www.treccani.it
Enciclopedia online
Complesso di credenze, sentimenti, riti che legano un individuo o
un gruppo umano con ciò che esso ritiene sacro, in
particolare con la divinità, oppure il complesso dei dogmi,
dei precetti, dei riti che costituiscono un dato culto religioso
(v. fig.).
1. Il concetto di religione
Il concetto di r. non è definibile astrattamente,
cioè al di fuori di una posizione culturale storicamente
determinata e di un riferimento a determinate formazioni storiche.
Il termine viene dal lat. religio, parola di discussa etimologia,
con cui gli antichi Romani indicavano un tipo di atteggiamento di
fronte a determinate cose (per es., tombe o genitori); malgrado i
caratteri specifici del concetto romano di religio (religiosum, in
latino, è distinto da sacrum), con il cristianesimo il
termine si è esteso a tutto quanto riguardava il rapporto
dell’uomo con Dio. Da questo concetto d’origine cristiana della r.
si è svolto quello della r. in generale.
L’origine storica del concetto ha per lungo tempo impedito
un’adeguata comprensione di quelle formazioni culturali che
comunemente si chiamano r. e che sono di origini particolari e
diverse: non è necessario infatti che una r. implichi un
concetto di Dio, abbia articoli di fede, comprenda azioni di
culto, né forme di carattere morale; come massimo comune
denominatore di ogni complesso chiamato r. si può ritenere
il rapporto di un gruppo umano con ciò che esso ritiene
‘sacro’, tenendo tuttavia presente che anche quest’ultimo concetto
è indefinibile e storicamente condizionato.
Nella cultura europea fra tardo Rinascimento e Illuminismo si
maturò il concetto di r. naturale , intesa come la r. i cui
articoli, semplici e universalmente accessibili, sono pienamente
conformi alla ragione. Tale r. finisce per articolarsi sul
riconoscimento dell’esistenza di Dio e dell’immortalità
dell’anima e, soprattutto, in un complesso elementare di leggi
morali. Accezione diversa dà all’espressione r. naturale la
tradizione teologica, che distingue fra r. naturale e r. rivelata
: la prima riferita alle capacità naturali dell’uomo, la
seconda fondata invece sulla rivelazione divina che fa conoscere
verità e mezzi spirituali che trascendono le
possibilità naturali dell’uomo e gli permettono di
realizzare un rapporto nuovo con il Dio che si rivela e si dona.
2. Storia delle religioni
La storia delle r. è lo studio delle r. come prodotti
storici; studio indipendente, cioè, da ogni riferimento
trascendentale rispetto alla storia, come sarebbero la questione
della verità obiettiva o del valore soteriologico che il
soggetto religioso può attribuire alla propria r. e che
rientrano nella competenza dello studio teologico delle singole
r., mentre per la storia delle r. anche l’atteggiamento dei
soggetti religiosi costituisce materia di studio dal punto di
vista storico.
La storia delle r. come disciplina scientifica non ha, nella
pratica, bisogno di una definizione precisa del concetto della r.:
sia perché essa parte preferibilmente dalla più
larga accezione possibile del termine, per non escludere a priori
alcun fenomeno che possa eventualmente interessarle, sia
perché, in effetti, la r. si presenta inscindibilmente
intessuta nella totalità degli aspetti della civiltà
umana. Istituzioni politiche e sociali (come, per es., la
regalità o la famiglia), economiche (caccia, agricoltura,
mestieri vari), arti, tecniche, costumi, hanno immancabilmente
addentellati storici, quando non addirittura le radici stesse,
nella r.; anche la visione della natura, dell’ambiente, della
storia, presso i singoli popoli, è raramente priva di nessi
con idee religiose.
2.1 Antichità classica
In una visione d’insieme, limitandosi all’orizzonte culturale
europeo, si può dire che gli inizi degli studi
storico-religiosi risalgono alla civiltà greca arcaica. La
r. diventa oggetto di riflessione per chi non la vive più
spontaneamente: così i primi pensatori greci trovano
inconciliabili miti e culti con i criteri razionali e morali del
pensiero. Contemporaneamente i primi storiografi viaggiatori
(Ecateo di Mileto, Erodoto) vengono a conoscere le r. di altri
popoli e intuiscono la relatività delle forme religiose.
Con Aristotele e la sua scuola si hanno i primi studi sistematici
sulle varie religioni. La critica filosofica delle tradizioni
religiose e il confronto di r. differenti pone il problema
dell’origine delle r., mentre la tendenza dei pensatori a
purificare l’idea della divinità da ogni elemento
antropomorfico suggerisce di considerare gli dei delle credenze
popolari come demoni minori, intermediari tra la vera
divinità e gli uomini.
2.2 Medioevo
Il primo cristianesimo accoglie volentieri queste teorie, in cui
trova armi utili per combattere il paganesimo: allegorie, o
personaggi umani o demoni, gli dei pagani non sono dei.
Poiché però il confronto delle diverse r. era ormai
entrato nella cultura generale, neanche agli apologeti cristiani
sfuggivano alcuni elementi comuni tra cristianesimo e r. pagane
(soprattutto i misteri). Le spiegazioni in proposito (sviluppate
poi nel Medioevo) erano sostanzialmente due: o i pagani antichi
avevano avuto sentore della dottrina rivelata a Mosè e
l’avevano malamente copiata (teoria del plagio) o Dio stesso, in
considerazione dell’ignoranza umana, avrebbe permesso agli antichi
Ebrei certe forme pagane del culto che dovevano essere superate
successivamente dalla vera religione (teoria della condiscendenza
divina). Queste restano le teorie sulle r. per tutto il Medioevo e
nel Rinascimento, anche perché la cultura classica resta il
fondamento di ogni istruzione. Il contatto con il mondo islamico
non produce, in Europa, alcun orientamento nuovo (interpretazione
allegorica del Corano).
2.3 Età moderna
Soltanto nel 18° sec. un ampliato orizzonte dell’osservazione
(dovuto anche ai missionari) e gli studi più approfonditi
portano qualche nuova posizione teorica e sollevano nuovi
problemi. A G.B. Vico spetta il primato d’intuire l’origine
puramente umana e spontanea della mitologia, in cui egli scopre il
prodotto di una fantasia primitiva impressionata dai grandiosi
fenomeni naturali; Vico è il primo a inserire la r.
nell’insieme della civiltà umana. Ma il suo pensiero resta
in ombra per lungo tempo, mentre con l’Illuminismo prevale una
posizione intellettualistica nell’interpretazione
storico-religiosa: la r. naturale, cioè corrispondente allo
spirito umano, e non più quella rivelata, starebbe alle
basi di tutte le r., le quali tuttavia ne presenterebbero
deformazioni dovute a interessi delle classi sacerdotali e alla
debolezza umana. Sempre al 18° sec. risalgono anche le origini
di quell’evoluzionismo che dovrà dominare il campo degli
studi storico-religiosi per un intero secolo: D. Hume è il
primo a sostenere che il politeismo, appunto in quanto più
primitivo del monoteismo, è più antico di
quest’ultimo, che rappresenterebbe un progresso della mente umana.
La prima metà del 19° sec. porta a una maturazione
progressiva degli studi contemporaneamente su due linee: anzitutto
su quella dei criteri scientifici della ricerca (formazione della
filologia, archeologia, storiografia moderne) e in secondo luogo
su quella dell’approfondimento teorico, sempre più libero
dalle eredità classiche e teologiche. Si arriva così
alla seconda metà del 19° sec., in cui si forma una
vera storia delle r. come disciplina scientifica autonoma. La
scoperta linguistica della famiglia di lingue indoeuropee e la
relativa teoria del ‘protoindoeuropeo’ stanno alle basi della
teoria storico-religiosa di un’originaria r. protoindoeuropea che,
in base alle r. dei singoli popoli di lingua indoeuropea, M.
Müller e E.B. Tylor tentano di ricostruire. La base teorica
di questo nuovo indirizzo è l’evoluzionismo, secondo cui
l’intero genere umano percorrerebbe una linea unica di progresso,
segnato da tappe successive, che si possono determinare
nell’animismo, nel politeismo e nel monoteismo.
2.4 Età contemporanea
Successivamente anche questo modo di vedere viene superato,
soprattutto per l’apporto degli etnologi, che, sul finire del
19° sec. e nei primi anni del 20° sec., al posto di uno
schema unico di evoluzione, introducono la distinzione di cicli
storico-culturali qualitativamente differenti (L. Frobenius, F.
Graebner, B. Ankermann, W. Schmidt). Con ciò i ‘primitivi’
cessano di essere considerati come un grado basso dell’evoluzione
lineare e l’interesse degli etnologi, anche dal punto di vista
della r., si rivolge piuttosto al carattere qualitativo della
mentalità dei popoli primitivi (H. Lévy-Bruhl).
In parte per opera di queste ricerche, in parte di altre (come
quelle di R. Otto, condotte particolarmente sulle r. indiane e sul
cristianesimo) la r. non è più considerata come una
‘scienza primitiva’, ma rivela il suo carattere di fenomeno
spirituale autonomo. La r. viene così interpretata in
funzione delle forme d’esistenza dei popoli, e soprattutto della
loro organizzazione sociale. Il punto di vista sociologico domina
le ricerche di eminenti studiosi francesi (É. Durkheim, M.
Mauss, H. Hubert, la cosiddetta scuola sociologica). L’indirizzo
funzionalistico trova la propria limitazione nell’esistenza di
fenomeni religiosi analoghi in civiltà per ogni altro
aspetto differenti: se questi, nell’indirizzo evoluzionistico,
formavano la base di una comparazione universale con il
presupposto di un progresso lineare e di ‘sopravvivenze’ inerti,
nella nuova visione essi costituiscono il fondamento di una nuova
fenomenologia religiosa (G. van der Leeuw, M. Eliade). L’apporto
degli studi psicologici moderni, specie della psicanalisi, ai
problemi storico-religiosi (S. Freud, C.G. Jung, O. Rank) si fa
notare del resto anche nell’interpretazione di singole r. storiche
(K. Kerényi). Infine l’universalità di singoli
fenomeni o strutture religiose, anche nei pochi casi in cui si
possa sostenerla, non esclude la storicità della loro
formazione.
Oggi, oltre ai problemi metodologici, gli studi storico-religiosi
si trovano di fronte alle difficoltà derivanti dalle
crescenti esigenze di specializzazione, dato che lo studio di una
r. richiede la precisa conoscenza filologica, archeologica,
storica e sociale delle civiltà di cui essa fa parte.
Enciclopedia del Novecento (1982)
Religione
Sommario: 1. Definizioni: la religione e il sacro. 2.
Manifestazione del sacro. 3. Lo spazio sacro. 4. Vivere in un
mondo sacro. 5. Il tempo sacro. 6. La struttura delle feste. 7. I
miti come modelli esemplari. 8. Natura e soprannatura: gli dei
celesti. 9. Il dio remoto. 10. La vita come esperienza religiosa.
11. Tra Yahweh e Baal. 12. Struttura e funzione dei riti. 13. Riti
di iniziazione. 14. Gli specialisti del sacro: sciamani e
stregoni. 15. Mistici e profeti. 16. Classificazione delle
religioni. 17. Atteggiamenti verso le religioni forestiere: a)
mondo antico; b) cristianesimo, giudaismo, islamismo. 18. Lo
studio scientifico delle religioni. □ Bibliografia.
1. Definizioni: la religione e il sacro
Il termine ‛religione' viene dal latino religio. Etimologicamente
religio è fatto derivare da relegere (‛osservare
coscienziosamente') o da religare (‛legare'). Per i Romani religio
stava a indicare una serie di precetti e di proibizioni e, in
senso lato, precisione, rigida osservanza, sollecitudine,
venerazione e timore degli dei; il termine non aveva alcuna
attinenza, per esempio, con le tradizioni mitiche né con le
feste degli dei. Pertanto religio non comprendeva molte importanti
dimensioni religiose: miti, feste, soteriologie ed escatologie,
ecc.
D'altro lato, il termine ‛religione' non comprende tutte le
esperienze del sacro. È motivo di meraviglia la sua
applicazione indiscriminata al Vicino Oriente antico,
all'ebraismo, al cristianesimo e all'islamismo o all'induismo, al
buddhismo e al confucianesimo, nonché ai cosiddetti popoli
primitivi. Ma forse è ormai troppo tardi per cercare
un'altra parola, e ‛religione' può ancora essere un termine
utile, sempre che si tenga bene a mente che non implica
necessariamente fede in Dio, o negli dei, o negli spiriti: si
riferisce solo all'esperienza del sacro, e pertanto è
strettamente connesso con le nozioni di ‛essere', ‛significato' e
‛verità'.
È invero difficile concepire come la mente umana possa
operare senza la convinzione che esiste qualcosa di assolutamente
‛reale' nel mondo, ed è impossibile immaginare il sorgere
della coscienza senza conferire un ‛significato' agli impulsi e
alle esperienze dell'uomo. La consapevolezza di un mondo reale e
pieno di significato è intimamente connessa con la scoperta
del sacro. Attraverso l'esperienza del sacro, la mente umana
afferrò la differenza tra ciò che si rivela reale,
potente, ricco e pieno di significato e ciò che non si
rivela tale, cioè il flusso caotico e precario delle cose,
la vicenda fortuita e senza senso del loro apparire e scomparire.
Il ‛sacro' è un elemento della struttura della coscienza,
non uno stadio evolutivo della sua storia. Un mondo che abbia un
senso - e l'uomo non può vivere nel ‛caos' - è il
risultato di un processo dialettico che potrebbe essere chiamato
la manifestazione del sacro. La vita umana assume un significato
attraverso l'imitazione di modelli paradigmatici rivelati da
esseri soprannaturali. L'imitazione di modelli oltreumani
costituisce una delle caratteristiche fondamentali della vita
religiosa, una caratteristica strutturale che prescinde dalla
cultura e dal momento storico. A partire dalle più arcaiche
esperienze religiose documentate sino al cristianesimo e
all'islamismo, l'imitazione di modelli, intesa come norma e guida
della vita dell'uomo, non è mai venuta meno, né del
resto avrebbe potuto essere altrimenti. Ai livelli culturali
più arcaici, già il ‛vivere come un essere umano'
è di per sé un atto religioso, poiché
l'alimentazione, la vita sessuale e il lavoro hanno un valore
sacrale. In altre parole, essere - o meglio divenire - un uomo
significa essere ‛religioso'.
Pertanto, sin dall'inizio la riflessione filosofica si è
trovata di fronte a un mondo di significati che era, geneticamente
e strutturalmente, ‛religioso', e questo è vero in linea
generale e non soltanto nei confronti dei ‛primitivi', degli
orientali e dei presocratici. La dialettica del sacro precedette e
servì da modello per tutte le forme dialettiche
successivamente scoperte dalla mente umana. L'esperienza del
sacro, rivelando l'‛essere', il ‛significato' e la ‛verità'
in un mondo ignoto, caotico e spaventoso, pose le basi per
l'elaborazione del pensiero sistematico. Le manifestazioni del
sacro espresse in simboli, miti, esseri soprannaturali, ecc.,
vengono afferrate come ‛strutture', e costituiscono un linguaggio
preriflessivo, che esige una ermeneutica particolare. Per
più di un quarto di secolo storici e studiosi di
fenomenologia della religione hanno cercato di elaborare
un'ermeneutica siffatta. Questo tipo di indagine non è
paragonabile alla ricerca erudita, sebbene anch'essa possa valersi
di documenti provenienti da culture da lungo tempo scomparse e da
popoli remoti. In virtù di un'ermeneutica adeguata, la
storia delle religioni cessa di essere un museo di fossili, rovine
e obsoleti mirabilia per diventare quel che avrebbe dovuto essere
sin dall'inizio per ogni ricercatore: un complesso di ‛messaggi'
che attendono di essere decifrati e compresi.
2. Manifestazione del sacro
L'uomo diviene consapevole del sacro perché il sacro si
manifesta come qualcosa di completamente diverso dal profano. Per
designare l'atto attraverso il quale il sacro si manifesta abbiamo
proposto il termine ‛ierofania'. È un termine appropriato,
perché non implica null'altro che quello che dice; non
esprime nulla di più di quanto implichi il suo significato
etimologico, e cioè che qualcosa di sacro si mostra a noi.
Si potrebbe dire che la storia delle religioni - da quelle
più primitive a quelle più progredite - è
costituita da un gran numero di ierofanie, da manifestazioni di
realtà sacre. Dalla ierofania più elementare - la
manifestazione del sacro in oggetti comuni, come una pietra o un
albero - alla ierofania suprema (per il cristianesimo,
l'incarnazione di Dio in Gesù Cristo) non vi è
soluzione di continuità. In ogni ierofania ci si trova di
fronte al medesimo atto misterioso: qualcosa che appartiene a un
ordine del tutto diverso, una realtà che non appartiene al
nostro mondo si manifesta in oggetti che sono parte integrante del
nostro mondo naturale ‛profano'.
L'uomo occidentale moderno prova un certo disagio di fronte a
molte manifestazioni del sacro. Trova difficile accettare il fatto
che, per molti esseri umani, il sacro può manifestarsi, ad
esempio, nella forma di una pietra o di un albero. Ma non si
tratta in verità di una venerazione della pietra in quanto
tale, di un culto dell'albero in quanto tale. L'albero sacro, la
pietra sacra non sono adorati come pietra o come albero; sono
venerati proprio perché ierofanie, perché in essi si
mostra qualcosa che non è più pietra o albero, ma il
sacro, l'‛interamente altro' (ganz andere), secondo l'espressione
di R. Otto.
Non si sottolineerà mai abbastanza il paradosso
rappresentato da ogni ierofania, anche la più elementare.
Manifestando il sacro, un qualsiasi oggetto diviene ‛qualcosa di
diverso' pur rimanendo quello che è, perché continua
a far parte dell'ambiente cosmico che lo circonda. Una pietra
‛sacra' resta una ‛pietra'; in apparenza (o, più
esattamente, sotto l'aspetto profano), nulla la distingue da tutte
le altre pietre. Ma per coloro cui la pietra si rivela sacra, la
sua realtà immediata si tramuta in una realtà
soprannaturale. In altre parole, per coloro che vivono
un'esperienza religiosa tutta la natura è in grado di
rivelarsi come sacralità cosmica. Il cosmo nella sua
globalità può diventare una ierofania.
L'uomo delle società arcaiche tende a vivere il più
possibile nel sacro o in prossimità di oggetti consacrati.
Questa tendenza è perfettamente comprensibile,
perché, per i primitivi come per l'uomo di tutte le
società premoderne, sacro equivale a ‛potenza' e, in ultima
analisi, a ‛realtà'. Il sacro è saturo di ‛essere'.
Potenza sacra significa realtà e al tempo stesso permanenza
ed efficacia. La polarità sacroprofano si esprime spesso
come opposizione tra reale e irreale o pseudoreale. (Naturalmente,
non ci si può aspettare di trovare nelle lingue di
società arcaiche questa terminologia filosofica:
reale-irreale, ecc.; ma si trova la ‛cosa'). È
perciò facile capire perché l'uomo religioso
desidera profondamente ‛essere', partecipare della
‛realtà', impregnarsi di potenza.
3. Lo spazio sacro
Per l'uomo delle società arcaiche, il solo fatto di vivere
nel mondo ha un valore religioso. Egli vive infatti in un mondo
che, in primo luogo, è stato creato da Esseri
soprannaturali e nel quale, in secondo luogo, il suo villaggio o
la sua casa sono un'immagine del cosmo. La cosmologia, cioè
le immagini e i simboli cosmologici che informano il mondo
abitato, è non soltanto un sistema di idee religiose, ma
anche un modello di comportamento religioso. Ma se vivere nel
mondo ha un valore religioso, questo è il risultato di
un'esperienza particolare: l'esperienza di ciò che
può essere chiamato ‛spazio sacro'.
In effetti, per l'uomo religioso lo spazio non è omogeneo;
ci sono parti dello spazio qualitativamente diverse da altre.
Esiste uno spazio sacro e quindi ‛forte', significativo; ed
esistono altri spazi che non sono sacri e sono pertanto privi di
struttura, forma o significato. E non è tutto. Per l'uomo
religioso questa non-omogeneità dello spazio si manifesta
nell'antitesi tra lo spazio che è sacro - l'unico spazio
‛reale' e ‛realmente' esistente - e tutti gli altri spazi,
cioè la distesa informe che lo circonda.
L'esperienza religiosa della non-omogeneità dello spazio
è un'esperienza primordiale, paragonabile alla creazione
del mondo. È infatti la rottura operata nello spazio che,
in quanto rivela il punto fermo, l'asse centrale per ogni futuro
orientamento, consente la costituzione del mondo. Quando il sacro
si manifesta in una ierofania, non si verifica solo una rottura
nell'omogeneità dello spazio; si verifica anche la
rivelazione di una realtà assoluta, contrapposta alla non
realtà della vasta distesa circostante. La manifestazione
del sacro crea ontologicamente il mondo. Nella distesa omogenea e
infinita, ove non è possibile alcun punto di riferimento e
ove non si può quindi stabilire alcun ‛orientamento', la
ierofania rivela un punto fermo assoluto, un ‛centro'.
È perciò chiaro fino a qual punto la scoperta -
cioè la rivelazione - di uno spazio sacro possieda un
valore esistenziale per l'uomo religioso; nulla può infatti
avere inizio, nulla può essere fatto senza un preventivo
orientamento - e orientamento implica l'acquisizione di un punto
fermo. È per questo motivo che l'uomo religioso ha sempre
cercato di stabilire la sua dimora al ‛centro del mondo'. Se
bisogna vivere nel mondo, occorre ‛fondarlo', e nessun mondo
può scaturire dal caos dell'omogeneità e
relatività dello spazio profano. La scoperta o proiezione
di un punto fermo - il centro - equivale alla creazione del mondo.
L'orientazione e la costruzione rituali dello spazio sacro hanno
un valore cosmogonico; il rituale con cui l'uomo costruisce lo
spazio sacro è efficace, infatti, nella misura in cui
riproduce l'opera degli dei, cioè la cosmogonia.
4. Vivere in un mondo sacro
La storia di Roma, come la storia di altre città o nazioni,
inizia con la fondazione della città; e la ‛fondazione'
è l'equivalente di una cosmogonia. Ogni nuova città
rappresenta un nuovo inizio del mondo. Tracciando il solco
circolare, il sulcus primigenius, si fonda la città. Gli
scrittori classici furono tentati di far derivare la parola urbs
da urvum, la curva di un vomere, o urvo, ‛aro in circolo'; taluni
la facevano derivare da orbis, ‛superficie circolare', il globo,
il mondo. Il centro di Roma era un foro, mundus, il punto di
comunicazione fra il mondo terrestre e gli Inferi. W. W. Roscher
ha interpretato il mundus come un omphalos, cioè l'ombelico
della terra; ogni città che possedeva un mundus si riteneva
collocata al centro del mondo, nell'ombelico dell'orbis terrarum.
Concezioni analoghe si ritrovano ovunque nel mondo neolitico e
postneolitico. La presa di possesso di un nuovo territorio era
legalmente convalidata mediante rituali particolari, equivalenti a
una cosmogonia. Le città, i templi, i palazzi reali sono
costruiti a somiglianza dell'universo. I riti di fondazione
rappresentano la ripetizione della cosmogonia. Gli Ebrei credevano
che Israele fosse collocato al centro del mondo e che la prima
pietra del tempio di Gerusalemme rappresentasse la creazione del
mondo. In molti casi ciò che vale per la città o per
il tempio si applica anche alla casa. Il simbolismo fondamentale
rivela l'esperienza esistenziale di ‛essere nel mondo', o
più esattamente di trovarsi in un mondo organizzato e pieno
di significato (e tale perché creato dagli Esseri
soprannaturali, e pertanto sacro).
L'interdipendenza tra il Cosmo e il Tempo cosmico (Tempo
‛circolare') era così acutamente sentita che in diverse
lingue degli Indiani dell'America settentrionale la parola che
significa ‛mondo' viene usata anche per indicare ‛anno'. Talune
tribù californiane dicono ‟il mondo è passato" o ‟la
terra è passata" per dire che un anno è trascorso.
