Alexander Dumas


Il Conte di Montecristo




1. L’arrivo a Marsiglia

Il 24 febbraio 1815 la vedetta della Madonna della Guardia diede il segnale della nave a tre alberi il Pharaon, proveniente da Smirne, Trieste e Napoli.

Com’è d’uso, un pilota costiere partì subito dal porto, passò vicino al castello d’If, quindi salì a bordo del naviglio tra il capo di Morgion e l’isola di Rion.

Nel frattempo, come ugualmente d’uso, la piattaforma del forte San Giovanni si riempì di curiosi: è sempre un avvenimento di notevole interesse l’arrivo a Marsiglia di qualche bastimento, in specie quando questo legno, come il Pharaon, era stato notoriamente costruito, arredato e stivato nei cantieri della vecchia Phocée, ed era di proprietà di un armatore della città.

Frattanto il naviglio avanzava e aveva felicemente superato lo stretto, formatosi da qualche scossa vulcanica fra l’isola di Calasareigne e quella di Jaros.

Si era lasciato dietro di sé Pomègue, avanzando il suo gran corpo sotto le sue tre gabbie ma così lentamente, e con andamento tanto mesto, che i curiosi, con quell’istinto che presagisce le disgrazie, si domandavano quale infortunio fosse accaduto a bordo.

D’altra parte gli esperti della navigazione riconoscevano che se un qualche accidente era avvenuto, questo non era al materiale del bastimento, in quanto esso procedeva sì lentamente, ma lo faceva nelle condizioni di un naviglio ottimamente governato. La sua ancora era gettata, i pennoni di bompresso abbassati, e vicino al pilota che s’accingeva a dirigere il Pharaon nella stretta entrata del porto di Marsiglia c’era un giovane aitante, che con occhio vigile sorvegliava ciascun movimento del naviglio, e ripeteva ciascun ordine del pilota.

La vaga inquietudine che si era impadronita della folla aveva agitato in particolar modo uno degli accorsi alla spianata di Saint-Jean, che, invece di attendere l’entrata del bastimento nel porto, saltò su un barchino e ordinò di vogare verso il Pharaon, che raggiunse dirimpetto all’ansa di riserva. Il giovane marinaio, vedendo giungere quest’uomo, lasciò il suo posto a lato del pilota, e venne col cappello in mano ad appoggiarsi al parapetto del bastimento. Era un giovane di vent’anni circa, alto, snello, con occhi neri, e capelli color dell’ebano. Si scorgeva in tutta la persona quell’aspetto di calma e di risoluzione che sono proprie degli uomini avvezzi fin dalla loro infanzia a lottare con i pericoli.

«Dunque siete voi Dantès?» esclamò l’uomo della barca. «E che è accaduto, e perché quest’aria di tristezza sulla vostra nave?»

«Una grande disgrazia, signor Morrel», rispose il giovane, «grande particolarmente per me. All’altezza di Civitavecchia abbiamo perduto il bravo capitano Leclère…»

«E il carico?» domandò preoccupato l’armatore.

«È giunto a buon porto, signor Morrel, e sono persuaso che sotto questo aspetto sarete contento. Ma il povero capitano Leclère…»

«Cosa gli è dunque accaduto?» domandò l’armatore notevolmente rallegrato. «Che accadde a questo bravo capitano?»

«È morto.»

«Caduto in mare?»

«No, morto di febbre cerebrale, tra orribili patimenti.»

Poi, girandosi verso l’equipaggio, disse: «Olà! Ciascuno al suo posto per l’ancoraggio.»

L’equipaggio ubbidì.

All’istante gli otto o dieci marinai che lo componevano si lanciarono alcuni sulle scotte, altri sui bracci, taluni sulle dritte, altri ancora sul carico abbasso del trinchetto, e il rimanente, infine, agli imbrogli delle vele.

Il giovane marinaio gettò uno sguardo indifferente agli inizi della manovra e vedendo che i suoi ordini venivano eseguiti, si rivolse di nuovo al suo interlocutore.

«E come accadde dunque questa disgrazia?» proseguì l’armatore riprendendo la conversazione dal punto dove il giovane marinaio l’aveva interrotta.

«Mio Dio, signore, nel modo più imprevisto. Dopo un lungo colloquio con il comandante del porto, il capitano Leclère abbandonò Napoli molto agitato: in capo a ventiquattr’ore fu colto dalla febbre e tre giorni dopo era morto. Gli abbiamo resi gli ordinari funerali, ed egli riposa, decentemente avviluppato in una branda, con una palla da 36 ai piedi e una alla testa, all’altezza dell’isola del Giglio. Noi riportiamo alla vedova la sua croce d’onore e la sua spada. Valeva ben la pena», continuava il giovane con un sorriso malinconico, «di fare per dieci anni la guerra agl’inglesi per arrivare poi a morire, come tutti gli uomini, nel suo letto.»

«Peccato! Che volete, Edmond», riprese l’armatore che sembrava consolarsi sempre più, «siamo tutti mortali, e bisogna bene che i vecchi cedano il posto ai giovani; senza questo, non vi sarebbe più progresso, e al momento che voi mi assicurate che il carico…»

«È in buono stato, signore Morrel, ve lo garantisco. Ecco un viaggio che io vi consiglio di non scontare per meno di 25.000 franchi di guadagno.»

Quindi, come era passata la Torre Rotonda: «Attenzione a caricare le vele dei pennoni, il fiocco e la brigantina», comandò il giovane marinaio, «fate attenzione!»

L’ordine venne eseguito quasi con la stessa celerità che sopra una nave da guerra.

«Ammaina, e carica dappertutto!»

All’ultimo comando tutte le vele si abbassarono, e il naviglio avanzò in modo quasi insensibile, non camminando più che per l’impulso ricevuto.

«Se ora volete salire a bordo, signor Morrel», disse Dantès, vedendo l’impazienza dell’armatore, «ecco qui il vostro contabile signor Danglars che esce dalla sua cabina, e vi darà tutti i chiarimenti che desiderate: quanto a me bisogna che sorvegli l’ancoraggio e che metta la nave a lutto.»

L’armatore non se lo lasciò ripetere due volte, afferrò una gomena che gli gettò Dantès, e con una sveltezza che avrebbe fatto onore a un uomo di mare, salì gli scalini inchiodati sul fianco sporgente della nave, mentre l’altro, ritornando al suo posto di secondo, cedeva la parola a colui che aveva annunciato sotto il nome di Danglars, il quale uscendo dalla sua cabina si avvicinava all’armatore.

Danglars era un uomo di venticinque-ventisei anni, triste d’aspetto, ossequioso verso i suoi superiori, insolente con i sottoposti; cosicché, oltre al suo titolo di contabile, di per sé motivo di avversione per i marinai, era tanto malvisto dall’equipaggio, quanto al contrario Edmond Dantès era amato.

«Allora signor Morrel», disse Danglars, «voi sapete già la disgrazia, non è vero?»

«Sì, sì, povero capitano Leclère! Era un bravo e onest’uomo.»

«E soprattutto un eccellente marinaio, invecchiato fra il cielo e il mare, come si conviene a un uomo incaricato degli affari di una casa così importante come quella Morrel e figlio», rispose Danglars.

«Ma», disse l’armatore tenendo gli occhi rivolti a Dantès, che cercava il punto del suo ancoraggio, «mi sembra che non occorre essere tanto un vecchio marinaio quanto voi dite, Danglars, per conoscere bene il mestiere. Ecco il nostro amico Edmond che fa il suo, e mi sembra un uomo che non ha bisogno di chiedere consigli ad alcuno.»

«Sì», disse Danglars gettando su Dantès uno sguardo obliquo in cui balenò un lampo d’odio: «lui è giovane e perciò non teme nulla. Appena il capitano è morto, ha preso il comando senza consultare nessuno, e ci ha fatto perdere un giorno e mezzo all’isola d’Elba, invece di ripiegare direttamente a Marsiglia.»

«Per quanto concerne assumere il comando della nave», disse l’armatore, «era suo dovere farlo, come secondo; quanto al perdere un giorno e mezzo all’isola d’Elba, ha fatto male, a meno che la nave non abbia avuto qualche avaria da riparare.»

«La nave è in ottime condizioni al pari di me, e come vorrei che voi stiate sempre, signor Morrel, e questa giornata e mezzo fu perduta per un capriccio, per il solo piacere di scendere a terra, ecco tutto.»

«Dantès», disse l’armatore, rivolgendosi al giovanotto, «venite qui.»

«Scusate, signore», disse Dantès. «sarò da voi fra un istante.» Poi, indirizzandosi all’equipaggio: «Date fondo!» diss’egli.

Sull’istante l’ancora cadde, e la catena scivolò con rumore. Dantès rimase al suo posto, malgrado la presenza del pilota, fino a che fu compiuta la manovra, quindi disse: «Abbassate la fiamma a mezz’albero, la bandiera a mezz’asta, incrociate le antenne!»

«Voi vedete», disse Danglars, «egli si crede, sulla mia parola, già capitano.»

«E lo è, difatti», disse l’armatore.

«Sì, signor Morrel, salvo la vostra firma e quella del vostro associato.»

«Diamine! Perché non dovremmo lasciarlo a questo posto?» disse l’armatore. «È giovane, lo so bene, ma mi sembra adatto alla bisogna, e molto esperto nel suo mestiere.»

Una nube passò sul viso di Danglars.

«Volevo domandarvi perché vi siete fermato all’isola d’Elba.»

«Lo ignoro io stesso: fu per eseguire un ultimo comando del capitano Leclère, che morendo mi aveva affidato un plico per il gran maresciallo Bertrand.»

«L’avete dunque visto, Edmond?»

«Chi?»

«Il gran maresciallo.»

«Sì.»

Morrel si guardò attorno e tirò da parte Dantès.

«E come sta l’imperatore?» domandò egli premurosamente.

«Bene, per quanto ho potuto giudicare con i miei occhi.»

«Avete dunque visto anche l’imperatore?»

«Entrò dal maresciallo mentre vi ero io.»

«E gli avete parlato?»

«Cioè, fu lui che parlò a me», rispose Dantès, sorridendo.

«E che vi disse?»

«Mi ha fatto delle domande sul bastimento, sull’epoca della sua partenza da Marsiglia, sul viaggio che aveva fatto, e sul carico che portava. Credo che se questo fosse stato vuoto, e io ne fossi stato il padrone, la sua intenzione sarebbe stata quella di farne acquisto. Ma gli dissi ch’io non ero che un semplice secondo, e il bastimento apparteneva alla casa Morrel e figlio. “Ah!” diss’egli, “la conosco. I Morrel sono armatori di padre in figlio, e ho conosciuto un Morrel che serviva nello stesso reggimento con me, quando ero in guarnigione a Valenza.”»

«È vero, è vero!» esclamò l’armatore tutto contento. «Era Policar Morrel, mio zio, che divenne capitano; Dantès, voi direte a mio zio che l’imperatore si è ricordato di lui, e voi vedrete piangere quel vecchio brontolone. Allora», continuò il vecchio armatore battendo amichevolmente la mano sulla spalla del giovane, «voi avete fatto bene a eseguire le istruzioni del capitano Leclère, e a fermarvi all’isola d’Elba, sebbene, se si venisse a sapere che avete consegnato un plico al maresciallo e parlato con l’imperatore, ciò potrebbe senza dubbio compromettervi.»

«E perché dovrebbe compromettermi?» disse Dantès. «Io non so neppure ciò che ho portato, e l’imperatore non mi ha fatto che quelle domande che avrebbe fatto al primo venuto… Ma scusate», riprese Dantès, «ecco l’ufficiale di sanità e quello di dogana che giungono. Voi permettete, non è vero?»

«Fate, fate pure, mio caro Dantès.»

Il giovane si allontanò, e a misura che si allontanava, Danglars si accostava.

«Ebbene», chiese, «ha addotto buone ragioni sulla sua sosta a Portoferraio?»

«Eccellenti, mio caro Danglars.»

«Ah, tanto meglio», rispose questi, «poiché è sempre cosa spiacevole vedere un collega che non fa il proprio dovere.»

«Dantès ha fatto il suo», rispose l’armatore, «e non vi è nulla da ridire. Fu il capitano Leclère che gli ordinò quella fermata.»

«A proposito del capitano Leclère, vi ha egli consegnato una sua lettera?»

«A me? No. Ne aveva una dunque?»

«Io credevo che, oltre il plico, il capitano Leclère gli avesse affidato una lettera.»

«Di quale plico parlate, Danglars?»

«Di quello che Dantès ha depositato nel passare da Portoferraio.»

«E come sapete ch’egli aveva un plico da depositare a Portoferraio?»

Danglars arrossì.

«Passavo davanti alla porta del capitano, che era socchiusa, e lo vidi consegnare a Dantès il plico e la lettera.»

«Non me ne ha parlato», disse l’armatore, «ma se ha questa lettera, me la consegnerà.»

Danglars rifletté un istante.

«Allora, signor Morrel, vi prego», disse, «di non parlare di ciò a Dantès; mi sarò sbagliato.»

In quel momento il giovane fece ritorno; Danglars si allontanò.

«Ebbene, mio caro Dantès, siete libero?» domandò l’armatore.

«Sì, signore.»

«La cosa non è stata lunga.»

«No, ho consegnato ai doganieri la lista delle vostre mercanzie; e, quanto all’ufficio di sanità esso ha rimandato qui, con il pilota costiero, un uomo al quale ho rimesso le mie carte.»

«Allora non avete più niente da fare qui?»

Dantès gettò uno rapido sguardo intorno a sé.

«No, qui tutto è in ordine.»

«Potete dunque venire a pranzo da noi?»

«Scusatemi, signor Morrel, scusatemi, ve ne prego, ma la prima mia visita la debbo a mio padre. Vi sono però riconoscente per l’onore che mi fate.»

«È giusto, Dantès, è giusto: so che siete un buon figlio.»

«E…» domandò Dantès con una certa esitazione, «sta bene mio padre, che voi sappiate?»

«Io credo di sì, mio caro Edmond, sebbene non l’abbia visto.»

«Sì, egli rimane ritirato nella sua camera.»

«Ciò prova, perlomeno, che non ha avuto bisogno di nulla durante la vostra assenza.»

Dantès sorrise.

«Mio padre è molto altero, signore, e quand’anche fosse sprovvisto di tutto, non si sarebbe rivolto a chiedere cosa alcuna a chicchessia, eccetto a Dio.»

«Ebbene, dopo questa prima visita, noi contiamo su voi.»

«Scusatemi di nuovo, signor Morrel, ma dopo questa prima visita, io ne farò un’altra che non mi sta meno a cuore.»

«Ah, è vero, Dantès, dimenticavo che vi è, ai Catalani, qualcuno che deve aspettarvi con non minor impazienza di vostro padre. È la bella Mercedes.»

Dantès arrossì.

«Ah! ah!» disse l’armatore. «Non mi sorprende più che sia venuta tre volte a domandare notizie del Pharaon. Perbacco, Edmond, voi non siete da compiangere, vi ritrovate ad avere una graziosa amica.»

«Non è mia amica, ma», disse con gravità il marinaio, «è la mia fidanzata.»

«Qualche volta è tutt’uno», disse ridendo l’armatore.

«Ma non per noi», rispose Dantès.

«Andate, mio caro Edmond», continuò l’armatore, «non voglio trattenervi di più. Voi avete condotto così bene i miei affari, che io vi devo lasciare il comodo di fare i vostri. Avete bisogno di denaro?»

«No, signore, ho tutti i miei salari del viaggio, cioè quasi tre mesi di soldo.»

«Voi siete un giovane previdente, Edmond!»

«Aggiungete che ho un padre povero, signor Morrel.»

«Sì, sì, so bene che siete un buon figliolo! Andate dunque a veder vostro padre. Io pure ho un figlio, e non saprei perdonare colui che dopo tre mesi di viaggio lo trattenesse lontano da me.»

«Dunque mi permettete?» disse il giovane salutandolo.

«Sì, se voi non avete niente altro da dirmi.»

«No.»

«Il capitano Leclère non vi ha dato, morendo, alcuna lettera per me?»

«Gli sarebbe stato impossibile scrivere, ma ciò mi ricorda che avrei un congedo di quindici giorni da domandarvi.»

«Per prender moglie?»

«Prima di tutto per quello, poi per andare a Parigi.»

«Bene, bene! Prendetevi il tempo che vi serve, Dantès. Non ci vorranno meno di sei settimane per scaricare la nave, e non ci rimetteremo in mare prima di tre mesi. Sarà opportuno che vi troviate qui fra tre mesi. Il Pharaon», continuò l’armatore battendo sulla spalla del giovane marinaio, «non potrebbe ripartire senza il suo capitano.»

«Senza il suo capitano!» esclamò Dantès con gli occhi sfavillanti di gioia. «Ponete ben mente a ciò che dite, signore, poiché voi rispondete alle più segrete speranze del mio cuore; avreste intenzione di nominarmi capitano del Pharaon?»

«Se fossi solo, vi tenderei la mano, mio caro Dantès, e vi direi: “È fatto”; ma ho un socio, e voi sapete l’antico proverbio italiano: “Ha un padrone chi ha un compagno”. Ma la metà della faccenda è fatta; poiché su due voti, voi ne avete di già uno; fidatevi di me per avere l’altro, farò quanto potrò di meglio.»

«Oh, signor Morrel», esclamò il giovane marinaio, stringendo con le lacrime agli occhi le mani dell’armatore, «signor Morrel, io vi ringrazio in nome di mio padre e di Mercedes.»

«Va bene, va bene Edmond; vi è un Dio in cielo per la brava gente; andate a vedere vostro padre, andate a vedere Mercedes, poi ritornate da me.»

«Non volete che vi riconduca a terra?»

«No, grazie, rimango a regolare i miei conti con Danglars. Siete stato contento di lui durante il viaggio?»

«Dipende dal senso che voi date a questa domanda, signore; se come buon compagno no, perché io credo ch’egli non mi ami dal giorno in cui ebbi la debolezza, in conseguenza d’una contesa, di proporgli che ci fermassimo dieci minuti all’isola di Montecristo per risolvere la questione, proposta che io ebbi torto di fargli e che egli ebbe ragione di rifiutare. Se è invece al contabile che si riferisce la vostra domanda, credo che non vi sia nulla da dire, e voi sarete contento del modo con cui ha disimpegnato il suo dovere.»

«Ma», domandò l’armatore, «se foste capitano del Pharaon terreste Danglars volentieri?»

«Capitano o secondo», rispose Dantès, «avrò sempre i più grandi riguardi per coloro che godono la fiducia dei miei armatori.»

«Andiamo, andiamo, Dantès, vedo bene che siete un bravo giovane sotto tutti i rapporti. Non voglio trattenervi più a lungo; andate, poiché siete sulla brace.»

«Arrivederci, signor Morrel, e mille ringraziamenti.»

«Arrivederci, mio caro Edmond, e buona fortuna!»

Il giovane marinaio balzò sulla lancia, andò a sedersi a poppa e ordinò di dirigersi alla Canebière. Due marinai si piegarono sui loro remi e la barca si allontanò con quella rapidità che è possibile in mezzo a mille barche che ingombrano quella specie di angusta strada che conduce, fra due file di navigli, dall’entrata del porto allo scalo di Orléans. L’armatore sorridendo lo seguì con gli occhi fino alla spiaggia, lo vide saltare sui gradini dello scalo e perdersi subito in mezzo alla folla variopinta, che dalle cinque del mattino alle nove della sera ingombra questa famosa strada della Canebière, di cui i focesi moderni sono tanto orgogliosi, che affermano, con la più gran serietà del mondo e con quell’accento che imprime tanto carattere a ciò che dicono: «Se Parigi avesse la Canebière, sarebbe una piccola Marsiglia».

Girandosi, l’armatore vide Danglars, che in apparenza sembrava attendere i suoi ordini, ma in realtà seguiva come lui il giovane marinaio con lo sguardo. Soltanto vi era una grandissima diversità nella espressione di questo doppio sguardo diretto sul medesimo individuo.

2. Padre e figlio

Lasciamo che Danglars, impegnato con il genio dell’odio, cerchi di gettare contro il suo compagno qualche malevola supposizione all’orecchio dell’armatore, e seguiamo Dantès, che dopo aver percorso la Canebière in tutta la sua lunghezza, prende la rue Noaille, entra in una piccola casa situata alla sinistra dei viali di Meilhan, sale in fretta i quattro piani di una scala scura e tenendosi con una mano alla ringhiera comprime con l’altra i battiti del suo cuore, si ferma davanti a una porta socchiusa, che lascia vedere in fondo una piccola camera. Era la camera del padre di Dantès.

La notizia dell’arrivo del Pharaon non era ancora pervenuta al vecchio, che sopra una cassa, era occupato a piantare delle cannucce sopra cui sistemava con mano tremante alcuni nasturzi misti a clematidi che si arrampicavano lungo la pergola della finestra.

A un tratto si sentì circondare il corpo da due braccia, e una voce ben nota gridare dietro di sé: «Padre! Mio buon padre!»

Il vecchio lanciò un grido e si voltò, poi vedendo il figlio, si lasciò cadere tra le sue braccia, pallido e tremante.

«Che cosa avete, padre», esclamò il giovane commosso. «Siete ammalato?»

«No, mio caro Edmond, mio caro figlio, no; ma non ti aspettavo, e la gioia, la sorpresa di rivederti così all’improvviso… mio Dio!… mi sembra di morire…»

«Calmatevi, padre. Sono io, proprio io. Si dice sempre che la gioia non nuoce ed è perciò che sono entrato così senza farvi avvisare; guardatemi, sorridetemi, invece di guardarmi con occhi spaventati. Sono tornato e saremo entrambi felici.»

«Ah, tanto meglio, figlio», riprese il vecchio. «Ma in che modo potremo essere felici? Tu dunque non mi abbandoni più? Vediamo, raccontami le tue fortune.»

«Che il Signore mi perdoni», disse il giovane, «di rallegrarmi di una fortuna dovuta al lutto di una famiglia: ma Dio sa che non ho desiderato questa fortuna! Essa mi giunge e io non ho la forza di affliggermene. Il bravo capitano Leclère è morto, ed è probabile che con la protezione del signor Morrel io prenda il suo posto… Capitano a vent’anni! Con cento luigi di stipendio e una parte degli utili! Non è ben più di ciò che poteva sperare un povero marinaio quale sono io?»

«Sì, figlio mio, sì, infatti questa è una fortuna.»

«E perciò voglio che con il primo denaro che guadagnerò voi abbiate una casetta con un giardino per piantare le vostre clematidi, i vostri nasturzi e il vostro caprifoglio… Ma che avete, padre? Si direbbe che state male!»

«Pazienza, pazienza, non sarà nulla.» E, mancandogli le forze, il vecchio cadde.

«Un buon bicchiere di vino, caro padre, vi rianimerà», disse il giovane, «Dove tenete il vino?»

«No, grazie, non lo cercare, non ne ho bisogno», disse il vecchio, tentando di trattenere il figlio.

«Lasciate fare, lasciate fare, padre.»

Ed egli aprì due o tre armadi.

«È inutile», disse il vecchio, «non vi è più vino.»

«Come non vi è più vino!» disse Dantès, impallidendo a sua volta e guardando alternativamente le guance smunte e rugose del vecchio, e gli armadi vuoti. «Come non vi è più vino! Sareste forse rimasto privo di denaro, padre?»

«Non sono rimasto privo di nulla dal momento che tu sei qui.»

«Eppure», balbettò Dantès, asciugandosi il sudore che freddo gli colava dalla fronte, «avevo lasciato 200 franchi, tre mesi fa, partendo.»

«Sì, sì, Edmond, è vero, ma tu avevi dimenticato nel partire un piccolo debito con il vicino Caderousse; egli me lo ha ricordato, dicendomi che se non pagavo per te, andava a farsi pagare dal signor Morrel. Allora comprenderai bene… per timore che non ti facesse torto…»

«Ebbene?»

«Ebbene, ho pagato per te.»

«Ma», esclamò Dantès, «il mio debito con Caderousse era di 140 franchi!… E voi li avete pagati con i 200 franchi che vi ho lasciati?»

Il vecchio fece un segno affermativo con la testa.

«Dimodoché voi avete vissuto», mormorò il giovane, «per tre mesi con solo 60 franchi!»

«Tu sai quanto poco mi abbisogni e mi basti.»

«Oh, mio Dio! Mio Dio! Padre, perdonatemi», esclamò Edmond, gettandosi ai piedi del brav’uomo.

«Che fai adesso?»

«Ah, voi mi avete trafitto il cuore!»

«Tu sei qui», disse il vecchio, sorridendo, «ora tutto è dimenticato, poiché tu stai bene.»

«Sì, io sono qui; eccomi con un bell’avvenire e con un po’ di denaro. Prendete, padre», disse, «prendete e mandate subito qualcuno a comprare qualche cosa.» E vuotò sul tavolo la borsa che conteneva una dozzina di monete d’oro, cinque o sei scudi da cinque franchi e qualche soldo.

Il viso del vecchio si rannuvolò.

«Di chi è quel denaro?»

«Mio, tuo, nostro, prendete, comprate delle provviste, siate felice, domani ve ne sarà dell’altro.»

«Adagio, adagio», disse il vecchio sorridendo, «col tuo permesso ne farò uso, ma con moderazione. Le persone che mi vedessero fare grandi provviste direbbero che ero obbligato ad aspettare il tuo ritorno per far degli acquisti.»

«Fate come volete, ma prima di ogni altra cosa prendetevi una persona di servizio, non voglio più che usciate di casa solo. Ho del caffè, e dell’eccellente tabacco di contrabbando in un baule nel fondo della stiva; l’avrete domani. Ma zitto, sento arrivare qualcuno.»

«Sarà Caderousse, che avendo saputo del tuo arrivo viene a darti il benvenuto.»

«Bene, ecco altre labbra che dicono cose diverse da ciò che pensa il cuore. Ma non importa», mormorò Edmond, «è un vicino che ci ha reso qualche favore; che sia il benvenuto!»

Difatti, nel momento in cui Edmond terminava la frase a voce bassa, si vide comparire la testa nera e barbuta di Caderousse sulla soglia della porta. Era un uomo di venticinque-ventisei anni, aveva fra le mani un pezzo di stoffa, che da buon sarto si accingeva a tramutare nei risvolti di un abito.

«Ah, eccoti dunque di ritorno, Edmond!» disse con un accento marsigliese marcato, e con un largo sorriso che gli scopriva dei bellissimi denti, bianchi come l’avorio.

«Come vedi, vicino Caderousse, e pronto a servirti in qualunque cosa», rispose Dantès, dissimulando male la sua freddezza nel far questa offerta.

«Grazie, grazie, fortunatamente io non ho bisogno di nulla, anzi sono qualche volta gli altri che hanno bisogno di me.»

Dantès fece un movimento d impazienza.

«Non dico per te, giovanotto; ti prestai del denaro, tu me lo hai reso, ciò si usa fra buoni vicini e noi siamo pari.»

«Non si è mai pari con quelli che ci hanno fatto un favore», disse Dantès, «quando non gli si deve più denaro si deve riconoscenza.»

«Perché parlare di ciò? Quel che è passato, è passato, parliamo del tuo felice ritorno, giovanotto. Ero andato al porto per comprare del panno color marrone, quando ho incontrato l’amico Danglars. “Tu! A Marsiglia?” “Sì, proprio io.” “Ti credevo a Smirne!” “Vengo di là.” “E Edmond, dov’è quel bravo giovane?” “Certamente da suo padre”, rispose Danglars. E allora son venuto qui per avere il piacere di stringere la mano a un amico.»

«Questo buon Caderousse», disse il vecchio, «ci ama molto.»

«Certo vi amo e vi stimo anche, tanto più che gli uomini onesti sono così rari… Ma sembra che tu ritorni ricco…» continuò il sarto, volgendo uno sguardo bieco sull’oro e l’argento che Dantès aveva messo sul tavolo.

Al giovane marinaio non sfuggì il lampo di cupidigia negli occhi del suo vicino.

«Eh, mio Dio», disse con noncuranza, «questo denaro non è mio; avevo manifestato a mio padre il timore che nella mia assenza gli fosse mancato qualche cosa, ed egli, per rassicurarmene, ha vuotato la sua borsa sul tavolo. Andiamo, padre», continuò Dantès, «rimettete il vostro denaro nel tiretto, a meno che il vicino Caderousse non ne abbia a sua volta bisogno, nel qual caso è sempre a sua disposizione.»

«No, caro», disse Caderousse, «non ho bisogno di niente. Grazie a Dio ci si mantiene con il proprio mestiere… Conserva il tuo denaro, conservalo, poiché non se ne ha mai troppo; ciò non toglie che ti sia grato della tua offerta, come ne avessi approfittato.»

«Era di buon cuore…» disse Dantès.

«Non ne dubito. Ebbene, eccoti dunque in ottimi rapporti con il signor Morrel, furbo che sei!»

«Il signor Morrel ha sempre avuto molta bontà per me…» rispose Dantès.

«In questo caso tu hai avuto torto a rifiutare il suo invito a pranzo.»

«Come, rifiutare il suo invito!» disse il vecchio padre. «Egli dunque ti aveva invitato a pranzo?»

«Sì, padre mio», riprese Edmond sorridendo della meraviglia che causava a suo padre il grande onore di cui era oggetto.

«E perché hai rifiutato, figlio mio?» domandò il vecchio.

«Per essere più presto da voi, padre», rispose il giovane, «avevo fretta di vedervi.»

«Però sarà dispiaciuto a quel buon uomo del signor Morrel», aggiunse Caderousse; «quando uno aspira a divenir capitano, ha torto a non fare la corte al suo armatore.»

«Gli ho spiegato la causa del mio rifiuto», rispose Dantès, «e sono certo che l’ha intesa.»

«Ah, per diventar capitano bisogna accarezzare un poco di più i padroni.»

«Spero di diventar capitano anche senza di ciò.»

«Tanto meglio, tanto meglio; la cosa farà piacere ai tuoi vecchi amici. So che vi è qualcuno laggiù dietro la cittadella di Saint-Nicolas che ne sarà molto contento.»

«Mercedes?» disse il vecchio.

«Sì, padre mio», disse Dantès, «e col vostro permesso, ora che vi ho visto, e so che state bene, e avete tutto ciò che vi serve, vi chiederei il permesso di fare visita ai Catalani.»

«Va’, figlio mio, va’», disse il vecchio Dantès, «e Dio benedica te nella tua donna, come benedisse me nel figlio!»

«Sua donna?» osservò Caderousse. «Voi correte troppo, papà Dantès; non lo è ancora, io credo.»

«No», rispose Edmond, «ma non tarderà molto a divenirlo.»

«Non importa, non importa», disse Caderousse, «hai fatto bene ad affrettare le nozze.»

«E perché?»

«Perché Mercedes è una bella ragazza, e le belle ragazze non mancano d’innamorati, quella particolarmente! La seguivano a dozzine!»

«Davvero!» disse Edmond con un sorriso, sotto cui traspariva un’ombra d’inquietudine.

«Oh sì!» rispose Caderousse. «E anche bei partiti! Ma, tu mi comprendi, stai per diventare capitano e si guarderà bene dal rifiutarti!»

«Ciò equivale a dire», disse Dantès con un sorriso che malcelava la sua inquietudine, «che se io non diventassi capitano…»

«Eh! eh!» esclamò Caderousse.

«Andiamo, andiamo», disse il giovane, «io ho migliore opinione che voi delle donne in generale, e di Mercedes in particolare, e sono convinto che, diventi o no capitano, lei mi resterà ugualmente fedele.»

«Tanto meglio! Tanto meglio!» disse Caderousse. «È sempre una buona cosa che i giovani quando si maritano siano forniti di buona fede; ma non serve, credimi Dantès, non perdere tempo nell’andare ad annunciarle il tuo arrivo, e a metterla a parte delle tue speranze.»

«Vado», disse Edmond. Abbracciò suo padre, salutò con un cenno della testa Caderousse e uscì.

Caderousse restò ancora un istante, poi, prendendo congedo dal vecchio Dantès, discese a sua volta e andò a raggiungere Danglars, che lo aspettava all’angolo di rue Senac.

«Ebbene», disse Danglars, «l’hai visto?»

«L’ho lasciato ora.»

«Ti ha parlato della sua speranza di divenir capitano?»

«Egli ne parla come se lo fosse già.»

«Pazienza, pazienza!» disse Danglars. «Mi sembra che abbia troppa fretta.»

«Diavolo! Sembra che il posto gli sia stato promesso dallo stesso signor Morrel.»

«Perciò sarà molto contento.»

«Addirittura ne è insuperbito. Mi ha già offerto i suoi servizi come fosse una persona importante; inoltre voleva prestarmi del denaro, come fosse un banchiere.»

«E tu avrai rifiutato.»

«Certamente, sebbene avessi potuto accettare, poiché sono stato io che gli ho messo fra le mani le prime monete d’argento che ha toccato; ma ora Dantès non avrà più bisogno di nessuno, diventando capitano.»

«Piano!» disse Danglars. «Non lo è ancora.»

«In fede mia sarebbe una bella cosa se non lo diventasse affatto», disse Caderousse, «altrimenti non vi sarebbe più modo di potergli parlare.»

«Se non lo vogliamo veramente», disse Danglars, «resterà ciò che è, e forse diventerà anche meno di quello che è.»

«Che stai dicendo?»

«Niente, parlo tra me e me. È sempre innamorato della catalana?»

«Innamorato pazzo; è andato da lei. Mi sbaglierò ma avrà dei dispiaceri da quella parte.»

«Spiegati.»

«A quale scopo?»

«È più importante di quello che credi. A te non piace Dantès.»

«Non mi piacciono gli arroganti.»

«Ebbene, dimmi allora ciò che sai sul conto della catalana.»

«Non so niente di positivo, soltanto ho visto cose che mi fanno credere, come ti dicevo, che il futuro capitano avrà dei dispiaceri nei dintorni delle Vecchie Infermerie.»

«Che cosa hai visto? Via, dimmelo.»

«Ebbene, ho visto che tutte le volte che Mercedes viene in città, è sempre accompagnata da un robusto catalano con gli occhi neri, molto scuro, ardentissimo, e che lei chiama mio cugino.»

«Ah, veramente, e credi che questo suo cugino le faccia la corte?»

«Lo suppongo. Che diavolo vuoi che faccia un giovanotto di ventun anni con una bella ragazza di diciassette?»

«E dici che Dantès è andato ai Catalani?»

«È uscito da casa sua poco prima di me.»

«Se andiamo dalla stessa parte ci fermeremo all’osteria della Riserva di papà Pamphile, e, bevendo un bicchiere di vino di Malaga, attenderemo notizie.»

«E chi ce le porterà?»

«Staremo sulla strada, e leggeremo sul viso di Dantès ciò che sarà avvenuto.»

«Andiamo…» disse Caderousse. «Ma sei tu che paghi?»

«Certamente…» rispose Danglars.

E tutti e due s’incamminarono con passo rapido verso il luogo indicato. Giunti là si fecero portare una bottiglia e due bicchieri. Papà Pamphile aveva visto passare Dantès una decina di minuti prima.

Certi che Dantès era ai Catalani, si sedettero all’ombra dei sicomori; sui rami gli uccelli salutavano gioiosamente la bella giornata di primavera.

3. I Catalani

A una distanza di cento passi dal punto dove i due amici, con lo sguardo all’orizzonte e l’orecchio all’erta, sorseggiavano lo spumeggiante vino di Malaga, s’innalzava, dietro un monticello nudo e arido per il sole e per il maestrale, il villaggio dei Catalani.

Un tempo, una misteriosa colonia partì dalla Spagna, e venne ad approdare sulla lingua di terra che abita tuttora. Arrivava non si sa da dove, e parlava una lingua sconosciuta. Uno dei capi, che comprendeva il provenzale, domandò al Comune di Marsiglia di ceder loro quel promontorio nudo e arido, su cui essi avevano, come gli antichi marinai, ritirati i loro navigli. La loro domanda fu accettata, e tre mesi dopo sorgeva un piccolo villaggio attorno ai dodici o quindici bastimenti che erano stati tirati in secco da questi nomadi avventurieri del mare.

Il villaggio, costruito in modo bizzarro e pittoresco, metà moresco e metà spagnolo, è quello oggi abitato dai discendenti di quegli uomini, che parlano ancora la lingua dei loro padri. Trascorsi tre o quattro secoli essi sono rimasti fedeli a questo piccolo promontorio, in cui si erano imbattuti, come uno stormo di uccelli marini, senza mischiarsi alla popolazione marsigliese, maritandosi fra di loro, e conservando usi e costumi della loro madrepatria, come ne hanno conservata la lingua.

I nostri lettori ci seguano attraverso una strada di questo villaggio ed entrino con noi in una di queste case, alle quali il sole fuori ha dato il bel colore di foglia secca, come ai monumenti del paese, e dentro una tinta gialla, unico ornamento delle posadas spagnole.

Una bella ragazza con i capelli neri come l’ebano e gli occhi vellutati come quelli della gazzella, stava in piedi appoggiata a un assito sfrondando tra le dita affusolate un’innocente erica di cui strappava i fiori, le fronde già sparse sul terreno; le sue braccia nude fino al gomito, braccia brune ma che sembravano modellate su quelle della Venere d’Arles, fremevano con impazienza febbrile, e lei batteva la terra col piede grazioso, in modo da fare apparire la forma pura e superba della gamba, serrata da un calza di cotone rosso punteggiato di grigio e azzurro.

A tre passi da lei, su una sedia su cui si dondolava con movimenti bruschi, appoggiando il gomito a un vecchio mobile tarlato, stava un robusto giovane di venti-ventidue anni, che la guardava con un’aria inquieta e dispettosa a un tempo. I suoi occhi interrogavano; ma lo sguardo fermo e fisso della ragazza dominava il suo interlocutore.

«Dunque, Mercedes», diceva il giovane, «fra poco sarà Pasqua, un momento propizio per il matrimonio.»

«Vi ho risposto cento volte, Fernando, e bisogna in verità che voi siate nemico di voi stesso, perché rinnoviate questa domanda.»

«Ebbene, ripetetelo ancora, ve ne supplico, ripetetelo ancora, affinché giunga a crederlo; ditemi per la centesima volta che rifiutate il mio amore, malgrado l’approvazione di vostra madre; fatemi ben comprendere che vi prendete gioco della mia felicità, e che la mia vita e la mia morte sono un nulla per voi. Ah, mio Dio! Aver sognato per dieci anni di essere vostro sposo, Mercedes, e perdere questa speranza che era la sola meta della mia vita!»

«Non che abbia mai incoraggiato questa speranza, Fernando», rispose Mercedes. «Non avete una sola lusinga da rimproverarmi, a vostro riguardo. Vi ho sempre detto: “Io vi amo come un fratello; ma non esigete mai da me altra cosa che questa amicizia fraterna, poiché il mio cuore è dato a un altro!” Non vi ho sempre detto ciò, Fernando?»

«Sì, lo so bene, Mercedes», rispose il giovane, «vi siete compiaciuta con me del merito crudele della franchezza. Ma dimenticate che esiste fra i catalani una legge sacra, che ordina di maritarsi fra loro.»

«Voi v’ingannate, Fernando, non è una legge, è una consuetudine, ecco tutto; e credetemi, non vi giova invocare questa consuetudine in vostro favore! Siete in età di fare il soldato, l’arbitrio che vi lascia non è che una semplice tolleranza. Da un momento all’altro potete essere chiamato al servizio militare, e una volta soldato, che farete voi di me, cioè di una povera orfanella, infelice, senza beni, che in tutto possiede una capanna quasi in rovina, alla quale sono attaccate alcune reti usate, miserabile eredità lasciata da mio padre a mia madre, e da mia madre a me? Da un anno è morta, pensate, Fernando, e io vivo quasi di carità pubblica. Qualche volta fingete che io vi sia utile, e ciò è per darmi il diritto di dividere la vostra pesca; io accetto, perché siete il figlio del fratello di mio padre, perché noi siamo stati allevati assieme, e più ancora, soprattutto, perché vi causerei troppo dispiacere se rifiutassi. Ma capisco bene che il pesce che vado a vendere e dal quale traggo il denaro per comprare la canapa che filo, capisco bene, Fernando, che non è che elemosina.»

«E che importa, Mercedes! Così povera e sola come siete mi piacete assai più che la figlia del più superbo armatore, o del più ricco banchiere di Marsiglia. A noi che occorre? Una donna onesta e adatta alle faccende domestiche. Chi potrei trovare meglio di voi da questo punto di vista?»

«Fernando», rispose Mercedes, scuotendo la testa, «si diviene inette alle faccende domestiche e non si può garantire di restar femmine oneste, quando si ama un uomo, che non è il proprio marito. Accontentatevi della mia amicizia; perché, ve lo ripeto, è tutto quanto posso promettervi, e io non prometto che quanto sono sicura di mantenere.»

«Sì, lo comprendo, voi sopportate pazientemente la vostra miseria, ma avete paura della mia. Ebbene, Mercedes, amato da voi, io tenterò la fortuna; voi mi porterete felicità, e io diventerò ricco. Posso estendere il mio commercio di pescatore, posso fare il commesso, posso diventare un negoziante.»

«Voi non potete tentare niente di tutto ciò, Fernando, voi siete soldato, e se siete ancora ai Catalani è perché non vi è guerra; restate dunque pescatore, non fate dei sogni, che farebbero ancora più terribile la realtà, e accontentatevi della mia amicizia, poiché io non posso darvi altro.»

«Avete ragione, Mercedes, io sarò marinaio; avrò, invece del costume dei nostri padri, che disprezzate, un cappello col fiocco, una camicia a righe e una giacca turchina con le ancore sui bottoni… Non è così che bisogna essere vestito per piacervi?»

«Che intendete dire?» domandò Mercedes con uno sguardo imperioso. «Che intendete dire? Non vi capisco.»

«Voglio dire, Mercedes, che siete così inflessibile e crudele con me, perché attendete qualcuno così vestito. Ma quello che voi aspettate è forse incostante; e se non lo è, il mare lo è per lui.»

«Fernando», esclamò Mercedes, «io vi credevo buono e mi sono ingannata; Fernando, avete un cuore cattivo, invocando in aiuto della gelosia la collera di Dio. Ebbene sì, non vi nascondo nulla, aspetto, e amo colui che dite, e s’egli non ritorna, invece di accusarlo di incostanza dirò che è morto amandomi.»

Il giovane catalano fece un gesto di rabbia.

«Vi capisco, Fernando, vi rivarreste su di lui perché non vi amo, voi incrocereste il coltello catalano col suo pugnale. Ma a che servirebbe? A perdere la mia amicizia se rimaneste vinto, a veder cambiarsi in odio la mia amicizia se vincitore. Credetemi, il muovere contesa con un uomo è un cattivo mezzo per piacere alla donna che ama quest’uomo. No, Fernando, voi non vi lascerete trasportare da così perversi pensieri; se non mi potete avere in moglie, vi accontenterete di avermi amica e sorella. D’altronde», aggiunse commossa e con gli occhi pieni di lacrime, «aspettate, aspettate, Fernando, voi lo avete detto or ora, il mare è perfido e sono già quattro mesi che ho contato molte burrasche!»

Fernando restò impassibile.

Non cercò di asciugare le lacrime che scorrevano sulle guance di Mercedes, anche se avrebbe dato una libbra del suo sangue per ciascuna di quelle lacrime che scorrevano per un altro. Si alzò, fece un giro nella capanna, ritornò, si fermò davanti a Mercedes cupo in viso, e con i pugni fortemente serrati.

«Mercedes», disse, «ancora una volta rispondete… Siete proprio decisa?»

«Io amo Edmond Dantès», disse freddamente la ragazza, «e nessun altro fuorché Edmond sarà il mio sposo!»

«E l’amerete sempre?»

«Finché avrò vita!»

Fernando chinò la testa scoraggiato, emise un sospiro che sembrò un gemito; poi a un tratto alzando la fronte, con i denti serrati e le narici socchiuse: «Ma s’egli è morto?» disse.

«Se è morto, io morrò!»

«Ma se vi dimentica?»

«Mercedes!» esclamò una voce esultante fuori della capanna, «Mercedes!»

«Ah!» esclamò la ragazza arrossendo di gioia, esultando d’amore, «vedi bene che non mi ha dimenticata, eccolo qua…»

Si lanciò verso la porta e l’aprì gridando: «Eccomi, Edmond, eccomi!»

Fernando, pallido e fremente, indietreggiò come un viaggiatore alla vista di un serpente, e urtando la sedia vi cadde a sedere.

Edmond e Mercedes erano tra le braccia l’una dell’altro. Il sole ardente di Marsiglia che penetrava dall’apertura della porta, li inondava di un torrente di luce. Sulle prime non videro niente di ciò che li circondava, una felicità immensa li isolava da questo mondo; non si parlavano che con quelle parole tronche che sono lo slancio della più viva gioia, e sembrano accostarsi all’espressione del dolore. A un tratto Edmond si accorse della figura cupa di Fernando nell’ombra, pallida e minacciosa; d’istinto, senza egli stesso darsene una ragione, il catalano aveva portato la mano al coltello posto alla cintura.

«Scusate», disse Dantès, inarcando a sua volta le sopracciglia, «non avevo notato che eravamo in tre.» Poi volgendosi a Mercedes domandò: «Chi è questo signore?»

«Sarà il vostro migliore amico, poiché è il mio; è mio cugino e mio fratello; è Fernando, l’uomo, che dopo voi, Edmond, amo di più su questa terra.»

Edmond, senza abbandonare Mercedes di cui teneva una mano, tese, con cordialità, l’altra mano al catalano. Ma Fernando invece di corrispondere al gesto amichevole, restò muto e immobile come una statua. Allora Edmond portò il suo sguardo scrutatore da Mercedes, commossa e tremante, a Fernando cupo e minaccioso. Quel solo sguardo gli fece comprendere tutto. La collera montò al suo viso.

«Non sarei venuto con tanta fretta da voi, Mercedes, se avessi saputo di ritrovarvi un nemico.»

«Un nemico!» esclamò Mercedes con uno sguardo corrucciato rivolto al cugino. «Un nemico presso di me, tu dici, Edmond? Se lo credessi, ti darei subito il mio braccio e me ne andrei a Marsiglia, abbandonando questa casa per non riporvi mai più piede.»

L’occhio di Fernando ebbe un lampo.

«Se ti accadesse una disgrazia, mio Edmond», continuò lei con il medesimo implacabile sangue freddo, che provava a Fernando che la ragazza aveva saputo leggere fin nel profondo dei suoi sinistri pensieri, «se ti accadesse qualche disgrazia, salirei sul capo di Morgion e mi getterei sugli scogli spaccandomi la testa.»

Fernando divenne spaventosamente pallido.

«Ma tu t’inganni, Edmond», continuò, «tu qui non hai nemici: qui non c’è che Fernando, mio fratello, che ti stringerà la mano come a un amico, di cuore.»

A queste parole la ragazza fissò il suo sguardo imperioso sul catalano, il quale, come se fosse stato affascinato da questo sguardo, si accostò lentamente a Edmond, e gli tese la mano. Il suo odio, pari a un flutto impotente sebbene furioso, veniva a infrangersi contro l’ascendente che questa donna esercitava su lui. Ma appena ebbe toccata la mano di Edmond, sentì di aver fatto tutto ciò che poteva, e, lanciandosi fuori della capanna correndo come un insensato e con le mani nei capelli, esclamò: «Oh, chi mi libererà da quest’uomo? Me infelice! Me infelice!»

«Ehi, catalano! Ehi, Fernando, dove corri?» disse una voce. Il giovane si fermò di colpo, guardò attorno a sé e riconobbe Caderousse seduto a tavola con Danglars sotto un pergolato di foglie di vite.

«Ehi!» disse Caderousse. «Perché non vieni qui? Hai dunque tanta fretta da non avere il tempo di dire buongiorno agli amici?»

«Specialmente quando hanno ancora una bottiglia quasi piena davanti…» aggiunse Danglars.

Fernando guardò quei due uomini con occhi assenti e non rispose nulla.

«Sembra proprio stordito», disse Danglars, toccando il ginocchio di Caderousse. «Possibile che ci siamo sbagliati, e che Dantès trionfi in barba a quanto previsto?»

«Diavolo, è da vedersi!» disse Caderousse.

E volgendosi verso il catalano: «Ebbene, ti decidi?»

Fernando si asciugò il sudore che gli grondava dalla fronte, entrò lentamente sotto il pergolato, l’ombra sembrava rendere un po’ di calma ai suoi sensi, e la freschezza un po’ di sollievo al corpo spossato.

«Buongiorno», disse. «Mi avete chiamato, non è vero?»

E fu piuttosto un cadere che il sedersi sopra una delle panche attorno alla tavola.

«Ti ho chiamato perché correvi come un pazzo, e perché ho avuto paura che andassi a gettarti in mare», disse ridendo Caderousse. «Che diavolo! Quando uno ha degli amici, non è soltanto per offrir loro un bicchiere di vino, ma anche per impedirgli di andare a bere tre o quattro pinte d’acqua.»

Fernando mandò un gemito che sembrava un singulto, e lasciò cadere la testa sopra i due pugni incrociati sulla tavola.

«Ebbene! Vuoi che lo dica io, Fernando», riprese Caderousse intavolando la conversazione con quella villana brutalità della gente del popolo, alla quale la curiosità fa dimenticare ogni specie di diplomazia. «Hai l’aria di un amante sconfitto.» E accompagnò questa facezia con una forte risata.

«Impossibile», intervenne Danglars, «un giovanotto della forza di costui non è fatto per essere disgraziato in amore; tu ti burli di lui, Caderousse.»

«Niente affatto», riprese questi. «Non senti come sospira? Coraggio, Fernando», disse Caderousse, «alza la testa e rispondi. Non è cortese non rispondere agli amici che domandano come va la salute.»

«La mia salute va bene», disse Fernando serrando i pugni, ma senza alzar la testa.

«Ah, vedi, Danglars», disse Caderousse, strizzando l’occhio all’amico, «ecco come stanno le cose: Fernando, che vedi qui, e che è un buono e bravo catalano, uno dei migliori pescatori di Marsiglia, è innamorato di una bella ragazza che si chiama Mercedes, ma disgraziatamente sembra che la bella ragazza sia innamorata del secondo del Pharaon, e siccome il Pharaon è entrato oggi in porto, tu capisci?…»

«No, io non capisco niente», disse Danglars.

«Il povero Fernando avrà ricevuto il suo congedo.»

«Ebbene?» disse Fernando alzando la testa e guardando Caderousse come in cerca di qualcuno su cui sfogare la sua collera. «Mercedes non dipende da nessuno, non è vero? Dunque è libera di amare chi vuole.»

«Ah! Se la prendi così», disse Caderousse, «è un altro affare. Ti credevo un catalano, e mi era stato detto che i catalani non eran tali da lasciarsi soppiantare da un rivale, e mi si era fatto credere che Fernando in particolare fosse un uomo terribile nella vendetta.»

Fernando sorrise in tono di commiserazione.

«Un innamorato non è mai terribile», disse.

«Povero ragazzo», riprese Danglars, fingendo di compiangerlo dal più profondo dell’anima, «Lui non si aspettava di vedere ritornare Dantès così presto. È forse infedele, o che so io? Queste cose sono tanto più sconvolgenti quanto più ci accadono all’improvviso.»

«A ogni modo», disse Caderousse che beveva parlando, e su cui il vino di Malaga cominciava a fare il suo effetto, «Fernando non è il solo che è indispettito dal felice ritorno di Dantès. Non è vero, Danglars?»

«È vero, e io oserei dire che ciò gli porterà disgrazia.»

«Non importa», riprese Caderousse, versando un bicchiere di vino a Fernando, e riempiendo il proprio per l’ottava o decima volta, mentre Danglars aveva appena assaggiato il suo, «non importa, intanto egli sposa Mercedes: è ritornato per questo.»

Danglars fissava con occhi scrutatori il giovane, sul quale le parole di Caderousse cadevano come piombo fuso.

«E quando si faranno le nozze?» domandò.

«Oh, non sono ancor fatte», mormorò Fernando.

«No, ma si faranno», disse Caderousse. «Così come Dantès sarà capitano del Pharaon. Non è vero, Danglars?»

Danglars rabbrividì a questo colpo inatteso, e si voltò verso Caderousse di cui studiò i lineamenti per capire se era stato premeditato, ma egli non lesse che l’invidia su quel viso fattosi quasi ebete dall’ubriachezza.

«Ebbene», disse, riempiendo i bicchieri, «beviamo dunque alla salute del capitano Edmond Dantès, marito della catalana!»

Caderousse portò il bicchiere alla bocca, e con mano pesante lo tracannò in un fiato. Fernando prese il suo e lo ruppe gettandolo a terra.

«Eh! eh! eh!» disse Caderousse. «Cosa vedo sull’alto del promontorio, laggiù, verso i Catalani? Guarda tu, Fernando, che hai miglior vista della mia; credo di cominciare a veder doppio, e tu sai che il vino è traditore… Si direbbe che i due amanti passeggino, tenendosi vicini vicini! Il cielo mi perdoni! Non sanno d’esser visti… Eccoli!»

Danglars non perdeva alcuna delle angosce che soffriva Fernando, il cui viso si alterava palesemente.

«Li riconoscete, Fernando?» disse.

«Sì», rispose questi, con voce cupa, «sono Edmond e Mercedes.»

«Ah, vedete», disse Caderousse, «li avevo riconosciuti! Oh, Dantès! O che bella ragazza! Venite qui e diteci quando si faranno le nozze, poiché Fernando si è ostinato a non volercelo dire.»

«Vuoi tacere?» disse Danglars, fingendo di trattenere Caderousse, che con la tenacia dell’ubriaco si sforzava di sporgersi fuori del pergolato. «Cerca di tenerti dritto, e lascia gl’innamorati amarsi tranquillamente. Guarda Fernando, e prendi esempio da lui, è un uomo ragionevole.»

Forse Fernando, ridotto agli estremi, e punto da Danglars come il toro dai banderilleros, stava per slanciarsi, perché si era già alzato e sembrava raccogliersi per scagliarsi contro il suo rivale, ma Mercedes, ridente e accorta, alzò la sua bella testa e fece brillare il suo limpido sguardo. Allora Fernando si ricordò la minaccia che aveva fatto di uccidersi se Edmond fosse morto, e ricadde scoraggiato sulla panca.

Danglars guardò quei due uomini: l’uno abbrutito dall’ubriachezza, l’altro dominato dall’amore.

«Non ricaverò niente da questi imbecilli», mormorò, «e ho una gran paura di essere qui fra un ubriaco e un codardo. Ecco un invidioso che si ubriaca con il vino, mentre dovrebbe farlo con il fiele; e un grande imbecille al quale vien tolta la sua bella di sotto al naso, e si accontenta di piangere e di lamentarsi come un bambino: nonostante abbia occhi fulminanti come gli spagnoli, i siciliani e i calabresi, i quali sanno vendicarsi così bene, e dei pugni che fracasserebbero la testa a un bue come la mazza del macellaio! Decisamente il destino di Edmond la vince: sposerà la ragazza, sarà fatto capitano, e riderà di noi, a meno che…» Un sinistro sorriso affiorò sulle labbra di Danglars. «A meno che non me ne occupi io…» aggiunse.

«Olà!» continuava a gridare Caderousse a metà alzato, puntellandosi sulla tavola. «Olà, Edmond, non vedi dunque gli amici, o sei diventato già tanto superbo da non poter parlar con loro?»

«No, mio caro Caderousse», rispose Dantès, «io non sono superbo, sono felice, e la felicità acceca, credo, assai più della superbia.»

«Alla buon’ora, ecco una bella spiegazione», disse Caderousse.

«Buongiorno, signora Dantès.»

Mercedes salutò con gravità.

«Questo ancora non è il mio nome», disse, «e nel mio paese porta cattivo augurio chiamare le ragazze col nome del fidanzato, prima che sia loro marito. Vi prego dunque di chiamarmi Mercedes.»

«Bisogna perdonare il buon vicino Caderousse», disse Dantès, «egli si sbaglia di poco.»

«Dunque le nozze avranno luogo quanto prima, Dantès?» disse Danglars salutando i due giovani.

«Il più presto possibile, signor Danglars: oggi si prenderanno tutti gli accordi con mio padre, e domani al più tardi ci sarà il pranzo di fidanzamento, qui alla Riserva. Spero che gli amici ci saranno, e ciò vuol dire che siete invitato, signor Danglars, e tu, Caderousse, non mancherai.»

«Fernando», disse Caderousse ridendo, «sarà invitato anche lui?»

«Il fratello della mia sposa è pure mio fratello», disse Edmond, «e sia Mercedes che io vedremmo con sommo dispiacere se egli si allontanasse da noi in questa circostanza.»

Fernando aprì la bocca per rispondere, ma la voce gli si spense in gola, e non poté articolare una parola.

«Oggi gli accordi, domani o dopo il fidanzamento!… Che diavolo! Capitano, voi avete molta fretta.»

«Danglars», rispose Edmond sorridendo, «vi dirò ciò che Mercedes diceva or ora a Caderousse: non mi date un titolo che non mi appartiene… Mi porterebbe cattivo augurio.»

«Scusate», precisò Danglars, «dicevo semplicemente che voi avete molta fretta. Che diavolo! Noi abbiamo tempo; il Pharaon non salperà che fra tre mesi.»

«Si ha sempre fretta di esser felici; quando uno ha sofferto lungamente, si pena a credere alla felicità. Ma non è il solo egoismo che mi fa agire in tal modo; occorre che io vada a Parigi.»

«Ah davvero? A Parigi? È la prima volta che ci andate, Dantès?»

«Sì.»

«Vi avete degli affari?»

«Non per mio conto; è un’ultima commissione del nostro capitano Leclère da adempiere; voi capirete, Danglars, che questa è cosa sacra. D’altronde, state tranquillo, io non prenderò che il tempo necessario per l’andata e il ritorno.»

«Sì, sì capisco», disse ad alta voce Danglars, poi aggiunse fra sé abbassando il tono: «A Parigi, senza dubbio, per recapitare la lettera che gli consegnò il capitano. Ah, perbacco! Questa lettera mi fa nascere un’idea, un’eccellente idea! Signor Dantès, amico mio, non hai ancora dormito a bordo del Pharaon nella cabina numero 1».

Poi voltandosi verso Edmond che già si allontanava: «Buon viaggio…» gli gridò.

«Grazie…» rispose Edmond girando la testa, accompagnando questo movimento con un gesto amichevole. Quindi i due innamorati continuarono la loro strada, lieti e tranquilli come due anime che salgono al cielo.

4. Il complotto

Danglars seguì Edmond e Mercedes con lo sguardo, finché i due scomparvero dietro l’angolo del forte Saint-Nicolas; poi volgendosi si accorse che Fernando era ricaduto sulla panca pallido, fremente, mentre Caderousse balbettava le parole di una canzone da osteria.

«Ecco», disse Danglars a Fernando, «un matrimonio che sembra non faccia la felicità di tutto il mondo.»

«È la mia disperazione.»

«Dunque amate Mercedes?»

«Dal momento che la conobbi l’amai; l’ho sempre amata!»

«E voi state lì a strapparvi i capelli invece di cercare un rimedio? Che diavolo! Io non credevo che fosse questo il modo con cui agiscono quelli della vostra razza.»

«Che cosa volete che faccia?» domandò Fernando.

«E che ne so? È forse cosa che mi riguarda? Non sono io, mi sembra, l’innamorato di Mercedes, ma voi.»

«Io volevo pugnalar l’uomo, ma lei mi ha detto che se capitava una disgrazia al suo fidanzato si sarebbe uccisa.»

«Frottole! Queste sono cose che si dicono sempre, e non si fanno mai.»

«Signore, voi non conoscete Mercedes: quando minaccia, esegue.»

«Imbecille!» mormorò Danglars. «Che lei si uccida o no a me poco importa purché Dantès non diventi capitano.»

«E prima che Mercedes muoia», aggiunse Fernando, con accento risoluto, «morirei io stesso.»

«Questo si chiama amore!» disse Caderousse con voce avvinazzata. «Se questo non è vero amore, davvero non lo so più conoscere.»

«Vediamo», disse Danglars, «voi mi sembrate un giovane a modo, e vorrei, che il diavolo mi porti, levarvi questa pena, ma…»

«Sì, sì», disse Caderousse, «capiamo come.»

«Mio caro», continuò Danglars, «tu sei per tre quarti ubriaco; termina la bottiglia e lo sarai del tutto. Bevi, e non immischiarti in ciò che facciamo, perché bisogna aver libera la testa.»

«Io ubriaco?» disse Caderousse. «Eh via! Io delle tue bottiglie ne berrei altre quattro! Non sono più grandi di una boccetta d’acqua di Colonia!… Papà Pamphile, del vino!» E per dare effetto alle parole, Caderousse batté il bicchiere sulla tavola.

«Dunque dicevate, signore?» riprese Fernando, aspettando con impazienza il seguito della frase interrotta.

«Che dicevo? Non me ne ricordo. Questo ubriacone di Caderousse mi ha fatto perdere il filo.»

«Ubriaco quanto vorrai. Tanto peggio per quelli che hanno paura del vino! Ciò perché hanno qualche cattivo pensiero e temono che il vino lo tolga dal cuore.»

E Caderousse si mise a cantare gli ultimi versi di una canzone molto in voga a quei tempi: «Acqua bevon color che fan del male: N’è una prova il diluvio universale!»

«Dicevate, signore», riprendeva Fernando, «che mi vorreste levar di pena, ma aggiungeste…»

«Sì, aggiungevo che per levarvi di pena basta che Dantès non sposi colei che voi amate, e il matrimonio può benissimo non effettuarsi anche senza che Dantès muoia.»

«La morte sola può separarli», disse Fernando.

«Voi ragionate come un ragazzo, amico mio», disse Caderousse, «e siccome Danglars è un furbo, un maligno, vi mostrerà in qual modo voi avete torto. Provalo, Danglars, io ho garantito per te. Digli che non vi è bisogno che Dantès muoia… D’altronde mi dispiacerebbe se morisse, Dantès; è un buon giovane… io gli voglio bene… io ti voglio bene Dantès… alla tua salute Dantès!»

Fernando si alzò stizzito.

«Lasciatelo dire», riprese Danglars, trattenendo il catalano, «sebbene ubriaco non dice un grande sproposito: l’assenza separa due individui tanto bene quanto la morte… Supponete per esempio che vi fosse fra Edmond e Mercedes la muraglia di una prigione; essi sarebbero divisi né più né meno che se vi fosse la lapide di una tomba.»

«Sì, ma di prigione si esce», disse Caderousse, che con gli ultimi sprazzi di lucidità, stava prendendo parte alla conversazione, «e quando si esce di prigione, e si porta il nome di Edmond Dantès, uno si vendica.»

«Che importa!» mormorò Fernando.

«E poi», rispose Caderousse, «perché si dovrebbe mettere in prigione Dantès? Egli non ha né rubato, né ammazzato.»

«Taci!» disse Danglars.

«Io non voglio tacere; pretendo che mi si dica perché si vuol far mettere in prigione Dantès. Voglio bene a Dantès! Alla tua salute Dantès!»

E vuotò d’un fiato un altro bicchiere di vino.

Danglars seguì con lo sguardo i progressi dell’ubriachezza del suo compagno, e rivolgendosi a Fernando: «Ebbene, comprendete che non vi è bisogno di ucciderlo?»

«No certo, se, come voi dicevate poco fa, si potesse trovare il modo di farlo arrestare.»

«Cercando bene», disse Danglars, «lo si potrebbe trovare… Ma di che diavolo vado io a immischiarmi? È forse cosa che mi riguarda?»

«Non so se ciò vi riguardi», disse Fernando afferrandogli un braccio, «ma ciò che so è che voi avete qualche motivo particolare di odio contro Dantès: chi odia se stesso, non s’inganna sui sentimenti degli altri.»

«Io!… dei motivi di odio con Dantès? Nessuno, sulla mia parola! Io vi ho visto infelice e la vostra infelicità mi ha commosso, perciò ho preso interesse per voi, ecco tutto. Ma dal momento che voi credete che agisca per conto mio, addio, amico caro: levatevi quella spina dal cuore come potete.» E Danglars fece finta a sua volta d’alzarsi.

«No», disse Fernando trattenendolo, «restate; in fin dei conti, poco m’importa che voi odiate o no Dantès: io l’odio e lo confesso. Trovate il mezzo e io l’eseguo, purché non causi la morte di quell’uomo poiché Mercedes si ucciderebbe se Dantès fosse ammazzato.»

Caderousse, che aveva lasciato cadere la testa sul tavolo, rialzò la fronte e guardando Fernando e Danglars, con occhi semichiusi e spenti, disse: «Uccidere Dantès… Chi parla di uccidere Dantès? Io non voglio che sia ucciso, io!… È mio amico… Mi ha offerto questa mattina di divider con me il suo denaro, come io ho diviso il mio con lui… Non voglio che si uccida Dantès!…»

«E chi parla di ucciderlo, imbecille!» riprese Danglars. «Si parla di un semplice scherzo. Bevi alla sua salute», aggiunse riempiendogli il bicchiere, «e lasciaci tranquilli.»

«Sì, sì, alla salute di Dantès», disse Caderousse, vuotando il bicchiere, «alla sua salute… alla sua salute… al… la…»

«Ma il mezzo?… Il mezzo?» disse con impazienza Fernando.

«Voi non lo avete ancora trovato?»

«No, ve ne siete incaricato voi.»

«È vero», rispose Danglars, «i francesi hanno questa superiorità sugli spagnoli: gli spagnoli ruminano, e i francesi inventano.»

«Inventate dunque, inventate», disse Fernando con impazienza.

«Cameriere!» disse Danglars, «carta, penna e calamaio.»

«Carta, penna e calamaio?» mormorò Fernando.

«Sì, io sono scrivano computista, la penna, l’inchiostro e la carta sono i miei strumenti, e senza di questi non saprei fare cosa alcuna.»

«Carta, penna e calamaio!» esclamò ad alta voce Fernando.

«Ecco tutto», disse il cameriere portando gli oggetti richiesti.

«Quando si pensa», disse Caderousse, mettendo una mano sulla carta, «che con questa carta si può ammazzare un uomo con più facilità che se si attendesse all’angolo di un bosco per assassinarlo. Ho sempre avuto più paura di una bottiglia d’inchiostro, di una penna e di un calamaio, che non di una spada o di una pistola.»

«Il buffone non è ancora ubriaco quanto sembra», disse Danglars. «Versategli dunque da bere, Fernando.»

Fernando riempì il bicchiere di Caderousse; e questi, da quel bravo bevitore che era, levò la mano dalla carta, e la portò al bicchiere. Il catalano seguì i suoi movimenti fino a che Caderousse, quasi sopraffatto da quel nuovo attacco, lasciò cadere il suo bicchiere sul tavolo.

«Ebbene…» riprese il catalano, vedendo che il poco della ragione che restava a Caderousse cominciava a sparire sotto l’influenza di quell’ultimo bicchiere di vino.

«Ebbene dicevo dunque, per esempio», riprese Danglars, «che se dopo un viaggio come quello che ha fatto Dantès e in cui ha toccato Napoli e l’isola d’Elba, qualcuno lo denunciasse…»

«Lo denuncerò io», disse con vivacità il giovane.

«Sì, ma allora vi si fa firmare la vostra dichiarazione, e vi si confronta con quello che avete denunciato. Io vi fornisco di che sostenere la vostra accusa, è vero. Ma Dantès non può restare eternamente in prigione; un giorno o l’altro ne uscirà, e il giorno in cui esce sarà terribile con quello che lo ha fatto entrare.»

«Oh, io non desidero che una cosa», disse Fernando, «che egli venga a sfidarmi a duello.»

«Sì, e Mercedes? Mercedes vi prenderà in odio se voi avrete soltanto la disgrazia di scalfire la pelle al suo diletto Edmond!»

«È giusto», disse Fernando.

«No, no», riprese Danglars, «se si decide una cosa simile, vedete bene, è meglio prendere, così come faccio io, questa penna, intingerla nell’inchiostro e scrivere con la mano sinistra, affinché la calligrafia non sia individuata, la breve seguente denuncia.» E Danglars, unendo l’esempio all’insegnamento, scrisse con la mano sinistra e con una grafia ordinaria, che non aveva alcuna analogia con la sua, le parole che egli passò a Fernando e questi lesse a mezza voce.

«Il signor procuratore del re è avvisato, da un amico del trono e della religione, che un tale Edmond Dantès, secondo del bastimento Pharaon, giunto questa mattina da Smirne, dopo aver toccato Napoli e Portoferraio, ebbe da Murat l’incarico di consegnare una lettera all’usurpatore, e dall’usurpatore una lettera per il Comitato bonapartista di Parigi. Si avrà la prova del suo delitto arrestandolo, poiché si troverà questa lettera, o nelle sue tasche, o in casa di suo padre, o nella sua cabina a bordo del Pharaon.»

«Alla buon’ora», disse Danglars, «in tal modo la vostra vendetta sarà attribuita alle circostanze, e sarete sicuro che non ricadrà sopra di voi, e la cosa andrà da sola. Perciò non vi resterebbe che piegare la lettera come faccio io, scriverci sopra: “Al procuratore del re”, e tutto sarebbe fatto.» E Danglars scrisse l’indirizzo, come per gioco.

«Sì, tutto sarebbe fatto», gridò Caderousse, che con un ultimo sforzo d’intelligenza aveva seguito la lettura, e che comprendeva per istinto tutto il male che avrebbe potuto causare una simile denuncia. «Sì, tutto sarebbe fatto, soltanto sarebbe un’infamia.» E allungò il braccio per prendere la lettera.

«Per tal modo», disse Danglars, allontanando la lettera, «per tal modo tutto ciò che ho detto e fatto non è che uno scherzo, e io sarei il primo a esserne afflitto se accadesse qualche disgrazia a Dantès, a questo buon Dantès! Così osservate…» Egli prese la lettera, la spiegazzò fra le mani e la gettò in un angolo del pergolato.

«Alla buon’ora», disse Caderousse. «Dantès è mio amico, e non voglio che gli si faccia del male.»

«E chi diavolo pensa a fargli del male? Certamente né io né Fernando», disse Danglars alzandosi, e squadrando il catalano rimasto seduto, che non perdeva d’occhio il foglio denunciatore gettato nell’angolo.

«In questo caso», riprese Caderousse, «che ci portino del vino, io voglio bere alla salute di Edmond e della bella Mercedes.»

«Tu hai bevuto fin troppo, ubriacone!» disse Danglars. «E se continui sarai obbligato a dormir qui, poiché non potrai reggerti in piedi.»

«Io!» disse Caderousse, alzandosi con la fatuità dell’uomo ubriaco, «io non potrò tenermi in piedi? Scommetto che monto sul campanile degli Accoulès anche senza barcollare!»

«Sia!» disse Danglars. «Accetto la scommetto, ma per domani; oggi è ora di ritornare a casa. Dammi il braccio e andiamo.»

«Andiamo», disse Caderousse, «ma non ho bisogno del tuo braccio. Vieni anche tu, Fernando? Rientri con noi a Marsiglia?»

«No», disse Fernando, «io ritorno ai Catalani.»

«Fai male; vieni con noi a Marsiglia, vieni.»

«Non ho niente da fare a Marsiglia, e non ci voglio andare.»

«Come hai detto? Che non vieni? Ebbene a tuo comodo. Vieni Danglars, lasciamo rientrare il giovanotto ai Catalani, poiché vuole così.»

Danglars approfittò del momento di buona volontà di Caderousse per trascinarlo alla volta di Marsiglia; e solo per lasciare la strada più corta e più facile a Fernando, invece di ritornare per la riviera della nuova Riva, ritornò per la porta San Vittore; Caderousse lo seguì barcollando attaccato al suo braccio. Quando fu a una ventina di passi, Danglars si voltò e vide Fernando precipitarsi sul foglio e metterlo in tasca; poi subito balzare fuori dal pergolato, e andarsene dalla parte del Pilone.

«Ebbene, che fa dunque?» disse Caderousse. «Ha mentito: ci ha detto che andava ai Catalani e ha voltato dalla parte della città. Olà! Fernando, tu ti sbagli, caro ragazzo!»

«Sei tu che vedi male», disse Danglars, «egli segue direttamente la strada delle Vecchie Infermerie.»

«Davvero?» disse Caderousse. «Eppure giurerei che ha voltato a destra! Decisamente il vino è traditore!»

«Andiamo, andiamo», mormorò Danglars, «credo che l’affare sia bene avviato e non resti altro da fare che lasciarlo progredire da sé.»

5. Il pranzo di fidanzamento

Il giorno seguente il tempo fu bello, il sole si levò puro e lucente, e i suoi primi raggi di un rosso purpureo screziavano le cime dei flutti di un vivo color rubino.

Il pranzo era stato preparato al primo piano di quella stessa Riserva con il pergolato, di cui noi facemmo già conoscenza. Era un salone illuminato da cinque o sei finestre, e al di sopra di ciascuna, senza sapere perché, stava scritto il nome di una delle grandi città della Francia; le finestre davano su una terrazza in legno.

Benché il pranzo non fosse fissato che per mezzogiorno, fino dalle undici del mattino questa terrazza era piena di persone che vi passeggiavano con impazienza. Erano i marinai privilegiati del Pharaon e qualche amico di Dantès. Tutti, in onore del fidanzato, erano vestiti dei loro migliori abiti. Si sentiva dire fra i convitati del promesso sposo, che gli armatori del Pharaon avrebbero onorato con la loro presenza il fidanzamento del loro secondo. Ma questo, a loro pensare, era un onore così grande per Dantès, che nessuno osava crederci. Però Danglars, che giungeva in compagnia di Caderousse, confermò la notizia. La mattina aveva visto lo stesso signor Morrel, e questi lo aveva assicurato che sarebbe venuto a pranzo alla Riserva.

Infatti, pochi momenti dopo il signor Morrel fece il suo ingresso nella sala e fu salutato dai marinai del Pharaon con un evviva e unanimi applausi. La presenza dell’armatore era una conferma della voce che già correva che Dantès sarebbe stato nominato capitano; e siccome Dantès era molto amato a bordo, questa brava gente faceva capire in tal modo all’armatore che una volta tanto la nomina del capitano era in armonia con i desideri dei subordinati.

Appena il signor Morrel fu entrato, Danglars e Caderousse furono unanimemente incaricati di andare incontro ai fidanzati. Dovevano avvertirli dell’arrivo del personaggio importante, la cui venuta aveva prodotto una così forte impressione, e dir loro che si affrettassero.

Danglars e Caderousse partirono di corsa; ma non ebbero fatto cento passi che scorsero il piccolo corteo che veniva alla loro volta. Questo piccolo corteo si componeva di quattro ragazze amiche di Mercedes, catalane come lei, che accompagnavano la fidanzata alla quale Edmond dava il braccio. Vicino alla futura sposa camminava il vecchio Dantès, e dietro di loro veniva con sinistro sogghigno Fernando; i poveri giovani erano così felici, che non vedevano che se stessi e il bel cielo che li benediceva.

Danglars e Caderousse disimpegnarono la loro missione di ambasciatori; quindi dopo aver scambiato con Edmond una stretta di mano vigorosa e amichevole, andarono, Danglars a prender posto vicino a Fernando, Caderousse a mettersi a fianco del padre di Dantès, centro dell’attenzione generale.

Il vecchio era vestito del suo bell’abito di taffettà, guarnito con larghi bottoni di acciaio sfaccettati. Le sue gambe sottili, ma nerborute, erano ricoperte da un magnifico paio di calze di cotone lavorato, di contrabbando inglese. Dal suo cappello a tre punte pendeva una fettuccia bianca e turchina. Egli si appoggiava a un bastone di legno tornito e ricurvo in alto come il pedum degli antichi. Si sarebbe detto uno di quegli zerbinotti che facevano bella mostra di sé nel 1796 nei giardini nuovamente riaperti del Lussemburgo e delle Tuileries.

Vicino a lui, come già detto, si era messo Caderousse, che la speranza di un buon pranzo aveva riconciliato con Dantès; Caderousse al quale restava nella mente una vaga memoria di ciò che era accaduto il giorno innanzi, come quando nello svegliarsi la mattina si ritrova l’ombra del sogno che si è fatto nella notte.

Danglars nell’avvicinarsi a Fernando aveva gettato sul catalano imbarazzato uno sguardo profondo.

Fernando camminava dietro ai fidanzati, completamente trascurato da Mercedes, che, con quell’egoismo giovanile caro all’amore, non aveva occhi che per Edmond; Fernando era pallido, con improvvisi rossori che lasciavano il posto a un pallore sempre più crescente. Ogni tanto guardava verso Marsiglia, e allora un tremito nervoso e involontario gli scorreva per le membra. Fernando sembrava attendere o perlomeno prevedere un qualche avvenimento.

Dantès era vestito con semplicità. Appartenendo alla marina mercantile, aveva un abito fra l’uniforme militare e il costume borghese, e sotto questo abito il suo portamento, eccitato anche dalla gioia e dalla bellezza della sua fidanzata, era superbo.

Mercedes era bella come una di quelle greche di Cipro o di Coo, dagli occhi d’ebano e dalle labbra di corallo. Camminava col passo franco e libero delle andaluse. Una ragazza di città avrebbe forse cercato di nascondere la sua gioia sotto un velo o almeno sotto il velluto delle palpebre; ma Mercedes sorrideva e guardava tutto ciò che la circondava, e il suo sorriso e il suo sguardo dicevano francamente quanto avrebbero potuto dire le sue parole: «Se voi mi siete amici rallegratevi, poiché in verità io sono molto felice».

Dal momento che i fidanzati e coloro che li accompagnavano furono in vista della Riserva, Morrel discese, e avanzò verso di loro, seguito dai marinai e dai soldati con i quali era rimasto e a cui aveva rinnovato la promessa, già fatta a Dantès, che questi sarebbe succeduto al capitano Leclère.

Edmond, vedendolo venire, lasciò il braccio della fidanzata e lo passò sotto quello di Morrel.

L’armatore e la ragazza dettero allora l’esempio e salirono per primi la scala di legno che portava alla stanza dove era preparato il pranzo. La scala scricchiolò per cinque minuti sotto i pesanti passi dei convitati.

«Padre mio», disse Mercedes, fermandosi a metà della tavola, «voi starete alla mia destra, alla sinistra porrò colui che fin qui mi ha fatto da fratello», e lo disse con una dolcezza che penetrò nel più profondo del cuore di Fernando come un colpo di pugnale. Le sue labbra s’incresparono e, sotto la tinta livida del suo viso maschile, si poté vedere il sangue ritirarsi a poco a poco, per affluire al cuore.

Nel frattempo Dantès aveva posto alla sua destra Morrel, alla sinistra Danglars; quindi aveva fatto segno con la mano che ciascuno prendesse posto a suo piacere.

Già circolavano intorno alla tavola i salami di Arles con le carni brune e affumicate, le aragoste ricoperte della loro rosea corazza, i ricci di mare che sembravano castagne circondate dalla loro scorza spinosa, le cappe che presso i buongustai del Mezzogiorno sono valutate più delle ostriche del Nord; e tutti quei crostacei, che i flutti gettano sulla riva sabbiosa e che i pescatori riconoscenti designano con il nome generico di frutti di mare.

«Bel silenzio!» disse il vecchio, assaggiando un bicchiere di vino giallo topazio, che papà Pamphile in persona aveva portato a Mercedes. «Si direbbe che qui ci sono trenta persone che non desiderano altro che ridere…»

«Eh, un marito non è sempre allegro», disse Caderousse.

«Il fatto è», disse Dantès, «che sono troppo felice in questo momento. Se è così che voi la intendete, caro vicino, avete ragione: la gioia qualche volta fa un effetto strano: essa opprime come il dolore.»

Danglars osservò Fernando la cui natura impressionabile riceveva e rifletteva ciascuna emozione.

«Andiamo dunque», disse, «avreste forse paura di qualche cosa? Mi sembra al contrario che vada tutto secondo i vostri desideri.»

«Ed è precisamente questo che mi spaventa», disse Dantès, «mi sembra che l’uomo non sia fatto per essere così facilmente felice. La felicità è come quei palazzi delle isole incantate le cui porte sono guardate dai draghi, bisogna combattere per conquistarli, e io per dir la verità non so qual merito mi abbia valso la felicità di diventare il marito di Mercedes.»

«Marito, marito!» disse Caderousse ridendo, «non ancora, caro capitano. Provati un poco a fare il marito e tu vedrai come sarai ricevuto.»

Mercedes arrossì, Fernando si agitava sulla sedia, rabbrividiva al più piccolo rumore, e di tanto in tanto si asciugava grosse gocce di sudore sulla fronte, come le prime gocce di un uragano.

«In fede mia», disse Dantès tirando fuori l’orologio, «vicino Caderousse, non val la pena di smentirmi per così poco. Mercedes non è ancora mia moglie, è vero, ma fra un’ora e mezzo lo sarà.»

Ognuno lanciò un grido di sorpresa, eccetto il padre di Dantès il cui largo riso mostrava dei denti sempre belli.

Mercedes sorrise e non arrossì più.

Fernando afferrò convulsamente il manico del suo coltello.

«Fra un’ora», disse Danglars impallidendo anch’egli, «e come?»

«Sì, amici miei», rispose Dantès, «grazie all’intervento del signor Morrel, l’uomo al quale dopo mio padre io debbo più a questo mondo, tutte le difficoltà sono state appianate; noi abbiamo pagato le pubblicazioni, e alle due e mezzo il sindaco di Marsiglia ci aspetta in municipio. Essendo l’una e un quarto, credo di non essermi sbagliato dicendo che tra un’ora e trenta minuti Mercedes si chiamerà signora Dantès.»

Fernando chiuse gli occhi; una nube di fuoco bruciò le sue palpebre, si appoggiò alla tavola per non svenire, e malgrado tutti i suoi sforzi non poté trattenere un sordo gemito che si perdette fra il rumore delle risa e le felicitazioni dell’assemblea.

«È un bel fare, eh?» disse il padre di Dantès. «Vi sembra che questo si chiami perder tempo? Arrivato ieri mattina, maritato oggi! Ci vogliono i marinai per andar dritti alla meta.»

«Ma le altre formalità?» obiettò timidamente Danglars. «Il contratto, le firme?»

«Il contratto», disse Dantès ridendo, «è concluso. Mercedes non ha niente e io lo stesso, noi ci maritiamo sotto il regime della comunione, vedete che questo non è lungo da scrivere e non sarà costoso a pagarsi.»

Questa facezia eccitò una nuova esplosione di gioia e di evviva.

«In tal modo quello che noi crediamo un pranzo di fidanzamento», disse Danglars, «è invece un pranzo di nozze?»

«No», disse Dantès, «state tranquillo, non perdete niente. Domani mattina parto per Parigi: cinque giorni per andare, cinque giorni per tornare, un giorno per eseguire coscienziosamente la commissione di cui sono incaricato, e il dodici marzo sono di ritorno. Per il dodici di marzo dunque vi aspetto al vero pranzo di nozze.»

La prospettiva di un nuovo festino raddoppiò l’ilarità al punto che Dantès padre, che al principio del pranzo si lamentava del silenzio, faceva ora, in mezzo alla conversazione generale, vani sforzi per fare intendere il suo voto di prosperità in favore dei promessi sposi.

Dantès indovinò il pensiero del padre e rispose con un sorriso pieno d’amore.

Mercedes cominciò a guardare l’orologio della sala e fece un piccolo segno a Edmond.

Regnava intorno alla tavola quella gioia fragorosa, propria della fine dei pranzi della gente povera. Quelli che erano malcontenti del loro posto si erano alzati da tavola, ed erano andati a cercare altri vicini. Tutti cominciavano a parlare in una volta e nessuno si occupava di rispondere a ciò che gli domandava il suo interlocutore. Il pallore di Fernando era passato quasi eguale sulle guance di Danglars; in quanto a Fernando stesso non viveva più e sembrava un dannato in un lago di fuoco. Egli si era alzato tra i primi e passeggiava in lungo e in largo nella sala, cercando d’isolare il suo orecchio dal rumore delle canzoni e dal toccarsi dei bicchieri. Caderousse si avvicinò a lui nel momento in cui Danglars, che egli sembrava fuggire, lo raggiungeva in un angolo della sala.

«In verità», disse Caderousse, a cui il vino di papà Pamphile aveva tolto tutti i resti di quell’odio di cui l’inattesa fortuna di Dantès aveva gettato i germi nella sua anima, «in verità, Dantès è un gentiluomo, e quando lo guardo seduto accanto alla sua fidanzata, mi vado dicendo che sarebbe stato veramente male fargli quella cattiva burla che tramavate ieri.»

«Tu hai visto», disse Danglars, «che la cosa non ha avuto nessuna conseguenza. Quel povero Fernando era così sconvolto che mi aveva sulle prime fatto pena; dal momento che ha deciso di essere il primo testimone alle nozze del suo rivale, non vi è più niente da dire.»

Caderousse guardò Fernando; era livido.

«Il sacrificio è tanto più grande», continuava Danglars, «in quanto la ragazza è molto bella. Che fortunato è il mio futuro capitano! Io vorrei chiamarmi Dantès soltanto per dodici ore.»

«Andiamo?» domandò la dolce voce di Mercedes. «Suonano le due e siamo attesi alle due e un quarto.»

«Sì, sì, andiamo», disse vivamente Dantès.

«Andiamo», ripeterono in coro tutti i convitati. Nel medesimo istante Danglars che non perdeva di vista Fernando seduto vicino a una finestra, lo vide aprire due occhi spaventati, alzarsi come per un sussulto e ricadere al suo posto. In quello stesso momento un sordo rumore risuonò sulle scale, un fragore di passi e un mormorio di voci, confuso all’urtarsi di armi, superò le esclamazioni dei convitati per quanto fossero chiassose e attirò l’attenzione generale, che si manifestò in un istante con un inquieto silenzio.

Il rumore si avvicinò, tre colpi percossero la porta, ciascuno guardava il suo vicino con sorpresa.

«In nome della legge!» gridò una voce, a cui nessuno rispose.

La porta si aprì, e un commissario, cinto della sua sciarpa, entrò nella sala seguito da quattro soldati armati, condotti da un caporale.

L’inquietudine diede posto al terrore.

«Che c’è?» domandò l’armatore, facendosi avanti, al commissario che conosceva. «Certamente, signore, qui c’è uno sbaglio.»

«Se c’è uno sbaglio, signor Morrel», rispose il commissario, «state sicuro che lo sbaglio sarà riparato. Frattanto sono portatore di un mandato di arresto, e, sebbene esegua l’ordine con dispiacere, sono obbligato a eseguirlo. Chi di voi è Edmond Dantès?»

Tutti gli sguardi si voltarono verso il giovane, che, molto agitato, ma conservando la sua dignità, fece un passo avanti e disse: «Sono io, signore. Che si vuole da me?»

«Edmond Dantès», riprese il commissario, «in nome della legge voi siete in arresto.»

«Voi mi arrestate!» disse Edmond con un leggero pallore. «Ma perché vengo arrestato?»

«Io, signore, non lo so, ma voi lo saprete certamente nel vostro primo interrogatorio.»

Morrel capì bene che non c’era nulla da fare contro la inflessibilità della situazione, un commissario cinto di sciarpa non è più un uomo, è l’esecutore della legge.

Il vecchio Dantès invece si precipitò verso l’ufficiale, vi sono cose che il cuore di un padre o di una madre non capiscono mai. Egli pregò e supplicò, ma lacrime e preghiere non ebbero alcun potere; e la sua disperazione era così grande che il commissario ne fu persino commosso.

«Signore», disse, «state calmo, forse vostro figlio avrà trascurato qualche formalità della dogana o dell’ufficio di sanità, e secondo ogni probabilità, allorché si saranno ricevuti da lui i chiarimenti che si desiderano, sarà messo in libertà.»

