Politologia
§26 Il movimento e il fine. È possibile mantenere vivo ed efficiente un movimento senza la prospettiva di fini immediati e mediati? L’affermazione del Bernstein secondo cui il movimento è tutto e il fine è nulla, sotto l’apparenza di una interpretazione «ortodossa» della dialettica, nasconde una concezione meccanicistica della vita e del movimento storico: le forze umane sono considerate come passive e non consapevoli, come un elemento non dissimile dalle cose materiali, e il concetto di evoluzione volgare, nel senso naturalistico, viene sostituito al concetto di svolgimento e di sviluppo.
Ciò è tanto più interessante da notare in quanto il Bernstein ha preso le sue armi nell’arsenale del revisionismo idealistico (dimenticando le glosse su Feuerbach) che avrebbe dovuto portarlo invece a valutare l’intervento degli uomini (attivi, e quindi perseguenti certi fini immediati e mediati) come decisivo nello svolgimento storico (s’intende, nelle condizioni date).
Ma se si analizza più a fondo, si vede che nel Bernstein e nei suoi seguaci, l’intervento umano non è escluso del tutto, almeno implicitamente (ciò che sarebbe troppo scemo) ma è ammesso solo in modo unilaterale, perché è ammesso come «tesi», ma è escluso come «antitesi»; esso, ritenuto efficiente come tesi, ossia nel momento della resistenza e della conservazione, è rigettato come antitesi, ossia come iniziativa e spinta progressiva antagonista. Possono esistere «fini» per la resistenza e la conservazione (le stesse «resistenza e conservazione» sono fini che domandano una organizzazione speciale civile e militare, il controllo attivo dell’avversario, l’intervento tempestivo per impedire che l’avversario si rafforzi troppo, ecc.), non per il progresso e l’iniziativa innovatrice.
Non si tratta di altro che di una sofistica teorizzazione della passività, di un modo «astuto» (nel senso delle «astuzie della provvidenza» vichiane) con cui la «tesi» interviene per debilitare l’«antitesi», poiché proprio l’antitesi (che presuppone il risveglio di forze latenti e addormentate da spronare arditamente) ha bisogno di prospettarsi dei fini, immediati e mediati, per rafforzare il suo movimento superatore. Senza la prospettiva di fini concreti, non può esistere movimento del tutto.
§6 Il capitalismo antico e una disputa tra moderni.
§7 La funzione mondiale di Londra. Come si è costituita storicamente la funzione economica mondiale di Londra? Tentativi americani e francesi per sostituire Londra. La funzione di Londra è un aspetto dell’egemonia economica inglese, che continua anche dopo che l’industria e il commercio inglesi hanno perduto la posizione precedente. Quanto rende alla borghesia inglese la funzione di Londra?
L’argomento è stato in parte trattato dal Presidente della Westminster Bank nel discorso tenuto nell’assemblea sociale del 1929: l’oratore ha accennato ai lamenti perché gli sforzi fatti per conservare la posizione di Londra come centro finanziario internazionale impongono sacrifizi eccessivi all’industria e al commercio, ma ha osservato che il mercato finanziario di Londra produce un reddito che contribuisce in larga misura a saldare il deficit della bilancia dei pagamenti.
Questioni di metodo
§2 Quistioni di metodo. Se si vuole studiare la nascita di una concezione del mondo che dal suo fondatore non è stata mai esposta sistematicamente (e la cui coerenza essenziale è da ricercare non in ogni singolo scritto o serie di scritti ma nell’intiero sviluppo del lavoro intellettuale vario in cui gli elementi della concezione sono impliciti) occorre fare preliminarmente un lavoro filologico minuzioso e condotto col massimo scrupolo di esattezza, di onestà scientifica, di lealtà intellettuale, di assenza di ogni preconcetto ed apriorismo o partito preso.
Occorre, prima di tutto, ricostruire il processo di sviluppo intellettuale del pensatore dato per identificare gli elementi divenuti stabili e «permanenti», cioè che sono stati assunti come pensiero proprio, diverso e superiore al «materiale» precedentemente studiato e che ha servito di stimolo; solo questi elementi sono momenti essenziali del processo di sviluppo.
Questa selezione può essere fatta per periodi più o meno lunghi, come risulta dall’intrinseco e non da notizie esterne (che pure possono essere utilizzate) e dà luogo a una serie di «scarti», cioè di dottrine e teorie parziali per le quali quel pensatore può aver avuto, in certi momenti, una simpatia, fino ad averle accettate provvisoriamente ed essersene servito per il suo lavoro critico o di creazione storica e scientifica.
È osservazione comune di ogni studioso, come esperienza personale, che ogni nuova teoria studiata con «eroico furore» (cioè quando non si studia per mera curiosità esteriore ma per un profondo interesse) per un certo tempo, specialmente se si è giovani, attira di per se stessa, si impadronisce di tutta la personalità e viene limitata dalla teoria successivamente studiata finché non si stabilisce un equilibrio critico e si studia con profondità senza però arrendersi subito al fascino del sistema o dell’autore studiato. Questa serie di osservazioni valgono tanto più quanto più il pensatore dato è piuttosto irruento, di carattere polemico e manca dello spirito di sistema, quando si tratta di una personalità nella quale l’attività teorica e quella pratica sono indissolubilmente intrecciate, di un intelletto in continua creazione e in perpetuo movimento, che sente vigorosamente l’autocritica nel modo più spietato e conseguente.
Date queste premesse, il lavoro deve seguire queste linee: 1) la ricostruzione della biografia non solo per ciò che riguarda l’attività pratica ma specialmente per l’attività intellettuale; 2) il registro di tutte le opere, anche le più trascurabili, in ordine cronologico, diviso secondo motivi intrinseci: di formazione intellettuale, di maturità, di possesso e applicazione del nuovo modo di pensare e di concepire la vita e il mondo. La ricerca del leit‑motiv, del ritmo del pensiero in isviluppo, deve essere più importante delle singole affermazioni casuali e degli aforismi staccati.
Questo lavoro preliminare rende possibile ogni ulteriore ricerca. Tra le opere del pensatore dato, inoltre, occorre distinguere tra quelle che egli ha condotto a termine e pubblicate e quelle rimaste inedite, perché non compiute, e pubblicate da qualche amico o discepolo, non senza revisioni, rifacimenti, tagli, ecc., ossia non senza un intervento attivo dell’editore. È evidente che il contenuto di queste opere postume deve essere assunto con molta discrezione e cautela, perché non può essere ritenuto definitivo, ma solo materiale ancora in elaborazione, ancora provvisorio; non può escludersi che queste opere, specialmente se da lungo tempo in elaborazione e che l’autore non si decideva mai a compiere, in tutto o in parte ’autore o non ritenute soddisfacenti.
Nel caso specifico del fondatore della filosofia della praxis, l’opera letteraria può essere distinta in queste sezioni: 1) lavori pubblicati sotto la responsabilità diretta dell’autore: tra questi devono essere considerati, in linea generale, non solo quelli materialmente dati alle stampe, ma quelli «pubblicati» o messi in circolazione in qualsiasi modo dall’autore, come le lettere, le circolari, ecc. (un esempio tipico sono le Glosse al programma di Gotha e l’epistolario); 2) le opere non stampate sotto la responsabilità diretta dell’autore, ma da altri, postume; intanto di queste sarebbe bene avere il testo diplomatico, ciò che è già in via di essere fatto, o per lo meno una minuziosa descrizione del testo originale fatta con criteri diplomatici.
L’una e l’altra sezione dovrebbero essere ricostruite per periodi cronologico‑critici, in modo da poter stabilire confronti validi e non puramente meccanici ed arbitrari.
Dovrebbe essere minutamente studiato e analizzato il lavoro di elaborazione compiuto dall’autore sul materiale delle opere poi da lui stesso stampate: questo studio darebbe per lo meno degli indizi e dei criteri per valutare criticamente l’attendibilità delle redazioni compilate da altri delle opere postume.
Quanto più il materiale preparatorio delle opere edite dall’autore si allontana dal testo definitivo redatto dallo stesso autore, e tanto meno è attendibile la redazione di altro scrittore di un materiale dello stesso tipo. Un’opera non può mai essere identificata col materiale bruto, raccolto per la sua compilazione: la scelta definitiva, la disposizione degli elementi componenti, il peso maggiore o minore dato a questo o a quello degli elementi raccolti nel periodo preparatorio, sono appunto ciò che costituisce l’opera effettiva.
Anche lo studio dell’epistolario deve essere fatto con certe cautele: un’affermazione recisa fatta in una lettera non sarebbe forse ripetuta in un libro. La vivacità stilistica delle lettere, se spesso è artisticamente più efficace dello stile più misurato e ponderato di un libro, talvolta porta a deficienze di argomentazione; nelle lettere, come nei discorsi, come nelle conversazioni si verificano più spesso errori logici; la rapidità maggiore del pensiero è spesso a scapito della sua solidità.
Solo in seconda linea, nello studio di un pensiero originale e innovatore, viene il contributo di altre persone alla sua documentazione. Così, almeno in linea di principio, come metodo, deve essere impostata la quistione dei rapporti di omogeneità tra i due fondatori della filosofia della praxis. L’affermazione dell’uno o dell’altro sull’accordo reciproco vale solo per l’argomento dato. Anche il fatto che uno ha scritto qualche capitolo per il libro scritto dall’altro, non è una ragione perentoria perché tutto il libro sia considerato come risultato di un perfetto accordo.
Non bisogna sottovalutare il contributo del secondo, ma non bisogna neanche identificare il secondo col primo, né bisogna pensare che tutto ciò che il secondo ha attribuito al primo sia assolutamente autentico e senza infiltrazioni. È certo che il secondo ha dato la prova di un disinteresse e di un’assenza di vanità personale unici nella storia della letteratura, ma non di ciò si tratta, né di porre in dubbio l’assoluta onestà scientifica del secondo.
Si tratta che il secondo non è il primo e che se si vuole conoscere il primo occorre cercarlo specialmente nelle sue opere autentiche, pubblicate sotto la sua diretta responsabilità.
Mat. Bibl.: La “filosofia della praxis” nei Quaderni del carcere di Antonio Gramsci
§3 Un repertorio della filosofia della praxis.
1. Sarebbe utilissimo un inventario critico di tutte le quistioni che sono state sollevate e discusse intorno alla filosofia della praxis, con ampie bibliografie critiche. Il materiale per una simile opera enciclopedica specializzata è talmente esteso, disparato, di diversissimo valore, in tante lingue, che solo un comitato di redazione potrebbe elaborarlo in un tempo non breve. Ma l’utilità che una compilazione di tal genere avrebbe, sarebbe di una importanza immensa sia nel campo scientifico sia nel campo scolastico e tra i liberi studiosi. Diverrebbe uno strumento di primo ordine per la diffusione degli studi sulla filosofia della praxis, e per il loro consolidamento in disciplina scientifica, staccando nettamente due epoche: quella moderna da quella precedente di imparaticci, di pappagallismi e di dilettantismi giornalistici.
Per costruire il progetto sarebbe da studiare tutto il materiale dello stesso tipo pubblicato dai cattolici dei vari paesi a proposito della Bibbia, degli Evangeli, della Patrologia, della Liturgia, dell’Apologetica, grosse enciclopedie specializzate di vario valore ma che si pubblicano continuamente e mantengono l’unità ideologica delle centinaia di migliaia di preti e altri dirigenti che formano la impalcatura e la forza della Chiesa Cattolica. (Per la bibliografia della filosofia della praxis in Germania sono da vedere le compilazioni di Ernst Drahn, citate dallo stesso Drahn nell’introduzione ai numeri 6068‑6069 della Reklams Universal Bibliothek).
2. Occorrerebbe fare per la filosofia della praxis un lavoro come quello che il Bernheim ha fatto per il metodo storico (E. Bernheim: Lehrbuch der historischen Methode, ediz. 6a, 1908, Leipzig, Duncker u. Humblot, tradotto in italiano e pubblicato dall’editore Sandron di Palermo). Il libro del Bernheim non è un trattato della filosofia dello storicismo, tuttavia implicitamente le è legato.
La cosidetta «sociologia della filosofia della praxis» dovrebbe stare a questa filosofia come il libro del Bernheim sta allo storicismo in generale cioè essere una esposizione sistematica di canoni pratici di ricerca e di interpretazione per la storia e la politica; una raccolta di criteri immediati, di cautele critiche ecc., una filologia della storia e della politica, come sono concepite dalla filosofia della praxis.
Per alcuni rispetti occorrerebbe fare, di alcune tendenze della filosofia della praxis (e per avventura le più diffuse per la loro grossolanità) una stessa critica (o tipo di critica) che lo storicismo moderno ha fatto del vecchio metodo storico e della vecchia filologia, che avevano portato a forme ingenue di dogmatismo e sostituivano l’interpretazione e la costruzione storica con la descrizione esteriore e l’elencazione delle fonti grezze spesso accumulate disordinatamente ed incoerentemente. La forza maggiore di queste pubblicazioni consisteva in quella specie di misticismo dogmatico che si era venuto creando e popolarizzando e che si esprimeva nell’affermazione non giustificata di essere
§8 Roberto Ardigò e la filosofia della praxis.
(Cfr il volume Scritti vari raccolti e ordinati da Giovanni Marchesini, Firenze, Le Monnier, 1922).
Tra i pensieri, tutti triti e banali, spicca quello sul Materialismo storico (p. 271), che senz’altro è da mettere insieme all’articolo sull’Influenza sociale dell’aeroplano di A. Loria.
Ecco il pensiero completo: «Colla Concezione materialistica della Storia si vuole spiegare una formazione naturale (!), che ne (sic) dipende solo in parte e solo indirettamente, trascurando altri essenziali coefficenti. E mi spiego. L’animale non vive, se non ha il suo nutrimento. E può procurarselo, perché in lui nasce il sentimento della fame, che lo porta a cercare il cibo. Ma in un animale, oltre il sentimento della fame, si producono molti altri sentimenti, relativi ad altre operazioni, i quali, pur essi, agiscono a muoverlo. Egli è che, col nutrimento si mantiene un dato organismo, che ha attitudini speciali, quali in una specie, quali in un’altra. Una caduta d’acqua fa muovere un mulino a produrre la farina e un telaio a produrre un drappo. Sicché, pel mulino, oltre la caduta dell’acqua, occorre il grano da macinare e pel telaio occorrono i fili da comporre insieme.
Mantenendosi col movimento un organismo, l’ambiente, colle sue importazioni d’altro genere (!?), determina, come dicemmo, molti funzionamenti, che non dipendono direttamente dal nutrimento, ma dalla struttura speciale dell’apparecchio funzionante, da una parte, e dall’azione, ossia importazione nuova dell’ambiente dall’altra. Un uomo quindi, per esempio, è incitato in più sensi. E in tutti irresistibilmente. È incitato dal sentimento della fame, è incitato da altri sentimenti, prodotti in ragione della struttura sua speciale, e delle sensazioni e delle idee fatte nascere in lui per l’azione esterna, e per l’ammaestramento ricevuto, ecc. ecc. (sic). Deve obbedire al primo, ma deve ubbidire anche agli altri, voglia o non voglia. E gli equilibri che si formano tra l’impulso del primo e di questi altri, per la risultante dell’azione, riescono diversissimi, seconda una infinità di circostanze, che fanno giocare più l’uno che l’altro dei sentimenti incitanti.
In una mandra di porci il sopravvento rimane al sentimento della fame, in una popolazione di uomini, ben diversamente, poiché hanno anche altre cure all’infuori di quella d’ingrassare. Nell’uomo stesso l’equilibrio si diversifica secondo le disposizioni che poterono farsi in lui, e quindi, col sentimento della fame, il ladro ruba e il galantuomo invece lavora: avendo quanto gli occorre per soddisfare alla fame, l’avaro cerca anche il non necessario, e il filosofo se ne contenta e dedica la sua opera alla scienza. L’antagonismo poi può esser tale, che riescono in prevalenza i sentimenti che sono diversi da quelli della fame, fino a farli tacere affatto, fino a sopportare di morire, ecc. ecc. (sic).
La forza, onde è, ed agisce l’animale, è quella della natura, che lo investe e lo sforza ad agire in sensi multiformi, trasformandosi variamente nel suo organismo. Poniamo che sia la luce del sole, alla quale si dovrebbe ridurre la concezione materialistica della storia, anziché alla ragione economica. Alla luce del sole, intesa in modo, che anche ad essa si possa riferire il fatto della idealità impulsiva dell’uomo». (Fine).
Txt.: R. Ardigò - La Psicologia come scienza positiva
§9 Alcuni problemi per lo studio dello svolgimento della filosofia della praxis. La filosofia della praxis è stata un momento della cultura moderna; in una certa misura ne ha determinato o fecondato alcune correnti. Lo studio di questo fatto, molto importante e significativo, è stato trascurato o è addirittura ignorato dai così detti ortodossi e per la seguente ragione: che la combinazione filosofica più rilevante è avvenuta tra la filosofia della praxis e diverse tendenze idealistiche, ciò che ai così detti ortodossi, legati essenzialmente alla particolare corrente di cultura dell’ultimo quarto del secolo scorso (positivismo, scientismo) è parso un controsenso se non una furberia da ciarlatani (tuttavia nel saggio di Plekhanov su i Problemi fondamentali c’è qualche accenno a questo fatto, ma solamente sfiorato e senza tentativo alcuno di spiegazione critica).1 Per ciò pare sia necessario rivalutare la impostazione del problema così come fu tentata da Antonio Labriola .