Per i Fali del Camerun settentrionale la casa è l'immagine
dell'universo ma riflette al tempo stesso tutte le fasi del mito
cosmogonico. In altre parole, l'abitazione ha un ‛movimento' che
corrisponde alle diverse fasi del processo cosmogonico.
L'orientazione dei vari elementi (il palo centrale, le mura, il
tetto) nonché la posizione degli arnesi e degli arredi sono
collegate al movimento degli abitanti e alla loro collocazione
nella casa. I membri della famiglia, cioè, cambiano posto
all'interno dell'abitazione a seconda della stagione, dell'ora
della giornata e delle variazioni del loro status familiare e
sociale.
Per l'uomo delle società tradizionali, quindi, la casa non
è un ‛oggetto', uno ‛strumento per vivere'; è
l'universo che l'uomo si costruisce imitando la creazione
paradigmatica degli dei, la cosmogonia. Ogni costruzione e ogni
inaugurazione di un nuovo edificio sono nella stessa misura
equivalenti a un nuovo principio, a una nuova vita.
5. Il tempo sacro
Per l'uomo religioso anche il tempo, come lo spazio, non è
né omogeneo né continuo. Da un lato vi sono gli
intervalli del tempo sacro, il tempo delle feste (per la maggior
parte periodiche); dall'altro vi è il tempo profano,
l'ordinaria durata temporale in cui trovano posto gli atti privi
di significato religioso. Tra questi due tipi diversi di tempo vi
è naturalmente soluzione di continuità, ma, per
mezzo dei riti, l'uomo religioso può passare senza pericolo
dall'ordinaria durata temporale al tempo sacro.
Colpisce immediatamente una differenza essenziale tra le due
specie di tempo: per sua stessa natura il tempo sacro è
reversibile, nel senso che, a rigore, è un ‛tempo mitico
primordiale reso attuale'. Ogni festa religiosa, ogni periodo
liturgico rappresenta la riattualizzazione di un evento sacro
verificatosi in un passato mitico, ‛in origine'. La partecipazione
religiosa a una festa implica l'uscita dall'ordinaria durata
temporale e la reintegrazione del tempo mitico, riattualizzato
dalla festa medesima. Pertanto il tempo sacro è
recuperabile e ripetibile all'infinito. Da un certo punto di
vista, si potrebbe dire che tale tempo ‛non trascorre', non
costituisce cioè una durata irreversibile. È un
tempo ontologico, parmenideo; resta sempre eguale a se stesso, non
muta né si esaurisce. Al ritorno di ogni festa, i
partecipanti ritrovano il medesimo tempo sacro, quello stesso che
si era manifestato alla festa dell'anno precedente o alla festa di
un secolo prima; è il tempo che fu creato e santificato
dagli dei all'epoca delle loro gesta, di cui la festa è
appunto una riattualizzazione. In altre parole, i partecipanti
alla festa rivivono la prima apparizione del tempo sacro quale
ebbe luogo ab origine, in illo tempore; il tempo sacro nel quale
la festa si svolge, infatti, non esisteva prima delle gesta divine
che la festa commemora. Creando le varie realtà che oggi
costituiscono il mondo, gli dei fondarono anche il tempo sacro,
poiché il tempo della creazione fu evidentemente
santificato dalla presenza e dall'attività degli dei.
Pertanto l'uomo religioso vive in due specie di tempo, di cui la
più importante, il tempo sacro, appare sotto l'aspetto
paradossale di un tempo circolare, reversibile e recuperabile, una
sorta di eterno presente mitico che viene periodicamente
reintegrato grazie ai riti. Questo atteggiamento rispetto al tempo
è sufficiente a distinguere l'uomo religioso da quello non
religioso; il primo rifiuta di vivere unicamente in quello che, in
termini moderni, viene chiamato presente storico; egli cerca di
riguadagnare un tempo sacro che, da un certo punto di vista,
può essere assimilato all'eternità.
Per l'uomo religioso la durata temporale profana può venire
periodicamente arrestata; taluni rituali, infatti, hanno il potere
d'interromperla con periodi di tempo sacro che non è
storico (nel senso che non appartiene al presente storico).
Così come una chiesa costituisce una rottura nello spazio
profano di una città moderna, la celebrazione che si svolge
al suo interno segna una rottura nella durata temporale profana.
Quello che è presente nella chiesa non è più
il tempo storico odierno - il tempo che si vive nelle strade
circostanti - ma, ad esempio, il tempo in cui si verificò
l'esistenza storica di Gesù Cristo, il tempo santificato
dalla sua predicazione, dalla sua passione, morte e resurrezione.
Si deve però aggiungere che questo esempio non rivela
l'intera diversità tra tempo sacro e profano; il
cristianesimo ha mutato radicalmente l'esperienza e il concetto di
tempo liturgico, e ciò perché afferma la
storicità della persona di Cristo. La liturgia cristiana si
svolge in un ‛tempo storico santificato dall'incarnazione del
Figlio di Dio'. Il tempo sacro periodicamente riattualizzato nelle
religioni precristiane (specialmente nelle religioni arcaiche)
è un ‛tempo mitico', cioè un tempo primordiale, non
rintracciabile nel passato storico, un ‛tempo originario', nel
senso che il suo cominciamento fu improvviso e istantaneo e non fu
preceduto da un altro tempo, giacché nessun tempo poteva
esistere prima dell'apparizione della realtà narrata dal
mito.
6. La struttura delle feste
Il ‛tempo d'origine' di una realtà - cioè il tempo
inaugurato dalla prima apparizione di quella realtà - ha
valore e funzione paradigmatici. È questo il motivo per cui
l'uomo cerca di riattualizzarlo periodicamente attraverso
appropriati rituali. Ma la ‛prima manifestazione' di una
realtà equivale alla sua creazione ad opera di Esseri
divini o semidivini; pertanto, recuperare il ‛tempo d'origine'
implica la ripetizione rituale dell'atto creativo degli dei. La
riattualizzazione periodica degli atti creativi compiuti dagli
Esseri divini in illo tempore costituisce il calendario sacro, la
serie delle feste. Una festa si svolge sempre nel tempo
originario. È proprio la reintegrazione di questo tempo
originario e sacro che differenzia il comportamento dell'uomo
durante la festa dal suo comportamento prima o dopo. Infatti,
sebbene siano molti i casi nei quali i medesimi atti vengono
compiuti sia durante la festa sia durante i periodi non festivi,
l'uomo religioso crede di vivere in un ‛altro' tempo, di essere
riuscito a ritornare al mitico illud tempus.
Durante la cerimonia totemica annuale, l'intichiuma, gli Aranda
australiani ripetono il viaggio percorso dal divino Antenato del
dan nel tempo mitico (alcheringa, letteralmente il ‛tempo del
sogno'). Si fermano presso tutti gli innumerevoli luoghi ove
l'Antenato si fermò e ripetono i medesimi atti e gesti da
lui compiuti in illo tempore. Durante tutta la cerimonia
digiunano, non portano armi ed evitano qualsiasi contatto con le
loro donne e con membri di altri clan. Si immergono totalmente nel
‛tempo del sogno'.
Le feste celebrate annualmente in un'isola polinesiana, Tikopia,
riproducono le ‛opere degli dei', cioè gli atti con cui nel
tempo mitico gli dei formarono il mondo quale è oggi. Il
tempo festivo in cui gli indigeni di Tikopia vivono durante le
cerimonie è caratterizzato da taluni divieti (tabù):
il chiasso, i giochi, le danze cessano. Il passaggio dal tempo
profano a quello sacro viene indicato col taglio rituale di un
pezzo di legno in due. I numerosi atti rituali compiuti durante le
feste periodiche - e che, ancora una volta, sono solo la
reiterazione degli atti paradigmatici degli dei - ‛non sembrano'
differenziarsi da quelli compiuti nel corso delle attività
normali; citiamo tra gli altri la riparazione rituale di barche, i
riti relativi alla coltivazione di piante alimentari (igname,
taro, ecc.), la riparazione di santuari. Ma in realtà tutte
queste pratiche cerimoniali si differenziano da attività
analoghe compiute nel tempo ordinario anzitutto perché la
loro esecuzione riguarda ‛solo alcuni oggetti' (che in qualche
modo rappresentano gli archetipi delle rispettive classi), e anche
perché le cerimonie si svolgono in un'atmosfera satura di
sacralità. Gli indigeni cioè sono consci del fatto
che stanno riproducendo fin nei minimi particolari gli atti
paradigmatici degli dei quali furono compiuti in illo tempore.
Ciò equivale a dire che l'uomo religioso, periodicamente,
diventa contemporaneo degli dei nella misura in cui riattualizza
il tempo primordiale nel quale le opere divine furono compiute.
L'uomo religioso periodicamente rivive il tempo mitico e sacro,
ritorna al ‛tempo d'origine', al tempo che ‛non scorre'
perché non partecipa della durata temporale profana,
perché è un ‛presente eterno' recuperabile
all'infinito. Durante la festa si recupera la dimensione sacra
della vita, i partecipanti vivono la santità dell'esistenza
umana in quanto creazione divina. Apprendono di nuovo come gli dei
o gli antenati mitici crearono l'uomo e gli insegnarono le varie
forme di comportamento sociale e di attività pratica.
Se l'uomo religioso sente la necessità di riprodurre
all'infinito i medesimi atti e gesti paradigmatici, è
perché desidera e si sforza di vivere vicino ai suoi dei.
‛In origine', gli esseri divini o semidivini operavano attivamente
sulla terra. La nostalgia delle origini equivale quindi a una
nostalgia ‛religiosa'. Il tempo mitico che si cerca periodicamente
di riattualizzare è un tempo santificato dalla presenza
divina; si potrebbe dire che il desiderio di vivere al cospetto
della ‛presenza divina' e in un ‛mondo perfetto' (perfetto
perché appena creato) corrisponde alla nostalgia del
‛paradiso terrestre'. Il desiderio di recuperare il mondo delle
origini - forte, vigoroso, puro - è al tempo stesso sete
del sacro e nostalgia dell'essere.
7. I miti come modelli esemplari
Il mito narra una storia sacra: racconta un evento verificatosi
nel tempo primordiale, il tempo favoloso delle ‛origini'. In altre
parole, il mito racconta come, attraverso le gesta di Esseri
soprannaturali, ebbe origine una realtà, si trattasse della
realtà nel suo insieme - il cosmo -, o solo di un frammento
della realtà: un'isola, una specie di pianta, un
particolare tipo di comportamento umano, un'istituzione. Il mito,
quindi, è sempre il racconto di una ‛creazione'; narra come
qualcosa fu prodotto, cominciò a ‛essere'. Il mito parla
solo di quel che ‛realmente' accadde, che si manifestò
interamente. I protagonisti dei miti sono Esseri soprannaturali,
noti anzitutto per ciò che fecero ‛in origine'. I miti
narrano dunque la loro attività creativa e rivelano la
sacralità (o semplicemente la ‛soprannaturalità')
delle loro opere. In breve, i miti descrivono le varie e a volte
drammatiche irruzioni del sacro nel mondo. Questa è la
ragione per cui, fra i primitivi, assai spesso i miti non possono
essere raccontati prescindendo dal tempo e dal luogo, ma ‛solo
durante un periodo di tempo sacro' (autunno o inverno, e solo di
notte).
Il mito è considerato un racconto sacro e pertanto una
‛storia vera', poiché tratta sempre di ‛realtà'. Il
mito cosmogonico è ‛vero' perché l'esistenza del
mondo è lì a provarlo; il mito dell'origine della
morte è egualmente vero perché la mortalità
dell'uomo lo prova, e così via.
Poiché il mito racconta le gesta di Esseri soprannaturali e
la manifestazione dei loro poteri sacri, esso diviene il modello
esemplare per tutte le attività umane significative.
‟Così facevano gli Antenati mitici, e noi facciamo allo
stesso modo", dicono i Kai della Nuova Guinea. La medesima
motivazione adducono i teologi e ritualisti indù, quando
affermano: ‟Dobbiamo fare quel che gli dei fecero ‛in origine'
(Śatapatha-brāhmaṇa, VII, 2, 1, 4) , ‟Così facevano gli
dei, così fanno gli uomini" (Taittirīya-brahmana, I, 5, 9,
4).
In generale si può dire che: a) il mito, qual è
vissuto dalle società arcaiche, rappresenta la storia delle
gesta degli Esseri soprannaturali; b) questa storia è
considerata assolutamente ‛vera' (perché concerne la
realtà) e sacra (poiché è opera di Esseri
soprannaturali); c) il mito si riferisce sempre a una ‛creazione',
racconta come qualcosa ebbe inizio, o come si stabilì un
modello di comportamento, un'istituzione, un modo di operare (ecco
perché i miti costituiscono i paradigmi per qualsiasi atto
umano significativo); d) conoscendo il mito si conosce ‛l'origine'
delle cose, che si possono perciò manipolare e controllare
a volontà; non si tratta beninteso di una conoscenza
‛esterna', ‛astratta', ma di una conoscenza acquisita ritualmente,
sia raccontando il mito secondo le dovute forme cerimoniali, sia
compiendo il rituale di cui il mito è la giustificazione;
e) in un modo o nell'altro, il mito ‛viene vissuto', nel senso che
si è pervasi dalla potenza sacra, esaltante degli eventi
ricordati o rappresentati.
‛Vivere' un mito implica quindi un'esperienza genuinamente
religiosa, diversa dalla comune esperienza della vita quotidiana.
La ‛religiosità' di quest'esperienza è dovuta al
fatto che si rivivono eventi favolosi, esaltanti, significativi,
si assiste di nuovo agli atti creativi degli Esseri
soprannaturali; si cessa di esistere nel mondo quotidiano e si
entra in un mondo trasfigurato, aurorale, impregnato di presenze
soprannaturali. Non si tratta di una commemorazione degli eventi
mitici ma di una loro ripetizione. I protagonisti del mito vengono
resi presenti, e si diventa quindi loro contemporanei. Ciò
implica che non si vive più nel tempo cronologico, ma nel
Tempo primordiale, il Tempo in cui l'evento ebbe luogo per la
prima volta, il Tempo prodigioso, sacro, quando qualcosa di
‛nuovo', ‛forte' e ‛significativo' fu manifestato. In breve, i
miti rivelano che il mondo, l'uomo e la vita hanno un'origine e
una storia soprannaturali, e che questa storia è
significativa, preziosa ed esemplare. (V. anche mito).
8. Natura e soprannatura: gli dei celesti
Per l'uomo religioso la natura non è mai solamente
‛naturale', è sempre pervasa di valore religioso. La cosa
si capisce facilmente, dato che il cosmo è creazione
divina; essendo opera diretta degli dei, il mondo è
impregnato di sacralità. Non è semplicemente una
sacralità ‛comunicata' dagli dei, come è il caso, ad
esempio, di un luogo o un oggetto consacrato dalla presenza
divina. Gli dei hanno fatto di più: hanno manifestato le
diverse modalità del sacro nella struttura stessa del mondo
e dei fenomeni cosmici.
Tale è l'articolazione del mondo che l'uomo religioso,
contemplandolo, scopre le molte modalità del sacro e quindi
dell'essere. Anzitutto, il mondo esiste e ha una forma; non
è caos ma cosmo: si presenta quindi come creazione, come
opera degli dei. L'opera divina mantiene sempre la sua
qualità di trasparenza, cioè rivela spontaneamente i
molti aspetti del sacro. Il cielo rivela direttamente,
‛naturalmente', la distanza infinita, la trascendenza della
deità. Anche la terra è trasparente: si presenta
come madre e nutrice universale. I ritmi cosmici manifestano
ordine, armonia, perennità, fecondità. Il cosmo nel
suo complesso è un organismo al tempo stesso reale, vivente
e sacro; rivela simultaneamente le modalità dell'essere e
della sacralità. Ontofania e ierofania coincidono.
Per l'uomo religioso il soprannaturale è indissolubilmente
connesso con il naturale, la natura esprime sempre qualcosa che la
trascende. Una pietra sacra viene venerata in quanto ‛sacra', non
in quanto pietra; è la sacralità manifestantesi
attraverso il modo di essere della pietra che ne rivela la vera
essenza. Ecco perché non si può parlare di naturismo
o di religione naturale nel senso attribuito a questi termini
nell'Ottocento: è infatti la ‛soprannatura' che l'uomo
religioso percepisce attraverso gli aspetti naturali del mondo.
Già la mera contemplazione della volta celeste suscita
un'esperienza religiosa. Il cielo si mostra infinito,
trascendente. È in sommo grado l'‛interamente altro'
rispetto alla pochezza dell'uomo e del suo ambiente. La
trascendenza si rivela attraverso la semplice coscienza di
un'altezza infinita. ‛L'altissimo' diviene spontaneamente un
attributo della divinità. Le regioni superiori,
inaccessibili all'uomo, gli spazi siderali acquistano il valore
del trascendente, della realtà assoluta,
dell'eternità. Lassù risiedono gli dei; lassù
pochi mortali privilegiati riescono ad accedere per mezzo dei riti
di ascesa celeste; lassù, secondo alcune religioni, salgono
le anime dei morti. ‛L'altissimo' è una dimensione
inaccessibile all'uomo come tale; appartiene a forze e a esseri
sovrumani. Colui che ascende al cielo salendo i gradini di un
santuario o la scala rituale, cessa di essere un uomo; in un modo
o nell'altro partecipa della condizione divina.
A tutto questo non si arriva attraverso un'operazione logica,
razionale. La categoria trascendente dell'alto,
dell'ultraterrestre, dell'infinito è rivelata all'uomo
intero: alla sua intelligenza e alla sua anima. Per l'uomo,
è una presa di coscienza globale; contemplando il cielo,
egli scopre simultaneamente l'incommensurabilità divina e
la propria situazione nel cosmo. È infatti attraverso il
suo specifico ‛modo di essere' che il cielo rivela trascendenza,
forza, eternità: ‛esiste assolutamente' poiché
è alto, infinito, eterno, potente.
Questo spiega il vero significato di quanto affermato prima, che
cioè gli dei hanno manifestato le diverse modalità
del sacro nella struttura stessa del mondo. In altre parole, il
cosmo - opera paradigmatica degli dei - è strutturato in
modo che un senso religioso della trascendenza divina viene
suscitato dall'esistenza stessa del cielo. E poiché il
cielo ‛esiste assolutamente', molti degli dei supremi dei popoli
primitivi vengono chiamati con nomi che designano l'altezza, la
volta celeste, i fenomeni meteorologici, o semplicemente con nomi
quali Padrone del Cielo o Abitatore del Cielo.
La divinità suprema dei Maori si chiama Iho; iho significa
‛elevato, altissimo'. Uwoluwu, il dio supremo dei negri Akposo,
significa ‛ciò che sta in alto; gli spazi altissimi'. Fra i
Selknam (Ona) della Terra del Fuoco, Iddio viene chiamato ‛colui
che dimora in Cielo' o ‛colui che è in Cielo'. Puluga,
l'essere supremo degli Andamanesi, dimora in cielo; il tuono
è la sua voce, il vento il suo respiro, la tempesta il
segno del suo furore: col fulmine punisce coloro che
trasgrediscono i suoi comandamenti. Il Dio Cielo degli Yoruba
della Costa degli Schiavi si chiama Olorun, letteralmente ‛padrone
del Cielo'. I Samoiedi venerano Num, un dio che dimora nel cielo
più alto e il cui nome significa ‛cielo'. Fra i Coriachi,
la divinità suprema viene chiamata ‛colui che è in
Alto', il ‛padrone dell'Alto', ‛colui che Esiste'. Gli Ainu lo
chiamano ‛il Capo Divino del Cielo', ‛il Dio Cielo', ‛il Divino
Creatore dei Mondi', ma anche Kamui, cioè ‛Cielo'. E
l'elenco potrebbe continuare.
Si può aggiungere che analoga situazione si riscontra nelle
religioni di popoli più civili, di popoli che hanno avuto
un importante ruolo nella storia. Il nome mongolo per il dio
supremo è Tengri, che significa ‛cielo'. Il cinese T'ien
significa al tempo stesso ‛cielo' e ‛dio del cielo'. Il termine
sumerico che vuol dire divinità, dingir, originariamente
designava un'epifania celeste e significava ‛chiaro', ‛brillante'.
Anche l'Anū babilonese esprime l'idea del cielo. Il dio supremo
indoeuropeo, Dieus, designa sia l'epifania celeste sia il sacro
(cfr. sanscrito div, brillare, giorno; dyaus, cielo, giorno;
Dyaus, dio indiano del cielo). Zeus e Juppiter conservano nei loro
nomi il ricordo della sacralità del cielo. Il celtico
Taranis (da taran, tuonare), il baltico Perkunas (fulmine), e lo
slavo Perun (cfr. il polacco pjorun, fulmine) sono particolarmente
rivelatori delle successive trasformazioni degli dei celesti in
dei della tempesta.
Qui non si tratta di naturismo. Il dio celeste non viene
identificato col cielo: egli è infatti il dio che, creando
l'intero cosmo, creò anche il cielo. Ecco perché
viene chiamato Creatore, Onnipotente, Signore, Capo, Padre, e con
altri nomi analoghi. Il dio celeste è una persona, non una
semplice epifania uranica, sebbene dimori nel cielo e si manifesti
nei fenomeni meteorologici: tuono, fulmine, tempesta, meteore,
ecc. Questo significa che certe strutture privilegiate del cosmo -
il cielo, l'atmosfera - costituiscono epifanie preferite
dell'Essere Supremo; egli rivela la sua presenza con ciò
che è specificamente e peculiarmente suo: la maestà
(majestas) dell'immensità celeste, il terrore (tremendum)
della tempesta.
9. Il dio remoto
La storia degli Esseri Supremi ‛celesti' è della massima
importanza per la comprensione della storia religiosa
dell'umanità nel suo complesso. Gli Esseri Supremi celesti
tendono a scomparire dalla pratica religiosa, dal culto; essi si
allontanano dagli uomini, si ritirano in cielo e divengono dei
remoti, inoperosi (dei otiosi). In breve, si potrebbe dire che
questi dei, dopo aver creato il cosmo, la vita e l'uomo, avvertono
una sorta di stanchezza, come se l'immensa impresa della creazione
avesse esaurito le loro risorse. Perciò si ritirano in
cielo, lasciando un figlio o un demiurgo sulla terra, col compito
di portare a termine o perfezionare la Creazione. Gradualmente il
loro posto viene preso da altre figure divine: gli antenati
mitici, le dee madri, gli dei fecondatori, ecc. Il dio della
tempesta conserva ancora una struttura celeste, ma non è
più un Essere Supremo creatore; è solo il
fecondatore della terra, a volte è solo un aiutante
(paredro) della madre terra. L'Essere Supremo celeste conserva il
suo posto preminente soltanto fra i popoli pastori, e assurge a
una posizione unica nelle religioni che tendono al monoteismo
(Ahura Mazdā), o sono dichiaratamente monoteistiche (Yahweh,
Allāh).
Il fenomeno del dio supremo come dio remoto è già
documentato ai livelli arcaici della cultura. Fra i Kulin
australiani, l'essere supremo Bunjil creò l'universo, gli
animali, gli alberi e l'uomo; ma dopo aver investito il figlio del
potere sulla terra e la figlia del potere sul cielo, Bunjil si
ritirò dal mondo. Egli dimora fra le nubi, come un signore,
brandendo un'immensa spada. Puluga, l'essere supremo degli
Andamanesi, si ritirò dopo aver creato il mondo e il primo
uomo. Il mistero della sua lontananza trova il suo corrispettivo
in un'assenza quasi assoluta di culto; non si fanno sacrifici,
né suppliche, né offerte votive. Il ricordo di
Puluga sopravvive solo in poche consuetudini religiose, per
esempio nel silenzio sacro dei cacciatori che ritornano al
villaggio dopo una caccia fortunata.
Il dio dei Selknam, ‛colui che dimora in Cielo', o ‛colui che
è in Cielo', è eterno, onnisciente, onnipotente, il
creatore; ma la Creazione fu portata a termine dagli antenati
mitici, creati anch'essi dal dio supremo prima del suo ritiro in
una regione al di sopra delle stelle. Essendosi isolato dagli
uomini, questo dio è indifferente alle cose del mondo. Non
ha né immagini né sacerdoti. Gli vengono rivolte
preghiere solo in caso di malattia: ‟Tu che sei in alto, non
prendere il mio bambino, è ancora troppo piccolo!". Di rado
gli vengono presentate offerte, salvo che durante le tempeste.