«Che significa tutto questo?» domandò Caderousse, aggrottando le sopracciglia, a Danglars che fingeva di esser sorpreso.

«Lo so io forse?» disse Danglars. «Io son come te, guardo ciò che accade, mi confondo e non ci capisco niente.»

Caderousse cercò con gli occhi Fernando: era sparito.

Tutta la scena del giorno avanti si presentò allora a Caderousse con una spaventevole chiarezza.

Si sarebbe detto che la catastrofe veniva ad alzare il velo che l’ubriachezza del giorno innanzi aveva posto fra lui e la sua memoria.

«Oh, oh!» diss’egli con voce rauca. «Sarebbe questa la conseguenza dello scherzo di cui parlavate ieri, Danglars? In questo caso guai a colui che l’avesse fatto, perché è ben triste!»

«Niente affatto», rispose Danglars, «tu sai bene che, al contrario, ho stracciato il foglio.»

«Tu non l’hai stracciato», gridò Caderousse, «tu l’hai spiegazzato e gettato in un angolo, ecco tutto.»

«Taci, tu non hai visto nulla; tu eri ubriaco.»

«Dov’è Fernando?» domandò Caderousse.

«E che ne so io!» rispose Danglars. «Sarà andato per i fatti suoi probabilmente. Ma invece di occuparci di ciò, andiamo piuttosto a portare qualche consolazione a quei poveri afflitti.»

Infatti, durante questa conversazione, Dantès aveva stretta la mano sorridendo ai suoi amici, e si era costituito prigioniero, dicendo: «State tranquilli, ben presto si spiegherà l’equivoco, e probabilmente non andrò neppure fino alla prigione».

«Oh, sì certamente, io ne risponderei», disse Danglars, che in questo momento si avvicinava, come fu detto, al gruppo principale.

Dantès scese la scala preceduto dal commissario di polizia, e circondato dai soldati.

Una carrozza con lo sportello aperto aspettava all’ingresso; vi montò, due soldati e il commissario di polizia montarono dopo di lui.

Lo sportello si chiuse, e la carrozza riprese la strada di Marsiglia.

«Addio Dantès, addio Edmond!» gridava Mercedes sporgendosi fuori dalla terrazza.

Il prigioniero intese quest’ultimo grido uscito come un singhiozzo dal cuore lacerato della fidanzata; si sporse dalla portiera, gridò: «Arrivederci, Mercedes!» e scomparve dietro uno degli angoli del forte Saint-Nicolas.

«Aspettatemi qui», disse l’armatore, «prendo la prima carrozza che incontro, corro a Marsiglia, e vi porterò sue notizie.»

«Andate», gridarono tutte le voci, «andate e ritornate presto.»

Dopo questa duplice partenza ci fu un momento di stupore terribile che invase tutti coloro che erano rimasti: il vecchio e Mercedes rimasero qualche tempo isolati, ciascuno nel proprio dolore. Ma infine i loro occhi s’incontrarono, si riconobbero due vittime colpite dallo stesso colpo, e subito si gettarono nelle braccia l’una dell’altro.

In quel momento Fernando rientrò, versò un bicchiere d’acqua, lo bevve e andò a sedersi. Il caso volle che Mercedes, svincolandosi dalle braccia del vecchio, venisse a sedersi su una sedia vicina.

Fernando rabbrividì e con un movimento affatto istintivo tirò indietro la propria sedia.

«È stato lui», disse Caderousse a Danglars che non aveva perso di vista un momento il catalano.

«Non lo credo», rispose Danglars, «è troppo bestia. In ogni caso il colpo ricada sulla testa di chi lo vibrò!»

«Tu non parli di colui che lo ha consigliato», disse Caderousse.

«In fede mia», disse Danglars, «se si dovesse esser responsabili di tutto quello che si dice all’aria…»

«Sì, allorché ciò che si dice all’aria, ricade sulla testa di un innocente.»

Intanto gli altri convitati, riunitisi in gruppi, commentavano l’arresto, ciascuno secondo la sua opinione.

«E voi, Danglars», disse uno, «che pensate di quanto accaduto?»

«Io», disse Danglars, «io credo che abbia portato qualche pacco di merce proibita.»

«In questo caso voi lo avreste dovuto sapere, che siete il contabile.»

«Sì, è vero, ma il contabile non conosce che i colli che gli vengono dichiarati. So che avevamo un carico di cotone, ecco tutto; che abbiamo preso il carico ad Alessandria dal signor Pastret e a Smirne dal signor Pascal; non so altro.»

«Ora me ne ricordo», mormorò il povero padre, «mi ha detto ieri che aveva per me una cassa di caffè e una di tabacco.»

«Vedete dunque», disse Danglars, «è questo. Nella nostra assenza la dogana avrà fatto una visita a bordo del Pharaon, e avrà scoperto il contrabbando.»

Mercedes non credeva niente di tutto ciò. Compresso il dolore fino a quel momento, scoppiò a un tratto in singulti.

«Coraggio, coraggio, speriamo!» disse il padre di Dantès.

«Speriamo!» ripeté Danglars.

«Speriamo», tentò di mormorare Fernando, ma questa parola lo soffocava, le sue labbra tremarono, e non ne uscì alcun suono.

«Amici!» gridò uno dei convitati che era rimasto di vedetta sulla terrazza. «Amici, una carrozza… Ah! È il signor Morrel! Coraggio! Senza dubbio ci porta una buona notizia.»

Mercedes e il vecchio padre corsero verso l’armatore, che incontrarono sulla porta; il signor Morrel era pallidissimo.

«Ebbene?…» gridarono a una voce.

«Ebbene, amici miei», rispose l’armatore, scuotendo la testa, «l’affare è più grave di quello che possiamo pensare.»

«Oh signore», gridò Mercedes, «egli è innocente!»

«Lo credo», rispose Morrel, «ma è accusato…»

«Di che dunque?» domandò il vecchio Dantès.

«Di essere un agente bonapartista!»

Quelli fra i nostri lettori che hanno vissuto nell’epoca in cui accadde questa storia, si ricorderanno quale terribile accusa era allora quella riferita da Morrel.

Mercedes gettò un grido e il vecchio si lasciò cadere sulla sedia.

«Ah», mormorò Caderousse, «voi mi avete ingannato, Danglars, quello che voi chiamate scherzo, fu fatto. Ma io non voglio lasciar morire di dolore questo vecchio e questa ragazza, vado a spiegar loro ogni cosa.»

«Taci, disgraziato!» esclamò Danglars, afferrando la mano di Caderousse, «o io non rispondo della tua vita. Chi ti dice che Dantès non sia veramente colpevole? Il bastimento si è fermato all’isola d’Elba, egli è disceso; è rimasto un giorno intero a Portoferraio. Se si è trovata qualche lettera compromettente, potrebbero essere definiti suoi complici coloro che volessero difenderlo.»

Caderousse aveva l’istinto rapido dell’egoismo, e capì tutta la solidità di questo ragionamento; guardò Danglars con occhi ebeti dal timore e dal dolore, e, per un passo che aveva fatto in avanti, ne fece due indietro.

«Aspettiamo allora», mormorò.

«Aspettiamo», disse Danglars, «se è innocente sarà messo in libertà; se è reo, è inutile compromettersi per un cospiratore.»

«Allora andiamocene, io non posso restare qui più a lungo.»

«Sì, vieni», disse Danglars, contento di trovare un compagno nella ritirata, «vieni, e lasciamoli togliersi d’impaccio come potranno.»

Essi se ne andarono.

Fernando, ridivenuto il sostegno della ragazza, prese Mercedes per la mano, e la ricondusse ai Catalani. Gli amici di Dantès ricondussero il vecchio quasi svenuto ai viali di Meilhan. Ben presto la notizia che Dantès era stato arrestato come agente bonapartista, si sparse per tutta la città.

«L’avreste creduto, caro Danglars?» disse Morrel raggiungendo il suo contabile e Caderousse, volendo rientrare in fretta in città, per avere qualche notizia diretta di Edmond dal sostituto del procuratore del re, signor Villefort, che egli conosceva un poco. «Lo avreste mai creduto?»

«Eh signore», rispose Danglars, «io vi avevo detto che Dantès non si sarebbe fermato senza un motivo all’isola d’Elba, e questa fermata, voi lo sapete, mi era sembrata sospetta.»

«Ma avete detto a qualcuno, oltre a me, di questo vostro sospetto?»

«Me ne sarei ben guardato», aggiunse a bassa voce Danglars, «voi sapete bene che a causa di vostro zio, Policar Morrel, che ha servito sotto l’altro e che non nasconde il suo pensiero, si sospetta che voi amiate Napoleone, e avrei avuto paura di far torto a Edmond, quindi anche a voi. Vi sono cose, che è dovere del subordinato dire al suo armatore, e tenere severamente celate agli altri.»

«Bene, Danglars, bene!» disse Morrel. «Voi siete un brav’uomo! Così avevo pensato a voi nel caso in cui questo povero Dantès fosse divenuto capitano del Pharaon.»

«Come, signore?»

«Sì, avevo già domandato a Dantès cosa pensava di voi, e se avesse avuto obiezioni a conservarvi il posto; non so perché mi era sembrato scorgere qualche screzio fra voi due.»

«E che vi ha risposto?»

«Che credeva effettivamente avere avuto, in una circostanza che non ha voluto precisare, qualche torto verso di voi; ma che chiunque avesse avuto la fiducia dell’armatore, avrebbe anche avuto la sua!»

«Povero ragazzo», disse Caderousse, «è un fatto ch’egli era un eccellente giovane.»

«Sì, ma frattanto», disse Morrel, «ecco il Pharaon senza capitano.»

«Oh, bisogna sperare, poiché non possiamo ripartire che fra tre mesi, che di qui a quell’epoca Dantès sia messo in libertà.»

«Senza dubbio. Ma fino a quell’epoca?»

«Ebbene, sino a quell’epoca, eccomi qui signor Morrel», disse Danglars. «Voi sapete che conosco il modo di tenere un bastimento, quanto un capitano venuto da un lungo viaggio. Ciò vi offre nello stesso tempo il vantaggio di servirvi di me, e, quando Edmond uscirà di prigione, non dovrete licenziare nessuno: egli riprenderà il suo posto e io il mio.»

«Grazie, Danglars», disse l’armatore, «ecco difatti il modo di conciliare tutto. Prendete dunque il comando, io ve ne autorizzo, e sorvegliate lo scarico; non bisogna mai, per la disgrazia di un individuo, che gli affari ne soffrano.»

«State tranquillo, signore… Si potrà almeno vederlo il buon Edmond?»

«Vi risponderò a breve. Cercherò di parlare con il signor Villefort e intercedere presso di lui in favore del prigioniero. Io so bene che è un realista; ma, che diavolo, sebbene realista e procuratore del re, è tuttavia un uomo e non lo credo cattivo.»

«No», disse Danglars, «ma ho inteso dire che è ambizioso, e l’ambizione è molto vicina alla cattiveria.»

«Insomma», disse Morrel con un sospiro, «staremo a vedere, andate a bordo che vi raggiungerò in breve.» E lasciò i due amici per prendere la strada del palazzo di giustizia.

«Tu vedi», disse Danglars a Caderousse, «la piega che prende la cosa: hai ancora intenzione di andare a difendere Dantès?»

«No certamente. Ciò nonostante è una cosa assai terribile che uno scherzo abbia conseguenze così tristi.»

«Diamine! E chi lo ha fatto? Non siamo stati né tu né io, non è vero? Fu Fernando. Tu sai che in quanto a me ho gettato il foglio, anzi credevo di averlo strappato.»

«No, no», disse Caderousse, «in quanto a ciò ne sono sicuro: lo vedo ancora nell’angolo del pergolato tutto spiegazzato, tutto accartocciato, e vorrei anzi che fosse ancora là dove mi sembra di vederlo.»

«E che vuoi farci? Fernando lo avrà raccolto, Fernando lo avrà copiato o fatto copiare, o forse non si sarà preso neppure questa pena. Ora che ci penso, mio Dio! Egli avrà forse mandato la mia lettera. Fortunatamente però avevo alterato la calligrafia.»

«Ma tu sapevi dunque che Dantès cospirava?»

«Io non lo sapevo affatto. Come ti dissi, ho creduto di fare uno scherzo e niente altro. Sembra che scherzando, come fa Arlecchino, io abbia detto la verità.»

«Però», disse Caderousse, «io pagherei qualsiasi cosa purché la burla non fosse accaduta, o almeno per non essermene immischiato. Vedrai che quest’affare non può che causarci qualche disgrazia.»

«Se deve portare disgrazia a qualcuno, sarà al vero colpevole e il vero colpevole è Fernando, non noi. Quale disgrazia vuoi che ci accada? Noi non dobbiamo che starcene tranquilli, e non dire una parola su quanto è avvenuto; il temporale passerà senza che cada il fulmine.»

«Amen!» disse Caderousse, facendo un saluto di addio a Danglars e dirigendosi verso i viali di Meilhan, scuotendo la testa e brontolando con se stesso, come fanno di solito le persone molto preoccupate.

«Bene», pensò Danglars, «le cose prendono quell’avvio che avevo previsto. Eccomi capitano provvisorio, e se quell’imbecille di Caderousse sa tacere, ben presto capitano effettivo. Vi sarebbe dunque solo il caso che la giustizia rilasciasse Dantès. Oh, ma», aggiunse con un sorriso, «la giustizia è giustizia e io mi rimetto a essa.»

Ciò dicendo saltò in una barca dando ordine al battelliere di portarlo a bordo del Pharaon, dove l’armatore gli aveva dato appuntamento.

6. Il sostituto procuratore del re

Lungo il Gran Corso, davanti alla fontana delle Meduse, in una di quelle vecchie case dall’architettura aristocratica, costruite da Puget, si celebrava, pure nello stesso giorno e nella stessa ora, un pranzo di fidanzamento. Solamente, invece che gente del popolo, marinai e soldati gli invitati appartenevano alla più alta società di Marsiglia. Erano dei vecchi magistrati che si erano dimessi dalle loro cariche sotto l’usurpatore; vecchi ufficiali disertati dalle nostre file per passare in quelle dell’armata di Condé, giovani allevati dalle loro famiglie ancora incerte della propria sicurezza, malgrado i molteplici scotti che essi avevano pagato in odio di quell’uomo.

Erano a tavola, e la conversazione volgeva animata su tutte le passioni dell’epoca; passioni molto più terribili, vive e accanite nel Meridion, dove da cinquecento anni gli odi religiosi si aggiungevano a quelli politici.

L’imperatore, re dell’isola d’Elba, dopo essere stato sovrano di una parte del mondo, regnava su una popolazione di cinquemila anime, e dopo avere sentito gridare «Viva Napoleone» da 120 milioni di sudditi, e in dieci lingue diverse, era là trattato come un uomo perduto per sempre, per la Francia e per il trono. I magistrati riaccendevano le loro contese politiche, i militari parlavano di Mosca e di Lipsia, le donne del suo divorzio da Giuseppina. A tutta questa gente allegra e trionfante, sembrava, non dalla caduta dell’uomo ma dall’annientamento del principe, che la vita ricominciasse per loro, e che uscissero da un sogno penoso.

Un vecchio, decorato della croce di San Luigi, si alzò e propose ai convitati di bere alla salute di Luigi XVIII: era il marchese di Saint-Méran.

A questo brindisi che ricordava a un tempo l’esiliato di Hartwell e il pacificatore della Francia, un gran numero di bicchieri si alzarono all’uso inglese; e le donne staccarono i loro mazzetti di fiori e li sparsero sulla tovaglia. Fu un entusiasmo quasi poetico.

«Ne converrebbero, se fossero qui», disse la marchesa di Saint-Méran, donna dall’occhio asciutto, con le labbra sottili, il portamento aristocratico e ancora elegante, malgrado i suoi cinquant’anni, «ne converrebbero, tutti quelli che ci cacciarono e lasciammo a nostra volta tranquillamente cospirare nei nostri castelli, che hanno acquistato per un tozzo di pane sotto il regime del Terrore; ne converrebbero, che il vero entusiasmo era dalla nostra parte, poiché noi ci attaccavamo alla monarchia che crollava, mentre essi, al contrario, salutavano il sole nascente che faceva la loro fortuna perdendo la nostra; essi ne converrebbero, che il nostro re era per noi il vero Luigi prediletto, mentre il loro usurpatore non è stato per loro che il Napoleone maledetto, non è vero, Villefort?»

«Che dite, signora marchesa?» disse il giovane al quale era rivolta questa domanda. «Perdonatemi, non seguivo la conversazione.»

«Eh, lasciate in pace questi ragazzi, marchesa», riprese il vecchio che aveva proposto il brindisi, «questi giovani debbono sposarsi fra poco, e naturalmente hanno tutt’altro da parlare che di politica.»

«Vi chiedo perdono, madre mia», disse una bella ragazza dai capelli biondi, «io vi rendo Villefort, che avevo accaparrato per un istante. Signor Villefort, mia madre vi parla…»

«E io sono pronto a rispondere alla signora, se vuol avere la bontà di rinnovarmi la domanda che io non ho bene inteso.»

«Vi si perdona, Renée», disse la marchesa, con un sorriso di tenerezza che faceva meraviglia veder comparire su quella secca figura, ma il cuore della donna è così fatto, che per quanto arido divenga al soffio dei pregiudizi o alle esigenze dell’etichetta, ha sempre un angolo fertile e ridente ed è quello che Dio ha consacrato all’amore materno. «Dicevo dunque, Villefort, che i bonapartisti non avevano né la nostra convinzione, né il nostro entusiasmo, né la nostra devozione.»

«Oh, signora, essi hanno almeno qualche cosa che compensa tutto ciò! Per loro, Napoleone è il Maometto dell’Occidente; egli è per questi uomini volgari, ma di somma ambizione, non solo un legislatore e un padrone, ma anche un simbolo…»

«Di che?» esclamò la marchesa. «Napoleone un simbolo! E che direte dunque di Robespierre? Mi sembra che gli rubiate il posto per darlo al Corso, e questa mi sembra una grossa usurpazione.»

«No, signora, io lascio sul suo piedistallo Robespierre, nella piazza di Luigi XV, sul suo patibolo; Napoleone nella piazza Vendôme, sulla sua colonna. Ciò però non vuol dire», aggiunse Villefort, sorridendo, «che tutti e due non siano due infami rivoluzionari, che il 9 termidoro e il 4 aprile 1814 non siano due giorni felici per la Francia, e degni di essere ugualmente festeggiati dagli amici dell’ordine e della monarchia; ma ciò spiega ugualmente come Napoleone, caduto per non rialzarsi mai più, sia ancora ricordato. Ma che volete, marchesa, Cromwell, che non era neppure la metà di ciò che è stato Napoleone, aveva anch’egli degli amici!»

«Sapete che ciò che dite, Villefort, puzza di rivoluzione lontano un miglio? Ma vi perdono: è impossibile esser figlio di un girondino, e non conservare qualche rispetto per il Terrore.»

Un vivo rossore passò sulla fronte di Villefort.

«Mio padre era girondino, signora», diss’egli, «è vero; ma mio padre non ha dato il suo voto per la morte del re; mio padre è stato proscritto da quello stesso Terrore che proscriveva pure voi, e poco è mancato che non lasciasse la testa sullo stesso patibolo dove cadde quella di vostro padre.»

«Sì», disse la marchesa senza che questo sanguinoso pensiero portasse la minima alterazione al suo viso, «solamente era per principi diametralmente opposti che vi sarebbero saliti tutti e due; e la prova è che tutta la sua famiglia è rimasta affezionata ai principi esiliati, mentre vostro padre si è affrettato a omaggiare il nuovo governo, e dopo che il cittadino Noirtier è stato girondino, il conte Noirtier è diventato senatore.»

«Madre mia, madre mia», disse Renée, «voi sapete che fu convenuto che non si sarebbe mai parlato di questi brutti ricordi.»

«Signora», rispose Villefort, «io mi unisco alla signorina di Saint-Méran per domandarvi umilmente l’oblio del passato. Con qual vantaggio recriminare su cose davanti a cui la stessa volontà di Dio è impotente? Dio può cambiare l’avvenire; ma non può modificare il passato. Ciò che possiamo noi mortali è, se non rinnegarlo, almeno gettarvi sopra un velo. Ebbene io non solo mi sono allontanato dalle opinioni di mio padre, ma anche dal suo nome. Mio padre è stato, e forse è ancora bonapartista e si chiama Noirtier; io sono realista, e mi chiamo Villefort. Lasciate morire nel vecchio tronco un relitto rivoluzionario, e non badate, signora, al ramo che si allontana da questo tronco, senza potere, e dirò quasi senza volere, staccarsene del tutto.»

«Bravo Villefort», disse il marchese, «bravo! Bella risposta! Ho sempre predicato alla marchesa l’oblio del passato senza averla mai potuta ottenere; spero che voi sarete più fortunato di me.»

«Sì, va bene», disse la marchesa, «dimentichiamo il passato, io non domando di meglio, siamo d’accordo; ma che almeno Villefort sia inflessibile per l’avvenire. Non dimenticate, Villefort, che noi abbiamo garantito per voi a Sua Maestà, e che il re stesso ha voluto dimenticare tutto, dietro le nostre raccomandazioni, come io dimentico tutto in seguito alla vostra preghiera.» Così dicendo gli tese la mano. «Soltanto se vi cade fra le mani qualche cospiratore, ricordate che si hanno gli occhi aperti su di voi; tanto più, in quanto si sa che voi siete di una famiglia che non può essere in relazione alcuna con tal gente.»

«Purtroppo, signora», disse Villefort, «la mia professione, e soprattutto il tempo in cui viviamo, mi ordinano di essere severo, e lo sarò. Ho già avuto qualche accusa politica da sostenere, e ne ho già dato le prove. Disgraziatamente, però, non siamo ancora alla fine.»

«Voi credete?» disse la marchesa.

«Ne ho timore. Napoleone all’isola d’Elba è troppo vicino alla Francia, la sua presenza quasi in vista delle nostre coste risveglia la speranza nei suoi partigiani. Marsiglia è piena di ufficiali a mezza paga, che tutti i giorni sotto qualche frivolo pretesto cercano contesa con i realisti. Di qui duelli fra le persone della classe elevata, di là gli assassini nella classe del popolo.»

«A proposito», disse il conte di Salvieux, vecchio amico di Saint-Méran e ciambellano del conte d’Artois, «voi sapete che la Santa Alleanza lo leverà di là.»

«Sì, si è parlato di questo argomento quando siamo partiti da Parigi», disse Saint-Méran. «Ma dove lo manderanno?»

«A Sant’Elena.»

«A Sant’Elena? Dov’è?» disse la marchesa.

«È un’isola situata a duemila leghe da qui, al di là dell’Equatore», rispose il conte.

«Alla buon’ora! È una gran follia aver lasciato un simile uomo fra la Corsica, dov’è nato, e Napoli, dove regna tuttora suo cognato, in faccia a quell’Italia della quale voleva fare un regno per suo figlio.»

«Disgraziatamente», disse Villefort, «noi abbiamo i trattati del 1814, e non si può toccare Napoleone senza infrangere questi trattati…»

«Ebbene, s’infrangeranno», disse di Salvieux. «Ha guardato tanto per il sottile lui, quando si trattò di far fucilare l’infelice duca d’Enghien?»

«Sì», disse la marchesa, «d’accordo, la Santa Alleanza libererà l’Europa da Napoleone, e Villefort libererà Marsiglia dai suoi partigiani. Il re, o regna o non regna… Se regna il suo governo dev’essere forte e i suoi agenti inflessibili: questo è il solo mezzo per prevenire il male.»

«Disgraziatamente, signora», disse Villefort, «un sostituto procuratore del re giunge sempre quando il male è fatto. Allora sta a lui ripararlo. Potrei aggiungere, signora, che noi non ripariamo il male, ma soltanto lo vendichiamo.»

«Oh, signor Villefort», disse una bella giovane, figlia del conte di Salvieux e amica di Renée, «cercate dunque di farci avere un bel processo finché noi staremo a Marsiglia; io non ho mai visto un’udienza in tribunale e mi si dice che sia una cosa molto bella e interessante!»

«Molto interessante davvero, signorina», disse il sostituto, «perché in luogo di una finta tragedia si rappresenta un dramma vero e reale; in luogo di dolori rappresentati, sono dolori sentiti. Quell’uomo che si vede là, invece di ritornare a casa sua calato il sipario, di andare a cena con la sua famiglia, e di dormire tranquillamente, per rappresentare all’indomani la stessa scena, rientra in prigione dove trova il più delle volte il carnefice. Vedete bene che per le persone eccitabili che cercano emozioni non vi è spettacolo che possa paragonarsi a questo; state tranquilla, signorina, se la circostanza si presenterà, proverò la verità del mio asserto.»

«Ci fa rabbrividire… ed egli ride!» disse Renée, impallidendo.

«Che volete», riprese Villefort, «questo è un duello… Io ho già ottenuto cinque o sei volte la pena di morte contro alcuni condannati politici… Ebbene, chissà quanti pugnali a quest’ora si affilano nelle tenebre e sono già diretti su di me!»

«Oh, mio Dio», disse Renée, impallidendo sempre più, «parlate sul serio, Villefort?»

«Sul serio, signorina», rispose il giovane magistrato con un sorriso sulle labbra. «E con questi bei processi che la signorina desidera per soddisfare la sua curiosità, e che io bramo per soddisfare la mia ambizione, la situazione delle cose non farà che peggiorare. Tutti questi soldati di Napoleone abituati ad andar come ciechi incontro alle pallottole nemiche, credete voi che ci penseranno due volte a bruciare una cartuccia, o a marciare a passo di carica con la baionetta alzata? Credete voi che ci penseranno due volte a uccidere un uomo che credono loro nemico personale, che a uccidere un russo, un tedesco o un ungherese che essi non hanno mai visto? D’altronde bisogna ammetterlo, altrimenti non vi sarebbe punto di difesa. Io stesso, quando vedo luccicare nell’occhio dell’accusato il lampo luminoso della rabbia, mi esalto e m’incoraggio: non è più un processo, ma un combattimento; io lotto contro di lui, egli risponde; io raddoppio i miei colpi, e il combattimento finisce, come tutti gli altri, o con una vittoria o con una sconfitta. Ecco ciò che si chiama dibattimento! È il pericolo che fa l’eloquenza. Un accusato che sorride dopo una mia replica mi fa capire che ho parlato male; e ciò che ho detto è snervato, senza vigore, insufficiente; immaginate dunque quale dev’essere la sensazione d’orgoglio di un procuratore del re convinto della reità dell’accusato, allorquando vede avvilirsi e annientarsi il reo sotto il peso delle prove e sotto i fulmini della sua eloquenza! Quella testa si abbassa, dunque cadrà.»

Renée emise un leggero grido.

«Ecco ciò che si chiama saper parlare», disse uno dei convitati.

«Ecco l’uomo che ci serve in tempi come i nostri!» disse un altro.

«Così», disse un terzo, «nel vostro ultimo processo, voi siete stato superbo, mio caro Villefort. Parlo di quell’uomo che ha ucciso suo padre. Ebbene, si può dire, che voi lo avete ucciso prima che il carnefice lo toccasse.»

«Oh, per i parricidi», disse Renée, «poco importa, non vi sono supplizi abbastanza grandi per tal razza di gente, ma gli infelici accusati politici!…»

«Gli accusati politici!» esclamò la marchesa. «È ancor peggio; perché il re è padre della nazione, e volere rovesciare o uccidere il re è lo stesso che volere uccidere il padre di 32 milioni di uomini.»

«Oh, non è lo stesso! Villefort», disse Renée, «mi promettete di avere indulgenza per quelli che vi raccomanderò?»

«State tranquilla», disse Villefort con un sorriso affettuoso, «noi faremo assieme le nostre requisitorie.»

«Mia cara», disse la marchesa, «occupatevi dei vostri pizzi, dei vostri aghi, dei vostri nastri, e lasciate il vostro futuro sposo compiere il suo dovere. Oggigiorno le armi sono a riposo, e la toga è in credito; vi è a questo proposito un motto latino.»

«Cedant arma togae», disse Villefort inchinandosi.

«Io avrei preferito che voi foste stato un medico», rispose Renée. «L’angelo sterminatore, per quanto sia un angelo, fa sempre paura.»

«Mia buona Renée!» mormorò Villefort, accarezzando la giovane con uno sguardo amorevole.

«Figlia mia», disse il marchese, «Villefort sarà il medico morale e politico di questa provincia, questa è una bella parte da rappresentare, credetemi.»

«E sarà un mezzo per far dimenticare la parte che ha rappresentato suo padre», aggiunse l’incorreggibile marchesa.

«Signora», riprese Villefort, con un mesto sorriso, «ho già avuto l’onore di dirvi che mio padre aveva, almeno spero, abiurati gli errori del tempo passato, che era divenuto un amico zelante della religione e dell’ordine, migliore forse di me, poiché lo è stato con pentimento, e io non lo sono che con passione.» E dopo questa frase ampollosa Villefort, per giudicare l’effetto della sua facondia, girò intorno lo sguardo sui convitati come, dopo una frase equivalente, avrebbe guardato l’uditorio dal suo seggio in tribunale.

«Ebbene, mio caro Villefort», disse il conte di Salvieux, «è appunto ciò che io risposi l’altro giorno alle Tuileries al ministro della casa reale, che mi domandava conto di questa singolare alleanza tra il figlio di un girondino e la figlia di un ufficiale dall’armata di Condé, e il ministro l’ha inteso molto bene. Questo sistema di fusione è pur quello di Luigi XVIII. Così il re, che senza che noi lo sapessimo, ascoltava la nostra conversazione, c’interruppe dicendo: “Villefort”, notate bene che il re non ha pronunciato il nome di Noirtier anzi ha insistito al contrario su quello di Villefort, “Villefort”, ha dunque detto il re, “farà una bella carriera; è un giovane già maturo ed è del nostro mondo. Ho visto con piacere che il marchese e la marchesa di Saint-Méran lo prendono per genero e avrei loro consigliata questa alleanza io stesso, se essi non fossero stati i primi a chiedermi il permesso di contrarla”.»

«Il re ha detto questo?» esclamò con entusiasmo Villefort.

«Io ho riferito le sue stesse parole e, se il marchese vuol esser sincero, vi confesserà che ciò che ho riferito in questo momento si accorda perfettamente con quanto il re disse a lui stesso, circa sei mesi fa, quando gli parlò di un progetto di matrimonio tra sua figlia e voi.»

«Sì, è vero», disse il marchese.

«Ah, dunque io dovrò tutto a quest’ottimo Principe! Perciò che cosa non farò pur di servirlo bene?»

«Alla buon’ora», disse la marchesa, «ecco come io vi voglio; venga ora un cospiratore e sarà il benvenuto.»

«E io, madre mia», disse Renée, «prego il cielo che non vi ascolti; che egli non invii a Villefort che dei ladruncoli, piccoli falliti, timidi scrocconi; in questo modo soltanto potrò dormire tranquilla.»

«Sarebbe», disse ridendo Villefort, «come se voi auguraste a un medico che gli capitassero soltanto delle emicranie, delle flussioncelle, delle punzecchiature di api, tutte cose che non compromettono minimamente. Ma se volete vedermi procuratore del re, auguratemi il contrario: vale a dire che abbia da curare quelle malattie che fanno onore al medico.»

In quel momento, come se il destino avesse inteso il voto di Villefort per esaudirlo, un domestico entrò e gli disse qualche parola all’orecchio. Villefort lasciò la tavola scusandosi e ritornò dopo pochi istanti con il viso raggiante e le labbra sorridenti. Renée lo guardò con amore; perché visto così, con i suoi begli occhi azzurri, il colorito maschio e i neri favoriti che gli contornavano il viso, era veramente un giovane bello ed elegante. Tutta l’anima della fanciulla sembrava pendere dalle sue labbra, aspettando che spiegasse la causa della sua momentanea assenza.

«Ebbene», disse Villefort, «voi desideravate, signorina, avere un medico per marito. Io ho con i medici questa somiglianza, che mai è mia l’ora che corre, e mi si viene a disturbare anche vicino a voi, anche al pranzo del fidanzamento.»

«E per qual cosa venite dunque disturbato?» domandò la bella giovane con una leggera inquietudine.

«Ahimè, per uno che, a quanto sembra, se devo credere a quello che mi è stato detto, si trova agli estremi; questa volta è un caso grave, e la malattia striscia vicino al patibolo.»

«Oh, mio Dio!» esclamò Renée impallidendo.

«Davvero?» dissero tutti i presenti.

«Sembra si sia scoperto nientemeno che un complotto bonapartista.»

«Possibile?» esclamò la marchesa.

«Ecco la denuncia» e Villefort lesse ad alta voce ciò che il lettore conosce già, vale a dire la lettera di Danglars.

«Ma», disse Renée, «questa non è che una lettera anonima, diretta al procuratore del re e non a voi.»

«Sì, ma il procuratore del re è assente, in sua assenza la lettera è stata data al suo segretario, che è autorizzato ad aprire le lettere. Egli dunque ha aperto questa, mi ha fatto cercare, e non avendomi trovato, ha dato gli ordini necessari per l’arresto.»

«Il colpevole dunque è già stato arrestato?» disse la marchesa.

«Cioè l’accusato», corresse Renée.

«Sì, signora», disse Villefort, «e come avevo l’onore di dire poco fa alla signorina, se la lettera si trova, il malato è compromesso gravemente.»

«E dov’è quest’infelice?» domandò Renée.

«A casa mia che aspetta.»

«Andate dunque, amico mio», disse il marchese, «non mancate al vostro dovere per trattenervi con noi; andate, poiché il servizio del re ve lo impone.»

«Ah, signor Villefort, siate indulgente», disse Renée giungendo le mani, «ricordatevi che questo è il giorno del vostro fidanzamento.»

Villefort fece un giro intorno alla tavola, e avvicinatosi alla sedia della giovane, appoggiandosi alla spalliera, disse: «Per risparmiarvi un’inquietudine, farò tutto ciò che potrò, mia cara Renée; ma se gli indizi sono sicuri, e l’accusa è vera, bisognerà ben tagliare questa cattiva erba bonapartista».

Renée rabbrividì alla parola tagliare, poiché quell’erba che si trattava di tagliare era la testa di un uomo.

«Eh via!» disse la marchesa. «Non date ascolto a questa ragazzina, Villefort; si abituerà.»

E la marchesa tese a Villefort una mano scarna che egli baciò, sempre guardando Renée e dicendole con gli occhi: «È la vostra mano che intendo baciare in questo momento, o almeno desidererei che fosse».

«Questi sono tristi auspici», mormorò Renée.

«In verità, signorina», disse la marchesa, «voi siete di una puerilità esasperante. Io vi domando che può aver a che fare il destino dello Stato con le vostre fantasie sentimentali, e con la vostra sensibilità di cuore…»

«Oh, madre mia», mormorò Renée.

«Grazie signora marchesa», disse Villefort. «Io vi prometto di esercitare il mio mestiere di sostituto procuratore del re coscienziosamente, vale a dire di essere severo.»

Ma mentre il magistrato indirizzava queste parole alla marchesa, il fidanzato gettava di nascosto uno sguardo alla sua bella, e questo sguardo diceva: «State tranquilla, Renée, per il vostro amore io sarò indulgente».

Renée rispose a questo sguardo con il più dolce sorriso, e Villefort se n’andò col paradiso nel cuore.

7. L’interrogatorio

Non appena Villefort fu uscito dalla sala da pranzo, lasciò la sua maschera allegra per assumere l’aria severa di un uomo chiamato al supremo compito di pronunciarsi sulla vita di un suo simile.

Ora, nonostante la mobilità della sua fisionomia, mobilità che il sostituto aveva studiato, come deve fare ogni abile attore, più di una volta innanzi allo specchio, questa volta dovette faticare molto ad aggrottare le sopracciglia e a rendere severi i suoi lineamenti.

A prescindere dal ricordo di quella linea politica seguita dal padre che poteva, se non se ne allontanava completamente, ostacolare il suo avvenire, Gérard Villefort era in questo momento tanto felice, quanto è concesso a un uomo di esserlo. Già ricco di suo, a ventisette anni occupava un posto elevato nella magistratura, sposava una bella ragazza, che amava; e, oltre la bellezza, che era notevole, la signorina di Saint-Méran apparteneva a una delle famiglie più favorite alla corte di quell’epoca; infine l’influenza del padre e della madre di lei, non avendo figli maschi, poteva essere consacrata interamente al loro genero; lei portava inoltre al marito una dote di cinquantamila scudi che, grazie alle «speranze» (parola atroce inventata dai sensali di matrimonio), poteva un giorno aumentare con una eredità di mezzo milione.

Tutti questi elementi riuniti componevano dunque per Villefort un quadro di felicità abbagliante, tanto che gli sembrava di vedere delle macchie nel sole quando troppo lungamente guardava la sua vita con gli occhi dell’anima.

Sulla porta trovò il commissario di polizia che lo aspettava.

La vista dell’uomo in nero lo fece subito ricadere dalle beatitudini del terzo cielo sulla terra dove noi camminiamo; egli ricompose il suo viso nel modo che abbiamo indicato, e avvicinandosi all’ufficiale di giustizia gli disse: «Eccomi, signore, ho letto la lettera, e avete fatto benissimo ad arrestare quell’uomo: ora datemi su di lui e sulla cospirazione tutti i particolari che avete raccolto».

«Signore, della cospirazione non sappiamo ancora nulla», rispose il commissario, «ma tutte le carte che sono state trovate addosso a quell’uomo sono state sigillate e messe sul vostro scrittoio. Quanto all’accusato, come avrete appreso nella lettera stessa che lo denuncia, si chiama Edmond Dantès, ed è secondo a bordo del bastimento a tre alberi il Pharaon, che fa commercio di cotone con Alessandria e Smirne, e appartiene alla casa Morrel e figlio di Marsiglia.»

«Prima di servire nella marina mercantile ha servito nella marina militare?» domandò Villefort.

«Oh no, signore, è molto giovane.»

«Qual è la sua età?»

«Diciannove o vent’anni al massimo.»

Siccome Villefort, seguendo la Grand-Rue, era giunto all’angolo della via dei Conseils, un uomo che sembrava aspettarlo, gli si fece incontro.

Questi era Morrel.

«Ah, signor Villefort», esclamò il brav’uomo, avvicinandosi al sostituto. «Immaginatevi che si è commesso lo sbaglio più strano, più inaudito; è stato arrestato il secondo del mio bastimento, Edmond Dantès.»

«Lo so, signore», disse Villefort, «e io vado appunto a interrogarlo.»

«Ah, signore», continuò Morrel, trasportato dalla sua amicizia per il giovane, «voi non conoscete colui che viene accusato, io sì che lo conosco. Immaginatevi l’uomo più onesto e oserei quasi dire l’uomo che conosce meglio il mestiere di tutta la marina mercantile. Oh, signor Villefort, io ve lo raccomando caldamente e con tutto il mio cuore.»

Villefort, come si è potuto vedere, apparteneva alla classe nobile della città e Morrel alla classe plebea; il primo era ultrarealista, il secondo sospetto bonapartista.

Villefort guardò sdegnosamente Morrel e gli rispose con freddezza: «Voi sapete che si può essere buoni nella vita privata, onesti nelle relazioni commerciali, abili nel proprio mestiere, e tuttavia grandi colpevoli, politicamente parlando… Voi lo sapete, non è vero?»

E il magistrato calcò queste ultime parole come se avesse voluto riferirle allo stesso armatore, mentre con il suo sguardo scrutatore si sforzava di penetrare fino in fondo al cuore di quell’uomo, ardito abbastanza da intercedere per un altro, quando doveva sapere che aveva bisogno egli stesso d’indulgenza.

Morrel arrossì, poiché non si sentiva la coscienza pulita riguardo alle sue opinioni politiche; e d’altronde la confidenza che gli aveva fatto Dantès del colloquio avuto con il gran maresciallo e delle poche parole che gli aveva dirette l’imperatore, gli turbava un poco lo spirito. Tuttavia aggiunse con l’accento del più profondo interesse: «Ve ne supplico, signor Villefort, siate giusto come dovete esserlo, buono come lo siete sempre, e rendeteci presto il povero Dantès».

Il «rendeteci» risuonò spiacevole all’orecchio del sostituto procuratore del re.

«Eh! eh!» disse tra sé, «rendeteci? Questo Dantès sarebbe forse affiliato a qualche setta di carbonari, perché il suo protettore impieghi così, senza pensarci, la formula collettiva? È stato arrestato in un’osteria, mi ha detto il commissario, e in numerosa compagnia, ha aggiunto; forse sarà stata qualche vendita1.»

Poi, proseguendo ad alta voce, rispose: «Signore, potete stare tranquillo, e non vi sarete appellato inutilmente alla mia giustizia, se l’imputato è innocente; ma se al contrario è reo, viviamo in tempi così difficili che l’impunità sarebbe un esempio fatale; e io sarei obbligato a fare il mio dovere».

E siccome era arrivato alla porta di casa sua, attigua al palazzo di giustizia, egli vi entrò maestosamente, dopo aver salutato con una gentilezza glaciale l’infelice armatore, che rimase come pietrificato sul posto in cui lo lasciò Villefort.

L’anticamera era piena di gendarmi e di agenti di polizia. In mezzo a essi, guardato a vista, circondato da sguardi fulminanti d’odio, stava calmo, immobile e ritto in piedi il prigioniero.

Villefort attraversò l’anticamera, lanciò uno sguardo obliquo a Dantès e, dopo aver preso un plico dalle mani di un agente, disse: «Mi si conduca il prigioniero».

Per quanto rapido fu lo sguardo, questo bastò a Villefort per farsi un’idea dell’uomo che stava per interrogare. Egli aveva riconosciuto l’intelligenza in quella fronte larga e aperta, il coraggio nell’occhio fisso e nel sopracciglio corrugato, e la franchezza nelle labbra grosse e semiaperte che lasciavano vedere due file di denti bianchi come l’avorio. La prima impressione era stata dunque favorevole per Dantès; ma Villefort aveva inteso dire spesso, in segno di profonda politica, che bisogna diffidare del primo impulso, allorché sia favorevole, per cui applicò la sentenza all’impressione ricevuta, senza tener conto della differenza che passa fra le due impressioni.

Egli soffocò dunque i buoni istinti che premevano il suo cuore per liberare lo spirito dalla violenza, accomodò davanti allo specchio il suo portamento come nei giorni dei grandi processi, e si sedette cupo e minaccioso dietro lo scrittoio.

Un istante dopo entrò Dantès.

Il giovane era sempre pallido, ma calmo e sorridente. Egli salutò il suo giudice con una deferenza non affettata, poi cercò con gli occhi una sedia, come si fosse trovato in casa del signor Morrel.

Fu soltanto allora che incontrò lo sguardo di Villefort, sguardo particolare degli uomini di legge che non vogliono che si intuisca il loro pensiero, e fanno del loro occhio un cristallo appannato.

Quello sguardo gli fece capire che era davanti alla giustizia, simbolo di sinistre maniere.

«Chi siete, e come vi chiamate?» domandò Villefort sfogliando le note che l’agente gli aveva dato entrando, e che da un’ora erano divenute voluminose, tanto la corruzione si attacca presto al corpo disgraziato di colui che si definisce imputato.

«Signore, mi chiamo Edmond Dantès», rispose il giovane con voce calma e sonora, «sono secondo a bordo del bastimento il Pharaon, che appartiene ai signori Morrel e figlio.»

«La vostra età?» continuò Villefort.

«Diciannove anni», rispose Dantès.

«Che facevate, al momento del vostro arresto?»

«Assistevo al pranzo del mio fidanzamento», disse Dantès, con una voce leggermente commossa, tanto era doloroso il contrasto fra i momenti di gioia e la lugubre cerimonia che si compiva, e tanto il viso cupo di Villefort faceva brillare di luce la raggiante figura di Mercedes.

«Voi assistevate al pranzo del vostro fidanzamento?» disse il sostituto, trasalendo suo malgrado.

«Sì, signore, sono sul punto di sposare una donna che amo da tre anni!»

Villefort, sebbene di solito impassibile, fu colpito da questa coincidenza; e quella voce commossa di Dantès, sorpreso in mezzo alla sua felicità, andò a svegliare una fibra di simpatia nel fondo della sua anima.

Egli pure si ammogliava, egli pure era felice e si veniva a disturbare la sua felicità perché contribuisse a distruggere la gioia di un uomo, che, come lui, già toccava la felicità! Questo avvicinamento filosofico, pensò, farà grande effetto al mio ritorno nel salone del marchese di Saint-Méran, ed egli preparava già, mentre Dantès attendeva nuove domande, le parole contrastanti con cui gli oratori costruiscono quelle frasi che strappano applausi e qualche volta fanno presumere in essi una vera eloquenza.

Allorché il suo breve dialogo interiore fu terminato, Villefort sorrise del suo effetto e, ritornato a Dantès, disse: «Continuate».

«Continuare cosa?» domandò Dantès.

«A illuminare la giustizia.»

«Che la giustizia mi dica su qual punto vuol essere rischiarata, e io le dirò tutto quello che so. Soltanto», aggiunse con un sorriso, «l’avverto che so ben poche cose.»

«Avete servito l’imperatore?»

«Egli cadde appunto quando stavo per essere incorporato nella marina militare.»

«Si dice che le vostre opinioni politiche siano estremiste», disse Villefort, al quale nessuno aveva detto una parola di ciò, ma non poteva fare a meno di porre una domanda come si pone un’accusa.

«Le mie opinioni politiche? Le mie, signore? È quasi vergognoso dirlo, ma io non ho mai avuto ciò che si chiama un’opinione. Ho diciannove anni appena, come ebbi l’onore di dirvi: non so niente, non sono destinato a rappresentare alcuna parte; il poco che sono e che sarò, se mi si accorda il posto che desidero, lo dovrò solo al signor Morrel. In tal modo tutte le mie opinioni, non dirò politiche, ma private, si limitano a questi tre sentimenti: io amo mio padre, rispetto il signor Morrel e adoro Mercedes. Ecco, signore, tutto ciò che posso dire alla giustizia. Voi vedete che questo può interessarle ben poco.»

A misura che Dantès parlava, Villefort guardava il suo viso dolce a un tempo e aperto, e sentiva ritornare alla memoria le parole di Renée che, senza conoscere l’imputato, gli aveva domandato indulgenza per lui.

Con l’abitudine che aveva a trattare i delitti e i delinquenti il sostituto vedeva a ogni parola di Dantès le prove della sua innocenza.

Quel giovane, che si sarebbe potuto chiamare ancora ragazzo, semplice, ingenuo, eloquente, di quella eloquenza del cuore che non si trova mai quando si cerca, pieno di affetto per tutti perché era felice, poiché la felicità rende buoni anche gli stessi malvagi, versava sul suo giudice la dolce affabilità del suo cuore.

Edmond non aveva nello sguardo, nella voce, nei gesti, per quanto severo fosse stato con lui Villefort, che affabilità e bontà per chi lo interrogava.

«Perbacco!» disse tra sé Villefort, «ecco un buon giovane e io non penerò molto, lo spero, a farmi un merito con Renée, compiacendo la sua prima raccomandazione. Ciò mi frutterà una buona stretta di mano in presenza di tutti, e un bacio ineffabile di nascosto.»

A questa doppia speranza la faccia di Villefort si rischiarò, dimodoché quando rivolse gli sguardi dai suoi pensieri a Dantès, questi che aveva seguito tutti i movimenti del viso del giudice, sorrideva quasi al suo pensiero.

«Avete qualche nemico?» disse Villefort.

«Io dei nemici?» rispose Dantès. «Ho la fortuna di essere ancora ben poca cosa perché la mia posizione me ne faccia. Quanto al mio carattere forse un poco troppo vivace, ho sempre cercato di addolcirlo verso i miei subordinati. Ho dieci o dodici marinai sotto i miei ordini; che vengano pure interrogati, signore, ed essi vi diranno che mi amano e mi rispettano, non come padre, perché sono troppo giovane, ma come un fratello maggiore.»

«Bene», continuò Villefort, «vediamo ora se invece di nemici poteste avere qualche invidioso, o qualche geloso. Voi state per essere nominato capitano a diciannove anni, che è un posto elevato nella vostra condizione. Voi state per sposare una giovane che vi ama, il che è un bene raro in ogni circostanza. Queste due preferenze del destino, avrebbero potuto procurarvi qualche invidia.»

«Sì, avete ragione, voi dovete conoscere gli uomini meglio di me: ciò è possibile; ma se questi invidiosi dovessero essere tra i miei amici, vi confesso che preferisco non conoscerli, per non esser costretto a odiarli.»

«Voi avete torto; bisogna sempre, per quanto è possibile, tener gli occhi aperti intorno a sé, e in verità voi mi sembrate un così bravo giovane, che per voi contravvengo alle regole ordinarie della giustizia e a illuminarvi, comunicandovi la denuncia, che vi conduce dinanzi a me. Ecco il foglio accusatore, ne conoscete la calligrafia?» e Villefort si tolse di tasca la lettera, e la mostrò a Dantès.

Dantès la guardò e la lesse.

Un nube oscurò la sua fronte, e disse: «No, signore, io non conosco questa scrittura, che pur alterata ha molto vigore. In ogni caso è una mano molto abile che l’ha vergata. Io sono ben fortunato», aggiunse guardando con riconoscenza Villefort, «di poter trattare con un uomo quale voi siete, poiché il mio calunniatore è un vero nemico».

Al lampo che sfolgorò negli occhi del giovane pronunciando quelle parole, Villefort poté conoscere quanta violenta energia stava nascosta sotto quella apparente dolcezza.

«Ora», disse Villefort, «rispondetemi francamente, non come farebbe un accusato al suo giudice, ma come un uomo che si trovi in una falsa posizione risponde a un altro uomo che prenda interesse per lui… Che vi è di vero in questa anonima accusa?»

E Villefort gettò con disprezzo sullo scrittoio la lettera che Dantès gli aveva restituito.

«Tutto, e niente: eccovi la pura verità, sul mio onore di marinaio, sul mio amore per Mercedes, sulla vita di mio padre.»

«Parlate, signore», disse ad alta voce Villefort, poi fra sé aggiunse: «Se Renée potesse vedermi, spero che sarebbe contenta di me, e non mi chiamerebbe più tagliatore di teste!»

«Ebbene, lasciando Napoli, il capitano Leclère cadde malato di una febbre cerebrale; siccome noi non avevamo un medico a bordo, ed egli non volle fermarsi in alcun punto della costa, sollecito come era di arrivare all’isola d’Elba, la sua malattia peggiorò in modo che verso la fine del terzo giorno, sentendosi vicino a morire, mi chiamò a sé: “Mio caro Dantès”, mi disse, “giuratemi sul vostro onore di fare tutto ciò che vi dirò, trattandosi di affare del più alto interesse”.

“Ve lo giuro, capitano”, risposi io.

“Ebbene, siccome dopo la mia morte spetta a voi il comando del bastimento nella vostra qualità di secondo, voi prenderete questo comando, e metterete capo all’isola d’Elba, sbarcherete a Portoferraio, cercherete del gran maresciallo, gli consegnerete questa lettera, e lui v’incaricherà di qualche missione. Questa missione, che era riservata a me, voi l’eseguirete, Dantès, in mia vece, e tutto l’onore sarà vostro.”

“Lo farò, capitano, ma forse non potrò pervenire fino al gran maresciallo tanto facilmente quanto voi credete.”

“Eccovi un anello che vi farà giungere facilmente a lui”, disse il capitano, “e che toglierà tutte le difficoltà.” A queste parole mi consegnò l’anello, e fu appena in tempo, perché poco dopo gli prese il delirio e l’indomani era morto.»

«E che faceste allora?»

«Ciò che dovevo fare, signore, e che ciascun altro avrebbe fatto al mio posto. In ogni circostanza le preghiere dei moribondi sono sacre, ma presso i marinai le preghiere d’un superiore sono ordini che si debbono eseguire. Feci dunque vela verso l’isola d’Elba ove giunsi l’indomani; consegnai a bordo tutto l’equipaggio, e io solo discesi a terra. Come avevo previsto, mi si fecero sulle prime delle difficoltà nell’introdurmi dal gran maresciallo, ma io gli inviai l’anello che doveva servirmi per farmi riconoscere, e tutte le porte si aprirono avanti a me. Egli mi ricevette, m’interrogò sulle circostanze della morte del disgraziato Leclère; e come questi aveva previsto mi venne consegnata una lettera incaricandomi di portarla di persona a Parigi. Glielo promisi poiché questo era un compiere l’estrema volontà del mio capitano. Ritornai a bordo, feci vela per Marsiglia ove giunsi ieri, accomodai rapidamente tutti gli affari con la Dogana e la Sanità, corsi ad abbracciare mio padre, corsi a vedere la mia fidanzata, che trovai più bella e più innamorata che mai. Col favore del signor Morrel furono superate tutte le difficoltà ecclesiastiche; e finalmente, signore, assistevo, come vi ho detto, al pranzo del mio fidanzamento; fra un’ora dovevo essere sposato, e contavo di partir domani per Parigi, allorquando per questa accusa, che sembra voi pure disprezziate quanto me, io fui arrestato.»

«Sì, sì», mormorò Villefort, «tutto ciò mi sembra esser la verità, e se voi siete colpevole lo siete soltanto d’imprudenza; e anche questa imprudenza potrebbe essere legittimata dagli ordini che riceveste dal vostro capitano. Rendetemi quella lettera che vi è stata consegnata all’isola d’Elba, datemi la vostra parola d’onore di ricomparire alla prima requisitoria, e andate a raggiungere i vostri amici.»

«In tal modo io sono libero, signore?» esclamò Dantès al colmo della gioia.

«Sì, soltanto datemi quella lettera.»

«Essa deve essere innanzi a voi, poiché mi fu tolta con tutte le altre carte, e io ne riconosco qualcuna in quel fascio.»

«Aspettate», disse il sostituto a Dantès, che prendeva i guanti e il cappello, «a chi era diretta?»

«Al signor Noirtier, rue Héron a Parigi.»

Se la folgore fosse caduta sopra Villefort non lo avrebbe percosso con un colpo più rapido e più inatteso. Si lasciò cadere sulla sedia dalla quale si era per metà alzato per prendere il plico delle carte confiscate a Dantès, le sfogliò precipitosamente, e ne cavò la lettera fatale, sulla quale gettò uno sguardo carico di paura.

«Signor Noirtier, rue Héron numero 13», mormorò, impallidendo sempre più.

«Sì, signore», rispose Dantès meravigliato, «lo conoscete?»

«No», rispose prontamente Villefort, «un servo fedele del re non conosce i cospiratori.»

«Si tratta dunque di una cospirazione?» domandò Dantès che veniva preso, dopo essersi creduto libero, da un terrore più grande di prima. «In ogni modo, signore, io ve l’ho detto, ignoravo completamente il contenuto del dispaccio di cui ero portatore.»

«Sì», riprese Villefort, con voce sorda, «ma voi sapete il nome di quello a cui era diretto?»

«Bisogna bene che lo sapessi se dovevo consegnarlo nelle sue mani.»

«E voi non avete mostrato quella lettera ad alcuno?» disse Villefort che sempre più impallidiva a misura che leggeva la lettera.

«A nessuno, sul mio onore.»

«Tutti dunque ignorano che voi eravate portatore di una lettera che veniva dall’isola d’Elba, ed era indirizzata al signor Noirtier?»

«Tutti lo ignorano, meno chi me l’ha consegnata.»

«Questo è troppo, questo è davvero troppo!» mormorò Villefort.

La fronte di Villefort si oscurava sempre più man mano che leggeva; le sue labbra bianche, le sue mani tremanti, i suoi occhi ardenti facevano passare nello spirito di Dantès le più dolorose apprensioni.

Dopo la lettura di questa lettera, Villefort si prese la testa fra le mani e rimase un istante come annientato.

«Oh, mio Dio! Che c’è dunque, signore?» domandò timidamente Dantès.

Villefort non rispose, ma dopo qualche istante rialzò il viso pallido e stravolto e rilesse una seconda volta la lettera.

«E voi dite che non sapete nulla di ciò che contiene questa lettera?» riprese Villefort.

«Sul mio onore, vi ripeto non ne so nulla. Ma voi che avete? Mio Dio! Voi state male! Volete che suoni il campanello? Volete che chiami qualcuno?»

«No», disse Villefort alzandosi prontamente, «no, non fate rumore, non dite una parola; sta a me il dare degli ordini qui e non a voi.»

«Signore», disse Dantès mortificato, «era per venire in vostro soccorso; scusatemi, ve ne prego, riguardo all’intenzione.»

«Non ho bisogno di niente; uno capogiro passeggero, ecco tutto. Occupatevi di voi e non di me: rispondete.»

Dantès aspettava la domanda annunciata da quest’ultima parola, ma inutilmente. Villefort ricadde a sedere, passò la mano ghiacciata sulla fronte che grondava sudore, e per la terza volta si mise a rileggere la lettera.

«Oh! se lui sa il contenuto di questa lettera», mormorò, «se venisse a sapere un giorno che Noirtier è il padre di Villefort, io son perduto, perduto per sempre!…» e di tanto in tanto guardava Edmond come se col suo sguardo avesse potuto infrangere quella barriera invisibile che racchiude nel cuore i segreti, che dalla bocca non vengono palesati.

«Oh, non esitiamo più», esclamò a un tratto.

«Ma, in nome del cielo, signore», gridò il disgraziato giovane, «se voi dubitate di me, se avete dei sospetti, interrogatemi, io sono pronto a rispondervi.»

Villefort fece un violento sforzo su se stesso e, con un tono di voce che voleva rendere sicuro, disse: «Signore, dal vostro interrogatorio risultano gravi sospetti contro di voi: non sono dunque padrone, come avevo poco fa sperato, di mettervi in libertà in questo medesimo istante; io debbo, prima di prendere questa misura, consultare il giudice istruttore. Frattanto voi avete visto come vi ho trattato.»

«Oh sì, signore», esclamò Dantès, «io vi ringrazio poiché siete stato per me più che un giudice, un amico.»

«Ebbene, io vi tratterrò ancora per qualche tempo prigioniero, il meno che mi sarà possibile. Il principale atto d’accusa che esiste contro di voi è questa lettera, e voi vedete…» Villefort si avvicinò al caminetto, gettò la lettera sul fuoco e restò immobile fino a che fu ridotta in cenere. «E voi vedete», continuò egli, «io l’ho distrutta.»

«Oh!» esclamò Dantès, «signore, voi siete più che la giustizia; voi siete la bontà in persona.»

«Ma ascoltatemi», continuava Villefort, «dopo quest’atto voi comprendete bene che potete avere fiducia in me, non è vero?»

«Ah, signore, ordinate, e io eseguirò i vostri ordini.»

«No», disse Villefort avvicinandosi al giovane, «non sono ordini che voglio darvi, voi capirete, sono consigli.»

«Dite, io mi conformerò a essi come fossero ordini.»

«Vi farò trattenere fino a questa sera al palazzo di giustizia, forse qualcun altro verrà a interrogarvi. Dite tutto ciò che avete detto a me, ma non dite una parola su quella lettera.»

«Ve lo prometto, signore.»

Era Villefort, che sembrava supplicare; era l’imputato che tranquillizzava il giudice.

«Voi capirete», diss’egli gettando uno sguardo sulle ceneri che conservavano ancora la forma della carta e venivano alzate in aria e agitate dalla fiamma, «ora che questa lettera è distrutta, voi e io soltanto sappiamo che è esistita; essa non vi sarà più ripresentata; negatela dunque se qualcuno ve ne parla, negatela arditamente, e con questo mezzo soltanto sarete salvo.»

«Negherò, signore, state tranquillo», disse Dantès.

«Bene, bene», rispose Villefort portando la mano al cordone del campanello.

Poi fermandosi nel momento che stava per suonare: «Questa era la sola lettera che avevate?» disse.

«La sola», rispose Dantès.

«Giuratelo.»

Dantès allungò la mano: «Lo giuro!»

Il campanello suonò: il commissario di polizia entrò.

Villefort si avvicinò al pubblico ufficiale e gli disse qualche parola all’orecchio.

Il commissario rispose con un semplice cenno della testa.

«Seguitelo, signore», disse Villefort a Dantès.

Dantès s’inchinò, gettò un ultimo sguardo di riconoscenza a Villefort e uscì.

Appena la porta fu chiusa dietro di lui, le forze mancarono a Villefort, che cadde quasi svenuto sulla sedia.

Poi, dopo un istante: «Oh, mio Dio, da che dipende la vita e la fortuna! Se il procuratore del re fosse stato a Marsiglia, se il giudice istruttore fosse stato chiamato in mia vece, io sarei perduto, e quella lettera, quella maledetta lettera mi avrebbe precipitato nell’abisso. Ah, padre mio, padre mio, sarete voi dunque sempre un ostacolo alla mia felicità in questo mondo e dovrò io lottare eternamente con il vostro passato?»

Poi, tutto a un tratto, una luce inattesa parve attraversargli la mente e rischiarare il suo viso, un sorriso si delineò sulla sua bocca ancora increspata, i suoi occhi stravolti divennero fissi, e parvero soffermarsi su un pensiero. «Sì», disse, «quella lettera doveva perdermi, ma forse farà la mia fortuna. Andiamo, Villefort, all’opera!» E dopo essersi assicurato che l’imputato non si trovava più nell’anticamera, il sostituto procuratore del re uscì a sua volta, incamminandosi rapidamente verso la casa della sua fidanzata.

8. Il castello d’If

Attraversando l’anticamera, il commissario di polizia fece un segno a due gendarmi, che si misero uno a destra e l’altro a sinistra di Dantès; fu aperta una porta comunicante con il palazzo di giustizia, e camminarono per qualche tempo in uno di quei lunghi corridoi che fanno tremare quelli che vi passano, anche quando non hanno alcun motivo di tremare.

Nella stessa maniera in cui l’appartamento di Villefort comunicava con il palazzo di giustizia, quest’edificio comunicava con la prigione, tetro monumento addossato al palazzo e che guarda in modo strano da tutte le sue aperture guarnite di sbarre il campanile degli Accoulès che gli sorge davanti.

Al termine di una quantità di svolte nel corridoio che percorreva, Dantès si vide innanzi una porta col catenaccio di ferro. Quindi il commissario di polizia batté col martello tre colpi, che si ripercossero su Dantès come se gli fossero stati battuti sul cuore. La porta si aprì, i due gendarmi spinsero leggermente il prigioniero che esitava; Dantès oltrepassò la temibile soglia, e la porta si richiuse subito rumorosamente dietro di lui. Egli respirava un’altra aria, un’aria mefitica e pesante; era l’aria della prigione.

Fu condotto in una stanza abbastanza pulita, ma con l’inferriata e il catenaccio. L’aspetto della sua nuova dimora non gli cagionò gran timore. D’altronde le parole del sostituto procuratore del re, pronunciate con una voce che era sembrata a Dantès colma di tanto interesse, risuonavano al suo orecchio come una dolce promessa di speranza.

Erano già quattro ore da che Dantès era stato portato in quella stanza. Si era, come abbiamo detto, al primo di marzo, e il giorno declinava presto: il prigioniero si trovò subito nella notte. Il senso dell’udito aumentava in lui a misura che la vista si attenuava. Al minimo rumore che perveniva fino a lui, convinto che sarebbe stato messo in libertà, si alzava velocemente e faceva un passo verso la porta. Ben presto il rumore andava a perdersi in un’altra direzione, e Dantès ricadeva sul suo sgabello.

Infine, verso le dieci di sera, nel momento in cui Dantès cominciava a perdere la speranza, un nuovo rumore si fece intendere, e questa volta gli sembrava avvicinarsi alla sua stanza.

Infatti dei passi rimbombarono nel corridoio e si fermarono davanti alla sua porta. Una chiave girò due volte nella serratura, i catenacci cigolarono, la massiccia barriera di quercia si aprì, lasciando penetrare a un tratto nella stanza oscura l’abbagliante luce di due torce.

A questa luce Dantès vide brillare le sciabole e i fucili di quattro gendarmi. Egli aveva fatto due passi in avanti; rimase immobile al suo posto vedendo quell’aumento di forza.

«Venite a prendermi?» domandò Dantès.

«Sì», rispose uno dei gendarmi.

«Da parte del signor sostituto procuratore del re?»

«Ma… così credo.»

«Bene», disse Dantès, «sono pronto a seguirvi.»

La convinzione che si veniva a cercarlo da parte di Villefort, toglieva ogni timore all’infelice giovanotto. Egli avanzò dunque con spirito calmo, con andatura tranquilla, e si pose da sé in mezzo alla sua scorta.

Una carrozza aspettava alla porta verso la strada, il cocchiere era a cassetta, una guardia era seduta vicino a lui.

«È dunque per me questa carrozza?» domandò Dantès.

«È per voi», rispose uno dei gendarmi, «salite.»

Dantès voleva fare qualche osservazione, ma lo sportello si aprì, si sentì spingere. Non aveva né la possibilità né l’intenzione di far resistenza.

Si trovò in un istante in fondo alla vettura fra due gendarmi, gli altri due sedettero nel posto davanti, e il pesante veicolo si mise in moto con sinistro rumore.

Il prigioniero volse gli occhi sulle aperture: erano chiuse con le griglie. Egli non aveva fatto che cambiar di prigione. Soltanto, questa correva, e lo trasportava verso una meta non conosciuta.

Attraverso le sbarre, chiuse in modo da lasciarvi appena passare la mano, Dantès riconobbe che si passava per la rue Caisserie e che dalla rue Saint-Laurent e dalla rue Tamaris si discendeva verso lo scalo. Presto vide, attraverso le sbarre, brillare i lumi della Consegna.

La carrozza si fermò; la guardia discese e si avvicinò al corpo di guardia; una dozzina di soldati uscirono e si disposero in doppia fila in modo da lasciare uno stretto passaggio. Dantès vedeva al chiarore dei fanali dello scalo rilucere i loro fucili.

«Sarebbe per me», si domandava, «che si spiega una simile forza militare?»

La guardia, aprendo lo sportello della carrozza che era stato chiuso a chiave, sebbene non pronunciasse una parola dette la risposta alla domanda che si era fatta Dantès, perché vide tra le due file di soldati il passaggio che era stato preparato per lui dalla carrozza al porto.

I due gendarmi che erano a sedere nel posto davanti furono i primi a scendere, quindi fu fatto scendere Dantès, poi smontarono quelli che gli stavano ai fianchi e camminarono verso una barca, che un marinaio della dogana teneva ferma allo scalo con una catena.

I soldati osservarono Dantès passare con una stupita curiosità. Egli fu sistemato alla poppa del battello, sempre tra i suoi quattro gendarmi, mentre la guardia si teneva a prua. Una spinta violenta staccò il battello dalla riva e quattro vigorosi rematori vogarono verso il Pilon. A un grido dalla barca, la catena che chiude il porto si abbassò, e Dantès si trovò fuori dal porto.

Il primo sentimento del prigioniero ritrovandosi all’aria aperta era stato un impulso di gioia. L’aria è quasi la salvezza! Respirò dunque a pieni polmoni la brezza vivace satura di tutti gli olezzi sconosciuti della notte o del mare.

Immediatamente però emise un sospiro: passava davanti all’osteria della Riserva dov’era stato così felice la mattina stessa nell’ora che aveva preceduto quella del suo arresto, e, attraverso l’apertura di due finestre, giunse fino a lui il lieto rumore di un ballo. Dantès giunse le mani, levò gli occhi al cielo e pregò.

La barca, continuando il suo cammino, aveva già oltrepassato la Testa di Moro, e si trovava di fronte all’insenatura del faro. Essa andava a bordeggiare di fianco alla batteria, e questa era una manovra incomprensibile per Dantès.

«Ma dove mi conducete?» domandò egli.

«Lo saprete presto.»

«Ma pure…»

«Ci è proibito darvi alcuna spiegazione.»

Dantès era per metà soldato; fare delle domande a dei subordinati ai quali era proibito rispondere, gli parve una cosa assurda e tacque.

I pensieri più strani gli passarono per la mente. Non si poteva fare una lunga navigazione con una simile barchetta, non vi era alcun bastimento all’ancora dalla parte verso cui si dirigevano. Allora pensò che sarebbe stato lasciato in un punto lontano della costa per dirgli che era libero: infatti non era incatenato, non era stato fatto alcun tentativo per mettergli le manette, e ciò gli sembrava di buon augurio.

D’altronde il sostituto, così umano con lui, aveva detto che qualora non pronunciasse una parola sulla lettera diretta a Noirtier, egli non aveva nulla da temere! Villefort non aveva in sua presenza distrutta quella pericolosa lettera, unica prova che esistesse contro di lui? Egli aspettava dunque, muto e pensieroso, e cercava di vedere con l’occhio da marinaio esercitato alle tenebre, assuefatto allo spazio, l’oscurità della notte.

Si era lasciata a destra l’isola Ratonneau su cui riluceva il faro e sempre costeggiando si era arrivati all’altezza della baia dei Catalani. Là, gli sguardi del prigioniero raddoppiarono di intensità; era là che stava Mercedes e gli sembrava a ogni istante vedere delinearsi sulla riva oscura la forma vaga e indecisa di una donna. Come mai un presentimento non diceva allora a Mercedes che il suo adorato passava in quel momento a trecento passi da lei? Un sol lume brillava ai Catalani. Studiando la posizione di quel lume, Dantès riconobbe che rischiarava la camera della sua fidanzata. Mercedes era la sola che vegliava in tutta la piccola colonia. Alzando un grido il giovane poteva essere inteso dalla fidanzata. Una falsa vergogna lo trattenne, che avrebbero detto coloro che lo custodivano sentendolo gridare come un insensato? Rimase dunque muto, con gli occhi fissi su quel lume.

Frattanto la barca continuava il suo cammino; ma il prigioniero non pensava alla barca, egli pensava a Mercedes. Una duna del terreno fece sparire il lume. Dantès si voltò e allora vide che la barca prendeva il largo. Mentre guardava il lume, assorto nei propri pensieri, non si era accorto che ai remi erano state sostituite le vele, e la barca procedeva spinta dal vento. Malgrado la ripugnanza a fare nuove domande ai gendarmi, Dantès si avvicinò a uno di loro e, stringendogli la mano, gli disse: «In nome della vostra coscienza, e per la vostra qualità di soldato, vi scongiuro di aver pietà di me, e di rispondermi. Io sono il capitano Dantès, leale e buon francese, sebbene accusato di non so quale tradimento. Dove mi conducete? Ditelo, e parola di marinaio io non vi chiederò altro, e mi rassegnerò al mio destino».

Il gendarme si grattò l’orecchio, e guardò il suo compagno. Questi fece un movimento, quasi avesse voluto dire: «Mi sembra che al punto in cui siamo non vi sia da temere nulla». Il gendarme allora si girò verso Dantès e gli disse: «Voi siete marsigliese e marinaio e domandate a me dove andiamo?»

«Sì, poiché sul mio onore non lo so.»

«Non ne avete alcun sospetto?»

«Nessuno.»

«È possibile?…»

«Io ve lo giuro per quanto vi è di più sacro al mondo. Rispondetemi dunque, di grazia!»

«Ma la consegna?»

«La consegna non vi proibisce di dirmi ciò che saprò fra dieci minuti, fra mezz’ora, forse fra un’ora. Soltanto mi risparmierete secoli di incertezza. Ve lo chiedo come se foste un amico. Guardate, non voglio né rivoltarmi, né fuggire; d’altronde non posso. Suvvia, dove andiamo?»

«A meno che non abbiate la benda agli occhi o non siate mai uscito dal porto di Marsiglia, voi dovreste indovinare dove andiamo.»

«Eppure…»

«Allora guardatevi attorno.»

Dantès si alzò, fissò lo sguardo verso il punto in cui sembrava dirigersi il battello e vide a cento tese lontano da lui innalzarsi la nera e scoscesa roccia sulla quale sorge come una escrescenza di silice il tetro castello d’If.

Questa forma strana, questa prigione sulla quale regnava un così profondo terrore, questa fortezza che faceva da trecent’anni parte delle lugubri tradizioni, comparve a un tratto innanzi a Dantès che non pensava affatto a essa, e gli fece l’effetto che fa a un condannato a morte la vista del patibolo.

«Ah, mio Dio!» gridò. «Il castello d’If! E che andiamo a fare là?»

Il gendarme sorrise.

«Ma non mi si condurrà là per esservi imprigionato…» continuò Dantès. «Il castello d’If è una prigione di Stato, destinata soltanto ai grandi colpevoli politici. Io non ho commesso alcun delitto. Ma, ditemi: vi sono forse dei giudici istruttori, o altri magistrati al castello d’If?»

«Non vi sarà, io suppongo», disse il gendarme, «che un governatore, dei carcerieri, una guarnigione e delle ottime mura. Andiamo, andiamo amico, non mi fate tanto il sorpreso, poiché in verità mi farete credere che voleste ricompensare la mia compiacenza con il burlarvi di me.»

Dantès strinse la mano del gendarme così forte che pareva volesse stritolargliela.

«Voi pretendete dunque che mi si conduca al castello d’If per esservi imprigionato?»

«Probabilmente», disse il gendarme, «ma in ogni modo, è inutile stringermi la mano così forte.»

«Senz’altra formalità?»

«Le formalità sono compiute, l’istruttoria è fatta.»

«Così a onta della promessa del signor Villefort…»

«Io non so se Villefort vi ha fatto una promessa», disse il gendarme, «quello che so, è che noi andiamo al castello d’If. Ebbene, che fate adesso? Olà camerati, a me!»

Con un movimento pari al lampo, ma che però era stato previsto dall’occhio esercitato del gendarme, Dantès avrebbe voluto lanciarsi in mare, ma quattro mani vigorose lo trattennero nell’istante in cui i suoi piedi si staccavano dal fondo del battello.

Egli ricadde nella barca urlando di rabbia.

«Bravo!» esclamò il gendarme, mettendogli un ginocchio sul petto. «Ecco come mantenete la vostra parola da marinaio! Fidatevi delle persone melliflue! Ebbene, ora mio caro, se fate un movimento, un sol movimento, io vi pianto una pallottola nella testa. Ho tradito la mia prima mia consegna, ma vi assicuro che non mancherò alla seconda.»

Ed effettivamente abbassò la carabina verso Dantès, che sentì appoggiarsi come un anello di gelo l’estremità della canna alla tempia.

Per un attimo ebbe l’idea di eseguire il proibito movimento e finirla così violentemente con l’inattesa infelicità che era calata sopra di lui con i suoi artigli d’avvoltoio. Ma appunto perché questa infelicità era inattesa, Dantès pensò che non poteva durare. Gli tornarono al pensiero le promesse di Villefort. E poi, bisogna anche dirlo, questa morte sul fondo di un battello, per mano di un gendarme, gli parve squallida e crudele.

Ricadde dunque sul tavolato della barca, mandando un urlo di rabbia, e mordendosi con furore le mani. Quasi nel medesimo istante un urto violento percosse il battello, uno dei battellieri saltò sulla roccia che era stata toccata dalla barca, una corda si svolse da una puleggia. Dantès s’accorse che erano arrivati, e che si attraccava lo scafo.

Infatti i guardiani, che lo tenevano per le braccia e il colletto dell’abito, lo costrinsero a rialzarsi, a discendere a terra, e lo trascinarono verso gli scalini che salivano alla porta della cittadella, mentre la guardia li seguiva armato di moschetto con la baionetta inastata.

Dantès del resto non fece più alcuna inutile resistenza; la sua lentezza proveniva più da inerzia che da opposizione. Era stordito e barcollava come un ubriaco. Vide di nuovo i soldati che si schieravano sulla ripida china, sentì alcuni scalini che lo forzarono ad alzare i piedi, si accorse che passava sotto una porta, e che questa porta si chiudeva dietro di lui: ma tutto ciò macchinalmente come attraverso una densa nebbia senza distinguer nulla di reale. Egli non vedeva neppure più il mare, immenso dolore dei prigionieri che guardano quello spazio con il terribile sentimento di non poterlo superare.

Vi fu una breve sosta, durante la quale cercò di riordinare le sue idee. Guardò intorno a sé, era in un cortile quadrato formato da quattro grandi muraglie. Si sentivano i passi lenti e regolari delle sentinelle, e ogni volta che passavano davanti al riflesso proiettato sulle muraglie dalla luce di due o tre lumi accesi all’interno del castello, si vedeva scintillare la canna dei loro fucili.

Qui attese dieci minuti circa.

Certi che Dantès non poteva più fuggire lo avevano lasciato, sembrava che aspettassero degli ordini, e questi ordini giunsero.

«Dov’è il prigioniero?» domandò una voce.

«Eccolo», risposero i gendarmi.

«Che mi segua: lo condurrò al suo alloggio.»

«Andate!» dissero i gendarmi, dando una spinta a Dantès.

Il prigioniero seguì la sua guida, che lo condusse effettivamente in una cella quasi sotterranea, i cui muri nudi e umidi sembravano impregnati di un vapore di lacrime. Una specie di lanterna, posata sopra uno sgabello e il cui lucignolo nuotava in un grasso fetido, illuminava le pareti lucide di quello spaventoso antro. Dantès vide il suo carceriere, che era una specie di subalterno, malvestito e di lurido aspetto.

«Ecco la vostra cella per questa notte», disse. «È tardi e il signor governatore è andato a letto; domani quando si sarà alzato, e avrà conosciuto gli ordini che vi concernono, forse vi cambierà domicilio. Frattanto eccovi del pane. C’è dell’acqua in questa brocca, della paglia laggiù in quel cantone. Insomma c’è tutto quello che un prigioniero può desiderare. Buonanotte.»

E prima che Dantès avesse pensato ad aprir bocca per rispondergli, prima che avesse visto dove il carceriere avesse deposto il pane, prima che si fosse reso conto del luogo dove stava la brocca, prima che avesse voltato gli occhi verso l’angolo dove l’aspettava quella paglia destinata a servirgli da letto, il carceriere aveva preso la lanterna e chiudendo la porta aveva tolto al prigioniero quella luce incerta che gli aveva mostrato, come al chiarore di un lampo, le gocciolanti muraglie della sua prigione. Allora si trovò solo nelle tenebre e nel silenzio muto e tetro quanto le volte di cui egli sentiva il freddo agghiacciante abbassarsi sulla fronte che bruciava.

Quando i primi raggi del giorno ebbero ricondotto un po’ di luce in quest’antro, il carceriere ritornò con l’ordine di lasciare il prigioniero dov’era.

Dantès non aveva cambiato posto, una mano di ferro sembrava averlo inchiodato nel punto stesso in cui si era fermato entrando. Il suo occhio profondo si nascondeva sotto un gonfiore cagionato dall’umido vapore delle sue lacrime: era immobile e guardava il suolo. Aveva passato così tutta la notte, in piedi, senza dormire un solo istante. Il carceriere si avvicinò a lui, gli girò attorno, ma Dantès non pareva vederlo; gli batté sulla spalla e Dantès rabbrividì scuotendo la testa.

«Non avete dormito?» domandò il carceriere.

«Non lo so», rispose Dantès.

Il carceriere lo guardò con meraviglia.

«Non avete fame?» continuò.

«Non lo so», rispose ancora Dantès.

«Volete qualche cosa?»

«Vorrei vedere il governatore.»

Il carceriere alzò le spalle e uscì.

Dantès lo seguì con gli occhi, tese le mani verso la porta socchiusa; ma questa venne sbarrata. Allora il suo petto sembrò squarciarsi in un lungo singulto. Le lacrime che gli gonfiavano le palpebre scesero come due ruscelli, egli si inginocchiò con la fronte a terra e pregò a lungo, riesaminando tutta la sua vita passata, e chiedendo a se stesso qual delitto aveva commesso in questa vita ancora così giovane, che potesse meritargli una tal crudele punizione.

La giornata passò così. Fu molto se mangiò qualche boccone di pane, bevette qualche goccia d’acqua; ora restava seduto, assorto nei suoi pensieri, ora girava su e giù per la sua cella come una bestia feroce chiusa in una gabbia di ferro.

Un solo pensiero lo faceva soprattutto smaniare, ed era che, durante la traversata, ignorando il luogo ove era condotto, era rimasto calmo e tranquillo, mentre avrebbe potuto ben dieci volte gettarsi in mare, e una volta in acqua, grazie all’esperienza che faceva di lui uno dei più abili nuotatori di Marsiglia, sparire sott’acqua, sfuggire ai suoi guardiani, guadagnare la costa, salvarsi, nascondersi in qualche luogo deserto, attendere un bastimento genovese o catalano, raggiungere l’Italia o la Spagna, e di là scrivere a Mercedes che venisse da lui. Quanto ai mezzi per vivere, in qualsiasi posto poteva stare tranquillo; in ogni luogo i buoni marinai sono rari; parlava l’italiano come un toscano, e lo spagnolo come un figlio della vecchia Castiglia.

Sarebbe vissuto libero, felice con Mercedes, con suo padre, perché suo padre sarebbe venuto a raggiungerlo. Invece ora era prigioniero, chiuso nel castello d’If, in quella troppo sicura prigione, non sapendo cosa accadeva a suo padre, cosa accadeva a Mercedes, e tutto ciò perché aveva creduto alla parola di Villefort.

C’era da diventare pazzi.

Dantès si rotolava furioso sulla paglia fresca che il carceriere gli aveva portato. L’indomani alla stessa ora il carceriere ritornò.

«Ebbene», gli domandò, «oggi siete più ragionevole di ieri?»

Dantès non rispose.

«Fatevi dunque», disse, «un po’ di coraggio… Desiderate qualche cosa che sia in mio potere? Dite.»

«Desidero parlare al governatore.»

«Eh?» disse il carceriere con impazienza. «Vi ho già detto che questo è impossibile…»

«Perché è impossibile?»

«Perché nei regolamenti della prigione c’è scritto che nessun prigioniero ha il permesso di domandarlo.»

«E quali sono i permessi che qui si possono avere?»

«Un miglior vitto, pagando, la passeggiata, e qualche volta dei libri.»

«Io non ho bisogno di libri; non mi curo di fare passeggiate; trovo buono il mio vitto. In tal modo non ho bisogno che di una cosa, quella cioè di parlare al governatore…»

«Se mi annoiate ancora una volta con questa domanda», disse il carceriere, «non vi porterò più da mangiare.»

«Ebbene», disse Dantès, «se tu non mi porterai più da mangiare, morirò di fame, ecco tutto.»

L’accento con il quale Dantès pronunciò queste parole, provò al carceriere che il prigioniero sarebbe stato felice di morire. Così, siccome ogni prigioniero, fatti i conti, fruttava al suo carceriere circa dieci soldi al giorno, quello di Dantès fece il calcolo della perdita per la sua morte, quindi riprese con tono più addolcito: «Ascoltatemi, ciò che voi desiderate è impossibile; non lo domandate dunque più perché non vi è esempio che per richiesta di un prigioniero il governatore sia venuto nel carcere a trovarlo; soltanto con l’essere savio vi si potrà permettere la passeggiata, e allora sarà possibile che un giorno o l’altro, durante questa, possa passare vicino a voi il governatore, nel qual caso, voi lo potrete interrogare; ed egli, se vuole, vi risponderà».

«Ma», disse Dantès, «quanto tempo potrò aspettare prima che questo caso si presenti?»

«Diamine», disse il carceriere, «un mese, tre mesi, sei mesi o forse un anno.»

«È troppo», disse Dantès, «io voglio vederlo subito.»

«Ah», disse il carceriere, «non vi lasciate infatuare così da un desiderio impossibile, o prima di quindici giorni voi diventerete pazzo.»

«Ah, tu lo credi?» disse Dantès.

«Sì pazzo, e sempre così comincia la pazzia; noi qui ne abbiamo avuti e ne abbiamo tuttora degli esempi. All’abate che abitava questa cella prima di voi dette di volta il cervello per essersi messo in testa di voler esser messo in libertà, mediante un milione che incessantemente offriva al governatore.»

«E quanto tempo è che ha lasciato questa cella?»

«Due anni.»

«E fu messo in libertà?»

«No, fu messo in una segreta.»

«Ascolta», disse Dantès, «io non sono un pazzo. Forse la perderò, ma disgraziatamente in questo momento ho tutta la mia ragione. Voglio farti una proposta…»

«E quale?»

«Non ti offrirò un milione, non potrei dartelo, ma ti offrirò cento scudi se, la prima volta che andrai a Marsiglia, ai Catalani, porterai una lettera a una giovane che si chiama Mercedes… Ma neanche una lettera, appena due righe.»

«Se io portassi due righe, e fossi scoperto, perderei il mio posto, che è di mille lire l’anno, senza contare gli incerti e il vitto. Voi vedete dunque che io sarei un grande imbecille se volessi rischiare di perdere mille lire per guadagnarne cinquecento.»

«Ebbene», disse Dantès, «ascolta e tieni bene a mente quel che ti dico: se tu rifiuti di avvertire il governatore che desidero parlargli, se tu ricusi di portare due righe a Mercedes o di avvertirla almeno che io sono qui, un giorno o l’altro io ti aspetto nascosto dietro la porta, e nel momento che tu entri ti spacco la testa con lo sgabello.»

«Delle minacce!» esclamò il carceriere, facendo un passo indietro e mettendosi sulla difesa. «Decisamente la testa vi gira: l’abate ha cominciato come voi, e fra tre giorni voi sarete pazzo come lui. Fortunatamente nel castello d’If vi sono delle segrete.»

Dantès prese lo sgabello, e lo fece velocemente girare intorno alla sua testa. «Sta bene, sta bene», disse il carceriere, «poiché voi lo volete assolutamente, andrò ad avvertire il governatore.»

«Alla buon’ora!» disse Dantès, posando lo sgabello e sedendovi sopra con la testa bassa e gli occhi stravolti, come se realmente diventasse pazzo.

Il carceriere uscì e dopo pochi minuti rientrò con quattro soldati e un caporale.

«Per ordine del governatore», diss’egli, «fate discendere il prigioniero nel piano sotto a questo.»

«Nella segreta, dunque?» disse il caporale.

«Nella segreta. Bisogna mettere i pazzi con i pazzi.»

I quattro soldati s’impadronirono di Dantès che, cadendo in una specie di atonia, li seguì senza resistenza; gli furono fatti scendere quindici scalini, dopo i quali fu aperta una segreta in cui entrò mormorando: «Ha ragione, bisogna mettere i pazzi con i pazzi!»

La porta fu chiusa, e Dantès avanzò a tentoni fino a che urtò il muro; allora si sedette in un angolo e restò immobile, mentre i suoi occhi, abituandosi un poco per volta all’oscurità cominciarono a distinguere gli oggetti.

Il carceriere aveva ragione, mancava ben poco a Dantès per diventare pazzo.

9. La sera del fidanzamento

Villefort, come si è detto, aveva ripreso il cammino lungo il Grand-Cours e, rientrando in casa del marchese di Saint-Méran, incontrò i convitati che avevano lasciato la tavola ed erano passati nel salotto a prendere il caffè.

Renée lo aspettava con impazienza, condivisa da tutti. Così fu accolto da una esclamazione generale: «E dunque, tagliateste, sostegno dello Stato, Bruto realista!» esclamò uno, «che abbiamo di nuovo? Sentiamo.»

«Si è minacciati nuovamente dal regime del Terrore?» domandò un altro.

«Il lupo della Corsica è uscito dalla sua caverna?» chiese un terzo.

«Signora marchesa», disse Villefort avvicinandosi alla futura suocera, «vi prego di volermi perdonare se fui costretto a lasciarvi così… Signor marchese, posso aver l’onore di dirvi due parole in privato?»

«Ah, dunque si tratta di un affare grave», constatò la marchesa, osservando la nube che oscurava la fronte di Villefort.

«Grave al punto, che sono costretto a prendere un congedo di qualche giorno da voi. Così», continuò voltandosi verso Renée, «potrete capire che si tratta di un affare serio!»

«Voi partite», esclamò Renée, incapace di nascondere l’emozione che le cagionava questa inattesa novella.

«Ahimè, sì, signorina!» rispose Villefort. «E ciò è indispensabile.»

«Dove andate dunque?» domandò la marchesa.

«Questo è un segreto della giustizia, signora. Ciò nonostante se qualcuno di questi signori ha delle commissioni per Parigi, ho un amico che parte questa sera e che se ne incaricherà volentieri.»

Tutti lo guardarono con sorpresa.

«Voi mi avete domandato un colloquio in privato?» disse il marchese.

«Sì, passiamo nel vostro studio, se permettete.»

Il marchese prese il braccio di Villefort, e uscì con lui.

«Ebbene?» domandò entrando nello studio. «Che è avvenuto? Parlate!»

«Cose credo della più alta importanza, e che necessitano che parta all’istante per Parigi. Frattanto, marchese, scusate l’indiscrezione della domanda, avete delle rendite di Stato?»

«Tutta la mia fortuna è in cartelle dello Stato, sei-settecentomila franchi circa.»

«Ebbene vendete, marchese, o siete rovinato!»

«Ma, come volete che io possa vendere qui?»

«Voi avete un banchiere?»

«Sì.»

«Datemi una lettera per lui, e che egli venda senza perdere un minuto! Senza perdere un secondo! Forse anch’io non arriverò che troppo tardi!»

«Diavolo!» disse il marchese. «Non perdiamo dunque tempo.»

E si mise a tavolino, scrisse una lettera al suo banchiere, al quale ordinava di vendere a ogni costo.

«Ora che possiedo questa lettera», disse Villefort, ponendola con ogni cura nel suo portafogli, «me ne serve un’altra.»

«Per chi?»

«Per il re.»

«Per il re?»

«Sì.»

«Ma io non oso prendermi l’ardire di scrivere così a Sua Maestà.»

«Per questo non è a voi che la domando, ma v’incarico di chiederla al conte di Salvieux. Bisogna che egli mi dia una lettera, per mezzo della quale io possa giungere fino a Sua Maestà.»

«Ma, voi non avete il guardasigilli, che ha facile entrata alle Tuileries e per mezzo del quale potete giungere fino al re di giorno e di notte?»

«Sì, senza dubbio, ma è inutile che io divida con un altro il merito della notizia che porto. Capite? Il guardasigilli mi porrebbe naturalmente in secondo piano e mi toglierebbe il beneficio del mio viaggio. Vi dico una cosa sola, marchese, la mia carriera è assicurata se per il primo giugno potrò essere alle Tuileries, per rendere al re un favore che non gli sarà più permesso dimenticare.»

«In questo caso, mio caro, andate a fare la vostra valigia, io chiamo Salvieux, e gli faccio scrivere la lettera che deve servirvi da lasciapassare.»

«Bene, non perdete tempo, perché fra un quarto d’ora bisogna che io sia su una carrozza.»

«Farete fermare la vostra carrozza alla porta della mia casa?»

«Senza dubbio; voi farete le mie scuse alla marchesa, e alla signorina di Saint-Méran, che io lascio in un simile giorno con il più profondo dispiacere.»

«Voi le troverete entrambe nel mio studio, e potrete far loro i vostri addii.»

«Mille grazie; occupatevi della mia lettera.»

Il marchese suonò, un servo comparve.

«Dite al conte di Salvieux che lo aspetto», disse il marchese. «Ora andate», continuò, rivolgendosi a Villefort, «siete libero.»

«Bene, vado e torno.»

Villefort uscì correndo; ma giunto alla porta pensò che un sostituto procuratore del re se fosse stato visto camminare con passo affrettato, correva rischio di turbare il riposo di tutta la città; riprese dunque il suo modo ordinario di incedere che era in tutto da magistrato.

Alla porta intravide nell’oscurità una persona che, come un bianco fantasma, lo aspettava ritto e immobile. Era la bella catalana, che non avendo avuto notizie di Edmond era fuggita dal Faro al calar della notte per venire a sapere di persona la causa dell’arresto del suo fidanzato.

All’avvicinarsi di Villefort, si staccò dal muro contro cui era appoggiata, e venne a sbarrargli il cammino.

Dantès aveva parlato della fidanzata al sostituto, e Mercedes non ebbe bisogno di nominarsi per esser riconosciuta da Villefort.

Egli fu sorpreso della bellezza di quella donna, e allorché lei gli domandò che cos’era avvenuto del suo innamorato, gli sembrò d’esser lui l’accusato, e lei il giudice.

«L’uomo di cui mi parlate», disse bruscamente Villefort, «è un gran colpevole, io non posso far niente per lui.»

Mercedes si lasciò sfuggire un singulto, e siccome Villefort cercava di passare oltre, lo fermò una seconda volta.

«Ma almeno dov’è?» domandò la giovane. «Che io possa informarmi se è vivo o morto.»

«Io non lo so, egli non mi appartiene più!» rispose Villefort.

E imbarazzato da quello sguardo fisso e da quella attitudine supplichevole, respinse Mercedes, ed entrò chiudendo forte la porta, come per lasciar fuori quel dolore che gli veniva cagionato. Ma il dolore non si lascia respingere in tal modo: come la freccia mortale di cui parla Virgilio, l’uomo ferito lo porta con sé. Villefort rientrò, chiuse la porta, ma giunto nella sala le gambe gli vennero meno, mandò un sospiro che sembrò un singulto, e si lasciò cadere su un divano.

Allora nel fondo di quel cuore malato nacque il primo germe di un’ulcera mortale: quell’uomo che egli sacrificava alla sua ambizione, quell’innocente che scontava la pena di suo padre colpevole, gli apparve pallido e minaccioso dando la mano alla sua fidanzata, pallida anch’essa come lui, trascinando dietro i rimorsi, non quelli che fanno vacillare il malato come le Furie dell’antica fatalità, ma quel tintinnio sordo e doloroso che in certi momenti colpisce diritto al cuore e lo lacera col ricordo di un’azione passata; lacerazione, i cui vivi dolori corrodono, male, che si approfondisce sempre più fino al giorno della morte. Allora ebbe nell’anima un momento di esitazione.

Già parecchie volte lo aveva provato, e ciò senza altra emozione che quella lotta tra il giudice e l’accusato. La pena di morte contro gli imputati e la memoria di questi disgraziati, giustiziati dalla sua fulminante eloquenza, che aveva abbagliato i giudici o i giurati, non aveva neppure lasciato una nube sulla sua fronte, perché gli imputati erano rei o tali almeno li credeva Villefort. Ma questa volta era ben altra cosa: la pena del carcere perpetuo era stata inflitta a un innocente, che era sul punto di essere felice e del quale egli non solo distruggeva la pace ma anche la felicità.

Questa volta non era più un giudice, era un carnefice! Pensando a tutto ciò, sentì quel battito sordo, che abbiamo descritto, e che gli era sconosciuto fino allora, ripercuotersi nel fondo del suo cuore e riempire il suo petto di vaghe apprensioni.

Così, per un violento soffrire istintivo, il ferito è avvertito di non avvicinare mai, senza tremare, il dito alla sua ferita aperta e grondante sangue, prima che questa ferita non sia cicatrizzata.

Ma la ferita che aveva ricevuto Villefort era di quelle che non si chiudono mai, o se si chiudono, è solo per riaprirsi più sanguinose e più dolorose di prima. Se in questo momento la dolce voce di Renée avesse risuonato al suo orecchio per domandargli grazia, se la bella Mercedes fosse entrata e gli avesse detto: «In nome di quel Dio che ci guarda e che sarà nostro giudice, rendetemi il mio fidanzato», sì, questa fronte per metà piegata sotto la necessità, si sarebbe piegata del tutto, e con le sue mani ghiacciate avrebbe senza dubbio, anche col rischio di tutto ciò che poteva avvenirgli, firmato l’ordine di mettere in libertà Dantès. Ma nessuna voce mormorò nel silenzio, e la porta non si aprì che per fare entrare un servo di Villefort, il quale veniva ad annunciare che i cavalli da posta erano attaccati alla carrozza da viaggio.

Villefort si alzò o piuttosto balzò come un uomo che trionfa su un’interna lotta; corse al suo scrigno, versò nelle tasche tutto l’oro che vi si trovava, girò un istante smarrito per la stanza con la mano sulla fronte e articolando parole sconnesse; poi finalmente sentendo che il suo domestico gli aveva posato sulle spalle il mantello, uscì, si lanciò nella carrozza, e ordinò con voce sorda di passare per il Grand-Cours e di fermarsi alla porta del marchese di Saint-Méran.

Villefort trovò la marchesa e la figlia nello studio. Vedendo Renée, il sostituto rabbrividì, perché ebbe timore che la giovane gli domandasse un’altra volta la libertà di Dantès. Ma purtroppo, bisogna dirlo, la giovane non era preoccupata che da una cosa: della partenza di Villefort. Lei amava Villefort; Villefort partiva nel momento che doveva divenire suo marito, Villefort non poteva dire quando sarebbe ritornato. Renée invece di compiangere Dantès, malediceva l’uomo che per il suo delitto la separava dal fidanzato.

E Mercedes? Che doveva dunque dire Mercedes che aveva ritrovato Fernando all’angolo della strada della Loggia dove l’aveva seguita? Era rientrata ai Catalani, e per il dolore, moribonda e disperata si era gettata sul suo letto. Fernando si era messo in ginocchio e stringendo la gelida mano di Mercedes che non pensava a ritirarla, la copriva di ardenti baci, che Mercedes non sentiva. Ella passò la notte così; la lampada si spense quando non vi fu più olio e lei non vide l’oscurità, come non aveva visto la luce. Il giorno ritornò senza che se ne accorgesse.

Il dolore aveva posto innanzi agli occhi una benda che non lasciava vedere che Edmond.

«Ah, voi siete qui?» disse finalmente, voltandosi verso Fernando.

«Da ieri sera non vi ho più lasciata», disse Fernando con un doloroso sospiro.

In quanto a Morrel non si era dato per vinto. Aveva saputo che Dantès dopo il primo interrogatorio era stato tradotto in prigione; allora corse da tutti i suoi amici. Si era presentato a tutte quelle persone di Marsiglia che potevano avere qualche influenza sul procuratore. Ma già correva voce che il giovane era stato arrestato sotto l’imputazione di essere un agente bonapartista; e siccome a quell’epoca i più audaci credevano un sogno insensato ogni tentativo di Napoleone per ritornare sul trono, così Morrel in ogni luogo aveva trovato freddezza, timore, rifiuto, ed era tornato a casa disperato, convenendo che la posizione era grave, e che nessuno poteva farci niente.

Caderousse da parte sua era molto inquieto e tormentato.

Invece di uscire come aveva fatto Morrel, invece di tentare qualche cosa in favore di Dantès, per il quale d’altronde non poteva far niente, si era rinchiuso nella sua camera con due bottiglie di vino di Cassis e aveva cercato di annegare la sua inquietudine nell’ubriachezza. Ma nello stato di spirito in cui si trovava, due bottiglie erano poca cosa per assopire la sua ragione. Era troppo ubriaco per poter andare a cercare altro vino; poco ubriaco perché l’ubriachezza potesse estinguere la sua memoria. Appoggiato con i gomiti a un tavolo di legno, davanti alle due bottiglie vuote, vedeva ronzare al riflesso della candela dal lungo lucignolo tutti quegli spettri che Hoffmann ha sparsi nei suoi manoscritti inumiditi dai punch, come una polvere nera e fantastica.

Danglars solo non era né tormentato né inquieto. Danglars era anzi allegro, poiché si era vendicato di un nemico, e aveva assicurato a bordo del Pharaon la carica che temeva di perdere. Danglars era uno di quegli uomini di calcolo che nascono con una penna dietro l’orecchio e un calamaio al posto del cuore; per lui a questo mondo tutto era sottrazione e moltiplicazione, e una cifra gli sembrava molto più preziosa di un uomo, quando questa cifra poteva aumentare il totale dei suoi vantaggi. Danglars era dunque andato a letto come sempre, e dormiva tranquillamente.

Villefort, dopo aver ricevuto dal conte di Salvieux una lettera diretta al conte di Blacas, baciò la mano alla signora di Saint-Méran, strinse quella del marchese era partito, e ora viaggiava sulla via d’Aix.

Il padre di Dantès moriva dal dolore e d’inquietudine.

Di Edmond abbiamo già visto ciò che accadde.



10. Il gabinetto delle Tuileries

Lasciamo Villefort sulla strada di Parigi, lungo la quale grazie al triplicare delle mance divorava la strada, e penetriamo attraverso due o tre saloni nel piccolo gabinetto delle Tuileries, ben noto per essere stato il favorito di Napoleone nonché di Luigi XVIII.

Lì, in quel gabinetto, davanti a un tavolo di noce che era stato trasportato da Hartwell, e al quale, per uno di quei capricci familiari ai gran personaggi, egli portava una particolare affezione, re Luigi XVIII ascoltava con poca attenzione un uomo di circa cinquant’anni, con i capelli grigi, di figura nobile e severa, facendo delle postille sul margine di un volume di Orazio, edito dal Gryphius, molto scorretto, sebbene stimato, e che si prestava molto alle sagaci osservazioni filosofiche di Sua Maestà.

«Dicevate dunque, signore?» disse il re.

«Dicevo che io sono molto inquieto, da non poterlo essere di più, sire.»

«Davvero? Avete visto in sogno sette vacche grasse, e sette vacche magre?»

«No, sire, perché ciò non ci annuncerebbe che sette anni di fertilità o sette anni di carestia, e, con un re previdente, come Vostra Maestà, la carestia non sarebbe da temersi.»

«Di quale altro flagello si tratta dunque mio caro Blacas?»

«Sire, temo qualche tentativo disperato.»

«E da parte di chi?»

«Da parte di Bonaparte, o almeno dei suoi partigiani.»

«Mio caro Blacas», disse il re, «con i vostri terrori m’impedite di lavorare.»

«Vostra Maestà mi ordina forse di non insistere su questo argomento?»

«No, mio caro conte. Ma allungate la mano, laggiù, a sinistra: voi dovete trovarvi il rapporto del ministro di polizia in data di ieri… Ma osservate, ecco il signor Dandré in persona: non è vero?» interruppe Luigi XVIII voltandosi verso l’usciere che infatti annunciava l’arrivo del ministro di polizia. «Entrate, barone, e raccontate al conte ciò che voi sapete di più recente sul conto di Bonaparte. Non ci nascondete nulla della situazione, per quanto grave essa sia. Sentiamo: l’isola d’Elba è un vulcano, e stiamo noi per vederne uscire la guerra tutta fiammeggiante, bella, orridamente bella?»

«Vostra Maestà», disse il ministro, «avrà consultato il rapporto di ieri.»

«Sì, ma dite al conte che non ha potuto trovarlo, ciò che contiene questo rapporto, spiegategli ciò che fa l’usurpatore nella sua isola.»

«Signore», disse il barone al conte, «tutti i buoni servitori di Sua Maestà non hanno che da rallegrarsi delle recenti notizie che ci giungono dall’isola d’Elba. Bonaparte si annoia mortalmente; passa delle intere giornate a vedere lavorare alle miniere di Porto Longone. Vi è di più: noi siamo quasi sicuri che fra poco tempo l’usurpatore diventerà pazzo.»

«Pazzo?»

«Pazzo da legare. La sua testa s’indebolisce. Ora piange calde lacrime ora ride a gola aperta; altre volte passa delle ore intere sulla riva a gettar sassi nell’acqua e quando il sasso ha fatto cinque o sei balzi, sembra così contento come se avesse vinto un’altra Marengo, o una nuova Austerlitz. Ecco, voi ne converrete, questi son segni di pazzia.»

«O di saggezza, signor barone, o di saggezza», disse ridendo Luigi XVIII. «I grandi capitani dell’antichità si divertivano a gettare sassi in mare. Vedete Plutarco nella vita di Scipione l’Africano. Ebbene Blacas, che ne pensate?» disse il re, sospendendo un istante di consultare il voluminoso libro che teneva aperto innanzi a sé.

«Dico, sire, che il ministro di polizia o io ci sbagliamo. Ma siccome è impossibile che sia il ministro di polizia, poiché ha in custodia l’onore e la salute di Vostra Maestà, è probabile che sia io in errore. Ciononostante sire, al posto di Vostra Maestà interrogherei la persona con cui ho parlato e che giunse qui per dirmi: un gran pericolo minaccia il re. Ecco perché bramerei che Vostra Maestà gli facesse questo onore.»

«Volentieri, conte, sotto i vostri auspici riceverò chi vorrete: ma voglio riceverlo con le armi in mano. Signor ministro, avete un rapporto più recente di questo? Perché questo porta la data del 20 febbraio e noi siamo al 3 di marzo.»

«No, sire, ma io ne attendo uno da un’ora all’altra. Sono uscito da questa mattina e in mia assenza può esser giunto…»

«Andate in prefettura, e se ce n’è uno portatelo, se poi non c’è…»

«Ebbene?»

«Ebbene», continuò ridendo Luigi XVIII, «se non c’è, fatene uno. Non è forse così che si usa?»

«Oh, sire», disse il ministro, «grazie a Dio su questo rapporto non c’è bisogno d’inventare niente. Ogni giorno i nostri uffici sono ingombri di una quantità di denunce circostanziate, che pervengono da una folla di poveri diavoli che sperano in un po’ di riconoscenza per i servizi che essi non rendono, ma che vorrebbero rendere. Essi giocano d’azzardo, e sperano che un giorno un qualche inatteso avvenimento venga a dare una specie di realtà alle loro predizioni.»

«Va bene, andate, signore», disse Luigi XVIII, «e non dimenticate che io vi aspetto.»

«Vado e vengo, sire, fra dieci minuti sarò di ritorno.»

«E io, sire», disse Blacas, «vado a cercare il mio messaggero che ha fatto 220 leghe in tre giorni.»

«È bene prendersi della fatica e dell’incomodo, mio caro conte, quando abbiamo i telegrafi che c’impiegano tre o quattro ore, e ciò senza che il proprio fiato ne soffra minimamente…?»

«Ah, sire, voi ricompensate male questo povero giovane che giunge così di lontano e con tanto ardore per recare un utile avviso a Vostra Maestà! Non fosse che per il conte di Salvieux che me lo raccomanda, vi supplico di riceverlo bene.»

«Di Salvieux, il ciambellano di mio fratello?»

«Egli stesso, che ora si trova a Marsiglia.»

«Ed è di là che mi scrive?»

«Sì, Maestà.»

«Vi parla anche lui di questa cospirazione?»

«No, ma mi raccomanda il signor Villefort e m’incarica d’introdurlo presso Vostra Maestà.»

«Villefort!» esclamò il re. «E perché non me lo avete detto subito», aggiunse lasciando scorgere sul suo viso un principio d’inquietudine.

«Sire, credevo che questo nome fosse sconosciuto a Vostra Maestà.»

«No, no davvero, mio caro Blacas, egli è un uomo serio, elevato, e soprattutto ambizioso. Eh, perbacco! Voi conoscerete il nome di suo padre, Noirtier.»

«Noirtier il girondino? Noirtier il senatore?»

«Precisamente.»

«E Vostra Maestà ha impiegato il figlio di un tal uomo?»

«Mio caro conte, vi ho già detto che Villefort è ambizioso e, per innalzarsi, Villefort sacrificherà tutto… anche suo padre.»

«Allora, sire, debbo dunque farlo entrare?»

«Sull’istante, conte. Dov’è?»

«Mi aspetta giù nella mia carrozza.»

Il conte uscì con la vivacità di un giovanotto; l’ardore sincero per la causa regia gli dava la sveltezza dei vent’anni.

Luigi XVIII, rimasto solo, riportò gli occhi sul suo Orazio semiaperto e mormorò: «Justum et tenacem propositi virum».

Blacas risalì con la stessa velocità con cui era disceso. Ma nell’anticamera fu costretto a invocare l’autorità del re. L’abito polveroso di Villefort, il suo costume per niente conforme alla tenuta di corte aveva scandalizzato il maestro di cerimonie, che si meravigliò di trovare in quel giovane la pretesa di presentarsi al re vestito in quel modo. Il conte appianò le difficoltà con le semplici parole: «Ordine di Sua Maestà» e malgrado le osservazioni che continuò a fare il maestro di cerimonie per quello strappo all’etichetta, Villefort fu introdotto.

Il re era seduto nello stesso posto in cui lo aveva lasciato il conte.

Aprendo la porta Villefort si trovò esattamente di fronte a lui e il primo movimento del giovane magistrato fu di fermarsi.

«Entrate, signor Villefort», disse il re, «entrate.»

Villefort salutò, fece qualche passo in avanti, aspettando che il re lo interrogasse.

«Signor Villefort», continuò Luigi XVIII, «ecco il conte di Blacas, che pretende abbiate qualche cosa di importante da dirci.»

«Sire, il signor conte ha ragione, e spero che Vostra Maestà lo riconoscerà.»

«Per prima cosa, il male è così grande, a vostro avviso, quanto mi si vuole far credere?»

«Sire, lo credo grave, ma, grazie alla mia diligenza, spero non sia irreparabile.»

«Parlate quanto volete», disse il re, che cominciava a lasciarsi prendere dall’emozione che aveva alterato il viso di Blacas e che alterava la voce di Villefort. «Parlate e soprattutto cominciate dal principio; io amo l’ordine in tutte le cose.»

«Sire», disse Villefort, «io farò a Vostra Maestà un rapporto fedele, ma prego frattanto di volermi scusare se, per la confusione in cui mi trovo, dovessi mettere qualche oscurità nelle mie parole.»

Un’occhiata gettata sul re dopo questo esordio insinuante assicurò Villefort della benevolenza del suo augusto uditore, e continuò: «Sire, io sono giunto il più rapidamente possibile a Parigi per annunciare a Vostra Maestà che ho scoperto, con le risorse delle mie funzioni, non già uno di quei complotti volgari e senza conseguenza, come se ne tramano ogni giorno fra i ranghi del popolo e dell’esercito, ma una vera cospirazione, una tempesta che minaccia il trono di Vostra Maestà. Sire, l’usurpatore arma tre vascelli, egli medita qualche progetto, forse insensato, ma fors’anche terribile per quanto insensato. A quest’ora dev’essere partito dall’isola d’Elba per andare, dove non so, ma a colpo sicuro per tentare una discesa, o a Napoli, o sulle coste della Toscana, o anche nella stessa Francia. Come certamente Vostra Maestà saprà, il sovrano dell’isola d’Elba ha conservato delle relazioni con l’Italia e con la Francia».

«Sì, signore, lo so», disse il re molto impressionato, «e ultimamente si ebbero degli avvisi che si tenevano delle riunioni bonapartiste in rue Saint-Jacques. Ma continuate vi prego: come avete avute queste informazioni?»

«Sire, esse risultano dall’interrogatorio che ho fatto a un uomo di Marsiglia, che da molto tempo facevo sorvegliare e che ho fatto arrestare il giorno della partenza. Quest’uomo, marinaio turbolento e d’un bonapartismo sospetto, è stato segretamente all’isola d’Elba. Egli ha visto il gran maresciallo, che lo ho incaricato di una commissione verbale per un bonapartista, di cui non mi è riuscito di fargli dire il nome; ma questa missione era di preparare gli spiriti a un ritorno. Noti Vostra Maestà, che è l’interrogato che parla. Un ritorno che non può mancare di essere vicino.»

«E dov’è quest’uomo?» disse Luigi XVIII.

«In prigione, sire.»

«E la cosa vi è sembrata grave?»

«Tanto grave, sire, che questo avvenimento avendomi sorpreso in mezzo a una festa di famiglia, il giorno stesso del mio fidanzamento ho tutto lasciato, fidanzata, e amici, tutto differito ad altro tempo, per venire a depositare, ai piedi di Vostra Maestà, i timori da cui ero preso e le assicurazioni della mia devozione.»

«È vero», disse Luigi XVIII, «c’era un progetto di matrimonio fra voi e la signorina di Saint-Méran.»

«La figlia di uno dei più fedeli servitori di Vostra Maestà.»

«Sì, sì, ma ritorniamo al complotto.»

«Sire, temo che non sia più un complotto, ma piuttosto una cospirazione.»

«Una cospirazione in questi tempi», disse Luigi XVIII sorridendo, «è cosa facile a pensarsi, ma ben difficile a condursi a termine. Ristabiliti da ieri sul trono dei nostri antenati, noi abbiamo gli occhi aperti allo stesso tempo sul passato, sul presente e sull’avvenire. Da dieci mesi i miei ministri raddoppiano la sorveglianza perché il litorale del Mediterraneo sia ben guardato. Se Bonaparte sbarcasse a Napoli, tutta la coalizione sarebbe in piedi, prima che egli giunga a Piombino; se sbarcasse in Toscana, metterebbe il piede in un paese nemico; se sbarcasse in Francia lo farà con un pugno di uomini, e noi ne avremo facilmente ragione, esecrato come è dalla popolazione. Rassicuratevi dunque, signore, ma non contate però meno sulla nostra reale riconoscenza.»

«Ah, ecco qui il ministro di polizia», esclamò il conte di Blacas.

In quel momento infatti il ministro di polizia apparve sulla soglia della porta pallido, tremante e con l’occhio vacillante, come se fosse stato colpito da vivissima luce.

Villefort fece per ritirarsi, ma Blacas lo trattenne per la mano.

11. Il lupo di Corsica

Luigi XVIII, di fronte a quel viso stravolto, spinse violentemente innanzi a sé la tavola presso cui sedeva.

«Cosa avete dunque, signor barone?» esclamò. «Mi sembrate molto preoccupato; queste esitazioni hanno rapporto con ciò che diceva Blacas, e con ciò che mi viene confermato da Villefort?»

Blacas si accostava al barone, ma il terrore del cortigiano impediva di trionfare all’orgoglio dell’uomo di Stato; infatti in una simile circostanza era assai meglio essere umiliato dal prefetto di polizia, che umiliarlo.

«Sire…» balbettò il barone.

«Ebbene, sentiamo», disse Luigi XVIII.

«Oh sire, quale terribile disgrazia! Io sono da compiangere. Non me ne consolerò mai…»

«Signore», disse Luigi XVIII, «vi ordino di parlare.»

«Ebbene, sire, l’usurpatore ha lasciato l’isola d’Elba il 28 febbraio ed è sbarcato il primo marzo.»

«E dove? In Italia?» domandò impazientemente il re.

«In Francia, sire, in un piccolo porto presso Antibes, nel golfo Juan.»

«L’usurpatore è sbarcato in Francia, presso Antibes, nel golfo Juan, a duecentocinquanta leghe da Parigi, il primo marzo, e voi sapete questa notizia soltanto oggi, 3 marzo!… Eh, signore, ciò che mi dite è impossibile; vi sarà stato fatto un falso rapporto.»

«Ahimè, sire, ciò che vi annuncio è purtroppo vero!»

Luigi XVIII ebbe un gesto di collera e di spavento, si drizzò in piedi, come se un colpo imprevisto lo avesse percosso nello stesso tempo al cuore e al viso.

«In Francia!» esclamò. «L’usurpatore in Francia! Non era dunque sorvegliato quest’uomo? Oppure, chissà!, si era d’accordo con lui?»

«Oh, sire», esclamò il conte di Blacas, «non è un uomo come il ministro di polizia quello che può essere accusato di tradimento. Sire, noi eravamo tutti ciechi e il barone condivideva l’accecamento generale, ecco tutto.»

«Ma…» disse Villefort. Poi arrestandosi d’un tratto: «Ah, perdono, perdono, sire», disse inchinandosi, «il mio zelo mi trasportava; che Vostra Maestà si degni scusarmi.»

«Parlate signore, parlate con ardire», disse Luigi XVIII, «voi solo ci avete prevenuti del male, aiutateci a porvi rimedio.»

«Sire», disse Villefort, «l’usurpatore è detestato in tutto il meridione, e mi sembra che se si azzarda in qualche tentativo, si può facilmente sollevare contro di lui la Provenza, e la Linguadoca.»

«Sì, senza dubbio», disse il ministro, «ma avanza dalla parte di Gap e Sisteron.»

«Come avanza?» disse Luigi XVIII. «Marcia dunque su Parigi?»

Il ministro di polizia tacque, il suo silenzio equivaleva a una conferma.

«E il Delfinato, signore», domandò il re a Villefort, «credete che possa esser sollevato come la Provenza?»

«Sire, sono dolente di dover dire a Vostra Maestà una verità crudele: lo spirito del Delfinato è ben lungi da quello della Provenza e della Linguadoca. Sire, tutti i montanari sono bonapartisti.»

«Ecco», mormorò Luigi XVIII, «Napoleone era bene informato. E quanti uomini ha con sé?»

«Sire, non lo so», disse il ministro di polizia.

«Come non lo sapete! Voi avete dimenticato d’informarvi di questa circostanza? È vero, è di poco interesse», aggiunse il re con un sorriso sarcastico.

«Sire, il dispaccio porta semplicemente l’annuncio dello sbarco e la strada che ha preso l’usurpatore.»

«E come vi è giunto questo dispaccio?» domandò il re.

Il ministro abbassò la testa, e un vivo rossore si sparse sulla sua fronte.

«Dal telegrafo, sire.»

Luigi XVIII fece un passo avanti e incrociò le braccia sul petto come avrebbe fatto Napoleone.

«E così», disse impallidendo di collera, «sette eserciti coalizzati hanno rovesciato quest’uomo, un miracolo del cielo mi ha rimesso sul trono dei miei padri dopo venticinque anni d’esilio, io ho per venticinque anni studiato, esplorato, analizzato gli uomini e le cose di questa Francia che mi era stata promessa, perché giunto poi alla meta di tutti i miei voti, una forza che tenevo stretta fra le mani, scoppi a un tratto e mi stritoli!»

«Sire, è una fatalità», mormorò il ministro, accorgendosi che un simile peso, leggero in apparenza, era sufficiente a schiacciare un uomo.

«Cadere!» continuò Luigi XVIII, intravedendo a un tratto il precipizio su cui pendeva la monarchia. «Cadere, ed essere avvisati dal telegrafo della propria caduta! Oh, quanto preferirei salire sul patibolo di Luigi XVI, che discendere le scale delle Tuileries scacciato dal ridicolo. Il ridicolo, signore, voi non sapete che cos’è in Francia!»

«Sire! Sire!» mormorò il ministro, «per pietà!»

«Avvicinatevi, signor Villefort», continuò il re, volgendosi al giovane che, ritto, immobile e in disparte, considerava l’andamento di quella conversazione, ove si agitavano i perduti destini di un regno, «avvicinatevi, e dite al signor ministro che si poteva saper molto tempo prima, tutto ciò che non ha saputo.»

«Sire, era materialmente impossibile indovinare i progetti di quest’uomo, nascosti a tutti», balbettò il ministro.

«Materialmente impossibile! Ecco, signore, una gran parola. Disgraziatamente vi sono dei grandi uomini come vi sono delle grandi parole, io li ho misurati. Materialmente impossibile a un ministro che ha un dicastero, degli uffici, degli agenti, delle spie e un milione e mezzo di franchi per i fondi delle spese segrete, di sapere ciò che succede a sessanta leghe dalle coste della Francia! Ebbene, ecco qui questo signore che non aveva alcuna di queste risorse a sua disposizione, semplice magistrato, che ne sapeva più di voi con tutta la vostra polizia e che mi avrebbe salvata la corona, se avesse avuto, come voi, il diritto di fare agire un telegrafo.»

Lo sguardo del ministro di polizia si puntò con una espressione di profondo rispetto su Villefort, che abbassò la testa con la modestia del trionfo.

«Io non dico ciò per voi, mio caro Blacas», continuò il re, «poiché se non avete scoperto niente, avete avuto almeno il buon senso di perseverare nel vostro sospetto. Un altro forse avrebbe considerato la relazione di Villefort come insignificante o anche suggerita da un’ambizione venale, e avrebbe atteso i segni del telegrafo!…»

Queste parole facevano allusione a ciò che il ministro di polizia aveva pronunciato con tanta sicurezza un’ora prima.

Villefort comprese lo stato d’animo del re. Un altro forse si sarebbe lasciato trasportare dall’ebbrezza delle lodi, ma egli temeva di farsi un nemico mortale nel ministro di polizia, sebbene vedesse che questi era irrevocabilmente perduto. Infatti il ministro, che nella pienezza del suo potere non aveva saputo indovinare il segreto di Napoleone, poteva nelle convulsioni della sua agonia penetrare il segreto di Villefort? Per far ciò non gli sarebbe servito altro che interrogare Dantès. Egli dunque venne in soccorso del ministro, invece di aggravarne la posizione.

«Sire», disse Villefort, «la rapidità dell’evento deve provare alla Maestà Vostra che il cielo solo poteva impedirlo, suscitando una burrasca. Ciò che Vostra Maestà crede in me l’effetto di una profonda perspicacia è dovuto a un puro e semplice caso. Ho approfittato di questo caso come un servo fedele, ed ecco tutto. Non mi attribuite più di quel che merito, per non aver mai a pentirvi della prima idea che avete concepito di me.»

Il ministro di polizia ringraziò il giovane con uno sguardo eloquente, e Villefort capì di essere riuscito nel proprio disegno: vale a dire che, senza perder niente della riconoscenza del re, si era procurato un amico sul quale poteva contare all’occorrenza.

«Sta bene», disse il re, «signori», voltandosi verso Blacas e il ministro, «io non ho più bisogno di voi; ciò che resta da fare, spetta al ministro della Guerra.»

«Fortunatamente, sire», disse Blacas, «noi possiamo contare sull’esercito; Vostra Maestà sa come tutti i rapporti ce lo dipingono devoto al vostro governo.»

«Non mi parlate di rapporti, conte, ora so la fiducia che si può avere in essi. E, a proposito di rapporti, signor barone, cosa avete saputo sull’affare di rue Saint-Jacques?»

«Sull’affare di rue Saint-Jacques!» esclamò Villefort, senza poter trattenere un’esclamazione, ma fermandosi di botto: «Perdono, sire», disse, «la mia devozione a Vostra Maestà mi fa incessantemente dimenticare, non il rispetto che ho per essa, perché questo è troppo profondamente scolpito nel mio cuore, ma le regole dell’etichetta».

«Dite e fate, signore», aggiunse Luigi XVIII, «voi oggi avete acquistato il diritto d’interrogare.»

«Sire», intervenne il ministro di polizia, «oggi venivo precisamente per dare a Vostra Maestà le ultime notizie che sono state raccolte su questo avvenimento, allorché l’attenzione di Vostra Maestà si è rivolta alla terribile catastrofe del golfo Juan. Ora queste informazioni non avranno forse alcun interesse per il re.»

«Al contrario, signore, al contrario», disse Luigi XVIII, «questo affare mi sembra avere un rapporto diretto con quello che ci occupa, e la morte del generale Epinay ci metterà forse sulla strada di un gran complotto interno.»

Al nome del generale Epinay, Villefort rabbrividì.

«Effettivamente, sire», riprese il ministro di polizia, «tutto ci condurrebbe a credere che questa morte non fosse il risultato di un suicidio, come si era creduto dapprima, bensì di un assassinio. Il generale Epinay usciva, a ciò che sembra, da una riunione bonapartista, quando disparve. Un uomo sconosciuto era stato nella stessa mattina a cercarlo in casa sua, e gli aveva dato appuntamento in rue Saint-Jacques. Per disgrazia il domestico che lo pettinava nel momento in cui questo sconosciuto era stato introdotto nel salotto, ha bene inteso nominare rue Saint-Jacques, ma non si è ricordato bene il numero.»

Man mano che il ministro di polizia dava al re queste informazioni, Villefort, che sembrava pendere dalle sue labbra, arrossiva e impallidiva.

Il re si voltò verso di lui: «Non pensate al pari di me, signor Villefort, che il generale Epinay, che si faceva credere del partito dell’usurpatore, ma che realmente era tutto a me devoto, sia perito vittima di un’insidia bonapartista?»

«È probabile, sire», rispose Villefort. «Ma non se ne sa altro?»

«Si è sulle sue tracce?» chiese il re.

«Sì, il domestico ne ha dato i connotati. È un uomo fra i cinquanta e i cinquantadue anni, bruno, con gli occhi neri coperti da folte sopracciglia, porta le basette, indossava un soprabito turchino abbottonato, e ha all’occhiello il nastro di ufficiale della Legion d’Onore. Ieri fu seguito un individuo i cui connotati corrispondono perfettamente a quelli che ho detto, ma è stato perduto di vista all’angolo di rue Juspine con rue Héron.»

Villefort si era appoggiato allo schienale di una sedia, poiché, a mano a mano che il ministro di polizia parlava, sentiva le gambe venirgli meno; ma quando udì che lo sconosciuto era sfuggito alle ricerche dell’agente che lo seguiva, respirò di sollievo.

«Voi farete tutte le ricerche possibili di quest’uomo», disse il re al ministro di polizia, «perché, se come ogni cosa fa credere, il generale Epinay, che in questo momento ci sarebbe stato tanto utile, è caduto vittima di un assassinio, bonapartista o no, voglio che i suoi assassini siano crudelmente puniti.»

Villefort ebbe bisogno di tutto il suo sangue freddo per non tradire il terrore che gli veniva ispirato da questa raccomandazione del re.

«Cosa strana», continuò il re, di buonumore, «la polizia crede di aver detto tutto quando ha detto: “È stato commesso un assassinio”, e tutto fatto quando ha aggiunto: “Si è sulle tracce dei colpevoli”.»

«Sire, Vostra Maestà, io spero che su questo punto almeno sarà soddisfatta.»

«Va bene, vedremo. Io non vi trattengo oltre, barone. Signor Villefort, voi dovete essere stanco di questo lungo viaggio, andate a riposarvi. Senza dubbio avrete preso alloggio da vostro padre?»

Un lampo passò innanzi agli occhi di Villefort.

«No, sire», diss’egli, «sono sceso all’albergo Madrid, in rue Tournon.»

«Ma avete visto il signor Noirtier?»

«Io mi sono fatto condurre sull’istante presso il conte di Blacas.»

«Ma voi lo vedrete almeno?»

«Non lo penso, sire.»

«Ah, è giusto», disse Luigi XVIII sorridendo, in modo da provare che tutte queste reiterate domande non erano state fatte senza un perché. «Dimenticavo che non siete in buoni rapporti con il signor Noirtier, e siccome questo è un nuovo sacrificio che fate alla causa reale, bisogna ch’io vi ricompensi.»

«Sire, la bontà che mi dimostra la Maestà Vostra è una ricompensa che sorpassa tanto i miei desideri, che non mi resta più nulla da chiedere al re.»

«Non importa, signore, noi non vi dimenticheremo, state tranquillo.»

E così dicendo il re staccò la croce della Legione d’Onore che portava di solito sul suo abito vicino alla croce di San Luigi e la diede a Villefort.

«Nel frattempo», disse, «portate sempre questa croce.»

«Sire», disse Villefort, «Vostra Maestà s’inganna, questa croce è quella di ufficiale.»

«In fede mia, signore», disse il re, «prendetela tale quale è, io non ho il tempo di farne richiedere un’altra. Blacas, voi sorveglierete affinché sia spedito il brevetto a Villefort.»

Gli occhi di Villefort si inumidirono di una orgogliosa gioia, egli prese la croce e la baciò.

«Ora quali sono gli ordini che mi fa l’onore di darmi la Maestà Vostra?»

«Prendete il riposo che vi è necessario, e pensate che se non potete giovarmi a Parigi, tuttavia potrete essermi di grandissima utilità a Marsiglia.»

«Sire», rispose Villefort inchinandosi, «fra un’ora sarò partito da Parigi.»

«Andate», disse il re, «e se un giorno vi dimenticassi, non abbiate alcun riguardo a richiamarvi al mio pensiero… Signor barone, date ordine perché si vada a cercare il ministro della Guerra.»

«Ah, signore», disse il ministro di polizia a Villefort, uscendo dalle Tuileries, «voi entrate per la porta buona, la vostra fortuna è fatta!»

«Durerà a lungo?» mormorò Villefort, salutando il ministro, la cui carriera era finita, e cercando con gli occhi una carrozza per ritornare all’albergo.

Una vettura passava sulla strada, Villefort vi si gettò dentro, lasciandosi trasportare dai suoi sogni d’ambizione. Dieci minuti dopo Villefort era rientrato all’albergo. Dispose che i cavalli da posta fossero pronti di lì a due ore e frattanto gli si servisse la colazione. Stava per mettersi a tavola, quando il suono del campanello vibrò agitato da una mano franca e ferma. Il cameriere andò ad aprire, e Villefort intese pronunciare il suo nome.

«Chi può già sapere ch’io sono qui?» si domandava il giovane.

In quel mentre entrava il cameriere.

«Ebbene?» disse Villefort. «Che c’è? Chi ha suonato? Chi chiede di me?»

«Uno straniero che non ha voluto dire il suo nome.»

«E quali apparenze ha questo straniero?»

«Ma… è un uomo di una cinquantina di anni.»

«Alto? Basso?»

«Pressappoco della vostra statura, signore, bruno, molto bruno, capelli neri, occhi neri, sopracciglia nere e basette nere.»

«Com’è vestito?» domandò agitato Villefort.

«Con un gran soprabito turchino abbottonato dall’alto al basso, e fregiato della decorazione della Legion d’Onore.»

«È lui!» mormorò Villefort impallidendo.

«Eh, perbacco», disse comparendo sulla porta l’uomo di cui abbiamo dato i connotati, «ci vogliono dunque così molte cerimonie? C’è forse il costume a Marsiglia che i figli facciano fare anticamera al padre?»

«Mio padre!» esclamò Villefort. «Non mi ero dunque sbagliato, sospettavo foste voi.»

«Allora se tu sospettavi che fossi io», riprese il nuovo arrivato, ponendo il bastone in un angolo e il cappello su una sedia, «permettimi di dirti, mio caro Gérard, che non è una bella cosa farmi aspettare in tal modo.»

«Lasciateci, Germain», disse Villefort.

Il cameriere uscì, dando segni visibili di meraviglia.

12. Padre e figlio

Noirtier, poiché era proprio lui, seguì con lo sguardo il domestico fino a che non fu chiusa la porta; poi, temendo senza dubbio che stesse ad ascoltare nell’anticamera, andò a riaprirla e a guardare: la precauzione non era stata inutile, e la rapidità con la quale Germain si ritirò, provava ch’egli non era esente dal peccato che perdette i nostri primi padri. Noirtier si incaricò allora di andare egli stesso a chiudere la porta dell’anticamera, richiuse quella in cui erano, e tese la mano a Villefort, che aveva seguito tutti questi movimenti con una sorpresa da cui non si era ancora rimesso.

«Mio caro Gérard», disse il padre guardandolo con un sorriso di cui era difficile definire l’espressione, «lo sai che non sembri molto contento di rivedermi?»

«Al contrario, padre mio, ne sono incantato; soltanto ero così lontano, ve lo confesso, dall’attendere una vostra visita ch’essa mi ha in qualche modo meravigliato.»

«Mio caro», disse Noirtier sedendosi, «mi pare che io potrei dirti altrettanto. Come! Tu mi hai annunciato il tuo fidanzamento a Marsiglia per il giorno 28 febbraio, e il 3 marzo sei a Parigi?»

«Se io vi sono, padre mio», disse Gérard avvicinandosi a Noirtier, «non ve ne lamentate; perché è per voi che sono venuto qui, e il mio viaggio forse vi salverà.»

«Ah, davvero!» disse Noirtier allungandosi con noncuranza sulla sedia sulla quale si era seduto. «Davvero!? Raccontami dunque, signor magistrato. Dev’essere una cosa interessante!»

«Padre mio, dovete certamente avere sentito parlare di un complotto bonapartista che tiene le sue riunioni in rue Saint-Jacques?»

«Numero 53, sì, io ne sono il vicepresidente.»

«Padre mio, il vostro sangue freddo mi fa fremere.»

«Che vuoi, mio caro, quand’uno è stato proscritto dai montagnardi, quando è uscito da Parigi in un carretta di fieno, quando è stato attorniato nelle lande di Bordeaux dagli sgherri di Robespierre, ciò agguerrisce a ben molte cose. Ma continua dunque. Ebbene, cosa è accaduto in questa riunione di rue Saint-Jacques?»

«È accaduto che vi si fece venire il generale Epinay, e il generale Epinay, uscito alle nove di sera da casa sua, fu ritrovato l’indomani nella Senna.»

«E chi ti ha raccontato questa bella storia?»

«Il re stesso, signore!»

«Ebbene, in cambio della tua storia ti darò una notizia.»

«Padre mio, credo già di saper ciò che volete dirmi.»

«Ah, tu sai dello sbarco di Sua Maestà l’imperatore!»

«Silenzio, padre mio, vi prego, prima per voi e poi per me; sì, sapevo questa notizia, e la sapevo ancora prima di voi, poiché è da tre giorni che volo sulla strada da Marsiglia a Parigi, con la rabbia di non poter lanciare a duecento leghe innanzi a me il pensiero che mi brucia il cervello.»

«Sono tre giorni! Ma sei pazzo? Tre giorni fa l’imperatore non era ancora sbarcato.»

«Non importa; sapevo il suo progetto.»

«E come?»

«Per mezzo di una lettera che vi era stata indirizzata dall’isola d’Elba, e che ho sorpresa nel portafoglio di un messaggero. Se questa lettera fosse andata nelle mani di un altro, a quest’ora, padre mio, forse sareste stato fucilato.»

Il padre di Villefort si mise a ridere.

«Andiamo, andiamo», disse, «sembra che la Restaurazione abbia appreso dall’Impero il modo di risolvere gli affari… Fucilato! Caro mio, e come potevi crederlo? E questa lettera dov’è? Ti conosco troppo per credere che tu l’abbia lasciata perdere.»

«L’ho bruciata per timore che ne rimanesse un sol frammento; perché quella lettera era la vostra condanna.»

«E la perdita dell’avvenire», rispose freddamente Noirtier. «Sì, lo capisco; ma ora io non ho più nulla da temere, purché tu mi protegga.»

«Io faccio anche più di questo. Vi salvo.»

«Oh diavolo! Ciò diventa più drammatico: spiegati.»

«Signore, ritorno al circolo in rue Saint-Jacques.»

«Sembra che questo circolo stia a cuore alla polizia. Perché non l’hanno cercato meglio? L’avrebbero trovato.»

«Essi non l’hanno trovato, ma ne sono sulle tracce.»

«Questa è la parola d’uso, lo so bene: quando la polizia non sa niente, dice che essa è sulle tracce, e il governo aspetta tranquillamente il giorno in cui essa venga a dire, con le orecchie basse, che queste tracce sono perdute.»

«Sì, ma fu ritrovato un cadavere: il generale è stato ammazzato, e in tutti i Paesi del mondo questo si chiama un assassinio.»

«Un assassinio, dici! Andiamo, via, niente prova che il generale sia stato vittima di un assassinio; tutti i giorni si ritrova gente nella Senna che vi si getta per disperazione, o vi si annega, non sapendo nuotare.»

«Padre mio, voi sapete benissimo che il generale non si è annegato per disperazione, e che non si va a fare un bagno nella Senna nel mese di gennaio. No, no, non vi illudete, questa morte è stata qualificata come un assassinio.»

«E chi l’ha qualificata in tal modo?»

«Il re stesso.»

«Il re! Vuoi sapere come sono andate le cose? Ebbene, te lo dirò. Si credeva di poter contare sul generale Epinay che ci era stato raccomandato dall’isola d’Elba. Uno dei nostri va da lui invitandolo a intervenire a un’assemblea di amici in rue Saint-Jacques. Egli viene, e là gli si spiega tutto il piano; la partenza dall’isola d’Elba, lo sbarco progettato. Poi quando ha udito tutto, inteso tutto, e non gli resta più niente da sapere, dichiara che è realista. Allora ciascuno si mette in guardia, gli si fa prestare giuramento; egli lo presta, ma di malavoglia. Ebbene, malgrado tutto ciò il generale fu lasciato uscire libero, perfettamente libero. Non è tornato a casa sua. Che vuoi? Mio caro, si allontanò da noi vivo. Avrà sbagliato strada, ecco tutto. Un assassinio! In verità, Villefort, tu sostituto procuratore del re imbastire un’accusa su prove così meschine! Ho io forse mai pensato di dirti, quando esercitavi il tuo mestiere di realista, e facevi tagliar la testa a uno dei miei: “Figlio mio, hai commesso un assassinio!?” No, io ho detto: “Benissimo! Oggi hai combattuto vittoriosamente; a domani la rivincita”».

«Padre mio, state in guardia, perché questa rivincita sarà terribile quando la prenderemo noi.»

«Non ti comprendo.»

«Voi contate sul ritorno dell’usurpatore?»

«Lo confesso.»

«V’ingannate, padre mio, egli non farà dieci leghe nell’interno della Francia, senza essere perseguitato, circondato, e catturato come una bestia feroce.»

«Mio caro, in questo momento è sulla via di Grenoble. Il 10 o il 12 sarà a Lione, e il 20 o il 25 a Parigi.»

«Le popolazioni si solleveranno.»

«Per andargli incontro.»

«Egli non può avere con sé che pochi uomini, e gli verranno inviati contro degli eserciti…»

«Che gli serviranno di scorta per entrare nella capitale. In verità, mio caro Gérard, non sei che un ragazzo. Ti credi bene informato perché il telegrafo ha detto tre o quattro giorni dopo lo sbarco che l’usurpatore è sbarcato a Cannes con pochi uomini; lo si sta inseguendo. Ma dov’è? Che fa? Non si sa niente. Lo si insegue, ecco tutto ciò che si sa; ebbene, sarà inseguito fino a Parigi, senza bruciare una cartuccia.»

«Grenoble e Lione sono due città fedeli, gli opporranno una barriera insuperabile.»

«Grenoble gli aprirà le sue porte con entusiasmo, e la popolazione di Lione tutta intera uscirà per andargli incontro. Credimi, noi siamo tanto bene informati quanto voi, e la nostra polizia val molto più della vostra. Ne vuoi una prova? Essa sa che tu volevi nascondermi il tuo viaggio e io ho saputo del tuo arrivo mezz’ora dopo che avevi passato la barriera. Non hai dato l’indirizzo ad alcun altro che al tuo postiglione; ebbene io ho conosciuto l’indirizzo e la prova è che giungo appunto nel momento in cui ti metti a tavola. Suona dunque e ordina che portino un altro coperto, pranzeremo insieme.»

«Infatti», rispose Villefort, guardando suo padre con stupore, «infatti mi sembrate bene informato.»

«Eh, mio Dio, la cosa è semplicissima: voi realisti avete il potere, non avete che quei mezzi che può fornire il denaro, ma noi che lo aspettiamo, abbiamo quelli che ci somministra la devozione.»

«La devozione?» disse Villefort ridendo.

«Sì, la devozione: è in tal modo che in termini onesti viene chiamata un’ambizione che spera.»

Così dicendo il padre di Villefort tese la mano sul cordone del campanello per chiamare il servitore, che non veniva chiamato da suo figlio.

Villefort gli trattenne il braccio.

«Aspettate, padre mio», disse il giovane, «una parola ancora…»

«Di’…»

«Per quanto sia mal organizzata la polizia realista, tuttavia, sa una cosa terribile.»

«Quale?»

«I connotati dell’uomo che la mattina del giorno in cui scomparve il generale Epinay si era presentato in casa sua.»

«Ah, sa ciò, questa buona polizia? E questi connotati quali sono?»

«Colorito bruno, capelli, baffi e occhi neri, soprabito turchino abbottonato fino al mento, nastro d’ufficiale della Legion d’Onore all’occhiello, cappello a larga tesa, e bastone di giunco.»

«Ah, ah, essa sa tutto ciò», disse Noirtier, «e perché dunque non ha messo la mano su quest’uomo?»

«Perché ieri l’altro l’ha perduto di vista all’angolo di rue Héron.»

«Dicevo bene, quando asserivo che la vostra polizia è stupida!»

«Non ne dissento, ma da un momento all’altro può ritrovarlo.»

«Sì», disse Noirtier, gettando uno sguardo di noncuranza intorno a sé, «sì, se quest’uomo non fosse stato avvertito, ma egli lo è, e», continuò ridendo, «cambierà di viso e di costume.»

A queste parole, si alzò, e levatosi il soprabito e la cravatta, andò verso la tavola sulla quale erano preparate tutte le cose necessarie alla toilette di suo figlio. Preso un rasoio, insaponò il viso e con un polso perfettamente fermo tagliò quei baffi che lo compromettevano, dando alla polizia un indizio prezioso.

Villefort lo guardava con un timore non esente da ammirazione.

Tagliati i baffi, Noirtier diede un’altra piega ai capelli, prese, invece della cravatta nera, la prima cravatta di colore che trovò nel baule aperto di suo figlio, indossò, al posto del suo soprabito turchino e abbottonato, un abito di suo figlio color marrone e di taglio aperto, si provò davanti allo specchio il cappello ad ala stretta del giovane, e parendo soddisfatto del modo con cui gli andava, lasciò il bastone di giunco nel canto del caminetto ove l’aveva deposto e fece sibilare nella sua mano nervosa una piccola canna di bambù con la quale l’elegante sostituto dava al suo modo di camminare la disinvoltura che era una delle sue principali qualità.

«Ebbene», disse, voltandosi verso il figlio stupefatto di questo cambiamento così rapido, «ebbene, credi che la polizia potrà riconoscermi?»

«No, padre», balbettò Villefort, «o almeno lo spero.»

«Ora mio caro Gérard», continuò Noirtier, «rimetto alla tua prudenza fare sparire tutti gli oggetti che ti lascio in custodia.»

«Oh, state tranquillo, padre», disse Villefort.

«Sì, sì, ora credo che tu abbia ragione, e possa dire di avermi effettivamente salvato la vita. Ma stai tranquillo, ti renderò questo servizio quanto prima.»

Villefort scosse la testa.

«Non ne sei convinto?»

«Spero almeno che vi sbagliate.»

«Rivedrai il re?»

«Forse!»

«Vuoi passare ai suoi occhi per un profeta?»

«I profeti delle disgrazie sono sempre malvisti a corte.»

«Sì, ma un giorno o l’altro viene loro resa giustizia: supponi una seconda Restaurazione, allora passerai per un uomo ben più grande di Talleyrand del quale tutti conoscono la sagacia politica.»

«Insomma che dovrei dire al re?»

«Questo solo: “Sire, voi siete ingannato sulle disposizioni della Francia, sull’opinione della città, sullo spirito dell’esercito. Quello che voi chiamate a Parigi il lupo della Corsica, che si chiama ancora l’usurpatore a Nevers, si chiama già Bonaparte a Lione, e imperatore a Grenoble. Voi lo credete circondato, perseguitato, in fuga, ed egli cammina rapido come l’aquila che porta; i suoi soldati che voi credete morti di fame, stanchi dalla fatica e vicini a disertare, aumentano come le falde di neve intorno alla valanga che precipita. Sire, partite, abbandonate la Francia al suo vero padrone, a quello che l’ha conquistata, partite, sire. Non che voi corriate alcun pericolo: il vostro rivale è abbastanza forte per farvi grazia, perché è umiliante per un discendente di San Luigi dovere la vita all’eroe d’Arcole, di Marengo e d’Austerlitz”. Digli tutto ciò Gérard. O piuttosto, non dirgli niente, dissimula il viaggio, non ti vantare di ciò che sei venuto a fare a Parigi; riprendi la posta, e se hai volato sulla strada per venire, divora lo spazio per tornare; rientra a Marsiglia di notte, vai in casa dalla porta di dietro e resta là ben tranquillo, ben umile, ben segreto, e soprattutto ben inoffensivo, perché questa volta, io lo giuro, noi agiremo da persone rigorose, che conoscono i loro nemici. Va’ figlio mio, caro Gérard, e mediante questa obbedienza agli ordini paterni, o, se preferisci, questa deferenza per i consigli di un amico, noi ti lasceremo al tuo posto. Ciò sarà», aggiunse Noirtier sorridendo, «il mezzo per salvarmi una seconda volta, se la bilancia politica un giorno rimetterà te in alto, e me in basso. Addio, mio caro Gérard, al prossimo ritorno alloggerai a casa mia.»

E Noirtier uscì con la tranquillità che non lo aveva abbandonato un istante durante quella difficile conversazione.

Villefort, pallido e agitato, corse alla finestra, ne scostò la tenda, e lo vide passare calmo e impassibile in mezzo a due o tre uomini di cattivo aspetto, imboscati agli angoli della strada, che erano forse là per arrestare l’uomo dai baffi neri, dal soprabito turchino e dal cappello a larghe tese.

Villefort restò così, in piedi e anelante, fino a che suo padre disparve al quadrivio Bussy. Allora si lanciò sugli oggetti da lui lasciati: pose nel fondo del suo baule la cravatta nera, e il soprabito turchino, contorse il cappello che cacciò sotto un armadio, ruppe il bastone di giunco in tre pezzi che gettò nel fuoco, indossò un berretto da viaggio, chiamò il suo cameriere, e con uno sguardo gli proibì le mille domande che avrebbe avuto volontà di fargli, saldò il conto dell’albergo, salì sulla carrozza che l’aspettava. Seppe a Lione che Bonaparte era entrato a Grenoble, e in mezzo all’agitazione che regnava lungo tutta la strada, giunse a Marsiglia, in preda a tutti i terrori che entrano nel cuore dell’uomo ambizioso che riceve i primi onori.

13. I Cento Giorni

Noirtier fu un buon profeta, e le cose si misero in breve tempo come aveva detto. Tutti conoscono il ritorno dall’isola d’Elba. Ritorno strano, miracoloso, senza esempio nel passato, probabilmente senza imitazione nell’avvenire.

Luigi XVIII tentò assai debolmente di riparare a un colpo così forte. La sua poca confidenza negli uomini gli toglieva quella negli avvenimenti. Il regno, o piuttosto la monarchia riconosciuta in lui, tremò sulla sua base ancora incerta.

Dunque Villefort non ebbe dal suo re che una riconoscenza non solo inutile per il momento, ma anche pericolosa, e quella croce di ufficiale della Legion d’Onore ottenuta, ebbe la prudenza di non mostrarla, sebbene Blacas, come gli aveva raccomandato il re, ne avesse fatto spedire sollecitamente il brevetto.

Napoleone di certo avrebbe destituito Villefort senza la protezione di Noirtier, divenuto onnipotente alla corte dei Cento Giorni, sia per i pericoli che aveva affrontato, sia per i servizi che aveva reso. Come gli era stato promesso, il girondino del ’93 e il senatore del 1806 protesse colui che lo aveva protetto il giorno innanzi.

Tutta la potenza di Villefort si limitò dunque, durante questa breve evocazione dell’Impero di cui fu facile prevedere la seconda caduta, a nascondere il segreto che Dantès era stato sul punto di divulgare. Il solo procuratore del Re fu destituito, essendo sospetto di freddezza in bonapartismo.

Il potere imperiale venne ristabilito appena l’imperatore abitò le Tuileries abbandonate da Luigi XVIII, ed ebbe lanciato innumerevoli ordini da quel piccolo gabinetto ove noi abbiamo introdotto i nostri lettori con Villefort, e dove sul tavolino di noce, a metà aperta e ancora piena, fu trovata la tabacchiera di Luigi XVIII.

Marsiglia, nonostante l’attitudine dei suoi magistrati, cominciò a sentir fermentare nel suo seno i germi della guerra civile sempre male spenti nel Mezzogiorno. Poco mancò allora che le rappresaglie non andassero al di là di qualche schiamazzata, da cui furono assediati i realisti chiusi nelle loro case, o di pubblici affronti a coloro che si azzardarono a uscire. Per una naturale virata di bordo, il degno armatore, che già abbiamo designato come appartenente alla fazione popolare, si trovò a sua volta, non dirò onnipotente, perché Morrel era un uomo prudente e un po’ timido, come tutti quelli che hanno fatto una faticosa e lenta fortuna commerciale, ma avvantaggiato.

Egli era in grado, perciò, di fare intendere i suoi reclami.

Questi reclami, come s’indovinerà facilmente, erano in favore di Dantès.

Villefort era rimasto in piedi a onta della caduta del suo superiore, e il suo matrimonio, sebbene rimanesse deciso, venne rimandato a tempi più felici.

Se l’imperatore conservava il trono, era un’altra alleanza che occorreva a Gérard, e suo padre sarebbe stato incaricato di trovarla. Se una seconda Restaurazione riconduceva Luigi XVIII in Francia, l’influenza di Saint-Méran raddoppiava, unitamente alla sua, e la progettata unione ritornava più convenevole di prima.

Il sostituto procuratore del re era dunque momentaneamente il primo magistrato di Marsiglia, allorché una mattina la porta s’aprì e gli venne annunciato il signor Morrel.

Un altro sarebbe andato sollecito incontro all’armatore, e con tal sollecitudine avrebbe tradito la sua debolezza.

Villefort era un uomo superiore che aveva, se non la pratica, almeno l’istinto di tutte le cose.

Egli fece fare anticamera a Morrel, come se fosse stato sotto la Restaurazione.

Morrel invece di trovare Villefort abbattuto, lo ritrovò come lo aveva visto sei settimane prima, cioè calmo, fermo e pieno di quella fredda gentilezza, la più insormontabile di tutte le barriere, che separa l’uomo elevato dall’uomo volgare.

Era penetrato nello studio di Villefort convinto che il magistrato avrebbe tremato alla sua vista, e fu lui invece che si trovò tutto tremante e commosso davanti a questo inquisitore, che lo aspettava col gomito sullo scrittoio e il mento appoggiato alla mano.

Egli si fermò sulla porta.

Villefort lo guardò come se avesse avuto qualche difficoltà a riconoscerlo.

Finalmente, dopo qualche secondo di esame e di silenzio, durante cui il degno armatore girava il suo cappello fra le mani: «Il signor Morrel, credo?» disse Villefort.

«Sì, signore, in persona», disse l’armatore.

«Avvicinatevi dunque», continuò il magistrato, facendo con la mano un segno di protezione, «e ditemi a quale circostanza debbo l’onore di una vostra visita.»

«Non ve lo immaginate, signore?» domandò Morrel.

«No, non saprei affatto. Ciò però non impedisce ch’io sia disposto a esservi favorevole se la cosa è in mio potere.»

«Questa dipende interamente da voi, signore», disse Morrel.

«Allora spiegatevi.»

«Signore», continuò l’armatore riprendendo la sua sicurezza man mano che parlava, e incoraggiato d’altronde dalla giustizia della sua causa e dalla chiarezza della sua posizione, «vi ricordate che qualche giorno prima che si sapesse dello sbarco di Sua Maestà l’imperatore, ero venuto a reclamare la vostra indulgenza per un disgraziato giovane, un marinaio, secondo a bordo della mia nave. Fu accusato, se vi ricordate, di relazioni con l’isola d’Elba. Queste relazioni, che erano delitti in quell’epoca, oggi sono titoli di favore. Voi servivate Luigi XVIII allora, e non gli usaste nessun riguardo, signore, ed era vostro dovere; oggi servite Napoleone e dovete proteggerlo, questo pure è vostro dovere. Vengo dunque a domandarvi che cosa avvenne di lui.»

Villefort fece un violento sforzo su se stesso.

«E il nome di quest’uomo?» domandò. «Abbiate la bontà di dirmelo…»

«Edmond Dantès.»

Evidentemente Villefort sarebbe stato più contento di misurare la pallottola di un avversario in un duello, che sentirsi pronunciare questo nome a così poca distanza; ciononostante non mosse tratto del viso. In questo modo, diceva a se stesso, non poteva essere accusato dell’arresto di quest’uomo per ragioni personali.

«Dantès», ripeté forte, «Edmond Dantès, avete detto?»

«Sì, signore.» Villefort aprì allora un grosso registro posto in un cassetto e scorso un indice trovò la pagina indicata, quindi rivolgendosi all’armatore: «Siete ben sicuro di non sbagliarvi, signore?» disse nel modo più naturale.

Se Morrel fosse stato un uomo più furbo o meglio illuminato su questo affare, avrebbe trovato cosa bizzarra che il sostituto procuratore del re si fosse degnato di rispondergli in tal maniera sopra materie estranee al suo ufficio, e si sarebbe domandato perché Villefort non lo mandava piuttosto a consultare i registri dei detenuti, dal governatore delle prigioni, o dal prefetto del dipartimento. Ma Morrel cercando invano la causa del timore in Villefort non vi osservò null’altro che un tratto di premurosa condiscendenza.

Villefort aveva colto nel segno.

«No, signore», disse Morrel, «io non mi sbaglio. D’altronde, conosco il povero giovane da dieci anni, ed è impiegato da quattro anni sotto di me. Io venni, ve ne ricordate?, circa sei settimane fa a pregarvi di esser giusto. Voi mi riceveste molto male, rispondendomi seccato… Ah, allora i realisti erano ben severi con i bonapartisti!»

«Signore», disse Villefort con la presenza di spirito e il sangue freddo consueto, «io ero realista allora, perché credevo i Borboni non solamente gli eredi legittimi del trono, ma gli eletti della nazione. Il ritorno di cui siamo stati testimoni mi ha sorpreso, il genio di Napoleone ha vinto.»

«Alla buon’ora», esclamò Morrel con la sua buona e rozza franchezza, «mi fa piacere sentirvi parlare in tal modo, e io ne auguro bene per la sorte di Edmond.»

«Aspettate dunque», riprese Villefort, sfogliando un altro registro, «l’ho trovato… Un marinaio, non è così, che sposava una catalana? Sì, sì, ora me ne ricordo. Ma la cosa era molto grave.»

«Come?»

«Voi sapete che uscendo dal mio appartamento venne condotto alle prigioni del palazzo di giustizia?»

«Sì, ebbene?»

«Ebbene, feci il mio rapporto a Parigi, mandai le carte trovate su di lui, questo era mio dovere, che volete… e otto giorni dopo il suo arresto fu portato via.»

«Portato via!» esclamò Morrel. «Ma cosa avranno potuto fare di questo giovanotto?»

«Oh, state tranquillo, sarà stato portato a Fenestrelle, a Pinerolo, o alle isole di Santa Margherita. Ciò che si chiama trasferito, in termini di ufficio. E una bella mattina lo rivedrete tornare a prendere il comando del vostro bastimento.»

«Che venga quando vuole, il suo posto gli sarà sempre conservato. Ma come mai non è ancora ritornato? Mi sembra che la prima cura della giustizia avrebbe dovuto essere quella di mettere in libertà coloro che erano stati incarcerati dalla giustizia realista.»

«Non accusate temerariamente, mio caro Morrel», rispose Villefort, «in tutte le cose bisogna procedere legalmente. L’ordine d’arresto venne dall’alto; bisogna che dall’alto pure venga l’ordine della libertà. Ora Napoleone è rientrato che sono appena quindici giorni, e le lettere di abolizione non possono ancora essere state spedite.»

«Ma», domandò Morrel, «non vi sarebbe modo di passar sopra a tutte le formalità? Ora che trionfiamo io godo di qualche influenza, e posso ottenere l’annullamento dell’ordine di arresto.»

«Non ha avuto luogo nessun arresto.»

«Dal registro dei carcerati, allora.»

«Il sistema penitenziario in vigore sotto Luigi XVI continua pure oggigiorno, eccetto la Bastiglia, che per un incidente fu spianata. L’imperatore è sempre stato più rigoroso per il regolamento delle sue prigioni, di quello che non lo è stato lo stesso gran re, e il numero dei carcerati di cui non si conserva nessuna traccia sui registri è incalcolabile.»

Tanta benevolenza avrebbe messo fuor di dubbio delle certezze, e Morrel non aveva neppure dei sospetti.

«Ma, infine, signor Villefort», diss’egli, «qual consiglio potreste darmi per affrettare il ritorno di Dantès?»

«Uno solo, signore, fate una petizione al ministro della Giustizia.»

«Oh signore, noi sappiamo ciò che sono le petizioni: il ministro riceve duecento petizioni al giorno.»

«Sì», rispose Villefort, «ma egli leggerà una petizione inviatagli da me, postillata da me, indirizzata direttamente da me.»

«E voi v’incarichereste di far giungere questa petizione?»

«Col più grande piacere del mondo. Dantès poteva essere allora colpevole, ma oggi è innocente, ed è mio dovere rendere la libertà a colui che fu mio dovere far mettere in prigione.»

Villefort preveniva in tal modo il pericolo di una ricerca poco probabile, ma possibile, che lo avrebbe perduto senza risorse.

«Ma come scrivere al ministro?»

«Mettevi là, signor Morrel», disse Villefort cedendo il suo posto all’armatore, «io vi detterò. Non perdiamo tempo, ne abbiamo già perduto abbastanza.»

«Sì, signore, pensiamo che il povero Dantès aspetta, soffre e forse si dispera.»

Villefort rabbrividì all’idea che quel prigioniero lo maledicesse nell’oscurità e nel silenzio; ma egli era troppo compromesso per potere tornare indietro: Dantès doveva essere stritolato fra gli scogli della sua ambizione. Villefort dettò una lettera in cui, per uno scopo eccellente, esagerava il patriottismo di Dantès, e i servizi da lui resi alla causa bonapartista. In questa petizione, Dantès compariva come uno degli agenti più attivi per il ritorno di Napoleone. Era evidente che vedendo una tal supplica, il ministro doveva fare giustizia all’istante, se giustizia non era ancora fatta. Finita la petizione, Villefort la rilesse ad alta voce.

«Ecco fatto», disse, «ora contate tranquillamente su di me.»

«E la petizione partirà presto, signore?»

«Oggi stesso.»

«E voi vi farete delle postille?»

«La postilla ch’io posso mettervi è quella di certificare per verità tutto ciò che voi dite nella petizione.»

Villefort a sua volta si sedette, e a margine della petizione scrisse il suo certificato.

«Ora che resta da fare, signore?» domandò Morrel.

«Aspettare», riprese Villefort, «io rispondo di tutto.»

Questa assicurazione rese la speranza a Morrel. Egli lasciò il sostituto procuratore incantato, e andò ad annunciare al vecchio padre di Dantès che non avrebbe tardato molto a rivedere suo figlio.

Quanto a Villefort, invece d’inviarla a Parigi, conservò nelle sue mani questa petizione, che per salvare Dantès nel presente lo comprometteva orribilmente per l’avvenire, supponendo una cosa che l’aspetto dell’Europa e la piega degli avvenimenti permettevano già di supporre, cioè una seconda Restaurazione.

Dantès rimase dunque prigioniero. Perduto nel profondo della sua segreta, non intese il rumore formidabile della caduta del trono di Luigi XVIII né quel rumore più spaventevole ancora del crollo dell’Impero. Ma Villefort aveva seguito tutto con occhio vigile, aveva ascoltato tutto con orecchio attento. Due volte, durante questa breve apparizione imperiale che fu chiamata «Cento Giorni», Morrel era tornato alla carica, insistendo sempre per la liberazione di Dantès e, ogni volta, Villefort lo aveva calmato con promesse e con speranze.

Giunse finalmente la battaglia di Waterloo.

Morrel non andò più da Villefort. L’armatore aveva fatto per il suo giovane amico tutto ciò che era stato possibile. Provare nuovi tentativi sotto la seconda Restaurazione era un compromettersi inutilmente.

Luigi XVIII risalì sul trono, Villefort, per cui Marsiglia era piena di tristi memorie divenute rimorsi, domandò e ottenne il posto vacante di procuratore del re a Tolosa. Quindici giorni dopo la sua insediamento nella nuova residenza egli sposò la signorina Renée di Saint-Méran il cui padre era favorito a corte più che mai. Ecco come Dantès, durante i Cento Giorni e dopo la battaglia di Waterloo, restò in carcere dimenticato dagli uomini, se non da Dio.

Danglars comprese tutto il valore del colpo con cui aveva percosso Dantès, vedendo ritornare Napoleone in Francia. La sua denuncia aveva colpito nel segno e, come tutti gli uomini con una certa attitudine al delitto e una mediocre intelligenza per la vita normale, chiamò questa bizzarra coincidenza «un decreto della Provvidenza».

Ma quando Napoleone ritornò a Parigi, e la sua voce rintronò nuovamente imperiosa e potente, Danglars ebbe paura. A ogni istante si aspettava di veder ricomparire Dantès; Dantès informato su tutto, Dantès minaccioso e terribile nelle sue vendette. Allora manifestò a Morrel il desiderio di lasciare il servizio di mare, e si fece raccomandare a un negoziante spagnolo, presso il quale entrò come commesso d’ordine alla fine di marzo, vale a dire dieci o dodici giorni dopo la ricomparsa di Napoleone alle Tuileries. Partì dunque per Madrid, e non s’intese più parlare di lui.

Fernando invece non capì niente. Dantès era assente, e ciò era quanto gli interessava. Che era accaduto di lui? Non cercò di saperlo. Durante tutto il tempo di questa assenza, si ingegnò ora a ingannare Mercedes sui motivi dell’assenza, ora a meditare dei piani di emigrazione e di ratto. Ogni tanto, nelle ore tetre della sua vita, si sedeva alla punta del capo Faro, e da questo luogo donde si distingueva a un tempo Marsiglia e il villaggio dei Catalani, guardava triste e immobile come un uccello da preda se avesse visto, per una di queste strade, il giovane dal passo sciolto e dalla testa alta che per lui pure poteva essere messaggero di una cruda vendetta.

Il piano di Fernando era fissato: spaccare la testa di Dantès con un colpo di fucile, e dopo uccidersi. E ciò lo diceva a se stesso per colorire il suo delitto.

Ma Fernando s’ingannava; non si sarebbe mai ucciso, poiché sperava sempre.

Frattanto, in mezzo a tante fluttuazioni dolorose, l’Impero chiamò un ultimo bando di soldati, e tutti gli uomini che erano in grado di portare le armi si lanciarono fuori della Francia alla voce formidabile dell’imperatore. Fernando partì come gli altri, lasciando la sua capanna a Mercedes, rodendosi col terribile pensiero che via lui forse sarebbe tornato il rivale a sposare colei che amava.

In quanto alla ragazza, la pietà ch’egli sembrava provare per la sua infelicità, la cura che prendeva di prevenire anche i più piccoli suoi desideri, aveva prodotto l’effetto che producono sempre sui cuori generosi le apparenze di affetto a tutta prova.

Mercedes aveva sempre amato Fernando con amicizia, alla sua amicizia si aggiunse un nuovo sentimento, quello della riconoscenza.

«Fratello mio», disse nel mettere lo zaino da coscritto sulle spalle del catalano, «fratello mio, mio solo amico, non vi fate uccidere, non mi lasciate in questo mondo ove piango, e dove sarò sola quando voi non ci sarete più!»

Queste parole, dette al momento della partenza, diedero qualche speranza a Fernando.

Se Dantès non ritornava, Mercedes poteva dunque un giorno esser sua. Mercedes restò sola su questa nuda terra, che non le era sembrata mai così arida, e col mare immenso per orizzonte.

Tutta bagnata di lacrime come quella pazza di cui si racconta la dolorosa storia, la si vedeva incessantemente vagare intorno al piccolo villaggio dei Catalani, ora fermandosi sotto il sole ardente di mezzogiorno, ritta, immobile, muta come una statua e guardando Marsiglia, ora seduta sulla spiaggia, ascoltando il mormorio del mare, eterno come il suo dolore, e domandandosi senza posa, se era meglio gettarsi in avanti, lasciarsi cadere, lanciarsi nell’abisso per esserne inghiottita, piuttosto che soffrire in tal modo tutte queste alternative di un attendere senza speranza. Non fu il coraggio che mancò a Mercedes per compiere il suo progetto, ma fu la religione che venne in suo aiuto, e la salvò dal suicidio.

Caderousse, come Fernando, venne pure chiamato sotto le armi; e siccome aveva otto anni più del catalano ed era maritato, così fece parte del terzo bando e fu inviato sulle coste.

Il vecchio Dantès, che non era più sostenuto dalla speranza, la perse del tutto alla caduta dell’imperatore. Cinque mesi dopo, nella stessa giornata in cui era stato separato dal figlio, e quasi nella stessa ora in cui venne arrestato, rese l’ultimo sospiro fra le braccia di Mercedes.

Morrel provvide a tutte le spese della sepoltura, e pagò i piccoli debiti che il vecchio aveva fatto durante la sua malattia.

Nell’agire in tal modo vi era, più che beneficenza, coraggio. Le province del Mezzogiorno erano in fiamme e il soccorrere, anche sul letto di morte, il padre di un bonapartista così pericoloso come Dantès, era un delitto.

14. I due prigionieri

Un anno dopo il ritorno di Luigi XVIII, ebbe luogo una visita dell’ispettore generale delle prigioni. Questo ispettore si chiamava signor Boville. Dantès sentì girare e stridere chiavi, sbattere porte, ascoltò dal fondo della sua cella tutti quei preparativi che in alto facevano molto rumore, ma in basso sarebbero stati mormorii impercettibili per tutt’altre orecchie che quelle di un prigioniero avvezzo a discernere nel silenzio della notte il ragno che tesse la sua tela, e la caduta periodica della goccia d’acqua, che impiega un’ora a formarsi sul soffitto della cella.

Indovinò che fra i vivi accadeva qualche cosa di straordinario.Egli che da sì lungo tempo abitava una tomba, poteva bene considerarsi come un morto. Infatti, l’ispettore visitava, una dopo l’altra, stanze, celle e segrete. Molti prigionieri furono interrogati, ed erano quelli che per la loro stupidità si raccomandavano alla benevolenza dell’amministrazione: l’ispettore domandava a essi come erano nutriti e quali erano i reclami che avevano da fare. Essi risposero unanimemente che il nutrimento era detestabile, e che reclamavano la loro libertà.

L’ispettore domandò se avevano altra cosa da chiedere. Essi scossero la testa: qual altro bene oltre la libera aria può reclamare un prigioniero? Il signor Boville si voltò sorridendo, e disse al governatore: «Non so perché ci facciano fare questi inutili giri; chi vede una prigione, ne vede cento; chi ascolta un prigioniero, ne ascolta mille. È sempre la stessa cosa: malnutriti e innocenti. Ve ne sono altri?»

«Sì, abbiamo prigionieri pericolosi o pazzi che teniamo nelle segrete.»

«Vediamoli», disse l’ispettore, con un’aria di profonda stanchezza, «facciamo il nostro mestiere fino ala fine, discendiamo nelle segrete.»

«Aspettate», disse il governatore, «che si mandino almeno a prendere due uomini. I prigionieri commettono qualche volta, non fosse che per il disgusto della vita e farsi condannare a morte, degli atti d’inutile disperazione. Potreste cader vittima di uno di questi eccessi.»

«Prendete dunque le vostre precauzioni», aggiunse l’ispettore.

Si mandarono a chiamare due soldati, e si cominciò a discendere per una scala così umida, così infetta, così ammuffita, che niente quanto il passaggio in un simile luogo offendeva così sgradevolmente a un tempo la vista, l’odorato e la respirazione.

«Oh!» fece l’ispettore fermandosi a metà della scala. «Chi diavolo può alloggiare qui?»

«Un cospiratore dei più pericolosi, e ci è stato raccomandato particolarmente come un uomo capace di tutto.»

«È solo?»

«Certamente.»

«Da quanto tempo?»

«Da circa un anno.»

«E fu messo qui fin dal suo entrare?»

«No, signore, ma soltanto dopo aver tentato di uccidere il carceriere incaricato di portargli il cibo; quello stesso che ci fa lume. Non è vero, Antoine?»

«Cercò di uccidere me», rispose il carceriere.

«Ah, è dunque pazzo quest’uomo.»

«È anche peggio…» disse il carceriere, «è un demonio.»

«Volete che si faccia rapporto?» domandò l’ispettore al governatore.

«È inutile, signore; è abbastanza punito così: d’altronde tocca ormai quasi la follia e, secondo l’esperienza, prima che compia un altr’anno, sarà completamente pazzo.»

«In fede mia, tanto meglio per lui», disse l’ispettore, «una volta pazzo del tutto, soffrirà di meno.» Come si vede bene l’ispettore era un uomo pieno d’umanità, e ben degno delle funzioni filantropiche che esercitava.

«Avete ragione, signore», disse il governatore, «e la vostra riflessione prova che avete profondamente studiato la materia. Abbiamo, in una segreta che è lontana da questa una trentina di passi, e nella quale si discende per un’altra scala, un vecchio abate, antico capo di partito in Italia, che è qui dal 1811, e al quale ha dato di volta il cervello verso la fine del 1813, per cui da quell’epoca, non è più fisicamente riconoscibile: piange, ride, dimagrisce, ingrassa. Volete veder quello, piuttosto che questo? La sua pazzia è divertente e non vi rattristerà.»

«Vedrò l’uno e l’altro», rispose l’ispettore, «bisogna fare il proprio dovere coscienziosamente.»

L’ispettore faceva allora il suo primo giro e voleva lasciare una buona impressione alle autorità.

«Entriamo dunque prima qui…» aggiunse.

«Volentieri», rispose il governatore.

Allo stridere delle massicce serrature, al cigolare dei catenacci arrugginiti, Dantès accovacciato in un angolo della sua segreta, ove riceveva con gioia indicibile il tenuissimo raggio di luce che filtrava attraverso gli stretti spiragli della sua inferriata, alzò la testa.

Alla vista di un uomo sconosciuto, illuminato dalle torce che portavano i due carcerieri, accompagnato da due soldati, e al quale il governatore parlava col cappello in mano, Dantès indovinò di chi si trattava, e vedendo finalmente presentarsi una occasione per implorare un’autorità superiore, balzò in avanti con le mani giunte.

I soldati abbassarono subito la baionetta perché credettero che il prigioniero si lanciasse vero l’ispettore con cattiva intenzione, e Boville stesso fece un passo indietro.

Dantès s’accorse che era stato descritto come un uomo da temersi. Riunì dunque nel suo sguardo tutto ciò che il cuore dell’uomo può contenere di mansuetudine e di umiltà ed, esprimendosi con una specie di eloquenza pietosa che meravigliò gli astanti, cercò di toccare l’anima del suo visitatore.

L’ispettore ascoltò il discorso di Dantès sino alla fine, poi volgendosi verso il governatore: «Si piegherà alla devozione», disse a mezza voce, «è già disposto a sentimenti più dolci. Vedete, la paura fa il suo effetto su lui; ha indietreggiato in faccia alle baionette. Ora un pazzo non si ritrae davanti a niente. A questo proposito ho fatto delle curiose osservazioni a Charenton».

Poi rivolto al prigioniero disse: «In conclusione, che volete?»

«Io chiedo quale delitto ho commesso! Domando che mi sia istituito un processo! Domando infine di essere fucilato se reo, ma di essere messo in libertà se innocente!»

«Siete ben nutrito?» domandò l’ispettore.

«Sì, credo… Non ne so niente… Ma ciò poco m’importa. Quello che deve importare, non solo a me disgraziato prigioniero, ma a tutti i funzionari che amministrano la giustizia, è che un innocente non sia vittima di un’infame denuncia e non muoia in catene maledicendo i suoi carnefici.»

«Voi siete molto umile oggi», disse il governatore, «però non siete stato sempre così. Parlavate altrimenti, mio caro amico, il giorno che tentaste di uccidere il vostro carceriere.»

«È vero, signore», disse Dantès, «e ne domando umilmente perdono a quest’uomo, che è sempre stato buono con me… Ma che volete? Ero pazzo… ero furioso…»

«E ora non lo siete più?»

«No, signore, perché la prigionia mi ha piegato, umiliato, annichilito; è così lungo il tempo qui dentro…»

«Lungo tempo? E quando foste arrestato?» disse l’ispettore.

«Il 28 febbraio 1815, alle due dopo mezzogiorno.»

L’ispettore calcolò.

«Siamo al 30 luglio 1816. Che dite dunque? Non sono che diciassette mesi che siete prigioniero.»

«Come diciassette mesi?» riprese Dantès. «Ah, signore, voi non sapete cosa sono diciassette mesi di prigionia! Sono diciassette anni, diciassette secoli, particolarmente per un uomo che, come me, era vicino a toccare la sua felicità, per un uomo che, come me, era sul punto di sposare una donna amata; per un uomo che vedeva davanti a lui aprirsi una carriera onorevole e al quale tutto mancò in un istante; che dal mezzo del giorno più bello cadde nella notte più profonda; che vede la sua carriera distrutta, e che ignora se colei ch’egli ama lo ami sempre, che ignora se il suo vecchio padre è morto o vivo! Signore, diciassette mesi di prigione per un uomo abituato all’aria marina, all’indipendenza del marinaio, allo spazio, all’immensità, all’infinito… diciassette mesi di prigione, ripeto, sono più che non meritino tutti i delitti che vengono menzionati dalla lingua umana con i più odiosi nomi! Abbiate dunque pietà di me, signore, e domandate per me non l’indulgenza ma il rigore, non una grazia, ma una sentenza! Dei giudici, signore! Io non domando che dei giudici… Non si possono negare i giudici a un accusato.»

«Va bene», disse l’ispettore, «si vedrà.»

Poi volgendosi verso il governatore disse: «Questo povero diavolo mi fa pena. Ritornando di sopra mi farete vedere il registro degli arrestati».

«Sì, certo», disse il governatore, «ma credo che ritroverete delle annotazioni terribili sul suo conto.»

«Signore», continuò Dantès, «so bene che non potete farmi uscire di qui con la vostra autorità, ma voi potete trasmettere la mia domanda agli uffici competenti, potete promuovere un’inchiesta, potete farmi sottomettere a un giudizio… Un processo, è tutto ciò che domando: che io sappia quale delitto ho commesso, a quale pena sono condannato, poiché l’incertezza è il peggiore di tutti i supplizi.»

«M’informerò…» disse l’ispettore.

«Signore», esclamò Dantès, «comprendo dal suono della vostra voce che siete commosso… Signore, ditemi che posso sperare?»

«Io non posso dirvi questo», rispose l’ispettore, «posso soltanto promettervi di esaminare il vostro registro e ciò che vi sta a carico.»

«Oh, allora, signore, sono salvo!»

«Chi vi fece arrestare?» domandò l’ispettore.

«Il signor Villefort. Vedetelo, e parlate con lui.»

«È già un anno che il signor Villefort non è più a Marsiglia, ma a Tolosa.»

«Ah, ciò non mi sorprende più, il mio solo protettore si è allontanato.»

«Il signor Villefort aveva qualche motivo di odio contro di voi?» domandò l’ispettore.

«Nessuno, signore, anzi era molto benevolo con me.»

«Mi potrò dunque fidare delle note che ha lasciato sul conto vostro, o che possa trasmettermi?»

«Interamente.»

«Sta bene, aspettate.»

Dantès cadde in ginocchio, levando le mani verso il cielo e mormorando una preghiera, nella quale raccomandava a Dio quest’uomo sceso nella sua prigione.

La porta si richiuse, ma la speranza scesa con Boville era rimasta nella segreta di Dantès.

«Volete vedere il registro dei carcerati subito», domandò il governatore, «o passare alla segreta dell’abate?»

«Finiamo prima con le segrete», rispose l’ispettore, «se ritornassi ove fa giorno, forse non avrei più il coraggio di tornare a scendere qui per compiere la mia triste missione.»

«Oh, quest’altro non è un prigioniero come quello che abbiamo lasciato, e la sua pazzia rattrista meno che la ragionevolezza del suo vicino.»

«E qual è la sua pazzia?»

«Oh, una pazzia strana. Si crede possessore di un immenso tesoro. Il primo anno della sua prigionia, ha fatto offrire al governo un milione, se il governo voleva metterlo in libertà; il secondo anno due milioni, il terzo tre milioni, e così via… Ora, al suo quinto anno di prigionia, chiederà di parlarvi in segreto per offrire cinque milioni.»

«Ah! ah! è curiosa infatti…» disse l’ispettore, «e come si chiama questo milionario?»

«Faria.»

«Il numero 27?» domandò l’ispettore, leggendo questa cifra sopra una porta.

«Precisamente… Antoine, aprite.»

Il custode obbedì, e Boville entrò nella segreta dell’abate pazzo come veniva generalmente chiamato il prigioniero.

In mezzo alla stanza, in un cerchio tracciato sul pavimento con un pezzo d’intonaco staccato al muro, era sdraiato un uomo quasi nudo, tanto le sue vesti erano lacerate. Egli disegnava in questo cerchio delle linee geometriche diritte e parallele, e pareva in tal modo occupato a risolvere il suo problema, come Archimede nel momento che fu ucciso da un soldato di Marcello.

Non si mosse al rumore che fece la porta nell’aprirsi e non sembrò svegliarsi che allorché la luce delle torce illuminò d’un forte chiarore l’umido suolo su cui lavorava.

Allora si voltò e vide con sorpresa la gente che era scesa nel suo carcere. Si alzò, prese una coperta gettata sul miserabile letto, e si coprì subito per comparire in stato più decente agli occhi di quegli estranei.

«Non chiedete niente?» disse l’ispettore senza variare la formula.

«Io, signore», disse Faria con sorpresa, «io non domando niente.»

«Non mi capite», disse l’ispettore, «io sono un messo del governo, e ho il compito di scendere in tutte le prigioni, per ascoltare i reclami dei prigionieri.»

«Oh, allora, signore, è un’altra cosa», esclamò vivacemente Faria, «e spero che ci intenderemo.»

«Vedete», disse a bassa voce il governatore, «non comincia come vi avevo detto?»

«Signore», continuò il prigioniero, «io sono Faria, nato a Roma nel 1768. Sono stato vent’anni segretario del conte Spada, l’ultimo dei principi di questo nome. Sono stato arrestato, e non so il perché, verso il principio dell’anno 1811. Dopo questo tempo ho sempre reclamato la mia libertà alle autorità italiane e francesi…»

«Perché alle autorità italiane?» domandò il governatore.

«Perché sono stato arrestato a Piombino, e presumo che, come Firenze, Piombino sia divenuto capoluogo di qualche dipartimento francese.»

L’ispettore e il governatore si guardarono ridendo.

«Diavolo, mio caro», disse l’ispettore, «le vostre notizie sull’Italia non sono di fresca data.»

«Portano la data del giorno in cui sono stato trasferito da Fenestrelle a qui, signore», disse Faria. «Era il 1811 e, avendo l’imperatore dato il nome di re di Roma al figlio che il cielo gli aveva concesso, presumevo che, continuando il corso delle sue conquiste, vagheggiasse il sogno di Machiavelli e di Cesare Borgia.»

«Signore», disse l’ispettore, «la Provvidenza ha fortunatamente arrecato tali cambiamenti nella penisola che quello rimarrà un sogno.»

«Sarà. Ma quante cose non sono possibili sulla terra?» rispose Faria.

«Sì, ma non già i sogni», riprese l’Ispettore, «né sono venuto qui per intavolare con voi un discorso di politica estera, ma soltanto per domandarvi, come ho già fatto, se avete qualche reclamo da indirizzarmi sul modo col quale siete nutrito e alloggiato.»

«Il nutrimento», disse Faria, «è cattivissimo. Quanto all’alloggio, come vedete, è umido e malsano, ma ciò nonostante è conveniente abbastanza per una segreta. Ora non è di ciò che si tratta, ma bensì di rivelazioni della più alta importanza e del più grande interesse, che ho da fare al governo.»

«Eccoci…» disse a bassa voce il governatore a Boville.

«Questo è il motivo per cui sono contento di vedervi, sebbene mi abbiate distratto da un calcolo molto importante che, se riesce, cambierà forse del tutto il sistema planetario di Newton. Potete accordarmi il favore di un colloquio particolare?»

«Eh, che vi dicevo?» fece il governatore all’ispettore.

«Voi conoscete bene la persona…» rispose questi, sorridendo.

Poi rivolgendosi a Faria: «Signore», disse, «ciò che mi chiedete è impossibile».

«Ma», riprese Faria, «si tratta di far guadagnare al governo una somma enorme, una somma, per esempio, di cinque milioni!»

«In fede mia», disse l’ispettore, volgendosi al governatore, «avete predetto perfino la cifra.»

«Vediamo», riprese Faria, accorgendosi che l’ispettore faceva l’atto di ritirarsi, «non è poi assolutamente necessario che noi siamo soli: il signor governatore potrà assistere al nostro colloquio.»

«Disgraziatamente, mio caro signore», disse il governatore, «sappiamo già a memoria quello che volete dirci. Si tratta dei vostri tesori, non è vero?»

Faria guardò quell’uomo con occhi in cui un osservatore disinteressato avrebbe certamente visto risplendere il lampo della ragione e della verità.

«Senza dubbio», disse. «Di che volete che vi parli, se non di ciò?»

«Signor ispettore», continuò il governatore, «vi posso raccontare questa storia tanto bene quanto Faria, essendo già quattro o cinque anni che me la sento risuonare alle orecchie.»

«Ciò prova, signor governatore», disse Faria, «che voi siete di quella gente di cui parla la Scrittura, i quali hanno gli occhi e non vedono, hanno le orecchie e non sentono.»

«Mio caro signore», disse l’ispettore, «il governo è ricco, e grazie a Dio non ha bisogno dei vostri milioni. Conservateli dunque per il giorno in cui uscirete di prigione.»

L’occhio di Faria si dilatò. Afferrò la mano dell’ispettore e aggiunse: «Ma se io non esco di prigione, se mi si tiene in questa segreta, se vi debbo morire senza aver lasciato il mio segreto ad alcuno, questo tesoro andrà dunque perduto? Io darò sino a sei milioni, signore… sì, lascerò sei milioni, e mi accontenterò del resto, se mi si vorrà rendere la libertà».

«Sulla mia parola», disse l’ispettore a mezza voce, «se non si sapesse che quest’uomo è pazzo, parla con tanta convinzione, da far credere alla verità del suo dire.»

«Io non sono un pazzo, signore, e dico precisamente la verità…» disse Faria che, con quella finezza di udito che è particolare ai prigionieri, non aveva perduto una sola delle parole dell’ispettore. «Il tesoro di cui vi parlo esiste realmente, e sono pronto a firmare un contratto, in virtù del quale voi mi condurrete al luogo che verrà da me indicato; si scaverà la terra sotto i nostri occhi, e se io mento, se non viene ritrovato niente, se sono un pazzo come voi dite, ebbene, mi ricondurrete in questo medesimo carcere ove io resterò eternamente, e dove morirò senza domandar più niente né a voi, né a nessuno.»

Il governatore si mise a ridere.

«È lontano questo vostro tesoro?» domandò.

«A circa cento leghe da qui», disse Faria.

«La cosa non è male immaginata», disse il governatore. «Se tutti i prigionieri volessero divertirsi a farsi una passeggiata con i loro guardiani per cento leghe, o se i guardiani acconsentissero a fare una simile passeggiata, questo sarebbe un eccellente pretesto per prendere la via dei campi alla prima occasione, e, durante un simile viaggio, l’occasione si presenterebbe certamente. Disgraziatamente però questo è un pretesto troppo conosciuto», disse Boville, «e il signor Faria non ha neppure il merito dell’invenzione.»

Poi volgendosi all’abate disse: «Vi ho chiesto se siete ben nutrito».

«Signore», rispose Faria, «giuratemi sul vostro onore di liberarmi se dico la verità, e vi indicherò il luogo preciso dove è nascosto il tesoro.»

«Siete contento del cibo?» ripeté l’ispettore.

«Signore, così non correte alcun rischio, e vedete bene che non è per procurarmi un’eventualità di fuga. Io resterò prigioniero fino a che abbiate fatto il viaggio…»

«Voi non rispondete alla mia domanda», disse con impazienza l’ispettore.

«Né voi alla mia», esclamò Faria. «Siate dunque maledetto come tutti gli altri insensati che non mi hanno voluto credere. Voi non volete il mio oro, io lo custodirò, voi ricusate d’aiutarmi, Dio mi aiuterà. Andate, non ho più nulla da dirvi.»

E Faria, gettando la sua coperta, raccolse il suo pezzo d’intonaco, e andò a sedersi di nuovo in mezzo al cerchio dove continuò le sue linee e i suoi numeri.

«Che sta facendo?» disse l’ispettore ritirandosi.

«Conta i suoi tesori», rispose il governatore.

Faria rispose a questo sarcasmo con un’occhiata del più supremo disprezzo.

Essi uscirono. Il carceriere chiuse la porta dietro di loro.

«Avrà forse realmente posseduto qualche tesoro», disse l’ispettore risalendo la scala.

«O avrà sognato di possederlo», disse il governatore, «e il giorno dopo si sarà svegliato pazzo.»

Così terminò la visita all’abate Faria.

Rimase prigioniero, e dopo questa visita la sua reputazione di pazzo furioso aumentò sempre più. In quanto a Dantès, l’ispettore mantenne la parola. Entrando nell’ufficio del governatore si fece mostrare il registro dei carcerati. Una nota era scritta dirimpetto al suo nome. EDMOND DANTÈS. Bonapartista accanito, ha preso parte attiva al ritorno dall’isola d’Elba. Da tenersi segregato, e sotto la più stretta sorveglianza. Questa nota era di un’altra calligrafia, e di un inchiostro diverso dal rimanente del registro; ciò provava ch’era stata aggiunta dopo l’incarcerazione di Dantès. L’accusa era troppo esplicita per tentare di combatterla. L’ispettore dunque scrisse a margine: «Vista la nota a fronte, niente si può fare».

Questa visita aveva per così dire ravvivato Dantès. Da quando era in prigione aveva dimenticato di contare i giorni, ma l’ispettore l’aveva fornito di una nuova data, ed egli non l’aveva dimenticata. Scrisse sul muro, con un pezzo di gesso staccato dal soffitto, 30 luglio 1816, e da quel momento faceva ogni giorno un segno affinché la nozione del tempo non gli sfuggisse più.

I giorni passarono, poi le settimane, quindi i mesi.

Dantès aspettava sempre. Aveva cominciato col fissare la sua liberazione a quindici giorni. Impiegando soltanto la metà dell’interesse che aveva dimostrato, l’ispettore doveva averne abbastanza di quindici giorni.

Passati questi quindici giorni, si disse che era un’assurdità il credere che l’ispettore si sarebbe occupato di lui prima del suo ritorno a Parigi. Il suo ritorno a Parigi non poteva aver luogo che quando il suo giro fosse finito, e il suo giro poteva durare un mese o due: fissò dunque tre mesi invece di quindici giorni.

Compiuti i tre mesi, un altro ragionamento venne in suo aiuto, che gli fece concedere sei mesi, ma finiti anche questi sei mesi, mettendo i giorni uno dopo l’altro si ritrovò che egli aveva aspettato dieci mesi e mezzo.

Durante questi dieci mesi e mezzo, niente fu cambiato nel regime della sua prigione; e non era giunta alcuna notizia consolante.

Interrogato il carceriere, questi fu muto secondo il solito.

Dantès cominciò a dubitare dei suoi sensi, a credere che ciò che prendeva per un ricordo della sua memoria, non fosse niente altro che una allucinazione, e che quell’angelo consolatore, apparso nella sua prigione, non vi fosse disceso se non sopra le ali di un sogno.

In capo a un anno il governatore fu cambiato. Egli aveva ottenuto la direzione del forte di Ham; condusse con sé molti dei suoi subordinati, e fra gli altri il carceriere di Dantès.

Un nuovo governatore giunse. Sarebbe stato troppo lungo per lui imparare a memoria il nome di tutti i suoi prigionieri, e si fece presentare soltanto i loro numeri.

Quell’orribile carcere si componeva di cinquanta celle.

I loro abitanti furono chiamati col numero della cella che occupavano, e il disgraziato giovane cessò di essere chiamato col nome di Edmond o col cognome di Dantès, ma si chiamò il numero 34.

15. Il numero 34 e il numero 27

Dantès passò attraverso tutti i gradi d’infelicità che subiscono i prigionieri dimenticati in una prigione.

Iniziò dall’orgoglio, che è una conseguenza della speranza e una coscienza dell’innocenza; poi venne al dubbio della sua innocenza; ciò che giustificava le idee del governatore sulla sua alienazione mentale; finalmente cadde dall’alto del suo orgoglio, non pregò Dio ancora, ma gli uomini, Dio è l’ultima risorsa; il disgraziato, che dovrebbe cominciare dal Signore, non giunge a sperare in lui che dopo avere esaurite tutte le altre speranze.

Dunque Dantès pregò affinché lo togliessero da quel carcere, per metterlo in un altro, fosse anche stato il più nero, il più profondo; un cambiamento, sebbene peggiore, era sempre un cambiamento e avrebbe procurato a Dantès una distrazione di qualche giorno. Pregò che gli venisse accordata una passeggiata, dell’aria, dei libri, degli strumenti. Niente di tutto ciò gli venne accordato; ma non importa, domandava sempre.

Egli si era abituato a conversare con il nuovo carceriere, sebbene questi fosse, se si può dire, più muto del primo, ma parlare a un uomo, per quanto muto, era sempre un piacere. Dantès parlava per sentire la propria voce, aveva provato a parlare quand’era solo, ma allora si faceva paura.

Molte volte, prima di essere fatto prigioniero, Dantès si era fatto uno spauracchio di quelle prigioni, composte di vagabondi, di banditi, e di assassini fra i quali un’ignobile solidarietà fa nascere orge inintelligibili e amicizie spaventose. Giunse a desiderare di esser messo in uno di quei penitenziari per poter vedere qualche altro viso oltre quello del carceriere impassibile che non voleva parlare. Egli desiderava la galera, col suo vestito infamante, con la sua catena al piede, col suo marchio sulla spalla. I forzati almeno godevano la società dei loro simili, respiravano l’aria, vedevano il cielo: i forzati per Dantès erano esseri fortunati.

Un giorno supplicò il carceriere di domandare per lui un compagno qualunque, fosse pur anche stato l’abate pazzo di cui aveva inteso parlare. Sotto la scorza di carceriere per quanto sia rozza, resta sempre qualche cosa dell’uomo. Questi, sebbene il suo viso non dicesse niente, aveva spesso nel fondo del suo cuore compianto quel disgraziato giovane, il cui carcere era così duro. Passò dunque la domanda del numero 34 al governatore, ma questi, prudente come un uomo politico, s’immaginò che Dantès volesse ammutinare i prigionieri, tramare qualche complotto, aiutarsi con qualche amico per tentare una evasione e rifiutò.

Dantès aveva esaurito il cerchio delle risorse umane. Come dicemmo ciò doveva accadere. Si rivolse allora a Dio. Tutte le idee pietose sparse nel mondo, che vengono raccolte dagli infelici che sono curvati sotto il peso della sventura, vennero allora a presentarsi al suo spirito: si ricordò le preghiere che gli aveva insegnato sua madre, e ritrovò in esse dei significati fino allora ignorati; perché per l’uomo felice, la preghiera rimane un assieme monotono e vuoto di senso, finché il giorno del dolore viene a spiegare all’infelice questo linguaggio per mezzo del quale parla a Dio.

Supplicò dunque con fervore; e pregando ad alta voce non si spaventava più delle sue parole. Allora cadeva in una specie di estasi: vedeva Dio risplendere a ciascuna parola che pronunciava.

Tutte le azioni della sua vita umile e perduta le rapportava alla volontà di questo Dio onnipotente, proponendosi degli obblighi da adempiere.

Malgrado queste ferventi preghiere, Dantès rimase prigioniero. Allora il suo spirito si fece tetro, una nube s’addensò davanti ai suoi occhi. Dantès era un uomo semplice e senza educazione; il passato era rimasto per lui coperto da quel velo denso, che la sola scienza solleva. Non poteva nella solitudine della sua segreta e nel deserto del suo pensiero, rianimare i popoli estinti, rifabbricare le antiche città che l’immaginazione e la poesia ingrandiscono, e che passano davanti agli occhi, giganteschi e illuminati dal fuoco del cielo, come i quadri babilonici di Martinn. Non aveva che il suo passato così breve, il suo presente così triste, il suo avvenire così incerto: diciannove anni di luce da meditarsi forse in una eterna notte! Nessuna distrazione poteva venirgli in aiuto: il suo spirito energico, che forse non avrebbe amato che di prendere il volo attraverso le età, era forzato a restar prigioniero come un’aquila nella gabbia. Egli si aggrappava a una sola idea, quella della sua felicità, distrutta senza una causa apparente, e, per una fatalità inaudita, si attaccava a quest’idea, la girava, la rigirava sotto tutti i sensi, divorandola per così dire a denti aguzzi come nell’Inferno di Dante l’implacabile Ugolino divora il cranio dell’arcivescovo Ruggeri.

Dantès non aveva avuto che una fede passeggera; la perse come altri la perdono nei felici eventi.

La rabbia subentrò all’ascetismo.

Edmond emetteva delle bestemmie che inorridivano il carceriere, feriva il suo corpo contro i muri della prigione, s’inferociva contro tutto ciò che lo circondava, e soprattutto contro se stesso, alla minima contrarietà. Quella lettera denunciatrice che aveva visto, che gli aveva mostrato Villefort, che aveva toccato, gli tornava alla mente; ogni riga fiammeggiava sul muro come il «Mane, Tekel, Phares» di Baldassarre. Egli diceva a se stesso che era l’odio degli uomini e non la giustizia di Dio che lo aveva immerso nell’abisso in cui si trovava. Imprecava per questi uomini sconosciuti tutti i supplizi di cui la sua ardente immaginazione poteva farsi un’idea, e trovava che i più terribili erano ancora troppo deboli, e troppo brevi per loro; perché dopo il supplizio veniva la morte e nella morte era, se non il riposo, almeno l’insensibilità del corpo che a quello somiglia.

A forza di dire a se stesso, a proposito dei suoi nemici, che nella morte vi era la calma e che colui che vuole punire crudelmente i suoi nemici deve servirsi di tutt’altro mezzo che della morte, cadde nell’immobilità della sciagurata idea del suicidio: disgraziato colui che, sul declivio dell’infelicità, si ferma a questa triste idea! È uno di quei mari morti che si estendono come l’azzurro delle onde pure, ma nelle quali il nuotatore sente lentamente legarsi i piedi, in una terra bituminosa che lo attrae a sé, lo assorbe, lo inghiotte. Una volta preso in tal modo, se il soccorso divino non lo aiuta, tutto è finito, e qualunque sforzo tenti affonda sempre di più.

Questo stato di morale agonia è meno terribile dei pentimenti che lo hanno preceduto e del castigo forse che lo seguirà: è una specie di consolazione vertiginosa che ci mostra il precipizio, ma nel fondo del precipizio il niente.

Arrivato a questo punto, Edmond trovò qualche consolazione in questa idea: tutti i suoi dolori, tutte le sue sofferenze, questo corteo di spettri che dietro si trascinavano, parvero involarsi dalla prigione ove l’angelo della morte poteva posare il suo piede silenzioso.

Dantès guardò con calma la sua vita passata, con terrore la sua vita futura, e scelse questo punto di mezzo che gli sembrò essere un luogo d’asilo.

«Qualche volta», diceva a se stesso, «quando nei miei lontani viaggi allorché ero ancora un uomo, e quando quest’uomo libero e possente dava ad altri uomini dei comandi, che erano eseguiti, ho visto il cielo coprirsi, il mare fremere e mormorare, l’uragano nascere da un punto del cielo, e come un’aquila gigantesca battere con le sue ali i due orizzonti e allora io sentivo che il mio vascello non era che un rifugio impotente poiché, leggero come una piuma nella mano del gigante, tremava e rabbrividiva. Ben presto al rumore del vento fischiante, delle montagne d’acqua che si rovesciano sulla mia testa, il rumore spaventevole delle onde, l’aspetto degli scogli mi annunciavano la morte, e la morte mi spaventava, e io facevo tutti gli sforzi per sfuggirla, e riunivo tutte le forze dell’uomo e tutta l’intelligenza del marinaio per lottare contro il cielo e il mare!… Ciò accadeva perché allora ero felice, perché ritornare alla vita, era un ritornare alla felicità, avveniva perché non avevo invocato la morte, non l’avevo scelta, avveniva perché il sonno mi sembrava duro sopra quel letto di alghe e di sassi; avveniva finalmente perché io, che mi credevo una creatura fatta a immagine di Dio, mi sdegnavo di dover servire dopo la mia morte da pasto alle foche e agli avvoltoi. Ma oggi è un’altra cosa. Ho perduto tutto ciò che poteva farmi amare la vita. Oggi la morte mi sorride come una nutrice al bambino che va cullando; ma oggi muoio a modo mio e mi addormento stanco e affranto, come mi addormenterei dopo una di quelle sere di disperazione e di rabbia nelle quali ho contato tremila giri intorno alla mia camera, cioè trentamila passi, vale a dire circa dieci leghe.»

Da quando questo pensiero era germogliato nello spirito del giovane, gli si fece più dolce e più ilare; si rassegnò meglio al suo letto, al suo pane nero; mangiò meno, non dormì più, e trovò quasi sopportabile quell’avanzo di esistenza che era certo di poter lasciare quando avesse voluto, come si lascia un vestito logoro.

Aveva due mezzi per morire: uno era semplice, bastava attaccare il fazzoletto alla sbarra della finestra e impiccarsi; l’altro consisteva nel fingere di mangiare e lasciarsi morire di fame. Il primo ripugnava molto a Dantès. Era stato allevato nell’orrore per i pirati appesi ai pennoni dei bastimenti.

L’impiccarsi dunque era per lui una specie di supplizio infamante che non voleva applicare a se stesso. Adottò il secondo, e ne cominciò l’esecuzione quel giorno stesso.

Circa quattro anni erano passati nelle traversie che raccontiamo.

Alla fine del secondo, Dantès aveva cessato di contare i giorni, ed era ricaduto nell’ignoranza del tempo, dalla quale era stato una volta liberato dall’ispettore.

Dantès aveva detto: «Io voglio morire», e si era scelto il suo genere di morte. Lo aveva bene esaminato, e per timore di retrocedere dalla sua decisione, aveva fatto giuramento a se stesso di morir così. «Quando mi verrà portato il pasto della mattina e il pasto della sera», aveva pensato, «getterò il cibo dalla finestra, e fingerò d’averlo mangiato.»

Eseguì quanto aveva promesso di fare. Due volte al giorno, per la piccola apertura sprangata che non gli lasciava scorgere il cielo, egli gettava i suoi viveri; sul principio con allegria, poi con riflessione, quindi con dispiacere. Dovette ricordarsi il giuramento, per avere la forza di continuare il suo terribile disegno.

Questi alimenti, che altre volte gli ripugnavano, la fame dai denti aguzzi glieli faceva comparire appetitosi allo sguardo e squisiti all’odorato. Qualche volta teneva per più di un’ora il piatto, con occhio fisso sopra quel pezzo di carne putrida o sopra quel pesce infetto, o sopra quel pane nero e ammuffito. Erano gli ultimi istinti della vita, che lottavano ancora in lui e che per un attimo minavano la sua risoluzione.

Allora il suo carcere gli sembrava meno disperante: era ancora giovane, poteva avere venticinque o ventisei anni, gli restavano forse ancora cinquant’anni. Durante questo tempo immenso, quanti avvenimenti potevano abbattere le porte, rovesciare le mura del Castello d’If, e rendergli la libertà! Allora avvicinava i denti al cibo che, Tantalo volontario, allontanava dalla sua bocca. Ma la memoria del giuramento gli tornava, e quella natura generosa aveva troppo timore di avvilire se stessa per mancare al giuramento. Consumò dunque, rigoroso e implacabile, il poco d’esistenza che gli restava, e venne il giorno che non ebbe più la forza di alzarsi per gettare dal finestrino della prigione la colazione che gli era stata portata.

Il giorno dopo non ci vedeva più, sentiva appena. Il carceriere sospettò una grave malattia.

Edmond sperava in una morte vicina.

La giornata passò così.

Edmond sentiva un vago stordimento, che non era privo di un certo benessere, vincerlo a poco a poco. Lo spasmo nervoso dello stomaco si era assopito, gli ardori della sete si erano calmati; allorché chiudeva gli occhi, vedeva brillare intorno una quantità di fiammelle uguali a quei fuochi fatui che corrono la notte sui terreni paludosi: era il crepuscolo di quel paese sconosciuto che si chiama morte.

D’un tratto, una sera verso le nove, intese un sordo rumore alla parete del muro contro la quale era steso.

Tanti animali immondi erano venuti in quella cella, che un poco alla volta Edmond aveva assuefatto il suo sonno a non turbarsi per così poco. Ma questa volta sia che i sensi fossero esaltati dall’astinenza, sia che realmente il rumore fosse più forte del solito, sia che in quest’ultimo e supremo momento tutto acquisti importanza, Edmond si agitò per questo rumore e sollevò la testa per meglio ascoltarlo. Era un graffiare che sembrava di un’unghia enorme, o d’un dente possente, o l’uso d’uno strumento su delle pietre.

Benché indebolito, il cervello del giovane fu colpito da quella vaga idea costantemente fissa nello spirito del prigioniero: la liberazione. Questo rumore giungeva così precisamente nel momento in cui ogni altro rumore andava a cessare per lui, che gli sembrò che Iddio si mostrasse alla fine placato delle sue sofferenze, e gli inviasse quel rumore per avvertirlo di fermarsi sull’orlo della tomba, su cui già vacillava il suo piede.

Chi poteva sapere se uno dei suoi amici, uno di quegli esseri prediletti ai quali aveva pensato spesso, non si occupasse di lui in quel momento e non cercasse di accorciare la distanza che li separava? Ma no, Edmond senza dubbio si sbagliava: non era che un sogno che fluttuava alla porta della morte.

Però Edmond sentiva sempre questo rumore.

Durò circa tre ore, poi Edmond intese una specie di crollo, dopo il quale il rumore cessò.

Qualche ora dopo riprese più forte e più vicino.

Edmond già prendeva interesse a questo lavoro che gli faceva compagnia: d’un tratto il carceriere entrò.

Da otto giorni aveva preso la risoluzione di morire, da quattro giorni aveva cominciato a metterla in pratica. Edmond non aveva più indirizzato la parola a quell’uomo, non rispondendogli nemmeno quando questi gli domandava di qual malattia si credeva affetto, e si voltava dalla parte del muro quando credeva di essere osservato troppo attentamente. Ma oggi il carceriere poteva intendere il sordo rumore, allarmarsene, mettervi fine e disturbare così forse quella speranza, la cui sola idea lusingava gli ultimi momenti di Dantès.

Il carceriere portava la colazione. Dantès si sollevò dal suo letto e alzando quanto più poteva la voce si mise a parlare di tutti gli argomenti possibili, sulla cattiva qualità dei viveri che gli portavano, sul freddo che si soffriva in quella segreta, mormorando e brontolando per aver diritto di gridare più forte, e stancando la pazienza del carceriere che proprio quel giorno aveva ottenuto per il prigioniero malato un brodo più sano e un pane più fresco, e che gli portava quel brodo e quel pane.

Fortunatamente credette che Dantès delirasse. Depose i viveri sulla tavola ove era abituato a depositarli e si ritirò. Edmond allora si rimise ad ascoltare con gioia.

Il rumore diveniva così distinto che ora il giovane lo udiva senza sforzo.

«Non ci sono più dubbi», disse a se stesso, «poiché questo rumore continua anche di giorno, è qualche prigioniero che lavora per la liberazione. Oh, fossi vicino a lui, come lo aiuterei!»

D’un tratto una tetra nube passò sopra quell’aurora di speranza in quel cervello abituato alla malasorte, e che non poteva attaccarsi che con somma difficoltà alle gioie umane: sorgeva l’idea che il rumore poteva essere causato dal lavoro di qualche operaio che il governo impiegava alle riparazioni di una cella vicina.

Era facile assicurarsene. Ma come arrischiare una domanda? Era cosa semplicissima aspettare l’arrivo del carceriere, fargli ascoltare questo rumore, e vedere come avrebbe reagito; ma prendersi una simile certezza non era tradire interessi preziosi per una soddisfazione incerta? La testa di Edmond, campana vuota, era assordata dal ronzio di un’idea, era così debole che il suo spirito fluttuava come un vapore e non poteva condensarsi attorno a un pensiero.

Edmond non vide che un mezzo per rendere chiarezza alla sua riflessione e lucidità al suo giudizio: guardò il brodo ancora fumante che il carceriere aveva deposto sulla tavola, si alzò, andò barcollando fino a quella, prese la tazza, la portò alle labbra, e inghiottì il liquido che conteneva, con una sensazione indicibile di benessere.

Ebbe anche l’accortezza di fermarsi: aveva inteso dire che alcuni naufraghi, raccolti, estenuati dalla fame, erano morti per avere divorato un pasto troppo sostanzioso. Depose sulla tavola il pane che teneva già vicino alla bocca, e andò a rimettersi sul letto. Edmond non voleva più morire.

Ben presto sentì che la vita rientrava nel suo cervello, tutte le idee vaghe e incerte riprendevano il loro posto in questa macchina meravigliosa. Egli poté pensare, e fortificare il suo pensiero col ragionamento.

Allora si disse: «Bisogna tentar la prova, ma senza compromettere alcuno. Se il lavoratore è un operaio, non dovrò che battere contro il mio muro allora egli cesserà subito di lavorare, per cercare d’indovinare chi è che batte e con quale scopo. Ma siccome il suo lavoro sarà non solamente lecito ma comandato, lo riprenderà ben presto. Se, al contrario, è un prigioniero, il rumore che farò, lo spaventerà; temerà di essere scoperto, tralascerà il lavoro e non lo riprenderà che questa sera quando crederà che ognuno sia a letto e addormentato».

Edmond si alzò di nuovo.

Questa volta, le sue gambe non vacillavano più, i suoi occhi non erano più abbagliati. Andò verso un angolo della prigione, staccò una pietruzza corrosa dall’umidità, e ritornò a battere tre colpi contro il muro nella stessa direzione in cui il rumore era più sensibile.

Dopo il primo colpo il rumore cessò come per incanto.

Edmond ascoltò con tutta l’anima sua. Passò un’ora, ne passarono due e nessun nuovo rumore si fece intendere.

Edmond aveva fatto nascere dall’altra parte della muraglia un assoluto silenzio. Pieno di speranza, mangiò qualche boccone del suo pane, bevette un po’ d’acqua e grazie alla forte costituzione di cui era dotato ritrovò ben presto l’energia perduta.

Passò la giornata, il silenzio durava sempre.

Venne la notte senza che ricominciasse il rumore.

«È un prigioniero», disse Edmond con una gioia indicibile.

Da quel momento la sua testa s’infervorò, la vita ritornò violenta e attiva. La notte passò senza che il minimo rumore si facesse sentire.

Edmond non chiuse occhio tutta la notte.

Ritornò il giorno; il carceriere rientrò portando il cibo.

Edmond aveva già divorato quelli del giorno innanzi, divorò pure questi. Ascoltava attentamente, temendo che il rumore fosse cessato per sempre, camminava avanti e indietro nella sua cella, scuoteva per ore intere le sbarre di ferro del suo spiraglio, rendeva l’elasticità e il vigore alle membra con un esercizio tralasciato da lungo tempo, disponendosi a lottare corpo a corpo col suo destino, come fa stendendo le braccia e spargendo il corpo d’olio il gladiatore che sta per entrare nell’arena.

Quindi, negli intervalli di questa febbrile attività, egli ascoltava se il rumore si rinnovava, s’impazientiva della previdenza di questo prigioniero che non indovinava che era stato distratto dalla sua opera da un altro prigioniero che aveva, perlomeno al pari di lui, la stessa fretta di essere liberato.

Tre giorni passarono, settantadue ore mortali, contate minuto per minuto! Finalmente una sera, dopo che il carceriere aveva fatto la sua visita, e dopo che per la centesima volta Dantès aveva attaccato l’orecchio al muro, gli sembrò che una scossa impercettibile si ripercuotesse sordamente nella sua testa, messa a contatto con le pietre silenziose.

Dantès indietreggiò per meglio raccogliere il suo pensiero agitato, fece qualche passo nella cella, e rimise l’orecchio nello stesso punto.

Non c’era dubbio, si lavorava dall’altra parte. Il prigioniero aveva riconosciuto il pericolo della sua manovra e ne aveva adottato certamente un’altra, e per continuare la sua opera con maggior sicurezza, aveva sostituito allo scalpello la leva.

Fatto ardito da questa scoperta, Edmond risolse di venire in aiuto all’infaticabile lavoratore.

Cominciò con lo spostare il suo letto, dietro il quale gli sembrava che l’opera di liberazione si compisse e cercò con gli occhi un oggetto con cui intaccare la muraglia, far cadere il cemento umido e spostare finalmente una pietra. Niente si presentava al suo sguardo, egli non aveva né coltello, né strumenti taglienti. Del ferro non ve n’era che alle sbarre. Ma le sbarre erano troppo bene assicurate, erano troppo solide e non valeva neppure la pena di provare a smuoverle.

Unici mobili della sua prigione erano il letto, una sedia, una tavola, un secchio e una brocca.

Il letto aveva le traverse di ferro; ma erano incastrate nel legno e fermate con delle viti. Sarebbe occorso un cacciavite per levare queste viti e prendere le traverse. Alla tavola e alla sedia niente. Il secchio una volta aveva il manico, ma questo era stato tolto.

Non restava più a Dantès che una risorsa, quella cioè di rompere la brocca, e coi pezzi di coccio mettersi al lavoro. Lasciò cadere la brocca sul pavimento, e la brocca andò in pezzi.

Dantès scelse due o tre pezzi aguzzi, li nascose nel suo pagliericcio, lasciò gli altri per terra. La rottura di una brocca era troppo naturale perché potesse destare sospetti.

Edmond aveva vegliato tutta la notte per lavorare, ma nell’oscurità la cosa era difficile, poiché bisognava lavorare a tastoni, e sentì ben presto che smussava il suo rozzo strumento contro una materia più dura di quello. Risospinse dunque il suo letto al suo posto, e aspettò il giorno. Con la speranza gli era tornata la pazienza.

Tutta la notte ascoltò, e capì che lo sconosciuto minatore continuava la sua opera sotterranea.

Venne il giorno, entrò il carceriere.

Dantès disse che il giorno innanzi nel bere gli era sfuggita dalle mani la brocca, che si era rotta cadendo.

Il carceriere andò brontolando a cercare una brocca nuova, senza neppure prendersi l’incomodo di portar via i cocci della vecchia.

Ritornò dopo un istante, raccomandò maggior precauzione al prigioniero, e uscì.

Egli ascoltò con una gioia indicibile lo stridere della serratura, che prima ogni volta che si chiudeva gli serrava il cuore. Ascoltò l’allontanarsi del rumore dei passi. Poi, quando questo rumore fu spento, balzò dalla sua cuccetta che spostò, e al debole raggio del giorno che penetrava nella sua cella, poté vedere gli inutili tentativi fatti nella notte precedente contro il corpo di una pietra, invece di lavorare sul cemento che la circondava.

L’umidità aveva reso il cemento friabile. Dantès, con un battito di allegrezza nel cuore, s’accorse che questo cemento si staccava a pezzetti. Questi pezzetti erano minuscoli, è vero; ma ciononostante, in capo a una mezz’ora, Dantès ne aveva staccato un bel pugno.

Un matematico avrebbe potuto calcolare che con due anni circa di questo lavoro, supponendo che non si fosse incontrato alcun pezzo di macigno, si poteva scavare un passaggio di sessanta centimetri quadrati e di sei metri di profondità.

Il prigioniero si rimproverò allora di non avere impiegato in quest’opera le lunghe ore trascorse, e che le aveva perdute nella speranza, nella preghiera e nella disperazione.

Dopo sei anni circa, dacché era chiuso in quel carcere, qual lavoro, per quanto fosse lento, non avrebbe potuto compiere? Questa idea gli infuse un nuovo ardore.

In tre giorni giunse, in mezzo a inaudite precauzioni, a togliere tutto il cemento e a mettere allo scoperto il macigno: il muro era formato di frantumi di pietra in mezzo ai quali per aumentare la solidità era, di tanto in tanto, posto un macigno. Fu uno di questi macigni, scoperto in tutto il suo contorno, che ora si trattava di togliere dal suo alveolo.

Dantès dapprima provò con le unghie, ma le sue unghie erano insufficienti. I frantumi della brocca, introdotti nelle connessure, si rompevano allorché Dantès voleva servirsene come leva.

Dopo un’ora di inutili tentativi, si rialzò col sudore dell’angoscia sulla fronte.

Stava forse per fermarsi sul principio, ovvero bisognava aspettare inerte e inutile il suo vicino, che forse si sarebbe anche egli stancato, prima di avere compiuto l’opera? Allora gli venne un’idea. Rimase in piedi sorridendo: la sua fronte, umida per il sudore, si asciugò.

Il carceriere portava tutti i giorni la minestra di Dantès in una casseruola di latta; questa casseruola conteneva la sua minestra e quella di un altro prigioniero. Dantès aveva notato che questa casseruola era sempre o interamente piena o piena a metà, secondo che il carceriere cominciava la distribuzione dei viveri da lui o dal suo compagno.

Questa casseruola aveva un manico di ferro. Era questo manico che Dantès anelava di avere, e che egli avrebbe pagato, se gli fosse stato chiesto, dieci anni della sua vita. Il carceriere versava il contenuto di questa casseruola nel piatto di Dantès. Dopo aver mangiato la sua minestra con un cucchiaio di legno, Dantès lavava questo piatto, che serviva così ogni giorno.

La sera Dantès pose il suo piatto per terra a metà strada fra la porta e la tavola; il carceriere entrando mise il piede sul piatto e lo ruppe in mille pezzi.

Questa volta non vi era niente da dire contro Dantès. Aveva fatto male a lasciare il suo piatto per terra, è vero, ma il carceriere aveva il torto di non aver guardato dove metteva i piedi.

Il carceriere si accontentò dunque di brontolare, poi guardò intorno a sé dove poteva mettere la minestra: il servizio da tavola di Dantès si limitava a quel solo piatto.

«Lasciate la casseruola», disse Dantès, «la riprenderete domani quando mi porterete la colazione.»

Questo consiglio andava d’accordo con la pigrizia del carceriere, che in tal modo non aveva bisogno di risalire, riscendere e tornare a risalire.

Lasciò la casseruola.

Dantès trasalì di gioia. Questa volta mangiò sollecitamente la minestra e la carne, che secondo l’uso delle prigioni, viene messa dentro alla minestra. Poi, dopo avere aspettato un’ora per esser certo che il carceriere non si sarebbe pentito, allontanò il letto, prese la casseruola, introdusse l’estremità del manico nel cemento, fra il macigno e i rottami di pietra vicini, e cominciò a farlo agire da leva.

Una leggera oscillazione assicurò Dantès che il lavoro prendeva buona piega.

Infatti in capo a un’ora la pietra era tolta dal muro, dove lasciava un buco del diametro di quarantacinque centimetri.

Dantès raccolse con molta cura il calcinaccio e lo portò negli angoli della cella, grattò la terra grigiastra con un frammento della brocca e ricoprì il calcinaccio di terra. Poi, volendo mettere a profitto quella notte, in cui lo stratagemma che aveva immaginato gli dava fra le mani un utensile così prezioso, continuò a scavare con tutta l’energia.

All’alba ripose la pietra nel suo foro, spinse il letto contro il muro e si coricò.

La colazione consisteva in un pezzo di pane: il carceriere entrò, e posò questo pezzo di pane sulla tavola.

«Ebbene, non mi portate un altro piatto?» domandò Dantès.

«No», disse il carceriere, «siete un rompitutto. Avete rotto la brocca, e rotto il piatto. Se tutti i prigionieri facessero tanti guai quanto voi il governo a causa vostra andrebbe in malora. Vi si lascia la casseruola dentro cui d’ora in avanti si verserà la vostra minestra, e in tal modo, forse,non romperete più utensili.»

Dantès levò gli occhi al cielo, e giunse le mani sotto la coperta.

Questo pezzo di ferro di cui restava padrone, fece nascere nel suo cuore uno slancio di riconoscenza verso il cielo, come mai gli era accaduto nel tempo della passata vita per tutti i benefici ottenuti. Soltanto aveva notato che dal momento in cui aveva cominciato a lavorare, l’altro prigioniero non lavorava più.

Non importa; non era una ragione per smettere. Se il vicino non progrediva verso di lui, lui sarebbe andato verso il suo vicino.

In tutta la giornata Dantès lavorò senza sosta; la sera, grazie al nuovo strumento, aveva levato dal muro più di dieci pugni di calcinacci e cemento.

Quando giunse l’ora della visita, raddrizzò alla meglio il manico della casseruola che aveva storto, e rimise il recipiente al posto consueto.

Il carceriere versò l’ordinaria razione di minestra e carne, o piuttosto di minestra e pesce, perché quello era un giorno di magro, e tre volte la settimana facevano mangiare di magro ai prigionieri.

Avrebbe potuto essere ancora un mezzo per misurare il tempo, se Dantès non avesse da molto abbandonato questo calcolo.

Versata la minestra, il carceriere si ritirò.

Questa volta Dantès volle assicurarsi se il suo vicino avesse cessato realmente di lavorare; e si mise in ascolto.

Tutto era silenzioso come in quei tre giorni nei quali fu interrotto il lavoro.

Dantès sospirò; era evidente che il suo vicino non si fidava di lui. Ciò nonostante non si perse di coraggio, e continuò a lavorare tutta la notte. Ma dopo due o tre ore di lavoro, incontrò un ostacolo: il suo ferro non intaccava più e scorreva sopra una superficie piana. Dantès toccò l’ostacolo con la mano, e s’accorse che aveva raggiunto una trave. Questa trave attraversava o piuttosto sbarrava del tutto il foro cominciato da Dantès. Ora bisognava scavare sopra o sotto. Il disgraziato giovane non aveva pensato a un simile ostacolo.

«Oh, mio Dio», esclamò, «avevo tanto pregato, che speravo mi aveste ascoltato! Mio Dio, dopo aver perduto la libertà della mia vita… mio Dio, dopo avere smarrito la calma della mente… mio Dio, dopo avermi richiamato all’esistenza… mio Dio, abbiate pietà di me, non mi lasciate morir disperato!»

«Chi parla di Dio e di disperazione nello stesso tempo?» articolò una voce che sembrava venire da sottoterra e che, attutita dallo spessore della parete, giungeva a Edmond con accento sepolcrale.

Edmond sentì drizzarsi i capelli sulla testa, indietreggiò cadendo in ginocchio.

«Ah», mormorò, «finalmente sento parlare un uomo!»

Erano già quattro o cinque anni che non aveva sentito parlare altri che il suo carceriere, e il carceriere non è considerato un uomo dal prigioniero ma una porta vivente aggiunta alla porta di quercia del suo carcere, o una sbarra di carne e d’ossa aggiunta alle sbarre di ferro.

«In nome del cielo», gridò Dantès, «voi che avete parlato, continuate a parlare, sebbene la vostra voce mi abbia spaventato. Chi siete?»

«Chi siete voi piuttosto?» domandò la voce.

«Un disgraziato prigioniero…» rispose Dantès, che non aveva alcuna difficoltà a farsi conoscere.

«Di quale paese?»

«Francese.»

«Il vostro nome?»

«Edmond Dantès.»

«La vostra professione?»

«Marinaio.»

«Da quanto tempo siete qui?»

«Dal 28 febbraio 1815.»

«Il vostro delitto?»

«Io sono innocente.»

«Ma di quale delitto siete accusato?»

«Di aver cospirato per il ritorno dell’imperatore.»

«Come, per il ritorno dell’imperatore? L’imperatore non è dunque più sul trono?»

«Egli ha abdicato a Fontainebleau nel 1814 ed è stato relegato all’isola d’Elba. Ma voi che ignorate tutto questo, da quanto tempo siete qui?»

«Dal 1811.»

Dantès rabbrividì; quell’uomo aveva quattro anni di prigionia più di lui.

«Ebbene, non scavate più», disse la voce, parlando in fretta, «soltanto ditemi a quale altezza si trova lo scavo che fate.»

«Rasente terra.»

«Da che cosa è nascosto?»

«Dal mio letto.»

«Hanno smosso mai il vostro letto da che siete in prigione?»

«Mai.»

«Dove immette la vostra cella?»

«A un corridoio.»

«E il corridoio?»

«Comunica con un cortile.»

«Ahimè!» mormorò la voce.

«Oh, mio Dio che cosa avete?» gridò Dantès.

«C’è che ho sbagliato, che l’imperfezione dei miei disegni mi ha ingannato, che la mancanza di un compasso mi ha perduto, che una linea sbagliata sul mio piano ha equivalso a quattro metri e mezzo e che io ho preso il muro che voi scavate per quello della cittadella.»

«Ma allora voi sareste uscito sul mare.»

«Era ciò che volevo!»

«E se foste riuscito?»

«Mi sarei gettato a nuoto, sarei approdato a una delle isole che circondano il castello d’If, sia l’isola di Daume, sia l’isola di Tiboulen, o ancora la spiaggia, e allora sarei stato salvo.»

«E avreste potuto nuotare fin là?»

«Dio me ne avrebbe dato la forza. Ma ora tutto è perduto!»

«Tutto?»

«Sì, richiudete il vostro foro con precauzione, non lavorate più, non vi occupate di niente, e aspettate mie notizie.»

«Ma almeno ditemi chi siete…»

«Sono… io sono il numero 27.»

«Voi dunque non vi fidate di me?» domandò Dantès. Edmond credette di intendere un amaro sorriso penetrare la volta e giungere fino a lui.

«Oh, io sono un buon cristiano», esclamò, indovinando per istinto che quell’uomo pensava di abbandonarlo. «Vi giuro per quanto c’è di più sacro, che mi farò piuttosto uccidere che far scoprire ai vostri carnefici e ai miei l’ombra della verità. In nome del cielo, non mi private della vostra presenza, non mi private della vostra voce, o, ve lo giuro, perché sono all’estremo delle mie forze, mi romperò la testa contro il muro, e voi avrete a rimproverarvi la mia morte.»

«Quanti anni avete?» riprese l’incognito interlocutore. «La vostra voce sembra quella di un giovane.»

«Non so quant’anni abbia perché non ho misurato il tempo dacché sono qui. So che il 18 febbraio 1815, quando fui arrestato, avevo diciannove anni.»

«Non ancora ventisei anni!» mormorò la voce. «A questa età non si può essere un traditore.»

«Oh, no, no… ve lo giuro», ripeté Dantès. «Ve l’ho già detto, e ve lo ridico: mi farei tagliare a pezzi piuttosto che tradirvi.»

«Avete fatto bene a parlarmi, avete fatto bene a pregarmi», riprese la voce, «perché avrei pensato un altro piano, e mi sarei separato da voi. Ma la vostra età mi tranquillizza; vi raggiungerò, aspettatemi.»

«E quando?»

«Bisogna che io calcoli i pericoli; vi farò un segnale.»

«Ma non mi abbandonerete, non mi lascerete solo, verrete da me, o mi permetterete di venire da voi? Noi fuggiremo assieme e, se non potremo fuggire, almeno parleremo, voi delle persone che amate, io di quelle che amo. Amate qualcuno?»

«Io sono solo al mondo.»

«Allora amerete me… Se siete giovane, sarò vostro compagno, se siete vecchio, sarò vostro figlio… Ho un padre che deve avere settant’anni se vive ancora; non amavo che lui, e una ragazza che si chiamava Mercedes. Mio padre non mi avrà certo dimenticato, ne sono sicuro, ma lei, Dio sa, se lei pensa ancora a me… Vi amerò come amavo mio padre…»

«Sta bene», disse il prigioniero; «addio, a domani.»

Queste poche parole furono dette con un accento che convinse Dantès. Non chiese di più, si alzò, prese le solite precauzioni per i calcinacci tolti dal muro, e rimise il letto al suo posto. Da quel momento Dantès si abbandonò del tutto alla sua felicità, pensando che non sarebbe stato certamente più solo, fors’anche sarebbe stato libero. Al peggio fosse rimasto prigioniero, avrebbe avuto un compagno. La prigionia divisa non è che un mezzo castigo. I lamenti che si emettono in comune sono quasi preghiere, e le preghiere che si fanno in due sono atti di ringraziamento.

Per tutta la giornata Dantès passeggiò nella sua cella: il cuore gli batteva di gioia. Di tanto in tanto questa gioia lo soffocava. Si sedeva sul letto premendosi con una mano il petto. Al più piccolo rumore che sentiva nel corridoio, balzava alla porta. Una volta o due, il timore che lo avessero separato da quell’uomo che non conosceva, e che già amava come un amico, gli passò per il cervello. Allora era deciso: al momento che il carceriere avesse scostato il suo letto e abbassata la schiena per esaminare l’apertura, gli avrebbe fracassato la testa su quello stesso pavimento dove aveva rotto la brocca. Sarebbe stato condannato a morte, lo sapeva, ma non stava forse per morire di noia e di disperazione nel momento in cui questo rumore miracoloso lo aveva reso alla vita?

La sera venne il carceriere. Dantès era steso sul letto; gli pareva che così avrebbe meglio fatto la guardia alla sua apertura. Senza dubbio guardava il suo visitatore importuno con uno sguardo stravagante, perché questi gli disse: «Oh, vediamo! State per tornar pazzo?»

Dantès non rispose, ebbe paura che l’emozione della voce lo tradisse.

Il carceriere si ritirò scuotendo la testa.

Giunta la notte, Dantès pensò che il suo vicino avrebbe approfittato del silenzio e dell’oscurità per riprendere il dialogo, ma s’ingannò.

La notte passò senza che alcun rumore rispondesse alla sua febbrile aspettativa. Ma l’indomani, dopo la visita del mattino, e mentre aveva allontanato il suo letto dal muro, sentì battere tre colpi distinti a intervalli uguali. Si precipitò in ginocchio.

«Siete voi?» disse. «Eccomi.»

«Il vostro carceriere se n’è andato?» domandò la voce.

«Sì», rispose Dantès, «non ritornerà che questa sera… Abbiamo dodici ore di libertà!»

«Posso dunque agire?» disse la voce.

«Sì! Sì! Sì! senza indugio, sull’istante, ve ne supplico!»

La porzione di terra sulla quale Dantès, per metà introdotto nell’apertura, appoggiava le mani, sembrò cedere. Si gettò indietro mentre un ammasso di terra e di calcinacci precipitò nel foro che veniva ad aprirsi sotto lo scavo da lui fatto. Allora, dal fondo di questo foro oscuro, e di cui non si poteva misurare la profondità, vide apparire una testa, poi due spalle e finalmente un uomo tutto intero che uscì con molta agilità.

16. L’abate

Dantès accolse tra le braccia il nuovo amico aspettato da tanto e con così tanta impazienza, e lo tirò verso la finestra, in modo che quel poco di luce che penetrava nel carcere potesse illuminarlo.

Vide un uomo di piccola statura, dai capelli imbiancati piuttosto dai pensieri che dall’età, dagli occhi penetranti, nascosti sotto folte sopracciglie grigie, con la barba ancora nera che gli arrivava fino al petto: la magrezza del viso, solcato da profonde rughe, le forti linee della sua fisionomia, svelavano un uomo più atto a esercitare le sue facoltà morali che le forze fisiche. La fronte era coperta di sudore. Quanto alle vesti era impossibile distinguerne la forma primitiva poiché cadevano a brandelli. Pareva avere sessantacinque anni almeno, sebbene una certa vigoria nei movimenti tradisse un’età minore di quella che denunciava la lunga prigionia.

Accettò con molto piacere l’entusiasmo del giovane. La sua anima di ghiaccio sembrò un istante riscaldarsi, quasi dilatarsi al contatto di quella natura ardente. Lo ringraziò della sua cordialità con un certo calore, sebbene il disinganno fosse stato grande; ritrovare un’altra cella laddove credeva di trovare la libertà.

«Per prima cosa», disse, «controlliamo se c’è mezzo di fare sparire alla vista dei nostri carcerieri le tracce del mio passaggio. Tutta la nostra tranquillità futura dipende dalla loro ignoranza di ciò che abbiamo fatto.» Quindi si chinò verso l’apertura, sollevò facilmente la pietra nonostante il suo peso, e la pose davanti al foro. «Questa pietra è stata spostata con molta negligenza», disse scuotendo la testa. «Voi dunque non avete utensili?»

«E voi?» domandò Dantès con sorpresa. «Ne avete voi?»

«Me ne sono fabbricato qualcuno. Eccetto una lima, ho tutto ciò che mi serve: scalpello, coltello e leva.»

«Oh, sarei ben curioso di vedere questi prodotti della vostra pazienza e della vostra industria», disse Dantès.

«Prendete, ecco lo scalpello.» Gli mostrò una lama forte e aguzza infissa in un pezzo di legno arrotondato.

«E con che l’avete fatto?» disse Dantès.

«Con una delle traverse del mio letto; è con questo strumento che mi sono scavato tutta la galleria che mi ha portato fin qui: circa quindici metri.»

«Quindici metri!» esclamò Dantès, con una specie di terrore.

«Parlate piano, ragazzo, parlate piano», disse lo sconosciuto guardandosi intorno. «Spesso accade che alle porte delle prigioni si stia in ascolto.»

«Ma si sa che io son solo.»

«Non m’importa!»

«E dite che avete scavato quindici metri per giungere qui?»

«Sì, questa è circa la distanza che separa la mia cella dalla vostra. Soltanto ho mal calcolato la curva, per mancanza di strumenti geometrici, per potere fare una scala di proporzioni: in luogo di dodici metri di ellissi, ne ho incontrati quindici. Ritenevo, come vi dissi ieri, di giungere sino all’esterno, traforare questo muro, e gettarmi a mare. Ho seguito la lunghezza del corridoio che mette nella vostra cella invece di passarvi sotto. Tutto il mio lavoro è perduto, poiché questo corridoio dà in un cortile pieno di guardie.»

«Questo è vero», disse Dantès, «ma tale corridoio non segue che un lato della mia cella che ne ha quattro.»

«Certo, non c’è dubbio. Ma uno è formato dallo scoglio: occorrerebbero dieci anni di lavoro o dieci minatori forniti di tutti gli utensili per traforare la roccia. Quest’altro deve essere addossato alle fondamenta dell’appartamento del governatore: usciremmo nelle cantine che certamente sono chiuse a chiave, e saremmo presi. L’altro lato dà… aspettate… dove dà quest’altro lato?»

Si trattava del lato in cui era scavata la feritoia, attraverso cui penetrava la luce. Questa feritoia, che andava restringendosi fino al punto in cui dava passaggio al giorno, e per cui nemmeno un bambino avrebbe potuto passare, era per di più fornita di tre sbarre di ferro che potevano rassicurare il carceriere più sospettoso sul timore di una evasione.

Ma il nuovo arrivato, facendo questa domanda, trascinò la tavola sotto la finestra.

«Salite sopra questa tavola», disse a Dantès.

Dantès obbedì, salì sulla tavola, e indovinando il pensiero del compagno, appoggiò le spalle al muro e gli presentò le due mani incrociate. Il compagno montò allora più lestamente di quello che avrebbe potuto far credere la sua età, e con un’agilità da gatto, balzò sulla tavola, poi dalla tavola sulle mani di Dantès, quindi dalle mani sulle sue spalle. Così curvato in due, perché la volta del carcere gli impediva di drizzarsi, introdusse la testa tra le sbarre e poté allora fissare il suo sguardo dall’alto in basso. Un istante dopo, ritirò rapido la testa.

«Oh! oh!» disse, «è come pensavo.» E si lasciò scivolare lungo il corpo di Dantès sulla tavola e dalla tavola balzò a terra.

«Ovvero?» domandò Edmond saltando dalla tavola dopo di lui.

Il vecchio prigioniero meditava.

«Sì», disse, «è così: il quarto lato della vostra cella dà sopra una galleria esterna, una specie di strada di perlustrazione per la quale passano le pattuglie, e dove sono poste le sentinelle.»

«Ne siete sicuro?»

«Ho visto il cappello del soldato e la punta della sua baionetta, e non per altro mi sono ritirato così in fretta.»

«E così?» disse Dantès.

«E così, voi vedete bene, che è impossibile fuggire da questo carcere.»

«Allora?» continuò il giovanotto con un mesto accento interrogativo.

«Allora», disse il vecchio prigioniero, «sia fatta la volontà di Dio!»

E un’aria di profonda rassegnazione indurì i lineamenti del vecchio.

Dantès guardò quell’uomo che rinunciava in tal modo e con tanta filosofia a una speranza nutrita per lungo tempo, con una sorpresa mista ad ammirazione.

«Volete dirmi chi siete?» domandò Dantès.

«Oh, mio Dio, sì, se ciò vi può interessare, ora che non posso più esservi utile.»

«Voi potete consolarmi e sostenermi, poiché mi sembrate forte in mezzo ai forti.»

L’abate sorrise tristemente.

«Io sono Faria», disse, «prigioniero dal 1811, come vi ho detto, in questo castello d’If; ma erano già tre anni che mi si teneva rinchiuso nella fortezza di Fenestrelle. Nel 1811 fui trasferito dal Piemonte in Francia. Allora seppi che il destino, in quell’epoca sorridente a Napoleone, gli aveva concesso un figlio al quale era stato dato il titolo di re di Roma. Ero ben lontano dal dubitare allora ciò che mi avete detto ieri; cioè che quattr’anni dopo, questo gran colosso sarebbe stato rovesciato. E chi regna adesso in Francia? Forse Napoleone II?»

«No è Luigi XVIII.»

«Luigi XVIII! Il fratello di Luigi XVI? I decreti del cielo sono ben reconditi e misteriosi! Qual è dunque la mente della Provvidenza, quando abbassa l’uomo che aveva esaltato, ed esalta quello che aveva abbassato?»

Dantès seguiva con lo sguardo quell’uomo che dimenticava un istante il proprio destino, per preoccuparsi così dei destini del mondo.

«Sì, sì», continuò, «è come in Inghilterra: dopo Carlo I, Cromwell, dopo Cromwell Carlo II, e forse dopo Giacomo II, un principe d’Orange… I segreti di Dio sono imperscrutabili, e la serie delle umane vicende imprevedibile. Voi siete ancora giovane, e potrete vedere…»

«Sì, se esco di qui.»

«Ah, giusto», disse Faria, «noi siamo prigionieri; qualche volta lo dimentico, perché i miei occhi penetrano al di fuori di queste muraglie, e io mi credo libero.»

«Ma voi, perché siete in prigione?»

«Perché ho sognato nel 1807 il progetto che Napoleone ha tentato di realizzare nel 1811.»

E il vecchio abbassò la testa.

Dantès non capiva come un uomo poteva rischiare la sua vita per simili interessi. È vero però che, se egli conosceva Napoleone per avergli parlato una volta, non sapeva quali fossero stati i suoi progetti.

«Non siete voi… l’abate malato?» domandò Dantès che cominciava a condividere l’opinione generale che si aveva di lui nel castello d’If.

«Malato? Pazzo vorrete dire, che come tale son tenuto in questo luogo…»

«Non osavo dirlo», disse Dantès sorridendo.

«Sì, sì», continuò Faria con un amaro sorriso, «sono io che tutti dicono pazzo; sono io che diverto da lungo tempo gli ospiti di questa prigione, e che rallegrerei i bambini, se vi fossero bambini nel soggiorno del dolore senza speranza.»

Dantès rimase un istante immobile e muto.

«Così ora rinunciate alla fuga?» disse.

«Credo che la fuga sia impossibile, un rivoltarsi contro Dio tentando ciò che Dio non vuole si compia.»

«Perché scoraggiarvi? Sarebbe troppo domandare alla Provvidenza di riuscire al primo tentativo! Non potete ricominciare da un’altra parte ciò che avete fatto da questa?»

«Ma sapete ciò che ho fatto, per parlare di ricominciare? Sapete che mi sono occorsi quattro anni per fabbricare gli utensili che possiedo? Che da due anni io gratto, raspo e foro una terra dura come il granito? Sapete che è stato necessario rompere delle pietre tali che mai avrei creduto di essere capace a muovere? Che giornate intere sono passate in questo lavoro gigantesco, e certe sere mi ritenevo felice solo per aver potuto levare tre centimetri di vecchio cemento divenuto duro quanto la pietra stessa? Sapete che per riporre tutta questa terra, tutti questi calcinacci, e queste pietre che spostavo, dovetti fare un’apertura sotto la volta di una scala, nel cui vano ho nascosto tutto quanto scavavo dal foro, e ora questo vano è pieno e non saprei più dove mettere un pugno di polvere? Sapete, infine, che credevo di arrivare al termine d’un lavoro per cui sentivo appena le forze per compierlo, ed ecco che Dio non solo ha allontanato la meta, ma l’ha spostata non so dove? Ve l’ho detto, e ve lo ripeto, d’ora innanzi non farò più niente per tentare di riacquistare la libertà, poiché vedo chiaro che la volontà di Dio è ch’io rimanga qui per sempre.»

Edmond abbassò la testa per non confessare a quell’uomo che la gioia di avere un compagno, gli impediva di prendere la parte dovuta al dolore del prigioniero per non essersi potuto salvare.

Faria si lasciò andare sul letto di Edmond, e Edmond rimase in piedi.

Il giovane non aveva mai pensato alla fuga. Vi sono di quelle cose che sembrano talmente impossibili, che non si ha neppure l’idea di tentarle e si evitano come per istinto. Scavare quindici metri sottoterra, consacrare a questa operazione un lavoro di due anni per giungere, se va bene, sopra un precipizio a picco sul mare; precipitarsi da quindici, diciotto, trenta metri d’altezza, per fracassarsi forse sopra uno scoglio, se la pallottola di una sentinella non vi ha colto prima; essere obbligato, giungendo a superare tutti questi pericoli, a fare una lega nuotando, tutto ciò era troppo, perché uno non si rassegnasse, e noi abbiamo visto che Dantès aveva già spinto questa rassegnazione fino alla morte.

Ma ora che il giovane aveva visto un vecchio attaccarsi alla vita con tanta energia e dargli l’esempio delle risoluzioni disperate, si mise a riflettere e a misurare il suo coraggio. Un altro aveva tentato ciò che egli non aveva avuto neppure l’idea di pensare, un altro meno giovane, meno forte, meno abile di lui, si era procurato a forza di operosità e pazienza tutti gli strumenti che gli occorrevano per quella incredibile operazione, fallita solo per una misura mal calcolata; un altro aveva fatto tutto ciò, niente dunque doveva essere impossibile a Dantès.

Faria aveva scavato quindici metri nel muro, egli ne avrebbe scavati trenta; Faria a cinquant’anni aveva impiegato due anni per il suo lavoro, egli che non aveva la metà degli anni di Faria, ne avrebbe impiegati quattro; Faria abate, dotto, non aveva timore di rischiare la traversata dal castello d’If all’isola di Daume, di Ratonneau o di Lemaire; Edmond marinaio, Dantès, l’ardito nuotatore che era stato tante volte a cercare coralli nel fondo del mare, esiterebbe dunque a fare una lega nuotando? Quanto tempo occorre per fare una lega nuotando? Un’ora. Ebbene, non era stato tante volte ore intere in mare senza toccar riva? No, no, Dantès non aveva bisogno che di essere incoraggiato dall’esempio; Dantès avrebbe fatto tutto ciò che un altro aveva fatto, o avrebbe potuto fare.

Edmond rifletté un istante.

«Io ho trovato ciò che voi cercate…» disse al vecchio.

Faria rabbrividì.

«Voi?» disse, rialzando la testa in modo che faceva capire che, se Dantès diceva la verità, lo scoraggiamento del suo compagno non sarebbe stato di lunga durata. «Voi? Vediamo, dunque, cosa avete trovato.»

«Il corridoio che avete fiancheggiato per venire dalla vostra cella fin qui, è parallelo alla galleria esterna, non è vero?»

«Sì.»

«Non deve dunque esserne lontano che una quindicina di passi?»

«A dir molto.»

«Ebbene, verso la metà del corridoio noi faremo un passaggio che lo attraversi a guisa di croce. Questa volta voi prenderete meglio le vostre misure e noi sboccheremo nella galleria, uccideremo la sentinella, e ce ne andremo. Perché questo piano riesca non ci vuole che coraggio, e voi ne avete; vigore, e io non ne manco; di pazienza non parlo, voi avete dato le vostre prove, io darò le mie.»

«Un momento», rispose Faria, «voi non sapete, mio caro compagno, di qual genere è il mio coraggio e qual uso io conti di fare della mia forza; quanto alla pazienza, io credo di essere stato abbastanza paziente ricominciando ogni mattina il lavoro di ogni notte, e ogni notte il lavoro del giorno. Ma allora, ascoltatemi bene, ragazzo mio, era perché mi sembrava che avrei servito Dio liberando una delle sue creature, che essendo innocente, non aveva potuto essere condannata.»

«Ebbene», domandò Dantès, «la cosa è allo stesso punto. Vi ritenete forse colpevole da che mi avete incontrato? Ditelo…»

«No, ma non voglio diventarlo. Fin qui credevo di avere a che fare con le cose, ora mi proponete di avere a che fare con gli uomini. Ho potuto traforare un muro e distruggere una scala, ma non potrei trafiggere un petto, né estinguere un’esistenza.»

Dantès ebbe un leggero moto di sorpresa.

«Come», disse, «potendo diventar libero, ve ne asterreste per un simile scrupolo?»

«E voi», disse Faria, «perché non avete una sera ucciso il carceriere con una gamba del vostro tavolino, e rivestito dei suoi abiti non avete tentato di fuggire?»

«Perché non me n’è venuta l’idea», disse Dantès.

«È perché voi sentite per un simile delitto un tale orrore istintivo, che non ci avete nemmeno pensato», rispose il vecchio, «perché nelle cose semplici e permesse i nostri naturali istinti ci avvertono che non usciamo dalla linea del nostro dovere. La tigre che versa il sangue per natura, non ha bisogno che di una cosa ed è che il suo odorato l’avverta che vi è una preda alla sua portata, si lancia verso questa preda, vi piomba sopra e la sbrana: questo è il suo istinto, lei obbedisce… Ma all’uomo, al contrario, ripugna il sangue: non solo le leggi sociali condannano l’omicidio, sono le leggi naturali che lo rigettano.»

Dantès era confuso. Ciò spiegava perfettamente quanto era passato nella sua anima a sua insaputa.

«E poi», continuò Faria, «da dodici anni circa che sono in prigione, ho riesaminato tutte le più celebri evasioni; le violente non sono riuscite che molto raramente. Le evasioni fortunate, le evasioni coronate da pieno successo, sono quelle meditate con giudizio e preparate con lentezza. Fu così che il duca di Beaufort fuggì dal castello di Vincennes, l’abate Duboquoi dal forte L’Evêque, e Latude dalla Bastiglia. Vi sono inoltre quelle che possono essere offerte dal caso; queste sono le migliori. Aspettiamo un’occasione, credetemi, e se questa occasione si presenta, approfittiamone.»

«Voi avete potuto aspettare», disse Dantès sospirando. «Questo lungo lavoro vi teneva occupato in tutti gli istanti, e quando voi non avevate lavoro per distrarvi, avevate le vostre speranze per consolarvi.»

«È vero», disse Faria sorridendo, «e d’altronde avevo un’altra occupazione.»

«Che facevate dunque?»

«Studiavo o scrivevo.»

«Vi davano dunque carta, penne e inchiostro?»

«No, ma li facevo.»

«Voi facevate carta, penne e inchiostro?» esclamò Dantès, incredulo.

«Sì.»

Dantès guardò quell’uomo con ammirazione; ma stentava a credere ciò che diceva. Faria si accorse di questo dubbio.

«Quando verrete a trovarmi», disse, «vi mostrerò un’opera intera, risultato dei pensieri, delle ricerche e delle riflessioni di tutta la mia vita, opera che avevo meditato all’ombra del Colosseo di Roma, ai piedi della colonna di San Marco a Venezia, sulle rive dell’Arno a Firenze, e non avrei mai pensato che i miei carcerieri mi avrebbero un giorno lasciato eseguire fra le quattro mura del castello d’If. È un’opera eminentemente filosofica che formerà un grosso volume in-quarto.»

«E voi l’avete scritta?»

«Sopra due camicie. Ho inventato un liquido che rende la tela liscia come la pergamena.»

«Siete un chimico?»

«Un poco. Ho conosciuto Lavoisier e sono stato amico di Cabanis.»

«Ma per una simile opera avreste dovuto consultare molti autori. Avevate dunque dei libri?»

«A Roma avevo quasi cinquemila volumi nella mia biblioteca, e a furia di leggere e di rileggere, ho scoperto che con centocinquanta opere ben scelte si ha, se non il riassunto completo delle umane cognizioni, almeno tutto ciò che è utile all’uomo sapere. Ho consacrato tre anni della mia vita a leggere e rileggere questi centocinquanta volumi, di modo che li sapevo a memoria quando fui arrestato. Con un leggero sforzo, me li sono richiamati tutti alla mente e ora potrei quasi recitarvi alla lettera Senofonte, Plutarco, Tito Livio, Tacito, Strada, Dante, Montaigne, Shakespeare, Spinoza, Machiavelli e Bossuet, e non vi cito che i più importanti.»

«Dunque conoscete diverse lingue?»

«Parlo cinque lingue viventi: il tedesco, il francese, l’italiano, l’inglese e lo spagnolo; con l’aiuto del greco antico comprendo bene il greco moderno; solo lo parlo male, ma lo studio adesso.»

«Lo studiate?» disse Dantès.

«Sì, mi sono fatto un dizionario delle parole che sapevo; le ho combinate, girate e rigirate in modo che esse possano bastare per esprimere il mio pensiero. Conosco circa mille parole; a rigore sono abbastanza, sebbene ve ne siano centomila, credo, nel dizionario. Non sarei eloquente, ma mi farei capire benissimo, e ciò mi basta.»

Edmond, sempre più meravigliato, cominciava quasi a trovare soprannaturali le facoltà di quell’uomo straordinario. Volendo coglierlo in fallo in qualcosa, continuò: «Ma se non vi hanno dato delle penne», disse, «come avete potuto scrivere un’opera così voluminosa?»

«Ne ho fatte di eccellenti, che sarebbero preferite alle penne ordinarie, quando fosse nota la materia che uso, cioè le cartilagini delle teste di quei grossi merluzzi che qualche volta ci danno nei giorni di magro. Io vedevo giungere i mercoledì, i venerdì e i sabati con grandissimo piacere, perché essi mi davano la speranza d’aumentare la mia provvista di penne; e i miei lavori filosofici, ve lo confesso, sono la mia più cara occupazione. Pensando al passato, dimentico il presente, e camminando nella filosofia, dimentico di esser prigioniero.»

«Ma l’inchiostro?» disse Dantès. «Con cosa facevate l’inchiostro?»

«Nella mia cella c’era un tempo un caminetto murato poco prima del mio arrivo in prigione. Per molti anni vi si è dovuto far fuoco per tutto l’inverno, per cui è tutto coperto di fuliggine. Io faccio sciogliere questa fuliggine in una porzione di quel vino che ci danno la domenica e ciò mi serve da eccellente inchiostro per tutta la settimana. Per le note particolari, che hanno bisogno di essere distinte e scorte subito, mi pungo le dita e scrivo col mio sangue.»

«E quando potrò vedere tutto questo…?» domandò Dantès.

«Quando vorrete…» rispose Faria.

«Oh, subito! Subito!» esclamò il giovane.

«Seguitemi dunque…» disse Faria.

Egli s’infilò nel cunicolo sotterraneo, entro cui disparve; Dantès lo seguì.

17. La cella dell’abate

Dopo che fu passato, stando curvo ma con relativa facilità, attraverso il passaggio sotterraneo, Dantès arrivò all’estremità opposta del corridoio che immetteva nella cella dell’abate. Là il passaggio si restringeva, presentando appena lo spazio sufficiente perché un uomo potesse strisciarvi aggrappandosi.

La cella del nuovo amico aveva il pavimento lastricato di pietre quadrate, e sollevando una di queste pietre in un angolo, il più oscuro della stanza, si vedeva dove Faria aveva cominciato la laboriosa fatica, di cui Dantès aveva visto la fine. Ricollocata la pietra al suo posto, Faria vi stendeva sopra un pezzo di vecchia stuoia e questa precauzione bastava a nasconderla agli occhi dei carcerieri.

Non appena entrato e rizzatosi in piedi, il giovane esaminò quella cella misteriosa con la più grande attenzione. Al primo sguardo, non presentava niente di particolare.

«Bene», disse Faria, «non è che mezzogiorno e un quarto, e abbiamo ancora qualche ora per noi.»

Dantès guardò intorno cercando a quale orologio Faria aveva potuto legger l’ora in un modo così preciso.

«Vedete il raggio di luce che ci viene incontro dalla mia finestra», disse Faria, «guardate sul muro le linee che vi ho tracciato.»

A Dantès questa spiegazione non riusciva chiara. Vedendo il sole alzarsi dietro le montagne e tuffarsi nel Mediterraneo, aveva sempre creduto che fosse quello che si muovesse, e non la terra. Tale doppio movimento del globo da lui abitato, e di cui non si accorgeva, gli sembrava quasi impossibile. In ciascuna parola del suo interlocutore vedeva misteri di scienza così ammirabili e approfonditi, quanto quelle miniere d’oro e di diamanti che aveva visitato in un viaggio fatto, mentre era ancora quasi bambino, a Gizerate e a Golgonda.

«Vediamo», disse a Faria, «sono ansioso di esaminare i vostri tesori.»

Faria si mosse verso il caminetto, e con lo scalpello, che teneva sempre in mano, spostò la pietra che in passato era servita da focolare e che nascondeva una cavità abbastanza profonda; in questa cavità stavano rinchiusi tutti gli oggetti di cui aveva parlato a Dantès.

«Che cosa volete vedere per primo?» domandò.

«Mostratemi la vostra grande opera filosofica.»

Faria estrasse dal prezioso armadio tre o quattro rotoli di tela arrotolati come fogli di papiro; erano strisce larghe circa dieci centimetri, e lunghe circa quarantacinque. Tali strisce, numerate, erano coperte da una scrittura che Dantès poté leggere perché vergate nella lingua materna di Faria, vale a dire in italiano, idioma che Dantès comprendeva perfettamente nella sua qualità di provenzale.

«Vedete», disse, «è tutto qui: sono circa tre giorni che ho scritto la parola fine nella sessantottesima striscia. Due delle mie camicie e tutti i miei fazzoletti vi sono impiegati; se un giorno tornassi libero e potessi trovare in Italia uno stampatore per pubblicarla la mia reputazione sarebbe fatta.»

«Sì», rispose Dantès, «lo vedo bene. Ora mostratemi, ve ne prego, le penne con cui avete scritto quest’opera.»

«Eccole…» disse Faria.

E mostrò un bastoncino lungo quindici centimetri, grosso quanto un manico di pennello, e attorno a una delle estremità era legata con un filo una di quelle cartilagini, ancora macchiata d’inchiostro, di cui Faria aveva parlato a Dantès, tagliata a becco, e con una fessura come una penna ordinaria.

Dantès l’esaminò, cercando con lo sguardo lo strumento col quale era stata tagliata in un modo così preciso.

«Ah sì», disse Faria, «il temperino, non è vero? È il mio capolavoro; l’ho fatto come questo coltello, col vecchio candeliere di ferro.»

Il temperino tagliava come un rasoio. Quanto al coltello aveva il doppio vantaggio di poter servire a un tempo, a seconda del bisogno, da coltello e da pugnale.

Dantès esaminò questi differenti oggetti con la stessa attenzione che avrebbe usata in una bottega di chincaglierie a Marsiglia.

Aveva esaminato altre volte eguali strumenti eseguiti dai selvaggi e portati dai mari del Sud dai capitani di lungo corso.

«In quanto all’inchiostro», disse Faria, «sapete quale metodo impiego, lo faccio quando ne ho bisogno.»

«Ciò di cui mi meraviglio è», disse Dantès, «che vi siano bastati i giorni per questi lavori.»

«Ma avevo le notti», rispose Faria.

«Le notti! Siete dunque della natura dei gatti e ci vedete chiaro anche la notte?»

«No, ma Iddio ha dato all’uomo l’intelligenza per venire in aiuto alla povertà dei suoi sensi: mi sono procurato della luce.»

«E come?»

«Dalla carne che ci portano separai il grasso, lo feci fondere e ne cavai una specie di olio compatto. Guardate, ecco qua la mia bugia.» E Faria mostrò a Dantès una specie di lanterna uguale a quelle che si adoperavano per illuminare le vie.

«Ma il fuoco?»

«Ecco delle pietruzze e della tela bruciata.»

«Ma gli zolfanelli?»

«Ho finto di avere una malattia cutanea, e ho domandato dello zolfo che mi è stato accordato.»

Dantès depose sulla tavola gli oggetti che teneva in mano, e abbassò la testa, avvilito davanti alla perseveranza e alla forza di quello spirito.

«Questo non è tutto», continuò Faria, «poiché non bisogna mettere tutti i tesori in un solo nascondiglio; chiudiamolo ora, questo.»

Rimessa la pietra al suo posto, Faria vi sparse sopra un po’ di terra, vi strisciò il piede per fare sparire ogni traccia, avanzò verso il suo letto e lo spostò. Dietro al capezzale, nascosto con una pietra che lo chiudeva quasi ermeticamente, c’era un foro, e in questo foro una scala di corda lunga circa nove metri. Dantès l’esaminò, era di una solidità a tutta prova.

«Chi vi ha fornito la corda necessaria a quest’opera meravigliosa?» domandò Dantès.

«Dapprima qualche camicia, poi qualche lenzuolo del mio letto sfilato nei tre anni di prigionia a Fenestrelle. Quando sono stato trasferito al castello d’If ho trovato il mezzo di portare queste filacce; e ho continuato il mio lavoro.»

«Ma non si accorgevano che le vostre lenzuola erano senz’orlo?»

«Le ricucivo.»

«Con che?»

«Con quest’ago.»

E Faria alzando una falda del suo abito, mostrò una spina lunga, acuta e ancora affilata che vi portava attaccata.

«Sì», continuò Faria, «dapprima avevo pensato di svellere queste sbarre, e fuggire dalla finestra, un poco più larga della vostra, come voi vedete, e che avrei allargata di più all’istante della mia evasione; ma mi accorsi che dava in un cortile interno, e rinunciai a questo progetto essendo troppo rischioso. Ciò nonostante conservai la scala per una di quelle circostanze impreviste, per una di quelle evasioni di cui vi ho parlato e che solo il caso qualche volta procura.»

Dantès, mentre sembrava che esaminasse la scala, pensava a tutt’altra cosa; un’idea gli si era affacciata alla mente. Quell’uomo così intelligente, così ingegnoso, così profondo avrebbe potuto forse chiarire la causa della sua infelicità, nella quale egli non aveva mai potuto scorgere nulla.

«A che cosa pensate?» domandò Faria ridendo e prendendo la distrazione di Dantès per un eccesso di ammirazione.

«Pensavo a una cosa, alla quantità enorme d’intelletto che avete dovuto impiegare per giungere al punto a cui siete arrivato. Che avreste dunque fatto se foste stato libero?»

«Forse niente. Il mio cervello è troppo pieno, e forse sarebbe evaporato in cose futili; occorre la disgrazia per scavare certe miniere misteriose nascoste nell’umano intelletto; occorre la pressione per far scoppiare la polvere… La prigionia ha riunito in un solo punto tutte le mie facoltà fluttuanti e urtandosi esse in un angusto spazio, come nello scontro delle nuvole, provocano l’elettricità, dall’elettricità il lampo, dal lampo la luce.»

«No, io non so niente», disse Dantès avvilito dalla propria ignoranza, «una quantità delle vostre parole per me sono vuote di senso, voi siete ben felice di essere così istruito!»

L’abate sorrise.

«Voi pensavate a due cose, mi diceste poco fa? Ma non mi avete fatto conoscere che la prima; qual è la seconda?»

«Che voi mi avete raccontato la vostra vita, e io non vi ho raccontato la mia.»

«La vostra vita, caro ragazzo, è tanto breve che non può racchiudere avvenimenti di grand’importanza.»

«Essa racchiude una immensa disgrazia, una maledizione che io non ho meritato. Vorrei potermela prendere con gli uomini per la mia infelicità.»

«Allora vi ritenete innocente del fatto che vi viene imputato?»

«Innocente del tutto! Lo giuro sulla testa dei due esseri che mi sono cari, sulla testa di mio padre e di Mercedes.»

«Sentiamo», disse Faria chiudendo il suo nascondiglio e rimettendo il letto al suo posto, «raccontatemi la vostra storia.»

Dantès allora raccontò ciò che egli chiamava la sua storia, e che si limitava a un viaggio nell’India, e a due o tre viaggi in Levante. Finalmente arrivò all’ultima traversata, alla morte del capitano Leclère, al plico destinato al gran maresciallo, al colloquio avuto con lui, alla lettera ricevuta per il signor Noirtier e infine narrò l’arrivo a Marsiglia, la visita al padre, il suoi amore per Mercedes, il pranzo del fidanzamento, l’arresto, l’interrogatorio, la prigionia provvisoria nel palazzo di giustizia, e la prigionia definitiva al castello d’If.

Giunto a questo punto, Dantès non sapeva più niente, neppure il tempo da che era prigioniero.

Terminato il racconto Faria rifletté profondamente.

«C’è», disse dopo un istante, «in diritto un assioma di grande profondità, e che coincide con ciò che vi dicevo, che il cattivo pensiero non nasce da una buona indole. Alla natura umana ripugna il delitto. Tuttavia la civiltà ci ha dato dei vizi, dei bisogni, degli appetiti fittizi, che qualche volta hanno l’influsso di soffocare i nostri buoni istinti e di condurci al male. Quindi ne nasce questa massima: “Se voi volete scoprire il colpevole, cercate prima colui al quale può essere utile il delitto”. La vostra sparizione a chi poteva essere utile?»

«A nessuno, mio Dio! Ero così poca cosa.»

«Non rispondete così, perché la risposta manca a un tempo di logica e di filosofia. Tutto è relativo, mio caro amico. Dal re che ostacola il suo successore, fino all’ultimo impiegato che intralcia l’apprendista, ciascuno infastidisce colui che viene dopo o gli cammina a lato. Se il re muore, il suo successore eredita una corona, se l’impiegato muore l’apprendista eredita il suo impiego e lo stipendio di duecento lire. Queste duecento lire di stipendio sono per lui la sua identità civile e gli sono tanto necessarie per vivere, quanto i milioni di un re. Ciascun individuo, dal più basso al più alto grado della scala sociale, riunisce intorno a sé un piccolo mondo d’interessi, avendo i suoi turbini e i suoi atomi come i mondi di Cartesio. Soltanto questi mondi vanno sempre più allargandosi a misura che si monta. È una spirale rovesciata, che si tiene ritta sulla punta per forza d’equilibrio. Ritorniamo dunque al vostro mondo. Voi eravate sul punto di essere nominato capitano a bordo del Pharaon?»

«Sì.»

«Eravate sul punto di sposare una bella ragazza?»

«Sì.»

«Esisteva qualcuno che avesse interesse a non vedervi diventare capitano del Pharaon? Qualcuno che avesse interesse perché non sposaste Mercedes? Rispondete intanto alla prima domanda, l’ordine è la chiave di tutti i problemi. Ripeto dunque, c’era nessuno a cui potesse interessare che voi non foste nominato capitano del Pharaon?»

«No, ero molto amato a bordo. Se i marinai avessero potuto eleggere un capo, son certo che sarei stato l’eletto. Un solo uomo poteva in qualche modo esser inquieto, perché tre mesi prima avevo avuto con lui una contesa, e gli avevo proposto un duello che rifiutò.»

«Avanti dunque!… Come si chiama quell’uomo?»

«Danglars.»

«Che cosa era a bordo?»

«Contabile.»

«Se voi foste divenuto capitano l’avreste conservato al suo posto?»

«No, se la cosa fosse dipesa da me, perché mi era sembrato di scorgere qualche scorrettezza nei suoi conti.»

«Bene. Ora, chi ha assistito al vostro ultimo colloquio col capitano Leclère?»

«Nessuno, eravamo soli.»

«Ma qualcuno poteva sentire la vostra conversazione?»

«Sì, perché la porta era socchiusa, e anzi… aspettate… Sì, sì, Danglars è passato proprio nel momento in cui il capitano Leclère mi dava il plico per il gran maresciallo.»

«Bene, siamo sulla buona strada. Avete condotto con voi qualcuno, quando siete disceso a terra all’isola d’Elba?»

«Nessuno.»

«Vi fu rimessa una lettera?»

«Sì, dal gran maresciallo.»

«Che avete fatto voi di questa lettera?»

«L’ho riposta nel mio portafoglio.»

«Avevate dunque indosso un portafoglio. Come mai un portafoglio che doveva contenere una lettera ufficiale, poteva stare nella tasca di un marinaio?»

«Avete ragione, il mio portafoglio era a bordo.»

«Fu dunque a bordo che voi chiudeste la lettera nel portafoglio?»

«Sì.»

«Da Portoferraio al battello, dove riponeste la lettera?»

«L’ho tenuta in mano.»

«Dunque quando voi siete risalito a bordo del Pharaon tutti hanno potuto vedere che avevate una lettera, Danglars e tutti gli altri… Ora ascoltate bene, riunite tutta la vostra memoria: vi ricordate in quali termini era formulata la denuncia?»

«Oh sì, l’ho riletta tre volte e mi è rimasta nella mente parola per parola.»

«Ripetetemela dunque.»

Dantès si concentrò un istante. «Eccola», disse, «parola per parola: “Il signor procuratore del re è avvisato da un amico del trono e della religione, che il nominato Edmond Dantès, secondo sul bastimento il Pharaon, giunto questa mattina da Smirne dopo aver toccato Napoli e Portoferraio, è stato incaricato da Marat di una lettera per Napoleone, e da questo di una lettera per il comitato bonapartista di Parigi. Si avrà prova del suo delitto arrestandolo, poiché si troverà questa lettera o nelle sue tasche, o presso suo padre, o nella sua cabina a bordo del Pharaon”.»

Faria alzò le spalle. «Ciò è chiaro come la luce del giorno», disse, «e bisogna ben dire che voi abbiate avuto il cuore molto buono e molto ingenuo, per non indovinare la cosa al primo momento.»

«Voi credete?» esclamò Dantès. «Ah, questa sarebbe un’infamia.»

«Com’era la calligrafia di Danglars?»

«Un bel corsivo.»

«Com’era la calligrafia della lettera anonima?»

«Rovesciata.»

Faria sorrise. «Contraffatta, non è vero?»

«Ma molto sicura per essere contraffatta.»

«Aspettate!» disse Faria. E presa la penna, o ciò che così chiamava, la intinse nell’inchiostro e scrisse con la mano sinistra sopra un pezzo di tela, le prime due o tre righe della denuncia.

Dantès fece un balzo e guardò Faria quasi con timore.

«Oh! è meraviglioso, è sorprendente», esclamò, «come questa scrittura assomiglia a quella.»

«Perché la denuncia fu scritta con la mano sinistra; e io ho osservato una cosa, che tutti i caratteri fatti con la mano destra sono diversi, ma quelli che sono fatti con la mano sinistra si assomigliano.»

«Voi avete dunque visto tutto, osservato tutto?»

«Continuiamo… passiamo alla seconda domanda. C’era nessuno a cui potesse interessare che voi non sposaste Mercedes?»

«Sì, un giovane che l’amava…»

«Il suo nome?»

«Fernando.»

«Questo è un nome spagnolo.»

«Era catalano.»

«Credete che sia stato capace di scrivere la lettera?»

«No, era piuttosto capace di piantarmi un coltello nel cuore.»

«Bene, questo è nella natura spagnola; un assassinio, sì, una viltà, no.»

«Del resto», continuò Dantès, «ignorava tutti i particolari riportati nella denuncia.»

«Non li avevate raccontati a nessuno?»

«A nessuno.»

«Neppure alla vostra fidanzata?»

«Neppure alla mia fidanzata.»

«Fu Danglars!»

«Oh, adesso ne sono sicuro.»

«Ma aspettate… Danglars conosceva Fernando?»

«No… sì, cioè… ora mi ricordo…»

«Che cosa?»

«La vigilia del mio fidanzamento li ho visti assieme a una tavola sotto il pergolato di papà Pamphile. Danglars era amichevole e scherzoso, Fernando era pallido e sconvolto.»

«Erano soli?»

«No, c’era con loro un terzo uomo, che senza dubbio era stato quello che li aveva fatti conoscere, un sarto di nome Caderousse; ma questi era già ubriaco. Aspettate… aspettate…»

«Cosa c’è?»

«Come mai non me ne sono ricordato prima? Sulla tavola dove bevevano c’era un calamaio, della carta, e delle penne!» Dantès, battendosi con la mano la fronte, esclamò: «Oh, è così, fu là che scrisse quella lettera. Oh infami! Oh infami!»

«Volete sapere qualche altra cosa?» disse sorridendo Faria.

«Sì, sì, poiché voi approfondite tutto, poiché vedete chiaro in ogni cosa. Vorrei sapere perché non sono stato interrogato che una sola volta, perché non ho avuto i giudici e in qual modo sono stato condannato senza una sentenza.»

«Oh, questo», disse Faria, «è un affare un poco più grave. La giustizia qualche volta ha delle procedure che sembrano cupe e misteriose. Ciò che noi abbiamo intuito fin qui per i vostri due nemici è un gioco da ragazzi, ora occorrono maggiori indicazioni per questo argomento.»

«Allora interrogatemi, perché voi vedete nella mia vita più chiaro di me.»

«Chi vi ha interrogato? Fu il procuratore del re, il sostituto, o il giudice istruttore?»

«Il sostituto.»

«Giovane o vecchio?»

«Giovane, tra i 27 e i 28 anni.»

«Bene, non ancora corrotto, ma già ambizioso. Quali furono i modi che usò con voi?»

«Amichevoli piuttosto che severi.»

«Gli avete raccontato tutto?»

«Tutto.»

«E i suoi modi cambiarono mai durante l’interrogatorio?»

«Un istante si sono alterati, quando lesse la lettera che mi comprometteva. Sembrò oppresso dalla mia disgrazia.»

«Dalla vostra disgrazia?»

«Sì.»

«Siete ben sicuro che si affliggeva per la vostra disgrazia?»

«Perlomeno mi ha dato prova della sua simpatia per me.»

«E quale?»

«Ha bruciato quel solo documento che poteva certamente compromettermi.»

«Quale documento? La denuncia?»

«No, la lettera.»

«Ne siete sicuro?»

«Lo fece sotto i miei occhi.»

«Ora è un’altra cosa; quell’uomo potrebbe essere uno scellerato maggiore di quello che avete creduto.»

«Sul mio onore, voi mi fate fremere», disse Dantès. «Il mondo dunque è popolato di tigri e coccodrilli?»

«Sì, con questa differenza, che le tigri e i coccodrilli a due gambe sono più pericolosi degli altri. Dunque, mi dicevate, ha bruciato quella lettera?»

«Sì, dicendomi: “Voi vedete, non esiste che questa prova contro di voi, e io la distruggo”.»

«Questa condotta è troppo sublime per essere naturale.»

«Credete?»

«Ne sono sicuro. A chi era diretta quella lettera?»

«Al signor Noirtier, via Héron, numero 13, Parigi.»

«Potete presumere che il vostro sostituto avesse qualche interesse a far sparire quella lettera?»

«Forse, perché mi ha fatto promettere due o tre volte, diceva nel mio interesse, di non parlare ad alcuno di quella lettera: anzi mi ha fatto giurare di non pronunciare mai a chicchessia il nome che stava scritto sull’indirizzo.»

«Noirtier!» disse Faria. «Noirtier! Ho conosciuto un Noirtier alla corte della vecchia duchessa di Toscana, un Noirtier che nella rivoluzione era stato girondino. Come si chiamava il sostituto?»

«Villefort.»

Faria scoppiò in una risata.

Dantès lo guardò con stupore.

«Che avete?» domandò.

«Vedete questo raggio di sole?» chiese Faria.

«Sì.»

«Bene, tutto adesso è più chiaro di questo raggio trasparente e luminoso. Povero giovane! E questo magistrato era buono con voi? Ha bruciato, distrutto la lettera? Vi ha fatto giurare di non pronunciare mai il nome di Noirtier?»

«Sì.»

«Noirtier, povero cieco che siete, sapete chi era questo Noirtier?… Era suo padre!»

Un fulmine caduto ai piedi di Dantès, che gli avesse spalancato un abisso in fondo a cui si fosse aperto l’inferno, non avrebbe prodotto un effetto così immediato, così elettrizzante, così opprimente quanto quelle inaspettate parole. Si alzò, afferrandosi la testa fra le mani quasi avesse voluto impedire che scoppiasse.

«Suo padre!… Suo padre!…» esclamò.

«Sì, suo padre… che si chiama Noirtier Villefort», aggiunse Faria.

Allora una luce folgorante passò per la mente del prigioniero: tutto ciò che gli era rimasto oscuro venne illuminato da una chiarezza risplendente. Le tergiversazioni di Villefort durante l’interrogatorio, la lettera distrutta, il giuramento richiesto, la voce quasi supplicante del magistrato, che in luogo di minacciare sembrava implorare, tutto, tutto gli ritornò alla mente.

Gettò un grido, barcollò come un ubriaco, poi lanciandosi all’apertura che portava dalla cella di Faria alla sua: «Oh», disse, «devo star solo, per poter pensare a tutto ciò».

E arrivando nella sua cella cadde sul letto, dove il carceriere lo ritrovò la sera seduto con gli occhi fissi, i lineamenti contratti, immobile e muto come una statua.

Nelle ore di meditazione, che per lui erano passate come minuti secondi, aveva preso una terribile risoluzione e fatto un formidabile giuramento. Per mantenere questo giuramento e mandare a effetto questa risoluzione bisognava supporre che un giorno sarebbe stato libero! Una voce venne a togliere Dantès da queste fantasticherie, era quella di Faria che dopo la visita del carceriere, veniva a invitare Dantès a cenare con lui. La sua riconosciuta qualità di pazzo e particolarmente di pazzo divertente, procurava al vecchio prigioniero qualche privilegio, come avere il pane un poco più bianco, e una bottiglietta di vino alla domenica. Ora era precisamente una domenica, e Faria veniva a invitare il suo giovane compagno a condividere il vino e il pane.

Dantès lo seguì: tutte le linee del suo viso si erano ricomposte, ma con una durezza e fermezza che manifestavano una risoluzione.

Faria lo guardò fisso.

«Sono mortificato di avervi aiutato nelle vostre ricerche e di avervi detto ciò che vi ho detto.»

«Perché?» domandò Dantès.

«Perché vi ho infiltrato nel cuore un sentimento che prima non c’era: la vendetta.»

Dantès sorrise.

«Parliamo d’altro», disse.

Faria lo guardò ancora un istante e scosse rammaricato la testa; quindi, come aveva pregato Dantès, parlò d’altro.

Il vecchio prigioniero era uno di quegli uomini la cui conversazione, come quella di coloro che hanno molto sofferto, contiene molti insegnamenti, e non smette mai di interessare; ma non era un egoista, questo infelice non parlava mai delle sue disgrazie.

Dantès ascoltava ciascuna delle sue parole con ammirazione: alcune corrispondevano alle idee che già aveva, e alle conoscenze del suo stato di marinaio; altre appartenevano a cose a lui sconosciute, e come le aurore boreali che rischiarano i navigatori australi, parlavano al giovane di Paesi sconosciuti e di nuovi orizzonti illuminati da luci fantastiche. Dantès concepì la felicità di cui doveva godere un uomo intelligente a seguire questo spirito elevato sulle vette morali, filosofiche e sociali, cui d’abitudine perveniva.

«Voi dovreste insegnarmi un po’ di quanto sapete», disse Dantès, «non fosse altro che per non annoiarvi con me. Mi sembra che dobbiate preferire la solitudine a un compagno senza educazione e senza istruzione come sono io. Se acconsentite, vi prometto di non parlarvi più di fuga.»

Faria sorrise.

«Ahimè, figlio mio», disse, «la scienza umana è molto limitata, e quando vi avessi insegnato le matematiche, la fisica, la storia e le tre o quattro lingue vive che io parlo, voi sapreste quello che so io. Tutta questa scienza potrei farla passare dal mio cervello nel vostro in due anni.»

«Due anni!» disse Dantès. «Credete che io possa imparare tutte queste cose in due anni?»

«Nella loro applicazione no; nei loro principi sì. L’imparare non è lo stesso che sapere: vi sono gli eruditi e gli scienziati, la memoria forma i primi, la filosofia i secondi.»

«Ma la filosofia non si può imparare?»

«La filosofia non s’impara, la filosofia è la riunione delle scienze imparate nel genio che le applica.»

«Vediamo», disse Dantès. «Che cosa m’insegnerete per primo? Ho smania di cominciare, ho sete di scienza.»

«Tutto!» disse Faria. Fin da quella sera i due prigionieri stabilirono un piano che cominciò a essere messo in esecuzione il giorno dopo.

Dantès aveva una memoria prodigiosa, una estrema facilità a imparare; la predisposizione matematica della sua mente lo rendeva atto a comprender tutto per mezzo del calcolo, mentre la poesia del marinaio correggeva tutto quanto poteva esservi di troppo materiale nella dimostrazione ridotta all’aridità delle cifre e alla precisione delle linee. D’altronde sapeva già l’italiano e un poco l’arabo che aveva imparato viaggiando in Oriente. Con queste due lingue imparò ben presto il meccanismo di tutte le altre, e in capo a sei mesi cominciò a parlare l’inglese e il tedesco.

Come aveva detto all’abate Faria, sia che la distrazione procuratagli dallo studio gli paresse già libertà, sia che fosse, come abbiamo già visto rigido osservatore della sua parola, Dantès non parlava più di fuggire, e le giornate per lui passavano rapide e istruttive. In capo a un anno era già un altro uomo.

Quanto a Faria, Edmond osservava che, malgrado la distrazione arrecatagli dalla sua presenza, diventava ogni giorno più tetro; un pensiero incessante ed eterno sembrava dominare il suo spirito; era preso da profonde meditazioni, si alzava d’un tratto, incrociava le braccia e passeggiava nella cella.

Un giorno si fermò di colpo ed esclamò: «Ah, se non ci fosse la sentinella».

«Non ci sarà sentinella quando non la vorrete», disse Dantès che aveva seguito il suo pensiero come attraverso un cristallo.

«Ah, io ve l’ho detto: ho ripugnanza all’idea d’un omicidio.»

«Questo omicidio, se venisse commesso, sarebbe per istinto di conservazione, per difesa personale.»

«Non importa… io non saprei…»

«Ciò nonostante voi ci pensate?»

«Senza posa, senza posa», mormorò Faria.

«E avete trovato un mezzo, non è vero?» domandò Dantès.

«Sì, se mettessero di guardia una sentinella sorda e cieca.»

«Sarà cieca, sarà sorda», gridò il giovane con un accento risoluto che spaventò Faria.

«No, no», esclamò, «è impossibile.»

Dantès volle trattenerlo sopra questo argomento, ma Faria scosse la testa, e rifiutò di continuare a rispondere.

Passarono altri tre mesi.

«Siete forte?» domandò un giorno Faria a Dantès.

Dantès senza rispondere prese lo scalpello, lo piegò a ferro di cavallo, e lo raddrizzò.

«Vi impegnereste a non uccidere la sentinella che in caso di estrema necessità?»

«Sì, sul mio onore.»

«Allora», disse Faria, «noi potremo eseguire il nostro progetto.»

«E quanto tempo ci vorrà per eseguirlo?»

«Almeno un anno.»

«Dobbiamo dunque metterci al lavoro?»

«Subito.»

«Oh, vedete dunque, abbiamo perduto un anno.»

«Credete che quest’anno sia stato perduto?»

«Oh, perdono, perdono!» esclamò Edmond arrossendo.

«Zitto!» disse Faria. «L’uomo non è che un uomo, e voi siete ancora uno dei migliori che abbia conosciuto. Prendete, questo è il mio piano.»

Faria mostrò allora a Dantès un disegno che aveva tracciato: era la pianta della sua cella, di quella di Dantès, e del corridoio che le univa una all’altra. Nel mezzo di questo corridoio egli poneva un condotto uguale a quelli che si praticano nelle miniere. Questo condotto avrebbe portato i due prigionieri sotto la galleria ove passeggiava la sentinella. Una volta giunti là, avrebbero scavato di nuovo, avrebbero tolto una delle pietre quadrate che formano il pavimento della galleria; la pietra sarebbe sprofondata sotto il peso del soldato che sarebbe caduto nel buco. Dantès si sarebbe precipitato sopra di lui nel momento in cui, ancora stordito per la caduta, non avrebbe potuto difendersi, lo avrebbe legato, gli avrebbe turato la bocca, e allora tutti e due passando da una finestra della galleria, sarebbero discesi lungo la muraglia esterna con l’aiuto della scala di corda, e si sarebbero salvati.

Dantès batté le mani, e i suoi occhi sfavillarono di gioia; questo piano era così semplice, che era impossibile non riuscisse.

Nel medesimo giorno i due minatori si misero all’opera e con un ardore tanto più grande, in quanto questo lavoro cominciava dopo un lungo riposo, e non faceva, secondo tutte le probabilità, che assecondare il pensiero intimo e segreto d’entrambi.

Non si interrompevano, se non l’ora nella quale ciascuno era obbligato a rientrare nella propria cella, per ricevere la visita del carceriere. D’altronde, avevano preso l’abitudine di distinguere così facilmente il rumore impercettibile dei passi, al momento in cui quell’uomo discendeva, che mai né l’uno né l’altro fu preso alla sprovvista. La terra estratta dalla nuova galleria, sufficiente per riempire l’antico corridoio, veniva gettata a poco a poco, e con inaudite precauzioni dall’una o dall’altra delle finestre della cella di Dantès o di Faria, polverizzata con ogni cura, e il vento della notte la disperdeva senza lasciarne traccia.

Più d’un anno passò in questo lavoro che venne eseguito con uno scalpello, un coltello e una leva di legno.

Durante quest’anno e mentre lavoravano Faria continuò a istruire Dantès, parlandogli ora in una lingua, ora in un’altra; insegnandogli la storia delle nazioni, e di quei grand’uomini che di tempo in tempo lasciano dietro di sé una di quelle luminose tracce, che si chiama gloria.

Faria uomo di mondo, e di gran mondo, aveva nelle sue maniere una specie di maestà malinconica, da cui Dantès per spirito d’imitazione seppe trarre profitto, e ricavarne quell’elegante tratto di cui mancava e quei modi aristocratici che generalmente non si acquistano che frequentando le classi elevate o conversando con uomini superiori.

Dopo quindici mesi, il foro era finito, lo scavo sotto la galleria fatto. Si sentiva passare e ripassare la sentinella, e i due uomini, obbligati ad aspettare una notte oscura e senza luna per rendere più sicura la loro evasione, non avevano che un timore, che la botola sprofondasse prima del tempo sotto i piedi del soldato. Venne ovviato a questo inconveniente puntellandola con una specie di travicello che avevano trovato negli scavi.

Dantès era occupato a sistemarlo quando sentì Faria, rimasto in cella a preparare cavicchi per fissare la scala di corda, che lo chiamava con accento di disperazione.

Dantès rientrò sollecitamente, e vide Faria ritto in mezzo alla stanza, pallido, col sudore sulla fronte, e le mani intirizzite.

«Oh, mio Dio!» gridò Dantès. «Che c’è? Che cosa avete?»

«Presto, presto», disse Faria, «ascoltatemi.»

Dantès guardò il viso livido di Faria, i suoi occhi con un cerchio azzurrognolo, le labbra bianche, i capelli irti, e dallo spavento lasciò cadere a terra lo scalpello che teneva in mano.

«Che c’è dunque?» gridò Edmond.

«Sono perduto», disse Faria, «ascoltatemi. Un male terribile, un male forse mortale mi prende in questo momento. L’attacco è cominciato, lo sento. Ne fui già colpito l’anno prima della mia carcerazione. A questo male non c’è che un rimedio. Correte subito nella mia cella, togliete un piede al letto, questo piede è cavo: vi troverete dentro una piccola boccetta di cristallo piena per metà d’un liquido rosso; portatemela, o piuttosto… no, no… potrei essere sorpreso qui… aiutatemi a rientrare nella mia cella fino a che mi resta qualche forza. Chissà ciò che può accadere, e quanto tempo durerà l’attacco.»

Dantès senza molto agitarsi, sebbene la disgrazia che lo colpiva fosse immensa, discese nel cunicolo sotterraneo, e trascinò l’infelice compagno conducendolo con pena infinita sino alla sua cella, dove lo coricò sul letto.

«Grazie», disse Faria, tremando come uscisse dall’acqua ghiacciata, «ecco il male che avanza, sto per avere una crisi epilettica. Forse non farò un movimento, forse non manderò un gemito, ma forse mi contorcerò, griderò, sputerò bava. Fate in modo che non siano intese le mie grida, questo soprattutto importa, perché potrebbero cambiarmi la cella e noi saremmo divisi per sempre. Quando voi mi vedrete immobile, freddo e morto, allora soltanto schiudetemi i denti col coltello, fate colare nella mia bocca otto o dieci gocce di quel liquore, e forse mi rimetterò.»

«Forse?» esclamò dolorosamente Dantès.

«A me, a me!» gridò Faria. «Io muo… m… m…»

L’attacco fu così rapido e violento, che l’infelice prigioniero non poté finire la parola: una nube passò sulla sua fronte contratta e tetra come le tempeste del mare. La crisi dilatò gli occhi, contorse la bocca, imporporò le guance. Si agitò, ruggì; ma come aveva raccomandato egli stesso, Dantès soffocò queste grida sotto la coperta. Tutto ciò durò due ore. Poi più inerte d’un masso, più pallido e più freddo del marmo, più avvizzito di una rosa calpestata, cadde, si contorse in un’ultima convulsione e divenne livido.

Edmond aspettò che questa morte apparente avesse investito tutto il corpo, e lo ghiacciasse fino al cuore, allora prese il coltello, introdusse la lama fra i denti, disserrò con una pena infinita le rigide mascelle, e, contate una dopo l’altra le dieci gocce del rosso liquore, aspettò.

Passò un’ora senza che il vecchio facesse il più piccolo movimento. Dantès temeva di avere aspettato troppo e lo guardava con le mani nei capelli. Finalmente un leggero colorito apparve sulle sue guance; i suoi occhi, costantemente rimasti aperti e vitrei, ripresero il consueto sguardo, un debole sospiro sfuggì dalla sua bocca; fece un piccolo movimento.

«È salvo! È salvo!» gridò Dantès.

Il malato non poteva ancora parlare, ma allungò con ansia visibile la mano verso la porta.

Dantès ascoltò e intese i passi del carceriere. Erano quasi le sette: Dantès non aveva avuto modo di misurare il tempo.

Il giovane si lanciò verso l’apertura, vi si precipitò, rimise la pietra al di sopra della testa e rientrò nella sua cella. Un istante dopo la sua porta si aprì, e il carceriere ritrovò, come al solito, il prigioniero sul letto. Appena ebbe voltate le spalle, appena il rumore dei suoi passi si perse nel corridoio, Dantès, divorato dall’inquietudine, senza pensare a mangiare, riprese il cammino sotterraneo e, sollevando la pietra, rientrò nella cella di Faria.

Questi aveva ripreso conoscenza, ma era sempre steso sul suo letto, inerte e senza forze.

«Non contavo più di rivedervi», disse a Dantès.

«E perché?» domandò Edmond. «Credevate dunque di morire?»

«No, ma tutto è in ordine per la fuga, ed ero certo che sareste fuggito.»

L’indignazione colorò le guance di Dantès.

«Senza di voi!» gridò. «Mi avete veramente creduto capace di ciò?»

«Adesso m’accorgo che mi sono ingannato», disse il malato. «Ah, sono molto debole, molto stanco.»

«Coraggio, le forze vi ritorneranno», disse Dantès, sedendosi vicino al letto di Faria e prendendogli le mani.

Faria scosse la testa.

«L’ultima volta», disse, «l’attacco non durò che una mezz’ora, dopo la quale ebbi fame e mi rialzai. Oggi non posso muovere né la gamba, né il braccio destro; la mia testa è oppressa, e ciò prova che c’è stato un’emorragia cerebrale; al terzo resterò completamente paralizzato o morirò sul colpo.»

«No, no, tranquillizzatevi, voi non morirete. Se questo terzo attacco deve colpirvi vi troverà libero; io vi salverò come questa volta, e meglio ancora, perché avremo tutti i necessari soccorsi.»

«Amico mio», disse il vecchio, «non vi illudete. La crisi passata mi ha condannato a un carcere perpetuo. Per fuggire bisogna poter camminare.»

«Ebbene, noi aspetteremo otto giorni, un mese, due mesi se occorre; le vostre forze ritorneranno. Tutto è pronto per la nostra fuga, e abbiamo la libertà di scegliere a nostro piacere l’ora e il momento. Il giorno in cui vi sentirete abbastanza forza per nuotare, quel giorno metteremo in esecuzione il nostro progetto.»

«Non nuoterò più», disse Faria, «questo braccio è paralizzato non per un giorno, ma per sempre; sollevatelo voi stesso e sentite quanto è pesante.»

Il giovane sollevò il braccio, che ricadde morto e insensibile.

Dantès mandò un profondo sospiro.

«Ora sarete convinto, non è vero Edmond?» disse Faria. «Credetemi, so quello che dico. Dopo il primo attacco di questo male, non ho mai cessato di studiarvi e riflettervi sopra: lo aspettavo perché è una eredità di famiglia. Mio padre è morto al terzo attacco, mio nonno ugualmente; il medico che mi preparò questo liquore, che non fu altri che il celebre Cabanis, mi predisse la stessa sorte.»

«Il medico si sbaglia», gridò Dantès. «In quanto alla vostra paralisi, essa non mi sgomenta: vi prenderò sulle mie spalle e nuoterò sostenendovi.»

«Amico mio», disse Faria, «voi siete marinaio, siete nuotatore; dovete di conseguenza sapere che un uomo caricato di un simile fardello non potrebbe fare più di cinquanta metri in mare. Smettete d’illudervi, non lasciatevi ingannare dall’ottimo vostro cuore. Io resterò qui fino a che suoni l’ora della mia liberazione, che non può più essere che quella della morte. In quanto a voi, fuggite. Siete giovane e forte, non vi occupate di me, io vi rendo la vostra parola.»

«Sta bene», disse Dantès, «allora…»

«Allora?»

«Io pure resterò.»

Poi levandosi e stendendo una mano sul vecchio: «Per quanto vi è di più sacro, giuro di non lasciarvi che alla vostra morte».

Faria considerò questo giovane così nobile, semplice ed elevato, e lesse sui tratti animati dalla devozione più pura, la sincerità della sua affermazione, e la lealtà del suo giuramento.

«Sia…» disse il malato. «Io accetto, e vi ringrazio.»

Poi, tendendogli la mano: «Forse sarete ricompensato di questo affetto disinteressato», gli disse. «Poiché non posso e voi non volete partire, è necessario che interriamo il sotterraneo sotto la galleria. Il soldato che cammina può scoprire la sonorità dello scavo, richiamare l’attenzione di un ispettore, e allora saremmo scoperti e separati. Andate a fare questo lavoro nel quale disgraziatamente non posso aiutarvi; impiegatevi tutta la notte se occorre, e non ritornate da me che domattina dopo la visita del carceriere. Avrò qualche cosa di somma importanza da comunicarvi.»

Dantès prese la mano di Faria che lo rassicurò con un sorriso e uscì con quell’obbedienza e quel rispetto che gli ispirava il suo vecchio amico.


18. Il tesoro

La mattina del giorno dopo, allorché Dantès rientrò nella cella del suo compagno di prigionia, trovò Faria seduto, con il viso calmo. Un raggio di sole penetrava attraverso la stretta finestra della cella. Nella mano sinistra, la sola di cui gli era rimasto l’uso, Faria teneva un pezzo di carta che, per l’abitudine di restare avvolto sempre nello stesso modo, aveva preso la forma di un rotolo.

Mostrò a Dantès la carta senza dire una parola.

«Che cos’è?» domandò questi.

«Guardate con attenzione…» disse Faria sorridendo.

«Guardo con tutta l’attenzione possibile», disse Dantès, «e non vedo altro che un pezzo di carta mezza bruciata e sulla quale sono tracciati dei caratteri gotici con un inchiostro particolare.»

«Questa carta, amico mio», disse Faria, «ora ve lo posso confessare perché vi ho conosciuto meglio, questa carta è il mio tesoro, di cui, da questo momento, la metà è vostra!»

Un sudore freddo passò sulla fronte di Dantès. Finora, e per uno spazio lungo di tempo, aveva sempre evitato di parlare a Faria di questo tesoro, origine dell’accusa di pazzia che gravava sul povero amico. Con la sua istintiva delicatezza, Edmond aveva preferito non toccare questa corda dolorosa, e Faria aveva taciuto. Dantès aveva preso il silenzio del vecchio per un ritorno alla ragione.

«Il vostro tesoro?» balbettò Dantès.

Faria sorrise.

«Sì», disse, «voi siete un nobile cuore, Edmond, e dal vostro pallore e dal vostro fremito comprendo ciò che passa per la vostra mente in questo istante. No, state tranquillo, non sono pazzo. Questo tesoro esiste, Dantès, e se non mi è stato concesso di possederlo, voi lo possederete per me. Nessuno ha voluto ascoltarmi, né credermi, fui giudicato pazzo. Ma voi dovete sapere che non lo sono: ascoltatemi, e dopo credetemi se volete.»

«Ahimè», mormorò Edmond fra sé, «il malato ricade nella sua idea fissa. Mi mancava questa disgrazia…»

E poi, alzando la voce: «Amico mio», disse a Faria, «il vostro attacco vi ha stancato: non volete prendere un poco di riposo? Domani, se lo desiderate, sentirò la vostra storia, ma oggi dovete curarvi, dovete avervi dei riguardi; d’altronde», continuò sorridendo, «un tesoro non deve ora granché interessarci».

«Ci deve interessare moltissimo, Edmond», rispose il vecchio, «chissà che domani o dopodomani non giunga il terzo attacco; allora tutto sarebbe finito… Sì, è vero, qualche volta ho pensato con amaro piacere a queste ricchezze che farebbero la fortuna di dieci famiglie, fortune perdute per coloro che mi perseguitano. Quest’idea mi serviva di vendetta e io l’assaporavo lentamente nell’oscurità della mia segreta e nella disperazione della mia prigionia; ma ora che vi vedo giovane e pieno di speranza, ora che penso a tutto ciò che può venirne di felicità a voi in conseguenza della mia rivelazione, io fremo per il ritardo, e tremo di non potere assicurare un proprietario degno quanto voi siete a queste immense ricchezze nascoste.»

Edmond voltò altrove la testa sospirando.

«Voi persistete nella vostra incredulità, Edmond», continuò Faria, «la mia voce non vi ha convinto. Vedo che vi occorrono delle prove. Ebbene leggete questo foglio che io non ho fatto vedere mai ad alcuno.»

«Domani, amico mio», disse Edmond, dispiacendogli assecondare la follia del vecchio. «Credevo fosse già stabilito fra noi che non ne avremmo parlato che domani…»

«Ebbene, ne parleremo domani, ma oggi leggete questo foglio.»

«Non irritiamolo di più…» pensò Edmond. E prendendo la carta di cui mancava la metà consunta dal fuoco, egli lesse.

«Ebbene?» disse Faria, quando il giovane ebbe finito la lettura.

«Ma», rispose Dantès, «non leggo che righe tronche, che parole senza senso; i caratteri sono interrotti dall’azione del fuoco e restano inintelligibili.»

«Per voi, amico mio, che li leggete per la prima volta, ma non per me che vi impallidii sopra molte notti, e ho ricostruito ogni frase, e completato ogni pensiero.»

«E voi credete di aver ritrovato questo senso nascosto?»

«Ne sono sicuro; lo giudicherete voi stesso. Ma prima ascoltate la storia di questa carta.»

«Silenzio!» esclamò Dantès. «Dei passi! Qualcuno si avvicina… io vado… addio!»

E Dantès, lieto di poter evitare la storia e la spiegazione che non gli avrebbero che maggiormente confermato l’infelice condizione del suo amico, fuggì per lo stretto andito, mentre Faria acquistando una specie di energia dalla paura, spinse col piede la pietra che ricoprì con la stuoia.

Era il governatore, che avvisato dal carceriere della malattia di Faria, veniva ad assicurarsi della sua gravità.

Faria lo ricevette seduto, evitò qualunque gesto che potesse comprometterlo, e riuscì a nascondere al governatore di essere stato colpito da una paralisi, che gli aveva bloccato metà della persona.

Il suo timore era che il governatore, mosso a pietà, volesse farlo trasportare in una prigione più sana e lo separasse in tal modo dal suo giovane compagno: fortunatamente non fu così. Il governatore si ritirò convinto che il povero pazzo, per il quale sentiva nel fondo del cuore un po’ di simpatia, non era affetto che da una leggera indisposizione.

Intanto Edmond, seduto sul letto e con la testa fra le mani, cercava di riordinare le idee. Dacché conosceva Faria, aveva sempre scorto in lui tanta ragione e tanta logica, che non poteva comprendere come questa suprema saggezza su tutti i punti, potesse poi collegarsi all’alienazione sopra un sol punto. Era Faria che s ingannava sul suo tesoro, o erano gli uomini che s’ingannavano sul conto di Faria? Dantès restò nella sua cella tutto il giorno, non osando ritornare a visitare l’amico. Cercava di allontanare così il momento in cui avrebbe acquistato la certezza che il suo compagno era pazzo; e questa convinzione lo intimoriva molto.

Ma verso sera, dopo l’ora dell’ordinaria visita, Faria, non vedendo più tornare il giovane, tentò di superare lo spazio che lo divideva da lui.

Edmond rabbrividì sentendo gli sforzi dolorosi che faceva il vecchio per trascinarsi: la sua gamba era inerte e non poteva aiutarsi che con un sol braccio.

Edmond fu obbligato a tirarlo a sé, poiché da solo non sarebbe riuscito a uscire per la stretta apertura che immetteva nella cella di Dantès.

«Eccomi implacabilmente a perseguitarvi», disse con un sorriso di benevolenza. «Avete creduto di potere sfuggire alla mia munificenza, ma ciò non vi è servito a niente. Ascoltatemi dunque…»

Edmond vedendo che non poteva più evitarlo, fece sedere il vecchio sul letto e si mise vicino a lui sullo sgabello.

«Voi sapete», disse Faria, «che io ero il segretario, il confidente, l’amico del conte Spada, l’ultimo dei principi di questo nome. Devo a questo degno personaggio tutto ciò che ho provato di felicità in questa vita. Egli non era ricco, benché le ricchezze della sua famiglia fossero proverbiali, e abbia spesso inteso dire: “ricco come uno Spada”. Egli viveva sotto questa reputazione di opulenza: il suo palazzo fu il mio Eden. Educai i suoi nipoti, che morirono, e allora dedicandomi con devozione a tutte le sue volontà, cercai di rendergli tutto ciò che aveva fatto per me. Avevo sovente visto lo Spada scartabellare dei libri antichi di famiglia tutti ricoperti di polvere. Un giorno che gli rimproveravo queste inutili veglie, e l’abbattimento che le seguiva, mi guardò sorridendo amaramente, e mi aprì un libro: era la storia d’Italia. Al ventesimo capitolo stava scritto: “Cesare Borgia prese d’assalto Senigallia, che apparteneva a Francesco Maria della Rovere; il giorno della vittoria chiamò a palazzo tutti i condottieri del suo esercito e a misura che entravano nella sala del convito, non avendo più bisogno di loro e temendo qualche lega che potesse inceppare le sue vittorie nella Romagna, fece a tutti l’un dopo l’altro tagliar la testa sul limitar della porta. Così morì Vitellozzo Vitelli signore di Città di Castello, Oliverotto, signore di Bermo, Paolo Orsini, duca di Gravina, Francesco di Todi, Guido Spada ecc.

«Dopo questa lettura, egli mi riferì così: “Guido Spada non aveva potuto disimpegnarsi dal collegare le sue bande con quelle di Cesare Borgia, quando si portò a invadere la Romagna, temendo che un rifiuto non solo gli potesse costar la vita, ma la perdita di quegli immensi beni di cui era ritenuto possessore, e che conservava gelosamente per trasmetterli a un nipote che amava qual figlio.

«Quando Guido Spada, dopo la vittoria di Senigallia, ricevette l’invito a pranzo del Borgia, sospettò il tradimento che veniva ordito, e accorgendosi che anche se non fosse andato al convito la sua vita sarebbe rimasta sempre in balia del Borgia, si limitò a spedire un messaggio al nipote a Roma per avvertirlo del luogo ove teneva il suo testamento.

«Il messaggero, la cui partenza era stata spiata, fu ucciso durante il cammino, ma non gli fu ritrovato altro foglio se non uno scritto dello Spada in cui diceva: “Lascio al mio nipote amatissimo i miei scrigni e i miei libri, fra i quali la mia bibbia dagli angoli d’oro, desiderando che egli la conservi quale ricordo del suo affezionatissimo zio”.

«Gli eredi cercarono in ogni luogo, ammirarono la bibbia, fecero man bassa dei mobili, e si meravigliarono che Spada, l’uomo ricco, non fosse effettivamente che il più miserabile degli zii. Nessun tesoro fu rinvenuto, se pure si vuole chiamare tesori le scienze racchiuse nella biblioteca e nel laboratorio chimico.

«Il messaggero assassinato durante il viaggio, ebbe il tempo prima di morire, di dire a un sacerdote, che gli aveva somministrato i conforti della religione davanti alla chiesetta presso la quale fu aggredito, che facesse sapere al nipote di Guido Spada in tutta segretezza, che fra le carte dello zio avrebbe certamente trovato il suo testamento.

«Il sacerdote eseguì questo estremo desiderio del morente; e dopo questo annuncio si raddoppiarono le ricerche; ma tutto fu invano. Non restarono al nipote che due palazzi, una villa dietro al Palatino, e un migliaio circa di scudi in gioielli, e altrettanto in moneta contante.

«La famiglia Spada non riprese più il lustro di prima e rimase dubbia la loro fortuna. Un mistero eterno pesò sopra questa cosa e la pubblica fama fece credere che Cesare Borgia avesse trovato i tesori della famiglia Spada nella tenda di Guido sotto le mura di Senigallia.

«Fin qui», s’interruppe Faria sorridendo, «non vi sembrerà che questo racconto sia privo di senno.»

«Oh, amico mio», disse Dantès, «mi sembra, al contrario, di leggere una cronaca piena d’interesse. Continuate.»

«Continuo. La famiglia si adattò a questa oscurità; gli anni trascorsero. Fra i discendenti, alcuni furono soldati, altri diplomatici; alcuni furono ecclesiastici, altri banchieri; alcuni si arricchirono, altri finirono per rovinarsi.

«Ma veniamo all’ultimo della famiglia, a quello di cui fui segretario, al conte Spada.

«Io lo avevo spesso sentito lamentarsi della sproporzione del suo rango con la sua fortuna, per cui lo avevo consigliato di porre i pochi beni che gli restavano in rendita vitalizia: ascoltò il mio consiglio, e in tal modo raddoppiò le sue entrate.

«La famosa bibbia dagli angoli d’oro era rimasta in famiglia, ed era il conte Spada quello che la possedeva: fu conservata di padre in figlio, perché la clausola bizzarra del testamento ne aveva fatto una vera reliquia, custodita con venerazione in famiglia. Era un libro illustrato da magnifiche miniature gotiche e così pesanti d’oro, che ci voleva un leggìo per poterla usare.

«Alla vista delle carte di ogni specie, titoli, contratti, pergamene, che venivano custodite negli archivi della famiglia e che appartenevano a Guido Spada, mi misi a mia volta, come venti servitori, venti intendenti e venti segretari che mi avevano preceduto, a esaminare queste filze di scartafacci.

«A onta dell’attività e della precisione delle mie instancabili ricerche, non trovai assolutamente niente. Frattanto avevo letto e anche scritto una storia esatta delle genealogie della famiglia Borgia, al solo scopo di assicurarmi se fosse stata aggiunta alla famiglia di questi principi qualche gran fortuna dopo la morte di Guido Spada, e non potei notare altro se non l’addizione dei beni degli altri condottieri con lui decapitati, che furono ben presto esauriti nelle guerre di Romagna.

«Ero dunque sicuro che né Cesare Borgia, né la sua famiglia si erano impadroniti delle immense fortune di cui si credevano possessori gli Spada, ma che queste, se esistevano, erano rimaste senza padrone, come quei tesori delle favole arabe che dormono nel seno della terra, sotto la custodia di un genio.

«Sfogliai, contai, calcolai mille e mille volte le rendite e le spese della famiglia da trecento anni in poi, e tutto fu inutile. Confrontai questi calcoli con le spese e rendite prima dell’avvenimento di Guido, e vi ritrovai una incalcolabile differenza. Ciò nonostante tutto fu inutile, io restai nella mia ignoranza, e il conte Spada nella sua miseria.

«Il mio padrone morì. Dal suo contratto vitalizio non aveva escluso che le sue carte di famiglia, la sua biblioteca composta di cinquemila volumi e la sua famosa bibbia; mi lasciò legatario di tutto questo, unitamente a un migliaio di scudi romani che possedeva in denaro contante, con la condizione di fargli dire delle messe nell’anniversario della sua morte, di formare un albero genealogico della sua famiglia e di scrivere una storia della medesima, il che ho fatto esattamente…»

E qui siccome Dantès faceva qualche moto d’impazienza, Faria s’interruppe dicendo: «Tranquillizzatevi, Edmond, ci avviciniamo alla fine. Nel 1807, un mese prima del mio arresto, e quindici giorni dopo la morte del conte Spada, era il 25 di dicembre, e vedrete fra poco in qual modo questa data memorabile mi sia rimasta in mente, rileggevo per la centesima volta queste carte che mettevo in ordine perché, appartenendo ormai il palazzo a uno straniero, io stavo per lasciare Roma e stabilirmi a Firenze portando con me una quantità di libri, la mia biblioteca e la mia famosa bibbia, allorché stanco di questo continuo studio, e indisposto per un pranzo indigesto, abbandonai la testa sopra le mani e mi addormentai.

«Erano le tre dopo mezzogiorno. Mi svegliai che la pendola batteva le sei. Alzai la testa e mi ritrovai nella più profonda oscurità. Suonai perché mi si portasse il lume: non venne alcuno. Mi risolsi allora a servirmi da me; quest’era d’altronde un’abitudine da filosofo che avevo adottato. Presi con una mano la bugia che era sul tavolo, con l’altra, non trovando zolfanelli, cercai un pezzo di carta che pensai d’accendere a un resto di fuoco nel caminetto; ma nell’oscurità, temendo di prendere una carta preziosa, invece di un foglio inutile, esitai; allora mi ricordai di aver visto nella famosa bibbia che era sulla tavola, vicino a me, un vecchio foglio tutto ingiallito che sembrava fosse servito da segnalibro nella pagina ove aveva cessato la lettura il suo vecchio proprietario, e che aveva attraversato i secoli, mantenuto al suo posto dalla venerazione degli eredi.

«Cercai a tastoni quest’inutile foglio, lo trovai, lo accartocciai, lo accostai alla fiamma moribonda e lo accesi; ma sotto le mie dita, come per magia, a misura che il fuoco avanzava vidi dei caratteri giallastri uscire dalla carta e apparire sul foglio. Allora fui preso dal terrore; serrai tra le mani il foglio, spensi il fuoco, accesi la bugia alla brace; riaprii con indicibile emozione il foglio ripiegato, e capii che un misterioso inchiostro simpatico aveva tracciato quelle lettere apparse soltanto al contatto del vivo calore: poco più di un terzo del foglio era stato consumato dalla fiamma. Rileggetelo, Dantès; poi quando lo avrete riletto, vi completerò le frasi interrotte e il senso incompiuto.»

E Faria, trionfante, offrì il foglio a Dantès che questa volta lesse avidamente le parole seguenti, tracciate con un inchiostro color ruggine:

Oggi 28 marzo 1492, essendo costretto per lo mio me…

di seguire in un con le…

gia nella guerra di Romagna, e…

parato a qualunque tradimento p…

cipe, dichiaro a mio nipote…

erede universale, che ho…

per aver visitato con me…

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preziose, diamanti, argenterie…

per il valore circa di due…

troverà passando la ventesima…

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in queste grotte: il tesoro sta nell’angolo…

qual tesoro lascio a lui e cedo…

solo erede.

28 marzo 1492, GUID…

«Ora», riprese Faria, «leggete quest’altra carta.» E presentò a Dantès un altro foglio, con altri frammenti di righe.

«Adesso», disse, dopo aver visto che Dantès aveva letto fino all’ultima riga, «avvicinate i due frammenti, e giudicate.»

Dantès obbedì; i due frammenti riuniti davano la seguente lettera: «Oggi 28 marzo 1492, essendo costretto per lo mio meglio di seguire in un con le mie genti Cesare Borgia nella guerra di Romagna, e dovendo essere preparato a qualunque tradimento per parte di questo principe, dichiaro a mio nipote Giulio Spada, mio erede universale, che ho nascosto in una direzione che egli conosce per aver visitato con me, cioè nell’isola di Montecristo tutto quanto io posseggo in pietre preziose, diamanti, argenterie, che solo io conosco questo tesoro per il valore circa di due milioni di scudi romani e che egli troverà passando la ventesima pietra della roccia a partirsi dal seno dell’Est in linea retta. Due aperture sono state praticate in queste grotte: il tesoro sta nell’angolo più lontano della seconda, il qual tesoro lascio a lui e cedo in tutto come mio solo erede.

28 marzo 1492, GUIDO SPADA»

«Ebbene, capite finalmente?» disse Faria.

«È la dichiarazione di Guido Spada, è il testamento che fu cercato per tanto tempo», disse Edmond ancora incredulo.

«Sì, mille volte sì.»

«E chi l’ha ricostruito in tal modo?»

«Io, che con l’aiuto del frammento rimasto, ho indovinato il resto misurando la lunghezza delle linee con quella della carta e penetrando nel senso nascosto col mezzo del senso visibile, come uno si guida in un sotterraneo con un residuo di luce che gli venga dall’alto.»

«E che faceste quando avete creduto di acquistare questa convinzione?»

«Volevo partire subito e anzi sono partito sul momento portando con me il principio della mia grand’opera filosofica, ma la polizia imperiale che conosceva le mie idee teneva gli occhi aperti su di me. La mia partenza precipitosa, della quale non poteva conoscere la causa, suscitò dei sospetti e nel momento in cui stavo per imbarcarmi a Piombino, venni arrestato. Ora», continuò Faria guardando Dantès con un’espressione quasi paterna, «ora, amico mio, voi ne sapete quanto me. Se noi ci salviamo assieme la metà del mio tesoro è vostra, se io muoio qui, e voi vi salvate solo, vi appartiene in totalità.»

«Ma», domandò Dantès con esitazione, «questo tesoro non ha nel mondo possessori più legittimi di noi?»

«No, no, rassicuratevi. La famiglia Spada si è estinta del tutto. D’altronde, l’ultimo dei conti Spada mi ha dichiarato suo erede, e nel lasciarmi per legato questa bibbia simbolica, mi ha pure lasciato tutto ciò che conteneva. No, no, tranquillizzatevi, se un giorno potremo metter le mani su questa fortuna, potremo goderne senza rimorso.»

«E dite che questo tesoro ammonta…?»

«A due milioni di scudi romani, circa tredici milioni in moneta di oggi.»

«Impossibile!» disse Dantès colpito dall’enormità della somma.

«Impossibile, e perché?» rispose il vecchio. «La famiglia Spada era una delle più antiche e delle più potenti del XV secolo. D’altronde in quei tempi, in cui era sospesa ogni speculazione e ogni industria, non erano rari questi ammassi di oro e di pietre; anche oggigiorno in Roma vi sono delle famiglie che muoiono di fame, e che hanno quasi un milione in diamanti e pietre preziose trasmesse per maggiorasco, che non possono essere alienate.»

Edmond che credeva di sognare, ondeggiava fra l’incredulità e la gioia.

«Ho custodito per sì lungo tempo tal segreto con voi», continuò Faria, «perché prima vi volevo conoscere meglio, e poi volevo farvi una sorpresa. Se noi fossimo evasi prima del mio attacco di epilessia, vi avrei condotto a Montecristo; ora», aggiunse con un sospiro, «siete voi che mi condurrete. Ebbene, Dantès, non mi ringraziate?»

«Questo tesoro è vostro, amico mio», disse Dantès; «appartiene a voi solo, e io non vi ho alcun diritto; io non sono neppure vostro parente.»

«Siete mio figlio, Dantès!» esclamò il vecchio. «Voi siete il figlio della mia prigionia. Dedito interamente agli studi, Dio vi ha inviato a me per consolare l’uomo, che non è stato padre, e il prigioniero, che non poteva essere libero.»

E Faria tese il braccio non paralizzato al giovane, che si gettò al suo collo piangendo.

19. Il terzo attacco

Ora che il tesoro, per lungo tempo al centro delle meditazioni di Faria, poteva assicurare la felicità di colui che egli veramente amava al pari di un figlio, tale tesoro era raddoppiato di valore ai suoi occhi: ogni giorno si divertiva a ricontarlo, illustrando a Dantès tutto ciò che poteva fare di bene ai suoi amici quell’uomo che ai nostri giorni possedesse una fortuna di tredici-quattordici milioni. Allora il viso di Dantès si intristiva, perché il giuramento di vendetta che aveva fatto si presentava al suo pensiero, e rifletteva quanto male poteva fare ai suoi nemici un uomo che ai nostri giorni possedesse tredici-quattordici milioni.

Faria ignorava tutto dell’isola di Montecristo, per contro Dantès la conosceva; vi era spesso passato davanti.

Tale isola si trova a venticinque miglia da Pianosa, fra la Corsica e l’Elba, e una volta vi era anche approdato. Quest’isola era, è stata sempre, ed è ancora completamente deserta; è una roccia di forma quasi conica che sembra essere stata sospinta da qualche cataclisma vulcanico dal fondo dell’abisso alla superficie del mare.

Dantès tracciava la pianta dell’isola a Faria, e questi dava dei consigli a Dantès sui modi per ritrovare il tesoro.

Tuttavia Dantès era ben lontano dall’essere così entusiasta e fiducioso quanto il vecchio. Era sicuro, ora, che Faria non era pazzo, e il modo con cui era giunto alla scoperta che aveva fatto credere alla sua follia, raddoppiava la sua ammirazione per lui, ma non poteva ugualmente credere che questo deposito, ammesso che un giorno fosse esistito, esistesse ancora, e quando non guardava questo tesoro come una chimera, lo guardava come molto lontano.

Nel frattempo, come se il destino avesse voluto togliere ai prigionieri l’ultima speranza, e far credere loro che erano condannati a un perpetuo carcere, una nuova disgrazia venne a colpirli.

La galleria che sboccava sul mare, minacciando rovina da lungo tempo, era stata ricostruita, furono sostituiti ai soffitti e ai travi degli enormi dadi di roccia sul foro già per metà interrato da Dantès. Senza questa precauzione, che fu suggerita dal vecchio al giovane, la loro disgrazia sarebbe stata ancora maggiore, perché si sarebbe scoperto il tentativo di evasione e sarebbero stati senz’altro divisi. Una nuova porta più forte e più inesorabile delle altre si era chiusa ancora una volta sopra di loro.

«Vedete bene», diceva Dantès con una dolce tristezza a Faria, «che Dio vuol togliermi fino il merito di ciò che chiamate mia devozione per voi. Vi ho promesso di restare eternamente con voi, e ora non sono più libero di non mantenere la mia parola. Non avrò più di voi il tesoro e noi non usciremo di qui né l’uno né l’altro. Del resto, il mio vero tesoro siete voi, amico mio, quello che mi attendeva sotto le tetre volte di questa prigione siete voi, è la vostra presenza, il nostro convivere cinque o sei ore del giorno assieme eludendo la vigilanza dei nostri carcerieri. Sono questi raggi d’intelligenza che voi avete versato nel mio intelletto, queste lingue che avete conficcato nella mia memoria, con tutte le loro ramificazioni filosofiche. Queste scienze diverse che mi avete rese così facili con la profondità della conoscenza che me ne avete data, e con la chiarezza dei principi a cui le riduceste. Ecco il mio tesoro, amico, ecco in che modo mi avete fatto ricco e felice. Credetemi e consolatevi: ciò per me val molto più delle verghe d’oro e delle casse di diamanti, quand’anche non fossero così problematiche, come le nubi che si vedono la mattina ondeggiare sul mare, che si prendono per terraferma e che evaporano, si volatizzano, svaniscono man mano che uno si avvicina. Vedervi vicino a me per il più lungo tempo possibile, ascoltare la vostra voce eloquente, ornare il mio spirito, ritemprare l’anima mia, rendere tutto me stesso capace di grandi e terribili cose, se mai un giorno sarò libero, darmi aiuto così bene che la disperazione alla quale ero sul punto di abbandonarmi quando vi conobbi, non ritrova più posto; ecco tutta la mia fortuna: questa non è chimerica, io la debbo realmente a voi, e tutti i sovrani della terra, fossero essi anche tanti Cesari Borgia, non riuscirebbero a togliermela.»

Così i giorni seguenti, se non furono giorni felici per i due prigionieri, passarono però molto in fretta. Faria che aveva custodito il segreto del suo tesoro per tanto tempo, ora ne parlava a ogni circostanza.

Come aveva previsto, restò paralizzato dal lato destro ed egli stesso perse ogni speranza di potersene servire. Ma pensava sempre al suo compagno, a una liberazione o a una evasione, e ne godeva per lui. Per timore che la lettera potesse un giorno perdersi o cancellarsi aveva obbligato Dantès a impararla a memoria, e Dantès la sapeva dalla prima all’ultima parola. Allora distrusse la seconda parte, certo che poteva essere ritrovata la prima, senza che ne fosse indovinato il vero senso.

Qualche volta passava delle ore intere nel dare istruzioni a Dantès, istruzioni che dovevano servirgli nei giorni della sua libertà.

Una volta libero, dal giorno, dall’ora, dal momento in cui sarebbe stato libero, non doveva più avere che un solo e unico pensiero, quello di arrivare a Montecristo in qualunque modo, restarvi solo con un pretesto che non desse sospetto, e una volta là, una volta solo, cercare di ritrovare le grotte meravigliose, scavare nel luogo indicato, nell’interno della seconda grotta.

Aspettando in tal modo, le ore passavano, se non rapide, almeno sopportabili. Faria, come abbiamo detto, senza aver recuperato l’uso della mano e del piede, aveva recuperato tutta la chiarezza della sua intelligenza e aveva insegnato al suo giovane compagno un poco alla volta, oltre le cognizioni morali, di cui si è detto in dettaglio, quell’arte sapiente e sublime del prigioniero che dal niente sa trarre qualsiasi cosa.

Faria per timore di vedersi invecchiare, Dantès per il timore di ricordarsi il suo passato quasi estinto, e che non era presente più nel fondo della sua memoria, come perduto nella notte: tutto procedeva come in quelle esistenze dove l’infelicità non ha scomposto nulla, e che passano macchinalmente e con calma sotto l’occhio della Provvidenza. Ma sotto questa calma superficiale esistevano nel cuore del giovane, e fors’anche del vecchio, molti slanci trattenuti, molti sospiri soffocati, che Faria faceva quando era solo, Edmond quando rientrava nella sua cella.

Una notte Edmond si svegliò, come scosso, credendo di aver udito chiamare; aprì gli occhi e tentò di squarciare la fitta oscurità.

Il suo nome, o piuttosto una voce lamentosa che tentava di articolare il suo nome, giunse fino a lui. Si drizzò sul letto, il sudore dell’angoscia gli imperlava la fronte, e ascoltò.

Non c’era alcun dubbio: il lamento veniva dalla cella del suo compagno.

«Mio Dio», esclamò Dantès, «sarebbe forse…»

Spostò il suo letto, levò la pietra, si lanciò nel cunicolo sotterraneo, giunse all’opposta estremità, la pietra era alzata.

Alla luce incerta e vacillante di quella lampada di cui abbiamo altre volte parlato, Edmond vide il vecchio, che pallido e ancora ritto, si aggrappava al legno del letto. I suoi lineamenti erano sconvolti da quegli orribili sintomi che già conosceva, e che tanto lo spaventarono la prima volta.

«Ebbene, amico mio», disse Faria rassegnato, «capite? Non occorre che vi spieghi altro.»

Edmond gettò un grido doloroso, e del tutto smarrito si lanciò verso la porta gridando: «Soccorso, soccorso!»

Faria ebbe ancora la forza di fermarlo per un braccio.

«Silenzio», disse, «o siete perduto! Non pensiamo più che a voi, caro amico, a rendere la vostra prigionia sopportabile o la vostra fuga possibile. Vi servirebbero molti anni per rifare da solo tutto ciò che io ho fatto qui, e che sarebbe distrutto sull’istante se i nostri sorveglianti sapessero della nostra amicizia. D’altronde state tranquillo, amico mio, il carcere che abbandono non resterà lungamente vuoto: un altro disgraziato verrà a prendere il mio posto. A quest’altro voi comparirete come un angelo salvatore. Quest’altro sarà forse giovane, forte, paziente come voi. Quest’altro potrà aiutarvi nella vostra fuga, mentre io non ero ormai altro che un impedimento. Non avrete più un mezzo cadavere d’ostacolo ai vostri movimenti. Decisamente Dio fa finalmente qualche cosa per il vostro bene: vi dà più di ciò che vi toglie, ed è giusto ora ch’io muoia.»

Edmond non poté far altro che unire le mani ed esclamare: «Oh, amico mio, amico mio, tacete».

Quindi riprendendo la sua forza, un istante perduta dal colpo imprevisto, e il suo coraggio piegato dalle parole del vecchio: «Oh», disse, «vi ho salvato una volta, vi salverò la seconda».

E sollevando il piede del letto ne cavò la boccettina in cui c’era ancora un terzo del liquore rosso.

«Ecco», disse, «di questa bevanda salutare ve ne resta ancora. Presto, presto, ditemi ciò che devo fare. Questa volta vi sono nuove istruzioni da aggiungere? Parlate, amico mio, vi ascolto.»

«Non c’è alcuna speranza», rispose Faria, scuotendo la testa, «ma non importa. Dio vuole che l’uomo da lui creato e nel cuore del quale ha profondamente scolpito l’amore della vita, faccia tutto ciò che può per conservare questa esistenza, spesso penosa, ma sempre cara.»

«Oh sì, sì», rispose Dantès, «e io vi salverò.»

«Ebbene, dunque, tentate, il freddo mi prende, sento il sangue affluire al cervello; quest’orribile tremito che mi fa battere i denti e sembra slogarmi le ossa, comincia a scuotere il mio corpo. Tra cinque minuti la crisi scoppierà, fra un quarto d’ora non vi sarà altro di me che un cadavere.»

«Ah!» esclamò Dantès, col cuore lacerato dal dolore.

«Voi farete come l’altra volta, soltanto non aspetterete così a lungo. A quest’ora tutte le molle della mia vita sono consunte, e la morte non avrà più…» mostrando il braccio e la gamba paralizzata, «…non avrà più che la metà del suo lavoro da fare. Se, dopo avermi versato dodici gocce in bocca, invece di dieci, voi vedete che io non rinvengo, allora verserete il rimanente. Frattanto portatemi sul letto perché non posso più reggermi in piedi.»

Edmond prese il vecchio fra le sue braccia e lo stese sul letto.

«Ora, amico», disse Faria, «sola consolazione della mia misera vita, voi, che il cielo mi dette un po’ tardi, ma pure mi dette qual dono inapprezzabile di cui lo ringrazio, nell’istante in cui sto per separarmi per sempre da voi, vi auguro tutto il bene, tutta la felicità che meritate. Figlio mio, vi benedico!»

Dantès si gettò in ginocchio, appoggiando la testa sopra il letto del vecchio.

«Ma prima di ogni altra cosa, ascoltate bene ciò che vi dico in questo istante supremo: il tesoro di Spada esiste, Dio permette che non vi sia più per me né distanza né ostacolo. Io lo vedo nel fondo della seconda grotta, i miei occhi penetrano la profondità della terra e restano abbagliati da tante ricchezze… Se voi riuscite a fuggire, ricordatevi che il povero Faria da tutti creduto pazzo, non lo era. Correte a Montecristo, approfittate della fortuna, approfittatene, voi, che avete sofferto abbastanza…»

Una scossa violenta interruppe il vecchio, Dantès rialzò la testa e vide che i suoi occhi s’iniettavano di rosso, come se un’onda di sangue fosse salita dal petto alla fronte.

«Addio, addio!» mormorò il vecchio, stringendo convulsamente la mano al giovane, «addio!…»

«Oh, non ancora, non ancora», esclamò questi. «Non mi abbandonate.»

«Oh, mio Dio! Soccorretelo… aiuto… aiuto!…»

«Silenzio, silenzio!» mormorò il moribondo. «Che non ci separino, se volete salvarmi.»

«Avete ragione. Oh sì, state tranquillo, vi salverò… Sebbene soffriate molto, sembrate soffrir meno della prima volta…»

«Oh, disingannatevi, io soffro meno perché ho minor forza. Alla vostra età si ha fede nella vita, è il privilegio della gioventù di credere e sperare; ma la vecchiaia vede più chiaramente la morte. Oh! eccola… viene… tutto è finito… la mia vista si perde… la mia ragione svanisce… la vostra mano Dantès… addio!…»

E riunendo tutte le sue forze e le sue facoltà fece un ultimo sforzo per rialzarsi dicendo: «Montecristo… non dimenticate Montecristo…»

E ricadde sul letto.

La crisi fu terribile: membra contorte, pupille gonfiate, schiuma sanguinolenta, un corpo senza movimento, ecco ciò che restò su quel letto di dolore, nel posto dove un momento prima era stato disteso un essere intelligente.

Dantès prese la lampada, la posò al capezzale del letto sopra una pietra sporgente, da dove la sua luce tremante rischiarava con uno strano e fantastico riflesso quel viso scomposto e quel corpo inerte e rigido. Là, con gli occhi fissi, aspettò intrepidamente l’istante per somministrare il salutare rimedio.

Quando credette giunto il momento, prese il coltello, disserrò i denti che offrivano meno resistenza della prima volta, contò una dopo l’altra le dodici gocce, e aspettò. La boccettina conteneva ancora il doppio circa di ciò che aveva versato. Aspettò dieci minuti, un quarto d’ora, una mezz’ora, niente. Tremante, coi capelli irti, la fronte ghiacciata di sudore, contava i secondi coi battiti del cuore.

Allora pensò che era tempo di tentare l’ultima prova: avvicinò la boccettina alle labbra violacee di Faria, e senza aver bisogno di scostare le mascelle, rimaste aperte, versò il rimanente del liquore che conteneva.

Il rimedio produsse un effetto galvanico, un violento tremore scosse le membra del vecchio, i suoi occhi si riaprirono, spaventosi a vedersi, gettò un sospiro che sembrò un grido, quindi quel corpo tremante si calmò a poco a poco sino all’immobilità; i soli occhi rimasero aperti.

Una mezz’ora, un’ora, un’ora e mezzo passarono. Durante quest’ora e mezzo d’angoscia, Edmond curvo sull’amico, con la mano sul suo petto sentì successivamente quel corpo raffreddarsi, e quel cuore spegnere il suo battito sempre più sordo e profondo.

Finalmente sopraggiunse l’ultimo fremito del cuore, la faccia divenne livida, gli occhi rimasero aperti, lo sguardo si fece vitreo.

Erano le sei del mattino, il giorno cominciava a sorgere, il suo raggio malinconico entrava nella cella e faceva impallidire la luce della lampada vicina a spegnersi. Riflessi strani passavano sul viso del cadavere dandogli di tempo in tempo apparenze di vita.

Fino a che durò questa lotta, tra il giorno e la notte, Dantès poté ancora dubitare, ma da che il giorno vinse, fu certo d’essere in compagnia di un cadavere. Allora un terrore profondo e invincibile s’impadronì di lui: non osò più stringere quella mano che pendeva fuori dal letto, non osò più fissare i suoi occhi su quelli immobili e bianchi, che tentò inutilmente più volte di chiudere, e che sempre si riaprivano. Spense la lampada, la nascose con ogni cura, fuggì, rimettendo alla meglio la pietra al di sopra della sua testa. Del resto era tempo, il carceriere stava per venire.

Questa volta il carceriere cominciò la sua visita da Dantès: uscendo dalla sua cella, egli passava in quella di Faria al quale portava la colazione e la biancheria. Niente faceva capire in quest’uomo, che fosse a conoscenza dell’accaduto.

Quando lui uscì, Dantès fu preso da un’indicibile impazienza di sapere ciò che sarebbe accaduto nella cella del suo disgraziato amico: rientrò dunque nel passaggio sotterraneo, e giunse in tempo per sentire le esclamazioni del carceriere che chiamava aiuto. Ben presto entrarono altri carcerieri, poi s’intese quel passo pesante e regolare, comune ai soldati anche quando sono fuori del loro servizio.

Dietro i soldati, giunse il governatore.

Edmond sentì il rumore del letto sul quale veniva scosso il cadavere, intese la voce del governatore che ordinava di gettargli acqua sul viso, e che poi, visto inutile ogni tentativo, mandava a chiamare il medico, d’urgenza.

Il governatore uscì, e giunsero alle orecchie di Dantès alcune parole di compassione, miste a risa e facezie dei carcerieri.

«Andiamo, andiamo», diceva uno di questi, «il pazzo è andato a raggiungere i suoi tesori: buon viaggio.»

«Non avrà, con tutti i suoi milioni, di che pagare il suo lenzuolo funebre», diceva l’altro.

«Oh», faceva eco un terzo, «le lenzuola del castello d’If non costano molto.»

«Può essere che, essendo un abate, gli vorranno usare qualche riguardo.»

«Allora avrà l’onore del sacco.»

Edmond ascoltava, non perdeva una parola, ma non capiva bene il significato delle loro frasi.

Ben presto le voci cessarono e gli sembrò che i carcerieri lasciassero la stanza. Ciononostante, egli non osò entrarvi, potevano aver lasciato qualche carceriere a vegliare il morto.

Dopo un’ora circa, il silenzio si animò debolmente, quindi andò crescendo il rumore. Era il governatore che tornava seguito da un medico e da diversi ufficiali.

Si rinnovò per un momento il silenzio: era evidente che il medico si accostava al letto ed esaminava il cadavere.

Ben presto il dialogo ricominciò: il medico analizzò il male di cui era stato vittima il prigioniero, e dichiarò che era morto.

Domande e risposte si facevano con una noncuranza che indignò Dantès.

Gli sembrava che tutti avrebbero dovuto sentire per il povero Faria una parte dell’affetto che gli portava.

«Sono dispiaciuto per ciò che mi annunciate», disse il governatore, alla certezza dal medico che il vecchio fosse realmente morto; «era un prigioniero docile, inoffensivo, divertente con la sua follia, e soprattutto facile a sorvegliarsi.»

«Oh», riprese il carceriere, «si sarebbe potuta risparmiare qualunque sorveglianza. Garantisco che sarebbe potuto restar qui cinquant’anni, senza fare il più piccolo tentativo di evasione.»

«Frattanto», riprese il governatore, «non che io dubiti della vostra scienza, ma è necessario, per la mia responsabilità, assicurarci che il prigioniero sia realmente morto.»

Si fece un nuovo silenzio, e Dantès sempre in ascolto suppose che il medico esaminasse e palpasse una seconda volta il cadavere.

«Potete stare tranquillo», disse il medico, «è effettivamente morto, e io me ne assumo la responsabilità.»

«Voi sapete, signore», riprese il governatore insistendo, «che noi non ci accontentiamo, in casi simili a questo, di un semplice esame. Perciò malgrado le apparenze vi prego di adempiere a tutte le formalità di legge.»

«Che si faccia arroventare un ferro», disse il medico, «ma in verità, questa è una precauzione inutile.»

L’ordine di arroventare un ferro fece fremere Dantès.

S’intesero dei passi frettolosi, il cigolio della porta, qualcuno andare e venire, e dopo pochi istanti un carceriere rientrò dicendo: «Ecco un braciere con un ferro».

Si rinnovò il silenzio per un momento, poi s’intese lo sfrigolio delle carni che bruciavano e il cui odore nauseabondo penetrò perfino dietro il nascondiglio di Dantès che lo sentì con orrore.

A quell’odore di carne carbonizzata, il sudore scaturì dalla fronte del giovane che per un istante credette di svenire.

«Voi vedete», disse il medico, «che è veramente morto. Questa bruciatura al tallone è decisiva, il povero pazzo è guarito dalla sua follia e liberato dalla sua prigionia.»

«Non si chiamava Faria?» domandò uno degli ufficiali che accompagnavano il governatore.

«Sì», rispose questi, «e pretendeva che questo fosse un nome antico. Però era molto dotto e molto ragionevole su tutti i punti che non avevano relazione con il suo tesoro, ma su questo, bisogna convenire, era intrattabile.»

«È l’affezione che noi chiamiamo monomania», disse il medico.

«Non avete mai avuto di che lamentarvi di lui?» domandò il governatore a quel carceriere incaricato di portargli il cibo.

«Mai, signor governatore», rispose il carceriere, «mai, assolutamente. A volte anzi mi divertiva molto raccontandomi delle storie, e un giorno che mia moglie era malata mi scrisse una ricetta che la guarì.»

«Ah, ah», fece il medico, «ignoravo di aver a che fare con un collega. Spero, signor governatore», aggiunse ridendo, «che riguardo a questo, lo tratterete con considerazione.»

«Sì, sì, state tranquillo, sarà decentemente sepolto nel sacco più nuovo che si potrà trovare: siete contento?»

«Dobbiamo adempiere a quest’ultima formalità alla vostra presenza, signor governatore?» domandò un carceriere.

«Senza dubbio, ma sbrigatevi; non posso restare in questa stanza tutta la giornata.»

Si sentirono di nuovo dei passi: un istante dopo il rumore di una tela spiegazzata giunse alle orecchie di Dantès: il letto scricchiolò sulle traverse, un passo come di chi porta un peso gravò sulla pietra sotto cui stava Dantès, quindi il letto tornò a scricchiolare sotto il peso che gli si rendeva.

«A questa sera», disse il governatore.

«La messa vi sarà?» domandò un ufficiale.

«Impossibile», disse il governatore. «Il cappellano del castello venne ieri a chiedermi un permesso di otto giorni per fare un breve viaggio a Hyères. Glieli ho concessi, immaginando che nessun prigioniero sarebbe morto durante la sua assenza; il povero Faria non doveva aver tanta fretta se voleva il suo requiem.»

Intanto si compivano i preparativi per la sepoltura.

«A questa sera», disse il governatore, quando furono finiti.

«A che ora?» domandò il carceriere.

«Fra le dieci e le undici.»

«Si deve vegliare il morto?»

«E perché? Si chiuda la cella, come se fosse vivo, e nient’altro.»

Allora i passi si allontanarono, le voci gradatamente si spensero, si fece sentire il cigolio dei cardini della porta che si chiudeva e lo stridere della serratura.

Un silenzio più tetro di quello della solitudine, il silenzio della morte, invase tutto, perfino l’anima agghiacciata del giovane. Allora sollevò lentamente la pietra sulla sua testa, e gettò uno sguardo indagatore nella cella: la cella era vuota.

Dantès uscì dal suo nascondiglio.

20. Il cimitero del castello d’If

Sopra il letto, disteso in tutta la sua lunghezza e appena rischiarato dal chiarore un giorno nebbioso che penetrava attraverso la finestra, si poteva vedere un sacco di tela grossa sotto le cui larghe pieghe si distingueva confusamente una forma lunga, irrigidita: questo era il lenzuolo funebre di Faria, un lenzuolo di scarso valore al dire degli stessi carcerieri.

In tal modo tutto era finito. Una separazione materiale già esisteva fra Dantès e il vecchio amico: egli non poteva vedere più i suoi occhi rimasti aperti per guardare al di là della morte, non poteva più stringere quella mano operosa che aveva sollevato il velo che copriva tante cose nascoste. Faria, l’utile, il buon compagno al quale si era unito con tanto interesse, non esisteva più che nella sua memoria! Allora si sedette ai piedi di quel terribile letto e s’immerse in una cupa e amara melanconia.

Infine era solo, solo! Era ricaduto nel silenzio, si ritrovava in faccia al niente! Solo, non più la vista, non più la voce dell’unico essere umano che ancora lo teneva attaccato alla terra! Non era meglio morire, anche col rischio di passare per la lugubre porta dei patimenti? L’idea di un suicidio, scacciata dal suo amico, allontanata dalla sua presenza, ritornava allora a drizzarsi come un fantasma vicino al letto di Faria.

«Se potessi morire», disse, «andrei dove è andato lui. Ma come si fa a morire? È facile», riprese ridendo. «Resto qui, mi getto sul primo che entra, lo strangolo e sarò ghigliottinato.»

Ma poiché accade che tanto nei grandi dolori, quanto nelle grandi tempeste l’abisso si trova fra le due sommità dei flutti, così Dantès indietreggiò all’idea di questa morte infamante e precipitosamente discese da questa disperazione a una sete ardente di vita e di libertà.

«Morire! No, no!» esclamò. «Non vale la pena di aver vissuto tanto, di aver tanto sofferto, per morire così. Morire era bene, quando avevo preso la decisione l’altra volta, tanti anni fa, ma ora sarebbe veramente troppo. No, io voglio vivere, voglio lottare fino all’ultimo, voglio riconquistare quella felicità che mi fu tolta. Prima di morire, dimenticavo che ho i miei carnefici da punire e forse anche qualche amico da ricompensare. Ora sarò dimenticato qui, e non uscirò dal mio carcere che nello stesso modo di Faria.»

A tale parola Edmond restò immobile, con gli occhi fissi, come colui che viene colpito da una repentina idea, da un’idea che spaventa. D’un tratto si alzò, portò la mano alla fronte come avesse le vertigini, fece due o tre giri intorno alla stanza, e tornò a fermarsi davanti al letto.

«Oh, chi mi manda questo pensiero? Sei tu, o mio Dio? Poiché i soli morti escono liberamente da qui, prendiamo il posto dei morti.»

Poi, senza aspettare il tempo di pentirsi di questa decisione, senza pensarci oltre per timore di distruggere questa disperata decisione, si chinò sopra il macabro sacco, l’aprì col coltello fatto da Faria, levò il cadavere dal sacco, lo trascinò nella propria cella, lo depose sul suo letto, gli pose in capo quel pezzo di tela con cui usava coprirsi, baciò un’ultima volta quella fronte ghiacciata, provò nuovamente a chiudere quegli occhi ribelli che continuavano a rimanere aperti, voltò la testa dalla parte del muro, affinché il carceriere, portando il cibo della sera, potesse credere che dormisse, cosa che non di rado accadeva, rientrò nel sotterraneo, tirò a sé il letto contro il muro, giunse nell’altra cella, prese dal nascondiglio l’ago e il filo, si levò i suoi cenci affinché sotto la tela sentissero le carni nude, entrò nel sacco, si pose nella stessa posizione in cui era il cadavere, e richiuse il sacco con una cucendolo dal di dentro. Si sarebbe potuto sentire il battito del suo cuore, se per disgrazia in quel momento fosse entrato qualcuno.

Dantès avrebbe potuto aspettare la visita della sera, ma temeva che il governatore avesse potuto cambiare idea, facendo portar via il cadavere qualche tempo prima.

A quel punto la sua ultima speranza si sarebbe perduta.

Il suo piano era stabilito, ecco ciò che egli contava di fare: se durante il tragitto i becchini si fossero accorti di portare un vivo invece di un morto, Dantès non avrebbe lasciato loro il tempo di verificarlo: con un vigoroso colpo di coltello avrebbe aperto il sacco, approfittando del loro terrore, e sarebbe fuggito. Se avessero voluto fermarlo si sarebbe battuto col coltello. Se lo avessero condotto al cimitero e deposto in una fossa, si sarebbe lasciato coprire di terra; quindi essendo notte, appena i becchini avessero voltato le spalle, si sarebbe aperto un passaggio attraverso la terra molle e sarebbe fuggito. Egli sperava che il peso della terra non sarebbe stato tanto grande da non poterlo sollevare. Se poi s’ingannava, se al contrario il peso della terra fosse stato così forte da morirne soffocato, tanto meglio: tutto sarebbe finito!

Dantès non aveva mangiato dal giorno innanzi. Ma nella mattinata non aveva pensato alla fame, e non vi pensava neppure allora. La sua posizione era troppo precaria per lasciargli l’agio di fermare il suo pensiero su altre idee. Il primo pericolo che correva Dantès, era che il carceriere, portando il vitto delle sette, si fosse accorto della sostituzione. Fortunatamente, più di venti volte, tanto per misantropia che per stanchezza, Dantès aveva ricevuto il carceriere addormentato e in questi casi, di solito, quell’uomo deponeva il pane e la minestra sulla tavola e usciva senza dir parola. Ma questa volta il carceriere poteva derogare dalle sue abitudini di mutismo, interrogare Dantès, e vedendo che non gli rispondeva, avvicinarsi al letto e scoprir tutto.

Allorché si avvicinarono le sette, cominciarono le vere angosce di Dantès. Si sforzava di comprimere con la mano il petto per moderare i palpiti del cuore, mentre con l’altra si asciugava il sudore che scorreva lungo le tempie, dei brividi agitavano tutto il corpo, e di tratto in tratto gli stringevano il cuore, come una morsa ghiacciata. Allora credeva di morire.

Le ore passarono senza alcun movimento sospetto nel castello e Dantès si persuase che aveva evitato il primo pericolo. Ciò era di buon augurio.

Finalmente, verso l’ora stabilita dal governatore, cominciarono a sentirsi dei passi sulla scala. Edmond capì che era giunto il momento.

Si armò di tutto il suo coraggio, trattenne il respiro, e sarebbe stato pienamente contento se avesse potuto trattenere ugualmente le pulsazioni delle arterie.

Udì un rumore alla porta, il passo era doppio.

Dantès sospettò che fossero i due becchini che venivano a prenderlo. Questo sospetto si cambiò in certezza quando intese il rumore che fecero nel deporre la barella.

La porta s’aprì, una luce giunse fino agli occhi di Dantès.

Attraverso la tela che lo copriva, vide due ombre che si avvicinavano al letto. Una terza restava alla porta, tenendo in mano un lanternone.

I due uomini che si erano accostati al letto afferrarono il sacco alle due estremità.

«Perbacco, per essere un vecchio magro, è piuttosto pesante!» disse quello che lo sollevava dalla testa.

«Si dice che ogni anno le ossa diventino più pesanti di mezza libra…» disse l’altro, che lo prendeva per i piedi.

«Hai fatto bene il nodo?» domandò il primo.

«Sarebbe da bestia il caricarci di un peso inutile», rispose il secondo, «lo farò quando siamo giù.»

«Hai ragione; andiamo, dunque.»

«Perché questo nodo?» si domandò Dantès.

Il presunto morto fu trasportato dal letto alla barella.

Edmond s’irrigidiva per meglio rappresentare la parte del defunto.

Fu adagiato sulla barella, e l’esiguo corteo, rischiarato dall’uomo che portava il lanternone, e che camminava avanti, risalì la scala.

D’un tratto avvertì l’aria fresca e libera della notte.

Dantès riconobbe il maestrale. Quella sensazione così improvvisa fu per lui di delizia a un tempo e d’angoscia. I portatori fecero una ventina di passi, poi si fermarono e deposero al suolo la barella.

Uno dei portatori si allontanò, e Dantès intese gli stivali sulle pietre.

«Dove sono adesso?» si chiese Dantès.

«Sai che non è leggero affatto?» disse quello che era vicino a Dantès sedendosi sull’orlo della barella.

Il primo impulso di Dantès fu quello di disfarsi di lui; fortunatamente si trattenne.

«Fammi lume, animale», disse quello dei portatori che si era allontanato, «o non troverò ciò che cerco.»

L’uomo col lanternone obbedì, sebbene l’ingiunzione fosse stata fatta poco garbatamente.

«E che cosa cerca?» si domandò nuovamente Dantès. «Una pala senza dubbio.»

Un’esclamazione di soddisfazione indicò che il becchino aveva trovato ciò che cercava.

«Finalmente!» disse l’altro. «Ce n’è voluto…»

«Sì», rispose il primo, «ma non avrà perduto niente ad aspettare.»

A queste parole si avvicinò a Edmond, che sentì deporre vicino a lui un corpo pesante e sonoro: nel medesimo istante una corda circondò i suoi piedi fino a fargli male.

«Ebbene, è fatto il nodo?» domandò il becchino rimasto inattivo.

«Ed è fatto bene», disse l’altro, «non temere.»

«Allora, andiamo.»

E sollevata la barella, si rimisero in cammino.

Fecero una cinquantina di passi circa, poi si fermarono per aprire una porta, quindi proseguirono: il rumore delle onde che s’infrangevano contro gli scogli sui quali sorgeva il castello giungeva sempre più distintamente all’orecchio di Dantès man mano che avanzavano.

«Cattivo tempo!» disse uno dei becchini. «Non è una bella cosa trovarsi in mare con questa nottata.»

«Sì», disse l’altro, «l’abate corre il rischio di bagnarsi.»

Ed entrambi scoppiarono in una risata.

Dantès non comprese bene il significato dello scherzo, ciononostante gli si drizzarono i capelli in testa.

«Bene, eccoci arrivati…» riprese il primo.

«Più avanti, più avanti», disse l’altro, «sai che l’ultimo si sfracellò sopra uno scoglio, e che il governatore ci disse l’indomani che non eravamo buoni a niente.»

Furono fatti ancora cinque o sei passi sempre salendo, quindi Dantès sentì che veniva preso per la testa e per i piedi, e che tutto il suo corpo veniva fatto dondolare.

«Uno», dissero i becchini, «due, e tre!…»

E nello stesso tempo si sentì lanciato in un enorme vuoto, traversando lo spazio come un uccello ferito, e cadendo, sempre con uno spavento che gli ghiacciava il cuore.

Sebbene tirato in basso da qualche cosa di pesante che accelerava ancor più la sua rapida caduta, gli sembrò che questa durasse un secolo.

Finalmente, con un tonfo spaventoso, entrò come un dardo in un’acqua gelida, che gli fece gettare un grido, subito soffocato dall’immersione.

Dantès era stato lanciato in mare e veniva trascinato a fondo da una grossa pietra attaccata ai piedi.

Il mare è il cimitero del castello d’If.

21. L’isola di Tiboulen

Dantès, pur stordito, fin quasi soffocato, trovò la presenza di spirito necessaria a trattenere il respiro, e dal momento che aveva la mano destra armata di coltello, pronta a qualunque evento, come si disse, sventrò rapidamente il sacco, sfilò il braccio, quindi la testa. Ma, nonostante tutti gli sforzi per sollevare la pietra, continuò a sentirsi tirare in basso, si curvò, cercò la corda che gli legava le gambe, e con uno sforzo supremo la troncò proprio nell’istante in cui stava per soffocare.

A quel punto, dando un vigoroso colpo di piede, risalì libero alla superficie dell’acqua, mentre la pietra trascinava nel più profondo del mare quel rozzo tessuto che per poco non era divenuto il suo sudario sepolcrale.

Dantès non prese che il tempo per respirare e s’immerse una seconda volta, perché la prima precauzione che doveva prendere era quella di evitare l’attenzione delle guardie.

Nell’istante in cui riemerse la seconda volta, era già lontano una cinquantina di passi dal luogo della sua caduta: vide al di sopra della sua testa un cielo nero e tempestoso sul quale il vento faceva scorrere rapidamente le nuvole, scoprendo a intervalli qualche piccolo punto azzurro, illuminato da una stella.

Davanti a lui si presentava la tetra e mugghiante pianura delle onde che cominciavano ad accavallarsi come segno di vicina tempesta, mentre dietro, più nero del mare, più nero del cielo, si innalzava come un fantasma minaccioso, il gigante di granito di cui la tetra punta sembrava un braccio steso per riafferrare la sua preda.

Sopra lo scoglio più alto vide un lanternone che rischiarava due ombre. Gli sembrava che quelle due ombre fossero chinate sul mare con inquietudine. Infatti, quei due strani becchini dovevano avere inteso il grido che aveva emesso nel traversare lo spazio.

Dantès si immerse di nuovo e fece un lungo tratto sott’acqua.

La manovra gli era familiare, e nell’insenatura del Faro gli attirava di solito molti ammiratori, che lo avevano sovente proclamato il più abile nuotatore di Marsiglia.

Allorché ritornò in superficie, il lanternone era scomparso.

Bisognava orizzontarsi.

Tra le isole che circondano il castello d’If, le più vicine sono Ratonneau e Pomègue; ma Ratonneau e Pomègue sono abitate, come pure l’isoletta di Daume. L’isola più sicura era dunque quella di Tiboulen o quella di Lemaire. Le isole di Tiboulen e di Lemaire sono distanti una lega dal castello d’If. Non per questo Dantès si astenne dal voler raggiungere una di queste due. Ma come ritrovare quelle isole in mezzo a una notte che s’imbruniva sempre più intorno a lui? In quel momento vide brillare come una stella il faro di Planier.

Dirigendosi in linea retta verso il faro lasciava l’isola di Tiboulen un poco a sinistra; tenendosi dunque verso quella parte doveva incontrare cammin facendo quell’isola. Ma, lo abbiamo detto, vi era almeno una lega dal castello d’If all’isola.

Faria, in prigione, aveva spesso ripetuto al giovane, vedendolo afflitto e ozioso: «Dantès, non vi lasciate andare a questa mollezza, annegherete se tenterete di fuggire e le vostre forze non saranno state esercitate…»

Sotto l’onda pesante e amara, queste parole erano venute a risuonare alle orecchie di Dantès; si era affrettato allora a risalire a galla e a fendere le onde per vedere se effettivamente aveva perduto le forze. Si accorse con gioia che la sua obbligata inazione nulla aveva tolto al suo vigore e alla sua agilità, e si convinse che era ancora padrone di quell’elemento di cui si era fatto gioco fin dall’infanzia. D’altronde, la paura, questa rapida persecutrice, raddoppiava il vigore di Dantès.

Egli ascoltava, sospeso sulla cima dei flutti, se qualche rumore giungeva al suo orecchio. Ogni volta che s’innalzava sulla cresta di un’onda, il suo rapido sguardo percorreva il visibile orizzonte e tentava di fendere la fitta oscurità.

Ogni onda più alta delle altre gli pareva una barca che lo inseguisse; e allora raddoppiava i suoi sforzi, che lo allontanavano, è vero, ma dovevano ben presto estenuare le sue forze.

Ciononostante nuotava, e già il terribile castello si perdeva nelle tenebre notturne. Non lo distingueva più, ma lo sentiva sempre.

Passò un’ora nella quale Dantès, esaltato dal sentimento di libertà che padroneggiava tutta la sua persona, continuò a fendere i flutti nella direzione stabilita.

«Vediamo», diceva tra sé, «è un’ora che nuoto; ma siccome il vento è contrario, ho dovuto perdere rapidità. Frattanto, a meno che non abbia sbagliato direzione, non devo essere molto lontano da Tiboulen. Ma se mi fossi sbagliato?»

Un fremito scosse tutto il corpo del nuotatore. Tentò di fare un poco il morto, per riposarsi, ma il mare aumentava la sua forza, e comprese ben presto che questo sollievo, sul quale aveva contato, diveniva impossibile.

«Ebbene», disse, «nuoterò fino all’ultimo, sino a che le mie braccia si stanchino, sino a che le mie gambe si irrigidiscano, sino a che i crampi investano tutto il mio corpo, e poi andrò a fondo!»

Si rimise a nuotare con la forza e l’impulso della disperazione.

D’un tratto gli sembrò che il cielo, già tetro, si oscurasse ancor di più, che una nube densa, pesante, compatta, si abbassasse verso di lui; nel medesimo istante sentì un forte dolore al ginocchio.

L’immaginazione, con la sua incalcolabile prontezza, gli disse che quello era l’urto di una pallottola e immediatamente avrebbe sentito l’esplosione del colpo di fucile, ma l’esplosione non rintronò.

Dantès allungò la mano, e sentì resistenza. Ritirò l’altra gamba, e toccò terra. Vide allora che cos’era l’oggetto creduto una nube. A venti passi da lui s’innalzava un ammasso di scogli dalla forma bizzarra, che si sarebbero presi per fiamme pietrificate nell’istante della loro più ardente combustione. Era l’isola di Tiboulen.

Dantès si rialzò, fece qualche passo in avanti, e si sdraiò, ringraziando Dio, sopra quelle punte di granito che gli sembrarono più morbide del più soffice letto.

Quindi, a onta del vento, a onta della tempesta, a onta della pioggia che cominciava a cadere, stanco e affaticato com’era, s’addormentò di quel delizioso sonno dell’uomo in cui l’anima veglia nella coscienza di una gioia inattesa.

Di lì a un’ora, Edmond si svegliò all’immenso fragore di un tuono; la tempesta si era scatenata e batteva l’aria col suo volo rumoreggiante.

Di quando in quando, un lampo guizzava nel cielo come un serpente di fuoco, e illuminava i flutti e le onde, che si accavallavano come i vortici di un immenso caos.

Dantès, con l’occhio esperto del marinaio, non si era ingannato: era approdato alla prima delle due isole, che effettivamente era quella di Tiboulen; la sapeva nuda, scoperta e senza il minimo asilo. Ma quando la tempesta sarebbe cessata, egli si sarebbe rimesso in mare per raggiungere nuotando l’isola di Lemaire, ugualmente arida, ma più ampia e di conseguenza più ospitale.

Una roccia alquanto sporgente offrì un momentaneo asilo a Dantès ed egli vi si rifugiò, e quasi nel medesimo istante la tempesta scoppiò in tutto il suo furore.

Edmond sentiva tremare la roccia sotto la quale si era messo al coperto, e i flutti, frangendosi contro la base della gigantesca piramide, arrivavano a spruzzarlo. Per quanto fosse al sicuro, in mezzo a quel profondo fracasso, e a quei folgoranti bagliori, era preso da una specie di vertigine. Gli sembrava che l’isola tremasse sotto di lui e che da un momento all’altro stesse per venire trascinata, come un vascello all’ancora cui si siano spezzate le gomene, nell’immenso vortice.

Si ricordò allora che non mangiava da ventiquattr’ore, e aveva fame e sete. Stese le mani e la testa, e bevve l’acqua della tempesta che colava a rivoli dallo scoglio.

Quando si rialzò, un baleno che sembrava squarciasse il cielo fino al trono abbagliante di Dio, illuminò lo spazio.

Alla luce del lampo, Dantès, fra l’isola di Lemaire e il capo Croisselle, a un quarto di lega, vide, come uno spettro, scivolare dall’alto di un flutto al fondo di un abisso un peschereccio trasportato a un tempo dall’uragano e dall’onda.

Dopo un minuto il fantasma ricomparve sulla cima di un altro flutto avvicinandosi con una celerità spaventevole. Dantès volle gridare, cercò qualche straccio da agitare nell’aria per far capire che stavano per perdersi; ma lo vedevano da se stessi.

Al chiarore di un altro lampo il giovane vide quattro uomini aggrappati all’albero e alle funi; un quinto si teneva attaccato alla barra del timone rotto.

Quegli uomini lo videro anch’essi poiché grida disperate, e trasportate dalla fischiante bufera, giunsero al suo orecchio. Al di sopra dell’albero, troncato come un ramoscello, si agitavano, a colpi ripetuti e frequenti, gli avanzi di una vela a brandelli. A un tratto le funi che ancora la trattenevano, si ruppero e disparve, trasportata sotto la cupa profondità del cielo al modo di quei grandi uccelli bianchi sotto le nere nubi.

Nello stesso istante si udì uno scroscio orribile, e le grida di agonia giunsero fino a Dantès.

Aggrappato come una sfinge al suo scoglio da dove guardava l’abisso, un nuovo lampo gli mostrò il peschereccio in pezzi, e, fra i rottami, delle teste con i volti atterriti e delle braccia protese verso il cielo.

Poi tutto ritornò nella notte.

Il terribile spettacolo durò quanto un lampo.

Dantès si precipitò sul pendio sdrucciolevole delle rocce col pericolo di rotolare egli stesso in mare.

Guardò, ascoltò ma non intese né vide più nulla.

Non più grida, non più sforzi umani, la sola tempesta; questo grande spettacolo della natura, continuava a ruggire coi venti, a spumeggiare coi flutti.

Un poco per volta il vento si acquietò, il cielo spinse verso occidente dei grossi nuvoloni grigi, e, per così dire, scoloriti dall’uragano; il cielo ricomparve con le stelle più brillanti che mai; ben presto verso oriente, una lunga striscia rossastra disegnò sull’orizzonte delle ondulazioni di un nero azzurrognolo, le onde si commossero, un’improvvisa luce corse sulle loro cime, e cambiò le loro vette spumeggianti in criniere dorate.

Era il giorno.

Dantès restò immobile e muto davanti a un così grande spettacolo, come se fosse la prima volta che lo vedeva; lo aveva dimenticato nel lungo tempo trascorso nel castello d’If. Si rivolse alla fortezza, interrogando con un lungo sguardo la terra e il mare.

Il tetro edificio usciva dal seno delle onde con quella imponente maestà propria delle cose immobili che sembrano comandare e sorvegliare. Potevano essere le cinque del mattino; il mare continuava a calmarsi.

«Nel giro di due o tre ore», rifletteva Edmond, «il carceriere rientrerà nella mia cella, vi troverà il cadavere del mio povero amico, lo riconoscerà, mi cercherà invano e darà l’allarme. Allora scopriranno il foro e il cunicolo sotterraneo; verranno interrogati quelli che mi buttarono in mare e che devono aver udito il grido che gettai. Subito dopo tutte le barche cariche di soldati armati, correranno dietro il disgraziato fuggitivo che sapranno bene non poter essere lontano, il cannone avvertirà tutta la costa che è proibito dare asilo a un uomo errante, nudo, affamato. Le spie e gli sbirri di Marsiglia saranno avvertiti e perlustreranno la costa, mentre il governatore del castello d’If farà perlustrare il mare. Allora perseguitato nell’acqua, circondato sulla terra, che sarà di me? Ho fame, ho freddo, e ho perfino abbandonato il coltello salvatore d’impaccio per nuotare. Sono in balia del primo contadino che vorrà guadagnare venti franchi denunciandomi; non ho più né forza, né idee, né volontà. Oh, mio Dio, voi sapete quanto ho sofferto, e voi potete far di più per me, di quello che non ho potuto fare io stesso!»

Nel momento in cui Edmond, in una specie di delirio cagionato dallo spossamento delle sue forze, e dal vuoto del suo cervello, ansiosamente rivolto verso il castello d’If, pronunciava questa ardente preghiera, vide comparire sulla punta dell’isola di Pomègue spiegando la sua vela latina, un piccolo bastimento, che soltanto l’occhio di un marinaio poteva discernere, una tartana genovese, sulla linea ancora mezza oscura del mare.

Veniva dal porto di Marsiglia e guadagnava il largo levando innanzi all’acuta prua una scintillante schiuma che apriva una strada facile ai suoi rotondi fianchi.

«Oh», gridò Edmond, «in una mezz’ora potrei raggiungere quel naviglio se non temessi di essere interrogato, riconosciuto per un fuggitivo e ricondotto a Marsiglia! Che fare? Che dir loro? Quale favola inventare da cui possano rimanere ingannati? Quei marinai sono tutti contrabbandieri, sono quasi pirati e con la scusa di fare cabotaggio corseggiano le coste. Preferiranno vendermi piuttosto che fare una sterile ma buona azione. Aspettiamo… Ma aspettare è impossibile. Morrò di fame; fra qualche ora la poca forza che mi rimane sarà svanita; d’altronde l’ora della visita si avvicina… L’allarme non è ancora stato dato, forse non dubiteranno di nulla, posso farmi credere uno dei marinai del peschereccio naufragato stanotte. Questa favola non manca di verosimiglianza, e nessuno verrà a contraddirmi: sono tutti annegati.»

Dicendo queste parole, Dantès guardò nella direzione dove era naufragato il naviglio e rabbrividì. Sulla cresta di uno scoglio era rimasto il berretto frigio di uno dei marinai, e vicino a quello fluttuavano gli avanzi della carena, rottami inerti che il mare spingeva e respingeva contro la base dell’isola che percuotevano come imponenti arieti.

In un istante la decisione di Dantès fu presa: si rituffò in mare, nuotò verso il berretto, se lo mise in testa, afferrò un pezzo di trave sul quale si diresse per tagliare la linea che percorreva la tartana.

«Ora sono salvo», mormorò.

Questa convinzione gli rese le forze.

Ben presto s’accorse che la tartana, avendo il vento contrario, era spinta di bordata fra il castello d’If e la torre di Planier. Dantès temette per un istante che invece di costeggiare, il piccolo bastimento non guadagnasse il largo come avrebbe dovuto fare se la sua destinazione fosse stata la Corsica o la Sardegna, ma secondo il modo con cui manovrava, il nuotatore riconobbe ben presto che il naviglio, come è d’uso di chi fa vela per l’Italia, cercava di passare fra l’isola di Jaros, e quella di Calaseraigne.

Frattanto la nave e il nuotatore si avvicinavano l’uno all’altro; anzi, in una bordata, il piccolo bastimento si portò a circa un quarto di lega da Dantès. Egli si sollevò sulle onde agitando il suo berretto in segno di richiamo, ma nessuno del bastimento lo vide, che anzi virò di bordo e ricominciò una nuova bordata. Dantès pensò di chiamare, ma misurando con l’occhio la distanza, capì che la sua voce non poteva giungere al naviglio, deviata e coperta com’era dalla brezza e dal rumore delle onde.

Fu allora che si rallegrò della precauzione di aver preso quella trave.

Indebolito com’era, forse non avrebbe potuto stare a galla fino a raggiungere la tartana, e se la tartana passava senza vederlo, non avrebbe potuto riguadagnare la costa. Dantès, sebbene quasi certo della direzione che seguiva il bastimento, lo accompagnava con lo sguardo ansioso fino al momento in cui gli parve che ritornasse da lui.

Allora gli andò incontro; ma prima che si fossero raggiunti, il bastimento ritornò a virare di bordo. Subito Dantès, con un estremo sforzo, si alzò quasi in piedi sull’acqua, agitando il berretto e mandando uno di quei gridi lamentosi che emettono i marinai allo stremo, e che sembrano il lamento di qualche divinità marittima.

Questa volta fu visto e inteso.

La tartana interruppe la sua manovra, e voltò la prua dalla sua parte; nel medesimo tempo vide che si preparava a mettere una scialuppa in mare. Un istante dopo la scialuppa, montata da due uomini, si dirigeva verso di lui battendo il mare a quattro remi.

Dantès allora lasciò la trave di cui credeva di non aver più bisogno e nuotò vigorosamente per risparmiare metà cammino a coloro che venivano verso di lui.

Il nuotatore però aveva calcolato forze che non possedeva; allora comprese di quanta utilità gli sarebbe ancora stato quel pezzo di legno che già galleggiava a cento passi da lui. Le braccia cominciarono a irrigidirsi, le gambe avevano perso la flessibilità, i movimenti divenivano forzati e lenti, il petto anelante.

Gettò un secondo grido. I due rematori raddoppiarono l’energia e uno di essi gli gridò in italiano: «Coraggio!»

La parola gli giunse nel momento in cui un’onda, che non aveva avuto la forza di superare, passava sopra la sua testa e lo copriva di schiuma.

Egli ricomparve battendo le onde con i movimenti ineguali e disperati di un uomo che sta per annegare; mandò un terzo grido e si sentì sprofondare nel mare, come se avesse avuto ancora ai piedi la pietra mortale. L’acqua gli passò sopra la testa e attraverso ci vide il cielo livido con delle macchie nere.

Uno sforzo violento lo ricondusse in superficie. Gli sembrò allora di esser preso per i capelli, poi non vide più nulla, non intese più niente; era svenuto.

Quando riaprì gli occhi, Dantès si ritrovò sul ponte della tartana che continuava il suo cammino. Il suo primo sguardo fu per vedere quale direzione seguiva: continuava ad allontanarsi dal castello d’If.

Dantès era talmente spossato, che fu preso per un sospiro di dolore l’esclamazione di gioia che fece.

Come si disse, era steso sul ponte: un marinaio gli sfregava le membra con una coperta di lana, un altro, che riconobbe per quello che gli aveva fatto coraggio, gli introduceva in bocca il becco di una zucca marina che fungeva da fiasco; un terzo, vecchio marinaio, a un tempo pilota e padrone, lo guardava col sentimento di pietà egoista che provano in generale gli uomini per una disgrazia che essi hanno sfuggita, e che può all’indomani colpirli di nuovo.

Qualche goccia di rum, contenuto nella zucca, rianimò il cuore indebolito del giovane, mentre le frizioni, che il marinaio in ginocchio continuava a fare con la lana, ridavano elasticità alle sue membra.

«Chi siete?» domandò in cattivo francese il padrone.

«Sono», rispose Dantès in pessimo italiano, «un marinaio maltese. Venivamo da Siracusa carichi di vino e di tela. La tempesta di questa notte ci ha sorpresi al capo Morgiou, e siamo andati a infrangerci contro le rocce che vedete laggiù.»

«Da dove venite?»

«Da quelle rocce, dove ho avuto la fortuna di aggrapparmi, mentre il nostro povero capitano vi batteva la testa. Tre altri compagni sono annegati. Credo di essere il solo rimasto vivo. Ho scoperto il vostro naviglio e temendo di dovere aspettare lungamente su quell’isola deserta, mi sono azzardato sopra un rottame del nostro bastimento per tentare di raggiungervi. Grazie», continuò Dantès, «voi mi avete salvato la vita. Ero perduto quando uno dei vostri marinai mi ha afferrato per i capelli.»

«Sono io», disse un marinaio dalla figura franca e aperta, e un viso con lunghe basette nere, «ed era tempo, perché calavate a fondo.»

«Sì», disse Dantès tendendogli la mano, «sì, amico mio, vi ringrazio una seconda volta.»

«In fede mia», disse il marinaio, «ho quasi esitato… Con quella barba lunga sei pollici, e quei capelli lunghi un piede, avevate piuttosto l’aspetto di un brigante che di un galantuomo.»

Dantès si ricordò effettivamente che dal momento che era entrato nel castello d’If non aveva più tagliato i capelli, e non aveva fatto più la barba.

«Sì», disse, «è un voto fatto alla Madonna di Piedigrotta in un momento di pericolo: stare dieci anni senza tagliarmi né barba, né capelli. Oggi si compie l’espiazione del mio voto, e poco è mancato che non annegassi.»

«Ma ora che faremo di voi?» domandò il padrone.

«Ahimè», rispose Dantès, «ciò che vorrete. La feluca si è perduta e il capitano è morto. Come vedete, sono sfuggito alla medesima sorte, fortunatamente sono abbastanza un buon marinaio. Lasciatemi nel primo posto in cui prenderete terra, e troverò impiego sopra qualche bastimento mercantile.»

«Conoscete il Mediterraneo?»

«Vi navigo fino dalla mia infanzia.»

«Sapete dove sono i buoni ancoraggi?»

«Vi sono pochi porti, anche dei più difficili, nei quali io non possa entrare e uscire a occhi bendati.»

«Ebbene dite dunque, padrone», domandò il marinaio che aveva salvato Dantès, «se costui dice il vero, cosa impedisce che resti con noi?»

«Sì, se dice il vero», rispose il padrone con aria incredula, «ma nello stato in cui si trova questo povero diavolo si promette molto, e si mantiene poco.»

«Manterrò più di quello che vi ho promesso», disse Dantès.

«Oh oh!» fece il padrone ridendo. «Vedremo.»

«Quando vorrete», riprese Dantès alzandosi. «Dove andate?»

«A Livorno.»

«Allora, invece di correre delle bordate che vi fanno perdere un tempo prezioso, perché non serrate semplicemente il vento più da vicino?»

«Perché andremmo a cozzare contro l’isola di Rion.»

«Vi passerete a più di venti braccia di distanza.»

«Prendete dunque il timone», disse il padrone, «e noi giudicheremo della vostra maestria.»

Il giovane si mise al timone, si assicurò, con una leggera pressione, che il bastimento fosse obbediente, e vedendo che, senza essere molto obbediente, non si rifiutava, gridò: «Alle braccia e alle boline».

I quattro marinai che formavano l’equipaggio corsero al loro posto, mentre il padrone li guardava fare.

«Tirate», continuò Dantès.

I marinai obbedirono con molta precisione.

«Ora annodate bene.»

Quest’ordine fu eseguito come i due primi, e il piccolo bastimento, invece di continuare a correre delle bordate, cominciò a dirigersi verso l’isola di Rion, presso la quale passò come aveva predetto Dantès lasciandola alla sua destra per una ventina di braccia.

«Bravo!» disse il padrone.

«Bravo!» ripeterono i marinai.

E tutti guardarono meravigliati quell’uomo, il cui sguardo aveva riacquistato un’intelligenza, e il corpo un vigore che erano ben lontani dal supporre in lui.

«Vedete», disse Dantès lasciando il timone, «che io potrò esservi di qualche utilità, almeno durante la traversata. Se giunti a Livorno non mi vorrete più, ebbene, mi lascerete lì, e ai primi mesi di soldo vi rimborserò il cibo e gli abiti che vorrete prestarmi.»

«Sta bene, sta bene», disse il padrone, «potremo intenderci se sarete ragionevole.»

«Un uomo vale un altr’uomo», disse Dantès, «ciò che date ai compagni lo darete anche a me, e tutto è a posto.»

«Non è giusto», disse il marinaio che aveva salvato Dantès, «perché voi ne sapete più di noi.»

«Ciò non ti riguarda, Jacopo», disse il padrone, «ciascuno è libero d’impegnarsi per quella somma che più gli conviene.»

«Giusto», disse Jacopo, «non facevo che una semplice osservazione.»

«Farai meglio ancora a prestare a questo bravo giovane un paio di pantaloni e una giacchetta, se li hai in più.»

«No», disse Jacopo, «ma ho un paio di pantaloni e una camicia.»

«È quanto mi occorre», disse Dantès. «Grazie, amico mio.»

Jacopo si lasciò scivolare giù dal boccaporto e risalì un istante dopo con i due capi di vestiario, che Dantès indossò con una gioia indicibile.

«Vi occorre altro?» chiese il padrone.

«Un tozzo di pane e un altro sorso di quell’eccellente rum che ho assaggiato, essendo gran tempo che non mangio.»

Infatti, erano circa quaranta ore che non mangiava.

Fu portato a Dantès un pezzo di pane, e Jacopo gli offrì la zucca.

«Timone a basso-bordo», gridò il capitano, rivolto al timoniere.

Dantès volse lo sguardo dalla stessa parte portandosi la zucca alla bocca ma la zucca rimase a mezz’aria.

«Osservate», domandò il padrone, «che accade nel castello d’If?»

Di fatto, una piccola nube bianca, nube che aveva fermato l’attenzione di Dantès, sembrava coronare il merlo del bastione a sud del castello d’If.

Dopo un secondo, il rumore d’una lontana esplosione venne a spegnersi a bordo della tartana.

I marinai alzarono la testa guardandosi l’un l’altro.

«E che vuol dire questo?» domandò il padrone.

«Questa notte sarà evaso qualche prigioniero dal castello», disse Dantès, «e ora sparano il cannone per dare l’allarme.»

Il padrone fissò lo sguardo sul giovane che dicendo queste parole si era portata la zucca alla bocca; ma lo vide assaporare il liquore con tanta calma e soddisfazione, che se pure ebbe un qualche sospetto, questo sospetto non fece che attraversargli la mente, e subito si estinse.

«Ecco un rum diabolicamente forte», disse Dantès asciugandosi con la manica della camicia la fronte che grondava sudore.

«In ogni caso», mormorò il padrone guardandolo, «tanto meglio, perché così avrò fatto acquisto di un brav’uomo.»

Con il pretesto di essere stanco, Dantès chiese allora di sedersi al timone.

Il timoniere, ben contento di essere sollevato dalle sue mansioni, consultò con l’occhio il padrone, che gli fece segno con la testa che poteva affidare nelle mani del suo nuovo compagno la barra.

Dantès poté restare con gli occhi rivolti dalla parte di Marsiglia.

«Oggi quanti ne abbiamo del mese?» domandò Dantès a Jacopo che era venuto a sedere vicino a lui dopo aver perso di vista il castello d’If.

«È il 28 febbraio», rispose questi.

«Di che anno?» domandò ancora Dantès.

«Come di che anno?… Voi domandate di che anno?»

«Sì», rispose il giovane, «vi domando di che anno.»

«Avete dimenticato in che anno siamo?»

«Che volete? È stata così grande la paura di questa notte», disse ridendo Dantès, «in cui poco è mancato che non perdessi la vita, che la mia memoria ne è rimasta sconvolta: vi domando dunque di quale anno siamo noi al 28 di febbraio…»

«Dell’anno 1829», disse Jacopo.

Erano quattordici anni precisi dal giorno che Dantès era stato arrestato. Era entrato nel castello d’If a diciannove anni, e ne usciva a trentatré.

Un doloroso sorriso passò sulle sue labbra. Si chiedeva cosa era avvenuto di Mercedes durante questo tempo, in cui lo aveva dovuto credere morto.

Quindi un lampo d’ira s’accese nei suoi occhi pensando a quei tre uomini ai quali doveva una lunga e penosa carcerazione, e rinnovò contro Danglars, Fernando e Villefort quel giuramento d’implacabile vendetta che aveva già pronunciato nella sua cella, e questo giuramento non era più una vana minaccia, poiché a quell’ora, il più abile veleggiatore del Mediterraneo non avrebbe certo potuto raggiungere la piccola tartana che navigava a gonfie vele alla volta di Livorno.

22. I contrabbandieri

Non aveva passato ancora un giorno intero a bordo, ma Dantès già sapeva con chi aveva a che fare. Senza esser stato alla scuola dell’abate Faria, il degno padrone della Giovane Amelia (era questo il nome della tartana genovese) conosceva pressappoco tutte le lingue che si parlavano intorno a quel gran lago chiamato Mediterraneo, dall’arabo fino al provenzale; perciò senza aver bisogno d’interpreti, persone qualche volta noiose, qualche altra indiscrete, questa conoscenza delle lingue gli offriva grandi facilitazioni per comunicare, sia con i bastimenti che incontrava in mare, sia con le piccole barche in cui si imbatteva lungo le coste, sia finalmente con quella gente senza nome, senza patria, senza mestiere apparente, di cui c’è sempre un gran numero sulle coste vicine ai porti di mare, e che vivono di quelle misteriose e celate risorse, che bisogna credere vengano dall’alto, poiché non hanno alcun mezzo di esistenza visibile a occhio nudo.

Si indovinerà facilmente che Dantès era a bordo di un bastimento di contrabbandieri. Per questo il padrone sulle prime aveva ricevuto a bordo Dantès con una certa diffidenza. Era molto conosciuto da tutti i doganieri della costa, e siccome esisteva fra lui e questi signori un perfetto gioco di furberie, così aveva per un momento pensato che Dantès fosse un emissario della gabella, e che impiegasse quell’ingegnoso mezzo per scoprire qualcuno dei segreti del mestiere. Ma il modo brillante con cui Dantès si era tratto d’impaccio nel dirigere la tartana, l’aveva del tutto convinto.

Poi, quando aveva visto quella nube bianca che ondeggiava sul bastione del castello d’If, e aveva udito la lontana esplosione, ebbe per un momento l’idea di aver ricevuto a bordo colui al quale, come per entrata e uscita del re da una città, viene accordato l’onore dello sparo del cannone. Però ciò lo avrebbe inquietato meno che se il nuovo arrivato fosse appartenuto alla dogana; ma anche questa supposizione si era dissolta come la prima alla vista della totale tranquillità della sua recluta.

Edmond aveva perciò il vantaggio di conoscere il suo padrone, mentre questi non sapeva chi fosse. Da chiunque provenissero le domande, dal suo padrone o dai suoi compagni, egli tenne duro, e non fece alcuna rivelazione. Dando moltissimi indizi su Napoli e su Malta, che conosceva al pari di Marsiglia, sostenne sempre con precisione la sua narrazione in modo da fare onore alla sua memoria.

I genovesi, per quanto accorti, si lasciarono gabbare da Edmond, in favore del quale parlavano la sua affabilità, la sua esperienza nautica, e soprattutto la sua saggia dissimulazione. Forse anche quei genovesi erano uguali a quelle persone di mondo che non sanno mai altro che quello che devono sapere, e non credono mai altro che quello che hanno interesse di credere.

Fu in questa reciproca fiducia che giunsero a Livorno.

Edmond doveva tentare una prima prova: sapere se si sarebbe riconosciuto dopo quattordici anni che non vedeva il proprio volto. Conservata un’idea abbastanza precisa di ciò che era da ragazzo, voleva vedere cosa era divenuto da uomo.

Era già sceso a terra più di venti volte a Livorno, e conosceva un barbiere in via San Ferdinando, e andò da lui per farsi tagliare barba e capelli.

Il barbiere guardò con meraviglia quell’uomo dalla barba folta e nera e dai lunghi capelli, che assomigliava a una delle belle teste del Tiziano.

A quell’epoca non erano ancora di moda barba e capelli così lunghi; oggi un barbiere si meraviglierebbe se qualcuno dotato di questi vantaggi naturali acconsentisse a privarsene.

Il barbiere livornese però si mise all’opera senza fare domande.

Allorché l’operazione fu compiuta, quando Edmond sentì il suo mento perfettamente rasato, quando i suoi capelli furono ridotti alla ordinaria lunghezza, domandò uno specchio e si guardò.

Come detto, egli aveva allora trentatré anni, e i suoi quattordici anni di prigionia avevano apportato, per dir così, un gran cambiamento morale nella sua fisionomia. Dantès era entrato nel castello d’If con quel viso rotondo, ridente, aperto, che è proprio del giovane felice al quale i primi anni della vita sono stati benigni e che calcola sull’avvenire come su una naturale prosecuzione del passato.

Tutto ciò era molto mutato.

L’ovale del viso si era allungato di molto, la bocca ridente aveva assunto linee decise e serrate che indicavano risoluzione, le sopracciglia si erano inarcate, sotto una ruga unica e pesante, gli occhi si erano abituati a una profonda tristezza, dal fondo della quale trasparivano a intervalli i cupi baleni della misantropia e dell’odio; la sua carnagione, priva da lungo tempo della luce del giorno e dei raggi del sole, aveva preso quel color pallido che fa, quando il viso è circondato da capelli e basette nere, la bellezza aristocratica degli abitanti del Nord. La scienza profonda che aveva acquistato gli dava un’aria di intelligente sicurezza. Inoltre, sebbene di statura piuttosto alta, aveva acquisito il vigore tozzo di un corpo avvezzo sempre a concentrare le forze su di sé.

All’eleganza delle forme nervose e snelle si era sostituita la solidità delle forme arrotondate e muscolose. Quanto alla voce, le preghiere, i singhiozzi e le imprecazioni l’avevano cambiata in modo tale, che ora aveva un suono di strana dolcezza, e ora un accento rozzo e quasi rauco.

Inoltre i suoi occhi, mantenuti costantemente nell’oscurità, o in una debole luce, avevano acquistato la facoltà di distinguere nella notte gli oggetti come la iena e il lupo. Edmond sorrise nel vedersi: era impossibile che il miglior amico, se pure gli restava un amico, lo riconoscesse, perché non si riconosceva nemmeno lui.

Il padrone della Giovane Amelia, che aveva molto interesse a mantenere fra i suoi un uomo del merito di Edmond, gli aveva proposto un anticipo sui futuri guadagni. Edmond aveva accettato.

Sua prima cura, uscendo dal barbiere che aveva operato questa metamorfosi, fu di entrare in un negozio e comprarsi un abito completo da marinaio.

Tale abito, come si sa, è molto semplice: si compone di calzoni bianchi, camicia a righe, e berretto frigio.

Così vestito, riportando a Jacopo la camicia e i calzoni, egli si presentò nuovamente al padrone della Giovane Amelia al quale fu costretto a ripetere la sua storia. Il padrone non voleva riconoscere in quel marinaio elegante l’uomo dalla folta barba, dai capelli e dal corpo bagnato d’acqua di mare che aveva raccolto nudo e morente sul ponte del suo battello.

Soddisfatto del suo buon aspetto, rinnovò dunque a Dantès le proposte d’ingaggio; ma Dantès che aveva i suoi progetti non volle accettarle che per tre mesi.

Del resto l’equipaggio della Giovane Amelia era molto attivo, sottoposto agli ordini di un capitano che aveva preso l’abitudine di non perdere il suo tempo.

Non era da otto giorni giunto a Livorno, che già i capaci fianchi del naviglio erano riempiti di mussoline colorate, di cotoni di contrabbando, di polvere inglese e di tabacco, su cui la dogana aveva dimenticato di apporre il sigillo. Si trattava di far uscire tutto ciò da Livorno, porto franco, per sbarcarlo sulle rive della Corsica, dove alcuni speculatori s’incaricavano di trasportare il carico in Francia.

Partirono.

Edmond solcò di nuovo quel mare azzurro, primo orizzonte della sua gioventù che aveva rivisto tanto spesso nei sogni della sua prigionia. Lasciò alla sua destra la Gorgona, alla sinistra Pianosa, e avanzò verso la patria di Pasquale Paoli e di Napoleone.

L’indomani, salendo sul ponte, ciò che faceva sempre di buon’ora, il padrone ritrovò Dantès appoggiato al parapetto del bastimento che, con una strana espressione, guardava un ammasso di scogli di granito che il sole nascente coloriva di una tinta rosea: era l’isola di Montecristo.

La Giovane Amelia la lasciò a tre quarti di miglio sulla sinistra, e continuò il suo viaggio verso la Corsica.

Dantès pensava, nel passare lungo questa isola, che per lui aveva un nome tanto risonante: «Non avrei che da balzare in mare, e in mezz’ora sarei su quella terra promessa». Ma giunto là, che avrebbe fatto senza gli utensili necessari per scoprire il tesoro, senza armi per difenderlo? D’altronde cosa avrebbero detto i marinai? E il padrone? Bisognava aspettare.

Aveva aspettato la libertà quattordici anni, poteva bene aspettare ora che era libero, sei mesi e anche un anno, le ricchezze. Non avrebbe accettato la libertà senza le ricchezze, se gli fosse stata proposta? D’altronde questa ricchezza non era ancora tutta chimerica? Nata nel cervello malato del povero Faria, non era fors’anche morta con lui? È vero che quella lettera di Guido Spada era stranamente precisa, e Dantès ripeteva dal principio alla fine la lettera di cui non aveva dimenticato una parola.

Giunse la sera, Edmond vide l’isola passare per tutte le tinte e gradazioni di colori del crepuscolo e perdersi del tutto nelle tenebre. Ma non per lui: avendo lo sguardo abituato all’oscurità del carcere senza dubbio continuò a scorgerla, perché fu l’ultimo a lasciare il ponte.

All’indomani si svegliarono all’altezza di Aleria.

Bordeggiarono tutto il giorno; nella sera si videro dei fuochi sulla costa. Dalla disposizione di questi fuochi compresero che si poteva sbarcare, perché un fanale salì al posto della bandiera sulla cima del piccolo bastimento, che si avvicinò a tiro di fucile dalla riva.

Dantès si accorse che il padrone della Giovane Amelia aveva portato sopra il ponte, nell’eseguire la manovra per accostarsi a terra, alcune colubrine, simili ai fucili da cavalletto, che senza fare gran rumore potevano colpire alla distanza di un miglio una palla dalle quattro alle dodici once. Questa precauzione però fu inutile: per quella sera tutta l’operazione si svolse tranquillamente.

Quattro scialuppe si avvicinarono silenziosamente al piccolo bastimento, che, certamente per far loro onore, mise in mare la propria; e queste cinque scialuppe lavorarono così bene, che allo spuntar del giorno tutto il carico, dal bordo della tartana genovese, era passato in terraferma.

Il padrone della Giovane Amelia era un uomo di tale scrupolo nelle sue cose, che nella stessa notte fu fatta la divisione dei guadagni del primo scarico: ciascun marinaio ebbe cento lire toscane, cioè ottantaquattro lire di moneta francese.

Ma il viaggio non era finito, venne voltata la prua verso la Sardegna: si trattava di tornare a caricare il bastimento appena scaricato.

La seconda spedizione si svolse tanto felicemente quanto la prima: la Giovane Amelia era favorita dalla sorte.

Il nuovo carico fu per il ducato di Lucca.

Si componeva quasi esclusivamente di sigari Avana e di vino di Xeres e di Malaga. Là però ebbero a battersi con la dogana, l’eterna nemica del padrone della Giovane Amelia. Un doganiere rimase sul terreno, e due marinai furono feriti.

Dantès era uno dei due: una pallottola gli aveva trapassato la spalla sinistra.

Dantès era felice per questa scaramuccia e quasi contento della sua ferita: questa esperienza gli aveva fatto capire come sapeva guardare il pericolo, e con qual cuore sapeva tollerare i patimenti.

Aveva guardato il pericolo ridendo, e ricevendo il colpo aveva detto come il filosofo greco: «Dolore, tu non sei un male».

Inoltre, guardando il doganiere ferito a morte, fosse calore del sangue nell’azione, o fosse freddezza di umani sentimenti, tale vista non gli aveva prodotto che una leggera impressione.

Dantès era sulla strada che voleva percorrere e che tendeva alla meta cui voleva arrivare: cioè pietrificarsi il cuore in petto.

Del resto Jacopo, che vedendolo cadere lo aveva creduto morto, si era precipitato su di lui, lo aveva rialzato, e gli aveva impartite tutte quelle cure che sono di un buon compagno.

La gente non era dunque così buona come avrebbe voluto il dottor Pangloss, e non era così cattiva come credeva Dantès. Quell’uomo, che null’altro poteva aspettarsi dal suo compagno che di ereditare la sua parte di guadagno, provava una viva afflizione nel crederlo ucciso. Fortunatamente però, come si disse, Dantès non era che ferito.

Grazie ad alcune erbe, raccolte e vendute ai contrabbandieri da delle vecchie sarde, la ferita si cicatrizzò ben presto.

Edmond allora volle tentare Jacopo, offrendogli in ricompensa delle sue cure una parte della sua paga; ma Jacopo la rifiutò con indignazione.

Questo era il risultato di una specie di devozione che Jacopo aveva consacrato a Edmond fin dal primo momento che lo aveva visto, e di un certo affetto che Edmond aveva per Jacopo. Ma Jacopo non voleva di più; aveva indovinato istintivamente in Edmond una personalità superiore alla sua e il bravo marinaio era contento di quel poco di stima che gli concedeva.

Così nelle lunghe giornate che passavano a bordo, quando il naviglio correva con sicurezza sull’azzurro mare, e non aveva bisogno, grazie al vento che spirava, che del solo timoniere per dirigerlo, Edmond si faceva istruttore di Jacopo con una carta geografica alla mano, come Faria aveva fatto con lui. Gli mostrava la conformazione delle coste, le variazioni della bussola, gli insegnava a leggere in quel libro aperto al di sopra delle nostre teste, che si chiama cielo, e dove Dio ha scritto la sua onnipotenza con lettere brillanti.

E quando Jacopo gli domandava: «A che serve imparare tutte queste cose a un povero marinaio come sono io?»

Edmond rispondeva: «Chi lo sa? Forse un giorno potresti essere capitano di un bastimento. Il tuo compatriota Bonaparte non divenne imperatore?»

Dimenticammo di dire che Jacopo era corso.

Intanto due mesi e mezzo erano già passati.

Edmond era un bravo contrabbandiere, come era stato un ardito marinaio. Aveva fatto conoscenza con tutti i contrabbandieri della costa, aveva imparato tutti quei segni convenzionali per mezzo dei quali questi mezzi pirati si riconoscono fra loro.

Era passato e ripassato venti volte davanti all’isola di Montecristo, ma in tutte queste volte non aveva mai trovato l’occasione di potervi sbarcare.

Aveva perciò preso una decisione, che terminato il suo impegno col padrone della Giovane Amelia, avrebbe noleggiato una piccola barca per proprio conto, avendo già messo da parte un centinaio di piastre nei suoi viaggi, e con un pretesto qualunque sarebbe sbarcato sull’isola di Montecristo.

Là avrebbe fatto le sue ricerche in tutta libertà. In tutta libertà non proprio, perché le sue azioni sarebbero state osservate da chi conduceva con sé, ma in questo mondo qualche cosa bisogna rischiare.

La prigione aveva reso Edmond prudente, e avrebbe voluto non rischiare nulla. Ma aveva un bel cercare, nella sua immaginazione, per quanto fervida; non riusciva a trovare altro mezzo per giungere all’isola di Montecristo che facendosi portare.

Dantès restava in questa esitazione, allorché il padrone che aveva in lui molta fiducia, e che aveva gran volontà di tenerlo con sé, lo prese una sera per un braccio e lo condusse in una taverna in via dell’Olio, nella quale erano soliti radunarsi i contrabbandieri di Livorno.

Era là che di solito si trattavano gli affari della costa. Dantès era già entrato altre due o tre volte in quella specie di Borsa marittima, e vedendo quegli arditi corsari venuti da tutto il litorale, si chiedeva di quale forza avrebbe potuto disporre l’uomo che fosse riuscito a dare l’impulso della propria volontà a tutta quella gente dai diversi interessi.

Questa volta si trattava di un affare di grande importanza, di un bastimento carico di tappeti turchi, di stoffe d’Oriente e di cachemire. Bisognava trovare un terreno neutrale, dove si potesse operare il cambio, per tentare di far pervenire quella merce sulle coste della Francia.

Il premio era ingente, se vi fossero riusciti: fra le cinquanta e le sessanta piastre per ciascuno.

Il padrone della Giovane Amelia propose l’isola di Montecristo come luogo di sbarco, che essendo deserta, e non avendo né soldati, né doganieri, sembra posta in mezzo al mare, fin dai tempi dei pagani, da Mercurio, il dio dei commercianti e dei ladri, classi che noi abbiamo separato se non distinto, ma che l’antichità, a ciò che sembra, metteva nella stessa categoria.

Al nome di Montecristo, Dantès fremette di gioia. Si alzò, per nascondere la propria emozione, e fece un giro in quella fumosa taverna dove tutti gli idiomi conosciuti venivano a fondersi nella lingua franca.

Quando ritornò ad avvicinarsi ai due interlocutori, era già deciso che sarebbero sbarcati all’isola di Montecristo, e che sarebbero partiti per quella spedizione la notte seguente.

Edmond, consultato, fu d’avviso che l’isola offriva tutte le sicurezze possibili, e che le grandi imprese, per riuscir bene, dovevano essere eseguite rapidamente.

Non fu dunque cambiato nulla al programma. Rimase convenuto che si sarebbero fatti i necessari preparativi per l’indomani sera, e che se il mare era buono e il vento favorevole, ognuno avrebbe cercato di essere la sera dopo nelle acque dell’isola neutrale.

23. L’isola di Montecristo

Finalmente, per una di quelle inaspettate fortune, che qualche volta capitano a coloro che il destino è stanco di perseguitare, Dantès stava per giungere alla sua meta con un mezzo semplice e naturale, mettendo il piede su quell’isola senza destare sospetto.

Una notte ancora lo separava dalla partenza tanto a lungo desiderata e attesa.

Fu questa una delle notti più febbrili passate da Dantès. Si presentarono al suo animo tutte le possibilità buone e cattive: se chiudeva gli occhi, vedeva la lettera di Guido Spada scritta in caratteri sfolgoranti sul muro; se dormiva un istante, i sogni più strani venivano a tumultuare nel suo cervello: discendeva le grotte che avevano il pavimento di smeraldo, le pareti di rubino, le stalattiti di diamante; le perle cadevano come quelle gocce d’acqua che filtrano nei sotterranei. Edmond rapito, meravigliato, si riempiva le tasche di pietre preziose; poi ritornava alla luce del giorno, e quei gioielli si trasformavano in semplici sassolini. Allora tentava di rientrare in quelle grotte meravigliose che intravedeva soltanto, ma il sentiero si contorceva in un labirinto; l’ingresso era ritornato invisibile, e cercava inutilmente di richiamarsi alla stanca memoria quelle misteriose e magiche parole che in altri tempi aprivano al pescatore arabo le splendide caverne di Alì Babà. Tutto era inutile: il tesoro era tornato in potere dei geni della terra, ai quali aveva avuto per un istante la speranza di poterlo togliere.

Seguì il giorno quasi con la stessa febbre della notte; ma la logica tornò in aiuto all’immaginazione di Dantès, che poté stabilire un piano sino ad allora incerto e vago.

Giunse la sera, e con essa i preparativi della partenza.

Tali preparativi erano per Edmond un mezzo per nascondere la propria agitazione. Un poco alla volta aveva preso l’abitudine di comandare i compagni, come fosse stato il padrone del bastimento; e siccome i suoi ordini erano sempre chiari, precisi e facili da eseguirsi, i compagni non solo l’obbedivano con prontezza, ma con piacere.

L’anziano padrone lo lasciava fare: aveva riconosciuto la superiorità di Dantès non solo sopra i suoi compagni; vedeva nel giovane il successore naturale, ed era dolente di non avere una figlia per stringere quella bella alleanza.

Per le sette di sera tutto fu in ordine, alle sette e dieci la tartana girava intorno al faro, proprio nell’istante in cui veniva acceso.

Il mare era calmo, con un fresco venticello che veniva da sud-est.

Si navigava sotto un cielo chiaro, in cui Dio pure faceva risplendere via via i suoi fari, ognuno dei quali è un mondo.

Dantès disse che tutti potevano andare a dormire, ch’egli si incaricava del timone. Quando il Maltese, così veniva chiamato Dantès a bordo, faceva una simile proposta, non c’era bisogno d’altro, e ciascuno andava a riposare tranquillo. Ciò era accaduto altre volte.

Evaso dalla solitudine del mondo, provava qualche volta l’imperioso bisogno di restar solo. Ora, quale solitudine più immensa a un tempo e più poetica, di quella di un bastimento che nell’oscurità della notte ondeggia sul mare nel silenzio dell’immensità e sotto lo sguardo del Signore? Quella notte però la solitudine fu popolata dai suoi pensieri, la notte illuminata dalle sue illusioni, il silenzio animato dai suoi propositi.

Allorché il padrone si svegliò, la tartana correva a gonfie vele, non esisteva un lembo di vela che non fosse gonfiato dal vento: facevano più di due leghe e mezzo l’ora.

L’isola di Montecristo ingrandiva all’orizzonte.

Edmond rese il timone al padrone e andò a stendersi sulla sua branda. Ma non poté chiudere un istante gli occhi.

Due ore dopo risalì sul ponte; il bastimento era sul punto di sorpassare l’isola d’Elba; si trovava all’altezza di Marciana, e al di sotto dell’isola piana e verde di Pianosa. Si vedeva fra l’azzurro del cielo la sommità raggiante dell’isola di Montecristo.

Dantès ordinò al timoniere di porre la barra a sinistra, per lasciare Pianosa a destra: aveva calcolato che questa manovra doveva abbreviare la strada di due o tre nodi.

Alle cinque di sera ebbero la vista dell’isola, se ne scorgevano i più piccoli dettagli, grazie alla limpida atmosfera, alla luce degli ultimi raggi del sole al tramonto.

Edmond divorò con gli occhi quella massa di scogli che sembravano tinti di tutti i colori del crepuscolo, dal rosso vivo fino al turchino cupo; di tanto in tanto gli salivano al viso delle vampate ardenti: la sua fronte diveniva di porpora, una nube rossastra passava davanti ai suoi occhi.

Giammai giocatore, la cui fortuna è tutta messa sopra una carta, provò, al voltarne una, tanta angoscia quanta ne sentiva Edmond nei suoi parossismi di speranza.

Ritornò la notte.

Alle dieci della sera si approdò. La Giovane Amelia era la prima all’appuntamento.

Dantès, malgrado la padronanza su se stesso, non poté contenersi; saltò per primo sulla riva. Se avesse osato, avrebbe, come Bruto, baciato la terra.

La notte era oscura, ma alle undici la luna sorse in mezzo al mare, inargentò ogni onda, quindi i suoi raggi, a mano a mano che si alzava, cominciavano a screziarsi in bianche cascate di luce sugli scogli ammassati di quest’altro Pelio.

L’isola era familiare all’equipaggio della Giovane Amelia, era una delle sue tappe ordinarie. Quanto a Dantès, l’aveva vista, in ciascuno dei suoi viaggi in levante, ma non vi era mai sbarcato.

Egli interrogò Jacopo.

«Dove passiamo la notte?»

«A bordo della tartana», rispose Jacopo.

«Non staremmo meglio nelle grotte?»

«E in quali grotte?»

«Nelle grotte dell’isola.»

«Io non conosco grotte…» disse Jacopo.

Un sudore freddo passò sulla fronte di Dantès.

«Non vi sono grotte a Montecristo?» domandò.

«No.»

Dantès rimase per un istante stordito, poi pensò che quelle grotte potevano essersi colmate in seguito a qualche sommovimento, o essere state chiuse per maggior precauzione dallo stesso Spada.

Tutto stava dunque nel ritrovare l’apertura nascosta.

Era inutile cercarla durante la notte; Dantès rimandò dunque le sue ricerche al giorno dopo. D’altra parte un segnale inalberato in mare a una mezza lega da lì, e al quale rispondeva con uno simile la Giovane Amelia, indicò che era giunto il momento di accingersi all’operazione.

Il bastimento che aveva ritardato, rassicurato dal segnale che doveva far capire che c’era sicurezza attorno all’isola, apparve ben presto bianco e silenzioso come un fantasma, e venne a gettare l’ancora presso la riva.

Il trasbordo delle merci cominciò nel medesimo istante.

Dantès, mentre lavorava, pensava all’urrà di gioia che con una sola parola poteva provocare in tutti quegli uomini, se diceva ad alta voce l’incessante pensiero che rumoreggiava nel suo cervello, e turbava il suo cuore; ma lungi dal rivelare il suo magnifico segreto, temeva già d’aver detto troppo, e di avere risvegliato dei sospetti col suo andare e venire, con le sue ripetute domande, con le sue minuziose osservazioni, e la sua costante preoccupazione.

Nessuno però dubitava di niente; e allorché l’indomani, prendendo un fucile, dei pallini, e della polvere, Dantès manifestò il desiderio di andare a tirare a qualcuna di quelle numerose capre selvagge che si vedevano saltare di roccia in roccia, non si attribuì quella escursione di Dantès che all’amore per la caccia, e al desiderio di solitudine.

Non vi fu che Jacopo che insistette per seguirlo.

Dantès non volle opporsi, temendo d’ispirar sospetti se spingeva tropp’oltre la sua ritrosia a essere accompagnato. Ma appena fatto un quarto di lega, essendosi presentata l’occasione di tirare e uccidere un capriolo, inviò Jacopo a portarlo ai compagni, invitandoli a cuocerlo, e dargli il segnale quando fosse cotto, per venirlo a mangiare, tirando un colpo di fucile. Della frutta secca e un fiasco di vino di Montepulciano dovevano completare il pranzo.

Dantès continuò il suo cammino voltandosi ogni tanto.

Giunto alla sommità di una roccia, vide a trecento metri al di sotto di lui i suoi compagni che, raggiunti da Jacopo, già si occupavano attivamente dei preparativi del pranzo.

Edmond li guardò un istante con quel triste e dolce sorriso delle persone superiori.

«Fra due ore partiranno ricchi di cinquanta piastre, per andare a cercar di guadagnarne altre cinquanta a rischio della loro vita: poi ritorneranno ricchi di seicento lire, per andare a dilapidarle in una città qualsiasi con l’orgoglio dei sultani, e la noncuranza dei nababbi. Oggi la speranza fa sì che io disprezzi la loro ricchezza, che mi pare profonda miseria, domani forse il disinganno mi obbligherà a guardare questa profonda miseria come la maggiore delle fortune… Oh no», esclamò Edmond, «questo non sarà. Il dotto, l’infallibile Faria non può essersi ingannato solo su questo punto. D’altronde è meglio morire che continuare a condurre questa vita miserabile e vile.»

Così Dantès, che tre mesi prima non desiderava che la libertà, non era più contento della sola libertà, ma voleva anche le ricchezze.

Il difetto non era di Dantès, ma della nostra natura che suscita desideri infiniti.

Per una strada che si perdeva fra due muraglie di scogli, lungo un scavato da un torrente, e che secondo ogni probabilità non era stato mai calcato da piede umano, Dantès si avvicinava al luogo in cui supponeva dovessero essere le grotte.

Seguendo la riva del mare, ed esaminando i più piccoli particolari con attenzione, gli parve di scorgere su alcune rocce dei graffiti operati dalla mano dell’uomo.

Il tempo, che copre tutte le cose fisiche col manto dell’oblio, sembrava avere rispettato quei segni, tracciati con una certa regolarità e allo scopo probabilmente di guida. Di tratto in tratto, quei segni sparivano sotto i cespugli di mirto che si univano in grossi mazzi carichi di fiori, o sotto i licheni parassiti. Bisognava allora che Dantès allontanasse i massi, o sollevasse il muschio per ritrovare le tracce che lo guidavano in quel labirinto.

Quei segni avevano dato una buona speranza a Edmond.

Perché non poteva essere stato lo Spada stesso a tracciarli affinché potessero, in caso di catastrofe, servir da guida al nipote? Quel luogo solitario era quello che conveniva a un uomo che voleva seppellire un tesoro.

Soltanto, quei segni visibili avrebbero potuto attirare lo sguardo di qualcun altro, oltre quelli per cui erano fatti: l’isola dalle tetre muraglie aveva conservato fedelmente il suo segreto? A cinquanta passi dal porto sembrò a Edmond, sempre celato agli sguardi dei suoi compagni, che i segni cessassero, senza però condurre a nessuna grotta.

Un grosso macigno tondo, posto sopra una solida base era la sola meta a cui sembravano guidare. Edmond pensò allora che invece d’essere giunto al termine poteva benissimo non essere arrivato che al principio, di conseguenza si girò e ritornò indietro percorrendo la stessa via.

Intanto i suoi compagni preparavano il pranzo, andavano ad attingere acqua alla sorgente, trasportavano il pane e la frutta a terra e facevano cuocere il capriolo.

Nel momento in cui lo toglievano dallo spiedo, scorsero Edmond che, leggero e ardito come un camoscio, saltava di roccia in roccia. Tirarono un colpo di fucile per avvertirlo.

Il cacciatore cambiò subito direzione, e ritornò correndo da loro.

Mentre tutti lo seguivano con lo sguardo, nella specie di voli che faceva tacciando di temerarietà la sua sveltezza, come per dar ragione ai loro timori, gli venne meno un piede, fu visto oscillare sulla cima di uno scoglio, gettare un grido, e sparire.

Tutti balzarono in un sol slancio, perché tutti amavano Edmond malgrado la sua superiorità; Jacopo però fu il primo a raggiungerlo. Egli trovò Dantès disteso, insanguinato, e quasi privo di sensi: era rotolato da un’altezza di tre o quattro metri. Gli introdusse nella bocca qualche goccia di rum e questo rimedio, che già un’altra volta era stato efficace, produsse il medesimo effetto.

Edmond riaprì gli occhi, e si lamentò di un vivo dolore a un ginocchio, un gran peso alla testa, e un gran spasimo ai reni.

Lo volevano trasportare fino alla spiaggia; ma quando lo toccarono, sebbene fosse Jacopo che dirigeva l’operazione, disse, lamentandosi, che non si sentiva la forza di sopportare il trasporto.

S’intende che di pranzo per Edmond non si parlò neppure, ma volle che i suoi compagni, non avendo le sue stesse ragioni per fare digiuno, ritornassero al loro posto. Quanto a lui pretendeva di non aver bisogno d’altro che di un po’ di riposo, e che al loro ritorno essi lo avrebbero trovato assai meglio.

I marinai non si fecero molto pregare: avevano fame, l’odore del capriolo giungeva fino a loro, e fra lupi di mare non vi sono molte cerimonie.

Ritornarono un’ora dopo.

Tutto ciò che Edmond aveva potuto fare era stato trascinarsi per una dozzina di passi per andare ad appoggiarsi sopra una roccia coperta di muschio. Ma lungi dal calmarsi, i dolori di Dantès sembrava che fossero aumentati d’intensità.

Il vecchio padrone, costretto a partire nella mattina per depositare il suo carico sulle frontiere del Piemonte e della Francia, fra Nizza e Fréjus, insistette perché Dantès si sforzasse di alzarsi.

Dantès fece degli sforzi sovrumani per arrendersi a questo invito; ma a ciascuno sforzo ricadde lamentandosi e impallidendo.

«Ha i reni rotti», disse a bassa voce il padrone. «Non importa, è un buon compagno, non bisogna abbandonarlo; cerchiamo di trasportarlo fino alla tartana.»

Ma Dantès dichiarò che preferiva morire dove si trovava, piuttosto che sopportare i dolori di un qualsiasi movimento.

«Ebbene», disse il padrone, «avvenga ciò che vuole, non sarà mai detto che noi lasciamo un bravo compagno senza aiuti. Partiremo soltanto questa sera.»

Questa proposta fece molta meraviglia ai marinai sebbene non vi fosse chi facesse obiezione. Il padrone era un uomo molto rigoroso, ed era la prima volta che lo si vedeva rinunciare a un’impresa, o anche soltanto ritardarla.

Dantès non volle che si facesse in suo favore una infrazione alle regole di disciplina stabilite a bordo.

«No», disse, «io fui incauto e io debbo scontare la pena della mia poca destrezza. Lasciatemi una piccola provvista di biscotti, un fucile, della polvere e delle pallottole per ammazzare dei capretti, e anche per difendermi, e una zappa per costruirmi una specie di capanna, in caso tardaste nel tornare a prendermi.»

«Ma tu morrai di fame», disse il padrone.

«Meglio questo», replicò Edmond, «che soffrire gli inauditi dolori che mi fa provare il più piccolo movimento.»

Il padrone guardò il suo bastimento che ondeggiava nel piccolo porto, e su cui cominciavano i primi preparativi per la partenza.

«Che vuoi dunque che facciamo?» disse. «Non possiamo abbandonarti così, e neppure aspettare lungamente.»

«Partite, partite», esclamò Dantès.

«Noi staremo assenti almeno otto giorni, e bisognerà che deviamo dalla nostra rotta per venirti a prendere.»

«Ascoltate», disse Dantès, «se incontrate qualche peschereccio che fra due o tre giorni venga in questi paraggi, raccomandatemi al padrone, io pagherò venticinque piastre per il mio ritorno a Livorno; e se non ne troverete, tornate.»

«Ascoltate, padron Baldi, vi è un mezzo per conciliar tutto», disse Jacopo. «Partite; resterò io a curare il ferito.»

«E tu rinuncerai alla tua parte di guadagno», disse Edmond, «per restare con me?»

«Sì, e senza dispiacere», rispose Jacopo.

«Sei un brav’uomo», disse Edmond, «e Dio ti ricompenserà della tua buona volontà. Ma io non ho bisogno di nessuno, grazie. Un giorno o due di riposo mi rimetteranno, e spero di trovare fra queste rocce alcune erbe eccellenti per le contusioni…»

Uno strano sorriso passò sulle labbra di Dantès; strinse la mano a Jacopo con calore, ma rimase irremovibile nella decisione di rimanere solo.

I contrabbandieri lasciarono a Edmond ciò che aveva chiesto, e lo abbandonarono non senza voltarsi molte volte, e facendogli ogni volta gran cenni di saluto ai quali Edmond rispondeva con una sola mano, come se non potesse muovere il resto del corpo.

Poi quando furono spariti: «È strano», mormorò Dantès ridendo, «che sia fra uomini di tal fatta, che si trovino e si riscontrino tali prove di amicizia e di attaccamento».

Poco dopo si trascinò con precauzione fino alla sommità di una roccia che non gli nascondeva la vista del mare, e di là vide la tartana compiere i suoi preparativi, levar l’ancora, dondolarsi graziosamente come un gabbiano che sta per spiccare il volo, e partire. In capo a un’ora era sparita del tutto, o almeno era impossibile vederla dal luogo dove era rimasto il ferito.

Allora Dantès si alzò più lesto e più leggero di un capriolo fra i mirti e i lentischi di quelle rocce selvagge, prese il suo fucile con una mano, con l’altra la zappa e corse a quella roccia presso la quale finivano i segni che aveva notato.

«E ora», esclamò, ricordandosi la storia del pescatore arabo che gli aveva raccontato Faria, «ora apriti, oh Sesamo!»

24. L’abbagliamento

Il sole si trovava a circa un terzo del suo corso, i suoi raggi di maggio cadevano caldi e vivificanti su quelle rocce che sembravano esse stesse sensibili a quel calore.

Innumerevoli cicale invisibili fra i cespugli facevano sentire il loro frinire monotono e continuo. Le foglie dei mirti e degli ulivi si agitavano tremanti mandando un rumore quasi metallico.

A ogni passo di Edmond, dal riscaldato granito fuggivano lucertole che sembravano smeraldi. Si vedevano balzare, sul pendio dell’isola, le capre selvagge che attirano qualche volta i cacciatori. In una parola l’isola era abitata, vivente, animata e tuttavia Edmond si sentiva solo, sotto la mano di Dio.

Provava un’emozione molto somigliante alla paura. Era quella diffidenza del pieno giorno, che fa supporre, anche nel deserto, che vi possono essere degli occhi inquisitori a osservarci.

Quel sentimento fu così intenso, che al momento di mettersi all’opera, Edmond si fermò, depose la zappa, riprese il suo fucile, salì un’ultima volta sulla roccia più elevata dell’isola, e di là girò lo sguardo attentamente su tutto ciò che lo circondava. Ma, dobbiamo dirlo, ciò che attirò la sua attenzione non fu la poetica Corsica, di cui egli poteva perfino distinguere le case, non fu la Sardegna, a lui quasi sconosciuta, non fu l’isola d’Elba dai giganteschi ricordi, né infine quella linea impercettibile che si estende all’orizzonte e che, all’occhio esercitato del marinaio, rivela il profilo della superba Genova, e della commerciale Livorno: fu il brigantino ch’era partito allo spuntar del giorno, e la tartana partita da poco.

Il primo stava per scomparire nello stretto di Bonifacio; l’altra, seguendo la strada opposta, costeggiava la Corsica per oltrepassarla.

Questa vista rassicurò Edmond. Riportò allora lo sguardo sugli oggetti che lo circondavano: si vide sul punto più elevato della conica isola, piccola statua sopra un immenso piedistallo; intorno a lui non un uomo, non una barca; nient’altro che l’azzurro mare che veniva a frangersi contro la base dell’isola, ornandola di una eterna frangia d’argento.

Quindi discese con passo rapido, ma prudente; temeva troppo in un simile momento un incidente eguale a quello che aveva tanto abilmente e felicemente simulato.

Dantès, come si è detto, aveva ripercorso il cammino, guidato dai graffiti sulle rocce, e aveva visto che quella linea conduceva a una piccola insenatura nascosta come un bagno di antiche ninfe.

Questa insenatura era abbastanza profonda nel mezzo perché un piccolo bastimento del genere delle speroniere potesse entrarvi, e rimanervi nascosto. Allora, seguendo il filo delle induzioni, quel filo che tra le mani di Faria aveva visto guidare in una maniera così ingegnosa, pensò che Guido Spada fosse approdato in quella insenatura, avesse nascosto il suo piccolo naviglio, seguita la linea indicata dai solchi, e all’estremità di questa linea sepolto il suo tesoro.

Fu quella ipotesi che ricondusse Dantès presso il macigno circolare.

Una cosa soltanto inquietava Edmond, e sconvolgeva tutte le sue idee: come si era potuto, senza impiegare forze considerevoli, alzare quel macigno, che pesava forse due o tre tonnellate, e deporlo su quella base su cui era posto? A un tratto gli venne un’idea.

«Invece di farlo salire», disse tra sé, «l’avranno fatto scendere.»

E si arrampicò al di sopra della roccia, per cercare il posto della primitiva base. Vide ben presto ch’era stata praticata una leggera inclinazione, la roccia era scivolata sulla sua vecchia base, e si era fermata a ridosso di un’altra roccia, di media grandezza, che era servita da nuova base.

Erano stati impiegati dei sassi e delle pietre per fare sparire ogni traccia: questo piccolo lavoro da muratore era stato ricoperto di terra e di vegetazione, vi era nata l’erba, e il muschio si era esteso, alcuni semi di mirto e di lentisco erano germogliati, e la vecchia roccia sembrava attaccata al suolo.

Dantès tolse con precauzione la terra e riconobbe, o credette di riconoscere questo ingegnoso artificio. Allora si accinse a demolire con la zappa quella specie di muro divisorio, cementato dal tempo. Dopo un lavoro di dieci minuti, il muro cedette, e restò aperto un foro nel quale si poteva introdurre un braccio.

Dantès andò a tagliare l’olivo più grosso, lo spogliò dei suoi rami, lo introdusse nel foro, e ne fece una leva. Ma il macigno era troppo pesante e incastrato troppo solidamente sulla roccia sottostante; la forza di un uomo non bastava a smuoverla, fosse pur stata quella d’Ercole.

Dantès rifletté allora che era la roccia su cui giaceva il macigno che bisognava attaccare: ma con qual mezzo? Girò lo sguardo intorno, come fanno gli uomini imbarazzati, e vide il corno di un bufalo pieno di polvere che gli aveva lasciato Jacopo. Sorrise: l’invenzione infernale avrebbe compiuta la sua opera.

Con l’aiuto della zappa, Dantès scavò, fra le due rocce, una conduttura per mina, uguale a quella che fanno i minatori quando vogliono risparmiare alle braccia dell’uomo una troppo lunga fatica. Quindi lo riempì di polvere ben compressa e, sfilando il suo fazzoletto e immergendolo nella polvere, ne fece una miccia.

Accesa la miccia, Dantès si allontanò.

L’esplosione non si fece attendere: la roccia superiore in un attimo fu sollevata dall’incalcolabile forza, quella inferiore volò in mille pezzi.

Dalla piccola apertura, che all’inizio Dantès aveva praticato, fuggì una folla d’insetti brulicanti e un enorme serpente, guardiano di quel cammino misterioso, che strisciando disparve.

Dantès si avvicinò. La roccia superiore, rimasta ormai senza appoggio, pendeva sull’abisso.

L’intrepido cercatore vi girò attorno, scelse il punto più vacillante, vi insinuò la leva e come Sisifo s’incurvò con tutta la sua forza contro la roccia.

La roccia, già smossa dall’esplosione, traballò. Dantès raddoppiò gli sforzi. Si sarebbe detto che era un nuovo Titano che sradicava le montagne per far la guerra al padre degli dei.

Finalmente la roccia cedette, rotolò, balzò, precipitò, e sparì immergendosi nel mare. Così lasciò scoperto un vano circolare che metteva in vista un anello di ferro infisso nel mezzo di una pietra quadrata.

Dantès gettò un grido di gioia e di stupore. Giammai più magnifico risultato aveva coronato un primo tentativo.

Volle continuare, ma le sue gambe tremavano così forte, il suo cuore batteva con tanta violenza, una nube passava tanto bruciante davanti ai suoi occhi, che fu costretto a fermarsi.

Quel momento di esitazione però durò un lampo.

Edmond introdusse la leva nell’anello, l’alzò vigorosamente, e la pietra smossa si aprì, scoprendo il ripido pendio di una specie di scala che si perdeva nell’ombra di una grotta oscura.

Un altro vi si sarebbe precipitato, avrebbe gettato grida di esultanza e di gioia: Dantès si fermò, impallidì, dubitò.

«Vediamo», disse, «siamo uomini. Avvezzi all’avversità, non ci lasciamo abbattere da un inganno. Il cuore si rompe, allorché dopo essere stato dilatato oltre misura dalla speranza, ritorna su se stesso e si riadatta alla fredda realtà. Faria non fece che un sogno; Guido Spada non ha seppellito niente in questa grotta, forse anche non vi è mai venuto, o, se vi venne, Cesare Borgia, l’intrepido avventuriero, l’infaticabile ladro, vi sarà venuto dopo di lui, avrà seguito i medesimi segni che ho seguito io, avrà come me sollevato questa pietra, e, disceso prima di me, non avrà lasciato niente da prendere a chi veniva dopo di lui.»

Dantès restò un momento immobile, pensieroso, con gli occhi fissi sopra quell’apertura tenebrosa.

«Sì, sì, questa è una avventura da trovar posto nella vita, mista di ombre e di luce, di quel principe criminale. In quel tessuto di strani casi che compose la trama della sua esistenza, questo favoloso avvenimento ha dovuto incatenarsi invincibilmente ad altri fatti. Sì, Borgia è venuto una notte qui, tenendo in una mano una fiaccola, nell’altra una spada. Mentre a venti passi da lui, forse ai piedi di quello scoglio, stavano cupi e minacciosi due sgherri spiando la terra, l’aria e il mare, il loro padrone entrava, come sto per fare io, in quest’antro, scuotendo le tenebre col suo terribile e fiammeggiante braccio. Sì, ma di quegli sgherri ai quali avrà dovuto comunicare il suo segreto, che ne avrà fatto Borgia?» si domandò Dantès. «Ciò che fecero», si rispose sorridendo, «dei becchini di Alarico, che vennero sotterrati col cadavere del re. Ora che non conto più su niente, ora che mi son detto che sarebbe da pazzi conservare qualche speranza, questa avventura non è più per me che una mera curiosità.»

E rimase ancora per qualche tempo immobile e pensieroso.

«Però se vi fosse venuto», riprese Dantès, «se avesse ritrovato e portato via il tesoro, Borgia, l’uomo che paragonava l’Italia a un carciofo che avrebbe voluto mangiare foglia per foglia, Borgia sapeva troppo bene far uso del tempo per non perderne a rimettere questa roccia dove l’aveva trovata… Scendiamo.»

Allora discese. Il sorriso del dubbio sfiorava le sue labbra che mormoravano quest’ultima parola dell’umana saggezza: «Può darsi…»

Ma invece delle tenebre che si aspettava di trovare, invece di un’atmosfera opaca e mefitica, Dantès non vide che una luce decomposta in un chiarore azzurrognolo; l’aria e la luce filtravano, non solo dall’apertura che era stata da lui praticata, ma dalle fessure invisibili tra le rocce, e attraverso cui si vedeva il colore turchino del cielo, e ove si congiungevano i rami tremolanti dei lecci o i legamenti spinosi dei rovi.

Dopo qualche secondo di sosta in questa grotta, la cui atmosfera più tiepida che umida, più odorosa che fetida, stava alla temperatura dell’isola come l’ombra del sole, lo sguardo di Dantès, abituato, come detto, alle tenebre, poté esplorare gli angoli più reconditi della caverna: era di granito, e le faccette sparse di pagliuzze scintillavano come diamanti.

«Ahimè», esclamò Dantès sorridendo, «ecco senza dubbio i tesori che avrà lasciato lo Spada, e il buon Faria, vedendo in sogno questi muri risplendenti, si sarà illuso di ricche speranze!»

Ma Dantès si ricordò delle precise parole del testamento che sapeva a memoria: «Nell’angolo più lontano della seconda apertura», diceva il testamento.

Ora Dantès era penetrato solo nella prima grotta, bisognava dunque cercare l’entrata della seconda.

Si orizzontò.

La seconda grotta doveva naturalmente internarsi verso il centro dell’isola. Esaminò la superficie delle pietre e andò a battere contro una delle pareti, quella dove doveva essere l’apertura, nascosta senza dubbio per maggior precauzione. Con la zappa batté le pareti a intervalli cavando dalla roccia un rumore così sordo e debole che Dantès si rabbuiò. Finalmente sembrò al perseverante minatore che una parte del muro di granito risuonasse, e rispondesse con un’eco più sorda e più profonda.

Avvicinò lo sguardo ansioso al muro e riconobbe, col tatto del prigioniero, ciò che nessun altro avrebbe forse scoperto, che là vi doveva essere un’apertura. Però, per non fare un lavoro inutile, Dantès che, come Cesare Borgia, aveva imparato il valore del tempo, esplorò le altre pareti con la zappa, batté il suolo con il calcio del suo fucile, smosse la sabbia nei luoghi sospetti e non avendo trovato né riconosciuto niente, tornò alla parte di muro che dava quel suono consolatore.

La percosse di nuovo e con maggior forza.

Allora vide una cosa singolare: sotto i colpi dello strumento, una specie d’intonaco, uguale a quello che si applica sui muri per dipingervi a fresco, si sollevava e cadeva in croste, scoprendo una pietra biancastra granulosa come le ordinarie pietre da taglio.

L’apertura della roccia era stata chiusa con pietre d’altra natura, quindi vi avevano steso sopra l’intonaco, e sull’intonaco era stata imitata la tinta e la cristallizzazione del granito. Dantès percosse allora con la parte tagliente della zappa, e questa penetrò per due centimetri e mezzo nella porta murata.

Era là che bisognava scavare.

Per uno strano mistero dell’umana psiche, più aumentavano le prove che Faria non s’era ingannato, e più il cuore di Dantès, indebolito e stanco, si lasciava andare al dubbio e quasi allo scoraggiamento.

Questa nuova esperienza che avrebbe dovuto infondergli una forza novella, gli tolse al contrario quella che gli rimaneva. La zappa scendendo gli sfuggiva quasi dalle mani: la depose al suolo, si asciugò la fronte e risalì la scala, col pretesto di vedere se qualcuno lo spiava, ma in realtà perché sul punto di svenire.

L’isola era deserta, e il sole allo zenit sembrava coprirla col suo occhio di fuoco; lontano alcuni piccoli pescherecci spiegavano le loro vele su un mare azzurro come zaffiro.

Dantès non aveva ancora mangiato nulla; ma in quel momento era ben lontano dall’aver volontà di mangiare; tracannò un poco di rum e rientrò nella grotta col cuore serrato. La zappa, che gli era sembrata così pesante, era tornata leggera, la sollevò come avrebbe fatto con una piuma, e si rimise vigorosamente al lavoro.

Dopo qualche colpo, si accorse che le pietre non erano cementate, ma soltanto poste le une sulle altre, e ricoperte da quell’intonaco di cui abbiamo parlato. Introdusse in una fessura la punta della zappa, premette col corpo sul manico, e vide con gioia la pietra cadere ai suoi piedi.

Dantès non ebbe più che tirare a sé ogni pietra col ferro della zappa per farle rotolare accanto alla prima. Dantès sarebbe potuto già entrare, ma ritardando di qualche minuto aveva prolungato la certezza, aggrappandosi alla speranza. Finalmente, dopo una nuova esitazione, Dantès passò nella seconda grotta.

La seconda grotta era più bassa, più oscura, e di aspetto più spaventoso della prima. L’aria, che non vi era penetrata che dall’apertura appena fatta, conservava quell’odore mefitico che Dantès si era meravigliato di non trovare nella prima. Dantès fece penetrare l’aria esterna per ravvivare quella morta atmosfera, quindi entrò. A sinistra dell’apertura c’era un angolo profondo e oscuro; ma, come abbiamo detto, per l’occhio di Dantès non esistevano tenebre. Scandagliò con lo sguardo la seconda grotta: era vuota come la prima.

Il tesoro se esisteva, era seppellito in quell’angolo oscuro.

L’ora dell’angoscia era giunta: sessanta centimetri di terra da scavare era tutto ciò che restava a Dantès fra il sommo della gioia e il sommo della disperazione. Avanzò verso l’angolo, e, come preso da un’improvvisa risoluzione, si mise a zappare alacremente. Al quinto o sesto colpo di zappa, il ferro risuonò sopra altro ferro.

Mai tocco funebre di campana né suono a martello produsse un simile effetto su colui che l’udì. Niente avrebbe potuto far impallidire di più Dantès.

Esaminò il terreno, vicino al punto che aveva già esplorato, colpì con la zappa, e incontrò la medesima resistenza ma non lo stesso suono.

«E un forziere di legno cerchiato di ferro», disse.

In quell’istante un’ombra rapida passò, intercettando la luce. Dantès lasciò cadere la zappa, afferrò il fucile, ripassò per l’apertura e uscì all’aperto.

Era una capra selvatica che era saltata al di sopra del primo ingresso della grotta, e brucava a qualche passo da lui.

Sarebbe stata una bella occasione per assicurarsi il pranzo; ma Dantès ebbe timore che la detonazione richiamasse qualcuno.

Rifletté un istante, tagliò i rami di un albero resinoso, andò ad accenderli al fuoco ancor fumante dove i contrabbandieri avevano cotto il loro pranzo e ritornò con questa torcia nella seconda grotta. Non voleva perdere alcun dettaglio di ciò che stava per vedere.

Avvicinò la torcia alla buca informe e non terminata, e riconobbe che non si era ingannato; i suoi colpi erano alternativamente caduti sul ferro e su legno. Piantò la torcia in terra e si rimise al lavoro.

In un istante fu scavata una fossa di novanta centimetri di lunghezza e sessanta di larghezza, e Dantès poté scorgere un forziere di legno di quercia con cerchi di ferro cesellato.

Nel mezzo del coperchio risplendeva, sopra una placca d’argento che la terra non aveva potuto arrugginire, lo stemma della famiglia Spada, una spada messa di traverso sopra uno scudo ovale, come sono gli scudi italiani. Dantès lo riconobbe facilmente, perché Faria l’aveva più volte disegnato.

Da quel momento non vi era più dubbio: il tesoro esisteva realmente; non avrebbero preso tante precauzioni per rimettere in quel posto un forziere vuoto.

Il terriccio che circondava ancora il forziere fu buttato in disparte, e Dantès vide, poco alla volta, comparire la serratura, posta fra due lucchetti di ferro, e le due maniglie laterali: tutto era cesellato, come si usava in quell’epoca in cui l’arte rendeva preziosi anche i più vili metalli.

Dantès prese il forziere per le maniglie e si provò a sollevarlo senza riuscirvi.

Allora tentò di aprirlo: la serratura e i lucchetti resistettero: quei fedeli custodi sembravano non voler rendere il loro tesoro. Dantès introdusse la parte tagliente della zappa tra la parete del forziere e il coperchio, premette con tutto il suo corpo sopra il manico, e il coperchio, dopo aver prodotto un forte rumore, andò in pezzi.

Una larga apertura nelle assi rese inutili i cerchioni di ferro, che caddero anch’essi, stringendo tuttavia con le loro unghie tenaci i pezzi del coperchio caduti con essi, e il forziere fu aperto.

Una febbre vertiginosa s’impadronì di Dantès; prese il suo fucile, lo caricò e se lo tenne vicino. Dapprima chiuse gli occhi come fanno i bambini, per scorgere nella notte sfavillante dell’immaginazione più stelle che in cielo, quindi li riaprì e rimase abbagliato.

Il forziere era diviso in tre scomparti: nel primo brillavano fulgidi scudi d’oro, dai gialli riflessi; nel secondo verghe d’oro non brunite e disposte in buon ordine; nel terzo, pieno a metà, Dantès rimosse e alzò a manciate i diamanti, le perle e i rubini che, qual cascata sfavillante, facevano nel ricadere il rumore della grandine sui vetri.

Dopo aver toccato, palpato, immerse le mani tremanti nell’oro e nelle pietre, Dantès si rialzò e si mise a correre per la caverna con la fremente esaltazione di un uomo che sta per diventare pazzo.

Saltò sopra una roccia da cui poteva vedere il mare, e non vide niente: era solo, completamente solo con quelle ricchezze incalcolabili, inaudite, favolose che gli appartenevano.

Ma sognava o era desto? Era un sogno fugace o era alle prese con la realtà?

Aveva bisogno di rivedere il suo oro e nello stesso tempo sentiva che non aveva la forza di sostenerne la vista. Per un momento strinse la testa fra le mani, come per impedire alla ragione di fuggire; poi si lanciò tra le rocce dell’isola senza seguire, non dirò un sentiero, perché sull’isola di Montecristo non ve ne sono, ma una direzione stabilita, facendo fuggire le capre selvatiche e spaventando gli uccelli marini con le sue grida e i suoi gesti.

Quindi ritornò, dubitando ancora; e precipitandosi dalla prima grotta alla seconda, e trovandosi al cospetto di questa cava d’oro e di diamanti, cadde in ginocchio, comprimendosi con le mani i moti convulsi del cuore, e mormorando una preghiera intelligibile a Dio soltanto.

Poco dopo, si sentì più calmo, e perciò più felice; poiché soltanto allora cominciò a credere alla sua felicità.

Si mise a contare la sua fortuna: vi erano circa mille verghe d’oro che pesavano ciascuna all’incirca un chilo, quindi ammonticchiò venticinquemila scudi d’oro che potevano avere il valore ciascuno di ottanta franchi, in moneta attuale, tutti con l’effigie di papa Alessandro VI e dei suoi predecessori, e si accorse che lo scomparto ne conteneva ancora quasi altrettanti; finalmente misurò dieci volte la capacità delle sue mani in perle, pietre e diamanti, molti dei quali, lavorati dai migliori gioiellieri dell’epoca, di un valore notevole, prescindendo dal loro valore economico.

Dantès vide la luce abbassarsi e affievolirsi a poco a poco.

Temette di esser sorpreso, se restava nella grotta, e ne uscì col fucile in mano. Un pezzo di biscotto e qualche sorso di vino furono la sua cena.

Quindi rimise a posto la pietra, vi si sdraiò sopra e dormì appena qualche ora, coprendo col suo corpo l’ingresso della grotta.

Fu una di quelle notti, terribili e deliziose a un tempo, delle quali quell’uomo dalle grandi emozioni ne aveva già passate due o tre nella sua vita.

25. Lo sconosciuto

Spuntò il giorno: Dantès lo aspettava da lungo tempo a occhi aperti.

Al primo chiarore si alzò, salì, come aveva fatto la sera, sulla roccia più elevata dell’isola per esplorarne i dintorni.

Come la sera precedente, tutto era deserto.

Edmond tolse la pietra, scese, si riempì le tasche di pietre preziose, sistemò meglio che poté il coperchio rotto sul forziere, lo ricoprì di terra, vi gettò sopra della sabbia, uscì dalla grotta, rimise la pietra, ammassò su questa dei sassi di varia grandezza, riempì gli interstizi con del terriccio e vi piantò dei mirti e delle eriche, affinché sembrassero lì da tempo, cancellò le impronte dei suoi passi, e attese con impazienza il ritorno dei suoi compagni.

Adesso non si trattava più di passare il tempo a guardare quell’oro e quei diamanti, e di restare a Montecristo come un drago a sorvegliare il tesoro. Adesso bisognava tornare alla vita, fra gli uomini, e prendere nella società il posto, l’influenza e il potere che in questo mondo danno le ricchezze, che sono la prima e la più grande delle forze di cui possa disporre la creatura umana.

I contrabbandieri fecero ritorno il sesto giorno.

Dantès riconobbe da lontano l’andatura e il moto della Giovane Amelia; si trascinò fino al porto come Filottete ferito, e quando i suoi compagni approdarono annunciò loro, lagnandosi ancora, di avere avuto un sensibile miglioramento; quindi a sua volta ascoltò il racconto degli avventurieri.

Essi erano riusciti di nuovo nel loro intento, era vero, ma non appena deposto il carico, erano stati avvisati che un brigantino, di sorveglianza a Tolone, usciva dal porto e si dirigeva alla loro volta: allora erano fuggiti in tutta fretta, rammaricandosi che Dantès, che sapeva dare una velocità maggiore al bastimento, non fosse stato là a dirigerlo.

Si erano accorti ben presto del bastimento cacciatore che inseguiva, ma con l’aiuto della notte e passando la punta del capo Corso erano riusciti a sfuggirgli.

Nell’insieme quel viaggio non era stato cattivo, e tutti, particolarmente Jacopo, erano dispiaciuti che Dantès non fosse stato con loro per ottenere la propria parte di utili che essi avevano riportato, parte che ammontava a cinquanta piastre.

Dantès rimase impassibile e non sorrise nemmeno all’enumerazione dei vantaggi di cui avrebbe potuto godere, se avesse abbandonato l’isola; e siccome la Giovane Amelia non era venuta a Montecristo che per prenderlo, egli s’imbarcò subito la stessa sera, e seguì il suo padrone a Livorno. Appena giunto, andò da un ebreo a vendere per cinquemila franchi ciascuno, quattro dei suoi più piccoli diamanti. L’ebreo avrebbe potuto chiedere come mai un pescatore fosse in possesso di simili oggetti, ma se ne guardò bene, perché guadagnava mille franchi sopra ciascuno.

L’indomani Dantès comprò una barca nuova che regalò a Jacopo, aggiungendo a questo dono cento piastre perché potesse provvedersi di un equipaggio e ciò a condizione che Jacopo andasse a Marsiglia a chieder notizia di un vecchio chiamato Luigi Dantès, che abitava nei viali di Meilhan, e di una giovane dimorante nel villaggio dei Catalani di nome Mercedes.

Allora fu Jacopo che credette di sognare.

Ma Dantès gli raccontò che si era fatto marinaio per una bizzarria, e perché la sua famiglia non gli voleva passare il denaro necessario per mantenersi, ma giungendo a Livorno era entrato in possesso della eredità di uno zio, che lo aveva nominato erede universale.

L’educazione di Dantès dava a questa storia una tale verosimiglianza, che Jacopo non dubitò un istante che il suo antico compagno gli dicesse il vero.

D’altra parte, essendo terminato l’impegno di Dantès col padrone della Giovane Amelia, prese congedo dal vecchio marinaio, che dapprima tentò di trattenerlo, ma, ascoltata da Jacopo la storia dell’eredità, rinunciò perfino alla speranza di opporsi alla decisione del Maltese.

L’indomani Jacopo fece vela per Marsiglia; doveva poi ritrovarsi con Edmond a Montecristo. Lo stesso giorno Dantès partì senza dire dove andava, prendendo congedo dall’equipaggio della Giovane Amelia, donando a ciascuno di loro una splendida gratifica, e dal padrone promettendogli di fargli avere un giorno o l’altro sue notizie.

Dantès andò a Genova.

Nel momento in cui arrivava veniva armato un piccolo yacht ordinato da un inglese, che, avendo inteso dire i genovesi erano i migliori costruttori navali del Mediterraneo, aveva voluto uno yacht costruito a Genova. L’inglese aveva accettato di pagarlo quarantamila franchi: Dantès ne offrì sessantamila, a condizione che l’imbarcazione gli sarebbe stata consegnata quel giorno stesso.

L’inglese era andato in Svizzera aspettando che il suo yacht fosse pronto; non doveva tornare che fra tre settimane o un mese, e il costruttore pensò che avrebbe avuto il tempo di rimetterne un altro in cantiere.

Dantès condusse il costruttore da un ebreo, passò con lui nel retrobottega, e l’ebreo contò sessantamila franchi al costruttore. Questi offrì a Dantès i suoi servigi per procurargli un equipaggio, ma Dantès lo ringraziò dicendogli che aveva l’abitudine di navigare da solo e che l’unica cosa che desiderava era che nella cabina, a capo del letto, vi fosse un armadio segreto con tre scomparti pure segreti. Dette le misure e il tutto fu eseguito l’indomani.

Due ore dopo, Dantès uscì dal porto di Genova, seguito dagli sguardi di una folla di curiosi che volevano vedere il signore spagnolo che aveva l’abitudine di navigare solo.

Dantès se la cavò a meraviglia: con l’aiuto del timone fece fare al suo bastimento tutte le manovre necessarie; lo si sarebbe detto un essere intelligente pronto a obbedire al più piccolo impulso, e Dantès convenne che i genovesi meritavano la reputazione di primi costruttori navali del mondo.

I curiosi seguirono con lo sguardo lo yacht, finché non l’ebbero perso di vista; e allora cominciarono le discussioni per sapere dove era diretto: alcuni dicevano in Corsica, altri all’isola d’Elba, altri ancora scommettevano sulla Spagna, e altri sostenevano che andava in Africa… Nessuno pensò all’isola di Montecristo. E invece era proprio all’isola di Montecristo che andava Dantès.

Vi giunse sulla fine del secondo giorno. Lo yacht era un eccellente veliero, e aveva percorso il tragitto in trentacinque ore. Dantès aveva perfettamente riconosciuto il profilo della costa: invece di approdare nel solito porto, gettò l’ancora nella piccola insenatura.

L’isola era deserta; non sembrava che qualcuno vi fosse approdato dopo la partenza di Dantès.

Egli tornò al suo tesoro: tutto era come lo aveva lasciato.

Il giorno dopo, l’immensa fortuna era stata trasportata a bordo dello yacht, e chiusa nell’armadio a scomparti segreti.

Dantès attese ancora otto giorni. In questi otto giorni fece manovrare il suo yacht attorno all’isola, studiandola come uno scudiero studia un cavallo. Dopo questo tempo, egli ne conobbe tutte le qualità e i difetti, e si ripromise di aumentare le une e di rimediare agli altri.

L’ottavo giorno Dantès vide una piccola imbarcazione venire verso l’isola a vele spiegate, e riconobbe la barca di Jacopo. Fece un segnale al quale Jacopo rispose, e due ore dopo la barca era accanto allo yacht.

Jacopo aveva una triste risposta a ciascuna delle due domande fatte da Edmond: il vecchio Dantès era morto; Mercedes era sparita.

Edmond ascoltò le due notizie con calma; ma discese subito a terra proibendo di seguirlo. Due ore dopo ritornò. Due uomini della barca di Jacopo passarono sul suo yacht per aiutarlo a manovrare; ordinò di fare rotta su Marsiglia.

Aveva previsto la morte di suo padre. Ma di Mercedes che ne era avvenuto? Senza divulgare il suo segreto, Edmond non poteva dare istruzioni sufficienti a un proprio emissario; d’altronde voleva prendere altre informazioni, e non poteva fidarsi che di se stesso. Lo specchio lo aveva rassicurato a Livorno: non correva alcun pericolo di essere riconosciuto; d’altronde aveva tutti i mezzi per camuffarsi.

Una mattina dunque, lo yacht, seguito dalla piccola barca, entrò arditamente nel porto di Marsiglia e si fermò proprio dirimpetto al luogo dove Dantès era stato imbarcato, la sera che lo avevano portato al castello d’If.

Non fu senza qualche fremito che vide, nella lancia della Sanità, venire verso di lui un gendarme. Ma Dantès, con la perfetta padronanza acquistata, gli presentò un passaporto inglese, che si era procurato a Livorno, e mediante il lasciapassare straniero, molto più rispettato in Francia, del nazionale, scese senza difficoltà a terra.

La prima persona che Dantès vide, mettendo piede sulla Canebière, fu uno dei marinai del Pharaon.

L’uomo aveva servito sotto i suoi ordini, e non c’era di meglio per rassicurare Dantès sul proprio cambiamento.

Andò dritto da lui, e gli fece molte domande. Questi rispondeva senza neppure lasciar supporre, né dalle parole né dalla fisionomia, che ricordasse di averlo mai visto.

Dantès regalò al marinaio una moneta per ringraziarlo delle sue informazioni; un momento dopo il brav’uomo gli correva dietro.

Dantès si voltò.

«Scusi, signore», disse il marinaio, «vi siete certamente sbagliato, avete creduto di darmi una moneta da quaranta soldi e invece mi avete dato un napoleone doppio.»

«Infatti, amico mio», disse Dantès, «ho sbagliato; ma siccome la vostra onestà merita una ricompensa, eccovene un altro, che vi prego di accettare per bere alla mia salute con i vostri compagni.»

Questi fu talmente stupito dal regalo, che non pensò nemmeno a ringraziare colui che glielo faceva, e lo guardò allontanarsi dicendosi: «È un qualche nababbo che viene dalle Indie!»

Dantès continuò la sua strada; ciascun passo opprimeva il suo cuore con una nuova emozione. Tutti i suoi ricordi d’infanzia, ricordi indelebili, eternamente presenti al suo pensiero, si facevano più vivi a ogni piazza, a ogni angolo di strada, a ogni crocicchio.

Giungendo in fondo a rue Noailles, nel vedere i viali di Meilhan sentì le ginocchia piegarglisi e poco mancò non cadesse sotto le ruote di una carrozza. Giunse alla casa che aveva abitato suo padre. I nasturzi e le clematidi erano spariti dalla pergola, dove la mano tremante del vecchio li piantava con cura.

Dantès si appoggiò a un albero e per un po’ restò pensieroso guardando l’ultimo piano di quell’umile e povera casa; poi avanzò verso la porta, ne superò la soglia e domandò se vi fosse un alloggio vacante, e tanto insistette per visitare il quinto piano, che, sebbene fosse occupato, il portinaio salì e domandò il permesso di vedere le due stanze di cui si componeva.

Occupavano quel piccolo appartamento due giovani sposati da otto giorni soltanto.

Vedendo quegli sposi, Dantès emise un profondo sospiro.

Nulla più richiamava alla memoria di Dantès l’appartamento di suo padre: non c’era più la stessa tappezzeria alle pareti, non c’erano più i vecchi mobili, cari all’infanzia di Dantès, vivi nel suo pensiero nei loro più piccoli dettagli: tutto era cambiato. Solo i muri erano gli stessi.

Dantès si voltò verso il letto, che era nello stesso posto in cui lo teneva il vecchio inquilino. Suo malgrado, gli si inumidirono gli occhi: era in quel posto che il vecchio aveva reso l’ultimo sospiro invocando il nome di suo figlio!

I due giovani guardarono con meraviglia quell’uomo dalla fronte severa, sulle cui guance scorrevano due grosse lacrime senza che il viso si alterasse. Ma, siccome ogni dolore è sacro, i giovani non fecero alcuna domanda allo sconosciuto; solo si misero in disparte per lasciarlo piangere a suo agio. Quando se ne andò, lo accompagnarono dicendogli che poteva tornare quando voleva, e che la loro povera casa gli sarebbe stata sempre aperta.

Scendendo al piano di sotto, Edmond si fermò davanti a un’altra porta, e domandò se abitava sempre lì un sarto chiamato Caderousse, ma il portinaio gli rispose che l’uomo di cui parlava avendo fatti cattivi affari, era andato ad abitare sulla strada tra Bellegarde e Beaucaire, ove conduceva l’albergo del Ponte di Gard.

Dantès discese, domandò l’indirizzo del proprietario della casa sui viali di Meilhan, andò da lui, si fece annunciare con il nome di lord Wilmore (erano il nome e il titolo che stavano scritti sul passaporto), e comprò quella piccola casa per la somma di venticinquemila franchi, almeno diecimila franchi più di quello che valeva, ma Dantès, se gli avessero chiesto mezzo milione, lo avrebbe pagato.

Nello stesso giorno, i giovani che abitavano il quinto piano furono avvertiti dal notaio che aveva stipulato il contratto, che il nuovo proprietario li invitava alla scelta di un altro appartamento della casa, senza aumentare in alcun modo la pigione, a condizione che cedessero le due camere che occupavano.

Quella strana proposta fu oggetto di discorsi per più di otto giorni a quanti erano soliti frequentare i viali di Meilhan, e fece fare mille congetture, di cui neppure una esatta.

Ma ciò che più di tutto imbrogliò i cervelli, e turbò tutti gli spiriti, fu vedere quella stessa sera quel medesimo uomo, che la mattina era stato visto entrare nella casa dei viali di Meilhan, passeggiare nel piccolo villaggio dei Catalani ed entrare in una povera casa di pescatori, dove rimase più di due ore a domandar notizie d’individui che in parte erano morti e in parte spariti da molti anni.

L’indomani le persone presso le quali era andato a fare tutte quelle domande, ricevettero in regalo una nuovissima barca catalana, con diverse reti da pesca.

Quella brava gente avrebbe voluto ringraziare il generoso sconosciuto, ma era stato visto, dopo aver dato alcuni ordini a un marinaio, montare a cavallo e uscire da Marsiglia per la porta di Aix.

26. L’albergo del Ponte di Gard

Coloro i quali hanno percorso a piedi il mezzogiorno di Francia, avranno potuto notare fra Bellegarde e Beaucaire, circa a metà strada fra il villaggio e la città, ma più vicino a Beaucaire che a Bellegarde, un piccolo albergo, sulla cui facciata si vede appesa un’insegna che stride al minimo soffio vento, e su cui è rozzamente dipinto il Ponte di Gard.

Tale piccolo albergo, per chi segue il corso del Rodano, si trova dalla parte sinistra della strada, voltando le spalle al fiume. È anche provvisto di ciò che nella Linguadoca viene chiamato giardino, vale a dire che il lato opposto a quello che tiene aperta la porta ai viaggiatori dà su un recinto in cui vegetano alcuni ulivi, qualche fico selvatico, con le foglie argentate dalla polvere della strada, e vi crescono, al posto dei legumi, il pepe d’India, le cipolline, e lo zafferano; e infine in un angolo, come una sentinella dimenticata, cresce un gran pino, lanciando in alto il suo fusto malinconico e flessibile, e aprendo a ventaglio la sua cima.

Questi alberi grandi e piccoli sono tutti incurvati per il maestrale, uno dei tre flagelli della Provenza. (Gli altri due, come si sa, o come non si sa, erano la Durance e il Parlamento). Qui e là, nella pianura circostante, che assomiglia a un gran lago di polvere, vegetano alcune spighe di frumento, che gli agricoltori del paese coltivano certamente per curiosità, e ognuna delle quali serve da ricovero a una cicala, che perseguita, col suo canto stridente e monotono, il viaggiatore perdutosi in quella Tebaide.

Da circa sette o otto anni, questo piccolo albergo era condotto da un uomo e da una donna che avevano per soli domestici una cameriera chiamata Trinette e uno stalliere che rispondeva al nome di Pacaud; doppia cooperazione più che sufficiente ai bisogni dell’albergo, poiché un canale, scavato fra Beaucaire e Aigues-Mortes, aveva fatto sostituire i battelli ai barrocci e le barche alle diligenze.

Il canale, come per rendere più vivi i dispiaceri dei disgraziati albergatori che mandava in rovina, passava fra il Rodano che lo alimenta e la strada che ne ha diminuito l’importanza, a cento passi circa dall’albergo di cui abbiamo dato una breve ma fedele descrizione.

Non dimentichiamo un cane, vecchio guardiano per la notte, e che abbaiava contro i passanti sia di giorno che nelle tenebre, tanto aveva perso, un po’ alla volta, l’abitudine di vedere viaggiatori.

Il proprietario del piccolo albergo era un uomo sui quarant’anni, alto, secco e nerboruto, vero tipo meridionale, con gli occhi infossati e vivaci, col naso a becco d’aquila e i denti bianchi come quelli di un animale carnivoro. I suoi capelli che, malgrado i primi soffi dell’età, non sembravano decidersi a diventar bianchi, erano, come la barba che portava lunga e a collana, spessi, crespi e appena sparsi di qualche pelo grigio: la sua carnagione, naturalmente scura, era ancora più abbronzata per l’abitudine che il povero diavolo aveva di stare dalla mattina alla sera sul limitare della porta, per vedere se a piedi o in carrozza, giungesse qualche avventore, aspettativa che quasi sempre andava perduta. e durante la quale non opponeva riparo all’azione dei raggi divoratori del sole sul viso, fuorché un fazzoletto rosso annodato sulla testa, secondo il costume dei mulattieri spagnoli.

Quell’uomo è una nostra vecchia conoscenza: Gaspard Caderousse.

La moglie, che da nubile si chiamava Madaleine Radelle, era una donna pallida, magra e malaticcia. Nata nei dintorni di Arles, pur conservando qualche traccia della bellezza tradizionale delle sue compatriote, aveva il viso scomposto dagli accessi quasi continui di una di quelle febbri ribelli, tanto comuni alle popolazioni vicine agli stagni di Aigues-Mortes e alle paludi della Camargue.

Se ne stava quasi sempre seduta e tremante nella sua camera situata al primo piano, o sdraiata sopra un sofà, o appoggiata al suo letto, mentre suo marito montava la guardia alla porta, cosa che egli prolungava tanto più volentieri, in quanto ogni volta che si accostava alla moglie, lei lo perseguitava con eterne lagnanze contro la sorte, lagnanze alle quali suo marito rispondeva di solito con queste filosofiche parole: «Taci, Carconta! È Dio che vuole così!»

Questo soprannome era dato a Madeleine Radelle perché era nata nel piccolo villaggio di Carconta, posto fra Salon e Lambesc.

Secondo un costume del paese, le persone vengono quasi sempre chiamate con un soprannome invece che per nome, e suo marito aveva sostituito quell’appellativo alla parola Madeleine, forse perché troppo dolce e troppo sonora per il suo rozzo linguaggio.

Però, malgrado questa pretesa rassegnazione ai decreti della Provvidenza, non si creda che il nostro albergatore non sentisse profondamente la miserevole condizione in cui lo aveva ridotto il canale di Beaucaire, e che fosse invulnerabile alle incessanti lamentele con cui lo perseguitava la moglie.

Era, come tutti i meridionali, un uomo sobrio e senza grandi bisogni, ma pieno di vanità per tutte le cose esteriori. Nei tempi della sua prosperità, non lasciava mai passare né una cerimonia pubblica, né una processione senza andarci con la sua Carconta; l’uno col costume pittoresco degli uomini del Mezzogiorno, a un tempo catalano e andaluso, l’altra col grazioso abito delle donne di Arles, che sembra per metà greco e per metà arabo. Ma un po’ per volta, catene da orologio, collane, cinture dai mille colori, giubbe e calze ricamate, vestiti di velluto, ghette variopinte, scarpe con fibbie d’argento erano sparite, e Gaspard Caderousse, non potendo più mostrarsi all’altezza del passato splendore, aveva rinunciato per sé e per la moglie a tutte quelle pompe mondane di cui sentiva, rodendosi sordamente il cuore, gli allegri rumori fin sulla soglia del povero albergo, che continuava a conservare più come ricovero che come fonte di reddito.

Caderousse, come d’abitudine, aveva sostato gran parte della mattina davanti alla porta, girando lo sguardo malinconico da una piccola zolla, intorno a cui razzolavano alcune galline, alle due estremità della strada deserta che si perdevano, una al mezzogiorno e l’altra al nord. Tutto a un tratto la voce acida della moglie lo costrinse ad abbandonare il posto. Rientrò brontolando e salì al primo piano, lasciando però sempre aperta e spalancata la porta, come per invitare i viaggiatori a entrare, passando.

Nel momento che Caderousse rientrava, la strada maestra di cui abbiamo parlato, e che veniva percorsa dai suoi sguardi, era così nuda e così solitaria quanto il deserto: si stendeva bianca e infinita tra due file d’alberi sottili, e si comprenderà facilmente che nessun viaggiatore, libero di scegliere un’altra ora del giorno, si sarebbe avventurato in quello spaventevole Sahara.

Però, contro tutte le probabilità, se Caderousse fosse rimasto al suo posto, avrebbe potuto scorgere dalla parte di Bellegarde un cavaliere e un cavallo sopraggiungere con quell’andatura sciolta che indica le migliori relazioni fra l’uomo e l’animale: il cavallo era di razza ungherese, il cavaliere era un prete vestito di nero col suo cappello a tricorno. Malgrado l’eccessivo calore d’un sole ardente nell’ora del mezzogiorno, non andavano tutti e due che di un trotto molto regolato.

Giunti davanti alla porta, si fermarono.

Sarebbe stato difficile decidere se fu l’uomo che fermò il cavallo, o il cavallo che fermò l’uomo. In ogni modo, il cavaliere mise il piede a terra, e tirando l’animale per le redini andò ad attaccarlo all’arpione di un’imposta rotta che si reggeva sopra a un solo cardine; quindi avanzando verso la porta, e asciugandosi la fronte grondante di sudore con un fazzoletto di cotone rosso, batté tre colpi sull’uscio, col puntale di ferro del bastone che teneva in mano.

Subito il gran cane nero si alzò e fece qualche passo, abbaiando e mostrando i denti bianchi e aguzzi; doppia dimostrazione ostile, che provava la poca abitudine che aveva alle visite.

Immediatamente dopo, un passo pesante risuonò sulla scala di legno che si arrampicava lungo il muro, e ne discese, curvandosi all’indietro, il proprietario del povero albergo.

«Eccomi», diceva Caderousse meravigliato. «Eccomi! Vuoi star zitto, Margottin? Non abbiate paura, signore, abbaia ma non morde. Desiderate del vino, non è vero? C’è un sole tremendo. Ah, mi scusi», si interruppe Caderousse, vedendo con quale specie di viandante parlava, «mi scusi, non sapevo chi avevo l’onore di ricevere… Che desiderate? che domandate, signor abate? Sono ai vostri ordini.»

Il prete guardò quell’uomo per due o tre secondi con un’attenzione straordinaria, e sembrò cercasse di attirare su di sé l’attenzione dell’albergatore; ma vedendo che i lineamenti di costui non esprimevano altro sentimento che la sorpresa di non avere una risposta, giudicò fosse tempo di finirla e disse con un accento italiano ben pronunciato: «Non siete voi il signor Caderousse?»

«Sì, signore», disse l’oste, forse stupito più della domanda che non del silenzio di un momento prima, «sono effettivamente Gaspard Caderousse, per servirvi.»

«Gaspard Caderousse?… Sì… credo siano questi il nome e il cognome… Voi dimoravate in altri tempi sui viali di Meilhan, al quarto piano, non è vero?»

«Precisamente.»

«Ed esercitavate la professione di sarto?»

«Sì, ma la mia professione non mi fruttava; fa tanto caldo in quella maledetta Marsiglia, che andrà a finire che nessuno si vestirà più. Ma a proposito di calore, non volete prender qualcosa per rinfrescarvi, signor abate?»

«Sia pure. Datemi una bottiglia del miglior vino che avete, e poi riprenderemo la conversazione, se non vi dispiace, al punto in cui l’abbiamo lasciata.»

«Come vi farà più piacere, signor abate», disse Caderousse, e, per non perdere l’occasione di vendere una delle ultime bottiglie di vino di Cahors che gli restavano, si affrettò ad alzare una botola nel pavimento della camera a pianterreno, che serviva a un tempo da sala e da cucina.

Allorché, in capo a cinque minuti, ricomparve, ritrovò l’abate seduto su uno sgabello col gomito appoggiato a una lunga tavola, mentre Margottin, sembrando aver fatto pace con Caderousse, e aspettando che, diversamente dal solito, questo singolare viaggiatore ordinasse qualche cosa, allungava il collo scarno e l’occhio languente.

«Siete solo?» domandò l’abate all’oste, mentre questi gli metteva davanti la bottiglia e un bicchiere.

«Oh, mio Dio, sì, solo, o quasi, poiché ho una moglie che non mi può aiutare in cosa alcuna, essendo la povera Carconta quasi sempre malata.»

«Ah, voi siete ammogliato?» disse l’abate con un certo interesse, guardandosi in giro, come per stimare il tenue valore dei mobili del locale.

«Vi accorgete che non sono ricco, non è vero?» disse sospirando Caderousse. «Ma per esser fortunati in questo mondo, non basta sempre essere un onest’uomo.»

L’abate fissò uno sguardo indagatore su di lui.

«Sì, un onest’uomo, di ciò posso vantarmi», disse l’oste sostenendo lo sguardo dell’abate, con una mano sul petto e alzando la testa, «e oggigiorno non tutti possono dire altrettanto.»

«Tanto meglio, se è vero ciò di cui vi vantate; poiché ho la ferma convinzione che presto o tardi l’uomo onesto viene ricompensato e il cattivo punito.»

«È vostro dovere dir così, signor abate, è il vostro stato di uomo di Chiesa che vi fa dir così», disse Caderousse, con un’amara espressione. «La realtà però ci mostra spesso il contrario di ciò che dite.»

«Avete torto di parlar così», disse l’abate, «perché forse fra qualche istante io sarò per voi una prova di ciò che asserisco.»

«Che volete dire?» domandò Caderousse meravigliato.

«Voglio dire che prima di tutto bisogna che mi assicuri se siete realmente colui che cerco.»

«Quali prove volete che vi dia?»

«Avete conosciuto nel 1814 o 1815 un marinaio che si chiamava Dantès?»

«Dantès? Se ho conosciuto il povero Edmond? Lo credo bene! Era uno dei miei migliori amici!» esclamò Caderousse, il cui volto si era fatto di porpora, mentre l’occhio chiaro e fermo dell’abate sembrava dilatarsi per scoprire interamente colui che interrogava.

«Sì, credo infatti che si chiamasse Edmond.»

«Se si chiamava Edmond quel ragazzo? Lo credo bene! Tanto è vero, quanto mi chiamo Gaspard Caderousse! E che è avvenuto, signore, del povero Edmond?» continuò l’oste. «L’avete conosciuto? Dov’è adesso? È felice?»

«È morto prigioniero, più disperato e più miserabile dei forzati che trascinano la loro catena al bagno penale di Tolone.»

Un pallore mortale si sostituì al rossore sul viso di Caderousse. Si voltò e l’abate lo vide asciugarsi una lacrima con un lembo del fazzoletto che gli serviva da berretto.

«Povero ragazzo», mormorò Caderousse. «Ebbene ecco un’altra prova di quel che vi dicevo: il destino, in questa vita, non è favorevole che ai più malvagi. Ah», continuò Caderousse, con quel linguaggio colorito delle genti del Mezzogiorno, «questo mondo va di male in peggio. Che piova dunque una volta dal cielo per due giorni polvere di cannone, e subito dopo un’ora di fuoco, così sarà tutto finito!»

«Sembra che amavate di cuore questo giovane», osservò l’abate.

«Sì, lo amavo molto», disse Caderousse, «sebbene debba rimproverarmi di avere per un istante invidiato la sua felicità. Ma dopo, ve lo giuro, parola di Caderousse, ho pianto molto la sua sorte infelice!»

Seguì un istante di silenzio, durante il quale lo sguardo fisso dell’abate non cessò un momento di studiare la fisionomia mobile dell’albergatore.

«E voi lo avete conosciuto il povero giovane?» continuò Caderousse.

«Fui chiamato al suo letto di morte per prestargli gli ultimi conforti della religione», rispose l’abate.

«E di che male è morto?» domandò Caderousse con voce strozzata.

«Di qual male si muore in prigione, all’età di trent’anni, se non è la prigione stessa che uccide?»

Caderousse si asciugò il sudore dalla fronte.

«Ciò che c’è di strano in tutto questo», rispose l’abate, «è che Dantès, sul letto di morte, mi ha giurato di non sapere la vera causa della sua prigionia.»

«È vero, è vero», mormorò Caderousse, «non poteva saperlo, no, signor abate, il povero giovane non mentiva.»

«Ed è per questo che mi ha incaricato di chiarire ciò che non aveva mai potuto chiarire da sé, e di riabilitare la sua memoria, se questa memoria fosse stata macchiata.»

Lo sguardo dell’abate, divenendo sempre più fisso, divorò l’espressione quasi tetra che apparve sul viso di Caderousse.

«Un ricco inglese», continuò l’abate, «che fu suo compagno di prigione e che venne liberato alla seconda Restaurazione, possedeva un diamante di gran valore. Uscendo di prigione, siccome Dantès lo aveva assistito come un fratello in una lunga malattia di cui aveva sofferto, volle lasciargli una testimonianza della sua riconoscenza, e gli regalò il diamante. Dantès invece di servirsene per sedurre i suoi carcerieri, che del resto potevano prenderlo e poi tradirlo, lo custodì sempre gelosamente nel caso uscisse di prigione; se fosse uscito la sua fortuna era assicurata dalla vendita di quel diamante.»

«Era dunque, come voi dicevate», domandò Caderousse con occhi ardenti, «un diamante di grande valore?»

«Tutto è relativo», rispose l’abate, «era di gran valore per Edmond; questo diamante è stato stimato cinquantamila franchi.»

«Cinquantamila franchi!» esclamò Caderousse. «Sarà stato grosso come una noce?»

«No, niente affatto», disse l’abate. «Ma potrete giudicare voi stesso, avendolo io qui con me.»

Caderousse sembrò cercare con gli occhi sotto le vesti dell’abate il gioiello di cui parlava.

L’abate cavò dalla una tasca una scatolina di marocchino nero, l’aprì e fece brillare innanzi agli occhi abbagliati di Caderousse la sfavillante meraviglia, incastonata in un anello di squisita fattura.

«E questo vale cinquantamila franchi?» domandò avidamente Caderousse.

«Senza l’anello, che è anch’esso di un certo valore.»

Chiuse la scatolina, rimise in tasca il diamante, che continuava a sfavillare nell’immaginazione di Caderousse.

«Ma come mai vi trovate in possesso di questo diamante?» domandò Caderousse. «Edmond vi ha dunque nominato suo erede?»

«No, ma suo esecutore testamentario. “Io avevo tre buoni amici e una fidanzata”, mi disse, “e tutti e quattro, ne son certo, mi compiangono amaramente; uno di questi miei buoni amici si chiama Caderousse”.»

Caderousse fremette.

«“L’altro”, continuò l’abate senza mostrare di essersi accorto dell’emozione di Caderousse, “l’altro si chiamava Danglars; il terzo”», aggiunse, «“sebbene mio rivale, mi amava ugualmente…”»

Un sorriso diabolico illuminò la fisionomia di Caderousse, che fece un movimento per interrompere l’abate.

«Aspettate», disse l’abate, «lasciatemi finire, e se avrete qualche osservazione da fare, la farete fra breve. “L’altro, sebbene mio rivale mi amava ugualmente, e si chiamava Fernando; in quanto alla mia fidanzata, il suo nome era…” Non mi ricordo più il nome della fidanzata», disse l’abate.

«Mercedes», disse Caderousse.

«Ah sì, è vero», riprese l’abate con un sorriso soffocato, «Mercedes…»

«Ebbene?» domandò Caderousse.

«Datemi un po’ d’acqua», disse l’abate.

Caderousse si affrettò a obbedire.

L’abate si riempì il bicchiere e ne bevve qualche sorso.

«Dove eravamo?» domandò questi posando il bicchiere sulla tavola.

«La fidanzata si chiamava Mercedes…»

«Ah, già. “Voi andrete da Mercedes…” È sempre Dantès che parla, capite?»

«Perfettamente.»

«Venderete questo diamante, ne farete cinque parti uguali, e le dividerete fra questi miei buoni amici, i soli esseri che mi hanno amato su questa terra!»

«Perché in cinque parti?» osservò Caderousse. «Non mi avete nominato che quattro persone.»

«Perché la quinta è morta, da quanto mi è stato detto… la quinta era il padre di Dantès.»

«Purtroppo è vero!» disse Caderousse commosso dalle passioni che contrastavano nel suo cuore, «purtroppo sì, il pover’uomo è morto!»

«Ho saputo ciò a Marsiglia», rispose l’abate sforzandosi di sembrare indifferente, «ma il povero vecchio è morto da tanto tempo, e non ho potuto raccogliere nessun particolare… Sapreste dirmi qualche cosa voi?»

«Eh», disse Caderousse, «chi lo può sapere meglio di me?… Abitavo porta a porta col buon uomo… Oh, mio Dio, sì, un anno appena dopo la scomparsa di suo figlio il poveretto morì!»

«Ma di che male morì?»

«I medici definirono la sua malattia gastroenterite, credo; quelli che lo conoscevano, dicevano che era morto di dolore… e io, che l’ho quasi visto morire, dico che è morto…»

Caderousse si fermò.

«Morto di che cosa?» riprese ansiosamente l’abate.

«Morto di fame.»

«Di fame!» esclamò l’abate agitandosi sullo sgabello. «Di fame!… Il più vile degli animali non muore di fame; i cani che vanno errando per le strade trovano una mano compassionevole che getta loro un tozzo di pane! E un uomo, un cristiano, è morto di fame in mezzo ad altri uomini che si dicono cristiani come lui!… Impossibile! Oh, questo è impossibile!»

«Vi dico che è così», riprese Caderousse.

«Tu hai torto», disse una voce dalle scale.

«Di che t’immischi tu?»

I due uomini si voltarono e videro tra le sbarre della ringhiera il viso malaticcio della Carconta. Si era trascinata fin là e ascoltava la conversazione, seduta sull’ultimo scalino, con la testa appoggiata sulle ginocchia.

«Di che ti immischi tu, moglie?» disse Caderousse. «Questo signore domanda delle informazioni, la cortesia vuole che gli si diano.»

«Ma la prudenza vuole che tu taccia. Chi ti dice con quali intenzioni ti si vuol far parlare, imbecille!»

«Con una intenzione eccellente, rassicuratevene», disse l’abate. «Vostro marito non ha nulla da temere, purché mi risponda francamente.»

«Nulla da temere… Si comincia sempre con delle belle promesse, si dice che non c’è nulla da temere; poi chi ha ascoltato se ne va, senza tenere per sé niente di ciò che è stato detto, e un bel mattino cade la disgrazia sopra una povera famiglia senza sapere da che parte viene.»

«State tranquilla, buona donna», rispose l’abate, «la disgrazia non vi verrà da parte mia, ve lo garantisco.»

La Carconta brontolò qualche parola che non si poté interpretare, lasciò ricadere sulle ginocchia la testa per un istante sollevata, e continuò a tremare per la febbre, lasciando il marito libero di continuare la conversazione, ma in modo da non perderne una parola.

Frattanto l’abate aveva bevuto qualche sorso d’acqua e si era calmato.

«Ma», riprese, «quel disgraziato vecchio era dunque talmente abbandonato da tutti che dovette perire di una tal morte?»

«Oh, signore», riprese Caderousse, «Mercedes la catalana e il signor Morrel non lo avevano abbandonato. Ma il povero vecchio aveva preso una profonda antipatia per Fernando, quello stesso», continuò Caderousse con un sorriso ironico, «che Dantès vi disse essere uno dei suoi amici.»

«Dunque non lo era?» domandò l’abate.

«Gaspard, Gaspard», mormorò la donna dall’alto della scala, «fa’ bene attenzione a ciò che stai per dire.»

Caderousse ebbe un moto d’impazienza e senza rispondere a colei che lo interrompeva rispose all’abate: «Si può mai essere amico di quello a cui si vuol portar via la fidanzata? Dantès, che aveva il cuore d’oro, chiamava tutti suoi amici… Povero Edmond… Però è meglio che non abbia saputo niente; avrebbe fatto troppa fatica a perdonargli in punto di morte… sebbene, checché se ne dica», continuò Caderousse nel suo linguaggio non privo di una specie di rozza poesia, «io abbia più paura della maledizione dei morti che dell’odio dei vivi.»

«Imbecille!» disse la Carconta.

«Sapete dunque», continuò l’abate, «ciò che questo Fernando ha fatto contro Dantès?»

«Se lo so? Lo credo bene!»

«Parlate allora.»

«Gaspard, fa’ ciò che vuoi, tu sei il padrone», disse la moglie, «ma se mi dessi retta, non diresti niente.»

«Questa volta, moglie mia, credo che tu abbia ragione», disse Caderousse.

«Così non volete dir niente?» riprese l’abate.

«E a che servirebbe?» disse Caderousse. «Se Edmond fosse vivo, e una volta per tutte venisse da me per conoscere tutti i suoi amici e nemici, parlerei; ma ora è sottoterra, da quanto mi avete detto, non può più avere odi, non può più vendicarsi. Dimentichiamo tutto questo…»

«Volete allora», disse l’abate, «che dia a questi individui che mi dite indegni e falsi amici una ricompensa destinata alla fedeltà?»

«È vero, avete ragione», disse Caderousse. «D’altronde ora a che servirebbe l’eredità del povero Edmond? Sarebbe una goccia d’acqua caduta in mare.»

«Senza calcolare che quella gente può schiacciarti con un gesto», disse la moglie.

«E in qual modo? Costoro sono divenuti ricchi e potenti?»

«Voi dunque non sapete la loro storia?»

«No, raccontatemela.»

Caderousse parve riflettere un istante.

«No, in verità», disse, «sarebbe troppo lunga.»

«Siete libero di tacere, amico mio», disse l’abate con l’accento della più grande indifferenza, «e rispetto i vostri scrupoli; d’altronde il vostro modo d’agire è veramente da uomo dabbene; non ne parliamo dunque più. Di che cosa ero incaricato? Di una semplice formalità. Venderò quindi questo diamante.» E cavò il diamante dalla tasca e lo fece brillare una seconda volta dinanzi agli occhi di Caderousse.

«Vieni dunque a vedere, moglie mia…» disse questi, con voce rauca.

«Un diamante!» disse la Carconta levandosi e scendendo con passo abbastanza fermo la scala. «Di che diamante si tratta?»

«Ah, dunque non hai inteso?» disse Caderousse. «È un diamante che il giovane ci ha lasciato in eredità: prima a suo padre, poi ai suoi tre amici: Fernando, Danglars e me, e a Mercedes, la sua fidanzata. Questo diamante vale cinquantamila franchi.»

«Oh, che bel gioiello!» esclamò lei.

«Il quinto allora di questa somma appartiene a noi?» disse Caderousse.

«Sì», rispose l’abate, «e più la parte del padre che mi credo autorizzato a ripartire fra voi quattro.»

«E perché fra noi quattro?» domandò la Carconta.

«Perché voi eravate i quattro amici di Edmond.»

«Non sono amici coloro che tradiscono!» mormorò sottovoce la donna.

«Sì, sì…» disse Caderousse, «ed era ciò che dicevo. È quasi una profanazione, quasi un sacrilegio, dare una ricompensa al tradimento e fors’anche al delitto.»

«Siete voi che lo volete», rispose tranquillamente l’abate, rimettendo il diamante nella tasca della sua sottana. «Ora datemi l’indirizzo degli amici di Edmond, affinché possa eseguire le sue ultime volontà.»

Il sudore colava a grosse gocce dalla fronte di Caderousse; vide l’abate alzarsi, e dirigersi verso la porta come per dare un’occhiata al suo cavallo e tornare.

Caderousse e sua moglie si guardarono con un’espressione indicibile.

«Il diamante sarebbe tutto nostro!» disse Caderousse.

«Lo credi?» disse la donna.

«Un uomo come quello non vorrà ingannarci.»

«Fa’ come vuoi» disse la donna, «in quanto a me, io non me ne immischio.» E tutta tremante, risalì la scala; i denti le battevano, malgrado facesse molto caldo. All’ultimo scalino si fermò un istante. «Riflettici bene, Gaspard…» disse.

«Sono deciso», rispose Caderousse. La Carconta rientrò sospirando nella sua camera; l’impiantito s’intese scricchiolare sotto i suoi passi finché non ebbe raggiunto il sofà sul quale cadde di peso.

«Vi siete deciso?» domandò l’abate.

«Vi dirò tutto… Credo sia la cosa migliore da farsi.»

«Non che io abbia interesse a saper cose che vorreste nascondere ma, se potete aiutarmi a distribuire il lascito secondo i voti del testatore, sarà assai meglio.»

«Lo spero…» disse Caderousse con le guance infiammate di speranza e di cupidigia.

«Vi ascolto…» disse l’abate.

«Aspettate», rispose Caderousse, «potremmo essere interrotti nel punto più interessante, sarebbe sgradevole;

d’altronde è inutile si sappia che siete venuto qui.»

Andò alla porta del suo albergo e la chiuse, per maggior precauzione vi mise la sbarra della notte.

L’abate scelse il posto per ascoltare con tutto suo comodo e si sistemò in un angolo in modo da rimanere nell’ombra, mentre la luce sarebbe ricaduta pienamente sul viso del suo interlocutore. In quanto a lui, con la testa chinata, le mani giunte o piuttosto serrate, si preparava ad ascoltare attentamente.

Caderousse avvicinò uno sgabello e si sedette in faccia all’abate.

«Ricordati che io non ti ho spinto a niente…» disse la voce tremolante della Carconta, come se attraverso il pavimento avesse potuto vedere la scena.

«Va bene, va bene», disse Caderousse, «non ne parliamo più; mi assumo ogni responsabilità.»

E cominciò.

27. Il racconto

«Prima di tutto», esordì Caderousse, «devo pregarvi di promettermi una cosa.»

«Quale?» domandò l’abate.

«Che non si saprà mai che vi ho dato questi particolari, nel caso che aveste bisogno di farne qualche uso; perché quelli di cui sto per parlarvi sono ricchi e potenti, e se avessero a toccarmi con la sola punta di un dito mi stritolerebbero come un bicchiere.»

«State tranquillo, mio buon amico, vi garantisco sul mio onore che le vostre parole moriranno nel mio cuore. Ricordatevi che non abbiamo altro scopo che di eseguire degnamente le ultime volontà del nostro amico. Parlate dunque senza timore e senza odio; dite tutta la verità. Io non conosco, e forse non conoscerò mai le persone di cui state per parlarmi; d’altra parte sono italiano e non francese, e compiute le ultime volontà di un moribondo, tornerò dritto in patria.»

L’esplicita promessa sembrò rassicurare del tutto Caderousse.

«E sia, in questo caso», disse Caderousse, «voglio dirvi anche di più, io devo disingannarvi sulle amicizie che il povero Edmond credeva sincere e affettuose.»

«Cominciamo da suo padre, se non vi dispiace. Edmond mi ha parlato molto di quel vecchio, per il quale nutriva un amore profondo.»

«È una storia triste», disse Caderousse scuotendo la testa. «Probabilmente, voi ne conoscerete il principio.»

«Sì, Edmond mi ha raccontato le cose fino al momento in cui fu arrestato, in una piccola osteria vicino a Marsiglia.»

«Alla Riserva… Oh, mio Dio, sì, vedo ancora la cosa come accadesse ora.»

«Non fu al pranzo del suo fidanzamento?»

«Sì, a quel pranzo che ebbe un allegro principio e una triste fine. Un commissario di polizia seguito da quattro fucilieri entrò e Dantès fu arrestato.»

«Ecco fino a dove arriva quello che so», disse l’abate. «Dantès stesso non sapeva altro, poiché non ha più rivisto nessuna delle cinque persone che ho nominato, né ha più inteso parlare di loro.»

«Dopo l’arresto di Dantès, il signor Morrel corse via per prendere informazioni, che furono tristissime. Il vecchio Dantès ritornò solo a casa sua, piegò l’abito dei giorni di festa piangendo, passò tutta la giornata camminando nella sua camera, e la sera non dormì. Io, che abitavo sotto di lui, lo sentii muoversi tutta la notte. Io stesso, debbo dirlo, non dormii: il dolore di quel povero padre mi faceva molto male e ciascuno dei suoi passi mi opprimeva il cuore, come avessi i piedi sul mio petto. L’indomani Mercedes venne a Marsiglia per implorare la protezione del signor Villefort; ma non ottenne nulla; dopo andò subito a far visita al vecchio. Quando lo vide così triste e abbattuto, capì che aveva passato tutta la notte senza riposare, e non aveva mangiato dal giorno innanzi, e volle condurlo con sé per prendersene cura; ma il vecchio non ha mai voluto acconsentirvi. “No”, diceva, “non lascerò mai questa casa, perché sono certo che il mio povero figlio mi ama sopra ogni altra cosa, e se esce di prigione correrà a trovare me per primo. Che direbbe se non fossi qui ad aspettarlo?” Io ascoltavo tutto dal pianerottolo, perché avrei desiderato che Mercedes avesse persuaso il vecchio a seguirla; quei passi ripetuti giorno e notte sulla mia testa, non mi lasciavano avere un momento di riposo.»

«E voi non salivate mai a consolarlo?»

«Ah, signor abate, si riesce a consolare solo coloro che vogliono esser consolati, ed egli non voleva esserlo. D’altra parte, non so perché, sembrava che avesse ripugnanza a vedermi. Una notte però, che intesi i suoi singhiozzi, non potei più resistere e salii: ma quando giunsi alla porta non singhiozzava più; pregava. Egli trovava parole eloquentissime, suppliche pietose che ora non saprei ripetere; era più che pietà, era più che dolore, e io, che non sono bigotto, dicevo a me stesso: “Sono ben felice d’esser solo e di non avere figli, perché se fossi padre e soffrissi un dolore come quello di questo povero vecchio, non potendo ritrovare nella mia memoria, né nel mio cuore tutto ciò che egli dice al buon Dio, me ne andrei dritto a buttarmi in mare per non soffrire più”.»

«Povero padre!» mormorò l’abate.

«Di giorno in giorno egli viveva sempre più solo e isolato. Spesso il signor Morrel o Mercedes venivano a trovarlo, ma la sua porta era chiusa e sebbene fosse certamente in casa non rispondeva ad alcuno. Un giorno, contrariamente al solito, ricevette Mercedes e la povera ragazza, anche se disperata, cercò di confortarlo: “Credimi, figlia mia”, disse il vecchio, “Edmond è morto, e invece di aspettar lui, egli aspetta noi… Io sono fortunato, perché essendo più vecchio, sarò il primo a rivederlo”. Per quanto uno sia buono, si stanca ben presto di vedere le persone che lo rattristano: il vecchio Dantès finì per rimanere solo. Io non vidi più salire da lui nessuno, se non ogni tanto certi sconosciuti che scendevano poi con degli involti malnascosti. Seppi in seguito che cosa erano quegl’involti: egli vendeva a poco a poco tutto ciò che aveva, per vivere. Infine il buon uomo terminò i suoi poveri arredi… Era debitore di tre rate d’affitto: fu minacciato di esser cacciato; domandò una dilazione di otto giorni che gli venne accordata. Io so questi particolari perché il padrone di casa entrò da me, uscendo da lui.

«Nei primi tre giorni lo intesi camminare come al solito ma nel quarto non sentii più nulla. Mi arrischiai a salire, la porta era chiusa; guardai attraverso la serratura, e lo vidi tanto pallido ed estenuato, che, comprendendo quanto fosse malato, feci avvertire il signor Morrel e corsi da Mercedes. Tutti e due si affrettarono a venire. Morrel condusse un medico, che diagnosticandogli una gastroenterite ordinò la dieta. Io ero presente, signore, e non dimenticherò mai il sorriso del vecchio a questa raccomandazione. Da quel momento aveva una scusa per non mangiar più… Il medico aveva ordinato la dieta.»

L’abate mandò una specie di gemito.

«Questa storia desta in voi tanto interesse?» domandò Caderousse.

«Sì», rispose l’abate, «è commovente.»

«Mercedes ritornò: lo trovò così cambiato che, come la prima volta, lo voleva far trasportare a casa sua. Questo era pure il parere di Morrel; ma il vecchio gridò tanto, che ebbero paura. Mercedes restò al suo capezzale; Morrel si allontanò facendo segno alla catalana che lasciava una borsa sul caminetto. Ma, forte dell’ordine del medico, non volle prender nulla. Finalmente, dopo nove giorni di disperazione e di astinenza, il vecchio spirò, maledicendo quelli che erano stati causa della sua disgrazia, e dicendo a Mercedes: “Se un giorno vedrete il mio Edmond, ditegli che io muoio benedicendolo”.»

L’abate si alzò, fece due volte il giro della stanza, portando la mano tremante all’arida gola.

«E voi credete che egli sia morto…»

«Di fame, signore», disse Caderousse. «Ne sono certo, quanto è vero che siamo qui.»

L’abate prese con mano convulsa il bicchiere d’acqua ancor pieno a metà, lo vuotò d’un fiato, e si rimise a sedere con gli occhi rossi e le guance pallide.

«Certo fu una gran disgrazia…» disse con voce rauca.

«E tanto più grande, perché causata da finti amici.»

«Passiamo dunque a questi uomini», disse l’abate. «Ma pensateci bene», continuò con un tono quasi minaccioso, «vi siete impegnato a dirmi tutto… Sentiamo dunque, chi son quelli che hanno fatto morire il figlio di disperazione, e il padre di fame?»

«Fernando e Danglars, due uomini invidiosi di Edmond, uno per amore, l’altro per ambizione.»

«E in qual modo si manifestò questa loro invidia?»

«Essi denunciarono Edmond come agente bonapartista.»

«Ma chi dei due lo denunciò? Chi dei due fu il vero colpevole?»

«Tutti e due: l’uno scrisse la lettera, l’altro la portò alla posta.»

«Questa lettera dove fu scritta?»

«All’osteria stessa della Riserva, il giorno prima del fidanzamento.»

«Fu proprio così…» mormorò l’abate. «Oh, Faria, Faria, come conoscevi bene gli uomini e le cose!»

«Che dite, signore?» domandò Caderousse.

«Niente! Continuate…»

«Danglars scrisse la denuncia con la mano sinistra, perché non fosse riconosciuta la calligrafia, e Fernando la spedì.»

«Ma», gridò d’improvviso l’abate, «voi eravate là?»

«Io?» disse Caderousse meravigliato. «E chi vi ha detto che c’ero?»

L’abate s’accorse di essersi spinto troppo oltre. «Nessuno», disse, «ma per essere così ben informato di tutti questi particolari, bisogna che siate stato presente.»

«È vero…» disse Caderousse con voce soffocata, «io c’ero.»

«E non vi siete opposto a questa infamia?» disse l’abate. «Voi dunque siete loro complice.»

«Signore, essi mi avevano fatto tanto bere, che quasi avevo perso la ragione: non vedevo che attraverso una nebbia. Dissi quanto poteva dire un uomo in quello stato, ma essi mi risposero essere stato uno scherzo che avevano voluto fare, e che non avrebbe avuto alcuna conseguenza.»

«Va bene», disse l’abate, «voi avete parlato con franchezza e meritate il perdono.»

«Disgraziatamente Edmond è morto, e non mi ha perdonato.»

«Egli ignorava tutto ciò.»

«Ma ora forse lo saprà… Si dice che i morti sappiano tutto.»

Vi fu un momento di silenzio: l’abate si era alzato e passeggiava pensieroso. Ritornò al suo posto e si sedette di nuovo.

«Mi avete nominato due o tre volte un certo signor Morrel», disse. «Chi era quest’uomo?»

«Era l’armatore del Pharaon, il padrone e protettore di Dantès.»

«E quale parte ha sostenuto in tutta questa triste faccenda?»

«La parte dell’uomo onesto, coraggioso e affezionato. Venti volte andò a intercedere per Edmond. Quando ritornò l’imperatore, scrisse, pregò, minacciò, e tanto fece che, nella seconda Restaurazione, fu grandemente perseguitato come bonapartista. Dieci volte, come vi ho detto, è andato dal padre di Dantès per portarlo a casa sua, e il giorno prima della sua morte aveva lasciato sul caminetto una borsa con la quale furono pagati i debiti del buon uomo e le spese del funerale… Povero vecchio, poté almeno morire come aveva vissuto senza essere di peso a nessuno. Ho ancora quella borsa, una borsa di cordonetto rosso.»

«E questo signor Morrel vive ancora?»

«Sì…» disse Caderousse.

«E in questo caso dev’essere un uomo benedetto dal cielo, dev’essere ricco… felice…»

Caderousse sorrise amaramente.

«Sì, felice come lo sono io…» disse.

«Come! Morrel sarebbe rovinato?» gridò l’abate.

«È vicino alla miseria, e peggio ancora è vicino al disonore.»

«E come mai?»

«Dopo vent’anni di fatiche», rispose Caderousse, «dopo essersi acquistato il posto più onorevole nel commercio di Marsiglia, Morrel è quasi completamente rovinato. In due anni ha perso cinque vascelli, subito tre fallimenti terribili, e ora non ha più altre speranze che quello stesso Pharaon, che era comandato dal povero Edmond, e che deve ritornare dalle Indie con un carico di cocciniglia e di indaco. Se questo bastimento si perde come gli altri, è rovinato del tutto.»

«E il disgraziato ha moglie, figli?»

«Sì, ha una moglie che in tutte queste avversità si è comportata come una santa; ha una figlia che stava per sposare l’uomo da lei amato, e la famiglia del quale si è opposta a un matrimonio con la figlia di un uomo fallito, ha un figlio tenente nell’esercito. Ma, voi lo capirete bene, tutto ciò non fa che raddoppiare il dolore del povero uomo. Se fosse stato solo, si sarebbe fatto saltare le cervella, e tutto sarebbe finito.»

«Ciò è spaventoso!» mormorò l’abate.

«Ecco come in questa vita viene ricompensata la virtù», disse Caderousse. «Osservate, io che non ho mai fatto una cattiva azione a nessuno, meno quella che vi ho raccontato, sono nella miseria; dopo che avrò visto morire la mia povera moglie di febbre senza poter far nulla per lei, morirò di fame come è morto il padre di Dantès, mentre Fernando e Danglars nuotano nell’oro.»

«E come è possibile?»

«Perché a essi ogni cosa gira bene, mentre ai galantuomini va tutto male.»

«Che è diventato questo Danglars, il più colpevole, l’istigatore?»

«Che è diventato? Abbandonò Marsiglia con una raccomandazione di Morrel, che ignorava il suo delitto, e poté entrare come impiegato presso un banchiere spagnolo. All’epoca della guerra di Spagna, s’incaricò di una parte delle forniture dell’esercito francese, e fece fortuna. Con questo primo denaro speculò sui fondi pubblici, e ha triplicato e quadruplicato i suoi capitali e, vedovo della figlia del banchiere, sposò una vedova, la signora di Nargonne, figlia di Salvieux, ciambellano dell’attuale re, e che gode dei più grandi favori a corte. Divenuto milionario lo hanno nominato conte, e ora è il conte Danglars che ha un palazzo in rue MontBlanc, dieci cavalli nelle scuderie, sei domestici e non so quanti milioni in cassaforte.»

«Ah», disse l’abate con un’espressione singolare. «Ed è felice?»

«Felice? Chi può dir questo? La felicità e l’infelicità sono il segreto dei muri, i muri hanno orecchie ma non lingua; se uno è felice perché è ricco, allora Danglars è felice.»

«E Fernando?»

«A Fernando le cose sono andate ancora meglio.»

«Come mai un povero pescatore catalano senza risorse e senza istruzione ha potuto far fortuna? Ciò mi sorprende, ve lo confesso.»

«E ciò sorprende tutti. Nella sua vita ci deve essere qualche strano segreto che nessuno sa.»

«Ma per quali gradini visibili ha potuto salire a quest’alta fortuna, o a quest’alta posizione?»

«A entrambe, signore, a entrambe; egli ha, insieme, fortuna e posizione.»

«Ma è una favola che mi raccontate?»

«Ne ha tutte le sembianze, ma è una cosa reale. Ascoltate e giudicate voi stesso. Pochi giorni prima che ritornasse Napoleone, Fernando era stato incluso nelle liste di coscrizione. I Borboni lo lasciarono tranquillo ai Catalani, ma al ritorno di Napoleone fu ordinata una leva straordinaria, e Fernando fu costretto a partire. Io pure partii, ma essendo più vecchio di Fernando, e avendo da poco sposato la mia povera moglie fui inviato soltanto sulle coste. Fernando, incorporato nelle schiere attive, venne mandato col suo reggimento alla frontiera, e partecipò alla battaglia. La notte seguente alla battaglia era di guardia alla porta di un generale, che aveva relazioni segrete col nemico e che quella notte stessa doveva arrendersi agli inglesi. Il generale gli propose di accompagnarlo, Fernando accettò, abbandonò il suo posto e seguì il generale. Ciò che lo avrebbe potuto condurre davanti a un tribunale di guerra, gli servì da raccomandazione presso i Borboni.

«Rientrò in Francia con i gradi di sottotenente, e siccome non gli mancava la protezione del suo generale, che allora godeva molto favore, divenne capitano nel 1823, all’epoca della prima guerra di Spagna, vale a dire al tempo in cui Danglars arrischiava le sue speculazioni. Siccome Fernando si poteva considerare quasi spagnolo, fu inviato a Madrid per indagare le intenzioni dei suoi compatrioti. Là ritrovò Danglars, si accordarono, promise al suo generale l’appoggio dei realisti della capitale e delle province, e ricevette delle promesse, fece arruolamenti per conto proprio, guidò il reggimento francese per sentieri solo a lui noti fra le gole guardate dai realisti; insomma in quella breve campagna rese servigi tali, che dopo la presa del Trocadero venne nominato colonnello, e ricevette la croce di ufficiale della Legion d’Onore unitamente al titolo di barone.»

«Destino, destino!» mormorò l’abate.

«Sì, ma ascoltate, che non è ancora tutto. Finita la guerra di Spagna, la carriera di Fernando fu messa a rischio dalla lunga pace che pareva dovesse regnare in Europa: soltanto la Grecia si era sollevata contro la Turchia, e cominciava la guerra per la sua indipendenza. Tutti gli occhi erano puntati su Atene; era di moda compiangere e sostenere i greci. Fernando domandò e ottenne di mettersi al servizio della Grecia continuando però a essere iscritto sui registri dell’esercito. Qualche tempo dopo si seppe che il barone di Morcerf, tale era il nome che portava, era entrato al servizio di Alì Pascià, col grado di tenente generale. Alì Pascià fu ucciso, come sapete; ma prima di morire ricompensò i servigi di Fernando, lasciandogli una somma considerevole, con la quale tornò in Francia, dove gli venne confermato il grado di sottotenente.»

«E oggi?» domandò l’abate.

«Oggi», proseguì Caderousse, «è barone e possiede un magnifico palazzo a Parigi, in rue Helder 27.»

L’abate aprì la bocca, esitò un istante, quindi facendo uno sforzo su se stesso disse: «E Mercedes? Mi assicurarono che scomparve».

«Scomparve», disse Caderousse, «come scompare il sole per levarsi l’indomani più splendente.»

«Lei pure ha fatto fortuna?» domandò l’abate con un sorriso ironico.

«Mercedes ora è una delle più grandi dame di Parigi», riprese Caderousse.

«Continuate», disse l’abate, «mi sembra di ascoltare il racconto di un sogno. Ma io stesso ho visto cose sì straordinarie che mi sorprendono poco quelle che mi dite.»

«Mercedes dapprima fu disperata per la perdita di Edmond. Vi ho detto delle sue istanze presso il signor Villefort e della sua devozione per il padre di Dantès. In mezzo alla sua disperazione, un altro dolore venne a colpirla, e fu la partenza di Fernando, di cui ignorava il delitto, e che considerava un fratello. Fernando partì, e Mercedes rimase sola. Tre mesi passarono in lacrime; nessuna notizia di Fernando: null’altro davanti agli occhi che un vecchio moribondo disperato. Una sera, dopo essere rimasta tutto il giorno, seduta come sua abitudine, all’incrocio delle due strade che dai Catalani conducono a Marsiglia, ritornò nella sua capanna, triste più del solito: né l’innamorato, né l’amico ritornavano da una di quelle due strade e non riceveva notizie né dell’uno, né dell’altro.

«D’improvviso le sembrò di udire un passo conosciuto, si volse con ansietà, la porta si aprì, e vide comparire Fernando con l’uniforme di sottotenente. Non era la metà di ciò che piangeva, ma era una parte della sua vita passata che ritornava da lei. Mercedes strinse le mani di Fernando con trasporto tale, che questi credette fosse amore per lui, mentre non era che la gioia di non essere più sola al mondo, e di vedere un amico dopo quelle lunghe ore di triste solitudine. E poi, bisogna pur dirlo, Fernando non era mai stato odiato, egli non era amato, ecco tutto. Un altro occupava interamente il cuore di Mercedes, quest’altro era assente… era sparito… forse morto…

«A quest’ultima idea suggerita da Fernando, Mercedes scoppiò in singhiozzi, e si contorse le braccia per il dolore. Ma quest’idea, che aveva respinto tante volte, quando le veniva suggerita da altri, ora le veniva spontaneamente allo spirito. D’altra parte il vecchio Dantès non cessava di dirle: “Il nostro Edmond è morto; se non fosse morto ritornerebbe”. Il vecchio morì, come vi dissi. Se fosse vissuto, Mercedes forse non sarebbe diventata mai la moglie di un altro, perché il buon vecchio sarebbe sempre stato là a rimproverarle la sua infedeltà. Fernando lo capì e non ritornò che quando seppe della morte del vecchio. Questa volta era tenente.

«La prima volta che era venuto, non aveva detto una sola parola d’amore a Mercedes; la seconda le ricordò che l’amava. Mercedes domandò sei mesi ancora, per aspettare e piangere Edmond.»

«Gran cosa!» disse l’abate con un sorriso amaro. «Non erano che diciotto mesi in tutto. Che può domandare di più l’amante più adorato?» Poi mormorò queste parole del poeta inglese: «Frailty, thy name is woman!»2

«Sei mesi dopo», riprese Caderousse, «si celebrò il matrimonio nella chiesa degli Accoulès.»

«Era la medesima chiesa dove doveva sposare Edmond», mormorò l’abate, «solo il marito era cambiato, ecco tutto.»

«Mercedes dunque si maritò», continuò Caderousse, «e sebbene agli occhi di tutti sembrasse tranquilla, svenne passando davanti alla Riserva, ove diciotto mesi prima era stato celebrato il fidanzamento con colui che avrebbe capito di amare ancora, se avesse osato guardare nel fondo del suo cuore. Fernando più felice, ma non più tranquillo, perché io l’ho visto allora, temeva sempre il ritorno di Edmond, Fernando si occupò subito di espatriare con sua moglie, di esiliarsi con lei. Vi erano molti pericoli da temere, e nello stesso tempo troppi ricordi da combattere, restando ai Catalani. Otto giorni dopo le nozze, partirono.»

«Rivedeste più Mercedes?» domandò l’abate.

«Sì, quando scoppiò la guerra di Spagna, a Perpignano, dove Fernando l’aveva lasciata; si occupava dell’educazione di suo figlio.»

L’abate rabbrividì.

«Di suo figlio?» disse.

«Sì», rispose Caderousse, «del piccolo Albert.»

«Ma per istruire suo figlio», continuò l’abate, «avrà ricevuto anch’essa un’educazione? Mi sembra di avere inteso dire da Edmond che era figlia di un semplice pescatore, bella, ma non istruita.»

«Oh!» disse Caderousse. «Conosceva dunque così male la sua fidanzata! Mercedes avrebbe potuto divenire regina, se la corona dovesse essere posata soltanto sulle teste più belle, più intelligenti. La sua fortuna ingrandiva da sé, lei diveniva grande con la sua fortuna: imparava il disegno, la musica, tutto. D’altra parte io credo, sia detto fra noi, che non facesse tutto ciò che per distrarsi, per dimenticare, e che non mettesse tante cose in testa, che per combattere quelle che aveva in cuore. Ma, ora che tutto deve dirsi», continuò Caderousse, «la fortuna e gli onori l’hanno senza dubbio consolata. Ella è ricca, è baronessa, e tuttavia…»

Caderousse si fermò.

«Tuttavia, che cosa?» domandò l’abate.

«Tuttavia, sono sicuro che non è felice.»

«E che cosa ve lo fa credere?»

«Ebbene, quando io stesso mi sono trovato nella più grande disgrazia, ho pensato che i miei vecchi amici mi avrebbero aiutato in qualche cosa. Mi sono presentato a Danglars, che non mi ha voluto neppure ricevere. Sono stato da Fernando, e mi ha fatto dare cento franchi dal suo cameriere.»

«Così non li vedeste, né l’uno né l’altro.»

«No, ma mi vide la signora Morcerf.»

«E come mai?»

«Quando sono uscito, una borsa cadde ai miei piedi, conteneva venticinque luigi. Alzai la testa e vidi Mercedes che chiudeva la persiana.»

«E Villefort?» domandò l’abate.

«Oh, egli non era mio amico, non lo conoscevo, non avevo nulla da chiedergli.»

«Ma non sapete che ne sia accaduto, e qual parte abbia preso alla disgrazia di Edmond?»

«No, so soltanto che qualche tempo dopo averlo fatto arrestare, sposò la signorina di Saint-Méran, e ben presto lasciò Marsiglia. Senza dubbio la fortuna gli avrà sorriso come agli altri, senza dubbio sarà ricco come Danglars, considerato come Fernando. Io solo, sono rimasto povero, miserabile, e dimenticato da Dio.»

«V’ingannate, amico mio», disse l’abate, «qualche volta può sembrare che Dio dimentichi qualcuno; ma viene il giorno della giustizia, viene il giorno in cui si ricorda, ed eccovene una prova.»

A queste parole l’abate cavò il diamante dalla tasca porgendolo a Caderousse: «Prendete», gli disse, «prendete questo diamante, poiché è tutto vostro».

«Come, a me solo?» gridò Caderousse. «Ah! signore, vi burlate di me!»

«Questo diamante doveva essere diviso fra gli amici di Edmond; ma lui non aveva che un solo amico, la divisione diventa dunque inutile. Prendete questo diamante, e vendetelo; vale cinquantamila franchi, ve lo ripeto, e spero che questa somma basterà per togliervi dalla miseria.»

«Oh, signore», disse Caderousse, allungando timidamente una mano, mentre con l’altra si asciugava il sudore che gli stillava dalla fronte. «Oh, non vi fate gioco della felicità, o della disperazione di un uomo!»

«Io so ciò che è la felicità, e ciò che è la disperazione, e non mi prenderei mai gioco di questi sentimenti», riprese l’abate. «Prendete dunque, ma in cambio…»

Caderousse che già toccava il diamante, ritirò la mano.

L’abate sorrise.

«In cambio», continuò, «regalatemi quella borsa di seta rossa che il signor Morrel aveva lasciato sul caminetto del vecchio Dantès, e che mi avete detto essere nelle vostre mani.»

Caderousse, sempre più meravigliato, aprì un grand’armadio di quercia, e dette all’abate una lunga borsa di seta di un rosso scolorito, e intorno alla quale scorrevano due anelli in altro tempo dorati.

L’abate la prese, e dette il diamante a Caderousse.

«Oh, voi siete un uomo di Dio!» esclamò Caderousse. «Perché in verità nessuno sapeva che Edmond vi avesse dato questo diamante, e avreste potuto conservarlo per voi.»

«Bene», disse l’abate fra sé, «tu l’avresti fatto, mi sembra.»

Quindi si alzò, prese il cappello e i guanti e domandò: «A proposito, quanto mi avete detto è tutto vero? Posso credervi su tutti i punti?»

«Vi giuro sul mio onore, e per quanto vi è di più sacro che non vi ho detto una parola che non sia vera.»

«Va bene», disse l’abate convinto, «che questo denaro possa esservi di profitto. Addio, io ritorno lontano dagli uomini che fanno tanto male ai loro simili.»

E l’abate, liberandosi a stento dalle entusiastiche dimostrazioni di Caderousse levò la sbarra della porta, uscì, risalì a cavallo, salutò un’ultima volta l’oste che si confondeva in addii clamorosi, e partì seguendo la stessa direzione che aveva tenuta nel venire.

Quando Caderousse si voltò, vide dietro di sé la Carconta più pallida e più tremante che mai.

«È vero ciò che ho sentito?» disse lei.

«Che cosa? Che ci ha dato il diamante per noi soli?» disse Caderousse quasi pazzo dalla gioia.

«Sì.»

«Non vi è nulla di più vero, eccolo qua.»

La donna lo guardò un momento, poi riprese con voce rauca: «E se fosse falso?»

Caderousse impallidì e si scosse: «Falso», mormorò, «falso… E perché quell’uomo avrebbe dovuto regalarmi un diamante falso?»

«Per avere il tuo segreto senza pagarlo.»

Caderousse rimase un momento stordito sotto il peso di quella supposizione.

«Oh», disse, dopo un breve silenzio, e prendendo il cappello che mise sul fazzoletto che teneva annodato intorno alla testa, «lo sapremo presto.»

«E in qual modo?»

«Oggi c’è la fiera a Beaucaire: vi sono dei gioiellieri di Parigi: vado a farlo vedere. Tu guarda la casa, fra due ore sarò di ritorno.»

E Caderousse si lanciò fuori prendendo di corsa la strada opposta a quella tenuta dallo sconosciuto.

«Cinquantamila franchi!» mormorò la Carconta rimasta sola. «È molto denaro sì… ma non è una grande fortuna.»



28. I registri delle prigioni

Il giorno successivo a quello in cui accadde la scena che abbiamo descritta, un uomo sui trent’anni, vestito d’un soprabito blu, coi pantaloni di tela di Nanchino e il panciotto bianco, con l’aspetto e l’accento inglese, si presentò al sindaco di Marsiglia.

«Signore», gli disse, «sono il primo commesso della casa Thomson e French di Roma. Siamo da dieci anni in relazione con la casa Morrel e figlio di Marsiglia, abbiamo impiegato circa centomila franchi in questa relazione, e non siamo senza inquietudine, poiché ci vien fatto credere che questa casa minacci rovina: vengo dunque espressamente da Roma per domandarvi informazioni in merito.»

«Signore», rispose il sindaco, «io so effettivamente che da quattro-cinque anni la disgrazia sembra perseguitare il signor Morrel: ha successivamente perso quattro o cinque navi, subito tre o quattro fallimenti. Ma non spetta a me, sebbene io stesso suo creditore per una dozzina di migliaia di franchi, dare informazioni sullo stato delle sue finanze. Domandatemi come sindaco ciò che penso del signor Morrel, e vi risponderò che è un uomo rigorosamente probo, e che fino a oggi ha sempre adempito ai suoi impegni con scrupolo. Ecco tutto ciò che posso dirvi; se volete saperne di più, indirizzatevi al signor Boville, ispettore delle prigioni, rue Noailles numero 15… Credo che egli abbia duecentomila franchi impiegati sulla casa Morrel, e se vi è realmente cosa a temersi, lo ritroverete molto più informato di me, poiché la sua somma è molto più considerevole della mia.»

L’inglese sembrò apprezzare questa grande delicatezza, salutò, uscì e s’incamminò col passo proprio dei figli di Gran Bretagna verso la strada indicata. Il signor Boville era nel suo ufficio. L’inglese, vedendolo, fece un movimento di sorpresa che sembrava indicare non essere quella la prima volta che si trovava davanti a colui al quale faceva visita.

In quanto a Boville, la sua disperazione lasciava facilmente scorgere che tutte le facoltà dello spirito, assorte nel pensiero che l’occupava in quel momento, non lasciavano né alla sua memoria, né alla sua immaginazione il piacere di divagarsi nel passato.

L’inglese, con la flemma propria della sua razza, gli presentò la questione, quasi negli stessi termini che aveva usato col sindaco di Marsiglia.

«Oh, signore», urlò Boville, «i vostri timori disgraziatamente non possono essere più fondati, e voi avete innanzi agli occhi un uomo disperato. Avevo investito duecentomila franchi nella casa Morrel: erano la dote di mia figlia che contavo di maritare fra quindici giorni: dovevano essere rimborsati centomila il 15 di questo mese, e centomila il 15 del venturo. Avevo dato avviso a Morrel del desiderio di essere rimborsato esattamente, ed ecco, non è mezz’ora, è venuto da me Morrel per dirmi che se il suo bastimento, il Pharaon, non rientra in porto prima del 15, egli si trova nell’impossibilità di fare il pagamento.»

«Ma questa», disse l’inglese, «è una specie di dilazione.»

«Dite piuttosto, signore, che questo assomiglia a un fallimento!» esclamò Boville disperato.

L’inglese sembrò riflettere un momento, poi disse: «Questo credito vi ispira dei timori?»

«Peggio, lo considero come perduto.»

«Ebbene, lo compro io.»

«Voi?»

«Sì, io.»

«Ma con un enorme ribasso, senza dubbio?»

«No, per duecentomila franchi… La nostra casa», aggiunse l’inglese ridendo, «non fa simili affari.»

«E voi pagate?…»

«In denaro contante.»

E l’inglese cavò di tasca un fascio di biglietti di banca che potevano formare il doppio della somma che il signor Boville temeva di perdere. Un lampo di gioia passò sul viso di Boville; ciò nonostante fece uno sforzo per contenersi. «Signore, debbo avvertirvi che, secondo tutte le probabilità, non recupererete il sei per cento di questa somma.»

«Ciò non mi riguarda», rispose l’inglese, «ma riguarda la casa Thomson e French, in nome della quale io opero. Forse essa può avere qualche interesse a sollecitare la rovina di una casa rivale. Ma so che sono pronto a sborsarvi questa somma, in cambio della cessione che mi farete: chiederò soltanto un diritto di senseria.»

«Signore, è giustissimo», gridò Boville. «La commissione è ordinariamente l’uno e mezzo per cento; volete il due? Il cinque? Ancora di più? Non avete che a parlare.»

«Signore!» aggiunse ridendo l’inglese. «Io sono come la mia casa, non faccio di questa specie di affari. No, la mia senseria è d’un’altra natura.»

«Parlate dunque, vi ascolto.»

«Voi siete ispettore delle prigioni?»

«Da quattordici anni e più.»

«Terrete dunque il registro di entrata e uscita?»

«Certamente.»

«A questi registri devono essere unite delle note relative ai prigionieri?»

«Ciascun prigioniero ha la sua.»

«Ebbene, signore, io sono stato allevato a Roma da un abate che scomparve all’improvviso. Seppi poi che era stato detenuto nel castello d’If, e vorrei avere alcuni particolari sulla sua morte.»

«Come lo chiamavate?»

«L’abate Faria.»

«Oh, me ne ricordo perfettamente», esclamò Boville, «egli era pazzo.»

«Si diceva.»

«Oh, lo era certamente.»

«È possibile! E qual era il suo genere di pazzia?»

«Pretendeva di conoscere dove era nascosto un immenso tesoro, e offriva delle somme considerevoli se avessero voluto metterlo in libertà.»

«Povero diavolo! Ed è morto?»

«Sì, son cinque, o sei mesi al più, nel febbraio scorso.»

«Avete una buona memoria, per ricordarvi così le date.»

«Mi ricordo questa, perché la morte del povero diavolo fu accompagnata da una singolare circostanza.»

«Si potrebbe conoscere questa circostanza?» domandò l’inglese con una espressione di curiosità, che un freddo osservatore si sarebbe meravigliato di trovare sul suo viso flemmatico.

«Oh senza difficoltà. La cella di Faria era lontana quindici metri circa da quella di un agente bonapartista, uno di quelli che avevano più di tutti contribuito al ritorno dell’imperatore nel 1815, uomo molto pericoloso.»

«Veramente?» disse l’inglese.

«Sì», rispose Boville, «ho avuto occasione di vedere quest’uomo nel 1816 o 1817. Non si scendeva nella sua cella senza esser scortati da un picchetto di soldati. Quest’uomo mi ha fatto una profonda impressione, e non dimenticherò mai il suo viso.»

L’inglese fece un impercettibile sorriso.

«Dicevate dunque che le due celle…»

«Erano separate da una distanza di quindici metri», continuò Boville, «ma sembra che questo…»

«Quest’uomo pericoloso si chiamava?…»

«Edmond Dantès, signore… Sembra che questo Edmond Dantès si fosse procurato degli utensili, o ne avesse costruiti… Fatto sta che fu ritrovato un cunicolo sotterraneo per mezzo del quale i due prigionieri comunicavano.»

«Questo cunicolo sarà stato fatto senza dubbio a scopo di evasione.»

«Certamente, ma per disgrazia dei prigionieri, Faria fu colpito da una paralisi, e morì.»

«Capisco che ciò dovette sospendere il piano di evasione.»

«Per il morto, sì», rispose Boville, «ma non per il vivo… Questo Dantès al contrario trovò il mezzo di accelerare la fuga. Senza dubbio pensava che i morti del castello d’If fossero seppelliti in un ordinario cimitero; trasportò il defunto nella sua cella, prese posto nel sacco entro cui era stato cucito il cadavere, e aspettò il momento che lo avrebbero seppellito.»

«Era un espediente rischioso e che esigeva non poco coraggio», riprese l’inglese.

«Oh, vi ho detto che era un uomo molto pericoloso; fortunatamente però egli stesso ha liberato il governo dai timori che aveva a suo riguardo…»

«E in qual modo?»

«Come! Non lo immaginate?»

«No.»

«Il castello d’If non ha cimitero, e i morti si gettano semplicemente in mare, dopo avere attaccato ai loro piedi una grossa pietra.»

«Ebbene?» disse l’inglese come se avesse difficoltà a capire.

«Ebbene, gli fu attaccata una pietra ai piedi, e fu gettato in mare.»

«Davvero?» esclamò l’inglese.

«Sì, signore», continuò l’ispettore. «Capirete quale sarà stata la costernazione del fuggitivo allorché si sentì precipitare dall’alto del castello. Avrei voluto vederlo in quel momento.»

«Sarebbe stato difficile.»

«Non importa», disse Boville, che la certezza di rimborso dei suoi duecentomila franchi metteva di buonumore, «me lo figuro.» E dette in uno scoppio di risa.

«E io pure», disse l’inglese, e si mise a ridere anche lui, ma come fanno gli inglesi, vale a dire fra i denti. «In tal modo», continuò, «il fuggitivo annegò?»

«Nel modo più assoluto.»

«Di maniera che il governatore del castello fu liberato nello stesso tempo di un furioso e di un pazzo?»

«Precisamente!»

«Ma sarà stato legalizzato in qualche atto questo avvenimento?» domandò l’inglese.

«Sì, sì, l’atto mortuario. Capirete bene, i parenti di questo Dantès, se egli ne ha, potrebbero aver qualche interesse ad assicurarsi se è vivo, o morto.»

«Di modo che essi possano essere tranquilli, se hanno ereditato da lui. Egli è morto. È morto davvero?»

«Oh, mio Dio, sì, e ne verrà rilasciato il certificato ogniqualvolta lo vorranno.»

«Così sia…» disse l’inglese. «Ma ritorniamo ai registri…»

«È vero, questa storia ci aveva divagati: scusate.»

«Scusare che? Per la storia? Al contrario, mi è sembrata molto interessante.»

«E lo è. Ma voi non desideravate conoscere tutto ciò che è relativo al vostro povero precettore, che era mansueto nella sua pazzia?»

«Ciò mi farà un vero piacere.»

«Passiamo nel mio ufficio, e vi mostrerò le carte.»

Ed entrambi passarono nello studio del signor Boville.

Tutto era effettivamente nell’ordine più perfetto: ciascun registro era al suo posto, ciascun incartamento nella propria casella.

L’ispettore fece sedere l’inglese in una poltrona, e gli mise davanti il registro e le carte relative al castello d’If, dandogli tutto il tempo di sfogliarle, mentre lui, seduto in un angolo, si metteva a leggere un giornale.

L’inglese trovò finalmente la nota relativa all’abate Faria, ma sembrò che la storia raccontatagli da Boville avesse in lui destato grande interesse, perché, dopo aver preso conoscenza di queste prime carte, continuò a sfogliare fino a che trovò quella che riguardava Edmond Dantès.

Ritrovò ogni cosa: denuncia, interrogatorio, petizione di Morrel, postille di Villefort. Piegò piano piano la denuncia e se la mise in tasca, lesse l’interrogatorio, e vide che non era stato citato il nome di Noirtier, lesse pure la domanda in data 10 aprile 1815, nella quale Morrel, dietro consiglio del sostituito, esagerava con eccellente intenzione (poiché allora regnava Napoleone) i servigi che Dantès aveva reso alla causa imperiale, servigi che il certificato di Villefort rendeva incontestabili.

Allora capì tutto.

Quella domanda a Napoleone conservata da Villefort, era diventata sotto la seconda Restaurazione un’arma terribile nelle mani del procuratore del re.

Non si stupì dunque più, sfogliando il registro, di ritrovare in margine al suo nome quanto segue: EDMOND DANTÈS. Bonapartista accanito; ha preso parte attiva al ritorno dall’isola d’Elba. Da tenersi segregato, e sotto la più stretta sorveglianza.

Sotto queste righe, stava scritto con un’altra calligrafia: «Vista la nota qui sopra, nulla da farsi».

Soltanto confrontando la calligrafia della nota con quella del certificato, posta sotto la domanda di Morrel, egli acquistò la certezza che la nota aggiunta era della stessa calligrafia del certificato, cioè scritta dalla mano di Villefort.

In quanto al visto che accompagnava la nota, l’inglese capì che doveva esservi stato posto da qualche ispettore interessatosi momentaneamente alla sorte di Dantès, ma che i passi citati avevano messo nell’impossibilità di darvi corso.

Come si disse, l’ispettore, per discrezione e per non disturbare nelle sue ricerche l’allievo di Faria, si era messo in disparte e leggeva «Le Drapeau Blanc».

Dunque non vide l’inglese piegare e mettersi in tasca la denuncia scritta da Danglars sotto il pergolato della Riserva, recante il timbro postale di Marsiglia, 28 febbraio.

Ma bisogna dirlo, anche se lo avesse visto, avrebbe dato poca importanza a quel documento, e troppa ai suoi duecentomila franchi, per opporsi a ciò che faceva l’inglese, per quanto fosse irregolare.

«Grazie!» disse questi, chiudendo rumorosamente il registro. «Ho trovato quanto cercavo. Ora sta a me mantenere la mia promessa: fatemi una semplice cessione del vostro credito; dichiarate in essa di aver ricevuto i contanti, e io vi pago subito la somma.»

Lasciò il posto al signor Boville, che si sedette, e senza farsi pregare si affrettò a fare la cessione richiesta, mentre l’inglese contava i biglietti da mille sopra un angolo della scrivania.

29. La casa Morrel

Chi avesse lasciato Marsiglia alcuni anni prima, conoscendo la casa di Morrel, e vi fosse tornato all’epoca in cui siamo arrivati, vi avrebbe notato un grandissimo cambiamento.

Al posto di quell’aura di vita, agi e felicità, che per così dire emana da una casa che sia benedetta dalla fortuna; al posto di quelle allegre figure che si fanno vedere dietro le finestre, di quei commessi affaccendati che attraversano i corridoi con una penna dietro l’orecchio; al posto di quel cortile ingombro di merci, rimbombante di grida e risa dei facchini, avrebbe trovato, fin dal primo sguardo, un non so che di tristezza e di morte in corridoi deserti e in un vuoto cortile.

Dei numerosi impiegati che in altri tempi affollavano le scrivanie, ne rimanevano appena due; uno era Emmanuel Raymond, giovane di ventitré anni, fidanzato della figlia di Morrel, che era rimasto lì, sebbene i suoi genitori avessero fatto di tutto per toglierlo; l’altro, un vecchio cassiere, cieco d’un occhio, chiamato Coclite, soprannome che gli era stato dato dai giovani che un tempo popolavano questo alveare fervido e gioioso, oggi quasi disabitato, che aveva così bene dimenticato il suo vero nome, per cui, secondo ogni probabilità, non si sarebbe neppure voltato, se non lo avessero chiamato con quel soprannome.

Egli era rimasto al servizio di Morrel, e nella situazione di questo bravo uomo si era verificato uno strano cambiamento: mentre era salito al grado di cassiere, era contemporaneamente disceso al rango di domestico. Questo non gli impediva di essere lo stesso Coclite, fidato, paziente, affezionato ma inflessibile nei conti e in aritmetica, solo punto sul quale avrebbe tenuto testa al mondo intero, compreso il signor Morrel, non conoscendo che la sua tavola pitagorica. nota fin sulla punta delle dita, qualunque fosse l’errore nel quale avessero tentato di farlo cadere.

In mezzo alla tristezza generale che aveva invaso la casa Morrel, Coclite era il solo che fosse rimasto impassibile.

Orbene, che nessuno s’inganni, questa impassibilità non proveniva da mancanza di attaccamento, ma al contrario da una incrollabile convinzione. Come i topi che, si dice, abbandonino a poco a poco un bastimento condannato dal destino a perire in mare, così tutta quella folla di commessi e d’impiegati che traevano la loro sussistenza dalla casa dell’armatore, avevano un po’ per volta disertato scrivanie e magazzini. Coclite li aveva visti andarsene, senza neppure rendersi conto della loro partenza.

Ogni cosa, come abbiamo detto, si riduceva, per Coclite, a una questione di cifre, e da vent’anni che era nella casa di Morrel aveva sempre visto effettuarsi i pagamenti a sportelli aperti con una tale regolarità da fargli credere che questa non avrebbe mai potuto variare e i pagamenti sospendersi, più di quanto un mugnaio che possiede un mulino messo in moto da un canale ricco di acqua, può credere che un giorno o l’altro questa acqua possa venir meno.

E infatti fino allora, nulla era ancora sopraggiunto a mutare la convinzione di Coclite. I pagamenti della fine del mese si erano effettuati con la solita puntualità. Coclite aveva notato un errore di settanta centesimi commesso da Morrel in suo sfavore, e lo stesso giorno aveva riportato i quattordici soldi eccedenti a Morrel, che con un sorriso malinconico li aveva presi e lasciati cadere in un cassetto quasi vuoto, dicendo: «Coclite, voi siete la perla dei cassieri».

Coclite si era ritirato soddisfatto in modo che non si sarebbe potuto esserlo di più, perché un elogio di Morrel, perla degli uomini onesti di Marsiglia, lusingava Coclite molto più che una gratifica di cinquanta scudi. Ma dopo la fine di quel mese vittoriosamente superato, Morrel aveva passato ore crudeli.

Per far fronte agli impegni di quel mese aveva riunito tutte le sue risorse e, temendo che l’eco delle sue ristrettezze si spandesse in Marsiglia, vedendolo ricorrere a simili estremi, si era recato alla fiera di Beaucaire per vendere qualche gioiello che apparteneva a sua moglie e a sua figlia, nonché una parte della sua argenteria: con tal sacrificio tutto era stato superato, a onore della casa Morrel.

Però la cassa era rimasta vuota. I finanziatori, allarmati dalle voci che circolavano, si erano eclissati, come succede in questi casi, per egoismo umano; e, per far fronte a centomila franchi da pagarsi il 15 di quel mese al signor Boville, e altri centomila che scadevano il 15 del successivo mese, Morrel non aveva in realtà altra speranza che il ritorno del Pharaon, di cui un bastimento che aveva levato l’ancora con esso, e già arrivato in porto, aveva annunciato la partenza. Ma questo bastimento che veniva da Calcutta come il Pharaon, era già arrivato da quindici giorni, mentre del Pharaon non si aveva alcuna notizia.

In questo stato di cose, l’indomani del giorno in cui aveva concluso l’affare con Boville, da noi raccontato, l’incaricato della casa Thomson e French di Roma si presentò al signor Morrel.

Lo ricevette Emmanuel.

Il giovane che si spaventava all’entrata di ogni nuova persona perché poteva annunciare un nuovo creditore che veniva a importunare il capo della casa, volle risparmiare al padrone la noia di quella visita: interrogò il nuovo arrivato, il quale dichiarò che non aveva cosa alcuna da dire a lui, e che voleva parlare a Morrel in persona.

Emmanuel sospirando chiamò Coclite; e questi comparve e ricevette l’ordine di condurre lo straniero dal signor Morrel. Coclite camminò avanti e lo straniero lo seguì. Sulla scala incontrarono una bella ragazza di diciassette anni che guardò lo straniero con inquietudine. Coclite non notò quell’espressione sul viso di lei, che però non sfuggì al forestiero.

«Il signor Morrel è nel suo ufficio, non è vero, signorina Julie?» domandò il cassiere.

«Sì, almeno credo di sì…» disse la giovane con esitazione. «Guardate prima, Coclite, e se mio padre c’è, annunciate il signore.»

«È inutile annunciarmi, signorina», rispose l’inglese, «il signor Morrel non conosce il mio nome. Questo brav’uomo ha da dirgli soltanto che io sono il primo commesso della casa Thomson e French di Roma, con la quale la casa di vostro padre è in relazione.»

La ragazza impallidì e continuò a scendere, mentre Coclite e lo straniero riprendevano a salire.

Lei entrò nell’ufficio di Emmanuel, e Coclite invece aprì una porta del secondo piano, introdusse lo straniero in un’anticamera, aprì una seconda porta che richiuse dietro di sé, e dopo aver lasciato solo per un momento l’inviato di Thomson e French, ricomparve, facendogli segno che poteva entrare.

L’inglese entrando trovò il signor Morrel dietro la sua scrivania, preoccupato delle colonne spaventose dei registri su cui stava scritto il suo passivo. Vedendo lo straniero, Morrel chiuse i registri, si alzò, offrì una sedia, e quando lo vide a suo agio, egli pure sedette.

Quattordici anni avevano cambiato assai la fisionomia dell’armatore, il quale, trentaseienne anni al principio di questa storia, stava per compierne cinquanta. I capelli erano incanutiti, la fronte era solcata da due profonde rughe, e lo sguardo, in altri tempi così fermo e sicuro, era diventato vago e irresoluto, e sembrava dovesse sempre temere di fissarsi sopra un uomo o sopra un’idea. L’inglese lo guardò con un sentimento di curiosità misto a interesse.

«Signore», disse Morrel, a cui questo esame sembrava raddoppiare il malessere, «desideravate parlarmi?»

«Sì, signore… Sapete da parte di chi vengo, non è vero?»

«A quanto mi ha detto il cassiere, da parte della casa Thomson e French.»

«Vi ha detto la verità. La casa Thomson e French ha tre-quattrocentomila franchi da pagare in Francia, parte nel mese corrente e parte nel prossimo, e conoscendo la vostra rigorosa esattezza ha raccolto tutte le cambiali che ha potuto trovare con la vostra firma, e mi ha incaricato, a mano a mano che queste scadono, di riscuotere il denaro presso di voi e di servirmene.»

Morrel mandò un profondo sospiro, e si passò la mano sulla fronte madida di sudore.

«Voi dunque, signore», domandò Morrel, «avete delle cambiali firmate da me?»

«Sì signore, e per una somma abbastanza considerevole.»

«Per quale somma?» domandò Morrel, con voce che invano cercava di render sicura.

«Ecco qui», disse l’inglese, levandosi di tasca un fascio di carte. «Per prima cosa due girate di duecentomila franchi del signor Boville, l’ispettore delle prigioni. Convenite di dovergli questa somma?»

«Sì, signore, è un investimento che egli ha fatto nel mio banco al quattro e mezzo per cento, quasi cinque anni fa.»

«E che voi dovevate rimborsare?…»

«Metà al 15 di questo mese, l’altra metà al 15 del prossimo venturo.»

«Bene, ora ecco trentaduemilacinquecento franchi per la fine del mese corrente: queste sono cambiali firmate da voi e passate nelle nostre mani da terzi giratari.»

«Le riconosco…» disse Morrel, al quale saliva al viso il rossore della vergogna, pensando che per la prima volta in vita sua non avrebbe potuto far onore alla sua firma. «È tutto qui?…»

«No, signore, io ho ancora per la fine del mese venturo queste altre cambiali ceduteci dalla casa Pascal e dalla casa Wild e Turner di Marsiglia, cinquantacinquemila franchi circa. In tutto sono duecentoottantasettemilacinquecento franchi.»

Ciò che soffriva lo sfortunato Morrel udendo quelle cifre, è impossibile poterlo descrivere.

«Duecentoottantasettemilacinquecento franchi!» ripeté macchinalmente.

«Sì», disse l’inglese, e continuò dopo un momento di silenzio: «Non vi nasconderò, signor Morrel, che mentre tutti fanno gli elogi della vostra probità senza macchia fino al presente, corre una sorda voce per Marsiglia, che voi non siate in grado di far fronte ai vostri affari».

A queste parole, quasi brutali, Morrel impallidì spaventosamente.

«Signore», disse, «fino a questo momento, e sono più di ventiquattro anni che ho ricevuto la casa da mio padre, che a sua volta l’aveva diretta per trentaquattro anni, fino a questo momento una cambiale firmata da Morrel e figlio, non fu presentata alla cassa senza essere pagata.»

«Sì, lo so», rispose l’inglese, «ma, da uomo d’onore, parlate francamente: pagherete tal somma con la stessa esattezza?»

Morrel trasalì, e guardò colui che gli parlava in tal modo con una maggior attenzione di quello che non aveva ancor fatto.

«A una domanda fatta con tanta franchezza», disse, «bisogna dare una risposta ugualmente franca. Sì, signore, io pagherò, se, come spero, il mio bastimento giunge in porto, poiché il suo arrivo mi renderà quel credito che mi fu tolto dagli incidenti successivi di cui sono stato vittima. Ma se per disgrazia il Pharaon, ultima risorsa sulla quale io conto, mi mancasse…»

Le lacrime sgorgarono dagli occhi del povero armatore.

«Ebbene?» domandò il suo interlocutore. «Se questa ultima risorsa vi mancasse?»

«Ebbene, se questa ultima risorsa mi mancasse», continuò Morrel, «sebbene sia cosa crudele da dire… ma abituato ormai alla sventura bisogna che mi abitui all’onta… Ebbene, allora credo che sarei obbligato a sospendere i pagamenti.»

«E non avete amici che possano aiutarvi in una simile circostanza?» Morrel sorrise tristemente.

«In commercio, signore, non si hanno che corrispondenti.»

«È vero…» mormorò l’inglese. «In tal modo non avete più che una sola speranza?»

«Una sola, e ultima…»

«E se questa fallisce…»

«Sono perduto, signore, completamente perduto!»

«Mentre venivo da voi, un bastimento entrava nel porto.»

«Lo so, signore. Un giovane che è rimasto fedele alla mia cattiva fortuna passa una parte del suo tempo su una terrazza della mia casa, nella speranza di venire per primo ad annunciarmi una buona notizia. Da lui ho saputo l’entrata in porto di questo bastimento.»

«E non è il vostro?»

«No, è un naviglio bordolese, la Gironda; viene dalle Indie, ma non è quello che aspetto.»

«Forse avrà notizie del Pharaon.»

«È necessario che ve lo dica? Io temo tanto di chiedere notizie del mio bastimento, quanto di restare nell’incertezza, la quale è pure una speranza.»

Quindi Morrel aggiunse con voce commossa: «Questo ritardo non è naturale: il Pharaon è partito da Calcutta il 5 febbraio, e dovrebbe essere in porto già da un mese».

«Ma che c’è?» disse l’inglese tendendo l’orecchio. «Cosa significa questo rumore?»

«Oh, mio Dio, mio Dio!» gridò Morrel impallidendo. «Che vi è ancora di nuovo?»

Infatti si udì sulle scale un gran rumore, un andare e venire, e s’intese perfino un grido di dolore. Morrel si alzò per andare ad aprire la porta, ma le forze gli vennero meno e ricadde sulla sedia. I due uomini rimasero l’uno in faccia all’altro. Morrel era scosso da tremiti; lo straniero lo guardava con un’espressione di profonda pietà. Il rumore era cessato, ciò nonostante si sarebbe detto che Morrel aspettasse qualche cosa; quel rumore aveva dovuto avere una causa, e doveva avere una conclusione.

Allo straniero sembrò sentir gente salire pian piano le scale, e fermarsi sul pianerottolo. Una chiave venne introdotta nella serratura della prima porta, che cigolò sui cardini.

«Non vi sono che due persone che hanno la chiave di questa porta», mormorò Morrel: «Coclite e Julie.»

Nello stesso istante la porta si aprì, e comparve la ragazza, pallida e con le guance bagnate di lacrime.

Morrel si alzò tutto tremante, e si appoggiò ai braccioli della sua sedia, perché non avrebbe avuto la forza di tenersi in piedi. Fece per parlare, ma non aveva più voce.

«Oh, padre mio», disse la giovane giungendo le mani, «perdonatemi di essere messaggera di una triste notizia.»

Morrel si ricoprì di un pallore mortale; Julie andò a gettarsi fra le sue braccia.

«Oh, padre mio», disse, «coraggio!»

«E così il Pharaon è perduto?» domandò Morrel con voce soffocata.

La ragazza non rispose, ma fece un segno affermativo con la testa appoggiata al petto del padre.

«E l’equipaggio?» domandò Morrel.

«È salvo», disse la giovane, «raccolto da quello della Gironda entrata or ora nel porto.»

Morrel alzò le mani al cielo con un’espressione di sublime rassegnazione e riconoscenza.

«Grazie, grazie, mio Dio!» disse Morrel. «Almeno non colpite che me solo.»

Per quanto flemmatico fosse l’inglese, una lacrima gli inumidì le palpebre.

«Entrate», disse Morrel, «entrate, perché suppongo che sarete tutti lì fuori.»

Infatti, aveva appena pronunciato queste parole, che la signora Morrel entrò singhiozzando. Emmanuel la seguiva; in fondo all’anticamera si vedevano le rozze figure di sette o otto marinai seminudi. Alla vista di quegli uomini, l’inglese trasalì; fece un passo per andare loro incontro, ma si contenne, e invece si nascose nell’angolo più oscuro e appartato dell’ufficio.

La signora Morrel andò a sedersi vicino al marito, prese fra le sue le mani di lui, mentre Julie restava in piedi appoggiata al petto del padre. Emmanuel si era fermato in mezzo alla stanza e sembrava il legame fra il gruppo della famiglia Morrel e i marinai che stavano fermi sulla porta.

«Come è avvenuta la disgrazia?» domandò Morrel.

«Avvicinatevi Penelon», disse il giovane, «e raccontate l’accaduto.»

Un vecchio marinaio, abbronzato dal sole dell’equatore, avanzò rigirando fra le mani l’avanzo di un cappello.

«Buongiorno, signor Morrel», disse, come se avesse lasciato Marsiglia il giorno precedente o giungesse da Tolone, o da Aix.

«Buongiorno, amico mio», disse l’armatore, non potendo fare a meno di sorridere in mezzo alle lacrime. «Ma dov’è il capitano?»

«Il capitano è rimasto a Palma, malato; ma a Dio piacendo, è cosa da nulla, e voi lo vedrete giungere fra qualche giorno, tanto bene in salute quanto voi e me.»

«Va bene… ora parlate, Penelon», disse Morrel.

Penelon fece passare da una parte all’altra della bocca il tabacco che masticava, quindi ponendo la mano davanti, lanciò nell’anticamera un getto di saliva nerastra, avanzò un piede e si dondolò sulle anche narrando quanto segue: «Noi eravamo all’incirca fra il capo Blanc e il capo Boyador, e procedevamo con una buona brezza di sud-ovest, dopo essere stati senza muoverci otto giorni per la bonaccia, quando il capitano Gaumard mi si avvicina, bisogna che sappiate che allora io ero al timone, e mi dice: “Papà Penelon, che pensate di quelle nubi che si levano laggiù all’orizzonte?” Le guardavo proprio in quel momento. “Che ne penso io, capitano? Penso che avanzano un po’ più presto di quello che vorremmo, e che sono più nere di quello che si convenga a nuvole che non abbiano cattive intenzioni.”

«“Questo è anche il mio parere”, disse il capitano, “e vado subito a prendere le necessarie cautele. Abbiamo le vele troppo spiegate per il vento che farà… Olà, eh! Preparatevi a serrare le vele, e ad abbassare quella di trinchetto…” Era tempo. L’ordine era appena stato eseguito che il vento infuriava su di noi e spingeva da un alto la nave.

«“Bene!” disse il capitano. “Abbiamo ancora troppe vele: pronti a serrare la gran vela.” Cinque minuti dopo, la gran vela era chiusa, e noi procedevamo con la vela di trinchetto, con la vela di gabbia e i parrocchetti.

«“Ebbene, caro Penelon!” mi disse il capitano. “Che avete da scuotere la testa?”

«“È perché, al vostro posto, vedete, non mi limiterei a questo.”

«“Credo che tu abbia ragione, vecchio mio”, disse; “stiamo per ricevere un colpo di vento…”

«“Ah, capitano”, gli risposi io, “chi riuscisse a spazzar, con un colpo di vento, ciò che si prepara laggiù, guadagnerebbe assai; questa è una tempesta bella e buona in cui non mi vorrei trovare…”

«Vale a dire che si vedeva venire il vento come si vede sollevarsi la polvere a Montredon: fortunatamente avevamo a che fare con un uomo che lo conosceva.

«“Attenti a prendere tre terzaruoli nelle gabbie!” gridò il capitano. “Allarga le boline, braccio al vento, giù i pennoni!”

«Ciò non bastava in quei paraggi», interruppe l’inglese, «io avrei preso quattro terzaruoli, e mi sarei sbarazzato della vela di trinchetto.»

Questa voce ferma, sonora e inattesa fece trasalire tutti. Penelon portò una mano agli occhi e guardò colui che correggeva con tanta precisione la manovra del suo capitano.

«Noi facemmo ancor meglio, signore», disse il vecchio marinaio con un certo rispetto, «perché caricammo a orza la brigantina, e mettemmo le barre al vento per correre davanti alla tempesta. Dieci minuti dopo caricammo le vele di gabbie e procedemmo senza vele.»

L’inglese scosse la testa: «Il bastimento era troppo vecchio per arrischiare questo», disse.

«È vero! E questo fu ciò che ci perdette… In capo a dodici ore eravamo sballottati di qui e di là, come se il diavolo ci avesse messo lo zampino, e si aprì una falla. “Penelon”, mi disse il capitano, “credo che affonderemo; dammi la barra del timone, e scendi nella stiva.” Gli cedetti il timone, e scesi; vi erano già novanta centimetri d’acqua. Risalii gridando: “Alle pompe! alle pompe!” Ma era troppo tardi. Tutti ci mettemmo all’opera, ma credo che più acqua toglievamo più ne entrava. “Ah, in fede mia”, dissi, dopo quattro ore di lavoro, “poiché affondiamo, lasciamoci affondare; non si muore che una volta.”

«“È così che dai l’esempio, Penelon?” disse il capitano. “Ebbene aspetta, aspetta!”

«E andò in cabina a prendere un paio di pistole. “Il primo che lascia la pompa”, disse, “gli brucio le cervella!”»

«Bravo!» disse l’inglese.

«Non c’è nulla che infonda tanto coraggio quanto le buone ragioni», continuò il marinaio, «tanto più che il tempo si era rischiarato, e il vento cominciava a indebolirsi. Non è meno vero che l’acqua saliva sempre; non molto ma circa cinque centimetri l’ora; vedete, sembra che non sia niente, ma in dodici ore sono sessanta centimetri; e novanta che ne avevamo già, fanno centocinquanta; ciò vuol dire che quando un bastimento ha centocinquanta centimetri d’acqua nel ventre, può affondare da un momento all’altro.

«“Andiamo”, disse il capitano, “basta così; il signor Morrel non avrà nulla da rimproverarci: abbiamo fatto tutto ciò che si è potuto fare per salvare il bastimento; bisogna ora cercare di salvare gli uomini. Alla scialuppa, ragazzi, e più presto che si può!”

«Ascoltate signor Morrel», continuò Penelon, «noi amavamo molto il Pharaon; ma per grande che sia l’amore che i marinai portano al loro bastimento, essi però amano sempre di più la loro pelle. Così non ce lo facemmo ripetere due volte, mentre il bastimento sembrava dirci: “Andatevene dunque! Ma andatevene subito!” E non mentiva il povero Pharaon; noi lo sentivamo affondare sotto i nostri piedi. Ma tant’è: in men che non si dica la scialuppa era in mare, e in un batter d’occhio gli otto marinai erano dentro. Il capitano fu l’ultimo a scendere… o piuttosto no, non scese, non voleva abbandonare la nave, fui io che lo presi per la vita e lo gettai ai compagni, dopo di che saltai a mia volta. Ed era tempo. Appena ebbi fatto il salto, il ponte si spaccò con un rumore tale, che si sarebbe detta una bordata di vascello da quarantotto. Dieci minuti dopo, affondò la parte anteriore, poi la posteriore, quindi si mise a girare su se stesso, come un cane che corre dietro la propria coda, e infine, buonasera alla compagnia, brrrr! tutto fu finito, il Pharaon non c’era più! In quanto a noi, siamo stati tre giorni senza bere e senza mangiare, ed era tale la nostra fame che già si cominciava a parlare di fare a sorte per sapere chi sacrificare, come cannibali, quando scorgemmo la Gironda, le facemmo dei segnali… Ci vide, volse la prua verso di noi, ci spedì incontro la sua scialuppa e ci raccolse. Ecco come è andata, signor Morrel, parola d’onore! Sulla mia fede di marinaio! Non è vero, compagni?»

Un mormorio generale indicò che il narratore aveva avuto l’approvazione di tutti per la verità del racconto e il pittoresco dei particolari.

«Bene, amici miei», disse Morrel, «siete della brava gente; già sapevo che nella disgrazia che mi sarebbe toccata, nessuno avrebbe avuto colpa fuorché il destino: questa è la volontà di Dio, e non colpa degli uomini. Chiniamoci alla volontà di Dio. Ora ditemi quanto vi debbo per il vostro soldo?»

«Oh, non parliamo di questo, signor Morrel…»

«Al contrario, parliamone», disse l’armatore con un triste sorriso.

«Ebbene, dobbiamo avere tre mesi di soldo», disse Penelon.

«Coclite, pagate duecento franchi a ciascuno di questi bravi uomini. In altri tempi, amici miei, avrei detto: date cento franchi a ciascuno di gratifica, ma i tempi sono disgraziati, cari amici, e il poco denaro che mi resta non è più mio; scusatemi dunque, e non per questo cessate dall’amarmi.»

Penelon fece una smorfia di tenerezza, si voltò verso i compagni, scambiò con loro qualche parola e replicò: «Quanto a questo, signor Morrel», disse masticando tabacco, e lanciando nell’anticamera un secondo getto di saliva che andò a tener compagnia al primo, «quanto a questo…»

«A questo, cosa?»

«Al denaro…»

«Ebbene?»

«Ebbene, signor Morrel, i compagni dicono che per il momento sono sufficienti cinquanta franchi per ciascuno, e che per il resto aspetteranno.»

«Grazie, amici miei, grazie!» disse il signor Morrel commosso fino al cuore. «Siete tutti brava gente, ma prendete! prendete! e se trovate un buon servizio, accettate pure.»

Questa ultima parte della frase produsse un effetto prodigioso su quei degni marinai, si guardarono gli uni e gli altri con la faccia smarrita. Penelon, a cui mancava il fiato, poco mancò non inghiottisse la boccata di tabacco.

«Come, signor Morrel», disse con voce soffocata, «come, voi ci licenziate, siete dunque malcontento di noi?»

«No, figli miei», disse l’armatore, «no, non sono malcontento di voi, al contrario, no, io non vi licenzio. Ma che volete farci, non ho più bisogno di marinai.»

«Come, non avete più bastimenti?» disse Penelon. «Ebbene ne farete costruire degli altri! Aspetteremo. Grazie a Dio noi sappiamo ciò che vuol dire…»

«Io non ho più denari per far costruire bastimenti», disse l’armatore con un triste sorriso. «Quindi non posso accettare la vostra offerta, per quanto sia gradita.»

«Ebbene, se non avete più denari, allora non dovete pagarci; faremo come ha fatto il povero Pharaon, periremo anche noi, ecco tutto.»

«Basta, basta, amici miei», disse Morrel soffocato dall’emozione, «basta, ve ne prego, ci rivedremo in tempi migliori. Emmanuel, accompagnateli e vigilate affinché siano compiuti i miei desideri.»

«Almeno a rivederci, non è vero, signor Morrel?» disse Penelon.

«Sì, amici miei, almeno lo spero. Andate.»

E fece segno a Coclite che aprì il cammino, e i marinai seguirono il cassiere. Emmanuel tenne loro dietro.

«Ora», disse l’armatore a sua moglie e a sua figlia, «lasciatemi solo un momento, poiché debbo parlare con questo signore.»

E indicò con gli occhi il mandatario della casa Thomson e French che era rimasto in piedi e immobile in un angolo durante tutta quella scena, alla quale egli non aveva preso altra parte che quella delle poche parole che abbiamo riportato.

Le due donne alzarono gli occhi sullo straniero completamente dimenticato, e uscirono; ma nel farlo la giovane lanciò a quell’uomo uno sguardo di sublime preghiera cui egli corrispose con un sorriso, che un freddo osservatore si sarebbe stupito di vedere spuntare su quel viso di ghiaccio.

I due uomini rimasero soli.

«Ebbene, signore», disse Morrel lasciandosi ricadere sulla sedia, «avete tutto visto e inteso, non ho altro da aggiungere.»

«Ho visto», disse l’inglese, «che vi è sopraggiunta una nuova disgrazia, immeritata come le altre, e ciò mi ha confermato nel desiderio di esservi utile.»

«Oh signore!» disse Morrel.

«Vediamo», continuò lo straniero, «sono uno dei vostri principali creditori, non è vero?»

«Siete almeno quello che possiede le cambiali a più breve scadenza.»

«Desiderate una dilazione per pagarmi?»

«Una dilazione potrebbe salvarmi l’onore», disse Morrel, «e per conseguenza la vita.»

«Quanto tempo volete?»

Morrel esitò.

«Due mesi», disse.

«Bene», fece lo straniero, «ve ne darò tre…»

«Ma, credete che la casa Thomson e French?…»

«State tranquillo, me ne assumo io la responsabilità. Oggi siamo al 5 giugno?»

«Sì.»

«Ebbene rinnovatemi tutte queste cambiali e al 5 settembre alle undici del mattino mi presenterò a voi.»

L’orologio in quel momento segnava appunto le undici precise.

«Vi aspetterò, signore, e sarete pagato, o io sarò morto.»

Queste ultime parole furono pronunciate a così bassa voce che lo straniero non poté intenderle.

Le cambiali furono rinnovate; vennero stracciate le antiche e il povero armatore si trovò almeno ad avere tre mesi per poter riunire le sue ultime risorse. L’inglese ricevette i suoi ringraziamenti con la flemma particolare alla sua gente, e prese congedo da Morrel, che lo accompagnò benedicendolo fino alla porta. Sulle scale incontrò Julie: la ragazza sembrava scendere, ma in realtà lo aspettava.

«Oh, signore!» disse giungendo le mani.

«Signorina», disse lo straniero, «voi un giorno riceverete una lettera firmata… Sinbad il marinaio. Fate ciò che vi dirà la lettera per quanto strana vi possa sembrare la raccomandazione.»

«Sì, signore», rispose Julie.

«Mi promettete di farlo?»

«Ve lo giuro.»

«Va bene: addio signorina, siate sempre buona e savia come siete e ho fiducia che Iddio vi ricompenserà, dandovi per marito Emmanuel.»

Julie mandò un piccolo grido, divenne rossa come una ciliegia, e si tenne alla ringhiera delle scale per non cadere. Lo straniero continuò a scendere, facendole un gesto di addio. Nel cortile incontrò Penelon che teneva un rotolo di cento franchi in ciascuna mano, e che sembrava non decidersi a intascarli.

«Venite, amico mio», gli disse, «ho bisogno di parlarvi.»

30. Il 5 settembre

La dilazione accordata dal mandatario della casa Thomson e French nel momento in cui Morrel meno se lo aspettava, parve al povero armatore uno di quei ritorni di fortuna che annunciano all’uomo che la sorte ha alfine cessato di perseguitarlo.

Lo stesso giorno raccontò a sua figlia e a Emmanuel quanto gli era accaduto; e un po’ di speranza, se non di tranquillità, rientrò nella famiglia. Disgraziatamente però Morrel non aveva affari soltanto con la casa Thomson e French, che si era mostrata così propensa a un accomodamento; com’egli aveva detto, nel commercio si hanno corrispondenti, e non amici.

Quando vi pensava, non comprendeva neppure la condotta generosa della casa Thomson e French verso di lui, e non la spiegava che con questa riflessione superlativamente egoista, che quella casa doveva aver detto: val meglio sostenere quest’uomo che ci deve quasi trecentomila franchi, e avere questa somma in capo a tre mesi, che sollecitarne la rovina, e avere il sei o l’otto per cento del capitale.

Disgraziatamente, fosse odio, fosse accecamento, tutti i corrispondenti di Morrel non fecero la stessa riflessione. Le cambiali sottoscritte da Morrel vennero presentate alla cassa con scrupoloso rigore, e grazie alla dilazione accordata dall’inglese furono pagate pronta cassa da Coclite, che continuò a rimanere tranquillo. Il solo Morrel vide con terrore, che se avesse dovuto rimborsare al 15 i centomila franchi di Boville, e al 30 i trentaduemilacinquecento franchi di cambiali, per le quali, come per quelle dell’ispettore delle prigioni, aveva ottenuto una dilazione, sarebbe stato fin da quel mese un uomo perduto.

L’opinione di tutti i commercianti di Marsiglia era che Morrel non avrebbe potuto sostenere i rovesci continui che l’opprimevano. Fu dunque grande la meraviglia quando lo si vide compiere i pagamenti di fine mese con la solita puntualità. Ma non per questo ritornò la fiducia negli animi, e in molti predissero che alla fine del mese seguente sarebbe il disgraziato armatore sarebbe fallito.

Tutto il mese passò in sforzi inauditi da parte di Morrel per riunire tutte le sue risorse. In altri tempi le sue cambiali, a qualunque data, erano prese con fiducia, e anzi richieste da tutti. Morrel tentò di negoziare delle cambiali con scadenza a novanta giorni, e trovò tutti le banche chiuse.

Fortunatamente, aveva qualche incasso sul quale contare: così si trovò ancora in condizione di far fronte ai suoi obblighi quando giunse la fine di luglio. D’altra parte, il mandatario della casa Thomson e French non era più stato visto a Marsiglia.

L’indomani della sua visita a Morrel era sparito: siccome in Marsiglia non aveva avuto a trattare che col sindaco, con l’ispettore delle prigioni, e con Morrel, così il suo passaggio non aveva lasciato altra traccia che i ricordi diversi che ne conservavano queste tre persone. In quanto ai marinai del Pharaon sembrava che avessero ritrovato da impiegarsi, poiché essi pure erano spariti.

Il capitano Gaumard, rimessosi dalla malattia che lo aveva trattenuto a Palma, ritornò a sua volta. Esitò a presentarsi al signor Morrel; ma questi, saputo del suo arrivo, andò di persona a trovarlo. Il degno armatore sapeva già dal racconto di Penelon della coraggiosa condotta tenuta dal capitano durante tutto il naufragio, e si sforzò di consolarlo. Gli portò l’ammontare del suo soldo, che il capitano Gaumard non avrebbe certamente osato andare a riscuotere.

Quando Morrel scese la scala, incontrò Penelon che saliva: aveva, a quanto sembrava, fatto un buon uso del denaro, poiché era vestito tutto di nuovo. Riconoscendo il suo armatore, il degno timoniere parve molto impacciato; si ritirò nell’angolo più lontano del pianerottolo, masticando il tabacco e girando due grossi occhi spaventati, non rispose che con una timida pressione alla stretta di mano che gli offrì Morrel con la sua solita cordialità.

Morrel attribuì l’impaccio di Penelon all’eleganza del vestito: era evidente che non era entrato di tasca propria in tanto lusso; e chiaramente doveva essere già impiegato a bordo di qualche altro bastimento, e la vergogna gli veniva dal non avere, se è lecito esprimersi così, portato per un tempo maggiore il lutto del Pharaon. Forse si recava dal capitano Gaumard per metterlo a parte della sua fortuna, e per fargli delle offerte per conto del nuovo padrone.

«Brava gente!» disse Morrel allontanandosi. «Possa il vostro nuovo padrone amarvi come vi amavo io, ed essere più felice di me!…»

Passò il mese di agosto in tentativi, senza posa rinnovati da Morrel, per rialzare il suo credito, o per aprirsene uno nuovo.

Il 20 agosto si seppe a Marsiglia che Morrel aveva trovato da occuparsi come staffetta postale; allora tutti supposero che alla fine del mese avrebbe depositato il bilancio, e che Morrel sarebbe partito prima per non assistere a quell’atto crudele, delegando senza dubbio il suo primo commesso Emmanuel e il cassiere Coclite. Ma contro ogni previsione, allorché giunse il 31 agosto, la cassa si aprì secondo il solito. Coclite apparve dietro l’inferriata, tranquillo come il giusto di Orazio, esaminò con la stessa attenzione le cambiali che gli vennero presentate, e pagò le tratte dalla prima all’ultima con la stessa esattezza. Vennero anche presentati due rimborsi previsti da Morrel, e Coclite li pagò con la puntualità propria dell’armatore. Nessuno ci capiva più nulla, e i profeti di cattive notizie, con una particolare ostinazione, rinviavano il fallimento alla fine di settembre.

Giunse il primo del mese. Morrel era atteso da tutta la famiglia con la più grande ansietà, mentre contavano sull’esito del suo viaggio a Parigi come sull’ultima via di salvezza.

Morrel aveva pensato a Danglars, divenuto milionario, e un giorno suo sottoposto, perché era stata la raccomandazione di Morrel a far entrare Danglars al servizio del banchiere spagnolo, presso il quale era cominciata la sua immensa fortuna. Si diceva che Danglars era possessore di sei-otto milioni, e che godeva di un credito illimitato.

Danglars senza levarsi uno scudo di tasca poteva salvare Morrel: non aveva che da garantire un prestito, e Morrel era salvo. Morrel da lungo tempo aveva pensato a Danglars; ma vi sono alcune istintive repulsioni che non sappiamo superare. Aveva aspettato fino a che gli era stato possibile, prima di ricorrere a quest’ultimo mezzo.

E aveva avuto ragione, poiché ritornava oppresso dall’umiliazione e dal rifiuto.

Al ritorno non manifestò alcun lamento, non proferì alcuna recriminazione; aveva teso la mano amichevolmente a Emmanuel, si era chiuso nel suo ufficio del secondo piano, e aveva chiesto di Coclite. Le due donne dissero a Emmanuel: «Siamo perdute». Quindi, in un breve conciliabolo fra loro, convennero che Julie avrebbe scritto al fratello, di guarnigione a Nîmes, di venire subito a casa. Le povere donne sentivano di avere bisogno di tutte le loro forze per sostenere il colpo che le minacciava; d’altra parte Maximilien Morrel, sebbene appena ventiduenne, aveva già una grande influenza su suo padre.

Era un giovane avveduto e abile. Al momento di decidersi per la carriera, suo padre non aveva voluto imporgli una scelta ma si era consultato con lui.

Questi aveva detto di voler seguire la carriera militare: aveva di conseguenza fatto degli eccellenti studi, era entrato per concorso nella scuola politecnica, e n’era uscito sottotenente al 53° reggimento di linea.

Dopo un anno che occupava questo posto, aveva già la promessa che alla prima occasione l’avrebbero nominato tenente. Nel reggimento, Maximilien Morrel era citato come il più rigido osservatore, non solo di tutti gli obblighi imposti al soldato, ma anche di tutti i doveri propri all’uomo, e non veniva chiamato con altro nome, che con quello di Stoico.

Inutile dire che la maggior parte di coloro che lo chiamavano con tal soprannome, lo ripetevano per averlo inteso dire, ma non sapevano che cosa volesse significare.

La madre e la sorella lo chiamavano in loro soccorso per sostenerle nella grave situazione che presagivano. Non si erano ingannate sulla gravità di questi presentimenti perché un momento dopo che Morrel era entrato nel suo ufficio con Coclite, Julie vide uscire quest’ultimo pallido, tremante e col viso sconvolto.

Volle interrogarlo quando le passò accanto, ma il brav’uomo continuò a scendere la scala con una fretta che non gli era solita, e si contentò di gridare alzando le braccia al cielo: «Oh signorina, signorina! Quale orribile disgrazia, e chi l’avrebbe mai creduto!»

Poco dopo, Julie lo vide risalire portando due o tre grossi registri, un portafoglio e un sacchetto di monete.

Morrel consultò i registri, aprì il portafoglio, contò le monete.

Tutte ciò che possedeva ammontava a circa ottomila franchi; i suoi crediti realizzabili, fino al giorno 5, a quattro o cinquemila; ciò che formava in contante, a dir molto, un attivo di quattordicimila franchi, per far fronte a una cambiale di duecentoottantasettemilacinquecento franchi. Non era neppure il caso di offrire una simile somma in acconto.

Però quando Morrel scese per pranzare, sembrava tranquillo: il che spaventò le due donne assai più di un profondo abbattimento.

Dopo pranzo Morrel aveva l’abitudine di uscire; andava a prendere il caffè al circolo dei Phocéens, o a leggere il «Sémaphore»: quel giorno non uscì, risalì nel suo ufficio.

Quanto a Coclite, sembrava completamente ebete. Durante una parte del giorno si era trattenuto in cortile, seduto sopra una pietra, con la testa nuda sotto un sole di trenta gradi.

Emmanuel cercava di tranquillizzare le donne, ma non aveva sufficiente eloquenza. Il giovane era troppo al corrente degli affari per non sapere che una grave catastrofe era imminente sulla famiglia Morrel.

Venne la notte; le due donne vegliarono nella speranza che Morrel scendendo dall’ufficio sarebbe andato da loro; ma lo intesero passare davanti alla loro porta, camminando in punta di piedi, per timore forse di essere chiamato: tesero le orecchie, e udirono che entrò in camera sua, e si chiuse dentro.

La signora Morrel mandò sua figlia a letto; quindi, mezz’ora dopo che Julie si era ritirata, si alzò, si tolse le scarpe, avanzò nel corridoio per vedere dalla serratura ciò che faceva suo marito; s’accorse allora d’un’ombra che si ritirava.

Era Julie che, inquieta anch’essa, aveva preceduto sua madre.

La ragazza le andò incontro dicendole: «Scrive».

Le due donne avevano avuto lo stesso pensiero senza esserselo comunicato. La signora Morrel guardò dal buco della serratura.

Infatti Morrel scriveva: ma ciò che non aveva visto la figlia, lo notò la madre; Morrel scriveva sopra una carta bollata. Le venne la terribile idea che stesse facendo testamento; rabbrividì e non ebbe forza di dire una parola.

Il giorno dopo Morrel sembrava più tranquillo, rimase alla scrivania come al solito e scese a far colazione. Solo dopo pranzo fece sedere la figlia vicino a sé, la cinse col suo braccio, e la tenne lungamente contro il petto.

La sera Julie disse a sua madre che per quanto in apparenza sembrasse tranquillo, aveva notato che il cuore di suo padre batteva violentemente. Nello stesso modo passarono gli altri due giorni.

Il 4 settembre verso sera, Morrel chiese a sua figlia la chiave del suo studio. Julie rabbrividì a quella domanda che gli sembrò di cattivo augurio.

Perché dunque suo padre voleva quella chiave che lei aveva sempre custodito, e che non le era mai stata tolta, tranne da bambina per punirla? La ragazza guardò Morrel.

«Che ho fatto di male, padre mio», disse, «perché mi riprendiate questa chiave?»

«Niente, figlia mia», rispose lo sventurato Morrel a cui questa semplice domanda fece sgorgare dagli occhi il pianto, «nulla; solo ne ho bisogno.»

Julie finse di cercare la chiave.

«L’avrò lasciata in camera mia», mentì.

Uscì, ma invece di andare nella sua camera, scese e corse a consigliarsi con Emmanuel.

«Non restituite la chiave a vostro padre», disse questi, «e domattina, se è possibile, non lo lasciate solo un momento.»

Lei cercò invano di interrogare Emmanuel, ma questi non sapeva altro, o non volle dire di più.

Durante tutta la notte dal 4 al 5 settembre la signora Morrel rimase a origliare fino alle tre del mattino; intese suo marito camminare con agitazione nella camera; solo dopo le tre si gettò sul letto.

Le due donne passarono insieme il resto della notte. Fin dalla sera precedente aspettavano Maximilien.

Alle otto Morrel entrò nella loro camera: era tranquillo, ma gli si leggeva sul viso pallido e smunto l’agitazione della notte.

Le donne non osarono chiedergli se aveva riposato bene. Morrel fu affabile con sua moglie, più tenero con sua figlia di quel che non fosse mai stato: non si stancava di guardare e abbracciare la povera ragazza.

Julie si ricordò la raccomandazione di Emmanuel, e volle accompagnare il padre quando uscì, ma questi la respinse con dolcezza, dicendole: «Resta con tua madre».

Julie tentò di insistere.

«Lo voglio!» disse Morrel.

Era la prima volta che diceva a sua figlia: «Lo voglio!» Ma lo disse con tale accento di paterna dolcezza, che Julie non osò opporsi. Rimase al suo posto, ritta, muta e immobile.

Un istante dopo la porta si aprì, ed ella sentì due braccia che la stringevano e un bacio sulla fronte. Alzò gli occhi, e mandò un’esclamazione di gioia.

«Maximilien, fratello mio!» gridò.

A quel grido la signora Morrel accorse, e si gettò fra le braccia del figlio.

«Madre mia», disse il giovane guardando alternativamente la madre e la sorella, «che accade? La vostra lettera mi ha spaventato!»

«Julie», disse la signora Morrel facendo un segno al figlio, «va’ a dire a tuo padre che è arrivato Maximilien.»

La ragazza si lanciò fuori dell’appartamento; ma sul primo gradino della scala incontrò un uomo che teneva una lettera in mano. «Siete voi la signorina Julie Morrel?» disse quell’uomo con accento italiano.

«Sì», rispose Julie balbettando, «ma che volete? Non vi conosco.»

«Leggete questa lettera», disse l’uomo.

Julie esitava.

«Ne va della salvezza di vostro padre!» disse il messaggero.

La ragazza gli tolse la lettera dalle mani, poi l’aprì e lesse con ansietà: «Recatevi subito ai viali di Meilhan, entrate nella casa al n. 15, domandate al portinaio la chiave della camera al quinto piano; entrate; prendete dalla mensola del caminetto una borsa di cordonetto di seta rossa e portatela subito a vostro padre. È indispensabile che l’abbia prima delle undici. Voi mi avete promesso di obbedirmi ciecamente; invoco la vostra promessa. Sinbad il marinaio».

La ragazza gettò un grido di gioia, volle interrogare l’uomo che le aveva consegnato la lettera, ma era già sparito. Riportò allora gli occhi sulla lettera per leggerla una seconda volta, si accorse che c’era un post-scriptum, e lo lesse. «È importante che adempiate questa missione di persona, e sola; se verrete in compagnia o altri verranno in vece vostra, il portinaio vi risponderà che non sa ciò che volete dire.»

Questo post-scriptum fece una forte impressione alla giovane. Doveva temere qualche cosa? Poteva essere una trappola che le si tendeva? La sua innocenza non le permetteva di sapere quale erano i pericoli che poteva correre una ragazza della sua età. Ma non c’è bisogno di conoscere i pericoli per temerli; anzi si temono di più i pericoli che non si conoscono.

Julie esitò; risolse di domandar consiglio, ma per uno strano sentimento non lo chiese, né a sua madre né a suo fratello, ricorse a Emmanuel. Ridiscese, raccontò l’accaduto nel giorno in cui il mandatario della casa Thomson e French venne da suo padre, la scena della scala, ripeté la promessa che aveva fatta, e mostrò la lettera.

«Bisogna che andiate», disse Emmanuel.

«Andarci?» mormorò Julie.

«Sì, vi accompagnerò.»

«Ma non avete letto che devo andarci sola?»

«Sarete ugualmente sola, vi aspetterò all’angolo della strada del Museo e se tardate in modo da farmi nascere qualche inquietudine verrò a raggiungervi, e, ve l’assicuro, disgraziati coloro di cui avrete a lamentarvi!»

«In tal modo, Emmanuel», riprese esitando la ragazza, «il vostro consiglio è che io accetti questo invito?»

«Sì… Il messaggero non vi ha detto che si tratta della salvezza di vostro padre?»

«Ma che pericolo corre mio padre?» domandò la ragazza.

Emmanuel esitò un momento, ma il desiderio che Julie si risolvesse ad andare prevalse.

«Ascoltate», disse, «non è oggi il 5 settembre?»

«Sì.»

«Oggi alle undici vostro padre deve pagare circa trecentomila franchi.»

«Sì, lo sappiamo.»

«Ebbene», disse Emmanuel, «egli non ne ha neppure quindicimila in cassa.»

«E allora che avverrà?»

«Avverrà che se prima delle undici non trova qualcuno che gli venga in aiuto, vostro padre sarà obbligato a mezzogiorno a dichiararsi fallito.»

«Ah, venite», gridò la ragazza, trascinando Emmanuel.

Nel frattempo la signora Morrel aveva detto tutto a suo figlio. Il giovane sapeva bene che in conseguenza delle successive disgrazie capitate a suo padre, erano state introdotte molte economie nelle spese di casa; ma non sapeva che le cose fossero giunte a tal punto. Rimase annichilito; ma subito si lanciò fuori dall’appartamento, salì rapidamente le scale, credendo di trovare il padre in ufficio; ma bussò invano.

Mentre era alla porta, sentì che quella dell’appartamento si apriva, si voltò e vide suo padre. Invece di salire direttamente nel suo ufficio, Morrel era rientrato nella sua camera, e ne usciva allora soltanto; egli mandò un grido di sorpresa scorgendo Maximilien, poiché ne ignorava l’arrivo.

Rimase immobile al suo posto, strinse col braccio sinistro un oggetto che teneva nascosto sotto l’abito. Maximilien scese sollecitamente la scala e si gettò al collo di suo padre; ma d’improvviso si ritrasse, lasciando soltanto la mano destra appoggiata al petto di Morrel.

«Padre mio», disse, diventando pallido come la morte, «perché avete un paio di pistole sotto l’abito?»

«Oh, ecco avverarsi ciò che temevo», disse Morrel.

«Padre mio… padre mio! In nome del cielo», gridò il giovane, «che volete fare di queste armi?»

«Maximilien», rispose Morrel tenendo lo sguardo fisso sul figlio, «tu sei un uomo, e un uomo d’onore, vieni e te lo dirò.»

E Morrel salì con passo sicuro fino al suo ufficio, mentre Maximilien lo seguiva barcollando: aprì la porta, e la richiuse dopo che fu passato il figlio, quindi attraversò l’anticamera, s’avvicinò alla scrivania, vi depose le pistole in un angolo, e mostrò a suo figlio con la punta del dito un registro aperto. Su di esso era fedelmente trascritto lo stato preciso della situazione: Morrel doveva pagare fra mezz’ora duecentoottantasettemilacinquecento franchi e in tutto ne possedeva quindicimiladuecentocinquantasette.

«Leggi!» disse Morrel. Il giovane lesse e rimase un momento sbigottito.

Morrel non diceva una parola: che avrebbe potuto dire o aggiungere all’inesorabile decreto delle cifre?

«E voi, padre mio, avete fatto tutto il possibile per prevenire questa disgrazia?» disse dopo un breve silenzio il giovane.

«Sì», rispose Morrel.

«Non contate su alcun rimborso?»

«No.»

«Avete esaurito tutte le risorse?»

«Tutte.»

«E fra mezz’ora…» aggiunse con voce cupa, «il nostro nome sarà disonorato?»

«Il sangue lava il disonore», disse Morrel.

«Avete ragione, padre mio, ora vi comprendo.» Quindi allungò la mano verso le pistole. «Ve n’è una per voi e un’altra per me», disse. «Grazie!»

Morrel gli fermò la mano. «E tua madre… e tua sorella… chi le manterrà?»

Un fremito corse per tutte le membra del giovane.

«Padre», disse, «pensate che, con ciò, mi dite di vivere?»

«Sì, te lo dico», riprese Morrel, «perché questo è il tuo dovere; tu hai uno spirito equilibrato e forte, Maximilien… tu non sei un uomo come gli altri. Nulla ti comando, nulla ti ordino; ti dico soltanto: esamina la situazione come se tu vi fossi estraneo, e giudica tu stesso.»

Il giovane rifletté un istante, quindi l’espressione della più sublime rassegnazione passò nei suoi occhi; solo si tolse con un movimento triste e lento le spalline del suo grado.

«Va bene», disse tendendo la mano a Morrel, «morite in pace, padre mio, io vivrò.»

Morrel fece per gettarsi alle ginocchia del figlio. Maximilien lo accolse fra le braccia, e per un momento quei due nobili cuori batterono l’uno contro l’altro.

«Tu sai che non è per mia colpa?» disse Morrel.

Maximilien sorrise.

«So, padre mio, che siete l’uomo più onesto che abbia mai conosciuto.»

«Va bene, è detto tutto: ora ritorna da tua madre e da tua sorella.»

«Padre mio», disse il giovane piegando un ginocchio, «beneditemi!»

Morrel prese la testa di suo figlio fra le mani, l’avvicinò a sé, e v’impresse molti baci dicendo: «Oh sì, sì, ti benedico nel mio nome, nel nome di tre generazioni di uomini irreprensibili. Ascolta dunque ciò che essi ti dicono con la mia voce: l’edificio che la sventura ha distrutto, può essere riedificato dalla divina Provvidenza. Sapendomi morto in questo modo, i più inesorabili avranno pietà di me; a te forse sarà accordata una proroga che a me sarebbe stata negata. Allora fa’ che la parola infame non sia pronunciata; mettiti all’opera, lavora, ragazzo!, lotta ardentemente e con coraggio! Vivete tu, tua madre e tua sorella del puro necessario, affinché giorno per giorno i beni di coloro che amo aumentino e fruttifichino tra le tue mani. Pensa che sarà un bel giorno, un gran giorno, un giorno solenne quello della riabilitazione, il giorno in cui, da questa stessa scrivania, tu potrai dire: “Mio padre è morto perché non poteva fare ciò che ho fatto io, ma è morto tranquillo, perché morendo sapeva che io lo avrei fatto”».

«Oh, padre mio, padre mio», esclamò il giovane, «se poteste vivere!…»

«Se io vivo tutto è perduto; se io vivo, la premura si cambia in dubbio, la pietà in accanimento; se io vivo, non sono più che un uomo che ha mancato alla sua parola, che ha fallito i suoi impegni, non ho più infine che la bancarotta. Se muoio, al contrario, pensaci bene, Maximilien, il mio cadavere è quello di un onest’uomo disgraziato. Vivo, i miei migliori amici eviterebbero la mia casa; morto, Marsiglia intera mi seguirà piangendo fino all’ultima mia dimora. Vivo, tu avresti onta del mio nome; morto, puoi alzare la testa e dire ad alta voce: “Sono il figlio di colui che si è ucciso, perché costretto per la prima volta a mancare alla sua parola”.»

Il giovane mandò un gemito, ma parve rassegnato. Era la seconda volta che la necessità era accettata dal suo cuore, ma non dallo spirito.

«Ora», disse Morrel, «lasciami solo e cerca di allontanare le donne.»

«Non volete rivedere mia sorella?» domandò Maximilien.

Un’ultima e sorda speranza il giovane la riponeva in questo incontro, ecco perché lo proponeva.

Morrel scosse la testa.

«L’ho vista questa mattina», disse, «e le ho detto addio.»

«Non avete alcuna raccomandazione particolare da farmi, padre mio?» domandò Maximilien con voce alterata.

«Sì, figlio mio, una raccomandazione sacra.»

«Dite, padre mio.»

«La casa Thomson e French è la sola che per umanità, o forse per egoismo (ma non sta a me leggere nel cuore degli uomini), è la sola che abbia avuto pietà di me. Il suo mandatario, quello che fra dieci minuti si presenterà per riscuotere una cambiale di duecentoottantasettemilacinquecento franchi, non dirò mi abbia accordato, ma mi ha offerto una dilazione di tre mesi; questa casa sia rimborsata per prima, figlio mio, che quest’uomo ti sia sacro.»

«Sì, padre mio», disse Maximilien.

«E ora, ancora una volta, addio», disse Morrel, «va’, va’; ho bisogno di restar solo. Troverai il mio testamento nella scrivania della camera da letto.»

Il giovane rimase in piedi e inerte, senza avere che la forza della volontà, ma non quella dell’azione.

«Ascolta, Maximilien», disse suo padre, «supponi che io sia un soldato come te, che abbia ricevuto l’ordine di assalire un fortino, e che tu sapessi che vado incontro a una certa morte nell’assalirlo, non mi diresti tu come mi dicevi poco fa: “Andate, padre mio, perché vi disonorereste restando, e val meglio la morte che l’onta?”»

«Sì, sì», disse il giovane, «sì».

E stringendo convulsamente tra le braccia il padre: «Coraggio, padre mio!» disse. E si lanciò fuori dall’ufficio.

Quando il figlio fu uscito, Morrel rimase un momento in piedi con gli occhi fissi sulla porta, quindi tese la mano, tirò il cordone del campanello e suonò.

Di lì a poco comparve Coclite. Non era più l’uomo di prima, qui giorni di consapevolezza lo avevano annientato. Il pensiero che la casa Morrel sospendeva i pagamenti lo curvava a terra più che altri vent’anni accumulati sulle spalle.

«Mio buon Coclite», disse Morrel con un accento di cui sarebbe difficile dire l’espressione, «tu resterai nell’anticamera. Quando verrà quel signore che venne già tre mesi fa… lo ricordi?… il mandatario della casa Thomson e French, verrai ad annunciarmelo.»

Coclite non rispose; fece segno di sì con la testa, andò a sedersi nell’anticamera e aspettò.

Morrel ricadde sulla sedia, gli occhi si volsero verso l’orologio: gli rimanevano ancora sette minuti in tutto. La lancetta camminava con una rapidità incredibile; gli sembrava di vederla andare.

Ciò che in quel momento passò nella mente di quell’uomo che, giovane ancora, e in conseguenza di un ragionamento falso, sebbene tale non sembrasse, stava per lasciare tutto ciò che di più caro aveva al mondo, e per abbandonare una vita piena di tutte le dolcezze della famiglia, è impossibile poterlo spiegare; sarebbe stato necessario essere presenti per averne un’idea.

La fronte era ricoperta di sudore, e ciò nonostante rassegnata, gli occhi bagnati di lacrime, ma pur rivolti al cielo.

La lancetta camminava sempre: le pistole erano cariche; allungò la mano, ne prese una e mormorò il nome di sua figlia: depose l’arma mortale, prese la penna e scrisse alcune parole. Gli sembrava di non avere ancora detto abbastanza addio a quella figlia adorata. Ritornò a guardare l’orologio: egli non contava più i minuti, ma i secondi. Riprese l’arma con la bocca semiaperta e gli occhi fissi all’orologio: poi rabbrividì al rumore che faceva nel caricare il grilletto. In quel momento un sudore più freddo gli passò sulla fronte, un’angoscia mortale gli strinse il cuore; udì la porta delle scale cigolare sui cardini, aprirsi quella del suo ufficio: l’orologio stava per battere le undici.

Morrel non si voltò, aspettava che Coclite pronunciasse le fatali parole: «Il mandatario della casa Thomson e French…» Avvicinò l’arma alla bocca… D’improvviso, invece della voce di Coclite intese un grido… Era la voce di sua figlia… Si girò e scorse Julie… La pistola gli cadde di mano.

«Padre mio!» gridò la ragazza ansante, e quasi fuori di sé dalla gioia. «Salvo! Siete salvo!»

E gli si gettò tra le braccia, alzando in alto la borsa di cordonetto di seta rossa.

«Salvo? Figlia mia, che vuoi dire?»

«Sì, salvo! Guardate, guardate…» disse la ragazza.

Morrel prese la borsa e trasalì, perché un vago ricordo gli richiamò alla mente che quell’oggetto gli era in altro tempo appartenuto. Da una parte c’era la cambiale dei duecentoottantasettemilacinquecento franchi già quietanzata; dall’altra vi era un diamante della grossezza di una nocciola, con queste tre parole scritte sopra un pezzo di pergamena: «Dote di Julie».

Morrel si passò la mano sulla fronte: credeva di sognare.

Nel medesimo istante l’orologio batté le undici. A ciascun battito il suo cuore tremò, come se fosse unito all’orologio da un filo invisibile.

«Raccontami, figlia mia», disse, «spiegati. Dove hai trovato questa borsa?»

«Nella casa al numero 15 dei viali di Meilhan sulla mensola del caminetto di una misera stanzetta al quinto piano.»

«Ma…» gridò Morrel, «questa borsa non è tua.»

Julie mostrò allora a suo padre la lettera che aveva ricevuto la mattina.

«E sei andata sola, in quella casa?» disse Morrel dopo averla letta.

«Emmanuel mi ha accompagnata. Doveva aspettarmi all’angolo della strada del Museo, ma, cosa strana, al mio ritorno non c’era più.»

«Signor Morrel!» gridò una voce dalle scale. «Signor Morrel!»

«Questa è la sua voce…» disse Julie.

Nel medesimo istante entrò Emmanuel col viso sconvolto dalla gioia e dall’emozione.

«Il Pharaon!» gridò. «Il Pharaon!»

«Il Pharaon? Siete pazzo, Emmanuel? Sapete bene che colò a picco.»

«Il Pharaon, signore; il faro ha dato il segnale del Pharaon! Il Pharaon sta per entrare nel porto.»

Morrel ricadde sulla sedia; le forze gli mancarono. La sua mente non riusciva a rendersi conto di quella serie di avvenimenti incredibili, inauditi e favolosi. Suo figlio entrò a sua volta.

«Padre mio», gridò Maximilien, «perché dicevate dunque che il Pharaon era perduto? Il faro lo ha segnalato, e ora sta entrando nel porto.»

«Amici miei», disse Morrel, «se fosse vero, bisognerebbe credere a un miracolo! Ma è impossibile! Impossibile!»

Tutto ciò, sebbene sembrasse incredibile, era vero: la borsa che teneva in mano, la cambiale quietanzata, e il magnifico diamante.

«Ah, signore», disse Coclite a sua volta, «il Pharaon?»

«Andiamo, figli miei», disse Morrel alzandosi, «andiamo a vedere, e che il cielo abbia pietà di noi!, se si tratta di una falsa notizia.»

Scesero tutti: a metà delle scale li aspettava la signora Morrel; la poveretta non aveva avuto il coraggio di salire. In un momento furono alla Canebière. Una gran folla era sul molo. Tutta quella folla si divise per lasciar libero il passaggio alla famiglia Morrel.

«Il Pharaon! Il Pharaon!» si diceva da ogni lato, da ogni bocca.

Infatti, cosa meravigliosa, inaudita, dirimpetto alla torre Saint-Jean un bastimento recava sulla poppa queste parole scritte a grandi lettere bianche: PHARAON MORREL E FIGLIO - MARSIGLIA.

Questo bastimento era assolutamente della stessa portata dell’altro Pharaon, ed era carico come l’altro d’indaco e di cocciniglia. Gettò l’ancora, ammainò le vele. Sul ponte il capitano Gaumard dava gli ordini, e Penelon faceva segnali a Morrel.

Non c’era più dubbio, c’era la testimonianza dei sensi, e quella di diecimila e più persone. Mentre Morrel e suo figlio si abbracciavano fra gli applausi di tutta la città, testimone di quel prodigio, un uomo, il cui viso era per metà coperto da una barba nera, nascosto dietro la garitta di una sentinella, contemplava la scena, mormorando queste parole: «Nobile cuore, sii felice, sii benedetto per tutto ciò che hai fatto e ancora farai, e la mia riconoscenza resti nell’oscurità come il tuo beneficio!»

E con un sorriso di gioia e di felicità, abbandonò il luogo dove si era nascosto, e senza essere visto da alcuno, tanto erano tutti occupati dall’avvenimento della giornata, scese una di quelle piccole scalette che servono allo sbarco, e chiamò tre volte: «Jacopo! Jacopo! Jacopo!»

Allora una scialuppa gli si avvicinò, lo ricevette a bordo, e lo condusse a uno yacht ben attrezzato, sul ponte del quale balzò con l’agilità d’un marinaio; da là guardò ancora una volta Morrel, che piangendo di gioia distribuiva amichevoli strette di mano a tutta quella folla, ringraziando con uno sguardo incerto l’invisibile benefattore che gli sembrava dover cercare in cielo.

«Ora», disse lo sconosciuto, «addio bontà, addio umanità, addio riconoscenza… addio a tutti quei sentimenti che inteneriscono il cuore!»

A queste parole fece un segnale, e come se non avesse atteso che ciò per partire, lo yacht prese immediatamente il largo.

31. L’Italia e Sinbad il marinaio

Attorno all’inizio del 1838 si trovavano a Firenze due giovani appartenenti alla società più elegante di Parigi: uno era il visconte Albert di Morcerf, l’altro il barone Franz d’Epinay. Avevano convenuto fra loro che sarebbero andati a passare il carnevale a Roma, dove Franz, che abitava in Italia da più di quattro anni, avrebbe fatto da cicerone ad Albert.

Ora, poiché non è cosa da poco l’andare di carnevale a Roma, soprattutto quando non si vuole andare a dormire in piazza del Popolo, o al Foro Romano, essi scrissero a Pastrini proprietario dell’albergo Londra in piazza di Spagna, per pregarlo di tener loro un comodo appartamento.

Pastrini rispose che non aveva più che due camere e un locale al secondo piano, che offriva loro alla modica cifra di un luigi al giorno.

I due giovani accettarono, quindi Albert, volendo mettere a profitto il tempo che gli rimaneva, partì per Napoli. Franz restò a Firenze.

Dopo aver goduto qualche tempo dei piaceri che procura la città dei Medici, dopo aver a lungo passeggiato in quell’Eden che vien chiamato le Cascine, dopo essere stato ricevuto da quegli ospiti magnifici che si chiamano Corsini, Montfort, Poniatowski, gli prese il capriccio, essendo già stato a visitare la Corsica, culla di Bonaparte, di andare a vedere l’isola d’Elba, luogo della forzata sosta di Napoleone.

Una sera dunque slegò una barchetta dall’anello di ferro che l’attraccava al porto di Livorno, vi si sdraiò sul fondo, avvolto nel suo mantello, e disse ai marinai queste sole parole: «All’isola d’Elba!»

La barca lasciò il porto come un uccello lascia il nido, e l’indomani Franz era a Portoferraio. Attraversò l’isola imperiale seguendo tutte quelle tracce lasciate dal gigante, e andò a imbarcarsi a Marciana. Due ore dopo, sbarcò a Pianosa, dove veniva assicurato che avrebbe trovato un’infinità di pernici rosse.

La caccia fu pessima; Franz uccise a stento poche pernici magre, e come fanno tutti i cacciatori che si sono stancati senza alcun esito, risalì sulla barca di cattivo umore.

«Se Vostra Eccellenza volesse», gli disse il padrone della barca, «potrebbe fare una buona caccia.»

«E dove?»

«Vedete quell’isola?» continuò il marinaio stendendo il dito verso il mezzogiorno, indicando una massa conica che usciva dal mare e tinta di un bellissimo color indaco.

«Che isola è?» domandò Franz.

«È l’isola di Montecristo», rispose il livornese.

«Ma io non ho licenza d’andare a caccia in quell’isola.»

«Vostra Eccellenza non ne ha bisogno; l’isola è deserta.»

«Oh, perbacco, un’isola deserta in mezzo al Mediterraneo, è una cosa curiosa.»

«È naturale, Eccellenza. L’isola è un ammasso di scogli, e in tutta la sua estensione non vi è forse un palmo di terreno coltivabile.»

«E a chi appartiene?»

«Alla Toscana.»

«E qual selvaggina vi si trova?»

«Migliaia di capre selvatiche.»

«Che vivono leccando delle pietre?» disse Franz con un sorriso d’incredulità.

«No, ma sfrondando le macchie, i mirti, e gli alti pruni che nascono tra i massi.»

«Ma dove dormirò?»

«A terra, o nelle grotte, oppure a bordo, avvolto nel vostro mantello. D’altra parte, se Vostra Eccellenza lo desidera, potremo partire subito dopo la caccia: sa che noi navighiamo tanto di giorno quanto di notte, e che quando non lavorano le vele, lavoriamo con i remi.»

Rimanendogli ancora del tempo prima di raggiungere il compagno, e non avendo più inquietudini per l’alloggio a Roma, Franz accettò la proposta di rifarsi della sua prima caccia.

Alla risposta affermativa, i marinai si scambiarono alcune parole a bassa voce.

«Ebbene, che c’è di nuovo?» domandò. «Sarebbe sorta qualche difficoltà?»

«No», rispose il padrone, «ma dobbiamo avvertirvi che l’isola di Montecristo è in contumacia.»

«E che significa?»

«Significa che, siccome Montecristo è disabitata, e qualche volta serve da ancoraggio a contrabbandieri e pirati che vengono dalla Corsica e dall’Africa, se si venisse a conoscenza del nostro soggiorno nell’isola, saremmo costretti al nostro ritorno a Livorno, a fare una quarantena di sei giorni.»

«Diavolo! Questo cambia tutto: sei giorni! Sarebbe troppo.»

«Ma chi dirà che Vostra Eccellenza è stata a Montecristo?»

«Oh, non io di sicuro!»

«Oh, ma non sarò io certamente…» gridò Gaetano.

«E neppure noi!» dissero i marinai.

«In questo caso, andiamo a Montecristo.»

Il padrone ordinò la manovra, puntò la prua sull’isola e la barca si avviò da quella parte.

Franz lasciò compiere l’operazione, e quando ormai si era nella nuova rotta, quando la vela fu gonfia dalla brezza, e i quattro marinai ebbero preso il loro posto, tre davanti e uno al timone, riprese la conversazione.

«Mio caro Gaetano», disse al padrone, «voi mi avete detto, credo, che l’isola di Montecristo serve da rifugio a contrabbandieri e pirati, e ciò mi pare ben altra selvaggina che le capre selvatiche.»

«Sì, Eccellenza, è la verità.»

«Sapevo esservi dei contrabbandieri, ma credevo che dopo la presa di Algeri, e la distruzione della reggenza, i pirati non esistessero più che nei romanzi di Cooper e del capitano Marryat.»

«Ebbene, Vostra Eccellenza sbaglia. Accade dei pirati come dei briganti, che sebbene siano creduti sterminati, aggrediscono tutti i giorni i viaggiatori fin sotto le porte di Roma. È successo presso Velletri, saranno appena sei mesi. Se Vostra Eccellenza abitasse a Livorno, come facciamo noi, sentirebbe dire, di tanto in tanto, che un piccolo bastimento carico di mercanzie, o un bello yacht inglese atteso a Bastia, a Portoferraio o a Civitavecchia, non è mai arrivato, e non si sa che ne sia avvenuto; e che, senza dubbio, si sarà infranto contro qualche scoglio. Ma lo scoglio che ha incontrato è invece una barca lunga e stretta, montata da sei o otto uomini, che l’ha sorpreso e saccheggiato in una notte oscura e tempestosa, nei dintorni di qualche isolotto selvaggio e disabitato, non diversamente dai briganti che fermano e spogliano una carrozza da posta in un bosco.»

«Ma infine», riprese Franz, sempre sdraiato nella barca, «perché quelli ai quali accadono simili disgrazie non le denunciano? Perché non richiamano su questi pirati la vigilanza del governo francese, sardo o toscano?»

«Perché?» disse ridendo Gaetano.

«Sì, perché?»

«Perché prima si trasporta dal bastimento, o dallo yacht, sulla barca tutto ciò che vi è di meglio da prendersi; quindi si legano mani e piedi a tutto l’equipaggio, e si attacca al collo di ciascuno una palla da ventiquattro, poi si fa un bel foro, della grandezza di un barile, nella chiglia del bastimento catturato, si risale sul ponte, si chiude il boccaporto, e si torna sulla barca. In capo a dieci minuti il bastimento comincia a lamentarsi, e gemere. Un poco alla volta affonda. Dapprima cala una delle sue parti, poi si rialza, quindi s’immerge di nuovo affondando sempre più. D’improvviso si ode un rumore simile a quello di una cannonata: è l’acqua che fa saltare il ponte. Allora il bastimento si dibatte come chi sta per annegare, divenendo sempre più pesante. Ben presto l’acqua, troppo compressa nelle cavità, prorompe da tutte le aperture, simile ai getti che soffiano dagli sfiatatoi le gigantesche balene. Finalmente manda un ultimo rantolo, fa un giro su se stesso, e affonda, scavando nell’abisso un vasto imbuto, che per un momento si aggira, si ricolma a poco a poco, e finisce per cancellarsi del tutto, di modo che, in capo a cinque minuti, non c’è che l’occhio di Dio che possa andare a discernere nel fondo del mare il bastimento sparito. Comprenderete ora perché il bastimento non rientra in porto, e perché l’equipaggio non denuncia l’accaduto?»

Se Gaetano avesse raccontato la cosa prima di proporre la spedizione, è probabile che Franz vi avrebbe pensato due volte prima d’intraprenderla, ma la barca vogava nella direzione dell’isola, e gli sembrò che sarebbe stata una viltà ritornare indietro.

Franz era uno di quegli uomini che non corrono mai incontro al pericolo, ma che, se il pericolo viene innanzi a loro, conservano una prontezza d’animo inalterabile per combatterlo; era uno di quegli uomini dal sangue freddo, che guardano un pericolo nella vita come un avversario in un duello, che ne calcolano i movimenti, che ne studiano la forza, che indietreggiano spesso per prender fiato, e per non comparir vili, infine che, rendendosi conto con un solo sguardo di tutti i loro vantaggi, ammazzano con un solo colpo.

«Bah», disse, «ho attraversato la Sicilia e la Calabria, ho navigato due mesi nell’arcipelago, e non ho mai visto l’ombra di un brigante o di un pirata.»

«Non ho raccontato tutto questo a Vostra Eccellenza», disse Gaetano, «per farla rinunciare al progetto; mi ha fatto delle domande, e io ho risposto.»

«Sì, mio caro Gaetano, la vostra conversazione è interessante; e siccome voglio goderne il più lungamente possibile, andiamo pure a Montecristo.»

Frattanto si avvicinavano rapidamente al termine del loro viaggio, il vento era favorevole, e la barca faceva sei miglia l’ora. Man mano che si avvicinavano, l’isola sembrava sorgere gigantesca dal seno del mare e, attraverso l’atmosfera limpida degli ultimi raggi del giorno, si distinguevano, come le palle ammonticchiate in un arsenale, gli scogli messi a piramide l’un sopra l’altro, e negli interstizi di quelli si vedevano rosseggiare le eriche e verdeggiare gli alberi. In quanto ai marinai, sebbene sembrassero perfettamente tranquilli, era però evidente che stavano all’erta, e che i loro sguardi scrutavano il vasto specchio su cui navigavano, e l’orizzonte, popolato soltanto da qualche peschereccio, le cui vele bianche si libravano, come gabbiani, sulla cima dei flutti.

Erano distanti soltanto una quindicina di miglia da Montecristo, quando il sole scomparve dietro la Corsica, le cui montagne comparivano a destra, delineando nel cielo il loro irregolare profilo, e mostrando ancora illuminata l’estremità di quella massa di pietre, che pari al gigante Adamastor, s’innalzavano davanti alla barca.

Poco per volta l’ombra salì dal mare, e sembrò scacciare dinanzi a sé gli ultimi riflessi del giorno che stava per finire; poi il raggio luminoso fu spinto fino alla cima del cono, dove si fermò un istante, come il pennacchio di fuoco di un vulcano; finalmente l’ombra, sempre crescente, invase progressivamente la sommità, come aveva invaso la base, e l’isola non apparve più che una montagna grigia che andava sempre più oscurandosi: mezz’ora dopo era notte fatta.

Fortunatamente i marinai erano nei loro abituali paraggi, e conoscevano fin l’ultimo degli scogli dell’arcipelago toscano; poiché in mezzo all’oscurità profonda nella quale era avvolta la barca, Franz non sarebbe stato del tutto senza inquietudine.

La Corsica era interamente sparita, e l’isola di Montecristo era divenuta invisibile; ma i marinai sembravano avere, come le linci, la facoltà di vedere nelle tenebre, e il pilota che stava al timone non mostrava la minima esitazione.

Era passata circa un’ora dal tramonto del sole, quando Franz credette di scorgere, a un quarto di miglio a sinistra, una massa scura, ma non era possibile distinguere ciò che fosse, e temendo di muovere a riso i marinai, scambiando una nube per la terraferma, stette zitto.

D’improvviso apparve una gran luce, la terra poteva assomigliare a una nube, ma quel fuoco non poteva essere una meteora.

«Che cos’è quella luce?» domandò Franz.

«Zitto!» disse Gaetano. «È un fuoco.»

«Ma non avete detto che l’isola è disabitata?»

«Ho detto che non aveva una popolazione stabile, ma ho detto pure che questo luogo è un rifugio dei contrabbandieri.»

«E dei pirati?»

«E dei pirati», continuò Gaetano, ripetendo le parole di Franz, «ed è perciò che ho dato ordine di passare oltre, poiché, come vedete, ora il fuoco è dietro di noi.»

«Ma quel fuoco», continuò Franz, «mi sembra piuttosto un motivo di sicurezza che d’inquietudine: gente che temesse di essere vista non accenderebbe fuochi.»

«Oh, questo non vuol dir niente», rispose. «Se voi in mezzo a questa oscurità poteste rilevare la posizione dell’isola, vedreste che quel fuoco, in quel punto, non può essere scorto né dalla Corsica, né dalla Pianosa, ma soltanto in alto mare.»

«Credete che annunci cattiva compagnia?»

«È quello di cui bisognerà assicurarsi!» rispose Gaetano, tenendo sempre gli occhi fissi sull’isola.

«E come farete ad assicurarvene?»

«Adesso vedrete.»

A queste parole, Gaetano si consultò con i compagni, e dopo cinque minuti venne eseguita, nel più gran silenzio, una virata di bordo; quindi si riprese il cammino già fatto, e qualche secondo dopo quel cambiamento di direzione il fuoco disparve, nascosto dietro un picco roccioso. Allora il pilota dette al piccolo bastimento, con una girata di timone, una nuova direzione, e si avvicinarono visibilmente all’isola distante circa cinquanta passi.

Gaetano calò la vela, e la barca rimase quieta sull’onda.

Tutto ciò fu fatto nel più grande silenzio; dopo il cambiamento di rotta non era stata pronunciata una parola a bordo. Gaetano, che aveva proposta la spedizione, se ne era assunta tutta la responsabilità.

Gli altri tre marinai, mentre preparavano i remi, pronti a fuggire remando, non distoglievano lo sguardo da lui per eseguire qualsiasi manovra che lor venisse ordinata da un gesto, e che per l’oscurità si sarebbe potuta eseguire molto facilmente.

Franz esaminava le sue armi con la prontezza d’animo che abbiamo in lui riconosciuta. Aveva due fucili a due canne e una carabina: li caricò, si assicurò che fossero a posto, e attese.

Nel frattempo Gaetano s’era tolto il gabbano e la camicia, aveva stretto i calzoni intorno ai fianchi, e siccome aveva i piedi nudi, si risparmiò la pena di levarsi le calze e le scarpe.

Così abbigliato, si mise l’indice della mano davanti alle labbra per ordinare il più profondo silenzio, e si calò in mare. Nuotò verso l’isola con tale cautela che riusciva impossibile udire il più piccolo rumore. Si poteva soltanto seguire con lo sguardo la traccia del suo nuotare dalla scia fosforescente prodotta dai suoi movimenti.

La scia ben presto scomparve: era segno evidente che Gaetano aveva preso terra.

Sul piccolo bastimento rimasero tutti immobili per una mezz’ora, trascorsa la quale si vide ricomparire dalla riva alla barca la scia luminosa.

In pochi istanti Gaetano raggiunse la barca.

«Ebbene?» fecero a un tempo Franz e i tre marinai.

«Ebbene», disse, «sono contrabbandieri spagnoli; e hanno con loro due banditi corsi.»

«E che fanno quei due banditi corsi con i contrabbandieri spagnoli?»

«Eh, mio Dio, Eccellenza», rispose Gaetano con un accento di vivo amore per il prossimo, «bisogna bene aiutarsi gli uni con gli altri. Spesse volte i banditi vengono un po’ troppo perseguitati sulla terra; allora trovano una barca, e in essa dei buoni diavoli come noi; vengono a domandarci l’ospitalità nella nostra casa galleggiante. Non si può fare a meno di prestare soccorso a un povero diavolo perseguitato; noi li riceviamo a bordo, e per maggior sicurezza prendiamo il largo. Ciò non costa nulla, e salva perlomeno la vita a qualcuno dei nostri simili, il quale, all’occasione, sa essere riconoscente del servizio reso, indicandoci un buon luogo dove sbarcare le nostre mercanzie senza essere infastiditi dai curiosi.»

«Va bene», disse Franz. «Anche voi, mio caro Gaetano, siete dunque un po’ contrabbandiere?»

«Eh, che volete», disse, con un sorriso impossibile a descriversi, «si fa un po’ di tutto; bisogna pur vivere.»

«Allora voi siete tra amici quando vi trovate con gli attuali abitanti dell’isola di Montecristo.»

«Pressappoco… Noi marinai abbiamo alcuni segni per riconoscerci.»

«E credete che non avremo nulla da temere sbarcando anche noi?»

«Assolutamente nulla! I contrabbandieri non sono ladri!»

«Ma quei due banditi corsi…» riprese Franz, calcolando prima tutte le probabilità di pericolo.

«Eh, mio Dio», disse Gaetano, «non è colpa loro se sono banditi, ma colpa altrui.»

«In che modo?»

«Senza dubbio, essi sono perseguitati per aver fatto la pelle a qualcuno, non per altro; come se non fosse nella natura dei corsi vendicarsi.»

«Che intendete dire col fare la pelle? Avere assassinato un uomo?» disse Franz.

«Intendo avere ucciso un nemico!» rispose il marinaio. «Il che è molto diverso.»

«Ebbene», disse il giovane, «andiamo dunque a domandare ospitalità ai contrabbandieri e ai banditi. Credete che ci verrà accordata?»

«Senza alcun dubbio.»

«Quanti sono?»

«Tre contrabbandieri e due banditi.»

«Va bene, sono appunto in numero pari al nostro: e siccome siamo in forza uguale, nel caso che questi signori mostrassero cattive intenzioni, saremo in grado di contenerli. Per l’ultima volta dunque: andiamo a Montecristo.»

«Sì, Eccellenza… Ma ci permette ancora di prendere qualche cautela?»

«Siete saggio come Nestore, e prudente come Ulisse. Quindi faccio ancor più che permettervelo, ma ve ne prego.»

«Ebbene, silenzio allora!» disse Gaetano.

Tutti tacquero.

Per un uomo come Franz che considerava tutte le cose sotto il loro vero aspetto, la situazione, senza essere pericolosa, non era priva di una certa gravità. Egli si trovava nella più profonda oscurità, isolato in mezzo al mare con marinai che non conosceva, che non avevano alcuna ragione d’essergli affezionati, e che sapevano che aveva nella cintura qualche migliaio di franchi, e che per più volte, se non invidiato, avevano almeno esaminato con molta curiosità le sue armi, che erano bellissime.

Inoltre stava per approdare con quegli uomini su un’isola che, sebbene portasse un nome molto religioso, non sembrava, dati i tre contrabbandieri e i due banditi, promettere un’ospitalità molto caritatevole; poi la storia dei bastimenti affondati, che di giorno gli era sembrata esagerata, di notte gli apparve verosimile. Posto fra questi due pericoli, forse immaginari, ma fors’anche reali, non abbandonava i suoi uomini con gli occhi, né il fucile con la mano. I marinai avevano nuovamente issato la vela e avevano preso la rotta già percorsa nell’andare e venire.

Attraverso l’oscurità, Franz, un poco abituato alle tenebre, distingueva il gigante di granito che la barca andava costeggiando; poi finalmente, oltrepassando di nuovo l’angolo di uno scoglio, scorse il fuoco che brillava più vivamente che mai, e intorno al quale erano sedute quattro o cinque persone.

Il riverbero del fuoco si estendeva a un centinaio di passi sul mare.

Gaetano continuò a costeggiare, mantenendo sempre la barca nella parte meno illuminata; quindi, quando si trovò proprio davanti al fuoco, volse la prua verso di esso ed entrò nel cerchio luminoso, intonando una canzone da pescatori di cui cantava le strofe egli solo, e i compagni ripetevano in coro il ritornello.

Alla prima parola della canzone, gli uomini seduti intorno al fuoco si erano alzati; e si erano avvicinati a riva, con gli occhi fissi sulla barca, sforzandosi visibilmente di giudicarne la forza, e d’indovinarne le intenzioni.

Ben presto parvero soddisfatti del loro esame, e a eccezione di uno che rimase in piedi a fare la sentinella, gli altri andarono a sedersi intorno al fuoco davanti al quale veniva arrostito un capretto intero.

Quando il battello fu a venti passi dalla terra, l’uomo che stava di sentinella sulla spiaggia fece macchinalmente con la carabina un gesto simile a quello di un soldato in attesa della pattuglia, e gridò: «Chi vive?» in dialetto sardo.

Franz armò freddamente i due fucili.

Gaetano scambiò con quell’uomo alcune parole che il viaggiatore non capì, ma che dovevano necessariamente riguardarlo, perché Gaetano voltandosi gli chiese: «Vostra Eccellenza vuol dire il suo nome, o mantenere l’incognito?»

«Il mio nome dev’essere del tutto sconosciuto a questi signori», rispose Franz, «dunque dite loro soltanto che io sono un francese che viaggia per diletto.»

Allorché Gaetano ebbe trasmessa questa risposta, la sentinella diede un ordine a uno degli uomini intorno al fuoco che subito si alzò, e scomparve fra le rocce.

Seguì un silenzio di qualche minuto.

Ognuno sembrava preoccupato dei propri affari: Franz dello sbarco, i marinai delle vele, i contrabbandieri del loro capretto; ma in mezzo a questa apparente noncuranza tutti si osservavano attentamente.

L’uomo che si era allontanato ricomparve a un tratto dal lato opposto a quello da cui era sparito; fece un segno con la testa alla sentinella, che voltandosi verso la barca si limitò a dire: «S’accomodi».

Il s’accomodi degli italiani non è traducibile in altra lingua: significa a un tempo «Venite, entrate, siate il benvenuto, fate come se foste in casa vostra, voi siete il padrone». È come quella frase turca di Molière che stupiva tanto il gentiluomo borghese per la quantità di significati che aveva.

I marinai non se lo fecero dire due volte, con due colpi di remi, la barca toccò la riva. Gaetano saltò a terra, scambiò ancora qualche parola a voce bassa con la sentinella, i compagni scesero uno dopo l’altro, quindi fu la volta di Franz.

Egli aveva uno dei fucili a bandoliera, Gaetano l’altro: uno dei marinai teneva la carabina. Il vestito, un misto tra il costume di un artista e di un dandy, non ispirò alcun sospetto ai suoi ospiti e di conseguenza nessuna inquietudine.

Assicurata la barca alla spiaggia, si avviarono per cercare un comodo spazio per il bivacco; ma la direzione che presero non piaceva al contrabbandiere che fungeva da guardia, perché gridò a Gaetano: «Non da quella parte!»

Gaetano balbettò una scusa, e senza aggiungere altro si mosse verso la parte opposta, mentre i due marinai accesero dei rami d’albero al fuoco per farne una torcia e illuminare la via.

Fecero circa trenta passi e si fermarono sopra una piccola spianata, tutta circondata di rocce sulle quali erano state scavate alcune nicchie, in modo che si poteva stare seduti. Intorno verdeggiavano alcune querce nane e dei cespugli di mirto.

Franz prese uno dei rami accesi che servivano da torcia, e fu il primo a riconoscere, dalla comodità del luogo, che questa doveva essere una delle soste abituali dei visitatori dell’isola di Montecristo.

Quanto alla sua aspettativa di disavventure, era cessata; una volta messo piede a terra, una volta constatato l’atteggiamento se non amichevole, almeno indifferente dei suoi ospiti, ogni preoccupazione era sparita, e all’odore del capretto che arrostiva nel vicino bivacco, la preoccupazione era cambiata in appetito.

Disse due parole a Gaetano, e questi rispose che nulla era più facile quanto il preparare una cena in pochi minuti, avendo sulla barca del pane, del vino, le pernici prese a caccia, e un buon fuoco per farle arrostire.

«D’altra parte», aggiunse, «se Vostra Eccellenza è tentato dall’odore del capretto, posso andare dai nostri vicini con due dei vostri uccelli e offrirli in cambio di un pezzo del loro capretto.»

«Fate», disse Franz, «fate pure, Gaetano, voi siete nato veramente col genio di negoziare.»

Nel frattempo i marinai avevano strappato delle eriche, e fatto dei fasci di mirto e di felci, a cui avevano dato fuoco con cui avevano acceso un bel fuoco.

Franz aspettò dunque con impazienza (annusando sempre l’odore del capretto) il ritorno di Gaetano, e allorché questi ricomparve, sembrava molto preoccupato.

«Ebbene», domandò, «che c’è di nuovo? È stata rifiutata la nostra offerta?»

«Al contrario», disse Gaetano, «il capo, cui è stato detto che voi siete un gentiluomo francese, v’invita a cena con lui.»

«Va bene», disse Franz, «mi sembra un uomo molto educato, questo capo, e non vedo perché dovrei rifiutare, tanto più che porto la mia parte di cena.»

«Oh, non è questo, egli ha di che cenare e più del necessario, ma mette una singolare condizione alla vostra visita in casa sua.»

«In casa sua?» disse il giovane. «Ha dunque fatto costruire una casa?»

«No, ma possiede un appartamento molto comodo, almeno a quanto si dice.»

«Dunque sapete chi è?»

«Ne ho soltanto sentito parlare.»

«In bene o in male?»

«In tutti e due i modi.»

«Che diavolo! E qual è la condizione che m’impone?»

«Che vi lasciate bendare gli occhi, e che non tentiate di togliervi la benda se non quando ve lo dirà lui stesso.»

Franz indagò per quanto possibile lo sguardo di Gaetano per sapere ciò che nascondeva quella proposta.

«Oh, diavolo», riprese questi, indovinando il pensiero di Franz. «Lo so bene, la cosa merita una riflessione.»

«Che fareste voi al mio posto?» chiese il giovane.

«Io, che non ho niente da perdere, accetterei.»

«Accettereste?»

«Non foss’altro che per curiosità.»

«Vi è dunque qualche cosa di curioso da vedere presso questo capo?»

«Ascoltate», disse Gaetano abbassando la voce, «io non so se tutto ciò che si dice è vero.» Qui si fermò guardando attorno se qualcuno ascoltava.

«E che si dice?»

«Si dice che costui abiti un palazzo sotterraneo, confronto al quale palazzo Pitti è poca cosa.»

«Questo è un sogno!» disse Franz.

«Oh, non è un sogno, è una realtà. Cama, il pilota del San Ferdinando, vi entrò un giorno, e ne uscì tutto meravigliato, dicendo che simili tesori non si trovano che nei racconti delle fate.»

«Ma sapete voi», disse Franz, «che con simili parole mi fareste credere di dover discendere nella caverna di Alì Babà!»

«Dico ciò che mi è stato detto, Eccellenza.»

«Allora mi consigliate di accettare?»

«Oh, non dico questo, Vostra Eccellenza faccia ciò che meglio crede; non vorrei darvi un consiglio in un simile frangente.»

Franz rifletté per qualche istante, e comprese che quell’uomo così ricco non poteva aver preso di mira lui che non portava indosso altro che qualche migliaio di franchi: e siccome in tutto questo non intravedeva che un’eccellente cena, accettò.

Gaetano andò a portare la risposta.

Abbiamo detto che Franz era prudente; e per questo volle raccogliere quanti più particolari possibile su un ospite così strano e misterioso. Si rivolse dunque a un marinaio, che durante questo tempo aveva spennato le pernici con la gravità di un uomo fiero delle sue funzioni, e gli chiese con che barca quegli uomini avevano potuto approdare, non vedendo né barche, né speroniere, né tartane.

«Oh, non è questo che mi dà pensiero», disse il marinaio, «conosco il bastimento sul quale navigano.»

«È un bel bastimento?»

«Ne auguro a Vostra Eccellenza uno simile per fare il giro del mondo.»

«E di che stazza?»

«Di circa cento tonnellate. Del resto è un bastimento da diporto, uno yacht, come dicono gli inglesi, ma costruito in modo da poter tenere il mare con ogni tempo.»

«E dov’è stato costruito?»

«Non so, ma credo a Genova.»

«E come mai un capo di contrabbandieri», continuò Franz, «osa far costruire uno yacht per il suo commercio clandestino in un porto di Genova?»

«Non ho detto che il proprietario di questo yacht sia un capo di contrabbandieri.»

«No, ma mi sembra che lo abbia detto Gaetano.»

«Gaetano aveva visto gli uomini dell’equipaggio da lontano, e quando lo disse non aveva ancora parlato ad alcuno.»

«Ma se quest’uomo non è un capo di contrabbandieri, chi è mai?»

«È un ricco signore che viaggia per diletto.»

«Il personaggio diventa sempre più misterioso». pensò Franz, «poiché i racconti sono diversi», e disse: «Come si chiama?»

«Quando gli si domanda, risponde che si chiama Sinbad il marinaio; ma dubito che questo sia il suo vero nome.»

«Sinbad il marinaio?»

«Sì.»

«E dove abita questo signore?»

«Sul mare.»

«Di quale paese è?»

«Non lo so.»

«L’avete mai visto?»

«Qualche volta.»

«Che uomo è?»

«L’Eccellenza Vostra ne giudicherà personalmente.»

«E dove mi riceverà?»

«Senza dubbio nel palazzo sotterraneo di cui vi ha parlato Gaetano.»

«E non avete mai avuto la curiosità quando siete venuto qui e avete trovato l’isola deserta, di cercare di penetrare in questo palazzo incantato?»

«Oh, sì, Eccellenza, e più d’una volta, ma le nostre ricerche sono sempre riuscite inutili. Noi abbiamo cercato la grotta dappertutto, e non abbiamo trovato il più piccolo passaggio. Si dice però che la porta non si apra con una chiave, ma con una parola magica.»

«Decisamente», mormorò Franz, «eccomi capitato in uno dei racconti delle Mille e una notte.»

«Sua Eccellenza vi aspetta», disse una voce dietro di lui, che riconobbe per quella della sentinella.

Il nuovo arrivato era accompagnato da due altri uomini dell’equipaggio dello yacht. Per tutta risposta, Franz si cavò di tasca il fazzoletto e lo presentò a colui che aveva parlato. Senza dire una parola, gli furono bendati gli occhi con molta cautela; gli fu fatto giurare che non avrebbe tentato in nessun modo di togliersi la benda prima che fosse invitato a farlo.

Egli giurò.

Allora i due uomini lo presero ciascuno per un braccio, e s’incamminò guidato da essi e preceduto dalla sentinella. Dopo una trentina di passi sentì dal calore della brace e dall’odore sempre più appetitoso del capretto che ripassava davanti al bivacco, quindi gli venne fatta continuare la strada per altri cinquanta passi, inoltrandosi evidentemente verso la parte dove la sentinella non aveva permesso a Gaetano di penetrare, proibizione che ora si capiva.

Ben presto un cambiamento di atmosfera avvertì Franz che entrava in un sotterraneo. Dopo alcuni secondi di cammino sentì aprirsi una porta, e gli sembrò che l’atmosfera mutasse ancora di natura, diventasse tiepida e profumata, e s’accorse allora che i piedi posavano sopra un tappeto fitto e morbido; in quel momento le guide lo lasciarono.

Si fece un breve silenzio, e una voce disse in buon francese, sebbene con un accento straniero: «Signore, siete il benvenuto in casa mia, e potete togliervi la benda».

Naturalmente, Franz non si fece ripetere l’invito due volte, si levò il fazzoletto, e si ritrovò di fronte a un uomo sui trentotto-quarant’anni che indossava un abito tunisino, vale a dire una papalina rossa con una lunga nappa di seta turchina, una veste di panno nero tutta ricamata d’oro, pantaloni color sangue di bue larghi e gonfi, le ghette dello stesso colore orlate d’oro come la veste, e le babbucce gialle, una magnifica sciarpa di cachemire gli cingeva la vita al di sopra dei fianchi, e un piccolo cangiaro acuto e ricurvo passava dentro alla cintura.

Sebbene di un pallore quasi livido, quell’uomo aveva lineamenti molto belli: gli occhi erano vivi e penetranti; il naso dritto, e quasi a livello della fronte, tradiva il tipo greco in tutta la sua purezza, e i denti bianchi come perle spiccavano mirabilmente sotto i baffi neri.

Soltanto quel pallore era strano: si sarebbe detto un uomo rinchiuso da lungo tempo in una tomba che non avesse potuto riprendere la carnagione dei vivi.

Senza essere alto, era ben fatto, e, come gli uomini del Mezzogiorno, aveva le mani e i piedi piccoli. Ma ciò che meravigliò Franz, che aveva trattato da visionario Gaetano, fu la sontuosità degli arredi.

Tutta la camera era tappezzata di stoffa turca color cremisi tessuta a fiori d’oro.

In un vano c’era una specie di sofà sormontato da un trofeo di armi arabe con i foderi di argento dorato e tempestate di pietre risplendenti; dal soffitto pendeva una lampada di cristallo di Venezia di una forma graziosa, e i piedi posavano su un tappeto turco.

Magnifiche le tende dalle quali entrò Franz, e quella davanti a un’altra porta che metteva in una seconda camera splendidamente illuminata.

L’ospite lasciò Franz per alcuni istanti immerso nella sorpresa, senza mai smettere di esaminarlo da capo a piedi.

«Signore», disse finalmente, «vi chiedo perdono delle cautele che son costretto a prendere con quelli che vengono introdotti qui, ma siccome la maggior parte dell’anno, quest’isola è deserta, se il segreto di questa dimora fosse conosciuto, al mio ritorno, senza dubbio, troverei questo mio rifugio in cattivo stato; cosa che mi dispiacerebbe immensamente, non per la perdita che mi causerebbe, ma perché non avrei più la certezza di potermi separare dal resto del mondo quando me ne venisse la volontà. Ora cercherò di farvi dimenticare questo piccolo disturbo con l’offrirvi ciò che non avreste certamente creduto di ritrovar mai in quest’isola, una cena discreta e un buon letto.»

«In fede mia, caro ospite», rispose Franz, «non vedo perché dobbiate scusarvi: ho sempre saputo che si bendano gli occhi alle persone che entrano nei palazzi incantati, vedete Raul negli Ugonotti, e veramente non posso lamentarmi, perché ciò che mi mostrate appartiene alle meraviglie delle Mille e una notte.»

«Ah, potrei dirvi come Lucullo, se avessi saputo di avere l’onore di una vostra visita, mi sarei preparato. Ma alla fine metto a vostra disposizione il mio eremo com’è; e vi offro la mia cena, per quanto poca cosa. Alì, è tutto pronto?»

Nel medesimo istante la tenda si sollevò, e un nubiano, nero come l’ebano, e vestito d’una semplice tunica bianca, fece segno al padrone che poteva passare nella camera da pranzo.

«Ora», disse lo sconosciuto a Franz, «non so se siate del mio avviso, ma trovo che non vi è niente di più scomodo quanto restare due o tre ore in una stanza, senza sapere con quale nome o quale titolo chiamarsi. Rispetto troppo le leggi dell’ospitalità per non domandarvi né il nome né il titolo; vi prego soltanto di indicarmi come rivolgervi a voi. In quanto a me, per levarvi ogni imbarazzo, vi dirò che hanno l’abitudine di chiamarmi Sinbad il marinaio.»

«E io», rispose Franz, «vi dirò, che siccome non mi manca altro, per essere nella situazione di Aladino, che la famosa lampada magica, così non trovo nessuna difficoltà che per il momento mi chiamiate Aladino. Non usciremo così dall’Oriente, dove sono tentato di credere di essere stato trasportato dalla potenza di qualche buon genio.»

«Ebbene, signor Aladino», disse lo strano anfitrione, «avete inteso che è tutto pronto? Vogliate dunque prendervi il disturbo di passare nella sala da pranzo; il vostro umilissimo servitore vi precederà per indicarvi il cammino.»

A queste parole venne sollevata la tenda, e Sinbad passò davanti a Franz.

Franz passava da incanto in incanto: la tavola era splendidamente apparecchiata. Una volta convintosi di ciò che gli importava di più, girò lo sguardo intorno a sé. La sala da pranzo non era meno splendida dell’altra: essa era tutta in marmo con bassorilievi antichi di grande valore, e ai quattro angoli di questa sala alquanto oblunga c’erano quattro statue con in capo dei cestelli contenenti delle piramidi di frutta magnifiche: ananas di Sicilia, melegrane di Malaga, arance delle Baleari, pesche di Francia e datteri di Tunisi.

La cena si componeva di un fagiano arrostito con contorno di merli di Corsica, un cosciotto di cinghiale con la gelatina, un quarto di capretto alla tartara, e una gigantesca aragosta; tra una portata e l’altra, venivano serviti dei piattini contenenti degli entremets. I piatti erano d’argento, i piattini di porcellana del Giappone.

Franz si strofinò gli occhi per assicurarsi che non sognava. Alì soltanto serviva a tavola e se ne disimpegnava molto bene. Il convitato fece i complimenti al suo ospite.

«Sì», disse questi facendo onore alla cena, «questo povero diavolo mi è molto affezionato, e fa il meglio che può. Si ricorda che gli ho salvato la vita, e siccome, a quanto pare, ci tiene molto alla sua testa, mi è riconoscente di avergliela conservata.»

Alì, sebbene non intendesse una parola in francese, accorgendosi dagli sguardi di Sinbad che parlava di lui, si avvicinò alla tavola, prese la mano del padrone e la baciò.

«Sarei troppo indiscreto, signor Sinbad, se vi chiedessi in quale occasione faceste un così bell’atto?»

«Oh, mio Dio, è semplice. Sembra che il furbo avesse ronzato vicino al serraglio del bey di Tunisi, più di quel che fosse conveniente a uno del suo colore, per cui venne condannato dal bey ad avere la lingua, la mano e la testa tagliate; la lingua il primo giorno, la mano il secondo e la testa il terzo. Avevo sempre desiderato avere un muto al mio servizio: aspettai che gli fosse tagliata la lingua e andai a proporre al bey di darmelo in cambio di un magnifico fucile a due canne che il giorno prima mi era sembrato avesse destato i desideri di Sua Altezza. Egli tentennò un attimo, tanto gli premeva di finirla con quel povero diavolo. Ma io aggiunsi subito al fucile un coltello inglese da caccia; il Bey si decise a fargli grazia della mano destra e della testa, a condizione però che non avrebbe mai più messo piede in Tunisi. La raccomandazione era inutile. Quando l’infedele vede le coste dell’Africa, per quanto lontane, corre a rifugiarsi in fondo alla stiva, e non si può farlo uscire di là che quando si è persa di vista la terza parte del mondo.»

Franz restò un momento muto e pensieroso, non sapendo cosa pensare della crudele bonarietà con la quale il suo ospite gli aveva fatto quel racconto.

«E voi passate la vostra vita», disse, cercando di cambiare argomento, «viaggiando come il degno marinaio di cui avete preso il nome?»

«Sì, è un voto che feci in tempi nei quali non credevo di poterlo compiere…» disse lo sconosciuto sorridendo. «Ne ho fatti altri simili, e spero di poterli presto compiere.»

Sebbene Sinbad avesse pronunciato tali parole con la più grande pacatezza, i suoi occhi avevano lanciato uno sguardo di selvaggia ferocia.

«Voi avete sofferto molto, signore?» disse Franz.

«Da che lo arguite?» disse.

«Da tutto», rispose Franz, «dalla vostra voce, dal vostro sguardo e dalla vita stessa che conducete.»

«Io conduco la vita più felice che si conosca, una vera vita da pascià: mi piace un luogo, vi resto, me ne annoio, parto: sono libero come l’uccello, ho le ali come lui. Le persone che mi circondano mi obbediscono; e qualche volta mi diverto a inceppare la giustizia umana o togliendole un bandito che cerca, o un galantuomo che perseguita. Poi ho la mia giustizia; giustizia alta e bassa, senza dilazioni, senza appello, che condanna o assolve e alla quale nessuno può obiettare. Ah, se aveste gustata la mia vita, non ne vorreste altra, e non rientrereste giammai nel mondo, a meno che non aveste da compiere un qualche gran progetto.»

«Una vendetta, per esempio!» disse Franz.

Lo sconosciuto fissò sul giovane uno di quegli sguardi che penetrano nel più profondo del cuore e del pensiero.

«E perché una vendetta?» domandò.

«Perché», aggiunse Franz, «voi avete l’aspetto di un uomo che, perseguitato dalla società, ha qualche terribile conto da regolare.»

«Ebbene», disse Sinbad, ridendo con quello strano riso che mostrava i denti bianchi e aguzzi, «non avete indovinato. Io sono una specie di filantropo, e forse un giorno andrò a Parigi per far conoscenza col signor Appert, l’uomo dal piccolo mantello blu.»

«E sarà la prima volta che farete questo viaggio?»

«Oh, mio Dio, sì… Ho l’aspetto di essere ben poco curioso, non è vero? Ma vi assicuro che non fu colpa mia se ho ritardato tanto; ciò avverrà un giorno o l’altro!»

«E pensate di farlo presto questo viaggio?»

«Non lo so ancora; dipende da come i casi si presentano.»

«Vorrei esservi al tempo in cui vi verrete; cercherei di rendervi, per quanto mi fosse possibile, l’ospitalità che così largamente mi prodigate a Montecristo.»

«Accetterei la vostra offerta con gran piacere», rispose l’ospite, «ma disgraziatamente, se ci vado, sarò in incognito!»

Frattanto la cena proseguiva e sembrava essere stata preparata soltanto per Franz, perché era molto se lo sconosciuto aveva toccato coi denti uno o due piatti dello splendido banchetto che aveva offerto e al quale il suo inatteso convitato aveva fatto così largamente onore.

Finalmente Alì portò la frutta, o piuttosto prese i cestelli dal capo delle statue e li posò sulla tavola. Fra i quattro cestelli pose una tazza d’argento dorato, chiusa da un coperchio dello stesso metallo.

Il rispetto col quale Alì aveva portato questa tazza stimolò la curiosità di Franz. Alzò il coperchio e vide un specie di pasta verdastra che assomigliava alla confettura di pere angeliche, ma a lui del tutto sconosciuta.

Rimise il coperchio senza aver saputo che cosa conteneva la tazza, e volgendo gli occhi sul suo ospite vide che sorrideva del suo stupore.

«Voi non riuscite a indovinare», disse questi, «quale specie di commestibile contenga questo piccolo vaso, e ciò vi dà da pensare… Non è vero?»

«Lo confesso.»

«Ebbene, questa specie di confettura verde è l’ambrosia che Ebe serviva alla tavola di Giove.»

«Ma questa ambrosia», disse Franz, «passando per le mani degli uomini, avrà certamente perso il nome celeste per prenderne uno umano. In lingua volgare, come si chiama questo ingrediente per il quale non sento però di avere grande simpatia?»

«Ah, ecco», gridò Sinbad, «spesso noi passiamo molto vicini alla fortuna senza vederla, senza guardarla, senza riconoscerla. Siete un uomo positivo, e l’oro è il vostro idolo? Gustate di questa, e le miniere del Perù, di Gizerate e di Golgonda vi saranno aperte. Siete un uomo di immaginazione? Siete un poeta? Gustaste di questa, e le barriere del possibile spariranno; vi si apriranno i campi dell’infinito, e passeggerete libero di cuore e di spirito nei domini senza confine dell’ideale. Siete ambizioso? Correte dietro le grandezze della terra? Gustate di questa, e dopo un’ora sarete idealmente, non re di un piccolo regno nascosto in un angolo d’Europa, come la Francia, la Spagna o l’Inghilterra, ma sarete il re del mondo. