Religione

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Complesso di credenze, sentimenti, riti che legano un individuo o un gruppo umano con ciò che esso ritiene sacro, in particolare con la divinità, oppure il complesso dei dogmi, dei precetti, dei riti che costituiscono un dato culto religioso (v. fig.).

1. Il concetto di religione

Il concetto di r. non è definibile astrattamente, cioè al di fuori di una posizione culturale storicamente determinata e di un riferimento a determinate formazioni storiche. Il termine viene dal lat. religio, parola di discussa etimologia, con cui gli antichi Romani indicavano un tipo di atteggiamento di fronte a determinate cose (per es., tombe o genitori); malgrado i caratteri specifici del concetto romano di religio (religiosum, in latino, è distinto da sacrum), con il cristianesimo il termine si è esteso a tutto quanto riguardava il rapporto dell’uomo con Dio. Da questo concetto d’origine cristiana della r. si è svolto quello della r. in generale.
L’origine storica del concetto ha per lungo tempo impedito un’adeguata comprensione di quelle formazioni culturali che comunemente si chiamano r. e che sono di origini particolari e diverse: non è necessario infatti che una r. implichi un concetto di Dio, abbia articoli di fede, comprenda azioni di culto, né forme di carattere morale; come massimo comune denominatore di ogni complesso chiamato r. si può ritenere il rapporto di un gruppo umano con ciò che esso ritiene ‘sacro’, tenendo tuttavia presente che anche quest’ultimo concetto è indefinibile e storicamente condizionato.

Nella cultura europea fra tardo Rinascimento e Illuminismo si maturò il concetto di r. naturale , intesa come la r. i cui articoli, semplici e universalmente accessibili, sono pienamente conformi alla ragione. Tale r. finisce per articolarsi sul riconoscimento dell’esistenza di Dio e dell’immortalità dell’anima e, soprattutto, in un complesso elementare di leggi morali. Accezione diversa dà all’espressione r. naturale la tradizione teologica, che distingue fra r. naturale e r. rivelata : la prima riferita alle capacità naturali dell’uomo, la seconda fondata invece sulla rivelazione divina che fa conoscere verità e mezzi spirituali che trascendono le possibilità naturali dell’uomo e gli permettono di realizzare un rapporto nuovo con il Dio che si rivela e si dona.

2. Storia delle religioni

La storia delle r. è lo studio delle r. come prodotti storici; studio indipendente, cioè, da ogni riferimento trascendentale rispetto alla storia, come sarebbero la questione della verità obiettiva o del valore soteriologico che il soggetto religioso può attribuire alla propria r. e che rientrano nella competenza dello studio teologico delle singole r., mentre per la storia delle r. anche l’atteggiamento dei soggetti religiosi costituisce materia di studio dal punto di vista storico.

La storia delle r. come disciplina scientifica non ha, nella pratica, bisogno di una definizione precisa del concetto della r.: sia perché essa parte preferibilmente dalla più larga accezione possibile del termine, per non escludere a priori alcun fenomeno che possa eventualmente interessarle, sia perché, in effetti, la r. si presenta inscindibilmente intessuta nella totalità degli aspetti della civiltà umana. Istituzioni politiche e sociali (come, per es., la regalità o la famiglia), economiche (caccia, agricoltura, mestieri vari), arti, tecniche, costumi, hanno immancabilmente addentellati storici, quando non addirittura le radici stesse, nella r.; anche la visione della natura, dell’ambiente, della storia, presso i singoli popoli, è raramente priva di nessi con idee religiose.

2.1 Antichità classica

In una visione d’insieme, limitandosi all’orizzonte culturale europeo, si può dire che gli inizi degli studi storico-religiosi risalgono alla civiltà greca arcaica. La r. diventa oggetto di riflessione per chi non la vive più spontaneamente: così i primi pensatori greci trovano inconciliabili miti e culti con i criteri razionali e morali del pensiero. Contemporaneamente i primi storiografi viaggiatori (Ecateo di Mileto, Erodoto) vengono a conoscere le r. di altri popoli e intuiscono la relatività delle forme religiose. Con Aristotele e la sua scuola si hanno i primi studi sistematici sulle varie religioni. La critica filosofica delle tradizioni religiose e il confronto di r. differenti pone il problema dell’origine delle r., mentre la tendenza dei pensatori a purificare l’idea della divinità da ogni elemento antropomorfico suggerisce di considerare gli dei delle credenze popolari come demoni minori, intermediari tra la vera divinità e gli uomini.

2.2 Medioevo

Il primo cristianesimo accoglie volentieri queste teorie, in cui trova armi utili per combattere il paganesimo: allegorie, o personaggi umani o demoni, gli dei pagani non sono dei. Poiché però il confronto delle diverse r. era ormai entrato nella cultura generale, neanche agli apologeti cristiani sfuggivano alcuni elementi comuni tra cristianesimo e r. pagane (soprattutto i misteri). Le spiegazioni in proposito (sviluppate poi nel Medioevo) erano sostanzialmente due: o i pagani antichi avevano avuto sentore della dottrina rivelata a Mosè e l’avevano malamente copiata (teoria del plagio) o Dio stesso, in considerazione dell’ignoranza umana, avrebbe permesso agli antichi Ebrei certe forme pagane del culto che dovevano essere superate successivamente dalla vera religione (teoria della condiscendenza divina). Queste restano le teorie sulle r. per tutto il Medioevo e nel Rinascimento, anche perché la cultura classica resta il fondamento di ogni istruzione. Il contatto con il mondo islamico non produce, in Europa, alcun orientamento nuovo (interpretazione allegorica del Corano).

2.3 Età moderna

Soltanto nel 18° sec. un ampliato orizzonte dell’osservazione (dovuto anche ai missionari) e gli studi più approfonditi portano qualche nuova posizione teorica e sollevano nuovi problemi. A G.B. Vico spetta il primato d’intuire l’origine puramente umana e spontanea della mitologia, in cui egli scopre il prodotto di una fantasia primitiva impressionata dai grandiosi fenomeni naturali; Vico è il primo a inserire la r. nell’insieme della civiltà umana. Ma il suo pensiero resta in ombra per lungo tempo, mentre con l’Illuminismo prevale una posizione intellettualistica nell’interpretazione storico-religiosa: la r. naturale, cioè corrispondente allo spirito umano, e non più quella rivelata, starebbe alle basi di tutte le r., le quali tuttavia ne presenterebbero deformazioni dovute a interessi delle classi sacerdotali e alla debolezza umana. Sempre al 18° sec. risalgono anche le origini di quell’evoluzionismo che dovrà dominare il campo degli studi storico-religiosi per un intero secolo: D. Hume è il primo a sostenere che il politeismo, appunto in quanto più primitivo del monoteismo, è più antico di quest’ultimo, che rappresenterebbe un progresso della mente umana.

La prima metà del 19° sec. porta a una maturazione progressiva degli studi contemporaneamente su due linee: anzitutto su quella dei criteri scientifici della ricerca (formazione della filologia, archeologia, storiografia moderne) e in secondo luogo su quella dell’approfondimento teorico, sempre più libero dalle eredità classiche e teologiche. Si arriva così alla seconda metà del 19° sec., in cui si forma una vera storia delle r. come disciplina scientifica autonoma. La scoperta linguistica della famiglia di lingue indoeuropee e la relativa teoria del ‘protoindoeuropeo’ stanno alle basi della teoria storico-religiosa di un’originaria r. protoindoeuropea che, in base alle r. dei singoli popoli di lingua indoeuropea, M. Müller e E.B. Tylor tentano di ricostruire. La base teorica di questo nuovo indirizzo è l’evoluzionismo, secondo cui l’intero genere umano percorrerebbe una linea unica di progresso, segnato da tappe successive, che si possono determinare nell’animismo, nel politeismo e nel monoteismo.

2.4 Età contemporanea

Successivamente anche questo modo di vedere viene superato, soprattutto per l’apporto degli etnologi, che, sul finire del 19° sec. e nei primi anni del 20° sec., al posto di uno schema unico di evoluzione, introducono la distinzione di cicli storico-culturali qualitativamente differenti (L. Frobenius, F. Graebner, B. Ankermann, W. Schmidt). Con ciò i ‘primitivi’ cessano di essere considerati come un grado basso dell’evoluzione lineare e l’interesse degli etnologi, anche dal punto di vista della r., si rivolge piuttosto al carattere qualitativo della mentalità dei popoli primitivi (H. Lévy-Bruhl).

In parte per opera di queste ricerche, in parte di altre (come quelle di R. Otto, condotte particolarmente sulle r. indiane e sul cristianesimo) la r. non è più considerata come una ‘scienza primitiva’, ma rivela il suo carattere di fenomeno spirituale autonomo. La r. viene così interpretata in funzione delle forme d’esistenza dei popoli, e soprattutto della loro organizzazione sociale. Il punto di vista sociologico domina le ricerche di eminenti studiosi francesi (É. Durkheim, M. Mauss, H. Hubert, la cosiddetta scuola sociologica). L’indirizzo funzionalistico trova la propria limitazione nell’esistenza di fenomeni religiosi analoghi in civiltà per ogni altro aspetto differenti: se questi, nell’indirizzo evoluzionistico, formavano la base di una comparazione universale con il presupposto di un progresso lineare e di ‘sopravvivenze’ inerti, nella nuova visione essi costituiscono il fondamento di una nuova fenomenologia religiosa (G. van der Leeuw, M. Eliade). L’apporto degli studi psicologici moderni, specie della psicanalisi, ai problemi storico-religiosi (S. Freud, C.G. Jung, O. Rank) si fa notare del resto anche nell’interpretazione di singole r. storiche (K. Kerényi). Infine l’universalità di singoli fenomeni o strutture religiose, anche nei pochi casi in cui si possa sostenerla, non esclude la storicità della loro formazione.

Oggi, oltre ai problemi metodologici, gli studi storico-religiosi si trovano di fronte alle difficoltà derivanti dalle crescenti esigenze di specializzazione, dato che lo studio di una r. richiede la precisa conoscenza filologica, archeologica, storica e sociale delle civiltà di cui essa fa parte.

Enciclopedia del Novecento (1982)

Religione

Sommario: 1. Definizioni: la religione e il sacro. 2. Manifestazione del sacro. 3. Lo spazio sacro. 4. Vivere in un mondo sacro. 5. Il tempo sacro. 6. La struttura delle feste. 7. I miti come modelli esemplari. 8. Natura e soprannatura: gli dei celesti. 9. Il dio remoto. 10. La vita come esperienza religiosa. 11. Tra Yahweh e Baal. 12. Struttura e funzione dei riti. 13. Riti di iniziazione. 14. Gli specialisti del sacro: sciamani e stregoni. 15. Mistici e profeti. 16. Classificazione delle religioni. 17. Atteggiamenti verso le religioni forestiere: a) mondo antico; b) cristianesimo, giudaismo, islamismo. 18. Lo studio scientifico delle religioni. □ Bibliografia.

1. Definizioni: la religione e il sacro

Il termine ‛religione' viene dal latino religio. Etimologicamente religio è fatto derivare da relegere (‛osservare coscienziosamente') o da religare (‛legare'). Per i Romani religio stava a indicare una serie di precetti e di proibizioni e, in senso lato, precisione, rigida osservanza, sollecitudine, venerazione e timore degli dei; il termine non aveva alcuna attinenza, per esempio, con le tradizioni mitiche né con le feste degli dei. Pertanto religio non comprendeva molte importanti dimensioni religiose: miti, feste, soteriologie ed escatologie, ecc.
D'altro lato, il termine ‛religione' non comprende tutte le esperienze del sacro. È motivo di meraviglia la sua applicazione indiscriminata al Vicino Oriente antico, all'ebraismo, al cristianesimo e all'islamismo o all'induismo, al buddhismo e al confucianesimo, nonché ai cosiddetti popoli primitivi. Ma forse è ormai troppo tardi per cercare un'altra parola, e ‛religione' può ancora essere un termine utile, sempre che si tenga bene a mente che non implica necessariamente fede in Dio, o negli dei, o negli spiriti: si riferisce solo all'esperienza del sacro, e pertanto è strettamente connesso con le nozioni di ‛essere', ‛significato' e ‛verità'.
È invero difficile concepire come la mente umana possa operare senza la convinzione che esiste qualcosa di assolutamente ‛reale' nel mondo, ed è impossibile immaginare il sorgere della coscienza senza conferire un ‛significato' agli impulsi e alle esperienze dell'uomo. La consapevolezza di un mondo reale e pieno di significato è intimamente connessa con la scoperta del sacro. Attraverso l'esperienza del sacro, la mente umana afferrò la differenza tra ciò che si rivela reale, potente, ricco e pieno di significato e ciò che non si rivela tale, cioè il flusso caotico e precario delle cose, la vicenda fortuita e senza senso del loro apparire e scomparire.

Il ‛sacro' è un elemento della struttura della coscienza, non uno stadio evolutivo della sua storia. Un mondo che abbia un senso - e l'uomo non può vivere nel ‛caos' - è il risultato di un processo dialettico che potrebbe essere chiamato la manifestazione del sacro. La vita umana assume un significato attraverso l'imitazione di modelli paradigmatici rivelati da esseri soprannaturali. L'imitazione di modelli oltreumani costituisce una delle caratteristiche fondamentali della vita religiosa, una caratteristica strutturale che prescinde dalla cultura e dal momento storico. A partire dalle più arcaiche esperienze religiose documentate sino al cristianesimo e all'islamismo, l'imitazione di modelli, intesa come norma e guida della vita dell'uomo, non è mai venuta meno, né del resto avrebbe potuto essere altrimenti. Ai livelli culturali più arcaici, già il ‛vivere come un essere umano' è di per sé un atto religioso, poiché l'alimentazione, la vita sessuale e il lavoro hanno un valore sacrale. In altre parole, essere - o meglio divenire - un uomo significa essere ‛religioso'.

Pertanto, sin dall'inizio la riflessione filosofica si è trovata di fronte a un mondo di significati che era, geneticamente e strutturalmente, ‛religioso', e questo è vero in linea generale e non soltanto nei confronti dei ‛primitivi', degli orientali e dei presocratici. La dialettica del sacro precedette e servì da modello per tutte le forme dialettiche successivamente scoperte dalla mente umana. L'esperienza del sacro, rivelando l'‛essere', il ‛significato' e la ‛verità' in un mondo ignoto, caotico e spaventoso, pose le basi per l'elaborazione del pensiero sistematico. Le manifestazioni del sacro espresse in simboli, miti, esseri soprannaturali, ecc., vengono afferrate come ‛strutture', e costituiscono un linguaggio preriflessivo, che esige una ermeneutica particolare. Per più di un quarto di secolo storici e studiosi di fenomenologia della religione hanno cercato di elaborare un'ermeneutica siffatta. Questo tipo di indagine non è paragonabile alla ricerca erudita, sebbene anch'essa possa valersi di documenti provenienti da culture da lungo tempo scomparse e da popoli remoti. In virtù di un'ermeneutica adeguata, la storia delle religioni cessa di essere un museo di fossili, rovine e obsoleti mirabilia per diventare quel che avrebbe dovuto essere sin dall'inizio per ogni ricercatore: un complesso di ‛messaggi' che attendono di essere decifrati e compresi.

2. Manifestazione del sacro

L'uomo diviene consapevole del sacro perché il sacro si manifesta come qualcosa di completamente diverso dal profano. Per designare l'atto attraverso il quale il sacro si manifesta abbiamo proposto il termine ‛ierofania'. È un termine appropriato, perché non implica null'altro che quello che dice; non esprime nulla di più di quanto implichi il suo significato etimologico, e cioè che qualcosa di sacro si mostra a noi. Si potrebbe dire che la storia delle religioni - da quelle più primitive a quelle più progredite - è costituita da un gran numero di ierofanie, da manifestazioni di realtà sacre. Dalla ierofania più elementare - la manifestazione del sacro in oggetti comuni, come una pietra o un albero - alla ierofania suprema (per il cristianesimo, l'incarnazione di Dio in Gesù Cristo) non vi è soluzione di continuità. In ogni ierofania ci si trova di fronte al medesimo atto misterioso: qualcosa che appartiene a un ordine del tutto diverso, una realtà che non appartiene al nostro mondo si manifesta in oggetti che sono parte integrante del nostro mondo naturale ‛profano'.

L'uomo occidentale moderno prova un certo disagio di fronte a molte manifestazioni del sacro. Trova difficile accettare il fatto che, per molti esseri umani, il sacro può manifestarsi, ad esempio, nella forma di una pietra o di un albero. Ma non si tratta in verità di una venerazione della pietra in quanto tale, di un culto dell'albero in quanto tale. L'albero sacro, la pietra sacra non sono adorati come pietra o come albero; sono venerati proprio perché ierofanie, perché in essi si mostra qualcosa che non è più pietra o albero, ma il sacro, l'‛interamente altro' (ganz andere), secondo l'espressione di R. Otto.

Non si sottolineerà mai abbastanza il paradosso rappresentato da ogni ierofania, anche la più elementare. Manifestando il sacro, un qualsiasi oggetto diviene ‛qualcosa di diverso' pur rimanendo quello che è, perché continua a far parte dell'ambiente cosmico che lo circonda. Una pietra ‛sacra' resta una ‛pietra'; in apparenza (o, più esattamente, sotto l'aspetto profano), nulla la distingue da tutte le altre pietre. Ma per coloro cui la pietra si rivela sacra, la sua realtà immediata si tramuta in una realtà soprannaturale. In altre parole, per coloro che vivono un'esperienza religiosa tutta la natura è in grado di rivelarsi come sacralità cosmica. Il cosmo nella sua globalità può diventare una ierofania.

L'uomo delle società arcaiche tende a vivere il più possibile nel sacro o in prossimità di oggetti consacrati. Questa tendenza è perfettamente comprensibile, perché, per i primitivi come per l'uomo di tutte le società premoderne, sacro equivale a ‛potenza' e, in ultima analisi, a ‛realtà'. Il sacro è saturo di ‛essere'. Potenza sacra significa realtà e al tempo stesso permanenza ed efficacia. La polarità sacroprofano si esprime spesso come opposizione tra reale e irreale o pseudoreale. (Naturalmente, non ci si può aspettare di trovare nelle lingue di società arcaiche questa terminologia filosofica: reale-irreale, ecc.; ma si trova la ‛cosa'). È perciò facile capire perché l'uomo religioso desidera profondamente ‛essere', partecipare della ‛realtà', impregnarsi di potenza.

3. Lo spazio sacro

Per l'uomo delle società arcaiche, il solo fatto di vivere nel mondo ha un valore religioso. Egli vive infatti in un mondo che, in primo luogo, è stato creato da Esseri soprannaturali e nel quale, in secondo luogo, il suo villaggio o la sua casa sono un'immagine del cosmo. La cosmologia, cioè le immagini e i simboli cosmologici che informano il mondo abitato, è non soltanto un sistema di idee religiose, ma anche un modello di comportamento religioso. Ma se vivere nel mondo ha un valore religioso, questo è il risultato di un'esperienza particolare: l'esperienza di ciò che può essere chiamato ‛spazio sacro'.

In effetti, per l'uomo religioso lo spazio non è omogeneo; ci sono parti dello spazio qualitativamente diverse da altre. Esiste uno spazio sacro e quindi ‛forte', significativo; ed esistono altri spazi che non sono sacri e sono pertanto privi di struttura, forma o significato. E non è tutto. Per l'uomo religioso questa non-omogeneità dello spazio si manifesta nell'antitesi tra lo spazio che è sacro - l'unico spazio ‛reale' e ‛realmente' esistente - e tutti gli altri spazi, cioè la distesa informe che lo circonda.

L'esperienza religiosa della non-omogeneità dello spazio è un'esperienza primordiale, paragonabile alla creazione del mondo. È infatti la rottura operata nello spazio che, in quanto rivela il punto fermo, l'asse centrale per ogni futuro orientamento, consente la costituzione del mondo. Quando il sacro si manifesta in una ierofania, non si verifica solo una rottura nell'omogeneità dello spazio; si verifica anche la rivelazione di una realtà assoluta, contrapposta alla non realtà della vasta distesa circostante. La manifestazione del sacro crea ontologicamente il mondo. Nella distesa omogenea e infinita, ove non è possibile alcun punto di riferimento e ove non si può quindi stabilire alcun ‛orientamento', la ierofania rivela un punto fermo assoluto, un ‛centro'.

È perciò chiaro fino a qual punto la scoperta - cioè la rivelazione - di uno spazio sacro possieda un valore esistenziale per l'uomo religioso; nulla può infatti avere inizio, nulla può essere fatto senza un preventivo orientamento - e orientamento implica l'acquisizione di un punto fermo. È per questo motivo che l'uomo religioso ha sempre cercato di stabilire la sua dimora al ‛centro del mondo'. Se bisogna vivere nel mondo, occorre ‛fondarlo', e nessun mondo può scaturire dal caos dell'omogeneità e relatività dello spazio profano. La scoperta o proiezione di un punto fermo - il centro - equivale alla creazione del mondo. L'orientazione e la costruzione rituali dello spazio sacro hanno un valore cosmogonico; il rituale con cui l'uomo costruisce lo spazio sacro è efficace, infatti, nella misura in cui riproduce l'opera degli dei, cioè la cosmogonia.

4. Vivere in un mondo sacro

La storia di Roma, come la storia di altre città o nazioni, inizia con la fondazione della città; e la ‛fondazione' è l'equivalente di una cosmogonia. Ogni nuova città rappresenta un nuovo inizio del mondo. Tracciando il solco circolare, il sulcus primigenius, si fonda la città. Gli scrittori classici furono tentati di far derivare la parola urbs da urvum, la curva di un vomere, o urvo, ‛aro in circolo'; taluni la facevano derivare da orbis, ‛superficie circolare', il globo, il mondo. Il centro di Roma era un foro, mundus, il punto di comunicazione fra il mondo terrestre e gli Inferi. W. W. Roscher ha interpretato il mundus come un omphalos, cioè l'ombelico della terra; ogni città che possedeva un mundus si riteneva collocata al centro del mondo, nell'ombelico dell'orbis terrarum.

Concezioni analoghe si ritrovano ovunque nel mondo neolitico e postneolitico. La presa di possesso di un nuovo territorio era legalmente convalidata mediante rituali particolari, equivalenti a una cosmogonia. Le città, i templi, i palazzi reali sono costruiti a somiglianza dell'universo. I riti di fondazione rappresentano la ripetizione della cosmogonia. Gli Ebrei credevano che Israele fosse collocato al centro del mondo e che la prima pietra del tempio di Gerusalemme rappresentasse la creazione del mondo. In molti casi ciò che vale per la città o per il tempio si applica anche alla casa. Il simbolismo fondamentale rivela l'esperienza esistenziale di ‛essere nel mondo', o più esattamente di trovarsi in un mondo organizzato e pieno di significato (e tale perché creato dagli Esseri soprannaturali, e pertanto sacro).

L'interdipendenza tra il Cosmo e il Tempo cosmico (Tempo ‛circolare') era così acutamente sentita che in diverse lingue degli Indiani dell'America settentrionale la parola che significa ‛mondo' viene usata anche per indicare ‛anno'. Talune tribù californiane dicono ‟il mondo è passato" o ‟la terra è passata" per dire che un anno è trascorso. Per i Fali del Camerun settentrionale la casa è l'immagine dell'universo ma riflette al tempo stesso tutte le fasi del mito cosmogonico. In altre parole, l'abitazione ha un ‛movimento' che corrisponde alle diverse fasi del processo cosmogonico. L'orientazione dei vari elementi (il palo centrale, le mura, il tetto) nonché la posizione degli arnesi e degli arredi sono collegate al movimento degli abitanti e alla loro collocazione nella casa. I membri della famiglia, cioè, cambiano posto all'interno dell'abitazione a seconda della stagione, dell'ora della giornata e delle variazioni del loro status familiare e sociale.

Per l'uomo delle società tradizionali, quindi, la casa non è un ‛oggetto', uno ‛strumento per vivere'; è l'universo che l'uomo si costruisce imitando la creazione paradigmatica degli dei, la cosmogonia. Ogni costruzione e ogni inaugurazione di un nuovo edificio sono nella stessa misura equivalenti a un nuovo principio, a una nuova vita.

5. Il tempo sacro

Per l'uomo religioso anche il tempo, come lo spazio, non è né omogeneo né continuo. Da un lato vi sono gli intervalli del tempo sacro, il tempo delle feste (per la maggior parte periodiche); dall'altro vi è il tempo profano, l'ordinaria durata temporale in cui trovano posto gli atti privi di significato religioso. Tra questi due tipi diversi di tempo vi è naturalmente soluzione di continuità, ma, per mezzo dei riti, l'uomo religioso può passare senza pericolo dall'ordinaria durata temporale al tempo sacro.

Colpisce immediatamente una differenza essenziale tra le due specie di tempo: per sua stessa natura il tempo sacro è reversibile, nel senso che, a rigore, è un ‛tempo mitico primordiale reso attuale'. Ogni festa religiosa, ogni periodo liturgico rappresenta la riattualizzazione di un evento sacro verificatosi in un passato mitico, ‛in origine'. La partecipazione religiosa a una festa implica l'uscita dall'ordinaria durata temporale e la reintegrazione del tempo mitico, riattualizzato dalla festa medesima. Pertanto il tempo sacro è recuperabile e ripetibile all'infinito. Da un certo punto di vista, si potrebbe dire che tale tempo ‛non trascorre', non costituisce cioè una durata irreversibile. È un tempo ontologico, parmenideo; resta sempre eguale a se stesso, non muta né si esaurisce. Al ritorno di ogni festa, i partecipanti ritrovano il medesimo tempo sacro, quello stesso che si era manifestato alla festa dell'anno precedente o alla festa di un secolo prima; è il tempo che fu creato e santificato dagli dei all'epoca delle loro gesta, di cui la festa è appunto una riattualizzazione. In altre parole, i partecipanti alla festa rivivono la prima apparizione del tempo sacro quale ebbe luogo ab origine, in illo tempore; il tempo sacro nel quale la festa si svolge, infatti, non esisteva prima delle gesta divine che la festa commemora. Creando le varie realtà che oggi costituiscono il mondo, gli dei fondarono anche il tempo sacro, poiché il tempo della creazione fu evidentemente santificato dalla presenza e dall'attività degli dei.

Pertanto l'uomo religioso vive in due specie di tempo, di cui la più importante, il tempo sacro, appare sotto l'aspetto paradossale di un tempo circolare, reversibile e recuperabile, una sorta di eterno presente mitico che viene periodicamente reintegrato grazie ai riti. Questo atteggiamento rispetto al tempo è sufficiente a distinguere l'uomo religioso da quello non religioso; il primo rifiuta di vivere unicamente in quello che, in termini moderni, viene chiamato presente storico; egli cerca di riguadagnare un tempo sacro che, da un certo punto di vista, può essere assimilato all'eternità.

Per l'uomo religioso la durata temporale profana può venire periodicamente arrestata; taluni rituali, infatti, hanno il potere d'interromperla con periodi di tempo sacro che non è storico (nel senso che non appartiene al presente storico). Così come una chiesa costituisce una rottura nello spazio profano di una città moderna, la celebrazione che si svolge al suo interno segna una rottura nella durata temporale profana. Quello che è presente nella chiesa non è più il tempo storico odierno - il tempo che si vive nelle strade circostanti - ma, ad esempio, il tempo in cui si verificò l'esistenza storica di Gesù Cristo, il tempo santificato dalla sua predicazione, dalla sua passione, morte e resurrezione. Si deve però aggiungere che questo esempio non rivela l'intera diversità tra tempo sacro e profano; il cristianesimo ha mutato radicalmente l'esperienza e il concetto di tempo liturgico, e ciò perché afferma la storicità della persona di Cristo. La liturgia cristiana si svolge in un ‛tempo storico santificato dall'incarnazione del Figlio di Dio'. Il tempo sacro periodicamente riattualizzato nelle religioni precristiane (specialmente nelle religioni arcaiche) è un ‛tempo mitico', cioè un tempo primordiale, non rintracciabile nel passato storico, un ‛tempo originario', nel senso che il suo cominciamento fu improvviso e istantaneo e non fu preceduto da un altro tempo, giacché nessun tempo poteva esistere prima dell'apparizione della realtà narrata dal mito.

6. La struttura delle feste

Il ‛tempo d'origine' di una realtà - cioè il tempo inaugurato dalla prima apparizione di quella realtà - ha valore e funzione paradigmatici. È questo il motivo per cui l'uomo cerca di riattualizzarlo periodicamente attraverso appropriati rituali. Ma la ‛prima manifestazione' di una realtà equivale alla sua creazione ad opera di Esseri divini o semidivini; pertanto, recuperare il ‛tempo d'origine' implica la ripetizione rituale dell'atto creativo degli dei. La riattualizzazione periodica degli atti creativi compiuti dagli Esseri divini in illo tempore costituisce il calendario sacro, la serie delle feste. Una festa si svolge sempre nel tempo originario. È proprio la reintegrazione di questo tempo originario e sacro che differenzia il comportamento dell'uomo durante la festa dal suo comportamento prima o dopo. Infatti, sebbene siano molti i casi nei quali i medesimi atti vengono compiuti sia durante la festa sia durante i periodi non festivi, l'uomo religioso crede di vivere in un ‛altro' tempo, di essere riuscito a ritornare al mitico illud tempus.

Durante la cerimonia totemica annuale, l'intichiuma, gli Aranda australiani ripetono il viaggio percorso dal divino Antenato del dan nel tempo mitico (alcheringa, letteralmente il ‛tempo del sogno'). Si fermano presso tutti gli innumerevoli luoghi ove l'Antenato si fermò e ripetono i medesimi atti e gesti da lui compiuti in illo tempore. Durante tutta la cerimonia digiunano, non portano armi ed evitano qualsiasi contatto con le loro donne e con membri di altri clan. Si immergono totalmente nel ‛tempo del sogno'.

Le feste celebrate annualmente in un'isola polinesiana, Tikopia, riproducono le ‛opere degli dei', cioè gli atti con cui nel tempo mitico gli dei formarono il mondo quale è oggi. Il tempo festivo in cui gli indigeni di Tikopia vivono durante le cerimonie è caratterizzato da taluni divieti (tabù): il chiasso, i giochi, le danze cessano. Il passaggio dal tempo profano a quello sacro viene indicato col taglio rituale di un pezzo di legno in due. I numerosi atti rituali compiuti durante le feste periodiche - e che, ancora una volta, sono solo la reiterazione degli atti paradigmatici degli dei - ‛non sembrano' differenziarsi da quelli compiuti nel corso delle attività normali; citiamo tra gli altri la riparazione rituale di barche, i riti relativi alla coltivazione di piante alimentari (igname, taro, ecc.), la riparazione di santuari. Ma in realtà tutte queste pratiche cerimoniali si differenziano da attività analoghe compiute nel tempo ordinario anzitutto perché la loro esecuzione riguarda ‛solo alcuni oggetti' (che in qualche modo rappresentano gli archetipi delle rispettive classi), e anche perché le cerimonie si svolgono in un'atmosfera satura di sacralità. Gli indigeni cioè sono consci del fatto che stanno riproducendo fin nei minimi particolari gli atti paradigmatici degli dei quali furono compiuti in illo tempore.

Ciò equivale a dire che l'uomo religioso, periodicamente, diventa contemporaneo degli dei nella misura in cui riattualizza il tempo primordiale nel quale le opere divine furono compiute. L'uomo religioso periodicamente rivive il tempo mitico e sacro, ritorna al ‛tempo d'origine', al tempo che ‛non scorre' perché non partecipa della durata temporale profana, perché è un ‛presente eterno' recuperabile all'infinito. Durante la festa si recupera la dimensione sacra della vita, i partecipanti vivono la santità dell'esistenza umana in quanto creazione divina. Apprendono di nuovo come gli dei o gli antenati mitici crearono l'uomo e gli insegnarono le varie forme di comportamento sociale e di attività pratica.

Se l'uomo religioso sente la necessità di riprodurre all'infinito i medesimi atti e gesti paradigmatici, è perché desidera e si sforza di vivere vicino ai suoi dei. ‛In origine', gli esseri divini o semidivini operavano attivamente sulla terra. La nostalgia delle origini equivale quindi a una nostalgia ‛religiosa'. Il tempo mitico che si cerca periodicamente di riattualizzare è un tempo santificato dalla presenza divina; si potrebbe dire che il desiderio di vivere al cospetto della ‛presenza divina' e in un ‛mondo perfetto' (perfetto perché appena creato) corrisponde alla nostalgia del ‛paradiso terrestre'. Il desiderio di recuperare il mondo delle origini - forte, vigoroso, puro - è al tempo stesso sete del sacro e nostalgia dell'essere.

7. I miti come modelli esemplari

Il mito narra una storia sacra: racconta un evento verificatosi nel tempo primordiale, il tempo favoloso delle ‛origini'. In altre parole, il mito racconta come, attraverso le gesta di Esseri soprannaturali, ebbe origine una realtà, si trattasse della realtà nel suo insieme - il cosmo -, o solo di un frammento della realtà: un'isola, una specie di pianta, un particolare tipo di comportamento umano, un'istituzione. Il mito, quindi, è sempre il racconto di una ‛creazione'; narra come qualcosa fu prodotto, cominciò a ‛essere'. Il mito parla solo di quel che ‛realmente' accadde, che si manifestò interamente. I protagonisti dei miti sono Esseri soprannaturali, noti anzitutto per ciò che fecero ‛in origine'. I miti narrano dunque la loro attività creativa e rivelano la sacralità (o semplicemente la ‛soprannaturalità') delle loro opere. In breve, i miti descrivono le varie e a volte drammatiche irruzioni del sacro nel mondo. Questa è la ragione per cui, fra i primitivi, assai spesso i miti non possono essere raccontati prescindendo dal tempo e dal luogo, ma ‛solo durante un periodo di tempo sacro' (autunno o inverno, e solo di notte).

Il mito è considerato un racconto sacro e pertanto una ‛storia vera', poiché tratta sempre di ‛realtà'. Il mito cosmogonico è ‛vero' perché l'esistenza del mondo è lì a provarlo; il mito dell'origine della morte è egualmente vero perché la mortalità dell'uomo lo prova, e così via.
Poiché il mito racconta le gesta di Esseri soprannaturali e la manifestazione dei loro poteri sacri, esso diviene il modello esemplare per tutte le attività umane significative. ‟Così facevano gli Antenati mitici, e noi facciamo allo stesso modo", dicono i Kai della Nuova Guinea. La medesima motivazione adducono i teologi e ritualisti indù, quando affermano: ‟Dobbiamo fare quel che gli dei fecero ‛in origine' (Śatapatha-brāhmaṇa, VII, 2, 1, 4) , ‟Così facevano gli dei, così fanno gli uomini" (Taittirīya-brahmana, I, 5, 9, 4).

In generale si può dire che: a) il mito, qual è vissuto dalle società arcaiche, rappresenta la storia delle gesta degli Esseri soprannaturali; b) questa storia è considerata assolutamente ‛vera' (perché concerne la realtà) e sacra (poiché è opera di Esseri soprannaturali); c) il mito si riferisce sempre a una ‛creazione', racconta come qualcosa ebbe inizio, o come si stabilì un modello di comportamento, un'istituzione, un modo di operare (ecco perché i miti costituiscono i paradigmi per qualsiasi atto umano significativo); d) conoscendo il mito si conosce ‛l'origine' delle cose, che si possono perciò manipolare e controllare a volontà; non si tratta beninteso di una conoscenza ‛esterna', ‛astratta', ma di una conoscenza acquisita ritualmente, sia raccontando il mito secondo le dovute forme cerimoniali, sia compiendo il rituale di cui il mito è la giustificazione; e) in un modo o nell'altro, il mito ‛viene vissuto', nel senso che si è pervasi dalla potenza sacra, esaltante degli eventi ricordati o rappresentati.

‛Vivere' un mito implica quindi un'esperienza genuinamente religiosa, diversa dalla comune esperienza della vita quotidiana. La ‛religiosità' di quest'esperienza è dovuta al fatto che si rivivono eventi favolosi, esaltanti, significativi, si assiste di nuovo agli atti creativi degli Esseri soprannaturali; si cessa di esistere nel mondo quotidiano e si entra in un mondo trasfigurato, aurorale, impregnato di presenze soprannaturali. Non si tratta di una commemorazione degli eventi mitici ma di una loro ripetizione. I protagonisti del mito vengono resi presenti, e si diventa quindi loro contemporanei. Ciò implica che non si vive più nel tempo cronologico, ma nel Tempo primordiale, il Tempo in cui l'evento ebbe luogo per la prima volta, il Tempo prodigioso, sacro, quando qualcosa di ‛nuovo', ‛forte' e ‛significativo' fu manifestato. In breve, i miti rivelano che il mondo, l'uomo e la vita hanno un'origine e una storia soprannaturali, e che questa storia è significativa, preziosa ed esemplare. (V. anche mito).

8. Natura e soprannatura: gli dei celesti

Per l'uomo religioso la natura non è mai solamente ‛naturale', è sempre pervasa di valore religioso. La cosa si capisce facilmente, dato che il cosmo è creazione divina; essendo opera diretta degli dei, il mondo è impregnato di sacralità. Non è semplicemente una sacralità ‛comunicata' dagli dei, come è il caso, ad esempio, di un luogo o un oggetto consacrato dalla presenza divina. Gli dei hanno fatto di più: hanno manifestato le diverse modalità del sacro nella struttura stessa del mondo e dei fenomeni cosmici.

Tale è l'articolazione del mondo che l'uomo religioso, contemplandolo, scopre le molte modalità del sacro e quindi dell'essere. Anzitutto, il mondo esiste e ha una forma; non è caos ma cosmo: si presenta quindi come creazione, come opera degli dei. L'opera divina mantiene sempre la sua qualità di trasparenza, cioè rivela spontaneamente i molti aspetti del sacro. Il cielo rivela direttamente, ‛naturalmente', la distanza infinita, la trascendenza della deità. Anche la terra è trasparente: si presenta come madre e nutrice universale. I ritmi cosmici manifestano ordine, armonia, perennità, fecondità. Il cosmo nel suo complesso è un organismo al tempo stesso reale, vivente e sacro; rivela simultaneamente le modalità dell'essere e della sacralità. Ontofania e ierofania coincidono.

Per l'uomo religioso il soprannaturale è indissolubilmente connesso con il naturale, la natura esprime sempre qualcosa che la trascende. Una pietra sacra viene venerata in quanto ‛sacra', non in quanto pietra; è la sacralità manifestantesi attraverso il modo di essere della pietra che ne rivela la vera essenza. Ecco perché non si può parlare di naturismo o di religione naturale nel senso attribuito a questi termini nell'Ottocento: è infatti la ‛soprannatura' che l'uomo religioso percepisce attraverso gli aspetti naturali del mondo.
Già la mera contemplazione della volta celeste suscita un'esperienza religiosa. Il cielo si mostra infinito, trascendente. È in sommo grado l'‛interamente altro' rispetto alla pochezza dell'uomo e del suo ambiente. La trascendenza si rivela attraverso la semplice coscienza di un'altezza infinita. ‛L'altissimo' diviene spontaneamente un attributo della divinità. Le regioni superiori, inaccessibili all'uomo, gli spazi siderali acquistano il valore del trascendente, della realtà assoluta, dell'eternità. Lassù risiedono gli dei; lassù pochi mortali privilegiati riescono ad accedere per mezzo dei riti di ascesa celeste; lassù, secondo alcune religioni, salgono le anime dei morti. ‛L'altissimo' è una dimensione inaccessibile all'uomo come tale; appartiene a forze e a esseri sovrumani. Colui che ascende al cielo salendo i gradini di un santuario o la scala rituale, cessa di essere un uomo; in un modo o nell'altro partecipa della condizione divina.

A tutto questo non si arriva attraverso un'operazione logica, razionale. La categoria trascendente dell'alto, dell'ultraterrestre, dell'infinito è rivelata all'uomo intero: alla sua intelligenza e alla sua anima. Per l'uomo, è una presa di coscienza globale; contemplando il cielo, egli scopre simultaneamente l'incommensurabilità divina e la propria situazione nel cosmo. È infatti attraverso il suo specifico ‛modo di essere' che il cielo rivela trascendenza, forza, eternità: ‛esiste assolutamente' poiché è alto, infinito, eterno, potente.
Questo spiega il vero significato di quanto affermato prima, che cioè gli dei hanno manifestato le diverse modalità del sacro nella struttura stessa del mondo. In altre parole, il cosmo - opera paradigmatica degli dei - è strutturato in modo che un senso religioso della trascendenza divina viene suscitato dall'esistenza stessa del cielo. E poiché il cielo ‛esiste assolutamente', molti degli dei supremi dei popoli primitivi vengono chiamati con nomi che designano l'altezza, la volta celeste, i fenomeni meteorologici, o semplicemente con nomi quali Padrone del Cielo o Abitatore del Cielo.

La divinità suprema dei Maori si chiama Iho; iho significa ‛elevato, altissimo'. Uwoluwu, il dio supremo dei negri Akposo, significa ‛ciò che sta in alto; gli spazi altissimi'. Fra i Selknam (Ona) della Terra del Fuoco, Iddio viene chiamato ‛colui che dimora in Cielo' o ‛colui che è in Cielo'. Puluga, l'essere supremo degli Andamanesi, dimora in cielo; il tuono è la sua voce, il vento il suo respiro, la tempesta il segno del suo furore: col fulmine punisce coloro che trasgrediscono i suoi comandamenti. Il Dio Cielo degli Yoruba della Costa degli Schiavi si chiama Olorun, letteralmente ‛padrone del Cielo'. I Samoiedi venerano Num, un dio che dimora nel cielo più alto e il cui nome significa ‛cielo'. Fra i Coriachi, la divinità suprema viene chiamata ‛colui che è in Alto', il ‛padrone dell'Alto', ‛colui che Esiste'. Gli Ainu lo chiamano ‛il Capo Divino del Cielo', ‛il Dio Cielo', ‛il Divino Creatore dei Mondi', ma anche Kamui, cioè ‛Cielo'. E l'elenco potrebbe continuare.

Si può aggiungere che analoga situazione si riscontra nelle religioni di popoli più civili, di popoli che hanno avuto un importante ruolo nella storia. Il nome mongolo per il dio supremo è Tengri, che significa ‛cielo'. Il cinese T'ien significa al tempo stesso ‛cielo' e ‛dio del cielo'. Il termine sumerico che vuol dire divinità, dingir, originariamente designava un'epifania celeste e significava ‛chiaro', ‛brillante'. Anche l'Anū babilonese esprime l'idea del cielo. Il dio supremo indoeuropeo, Dieus, designa sia l'epifania celeste sia il sacro (cfr. sanscrito div, brillare, giorno; dyaus, cielo, giorno; Dyaus, dio indiano del cielo). Zeus e Juppiter conservano nei loro nomi il ricordo della sacralità del cielo. Il celtico Taranis (da taran, tuonare), il baltico Perkunas (fulmine), e lo slavo Perun (cfr. il polacco pjorun, fulmine) sono particolarmente rivelatori delle successive trasformazioni degli dei celesti in dei della tempesta.

Qui non si tratta di naturismo. Il dio celeste non viene identificato col cielo: egli è infatti il dio che, creando l'intero cosmo, creò anche il cielo. Ecco perché viene chiamato Creatore, Onnipotente, Signore, Capo, Padre, e con altri nomi analoghi. Il dio celeste è una persona, non una semplice epifania uranica, sebbene dimori nel cielo e si manifesti nei fenomeni meteorologici: tuono, fulmine, tempesta, meteore, ecc. Questo significa che certe strutture privilegiate del cosmo - il cielo, l'atmosfera - costituiscono epifanie preferite dell'Essere Supremo; egli rivela la sua presenza con ciò che è specificamente e peculiarmente suo: la maestà (majestas) dell'immensità celeste, il terrore (tremendum) della tempesta.

9. Il dio remoto

La storia degli Esseri Supremi ‛celesti' è della massima importanza per la comprensione della storia religiosa dell'umanità nel suo complesso. Gli Esseri Supremi celesti tendono a scomparire dalla pratica religiosa, dal culto; essi si allontanano dagli uomini, si ritirano in cielo e divengono dei remoti, inoperosi (dei otiosi). In breve, si potrebbe dire che questi dei, dopo aver creato il cosmo, la vita e l'uomo, avvertono una sorta di stanchezza, come se l'immensa impresa della creazione avesse esaurito le loro risorse. Perciò si ritirano in cielo, lasciando un figlio o un demiurgo sulla terra, col compito di portare a termine o perfezionare la Creazione. Gradualmente il loro posto viene preso da altre figure divine: gli antenati mitici, le dee madri, gli dei fecondatori, ecc. Il dio della tempesta conserva ancora una struttura celeste, ma non è più un Essere Supremo creatore; è solo il fecondatore della terra, a volte è solo un aiutante (paredro) della madre terra. L'Essere Supremo celeste conserva il suo posto preminente soltanto fra i popoli pastori, e assurge a una posizione unica nelle religioni che tendono al monoteismo (Ahura Mazdā), o sono dichiaratamente monoteistiche (Yahweh, Allāh).

Il fenomeno del dio supremo come dio remoto è già documentato ai livelli arcaici della cultura. Fra i Kulin australiani, l'essere supremo Bunjil creò l'universo, gli animali, gli alberi e l'uomo; ma dopo aver investito il figlio del potere sulla terra e la figlia del potere sul cielo, Bunjil si ritirò dal mondo. Egli dimora fra le nubi, come un signore, brandendo un'immensa spada. Puluga, l'essere supremo degli Andamanesi, si ritirò dopo aver creato il mondo e il primo uomo. Il mistero della sua lontananza trova il suo corrispettivo in un'assenza quasi assoluta di culto; non si fanno sacrifici, né suppliche, né offerte votive. Il ricordo di Puluga sopravvive solo in poche consuetudini religiose, per esempio nel silenzio sacro dei cacciatori che ritornano al villaggio dopo una caccia fortunata.

Il dio dei Selknam, ‛colui che dimora in Cielo', o ‛colui che è in Cielo', è eterno, onnisciente, onnipotente, il creatore; ma la Creazione fu portata a termine dagli antenati mitici, creati anch'essi dal dio supremo prima del suo ritiro in una regione al di sopra delle stelle. Essendosi isolato dagli uomini, questo dio è indifferente alle cose del mondo. Non ha né immagini né sacerdoti. Gli vengono rivolte preghiere solo in caso di malattia: ‟Tu che sei in alto, non prendere il mio bambino, è ancora troppo piccolo!". Di rado gli vengono presentate offerte, salvo che durante le tempeste.

Analoga situazione si riscontra presso molte popolazioni africane; il grande dio celeste, l'essere supremo, creatore onnipotente, ha solo un ruolo secondario nella vita religiosa della maggior parte delle tribù. È troppo lontano o troppo buono per abbisognare di un culto effettivo, e viene invocato solo in casi disperati. Per esempio, il dio degli Yoruba, Olorun (‛padrone del Cielo'), dopo aver iniziato la creazione del mondo delegò a una divinità inferiore, Obatala, il compito di portarla a termine e di dirigerla, e si ritirò dalle cose umane e terrene. Il dio supremo non ha né templi, né statue, né sacerdoti; viene nondimeno invocato come ultima risorsa in tempi di calamità.

Ndyambi, il dio supremo degli Herero, ritiratosi in cielo, ha abbandonato l'umanità a divinità inferiori. ‟Perché dovremmo fargli dei sacrifici?" ha spiegato un membro della tribù. ‟Non dobbiamo temerlo, perché egli non ci fa alcun male, al pari degli spiriti dei nostri defunti". L'essere supremo dei Tukumba è ‟troppo grande per le faccende ordinarie degli uomini". La situazione si ripete con Njankupon fra i negri di lingua tshi dell'Africa occidentale: non ha culto e gli viene reso omaggio solo in circostanze particolari, come carestie o epidemie o dopo una violenta tempesta; allora gli uomini gli domandano in che modo lo hanno offeso. Dzingbe (il Padre Universale), l'essere supremo degli Ewe, viene invocato solo durante le siccità: ‟O Cielo cui dobbiamo grazie, grande è la siccità; dacci la pioggia in modo che la terra possa rinfrescarsi e i campi rifiorire!". La lontananza e la passività dell'essere supremo sono mirabilmente espresse in un detto dei Ghiriama dell'Africa orientale: ‟Mulugu (Dio) è lassù, gli spiriti dei morti sono quaggiù!". I Bantu dicono: ‟Iddio, dopo aver creato l'uomo, non si cura più di lui". E i Negritos ripetono: ‟Iddio è andato via, lontano da noi". Le popolazioni Fang delle praterie dell'Africa equatoriale riassumono la loro concezione religiosa in un canto: ‟Dio (Nzame) è lassù, l'uomo quaggiù / Dio è Dio, l'uomo è uomo. / Ognuno al suo posto, ognuno a casa sua".

È inutile moltiplicare gli esempi. Ovunque in queste religioni primitive l'essere supremo celeste sembra aver perduto ‛attualità' religiosa; non ha posto nel culto, e nei miti si distacca sempre più dall'uomo fino a divenire un deus otiosus. Lo si ricorda e lo si supplica come ultima risorsa, quando tutte le invocazioni ad altri dei e dee, agli antenati e ai demoni, sono risultate vane. Come dicono gli Oraon: ‟Ora abbiamo provato tutto, ma abbiamo ancora te che puoi aiutarci". E gli sacrificano un gallo bianco supplicando: ‟Dio, tu sei il nostro creatore, abbi pietà di noi".

10. La vita come esperienza religiosa

La lontananza del dio esprime di fatto il crescente interesse dell'uomo per le proprie scoperte in campo religioso, culturale ed economico. Concentrando l'attenzione sulle ierofanie della vita, attraverso la scoperta della fertilità sacra della terra e aprendosi a esperienze religiose di natura più concreta (più carnale, perfino orgiastica), l'uomo primitivo si distacca dal dio celeste e trascendente. La scoperta dell'agricoltura trasforma in modo radicale non solo l'economia dell'uomo primitivo, ma anche, e specialmente, la sua ‛economia del sacro'. Altre forze religiose entrano in gioco: la sessualità, la fertilità, la mitologia della donna e della terra e così via. L'esperienza religiosa diviene più concreta, cioè più intimamente connessa con la vita. Le grandi dee madri e gli dei della tempesta o gli spiriti della fertilità sono nettamente più dinamici e più accessibili agli uomini di quanto non fosse il Dio Creatore.

È doveroso aggiungere, tuttavia, che i mutamenti rivoluzionari verificatisi nel settore economico e nell'organizzazione sociale come risultato dell'evoluzione dalla fase della raccolta e della caccia a quella della protoagricoltura crearono bensì le condizioni per le nuove valorizzazioni religiose del mondo, ma non le ‛causarono' nel senso deterministico del termine. Non al fenomeno naturale della vegetazione va fatta risalire la comparsa dei sistemi mitico-religiosi della struttura agraria, ma piuttosto all'esperienza religiosa suscitata dalla scoperta di una solidarietà mistica fra l'uomo e la vita vegetale.

In verità, in base ai miti dei primi orticoltori delle regioni tropicali, la pianta commestibile non è ‛data' in natura; è il prodotto di un sacrificio primordiale. Nei tempi mitici un essere semidivino viene sacrificato affinché i tuberi e gli alberi da frutta possano germogliare dal suo corpo. Il paleocoltivatore si assume la responsabilità di garantire la vita delle piante commestibili, si assume cioè il compito di sacrificare vittime umane e animali domestici e di compiere riti sessuali e orgiastici. La caccia alle teste e il sacrificio di vittime umane per propiziare il raccolto trovano la loro motivazione in questa nuova ideologia religiosa. Con lo sviluppo della coltivazione del grano nel Vicino Oriente, numerosi riti e miti vennero elaborati attorno all'idea del rinnovamento periodico della sacralità cosmica, cioè della morte e resurrezione degli dei della vegetazione.

Tutte queste nuove forme religiose, che apparvero dopo l'avvento della paleoagricoltura e l'organizzazione delle società sedentarie (villaggi, mercati, città), sono solitamente caratterizzate da un'intensità drammatica dell'esperienza religiosa, da un accresciuto antagonismo rituale fra i sessi (associato all'attrazione reciproca) e dall'importanza ascritta alla sessualità e specialmente alla bisessualità e androginia, espressioni mitiche e rituali di ‛totalità' e di perfezione divina. Tracce dell'androginia divina si incontrano perfino nelle epoche paleolitiche e fra certi primitivi nella fase della raccolta e della caccia, ma è essenzialmente nelle culture agricole che queste idee formano un sistema religioso, che integra inoltre il complesso mitico-rituale della ierogamia. Si potrebbero rilevare, nelle culture agricole, altri esempi della rivalorizzazione di tali forme arcaiche di comportamento religioso. Uno dei più istruttivi è il culto dei morti: attestato già nel paleolitico, esso acquista considerevole importanza specialmente nelle culture megalitiche.

In breve, da allora lo sviluppo della vita religiosa è stato dominato dalle conseguenze della scoperta della solidarietà mistica fra l'uomo e la vita vegetale, dall'importanza primaria attribuita alle epifanie della vita (sangue, sessualità, fecondità) e dalla valorizzazione religiosa della tensione, della sofferenza e del dolore. Gli dei incontrano il favore popolare per il dramma che hanno vissuto e non per ciò che sono o ciò che hanno creato. Gli dei più popolari non sono i creatori ma coloro la cui mitologia è ricca di episodi drammatici: hanno vissuto innumerevoli avventure, hanno conosciuto la sofferenza e a volte la morte e la resurrezione. Tutto ciò li rende più ‛vivi' e più ‛umani'. Esseri soprannaturali di questo tipo sono attestati già negli stadi più primitivi della cultura. Gli antenati mitici, gli eroi culturali e i leggendari fondatori delle società segrete vantano un'esistenza più drammatica di quella degli dei supremi e creatori. Ma è nelle società agricole che l'interesse per questo tipo di divinità diventa generale e dominante. Intorno agli dei sovrani o guerrieri, come anche intorno agli dei della vegetazione e della morte o alle dee della fertilità e del destino, fioriscono mitologie commoventi e stravaganti; le loro fantastiche imprese, che coinvolgono forze cosmiche e possenti magie, eccitano l'immaginazione degli uomini. Questi miti rivelano quel che avvenne nel mondo dopo la Creazione; esaltano l'azione, la forza e l'abilità raccontando non solo battaglie e avventure, ma anche prodigi e discese nell'oltretomba, incontri con la morte e la ricerca dell'immortalità. È in questo clima religioso che prende forma la figura di un essere divino che incontra una fine tragica e che più tardi diventerà la figura chiave dei culti misterici. Il processo di ‛umanizzazione' che gli dei subiscono, con l'implicito e progressivo distacco dalle fonti della sacralità cosmica, è quasi ovunque attestato nel Vicino Oriente e nelle regioni mediterranee, ma giunge a compimento nella Grecia classica. In taluni casi, il ritiro degli dei dalla sacralità cosmica finisce con lo svuotarli di valore religioso.

11. Tra Yahweh e Baal

Eppure, come si è visto, in casi di estrema disperazione, quando tutto è stato tentato invano e specialmente in casi di calamità che provengono dal cielo - siccità, tempeste, epidemie - gli uomini tornano a implorare l'Essere Supremo. Questo atteggiamento non lo si riscontra solo fra i primitivi. Ogni volta che gli antichi Ebrei avevano un periodo di pace e di prosperità abbandonavano Yahweh per i Baal e le Astarti dei loro vicini. Solo le catastrofi storiche li costringevano a rivolgersi a Yahweh. ‟Gridarono allora al Signore e dissero: abbiamo peccato, perché abbiamo abbandonato il Signore e reso culto ai Baal e alle Astarti; ora liberaci dalle mani dei nostri nemici e ti serviremo" (I Samuele, 12, 10).

Gli Ebrei tornavano dunque a Yahweh dopo le catastrofi storiche e sotto la minaccia di un annientamento determinato dalle vicende storiche; i primitivi si ricordano dei loro Esseri Supremi in occasione di catastrofi cosmiche. Ma il significato di questo ritorno al dio celeste è il medesimo in entrambi i casi: in una situazione estremamente critica, in cui è in gioco la sopravvivenza stessa della comunità, le divinità che in periodi normali assicurano e promuovono la vita vengono abbandonate a favore del dio supremo. Apparentemente, è questo un grande paradosso. Le divinità che per i primitivi presero il posto degli dei celesti furono - come i Baal e le Astarti per gli Ebrei - divinità della fertilità, dell'opulenza, della pienezza della vita; in breve, divinità che esaltavano e arricchivano la vita, sia cosmica - vegetazione, agricoltura, bestiame - sia umana. Queste divinità sembravano forti, potenti; la loro attualità religiosa era spiegata proprio con la loro forza, con le loro illimitate risorse vitali, con la loro fertilità.

E tuttavia coloro che le veneravano - sia i primitivi sia gli Ebrei - sentivano che tutte queste grandi dee e tutti questi dei della vegetazione erano incapaci di ‛salvarli', cioè di garantire la loro esistenza nei momenti veramente critici. Questi dei e dee avevano unicamente il potere di ‛riprodurre' e ‛incrementare' la vita e solo in periodi normali. In breve, erano divinità che governavano mirabilmente i ritmi cosmici ma che si dimostravano incapaci di ‛salvare' il cosmo o l'umanità nei momenti di crisi (crisi storiche per gli Ebrei).

Le varie divinità che avevano preso il posto degli Esseri Supremi erano titolari dei poteri più ‛concreti' e appariscenti, i poteri della vita. Ma proprio per questo si erano ‛specializzate' nella procreazione e avevano perduto i poteri più puri, più nobili, più spirituali degli Dei Creatori. Scoperta la sacralità della vita, l'uomo si lasciò trascinare sempre più dalla sua stessa scoperta; cedette alle ierofanie vitali e rifuggì dalla sacralità che trascendeva i suoi bisogni immediati e quotidiani.

Si deve aggiungere che la transitoria riattualizzazione religiosa dell'Essere Supremo in periodi di crisi esistenziale non è un fenomeno frequente, né potrebbe esserlo; l'abbiamo nondimeno ricordato perché è associato a un tipo generale di comportamento umano, riscontrabile perfino fra i popoli monoteisti della nostra epoca. Per un cristiano del XX secolo altri ‛idoli' prendono il posto dei Baal e delle Astarti, come l'interesse appassionato ed esclusivo per la sfera economica o per i problemi sociali, politici e culturali. Salvo rare eccezioni, il cristiano si rivolge a Dio in modo sincero, totale ed esclusivo solo quando è imminente qualche catastrofe.

12. Struttura e funzione dei riti

Per molti popoli primitivi, così come per le società urbane del Vicino Oriente antico, i riti più importanti venivano celebrati durante le feste del Capodanno. Tutti questi riti hanno un significato cosmogonico: simbolicamente, ripetono la Creazione del Mondo. In altre parole, ogni Capodanno determinava un rinnovamento del Mondo e la rinascita della Vita. Il caso più famoso è quello del Capodanno mesopotamico (akîtu). Una serie di riti faceva rivivere la battaglia fra Marduk e Tiamat (il Dragone simboleggiava l'oceano primordiale ‛caotico'), la vittoria del dio e le sue fatiche cosmogoniche; si recitava nel tempio il Poema della Creazione (Enūma elīsh). Come dice H. Frankfort, ‟qualcosa di essenziale accomunava ogni Capodanno al primo giorno in cui il mondo fu creato ed ebbe inizio il ciclo delle stagioni". Per quel che concerne il rituale del Capodanno ebraico, è stato dimostrato che una delle idee centrali era la rappresentazione della vittoria di Yahweh sui suoi nemici - sulle forze del caos come sui nemici tradizionali di Israele - e della sua investitura come re del mondo. Ovviamente, la ripetizione simbolica della cosmogonia nel Capodanno mesopotamico e in quello ebraico non ha lo stesso significato. Tra gli Ebrei, il rituale arcaico del periodico rinnovamento del mondo fu progressivamente storicizzato pur conservando qualcosa del suo significato originario. A. J. Wensinck ha dimostrato che il rituale di Capodanno, che simboleggiava il passaggio dal caos al cosmo, fu riferito ad avvenimenti storici quali l'esodo e il passaggio del Mar Rosso, la conquista di Canaan, la cattività babilonese e il ritorno dall'esilio.

Per l'uomo religioso le principali funzioni fisiologiche possono diventare sacramenti. Mangiare è un rituale, e il cibo viene variamente valorizzato dalle diverse religioni e culture.

Gli alimenti vengono considerati sacri, o come doni della divinità, o come offerta votiva agli dei del corpo (per es. in India). Anche la vita sessuale viene ritualizzata, e quindi equiparata a quella divina (ierogamia Cielo-Terra).

Con il matrimonio si verifica un passaggio da un gruppo socio-religioso a un altro. Il giovane sposo lascia il gruppo degli scapoli ed entra a far parte, da quel momento in poi, del gruppo dei capifamiglia. Ogni matrimonio implica una tensione e un pericolo e perciò provoca una crisi; ecco perché richiede un rito di passaggio.

I ‛riti di passaggio' hanno un ruolo notevole nella vita dell'uomo religioso. Senza dubbio, il più importante rito di passaggio è rappresentato dall'iniziazione - nell'età puberale -, dal passaggio cioè da un gruppo di età a un altro (dall'infanzia o dall'adolescenza all'età adulta). Ma vi sono riti di passaggio anche in occasione della nascita, del matrimonio, della morte: può infatti dirsi che ognuno di questi eventi comporta sempre un'iniziazione, dato che implica un mutamento radicale dello status ontologico e sociale. Al momento della nascita il bambino non ha che un'esistenza fisica, non è ancora riconosciuto dalla famiglia, né accettato dalla comunità. Sono i riti celebrati immediatamente dopo la nascita che danno al nuovo nato lo status di effettiva ‛persona vivente' ed è solo in grazia loro che egli viene ammesso nella comunità dei viventi.

Per quel che concerne la morte, i riti sono ancora più complessi: non si tratta infatti solo di un ‛fenomeno naturale' (la vita - o l'anima - che lascia il corpo) ma anche di un mutamento nello status sia ontologico che sociale. Il defunto deve passare attraverso determinate prove che riguardano il suo destino nell'al di là, ma deve anche essere riconosciuto dalla comunità dei morti e da loro accettato. Per taluni popoli solo la sepoltura rituale conferma la morte; colui che non viene sepolto secondo la tradizione non è morto. Altrove, la morte non è ritenuta valida fino a quando la cerimonia funebre non sia stata celebrata o fino a quando l'anima della persona morta non sia stata ritualmente condotta alla nuova dimora nell'altro mondo e ivi accettata dalla comunità dei morti.

13. Riti di iniziazione

Già negli stadi arcaici della cultura l'iniziazione ha un ruolo preminente nella formazione religiosa dell'uomo; nella sua essenza, consiste in un totale mutamento dello status ontologico dell'iniziando. Per la comprensione dell'uomo religioso, è della massima importanza afferrare il significato di questo rito; esso mostra che l'uomo delle società primitive non si considera ‛completo' così come si sperimenta al livello naturale dell'esistenza. Per diventare un uomo in senso proprio, deve morire in questa prima vita (naturale) e rinascere a una vita più alta, che è al tempo stesso religiosa e culturale.

In altre parole, l'ideale di uomo che il primitivo si prefigge viene situato su un piano oltreumano. Questo significa che: a) non si diventa un uomo completo finché non si supera, e in un certo senso non si abolisce, la propria condizione umana ‛naturale': l'iniziazione è infatti comparabile a un'esperienza paradossale, soprannaturale, di morte e resurrezione (o seconda nascita); b) i riti di iniziazione, che comportano una serie di prove e la morte e resurrezione simboliche dell'iniziando, sono stati istituiti dagli dei, dagli eroi culturali o dagli antenati mitici; essi hanno quindi un'origine sovrumana e, compiendoli, l'iniziando imita un'azione sovrumana, divina. È importante sottolineare questo punto, in cui si mostra ancora una volta che l'uomo religioso ‛vuole essere diverso' da come si avverte sul piano ‛naturale', e cerca quindi di conformarsi all'immagine ideale svelatagli dai miti. L'uomo primitivo si impegna a conseguire un ‛ideale religioso di uomo', e il suo sforzo ha già in sé i germi di tutti i principi etici successivamente elaborati nelle società evolute. Ovviamente, nelle società areligiose moderne l'iniziazione non esiste più come atto religioso; ma i ‛modelli' di iniziazione, sebbene nettamente dissacrati, sopravvivono nel mondo moderno.

L'iniziazione comporta di solito una triplice rivelazione: del sacro, della morte e del sesso. Il bambino non sa nulla di queste esperienze; l'iniziato invece le conosce e le fa proprie, incorporandole nella sua nuova personalità. Si deve aggiungere che l'iniziando, morendo alla vita infantile, profana, non rigenerata, per rinascere a un'esistenza nuova, santificata, rinasce anche a una modalità di essere che rende possibile l'apprendimento, la ‛conoscenza'. L'iniziato non è solo un nuovo nato o un risuscitato; egli è un uomo che ‛sa', che ha appreso i misteri, che ha avuto rivelazioni di natura metafisica. Durante la sua istruzione nel bosco egli apprende i segreti sacri: i miti che raccontano degli dei e dell'origine degli strumenti rituali usati nelle cerimonie di iniziazione (i rombi, i coltelli di pietra per la circoncisione, ecc.). L'iniziazione equivale a una maturazione spirituale. È questo un tema che si riscontra costantemente nella storia religiosa dell'umanità: l'iniziato, colui che ha sperimentato i misteri, è ‛colui che sa'.

La cerimonia inizia sempre con la separazione del candidato dalla sua famiglia e con un periodo di segregazione nel bosco. Già qui incontriamo un simbolo di morte: la foresta, la giungla, l'oscurità simboleggiano l'oltretomba, gli Inferi. Presso taluni popoli si crede che una tigre venga a prendere gli iniziandi per portarli sulla groppa nella giungla; il felino incarna l'Antenato mitico, il maestro dell'iniziazione, che conduce i fanciulli nell'oltretomba. Altrove si crede che l'iniziando venga inghiottito da un mostro. Nel ventre del mostro è la notte cosmica; è la modalità embrionale dell'esistenza, sul piano cosmico come su quello della vita umana. In molti casi vi è nel bosco una capanna di iniziazione, ove gli iniziandi affrontano una parte delle loro prove e vengono istruiti nelle tradizioni segrete della tribù. La capanna di iniziazione simboleggia il ventre materno; la morte simbolica dell'iniziando simboleggia la regressione allo stato embrionale. Ma ciò non si deve intendere solo in termini di biologia umana, bensì anche in termini cosmologici; lo stato fetale equivale a una temporanea regressione alla fase precosmica.

Altri rituali illuminano il simbolismo della morte iniziatica. Presso taluni popoli, i candidati vengono sepolti o distesi in tombe appena scavate; oppure vengono coperti di rami e restano immobili come morti; oppure vengono imbrattati di polvere bianca in modo da apparire simili a spiriti; e imitano gli spiriti anche nel comportamento: non usano le mani per mangiare, ma prendono il cibo direttamente con i denti, come si ritiene facciano le anime dei morti. Infine, le torture che subiscono, tra i molti altri significati hanno anche questo: si crede che il tormentato e mutilato iniziando venga torturato, tagliato a pezzi, bollito e arrostito dai demoni maestri dell'iniziazione, e cioè dagli antenati mitici. Le sofferenze fisiche sono quelle di chi venga ‛mangiato' dal demone felino, fatto a pezzi nello stomaco e digerito nel ventre del mostro iniziatico. Le mutilazioni (estrazione di denti, amputazione di dita, ecc.) evocano anch'esse un simbolismo di morte. Oltre a operazioni particolari - come la circoncisione e la subincisione - e alle mutilazioni iniziatiche, altri segni esteriori, come tatuaggi o scarificazioni, hanno il medesimo significato di morte e resurrezione.

Anche la rinascita mistica viene variamente simboleggiata. Ai candidati vengono imposti nuovi nomi, che da quel momento in poi saranno i loro veri nomi. Presso talune tribù si presume che gli iniziati dimentichino completamente la loro vita precedente. Immediatamente dopo l'iniziazione vengono nutriti come bambini, condotti per mano, e istruiti di nuovo in tutte le forme di comportamento, come si fa appunto con i bambini. Solitamente nel bosco apprendono una nuova lingua, o per lo meno un vocabolario segreto noto solo agli iniziati.

Appare evidente che, con l'iniziazione, tutto ricomincia daccapo. A volte il simbolismo della rinascita viene espresso in modo concreto. Presso alcuni popoli Bantu - prima della circoncisione - si celebra per il fanciullo una cerimonia chiamata ‛il rinascere'. Il padre sacrifica un ariete e tre giorni dopo avvolge il fanciullo nella membrana dello stomaco e nella pelle dell'animale. Immediatamente prima della cerimonia il fanciullo deve mettersi a letto e piangere come un neonato; rimane nella pelle di ariete per tre giorni. Gli stessi popoli seppelliscono i morti avvolgendoli, in posizione fetale, in pelli di ariete. Il simbolismo della rinascita mistica attraverso la vestizione rituale di una pelle di animale è attestato anche in culture altamente evolute (India e antico Egitto).

Nei rituali iniziatici il simbolismo della nascita si trova quasi sempre affiancato a quello della morte. Nel contesto iniziatico, la morte significa il superamento della condizione profana, non santificata, della condizione di ‛uomo naturale' privo di esperienza religiosa, cieco alla luce dello spirito. Il mistero dell'iniziazione rivela gradualmente all'iniziando le vere dimensioni dell'esistenza; introducendolo al sacro, lo costringe ad assumere la responsabilità della sua raggiunta condizione di uomo. In ciò è da ravvisare un fatto d'importanza capitale: presso tutte le società arcaiche l'accesso alla spiritualità si manifesta con un simbolismo di morte e di rinascita.

14. Gli specialisti del sacro: sciamani e stregoni

Lo sciamanismo è un fenomeno religioso caratteristico dei popoli siberiani e uralo-altaici. Di origine tungusa, ‛sciamano' è approdato alla terminologia scientifica europea per il tramite del russo. Sebbene le sue manifestazioni più compiute si riscontrino nelle regioni artiche e dell'Asia centrale, lo sciamanismo non deve però considerarsi circoscritto a quei territori. Lo si incontra, ad esempio, nell'Asia sudorientale, in Oceania e presso molte tribù aborigene dell'America settentrionale. Bisogna però fare una distinzione fra le religioni dominate da un'ideologia sciamanica e dalle tecniche sciamaniche (come nel caso delle religioni siberiane e indonesiane) e quelle in cui lo sciamanismo rappresenta piuttosto un fenomeno secondario.

Lo sciamano è stregone, sacerdote e psicopompo; cura cioè le malattie, dirige i riti sacrificali della comunità e scorta le anime dei morti nell'oltretomba. È in grado di assolvere a tutte queste funzioni grazie alle sue tecniche dell'estasi, cioè alla facoltà di evadere a volontà dal suo corpo. In Siberia e nell'Asia nordorientale si diventa sciamano per via ereditaria o per vocazione spontanea, o ‛chiamata'. Più raramente, si può diventare sciamano per decisione propria o su richiesta del clan, ma gli sciamani di questa specie sono considerati più deboli di quelli che ereditano la professione, o che vengono ‛chiamati' dagli esseri soprannaturali.

Nell'America settentrionale, invece, la ‛ricerca' volontaria dei poteri costituisce la via principale. A prescindere dal modo della loro selezione, gli sciamani sono riconosciuti tali solo in seguito a una serie di prove iniziatiche dopo essere stati istruiti da maestri qualificati.
Nell'Asia settentrionale e centrale le prove, di norma, si estendono per un periodo di tempo indefinito, durante il quale il futuro sciamano è ammalato e sta nella sua tenda o vaga nella landa selvaggia comportandosi in modo talmente stravagante da essere scambiato per pazzo.

Diversi autori hanno infatti spiegato lo sciamanismo artico e sibenano come l'espressione ritualizzata di una malattia mentale, specialmente dell'isteria artica. Senonché, l'‛eletto' diventa sciamano solo se è in grado di dare alle sue crisi patologiche il significato di un'esperienza religiosa e riesce a curare se stesso. Le gravi crisi che a volte accompagnano la ‛chiamata' del futuro sciamano devono essere considerate ‛prove iniziatiche'. Nei sogni e nelle allucinazioni del futuro sciamano si rintraccia il modello classico dell'iniziazione: egli viene torturato da demoni, il suo corpo è fatto a pezzi, discende nell'oltretomba o ascende in cielo e infine viene risuscitato. Acquista cioè una nuova modalità di essere, che gli consente di avere rapporti con i mondi soprannaturali. Lo sciamano è ora in grado di ‛vedere' gli spiriti, ed egli stesso si comporta come uno spirito; può evadere dal suo corpo e vagare in estasi per tutte le regioni cosmiche. L'esperienza estatica non basta tuttavia a fare uno sciamano. Il neofita, sotto la guida di maestri, oltre alle tradizioni religiose della tribù deve imparare a riconoscere le varie malattie e a curarle.

L'ascesa al cielo è una delle caratteristiche particolari dello sciamanismo siberiano e centroasiatico. Nel sacrificio del cavallo, lo sciamano altaico ascende in estasi al cielo per offrire al dio celeste l'anima del cavallo sacrificato. L'ascesa viene compiuta salendo su un fusto di betulla, che ha nove intagli, ciascuno simboleggiante un particolare cielo.
La funzione più importante dello sciamano è quella di guarire. Poiché si ritiene che la malattia sia dovuta a una perdita dell'anima, lo sciamano deve anzitutto scoprire se l'anima del malato si è smarrita lontano dal villaggio o è stata rubata da demoni ed è imprigionata nell'oltretomba. Nel primo caso la guarigione non è molto difficile: lo sciamano riprende l'anima e la riunisce al corpo del malato. Nel secondo caso, invece, deve scendere nel mondo infero, impresa questa complicata e pericolosa. Egualmente emozionante è il viaggio dello sciamano nell'al di là, per scortare l'anima del defunto alla sua nuova dimora; egli narra ai presenti tutte le vicissitudini del viaggio man mano che si svolge.

15. Mistici e profeti

Gli sciamani possono essere definiti i ‛mistici' delle società arcaiche: l'estasi sciamanica equivale al misticismo caratteristico delle religioni dei cacciatori e dei pastori primitivi.
L'esperienza mistica muta radicalmente la condizione umana; chi la prova si sente ‛rinato' o ‛rigenerato' o ‛redento' o ‛salvato' o ‛libero'. È conscio che sta iniziando una ‛nuova vita', anzi che per la prima volta sta vivendo una ‛vera' vita, che ha trovato il suo ‛vero sé' o che si è guadagnato la ‛vita eterna'. Questa nuova realtà o nuovo essere o nuova vita, che l'esperienza mistica rivela, può significare la scoperta della ‛vera anima' (il Sé, ātman, nous) o un nuovo rapporto con un Sé superiore, una divinità. La divinità può essere impersonale (come l'indiano Brahman) o personale (Kṛṣṇa, Śiva, Gesù). Ogni esperienza mistica autentica implica una rivalutazione del concetto di Essere. La ‛nuova vita' o la ‛nuova personalità' è il risultato del confronto personale con l'Essere.

Il profetismo è un fenomeno ben noto nella storia delle religioni; trova però la sua espressione più significativa nella tradizione israelita. Già nell'XI secolo a. C. gruppi di profeti (nebiim, singolare nabī) predicevano il futuro in uno stato di trance estatica (I Samuele, 10, 5). Più tardi, i profeti svolsero la propria attività presso i santuari nazionali, specialmente presso il tempio di Gerusalemme. Combatterono strenuamente l'influenza cananea sul culto israelita e proclamarono il messaggio etico dello yahwismo, predicando la giustizia e la rettitudine.
Il profeta è sostanzialmente diverso non solo dal mistico, ma anche dal sacerdote, che è responsabile del culto istituzionalizzato. Non si diventa profeti senza vocazione, senza essere ‛chiamati' da Dio. Il profeta si considera messaggero di Dio. Proclamando la parola di Dio, egli annuncia una nuova rivelazione. Una caratteristica del profeta dell'Antico Testamento sta nel fatto ch'egli critica la religione istituzionalizzata e la società contemporanea attraverso un'interpretazione di eventi storici.

Ovviamente, la tipologia degli ‛specialisti del sacro' e degli ‛uomini eletti' è ben più ricca e complessa di quella qui tratteggiata. Oltre allo stregone, allo sciamano, al mistico, al profeta e al sacerdote, notevolmente più importanti sono i fondatori e i riformatori delle religioni. Qui ci limiteremo a ricordare fra i fondatori Mosè, Zarathustra, Buddha, Gesù, Mani e Maometto, e fra i riformatori Ekhnaton, san Francesco, Rāmānuja, Lutero, Ignazio di Loyola e Wesley.

16. Classificazione delle religioni

Sin dal Settecento le religioni sono state classificate in molti modi e da diverse prospettive. Hegel distinse uno stadio oggettivo, in cui Dio è immerso nella Natura, uno stadio soggettivo, quando Dio si manifesta come Ente spirituale, e infine il cristianesimo, nel quale Dio si rivela come Spirito Assoluto.

Nella seconda metà dell'Ottocento e all'inizio del Novecento sono state avanzate una quantità di classificazioni: religioni della Natura e dello Spirito, della Legge e della Grazia, della Fede e delle Opere, dell'azione e della contemplazione mistica; oppure religioni nazionali e universali, cosmiche e acosmiche, ecc. N. Söderblom ridusse a tre le forme di religioni: animismo, dinamismo e religioni dei fondatori.

La tipologia più complessa fu elaborata da G. van der Leeuw. Egli distinse: a) le religioni dell'allontanamento e della fuga (Cina, deismo del XVIII secolo, buddhismo originario); b) la religione del combattimento (dualismo zoroastriano); c) la religione della quiete (misticismo); d) le religioni dell'inquietudine (giudaismo antico, cristianesimo, Islàm); e) la religione dello slancio e della figura (Grecia antica); f) le religioni dell'infinità e dell'ascesi (India antica, primo buddhismo); g) la religione del nulla e della pietà (buddhismo del Mahāyāna); h) la religione della volontà e dell'obbedienza (giudaismo); i) la religione della maestà e dell'umiltà (Islàm); l) la religione dell'amore (cristianesimo).

La distinzione tra religione ‛naturale' e ‛rivelata' non ha senso, giacché ogni religione - sia ‛primitiva' che ‛storica' - è in ultima analisi il risultato di una rivelazione primordiale, soprannaturale. Parimenti inaccettabile è la classificazione delle religioni in ‛inferiori' (primitive) e ‛superiori'. Più utili sono le distinzioni fra religioni ‛cosmologiche' (cioè quelle in cui il sacro si manifesta attraverso i fenomeni cosmici), ‛acosmiche' (buddhismo, gnosticismo) e religioni ‛storiche' (giudaismo, cristianesimo, Islàm), o fra ‛religioni del libro' (vedismo, giudaismo, zoroastrismo, cristianesimo, Islàm) e religioni dei popoli preletterati e di quelli che, pur possedendo una letteratura religiosa, non ne proclamarono l'ispirazione divina (Vicino Oriente antico, Grecia antica, Cina, ecc.).

17. Atteggiamenti verso le religioni forestiere

a) Mondo antico

Sebbene la scienza delle religioni come disciplina autonoma abbia avuto inizio solo nell'Ottocento, l'interesse per le religioni di altri popoli risale molto più addietro nel passato. Se ne trova documentazione per la prima volta nella Grecia classica, specialmente a partire dal V secolo. Tale interesse si manifestò sia nei resoconti dei viaggiatori, che descrissero i culti di paesi lontani raffrontandoli con le pratiche religiose greche, sia nella critica filosofica della religione tradizionale. Già Erodoto descrisse in modo sorprendentemente preciso diverse religioni barbare ed esotiche (dell'Egitto, della Persia, della Tracia, della Scizia, ecc.), formulando perfino ipotesi sulla loro origine e sulle loro relazioni con i culti e i miti greci. I filosofi presocratici indagarono la natura degli dei e il valore dei miti, fondando una critica razionalistica delle religioni. Così, ad esempio, per Parmenide ed Empedocle gli dei erano personificazioni di forze naturali. Anche Democrito sembra aver mostrato viva curiosità e interesse per le religioni straniere con cui era venuto direttamente a contatto durante i suoi numerosi viaggi. Platone fece frequente uso di paragoni con le religioni dei barbari; Aristotele elaborò la prima formulazione sistematica della teoria della degenerazione religiosa dell'umanità (Metafisica, XII, 7), concetto che sarà spesso ripreso in epoche successive. Teofrasto, che succedette ad Aristotele come scolarca del Liceo, può essere considerato il primo storico greco delle religioni: secondo Diogene Laerzio (V, 48), egli scrisse una storia delle religioni in sei libri.

Ma fu specialmente dopo le conquiste di Alessandro Magno che gli scrittori greci poterono acquisire una conoscenza diretta delle tradizioni religiose dei popoli orientali e quindi descriverle. Durante il regno di Alessandro, Beroso, un sacerdote di Bēl-Marduk, scrisse una storia della Babilonia in tre libri. Megastene, che tra il 302 e il 297 fu più volte inviato da Seleuco Nicatore come ambasciatore presso il re indiano Candragupta, scrisse un trattato in quattro libri sull'India; Ecateo di Abdera (o di Teo) scrisse sugli Iperborei e dedicò un'opera alla religione degli Egiziani. Manetone, un sacerdote egiziano, si occupò dello stesso argomento in un'opera che porta un identico titolo. Il mondo alessandrino venne perciò a conoscere un gran numero di miti, riti e consuetudini religiose esotiche.

Nell'Atene dell'inizio del III secolo Epicuro elaborò una critica radicale della religione: a suo parere il ‟consenso universale" prova che gli dei esistono, ma egli li considera esseri superiori e remoti, che non hanno rapporto alcuno con l'uomo. Le sue teorie incontrarono gran favore nel mondo latino del I secolo a.C., soprattutto grazie all'opera di Lucrezio. Furono però gli stoici che influenzarono profondamente tutto il mondo antico elaborando il metodo dell'interpretazione allegorica, che consentì loro di conservare e al tempo stesso rivalorizzare il retaggio mitologico. Secondo gli stoici, i miti rivelano o concezioni filosofiche sulla natura ultima delle cose o dottrine etiche. I molti nomi degli dei stanno a indicare un'unica divinità: solo la terminologia varia. Il metodo allegorico degli stoici rese possibile la trasposizione di qualsiasi tradizione arcaica o esotica in un linguaggio universale e facilmente comprensibile; esso ebbe larga fortuna e vasta applicazione.

L'idea che talune divinità erano una volta re o eroi, deificati per i servizi resi all'umanità, aveva trovato fautori fin dall'epoca di Erodoto, ma fu Evemero che rese popolare questa interpretazione pseudostorica della mitologia nel suo Sacro scritto. L'evemerismo ebbe molti seguaci, soprattutto grazie alla traduzione latina, fatta da Ennio, dell'opera di Evemero, e agli apologisti cristiani, che ne ripresero per i loro scopi gli argomenti. Meritano particolare menzione, fra gli autori romani, Cicerone e Varrone per il valore storico-religioso delle loro opere. I quarantuno libri delle Antiquitates rerum humanarum et divinarum erano una miniera di notizie; nel De natura deorum Cicerone dette un'accurata descrizione dei riti e delle credenze dell'ultimo secolo dell'era pagana.

Il diffondersi dei culti orientali e delle religioni misteriche nell'Impero romano e il sincretismo religioso che ne derivò, specialmente ad Alessandria, favorirono la conoscenza delle religioni esotiche e lo studio dei fenomeni religiosi di vari paesi. Durante i primi due secoli dell'era cristiana, Erennio Filone, seguace di Evemero, pubblicò la Storia fenicia, Pausania la Periegesi della Grecia - una miniera inesauribile per lo storico delle religioni - e lo pseudo-Apollodoro la Biblioteca, un compendio mitografico. Il neopitagorismo e il neoplatonismo si dedicarono alla rivalutazione dell'interpretazione spirituale dei miti e dei riti. Plutarco fu un tipico rappresentante di questa scuola di esegesi, soprattutto col suo trattato Su Iside e Osiride. Secondo Plutarco, la diversità nelle forme religiose era solo apparente: i simboli rivelavano la fondamentale unità di tutte le religioni. La tesi stoica fu brillantemente riformulata da Seneca: le molte divinità altro non erano che aspetti di un solo Dio. Si moltiplicavano frattanto le descrizioni di religioni straniere e di culti esoterici: Giulio Cesare e Tacito fornirono preziose informazioni sulle religioni dei Galli e dei Germani; Apuleio descrisse la cerimonia di iniziazione ai misteri di Iside; Luciano nell'opera Sulla dea siriana illustrò il culto siriano.

b) Cristianesimo, giudaismo, islamismo

Per gli apologeti e gli eresiarchi cristiani, il problema si presentava su un piano diverso, giacché essi opponevano l'unico Dio della religione rivelata ai molti dei del paganesimo. Essi erano dunque obbligati da un lato a dimostrare l'origine soprannaturale - e la conseguente superiorità - del cristianesimo, dall'altra a spiegare l'origine degli dei pagani e in particolare a chiarire il perché dell'idolatria che caratterizzava il mondo precristiano. Dovevano anche dar ragione delle analogie fra religioni misteriche e cristianesimo. Furono prospettate diverse teorie: a) i demoni nati dal connubio tra gli angeli caduti e le ‟figlie degli uomini" (Genesi, 6, 2) avevano spinto l'umanità verso l'idolatria; b) la teoria del ‛plagio' (gli angeli del male, a conoscenza delle profezie e allo scopo di turbare i fedeli, avevano introdotto nelle religioni pagane alcuni elementi di somiglianza con il giudaismo e il cristianesimo; i filosofi pagani avevano mutuato le loro dottrine da Mosè e dai profeti); c) l'intelletto è in grado di giungere alla conoscenza della verità grazie alle sue facoltà: il mondo pagano aveva quindi potuto acquisire una conoscenza naturale di Dio.

La reazione pagana assunse diverse forme. Ne sono espressione l'attacco violento del neopitagorico Celso contro l'originalità e il valore spirituale del cristianesimo; la Vita di Apollonio di Tiana, del sofista Filostrato, in cui vengono messe a raffronto le concezioni religiose degli Indiani, Greci ed Egiziani e viene illustrato un ideale pagano di pietà e tolleranza; l'opera del neoplatonico Porfirio - discepolo di Plotino - che abilmente polemizza contro il cristianesimo ricorrendo al metodo allegorico, e di Giamblico, che propugna un ideale di sincretismo e tolleranza.

Le figure preminenti del contrattacco cristiano furono gli africani Minucio Felice, Lattanzio, Tertulliano, Firmico Materno e i grandi eruditi alessandrini Clemente Alessandrino e Origene.
Eusebio di Cesarea nella Cronaca, sant'Agostino nel De civitate Dei e Paolo Orosio negli Historiarum adversus paganos libri septem sbaragliarono definitivamente il paganesimo. Le loro opere, nelle quali viene ripresa la tesi degli autori pagani sulla crescente degenerazione delle religioni, sono preziose - al pari di quelle dei loro avversari e di altri autori cristiani - in quanto ci tramandano molto materiale storico-religioso relativo ai miti, ai riti e ai costumi di quasi tutti i popoli dell'Impero romano, nonché degli gnostici e delle sette cristiane eretiche.
L'interesse per le religioni forestiere fu risvegliato in Occidente durante il Medioevo dalla minacciosa presenza dell'Islàm. Nel 1141 Pietro il Venerabile fece tradurre il Corano da Roberto di Rétines, e a studiosi di arabo si dovettero importanti opere sulle religioni pagane. Al-Bīrūnī (973-1048) fornì una pregevole descrizione delle religioni e filosofie indiane; ash-Shahrastānī (morto nel 1153) scrisse un trattato sulle scuole islamiche; Ibn Hazm (994-1064), nell'opera voluminosa ed erudita al-Fiṣal (La discriminazione), diede una critica del dualismo mazdeo e manicheo, del bramanesimo, dell'ebraismo, del cristianesimo, dell'ateismo e di varie sette islamiche. Ma fu soprattutto Averroè (Ibn Rushd, 1126-1198) che, dopo aver profondamente influenzato il pensiero islamico, doveva dare il primo impulso a un'intera corrente intellettuale in Occidente; per interpretare la religione, Averroè adottò il metodo simbolico e allegorico e giunse alla conclusione che tutte le religioni monoteistiche sono vere, pur condividendo l'opinione di Aristotele che - in un mondo eterno - le religioni compaiono e scompaiono incessantemente.

Fra i dottori ebrei del Medioevo due meritano particolare menzione: Sa‛adyāh (882-942) che nel Kitāb al-amānāt wa 'l-i‛tiqādāt (Libro delle credenze e dei dogmi, 933 circa) interpretò il bramanesimo, il cristianesimo e la religione musulmana nel quadro di una filosofia religiosa, e Maimonide (1135-1204), che intraprese uno studio comparato delle religioni evitando scrupolosamente di cadere nel sincretismo. Egli cercò di spiegare le imperfezioni della prima religione rivelata, il giudaismo, con la teoria della condiscendenza divina e del progresso umano, tesi queste che erano state sostenute anche dai Padri della Chiesa.

La comparsa dei Mongoli - ostili agli Arabi - in Asia Minore indusse i papi a inviare missionari affinché si informassero sulle loro religioni e sui loro costumi. Nel 1244 Innocenzo IV inviò due domenicani e due francescani, uno dei quali, Giovanni dal Piano dei Carpini, arrivò fino a Karakorum, in Asia centrale, e al suo ritorno scrisse la Historia Mongalorum. Nel 1253 Luigi IX inviò Guglielmo di Rubruquis a Karakorum, dove - egli ci racconta - tenne testa in un dibattito a manichei e a Saraceni. Infine, nel 1274 il veneziano Marco Polo pubblicò Il Milione in cui, fra innumerevoli altre meraviglie orientali, raccontava la vita del Buddha. Tutti questi libri riscossero enorme successo. In base a questa documentazione, Vincenzo di Beauvais, Ruggero Bacone e Raimondo Lullo esposero in varie opere le credenze degli ‛idolatri' Tartari, Ebrei, Saraceni. Furono riesumate le tesi dei primi apologisti cristiani - in particolare la teoria della conoscenza spontanea di Dio e le tesi della degenerazione e dell'influenza demoniaca nella diffusione del politeismo.

18. Lo studio scientifico delle religioni

La riscoperta e rivalutazione - nel Rinascimento - del paganesimo furono dovute anzitutto al favore di cui godeva l'interpretazione allegorica neoplatonica. Le scoperte geografiche del Quattro e Cinquecento aprirono nuovi orizzonti alla conoscenza delle religioni ‛primitive'. Le raccolte dei resoconti dei primi esploratori incontrarono grande favore tra gli Europei colti; seguì la pubblicazione di lettere e relazioni di missionari dall'America e dalla Cina. Un primo tentativo di mettere a confronto le religioni del Nuovo Mondo con quelle dell'antichità si deve al missionario J. F. Lafitau nei Moeurs des sauvages américains comparées aux moeurs des premiers temps, pubblicati a Parigi nel 1724. Nel 1757 Ch. de Brosses scrisse Du culte des dieux fétiches ou parallèle de l'ancienne réligion de l'Égypte avec la réligion actuelle de Négritie. Rispondendo a Lafitau e ispirandosi a Hume, de Brosses dichiarò erronea la tesi secondo cui l'umanità aveva in un primo tempo posseduto un'idea pura di Dio, poi corrottasi; al contrario, ‟poiché la mente umana si eleva per gradi da un livello inferiore a uno superiore", la prima forma di religione non poteva essere stata che grezza, cioè un ‟feticismo", termine che de Brosses usò annettendogli un vago significato di culto degli animali, piante e oggetti inanimati.

I deisti inglesi (specialmente Hume), i ‛filosofi' ed enciclopedisti francesi - Rousseau, Voltaire, Diderot, D'Alembert - e gli illuministi tedeschi (particolarmente Wolf e Lessing) continuarono a discutere accanitamente sul problema della religione naturale. Furono però i ricercatori eruditi che offrirono un valido contributo all'interpretazione delle religioni esotiche, pagane o primitive. Taluni autori esercitarono un forte influsso, sia per le ipotesi prospettate sia per le reazioni suscitate. Nel 1794 Fr. Dupuis pubblicò Origine de tous les cultes, in cui cercò di dimostrare che la storia degli dei e perfino la vita di Cristo sono solo allegorie dei moti delle stelle, tesi che fu ripresa dai panbabilonisti alla fine dell'Ottocento. G. Fr. Creuzer, in Symbolik und Mythologie der alten Völker, besonders der Griechen (1810-1812), tentò di ricostruire le fasi primordiali delle religioni ‛pelasgiche' e orientali e di dimostrare la funzione del simbolismo.

Come risultato delle scoperte fatte in tutti i rami degli studi orientali durante la prima metà dell'Ottocento, nonché dell'affermazione della linguistica comparata, la storia delle religioni fece il suo vero esordio con Max Müller, il cui Essay on comparative mythology (1856) è il primo di una lunga serie di studi condotti da lui personalmente e dai suoi discepoli. Müller trovò la genesi dei miti nei fenomeni naturali, specialmente nelle epifanie solari, e spiegò la nascita degli dei come una ‛malattia del linguaggio': quel che prima altro non era che nome, nomen, era divenuto una divinità, numen. Le sue teorie ebbero grande successo e decaddero solo verso la fine del secolo, con la comparsa delle opere di W. Mannhardt e di E. B. Tylor. Nella sua opera principale Antike Wald- und Feldkulte (1875-1877) Mannhardt dimostrò l'importanza della ‛bassa mitologia', che ancora sopravvive nei riti e nelle credenze dei contadini; a suo parere queste credenze rappresentano uno stadio religioso precedente a quello delle mitologie naturistiche di Max Müller. Le teorie di Mannhardt furono adottate e divulgate da J. G. Frazer nei dodici volumi di The golden bough (London 1907-19153). Nel 1871 uscì la Primitive culture di E. B. Tylor, che fece epoca perché lanciò una nuova moda, quella dell'animismo. In base alla teoria animistica, l'uomo primitivo credeva che ogni cosa fosse dotata di un'anima, e, secondo Tylor, questa credenza fondamentale e universale spiegava non solo il culto dei morti e degli antenati, ma anche la genesi degli dei. Una nuova teoria, quella del preanimismo, fu elaborata dopo il 1900 da R. R. Marett, K. T. Preuss e altri studiosi, secondo i quali l'origine della religione andava ricercata nell'esperienza di una forza impersonale (mana). Una critica dell'animismo, ma da un diverso punto di vista, fu formulata da A. Lang, per il quale la credenza negli Esseri Supremi (All Fathers), riscontrata anche nelle culture più primitive, non poteva essere spiegata mediante una credenza negli spiriti. W. Schmidt riprese quest'idea e, sviluppandola sotto il profilo della metodologia della ‛storia della cultura' (Kulturgeschichte), cercò di dimostrare l'esistenza di un monoteismo primordiale (Der Ursprung der Gottesidee, 12 voll., Münster 1912-1955).

Verso la fine dell'Ottocento e l'inizio del Novecento si delinearono altri indirizzi di pensiero. É. Durkheim ritenne di aver trovato la spiegazione sociologica della religione nel totemismo. (Fra gli indiani Ojibwa dell'America settentrionale il termine totem sta a indicare l'animale il cui nome designa un clan, dal quale viene venerato come antenato). Fin dal 1869 J. F. MacLennan aveva sostenuto che il totemismo rappresenta la forma originaria della religione. Ma studi successivi, soprattutto quelli di Frazer, avevano dimostrato che il totemismo non è universalmente diffuso e non può essere considerato la primissima forma assunta dalla religione. L. Lévy-Bruhl tentò di provare che il comportamento religioso può essere spiegato in base alla mentalità prelogica dei primitivi (ipotesi che ripudiò verso la fine della sua vita).
Freud ritenne di aver trovato l'origine della religione, dei divieti morali e dell'organizzazione sociale in un delitto primordiale, cioè nel primo parricidio. Dio non è altro che il padre fisico sublimato. L'interpretazione freudiana della religione è stata più volte criticata e totalmente respinta dagli etnologi.

Fu G. van der Leeuw a pubblicare la prima importante opera sulla fenomenologia della religione. Egli sostenne l'irriducibilità delle rappresentazioni religiose a funzioni sociali, psicologiche o razionali, e confutò quei pregiudizi naturalistici che cercano di spiegare la religione con qualcosa che religione non è. Il crescente interesse per la fenomenologia della religione ha creato uno stato di tensione fra gli studiosi della Religionswissenschaft. Le diverse correnti storiche e storicistiche hanno vivamente reagito contro la pretesa, avanzata dai fenomenologi, di poter afferrare l'essenza e la struttura dei fenomeni religiosi. Per gli storicisti, la religione è esclusivamente un fatto storico privo di qualsiasi significato o valore soprastorico, e cercarne le ‛essenze' equivale a ricadere nell'antico errore platonico (gli storicisti naturalmente hanno ignorato Husserl). Ma una tale tensione fra coloro che cercano di comprendere l'essenza e la struttura e coloro che si preoccupano solo della storia dei fenomeni religiosi è creativa. È proprio grazie a essa che la scienza delle religioni potrà sfuggire al dogmatismo e all'immobilismo.

Enciclopedia delle Scienze Sociali (1997)

di Hans G. Kippenberg

Sommario: 1. Introduzione. 2. La religione nel contesto della secolarizzazione e della modernizzazione: a) modernizzazione e perdita delle norme e delle certezze tradizionali; b) dalla filosofia della religione alla storia delle religioni. 3. Genealogie religiose del sistema sociale moderno: a) Émile Durkheim e l'origine della morale sociale dalla storia della religione; b) Max Weber e il 'disincantamento' del mondo. 4. Tre paradigmi teorici: a) la fenomenologia; b) il funzionalismo; c) la religione come sistema culturale. 5. La religiosità nella cultura moderna: a) le sette fondamentaliste; b) i movimenti apocalittici; c) misticismo, esoterismo e new age. .

1. Introduzione

La sociologia della religione non è nata come ramo particolare della scienza della religione, bensì in seno alla sociologia stessa (v. Tenbruck, 1991, p. 28). Il concetto acquistò un suo preciso significato con la pubblicazione nel 1920-1921 dei Gesammelte Aufsätze zur Religionssoziologie di Weber. In questi saggi il sociologo tedesco aveva messo in luce il nesso tra ethos capitalistico ed etica protestante, esplorando altresì le connessioni tra le grandi religioni mondiali, la vita economica e la stratificazione sociale. La morte prematura impedì a Weber di realizzare il suo progetto di colmare le lacune dell'opera sviluppando una 'sociologia della religione' organica e sistematica. Nel 1922 una versione non definitiva della Religionssoziologie venne pubblicata come sezione autonoma nell'opera postuma Wirtschaft und Gesellschaft.

La sociologia della religione si propone di ricercare e analizzare luoghi e funzioni delle religioni nelle società moderne. Poiché Émile Durkheim e i suoi allievi concepivano in termini analoghi lo studio dei fatti religiosi, l'etichetta di 'sociologia della religione' viene applicata anche alle loro teorie. In contrasto con il materialismo, sia Weber che Durkheim affermavano che la storia della religione continuava anche nella società industriale secolarizzata.
La nozione di 'secolarizzazione' ha un ruolo fondamentale nella sociologia della religione. Si tratta di un concetto che designa una pluralità di fenomeni: la perdita di ogni legame con le Chiese, le condizioni per la nascita di un 'mercato religioso' e di un pluralismo delle confessioni, la trasformazione di assunti religiosi in evidenze culturali. Proprio per questa complessità di significati il concetto di secolarizzazione si rivela ora come in passato particolarmente utile per comprendere il ruolo della religione nella società moderna (v. Pollak, 1995; v. Hervieu-Léger, 1990; v. Stark e Bainbridge, 1985).

2. La religione nel contesto della secolarizzazione e della modernizzazione

Per 'secolarizzazione' si intende propriamente il passaggio di beni o istituzioni in possesso del potere ecclesiastico nelle mani del potere civile. Questo processo di sottrazione all'ambito delle pertinenze dirette o indirette della gerarchia ecclesiale ebbe inizio già nel Seicento (il termine 'secolarizzazione' fa la sua prima comparsa negli accordi preliminari alla pace di Vestfalia), e andò di pari passo con la formazione dello Stato moderno e con l'affermarsi del principio della separazione tra Stato e Chiesa. Il primo paese a sancire nella costituzione l'abolizione di una Chiesa di Stato furono gli Stati Uniti (il 'disestablishment' del I emendamento).

In Europa il paese che intraprese con maggior coerenza la strada della secolarizzazione fu la Francia, a partire dalla delibera emanata dall'Assemblea costituente il 2 novembre 1789 ("tous les biens ecclésiastiques sont à la disposition de la nation"), sino alla legge del 1905 che sanciva la completa separazione tra Stato e Chiesa, con la conseguente completa esclusione di quest'ultima dalla sfera pubblica (v. Campenhausen, 1994⁴, pp. 66-68).

Più incerto fu il cammino della Germania. La Costituzione di Weimar del 1919 era ambivalente, in quanto, se da un lato riconosceva la piena libertà religiosa dei cittadini, dall'altro attribuiva alle comunità religiose lo status di enti di diritto pubblico dotati di ampi poteri, ad esempio in materia fiscale (artt. 136-139 e 141). La Costituzione della Repubblica Federale Tedesca riprese interamente queste disposizioni (art. 140), sicché le grandi Chiese hanno un riconoscimento ufficiale (ibid.). In Germania dunque la separazione tra Stato e Chiesa fu perseguita con meno coerenza rispetto alla Francia, tanto che nel suo caso si può parlare di una 'forma debole' di Chiesa di Stato.

Il processo di secolarizzazione e la conseguente separazione tra Stato e Chiesa hanno avuto significative ripercussioni sulle comunità cristiane, creando innanzitutto i presupposti per la nascita di un 'mercato' religioso. Come ha osservato Peter Berger a proposito degli Stati Uniti, la perdita del monopolio ecclesiale ha fatto sì che "religioni un tempo dominanti oggi debbano essere 'vendute' sul mercato, e vendute a una cerchia di clienti che non sono costretti a 'comprare'. La situazione pluralistica è innanzitutto una situazione di mercato. Le istituzioni religiose sono diventate 'agenzie pubblicitarie', e la religione stessa si è trasformata in un 'bene di consumo'. La logica dell'economia di mercato domina in questo modo ampie sfere della vita religiosa" (v. Berger, 1969, p. 132). Soprattutto negli Stati Uniti, le Chiese sono diventate dipendenti dalle offerte dei cittadini, e la religione ha cessato di essere un destino per diventare una libera scelta dell'individuo. Non si è trattato di una trasformazione necessariamente negativa per le Chiese, ma va rilevato che non tutte le denominazioni ne hanno beneficiato in egual misura. A questo riguardo è interessante osservare che a partire dal 1776 il numero dei membri di alcune sette protestanti negli Stati Uniti anziché diminuire ha registrato un costante incremento (v. Finke e Stark, 1992).

Questa 'situazione di mercato' fa sì che le varie religioni non solo si trovino in competizione le une con le altre, ma debbano anche far fronte alla concorrenza di offerte culturali non religiose. Molte forme di espressione delle religioni moderne, come ad esempio i movimenti di risveglio spirituale, i meetings di massa, le pubblicazioni e le associazioni (si pensi all'YMCA), sono nate sul mercato culturale. La religione è passata in parte dalla sfera ecclesiale a quella culturale, con significative ripercussioni sulle sue forme organizzative e sul suo modo di presentarsi al pubblico.Il problema del riconoscimento pubblico delle comunità religiose è un'altra, importante conseguenza della separazione tra Stato e Chiesa. Se in principio la preoccupazione prevalente era quella di tutelare le comunità religiose dall'ingerenza dello Stato, in seguito l'esigenza più sentita è sembrata quella di tutelare i cittadini da una eccessiva influenza delle comunità religiose sulla sfera pubblica (v. Sullivan, 1994). D'altro canto la grande rilevanza delle comunità religiose nella vita quotidiana dei cittadini ha fatto sì che aumentassero le pressioni nei confronti delle autorità per ottenerne il riconoscimento ufficiale. Il fenomeno del multiculturalismo agisce nella stessa direzione, in quanto spinge verso una "politica del riconoscimento" (v. Taylor e altri, 1994).

a) Modernizzazione e perdita delle norme e delle certezze tradizionali

Gli effetti della secolarizzazione vennero acuiti dalla modernizzazione economica che all'inizio del XIX secolo investì progressivamente l'Europa e l'America. L'avvento della società industriale mutò il valore della tradizione religiosa nella vita quotidiana. Nella sfera dell'agire economico il guadagno monetario divenne più importante del soddisfacimento dei bisogni tradizionali. Nell'ambito del potere politico la legislazione scritta divenne più importante della consuetudine. La tradizione religiosa perse il suo valore tradizionale di norma dell'agire sociale. Niklas Luhmann ha parlato a questo proposito di un processo di 'differenziazione della religione', che ne ha mutato radicalmente le funzioni. La religione ha perso il suo valore regolativo per la società ed è diventata un sottosistema funzionale autonomo, indipendente sia da quello economico che da quello politico. In questo modo è potuta divenire oggetto di giudizio da punti di vista a essa estranei, come quello dell'economia razionale o della legittimità politica. Nello stesso tempo, però, ha acquistato il carattere di un sistema autonomo rispetto alle grandi potenze sociali. Questo processo ha avuto inoltre importanti conseguenze per ciò che Luhmann ha definito "sicurezza originaria" della religione, nel senso che non è più possibile un trapasso da certezze religiose a certezze non religiose e viceversa (v. Luhmann, 1993, p. 259).

Gli effetti della modernizzazione sulle religioni sono stati analizzati da Peter Berger. "Innumerevoli individui - egli afferma - vivono nell'ambivalenza tra liberazione e alienazione [...]. La modernità viene di fatto vissuta come una liberazione - dai limiti ristretti della tradizione, dalla miseria, dai vincoli del clan e della tribù. D'altro canto per questa liberazione viene pagato un prezzo altissimo. L'uomo sperimenta oggi una solitudine impensabile nella società tradizionale: privato dei vincoli di solidarietà della sua esistenza collettiva, vive altresì nella totale incertezza riguardo alle norme che dovrebbero guidare la sua esistenza, e non sa più nemmeno chi o cosa egli sia" (v. Berger, 1979).

Il sociologo britannico A. Giddens, dal canto suo, ha osservato come la modernizzazione abbia comportato una globalizzazione del mondo di vita dell'individuo. La dinamica della modernità sradica il singolo dal suo mondo di vita familiare, inserendolo in una rete di rapporti sociali che attraverso i meccanismi dello scambio e i mezzi di comunicazione hanno perso ogni specifico riferimento spaziale acquistando una dimensione mondiale. L'individuo è dunque costretto a determinare autonomamente la propria identità. La crescente consapevolezza storica ha un ruolo importante in questo processo, in quanto consente di rispondere al mutamento attraverso una riflessione su alternative presenti in passato o che sono state soppresse. La pretesa espressa dall'illuminismo di vagliare criticamente tutte le pratiche sociali ha portato da un lato a una moltiplicazione delle alternative, dall'altro a una perdita di certezza (v. Giddens, 1990).

b) Dalla filosofia della religione alla storia delle religioni

La critica della religione di Thomas Hobbes e poi degli illuministi del XVIII e del XIX secolo aveva contribuito a risvegliare l'interesse per la storia delle religioni. La distinzione operata tra una religione razionale e le religioni storiche tradizionali imponeva non solo di stabilire dei criteri per definire la prima, ma anche di spiegare la continuità delle religioni storiche. Nell'ambito della filosofia della religione questo compito intellettuale ha assunto progressivamente un'importanza centrale e ha contribuito a ridestare l'attenzione per lo studio delle religioni, ritenuto in grado di fornire delucidazioni su una dimensione dell'esistenza umana che merita riconoscimento a prescindere da tutte le pretese di razionalizzazione.

Le strade intraprese per risolvere questo compito intellettuale sono state peraltro assai diverse. Le religioni potevano essere viste come una forma di filosofia della natura, ed è questa la posizione sostenuta in Inghilterra da David Hume, cui si ispirò l'interpretazione intellettualistica della religione di Edward Burnett Tylor, secondo il quale la storia della religione non è che la storia del tentativo compiuto dall'umanità sin dalle origini di risolvere l'enigma della natura e dell'uomo stesso.

Jean-Jacques Rousseau in Francia e Immanuel Kant in Germania posero a fondamento della religione razionale la sua funzione morale. Secondo Rousseau l'autentica religione è indipendente da tutte le istituzioni della civiltà. L'uomo non ha bisogno né di filosofi né di teologi per conoscere i suoi doveri morali: non i giudizi dell'intelletto, ma i moti del cuore sono la migliore guida nelle questioni che riguardano la società. Il costante ripresentarsi delle guerre di religione, come già lamentava Hobbes, non sarebbe imputabile alle religioni ma agli Stati. Un'idea simile si ritrova in Kant, il quale colloca la vera religione esclusivamente nella sfera del dover essere (la morale), sostanzialmente distinta da quella dell'essere. "La religione (considerata soggettivamente) è la conoscenza di tutti i nostri doveri come comandamenti divini" (v. Kant, 1793). Per pervenire a tale conoscenza non vi è bisogno di alcuna Chiesa. È la ragione a indicare ciò che vi è di intemporale nella religione storica, ciò che vi è di universale in una confessione particolare, ciò che vi è di immutabile in ciò che muta. Pur con tutte le riserve e le limitazioni, Kant non dubita che una religione particolare possa avere una funzione preparatoria, servendo da strumento per raggiungere il fine della fede razionale. L'individuo laico deve solo liberarsi dalla tutela della Chiesa obbedendo unicamente alla ragione: in questo modo la religione particolare può diventare fonte di una moralità pubblica vincolante. Queste idee vennero in seguito sviluppate da Émile Durkheim e in parte anche da Max Weber.

Johann Gottfried Herder e Friedrich Schleiermacher inaugurarono una tradizione filosofica che, in polemica con quella che veniva considerata l'arida razionalità dell'illuminismo, attribuiva alle religioni storiche il più grande valore, considerandole un'espressione naturale e spontanea dell'animo umano.

Un passo importante fu segnato dall'analisi filosofica della religiosità indiana sviluppata da Hegel sulla base di una comparazione tra il mondo spirituale orientale e quello occidentale. Mentre in India la negazione del mondo sfocerebbe in un annullamento della soggettività, nella tradizione occidentale sarebbe invece fonte di una tensione permanente tra soggetto e mondo. Nella storia dell'Occidente si può riconoscere una crescente soggettività e individualità dell'uomo. Partendo da premesse analoghe, Arthur Schopenhauer rovescerà il giudizio di Hegel, affermando che il grande merito storico delle religioni basate sulla negazione del mondo è proprio quello di superare la soggettività e l'individualità. Hegel e Schopenhauer segnano l'inizio di una filosofia della religione che vede nella negazione del mondo il contributo più rilevante delle religioni storiche - un'idea che verrà poi ripresa e sviluppata da Troeltsch e da Max Weber.

Friedrich Nietzsche adottò un'altra strategia per analizzare le religioni storiche. Rifiutando in modo radicale e polemico l'assunto che i principî morali siano autoevidenti per l'uomo, egli sostenne che non può esservi una ragione - né pura né pratica - indipendente da uno specifico contesto spazio-temporale. Le religioni diventano così fatti fondamentali della vita. A Nietzsche si ispirerà la cosiddetta 'filosofia della vita' (Lebensphilosophie), e il suo pensiero influenzerà anche Georg Simmel.

Lo studio della religione come disciplina storico-empirica si sviluppa dalla consapevolezza che per spiegare la presenza della religione nella società moderna secolarizzata non è più sufficiente richiamarsi al valore per così dire autoevidente della tradizione. Nemmeno le spiegazioni offerte dalla filosofia della religione, troppo diverse e contrastanti, si rivelano adeguate a chiarire le condizioni e i presupposti del fenomeno religioso, che va studiato invece sulla base di fatti univoci e osservabili. E tuttavia sono pur sempre le opzioni filosofiche dei singoli autori a decidere quali fenomeni vadano considerati di pertinenza della religione e quali no. Alla diversità di approcci filosofici va ricondotta in ultimo la pluralità di teorie formulate nell'ambito dello studio scientifico (storico-empirico) del fenomeno religioso.

3. Genealogie religiose del sistema sociale moderno

a) Émile Durkheim e l'origine della morale sociale dalla storia della religione

L'opera principale di Durkheim, La divisione del lavoro sociale, tematizzava un fenomeno che all'epoca della pubblicazione del libro (1893) era estremamente attuale. La Francia era allora nel pieno del processo di industrializzazione, e parallelamente al mutamento sociale si andava verificando il passaggio del potere politico da una classe privilegiata a un ceto medio borghese (v. Jones, 1986-1987, pp. 177 ss.). Nell'analizzare questo mutamento, Durkheim incentrò l'attenzione sulla divisione del lavoro, che ai suoi occhi costituiva l'innovazione fondamentale. Nelle società semplici in cui non vige una divisione del lavoro avanzata il ruolo sociale del singolo è fissato dalla tradizione e dalle consuetudini. Ogni violazione della tradizione è considerata un delitto contro gli dei e quindi severamente punita. Il diritto è di tipo repressivo e ha la funzione di garantire la conformità sociale. Nella società moderna basata sulla divisione del lavoro gli individui diventano tanto più estranei gli uni agli altri quanto più cresce la loro interdipendenza funzionale. Il problema che Durkheim si propone di analizzare riguarda i rapporti tra personalità individuale e solidarietà sociale: perché l'individuo, pur diventando sempre più autonomo, è sempre più dipendente dalla società? Come può egli essere nello stesso tempo persona e solidale? È innegabile difatti che questi due processi, per quanto possano apparire contraddittori, si verificano parallelamente. Può una società organizzata in base alla divisione del lavoro creare un vincolo morale tra i propri membri in competizione? Porsi questo problema significava chiaramente rifiutare l'assunto in base al quale il singolo individuo è una sorta di monade che istituirebbe autonomamente i rapporti sociali. Per Durkheim, al contrario, la vita collettiva non è nata dalla vita individuale, ma viceversa. Solo così è possibile spiegare in che modo si formino e si sviluppino individualità personali senza che ciò determini una disgregazione della società.

Durkheim non era stato il primo a porsi il problema del vincolo morale nella società moderna. Si trattava di un problema nato con la Rivoluzione francese, che aveva sottratto al singolo il posto assegnatogli nella gerarchia e nell'ordine tradizionali. Lo status aveva lasciato il posto al contratto tra cittadini. Le conseguenze sociali a lungo termine di questo sviluppo avevano attirato l'attenzione di una serie di pensatori già all'inizio dell'Ottocento - in Inghilterra, in Germania e, soprattutto, in Francia (v. Lukes, 1973, pp. 195-199; v. Nisbet, 1952, ed. 1968, pp. 80 ss.). Se molti vedevano nell'individualismo una minaccia per la coesione della società, Durkheim avanza invece un'interpretazione diversa, alla cui base egli pone l'analisi del ruolo e delle funzioni della religione.

Il fatto che il sociologo Durkheim cercasse nella storia della religione la risposta a questo problema può apparire sorprendente solo a prima vista. Altri pensatori francesi avevano aperto la strada in questa direzione. Già Rousseau, ad esempio, aveva affermato che una società ha bisogno di una religion civile. Uno dei maestri parigini di Durkheim, lo storico dell'antichità N.-D. Fustel de Coulanges, nel suo studio La cité antique (1864) aveva dimostrato come nel mondo antico la religione costituisse il fondamento dei rapporti sociali. Il culto dei morti, strettamente legato al culto del focolare, sarebbe stato all'origine della comunità domestica e dei gruppi di parentela. La stessa istituzione della proprietà sarebbe derivata da tale culto, e la religione avrebbe contribuito anche alla formazione delle antiche comunità cittadine, costituite da una pluralità di gruppi di parentela. Il carattere socialmente produttivo della religione era quindi stato dimostrato già prima di Durkheim. Ciò presupponeva peraltro che la religione non fosse definibile solo in termini di dogmi e dottrine, ma anche e soprattutto di comportamenti obbligati. Durkheim fece propria questa valutazione differenziata della dottrina e dei riti religiosi alla luce dei loro effetti sociali.

Nella sua analisi dei legami sociali nella società basata sulla divisione del lavoro Durkheim assegna un ruolo rilevante alla religione, sebbene lamenti l'assenza di una definizione scientifica del fenomeno religioso. Nella sua teoria 'religione' non è che un altro modo di designare la normatività sociale. Via via che si intensifica la divisione del lavoro, si estende l'ambito di autonomia del singolo individuo e diventa sempre più esiguo il numero di quelle tradizioni che hanno carattere vincolante per tutti e alle cui violazioni la comunità reagisce con il diritto repressivo. Il diritto si svincola progressivamente dalla religione, e così pure le sfere e le funzioni politiche, economiche e cognitive. L'ambito della religione si restringe progressivamente, e l'individuo diventa sempre meno eterodiretto. Durkheim non condivideva peraltro il pessimismo di quanti avevano deplorato questo processo considerandolo un sintomo di disgregazione sociale. A suo avviso il mutamento sociale avrebbe creato le condizioni per una nuova forma di integrazione sociale. Questo residuo di esistenza collettiva costituirebbe l'ultimo fondamento morale comune che continua a sussistere anche nella società dominata dalla divisione del lavoro: nella misura in cui tutte le altre credenze e pratiche assumono un carattere sempre meno religioso, l'individuo diventa oggetto di una forma di religione (v. Durkheim, 1893).

Sull'origine di questo culto dell'individuo Durkheim si esprimerà in modo più preciso in occasione di una presa di posizione nell'affaire Dreyfus. Nel saggio L'individualisme et les intellectuels (1898) egli replica all'accusa secondo cui gli intellettuali, spinti da un individualismo distruttivo, avrebbero gettato il paese nell'anarchia con la loro critica dell'esercito e dello Stato. Durkheim prende con decisione le difese dell'individualismo, sostenendo che esso non deve assolutamente essere confuso con l'egoismo, con un culto egoistico dell'Io, ma va bensì ricondotto ai diritti umani e al principio del carattere sacro della persona affermato da Kant e da Rousseau. L'individualismo per Durkheim è una morale con un carattere vincolante assoluto, non implica alcuna forma di anarchia, ma rappresenta l'unico sistema di fede che può garantire l'unità morale del paese. Per questa ragione, difendere gli interessi dell'individuo significa difendere gli interessi vitali della società. L'individualismo viene addirittura equiparato a una religione di cui l'uomo è allo stesso tempo fedele e divinità. "Questo culto dell'uomo ha quale dogma supremo l'autonomia della ragione e quale rito supremo la libera verifica" (v. Durkheim, 1898). Quanto alle origini dell'individualismo, Durkheim lo riconduce non già all'illuminismo ma al cristianesimo, che avrebbe spostato il centro della vita morale dall'esterno all'interiorità, erigendo l'individuo a giudice supremo delle proprie azioni.La tesi della religione come 'fatto sociale' che condiziona l'agire del singolo anche senza che questi ne sia consapevole è al centro dello studio Il suicidio, pubblicato nel 1897. Qui Durkheim rovescia il problema affrontato ne La divisione del lavoro sociale: non si tratta più di spiegare come sia possibile la solidarietà nella società moderna basata sulla divisione del lavoro, bensì di individuare le ragioni che spingono gli individui a spezzare il vincolo sociale. Come ha osservato acutamente Lukes, Durkheim con questo studio voleva celebrare il trionfo del proprio metodo sociologico, dimostrando che anche nel caso di un'azione puramente individuale come il suicidio il singolo è condizionato da una realtà esterna indipendente da lui (v. Lukes, 1973, p. 194).

L'esistenza di un collegamento tra confessioni religiose e tassi di suicidio era già nota prima di Durkheim. Partendo da dati statistici i quali dimostravano che l'incidenza del suicidio era assai maggiore tra i protestanti che non tra i cattolici, Durkheim (v., 1897) ritenne di aver trovato una spiegazione convincente per questo dato sorprendente: il tasso più elevato di suicidi tra i protestanti a suo avviso andava ricollegato all'individualismo della loro religione. I cattolici invece sarebbero maggiormente integrati in una comunità, e tra gli Ebrei l'incidenza del suicidio risulta ancora minore in quanto le costanti persecuzioni subite avrebbero contribuito a rafforzare i loro legami di solidarietà. La religione è dunque un fattore che incentiva oppure frena il suicidio, ma può agire in quest'ultima direzione, proteggendo gli individui dall'impulso autodistruttivo, solo quando forma una comunità. I dogmi avrebbero un ruolo secondario: ciò che conta è la capacità di una religione di dar corpo a un'esistenza collettiva.

Con lo studio sul suicidio Durkheim intendeva dimostrare che un'indagine sulla società deve tener conto di fatti sociali che non sono di evidenza immediata, ma debbono essere scoperti. Esiste una classe di azioni che gli uomini compiono autonomamente, obbedendo tuttavia a una forma di coercizione. Le azioni che non sono imposte da una legge di natura, ma non sono nemmeno del tutto spontanee, formano la categoria dei faits sociaux: si tratta di quelle forme di azione, di pensiero e di sentimento che trascendono il singolo individuo e sono dotate di un potere cogente in virtù del quale si impongono (v. Durkheim, 1895). Nella sua analisi dei fatti sociali Durkheim assegna un posto privilegiato alla religione. Il motivo è spiegato nella prefazione al secondo volume dell'"Année sociologique": "Si resterà sorpresi del particolare rilievo che è stato dato a questo genere di fenomeni, ma essi sono il germe da cui sono scaturiti tutti, o quasi, gli altri. La religione comprende in sé in via di principio, sebbene in stato ancora embrionale, tutti quegli elementi che separandosi, affermandosi, connettendosi tra loro in mille modi hanno dato origine alle varie manifestazioni della vita collettiva" (v. Durkheim, Préface, 1899). La religione appariva allora a Durkheim la chiave per comprendere e spiegare le regole matrimoniali, il diritto penale, in breve l'intero sistema sociale. Da explanandum la religione si trasformava così in explanans.

Attraverso le religioni delle società semplici secondo Durkheim è possibile accedere alla sfera inconscia della vita collettiva. In queste comunità inoltre non si è ancora creata quella distanza psichica tra motivazioni e azioni che nelle società progredite rende le prime imperscrutabili. Poiché le religioni dei 'primitivi' offrono modelli interpretativi di tipo cognitivo oltreché morale, il loro studio consente di gettar luce sull'origine delle nostre categorie di pensiero. Da esse infatti si sono sviluppate le forme attraverso le quali organizziamo tuttora la nostra conoscenza.

Per il suo studio Le forme elementari della vita religiosa Durkheim (v., 1912) si servì del materiale etnografico sugli Aranda e altre tribù australiane raccolto da due etnologi britannici, B. Spencer e F.J. Gillen. Tale studio si apre con una definizione della religione che precisa quelle formulate in precedenza in altri scritti: "La religione è un sistema solidaristico di credenze e pratiche che si riferiscono a cose, credenze e pratiche sacre, ovvero separate e proibite, le quali uniscono in un'unica comunità morale, chiamata chiesa, tutti coloro che vi aderiscono". Il carattere vincolante delle credenze, secondo Durkheim, può derivare solo dal fatto che la religione è espressione di un gruppo sociale. Il totem (animale o pianta che sia) costituisce l'emblema dell'appartenenza di gruppo, e la venerazione di cui è oggetto è socialmente produttiva, in quanto unisce i singoli individui in una comunità dotata di una propria realtà trascendente o sovrannaturale. I termini usati da Durkheim fanno pensare a una sorta di miracolosa transustanziazione, in virtù della quale un gruppo di singoli individui dà luogo a una comunità morale.

In Le forme elementari della vita religiosa Durkheim presenta anche un'analisi dell'animismo. L'origine di questa credenza a suo avviso non va ricercata nell'esperienza dei sogni, della malattia e della morte, come riteneva E.B. Tylor. Alla spiegazione intellettualistica dell'animismo proposta da Tylor Durkheim contrappone una interpretazione sociale, secondo la quale le radici di tale credenza andrebbero ricercate nel dualismo dell'uomo, che da un lato esiste come singolo individuo, dall'altro si identifica con la collettività rappresentata dal totem. Le tribù australiane credono che le anime rinascano e che ognuna di esse incarni il principio totemico. Proprio l'esistenza del principio totemico nell'uomo stesso costituisce il fondamento della sua autonomia. La sacralizzazione della società e l''autonomia' del singolo individuo sono concepite da Durkheim come un sistema di vasi comunicanti. La struttura dell'autonomia morale è ancorata alla religione delle società elementari. La storia dell'umanità non è che la realizzazione di ciò che la religione primitiva aveva prefigurato.

La dimensione collettiva dell'essere umano costituisce il tema di uno scritto durkheimiano del 1914, Il dualismo della natura umana e le sue relazioni sociali. L'esistenza umana avrebbe una duplice dimensione: in quanto essere corporeo l'uomo è una creatura materiale, individuale ed egoista, in quanto dotato di anima è un essere morale, sociale e razionale. Come già aveva affermato Kant, l'uomo è libero di contrastare i propri impulsi, ed è ciò a farne un essere morale. L'uomo è persona in quanto obbedisce alla legge morale generale, ed è individuo in quanto segue gli impulsi del corpo. È il corpo, quindi, a determinare l'individualizzazione del singolo; l'anima, per contro, determina la sua autonomia rispetto alle leggi naturali. Quanto più l'uomo si libera dalla materialità, tanto più diventa persona.

b) Max Weber e il 'disincantamento' del mondo

Agli occhi di Max Weber, la nascita della moderna società razionale tipica del mondo occidentale non è né un prodotto dell'illuminismo europeo, né in generale di un'evoluzione necessaria. Alla sua genesi contribuirono condizioni storiche del tutto particolari, che Weber analizza in uno dei suoi scritti più famosi, L'etica protestante e lo spirito del capitalismo, apparso in due parti, nel 1904 e nel 1905, nell'"Archiv für Sozialwissenschaft und Sozialpolitik". Nel 1920 Weber rielaborò e ampliò questo scritto per inserirlo nei Gesammelte Aufsätze zur Religionssoziologie.

La connessione tra protestantesimo e capitalismo, "il carattere prevalentemente protestante della proprietà e dell'impresa capitalistica", non fu una scoperta di Weber (v., 1904-1905): ad esempio già Eberhard Gothein, nel 1892, nella sua storia economica della Foresta Nera e dei territori limitrofi l'aveva messa in luce. Ma come spiegarla? Secondo l'interpretazione weberiana il capitalismo poté affermarsi solo grazie al sostegno di una forza interiore, di un ethos che gli permise di sconfiggere un potente avversario, il tradizionalismo. Weber illustra l'influenza esercitata dal tradizionalismo sulla sfera economica con l'esempio del salario a cottimo. Contrariamente a tutte le aspettative, un aumento dei salari a cottimo aveva l'effetto di diminuire anziché di aumentare la produttività del lavoratore. All'incremento salariale questi reagiva diminuendo la produzione giornaliera. La possibilità di un guadagno superiore era palesemente meno allettante di quella di lavorare meno. Da questa constatazione Weber trae la seguente conclusione: "L'uomo 'per natura' non vuole guadagnare denaro e sempre più denaro, ma semplicemente vivere, vivere secondo le sue abitudini e guadagnare quel tanto che è a ciò necessario. Dappertutto, là dove il capitalismo moderno iniziò la sua opera di aumento della produttività del lavoro umano mercé l'aumento della sua intensità, urtò nella resistenza indicibilmente ostinata di questo motivo fondamentale del lavoro economico precapitalistico". Questa resistenza, che Weber considera insita nella natura umana, doveva essere spezzata perché potesse nascere il capitalismo moderno.

Il ruolo svolto dalla religione in questo processo non era di evidenza immediata; molti anzi avevano sostenuto che il capitalismo fosse una conseguenza dell'emancipazione dalla religione. L'interpretazione radicalmente diversa avanzata da Weber fu senza dubbio influenzata dai lavori del giurista Georg Jellinek (v., 1895), il quale aveva dimostrato che i diritti umani moderni non erano nati dalla concezione illuministica del diritto naturale, bensì dalla Riforma luterana. Furono i non conformisti religiosi del XVII secolo a impegnarsi per primi per i diritti fondamentali della libertà di fede e di coscienza (v. König e Winckelmann, 1985², p. 15).

Interpretando la religione come istanza rivoluzionaria Weber intendeva anche chiarire in che modo le idee agiscono nella storia. È evidente qui la critica al materialismo storico, che scaturisce da un modo del tutto diverso di concepire il progresso storico. Il caso eccezionale di una rottura del tradizionalismo, secondo Weber, fu reso possibile solo da un'istanza superiore alla tradizione, e tale istanza va ricercata nel versante soggettivo dell'economia, nel suo ethos. L'agire economico necessita - come del resto ogni agire sociale - di un conferimento di senso adeguato. L'ipotesi di un'affinità elettiva tra agire e conferimento di senso deriva dalla concezione del potere che Weber espliciterà in seguito in Economia e società. L'agire sociale, che è sempre riferito al comportamento di altri individui, può riuscire solo quando tutti i soggetti gli attribuiscono un unico e medesimo senso. Interazioni sociali regolari possono sussistere solo quando tutti i soggetti concordano sulla validità di un sistema di senso, e quanto più a esso viene attribuita una validità incondizionata, tanto più aumenta la probabilità di una riuscita regolare delle interazioni sociali. Partendo da queste riflessioni di ordine sistematico, Weber incentra l'attenzione sulla religione al fine di spiegare perché l'economia capitalistica sia sorta nei paesi protestanti.

Nell'Etica protestante Weber isola una condotta di vita metodica che avrebbe costituito la forza propulsiva del capitalismo. Per ricostruire tale ethos il sociologo tedesco attinge agli scritti devozionali dei puritani inglesi risalenti alla seconda metà del XVII secolo. Scaturiti direttamente dalla prassi pastorale, questi scritti cercavano di inculcare nel fedele la convinzione che la salvezza non può essere ottenuta attraverso i sacramenti. È solo l'imperscrutabile volontà divina a decidere chi sarà salvato e chi no; nessuno potrà mai avere certezze al riguardo, e di conseguenza l'uomo non può fare altro che assolvere con scrupolo i propri doveri quotidiani, fare del proprio meglio e dare buona prova di sé nella professione. Il successo deve essere considerato il primo indizio della grazia, ma solo il lavoro indefesso e la rinuncia al piacere garantirebbero le opportunità di salvezza. Questa dottrina teologica della predestinazione ebbe dunque una particolare conseguenza pratica: costituì il fondamento di un'ascesi intramondana che da un lato disprezza il godimento sfrenato della ricchezza, dall'altro libera l'aspirazione al guadagno dalle pastoie dell'etica tradizionalista. Senza dubbio ciò non rientrava nelle intenzioni dei predicatori, e tuttavia tra i laici, in condizioni particolari, questa dottrina contribuì a consolidare una condotta di vita che scalzò l'agire economico di tipo tradizionale. Interpretando i concetti religiosi come modelli di condotta di vita, Weber getta luce sulle interpretazioni di senso di quegli strati sociali che per primi superarono il tradizionalismo. Ascesi intramondana, spirito, vocazione, conferma, sono tutti concetti riconducibili a un ethos che mirava a svincolare l'economia dai bisogni tradizionali. Proprio l'assenza della certezza della salvezza costituì la forza propulsiva che permise di rivoluzionare l'ordinamento economico, spezzando i vincoli posti dal tradizionalismo all'aspirazione al guadagno. Allorché una determinata classe sociale adottò questo modello di condotta e conquistò il potere, l'intero sistema sociale prese una nuova direzione di sviluppo.

Per quanto acute, queste osservazioni di Weber non hanno mancato di suscitare critiche. Alcuni storici ad esempio hanno rilevato che gli scritti devozionali utilizzati da Weber risalgono a un'epoca in cui molti puritani si erano ritirati dalla politica per dedicarsi esclusivamente allo svolgimento delle loro attività professionali (v. Lehmann, 1988, p. 540). Il puritanesimo descritto da Weber pertanto non sarebbe tipico di tutte le forme di puritanesimo. La debolezza della sua argomentazione, si è ancora sostenuto, consisterebbe nel fatto di cercare di spiegare un fenomeno tedesco del XIX secolo - la distribuzione statisticamente ineguale del capitale tra luterani, calvinisti e cattolici - sulla base della letteratura edificante inglese del XVII secolo (v. Ay, 1995). Un altro motivo di perplessità, sempre legato alle fonti, è dato dal fatto che Weber avrebbe desunto la tesi secondo cui il calvinismo spingerebbe all'attivismo, mentre il luteranesimo porterebbe al quietismo, dall'arsenale delle polemiche confessionali del XIX secolo (v. Graf, 1993).

Nel 1911 Weber pose nuovamente mano ai suoi studi di sociologia della religione, cimentandosi nell'impresa titanica di indagare il rapporto tra l'economia e le grandi religioni mondiali - confucianesimo, induismo, buddhismo, islamismo e cristianesimo. A spingerlo su questa strada fu la convinzione che non solo il protestantesimo, ma tutte le grandi religioni fossero sostenute da potenti classi sociali, e che alla base dei differenti sistemi religiosi vi fossero differenti classi sociali. Attraverso la storia delle religioni, a suo avviso, era possibile determinare e spiegare il differente corso sociale intrapreso dalle grandi civiltà. Weber era convinto che "sono gli interessi (materiali e ideali) e non le idee, a dominare direttamente l'attività dell'uomo. Ma le 'concezioni del mondo' create dalle 'idee' hanno spesso determinato, come chi aziona uno scambio ferroviario, i binari lungo i quali la dinamica degli interessi ha mosso tale attività" (v. Weber, 1915; tr. it., vol. I, p. 342).

Frutto di queste ipotesi di lavoro fu Die Wirtschaftsethik der Weltreligionen (1915-1920), che si presenta come una vera e propria ricostruzione storica delle grandi religioni mondiali. La concezione della religione di Weber si richiama non all'animismo di E.B. Tylor, bensì al preanimismo di R.R. Marett: la religione non si sarebbe sviluppata dalla credenza nell'anima, ma dal timore reverenziale di fronte allo straordinario e all'inesplicabile. Secondo lo schema evolutivo delineato da C.P. Tiele le religioni naturali - le quali vedono il mondo animato da forze sovrannaturali che possono essere controllate con la magia - lasciano il posto con la comparsa dei profeti alle religioni etiche: "La sostituzione delle religioni naturali con le religioni etiche è stata di norma il risultato di una rivoluzione, o perlomeno di una riforma cosciente" (v. Tiele, 1897, p. 63). Rifacendosi a Max Müller, Tiele aveva operato una distinzione tra una concezione 'teoantropica', che considera la divinità immanente nella natura umana, e una concezione 'teocratica', in cui essa si contrappone all'uomo come potenza estranea. Le religioni naturali e le religioni etiche corrisponderebbero a due stadi evolutivi diversi della religione, laddove le due concezioni della divinità summenzionate indicherebbero i due orientamenti divergenti intrapresi rispettivamente dalle religioni indoeuropee e da quelle semitiche (ibid., pp. 150-181). Weber riprende sostanzialmente questo schema, aggiungendovi però il concetto di religiosità della redenzione, attinto non già da Tiele bensì da H. Siebeck, secondo il quale la religione della redenzione rappresenta una categoria autonoma. Questa scelta gli consente di tematizzare la 'religiosità' quale dimensione soggettiva della religione. In relazione al concetto di religiosità della redenzione, però, ancora più importante dell'influenza di Siebeck fu quella di Troeltsch. Da questi Weber mutua l'idea che la forza propulsiva di ogni evoluzione religiosa sia l'esperienza della inesplicabilità e della mancanza di senso del mondo: "Il problema dell'irrazionalità del mondo è stato la forza propulsiva di ogni sviluppo religioso. La dottrina indiana del karma e il dualismo persiano, l'idea del peccato originale, quella della predestinazione e del deus absconditus sono scaturite tutte da questa esperienza" (v. Weber, 1919). Dall'esperienza dell'impotenza secondo Weber sarebbero scaturiti progressivamente i vari sistemi di interpretazione religiosa del mondo: dall'esperienza della imprevedibilità della natura il dinamismo, dal rifiuto del medium cultuale l'etica religiosa, dall'esperienza dell'assenza di giustizia le teodicee.

Ciò che spinse Weber a estendere la sua indagine alle religioni extraeuropee fu la scoperta della peculiarità del razionalismo occidentale. Il concetto chiave a questo riguardo è quello di 'disincantamento', cui Weber attribuisce un'importanza tale da immetterlo "come un corpo estraneo" (v. Tenbruck, 1975, p. 667) nella nuova versione dell'Etica protestante: proprio l'assoluta mancanza di una salvezza ecclesiale-sacramentale - scrive Weber - fu rispetto al cattolicesimo l'elemento decisivo. "Quel grande processo storico-religioso di disincantamento del mondo che si iniziò con le antiche profezie giudaiche, e che in unione col pensiero scientifico greco rigettò tutti i mezzi magici nella ricerca della salvezza, considerandoli come superstizione delittuosa, trovò qui la sua conclusione" (v. Weber, 1904-1905; tr. it., vol. I, p. 197).

Per comprendere il ruolo fondamentale che Weber attribuisce alla nozione di 'disincantamento' occorre rifarsi alla sua distinzione tra agire soggettivamente razionale rispetto allo scopo e agire oggettivamente razionale. Il primo può fondarsi sulla condotta di vita dell'individuo senza dover essere oggettivamente giusto. Il mondo oggettivo, 'corretto', dei fatti e il mondo soggettivo della condotta di vita razionale sono geneticamente indipendenti. A ciò avrebbe provveduto appunto il 'disincantamento'. La pretesa che il corso del mondo sia in qualche modo dotato di senso scaturiva dalla religione, ma poiché si trattava di una pretesa irrealizzabile, il problema della sofferenza ingiustificata portò progressivamente a una crescente svalorizzazione del mondo (v. Weber, 1915). Da tale svalorizzazione si sarebbe sviluppata la consapevolezza che il mondo e le sue forme di vita obbediscono a leggi autonome. È dunque nella storia della religione che andrebbe ricercata l'origine dello iato creatosi tra il mondo dei fatti e il mondo del significato. Così come l'ascesi intramondana avrebbe creato l'etica del capitalismo, dal disincantamento del mondo sarebbe scaturito il postulato pratico secondo cui esso sarebbe governato da leggi impersonali.