Analoga situazione si riscontra presso molte popolazioni africane;
il grande dio celeste, l'essere supremo, creatore onnipotente, ha
solo un ruolo secondario nella vita religiosa della maggior parte
delle tribù. È troppo lontano o troppo buono per
abbisognare di un culto effettivo, e viene invocato solo in casi
disperati. Per esempio, il dio degli Yoruba, Olorun (‛padrone del
Cielo'), dopo aver iniziato la creazione del mondo delegò a
una divinità inferiore, Obatala, il compito di portarla a
termine e di dirigerla, e si ritirò dalle cose umane e
terrene. Il dio supremo non ha né templi, né statue,
né sacerdoti; viene nondimeno invocato come ultima risorsa
in tempi di calamità.
Ndyambi, il dio supremo degli Herero, ritiratosi in cielo, ha
abbandonato l'umanità a divinità inferiori.
‟Perché dovremmo fargli dei sacrifici?" ha spiegato un
membro della tribù. ‟Non dobbiamo temerlo, perché
egli non ci fa alcun male, al pari degli spiriti dei nostri
defunti". L'essere supremo dei Tukumba è ‟troppo grande per
le faccende ordinarie degli uomini". La situazione si ripete con
Njankupon fra i negri di lingua tshi dell'Africa occidentale: non
ha culto e gli viene reso omaggio solo in circostanze particolari,
come carestie o epidemie o dopo una violenta tempesta; allora gli
uomini gli domandano in che modo lo hanno offeso. Dzingbe (il
Padre Universale), l'essere supremo degli Ewe, viene invocato solo
durante le siccità: ‟O Cielo cui dobbiamo grazie, grande
è la siccità; dacci la pioggia in modo che la terra
possa rinfrescarsi e i campi rifiorire!". La lontananza e la
passività dell'essere supremo sono mirabilmente espresse in
un detto dei Ghiriama dell'Africa orientale: ‟Mulugu (Dio)
è lassù, gli spiriti dei morti sono
quaggiù!". I Bantu dicono: ‟Iddio, dopo aver creato l'uomo,
non si cura più di lui". E i Negritos ripetono: ‟Iddio
è andato via, lontano da noi". Le popolazioni Fang delle
praterie dell'Africa equatoriale riassumono la loro concezione
religiosa in un canto: ‟Dio (Nzame) è lassù, l'uomo
quaggiù / Dio è Dio, l'uomo è uomo. / Ognuno
al suo posto, ognuno a casa sua".
È inutile moltiplicare gli esempi. Ovunque in queste
religioni primitive l'essere supremo celeste sembra aver perduto
‛attualità' religiosa; non ha posto nel culto, e nei miti
si distacca sempre più dall'uomo fino a divenire un deus
otiosus. Lo si ricorda e lo si supplica come ultima risorsa,
quando tutte le invocazioni ad altri dei e dee, agli antenati e ai
demoni, sono risultate vane. Come dicono gli Oraon: ‟Ora abbiamo
provato tutto, ma abbiamo ancora te che puoi aiutarci". E gli
sacrificano un gallo bianco supplicando: ‟Dio, tu sei il nostro
creatore, abbi pietà di noi".
10. La vita come esperienza religiosa
La lontananza del dio esprime di fatto il crescente interesse
dell'uomo per le proprie scoperte in campo religioso, culturale ed
economico. Concentrando l'attenzione sulle ierofanie della vita,
attraverso la scoperta della fertilità sacra della terra e
aprendosi a esperienze religiose di natura più concreta
(più carnale, perfino orgiastica), l'uomo primitivo si
distacca dal dio celeste e trascendente. La scoperta
dell'agricoltura trasforma in modo radicale non solo l'economia
dell'uomo primitivo, ma anche, e specialmente, la sua ‛economia
del sacro'. Altre forze religiose entrano in gioco: la
sessualità, la fertilità, la mitologia della donna e
della terra e così via. L'esperienza religiosa diviene
più concreta, cioè più intimamente connessa
con la vita. Le grandi dee madri e gli dei della tempesta o gli
spiriti della fertilità sono nettamente più dinamici
e più accessibili agli uomini di quanto non fosse il Dio
Creatore.
È doveroso aggiungere, tuttavia, che i mutamenti
rivoluzionari verificatisi nel settore economico e
nell'organizzazione sociale come risultato dell'evoluzione dalla
fase della raccolta e della caccia a quella della protoagricoltura
crearono bensì le condizioni per le nuove valorizzazioni
religiose del mondo, ma non le ‛causarono' nel senso
deterministico del termine. Non al fenomeno naturale della
vegetazione va fatta risalire la comparsa dei sistemi
mitico-religiosi della struttura agraria, ma piuttosto
all'esperienza religiosa suscitata dalla scoperta di una
solidarietà mistica fra l'uomo e la vita vegetale.
In verità, in base ai miti dei primi orticoltori delle
regioni tropicali, la pianta commestibile non è ‛data' in
natura; è il prodotto di un sacrificio primordiale. Nei
tempi mitici un essere semidivino viene sacrificato
affinché i tuberi e gli alberi da frutta possano
germogliare dal suo corpo. Il paleocoltivatore si assume la
responsabilità di garantire la vita delle piante
commestibili, si assume cioè il compito di sacrificare
vittime umane e animali domestici e di compiere riti sessuali e
orgiastici. La caccia alle teste e il sacrificio di vittime umane
per propiziare il raccolto trovano la loro motivazione in questa
nuova ideologia religiosa. Con lo sviluppo della coltivazione del
grano nel Vicino Oriente, numerosi riti e miti vennero elaborati
attorno all'idea del rinnovamento periodico della sacralità
cosmica, cioè della morte e resurrezione degli dei della
vegetazione.
Tutte queste nuove forme religiose, che apparvero dopo l'avvento
della paleoagricoltura e l'organizzazione delle società
sedentarie (villaggi, mercati, città), sono solitamente
caratterizzate da un'intensità drammatica dell'esperienza
religiosa, da un accresciuto antagonismo rituale fra i sessi
(associato all'attrazione reciproca) e dall'importanza ascritta
alla sessualità e specialmente alla bisessualità e
androginia, espressioni mitiche e rituali di ‛totalità' e
di perfezione divina. Tracce dell'androginia divina si incontrano
perfino nelle epoche paleolitiche e fra certi primitivi nella fase
della raccolta e della caccia, ma è essenzialmente nelle
culture agricole che queste idee formano un sistema religioso, che
integra inoltre il complesso mitico-rituale della ierogamia. Si
potrebbero rilevare, nelle culture agricole, altri esempi della
rivalorizzazione di tali forme arcaiche di comportamento
religioso. Uno dei più istruttivi è il culto dei
morti: attestato già nel paleolitico, esso acquista
considerevole importanza specialmente nelle culture megalitiche.
In breve, da allora lo sviluppo della vita religiosa è
stato dominato dalle conseguenze della scoperta della
solidarietà mistica fra l'uomo e la vita vegetale,
dall'importanza primaria attribuita alle epifanie della vita
(sangue, sessualità, fecondità) e dalla
valorizzazione religiosa della tensione, della sofferenza e del
dolore. Gli dei incontrano il favore popolare per il dramma che
hanno vissuto e non per ciò che sono o ciò che hanno
creato. Gli dei più popolari non sono i creatori ma coloro
la cui mitologia è ricca di episodi drammatici: hanno
vissuto innumerevoli avventure, hanno conosciuto la sofferenza e a
volte la morte e la resurrezione. Tutto ciò li rende
più ‛vivi' e più ‛umani'. Esseri soprannaturali di
questo tipo sono attestati già negli stadi più
primitivi della cultura. Gli antenati mitici, gli eroi culturali e
i leggendari fondatori delle società segrete vantano
un'esistenza più drammatica di quella degli dei supremi e
creatori. Ma è nelle società agricole che
l'interesse per questo tipo di divinità diventa generale e
dominante. Intorno agli dei sovrani o guerrieri, come anche
intorno agli dei della vegetazione e della morte o alle dee della
fertilità e del destino, fioriscono mitologie commoventi e
stravaganti; le loro fantastiche imprese, che coinvolgono forze
cosmiche e possenti magie, eccitano l'immaginazione degli uomini.
Questi miti rivelano quel che avvenne nel mondo dopo la Creazione;
esaltano l'azione, la forza e l'abilità raccontando non
solo battaglie e avventure, ma anche prodigi e discese
nell'oltretomba, incontri con la morte e la ricerca
dell'immortalità. È in questo clima religioso che
prende forma la figura di un essere divino che incontra una fine
tragica e che più tardi diventerà la figura chiave
dei culti misterici. Il processo di ‛umanizzazione' che gli dei
subiscono, con l'implicito e progressivo distacco dalle fonti
della sacralità cosmica, è quasi ovunque attestato
nel Vicino Oriente e nelle regioni mediterranee, ma giunge a
compimento nella Grecia classica. In taluni casi, il ritiro degli
dei dalla sacralità cosmica finisce con lo svuotarli di
valore religioso.
11. Tra Yahweh e Baal
Eppure, come si è visto, in casi di estrema disperazione,
quando tutto è stato tentato invano e specialmente in casi
di calamità che provengono dal cielo - siccità,
tempeste, epidemie - gli uomini tornano a implorare l'Essere
Supremo. Questo atteggiamento non lo si riscontra solo fra i
primitivi. Ogni volta che gli antichi Ebrei avevano un periodo di
pace e di prosperità abbandonavano Yahweh per i Baal e le
Astarti dei loro vicini. Solo le catastrofi storiche li
costringevano a rivolgersi a Yahweh. ‟Gridarono allora al Signore
e dissero: abbiamo peccato, perché abbiamo abbandonato il
Signore e reso culto ai Baal e alle Astarti; ora liberaci dalle
mani dei nostri nemici e ti serviremo" (I Samuele, 12, 10).
Gli Ebrei tornavano dunque a Yahweh dopo le catastrofi storiche e
sotto la minaccia di un annientamento determinato dalle vicende
storiche; i primitivi si ricordano dei loro Esseri Supremi in
occasione di catastrofi cosmiche. Ma il significato di questo
ritorno al dio celeste è il medesimo in entrambi i casi: in
una situazione estremamente critica, in cui è in gioco la
sopravvivenza stessa della comunità, le divinità che
in periodi normali assicurano e promuovono la vita vengono
abbandonate a favore del dio supremo. Apparentemente, è
questo un grande paradosso. Le divinità che per i primitivi
presero il posto degli dei celesti furono - come i Baal e le
Astarti per gli Ebrei - divinità della fertilità,
dell'opulenza, della pienezza della vita; in breve,
divinità che esaltavano e arricchivano la vita, sia cosmica
- vegetazione, agricoltura, bestiame - sia umana. Queste
divinità sembravano forti, potenti; la loro
attualità religiosa era spiegata proprio con la loro forza,
con le loro illimitate risorse vitali, con la loro
fertilità.
E tuttavia coloro che le veneravano - sia i primitivi sia gli
Ebrei - sentivano che tutte queste grandi dee e tutti questi dei
della vegetazione erano incapaci di ‛salvarli', cioè di
garantire la loro esistenza nei momenti veramente critici. Questi
dei e dee avevano unicamente il potere di ‛riprodurre' e
‛incrementare' la vita e solo in periodi normali. In breve, erano
divinità che governavano mirabilmente i ritmi cosmici ma
che si dimostravano incapaci di ‛salvare' il cosmo o
l'umanità nei momenti di crisi (crisi storiche per gli
Ebrei).
Le varie divinità che avevano preso il posto degli Esseri
Supremi erano titolari dei poteri più ‛concreti' e
appariscenti, i poteri della vita. Ma proprio per questo si erano
‛specializzate' nella procreazione e avevano perduto i poteri
più puri, più nobili, più spirituali degli
Dei Creatori. Scoperta la sacralità della vita, l'uomo si
lasciò trascinare sempre più dalla sua stessa
scoperta; cedette alle ierofanie vitali e rifuggì dalla
sacralità che trascendeva i suoi bisogni immediati e
quotidiani.
Si deve aggiungere che la transitoria riattualizzazione religiosa
dell'Essere Supremo in periodi di crisi esistenziale non è
un fenomeno frequente, né potrebbe esserlo; l'abbiamo
nondimeno ricordato perché è associato a un tipo
generale di comportamento umano, riscontrabile perfino fra i
popoli monoteisti della nostra epoca. Per un cristiano del XX
secolo altri ‛idoli' prendono il posto dei Baal e delle Astarti,
come l'interesse appassionato ed esclusivo per la sfera economica
o per i problemi sociali, politici e culturali. Salvo rare
eccezioni, il cristiano si rivolge a Dio in modo sincero, totale
ed esclusivo solo quando è imminente qualche catastrofe.
12. Struttura e funzione dei riti
Per molti popoli primitivi, così come per le società
urbane del Vicino Oriente antico, i riti più importanti
venivano celebrati durante le feste del Capodanno. Tutti questi
riti hanno un significato cosmogonico: simbolicamente, ripetono la
Creazione del Mondo. In altre parole, ogni Capodanno determinava
un rinnovamento del Mondo e la rinascita della Vita. Il caso
più famoso è quello del Capodanno mesopotamico
(akîtu). Una serie di riti faceva rivivere la battaglia fra
Marduk e Tiamat (il Dragone simboleggiava l'oceano primordiale
‛caotico'), la vittoria del dio e le sue fatiche cosmogoniche; si
recitava nel tempio il Poema della Creazione (Enūma elīsh). Come
dice H. Frankfort, ‟qualcosa di essenziale accomunava ogni
Capodanno al primo giorno in cui il mondo fu creato ed ebbe inizio
il ciclo delle stagioni". Per quel che concerne il rituale del
Capodanno ebraico, è stato dimostrato che una delle idee
centrali era la rappresentazione della vittoria di Yahweh sui suoi
nemici - sulle forze del caos come sui nemici tradizionali di
Israele - e della sua investitura come re del mondo. Ovviamente,
la ripetizione simbolica della cosmogonia nel Capodanno
mesopotamico e in quello ebraico non ha lo stesso significato. Tra
gli Ebrei, il rituale arcaico del periodico rinnovamento del mondo
fu progressivamente storicizzato pur conservando qualcosa del suo
significato originario. A. J. Wensinck ha dimostrato che il
rituale di Capodanno, che simboleggiava il passaggio dal caos al
cosmo, fu riferito ad avvenimenti storici quali l'esodo e il
passaggio del Mar Rosso, la conquista di Canaan, la
cattività babilonese e il ritorno dall'esilio.
Per l'uomo religioso le principali funzioni fisiologiche possono
diventare sacramenti. Mangiare è un rituale, e il cibo
viene variamente valorizzato dalle diverse religioni e culture.
Gli alimenti vengono considerati sacri, o come doni della
divinità, o come offerta votiva agli dei del corpo (per es.
in India). Anche la vita sessuale viene ritualizzata, e quindi
equiparata a quella divina (ierogamia Cielo-Terra).
Con il matrimonio si verifica un passaggio da un gruppo
socio-religioso a un altro. Il giovane sposo lascia il gruppo
degli scapoli ed entra a far parte, da quel momento in poi, del
gruppo dei capifamiglia. Ogni matrimonio implica una tensione e un
pericolo e perciò provoca una crisi; ecco perché
richiede un rito di passaggio.
I ‛riti di passaggio' hanno un ruolo notevole nella vita dell'uomo
religioso. Senza dubbio, il più importante rito di
passaggio è rappresentato dall'iniziazione -
nell'età puberale -, dal passaggio cioè da un gruppo
di età a un altro (dall'infanzia o dall'adolescenza
all'età adulta). Ma vi sono riti di passaggio anche in
occasione della nascita, del matrimonio, della morte: può
infatti dirsi che ognuno di questi eventi comporta sempre
un'iniziazione, dato che implica un mutamento radicale dello
status ontologico e sociale. Al momento della nascita il bambino
non ha che un'esistenza fisica, non è ancora riconosciuto
dalla famiglia, né accettato dalla comunità. Sono i
riti celebrati immediatamente dopo la nascita che danno al nuovo
nato lo status di effettiva ‛persona vivente' ed è solo in
grazia loro che egli viene ammesso nella comunità dei
viventi.
Per quel che concerne la morte, i riti sono ancora più
complessi: non si tratta infatti solo di un ‛fenomeno naturale'
(la vita - o l'anima - che lascia il corpo) ma anche di un
mutamento nello status sia ontologico che sociale. Il defunto deve
passare attraverso determinate prove che riguardano il suo destino
nell'al di là, ma deve anche essere riconosciuto dalla
comunità dei morti e da loro accettato. Per taluni popoli
solo la sepoltura rituale conferma la morte; colui che non viene
sepolto secondo la tradizione non è morto. Altrove, la
morte non è ritenuta valida fino a quando la cerimonia
funebre non sia stata celebrata o fino a quando l'anima della
persona morta non sia stata ritualmente condotta alla nuova dimora
nell'altro mondo e ivi accettata dalla comunità dei morti.
13. Riti di iniziazione
Già negli stadi arcaici della cultura l'iniziazione ha un
ruolo preminente nella formazione religiosa dell'uomo; nella sua
essenza, consiste in un totale mutamento dello status ontologico
dell'iniziando. Per la comprensione dell'uomo religioso, è
della massima importanza afferrare il significato di questo rito;
esso mostra che l'uomo delle società primitive non si
considera ‛completo' così come si sperimenta al livello
naturale dell'esistenza. Per diventare un uomo in senso proprio,
deve morire in questa prima vita (naturale) e rinascere a una vita
più alta, che è al tempo stesso religiosa e
culturale.
In altre parole, l'ideale di uomo che il primitivo si prefigge
viene situato su un piano oltreumano. Questo significa che: a) non
si diventa un uomo completo finché non si supera, e in un
certo senso non si abolisce, la propria condizione umana
‛naturale': l'iniziazione è infatti comparabile a
un'esperienza paradossale, soprannaturale, di morte e resurrezione
(o seconda nascita); b) i riti di iniziazione, che comportano una
serie di prove e la morte e resurrezione simboliche
dell'iniziando, sono stati istituiti dagli dei, dagli eroi
culturali o dagli antenati mitici; essi hanno quindi un'origine
sovrumana e, compiendoli, l'iniziando imita un'azione sovrumana,
divina. È importante sottolineare questo punto, in cui si
mostra ancora una volta che l'uomo religioso ‛vuole essere
diverso' da come si avverte sul piano ‛naturale', e cerca quindi
di conformarsi all'immagine ideale svelatagli dai miti. L'uomo
primitivo si impegna a conseguire un ‛ideale religioso di uomo', e
il suo sforzo ha già in sé i germi di tutti i
principi etici successivamente elaborati nelle società
evolute. Ovviamente, nelle società areligiose moderne
l'iniziazione non esiste più come atto religioso; ma i
‛modelli' di iniziazione, sebbene nettamente dissacrati,
sopravvivono nel mondo moderno.
L'iniziazione comporta di solito una triplice rivelazione: del
sacro, della morte e del sesso. Il bambino non sa nulla di queste
esperienze; l'iniziato invece le conosce e le fa proprie,
incorporandole nella sua nuova personalità. Si deve
aggiungere che l'iniziando, morendo alla vita infantile, profana,
non rigenerata, per rinascere a un'esistenza nuova, santificata,
rinasce anche a una modalità di essere che rende possibile
l'apprendimento, la ‛conoscenza'. L'iniziato non è solo un
nuovo nato o un risuscitato; egli è un uomo che ‛sa', che
ha appreso i misteri, che ha avuto rivelazioni di natura
metafisica. Durante la sua istruzione nel bosco egli apprende i
segreti sacri: i miti che raccontano degli dei e dell'origine
degli strumenti rituali usati nelle cerimonie di iniziazione (i
rombi, i coltelli di pietra per la circoncisione, ecc.).
L'iniziazione equivale a una maturazione spirituale. È
questo un tema che si riscontra costantemente nella storia
religiosa dell'umanità: l'iniziato, colui che ha
sperimentato i misteri, è ‛colui che sa'.
La cerimonia inizia sempre con la separazione del candidato dalla
sua famiglia e con un periodo di segregazione nel bosco.
Già qui incontriamo un simbolo di morte: la foresta, la
giungla, l'oscurità simboleggiano l'oltretomba, gli Inferi.
Presso taluni popoli si crede che una tigre venga a prendere gli
iniziandi per portarli sulla groppa nella giungla; il felino
incarna l'Antenato mitico, il maestro dell'iniziazione, che
conduce i fanciulli nell'oltretomba. Altrove si crede che
l'iniziando venga inghiottito da un mostro. Nel ventre del mostro
è la notte cosmica; è la modalità embrionale
dell'esistenza, sul piano cosmico come su quello della vita umana.
In molti casi vi è nel bosco una capanna di iniziazione,
ove gli iniziandi affrontano una parte delle loro prove e vengono
istruiti nelle tradizioni segrete della tribù. La capanna
di iniziazione simboleggia il ventre materno; la morte simbolica
dell'iniziando simboleggia la regressione allo stato embrionale.
Ma ciò non si deve intendere solo in termini di biologia
umana, bensì anche in termini cosmologici; lo stato fetale
equivale a una temporanea regressione alla fase precosmica.
Altri rituali illuminano il simbolismo della morte iniziatica.
Presso taluni popoli, i candidati vengono sepolti o distesi in
tombe appena scavate; oppure vengono coperti di rami e restano
immobili come morti; oppure vengono imbrattati di polvere bianca
in modo da apparire simili a spiriti; e imitano gli spiriti anche
nel comportamento: non usano le mani per mangiare, ma prendono il
cibo direttamente con i denti, come si ritiene facciano le anime
dei morti. Infine, le torture che subiscono, tra i molti altri
significati hanno anche questo: si crede che il tormentato e
mutilato iniziando venga torturato, tagliato a pezzi, bollito e
arrostito dai demoni maestri dell'iniziazione, e cioè dagli
antenati mitici. Le sofferenze fisiche sono quelle di chi venga
‛mangiato' dal demone felino, fatto a pezzi nello stomaco e
digerito nel ventre del mostro iniziatico. Le mutilazioni
(estrazione di denti, amputazione di dita, ecc.) evocano anch'esse
un simbolismo di morte. Oltre a operazioni particolari - come la
circoncisione e la subincisione - e alle mutilazioni iniziatiche,
altri segni esteriori, come tatuaggi o scarificazioni, hanno il
medesimo significato di morte e resurrezione.
Anche la rinascita mistica viene variamente simboleggiata. Ai
candidati vengono imposti nuovi nomi, che da quel momento in poi
saranno i loro veri nomi. Presso talune tribù si presume
che gli iniziati dimentichino completamente la loro vita
precedente. Immediatamente dopo l'iniziazione vengono nutriti come
bambini, condotti per mano, e istruiti di nuovo in tutte le forme
di comportamento, come si fa appunto con i bambini. Solitamente
nel bosco apprendono una nuova lingua, o per lo meno un
vocabolario segreto noto solo agli iniziati.
Appare evidente che, con l'iniziazione, tutto ricomincia daccapo.
A volte il simbolismo della rinascita viene espresso in modo
concreto. Presso alcuni popoli Bantu - prima della circoncisione -
si celebra per il fanciullo una cerimonia chiamata ‛il rinascere'.
Il padre sacrifica un ariete e tre giorni dopo avvolge il
fanciullo nella membrana dello stomaco e nella pelle dell'animale.
Immediatamente prima della cerimonia il fanciullo deve mettersi a
letto e piangere come un neonato; rimane nella pelle di ariete per
tre giorni. Gli stessi popoli seppelliscono i morti avvolgendoli,
in posizione fetale, in pelli di ariete. Il simbolismo della
rinascita mistica attraverso la vestizione rituale di una pelle di
animale è attestato anche in culture altamente evolute
(India e antico Egitto).
Nei rituali iniziatici il simbolismo della nascita si trova quasi
sempre affiancato a quello della morte. Nel contesto iniziatico,
la morte significa il superamento della condizione profana, non
santificata, della condizione di ‛uomo naturale' privo di
esperienza religiosa, cieco alla luce dello spirito. Il mistero
dell'iniziazione rivela gradualmente all'iniziando le vere
dimensioni dell'esistenza; introducendolo al sacro, lo costringe
ad assumere la responsabilità della sua raggiunta
condizione di uomo. In ciò è da ravvisare un fatto
d'importanza capitale: presso tutte le società arcaiche
l'accesso alla spiritualità si manifesta con un simbolismo
di morte e di rinascita.
