comporre nel romore del treno in corsa. Ma
nell'accadere dei fatti non v'è che il loro semplice
accadere, non anche questa precedente necessità logica del
loro accadere così o così, la quale, determinazione
mentale com'è, può tanto poco essere insita in fatti
per sé muti e ciechi, quanto poco può essere insita
in una nuvola la figura d'uomo o di animale che, fissando con una
certa intenzione la nuvola stessa, noi vi scorgiamo.
Il punto di cui, per penetrar bene lo spirito di tale dottrina,
bisogna immedesimarsi, è precisamente questo, che l'esservi
una previa necessità è la stessa cosa dell'esservi
una mente che vegga con certezza prima dell'accadere e dica:
«questo avverrà necessariamente così».
È dunque lo stesso che l'esservi all'inizio o nel fondo
delle cose una mente che veda in precedenza il loro andare e possa
affermare che esso si opererà necessariamente in un certo
senso. Tolta questa mente, tolto quest'occhio che con certezza
veda previamente come le cose accadranno, ridotte le cose senza
quell'occhio, ossia assolutamente cieche, come potrebbe esservi
una necessità? Questa non è se non la constatazione
che fa una mente, la mente che vede con certezza in precedenza il
corso degli eventi. Sparita tale mente, non c'è più
necessità, come non c'è colore prima o senza
dell'organo visivo. Vedo che le acque d'un ruscello hanno disposto
alcuni sassi sul greto in modo da formare il disegno d'una stella.
Il disegno c'è, in sé, nelle pietre, anche prima o
senza che nessuno le guardi? E come? Il disegno sta in un rapporto
di posizione delle pietre l'una rispetto all'altra. Questo
rapporto c'è forse se non c'è in e mediante un
organo visivo? È forse avvertito dalle pietre? Ora,
l'identica cosa vale anche per la necessità (per il
«disegno») dell'accadere universale. Epperò la
concezione comune secondo cui la necessità meccanica impera
nelle cose della natura, la libertà in quelle dello
spirito, andrebbe, se mai, rovesciata: nessuna necessità
là, mentre la necessità, se mai, comincia qui dove
sorgono previsioni, ragioni e motivi. Ma, intanto, questa
eliminazione della necessità, a cui i razionalisti, i
credenti nel Logos o nello Spirito assoluto, non possono, non
ostante gli sforzi e le parole, mai pervenire (poiché per
essi c'è, in una o nell'altra forma, quella mente che sta
in fondo alle cose, vede e provvede, da cui appunto la
necessità scaturisce), questa eliminazione della
necessità si opera ovviamente nel positivismo da Hume a
Mill, il quale ultimo pure, sulla scorta della dottrina della
causa e della necessità stabilita dal primo, mette in luce
che se per necessità s'intende qualcosa di più della
mera sequenza costante e incondizionata, se s'intende per essa una
più intima connessione, un qualche vincolo particolare, una
qualche misteriosa coazione o compulsione esercitata
dall'antecedente sul conseguente, essa non esiste affatto e
«It would be more correct to say that matter is not bound by
necessity, than that mind is so».177 Si opera inoltre,
quell'eliminazione della necessità, nel positivismo per
mezzo dello Huxley, il quale, con ancor maggiore vivacità,
stabilisce che essa non è se non un'ombra proiettata dal
nostro intendimento e che non ci è affatto lecito cambiare
il «sarà» in un «dovrà
essere»: sin qui l'esperienza ci ha mostrato che i gravi non
sostenuti cadono e abbiamo ogni ragione di credere che ciò
continuerà anche in avvenire; ma se invece di dire
«cadranno», diciamo «devono cadere»,
introduciamo illegittimamente nel concetto di legge (che non
è se non pura constatazione di accadimenti uniformi) l'idea
di necessità che non si riscontra certo nei fatti
osservati.178 Infine, presso di noi, quell'eliminazione della
necessità si opera, sempre nel campo del positivismo,
magistralmente per mezzo del Tarozzi, secondo il quale ogni fatto
è una «risultanza sui generis»,179
«è spontaneo ed originario, essendo ad esso
posteriori la generalizzazione che ne fa una legge, le somiglianze
che per esso avvengono nella mente umana, la successione
temporale».180
La conseguenza inevitabile, però, di questa eliminazione
della necessità è soltanto quella a cui è
pervenuto Nietzsche. Le cose, per essa, ridiventano libere,
danzano con capricciosa libertà ai piedi del caso.
«Su tutte le cose sta il cielo Caso, il cielo
Incolpevolezza, il cielo Accidente. Per caso: questa è la
più vecchia nobiltà del mondo che io restituii a
tutte le cose, liberandole dal giacere in schiavitù sotto
il fine. Sopra esse ed in esse non vuole nessuna eterna
Volontà; e in luogo di tale Volontà posi la pazzia,
quando insegnai: una cosa è per sempre impossibile: la
razionalità. L'eterno ragno-ragione e l'eterna ragnatela di
ragione, non esistono affatto».181 – Vale a dire,
com'è evidente: la necessità è una cosa sola
con la prevista infrangibile concatenazione logica, con la
razionalità una, indeviabile, che ha una sola linea
possibile di processo. Sparita la necessità, sparisce anche
la razionalità (che non è se non un altro nome di
essa) e resta sgombro il cielo all'irrazionale ed al caso.
Razionalismo significa: previa concatenazione delle cose e degli
accadimenti per modo che ogni anello della catena, ogni fase,
contenga già in sé in forma potenziale, con
inflessibilità infrangibile, univoca, non deviabile, tutti
gli anelli o fasi successive (cosicché se quell'anello o
fase fosse cosciente conoscerebbe previamente i successivi):
quindi determinismo, anzi fato. Indeterminismo, cioè il
fatto che il corso sia in sé, assolutamente inconoscibile e
indeterminabile in precedenza, significa
«libertà», ma, insieme, inscindibilmente, caso,
irrazionalismo.
Ma, per tornar ora più particolarmente alla dottrina di
Ardigò, essa è in sostanza la traduzione e la
soluzione in termini scientifici del problema che stava in fondo
al pensiero di Leibniz quand'egli (esprimendolo con linguaggio
ancora scolastico) si sforzava di coordinare la necessità
assoluta o incondizionata con la necessità ipotetica o
condizionata, le verità necessarie ed eterne delle quali
non si può pensare il contrario e delle quali poneva a base
il principio di contraddizione, con le verità di fatto o
contingenti o casuali, delle quali il contrario è
possibile, e a cui egli poneva a base il principio di ragion
sufficiente. Il principio di ragion sufficiente significa che
tutto ciò che è, poiché è, deve avere
una causa. Il principio di contraddizione significa che è
necessario ciò di cui è impossibile, senza
contraddizione, pensare il contrario. Nei fatti, negli eventi
concreti, singoli, domina il principio di ragion sufficiente
(poiché sono, hanno una causa); ma per nessuno di essi vale
il principio di contraddizione (che cioè il loro contrario
implichi una contraddizione); tale contrario è invece
sempre possibile. Siffatto ragionamento del Leibniz è, come
si vede, il medesimo che l'Ardigò trasporta dalla forma
scolastica alla forma positivista.
La dottrina d'Ardigò risolve ancora nell'unica via
possibile e fuor degli equivoci, il problema che si era posto
anche Kant. Questi scorse bene che, mentre da un lato v'è
nella nostra conoscenza delle cose alcunché di necessario
(le leggi universali fondate sulle categorie), d'altra parte
constatiamo che gli oggetti della conoscenza empirica sono
determinabili in vario modo, «cosicché nature
specificatamente diverse possono essere cause in guise
infinitamente molteplici»,182 le quali dunque per la nostra
conoscenza sono casuali (zufällig) e casuale quindi
l'unità della natura. Questa unità della natura (il
principio assegnabile delle cose d'Ardigò), la
totalità della natura, il coordinamento delle sue leggi
particolari sotto una legge unica, non è dunque
constatabile, non può essere oggetto d'un nostro giudizio
«determinante», ossia d'un giudizio che ci dia una
conoscenza, non può essere oggetto di conoscenza, oggetto
sussunto nelle categorie, rivestito delle forme della
conoscibilità, cioè dell'esistenza: vale a dire
è irreale, non esiste. La totalità del mondo,
cioè, non si può percepire, non è oggetto di
percezione, dunque non si può applicarvi le categorie, le
quali fanno conoscere solo ciò che è percepibile e
senza la percezione sono vuote; dunque non è afferrabile
dalle categorie conoscitive e perciò è fuori della
sfera di ciò che esiste, di ciò che è fatto.
Ma, soltanto per nostro uso, e a soddisfazione d'un nostro
bisogno, il nostro giudizio «riflettente» (ossia
quello che non ci dà conoscenza d'oggetti, ma è un
puro e semplice modo di contemplare le cose, un giudizio di
valutazione, un giudizio per cui sottoponiamo un oggetto al punto
di vista d'una nostra valutazione) ammetterà che ciò
che è casuale pure vada ravvisato come contenuto
nell'unità d'una coscienza possibile (mögliche
Erfahrung), in altre parole come pensato e previsto da
un'ipotetica onnicoscienza, come interamente deducibile da ogni
suo precedente stadio di conoscenza. Pensando che la natura
specifichi le sue leggi conforme il bisogno del nostro intelletto
di ricondurre il particolare sotto il generale, noi non
affermiamo, dice Kant, che essa si comporti e debba comportarsi
effettivamente così; ma, sia la natura, riguardo le sue
leggi universali, costituita come vuole («mag ihrem
allgemeinen Gesetzen nach eingerichtet sein wie sie
wolle»),183 applichiamo ad essa quel nostro pensiero
perché solo così possiamo approdare a qualche
conoscenza (e ciò è in sostanza dire: quel poco
della natura che possiamo conoscere, lo conosciamo solo in quanto
possiamo subordinare una legge all'altra e ritenere che la natura
si specifichi o ordini ad unità per la nostra conoscenza, e
solo nella sfera in cui ciò è possibile). La
«specificazione della natura» è in
realtà casuale per Kant come per Ardigò; la
proposizione di Kant che l'unità della natura non
può essere oggetto d'un giudizio determinante dice
l'identica cosa della proposizione d'Ardigò che non esiste
un principio assegnabile delle cose. La differenza tra i due (a
tutto beneficio del secondo che elimina così l'equivoco
posto dal primo, quello vale a dire che ciò che non
è suscettibile delle categorie della conoscenza, ossia
della conoscibilità, ossia della realtà, pure lo si
possa, anzi lo si debba, pensare come possibile) sta in ciò
che Kant, malgrado questo, concede la possibilità, in via
di mera ipotesi, però concepibile, che il principio delle
cose o lo stato complessivo in cui l'universo in un dato momento
si trova (l'unità della natura) si possa supporre nella sua
totalità pensato, saputo, contenuto da una coscienza; e
consente quindi la supposizione che dall'immaginata conoscenza che
questa abbia di tal principio o stato sia possibile raffigurarsi
che tutti i successivi particolari eventi del mondo siano
deducibili. Vale a dire. La maniera teleologica di considerare le
cose, secondo cui tutto ha un fine e nulla è a caso, pur
non costituendo per Kant una conoscenza (un giudizio determinante)
è però un modo valido con cui guardiamo l'insieme
della natura. Poiché, cioè, noi, nella spiegazione
di questa, saliamo lungo un'infinita serie di effetti e cause, ma
non riusciamo a spiegare mediante la causalità meccanica la
totalità stessa di questa serie; così, quantunque
non possiamo sapere che tale totalità, ossia la
totalità della natura, abbia una finalità (anzi
dobbiamo escludere che finalità esista in ciò che
entra nelle categorie, che è oggetto di giudizio
determinante, vale a dire nella realtà, e quindi
riconoscerla inesistente in quanto fatto e nei fatti), pure siamo
autorizzati a supplire a quell'impossibilità di spiegazione
meccanicamente causale e a questa mancanza di sapere, mediante un
atto di fede, in virtù del quale consideriamo la natura nel
suo tutto come un prodotto teleologico, che abbia una
finalità (morale), e che sia quindi pensato e con
ciò generato da un'intelligenza «intuitiva»,
ossia da un Dio, dalla cui conoscenza d'ogni momento della
totalità dell'universo tutti i particolari d'ogni momento
successivo di questo siano contenuti e deducibili, con ciò
venendo meno in essi il carattere di casualità.
L'Ardigò, invece, si rifiuta giustamente di supplire a
quella mancanza di sapere con un puro atto di fede. Poiché
non v'è (come anche Kant riconosce) un'«unità
della natura», ossia un principio assegnabile delle cose,
poiché quindi non v'è un punto o stato o stadio
precisabile, determinabile, fisso, da cui prendere le mosse,
così non è per l'Ardigò, e giustamente,
ammissibile, nemmeno in via di mera possibilità o
supposizione, immaginare che un tale punto determinabile,
iniziale, o un tale stadio precisabile (poiché non ci fu
mai) sia stato o sia presente in una coscienza comunque
raffigurabile, e perciò supporre, anche come semplice
concessione di generica possibilità, operabile una
deduzione degli eventi successivi da tale presenza, in siffatta
coscienza ipotetica, di esso (inesistente) principio o stadio
totalmente determinato delle cose.
Finalmente, la dottrina di Ardigò è quella stessa
che, colorendola spiccatamente di libero arbitrio e di teismo
(com'è perfettamente possibile fare perché caso e
volontà o libertà o arbitrio divino si
identificano), trasse dal precedente idealismo il Weisse. Secondo
il quale, la necessità logica, che permette unicamente di
ricavare concetti da concetti, può solo condurre a
stabilire schemi universali del possibile e a separare questo
dall'impossibilità. Ma la logica non giunge a riempire
questi schemi col loro reale contenuto, cioè a produrre la
vera realtà. A tal uopo occorre un libero atto di
effettuazione, che ha luogo anzitutto nella divinità, per
la quale le necessità logiche, ossia le forme della
possibilità dell'Essere, costituiscono la semplice cornice,
che, senza venir infranta, è riempibile variamente, a
libera decisione e volontà della divinità stessa,
col materiale concreto dei fatti, degli eventi, delle cose.184
Non è del resto fuor d'opera rilevare a questo punto come
già in generale l'elemento «caso» resti
ineliminabile anche nelle filosofie razionaliste e idealiste.
Perché abbiamo queste o quest'altre sensazioni,
perché questo o quest'altro materiale sensazionale amorfo
sia offerto alle forme (queste soltanto necessarie) dello spazio,
del tempo e delle categorie, è, per la critica kantiana
della ragion pura, circostanza non spiegabile, meramente casuale;
anzi, in essa critica, le sensazioni non ancora diventate
«intuizioni», le sensazioni come materiale con cui
queste si formano, sono un mero dato che c'è perché
c'è e che non si vede donde provenga. L'inesausta
fecondità della natura è, per Hegel, unicamente la
prova dell'incapacità della natura stessa di adeguarsi
interamente e senza residui all'idea logica di cui essa è
l'esteriorizzazione; e tale sua immensamente varia produzione di
forme individuali con cui essa si sforza di realizzare l'idea, non
ha alcuna ragione per avvenire con le particolarità con cui
avviene, e avviene con tali particolarità solo per caso.
Ancora più spiccato l'elemento «caso» rimane
nella dottrina di Fichte. Per lui (uso i concetti della seconda
fase della sua filosofia) l'io assoluto o volontà eterna
genera in sé (o fa se stessa) l'io finito mediante
l'«urto» che lo limita e lo rende appunto finito,
cioè soggetto limitato e distinto da un oggetto, soggetto
cui fronteggia un oggetto, il quale però è suscitato
o creato nello stesso soggetto finito, come sua rappresentazione,
nella sua coscienza, «in unseren Gemütern»185
(col che la posizione di Fichte si identifica a quella di
Berkeley, con un mutamento semplicemente di parole; per il primo,
l'io assoluto genera con l'«urto» in sé l'io
finito e in questo come ad esso di fronte il mondo quale sua
rappresentazione; per il secondo, Dio suscita in noi in modo
regolare e costante quelle percezioni che chiamiamo mondo
esterno). L'«urto», dunque, è nella filosofia
di Fichte ciò che le teologie chiamano la creazione del
mondo. Poiché è in seguito a quello che l'io la
opera; e la opera per mezzo dell'immaginazione produttiva che
agisce in istato di incoscienza, evoca incoscientemente
cioè il fenomeno del mondo esteriore, che poi l'io prende,
appunto perché generato dalla sua immaginazione in istato
d'inconsapevolezza, per qualcosa di estraneo a sé. Un mondo
sensibile ci deve essere, perché è condizione
necessaria dell'autocoscienza, perché cioè l'io sia
attivo, sia conoscente, esista. Questo è l'elemento
necessario, che si può «dedurre». Ma che ci sia
questo mondo, cioè questi particolari nel mondo,
quest'albero con tale altezza invece che con tale altra, questo
monte con questo pinnacolo invece che senza, ciò è
arbitrario, casuale, frutto capriccioso dell'iniziale operare
dell'immaginazione dell'io ancora in istato di incoscienza (ossia,
quasi a dire, del suo sogno); ciò non ha nessuna ragione
per essere così invece che altrimenti, come non l'hanno i
sogni, ciò è «indedotto» e indeducibile,
è puro caso. – L'elemento «caso» resta dunque
inestinguibilmente presente anche nei sistemi della
«ragione». Ad esso Ardigò ha dato, con decisiva
accentuazione dell'irrazionalismo, la posizione centrale.
Ora le profonde verità della dottrina ardigoiana del caso
non hanno tenuto presente quei pensatori i quali pretendono
rappresentare la storia come se ogni momento di essa sia quel
prodotto del momento precedente che logicamente questo poteva e
doveva soltanto dare, quel prodotto che razionalmente esso doveva
procreare, che per ragione esso non poteva non effettuare, che la
ragione, quasi a dire, lo obbligava a generare (cosicché se
ne avesse generato uno diverso, questo sarebbe stato un assurdo, e
cosicché sia impossibile razionalmente pensare che esso ne
potesse generare uno diverso). Codesti pensatori, e insieme con
essi quegli scrittori politici superficiali che, in presenza dei
rivolgimenti della vita pubblica, ripetono banalmente:
«ciò che è reale è razionale»,
ossia: il fatto c'è, dunque è logico che ci sia,
dunque è inutile protestare contro di esso, dunque è
vano almanaccare se e come esso avrebbe potuto essere altrimenti –
tutti costoro confondono, per dirla in linguaggio tecnico
leibniziano, il principio di ragion sufficiente col principio di
contraddizione. Il vero è, invece, che anche nella storia
ogni fase di essa è un mondo di infinite
possibilità. La situazione successiva a tale fase si
concatena ad essa con necessità causale; ma tale fase
precedente avrebbe potuto concatenarsi con uguale necessità
causale a infinite altre situazioni diverse (cioè
generarle) e si è concatenata con questa per puro caso.
Così solo si spiega come il pensiero della presenza del
caso – il pensiero che la storia dell'umanità, la storia
dei singoli popoli e la stessa nostra storia individuale è
determinata ad ogni istante da circostanze incalcolabili,
impreviste e imprevedibili, sbucate fuori in modo improvviso e
cieco –, il pensiero (per dirla con la bella espressione del
Windelband) che «v'è nel fondo delle cose qualcosa di
incalcolabile, qualcosa di misterioso, che è là, su
cui poniamo le mani e che pur non possiamo afferrare»; che
«nel profondo del dedotto giace un indeducibile di cui non
sappiamo se non: ciò è»186 – questo pensiero
della presenza del caso rimanga insommergibile in ognuno di noi
pur accanto alla nostra assoluta certezza della causalità
universale e della «legge», e costituisca, quasi a
dire, un residuo che in questa non vuol affatto risolversi. E la
medesima cosa è vera per la storia del pensiero. Ogni fase
della storia della filosofia è un mondo che contiene
infinite possibilità di direzioni diverse. È
puramente per caso (il caso, per esempio, che sorga una mente
poderosa la quale sia determinata dal suo temperamento ad
appassionarsi più per l'una che per l'altra di quelle
direzioni; il caso che una mente poderosa sorga piuttosto in una
che in un'altra razza, religione, nazione e sia da ciò
portata ad accentuare una di quelle tante direzioni possibili in
confronto delle altre; il caso, anche, che l'uomo di genio, il
quale fa sua una di quelle direzioni, sia ricco, socialmente
influente, abbia mezzi di propagare o imporre le sue idee; il
caso, perfino, che un uomo trovi un certo o un cert'altro libro su
di un muricciuolo), è puramente per caso che una delle
infinite possibilità di direzione che vi sono in ogni fase
della storia della filosofia sia quella che invece delle altre
effettivamente si svolge; è, vale a dire, per caso che un
dato pensiero filosofico successivo, invece di un altro diverso,
che pure lo poteva, si è concatenato causalmente col
precedente, ossia è stato, invece di un altro, dal
precedente causalmente generato.
Tutta la storia procede, adunque, per caso, per caso cieco, ossia
per assurdi. L'illusione del razionalista è quella che,
contemplando egli la storia, per così dire, in senso
retrogrado, dal punto in cui egli si trova all'indietro,
contemplando la storia già fatta, e scorgendovi dappertutto
la concatenazione causale che certo v'è, fantastica che
proprio quella concatenazione causale vi fosse già prima,
preesistesse potenzialmente all'accadere effettivo (come si
può fantasticare che il blocco di marmo contenesse
già predeterminata nelle sue linee ideali quella statua che
l'artista ricavò, e non qualunque altra); cosicché
l'accadere effettivo non potesse aver luogo che secondo quella
concatenazione, cosicché la logica e la ragione lo
obbligassero previamente a svolgersi soltanto secondo quella;
mentre qualunque altro svolgimento l'accadere avesse preso,
avrebbe presentata la medesima concatenazione causale. Così
il razionalista dimostra dottamente che per logica e ragione la
storia doveva svolgersi appunto così come s'è
svolta; non avvedendosi che per qualunque altro suo svolgimento
che si fosse effettuato, appunto perché vi sarebbe sempre
stata in esso la concatenazione causale, sarebbe possibile la
medesima dimostrazione che esso cioè era quello che per
logica e ragione doveva effettuarsi: il che prova che la logica e
la ragione, poiché possono servire a stabilire la
necessità d'ogni più diverso svolgimento, non ne
dominano nessuno, non ne comandano nessuno, non ci sono in
nessuno. Quando lo Spengler dice che «nessuno storico
profondo e genuino va in traccia di leggi causali»;187
quando nega risolutamente che la causalità trovi
applicazione nella storia; egli non fa altro che enunciare in
forma diversa il concetto ora messo in luce, per vero in modo meno
soddisfacente e preciso di quello che è reso possibile
dalla dottrina d'Ardigò con la sua congiunzione di causa e
caso.
Così la storia, per chi la guarda con occhi chiari,
ingenui, trasparenti e spregiudicati, è una serie di
avvenimenti che non dovevano accadere, che non c'è nessuna
ragione che accadessero, che urta la ragione siano accaduti;
cioè di assurdi. E la prova più luminosa ce l'offre
uno dei fatti più grandi, momentosi, predominanti che la
storia dell'Occidente presenti.
La risposta che, in una novella di A. France, Pilato, funzionario
in ritiro, dà al vecchio amico incontrato ai bagni di Baia,
che lo interrogava circa un taumaturgo di Galilea messo in croce
chissà per quale delitto durante il suo governatorato in
Palestina, la risposta: «Gesù, di Nazareth? Non mi
ricordo»,188 coglie e mette in luce con tutta esattezza, e
con la finezza profonda propria del grande romanziere, il senso, o
meglio l'enorme non-senso dell'avvento del Cristianesimo. Chi non
avverte, immediatamente, intuitivamente, quasi d'istinto, al
disopra e senza bisogno di dimostrazioni pro e contro, il
gigantesco assurdo che v'è nel fatto che da un
insignificante per quanto tragico episodio del fanatismo per una
religione ignota, singolare, circoscritta, endemico in una delle
provincie remote e semibarbare dell'Impero romano, episodio
passato così inosservato ai contemporanei da potersi
legittimamente rappresentare il funzionario medesimo che vi aveva
presieduto come, dopo qualche anno, immemore di esso, sia
scaturita una religione mondiale, la religione della parte
più civile della umanità; chi presenta, o si lascia
presentare senza sentire un'irrefrenabile insurrezione
intellettuale, tale fatto incredibilmente irrazionale come lo
sbocco razionale del mondo antico, quello a cui il moto spirituale
di questo doveva metter capo, non poteva logicamente non metter
capo, era naturale, ovvio, indispensabile, mettesse capo; è
interamente destituito d'ogni capacità di ricevere dalle
cose storiche e dai fatti del mondo un'impressione genuina e
indipendente, non ha l'occhio atto a ottenere che gli oggetti
sviluppino i loro integri contorni nella sua percezione visiva. E
si noti che l'assurdo diventa ancor più saliente
precisamente se si ritiene che Gesù sia stato una persona
storicamente esistente. Meno male se esso non è se non
(come molti opinano)189 una lenta formazione mitica (o, come per
Schopenhauer, il mero simbolo del fatto che la volontà di
vivere, attraverso i dolori dell'esistenza, apprende la lezione
finale che deve rinunciare, annientarsi, crocefiggersi, e
così raggiunge la santità);190 perché in tal
caso si può ancora capacitarsi che in siffatta costruzione
interamente ideale l'umanità abbia a poco a poco
concentrato tutto il suo senso del divino. Ma che l'idea del
divino si sia, per così ampia parte della nostra specie,
per così immenso tratto di spazio e di tempo, raccolta e
posata su di un personaggio, di cui, se storico, estremamente poco
si seppe e si sa,191 che, nel momento in cui visse, passò,
per il grande mondo della sua epoca, del tutto inosservato, e che
se è forse più umano per esempio di Socrate, lo
è solo perché, mentre questi andò incontro
alla morte con l'impassibilità, l'imperturbata
serenità, la grazia, anzi il contento, che si esprimono in
quel «domani sacrificherete un gallo ad Esculapio»,192
per averlo guarito della malattia della vita, e che sono veramente
doti sopraumane o in-umane, Gesù invece sentì ed
espresse, e con accenti profondamente toccanti (περίλυπός ἐστιν ἡ
ψυχή μον ἕως ϑανάτον - Θεέ μον, ἱνατί με ἐγκατέλιπες;), la
perturbazione, l'oscuramento, la disperazione che colgono il
fragile uomo di fronte alla catastrofe dell'ideale di giustizia
per cui aveva combattuto e della sua stessa vita193 – ciò
appunto acuisce tanto maggiormente l'assurdo.
Gli scrittori religiosi dicono che quel fatto fu un miracolo, che
appunto la sua inspiegabilità ne attesta il carattere
miracoloso. Essi dicono con ciò la stessa cosa che dico io.
Perché il miracolo non è che l'assurdo scorto dal
punto di vista di chi crede, e l'assurdo non è che il
miracolo scorto dal punto di vista di chi non crede. Il tratto
comune è che il fatto con quelle due diverse parole
qualificato, non è riducibile al metro della ragione, non
è risolubile in elementi di razionalità. La tesi
degli scrittori religiosi e quella qui sostenuta coincidono dunque
nel respingere l'interpretazione degli storici o dei filosofi
razionalisti, i quali, nell'atto che pur considerano il
Cristianesimo come fatto umano, pretendono dimostrare che esso era
precisamente quell'esito del corso spirituale preso dal mondo
antico che la ragione scorge e può provare essere il
necessario punto d'arrivo cui tale corso volgeva, l'esito quindi
unico possibile che con necessità razionale era già
insito in quel corso e quasi ad esso predeterminato. Fingendo di
non avvedersi che – (nuova esemplificazione dell'esattezza della
tesi di Ardigò che ogni fase dell'universo si concatena
causalmente coi fatti successivi, ma con quelli qualsiansi che si
producono, cioè a caso con essi piuttosto che con altri)
poiché innumerevoli altre soluzioni, lo stoicismo, il culto
di Iside, quello di Mitra, potevano con uguale connessione causale
concatenarsi col corso spirituale del mondo antico; poiché,
quindi, la soluzione effettivamente avveratasi, il Cristianesimo,
solo per una serie di casi inopinati e di futili incidenti, fu tra
le innumerevoli possibili quella che effettivamente vi si
concatenò – così, il trionfo del Cristianesimo, se
non si pensa che questo sia un fatto divino, ossia un miracolo,
non può essere ravvisato che come lo è qui,
cioè come un immane assurdo, che nella immensità
della sua portata storica dimostra come tutta la storia umana sia
in balia del caso, vale a dire non sia che una serie di assurdi.