In questo processo però interveniva anche un altro elemento importante: quella che Weber definisce 'etica dell'intenzione' (Gesinnungsethik). Solo in concomitanza con essa il disincantamento poté compiere la sua opera rivoluzionaria. La religiosità si sarebbe quasi trovata costretta ad accettare con il crescente disincantamento del mondo riferimenti di senso sempre più (soggettivamente) irrazionali rispetto allo scopo, basati su principî o valori morali o di tipo mistico (v. Weber, Über einige..., 1913). Il disincantamento del mondo esteriore dei fatti avrebbe dato libero spazio a conferimenti di senso soggettivi. Nel descrivere le tensioni tra l'etica della religiosità di negazione del mondo e l'autonomia dell'agire economico e politico razionale rispetto allo scopo, Weber fornisce diversi esempi che dimostrano come nel mondo ridotto a meccanismo sdivinizzato persistano alternative improntate all'etica dell'intenzione. Assieme ai loro presupposti razionali, tali alternative formerebbero la tipica cultura occidentale. Nel mondo disincantato dei fatti il singolo individuo sarebbe costretto a dare egli stesso un senso al mondo; nessuna conoscenza empirica potrebbe essergli d'aiuto in questo compito.

Il carattere contraddittorio della cultura occidentale viene analizzato da Weber nel saggio Wissenschaft als Beruf (1917-1919). Nel mondo moderno l'esistenza quotidiana è teatro di uno scontro tra posizioni diametralmente opposte. Proprio la completa riuscita del processo di disincantamento del mondo avrebbe dischiuso negli ordinamenti di vita oggettivati quegli spazi in cui la storia della religione può continuare sotto diverse condizioni. In precedenza Weber aveva ricollegato questa continuità dell'esigenza religiosa con l'intellettualismo: "Quanto più l'intellettualismo fa recedere la credenza nella magia e i processi del mondo vengono 'disincantati', perdono il loro contenuto di senso e si limitano a 'essere' e ad 'accadere', tanto più cresce e si fa pressante l'esigenza che il mondo e la 'condotta di vita' nel suo complesso siano dotati di senso e di significato" (v. Weber, 1917-1919). In questo modo il disincantamento riproduce quel problema che aveva dato impulso alla nascita e allo sviluppo della religione. Se il cosmo è retto da leggi impersonali, l'individuo volente o nolente deve rifondare autonomamente la propria soggettività, indipendentemente da ogni realtà precostituita, facendo riferimento a valori. Da un lato la realtà si riduce a mera fatticità, dall'altro il senso diventa un problema di onestà intellettuale e di decisione personale.

Nella prima versione dell'Etica protestante sembrava che la dinamica sociale avesse annullato tutti i valori tranne quelli legati all'etica professionale razionale. Weber concludeva allora la sua analisi della condotta di vita razionale con la cupa visione di una "gabbia d'acciaio" da cui non esiste scampo (v. Weber, 1904-1905). La concezione del disincantamento del mondo sviluppata nel 1911 segna un mutamento di prospettiva. Il misticismo non è una mera categoria residua, un pendant passivo rispetto all'ascesi attiva (v. Schluchter, Religion und ..., 1988, vol. II, p. 81), ma diventa un'alternativa altrettanto legittima nel mondo disincantato. La razionalizzazione formale del mondo ammette una pluralità di razionalizzazioni della condotta di vita (v. Mommsen, 1985 e 1993). Al singolo individuo è lasciata piena responsabilità di condurre la propria vita in conformità con decisioni soggettive. A questo proposito può essere utile richiamare la differenza tra il concetto di 'condotta di vita' e quello di 'agire' messa in luce da W. Gephart (v., 1993, p. 51). Il valore della condotta di vita non si fonda sul successo nell'interazione, ma sulla saldezza di un sistema di norme a fronte delle inevitabili delusioni. Sia l'ascesi che il misticismo rappresentano tali norme cristallizzate della condotta di vita. Il pluralismo delle decisioni individuali creerebbe i presupposti per la sopravvivenza della religione, sia pure in condizioni diverse, anche nel mondo razionalizzato e disincantato.

Un ruolo importante per il fenomeno religioso è attribuito da Weber alla categoria degli intellettuali. "Nel passato [...] la natura particolare degli strati intellettuali era oltremodo importante per le religioni. Il loro compito principale era la sublimazione del possesso della salvezza religiosa in una fede nella 'redenzione'. La concezione dell'idea di redenzione era in se stessa antichissima, se si intende come liberazione dal bisogno, dalla fame, dalla siccità, dalla malattia, e infine dalla sofferenza e dalla morte. Ma la redenzione acquistò un carattere specifico solo quando fu espressione di una 'concezione del mondo' razionalizzata e sistematizzata e della presa di posizione nei confronti di essa" (v. Weber, 1915; tr. it., vol. I, p. 342). La religiosità della redenzione e il ruolo degli intellettuali assumono un'importanza centrale nella ricostruzione weberiana della storia della religione. L'esperienza dell'irrazionalità del mondo è l'elemento fondamentale sulla base del quale effettuare la comparazione delle grandi religioni mondiali. "La concezione metafisica di Dio, che suscitò il bisogno inestirpabile della teodicea, fu parimenti in grado di produrre soltanto pochi sistemi di pensiero - in tutto, come vedremo, soltanto tre - che dessero delle risposte soddisfacenti sul piano razionale al problema del fondamento dell'incongruenza tra destino e merito. Si tratta della dottrina indiana del karma, del dualismo di Zarathustra e del decreto di predestinazione del deus absconditus. Queste soluzioni, le più rigorose razionalmente, sono apparse però solo in via del tutto eccezionale nella loro forma pura" (ibid., p. 338). Poiché il problema del male e dell'ingiustizia è sostanzialmente irrisolvibile, la storia della religione continua il suo cammino anche nella società contemporanea. Le grandi religioni sia asiatiche che occidentali rappresentano risposte intellettuali a queste esperienze universali dell'uomo, e di conseguenza si tratta di opzioni sempre attuali, che nel mondo disincantato avrebbero lo status di fondamenti della condotta di vita.

D'altro canto, tuttavia, il ruolo della religione nel mondo disincantato si differenzia da quello che essa aveva nel mondo tradizionale. Quanto più sono gli intellettuali in via di principio a problematizzare il 'senso' del mondo, tanto più il 'senso' viene delegato al soggetto. Le religioni tradizionali diventano massime della condotta di vita che acquistano validità sulla base di una decisione soggettiva. Le antiche, molteplici divinità, disincantate e quindi sotto forma di potenze impersonali, escono dalle loro tombe, lottano per riaffermare il loro potere sulla nostra vita e ricominciano la loro eterna lotta reciproca (v. Weber, 1917-1919). Persino gli dei dunque possono essere disincantati e acquistare potere sulla vita umana come forze impersonali. Lo stesso intellettualismo che ha determinato il disincantamento del mondo può ancora concepire gli dei trasformandoli in valori sublimati. Tali valori, secondo Weber, si sono ritirati dalla sfera pubblica o nel regno occulto della vita mistica o nella fratellanza di relazioni dirette tra i singoli (ibid.). Egli comunque riteneva poco probabile che da ciò potesse scaturire un reale rinnovamento religioso.

4. Tre paradigmi teorici

Nei suoi sviluppi successivi la sociologia della religione non ha accolto incondizionatamente tutte le sollecitazioni dei classici. Mentre sia Weber che Durkheim ritenevano che la religione fosse una funzione della società e quindi della vita pubblica, le due principali teorie della religione formulate successivamente diedero un'interpretazione sostanzialmente diversa del ruolo e delle funzioni della religione. La fenomenologia pone a fondamento della religione l'esperienza personale, mentre il funzionalismo ne individua la ragion d'essere nelle sue funzioni latenti per il sistema sociale. Solo a seguito dell'influenza esercitata dalla filosofia del linguaggio sull'analisi della cultura la religione è stata interpretata come parte integrante dell'agire comunicativo e quindi della sfera pubblica.

a) La fenomenologia

Al centro della cosiddetta 'fenomenologia della religione' vi è l'idea che questa sia un fenomeno autonomo e irriducibile. Il postulato di un'autonomia della religione fu formulato a cavallo tra Ottocento e Novecento, e si riconnetteva all'auspicio che essa potesse esercitare un'azione a distanza sulla cultura moderna proteggendo la personalità del singolo dalle coercizioni della società moderna (v. Kippenberg, 1996). Un ruolo non trascurabile ebbe a questo riguardo il risveglio dell'interesse per il pensiero di Friedrich Schleiermacher, i cui principali artefici furono Wilhelm Dilthey e Rudolf Otto. Secondo Dilthey, i principî meccanicistici sono stati illegittimamente applicati allo spirito, riducendo l'uomo a una mera macchina di percezione e conoscenza della realtà esterna. Ciò avrebbe inficiato anche la concezione della religione. Questa, come già aveva affermato Schleiermacher, esprimerebbe per Dilthey l'esperienza dell'unione 'mistica' dell'uomo e della natura con l'infinito.

Alla base dell'ermeneutica sviluppata da Dilthey vi è l'idea di un isomorfismo tra l'esperienza (Erlebnis) religiosa interiore, che è sempre soggettiva e individuale, e le sue oggettivazioni in fatti esteriori, la cui comprensione consente una conoscenza obiettiva del fenomeno religioso (v. Dilthey, 1911). Le due dimensioni - i fatti esteriori quali oggettivazioni della religione e l'esperienza religiosa interiore - si presuppongono reciprocamente. La comprensione della storia della religione produce in un unico e medesimo processo un sapere sia oggettivo, sia pratico-esistenziale.Le idee di Dilthey vennero riprese e sviluppate dal filosofo della religione Rudolf Otto, cui si deve una nuova edizione critica, a cent'anni dalla prima pubblicazione, dei famosi scritti sulla religione di Schleiermacher. Questi, secondo Otto, avrebbe compiuto un significativo e originale tentativo di riavvicinare alla religione un'epoca che ha perso ogni interesse e ogni legame con essa. Rispetto alle sfere della conoscenza e dell'azione, secondo Schleiermacher, la religione costituisce un ambito a sé stante dell'esistenza umana, della vita spirituale, completamente indipendente da quelle e dotato di un valore autonomo (v. Otto, 1899). Contro la cultura intellettualistica e il filisteismo del razionalismo nello Stato, nella Chiesa, nella scuola e nella società, Schleiermacher fa appello alla fantasia, alla profondità interiore, al presagio, al misticismo, a ciò che è storicamente divenuto e positivo in contrasto con ciò che è 'naturale', a ciò che è individuale e particolare in contrasto con l'universale-razionale.

Nel suo studio sul sacro Otto (v., 1917) riafferma l'autonomia della religione rispetto alla conoscenza e alla morale. Le categorie concettuali risultano inadeguate alla comprensione del fenomeno religioso, che può essere colto e spiegato solo facendo appello ai sentimenti. Otto rifiuta recisamente la riduzione della religione a esigenze etiche. Il 'numinoso' è precisamente il sacro spogliato dall'elemento morale ovvero razionale. Solo trattandolo come datum primario della vita esso può essere reso accessibile alla coscienza.

La risonanza internazionale delle idee di Otto contribuì in misura considerevole all'affermarsi di un'interpretazione della religione come esperienza individuale irriducibile. Illustri storici della religione, tra cui Mircea Eliade, si richiamarono a Otto proponendo una concezione del fenomeno 'religione' in cui fattori come morale e conoscenza hanno un ruolo del tutto marginale. Affermare l'autonomia della religione significava ribadirne il carattere di sfera privata, sottraendola quindi alle spiegazioni riduzionistiche della sociologia e soprattutto alle ingerenze politico-ideologiche. In base all'approccio ermeneutico della Lebensphilosophie, nell'analisi della religione l'ultima parola spetta all'esperienza religiosa soggettiva. Il luogo d'elezione delle religioni può essere solo la sfera privata individuale, non la sfera pubblica.

b) Il funzionalismo

Negli stessi anni i sociologi andavano sviluppando un particolare tipo di analisi funzionalistica della religione. Il paradigma funzionalistico, ispirato al modello dell'organismo biologico, si basava sui seguenti postulati: che la società costituisce un'unità, che le sue istituzioni forniscono un contributo essenziale al mantenimento della coesione sociale e che tali istituzioni, in virtù di questa funzione, sono indispensabili. Robert K. Merton, uno dei più illustri esponenti della scuola funzionalista, intraprese una revisione critica di questo paradigma rilevando come esso ignori completamente la distinzione fondamentale tra motivazioni consapevoli e conseguenze non intenzionali dell'azione; spesso, infatti, le azioni hanno conseguenze non volute dall'attore, che vengono percepite solo da un osservatore esterno. Secondo Merton, quindi, è indispensabile per l'analisi sociologica distinguere tra funzioni manifeste e funzioni latenti. La distinzione in questione si dimostra particolarmente importante per un'istituzione quale la religione. Il comportamento manifestamente irrazionale potrebbe avere una funzione razionale, come nel caso della magia; anche se questa si fonda su assunti erronei, svolge nondimeno funzioni sociali indispensabili (v. Merton, 1968³, pp. 86 ss.).

Un esempio di queste 'funzioni latenti' delle credenze religiose è dato dai rituali di ribellione nell'Africa sudorientale studiati dall'etnologo inglese Max Gluckman (v., 1953). Egli analizza un rito per propiziare il raccolto, che si svolgeva ogni anno in primavera tra gli Zulu, la cui caratteristica saliente era il sovvertimento dei ruoli maschili e femminili. J.G. Frazer - che al pari di Tylor adottava un'interpretazione intellettualistica della religione - aveva ricondotto questo tipo di rituale al 'pensiero magico' proprio dei popoli primitivi. Gluckman però restava scettico di fronte a questa spiegazione. Al suo occhio di etnologo non poteva sfuggire il fatto che tra gli Zulu covavano conflitti sociali tra uomini e donne. Richiamandosi alla nozione aristotelica di catarsi, egli affermò che la funzione del rito era quella di scaricare l'aggressività delle donne e quindi di ripristinare la stabilità sociale. La ribellione rituale può aver luogo solo all'interno di un ordine sociale che non viene posto in discussione, ed è quindi ben lontana da una rivoluzione sociale. Ciò che appare come un rivolgimento è in realtà funzionale alla conservazione dell'ordine sociale.

L'idea che comportamenti apparentemente irrazionali possano essere spiegati facendo riferimento alle loro funzioni latenti fu ripresa da altri etnologi. Già Bronislaw Malinowski, del resto, aveva aperto la strada in questa direzione nella sua analisi della magia trobriandese. I Trobriandesi facevano ricorso a pratiche magiche solo quando si trattava di affrontare imprese rischiose, come ad esempio la pesca del pescecane; per i compiti di routine e privi di rischi, invece, adottavano tecniche e comportamenti ispirati a principî empirici e razionali. La funzione latente della magia allora sarebbe quella di creare sicurezza in situazioni di tensione emozionale. Contrariamente a quanto aveva sostenuto Frazer, Malinowski riteneva che la magia non potesse essere interpretata come una sorta di falsa scienza: "La funzione della magia è quella di ritualizzare l'ottimismo degli uomini" (v. Malinowski, 1925).

La distinzione tra funzioni manifeste e funzioni latenti è stata oggetto di numerose critiche. In particolare, secondo Anthony Giddens sarebbe poco verosimile che gli uomini non tengano conto delle conseguenze non intenzionali delle loro azioni anche al ripetersi dell'esperienza. Ciò potrebbe accadere solo se il soggetto fosse una sorta di monade. Di fatto l'individuo è portato a riflettere costantemente sulle proprie azioni alla luce dell'esperienza e a modificarle. Le conseguenze non intenzionali dell'azione diventano le condizioni note del comportamento successivo. Tali processi retroattivi sono tipici di qualunque azione (v. Giddens, 1984). Alla luce di questa critica al funzionalismo 'classico' un allievo di Gluckman, Victor Turner, ha reinterpretato anche il rituale di ribellione descritto in precedenza. Sebbene le modifiche apportate possano apparire irrilevanti, il risultato nel complesso è qualitativamente diverso. Agli occhi di Turner la gerarchia sociale è fondamentalmente precaria, in quanto contrasta con l'eguaglianza naturale di tutti gli uomini - la communitas, come egli la definisce. I rituali di ribellione pertanto sono sempre anche esercizi mentali per un'autentica rivoluzione (v. Turner, 1969). La tesi di Turner sembra trovare una conferma significativa nel rituale aschura degli sciiti in Iran. La sconfitta subita nel 680 dall'imam sciita al-Ḥusain a Kerbelā veniva celebrata ogni anno in quello che aveva tutti i caratteri di un tradizionale rituale di ribellione. La sollevazione contro lo scià alla fine degli anni settanta venne celebrata con una nuova versione di questo rituale, che questa volta non terminava con una sconfitta, bensì con una vittoria - l'empio Yazid, che incarnava lo scià, veniva sconfitto. I rituali di ribellione, si può concludere, non hanno una funzione esclusivamente catartica, ma possono diventare il modello di un nuovo ordine politico.

c) La religione come sistema culturale

Gli intensi dibattiti sollevati dallo studio di Clifford Geertz, Religion as a cultural system - uno dei più discussi della seconda metà del secolo -, coinvolsero anche gli studiosi della religione, oltre che gli etnologi e gli storici. In esso infatti Geertz (v., 1966) sanciva la fine dei due paradigmi che avevano dominato lo studio della religione sino agli anni sessanta, il funzionalismo e la fenomenologia. Dichiarando sterile la vecchia controversia che per decenni aveva opposto le due scuole - se la religione debba essere definita come credenza individuale o come funzione sociale - Geertz impostò il problema in termini diversi, affermando che la religione è un fenomeno di rilevanza sociologica non in quanto rispecchia l'ordine sociale, bensì in quanto lo crea. Nel sostenere questa tesi egli si richiamava alla filosofia delle forme simboliche di E. Cassirer e della sua allieva S. Langer. A differenza degli altri esseri viventi, l'uomo si servirebbe dei segni non solo per designare le cose, ma anche per rappresentarle. Il linguaggio - come insegnava la gnoseologia filosofica - rappresenta il mondo, consentendoci di conoscerlo e di comprendere il significato che esso ha per noi. Il mondo ci è dato solo attraverso simboli, e questi possono essere di due tipi: linguistici e non linguistici. Nel primo caso il significato degli oggetti viene trasmesso in forma discorsiva, nel secondo viene rappresentato nella sua integrità (v. Langer, 1942). Geertz riprende tale distinzione tra simboli discorsivi e simboli rappresentativi applicandola allo studio della religione. Nella sua analisi i simboli religiosi avrebbero la funzione di "unificare l'ethos di un popolo - il suo stile, il suo carattere e la sua natura, il suo orientamento etico e le sue tendenze estetiche - con la sua visione del mondo, l'immagine che esso ha delle cose nella loro pura datità, le sue idee d'ordine nel senso più ampio. Le credenze e le pratiche religiose rendono l'ethos di un gruppo credibile sul piano intellettuale [...] e la concezione del mondo credibile sul piano emotivo". In questa prospettiva la vecchia disputa sulla priorità tra credenza e funzione appare obsoleta. L'attenzione va rivolta invece all'interrelazione tra i due elementi. La funzione della religione sarebbe quella di creare una sintesi tra l'immagine del mondo di un popolo e il suo ethos pratico, e nel far ciò essa sosterrebbe l'una con l'autorità dell'altro. La religione renderebbe evidenti i concetti metafisici, e fornirebbe una spiegazione intellettuale per le azioni e la mentalità dell'uomo.L'approccio di Geertz metteva in discussione non solo il funzionalismo, ma anche la fenomenologia. Interpretando la religione nei termini della Lebensphilosophie, Rudolf Otto, Nathan Söderblom e Gerarddus van der Leeuw avevano sostenuto che solo sulla base della propria esperienza personale (Erlebnis) l'interprete può comprendere le testimonianze religiose del lontano passato e di culture estranee. Affermando che immagine del mondo ed ethos, credenza e azione si convalidano a vicenda, Geertz poneva l'ermeneutica su nuove basi.

Una scossa alla tesi, posta in dubbio da Geertz, secondo cui solo sulla base dell'Erlebnis personale la religione risulta interpretabile, fu data dalla pubblicazione postuma del diario di Malinowski. Se nei suoi scritti questi aveva esortato l'etnologo ad adottare il metodo dell'osservazione partecipante, andando a vivere con i membri della comunità studiata e partecipando attivamente alla loro vita, nei diari manifesta invece una viva insofferenza e una totale incomprensione per gli indigeni, arrivando a dichiarare: "Posso ben capire la crudeltà del colonialismo belga e tedesco!" Il problema che qui emerge è stato messo chiaramente in luce da Geertz: "Se la conoscenza etnologica non presuppone, come si è fatto credere, una sensibilità straordinaria, una capacità quasi sovrannaturale di pensare, di sentire e di percepire le cose come un indigeno, [...] com'è possibile allora in generale una conoscenza etnologica delle modalità di pensiero, di sentimento e di percezione degli indigeni? Il problema che ci pone il diario [...] non è di ordine morale, ma gnoseologico [...]. Che ne è della comprensione, se manca l'empatia?" (v. Geertz, 1977). In questa prospettiva perdeva fondamento anche la vecchia fenomenologia della religione, che aveva fatto dell'esperienza prelinguistica del singolo principio e fine dell'interpretazione della religione. Geertz cerca di risolvere il problema posto dal diario di Malinowski affermando che alla base del lavoro dell'interprete non vi è l'empatia, bensì l'osservazione del modo in cui gli uomini agiscono nel contesto delle forme simboliche attraverso cui rappresentano se stessi e gli altri. L'osservazione deve subentrare all'intuizione. Il ricercatore, secondo Geertz, deve studiare in che modo le azioni manifestino le immagini del mondo, e le immagini del mondo vengano tradotte in pratica dalle azioni. Per essere significativa, la descrizione di azioni e comportamenti deve mostrare quando e come le immagini del mondo acquistano realtà sociale attraverso l'agire. È chiaro che questo approccio di Geertz, in cui la comprensione/interpretazione è strettamente connessa all'osservazione, si differenzia sia dalla fenomenologia che dal funzionalismo classico; lo si potrebbe definire 'funzionalismo ermeneutico'.

A partire dagli anni sessanta molte delle idee di Geertz sono state recepite dagli etnologi, dagli storiografi e dagli studiosi di religione. Il binomio 'belief and action' si è sostituito alla vecchia idea della comprensione intuitiva. Come ha osservato acutamente A. MacIntyre (v., 1967), tra credenza e azione non esistono nessi causali. Ogni azione necessita di una spiegazione da parte dell'attore - in caso contrario non si tratterebbe di un comportamento riflesso. Le autentiche azioni esprimono idee e credenze, e in relazione a ciò possono essere giudicate coerenti o incoerenti. A seguito delle sollecitazioni provenienti da questi nuovi sviluppi teorici, le molteplici interrelazioni tra idee e azioni sono diventate l'oggetto d'indagine privilegiato nello studio della religione. Al funzionalismo classico - che postulava un sistema sociale integrato e attori non consapevoli delle conseguenze delle proprie azioni - e alla fenomenologia - che postulava un'esperienza religiosa atemporale - è subentrata la teoria dell'agire comunicativo: la religione può essere osservata analizzando i ruoli e le funzioni che esplica nell'interazione pubblica, e può essere compresa attribuendole il valore di un'interpretazione di senso.

5. La religiosità nella cultura moderna

La tesi di Weber, secondo cui al disincantamento della società fa riscontro inevitabilmente un 'reincantamento' della condotta di vita del singolo, è stata ripresa e modificata in tempi recenti da autori quali P. Berger, N. Luhmann e A. Giddens. Nella società le religioni hanno assunto nuovi ruoli e nuove funzioni come sistemi di interpretazioni di senso. Il carattere saliente di questo mutamento può essere espresso come trapasso dalla 'religione' alla 'religiosità' (v. Luckmann, 1967). A trovare seguaci entusiasti non è più la religione tradizionale nella sua totalità, ma il suo valore di interpretazione del senso della storia, della natura e della persona. Sul piano organizzativo questo mutamento ha avvantaggiato i piccoli gruppi (sette e culti) piuttosto che le Chiese. Pur nella varietà di forme assunte dalla religiosità nel mondo contemporaneo, emergono due orientamenti ricorrenti, l'apocalittica e il misticismo, presenti non solo nel cristianesimo occidentale, ma anche nel giudaismo, nell'islamismo e nell'induismo.

a) Le sette fondamentaliste

Weber rifiutava la tesi di Ernst Troeltsch, secondo il quale solo le Chiese e non le sette possono essere universali e fondare un cristianesimo popolare, mettendo in luce come le sette nascano da una 'aspirazione alla purezza'. In quanto comunità di virtuosi religiosi, gli unici votati alla salvezza, la setta si separa dalla Chiesa come un'istituzione che fa splendere la sua luce sia sui giusti che sugli ingiusti. Questa esclusività della setta tuttavia non significa che essa non possa avere un carattere universale e popolare. Il caso degli Stati Uniti per Weber dimostrava il contrario: in questo paese la religione aveva un carattere popolare proprio perché il tipo di religiosità dominante era quello della setta. L'intuizione di Weber si è dimostrata fondata.

Come emerge da uno studio sullo sviluppo delle denominazioni statunitensi condotto da R. Finke e R. Stark, le sette che si oppongono alla cultura dominante ed esigono dai propri membri una condotta di vita virtuosa hanno oggi un maggior numero di seguaci rispetto alle comunità 'liberali'. "Le organizzazioni religiose sono tanto più forti quanto più impongono costi rilevanti in termini di sacrifici, e persino di stigmatizzazione, ai loro membri" (v. Finke e Stark, 1992, p. 238). Il conflitto con la cultura dominante ha contribuito a espandere e a rafforzare le denominazioni, mentre l'adattamento le ha indebolite (ibid., p. 255).

Una conferma a questa ipotesi viene dal caso del fondamentalismo. Con questo termine si indica un movimento di riformati, sorto tra il 1910 e il 1915 negli Stati Uniti, per difendere quali 'fondamenti' (fundamentals) del cristianesimo i dogmi dell'infallibilità della Bibbia, dell'immacolata concezione, della resurrezione del corpo, del sacrificio di Cristo in espiazione dei peccati dell'umanità e di una sua seconda incarnazione alla fine dei tempi. All'inizio il movimento si caratterizzò come una reazione interna alla Chiesa contro la teologia 'liberale', che aveva eliminato questi dogmi a causa della loro inverosimiglianza scientifica. Negli anni venti il contrasto travalicò l'ambito ecclesiale spostandosi sul terreno politico. I fondamentalisti invocavano un intervento diretto delle autorità statali affinché ponessero fine alle scandalose conseguenze dell'industrializzazione, come l'alcolismo e la prostituzione, e vietassero l'insegnamento di dottrine scientifiche in disaccordo con il racconto biblico della creazione. Nello Stato del Tennessee, ad esempio, essi riuscirono a far proibire l'insegnamento delle teorie di Darwin nelle scuole pubbliche. L'insegnante John Scopes, con l'appoggio di numerosi liberali, denunciò il fatto e intentò un procedimento giudiziario che lo vide sconfitto, ma che ebbe l'effetto di screditare gravemente il fondamentalismo agli occhi dell'opinione pubblica. Quello che divenne noto come 'processo alle scimmie' contribuì a far apparire i fondamentalisti come illetterati e reazionari.

Negli anni sessanta tuttavia la situazione cambiò e il movimento fondamentalista cominciò ad apparire sotto una luce più favorevole. Ciò si dovette in parte ad alcune decisioni della Corte Suprema, in particolare la proibizione della preghiera nelle scuole pubbliche e la legalizzazione dell'aborto in determinate circostanze, che suscitarono viva indignazione tra ampi strati della popolazione. I fondamentalisti si mobilitarono contro l'aborto e per la tutela della morale cristiana tradizionale da parte dello Stato. Mentre nella giurisprudenza emergeva la preoccupazione di svincolare l'azione dello Stato e le istituzioni pubbliche da un'influenza religiosa troppo diretta, i fondamentalisti reclamavano un riconoscimento ufficiale della morale cristiana tradizionale.

I nuovi gruppi fondamentalisti non rispondono più al cliché di un movimento di protesta reazionario. Come ha osservato Martin E. Marty (v. Marty e Appleby, 1992), la definizione del 'fondamentalismo' come credenza nella infallibilità delle Sacre Scritture, tuttora proposta dai dizionari, non è più attendibile. Rispetto all'ortodossia ecclesiale i gruppi fondamentalisti sono troppo politicizzati, selettivi e innovativi; rispetto al conservatorismo politico sono troppo religiosi e troppo poco adattati alle istituzioni esistenti. Si tratta di gruppi che reagiscono alle sfide poste alla fede tradizionale, che difendono determinati dogmi, formano movimenti esclusivi, sono in opposizione con i poteri sociali e politici, combattono il relativismo e il pluralismo, difendono l'autorità e negano la teoria evoluzionistica. In breve, si tratta di gruppi che conoscono il mondo di vita moderno, ma lo respingono. È questa una caratteristica che accomuna il fondamentalismo a correnti analoghe nelle altre religioni (giudaismo, islamismo, induismo e buddhismo).

I fondamentalisti conoscono la dinamica del mondo di vita moderno con la sua scienza e la sua tecnologia, le sue forme di dominio burocratico e il suo mercato mondiale, e tuttavia rifiutano di elevare tale dinamica a massima della condotta di vita individuale e di conformare la propria esistenza ai criteri della modernizzazione che antepone l'autonomia alla tradizione, il mutamento alla continuità, la quantità alla qualità, l'efficienza ai valori tradizionali. Il sociologo Martin Riesebrodt (v., 1990) ha cercato di delineare il 'milieu sociomorale' dei movimenti fondamentalisti, i cui tratti salienti sarebbero l'appartenenza a una medesima religione, una situazione economica analoga, un vicinato comune e uno stesso orientamento morale. Il ceto medio protestante anglosassone di razza bianca ha costituito un siffatto milieu, e la modernizzazione ne avrebbe incrementato in misura significativa l'omogeneità.

Il mondo di vita moderno richiede altri valori rispetto a quelli tradizionali della parsimonia, della fedeltà alla Bibbia, del senso della famiglia e della struttura patriarcale. Oggi si rendono necessari investimenti, flessibilità, mobilità, capacità di adattamento, individualismo, critica della tradizione. Le norme valide in passato sono state rese obsolete dal progredire dell'industrializzazione, della scienza, dell'urbanizzazione e dei partiti burocratici. La dinamica del mutamento sociale ha messo in crisi le forme di condotta di vita tradizionali, ponendo i membri del ceto medio protestante di fronte a una decisione difficile: cogliere le opportunità offerte dalla modernizzazione, oppure difendere la condotta di vita tradizionale contro il mondo moderno. Mentre i protestanti liberali hanno optato per la prima soluzione, abbandonando la morale tradizionale, i fondamentalisti hanno espresso un radicale rifiuto del mondo moderno, che si esprime però non già in un ritiro dal mondo corrotto, ma nella rivendicazione aperta e aggressiva di una riforma morale.

Le sette protestanti hanno guadagnato seguaci anche al di fuori degli Stati Uniti. Particolarmente significativo è il loro successo in America Latina (v. Martin, 1990). Nel 1916 i protestanti in quest'area erano ancora un'esigua minoranza, alla metà degli anni trenta 2,5 milioni, negli anni sessanta 5 milioni e negli anni ottanta 40. Secondo Martin il fenomeno va posto in connessione con il crollo dell'ordinamento sociale gerarchico. Finché in America Latina aveva dominato una oligarchia di latifondisti legati al cattolicesimo, il suo avversario era costituito da un laicismo militante. La situazione cambiò con l'industrializzazione a partire dagli anni trenta, e con la dittatura militare dopo gli anni sessanta. La rottura dell'ordine sociale offrì l'opportunità di affermarsi al protestantesimo, che rifiuta sostanzialmente la gerarchia e sostiene che la religione è un problema di coscienza del singolo individuo. Esso trovò seguaci soprattutto tra gli emarginati, i quali si rivolgevano alle sette radicali sperando in una redenzione, non solo dalle malattie ma anche dal peccato (alcolismo, violenza e promiscuità). Per queste sette si rivela particolarmente calzante l'osservazione di Finke e Stark, secondo cui quanto più esse pretendono dai propri seguaci sacrifici e un rigido autocontrollo, tanto più acquistano forza.

b) I movimenti apocalittici

Come ha dimostrato E.R. Sandeen (v., 1970), il movimento religioso di cui il fondamentalismo fu espressione era nato assai prima della controversia dottrinale sui fundamentals, e si collocava nella tradizione dell'interpretazione apocalittica della storia che conobbe una rinascita agli inizi del XIX secolo. Dopo le guerre di religione europee del Seicento, le intense aspettative dell'avvento del regno di Dio erano state accolte con diffidenza sia nelle Chiese che tra i cittadini, o avevano incontrato un aperto rifiuto. Solo al principio dell'Ottocento intervenne un mutamento in questo atteggiamento. L'esperienza della Rivoluzione francese, che aveva espresso una critica radicale alla religione sostituendo alla Chiesa il culto paganeggiante della ragione, contribuì a dare nuovo impulso alla credenza in una fine catastrofica della storia. In Inghilterra gli avvenimenti francesi vennero interpretati come l'avverarsi di una profezia di Daniele (7, 25): "[L'ultimo re] proferirà parole insolenti contro l'Altissimo [...] e cercherà di cambiare i tempi e le leggi" (ibid., p. 6). L'ingloriosa fine di questa rivoluzione apparve a molti cristiani una dimostrazione del fatto che gli uomini non sono in grado di determinare con le proprie forze un progresso verso uno stato migliore. Apocalittica e profetismo conobbero una rinascita. Dall'inizio dell'Ottocento in Inghilterra, in Germania e negli Stati Uniti si moltiplicarono aspettative e movimenti apocalittici.

In Inghilterra nel periodo dell'industrializzazione (1790-1850) le sette protestanti superarono per numero di seguaci le Chiese di Stato. Con il metodismo si diffuse tra gli operai un 'chiliasmo della disperazione'. Anche in Germania nell'Ottocento si ebbero fasi di intensificazione delle aspettative chiliastiche. Nella prima metà del secolo si erano diffuse nella regione del Württemberg, dopo che il teologo Bengel fissò come data d'inizio del regno millenario il 18 giugno 1836. In seguito tali sette si diffusero nelle regioni industriali tedesche (v. Hölscher, 1989). Negli Stati Uniti ebbe un'enorme risonanza il predicatore William Miller, il quale sulla base di una personale interpretazione delle profezie bibliche annunciò il ritorno di Cristo sulla terra per il 1843. Il mancato verificarsi della predizione non fu inteso da Miller e dai suoi seguaci come una smentita, ma come una procrastinazione concessa da Dio per consentire ai fedeli di fare penitenza e opera di evangelizzazione. L. Festinger e altri (v., 1964, pp. 12-23) hanno visto in questo episodio una conferma della loro tesi secondo cui i fedeli non abbandonano necessariamente le loro credenze quando gli eventi attesi non si verificano. La dissonanza cognitiva, fonte di turbamento, in genere viene ridotta intensificando l'azione missionaria.

Tra i fondatori di movimenti apocalittici va citato anche John Nelson Darby (1800-1882), fondatore della setta dei Plymouth brethren e del cosiddetto 'premillenarismo'. Secondo Darby le profezie bibliche si riferivano in parte agli eventi che precedono l'avvento di Cristo, in parte a eventi futuri. Dopo la crocefissione e la resurrezione di Gesù, Dio avrebbe continuato ad adempiere le profezie bibliche. La fine del tempo si approssima: "Al segnale dato mediante la voce dell'Arcangelo e la tromba di Dio [...] saremo rapiti sulle nubi per andare a incontrare il Signore" (Tess., I, 4, 17). Dopo verrà la "tribolazione sì grande, quale non vi fu mai dal principio del mondo sino a ora, né mai vi sarà", profetizzata da Matteo (24, 21), e anche Israele risorgerà. È interessante notare che Darby, discostandosi dalle dottrine dominanti della Chiesa, attribuisce agli Ebrei un ruolo importante nell'avvento della fine dei tempi (v. Sandeen, 1970, pp. 59-80). Il 'premillenarismo' di Darby ebbe vasta risonanza negli Stati Uniti e divenne un elemento essenziale nel movimento fondamentalista. Ancor oggi nel Nordamerica è ampiamente diffusa la credenza che nell'epoca attuale si avvereranno le profezie bibliche. Secondo P. Boyer (v., 1992), una riprova dell'enorme popolarità della corrente premillenarista negli Stati Uniti può essere considerato il successo del libro di H. Lindsey e C.C. Carlson, The late planet earth (1970), che interpreta la minaccia della catastrofe nucleare sulla base della Bibbia. Fino al 1990 il libro ha avuto una tiratura di 28 milioni di copie.Il successo del fondamentalismo protestante dimostra come nell'ambito della filosofia della storia l'apocalittica sia diventata nel nostro secolo la principale antagonista della fede nel progresso. Contrariamente a Karl Löwith, il quale riteneva che vi fosse una sostanziale continuità tra l'escatologia cristiana e la credenza laica nel progresso, Hans Blumenberg ha sostenuto che le due concezioni hanno diversa origine e pertanto sono destinate a restare interpretazioni inevitabilmente divergenti della storia.L'interpretazione apocalittica della storia moderna non fu alimentata solo dal protestantesimo. Movimenti e correnti analoghi si ritrovano anche all'interno del giudaismo. Sin dagli anni settanta l'antica contrapposizione tra un messianismo religioso che rifiutava ogni attivismo in vista della fine dell'esilio, e il sionismo laico e nazionalistico, lasciò il posto a una nuova sintesi, un attivismo nazionalistico di tipo religioso, il cui principale artefice è stato il mistico rabbi Kuk (v. Ravitzky, 1996). Un'interpretazione apocalittica dell'epoca attuale caratterizza anche il fondamentalismo islamico delle confraternite (v. Marty e Appleby, 1992 e 1995, cap. IV).

c) Misticismo, esoterismo e new age

L'appassionata ricerca delle radici della cultura europea che vide coinvolti storici, filosofi e linguisti dell'Ottocento portò a individuare due grandi tradizioni, quella greco-romana, o 'ellenismo', che aveva concepito la natura come animata, e quella giudaico-cristiana, o 'ebraismo', cui veniva imputata invece una concezione del mondo come materia morta e inanimata. Un contributo fondamentale in questa direzione venne dall'opera dell'indologo e studioso del fenomeno religioso Friedrich Max Müller, che analizzò la differenza tra la visione del mondo giudaico-cristiana e quella greca sulla base della comparazione linguistica, per la quale poté servirsi di testi vedici che erano stati decifrati di recente. Con l'ausilio della filologia, Müller indagò le origini linguistiche delle religioni indoeuropee (arie) e semitiche. All'origine della corrente indoeuropea egli individuò quella che a suo avviso costituiva la scoperta più importante del XIX secolo, ossia l'equazione tra il greco Zeus pater, il latino Juppiter, il sanscrito Dyaus pitar e l'antico norvegese Tyr. Tutti questi nomi sarebbero derivati da un'unica forma comune, dyau pitar, che letteralmente significa 'Padre Cielo'. Migliaia di anni prima di Omero e dei poeti vedici, scrive Müller, i progenitori della stirpe aria invocavano un Essere invisibile con un unico e medesimo nome, il nome più spirituale e sublime che poteva offrire il loro vocabolario d'allora, il nome del Cielo e della Luce. La principale caratteristica della religione aria, secondo Müller, sarebbe quella di esprimere con un vocabolo l'adorazione di Dio nella natura, la percezione della divinità che agisce dietro i fenomeni naturali. Müller mette a confronto questa mistica della natura indoeuropea con la concezione biblica. La caratteristica distintiva di tutte le religioni semitiche sarebbe a suo avviso l'"adorazione di Dio nella storia". Il Dio venerato dai Semiti non era tanto il signore della natura, quanto piuttosto il signore del destino del singolo, della tribù e del popolo. Partendo dall'identità dei nomi indoeuropei dell'Essere celeste, Müller (v., 1873) postula una fase originaria della storia dell'umanità in cui questa avrebbe avuto un'appercezione diretta della divinità; ogni individuo può fare esperienza del divino nella natura stessa. Nel 1875 il contemporaneo di Müller Matthew Arnold imputò all'ebraismo la mancanza di spiritualità del mondo di vita moderno. Circa vent'anni dopo Max Weber individuerà nella religione giudaico-cristiana la forza propulsiva del disincantamento del mondo.

L'idea di Müller, secondo cui la religiosità è una facoltà umana che può essere attualizzata nella contemplazione della natura da ogni singolo individuo, è assai vicina alle concezioni del misticismo tedesco. Può sembrare paradossale che il misticismo venga considerato parte di una particolare tradizione di pensiero, se è vero che la sua caratteristica essenziale è proprio quella di essere un'esperienza universale e ineffabile. Sul piano storico (nonché sistematico) vi sono peraltro buone ragioni per considerare il misticismo una tradizione, sebbene non specificamente tedesca o cristiana, ma comune a tutte le grandi religioni (v. Katz, 1983).

L'espressione 'misticismo tedesco' fu coniata da un allievo di Hegel per indicare la continuità tra la religione medievale e la filosofia tedesca moderna (v. Weeks, 1993, p. 1). La rivelazione di Dio non sarebbe limitata al passato; la Bibbia, la storia e la natura sarebbero tre forme parallele di rivelazione. Come si legge in una poesia medievale di Daniel Czepko: "Tutto trabocca di Dio. L'erbetta è un libro, se cerchi di aprirlo, ti si schiuderà la creazione e ogni sapere" (ibid., p. 186). Questa tematica venne ripresa e sviluppata dal romanticismo. Novalis, ad esempio, espresse l'idea che l'infinito esiste nel finito; il mondo avrebbe in sé una vis occulta che può essere svelata allo spirito umano. Là dove l'uomo impara il linguaggio segreto della natura, nasce la religione.Contemplazione mistica e ascesi sono considerate da Weber i due principali sbocchi che la religiosità della redenzione ha assunto rispettivamente nel mondo orientale e in quello occidentale. W. Schluchter (v., 1979) e J. Habermas (v., 1981) hanno ripreso la tipologia weberiana e hanno operato una distinzione tra concezione cosmocentrica e concezione teocentrica, individuando in quest'ultima uno dei presupposti del processo di razionalizzazione occidentale.

Il misticismo divenne un elemento importante nella Kulturkritik tedesca tra la fine dell'Ottocento e i primi del Novecento. Un ruolo significativo a questo riguardo fu svolto da Eugen Diederichs, fondatore dell'omonima casa editrice tedesca, il quale si fece portavoce di tutti coloro che avevano cominciato a mettere in dubbio il valore del progresso scientifico-tecnico (v. Hübinger, 1987 e 1996). Considerando il cristianesimo corresponsabile dell'appiattimento e della meccanizzazione della vita moderna, Diederichs interpretò la crisi della cultura contemporanea anche come una crisi religiosa (v. Kippenberg, 1996; v. Graf, 1996). La crescente insofferenza nei confronti dello spirito del tempo contemporaneo, espresso da un arido materialismo da un lato, e da una religione unilaterale dell'intelletto e della volontà dall'altro, avrebbe portato secondo Diederichs alla nascita di un 'nuovo misticismo', che si sarebbe configurato come un "confronto critico con la modernità" (v. Hübinger, 1987, p. 102).

Tra gli esponenti del nuovo misticismo può essere annoverato anche il filosofo tedesco Martin Buber, il quale in Ekstatische Konfessionen (1909) propone una rielaborazione personale del misticismo della tradizione ḥasidica, secondo cui Dio è presente in ogni singola cosa ed esperibile in ogni semplice fatto. Per Buber l'esperienza religiosa ci condurrebbe in regioni dell'esistenza inaccessibili all'intelletto. Una tesi molto simile venne espressa dal filosofo americano William James, il quale nel famoso libro The varieties of religious experience (1902) descrive quegli stati di coscienza che possono essere definiti 'esperienze mistiche'. Ciò che caratterizza tali esperienze è l'impossibilità di tradurle in parole, la loro capacità di dischiudere all'individuo un sapere inattingibile all'intelletto discorsivo, il carattere transitorio e il modo inaspettato e improvviso in cui sopraggiungono. L'individuo che sperimenta tali stati di coscienza acquista consapevolezza della propria libertà dalle leggi del cosmo; la realtà esterna non è più maya, illusione. Esperienze di questo tipo, relativamente lontane dal pensiero concettuale, rinviano secondo James a un Sé svincolato dalla causalità naturale.

La continuità di questa tradizione è attestata da una varietà di fenomeni religiosi contemporanei - misticismo, spiritismo, teosofia, new age - per i quali A. Faivre ha proposto l'etichetta di 'esoterismo occidentale'. Si tratta di una forma di pensiero alla base della quale vi sarebbero i seguenti principî: 1) esiste una corrispondenza tra cosmo e uomo, o tra natura e storia; 2) la natura è animata da forze segrete; 3) tali forze occulte possono essere conosciute sia in forma mediata sia attraverso l'immaginazione soggettiva; 4) questa conoscenza è in grado di trasformare tanto il soggetto che la percepisce quanto la natura stessa. A ciò si aggiungono altre idee che si ritrovano anche al di fuori dello stretto ambito dell''esoterismo occidentale', come quella secondo cui le tradizioni di varia origine si fonderebbero sincreticamente in una gnosi universale, o il principio secondo cui il sapere esoterico viene trasmesso da un maestro ai suoi discepoli. Come ha dimostrato recentemente W.J. Hanegraaff (v., 1996), questa forma di pensiero si ritrova, sviluppata e rielaborata, anche nel movimento new age. L'organizzazione sociale di questo tipo di religiosità è sempre stata debole se non del tutto assente. I sociologi americani definiscono 'culti' i movimenti di questo tipo per distinguerli dalle sette (v. Stark e Bainbridge, 1985, pp. 19-37). A differenza di queste ultime, che hanno origine dalla rottura nei confronti di una Chiesa, i culti in genere sono liberi sin dall'inizio da qualunque legame ecclesiale, e ciò ha portato alcuni a mettere in dubbio la legittimità di considerare i culti come autentiche comunità religiose. In alcuni casi - e ciò vale in particolare per la new age - i culti non hanno mai dato luogo a gruppi formalmente organizzati. Stark e Bainbridge menzionano a questo riguardo il fenomeno dei cosiddetti 'audience cults', in cui gli adepti conoscono i maestri solo attraverso i media e non formano alcun gruppo.