14. Gli specialisti del sacro: sciamani e stregoni
Lo sciamanismo è un fenomeno religioso caratteristico dei
popoli siberiani e uralo-altaici. Di origine tungusa, ‛sciamano'
è approdato alla terminologia scientifica europea per il
tramite del russo. Sebbene le sue manifestazioni più
compiute si riscontrino nelle regioni artiche e dell'Asia
centrale, lo sciamanismo non deve però considerarsi
circoscritto a quei territori. Lo si incontra, ad esempio,
nell'Asia sudorientale, in Oceania e presso molte tribù
aborigene dell'America settentrionale. Bisogna però fare
una distinzione fra le religioni dominate da un'ideologia
sciamanica e dalle tecniche sciamaniche (come nel caso delle
religioni siberiane e indonesiane) e quelle in cui lo sciamanismo
rappresenta piuttosto un fenomeno secondario.
Lo sciamano è stregone, sacerdote e psicopompo; cura
cioè le malattie, dirige i riti sacrificali della
comunità e scorta le anime dei morti nell'oltretomba.
È in grado di assolvere a tutte queste funzioni grazie alle
sue tecniche dell'estasi, cioè alla facoltà di
evadere a volontà dal suo corpo. In Siberia e nell'Asia
nordorientale si diventa sciamano per via ereditaria o per
vocazione spontanea, o ‛chiamata'. Più raramente, si
può diventare sciamano per decisione propria o su richiesta
del clan, ma gli sciamani di questa specie sono considerati
più deboli di quelli che ereditano la professione, o che
vengono ‛chiamati' dagli esseri soprannaturali.
Nell'America settentrionale, invece, la ‛ricerca' volontaria dei
poteri costituisce la via principale. A prescindere dal modo della
loro selezione, gli sciamani sono riconosciuti tali solo in
seguito a una serie di prove iniziatiche dopo essere stati
istruiti da maestri qualificati.
Nell'Asia settentrionale e centrale le prove, di norma, si
estendono per un periodo di tempo indefinito, durante il quale il
futuro sciamano è ammalato e sta nella sua tenda o vaga
nella landa selvaggia comportandosi in modo talmente stravagante
da essere scambiato per pazzo.
Diversi autori hanno infatti spiegato lo sciamanismo artico e
sibenano come l'espressione ritualizzata di una malattia mentale,
specialmente dell'isteria artica. Senonché, l'‛eletto'
diventa sciamano solo se è in grado di dare alle sue crisi
patologiche il significato di un'esperienza religiosa e riesce a
curare se stesso. Le gravi crisi che a volte accompagnano la
‛chiamata' del futuro sciamano devono essere considerate ‛prove
iniziatiche'. Nei sogni e nelle allucinazioni del futuro sciamano
si rintraccia il modello classico dell'iniziazione: egli viene
torturato da demoni, il suo corpo è fatto a pezzi, discende
nell'oltretomba o ascende in cielo e infine viene risuscitato.
Acquista cioè una nuova modalità di essere, che gli
consente di avere rapporti con i mondi soprannaturali. Lo sciamano
è ora in grado di ‛vedere' gli spiriti, ed egli stesso si
comporta come uno spirito; può evadere dal suo corpo e
vagare in estasi per tutte le regioni cosmiche. L'esperienza
estatica non basta tuttavia a fare uno sciamano. Il neofita, sotto
la guida di maestri, oltre alle tradizioni religiose della
tribù deve imparare a riconoscere le varie malattie e a
curarle.
L'ascesa al cielo è una delle caratteristiche particolari
dello sciamanismo siberiano e centroasiatico. Nel sacrificio del
cavallo, lo sciamano altaico ascende in estasi al cielo per
offrire al dio celeste l'anima del cavallo sacrificato. L'ascesa
viene compiuta salendo su un fusto di betulla, che ha nove
intagli, ciascuno simboleggiante un particolare cielo.
La funzione più importante dello sciamano è quella
di guarire. Poiché si ritiene che la malattia sia dovuta a
una perdita dell'anima, lo sciamano deve anzitutto scoprire se
l'anima del malato si è smarrita lontano dal villaggio o
è stata rubata da demoni ed è imprigionata
nell'oltretomba. Nel primo caso la guarigione non è molto
difficile: lo sciamano riprende l'anima e la riunisce al corpo del
malato. Nel secondo caso, invece, deve scendere nel mondo infero,
impresa questa complicata e pericolosa. Egualmente emozionante
è il viaggio dello sciamano nell'al di là, per
scortare l'anima del defunto alla sua nuova dimora; egli narra ai
presenti tutte le vicissitudini del viaggio man mano che si
svolge.
15. Mistici e profeti
Gli sciamani possono essere definiti i ‛mistici' delle
società arcaiche: l'estasi sciamanica equivale al
misticismo caratteristico delle religioni dei cacciatori e dei
pastori primitivi.
L'esperienza mistica muta radicalmente la condizione umana; chi la
prova si sente ‛rinato' o ‛rigenerato' o ‛redento' o ‛salvato' o
‛libero'. È conscio che sta iniziando una ‛nuova vita',
anzi che per la prima volta sta vivendo una ‛vera' vita, che ha
trovato il suo ‛vero sé' o che si è guadagnato la
‛vita eterna'. Questa nuova realtà o nuovo essere o nuova
vita, che l'esperienza mistica rivela, può significare la
scoperta della ‛vera anima' (il Sé, ātman, nous) o un nuovo
rapporto con un Sé superiore, una divinità. La
divinità può essere impersonale (come l'indiano
Brahman) o personale (Kṛṣṇa, Śiva, Gesù). Ogni esperienza
mistica autentica implica una rivalutazione del concetto di
Essere. La ‛nuova vita' o la ‛nuova personalità' è
il risultato del confronto personale con l'Essere.
Il profetismo è un fenomeno ben noto nella storia delle
religioni; trova però la sua espressione più
significativa nella tradizione israelita. Già nell'XI
secolo a. C. gruppi di profeti (nebiim, singolare nabī)
predicevano il futuro in uno stato di trance estatica (I Samuele,
10, 5). Più tardi, i profeti svolsero la propria
attività presso i santuari nazionali, specialmente presso
il tempio di Gerusalemme. Combatterono strenuamente l'influenza
cananea sul culto israelita e proclamarono il messaggio etico
dello yahwismo, predicando la giustizia e la rettitudine.
Il profeta è sostanzialmente diverso non solo dal mistico,
ma anche dal sacerdote, che è responsabile del culto
istituzionalizzato. Non si diventa profeti senza vocazione, senza
essere ‛chiamati' da Dio. Il profeta si considera messaggero di
Dio. Proclamando la parola di Dio, egli annuncia una nuova
rivelazione. Una caratteristica del profeta dell'Antico Testamento
sta nel fatto ch'egli critica la religione istituzionalizzata e la
società contemporanea attraverso un'interpretazione di
eventi storici.
Ovviamente, la tipologia degli ‛specialisti del sacro' e degli
‛uomini eletti' è ben più ricca e complessa di
quella qui tratteggiata. Oltre allo stregone, allo sciamano, al
mistico, al profeta e al sacerdote, notevolmente più
importanti sono i fondatori e i riformatori delle religioni. Qui
ci limiteremo a ricordare fra i fondatori Mosè,
Zarathustra, Buddha, Gesù, Mani e Maometto, e fra i
riformatori Ekhnaton, san Francesco, Rāmānuja, Lutero, Ignazio di
Loyola e Wesley.
16. Classificazione delle religioni
Sin dal Settecento le religioni sono state classificate in molti
modi e da diverse prospettive. Hegel distinse uno stadio
oggettivo, in cui Dio è immerso nella Natura, uno stadio
soggettivo, quando Dio si manifesta come Ente spirituale, e infine
il cristianesimo, nel quale Dio si rivela come Spirito Assoluto.
Nella seconda metà dell'Ottocento e all'inizio del
Novecento sono state avanzate una quantità di
classificazioni: religioni della Natura e dello Spirito, della
Legge e della Grazia, della Fede e delle Opere, dell'azione e
della contemplazione mistica; oppure religioni nazionali e
universali, cosmiche e acosmiche, ecc. N. Söderblom ridusse a
tre le forme di religioni: animismo, dinamismo e religioni dei
fondatori.
La tipologia più complessa fu elaborata da G. van der
Leeuw. Egli distinse: a) le religioni dell'allontanamento e della
fuga (Cina, deismo del XVIII secolo, buddhismo originario); b) la
religione del combattimento (dualismo zoroastriano); c) la
religione della quiete (misticismo); d) le religioni
dell'inquietudine (giudaismo antico, cristianesimo, Islàm);
e) la religione dello slancio e della figura (Grecia antica); f)
le religioni dell'infinità e dell'ascesi (India antica,
primo buddhismo); g) la religione del nulla e della pietà
(buddhismo del Mahāyāna); h) la religione della volontà e
dell'obbedienza (giudaismo); i) la religione della maestà e
dell'umiltà (Islàm); l) la religione dell'amore
(cristianesimo).
La distinzione tra religione ‛naturale' e ‛rivelata' non ha senso,
giacché ogni religione - sia ‛primitiva' che ‛storica' -
è in ultima analisi il risultato di una rivelazione
primordiale, soprannaturale. Parimenti inaccettabile è la
classificazione delle religioni in ‛inferiori' (primitive) e
‛superiori'. Più utili sono le distinzioni fra religioni
‛cosmologiche' (cioè quelle in cui il sacro si manifesta
attraverso i fenomeni cosmici), ‛acosmiche' (buddhismo,
gnosticismo) e religioni ‛storiche' (giudaismo, cristianesimo,
Islàm), o fra ‛religioni del libro' (vedismo, giudaismo,
zoroastrismo, cristianesimo, Islàm) e religioni dei popoli
preletterati e di quelli che, pur possedendo una letteratura
religiosa, non ne proclamarono l'ispirazione divina (Vicino
Oriente antico, Grecia antica, Cina, ecc.).
17. Atteggiamenti verso le religioni forestiere
a) Mondo antico
Sebbene la scienza delle religioni come disciplina autonoma abbia
avuto inizio solo nell'Ottocento, l'interesse per le religioni di
altri popoli risale molto più addietro nel passato. Se ne
trova documentazione per la prima volta nella Grecia classica,
specialmente a partire dal V secolo. Tale interesse si
manifestò sia nei resoconti dei viaggiatori, che
descrissero i culti di paesi lontani raffrontandoli con le
pratiche religiose greche, sia nella critica filosofica della
religione tradizionale. Già Erodoto descrisse in modo
sorprendentemente preciso diverse religioni barbare ed esotiche
(dell'Egitto, della Persia, della Tracia, della Scizia, ecc.),
formulando perfino ipotesi sulla loro origine e sulle loro
relazioni con i culti e i miti greci. I filosofi presocratici
indagarono la natura degli dei e il valore dei miti, fondando una
critica razionalistica delle religioni. Così, ad esempio,
per Parmenide ed Empedocle gli dei erano personificazioni di forze
naturali. Anche Democrito sembra aver mostrato viva
curiosità e interesse per le religioni straniere con cui
era venuto direttamente a contatto durante i suoi numerosi viaggi.
Platone fece frequente uso di paragoni con le religioni dei
barbari; Aristotele elaborò la prima formulazione
sistematica della teoria della degenerazione religiosa
dell'umanità (Metafisica, XII, 7), concetto che sarà
spesso ripreso in epoche successive. Teofrasto, che succedette ad
Aristotele come scolarca del Liceo, può essere considerato
il primo storico greco delle religioni: secondo Diogene Laerzio
(V, 48), egli scrisse una storia delle religioni in sei libri.
Ma fu specialmente dopo le conquiste di Alessandro Magno che gli
scrittori greci poterono acquisire una conoscenza diretta delle
tradizioni religiose dei popoli orientali e quindi descriverle.
Durante il regno di Alessandro, Beroso, un sacerdote di
Bēl-Marduk, scrisse una storia della Babilonia in tre libri.
Megastene, che tra il 302 e il 297 fu più volte inviato da
Seleuco Nicatore come ambasciatore presso il re indiano
Candragupta, scrisse un trattato in quattro libri sull'India;
Ecateo di Abdera (o di Teo) scrisse sugli Iperborei e
dedicò un'opera alla religione degli Egiziani. Manetone, un
sacerdote egiziano, si occupò dello stesso argomento in
un'opera che porta un identico titolo. Il mondo alessandrino venne
perciò a conoscere un gran numero di miti, riti e
consuetudini religiose esotiche.
Nell'Atene dell'inizio del III secolo Epicuro elaborò una
critica radicale della religione: a suo parere il ‟consenso
universale" prova che gli dei esistono, ma egli li considera
esseri superiori e remoti, che non hanno rapporto alcuno con
l'uomo. Le sue teorie incontrarono gran favore nel mondo latino
del I secolo a.C., soprattutto grazie all'opera di Lucrezio.
Furono però gli stoici che influenzarono profondamente
tutto il mondo antico elaborando il metodo dell'interpretazione
allegorica, che consentì loro di conservare e al tempo
stesso rivalorizzare il retaggio mitologico. Secondo gli stoici, i
miti rivelano o concezioni filosofiche sulla natura ultima delle
cose o dottrine etiche. I molti nomi degli dei stanno a indicare
un'unica divinità: solo la terminologia varia. Il metodo
allegorico degli stoici rese possibile la trasposizione di
qualsiasi tradizione arcaica o esotica in un linguaggio universale
e facilmente comprensibile; esso ebbe larga fortuna e vasta
applicazione.
L'idea che talune divinità erano una volta re o eroi,
deificati per i servizi resi all'umanità, aveva trovato
fautori fin dall'epoca di Erodoto, ma fu Evemero che rese popolare
questa interpretazione pseudostorica della mitologia nel suo Sacro
scritto. L'evemerismo ebbe molti seguaci, soprattutto grazie alla
traduzione latina, fatta da Ennio, dell'opera di Evemero, e agli
apologisti cristiani, che ne ripresero per i loro scopi gli
argomenti. Meritano particolare menzione, fra gli autori romani,
Cicerone e Varrone per il valore storico-religioso delle loro
opere. I quarantuno libri delle Antiquitates rerum humanarum et
divinarum erano una miniera di notizie; nel De natura deorum
Cicerone dette un'accurata descrizione dei riti e delle credenze
dell'ultimo secolo dell'era pagana.
Il diffondersi dei culti orientali e delle religioni misteriche
nell'Impero romano e il sincretismo religioso che ne
derivò, specialmente ad Alessandria, favorirono la
conoscenza delle religioni esotiche e lo studio dei fenomeni
religiosi di vari paesi. Durante i primi due secoli dell'era
cristiana, Erennio Filone, seguace di Evemero, pubblicò la
Storia fenicia, Pausania la Periegesi della Grecia - una miniera
inesauribile per lo storico delle religioni - e lo
pseudo-Apollodoro la Biblioteca, un compendio mitografico. Il
neopitagorismo e il neoplatonismo si dedicarono alla rivalutazione
dell'interpretazione spirituale dei miti e dei riti. Plutarco fu
un tipico rappresentante di questa scuola di esegesi, soprattutto
col suo trattato Su Iside e Osiride. Secondo Plutarco, la
diversità nelle forme religiose era solo apparente: i
simboli rivelavano la fondamentale unità di tutte le
religioni. La tesi stoica fu brillantemente riformulata da Seneca:
le molte divinità altro non erano che aspetti di un solo
Dio. Si moltiplicavano frattanto le descrizioni di religioni
straniere e di culti esoterici: Giulio Cesare e Tacito fornirono
preziose informazioni sulle religioni dei Galli e dei Germani;
Apuleio descrisse la cerimonia di iniziazione ai misteri di Iside;
Luciano nell'opera Sulla dea siriana illustrò il culto
siriano.
b) Cristianesimo, giudaismo, islamismo
Per gli apologeti e gli eresiarchi cristiani, il problema si
presentava su un piano diverso, giacché essi opponevano
l'unico Dio della religione rivelata ai molti dei del paganesimo.
Essi erano dunque obbligati da un lato a dimostrare l'origine
soprannaturale - e la conseguente superiorità - del
cristianesimo, dall'altra a spiegare l'origine degli dei pagani e
in particolare a chiarire il perché dell'idolatria che
caratterizzava il mondo precristiano. Dovevano anche dar ragione
delle analogie fra religioni misteriche e cristianesimo. Furono
prospettate diverse teorie: a) i demoni nati dal connubio tra gli
angeli caduti e le ‟figlie degli uomini" (Genesi, 6, 2) avevano
spinto l'umanità verso l'idolatria; b) la teoria del
‛plagio' (gli angeli del male, a conoscenza delle profezie e allo
scopo di turbare i fedeli, avevano introdotto nelle religioni
pagane alcuni elementi di somiglianza con il giudaismo e il
cristianesimo; i filosofi pagani avevano mutuato le loro dottrine
da Mosè e dai profeti); c) l'intelletto è in grado
di giungere alla conoscenza della verità grazie alle sue
facoltà: il mondo pagano aveva quindi potuto acquisire una
conoscenza naturale di Dio.
La reazione pagana assunse diverse forme. Ne sono espressione
l'attacco violento del neopitagorico Celso contro
l'originalità e il valore spirituale del cristianesimo; la
Vita di Apollonio di Tiana, del sofista Filostrato, in cui vengono
messe a raffronto le concezioni religiose degli Indiani, Greci ed
Egiziani e viene illustrato un ideale pagano di pietà e
tolleranza; l'opera del neoplatonico Porfirio - discepolo di
Plotino - che abilmente polemizza contro il cristianesimo
ricorrendo al metodo allegorico, e di Giamblico, che propugna un
ideale di sincretismo e tolleranza.
Le figure preminenti del contrattacco cristiano furono gli
africani Minucio Felice, Lattanzio, Tertulliano, Firmico Materno e
i grandi eruditi alessandrini Clemente Alessandrino e Origene.
Eusebio di Cesarea nella Cronaca, sant'Agostino nel De civitate
Dei e Paolo Orosio negli Historiarum adversus paganos libri septem
sbaragliarono definitivamente il paganesimo. Le loro opere, nelle
quali viene ripresa la tesi degli autori pagani sulla crescente
degenerazione delle religioni, sono preziose - al pari di quelle
dei loro avversari e di altri autori cristiani - in quanto ci
tramandano molto materiale storico-religioso relativo ai miti, ai
riti e ai costumi di quasi tutti i popoli dell'Impero romano,
nonché degli gnostici e delle sette cristiane eretiche.
L'interesse per le religioni forestiere fu risvegliato in
Occidente durante il Medioevo dalla minacciosa presenza
dell'Islàm. Nel 1141 Pietro il Venerabile fece tradurre il
Corano da Roberto di Rétines, e a studiosi di arabo si
dovettero importanti opere sulle religioni pagane. Al-Bīrūnī
(973-1048) fornì una pregevole descrizione delle religioni
e filosofie indiane; ash-Shahrastānī (morto nel 1153) scrisse un
trattato sulle scuole islamiche; Ibn Hazm (994-1064), nell'opera
voluminosa ed erudita al-Fiṣal (La discriminazione), diede una
critica del dualismo mazdeo e manicheo, del bramanesimo,
dell'ebraismo, del cristianesimo, dell'ateismo e di varie sette
islamiche. Ma fu soprattutto Averroè (Ibn Rushd, 1126-1198)
che, dopo aver profondamente influenzato il pensiero islamico,
doveva dare il primo impulso a un'intera corrente intellettuale in
Occidente; per interpretare la religione, Averroè
adottò il metodo simbolico e allegorico e giunse alla
conclusione che tutte le religioni monoteistiche sono vere, pur
condividendo l'opinione di Aristotele che - in un mondo eterno -
le religioni compaiono e scompaiono incessantemente.
Fra i dottori ebrei del Medioevo due meritano particolare
menzione: Sa‛adyāh (882-942) che nel Kitāb al-amānāt wa
'l-i‛tiqādāt (Libro delle credenze e dei dogmi, 933 circa)
interpretò il bramanesimo, il cristianesimo e la religione
musulmana nel quadro di una filosofia religiosa, e Maimonide
(1135-1204), che intraprese uno studio comparato delle religioni
evitando scrupolosamente di cadere nel sincretismo. Egli
cercò di spiegare le imperfezioni della prima religione
rivelata, il giudaismo, con la teoria della condiscendenza divina
e del progresso umano, tesi queste che erano state sostenute anche
dai Padri della Chiesa.
La comparsa dei Mongoli - ostili agli Arabi - in Asia Minore
indusse i papi a inviare missionari affinché si
informassero sulle loro religioni e sui loro costumi. Nel 1244
Innocenzo IV inviò due domenicani e due francescani, uno
dei quali, Giovanni dal Piano dei Carpini, arrivò fino a
Karakorum, in Asia centrale, e al suo ritorno scrisse la Historia
Mongalorum. Nel 1253 Luigi IX inviò Guglielmo di Rubruquis
a Karakorum, dove - egli ci racconta - tenne testa in un dibattito
a manichei e a Saraceni. Infine, nel 1274 il veneziano Marco Polo
pubblicò Il Milione in cui, fra innumerevoli altre
meraviglie orientali, raccontava la vita del Buddha. Tutti questi
libri riscossero enorme successo. In base a questa documentazione,
Vincenzo di Beauvais, Ruggero Bacone e Raimondo Lullo esposero in
varie opere le credenze degli ‛idolatri' Tartari, Ebrei, Saraceni.
Furono riesumate le tesi dei primi apologisti cristiani - in
particolare la teoria della conoscenza spontanea di Dio e le tesi
della degenerazione e dell'influenza demoniaca nella diffusione
del politeismo.
18. Lo studio scientifico delle religioni
La riscoperta e rivalutazione - nel Rinascimento - del paganesimo
furono dovute anzitutto al favore di cui godeva l'interpretazione
allegorica neoplatonica. Le scoperte geografiche del Quattro e
Cinquecento aprirono nuovi orizzonti alla conoscenza delle
religioni ‛primitive'. Le raccolte dei resoconti dei primi
esploratori incontrarono grande favore tra gli Europei colti;
seguì la pubblicazione di lettere e relazioni di missionari
dall'America e dalla Cina. Un primo tentativo di mettere a
confronto le religioni del Nuovo Mondo con quelle
dell'antichità si deve al missionario J. F. Lafitau nei
Moeurs des sauvages américains comparées aux moeurs
des premiers temps, pubblicati a Parigi nel 1724. Nel 1757 Ch. de
Brosses scrisse Du culte des dieux fétiches ou
parallèle de l'ancienne réligion de l'Égypte
avec la réligion actuelle de Négritie. Rispondendo a
Lafitau e ispirandosi a Hume, de Brosses dichiarò erronea
la tesi secondo cui l'umanità aveva in un primo tempo
posseduto un'idea pura di Dio, poi corrottasi; al contrario,
‟poiché la mente umana si eleva per gradi da un livello
inferiore a uno superiore", la prima forma di religione non poteva
essere stata che grezza, cioè un ‟feticismo", termine che
de Brosses usò annettendogli un vago significato di culto
degli animali, piante e oggetti inanimati.
I deisti inglesi (specialmente Hume), i ‛filosofi' ed
enciclopedisti francesi - Rousseau, Voltaire, Diderot, D'Alembert
- e gli illuministi tedeschi (particolarmente Wolf e Lessing)
continuarono a discutere accanitamente sul problema della
religione naturale. Furono però i ricercatori eruditi che
offrirono un valido contributo all'interpretazione delle religioni
esotiche, pagane o primitive. Taluni autori esercitarono un forte
influsso, sia per le ipotesi prospettate sia per le reazioni
suscitate. Nel 1794 Fr. Dupuis pubblicò Origine de tous les
cultes, in cui cercò di dimostrare che la storia degli dei
e perfino la vita di Cristo sono solo allegorie dei moti delle
stelle, tesi che fu ripresa dai panbabilonisti alla fine
dell'Ottocento. G. Fr. Creuzer, in Symbolik und Mythologie der
alten Völker, besonders der Griechen (1810-1812),
tentò di ricostruire le fasi primordiali delle religioni
‛pelasgiche' e orientali e di dimostrare la funzione del
simbolismo.
Come risultato delle scoperte fatte in tutti i rami degli studi
orientali durante la prima metà dell'Ottocento,
nonché dell'affermazione della linguistica comparata, la
storia delle religioni fece il suo vero esordio con Max
Müller, il cui Essay on comparative mythology (1856) è
il primo di una lunga serie di studi condotti da lui personalmente
e dai suoi discepoli. Müller trovò la genesi dei miti
nei fenomeni naturali, specialmente nelle epifanie solari, e
spiegò la nascita degli dei come una ‛malattia del
linguaggio': quel che prima altro non era che nome, nomen, era
divenuto una divinità, numen. Le sue teorie ebbero grande
successo e decaddero solo verso la fine del secolo, con la
comparsa delle opere di W. Mannhardt e di E. B. Tylor. Nella sua
opera principale Antike Wald- und Feldkulte (1875-1877) Mannhardt
dimostrò l'importanza della ‛bassa mitologia', che ancora
sopravvive nei riti e nelle credenze dei contadini; a suo parere
queste credenze rappresentano uno stadio religioso precedente a
quello delle mitologie naturistiche di Max Müller. Le teorie
di Mannhardt furono adottate e divulgate da J. G. Frazer nei
dodici volumi di The golden bough (London 1907-19153). Nel 1871
uscì la Primitive culture di E. B. Tylor, che fece epoca
perché lanciò una nuova moda, quella dell'animismo.
In base alla teoria animistica, l'uomo primitivo credeva che ogni
cosa fosse dotata di un'anima, e, secondo Tylor, questa credenza
fondamentale e universale spiegava non solo il culto dei morti e
degli antenati, ma anche la genesi degli dei. Una nuova teoria,
quella del preanimismo, fu elaborata dopo il 1900 da R. R. Marett,
K. T. Preuss e altri studiosi, secondo i quali l'origine della
religione andava ricercata nell'esperienza di una forza
impersonale (mana). Una critica dell'animismo, ma da un diverso
punto di vista, fu formulata da A. Lang, per il quale la credenza
negli Esseri Supremi (All Fathers), riscontrata anche nelle
culture più primitive, non poteva essere spiegata mediante
una credenza negli spiriti. W. Schmidt riprese quest'idea e,
sviluppandola sotto il profilo della metodologia della ‛storia
della cultura' (Kulturgeschichte), cercò di dimostrare
l'esistenza di un monoteismo primordiale (Der Ursprung der
Gottesidee, 12 voll., Münster 1912-1955).
Verso la fine dell'Ottocento e l'inizio del Novecento si
delinearono altri indirizzi di pensiero. É. Durkheim
ritenne di aver trovato la spiegazione sociologica della religione
nel totemismo. (Fra gli indiani Ojibwa dell'America settentrionale
il termine totem sta a indicare l'animale il cui nome designa un
clan, dal quale viene venerato come antenato). Fin dal 1869 J. F.
MacLennan aveva sostenuto che il totemismo rappresenta la forma
originaria della religione. Ma studi successivi, soprattutto
quelli di Frazer, avevano dimostrato che il totemismo non è
universalmente diffuso e non può essere considerato la
primissima forma assunta dalla religione. L. Lévy-Bruhl
tentò di provare che il comportamento religioso può
essere spiegato in base alla mentalità prelogica dei
primitivi (ipotesi che ripudiò verso la fine della sua
vita).
Freud ritenne di aver trovato l'origine della religione, dei
divieti morali e dell'organizzazione sociale in un delitto
primordiale, cioè nel primo parricidio. Dio non è
altro che il padre fisico sublimato. L'interpretazione freudiana
della religione è stata più volte criticata e
totalmente respinta dagli etnologi.
Fu G. van der Leeuw a pubblicare la prima importante opera sulla
fenomenologia della religione. Egli sostenne
l'irriducibilità delle rappresentazioni religiose a
funzioni sociali, psicologiche o razionali, e confutò quei
pregiudizi naturalistici che cercano di spiegare la religione con
qualcosa che religione non è. Il crescente interesse per la
fenomenologia della religione ha creato uno stato di tensione fra
gli studiosi della Religionswissenschaft. Le diverse correnti
storiche e storicistiche hanno vivamente reagito contro la
pretesa, avanzata dai fenomenologi, di poter afferrare l'essenza e
la struttura dei fenomeni religiosi. Per gli storicisti, la
religione è esclusivamente un fatto storico privo di
qualsiasi significato o valore soprastorico, e cercarne le
‛essenze' equivale a ricadere nell'antico errore platonico (gli
storicisti naturalmente hanno ignorato Husserl). Ma una tale
tensione fra coloro che cercano di comprendere l'essenza e la
struttura e coloro che si preoccupano solo della storia dei
fenomeni religiosi è creativa. È proprio grazie a
essa che la scienza delle religioni potrà sfuggire al
dogmatismo e all'immobilismo.
Enciclopedia delle Scienze Sociali (1997)
di Hans G. Kippenberg
Sommario: 1. Introduzione. 2. La religione nel contesto della
secolarizzazione e della modernizzazione: a) modernizzazione e
perdita delle norme e delle certezze tradizionali; b) dalla
filosofia della religione alla storia delle religioni. 3.
Genealogie religiose del sistema sociale moderno: a) Émile
Durkheim e l'origine della morale sociale dalla storia della
religione; b) Max Weber e il 'disincantamento' del mondo. 4. Tre
paradigmi teorici: a) la fenomenologia; b) il funzionalismo; c) la
religione come sistema culturale. 5. La religiosità nella
cultura moderna: a) le sette fondamentaliste; b) i movimenti
apocalittici; c) misticismo, esoterismo e new age. .
1. Introduzione
La sociologia della religione non è nata come ramo
particolare della scienza della religione, bensì in seno
alla sociologia stessa (v. Tenbruck, 1991, p. 28). Il concetto
acquistò un suo preciso significato con la pubblicazione
nel 1920-1921 dei Gesammelte Aufsätze zur Religionssoziologie
di Weber. In questi saggi il sociologo tedesco aveva messo in luce
il nesso tra ethos capitalistico ed etica protestante, esplorando
altresì le connessioni tra le grandi religioni mondiali, la
vita economica e la stratificazione sociale. La morte prematura
impedì a Weber di realizzare il suo progetto di colmare le
lacune dell'opera sviluppando una 'sociologia della religione'
organica e sistematica. Nel 1922 una versione non definitiva della
Religionssoziologie venne pubblicata come sezione autonoma
nell'opera postuma Wirtschaft und Gesellschaft.
La sociologia della religione si propone di ricercare e analizzare
luoghi e funzioni delle religioni nelle società moderne.
Poiché Émile Durkheim e i suoi allievi concepivano
in termini analoghi lo studio dei fatti religiosi, l'etichetta di
'sociologia della religione' viene applicata anche alle loro
teorie. In contrasto con il materialismo, sia Weber che Durkheim
affermavano che la storia della religione continuava anche nella
società industriale secolarizzata.
La nozione di 'secolarizzazione' ha un ruolo fondamentale nella
sociologia della religione. Si tratta di un concetto che designa
una pluralità di fenomeni: la perdita di ogni legame con le
Chiese, le condizioni per la nascita di un 'mercato religioso' e
di un pluralismo delle confessioni, la trasformazione di assunti
religiosi in evidenze culturali. Proprio per questa
complessità di significati il concetto di secolarizzazione
si rivela ora come in passato particolarmente utile per
comprendere il ruolo della religione nella società moderna
(v. Pollak, 1995; v. Hervieu-Léger, 1990; v. Stark e
Bainbridge, 1985).
2. La religione nel contesto della secolarizzazione e della
modernizzazione
Per 'secolarizzazione' si intende propriamente il passaggio di
beni o istituzioni in possesso del potere ecclesiastico nelle mani
del potere civile. Questo processo di sottrazione all'ambito delle
pertinenze dirette o indirette della gerarchia ecclesiale ebbe
inizio già nel Seicento (il termine 'secolarizzazione' fa
la sua prima comparsa negli accordi preliminari alla pace di
Vestfalia), e andò di pari passo con la formazione dello
Stato moderno e con l'affermarsi del principio della separazione
tra Stato e Chiesa. Il primo paese a sancire nella costituzione
l'abolizione di una Chiesa di Stato furono gli Stati Uniti (il
'disestablishment' del I emendamento).
In Europa il paese che intraprese con maggior coerenza la strada
della secolarizzazione fu la Francia, a partire dalla delibera
emanata dall'Assemblea costituente il 2 novembre 1789 ("tous les
biens ecclésiastiques sont à la disposition de la
nation"), sino alla legge del 1905 che sanciva la completa
separazione tra Stato e Chiesa, con la conseguente completa
esclusione di quest'ultima dalla sfera pubblica (v. Campenhausen,
1994⁴, pp. 66-68).
Più incerto fu il cammino della Germania. La Costituzione
di Weimar del 1919 era ambivalente, in quanto, se da un lato
riconosceva la piena libertà religiosa dei cittadini,
dall'altro attribuiva alle comunità religiose lo status di
enti di diritto pubblico dotati di ampi poteri, ad esempio in
materia fiscale (artt. 136-139 e 141). La Costituzione della
Repubblica Federale Tedesca riprese interamente queste
disposizioni (art. 140), sicché le grandi Chiese hanno un
riconoscimento ufficiale (ibid.). In Germania dunque la
separazione tra Stato e Chiesa fu perseguita con meno coerenza
rispetto alla Francia, tanto che nel suo caso si può
parlare di una 'forma debole' di Chiesa di Stato.
Il processo di secolarizzazione e la conseguente separazione tra
Stato e Chiesa hanno avuto significative ripercussioni sulle
comunità cristiane, creando innanzitutto i presupposti per
la nascita di un 'mercato' religioso. Come ha osservato Peter
Berger a proposito degli Stati Uniti, la perdita del monopolio
ecclesiale ha fatto sì che "religioni un tempo dominanti
oggi debbano essere 'vendute' sul mercato, e vendute a una cerchia
di clienti che non sono costretti a 'comprare'. La situazione
pluralistica è innanzitutto una situazione di mercato. Le
istituzioni religiose sono diventate 'agenzie pubblicitarie', e la
religione stessa si è trasformata in un 'bene di consumo'.
La logica dell'economia di mercato domina in questo modo ampie
sfere della vita religiosa" (v. Berger, 1969, p. 132). Soprattutto
negli Stati Uniti, le Chiese sono diventate dipendenti dalle
offerte dei cittadini, e la religione ha cessato di essere un
destino per diventare una libera scelta dell'individuo. Non si
è trattato di una trasformazione necessariamente negativa
per le Chiese, ma va rilevato che non tutte le denominazioni ne
hanno beneficiato in egual misura. A questo riguardo è
interessante osservare che a partire dal 1776 il numero dei membri
di alcune sette protestanti negli Stati Uniti anziché
diminuire ha registrato un costante incremento (v. Finke e Stark,
1992).
Questa 'situazione di mercato' fa sì che le varie religioni
non solo si trovino in competizione le une con le altre, ma
debbano anche far fronte alla concorrenza di offerte culturali non
religiose. Molte forme di espressione delle religioni moderne,
come ad esempio i movimenti di risveglio spirituale, i meetings di
massa, le pubblicazioni e le associazioni (si pensi all'YMCA),
sono nate sul mercato culturale. La religione è passata in
parte dalla sfera ecclesiale a quella culturale, con significative
ripercussioni sulle sue forme organizzative e sul suo modo di
presentarsi al pubblico.Il problema del riconoscimento pubblico
delle comunità religiose è un'altra, importante
conseguenza della separazione tra Stato e Chiesa. Se in principio
la preoccupazione prevalente era quella di tutelare le
comunità religiose dall'ingerenza dello Stato, in seguito
l'esigenza più sentita è sembrata quella di tutelare
i cittadini da una eccessiva influenza delle comunità
religiose sulla sfera pubblica (v. Sullivan, 1994). D'altro canto
la grande rilevanza delle comunità religiose nella vita
quotidiana dei cittadini ha fatto sì che aumentassero le
pressioni nei confronti delle autorità per ottenerne il
riconoscimento ufficiale. Il fenomeno del multiculturalismo agisce
nella stessa direzione, in quanto spinge verso una "politica del
riconoscimento" (v. Taylor e altri, 1994).
a) Modernizzazione e perdita delle norme e delle certezze
tradizionali
Gli effetti della secolarizzazione vennero acuiti dalla
modernizzazione economica che all'inizio del XIX secolo
investì progressivamente l'Europa e l'America. L'avvento
della società industriale mutò il valore della
tradizione religiosa nella vita quotidiana. Nella sfera dell'agire
economico il guadagno monetario divenne più importante del
soddisfacimento dei bisogni tradizionali. Nell'ambito del potere
politico la legislazione scritta divenne più importante
della consuetudine. La tradizione religiosa perse il suo valore
tradizionale di norma dell'agire sociale. Niklas Luhmann ha
parlato a questo proposito di un processo di 'differenziazione
della religione', che ne ha mutato radicalmente le funzioni. La
religione ha perso il suo valore regolativo per la società
ed è diventata un sottosistema funzionale autonomo,
indipendente sia da quello economico che da quello politico. In
questo modo è potuta divenire oggetto di giudizio da punti
di vista a essa estranei, come quello dell'economia razionale o
della legittimità politica. Nello stesso tempo,
però, ha acquistato il carattere di un sistema autonomo
rispetto alle grandi potenze sociali. Questo processo ha avuto
inoltre importanti conseguenze per ciò che Luhmann ha
definito "sicurezza originaria" della religione, nel senso che non
è più possibile un trapasso da certezze religiose a
certezze non religiose e viceversa (v. Luhmann, 1993, p. 259).
Gli effetti della modernizzazione sulle religioni sono stati
analizzati da Peter Berger. "Innumerevoli individui - egli afferma
- vivono nell'ambivalenza tra liberazione e alienazione [...]. La
modernità viene di fatto vissuta come una liberazione - dai
limiti ristretti della tradizione, dalla miseria, dai vincoli del
clan e della tribù. D'altro canto per questa liberazione
viene pagato un prezzo altissimo. L'uomo sperimenta oggi una
solitudine impensabile nella società tradizionale: privato
dei vincoli di solidarietà della sua esistenza collettiva,
vive altresì nella totale incertezza riguardo alle norme
che dovrebbero guidare la sua esistenza, e non sa più
nemmeno chi o cosa egli sia" (v. Berger, 1979).
Il sociologo britannico A. Giddens, dal canto suo, ha osservato
come la modernizzazione abbia comportato una globalizzazione del
mondo di vita dell'individuo. La dinamica della modernità
sradica il singolo dal suo mondo di vita familiare, inserendolo in
una rete di rapporti sociali che attraverso i meccanismi dello
scambio e i mezzi di comunicazione hanno perso ogni specifico
riferimento spaziale acquistando una dimensione mondiale.
L'individuo è dunque costretto a determinare autonomamente
la propria identità. La crescente consapevolezza storica ha
un ruolo importante in questo processo, in quanto consente di
rispondere al mutamento attraverso una riflessione su alternative
presenti in passato o che sono state soppresse. La pretesa
espressa dall'illuminismo di vagliare criticamente tutte le
pratiche sociali ha portato da un lato a una moltiplicazione delle
alternative, dall'altro a una perdita di certezza (v. Giddens,
1990).
b) Dalla filosofia della religione alla storia delle religioni
La critica della religione di Thomas Hobbes e poi degli
illuministi del XVIII e del XIX secolo aveva contribuito a
risvegliare l'interesse per la storia delle religioni. La
distinzione operata tra una religione razionale e le religioni
storiche tradizionali imponeva non solo di stabilire dei criteri
per definire la prima, ma anche di spiegare la continuità
delle religioni storiche. Nell'ambito della filosofia della
religione questo compito intellettuale ha assunto progressivamente
un'importanza centrale e ha contribuito a ridestare l'attenzione
per lo studio delle religioni, ritenuto in grado di fornire
delucidazioni su una dimensione dell'esistenza umana che merita
riconoscimento a prescindere da tutte le pretese di
razionalizzazione.
Le strade intraprese per risolvere questo compito intellettuale
sono state peraltro assai diverse. Le religioni potevano essere
viste come una forma di filosofia della natura, ed è questa
la posizione sostenuta in Inghilterra da David Hume, cui si
ispirò l'interpretazione intellettualistica della religione
di Edward Burnett Tylor, secondo il quale la storia della
religione non è che la storia del tentativo compiuto
dall'umanità sin dalle origini di risolvere l'enigma della
natura e dell'uomo stesso.
Jean-Jacques Rousseau in Francia e Immanuel Kant in Germania
posero a fondamento della religione razionale la sua funzione
morale. Secondo Rousseau l'autentica religione è
indipendente da tutte le istituzioni della civiltà. L'uomo
non ha bisogno né di filosofi né di teologi per
conoscere i suoi doveri morali: non i giudizi dell'intelletto, ma
i moti del cuore sono la migliore guida nelle questioni che
riguardano la società. Il costante ripresentarsi delle
guerre di religione, come già lamentava Hobbes, non sarebbe
imputabile alle religioni ma agli Stati. Un'idea simile si ritrova
in Kant, il quale colloca la vera religione esclusivamente nella
sfera del dover essere (la morale), sostanzialmente distinta da
quella dell'essere. "La religione (considerata soggettivamente)
è la conoscenza di tutti i nostri doveri come comandamenti
divini" (v. Kant, 1793). Per pervenire a tale conoscenza non vi
è bisogno di alcuna Chiesa. È la ragione a indicare
ciò che vi è di intemporale nella religione storica,
ciò che vi è di universale in una confessione
particolare, ciò che vi è di immutabile in
ciò che muta. Pur con tutte le riserve e le limitazioni,
Kant non dubita che una religione particolare possa avere una
funzione preparatoria, servendo da strumento per raggiungere il
fine della fede razionale. L'individuo laico deve solo liberarsi
dalla tutela della Chiesa obbedendo unicamente alla ragione: in
questo modo la religione particolare può diventare fonte di
una moralità pubblica vincolante. Queste idee vennero in
seguito sviluppate da Émile Durkheim e in parte anche da
Max Weber.
Johann Gottfried Herder e Friedrich Schleiermacher inaugurarono
una tradizione filosofica che, in polemica con quella che veniva
considerata l'arida razionalità dell'illuminismo,
attribuiva alle religioni storiche il più grande valore,
considerandole un'espressione naturale e spontanea dell'animo
umano.
Un passo importante fu segnato dall'analisi filosofica della
religiosità indiana sviluppata da Hegel sulla base di una
comparazione tra il mondo spirituale orientale e quello
occidentale. Mentre in India la negazione del mondo sfocerebbe in
un annullamento della soggettività, nella tradizione
occidentale sarebbe invece fonte di una tensione permanente tra
soggetto e mondo. Nella storia dell'Occidente si può
riconoscere una crescente soggettività e
individualità dell'uomo. Partendo da premesse analoghe,
Arthur Schopenhauer rovescerà il giudizio di Hegel,
affermando che il grande merito storico delle religioni basate
sulla negazione del mondo è proprio quello di superare la
soggettività e l'individualità. Hegel e Schopenhauer
segnano l'inizio di una filosofia della religione che vede nella
negazione del mondo il contributo più rilevante delle
religioni storiche - un'idea che verrà poi ripresa e
sviluppata da Troeltsch e da Max Weber.
Friedrich Nietzsche adottò un'altra strategia per
analizzare le religioni storiche. Rifiutando in modo radicale e
polemico l'assunto che i principî morali siano autoevidenti
per l'uomo, egli sostenne che non può esservi una ragione -
né pura né pratica - indipendente da uno specifico
contesto spazio-temporale. Le religioni diventano così
fatti fondamentali della vita. A Nietzsche si ispirerà la
cosiddetta 'filosofia della vita' (Lebensphilosophie), e il suo
pensiero influenzerà anche Georg Simmel.
Lo studio della religione come disciplina storico-empirica si
sviluppa dalla consapevolezza che per spiegare la presenza della
religione nella società moderna secolarizzata non è
più sufficiente richiamarsi al valore per così dire
autoevidente della tradizione. Nemmeno le spiegazioni offerte
dalla filosofia della religione, troppo diverse e contrastanti, si
rivelano adeguate a chiarire le condizioni e i presupposti del
fenomeno religioso, che va studiato invece sulla base di fatti
univoci e osservabili. E tuttavia sono pur sempre le opzioni
filosofiche dei singoli autori a decidere quali fenomeni vadano
considerati di pertinenza della religione e quali no. Alla
diversità di approcci filosofici va ricondotta in ultimo la
pluralità di teorie formulate nell'ambito dello studio
scientifico (storico-empirico) del fenomeno religioso.
3. Genealogie religiose del sistema sociale moderno
a) Émile Durkheim e l'origine della morale sociale dalla
storia della religione
L'opera principale di Durkheim, La divisione del lavoro sociale,
tematizzava un fenomeno che all'epoca della pubblicazione del
libro (1893) era estremamente attuale. La Francia era allora nel
pieno del processo di industrializzazione, e parallelamente al
mutamento sociale si andava verificando il passaggio del potere
politico da una classe privilegiata a un ceto medio borghese (v.
Jones, 1986-1987, pp. 177 ss.). Nell'analizzare questo mutamento,
Durkheim incentrò l'attenzione sulla divisione del lavoro,
che ai suoi occhi costituiva l'innovazione fondamentale. Nelle
società semplici in cui non vige una divisione del lavoro
avanzata il ruolo sociale del singolo è fissato dalla
tradizione e dalle consuetudini. Ogni violazione della tradizione
è considerata un delitto contro gli dei e quindi
severamente punita. Il diritto è di tipo repressivo e ha la
funzione di garantire la conformità sociale. Nella
società moderna basata sulla divisione del lavoro gli
individui diventano tanto più estranei gli uni agli altri
quanto più cresce la loro interdipendenza funzionale. Il
problema che Durkheim si propone di analizzare riguarda i rapporti
tra personalità individuale e solidarietà sociale:
perché l'individuo, pur diventando sempre più
autonomo, è sempre più dipendente dalla
società? Come può egli essere nello stesso tempo
persona e solidale? È innegabile difatti che questi due
processi, per quanto possano apparire contraddittori, si
verificano parallelamente. Può una società
organizzata in base alla divisione del lavoro creare un vincolo
morale tra i propri membri in competizione? Porsi questo problema
significava chiaramente rifiutare l'assunto in base al quale il
singolo individuo è una sorta di monade che istituirebbe
autonomamente i rapporti sociali. Per Durkheim, al contrario, la
vita collettiva non è nata dalla vita individuale, ma
viceversa. Solo così è possibile spiegare in che
modo si formino e si sviluppino individualità personali
senza che ciò determini una disgregazione della
società.
Durkheim non era stato il primo a porsi il problema del vincolo
morale nella società moderna. Si trattava di un problema
nato con la Rivoluzione francese, che aveva sottratto al singolo
il posto assegnatogli nella gerarchia e nell'ordine tradizionali.
Lo status aveva lasciato il posto al contratto tra cittadini. Le
conseguenze sociali a lungo termine di questo sviluppo avevano
attirato l'attenzione di una serie di pensatori già
all'inizio dell'Ottocento - in Inghilterra, in Germania e,
soprattutto, in Francia (v. Lukes, 1973, pp. 195-199; v. Nisbet,
1952, ed. 1968, pp. 80 ss.). Se molti vedevano nell'individualismo
una minaccia per la coesione della società, Durkheim avanza
invece un'interpretazione diversa, alla cui base egli pone
l'analisi del ruolo e delle funzioni della religione.
Il fatto che il sociologo Durkheim cercasse nella storia della
religione la risposta a questo problema può apparire
sorprendente solo a prima vista. Altri pensatori francesi avevano
aperto la strada in questa direzione. Già Rousseau, ad
esempio, aveva affermato che una società ha bisogno di una
religion civile. Uno dei maestri parigini di Durkheim, lo storico
dell'antichità N.-D. Fustel de Coulanges, nel suo studio La
cité antique (1864) aveva dimostrato come nel mondo antico
la religione costituisse il fondamento dei rapporti sociali. Il
culto dei morti, strettamente legato al culto del focolare,
sarebbe stato all'origine della comunità domestica e dei
gruppi di parentela. La stessa istituzione della proprietà
sarebbe derivata da tale culto, e la religione avrebbe contribuito
anche alla formazione delle antiche comunità cittadine,
costituite da una pluralità di gruppi di parentela. Il
carattere socialmente produttivo della religione era quindi stato
dimostrato già prima di Durkheim. Ciò presupponeva
peraltro che la religione non fosse definibile solo in termini di
dogmi e dottrine, ma anche e soprattutto di comportamenti
obbligati. Durkheim fece propria questa valutazione differenziata
della dottrina e dei riti religiosi alla luce dei loro effetti
sociali.
Nella sua analisi dei legami sociali nella società basata
sulla divisione del lavoro Durkheim assegna un ruolo rilevante
alla religione, sebbene lamenti l'assenza di una definizione
scientifica del fenomeno religioso. Nella sua teoria 'religione'
non è che un altro modo di designare la normatività
sociale. Via via che si intensifica la divisione del lavoro, si
estende l'ambito di autonomia del singolo individuo e diventa
sempre più esiguo il numero di quelle tradizioni che hanno
carattere vincolante per tutti e alle cui violazioni la
comunità reagisce con il diritto repressivo. Il diritto si
svincola progressivamente dalla religione, e così pure le
sfere e le funzioni politiche, economiche e cognitive. L'ambito
della religione si restringe progressivamente, e l'individuo
diventa sempre meno eterodiretto. Durkheim non condivideva
peraltro il pessimismo di quanti avevano deplorato questo processo
considerandolo un sintomo di disgregazione sociale. A suo avviso
il mutamento sociale avrebbe creato le condizioni per una nuova
forma di integrazione sociale. Questo residuo di esistenza
collettiva costituirebbe l'ultimo fondamento morale comune che
continua a sussistere anche nella società dominata dalla
divisione del lavoro: nella misura in cui tutte le altre credenze
e pratiche assumono un carattere sempre meno religioso,
l'individuo diventa oggetto di una forma di religione (v.
Durkheim, 1893).
Sull'origine di questo culto dell'individuo Durkheim si
esprimerà in modo più preciso in occasione di una
presa di posizione nell'affaire Dreyfus. Nel saggio
L'individualisme et les intellectuels (1898) egli replica
all'accusa secondo cui gli intellettuali, spinti da un
individualismo distruttivo, avrebbero gettato il paese
nell'anarchia con la loro critica dell'esercito e dello Stato.
Durkheim prende con decisione le difese dell'individualismo,
sostenendo che esso non deve assolutamente essere confuso con
l'egoismo, con un culto egoistico dell'Io, ma va bensì
ricondotto ai diritti umani e al principio del carattere sacro
della persona affermato da Kant e da Rousseau. L'individualismo
per Durkheim è una morale con un carattere vincolante
assoluto, non implica alcuna forma di anarchia, ma rappresenta
l'unico sistema di fede che può garantire l'unità
morale del paese. Per questa ragione, difendere gli interessi
dell'individuo significa difendere gli interessi vitali della
società. L'individualismo viene addirittura equiparato a
una religione di cui l'uomo è allo stesso tempo fedele e
divinità. "Questo culto dell'uomo ha quale dogma supremo
l'autonomia della ragione e quale rito supremo la libera verifica"
(v. Durkheim, 1898). Quanto alle origini dell'individualismo,
Durkheim lo riconduce non già all'illuminismo ma al
cristianesimo, che avrebbe spostato il centro della vita morale
dall'esterno all'interiorità, erigendo l'individuo a
giudice supremo delle proprie azioni.La tesi della religione come
'fatto sociale' che condiziona l'agire del singolo anche senza che
questi ne sia consapevole è al centro dello studio Il
suicidio, pubblicato nel 1897. Qui Durkheim rovescia il problema
affrontato ne La divisione del lavoro sociale: non si tratta
più di spiegare come sia possibile la solidarietà
nella società moderna basata sulla divisione del lavoro,
bensì di individuare le ragioni che spingono gli individui
a spezzare il vincolo sociale. Come ha osservato acutamente Lukes,
Durkheim con questo studio voleva celebrare il trionfo del proprio
metodo sociologico, dimostrando che anche nel caso di un'azione
puramente individuale come il suicidio il singolo è
condizionato da una realtà esterna indipendente da lui (v.
Lukes, 1973, p. 194).
L'esistenza di un collegamento tra confessioni religiose e tassi
di suicidio era già nota prima di Durkheim. Partendo da
dati statistici i quali dimostravano che l'incidenza del suicidio
era assai maggiore tra i protestanti che non tra i cattolici,
Durkheim (v., 1897) ritenne di aver trovato una spiegazione
convincente per questo dato sorprendente: il tasso più
elevato di suicidi tra i protestanti a suo avviso andava
ricollegato all'individualismo della loro religione. I cattolici
invece sarebbero maggiormente integrati in una comunità, e
tra gli Ebrei l'incidenza del suicidio risulta ancora minore in
quanto le costanti persecuzioni subite avrebbero contribuito a
rafforzare i loro legami di solidarietà. La religione
è dunque un fattore che incentiva oppure frena il suicidio,
ma può agire in quest'ultima direzione, proteggendo gli
individui dall'impulso autodistruttivo, solo quando forma una
comunità. I dogmi avrebbero un ruolo secondario: ciò
che conta è la capacità di una religione di dar
corpo a un'esistenza collettiva.
Con lo studio sul suicidio Durkheim intendeva dimostrare che
un'indagine sulla società deve tener conto di fatti sociali
che non sono di evidenza immediata, ma debbono essere scoperti.
Esiste una classe di azioni che gli uomini compiono autonomamente,
obbedendo tuttavia a una forma di coercizione. Le azioni che non
sono imposte da una legge di natura, ma non sono nemmeno del tutto
spontanee, formano la categoria dei faits sociaux: si tratta di
quelle forme di azione, di pensiero e di sentimento che
trascendono il singolo individuo e sono dotate di un potere
cogente in virtù del quale si impongono (v. Durkheim,
1895). Nella sua analisi dei fatti sociali Durkheim assegna un
posto privilegiato alla religione. Il motivo è spiegato
nella prefazione al secondo volume dell'"Année
sociologique": "Si resterà sorpresi del particolare rilievo
che è stato dato a questo genere di fenomeni, ma essi sono
il germe da cui sono scaturiti tutti, o quasi, gli altri. La
religione comprende in sé in via di principio, sebbene in
stato ancora embrionale, tutti quegli elementi che separandosi,
affermandosi, connettendosi tra loro in mille modi hanno dato
origine alle varie manifestazioni della vita collettiva" (v.
Durkheim, Préface, 1899). La religione appariva allora a
Durkheim la chiave per comprendere e spiegare le regole
matrimoniali, il diritto penale, in breve l'intero sistema
sociale. Da explanandum la religione si trasformava così in
explanans.
Attraverso le religioni delle società semplici secondo
Durkheim è possibile accedere alla sfera inconscia della
vita collettiva. In queste comunità inoltre non si è
ancora creata quella distanza psichica tra motivazioni e azioni
che nelle società progredite rende le prime
imperscrutabili. Poiché le religioni dei 'primitivi'
offrono modelli interpretativi di tipo cognitivo oltreché
morale, il loro studio consente di gettar luce sull'origine delle
nostre categorie di pensiero. Da esse infatti si sono sviluppate
le forme attraverso le quali organizziamo tuttora la nostra
conoscenza.
Per il suo studio Le forme elementari della vita religiosa
Durkheim (v., 1912) si servì del materiale etnografico
sugli Aranda e altre tribù australiane raccolto da due
etnologi britannici, B. Spencer e F.J. Gillen. Tale studio si apre
con una definizione della religione che precisa quelle formulate
in precedenza in altri scritti: "La religione è un sistema
solidaristico di credenze e pratiche che si riferiscono a cose,
credenze e pratiche sacre, ovvero separate e proibite, le quali
uniscono in un'unica comunità morale, chiamata chiesa,
tutti coloro che vi aderiscono". Il carattere vincolante delle
credenze, secondo Durkheim, può derivare solo dal fatto che
la religione è espressione di un gruppo sociale. Il totem
(animale o pianta che sia) costituisce l'emblema dell'appartenenza
di gruppo, e la venerazione di cui è oggetto è
socialmente produttiva, in quanto unisce i singoli individui in
una comunità dotata di una propria realtà
trascendente o sovrannaturale. I termini usati da Durkheim fanno
pensare a una sorta di miracolosa transustanziazione, in
virtù della quale un gruppo di singoli individui dà
luogo a una comunità morale.
In Le forme elementari della vita religiosa Durkheim presenta
anche un'analisi dell'animismo. L'origine di questa credenza a suo
avviso non va ricercata nell'esperienza dei sogni, della malattia
e della morte, come riteneva E.B. Tylor. Alla spiegazione
intellettualistica dell'animismo proposta da Tylor Durkheim
contrappone una interpretazione sociale, secondo la quale le
radici di tale credenza andrebbero ricercate nel dualismo
dell'uomo, che da un lato esiste come singolo individuo,
dall'altro si identifica con la collettività rappresentata
dal totem. Le tribù australiane credono che le anime
rinascano e che ognuna di esse incarni il principio totemico.
Proprio l'esistenza del principio totemico nell'uomo stesso
costituisce il fondamento della sua autonomia. La sacralizzazione
della società e l''autonomia' del singolo individuo sono
concepite da Durkheim come un sistema di vasi comunicanti. La
struttura dell'autonomia morale è ancorata alla religione
delle società elementari. La storia dell'umanità non
è che la realizzazione di ciò che la religione
primitiva aveva prefigurato.
La dimensione collettiva dell'essere umano costituisce il tema di
uno scritto durkheimiano del 1914, Il dualismo della natura umana
e le sue relazioni sociali. L'esistenza umana avrebbe una duplice
dimensione: in quanto essere corporeo l'uomo è una creatura
materiale, individuale ed egoista, in quanto dotato di anima
è un essere morale, sociale e razionale. Come già
aveva affermato Kant, l'uomo è libero di contrastare i
propri impulsi, ed è ciò a farne un essere morale.
L'uomo è persona in quanto obbedisce alla legge morale
generale, ed è individuo in quanto segue gli impulsi del
corpo. È il corpo, quindi, a determinare
l'individualizzazione del singolo; l'anima, per contro, determina
la sua autonomia rispetto alle leggi naturali. Quanto più
l'uomo si libera dalla materialità, tanto più
diventa persona.
b) Max Weber e il 'disincantamento' del mondo
Agli occhi di Max Weber, la nascita della moderna società
razionale tipica del mondo occidentale non è né un
prodotto dell'illuminismo europeo, né in generale di
un'evoluzione necessaria. Alla sua genesi contribuirono condizioni
storiche del tutto particolari, che Weber analizza in uno dei suoi
scritti più famosi, L'etica protestante e lo spirito del
capitalismo, apparso in due parti, nel 1904 e nel 1905,
nell'"Archiv für Sozialwissenschaft und Sozialpolitik". Nel
1920 Weber rielaborò e ampliò questo scritto per
inserirlo nei Gesammelte Aufsätze zur Religionssoziologie.
La connessione tra protestantesimo e capitalismo, "il carattere
prevalentemente protestante della proprietà e dell'impresa
capitalistica", non fu una scoperta di Weber (v., 1904-1905): ad
esempio già Eberhard Gothein, nel 1892, nella sua storia
economica della Foresta Nera e dei territori limitrofi l'aveva
messa in luce. Ma come spiegarla? Secondo l'interpretazione
weberiana il capitalismo poté affermarsi solo grazie al
sostegno di una forza interiore, di un ethos che gli permise di
sconfiggere un potente avversario, il tradizionalismo. Weber
illustra l'influenza esercitata dal tradizionalismo sulla sfera
economica con l'esempio del salario a cottimo. Contrariamente a
tutte le aspettative, un aumento dei salari a cottimo aveva
l'effetto di diminuire anziché di aumentare la
produttività del lavoratore. All'incremento salariale
questi reagiva diminuendo la produzione giornaliera. La
possibilità di un guadagno superiore era palesemente meno
allettante di quella di lavorare meno. Da questa constatazione
Weber trae la seguente conclusione: "L'uomo 'per natura' non vuole
guadagnare denaro e sempre più denaro, ma semplicemente
vivere, vivere secondo le sue abitudini e guadagnare quel tanto
che è a ciò necessario. Dappertutto, là dove
il capitalismo moderno iniziò la sua opera di aumento della
produttività del lavoro umano mercé l'aumento della
sua intensità, urtò nella resistenza indicibilmente
ostinata di questo motivo fondamentale del lavoro economico
precapitalistico". Questa resistenza, che Weber considera insita
nella natura umana, doveva essere spezzata perché potesse
nascere il capitalismo moderno.
Il ruolo svolto dalla religione in questo processo non era di
evidenza immediata; molti anzi avevano sostenuto che il
capitalismo fosse una conseguenza dell'emancipazione dalla
religione. L'interpretazione radicalmente diversa avanzata da
Weber fu senza dubbio influenzata dai lavori del giurista Georg
Jellinek (v., 1895), il quale aveva dimostrato che i diritti umani
moderni non erano nati dalla concezione illuministica del diritto
naturale, bensì dalla Riforma luterana. Furono i non
conformisti religiosi del XVII secolo a impegnarsi per primi per i
diritti fondamentali della libertà di fede e di coscienza
(v. König e Winckelmann, 1985², p. 15).
Interpretando la religione come istanza rivoluzionaria Weber
intendeva anche chiarire in che modo le idee agiscono nella
storia. È evidente qui la critica al materialismo storico,
che scaturisce da un modo del tutto diverso di concepire il
progresso storico. Il caso eccezionale di una rottura del
tradizionalismo, secondo Weber, fu reso possibile solo da
un'istanza superiore alla tradizione, e tale istanza va ricercata
nel versante soggettivo dell'economia, nel suo ethos. L'agire
economico necessita - come del resto ogni agire sociale - di un
conferimento di senso adeguato. L'ipotesi di un'affinità
elettiva tra agire e conferimento di senso deriva dalla concezione
del potere che Weber espliciterà in seguito in Economia e
società. L'agire sociale, che è sempre riferito al
comportamento di altri individui, può riuscire solo quando
tutti i soggetti gli attribuiscono un unico e medesimo senso.
Interazioni sociali regolari possono sussistere solo quando tutti
i soggetti concordano sulla validità di un sistema di
senso, e quanto più a esso viene attribuita una
validità incondizionata, tanto più aumenta la
probabilità di una riuscita regolare delle interazioni
sociali. Partendo da queste riflessioni di ordine sistematico,
Weber incentra l'attenzione sulla religione al fine di spiegare
perché l'economia capitalistica sia sorta nei paesi
protestanti.
Nell'Etica protestante Weber isola una condotta di vita metodica
che avrebbe costituito la forza propulsiva del capitalismo. Per
ricostruire tale ethos il sociologo tedesco attinge agli scritti
devozionali dei puritani inglesi risalenti alla seconda
metà del XVII secolo. Scaturiti direttamente dalla prassi
pastorale, questi scritti cercavano di inculcare nel fedele la
convinzione che la salvezza non può essere ottenuta
attraverso i sacramenti. È solo l'imperscrutabile
volontà divina a decidere chi sarà salvato e chi no;
nessuno potrà mai avere certezze al riguardo, e di
conseguenza l'uomo non può fare altro che assolvere con
scrupolo i propri doveri quotidiani, fare del proprio meglio e
dare buona prova di sé nella professione. Il successo deve
essere considerato il primo indizio della grazia, ma solo il
lavoro indefesso e la rinuncia al piacere garantirebbero le
opportunità di salvezza. Questa dottrina teologica della
predestinazione ebbe dunque una particolare conseguenza pratica:
costituì il fondamento di un'ascesi intramondana che da un
lato disprezza il godimento sfrenato della ricchezza, dall'altro
libera l'aspirazione al guadagno dalle pastoie dell'etica
tradizionalista. Senza dubbio ciò non rientrava nelle
intenzioni dei predicatori, e tuttavia tra i laici, in condizioni
particolari, questa dottrina contribuì a consolidare una
condotta di vita che scalzò l'agire economico di tipo
tradizionale. Interpretando i concetti religiosi come modelli di
condotta di vita, Weber getta luce sulle interpretazioni di senso
di quegli strati sociali che per primi superarono il
tradizionalismo. Ascesi intramondana, spirito, vocazione,
conferma, sono tutti concetti riconducibili a un ethos che mirava
a svincolare l'economia dai bisogni tradizionali. Proprio
l'assenza della certezza della salvezza costituì la forza
propulsiva che permise di rivoluzionare l'ordinamento economico,
spezzando i vincoli posti dal tradizionalismo all'aspirazione al
guadagno. Allorché una determinata classe sociale
adottò questo modello di condotta e conquistò il
potere, l'intero sistema sociale prese una nuova direzione di
sviluppo.
Per quanto acute, queste osservazioni di Weber non hanno mancato
di suscitare critiche. Alcuni storici ad esempio hanno rilevato
che gli scritti devozionali utilizzati da Weber risalgono a
un'epoca in cui molti puritani si erano ritirati dalla politica
per dedicarsi esclusivamente allo svolgimento delle loro
attività professionali (v. Lehmann, 1988, p. 540). Il
puritanesimo descritto da Weber pertanto non sarebbe tipico di
tutte le forme di puritanesimo. La debolezza della sua
argomentazione, si è ancora sostenuto, consisterebbe nel
fatto di cercare di spiegare un fenomeno tedesco del XIX secolo -
la distribuzione statisticamente ineguale del capitale tra
luterani, calvinisti e cattolici - sulla base della letteratura
edificante inglese del XVII secolo (v. Ay, 1995). Un altro motivo
di perplessità, sempre legato alle fonti, è dato dal
fatto che Weber avrebbe desunto la tesi secondo cui il calvinismo
spingerebbe all'attivismo, mentre il luteranesimo porterebbe al
quietismo, dall'arsenale delle polemiche confessionali del XIX
secolo (v. Graf, 1993).
Nel 1911 Weber pose nuovamente mano ai suoi studi di sociologia
della religione, cimentandosi nell'impresa titanica di indagare il
rapporto tra l'economia e le grandi religioni mondiali -
confucianesimo, induismo, buddhismo, islamismo e cristianesimo. A
spingerlo su questa strada fu la convinzione che non solo il
protestantesimo, ma tutte le grandi religioni fossero sostenute da
potenti classi sociali, e che alla base dei differenti sistemi
religiosi vi fossero differenti classi sociali. Attraverso la
storia delle religioni, a suo avviso, era possibile determinare e
spiegare il differente corso sociale intrapreso dalle grandi
civiltà. Weber era convinto che "sono gli interessi
(materiali e ideali) e non le idee, a dominare direttamente
l'attività dell'uomo. Ma le 'concezioni del mondo' create
dalle 'idee' hanno spesso determinato, come chi aziona uno scambio
ferroviario, i binari lungo i quali la dinamica degli interessi ha
mosso tale attività" (v. Weber, 1915; tr. it., vol. I, p.
342).
Frutto di queste ipotesi di lavoro fu Die Wirtschaftsethik der
Weltreligionen (1915-1920), che si presenta come una vera e
propria ricostruzione storica delle grandi religioni mondiali. La
concezione della religione di Weber si richiama non all'animismo
di E.B. Tylor, bensì al preanimismo di R.R. Marett: la
religione non si sarebbe sviluppata dalla credenza nell'anima, ma
dal timore reverenziale di fronte allo straordinario e
all'inesplicabile. Secondo lo schema evolutivo delineato da C.P.
Tiele le religioni naturali - le quali vedono il mondo animato da
forze sovrannaturali che possono essere controllate con la magia -
lasciano il posto con la comparsa dei profeti alle religioni
etiche: "La sostituzione delle religioni naturali con le religioni
etiche è stata di norma il risultato di una rivoluzione, o
perlomeno di una riforma cosciente" (v. Tiele, 1897, p. 63).
Rifacendosi a Max Müller, Tiele aveva operato una distinzione
tra una concezione 'teoantropica', che considera la
divinità immanente nella natura umana, e una concezione
'teocratica', in cui essa si contrappone all'uomo come potenza
estranea. Le religioni naturali e le religioni etiche
corrisponderebbero a due stadi evolutivi diversi della religione,
laddove le due concezioni della divinità summenzionate
indicherebbero i due orientamenti divergenti intrapresi
rispettivamente dalle religioni indoeuropee e da quelle semitiche
(ibid., pp. 150-181). Weber riprende sostanzialmente questo
schema, aggiungendovi però il concetto di
religiosità della redenzione, attinto non già da
Tiele bensì da H. Siebeck, secondo il quale la religione
della redenzione rappresenta una categoria autonoma. Questa scelta
gli consente di tematizzare la 'religiosità' quale
dimensione soggettiva della religione. In relazione al concetto di
religiosità della redenzione, però, ancora
più importante dell'influenza di Siebeck fu quella di
Troeltsch. Da questi Weber mutua l'idea che la forza propulsiva di
ogni evoluzione religiosa sia l'esperienza della
inesplicabilità e della mancanza di senso del mondo: "Il
problema dell'irrazionalità del mondo è stato la
forza propulsiva di ogni sviluppo religioso. La dottrina indiana
del karma e il dualismo persiano, l'idea del peccato originale,
quella della predestinazione e del deus absconditus sono scaturite
tutte da questa esperienza" (v. Weber, 1919). Dall'esperienza
dell'impotenza secondo Weber sarebbero scaturiti progressivamente
i vari sistemi di interpretazione religiosa del mondo:
dall'esperienza della imprevedibilità della natura il
dinamismo, dal rifiuto del medium cultuale l'etica religiosa,
dall'esperienza dell'assenza di giustizia le teodicee.
Ciò che spinse Weber a estendere la sua indagine alle
religioni extraeuropee fu la scoperta della peculiarità del
razionalismo occidentale. Il concetto chiave a questo riguardo
è quello di 'disincantamento', cui Weber attribuisce
un'importanza tale da immetterlo "come un corpo estraneo" (v.
Tenbruck, 1975, p. 667) nella nuova versione dell'Etica
protestante: proprio l'assoluta mancanza di una salvezza
ecclesiale-sacramentale - scrive Weber - fu rispetto al
cattolicesimo l'elemento decisivo. "Quel grande processo
storico-religioso di disincantamento del mondo che si
iniziò con le antiche profezie giudaiche, e che in unione
col pensiero scientifico greco rigettò tutti i mezzi magici
nella ricerca della salvezza, considerandoli come superstizione
delittuosa, trovò qui la sua conclusione" (v. Weber,
1904-1905; tr. it., vol. I, p. 197).
Per comprendere il ruolo fondamentale che Weber attribuisce alla
nozione di 'disincantamento' occorre rifarsi alla sua distinzione
tra agire soggettivamente razionale rispetto allo scopo e agire
oggettivamente razionale. Il primo può fondarsi sulla
condotta di vita dell'individuo senza dover essere oggettivamente
giusto. Il mondo oggettivo, 'corretto', dei fatti e il mondo
soggettivo della condotta di vita razionale sono geneticamente
indipendenti. A ciò avrebbe provveduto appunto il
'disincantamento'. La pretesa che il corso del mondo sia in
qualche modo dotato di senso scaturiva dalla religione, ma
poiché si trattava di una pretesa irrealizzabile, il
problema della sofferenza ingiustificata portò
progressivamente a una crescente svalorizzazione del mondo (v.
Weber, 1915). Da tale svalorizzazione si sarebbe sviluppata la
consapevolezza che il mondo e le sue forme di vita obbediscono a
leggi autonome. È dunque nella storia della religione che
andrebbe ricercata l'origine dello iato creatosi tra il mondo dei
fatti e il mondo del significato. Così come l'ascesi
intramondana avrebbe creato l'etica del capitalismo, dal
disincantamento del mondo sarebbe scaturito il postulato pratico
secondo cui esso sarebbe governato da leggi impersonali.
In questo processo però interveniva anche un altro elemento
importante: quella che Weber definisce 'etica dell'intenzione'
(Gesinnungsethik). Solo in concomitanza con essa il
disincantamento poté compiere la sua opera rivoluzionaria.
