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Max Nordau

Le menzogne convenzionali della nostra civiltà



Indice

PREFAZIONE DEL TRADUTTORE        

PREFAZIONE DELL'AUTORE
alla prima edizione.      

MENE, TEQEL, UFARSIN.        

LA MENZOGNA RELIGIOSA            

LA MENZOGNA MONARCHICO-ARISTOCRATICA         

LA MENZOGNA POLITICA         

LA MENZOGNA ECONOMICA             

LA MENZOGNA MATRIMONIALE           

ALCUNE MENZOGNE MINORI              

CONCLUSIONE       

PREFAZIONE DEL TRADUTTORE

Il nome di Max Nordau non è ignoto all'Italia; due delle sue opere, Il vero paese dei miliardi e Parigi sotto la terza Repubblica, tradotte in italiano, furono accolte con favore.

Ma l'opera dell'insigne autore che levò maggior grido e di cui in pochi mesi si moltiplicarono le edizioni tanto in tedesco quanto in altri idiomi, è questa che io presento al lettore.

Straniero nell'arringo letterario ed alieno dalle lotte dei partiti politici, ebbi qualche riluttanza a pubblicare questa traduzione, che io aveva intrapresa sopratutto per amore delle lettere e per interessamento agli studi di sociologia; ma ora sono incoraggiato a stamparla sì dalle istanze di alcuni amici, come da un sentimento di dovere verso altri studiosi della stessa materia.

È vano ormai negare l'esistenza e l'importanza della questione sociale o scongiurarne con noncuranza boriosa i problemi poderosi e minaccievoli, – È un tema formidabile che s'impone a tutti. Se ne discute dal palazzo al tugurio, dagli uffici mercantili all'opificio dell'operaio, dal club della così detta high-life alla bettola del villaggio. Il re d'Italia, come il principe di Bismarck proclamarono la necessità di affrontarla ed il dovere di provvedere al miglioramento delle classi diseredate.

Questo libro fu ispirato innanzi tutto da un socialismo illuminato e dettato da un'anima forte e disdegnosa. È opera, invero, di critica e di demolizione, ma base ad un ordine di cose più equo e sicuro. Conviene sgombrare il terreno dai ruderi di un edificio che si sfascia e crolla come le rovinose torri dei castelli medioevali, perchè la nuova semenza possa svolgersi e germogliare rigogliosa ai raggi di un fervido sole. L'autore, con un raro coraggio e con braccio invitto, prende corpo a corpo le istituzioni sociali odierne, per esaminarle e combatterle, ne sviscera col coltello dell'anatomico le intime fibre e ne mette a nudo i vizi e le difformità morbose, calpestando sotto i piedi tutte le sciocchezze canonizzate, il convenzionalismo ufficiale e svenevole, strappa la maschera alle finte virtù, alle ipocrisie e ne svela e dimostra il lezzume e la menzogna.

Io però sono lungi dal dividere tutte le idee svolte in questo volume; anzi spesso fui tentato di omettere alcune pagine o qualche periodo che credeva poco conveniente alle nostre istituzioni o troppo crudi per chi professa sinceramente idee religiose, od almeno avrei voluto, con apposite note, accennare ai punti dove maggiormente dissento dall'autore. Ma con ciò mi sarei troppo dilungato dal modesto ufficio assunto di traduttore. Spetta alla critica il combattere e sottoporre a solenne giudizio le idee e gli intendimenti dell'autore e svelare al pubblico italiano quanto paresse erroneo, esagerato od ingiusto. Io mi limito a presentare il volume quale venne dettato.

Non mi dissimulo

«...che a molti sia sapor di forte agrume»;

ma risponderò con le stesse parole del divino poeta:

«...se la voce sarà molesta
«Nel primo gusto, vital nutrimento
«Lascierà poi quando sarà digesta»

Paradiso, XVII.

Milano; novembre 1884.

Cimone.

PREFAZIONE DELL'AUTORE
alla prima edizione.

Con questo libro intendo di esprimere fedelmente le opinioni della maggior parte degli uomini che sono a livello della coltura contemporanea. Senza dubbio, milioni di persone, fra i popoli civili, sono oggi arrivate, con riflessioni proprie, a fare alle attuali istituzioni politiche e sociali le critiche stesse, contenute in questo libro, e dividono con noi l'opinione, che coteste istituzioni sono irrazionali e contraddicenti ai concetti della scienza naturale, e sono quindi insostenibili. Nondimeno, avverrà, che certi lettori di questo libro straluneranno gli occhi e sbatteranno furiosamente le mani fino di sopra ai capelli; e lo faranno, con zelo maggiore, quelli specialmente che troveranno nel libro la rivelazione dei loro più reconditi pensieri. Ed è questo appunto il motivo che indusse l'autore a credere che fosse necessario, indispensabile, scrivere cotesto libro. La grande malattia contemporanea è la viltà. Non si ha l'ardimento di spiegare bandiera, entrare in lizza a difesa delle proprie convinzioni e mettere in armonia le azioni coi sentimenti. Si reputa prudenza il farsi vedere rispettosi delle tradizioni, quand'anche, intimamente, si sia in guerra con esse; non si vuol urtare alcuno, nè offendere dei pregiudizi, e ciò si chiama «rispettare le opinioni altrui», cioè di quegli altri, i quali non rispettano punto le nostre, ma le calunniano, anzi, le perseguitano e vorrebbero distruggerle insieme alle nostre persone. Questa assenza d'onestà e di coraggio virile non fa che prolungare la vita alla menzogna e ritardare il trionfo della verità. L'autore ha voluto almeno compiere un dovere verso sè stesso, verso la verità e verso coloro che pensano come lui. Ha esternato le sue opinioni nettamente e senza ambagi. E se così facessero anche i furbi, i diplomateggianti, gli opportunisti (è con tali nomi che si compiacciono chiamarsi gli ipocriti e i bugiardi), si avvedrebbero – con loro stupore – che in molti luoghi sono la maggioranza, che basterebbe si contassero per essere i più forti e che sarebbe a loro facile, ed anche più vantaggioso, l'essere onesti e logici, anzichè ambigui e astuti.

Estate 1883.

L'Autore

MENE, TEQEL, UFARSIN.

I.

Il genere umano, che al pari di Faust, è alla cerca di cognizioni e di felicità, non fu, forse, mai più di ora, lontano dal poter invocar il momento che passa per dirgli: «Fermati, sei tanto bello!».

La coltura e l'incivilimento si estendono sempre più e s'impossessano delle regioni finora più selvaggie del mondo. Là, dove dominarono fino a ieri le tenebre, oggi fiammeggia una luce splendidissima. Ogni giorno sorge una nuova mirabile scoperta, che rende ognor più abitabile la terra, più sopportabili le traversie della vita, più svariati e sentiti i soddisfacimenti all'uomo concessi. Eppure malgrado tutto questo miglioramento nelle condizioni del benessere, il genere umano è più che mai malcontento, turbato, inquieto.

Il mondo incivilito non è che un immenso ospedale, la cui atmosfera è piena di gemiti angosciosi, e sui letti del quale si contorce il male sotto tutte le sue forme. Se tu passi da paese a paese e vai dovunque interrogando  ad alta voce: «Sta qui la contentezza? Avete voi qui, quiete e felicità?», ti risponderanno dappertutto: «Fuggi! non e qui ciò che cerchi». Tendi l'orecchio al di là del confine, e da ogni dove il vento ti apporterà il chiasso osceno di diatribe e lotte, di rivolte e brutali repressioni.

In Germania il socialismo, come fosse un esercito di centomila topi, rosicchia le fondamenta delle istituzioni sociali e politiche, e neppure con le insidie lusinghiere, quali sono il socialismo di Stato, il socialismo della cattedra, il socialismo cristiano, e neanche col piccolo stato d'assedio e cogli arbitrî della polizia si riesce a distogliere, fosse pur per un minuto solo, questi infaticabili roditori dalla loro opera demolitrice, ch'essi compiono sotterra senza strepito, ma pur seminando dovunque l'inquietudine. Sotto il manto dell'antisemitismo – comodo pretesto per sfogare passioni che non si potrebbero manifestare col loro vero nome – si eccita nel povero e nell'ignorante l'odio contro il possidente, si ingenera nei possessori di medioevali diritti, cioè nelle così dette classi privilegiate, il timore di perdere, a profitto di rivali più abili, influenza e potere, e in mezzo alla gioventù un po' inconsiderata e idealista si sveglia una forma esagerata ed ingiustificabile di patriottismo, cioè l'impraticabile pretensione di volere, non solo la unità politica della patria germanica, ma benanco l'unità etnica delle popolazioni tedesche. Un segreto malessere, che fu in cento modi interpretato, ma neppure una volta veramente spiegato, spinge ogni mese diecine di migliaia di persone al di là dei mari, e questo fiume dell'emigrazione, che irrompe da ogni porto germanico e come onda su onda va sempre meravigliosamente ingrossando, produce tale una emorragia nel corpo della nazione, che nessun provvedimento amministrativo vale ad arrestare. I partiti politici si fanno tra loro una barbara guerra di distruzione e gli scopi pei quali combattono sono, da una parte il medioevo e la sovranità regia, dall'altra i tempi moderni e il diritto nei popoli di governarsi da sè.

Nell'Austria-Ungheria, dieci nazionalità si schierano in campi opposti e cercano di farsi a vicenda il maggior danno possibile. In ogni paese della Corona, si può dir quasi in ogni villaggio, la maggioranza calca il piede sul collo alla minoranza, e questa, quando le vien meno la forza di resistenza, si finge rassegnata: ma contro questa rassegnazione il cuore si ribella violentemente e allora si agogna la distruzione dell'impero come solo rimedio per redimersi da uno stato insoffribile.

In Russia domina tale una condizione di cose che si può quasi chiamare una ricaduta nella barbarie dei tempi più remoti. L'amministrazione ha perduto ogni senso del pubblico bene e l'impiegato non pensa già che affidati gli furono gli interessi del paese e del popolo, ma si preoccupa soltanto degli interessi suoi propri, favorendoli impudentemente colla rapina, col furto, con la corruzione e col mercimonio della giustizia. Nel nichilismo le classi côlte non vedono che l'arma di difesa contro questo intollerabile stato di cose ed arrischiano anche mille volte la vita, pur di produrre, con la dinamite o con la rivoltella, col pugnale o con la fiaccola, quel sanguinoso caos che, nel loro sogno febbrile, considerano come prima ed indispensabile condizione di una nuova costituzione sociale. Gli uomini di Stato, chiamati a trovare dei rimedi a questa terribile malattia, immaginano cure stranissime. Uno vede il rimedio nella emancipazione del popolo russo, dotandolo di istituzioni parlamentari; un altro non ripone fiducia che in un deliberato salto nel bagno fangoso di uno schietto sistema asiatico, e chiede l'abolizione di tutto ciò che sa di coltura europea, rinforzando specialmente il primitivo sacro dispotismo degli czar; un terzo ha fiducia in una diversione, e a tal uopo consiglia una bella e buona guerra contro la Germania, contro l'Austria, contro la Turchia e, se fosse necessario, contro tutto il mondo. L'oscura massa del popolo, intanto che i suoi dottori fanno questo lungo loro consulto, si diverte col saccheggio e coll'eccidio degli ebrei, getta uno sguardo furtivo sul vicino castello signorile e in pari tempo incendia la casa e la sinagoga dell'ebreo.

L'Inghilterra, se la si guarda superficialmente, pare abbia il suolo al sicuro e integro l'organamento dello Stato. Ma, se si tende l'orecchio a terra, odonsi i suoi tremiti e avvertonsi i sordi colpi dei giganti sotterranei che martellano la vôlta della loro prigione. E se si esaminano ben da vicino i suoi muri, vedonsi sotto l'intonaco e gli indoramenti le crepe pericolose che strisciano dal basso in alto. La. Chiesa, l'aristocrazia del sangue e quella dell'oro sono, è vero, fortemente organizzate e mutualmente si soccorrono, riconoscendo la solidarietà dei loro interessi. La borghesia si rassegna alle leggi codificate e non codificate, fingesi religiosa, affetta rispetto per un titolo, afferma che è decoroso solo ciò che  concorda coi diecimila delle classi superiori, e volgare ed innominabile ciò che ad essi è contrario. Ma l'operaio e il fittaiuolo vivono all'infuori di queste leggi: essi chiedono la loro partecipazione al capitale e al suolo, essi formano associazioni di liberi pensatori e di repubblicani: essi mostrano i pugni alla monarchia e all'aristocrazia. E coloro che non leggono l'avvenire solo nel listino della Borsa, ma puranco negli occhi dei proletari inglesi, s'accorgono che questi sono cupi e burrascosi.

Non occorre diffondersi sull'Irlanda. Là marcia rumorosamente la rivoluzione economica; della pubblica via è padrone l'assassino; e se il Governo inglese non riuscirà ad affogare il popolo in un mare di sangue, dovrà lasciare che il non abbiente si impadronisca per forza dei beni del possidente e dia in tal guisa un esempio che ben presto troverà imitatori nella stessa Inghilterra ed in molti altri paesi altresì.

In Italia una monarchia, che ha deboli radici, si regge a stento contro la crescente marea del repubblicanismo. I lavoranti delle pianure lombarde, tormentati dalle febbri e decimati dalla pellagra, e quelli delle paludi romane emigrano; e, se rimangono in patria nella miseria, discutono allora fra loro i titoli di possesso dei grandi possidenti, ai quali essi vendono, per 50 centesimi al giorno, il midollo delle loro ossa. L'irredentismo cerca offrire alla gioventù un nuovo ideale, in successione a quello già realizzato dell'unità d'Italia e che fu lo scopo sincero di una tradizionale ed entusiastica aspirazione. I mali segreti del popolo si tradiscono con alcuni brutti sintomi, che nel Mezzogiorno si chiamano camorra e maffia, in Toscana prendono la forma di fanatismo religioso e di cristianesimo comunistico primitivo.

La Francia, fino a pochi anni or sono, poteva, fra i popoli d'Europa, vantarsi di godere la migliore salute politica. Eppure, quante predisposizioni morbose anche qui, quanti germi di malattie future! Ad ogni angolo di via delle grandi città infiammati oratori popolari predicano la distribuzione dei beni e il petrolio. Il Quarto Stato si prepara, ora con chiasso, ora in silenzio, ad impadronirsi del Governo e scacciare dagli uffici e dagli ozi del Parlamento e delle amministrazioni pubbliche la borghesia, che dal 1789 si è fatta onnipotente. I vecchi partiti vedono venire il giorno dell'urto inevitabile e si preparono paurosamente con trame clericali, monarchiche e milito-dittatoriali.

Ora a che soffermarci sui piccoli paesi? Basta il solo nominare la Spagna per pensare allo spettacolo del carlismo e del cantonalismo. In Norvegia si vede tra Governo e rappresentanza popolare un conflitto che include la repubblica come il frutto include il seme. La Danimarca ha già il suo partito di contadini, e cronica la crisi ministeriale. Il Belgio ha il suo forte ultramontanismo. Tutti i paesi, i potenti come i deboli, hanno la loro particolare e grave magagna e credono di ottenere se non la guarigione, almeno un alleviamento, sacrificando, ogni anno e con ansia crescente, dei miliardi al militarismo, precisamente come i signori del medio evo speravano di guarire da pericolose malattie offrendo i loro averi alla Chiesa.

II.

L'antagonismo tra Governo e popolo e i rancori fra i partiti politici non sono che una forma della universale malattia dei nostri tempi, dappertutto eguale, quantunque porti nomi diversi secondo i luoghi: nichilismo, fenianismo, socialismo, antisemitismo, irredentismo. Ma un'altra forma, ancor più grave della malattia stessa, è la perturbazione e tristezza profonda che, indipendentemente da ogni nazionalità e da ogni partito, manifestasi nel cuore d'ogni uomo retto e che si trova all'alto livello della coltura contemporanea. E questo è il carattere saliente dell'epoca nostra, mentre il carattere dell'antichità classica era il piacere e del medio evo la religiosità.

Ognun prova uno stizzoso malessere, a cui, quando,  a fondo non lo si scruta, si attribuiscono mille cause prossime o casuali, ma non mai esatte; talchè ciascuno è condotto a criticare acerbamente, a biasimare con crudezza e condannare assolutamente ogni rivelazione della vita sociale. Questa impazienza, eccitata ed esacerbata da tutte le esteriori sensazioni, è chiamata dagli uni nervosità, da altri pessimismo, da altri ancora scetticismo. La molteplicità delle denominazioni non fa che coprire l'unità del male. E questo male è evidente in tutte le manifestazioni dello spirito umano.

La letteratura e l'arte, la filosofia, e le scienze positive hanno i riflessi del pallore morboso. Nelle belle lettere noi rinveniamo i primi sintomi del male fin dallo scorcio del secolo passato; le opere letterarie fra tutte le produzioni dello spirito umano sono quelle che, più d'ogni altra, rivelano le perturbazioni e i mutamenti nel consorzio umano. Quando le classi superiori si cullavano ancora in seno a malsani godimenti, e facevano della loro esistenza tutta un'orgia, e ingenui borghesi nulla vedevano al di là del loro naso, e vivevano apaticamente soddisfatti dall'andamento delle cose, fu allora che Gian Giacomo Rousseau innalzò il grido di soccorso per liberare la società da uno stato di cose che pur aveva ancora tante attrattive; e farneticava per un ritorno allo stato primitivo di natura, ch'egli certamente non presentava come una barbarie prototipo, ma in modo allegorico, come uno stato diverso e affatto opposto all'esistente. Il suo grido svegliò in tutti i suoi contemporanei un'eco, eguale ad un suono uscente da corde unisone. Il che provava che il sentimento di Rousseau preesisteva in tutti gli animi; e buontemponi e piccoli borghesi assopivansi deliziosamente nell'acceso desìo di foreste vergini e dell'esistenza in luoghi selvaggi, il che faceva un comico contrasto con la sollecitudine che usavano per godere le raffinatezze e i vizî della spregiata civiltà. Il romanticismo tedesco scende in linea diretta dall'aspirazione di Rousseau ad un ritorno allo stato di natura, ma è un Rousseau illogico, a cui manca il coraggio di percorrere tutto l'incominciato cammino. Il romanticismo non retrocede fino all'epoca preistorica, ma si arresta ad una delle prime tappe del medio evo, dipinto con colori smaglianti dal romanticismo e che assomiglia tanto poco al vero medio evo storico, quanto poco assomiglia al vero stato dell'uomo primitivo lo stato di natura di Rousseau. In entrambi i casi si tratta di una creazione arbitraria della fantasia, la quale costruisce con un unico metodo il suo mondo artificiale, che in tal modo viene a contraddire in tutte le sue parti alla verità; in entrambi i casi si tratta della manifestazione d'un medesimo sentimento fondamentale, sia esso conscio di sè, oppure istintivo, cioè di un'aspirazione a togliersi da un presente mal riuscito, e in pari tempo del segreto pensiero che un altro qualsiasi stato sarebbe sempre migliore dell'attuale. Se teniamo dietro alla genealogia di questa tendenza letteraria, noi arriveremo al romanticismo francese, che è figlio del tedesco, e al disprezzo byroniano del mondo, che altro non è che un ramo speciale della stessa famiglia. Dal ramo di Byron discendono, in Germania, i poeti del dolore universale, in Russia il Poschkin, in Francia il Musset e in Italia il Leopardi. Il tratto ch'essi hanno comune nella loro morale fisonomia è il tragico disgusto della realtà della vita, e l'uno l'esprime con un volubile lamento, un altro con lo scherno amaro e un terzo con un ardente desìo di cose nuove e migliori.

E la letteratura della stessa nostra generazione, le produzioni poetiche degli ultimi due decenni non sono forse un tentativo di sfuggire al presente e alle sue opposizioni? Il pubblico chiede romanzi e poesie che possibilmente gli parlino di paesi e di tempi lontani, divora le descrizioni di Gustavo Freitag e di Felice Dahn, sui costumi della Germania antica, le canzoni medioevali di Scheffel e de' suoi scimieggiatori, i romanzi egizi, corinzi e romani di Ebers e di Eckstein, e, se talvolta concede i suoi favori ad un libro che intende trattare un tema moderno, bisogna che questo libro si raccomandi con un falso idealismo e con un sentimentalismo malsano, bisogna ch'esso si sforzi di nascondere sotto vesti moderne degli uomini e, dietro la nostra società, degli avvenimenti come noi li desideriamo, ma come nessuno mai li ha visti.

La letteratura inglese ha già da molto tempo, smesso d'essere uno specchio della realtà: quando non descrive, con senile compiacimento, dei delitti e delle mostruosita d'ogni fatta, come omicidî, rapine, furti, seduzioni, imprigionamenti, essa offre ai ben pensanti un mondo artefatto, ove i gentiluomini sono sempre belli, alteri, saggi, generosi e ricchi, i semplici borghesi timorati di Dio e devoti ai loro superiori, i virtuosi sono benignamente encomiati dai conti e dai baroni, i malvagi vengono incarcerati dalla polizia; insomma vi presenta un mondo bonariamente idealizzato, un mondo che, sotto lo sguardo della realtà, scricchiola sulle sue giunture e che sostanzialmente è già morto e putrefatto.

La letteratura francese non sembra, a prima vista, conforme a questo quadro; ma solo a prima vista. Sì, è vero; essa, con deliberata esclusione, non guarda che al presente e alla realtà, e interdice a sè medesima, tanto nel passato quanto nel futuro, ogni desiderio, ogni bisogno di un diverso e migliore idealismo. Rende omaggio ad un principio d'arte che essa chiama naturalismo. Ma scandagliamo un po' più addentro le cose. Il naturalismo è egli forse una prova che si è soddisfatti di ciò che esiste, ed è egli perciò un'antitesi all'idealismo pseudostorico e fantastico che io pure considero come una forte manifestazione di schifo verso la realtà e di desiderio verso un mutamento dell'attualità? Quali sono gli argomenti che il naturalismo tratta con una preferenza che imprudentemente gli fu rimproverata? Ci descrive egli forse la felicità? Ci traduce egli forse le liete pagine belle della terrestre esistenza? No. Egli si ferma sui più laidi e sconsolanti fenomeni della civiltà e innanzi tutto su quelli delle grandi città: egli s'affanna a trovare dovunque la putredine, le sofferenze, e le frivolezze d'uomini moralmente ammalati e d'una società agonizzante, e alla fine di ogni libro, che appartiene a questa scuola, una voce melanconica sembra mormorare questo monotono ritornello: «Tu lo vedi, o travagliato lettore: questa vita, che con tanta inesorabile esattezza qui è descritta, non vale davvero la pena che la si viva». Questa è la tesi sottintesa e dimostrata da ogni creazione della letteratura naturalista; essa è il punto di partenza e la moralità finale di cotesti libri, e non differisce dal falso idealismo, sul quale adergesi la letteratura tedesca e la inglese. Le due scuole, invece di farsi opposizione vanno d'accordo alla stessa mèta. Il naturalismo pone la premessa e l'idealismo ne tira la conseguenza. Quello dice: «La realtà è insopportabile», e questo soggiunge: «Perciò allontaniamola, procuriamo di dimenticarla per un po' e di immaginarci cose consolanti e ideali, con cui io illuderò i lettori». Lo scrittore, che con versi fantasiosi descrive la gaia vita di gente avventurosa, di vaghe donzelle dal cuore innamorato e dalle mani infiorate di gigli, e canta i superbi castelli sui monti, al crepuscolo, e vien chiamato dal commosso borghese il nobile poeta, altro infine non fa che completare l'antitesi coll'altro scrittore, che con la penna fruga, come fosse una vanga, nella melma: eppure quello stesso borghese non sa trovare per questo ultimo scrittore sufficienti espressioni di disprezzo.

Mi soffermai un po' a lungo sulla letteratura, perchè essa è l'aspetto più variiforme e più completo, sotto il quale esternasi la vita intellettuale d'un'epoca. Ma anche tutte le altre manifestazioni del pensiero umano dei nostri tempi presentano i medesimi sintomi, che complessivamente dànno la fisonomia della letteratura contemporanea. Sempre e dovunque inquietudine, malumore, esacerbazione, che negli uni si arrestano al dolore e allo sdegno verso l'intollerabile realtà e negli altri si determinano nel bisogno di un cambiamento nelle condizioni della vita.

Nelle epoche anteriori le arti belle rappresentavano le immagini del bello: il pittore e lo scultore, riproducevano il lato gentile che il mondo e la vita offrivano. Quando Fidia scolpisce il suo Giove, quando Raffaello dipinge la sua Madonna, si vede che essi obbediscono all'ammirazione pura della forma umana. Questi artisti sentonsi lietamente soddisfatti nelle produzioni della natura, e là, dove il loro squisito sentimento scopre una lieve imperfezione, s'affrettano a emendare con giudizioso discernimento, cioè con una mano che tempera e idealizza. L'arte odierna non conosce nè questa purezza di ammirazione, nè queste liete soddisfazioni: essa contempla la natura con ciglia aggrottate e con occhio malevolo, esercitato specialmente a scoprire difetti e laidezze: col pretesto del verismo, fa sosta su tutte le imperfezioni che si manifestano, e che essa poi involontariamente esagera, additandole ed accentuandole. Dico col pretesto del verismo, perchè noi non possediamo mezzi sufficienti per riprodurre la verità. L'artista non può che riprodurre gli oggetti come egli, personalmente, li vede e li sente. Quando Courbet dipinge il suo sconcio scarpellino, egli è tanto soggettivo e in aperto contrasto con la verità assoluta, quanto lo è Leonardo nella sua Monna Lisa, la di cui naturalezza tanto entusiasma il Vasari. E quando l'arte moderna deve pur riconoscere il bello e, riproducendolo, è costretta a rendergli omaggio, si studia di gettargli sopra qualche macchia, asserendo, di contrabbando, che la forma bella e pura serve a scopi volgari, e così la profana. L'eccellenza del nudo femmineo viene tradita, dando ad esso quel carattere di sensualità e di dissolutezza, che non manca mai nei quadri contemporanei e che su uno spettatore sensitivo produce lo stesso effetto, come se gli si dicesse: «Ah! se il mondo sapesse tutto!». Frase susurrata all'orecchio d'un vicino da una pettegola, che aveva sentito lodare le virtù di una nota signora. Nelle rivelazioni della natura l'arte antica  prova delle appaganti soddisfazioni e la moderna un amaro disgusto: quella è un ditirambo perenne, questa una critica senza fine e non sempre giusta. Il concetto fondamentale che risulta dalle due scuole è che, in un caso, noi viviamo nel più bello dei mondi; nell'altro caso, nel più brutto possibile.

Nella filosofia, tanto in quella metodica che si insegna dall'alto delle cattedre delle università, quanto nell'altra che viene studiata da uomini, i quali, pur non essendo professori, si preoccupano degli alti problemi dello scibile umano, nella filosofia, diciamo, la corrente alla moda è il pessimismo. Schopenhauer è Dio, e Hartmann è il suo profeta. Il positivismo di Augusto Comte non fa progressi come dottrina, nè si propaga come sètta, perchè gli adepti si sono accorti che il suo metodo è troppo stretto e il suo scopo non abbastanza elevato. I filosofi francesi studiano soltanto la psicologia o, più esattamente, la psico-fisiologia. La filosofia inglese non può quasi più essere chiamata metafisica, perchè essa ha rinunciato ad occuparsi del suo tema più eccelso, cioè della ricerca di una soddisfacente nozione del cosmo, e non si dedica che a questioni pratiche di secondo ordine. John Stuart Mill si limitò a trattare la logica, la dottrina che dà la forma al pensiero; Herbert Spencer rappresenta la scienza sociale, cioè le questioni intellettuali e morali che emergono dal consorzio umano; Bain è cultore della dottrina dell'educazione, cioè applica all'etica la psicologia. Solo la Germania fa ancora della metafisica vivente, ma è metafisica malinconica, desolante. Il buon dottor Pangloss è morto e non ha lasciato eredi. L'hegelianismo, che trovava la ragion di essere d'ogni cosa e voleva persuadere sè stesso che tutto ciò che esiste è una necessità condizionata e logica, dopo aver avuto un povero ma tranquillo periodo di soddisfazioni, si è rifugiato nel ripostiglio dei sistemi logori, mentre il mondo viene conquistato da quella filosofia la quale ha il tragico suo apogeo nell'idea che questo insoffribile cosmo deve tornare nel nulla perchè ogni essere ha tendenza a non essere.

Anche nel campo economico si manifesta la malattia dei nostri tempi, in forma diversa, ma non meno chiara. Invano si cerca nel ricco il tranquillo sentimento della sicurezza e le beatitudini del possesso, e invano nel povero l'imperturbata rassegnazione a quella umile sorte, che per quanto è umanamente prevedibile, non può mutarsi. Quello è perseguitato dall'indefinito presentimento di un pericolo imminente, e negli uomini e in tutto ciò che lo circonda intuisce un'arcana, ma reale minaccia, e tutti i suoi averi gli appaiono come un feudo che da un momento all'altro gli può essere bruscamente richiesto. Il povero, invece, è stimolato dall'invidia e dall'avidità della roba altrui; non sa trovare, nè in sè stesso, nè nella ragione del mondo, dei motivi che proprio lo convincano ch'ei debba restar povero e privo dei godimenti della vita, e porge perciò ascolto con rabbiosa impazienza a quell'intima voce che lo persuade aver egli diritto ad una parte proporzionale dei beni quanto il possidente. Il ricco paventa un cambiamento nello stato economico, e il povero l'agogna e in esso spera; in tutti è scossa la fede che le cose possano durare come sono, e ciò sentono eziandio coloro che non osano confessare a sè stessi i loro dubbi e i loro timori.

Cosa s'impara dunque dalla politica interna di tutti i paesi civili, niuno eccettuato? Più che mai i contrasti sono dappertutto più aspri, le lotte più esacerbate. I difensori, timidi dell'attuale ordine di cose a poco a poco muoiono e non tarderà molto che più non ne esisteranno. E indarno si cercherà un quietista politico che osi fare proseliti all'idea che invulnerabili sono le istituzioni esistenti e che devono essere conservate tali quali sono. Non ci sono più conservatori. Questa denominazione, se la si vuol prendere nel suo rigoroso significato, non può più stare nel vocabolario politico. È conservatore colui che vuol conservare ciò che esiste; e nessuno si arresta a questo còmpito. Il limitarsi alla difesa ha cessato d'essere un metodo di lotta politica; oggi si fa uso solo dell'offesa. Non c'è più che reazione o riforma, cioè o rivoluzione all'indietro o rivoluzione in avanti. Quella vuole il ritorno al passato; questa affretta l'avvenire. Il presente è tanto odiato dal reazionario, quanto dal liberale.

La irrequietezza generale e lo sbriciolamento interno hanno svariate e potenti influenze sulla vita dell'individuo. In mille guise manifestasi spaventevole la paura in chi contempla ed apprende la realtà delle cose. Gli organi della sensazione e della percezione vengono assiduamente guastati, perchè si fa uso di veleni eccitanti o narcotici affine di modificare il sistema nervoso, e con ciò si palesa un'istintiva contrarietà ai fenomeni e alle circostanze della vita reale. Non vogliamo scrutare addentro il vecchio problema della cosa in sè stessa, ma è però certo che noi avvertiamo direttamente i mutamenti che avvengono nel nostro proprio organismo e non quelli che accadono all'infuori di noi. Nondimeno i mutamenti in noi sono probabilmente causati da oggetti esteriori. Ad ogni modo, otterremo dalle nostre osservazioni un'immagine assai più esatta degli oggetti, quando esse non subiscano che l'influenza del nostro organismo funzionante normalmente, ancorchè difettoso. Viceversa, le osservazioni nostre saranno assai meno veridiche quando alla inevitabile sorgente di difetti si aggiunga un volontario perturbamento nell'attività del sistema nervoso, mediante l'uso di sostanze venefiche. Noi sentiremo continuo il bisogno di tenere lungi di noi le impressioni di quanto ci attornia, o di modificarle, rendendole meno sgradevoli, sol quando queste impressioni producano un malessere continuo, sia esso conscio od inconscio. In ciò sta la ragione per la quale la statistica mostra dappertutto un aumento costante nel consumo di bevande alcooliche e di tabacco, e si diffonde in modo inquietante l'uso dell'oppio e della morfina; le stesse classi colte le vediamo gettarsi avidamente su ogni farmaco eccitante o narcotico che la scienza loro offre, e così accanto ai bevitori di alcool e di morfina abbiamo gli abituati a prendere il cloralio, il cloroformio e l'étere. Il consorzio civile ripete, in grande proporzione, l'atto di colui che crede di affogare i suoi dolori in una bottiglia. Si vuole non vedere la realtà e si domanda la necessaria allucinazione alle sostanze che la possono dare. Come naturale conseguenza di questa istintiva inclinazione di ingannare sè stessi e di fuggire momentaneamente la realtà, c'è la fuga definitiva: il suicidio, infatti, è dovunque in aumento e segnatamente nei paesi più civili. Esso progredisce in ragione dell'accrescersi del consumo di bevande alcooliche e di sostanze narcotiche. Una sorda esasperazione, conscia talora di sè stessa e alle volte non sentita, che sotto forma di un malcontento irrequieto e indefinito mantiene ognuno in una eccitabilità rabbiosa e dà alla moderna lotta per l'esistenza forme selvaggie e diaboliche, sconosciute alle epoche anteriori. Questa lotta non è più il combattimento di avversari cortesi, che si salutano prima di pugnare, come fecero francesi ed inglesi prima della battaglia di Fontenay, ma è la mischia brutale di scannatori, ebbri di vino e di sangue, che bestialmente offendono e non sperano, nè dànno quartiere.

Si deplora che diventino rari i caratteri. Cos'è un carattere? È un individuo che, con sicura coscienza, osserva alcune massime semplici e morali, ch'egli riconosce buone, e che diventano la guida di tutta la propria vita. Lo scetticismo non permette lo sviluppo di un carattere, perchè non ha fede alcuna in precetti generali. Quando la stella polare si spegnesse e il polo elettrico scomparisse, non avrebbe più utilità l'ago magnetico, perchè più non esisterebbe il punto fisso ch'esso dovrebbe indicare. Lo scetticismo, che è pure una malattia moderna, non è infine che una delle forme del disgusto che si prova della realtà. Infatti, non si arriva all'idea che tutto sia vanità e che nessuna cosa meriti un incitamento, uno sforzo, una lotta fra il dovere ed il capriccio, se non quando si ritiene che tutto ciò che esiste sia miseramente difettoso e manchevole, e che altro non ci sia da apprendere che il disprezzarlo.

Dunque, letteratura ed arte, filosofia, politica ed economia politica, tutte le manifestazioni della vita sociale ed individuale, lasciano scorgere un unico e comune fondamento: il disgusto amaro della realtà. Da tutte queste varie manifestazioni dello spirito umano sentiamo sorgere un solo doloroso grido, che dovremmo, per dargli una forma popolare, tradurre così: Liberiamoci da tutta questa realtà!

III.

Qui s'affaccia una questione.

Queste apparenze sono proprie soltanto dell'epoca nostra? Non manifestaronsi esse anche in epoche anteriori? Io sono ben lungi dall'essere – lo dirò con la frase del poeta latino – «un lodatore del tempo passato»; Non credo nell'antica età dell'oro. Gli uomini indubbiamente hanno sempre sofferto, e sempre furono scontenti e infelici. Il pessimismo ha un fondamento fisiologico, e un fardello di dolori è inerente alla natura del nostro organismo. Noi non ci accorgiamo del nostro Io se non quando soffriamo; e non abbiamo coscienza di esso che mediante la sensazione della sua limitatezza, cioè quando si verifica un più o meno brusco contatto con cose infuori del nostro stesso Io. Così, ad esempio in una stanza buia noi avvertiamo le pareti sol quando urtiamo contro di esse con la testa o coi piedi. L'uomo dunque acquista la coscienza di sè stesso solo con le sensazioni del dolore; e la disarmonia fra l'oggetto e il soggetto si rende sensibile per mezzo di un insistente malessere. Pero, se è vero che l'umanità abbia sempre sofferto e si sia sempre lagnata, se è vero che in tutti i tempi essa abbia provato il doloroso contrasto fra il desiderio ed il possesso, fra l'ideale e la realtà, tuttavia è parimenti vero che il disagio umano non fu mai, come ora, tanto profondo e diffuso, nè mai si presentò con carattere tanto radicale.

Tutta la storia conosciuta ci parla di lotte di partiti e di rivoluzioni: guardata superficialmente, pare spesso che soltanto l'egoistica ambizione di qualche capo sia la causa unica dei commovimenti, e che le moltitudini, le quali vi portano dentro tutto il loro peso, siano – secondo questo limitato concetto storico – intimamente estranee ad essi. Io non credo che sia esatto l'identificare questi movimenti popolari coi loro capi. I partiti si formano e si organizzano attorno ad un motto, che una parte del popolo crede sia l'espressione delle sue vaghe aspirazioni; e se solitamente l'ambizione egoistica sfrutta le passioni semplici del popolo, come un industriale sfrutta la forza dell'acqua, del vapore o del vento, tuttavia non potrà essa raggiungere lo scopo se almeno non finge di aspirare alla realizzazione di desideri magnanimi e universali. Le lotte dei partiti sono pel popolo ciò che pel facchino è il far passare da una spalla all'altra il suo pesante fardello, senza avvedersi che questo non è che un illusorio alleggerimento. E le rivoluzioni sono le burrasche colle quali si cerca di accordare gli ideali del popolo con la realtà esistente; esse non sono mai un capriccio, ma sono intieramente l'effetto di una legge fisica, precisamente come gli uragani, i quali ristabiliscono l'equilibrio fra le diverse densità dell'aria, causate da temperature differenti, oppure come le cateratte, le quali riducono due corsi d'acqua ad un medesimo livello. Tutte le volte che c'è troppa distanza fra le aspirazioni popolari e la realtà esistente, scoppia una rivoluzione come un bisogno della natura; essa potrà essere, dai poteri organizzati, artificiosamente infrenata per un po', ma non per molto. Le rivoluzioni sono nella storia le sole testimonianze che ci permettano di determinare con sicurezza, a seconda della loro potenza, della loro estensione e delle loro mire, il grado e lo scopo del relativo malcontento degli uomini.

Orbene: tutte le rivoluzioni, che la storia ci mostra fino agli ultimi tempi, ebbero un'estensione relativamente piccola; si diressero contro un ristretto numero di condizioni ritenute come insoffribili. L'essenza della politica interna dell'antica Roma repubblicana è la lotta dei plebei contro i patrizi. Le aspirazioni della plebe, che si personificavano in Catilina e nei Gracchi, quali erano? Si voleva una congrua parte del comune possesso e la facoltà di partecipare alle decisioni negli affari di Stato. Nelle comunità antiche il cittadino aveva straordinariamente sviluppato il sentimento della compattezza dello Stato e dei conseguenti doveri e diritti. Lasciato unicamente a sè stesso, l'individuo si sentiva null'altro che un compassionevole frammento; quando invece si vide in un posto acconcio e parte integrante dello Stato, si sentì un essere intero e completo. Il plebeo Romano si considerò come un minorenne d'una ricca casa ingiustamente diseredato e combattè per avere il suo posto al desco paterno e il suo voto nel consiglio di famiglia. Non gli passò però mai per la mente di ribellarsi allo Stato e alla società. Anzi, orgoglioso di appartenervi offriva loro lietamente la propria sottomissione. Nel patrizio apprezzava la sua nascita egregia e non gli invidiava nè le ereditarie onorificenze nei tempi degli Dei nè i distintivi dell'alto grado. Soddisfatto, egli occupò il suo gradino nella scala sociale ed economica; gradino assegnatogli dall'immutabile caso della nascita; e se egli contempla con ossequio, al disopra di lui, famiglie nobili e senatoriali, si compiace da parte sua di scorgere sotto di sè la folla degli schiavi e dei liberti.

Più profondo fu il malcontento di quegli schiavi che nei confusi tempi di transizione dalla repubblica all'impero si ribellarono più volte e protestarono contro l'esistente ordine sociale, sacrificando la loro vita, in lotte tragicamente terribili. In queste turbe anonime, che costituiscono la base viva della sorprendente figura monumentale di Spartaco, noi scorgiamo per la prima volta il dubbio ardente, che divora e distrugge; il dubbio che domanda se, tutto ciò che è, è come dovrebbe essere; quel dubbio che mai non conobbero quegli egizi oppressi, che noi vediamo in lunghe file, mute e affrante, negli affreschi dei tempî e dei sepolcri; quel dubbio, il cui tremendo contagio non toccò ancora i duecento milioni di pazienti indiani, che oggi sopportano in silenzio il giogo degli inglesi, come da migliaia di anni sopportano quello del loro ordinamento di caste. Ma neppure i partigiani di Spartaco erano radicali e pessimisti nel senso moderno. Essi se la presero con la sferza, non con chi la teneva in mano: la loro collera non era rivolta contro l'ordine sociale, ma soltanto contro il posto loro assegnato. Capirono essi che la ragione non può giustificare che uomini vengano pensatamente considerati come bestie, come cose morte? Neppur per sogno. L'istituzione della schiavitù essi l'accettavano, la tolleravano; soltanto non volevano essi essere più schiavi. Il loro ideale non era la distruzione di un irragionevole istituzione sociale, ma soltanto un mutamento di posto. Erano rivoluzionari di facile contentare: bastava una vittoria par mansuefare la loro disperazione, e i ribelli diventavano allora altrettante colonne dello società.

Nei grandi movimenti del medio evo troviamo un significato più profondamente razionale. La iconoclastia, le crociate, il fanatismo dei valdesi e degli albigesi rivelano un grande rivolgimento negli animi. Perchè il segreto incanto del leggendario paese dove sorge il sole potesse esercitare il suo seducente potere su anime rozze, bisognava che queste fossero eccitate da profonda cupidità di mutare la condizione abituale delle cose. Le migliaia e migliaia di individui che dall'Europa si versano in Palestina, benchè ciò dovesse apparir loro come una misteriosa catastrofe avevano a guida non tanto lo stendardo della croce, quanto una fulgida nube che li precedeva e che essi scorgevano coll'occhio dell'anima.

Questa guida era l'ideale. Non fu il gaudente che abbandonò i domestici agi per pellegrinare al Santo Sepolcro, ma bensì colui che cercava e bramava un cambiamento, che voleva uno stato migliore. Gli uomini che per la loro fede si facevano uccidere, massacrare, che per un semplice dubbio salivano il rogo, oppure sterminavano intere popolazioni, non erano certamente persone che godevano soddisfatti i loro tempi. Colui che tanto febbrilmente trepida alla salvezza della sua anima, cioè sulle condizioni necessarie alla sua felicità celeste, colui che si accaparra la vita futura con tanti sacrifici, travagli e patimenti, non deve certamente trarre sufficienti soddisfazioni da questa vita della carne. L'umanità medioevale era dunque indubbiamente non contenta e non tranquilla; e, se si trattenne dal ribellarsi violentemente contro la realtà, fu perchè trovava nella sua fede un conforto ed una mallevadoria, che facevano ad essa sopportare i mali terreni senza difficoltà e quasi con animo lieto. Chi con fiducia attende una felicità prossima, si rassegna a passeggeri disagi e quasi non li sente.

L'umanità continuò a svolgersi e il conforto della fede cominciò ad essere negato. Venne il momento in cui la religione non fu più la valvola efficace di sicurezza contro il riottoso malumore dei malcontenti. Pericoloso fu questo momento. Poco mancò che lo scetticismo e il pessimismo dell'epoca nostra si rivelassero alla mente dei popoli quattro secoli or sono. Ma non senza resistenza gli uomini si lasciarono rapire le loro illusioni; si sforzarono anzi grandemente a conservarle. E questa lotta per ritenere un ideale confortante ebbe dalla storia il nome di movimento della riforma. Essa indugiò di alcuni secoli il risveglio da un sonnecchiare che era dolce. Cionondimeno sin d'allora si appalesarono alcuni sintomi che pronosticavano il sorgere di un pessimismo, che non sarebbe stato più domato dalla fede in una vita futura: La guerra tedesca dei contadini fu il fenomeno prodotto da uomini in balìa alla disperazione e pei quali il paradiso non era più un compenso sufficiente alla loro terrena miseria. Essi volevano con mano violenta impossessarsi quaggiù d'un acconto sulla somma delle gioie celesti.

Per trovare però un popolo che abbia tali predisposizioni d'animo da renderlo intollerante d'ogni cosa esistente e da indurlo a voler tutto distruggere a costo dei più grandi sacrifici, bisogna arrivare fino alla rivoluzione francese. Per la prima volta noi vediamo allora nella storia dell'umanità un grande movimento popolare, che non cozza più contro un particolare oggetto, ma contro l'insieme delle istituzioni esistenti. Qui i poveri non si appagano di essere ammessi al possesso dell'agro pubblico come i plebei romani; i diseredati, le genti sotto tutela non si accontentano di battersi per conquistare il diritto alla dignità umana e all'emancipazione come gli schiavi di Spartaco; qui non son più alcune classi, desiderose soltanto di assicurare a sè stesse dei diritti limitati; come volevano i borghesi nei motti cittadineschi del medio evo; non è qui il caso di visionari avidi di conforti, quantunque decisi a conservare quelle illusioni che a loro sembrino le più belle, come facevano i valdesi, gli albigesi, gli ugonotti e i soldati della riforma. Queste cose, è vero, si rinvengono pure nella grande rivoluzione, ma vi si rinviene anche ben altro. Essa è contemporaneamente materiale e intellettuale: nega la fede e mette in forse la tradizionale forma della proprietà individuale: procura di ricostruire lo Stato e la società su nuova base secondo un nuovo piano: vuole procacciare al corpo e all'anima condizioni di vita più aggradevoli. Essa è una esplosione che colpisce con eguale impeto non solo alcune parti del quadro della società, ma tutte, e tutte le spezza.

Certamente, per volgersi in modo tanto selvaggio contro tutte le istituzioni e volerle spazzar via affatto, bisogna averle riconosciute profondamente assurde e avere immensamente sofferto sotto esse. Eppure noi sorprendiamo nella grande rivoluzione un sintomo, il quale non ci permette di credere che lo stato degli animi da cui è uscita la rivoluzione, fosse così tormentoso come lo è lo stato odierno: questo sintomo è un ottimismo inesauribile. Gli uomini, infatti, della grande rivoluzione non erano menomamente tòcchi dalla malattia del pessimismo; esuberanti erano in essi la speranza e la sicurezza, e l'indiscutibile convinzione avevano di possedere l'infallibile rimedio per la felicità assoluta. Con questa convinzione in petto, non era possibile che essi non si sentissero contenti. Spira da quegli uomini una cert'aria d'alba e di primavera che fa dire ad Ulhand nel suo allegro canto:

Ogni giorno il mondo – più bello si fa;
Tutto, tutto ormai – si tramuterà.

Questa ingenuità giovanile e quasi infantile di speranze e di illusioni è forse il fenomeno più caratteristico della grande rivoluzione.

Dal rapido pellegrinaggio che abbiamo fatto attraverso i secoli, noi apprendiamo che lo stato sociale di una volta non si può paragonare coll'attuale. Nella storia universale un solo momento c'è che si possa equiparare al presente, ed è l'epoca della lotta che atterrò il mondo antico. È questa una rassomiglianza che fu più volte notata. Il vecchio concetto della vita si era spento e non se n'era trovato ancora uno nuovo. Non si prestava più fede a ciò che predicavano i sacerdoti e insegnava la scuola: i precetti sui quali riposavano i costumi erano decrepiti e perciò disadatti, illogici e insulsi. Gli uomini erano invasi da cotanta stanchezza, sconforto e disperazione che la loro vita era diventata insopportabile: nessun ristoro trovavano nè in sè, nè fuori di sè; e perdettero perfino l'ultimo filo della speranza in un possibile miglioramento o in un piacevole domami, e migliaia e migliaia furono distrutti dal suicidio che serpeggiava, come un'inquietante epidemia morale. Soltanto in quei terribili tempi di decadenza dell'impero romano e di rovina dell'antico paganesimo, noi troviamo le stesse agonie degli uni, lo stesso cupo cordoglio degli altri, la medesima inquietudine indagatrice, l'acre smania di criticar tutto e il pessimismo dei pensatori, tutto ciò insomma che caratterizza i nostri tempi. Cionondimeno una differenza esiste anche fra queste due epoche pur tanto rassomiglianti: nella Roma imperiale l'abbattimento degli animi, cresciuto fino a diventare desiderio di morire, non si impadronì che degli intelletti elevati e quindi, in proporzione alla moltitudine, solo di un piccolo nucleo di eletti. I più vissero in una sorda spensieratezza, non avvertendo della tragedia di quei tempi che la parte esterna e la materialità della catastrofe. Ai nostri tempi invece questo malessere è come un grande tramonto terrestre, che distende la sua ombra sulla maggior parte del genere umano incivilito. Non è una differenza di qualità; è solo di quantità. Ma, però, ciò che naturalmente rende più terribile una grave malattia è appunto la sua grande estensione.

IV.

Da che proviene quest'intollerabile stato degli animi nella genti incivilite? Da che proviene questo malessere senza esempio, questa irritazione in ogni pensatore, così profonda e così estesa, in un'epoca che offre prodigamente, anche al più povero, una tale quantità di soddisfazioni intellettuali e morali, che, tempi addietro, neppure un sovrano avrebbe potuto procurarsi? Da che proviene? Dalla causa stessa per la quale gli uomini colti degli ultimi tempi della Roma imperiale erano tanto ristucchi di disgusto pel vuoto dell'esistenza, da non trovar modo di liberarsene se non col suicidio: proviene dal contrasto delle nostre idee con tutte le forme della nostra vita individuale, sociale e cittadina. Ogni nostra azione è in contraddizione colle nostre convinzioni, che la pone in ridicolo e la smentisce. Un abisso invincibile si apre fra la nostra coscienza, cioè fra ciò che sentiamo essere la verità, e le istituzioni tradizionali, sotto le quali viviamo e siamo costretti di operare.

La moderna cosmologia ha per base le scienze naturali; noi consideriamo il mondo come un grande organismo di materia, che ha il moto come attributo, e questo moto, uno nella sua essenza, ci appare sotto forma di forze diverse. Questo moto noi lo vediamo dominato da leggi fisse, che in parte abbiamo già conosciute, definite e sperimentalmente provate, e delle altre stiamo seguendo le traccie: eccezioni a queste leggi invariabili noi non ne conosciamo. La questione del fine ultimo, e del principio delle cose, l'abbiamo abbandonata come una questione che i mezzi concessi al nostro organismo non possono risolvere. Per comodo nostro e come condizione provvisoria di un sistema di idee che non può necessariamente rimanere un frammento, noi ammettiamo l'eternità della materia, che infine non è che un’opinione arbitraria, alla quale non possiamo dare una dimostrazione diretta. Questo concetto, il solo che si sia fatto ad arbitrio del nostro sistema, ci basta pienamente per spiegazioni d'ogni fenomeno e non si oppone all'esame che noi facciamo sulle virtù delle leggi della natura. Per esso diventa inutile ammettere l'idea capricciosa, e che non si può provare, di una volontà o intelligenza eterna, o qualsiasi altra cosa per esprimere «Dio», perchè non ci darebbe che lo svantaggio di indurci ad ammettere tante altre cose, come la provvidenza, l'anima, l'immortalità, ecc., che sono incomprensibili, irrazionali e in contraddizione alle leggi di natura incontestabilmente assodate. Se dall'universo scendiamo alla nostra specie, cioè all'umanità, risulta necessariamente dalle nostre cognizioni fisiche che l'uomo è un essere vivente che, senza interruzione, si concatena a tutto un ordine di organismi ed è sotto ogni aspetto, sottomesso alle leggi generali del mondo organico. Noi non ammettiamo che si possano attribuire all'uomo dei diritti speciali o condizioni privilegiate, che non siano pure di pertinenza a tutti gli altri esseri del mondo zoologico e botanico. Noi crediamo che lo sviluppo della specie umana, come di qualunque altra specie, sia forse stato possibile, ma certamente abbia potuto progredire soltanto con la selezione naturale, e crediamo che la lotta per l'esistenza formi, nel senso più largo, non solo tutta la storia del genere umano, ma anche dell'animale il più umile, e sia la base dei fenomeni della politica e della vita sociale.

È questa la nostra scienza. Da essa derivano le nostre regole di vita, di diritto e di morale. È diventata la parte rudimentale della nostra coltura, e penetra in noi coll'aria che respiriamo; ci è impossibile sottrarci ad essa. Lo stesso Papa, che la condanna nella sua enciclica, la subisce: l'allievo gesuita, che si cerca di tener lontano da essa, educandolo in un'artificiosa atmosfera di teologia e di scolastica medioevali, come si cerca di conservare  animali marini in appositi acquari, l'allievo gesuita, diciamo, è pur esso invaso da questa dottrina: egli l'assorbe quando s'imbatte in stampati affissi sulle pubbliche vie, quando osserva le abitudini dei suoi correligionari, quando legge giornali religiosi, quando compera un breviario da un libraio ben pensante; tutta la sua vita intellettuale è inconsciamente colorita e imbevuta di questa dottrina; senza volerlo, egli ha pensieri e sensazioni, che un uomo dell'undicesimo secolo non avrebbe potuto avere mai. Egli ha un bel fare per tentar l'impossibile: noi riuscirà mai a non essere figlio dei tempi moderni e della loro particolare civiltà.

E con questa scienza noi dobbiamo vivere in mezzo ad un mondo che volontariamente ammette che il caso della nascita possa attribuire ad un uomo dei diritti e privilegi massimi sopra milioni di suoi simili, fra i quali molte volte si trovano organismi intellettuali e fisici migliori; in mezzo ad un mondo che volontariamente ammette che un uomo, il quale pronuncia parole che non hanno senso e che fa dei gesti inconcludenti, possa essere venerato come incarnazione visibile di poteri soprannaturali; in una società, la quale ammette che una ragazza di un certo rango non debba sposare un uomo bello, forte, florido, ma invece uno brutto, debole ed avvizzito, perchè il primo appartiene ad un rango così detto più basso, mentre il secondo appartiene al rango della ragazza; una società, la quale ammette che un robusto e sano operaio possa patire la fame, mentre un altro uomo gozzoviglia, infingardo, cachetico, scioperato in un'abbondanza ch'ei non può nemmeno tutta godere. Noi, che crediamo che la specie umana derivi da forme organiche più basse; che sappiamo che tutti gli individui, senza eccezione alcuna, vivono e periscono in virtù d'una medesima legge organica, noi dobbiamo inchinarci davanti ad un sovrano, rispettare in lui un essere vivente sotto leggi e costumi speciali, e non dobbiamo sorridere quando, nell'intestazione delle leggi dello Stato e talvolta anche sulle monete, vediamo che egli è ciò che è in forza di una mistica «grazia di Dio». Noi, che siamo convinti che tutti i fenomeni sono determinati da leggi fisiche, immutabili, che non consentono eccezioni, noi dobbiamo vedere lo Stato stipendiar preti, concedendo loro l'esplicita missione di compiere delle cerimonie, che si pretende debbano influire sugli avvenimenti, rimanendo esse al di fuori e al di sopra delle leggi della natura; e dobbiamo in certe occasioni assistere a messe solenni o a servizi divini, in cui s'invocano da un potere soprannaturale e inconcepibile dalle scienze fisiche dei particolari e misteriosi favori per noi e per il nostro consorzio, e gli individui che compiono tali insensate funzioni noi li collochiamo nei più alti posti dello Stato e della società. Noi crediamo che, nella riproduzione, abbia una grande e benefica efficacia la selezione, e malgrado ciò accettiamo contemporaneamente l'artifizio del matrimonio, che, nella sua forma attuale, esclude addirittura la selezione nella riproduzione. Noi riconosciamo nella lotta per l'esistenza la base d'ogni diritto e d'ogni morale, eppure facciamo giornalmente delle leggi e difendiamo delle istituzioni che impacciano in modo assoluto il libero esercizio delle forze, che inceppano l'uomo vigoroso nell'uso delle sue invincibili attitudini, e convertono in delitto morale il trionfo naturale di ciò che è sano su ciò che è infermo. In questo modo la nostra esistenza è costruita su preconcetti tradizionali di altri tempi che più non corrispondono alla nostra scienza moderna. La forma e la sostanza della nostra civile esistenza si contrariano violentemente. La nostra educazione ufficiale sembra voglia sciogliere il problema di occupare, nello stesso tempo, con un dado l'eguale spazio già occupato da una palla. Ogni parola che diciamo, ogni azione che compiamo, è una menzogna a fronte di ciò che riteniamo come verità nell'animo nostro. Così abbiamo l'aria di parodiare noi stessi; e rappresentiamo un'eterna commedia che ci stanca, benchè ad essa abituati, e cotesta commedia esige che noi diamo continue smentite alle nostre cognizioni e ai nostri convincimenti. E v'hanno momenti di raccoglimento, in cui ci sentiamo saturi di sprezzo contro noi e contro le costumanze del mondo. In cento occasioni, assumendo un'aria solenne e maniere gravi, indossiamo abiti, che ci sembrano un vestiario da matti, e fingiamo un rispetto a persone e istituzioni, che ci paiono enormemente assurde, e ci teniamo vigliaccamente attaccati ad un convenzionalismo che tutti i nostri sensi dichiarano ingiustificato.

Questo eterno conflitto fra i nostri costumi sociali e le nostre convinzioni provoca una tremenda reazione sulla vita intima dell'individuo, il quale allora appare a sè  stesso come un pagliaccio che diverte altri e che ha a schifo le sue proprie beffe, le quali poi lo lasciano profondamente triste. L'ignoranza è agevolmente comportabile con un certo benessere animale: e quando si ritenesse che le istituzioni che ci circondano, fossero necessarie e giustificate, si potrebbe anche essere contenti e felici. Gli inquisitori, per apportare, a modo loro, un beneficio all'umanità, salvando ad essa i gaudii della vita eterna, poterono usare anche la strage e il rogo. Ma quando scorgonsi logore e imputridite le tradizionali istituzioni e appaiono null'altro che immagini stupide, vuote e fallaci, per una metà spauracchio, per l'altra metà decorazioni teatrali, allora bisogna adattarsi ai terrori e alle ribellioni, rassegnarsi agli scoraggiamenti e alle ultime disperazioni, che s'impadroniscono di un vivente per gettarlo in una voragine di cadaveri, oppure bisogna tollerare che un uomo, sano di mente e obbligato a vivere in mezzo ai pazzi, partecipi a tutte le loro pazzie, pur d'evitare d'essere maltrattato.

Ciò che ci induce al pessimismo e allo scetticismo è appunto questo perenne antagonismo fra le nostre convinzioni e tutto quanto vediamo a noi d'intorno; è questa necessità di vivere in mezzo ad istituzioni che noi giudichiamo menzogne. Tutta la nostra civiltà è solcata da questo grande corrompimento. E noi in questo insoffribile rovinìo perdiamo ogni gioia della vita, ogni brama di progresso. Ecco la cagione del febbrile malessere che in tutti i paesi affligge ogni persona colta. Solo il tempo scioglierà il tormentoso enigma.

Nei capitoli seguenti ci proponiamo di particolareggiare questo ributtante contrasto fra le dominanti menzogne convenzionali e le sicure conquiste della scienza moderna.

LA MENZOGNA RELIGIOSA

I.

La più estesa e più potente delle istituzioni lasciateci dal passato, è la religione. Tutta l'umanità subisce il suo fascino. Essa stringe in un vincolo stesso tutte le razze, alte e basse, e tal nodo congiunge in una comunanza di idee ed assimila in una stessa civiltà il negro australiano e il lord Inglese. La religione s'insinua in tutta la vita pubblica e sociale; la fede nelle sue dottrine soprannaturali è la condizione tacita o espressa della validità, anzi della possibilità di tutta una serie di azioni, le quali segnano, lungo il corso della vita umana, delle stagioni di sviluppo e di crisi inizianti una nuova fase. V'hanno ancora molti paesi civili ove ognuno è obbligato di professare una religione, nessuno bada quali siano la sua fede e le sue convinzioni, ma nella vita esterna deve far adesione ad una data religione. Non siamo più, è vero, ai tempi della Spagna, al XVI secolo, nè a quelli della controriforma, in Inghilterra, sotto la sanguinaria Maria, nè ai tempi della tirannide puritana delle colonie neo-inglesi, quando con terribile severità si sorvegliava affinchè ogni cittadino adempisse gli atti del culto; ma al postutto il progresso, nel suo insieme non è grande. Se ora lo Stato non impone più che altri vada a messa o a confessarsi e se più non applica il rogo a chi non si reca più in chiesa, nei giorni festivi, tuttavia, in molti paesi europei ed americani è forza farsi iscrivere nell'elenco dei  membri di una comunità religiosa, e si riscuotono col mezzo dei tribunali e dei carabinieri contribuzioni per scopi religiosi.

La religione s'impadronisce dell'uomo incivilito nel momento in cui entra nella vita, ne ravvolge con fili sempre più stringenti l'intera esistenza, e non lo abbandona neppure quando muore. Egli nasce, e i genitori devono farlo battezzare, ammenochè essi non vogliano esporsi, come avviene in alcuni paesi, ad una multa o alla ingiunzione coattiva dell'autorità. Vuole sposarsi? È costretto a recarsi in chiesa, e ricorrere all'opera di un prete. Veramente, in molti paesi c'è il matrimonio civile, ma non è in tutti, e poi, là dove esiste, potenti mene si affaccendano per abolirlo. Del resto, anche là, dove il matrimonio civile è diventato un'istituzione indistruttibile, i costumi civili non progredirono di pari passo con la legge e si continua a considerare quel matrimonio come cosa imperfetta. Il cittadino muore, e un prete deve accompagnare il carro mortuario, preci funebri devono essere recitate innanzi alla bara e la salma non può riposare che in terra consacrata, contraddistinta da segni e da iscrizioni aventi carattere religioso. In moltissimi casi il cittadino non può tutelare i suoi più legittimi interessi che sottoponendosi al giuramento, il quale poggia sopra un concetto religioso. S'egli, come soldato, offre alla patria il sacrificio del suo sangue, è obbligato pur di offerire a Dio il suo giuramento alla bandiera. Non può far valere i suoi diritti davanti ai tribunali se non giurando. Senza giuramento non può rendere giustizia ai suoi simili, se è giudice, non può tutelare gl'interessi del popolo, se è deputato; non può insomma esercitare quasi verun ufficio pubblico. Il tentativo fatto in Inghilterra e in Francia di sostituire al giuramento religioso una solenne promessa sull'onore e sulla coscienza ha provocato una caldissima opposizione; in tutto il vasto mondo incivilito non si trova un angolo, nè un lembo di terra che non sia soggetto alla supremazia della religione.

Le forme sotto le quali la civiltà si è storicamente sviluppata, sono la famiglia, la proprietà, lo Stato, la religione. Orbene, la sola di queste quattro forme che abbraccia il maggior numero d'individui è la religione. Infatti molti vivono all'infuori della famiglia, come i trovatelli e non pochi individui randagi delle grandi città, ed è solo nell'età matura ch'essi, talvolta, fondano una famiglia col matrimonio o col concubinato. Non conoscono la proprietà i nullatenenti e i malfattori di mestiere, i quali non campano che di rapine e di furti. In mezzo alla nostra civiltà, così ingombra di regolamenti e di governanti, che fa sì largo sfoggio di previdenza e di amministrazioni e di un esercito d'impiegati, trovansi pur anco gruppi numerosi di gente – per esempio gli zingari in tutti i paesi d'Europa – che non vogliono subire gli ordinamenti di uno Stato organizzato, che non fanno registrare mai le loro nascite, i loro matrimoni, le morti, che in niun luogo pagano imposte, che in niun paese compiono i doveri militari, che non s'iscrivono a verun Comune, non hanno nazionalità politica e, se poi volessero entrare nella società civile normale, non lo potrebbero senza incontrare grandi difficoltà, perchè non posseggono i necessari documenti, coperti di bolli e suggelli e di firme illeggibili di rispettabili autorità. Ed è solo col possesso di coteste carte che un figlio numerizzato e protocollato dalla nostra civiltà può conseguire il legale riconoscimento della sua vita e della sua morte. Per contro il numero delle persone che vivono all'infuori di una religione è piccolissimo. In Germania fu fondata una lega di liberi pensatori, che offriva modo agli emancipati da ogni culto di affermarsi, anche pubblicamente, liberi dalle ereditarie catene della superstizione. Orbene, questa lega conta, dopo parecchi anni di vita, appena mille soci, e non pochi di questi sono ascritti anche in una comunità religiosa. In Austria una legge permette che si possa uscire da una religione; e nemmeno 500 persone ne hanno approfittato per dichiararsi «senza religione». E aggiungasi che costoro non erano spinti dall'onesto sentimento di conformare i loro atti esterni e la loro vita alle proprie convinzioni; ma parte di essi era mossa dal desiderio di poter contrarre matrimonio con persona di altra religione – ciò che obbliga i due contraenti a dichiarare di uscire ciascuno dalla rispettiva religione – e gli altri erano israeliti che, sottraendosi ufficialmente al culto ebraico, tentavano di sottrarsi ai pregiudizi di cui sono fatti segno dalle altre credenze. Quest'ultimo motivo era così frequente, che in Austria l'essere senza religione è divenuto sinonimo d'israelita, in guisa che un segretario della Università di Vienna, quando alla consueta domanda per l'iscrizione: di che religione siete?, ebbe per risposta: senza religione, soggiunse con sorriso bonario: dite addirittura israelita. La Francia è il paese civile, ove la libertà di coscienza ha fatto le più grandi conquiste nelle leggi, ma non nei costumi. Anche in Francia la maggior parte dei liberi pensatori rimane apparentemente nel grembo della Chiesa, alla quale appartenevano i suoi genitori; va a messa e a confessarsi; celebra ecclesiasticamente il matrimonio, fa battezzare e cresimare i suoi figli e, in caso di morte, chiama il prete. Non si contano certo a centinaia coloro che lasciano crescere i loro figli senza battesimo e senza cresima, e che con atto di ultima volontà esigono funerali civili. Nella libera Inghilterra le leggi e la pubblica opinione permettono di fondare sètte e religioni, di farsi buddista o di adorare il sole dei Parsi, ma non è permesso di dichiararsi ateo. Bradlaugh, per aver avuto il coraggio di affermare senz'ambagi il suo ateismo, fu scomunicato civilmente, espulso dal Parlamento e travolto in processi scandalosamente costosi.

E l'influenza della religione perdura così potente che riesce difficilissimo spogliarsi dell'abitudine della religiosità, per cui, anche coloro che rinnegano Dio, allorquando sostituiscono alla fede un ideale più consono alle cognizioni moderne, sogliono attribuire a questo loro nuovo concetto razionale il nome di «religione», che ricorda le insulsaggini dell'epoca infantile del genere umano. A Berlino e in altre parti della Germania del nord associazioni di liberi pensatori non hanno saputo appellarsi con altro nome che con questo: «Comunità libero religiose», e Davide Federico Strauss chiama «religione dell'avvenire» un idealismo, la cui essenza consisterebbe nel non ammettere una religione soprannaturale. Tutto ciò ricorda un po' l'aneddoto di quell'ateo, che esclama: Per Dio! sono ateo!

II.

È necessario che io prevenga un malinteso.

Quando io qualifico la religione una menzogna convenzionale dell'uomo incivilito, non intendo di alludere con la parola religione ad una fede in potenze extra-terrestri e soprannaturali. Questa fede è sincera nella maggior parte degli uomini, e, senza accorgersene, obbediscono alla sua azione individui che hanno raggiunto un'alta coltura intellettuale. Solo una parte minima dei figli del XIX secolo, convinta della verità dei postulati delle scienze naturali, si è immedesimata con essi in modo da sentirsi invasa tutta l'anima fino nei penetrali ascosi, dove si formano le sensazioni vaghe, le fantasie le tendenze. In questi misteriosi recessi gli antichissimi pregiudizi e le visioni superstiziose affermano il loro dominio, ed è tanto difficile lo scacciarneli quanto è difficile snidare gufi e pipistrelli al sommo delle torri dai loro nascondigli.

Presa in questo significato, cioè d'un attaccamento più o meno inconscio a fantasie trascendentali, la religione è tuttodì un estesissimo avanzo psichico dell'epoca infantile dell'umanità. Dico di più: è una debolezza organica intellettuale, inerente alla imperfezione del nostro organismo, e che è una delle forme della nostra finalità. Mi studierò di chiarire questo asserto, affinchè non rimanga oscuro.

La filologia, la mitologia comparata e l'etnografia hanno somministrato numerosi documenti storici del modo come nasce e si va svolgendo il pensiero religioso, e la psicologia poi ha tentato, con successo, di offrire una dimostrazione di quelle doti proprie dell'anima, in virtù delle quali l'uomo primitivo pervenne ad immaginare cose soprannaturali e l'uomo incivilito a cementare la credenza di esse.

Solo dopo migliaia d'anni di civiltà, dopo una serie di generazioni innumerevoli, dopo pensatori profondi come Pitagora, Socrate e Platone, un intelletto umano, fatto acuto, riuscì a riconoscere che certi concetti non sono essenziali, ma sono soltanto forme o categorie della nostra immaginazione. Ai primi chiarori crepuscolari dell'intelligenza questi concetti devono aver dominato con tale una forza l'immaginazione rudimentale dell'uomo primitivo, che il figlio della civiltà non può formarsene un'idea, avvezzo com'egli è ad astrazioni, di cui ignora il processo faticoso, elaboratosi nelle menti, dalle quali quelle astrazioni uscirono. Pel selvaggio il tempo, lo spazio, la causalità sono esseri esistenti e materiali come gli oggetti che lo circondano, e ch'egli può percepire col senso più grossolano, il tatto. Egli immagina essere il tempo un mostro che divora i suoi figli; lo spazio per essi non va al di là del muro ch'egli si figura segnato dall'orizzonte, lo vede cioè circoscritto dalla linea che congiunge alla terra il cielo, che egli crede sia un tetto, oppure un oggetto che cala e lo rinserra; la causalità egli la sente così necessaria, così indivisibile dal fenomeno, che non può a meno di aver forma immediata e intellegibile, quella, cioè, di un atto realmente compiuto da un essere pari al suo. Cade a terra un albero? Non può essere stato atterrato che da una potenza materiale come la sua. Trema la terra? Qualche cosa certamente l'avrà scossa. Ma siccome questo qualche cosa è ancora un'idea troppo astratta per la sua rozza intelligenza, e perciò da esso non è comprensibile, così egli le attribuisce una forma acconcia come è quella di un uomo.

Tutti i fenomeni che accadono a lui d'intorno provocano lo stesso processo mentale. Schiavo passivo della immaginazione, nella causalità cerca la causa di tutto ciò che appare; ma siccome da tutto ciò ch'egli fa non sa trarre altra causa che la propria volontà, così nei fenomeni non vede che l'effetto di una volontà assoluta di un essere simile all'uomo. Qui però egli è sorpreso, per la prima volta, da un motivo che lo confonde e lo stupisce. Quando la sua moglie attizza il fuoco con lo sfregamento di pezzi di legno, quando qualcuno della sua razza uccide un animale con un'ascia di pietra, i suoi sensi percepiscono la causa immediata che ha dato origine alla fiamma e alla morte dell'animale. Ma invece quando il vento e la procella atterrano la sua capanna, o la grandine e il vento lo colpiscono, egli non scorge l'essere che gli ha fatto tale violenza. Che questo essere esista, che gli sia anche molto vicino, egli non può dubitare perchè vede la capanna rovesciata e la ferita che mette sangue. Conviene però che taluno lo abbia fatto, lo abbia voluto e, non potendo egli trovare il delinquente, è assalito da un'angoscia arcana, la sua mente è invasa dal terrore di un pericolo ignoto contro cui è disarmato e senza difesa. In questo sentimento consiste la genesi della religione.

Infatti, tutti i viaggiatori, che hanno potuto studiare le razze selvaggie, si accordano nell'asserire che il sentimento religioso si manifesta unicamente nel senso di una paura superstiziosa. Il che, del resto, è naturale. Le sensazioni sgradevoli, a paragone delle aggradevoli, sono non soltanto più frequenti, ma anco più penetranti e profonde: esse provocano un'attività esterna ed interna più forte e più durevole: Una sensazione gradevole la portiamo con noi apaticamente, passivamente; il pensiero non sente il bisogno di cercarne una spiegazione; muscoli e cervello in essa riposano. Una sensazione sgradevole invece s'impone duramente, e rende necessaria una serie di pensieri e di atti di volontà per investigarne la causa o difendersi da essa. Però accade che l'uomo primitivo nota assai più facilmente le forze della natura, che gli sono nemiche, che non quelle che a lui sono benevoli. Il sole lo riscalda e i frutti lo nutrono, senza che egli se ne dia pensiero, poichè riflette solo quando vi è costretto; i pericoli invece e le avversità tengono continuamente sveglia la sua mente e popolano la sua fantasia di immagini che non sono passeggere. Solo quando l'uomo ha raggiunto un alto sviluppo intellettuale, può chiaramente concepire anche i piaceri della vita, e goderli non soltanto istintivamente, ma consapevolmente, e, pur ricercandone la causa nella volontà di un essere simigliante all'uomo, è compreso per quest'essere da un senso di gratitudine e di ammirazione. Ma fino a che non è pervenuto a questo stadio di civiltà – stadio relativamente tardivo –, l'uomo si restringe a provare paura e terrori al cospetto della potenza invincibile e misteriosa che scatena le tempeste, che tuona, che lampeggia, che lo tormenta con continui turbamenti e angoscie.

E i primi atti del culto religioso non sono che la conseguenza e il risultato di questo senso d'arcane paure: si evita di far cose che potrebbero irritare il potente, invincibile nemico, e la vivace fantasia infantile dell'uomo primitivo, con le sue idee disordinate e sconvolte, gl'incute il timore ch'egli possa ad ogni atto svegliare il dispetto in cotesto nemico; e quando esso è irato, bisogna calmarlo ad ogni costo. Si alletta allora la sua voracità col presentargli doni e offrirgli sacrifici: si adula la sua vanità col tributargli lodi e vantarne le doti; si umilia davanti a lui, si tenta commuoverlo con preghiere e talora lo si minaccia con ferocia. Preghiere, sacrifici, scongiuri sono manifestazioni di quello stesso sentimento, dal quale Darwin – nel suo libro sulle emozioni manifestate dagli uomini e dagli animali – fa scaturire le forme del saluto, cioè il dimenar della coda nel cane e lo strisciarsi a terra, il far le fusa nel gatto, l'inchinarsi e lo scoprirsi il capo nell'uomo; atti tutti che indicano soggezione ad un avversario più forte.

Ricapitoliamo brevemente, questi argomenti. La causalità, che è una forma o categoria del pensiero umano, è dall'uomo primitivo concepita sotto forme rozze e grossolane come se fosse una cosa materiale, palpabile. A tutti i fenomeni, che gli dànno molestia, egli cerca delle cause immediate. La sua inettezza a pensare astrattamente non gli permette che delle concezioni concrete, che si disegnano nella sua mente come immagini a lui note; per tal modo egli riesce all'antropomorfismo; cioè egli immagina che tutto ciò che ha forza, tutto ciò che può produrre un fenomeno, debba avere forma umana con sentimenti, volontà ed organi idonei a tradurli in atto. Il che avviene, perchè egli non sa ancora concepire una forza separata da quella forma organica, che è abituato a contemplare in sè stesso. La causalità lo adduce dunque ad ammettere una causa sola per tutti i fenomeni; la sua inettezza a concepire cose astratte lo conduce all'antropomorfismo e ad attribuire alla natura un Dio personale, oppure a popolarla di Dei personali, e il timore poi di questi Dei, che gli appaiono come nemici, lo induce a funzioni sacre, a sacrifici, a preghiere, in una parola, ad un culto esterno.

Questa è la genesi della religione nell'uomo primitivo, genesi che, del resto, è tuttora radicata nell'animo anche dell'uomo incivilito; v'hanno infatti intelletti, i quali, benchè colti, pensatori ed avvezzi a non considerare più il tempo e lo spazio come cose concrete, concepiscono tuttavia la causalità come una cosa materiale, e non sono ancora pervenuti a raggiungere quel grado di astrazione, dall'alto del quale la causalità si palesa non solo come una forma del nostro pensiero, ma bensì come una condizione del fenomeno. Ed anche all'antropomorfismo si ricorre pur sempre, e non solamente dal fanciullo, il quale si compiace delle favole che dànno la parola al vento e agli alberi e che fanno stringere matrimoni alle stelle, ma puranco dagli adulti nei misteriosi penetrali del loro animo, non ancora emancipato dalle conseguenze e dalle abitudini d'infanzia. Non è forse significante il vedere un filosofo dei nostri tempi fare uno strano ritorno alle nozioni dell'uomo primitivo ed edificare il suo sistema sulle medesime premesse, che servirono di fondamento ai rudimenti cosmologici dei coetanei all'orso troglodito e degli odierni negri australiani, immettendo cioè una volontà come base fondamentale, non solo d'ogni azione, ma dell'esistenza stessa d'ogni oggetto? Il connettere agli oggetti che ci circondano un fatto a noi noto e da noi spesso osservato, e la propensione a spiegare la loro esistenza subordinandola ad una volontà, e ciò perchè non si saprebbe staccare l'uomo da una volontà dominatrice e determinativa delle sue azioni, altro non è che un avanzo del primo stadio dell'attività intellettuale dell'uomo. Schopenhauer ha potuto dare al suo sistema un aspetto gentile, sublimandone e raffinandone la forma col vestirlo del linguaggio artistico della scienza; ciononpertanto, nella sua sostanza, esso è l'atavismo più sorprendente che siasi manifestato nella storia della filosofia, la quale, del resto, è essenzialmente la storia delle ricadute dell'intelligenza umana nelle fantasie e nelle scempiaggini che parevano scomparse per sempre. Quando uno Schopenhauer, un pensatore che sta a livello col nostro incivilimento, anima i corpi inorganici di una volontà, simile a quella dell'uomo, per poterli intendere (quantunque anche nell'uomo si compiano funzioni indipendentemente dalla sua volontà, a mo' d'esempio il ricambio della materia); quando un sistema, com'è quello di Schopenhauer, trova accoglienza anco presso non pochi ingegni elevati, è possibile non comprendere più il cacciatore del mammut, nel periodo quaternario, il quale, generalizzando le povere esperienze fatte sul proprio limitato Io, non riesce a concepire la natura che assegnando ai fenomeni un autore simigliante a lui, ma però più forte, più terribile, con un'ascia più poderosa, con appetiti più robusti, dando in tal modo il primo abbozzo alla religione?

Il concetto di una volontà come causa dei fenomeni cosmici e per conseguenza la fede in un Dio o in più Dei personali non sono, del resto, che una parte della religione, la quale non suole limitare alla sola natura i suoi tentativi di spiegazioni trascendentali, ma li estende anche all'uomo e al posto che esso occupa nella natura, talchè fra i concetti religiosi c'è pur quello dell'anima dell'uomo e della sua immortalità. Questa fede nell'immortalità e la fede in Dio diedero compimento a quel sistema che potè essere messo a base di tutto un ordinamento sociale e morale, perchè permetteva una netta definizione del bene e del male, una distinzione fra vizio e virtù; e mediante le ricompense e le pene future, delle quali è prima e necessaria condizione l'immortalità dell'anima umana coi suoi attributi essenziali della sensazione e della percezione, si trovò modo di determinare le azioni dell'uomo. La fede però nell'anima e nella sua immortalità non traggono origine dalla causalità e dall'antropomorfismo, ma da ben altre sorgenti psicologiche, nelle quali vogliamo ora un po' guardar dentro.

Indagatori specialisti hanno sovente agitato la questione, se la fede nell'anima e nella sua immortalità abbia preceduto la fede in Dio o l'abbia invece susseguita, e se i concetti religiosi siano sorti dal culto dell'anima, toccando il gradino intermedio della fede nel demonio. Che presso molti popoli antichi ed anche presso odierne tribù selvaggie la fede nell'anima sia parte della religione, più importante e più fortemente sentita che la fede in un Essere Supremo, pare accertato dal culto dei sepolcri negli Egizi, dalla venerazione dei lari e degli Avi nei Romani, dall'uso di bere il sangue del nemico ucciso negli antichi Celti e Germani, e dall'antropofagia di alcune tribù dell'Africa centrale e in alcune isole australiane. E questi ultimi non sono mossi già da un irresistibile bisogno di mangiar carne, come fu asserito da osservatori superficiali, ma dalla mistica speranza che le doti del nemico ucciso si trasmettano e trapassino in colui che lo mangia.