È avvenuto questo: la filosofia della praxis ha subito realmente una doppia revisione, cioè è stata sussunta in una doppia combinazione filosofica. Da una parte, alcuni suoi elementi, in modo esplicito o implicito, sono stati assorbiti e incorporati da alcune correnti idealistiche (basta citare il Croce, il Gentile, il Sorel, lo stesso Bergson, [il pragmatismo]); dall’altra i così detti ortodossi, preoccupati di trovare una filosofia che fosse, secondo il loro punto di vista molto ristretto, più comprensiva di una «semplice» interpretazione della storia, hanno creduto di essere ortodossi, identificandola fondamentalmente nel materialismo tradizionale.
Un’altra corrente è ritornata al kantismo (e si può citare, oltre il prof. Max Adler viennese, i due professori italiani Alfredo Poggi e Adelchi Baratono).
Si può osservare, in generale, che le correnti che hanno tentato combinazioni della filosofia della praxis con tendenze idealistiche sono in grandissima parte di intellettuali «puri», mentre quella che ha costituito l’ortodossia era di personalità intellettuali più spiccatamente dedite all’attività pratica e quindi più legate (con legami più o meno estrinseci) alle grandi masse popolari (ciò che del resto non ha impedito alla più gran parte di fare capitomboli non di poca importanza storico-politica).
Questa distinzione ha una grande portata. Gli intellettuali «puri», come elaboratori delle più estese ideologie delle classi dominanti, come leaders dei gruppi intellettuali dei loro paesi, non potevano non servirsi almeno di alcuni elementi della filosofia della praxis, per irrobustire le loro concezioni e moderare il soverchio filosofismo speculativo col realismo storicista della teoria nuova, per fornire di nuove armi l’arsenale del gruppo sociale cui erano legati.
D’altra parte la tendenza ortodossa si trovava a lottare con l’ideologia più diffusa nelle masse popolari, il trascendentalismo religioso e credeva di superarlo solo col più crudo e banale materialismo che era anch’esso una stratificazione non indifferente del senso comune, mantenuta viva, più di quanto si credesse e si creda, dalla stessa religione che nel popolo ha una sua espressione triviale e bassa, superstiziosa e stregonesca, in cui la materia ha una funzione non piccola.
Il Labriola si distingue dagli uni e dagli altri per la sua affermazione (non sempre sicura, a dire il vero) che la filosofia della praxis è una filosofia indipendente e originale che ha in se stessa gli elementi di un ulteriore sviluppo per diventare da interpretazione della storia filosofia generale.
Perché la filosofia della praxis ha avuto questa sorte, di aver servito a formare combinazioni, coi suoi elementi principali, sia coll’idealismo che con il materialismo filosofico? Il lavoro di ricerca non può non essere complesso e delicato: domanda molta finezza nell’analisi e sobrietà intellettuale. Perché è molto facile lasciarsi prendere dalle somiglianze esteriori e non vedere le somiglianze nascoste e i nessi necessari ma camuffati.
L’identificazione dei concetti che la filosofia della praxis ha «ceduto» alle filosofie tradizionali e per cui queste hanno trovato un qualche istante di ringiovanimento, deve essere fatta con molta cautela critica, e significa né più né meno che fare la storia della cultura moderna dopo l’attività dei fondatori della filosofia della praxis.
La filosofia della praxis aveva due compiti: combattere le ideologie moderne nella loro forma più raffinata, per poter costituire il proprio gruppo di intellettuali indipendenti, e educare le masse popolari, la cui cultura era medioevale. Questo secondo compito, che era fondamentale, dato il carattere della nuova filosofia, ha assorbito tutte le forze, non solo quantitativamente ma anche qualitativamente; per ragioni «didattiche», la nuova filosofia si è combinata in una forma di cultura che era un po’ superiore a quella media popolare (che era molto bassa), ma assolutamente inadeguata per combattere le ideologie delle classi colte, mentre la nuova filosofia era proprio nata per superare la più alta manifestazione culturale del tempo, la filosofia classica tedesca, e per suscitare un gruppo di intellettuali proprii del nuovo gruppo sociale di cui era la concezione del mondo.
D’altra parte la cultura moderna, specialmente idealistica, non riesce a elaborare una cultura popolare, non riesce a dare un contenuto morale e scientifico ai propri programmi scolastici, che rimangono schemi astratti e teorici; essa rimane la cultura di una ristretta aristocrazia intellettuale, che talvolta ha presa sulla gioventù solo in quanto diventa politica immediata e
È da vedere se questo modo di «schieramento» culturale non sia una necessità storica e se nella storia passata non si ritrovino schieramenti simili, tenuto conto delle circostanze di tempo e di luogo. L’esempio classico e precedente alla modernità, è indubbiamente quello del Rinascimento in Italia e della Riforma nei paesi protestanti.
La riforma luterana e il calvinismo suscitarono un vasto movimento popolare‑nazionale dove si diffusero, e solo in periodi successivi una cultura superiore; i riformatori italiani furono infecondi di grandi successi storici. È vero che anche la Riforma nella sua fase superiore necessariamente assunse i modi della Rinascita e come tale si diffuse anche nei paesi non protestanti dove non c’era stata l’incubazione popolare; ma la fase di sviluppo popolare ha permesso ai paesi protestanti di resistere tenacemente e vittoriosamente alla crociata degli eserciti cattolici e così nacque la nazione germanica come una delle più vigorose dell’Europa moderna.
La Francia fu lacerata dalle guerre di religione con la vittoria apparente del cattolicismo, ma ebbe una grande riforma popolare nel Settecento con l’illuminismo, il voltairianismo, l’enciclopedia che precedé e accompagnò la rivoluzione del 1789; si trattò realmente di una grande riforma intellettuale e morale del popolo francese, più completa di quella tedesca luterana, perché abbracciò anche le grandi masse contadine della campagna, perché ebbe un fondo laico spiccato e tentò di sostituire alla religione una ideologia completamente laica rappresentata dal legame nazionale e patriottico; ma neanche essa ebbe una fioritura immediata di alta cultura, altro che per la scienza politica nella forma di scienza positiva del diritto. (Cfr il paragone fatto da Hegel delle particolari forme nazionali assunte dalla stessa cultura in Francia e in Germania nel periodo della rivoluzione francese; concezione hegeliana che attraverso una catena un po’ lunga portò al famoso verso carducciano: «accomunati nella stessa fé, – decapitaro Emmanuel Kant iddio, Massimiliano Robespierre il re»).
La filosofia della praxis presuppone tutto questo passato culturale, la Rinascita e la Riforma, la filosofia tedesca e la rivoluzione francese, il calvinismo e la economia classica inglese, il liberalismo laico e lo storicismo che è alla base di tutta la concezione moderna della vita.
La filosofia della praxis è il coronamento di tutto questo movimento di riforma intellettuale e morale, dialettizzato nel contrasto tra cultura popolare e alta cultura. Corrisponde al nesso Riforma protestante + Rivoluzione francese: è una filosofia che è anche una politica e una politica che è anche una filosofia. Attraversa ancora la sua fase popolaresca: suscitare un gruppo di intellettuali indipendenti non è cosa facile, domanda un lungo processo, con azioni e reazioni, con adesioni e dissoluzioni e nuove formazioni molto numerose e complesse: è la concezione di un gruppo sociale subalterno, senza iniziativa storica, che si amplia continuamente, ma disorganicamente, e senza poter oltrepassare un certo grado qualitativo che è sempre al di qua dal possesso dello Stato, dall’esercizio reale dell’egemonia su l’intera società che solo permette un certo equilibrio organico nello sviluppo del gruppo intellettuale.
La filosofia della praxis è diventata anch’essa «pregiudizio» e «superstizione»; così come è, è l’aspetto popolare dello storicismo moderno, ma contiene in sé un principio di superamento di questo storicismo.
«Politicamente» la concezione materialistica è vicina al popolo, al senso comune; essa è strettamente legata a molte credenze e pregiudizii, a quasi tutte le superstizioni popolari (stregonerie, spiriti, ecc.). Ciò si vede nel cattolicismo popolare e specialmente nell’ortodossia bizantina. La religione popolare è crassamente materialistica, tuttavia la religione ufficiale degli intellettuali cerca di impedire che si formino due religioni distinte, due strati separati, per non staccarsi dalle masse, per non diventare anche ufficialmente, come è realmente, una ideologia di ristretti gruppi.
Ma da questo punto di vista, non bisogna far confusione tra l’atteggiamento della filosofia della praxis e quello del cattolicismo. Mentre quella mantiene un contatto dinamico e tende a sollevare continuamente nuovi strati di massa ad una vita culturale superiore, quello tende a mantenere un contatto puramente meccanico, un’unità esteriore, basata specialmente sulla liturgia e sul culto più appariscentemente suggestivo sulle grandi folle. Molti tentativi ereticali furono manifestazioni di forze popolari per riformare la chiesa e avvicinarla al popolo, innalzando il popolo. La chiesa ha reagito spesso in forma violentissima, ha creato la Compagnia di Gesù, si è catafratta con le decisioni del Concilio di Trento, quantunque abbia organizzato un maraviglioso meccanismo di religione «democratica» dei suoi intellettuali, ma come singoli individui, non come espressione rappresentativa di gruppi popolari. Nella storia degli sviluppi culturali, occorre tenere uno speciale conto dell’organizzazione della cultura e del personale in cui tale organizzazione prende forma concreta.
L’affermazione che la filosofia della praxis è una concezione nuova, indipendente, originale, pur essendo un momento dello sviluppo storico mondiale, è l’affermazione della indipendenza e originalità di una nuova cultura in incubazione che si svilupperà con lo svilupparsi dei rapporti sociali.
Ciò che volta per volta esiste è una combinazione variabile di vecchio e nuovo, un equilibrio momentaneo dei rapporti culturali corrispondente all’equilibrio dei rapporti sociali. Solo dopo la creazione dello Stato, il problema culturale si impone in tutta la sua complessità e tende a una soluzione coerente. In ogni caso l’atteggiamento precedente alla formazione statale non può non essere critico-polemico, e mai dogmatico, deve essere un atteggiamento romantico, ma di un romanticismo che consapevolmente aspira alla felicità.
§16 I fondatori della filosofia della praxis e l’Italia. Una raccolta sistematica di tutti gli scritti (anche dell’epistolario) che riguardano l’Italia o considerano problemi italiani. Ma una raccolta che si limitasse a questa scelta non sarebbe organica e compiuta. Esistono scritti dei due autori che, pure non riguardando specificatamente l’Italia, hanno un significato per l’Italia, e un significato non generico, s’intende, perché altrimenti tutte le opere dei due scrittori si può dire che riguardino l’Italia.
Il piano della raccolta potrebbe essere costruito secondo questi criteri: 1) scritti che specificatamente si riferiscono all’Italia; 2) scritti che riguardano argomenti «specifici» di critica storica e politica, che pur non riferendosi all’Italia, hanno attinenza con problemi italiani.
Di questa seconda serie di scritti non bisogna forse fare la raccolta, ma è sufficiente un’esposizione critico‑analitica. Forse il piano più organico potrebbe essere quello in tre parti: 1) introduzione storico‑critica; 2) scritti sull’Italia; 3) analisi degli scritti attinenti indirettamente l’Italia, cioè che si propongono di risolvere quistioni che sono essenziali e specifiche anche per l’Italia.
§20 Le innovazioni nel diritto processuale e la filosofia della prassi. L’espressione contenuta nella prefazione alla Critica dell’Economia politica (1859): «così come non si giudica ciò che un individuo è da ciò che egli sembra a se stesso» può essere riallacciata al rivolgimento avvenuto nel diritto processuale e alle discussioni teoriche in proposito, e che nel 1859 erano relativamente recenti. La vecchia procedura infatti esigeva la confessione dell’imputato (specialmente per i delitti capitali) per emettere la sentenza di condanna: l’«habemus confitentem reum» pareva il fastigio di ogni procedimento giudiziario, donde le sollecitazioni, le pressioni morali e i vari gradi di tortura (non come pena, ma come mezzo istruttorio).
Nella procedura rinnovata, l’interrogatorio dell’imputato diventa solo un elemento talvolta trascurabile, in ogni caso utile solo per dirigere le ulteriori indagini dell’istruttoria e del processo, tanto che l’imputato non giura e gli viene riconosciuto il diritto di non rispondere, di essere reticente e anche di mentire, mentre il peso massimo è dato alle prove materiali oggettive e alle testimonianze disinteressate (tanto che i funzionari dello Stato non dovrebbero essere considerati testimoni ma solo referendari del pubblico ministero).
È da ricercare se sia già stato fatto un tale riavvicinamento tra il metodo istruttorio per ricostruire la responsabilità penale dei singoli individui e il metodo critico, proprio della filosofia della prassi, di ricostruire la «personalità» oggettiva degli accadimenti storici e del loro svolgimento, e (se sia già stato) esaminato il movimento per la rinnovazione del diritto processuale come un elemento «suggestivo» per la rinnovazione dello studio della storia: il Sorel avrebbe potuto fare l’osservazione, che rientra nel suo stile.
§1 La religione, il lotto e l’oppio della miseria. Nelle Conversazioni critiche (Serie II, pp. 300‑301) il Croce ricerca la «fonte» del Paese di Cuccagna di Matilde Serao e la trova in un pensiero del Balzac. Nel racconto La Rabouilleuse scritto nel 1841 e poi intitolato Un ménage de garçon, narrandosi di madama Descoings, la quale da ventun anno giocava un famoso suo terno, il «sociologo e filosofo romanziere» osserva: «Cette passion, si universellement condamnée, n’a jamais été étudiée. Personne n’y a vu l’opium de la misère. La loterie, la plus puissante fée du monde, ne développerait‑elle pas des espérances magiques? Le coup de roulette qui faisait voir aux joueurs des masses d’or et de jouissances ne durait que ce que dure un éclair: tandis que la loterie donnait cinq jours d’existence à ce magnifique éclair. Quelle est aujourd’hui la puissance sociale qui peut, pour quarante sous, vous rendre heureux pendant cinq jours et vous livrer idéalement tous les bonheurs de »
Il Croce aveva già notato (nel suo saggio sulla Serao, Letteratura della nuova Italia, III, p. 51) che il Paese di Cuccagna (1890) aveva la sua idea generatrice in un brano dell’altro libro della Serao, Il ventre di Napoli (1884), nel quale «si lumeggia il gioco del lotto come “il grande sogno di felicità” che il popolo napoletano “rifà ogni settimana”, vivendo “per sei giorni in una speranza crescente, invadente, che si allarga, esce dai confini della vita reale”; il sogno “dove sono tutte le cose di cui esso è privato, una casa pulita, dell’aria salubre e fresca, un bel raggio di sole caldo per terra, un letto bianco e alto, un comò lucido, i maccheroni e la carne ogni giorno, e il litro di vino, e la culla pel bimbo, e la biancheria per la moglie, e il cappello nuovo per il marito ”».
Il brano di Balzac potrebbe anche connettersi con l’espressione «oppio del popolo» impiegata nella Critica della filosofia del Diritto di Hegel pubblicata nel 1844 (verificare la data), il cui autore fu un grande ammiratore di Balzac: «Aveva una tale ammirazione per Balzac che si proponeva di scrivere un saggio critico sulla Commedia umana», scrive Lafargue nei suoi ricordi su Carlo Marx pubblicati nella nota raccolta del Riazanov (p. 114 dell’edizione francese). In questi ultimi tempi (forse nel 1931) è stata pubblicata una lettera inedita di Engels in cui si parla diffusamente del Balzac e dell’importanza
È probabile che il passaggio dall’espressione «oppio della miseria» usata dal Balzac per il lotto, all’espressione «oppio del popolo» per la religione, sia stato aiutato dalla riflessione sul «pari» di Pascal, che avvicina la religione al gioco d’azzardo, alle scommesse.
Del resto c’è una stretta connessione tra il lotto e la religione, le vincite mostrano che si è stati «eletti», che si è avuta una particolare grazia da un Santo o dalla Madonna. Si potrebbe fare un confronto tra la concezione attivistica della grazia presso i protestanti che ha dato la forma morale allo spirito d’intrapresa capitalistica e la concezione passiva e lazzaronesca della grazia propria del popolino cattolico.
§10 La religione, il lotto e l’oppio della miseria. Giulio Lachelier, filosofo francese (sul quale cfr la prefazione di G. De Ruggiero al volume dello stesso Lachelier Psicologia e Metafisica, Bari, Laterza, 1915) ha scritto una nota («acuta» dice il De Ruggiero) sul «pari» di Pascal, pubblicata nel volume Du fondement de l’induction (Paris, Alcan, nella «Bibliothèque de philosophìe contemporaine»). L’obbiezione principale all’impostazione che il Pascal ha dato del problema religioso nel «pari» è quella della «lealtà intellettuale» verso se stessi. Pare che tutta la concezione del «pari», per quanto ricordo, sia più vicina alla morale gesuitica, che a quella giansenistica, sia troppo «mercantile», ecc. (cfr nel precedente quaderno altre note su questo argomento).
Chiesa e Stato
§11 Rapporti tra Stato e Chiesa.