La religiosità si sarebbe quasi trovata costretta ad
accettare con il crescente disincantamento del mondo riferimenti
di senso sempre più (soggettivamente) irrazionali rispetto
allo scopo, basati su principî o valori morali o di tipo
mistico (v. Weber, Über einige..., 1913). Il disincantamento
del mondo esteriore dei fatti avrebbe dato libero spazio a
conferimenti di senso soggettivi. Nel descrivere le tensioni tra
l'etica della religiosità di negazione del mondo e
l'autonomia dell'agire economico e politico razionale rispetto
allo scopo, Weber fornisce diversi esempi che dimostrano come nel
mondo ridotto a meccanismo sdivinizzato persistano alternative
improntate all'etica dell'intenzione. Assieme ai loro presupposti
razionali, tali alternative formerebbero la tipica cultura
occidentale. Nel mondo disincantato dei fatti il singolo individuo
sarebbe costretto a dare egli stesso un senso al mondo; nessuna
conoscenza empirica potrebbe essergli d'aiuto in questo compito.
Il carattere contraddittorio della cultura occidentale viene
analizzato da Weber nel saggio Wissenschaft als Beruf (1917-1919).
Nel mondo moderno l'esistenza quotidiana è teatro di uno
scontro tra posizioni diametralmente opposte. Proprio la completa
riuscita del processo di disincantamento del mondo avrebbe
dischiuso negli ordinamenti di vita oggettivati quegli spazi in
cui la storia della religione può continuare sotto diverse
condizioni. In precedenza Weber aveva ricollegato questa
continuità dell'esigenza religiosa con l'intellettualismo:
"Quanto più l'intellettualismo fa recedere la credenza
nella magia e i processi del mondo vengono 'disincantati', perdono
il loro contenuto di senso e si limitano a 'essere' e ad
'accadere', tanto più cresce e si fa pressante l'esigenza
che il mondo e la 'condotta di vita' nel suo complesso siano
dotati di senso e di significato" (v. Weber, 1917-1919). In questo
modo il disincantamento riproduce quel problema che aveva dato
impulso alla nascita e allo sviluppo della religione. Se il cosmo
è retto da leggi impersonali, l'individuo volente o nolente
deve rifondare autonomamente la propria soggettività,
indipendentemente da ogni realtà precostituita, facendo
riferimento a valori. Da un lato la realtà si riduce a mera
fatticità, dall'altro il senso diventa un problema di
onestà intellettuale e di decisione personale.
Nella prima versione dell'Etica protestante sembrava che la
dinamica sociale avesse annullato tutti i valori tranne quelli
legati all'etica professionale razionale. Weber concludeva allora
la sua analisi della condotta di vita razionale con la cupa
visione di una "gabbia d'acciaio" da cui non esiste scampo (v.
Weber, 1904-1905). La concezione del disincantamento del mondo
sviluppata nel 1911 segna un mutamento di prospettiva. Il
misticismo non è una mera categoria residua, un pendant
passivo rispetto all'ascesi attiva (v. Schluchter, Religion und
..., 1988, vol. II, p. 81), ma diventa un'alternativa altrettanto
legittima nel mondo disincantato. La razionalizzazione formale del
mondo ammette una pluralità di razionalizzazioni della
condotta di vita (v. Mommsen, 1985 e 1993). Al singolo individuo
è lasciata piena responsabilità di condurre la
propria vita in conformità con decisioni soggettive. A
questo proposito può essere utile richiamare la differenza
tra il concetto di 'condotta di vita' e quello di 'agire' messa in
luce da W. Gephart (v., 1993, p. 51). Il valore della condotta di
vita non si fonda sul successo nell'interazione, ma sulla saldezza
di un sistema di norme a fronte delle inevitabili delusioni. Sia
l'ascesi che il misticismo rappresentano tali norme cristallizzate
della condotta di vita. Il pluralismo delle decisioni individuali
creerebbe i presupposti per la sopravvivenza della religione, sia
pure in condizioni diverse, anche nel mondo razionalizzato e
disincantato.
Un ruolo importante per il fenomeno religioso è attribuito
da Weber alla categoria degli intellettuali. "Nel passato [...] la
natura particolare degli strati intellettuali era oltremodo
importante per le religioni. Il loro compito principale era la
sublimazione del possesso della salvezza religiosa in una fede
nella 'redenzione'. La concezione dell'idea di redenzione era in
se stessa antichissima, se si intende come liberazione dal
bisogno, dalla fame, dalla siccità, dalla malattia, e
infine dalla sofferenza e dalla morte. Ma la redenzione
acquistò un carattere specifico solo quando fu espressione
di una 'concezione del mondo' razionalizzata e sistematizzata e
della presa di posizione nei confronti di essa" (v. Weber, 1915;
tr. it., vol. I, p. 342). La religiosità della redenzione e
il ruolo degli intellettuali assumono un'importanza centrale nella
ricostruzione weberiana della storia della religione. L'esperienza
dell'irrazionalità del mondo è l'elemento
fondamentale sulla base del quale effettuare la comparazione delle
grandi religioni mondiali. "La concezione metafisica di Dio, che
suscitò il bisogno inestirpabile della teodicea, fu
parimenti in grado di produrre soltanto pochi sistemi di pensiero
- in tutto, come vedremo, soltanto tre - che dessero delle
risposte soddisfacenti sul piano razionale al problema del
fondamento dell'incongruenza tra destino e merito. Si tratta della
dottrina indiana del karma, del dualismo di Zarathustra e del
decreto di predestinazione del deus absconditus. Queste soluzioni,
le più rigorose razionalmente, sono apparse però
solo in via del tutto eccezionale nella loro forma pura" (ibid.,
p. 338). Poiché il problema del male e dell'ingiustizia
è sostanzialmente irrisolvibile, la storia della religione
continua il suo cammino anche nella società contemporanea.
Le grandi religioni sia asiatiche che occidentali rappresentano
risposte intellettuali a queste esperienze universali dell'uomo, e
di conseguenza si tratta di opzioni sempre attuali, che nel mondo
disincantato avrebbero lo status di fondamenti della condotta di
vita.
D'altro canto, tuttavia, il ruolo della religione nel mondo
disincantato si differenzia da quello che essa aveva nel mondo
tradizionale. Quanto più sono gli intellettuali in via di
principio a problematizzare il 'senso' del mondo, tanto più
il 'senso' viene delegato al soggetto. Le religioni tradizionali
diventano massime della condotta di vita che acquistano
validità sulla base di una decisione soggettiva. Le
antiche, molteplici divinità, disincantate e quindi sotto
forma di potenze impersonali, escono dalle loro tombe, lottano per
riaffermare il loro potere sulla nostra vita e ricominciano la
loro eterna lotta reciproca (v. Weber, 1917-1919). Persino gli dei
dunque possono essere disincantati e acquistare potere sulla vita
umana come forze impersonali. Lo stesso intellettualismo che ha
determinato il disincantamento del mondo può ancora
concepire gli dei trasformandoli in valori sublimati. Tali valori,
secondo Weber, si sono ritirati dalla sfera pubblica o nel regno
occulto della vita mistica o nella fratellanza di relazioni
dirette tra i singoli (ibid.). Egli comunque riteneva poco
probabile che da ciò potesse scaturire un reale
rinnovamento religioso.
4. Tre paradigmi teorici
Nei suoi sviluppi successivi la sociologia della religione non ha
accolto incondizionatamente tutte le sollecitazioni dei classici.
Mentre sia Weber che Durkheim ritenevano che la religione fosse
una funzione della società e quindi della vita pubblica, le
due principali teorie della religione formulate successivamente
diedero un'interpretazione sostanzialmente diversa del ruolo e
delle funzioni della religione. La fenomenologia pone a fondamento
della religione l'esperienza personale, mentre il funzionalismo ne
individua la ragion d'essere nelle sue funzioni latenti per il
sistema sociale. Solo a seguito dell'influenza esercitata dalla
filosofia del linguaggio sull'analisi della cultura la religione
è stata interpretata come parte integrante dell'agire
comunicativo e quindi della sfera pubblica.
a) La fenomenologia
Al centro della cosiddetta 'fenomenologia della religione' vi
è l'idea che questa sia un fenomeno autonomo e
irriducibile. Il postulato di un'autonomia della religione fu
formulato a cavallo tra Ottocento e Novecento, e si riconnetteva
all'auspicio che essa potesse esercitare un'azione a distanza
sulla cultura moderna proteggendo la personalità del
singolo dalle coercizioni della società moderna (v.
Kippenberg, 1996). Un ruolo non trascurabile ebbe a questo
riguardo il risveglio dell'interesse per il pensiero di Friedrich
Schleiermacher, i cui principali artefici furono Wilhelm Dilthey e
Rudolf Otto. Secondo Dilthey, i principî meccanicistici sono
stati illegittimamente applicati allo spirito, riducendo l'uomo a
una mera macchina di percezione e conoscenza della realtà
esterna. Ciò avrebbe inficiato anche la concezione della
religione. Questa, come già aveva affermato Schleiermacher,
esprimerebbe per Dilthey l'esperienza dell'unione 'mistica'
dell'uomo e della natura con l'infinito.
Alla base dell'ermeneutica sviluppata da Dilthey vi è
l'idea di un isomorfismo tra l'esperienza (Erlebnis) religiosa
interiore, che è sempre soggettiva e individuale, e le sue
oggettivazioni in fatti esteriori, la cui comprensione consente
una conoscenza obiettiva del fenomeno religioso (v. Dilthey,
1911). Le due dimensioni - i fatti esteriori quali oggettivazioni
della religione e l'esperienza religiosa interiore - si
presuppongono reciprocamente. La comprensione della storia della
religione produce in un unico e medesimo processo un sapere sia
oggettivo, sia pratico-esistenziale.Le idee di Dilthey vennero
riprese e sviluppate dal filosofo della religione Rudolf Otto, cui
si deve una nuova edizione critica, a cent'anni dalla prima
pubblicazione, dei famosi scritti sulla religione di
Schleiermacher. Questi, secondo Otto, avrebbe compiuto un
significativo e originale tentativo di riavvicinare alla religione
un'epoca che ha perso ogni interesse e ogni legame con essa.
Rispetto alle sfere della conoscenza e dell'azione, secondo
Schleiermacher, la religione costituisce un ambito a sé
stante dell'esistenza umana, della vita spirituale, completamente
indipendente da quelle e dotato di un valore autonomo (v. Otto,
1899). Contro la cultura intellettualistica e il filisteismo del
razionalismo nello Stato, nella Chiesa, nella scuola e nella
società, Schleiermacher fa appello alla fantasia, alla
profondità interiore, al presagio, al misticismo, a
ciò che è storicamente divenuto e positivo in
contrasto con ciò che è 'naturale', a ciò che
è individuale e particolare in contrasto con
l'universale-razionale.
Nel suo studio sul sacro Otto (v., 1917) riafferma l'autonomia
della religione rispetto alla conoscenza e alla morale. Le
categorie concettuali risultano inadeguate alla comprensione del
fenomeno religioso, che può essere colto e spiegato solo
facendo appello ai sentimenti. Otto rifiuta recisamente la
riduzione della religione a esigenze etiche. Il 'numinoso'
è precisamente il sacro spogliato dall'elemento morale
ovvero razionale. Solo trattandolo come datum primario della vita
esso può essere reso accessibile alla coscienza.
La risonanza internazionale delle idee di Otto contribuì in
misura considerevole all'affermarsi di un'interpretazione della
religione come esperienza individuale irriducibile. Illustri
storici della religione, tra cui Mircea Eliade, si richiamarono a
Otto proponendo una concezione del fenomeno 'religione' in cui
fattori come morale e conoscenza hanno un ruolo del tutto
marginale. Affermare l'autonomia della religione significava
ribadirne il carattere di sfera privata, sottraendola quindi alle
spiegazioni riduzionistiche della sociologia e soprattutto alle
ingerenze politico-ideologiche. In base all'approccio ermeneutico
della Lebensphilosophie, nell'analisi della religione l'ultima
parola spetta all'esperienza religiosa soggettiva. Il luogo
d'elezione delle religioni può essere solo la sfera privata
individuale, non la sfera pubblica.
b) Il funzionalismo
Negli stessi anni i sociologi andavano sviluppando un particolare
tipo di analisi funzionalistica della religione. Il paradigma
funzionalistico, ispirato al modello dell'organismo biologico, si
basava sui seguenti postulati: che la società costituisce
un'unità, che le sue istituzioni forniscono un contributo
essenziale al mantenimento della coesione sociale e che tali
istituzioni, in virtù di questa funzione, sono
indispensabili. Robert K. Merton, uno dei più illustri
esponenti della scuola funzionalista, intraprese una revisione
critica di questo paradigma rilevando come esso ignori
completamente la distinzione fondamentale tra motivazioni
consapevoli e conseguenze non intenzionali dell'azione; spesso,
infatti, le azioni hanno conseguenze non volute dall'attore, che
vengono percepite solo da un osservatore esterno. Secondo Merton,
quindi, è indispensabile per l'analisi sociologica
distinguere tra funzioni manifeste e funzioni latenti. La
distinzione in questione si dimostra particolarmente importante
per un'istituzione quale la religione. Il comportamento
manifestamente irrazionale potrebbe avere una funzione razionale,
come nel caso della magia; anche se questa si fonda su assunti
erronei, svolge nondimeno funzioni sociali indispensabili (v.
Merton, 1968³, pp. 86 ss.).
Un esempio di queste 'funzioni latenti' delle credenze religiose
è dato dai rituali di ribellione nell'Africa sudorientale
studiati dall'etnologo inglese Max Gluckman (v., 1953). Egli
analizza un rito per propiziare il raccolto, che si svolgeva ogni
anno in primavera tra gli Zulu, la cui caratteristica saliente era
il sovvertimento dei ruoli maschili e femminili. J.G. Frazer - che
al pari di Tylor adottava un'interpretazione intellettualistica
della religione - aveva ricondotto questo tipo di rituale al
'pensiero magico' proprio dei popoli primitivi. Gluckman
però restava scettico di fronte a questa spiegazione. Al
suo occhio di etnologo non poteva sfuggire il fatto che tra gli
Zulu covavano conflitti sociali tra uomini e donne. Richiamandosi
alla nozione aristotelica di catarsi, egli affermò che la
funzione del rito era quella di scaricare l'aggressività
delle donne e quindi di ripristinare la stabilità sociale.
La ribellione rituale può aver luogo solo all'interno di un
ordine sociale che non viene posto in discussione, ed è
quindi ben lontana da una rivoluzione sociale. Ciò che
appare come un rivolgimento è in realtà funzionale
alla conservazione dell'ordine sociale.
L'idea che comportamenti apparentemente irrazionali possano essere
spiegati facendo riferimento alle loro funzioni latenti fu ripresa
da altri etnologi. Già Bronislaw Malinowski, del resto,
aveva aperto la strada in questa direzione nella sua analisi della
magia trobriandese. I Trobriandesi facevano ricorso a pratiche
magiche solo quando si trattava di affrontare imprese rischiose,
come ad esempio la pesca del pescecane; per i compiti di routine e
privi di rischi, invece, adottavano tecniche e comportamenti
ispirati a principî empirici e razionali. La funzione
latente della magia allora sarebbe quella di creare sicurezza in
situazioni di tensione emozionale. Contrariamente a quanto aveva
sostenuto Frazer, Malinowski riteneva che la magia non potesse
essere interpretata come una sorta di falsa scienza: "La funzione
della magia è quella di ritualizzare l'ottimismo degli
uomini" (v. Malinowski, 1925).
La distinzione tra funzioni manifeste e funzioni latenti è
stata oggetto di numerose critiche. In particolare, secondo
Anthony Giddens sarebbe poco verosimile che gli uomini non tengano
conto delle conseguenze non intenzionali delle loro azioni anche
al ripetersi dell'esperienza. Ciò potrebbe accadere solo se
il soggetto fosse una sorta di monade. Di fatto l'individuo
è portato a riflettere costantemente sulle proprie azioni
alla luce dell'esperienza e a modificarle. Le conseguenze non
intenzionali dell'azione diventano le condizioni note del
comportamento successivo. Tali processi retroattivi sono tipici di
qualunque azione (v. Giddens, 1984). Alla luce di questa critica
al funzionalismo 'classico' un allievo di Gluckman, Victor Turner,
ha reinterpretato anche il rituale di ribellione descritto in
precedenza. Sebbene le modifiche apportate possano apparire
irrilevanti, il risultato nel complesso è qualitativamente
diverso. Agli occhi di Turner la gerarchia sociale è
fondamentalmente precaria, in quanto contrasta con l'eguaglianza
naturale di tutti gli uomini - la communitas, come egli la
definisce. I rituali di ribellione pertanto sono sempre anche
esercizi mentali per un'autentica rivoluzione (v. Turner, 1969).
La tesi di Turner sembra trovare una conferma significativa nel
rituale aschura degli sciiti in Iran. La sconfitta subita nel 680
dall'imam sciita al-Ḥusain a Kerbelā veniva celebrata ogni anno in
quello che aveva tutti i caratteri di un tradizionale rituale di
ribellione. La sollevazione contro lo scià alla fine degli
anni settanta venne celebrata con una nuova versione di questo
rituale, che questa volta non terminava con una sconfitta,
bensì con una vittoria - l'empio Yazid, che incarnava lo
scià, veniva sconfitto. I rituali di ribellione, si
può concludere, non hanno una funzione esclusivamente
catartica, ma possono diventare il modello di un nuovo ordine
politico.
c) La religione come sistema culturale
Gli intensi dibattiti sollevati dallo studio di Clifford Geertz,
Religion as a cultural system - uno dei più discussi della
seconda metà del secolo -, coinvolsero anche gli studiosi
della religione, oltre che gli etnologi e gli storici. In esso
infatti Geertz (v., 1966) sanciva la fine dei due paradigmi che
avevano dominato lo studio della religione sino agli anni
sessanta, il funzionalismo e la fenomenologia. Dichiarando sterile
la vecchia controversia che per decenni aveva opposto le due
scuole - se la religione debba essere definita come credenza
individuale o come funzione sociale - Geertz impostò il
problema in termini diversi, affermando che la religione è
un fenomeno di rilevanza sociologica non in quanto rispecchia
l'ordine sociale, bensì in quanto lo crea. Nel sostenere
questa tesi egli si richiamava alla filosofia delle forme
simboliche di E. Cassirer e della sua allieva S. Langer. A
differenza degli altri esseri viventi, l'uomo si servirebbe dei
segni non solo per designare le cose, ma anche per rappresentarle.
Il linguaggio - come insegnava la gnoseologia filosofica -
rappresenta il mondo, consentendoci di conoscerlo e di comprendere
il significato che esso ha per noi. Il mondo ci è dato solo
attraverso simboli, e questi possono essere di due tipi:
linguistici e non linguistici. Nel primo caso il significato degli
oggetti viene trasmesso in forma discorsiva, nel secondo viene
rappresentato nella sua integrità (v. Langer, 1942). Geertz
riprende tale distinzione tra simboli discorsivi e simboli
rappresentativi applicandola allo studio della religione. Nella
sua analisi i simboli religiosi avrebbero la funzione di
"unificare l'ethos di un popolo - il suo stile, il suo carattere e
la sua natura, il suo orientamento etico e le sue tendenze
estetiche - con la sua visione del mondo, l'immagine che esso ha
delle cose nella loro pura datità, le sue idee d'ordine nel
senso più ampio. Le credenze e le pratiche religiose
rendono l'ethos di un gruppo credibile sul piano intellettuale
[...] e la concezione del mondo credibile sul piano emotivo". In
questa prospettiva la vecchia disputa sulla priorità tra
credenza e funzione appare obsoleta. L'attenzione va rivolta
invece all'interrelazione tra i due elementi. La funzione della
religione sarebbe quella di creare una sintesi tra l'immagine del
mondo di un popolo e il suo ethos pratico, e nel far ciò
essa sosterrebbe l'una con l'autorità dell'altro. La
religione renderebbe evidenti i concetti metafisici, e fornirebbe
una spiegazione intellettuale per le azioni e la mentalità
dell'uomo.L'approccio di Geertz metteva in discussione non solo il
funzionalismo, ma anche la fenomenologia. Interpretando la
religione nei termini della Lebensphilosophie, Rudolf Otto, Nathan
Söderblom e Gerarddus van der Leeuw avevano sostenuto che
solo sulla base della propria esperienza personale (Erlebnis)
l'interprete può comprendere le testimonianze religiose del
lontano passato e di culture estranee. Affermando che immagine del
mondo ed ethos, credenza e azione si convalidano a vicenda, Geertz
poneva l'ermeneutica su nuove basi.
Una scossa alla tesi, posta in dubbio da Geertz, secondo cui solo
sulla base dell'Erlebnis personale la religione risulta
interpretabile, fu data dalla pubblicazione postuma del diario di
Malinowski. Se nei suoi scritti questi aveva esortato l'etnologo
ad adottare il metodo dell'osservazione partecipante, andando a
vivere con i membri della comunità studiata e partecipando
attivamente alla loro vita, nei diari manifesta invece una viva
insofferenza e una totale incomprensione per gli indigeni,
arrivando a dichiarare: "Posso ben capire la crudeltà del
colonialismo belga e tedesco!" Il problema che qui emerge è
stato messo chiaramente in luce da Geertz: "Se la conoscenza
etnologica non presuppone, come si è fatto credere, una
sensibilità straordinaria, una capacità quasi
sovrannaturale di pensare, di sentire e di percepire le cose come
un indigeno, [...] com'è possibile allora in generale una
conoscenza etnologica delle modalità di pensiero, di
sentimento e di percezione degli indigeni? Il problema che ci pone
il diario [...] non è di ordine morale, ma gnoseologico
[...]. Che ne è della comprensione, se manca l'empatia?"
(v. Geertz, 1977). In questa prospettiva perdeva fondamento anche
la vecchia fenomenologia della religione, che aveva fatto
dell'esperienza prelinguistica del singolo principio e fine
dell'interpretazione della religione. Geertz cerca di risolvere il
problema posto dal diario di Malinowski affermando che alla base
del lavoro dell'interprete non vi è l'empatia, bensì
l'osservazione del modo in cui gli uomini agiscono nel contesto
delle forme simboliche attraverso cui rappresentano se stessi e
gli altri. L'osservazione deve subentrare all'intuizione. Il
ricercatore, secondo Geertz, deve studiare in che modo le azioni
manifestino le immagini del mondo, e le immagini del mondo vengano
tradotte in pratica dalle azioni. Per essere significativa, la
descrizione di azioni e comportamenti deve mostrare quando e come
le immagini del mondo acquistano realtà sociale attraverso
l'agire. È chiaro che questo approccio di Geertz, in cui la
comprensione/interpretazione è strettamente connessa
all'osservazione, si differenzia sia dalla fenomenologia che dal
funzionalismo classico; lo si potrebbe definire 'funzionalismo
ermeneutico'.
A partire dagli anni sessanta molte delle idee di Geertz sono
state recepite dagli etnologi, dagli storiografi e dagli studiosi
di religione. Il binomio 'belief and action' si è
sostituito alla vecchia idea della comprensione intuitiva. Come ha
osservato acutamente A. MacIntyre (v., 1967), tra credenza e
azione non esistono nessi causali. Ogni azione necessita di una
spiegazione da parte dell'attore - in caso contrario non si
tratterebbe di un comportamento riflesso. Le autentiche azioni
esprimono idee e credenze, e in relazione a ciò possono
essere giudicate coerenti o incoerenti. A seguito delle
sollecitazioni provenienti da questi nuovi sviluppi teorici, le
molteplici interrelazioni tra idee e azioni sono diventate
l'oggetto d'indagine privilegiato nello studio della religione. Al
funzionalismo classico - che postulava un sistema sociale
integrato e attori non consapevoli delle conseguenze delle proprie
azioni - e alla fenomenologia - che postulava un'esperienza
religiosa atemporale - è subentrata la teoria dell'agire
comunicativo: la religione può essere osservata analizzando
i ruoli e le funzioni che esplica nell'interazione pubblica, e
può essere compresa attribuendole il valore di
un'interpretazione di senso.