Perciò, non ostante tutto l'idealismo, lo spiritualismo, il
razionalismo, il panlogismo che domina la nostra mentalità,
resta indistruttibile il senso che (per usare la nota frase con
cui si pretende deridere la tesi qui sostenuta) veramente una
maggiore lunghezza del naso di Cleopatra avrebbe potuto cambiare
il corso del mondo. La cosa sta proprio così. Quel che
già aveva scorto Solone, che cioè l'uomo non
è che caso, πᾶν ἐστὶ ἄνϑρωπος συμϕορή,194 quel che Tucidide
dice, particolarmente della guerra, che cioè ἐς τύχας ϕιλεῖ
τὰ πολλὰ περιίστασϑαι, sconvolge tutto a caso,195 quel che
Demostene ripete, ossia che non si sa se una buona situazione
possa durare sino a sera, εἰ μενεῖ τοιαύτη μέχρι τῆς ἑσπέρας,196
quel che Tacito spesso conferma, per esempio dicendo che
«casus eventusque rerum... plerumque fortuiti
sunt»,197 è immortalmente vero. Come, giunti ad una
certa età ci accorgiamo che quella storia in piccolo, che
è la nostra vita individuale, è stata plasmata
essenzialmente da casi, che potevano essere diversi, quali l'aver
vissuto in una città o in villaggio, o in una certa
città invece che in un'altra, l'aver scritto una lettera,
conosciuto una persona, frequentato un teatro, e che dalle nostre
azioni più prudentemente meditate sono scaturite (per
quelle «piccole ironie della vita»198 che l'amaro e
profondo sguardo di Th. Hardy vede così di frequente
all'opera) le conseguenze direttamente opposte a quelle su cui
eravamo certi di poter contare; così un'occhiata alla
storia umana basta ad accertarci che innegabilmente una pioggia
torrenziale in luogo d'un giorno sereno, una febbre capitata o no
a un uomo come Cesare Borgia, l'avere alcuni cannonieri ascoltato
o no il comando di Henriot di tirare sulla Convenzione,199 l'avere
o no il re di Sardegna resistito per altri quindici giorni a
Bonaparte,200 «uno comandamento male inteso»,
«una ordinazione male eseguita», «una
temerità, una voce vana, insino d'un piccolo
soldato»;201 una serie di triviali accidenti, come quelli
(dal Castelar, che riesce così a dare una sensazione
vivissima di questo procedere assolutamente casuale della storia,
messi in luce)202 pei quali abortì il tentativo della fuga
a Varennes; l'essere o no caduto in mente (secondo l'interessante
«storia immaginaria» da Nerva a Carlomagno, descritta
da Renouvier)203 ad alcuni imperatori della casa degli Antonini di
fare certe riforme amministrative, l'avere essi o no restaurata la
piccola proprietà, ristretta e poi soppressa la
schiavitù, diffusa l'istruzione nel popolo e con ciò
respinto il Cristianesimo in Oriente e tra i barbari germani e
slavi, chiamati così solo più tardi, dopo averlo
purificato dalle superstizioni al contatto della civiltà
italiana, ad entrare nel ciclo della storia occidentale; o (come
metteva tempo fa in luce, pervenendo in tal guisa alla medesima
visuale qui sostenuta, un uomo così esperimentato delle
cose del mondo come Lloyd George) il morso d'una scimmia che
cagionando la morte di re Alessandro di Grecia alterò la
situazione politica ed ebbe quindi effetti decisivi sul nostro
presente destino – tutto ciò fu che determinò il
come si svolse la storia umana e che, accadendo diversamente, come
poteva, l'avrebbe diversamente determinata. «Si Louis
XVI»... Così André Maurois intitola quel
capitolo d'un suo libro204 dove svolge il pensiero che esistono
innumerevoli possibilità storiche diverse da quelle
effettuatesi. Nel paradiso a cui dopo morte approda lo storico di
professione c'è l'Archivio delle possibilità non
realizzate. «Il y a une infinité de passes qui ont
tous des valeurs égales. À chaque moment du temps,
si bref que tu le suppose, la ligne des événements
se divise comme un tronc d'où partent des branches
jumelles. Une de ces branches représente la suite des faits
telle que les hommes l'ont connue; l'autre ce que fût
devenue l'histoire si un seul acte eût été
différent». Così spiega l'angelo che
custodisce l'archivio. «Si Louis XVI avait eut un grain de
fermeté»... Da questo possibile dato parte una nuova
storia di Francia in cui Waldeck-Rousseau è controllore
generale del re Giovanni VI e Aristide Briand cancelliere del re
Luigi XXI. – Ed è a fatti meramente casuali e spesso
insignificanti, come quelli accennati, che dobbiamo la religione
che professiamo, la lingua che parliamo, l'egemonia di questo o
quel popolo sotto la quale vivemmo o viviamo, il nostro indirizzo
di pensiero, la nostra civiltà. «La nostra
civiltà, che noi chiamiamo perfezione essenzialmente dovuta
all'uomo, è manifestamente accidentale. Essendo l'uomo
diversissimamente conformabile e potendo modificarsi in milioni di
guise egli non è tal quale è oggi, se non a caso, e
in diverso caso poteva essere diversissimo. E questo genere di
pretesa perfezione è una delle diecimila diversissime
condizioni cui potevamo ridurci e che avremmo pur chiamate
perfezioni».205 Tutto – e a ciò lo stesso pensiero
del Leopardi, in piena consonanza con quello dell'Ardigò,
mette capo – tutto procede assolutamente senza ragione, senza che
ci sia la menoma ragione perché proceda così
anziché altrimenti, senza che in tal procedere sia insita
alcuna ragione, cioè in modo assolutamente cieco.
Cieco. Ma che vuol dire? – Il maggior interesse che ricaviamo
dalla lettura d'un libro di storia (e così d'un romanzo ben
fatto) è quello che deriva dalla pungente sensazione, ad
ogni momento incombente, che vi erano varie altre
possibilità, che le cose avrebbero potuto andare
altrimenti, che a ciascun passo dobbiamo esclamare con passione e
sconforto: guarda che disdetta, che fortuna, che caso! Muore in un
momento decisivo questo personaggio, che se avesse fatto un passo
più lungo o più corto o se il cavallo del suo medico
non fosse stato in quel giorno troppo stanco, avrebbe potuto
salvarsi; viene perduta questa battaglia che alcuni gradi di
più o di meno di temperatura, lo scioglimento della neve,
l'ingrossamento d'un fiume, sarebbe bastato a far vincere! Questo
è l'elemento veramente drammatico, che c'è in ogni
libro di storia. E senza l'oscillarci davanti di queste multiformi
possibilità, diverse da quella che s'è avverata,
senza siffatta ambiguità del futuro che emerge ad ogni riga
d'un libro di storia, questa perderebbe quasi tutto il suo
interesse. – Ora, che cosa significa tale pungente e dolorosa
sensazione che le cose avrebbero potuto andare altrimenti?
Significa che il come sono andate, sotto il dominio di quei casi
futili e ciechi, urta il nostro spirito, contraddice la nostra
mente. Significa che per questa esse dovevano andare altrimenti.
Ossia significa che quel procedere casuale e cieco è per
noi sinonimo d'assurdo.
Quasi sempre, infatti, le cause ragionevoli sono quelle che nel
corso della storia umana hanno perduto e sono state
definitivamente soffocate.206 Quasi sempre troviamo, al contrario,
che elemento costituente della storia e della vita
dell'umanità è, ad ogni suo momento, nient'altro che
una pazzia diventata abituale. Così, come abbiamo rilevato,
quella che san Paolo chiamava appunto «la follia della
croce».207 Così, in generale, le religioni.
Poiché ogni religione positiva è dimostrata falsa
dalla stessa religione: cioè o dalla religione successiva o
dalle contemporanee diverse. Il Cristianesimo ha dimostrato falso
il Paganesimo. Il Brahmanesimo e l'Islamismo dimostrano falso il
Cristianesimo, come questo dimostra falsi quelli. Ma questa
falsità d'ogni religione positiva, accertata dalla stessa
religione, è vista solo da alcuni pochi di quelli che
vivono nell'ambiente dominato da una data religione, mentre la
grande maggioranza ha sempre fermamente creduto alla religione
volta a volta presente, e il Paganesimo era ieri per essa
quell'assoluta e indiscutibile verità che è oggi il
Cristianesimo. Solo dunque quei pochi son coloro che per
attestazione della stessa religione (successiva o contemporanea
diversa) vedono il vero, cioè la falsità di quella
determinata religione. E questo fatto regge rispetto a tutte le
determinate religioni: cioè vedono il vero solo quelli che
affermano la falsità di ciascuna di esse, come prova il
fatto che tale falsità di ciascuna è proclamata
dalla stessa religione (successiva, o contemporanea diversa). Ma
precisamente questi pochi, che vedono il vero, sono, dall'immensa
maggioranza dei credenti in una delle religioni, che pure si
attestano false a vicenda, ossia, per sentenza della stessa
religione, tutte false, sempre ritenuti essi i pazzi, o
considerati come delinquenti, odiati, disprezzati, perseguitati,
uccisi. E nulla dimostra più chiaramente che il mondo
è destinato ad essere e restar sempre in preda all'errore,
alla superstizione, alla pazzia, di questo fatto, che
l'affermazione della falsità d'ogni religione positiva,
affermazione vera per attestazione della stessa religione (d'ogni
religione altra da quella in questione) sia dalla stessa religione
proclamata e fatta credere errore, pazzia, immoralità,
delinquenza. – Così, per citare un fatto d'assai minore
momento, ma non meno significante, l'uso del tabacco, ché
davvero, come giustamente osserva Hehn, «che un uso
barbarico degli indiani, quello di trarre in bocca mediante una
canna o un rotolo compresso il fumo delle foglie disseccate d'una
pianta stupefacente, e poi soffiarlo fuori, o di inzepparsi nel
naso le stesse foglie ridotte in polvere, sia passato dagli uomini
gialli o neri a tutta la terra e abbia potuto radicarvisi,
è un fatto che dà molto a pensare»;208
dà molto a pensare cioè intorno alla pazzia che
regolarmente domina la ragione umana; e ciò tanto
più se (come si può aggiungere) si rifletta che
quell'uso insensato, non solo si è diffuso come contagio
oramai inguaribile in tutto il mondo cosiddetto civile, ma per di
più è diventato parte essenziale del sistema
finanziario di tutti gli Stati e quindi dell'economia pubblica. –
Così le istituzioni senza scopo o inette allo scopo,
opprimenti, inutili, crudeli, cresciute quasi per forza propria
all'infuori del controllo umano, in cui l'umanità di ogni
paese e tempo si è trovata impigliata, e che sempre hanno
fatto delle cose umane (secondo la bella espressione del Renan)
«une étroite prison où, de droite, de gauche,
devant et derrière, la tête va se briser contre un
mur»;209 istituzioni ognuna delle quali i popoli riescono,
sì, a lungo andare, ad eliminare, ma solo per cadere sotto
altre ugualmente affliggenti, ché tali diventano in breve
quelle, inizialmente buone, che hanno sostituito le precedenti.