(Concordati e trattati internazionali). La capitolazione dello Stato moderno che si verifica per i concordati viene mascherata identificando verbalmente concordati e trattati internazionali. Ma un concordato non è un comune trattato internazionale: nel concordato si realizza di fatto una interferenza di sovranità in un solo territorio statale, poiché tutti gli articoli di un concordato si riferiscono ai cittadini di uno solo degli Stati contrattanti, sui quali il potere sovrano di uno Stato estero giustifica e rivendica determinati diritti e poteri di giurisdizione (sia pure di una speciale determinata giurisdizione). Che poteri ha acquistato il Reich sulla Città del Vaticano in virtù del recente concordato?
E ancora la fondazione della Città del Vaticano dà un’apparenza di legittimità alla finzione giuridica che il concordato sia un comune trattato internazionale bilaterale.
Ma si stipulavano concordati anche prima che la Città del Vaticano esistesse, ciò che significa che il territorio non è essenziale per l’autorità pontificia (almeno da questo punto di vista).
Un’apparenza, perché mentre il concordato limita l’autorità statale di una parte contraente, nel suo proprio territorio, e influisce e determina la sua legislazione e la sua amministrazione, nessuna limitazione è accennata per territorio dell’altra parte: se limitazione esiste per questa altra parte, essa si riferisce all’attività svolta nel territorio del primo Stato, sia da parte dei cittadini della Città del Vaticano, sia dei cittadini dell’altro Stato che si fanno rappresentare dalla Città del Vaticano.
Il concordato è dunque il riconoscimento esplicito di una doppia sovranità in uno stesso territorio statale.
I concordati intaccano in modo essenziale il carattere di autonomia della sovranità dello Stato moderno. Lo Stato ottiene una contropartita? Certamente, ma la ottiene nel suo stesso territorio per ciò che riguarda i suoi stessi cittadini. Lo Stato tiene (e in questo caso occorrerebbe dire meglio il governo) che la Chiesa non intralci l’esercizio del potere, ma anzi lo favorisca e lo sostenga, così come una stampella sostiene un invalido.
La Chiesa cioè si impegna verso una determinata forma di governo (che è determinata dall’esterno, come documenta lo stesso concordato) di promuovere quel consenso di una parte dei governati che lo Stato esplicitamente riconosce di non poter ottenere con mezzi propri: ecco in che consiste la capitolazione dello Stato, perché di fatto esso accetta la tutela di una sovranità esteriore di cui praticamente riconosce la superiorità.
La stessa parola «concordato» è sintomatica. Gli articoli pubblicati nei «Nuovi Studi» sul concordato sono tra i più interessanti e si prestano più facilmente alla confutazione. (Ricordare il «trattato» subito dalla Repubblica democratica georgiana dopo la sconfitta del generale Denikin).
Ma anche nel mondo moderno, cosa significa praticamente la situazione creata in uno Stato dalle stipulazioni concordatarie? Significa il riconoscimento pubblico a una casta di cittadini dello stesso Stato di determinati privilegi politici. La forma non è più quella medioevale, ma la sostanza è la stessa. Nello sviluppo della storia moderna, quella casta aveva visto attaccato e distrutto un monopolio di funzione sociale che spiegava e giustificava la sua esistenza, il monopolio della cultura e dell’educazione. Il concordato riconosce nuovamente questo monopolio, sia pure attenuato e controllato, poiché assicura alla casta posizioni e condizioni preliminari che, con le sole sue forze, con l’intrinseca adesione della sua concezione del mondo alla realtà effettuale, non potrebbe mantenere e avere.
Si intende quindi la lotta sorda e sordida degli intellettuali laici e laicisti contro gli intellettuali di casta per salvare la loro autonomia e la loro funzione. Ma è innegabile la loro intrinseca capitolazione e il loro distacco dallo Stato.
È utile da studiare la divisione del lavoro che si cerca di stabilire tra la casta e gli intellettuali laici: alla prima viene lasciata la formazione intellettuale e morale dei giovanissimi (scuole elementari e medie), agli altri lo sviluppo ulteriore dei giovani nell’Università. Ma la scuola universitaria non è sottoposta allo stesso regime di monopolio cui invece sottostà la scuola elementare e media. Esiste l’Università del Sacro Cuore e potranno essere organizzate altre Università Cattoliche equiparate in tutto alle Università statali. Le conseguenze sono ovvie: la scuola elementare e media è la scuola popolare e della piccola borghesia, strati sociali che sono monopolizzati educativamente dalla casta, poiché la maggioranza dei loro elementi non giungono all’Università, cioè non conosceranno l’educazione moderna nella sua fase superiore critico‑storica ma solo conosceranno l’educazione dogmatica.
La nuova struttura scolastica permette l’immissione nel personale dirigente laico di cellule cattoliche che andranno sempre più rafforzandosi, di elementi che dovranno la loro posizione solamente alla Chiesa. È da pensare che l’infiltrazione clericale nella compagine dello Stato sia per aumentare progressivamente, poiché nell’arte di selezionare gli individui e di tenerli permanentemente a sé legati, la Chiesa è quasi imbattibile.
Controllando i licei e le altre scuole medie, attraverso i suoi fiduciari, essa seguirà, con la tenacia che le è caratteristica, i giovani più valenti delle classi povere e li aiuterà a proseguire gli studi nelle Università cattoliche. Borse di studio, sussidiate da convitti, organizzati con la massima economia, accanto alle Università, permetteranno questa azione. La Chiesa, nella sua fase odierna, con l’impulso dato dall’attuale pontefice all’Azione Cattolica, non può accontentarsi solo di creare preti; essa vuole permeare lo Stato (ricordare la teoria del governo indiretto elaborata dal Bellarmino) e per ciò sono necessari i laici, è necessaria una concentrazione di cultura cattolica rappresentata da laici. Molte personalità possono diventare ausiliari della Chiesa più preziosi come professori d’Università, come alti funzionari dell’amministrazione, ecc., che come cardinali o vescovi.
Allargata la base di scelta delle «vocazioni», una tale attività laico‑culturale ha grandi possibilità di estendersi.
Se lo Stato rinunzia a essere centro attivo e permanentemente attivo di una cultura propria, autonoma, la Chiesa non può che trionfare sostanzialmente. Ma lo Stato non solo non interviene come centro autonomo, ma distrugge ogni oppositore della Chiesa che abbia la capacità di limitarne il dominio spirituale
Si può prevedere che le conseguenze di una tale situazione di fatto, restando immutato il quadro generale delle circostanze, possono essere della massima importanza. La Chiesa è uno Shylok anche più implacabile dello Shylok shakespeariano: essa vorrà la sua libbra di carne anche a costo di dissanguare la sua vittima e con tenacia, mutando continuamente i suoi metodi, tenderà a raggiungere il suo programma massimo.
§14 Rapporti tra Stato e Chiesa. (Cfr p. 15 bis). Il Direttore Generale del Fondo per il Culto, Raffaele Jacuzio, ha pubblicato un Commento della nuova legislazione in materia ecclesiastica con prefazione di Alfredo Rocco (Torino, Utet, 1932, in 8°, pp. 693, L. 60) dove raccoglie e commenta tutti gli atti sia degli organi statali italiani, che di quelli vaticaneschi per la messa in esecuzione del concordato. Accennando alla quistione dell’Azione Cattolica lo Jacuzio scrive (p. 203): «Ma poiché nel concetto di politica non rientra soltanto la tutela dell’ordinamento giuridico dello Stato ma anche tutto quanto si attiene alle provvidenze di ordine economico sociale, è ben difficile… ritenere nell’Azione Cattolica a priori esclusa ogni azione politica quando… si fanno rientrare in essa l’azione sociale ed economica e l’educazione spirituale della gioventù».
Mat. Bibl.: Milza, Berstein - Chiesa cattolica e Fascismo
Letteratura popolare
§13 Origine popolaresca del «superuomo». Ogni volta che ci si imbatte in qualche ammiratore del Nietzsche, è opportuno domandarsi e ricercare se le sue concezioni «superumane», contro la morale convenzionale, ecc. ecc., siano di pretta origine nicciana, siano cioè il prodotto di una elaborazione di pensiero da porsi nella sfera della «alta cultura», oppure abbiano origini molto più modeste, siano, per esempio, connesse con la letteratura d’appendice.
(E lo stesso Nietzsche non sarà stato per nulla influenzato dai romanzi francesi d’appendice? Occorre ricordare che tale letteratura, oggi degradata alle portinerie e ai sottoscala, è stata molto diffusa tra gli intellettuali, almeno fino al 1870, come oggi il così detto romanzo «giallo»).
In ogni modo pare si possa affermare che molta sedicente «superumanità» nicciana ha solo come origine e modello dottrinale non Zaratustra ma Il conte di Montecristo di A. Dumas. Il tipo più compiutamente rappresentato dal Dumas in Montecristo trova, in altri romanzi dello stesso autore, numerose repliche: esso è da identificare, per esempio, nell’Athos dei Tre Moschettieri, in Giuseppe Balsamo e forse anche in altri personaggi.
Che si abbia un certo pudore a giustificare mentalmente le proprie concezioni coi romanzi di Dumas e di Balzac, s’intende facilmente: perciò le si giustifica col Nietzsche e si ammira Balzac come scrittore d’arte e non come creatore di figure romanzesche del tipo appendice. Ma il nesso reale pare certo culturalmente.
Il tipo del «superuomo» è Montecristo, liberato di quel particolare alone di «fatalismo» che è proprio del basso romanticismo e che áèñ ancor più calcato in Athos e in G. Balsamo. Montecristo portato nella politica è certo oltremodo pittoresco: la lotta contro i «nemici personali» del Montecristo, ecc.
Si può osservare come certi paesi siano rimasti provinciali e arretrati anche in questa sfera in confronto di altri; mentre già Sherlock Holmes è diventato anacronistico per molta Europa, in alcuni paesi si è ancora a Montecristo e a Fenimore Cooper (cfr «i selvaggi», «pizzo di ferro», ecc.).
In Montecristo vi sono due capitoli dove esplicitamente si disserta del «superuomo» d’appendice: quello intitolato «Ideologia», quando Montecristo si incontra col procuratore Villefort e quello che descrive la colazione presso il visconte di Morcerf al primo viaggio di Montecristo a Parigi. È da vedere se in altri romanzi del Dumas esistono spunti «ideologici» del genere.
Nei Tre moschettieri, Athos ha più dell’uomo fatale generico del basso romanticismo: in questo romanzo gli umori individualistici popolareschi sono piuttosto solleticati con l’attività avventurosa ed extralegale dei moschettieri come tali.
In Giuseppe Balsamo, la potenza dell’individuo è legata a forze oscure di magia e all’appoggio della massoneria europea, quindi l’esempio è meno suggestivo per il lettore popolaresco.
Nel Balzac le figure sono più concretamente artistiche, ma tuttavia rientrano nell’atmosfera del romanticismo popolaresco.
Nel carattere popolaresco del «superuomo» sono contenuti molti elementi teatrali, esteriori, da «primadonna» più che da superuomo; molto formalismo «soggettivo e oggettivo», ambizioni fanciullesche di essere il «primo della classe», ma specialmente di essere ritenuto e proclamato tale.
Per i rapporti tra il basso romanticismo e alcuni aspetti della vita moderna (atmosfera da Conte di Montecristo) è da leggere un articolo di Louis Gillet nella «Revue des deux mondes» del 15 dicembre 1932.
Questo tipo di «superuomo» ha la sua espressione nel teatro (specialmente francese, che continua per tanti rispetti la letteratura d’appendice quarantottesca): è da vedere il repertorio «classico» di Ruggero Ruggeri come Il marchese di Priola, L’artiglio, ecc. e molti lavori di Henry Bernstein.
Txt.: A. Dumas - Il Conte di Montecristo
Txt.: A.Dumas - I tre moschettieri
§15 Origine popolaresca del superuomo.
Origine popolaresca del superuomo. (Cfr pagina 23 bis). Su questo argomento è da vedere l’opera del Farinelli Il romanticismo nel mondo latino (3 voll., Bocca, Torino). Nel vol. 2°, un capitolo dove si parla del motivo dell’«uomo fatale» e del «genio incompreso».
Critica letteraria
§23 Cavalieri azzurri (o principi azzurri), calabroni e scarafaggi stercorari. Luigi Galleani, verso il 1910, ha compilato uno zibaldone farragginoso, intitolato Faccia a faccia col nemico (edito dalle «Cronache Sovversive», negli Stati Uniti, a Chicago o a Pittsburg) in cui ha raccolto da giornali disparati, senza metodo e critica, i resoconti dei processi di una serie di così detti libertari individualisti (Ravachol, Henry, ecc.). La compilazione è da prendere con le molle, ma qualche spunto curioso può esserne tratto.
2) Dalle dichiarazioni degli imputati risulta che uno dei motivi fondamentali delle azioni «individualistiche» era il «diritto al benessere» concepito come un diritto naturale (per i francesi s’intende, che occupano la maggior parte del libro). Da vari imputati è ripetuta la frase che «una orgia dei signori consuma ciò che basterebbe a mille famiglie operaie»; manca ogni accenno alla produzione e ai rapporti di produzione. La dichiarazione di Etievant, riportata nel testo scritto integrale, è tipica, perché in essa si cerca di costruire un ingenuo e puerile sistema giustificativo delle azioni «individualistiche».
Ma le stesse giustificazioni sono valide per tutti, per i gendarmi, per i giudici, per i giurati, per il carnefice: ogni individuo è chiuso in una rete deterministica di sensazioni, come un porco in una botte di ferro, e non può evaderne: l’individualista lancia la «marmitta», il gendarme arresta, il giudice condanna, il carnefice taglia la testa e nessuno può fare a meno di operare così. Non c’è via d’uscita, non può esserci punto di risoluzione.
È un libertarismo e individualismo che per giustificare moralmente se stesso, si nega in modo pietosamente comico. L’analisi della dichiarazione di Etievant mostra come l’ondata di azioni individualistiche che si abbatté sulla Francia in un certo periodo erano la conseguenza episodica dello sconcerto morale e intellettuale che corrose la società francese dal 71 fino al dreyfusismo, nel quale trovò uno sfogo collettivo.
4) Nella sua dichiarazione al processo di Lione del 1894 (da verificare) il principe Kropotkin annunzia con tono di sicurezza che sbalordisce come qualmente entro i dieci anni successivi ci sarebbe stato lo sconvolgimento finale.
§4 I giornali delle grandi capitali. Una serie di saggi sul giornalismo delle più importanti capitali degli Stati del mondo,
§12 Naturale, contro natura, artificiale, ecc. Cosa significa dire che una certa azione, un certo modo di vivere, un certo atteggiamento o costume sono «naturali» o che essi invece sono «contro natura»? Ognuno, nel suo intimo, crede di sapere esattamente cosa ciò significhi, ma se si domanda una risposta esplicita e motivata si vede che la cosa non è poi così facile come poteva sembrare.
Occorre intanto fissare che non si può parlare di «natura» come di alcunché di fisso, immutabile e oggettivo. Ci si accorge che quasi sempre «naturale» significa «giusto e normale» secondo la nostra attuale coscienza storica, ma i più non hanno coscienza di questa attualità determinata storicamente e ritengono il loro modo di pensare eterno e immutabile.
La «natura» dell’uomo è l’insieme dei rapporti sociali che determina una coscienza storicamente definita; questa coscienza solo può indicare ciò che è «naturale» o «contro natura». Inoltre: l’insieme dei rapporti sociali è contradditorio in ogni momento ed è in continuo svolgimento, sicché la «natura» dell’uomo non è qualcosa di omogeneo per tutti gli uomini in tutti i tempi.
Si sente dire spesso che una certa abitudine è diventata una «seconda natura»; ma la «prima natura» sarà stata proprio la «prima»? In questo modo di esprimersi del senso comune non è implicito l’accenno alla storicità della «natura umana»?
Constatato che, essendo contradditorio l’insieme dei rapporti sociali, non può non essere contradditoria la coscienza degli uomini, si pone il problema del come si manifesta tale contraddizione e del come possa essere progressivamente ottenuta l’unificazione: si manifesta nell’intero corpo sociale, con l’esistenza di coscienze storiche di gruppo (con l’esistenza di stratificazioni corrispondenti a diverse fasi dello sviluppo storico della civiltà e con antitesi nei gruppi che corrispondono a uno stesso livello storico) e si manifesta negli individui singoli come riflesso di una tale disgregazione «verticale e orizzontale».
Nei gruppi subalterni, per l’assenza di autonomia nell’iniziativa storica, la disgregazione è più grave e più forte la lotta per liberarsi dai principii imposti e non proposti nel conseguimento di una coscienza storica autonoma: i punti di riferimento in tale lotta sono disparati e uno di essi, quello appunto che consiste nella «naturalità», nel porre come esemplare la «natura» ottiene molta fortuna perché pare ovvio e semplice.
Come invece dovrebbe formarsi questa coscienza storica proposta autonomamente? Come ognuno dovrebbe scegliere e combinare gli elementi per la costituzione di una tale coscienza autonoma? Ogni elemento «imposto» sarà da ripudiarsi a priori? Sarà da ripudiare come imposto, ma non in se stesso, cioè occorrerà dargli una nuova forma che sia propria del gruppo dato. Che l’istruzione sia obbligatoria non significa infatti che sia da ripudiare e neppure che non possa essere giustificata, con nuovi argomenti, una nuova forma di obbligatorietà: occorre fare «libertà» di ciò che è «necessario», ma perciò occorre riconoscere una necessità «obbiettiva», cioè che sia obbiettiva precipuamente per il gruppo in parola.
Bisogna perciò riferirsi ai rapporti tecnici di produzione, a un determinato tipo di civiltà economica che per essere sviluppato domanda un determinato modo di vivere, determinate regole di condotta, un certo costume.
Occorre persuadersi che non solo è «oggettivo» e necessario un certo attrezzo, ma anche un certo modo di comportarsi, una certa educazione, un certo modo di convivenza ecc.; in questa oggettività e necessità storica (che peraltro non è ovvia, ma ha bisogno di chi la riconosca criticamente e se ne faccia sostenitore in modo completo e quasi «capillare») si può basare l’«universalità» del principio morale, anzi non è mai esistita altra universalità che questa oggettiva necessità della tecnica civile, anche se interpretata con ideologie trascendenti o trascendentali e presentata volta per volta nel modo più efficace storicamente perché si raggiungesse lo scopo voluto.
Una concezione come quella su esposta pare condurre a una forma di relativismo e quindi di scetticismo morale. Si osserva che altrettanto si può dire di tutte le concezioni fin qui elaborate dalla filosofia, la cui imperatività categorica e oggettiva è stata sempre passibile di essere ridotta, dalla «cattiva volontà», a forme di relativismo e di scetticismo.
L’argomento del pericolo di relativismo e scetticismo non è dunque valido. Il problema da porre è un altro: questa data concezione morale ha in sé i caratteri di una certa durata? oppure è mutevole ogni giorno o dà luogo, nello stesso gruppo, alla formulazione della teoria della doppia verità? Inoltre: sulla sua base può costituirsi una élite che guidi le moltitudini, le educhi e sia capace di essere «esemplare»? Risolti questi punti è giustificata e valida.
Ma ci sarà un periodo di rilassatezza, anzi di libertinaggio e di dissolvimento morale. Ciò è tutt’altro che escluso, ma non è neppure esso argomento valido. Periodi di dissoluzione morale si sono spesso verificati nella storia, pur mantenendo il suo predominio la stessa concezione morale generale e hanno avuto origine da cause reali e concrete e non dalle concezioni morali: essi molto spesso indicano che una concezione è invecchiata, si è disgregata, è diventata pura ipocrisia formalistica, ma tenta di mantenersi in auge coercitivamente, costringendo la società a una vita doppia; all’ipocrisia e alla doppiezza appunto reagiscono in forme esagerate i periodi di libertinaggio e di dissolvimento che annunziano quasi sempre che una nuova concezione si va formando.
Al concetto di «naturale» si contrappone quello di «artificiale», di «convenzionale». Ma cosa significa «artificiale» e «convenzionale» quando è riferito ai fenomeni di massa? Significa semplicemente «storico», acquisito attraverso lo svolgimento storico e inutilmente si cerca di dare un senso deteriore alla cosa, perché essa è penetrata anche nella coscienza comune con l’espressione di «seconda natura». Si potrà quindi parlare di artificio e di convenzionalità con riferimento a idiosincrasie personali, non a fenomeni di massa già in atto. Viaggiare in ferrovia è «artificiale» ma non certo come il darsi il belletto alla faccia.
Secondo gli accenni fatti nei paragrafi precedenti, come positività si pone il problema di chi dovrà decidere che una determinata condotta morale è la più conforme a un determinato stadio di sviluppo delle forze produttive. Certo non si può parlare di creare un «papa» speciale o un ufficio competente. Le forze dirigenti nasceranno per il fatto stesso che il modo di pensare sarà indirizzato in questo senso realistico e nasceranno dallo stesso urto dei pareri discordi, senza «convenzionalità» e «artificio» ma «naturalmente».
§17 La tendenza a diminuire l’avversario: è di per se stessa un documento della inferiorità di chi ne è posseduto. Si tende infatti a diminuire rabbiosamente l’avversario per poter credere di esserne sicuramente vittoriosi. In questa tendenza è perciò insito oscuramente un giudizio sulla propria incapacità e debolezza (che si vuol far coraggio), e si potrebbe anche riconoscervi un inizio di autocritica (che si vergogna di se stessa, che ha paura di manifestarsi esplicitamente e con coerenza sistematica).
Si crede nella «volontà di credere» come condizione della vittoria, ciò che non sarebbe sbagliato se non fosse concepito meccanicamente e non diventasse un autoinganno (quando contiene una indebita confusione tra massa e capi e abbassa la funzione del capo al livello del più arretrato e incondito gregario: al momento dell’azione il capo può cercare di infondere nei gregari la persuasione che l’avversario sarà certamente vinto, ma egli stesso deve farsi un giudizio esatto e calcolare tutte le possibilità, anche le più pessimistiche).
Un elemento di questa tendenza è di natura oppiacea: è infatti proprio dei deboli abbandonarsi alla fantasticheria, sognare ad occhi aperti che i propri desideri sono la realtà, che tutto si svolge secondo i desideri. Perciò si vede da una parte l’incapacità, la stupidaggine, la barbarie, la vigliaccheria ecc., dall’altra le più alte doti del carattere e dell’intelligenza: la lotta non può essere dubbia e già pare di tenere in pugno la vittoria. Ma la lotta rimane sognata e vinta in sogno.
Un altro aspetto di questa tendenza è quello di vedere le cose oleograficamente, nei momenti culminanti di alta epicità. Nella realtà, da dovunque si cominci ad operare, le difficoltà appaiono subito gravi perché non si era mai pensato concretamente ad esse; e siccome occorre sempre cominciare da piccole cose (per lo più le grandi cose sono un insieme di piccole cose) la «piccola cosa» viene a sdegno; è meglio continuare a sognare e rimandare l’azione al momento della «grande cosa». La funzione di sentinella è gravosa, noiosa, defatigante; perché «sprecare» così la personalità umana e non conservarla per la grande ora dell’eroismo? e così via.
Non si riflette che se l’avversario ti domina e tu lo diminuisci, riconosci di essere dominato da uno che consideri inferiore; ma allora come sarà riuscito a dominarti? Come mai ti ha vinto ed è stato superiore a te proprio in quell’attimo decisivo che doveva dare la misura della tua superiorità e della sua inferiorità? Certo ci sarà stata di mezzo la «coda del diavolo». Ebbene, impara ad avere la coda
Uno spunto letterario:
§19 Il medico cattolico e l’ammalato (moribondo) acattolico.
§25 Il male minore o il meno peggio (da appaiare con l’altra formula scriteriata del «tanto peggio tanto meglio»). Si potrebbe trattare in forma di apologo (ricordare il detto popolare che «peggio non è mai morto»). Il concetto di «male minore» o di «meno peggio» è dei più relativi.
Un male è sempre minore di uno susseguente maggiore e un pericolo è sempre minore di un altro susseguente possibile maggiore. Ogni male diventa minore in confronto di un altro che si prospetta maggiore e così all’infinito. La formula del male minore, del meno peggio, non è altro dunque che la forma che assume il processo di adattamento a un movimento storicamente regressivo, movimento di cui una forza audacemente efficiente guida lo svolgimento, mentre le forze antagonistiche (o meglio i capi di esse) sono decise a capitolare progressivamente, a piccole tappe e non di un solo colpo (ciò che avrebbe ben altro significato, per l’effetto psicologico condensato, e potrebbe far nascere una forza concorrente attiva a quella che passivamente si adatta alla «fatalità», o rafforzarla se già esiste).
Poiché è giusto il principio metodico che i paesi pìù avanzati (nel movimento progressivo o regressivo) sono l’immagine anticipata degli altri paesi dove lo stesso svolgimento è agli inizi, la comparazione è corretta in questo campo, per ciò che può servire (servirà però sempre dal punto di vista educativo).
§28 Angherie. Il termine è ancora impiegato in Sicilia per indicare certe prestazioni obbligatorie alle quali è tenuto il lavoratore agricolo nei suoi rapporti contrattuali col proprietario o gabellotto o subaffittuario da cui ha ottenuto una terra a così detta mezzadria (e che non è altro che un contratto di partecipazione o di semplice affitto con pagamento in natura, fissato nella metà, o anche più, del raccolto, oltre le prestazioni speciali o «angherie»). Il termine è ancora quello dei tempi feudali, da cui è derivato nel linguaggio comune il significato deteriore di «vessazione», che però non sembra abbia ancora in Sicilia, dove è
§29 Discussioni prolisse, spaccare il pelo in quattro, ecc. È atteggiamento da intellettuale quello di prendere a noia le discussioni troppo lunghe, che si sbriciolano analiticamente nei più minuti particolari e non vogliono finire se non quando tra i disputanti si è giunti a un accordo perfetto su tutto il piano di attrito o per lo meno le opinioni in contrasto si sono affrontate totalmente.
L’intellettuale professionale crede sufficiente un accordo sommario sui principii generali, sulle linee direttrici fondamentali, perché presuppone che il lavorio individuale di riflessione porterà necessariamente all’accordo sulle «minuzie»; perciò nelle discussioni tra intellettuali si procede spesso per rapidi accenni: si tasta, per così dire, la formazione culturale reciproca, il «linguaggio» reciproco, e fatta la constatazione che ci si trova su un terreno comune, con un comune linguaggio, con modi comuni di ragionare, si procede oltre speditamente.
Ma la quistione essenziale consiste appunto in ciò, che le discussioni non avvengono tra intellettuali professionali, ma anzi occorre creare preventivamente un terreno comune culturale, un comune linguaggio, modi comuni di ragionare tra persone che non sono intellettuali professionali, che non hanno ancora acquisito l’abito e la disciplina mentale necessari per connettere rapidamente concetti apparentemente disparati, come viceversa per analizzare rapidamente, scomporre, intuire, scoprire differenze essenziali tra concetti apparentemente simili.
È stato già accennato, in altro paragrafo, alla intima debolezza della formazione parlata della cultura e agli inconvenienti della conversazione o dialogo rispetto allo scritto: tuttavia quelle osservazioni, giuste in sé, devono essere integrate con queste su esposte, cioè con la coscienza della necessità, per diffondere organicamente una nuova forma culturale, della parola parlata, della discussione minuziosa e «pedantesca». Giusto contemperamento della parola parlata e di quella scritta. Tutto ciò si osservi nei rapporti tra intellettuali professionali e non intellettuali formati, che poi è il caso di ogni grado di scuola, ’elementare all’universitaria.
Il non tecnico del lavoro intellettuale, nel suo lavoro «personale» sui libri, intoppa in difficoltà che lo arrestano e spesso gli impediscono di andare oltre, perché egli è incapace di risolverle subito, ciò che invece è possibile nelle discussioni a voce immediatamente. Si osserva, a parte la malafede, come si dilunghino le discussioni per iscritto per questa ragione normale: che una incomprensione domanda dilucidazioni e nel corso della polemica si moltiplicano le difficoltà di capirsi e di doversi spiegare.
§30 Tempo.
§21. Oratoria, conversazione, cultura. Il Macaulay, nel suo saggio sugli Oratori attici (controllare la citazione), attribuisce la facilità di lasciarsi abbagliare da sofismi quasi puerili propria dei Greci anche più colti al predominio che nell’educazione e nella vita greca aveva il discorso vivo e parlato. L’abitudine della conversazione e dell’oratoria genera una certa facoltà di trovare con grande prontezza argomenti di una qualche apparenza brillante che chiudono momentaneamente la ’avversario e lasciano sbalordito l’ascoltatore.
È certo che il processo dell’incivilimento intellettuale si è svolto per un periodo lunghissimo specialmente nella forma oratoria e retorica, cioè con nullo o troppo scarso sussidio di scritti: la memoria delle nozioni udite esporre a viva voce era la base di ogni istruzione (e tale rimane ancora in alcuni paesi, per esempio in Abissinia). Una nuova tradizione comincia coll’Umanesimo, che introduce il «compito scritto» nelle scuole e nell’insegnamento: ma si può dire che già nel Medio Evo, con la scolastica, si critichi implicitamente la tradizione della pedagogia fondata sull’oratoria e si cerchi di dare alla facoltà mnemonica uno scheletro più saldo e permanente. Se si riflette, si può osservare che l’importanza data dalla scolastica allo studio della logica formale è di fatto una reazione contro la «faciloneria» dimostrativa dei vecchi metodi di cultura. Gli errori di logica formale sono specialmente comuni nell’argomentazione parlata.
L’arte della stampa ha poi rivoluzionato tutto il mondo culturale, dando alla memoria un sussidio di valore inestimabile e permettendo una estensione dell’attività educatrice inaudita. In questa ricerca è pertanto implicita l’altra, delle modificazioni qualitative oltre che quantitative (estensione di massa) apportate al modo di pensare dallo sviluppo tecnico e strumentale dell’organizzazione culturale.
Anche oggi la comunicazione parlata è un mezzo di diffusione ideologica che ha una rapidità, un’area d’azione e una simultaneità emotiva enormemente più vaste della comunicazione scritta (il teatro, il cinematografo e la radio, con la diffusione di altoparlanti nelle piazze, battono tutte le forme di comunicazione scritta, dal libro, alla rivista, al giornale, al giornale murale) ma in superficie, non in profondità. [...]
§5 L’influsso della cultura araba nella civiltà occidentale.
§21. Oratoria, conversazione, cultura. [...] Le Accademie e le Università come organizzazioni di cultura e mezzi per diffonderla. Nelle Università la lezione orale e i lavori di seminario e di gabinetto sperimentale, la funzione del grande professore e quella dell’assistente. La funzione dell’assistente professionale e quella degli «anziani di Santa Zita» della scuola di Basilio Puoti, di cui parla il De Sanctis, cioè la formazione nella stessa classe di assistenti «volontari», avvenuta per selezione spontanea dovuta agli stessi allievi che aiutano l’insegnante e proseguono le sue lezioni, insegnando praticamente a studiare.
Alcune delle precedenti osservazioni sono state suggerite dalla lettura del Saggio popolare di sociologia, che risente appunto di tutte le deficienze della conversazione, della faciloneria argomentativa dell’oratoria, della debole struttura della logica formale. Sarebbe curioso fare su questo libro una esemplificazione di tutti gli errori logici indicati dagli scolastici, ricordando la giustissima osservazione che anche i modi del pensare sono elementi acquisiti e non innati, il cui giusto impiego (dopo l’acquisizione) corrisponde a una qualifica professionale.
Non possederli, non accorgersi di non possederli, non porsi il problema di acquistarli attraverso un «tirocinio», equivale alla pretesa di costruire un’automobile sapendo impiegare e avendo a propria disposizione l’officina e gli attrezzi di un fabbro ferraio da villaggio. Lo studio della «vecchia logica formale» è ormai caduto in discredito e in parte a ragione.
Ma il problema di far fare il tirocinio della logica formale come controllo della faciloneria dimostrativa dell’oratoria si ripresenta non appena si pone il problema fondamentale di creare una nuova cultura su una base sociale nuova, che non ha tradizioni come la vecchia classe degli intellettuali.
Un «blocco intellettuale tradizionale» con la complessità e capillarità delle sue articolazioni riesce ad assimilare nello svolgimento organico di ogni singolo componente, l’elemento «tirocinio della logica» anche senza bisogno di un tirocinio distinto e individuato (così come i ragazzi di famiglie colte imparano a parlare «secondo grammatica» cioè imparano il tipo di lingua delle persone colte anche senza bisogno di particolari e faticosi studi grammaticali, a differenza dei ragazzi di famiglie dove si parla un dialetto o una lingua dialettizzata). Ma neanche ciò avviene senza difficoltà, attriti e perdite secche di energia.
Nota. Un’esperienza fatta per dimostrare quanto sia labile l’apprendimento fatto per via «oratoria»: dodici persone di un certo grado elevato di cultura ripetono una all’altra un fatto complesso e poi ognuna scrive ciò che ricorda del fatto sentito: le dodici versioni differiscono dalla narrazione originale (scritta per controllo) spesso in modo sbalorditivo. Questa esperienza ripetuta può servire a mostrare come occorra diffidare della memoria non educata con metodi appropriati.
§22 Sentimento religioso e intellettuali del secolo XIX (fino alla guerra mondiale)
§18 «Paritario e paritetico».
§24 Apologo del Cadì, del sacchetto smarrito al mercato, dei due Benedetti, dei cinque noccioli di oliva. Rifare la novellina delle Mille e una Notte.
§27 Max Nordau. Grande diffusione dei libri di Max Nordau in Italia, negli strati più colti del popolo e della piccola borghesia urbana. Le menzogne convenzionali della nostra civiltà e Degenerazione erano giunte (nel 1921‑1923) rispettivamente all’ottava e alla quinta edizione, nella pubblicazione regolare dei Fratelli Bocca di Torino; ma questi libri passarono nel dopoguerra nelle mani degli editori tipo Madella e Barion e furono lanciati dai venditori ambulanti a prezzi bassissimi in quantità molto notevole.
Hanno così contribuito a introdurre nell’ideologia popolare (senso comune) una certa serie di credenze e di «canoni critici» o pregiudizi che appaiono come la più squisita espressione dell’intellettualità raffinata e dell’alta cultura, così come esse vengono concepite dal popolo, per il quale Max Nordau è un grande pensatore e scienziato.
Txt.: M. Nordau - Le menzogne convenzionali della nostra civiltà