5. La religiosità nella cultura moderna
La tesi di Weber, secondo cui al disincantamento della
società fa riscontro inevitabilmente un 'reincantamento'
della condotta di vita del singolo, è stata ripresa e
modificata in tempi recenti da autori quali P. Berger, N. Luhmann
e A. Giddens. Nella società le religioni hanno assunto
nuovi ruoli e nuove funzioni come sistemi di interpretazioni di
senso. Il carattere saliente di questo mutamento può essere
espresso come trapasso dalla 'religione' alla 'religiosità'
(v. Luckmann, 1967). A trovare seguaci entusiasti non è
più la religione tradizionale nella sua totalità, ma
il suo valore di interpretazione del senso della storia, della
natura e della persona. Sul piano organizzativo questo mutamento
ha avvantaggiato i piccoli gruppi (sette e culti) piuttosto che le
Chiese. Pur nella varietà di forme assunte dalla
religiosità nel mondo contemporaneo, emergono due
orientamenti ricorrenti, l'apocalittica e il misticismo, presenti
non solo nel cristianesimo occidentale, ma anche nel giudaismo,
nell'islamismo e nell'induismo.
a) Le sette fondamentaliste
Weber rifiutava la tesi di Ernst Troeltsch, secondo il quale solo
le Chiese e non le sette possono essere universali e fondare un
cristianesimo popolare, mettendo in luce come le sette nascano da
una 'aspirazione alla purezza'. In quanto comunità di
virtuosi religiosi, gli unici votati alla salvezza, la setta si
separa dalla Chiesa come un'istituzione che fa splendere la sua
luce sia sui giusti che sugli ingiusti. Questa esclusività
della setta tuttavia non significa che essa non possa avere un
carattere universale e popolare. Il caso degli Stati Uniti per
Weber dimostrava il contrario: in questo paese la religione aveva
un carattere popolare proprio perché il tipo di
religiosità dominante era quello della setta. L'intuizione
di Weber si è dimostrata fondata.
Come emerge da uno studio sullo sviluppo delle denominazioni
statunitensi condotto da R. Finke e R. Stark, le sette che si
oppongono alla cultura dominante ed esigono dai propri membri una
condotta di vita virtuosa hanno oggi un maggior numero di seguaci
rispetto alle comunità 'liberali'. "Le organizzazioni
religiose sono tanto più forti quanto più impongono
costi rilevanti in termini di sacrifici, e persino di
stigmatizzazione, ai loro membri" (v. Finke e Stark, 1992, p.
238). Il conflitto con la cultura dominante ha contribuito a
espandere e a rafforzare le denominazioni, mentre l'adattamento le
ha indebolite (ibid., p. 255).
Una conferma a questa ipotesi viene dal caso del fondamentalismo.
Con questo termine si indica un movimento di riformati, sorto tra
il 1910 e il 1915 negli Stati Uniti, per difendere quali
'fondamenti' (fundamentals) del cristianesimo i dogmi
dell'infallibilità della Bibbia, dell'immacolata
concezione, della resurrezione del corpo, del sacrificio di Cristo
in espiazione dei peccati dell'umanità e di una sua seconda
incarnazione alla fine dei tempi. All'inizio il movimento si
caratterizzò come una reazione interna alla Chiesa contro
la teologia 'liberale', che aveva eliminato questi dogmi a causa
della loro inverosimiglianza scientifica. Negli anni venti il
contrasto travalicò l'ambito ecclesiale spostandosi sul
terreno politico. I fondamentalisti invocavano un intervento
diretto delle autorità statali affinché ponessero
fine alle scandalose conseguenze dell'industrializzazione, come
l'alcolismo e la prostituzione, e vietassero l'insegnamento di
dottrine scientifiche in disaccordo con il racconto biblico della
creazione. Nello Stato del Tennessee, ad esempio, essi riuscirono
a far proibire l'insegnamento delle teorie di Darwin nelle scuole
pubbliche. L'insegnante John Scopes, con l'appoggio di numerosi
liberali, denunciò il fatto e intentò un
procedimento giudiziario che lo vide sconfitto, ma che ebbe
l'effetto di screditare gravemente il fondamentalismo agli occhi
dell'opinione pubblica. Quello che divenne noto come 'processo
alle scimmie' contribuì a far apparire i fondamentalisti
come illetterati e reazionari.
Negli anni sessanta tuttavia la situazione cambiò e il
movimento fondamentalista cominciò ad apparire sotto una
luce più favorevole. Ciò si dovette in parte ad
alcune decisioni della Corte Suprema, in particolare la
proibizione della preghiera nelle scuole pubbliche e la
legalizzazione dell'aborto in determinate circostanze, che
suscitarono viva indignazione tra ampi strati della popolazione. I
fondamentalisti si mobilitarono contro l'aborto e per la tutela
della morale cristiana tradizionale da parte dello Stato. Mentre
nella giurisprudenza emergeva la preoccupazione di svincolare
l'azione dello Stato e le istituzioni pubbliche da un'influenza
religiosa troppo diretta, i fondamentalisti reclamavano un
riconoscimento ufficiale della morale cristiana tradizionale.
I nuovi gruppi fondamentalisti non rispondono più al
cliché di un movimento di protesta reazionario. Come ha
osservato Martin E. Marty (v. Marty e Appleby, 1992), la
definizione del 'fondamentalismo' come credenza nella
infallibilità delle Sacre Scritture, tuttora proposta dai
dizionari, non è più attendibile. Rispetto
all'ortodossia ecclesiale i gruppi fondamentalisti sono troppo
politicizzati, selettivi e innovativi; rispetto al conservatorismo
politico sono troppo religiosi e troppo poco adattati alle
istituzioni esistenti. Si tratta di gruppi che reagiscono alle
sfide poste alla fede tradizionale, che difendono determinati
dogmi, formano movimenti esclusivi, sono in opposizione con i
poteri sociali e politici, combattono il relativismo e il
pluralismo, difendono l'autorità e negano la teoria
evoluzionistica. In breve, si tratta di gruppi che conoscono il
mondo di vita moderno, ma lo respingono. È questa una
caratteristica che accomuna il fondamentalismo a correnti analoghe
nelle altre religioni (giudaismo, islamismo, induismo e
buddhismo).
I fondamentalisti conoscono la dinamica del mondo di vita moderno
con la sua scienza e la sua tecnologia, le sue forme di dominio
burocratico e il suo mercato mondiale, e tuttavia rifiutano di
elevare tale dinamica a massima della condotta di vita individuale
e di conformare la propria esistenza ai criteri della
modernizzazione che antepone l'autonomia alla tradizione, il
mutamento alla continuità, la quantità alla
qualità, l'efficienza ai valori tradizionali. Il sociologo
Martin Riesebrodt (v., 1990) ha cercato di delineare il 'milieu
sociomorale' dei movimenti fondamentalisti, i cui tratti salienti
sarebbero l'appartenenza a una medesima religione, una situazione
economica analoga, un vicinato comune e uno stesso orientamento
morale. Il ceto medio protestante anglosassone di razza bianca ha
costituito un siffatto milieu, e la modernizzazione ne avrebbe
incrementato in misura significativa l'omogeneità.
Il mondo di vita moderno richiede altri valori rispetto a quelli
tradizionali della parsimonia, della fedeltà alla Bibbia,
del senso della famiglia e della struttura patriarcale. Oggi si
rendono necessari investimenti, flessibilità,
mobilità, capacità di adattamento, individualismo,
critica della tradizione. Le norme valide in passato sono state
rese obsolete dal progredire dell'industrializzazione, della
scienza, dell'urbanizzazione e dei partiti burocratici. La
dinamica del mutamento sociale ha messo in crisi le forme di
condotta di vita tradizionali, ponendo i membri del ceto medio
protestante di fronte a una decisione difficile: cogliere le
opportunità offerte dalla modernizzazione, oppure difendere
la condotta di vita tradizionale contro il mondo moderno. Mentre i
protestanti liberali hanno optato per la prima soluzione,
abbandonando la morale tradizionale, i fondamentalisti hanno
espresso un radicale rifiuto del mondo moderno, che si esprime
però non già in un ritiro dal mondo corrotto, ma
nella rivendicazione aperta e aggressiva di una riforma morale.
Le sette protestanti hanno guadagnato seguaci anche al di fuori
degli Stati Uniti. Particolarmente significativo è il loro
successo in America Latina (v. Martin, 1990). Nel 1916 i
protestanti in quest'area erano ancora un'esigua minoranza, alla
metà degli anni trenta 2,5 milioni, negli anni sessanta 5
milioni e negli anni ottanta 40. Secondo Martin il fenomeno va
posto in connessione con il crollo dell'ordinamento sociale
gerarchico. Finché in America Latina aveva dominato una
oligarchia di latifondisti legati al cattolicesimo, il suo
avversario era costituito da un laicismo militante. La situazione
cambiò con l'industrializzazione a partire dagli anni
trenta, e con la dittatura militare dopo gli anni sessanta. La
rottura dell'ordine sociale offrì l'opportunità di
affermarsi al protestantesimo, che rifiuta sostanzialmente la
gerarchia e sostiene che la religione è un problema di
coscienza del singolo individuo. Esso trovò seguaci
soprattutto tra gli emarginati, i quali si rivolgevano alle sette
radicali sperando in una redenzione, non solo dalle malattie ma
anche dal peccato (alcolismo, violenza e promiscuità). Per
queste sette si rivela particolarmente calzante l'osservazione di
Finke e Stark, secondo cui quanto più esse pretendono dai
propri seguaci sacrifici e un rigido autocontrollo, tanto
più acquistano forza.
b) I movimenti apocalittici
Come ha dimostrato E.R. Sandeen (v., 1970), il movimento religioso
di cui il fondamentalismo fu espressione era nato assai prima
della controversia dottrinale sui fundamentals, e si collocava
nella tradizione dell'interpretazione apocalittica della storia
che conobbe una rinascita agli inizi del XIX secolo. Dopo le
guerre di religione europee del Seicento, le intense aspettative
dell'avvento del regno di Dio erano state accolte con diffidenza
sia nelle Chiese che tra i cittadini, o avevano incontrato un
aperto rifiuto. Solo al principio dell'Ottocento intervenne un
mutamento in questo atteggiamento. L'esperienza della Rivoluzione
francese, che aveva espresso una critica radicale alla religione
sostituendo alla Chiesa il culto paganeggiante della ragione,
contribuì a dare nuovo impulso alla credenza in una fine
catastrofica della storia. In Inghilterra gli avvenimenti francesi
vennero interpretati come l'avverarsi di una profezia di Daniele
(7, 25): "[L'ultimo re] proferirà parole insolenti contro
l'Altissimo [...] e cercherà di cambiare i tempi e le
leggi" (ibid., p. 6). L'ingloriosa fine di questa rivoluzione
apparve a molti cristiani una dimostrazione del fatto che gli
uomini non sono in grado di determinare con le proprie forze un
progresso verso uno stato migliore. Apocalittica e profetismo
conobbero una rinascita. Dall'inizio dell'Ottocento in
Inghilterra, in Germania e negli Stati Uniti si moltiplicarono
aspettative e movimenti apocalittici.
In Inghilterra nel periodo dell'industrializzazione (1790-1850) le
sette protestanti superarono per numero di seguaci le Chiese di
Stato. Con il metodismo si diffuse tra gli operai un 'chiliasmo
della disperazione'. Anche in Germania nell'Ottocento si ebbero
fasi di intensificazione delle aspettative chiliastiche. Nella
prima metà del secolo si erano diffuse nella regione del
Württemberg, dopo che il teologo Bengel fissò come
data d'inizio del regno millenario il 18 giugno 1836. In seguito
tali sette si diffusero nelle regioni industriali tedesche (v.
Hölscher, 1989). Negli Stati Uniti ebbe un'enorme risonanza
il predicatore William Miller, il quale sulla base di una
personale interpretazione delle profezie bibliche annunciò
il ritorno di Cristo sulla terra per il 1843. Il mancato
verificarsi della predizione non fu inteso da Miller e dai suoi
seguaci come una smentita, ma come una procrastinazione concessa
da Dio per consentire ai fedeli di fare penitenza e opera di
evangelizzazione. L. Festinger e altri (v., 1964, pp. 12-23) hanno
visto in questo episodio una conferma della loro tesi secondo cui
i fedeli non abbandonano necessariamente le loro credenze quando
gli eventi attesi non si verificano. La dissonanza cognitiva,
fonte di turbamento, in genere viene ridotta intensificando
l'azione missionaria.
Tra i fondatori di movimenti apocalittici va citato anche John
Nelson Darby (1800-1882), fondatore della setta dei Plymouth
brethren e del cosiddetto 'premillenarismo'. Secondo Darby le
profezie bibliche si riferivano in parte agli eventi che precedono
l'avvento di Cristo, in parte a eventi futuri. Dopo la
crocefissione e la resurrezione di Gesù, Dio avrebbe
continuato ad adempiere le profezie bibliche. La fine del tempo si
approssima: "Al segnale dato mediante la voce dell'Arcangelo e la
tromba di Dio [...] saremo rapiti sulle nubi per andare a
incontrare il Signore" (Tess., I, 4, 17). Dopo verrà la
"tribolazione sì grande, quale non vi fu mai dal principio
del mondo sino a ora, né mai vi sarà", profetizzata
da Matteo (24, 21), e anche Israele risorgerà. È
interessante notare che Darby, discostandosi dalle dottrine
dominanti della Chiesa, attribuisce agli Ebrei un ruolo importante
nell'avvento della fine dei tempi (v. Sandeen, 1970, pp. 59-80).
Il 'premillenarismo' di Darby ebbe vasta risonanza negli Stati
Uniti e divenne un elemento essenziale nel movimento
fondamentalista. Ancor oggi nel Nordamerica è ampiamente
diffusa la credenza che nell'epoca attuale si avvereranno le
profezie bibliche. Secondo P. Boyer (v., 1992), una riprova
dell'enorme popolarità della corrente premillenarista negli
Stati Uniti può essere considerato il successo del libro di
H. Lindsey e C.C. Carlson, The late planet earth (1970), che
interpreta la minaccia della catastrofe nucleare sulla base della
Bibbia. Fino al 1990 il libro ha avuto una tiratura di 28 milioni
di copie.Il successo del fondamentalismo protestante dimostra come
nell'ambito della filosofia della storia l'apocalittica sia
diventata nel nostro secolo la principale antagonista della fede
nel progresso. Contrariamente a Karl Löwith, il quale
riteneva che vi fosse una sostanziale continuità tra
l'escatologia cristiana e la credenza laica nel progresso, Hans
Blumenberg ha sostenuto che le due concezioni hanno diversa
origine e pertanto sono destinate a restare interpretazioni
inevitabilmente divergenti della storia.L'interpretazione
apocalittica della storia moderna non fu alimentata solo dal
protestantesimo. Movimenti e correnti analoghi si ritrovano anche
all'interno del giudaismo. Sin dagli anni settanta l'antica
contrapposizione tra un messianismo religioso che rifiutava ogni
attivismo in vista della fine dell'esilio, e il sionismo laico e
nazionalistico, lasciò il posto a una nuova sintesi, un
attivismo nazionalistico di tipo religioso, il cui principale
artefice è stato il mistico rabbi Kuk (v. Ravitzky, 1996).
Un'interpretazione apocalittica dell'epoca attuale caratterizza
anche il fondamentalismo islamico delle confraternite (v. Marty e
Appleby, 1992 e 1995, cap. IV).
c) Misticismo, esoterismo e new age
L'appassionata ricerca delle radici della cultura europea che vide
coinvolti storici, filosofi e linguisti dell'Ottocento
portò a individuare due grandi tradizioni, quella
greco-romana, o 'ellenismo', che aveva concepito la natura come
animata, e quella giudaico-cristiana, o 'ebraismo', cui veniva
imputata invece una concezione del mondo come materia morta e
inanimata. Un contributo fondamentale in questa direzione venne
dall'opera dell'indologo e studioso del fenomeno religioso
Friedrich Max Müller, che analizzò la differenza tra
la visione del mondo giudaico-cristiana e quella greca sulla base
della comparazione linguistica, per la quale poté servirsi
di testi vedici che erano stati decifrati di recente. Con
l'ausilio della filologia, Müller indagò le origini
linguistiche delle religioni indoeuropee (arie) e semitiche.
All'origine della corrente indoeuropea egli individuò
quella che a suo avviso costituiva la scoperta più
importante del XIX secolo, ossia l'equazione tra il greco Zeus
pater, il latino Juppiter, il sanscrito Dyaus pitar e l'antico
norvegese Tyr. Tutti questi nomi sarebbero derivati da un'unica
forma comune, dyau pitar, che letteralmente significa 'Padre
Cielo'. Migliaia di anni prima di Omero e dei poeti vedici, scrive
Müller, i progenitori della stirpe aria invocavano un Essere
invisibile con un unico e medesimo nome, il nome più
spirituale e sublime che poteva offrire il loro vocabolario
d'allora, il nome del Cielo e della Luce. La principale
caratteristica della religione aria, secondo Müller, sarebbe
quella di esprimere con un vocabolo l'adorazione di Dio nella
natura, la percezione della divinità che agisce dietro i
fenomeni naturali. Müller mette a confronto questa mistica
della natura indoeuropea con la concezione biblica. La
caratteristica distintiva di tutte le religioni semitiche sarebbe
a suo avviso l'"adorazione di Dio nella storia". Il Dio venerato
dai Semiti non era tanto il signore della natura, quanto piuttosto
il signore del destino del singolo, della tribù e del
popolo. Partendo dall'identità dei nomi indoeuropei
dell'Essere celeste, Müller (v., 1873) postula una fase
originaria della storia dell'umanità in cui questa avrebbe
avuto un'appercezione diretta della divinità; ogni
individuo può fare esperienza del divino nella natura
stessa. Nel 1875 il contemporaneo di Müller Matthew Arnold
imputò all'ebraismo la mancanza di spiritualità del
mondo di vita moderno. Circa vent'anni dopo Max Weber
individuerà nella religione giudaico-cristiana la forza
propulsiva del disincantamento del mondo.
L'idea di Müller, secondo cui la religiosità è
una facoltà umana che può essere attualizzata nella
contemplazione della natura da ogni singolo individuo, è
assai vicina alle concezioni del misticismo tedesco. Può
sembrare paradossale che il misticismo venga considerato parte di
una particolare tradizione di pensiero, se è vero che la
sua caratteristica essenziale è proprio quella di essere
un'esperienza universale e ineffabile. Sul piano storico
(nonché sistematico) vi sono peraltro buone ragioni per
considerare il misticismo una tradizione, sebbene non
specificamente tedesca o cristiana, ma comune a tutte le grandi
religioni (v. Katz, 1983).
L'espressione 'misticismo tedesco' fu coniata da un allievo di
Hegel per indicare la continuità tra la religione medievale
e la filosofia tedesca moderna (v. Weeks, 1993, p. 1). La
rivelazione di Dio non sarebbe limitata al passato; la Bibbia, la
storia e la natura sarebbero tre forme parallele di rivelazione.
Come si legge in una poesia medievale di Daniel Czepko: "Tutto
trabocca di Dio. L'erbetta è un libro, se cerchi di
aprirlo, ti si schiuderà la creazione e ogni sapere"
(ibid., p. 186). Questa tematica venne ripresa e sviluppata dal
romanticismo. Novalis, ad esempio, espresse l'idea che l'infinito
esiste nel finito; il mondo avrebbe in sé una vis occulta
che può essere svelata allo spirito umano. Là dove
l'uomo impara il linguaggio segreto della natura, nasce la
religione.Contemplazione mistica e ascesi sono considerate da
Weber i due principali sbocchi che la religiosità della
redenzione ha assunto rispettivamente nel mondo orientale e in
quello occidentale. W. Schluchter (v., 1979) e J. Habermas (v.,
1981) hanno ripreso la tipologia weberiana e hanno operato una
distinzione tra concezione cosmocentrica e concezione teocentrica,
individuando in quest'ultima uno dei presupposti del processo di
razionalizzazione occidentale.
Il misticismo divenne un elemento importante nella Kulturkritik
tedesca tra la fine dell'Ottocento e i primi del Novecento. Un
ruolo significativo a questo riguardo fu svolto da Eugen
Diederichs, fondatore dell'omonima casa editrice tedesca, il quale
si fece portavoce di tutti coloro che avevano cominciato a mettere
in dubbio il valore del progresso scientifico-tecnico (v.
Hübinger, 1987 e 1996). Considerando il cristianesimo
corresponsabile dell'appiattimento e della meccanizzazione della
vita moderna, Diederichs interpretò la crisi della cultura
contemporanea anche come una crisi religiosa (v. Kippenberg, 1996;
v. Graf, 1996). La crescente insofferenza nei confronti dello
spirito del tempo contemporaneo, espresso da un arido materialismo
da un lato, e da una religione unilaterale dell'intelletto e della
volontà dall'altro, avrebbe portato secondo Diederichs alla
nascita di un 'nuovo misticismo', che si sarebbe configurato come
un "confronto critico con la modernità" (v. Hübinger,
1987, p. 102).
Tra gli esponenti del nuovo misticismo può essere
annoverato anche il filosofo tedesco Martin Buber, il quale in
Ekstatische Konfessionen (1909) propone una rielaborazione
personale del misticismo della tradizione ḥasidica, secondo cui
Dio è presente in ogni singola cosa ed esperibile in ogni
semplice fatto. Per Buber l'esperienza religiosa ci condurrebbe in
regioni dell'esistenza inaccessibili all'intelletto. Una tesi
molto simile venne espressa dal filosofo americano William James,
il quale nel famoso libro The varieties of religious experience
(1902) descrive quegli stati di coscienza che possono essere
definiti 'esperienze mistiche'. Ciò che caratterizza tali
esperienze è l'impossibilità di tradurle in parole,
la loro capacità di dischiudere all'individuo un sapere
inattingibile all'intelletto discorsivo, il carattere transitorio
e il modo inaspettato e improvviso in cui sopraggiungono.
L'individuo che sperimenta tali stati di coscienza acquista
consapevolezza della propria libertà dalle leggi del cosmo;
la realtà esterna non è più maya, illusione.
Esperienze di questo tipo, relativamente lontane dal pensiero
concettuale, rinviano secondo James a un Sé svincolato
dalla causalità naturale.
La continuità di questa tradizione è attestata da
una varietà di fenomeni religiosi contemporanei -
misticismo, spiritismo, teosofia, new age - per i quali A. Faivre
ha proposto l'etichetta di 'esoterismo occidentale'. Si tratta di
una forma di pensiero alla base della quale vi sarebbero i
seguenti principî: 1) esiste una corrispondenza tra cosmo e
uomo, o tra natura e storia; 2) la natura è animata da
forze segrete; 3) tali forze occulte possono essere conosciute sia
in forma mediata sia attraverso l'immaginazione soggettiva; 4)
questa conoscenza è in grado di trasformare tanto il
soggetto che la percepisce quanto la natura stessa. A ciò
si aggiungono altre idee che si ritrovano anche al di fuori dello
stretto ambito dell''esoterismo occidentale', come quella secondo
cui le tradizioni di varia origine si fonderebbero sincreticamente
in una gnosi universale, o il principio secondo cui il sapere
esoterico viene trasmesso da un maestro ai suoi discepoli. Come ha
dimostrato recentemente W.J. Hanegraaff (v., 1996), questa forma
di pensiero si ritrova, sviluppata e rielaborata, anche nel
movimento new age. L'organizzazione sociale di questo tipo di
religiosità è sempre stata debole se non del tutto
assente. I sociologi americani definiscono 'culti' i movimenti di
questo tipo per distinguerli dalle sette (v. Stark e Bainbridge,
1985, pp. 19-37). A differenza di queste ultime, che hanno origine
dalla rottura nei confronti di una Chiesa, i culti in genere sono
liberi sin dall'inizio da qualunque legame ecclesiale, e
ciò ha portato alcuni a mettere in dubbio la
legittimità di considerare i culti come autentiche
comunità religiose. In alcuni casi - e ciò vale in
particolare per la new age - i culti non hanno mai dato luogo a
gruppi formalmente organizzati. Stark e Bainbridge menzionano a
questo riguardo il fenomeno dei cosiddetti 'audience cults', in
cui gli adepti conoscono i maestri solo attraverso i media e non
formano alcun gruppo.