Al postutto, la priorità della fede nell'anima a della fede in Dio è una questione secondaria. Una cosa è accertata, ed è che assai per tempo si svegliarono nell'uomo due concetti, cioè che in lui esista alcunchè il quale si diversifica dal corpo ed è inerente alla vita e che questo quid, sopravviva alla morte e alla distruzione della forma corporea. Il primo concetto dev'essere stato originato da un'imperfetta osservazione delle leggi della natura. L'uomo sentì in sè movimenti svariati e misteriosi: i palpiti dei cuore e i battiti del polso. Morto, tutto era quiete e immobilità. Si suol dire: il cuore è la sede del sentimento; la qual cosa è tuttodì una prova dell'interessamento e della curiosità che i movimenti del cuore hanno tanto presto destato nell'uomo. Quegli che pensa senza un criterio regolatore, è con la massima facilità indotto a riporre le cause nei fenomeni più immediati. Siccome nel cadavere tutto è immobile, ciò che nel corpo  vivo si muove e s'agita deve costituire l'essenza della vita: rimane finchè si vive, se ne va e abbandona il corpo quando si muore. Ma che cos'è esso adunque? A questo quesito la fantasia dell'uomo primitivo dà risposte molto diverse. In un solo punto i popoli sono concordi, nel dare cioè una forma sensibile al principio della vita, l'anima. Per questi l'anima è una colomba, per quelli una farfalla. Altri, che sanno concepire idee più astratte, l'immaginano come un soffio d'aria, oppure un'ombra. Una spiegazione consimile, che appaga le menti primitive, si adatta pure agli oscuri e affannosi fenomeni del sonno e del sogno. L'anima, questo inquilino del corpo, che ha pur esso materia e organi, è una specie di parassita, eppure sente talvolta la necessità di abbandonare la sua gabbia. Il corpo allora cade in quello stato che rassomiglia moltissimo a quello che gli riserba l'anima quand'essa se ne andrà per sempre. Esso non sa nulla, non sente nulla, non si muove: dorme. L'anima è altrove; opera e apprende, e di tutto ciò rimane in noi un vago ricordo, quando essa fa ritorno alla sua dimora. Questi sono i sogni. Giacomo Grimm riporta una leggenda di Paolo Diacono, la quale narra che Guntramo, il re franco, si addormentò un giorno mentre stava cacciando; il servo, che lo accompagnava, vide uscire dalla bocca del dormiente un animaletto simigliante ad un serpe, il quale si diede a correre a un vicino ruscelletto per attraversarlo, ma non gli era possibile. Il servo allora sguainò la sua spada, la pose attraverso il piccolo rivo, e su di essa passò l'animaletto, il quale, dopo alcune ore, fece ritorno e rientrò nella bocca del re. Svegliatosi questi, raccontò al suo servo di aver fatto un sogno, nel quale aveva visto un gran fiume, attraversato da un ponte di ferro, sul quale egli era passato, e via via. In un'altra leggenda racconta lo stesso Grimm, che una volta dalla bocca di una fantesca dormiente uscì un topolino rosso: ma siccome nel dormire la fantesca si voltò boccone, così il topolino, ritornando, non potè più rientrare nella bocca, e la fantesca non si è più svegliata. Ma questo ospite misterioso del corpo umano, che spiega tanto bene gli indovinelli della vita e della morte, del sonno e del sogno, dove si trovava prima della nascita del suo albergatore e dove va dopo la sua morte. Se prima era in altri corpi e se dopo va ancora in altri, si avrebbe la credenza nella trasmigrazione dell'anima. Oppure egli sorge assieme al corpo e rimane ad esso vicino anche dopo morte; e questa è una idea che correva fra gli antichi Egizi e che li condusse a conservare con somma cura i cadaveri. Comunque, l'uomo primitivo non crede mai ch'esso si distrugga assieme col corpo. L'assoluto non essere è un'idea alla quale il pensiero umano si palesa sempre avverso e ribelle, e ch'egli reputa impossibile. Si chiederebbe invano ad una macchina una funzione superiore alla forza delle sue parti costitutive. La nozione del non essere è un fatto superiore alla potenza dell'organo intellettivo umano. Si parla dell'horror vacui della natura: altrettanto grande è l'horror vacui del pensiero umano. Il pensiero dell'uomo è reso possibile dal suo Io, il quale costituisce la base, l'indispensabile presupposto d'ogni atto intellettuale. Senza l'Io, non v'ha pensiero, non v'ha concetto, non v'ha neppure sensazione. L'idea del non essere viene, sì, concepita, dall'Io; ma mentre l'Io si sforza di definire a sè stesso il non essere, egli non perde mai la coscienza dell'essere suo, per cui questa concomitanza rende impossibile il concetto effettivo e chiaro del non essere. Per avere del non essere un concetto evidente e persuasivo, l'Io avrebbe bisogno, per un momento almeno, di non più sentirsi vivo, cioè di non avere più la coscienza di sè stesso, di annullare la facoltà del pensiero. Ma allora non potrebbe pensare neppure il non essere. Da questo circolo vizioso l'uomo non può affatto uscire, per cagione appunto della natura del suo organo intellettivo: fino a che egli pensa, il suo Io non può che essere pienamente conscio della propria esistenza e non saprebbe perciò seriamente concepire il non essere. Se invece l'uomo è inconscio della propria esistenza, in questo caso gli manca la facoltà di pensare e quindi di concepire il pensiero del non essere. La filosofia indiana con prodigi d'astrazione è pervenuta al concetto del «Nirvanha», cioè al concetto del nulla assoluto, della assoluta assenza di materia e di moto. Orbene, la mente umana più facilmente concepisce l'idea dell'assoluto annichilamento, tanto del mondo quanto dell'Io; ma invincibilmente si ribella al pensiero della soppressione dell'Io, quando continuasse ad essere il mondo. Come mai tutte queste cose che noi diciamo che esistono, appunto perchè non le percepiamo, e delle quali anzi non si saprebbe concepire l'esistenza qualora mancasse la nostra percezione, come mai si potrebbe dire che continuerebbero ad esistere, quando avesse a scomparire l'Io che afferma la loro esistenza col percepirle? Ciò è inconcepibile. Si può benissimo concepire che assieme all'Io scompaia tutto il fenomeno cosmico e si abbia quindi il Nirvanha, il che può anche avere qualche cosa di egoisticamente confortante; ma che l'Io sparisca e il mondo sopravviva immutabile, è un concetto che non trova posto dentro la cornice nel nostro pensiero, che ha sua base nell'Io. Noi possiamo stordirci con un profluvio di parole e con frasi altisonanti, noi possiamo imaginare e formule e definizioni filosofiche, e credere, illudendoci, di aver afferrato col pensiero qualche cosa di chiaro e reale col ripetere assiduamente quelle formule e quelle definizioni; in realtà non avremo mai del non essere un concetto più preciso di quello che abbiamo dell'infinito, intorno al quale possiamo ideare delle formule, che il nostro cervello non sarà mai atto a capire. È già un grande trionfo delle mente umana che ingegni vigorosi, eletti abbiano potuto avere un presentimento di queste due idee del non essere e dell'infinito; idee, del resto, molto oscure e che non possono essere significate con parole. Se ciò fosse possibile, un tale processo sarebbe per l'uomo come un uscire da sè medesimo e sopra sè medesimo elevarsi. Una siffatta operazione intellettiva e sovrumana poteva essere concepita dall'uomo primitivo? Essa richiede migliaia d'anni di preparazione e una faticosa disciplina della mente. Non era possibile che l'uomo concepisse il non essere in tempi in cui pochissimo sviluppata era l'intelligenza umana; la sola cosa ch'egli, naturalmente, poteva allora concepire era l'eterna durata del suo Io; e doveva arrivare al rozzo concetto di una resurrezione fisica dei morti, e all'altro, un po' raffinato, dell'immortalità di un'anima incorporea, ma che in pari tempo presentava stranamente gli attributi della persona, cioè la volontà, la sensazione, il raziocinio.

È a tutto questo ch'io alludevo, quando dianzi dicevo che la religione è una debolezza organica inerente alla nostra imperfezione intellettuale e una delle forme della nostra finalità. In virtù della causalità e dell'impotenza dell'antropomorfismo a comprendere e concepire forze che non rivestono le consuete forme organiche, l'uomo arrivò al concetto di Dio: con investigazioni difettose sui fenomeni della vita e della morte, del sonno e del sogno pervenne al concetto dell'anima, e coll'impotenza, in cui si trovava di ideare il proprio Io come non esistente, arrivò alla credenza dell'immortalità individuale sotto questa o quella forma. Il concetto della vita futura altro non è che una forma dell'istinto di conservazione e cotesto istinto altro non è che la forma per mezzo della quale noi abbiamo conoscenza della forza vitale, che ha sede in ogni cellula del nostro organismo. La forza di vivere è identica alla volontà di vivere. Colui che ha visto morire molta gente, sa con quanta facilità l'uomo si adatti e si pieghi all'idea della morte quando sente esaurire le forze vitali, sia da vecchiaia sia da infermità, e sa quanto terrore invece lo invada allorchè un infortunio lo colpisce nel fiore degli anni e lo convince della inesorabilità della sua fine.

Il suicidio non è che una contraddizione di mera apparenza a quanto io asserisco: certamente esso presuppone un'energica e operosa volontà, che potrebbe anche essere la manifestazione di una vitalità altrettanto energica, e in questo caso parrebbe che la forza di vivere fosse in contraddizione alla volontà di vivere; in realtà però il suicidio, quando non è l'effetto di una momentanea perturbazione mentale, altro non è che un inutile atto di difesa nella vita contro pericoli che la minacciano. Un uomo si uccide quando paventa disgrazie materiali o morali, cioè contrarietà alla vita, e non compirebbe quell'atto estremo se non apprezzasse, inconsciamente, la vita. Altrimenti motivo alcuno non avrebbe di temere contrarietà, le quali, nella peggiore ipotesi non farebbero che dare pur esse la morte. Ogni suicidio somiglia un po' al caso, che molte volte si è notato, di quei soldati che si uccidono prima della battaglia, perchè sopraffatti dall'angoscia pei pericoli a cui devono esporsi; costoro non si suicidano per sazietà della vita o per impassibilità dinnanzi alla morte ma bensì per un attaccamento alla vita, esagerato fino all'imbecillità. Il concetto, dunque, che la forza di vivere è identica alla volontà di vivere non soffre eccezioni. Cotesta volontà non cessa davanti al fenomeno della morte. Il nostro organismo, che nelle sue cellule sente il moto e il vortice degli atti vitali, non può accogliere il concetto di una completa cessazione di tutto questo movimento tanto fecondo e tanto aggradevole. Ogni individuo, quantunque sappia benissimo comprendere la fine degli altri individui, ha sentore del proprio essere come se fosse questo eterno e della propria fine come se fosse irraggiungibile. Soltanto con una coltura intellettuale elevatissima e col concorso di molte e faticose astrazioni ed analogie e di altrettante illazioni si può giungere ad una idea dotata della possibilità di infondere nella nostra mente, o piuttosto nel nostro sentimento, l'intuizione della cessazione del nostro essere personale; e questa idea sarebbe quella di una salda solidarietà dell'individuo con la specie, in maniera da non scorgere nella serie delle generazioni che una concatenazione immediata e uno sviluppo graduale di esse. In questa continuità della specie umana si può certamente trovare un conforto e un compenso alla caducità dell'individuo.

Nell'odierno uomo civile perdurano tuttora le cause che nell'uomo primitivo produssero concetti trascendentali, i quali, in parte, conservano ancora la loro forma originaria, e, in parte, esercitano influenza nelle sfere dell'ignoto. L'antropomorfismo è anche adesso una debolezza di mente in coloro che non sorvegliano col massimo rigore il germe e lo sviluppo dei loro concetti; e siccome è molto comodo dare ad astrazioni la veste di immagini usuali, così ognuno di noi può ad ogni istante sorprendere sè stesso nell'atto in cui rappresenta cose astratte con quelle forme materiali, sensuali, che noi incontriamo nella vita animale e vegetale. L'impossibilità di farsi un'idea della cessazione, che non sia solo esteriore, del nostro Io esiste tanto oggi quanto ha esistito in qualsiasi altra epoca. Nelle sfere dell'ignoto la superstizione primitiva agisce in forza di una legge ingenita di trasmissione. Il filosofo francese Th. Ribot dice che la trasmissione ingenita è per la specie ciò che la memoria è per l'individuo. Più brevemente: la trasmissione ingenita, è la memoria della specie. In ogni uomo le idee degli avi hanno spesso una forma istintiva, oscura, ma sono però sempre un ricordo presente, il quale per sfolgorare in tutta la sua chiarezza e illuminare tutta la vita intellettuale, non ha d'uopo che d'uno stimolo esterno. La trasmissione ingenita è una forza arcana, alla quale non possiamo sottrarci. Come a noi non è possibile stabilire ad libitum le forme del nostro viso e del nostro corpo, così non ci è possibile cambiare l'intima fisionomia del nostro pensiero. La qual cosa fa comprendere e scoprire quei vestigi di superstizione che la volontà non può nè sorvegliare, nè subordinare a se stessa; vestigi che, con doloroso stupore, sorprendiamo anche in intelletti illuminati; e ci spiega altresì quelle emozioni del sentimentalismo religioso che si scoprono sopratutto nelle menti poetiche, perchè in queste specialmente hanno un predominio i concetti ereditari. Questa sorgente di concetti trascendentali, questa trasmissione ingenita non si esaurirà che a poco a poco, col lavoro accumulato di molte generazioni. Soltanto fra migliaia d'anni l'uomo, nascendo, avrà la predisposizione a considerare i fenomeni del mondo e della vita da un punto di veduta scientifico e razionale, perchè centinaia di generazioni, precedendolo, l'avranno reso atto a pensare a quel modo. Noi invece, nascendo, assorbiamo la disposizione a considerare i fenomeni in un modo superstizioso e irrazionale, perchè non centinaia, ma centinaia di migliaia di generazioni, precedendoci, ci hanno comunicato l'abitudine di pensare in cotesto modo difettoso.

Ai motivi che produssero il trascendentalismo e che ancora lo conservano nella mente degli uomini, altri se ne aggiungono, che forse da soli non sarebbero bastati al concepimento delle idee di un Dio, di un'anima e della sua immortalità, ma concorrono a dare maggior forza a queste stesse idee. Uno di questi motivi accessori della durata dei sentimenti religiosi nella mente umana, malgrado il moderno progresso, è la pusillanimità naturale nell'uomo, il quale non rinuncia volentieri a potenti alleati e non si acconcia facilmente al pensiero di dover fidare solo in sè stesso, fare assegnamento soltanto sulle proprie forze e rinunciare ad un ausiliario e protettore invisibile. Raramente l'umanità produce un individuo che sorretto dalla coscienza della propria forza e da una profonda fiducia in sè medesimo, sia disposto a considerare la vita come una lotta individuale, nella quale ei debba valersi con energia e abilità della spada e dello scudo per uscirne vincitore, o, almeno, salvo. Questi uomini eccezionali, che sono il tipo più intrepido e completo della nostra specie, diventano capi-partito, conquistatori, o pastori di popoli. Essi spezzano le vie consuete e ne battono di nuove. Non accettano rassegnati la sorte che le circostanze a loro assegnano, ma sforzansi di creare a se stessi una condizione eccezionale, dovesse pur costar loro anche la vita. Il numeroso pecorame non ha questa ostinata indipendenza. La quantità media degli uomini non ammette la lotta per l'esistenza come una lotta individuale, ma bensì come una battaglia a masse strettamente serrate. Ognuno vuol avere ai fianchi, alle spalle e possibilmente anche dinanzi dei compagni d'arme. Tutti costoro vogliono udire la parola del comando, esigono che le loro azioni siano determinate da superiori responsabilità. Alla fede essi si aggrappano come ad un'arma, ad un conforto. Quanta quietezza d'animo, immaginando che in mezzo alla mischia più pericolosa c'è un Dio o un angelo tutelare che protegge! In tal modo nelle mischie della vita un semplice sarto, o un bracciante qualsiasi, può avere la soddisfazione di dividere con Achille nella guerra di Troja il privilegio d'essere protetto dall'invisibile scudo di Pallade. E quanta forza si attinge dal sentirsi, in ogni evento, sotto il potente usbergo della preghiera! È difficile di darsi alla disperazione, quando si è convinti di poter scongiurare una sventura con una parola, con un'invocazione. Prendiamo il caso d'un infortunio. Un areonauta all'altezza di mille piedi precipita dalla navicella. Se è un libero pensatore, sa che egli è irremissibilmente perduto, perchè nessuna potenza impedirà che dopo pochi istanti il suo corpo giaccia per terra, cadavere sanguinolento. Ma, se è un credente, finchè, nella caduta conserva i sensi, nutre viva la speranza che una potenza soprannaturale, invocata a intervenire, lo esaudisca, facendo sospendere per un momento le leggi della natura, e, adagio adagio, lo deponga a terra. Fino a tanto che egli non è privo de' sensi, è dominato dall'istinto di conservazione e non rinuncia per verun conto al suo diritto di appellarsi ad una possibile salvezza sia pur favolosa o logora, contro una spietata sentenza di morte. L'illusione è il migliore dei beni dello spirito umano. E quale illusione più grande e più consolante di quella della fede e della preghiera? Perciò la generalità, quando si trova all'estremo, ricadrà sempre nelle superstizioni infantili, fino a che essa non sarà così compenetrata dall'influsso scientifico da capire che la morte dell'individuo e quindi anche la propria, non è che un fatto che importa pochissimo alla specie e al cosmo, ed ancora, fino a che l'umana solidarietà non si sarà organizzata così generalmente e così fortemente che ogni individuo possa, nelle sue angustie, fare assegnamento, con sicurezza e senza stare in pensiero, sull'aiuto del suo simile e non su quello di incomprensibili potenze soprannaturali.

Un altro dei motivi, ch'io chiamai accessori, della durata dei sentimenti religiosi, è il bisogno d'un ideale, bisogno che ha radici in ogni mente umana, anche la più rozza. Cos'è l'ideale? È un tipo lontano, in virtù del quale l'umanità si sviluppa e si perfeziona. E non è soltanto il tipo delle forme corporee, ma puranco il tipo della vita intellettuale, del modo d'essere del pensiero, dell'ordine sociale. Lo stimolo e l'anelito a questo ideale sono innati in ogni uomo che sia regolarmente formato di corpo e di mente. Qui si tratta di qualche cosa di organico che non è sempre assolutamente noto, perchè anche il pensatore più chiaro e più profondo vi mescola dell'ignoto. Colui che ha visto fare il terrapieno d'una ferrovia, sa che si opera nel modo seguente: prima si costruisce un'impalcatura che delinea il rialzo, poi i lavoranti vi gettano dentro tanta terra, finchè arrivi all'altezza dell'impalcatura e ne prenda la forma. Orbene, ogni essere vivente ha in sè una legge di formazione e di sviluppo che è per esso tanto importante, quando lo è l'impalcatura del terrapieno da costruire. L'essere spunta, in principio, entro una cornice invisibile, ma materiale, che egli cerca di riempire, e dentro la quale cresce, precisamente come cresce il terrapieno entro l'impalcatura che si sta riempiendo. Quando un organismo perviene alla forma che rappresenta la mèta ultima del suo possibile sviluppo, egli avrà toccato la perfezione e idealizzato sè medesimo. Ma, per lo più, l'individuo rimane lontano dal suo tipo ideale. Il desiderio però di raggiungerlo è sempre il misterioso incentivo alla sua conservazione, al suo sviluppo, a tutto ciò insomma che in esso avviene. Come all'individuo, anche alla specie è assegnata una mèta di sviluppo con tutto quanto le occorre per raggiungerla; ed ha essa pure, come l'individuo, la propria legge di svolgimento. Infatti, ella nasce ed ha tendenza ad arrivare ad una larghezza e ad una forza determinate ed a vivere un dato tempo: cresce fino ad una certa altezza e poi decade, e finalmente scompare per dar posto ad un altro organismo più nobile, al quale ha fatto l'ufficio di modello, di prova di bozzetto. La paleontologia c'insegna che parecchie razze d'animali vissero in certe epoche geologiche e poi scomparvero Tal metodo si riscontra pure nella razza umana. Essa, nel suo assieme, è un'utilità zoologica ed è dominata da un'unica legge di vita. Sorse in una data epoca geologica (forse al principio dell'epoca quaternaria oppure nei periodi medî od ultimi dell'epoca terziaria; ma del resto, che sia questa piuttosto che quell'epoca, importa poco al nostro argomento) ed essa, per analogia, deve estinguersi in un’altra epoca geologica. Le forme che la precedettero, noi le indoviniamo a stento, e quelle che le succederanno sfuggono a tutte le nostre previsioni. Ma, finchè essa non avrà toccato l'apice del suo sviluppo, tenderà indefessamente a riempire il vano di quella invisibile cerchia, entro la quale essa è destinata a formarsi. E questa irresistibile tendenza a realizzare il tipo perfetto, questo aspirare verso le altezze del modello ideale, sono impulsi che tutti, tranne gli idioti, percepiscono, sebbene spesso in modo confuso e poco chiaro. Negli spiriti eletti questo sentimento si sublima fino alla coscienza; negli altri resta allo stadio di desiderio indeterminato e vago, che può, a piacimento, chiamarsi desiderio di cose eccelse, oppure bisogno di idealità, ma che, sotto questo o quel nome, altro non è che una brama ardente di togliersi dall'isolamento e di sentire con vigorìa la solidarietà umana. Il nodo che riunisce gli individui in una specie e le specie in una unità zoologica, si avvince ad ogni cuore umano e viene sentito come solidarietà. E questa ha bisogno di esplicarsi. Ogni uomo infatti, ha momenti in cui sente la imprescindibile necessità di sapere ch'ei fa parte di un grande assieme e di convincersi che nella sua esistenza individuale c'è la potentissima e vivifica cooperazione dell'esistenza generale della specie, e che il suo sviluppo individuale non è che un minimo episodio dello strapotente sviluppo complessivo dell'umanità: in breve, ha bisogno di trovare un ineffabile conforto alla ristrettezza, miseria e brevità del suo vivere nella coscienza di sentirsi immedesimato con un altro organismo trionfante che vive nella gloria progredisce, cresce, e che non è ancor detto debba finire meschinamente. L'uomo, per poco si sollevi dalla mediocrità, ha mille mezzi per soddisfare questo bisogno, senza che debba abbandonare il suo gabinetto, nè il suo salotto. E siccome non gli basterà il metodo solitario di contemplare lo sviluppo umano attraverso i secoli, di immedesimarsi nei grandi pensatori e poeti d'ogni tempo, di concepire l'armonia cosmica rivelatagli dalla scienza, ricorrerà al contatto sociale con intelligenze pari a lui, affine di sentire che egli esce davvero dall'isolamento per entrare nella grande e complessa vita dell'umanità. Ma è così forse dell'uomo del popolo? Dove ha egli mai l'occasione di sentirsi uomo insieme agli altri uomini? Quando gli si darà la prova che egli ha diritto e possibilità di elevarsi al di sopra dell'animale che mangia, genera, muore e nulla più? Mentre egli lotta pel pane quotidiano, mentre tribola e si travaglia per non ottenere infine che il puro necessario, dove può trovare il tempo per farsi migliore, per guardare in alto e per scoprire il luogo a lui assegnato nel regno dell'umanità e della natura? Fino ad ora, soltanto la religione ha comunicato all'uomo del volgo una certa elevatezza, e soltanto sotto la forma della fede poteva a lui svelarsi l'ideale. Il giorno festivo non è solo per lui un riposo fisico, ma è ben anco un'esplicazione delle sue facoltà intellettuali: la chiesa è per esso una sala da festa; il sacerdote una relazione elevata: Dio e i santi relazioni eminentissime. Nel tempio egli si trova in un edificio monumentale, superbo, sontuoso, che può chiamar casa sua come il povero tugurio che ospita la sua quotidiana miseria. Nel culto alla divinità egli prende parte a cerimonie, che non guardano come ei mangi, nè come ei vesta e non gli ricordano alcun volgare interesse materiale; in mezzo agli altri fedeli sentesi, come essi, membro di una grande comunità, e le relazioni che lo collegano ai suoi vicini manifestansi ai suoi sensi negli atti del culto, nelle genuflessioni, nel farsi il segno della croce, e via via, appunto, perchè questi atti ei li compie in comunione con gli altri fedeli. La predica è la sola parola umana elevata, che suoni al suo orecchio e lo risvegli alquanto dall'abituale letargo del suo pensiero infantile. Queste sono le ragioni potenti che lo tennero avvinto alla fede e dovranno perdurare vigorose fino a che la nuova civiltà non potrà offrire all'uomo del popolo un compenso alle emozioni e alle modeste soddisfazioni che a lui offre la religione.

E questo compenso non potrà mancare. Infatti, già può una parte rinvenirla nella parola del poeta e del pensatore; questa renderà superflua la voce del predicatore; e i teatri, i concerti, le riunioni sostituiranno le chiese. Sono già manifesti i germi degli eventi futuri. Nei paesi, che hanno libertà politiche, le moltitudini incolte e affaticate trovano la loro ricreazione festiva e la loro elevazione ideale nelle popolari riunioni, ove si trattano i comuni interessi locali e patriottici. Nel giorno delle elezioni, là dove il suffragio è universale o quasi, il popolino si sente assai più uomo, nel pieno esercizio de' suoi diritti e con ben diverso orgoglio, che non nelle cerimonie del culto, come la comunione, ecc., ecc. In molti luoghi esistono circoli ove si tengono conferenze o letture poetiche, ed ove risuona una parola più umana e più intelligibile che non quella del prete; ed è deplorevole che cotesti circoli non abbiano ancora estesa l'opera loro negli strati più bassi del popolo, che tanto ne avrebbero bisogno. Ma questi germi si svilupperanno. E forse un non lontano avvenire è destinato a vedere una civiltà, nella quale gli uomini soddisferanno, non più trascendentalmente, ma razionalmente i loro bisogni di ricreazione, di elevazione morale, di emozioni comuni, di solidarietà umana. A simiglianza di prischi tempi, di tempi remoti, che la storia della civiltà sovente ci ricorda, il teatro ridiventerà il primitivo teatro della Grecia di 25 secoli or sono, cioè un tempio, e per conseguenza un ritrovo non dominato dalla oscenità, dal canto sguaiato, dal riso sciocco o da seminudità lascive, ma un pubblico luogo, ove si vedrà esteticamente rappresentata la lotta delle passioni con la volontà, dell'egoismo con l'abnegazione, ed ove la parola sarà il riflesso costante di quel fondamentale argomento che è la vita comune, universale, dell'umanità. A questo culto si accompagneranno atti generali di beneficenza. E quanto vive e profonde saranno le emozioni che in queste feste comuni dell'avvenire proverà l'uomo! Il misticismo del predicatore non può rivaleggiare con la bellezza chiara e intelligibile della parola del poeta. La messa non ha significato, nè effetto per la mente umana, ma le passioni possono invece scuoterla ed elevarla. Ai commenti del dotto, che spiega i fenomeni della natura, al discorso dell'uomo politico, che tratta le questioni del giorno e dello Stato, gli uditori provano un compiacimento assai più vivo e immediato di quello che possono provare alla più ampollosa delle chiacchierate di un predicatore, che narri delle leggende ed innaffii dei dogmi. L'adozione di orfani fatta dal Comune, la distribuzione di vesti ed altri doni a fanciulli poveri, le onoranze a cittadini benemeriti, in edifici parati a festa, al cospetto di tutta la popolazione, con accompagnamento di canto e musica, e con cerimonie solenni e maestose, infonderebbero, a chi vi assiste, un sentimento di mutui doveri cittadini e umani, di colleganza, di solidarietà insomma che sarebbe ben altra cosa che non lo intingere macchinalmente tutti un dito nella pila dell'acqua santa, e lo innalzar canti sacri e preci in comune. Questo l'aspetto con cui io mi figuro nella mente la civiltà futura. È mia convinzione che sorgerà un tempo, in cui anche l'infimo uomo vedrà la propria esistenza collegata alla esistenza di una comunità; e con le feste della poesia, dell'arte, del pensiero, dell'umanità il suo stretto orizzonte individuale, allargandosi, si confonderà con l'orizzonte larghissimo dell'umanità intera. Una mèta di sviluppo più alta potrà egli allora contemplare e in lui trasfonderassi l'ideale umano. Ma finchè non si potrà realizzare quest'avvenire, si comprende come le moltitudini cerchino nella religione, o meglio, nelle sue promesse, una elevazione ideale, là sotto le ampie navate dei tempi, nei paramenti solenni dei sacerdoti, nel suono dell'organo, nei cantici, nei mistici riti del culto.

III.

Il fin qui detto dissipa un equivoco. Il bisogno che ha l'uomo di impulsi elevati e spirituali e d'un ideale, il bisogno di un conforto sempre pronto, e la illusione perfino di una potente e misteriosa protezione in tutte le vicissitudini della vita; tutti questi bisogni non sono ipocriti e mentiti; sono reali ed inestirpabili, e abbiamo constatato che, per motivi storici, fisiologici e psicologici, questi bisogni trovano necessariamente oltremodo agevole l'appagarsi con la solita fede in Dio, nell'anima e nella immortalità. Lo appigliarsi a questi fondamentali concetti non è, nella maggior parte degli uomini, una reale menzogna, non è un'illusione premeditata, ma è involontaria; è un'onesta debolezza, un difetto ingenuo, un'abitudine di cui non si può spogliarsi, una sentimentalità poetica che pietosamente vuole sottrarsi alla inesorabile analisi della ragione. Con le parole «menzogna religiosa» io alludo ad altra cosa. Alludo alla venerazione che uomini inciviliti tributano ancora alle religioni positive, ai loro dogmi, alle loro istituzioni e feste, ai loro riti e simboli, ai loro preti.

Questa venerazione è una menzogna ed un'ipocrisia anche in coloro i quali, benchè subiscano ancora il trascendentalismo, non sono però interamente stranieri alle nozioni e alla coltura dei loro tempi: è una menzogna e un'ipocrisia, la enormità delle quali non stampa il rossore in viso, solo perchè si compie quasi sempre senza riflettere e senza chiedere a sè stessi quale importanza possano avere le proprie opere. Per abitudine si va in chiesa, si saluta il prete, si ha venerazione alla Bibbia, si assume macchinalmente un'aria di raccoglimento e di devozione nel prendere parte alle cerimonie del culto, e si evita di riflettere che con tutti questi atti si tradiscono le proprie convinzioni, le proprie cognizioni, tutto ciò insomma che sappiamo e riteniamo come verità.

Dalle indagini storiche abbiamo appreso come sia sorta la Bibbia; noi sappiamo che sotto questa denominazione si indica una collezione di scritti, la quale, per origine, carattere e contenuto, è così varia come esser non lo potrebbe un altro libro qualsiasi, ancorchè questo, a mo' d'esempio, contenesse i Nibelungi, un codice di procedura civile, i discorsi di Mirabeau, le poesie di Heine, ed un manuale di zoologia stampati a spizzico, mescolati senza regola, e riuniti in un solo volume. In quel zibaldone noi ravvisiamo distintamente vecchie superstizioni della Palestina, oscuri ricordi di favole indiane e persiane, incomprese imitazioni di dottrine e usanze egiziane, cronache tanto aride quanto storicamente improbabili, poesie rozzamente umane, erotiche e patriottico-ebraiche, tutti lavori che si segnalano assai di rado per bellezza sovreminenti, ma assai spesso per esaltazione d'animo, per cattivo gusto, per schietta sensualità orientale. Come monumento intellettuale la Bibbia è opera meno antica del Veda e d'una parte dei King; come valore poetico è inferiore a tutto ciò che da duemila anni fu creato, anche da poeti secondari, e il volerla mettere al pari con le opere più insigni di un Omero, di un Sofocle, di un Dante, di un Shakespeare o di un Göthe non potrebbe venire in mente che ad un fanatico, il quale abbia rinunciato alla rettitudine del giudizio. Essa intende il mondo in un modo affatto infantile e la sua morale è alle volte ributtante; è ributtante, p. es., nel Vecchio testamento la sete perpetua di vendetta, e nel nuovo la parabola dell'operaio dell'ultima ora, gli episodi della Maddalena e dell'adultera e le parole che Cristo rivolge a sua madre. Eppure molti uomini côlti e atti a comprendere tutto ciò, simulano di avere un'illimitata venerazione per questo vecchio libro, si scandalizzano quando francamente se ne parla come di una produzione qualunque della mente umana, costituiscono potenti associazioni con ingenti somme per diffondere a milioni gli esemplari sulla superficie della terra e pretendono di edificare ed elevare il loro spirito quando lo leggono.

Le liturgie di tutte le religioni positive riposano su concetti ed usi, che hanno la loro origine nella più antica barbarie dell'Asia e dell'Africa del nord. Il culto del Sole degli Arii, la Mistica del buddismo, il culto di Iside e di Osiride degli Egizi misero il loro germe nelle feste e nei sacrifizi ebraici e cristiani. E uomini del XIX secolo stanno in contegno serio, anzi solenne, quando fanno e ripetono genuflessioni, gesticolamenti, cerimonie o invocazioni, che inventaronsi migliaia d'anni or sono, all'epoca della pietra o del ferro, sulle rive del Nilo o del Gange, da uomini miseramente educati a dare una forma sensibile ai concetti del più rozzo paganesimo sull'origine del mondo e sulle leggi ond'è regolato. Quanto più si considera a fondo quest'indegna commedia, e si fissa il pensiero sulla grottesca contraddizione fra la coltura contemporanea e la vita pratica, più riesce malagevole discorrere di questo argomento con animo pacato. La insensataggine è così inumanamente pazza, così poderosamente enorme, che, col solo mezzo di una critica speciale, non si riuscirebbe a sradicarla; come la scopa più ingegnosa e forte non potrebbe mai spazzar via le montagne di sabbia del Sahara. Quindi non ci rimane che accoglierla con le grosse risate sarcastiche di un Rabelais, oppure scaraventarle addosso il calamaio di un Lutero del vero progresso.

Come enumerare ad uno ad uno i diversi aspetti della menzogna religiosa? Conviene accontentarsi di prendere alcuni esempi alla meglio. I diplomatici ricorrono a mezzi di corruzione e a minacce per determinare i cardinali ad eleggere Papa piuttosto questo che quello, e dopo che i faticosi ed ostinati loro intrighi hanno sortito l'effetto desiderato, questi stessi diplomatici, che hanno condotto le fila delle marionette, ammettono nel Papa un'autorità, la quale dovrebbe lasciar presumere che fosse stato invece lo Spirito Santo che lo ha prescelto a successore di San Pietro. Migliaia e migliaia di persone accettano come un avvenimento serio ed importante l'elezione del Papa, mentre che sogghignano ai racconti della installazione di un Dalai-Lama, dopo la morte del suo predecessore; eppure i due avvenimenti si assomigliano assaissimo. I Governi mantengono rappresentanti presso un uomo, il quale ha questo significato, cioè che egli può mettere a fianco di Dio nuovi santi, assicurare ricompense celestiali alle anime umane e liberare i peccatori dai tormenti di un rogo postumo. E, stipulando con quell'uomo trattati diplomatici, riconoscono, con la forma solenne delle leggi, che esercita un influsso particolare su Dio, che ha reali rapporti con Dio, e che una persona, la quale si è così famigliarizzata coll'Essere supremo, da meritarsi il conferimento di una parte del suo potere sulla natura e sulla umanità, ha ben diritto ad un rispetto che non si addice ad altro uomo. E questi stessi Governi non si trattengono dal far spedizioni nell'Africa centrale e deridere un mago negro, che, per impedire che altri penetri nelle sue regioni, minaccia il viaggiatore dell'ira dei suoi Fetiscii, dei quali egli crede d'essere il protetto invincibile e il consigliere. Qual divario corre fra quel povero diavolo d'africano e il Papa romano, poichè e l'uno e l'altro pretendono di essere i primi ministri di Dio, di poter disporre dei suoi tuoni e delle sue folgori, di poter raccomandargli persone meritevoli di preferenza e di proporgli delle punizioni? E dov'è la logica dell'europeo côlto per giudicare l'uno come un personaggio ridicolo e l'altro come una potestà venerata e infallibile?

Ogni atto religioso compiuto dall'uomo côlto del XX secolo è una commedia che non ammette scusa, è una farsa sconveniente. Chi si lascia aspergere di acqua benedetta, non fa che confermare l'opinione che alcune parole susurrate da un prete e accompagnate da certi gesti, possano trasformare l'essenza di quell'acqua e conferirle proprietà misteriose, sebbene l'analisi chimica più semplice possa provare che fra quest'acqua ed un'altra non v'ha differenza di sorta, tranne che nella limpidezza e nettezza. Si recitano preghiere, si fanno genuflessioni, si ascoltano messe, si partecipa ad altri atti religiosi, e con ciò si viene ad ammettere che possa esistere un Dio, il quale si sentirebbe solleticato da invocazioni, azioni, profumi d'incenso, suoni d'organo, sol quando però queste invocazioni siano emesse con determinate parole, e le azioni si compiano conformemente a date formule, o le cerimonie tutte vengano celebrate da persone coperte da prestabilite vesti bizzarre, da mantellini e sottane, con tali fogge e mescolanze tali di colori che nessun uomo di senno porterebbe indosso. Questo fatto, cioè che la liturgia è stata creata ed è scrupolosamente osservata, non si potrebbe tradurre nella lingua del comune buon senso che in questo modo: i preti hanno saputo da fonte sicura che Dio ha la vanagloria di ascoltare ogni sorta di complimenti, di elogi e adulazioni, di esigere che altri esalti la sua grandezza, la sua sapienza, la sua bontà, tutti insomma i suoi attributi, e che oltracciò ha pure lo strano capriccio di volere che questi elogi e complimenti siano fatti in un dato modo, e non altrimenti. E i figli dell'epoca delle scienze naturali ostentano rispetto a coteste liturgie e non tollerano che stravaganze siffatte si respingano, come meritano, con disprezzo e disdegno!

Più insoffribile e più ributtante della menzogna religiosa dell'individuo è la menzogna religiosa delle comunità. Un individuo, come tale, ancorchè appartenga manifestamente ad una religione positiva e partecipi alle sue pratiche, può internamente sentirsi estraneo alla superstizione e per nulla convinto che il pronunciare determinate parole muti il corso delle leggi cosmiche, che l'aspergere d'acqua un bambino lo strappi alle unghie del demonio, e che il canto o l'invocazione fatta da un uomo coperto da una veste talare faciliti ad un morto l'entrata in paradiso o almeno la renda possibile. Ma questo stesso cittadino, come membro del Comune e dello Stato, non si perita di dichiararne necessarie tutte le istituzioni volute dalla religione positiva, e per esse si sottopone a tutti i sacrifici morali e materiali, che gli vengono richiesti dai fautori stipendiati d'una superstizione legalmente riconosciuta e mantenuta. Lo stesso Stato, che erige università, scuole e biblioteche, edifica chiese; egli che impiega professori, stipendia anche preti; lo stesso codice, che sancisce l'istruzione obbligatoria di fanciulli, punisce il sacrilegio e l'offesa e il disprezzo a religioni riconosciute. Ora vediamo un po' quali siano le conseguenze che derivano, da tale stato di cose. Se tu asserisci che la terra è immobile e che il sole gira intorno ad essa, malgrado che la scienza ti provi il contrario, oppure se tu affermi che la terra non ha che dai 5000 ai 6000 anni, malgrado che monumenti egiziani ed altri ti dimostrino che risale a più migliaia d'anni, nessuno per queste tue asserzioni ed affermazioni, ti può vessare, nè ti rinchiuderanno neppure in un manicomio, e nemmeno ti interdiranno diritti e uffici pubblici, quantunque tu dia luminosamente prova di non possedere affatto nè l'attitudine, nè le doti intellettuali indispensabili per tenere, anche solo teoricamente, un impiego privato, peggio poi se pubblico. Ma se, per contro ti fai a sostenere che non credi all'esistenza di un Dio e che il Dio delle religioni positive è un aborto di intelligenze infantili o incolte, oppure anche stupidissime, ti esporresti in questo caso a persecuzioni giudiziarie e alla dichiarata incapacità di esercitare diritti e uffici pubblici, malgrado che dell'esistenza di Dio non sia mai stata offerta una prova veramente scientifica o razionale, perchè anche le pretese prove, che possono essere addotte dal più fervente dei teologi, sono ben lungi dall'essere così chiare e così concludenti come quelle che vi presenta l'archeologo o il geologo sul tempo della civiltà umana e del globo terrestre, e che vi dà l'astronomo sul moto della terra intorno al sole. Di più, tenuto anche conto della posizione del teologo, sarebbe sempre più scusabile dubitare di Dio, che non dei palpabili risultati delle indagini scientifiche.

Ma c'è ancora qualche cosa d'altro: lo Stato nomina professori, li stipendia coi denari dei contribuenti, concede loro titoli e dignità, conferisce loro, insomma, parte della sua autorità, e cotesti professori hanno il diretto ufficio d'insegnare e provare che tutti i fenomeni sono governati da leggi naturali, che la fisiologia non ammette differenze tra le funzioni organiche degli esseri viventi, e che in fine due e due fanno quattro; ma in pari tempo mette, accanto a cotesti professori di scienze esatte, professori di teologia, che hanno essi pure il diretto ufficio d'insegnare e sostenere, ma senza provare però, che l'uomo nasce col peccato originale; che un giorno Dio ha dettato un libro ad un uomo; che in molti casi le leggi della natura cessano d'agire; che un po' di pasta, in virtù di alcune parole brontolate, si trasforma in carne e precisamente nella carne di un uomo che, a detta di loro stessi, è morto circa 1905 anni or sono; infine, che tre è uno e uno è tre. Se un cittadino amante di tutto ciò che è conforme alla legge, andasse ad ascoltare, una dopo l'altra, la lezione del professore regolarmente autorizzato di scienze naturali, e la lezione del professore, regolarmente autorizzato pur esso, di teologia, si troverebbe poscia in un ben serio imbarazzo. Quello gli ha insegnato che, dopo morte, l'organismo si decompone ne' suoi elementi; questo gli ha invece appreso che, dopo morte, certe persone non solo non si decomposero, ma anzi sono risuscitate. E ambedue queste dottrine sono protette dall'autorità dello Stato, tutti e due i professori ricevono lo stipendio dal suo erario, e tutte due le facoltà lo Stato le dichiara necessarie e le dice autorizzate. A quale dei due professori quel povero cittadino deve prestar fede? Al teologo? Ma allora mentisce il fisiologo, e lo stato stipendia un mentitore e gli conferisce scientemente l'ufficio di seminare menzogne nella gioventù! Crederà egli al fisiologo? Allora mentitore è il teologo, e lo Stato, nominandolo professore, si fa scientemente colpevole dello stesso inganno! A fronte di codesto dilemma, sarebbe egli da meravigliarsi se quel cittadino sentisse venir meno il suo rispetto verso l'autorità dello Stato?

Ma ciò non è ancor tutto. Lo Stato punisce con le sue leggi e co' suoi tribunali quelle vecchie streghe che sanno spillare danaro alle fantesche col pretesto di fare riavere ad esse l'amore del loro volubile amante, ma lo stesso Stato mantiene e onora, in pubblico e in privato, uomini che spillano danaro alle medesime fantesche, con un pretesto non meno ingannevole e con la ciarlataneria di liberare dal purgatorio i loro morti. L'usanza vuole che si abbia rispetto profondo e sommessione per gli alti dignitari della Chiesa, vescovi e cardinali. E a siffatta usanza ottemperano devotamente uomini, che tengono quegli ecclesiastici in conto di truffatori o di imbecilli, perchè in realtà non si distinguono sostanzialmente da taumaturghi delle Pelli Rosse, i quali hanno pur essi una liturgia, praticano cerimonie, recitano preghiere e fanno credere alle loro tribù d'essere investiti di poteri soprannaturali. Orbene, i nostri usi consentono che si rida di costoro, mentre ci consigliano di baciare devotamente la pantofola al Papa e la mano al prelato.

Noi leggiamo talvolta in giornali ufficiali ed ufficiosi dei motti umoristici quando il Governo della China minaccia con la pena della destituzione quel Dio che trascura certi bisogni del paese, per esempio, se non fa piovere, se non dà la vittoria alle truppe imperiali, ecc.; e questi stessi giornali pubblicano in prima pagina un'ordinanza governativa – come avvenne in Inghilterra dopo la vittoria di Tell-el-Kebir – con cui si decreta un rendimento di grazie a Dio, in un giorno determinato e con frasi ufficialmente stabilite, per aver esso, in una data occorrenza, concesso alla nazione il suo speciale ausilio. Ma dov'è un'essenziale differenza tra l'ordinanza del Governo chinese, che ricusa sacrifici a un Dio nazionale, perchè non tenne lontana la strage di un'epidemia, e l'ordinanza del Governo inglese, che tributa pubblica riconoscenza a Dio, perchè tutelò bravamente in Egitto gl'interessi della politica britannica e si palesò amico degli inglesi e avversario degli arabi? Le due ordinanze pigliano le mosse da uno stesso punto; con questo divario, che i chinesi sono più coraggiosi e più logici degli inglesi, perchè questi non oserebbero mai, dopo una disfatta, di volgere il loro malumore contro Dio, per essere egli venuto meno nell'adempimento dei suoi doveri verso una nazione, che tanto lo venera, mentre invece profondono laudi al suo zelo, dopo la vittoria.

L'ho già detto: non si può scandagliare la menzogna religiosa in tutti i suoi particolari; ci è forza limitarci, se non si vogliono fare soverchie ripetizioni, a pochi cenni sparsi. Essa penetra e si addentra nella nostra vita pubblica e privata, e la demoralizza. Lo Stato mentisce quando ordina giorni di preghiera, quando stipendia preti e insedia nell'Alta Camera i principi della Chiesa; mentisce il Comune quando erige tempî; mentisce il  magistrato quando sentenzia-condanna per bestemmia ed offesa a comunità religiose; mentisce il prete moderno, quando si fa pagare per compiere atti o recitar parole, ch'egli sa altro non essere che stupida ciarlataneria; mentisce il cittadino côlto, quando simula venerazione al prete, quando si accosta alla comunione, quando fa battezzare il suo bambino. L'esistenza, nella nostra civiltà, di formalità religiose, antiquate e simili in parte a quelle dei tempi preistorici, è un fatto mostruoso. E il posto, che in mezzo a noi occupa il prete, questo equivalente europeo del Mago americano e dell'Almamì africano, è un trionfo insolente della pusillanimità, dell'ipocrisia e della pigrizia intellettuale sulla verità e sulla interezza del carattere. Basterebbe ciò soltanto per imprimere alla nostra odierna civiltà la qualifica di assolutamente menzognera e alle nostre forme sociali e politiche quella di completamente caduche.

LA MENZOGNA MONARCHICO-ARISTOCRATICA

I.

Qualora si potessero considerare le istituzioni esistenti soltanto da un punto di vista artistico-estetico, qualora fosse possibile contemplarle e giudicarle con la spassionatezza del principe Usbecco nelle Lettere persiane di Montesquieu, il quale non cerca che impressioni in mezzo a un mondo estraneo, di cui scuote la polvere dai calzari appena ne è uscito, forse non si esiterebbe a ritenere che l'attuale ordinamento sociale sia saviamente congegnato, logico e perfettissimo nel suo insieme. Tutte le parti si connettono bene, tutte le membra si sviluppano per eccellenza, c'è una linea unica e logica che tutto rannoda dall'un capo all'altro. Quando quell'edificio gotico, che fu l'ordinamento sociale e politico del medioevo, stava ancor ritto sui suoi pilastri e sotto le sue volte, dev'essere stato maestoso, e a coloro che vi abitavano dev'essere parsa una dimora sicura e, in pari tempo, superba e comoda. Oggi non ne rimane che la facciata; tutto il resto che stava dietro di essa, è rovinato e scomparso, e colui che ivi cercasse un tetto riparatore, più non troverebbe una stanza col soffitto intatto, nè muri atti a proteggerlo dalla pioggia e dal vento; ma la facciata ha conservato i tratti caratteristici del vecchio edificio e rivela ancora alla mente dell'osservatore il concetto di un piano savio, e degno di considerazione. Ciò che un giorno era una solida costruzione, oggi non è più che una decorazione esteriore, superficiale; ma questa decorazione teatrale è un'opera d'arte architettonica, le cui parti costituiscono un insieme completo. Certamente, non bisogna contemplare quel monumento dall'interno, stando in mezzo alle macerie, ma dal di fuori e ad una distanza che dia una buona prospettiva. In questo caso, ed esercitando con equità la critica artistica, non si potrà non esclamare: «L'architetto ha fatto bene l'opera sua!».

La monarchia è inseparabile dalla religione. Quella, nell'attuale sua forma storica, presuppone questa come inevitabile condizione precedente. Il contrario non è possibile. La religione, infatti, può essere una istituzione politica, senza avere per condizione concomitante la monarchia. Ciò non ha bisogno d'essere teoricamente provato. Fu già messo in pratica nelle repubbliche indometiccie dell'America del Sud, governate dai gesuiti, e negli Stati Uniti dell'America del Nord, eretti su basi religiose. La monarchia invece non è concepibile senza la fede in Dio. Si può, sì, immaginare un uomo forte e prepotente il quale si impadronisce del governo di un paese e lo conserva colla prudenza e colla forza. Con un colpo di mano sottometterà la nazione e si appoggerà ad una camarilla di aderenti interessati, ch'egli incatena al suo carro con vantaggi materiali, onorificenze e dignità, e ad un esercito, a cui dà il primo posto nello Stato e ch'egli conduce a vittorie, e sazia di denaro, di decorazioni e di titoli. Può, a suo talento, pigliarsi una corona d'imperatore o di re, intitolarsi Monarca, Protettore, Dittatore o Presidente. La sua dominazione viene tollerata, perchè ha la forza di farsi obbedire. È anche possibile che la moltitudine s'inchini volenterosa alla sua ambizione, non solo perchè è naturale nell'uomo il lasciarsi trascinare fino all'entusiasmo dal fascino del successo, ma ben anco perchè al volgo pare utile, ed è molto comodo, approvare ciò che sta ed anche perchè Cesare, quando è uomo di molta levatura, può benissimo governare in modo che il commercio e le industrie fioriscano e che la giustizia venga esercitata con prontezza ed equità. E così tutti coloro, i quali non curano che gli interessi materiali, gli saranno grati, vedendo il loro desco ben fornito e la loro borsa ben piena. Un usurpatore di questa fatta potrebbe certamente avere il coraggio di praticare delle idee avanzate. Egli non sarebbe perduto rinunciando all'alleanza colla religione. Protetto dalla spada, non ha bisogno dall'appoggio della croce. Nè avrebbe a temere la critica della ragione, perchè alla logica di questa contrapporrebbe la forza. All'uomo logico che gli dicesse: «Dacchè sei un uomo come gli altri e non abbiamo mai spontaneamente detto di voler te conce nostro pastore, noi riconosciamo di non aver motivo alcuno d'assegnarti un posto distinto e obbedire ai tuoi comandi», il tiranno, a questo sillogismo, potrebbe rispondere: «Forte è la tua argomentazione, ma forte è pure il mio esercito. Se tu non mi ubbidisci per ragione e per logica, ubbidiscimi, perchè ti posso costringere a farlo». Un regnante siffatto non ha certamente bisogno di appellarsi a Dio; gli basta l'appello al suo pugno. Può rinunziare all'unzione dell'olio santo e alle benedizioni sacerdotali, perchè ha per sè la polvere, e le sue baionette illuminano le ossequiose moltitudini tanto quanto il religioso misticismo di una pomposa incoronazione. Ma la cosa muterebbe aspetto quando questo usurpatore avesse un figlio a cui volesse trasmettere la successione dell'impero. Allora egli implorerà l'intervento della religione; allora gli balenerà alla mente che al medio evo le chiese erano asili, e contro le persecuzioni della ragione egli cercherà scampo ai piedi dell'altare. Non basterà più la lama della spada, ma a questa spada bisognerà dare per impugnatura la croce. Le origini della potenza di Cesare sono troppo palesi: è necessario annebbiarle coll'incenso. Si manomettono le rigide fila della storia per incorniciarle artificiosamente e in modo ambiguo dentro una leggenda; e si dà incarico al prete, quando un indiscreto gli chiedesse: «Perchè quel figlio dappoco e inetto a crearsi una corona deve ereditar quella del forte suo genitore?», di rispondere; «Dio lo vuole». Ma questo è lo scoglio che può ora far naufragare le giovani monarchie. Sotto gli sguardi di un pubblico composto di figli del XX secolo non si può trasformare il fuoco delle fucilate di un colpo di Stato nelle fiamme del roveto di Mosè, e molto ardua cosa è insinuare nei cervelli dei nostri contemporanei l'idea che una lotta di strada sia una rivelazione divina. Improba fatica è quella di dare ai proclami che sono l'atto di nascita di una dittatura, una posticipata apparenza sacra; e quando l'erede d'un dittatore non saprà conservare il trono del padre colla violenza usata dal padre, difficilmente gli recherà giovamento il far derivare dal cielo il suo diritto di sovranità. La. religione cattolica ha severamente proibito di canonizzare qualcuno se non quattro generazioni dopo la sua morte. Bisogna lasciar tempo ai fedeli di dimenticare l'umanismo quotidiano del santo, perchè non sarebbe possibile, anche con la migliore volontà del mondo, di persuadersi che Tizio o Caio, che ebbimo accanto sullo stesso banco a scuola, abbia potuto mettere ali d'angelo e che, vicino al trono di Dio, funzioni nei cori celesti dei beati cantori come uno dei più celebri solisti. Anche in questa cosa la Chiesa fu più furba di quei Cesari, che vollero l'apoteosi sotto lo sguardo dei loro contemporanei, senza nemmeno attendere che questi più non ricordassero di averli veduti coi sàndali rotti e con debiti non pagati. Il grande errore politico dei Bonaparte fu quello di non essersi contentati di dominare per sola virtù propria la Francia, e di aver chiesto alla chiesa di Notre-Dame il mistico certificato d'origine d'un'incoronazione. Cosa superflua dopo il diciotto brumaio e il due dicembre. L'aquila dell'impero non doveva accompagnarsi con la colomba dello Spirito Santo.

Se un dittatore non ha bisogno della religione, un  monarca legittimo invece non può farne a meno. Essa è per lui una condizione preintesa, naturale, necessaria. Il più delle volte questo monarca sta piuttosto al di sotto che al di sopra della media proporzionale dell'intelligenza. È già un fenomeno raro che un principe sia ciò che nella vita comune si chiama un talento. Un'intelligenza che si tolga dall'ordinario, o che sia veramente un genio, sul trono la si vedrà forse, nelle dinastie storiche, per una volta tanto, nel corso di parecchi secoli. Fra i regnanti viventi, nei paesi civili, ve ne sono di quelli che considerano sè stessi come grandi capitani, altri credono di essere letterati, giuristi, scienziati, pittori o musici. V'ha anche fra essi chi si prende veramente pena per far progressi in quella materia, per la quale crede di avere attitudini naturali, e tutto ciò infatti ch'egli produce è realmente tutto ciò ch'egli può dare. E cosa dànno tutte queste loro fatiche? Volendo giudicare non da cortigiani, ma come critici indipendenti, si viene alla conclusione che essi, senza la loro nascita principesca, non sarebbero riusciti mai, malgrado tutti i loro sforzi, ad acquistar fama negli studi da essi prescelti. Quel principe, che si diverte a far il soldato, non avrebbe mai potuto diventare generalissimo; quell'altro, che fa all'amore colla giurisprudenza, molte cause le avrebbe vinte con difficoltà; quello che si è dato all'astronomia, non avrebbe potuto occupare la più umile delle cattedre universitarie; il drammaturgo non avrebbe mai vista la rappresentazione di un suo dramma, il pittore mai venduto un suo quadro. Ancorchè si chiamassero Müller, Durand, Bianchi o Smith, nella gara generale per contendersi i primi posti rimarrebbero molto addietro. È dubbio se, fra loro, uno si possa trovare atto a guadagnarsi la vita col lavoro ordinario, a costituire una famiglia e mantenerla. Certo che bisogna ancora essere indulgenti, per ritenere che colle loro doti attuali, benchè sia loro stata impartita un'istruzione che non è quella dell'artigiano o del droghiere, abbiano potuto diventare, si sottintende senza menomamente segnalarsi, tanto quanto un funzionario comune o un ufficiale di carriera. Alcuni hanno almeno delle qualità sociali ed umane. Sono begli uomini. Nell'intimità sanno conversare in modo attraente. Sanno far perdere la testa a qualche ereditiera e conchiudere ricchi partiti: è talento anche questo. Altri però non possono neppur sfoggiare queste qualità, che, se non sono importanti, sono almeno graziose. Questi ultimi sono brutti, fiacchi, malaticci, poveri talmente di spirito da non saper tener viva, neppure per soli dieci minuti, la più scipita conversazione da salotto, e così smodatamente volgari da far loro perdere ogni speranza che una donna qualsiasi possa amarli per sè stessi.

Eppure, ognuno di questi principi occupa nel proprio paese un posto che è precisamente eguale a quello che occupano tutti gli altri principi negli altri paesi. Federico il Grande come Ferdinando VII di Spagna, Giuseppe II come Ferdinando di Napoli detto Re Bomba; Leopoldo I del Belgio come Luigi XV o Giorgio IV di Inghilterra. Tutti egualmente sacri, egualmente inviolabili, egualmente infallibili. Il loro nome spicca con la stessa solennità in tutti gli atti del Governo; i loro decreti hanno tutti eguale vigore ed osservanza. Tutto a loro s'inchina egualmente, profondamente: si conferisce loro il medesimo titolo di maestà e, senza far distinzioni di grado, si chiamano serenissimi, potenti, graziosi. Il naturale buon senso si ribella a tale spettacolo, e domanda: «Tu, imbelle, tu, inabile, perchè comandi a grandi generali e a potenti eserciti? Tu, testa di legno che non sai scrivere senza errori di ortografia la tua lingua materna, perchè sei tu l'alto mecenate delle accademie e delle Università? Tu, delinquente, perchè impartisci la giustizia e disponi della vita e della morte di accusati? Tu, sudicio maiale, perchè sei il dispensatore di ricompense alla virtù e al merito? Tu, fiacco, perchè regoli le sorti di un popolo forte e per molte generazioni determini la tendenza del suo sviluppo? Perchè? Perchè?».

Siccome a queste interrogazioni non si può dare una risposta ragionevole, così alla monarchia non resta a dire che questo: «Perchè? Perchè Dio vuole così!» Con questa risposta stereotipata si previene ogni indiscreta curiosità, ogni critica molesta. La maestà divina deve precedere, a guisa d'araldo, la maestà umana. Chi vuole esercitare i suoi privilegi, indica innanzi tutto la sorgente sacra della sua podestà. «Per la grazia di Dio» leggiamo sulle monete, «per la grazia di Dio», vediamo nelle leggi, nelle convenzioni, negli atti ufficiali. «La grazia di Dio» è la commendatizia che presenta la monarchia quando si chiedono informazioni sulla sua solvibilità. Per dare però validità a questa ragione del potere sovrano fa mestieri credere in Dio», e perciò è cura grandissima ed incalzante della monarchia di coltivare nel popolo con tutti i mezzi dell'astuzia e della forza, la fede in Dio. I monarchici convinti, che combattono con veemenza il progresso e non vogliono che lo si favorisca con l'azione del Governo, hanno mille volte ragione. Sono logici, quando predicano: «Il popolo deve avere una religione»; sono logici, quando si oppongono all'istituzione di scuole laiche; logici, quando proclamano che la separazione della Chiesa dallo Stato equivale alla demolizione dei pilastri dell'edificio dello Stato. La pretensione loro che lo Stato debba essere cristiano è una necessaria conseguenza del loro principî. Non sono però giusti quando soggiungono che «senza religione il popolo non ha moralità, e lo Stato, non più cristiano, diventa il teatro delle cattive passioni, dei vizi e dei delitti». E come esatto epilogo bisogna aggiungere: «Perchè la religione è la sola ragione della monarchia ereditaria e perchè il progresso condurrebbe inevitabilmente al governo del più forte o del più illuminato, cioè alla repubblica o alla dittatura». È una nuova prova della falsità della nostra epoca il fatto che anco i monarchici più temerari non hanno il coraggio di confessare il vero motivo, pel quale vorrebbero ricacciare il popolo nell'ovile della Chiesa: Essi dovrebbero dire francamente: «A noi la religione è necessaria come egida alla monarchia». Questo sarebbe coraggio. Il dire invece ch'essi mantengono la religione in nome dell'ordine, della moralità e del benessere pubblico, è una viltà.

La cosa più contraddittoria che il nostro secolo inventò è la monarchia liberale, costituzionale. Si è tentato di fondere insieme due forme politiche, due teoriche generali, che si escludono reciprocamente. È una fortuna che le faccende umane non siano padroneggiate dalla logica, ma bensì dall'inerzia, dalla forza di conservazione, o, per dir meglio, è una fortuna che la logica non prevalga che a lunghi intervalli, altrimenti questa cosa irragionevole, che è la monarchia costituzionale, non potrebbe reggere un'ora. Come mai? La monarchia presuppone l'esistenza di Dio ed è da Dio stesso istituita, e poi divide il suo potere con dei mortali? Il monarca lascia che la sua volontà venga limitata da rappresentanti del popolo, cioè da uomini, mentre questa stessa sua volontà è emanazione diretta della volontà divina? Dunque il monarca permette che si limiti la volontà di Dio? Ma è possibile tutto ciò? Una tal cosa non sarebbe una specie di ribellione a Dio, un sacrilegio? E un monarca credente, con una legge fondamentale, sancisce espressamente che sia lecito cotanto sacrilegio? Questa è la prospettiva della monarchia costituzionale guardata dal punto di vista della grazia di Dio. Guardata poi dal punto di vista della sovranità popolare, la stessa monarchia costituzionale è altrettanto irragionevole. Il costituzionalismo riposa sulla premessa che il popolo ha il diritto di regolare da sè le proprie sorti. Donde gli viene questo diritto? Dalla natura stessa. È una delle espressioni della sua forza vitale. Il popolo ha il diritto di governar sè stesso, perchè ne ha la forza, come l'individuo ha il diritto di vivere, perchè e finchè può vivere. Ma se queste illazioni sono giuste, come mai si può tollerare un monarca ereditario, la di cui volontà ha, sola, tanto peso quanto la volontà di tutto il popolo? Un monarca che ha il diritto di resistere alla volontà popolare, come il popolo ha il diritto di resistere alla volontà regale? Se il popolo, in virtù della sua sovranità, volesse destituire il monarca o abolire la monarchia, vi si adatterebbe il monarca? E se il sovrano, in forza della sua sovranità, volesse abolire il Parlamento, il popolo lo tollererebbe? In modo diverso, ove sarebbe la sovranità dell'uno o dell'altro? Due sovranità in uno Stato non sono ammissibili, come non sono ammissibili nella natura due Iddii, aventi entrambi quegli attributi che i fedeli assegnano al loro Dio unico. Al monarca per la grazia di Dio il dritto popolare deve parere una negazione dell'onnipotenza divina; e al popolo istruito una negazione dell'indubitata sovranità nazionale la monarchia per la grazia di Dio. Non si può concepire la monarchia costituzionale che sacrificando la ragione. Essa sta alla monarchia assoluta, come il protestantismo ortodosso sta al cattolicismo. Il cattolicismo, è logico, il protestantismo è arbitrario. Quello conferisce al suo capo il diritto di rivelare ciò che deve essere creduto, e non permette che si sottopongano a critica i suoi decreti. Questo permette la critica della fede, purchè essa si fondi sulla Bibbia, ma inibisce che si sottoponga a critica la Bibbia stessa. La ragione ha il diritto di muoversi liberamente fino ai confini della rivelazione; ma al dì là, essa pur deve immobilizzarsi nella rivelazione. Perchè? Non c'è motivo giustificante. È così, perchè non è altrimenti. È la ragione con circolazione limitata; la critica con un freno, il quale non le permette che di progredire fino ad un certo limite. In egual modo, la monarchia costituzionale pone certe premesse, ma non permette che se ne traggano le conseguenze. Riconosce il principio del self-governement della nazione, ma in pari tempo lo sconfessa, proclamando che non vi hanno diritti più alti e più antichi dei proprii. Permette che la logica esista e cammini, ma con denti spezzati e con le gambe amputate.

Così come stanno le cose, dò il vanto alla monarchia assoluta, circondata da istituzioni medioevali. Essa contenta la logica e blandisce il sentimento che aspira alla uniformità e all'armonia. Non occorre sacrificare la ragione che una volta sola: non c'è da accettare senza discussione che un punto di partenza, cioè che il monarca deve i suoi privilegi alla grazia speciale di Dio. Ciò premesso, tutte le altre circostanze della monarchia assoluta succedono con una buona associazione logica. Diventa allora incensurabile il supremo principio di diritto, che il monarca è infallibile, anche quando assassinasse, stuprasse, rubasse, spergiurasse; è allora sottinteso che il monarca può fare del suo popolo, del suo paese e d'ogni suo suddito tutto ciò che gli garba senza che un mortale abbia il diritto di opporsi alla sua volontà; non si può mettere allora in dubbio che la sua persona sia sacra e ch'egli sia parte visibile della celeste provvidenza. Colui, che è un immediato plenipotenziario di Dio, ha certamente un indiscutibile diritto ad un posto e ad un potere sovrumani. È così l'edificio della monarchia per la grazia di Dio, teoricamente perfetto, non guasto da mutilazioni; non deformato da antisimmetriche sovrapposizioni di popolari diritti, è un capolavoro dell'intelletto umano, e l'occhio riposa soddisfatto su quell'armonica architettura. Il suddito, che non ha che da obbedire, lavora in pace colla calma perenne della macchina; quando le sue ossa vanno bene, ingrassa placidamente; se patisce la fame, sa che così deve essere e così era predestinato nell'ordine del mondo, e si dà pace; non ha nemmeno bisogno di pensare, perchè il monarca pensa per lui, dirige il presente e prepara l'avvenire come meglio crede. E, qualora sorgesse a tormentarlo il dubbio che non tutto fosse pel meglio nei migliori dei mondi possibili, allora c'è la Chiesa che lo rassicura, asseverando che è decreto di Dio anche ciò che pare non buono e che Dio sa bene quello che è giusto; e se egli, uomo, non arriva a comprendere come ogni cosa che esiste sia perfetta, lo deve soltanto alla sua limitata intelligenza. La monarchia e la religione sono due soci congiurati, e insieme combattono pei loro comuni interessi. Il monarca manda il popolo in chiesa, ed il prete predica d'inchinarsi davanti alla reggia. Il monarca salmeggia: «Non c'è che un Dio solo; e per chi non crede in lui io stipendio carcerieri e carnefici», e il prete risponde coll'altra strofa: «Il monarca è istituito da Dio, e chi in lui non crede, perde la felicità celeste senza computamento delle pene terrestri». Il monarca assicura che il prete non mentisce, e il prete conferma che il monarca nulla si arroga che non gli venga di diritto. Se dappertutto la verità divenga notoria per bocca di due testimoni deve certo fare una profonda impressione sulla mente ingenua del popolo, un'affermazione sostenuta da una parte, da chi porta sul capo una corona e sulle spalle un manto di porpora, e, dall'altra, da chi porta indosso vesti ricamate in oro e sul petto una croce tempestata di gemme preziose. È vero che davanti ad un tribunale ordinario non varrebbe la testimonianza reciproca di due soci cointeressati, ma davanti ai popoli essa ha valore da migliaia d'anni.

II.

Non faccio qui il processo alla monarchia per farla decadere a favore della repubblica. Io sono ben lungi dall'andare in visibilio per la repubblica con l'ingenuità di un liberalismo dozzinale, che è rapito in estasi dal suono di una parola, senza ponderarne il significato. Per molti così detti liberali la repubblica è la prima mèta delle aspirazioni; per me è l'ultima. La repubblica, se vuol essere un progresso e una verità, deve presupporre, come necessaria condizione, tutta una serie di istituzioni sociali, economiche e politiche, che sono ben altra cosa che esistenti. Finchè la vecchia Europa vive con le presenti forme di civiltà, la repubblica sarà sempre, in essa, un assurdo e un indegno giuoco di parole. Un rivolgimento puramente politico, che trasformasse una delle monarchie europee in repubblica, non farebbe se non ciò che fecero gli apostoli fra i gentili al principio del medio evo. Predicavano la conversione, ma lasciavano a quei popoli i loro Dei, le loro feste, i loro costumi: a tutte queste cose davano soltanto dei nomi cristiani. L'efficacia di siffatte rivoluzioni si limita ad appiccicare nuove etichette a vecchie mercanzie non più commerciabili, e a spicciarle al popolo credenzone come merci differenti e migliori: La repubblica è l'ultimo anello di una lunga catena di svolgimenti; è la forma legale con cui si concreta il principio della illimitata sovranità del popolo intiero. Questa forma, per essere organica e non soltanto un'etichetta o una vernice, non può conciliarsi coi privilegi ereditari, con le distinzioni, col predominio dei grossi capitali, con la potente gerarchia burocratica, con la interdizione delle moltitudini. Lasciare lo Stato come è, e cambiare solo la denominazione di monarchia con quella di repubblica, rassomiglierebbe politicamente all'astuzia di quei librai che, per introdurre in certi paesi libri incriminati e proibiti, ne strappano il frontespizio e inseriscono al suo posto la facciata di un libro di racconti infantili o di preghiere. Che erano le repubbliche italiane nel 1848, la repubblica spagnola del 1868? E che cos'è la repubblica attuale di Francia? Null'altro che monarchie con trono vacante; monarchie che si prendono lo spasso di una mascherata repubblicana. Figuriamoci una brigata carnevalesca di gentiluomini e di gentildonne, che vogliano rappresentare una festa nuziale di contadini, oppure un accampamento di zingari. Indosserebbero vesti e oggetti di quella povera classe, ch'essi vogliono imitare; userebbero il loro linguaggio e i loro gesti, ma nonostante ciò, questi resterebbe sempre il signor conte e quella la signora principessa. E il vero popolo, contemplando dal loggione la sala da ballo, non vedrebbe certamente in quella maschera l'abolizione delle classi sociali. Nondimeno, questo stesso popolo crede incomprensibilmente che siano avvenuti dei mutamenti essenziali quando, in una festa politica, la monarchia si veste degli abiti repubblicani e intreccia con garbo danze democratiche.

Una sola rivoluzione ha compreso che, per fare la repubblica, non basta cacciare il re dallo Stato e cambiare il frontone all'edificio. E fu la grande rivoluzione francese. Assieme alla regalità essa demolì pure tutte le istituzioni della vecchia monarchia. Come avviene dopo la morte di un appestato, essa non si limitò ad esportare il cadavere dall'abitazione, ma bruciò altresì i vestiti e gli oggetti tutti del defunto. La rivoluzione francese svelse dalle radici la monarchia e sconvolse le zolle del suolo storico sul quale era cresciuta. Abolì le nobiltà e distrusse, quanti più potè, i documenti sui quali essa pretendeva fondare i suoi privilegi, ne smantellò i castelli e perseguitò persino quei rimasugli, che la casta feudale aveva lasciato nel linguaggio, soppresse cioè la parola «signore», che rammentava usi di signoria e di soggezione nei rapporti sociali. Ma fece ancor più. Volle rinnovare nel popolo tutta la vita della mente. Non una linea delle sue esteriori abitudini intellettuali doveva rimanere intatta. Volle impedire che i vecchi concetti, cacciati dalla porta principale dello Stato, potessero rientrare da qualche porticina segreta delle comode e neghittose consuetudini. Per cui creò una nuova religione; inventò un nuovo calendario, nel quale nulla fosse, né capodanno, ne êra, nè nomi di mesi, nè nomi di giorni che ricordasse il vecchio; decretò nuove feste; prescrisse nuove fogge di abiti; in poche parole, edificò un mondo nuovo, nel quale la memoria del precedente sviluppo storico non trovava più posto Tuttavia, a che giovò tutto questo? Potè la rivoluzione cambiare abiti e linguaggio, ma non le fu possibile cambiare il cervello umano. La razza nata in Egitto non poteva colonizzare Canaan. Le secolari abitudini ebbero sui francesi assai più forza della legge, che agiva con la ragione della ghigliottina. La Dubarry, salendo il patibolo imbrattato di sangue, disse al cittadino Sanson: «Scusi, signor carnefice» e, finito il terrore, ai bricconi e ai ladri milionari, che si erano svergognatamente arricchiti con le forniture del Governo e trafficando i beni degli emigrati, furono concessi onori e dignità, che dianzi erano privilegio dell'aristocrazia del sangue. Per tal modo Napoleone potè, dippoi, regalando titoli a questi parvenus, costituire agevolmente una regolarissima aristocrazia sul modello di quella distrutta; e, appena calmati gli ultimi sussulti del terremoto rivoluzionario, si rivide ergersi di nuovo l'edificio sociale del medio evo, in parte con nuove pietre e nuovi travi, ma esattamente con la forma e sulle basi d'una volta.

Così, è proprio cosa inutile demolire una parte del vecchio ordine sociale e conservare il resto. Fu un delitto inutile mozzare il capo a quel semplicione di Luigi XVI, quando il popolo francese doveva continuare a vivere coi vecchi sistemi, a credere ad un Ente supremo e ad una provvidenza trascendentale, e venerare la Bibbia, celebrare il culto dei morti, ecc., ecc. Un rivolgimento esclusivamente politico, che muta la forma di governo e lascia incolumi tutte quelle premesse sociali, economiche e filosofiche, dalle quali scaturisce logicamente la monarchia, non è ragionevole, nè intrinsecamente giustificato. Non è che una perturbazione sciocca ed unicamente esteriore, come lo sarebbero i comandi di un tiranno, pazzo a guisa di Ivan il terribile, qualora fosse possibile vedere ai nostri giorni un tale fenomeno sul trono. La logica del vero si ribella contro cose siffatte e non permette loro che una breve durata. Nell'organismo di un popolo si ripete un noto fenomeno, che si verifica sovente negli individui mutilati. Come un individuo al quale fu amputata una gamba, sente ancora la sensazione del dolore là dove il membro non è più, così la società, data la sua odierna compagine, quando le si amputasse la monarchia per sostituirle una gamba repubblicana di legno, essa risentirebbe ancora dei battiti e dei pruriti monarchici. Anzi, sotto questo aspetto, la società, non può essere nemmeno paragonata all'uomo, ma piuttosto a quegli organismi infimi, nei quali si riproducono da sè le parti, che furono da essi troncate. C'è sempre nella società lo stimolo a riprodurre quell'organo, senza il quale essa non si sente completa perchè, secondo le proprie leggi vitali, quell'organo è indispensabile alla sua definitiva organizzazione.

Dunque, io non faccio parte con quegli strani liberali, che alla sola parola «Repubblica» cadono genuflessi o cantano osanna, mentre quella parola non è che un semplice movimento di labbra, o ipocrito o ingenuo. Quella religione, nella quale Dio non è che un nome vuoto, non è la mia. Acciocchè la repubblica espliciti la necessaria forma di istituzioni sostanzialmente organiche, bisogna che il popolo, il quale vuole adagiarsi entro questa forma, faccia fondamento su criteri scientifici e si distacchi da tutto il bagaglio medioevale, dal trascendentalismo, dal sistema delle caste ereditarie e dal capitalismo. Una repubblica con religioni di Stato, con mistiche formule di giuramento, con leggi che puniscono la bestemmia, con nobiltà ereditarie e privilegi di nascita, col possesso ereditario preponderante, è una repubblica che non segna progresso alcuno nell'umanità e non differisce essenzialmente dalla monarchia, anzi è da meno di questa, perchè non accontenta la logica, nè l'estetica, mentre il contrario può accadere invece nella monarchia assoluta, perchè è costruzione storica, unitaria, simmetrica.

Da coteste spiegazioni risulta che io comprendo e accetto la giustificazione storica e logica della monarchia. Certamente un popolo, il quale crede che il mondo sia governato da un Dio personale, che la Bibbia sia la rivelazione autentica del pensiero divino, che i preti siano voluti da Dio stesso per farsi interpreti del suo verbo, quel popolo ha ragione di attenersi alla monarchia, poichè il re, superiore alle leggi, e che governa, irresponsabile, secondo i suoi criteri e con un potere che non ammette opposizione, è un'immagine fedele di Dio, sia pel posto che occupa, come per gli attributi che ha per le opere che compie: la Bibbia lo proclama istituito da Dio, e i preti confermano che è cosa giustissima ch'egli eserciti un potere sovrumano e che i sudditi gli debbano obbedienza assoluta. Così pure, un popolo, il quale non giudica irragionevole che si nasca possessore di milioni e di titoli di nobiltà e coll'aspettativa sicura di onori e di autorità e di godimenti, precisamente come si nasce con la pelle e coi capelli, quel popolo è logico se è monarchico. Infatti, se può venire al mondo un bambino, che nel suo stomaco o nella sua testa o in altra parte del corpo contenga il diritto di regnare su tutto un paese, diventa logico e comprensibile che vengano pure al mondo centinaia d'altri bambini, aventi il diritto, congenito al loro organismo, alle ricchezze e ai privilegi, mentre milioni d'altri bambini ne sono privi. Come idea astratta, la monarchia può essere difesa facilmente e vittoriosamente dal punto di vista teologico, e per colui, il quale accetta questo punto di mira, la monarchia non è più una menzogna. Ma diventa menzogna per tutti coloro che concepiscono invece il mondo coi criteri delle scienze naturali, e menzogna pure per coloro che si affermano credenti nella sua origine divina, non per principio, ma solo per gli effetti che ne derivano. Il fatto che è altamente deplorevole nella nostra civiltà contemporanea è appunto questo, cioè che le vecchie istituzioni non hanno più il coraggio e la sicurezza di dire e ripetere francamente e rigidamente la frase dei gesuiti: «O essere come siamo o non essere». Esse mirano ad un equilibrio, che non è possibile, fra le loro premesse e le nuove convinzioni dei tempi; fanno, delle concessioni ed accolgono elementi intellettuali che le dissolvono, perchè estranei alla loro essenza; le innovazioni, alle quali si adattano, sono una negazione diretta dei loro primi elementi costitutivi, e così rassomigliano ad un libro, che contenga nella stessa pagina il testo di una vecchia favola ed annotazioni che di essa facciano la critica e la satira e la mettono in canzone. Coteste istituzioni, che rinnegano e parodiano sè stesse, diventano una derisione per l'uomo illuminato e una sorgente di disgusto, e di dubbi penosi per i retrogradi.

La monarchia ha radici storiche, dalle quali germogliò. È probabilissimo che i primi uomini, apparsi sulla terra, fossero esseri socievoli e vivessero a frotte come vivono oggi ancora le scimmie e molti altri animali. Ogni frotta ha, verisimilmente, un capo che la guida e la protegge e che, senza dubbio, è il maschio più forte. All'alba dell'incivilimento, di cui scorgonsi le traccie nei più vetusti libri della Bibbia e della Veda e nei libri sacri dei chinesi, base della società è la famiglia, e di tutti i suoi membri è signore naturale, giudice e consigliere il capo stipite. Gli uomini si moltiplicano, le famiglie crescono e si dispiegano in tribù. Il padre di famiglia diventa capo di tribù, e la sua autorità riposa, in parte, sulla finzione che tutti i membri della tribù discendano dal suo sangue (finzione che fino ai nostri tempi fu la base costitutiva del clan scozzese) e in parte riposa su quei rozzi, ma sicuri appoggi, sui quali affidasi anche la supremazia dell'animale guidaiuolo d'una mandra, e i quali costituiscono la sua prevalenza, che può essere del resto determinata da maggior forza fisica, da saggezza, o da ricchezza di armenti, pascoli, attrezzi e ferri. In questo stadio è ancor lieve il distacco fra dominatore e dominato. Al padre obbedisce il figlio per amore e per rispetto, al forte obbedisce il debole per paura, e al ricco il povero per la speranza di ottenere qualche vantaggio. Quasi mai ammettesi diritto ereditario al potere: a giustificare le pretensioni a cotesto potere basta il fatto di possederne le facoltà. Nessun elemento soprannaturale viene ancora a complicare questo semplice stato di cose, in cui il capo domanda, perchè può, e la tribù obbedisce, perchè vuole e perchè deve. Ma, a misura che la civiltà progredisce, si sveglia nel capo della tribù il bisogno di aggiungere alla sua condizione naturale il timore del soprannaturale. La sua saggezza superiore, la sua ricchezza, la sua forza fisica non gli sembrano più sufficienti ad assicurargli il possesso del potere, e a proteggerlo dall'invidia e dall'ambizione di rivali. Gli Dei allora devono diventare i suoi alleati misteriosi e perciò doppiamente terribili. Si fa pastore supremo della religione, si serve di spiriti spaventevoli e invisibili, e sparge la superstizione come la più salda radice del suo potere. Questo è lo stato di tutti i popoli quando vengono alla luce della storia. La stirpe regia vantasi di discendere in linea retta da Dio. I Faraoni, gli Incas sono figli del sole. I capi teutoni sono usciti dai lombi del Dio Thor. I Maharagià dell'India scendono da un Avatar di Wisnù. Il popolo vede nel sovrano un essere sacro e gli attribuisce qualità soprannaturali. In Oriente non lo si deve guardare in faccia, se no si resta immediatamente accecati. I re d'Inghilterra e di Francia hanno la prerogativa di guarire,  con la imposizione delle loro mani, l'epilessia, il così detto ballo di S. Vito e la tabe purulenta. Chi offende la persona del re, tira addosso a sè, alla sua famiglia, al popolo l'ira eterna degli Dei. Oltre i suoi militi mercenari, il re ha, a custodia del trono, tutti gli Dei e tutti i santi del cielo, «seimila a destra, seimila, a sinistra», come canta Heine. Il distacco fra re e popolo si è fatto immenso. Il re non è più semplicemente il primo fra i suoi simili, il padre della tribù, ma bensì un essere, fattura diversa dei suoi sudditi, che sta all'infuori della natura e al quale non sono applicabili le ordinarie leggi della natura stessa. Fra re e popolo più non s'annodano rapporti umani. Il re è inaccessibile; sì, in mezzo ai mortali egli cammina, ma come un Dio travestito, e nulla ha che sia comune agli uomini che brulicano a lui d'intorno. È solo il cielo che, ne' suoi imperscrutabili decreti, può permettere che il monarca perda il trono; solo il cielo può permettere che un nato di basso ceto possa mettere la corona sul proprio capo. Ma, anche detronizzato, il re legittimo non va a confondersi all'umanità volgare, come accade invece all'usurpatore, che, quantunque cinto di corona, non è consacrato dalla divinità. Quegli rimane la maestà, che nulla ha di terreno; questo rimane il plebeo, che ha carne e sangue di popolo e che, tosto o tardi, dovrà confondersi con la moltitudine anonima, come il ghiaccio chimicamente confondesi coll'acqua. L'altro invece conserva sempre la sua singolarità, come il diamante in mezzo a qualsiasi liquido.