L'oppressione dei baroni e dei feudatari fece desiderare
ardentemente e determinò l'incremento del potere delle
monarchie, che rintuzzò la prepotenza di quelli. Beneficio
immenso, di cui tutti erano contenti. Poco dopo alla loro volta le
monarchie divennero, culminando con Luigi XIV, oppressive e
tiranniche. L'insopportabilità della situazione
provocò sforzi e rivoluzioni, da cui uscirono nuove
istituzioni, quelle liberali e parlamentari, fra il contento e il
plauso universale. E subito anche queste nuove istituzioni
divennero intollerabili, incapaci, insufficienti, corrotte,
gravide d'una diversa forma di tirannide e d'oppressione. Con
cangiamenti, riforme, rivoluzioni, l'umanità non fa che
inretirsi in istituzioni, da cui, poco dopo esperimentatele, essa
aspira ardentemente a liberarsi; ma non lo può,
perché intanto esse hanno assunto una potente forza della
loro stessa sola struttura, che resiste per secoli ad ogni
tentativo di scalzarle. A liberarsene quindi l'umanità non
riesce che dopo secoli; e solo producendo nelle istituzioni che a
quelle surroga il medesimo irrigidimento e il medesimo
inretimento. – Così, in generale le superstizioni; le
pratiche mostruose o irragionevoli quali ci risultano
evidentemente essere state quelle dominanti, più o meno, in
ogni epoca del passato: ché è guardando le
istituzioni giuridiche e politiche, i costumi, i modi di vestire,
i rapporti sociali delle epoche del passato (si pensi solo al
feudalismo, al suo sistema di pubblico reggimento, ai suoi giudizi
di Dio; o ai cicisbei e alle parrucche del Settecento) che siamo
costretti ad avvertire come gli elementi costituenti della vita
sociale umana siano elementi di assurdo. Non lo vediamo,
naturalmente, per l'epoca nostra. Ma lo vedremo – l'umanità
lo vedrà – fra poco, quando anche quest'epoca nostra
sarà un passato. Vedremo allora – l'uomo vedrà – con
la stessa sicurezza con cui vede ciò per il passato di ora,
che anche per l'epoca nostra è vero quel che noi di ora
scorgiamo vero per tutte le epoche del passato, quel che è
vero per tutta la storia, che cioè l'ossatura di questa
è formata di cose pazze o stolte o insensate o senza
ragione, trapassate, in modo che l'irrazionalità non vi si
scorge più, allo stato di famigliarità ed
assuefazione.210
«Comment ne pas se rendre à l'hypothèse qui
fait sortir le monde vivant d'une série de hasards
lourdement censurés par la mort? Hasard et mort grands
artisans du monde vivant: voilà où nous mène
le mutationnisme moderne. C'est la théorie même des
atomistes grecs... Aucun dessin, aucun but, aucune
préméditation. Rien n'est voulu, calculé,
concerté en vue de quoi que ce soit. Les êtres
varient désordonnément au gré de leurs
variations chromosomiques, il s'arrangent tant bien que mal des
structures dont les a dotés le hasard».211 – Se la
cosa sta così, se l'uomo è nato da un caso, e forse
precisamente da un caso (un colpo, una percossa, una malattia) che
produsse una dislocazione nei gangli cerebrali d'un pitecoide; se,
dunque, per usare un'espressione estrema, la razza umana è
sorta da una scimmia impazzita, si capisce che l'istinto profondo
e costante dell'uomo sia essenzialmente pazzesco. E infatti, oltre
quanto abbiamo ora detto, se la pazzia sta sostanzialmente nel
crearsi un mondo di sogno e nel prendere tale mondo per
realtà in luogo della realtà visibile e tangibile
(l'uomo che si crede imperatore, o dio sole, o fatto di vetro,
ecc.); e se da quando ci sono ricordi della storia umana noi
vediamo sempre dominare collettivamente appunto questo fenomeno:
la creazione d'un mondo di sogno e la credenza che esso sia una
realtà più reale di quella che ci sta dinanzi agli
occhi; se dal feticismo o animismo primitivo, agli Dei olimpici,
alle religioni evolute che li hanno soppiantati, quel fenomeno, il
fenomeno tipico della pazzia, continua a ripetersi e a perdurare
ineliminabile – come si può spiegare tutto ciò se
non con l'ipotesi che la pazzia sia radicata per la stessa origine
dell'umanità nel suo istinto più profondo?
VIII
LA STORIA È RIPETIZIONE
Poiché l'universo e in esso l'umanità per non cadere
nel nulla, per continuar ad essere, deve essere eterno processo;
poiché la fine, la meta di questo, il punto d'arrivo, la
stasi, non potrebbe essere che il nulla, e quindi, se eterno
è l'Essere, eterno dev'essere il processo; così
questo – la storia – non potendo finir mai, non può essere
che ripetizione, «corso e ricorso», «eterno
ritorno» (un grande Anno del Divenire, che deve sempre di
nuovo rovesciarsi come una clepsidra, per poter sempre di nuovo
scorrere e vuotarsi),212 ché in un tempo infinito, lungo il
quale deve continuar a svolgersi il processo, tutto
necessariamente ritorna.
Ciò che fu torna e tornerà ne i secoli.213
Poiché la storia e il tempo non sono che l'eterna fuga
dall'eterno presente dell'assurdo e del male, ma fuga vana,
appunto perché questo resta eternamente presente,
perché segue l'umanità in tale sua fuga,
perché l'umanità lo trasporta nella fuga con
sé, proprio come in Orazio le cure salgono con noi
nell'aurata trireme su cui salpiamo per allontanarcene;
così la storia non può che essere sempre la stessa
cosa, cioè il permanere nell'assurdo e nel male.
La storia è infatti sempre novità e sempre
ripetizione. Paradosso apparente e che facilmente si risolve. Il
suo moto è un moto che è stasi. Essa è, come
profondamente dice Petrarca della vita dell'uomo, in quel suo
potentemente pessimistico giudizio su di essa (della vita o storia
dell'uomo individuo, ciò che vale per la quale vale per la
storia o vita dell'umanità) «statio
instabilis», «manens cursus».214 Essa è
simile ad una cascata montana che, vista da vicino, è
animata da un moto incessante e sempre vario, in cui nessuna
goccia, nessun rivolo d'acqua ripete mai esattamente la mossa
d'uno precedente, ma che, vista a qualche distanza, è
un'immobile striscia argentea: con tutto il suo nuovo, non fa che
percorrere la stessa linea, si cristallizza anzi, contemplata ora
con un certo distacco, in una linea rigida. «Ciò che
si presenta di apparentemente nuovo qui, si presenta ora qui
perché c'era prima là: come in un piatto della
bilancia si produce il fatto nuovo del suo innalzarsi
perché ci sono già i pesi sull'altro piatto, o come
l'acqua eseguisce il fatto nuovo di salire in un vaso comunicante
perché c'è già dell'acqua nell'altro
vaso».215 Perciò il vero senso storico è
proprio di coloro che sono tradizionalmente accusati di non
averne, come di Schopenhauer, il quale condensava questa
concezione della storia nella giustissima affermazione che quando
si è letto Erodoto si è letta tutta la storia
dell'umanità.216
Non vi è momento che più del presente abbia acuito
il senso della storicità, il senso dello scorrere, del
divenire, della «fluidità». Tutto ciò
che, già solo per la generazione precedente alla nostra,
era stabile e fermo, è per la nostra diventato
«fluido». È questo, sia detto tra parentesi,
una vera potente esplosione di romanticismo, nel senso tecnico
della parola. E in Italia – dove il romanticismo in principio del
1800 non era punto penetrato, tranne che nel fatto estrinseco
degli argomenti presi a soggetto, ma non già nel suo
carattere essenziale di Sturm und Drang, non già nel suo
spirito, ché si può fare del romanticismo con
argomenti classici e del classicismo con argomenti medioevali e
cristiani, e il Manzoni era la testa più equilibrata,
cioè antiromantica, che si possa pensare –, in Italia,
è proprio ora che, sotto la combinata influenza d'una
filosofia che è riproduzione del fichtismo e d'una certa
psichicità diventata dominante, esso ha fatto irruzione,
questa volta sì nella sua forma tipica di Sturm und Drang,
come volontà di cambiare la realtà secondo il
proprio capriccio e di far quel che si vuole della vita (lo
attesta il linguaggio «vita intensa»,
«dinamismo», «travolgente», divenuto negli
ultimi tempi di moda tra noi), come vita ridotta al punto del
presente, come spirito concepito, prima nella dottrina poi nella
pratica, quale sola realtà ed assoluto presente, come
quindi l'impulso del presente che domina sovrano e ha cacciato
definitivamente in bando la misura classica nella vita da un lato,
nel pensiero e nell'espressione dall'altro, sostituendola con la
violenta avventatezza in quella e col più gonfio e caricato
secentismo in questi – cioè ha fatto irruzione come diretta
conseguenza e specifico prodotto del senso di
«fluidità», fattosi dominante nello spirito
contemporaneo. Ovvero (se si vuole far capo ad una tradizione
nostra) quello che si riaffaccia ora in Italia è un lato
dello spirito del nostro Rinascimento, il lato (checché si
dica) individualistico, il diventare i lineamenti dell'individuo
staccati e spiccati sullo sfondo, la speranza o la certezza
dell'individuo di tener in pugno e poter volgere a sua posta le
profonde forze fattrici della realtà, il concetto della
formazione sociale e statale come (per usare l'espressione del
Burckhardt) «opera d'arte», come (per usare le
espressioni del Villari) «materia plastica nelle mani d'un
nuovo artista», poiché se «Pel Medio Evo lo
Stato e la storia erano un'opera della Provvidenza, in cui nulla
potevano la ragione e la volontà dell'uomo; pel
Rinascimento invece tutto era opera dell'uomo».217 – E anche
ciò, in sostanza, è romanticismo, è quel che
poi prese questo nome, scaturisce sempre esso pure dal senso di
«fluidità».
Pure tale concetto della storicità e della
«fluidità» dominante nella mentalità
attuale, diviene, se si guarda bene addentro, la precisa conferma
della tesi qui sostenuta, che la storia è in essenza sempre
la stessa cosa, sempre identica a sé: tesi che condivideva
in sostanza anche uno storico come Boissier, quando osservava che,
poiché il fondo sul quale opera il teatro è
poverissimo e non riesce a ringiovanirsi che nei particolari, e
poiché il teatro è l'immagine della vita, ciò
significa «que la vie, qui fournit si peu de situations et
de caractères, doit être d'une desolante
uniformité».218
Alcuni degli scrittori che (come il Rickert o lo Spengler) hanno
maggiormente cooperato all'elaborazione filosofica di questo senso
della storicità, si sono industriati di separare più
nettamente che mai il regno della natura, come regno di ciò
che è fisso e rigido, dal regno della storia, come regno di
ciò che è «fluido», e di dimostrare che
le categorie intellettuali che trovano applicazione in ciascuno
dei due regni sono diverse. Ma in realtà, la tendenza
complessivamente dominante nella nostra mentalità porta a
ciò, che natura e storia restano, anche per il pensiero
moderno, anche sotto il dominio del senso di
«fluidità», la stessa cosa, com'erano la stessa
per un'epoca di pensiero precedente. Alcuni decenni fa si
naturificava la storia. Ma oggi, già con Darwin e Spencer e
più profondamente con Bergson, si storifica la natura,
perché anch'essa diventa processo, evoluzione creatrice,
slancio vitale (nomi nuovi per esprimere, come ho già
detto, una concezione assai affine, se non identica, a quella che,
in fondo anche Spinoza, ma più il Cusano e specialmente
Bruno esprimevano con le parole «natura naturans»)
cioè fluidità. Dunque, natura e storia rimangono
sempre unificate. Ma allora ecco che cosa ne consegue.
Tutto è irripetibile nella storia dell'umanità e
dell'individuo. Non v'è fatto storico che si riproduca in
tutte le sue particolarità, che non sia in qualche aspetto
diverso da ogni altro, non v'è azione individuale che sia
del tutto identica ad un'altra e non abbia in sé o attorno
a sé circostanze esclusivamente sue proprie (donde, sia
detto di passaggio, l'insostenibilità
dell'universalizzazione kantiana della massima). È vero. Ma
lo stesso in natura. Non v'è foglia di quercia né
criniera di leone che abbia mai costituito l'esatta riproduzione
d'un'altra foglia di quercia e di un'altra criniera di leone.
Anche per la natura esiste e scorre il tempo, c'è
«direzione», anche la natura ha storia, vive, muta.
Non solo una pianta cresce, ma un minerale si conglomera, diviene
un masso imponente come l'Impero romano, si decompone, si
assottiglia, decade, si sgretola, si dissolve. Si può fare
(e da qualche romanziere si fece) la vera e propria
«storia» d'un albero e d'un cavallo, come si fa la
biografia d'un uomo. Si potrebbe fare la «storia» d'un
bosco, d'una società o popolo di piante, come si fa la
storia d'una società di uomini, e quella prima storia non
sarebbe meno di questa seconda ricca di avvenimenti sempre nuovi,
di lotte per il più ampio possesso dell'aria, di vittorie e
di sconfitte, di egemonie e sottomissioni, di cadute e
risorgimenti. Se una foresta la sapete guardare con senso di
penetrazione e immedesimazione, la storia ve la scorgete. Scorgete
l'abete isolato crescere basso, largo, grosso, tarchiato, ma gli
abeti d'una foresta crescere alti, diritti, slanciati, sottili,
nello sforzo, che quello non ha bisogno di fare, per superarsi
nella conquista del sole, della luce, dell'aria. E i rami secchi
che intristiscono per buona parte quelli che non riescono ad
innalzarsi abbastanza, vi dicono che il debole e lo sconfitto
nella competizione sociale, resta oppresso, impoverito, ucciso. Si
combatte, insomma, si gareggia, si vince e si perde, si
costituiscono supremazie statali e sociali anche là. Di
più. Ecco un abete che, semisradicato dal vento o dalle
acque, pure si abbarbica tuttavia alla terra con una sola radice e
quasi interamente secco però dà fuori in cima una
fronda ancor verde. Vuol vivere. Non vuol morire. È
volontà di vita. Esprime la stessa cosa di quel che esprime
un trattato di filosofia che si sforza di dimostrare
l'immortalità o impreca contro la natura che ci fa mortali.
Esprime cioè la stessa volontà di vivere, che in noi
fa suo tramite il ragionamento, una concatenazione di concetti.
Poiché (e un altro esempio potrebbe esser quello del
mimetismo, che, al basso della scala, si estrinseca nel fatto
dell'insetto che prende il colore della foglia, e, al sommo di
essa, resta la stessa cosa operandosi mediante l'influenza e la
suggestione di ragionamenti e di libri) il mondo umano, il mondo
della «ragione», procede assolutamente come il mondo
animale, naturale; la «ragione» che noi crediamo
sovrana e autonoma direttrice, non è che il mezzo con cui
si operano nell'umanità gli identici processi che
nell'animalità opera l'istinto; la vita mentale, le
concatenazioni concettuali, il pensiero, il ragionamento non sono
che la stessa vita d'istinti esplicantesi negli animali e nelle
piante che affiora nell'ambito delle idee, che si serve di queste
come sua manifestazione, e veramente, secondo dice Schopenhauer,
la ragione non fa che dare un'altra forma a quella conoscenza che
già ci aveva fornito l'«intuizione».219 –
V'è storia nel mondo della natura, nel mondo minerale,
vegetale, animale. È solo perché gli avvenimenti di
tale storia sono, rispetto al nostro senso del tempo, assai
più lentamente spaziati, e solo perché là non
c'è nessuno che, secondo noi, possa avvertire, sentire,
vivere tali avvenimenti, che ci pare che quella non sia storia.
Dunque nella natura c'è novità e
irripetibilità tanto quanto nella storia, la natura
è storia come la «storia».
Ma d'altra parte. Tutto si ripete nella natura. Nessuna foglia
è la copia esatta di un'altra foglia. Però si
riproduce eternamente il tipo quercia e il tipo leone e
perciò noi guardando la natura dal di fuori e dall'alto,
diciamo legittimamente che essa è eterna ripetizione e
riproduzione di sé, che non ha storia. Senonché
tutto si riproduce del pari nella storia: nessun avvenimento
storico è la copia precisa d'un altro, c'è sempre
del nuovo, ma i tipi, le fasi, i destini d'ogni raggruppamento
umano, d'ogni organismo sociale, d'ogni fase di civiltà,
sono sempre quelli. Le proposizioni di Spinoza: «totam
Naturam unum esse Individuum cujus partes, hoc est omnia corpora,
infinitis modis variant, absque ulla totius Individui
mutatione»,220 e «facies totius Universi ... quamvis
infinitis modis variet, manet tamen semper eadem»,221 si
applicano con la medesima precisione così alla natura come
alla storia. Natura e storia si ricongiungono, dunque, si
reidentificano. C'è in questa ed in quella la medesima dose
di novità e di ripetizione. Se riconosciamo (e non possiamo
altrimenti) che non ostante tutto il suo nuovo e la sua
«fluidità» la natura è essenzialmente
sempre ripetizione di se stessa, il medesimo riconoscimento, per
la medesimezza della situazione, dobbiamo fare rispetto alla
storia. «Se potessimo» nota giustamente il Mach
«osservare gli uomini da una più grande lontananza,
dalla prospettiva degli uccelli, dalla luna, sparirebbero per noi
le tenui particolarità con gli influssi provenienti dagli
eventi di vita individuali, e non percepiremmo altro che uomini i
quali con grande regolarità crescono, si nutrono, si
propagano»222 – Nulla nella storia si ripete esattamente in
tutte le particolarità appunto perché tutto è
a caso, come in un getto casuale di dadi non si riproduce mai
esattamente la reciproca posizione di essi. Ma ogni cosa che
accade ha in sé tanti e così preponderanti elementi
del già accaduto che nulla è mai veramente nuovo.
Fitta a un immobile perno,
Gira mai sempre la ruota:
E scorri e
trottola e rota:
Ciò che fu sarà in eterno.223
Bisogna leggere di corsa, come un romanzo, una storia, quale ad
esempio la Storia d'Europa di H.A.L. Fisher.224 Allora si vedono i
venticinque secoli di questo interessante tra tutti i romanzi che
è il romanzo dell'Europa svolgersi come in una pellicola
cinematografica. Ed è come un eterno succedersi di partite
a scacchi, col sopravvento, regolarmente alternativo, ora da un
lato, ora dall'altro, senza conclusione; è come un pendolo
che eternamente oscilla; come un caleidoscopio che continua a
girare e in cui i pezzetti di vetro continuano a presentare sempre
simili e instabili raggruppamenti; come banchi di ghiaccio o
d'argilla su acque mosse, che si urtano, s'infrangono, incorporano
i frammenti, si spezzano ancora, si fondono, si dissolvono, e
così via in vicenda senza fine.225 La descrizione che il
Fisher dà della storia greca: «A volta a volta Atene,
Sparta, Tebe, Focide lottarono per conquistare la supremazia e
ciascuno di questi stati, non appena giunto al vertice della
fortuna, fu ricacciato a terra dagli invidiosi rivali»,226
è la descrizione dell'eterna storia di tutta Europa, anzi
di tutto il mondo. Si capisce che, pensando all'enorme somma di
sofferenza e di morti che tale giuoco inconclusivo cagiona, sia
stato detto che la beatitudine dei popoli starebbe nel non avere
storia; e si capisce che il Fisher riassuma il suo pensiero e la
sua esperienza di storico in un concetto pienamente analogo a
quello in cui li riassumeva lo storico antico, Erodoto:
«Uomini più saggi di me han saputo discernere nella
storia un disegno, un ritmo, un piano prestabilito. Tale armonia
mi sfugge. Io riesco a vedere soltanto le circostanze che si
succedono l'una all'altra, come onda dopo onda, ed a cogliervi un
solo elemento importante, che non può essere generalizzato
perché unico, un solo criterio sicuro per lo storico: e
cioè la necessità di riconoscere la forza del
contingente e dell'imprevisto nello svolgimento del destino degli
uomini».227
In verità, che il processo storico, essendo un processo
eterno, debba necessariamente ripetere se stesso; che il divenire
nella storia (se appena la si guarda a quella giusta distanza che
permette di considerare una cosa nel suo complesso, senza che i
particolari ci soffochino, senza che le piante ci impediscano di
vedere il bosco), che nella storia il divenire sia stasi; che in
essa si constati soltanto «orbem rerum in se
remeantium», come dice Seneca, là dove anche adombra
il concetto buddhistico della rinascita («mors, quam
pertimescimus ac recusamus, intermittit vitam, non eripit; veniet
iterum, qui nos in lucem reponat dies, quem multi recusarent, nisi
oblitos reduceret»);228 che avesse ragione Marco Aurelio a
ripetere ad ogni momento che le cose vanno sempre ad un modo, e,
particolarmente (scolpendo esattamente l'essenza della storia) che
sono τοιαῦϑ' ἕτερα ... νέα ὅμοια ... τοιαῦτα ... δι' ἑτέρον, altre
di tali, nuove cose identiche, altretali, altre che sono tali,
altrettali, o le stesse operate da altri;229 lo si ricava proprio
dalla concezione più permeata dal senso della
«fluidità» storica che l'epoca attuale ci
presenti, quella dello Spengler. Sotto le mani dello Spengler la
«fluidità» della storia diventa più che
mai duttile, il consistere della storia unicamente in questa
«fluidità», in questo scorrere, ci si fa
più che mai percepibile, avvertiamo più nettamente
che appunto sentire il mondo umano come questo scorrere in cui
nessun momento mai sta, dura e vale permanentemente, averlo
davanti come il continuo defluire della sabbia da una clepsidra,
questo significa possedere il senso del tempo come
«direzione», il senso storico, così diverso
(secondo lui) dal senso che arrechiamo nella percezione delle cose
spaziali e naturali. Però quel che così fluisce e
scorre, stabilisce lo Spengler, con piena verità – e
rinnovando in forma moderna con tale sua concezione quella dei
«ricorsi» di Vico – non è una totalità
di vita umana, ma singoli e vari organismi distinti di fasi di
civiltà. Ciascuno di questi è diverso dall'altro,
separato dall'altro, nulla effettivamente trapassa e rivive
dall'uno all'altro, ognuno è nuovo e indipendente rispetto
all'altro, come lo sono uno rispetto all'altro vari organismi
individuali, animali o vegetali. Ma, non ostante tale indipendenza
e novità, quegli organismi di fasi di civiltà in
incessante divenire, percorrono, esattamente come gli organismi
animali o vegetali, gli identici stadi, hanno lo stesso corso di
sviluppo, le stesse tappe, la stessa fine, «nacquero,
vissero e morirono, sempre con uno medesimo ordine»;230
cosicché lo Spengler, proprio come il nostro G. Ferrari,
può fare una vera e propria (per quanto diversa dalla
solita) teoria dei «periodi politici»231 e tracciare
le tabelle comparative delle varie epoche di vita spirituale,
culturale, politica, che parallelamente si riscontrano in tutti
gli organismi di fasi di civiltà esistite sulla terra, e
che ci permettono quindi di conoscere con certezza quale
sarà l'epoca prossima futura della fase nostra, di
prevedere cioè che la civiltà occidentale (come
quella egiziana nella XIX dinastia, quella romana dal 100 al 300
d.C., quella cinese dal 25 al 220 d.C.) entrerà verso il
2000, dopo aver traversato il periodo del «mondo come
bottino», in quello dell'irrigidimento e dell'impotenza
anche del meccanismo imperiale contro lo slancio conquistatore di
popoli giovani e del lento spingersi innanzi di stati di vita
primitivi – nel periodo della sua agonia e della sua morte.232
E un altro genialissimo pensatore, Karl Joël, che già
nella sua Geschichte der Antiken Philosophie233 si era attestato
così ricco del più delicato senso di
storicità, nell'ultima sua opera, in cui raccoglie tutto il
frutto del suo pensiero, della sua sterminata dottrina, e della
sua intima comprensione e penetrazione dello spirito delle epoche,
non sostiene forse (anch'egli riproducendo il concetto
fondamentale di G. Ferrari) che la storia umana procede
uniformemente per fasi, ciascuna d'un secolo, di Bindung, ossia
disciplinamento, rinserramento dei vincoli, subordinazione, e di
Lösung, ossia svincolamento, liberazione dello spirito,
individualismo?234
Proprio questo senso di storicità, adunque, ci riporta d'un
balzo alla concezione schopenhaueriana; proprio esso è la
conferma più sicura di questa; proprio esso cioè
è la stessa cosa della negazione d'ogni realtà
sostanziale del processo storico, d'ogni suo razionale
significato, d'ogni sua effettiva produttività
d'alcunché di veramente nuovo (ché il veramente
nuovo non potrebbe se non costituire una tappa progrediente verso
una meta, non mai un elemento in un processo eterno, cioè
necessariamente perdurante ad essere se stesso).
«L'umanità non ha alcun fine, alcuna idea, alcun
piano, così come non ha un fine la specie delle farfalle o
delle orchidee».235 Questo è il pensiero definitivo
che il senso di storicità, quando ha raggiunto, come con lo
Spengler, il suo pieno sviluppo, ci lascia. Il pensiero,
cioè, che come moriamo del tutto e cadiamo nel buio
assoluto dell'oblio noi individui, così muoiono del tutto,
senza nessuna riviviscenza nemmeno indiretta e di riflesso, tutti
quei vari individui in grande che sono le fasi successive di
civiltà umana; che di queste fasi, cui l'inesauribile
grembo della natura continua a gettare successivamente fuori,
nessuna è l'altra, precisamente come nessuna orchidea
è l'altra, ma ciascuna riproduce (come ogni orchidea) il
medesimo tipo e vive il medesimo ciclo di vita; che quindi
(secondo la chiara e profonda visuale del Guicciardini, confermata
così dalla «storicità» moderna)
«Tutto quello che è stato per el passato ed è
al presente, sarà ancora in futuro; ma si mutano e nomi e
le superficie delle cose in modo, che chi non ha buono occhio non
le ricognosce»,236 ovvero «tutto quello che è
stato per il passato, parte è al presente, parte
sarà in altri tempi, e ogni dì torna ad essere, ma
sotto varie coperte e varii colori, in modo che chi non ha
l'occhio molto buono, lo piglia per nuovo, o non lo ricognosce; ma
a chi ha la vista acuta, e che sa applicare e distinguere caso da
caso, e considerare quali siano le diversità sostanziali, e
quali quelle che importano manco, facilmente lo
ricognosce»;237 – che, nel loro insieme, tutte queste nostre
fasi di civiltà, produzioni naturali che tornano e
ritornano senza che vi presieda alcun fine, alcuna idea, alcun
piano, hanno quindi veramente il significato e l'importanza della
specie «orchidee», sono cioè proprio
l'esplicazione d'un processo che dovendo concepirsi senza meta e
scopo, non può essere se non, come nella concezione di
Schopenhauer, destituito di ragione; non può che
costringere a rispondere affermativamente al dubbio che si
affacciava anche alla mente del Lotze: quello che la storia umana
non sia altro che il ritorno delle stesse fatiche e degli stessi
dolori, degli stessi malintesi e delle stesse follie, mutanti solo
nella diversità dello scenario esterno; quello che
l'inesausta fecondità con cui la terra getta fuori da tempi
infiniti innumeri generazioni d'uomini, tutti del medesimo tipo
esterno ed interno, anzi, nella forma e nelle condizioni di vita,
simili agli animali, sia la prova che noi siamo apparenze
(Erscheinungen) effimere, che un'eterna forza originaria, nel suo
eccesso di produzioni e annientamenti, crea senza scopo e fa
successivamente sparire; quello che ogni civiltà, pur
sembrando fondata per l'eternità, sia sempre destinata ad
esser distrutta da casi impreveduti, ed ogni progresso da un lato
sia congiunto ad una perdita dall'altro, sicché, comparato
il successo con gli sforzi occorrenti, il guadagno con le perdite,
l'aumento della cultura con la crescente difficoltà della
partecipazione di essa, il grado di perfezione e di
felicità umane formi una grandezza pressoché
costante.238
Ripetizione ed assurdo. Assurdo perché ripetizione,
ripetizione perché eternità d'assurdo. Tale il
concetto della storia che il senso di storicità, nella sua
più moderna acutizzazione ed intensificazione ci ribadisce.
IX
CONCLUSIONE
Montaigne diceva che il dubbio è un soffice guanciale per
una testa ben fatta; o più esattamente: «Oh! que
c'est un doux et mol chevet, et sain, que l'ignorance et
l'incuriosité, à reposer une tête bien
faite!».239 Se non soffice è, pur nella sua asprezza,
un guanciale soddisfacente anche l'assurdo per un cuore
coraggioso. E giustamente Nietzsche trovava essere il valore d'una
mente misurato dal suo coraggio di non prendere la fuga dinanzi
alla realtà (come fa la vigliaccheria idealista), dalla
quantità di verità che essa sopporta e può
osare, dalla forza di accordare alle cose il loro carattere
terribile e dubbioso e di non aver bisogno di soluzioni;
cioè dalla quantità di assurdo a cui essa può
resistere, dalla sua energia di reggere ad occhi aperti e senza
veli in un mondo di assurdo.240 Aggiungo che proprio questa
capacità di reggere in un mondo d'assurdo, cioè di
guardare in faccia l'assurdo del mondo senza aver bisogno di
nasconderselo con provvidi palliativi filosofici e religiosi messi
insieme per raggiungere ad ogni costo quel fine dell'occultamento
d'una cosa, che, perché fa paura, non si ha il coraggio di
fissare nella sua nudità, appunto questa capacità,
dico, è tutt'uno con l'elemento più profondo dello
spirito religioso.
Non già l'elemento effeminato, sdilinquito, rugiadoso della
religione (che è l'elemento ottimista, quello che
costruisce la felicità ultraterrena), ma l'elemento
maschio, austero, severo di essa, quello che ne forma la vera
essenza, quello in ogni modo che è la sua scaturigine, la
sua ragione di vita, è un'affermazione di pessimismo e di
irrazionalismo, è una constatazione in cui queste due
correnti (come sempre e naturalmente avviene) si fondono insieme.
L'uomo è per natura cattivo; egli è inquinato dal
«male radicale» consistente nell'aver rovesciato il
rapporto tra legge morale ed impulso sensibile e subordinato
quella a questo, anziché viceversa, nel concepire la
moralità solo come un mezzo per realizzare la
felicità e nell'attribuirle valore solo in quanto
conducente a questo fine; è insomma, in preda ad un
organico stravolgimento psichico; ed anche le formazioni sociali
è impossibile mettere in consonanza con la morale,
quantunque non sia nemmeno possibile indicarne altre che,
compatibili con la natura umana, siano migliori delle esistenti –
tali i concetti che Kant pone a base della sua concezione
religiosa.241 In generale: ciò che nel suo profondo motivo
la creazione d'un mondo di là vuol dire, ciò che, a
ogni modo, c'è di solido e sicuro nell'opera di tale
formazione, è il riconoscimento: questo mondo, il mondo
presente, è assurdo, è irreparabilmente in preda
all'assurdo ed al male, tanto irreparabilmente che per uscire
dall'assurdo e dal male, non è già possibile pensar
di correggere tale mondo presente, ma bisogna immaginarne uno
radicalmente altro da esso, indipendente da esso, che sia la sua
recisa negazione. Vera, anzi unica, portata, solo significato
consistente, motore essenziale, della proiezione d'un mondo
ultraterreno che la religione ci prospetta dinanzi, è la
constatazione che questo è assurdo, tristo, senza speranza
e salvezza condannevole e condannato; è il marchio di
assurdo e di male che con ciò essa imprime indelebilmente
sulla fronte di questo.242 Ciò, ancora che nel suo profondo
motivo significa l'idea religiosa dello stato di dannazione, di
purgazione e di fusione trasfiguratrice con Dio delle nostre anime
nel mondo di là, è che la mente umana è
essenzialmente stolta, che in essa non inerisce la ragione, e che
per avere una mente razionale, occorre pensare una mente altra
dall'umana, la distruzione (dannazione) della maggior parte delle
menti umane, la piena trasmutazione delle altre. La constatazione
che l'assurdo regna nella realtà e nelle menti, questo
è dunque il fondamento della religione, il pensiero da cui
essa scaturisce, ciò che dà ragione del suo
formarsi. Ed è, io ritengo, il solo elemento perennemente
vivo della religione. Ma tale elemento è l'identica cosa
con la tesi sostenuta in queste pagine.
È solo se si ritiene che l'elemento veramente vitale dello
spirito religioso consista in siffatta implacabilmente chiara
visione dell'assurdo che avvolge la realtà, nell'essere non
ciechi e insensibili ad esso, ma vivamente suscettibili di
avvertirlo, e quindi nel coraggio di reggere al suo aspetto, che
la religione propriamente detta rappresenta un passo spirituale
più in su in confronto dello stoicismo e dello spinozismo,
qualche cosa di più eroico di essi: ché altrimenti,
se elemento centrale della religione fosse l'appagamento
paradisiaco di certi nostri desideri o bisogni, stoicismo e
spinozismo varrebbero molto di più. – Per gli Stoici e per
Spinoza, l'assurdo se mai non poteva essere che nella
realtà esteriore, quantunque essi la etichettassero, in
maniera quasi a dire passiva ed estrinseca (esattamente come,
secondo si vide, ciò accade con Hegel), di ragione. Per gli
Stoici e per Spinoza l'assurdo era inoltre certamente in
moltissime menti, nelle menti (senza dubbio prevalenti per numero)
degli «stolti». Ma contro l'effettiva
arazionalità (da essi però titolata di
«volontà di Zeus», «ragione
divina», perfezione assoluta dell'esistenza in quanto ad
Deum relata) della natura, e contro l'irrazionalità della
maggior parte delle menti, v'è, nello stoicismo e nello
spinozismo, un terreno sicuro di razionalità su cui posare
il piede. Ed è la mente del «saggio». Essa,
sì, inerisce alla ragione. E da questa sede certa ed
incrollabile di ragione su cui posa, essa si volge sicura, come
una roccia, a guardare e a giudicare i marosi di
irrazionalità che le spumeggiano ai fianchi, e l'assalgono,
sicura, e, nella sua sicurezza di sé, serena, anche quando
tali marosi riescano ad abbatterla. Ora il passo più in
là compiuto dalla religione propriamente detta è
stato precisamente quello di distruggere il «saggio» e
la sua superba sicurezza, di far penetrare anche in esso la
«stoltezza», di stabilire che il «saggio»
è tutt'al più solo velleità di esserlo, e che
non c'è mente umana, non c'è mente di
«saggio» stoico, che contro l'invasione della
stoltezza sia corazzata. L'impeccabile «saggio»
stoico, in cui la ragione ha inamovibilmente sede, diventa per la
religione il «giusto» che pecca settantasette volte al
giorno. Con ciò non c'è più vetta che sia
salva dall'assurdo. Con ciò, per opera di quel che la
visuale religiosa propriamente detta aggiunge allo stoicismo e
allo spinozismo – cioè il senso della debolezza,
fragilità, peccabilità essenzialmente propria della
natura umana – l'irrazionalità viene oramai a dominare
senza barriere così nella realtà esteriore, come
nell'interno della mente. Ed è in ciò appunto che la
visuale religiosa coincide interamente con quella qui illustrata.
È, del resto, proprio soltanto dalla sensazione di vivere
lanciati e abbandonati senza paracadute nello spazio vuoto d'un
mondo d'assurdo esterno ed interno e di cieco caso, che sorge
intimo e veramente profondo e potente quel senso tragico della
vita, quel brivido di sacro terrore davanti ad una realtà
(Dio) da cui veramente in tal guisa ogni lontana traccia di
antropomorfismo è sradicata, e che, appunto perché
in noi e fuori di noi ci si palesa assurda, è per noi
l'assoluto incomprensibile, il vero e proprio mistero – quel senso
tragico della vita, il quale, inaccessibile agli ottimisti e
razionalisti che non vedono, non sentono, non vivono il dramma e
calano su di esso volontariamente il sipario, forma oramai il solo
residuo possibile e l'espressione più alta delle antiche
concezioni religiose.
A me piace vedere, quando sollevo gli occhi dal mio tavolo di
lavoro, accanto alla stampa di Salvator Rosa, in cui, sotto alberi
desolati, contorti e tronchi, presso antiche colonne infrante e
marmi cadenti e tra ossami d'animali e d'uomini, «Democritus
omnium derisor in omnium fine defigitur», la riproduzione
del rame di Dürer, in cui il maturo cavaliere procede,
severo, rassegnato, impassibile, tra la morte e il demonio.