Strana parodia nello sviluppo dell'umana civiltà! La monarchia, che potè salvarsi dalla notte della primitiva barbarie ed arrivane fino ai nostri tempi, ha voluto fare, fra i suoi diversi titoli di diritto, una scelta; scartò quelli che davanti alla logica potevano ancora difenderla e si tenne gli altri che dileguansi senza lasciar traccia, tosto che vengono tocchi dal primo raggio del sole di una critica ragionevole. Non è dalla sua effettiva potenza che oggi la monarchia deduce i suoi titoli di diritto, ma dalla fonte divina. Non comanda in forza dell'esercito, ma s'appella alla grazia di Dio. Un esercito, pronto ad eseguire gli ordini del re, anche ai nostri giorni, è un argomento temuto. La monarchia sdegna questo argomento. L'asserire che il monarca abbia avuto il decreto di nomina da Dio, è tal cosa che parrà una farsa perfino alle pettegole donnuccie. E la monarchia, con tutta serietà, racconta questa farsa per dare importanza maggiore al carabiniere.

Nell'antichità, nel medio evo, in un'epoca in cui non esisteva scienza storica, nè conoscevansi ermenèutica e le menti giacevano nella semi-oscurità, l'aurèola di santità e divinità che cingeva la testa del re, poteva ben avere una forza illuminatrice, almeno agli occhi della moltitudine. La memoria di un popolo non si spinge al di là di una generazione. Le remote oscurità erano impenetrabili e presto divorarono le origini delle cose, Chi poteva ricordare i primordi d'una dinastia? Non fu difficile allora aver fede in quei rapsòdi, che facevano discendere il sovrano da una divinità che era tanto più grande quanto più generosa la ricompensa pel poema genealogico. Ma ai giorni nostri, in cui le indagini storiche attingono a fonti apprezzabili, non hanno più valore le millanterie e le favole. Noi conosciamo benissimo i passi primi e i successivi di tutte le dinastie europee, che sono oggi le rappresentanti classiche della legittimità per la grazia di Dio. Riguardo ai Borboni, che sono in Europa la stirpe regale più antica e più sacra, non si ha a scegliere, per trovare il capo-stipite, che fra la storia vaga di un grande proprietario ribelle di nome Ugo Capeto e la credibile tradizione popolare di Parigi che il capo-stipite fosse il garzone macellaio Roberto Le Fort. Gli Absburghesi, dei quali è ben difficile ci sia ora una goccia di sangue nella famiglia che regna in Austria, discendono da un povero nobiluccio franco, una specie di spadaccino o poliziotto, che serviva diversi padroni, ora un vescovo, ora una città. Dei Romanoff meglio è non parlare. Riesce talvolta allo storico di decifrare scritture illeggibili; ma a sciogliere il quesito chi possa essere stato il padre del figlio di Caterina II, neppure il più acuto degli storici sarebbe da tanto. Gli Hohenzollern hanno almeno un certificato di nascita pulito: discendono da poveri, ma onesti genitori; i burgravi di Norimberga erano – è fuori di dubbio – piccoli, ma bravi funzionari del sacro romano impero, e le successive loro promozioni a gran mastri dell'ordine dei cavalieri teutonici, a margravi di Brandeburgo, a principi elettori, a re e a imperatori hanno tutti un'origine chiara: si conosce la data d'ogni promozione,  si sa che ognuna di essa fu opera umana, e a spiegarla non occorre l'intervento del soprannaturale. La dinastia inglese offre un sorprendente esempio delle migrazioni fortunose che può intraprendere il sangue (questo rappresentante della legittimità) attraverso una dozzina o più di famiglie, nulla perdendo mai de' suoi privilegi di signoria. Quella bizzarra linea serpeggiante, che conduce la discendenza legittima dal duca di Normandia, al duca di Sassonia-Coburgo-Gotha e che è tanto difficile non perdere di vista, può dimostrare come una idea buona possa, così come un bravo uomo, trovar sempre in mezzo a un labirinto la strada buona.

Ora, nella storia di tutte queste famiglie dove può mai trovare posto l'intervento di Dio, dalla cui grazia queste stesse famiglie fanno procedere i loro diritti sovrani? In che momento ricevettero cotesta grazia? Forse quando Guglielmo il Conquistatore vinse ad Hasting il re sassone Haraldo? Oppure quando Ugo Capeto si ribellò al suo legittimo signore di stirpe carolingia, come un giorno fece Pipino verso il suo signore merovingio? Ovvero quando Rodolfo di Absburgo battè il suo rivale Ottocaro di Boemia? E se i tre fondatori delle dinastie legittime fossero rimasti perdenti nella loro impresa? Se Guglielmo avesse dovuto ripassare il canale? Se Ugo Capeto fosse stato impiccato e Rodolfo ucciso sul campo di battaglia? Che sarebbe avvenuto allora della grazia di Dio? E questi audaci personaggi, invece che eroi di sacre case sovrane, non sarebbero diventati volgari banditi, avventurieri ribelli? O è il successo che decide? Si vede forse la grazia di Dio nel momento in cui una persona riesce ad impossessarsi della signoria, e questa diventa forse legittima nel momento in cui si sa impadronirsi del potere supremo? Ciò potrebbe ben anche capirsi. La ragione popolare può ritenere che Dio, concedendo le funzioni, conceda anche l'intelligenza; è quindi logico che Dio, dando il trono, dia anche la legittimità. Ma, in questo caso, ogni rivoluzionario non diventa legittimo, se la sua impresa riesce bene? Cromwell non è capo di Stato tanto legittimo quanto Carlo I, ch'ei fece decapitare? Barras e Bonaparte non sono legittimi così come Luigi XVI, ch'ebbe la stessa fortuna di Carlo I? Non è legittimo Luigi Filippo così come Carlo X? E legittimo non è pure Napoleone III tanto quanto Luigi Filippo? I monarchici allora non hanno più alcun diritto ad opporsi all'autorità di qualchessia capo dello Stato e nemmeno di tenergli il broncio, dappoichè occupa quel posto. A questo riguardo, debbono altresì ammettere che sarebbero stati capi di Stati, per la grazia di Dio, Rienzi, e Masaniello, Mazzini, Kossuth e Hecher, se i loro ardimenti fossero stati coronati dal successo. Ed anche il taglialegna Lincoln, il sarto Johnson e l'avvocato Grèvy devono essere da essi considerati come persone non meno sacre di Guglielmo di Normandia, di Ugo Capeto e di Rodolfo di Absburgo, perchè tanto questi come quelli hanno, per loro il successo e il potere effettivo. In questo caso la condizione dei monarchi è come quella dei gamberi della favola, i quali devono obbedire, con la stessa devozione, a qualunque re imponga loro Giove, sia esso un pezzo di legno o una grue. Se il successo è la prova della grazia di Dio, è allora anco la sorgente unica della legittimità, e i monarchici devono conseguentemente riconoscere la legittimità in qualunque capo di Stato, nel conquistatore straniero, nel Presidente di Repubblica, nel facitore d'un colpo di Stato, in chiunque insomma ha per sè il successo.

La sorgente della legittimità era forse fluente solo nel passato ed oggi è inaridita? O forse la prepotenza, la ribellione, lo spergiuro, i brogli elettorali furono solo per l'addietro il modo con cui rivelavasi la grazia di Dio, scendendo sul capo di un uomo, e poscia i rapporti fra il cielo e le reggie si sono mutati? Allora sarebbe importantissimo sapere in quale momento abbia avuto luogo la mutazione. I monarchici devono perciò darci l'indicazione esatta dell'anno, mese e giorno, in cui è avvenuto un mutamento tanto importante. Or non è molto, nella Svezia e Norvegia, nel Belgio, in Serbia, in Rumenia, in Grecia e in Bulgaria si sono installate nuove dinastie; anche queste si appellano alla grazia di Dio; i loro popoli ne riconoscono i diritti sovrani, e le altre dinastie, antiche da secoli, le trattano da pari a pari; dunque non è cosa di poco conto il sapere chiaramente se anche questi nuovi re siano re per la grazia di Dio, o se invece non siano che ingannatori, i quali, come i cavalieri d'industria, vantano relazioni che non hanno. Se i Bernadotte, i Coburgo, gli Obrenovich, ecc. sono veri re per la grazia di Dio, abbiano allora la prova che anche oggi, come nel medio evo; la potenza divina si affretta di aggiungere il diritto alla forza; e in questo caso i monarchi dovrebbero concedere che, se un socialista o un democratico qualunque riescisse a diventar capo dello Stato germanico, sarebbe giustificato se si chiamasse capo per la grazia di Dio, e aver dovrebbe, al pari dell'attuale imperatore della Germania, gli eguali diritti alla sovranità; sarebbe personalmente sacro quanto lui e possederebbe un'autorità legittima come la sua. O si ammette che, dopo il medio evo, la grazia di Dio, che creava i re, si è isterilita, come si isterilisce un campo sfruttandolo soverchiamente, e allora quei re delle giovani dinastie non sono che ciarlatani, i quali cercano di ottenere, con l'inganno, dei vantaggi personali, e sul conto loro dovrebbero dare esatte informazioni certi articoli del Codice penale. Ciò ammesso, non si può più ragionevolmente esigere sudditanza dai loro popoli, e i monarchi delle vecchie dinastie cadono in una ben grave imprudenza, legalizzando i loro titoli di diritto e trattandoli da pari a pari.

Prevedo una finale obbiezione dei monarchici contro i miei argomenti. Un uomo logico intanto non potrebbe farmela, dicendo che le nuove dinastie fanno derivare i loro diritti sovrani dal popolo, il quale li ha ad esse spontaneamente concessi. La volontà popolare non può essere ammessa, come fonte di diritti dinastici, perchè, se cotesta volontà può creare un re, può anche detronizzarlo e proclamare la repubblica. Un monarchico non vorrà mai asserire una tal cosa. L'obiezione dunque che mi si può fare, non sarà questa, ma un'altra.

Gli uomini chi nei nostri tempi hanno fondate nuove dinastie, sono rampolli di dinastie nuove, nelle quali è endemico da secoli il governare; cotesti rampolli nacquero con una legittimità ereditaria latente, la quale non aspetta che l'occasione propizia per concretarsi in una corona visibile. È vero che ciò non si potrebbe applicare ai Bernadotte, nè agli Obrenovich, ma siccome si può applicare ai Coburgo belgi, agli Hohenzollern rumeni, ai Glücksburgo greci, agli Assiani bulgari, così non voglio scartare quest'argomentazione come menzognera, tanto più poi ch'essa mi va a genio. Siamo intesi ora? La legittimità dunque è un diritto ereditario e naturale di determinate famiglie: un principe nasce col diritto di regnare; non col diritto di regnare piuttosto su questo che su quel popolo, ma col diritto generico di regnare, che è un diritto vago di sovranità, senza oggetto determinato, oggetto però che si potrà trovare. Un Coburgo o un Hohenzollern ha la grazia di Dio nascendo: quando i belgi o i rumeni lo eleggeranno loro re, essi non fanno che mandare ad effetto la sua legittimità preesistente. La grazia di Dio è come un diploma universitario. Un giovane medico col suo diploma di laurea in saccoccia ha il diritto di procurarsi dei clienti, quantunque l'università non glieli garantisca. Del pari il principe, rampollo di una dinastia legittima, riceve dalla grazia di Dio il diritto astratto di regnare in qualche parte del mondo, senza assegnargli il paese ove possa esercitare realmente quel diritto.

È questo un argomento che si può benissimo mettere in vista. Esso spiega parecchie cose, che altrimenti non si comprenderebbero. In tal modo si capisce come un re legittimo per la grazia di Dio possa spogliare del suo trono e del suo paese un altro re legittimo per la grazia di Dio; e si capisce anche come l'annessione dell'Hannover, dell'Assia Elettorale e di Nassau alla Prussia, e l'annessione di Napoli, Toscana, Modena e Parma alla Sardegna non siano una negazione della base fondamentale, sulla quale riposa il trono degli Hohenzollern e dei Sabaudi. Il conquistatore non toglie allo spogliato la sua legittimità o, se vuolsi, il suo diploma di sovrano; gli toglie soltanto il suo regno. Lo spodestato rimane re per la grazia di Dio come prima, e non gli si vieta ch'egli cerchi e trovi un altro regno, ove possa imperare con tutta la sua legittimità e con la sua grazia di Dio, rifatta visibile. Un punto essenziale della teoria monarchica è quello di distinguer bene il diritto astratto di sovranità delle dinastie legittime dalla sua applicazione a un dato paese o a un dato popolo. Se no, i re conquistatori e annessionisti sarebbero i peggiori rivoluzionari, proverebbero a chiare note l'insensatezza della grazia di Dio, insegnerebbero ai popoli, coll'esempio, qual valore abbia il diritto del monarca legittimo e cosa bisogna fare per cacciarlo dal paese. Col soccorso invece di questa massima, cioè che la legittimità astratta è indipendente dalla sovranità effettiva, si può, senza violentare la ragione, comprendere benissimo come la Casa di Hannover abbia, da oltre un secolo, potuto regnare legittimamente per la grazia di Dio in Inghilterra, mentre gli eredi della Casa Stuart svanivano legittimamente per la grazia di Dio a S. Germain e a Roma, e come il re Umberto, dopo Vittorio Emanuele, regni in Italia per la grazia di Dio, mentre Francesco II di Napoli sono già dieci anni che per la grazia di Dio è a spasso a Parigi.

Ma a che soffermarci più a lungo sull'assurdo? Non vale davvero la pena di applicare una critica seria all'unico titolo legale della monarchia; cioè alla sua origine divina. È così facile cotesta critica, che talvolta, meravigliati della sua agevolezza, ci domandiamo se sia proprio necessario impiegare le forze d'Ercole per sfondare delle porte aperte. Le notizie esatte che si hanno sugli esordi storici di tutte le dinastie, alcune delle quali sono sorte, si può dire, poche ore fa sotto gli occhi di prosaici reporters di giornali; lo spettacolo che si fa ognor più frequente, di sovrani legittimi cacciati dal seggio di pastori di popoli, benchè pretendano di averlo avuto dal cielo, e il poco rispetto mostrato da re consacrati e unti dall'olio santo verso diritti soprannaturali e compagni loro di casta, tutto questo fa sì che il credente, non meno dell'ateo, non può ritenere che ciò che pone la corona sul capo ai re sia la grazia di Dio. La grazia di Dio non può essere intermittente. Un patto politico non può impartirla; e chi è graziato, non la può perdere in una battaglia. Ci sono delle cose così stolide, che non possono ad esse adattarsi nemmeno le convinzioni di un credente. L'uomo colto può, tutt'al più reputare l'istituzione «per la grazia di Dio» una facezia tradizionale, scambiata fra àuguri, che strizzano un occhio e sanno conservare nel tempo stesso un aspetto serio e dignitoso. Pel credente sarebbe una bestemmia. Se l'uno ha diritto di sorridere, l'altro ha diritto di andare in collera.

Lasciamo stare le origini e i titoli regali delle dinastie e facciamo come se credessimo in tutto ciò che la monarchia ci racconta. Prendiamo per un istante l'aria di un àugure nelle sue funzioni. Tutto è vero e provato: il re nasce col diritto di comandare a me; io, suddito, nasco col dovere di obbedire a lui; è Dio che volle così, e se mi ribello, delinquo contro l'ordine voluto da Dio nel mondo. Movendo i passi da questo punto di partenza, fra pochi minuti secondi saremo nel centro dell'impero della menzogna. In Europa non c'è che la Russia e la Turchia che abbiano l'assolutismo, il quale, come poc'anzi spiegai, è l'unica forma logica della monarchia. Altri paesi non sono repubbliche, ma con le loro costituzioni misero la forma monarchica col governo in inestricabile contraddizione con sè stessi. Il costituzionalismo condanna tutti coloro che hanno parte nella sua commedia, ad essere eternamente nella menzogna e nell'ipocrisia.

Là, dove il parlamentarismo è una verità e la monarchia non è che un lusso tollerato, come in Inghilterra, nel Belgio, e in Italia, le leggi mentono quando assumono la forma di emanazione della volontà del re, mentre sono invece emanazioni della volontà del Parlamento e, voglia o non voglia il re, devono aver corso; mentono i ministri quando fanno uso delle formule abituali «Per incarico di S. M.. facciamo questo» o, «per ordine di S. M. non facciamo quest'altro» o, «avremo l'onore di raccomandare a S. M. questa o quell'altra cosa», poichè essi sanno, e tutto il mondo sa, che il re non incarica, non ordina, ch'essi nulla hanno a raccomandargli, ma che invece sono essi che deliberano: tutti sanno che i ministri presentansi davanti al re con fatti compiuti, che essi vengono creati indipendentemente dalla sua volontà, e che il re deve in tutto e per tutto conformarsi ai pareri del Parlamento e dei ministri; mentisce il re quando parla in prima persona alla rappresentanza nazionale, perchè il discorso della Corona non è l'espressione del suo pensiero, ma è un documento che procede da un'iniziativa a lui estranea, che gli viene trasmesso bello e fatto, e ch'egli ridice, come il fonografo ridice le parole che si sono pronunciate nel suo imbuto; egli mentisce quando accredita la finzione che il presidente del Consiglio sia l'uomo di sua scelta e di sua fiducia, mentre egli non è punto libero di sceglierlo a suo talento, ma deve accogliere persone indicategli dalla maggioranza della Camera, benchè egli le disprezzi ed avesse il desiderio di dare la preferenza ad altre; egli mentisce finalmente in ogni nomina, in ogni onorificenza, in ogni decreto, in ogni atto di governo a cui partecipa, e che egli emana come risoluzioni sue personali, quando invece tutte queste cose gli vengono assegnate dai ministri ed egli le deve firmare, anche riluttante. Viceversa, in quei paesi ove la costituzione ha lasciato intatta l'essenza della monarchia per la grazia di Dio e dove il parlamentarismo è un balocco del vecchio assolutismo, come in Germania e in Austria, la menzogna della forma monarchica di governo non proviene dal sovrano, ma dal popolo. La monarchia esige di essere riconosciuta come visibile mandataria e rappresentante della volontà di Dio e logicamente pretende per sè l'infallibilità, essendo questa appunto una qualità di Dio medesimo: tuttavia teoreticamente, tollera qualche influenza popolare nelle sue decisioni, permette che il popolo giudichi, approvi, disapprovi o cambi i provvedimenti presi da un governo istituito ed ispirato da Dio, e sottopone così Dio stesso alla critica umana, commettendo in tal guisa, un sacrilegio, che sarebbe severamente punito col carcere, se fosse perpetrato da sudditi. Tutto ciò però, come dissi, non è ammesso che in teoria. Nella pratica è la volontà del sovrano che ha esecuzione, e tutti gli atti costituzionali non sono che menzogne d'opportunità dell'assolutismo. Si mentisce davanti al popolo quando lo s'invita a eleggere i suoi rappresentanti; si mentisce davanti al Parlamento, quando gli si dànno a discutere dei progetti governativi di legge, ch'egli infine deve votare, perchè l'elezione popolare è impotente a trasmettere ai rappresentanti del popolo quella facoltà che la finzione costituzionale lascia supporre, e perchè le decisioni del Governo non possono insomma essere menomamente mutate dal Parlamento.

Nei paesi ove vige una vera costituzione, la condizione del monarca è una indegnità: con la massima cura però si porta rispetto alla finzione del suo potere e con accortezza si riesce a non dare mai lo spettacolo della sua nullità nello Stato. E siccome alle sue funzioni regali connettesi sempre il conferimento di onorificenze e vantaggi personali e tanti altri benefici, così si capisce come si possano trovare uomini solleciti di sè stessi e facili a commoversi, che si prestino a far da fantocci, ai quali comunica parole e movimenti la volontà dei ministri, che ne tengono in mano i fili. Nei paesi ove non c'è che il costituzionalismo di mera apparenza, la parte comica è invece eseguita dai rappresentanti del popolo, ma è molto difficile però persuadersi che ci possano essere uomini, degni veramente di quel nome, che accettino l'incarico, perchè le piccole vanaglorie che esso può soddisfare non risarciscono le umiliazioni che, ogni momento infligge a coloro che lo esercitano. Il monarca costituzionale, stando nel suo sontuoso palazzo, vestendo la sua brillante uniforme, disponendo di una ingente lista civile, vedendosi intorno tante schiene curve, sentendosi intronar le orecchie dalle rettoriche e studiate frasi adulatrici di «maestà», «graziosamente», «degnarsi benignamente», potrebbe anche dimenticare ch'egli fa da maschera carnevalesca e farla finita un bel giorno, in cui lo prenda la voglia di rappresentare in sul serio la sua parte. Ora, cos'è che può determinare il deputato in un paese di finto costituzionalismo, a diventar ridicolo con discorsi senza efficacia, con atteggiamenti senza sugo, con votazioni senza serietà? Il niun conto in cui lo tiene il ministro, no; e neppure il dileggio e la maldicenza della stampa stipendiata dal Governo. Allora è la speranza di poter cambiare in realtà ciò che ora non è che una finzione di parlamentarismo? Ma è una speranza vana in un deputato che mena buona la finzione dell'origine divina della monarchia.

Per chi si piglia giuoco delle menzogne convenzionali, non v'ha cosa più divertente del dilemma entro il quale sono imprigionati i così detti liberali del Reichstag per opera della logica inesorabile del principe di Bismarck, il quale, col mezzo dei suoi portavoci parlamentari e di giornalisti ammaestrati, come i cani, a portar roba in bocca e a star ritti sulle gambe di dietro, dice e ripete loro: «O voi siete repubblicani, e allora, quando andate a gara nel far dimostrazioni di lealtà e devozione alla monarchia, non siete che simulatori: o siete monarchici in buona fede, e allora non avete che a dar prove di obbedienza, alla volontà regale» Il liberalismo monarchico, fra l'incudine e il martello di questo aut aut, diventata tale una panata, che neppure un cane la mangerebbe. È un divertimento indicibile il vedere i contorcimenti che fanno i poveri partiti dell'opposizione sotto il ferreo peso di quella logica espletata! Vorrebbero emanciparsi! Vorrebbero trovare un'uscita! Essi dicono che alla dinastia saranno devoti fino alla morte, che il re non ha servitori più fedeli di loro, che la repubblica è una rovina abbominevole; ma siccome c'è anche una costituzione, e il monarca ha avuto la degnazione di giurarla, così, S. M. degnandosi di permetterlo, si avrà l'ardimento di servirsi di questa libertà e dei diritti che furono generosamente e benignamente concessi: Ma tutto ciò non basta. La mano che li ha già presi pel collo li mette al muro, non li lascia più fiatare e li schiaccia con queste decisive parole: «Ammettete, sì o no, che il re sia istituito da Dio per comandare a voi? Sì? E allora, perchè osate fargli opposizione? Perchè osate appellarvi ad una costituzione, che è un dono da esso largito e che può riprendere in forza di quella stessa autorità divina che gli ha permesso di concedervelo? Oppure: non ammettete che il re abbia da Dio i suoi diritti? E allora siete repubblicani. Non c'è via di mezzo!»

No, non c'è via di mezzo. O repubblicani o assolutisti. Tutto il resto è menzogna e ipocrisia. E un Governo, che mette innanzi un tal dilemma, merita l'entusiastica approvazione di tutte le genti colte. Certo che è un atto arditissimo, perchè si corre il rischio di trovare un uomo politico che affili la lingua, ritorca l'argomentazione e risponda: «Se è la logica che deve prevalere, voi, prima d'ogni altro, siete i mentitori e gli ipocriti. Se la volontà del re è pure la volontà di Dio, come potete voi commettere il sacrilegio contro Dio e contro il re lasciando sussistere una costituzione che presuppone la possibilità di una limitazione alla volontà del re, mediante la volontà del popolo? Vostro supremo dovere sarebbe quello allora di abolire la costituzione. O voi volete seriamente la costituzione, e in questo caso dovete ammettere che nello stato pesa tanto la volontà del popolo quanto quella del re per la grazia di Dio, e così sareste voi i repubblicani. Oppure la costituzione non è per voi che una parola vana e non convocate il Reichstag che per mera apparenza e decidete preventivamente di far ciò che vi aggrada e il Parlamento non è infine per voi che un buon diavolaccio; e in tal caso, convocazione di elettori, convocazione del Reichstag, presentazione di progetti ministeriali, ecc., tutti i vostri atti, insomma, altro non sono che una volontaria menzogna. O mentitori o repubblicani. Non c'è via di mezzo!».

La grande menzogna del moderno costituzionalismo sta precisamente in ciò, che il suo punto di partenza è la negazione dell'autorità divina del re, e dopo aver tolto in tal modo al re la sua base, lo conserva. Anche il medio evo ebbe costituzioni di Stato, che limitavano la podestà regale; ebbe pure rivolte della nobiltà contro il re e lotte accanite fra la Corona e le caste privilegiate; ma la limitazione della podestà regale e le rivolte della nobiltà non si appoggiavano a principio alcuno, che negasse i diritti originari del re, nè si facevano in nome della sovranità popolare. I grandi baroni, che non lasciavano in pace il re nel suo castello, ammettevano però di buon grado che egli fosse istituito da Dio; pretendevano soltanto che la grazia di Dio non sorridesse unicamente a lui, ma benanco a loro. Ciò non era una negazione del principio dell'autorità soprannaturale, ma ne era anzi un'ingegnosa ampliazione. Come il monarca era re per la grazia di Dio, così essi dicevano di essere baroni per la grazia di Dio. È la storia di quel tal pazzo che aveva l'idea fissa di essere Dio. Avvenne che un giorno nello stesso istituto fu ricoverato un altro ammalato che aveva la stessa fissazione, e il primo si mise tosto a prendersi giuoco della sua illusione. «Come mai quest'uomo – andava ripetendo – può pensare di essere egli Iddio?» E l'infermiere, che intravedeva in ciò la guarigione di cotesto ricoverato, rispondeva: «E perchè no?». E l'altro: «Perchè non possono esistere due Iddii. Se sono io Dio non lo può più essere lui». La nobiltà medioevale, precisamente come questo pazzo, era convinta della propria nobiltà e contrastò con la monarchia, non in nome della ragione, ma in nome delle sue idee sbagliate. Il che vuol dire che nel medio evo si poteva avere una perfetta buona fede monarchica ed avere in pari tempo molto a cuore i propri privilegi. Ma non è possibile che stiano di buon accordo sovranità popolare e sovranità monarchica, derivante da Dio: l'una esclude l'altra.

La menzogna monarchica, non solo sotto l'aspetto legale, ma anche sotto l'aspetto puramente umano, ripugna alla ragione ed all'onestà. Quale avvilimento e quanta vergogna in coloro che trattano personalmente col re, facendo vista di credere alla superiorità, alla sovrumanità della monarchia, mentre ne ridono sotto i baffi! Lo spettacolo della presenza del re è stata una commedia in tutti i tempi, in tutti i luoghi e per tutti coloro che vi ebbero parte. Una volta ognuno recitava con contegno grave e persuasivo, e sulla scena mai non dimenticava la sua parte, anzi procurava sempre di creare e mantenere una poetica illusione negli spettatori, che stavano al di là dell'insormontabile ribalta; ma i pochi intimi però, che avevano ottenuto il permesso d'entrare dalla porticina posteriore, toccavano con mano che i sontuosi palazzi scenografici non erano che povere tele dipinte, che tutta la pompa dorata e purpurea delle vestimenta di parata non era che un insieme di panni logori e che l'eroe, fra un gesto superbo e l'altro, mandava una voce sommessa dietro le quinte, perchè gli portassero una tazza di birra. Ma i commedianti moderni della monarchia dimenticano invece sempre la loro parte e burlano, in modo lampante, sè stessi, la parte che rappresentano ed il colto e rispettabile pubblico. Sono come quei buoni dilettanti, che nel Sogno di una notte d'estate ricevano da Botton questo savio consiglio: «Bisogna che l'attore dica il suo nome, e che attraverso la criniera del leone se ne vegga mezza faccia, e reciti presso a poco queste parole: – Signori e belle signore, desidererei, chiederei, oppure supplicherei che non vi intimoriste, che non vi spaventaste. Garantisco la vostra vita con la mia. Se voi credeste che io qui fossi un vero leone la mia vita sarebbe spacciata. No, non sono un leone, sono un uomo come tutti gli altri! – e poi dica il suo nome ed annunzi apertamente che egli è Jung, il falegname».

Nei bei tempi classici della monarchia la reggia era un santuario, nel quale il semplice mortale entrava con trepidazione e riverenza; oggi è aperta anche al reporter. Tutti i suoi scandali, tutti i suoi delitti, tutte le sue ridicolaggini si raccontano per le vie. L'ultimo dei sudditi conosce i segreti vizi del tal re, le infermità di tal principe, il nome della favorita di quel monarca, gli amori di quella principessa; si sa che l'imperatore o il re giuoca alla borsa e che è uno zotico; si ha contezza della sua ignorantaggine; si portano in giro le sue lettere con errori di ortografia; si ridicono i suoi stolidi motti; eppure si cade nella polvere alla presenza del re, in pubblico non si parla di lui se non con frasi altisonanti di sudditanza, e si dà vanto chi meglio d'un altro sa fargli il lustrascarpe. Quale spettacolo per un uomo colto e di liberi sensi! E che fonte di continuo disgusto il vedere, in mezzo a uomini civili, ereditarie queste abitudini da animali da mandrie! Un egregio artista, terminata un'imperitura opera d'arte, ambisce, come cospicua ricompensa ai suoi studi, una visita del re; dalle sublimi emozioni dell'inventiva e della felice riuscita egli precipita nella bassa e infantile smania di poter dire che la sua opera fu vista dal re. Egli è forse un Beethoven, un Rembrandt, un Michelangelo; egli sarà famoso e ammirato, quando del re più non resterà che un nome nell'elenco di un milione di principi; egli ha la coscienza di tutto il suo valore; sa che il re nulla capisce della sua musica, del suo quadro, della sua statua, perchè ha duro l'orecchio, ottuso l'occhio e chiusa l'anima ad ogni sentimento estetico; sa che i suoi giudizi sono ridicoli e che, in generale, la sua scienza del bello è pari a quella di un venditore di trappole slovacco; eppure il suo cuore batte più forte, quando il re getta uno sguardo distratto e freddo sulla sua opera d'arte, o quando, sonnacchioso, ascolta la sua musica. E lo scienziato, che con sforzi grandi di intelletto conquista al genere umano nuove verità e ne allarga gli orizzonti, ha l'ambizione di indossare un abito buffonesco di foggia ufficiale per comparire davanti al re e parlargli delle proprie invenzioni e scoperte, che stupirono il mondo e forse sono l'unità delle forze fisiche, l'analisi dello spettro solare o il telefono, mentre egli sa che il re non può comprenderlo, che non gli può star a cuore una cosa assolutamente inintelligibile per lui e che anzi disprezza scienza e scienziato con tutta la noncuranza di un barbaro, preferendo a tutto ciò un ben tarchiato granatiere del reggimento delle guardie; egli sa pure che non gli sono concessi che pochi minuti, nei quali deve dire tutto quanto ha da dire e che perciò deve affrettarsi, mangiando le parole e parlando alla rinfusa, mentre il re pensa a ben altro e sul suo viso manifestansi chiaramente i segni della noia per dover sobbarcarsi anche a quest'obbligo, inerente alla sua carica, e tuttavia lo scienziato si curva al giogo di queste condizioni umilianti, e, soddisfatto, prende il proprio posto fra un maestro di cerimonie che annunciò il suo arrivo alla capitale e un tenentino che viene a render grazie per un ordine cavalleresco conferitogli. Quanti poeti e autori mendicano il permesso di offrire al re i loro lavori, unicamente perchè vengono collocati, ma non letti, negli ultimi scaffali di quella libreria, nella quale il posto d'onore è sempre riservato agli almanacchi genealogici, ai modelli di uniformi e ai cataloghi degli ordini gerarchici!

Più dell'aristocrazia dell'intelligenza è – in quanto è ancor possibile – umile e abbietta, al cospetto del re, l'aristocrazia del sangue. Essa, che continuamente fa circolo intorno al re; essa, che vede sotto la corona il berretto da notte e sotto il manto regale la camiciola di lana; essa, che propala tutte le satire, tutte le canzonature, tutte le calunnie sul re; che dà la berta a tutte le sue debolezze, e che divulga i suoi delitti, – eppure la massima ambizione di cotesta aristocrazia del sangue è quella di strisciare e adulare per guadagnarsi il favore del re, fosse anco un Luigi XV o un Filippo IV; è pronta a tutte le bassezze, pur di ottenere uno sguardo dal re, gli vende anco le mogli, e le figlie, e inventa la massima ignominiosa che «il sangue del re non macchia». L'aristocratico, che è tanto superbo da non degnare mai d'uno sguardo, nè d'una parola il suo servitore, si dà la massima delle brighe per essere lui servitore del re e, in evenienze solenni, lavargli le mani, portargli i piatti, mescergli il vino, fargli da messaggiero, fare insomma – sia pur anche soltanto simbolicamente – servigi da cameriere, da domestico, da fattorino da piazza. Un noto aneddoto, che del resto potrebbe anche essere non vero, fa sapere che Pietro il Grande, in una sua visita a Copenaghen, per mostrare al re di Danimarca quanto gli fossero devoti i suoi sudditi, comandò ad un cosacco di gettarsi dall'alto di una torre: l'infelice fece il segno della croce e, senza por tempo in mezzo, spiccò un salto nel vuoto. È fuor di dubbio che, ancor oggi, ci sono non pochi cortigiani che si esporrebbero a una prova siffatta. Perchè? Per eroismo? Sono eroi che non si esporrebbero ad un'infreddatura per salvare un uomo che annega. Forse nella speranza di un compenso nell'altra vita? Questa speranza può avere facilitato il sacrificio del cosacco di Pietro il Grande, ma i nostri aristocratici sono invece, in molte occorrenze, figli di Voltaire, e si attengono assai più a vantaggi immediati, in questa valle di lagrime, che ad eventuali gaudî di paradiso. Ad ogni modo, io non so spiegare a me stesso il meraviglioso fenomeno di una venerazione, che si spinge fino al suicidio, a favore di un individuo, che non ha alcuna valentìa di mente, nè di cuore, nè di corpo e che anzi probabilmente è antipatico e spregievole. L'egregio Münchhausen racconta uno strano episodio di caccia. Inseguiva egli un giorno, con una cagna gravida, una lepre, pure gravida. In un certo momento più non vide nè l'una, nè l'altra; ma poco dopo si fecero di nuovo vedere, ed egli vide anche sette cagnolini inseguire sette leprettini. Le due femmine si erano sgravate durante la caccia, e i piccini si erano messi subito a correre. Qualche cosa di simile pare avvenga tra re e sudditi. Il suddito nasce con la predisposizione a morire pel re, come i cagnolini di Münchhausen nascono colla predisposizione a cacciare la lepre. Benchè questa cosa io la esponga un po' scherzosamente, la dico però da senno. Solo la legge dell'atavismo può essere l'espediente onde spiegare e intendere il sentimento della fedeltà al re, sentimento che passa sopra la dignità virile, sopra la coscienza di sè stesso e talvolta perfin sopra l'istinto della propria conservazione. Quando ci imbattiamo in uomini che sentono o fingono di sentire affezione per un individuo che non conoscono, che forse non hanno mai visto e che a cotesta affezione ch'essi non sentono tanto verso i loro parenti o verso sè stessi, egli non risponde con pari affetto, bisogna pur dire che siamo davanti a un ritorno dei concetti primitivi dell'umanità e ad una tenebrosa conseguenza di abitudini continuate senza posa attraverso migliaia di generazioni.

Certo, è cosa profondamente radicata nella natura umana il gettarsi nella polvere davanti a chi è riconosciuto dalla moltitudine come persona eminente. Ho detto riconosciuto dalla moltitudine, ma non ho detto con questo che ciò sia la verità. L'uomo è un animale da mandra e ne ha tutti gli istinti e il primo di grado è quello della sottomissione alla bestia del branco che guida le altre. Ma per essere bestia guidaiuola è necessario essere accettato e tenuto come tale dalla mandria. Ora, non c'è che un piccolissimo gruppo di menti elette che sappia giudicare un uomo secondo i suoi meriti: la maggioranza non tiene conto che dell'effetto ch'esso produce sugli altri. Le menti elette esaminano l'individuo in sè stesso, indipendente dai rapporti ch'egli ha cogli altri uomini; la moltitudine invece non guarda che al posto, nel quale la generalità lo ha messo; e si sente irresistibilmente spinta a far propri i criteri e i giudizi della generalità. Così si spiega come un uomo che sia celebre, o anche semplicemente noto, e talvolta anche famigerato, trovi aderenze e devozioni negate all'uomo solitario, che sprezza il mondo e la popolarità. Non occorre essere un re per avere attorno dei cortigiani: basta avere un po' di notorietà. Attori da teatro, prestidigitatori, pagliacci di circo hanno i loro cortigiani. V'ha chi si fa largo, per arrivare fino a' famosi delinquenti, a fine di poter poi vantare rapporti con essi. Davanti a Victor Hugo si fanno ogni giorno tante bassezze, quante non se ne fanno davanti allo czar di tutte le Russie, o davanti a un grande rajàh delle Indie. Si è rapiti in estasi davanti alle senili manifestazioni di un ingegno così indebolito, che non è più consapevole di ciò che fa. Si va fino a baciargli la mano: si ammira e si venera la sua vecchia amante e si stima un onore l'assistere ai suoi funerali. L'adorazione pel vecchio poeta la si estende ai suoi nipotini, dei quali non si sa altro che sono fanciulli straordinariamente affettati, viziati e, in onta alla loro età puerile, dominati dalla vanitosa febbre delle grandezze. Cos'è che spinge gli uomini a queste volgarità e sciocchezze che infastidiscono? Come mai possono famosi delinquenti, come Brummel e Cartouche, avere una corte nel modo stesso dei grandi artisti e scienziati? La risposta pronta e che si vuole dare è questa: Vanità. Ma è una risposta superficiale. Ma perchè si mette della vanità nel far codazzo a persone celebri? Per appagare l'istinto primitivo dell'animale da mandria, che si sottomette alla guidaiuola. Lo snobismo ha una base antropologica, e tal cosa fu da Tha Keray dimenticata quand'egli lo oppugnò con tanta veemenza. La lealtà, come la intendono i monarchici, è la più alta e completa espressione dallo snobismo.

È evidente ch'io mi studio di trovare delle attenuanti al bizantinismo. Non ripugna alla mia ragione il credere sincere quelle affettuosità verso il re e i principi, delle quali molti dànno spettacolo: sono disposto ad ammettere che il contadino russo non finga quando bacia il lembo dell'abito del suo sovrano e che il soldato tedesco non menta quando dice d'essere altamente fortunato se può dare la vita pel suo imperatore. Ma l'antropologia, l'atavismo, le inclinazioni ingenite, tutto ciò nulla vale quando mi trovo di faccia al bizantinismo delle classi superiori e colte. Questo bizantinismo è e rimane una pensata menzogna. Non ha radice nel sentimento. È una commedia che ognuno rappresenta pensando al salario, il quale per questo è un impiego o una dignità, per quello è un titolo o altra onorificenza; per un terzo è una convenienza politica, sembrandogli la monarchia momentaneamente necessaria al bene pubblico o al suo privato interesse, insomma è per tutti insieme un vantaggio diretto o indiretto. Ed è questo che fa antipatica la menzogna monarchica assai più della menzogna religiosa. L'uomo colto, che in chiesa si genuflette o che borbotta delle preghiere, lo fa per infingardaggine d'intelletto, per noncuranza od anche per una codarda obbedienza alle abitudini; sia pure ch'egli con finta religiosità aspiri ai favori dei preti e dei loro potenti alleati, ma non si umilia che ad un simbolo, anche quando bacia la mano, dalla quale attende la mancia. Ma lo strisciante cortigiano, il cittadino che mette fuori i lumi e inghirlanda la sua casa, il poeta che fa inni e sonetti in occasione di nozze o di nascite principesche, è tutta gente che fa queste dimostrazioni per un compenso sicuro e che vuole ricevere subito, come la prostituta, la quale, mentre accarezza e dice parole d'amore, pensa al denaro che intascherà.

Molti che considerano il re un uomo eguale agli altri e sovente meno notevole e meno intelligente di tanti altri, molti che sorridono della pretesa missione divina delle dinastie e confessano di contraddire alle loro intime convinzioni quando esternano amore, devozione, venerazione al monarca e alla sua famiglia, tutti costoro procurano poi di scusare davanti agli altri e a sè stessi, la mancanza di sincerità e di rispetto alle proprie convinzioni, dicendo che alla fin fine la menzogna monarchica è una formola innocente. La monarchia, si dice, nei paesi veramente costituzionali non è che un semplice ornamento; il monarca vi ha meno autorità del presidente della repubblica degli Stati Uniti. L'Inghilterra, il Belgio, l'Italia sono in realtà repubbliche con un re, capo di Stato, e la sudditanza non è che un modo di dire abituale e insignificante, di cui si serve la Corona e che non pone impedimento alcuno alla libera manifestazione della volontà popolare. Ed è ciò che importa. Orbene: è questo un grave errore, che può avere conseguenze funeste nei destini dei popoli. Grande è ancora il potere dei re; la loro autorità è potentissima perfino nel Belgio, in Rumenia, in Inghilterra, nella Norvegia, e se ciò non avviene in forza della costituzione, avviene all'infuori e malgrado di essa. Ne abbiamo testimonianze evidentissime. In uno dei primi numeri del Nineteenth Century parlò in proposito molto chiaramente l'onorevole Gladstone, competentissimo nella faccenda. E spandono sulla questione luce sufficiente parecchie pubblicazioni contemporanee, e specialmente la Biografia del principe consorte di Martin coll'epistolario tra il principe Guglielmo di Prussia, attuale imperatore di Germania; gli scritti sulle relazioni fra Napoleone III e la Corte inglese; i Fatti memorabili del barone Stockmar; alcune parti assai attendibili delle Memorie del consigliere di Corte Schneider, quelle di Mendigs, e via via. Noi vediamo, infatti, che si ordiscono relazioni intime fra i gabinetti particolari dei re all'insaputa dei popoli, dei ministeri e dei parlamenti; noi vediamo come i monarchi si consiglino direttamente e si comunichino segreti; come considerino sempre ogni evento sotto l'aspetto dell'interesse dinastico; come essi si sentano solidali di fronte al movimento che conduce i popoli alla coscienza delle proprie forze e dei propri diritti, e come deliberazioni di grande rilievo, le quali possono sconvolgere od annientare i destini speciali di milioni di individui, siano provocate da meschini capricci, da amicizie od antipatie personali. E mentre oratori popolari profferiscono grandi frasi nei comizi, e i deputati declamano in Parlamento, e i ministri fanno rivelazioni atteggiandosi con sussiego, credendo ognuno di essere una forza decisiva nei destini del suo paese, il re non li cura e sorride, manda letterine confidenziali ai sovrani suoi amici al di là dei confini e macchina con loro diverse coserelle: alleanze od esclusioni, guerra o pace, conquiste o cessioni, concessioni o restrizioni di libertà, e quando il piano è stabilito, lo si manda ad effetto, e ciarli finchè vuole il Parlamento. Ed essi troveranno non una, ma cento persone che presteranno la mano per mettere ad esecuzione la loro volontà in forma correttamente costituzionale, e non è difficile se abbisogna, svegliare una corrente favorevole nel pubblico, e così, alla fine, si ha che i re, mentre pare non esercitino nello Stato che una funzione ornamentale e che, secondo la costituzione, non abbiano che un ufficio piccino e senza valore politico, decidono invece le questioni vitali dei popoli, precisamente come nel medio evo, anzi oggi più che allora, perchè nel medio evo, i regnanti avevano meno intime le attinenze fra loro, non possedevano il sentimento della solidarietà, e i loro circoli naturali, aristocrazia e clero, erano meno dipendenti. Ma la viltà di coloro che accettano la menzogna monarchica in onta alla loro ragione, ai loro convincimenti e alle loro cognizioni intuitive, si ritorce a danno di essi medesimi, o, meglio, a danno dell’umano progresso. Quei furbi pseudo-liberali, che credono ingannare i re acconsentendo loro privilegi ed onorificenze che ad essi paiono destituite di autorevole potere, vengono in scambio essi medesimi ingannati dai re, i quali sanno abilmente aggiungere alle appariscenze del potere la sostanza di esso, e in siffatto modo la formula innocente non è già la monarchia, come credono gli illusi fingitori di lealtà, ma la formula innocente e vana è il diritto dei popoli a governarsi da sè.

III.

La monarchia sta all'aristocrazia come la religione alla monarchia. Questa non può stare senza quella, ma quella può stare senza questa e così è possibile un'aristocrazia senza monarchia, ma non una monarchia senza aristocrazia. È vero che ci sono regni senza nobiltà ereditaria: la Grecia, la Rumenia, la Serbia. Altri l'avevano e l'hanno abolita: la Norvegia e il Brasile. Ma queste sono combinazioni artificiali senza avvenire. Però avverrà che questi Stati o presto giudicheranno alla pari monarchia e nobiltà, e allora si trasformeranno in repubbliche, oppure dopo una generazione, tutt'al più due, vedranno sorgere una nobiltà ereditaria, che non avrà forse nè esistenza  legale, nè titoli, ma avrà privilegi più essenziali. È naturale nella monarchia ereditaria l'istinto di circondarsi di partigiani ereditari. Ognuno sa che ci sono numerose specie di insetti, che provvedono alla loro discendenza in modo che le femmine abbiano a deporre le uova accanto o in mezzo al nutrimento, e che il bruco, appena nato, trovi bell'e preparata la tavola da pranzo. Parimente ogni re vuole che il suo erede trovi nella culla quella fedeltà e devozione che non può ancora conquistare da sè e questi sentimenti li ottiene dalla gratitudine di un certo numero di famiglie, le quali in nome suo, oppure dai suoi predecessori furono gratificate di beni e di onorificenze. Spesse volte, però la previdente fiducia dei re viene tradita; la vivente generazione dell'aristocrazia, in momenti in cui sono in pericolo i propri immediati interessi, dimentica il debito di gratitudine ereditato dagli avi in un cogli invidiati privilegi ed abbandona all'avversa sorte il principe, che aveva creduto di trovare sicurezza nella fedeltà, profusamente pagata, dell'aristocrazia. È superfluo raccogliere esempi nella storia; basti ricordare la condotta tenuta dalla nobiltà inglese verso Guglielmo d'Orania e Giorgio I e quella della nobiltà francese legittimista verso Napoleone I, Napoleone III e Luigi Filippo, e, viceversa, quella della nobiltà napoleonica verso la ristaurata monarchia dei Borboni. Nondimeno si aggrappano a questa debole guarentigia, e dall'esistenza di un'aristocrazia traggono un illusorio sentimento di sicurezza, a guisa del soldato che, in battaglia, si sente più tranquillo dietro un riparo, quantunque egli sappia ch'esso resisterebbe alle palle nemiche quanto può resistere l'aria.

Strano spettacolo, che provoca ammirazione in pari tempo e dispetto, disistima e ilarità, è cotesta commedia medievale in mezzo alla civiltà moderna. Una classe di uomini della razza caucasea recita la parte d'una vecchia casta dell'Egitto o dell'India; dà a sè stessa dei titoli che anticamente denotavano vere funzioni e che oggi non hanno più senso alcuno; sulle sue carrozze, sulle sue case, sui suoi ninnoli fa dipingere o scolpire o intagliuzzare brutte e sciocche immagini, rappresentanti insegne di guerra che da secoli non sono più in uso o la cui ostinata conservazione produce in noi l'effetto come di un uomo che si tatuasse il viso a guisa dei Celti preistorici o adoperasse una pietra silicea invece di un temperino, oppure andasse a cacciare una lepre con una freccia di spina di pesce. Come si fa a non ridere, quando si vede un uomo, il quale si chiama duca, che significa duce o capo di una moltitudine armata, mentr'egli non è che un bellimbusto, che non sa dirigere che un cotillon? O un altro che vanta la sua nobile nascita e reputasi un eletto della nazione, ed è gobbo o è scrofoloso o intellettualmente inferiore ad uno spazzaturaio? La nostra civiltà non ha un avanzume più assurdo della casta nobiliare, la quale non si distingue legalmente che per titoli e stemmi.

Intendo forse dire che l'uguaglianza sarebbe una costituzione più ragionevole della società? Son ben lungi dal dir questo. L'uguaglianza è un fantasma di dottrinari e di sognatori che non hanno mai osservato la natura e l'umanità coi propri occhi. La rivoluzione francese ha creduto di esprimere i concetti degli enciclopedisti, condensando le loro aspirazioni nelle tre parole: Libertà, Eguaglianza, Fraternità. Libertà! Benissimo. Il solo vero significato che può avere questa parola è: abolizione di quelle leggi create dall'arbitrio e dalla credulità d'uomini di poco intelletto, le quali contrariano o difficultano lo svolgersi fecondo delle forze naturali dell'individuo e dei gruppi sociali. Fratellanza? Parola sublime: mèta ideale del progresso umano, presentimento dello stato della nostra specie in un lontano avvenire, perfezione la più eccelsa. Ma uguaglianza? È una cosa fantastica, della quale non si può dare in modo alcuno una spiegazione ragionevole. Siamo giusti però: i precursori della grande rivoluzione non hanno mai parlato di uguaglianza sociale, ma solo di uguaglianza davanti alla legge. Ma i pubblicisti e gli oratori della grande rivoluzione non vollero in proposito dar tante dilucidazioni: preferirono l'epigrafia, e sacrificarono la chiarezza alla concisione. E così, nella trinità del programma rivoluzionario, l'uguaglianza comparve senza un aggettivo che la spiegasse; e le turbe, che ripetono le frasi senza riflettere, fraintendendola le han dato quel significato che l'uguaglianza ha nella lista di cucina della democrazia da birraria. Persino davanti alla legge l'uguaglianza non è possibile che teoricamente: praticamente è impossibile. Certo, se dovesse applicare le leggi una macchina, si potrebbe essere sicuri che l'esecuzione sarebbe sempre uguale, in conformità ai principî costitutivi della macchina stessa: ma quando devono incaricarsene esseri umani, la ineguaglianza è addirittura inevitabile. Il giudice più coscienzioso e più corazzato contro l'influenza degli uomini viene inconsciamente impressionato dall'aspetto, dalla voce, dalla intelligenza, dalla coltura, dallo stato di fortuna delle parti, e le lance della legge oscillano nelle sue mani da favore a favore, come oscilla l'ago magnetico sotto le correnti elettriche. La fonte difettosa, che produce queste disuguaglianze legali, potrà essere minimata, ma non potrà mai essere otturata.

Ora, se l'uguaglianza davanti alla legge è difficile, l'uguaglianza sociale non è nemmeno concepibile. Essa contraddice a tutte le leggi di vita e di sviluppo del mondo organico. Noi, che ci poniamo su una base scientifica per contemplare la natura, non possiamo non riconoscere nella ineguaglianza degli esseri un ostacolo allo sviluppo della perfezione. Ma d'altra parte, la lotta per l'esistenza, questa sorgente nella natura di tante varietà leggiadre e di tante ricchezze di forme, non è forse la costante conferma della ineguaglianza? Un essere meglio costituito d'altri non può far a meno di esercitare una superiorità sui compagni della specie, e, per conquistare un campo più largo allo sviluppo della propria individualità, diminuirà loro la parte del cibo che la natura prepara per tutti e scemerà in essi la possibilità di far valere in tutta la sua pienezza la individualità loro. Gli oppressi resistono: l'oppressore li forza. In questa lotta le facoltà dei deboli prendono vigore e quelle del più gagliardo spiegano tutta la loro possanza. Perciò ogni apparizione di un individuo superiore determina un progresso nella specie e la eleva d'un gradino. Gli esseri più imperfetti periscono e scompaiono nella lotta di concorrenza: il tipo medio migliorerà e si affinerà sempre più. L'odierna generazione, in complesso, sta all'altezza raggiunta dall'individuo eminente di ieri, e la generazione di domani avrà l'incentivo di mettersi al pari dei primi del dì d'oggi. È una corsa di gara senza fine e sempre in su. La moltitudine cerca di diventare uguale agli eletti, e questi cercano di mantenere la disuguaglianza fra loro e la moltitudine e, se possibile, di farla più spiccante. È una continua tensione delle facoltà, uno sforzo indefesso degli uni e degli altri: e risultanza di tutto ciò un elevarsi, non interrotto mai, verso l'ideale. La lotta degli inferiori per giungere al livello dei superiori è chiamata da questi ultimi invidia, e gli inferiori chiamano superbia gli sforzi che fanno i superiori per conservare le loro prerogative. Sono fenomeni cotesti della inerzia naturale della materia, la quale prova un momentaneo disagio ad ogni fatica, ma l'apparente scontentezza per 1a forzata fatica non può essere una prova contro la sua utilità.

La ineguaglianza dunque è una legge della natura e su questa base l'aristocrazia fonda i suoi diritti. Non ripugna neppure alla ragione ch'essa formi una casta ereditaria. Se havvi un risultato dell'osservazione, che non possa essere messo in dubbio, è la trasmissione delle qualità di un individuo nei suoi discendenti. Se il padre è bello, forte, coraggioso, sano, è molto probabile che i suoi discendenti abbiano gli stessi vantaggi, e se quegli ha saputo conquistare un posto segnalato nella società, gli eredi del suo sangue avranno in ciò un motivo per procurare di conservarlo. Sarebbe certamente miglior cosa e per loro e per la generalità che fossero obbligati di riconquistare quel posto con forze proprie: ciò li guarentirebbe contro l'infiacchimento e il regresso, ma è sempre probabile che i figli dei migliori, nella libera gara, ricostituirebbero la maggioranza dei vincitori.

Una aristocrazia ereditaria non è semplicemente un fatto naturale, ma è anco un vantaggio sociale. In una democrazia, avente per ideale la malcompresa uguaglianza della grande rivoluzione, sono ordinariamente gli uomini vecchi, o almeno maturi, che occupano cariche, per le quali essi possono esercitare tanta autorità nell'andamento generale delle cose. È un'eccezione rarissima che a un giovane si offra l'occasione di poter vincere i rivali e diventare deputato, capo-partito, ministro o capo di Stato. Nulla provano contro questo postulato gli esempi dei generali della prima repubblica francese, dei Bonaparte, di Washington, o di Gambetta. Questi personaggi capitanarono il loro paese in forza di rivolgimenti repentini. Qui decise, non la capacità, ma da una parte, il caso, il quale mise cotesti uomini vicino ai posti che erano vacanti: dall'altra, l'astensione di numerosi ed autorevoli rivali che rifuggirono dall'impadronirsi del potere con un colpo di mano e in momenti di perturbazione. Le rivoluzioni possono certamente portare degli uomini giovanissimi ai primi posti; ma le rivoluzioni sono fatti eccezionali e transitorî, che non si rinnovano sovente. Esse non sono lo stato normale della democrazia. Quando la democrazia è nello stato di calma e nelle condizioni naturali di una vita regolare, essa non dà adito alle carriere fulminee di un Washington, di un Bonaparte o di un Gambetta. È cosa però di grande utilità pel progresso umano che, qua e là, uomini giovani dicano la loro acconcia parola nelle cose di Stato. I vecchi non sono accessibili alle idee nuove e più non hanno la forza, nè l'attitudine di agire secondo nuovi principî. È fatale ne' suoi effetti la legge fisiologica, che ai dolori nervosi fa battere quasi sempre lo stesso cammino, a cui si abituarono, e ben difficilmente si indirizzano per nuove vie. Per ciò l'uomo vecchio non è che un automa, le cui funzioni organiche sono tutte dominate dall'abitudine e il suo pensare e il suo sentire è soltanto attività di riflesso. Che avverrà sottoponendo questo vecchio organismo a nuovi impulsi e costringendo il suo pensiero ad uscire dalla abituale e comoda carreggiata per battere un terreno appena dissodato? Là, dove una mente giovane non ha bisogno che di comprendere la nuova idea, una mente vecchia invece, oltre che comprenderla, deve attentamente, ponderarla, e, di più, deve lottare contro la tendenza che essa ha di raziocinare col vecchio metodo, cento volte adoperato. Essa deve dunque sforzarsi doppiamente, mentre la sua energia è ben lungi dall'essere maggiore di quella di un giovane; anzi ne è inferiore assai. Questa è la spiegazione fisiologica della così detta ossificazione dei vecchi. È soverchia fatica per altro il rinunciare alle abitudini. Il loro sistema nervoso centrale è assolutamente inetto a produrre impulsi abbastanza forti per lottare e aprirsi l'adito a nuove vie nervose. Ed è perciò che un'amministrazione condotta da vecchi è incatenata alle abitudini ed ha tendenza a diventare un museo di tradizioni. Là, dove invece governa la gioventù e fa le leggi e le amministra, tutte le innovazioni trovano tosto lieta accoglienza, e le tradizioni, per le quali non sono un valido corpo di guardia le abitudini, devono sempre, se vogliono essere salve, fornire le prove della loro eccellenza. L'inesperienza poi e la inavvedutezza della gioventù – svantaggio che fa riscontro al suaccennato vantaggio – non possono recar gran danno, perchè nel complicato meccanismo dello Stato è lunga assai la via che conduce dalla iniziativa ideale all'esecuzione effettiva, e le molte ruote, che devono girare, attutano anche i più forti impulsi siffattamente che non rimane di essi che una piccola forza per produrre il definitivo effetto utile. La esistenza di un'aristocrazia ereditaria rende possibile che anche in tempi normali, un maggior numero di persone dotate di singolari qualità possano, ancor nel fiore degli anni, occupare alti uffici, che implicano grande responsabilità. L'aristocratico, a paragone della moltitudine degli ignoti, ha il vantaggio della notorietà, che egli trova nella sua culla come regalo natalizio. Il figlio del popolo invece è sconosciuto e per acquistare notorietà, deve, il più spesso, spendere i più begli anni della sua vita e far sacrifici materiali e morali. Nell'ordine genuino delle cose, il posto, dal quale si può lavorare pel bene generale, diventa per il plebeo il fine, mentre che per l'aristocratico non è che il principio di un pubblico incarico. E così, mentre il plebeo nella lotta e cammin facendo sciupa tutta la sua energia, l'altro può consacrarla intera al paese.

Un altro vantaggio ha il paese da un'aristocrazia ereditaria. Un nome famoso e illustre è una non comune garanzia che colui, che lo ha, abbia del dovere un concetto più fermo e della umanità un ideale più alto di quelli che possa avere un uomo della plebe. Questa regola generale, però non può sempre applicarsi a tutti i casi. Un principe o un duca del più antico casato, potrebbe essere un mascalzone, ed il figlio di un bracciante o un trovatello, raccolto in un viottolo delle grandi città, potrebbe dar prova di carattere nobile e di generosità eroica. Ma il primo caso è cosa eccezionale, e il secondo, prima che io lo tenga per vero, mi deve essere provato. Ecco: c'è una carica, per la quale ci vuole un uomo coraggioso, onesto, ligio al dovere. Sono chiamato, assieme ai miei concittadini, ad un'elezione. Due aspiranti mi stanno dinanzi, ma personalmente non ne conosco alcuno; questi discende da antico e celebre casato; quello è un nome che odo ora pronunciare per la prima volta. Orbene: se, in cotesto stato di cose, io seguissi le ispirazioni d'una democrazia superficiale, dovrei votare pel plebeo, del quale nulla so, unicamente per fare una dimostrazione a favore del principio chimerico dell'uguaglianza. Ma se ho a cuore l'interesse pubblico, se coscienziosamente desidero che si abbia la maggiore probabilità che il servizio pubblico venga affidato a mani incorrotte e ferme, allora darò il mio voto all'aristocratico. È vero che io non conosco neppure costui, ma dei due sconosciuti egli è quello che io presumo offra una maggior garanzia morale. E perchè? Non solamente perch'egli ricevette una migliore educazione e gli furono inculcati fin da giovanetto i principî della così detta cavalleria. È questo un argomento che vi lascia talvolta a mani vuote. La nascita aristocratica non è affatto una garanzia di buona educazione morale ed ognuno sa di principi allevati nella più deplorevole società e diventati mentitori, vili, libertini e ladri gentili e volgari, secondochè si consideri essere gentilezza il rubare una fornitura di brillanti, e volgarità il rubare un fazzoletto di cotone. No, non è nella educazione che sta la garanzia della elevatezza morale dell'aristocratico, ma nel suo orgoglio di famiglia, o, se volete, nella sua presuntuosa boria aristocratica. In lui è vivo il sentimento della solidarietà di tutta la sua stirpe. L'individuo scompare davanti alla grande unità del casato. Tanto non avviene nel plebeo. Questi è lui solo: null'altro; non è che uno. Quegli è il rappresentante di una schiatta: egli sa che le sue azioni si riflettono su tutti coloro che hanno il suo nome di famiglia e ch'egli trae beneficio dagli onori acquistati da altri che hanno il medesimo nome. Dunque un aristocratico è una persona collettiva, formata dagli avi, dai contemporanei e dai posteri del suo casato, e, teoretica-monte e fino a prova contraria, le garanzie che egli presenta, a confronto dell'ignoto plebeo, stanno come le garanzie di una collettività a confronto di un singolo individuo. Se anche egli fosse, individualmente vile e volgare, nondimeno, appartenendo esso ad uno storico casato si sentirebbe sempre, in date occasioni, stimolato a fare sforzi d'eroismo, perchè direbbe a sè stesso. «Morto io, le mie azioni saranno sempre utili; esse profitteranno alla mia stirpe, agli uomini del mio sangue: illustro sempre più il nome della famiglia e accresco il patrimonio dei miei eredi». L'uomo comune non ha questi incentivi eroici. La sua abnegazione non profitta ad una determinata collettività, e il concetto del beneficio all'universalità è in momenti scabrosi, troppo indeterminato per le facoltà di un cervello ordinario. Certamente all'imperativo categorico obbedisce anche il volgo. Lo attesta la storia. Sul campo di battaglia il soldato Tizio e il soldato Sempronio fanno il loro dovere come il duca A e B, o il principe C. Ma nello stadio odierno dello sviluppo dell'umanità mi sembra che, astrattamente, l'imperativo categorico sia a priori una meno solida base per la mia fiducia che l'interesse palpabile d'una famiglia. È bene che ciò sia preso in giusta considerazione pei casi nei quali si debba mettere a repentaglio la vita per lo Stato. L'aristocratico, assai più del plebeo, è disposto al sacrificio della vita, appunto per quella potente brama di durare oltretomba, di cui a lungo parlai nel capitolo precedente. L'aristocratico è sicuro di lasciar quaggiù qualche cosa di immortale, ma il plebeo invece sa che nessuno si cura di lui, del suo nome, del suo eroismo. Tutto al più, l'eroe oscuro proverà la soddisfazione d'un minuto secondo; poi viene gettato nella fossa comune. L'eroe aristocratico invece si entusiasma nella certezza che avrà una sepoltura particolare, un monumento che si scorgerà da lontano nel camposanto della storia. Io ho la ferma speranza che il sentimento della solidarietà umana si estenderà sempre più: l'hanno già chiaramente previsto eletti ingegni, che francamente si sono fatti martiri per la felicità futura del genere umano. Ma oggi siamo ancora, generalmente parlando, nell'individualismo e nell'egoismo. Ben a rilento si estende l'intima convinzione che il vero interesse personale immediato è quello che si identifica coll'interesse degli altri, del popolo, della specie, e dovrà progredir molto ancora l'umanità, prima che un uomo comune compia sacrifici pel motivo che egli sente, come sente l'aristocratico, ch'ei provvede all'interesse proprio, quando egli tramanda ai posteri il ricordo di un solo atto eroico. Per lo Stato è cosa di grande momento l'aver una classe di persone, le quali si sa che antepongono il dovere alla vita. Nelle ore dei supremi perigli non si dovrà andare alla ricerca di volontari per schierarli in prima linea. Sempre si avranno allora pronti dei Winkelried. (l'eroe svizzero), i quali per la comune salvezza offrono la loro vita, consci di perderla.

Ai vantaggi che presenta un'aristocrazia ereditaria si contrappongono però dei danni. Cosa inevitabile nelle faccende umane. L'aristocrazia giova soltanto al carattere di un popolo: non giova alla sua mente. Non bisogna impromettersi da lei incremento nel mondo delle idee, ampliamento di dottrine, innalzamento della comune intelligenza. La classe privilegiata può essere fisicamente superiore alla moltitudine, perchè si nutre meglio, perchè vive in condizioni igieniche più favorevoli, e queste qualità acquisite emergono come contrassegni di stirpe, perdurando attraverso i discendenti. Ma intellettualmente essa non si segnalerà mai, perchè le qualità intellettuali non sono ereditarie e, rispetto al sapere, ogni individuo è veramente l'avo di sè stesso, il capo-stipite della propria casa. Questo è un fatto rimarchevole, che non è mai stato considerato bastevolmente. Non solo il genio ma anche un talento non comune sfugge alla genealogia. Non ha discendenza. È e rimane rigorosamente individuale; sorge repentinamente in una famiglia e repentinamente da essa scompare. Non c'è esempio, ch'io mi sappia, di un talento che, al pari delle doti fisiche, si sia trasmesso in grado crescente ai discendenti od anche vi si sia mantenuto sempre ad un certo grado. Anzi, noi vediamo i grandi ingegni ordinariamente senza discendenti, o se hanno figli, questi sono deboli, esili, dotati insomma d'una vitalità minore della vitalità media degli uomini. Si scorge in ciò l'azione di una legge misteriosa, la quale pare voglia impedire che una data progenie d'uomini si differenzi dalle altre per speciali doti intellettuali. Si consideri un po' quale sarebbe la conseguenza se il genio fosse ereditario come l'alta statura, la forza dei muscoli, la formosità del corpo. In un paese ci sarebbe allora una piccola classe di tanti Dante o di tanti Shakespeare o di Goethe o di Schiller o di Heine o di Humboldt; quindi un immenso distacco tra cotesta classe e la moltitudine; quella diventerebbe sempre più straniera a questa e non potrebbe più acconciarsi alle comuni condizioni dell'esistenza; sarebbe perciò tentata o a far leggi che convengano solo a lei e a formare così uno Stato nello Stato, oppure a far piegare la legislazione generale a favore dei propri bisogni, la qual cosa nuocerebbe alla moltitudine così come se ad essa si imponesse di respirare continuamente dell'ossigeno puro. Un'intelligenza superiore vince sempre un'intelligenza inferiore, ancorchè questa fosse dotata di maggior forza fisica. Quando razze intellettualmente progredite urtano razze che le sono meno, queste ultime restano irremissibilmente schiacciate. Forse un'aristocrazia di genî, quando fosse poco numerosa, eserciterebbe la stessa potenza che esercitano i bianchi sulle pelli rosse o sui negri australiani. Ma tale aristocrazia non si formerà mai. Il genio, svolgendosi, consuma tanta forza organica che non gliene resta più a sufficienza per la generazione. Strana divisione del lavoro nel genere umano! Gli uomini volgari hanno l'incarico di provvedere alla conservazione materiale della specie e le intelligenze elette si incaricano del progresso graduale della coltura. Non si procreano idee e figli nel medesimo tempo. Il genio è come un millefoglio, splendido, ma sterile; il tipo più perfezionato è inetto a generare, avendo raggiunto uno sviluppo soverchio. Si possono dare titoli di nobiltà a Goethe, a Schiller, a Walter-Scott, a Macaulay, ma i loro discendenti, se pur ne avranno, non rappresenteranno mai nell'aristocrazia ereditaria, le intelligenze più alte della nazione. Si dia pure il caso che un tale di progenie aristocratica, come Byron, presenti il fenomeno del genio; ciò non indica che tutta la casta abbia talento. Le migliori intelligenze di una nazione dunque non si troveranno nell'aristocrazia ereditaria, la quale, come casta, non si distinguerà dal resto della nazione che per doti fisiche e morali. Per conseguenza avrà interesse e tendenza, non a esaltare le qualità che non ha, ma quelle che possiede: l'ideale dell'uomo e del cittadino esso lo farà tale che non risplenda mai per doti di mente; e là, dove essa avrà preponderanza, l'intelligenza non riuscirà mai ad avere quell'ufficio elevato, al quale sente di aver diritto.

Un altro danno, proveniente da un'aristocrazia ereditaria, è che la sua esistenza dà luogo ad ingiustizie verso altri cittadini. Toglie ad alcuni la loro parte naturale d'aria e di sole. Essa ha una preminenza tale sul plebeo da rendergli ben difficile, se non impossibile, la gara e la vittoria pel conseguimento degli scopi della vita. Sono illusorie tutte le leggi che proclamano l'eguaglianza dei cittadini, senza distinzione alcuna di nascita. Dati due rivali, dotati di talento eguale, ma uno dei quali appartenga all'aristocrazia, sarà questi che vincerà nella concorrenza; e molte volte vincerà, non essendo neppur eguale all'altro in talento, ma inferiore. La cosa non può essere diversamente. La giustizia assoluta è un'idea astratta, impraticabile. La giustizia che noi possiamo realizzare è la diagonale di un parallelogramma di forze, i di cui lati sono il potere e l'ideale del diritto. La compagine della società impone restrizioni ad ognuno ed una di queste proviene dalla prevalenza che nel campo della lotta per l'esistenza ha l'aristocratico. Sono danni cotesti che dobbiamo sopportare come ne sopportiamo tanti altri. Comunque sia, possiamo sempre tentare di raggiungere i primi posti, e, se le nostre spalle e i nostri gomiti sono abbastanza forti, ci riusciremo. Se coteste armi naturali ci difettano, abbiamo tanto diritto noi di lagnarci dei privilegi dell'aristocrazia, quanto ne ha l'antilope di lagnarsi della soperchieria del leone che la divora.

Chi considera le cose dal punto di vista delle scienze naturali e perciò ammette che le leggi generali di vita del mondo organico regolino pure la costituzione e l'andamento della società umana non può che trovar naturale, e talvolta anche utile, l'esistenza di un'aristocrazia ereditaria. Le astrazioni filosofiche, che non tengono conto dei fatti, potranno opporsi finchè vogliono alla esistenza di una classe privilegiata, ma questa si costituirà sempre, ogni volta che due persone si colleghino saldamente in una comunanza di interessi. L'esempio di tutte le comunità, che in origine ebbero per base l'assoluta uguaglianza, è là per provarlo. La grande repubblica americana degli Stati Uniti è, di nome, una perfetta democrazia, ma, in fatto, negli Stati del Sud i padroni di schiavi, formano una aristocrazia ereditaria con tutti gli istinti e gli attributi d'una classe siffatta, e negli Stati orientali i discendenti dai primi immigrati puritani e i coloni olandesi, cercano di tenersi separati dalle genti venute dopo di loro o, almeno, vogliono esercitare privilegi sociali, e così quei pirati di borsa, arricchitisi coi mezzi più spregevoli dell'astuzia e della prepotenza, istituiscono vere dinastie, i di cui membri non sono soltanto esempi che possono servir di modello agli altri, ma esercitano realmente un potere sui destini dei Comuni e dello Stato. Si dice che nei francesi l'istinto dell'uguaglianza sia potentissimo. Il che però non impedì che essi fondassero, sui ruderi della vecchia nobiltà, una nobiltà nuova, la quale, pur non avendo titoli nè stemmi, ha nondimeno tutti gli attributi essenziali di un'aristocrazia; e gli avi di lei (ironia della storia!) furono precisamente i più fanatici, i più implacabili sostenitori dell'uguaglianza. Intendiamoci: non alludo ai regicidi della Convenzione, coi quali Napoleone fondò l'aristocrazia imperialista sul modello dell'aristocrazia storica; alludo a quelle famiglie, nelle quali, dalla grande rivoluzione in poi, la preponderanza e la ricchezza sono ereditarie unicamente perchè un loro avo, in quell'epoca, ebbe parte più o meno nella rivoluzione. Si esamini l'elenco delle persone che, da quattro generazioni, governano in Francia, come ministri, senatori, deputati e alti funzionari. Si è altamente stupiti di trovare, dal 1789 in poi, sempre gli stessi nomi, in ogni generazione. I Carnot, per esempio, i Cambon, gli Andrieux, i Brisson, i Besson, i Perier, gli Arago, ecc., ecc., sono veri e potenti dinastie politiche; ma chi ben conosce coloro che oggi hanno quei nomi, sa che questi capofila non devono alle proprie forze i primi posti che occupano nello Stato, ma bensì al nome che portano. Anche l'impero ottomano ha una costituzione prettamente democratica, che non permette aristocrazia ereditaria, all'infuori della dinastia degli Osmanli e dei discendenti del profeta, i quali, del resto sono tenuti in  ben poco conto. Ogni giorno si vede diventar pascià un facchino od un barbiere, secondo il capriccio del sultano il quale è il solo dispensatore di onorificenze e dignità e non domanda mai da chi discenda il favorito. Nondimeno molta parte del paese è governata dai figli degli uomini nuovi, dagli Effendi; e il pascià quantunque non possa lasciare i proprii titoli ai suoi discendenti, pure trasmette loro una parte della sua autorità. Il nepotismo è d'una classe privilegiata la radice più profonda, che rimane vigorosa, anche quando le altre vennero recise dalla scure democratica. È una cosa naturalissima l'aiutare il proprio figlio o il figlio dell'amico a preferenza di un estraneo e sconosciuto, quand'anche questi avesse meriti grandissimi. Ed è perciò che il genero d'un professore avrà sempre titoli scientifici più concludenti di quelli di un suo rivale, che ha contratto un matrimonio meno previdente, e al figlio di un ministro, sarà cosa molto facile diventar un diplomatico; e così quella giovine generazione d'uomini, che, bambini, erano tutti compagni di giuoco nelle sale dei loro altolocati genitori, formerà una falange serrata di mutua assistenza, falange che difficilmente potrà essere rotta da un estraneo, e nella quale colui che ha più vicino il piatto, mangerà prima degli altri.

IV.

Ho riconosciuto che l'aristocrazia è un'istituzione naturale e quindi inevitabile e, a quanto si prevede, eterna; e non mi sono ribellato ai suoi onori e privilegi ereditari, ma ad un patto, cioè che l'aristocrazia sia costituita dal migliore e più valente materiale umano della nazione. Se una classe nobile vuol essere giustificata, deve fondare le sue ragioni sopra motivi antropologici. In origine deve essere uscita da un gruppo eletto e deve avere conservata e accresciuta la sua superiorità colla selezione naturale. Storicamente è così che sono sorte le aristocrazie. Nei popoli, presso i quali tutti si consideravano simili, ebbero presto autorità e preferenze gli uomini più robusti, più belli, più valorosi, più saggi, e i loro discendenti fondarono su queste doti l'orgoglio della famiglia. Conobbero che non dovevano la loro esaltazione al favoritismo degli uomini, ma alla madre natura, e conformandosi ai loro concetti d'uomini primitivi, vantaronsi discendere dagli Dei del loro popolo, cioè dai suoi tipi ideali. Nobiltà divina cosiffatta ebbero i germani, così hanno pur oggi gli indiani e alcune tribù primitive delle pelli rosse nell'America del Nord. Là, dove invece una nazione è sorta dalla mescolanza di elementi etnici diversi, là, dove una stirpe più vigorosa sottomise una stirpe più debole, là sono i discendenti dei dominatori che formano l'aristocrazia, perchè più valenti, o, almeno, perchè di razza fisicamente superiore. Questa è l'origine di quasi tutta la nobiltà nei paesi d'Europa, i quali, nei tempi delle trasmigrazioni dei popoli, e più tardi, subirono l'invasione di stirpi straniere in gran parte germaniche. La primordiale nobiltà francese è franca, borgognese o sassone-normanna; quella spagnuola è visigota; la italiana è vàndala, gota o longobarda, in parte anche sveva, francese e spagnola: la russa è varega, cioè scandinava; l'inglese è normanna; l'ungherese è magiara, e la chinese è della Mandgiùria. Tutto ciò ch'io dissi per specificare la ineguaglianza sociale applicasi esattamente ad un'aristocrazia discendente dagli individui più perfezionati d'una stirpe, oppure dalla stirpe che emerse e dominò. Tale aristocrazia occuperà con diritto i primi posti nelle funzioni della vita pubblica, perchè ha la potenza di conquistarli e conservarli. Essa, meglio organizzata della plebe e avente sentimenti più elevati, eserciterà, fin dalla giovinezza, e svilupperà sempre più la sua possanza e il suo coraggio: diversamente non potrebbe reggere all'urto delle classi inferiori. Ecco perchè essa soprastà sempre al popolo. L'azione delle leggi naturali pone a lei dinnanzi questo dilemma: o mantenere intatto il suo avvantaggio o scomparire. Essa deve essere eroica, perchè se, nelle ore dei perigli, ai suoi privilegi preferisce la vita, altri, che non temono la morte, le rapiranno quei privilegi. Essa deve compiere sempre la missione del precursore e del portabandiera, perchè, se non si mette risolutamente in prima linea, sarà sopraffatta e respinta nei ranghi posteriori. Non deve ordinarsi a casta chiusa, altrimenti deperisce, e il giorno in cui i suoi rivali si accorgeranno ch'essa non è più la stirpe migliore, sarà sbalzata di seggio. Deve sempre lasciar libero lo  svolgimento a quella legge di natura, che ha dato a lei le qualità ch'essa possiede. Qualora sorga nel popolo qualcuno che dia prova di singolari attitudini e forzi la moltitudine a riconoscere la sua superiorità, l'aristocrazia deve affrettarsi ad aprire a quest'uomo che eccelle i suoi ranghi e incorporarselo. Alle inevitabili degenerazioni deve opporre sempre una trasfusione di sangue migliore, e ai migliori lasciar costantemente libero il passo, perchè è appunto così che nacque l'aristocrazia. Un'aristocrazia che avesse siffatta ragione d'esistere, dovrebbe essere bene accolta e la sua prevalenza non dovrebbe essere respinta. Ma in pratica come corre la cosa? La nobiltà, che noi vediamo primeggiare sulla scena del mondo europeo, è come io l'ho descritta? Chiunque abbia un po' di buon senso, non può che rispondere negativamente. La cosidetta nobiltà, cioè la classe che coi suoi titoli ereditari vuole differenziarsi dal resto della nazione, non adempie veruna delle condizioni richieste da un'aristocrazia naturale. Dappertutto si estinsero o si corruppero la nobiltà indigena presso quei popoli nei quali non prevalse una stirpe straniera, la nobiltà della prosapia o nobiltà di diritto divino, e presso i popoli conquistati la nobiltà conquistatrice; e si estinsero o si corruppero per propria colpa perchè rinnegarono la loro naturale legge di vita, perchè diventarono esclusivi e non intesero mai a ringiovanirsi. Per ciò in molte famiglie si esaurì la fecondità e venne il giorno in cui non si potè più avere  eredi; in altri i discendenti di avi eccelsi diventati a poco a poco stupidi, vili, e fiacchi, non seppero più difendere nè i loro beni, nè il loro rango contro la bramosia di concorrenti più vigorosi e discesero nella oscurità e nella penuria, così che il loro sangue oggi forse scorre nelle vene di contadini o di operai. Il loro posto, reso vacante, è occupato da gente che non si è alzata in grandezza per una superiorità organica personale e per dono di natura, ma per bontà del monarca e di altri grandi signori. Tutta l'odierna, nobiltà – nè credo ci siano eccezioni alla regola – è nobiltà concessa per patente e, in moltissimi casi, i suoi diplomi sono assai recenti. I titoli di coteste famiglie nobili non furono creati da una legge antropologica, ma dall'atto di volontà di una persona: E come si può ottenere – domandiamo noi – il favore dei principi, favore che ha la sua ragione in un vero annobilimento, quando nessun albero genealogico va più in là del medio evo? Forse in virtù di qualità umane ideali, o di qualità che svegliano il desiderio che chi le ha possa colla procreazione migliorare la razza? La storia delle famiglie nobili di tutti i paesi è là per dirci una risposta, Non c'è forse esempio che sia stato insignito di nobiltà uno di quegli alti e virtuosi caratteri che rappresentano un tipo ideale dell'umanità. Se qualche rara volta un uomo di merito riceve per le sue opere un diploma di nobiltà, egli deve certamente avere non solo qualità egregie, ma anche qualità volgari e spregievoli, le quali ultime sono quelle che spiegano come esso abbia potuto essere considerato dal principe. I motivi pei quali numerose famiglie alzaronsi in grandezza sono così sporchi, che non si potrebbero esporre in una società decente: i loro onori superbi non li devono che ad avole senza vergogna, ed i loro superbi stemmi sono monumenti, i quali ricordano ch'essi ebbero padri e madri molto compiacenti, e che nelle loro famiglie ci furono delle damine molto spregiudicate. Altre volte la patente di nobiltà fu il premio di una furfanteria o di un delitto, che il capo-stipite, perpetrò per servire il suo principe. Ammetto tuttavia che la scostumatezza o l'assassinio, quantunque siano stati sovente il primo passo verso brillanti destini, non abbiano giovato che ad una minoranza della nobiltà per conquistare privilegi. Sia pure che la maggioranza abbia acquistato i suoi gradi in un modo meno scandaloso. Fra i motivi degli innalzamenti a nobiltà noi troviamo ordinariamente la ricchezza o lunghi servigi prestati in impieghi governativi o nell'esercito. Ora, come si possono acquistare ricchezze tali da attirare l'attenzione del principe? O con indelicatezza di opere o per fortunati accidenti, ma più frequentemente con indelicatezze: all'epoca della riforma si spogliò la Chiesa; più tardi si armarono dei corsari, ossia dei pirati, e fors'anco si diventò negozianti di schiavi o padroni di schiavi; nei tempi moderni si assumono le forniture per l'esercito, derubando lo Stato; oppure si fa lo speculatore, togliendo, con abili giuochi di borsa, a migliaia di persone il peculio faticosamente risparmiato, benchè lo tengano ben stretto in pugno, o, per voler essere più incorrotti, si fa il grande industriale, spillando milioni da qualche centinaio o migliaio d'operai miseramente salariati. Tutte queste persone, apprezzate dal principe per servigi resi in guerra o in pace, cosa sono esse veramente? Sono sempre, dico sempre in modo assoluto, anime volgari, individui intriganti e adulatori, che passano gli anni ammorzando in sè stessi ogni stimolo di virile indipendenza, cancellando ogni traccia di orgoglio e di coscienza di sè medesimi, inchinandosi davanti ad ogni autorità ed ingraziandosela, facendo buon viso a tutte le sue stravaganze e fingendo devozione illimitata, e, dopo tutto, come degno coronamento di cotesto cammino, fatto strisciando col ventre a terra, mendicano una patente di nobiltà. Uomini di tempra salda e pura, dalla spina dorsale inflessibile e che non trovano felicità se non nella serena coscienza di sè stessi, non si adatteranno mai a rinnegare le proprie qualità, a non avere altra opinione che quella dei loro superiori, ad adulare, intrigare, implorare, ad usare, insomma, tutti quegli espedienti, che soli conducono allo scopo di procacciarsi il favore del principe. A questi uomini si volge il pensiero sol quando abbisognano imprese pericolose, non quando si vuole distribuir grazie. Sono uomini cotesti che, quando il bene pubblico domanda sacrificî, si fanno arditamente innanzi, ma, in occasione di ingressi solenni o altre feste, non si vedono mai a spingersi avanti coi gomiti per attirare gli sguardi del principe. La nobiltà patentata è istituita per migliorare la razza umana, come le corse dei cavalli sono istituite per migliorare la razza equina; i prescelti però e i corridori destinati alla procreazione di una nuova specie posseggono qualità che un uomo comune può benissimo augurare a suo figlio, perchè riesca, dirò così, a far cammino nel mondo, ma sono qualità di cui nessun poeta adornerebbe il suo eroe, perchè la poesia colloca l'ideale umano ad un'altezza, alla quale non giungono le usanze e le leggi; perchè il sentimento estetico, là dove la coscienza morale tace, insorge, e finalmente perchè all'uomo che ha avuto, secondo le usanze sociali, un successo, si può ben dare una stretta di mano, ma non è lecito che un poema glorifichi cotesta gente e la presenti come modello all'umanità. Gli individui che ad ogni generazione si scelgono dalla massa della nazione per dar loro gradi di nobiltà e ordini cavallereschi, è certo che non sono sempre i peggiori relativamente alle doti intellettuali; in generale non sono stupidi; è probabile anzi che siano astuti e abili; saranno anche, in fatto di perseveranza, di pieghevolezza e di forza di volontà, superiori alla massa media: ma ciò che ad essi senza dubbio manca è il carattere, è l'indipendenza, che sono veramente le qualità che potrebbe avere un'aristocrazia naturale, cioè un'aristocrazia che sorge spontanea e che senza intervento di leggi scritte creerebbe un'ineguaglianza sociale a proprio favore e a riscontro dei plebei.

Ho fatto il ritratto dell'individuo che acquista la nobiltà alla sua famiglia. I discendenti, in generale, saranno moralmente superiori all'avo, perchè si può acquistare un rango, benchè abbietti, ma per conservarlo, si può anche esserlo meno. Non occorre più, infatti, di essere egoista senza scrupoli, cortigiano o intrigante. Il carattere del resto si migliora colla insistente prevalenza della ragione di casta, la quale riposa sulla teoria originale  che l'aristocrazia sia la società dei caratteri migliori e più nobili. Quantunque nulla v'abbia che sia comune fra la nobiltà patentata e la nobiltà naturale, tuttavia la prima si attiene fermamente alla finzione di derivare da quella stessa ragione teorica, dalla quale deriva la seconda. Ora, quali sono i destini antropologici della nobiltà moderna? In omaggio ai pregiudizi medioevali, o non farà che matrimoni entro la propria cerchia, schivando così i matrimoni disparati, oppure farà appunto matrimoni disparati. Il primo metodo conduce rapidamente alla piena decadenza delle famiglie nobili, perchè, non discendendo queste da individui originariamente meglio organizzati, come avviene invece nella nobiltà d'origine naturale, hanno una minore quantità di forza organica e perciò la procreazione porterà necessariamente in esse la conseguenza di un rapido esaurimento del capitale vitale, che, dopo tutto, a dir il vero, non è che esso sia da meno di quello del volgo, ma deve però dare prestazioni maggiori in ragione appunto della vita più intensa che è intimamente legata ad una condizione sociale più elevata, e le deve dare senza poter mai ricevere rinforzi dall'inesauribile serbatoio delle vigorìe popolari. E quando un aristocratico si ammoglia fuori della sua cerchia e conduce sangue nuovo nella famiglia, di che qualità è cotesto sangue nuovo? Quali sono i motivi che determinano la sua scelta? È rarissimo il caso che un nobile sposi una ragazza del popolo per le sue doti fisiche e morali e per migliorare con essa il sangue del casato. Solo cotesti matrimoni sarebbero vantaggiosi, perchè, per essere una buona progenitrice, una donna deve avere non solo forme corporee normali, esprimenti bellezza armonica, ma benanco un'anima sana e tranquilla, manifestantesi con costumi benigni e un po' borghesi. Quasi sempre invece i matrimoni disparati si fanno o per interessi materiali o per passione capricciosa. Svisceriamo l'una e l'altra specie di cotesti matrimoni. Un nobile sposa una ricca borghese per indorare a nuovo il suo blasone, come si suol dire. Egli allora è un libertino, che si è rovinato in orgie ed entra nel matrimonio come si entrerebbe in una casa di previdenza. Oppure è un uomo sfinito, senza forze vitali, perchè chi sa d'essere provvisto di energia organica, è superbo e coraggioso, e non solo sente il bisogno di prendere una moglie di tutta sua elezione, ma ha anche la sicurezza di poter fare buona figura nel mondo, pur senza la dote di una donna ch'egli non ama. Di più, egli è altresì un uomo di carattere volgare e di bassi sentimenti, perchè deve essere disposto a fingere e a mentire: infatti le ricche ereditiere fidanzate non tollerano, ordinariamente, che il promesso sposo faccia scorgere, sotto l'apparenza dell'amore, la febbrile e volgare cupidigia del loro danaro. Del resto, cotesta ricca ereditiera è pur essa un tipo umano assai basso: discende intanto da un padre corto d'intelletto e senza dignità, perchè un altro padre non sacrifica i destini di sua figlia a mere apparenze e non vorrebbe avere rapporti con una famiglia nella quale egli e tutti i suoi sarebbero, quali intrusi, trattati con modi alteri e sprezzanti. La ragazza stessa se è contenta di questa ventura, se consente ad essere la moglie di un uomo che non ha affetti per lei, è una creatura senza cuore, senz'anima, una pupazza stupida e vanitosa, o se essa sente il bisogno di amare e di essere riamata e si rassegna nondimeno alla sorte che la sua famiglia le prepara, è una donna senza volontà propria, è un carattere senza vita. Non diversa corre la cosa nei matrimoni disparati, che non si fanno per la dote. Non parlo dei casi, nei quali contraggonsi matrimoni fra gente impari, in virtù di un amore puro, morale. Sono casi, ch'io trascuro, tanto più che accadono forse una volta ogni secolo e, appunto per la loro rarità, non apportano sensibile miglioramento nella classe aristocratica. Generalmente i matrimoni, di cui ora vogliamo parlare, si contraggono da aristocratici per innamoramento verso un'attrice, una cavallerizza o un'abile cicisbea incontratasi negli stabilimenti balneari o in qualche salotto internazionale delle grandi città. La donna in cotesti accoppiamenti è sempre un essere anormale, conosciuto come un tipo fuori dell'ordinario, perchè si è data ad una vita eccezionale, spesso stravagante o riprovevole, e in lotta contro i doveri che l'odierna società impone alle donne; l'uomo poi è ciò che in psichiatria si chiama un «degenerato», cioè un individuo nel quale la volontà e la mente sono infiacchite, il senso morale è appena in uno stato di rudimento e la passione sessuale è così stranamente guasta che domina tutta la vita del cervello; individui di tal fatta non sanno tener fronte al desiderio di possedere una donna, che li sa eccitare, e per appagare questo loro desiderio commettono sciocchezze ed anche azioni indegne, e, se è necessario, puranco delitti. Basti guardare quei romanzi viventi che terminano col matrimonio tra un principe e un'artista di teatro: si scorgerà che in essi l'uomo è un «degenerato» nel senso scientifico della parola; una natura, insomma, fiacca, sensuale, di prima impressione. Tutti cotesti matrimoni disparati sono dunque in pratica, inetti a dare all'aristocrazia vantaggi antropologici; anzi sono avvenimenti che sembrano fatti astutamente a bella posta per accoppiare della nobiltà e della borghesia la roba peggiore, la quale poi non potrà procreare che individui moralmente infermi.

Questa è l'origine dell'aristocrazia patentata e questi sono necessariamente i suoi futuri destini. L'avo è un egoista, o un intrigante, o un cortigiano, od anche tutti e tre nello stesso tempo; l'erede è inesorabilmente condannato al decadimento, sia perchè esaurisce il suo sangue con impropizie procreazioni entro la ristretta cerchia di famiglie che sono tutte in eguali condizioni sfavorevoli, sia perchè contrae matrimoni disparati con tipi eccezionali di donne, o insufficientemente sviluppati o disordinati. Le verità sociologiche e antropologiche stanno luminosamente davanti ai nostri occhi e nessuna persona còlta le ignora. E perciò si fa qui ancor più grande la viltà, la stupidità e l'ipocrisia umane. Malgrado quelle verità, c'è ancora una larga parte di uomini che volenterosa ed anzi con intima compiacenza s'inchina davanti alle prerogative sociali che ha tuttora la nobiltà. In tutti i paesi, non esclusi i democratici, ha cittadinanza lo snobismo, il quale si sente altamente lusingato quando può fregarsi attorno ad aristocratici. Il francese, che si vanta di avere inventato la eguaglianza, va orgoglioso della conoscenza di un duca o marchese e si prende cura di tutto ciò che concerne l'aristocrazia nazionale. L'americano sembra non adori che l'onnipotente dollaro e pare senta sprezzo per le differenze di classe del vecchio mondo, ma quand'egli può ornare le sue sale con qualche testa di nobile, ne è felice. Oggi, chiunque voglia, può sapere come si ottenga un titolo di nobiltà, sia pure in questo o in quel paese. Non è un segreto la tariffa per una corona di duca, di conte o di barone; si sa che tutte queste decorazioni sono l'equivalente di una determinata somma, eppure ad una si tributa un omaggio che all'altra si nega. Dirò ora qualche cosa che dimostrerà, meglio di un volume d'argomenti, quanta falsità ci sia negli uomini della nostra civiltà. Un deputato francese propose un disegno di legge, onde fosse a tutti permesso di usare, in qualsiasi occasione, un titolo nobiliare, purchè si pagasse al fisco una determinata somma: per 60.000 franchi si poteva farsi chiamar Duca, per 50.000 Marchese, ecc., e per 15.000 semplicemente il signor di... Se questa legge fosse approvata, sarebbe molto difficile trovar gente che sapesse onestare e far apertamente un tal negozio, perchè non vorrebbe far vedere al mondo ch'ella compera un titolo nobiliare come compererebbe un abito o una catenella d'orologio. Ma, se si provasse invece a pubblicare in un giornale l'annunzio che c'è modo di procurare titoli di nobiltà a persone agiate, operando con discrezione e segretezza, pioverebbero cento domande ad ogni corriere postale. Si prometta un titolo della repubblica di San Marino o del principato di Reuss-Schleig-Greiz al prezzo stesso od anche maggiore di quelli proposti dal deputato francese: non mancheranno i compratori della merce. Orbene, la prima sarebbe un'operazione corretta, la seconda invece oscura e sospetta; da una parte un titolo che avrebbe validità legale in un paese di 37.000.000 di abitanti, dall'altra uno che non avrebbe validità che in alcuni villaggi. Ma nel primo caso si dovrebbe dire apertamente che la patente di nobiltà fa piazza; è in pubblico; nell'altro invece non si distrugge la finzione che la nobiltà sia il premio del merito e che il neo-nobile sia un essere superiore; e così, piuttosto che comperare francamente un diploma di nobiltà in un ufficio di bollo e tasse, lo si mercanteggia col mezzo di un sensale, che può essere sospetto; e tutto ciò perchè, almeno esteriormente, si vuol sostenere il credito menzognero dell'istituzione nobiliare.

I vantaggi concessi all'aristocrazia non sono però soltanto d'indole sociale e non consistono solo in titoli e complimenti. La nobiltà nei paesi monarchici, malgrado la legale proclamazione dell'eguaglianza nei diritti e nei doveri, ha una riputazione così stabilita ed efficace che, non foss'altro le assicura il possesso di tutte le così dette «sinecure» del paese. Dico «sinecure» nel più largo senso della parola. Tutte le cariche che, nell'attuale ordinamento della proprietà e dei benefici, importano un grado onorevole, un reddito sicuro e poca fatica, devono considerarsi come doni dello Stato. Tutti quei posti, pei quali non occorrono speciali attitudini e che possono essere occupati da un uomo mediocre qualsiasi, sol che glieli si voglia dare; a farla corta, tutti quei posti che, come dice un proverbio, Dio li crea e poi li appaia alle intelligenze adattate, sono effettivamente occupati dalla nobiltà; tali sono i posti di ufficiali, di alti funzionari, le prebende, le dignità di Corte stipendiate, ecc. Queste cariche vengono regalate a un piccolo gruppo di persone, le quali non vi avrebbero alcun ragionevole diritto. A questi privilegiati si prepara una bella tavola, ricca di cibi saporiti, per la sola ragione, come dice Beaumarchais, ch'essi si sono dati la pena di nascere.

La menzogna della nobiltà patentata, che si è intrusa, come parassita, nella forma storica della nobiltà naturale (che aveva una giustificazione antropologica, perchè composta dei discendenti degli individui migliori della tribù o della razza superiore dei conquistatori), questa menzogna, dico, quantunque rilevata ogni momento dalla storia, dalla ragione e dalle esterne sembianze, è tollerata e accarezzata. È una colonna dello Stato monarchico. Si finge di credere che un giovinastro, corto d'ingegno e frivolo, sol perchè si chiama il signor conte o il signor barone, abbia tempera migliore di quella degli altri; si finge di ritenere che il principe, facendo quattro scarabocchi su un pezzo di carta o su una pergamena, possa mutare un uomo volgare in un personaggio egregio ed onorando. E perchè ciò non dovrebbe essere possibile al principe? Non ha egli forse a sua disposizione la grazia di Dio? Da questa si può benissimo attendersi un miracolo di trasfigurazione, che, al postutto, si può benissimo capire, non essendo ciò più difficile a capire che tutti gli altri miracoli della Bibbia o della liturgia.

LA MENZOGNA POLITICA

I.

Prendiamo dalla massa del popolo, vivente in mezzo alla moderna civiltà, un uomo, senza quei rapporti di famiglia od altri, che potrebbero fargli avere la protezione dei potenti o con essa vantaggi parecchi; esaminiamo quali rapporti corrano fra quest'uomo e la cosa pubblica. Premetto che prendo ad esempio un cittadino di uno Stato europeo. Probabilmente questa o quella linea della figura ch'io sto per disegnare non si adatterà a tutti i paesi. È diversa infatti secondo i luoghi, la latitudine della libertà individuale, come è diverso il modo di restringerla. Tuttavia, credo di poter fedelmente descrivere e riprodurre, a larghi contorni, la situazione di un cittadino europeo, come è creato dalla nostra civiltà.

Il tipo dell'uomo civilizzato, ch'io prendo ad esempio, è nell'età in cui i suoi genitori stanno formandogli la mente. Lo si manda alla scuole comunale. Prima di ammetterlo, si chiede il suo certificato di nascita. Si potrebbe credere che, per godere il beneficio dell'istruzione pubblica, potesse bastare il solo fatto dell'esistenza e di aver toccato un certo sviluppo fisico e intellettuale. Errore! Bisogna avere un certificato di nascita. Questo rispettabile documento è la chiave richiesta per entrare negli arcani del leggere e scrivere. Non avendola, bisogna supplire ad essa con un'infinità di procedure di ufficio (a narrarle tutte andrei troppo alla lunga), per provare, a forza di attestazioni numerizzate, bollate e sottoscritte da determinate persone, che si è nati. Felicemente ammesso alla scuola, il ragazzo dopo alcuni anni l'abbandona, per darsi ad una professione. La sua vocazione sarebbe di assistere i suoi concittadini in questioni giuridiche, col consiglio e col patrocinio. Ma ciò gli è proibito, se non ha, sotto forma di parecchi diplomi, la licenza del Governo. Egli però può divenire utile anche facendo delle scarpe, quantunque una scarpa mal fatta possa esser cagione di sofferenze maggiori di quelle che possa recare un semplice consulto in una questione giuridica. A vent'anni vorrebbe intraprendere qualche viaggio d'istruzione. Ma non lo può. Deve fare il servizio militare, perdere per alcuni anni la propria individualità, il che è ben più doloroso che il perdere a guisa di Pietro Schlemihl, la propria ombra. Deve diventare un automa. Benissimo. Bisogna far questo sacrificio allo Stato, il quale potrebbe un giorno essere minacciato dal nemico. Durante il servizio militare il mio Gianni – per comodità chiamiamolo così – trova tempo ed occasione per innamorarsi di una Peppina qualunque. Egli ha indole corretta e sdegna il metodo, usuale e comodo delle guarnigioni, di riporre la felicità negli amori da cucina. Vuol sposare. È giusto. Vuole; ma non gli è permesso. Finchè è soldato, deve rimaner scapolo. È vero che, anche ammogliato, egli non lederebbe i diritti d'alcuno, nulla torrebbe alla forza armata dello Stato, e, in generale, abbia esso o non abbia moglie, non darebbe fastidio ad alcuno, sia vicino, sia lontano. Ma non è lecito; bisogna aspettare il giorno in cui svestirà il cappotto militare. E quel giorno finalmente arriva. Potrà ora accasarsi con la sua Peppina? Sì, semprechè però, lui e lei, abbiano tutte le loro carte necessarie, e di queste ce ne vogliono non poco. Se ne manca una, addio nozze! Ma finalmente Gianni con un po' di abilità e di fortuna riesce a superare lo scoglio: ed ora vorrebbe aprire un negozio da vino. Non lo può; ci vuole il permesso della polizia, la quale, se vuole, può anche non concederlo. La stessa cosa gli accadrebbe, se scegliesse un altro fra i tanti mestieri, quantunque esso non turbi menomamente i diritti altrui, non sia rumoroso, nè immorale, nè nocivo al pubblico. Gianni vuol riattare la sua casa. Non toccar nulla, se non c'è il permesso superiore! Si capisce. La strada è di tutti, la sua casa sta sulla strada, dunque ei deve sottostare ai regolamenti generali. Egli ha pure un vasto giardino, lontano dalle strade pubbliche, in una località ove nessun estraneo ci può mettere occhio, nè orma di piede, e nel centro di esso vuole erigere un edificio. E anche per far questo occorre un certificato delle autorità. Gianni non sente il bisogno di un giorno di riposo nella settimana, e nel suo negozio vorrebbe alla domenica vendere come negli altri giorni. Niente affatto: deve tener chiuso, se non vuol essere preso pel collo da un poliziotto e messo in gattabuia. Nel suo negozio si vendono commestibili, e siccome egli patisce l'insonnia, così nulla gli costerebbe tener aperto il negozio tutta la notte. La polizia gli prescrive una determinata ora per la chiusura e, per farlo obbedire, lo spaventa e lo minaccia. La sua Peppina gli regala un bimbo. Nuovi tormenti! Bisogna farlo iscrivere allo stato civile, altrimenti il piccino potrebbe un giorno trovarsi molto male. Lo deve anche far vaccinare, quantunque egli abbia visto che, in un'epidemia vaiuolosa, individui non vaccinati non ebbero il vaiuolo e individui vaccinati lo hanno avuto e ne sono morti.

Passerò di volo attraverso cento altre dolorose esperienze, che il nostro Gianni deve fare durante la vita. Un giorno volle far circolare per le vie della città un omnibus, ma ha dovuto però ottener prima il permesso dei superiori. Gli sarebbe piaciuto una volta passeggiare in una certa parte dei giardini pubblici, mantenuti col denaro del pubblico, e non l'ha potuto. Un'altra volta volle fare una lunga gita attraverso la sua provincia; dopo alcune ore di cammino, s'imbatte in un gendarme, che gli muove domande indiscrete, gli chiede, cioè, il suo nome, la professione, donde venga, dove vada, e avendo egli ricusato di rispondere ad un uomo, che gli era affatto sconosciuto, e che gli si presentò senza dire chi fosse e senza neanche salutarlo, si tirò addosso tali molestie, che lo disgustarono tanto, da indurlo a non continuare più la sua gita. Un giorno un vicino gli prende violentemente una parte del giardino e la unisce al proprio, chiudendola entro una siepe girante tutto all'intorno; la cosa era così semplice che riusciva facile a Gianni il dimostrare chiaramente il torto dell'altro; infatti, egli intenta una lite, la quale andò alla lunga, ma finalmente la vinse. L'avversario si palesò insolvibile. È vero ch'egli riebbe la sua porzione di giardino; ma perdette, in tempo e spese, venti volte più di quello ch'essa valeva, senza tener conto dei fastidi a cui egli, del resto, era avvezzato fin da fanciullo. Al museo ammira un bel quadro del risorgimento e tanto gli piacque il vestiario delle persone in esse rappresentate, che se ne fece fare uno eguale, e in un giorno di domenica l'indossò e uscì di casa. La polizia glielo fece smettere, minacciandolo della prigione perchè essa disse che quel vestimento era una mascherata. Un'altra volta, trovandosi insieme ad amici aventi tutti le stesse opinioni, deliberò con essi d'istituire un circolo, ove poter discutere in assidue adunanze e censurare le leggi esistenti. La polizia gli chiese subito l'elenco dei soci del circolo, e poco tempo dopo sciolse il circolo stesso perchè aveva carattere politico. Gianni, d'indole tenace, fondò un altro circolo, ma questo non si occupava che di questioni economiche: era un'associazione di risparmio e consumo. La polizia scioglie anche questo, perchè Gianni non le aveva chiesto il permesso. Dopo una lunga serie di vicissitudini, finalmente Gianni incanutisce ed invecchia. S'egli sarà di buona pasta, si consolerà, pensando che in Russia si sta peggio che in casa sua: ma se invece egli è bilioso, s'irriterà, riflettendo che gli inglesi e gli americani vivono assai più tranquilli di lui. È questa una credenza sua, che egli si è fatta leggendo i giornali, perchè, per esperienza propria, nulla sapeva. Un giorno gli muore la sua Peppina, e non volendo separarsi da lei, ancorchè morta, la fece, senza badar tanto, seppellire nel giardino, all'ombra del suo albero favorito. Ora l'ha proprio fatta bella! Si scatenò sul suo capo un vero uragano poliziesco. Per seppellire il cadavere nel suo giardino, non aveva chiesto il permesso! Egli dovette pagare una grossa multa, e la sua Peppina venne, senza tante cerimonie, dissotterrata e condotta dall'autorità al cimitero.

Ora è solo al mondo. Divenne taciturno; s'avvilì. I suoi affari andavano male, e, in breve tempo, diventò povero. Una sera, spinto dalla miseria, si pose all'angolo di una via e stese la mano. Gli si fece dappresso un poliziotto e l'arrestò. Condotto in ufficio, ebbe una conversazione molto istruttiva col commissario di polizia. «Voi sapete – gli dice bruscamente il commissario – che è proibita la questua». – «Lo, so – risponde dolcemente Gianni – ma non capisco; io non disturbo alcuno sulla via; nessuno fu da me importunato; non feci che stendere silenziosamente la mano.» – «Queste sono chiacchiere, ed io non ho tempo da buttar via; andrete per otto giorni in prigione». – «E cosa farò quando sarò rimesso in libertà?» – «Ciò non m'interessa; è affar vostro». – «Sono vecchio e non posso più lavorare. Non ho più nulla. Sono malaticcio...» – «Se siete malaticcio – salta su con impazienza il commissario – andate all'ospedale». E riprendendosi subito: «Già, è vero, se siete solo malaticcio, all'ospedale non vi ricevono: ci vorrebbe una malattia seria». – «Comprendo – soggiunse Gianni – una malattia della quale si muore subito, non potendo guarire presto». – «Precisamente!» esclama il commissario mettendosi a sbrigare un altro affare. Gianni dopo aver fatto i suoi otto giorni di prigione, fu ancor tanto fortunato da essere accolto in un ospizio di poveri. Quì trovò alloggio e vitto: ma questo era cattivo e l'altro intollerabile; lo si trattava come se fosse un delinquente o un prigioniero. Dovette indossare una specie di uniforme che, per le vie, attirava su lui sguardi di dispregio. Un giorno s'imbattè in un uomo ch'egli aveva conosciuto nei suoi bei tempi. Lo salutò, ma l'altro non gli rese nemmeno il saluto. Allora lo avvicinò e gli chiese: «Perchè questo disprezzo?». E l'altro: «Perchè non avete saputo seguire l'esempio della gente rispettabile che si è arricchita?», e con un'aria di disgusto tirò innanzi per la sua strada.

Gianni diventò malinconioso. Tetri pensieri gli si affacciavano alla mente. Durante una passeggiata ch'egli fece in un giorno di bel tempo, riandando col pensiero tutta la sua vita passata, cominciò dapprima a parlare sottovoce e poscia sempre più forte, e diceva: «Eccomi a 70 anni. E come li ho passati? Mai e poi mai, ho potuto essere io stesso! E mai e poi mai ho potuto volere! Ogni volta che io ho voluto mandare ad effetto una mia risoluzione, la polizia è intervenuta e me lo ha impedito. Nelle mie faccende personali gente estranea ha voluto sempre ficcarci il naso. Io doveva avere verso il mondo riguardi, che nessun individuo infine mi chiedeva, e viceversa, nessun individuo aveva riguardi verso di me. Col pretesto di proteggere i diritti degli altri, mi si spogliava dei miei, e, pensandoci bene, si spogliava me e tutti gli altri insieme. Durante la mia vita ho potuto, tutto al più, far saltare, come volli io, il mio cane: una volta, però, che lo bastonai, la società zoofila, spalleggiata dalla polizia, mi multò. Che io dovessi lasciarmi tormentare come soldato, lo comprendo, quantunque il nemico, invadendo per mancanza di un esercito di difesa, non avrebbe probabilmente fatto mai a me un male maggiore di quello che mi fa la mia cara autorità nazionale. Comprendo benissimo, ch'io debba anche pagare gravose imposte, perchè la polizia, che paternamente ha sempre l'occhio su me, deve essere stipendiata, quantunque non sarebbe stato proprio indispensabile mettere un'imposta sul mestiere che mi procacciava il sostentamento, e farmi appignoramenti quando io ero insolvibile. E a che tutte le altre vessazioni e restrizioni? Quali sono le ricompense che la polizia mi ha offerto pei sacrifici d'indipendenza che essa ha voluto da me? Essa ha protetta la mia proprietà. Certamente, e la cosa fu molto facile, perchè proprietà non ne aveva, e quando ne ebbi un po', mi venne tolto quel pezzetto di giardino, e allora, oltre i fastidi avuti, dovetti anche sborsare del denaro. Ma se non ci fosse la polizia, ognuno agirebbe a capriccio, e allora? Allora, o io avrei ucciso il mio avversario, o il mio avversario avrebbe ucciso me, e la commedia sarebbe stata finita. L'autorità però provvede al buon mantenimento delle strade. E, poffar bacco!, sarebbe meglio infangarsi per le strade o patire queste eterne vessazioni? Oh! vada in malora la vita!»

A questo punto del suo monologo, Gianni si gettò nel torrente, ch'egli, passeggiando, costeggiava. Anche qui intervenne la polizia: lo ripescò, lo trasse davanti al giudice, e fu condannato al carcere per tentato suicidio. Non so se io debba dire per fortuna o per disgrazia, il fatto sta che il salto nell'acqua procurò a Gianni una bronchite e morì in prigione. Perfino la sua morte diede occasione alla polizia di fare un altro processo verbale.

II.

Il mio Gianni pensava come poteva pensare un uomo malcontento e incolto. Non parlava che della polizia perchè nello Stato non vide che questa, ed essa era per lui la rappresentante della cosa pubblica e delle sue leggi. Certamente egli ha esagerato gli inconvenienti della civilizzazione ed ha apprezzato i suoi benefici meno di quel che valgono. Ma alla fine delle fini egli non ha torto. Le restrizioni che lo Stato impone all'individuo, non sono niente affatto proporzionate alle facilitazioni ch'esso offre in iscambio. Naturalmente il cittadino non rinuncia alla propria umana indipendenza che per uno scopo determinato e verso una corresponsione di determinati vantaggi. Egli stabilisce, come premessa, che lo Stato, nelle cui mani affida volonteroso una gran parte de' suoi diritti, gli garantisca in ricambio la sicurezza della vita e della proprietà, e che faccia convergere le forze di tutti a fini determinati per poter con esse eseguire imprese vantaggiose a ciascun individuo e che un individuo isolato non potrebbe concepire, nè effettuare. Orbene: bisogna confessare che questa premessa teorica lo Stato la mette in pratica non bene e, certo, non meglio delle primitive tribù barbare, le quali concedevano ai loro membri una libertà maggiore di quella che concede lo Stato incivilito. Questo dovrebbe garantire vita e proprietà; e non lo fa, perchè egli non può togliere la guerre, che dànno morte violenta ad un numero spaventevole di cittadini. Le guerre fra popoli inciviliti non sono  meno frequenti, nè meno sanguinose di quelle fra tribù selvaggie; e il figlio della civiltà, con tutte le sue leggi e tutto le sue restrizioni alla libertà, non è al sicuro di un'arma micidiale del nemico più di quel che lo sia il figlio della barbarie, che non ha ancora il beneficio della tutela della polizia. Per trovare una differenza fra queste due condizioni, bisognerebbe essere di opinione che sia una morte minore l'essere ucciso in uniforme da un uomo pure in uniforme e che uccide per ordine ricevuto, piuttostochè l'essere ucciso da un guerriero tinto di rosso, che uccide con un'ascia di pietra e senza regolamenti militari. Vi hanno intelletti che presagiscono l'abolizione della guerra e la sostituzione ad essa di giudizi arbitramentali. Ciò potrassi vedere in avvenire. Io non parlo ora d'un avvenire, di cui non conosciamo la scadenza fissa; parlo del presente. Oggi, malgrado tante restrizioni alla libertà, un uomo in momenti pericolosi ha bisogno di aver occhio, esso, alla sua pelle, tanto quanto il selvaggio che era nelle foreste vergini. Ma, a parte anche la guerra, il regolamentarismo e il protocollismo non dànno alla vita dell'individuo una garanzia maggiore di quella che dà la barbarie con tutto il suo disregolamento. In mezzo alle tribù selvaggie l'omicidio non è più frequente di quello che sia in mezzo alle nostre comunanze semi-colte. Le violenze avvengono quasi sempre per prepotenza di passioni e quasi sempre deludono le nostre leggi restrittive. La passione è un ritorno allo stato primitivo: essa è la medesima cosa nell'uomo colto dell'alta società, e nel negro australiano. Chi è in balia d'una passione, uccide e ferisce senza aver riguardo a leggi e ad autorità. A colui che ricevette un colpo di coltello da un rivale in amore, importa proprio niente affatto che l'assassino possa essere imprigionato dalla polizia e poi condannato, perchè la condanna è sempre molto incerta, non essendo raro il caso in cui i giurati, commossi, dichiarino non colpevoli le violenze commesse per impeto di passione. Del resto, questa grama consolazione (che in pratica poi è una cosa ben dappoco), cioè che l'assassinio venga punito nel suo autore, l'ha pure il selvaggio, anzi l'ha più sicura dell'uomo incivilito, perchè o la vendetta ereditaria o la proscrizione della tribù raggiunge il reo molto più facilmente che le ricerche della polizia, malgrado tutti i suoi bandi notificati dai fogli ufficiali. Oltre il delitto nel bollore della passione, dobbiamo pur considerare il delitto premeditato, il delitto a sangue freddo. Questo è assai più frequente nel mondo civilizzato che nel mondo barbaro. È infatti la civiltà che, in modo speciale, crea una determinata classe di persone, che perpetrano appunto il delitto premeditato. È scientificamente provato che coloro, nei quali il delitto è diventato abitudine, sono organismi degenerati, discendenti da beoni o da libertini, e sono o epilettici o ammalati nel sistema centrale nervoso d'altre malattie di degenerazione. La miseria, che, specialmente nelle grandi città, flagella i poveri, li getta in tale abbiezione fisica e morale, che dà origine alla condizione patologica della criminalità. E nessuna legge potrà sradicare mai delitti, che sono necessariamente creati dalle condizioni stesse della civiltà. E, in questa nostra società protocollata, le rapine e i furti con omicidio sono fenomeni ben più gravi che nella Smalah dei beduini, la quale non ha stato civile, nè fisco, nè catasto.

Nè per quanto riguarda la sicurezza della proprietà si sta meglio. Malgrado tutte le leggi e i regolamenti, si commettono furti e rapine, o mettendo addirittura la mano in saccoccia agli altri, oppure ingannando, per poco o per molto, tanto gli individui come il pubblico. Che protezione c'è, per esempio, contro lo speculatore che froda milioni coi risparmi del popolo, o contro il ribassista che, con un colpo di mano, annienta vistose fortune, oppure le decima? Non è forse la stessa cosa perdere la propria fortuna in carte di valore, come fa l'uomo incivilito, e perderla in bestiame, come fa l'uomo barbaro? Mi si risponderà che contro lo speculatore e contro il ribassista c'è un rimedio, poichè nessuno viene costretto ad affidare allo speculatore i suoi denari, o ad acquistare carte di valore, che vengono poi rinvilite dal ribassista. Io non nego che questo sia un rimedio; ma lo potrà usare l'uomo prudente e di buon senso; la massa no. Del resto, se la protezione si deve chiedere a sè stesso, a che pro la legge? A che pro i sacrifici di libertà e d'imposte? Allora anche il barbaro, stando all'erta, protegge a sufficenza la sua greggia, senza polizia, purchè abbia buoni cani da guardia, buone armi e abbastanza persone robuste di casa. E così, se nella nostra società civile uno non ha prudenza (che è pure una forza) o vigilanza, vedrà sparire la moneta dal suo salvadanaio e la borsa dalla sua saccoccia, malgrado le innumerevoli penne che negli uffici scarabocchiano tutto il giorno carta bollata. E occorre considerare anche questa cosa. L'uomo civilizzato non solo deve, innanzi tutto, proteggersi da sè, precisamente come fa l'uomo barbaro, ma deve altresì compiere sacrifizi pecuniari, per la protezione che lo Stato crede impartire realmente ma che invece non impartisce che teoricamente; e quei sacrifici poi costano sempre assai più di quello che costi la cosa da proteggersi. Certamente il dovizioso dà per la cosa pubblica molto meno di quello che gli avanza, ma i milionari sono dappertutto un'eccezione. La regola è che la grande maggioranza in tutti i paesi, anche i più ricchi, è bisognosa o, almeno, non possiede che il necessario. In fatto d'imposte, poi, anche il povero paga, e paga tanto che, a lungo andare, egli potrebbe essere agiato se, invece di pagare le pubbliche imposte, conservasse per sè tutti i frutti del proprio lavoro. Che al barbaro si possa togliere la roba sua è cosa possibile, ma è invece cosa certa che la si tolga all'uomo civile con imposte dirette e indirette, Se poi a quest'ultimo, pagate le imposte, qualche cosa avanza, ciò gli può venire anche rubato o frodato ogni volta che egli non protegga il suo, come lo protegge il barbaro, che non paga tassa alcuna. La condizione dell'uomo civilizzato ricorda quella di un certo operaio, del quale si racconta che domandò un giorno ad un battelliere quanto dovesse pagare per essere condotto in barca da Basilea a Strasburgo, e n'ebbe per risposta: «Quattro fiorini sulla barca e due soltanto se, camminando sull'argine, aiuterà a tirare la barca». Ma veramente la condizione dell'uomo civilizzato è peggiore, perchè egli non ha, come l'operaio, la facoltà di scegliere tra una cosa e l'altra; volere o no, egli deve tirare, camminando sull'argine e pagare i due fiorini.

Resta ora a dire dell'ultima funzione dello Stato: convergere le forze di tutti per poter eseguire imprese vantaggiose a ciascun individuo e che un individuo isolato non potrebbe effettuare. Questa missione lo Stato la eseguisce: non lo si può negare. Ma la eseguisce male e incompiutamente. Lo Stato civile, com'è oggi organizzato, è una macchina che spreca un'infinità di forze. Per la produzione utile non ne rimane che una piccolissima parte e che costa spese ingentissime. Tutto il resto va consumato per vincere resistenze che sono nella macchina stessa, e si risolve nel fumo e nel fischio del vapore. Le forme di governo di quasi tutti i paesi d'Europa rendendo possibile che le prestazione del cittadino siano sciupate in imprese pazze, spensierate o delittuose. Troppo spesso lo scopo, verso il quale devono convergere gli sforzi della generalità, viene determinato dal capriccio di poche persone, dall'interesse egoistico di una piccolissima minoranza. In tal maniera il cittadino lavora e si dissangua, perchè si facciano guerre distruggitrici della sua vita e del suo benessere; perchè si costruiscano fortezze, palazzi, ferrovie, porti o canali, da cui nè esso, nè nove decimi della popolazione trarranno mai il più piccolo utile; perchè s'istituiscano nuovi uffici e impieghi, che renderanno ancor più pesante la macchina dello Stato, più faticoso l'ingranaggio delle ruote, dentro il quale esso perderà un'altra porzione del suo tempo e un altro lembo della sua libertà; perchè si prodighino stipendi a funzionari, che infine altro non sono che un lusso pagato dalla sua tasca e un ostacolo posto alla sua libertà; a farla corta, egli lavora e si dissangua, perchè sia più pesante il suo giogo, più stretti i suoi ceppi e perchè da esso si possa spremere maggior sangue e maggior lavoro.

Solo negli Stati piccolissimi, o in quelli dove il discentramento è largo e le amministrazioni sono autonome, non si fa sciupìo sfrenato delle prestazioni dei singoli cittadini; siffatte comunità, per il loro carattere e per le loro condizioni d'esistenza, hanno molta rassomiglianza con le associazione cooperative, nelle quali ogni socio può sorvegliare i suoi contributi, impedire spese inutili, prevenire imprese avventate e impedire che accadano; qui ogni utile e ogni danno sono immediati, e se il primo è un compenso subito sentito pei sacrifizi fatti, l'altro allontana tosto il pericolo di proseguire su una falsa via. Se in queste comunità è molto difficile il concorso di molti per la soluzione di alti problemi e di ideali che non promettono subito vantaggi sensibili o compiacenze a tutti, è però ancora più difficile appagare capricci individuali con le forze della generalità e ricevere da questa il denaro per comperare il bastone, che poi deve percuoterla.

Riepilogo. Coll'odierno metodo di governare, tanto complicato, con tutte queste cose che non hanno mai fine, cioè con tanto scrivere, protocollare, funzionare, proibire e permettere, non sono protette la vita e la proprietà più di quello che lo sarebbero se non ci fosse tutto questo apparecchio arruffato. In compenso di tutti i sacrifici di sangue, di denaro, e di libertà, che il cittadino offre allo Stato, egli, si può quasi dire, non ha altre facilitazioni che quella della giustizia, che del resto, è sproporzionatamente cara e noiosamente lunga, e quella dell'istruzione, che, dopo tutto, non può nemmeno essere da tutti usufruita egualmente. Per poter tutti avere gli stessi vantaggi, non sarebbe necessaria neppur una delle numerose restrizioni, alle quali viene sottoposta l'indipendenza individuale. È uno scherzo di cattiva qualità il dire che bisogna limitare la libertà di ciascuno, per tutelare i diritti di tutti: questa pretesa tutela non impedisce affatto la prepotenza di alcuni e toglie invece alla maggioranza una parte della propria libertà d'azione; la legge dunque esercita, prima d'ogni altra cosa, una coazione su tutti e l'esercita con piena sicurezza, mentrechè, se essa la ommettesse, non potrebbe una coazione venir esercitata che da alcuni prepotenti e in casi eccezionali. È vero che nella nostra civiltà, paragonata alla barbarie, abbiamo una superiore durata media della vita, l'igiene meglio tutelata, più elevato il livello generale della moralità, più pacifica la convivenza, più rare le prepotenze, a meno che vengano perpetrate da delinquenti abituali o ereditari; ma tutto ciò non avviene per merito delle autorità e dei regolamenti; è invece una conseguenza naturale della maggior coltura e del maggior senno degli uomini. Il cittadino, malgrado tutte le regole a cui lo assoggettano le istituzioni dello Stato, deve provvedere alla propria protezione tanto quanto il libero selvaggio, ma esso è a ciò meno adatto di questo, perchè si disavvezzò a pensare a sè stesso; perchè non possiede il retto senso della tutela de' suoi mediati ed immediati interessi; perchè dall'infanzia si abituò a tollerare pressioni e coazioni, alle quali il selvaggio opporrebbesi fin da principio, anche a rischio della vita; perchè lo Stato gli instillò l'idea che le autorità vigilano su tutti i casi della vita; finalmente, perchè la legge, con la sua continua pressione, tolse ogni scatto all'elasticità del suo carattere, schiacciò in lui ogni forza di resistenza e lo condusse a più non sentire che la coazione è un'offesa. Non è vero che siano necessarie tutte le nostre prescrizioni di polizia per proteggere la nostra vita e la nostra proprietà; i cercatori d'oro nelle miniere dell'America occidentale e dell'Australia incaricaronsi essi medesimi della loro protezione, formando dei così detti Comitati di vigilanza, e, senza alcuna pompa autoritaria, regnò fra essi ordine perfetto. Non è vero che sia necessario sottomettersi a tante seccature legali, perchè abbia a regnare la legge; nelle anzidette comunità primitive, senza uffici di funzionari, senza istanze e protocolli, sorse spontaneo dal generale sentimento d'equità, che la civiltà stessa sviluppava nell'uomo, sorse spontaneo, diciamo, un diritto pubblico e privato, che garantiva al primo possessore il suo titolo di possesso e tutti i frutti del suo lavoro. Ciò avveniva in paesi diversi e in mezzo agli individui più rozzi, più facili alle passioni e più indisciplinati. E la grande maggioranza dei docili, dei pacifici e degli amanti dell'ordine deve proprio aver bisogno di lacci inestricabili? Se si abolissero nove decimi delle leggi, dei regolamenti, degli uffici, delle autorità, degli atti e protocolli che oggi sono in vigore, la sicurezza delle persone e delle proprietà sarebbe come è ora; ogni individuo continuerebbe a trarre, dai suoi diritti, tutti i vantaggi veri che dà la civiltà, non perdendone una briciola, e avrebbe in pari tempo il beneficio della sua libertà d'azione; sentirebbe e godrebbe il proprio Io con gioia intensa; cosa della quale egli oggi non ha neppure l'idea, perchè è diventato naturale per lui il sistema generale dei legami. Questa libertà forse, nei primi momenti, gli ispirerebbe inquietudine e paura, come accade all'augello allevato in prigione, quando gli si apre la gabbia; per poter vincere lo spazio ha bisogno in prima d'apprendere a non aver paura a spiegare largamente tutti i suoi vanni. È certo che un barbaro, avvezzo ad avere una propria volontà e azioni proprie, non potrebbe abituarsi, senza grandi e continue sofferenze, ad un'esistenza, nella quale l'uomo sente sempre una mano che gli preme una spalla, un occhio che lo fissa in viso, un comando che gli suona all'orecchio; spinto sempre da impulsi che non sono suoi; obbediente sempre a una volontà, che non è la sua. I regolamenti forse e la carta bollata lo ucciderebbero in breve tempo.

Lo stato di cose, di cui parlo, è forse l'anarchia? Lo potrebbe credere soltanto chi avesse letto superficialmente e senza attenzione il fin qui detto. L'anarchia, l'assenza di governo, è una fisima di cervelli confusi e inetti a considerar attentamente le cose. Quando due uomini cominciano a convivere stabilmente, formasi tosto fra loro un governo, sorgono, cioè, fra loro certe forme di rapporti e regole di condotta, certe convenienze e sommessioni. La condizione del genere umano non è un aggregamento informe, ma una cristallizzazione, cioè un ordinamento determinato e regolare di molecole. In ogni miscuglio caotico di elementi sociali si forma subito spontaneamente un'organizzazione politica, come nelle materie dell'acqua-madre, che è di natura cristallina, formansi tosto i cristalli. Dunque, nessuna anarchia può volere una critica sensata, perchè è inconcepibile, ma invece un'autarchia od oligarchia, il governo di sè stessi, il governo che governa meno, una grande semplificazione della macchina governativa, la soppressione di tutte le ruote inutili, l'emancipazione dell'individuo da ogni superflua coazione, le esigenze della cosa pubblica verso il cittadino, limitate solo a ciò che è indispensabile al soddisfacimento dei suoi bisogni.

Anche in questo stato di cose ideale ciascuno lavorerebbe a pro della cosa pubblica, vale a dire pagherebbe imposte, ma le pubbliche contribuzioni non avrebbero più quel carattere di coazione, che oggi le fa odiose. Tuttodì, senza ripugnanza alcuna, si spende per comperare il pane, per entrare in un teatro, per essere soci di un'associazione o di un circolo, e tutt'al più si deplora di non poter avere con facilità il danaro occorrente. E perchè ciò? Perchè di queste contribuzioni ognuno fruisce un immediato equivalente e perchè non sorge in lui il dubbio che lo si spogli. Là, dove un governo sarà così semplice che i suoi scopi non siano mai un mistero pei cittadini, e tutti i suoi atti possano essere sorvegliati e tutte le sue tendenze possano venire determinate dall'insieme dei cittadini stessi, là ognuno troverà che l'imposta è un contributo, a cui corrisponde un equivalente esatto; saprà, per così dire, cosa compera per ogni centesimo di contributo. L'evidente equità di tale negozio  rende impossibile ogni malumore contro di esso. Ma nello Stato odierno, l'imposta è necessariamente odiosa, non solo perchè è assai più gravosa del bisognevole, causa la cattiva costituzione e il soverchio costo del sistema di governo, non solo perchè l'organizzazione storica della società e alcune sciocche leggi rendono ingiuste certe imposte, ma, sopratutto, perchè queste sono determinate dal fiscalismo e non da un ragionevole scopo politico. Il fiscalismo è sfruttamento di popolo elevato a sistema, per spremere maggiori somme possibili, senza preoccuparsi dello scopo ragionevole dello Stato e delle conseguenze che ne sentirà ogni cittadino. Il fiscalismo non domanda mica a sè stesso: «Quali sacrifici occorrono per compiere la legittima ed effettiva missione dello Stato?», ma domanda invece: «Cosa si deve fare per imporre al popolo le maggiori tasse possibili?» Non domanda: «Come si possono proteggere gli interessi di ogni cittadino, senza che la cosa pubblica ne soffra?», ma invece: «Io, fisco, quale sistema posso adoperare per cavar denaro dal popolo in modo facile, spiccio, senza tanti incomodi riguardi e col menomo esercizio d'intelletto e attività?». Secondo la ragione moderna lo Stato è un'istituzione per la tutela e l'incremento del bene d'ogni individuo: la ragione feudale invece non vede nell'individuo che un lavoratore forzato a dare incremento al valore e alla potestà dello Stato. È su cotesto concetto che riposa il fiscalismo. Per esso lo Stato è un ente che preesiste al cittadino e che governa per virtù naturale; il cittadino è un venuto-dopo che è governato per forza naturale: l'imposta non è una contribuzione volontaria, che, per dir così, ognuno fa a sè stesso e per la quale acquista vantaggi, ma è un tributo che si porta a un terzo, e questi, novello Dio Moloch, ne fa ricevuta; l'ingoia e basta. Noi ci sentiamo membri di una libera associazione per conseguire uno scopo comune, e il fiscalismo invece non vede in noi che tanti prigionieri di Stato, privi di diritti. Noi ci chiamiamo cittadini e il fiscalismo ci chiama sudditi. Questi due appellativi rivelano tutto il contrasto fra due principî.

Lo sviluppo storico dell'imposta ha dovuto necessariamente condurre al fiscalismo. Nelle comunità primitive non c'erano imposte. Il capo della tribù, che doveva far spese maggiori di quelle degli altri, provvedeva coi suoi averi, ch'erano pure maggiori; e in guerra chiunque era abile alle armi provvedeva esso al proprio mantenimento; solo al prete si dava la decima. Lo stato non aveva bisogni, e per ciò nulla aveva a chiedere ai suoi membri. Ma dappertutto la cosa mutò, sia perchè dalla funzione dell'origine divina del re e del suo potere era scaturito il dispotismo orientale, sia perchè una stirpe straniera conquistatrice aveva soggiogato un popolo. Nell'un caso e nell'altro la massa era un gregge di schiavi, proprietà personale del re o dei conquistatori, e che doveva pagare imposte non per uno scopo politico, ma per impinguare il tesoro dei padroni, i quali avevano, fra le loro legittime riscossioni (e senza essere obbligati a corrisponsione alcuna), anche le imposte, come avevano i redditi delle terre e delle mandre del popolo. Fu per questo che le genti libere reputarono le imposte una vergogna e un segno di servitù; e ci vollero secoli di violento dispotismo prima di assoggettare, per esempio, le tribù germaniche al pagamento delle imposte, che esse erano abituate a riscuotere con la punta della spada, dai popoli vinti. La finzione, la quale considera i cittadini come servi, il cui primo dovere è quello di lavorare per il loro proprietario, pel re, diventò, dallo scorcio del medio evo, la base della ragione di Stato e dei rapporti fra il suddito e il sovrano; identificato quest'ultimo con lo Stato stesso. E questa finzione, sotto forma di fiscalismo, si insinuava anche nel nostro Stato moderno, quantunque il suo costituzionalismo e parlamentarismo si pretendano fondati sulla sovranità popolare.

Sulla stessa finzione riposano eziandio l'organizzazione della burocrazia e i rapporti fra i pubblici funzionari e il cittadino. Secondo il concetto moderno dello Stato il funzionario non dovrebbe essere che un mandatario pubblico, che dal popolo riceve stipendio e poteri e solo al popolo deve l'estimazione e la carica che ha. Per tal modo il funzionario si sentirebbe sempre servo della cosa pubblica e verso di essa sempre responsabile; terrebbe bene a mente che a lui pure incombe di tutelare quegli interessi individuali che il cittadino da solo non può curare con sufficente sicurezza e comodità; e non dovrebbe dimenticare mai che, generalmente parlando, la cosa pubblica ha tanto bisogno di lui quanto una famiglia può aver bisogno di un domestico; perchè, come ognuno potrebbe da sè lustrarsi le scarpe e attinger l'acqua, così potrebbe pure da sè compiere quella parte della pubblica amministrazione, che a lui toccherebbe proporzionalmente come uno. Quindi il funzionario dovrebbe riconoscere che, se si distribuiscono gl'impieghi, è unicamente per avere tutti i vantaggi della divisione del lavoro. Egli invece crede che deve la sua carica, non al popolo, ma al sovrano, sia questi un re o un presidente di repubblica; e vede in se stesso un comproprietario, benchè in minima parte, della trascendentale potestà sovrana. Perciò esige dai privati quella estimazione e quella sottomissione che essi devono al principio di sovranità. Storicamente la burocrazia trae origine dall'antica Prepositura (Vogtschaft). Lo scriba, che nel suo Ufficio parla con alterigia al cittadino citato davanti a lui, è l'erede storico del comandante o sopraintendente che nei secoli oscuri un despota imponeva al suo popolo di schiavi, per mantenerlo obbediente con la frusta e con la lancia mercenarie. E siccome questo funzionario è una particella dell'istituzione «per la grazia di Dio», così egli pretende l'infallibilità. Sta al di sotto del capo dello Stato, ma al disopra dei governati. Costoro sono il gregge, il pastore è il capo dello Stato, dunque, lui, il funzionario, sarà il cane di guardia. Potrà abbaiare, potrà anche mordere, e la pecora lo tollera davvero. E il più sorprendente è che la pecora deve tollerarlo. Il cittadino ordinario, intendo quello modellato come il mio Gianni, non ricusa un funzionario così fatto: ammette in lui il diritto di comando e serba per sè il dovere di obbedienza: si presenta alle autorità non già come uno che va a chiedere cose che gli si devono, ma come uno che ha ad implorare una grazia. Del resto sarebbe una stoltezza se egli si rivoltasse contro tutte queste assurdità, imperocchè nella lotta il funzionario probabilmente sarebbe sempre il vincitore, ed anche nel caso più fortunato i suoi interessi durante la lotta patirebbero indubbiamente ritardi e danni.

Corre parallelo al fiscalismo, e lo completa, il mandarinismo, e l'uno e l'altro sono conseguenze logiche del concetto di un sovrano per grazia di Dio e di una sudditanza per maledizione di Dio. La legislazione oggi, come secoli or sono, è subordinata al fiscalismo e al mandarinismo. Di 100 leggi, fatte con o senza la cooperazione del popolo, 99 hanno lo scopo non già di lasciare ai cittadini libertà d'azione e accrescere i piaceri dell'esistenza, ma bensì di agevolare ai prefetti ed agli impiegati fiscali l'esercizio di quei diritti sovrani dei quali si sono impossessati. Cento incomodi si addossano al cittadino, pur di rendere ai funzionari più facile il governo e il tassare. Siamo sottoposti a pene preventive mediante restrizioni sospettose, solo perchè l'uno o l'altro di noi potrebbe forse avere il cuore di saltare il fosso. Ci si bolla, come il bestiame, con numeri o lettere d'alfabeto, per potere più agevolmente tenerci collegati e farci pagar tasse. Debbo dar esempi per dar prove? Tutti i commercianti sono obbligati a tenere i loro registri in un certo modo prescritto dalla legge. E perchè? Perchè uno di loro potrebbe fallire e il giudice istruttore non potrebbe esaminar bene le cose se tutto non fosse in buon ordine e registrato a suo posto. Se non ci fossero questi libri di commercio, il giudice sarebbe molto imbarazzato a decifrare qualche cosa in mezzo a registrazioni mercantili confuse. E per non dare questa seccatura a un giudice, la legge restringe la libertà d'azione a cento commercianti che hanno tutt'altro che l'intenzione di togliere qualche cosa ai loro creditori. Ognuno di noi deve notificare alla polizia, specialmente nelle grandi città, il suo arrivo e la sua partenza. Perchè? Perchè un tale potrebbe un bel giorno perpetrare un delitto ed essere ricercato dalla polizia; se si obbligherà ognuno a notificare il suo domicilio, più facilmente si metterà la mano sul reo. Per cui la polizia ci costringe a darci continuamente la pena delle notificazioni per esonerar lei dalla fatica di fare ricerche; cosa, del resto, ch'essa dovrebbe fare, perchè è pagata appunto per farla. Potrei centuplicare gli esempi, se non temessi di annoiare. In ogni modo lo Stato, malgrado tutte queste restrizioni imposte ai cittadini, non consegue lo scopo pel quale esso le ha messe. Le leggi gravitano soltanto su coloro che non pensano menomamente di offenderle; per coloro invece che non intendono di piegarsi a coazioni qual che siano, le leggi non sono mai state un ostacolo. Il bigamo commette il suo delitto malgrado tutte quelle formalità, le quali altro non fanno che rendere seccagginosa, costosa e complicata la procedura matrimoniale all'uomo onesto. Malgrado tutte le prescrizioni che proibiscono ai pacifici cittadini di tenere armi senza speciale licenza, il brigante è benissimo armato di stiletti e rivoltelle. È sempre – benchè meno tragico – il metodo di Erode, che ordina l'uccisione di tutti i bambini, perchè c'è uno tra loro che potrebbe diventare un pretendente al trono, e proprio quell'uno riesce a sfuggire alla strage e diventa realmente pericoloso alla sua potestà.

Il concetto filosofico dello Stato è oggi ben diverso da quello d'una volta; la situazione dei cittadini a rimpetto dello Stato è teoricamente quella di soci aventi tutti eguali diritti a rimpetto della loro associazione, e tutte la costituzioni sorte dal 1789 in poi presuppongono la sovranità popolare, ma praticamente la macchina dello Stato è sempre quella d'una volta; essa funziona oggi come funzionava negli anni più tetri del medio evo, e se ora la sua pressione sull'individuo è meno grave, ciò non deve ascriversi che al fenomeno del deperimento naturale della macchina stessa. Oggi, come una volta, il sottinteso motivo di tutte le leggi e di tutti i decreti è che il cittadino sia proprietà del capo dello Stato, o, almeno, di quell'ente impersonale che si chiama Stato, il quale ereditò tutti i privilegi dei vecchi dispotismi, ed ha i suoi visibili rappresentanti nei pubblici funzionari. Il funzionario non è l'impiegato del popolo, ma il plenipotenziario dello Stato, che sta al di sopra del popolo e che di esso è l'antagonista, il soprintenditore, il carceriere. Le leggi devono offrire al funzionario la possibilità di difendere contro il popolo gli interessi veri o immaginari del suo padrone, sia questi un monarca o uno Stato, perchè al popolo si attribuisce a priori la tendenza di volersi sbarazzare del suo padrone. Per questi motivi si spiega come il mandarinato ottenga ancora tanta considerazione ed occupi nella cosa pubblica un posto così eminente. Non sono però i lauti stipendi, nè lo splendore e il lustro del vivere che impongono al volgo il funzionario; non è una coltura e un talento superiori, che gli assicurano il rispetto di menti elevate; nè sono certamente gli utilitari coloro che stimano il lavoro del funzionario più utile di quello delle classi produttive, cioè dell'agricoltura, dell'artiere, dell'artista, e dello scienziato sperimentatore. Ma se l'essere funzionario non importa grandi redditi, nè una particolare coltura della mente, nè uno speciale talento, perchè allora si annette al funzionario dello Stato una considerazione così grande che nessun'altra classe di cittadini l'ha eguale? Perchè? Perchè il funzionario è una particella del potere sovrano, la quale viene dal popolo, inconsciamente e per abitudine ingenita, considerata come una cosa arcana, soprannaturale e incutente rispetto e timore. La grazia di Dio, che è la gloria del re, rifulge anche sul funzionario; e sulla fronte di costui cade pure una stilla dell'olio santo, col quale ungesi il re nella sua incoronazione. Cotesta opinione, del resto, vive anche nei paesi ove non c'è re, nè incoronazione, nè grazia di Dio. È l'anima del popolo che agisce come luce riflessa.

III.

A che serve dunque il parlamentarismo? Non restituisce egli all'individuo quella libertà d'azione toltagli dal mandarinismo, dal fiscalismo e dalla legislazione fatta a loro pro? Non trasforma forse il suddito feudale in cittadino moderno? Non pone egli nelle mani di tutti il diritto di governarsi da sè e di regolare i destini dello Stato? L'elettore, allorchè nomina il deputato, non è egli forse un sovrano che esercita, benchè non direttamente, gli storici e sovrani diritti di fare e disfare ministeri, nominare o destituire funzionari, formare leggi, imporre tasse e ispirare la politica estera? In poche parole: la scheda elettorale non è l'arma onnipotente, con la quale il nostro povero Gianni storna da sè l'arroganza oppressiva dei funzionari tanto stimmatizzata da Shakespeare? E con quella scheda non può egli combattere e vincere tutte le restrizioni, da cui è tormentato?

Senza dubbio. Il parlamentarismo produce tutti questi effetti, ma, purtroppo!, solo in teoria. Praticamente esso è una grande ed assoluta menzogna, come lo sono tutte le altre forme dell'attuale nostra vita politica e sociale. Debbo però notare che le menzogne che fanno capolino da tutte le parti sono di due diverse specie. Le une portane la maschera del passato, le altre quella dell'avvenire. Le une sono forme che non racchiudono più sostanza alcuna, le altre non l'hanno ancora. La religione e la monarchia, sono menzogne, perchè vogliono conservare le loro vecchie esteriorità, quantunque siano intrinsecamente invase dall'autorità dei loro principî. Il parlamentarismo invece, quantunque sia una conseguenza logica del nostro modo di concepire le cose del mondo, è una menzogna, perchè fino ad ora non è che apparenza, essendo l'organizzazione dello Stato rimasta tale quale era per l'addietro. Nel primo caso abbiamo botti logore che si vorrebbero riempire di vino nuovo; nel secondo caso, vasi nuovi ripieni di vecchio marciume.

Il parlamentarismo dovrebbe essere il meccanismo per mandare ad effetto il principio della sovranità popolare. Secondo la ragione, è l'intiero popolo che in pubbliche assemblee dovrebbe far le sue leggi, nominare i suoi funzionarî, esprimere il suo pensiero e tradurlo tosto in azioni, senza far loro subire quella perdita di forze e tutti quei travestimenti che sono la necessaria conseguenza di ripetute trasmissioni. Siccome però lo sviluppo storico delle genti mira ad aggregare gli individui in comunanze sempre più vaste, ad unire in nazione quelli che hanno comune il linguaggio e, forse anche, quelli che hanno comune la razza, e ad allargare sconfinatamente lo Stato, così è già diventato, nella maggior parte dei paesi, materialmente impossibile l'esercizio del governo di sè stessi (self-governement) mediante le riunioni di tutto il popolo, e là dove ciò ancora è possibile, non è lontano il tempo in cui non lo sarà più. Il popolo dunque deve trasmettere i suoi diritti di sovranità a un piccolo numero di eletti e lasciare a questi la cura di esercitare quei diritti. Ma neppure gli eletti possono governare direttamente, e qui avviene una seconda trasmissione di poteri ad un numero ancora più piccolo di uomini di fiducia, i ministri, i quali infine sono essi che predispongono le leggi e le applicano, che decretano tasse e le riscuotono, che nominano i funzionari e deliberano la pace o la guerra. Ora, perchè il popolo, malgrado tutte queste disposizioni, potesse restar ancora sovrano, e, malgrado questa duplice trasmissione di diritti, potesse ancora far prevalere la sua volontà, bisognerebbe che si verificassero alcune condizioni. Gli uomini di fiducia dovrebbero spogliarsi della loro personalità; negli stalli del Parlamento non dovrebbero assidersi uomini, ma mandati che parlino e votino. Sarebbe necessario che la volontà del popolo, passando attraverso i rappresentanti, non subisse alcuna alterazione, alcuna pressione individuale. I ministri stessi occorrerebbe che fossero – diciamo così – recipienti impersonali e meccanici, che contengono le sole opinioni e la sola volontà del partito che è maggioranza. Ogni inosservanza del mandato ricevuto dal popolo, e compiuta da ministri o da deputati, dovrebbe portar con sè la conseguenza delle dimissioni dei ministri e della revoca del mandato dei deputati. Perciò cotesto mandato dovrebbe avere innanzi tutto una forma chiara e ben determinata; e sarebbe d'uopo che gli elettori si mettessero sempre d'accordo sui provvedimenti legislativi e amministrativi che essi reputano necessari allo Stato e chiedessero ai loro rappresentanti l'esecuzione di questi provvedimenti, conformemente ai principî che gli elettori stessi intendono che siano severamente rispettati; perciò dovrebbero eleggere a rappresentarli solo uomini che sono noti pel loro carattere e per le loro doti intellettuali; uomini ch'essi sanno idonei a comprendere ed eseguire sempre e puntualmente il programma dagli stessi elettori stabilito; uomini infine così poco solleciti dell'utile proprio, da sacrificare alla cosa pubblica il loro tempo, il loro lavoro e, sopratutto, il loro tornaconto ogni volta che questo è in contrasto col bene generale. Questo sarebbe l'ideale del parlamentarismo; la legislazione emanerebbe realmente dal popolo e l'amministrazione dal Parlamento; i comizi degli elettori sarebbero le fondamenta dell'edificio dello Stato ed ogni cittadino avrebbe la sua parte visibile e reale nel maneggio dei pubblici affari.

Scendiamo ora dall'ideale alla realtà. Quale disillusione ci attende! Il parlamentarismo, anche nei paesi ove funziona per eccellenza, come in Inghilterra e nel Belgio, non adempie neppur una delle summentovate condizioni. L'elezione non esprime mai la volontà del cittadino. I deputati agiscono sempre come meglio a loro talenta, e, se sono tenuti in freno, lo sono soltanto dal timore di rivali, ma non mai dal rispetto verso le opinioni dei loro elettori. I ministri non governano solo il Paese, ma ben anco il Parlamento. Non sono il Parlamento e il Paese che prescrivono ai ministri l'indirizzo della cosa pubblica; sono i ministri invece che lo impongono all'uno e all'altro. Non è la Nazione che dà o toglie il potere ai ministri, ma è la forza della volontà di una persona potente; e quando sono in seggio dispongono a loro posta delle forze e delle facoltà della Nazione, dispensano grazie e doni, aprono cuccagna ad una folla di parassiti, e tutto ciò a spese dello Stato, senza mai temere un biasimo; purchè lascino alla maggioranza parlamentare i rimasugli del lauto banchetto dello Stato. Ministri e deputati non hanno quasi responsabilità reale alcuna. Per cento abusi, ingiustizie ed arbitrii che giornalmente si commettono, essi non ne hanno pena alcuna, e se in cento anni avviene che una volta un ministro sia chiamato a render conto di sè, perchè ha commesso qualche madornale furfanteria, oppure si è fatto accanitamente odiare, tutto finisce con un dibattimento rumoroso, pomposo, ma con una punizione minima, ridicola. Il Parlamento è istituito per appagare la vanità e l'ambizione dei deputati e per favorire i loro personali interessi. Da migliaia d'anni sono abituati i popoli ad essere guidati da una volontà sovrana e a sottostare ad un'aristocrazia privilegiata, alla quale tributano onori e lasciano il monopolio delle ricchezze dello Stato. Intelletti eminenti, divinando il futuro, idearono un parlamentarismo con una forma di governo tale, che permettesse di porre al posto della volontà del sovrano la volontà del popolo, e di togliere all'aristocrazia il monopolio della pubblica fortuna. E cos'hanno fatto i popoli? Non si sono che affrettati ad adattare il parlamentarismo alle loro vecchie abitudini, così che oggi, come prima, sono governati dalla volontà di un uomo e sfruttati da una classe privilegiata, solo che questa volontà individuale non si chiama più re, ma capo-partito, e la classe privilegiata non è più l'aristocrazia del sangue, ma la maggioranza dominante della Camera. La condizione del cittadino comune, rimpetto alla cosa pubblica, non subì modificazione alcuna dal parlamentarismo. Il mio Gianni (torno ancora a lui) deve sempre pagare imposte, ch'egli non ha stabilite e l'uso delle quali non è determinato da esso; deve obbedire a leggi ch'egli non ha dato a sè stesso e l'utilità delle quali non è da esso riconosciuta; deve inchinarsi davanti a funzionari che gli sono imposti da una volontà estranea, e ciò si verificherebbe anche se, in Inghilterra, Gianni si chiamasse Jonny, o in Russia Iwan.

Un vantaggio dà il parlamentarismo; facilita agli ambiziosi di montare sulle spalle dei loro concittadini. Proverò subito che ciò è un vero vantaggio. Ogni popolo, in ispecial modo quando è in sviluppo crescente e quando è mosso da forze vitali non esaurite, produce in ogni generazione individui nei quali esiste un potentissimo Io, che fa forza per palesarsi. Sono caratteri dominatori cotesti, i quali non tollerano sopra di sè un giogo, nè intorno a sè una coazione qual che sia. Vogliono avere testa e gomiti liberi. Possono sottomettersi ad una sola disciplina, a quella della loro volontà e della loro intelligenza, non mai a quella di un estraneo. Obbediscono, perchè vogliono, non perchè debbono. Questi individui non piegano mai davanti ad un ostacolo: o l'abbattono o desistono solo per esaurimento di forze. La vita per loro non ha valore, se non dà ad essi la soddisfazione di spiegare pienamente e liberamente la propria possanza e le proprie attitudini. Quando infatti si sente che la potenza attiva viene da altri incagliata, si sente pure di non essere che un mezzo-uomo, un Io infrenato nel suo svolgimento, un Io dimezzato, un'esistenza, insomma, urtata e sospinta da forze esterne, e questa esistenza diventa insoffribile. Individui siffatti hanno bisogno di spazio. Nella solitudine lo trovano senza lotta, senza difficoltà alcuna. Se diventano anacoreti del deserto cirenaico, se diventano stiliti, o fachiri, o picconieri nelle foreste vergini e in terre inesplorate, la loro vita trascorre allora senza contrasti. Ma se vogliono rimanere in società, il solo loro posto è quello di capo-partito. Non tollerano neppure per un istante la condizione del mio Gianni. Non sono una pasta molle, ma un cristallo indurito come il diamante. Non si rassegnano a riempire un vuoto, che lo Stato lasciò aperto ed assegnò ad essi senza tener conto della loro conformazione, nè delle loro dimensioni: essi vogliono uno stallo proprio, adattato ai loro angoli e alla loro superficie. Si ribellano alla legge che venne fatta, senza chiedere il suo consenso, e mostrano i pugni al funzionario, che, invece di ricevere gli ordini da essi, vorrebbe a loro comandare. Per cotesti caratteri non c'è posto per gli Stati assolutisti. L'assolutismo politico è generalmente più forte della loro forza e perciò soccombono nella lotta; ma, prima di soccombere, dànno tali scosse allo Stato, che il re trema sul suo trono, e il contadino s'inginocchia nella sua capanna: diventano regicidi, o insorti, o, per lo meno, masnadieri, o filibustieri. Nel medio evo errano pei boschi come Robin Hood, o sono condottieri di mercenari, vale a dire il terrore dei principi e delle popolazioni. Dippoi conquistano e devastano il Nuovo Mondo, come Cortez e Pizzarro, o si battono a Pavia quali capitani di lanzichenecchi, o fanno fortuna nella guerra dei trent'anni, ora offrendosi all'uno, ora all'altro dei belligeranti, oppure se a loro la fortuna non arride, si fanno tagliare a pezzi, come Cartouche o Schinderhannes. In Russia oggi si chiamano nichilisti, come nell'impero ottomano ieri chiamavansi Mehemet Ali. Ora, il parlamentarismo a questi uomini dall'Io potente permette di conservare la loro personalità, senza distruggere la forma dello Stato e neppure minacciarla. Costa assai meno fatica diventare deputato, che arrivare alla grandezza di Wallenstein, ed è più facile divenire presidente del Consiglio dei ministri, che abbattere un antico trono. Come deputato, in quasi tutte le evenienze si può rimaner ritto in piedi, mentre il mio Gianni dovrà chinare il capo. E come presidente dei ministri si ha a lottare, è vero, ma non si obbedisce ad una volontà estranea. Così il parlamentarismo è una valvola di sicurezza, perchè individui di fibre energiche non possano più produrre esplosioni devastatrici.

Si studi la psicologia degli uomini esclusivamente politici in paesi parlamentari, e si troverà che il bisogno di sentire sè stessi e di affermare dovunque tutto il loro Io, è ciò che li sospinge alla vita pubblica. Si dice che sia ambizione o sete di potere. Non mi oppongo a queste denominazioni, ma occorre ben definirle. Cos'è l'ambizione? È avidità, cupidigia d'onori, cioè di apparenze e compiacenze vanitose? Questo movente potrà determinare un droghiere, arricchito nel commercio del caffè, a darsi briga per avere un posto nella camera di commercio o nel Consiglio comunale. Ma ciò non ha valore alcuno nei piani di un Disraeli, di un Kossuth, di un Lassalle, di un Gambetta. A questi uomini non cale di essere salutati nelle vie da persone sciocche, che vogliono far credere di essere qualche cosa; non preme d'indossare sfarzose uniformi, di avere attorno reporters, biografi o ritrattisti per fogli illustrati settimanali, oppure di ricevere da allieve di scuole superiori suppliche per un autografo. Per soddisfazioni siffatte cotesti uomini non si esporrebbero mai ai duri cimenti della vita pubblica, nella quale scorgonsi riprodotte, a dispetto della pacifica nostra civiltà, tutte le condizioni del vivere preistorico; di una vita, cioè, senza riposo e senza quiete, nella quale si deve sempre lottare, spiare, mentire, porsi in agguato, cercare le traccie altrui e distruggere le proprie; una vita nella quale si veglia coll'arma in pugno e si dorme cogli occhi semi-aperti; nella quale si vede un nemico in ogni uomo che s'incontra e si deve tener la mano alzata contro tutti, perchè la mano di tutti sta alzata contro di voi; una vita nella quale si è senza posa vilipesi, accaneggiati, calunniati e feriti; nella quale, insomma, si vive come le pelli rosse nelle foreste vergini. L'ambizione, che determina gli uomini politici a scegliere una vita così molesta e pericolosa, non è che il bisogno di sentire piena ed intera la propria personalità; compiacenza ineffabile che il volgare borghese ignora e che si ottiene sol quando la propria volontà non incontra mai ostacolo, o, se l'incontra, lo combatte e lo vince. Lo stesso dicasi per la sete di potere. Il vero capo-partito, colui che lo è per indole, non cura tanto di governare altri, quanto il non essere governato da chi che sia. E anche quando soggioga altri, non lo fa che per gustare la coscienza della propria forza e la possanza del proprio volere. Chiunque vive nell'odierno organamento sociale e politico, e non abbia scelto di vivere come un eremita nel deserto, non ha di fronte che questo dilemma: governare o essere governato. E siccome quest'ultimo termine non può essere accolto dai caratteri forti, così costoro devono abbracciare il primo; non già perchè a loro debba proprio piacere, ma perchè esso è oggi ancora il solo stato nel quale l'uomo può sentirsi libero e indipendente. Se la sete del potere fosse in realtà ciò che letteralmente indicano queste parole, l'assetato di potere non guarderebbe che al di sotto di sè, e mai al di sopra; conterebbe le teste che stanno in basso, non quelle che stanno in alto. Invece egli generalmente fa il contrario. Giulio Cesare vuol essere piuttosto il primo in un villaggio che il secondo in Roma. In un villaggio comanderebbe a qualche centinaia di persone; in Roma comanderebbe ad un milione, ma un altro comanderebbe a lui. Ad ogni modo la sete del potere non sarebbe forse mille volte più soddisfatta in Roma che nel villaggio? Certamente, se Cesare volesse soltanto regnare. Ma egli invece vuol sentire tutto il suo Io, e questo Io che in Roma urterebbe contro qualche cosa, perchè egli sarebbe il secondo, nel villaggio si spiegherebbe senza impedimento alcuno, perchè la sua volontà non sottostarebbe a niun'altra volontà più forte. Nel motto di Giulio Cesare si compendia tutta la teoria dell'ambizione che slancia gli uomini politici nella vita pubblica. La gente minuta, la quale nel parlamentarismo non rappresenta che i cori e le comparse, obbedisce ad altri moventi: ad essa non sta a cuore che di ottenere impieghi o per sè o per gli amici, di fare alla chetichella un buco nella botte dello Stato, introdurvi una cannuccia e bere a macca. Tutti questi politicanti, o carpetbaggers, come si chiamano nell'America nel Nord, questi cacciatori d'impieghi, mendicanti di ordini cavallereschi e parassiti del bilancio non sono che manovali salariati dai capi; sono pleonasmi, non parte essenziale del parlamentarismo. Pei capi, i materiali vantaggi della posizione sono invece una cosa secondaria. Ciò che ad essi importa molto è di spiegare liberamente il loro Io, il quale, quando è costretto a stare aggomitolato in sè stesso, prova convulsioni spasmodiche.

Nessuna parola è stata in queste mie osservazioni tanto ripetuta quanto la parola Io. Io è sempre Io. Così è: il parlamentarismo è il trionfo, l'apoteosi dell'egoismo. Teoricamente esser dovrebbe la solidarietà organizzata, praticamente è invece l'egoismo sistematizzato. In apparenza il deputato si spoglia della propria individualità e si converte in un ente collettivo, disinteressato, mediante il quale gli elettori pensano, parlano, vogliono ed agiscono, ma in realtà, sono gli elettori che, con la elezione, si spogliano dei loro diritti a favore del deputato, sicchè questi si appropria tutto il potere che gli altri perdono. Quell'apparenza il candidato l'accetta interamente nel suo programma e nei suoi discorsi, coi quali dà la caccia ai voti degli elettori; allora non si parla che dell'interesse pubblico; egli è l'artefice e l'avvocato del bene di tutti, a favore del quale dimentica anche sè stesso. Ma queste sono ciarle, che neppure il più ingenuo minchione piglia sul serio. Cosa è per il deputato l'interesse pubblico e il bene di tutti? Meno ancora di una parte da commedia. Egli vuol salire e l'elettore gli fa da scala. Lavorare per la cosa pubblica? E perchè mai? Che lavori invece per lui la cosa pubblica! C'è chi chiamò gli elettori bestie da voto. È una figura rettorica questa che dice proprio il vero. Il parlamentarismo infatti crea delle condizioni, che hanno analogia con quelle dei tempi patriarcali. I deputati non sono che altrettanti patriarchi: tanto il potere di questi quanto il potere di quelli riposa su un ricco e numeroso possesso di gregge. Solo che oggi cotesto gregge non è più costituito da bestiame effettivo, ma da bestiame allegorico, il quale nel giorno delle elezioni va a deporre un voto nelle urne. Rabagas lo si disse una caricatura ed una satira. A me sembra piuttosto una figura disegnata su un modello. Perchè stupire e ridere quando Rabagas, il grande rivoluzionario, afferrato il potere coll'aiuto del popolo, adopera contro il popolo stesso i medesimi espedienti di governo e d'oppressione, ch'egli ne' suoi discorsi incendiari aveva qualificati come tanti delitti de' suoi predecessori nel ministero? Io giudico naturale e logica la sua condotta. L'uomo politico non ha, nelle sue azioni, altro scopo, e altro movente che l'appagamento del proprio egoismo. E per conseguire lo scopo gli occorre l'aiuto del popolo. Siffatto aiuto si ottiene con le consuete promesse e con certe frasi popolari, che si recitano così macchinalmente come fa il mendicante che recita il Paternostro sul limitare di una chiesa. Non ha alcuna difficoltà l'uomo politico a sottomettersi a quest'imperiosa usanza. Avuto il favore degli elettori, egli monta in alto; il suo egoismo è appagato, e il popolo scompare dal suo orizzonte, per riapparire sol quando questo stesso popolo minaccia di sbalzarlo di seggio. Allora farà tutto ciò che necessita per non perdere il favore popolare, come prima lo aveva fatto per guadagnarlo; allora a seconda del vento che spira, o reciterà di nuovo il rosario delle solite promesse e delle solite frasi, oppure mostrerà i pugni ai brontoloni. Tutta questa concatenazione logica di premesse e corollari si chiama, con una parola, «parlamentarismo».

IV.

Per vedere quanto sia vergognosa la contraddizione fra la teoria e la pratica del parlamentarismo, basta osservare dappresso le mene politiche. Come si diventa deputato? È cosa rarissima che gli elettori vadano alla cerca di un loro bravo e savio concittadino, per pregarlo di rappresentarli alla Camera, e se ciò avviene, il fatto perde ogni idealità, sotto il predominio di speciali circostanze. Un partito ha interesse a scegliere un determinato individuo e ad affidargli il mandato, forse perchè giudica utile fregiarsi del suo nome, fors'anco perchè quel collegio elettorale cadrebbe altrimenti nelle mani di un pericoloso avversario. In questo caso – mi si passi la locuzione moderna – si fa della réclame per un nome, senza che se ne interessi chi lo porta, e gli elettori appariscono come offerenti spontaneamente la loro fiducia ad un merito, che non mendica un riconoscimento, e il mandato si volge, come vuole la ragione, all'uomo migliore. Ma, al solito, le cose corrono invece ben diversamente. Un ambizioso si presenta ai suoi concittadini, e si dà briga per persuaderli che esso, più che altri, merita la loro fiducia. Per qual motivo fa egli questa cosa? Forse perchè sente il bisogno di essere giovevole alla cosa pubblica? Ma chi lo crederà? Ai nostri tempi sono ancora assai rari gli uomini, nei quali sia tanto vivo il sentimento della solidarietà col popolo e con tutta l'umanità, da far loro provare la compiacenza del lavoro e del sacrificio a pro' della generalità. E aggiungasi che è cosa, del resto, naturalissima che cotesti uomini siano piuttosto idealisti, dotati di un senso squisito e rifuggenti da ogni contatto volgare e comune. Possono cotesti idealisti esporsi alle ripugnanze morali e materiali di una lotta elettorale? No. Possono soffrire e anche morire a pro' dell'umanità, ma non faranno mai banali complimenti ad una stupida corrente elettorale. Essi compiranno tutto ciò che parrà loro dovere, ma senza ambire premio o riconoscenza, e non scenderanno mai a tessere i loro elogi con frasi altisonanti, alla presenza di un'assemblea popolare. In virtù di quel pudore, che gli sciocchi chiamano alterigia e che invece altro non è che la tema d'insudiciare un ideale sacro, uomini così fatti si ritirano nel loro gabinetto di studio o in un circolo ristretto di persone simpatizzanti con le loro opinioni, ed evitano la rozza folla della piazza. I riformatori e martiri si mescolano, talvolta, è vero, con la moltitudine, ma per istruirla, per biasimarne i difetti, per toglierla dalle sue abitudini, non già per adularla, per ribadirne gli errori e per ripeterle con melliflue parole tutto ciò che la lusinga. E perciò accade più sovente che siano lapidati che inghirlandati. Wycliff e Knox, Huss e Lutero, Arnaldo da Brescia e Savonarola hanno certamente esercitato una potente influenza su grandi masse e suscitato, accanto ad odî acerrimi, devozioni intensissime. Però io credo che nè essi, nè Rousseau, nè Göethe, nè Kant, nè Carlyle avrebbero mai ottenuto nè in un collegio di campagna, nè in uno di città, un mandato legislativo per la sola virtù propria, senza l'appoggio di un comitato elettorale. Sono uomini cotesti che non si abbassano a corteggiare gli elettori per averne i voti, e, meno ancora, a entrare in gara con un avversario, che, per giungere alla mèta, non sdegna le solite vie. I brogli, che bisogna fare per avere un mandato dal popolo, spaventano anticipatamente i nobili caratteri. Solo gli egoisti non conoscono ostacoli, perchè hanno deciso di non lasciare cosa alcuna intentata, pur di ottenere la fama e l'autorità agognate.

Ecco un uomo che vuol battere la via della politica. Il movente delle sue azioni sarà l'egoismo, ma siccome egli ha d'uopo di popolarità per giungere all'ambita mèta, e questa popolarità non l'acquista che colui il quale dà o fa sembiante di dare incremento al bene pubblico, così egli si prenderà o farà le viste di prendersi cura dei pubblici interessi. Per ottenere un successo, deve essere fornito di parecchie qualità, che non contribuiscono certo a far simpatico un uomo. Non deve essere modesto, altrimenti non fa strada, e se vuole essere segnalato, bisogna che si faccia largo. Deve saper fingere e mentire, perchè è obbligato a far buon viso a uomini che gli ripugnano; o, almeno, gli sono indifferenti; se no, si creerebbe una caterva di nemici. E poi deve far promesse, ch'egli sa preventivamente di non poter mantenere. Deve volgersi e palare alle abitudini e alle passioni volgari della moltitudine, alle sue erronee opinioni, alle sue predilezioni inveterate, perchè tutte queste cose sono molto generalizzate e gli giovano per conquistare la maggioranza. Questi tratti delineano una figura che muove nausea ad un uomo di nobili sentimenti. In un romanzo una figura di quella fatta non avrebbe mai le simpatie del lettore. Questo lettore, però, nella vita reale, corre a darle il suo suffragio.

La lotta elettorale ha, come la guerra, la sua scienza speciale, la sua strategia, la sua tattica. Il candidato non è direttamente a contatto co' suoi elettori. Fra questi e quello c'è un comitato, che deve la sua autorità alla sua sfacciataggine. Un tale sente il bisogno di essere una persona di vaglia. Allora convoca, lui responsabile, i suoi concittadini, ad una riunione; ma se, per tentare l'impresa con la probabilità di successo, sa di non avere ancora credito sufficiente, fa allora comunella con parecchi amici suoi, oppure va a trovare alcuni ricchi e vanitosi imbecilli, ai quali ei dice ch'essi hanno il diritto e il dovere di capitanare i loro concittadini, di dirigere l'opinione pubblica, e via via. Questi idioti, che si sentono lusingati da tanto invito, affrettansi a porre le loro firme appiè d'un affisso o d'un manifesto sui giornali e quelle firme hanno sempre uno speciale splendore agli occhi di tutti i gonzi, che sogliono giudicare un uomo dalla sua borsa, dai suoi titoli e delle sue cariche. Ed ecco convocata la riunione degli elettori, ecco costituito il comitato, che tutto presiede e tutto regola. Due elementi compongono sempre cotesti comitati: uno di aspiranti pieni di energia e senza riguardi, i quali vogliono conseguire un vantaggio personale, vantaggio morale e materiale; l'altro di persone che si dànno l'aria del sopracciò, sempre in faccende col piglio del sussiego, ma che, in sostanza, altro non sono che minchioni, che gli aspiranti prendono sulla propria nave come paccotiglia di decorazione. Si potrà diventar membro del comitato, anche senza essere stato uno dei fondatori ed anche senza essere stato invitato a collaborare in esso. Basterà parlar forte e spesso nelle riunioni e richiamare l'attenzione dell'adunanza, mettendosi sempre innanzi. Un uomo che ha una voce tonante, e che sa chiacchierare correntemente su ogni cosa, si assicura in un'assemblea l'acquisto di una tal quale autorità. Allora coloro che tengono in mano le redini della massa, bisogna che o lo abbiano alleato o lo abbiano nemico. Si affretteranno perciò ad accoglierlo nel loro comitato.

Il comitato può formarsi, imperniandosi sul candidato od anche indipendentemente da esso. Nel primo caso è il candidato stesso che dirige tutto il movimento: egli organizza il suo stato maggiore, convoca gli elettori, predispone gli oratori e combatte anch'esso per il suo trionfo. Nel secondo caso, il comitato è un manipolo di lanzichenecchi, assoldato da un capitano di ventura e che si dà a nolo a un candidato per difenderne la bandiera. Molti uomini politici, prima di diventare deputati, hanno lavorato così per altri. Fecero e disfecero deputati; dispensarono, o, meglio vendettero mandati, a fine d'aver denaro contante per sè e pe' suoi mercenari, oppure impieghi o vantaggi d'altra natura, e, in qualche rarissimo caso, la soddisfazione vanitosa di passare come uomini autorevoli in un collegio elettorale. Nelle riunioni elettorali ha sempre il predominio l'artificio della parola. La folla non dà ascolto che a quello il quale parla più forte, fa promesse seducenti e predilige le banalità di facile comprensione. Il giorno dell'elezione alcuni elettori più autorevoli, che nessuno si è presa la pena di trarre dalla sua a uno per uno, voteranno o a seconda della loro presunzione, o a seconda del loro interesse, ma la grandissima maggioranza dà il voto al candidato che il comitato ha proposto. Si getta nell'urna il nome, da cui si ebbero per parecchie settimane intronate le orecchie. Non si conosce l'individuo; nulla si sa del suo carattere, delle sue attitudini, delle sue tendenze; lo si elegge, perchè il suo nome è diventato famigliare. Nel caso però in cui gli si dovesse dare in prestito, anche solo per alcune ore, una vecchia pentola, si assumerebbero informazioni su lui molto più particolareggiate; gli alti interessi pubblici invece, che contengono pure i proprî, gli si affidano non sapendo di lui che una cosa, cioè che è raccomandato da un comitato di persone, le quali molte volte sono tanto poco note all'elettore, quanto gli è noto il candidato steso. E a nulla giova l'opporsi a questa soperchieria, e le si può invero dar un tal nome. Un cittadino che volesse esercitare sul serio i suoi diritti costituzionali e veder da vicino l'uomo a cui dovrebbe confidare i più rilevanti poteri, si ribellerebbe invano alla tirannia di un comitato, che gli impone un deputato, del quale non conosce, come vorrebbe il carattere e sarebbe perciò costretto a far tacere i suoi scrupoli, affogandoli nella spensieratezza della moltitudine. Che farà? O stare in casa nel giorno dell'elezione, o votare un candidato suo? Ma nell'uno caso come nell'altro il suo intento sarà frustrato. Riuscirà deputato sempre colui pel quale vota la moltitudine degli incuranti, abbindolati o intimiditi; e quella moltitudine proclama sempre il nome pel quale si è brigato con maggiore audacia, con maggior chiasso e con maggiore ostinazione. È vero: in teoria ogni cittadino è libero di raccomandare un candidato proprio, di agitarsi per esso e di promuovere fra i suoi concittadini un partito a suo favore; ma, in pratica, non fa proseliti colui che non mette innanzi che l'indole eccellente di un candidato, ma li fa invece quegli che promette mari e monti; e per ciò il cittadino, che nell'esercizio de' suoi diritti politici ha a cuore il bene pubblico, avrà sempre la peggio di fronte a un gruppo di politicanti, che fanno il mestiere di sfruttare e trafficare la cosa pubblica.

È questa la fisiologia delle elezioni di tutti i corpi rappresentativi. L'eletto dovrebbe essere l'uomo in cui ha fiducia una maggioranza, ma egli è invece solo l'uomo di fiducia di una minoranza che sovente è minima. D'altra parte, la maggioranza degli elettori è un caos di atomi che non hanno consistenza e ai quali non è difficile imporre la volontà di pochi. Il mandato dovrebbe ottenerlo il cittadino più idoneo e più saggio; l'ottiene invece quello che si caccia innanzi. Per un candidato non sono qualità essenziali l'avere una non comune coltura, esperienza, coscienza ed ingegno elevato. Sono qualità che non nuocciono, è vero, ma nella lotta politica non giovano neanche. Ciò che innanzi tutto occorre è presunzione, audacia, parlantina e volgarismo. Nella migliore ipotesi il candidato può essere un uomo onesto e prudente, ma non potrà mai essere un carattere egregio, scrupoloso, modesto. Ciò spiega perchè nei corpi rappresentativi non siano rari i talenti, ma siano invece rarissimi i caratteri.

Il mandato l'ottiene il mestierante politico con menzognere promesse, con grandi salamelecchi alla moltitudine, con sfacciati elogi a sè medesimo, con discorsi declamatori e trivialità, e coll'appoggio di commilitoni che combattono con le stesse armi. Come l'eserciterà esso questo mandato? O egli è un personaggio potente, o è un individuo dozzinale. Nel primo caso fonderà un partito; nel secondo si schiererà nelle file di uno dei partiti esistenti.

La dote indispensabile per diventare capo-partito è la volontà; cosa che è ben distinta dalla intelligenza, dalla fantasia, dalla prevedenza, dalla generosità. Una ostinata volontà può benissimo far strada, anche con una mente stretta, con sentimenti volgari, con la disonestà, con l'egoismo, con la cattiveria. Essa è una funzione organica, che la può avere anche un uomo moralmente mostruoso, perchè l'individuo più dappoco e più spregievole potrebbe avere il vantaggio di un'alta statura e di una grande forza muscolare. L'uomo, che – quali che siano le altre sue qualità – possiede la volontà più pertinace, è quello che in una riunione di uomini otterrà la primazia, la dirigenza, il comando. La volontà meno potente della sua, che gli resiste, egli la schiaccerà. Lottare contro di lui sarà sempre la lotta della pentola di terra contro la pentola di ferro. Sì, un uomo d'alta intelligenza può soggiogare un uomo di volontà tenace. Ma come? Accettando la lotta, non a carte scoperte, bensì in maniera che il primo sia egli, in apparenza, il sottomesso al secondo, ma che in realtà sia esso l'ispiratore delle idee nell'altro, pur facendo credere che queste siano ispirazioni spontanee di costui. In un Parlamento l'alleato della volontà più poderoso è la loquacità. Anche questa è un dono della natura; cosa, del resto, che è pur essa ben distinta dal perfezionamento della mente e del carattere. Si può essere eminentissimo come pensatore, come poeta, come generale, come legislatore, e non saper fare un discorso efficace. Al contrario, si può essere parlatore ed avere un'intelligenza comune. La storia dei Parlamenti ci mostra pochissimi grandi oratori che abbiano allargato l'orizzonte intellettuale dell'umanità. I più celebri improvvisatori, che in discussioni storicamente mondiali determinarono decisioni che avevano un'importanza suprema e che ad essi diedero e gloria e autorità, se voi li leggete, vi fanno un'impressione così misera, che vi chiedete: «Come mai un discorso cosiffatto ha potuto produrre un effetto tanto grande?» Non è alla parola assennata che  si dà retta nelle numerose assemblee, ma a quella pomposamente declamata. Talvolta l'argomento più chiaro e più agile portato davanti a un gran numero di cittadini, se non è stato lungamente preparato e reiteratamente riveduto, ha pochissima probabilità di rapire il pubblico; il quale, invece, bene spesso obbedisce a chiusi occhi alle ispirazioni di una vuota declamazione e prende deliberazioni così precipitate e imprudenti che, a mente aperta, non saprebbe poi giustificare.

Se il capo-partito associa alla ferrea volontà la facondia, allora primeggierà anche pubblicamente sulla scena del mondo. Se invece non sarà parlatore, starà, come direttore scenico, dietro le quinte, e, non visto dal pubblico, dirigerà gli attori, pei quali egli è sempre l'autorità superiore, essendo lui che tiene in mano il filo della commedia parlamentare. In questo caso egli ha oratori che parlano per lui, come in altri casi egli ha uomini d'alta intelligenza, i quali, perchè timidi ed irresoluti, pensano per lui.

Lo stromento col quale il capo-parte esercita il potere è naturalmente il partito. Cos'è un partito parlamentare? Teoricamente essere dovrebbe una lega d'uomini che unirono le loro forze perchè siano attuate le comuni loro idee sulle leggi e su un programma politico. Ma praticamente non c'è verun grande partito, neppure fra i partiti che dominano e possono diventar governo, il quale sia stretto dai vincoli di un programma. Un accordo d'idee sulle cose della vita pubblica può tenere unite piccole frazioni, gruppi di dieci, forse di venti persone; ma i grandi partiti non si costituiscono che sotto il predominio di un'ambizione e d'un egoismo personali, sotto la forza attraente d'un uomo accentratore ed illustre. La natura divide gli uomini in due classi: una è fatta in modo che non tollera sottomissione alcuna e che – come già dissi – deve nell'attuale ordine sociale, regnare; l'altra è nata per obbedire, perchè i suoi membri non possono assumersi l'obbligo di dover sempre prendere risoluzioni, di fare sforzi di volontà e d'essere responsabile di ciò che essi dovrebbero compiere. La prima classe è naturalmente infinitamente più piccola della seconda. Ogni volta che un uomo, amante del facile obbedire, si trova a fronte di un altro, che fortemente voglia e comandi, gli s'inchina dinanzi; e tranquillo e contento, come se si alleggerisse di un peso, dà a lui la facoltà di dirigerne le azioni e la relativa responsabilità. Questi uomini obbedienti sanno talvolta eseguire gli ordini, che da altri ricevono, con diligenza, instancabilità e senza badare a sacrifici. L'impulso però deve sempre venire all'infuori di essi. Hanno tutte le doti, tranne quella dell'iniziativa; parola che è la riproduzione del concetto volontà. Cotesti uomini si offrono al servizio d'un capo, tosto che l'incontrino. Riconoscono ch'egli è una potenza e di buon grado dànno in sua balìa le loro forze, perchè presentono ch'esso li condurrà alla vittoria ed al bottino. Sono i soli capi-partito che esercitano tutte le funzioni essenziali del parlamentarismo. Essi conchiudono, essi ingaggiano battaglia, essi trionfano. Le sedute pubbliche sono rappresentazioni che importano poco. Si fanno discorsi tanto per mantener viva la finzione del parlamentarismo. Raramente un discorso ha cagionato un'importante risoluzione parlamentare. Gli oratori si servono delle concioni per procurarsi considerazioni, autorità e un buon stato, e sanno benissimo che esse non hanno la minima influenza nelle determinazioni, cioè nelle votazioni parlamentari. I voti dei deputati si prestabiliscono fuori dell'aula del Parlamento e dipendono dalla volontà dei capi, dall'interesse e dalla vanità dei deputati stessi, e, ben di rado, dalla pressione dell'opinione pubblica e solo in questioni grandi, semplici e chiarissime. Di solito tutto ciò che si dice nel corso d'una discussione, non pregiudica menomamente l'esito della questione, e si potrebbero benissimo sopprimere le discussioni e sottoporre addirittura alla prova decisiva della votazione le risoluzioni che i partiti hanno già preventivamente adottate, conformemente alla volontà dei loro capi.

Ciò che getta a terra un capo-partito salito al governo non sono gli errori ch'egli potrebbe aver commesso nell'esercizio delle sue funzioni; questi non saranno che pretesti per attaccarlo. Son piuttosto il volere di un avversario più potente di lui, oppure i mercenari che hanno disertata la sua bandiera, perchè egli, vincitore, non ha potuto o non ha voluto appagare le loro pretese sul bottino, oppure sono tutte due queste cause insieme. Del resto, ancorchè in una crisi ministeriale il potere passasse da un partito in un altro, avente apparenze diametralmente e crudamente opposte, nulla sarebbe mutato nei principî fondamentali e nei procedimenti più importanti della vita politica. I rapporti del cittadino verso lo Stato rimarranno come per l'addietro; e chi non legge i giornali, non si accorgerà affatto che un altro Gabinetto e un altro partito siano al governo dei pubblici affari. Le vere cause delle lotte parlamentari con le relative rappresentazioni e trasformazioni sono febbri di potere ed egoismo, delle quali il nome di liberale e conservatore non sono che maschere.

Questo è in complesso e all'ingrosso lo stato della menzogna politica dei nostri tempi. In molti paesi il parlamentarismo non è che lo scenario, dietro il quale l'assolutismo della monarchia per la grazia di Dio ride e si diverte. E là dove esso è una realtà, e regna veramente e governa il Parlamento, altro non indica che la dittatura di alcuni personaggi, i quali a vicenda si impadroniscono del potere. Teoricamente il parlamentarismo dovrebbe assicurare un potere dirigente alla maggioranza, ma praticamente questo potere è nelle mani di una mezza dozzina di capi-partito e dei loro consiglieri e loro scudieri. Teoricamente le convinzioni dovrebbero formarsi sui ragionamenti che vengono esposti nelle pubbliche sedute, ma praticamente non avviene così e le convinzioni sono prestabilite dalla volontà dei capi e da motivi di personali interessi. Teoricamente i deputati non potrebbero aver cura che del bene pubblico, ma praticamente essi pensano innanzitutto al bene proprio e dei loro intimi, e tutto ciò a spese della cosa pubblica. Teoricamente i deputati dovrebbero essere i cittadini migliori, i più saggi; ma praticamente sono i più ambiziosi, i più presuntuosi, i più intrattabili. Teoricamente la scuola elettorale vuol dire che l'elettore vota per un candidato ch'egli conosce e del quale ha fiducia; ma praticamente egli vota per un uomo, del quale spesso altro non sa se non che un gruppo di gente chiassona gli ha continuamente messo dinnanzi il suo nome e con esso gli ha intronato le orecchie. Le forze che teoricamente dovrebbero dar moto alla macchina parlamentare sono l'esperienza, la prevedenza e il disinteresse; praticamente invece sono la caparbietà, l'egoismo e la loquacità. La elevatezza dell'ingegno e la nobiltà dei sentimenti sono soverchiate dal lenocinio delle frasi e dalla irremovibilità delle presunzioni, e non è mai la saggezza che guida i  Parlamenti, ma bensì una cocciuta opinione personale e una loquela reboante. Del diritto di prendere da sè le proprie determinazioni non rimane al singolo cittadino neppure un atomo, e il mio povero Gianni deve pagare, obbedire e strusciarsi come prima, perchè il parlamentarismo, con tutto il suo chiasso, e le sue gesta, ei non lo avverte se non quando deve, nel giorno delle elezioni, stancare le sue gambe per correre all'urna, oppure quando scorge nel suo giornale che le notizie parlamentari, quasi sempre noiose, occupano uno spazio maggiore di quello che solitamente è occupato da altre materie assai più divertenti.

LA MENZOGNA ECONOMICA

I.

Gli sconcerti prodotti dalla nostra civiltà e sentiti dal maggior numero di persone e nel modo più acuto e ostinato sono gli sconcerti economici.

Molte sono le persone che non si preoccupano affatto di questioni metafisiche e non mostrano preferenza alcuna nè per Dio, nè per la materia; per esse un'enciclica del Papa è così poco interessante come la teoria di Darwin; e non dànno importanza nè alla fede, nè alla scienza. Anche la politica non appassiona molta gente; ed è assai più numerosa di quanto comunemente si crede questa moltitudine di persone, che s'infischia di essere governata da un sovrano personale, oppure da una repubblica impersonale, quando e l'uno e l'altra si rivelino invariabilmente sotto la forma del poliziotto, dell'esattore o del caporale.

Non c'è invece uomo incivilito, a cui non si affacci quotidianamente la questione del guadagno e del consumo. I fenomeni della vita economica sono avvertiti anche dagli intelletti più ottusi e dalla facoltà d'osservazione la più limitata. Chiunque ha coscienza di sè stesso non solo sente dei bisogni, ma si lamenta se è difficile soddisfarli e si ribella se è impossibile. Vede inoltre con disgusto la mancanza di proporzione tra le fatiche del lavoro e i godimenti ch'egli può procurarsi col prezzo del suo lavoro; e paragona questa sua partecipazione ai doni della natura e ai prodotti delle arti con quella che altri godono. Ad ogni modo il bisogno di mangiare si fa sempre sentire a intervalli di poche ore, e la spossatezza si prova ogni sera, dopo la giornata del lavoro. Ed ogni volta che un oggetto per il suo splendore, o per la sua forma piacente vi impressiona la vista, allora un istinto naturale, il quale vuole concretarsi in gingilli attraenti che adornano e singolarizzano, sveglia la brama di possedere quell'oggetto. Tutto ciò insomma che ci sta intorno induce continuamente a riflettere sulla parte che ciascuna di noi ha nel movimento economico generale, nella produzione dei beni e nel godimento di essi. L'argomento che oggi maggiormente commove le moltitudini è questo.

Nel medio evo si poterono sommovere milioni di uomini, parlando loro di religione. Dallo scorcio del secolo passato fino alla metà del secolo presente i popoli s'infiammano per bisogni ideali, d'incivilimento e di libertà politiche. La fine del XIX secolo riempie il mondo col grido che chiede pane per la grande maggioranza degli uomini. E questo grido è ciò che veramente costituisce l'intrinseco della politica. Questa può bene con svariati intermezzi, come sono l'aizzare una classe contro un'altra le guerre, le colonizzazioni, le esposizioni, le commedie dinastiche, le chiacchiere parlamentari o le così dette riforme, tentare di stornar dalla mente del popolo il pensiero che solo lo preoccupa, ma spinta dalla pressione dell'opinione pubblica, deve la politica ritornar pur sempre all'unica grande questione mondiale, cioè alla questione economica. Oggi non si potrebbe più intraprendere crociate per la liberazione del Santo Sepolcro, ma lo si potrebbe per la conquista del vello d'oro che è il benessere; non si possono più fare rivoluzioni per carte costituzionali, nè per una frase democratica, ma si possono fare per avere meno grama l'esistenza e per nutrirsi sempre meglio.

Mai come ora gli antagonismi fra ricco e povero furono tanto spiegati e violenti. Quegli economisti politici, che dànno principio alle loro opere scientifiche coll'assioma che il pauperismo sia antico come il genere umano, sono o uomini superficiali o ingannatori. La miseria può essere assoluta o relativa. La miseria assoluta è quello stato in cui un uomo non può soddisfare affatto, o lo può insufficientemente, quei bisogni reali necessari all'azione della vita organica; quando, cioè, egli non trova un bastevole nutrimento, oppure, per procacciarselo, deve fare tali sforzi, che gli rubino quel tanto di riposo e di sonno che è indispensabile all'organismo, perchè questo non soffra di soverchio, nè deperisca anzi tempo. La miseria relativa è invece l'impotenza a soddisfare quei bisogni che non sono veramente una condizione necessaria della vita e della salute ma ai quali un uomo si abituai con l'uso e la di cui mancanza egli poi avverte e sente specialmente quando paragona le proprie condizioni di vita con quelle d'altri. Povero si sente l'operaio che non può più fumare e bere l'acquavite; povera la moglie del mercante che non può più indossare vesti di seta e circondarsi di masserizie superflue; povero l'uomo che ha una professione liberale e non può ammassare un capitale per provvedere all'avvenire de' suoi figli o alla sua vecchiaia. Questa miseria, evidentemente, non solo è relativa in quanto che la moglie del mercante sembrerà sempre ricca all'occhio dell'operaio, e ciò che ad un professionista parrà un lusso, non sarà che una cosa meschina per un aristocratico, allevato nelle abitudini di una raffinata opulenza, ma questa miseria è anche tutta personale, pel motivo ch'essa infine non esiste che nell'immaginazione dell'individuo; infatti essa non viola alcune delle condizioni necessarie all'esistenza e, conseguentemente, non perturba il nostro organismo. In poche parole: non è una miseria fisiologica. Ed è precisamente questa la miseria, come ha dimostrato l'antico Diogene, che determina i confini del sentimento della felicità. Finchè si possono abbondantemente e con agevolezza soddisfare i bisogni del corpo, si prova sempre il senso del benessere.

Guardando dal punto di vista dell'uomo còlto del secolo XIX, schiavo com'egli è delle abitudini e dei bisogni della vita civile, sembrerebbe che la grande maggioranza del genere umano sia sempre stata relativamente povera nel passato e in proporzione anzi sempre crescente, in ragione dell'indietreggiare dei tempi.

I vestiti degli uomini erano una volta più semplici, e si rinnovavano con minore frequenza; il nutrimento era meno artificioso, le abitazioni meno buone, più modesti gli arnesi di casa; scarso il denaro e meno abbondanti i gingilli. Questa miseria relativa però doveva essere ben poco commovente. Solo una donnicciuola stolida e affettata troverà deplorabile lo spettacolo della donna eschimese, obbligata a ripararsi dal freddo con una pelle di foca, foggiata a sacco, invece d'indossare vesti di seta, lavorate con cura, ma senza buon gusto e costose. E dubito pure che il sentimentale desiderio del buon re Enrico IV, che ogni contadino avesse ogni festa il suo pollo nella pentola, dubito, dico, che anche questo desiderio abbia mai commosso le viscere ed entusiasmato il contadino, che ha potuto invece saziarsi di manzo.

La miseria assoluta e fisiologica appare e persiste solo in seguito ad un'alta e malsana civiltà. Essa non si può concepire presso l'uomo primitivo e neppure nello stadio di una bassa civiltà. Il primo e più importante atto di ogni essere organico è quello di procacciarsi un sufficiente nutrimento, e ciò si scorge dalla monade all'elefante, dal bacterio alla quercia: se non lo trova, deperisce. Perciò non si rassegna spontaneamente a subirne la durevole mancanza. È una legge questa, biologica, che domina l'uomo come qualunque altro essere vivente. L'uomo primitivo non si adatta a sottomettersi alla mancanza del necessario, ma si ribella e rimane o vincitore o vinto. S'egli è cacciatore e la selvaggina scompare dai suoi luoghi di cacciagione, va in cerca d'altri luoghi. S'egli si è accampato su terre poco fertili, alla prima notizia di campi migliori si accinge a correre al possesso di essi per coltivarli. Se altri uomini si pongono tra lui ed i suoi alimenti, impugna l'arma e uccide o resta ucciso. In questi casi l'abbondanza è il premio della forza e del coraggio. È così che irrompe il torrente delle trasmigrazioni dei popoli da regioni ingrate in paesi beneficati dal sole. È nello stomaco che bisogna cercare l'eroismo di un Genserico e di un Attila, di un Gengis-khan e di un Guglielmo di Normandia. Ed è sui più sanguinosi e gloriosi campi di battaglia, cantati dai poeti e tramandatici dalla storia, che si decide con dadi di ferro la questione del mangiare. In una parola: l'uomo primitivo non tollera la miseria assoluta, cioè la fame. Ei prende immediatamente le armi contro la miseria che si avanza e, o conquista l'abbondanza, o muore sotto il ferro nemico, prima che la penuria lo distrugga lentamente.

La miseria assoluta non è ammessibile neppure in una civiltà ancora circoscritta entro i limiti della fisiocrazia, perchè un popolo che eserciti anche soltanto l'agricoltura, l'allevamento del bestiame e l'industria casalinga, tuttochè mancante di metalli preziosi e di oggetti di lusso, non difetterà mai delle sussistenze necessarie a ciascuno dei suoi membri. Ma quando l'uomo si distacca dall'alma madre terra; quand'egli abbandona il solco fedele dei campi e si allontana dalla natura che fornisce pane e frutta, latte e carne, selvaggiume e pesci; quando egli si rincantuccia entro le mura della città e rinuncia alla sua parte di suolo, di bosco e di fiume; quando non è più con le proprie mani ch'ei prende la sua porzione di cibo e di bevanda dai serbatoi del regno animale e vegetale, ed è invece costretto a scambiare i suoi prodotti industriali coi prodotti naturali monopolizzati da altri, allora comincia, per una piccola minoranza, la possibilità di accumulare grandi ricchezze, e per una numerosa classe d'uomini la possibilità di una povertà assoluta, di una miseria fisiologica. Una nazione composta di liberi agricoltori non è mai povera: lo può diventare, quando il contadino sia costretto a servitù, quando un padrone gli tolga il prodotto del suo campo o impedisca i suoi lavori campestri con altri servigi, che sprechino la sua forza di lavoro, quando le città si moltiplichino e assorbano una gran parte delle popolazioni. Una moltitudine giornalmente in aumento sarebbe condannata alla miseria assoluta dall'alta civiltà, perchè questa favorisce le città e il loro ingrandimento a tutte spese della popolazione rurale, perchè protegge lo sviluppo della grande industria a tutto scapito della produzione animale e vegetale, e crea un numeroso proletariato che non possiede un pollice di terreno, che non può usufruire delle condizioni naturali dell'esistenza e che deve morire di fame il giorno in cui troverà chiuso il suo cantiere o l'opificio o la bottega di lavoro.

Ecco lo stato a cui pervennero i paesi dell'Europa occidentale, che erano stimati i più opulenti e civili Le popolazioni si dividono da una parte, in una piccola minoranza che vive in un lusso indecente e strepitoso e fra questa minoranza una frazione invasa da un vero furore di dissipazione; dall'altra parte una grande massa a cui è possibile la vita solo con durissime fatiche, oppure non le è concessa mai, malgrado tutti gli sforzi, un'esistenza degna dell'uomo. Quella minoranza ogni giorno di più si arricchisce; sempre più larga si fa la distanza fra il suo modo di vivere e quello della generalità, e la sua importanza e la sua influenza nei pubblici affari vanno sempre crescendo. Allorchè si parla di pazze prodigalità inaudite di qualche contemporaneo possessore di milioni o di miliardi, voi troverete certi storici, che, con un risolino di compassione, vi citeranno qualche vecchio libro latino, col quale vorrebbero provare che oggi le cose non sono ancora così brutte come lo erano ai tempi dell'impero romano e neppure come lo erano nel medio evo, e che allora la sproporzione tra gli straricchi e i poverissimi era molto più grande che adesso, anche in mezzo ai medesimi popoli. Orbene: questo non è che un errore, originato da una falsa erudizione, perchè nel medio evo non si videro mai fortune di 500 milioni di franchi e più, come sono quelle di un Vanderbilt, di un barone Hirsch, di un Rothschild, di un Krupp ed altri. Nell'antichità qualche favorito d'un despota, un satrapo, o un proconsole, dopo aver spogliato una provincia o tutta una regione, è possibile che abbia accumulato eguali dovizie, ma furono passeggiere. Erano come i tesori delle favole; oggi si possedevano, domani sparivamo. Il possesso di quelle dovizie non era infatti che un breve sogno, rotto dal ferro d'un assassino, o dalla persecuzione di un sovrano, o da un brutale sequestro. Nelle storie dell'impero romano e degli imperi orientali non si trova esempio alcuno di ricchezze cotanto colossali, che si siano trasmesse da padre in figlio, anche solo per tre generazioni, oppure che il possessore abbia potuto godersele tranquillamente senza lotte. In ogni modo i possessori di milioni e di miliardi erano una volta più scarsi d'oggi, poichè nella sola Inghilterra si reputa che da 800 a 1000 siano gli individui che posseggono più di 6 milioni di franchi, e che in Europa – senza tener conto delle altre parti del mondo – siano più di 100 mila coloro che posseggono una sostanza superiore al milione. E probabilmente la cifra è, in realtà, molto più alta. D'altra parte, mai, come oggi, si ebbe un numero cotanto grande di individui assolutamente miserabili, poveri nel senso che ho più sopra spiegato, uomini insomma che non sanno se mangeranno di giorno e dove dormiranno di notte. Lo schiavo nell'antichità, il servo nel medioevo, era pure un nullatenente; egli era una proprietà, una cosa; ma il padrone provvedeva però ai suoi più elementari bisogni, somministrandogli nutrimento e tetto. I diseredati, nel medio evo, non erano che la gente di mala vita, i vagabondi, i saltimbanchi, gli zingari; in generale la plebaglia girovaga. Nulla possedevano al mondo, desco apparecchiato per essi non esisteva, e i legali dominatori delle nazioni negavano loro persino il diritto di considerare come esistenti anche per essi i doni della natura. Mendicando, rubando e predando, cercavano di liberarsi dalla miseria, a cui li aveva pensatamente condannati la società d'allora, e se morivano di forca o di ruota più spesso che di vecchiaia, arrivavano almeno sfamati e contenti fino al luogo del supplizio. L'odierno proletariato delle grandi città non ha avi nella storia. Egli è figlio dei nostri tempi. Il proletariato moderno è più miserabile dello schiavo dell'antichità, perchè nessun padrone gli dà il nutrimento, e se, a paragone dello schiavo, egli ha la libertà, dobbiamo pur confessare che è principalmente la libertà di morir di fame. Egli sta men bene del malandrino del medio evo, perchè non ha la lieta indipendenza di quel reietto vagabondo; di rado si rivolta contro la società e non ha modi acconci per appropriarsi col furto e la rapina ciò che il vigente ordine di cose gli nega. Perciò, oggi, il ricco è più ricco e il povero è più povero di quanto lo siano mai stati e l'uno e l'altro nei tempi passati. Lo stesso dicasi dello sfarzo insolente dei ricchi. Ci si intronano le orecchie coi festini di Lucullo, dei cui rimasugli si nutre ancor oggi l'archeologo e lo storico che smercia aneddoti. Ma nessuno ha potuto fino ad ora provare che l'antica Roma vide una festa che abbia costato 500 mila franchi, come costò – a detta dei nostri giornali – la festa da ballo d'un creso di Nuova York. Un privato che trattò i suoi ospiti con un pasticcio di lingue d'usignuolo e che regalò qualche centinaio di migliaia di sesterzi ad una etèra greca, suscitò in Roma tale un rumore che il suo nome fu echeggiato da tutti i satirici e cronisti contemporanei e anche da quelli che vennero dopo di loro. Oggi nessuno cita le migliaia di persone che spendono 200 mila franchi per un servizio da tavola di vecchio Sèvres, o che spendono 600,000 franchi per un cavallo da corsa, o che permettono ad una venale sgualdrina di dissipare un milione in un anno. Il lusso sfrenato nell'antichità e nel medio evo era un fenomeno tanto caro, che, se fu rimarcato, lo fu appunto perchè raro. Quel lusso però ebbe almeno il pudore di nascondersi in un ristretto circolo di persone. La massa diseredata non lo vide. Oggi lo sfarzo del ricco non si rinchiude nelle sale da ballo o da pranzo delle case private, ma preferisce pavoneggiarsi sulle pubbliche vie. I luoghi ove i ricchi sfoggiano la loro insolente opulenza sono i pubblici passeggi delle grandi città, i teatri, le sale da concerto, le corse dei cavalli e i bagni. I loro equipaggi spruzzano di mota gli affannati che vanno a piedi nudi, e i loro brillanti pare che irradiino tutta la loro fulgidezza, specialmente là, dove possono abbagliare gli occhi ai proletari. Volentieri fanno complice delle loro dilapidazioni il giornalismo, perchè coi giornali possono far sapere i loro fasti a quei circoli, che non hanno occasione di vedere coi propri occhi l'eterno giubilo e il lungo carnevale dei ricchi. In tal guisa il moderno proletario ha un argomento di paragone che mancava al nullatenente antico. Gli scialacqui dei milionari, di cui esso è testimonio, diventano il criterio infallibile per misurare e conoscere la propria miseria con precisione matematica, e in tutta la sua profondità ed estensione. E siccome la povertà diventa un vero malanno sol quando la si sente come tale personalmente, così i milionari non fanno che peggiorare le sofferenze del proletario colla imprudente sfrenatezza dei loro tripudi: il pubblico spettacolo ch'essi dànno d'ozi e di godimenti suscita nel proletario dispetto e invidia; e questo veleno morale eccita la sua mente più assai delle materiali privazioni.

Non bisogna però queste materiali privazioni porle in non cale. La moltitudine dei nullatenenti nei paesi civili trascina la sua grama esistenza in condizioni che tali non le hanno nemmeno le bestie viventi libere nelle selve. L'abitazione del proletario nelle grandi città è molto più sudicia e malsana del covile delle grosse fiere o della tana del tasso e della volpe. Questi animali sono riparati contro il freddo meglio del povero. Il nutrimento del proletario è appena tanto quanto occorre per non morire repentinamente di fame: il che però non impedisce che quasi ogni giorno nelle più grandi città v'abbiano morti d'inedia. Gli economisti, per tranquillare la turbata coscienza del possidente, hanno inventato una frase, che pomposamente ripetono ed è: la ferrea legge del salario. Secondo questa legge, il salario giornaliero dovrebbe almeno equivalere a quanto è necessario per conservare la vita. Con altre parole: il lavorante dovrebbe essere sicuro di guadagnare, se non ricchezze, almeno quanto indispensabilmente gli abbisogna. E se così fosse sarebbe già un bene. Il ricco potrebbe dire a sè stesso, ogni mattina ed ogni sera, che tutto va alla meglio nei migliori dei mondi e che nessuno ha diritto di disturbare con piagnistei o con bestemmie le sue digestioni e la sua quiete. Ma il male si è che la famosa ferrea legge del salati non è che un gesuitico giuoco di parole. Innanzi tutto essa non può applicarsi a coloro che non trovano lavoro. E durante il tempo in cui si lavora, l'operaio dell'Europa occidentale non può risparmiare tanto quanto gli occorrerebbe per tutto il tempo in cui gli mancherà il lavoro. E così egli è costretto, in una parte dell'anno, o a chiedere la elemosina, o a subire privazioni che lentamente deteriorano il suo organismo. La ferrea legge del salario non ha neppure un'equa misura per chi veramente lavora. Quale è il minimo che abbisogna ad un individuo per campare? È naturalmente quel tanto, col quale un uomo può conservare il suo organismo in buono stato, svilupparsi interamente e vivere quanto più è a lui possibile secondo la propria natura. Quando invece la fatica è superiore alle forze dell'organismo, oppure non si riceve tanto nutrimento, calorico e riposo quanto è necessario perchè l'organismo non degeneri dalla sua natura tipica, allora l'individuo cade nella miseria fisiologica. Del resto ogni eccesso di lavoro, cagionando, come il nutrimento insufficiente, una deteriorazione organica, è sinonimo di lenta inedia. Se la ferrea legge del salario fosse realmente ciò che pretende di essere, il lavoratore dovrebbe poter ottenere e conservare una tale vigorìa organica, quale gliela consentono le sue naturali attitudini. Ma l'esperienza insegna che l'operaio in Europa non arriva mai a tanto.

L'economista borghese, col suo ottimismo, accamperà trionfalmente la sua ferrea legge del salario, ogni volta che vedrà il lavorante, terminata la sua giornata di lavoro, non cadere sfinito dalla fame, ma impinzare lo stomaco di patate, fumare la pipa e bere la sua acquavite: e persuaderà sè stesso che quel lavorante è sazio e contento. Ma ecco la statistica che vi dimostra essere la vita media dell'operaio più corta di un terzo, e, in alcuni casi, della metà, al confronto della vita di un uomo benestante della stessa nazione, vivente nello stesso clima e sullo stesso suolo. Chi ruba ai proletari gli anni di vita a cui hanno diritto come figli di una data razza e di una data regione? Nient'altro che la fame, la miseria, le privazioni, che lentamente minano la loro salute e indeboliscono il loro organismo. Il salario basta, sì, per preservare il proletario da una rapida morte per fame o per freddo, ma non lo preserva da un precoce deperimento per insufficienza di alimenti, di vesti e di riposo; e le statistiche sulle malattie e sulle mortalità degli operai stigmatizzano la ferrea legge del salario come un'impudente menzogna.

L'immagine dell'organizzazione economica della nostra società sarebbe incompiuta, se accanto all'insolente milionario e al proletario condannato a malattie e a morte precoce non accennassi anche ad un'altra classe di nullatenenti, che nel vigente ordinamento sociale sono trattati con durezza non minore di quella che si usa cogli schiavi dell'industria delle grandi città. È questa la classe di quelle persone còlte che appartengono a famiglie povere e che devono procacciarsi il sostentamento col lavoro della mente. L'offerta di questa specie di lavoro supera la richiesta in modo spaventevole. Le professioni così dette liberali sono tanto rigurgitanti di personale che coloro che vi si applicano, schiacciansi a vicenda e la lotta per l'esistenza assume in coteste professioni le forme più crude e schifose. Questi disgraziati, che aspirano ad un impiego pubblico o privato, ad un posto nell'insegnamento, che stanno sempre in aspettazione di un successo o come artisti o come letterati o come avvocati, medici o ingegneri od altro, tutti costoro, causa il maggiore loro sviluppo intellettuale, sentono più fortemente le condizioni della miseria: i loro intimi rapporti con persone benestanti li avvertono continuamente del contrasto fra la loro povertà e l'altrui ricchezza, e tengono viva in essi la coscienza della loro miseria: i pregiudizi sociali impongono loro un modo di vivere, che è più penoso di quello del proletario, senza essere migliore nemmeno sotto l'aspetto dell'igiene, e finalmente, nelle loro professioni l'agiatezza è il premio di umiliazioni, di offese al proprio carattere e di abdicazioni del proprio Io, che sono, per temperamenti sensibili, più assai dolorose delle privazioni materiali. E siccome costoro soffrono personalmente più del proletario, sopportano anche con minor pazienza le catene dell'ordinamento sociale. Il possidente chiama spostati tutti coloro che hanno lottato senza successo ed ha l'aria di sprezzarli. Ma gli spostati sono la valorosa avanguardia dell'esercito,  che assedia la resistente fortezza dell'edificio sociale e tosto o tardi la smantellerà.

II.

Analizziamo ora un po' più profondamente i vari elementi dell'accennata organizzazione economica. Noi abbiamo visto in essa il ricco nuotante nell'abbondanza senza lavorare; il proletario condannato a logorare il proprio organismo; l'operaio del pensiero schiacciato da una concorrenza micidiale. Mettiamo in chiaro prima di tutto la ricca minoranza.

Quali sorgenti hanno le ricchezze di questa minoranza? Essa, o ha ereditato i beni di fortuna e si accontenta di conservarli, ovvero li ha aumentati, o li ha creati da sè. Dell'eredità parleremo dippoi più ampiamente. Qui vogliamo soltanto notare che l'uomo è il solo essere vivente, il quale esageri in modo straordinario, per la sua prole, quei naturali provvedimenti che sono una manifestazione dell'istinto di conservazione della specie e il necessario complemento dell'atto procreatore; e ciò perchè vorrebbe esimere dalla necessità di fare da sè non solo la sua più prossima discendenza fino alla sua maturità, ma benanco le generazioni future più lontane. L'aumento delle grandi fortune ereditate ha luogo, nella maggior parte dei casi, senza la menoma cooperazione di chi le possiede, e ciò che è più, non è frutto del suo lavoro. Le grandi e antiche fortune sono formate sopratutto da possedimenti immobili, poderi rurali e case urbane. Il valore delle case e del suolo cresce d'anno in anno, e il reddito di queste sorgenti di fortuna cresce a mano a mano che cresce la civiltà. I prodotti dell'industria si acquistano a più basso prezzo, le vettovaglie rincariscono e le abitazioni, nelle grandi città che sempre più si popolano, diventano e più scarse e più costose. Alcuni economisti negano che le vettovaglie rincariscono, ma a suffragio delle loro asserzioni non recano che sofismi. È vero: allorchè i traffici erano più difficili, si avevano più frequenti le carestie, e uno scarso raccolto poteva in alcuni paesi far salire il grano a prezzi così alti, che oggi sarebbero assurdi; nè più si vedono quelle violenti e larghe correnti di prezzi d'una volta, ma nondimeno la media proporzionale dei prezzi delle derrate e della carne aumenta continuamente; aumento che la sfrenata coltivazione di immense terre vergini in America e in Australia non arresta, ma solo rallenta. Nel non lontano giorno in cui una coltivazione esauriente avrà indebolito anche i terreni dei nuovi continenti e l'aratro non troverà più terre senza padrone da conquistare, il prezzo delle derrate crescerà senza ritegno, e in pari tempo non è prevedibile che cessi il ribasso nei prodotti industriali, perchè la meccanica si perfezionerà sempre di più e cresceranno ognora i mezzi di sfruttare, oltre gli uomini, le forze della natura. Questa duplice corrente nella vita economica, che tende ad aumentare i prezzi delle derrate e ad abbassare quelli dei prodotti industriali, impoverisce sempre più l'operaio delle industrie e sempre più arricchisce il possessore delle terre. L'operaio, se vuole procacciarsi i mezzi necessari alla sua esistenza, dovrà lavorare di più, mentre l'altro ogni anno potrà scambiare i prodotti delle sue terre con una crescente quantità di prodotti industriali. Ognor più difficile diventa al proletario il sostentarsi, e ognor più facile al possidente lo scialacquare i prodotti dell'industria; e siccome per mantenere il lusso nel possidente i proletari si fanno sempre più numerosi, così si può dire che questi sono tanti schiavi del possidente stesso. Dunque non è per virtù propria che l'erede di terre e di case continuamente si arricchisce, ma bensì per la difettosa organizzazione economica, che dà a pochi il possesso di quello strumento naturale dell'uomo, che è la terra, e addensa nella città, proletari spogliati appunto della loro parte di terra.

Nuove ricchezze si formano col commercio, colla speculazione e colla grande industria. Non parleremo di quei casi eccezionali, in cui un uomo viene in possesso di grandi ricchezze colla cooperazione di casuali eventi, come, per esempio, una miniera doro o di diamanti o di petrolio, che in forza delle dominanti idee sulla proprietà, può essere posseduta e usufruita da un individuo a tutto suo profitto. Anche queste eccezioni però hanno un valore logico e mostrano infatti come non sia vero il postulato così detto scientifico degli economisti, cioè, che il capitale non sia che lavoro accumulato. Quanto lavoro rappresenta un diamante, grande come il diamante  del Kok-I-Noor, che un viandante trova per terra nell'Africa meridionale e che egli vende per parecchi milioni? Un professore di economia politica non è punto imbarazzato a fare una risposta: sì il gioiello pur esso è frutto del lavoro, cioè del lavoro di chi lo ha visto, si è chinato e lo raccolse da terra. La scienza codificata accetta con grande compiacenza tale spiegazione e proclama salva la teoria. Il buon senso però respinge a calci questa falsa scienza, inventata da stupidi per uso degli stupidi, e che con fiori rettorici vuole inorpellare e giustificare le ingiustizie economiche.

Il commercio legale, quello cioè che funziona come intermediario fra il produttore e il consumatore dei prodotti agricoli e industriali, e che fa pagare agli acquirenti la sua intervenzione con una tassa, che ha sempre la forma di un aumento più o meno grande di prezzo, questo commercio, diciamo, ai giorni nostri non conduce che ben di rado a grandi ricchezze. È tanta oggi la gente che altro non domanda che di tirar innanzi la vita, o, al più, di procacciarsi un modesto sopravvanzo, ed è così grande la concorrenza per guadagnare le commissioni del consumatore, che il negoziante non può più lusingarsi di accumulare molti denari. Tanto nel grande come nel piccolo commercio c'è ora la tendenza a sopprimere quanto più è possibile gli intermediari superflui e di mettere in diretto contatto produttore e consumatore; ed ove l'intermediario è ancora inevitabile, c'è la tendenza a far abbassare i prezzi delle merci così che bastino a rifondere all'intermediario stesso le sue spese e a procacciargli sol quanto è necessario per vivere. Il lucro però del negoziante può diventare abbondante, ed anche iniquamente abbondante, quand'egli riesca ad annullare la libera concorrenza o, almeno, ad infrenarla. Siccome però è piccolissimo il numero delle persone disposte ad arrischiare salute e vita, anche se è per guadagnare ingenti ricchezze, così coloro, che, affrontando difficoltà e pericoli, acquistano merci nell'Africa centrale o in mezzo a popolazioni semi-barbare dell'Asia, potranno venderlo lucrando molto, e qui naturalmente la concorrenza rimane per un certo tempo ben poca. Ma non tarderà il giorno in cui anche cotesti commerci potranno essere sfruttati con facilità, perchè, i loro pericoli si impiccoliscono a misura che invecchiano, i loro paesi diventano sempre più noti, e altri paesi, dapprima inaccessibili, schiudonsi e si mettono sotto l'ègida della legge della universale concorrenza. Si può quasi presagire che cotesta sorgente di ricchezza fra 20 o 30 anni sarà esaurita. Si potrà allora andare nel centro dell'Africa o dell'Asia, o in China, con la stessa facilità o sicurezza con cui si va in qualunque paese d'Europa o d'America: i commercianti dovranno comperare a più caro prezzo, e, per non scapitare, rialzeranno i prezzi di vendita, ma anche facendo nel Congo il traffico dei denti d'elefante, o in China quello del cotone, non potranno che guadagnare il necessario per vivere, come un tabaccaio qualsiasi in una piccola città d'Europa. Si potrebbero però far lucri enormi, quando riuscisse ad un negoziante o ad una società commerciale di monopolizzare una cosa destinata al consumo, per maniera che l'acquirente non la potesse ottenere che dalle loro mani, non lasciandogli altra scelta che, o privarsi di quella cosa, o pagare il prezzo che la congiura rapace gli impone. Questo modo di procedere però non appartiene, a dir il vero, alla categoria del commercio legale; esso è una prepotenza che alcune legislazioni, per esempio la francese, considerano delitto e puniscono, ma che nondimeno conduce alla seconda sorgente di grandi ricchezze; cioè alla speculazione.

La speculazione è uno dei più insopportabili fenomeni del nostro organamento economico. Quei profondi pensatori, i quali dicono che tutto ciò che esiste è un bene, hanno pure trovato il verso di difendere la speculazione: l'hanno chiamata legittima e necessaria; di più ne divennero addirittura entusiastici. A questi imprudenti panegiristi spiego subito i principî, pei quali sono entrati in lizza. La parte che nella vita economica rappresenta lo speculatore è quella dello scroccone. Egli nulla produce: non è neppure un negoziante, che faccia il problematico servizio dell'intermediario; altro egli non fa che appropriarsi colla insidia o colla prepotenza la parte maggiore del guadagno di coloro che realmente lavorano. È un aggressore che spoglia i produttori dei loro prodotti, non corrispondendo che un vile compenso, e forza il consumatore a pagare poi quei prodotti a prezzi assai più alti. L'arma colla quale coglie all'impensata, al pari d'un masnadiero, il produttore e il consumatore, si chiama «rialzo e ribasso». E si serve della sua arma micidiale nel modo seguente: Se, stando in agguato, mira a derubare il produttore, allora, un bel giorno, ei vende merci che non possiede e le vende a prezzi inferiori ai correnti, promettendo all'acquirente di consegnargliele 15 giorni dopo o anche un mese o tre mesi dopo. L'acquirente trovando che lo speculatore domanda prezzi più bassi di quelli del produttore, si affretta a ricorrere al primo. Il produttore ha qui davanti a sè questo bivio: o egli è abbastanza ricco per poter senza danno procrastinare la vendita dei suoi prodotti, e allora lo speculatore, non potendo il giorno della consegna procurarsi quei prodotti allo sperato basso prezzo, sarà costretto di dare al produttore il prezzo da questi voluto, e così, invece di rubare, egli resta derubato; oppure è il produttore costretto a vendere subito la sua merce – e questo è il caso più frequente – e allora ei deve adattarsi a ribassare i suoi prezzi fino a che trovi un compratore; necessariamente dovrà chiedere un prezzo inferiore a quello dello speculatore e lo speculatore sarà egli l'acquirente, perchè il consumatore ha già antecedentemente comperato dallo speculatore. Ed ecco che la merce, nel giorno della consegna, sarà ancora a più buon mercato. Lo speculatore in tal modo avrà spillato una libbra di sangue dalle vene del produttore e questi forse andrà in rovina.

Quando invece il colpo è diretto contro il consumatore, allora lo speculatore compera la merce in grosso e al prezzo voluto dal produttore, il che può fare senza sforzo, perchè l'affare non gli costa un soldo; egli acquista, non con pronti contanti, ma con una promessa; pagherà il prezzo alcune settimane o alcuni mesi dopo. Perciò nulla possedendo e nulla sborsando, lo speculatore diventerà proprietario della merce; e se il consumatore la vorrà avere, la dovrà domandare allo speculatore, pagando i prezzi da costui voluti, Lo speculatore con una mano prende il denaro del consumatore, per metterne nella sua saccoccia il più che sia possibile, e coll'altra mano dà al produttore quello che resta. In siffatta guisa lo speculatore diventa ricco e potente, senza lavorare e senza beneficare l'universalità. Il capitale, dandogli un credito illimitato, gli concede il massimo dei favori. Se un buon diavolo d'operaio, voglioso di indipendenza, domandasse in prestito un po' di danaro per acquistare attrezzi, materia prima e alimenti, facendo patto di restituirlo col ricavo del suo lavoro, incontrerebbe difficoltà non poche. Se invece un poltrone sfrondato delibera di vivere del lavoro altrui e di speculare comperando e vendendo, produttori e consumatori sono subito in sua mano colla massima facilità. Si dice, è vero, che lo speculatore non ha un credito effettivo verso il produttore, ma solo nominale, perchè questi non consegna subito la merce, ma promette di consegnarla in un giorno fisso e dietro pagamento del prezzo convenuto; d'altra parte, il consumatore non anticipa il prezzo della merce, ma solo promette di pagarlo il giorno della consegna. Tuttavia questo credito nominale è sufficiente per procacciare allo speculatore ricchezze scandalose.

I lavoratori, niuno eccettuato, sono obbligati a pagare un tributo allo speculatore. Tutti i nostri bisogni e tutte le cose che ci occorrono sono quelli preveduti e queste incettate a fido dalla speculazione, per essere poi a noi rivendute a pronti contanti e al più caro prezzo possibile. Noi non possiamo mangiare un tozzo di pane, dormire sotto un tetto, o investire i nostri risparmi in carte di credito, senza pagare il nostro tributo agli speculatori di granaglie, di terreni, di case o di Borsa. Opprimente non poco è l'imposta che paghiamo allo Stato, ma non lo è mai tanto quanto quella che ci impone inesorabilmente la speculazione. Si osò difendere la Borsa come un'istituzione necessaria e utile. E l'avvocato di essa non rimane asfissiato dalla enormezza della tesi? Come? La Borsa è utile e necessaria? Si è essa mai ristretta entro i limiti d'una convenienza ragionevole? È stata essa mai il mercato, dove il venditore di buona fede incontrasi col compratore pure di buona fede e dove l'onesta offerta equilibrasi con l'onesta dimanda? La metafora, che assomiglia la Borsa ad un albero velenoso, è pallida e sopratutto manchevole, perchè non esprime che una parte dell'attività della Borsa, cioè gli effetti ch'essa produce nella morale del popolo. La Borsa è una spelonca nella quale gli odierni eredi degli avventurieri predoni del medio evo strozzano il viandante. Come quei cavalieri predoni, gli speculatori di Borsa formano una specie di aristocrazia, che si fa lautamente mantenere dalla massa del popolo: come quei cavalieri, essi vogliono riscuotere decime dal negoziante e dall'artigiano; ma, più fortunati dei cavalieri predoni, non corrono il rischio d'essere impiccati, quando uno più forte li sorprenda a fare il tagliaborse. Talvolta ci rallegriamo che la speculazione perda d'un tratto ciò che in molti anni di libera rapina ha messo insieme. Questa non è che un'illusione, di cui si accontenta la morale sacerdotale, che reputa la punizione del delitto uno scopo definitivo. Ma una crisi che pur costringa uno speculatore a rendere la preda, non cancella il fatto ch'egli per molti anni abbia vissuto splendidamente e abbominevolmente a spese dei lavoratori, membri pur essi della società. Lo speculatore può perdere la sua sostanza, ma nessuna forza umana gli può far rendere lo champagne ch'egli ha fatto correre a torrenti, i tartuffi, che ha divorato, i sacchi d'oro che ha perduto al tappeto verde, le ore che ha passato colla sua druda. Del resto, le crisi non sono funeste che ad alcuni speculatori, ma non alla speculazione in generale. Anzi, le crisi sono le vere feste vendemmiali della speculazione; sono un'occasione per spogliare in massa tutto un popolo o tutta una regione. Allora il grande capitale apre le sue fauci, e non solo divora le sostanze del pubblico, che ha investito i suoi risparmi in carte di credito, ma ingoia altresì i disonesti avanzi dei piccoli predoni di Borsa, che al solito, sono da esso tollerati come il leone tollera il topo. È il grande capitale che produce e sfrutta i grandi ribassi. È allora che esso compera tutto ciò che conserva un valore e gli promette un avvenire, e passato il temporale e rasserenatosi il cielo, lo rivende con enorme lucro a quegli stessi individui che prima lo avevano venduto a prezzi vili. E poi in una nuova crisi lo si ricompera a prezzi sempre bassi; giuoco crudele cotesto che si ripete quando i produttori, dopo alcuni anni di pacifico lavoro, hanno rifatto i loro risparmi. Le crisi finanziarie non fanno che assorbire ciò che trovasi nel salvadanaio del popolo per riversarlo nei serbatori del gran capitale.

I difensori della speculazione dicono: «Lo speculatore nel dramma economico rappresenta una parte che è equitativa, il suo lucro non è che il premio di una maggiore perspicacia, d'una previdenza più accorta, d'una occulatezza più pronta e giudiziosa, e di un maggiore ardimento». È un tema cotesto che mi piace: soffermiamoci un po' ancora su di esso. Dunque lo speculatore, perchè ha modo di essere informato meglio degli altri, perchè le perdite fanno a lui meno paura che all'onesto risparmiatore e perchè sa astutamente mettere sulla bilancia tutte le eventualità, ha il diritto di togliere al lavoratore il suo guadagno e di accumulare ricchezze, oziando! Dunque questo diritto dello speculatore si fonda sul possesso d'armi più vantaggiose, cioè sulle sue informazioni o sull'ardimento di far giuochi di ventura col denaro altrui, ed anche su un'esuberanza di forza, di raziocinio e di mente. Ora, supponiamo che i proletari posseggano armi ancor più vantaggiose di queste, che abbiano, cioè, buoni fucili e bombe dinamitiche ed anche un maggior coraggio, quello di avventurare la loro vita, e forze superiori; quelle dei loro muscoli e delle loro ossa. In questo caso i difensori della speculazione devono riconoscere nei proletari il diritto di prendere allo speculatore il suo denaro; se no, la teoria, con la quale essi vogliono giustificare la speculazione, non è più che una menzogna.

La terza fonte di copiose ricchezze è la grande industria. Qui il possessore o l'usufruttuario del capitale sfrutta l'operaio che gli dà a nolo le sue forze produttive. E il lucro dell'intraprenditore sta nella differenza tra il valore reale, di quelle forze produttive e il salario ch'egli paga, differenza che si aggiunge al prezzo dei prodotti, talchè quel lucro nella maggior parte dei casi è sproporzionatamente esuberante. Si pretende talvolta che cotesto lucro sia il premio del lavoro intellettuale dell'intraprenditore. Innanzi tutto si deve rispondere che il lavoro mentale richiesto dalla direzione tecnica e commerciale, anche di una grande fabbrica, non si può nemmeno paragonare alle indagini scientifiche e alle opere letterarie dell'ingegno; tutt'al più quel lavoro potrebbe essere paragonato al lavoro di un alto funzionario di Stato o di un amministratore di un latifondo, paragonato, cioè, a persone, i di cui servigi non hanno mai una corrisponsione così ridondante come il reddito di un grande industriale. E neppure come un semplice interesse del capitale può essere considerato il lucro dell'intrapresa, perchè nessun industriale tiene i prezzi dei suoi prodotti così bassi che, detratte le spese di produzione (alle quali voglio pure aggiungere un premio pel suo lavoro intellettuale), non gli resti che un reddito del 4 al 6 %; reddito, del resto, che potrebbe essere ottenuto da un poltrone qualunque, impiegando i suoi capitali senza rischio alcuno. I prezzi dei prodotti sono, più che altro, determinati dalla concorrenza degli industriali e dalla minore o maggiore offerta delle forze lavoratrici. L'industriale cerca anzitutto di dare il meno possibile all'operaio e di avere il più possibile dal compratore. Quando la soverchia affluenza di operai gli permette di noleggiarli a prezzi rinviliti e quando la mancanza di concorrenti od altre circostanze gli permettono di vendere carissimi i suoi prodotti, egli non esita, non solo a lucrare il 4 o 6 %, ma a raddoppiare benanco il capitale e più ancora se potrà. I difensori dello sfruttamento capitalistico dell'operaio dicono che, se si ripartissero i guadagni dell'azienda fra gli operai, ne sarebbe impoverito l'industriale, senza che ne fossero arricchiti gli operai stessi, i quali non avrebbero aumentato il salario che di qualche centesimo al giorno. Bella argomentazione dignitosa e morale! Qui però non si discorre della quantità del tributo che l'operaio deve dare; si afferma che cotesto operaio è, in genere, tributario del capitalista. Può essere che l'operaio, qualora gli si desse tutto il frutto del suo lavoro, non otterrebbe che pochi centesimi di più al giorno. Ebbene, in forza di qual diritto lo si obbliga a regalare, sia pure una minima parte, del suo guadagno ad un intraprenditore, il quale percepisce già gli interessi del suo capitale e, oltracciò, una lauta rimunerazione per il problematico suo lavoro intellettuale? Si supponga per un momento l'esistenza di una legge che obblighi ogni abitante dello Stato a pagare annualmente un centesimo a Tizio o a Sempronio, non già come riconoscenza di atti meritori compiti pel bene pubblico, ma bensì come un gratuito donativo. Il favorito avrebbe un reddito rilevantissimo e i contribuenti non si accorgerebbero del loro contributo. Un centesimo è sì poca cosa, che non francherebbe la spesa di venire a parole. Eppure una legge così fatta provocherebbe un grido di indignazione in tutto lo Stato, ed ogni cittadino si ribellerebbe a questo goffo arbitrio, a questa ingiustizia. Un tributo invece, non di un centesimo, ma, nei casi più discreti, di 30 o 40 lire annuali e, spesso, di 200 a 300, imposte alla parte più povera della nazione, cioè ai proletari, e a favore di Tizio o Sempronio, non è che una legge economica, reputata naturale da coloro che non se la sentono sulle spalle. Nondimeno l'ingiustizia è la medesima anche in quest'ultimo caso; soltanto la si sente meno, perchè perpetrata a danno del proletariato, perchè da secoli esiste; perchè si è convertita in abitudine e fors'anco perchè non si presenta con quella forma paradossastica, di cui una verità ha bisogno per convincere le menti corte.

Abbiamo dunque visto che non è col lavoro proprio che si acquistano le grandi ricchezze, ma sfruttando il lavoro altrui. Col proprio lavoro, quasi sempre, non si guadagna che a stento la vita; alle volte si può risparmiare qualche cosa per la vecchiaia o per le malattie, ma quasi mai si acquista una convenevole agiatezza. V'hanno medici, avvocati, letterati, pittori, artisti, che, facendo fruttare i loro servigi diretti e personali, guadagnano anche un milione all'anno e, alla loro morte, lasciano una fortuna di 20 milioni, senza aver mai ricorso alla speculazione, senza aver fatto mai guadagni illeciti. Ma di queste persone non ne esisteranno nel mondo incivilito che un centinaio e forse neppur tanto. Del resto, se guardiamo ben da presso anche la ricchezza di costoro, ravviseremo in essa un carattere, si può dire, parassitico, eccetto quella del letterato. Infatti, se questi ha guadagnato un milione, perchè scrisse un libro, del quale spacciaronsi da un milione a due milioni d'esemplari, quel guadagno rappresenta il premio di un lavoro intellettuale, che l'umanità ha pagato di propria volontà e con piacere. Ma quando un pittore vende un quadro per mezzo milione, quando un chirurgo percepisce 50 mila lire per un'operazione, o un'eguale somma percepisce un avvocato per una difesa, quando un cantante intasca 20 mila lire per una rappresentazione tutte queste somme non significano mica che la massa degli uomini le stimi un premio legittimo e incontestabilmente meritato; altro invece esse non sono che la prova matematica del fatto, che nella odierna società civile c'è una minoranza di milionari, i quali, non avendo acquistato le loro ricchezze con il proprio sudore, non hanno neppure il criterio per misurare convenientemente le prestazioni personali: milionari che possono appagare ogni capriccio, senza darsi pensiero della spesa e che contendonsi a vicenda l'acquisto di cose rare, come un dato quadro, il canto di una speciale artista, o l'opera di un certo medico o avvocato. Prescindendo dai pochi che nelle professioni liberali trovano un successo eccezionale, si ha inconcussa la regola, la quale afferma che le grandi ricchezze provengono dallo sfruttamento che l'uomo esercita sul suo simile; altra origine esse non hanno. Quando il latifondo ereditato aumenta il suo valore, ciò avviene perchè non ha più bisogno di tante braccia che lo lavorino, perchè l'industria si allarga sempre più, perchè le grandi città ingrandiscono maggiormente, perchè la classe che vive d'arti e mestieri paga a più caro prezzo le vettovaglie a misura che ribassano i prezzi dei prodotti industriali. In poche parole: il latifondo aumenta il suo valore non in virtù della operosità del padrone, ma in virtù del lavoro altrui. Quando lo speculatore accumula milioni, è perchè, abusando di una forza maggiore, (chiamisi essa astuzia, informazioni o aderenze), estorce il peculio dei lavoratori e del piccolo risparmio, a guisa del brigante che, col suo trombone, toglie al viandante la borsa. Quando l'intraprenditore industriale diventa un creso, è perchè sistematicamente sfrutta i suoi operai, ai quali dà, come agli animali domestici, stalla e foraggi, ma in porzioni possibilmente piccole, mentre il prodotto del loro lavoro va nelle sue saccoccie. È in questo senso che deve essere inteso l'inesatto e perciò ingiusto motto di Proudhon: «La proprietà è il furto». Per poter dire esatto cotesto motto, bisognerebbe sofisticare, bisognerebbe, cioè, asserire che ogni ente non esiste che per sè e che questo diritto di appartenere solo a sè stesso deriva dal fatto della propria esistenza. In forza di quest'argomentazione, chi coglie un fil d'erba in un prato sarebbe un ladro, l'aria che si aspira diventerebbe cosa rubata, rubato il pesce che si pesca; ma allora ruberebbe anche la rondine che inghiottisce la mosca, anche il bruco che rode la radice d'una pianta; tutta la natura dunque non sarebbe che saccheggiata da ladri; e ladro sarebbe ogni essere che vive, cioè ogni essere che assorbe cose che gli sono estranee; solo una lastra di platino sarebbe, sul nostro globo, l'unico esempio di onestà, perchè, per ossidarsi, non ha bisogno di assorbire nemmeno l'ossigeno. No, la proprietà che deriva dallo scambio di una data quantità di lavoro con una corrispondente quantità di beni non è un furto. Bensì è un furto, perpetrato contro i lavoratori, il grande capitale, cioè quell'accumulamento di beni in un solo individuo, che non sarebbe possibile procurarsi mai col proprio lavoro, quand'anche questo lo si valutasse esuberantemente.

La minoranza di ladroni, pei quali lavora la generalità, si è potentemente organizzata. La legislazione le presta interi i suoi servigi, perchè da secoli la tiene in pugno. Ogni volta che nei nostri Stati si emana una legge, si potrebbe esclamare con Molière: «Vous êtes orfèvre, monsieur Fosse. Siete un uomo ricco, signor legislatore, ovvero sperate di diventarlo, e perciò dichiarate un delitto tutto ciò che potrebbe porre ostacolo ai vostri godimenti e all'abusar delle vostre ricchezze».

Qualunque cosa oggi un uomo sa appropriarsi, senza ricorrere alla violenza manifesta, diventa e resta cosa sua. Quand'anche si facesse la genealogia di una ricca fortuna e si scoprisse che ha origine da una vera rapina o da ladroneccio (conquista, incameramento di beni ecclesiastici, confisca per causa politica), ciò non ostante, quella fortuna sarà un'ineccepibile proprietà, se il possesso conterà un determinato numero d'anni. Ma la legge, che fa agire i carabinieri, non basta al milionario: egli ha contratto altresì alleanza con la superstizione. Egli ha chiesto alla religione una serratura per la sua cassa-forte, introducendo nel suo catechismo la frase: la proprietà è sacra, e dichiarando il peccato punito col fuoco dell'inferno, anche il solo desiderio della roba altrui. Per assecondare i suoi egoistici fini, egli falsa perfino la morale, predicando, con sorriso represso, alla moltitudine sfruttata che il lavoro è una virtù e che unico scopo dell'uomo è lavorare più che può. Come mai avviene che a questa scipitaggine diano credito, da migliaia d'anni, le menti più elevate e più oneste? Il lavoro una virtù? In forza di qual legge naturale? Nessun organismo in tutto il creato lavora unicamente per lavorare; lo scopo d'ogni organismo è la conservazione propria e quella della specie, e lavora solo quanto occorre per conseguire questo duplice fine. Si sostiene che gli organi mantengonsi sani, e sviluppansi soltanto se lavorano e deterioransi se scioperano. I difensori di questa morale arcicapitalistica hanno preso quest'argomentazione dalla fisiologia; ma passano sotto silenzio che gli organi si guastano molto più per eccesso che per mancanza di lavoro. Il riposo e un ozio piacevole sono per l'uomo, come per qualunque altro animale, assai più naturali, gradevoli e desiderati che il lavoro e le fatiche, che d'altro non sono che penose necessità imposte per la conservazione della vita. Questa cosa l'ha schiettamente sentita, con la sua ingenuità, l'autore della biblica leggenda sul paradiso terrestre, nel quale ei fa vivere i primi uomini senza fatiche in uno stato di primitiva beatitudine, e mostra come il sudore della fronte, prodotto dal lavoro, non sia che il grande castigo di un peccato commesso. Una morale naturale e fisiologica dichiarerebbe che il riposo è il premio massimo, e non renderebbe desiderabile e glorioso se non quel tanto di lavoro che è indispensabile per vivere. Ma questa morale non sarebbe utile agli sfruttatori, il cui interesse invece esige che la massa del popolo produca più di quello che essa consuma e lavori più di quello che le è necessario, acciocchè essi possano impossessarsi della eccedenza dei prodotti. Per ciò hanno soppressa la morale naturale e ne inventarono un'altra, la quale viene dai loro filosofi spiegata, dai loro predicatori esaltata, e cantata dai loro poeti; e, secondo questa morale, l'ozio è il padre d'ogni vizio e il lavoro è una virtù, anzi la più nobile delle virtù.

Gli sfruttatori però si contraddicono in un modo molto imprudente. Innanzi tutto essi non si assoggettano al loro codice di moralità, e così provano come essi non lo stimino una cosa seria. L'ozio è un vizio, ma solo pel povero. Per gli altri è invece un attributo di superiorità umana e il distintivo d'un rango elevato; e quel lavoro, che l'ambigua loro morale dichiara una virtù, è invece per essi una vergogna e indica una condizione sociale inferiore. Il milionario blandisce l'operaio, ma lo esclude dai suoi convegni. La società, condividendo la morale e il modo di pensare dei capitalisti, ha pel lavoro parole d'elogio, ma al lavorante assegna il rango più basso; bacia la mano guantata e sputa sulla callosa; considera il milionario un semidio e l'operaio un paria. Perchè? Per due motivi: primieramente per forza di idee medioevali; secondariamente, perchè nella nostra civiltà il lavoro manuale è ancora sinonimo d'ignoranza.

Nel medio evo l'ozio era privilegio della nobiltà, cioè della razza superiore dei conquistatori, e il lavoro erano i servizi obbligatori del popolo, cioè della razza inferiore dei vinti e dei sudditi. Chi lavorava confessavasi discendente da uomini che sul campo di battaglia avevano mostrato meno virilità e meno valore; e così l'uomo libero, che viveva di feudo o di spada, aveva per l'uomo del lavoro quel dispregio e quell'opinione, che ha l'uomo bianco per l'uomo selvaggio o pel Papuano e che provengono dalla coscienza della propria superiorità antropologica. Oggi però l'ozio e il lavoro non sono più un marchio di razza. E come i milionari non sono più i discendenti di un ceppo di conquistatori, così il proletario non è più il figlio del popolo vinto. Però su questo proposito, come del resto su tanti altri, il pregiudizio storico sopravvisse alle circostanze dalle quali è scaturito, di maniera che il ricco, che ai giorni nostri vive alle spalle del povero e lo fa lavorare per sè, non differenzia dal nobile dei secoli passati, che considerava il suo servo come una specie di animale domestico e mai e poi mai un uomo simile a lui.

Nella nostra civiltà il lavoro manuale è eziandio sinonimo d'ignoranza, infatti tutta l'organizzazione dell'odierna società rende inaccessibile la coltura superiore al nullatenente. Il figlio del povero può tutt'al più frequentare le scuole primarie, ma non il ginnasio, nè l'università, perchè, bisognoso di guadagno, è costretto a noleggiare le sue forze al primo che si presenta. Nell'esempio che ora esporrò si potrà ammirare la ragionevolezza delle istituzioni esistenti. Le costose scuole superiori sono pagate dallo Stato, cioè dai contribuenti, e quindi tanto dai lavoratori, dai proletari, quanto dai milionari: ma non possono valersene che coloro i quali posseggono per lo meno tanto da poter vivere fino a 18 o a 23 anni, senza bisogno di lavorare. Il proletario, appunto perchè è povero, non può far dare al proprio figlio l'istruzione superiore, ma contribuendo esso alle imposte, con la quali mantengonsi le scuole secondarie e superiori, agevola al figlio del ricco il compimento degli studi. Un po' più logici sono gl'inglesi e gli americani. Le loro scuole superiori, essendo pur esse inaccessibili alla generalità, non sono mantenute a spese della generalità, ma sono o private istituzioni, oppure vivono di lasciti. Ma negli Stati continentali si è fedeli al sistema di sfruttare il popolo a favore di una piccola minoranza; e quindi l'insegnamento superiore si nutre a spese del bilancio, vale a dire con le imposte di tutti, quantunque i suoi beneficî non favoriscano che un numero di privilegiati infinitamente piccolo a rispetto dell'intera popolazione. E chi sono questi privilegiati, pei quali lo Stato coi denari della generalità mantiene ginnasi, scuole tecniche, facoltà universitarie, che costano tanti milioni? Sono forse gli uomini più istruiti e capaci di una generazione? Provvede lo Stato che l'ingresso nelle aule de' suoi istituti non si conceda che a coloro, i quali sappiano trar profitto delle lezioni dei professori tanto largamente stipendiati? Ha egli guarentigie che i banchi delle scuole, che dovrebbero essere occupati soltanto da cervelli intelligenti, non vangano invece tenuti anche da teste di legno? No: lo Stato, che non a tutti, ma solo a pochi impartisce il suo insegnamento, non fa la scelta pensando che il più intelligente debba avere diritto ad una istruzione più estesa: egli invece non prende in considerazione che lo stato economico dello studente. Un imbecille qualunque può frequentare ginnasi e università, e assorbire, senza utilità pubblica alcuna, il nutrimento intellettuale che vi si imparte, purchè sia fornito di mezzi pecuniari bastevoli alle spese occorrenti. Viceversa, un giovinetto intelligentissimo non sarà ammesso all'insegnamento superiore se gli manchino i mezzi pecuniari: e ciò potrebbe essere un vero danno pubblico, perchè la società avrebbe forse potuto avere in quel giovinetto un grande letterato, un grande scienziato o un grande filosofo.

In tal modo gli inconvenienti sociali ed economici concatenandosi, formano un circolo vizioso, che non ha uscite. Il proletariato è sprezzato, perchè non è istrutto, ed egli non può istruirsi, perchè l'istruzione costa denari, che egli non ha. I ricchi, rigettando i poveri, hanno serbato per sè non solo tutti i privilegi economici, ma benanco gli intellettuali. I beni più eccelsi della civiltà – la coltura della mente, la poesia, le belle arti – non sono realmente goduti che dai ricchi. E il sapere è uno dei privilegi più alti e più superbiosi. Quando un figlio nelle classi inferiori, a forza di astinenze e di umiliazioni, a forza di elemosine e di sforzi sovrumani, riesce a fornirsi di una coltura superiore e ad ottenere una laurea accademica, ei non torna più al lavoro de' suoi padri, nè combatte per distruggere il pregiudizio che assegna nella società l'ultimo rango ai lavoratori manuali, il che potrebbe ben fare, mostrando in sè stesso l'esempio di un operaio, che sta al pari della coltura di molti funzionari sciupatori d'inchiostro e di professori sepolti nei loro gabinetti; ma anch'egli questo neo-soddisfatto, s'affretta invece a rinfrancare quel pregiudizio; perchè ei pure dispregia ora il lavoro manuale. Anch'esso crede di aver diritto di assidersi in mezzo ai privilegiati e di farsi mantenere dalle classi lavoratrici, come tutti gli altri membri delle classi superiori. V'hanno mestieri nei quali, con un po' di talento si guadagnano da 3 a 4 mila lire annuali e v'hanno nove decimi degli impieghi nell'amministrazione dello Stato e dei Comuni, nelle ferrovie e nel commercio, che dànno da 1200 a 2500 lire annuali e un'indipendenza minore di quella che dànno quei mestieri. Eppure l'uomo colto preferirà sempre 1500 lire con la schiavitù burocratica a 3000 lire con l'indipendenza, imperocchè, come impiegato, appartiene alla società privilegiata, ad un circolo speciale di semi-saccenti, mentre che, come operaio, vivrebbe fuori dalle caste del gran mondo e sarebbe trattato come un barbaro, perchè non respira l'atmosfera intellettuale delle persone colte. Il giorno però in cui un uomo istrutto si mettesse al pancone a piallare, oppure si vedesse un operaio dal grembiale di cuoio con un Orazio in mano o in un convegno artistico un laureato, divenuto magnano o calzolaio, lo si udisse ragionare come un segretario o un magistrato, le cose muterebbero aspetto, perchè il lavoro onesto è sempre decoroso, sia che produca delle vesti o costruisca delle ferrovie, e perchè l'ingegnere non potrebbe pretendere privilegi maggiori di quelli del sarto, quando egli non avesse una coltura maggiore di quella del sarto stesso. Ma l'uomo colto nulla fa per stabilire questo ragionevole stato di cose; per lui il camiciotto e la giacchetta sono l'uniforme del bracciante, e piuttosto che satollarsi vestito a quella foggia, patirà la fame con un logoro abito nero indosso. Da ciò risulta una delle più minacciose forme della questione sociale, cioè la sovrabbondanza delle professioni liberali. L'uomo colto non si accomuna colla gente bassa, cioè coi braccianti, perchè ha troppo alta opinione di sè – e così infatti deve pensare, date le attuali nostre usanze –, perciò alla società domanda ch'essa lo sostenga. Ma la società non ha che limitate risorse per quella specie di lavoro, che oggi fa l'uomo laureato, e perciò nei vecchi paesi civilizzati la metà delle persone, a cui fu conferito il grado di dottore, è condannata per tutta la vita a sperare, a desiderare, a lottare per un tozzo di pane, a patir la fame e a stringere la cintola davanti al desco dei 10 mila privilegiati preferiti. V'hanno filantropi che reputano un beneficio la guerra e la peste, perchè sfollano e creano ai superstiti un'esistenza migliore, e giudicano che l'istruzione sia un male e denunziano come un attentato contro il benessere del popolo l'incremento delle scuole secondarie e superiori, perchè accrescono il numero degli spostati, dei malcontenti e dei futuri petrolieri e facitori di barricate. E non parlano a torto, stando le cose come sono oggi. Fino a tanto che l'uomo colto crede di avvilirsi, dandosi ad un lavoro manuale, perchè l'operaio è dispregiato; fino a tanto ch'esso vede nel suo diploma un titolo per esser beneficato dalla società, e, per cagione della sua coltura, si crede autorizzato a condurre la vita parassitica del ricco, cotesta sua coltura, gli darà, cinque volte su dieci, un'infelicità maggiore assai di quella che esso avrebbe se fosse un artigiano od anche un bracciante soltanto. A ciò non si rimedia che ridonando alla coltura il suo carattere naturale. Essa deve diventare scopo a sè medesima. Bisogna che trionfi l'idea che la coltura è, da sè, premio sufficiente agli sforzi fatti per acquistarla, che non si ha diritto alcuno di chiedere altro premio per questi sforzi e che cotesta coltura non esime dal dovere di darsi a un lavoro produttivo. L'uomo colto, messo a confronto coll'ignorante, ha della propria personalità una cognizione più chiara e completa, meglio comprende i fenomeni del mondo e della vita, tutte le bellezze dell'arte, e tutte le compiacenze intellettuali gli sono aperte, la sua esistenza è più vasta e più intensa. Ed è certo ingrata cosa l'esigere che la coltura, la quale tanto sublima la vita dello spirito, faccia anche il pane, che è opera necessariamente delle mani. In ogni modo, quand'anche all'uomo còlto incombesse, da una parte, di non disprezzare mai la diretta produzione delle merci e delle derrate, ei dovrebbe d'altra parte far sì che la coltura si elargisse a tutti i capaci, proporzionatamente alle attitudini di ciascuno. L'istruzione obbligatoria, è un primo passo, ma ancor debole. Infatti, come si può oggi costringere poveri genitori a mandare i loro figli a scuola fino all'età di 10 o 12, anni, e a nutrire e a vestire questi loro bimbi; mentre hanno bisogno di farli lavorare, per trarne mezzi di sostentamento? Di più: è egli giusto, è egli logico che lo Stato dica: «Tu devi imparare a leggere e a scrivere, ma non devi andare più oltre?» E perchè l'istruzione obbligatoria si limita alle scuole elementari? Perchè non si estende alle scuole superiori? L'ignoranza o è un difetto pericoloso all'individuo, non solo, ma anche alla società, oppure non lo è. Se non lo è, perchè obbligare allora i fanciulli all'istruzione elementare? E se lo è, perchè non cercare di correggere quel difetto, concedendo anche a quei fanciulli un'istruzione integrale? La conoscenza delle leggi fisiche non è forse tanto preziosa quanto quella dell'abaco? Il futuro elettore, che deve cooperare alla buona ventura della patria, non ha forse d'uopo di sapere la storia, la politica, l'economia sociale? Non sarà sempre scarso l'utile che egli avrà dal saper leggere e scrivere, se non gli si insegni altresì a comprendere i lavori classici della poesia e della prosa? Perciò occorre almeno l'istruzione secondaria. E allora, perchè non estendere l'istruzione obbligatoria alle scuole secondarie? Ma siamo sempre di fronte ad una difficoltà materiale. Il povero, che a stento mantiene il suo figliuoletto fino al termine delle scuole elementari, non ha assolutamente i mezzi per addossarsi il carico del suo sostentamento fino ad un'età più avanzata, cioè fino ai 18 o 20 anni. Egli è costretto ad utilizzare la forza di lavoro del fanciullo con la maggior sollecitudine possibile. A fine di generalizzare l'istruzione secondaria tanto quanto la elementare, occorrerebbe organizzare il lavoro dei giovani come in certi istituti degli Stati Uniti, ove, coll'aiuto anche d'istituzioni filantropiche, gli allievi, assieme allo studio, esercitano con buona riuscita l'agricoltura od altro mestiere, per poter vivere col frutto del loro lavoro; oppure occorrerebbe (e ciò sarebbe ancor meglio) che i Comuni provvedessero non solo all'istruzione, ma ben anco, al completo mantenimento della scolaresca. Ma questo sarebbe puro comunismo, esclameranno sdegnosamente i sostenitori dell'attuale nostro sistema economico, che è l'egoismo organizzato. Per far loro il piacere di non pronunciare l'orribile parola, potrei dire: no, non sarebbe comunismo, ma solidarietà. Io però sdegno di nascondere i miei pensieri. Sì, sarebbe un frammento di comunismo. Ma non siamo oggi forse in pieno comunismo? Non è forse comunismo, quando lo Stato somministra l'istruzione ai fanciulli dai 6 ai 12 anni? Non è forse questo un nutrimento, perchè è nutrimento intellettuale? E non si spendono danari per esso? E non è la generalità forse che paga? E l'esercito? Dite: non è comunismo cotesto? Chi è, se non la generalità, che fornisce rancio, caserma e vestiario a tutta una generazioni di giovani dai 18 a i 25 anni? E perchè dovrebbe essere più difficile e irragionevole mantenere un milione di fanciulli dalla scuola elementare fino all'università, quando si mantiene già, col danaro pubblico, un mezzo milione di giovani durante il loro servizio militare? La spesa? Ma essa non sarebbe maggiore di quella dell'esercito. E se importa che ci sia un esercito per la sicurezza e il benessere di una nazione, non importa meno che ci sia un'istruzione superiore per tutta la generazione degli adolescenti. Del resto, non si potrebbero anche unire i due scopi? Non si potrebbe vestire e nutrire tutta la gioventù maschile fino all'età di 17 o 18 anni, impartendo ad essa l'istruzione elementare, secondaria e militare nel tempo stesso? Sostituendo in tal modo braccia robuste di lavoratori dai 20 ai 23 anni alle braccia meno utili dei fanciulli, il lavoro nazionale prospererebbe e il vantaggio che ne trarrebbe la generalità compenserebbe le spese di un esercito di alunni, anche se maggiori di quelle dell'esercito attuale, che è formato dalle forze meglio sviluppate ma costrette alla improduttività per parecchi anni.

Per sistemar bene questo ordinamento, bisognerebbe però provvedere ad un'altra istituzione. Non tutte le menti sono capaci di un'alta ed estesa coltura. Quando lo Stato si curasse esso della gioventù scolastica e somministrasse l'istruzione anche al figlio del più povero, dovrebbe anche badare che il beneficio non venisse concesso se non a coloro che ne fossero degni e che ne potrebbero trarre profitto. Alla fine d'ogni anno scolastico bisognerebbe fare in ogni classe rigorosi esami di concorso, e solo i vincitori aver dovrebbero il diritto di passare ad una classe superiore. In tale guisa, a seconda delle singole attitudini, ciascuno avrebbe l'istruzione che gli si confà; gli individui senza talento avrebbero l'istruzione elementare; i talenti mediocri l'istruzione secondaria; i talenti egregi frequenterebbero le scuole superiori, le facoltà scientifiche, tecniche e artistiche. Così l'istruzione superiore non sarebbe più un privilegio dei ricchi, ma un beneficio aperto anche al popolo: il camiciotto del lavorante, più non accuserebbe rozzezza in chi lo indossa e l'uomo laureato non crederebbe più di avvilirsi, domandando il suo sostentamento alla produzione generale. Per tal modo si eviterebbe nelle professioni liberali, un numero eccessivo di mediocrità pretensiose e ingiustificabili, e in pari tempo il talento vero, obbligato a dare, attraverso una dozzina di esami, prove sempre crescenti della sua valentìa, troverebbe dopo l'ultimo esame, nel suo diploma la sicurezza di onesti guadagni; oltracciò scomparirebbero gli spostati, la miseria più non si vedrebbe nelle classi colte e sarebbe così guarita una delle più pericolose piaghe del corpo sociale.

Accanto alla minoranza dei ricchi oziosi, che vivono del prodotto dei lavoratori, e accanto a quel gruppo di disutili, i quali credono che la laurea dia loro il diritto di gozzovigliare al pari dei milionari, abbiano visto, nel quadro delle nostre condizioni economiche, l'industre lavoratore nullatenente e disgiunto dalla zolla, che potrebbe nutrirlo naturalmente. Cotesto proletario è una ben dolorosa figura in mezzo alla nostra vantata civiltà, è una critica tremenda alla nostra coltura! Si citano sovente le parole di La Bruyère, quando descrive il contadino servo, tal quale era ai suoi tempi in Francia: «una specie di animale cupo, pauroso, macilente, che dimora in grotte, che vive d'erba, che posa come i quadrupedi, tutto coperto di stracci, e che fugge spaventato quando gli si avvicina l'uomo, benchè egli pure abbia viso umano e sia un uomo». Questa descrizione si può applicare anche al proletario dei nostri giorni. Miseramente nutrito quasi sempre di patate e di rimasugli di carne in forma di salsiccia, avvelenato dall'acquavite, alla quale ei chiede l'illusione di un menzognero rifacimento di forze e la sensazione della sazietà, mal vestito, e infagottato così stranamente da essere, anco da lontano, ravvisato quale egli è, cioè un povero, un reietto, condannato al sudiciume del corpo per difetto di tempo e di danaro, egli dimora nei più sporchi e oscuri angoli delle grandi città. Non solo non ha parte ai migliori prodotti della terra, ma persino la luce e l'aria, che pare esistano indistintamente per tutti gli esseri viventi, gli vengono concesse a spilluzzico od anche totalmente negate. Il nutrimento insufficiente e l'esorbitante consumo delle sue forze lo dissanguano in siffatto modo, che i suoi figli nascono rachitici ed egli stesso soggiace innanzi tempo ad una morte, preceduta spesse volte – così non fosse! – da lunghe malattie. L'abitazione malsana fa di esso e della sua prole altrettante vittime della scrofola e della tubercolosi. Come la sentinella degli avamposti è assalita per la prima dal nemico, così egli è il primo ad essere assalito da tutte le malattie contagiose. Peggiore di quella dello schiavo antico è la sua condizione, perchè se, come lo schiavo, egli è oppresso, e come lo schiavo soggetto al padrone e all'autorità, non è però mai sicuro, con tutta la grande libertà concessagli, di avere stalla e foraggi al pari degli animali domestici. Ai suoi antichi compagni di sventura, in una cosa sola è superiore: i tempi moderni gli dànno l'amara coscienza della dignità umana e dei diritti naturali. Il suo stato è anche peggiore di quello del selvaggio delle foreste vergini dell'America e delle praterie dell'Australia, perchè se, come il selvaggio, è abbandonato alle sole sue forze e deve vivere alla giornata, non ha però mai, quando la fame lo punge nei giorni inoperosi, la soddisfazione che provano almeno gli animali e i selvaggi lottando, colla pienezza delle loro forze fisiche e intellettuali, contro le forze della natura: di più egli è costretto a prelevare dal suo misero guadagno una parte a favore della società, la quale poi lo contraccambia con catene e percosse. La civiltà, che a tutti ha promesso libertà e benessere, a lui solo non mantiene la parola: egli infatti è escluso dai migliori suoi beneficî. Nei suoi tuguri l'igiene moderna, che fa tanto ridente la casa dei benestante, non penetra; nelle ferrovie gli si assegnano posti nei quali viaggia peggio di quando viaggiava a piedi o sul carretto tirato da una vecchia rôzza; i beneficî del progresso della scienza non li intende; le produzioni delle arti belle, le classiche opere dei poeti suoi connazionali non lo allettano, perchè non educato a comprenderle; la stessa macchina, ch'essere doveva per lui un beneficio, non alleggerì il suo giogo, ma lo fece più pesante. È certo un vantaggio pel benessere della umanità il far compiere dalle forze della natura i lavori più materiali, perchè l'essenza e il sublime dell'uomo non stanno nei suoi muscoli, ma nel suo cervello. Come forza fisica infatti l'uomo è inferiore al bue e al mulo; e quando a lui altro non si domanda che un lavoro meccanico, lo si abbassa fino al livello delle bestie da soma. La macchina fino ad ora non è stata il liberatore, il salvatore, il redentore dell'operaio; al contrario, essa lo ha posto sotto il suo giogo, perchè essendo l'operaio escluso dal possesso terrenale, egli non può trarre direttamente dalla natura i prodotti che gli sono necessari e quindi è costretto a vendere all'industria la sua forza muscolare. E così è ridotto ad essere un rivale della macchina, ma di essa meno forte, meno perfezionato e meno apprezzato. La solidarietà del genere umano egli non la sente che pei doveri che gli impone; ma non gli dà diritti. Quando più non potrà utilizzare le sue forze muscolari, e malattia o debolezza senile lo faranno invalido a un lavoro produttivo, la società si incaricherà allora di provvedere a lui; gli si farà elemosina se mendica, lo si coricherà in un letto d'ospedale se è colto dalla febbre, lo si ricovererà talora anche in un ospizio se cadente per tarda età, ma tutto ciò la società lo farà brontolando e col piglio della noia. A questo suo malgradito ospite essa largisce assai più umiliazioni che cibo, e se, pressata da gemiti e lamenti, da una parte lo sfama e ne copre le nude carni, dall'altra lo avverte che è cosa vergognosissima l'accettare quei benefici dalle sue mani e che essa non può che avere un profondo disprezzo per lo sciagurato che ricorre alla sua generosità. Comunque sia, il proletario non può assolutamente provvedere a sè stesso quand'è o disoccupato o infermo o vecchio. Come potrebbe far risparmi colui che non riesce nemmeno a guadagnarsi la vita? Un prezzo che gli dia più di quanto è strettamente necessario ai suoi bisogni egli non lo può chiedere per la sua giornata di lavoro, perchè stragrande è il numero dei diseredati, perchè il pauperismo si allarga sempre più in mezzo alle moltitudini, e per necessaria conseguenza sorgono i concorrenti che, pel loro lavoro, accontentansi di un salario appena bastevole a non farli morir lì d'inedia. Nè il proletariato è da tanto per mutar esso questo stato di cose. Nulla gli giova la sua operosità, perchè, per quanto egli si affatichi, non riescirà che ad appagare appena i suoi indispensabili bisogni, essendo sottinteso che alla massima attività impiegata dall'operaio nel lavoro non corrisponde che un misero salario. Il suo stato va di male in peggio, più ei lavora: sembra un paradosso, ma è una verità. Se egli produce dippiù, i prodotti calano di prezzo, e il salario, o non varia, o diminuisce, e così egli guasta il suo mercato e fa scemare il prezzo della sua forza produttrice. Questo fenomeno non sarebbe possibile se la produzione della grande industria fosse determinata in modo proporzionato alla domanda. Non ci potrebbe allora essere mai sovrabbondanza di produzione; il prezzo delle merci non ribasserebbe per causa del soverchio e l'operaio riceverebbe, per lavoro maggiore, premio maggiore. Ma il capitalismo falsa questa naturale tendenza delle forze economiche. Un capitalista impianta una fabbrica e produce merci, non già perchè egli abbia la convinzione che ve ne sia vero bisogno, ma solo perchè possiede un capitale che egli vuol far fruttare e perchè conosce un tale che colla sua fabbrica si è arricchito. Ed ecco che alle leggi economiche si sostituisce il capriccio individuale o l'ignoranza e sul mercato affluisce sovrabbondantemente una merce, perchè un individuo alla caccia di milioni ha smarrito la via giusta. Ma cotesto errore si vendica: il fabbricante è costretto a ribassare i prezzi fino a non essere più rimuneratori, e si rovina trascinando seco altri fabbricanti della stessa arte. Di qui una crisi parziale o generale in un ramo d'industria. La vittima vera però è sempre l'operaio, perchè egli dovrà ribassare il prezzo della sua opera ed accrescere il suo lavoro a mano a mano che va esaurendosi il capitale del fabbricante, e alla fine di questa lotta impari fra domanda e offerta, e nella quale l'offerta resta schiacciata, l'operaio non avrà dinnanzi a sè che una più o meno lunga mancanza di pane. Sono queste le parti che nella grande industria compiono l'operaio e il capitalista.

Quello facilita a questo l'accumulamento di potenti capitali; i capitali cercano frutti e lusingansi di trovarli investendoli in nuove fabbriche, e così, si arriva, prima ad una sopraproduzione e ad una concorrenza spietata col relativo ribasso nei prezzi delle merci e nei salari, e poscia alla crisi che priva l'operaio d'ogni guadagno. Lo schiavo industriale arricchisce innanzi tutto il suo padrone, e come compenso dapprima gli si diminuisce il pane e alla fine glielo si toglie del tutto. Si potrebbe illustrare meglio la giustizia delle nostre condizioni economiche?

III.

La prima questione, che si affaccia come corollario di quanto abbiamo detto, è questa: la situazione economica deve proprio essere così come è? Siamo noi dinnanzi ad immutabili leggi di natura o a conseguenze di sciocchezze e dappocaggine umane? Perchè una minoranza tripudia godendo beni, alla produzione dei quali non ebbe parte? Perchè una classe d'uomini che si conta a milioni, è condannata alla fame e alle privazioni? Qui sta il nodo della questione che dobbiamo sciogliere. Si vuol sapere se i bisognosi debbano patir la fame, perchè la terra non produce tanto nutrimento da essercene anche per loro, oppure perchè questo nutrimento – che c'è per tutti – non giunge fino a loro. Questa ultima supposizione è da scartarsi. Se il buon nutrimento fosse in realtà tanto abbondante, la parte che spetterebbe ai poveri, ma che essi infatti non possono avere, dovrebbe avanzare intatta. La esperienza ci dice che le cose non corrono in tal modo. Ogni anno si consuma l'intero raccolto delle granaglie e d'ogni altra specie di derrate alimentari, sicchè quando si fa il nuovo raccolto, il vecchio è quasi sempre consumato senza che l'umanità tutta abbia potuto soddisfare con esso i suoi bisogni. Non si è invero mai sentito che le granaglie siano state mangiate dai vermi per non sapere a chi darle, o che la carne sia imputridita per mancanza di acquisitori. Certo che i ricchi fanno un consumo di beni superiore a ciò che a loro necessita e a ciò che i bisogni dell'organismo richiedono, ma fra tutti questi beni, i viveri, che pur tanto importano, non sono che una ben piccola cosa; è per appagare i suoi capricci, il suo orgoglio, la sua vanità, che il milionario fa scialacquo dei prodotti, del lavoro; egli getta via abiti che sono ancora usabili; erige palazzi inutili ch'egli riempie di cose superflue; distoglie gente da un lavoro utile per mantenerla in un ozio demoralizzante nella qualità di uomini di servizio o di dame da corteggio, oppure in occupazioni di mera apparenza nella qualità di cocchieri, cacciatori, ecc.; ma per quanto concerne le materie alimentari egli consumerà, pur facendo la vita più intemperante, tutto al più il quadruplo di ciò che sarebbe necessario per soddisfare i suoi bisogni organici. Supponiamo che di questi scialacquatori ce ne sia un milione nel mondo civile e che, colle loro famiglie, formino 5 milioni di individui; questi 5 milioni di individui consumerebbero viveri pel valore di 20 milioni; si sottragga da questa somma la porzione che naturalmente a loro spetta, e si avranno 15 milioni che toccar dovrebbero ad altre persone. Da ciò risulta, o che per 15 milioni d'uomini non ci sarebbe nutrimento alcuno, o che 30 milioni non potrebbero procacciarsi che la metà di ciò che sarebbe loro necessario. Ma il numero dei poveri e dei miserabili, nella sola Europa, si può tenere come certo il doppio della cifra suddetta; è 60 milioni. Quindi non resta a dire che una cosa, cioè che la terra non produce nutrimento sufficiente per tutti e perciò una parte della umanità è irremissibilmente condannata alla miseria fisiologica.

È questa una conseguenza di condizioni naturali? Se la terra non produce maggior quantità di derrate, è perchè è impossibile? Neppur per ombra. Se essa non dà sussistenze maggiori, è perchè ad essa non si richiedono. Quando alla morale capitalistica si affacciò il problema della sproporzione fra le bocche affamate e le cose esistenti e indispensabili per sfamarle, essa non si prese molta pena per scioglierlo e un buon Malthus saltò su a dire ingenuamente: «La terra non è più atta a nutrire la massa delle popolazioni? Bisogna allora diminuire questa massa». E predicò la non-procreazione, ma solo per i poveri. Poco mancò che egli proponesse la castrazione di ogni nato senza rendite e la riforma della società umana, prendendo a modello l'associazione delle formiche o delle api, nelle quali alcuni individui soltanto hanno il privilegio della procreazione, mentre tutti gli altri non hanno sesso, e sono obbligati a lavorare per gli individui integralmente sviluppati. In siffatto ordinamento sociale il milionario avrebbe la fortuna di godere tutti i beni della vita. Ma a Malthus e ai suoi seguaci non è mai venuto in mente di capovolgere il ragionamento e dire: «La quantità degli alimenti è insufficiente all'umanità? Bisogna dunque trovare il modo di aumentare gli alimenti». Eppure questo rimedio non lo si dovrebbe poi credere tanto difficile. O che ci sarebbe davvero un uomo, il quale sappia dove ha la testa, che oserebbe asserire impossibile l'accrescimento della produzione alimentare sulla terra? Ad un individuo di tal fatta si potrebbe rispondere con alcune cifre. L'Europa nutrisce 316 milioni d'abitanti su 9.710.340 chilometri quadrati, il che vuol dire che li nutrisce molto scarsamente. Essa importa grandi quantità di derrate e di carni dalle Indie, dal Capo, dall'Algeria, dall'America e dall'Australia, e dei suoi prodotti alimentari, per lo più, non esporta che vino: orbene, malgrado queste sovvenzioni di viveri, che ci vengono da altri paesi, una grande parte delle nostre popolazioni è nella miseria. In genere l'Europa sembra dunque incapace di nutrire più di 32 individui per ogni chilometro quadrato. Ma il Belgio con una superficie di 29.455 chilometri ha 5.536.000 abitanti: in questo paese dunque un chilometro quadrato basta per nutrire 200 individui; il che è il sestuplo della media proporzionale che ci dà l'Europa. Se tutto il suolo europeo fosse coltivato come quello del Belgio, invece di nutrire 316 milioni di bisognosi, potrebbe nutrire 1950 milioni d'individui, cioè un numero d'uomini molto maggiore di quello ora esistente nel mondo intero: oppure, ognuno di questi 316 milioni di europei dovrebbe avere d'alimenti il sestuplo di ciò che ciascuno potrebbe consumare, anche a misura abbondante. Ma ci si potrebbe movere questa obbiezione: il Belgio non produce quanto gli occorre e deve importare dei viveri di cui abbisogna. – Sta bene. Supponiamo pure che il Belgio comperi da altri paesi un quarto dei viveri di cui abbisogna. In questo caso esso nutrirebbe coi propri prodotti 150 individui per ogni chilometro quadrato. E l'Europa, intera dovrebbe allora nutrire 1458 milioni, cioè un numero d'uomini che sarebbe sempre maggiore di quello ora esistente nel mondo. Prendiamo un altro esempio. La China (propriamente detta) ha una superficie di 4.024.890 chilometri quadrati, e 405 milioni d'abitanti. Ogni chilometro quadrato, dunque nutrisce più di 100 individui, e completamente, perchè la China non solo non importa viveri, ma esporta grandi quantità di riso, conserve, the, ecc., ecc. E la fame e la miseria in China, stando all'unanime testimonianza dei viaggiatori, si hanno solo nelle annate di insufficiente raccolto e si devono imputare non già a una generale deficienza di viveri in tutto l'impero, ma bensì agli scarsi mezzi di comunicazione. Dunque, se l'Europa fosse coltivata come la China, potrebbe sempre nutrire 1000 milioni d'individui, invece dei suoi 316 milioni, centinaia di migliaia dei quali emigrano ogni anno in altre parti del mondo, tanto è il loro malessere.

E perchè allora non si domanda al suolo un reddito maggiore, giacchè l'esperienza ci insegna che lo può dare? Perchè non si cerca di produrre tanti viveri da rendere possibile agli uomini il nuotare nell'abbondanza? Rispondiamo che il perchè è uno solo, ed è che il capitalismo ha dato alla nostra civiltà uno sviluppo parziale e irrazionale. Esso spinge gli uomini verso l'industria e il commercio e li distoglie dalla produzione agricola. Da un secolo la scienza ufficiale dell'economia politica, datasi a far da giullare cortigiano alla egoistica società del capitale, deride, come un ingenuo errore, la dottrina fisiocratica, la quale insegua che i prodotti dalla terra sono l'unica vera ricchezza d'un paese. Alla stessa guisa che il figlio dei campi abbandona la zolla, rinuncia alla libertà della natura campestre e dà un addio all'abbondanza di luce ed aria per cacciarsi, con una specie di tendenza suicida, nelle micidiali prigioni dell'opificio e del quartiere operaio delle grandi città, il civile consorzio, in generale, si allontana sempre più dall'alma terra e si ficca dentro al recinto della grande industria, ove il respiro vien meno e si muore d'inedia. È all'industria che volgonsi il genio umano e la mente inventiva, tutti i pensieri e tutte le indagini, la perseveranza e i tentativi. Vediamone i risultati: macchine sempre più meravigliose, metodi di lavoro sempre più perfezionati, produzione industriale sempre crescente. Ma alla produzione agricola, forse, neppure un ingegno inventivo si consacra su cento. Se a cotesta produzione si dedicasse la metà soltanto delle indagini e delle invenzioni che si dedicano all'industria, non sarebbe possibile tanta miseria fisiologica nel mondo. È tanto negletto questo importantissimo ramo dell'attività umana che, a ciò pensando, si è presi da raccapriccio. Sommamente inciviliti in fatto d'industria, in agricoltura siamo barbari medioevali. Giustamente orgogliosi, perchè, con perspicacia mirabile sappiamo adoprare e utilizzare per l'industria rimasugli dei più infimi e apparentemente senza valore, lasciamo in pari tempo che la metà almeno dei rigetti della nutrizione umana scorra, senza profitto alcuno, nelle fogne della città e di là nei fiumi che s'inquinano e nel mare che in pesci ed altri animali non ci rende poi la millesima parte di ciò che da noi riceve. Se deplorevole è questo sperpero di milioni di tonnellate di avanzugli preziosi, egli è però anche ridicolo, quando lo si metta a riscontro colla parsimonia che in una fabbrica di prodotti chimici si fa di una stilla d'acido solforico, o colla premura compassionevole che spiega un inventore, affine d'avere la patente allorquando è riescito a trovare un processo per utilizzare dello spazzatume di fabbrica. Ci vantiamo di avere assoggettate le forze della natura e stiamo inerti davanti a milioni di chilometri quadrati di terre incolte, quantunque teoricamente si sappia che non c'è terreno condannato in modo assoluto alla sterilità e che ogni zolla, foss'anche formata di chiodi o di ghiaia, può diventare ubertosa coll'acqua e il calore, due cose che soltanto ai poli del globo gli uomini non potrebbero procurarsi. Mostriamo con alterezza le miniere di carbon fossile o di rame, nelle quali penetriamo attraverso fori di migliaia di piedi sotto terra e sott'acqua, e non ci vergogniamo di fronte a nude montagne, dalle quali non sa trarre profitto alcuno l'uomo, quell'uomo che ha pur fatto i pozzi delle miniere. Dominiamo i fulmini del cielo e degli inesauribili alimenti del mare, stendentesi su tre quarti del globo, non sappiamo prendere che un nonnulla, equivalente ad un atomo. In un'epoca quale è la nostra, che, dilettandosi, produce le meraviglie meccaniche, come sono le macchine da lavoro e gli strumenti di precisione, dovrebb'egli esservi ancora, e nel bel mezzo dell'Europa, paludi, fiumi senza pesci e terre incolte? Come mai una generazione, sorta dopo Gauss, può essere ancora così indietro nell'aritmetica da non sapere a menadito quanto più costi il soddisfare i nostri bisogni con animali, il cui mantenimento esige prodotti della terra, che il prendere invece i pesci che il mare, (dispensatore di null'altro) ci fornisce belli e pronti, oppure il pollame, il quale non ha bisogno di molti campi o prati e vive lautamente dei nostri rifiuti?

Non voglio dilungarmi di più in particolari. Parmi sufficientemente provato che il lavoro dei campi ha nella nostra civiltà una matrigna. Se l'industria fa cento passi, l'agricoltura non ne fa che uno. Il grande trovato, e che è antico da secoli; per nutrire abbondantemente l'umanità, è, in Europa, l'importazione delle patate, con le quali il proletario può benissimo credersi di satollarsi, ma invece egli non fa che esinanire lentamente il suo corpo per difetto di materia nutritiva. Di più, cotesta importazione permette al capitalista di ridurre al minimo il salario giornaliero del suo schiavo industriale. I frutteti, gli orti, le fungaie mostrano quanto nutrimento possa a noi fornire un piccolo pezzo di terra; l'esperienza ci ammaestra che il lavoro dell'uomo non può essere meglio utilizzato che applicandolo alla coltivazione della terra; e che, lavorando il suolo colla vanga, colla zappa e col potente aratro, probabilmente un metro quadrato di terra potrebbe alimentare un uomo. Eppure noi difettiamo di viveri. Questi poi crescono sempre più di prezzo e l'operaio industriale è costretto ad allungare continuamente la giornata di lavoro per poter sostentarsi. La natura avverte l'uomo ch'egli non può vivere senza il campo e che ne ha bisogno come il pesce ha bisogno dell'acqua; l'uomo vede ch'ei deperisce quando si stacca dalla zolla e che il contadino procrea senza posa e conservasi sano e robusto, mentre la città dissecca il midollo ai suoi abitatori, li rende malaticci e infecondi, e dopo due o tre generazioni li estinguerebbe tutti, diventando essa medesima, in cento anni, un cimitero senz'ombra di vita umana, se i morti non venissero sostituiti dalla immigrazione della campagna, e malgrado tutto ciò egli continua a staccarsi dai campi per accorrere alle città, cioè a fuggire la vita per correre in braccio alla morte. Ma ecco di nuovo il professore di economia politica che, senza scomporsi nel volto, ci predica che il grado di sviluppo della grande industria indica il grado di civiltà di un paese, e che l'industria molto sviluppata è un grande beneficio per una nazione, perchè dà le merci a buon mercato ed anche i più poveri possono procacciarsele. È questa una delle più diffuse e delle più ripetute menzogne capitalistiche. Vada alla malora questa specie di buon mercato! Esso non è un beneficio che per il fabbricante e per il commerciante. Come si ottenga il buon mercato l'abbiamo già detto: con la concorrenza capitalistica a spese dell'operaio: con lo sfruttare senza scrupoli di coscienza e in modo delittuoso il lavoro unano. Perchè la stoffa di cotone abbia l'attuale basso prezzo, bisogna che l'operaio resti incatenato alla macchina 12 e fors'anche 14 ore al giorno. Egli non vive più la vita dell'uomo: la sua esistenza, chiusa fra le squallide mura di un opificio, non è che una sequela di movimenti sempre uguali e automatici. È il solo essere vivente che, durante quasi tutta la sua vita, è costretto a un lavoro contro natura per mantenere il suo organismo. Certamente, sfruttando in tal modo il lavoro umano, il prezzo della merce ribassa; ma la merce diventa più cattiva. Tutta la nostra industria tende a sostituire alle migliori materie prime materie inferiori, oppure a mettere in opera le migliori meno che sia possibile. E perchè? Perchè la materia prima se è di natura organica, deve provenire dal regno animale o vegetale; quindi la non si può ottenere che in contraccambio di non corrispondente valore in lavoro, e perciò è cara. Non la si inganna la terra; essa dà cotone e canape, legna e lino sol quando riceve un non lesinato equivalente di lavoro e di concime; e neppure la vacca e la pecora si lasciano ingannare, perchè non dànno latte, lana, pelli, corna e unghie che proporzionatamente al nutrimento che ricevono. Solo l'uomo è più stupido della terra e più gonzo della pecora e della vacca, perchè dà la sua forza di muscoli e di nervi ricevendo un valore inferiore ad essa. L'intraprenditore quindi ha tutto il tornaconto a scarseggiare nella materia prima, che è a caro prezzo, e a valersi invece largamente del lavoro umano, che è a prezzo tanto basso. E perciò egli adultera la materia prima e ne fa scarso uso, ma alle sue merci dà appariscenza praticando metodi di lavorazione faticosi e complicati, cioè impiegando smoderatamente il lavoro dell'uomo. Se questa stoffa è a basso prezzo, è perchè il fabbricante non è obbligato a dare ai suoi schiavi tutta quella ricompensa, di cui ha bisogno la terra per produrre il cotone. Del resto, non è proprio una necessità che la merce sia tanto a buon mercato. Infatti, più è mite il prezzo e più largo è il consumo della merce. Nella odierna civiltà anche gente povera rinnova sovente e vesti e utensili di casa più del necessario e smette arnesi che si potrebbero ancora usare e che in realtà vengono usati, come ne è prova il grande commercio d'abiti usati, ecc., che si fa coi paesi d'oltremare. L'europeo a fin d'anno, malgrado il basso prezzo, avrà speso così come se la merce fosse stata cara, perchè in quest'ultimo caso l'avrebbe più lungamente conservata. Ecco dunque il risultato pratico di questo buon mercato, che tanto si vanta e che forma l'orgoglio della nostra vita economica. Pel consumatore esso non significa un alleviamento, nè un risparmio, per la ragione che contemporaneamente sviluppasi la tirannica abitudine dello scialacquo. E pel lavoratore è una maledizione, perchè diminuisce sempre più la rimunerazione del lavoro e lo obbliga a maggiori sforzi. Siccome poi ogni uomo, che non sia un ozioso della minoranza, è produttore di una data cosa e consumatore di tutte le altre, così la risultanza del tanto vantato sviluppo della grande industria non è altro che una caccia selvatica, nella quale ogni individuo è, in pari tempo, selvaggina e cacciatore, e finchè ha fiato, corre, ma poi cade esausto colla lingua fuori dalla bocca. Lavoro più lungo e più duro da una parte e sciupìo spensierato e malefico dall'altra – ecco il risultamento immediato della produzione esuberante o a buon mercato. Supponiamo per un istante che tutti i prodotti industriali costassero il quadruplo di ciò che costano oggi, senza variazione alcuna nei prezzi delle derrate, la qual cosa sarebbe possibile se lo sviluppo dell'agricoltura raggiungesse o sorpassasse quello dell'industria. Ove sarebbe il male? Male io non ne vedo: vedo anzi vantaggi grandissimi. Ognuno non rinnoverebbe i suoi vestiti che una volta all'anno in luogo di quattro e gli utensili di casa ogni vent'anni in luogo di cinque. L'operaio industriale riceverebbe pel suo lavoro un salario quattro volte maggiore dell'attuale, il che vuol dire che, s'egli deve oggi lavorare 12 ore per soddisfare i suoi bisogni, otterrebbe il medesimo risultato con un lavoro di 3 ore. È vero che il bilancio sarebbe lo stesso, perchè le spese del consumatore non sarebbero diminuite, ma si avrebbe questo grandissimo vantaggio: l'operaio, cioè lo schiavo da galera, diventerebbe un uomo libero. Potrebbe godere quel supremo lusso, di cui oggi è spogliato; la ricreazione. Il che vuol dire: partecipare agli squisiti piaceri della civiltà; frequentare musei e teatri; leggere, conversare, formare progetti e prendere il posto che gli spetta, accanto agli altri uomini. Bisogna oggi gridare agli operai: – Voi siete nell'abisso di un circolo vizioso. O emanciparvi o perire. Oggi quanto più lavorate, tanto meno costano i vostri prodotti, tanto più sfrenato diventa il consumo e tanto più domani dovrete lavorare per tirar innanzi la squallida vostra esistenza. Fate vacanze; andate a spasso. Riducete il vostro lavoro alla metà, al quarto. Il vostro guadagno non sarà minore, allorchè ognuno consumerà solo quanto gli necessita e voi lavorerete solo quanto si deve.

I professori d'economia politica sono d'opinione diversa. Essi s'impauriscono del riposo umano e non vedono salvezza che nel massimo sfruttamento della potenza di lavoro. Si può considerare la loro dottrina in due comandamenti: consumate più che sia possibile, senza badare se il consumo sia o no giustificato da un vero bisogno; producete quanto più è possibile, senza badare se il prodotto sia o no necessario. Questi sapienti non fanno differenza alcuna tra i fuochi artificiali, destinati a consumarsi in un minuto, per dare uno sciocco spettacolo a stupidi oziosi, e le macchine che per anni ed anni producono letti ed armadi. Quei fuochi d'artificio costano 50 mila lire; rappresentano, oltre la materia prima, il lavoro d'un anno di 50 operai, continuamente esposti a perdere nel lavoro la vita. Una macchina costa 10 mila lire. L'economista politico fa ponderatamente i suoi calcoli e così ragiona: il fuoco d'artificio vale giusto il quintuplo della macchina; in ambo i casi gli operai sono utilmente impiegati; la produzione dei fuochi artificiali arricchisce il paese tanto quanto la produzione di 5 macchine. Se fosse dunque possibile occupare un milione di operai nella lavorazione di fuochi d'artificio, e produrre e vendere ogni anno un miliardo di siffatte merci, si potrebbe felicitare e il paese, che avesse una così interessante industria, e gli operai per la loro operosità ed abilità. Come apparenza, questa connessione di idee è inappuntabile, ma in realtà essa è un sofismo scolastico della peggiore specie. Se da un razzo si ricava lo stesso danaro che dà un pollo, perchè l'uno ha il medesimo valor dell'altro, pare indubitabile che colui il quale produce un razzo, aumenti la ricchezza nazionale tanto quanto colui che ha allevato un pollo. Eppure è questa una menzogna. No, l'umanità non può restare indifferente tra la produzione di razzi e la produzione di polli. No, la guida alpina non ha il significato stesso del fuochista di una macchina mietitrice, quantunque si rimuneri più il primo che il secondo. So bene che con questa distinzione si va fino ad intentare un processo a tutte le industrie di lusso. Comunque, non esito a dire che nessuno ha diritto di voler appagati i suoi capricci, finchè restano inappagati i veri bisogni d'altri; che non si ha diritto di commettere ad un operaio la fabbricazione di razzi per fuochi d'artificio (secondo l'esempio su citato), finchè altri operai patiscono la fame ed anco perchè quell'operaio dei fuochi artificiali viene distolto all'agricoltura; finalmente, non si ha diritto di condannare un operaio a 14 ore di lavoro da schiavo per poter così scemare il prezzo del velluto in modo che questa stoffa possa essere da altri usata, solo perchè cotesta, più che un'altra, si confà al loro senso estetico. Il grande interesse economico dell'umanità non è di produrre merci che si possano vendere, ma è di lavorare per rendere paghi, innanzi tutto, i bisogni organici veri. Due soli sono i bisogni veri o istinti: il nutrimento e la procreazione. Quello ha per scopo la conservazione dell'individuo, questa ha per scopo la conservazione della specie. Si potrebbe, apparentemente, ridurre ad uno i due bisogni e cancellare dalla categoria dei bisogni indispensabili la procreazione. Sì, ma solo apparentemente. Lo stimolo alla conservazione delle specie è tanto più torte dello stimolo alla conservazione dell'individuo, quanto più potenti sono la forza vitale e la pienezza della vita della specie, paragonate a quelle dell'individuo. Non si è mai visto che un considerevole numero di individui, per esempio un'intera stirpe, sia mai stata impedita, per un certo tempo, nell'adempimento del bisogno di conservazione della specie. Se un tal caso in un paese si avverasse, avrebbesi tale una calamità in tutta la nazione, che che le più spaventevoli scene di una fame generale apparirebbero al confronto scherzi infantili. Sono dunque questi i due grandi bisogni organici che l'uomo deve soddisfare; tutto il resto importa meno. Un individuo che si satolli, che non patisca freddo, che abbia un ricovero, il quale lo ripari dal vento e dalla pioggia, e che sia accompagnato a un individuo dell'altro sesso, può essere non solo contento, ma veramente felice e senz'altri desideri. Un individuo invece che abbia fame, non può essere invero felice nè contento, ancorchè, vestito di broccato d'oro, passeggiasse nel museo vaticano, mentre un'orchestra suona la musica più bella. È una cosa così evidente, che è perfino banale. È il sugo prosaico della favola della gallina, la quale trova una perla, e lagnasi che non sia un grano di miglio. Eppure, a questo vero l'economia ufficiale non sa inalzarsi col suo ordine d'idee e a nessun professore di questa scienza tanto sublime è mai venuto in mente di confrontare le sue dottrine con la saggezza tanto semplice delle favole di La Fontaine. Applicando la favola della gallina e della perla allo svolgimento economico dell'umanità civile, si viene a dire null'altro che questo: «Meno cotoneria di Manchester, meno coltelleria di Sheffeld, e un po' più di pane e di carne».

Ora supplirà la pratica a ciò che fin qui fu dalla teoria trascurato, per comprovare che la dottrina dell'economia capitalistica, che da molti è oggi ancora stimata irreprensibile, è invece irragionevole. Sta intanto il fatto che oggi si lavora senza discrezione e si produce molto più del bisognevole. Ogni paese civile procura di esportare merci ed importare derrate. Per le merci cominciano già a mancare i mercati. Si può quasi dire, senza esagerazione, che l'alta industria si studia di lavorare solo per l'Africa centrale. Tutto ciò apporterà, non un miglioramento, ma un peggioramento. I paesi che non hanno ancora sviluppato la loro industria, la svilupperanno a poco a poco. Si miglioreranno i metodi di lavoro, si aumenteranno e si perfezioneranno le macchine. E poi? Ogni paese allora potrà soddisfare da sè i propri bisogni e produrre anche un soprapiù, che egli cercherà di smaltire al suo vicino, il quale non saprà poi come adoperarlo. L'ultimo dei negri nudi del Congo potrà disporre di 50 metri di stoffa di cotone e d'un fucile, come l'ultimo dei Papuani potrà far uso di stivali, di camicie e di carta. L'europeo riuscirà a comperare un vestito nuovo ogni settimana e si farà voltare le pagine del giornale che legge da una macchina. Sarà l'età dell'oro degli economisti politici, che sognano la produzione senza limiti, il consumo senza misura, lo sviluppo dell'individuo senza scopo. E in questa età d'oro, quando, cioè, ci saranno nei singoli paesi tante fabbriche quanti sono oggi gli alberi, i popoli per nutrirsi dovranno usare dei surrogati chimici, mancando il pane e la carne, e dovranno lavorare 18 ore al giorno, per morir poi senza aver mai potuto sapere che cosa sia veramente la vita. Ma forse, prima che giunga questa età dell'oro, una ventina di circoli avrà già riconosciuto che l'industrialismo esagerato e parziale è il suicidio generale dell'umanità e che tutto quanto l'economia politica dice a pro di questo industrialismo, non è che menzogna ed inganno. Si è già riconosciuto che un paese, il quale esporti granaglie ed esaurisca il suolo, non restituendogli in qualsiasi modo la materia toltagli, è condannato all'impoverimento, quand'anche ricevesse tonnellate d'oro a bizzeffe. E alla fin fine, si riconoscerà altresì che l'esportazione di forze di lavoro, muscolari e nervose, sotto forma di merci industriali, impoverirà pur essa a lungo andare un popolo, malgrado il molto denaro che questo popolo riceverebbe in cambio. Oggi stesso l'operaio europeo è già schiavo del negro dell'Africa centrale; accontenta la sua fame con patate e acquavite, consuma la vita dentro un opificio senza mai la menoma ricreazione, muore di tubercoli e tutto ciò perchè un uomo selvaggio possa avere più agi di quelli che ha. La febbre del lavoro, che non è diretta alla produzione di derrate, ma ad una sopra-produzione industriale, creerà alla perfine una nazione di gente danarosa sì ma affamata. Si potrà allora contemplare lo spettacolo di un paese, nel quale ogni capanna avrà il suo pianoforte di nuovissima costruzione, ogni abitante vestirà panni sempre nuovi, ma nelle ossa avrà la rachitide, l'anemia nelle vene e la tisi nei polmoni.

IV.

È generale l'opinione che le attuali condizioni economiche non possano durare. Il proletario diseredato, ricondotto sempre col pensiero in quest'ordine di idee dalla fame, conosce di già ch'egli con le sue mani crea ricchezze e domanda la sua quota. Egli ha però il torto di fondare le sue pretensioni su alcune teorie che non reggono alla critica. Non c'è che un unico, vero e naturale argomento ch'egli potrebbe addurre, perchè inconfutabile, ed è ch'egli ha la forza d'impadronirsi dei beni da esso prodotti, che la minoranza dei ricchi è impotente ad impedire cotesta appropriazione e che perciò egli ha il diritto di tenere ciò che crea e di prendere ciò che gli occorre. Del resto è questo il solo argomento, sul quale riposa anche l'odierno edificio sociale. Con questo argomento individui e popoli forti hanno fatto schiavi individui e popoli deboli; con quest'argomento uomini astuti e sdegnosi di scrupoli si fecero milionari, e il capitale è diventato il padrone assoluto del mondo. E, sempre con questo argomento, la minoranza degli oziosi e degli sfruttatori si fa innanzi per respingere le domande dei lavoratori e degli sfruttati. Solo il proletario, perchè ha la mente incatenata ancora alle idee capitalistiche del diritto e della morale, esita a servirsi di questo argomento, tratto dall'ordine naturale del mondo, e preferisce di chiedere la prova dell'equità delle sue domande ad alcune chimere, fra le quali il comunismo è la più diffusa e la più creduta. Egli così commette l'imprudenza di porsi su un terreno sul quale non può che restar perdente. Il capitalismo qui ha buon gioco e proverà che assurda è quella teoria. Infatti il comunismo, come lo intendono e predicano tutte le scuole socialistiche, è l'insulso aborto d'una fantasia che, sprezzando la realtà delle cose e della natura umana, si pasce di sogni. Vera comunanza di beni non ci fu mai nel mondo. Ciò che ancora si potrebbe, superficialmente, considerare come comunismo, i di cui vecchi avanzi storici rinvengonsi tuttora, è tal cosa che non esclude mai assolutamente il possesso individuale e separato da quello della massa, un possesso insomma chiaramente limitato. Quando nella cerchia d'un piccolo numero d'uomini esistessero, per motivi di comune origine o per altre cagioni, una comunanza e una solidarietà così complete che una famiglia, un Comune od anche tutta una stirpe potesse sentirsi, per una virtù d'ordine elevato, un solo tutto unificato, allora sarebbe anche ammissibile che questo ente collettivo potesse avere una proprietà collettiva, sulla quale nessuno metterebbe mai le mani a pro di sè stesso e a danno altrui. Orbene, una proprietà collettiva, che sussiste ancora in mezzo al nostro sistema di proprietà, noi l'abbiamo nel Mir russo, in alcune comunità croato-slovene e simili, ma non è affatto il comunismo, cioè la comunanza fondamentale della universalità dei beni. Si provi un po' un terzo, non ammesso al possesso solidale, ad usufruire d'una parte della proprietà collettiva! L'intruso vedrà subitamente levarsi in arme contro di lui la stirpe, la comunità, il Mir e simili. Questi possessori collettivi hanno talmente il sentimento del possesso personale, che sentono l'attacco ai loro diritti collettivi con non minore vivezza di quella che mostra un individuo, proprietario individuale assoluto, allorchè si dà l'assalto alla sua borsa. Ed anche cotesta proprietà collettiva, che non è un vero comunismo, ma soltanto una forma primordiale del possesso personale, potrà sussistere fino a tanto che tutti i compartecipanti sentiranno profondamente e direttamente la loro solidarietà e avranno un'occupazione uniforme, così che i servigi dell'uno possano facilmente esser paragonati a quelli dell'altro, e non possa in pari tempo sorger dubbio alcuno sul valore dei servigi medesimi e sulla determinazione della ricompensa dovuta ad essi. Ma appena che si stabilirà la divisione del lavoro e la produzione diventerà multiforme e conseguentemente necessiterà di determinare appuntino non solo il valore rispettivo di servigi utili tutti e differenti, ma benanco la rispettiva ricompensa dovuta a ciascun individuo per lavori, tanto l'uno dall'altro diversi, allora non sarà più possibile la durata del possesso collettivo e, in un momento, la proprietà diventerà individuale.

Non è dunque nel comunismo che dobbiamo cercar la soluzione del problema economico, perchè esso è cosa naturale solo nelle collettività organiche in basso stato e non può adattarsi ad una forma progredita della vita animale, come è la società umana. Del resto il possesso individuale è uno stato secondo natura, non solo per gli uomini, ma anche per quasi tutti gli animali. La causa che spinge al possesso, è la necessità di soddisfare i bisogni individuali. Tutti gli animali hanno bisogno di nutrirsi e a molti occorre anche un ricovero artificialmente fabbricato, oppure un rifugio fatto dalla natura, Il cibo, il nido o il giaciglio, ch'esso ha trovato o si è fabbricato, l'animale lo tiene come proprietà sua. Tutte queste cose esso sente che sono sue e di nessun altro, e chiunque tentasse di spogliarnelo incontrerebbe la sua opposizione. Qualsiasi modo di vivere, il quale implichi previdenza e preoccupazione del futuro, induce ad allargare il sentimento della proprietà e a favorire la bramosìa di possedere cose proprie. L'animale carnivoro, che viva unicamente di carne cruda, toglie dall'insieme delle cose, di pasto in pasto, sol quel tanto che gli occorre. L'animale erbivoro invece, che abiti una regione ove nell'inverno nulla vegeti, prende dal magazzino generale della natura una provvista maggiore di quanto sarebbe necessario per la soddisfazione immediata de' suoi bisogni; raccoglie ordinariamente molto più di ciò che può in appresso consumare, e in tal guisa diminuisce agli altri, senza averne esso un bisogno organico, la quota del nutrimento; diventa un capitalista e un egoista smodato. Similmente lo scoiattolo, il criceto, il topo campagnuolo, ecc., ammassano per l'inverno ogni specie di frutta e semi di piante, che il più spesso, quando ritorna il tempo primaverile, nel quale potrebbero benissimo rifare la provvista nei campi e nei boschi, essi non hanno ancora consumato. Non hanno soltanto un possesso individuale, non sono semplici acquisitori di una cosa, sono anche ricchi, per la ragione che posseggono più di quanto è necessario ai loro bisogni. L'uomo appartiene alla categoria degli animali predisposti alla previdenza. L'acquistare una proprietà personale, l'accrescerla oltre i bisogni momentanei, il difenderla contro eventuali attacchi di chi vorrebbe farla propria, sono atti naturali della vita, sono istinti stimolati dal sentimento fondamentale della propria conservazione, istinti che non si possono sradicare e che, anche quando vengono repressi da una legislazione ostile, hanno la forza di rompere i freni.

Ma se è naturale, e perciò non abolibile, la proprietà individuale, c'è pure un'estensione abusiva del diritto di possesso personale, che la ragione respinge e che non può essere difesa con argomenti naturali, ed è la trasmissione ereditaria. Certo, l'istinto della conservazione della specie stimola ogni essere vivente a curare che i suoi discendenti abbiano un'esistenza, per quanto si può, piacente; ma questa cura più non agisce dall'istante in cui i neonati toccano quello sviluppo, che li rende atti a provvedere da sè a sè stessi, come fecero i loro padri. Infatti, nel seme vegetale c'è precisamente tanta fècola e nell'uovo tanta albumina, quanta è necessaria al germe nel suo primo stadio embrionico. L'animale mammifero allatta il suo piccino, finchè questo non può da sè pascersi o cacciare, e l'uccello cessa di portar al nido il becchime pei suoi pulcini, tosto che essi spiccano il loro primo volo. L'uomo soltanto vuole approvvigionare di fècola, di albumina, di latte e di becchime per innumerevoli generazioni la sua discendenza, conservandola, così, in quello stato embrionico dei piccini che si fanno mantenere dai genitori, perchè non possono ancora lottare e durar fatica per conservare la propria esistenza. Un antenato ha avuto una ricca fortuna e la volle conservata al suo casato, affinchè questo fosse possibilmente per sempre, esonerato dal lavoro. Ebbene questa è una ribellione alle leggi della natura: è una grave violazione di quella legge universale che domina tutta la vita organica, e stabilisce che ogni essere vivente debba conquistare il suo posto al gran desco della natura, se no perisca. È da codesta violazione che derivano gli sconcerti della vita economica, i quali infliggono la maledizione della miseria e delle privazioni a masse numerose, e la maledizione si ritorce adirata contro i suoi autori. Non giova che i ricchi, con un inconscio egoismo malvagio, sottraggano alle generalità i loro beni, accumulati con l'intento di assicurare ai figli, ai nipoti e pronipoti una vita di delizie nell'ozio: il loro intento non sarà appagato. L'esperienza insegna che non c'è ricchezza la quale possa, senza operosità, conservarsi per molte generazioni. Una sostanza ereditata non rimane mai nello stesso casato, e perfino i milioni di Rothschild non potrebbero salvare dalla miseria i suoi discendenti della sesta od ottava generazione, quando costoro non possedessero quelle qualità che renderebbero possibile il conquistare un posto sotto il sole, anche senza i milioni ereditati. C'è una legge inesorabile, che ha per iscopo di ristabilire l'equilibrio nell'ordinamento sociale, stato rotto dalla eredità. Un individuo, che non si sente mai costretto ad esercitare l'istinto organico primordiale di procacciarsi cose occorrenti alla vita, perderà alla presta anche la capacità di conservare il suo possesso e difenderlo di fronte alla rapacità dei nullatenenti, che lo invidiano. I discendenti di una famiglia possono avere speranza di conservare illeso l'ente ereditato solo quando siano tutti individui assolutamente mediocri, alieni d'ogni lotta pubblica e privata, viventi in una completa oscurità, ignoti a tutti; individui insomma che conducano, per dir così, la monotona vita delle piante. Ma se in questo casato sorge un individuo fornito di un po' di fantasia, il quale, in una cosa qualunque, si elevi un po' sopra le  norme volgari abituali, oppure abbia passioni od ambizioni, e voglia vivere splendidamente od anche soltanto sentire la vita umana, allora è inevitabile la diminuzione o la perdita dell'eredità, perchè questo rampollo, il più vivace del casato, è assolutamente inetto a rifarsi, neppure d'un soldo, di ciò ch'egli spende per accontentare i suoi capricci. Le fortune sono come gli organismi. Un organismo dev'essere attivo, se vuole esistere, e tosto che gli atti vitali più non si compiono nelle sue cellule, comincia la putrefazione, ed esso viene divorato da animali microscopici di rapina, che stanno sempre in agguato e dei quali la natura è ripiena. Dicasi lo stesso d'una sostanza: questa, senza un processo di attività vigorosa che la sostenga, come la circolazione del sangue e il cambio della materia sostengono la vita, deve morire ed essere divorata da organismi rapaci nascenti dalla putredine, quali sono i parassiti, i truffatori, i cavalieri d'industria e gli speculatori. Si può però preservare, artificialmente, dalla distruzione e putrefazione il cadavere d'una sostanza, come si può quello d'un corpo che ebbe vita: questo, con rimedi antisettici; quello, con leggi eccezionali, funzionanti come fluido conservatore della sostanza, vale a dire, instituendo fidecommissi. Il fidecommesso è un'invenzione la quale ci dà la strana prova che i ricchi egoisti, hanno sempre avuto il vago presentimento che il diritto d'eredità non sia cosa naturale. Il testatore sente ch'egli commette un delitto contro l'umanità e che, disprezzando le leggi della natura, questa si vendicherà sui suoi discendenti e perciò egli s'adopra per trovare un ultimo schermo da opporre agli attacchi di lei; prevede che i suoi discendenti non avranno tutti un braccio sufficientemente forte per mantener ferma la loro sostanza ereditaria, e quindi s'ingegna di avvincerla con indissolubile legame al loro corpo. Ma anche il fidecommesso, questo acido fenico della manomorta, perde alla lunga la sua forza conservativa e non preserva nè la ricchezza dalla dispersione, nè il casato dal disastro economico.

Bisogna dunque abolire la trasmissione ereditaria: questo è l'unico espediente naturale e perciò è anche un rimedio possibile, per togliere i malanni economici dal corpo sociale. A prima vista cotesto provvedimento sembra radicalissimo, quasi come una pura confisca di ogni proprietà individuale, ma, ponderatamente esaminato, non è che svolgimento logico di fenomeni, che pur oggi esistono e che non cagionano inquietudine ad alcuno. Infatti nei paesi nei quali c'è ancora tanto attaccamento all'organizzazione feudale della società, sussiste sempre il diritto di primogenitura. Il che vuol dire che la diseredazione che io chieggo, come regola generale, per tutti i discendenti senza eccezione, là sistematicamente si applica, facendo solo un'eccezione a favore del primogenito. Per la qual cosa un pari inglese, il più conservatore, realizza un pensiero che a molti lettori sarà sembrato essenzialmente rivoluzionario. E postochè si trova non essere un male, e, sopratutto, non essere impossibile che un gentiluomo inglese privi del godimento proporzionale della sostanza paterna tutti i figli cadetti, perchè mo' si dovrebbe trovare ingiusto ed impossibile un uguale trattamento verso tutti i figli dei possidenti? È vero che il pari, il quale disereda i figli cadetti, dà loro un altro bene, cioè l'istruzione, che li rende atti a far buona figura nel mondo. Ma se, dopo la morte di un possidente, tutta la sua sostanza fosse aggiudicata alla generalità, lo Stato potrebbe allora impartire a tutti i giovani l'educazione e l'istruzione a seconda delle facoltà di ciascuno, e così il figlio diseredato dal ricco avrebbe gli stessi vantaggi, che ha ora il figlio cadetto diseredato dal pari. Il pari, che non lascia sostanza ai figli cadetti, fa però per loro anche un'altra cosa; egli si vale delle relazioni che hanno la sua famiglia e la sua casta, per provvedere ad essi impieghi nello Stato, nel Comune o in amministrazioni private, che hanno, dal più al meno, il carattere di canonicati. Orbene, questa non è forse appunto l'organizzazione della solidarietà, che dà all'individuo una sicurezza molto maggiore di quella che dà una sostanza indipendente? Certamente cotesta solidarietà è una solidarietà ristretta ed egoistica; è quella d'una casta ed ha per iscopo lo sfruttamento della maggioranza a favore di pochi parassiti. Si ponga mente invece ai vincoli di una solidarietà consimile, la quale contenga in sè, non solo il parassitismo, ma la società intera, e venga applicata alla produzione utile; s'immagini uno Stato che dia l'educazione a tutti i giovani e mantenga quelli che non possono essere mantenuti dai loro genitori, fino all'età in cui sapranno da sè guadagnarsi la vita, e, quest'età raggiunta, offra a cotesti giovani gli strumenti per un lavoro indipendente, e si dica se in una società, in siffatto modo solidaria, l'individuo non sia meglio provveduto del figlio cadetto del pari inglese o se l'incameramento della sostanza paterna sia un'ingiustizia verso i figli.

Senza dubbio il mettere in pratica questo concetto incontrerebbe, sulle prime, ostacoli ch'io non disconosco. I genitori cercherebbero di deludere la legge con donazioni fra vivi, e non sarebbe facile allo Stato l'evitare questo inganno, in forza del quale trapasserebbe egualmente ai figli una parte della sostanza famigliare. Questo difetto però non ha molta importanza per il sistema, perciocchè sotto l'impero di esso i criteri umani si trasformerebbero presto e a fondo, e i genitori riconoscerebbero che, nella società riorganizzata, il non essere ricco non vorrebbe dire privazioni e miseria per la prole. Conseguentemente la smania di far entrare nel mondo i propri figli come capitalisti s'indebolirebbe assai. Il controllo della proprietà e della trasmissione delle cartevalori, nelle quali ultime consiste la maggior parte della ricchezza mobile, non è impossibile, nè difficile. Quanto alla mobiglia, suppellettili di casa, cose speciali di valore, opere d'arte, ecc., si potrebbero benissimo lasciare come memorie ai figli, esentandole dalla confisca governativa. Quanto alla proprietà immobile, questa non potrebbe deludere la legge. E questo è il punto più importante ed essenziale del sistema. Tutto il paese, coi suoi edificî, con le sue fabbriche, coi suoi mezzi di comunicazione, ecc., diventerebbe proprietà inalienabile della generalità e, morto il possessore, la generalità subentrerebbe ed esso. Ogni aspirante al possesso riceverebbe dallo Stato poderi o fabbricati a vita, e pagherebbe perciò un annuo canone, che corrisponderebbe ad un equo interesse del valore capitalistico della cosa presa a fitto. Ed anche questo non è un'inaudita innovazione rivoluzionaria, ma solo lo svolgimento progressivo di alcune condizioni di cose, che esistono già in molti paesi: per esempio in Inghilterra e in Italia. In cotesti paesi i grandi proprietari non coltivano essi le loro terre, ma le affittano. Orbene, non ripugna che la società abbia a mettere tutti i lavoratori del suolo e dell'officina nella condizione dell'affittavolo inglese e stabilire un solo grande proprietario: lo Stato. È possibile, sì, che un uomo, anco in siffatta organizzazione, si procuri ricchezze personali, ma è ben difficile che possano accumularsi così copiosamente, come accumulansi nell'odierno ordinamento sociale, le ricchezze degli sfruttatori e parassiti. L'uomo ingegnoso, l'uomo attivo avrà come premio della sua maggiore valentìa un'esistenza più agiata; il mediocre, o più pigro, dovrà accontentarsi di un reddito minore; e quegli che non vorrà lavorare del tutto, si vedrà condannato a privazioni e a perire. L'accumulamento di uno stragrande possesso nelle mani di un solo affittaiuolo sarà reso impossibile dalla difficoltà di trovare operai, perchè chiunque vorrà lavorare, potendo ottenere direttamente dallo Stato un affitto, non avrà più motivo alcuno per dare a nolo sè stesso ad un intraprenditore e per assoggettarsi ad un intermediario. Lo sviluppo del sistema avrà necessariamente per conseguenza che un uomo non chiederà che tanta terra quanta ne potrà lavorare da sè, o, tutt'al più, con la sua famiglia. Così sarà anche evitato lo sviluppo irragionevole dell'industria a spese della produzione agricola. Potendo ognuno, con uguale facilità, diventare un affittaiuolo indipendente o un lavoratore in fabbricati, si dedicherà alla industria sol quando questa gli offra un'esistenza più aggradevole e più agiata, e in tal modo non sarà più possibile quella folla d'individui, i quali, diminuendo sempre più le loro pretensioni ai beni della vita, si fanno concorrenza attorno agli opifici. Non potrebbero presentarsi serie difficoltà, se non quando la popolazione diventasse sovrabbondante e il suolo fosse scarso. Essendo allora impossibile esaudire tutte le domande e nell'agricoltura e nella industria, una parte della gioventù sopravvanzante dovrebbe risolversi ad emigrare. Però, applicando al suolo, come dianzi dimostrai, una coltivazione più intensiva, quella calamità sarebbe ancora molto lontana.

A dir il vero, cotesto sistema non è che una specie di comunismo. E a colui, il quale trema di paura al solo udire questa parola, diremo che noi viviamo già in pieno comunismo; senonchè questo è passivo, invece d'essere attivo. Non abbiamo comunanza di beni, ma comunanza di debiti. Nessun reazionario si spaventa, perchè oggi ciascun cittadino, pel semplice fatto di far parte di uno Stato, è debitore di una somma, che in Francia, per esempio, ascende a quasi 600 franchi per testa. Per qual cagione dunque dovrebbe spaventarsi se si invertissero totalmente le parti e i debitori diventassero comproprietari di una parte proporzionale della sostanza dello Stato, e lo Stato, invece di aver solo dei debiti generali (così detti debito pubblico), avesse anche una sostanza generale o sostanza pubblica, e a tutti i cittadini non solo imponesse tasse, ma distribuisse anche beni, come oggi li distribuisce infatti a pro di un piccolo numero di persone? Del resto lo Stato la possiede già una sostanza propria d'ogni specie; ha palazzi, ha boschi, campi, navi, etc. L'esistenza di tutti questi beni, appartenenti non ad una singola persona, ma a tutti i cittadini indistintamente e indivisibilmente, è comunismo in pratica; e se ciò non appare chiaramente ai più, è perchè le vigenti istituzioni medioevali secondano tuttora l'opinione che la sostanza generale sia una sostanza personale, cioè del sovrano o del capo dello Stato. D'altra parte il debito pubblico, le proprietà demaniali, le imposte non sono la sola forma sotto la quale esiste il comunismo. Un certo genere di credito non è che puro comunismo. Quando una persona presta ad altra del denaro della propria tasca, o le conferisce sulla propria sostanza un assegnamento, che pei terzi vale come contante, questo non è che uno scambio di proprietà private; ma quando una banca emette biglietti allo scoperto (e in molte banche i biglietti allo scoperto sono un terzo e più del totale degli altri biglietti) e li dà sotto forma di prestito, contro la firma di un individuo, il quale poi con essi può acquistare qualunque cosa, allora questa convinzione è un atto di puro comunismo. La banca non dà un lavoro suo e da essa accumulato, cioè danaro, ma dà un assegnamento su lavoro che si farà nell'avvenire. L'essere però questo assegnamento rispettato dalla generalità, la quale scambia cose di valore con biglietti allo scoperto, vuol dire che si fa omaggio alla solidarietà umana e si riconosce che ogni individuo ha diritto ad una parte delle cose esistenti, anche quando, in cambio di questa parte, egli non possa offrire un altro valore da esso personalmente creato.

La riversibilità allo Stato delle sostanze dei defunti creerebbe una inesauribile sostanza collettiva, senza abolire perciò il possesso individuale. Ogni individuo avrebbe una sostanza individuale e una sostanza collettiva, come ha un nome e un cognome. La sostanza demaniale, nel cui grembo è nato, sarebbe, per così dire, il suo cognome, mentre la sostanza individuale, ch'egli crea durante la sua vita ed usa esclusivamente e senza essere disturbato, sarebbe il suo nome; e come i due nomi insieme indicano la sua personalità civile, così le due sostanze indicherebbero la sua personalità economica. L'individuo lavorando per sè lavorerebbe anche per la generalità, la quale un giorno si avvantaggerebbe del soprappiù ch'egli non avesse consumato. La sostanza pubblica sarebbe il serbatoio sterminato, che supplirebbe coll'avanzo degli uni alla mancanza degli altri; appianerebbe, dopo ogni generazione, le ineguaglianze sopraggiunte nella ripartizione dei beni; darebbe una regola speciale alla trasmissione ereditaria e, ad ogni generazione, la renderebbe sempre più severa.

Cotesto nuovo ordine di cose nell'organizzazione economica è inevitabile, perchè la ragione e nel medesimo tempo la comprensione scientifica del mondo lo vogliono. Un solo principio fondamentale deve dominare la società, e questo principio fondamentale non può essere che l'individualismo, cioè l'egoismo, oppure la solidarietà, cioè l'altruismo. Oggi impera nè l'individualismo, nè la solidarietà nella pienezza della loro logica, ma un miscuglio dei due, che è irragionevole ed illogico. Sì, la proprietà è organizzata sulla base dell'individualismo, e colla eredità l'egoismo va fino all'ultimo segno, perchè cerca di assorbire coll'astuzia e colla forza tutto ciò che può, e in pari tempo di perpetuare in eterno il bottino, impedendo che la generalità possa usufruire delle cose sue; ma il nullatenente però non riconosce nel possidente il diritto di riposare sul principio in forza del quale si è arricchito. In nome dell'individualismo si fanno e si conservano le ricchezze, ma si difendono in nome della solidarietà. Il ricco gode smoderatamente e con ostinato egoismo la maggior parte dei beni, che ha saputo appropriarsi; ma quando il povero vuol diventare pur esso egoista e individualista, e stende la mano sulla proprietà altrui, lo si imprigiona e lo si impicca. La caccia più sfrenata a favore dell'interesse egoistico è lecita sotto la forma della usura e della speculazione, ma sotto la forma della rapina e del furto è proibita. Lo stesso principio applicato in un modo è un merito, applicato in un altro è un delitto. Orbene, con tutto ciò si ribella il comune buon senso. Ammetto che si predichi l'egoismo, ma si abbia allora il coraggio di approvarlo in tutti i casi. Se è giusto che il ricco tripudi nell'ozio, perchè ha pensato di appropriarsi la terra o di sfruttare il lavoro umano, allora può anche essere equo che il povero lo uccida e giudichi buona preda il rapirgli la sostanza, quando a far ciò abbia coraggio e forza. Questa è logica. Certo che con logica siffatta il mondo va in rovina, la civiltà va in malora e gli uomini diventano come le bestie feroci, le quali errano solitarie nei boschi, e quando incontransi, si divorano. Quegli dunque, il quale giudichi che cotesto stato essere non possa il fine ideale dello sviluppo della società, non ha che ad appigliarsi all'altro principio, cioè alla solidarietà. Non si dirà più allora: «Ognuno per sè», ma «uno per tutti e tutti per uno». La società, stimerà obbligo suo il mantenere i giovani ancora inetti a mantenersi da sè, il dare aiuto agli invalidi e il lasciar che le privazioni durino ancora, ma solo come punizione dell'ozio volontario. Ad obbligo siffatto però la società non potrà ottemperare se non quando sarà soppressa l'eredità. Grandi catastrofi ci attendono sul terreno economico e non sarà possibile tenerne molto lontano lo scoppio. Quando le moltitudini erano credenti, si poteva ancora confortarle colla vaga promessa che la miseria terrena veniva ricambiata colla beatitudine celeste. Ma oggi, in cui il progresso sempre più si espande, diminuisce di continuo il numero di coloro che, ingenuamente, credono che un'ostia valga un pranzo e che un posto assegnato a loro in cielo da un prete abbia l'egual valore dell'immediato possesso di un buon campo di terra. I nullatenenti contano sè stessi e i ricchi e scoprono ch'essi sono i più e i più forti. Rimuginano le origini della ricchezza e trovano che speculare, sfruttare, ereditare, non si giustificano meglio della rapina e del furto, che sono dal codice severamente puniti. Col crescente spogliamento delle moltitudini, collo stornarle sempre più dal suolo e dal campo, e col progrediente accumulamento delle ricchezze in poche mani, diventeranno ognor più insopportabili le ingiustizie economiche. E il giorno in cui coteste moltitudini associeranno alla fame la conoscenza delle cagioni che la producono, non ci sarà più ostacolo ch'esse non sappiano rimuovere e distruggere per conseguire il diritto di saziarsi. La fame è una delle poche potenze elementari, contro la quale non giovano, alla lunga, nè le minaccie, nè i ragionamenti. E l'edificio sociale, fondato sulla superstizione e sull'egoismo, sarà da essa smantellate, non avendolo potuto smantellare, da sola, la filosofia.

LA MENZOGNA MATRIMONIALE

I.

L'uomo ha due istinti potentissimi, fondamentali, che dominano tutta la sua vita e sono il movente primo di tutte le sue azioni: l'istinto della propria conservazione e l'istinto della conservazione della specie. L'uno si manifesta semplicemente con la fame; l'altro si rivela col fenomeno dell'amore. Non conosciamo ancor bene le forze, che animano le funzioni della nutrizione e della procreazione, ma chiaramente ne vediamo gli effetti. Noi non sappiamo perchè un individuo percorra il suo ciclo di sviluppo piuttosto in un dato numero d'anni che in un altro; non sappiamo perchè il cavallo, che è un animale grande e forte, viva 35 anni circa, e l'uomo che, al suo confronto, è piccolo e debole, possa vivere più di 70 anni; nè perchè il piccolo corvo viva 200 anni e l'oca, che è molto più grande, ne viva solo 20. Però sappiamo che ad ogni essere vivente è prefissa, fin dalla nascita, una certa durata della vita; sappiamo che esso è montato, per un dato lasso di tempo, come un orologio, e cotesto tempo, se può essere accorciato dalla potenza di forze esteriori ed accidentali, non può però mai essere prolungato. Similmente noi riteniamo che le specie siano predisposte a durare un dato tempo; che al pari degli individui si rivelino in momenti esattamente determinabili e che anch'esse, per così dire, nascano, si sviluppino, raggiungano la loro maturità e muoiano. Il ciclo della vita d'una specie però è così vasto e lungo che non è possibile mai di stabilirne, mediante osservazioni dirette, il principio e la fine; nondimeno la paleontologia somministra numerosi e sicuri punti di partenza, coll'aiuto dei quali si può, senza rischio, riuscire a proclamare, come un fatto, il parallelismo delle leggi di vita e sviluppo dell'individuo e della specie. Finchè ogni individuo non ha consumata la forza vitale che gli fu infusa coll'atto generativo, egli tende con tutto il vigore di cui è capace a conservarsi e a difendersi contro i suoi nemici: quando la sua forza vitale è esaurita, non sente più il bisogno di nutrimento, nè il prurito di difendersi, e muore. Similmente la forza vitale della specie è sostenuta dallo stimolo della procreazione. Finchè la forza vitale della specie è potente, ogni individuo, ben complessionato, tende all'accoppiamento con tutta la sua vigorìa: quando la forza vitale della specie diminuisce, diminuisce pure negli individui il fervore della procreazione fino a non sentirne più il bisogno. Rapportandoci all'egoismo e all'altruismo, noi abbiamo, almeno in certe specie ed anche in singole razze umane, o nazioni, la stregua sicura della forza vitale della specie, della razza o della nazione. Quanto più aumenta il numero degli individui che antepongono i loro personali interessi ai doveri della solidarietà e agli ideali dello sviluppo della specie, tanto più cotesti individui si avvicinano all'esaurimento della loro vitalità. Invece, quanto più sono numerosi in una nazione gl'individui che hanno l'istinto dell'eroismo, del disinteresse e del sacrificio, tanto è più potente in cotesta nazione la vitalità. Il deperimento, non solo della famiglia, ma ben anco del popolo, comincia col prevalere dell'egoismo, perchè l'egoismo è il sintomo sicuro dell'indebolimento della vitalità della specie, a cui verrà dietro rapidamente l'esaurimento della vitalità dei singoli individui, se esso non riesce ad ottenere un indugio, mediante efficaci incrociamenti o trasformazioni. Quando una razza o una nazione giunge, sul cammino della sua vita, a questa china, i suoi membri perdono la facoltà di amare sanamente e naturalmente. Il sentimento della famiglia si dissolve. Gli uomini non vogliono più ammogliarsi, perchè par loro un fastidio l'assumersi la pesante responsabilità d'un'altra persona umana e il dover somministrare il bisognevole ad un'esistenza che non sia la propria. Le donne fuggono i dolori e gli incomodi della maternità, e procurano con riprovevoli espedienti di non aver figli, neppure nel matrimonio. Allorchè l'istinto della procreazione non ha più la procreazione per iscopo, negli uni scompare, negli altri degenera nei più strani ed irragionevoli traviamenti. L'atto dell'accoppiamento, la più sublime delle funzioni organiche che solo la natura sa esercitare nella sua pienezza, quest'atto, al quale accompagnansi le sensazioni più energiche di cui sia suscettibile il sistema nervoso, lo si fa scendere alla più ignobile libidine, quando non è compiuto a beneficio della conservazione della specie, ma unicamente per procacciarsi un piacere individuale, che non dà frutti, nè vantaggi alla generalità. Là dove si trova ancora l'amore con tradizione od atavismo, non è più la fusione di due mezze ed incomplete persone in una personalità intera e completa; non è più l'irruzione di una solitaria vita sterile in una vita dupla e feconda, che può durare per un'indefinita serie di discendenti; non è più il trapasso dell'egoismo all'altruismo; non è più l'isolata esistenza dell'individuo che si tuffa nella fresca o gioconda corrente della esistenza della specie, ma altro invece non è che la strana ambascia, che non si sa comprendere e perciò non si sa appagare; è uno stato semi-fantastico e semi-isterico; è in parte illusioni, in parte reminiscenze, in parte ricordi di cose lette o udite; sono capricci malsani e sentimentali, in parte sono addirittura concitazioni d'animo e pazzia procace e melanconica. I vizi contro natura aumentano; però, se l'impudicizia tutte disfrena, privatamente, le sue orgie, pubblicamente si fa pompa di una affettata leziosaggine, che ben richiama alla memoria il proverbio: non parlar di corda in casa dell'impiccato. E tutta questa gente, infatti, che ha una pessima opinione della propria condotta sessuale e che appieno conosce tutti i suoi peccati e peccatucci, s'adopera coll'inquietudine del delinquente colto in flagrante perchè si eviti di alludere, anche lontanamente a questo argomento, e nei discorsi e negli scritti. E questo è il bozzetto della vita sessuale di una razza in decadimento, arrivata alla sterilezza della vitalità, sia per conseguenza naturale della vecchiaia, sia per influenze sfavorevoli, sia per effetto di leggi nocive o sciocche.

Se con me si ammette che il misuratore della vitalità di un popolo è la forma che assume i rapporti fra i due sessi e se questo misuratore lo si applica ai popoli civili dell'occidente, si giunge ad osservazioni che impaurano. Il sistema menzognero delle istituzioni economiche, sociali e politiche ha avvelenato in questi popoli anche la vita sessuale; tutti gli istinti naturali, che dovrebbero assicurare la conservazione e il perfezionamento della specie, sono falsati e traviati; e si sacrificano, senza peritanza, all'egoismo e alla ipocrisia, dominanti le future generazioni di quella parte dell'umanità, che intellettualmente è la più sviluppata.

In tutti i tempi l'umanità sentì dapprima istintivamente, poscia comprese razionalmente che nulla havvi per essa di più importante della continuità; e tutte le sensazioni e tutte le azioni, che hanno un'attinenza qualunque con questo supremo interesse della specie, preoccuparono sempre grandemente il pensiero umano. L'amore infatti, in tutti i tempi e presso tutti i popoli, forma quasi l'unico argomento delle belle lettere; in ogni modo è il solo che affascini sempre e il lettore e l'ascoltatore; il risultato dell'amore, cioè l'accoppiamento fecondo del giovane e della giovane fu costantemente, prima dai costumi e dalle abitudini, poi dalle leggi scritte, circondato da tante cerimonie, da tanti festeggiamenti e preparativi, come non lo fu mai niun altro atto della vita umana, neppure quello che dichiarava un giovane valido alle armi, benchè questo atto, presso le tribù barbare che vivono in uno stato di continua offesa e difesa, fosse cosa di altissima importanza. Con queste formalità, che complicano le nozze di tante cerimonie, la società si è assicurata un controllo sui rapporti sessuali degli individui; e nella coppia amorosa, in virtù appunto della solennità che circonda le nozze, doveva sorgere la coscienza che i suoi amplessi non erano soltanto una faccenda privata, come un pranzo, una caccia o un divertimento di canto e danze, ma benanco un avvenimento pubblico assai importante e notevole, il quale interessa tutta quanta la società ed ha sull'avvenire di essa un'influenza rilevante. Per evitare possibilmente che l'amore degeneri in un semplice dilettamento e per riaffermare, per quanto si può, il suo alto scopo, la società, fin dai primordi del proprio incivilimento, adottò la massima di non riconoscere onorevoli i rapporti tra uomo e donna e di non stimarli meritevoli di rispetto se non dopo aver subìto la seria prova d'un pubblico cerimoniale; e coloro che sottraevansi a questi riti, venivano disapprovati e puniti col disprezzo, e talora con pene materiali.

Anche nella nostra elevata civiltà, al pari dei tempi più barbari, se l'amore sessuale non vuole diventare un vizio spregievole e combattuto, deve chiamare la società a far fede dei suoi desideri e sottoporsi a sorveglianza. Oggi ancora la sola forma d'unione fra uomo e donna, che la società approvi, è il matrimonio. Ma la nostra menzognera civiltà cos'ha fatto del matrimonio? Esso è ridotto a un contratto materiale, in cui l'amore ha tanta parte quanto ne ha nel contratto sociale di due capitalisti, che intraprendono un affare in comune. È sempre pretesto al matrimonio la conservazione della specie, e, teoricamente, si mette anche innanzi la simpatia reciproca di due persone di sesso diverso, ma in realtà non è vero che si concluda il matrimonio pensando alla nascitura generazione; gli individui che si sposano, non pensano che al loro particolare interesse. Al matrimonio odierno, specialmente nelle così dette classi superiori, manca la consacrazione morale e, con essa, la sua condizione antropologica. Il matrimonio dovrebbe essere una sanzione dell'altruismo, e invece non è che una sanzione dell'egoismo. I contraenti nel nuovo loro stato non tendono già a vivere l'uno per l'altro, ma credono di trovare ciascuno un'esistenza più comoda e sicura. Si contrae matrimonio per avvantaggiare la propria fortuna, per assicurarsi un'esistenza gradevole, per conquistare e conservare una buona posizione sociale, per appagare una vanità, per godere quelle prerogative e quella libertà che alle donne non maritate la società non concede e concede invece alle maritate. Stipulando il matrimonio, si pensa a tutto: al salotto e alla cucina, ai passeggi e ai bagni, alle danze e al pranzo. Ad una cosa sola non si pensa: alla camera nuziale, a questo santuario dal quale esce, come Aurora, l'avvenire della famiglia, della nazione, dell'umanità. E come mai il deperimento e la morte non dovrebbero essere il destino dei popoli, nei quali il matrimonio non è che il trionfo dell'egoismo dei coniugi e la nascita di un bambino un avvenimento non invocato o, nella miglior ipotesi, un avvenimento indifferente, al paro d'un fenomeno non facilmente evitabile, ma affatto secondario?

Qualcuno forse obbietterà che pure nei popoli barbari, i quali vivono in uno stato primitivo, la grande maggioranza dei matrimoni non si conclude in modo dissimile da quello della nostra elevata civiltà. Anche presso quei popoli la creazione d'una nuova famiglia non ha, come ragione determinante, la simpatia. In certe tribù l'uomo sposa una ragazza ch'egli viene a conoscere per la prima volta soltanto dopo le nozze. In altre, il giovane che desidera ammogliarsi, rapisce nella tribù vicina la prima donna che gli cade nelle mani. E là, dove la moglie si sceglie, la scelta si fa dietro considerazioni affatto estranee all'amore; si piglia per moglie una ragazza, perchè è nata nella tribù, perchè lavora bene, perchè cura con diligenza il bestiame, eppure perchè è brava a filare e a tessere. Dunque, anche la conservazione di queste tribù è affidata al cieco caso o all'egoismo, e tuttavia coteste popolazioni sono piene di vigorìa giovanile e il loro sviluppo, invece di ricevere danno da questo stato di cose, ha un incremento rapido e felice. Ma a queste obiezioni si può rispondere che, per motivi d'indole antropologica, il matrimonio presso popoli primitivi, benchè determinato, non dall'amore, ma dall'egoismo e dalle consuetudini, non ha le deplorevoli conseguenze che si verificano invece presso le nazioni incivilite. Fra le doti fisiche e intellettuali non esiste nei popoli primitivi differenza rimarchevole. Il tipo che predomina e negli uomini e nelle donne, è il tipo della razza: i tipi particolari o non esistono o sono leggermente abbozzati. Tutti gli individui sembrano fusi in una stessa forma e tanto rassomigliansi che, con facilità, si può scambiare l'uno per l'altro. Come materiale di selezione hanno tutti un eguale valore. Quindi nessuna necessità che ai loro accoppiamenti preceda una selezione. L'unione dei genitori, qualunque sia il modo nel quale avvenga, darà sempre il risultato medesimo. Data la grande rassomiglianza di tutti, l'amore non solo non è una necessità, ma non è neppure possibile. In questo caso lo stimolo della procreazione non può svegliare nell'individuo che la brama di accompagnarsi ad un individuo d'altro sesso, senza specializzarlo, il che vuol dire non innalzarsi a quella forma elevata, che converge l'amore su una persona piuttosto che su un'altra. È tutto un sesso che ha una simpatia generica per tutto l'altro sesso, e all'uomo, come alla donna, è cosa del tutto indifferente l'accompagnarsi, l'uomo con questa o quella donna, e la donna con questo o quell'uomo. Ma se in un popolo primitivo avviene che un individuo si stacchi notevolmente dalla uniformità della tribù ed emerge sugli altri per doti fisiche o intellettuali, questa differenza sarà sentita con un grado di forza, che noi non ne abbiamo neppure l'idea, essendo noi avvezzi a vedere grandi differenze individuali nelle persone che ci circondano. La grande legge zoologica della selezione incomincierà allora ad agire con un'energia naturale potentissima, e la brama di accoppiarsi all'individuo prevalente acquisterà la forza di una tremenda passione tempestosa, la quale scoppierà in eccessi. Non così avviene nei popoli inciviliti, presso i quali gli individui sono tanto disuguali fra loro. Nelle classi meno colte, e perciò meno sviluppate e più in basso, l'istinto della procreazione è, probabilmente, assai più una simpatia generica verso l'altro sesso che una simpatia distinta e individuata. Per la qual cosa contraddicendo i racconti sentimentali di poeti, che non osservano le cose o male le osservano, dobbiamo dire che in quelle classi non può essere che rarissima una passione amorosa per una determinata persona. Nelle classi superiori invece, presso le quali gl'individui sono rigogliosamente sviluppati e hanno doti tanto differenti, marcate e opposte, l'istinto sessuale acquista la facoltà di escludere e di eleggere; e così deve essere, se voglionsi discendenti vitali e forti. Qui è l'amore che deve stringere il matrimonio, essendo questo il solo stato dalla nostra società riconosciuto lecito per avere dei discendenti; l'amore, che è il grande regolatore della vita sessuale, la forza stimolante che spinge la specie verso il suo perfezionamento e cerca d'impedirne il deperimento fisico. L'amore è l'istintiva coscienza di dover accoppiarsi con una prescelta persona dell'altro sesso, onde migliorare le proprie qualità buone e neutralizzare le cattive, e far sì che il proprio tipo, nei discendenti, duri almeno inalterato e raggiunga, se è possibile, l'ideale. L'istinto della procreazione è, da sè, cieco; e perciò gli occorre una guida sicura, l'amore, se ei deve conseguire il suo scopo naturale, che è nel tempo stesso e la conservazione e il perfezionamento della specie. Quando cotesta guida manchi, l'accoppiamento non è più determinato da simpatia reciproca, ma dal caso o da interessi estranei affatto al suo scopo fisiologico, ed allora, benchè i genitori siano ben diversi l'uno dall'altro, il prodotto dell'incrociamento sarà nè buono, nè cattivo, oppure cattivo: i figli erediteranno i difetti dei genitori e li renderanno ancor più spiccanti, mentre le buone qualità le riprodurranno indebolite, oppure gli uni e le altre si bilanceranno. E così si avrà una stirpe disarmonica, logora, guasta e condannata ad estinguersi rapidamente. Un vocabolo esiste, il quale ci dice quanto sia desiderabile l'alleanza con una determinata persona a pro della conservazione e del perfezionamento della stirpe e quanto sia invece deplorevole l'alleanza con un'altra e questo vocabolo è amore. Meravigliosamente concepita e perfettamente determinata fu l'essenza dell'amore da Göethe, il quale la definì con due parole: affinità elettiva. Tutto un libro non l'avrebbe potuto definir meglio. Quella espressione, desunta dalla scienza chimica, congiunge intimamente ai grandi fatti elementari della natura quel sentimento che è misticamente offuscato da poeti isterici, fantasticanti, scarsi di mente e di concetti. L'affinità elettiva è nella chimica, la tendenza di due corpi a congiungersi per produrre un nuovo ente, che abbia qualità differenti da quelle dei corpi che l'hanno prodotto; vale a dire differenze nel colore, nella compagine, nella densità, negli effetti che produce sugli altri corpi, ecc. Due corpi, che non abbiano tra loro rapporti d'affinità elettiva, possono aver contatti intimi anche eternamente, ma il loro accostamento sarà sempre un'unione morta e non produrrà mai una creazione nuova, un effetto vigoroso, un fatto vivo. Due corpi invece, aventi affinità elettiva, basterà avvicinarli per ottenere immediatamente fenomeni di moto, vivi, vigorosi, fecondi. Effetti consimili produce l'organismo umano. Due individui o esercitano reciprocamente una influenza l'uno sull'altro, oppure non l'esercitano. Se fra essi c'è affinità elettiva, si ameranno; si voleranno incontro coll'impeto del turbine e diventeranno fonte di creazioni nuove. Se affinità elettiva non c'è, rimangono freddi, nessuna influenza l'uno esercita sull'altro e mai la loro convivenza diventerà un episodio del processo vitale dell'umanità. Qui noi ci troviamo dinanzi a facoltà primordiali, che sono inerenti alla materia e che non tentiamo nemmeno di spiegare. Perchè l'ossigeno si amalgama col potassio? e perchè no l'azoto col platino? Chi ce lo sa dire? Perchè un uomo ama la tale donna e non la tal'altra? E perchè una donna predilige quell'uomo e rifiuta quell'altro? Indubitatamente perchè quell'attrazione e quell'indifferenza hanno la loro base nelle intime forze chimiche della relativa persona e sgorgano dalle stesse fonti, da cui sgorgano gli atti organici della vita. Il matrimonio è un recipiente nel quale stanno racchiusi insieme due corpi differenti, due individualità chimiche. Se fra loro c'è affinità elettiva, il recipiente sarà pieno di vita; se no, esso albergherà la morte. Ma a chi sta a cuore che oggi nei matrimonii ci sia affinità elettiva?

Non ci sono che due specie di relazioni fra uomo e donna: le relazioni che riposano su reciproche e naturali attrattive e che tendono perciò, consciamente o inconsciamente, alla procreazione; e le altre che questo scopo trascurano e si preoccupano innanzi tutto ad appagare l'egoismo, sotto una qualunque delle sue molteplici forme. Le prime sono giuste e morali; le seconde, quale che sia la loro forma apparente, costituiscono la grande categoria della prostituzione. L'abbietta creatura che sulla pubblica via, di notte, offre per una moneta d'argento il suo corpo all'incurioso viandante, di cui non discerne per l'oscurità neppure i tratti, si prostituisce. Quello sciagurato, che corteggia una vecchia sciocca e si fa da lei pagare in contanti i suoi corteggiamenti, si prostituisce. Non può essere che un solo il criterio per giudicare cotesti atti. Ora però io domando: E quale differenza c'è tra l'uomo che si fa mantenere dalla sua amante e quello che corteggia, senza amore una ricca erede o la figlia di un uomo altolocato, per ottenere, assieme alla sua mano, ricchezze o un grado elevato? E dov'è la differenza tra la sgualdrina che si vende per pochi soldi ad uno sconosciuto e la casta sposa, che all'altare va con un giovane non amato, sol perchè egli le offre in cambio de' suoi amplessi, un alto rango, o vesti, ornamenti e servi, od anche soltanto il pane quotidiano? Nell'un caso e nell'altro eguali sono i motivi e le cause, eguale il modo di procedere; dunque, per essere veritieri e giusti, bisogna dare alle due cose lo stesso nome. Quella madre contegnosa, tanto dal mondo rispettata, che severissima credesi in materia di buoni costumi e che, presentando alla figlia un pretendente ricco, cerca di vincere il suo naturale ritegno con buone parole e massime prudenziali, come queste, per esempio: che è una sciocchezza rifiutare un buon collocamento; che è un'enorme imprudenza attendere una seconda occasione, che forse non succederà mai; che una ragazza deve avere scopi pratici e non badare alle insulse fandonie delle storie d'amore; orbene, questa madre esemplare è una mezzana, tale quale la brutta vecchia in guerra col codice penale, che, seduta, sulla panca dei pubblici passeggi, con mezze frasi lascia andare vituperevoli offerte alle operaie senza lavoro. E l'elegante pretendente, ricevuto con onore in tutti i salotti – il quale fiuta il grasso partito in mezzo alle figure intrecciate d'un cotillon e fa gli occhi languidi alla ricca erede e le parla con voce melliflua e patetica, e i suoi creditori e la sua cortigiana acquieta, dando loro promessa di pagarli il dì dopo le nozze coi denari presi dalla dote –, è un cialtrone, tale come colui che vive a spese delle prostitute e che perfino il poliziotto ha ribrezzo a toccarlo quando lo arresta. La sgualdrina, che traffica il suo corpo per mantenere la vecchia madre o un figliuolino, è moralmente superiore alla vergine, che, per poter saziare le sue voglie di balli e di viaggi, accetta, malgrado la vergogna che prova, il letto matrimoniale di un uomo danaroso. Di due uomini, il meno ingannato sarà colui che, alla sua compagna d'un istante, paga volta per volta i concessi favori e poi le volge le spalle, ma non quegli che, con un legale contratto di matrimonio, compera, per sempre, una compagna di letto, la quale non sente che l'interesse. Ogni unione tra uomo e donna contratta, anche da una sola delle parti, per ottenere un collocamento agiato o qualsivoglia altro egoistico vantaggio, è prostituzione, sia poi essa avvenuta mediante un funzionario dello stato civile, o un prete, oppure mediante il compiacente intervento di qualche inserviente.

Orbene: questo è il carattere di quasi tutti i nostri matrimoni. Le rare eccezioni, in cui un uomo e una donna si uniscono legittimamente pel solo motivo e desiderio di amarsi e vivere l'uno per l'altro, sono eccezioni derise dalle persone prudenti; e alla gioventù si raccomanda di non imitare quegli esempi. Le ragazze povere, o mediocremente provvedute, sono dai previdenti genitori educate in modo che venga subito soffocata ogni inclinazione naturale e pericolosa, che nel loro cuore sorgesse, ed esse debbono perciò regolare le grazie del sorriso, a seconda della cifra del reddito posseduto dallo scapolo, col quale s'incontrano. E se la civetteria, che fu installata nella ragazza, non bastasse da sola per carpire un buon collocamento, ecco allora accorrere in aiuto la mamma e le zie, e, con tattica sapiente, dar mano forte all'ingenua bambina. Diversa è la faccenda per le ragazze ricche. Queste non dànno la caccia: sono selvaggina. C'è una certa classe d'uomini ammaestrati apposta per dar la caccia alla dote, ed ognuno d'essi procede in questo affare con regole sicure. Porta pantaloni e panciotti a foggia inappuntabile, cravatte di tinte e forme elegantissime e lente a un occhio solo; ha capelli sempre ben ravviati e arricciolati, e, lontano un miglio, sentesi l'odore de' suoi profumi; danza in modo impareggiabile e nei giuochi di società è fortissimo; sa chiacchierare di sport e ha pratica in cose di teatro; e a tempo opportuno regalerà a profusione mazzi di fiori e dolci, e farà correre letterine d'amore in prosa e in versi. Con questi espedienti il fagiano dorato cadrà nel laccio; e l'ingenua fanciulla, che avrà creduto di rappresentare una parte in un dramma lirico, si accorgerà, ahi! troppo tardi, di non essere stata che un fattore di un'operazione aritmetica. Colà invece dove le due parti hanno, press'a poco, il medesimo rango sociale e la fortuna medesima, alla bella prima si fanno i conti, si misura e si pesa: nessuno dei due si vergogna di confessare il vero motivo del matrimonio e di ribadire il concetto che si ha di esso. Sono due fortune che si uniscono, due signorìe, due ranghi sociali. Egli vuole una donna di casa, che gli faccia la minestra, gli cucisca i bottoni della camicia, oppure vuole una moglie che sappia elegantemente acconciarsi con ricche vesti e presiedere, con bella maniera, a un pranzo di gala. Ella vuole un marito che lavori per lei, o che a lei renda possibile d'andare ai balli di Corte e il ricevere in casa sua l'alta società. Se, viceversa, i ranghi e le fortune non sono eguali, tutta questa schiettezza più non esiste. Bisogna allora che almeno uno dei due mentisca. O sarà la ragazza che finge amore pel sacco di danari rivestito, o sarà il pretendente che finge benevolenza al pesciolino d'oro. Il solo trionfo – malinconico trionfo – che la natura e la verità qui ponno celebrare è questo: cioè che l'abietto egoismo, il quale allontana il matrimonio dal suo scopo naturale, è pur costretto a fare omaggio alla essenza vera, morale e fisiologica del matrimonio stesso, dappoichè per contrarlo esso deve mettersi la maschera dell'amore.

Qual'è la sorte degli uomini e delle donne che contraggono siffatti matrimoni? Quegli individui degenerati, moralmente decrepiti, discendenti da antenati che si sposarono pur essi sotto l'impero dell'interesse materiale, e si accoppiarono e procrearono senza amore, e senza tenerezza furono educati, hanno assolutamente perduta la facoltà di amare, e, benchè possano invecchiare, mai non si avvedono dell'impoverimento della loro interna vitalità. Se è un uomo, coltiverà la gola ed il ventricolo, acquisterà numerose cognizioni di vini e sigari, e, spendendo un po' a larga mano, diventerà un uomo di molto nome nel mondo delle ballerine, lo avranno in rispetto i clubs e morirà ricco di onori politici e sociali, e se fosse veramente sincero, potrebbe benissimo far incidere sulla sua lapide mortuaria questa iscrizione: «L'unico amore della mia vita fui io stesso». Se invece è una donna, essa inventerà delle pazze mode, sua cura sarà di gareggiare in folli spese con le rivali, giorno e notte sognerà vestiti, gioielli, corredi di mobili ed equipaggi, ordirà intrighi e menzogne, calunnierà le altre donne e, con invidia infernale, brigherà per distruggere la felicità del loro cuore, e, se i suoi espedienti corrisponderanno alle sue brame, lascierà sul suo passaggio orme di sterminio e orrore, come le cavallette e il colera.

Tutti e due, lui e lei, vegetano negli strati tenebrosi e mefitici della vita. La loro esistenza non ha ideali. La natura loro, priva d'organi impulsivi, senza forza di elevazione e di volo, sta a terra nella melma. Sono «aeròfobi», cioè organismi dissolventi, che fuggono l'aria, diffondono morbi intorno a sè, che scompaginano la società e consumansi nella putredine da essi medesimi provocata. Questi degenerati trovansi specialmente nelle classi superiori. Essi sono nel tempo stesso causa ed effetto della loro organizzazione egoistica, nella quale non si fanno matrimoni a seconda delle inclinazioni, ma a seconda del rango sociale e dei beni di fortuna. In tal modo si conservano, è vero, rango e beni, ma i loro possessori vanno in deperimento. E questo avviene perchè deperiscono gli organi auto-dirigenti ed astringenti, dei quali è fornito ogni organismo vivente e quindi anche la specie umana. Perciò, la soppressione dell'amore e l'esercizio dell'egoismo, che sono nella natura delle classi superiori, condurrebbero, se generalizzati, ad una rapida consunzione della specie. Ma l'istinto di conservazione anche qui si manifesta. Dove le famiglie hanno come base l'indifferenza e l'egoismo, là sono inesorabilmente condannate ad estinguersi; e non è facile trovare una ragione diversa da questa, per spiegare il deperimento rapido e generale, che si scorge nelle case aristocratiche. Però, accanto ai degenerati, esistono pur organismi che non sono internamente in dissoluzione; individui pieni di vitalità e capaci d'amore, che pure hanno contratto un matrimonio di testa, o per inesperienza, o per sbadataggine, o per pusillanimità dinanzi ai pericoli della lotta per l'esistenza in una società rozzamente egoistica; il che vuol dire che il matrimonio di testa è, fra tutti i matrimoni immaginabili, quello che è proprio fatto senza testa. Contro il quale poi vendicasi tosto o tardi, e più crudelmente se tardi, l'offesa da esso recata al principio della selezione. Non è possibile sradicare dal cuore di cotesti individui il bisogno d'amore, e questo bisogno perciò, con una tensione incessante e supremamente spasmodica, cercherà di fare una breccia attraverso le fredde mura del convenzionalismo legale e sociale. Sì, può anche accadere che a un individuo non sia mai riuscito di trovare un suo simile, che abbia con esso affinità elettiva. In questi casi il matrimonio non presenta alcun sconcerto esterno e le relazioni coniugali, benchè fondate su interessi, mantengonsi inappuntabili, ma l'esistenza dei coniugi non è paga, nè completa; essi hanno sempre il tormentoso sentimento di un'inquietudine misteriosa e di un futuro indeterminato; sperano continuamente in qualche cosa che ha da venire e che li debba liberare dall'aridezza di una vita insulsa; sentono che la loro esistenza non è che una cosa monca e invocano perciò un complemento, che essi però non troveranno neppure nelle più splendidi soddisfazioni dell'ambizione o dell'egoismo, perchè l'amore soltanto può darlo. A cotesti individui mancherà sempre, come ai degenerati, l'ideale e ciò che rende sacra una cosa, ma, più sventurati di questi ultimi, hanno costantemente la coscienza dell'ideale che a loro manca. Non sono ciechi, ma veggenti, che vedere non ponno la luce del sole. Tale è il loro destino, se il caso non li mette mai accosto a persona avente con loro affinità elettiva; ma se l'accostamento avviene, la catastrofe è inevitabile. Il conflitto fra il dovere matrimoniale e l'impulso naturale ad unirsi alla persona affine si infiamma potentemente; la sostanza che è l'amore, ribellasi alla forma che è il matrimonio, e un rovinìo deve accadere. O resta soffocata la sostanza, o resta stritolata la forma. Si sa però che c'è una terza soluzione, la quale, essendo la più vile, è anche la più frequente; le parti esterne della forma, quelle che tutti possono vedere, rimangono incolumi, ma le altre, che non si vedono, riportano una leggera e recondita fenditura, la quale permette alla sostanza di espandersi e gocciolare. E tutto ciò senza tante metafore vuol dire, o che il coniuge scioglierà violentemente il matrimonio, o che combatterà e soffocherà il suo amore sacrificando la propria felicità, o che ingannerà l'altro coniuge diventando segretamente adultero. I caratteri volgari abbracciano di primo tratto questo ultimo espediente; i caratteri nobili devono invece lottare, subire la tragedia della ribellione ai pregiudizi e il conflitto acerrimo, con tutte le sue amarezze, tra la passione e il dovere. Se la società avesse leggi tutelanti la specie e fosse organizzata solidariamente, essa, in questa lotta, piglierebbe parte per l'amore e, volgendosi ai lottanti; direbbe loro: Vi amate, unitevi! Ma la società ufficiale è una nemica della specie e l'egoismo la predomina, e perciò tiene mano al matrimonio, e ai lottanti dice: Rinunciate! La società però, malgrado le sue tendenze innaturali, ha conservato la coscienza che ciò è impossibile, che è tanto difficile rinunciare all'amore quanto è difficile rinunciare alla vita, e che una legge crudele di tal fatta non sarebbe meglio osservata di quella che raccomandasse il suicidio. Per la qual cosa, guardando sott'occhio, susurra all'orecchio: Almeno non date scandalo! E così l'amore riesce ugualmente a far valere i suoi diritti, ma soltanto presso quelle persone che si adattano alla ipocrisia della società. Esso però in tale stato di cose non eleva, nè nobilita i caratteri, ma diventa una causa del loro avvilimento, perchè ingenera menzogne, slealtà e finzioni. L'influenza che esercita l'amore, produce nell'ambiente matrimoniale delle sconnessioni strane fra individui e individui. V'hanno persone che, per la specie, avrebbero il massimo valore come materiale di vitalità riproduttiva, ma sdegnano di accettare compromessi volgari ed immorali; e siccome non vogliono rompere di contrabbando una promessa solenne, e nemmeno hanno l'arditezza e forse neanche la possibilità pratica d'infrangere apertamente il vincolo legale, così rovinansi per cagione di questo loro amore riguardoso, il quale poi non giova punto alla specie. I caratteri volgari invece, pei quali non ha importanza alcuna la specie e ben poca la procreazione, sanno sottrarsi al martirio e appagano il loro cuore a spese della loro moralità civile.

I matrimoni convenzionali dunque – nove su dieci – che si contraggono in mezzo ai popoli inciviliti dell'Europa, sono profondamente immorali e in essi annidasi un pericolo grandissimo per l'avvenire della società. Coloro che li contraggono trovansi, presto o tardi, combattuti in modo tale fra i doveri giurati e l'amore inestinguibile, che a loro non è più possibile altra scelta all'infuori della viltà o della morte. In luogo di essere, cotesti matrimoni, una fonte di rinnovamento della specie, sono lo strumento di un lento suicidio.

II.

È colpa sopratutto dell'organizzazione economica dei popoli civilizzati, se il matrimonio, che in origine si pensava fosse la sola forma lecita dell'amore fra uomo e donna, è diventato la più grande menzogna della società, poichè solitamente lo si contrae senza tener conto della vocazione. Da esempi d'ogni giorno e, più ancora, dalla letteratura amena di tutti gli idiomi, il giovane e la ragazza apprendono che il matrimonio dev'essere giudicato come cosa ben distinta dall'amore, e perciò, quando si dànno la mano di sposi, essi fanno, nel fondo della loro anima, o netta o vaga la riserva che quella formalità non debba avere influenza alcuna sulle relazioni del loro cuore. La nostra organizzazione economica ha la sua base nell'egoismo; vede solo l'individuo, mai la specie; a favorire direttamente l'individuo volgonsi tutte le sue cure, e la specie è da essa interamente negletta; nell'economia dà origine allo sfruttamento; al presente sacrifica l'avvenire, e fra tutti i suoi guardiani, i suoi sostenitori, birri e e consiglieri, non ce n'è uno che faccia il paladino delle generazioni nasciture. Che importa ad una società, in siffatto modo organizzata, che la procreazione avvenga in condizioni le più sfavorevoli? La generazione vivente, non deve pensare che a sè stessa. Quando si riesce a menare una vita coi maggiori agi possibili, si crede di aver fatto il proprio dovere verso sè stessi, e non si ha più coscienza d'un altro dovere. La generazione ventura pensi per sè, e qualora, per cagione dei padri, cadesse in povertà intellettuale e materiale, tanto peggio per lei. I figli di matrimoni senza amore sono creature sventurate? Che importa quando i genitori abbiano avuto il loro tornaconto col matrimonio? I figli dell'amore senza matrimonio finiscono male in forza della condizione della loro madre, e diventano vittime dei pregiudizi dominanti? Che male c'è se l'autore dei loro giorni ha passato negli amplessi proibiti momenti deliziosi? L'umanità scompare dall'orizzonte dell'uomo; la solidarietà, che è pur un istinto primigenio tanto negli uomini quanto negli animali superiori, si isterilisce; i patimenti di un uomo non riescono più a turbare i sollazzi del vicino. E cotesta società non si determinerebbe a mutare una vita, nella quale l'individuo può trovare il suo momentaneo benessere, quand'anche sapesse che la razza umana dovesse finire con la generazione vivente. Per tal guisa anche l'istinto sessuale è diventato materia da sfruttamento egoistico, e siccome esso è il più vigoroso degli istinti del nostro organismo, così si può sfruttarlo senza tanti riguardi. Ecco perchè l'uomo e la donna cercano di trarre il maggior lucro possibile da un atto sacro alla conservazione e allo sviluppo della specie. Ma si deve proprio muovere rampogna all'uomo incivilito, quand'egli considera il matrimonio un'istituzione di collocamento e, aspirando ad esso, non scorge altro motivo determinante che il «chi offre di più?». Egli vede che il mondo apprezza una persona, a seconda dei beni di fortuna che possiede: vede il ricco prendere parte al convito, mentre Lazzaro, come ai tempi biblici, sta sulla soglia nella polvere; conosce nella lotta per l'esistenza gli stimoli e la possanza, e sa quanto sia ardua la vittoria; sa pure che egli non può fare assegnamento che su se stesso e sulle proprie forze, e che, soccombendo, non avrà confacente soccorso dalla cosa pubblica. E allora come si può meravigliarsi se esso considera il matrimonio unicamente dal vantaggio tattico, che ne può trarre nella lotta per l'esistenza? E perchè dovrebbe egli allora permettere che l'amore lo influenzasse nella scelta della sposa? Ma non ne avrebbe forse un miglioramento l'umanità? E che importa a lui l'umanità? Cosa fa per esso questa umanità? Gli dà forse da mangiare quand'egli ha fame? Gli dà un'occupazione quando egli non ha lavoro? Sazia forse i suoi bambini quando questi piangono per aver del pane? E se muore, è dessa che provvede alla vedova e agli orfani? No. Dunque giacchè essa non compie tutti questi doveri verso di lui, egli vuole pensare solo a sè stesso, considerare l'amore come un passatempo piacevole e far sì che il matrimonio aumenti la sua porzione di beni terreni.

Questo modo di pensare conduce, in breve tempo, la umanità civilizzata alla degenerazione; e la sua vittima immediata è la donna. L'uomo soffre poco in questo stato di cose. S'egli non si stima abbastanza forte, o non sente in sè il coraggio di assumere la responsabilità di creare una famiglia in mezzo ad una società, che è una nemica ed una sfruttatrice invece d'esser una tutrice, allora ei rimane scapolo, senza perciò rinunciare al pieno soddisfacimento dei suoi istinti. Essere scapolo non vuol mica dire essere astinente. L'uomo non ammogliato ha dalla società il tacito assenso di procurarsi i piaceri delle relazioni femminili dove può e come può: i suoi passatempi egoistici chiamansi successi e lo circondano di una certa gloria poetica, perchè nella società l'amabile vizio di Don Giovanni sveglia un sentimento, che è un miscuglio d'invidia, di simpatia e di segreta ammirazione. Se l'uomo si ammoglia senza amore e solo per conseguire materiali vantaggi, i nostri costumi gli permettono di cercare a destra e a sinistra quelle emozioni ch'egli non ha dalla moglie; ed anche quando il permesso non è assoluto, questo suo contegno non viene reputato un delitto, che lo escluda dalla comunanza della gente rispettabile. Ma ben diversa è la condizione della donna. Fra i popoli civili la sola via aperta alla donna, il solo suo destino è il matrimonio. Soltanto al matrimonio ella deve chiedere il soddisfacimento di tutti i suoi piccoli e grandi bisogni fisiologici. Se vuole esercitare i diritti concessi alla donna ben complessionata e sessualmente matura, se vuole che la maternità sia in lei cosa sacra ed anche se vuole soltanto guarentirsi contro la miseria materiale, deve maritarsi. Quest'ultima considerazione però non è applicabile a quella minoranza femminile formata dalle ragazze ricche. Quantunque molte di queste ragazze capiscano la profonda immoralità di un matrimonio senza amore, e alcune di esse spingano fino alla manìa il desiderio di unirsi all'uomo scelto dal loro cuore, in guisa da non vedere in ogni pretendente che un cacciatore di doti, tuttavia non sfuggono al fatale influsso corruttore, il quale nel matrimonio colloca al posto destinato all'amore il rozzo egoismo. Troppi sono gli uomini tanto vili da non agognare che la prebenda matrimoniale. Nulla tralasceranno per conquistare la giovane ricca, non già perchè l'amino, ma perchè vogliono la sua sostanza. Colla massima facilità asseconderanno ogni capriccio della ragazza: se essa chiamerà amore, eglino sapranno simularlo tanto più esagerato quanto meno lo sentono. La erede, essendo giovane ed inesperta, è probabilissimo dia la sua mano a quello dei pretendenti, che è il più indegno, perchè questi ordinariamente è il commediante più abile e più perseverante, e troppo tardi si accorgerà di avere sposato, non un uomo a lei affine, ma bensì un avido di danaro; non potendo perciò trovare nel matrimonio l'amore, lo cercherà all'infuori del matrimonio stesso, affrontando tutti i moralisti che la minacceranno del loro disprezzo. Ma queste ricche ragazze non sono che una piccola minoranza. Le altre, in forza dell'attuale organizzazione sociale, sono costrette a porre tutte le loro speranze nel marito, siccome quegli che, solo, può salvarle dalla vergogna, dalla miseria ed anco dall'inedia. Qual'è la sorte destinata alle ragazze senza marito? La denominazione popolare di zitellona è già una frecciata di dileggio. Solitamente la solidarietà della famiglia non si estende fino all'età matura dei figli. Morti i genitori, fratelli e sorelle si separano: ognuno va per la propria strada; il rimanere uniti è sentito da tutti come un peso e specialmente dalla ragazza, se ha delicatezza di sentimento; e così essa, non volendo essere un impaccio al fratello, nè alla sorella maritata, si troverà tanto isolata nel mondo, quanto non lo è nel deserto il beduino. Deve far casa da sè? Sarà una casa inospite e deserta. Nessun amico le deve tener compagnia; se no, sarà perseguitata dalle male lingue del vicinato. Le amiche poi sono ben rare e non sempre sincere; nè andrà certamente a cercarle fra le sue compagne di destino, perchè in una casa, che ha già tante e fin troppe malinconie ed amarezze, esse ve ne apporterebbero delle altre. Gli intelletti superiori daranno addirittura il consiglio ch'essa deve non darsi pensiero dei pettegolezzi delle femmine e far tesoro delle simpatie che sveglia. Ma quegli che parla così da saggio, perch'egli ha carattere forte ed indipendente, in virtù di quale diritto può esigere che una povera e debole ragazza rinunzi per tutta la vita all'approvazione e al rispetto dei suoi pari? La riputazione è un bene assolutamente essenziale; e tanto nella vita intima quanto nella esteriore dell'individuo ha influenza grandissima l'opinione de' suoi simili. E su questo bene non deve proprio aver diritto alcuno la ragazza rimasta nubile? In questo caso si può presagire ch'essa passerà i suoi giorni fra gente a lei straniera; più schiava che nel matrimonio; più esposta alla calunnia che la donna maritata; e con tormentosa trepidanza volgerà instancabilmente il pensiero alla propria riputazione, che la società vuole pura senza offrirle il suo premio naturale, – il marito. Lo scapolo batte i caffè e le trattorie; frequenta il club, che bene o male fa le veci della famiglia; va a spasso da solo; da solo viaggia ed ha mille risorse per deludere la freddezza e il vuoto della sua casa, che non alberga amore di moglie e di figli. Orbene, tutti questi conforti non esistono per la vecchia zitella, la quale, fatta triste da questa sua vita monca, trascinerà inesorabilmente i suoi giorni prigioniera solitaria. Se ha qualche bene di fortuna, difficilmente questo aumenterà, probabilmente anzi diminuirà o svanirà, perchè essa, per educazione e per abitudini, è meno abile dell'uomo ad amministrare, cioè a difendere una sostanza contro i numerosi suoi insidiatori. Ma se ella nulla possiede, la sua sorte tanto si fa fosca che diventa sconsolatamente buia. Alla donna non sono accessibili che poche professioni indipendenti e poco rimuneratrici. La ragazza del popolo non istruita, se fa la serva, campa, ma non riesce mai ad essere indipendente ed autonoma, e subisce quindi umiliazioni di ogni specie. Se si dedica al lavoro manuale, libero, morirà certo di fame, e se fa la giornaliera, guadagnerà press'a poco la metà di quanto guadagna l'uomo, quantunque entrambi abbiano quasi gli stessi bisogni naturali. Le ragazze del ceto medio sogliono dedicarsi all'insegnamento, il quale però in nove casi su dieci diventa per loro una schiavitù, come è quella della governante di fanciulli: in alcuni paesi possono, ma in piccolo numero, aspirare a qualche piccolo impiego subalterno, tuttavia una giovane istruita e dignitosa non stima mai che un tale impiego si confaccia alla sua missione, alle sue qualità e alle sue attitudini; ed animata da questo sentimento potrà sopportare dignitosamente anche la povertà. Del resto le ragazze che raggiungono quella mèta possono ancora chiamarsi fortunate. Le altre vivono povere, misere, incresciose a sè e agli altri, avvilite dalla coscienza della propria inutilità, impotenti a procurare una gioia alla loro gioventù, a guadagnarsi il necessario pane quotidiano ed assicurarsi il sostentamento per la vecchiaia. E per soprappiù, la ragazza che vegeta in solitudine tanto crudele deve avere perennemente e sovrumanamente una straordinaria fermezza di carattere; esigiamo insomma che questa donna afflitta, malcontenta di sè, che patisce la fame e il freddo e trema pensando alla sua vecchiaia, sia un'eroina. Ma la prostituzione sta in agguato e le tende insidie. Non può far un passo nella sua vita solitaria e sconsolata, senza che la tentazione la instighi in mille guise. L'uomo, che non ha il coraggio di obbligarsi a darle un durevole sostentamento, ha però l'ardire di chiederle in dono il suo amore, senza obbligarsi a ricambio alcuno: il suo infame egoismo le tende ostinate insidie, che sono tanto più pericolose in quanto che hanno, come alleati segreti, i più potenti istinti della donna. Ed essa dovrebbe, non solo sopportare pazientemente la miseria e la solitudine, non solo lottare contro un avversario formidabile, risoluto, ostinato, quale è l'uomo acceso da passione carnale, ma dovrebbe altresì vincere le proprie inclinazioni e i propri istinti sani e naturali, ribellandosi contro le menzogne e le ipocrisie sociali. Per uscire senza macchia da angustie siffatte ci vuole un eroismo, del quale neppur uno su mille uomini sarebbe capace. E il premio di tutti questi sforzi? Nessuno. La zitellona, che, come una santa, visse in mezzo a mille triboli, non trova un compenso neppure nell'intimo sentimento di avere, colle amare e penose sue privazioni, obbedito ad una gran legge della natura ed esaudito un imperativo categorico; anzi, più invecchia e più sente una intima voce che dice: «Perchè ho io lottato? A chi ho io giovato? Merita forse la società che, per far omaggio alle sue massime balorde ed egoistiche, si debba sacrificare la felicità propria? Non sarebbe stato mille volte meglio ch'io non avessi opposta resistenza e mi fossi lasciata vincere?». Se a tante giovani una sorte simile incute spavento, e se, senza badar tanto a inclinazioni e ad affinità elettiva, sposano il primo che sull'orizzonte si affaccia come pretendente, non hanno forse ragione? Vi sono cento probabilità contro una che lo stato matrimoniale, comunque esso avvenga, sia sempre più piacevole di quello che la odierna società serba alla vecchia zitella. Naturalmente la menzogna commessa dalla ragazza che si marita senz'amore non rimane invendicata. Pel marito non sarà una sposa fedele e nemmeno una massaia che faccia il dover suo. In forza del suo inappagato istinto di amore, essa non sarà mai sorda alla voce del suo cuore: l'emozione più piccola ed anche più vaga le sembrerà la tanto invocata rivelazione dell'amore e si getterà nelle braccia del primo uomo, che avrà saputo occupare, per un minuto, la sua mente leggera; ma presto si avvedrà di essersi ingannata e allora andrà guardando di nuovo all'intorno per trovare il desiderato vero e tanto spesso porrà il piede su questa perigliosa china, che alla perfine cadrà vergognosamente nella scostumatezza. Sarà ancora fortunata se, arrestandosi alla leziosaggine, non arriverà all'adulterio platonico o reale; o, meglio, se la coscienza della sua vita non pur anche completa, se il bisogno di scoprire l'uomo affine, destinato a far piena naturalmente la sua esistenza, si manifesteranno soltanto con quella specie di civetteria, che spinge ad azzimarsi con lusso, a correre ai balli e alle veglie, a cercare avidamente ogni occasione di avvicinamento con uomini estranei, ad esercitare la propria forza d'attrazione e a provare quella degli uomini. Piena di sè, essa non può che curare il proprio interesse e domandare alla vita che dei piaceri personali. Il suo egoismo non le permette di vivere al fianco del marito, di apprezzarlo e di immedesimarsi in esso. La casa in tutto ciò che personalmente non la concerne, è per lei cosa indifferente. Scialacqua senza riguardo alle fatiche dello sposo, perchè essa lo ha impalmato, unicamente perchè ella potesse vivere senza fastidi e a tutto suo agio. D'altra parte è cosa crudele, ma umana, il punirlo, perchè egli fu così poco avveduto di sposarla, senza prima essersi assicurato del suo amore. In tal modo si crea un circolo vizioso, il quale non rinserra che tristi cose. L'organizzazione egoistica della società fa della lotta per l'esistenza una cosa inutile, crudele e snaturata, e perciò tanto l'uomo quanto la donna cercano nel matrimonio non l'amore, ma soltanto un collocamento materiale, l'uomo ha per iscopo la dote; e la ragazza senza dote, timorosa che la si lasci in asso, accalappia il primo che capita e che possa mantenerla, e dopo le nozze essa diventa un animale superfluo, senza valore alcuno pel suo padrone, anzi una causa per lui di grandi spese. Molti uomini, che potrebbero benissimo mantenere una moglie, spaventati dall'esempio di cotesti matrimoni, ricusano di ammogliarsi, e così altrettante donne vengono condannate allo stato di zitellone. E mentre scemano generalmente le probabilità di trovare marito, cresce la smania di maritarsi e conseguentemente va sempre più dileguandosi la ragione dell'amore. In siffatte circostanze lo scoraggiamento a contrarre matrimonio si fa sempre più grande anche in coloro che pur aspirerebbero ad esso. E così l'uomo e la donna diventano nemici, che gareggiano a chi sappia essere maggiormente furbo per sfruttare il rivale. Nè l'uno nè l'altra è felice, nè l'uno nè l'altra è tranquillo. I soli, che, giubilando, si fregano le mani sono il padre confessore e il grande negoziante di mode, perchè questo stato di cose apporta ad entrambi numerosi clienti.

III.

L'organizzazione economica è la causa principale, ma non la sola che abbia fatto dell'istituzione matrimoniale una menzogna. Nella disarmonia tra forma e sostanza, tra matrimonio e amore, e nei frequenti tragici conflitti tra sentimenti naturali e coazioni convenzionali, ci ha pure colpa non poca la dominante morale sessuale, che è una conseguenza del cristianesimo. Cotesta morale giudica l'accoppiamento come se fosse un esecrabile delitto, e dinanzi ad esso si copre il viso, come se si trovasse dinanzi ad un orrore, il che però non impedisce che, di nascosto, lo guardi coll'occhio della libidine. Tutto ciò che appartiene alla vita sessuale, o che soltanto la ricordi, viene avvolto nel più pudico silenzio. Orbene, ciò è mostruoso; è inaudito. È tale una morale che non potrebbe durare un'ora, se tutti gli uomini, tutti senza eccezione, non si comportassero, quando in due o più stanno appartati, come se dessa neanche esistesse. Non avendo il menomo fondamento naturale, non è in modo alcuno giustificata. E perchè mai una funzione organica, che è la più importante, riguardando essa la conservazione della specie, dovrebbe essere meno morale delle altre, le quali non riguardano che la conservazione dell'individuo? Perchè il mangiare e il dormire dovrebbero essere atti legittimi, che si possono far noti, e l'accoppiamento esser dovrebbe invece un peccato ed una vergogna da occultarsi e sconfessarsi quanto più si può? La maturità sessuale non è forse il coronamento dello sviluppo dell'individuo e la procreazione non è forse il suo trionfo più eccelso e la sua manifestazione più gloriosa? Tutto ciò che vive – piante ed animali – sente nell'atto generativo la più alta sublimazione della sua vitalità e, con orgoglio, chiama la natura tutta a farne conferma: ecco perchè, in questa circostanza, i fiori dispiegano gli splendidi loro colori e la loro fragranza, gli uccelli il loro canto squillante, le lucciole la loro fosforescenza e i mammiferi il trambustìo delle loro ricerche e il rumore delle loro lotte. Solo l'uomo deve vergognarsi della sua più potente sensazione e nascondere il suo compiacimento come se fosse un delitto.

Ma non fu questa l'opinione degli uomini in tutti i tempi; essi non ebbero sempre Tartufo per moralista. E non intendo qui di alludere all'uomo in stato primitivo, ma bensì a uomini in istato di alta civiltà. Ci furono infatti civiltà intellettualmente e moralmente ricche, l'indiana e la greca per esempio, i cui ideali erano ben superiori a quelli dell'odierna civiltà: esse, in materia di relazioni sessuali, tenevano un contegno naturale e schietto; giustamente apprezzando il complesso organismo dell'uomo e non trovando che un organo potesse essere vergognoso a confronto d'un altro, non provavano ritrosìa alcuna davanti alle nudità, e la si contemplava con occhio casto e senza pensieri occulti e osceni; e nell'accoppiamento dei sessi altro non scorgendo essi che il santo scopo della procreazione, che appunto rende necessario e nobile quell'atto, sorgere non potevano, in una mente sana e completa, se non pensieri e concetti analoghi a quello scopo. La civiltà indiana e greca infatti non falsarono, nè intorbidarono i primitivi istinti umani così profondamente come fece la civiltà nostra, e perciò l'atto generatore, che è la fonte d'ogni vita nell'universo, suscitava in esse ammirazione spontanea e gratitudine. Venerati furono gli organi che con quell'atto vitale hanno immediata relazione; la loro immagine fu collocata, simbolo di fecondità, nei tempî, nei cortili, nelle abitazioni; crearonsi appositi Dei per la procreazione e dedicossi ad essi un culto, che solo ben tardi e in tempi di morale decadimento degenerò in sessualità immonda e sopratutto inutile. La gioventù, avendo sempre innanzi agli occhi quei simboli che svegliavano la propria curiosità, non poteva essere mantenuta in quella ignoranza contro natura, che è il precipuo scopo della nostra educazione. E siccome la mente, appena che di coteste cose cominciava a interessarsi, poteva benissimo farsi un esatto concetto dei fenomeni delle relazioni sessuali, così alla fantasia veniva tolta la possibilità di agire in modo morboso e di uscir fuori della diritta via. Ciò che a tutti era palese, più non aveva l'attrattiva che ha sempre il mistero e la proibizione, e perciò quella gioventù, semplice ed illuminata, era di costumi più incorrotta e da precoci voglie men tòcca della gioventù nostra, la quale, non essendo possibile, malgrado affannosi sforzi, mantenerla nella tanto creduta benefica ignoranza, va ad attingere le sue cognizioni alle fonti più impure e di soppiatto, e perciò in preda ad emozioni che avvelenano lo spirito e guastano i nervi.

Il radicale mutamento avvenuto nei principî della morale, lo si deve al predominio acquistato dalle idee cristiane della nostra civiltà. Le dottrine fondamentali del cristianesimo, come vengono esposte nei documenti più antichi di questa religione, sono l'una contro l'altra, in meraviglioso antagonismo; movono da due premesse contradditorie, che avrebbero dovuto assolutamente escludersi a vicenda, se il cristianesimo fosse stato istituito da un pensatore logico e illuminato. Da una parte si insegna: «Ama il tuo prossimo come te stesso; ama perfino il tuo nemico». E dall'altra si dice che la fine del mondo è prossima, che il desiderio carnale è il peccato più grave, che la continenza è la virtù più accetta a Dio e che la castità assoluta è la condizioni umana più desiderabile. E così il cristianesimo, insegnando l'amore al prossimo, elevava a dovere religioso l'istinto naturale dell'umana solidarietà e favoriva lo sviluppo della vita e la prosperità della specie; ma, condannando in pari tempo l'amore sessuale, distruggeva l'opera propria, obbligava l'umanità ad estinguersi e moveva alla natura una guerra che, usando una delle sue parole predilette, diremo diabolica. Il dogma dell'amore al prossimo doveva conquistare l'umanità, perchè si faceva forte dell'istinto che è più potente in lei, l'istinto della conservazione della specie. Il dogma della castità invece avrebbe resa impossibile la propagazione della religione novella, se esso non fosse stato predicato in tempi, nei quali la società era imputridita, l'egoismo più esecrando era sovrano e le relazioni sessuali, sviate dal loro scopo – l'incremento della specie – eransi così abbiettamente identificate coi sollazzi egoistici e così macchiate di ogni sorta di vizi, che non potevano che apparire cosa abbominevole alla nauseata coscienza dei buoni. Dileguatosi questo stato di cose, il cristianesimo capì che egli più non era che l'antidoto al romanesimo moralmente decaduto e non credette quindi più necessario di protestare con un eccesso di purità contro eccessi di vizio. Il tetro e misantropo dogma della castità passò in seconda linea. La Chiesa non lo comandò più a tutti i fedeli, ma solo a pochi eletti – preti e monaci – e, elevando a sacramento il matrimonio, fece una concessione alla natura. Il voto di castità però di frati e monache non impedì, specialmente nei conventi, dissolutezze enormi. Nell'evo medio, quando il cristianesimo esercitava il massimo potere sugli uomini, la scostumatezza era così intensa come all'epoca della decadenza di Roma; e dacchè esiste la religione, il dogma della astinenza non fu pienamente osservato che da persone malate di demenza religiosa; malattia che quasi sempre si accompagna a disordini o sviamenti della vita sessuale: tutti fenomeni di degenerazione cotesti che hanno il loro fondamento sugli identici mutamenti patologici del cervello. Il cristianesimo però tenne sempre fermo cotesto dogma come principio. E infatti, se la Chiesa santificò dei coniugi, che durante un lungo matrimonio non ebbero mai contatto carnale, lo fece appunto perchè, come principio, le relazioni sessuali sono sempre, a suo parere, un peccato, ancorchè nella vita pratica le tolleri. In ogni modo, la indefessa sua influenza educativa, attraverso lungo corso di secoli, riuscì a indurre la moderna nostra civiltà nella persuasione che l'amore sessuale sia una cosa vergognosa, l'astinenza una cosa morale e il soddisfacimento di uno degli istinti fondamentali d'ogni essere vivente un peccato meritevole delle pene più severe. È vero che nella cristianità, come nel paganesimo, ci sono degli stessi desiderî, e stessamente si bramano e si concedono i favori della donna, ma non c'è più quella emozione che nobilita, perchè confortata dalla coscienza di far cosa lecita e lodevole; c'è invece la modesta persuasione di battere una via proibita. E come se si trattasse di perpetrare un delitto che si deve tener occulto, si è obbligati ad abbassarsi fino ad atti di doppiezza e d'ipocrisia. E così la necessità di non confessare mai che lo scopo naturale della propria inclinazione è il possesso della donna amata, condanna ad essere perpetuamente menzogneri. Il sentimento cristiano non ammette che l'amore sia legittimo, e per conseguenza nelle sue istituzioni l'amore non spira mai. Il matrimonio è una di coteste istituzioni, e la sua natura, infatti, non è che inspirata dalla morale cristiana. Secondo la dottrina teologica, il matrimonio nulla ha da fare coll'amore scambievole dell'uomo e della donna. Essi, sposandosi, ricevono un sacramento, ma questo non vuol dire ch'essi debbano vivere d'amore l'uno per l'altro. A Dio anzi piacerebbe assai più che non ci fossero unioni. Il prete, che celebra davanti all'altare degli sponsali, chiede alla donna se è disposta a seguire come consorte lo sposo e ad obbedire a lui come a suo padrone, ma se essa lo ami, il prete non lo chiede perchè il sentimento dell'amore non è una cosa giusta per esso, e l'unione ch'egli ratifica co' suoi riti ha la sua ragione nel voto solennemente fatto davanti all'altare, ma non già nell'istinto umano ed organico, che appaia due esseri e insieme li lega.

Tutti i rapporti ufficiali che corrono tra la società e la vita matrimoniale sono informati dall'idea cristiano-dogmatica che l'amore carnale sia peccaminoso, mentre invece è il solo che sia naturale e sano. Il matrimonio è sacro: non si deve trasgredire il comandamento della fedeltà, anche quando questa fedeltà non dà la menoma soddisfazione al cuore dei coniugi. Ma la donna si è maritata senza amore e dopo s'imbatte in un uomo che sveglia in lei la passione amorosa. Orbene: la società non ammette la possibilità d'un tal fatto. Come? Essa ama? Non è vero! Ciò non dev'essere! Non si vuol creder vera tal cosa, sol perchè essa è amore. La donna ha marito; altro dunque non deve chiedere. Ha l'uomo a cui si è legata col giuramento d'un dovere; infuori di questo dovere più nulla esiste per lei. Se manca, è una peccatrice: la spada della giustizia pende sul suo capo, e tutti i ben pensanti la privano della loro stima. Al marito la società concede il diritto di uccidere la moglie infedele e, qualora troppo indulgente egli fosse, concede al giudice la facoltà d'imprigionarla, per dare un esempio. Si è una ragazza innamorata d'un uomo e, facendo senza l'intervento e i protocolli dei preti o dei funzionari dello stato civile, ha obbedito ai comandi della natura? Guai alla reietta! La gente per bene non la vuole in mezzo a lei: e perfino l'innocente suo bambino, frutto dell'errore di lei, viene segnato da una macchia, dalla quale non potrà mai più purgarsi. Anche il furto è proibito dalla società; tuttavia il giudice ha qualche volta compassione del ladro che rubò un pane per fame, e lo assolve. E ciò perchè, alle volte la fame può essere più forte del rispetto alle leggi sociali. Ma alla moglie invece, che amò malgrado il matrimonio, e alla ragazza, che amò senza il matrimonio, non si perdona. Non c'è scusa alla inosservanza della legge, che regola le relazioni sessuali. La società non vuole riconoscere che così l'amore come la fame possono essere tanto forti da spezzare i legami della legge scritta. Chi non dovrebbe credere che queste leggi e queste usanze non siano un trovato di vecchi spolpati e pietrificati e di eunuchi? Che in una società avente ragazze di vent'anni, giovinotti di ventiquattro e scarso numero di vecchi e di eunuchi, abbiano idee siffatte una certa padronanza, è possibile? Sì, diciamolo pure, padroneggiano anche, ma non padroneggiano la società. Questa ha trovato modo di acconciarsi alla legge inumana e all'usanza crudele, facendo, davanti ad esse, le viste di averle in rispetto, ma riservandosi di ridere alle loro spalle e fregarsi le mani. È un'ipocrisia questa noncuranza dell'amore. La società si cava il cappello davanti al giudice che condanna l'adultera e davanti alla donna severa che caccia la ragazza sedotta, ma applaude con frenesia il poeta che canta l'amore senza darsi pensiero alcuno del matrimonio. Ognuno in pubblico dice, con religiosa affettazione, che è peccato obbedire agli impulsi del cuore, ma in segreto si dà con entusiasmo in balìa ad essi, senza per ciò stimarsi da meno d'un altro uomo. La morale cristiana esiste come teoria, solo perchè praticamente nessuno le dà retta. Il vincolo di un'immensa cospirazione allaccia tutta l'umanità incivilita e stringe in associazione segreta tutti i suoi membri, i quali in piazza piegano riverenti il capo al precetto teologico, ma in camera sacrificano alla natura e inesorabilmente perseguitano tutti coloro che vogliono svelare i loro misteri eleusini, che insorgon contro l'ipocrisia generale ed hanno il coraggio di riverire anche in pubblico quegli Dei, a cui essi pure, come tutti gli altri, tributano omaggio nella camera dei loro Lari.

Per giudicare imparzialmente l'istituzione matrimoniale bisogna, per quanto ciò sia difficile, liberarsi dai pregiudizi in cui siamo cresciuti, e staccarsi dai precetti della morale cristiana, l'abitudine dei quali si è tanto immedesimata col nostro modo di pensare. Contrariamente al teologo, devesi considerare l'uomo una creatura naturale, concatenata a tutto il resto della natura. Per sapere se un'istituzione umana sia giustificata, è necessario esaminare se essa si accordi colla natura, cogli istinti e coi più alti interessi della umana specie. Applicando queste considerazioni al matrimonio, sorge forte il dubbio se esso possa reggere alla critica, e pare cosa ardua molto il dimostrare ch'esso sia uno stato naturale dell'uomo. Abbiamo già visto che l'organizzazione economica della società mena a matrimoni d'interesse e che la morale cristiana non vuole che si riconosca giustificato l'amore. Ma qui si impone un'ultima e penosa questione. Il matrimonio è desso una menzogna, perchè i più dei coniugi non si danno pensiero del possesso della persona, ma curano soltanto il materiale collocamento, ed è una coazione perchè la morale cristiana non ammette la necessità che, accanto al nodo stretto dal prete, esista quella cosa che è l'amore? O piuttosto, il matrimonio, come oggi esiste, non è in generale, una forma non naturale delle relazioni sessuali, e nella forma sua attuale, cioè, come nodo duraturo a vita, non sarebbe esso pure una menzogna, quando l'amore soltanto inspirasse le nozze e fossero dati agli affetti i loro pieni e naturali diritti?

In fatto di relazioni fra i due sessi, noi siamo oggi ancora così lontani dallo stato naturale che è assai difficile riconoscere con sicurezza ciò che, a questo riguardo, è fisiologico e necessario, e ciò che è artificiale, falso e guasto, ma che è apparentemente diventato naturale attraverso un secolare succedersi di fatti. Considerazioni ponderatamente critiche sopra i più intimi moti del cuore umano, messe assieme ai fenomeni che presenta la vita animale superiore, pare che inducano ad una risultanza scoraggiante per i fautori dell'ordine esistente. Il matrimonio, come si è storicamente svolto fra i popoli civili, riconosce quale unico suo principio la monogamia. Ma sembra che la monogamia non sia uno stato umano secondo natura e sembra pure che tra l'istituzione sociale e l'istinto dell'individuo esista un antagonismo fondamentale, che produrrà sempre conflitti tra il sentimento e la usanza, e in certi casi metterà anche in contrasto la forma con la sostanza, e in qualunque modo farà del matrimonio una menzogna: e sarà ben difficile che una riforma riesca a concretare questa soluzione, cioè che il matrimonio esteriormente e in tutti i suoi rapporti monogamici esprima l'intima unione e la simpatia sessuale.

L'istituzione matrimoniale – come mi sono già studiato di provare – riposa sul presentimento o sul ragionamento che l'interesse della conservazione e del perfezionamento della specie richiegga che l'istinto sessuale venga invigilato dalla generalità. Ma la forma monogamica, che teoricamente ha il matrimonio, non è un'emanazione dell'interesse della specie, non è una condizione vitale della razza, conseguentemente non è opera dell'istinto di conservazione, ma bensì un risultato dell'organamento economico della società e quindi, probabilmente, passeggera come cotesto stesso organamento. Il concetto che il matrimonio debba avere la forma della monogamia, concetto semi-inconscio forse, ma tuttavia abbastanza chiaro per poter essere tradotto nelle leggi e usanze, pare sia sorto dal seguente ordine di idee: «In una società che non conosce solidarietà economica, in una società in cui ognuno lavora per sè e non pensa che a sè, nè s'inquieta se il vicino va in rovina, i figli morirebbero d'inedia se non venissero allevati dai loro genitori. La madre non può da sola sobbarcarsi all'incarico del mantenimento dei suoi figli, perchè, in questa stessa egoistica società, la donna essendo più debole, viene dall'uomo che tanto abusa della sua forza, esclusa da tutti i mestieri proficui e facili, vale a dire dai soli mestieri a lei adatti, e perciò, se col suo lavoro quasi non riesce a mantenere sè stessa, meno ancora, riescirà a mantenere i figli. Dunque bisogna costringere l'uomo ad aiutare la donna a portare questo peso. Questa coazione non può avere efficacia che in un modo solo, cioè temprare una catena, la quale leghi l'uomo indissolubilmente alla donna, ch'egli desidera far diventar madre. Questa catena sia il matrimonio a vita. E per poter precisare il padre a cui spetta il mantenimento del bambino, ed eliminare il pericolo di addossare ingiustamente ad altri il dovere di mantenerlo, si stabilisca che un uomo non debba aver figli che da una sola donna e la donna non ne debba avere che da un sol uomo. Questa è monogamia. Le condizioni dei coniugi sono semplici e facili. Vuoi tu prender moglie? Ebbene impegnati di lavorare per lei e per i figli nascituri fino a che ti duri la vita. Ti senti poscia stufo di tua moglie? Tanto peggio per te. Adesso l'hai e la devi tenere. T'avvedi ora di aver fatta mala scelta e d'esserti ingannato quando amoreggiavi con lei? Dovevi esaminar meglio e riflettere con maggior ponderazione. La scusa non è ormai più ammissibile. Ti sei adesso innamorato ardentemente d'un'altra donna? Ciò non ci riguarda. Tu devi proseguire a portare il peso di tua moglie e dei tuoi figli, e noi, società, non possiamo tollerare che tu ti scarichi sulle nostre spalle».

L'istinto di conservazione della specie mai non arresta la sua attività, finchè egli ha forza vitale. Perciò in una organizzazione economica che s'impernia sull'egoismo e sull'individualismo, il solo modo che la specie possa avere per assicurare la vita della donna e dei figli, cioè la propria conservazione, è precisamente il matrimonio indissolubile. Le nostre istituzioni economiche dovevano dare, come conseguenza, le nostre istituzioni matrimoniali. In pratica – l'abbiamo già detto – il matrimonio è diventato uno strumento per appagare l'egoismo dei genitori, perchè realmente non si fanno nozze per amore, nè a seconda delle leggi di selezione, nè preoccupandosi della discendenza, ma è pur vero che, intenzionalmente, è un'istituzione fatta in favore – un favore certamente malinteso – della conservazione della specie, non in favore quindi dei genitori, ma dei figli. La generazione adulta pensa ch'essa deve far sacrifici a pro' della generazione non ancora giunta a maturità o non ancora nata, e prende in considerazione più i bisogni dello stomaco dei piccoli, che i bisogni del cuore dei grandi; inflessibile nei paesi che interamente soggiacciono ancora al predominio delle idee teologico-cristiane; un po' meno in quelli ove il progresso ha fatto germogliare concetti più naturali e più umani. Il cattolicismo, come abbiamo visto, considera l'amore una cosa senza giustificazione, un peccato; è regola, per esso, che non si debba concedere scioglimento di matrimonio, nè si debba ammettere che due persone possano avere reciprocamente sbagliato, e, se sbaglio ci fu, possano assicurare la loro felicità col divorzio. I popoli invece emancipati dal cattolicismo fanno questa concessione all'amore, cioè ch'esso esiste, che ha dei diritti e che può manifestarsi anche infuori del matrimonio, ma la fanno di mala voglia e a mezzo; permettono il divorzio, ma con molte difficoltà, e perseguitano i divorziati con pregiudizi odiosi e spingono la crudeltà fino a proibire di sposare la persona per amore della quale avvenne la separazione e che già la si amava ancora prima del divorzio: è una proibizione cotesta veramente orribile e per la sua stupidità e per la sua inumanità.

Dal punto di vista della organizzazione economico-egoistica tutto ciò si presenta perfettamente logico, ma dal punto di vista fisiologico e psicologico si vedono sorgere delle gravi obbiezioni. Il matrimonio, dunque, è a vita. Prendiamo il caso più favorevole: i coniugi si amano davvero, Ma l'amore durerà esso fino a che duri la vita? E può durare tanto? E i due coniugi possono seriamente promettersi fedeltà fino alla morte? Non commettono essi una temerità, una sventatezza, quando garantiscono l'immutabilità dei loro sentimenti? I poeti, ai quali si deve dare il merito di aver disperatamente imbrogliata e sconvolta cotesta questione, vi rispondono senza tanti indugi. Essi tengono per indubitato che il vero amore dura eternamente. «Dimmi, come finì l'amore? Non fu amore se finì», scrive Federico Halm. Non fu ardore se finì; ciò è facile a dirsi dopo. Ma chiunque nella vita abbia occhi per vedere, può presentare cento esempi al corrivo poeta lirico e narrargli amoreggiamenti che cominciarono col più grande ardore e poi rapidamente e totalmente si smorzarono. Se il poeta, in questo caso, si volesse appagare dicendo che quello non era amore vero, dovrebbe però anche permettere che obbiettando, gli si facesse questa domanda: Come si può distinguere l'amore vero da quello «che non lo fu», dappoichè quello «che fu», tanto al suo nascimento quanto nella breve sua esistenza, ebbe una rassomiglianza tale coll'altro, che lo si poteva benissimo scambiare con esso, e suscitò anche nelle rispettive persone le stesse emozioni, le incitò alle medesime azioni, coll'identico codazzo di rumori e concitazioni, di entusiasmi e disperazioni, di tenerezze e gelosie? Sì, vi sono casi in cui l'amore finisce con la vita. Ma indagini ponderate troverebbero forse, in quasi tutti cotesti casi, che questa durevolezza d'amore dipende da circostanze favorevoli, dalla potenza dell'abitudine, da casuale assenza di perturbazioni e tentazioni; in una parola, da influenze indipendenti dai coniugi, le quali almeno hanno una forza pari a quella che deriva dalla qualità dell'affetto. Non la neghiamo l'esistenza di questi casi. In essi il matrimonio indissolubile è uno stato sincero, naturale, specifico. Forma e sostanza vi sono in perfetta armonia, e l'unione esterna, visibile è l'espressione dell'unità intima. Ma ammesso che tali casi esistano, come vogliono i poeti lirici, sono però rarissimi. Ora in quale condizione devono trovarsi rimpetto all'istituzione matrimoniale, i numerosi individui che, in un dato momento, hanno seriamente creduto di amare, e che, dopo mesi od anni e qualche volta anche subito dopo, avvicinando altra persona, s'accorgono d'essersi ingannati? Devono darsi fretta questi innamorati di sposarsi indissolubilmente? Ma raffreddandosi prestamente l'amore, il loro legame diventerà un peso insopportabile, tale come se non si fossero amati mai. Devono allora aspettare fino a quando si saranno proprio intimamente persuasi che il loro amore durerà fino alla tomba? Ciò sarebbe un po' difficile. Siccome l'indole reale dell'affetto non può veramente essere accertata, se non quando l'affetto è finito, così gli amanti dovrebbero aspettare fino all'ultimo istante della loro vita, per poter dire con coscienza: «Il nostro amore era il vero; tutta la nostra vita esso durò; ora possiamo farci seppellire, senza il timore che l'uno si sia sentito stufo dell'altro». Se, come condizione preliminare del matrimonio, si volesse far sempre indagini così severe e conseguire convinzioni certissime, l'umanità dovrebbe rassegnarsi a non più veder sposi. È bene che Romeo e Giulietta siano morti giovani. Se la tragedia non finiva col quinto atto, io penso che forse si sarebbe ben presto vociferato di discordie in seno all'interessante giovane coppia. Io ho forte il timore che, dopo alcuni mesi, Romeo si sarebbe dato ad un'altra amante, e Giulietta, abbandonata, avrebbe cercato conforto in qualche nobile veronese. Sarebbe orribile, certamente dopo la scena del balcone, un processo di divorzio come epilogo. Ebbene, siccome io conosco Romeo e Giulietta, oso asseverare che ciò sarebbe accaduto senza alcun dubbio, perchè tutti e due erano molto giovani, molto appassionati, molto imprudenti e molto facili ad essere impressionati. L'esperienza c'insegna, che un amore sorto in un ballo, e originato dalla prima impressione di una apparenza fisicamente bella, molto non dura al di là di quelle notti, nei crepuscoli delle quali credesi di udire «l'usignuolo, ma non l'allodola». Malgrado ciò non si sono forse realmente amati Giulietta e Romeo? Vorrei sapere un po' chi potrebbe dubitarne. Avrebbero dovuto essi non sposarsi? Sarebbe stato un peccato mortale, tanto dal punto di vista della selezione umana, quanto da quello della poesia. Ed ancorchè il loro matrimonio avesse preso una cattiva andatura, ciò sarebbe stato non già una prova contro il loro amore, ma solo una prova contro il carattere antropologico che si vuol dare al matrimonio.

La verità è che, fra diecimila coppie, non se ne trova una nella quale gli innamorati si amino davvero per tutta la vita e che inventerebbe pei suoi bisogni la monogamia a vita, se questa non ci fosse. Senza dubbio novemila e novecento di quelle coppie contengono individui, che in un certo stadio della loro vita sentirono violento il desiderio di unirsi a una determinata persona, che provarono la piena contentezza del desiderio appagato e che grandemente soffersero quando insoddisfatto rimaneva il desiderio; eppure, ciò malgrado, presto o tardi svilupparonsi in essi sentimenti ben diversi e soventi contrari affatto alla persona che prima era l'oggetto della loro passione amorosa. Queste coppie d'innamorati hanno essi il diritto di unirsi in matrimonio? Certamente. L'interesse della specie esige che questa unione avvenga. Ma il nodo indissolubile potrà conciliarsi con la felicità perenne dei coniugi? Nessun osservatore sincero della vita reale, può a questo proposito, dare un'affermativa.

L'uomo non è un animale monogamo e le istituzioni, che riposano sul principio della monogamia, sono tutte più o meno innaturali e più o meno gravose al genere umano. Le idee tradizionali, che mettono radice nelle nostre facoltà ereditarie, nulla provano contro questo fatto biologico. Ascoltinsi attentamente le misteriose voci del cuore degli amanti. L'amore a una persona riempie esso talmente l'esistenza dell'amante, che non ci sia più posto per un desiderio, od anche solo per un riguardo che abbia per oggetto un'altra persona? Io lo nego. Chiunque sia sincero, confermerà che uomini e donne, anche nel più alto parossismo di un amore recente, hanno nell'animo loro un angolo occulto che non è illuminato dai raggi di un amore concreto, ma che è però il rifugio di tutti i germi, delle simpatie e voglie contrariate. Per ispirito di onestà a questi germi stringonsi i freni, e al loro accrescimento oppongonsi ostacoli, ma però si sente di averli in petto, e si sa che ben presto diventerebbero grandi e potenti, se non si ponessero impedimenti al loro sviluppo. Per quanto scandaloso possa parere, pure voglio dirlo: si può amare contemporaneamente e con quasi eguale tenerezza parecchie persone, e non si mente quando a ciascuna si dice di amarla davvero. Sia pure una persona, quanto si vuole, innamorata di un'altra, essa non cesserà mai di subire la influenza di tutto il sesso. La donna più casta e più innamorata rimane continuamente parte della generale femminilità, come l'uomo più onesto e più innamorato non cessa mai di far parte della generale mascolinità; l'uno sente sempre, come l'altra, la naturale attrattività del sesso opposto, e questa generale attrattività, date alcune favorevoli circostanze, può diventar il punto di partenza di una particolare nuova affezione; così il primo amore ordinariamente altro non è che l'epilogo e il trasferimento di una preesistente propensione generale verso l'altro sesso, e che di solito, si personifica in modo determinato nella prima persona che le circostanze fanno conoscere più da vicino e qui – lo ripeto a bella posta – io non ho davanti a me che donne caste e uomini onesti, che sanno governare le loro passioni. Non parlo della donna nata con le qualità di sgualdrina, nè degli uomini che sono libertini dissennati e il cui numero è assai più di quello che la morale codificata lascia vedere. La fedeltà incondizionata non è nella natura umana; e non è un fenomeno fisiologico che possa accompagnarsi all'amore. Che essa venga richiesta è un'emanazione dell'egoismo. L'individuo vuol essere solo a possedere la persona amata; egli vuol essere per lei tutto, e vuole che essa sia l'esatto riflesso della sua immagine, perchè una tal cosa è, al cospetto degli altri, la più alta affermazione e la più potente manifestazione di sè stesso; l'egoismo e la vanità trovano nella contemplazione di questi effetti la massima loro soddisfazione. Come uno sente di essere un individuo intero, completo, quando in libera lotta vince un avversario, forza contro forza, uomo contro uomo, così egli sente con gioia la pienezza della propria individualità, quando si avvede di avere l'intero possesso di un'altra persona. Richiedere fedeltà non vuol dir altro che estendere, più largamente e più gradevolmente che si può, i confini della propria influenza su altri, come la gelosia altro non è che l'orrenda e dolorosa coscienza del restringimento di questi stessi confini. Perciò si può essere gelosi senza amare, come si può voler vincere un compagno in una gara alla lotta senza odiarlo. Nell'un caso come nell'altro non è in ballo che la vanità, il desiderio di sentirsi valente; è una questione di supremazia, di forza, di ginnastica fisica. E così si chiede ad altri fedeltà senza obbligo di reciprocanza. La prova che la fedeltà non è lo scopo naturale dell'amore, nè è promossa dai bisogni della procreazione, ma è una condizione artificialmente appiccicata alla razza umana ed un'emanazione dell'egoismo, della vanità e dell'esclusivismo, l'abbiamo appunto in questa assenza di reciprocanza. Se qui fosse questione di necessità organica, la fedeltà dell'uomo si considererebbe un dovere imprescindibile quanto quello della donna, ma siccome non è qui questione che d'una pretesa egoistica, così l'egoismo del più forte doveva vincere, nello svolgersi successivo dei costumi, quello del più debole, ed essendo l'uomo il più forte, fu egli che ha formato, a proprio vantaggio e a danno della donna, le leggi, i costumi, i criteri e i sentimenti. Ei vuole dalla donna una fedeltà incondizionata, ma a lei non riconosce lo stesso diritto verso di lui. Se essa manca, commette un peccato mortale, il di cui minor castigo è il generale disprezzo: ma se egli commette un'infedeltà, questa non è allora che un peccatuccio geniale, che la legge non punisce, che la società accoglie con un sorriso benevolo e con indulgenza, e che la moglie – se pur ha dato importanza alla cosa, il che sempre non avviene – perdona alla fine sotto l'influenza degli abbracciamenti e delle lagrime. E questa ingiustizia dei due pesi e delle due misure diventa ancor più grave in forza della circostanza che l'infedeltà dell'uomo e la infedeltà della donna non avvengono in condizioni identiche, imperocchè se è la donna che pecca, questa è quasi sempre passiva; è l'uomo che la induce alla tentazione, cioè una potenza indipendente dalla sua volontà; essa soggiace ad una forza superiore alla sua resistenza; ma se è l'uomo invece che pecca, egli è parte attiva; fa perchè vuole: un casto Giuseppe ed una signora Putifarre fuori della Bibbia si trovano ben di rado; è l'uomo che dà principio al peccato, è egli che spontaneamente lo cerca, è egli che lo commette con un concentramento di premeditati intendimenti, con un vero spiegamento di forze e malgrado una resistente difesa. A questo proposito l'egoismo mascolino più brutale si rinvenne nelle Indie. Là l'uomo concepisce il possesso della donna come una cosa assoluta, e da essa pretende così ferocemente la fedeltà, che la vedova ed anche la fidanzata sono obbligate a darsi la morte sul rogo, quando muore il marito o il fidanzato, mentre l'uomo, se le muore la moglie, non deve nemmeno torcersi un capello, e può anzi, senza che alcuno lo disapprovi, coricarsi al ritorno dai funerali in un nuovo talamo. In Europa l'egoismo mascolino non ha preso forme così micidiali. Solo alcuni poeti sentimentali e isterici si spinsero fino a pretendere che la fedeltà debba sopravvivere all'amato oggetto, e ci hanno perciò delineate delle figure pallide e tisicuzze, che condannansi da sè ad un eterno lutto e ad una perpetua astinenza, perchè non hanno potuto sposare la persona amata o perchè morì. Questi fantasticanti però erano almeno così equi, che decretavano l'uguaglianza dei doveri nei due sessi, e i loro Toggenburg erano tanto uomini quanto donne. Ma in coteste figure lettori di sentimenti sani non hanno fede, e benchè siano un'imitazione della realtà, le hanno in conto di nature morbose e degenerate, le quali convertirono in una virtù poetica uno stato patologico dell'animo e del corpo. I costumi europei ammettono, in pratica e in teoria, che l'amore possa rompersi, che si possa amare più volte e che la fedeltà non debba durare quando più non dura l'amore; tant'è vero che riconoscono moralissime le seconde nozze dei vedovi e in niun modo meritevoli di critiche da parte della società. Se in qualche paese la donna fosse stata più forte dell'uomo, senza dubbio le nostre idee sulla fedeltà avrebbero preso tutt'altra forma. Allora l'incostanza della donna sarebbe stata una geniale debolezza, che somiglierebbe un po' al trastullo; e l'infedeltà dell'uomo avrebbe avuto un significato tragico. Si esigerebbe dall'uomo non ammogliato, e sopratutto prima del matrimonio, la stessa castità che oggi si esige dalla donna. Don Giovanni si chiamerebbe donna Giovannina, e al teatro piangeremmo a calde lagrime sul destino del povero ed innocente Otello, che verrebbe strozzato dalla selvaggia e gelosa Desdemona.

Non mi dissimulo la difficoltà non piccola di sciogliere decisivamente, in mezzo agli odierni nostri costumi e principî di morale, la questione della fedeltà e della naturale durabilità dell'amore. Guardando agli animali superiori ci avvediamo tostamente che la passione del maschio per la femmina dura finchè dura la brama; o, tutt'al più, si prolunga per alcune settimane, che chiameremo la luna di miele; e ci avvediamo altresì che la reciproca fedeltà, che esiste solo in alcune specie di animali, cessa alla nascita della prole. Il nostro orgoglio umano si ribellerà con la massima violenza, ma è pur forza che frughiamo nelle analogie del regno animale, governato da leggi vitali identiche alle nostre ed eguali a noi biologicamente, per poter conoscere se le abitudini umane siano naturali e necessarie, oppure artificiali e contingenti. Questo metodo analogico ci indurrebbe a credere che l'amore si esaurisca conseguendo il suo scopo e dando compimento alla sua missione, precisamente come cessa la fame quando non si sente più il bisogno di mangiare; e perciò compìto un atto d'amore con la nascita d'un bambino, possa la donna cominciare un nuovo atto con nuovi attori. Se tal cosa, come pare, è la condizione vera e naturale della sensualità umana, il matrimonio indissolubile non avrà più alcuna giustificazione organica e ben sovente, cioè ogni volta che la luna di miele tramonta, oppure che nasce un bambino, diventerà per forza una semplice formalità, una menzogna, e provocherà conflitti fra l'inclinazione e il dovere, ancorchè esso sia stato, in origine, concluso per amore. Non nego che ci siano moltissimi argomenti contro un ragionamento, la di cui logica conclusione sarebbe l'abolizione del matrimonio e l'uso del libero accoppiamento degli animali. Il primo argomento contrario è questo: può essere benissimo che l'istinto umano e naturale sia poligamico e che esista la tendenza a desiderare l'avvicinamento contemporaneo o successivo con più persone dell'altro sesso ma l'uomo ha anche altri istinti, ed è precisamente còmpito della scienza dei costumi l'educare la volontà umana in modo da poter essa combattere e reprimere quegli istinti che ha riconosciuto cattivi. Orbene: quest'argomento, pur troppo, non è convincente. Prima di tutto dovrebbesi provare che l'istinto poligamico sia nocivo alla conservazione e allo sviluppo dell'umanità, perchè soltanto in questo caso sarebbe giusto il dichiararlo cattivo; poi devesi riflettere che l'incivilimento, il quale è pur riuscito a domare altri istinti, non riuscì però mai a sopprimere l'istinto poligamico, malgrado che la Chiesa lo minacciasse delle sue pene infernali, che la legge lo condannasse e che la morale ufficiale lo dichiarasse indecente. Nei paesi inciviliti si pratica la poligamia a dispetto della monogamia legale. Ben difficilmente, su centomila uomini, se ne troverebbe uno che potrebbe giurare sul letto di morte, che, in tutta la sua vita, non ha avuto relazione che con una sola donna; e se il precetto monogamico viene dalle donne più rigorosamente osservato, non è  già perchè ad esse manchi la tendenza a non darsene pensiero, ma è perchè i guardiani della morale ufficiale vigilano con maggiore severità sulla donna e condannano le sue ribellioni assai più duramente di quelle dell'uomo. Un istinto quindi che con tanta tenacità e con tanto successo resiste alle leggi e alla morale, deve avere una base ben più profonda di quella degli altri istinti, che l'incivilimento ha potuto domare. Ha maggiore importanza un altro argomento. L'amore umano quantunque sia, principalmente, la brama di possedere una data persona per scopo di procreazione, è pur anco qualche cosa di più; è un piacere che ci viene dalle qualità morali della persona; è dunque anche amicizia. E questo è appunto quell'elemento dell'amore, che sopravvive all'elemento fisiologico. Sì, ciò che si sente prima del possesso della persona amata, non è la stessa cosa di ciò che si sente dopo; ma è però sempre qualche cosa di elevato e di efficace, che può creare benissimo il desiderio ed anche la necessità di una convivenza che duri per tutta la vita; la qual cosa sarebbe motivata non più dallo scopo naturale del matrimonio, che è la procreazione, ma invece dal bisogno di stringere relazione fra una persona educata a nobili sensi ed un'altra avente sentimenti consimili. L'amore, anche nell'animo più fedele ed anche quando esso fu originariamente potentissimo, subisce o dopo la luna di miele o dopo la nascita del primo bambino, una trasformazione, la quale, senza essere una sicura e completa guarentigia contro il divampare di una nuova passione, è però tale che non fa sentire incresciosa la catena del matrimonio. Ma, a facilitare alla volontà la lotta contro gli istinti poligamici, ci sono altre circostanze. Quando la convivenza di due persone, che si sono amate e hanno perciò vivificata l'esistenza fra loro di sentimenti armonizzanti, ha durato per qualche tempo, essa diventa un'abitudine che sorregge potentemente la fedeltà. Forse non sentiranno più neanche, l'uno per l'altro, un briciolo d'amore e forse neppure d'amicizia, e tuttavia la comunanza perdura e perdura eziandio con fermezza. Come nel processo della pietrificazione spariscono a poco a poco, per esempio in una radice d'albero, tutti gli elementi primigeni e vengono sostituiti da eterogenea materia terrea, che va ad occupare esattamente il posto, da cui furono scacciate le primitive molecole organiche, finchè più nulla rimane dell'interna struttura, pur stando ferma la forma esteriore, in guisa che l'apparenza della radice rimane illesa; così nella trasformazione dei sentimenti l'abitudine si sostituisce alle particelle dell'amore che s'invola, particelle differenti, sicchè, quando l'amore si è del tutto dileguato, resta pur sempre la forma del vincolo a vita delle due persone, forma, la quale, quantunque stecchita, fredda o anche morta, permane e conserva una forza di resistenza. Quando il matrimonio è favorito da figliuolanza, le tenerezze dei genitori si riversano su essa e nel loro animo germoglia un nuovo amore, il quale si avviticchia egualmente e al padre e alla madre, come l'edera che coi suoi rami si attortiglia a due alberi, indissolubilmente li unisce e li avvolge di verdi foglie, anche quando essi sono morti e disseccati. Inoltre, più dura il matrimonio, più s'invecchia e l'istinto dell'amore s'indebolisce per cause naturali, e se anche non scompaiono i germi di nuove inclinazioni, tuttavia ogni anno che passa rende più facile alla volontà e alla ragione d'impedirne lo sviluppo. E finalmente, dopo il crepuscolo vespertino dell'amore, rimane per tutta la vita un ricordo così dolce ed intimo, che dispone alla gratitudine verso la persona che si è amata e induce a tenerla come compagna. Per tutti questi motivi potrà essere utile unire monogamicamente a vita persone, ancorchè le loro doti fisiche e intellettuali le abbiano originariamente disposte alla pluralità di relazioni contemporanee o successive. Ma vi saranno pur sempre casi numerosi, nei quali nè l'amicizia che si concatena all'amore, nè la gratitudine che sussegue, nè l'abitudine nè l'età matura, nè il legame dei figli comuni potranno mai impedire il sorgere d'una nuova passione amorosa; non c'è più allora rispetto verso la fedeltà, e il matrimonio non si può più giustificare. La società stessa ammette che tali casi possano avvenire, e nei paesi progrediti ha infatti stabilito il divorzio. Con esso però la natura non ha ancora conquistato i suoi diritti. L'ipocrito pregiudizio, che s'accompagna all'austera teoria monogamica, persegue gli sposi separati e li segna di una piccola macchia, la quale li fa scendere ad una categoria di persone che non sono più interamente rispettabili. La qual cosa fa sì che caratteri deboli e timidi preferiscano la menzogna alla verità, preferiscano, cioè, d'ingannare piuttosto il coniuge che aprirsi lealmente con esso, e di raggricchiarsi vilmente in un matrimonio macchiato ed iniquo per non fare nella società la figura di gente divorziata. La società deve invece avvezzarsi a considerare i divorziati come persone coraggiose e leali, che non ammettono transazioni con la loro coscienza e che risolutamente spezzano la forma, quando questa è diventata vuota e ad essa ribellansi i loro sentimenti naturali. Quando coteste idee si saranno generalizzate, allora solo verranno ridati al cuore umano i suoi diritti e al matrimonio la veracità e la santità; solo allora la depravazione e la civetteria più non potranno addurre il pretesto dell'amore, e quell'esecrabile delitto, che è l'adulterio, non sarà più commesso che dalle persone più volgari e abbiette.

Le nostre ultime indagini dovrebbero essere dedicate alla questione, se il legame a vita con una sola persona si accordi generalmente alla natura umana o se, presto o tardi, sia esso obbligato a diventare una menzogna, ancorchè in origine sia stato creato dall'amore. Quanto però siamo ancor lontani da uno stato di cose, il quale imponga al consorzio civile la necessità di fare queste indagini! Non è possibile avviarsi alla soluzione di cotesto ultimo problema antropologico, cioè se si ami una sola volta e se con la monogamia si svolga pienamente l'istinto della procreazione, quando prima non si ottenga che l'amore sia la condizione preesistente al matrimonio e che il vincolo ufficiale riposi, almeno nel momento dello sposalizio, sulla reciproca simpatia degli sposi. Ma a ciò si oppone l'attuale organizzazione economica della società. Finchè l'uomo non è sicuro di avere lavoro continuo, e, con esso un'aggradevole esistenza, egli cercherà sempre nel matrimonio un utile materiale, e, non scorgendovelo, sfuggirà le nozze, preferendo le sudicie soddisfazioni che gli offrirà la prostituzione e quelle relazioni passeggiere, che gli impongono poca o nessuna responsabilità. E la donna, finchè nel matrimonio vedrà l'unica sua via e l'unico suo collocamento, agguanterà sempre il matrimonio, senza darsi pensiero dell'amore, ma per trovarsi dippoi spaventosamente infelice e moralmente sprofondata nel fango. Nulla muteranno nella orribile sorte, che questo stato di cose impone sopratutto alla donna, quei ciarlatani che propugnano la così detta emancipazione della donna come il rimedio alla più grave delle malattie sociali. Non intendo far qui una critica profonda del concetto della emancipazione della donna; voglio soltanto con brevi parole far spiccare che con la completa parificazione dei sessi la lotta per l'esistenza assumerebbe forme ancor più orribili di quelle che ha oggi. Quando la donna diventasse in molti rami d'attività una seria rivale all'uomo, sarebbe, essendo essa più debole, schiacciata senza riguardo alcuno. Una creazione dell'agiatezza e dell'ozio è la galanteria; e il bisogno e la fame ucciderebbero questo sentimento sul quale le donne pur fanno tanto assegnamento, quando pensano ad una società, in cui la donna debba rivaleggiare con l'uomo per un tozzo di pane. I lavori più gravi, e perciò più necessari, dovranno sempre essere fatti dall'uomo, ed egli assegnerà ad essi un prezzo maggiore di quello dei lavori fatti da donne, precisamente come oggi, in cui i lavori della donna sono rimunerati meno di quelli dell'uomo. E perchè? Per questo solo ed unico motivo, che l'uomo ha la forza di elevare a legge la sua opinione e di far valere la sua volontà. La donna ha nella civiltà un posto elevato e dignitoso, unicamente perchè è rassegnata e contenta d'essere il complemento dell'uomo e di riconoscerne la materiale superiorità. Ma, quando essa tentasse di mettere tutto ciò in forse, ne sentirebbe tosto e forzatamente gli effetti. La donna emancipata del tutto, indipendente dall'uomo, ed anzi, in molti casi, sua nemica per interessi in contrasto, verrà ben presto relegata in un cantuccio. Ci sarà lotta, lotta aspra; e si sa già chi vincerà in essa. Cotesta emancipazione mette l'uomo e la donna nelle naturali e rispettive loro condizioni di specie superiore e di specie inferiore, e, siccome l'uomo è meglio munito per la lotta dell'esistenza, così il risultato sarà che la donna cadrà in uno stato di dipendenza e schiavitù peggiore di quello dal quale l'emancipazione avrebbe dovuto liberarla. Lo scopo dei predicatori dell'emancipazione è di rendere possibile alla donna di vivere senza dipendere dall'uomo e senza aver bisogno del matrimonio. Questo metodo per curare un male, avrebbe presso a poco il valore delle proposte d'un filantropo, il quale in tempo di carestia si mettesse a studiare i modi più efficaci per avvezzare gli uomini a non più mangiare. Qui è il caso non già d'insegnare agli affamati di far senza del nutrimento, ma di dar loro del pane. E voi, o strani avvocati delle vittime della nostra civiltà, non dovete, no, agevolare alla donna la rinuncia al matrimonio, ma dovete anzi assicurarle la sua parte naturale nella vita dell'umano amore. Nel capitolo precedente dichiarai essere dovere della società provvedere ai bisogni dei fanciulli, dar loro un'istruzione completa, e, se occorre, mantenerli fino a che potranno far da sè; ed ora dichiaro essere dovere della società mettere al coperto dalle privazioni fisiche le sue donne, che sono il materiale più prezioso per la procreazione. È dovere della generalità la protezione e il sostentamento della donna. Nella vita della specie umana la parte assegnata all'uomo è quella di provveditore del nutrimento, di conservatore e protettore della generazione che vive; la parte della donna è quella di conservatrice della specie, protettrice delle generazioni venture e miglioratrice della specie stessa mediante la selezione, perchè è dessa che dà incitamento alla lotta fra gli uomini, lotta nella quale essa medesima è il premio, e la preda migliore sarà conquistata dai migliori lottatori. Allorchè è bambina, deve avere tutti i benefici di un'ordinaria educazione, e dippoi deve, al bisogno, poter pretendere pieno mantenimento, sia in casa dei genitori, sia in istituti fatti apposta. La società deve arrivare al punto in cui sentirà come un'onta, che nel civile consorzio ci siano donne, giovani o vecchie, belle o brutte, dannate a patir la fame. In una società rinnovellata secondo questi principî, nella quale la donna non debba più stare in pensiero pel pane quotidiano e sappia ch'essa è al coperto dalle privazioni; in una società nella quale i fanciulli siano mantenuti ed educati dalla generalità, e nella quale l'uomo non possa più sperare di procurarsi col danaro tante donne quante ne vuole; per la ragione che la miseria non sarà più la sua mezzana; in una società siffatta la donna non si mariterà che per amore, più non si avrà lo spettacolo di zitellone che cercano invano marito, nè di vecchi celibi che godono, nella licenziosa vita del libertinaggio, tutti i vantaggi del matrimonio senza averne gli obblighi morali e i legami; e la prostituzione non potrà più far reclute se non in mezzo ad un numero minimo di creature degenerate, i cui disordinati istinti non soffrono regola alcuna, creature che non possono respirare che nell'atmosfera della corruzione e del vituperio, e per le quali la conservazione della specie non ha valore alcuno. Quando le considerazioni materiali non avranno più influenza nel matrimonio; quando la donna potrà scegliere liberamente e non sarà più costretta di mercanteggiare sè stessa; quando l'uomo, per avere i favori della donna, sarà obbligato di entrare in gara, non con la sua posizione sociale, non coi suoi beni di fortuna, ma con le sue qualità personali, allora l'istituzione del matrimonio può da menzogna convertirsi in verità; lo spirito sublime della natura, dominerà, allora ogni amplesso, e ciascun bambino nascerà col mutuo amore dei genitori, che sarà per lui un certificato di santità, e nella culla avrà, come preziosissimo regalo, la forza e la vitalità, che i discendenti ereditano dalle coppie che si congiunsero per affinità elettiva.

ALCUNE MENZOGNE MINORI

I.

L'ammettere che l'uomo è per le sue inclinazioni un animale da greggia e che la convivenza co' suoi compagni di specie è una condizione fondamentale della sua esistenza, è sufficiente per poter spiegare a noi stessi alcune sue particolarità morali, che rimarrebbero intieramente inesplicabili, se non potessimo che figurarcelo solitario e autonomo per natura, e se mai fosse vera la descrizione che dell'uomo primitivo fanno certi antropologici, forniti di vivace fantasia, ma non a sufficienza istruiti, i quali ce lo dipingono come un selvaggio nemico della specie, vagante nelle foreste e come un cacciatore armato di zeppa e coltello di pietra. L'istinto di solidarietà, che l'educazione egoistica della civiltà ha potuto indebolire ed offuscare, ma non sopprimere, nell'uomo riposa appunto sulla sua natura da greggia; e cotesto istinto non avrebbe scopo, nè ragione giustificativa, se i bisogni dell'uomo e le sue qualità avessero essenza rigorosamente individuale e traessero origine soltanto da attitudini personali e da motivi di interessi egoistici. Cotesto istinto di solidarietà fa sì che l'uomo, in tutte le sue risoluzioni ed azioni, ha sempre presente a sè l'idea della specie, della greggia, e chiede a sè stesso: «Che diranno, gli altri?». E sui suoi pensieri e sulle sue opere influirà sempre grandemente questa preoccupazione di sapere quale accoglienza verrà fatta alle sue parole, alle sue azioni, alle sue omissioni. La opinione pubblica ha sull'individuo tale un potere che è impossibile sottrarsi ad esso. Le apparenti ribellioni assomigliano un po' a quelle onestate opposizioni che da un sovrano male informato si appellano a un sovrano che si vuole informar meglio; lo scopo qui, espresso o tacito non è già di rompersi con l'opinione pubblica, ma bensì di trasformarla in modo che s'accordi coi ribelli. Anche colui che, come si suol dire, va diritto per la sua via, fa così perchè ha la segreta speranza che, anche per questa solitaria via, si riuscirà, sia pur lentamente e a lungo andare, a rifare le moltitudini. Timone cerca di persuadere sè stesso, che il genere umano gli sia diventato del tutto indifferente; ma, guardando bene addentro a tutto ciò che fa, si scorge la nostalgia per un'umanità che corrisponda ai suoi desiderî alle sue inclinazioni, e nella quale possa egli pure essere uno dei molti, e parte del tutto. La brama di piacere alla moltitudine è, d'ordinario, più potente ancora dell'istinto di conservazione; innumerevoli persone infatti mettono in cimento la loro vita, non per difendere un proprio interesse materiale, non per vincere un pericolo personale, ma per fare qualche cosa di cui gli altri lo loderanno. Con altre parole: è l'opinione pubblica che produce gli eroi. Gli uomini mediocri, nati per marciare là dove la greggia è più folta, che lasciano ad altri la cura di determinare la via da battere, di scegliere il pascolo, l'ora della partenza e del riposo, di dirigere l'offesa e la difesa, tutti costoro non hanno per tutta la vita altra guida alle loro azioni che i riguardi verso gli altri; essi non osano mai di obbedire a ispirazioni proprie, o di avere gusti propri; nelle cose che importano molto come nelle cose che importano poco o punto, dicono sempre di sì all'opinione pubblica; dal colore della loro cravatta, fino alla scelta della moglie, tutto è prestabilito dai riguardi verso i compagni, dai quali non distolgono mai, neppure per un minuto, il loro timido occhio. Gli individui potenti, i naturali guidaiuoli della greggia hanno invece l'ardimento di essere sè stessi e di secondare le proprie aspirazioni incuranti dell'applauso o del biasimo altrui. Però, se profondamente si analizzano, scorgesi ch'essi sono confortati dalla speranza di riscuotere l'approvazione, se non di tutti, di pochi e dei migliori; non subito forse, ma un giorno o l'altro. Ci vuole un coraggio straordinario a manifestare una convinzione personale, sapendo ch'essa è in ostile opposizione a tutte le persone che vi circondano: ci vuole un coraggio straordinario a propugnare la causa del basso popolo, quando si è di nascita aristocratica come Catilina; ci vuole un coraggio straordinario a rompere la guerra a Roma, quando, come Lutero, si ha una madre adorata, che vi vede dannati alle fiamme dell'inferno; cotesti eroi però avevano il conforto di armonizzare con minoranze le quali sperar potevano di trasformarsi in maggioranze. Altri eroi solitari non ebbero, è vero, queste consenzienti minoranze in mezzo ai loro contemporanei, ma poterono tuttavia trovar conforto a perdurare nella lotta contro le dominanti opinioni nella fida approvazione di una sola persona, di una donna, di un amico o di un figlio, e se anche questo conforto a loro venne meno, furono afforzati dalla convinzione che un giorno l'umanità sarebbe più giusta e più ragionevole e celebrerebbe la loro memoria, malgrado che, viventi, li abbia lapidati. Assolutamente però inconcepibile mi sembra che un uomo, in pieno possesso delle sue facoltà mentali, permanga in violenta opposizione coll'opinione pubblica, quand'egli avesse l'intima persuasione che le sue azioni sarebbero, finchè ci sono uomini sulla terra, condannate sempre da tutti, senza poter intravvedere mai nè un mutamento nel giudizio che si fa delle sue azioni e neppure una piccolissima minoranza che le sue opinioni approvi, in balìa quindi al disprezzo di tutti gli uomini che lo stigmatizzerebbero senza posa come traditore, vigliacco o briccone. No, nella razza umana non si rinviene un eroe o un martire, a meno che non sia un demente, il quale si rassegni ad un immutabile ostracismo, dato da tutti gli uomini all'idea da esso solo ritenuta giusta e si sottometta a cotesto bando assoluto, a quest'odio universale. L'opinione pubblica altro non è che la coscienza della specie, come la coscienza altro non è che l'opinione pubblica nell'intimo dell'individuo. Tutti hanno l'istinto della conservazione della specie e questo fa sì che l'opinione pubblica, abbandonata ai suoi naturali sentimenti e non turbata da artificiali pregiudizi, approverà, come regola, solo quelle azioni che, direttamente o indirettamente, promoveranno il bene della specie e disapproverà quelle che, tosto o tardi, le apporteranno nocumento. Così la coscienza è, nell'intimo d'ogni umana creatura, l'avvocato degli interessi della specie, è il rappresentante della pubblica opinione nell'interiore di ogni individuo, è quella cosa, infine, che concatena l'individuo alla società, ancorchè egli viva in una isola deserta dell'Oceano. L'imperativo categorico non è altro che il rappresentante interno della pubblica opinione. Colui che, riconoscendo giusta una cosa, la compie benchè contraria al suo personale interesse, colui che va da eroe incontro ad una morte oscura per compiere, inosservato, un dovere, senza menomamente sperare che la sua azione venga apprezzata, agisce in tal modo, perchè nell'interno dell'animo sua sente che c'è un perenne testimonio del suo eroismo; perchè sente una voce intima che, a nome dell'umanità, gli tributa ringraziamenti e ricompense; perchè ha il sicuro convincimento che l'opinione pubblica è pienamente con lui e che è solo per caso che essa non può dargli una manifesta approvazione. Dunque l'imperativo categorico, la coscienza e l'opinione pubblica sono essenzialmente cose eguali; sono tutte forme del sentimento che l'individuo ha della solidarietà della specie.

Tempo fu, in cui l'opinione pubblica era qualche cosa d'impalpabile; non aveva corpo, nè contorni determinati, sorgeva senza che se ne sapesse il come; mille cosuccie la componevano: erano un motto fugace del principe o di un gran signore, un significativo scrollar del capo che faceva un sarto all'osteria, le ciarle d'una pettegola in una sua visita settimanale, o sul mercato, o nella sua stanza da lavoro. L'opinione pubblica prese una forma determinata, non nelle leggi scritte, ma nei giurì d'onore, istituiti dalle usanze e che le classi, ma sopratutto le corporazioni, praticavano nel loro seno e i cui giudizi, non ammettendo appello, rovinavano moralmente l'accusato assai più della sentenza di un vero tribunale. Oggi essa è una potenza bene organizzata e padrona di uno stromento, che tutto il mondo riconosce come suo rappresentante plenipotenziario, e questa è la stampa. Immensa è l'importanza della stampa nella civiltà. La sua esistenza e il posto ch'essa occupa, tanto nella vita privata quanto nella vita generale, caratterizzano i nostri tempi molto più che tutte le invenzioni tecniche, che pure hanno radicalmente trasformato le condizioni materiali e intellettuali del nostro vivere. Il grande sviluppo del giornalismo è contemporaneo appunto a queste invenzioni e ne è anzi una conseguenza; ragione per la quale non si può pensare agli odierni nostri giornali, senza pur anco pensare a quelle invenzioni. Facciamone la prova: supponiamo che il nostro secolo, con le sue ferrovie, co' suoi telegrafi, con la sua fotografia e coi suoi cannoni Krupp, non abbia altri periodici che i piccoli fogli settimanali di avvisi e notizie del secolo scorso: oppure supponiamo che i nostri tempi, coi loro giornali politici moderni, abbiano però ancora la vecchia corriera postale, la distanza di dieci giorni fra Roma e Parigi, la candela di sego, le mollette, la pietra focaia e gli archibugi ad acciarino. Orbene: queste due ipotesi ammesse, si avrebbe che i nostri tempi, nella prima ipotesi, rassomiglierebbero ai tempi antichi molto più che nella seconda ipotesi, perchè l'esistenza del giornalismo dà tale fisionomia alla civiltà moderna e tanto potentemente la distingue dalle civiltà anteriori, che il giornalismo diventa proprio la più caratteristica qualità dei tempi nostri. Nessuno v'ha che neghi la importanza della stampa. Un uomo di Stato francese la chiamò «il quarto potere dello Stato», cioè un potere che, assieme agli altri tre poteri, fa leggi e governa; altri l'hanno chiamata «la sesta potenza». È certo che oggi, in nessun Stato europeo, sarebbe possibile il persistere a far leggi, o a governare senza la cooperazione della stampa, o malgrado la sua opposizione. Girardin, un altro francese, in un accesso di bizzarria paradossale, negò la potenza della stampa. Chi guarda la cosa superficialmente gli darà ragione, ma gli volterà le spalle se invece ben addentro la osserva. Certamente un determinato giornale non riuscirà in un dato momento a far prevalere la sua volontà; perfino il primo foglio del mondo non riuscirà talora neppure a far destituire da un pubblico officio un usciere villano e, molto meno poi, a impedire l'approvazione di una legge, la conservazione o la caduta d'un ministero, l'effettuazione di un certo indirizzo politico. Ma quando tutti i giornali importanti d'un paese convengono con perseveranza ad uno scopo determinato; quando per mesi ed anni ripetono certe idee, se anche non molto concrete, ma comuni; quando per mesi e mesi costantemente riconducono i loro lettori sullo stesso concetto, allora non c'è cosa ch'essi non possano far addottare, e nulla può a loro resistere, nè governo, nè leggi, nè costumi e nemmeno idee che pur siano mondiali.

Da che deriva quest'importanza civile, quest'autorità della stampa? Si tentò di mostrare che precipua missione della stampa è di agevolare le relazioni commerciali. Su ciò non apriamo neppure discussione, perchè pensiamo che l'importanza della civiltà non la si debba scrutare nelle inserzioni a pagamento dei giornali. La potenza della stampa non procede nemmeno dalla divulgazione delle notizie del giorno. Come semplice cronaca degli avvenimenti quotidiani il giornale non avrebbe importanza maggiore del barbiere, che a questo proposito almeno per le notizie locali, è il vero emulo del giornale. Un foglio che contenesse solo notizie, in stile secco e in modo oggettivo, difficilmente inquieterebbe un governo e non commoverebbe il pubblico. Si vuole che la stampa sia la maestra delle moltitudini, la dispensatrice popolare dei risultati delle indagini scientifiche e tecniche. Ma neppur su ciò riposa la sua efficacia, perchè, in primo luogo, la volgarizzazione delle scienze col mezzo della stampa quotidiana non è gran cosa; in secondo luogo, l'esperienza c'insegna che il miglior foglio popolare scientifico impressiona la mente dei lettori molto meno del peggiore gazzettino politico. No, non sono le inserzioni, non sono le notizie e neppure l'articolo popolare istruttivo, che dànno alla stampa la potenza ch'essa ha nello Stato e l'efficacia ch'essa esercita nella civiltà, ma è la tendenza, manifestata dal pensiero politico e filosofico, ch'essa ha come base e che si rivela non solo nell'articolo di fondo, ma pur anco nella scelta e nella disposizione delle notizie, nella significazione della notizia anche la più strana e nei commenti più o meno espliciti ch'essa fa intorno ai fatti di cui parla. Se la stampa fosse soltanto una narratrice di avvenimenti, non sarebbe che un mezzo di comunicazione di grado assai basso e occuperebbe un infimo posto nella civiltà. Ma essa invece è la critica, che invigila sugli avvenimenti del giorno; essa si assume il còmpito di giudicare, di stigmatizzare o di lodare le azioni, le parole e perfino le recondite intenzioni degli uomini, incoraggiandole o minacciandole, offrendole come esempio alla generalità, o presentandole come cose orrende e vili; essa diventa opinione pubblica, dà a sè stessa dei diritti ed esercita il suo parere punitivo nella forma più terribile, cioè col bando e coll'annientamento morale; essa si fa ministra dell'imperativo categorico oggettivo; essa infine si impone come coscienza pubblica e generale.

E qui un quesito si presenta. Chi è che possiede realmente gli attributi più alti dell'opinione pubblica? Chi è che li fornisce? Donde viene il diritto di comandare a nome del pubblico, di giudicare, di voler abolite istituzioni esistenti e di innalzare nuovi ideali di morale e di legislazione? Da chi riceve il suo mandato il giornalista? Queste dimande i governanti hanno fatto a sè stessi al primo apparire di una stampa che parlava a nome dell'opinione pubblica; ma, non avendo essi potuto dare a sè medesimi risposte soddisfacenti, la perseguitarono, cercarono di distruggerla od almeno di tenerla sotto la loro sferza, di impastoiarla, di incatenarla. L'istinto popolare però è sempre stato avverso a queste pretensioni dei governi; e la libertà della stampa è stata costantemente una delle prime e più tempestose dimande dei popoli. Questo istinto però, come del resto quasi tutti gli istinti popolari, giusto in se stesso e fondato sull'interesse generale, si esperimenta che nella sua attuazione è un logico assai cattivo. Ogni volta che i popoli chiesero la libertà di stampa, s'immaginarono di esprimere questi concetti: «L'opinione pubblica, cioè il pensiero generale, il sentimento generale, l'equanimità e la coscienza del popolo sono, in tutte le questioni, l'autorità suprema, sono l'ultima istanza della giurisdizione popolare; è cosa mostruosa il togliere o il limitare a cotesta altissima autorità la libertà di parola; tal cosa equivarrebbe ad una coazione generale, sarebbe la pretesa di una sola persona o di una minoranza a voler porre la propria volontà al punto della volontà generale; ciò non può essere tollerato da una comunanza di gente, e di cui i membri sono uomini liberi, i quali intendono regolare da sè i propri destini». Ragionando in tal guisa i popoli commisero il grave errore, illogico, di trarre le loro illazioni da una premessa, ch'essi credevano già provata, mentre che si doveva invece provarne la giustezza. Il concetto, in virtù del quale sorse la dimanda della libertà di stampa, è che opinione pubblica e stampa siano una cosa sola. Ed è appunto ciò che i governi hanno sempre risolutamente contestato, e, senza dubbio, con un ragionamento assai più logico di quello usato dai popoli a sostegno della loro pretesa.

Dinanzi all'opinione pubblica si inchinano tanto i governi quanto i popoli, purchè essa si manifesti in modo genuino e senza equivoci. Orbene: la stampa interpreta essa davvero in modo genuino e senza equivoci l'opinione pubblica? Colui che vuol rispondere a questa dimanda si figuri cosa sia un giornale, come lo si crei e come lo si allestisca. Il primo venuto, un facchino, un genio incompreso, uno speculatore, se ha denari, o se eredita, o se trova soci accomandanti, può fondare un grande giornale, circondarsi di un numeroso stato maggiore di pubblicisti, e diventare dall'oggi al dimani, diciamo così, una potenza che esercita una forte influenza sui ministri e sul Parlamento, sull'arte e sulla letteratura, sulla Borsa e sul commercio. Si può però far qui una considerazione. Il giornale non può diventare una potenza che in un solo modo, cioè diffondendosi largamente; la qual cosa presuppone che esso sia scritto da persona di talento e che esprima idee le quali piacciano al pubblico. Non è però probabile che persone di talento subiscano la direzione o l'autorità dominante di una persona spregevole. E ciò sarebbe una garanzia di moralità nel fondatore d'un giornale. D'altra parte non si può ammettere che il pubblico si abbonerebbe a masse ad un giornale, se non avesse consonanza d'opinioni co' suoi redattori. E ciò sarebbe una garanzia che il giornale esprime davvero l'opinione pubblica. Il lettore, abbonandosi, si può dire che elegga il giornalista a suo oratore; il mandato è la scheda d'abbonamento; ogni rinnovazione d'abbonamento vuol dire rinnovazione della facoltà data ai redattori di parlare a nome dei loro lettori. Tutto ciò è molto chiaro, ma è falso dalla prima all'ultima parola. L'esperienza mostra che col danaro si può sempre e dappertutto comperare la cooperazione di persone, che non hanno carattere, ma hanno bensì talento. A dozzine sono gli esempi di impresari di inserzioni, di spacciatori di giornali, di usurai, di falliti, di liberati dal carcere, di raggiratori, di arruffapopoli e di volgari ignoranti, che fondarono grandi giornali, assoldarono al loro servizio penne brillanti e regolarono l'impresa a seconda delle loro ignobilità, della loro depravazione e della loro volubilità d'opinioni. Anche l'argomento del numero degli abbonati non regge alla critica. Uno speculatore senza coscienza può fare assegnamento sugli istinti bassi e spregevoli, che nelle moltitudini trovansi accanto agli istinti elevati e commendevoli; ed otterrà sicuramente lettori e compratori. Chi non conosce i fogli che publicano le più laide oscenità, o sono dedicati al pettegolezzo calunnioso su persone o cose private? Oppure i fogli che cercano di impressionare con uno stile eccessivamente scandaloso, o di stimolare con lubriche figure la libidine dei lettori; oppure che altro infine non sono che una lotteria promettente ai compratori vincite in danaro od altri premi? Tutti cotesti giornali possono, con espedienti più o meno vergognosi, conseguire una grande diffusione e ottenere perciò un'influenza corrispondente. È persino probabile che la loro diffusione sia più grande e quindi la loro influenza sia più potente della diffusione e influenza di giornali rispettabili, i quali non pubblicano che ciò di cui hanno cognizione certa; che non fanno da maestri, se non dove hanno competenza; che sono animati da principii morali fermi; che non si indirizzano ai bassi istinti dei lettori, ma procurano invece di dare sviluppo alle doti dello spirito. È giustificata l'influenza di questi giornali? Il redattore di un giornale osceno o di scandali personali ha egli, davanti a centomila lettori, il legittimo mandato di assalire il governo, di giudicare le azioni di un cittadino, di preparare il terreno e scavare un alveo, affinchè l'opinione pubblica; possa, a poco e poco e inavvertitamente scorrere in una determinata direzione? Eccoci in faccia ad una delle più strane contraddizioni della odierna nostra civiltà. Conformemente al moderno nostro modo di pensare, noi ci ribelliamo ad ogni autorità di Stato, che non sia istituita dal popolo. Nella monarchia non si tollera più nella sua purezza la «grazia di Dio» e, teoricamente almeno, la podestà regia, ereditata nascendo, viene limitata dalla volontà degli elettori. Il ministro è nominato dal capo dello Stato, ma dev'essere bene accetto anche al Parlamento. Il deputato deve darsi pena per ottenere i voti dei suoi concittadini. Solo il giornalista, la cui potenza praticamente è simile a quella del legislatore e del governo, il giornalista che esercita uffici da deputato e da ministro, non è nominato, nè eletto da alcuno. Egli è la sola autorità dello Stato, alla quale non occorra conferma qualsiasi. Da sè egli si crea ciò che è, ed esercita il suo potere come a lui pare e piace, senza essere menomamente responsabile nè dei suoi abusi, nè dei suoi errori più grossolani. Nè si dica che questo bozzetto sia esagerato. Ci furono giornalisti così sforniti di serietà e coscienza, che prepararono e provocarono rivoluzioni e guerre, e fecero piovere rovine e desolazioni sul proprio paese e su nazioni forestiere.

Se fossero stati regnanti, li avrebbero scacciati; se fossero stati ministri, li avrebbero sottoposti a un processo, nel quale la loro testa non avrebbe avuto certamente buon giuoco. Perchè giornalisti nessuno li disturbò, anzi furono i soli che uscirono incolumi da quel generale disastro, di cui furono l'unica causa. Non è davvero sorprendente che si tolleri un cosiffatto dispotismo senza il menomo tentativo di ribellione, mentre invece si combattono con tanta veemenza tutte le altre tirannie? E l'anomalìa non scema, anche se, non badando alla influenza politica della stampa, prendiamo in considerazione la sua influenza sociale. Il giudice, al quale noi diamo la facoltà di vegliare il nostro, la nostra fortuna, la nostra libertà, ha bisogno dopo serî studi e lungo tirocinio, di una nomina regolare; egli è vincolato a leggi rigorose; i suoi errori, i suoi abusi avranno immediata punizione, e, nella maggior parte dei casi, saranno anche rimediati. Ma il giornalista può danneggiare, anzi annientare l'onore e la fortuna d'un cittadino; può persino pregiudicare la sua libertà personale, rendendogli impossibile il soggiorno in un dato luogo; tuttavia egli esercita cotesto potere punitivo, senza fornire prove di studî preparatori, senza averne avuto mandato da chicchessia, senza dare garanzia d'imparzialità, senza aver subìto un esame coscienzioso. È vero che si dice che la stampa guarisca le ferite da essa fatte e che generalmente il cittadino si sia bene corazzato dalla legge sulla stampa contro il giornalista. Ma tutte queste cose non si possono sostenere. Un attacco di giornale contro un privato può fargli danni irreparabili. Le rettifiche e le smentite sono impotenti a dargli un pieno soddisfacimento; alcuni lettori avranno letto il numero che conteneva l'attacco, ma non il successivo che conteneva la  difesa; altri non lo avranno letto per indifferenza sistematica: in ogni modo il colpito saprà che in faccia ad un più o meno grande numero di persone il suo onore e la sua reputazione sono menomati ed irreparabilmente macchiati. Nè lo stato delle cose muta con un processo intentato contro il giornale. Prima di tutto, un giornale ha mille espedienti per rendere a qualcuno molesta la vita, senza dargli appicco a un processo, ed ancorchè il giornalista sia stato così poco accorto da incappare in una condanna, la punizione non è mai solitamente, proporzionata, alla colpa.

Questo stato di cose spiega il perchè, non solo tutti i reazionari, ma anche molti liberali siano nemici, palesi o occulti, della stampa, e tanto più accaniti quanto più si sentono costretti dalla potenza stessa della stampa a nascondere i loro sentimenti e a fingere amicizia per essa e considerazione. I più sanno benissimo, che nella stampa non è necessariamente l'opinione pubblica (davanti alla quale essi inchinansi) che riesce ad esplicarsi; ma spesso, e fors'anco quasi sempre, è l'ignoranza, la volubilità, l'inettezza o l'immoralità di un individuo che riescono a dar prova di sè; eppur per viltà si fanno menzogneri, non solo, dando ad intendere che la stampa è l'organo autorevole dell'opinione pubblica, ma identificandola addirittura con la stessa opinione pubblica. Come si può trasformare questa menzogna in verità? Come si può impedire che usurpatori non autorizzati s'impadroniscano di un potere, l'esercizio del quale non dovrebbe essere affidato che a uomini espressamente autorizzati dall'opinione pubblica? Ecco uno dei più importanti quesiti politici e morali dei nostri tempi; quesito che da decine d'anni i governi tentano invano di sciogliere. È un provvedimento molto spiccio quello di restringere la libertà di stampa, ma è anche un provvedimento stolido e che non conduce allo scopo; è immorale e non fa che sostituire al capriccio di un giornalista il capriccio di un funzionario. Non è possibile reprimere con leggi la libertà di pensiero; e allorchè si vuole impedire all'uomo di dire apertamente tutto ciò ch'egli pensa, non si fa che dar ansa all'ipocrisia generale e alla finzione. La generalità però ha tutto il diritto di non volere che un individuo manifesti il suo pensiero come se fosse pensiero di tutti, mentre non è che un'opinione sua e che abbia quindi a dare alle sue idee personali un peso ed una portata che ad esse non spettano affatto. È sperabile che lontano non sia il giorno in cui tutti i lettori siano abbastanza colti ed esperti per ben distinguere la voce di un individuo dalla tonante parola dell'opinione pubblica, cioè della generalità. Allora non saranno letti che quei giornali che sono l'espressione vera della pubblica opinione, e non si farà conto alcuno di quelli, nei quali un individuo non fa che blandire con le sue ciarle la propria vanità: non avranno allora autorità che quei giornalisti, i quali per il loro ingegno e pel loro carattere verranno indicati dal popolo per parlare al pubblico, istruire e giudicare; gli altri saranno messi in derisione per l'aria che si daranno di rappresentanti di una funzione pubblica. Allora sarà superfluo il circoscrivere il diritto alle sole persone fornite di diploma come si usa coi medici, perchè gli uomini saranno tanto giudiziosi che non daranno retta che a saggi e volgeranno le spalle ai ciarlatani. E diventeranno pure superflue quasi tutte le leggi, perchè queste, generalmente, altro scopo non hanno che quello di supplire all'insufficiente intelligenza del cittadino con la perspicacia più illuminata del legislatore. Ma finchè la coltura generale e la facoltà di giudicare restano al disotto di questo alto ideale, è concepibile e giustificata una moderata intromissione soccorritrice della legge. Non ci dovrebbe essere restrizione per i libri, opuscoli e nemmeno per gli affissi, coi quali una persona, sia col proprio nome, sia con la garanzia e responsabilità di un editore o stampatore, intendesse presentarsi al pubblico per procurare assentimenti alle proprie idee. A questo proposito ognuno dovrebbe poter parlare ai suoi concittadini e dir loro tutto ciò che gli frulla pel capo. Ma, se egli si attentasse a ledere l'onore di un cittadino, calunniandolo con bugiarde asserzioni, dovrebbe esser costretto a far pubblica ammenda orale, correggere quanto ha asserito e dare a tutto ciò una lunga e diffusa pubblicità, per esempio con inserzioni in tutti i fogli d'una città od anche d'una provincia, con altrettanti e consecutivi affissi sulle cantonate e con proclamazioni fatte a viva voce sulle pubbliche piazze, e, quand'egli pagar non potesse tutte queste spese di pubblicità, venisse condannato a un lavoro forzoso, che gli faccia guadagnare il danaro occorrente alle spese. Diversa è però la faccenda, allorchè si tratta di fogli periodici, che si indirizzano ad una certa quantità di lettori, già acquistata mediante l'abbonamento; fogli che formano una tribuna, la quale appartiene a tutti quelli che stanno ad ascoltare la parola che da essa scende. Una siffatta tribuna è un'istituzione pubblica e dovrebbe sottostare al pubblico controllo come tutte le altre istituzioni pubbliche che hanno un'importanza pel benessere materiale, intellettuale e morale dei cittadini. Quando si vuole istituire una pubblica scuola, una farmacia, un ospedale o un teatro, occorre un permesso, che non si ottiene che a certe condizioni, le quali vengono imposte a tutela dell'interesse generale. La pubblicazione di un giornale dovrebbe almeno essere parificata a quelle istituzioni. Per fondare e dirigere un giornale dovrebbe essere necessario un permesso, non il permesso però di un'autorità, ma un mandato del popolo. Dovrebbesi determinare per legge che un candidato desideroso di avere la missione di redattore, abbia una certa età che sia arra della sua maturità; di più che abbia una riputazione esente da macchie e una certa dose di coltura. Solo colui che di queste qualità fosse fornito, dovrebbe poter presentarsi davanti ai suoi concittadini, aspirando ad essere eletto redattore. Quest'elezione dovrebbe farsi a maggioranza di voti. Ottenuto il mandato, il giornalista scriverebbe come gli detta l'animo suo; ma, se venisse condannato per calunnia a privati, perderebbe il mandato, quantunque questo fosse, come dovrebb'essere, duraturo dieci anni e ogni dieci anni rinnovabile. Con questo metodo uno sconosciuto, oppure il rappresentante di opinioni contrarie alla maggioranza dei cittadini, difficilmente riuscirebbe ad avere un mandato di redattore, ma a questo candidato sfortunato non sarebbe però precluso l'adito di agire per le proprie idee e lo potrebbe nella qualità di scrittore indipendente, una persona che avesse ottenuto un mandato di giornalista, troverebbe probabilmente un giornale con maggiore facilità di quella che possa avere un medico o un avvocato a trovare clienti, o un maestro a trovare impiego, o un ingegnere ad aver commissioni di costruzioni. Se il mandato venisse concesso dagli elettori del capoluogo del circondario, esso dovrebbe valere per tutto il circondario; se concesso dagli elettori del capoluogo della provincia, dovrebbe valere per la provincia; se dagli elettori della capitale, varrebbe per lo Stato. Non è qui l'occasione opportuna, perchè io particolareggi di più l'argomento e, molto meno, perchè io stenda un formale progetto di legge. Volli soltanto delineare un sistema, il quale, attuato, darebbe a un giornalista il diritto di parlare realmente a nome del pubblico e la sua autorità sarebbe rispettata come quella del giudice, del maestro, del deputato, perciocchè egli avrebbe espressamente dalla generalità il mandato di essere il suo oratore. La stampa sarebbe allora ciò che essa ora dice, a torto, di essere: cioè l'organo legittimo della pubblica opinione. Allora essa avrebbe, con giustizia, nella civiltà e nello Stato quel posto che oggi essa invece usurpa.

II.

Il rispettoso timore che quasi tutti gli uomini hanno verso l'opinione pubblica, fa sì che conserviamo uno dei più strani avanzi di costumi e di tempi remoti, mentre viviamo in una civiltà, che ha concetti violentemente contraddittori a quelle vecchie usanze. Intendo parlare del duello. Ciò prova che nell'uomo l'istinto di conservazione è più debole dell'istinto di attruppamento o di greggia; invero, se il primo fosse più forte del secondo, mai un uomo si esporrebbe al pericolo della morte, pericolo tanto evidente quanto facile ad evitarsi, e ciò solo perchè i suoi pari, i suoi simili, che presi a uno per uno non li ha forse in nessun conto, nel loro insieme desidera che continuino ad averlo in pregio e riconoscano in esso il diritto di stare in mezzo a loro. Il duello è la piena negazione di tutti i principî, sui quali riposa l'odierna nostra civiltà: è un rozzo avanzo di primitiva barbarie in mezzo al rigoglio delle nostre istituzioni politiche e sociali.

In origine la singolare disfida era certamente naturale e giustificata. Essa è uno dei primi fenomeni antropologici, o, meglio, zoologici e non è altro, che la forma più semplice della lotta per l'esistenza, che è la sorgente di ogni sviluppo. Quando l'uomo primitivo accorgevasi che un altro uomo gli faceva ostacolo al soddisfacimento di un bisogno o di un capriccio, egli lo combatteva immantinente. Procurava di scacciare o di uccidere il suo rivale in amore, il predatore de' suoi frutteti, l'intruso nella sua caverna o il possessore di una caverna migliore. La lotta ingaggiavasi per un interesse serio ed ogni arma era buona. Il più forte strozzava il più debole, il più furbo soperchiava il più minchione, il vigilante sorprendeva nel sonno il neghittoso. Si poneva a repentaglio sè e la propria esistenza, ma si aveva ancora per iscopo la distruzione del nemico. A questo stato di cose, ove era necessità di essere il più forte in faccia alle circostanze ed in faccia ad altri uomini, pose fine lo svolgersi del dominio del diritto. È vero; anche il diritto rampolla dalla forza e le sue più profonde radici stanno nel postulato che il debole debba cedere al più forte ed accettare la sua volontà e la sua legge. Il progresso, però, dal diritto naturale del più forte al diritto della società civile sta precisamente in ciò, che il diritto della forza, originariamente individuale e speciale, fu elevato a principio oggettivo e generale, il cui esercizio non dipende più dalla forza di un dato individuo. Il barbaro diceva: «Questa cosa è cosa mia, perchè io fui abbastanza forte per impossessarmene, e nessuno me la toglierà, perchè io ucciderei chi attentasse». Giusto era questo detto, se egli aveva la forza di mandarlo ad effetto; falso, se egli doveva cimentarsi con uno di lui più forte. Venne la civiltà e generalizzò quel concetto. Disse: «Poichè questa cosa è proprietà tua, nessuno te la potrà togliere». E questo detto diventò, in tutti i casi, una verità. La sua giustezza non dipese più dalla forza di colui che voleva tradurlo in atto. E quando una persona si sentiva troppo debole per poter difendere la sua proprietà contro un aggressore più forte di lei, chiamava in suo soccorso la società, essendo questa più forte del forte aggressore. Il diritto oggettivo, dunque, cancella il diritto soggettivo, che ha la sua radice nella forza, e l'individuo, non solo non ha più bisogno di esercitare la sua forza personale per tutelare il suo diritto, ma ciò non gli è neppure più lecito, se egli non vuole offendere un principio fondamentale della società, il principio, cioè, che essa sola intende difendere le sue massime di diritto e non permette assolutamente che l'individuo si faccia giustiziere di sè stesso.

A questo sviluppo del diritto, il duello è rimasto del tutto estraneo. La legge protegge la proprietà, ma non protegge la vita. I costumi ed il codice non permettono che un uomo rubi dalla tasca d'un altro l'orologio; ma viceversa, i costumi permettono e il codice non impedisce efficacemente che lo stesso uomo uccida un altro, cioè gli tolga la vita quand'egli sia schermitore o tiratore più bravo, malgrado che l'orologio sia cosa molto meno preziosa della vita. Quando gli uomini credevano che Dei personali sovraneggiassero l'ordinamento del mondo, il duello aveva ancora un certo significato. Allora, idealmente, il duello non esprimeva il diritto del più forte; gli avversari e i loro testimoni scendevano in campo, non coll'idea che il più forte vincerebbe il più debole, ma con la credenza che Dio darebbe l'onor del trionfo al diritto, e che colui che aveva torto, non sfidava un avversario forse più debole di lui, ma bensì il potere superiore e soprannaturale dell'invisibile dominatore del mondo. Con tali concetti il duello non era il trionfo della forza; ma un'istituzione di diritto. Ma questo carattere di diritto il duello lo perde in una società che non crede in un Dio personale e nell'intervento suo soprannaturale nelle cose degli uomini. L'uomo veramente colto che fa un duello sa benissimo che egli, quando difende il suo buon diritto, non ha per sè alcun protettore invisibile, nè crede di sfidare Dio stesso quando scende in campo per una causa che non è giusta. Qui dunque il duello non è che la cinica contraffazione di tutti i principî di diritto e la proclamazione della legge dei tempi barbari, in cui la vita del più debole era in piena balìa del più forte.

La società è, rispetto al duello, così inconseguente, come lo è in tutte le altre sue sciocchezze e pregiudizî. Giacchè essa ammette, anzi esige che i suoi membri ritornino allo stato dei cannibali e che uno possa minacciare di morte un altro, sol perchè ha, per esempio, un naso antipatico, la logica vorrebbe che la società stessa ammettesse pure che tutto ciò si compisse con le circostanze primitive della vita selvaggia. Quando in questioni che hanno tanta importanza, si esce dalla civiltà, diventa ridicolo e insensato impeciarsi di riguardi verso di essa e accettare delle pastoie alla libertà dei propri movimenti. Io sono libero di essere uomo civile o pelle-rossa, ma se scelgo di essere pelle-rossa, bisogna lasciarmi essere tale completamente. Allora nella lotta voglio trarre profitto da tutte le risorse ch'io posso procurarmi. Voglio sorprendere l'avversario ed immergergli il coltello nella schiena, quando io tema di non potermi difendere altrimenti: voglio di notte incendiargli la casa e nel trambusto scannarlo. Io poi so che la stessa cosa può toccare a me e sto in guardia. Stia all'erta più che può anche l'avversario. A quale principio può appellarsi la società per proibirmi questa specie di duello e per impedire ch'io mi faccia alleati l'agguato e l'incendio? Alle attuali leggi giuridiche? No: perchè, se queste avessero realmente valore, non dovrebbe essere possibile, innanzi tutto, che due uomini si minacciassero di morte per omicidio in forza di un avvenimento di poco o niun conto.

No, la società non conosce logica. Essa comanda di aiutarsi da sè e in pari tempo vieta che questo comando abbia efficacia. Il duellante deve porre al cimento la propria vita come la pelle-rossa, ma non deve obbedire agli stimoli naturali dell'istinto di conservazione. Per metà deve essere animale selvaggio e per l'altra metà raffinato uomo civile. Così, nella sua saggezza e nella sua giustizia, vuole la società. Uno sgarbato ti ha pestato un piede: tu vorresti tutto al più disprezzarlo, o punire  la sua villanìa con un manrovescio? Non sei libero di farlo. Tu lo devi sfidare e mettere in pericolo la tua vita. Tu hai sempre vissuto curvo sui libri e l'unico strumento micidiale che ti è famigliare è la forbice da unghie, mentre il tuo offensore è invece un infingardaccio, il quale passò tutti i suoi anni nelle sale da scherma e nei bersagli? Sei degno di compatimento; sei uno sfortunato, ma devi batterti. Hai tu doveri sacrosanti al mondo; la tua famiglia sei ben tu che la mantiene, e se tu muori, i tuoi genitori, la tua moglie, i tuoi figli sono tutti rovinati, mentre il tuo offensore, invece è solo al mondo, oppure è ricco e arrischia la sola sua esistenza e non già quella de' suoi cari? Nessuno si cura di tutto ciò. Tu devi batterti, devi uccidere o restar ucciso: se no, sei un vigliacco e disonorato. Se tu muori, se tua moglie andrà cercando l'elemosina, se i tuoi figli diverranno delinquenti o prostitute, se tutti quanti morranno d'inedia, nessuno si muoverà a pietà, nessuno accorrerà in aiuto. E se per tutte queste considerazioni tu non vorrai cimentare la tua vita, noi tutti, dice la società, ti sputiamo in viso. E chi vuol vivere in mezzo a cotesta società, deve inchinarsi davanti a questi usi abbominevoli.

Se l'istituzione del duello esiste tutt'ora, la colpa è, senza dubbio, e sopratutto, del militarismo. Non è inconsideratemente che negli eserciti stanziali che il duello è obbligo espresso e che l'ufficiale, che non si batte con la facilità stessa con cui accende un sigaro, viene ignominiosamente scacciato. Anche la guerra è un appello alla forza, come ragione ultima del diritto, e quindi è una temporanea sospensione della civiltà ed un ritorno allo stato primitivo. E allora perchè dovremmo meravigliarci che uomini, la cui missione è la guerra, siano sempre pronti ad applicare le massime guerresche anche alla vita privata e a ritenere unico codice la loro sciabola e la loro rivoltella come nei rapporti internazionali unico codice sono il cannone e il fucile? Ecco ora un mezzo per combattere questo brutale pregiudizio. Il metodo più acconcio per dimostrare la stoltezza di una cosa e contrariarla è di seguirlo fino alle ultime sue conseguenze. Bisognerebbe trovare degli uomini risoluti, i quali, sfidati, accettassero la sfida, uccidessero l'avversario in quel modo che più a loro talentasse, si lasciassero incarcerare e poi, in tribunale, così parlassero al loro giudici: «Io sono un uomo civilizzato e non un cacciatore di renne dell'epoca della pietra. Le mie idee sono quelle della civiltà. Rispetto la legge, considero il giudice come la sola autorità alla quale compete di applicare la legge e punirne le trasgressioni. Ma venne un uomo che mi pose nella necessità di farmi una legge da me, di diventar io il giudice di me stesso e di cercar protezione nelle armi. In breve mi ha messo fuori delle condizioni normali del vivere civile e mi ha dichiarata la guerra. Forzatamente, dovetti accettarla. Io però condussi la guerra con le norme precise delle guerre fra popoli civili. La diplomazia ha per iscopo di procurare alleati alla propria nazione. Ed anch'io mi procurai alleati e mi sono compiaciuto del mio successo diplomatico. Strinsi alleanza con due spadaccini premiati, con tre maestri di scherma e cinque emeriti tiratori al bersaglio. Ogni conduttore d'eserciti cerca di andar contro il nemico con forze superiori. A coloro, che più prestamente mobilizzano e più accortamente operano, tocca il trionfo. Ed io mobilizzai con rapidità maggiore di quella dell'avversario. Assieme ai miei alleati, lo sorpresi all'insaputa. Ei si lagnò, perchè io non lo preavvisai del luogo e dell'ora dell'attacco. Pretesa ridicola! In nessun libro moderno di scienze militari io lessi che si usi dare appuntamento per le battaglie decisive. Come al solito, Dio stette coi battaglioni più forti. Il nostro nemico l'abbiamo proprio conciato per bene. Noi avremmo anche potuto ucciderlo, ma non l'abbiamo voluto: volemmo non derogare mai alla nostra qualità di belligeranti civilizzati. Al vinto fu imposto un congruo riscatto: dovette pagare le mie spese di guerra, la rimunerazione agli alleati, più alcune bottiglie di vino. Fino all'adempimento di coteste condizioni di pace noi lo tenemmo sequestrato, lo tenemmo, come si vuol dire, in pugno. Pagata l'indennità di guerra, lo lasciammo andare. Ecco tutto. Mi fu imposta una guerra privata ed io la condussi con le norme diplomatiche, strategiche, tattiche e finanziarie, che sono generalmente riconosciute dai popoli civili».

Un uomo che così parlasse, sarebbe probabilmente condannato o per ricatto o per lesioni corporali. Ma ciò non monta. Ogni progresso si conquista soltanto con sacrifici. Quanti uomini esimî soffrirono la tortura e il rogo per la libertà del pensiero! Non devono impensierire le privazioni di libertà, quando queste hanno, come singolar premio, il trionfo della morale sulla brutalità, della ragione sulla stoltezza. E quando in un paese cento uomini seri e risoluti volessero sacrificarsi e spingere così il duello fino all'assurdo, sarebbe presto estirpata una bestiale usanza della più selvaggia barbarie, usanza che è tanto teneramente coltivata nei nostri tempi di giustizia e moralità.

III.

Nella nostra vita, accanto alle menzogne maggiori infiltransi e pullulano infinite menzogne minori, che portano, come le muffe, il dissolvimento e la putredine dovunque. E non è possibile altro. Nascendo nella menzogna, in essa crescendo e avendola essa sempre d'attorno, si è obbligati a mentire appena che in pubblico si apre bocca o si contraggono rapporti attivi con le istituzioni sociali e politiche. E come si potrebbe mai conservare carattere schietto, essere sincero cogli altri uomini e veritiero nella vita privata, quando si contrae l'abitudine di parlare ed agire differentemente da ciò che si sente e si pensa, quando si tollera, come la cosa più naturale, il perenne contrasto fra le convinzioni interne e le forme esteriori della vita, quando si considera prudenza l'ipocrisia e stravaganza il dovere di cittadino e l'onestà? Si mentisce egualmente, dovunque, al passeggio o nel salotto, in chiesa o nella riunione elettorale, nei pubblici uffici e alla Borsa.

Tutti i rapporti sociali hanno il carattere della menzogna. Questi rapporti rampollano dalla nostra natura di animali da greggia e dall'istinto di solidarietà. In origine, germogliarono dal bisogno di circondarsi di compagni della stessa specie e di sfuggire all'isolamento, che è uno stato innaturale. E questa origine la si scorge anche nelle attuali forme dei rapporti sociali, quando esse tendono ed esprimere le compiacenze della socialità e la simpatia reciproca. Se s'incontra un conoscente, lo si saluta; ciò vuol dire che gli si fanno degli auguri pel suo benessere. Se si riceve una visita, non si nasconde la soddisfazione che si prova, ed anzi si cerca di persuadere il visitatore a trattenersi lungamente e lo si invita a ritornare presto. Si dànno festini per offrire ad altri l'occasione di divertirsi; si dànno pranzi per mangiare allegramente coi proprii simili, a cui si fanno anche doni; se capita loro una gioia o una disgrazia, si corre a congratularsi con essi, o a porgere loro conforti; se da tempo non si sono visti, si dimanda di loro per sapere se stanno bene e se possiamo essere a loro utili in qualche cosa. Questo è il significato ideale delle nostre usanze sociali; ma in realtà, ogni contatto d'un uomo col suo vicino è un'ipocrisia ed una menzogna. Noi auguriamo il buon giorno alla persona che incontriamo, ma preferiremmo che lì lì si scavezzasse tutte due le gambe. Noi invitiamo un visitatore a ritornar presto e al suo riapparire proviamo la stessa sensazione come se, per inavvertenza, toccassimo un serpe. Noi allestiamo festini e v'invitiamo persone che disprezziamo, che odiamo, e di cui diciamo, alle loro spalle, tutto il male possibile, oppure, nel migliore dei casi, facciamo di loro così poco conto, che non ci leveremmo neppur un guanto, se credessimo bastevole questo lieve incomodo a procurar loro un piacere. Noi andiamo ai festini altrui, là passiamo delle ore che preferiremmo invece consacrare al sonno, facciamo delle chiacchiere insulse, sorridiamo con aria di compiacenza, mentre ci prende un granchio di sbadiglio, acconciamo alla meglio delle frasi complimentose, che non hanno il menomo consenso nostro, ringraziamo la padrona di casa del suo grazioso invito, che in cuor nostro mandiamo invece a casa del diavolo, assicuriamo il padrone di casa della nostra incrollabile devozione e il mattino seguente ordiniamo al nostro domestico di dire che non siamo in casa s'egli, bisognoso d'un favore, picchiasse alla nostra porta. Sprezziamo certe persone, ma andiamo però a far loro visita, sol perchè la si deve ricambiare; a Natale e in altre occasioni facciamo regali, e siamo neri di rabbia per essere obbligati a coteste spese; frequentiamo gente, della quale pensiamo e diciamo male e sappiamo che egualmente essa pensa, e parla male di noi. Causa cotesta interiore doppiezza, la vita sociale è per noi una fonte di continuo malessere, mentre invece essere dovrebbe non solo il complemento della vita frazionata o individuale, ma benanco un incremento del benessere d'ognuno. Al contrario, ogni volta abbiamo che fare coi nostri simili, sentiamo della noia, del dispetto, dell'invidia, dello sprezzo, della vergogna, dello scherno; in breve, tutte le sensazioni più disaggradevoli e penose.

Eppure tutti questi fastidi si subiscono spontaneamente; e la maggior parte delle persone delle così dette classi superiori si dà pienamente a cotesta vita sociale, quantunque non ignori che da essa non avrà miglioramento nè di piaceri, nè di emozioni, nè di sentimenti. E cos'è che spinge tutti costoro a questa continua e faticosa commedia, nella quale si deve sorridere, apparir contenti e far buona cera a gente che vi dà noia al solo vederla? È l'egoismo che abbiamo imparato a ritenere come l'anima di tutte le odierne nostre istituzioni. L'uno che non ha ancora conquistato il suo posto nel mondo, corre a festini e a ricevimenti, a pranzi e a cene, per far conoscenze ch'egli poi spera di poter utilizzare come forze protettrici, per dar la caccia a un buon partito, per procacciarsi una riputazione o per farsi con sicurezza e facilità mettere a galla dai difetti e dalle debolezze degli altri, perchè non sarebbe possibile a lui l'emergere con le proprie qualità. L'altro, che il suo posto l'ha già conquistato, condanna sè stesso alle fatiche e alle spese d'una rappresentazione per far raggiri o anche solo dispetti contro colleghi, per infondere in altri un alto concetto della sua ricchezza, del suo stato, della sua potenza, per circondarsi di cortigiani; in una parola, per appagare la sua vanità. Tutti costoro, nel più folto assembramento di gente, non vedono che un solo individuo – la propria persona; nella conversazione più animata, mentre pare che essi diano ascolto a dieci voci e facciano proprio l'ordine d'idee di dieci altre persone e vivano soltanto della parola altrui, non pensano che ad una cosa sola; non ascoltano che una voce – l'Io. In tal modo l'egoismo falsa anche i rapporti più innocenti fra gli uomini; e tutte le usanze sociali, create dall'istinto di solidarietà; diventano menzogne, perchè la loro sostanza è tutta un'individualismo sfacciato ed egoistico.

CONCLUSIONE

Abbiamo visto come tutto ciò che ci circonda sia menzogna ed ipocrisia; come profondamente immorale sia la commedia che noi rappresentiamo, quando andiamo in chiesa e alla reggia, quando entriamo in Parlamento e nell'ufficio dello stato civile; come la nostra ragione, le nostre condizioni e il nostro sentimento della verità e della giustizia si ribellino alle istituzioni politiche ed economiche e a tutte le attuali forme della vita sociale e sessuale; noi abbiamo percorso una lunga via, sconsolatamente oscura, fra rovine inquietanti e ridicole decorazioni teatrali; è tempo ormai di rianimarci e consolarci almeno nella contemplazione lontana della luce e di una magione abitabile e promettente la pace.

Il contrasto fra le idee moderne e le vecchie istituzioni infuria nell'animo d'ogni uomo còlto, ed ognuno anela di liberarsi da questo interno tumulto. Si crede da molti che due siano i metodi per ritrovare la perduta pace dell'anima e che si possa scegliere o l'uno o l'altro. Risoluto regresso si chiama l'uno; risoluto progresso si chiama l'altro. Bisognerebbe o ridare la sostanza alle forme che la hanno perduta, o distruggere e far sparire coteste forme. Quindi si insegni nuovamente al popolo di aver fede; con le buone o con le cattive lo si rimandi in chiesa; si rafforzi la podestà regia; si rialzi l'autorità del prete; si cancelli dalla memoria dei popoli il ricordo delle rivoluzioni; si abbrucino i libri del libero pensiero e, approfittando dell'occasione, anche alcuni liberi pensatori; si distruggano le cattedre e si erigano dei pulpiti; si preghi, si digiuni, si cantino i salmi e si obbedisca ai superiori; si cerchi uno svago nelle feste della chiesa e nelle vite dei e santi si facciano riflessioni morali sulle storie dei miracoli; il ricco dia sufficiente elemosina al povero, e se il povero non sarà da esso satollato, pazienti fino al giorno in cui in paradiso avrà quotidianamente arrosto e vino; così la felicità farà ritorno nel mondo; colui che possiede qualche cosa, la potrà godere in pace; quegli che ha nulla ed è nulla a questo mondo, avrà la consolante speranza dell'altro mondo, e chi ancora non è contento, sarà libero d'emigrare in un'isola deserta, in mezzo a un mare, sempre che trovare la possa. Oppure si faccia tabula rasa di tutto questo vecchiume delle istituzioni medioevali; se i preti, i pastori, i rabbini si ritengono tanti impostori, si trattino allora come tali, a visiera alzata; se i sovrani si hanno in conto di pupazzi o di usurpatori, si sfrattino dai loro palagi; aboliscansi tutte le leggi che non reggono alle critiche della scienza, e nei rapporti umani non regnino che la ragione e la logica. Questi sono i due metodi. I seguaci dell'uno combattono i seguaci dell'altro, e la loro lotta disperata è l'unica sostanza della vita politica e intellettuale dell'epoca nostra.

Orbene: il punto di partenza della lotta di cotesti due partiti, che credono di poter condurre la pace negli animi, riposa su un errore. Non vi sono due metodi; ve n'è uno solo. Il regresso è impossibile, ed impossibile è pure la sosta. Non si può che andar avanti, e più rapidamente si va tanto più presto si arriva alla mèta, ove si prenderà riposo. Può essere benissimo che i difensori del passato abbiano per iscopo la felicità degli uomini, perchè è agevolmente concepibile che ognuno e tutti insieme starebbero meglio se si potessero ricollocare nelle condizioni intellettuali del medio evo o dell'antichità; ma a che varrebbe per i reazionari questa concessione, se il loro sistema non si può effettuare? Non c'è potere umano che possa indurre l'umanità a rinunciare alle verità conquistate: ciò è voluto dallo sviluppo naturale ed organico. Il fanciullo, infatti, nella sua ignoranza e irresponsabilità, è più contento dell'adulto; è anche più bello, più grazioso, più gaio. Quando si è uomini fatti e vecchi si può, sì, desiderare il riacquisto delle gioie della fanciullezza; ma, passato l'aprile degli anni, sono pur passate le sue gioie e nessuna forza di volontà le può far tornare. Un adulto lo si può uccidere, ma non si può rifarlo fanciullo bello, grazioso e contento. Così pure è impossibile trasformare l'uomo d'oggi nell'uomo di mille o duemila anni fa. È in virtù di uno svolgimento tutto naturale e della fecondità delle sue forze vive che l'umanità si è arricchita di cognizioni e di lumi. Il voler opporsi al lavorìo di queste forze fondamentali sarebbe impresa tanto inconsulta quanto il voler impedire alla terra di compiere il suo giro circolare. La realtà delle cose non è già che le verità della scienza si siano trovate casualmente, oppure che si poteva anche non trovarle; no, esse sono il fenomeno che si accompagna al moto e scopronsi quando la civiltà attraversa dati periodi di tempo. Si può forse ritardare la loro scoperta e la loro diffusione si può fors'anche accelerare e l'una e l'altra, quantunque l'acceleramento sia molto più improbabile della ritardanza; ma in ogni modo, la scoperta e la diffusione sono inevitabili. La cosa è così evidente, che non par vero che ci debba essere il bisogno di provarla od anche solo di affermarla. In qual conto si terrebbe un uomo che su una pubblica piazza proclamasse ch'egli vuol far sì che gli uomini ringiovaniscano di un anno per ogni anno che passa? Probabilmente lo si manderebbe in un manicomio. Eppure si può impunemente fare una simile dichiarazione e darle anche l'autorevolezza d'un programma governativo; e molti ascolteranno con serietà un uomo di Stato, quando, per guarire il malessere odierno, raccomanda di far ritorno ai vecchi tempi feudo-clericali. Ciò non è forse la stessa cosa che proporre all'umanità di ritornare dalla virilità alla fanciullezza e di ringiovanire sempre d'un anno?

No, no; ciò non è serio. Qui si tratta di alte questioni, le quali non possono essere studiate che seriamente. Ammesso pure che l'umanità sia stata più felice quando era nella più profonda ignoranza e vegetava, come le piante, in un cerchio ristretto, pieno di gravi errori e di superstizioni insulse, questa felicità infantile ora non è più e il bramarne il ritorno è cosa vana e stolta. Dunque non è nel passato che sta il possibile benessere dell'umanità. D'altra parte, il presente è insopportabile. È dunque nell'avvenire che s'appuntano tutte le speranze. Ciò che rende insopportabile il presente, è come abbiamo già visto, l'intima dissenzione che, nel mondo civilizzato, strazia dolorosamente ogni mente umana; è il contrasto fra il nostro modo di pensare e il nostro agire; è il disprezzo continuo che ogni forma ha verso la sostanza; è la continua ripugnanza che ogni sostanza ha verso la forma. La necessità di vivere due vite, una esterna e l'altra interna, le quali a vicenda si deridono, si parodiano, e sono in perpetua contesa, porta seco tale uno spreco di energia morale, che è superiore alle facoltà umane e lascia dietro di sè le ambascie dello sfinimento. La mancanza di verità della nostra esistenza ci rende miserabili. A quella voce che, in virtù della struttura del nostro organo della riflessione, ci chiede ad ogni azione «perchè?», noi non possiamo dar mai risposta ragionevole, ed essa ci rende perciò irrequieti e compassionevoli, e tanto più tali quanto meno è possibile a noi imporle silenzio. Questa guerra delle nostre convinzioni con le nostre ipocrisie ci perseguita indefessa e ci rapisce la pace e il riposo. È questo, e non altro, il nostro stato. Esso rende assolutamente impossibile ogni senso di felicità, perchè la felicità presuppone, prima di tutto, l'unità interiore, cioè assenza di lotta e di disputa, pace e serenità dell'anima. La forma del «Nirvanha», che presso gl'indiani rappresenta la felicità, racchiude un profondo concetto umano. È il riposo assoluto. È l'estasi beata dello spirito, quand'esso non ha più bisogni, nè brame, quando più non percepisce fuori di sè alcun punto straniero che lo attragga o lo respinga, che lo sproni alla penosa fatica di un moto di fuga o di ravvicinamento. È quello stato di beatitudine, che l'uomo incivilito, avvezzo a vivere in un mondo di preoccupazioni, non può più nemmeno ideare. E a ciò non si arriva che in due casi: quando si è nella condizione d'ignoranza assoluta, quando, cioè, mancano ancora allo spirito gli organi che sentono le impressioni dei punti estremi di attrazione e di repulsione, oppure quando si è nella condizione di scienza assoluta, cioè quando lo spirito è così sublimemente perfezionato, che tutto ciò che è lo racchiude in sè stesso, in guisa che fuori di lui più nulla esiste che possa eccitare in esso un movimento, un desiderio, un'impazienza o una preoccupazione. Quest'ultima condizione è un ideale umanamente impossibile, l'uomo ben difficilmente, e forse mai, giungerà a possedere tutta la verità, a condurre i fenomeni più intricati entro le loro leggi naturali, ad essere un sapiente assoluto, che sa concepire i multiformi fenomeni mondiali come necessari, razionali e consustanziali. Ma l'uomo però ha superato l'altra condizione: non è più ignorante; i fenomeni, che avvengono fuori di lui, li percepisce; egli va alla ricerca della verità, brama di sapere, ed è in moto febbrile e affannoso verso una mèta, che lo attrae e nella quale spera di trovare riposo. Il peggio che un uomo, in questa condizione, possa fare, è di resistere contro cotesti suoi stimoli e di consumare le sue energie nella lotta contro la potente attrattiva della mèta del naturale progresso, invece di affrettarsi a volare verso questa stessa mèta. E non soltanto irragionevole, perchè inutile, è il lottare, ma è altresì assai più faticoso e doloroso che il cedere. Così l'opportunismo, oggi tanto in voga e tanto diffuso, volendo, per tema delle soluzioni radicali, incatenare alla menzogna l'umanità che cerca il vero, e nel cozzo delle nuove idee contro le vecchie forme, difendendo queste ultime senza dar torto alle prime diventa il più crudele nemico della specie umana e l'immoralità più completa.

Ciò che occorre innanzi tutto all'umanità è di procurarsi la possibilità di vivere a seconda delle cognizioni che ha. Le vecchie forme devono sparire e lasciar il posto a forme nuove, che appaghino la ragione; l'individuo deve guarire del suo interno pessimismo e diventare veritiero ed onesto. Si sa che l'uomo non raggiungerà per questo la piena felicità della Nirvanha, il riposo senza sforzi, la contentezza senza desiderî, per la ragione che cotesta felicità assoluta è impossibile con la vita organica, la quale implica lo sviluppo. Lo sviluppo indica lo stimolo a raggiungere una mèta, a cui l'organismo non è ancora pervenuto. Cotesto sviluppo dunque è la tendenza verso un punto non ancora toccato. Per conseguenza: insoddisfazione di ciò che si è già ottenuto. E l'insoddisfazione è affatto inconciliabile con la sensazione dell'assoluta felicità. Essendo poi ogni singolo individuo un frammento del grande insieme della specie e lavorando esso, col suo sviluppo, più per la generalità che per sè, deve tanto più sentire fortemente questa stessa insoddisfazione. Le conseguenze infatti del suo lavoro di perfezionamento fruttano a' suoi eredi, non a lui; ogni generazione semina per la generazione seguente; ogni organo particolare lavora per il tutto, e perciò l'individuo non può aver mai la coscienza della conclusione e del compimento, nè quella della realizzazione del suo ideale e della piena ricompensa delle sue fatiche. Cosiffatta coscienza, se pur fosse possibile, non potrebbe averla che la specie, che è un intiero, ma non mai l'individuo, che è una parte incompleta. Forse la si otterrà in un ambiente generale di reciproco amore, che sarà la caratteristica dell'umanità, quando questa giungerà ad un ideale stadio di sviluppo, il quale, con una purissima intonazione fondamentale, si rifletterà ad allegri colori in ogni singola coscienza. Ma quando anche la felicità assoluta trovare non si possa entro i confini della vita umana e non sia conciliabile col moto organico dello sviluppo, l'individuo può sempre secondare questo suo stimolo allo sviluppo e sentire che davvero ei si muove verso la sua mèta, cioè verso il suo ideale. È certamente un sentimento gradevole il sapere che si va verso la mèta dello sviluppo, ed essa può benissimo tener le veci della felicità assoluta che non si può ottenere. È il caso d'un uomo, il quale, impazientemente bramoso di arrivare in un dato luogo, si calma e si acqueta tosto che si trova sul treno ferroviario, che con rapidità lo avvicina alla mèta del suo viaggio.

Tutto ciò è possibile. Ma è però necessario che non si mettano ostacoli artificiali alla tendenza progressiva dei popoli civilizzati e che il loro svolgersi non sia reso più fastidioso e più faticoso dai conservatori e difensori delle istituzioni storiche, che inceppano e soffocano. Queste, del resto, non è possibile preservarle dalla rovina; tosto o tardi, saranno annullate. Sarebbe quindi un vero beneficio spazzar via alla presta ciò che è destinato a perire ed abbreviare così l'incomodo periodo della distruzione, nel quale si è circondati da rottami informi, si nuota nel fango e nel polverìo, si inciampa nel pietrame e si è sempre minacciati da travi cadenti. Noi tutti siamo già nel periodo demolitore e tutti ne subiamo i malanni. Forse una generazione ancora, e forse più, saranno condannate allo sconfortante soggiorno su arida terra ed alla privazione di un asilo intellettuale. Ma ciò che verrà dopo sarà, senza dubbio, agiatezza e benessere. Tocca a noi essere i sacrificati; le magnificenti sale del nuovo edificio, pel quale lavoriamo noi pure, resteranno chiuse per noi; ma le generazioni venture entreranno in esse con un'alterezza, una tranquillità e una gaiezza, come mai non le conobbero i loro antenati.

All'umanità spetta l'eccellere, non l'abbassarsi: svolgendosi, essa non peggiora, nè diventa sempre più volgare, come dicono i suoi calunniatori; ma migliora e si nobilita sempre più; e attraverso la pura e trasparente atmosfera delle idee fondate sulle scienze naturali vede molto più chiara la mèta del suo ideale che attraverso le scure nubi e la nebbia di una superstizione trascendentale. Questo bisogna ripetere a tutti coloro che, in buona fede, credono senza religione non possa esistere morale, nè ideale, e che senza uno Stato dispotico, senza la proprietà individuale e senza il matrimonio non possano esistere buoni costumi. Degli ipocriti, che coteste dottrine proclamano, senza esserne convinti, che l'ordine attuale sostengono solo perchè giova al loro egoistico interesse, non ci curiamo. Ma si tranquillizzino i filantropi dall'ottimo cuore, ma poco chiaroveggenti, i quali paventano l'avvenire, perchè par loro di scorgere in esso rozzezza e libertinaggio, anzi un ritorno al primitivo stato animale. L'umanità senza Dio, senza arbitrio di sovrani e senza egoismo sarà molto più morale di quella che «prega Dio, ma tiene asciutta la polvere». Il progresso insegna all'uomo delle verità che sulle prime suonano forse non grate ad orecchi avvezzi a menzognere adulazioni. Esso, infatti, dice a ciascun uomo: «Tu nella specie animale, che si chiama umanità, sei un animale. Le leggi naturali che ti governano sono precisamente le stesse che governano tutti gli altri esseri viventi. Il tuo posto nella natura è quello che tu puoi conquistare, impiegando acconciamente le forze, delle quali dispone il tuo organismo. La specie è un tutto elevato, di cui tu sei una parte, ed è un organismo completo, di cui tu sei un membro. Tu vivi della grande vita dell'umanità ed è la sua forza vitale che ha creato te e che ti conserva fino all'ultimo tuo giorno; quand'essa si innalza, ti porta seco nelle regioni più elevate; le sue gioie sono gioie tue». Certamente, l'egoismo degli uomini è molto più lusingato da un ministro di religione, quand'egli egli dice: «Tu sei specificatamente favorito da un onnipotente e universale sovrano, che si chiama Dio; nell'universo tu occupi un posto privilegiato, e se mi pagherai le decime e obbedirai ai miei comandi, ti saranno concessi privilegi maggiori». Ma quando l'uomo sarà tanto maturo da giudicare indecorosa debolezza l'infantile compiacersi di vacue adulazioni, quando saprà raffrontare meglio le dottrine della scienza moderna con quelle della teologia, allora non gli sarà difficile lo scorgere che le prime sono e più belle e più confortevoli. Ciò, è vero, lo distacca dal cielo, ma gli fa mettere radici profonde, intime, nella madre terra: gli toglie i rapporti con Dio, coi santi, cogli angioli e con tanti esseri chimerici ed invisibili, ma gli dà, come famiglia sua, l'umanità intera, gli largisce mille milioni di parenti, che hanno il dovere di amarlo, di aiutarlo, di difenderlo; e tutti i suoi sensi concorreranno a convincerlo ch'egli è parte integrante di tutta questa famiglia. Sì, questo concetto annulla la superba sua pretesa alla vita eterna, ma non riempie perciò di disperatezza la sua finalità, perchè gli insegna ad accontentarsi d'essere un episodio di poco momento nel processo essenziale della vita universa e gli mostra come la sua esistenza individuale possa avere una continuità lunghissima nella vita di tutti i suoi discendenti. È pur vero che con ciò si distrugge la morale esistente, fondata sulla religione, ma è altresì vero che questa morale è arbitraria, superficiale e addirittura vergognosa: essa non ci spiega perchè certe azioni siano buone e perchè altre siano cattive; come motivo per fare il bene essa ci dice soltanto che, facendo il bene, ci assicuriamo un posto in paradiso, e come motivo per non fare il male ci dice che, facendolo, l'inferno ci abbrucierà; per sottrarci alla tentazione di ingannare, cioè di far il bene pubblicamente e di fare il male copertamente, dà ad intendere che siamo sempre guardati e spiati. Ecco la morale religiosa. I moventi a cui essa ricorre sono l'egoismo, la paura di pene corporali, la speranza di godimenti paradisiaci o lo spavento del tizzone del diavolo. È una morale da egoisti e vigliacchi, ma sopratutto da bambini, appunto perchè dai bambini tutto si ottiene, minacciandoli con la verga o promettendo loro un dolce. In luogo di questa morale, che si appiglia ai più ignobili istinti dell'uomo, il progresso pone il principio generale della solidarietà umana, che ha per risultato una morale ben più profonda, ben più elevata e ben più naturale. Cotesta morale dà il precetto: «Fa tutto ciò che è beneficio all'umanità; non fare ciò che le apporta danno e dolore». Ad ogni domanda essa dà una ragionevole risposta. «Il bene cos'è?». La teologia risponde: «Ciò che piace a Dio»; risposta che non ha chiaro significato, salvochè si creda che Dio abbia manifestato le sue opinioni. La morale della solidarietà dice invece: «Il bene è ciò che, se fosse generalizzato, darebbe alla specie condizioni più favorevoli d'esistenza». – «E il male cos'è?». La teologia vi cantilena: «Ciò che Dio ha proibito». La morale della solidarietà risponde: «Male è tutto ciò che, se fosse generalizzato, peggiorerebbe o metterebbe in pericolo l'esistenza della specie». – «E perchè debbo fare il bene e non fare il male?». La teologia soggiunge: «Perchè Dio vuole così». E la morale della solidarietà: «Perchè tu non puoi altrimenti; la specie, finchè ha forza vitale, ha pure l'istinto di conservazione, e questo le suggerisce di non fare ciò che la danneggia e di fare ciò che le giova. Cotesto istinto ha sue radici nell'incoscienza, ma diventa chiaro e manifesto, elevandosi fino a coscienza. Quando poi la forza vitale della specie andrà esaurendosi, allora anche l'istinto di conservazione verrà meno e a poco a poco si perderanno i concetti del bene e del male; la morale finirà, e la fine di essa sarà la causa immediata della morte dell'umanità, fatta decrepita. Avverrà allora il suicidio dell'umanità stessa» – «Quale premio, quale castigo mi aspetta per le mie azioni?». La teologia mi racconta le sue fandonie del paradiso e dell'inferno: la morale della solidarietà mi dice semplicemente: «Siccome tu sei un membro dell'umanità, così il suo benessere è anche il tuo, le sue sofferenze sono pure sofferenze tue. Quindi, facendo ciò che le giova, giovi anche a te; se tu fai ciò che le nuoce, nuoci a te stesso. Il tuo paradiso è l'umanità florida; il tuo inferno l'umanità misera. E siccome l'istinto di conservazione della specie è la sorgente delle tue azioni, così, finchè, tu sarai in condizioni normali, istintivamente farai il bene ed istintivamente non farai il male. Tu sarai un trasgressore della morale naturale sol quando ti colpirà una morbosa degenerazione, la quale può spingere l'individuo anche a mutilarsi o a suicidarsi».

Cotesto è il breve catechismo della morale naturale, la cui fonte ha la solidarietà della specie. Del resto, siffatta morale è la sola che veramente sia sempre stata sentita dall'umanità: tutti gli altri precetti non sono che esteriori ipocrisie o inganni fatti a se stesso e ad altrui. Essa trovasi nella sentenza di Rabbi Hillel «Ama il tuo prossimo come te stesso»; e si manifesta nel Vangelo, che comanda di perdonare anche al nemico e di amarlo, come si manifesta nell'imperativo categorico di Kant. Ogni volta che un fondatore di religione od un filosofo cercarono un fondamento sicuro di moralità, hanno dovuto sempre appigliarsi a questo eterno e immutabile principio di solidarietà, perchè esso è parte fondamentale della coscienza umana ed una delle cause organiche delle sue azioni. Solo quelle religioni, che proclamarono il principio di solidarietà come dogma cardinale, hanno potuto largamente diffondersi e durare. A cotesto indistruttibile principio si attaccarono poi tutti gli altri dogmi e lo seguirono in alto, precisamente come in un pallone aereostatico il gas spinge in alto il pallone e con esso tutte le cose pesanti annesse. Orbene: sostituendo alla morale teologica la morale naturale e al cristianesimo la solidarietà, si fa opera di purificazione e di semplificazione: della religione si conserva sol ciò che essa ha attinto dall'eterno serbatoio dell'esperienza umana, appropriandoselo, e la si spoglia di tutti quei logori involucri e travestimenti, che ne raccolgono la sostanza vera.

La solidarietà deve diventare non solo la fonte d'ogni morale, ma benanco di tutte le istituzioni. Nelle istituzioni presenti prevale l'egoismo; nelle istituzioni future è chiamato a prevalere l'altruismo. L'egoismo risveglia il desiderio di dominare su altri, mena al dispotismo, crea sovrani, conquistatori, ministri egoistici e capi-partiti; l'amore alla specie infonde invece il desiderio di giovare alla generalità, conduce al self-governement, ad una legislazione ispirata soltanto da mire di pubblico bene. L'egoismo è la causa delle peggiori ingiustizie nelle ripartizioni dei beni; la solidarietà appiana queste ingiustizie in modo da assicurare coltura e pane quotidiano a chiunque ha intelligenza e volontà di lavorare. La lotta per l'esistenza durerà finchè dura la vita umana e sarà sempre la causa d'ogni sviluppo e d'ogni perfezionamento, ma assumerà forme più miti e, messa in paragone con le agitazioni odierne, sarà come le guerre di nazioni civili paragonate alle zuffe dei cannibali. Alla civiltà odierna, la cui caratteristica è il pessimismo, la menzogna e l'egoismo, io vedo seguire una civiltà, nella quale avranno predominio la verità, l'amore del prossimo e la contentezza. L'umanità, che oggi altro non è che un concetto astratto, sarà allora un ente concreto. Felici quelle generazioni future, alle quali sarà concesso di vivere in questa lega fraterna, circonfusa dalla pura atmosfera dell'avvenire, illuminata dal suo sole più raggiante; di vivere, infine, tutti nel vero, côlti, liberi e buoni!

FINE.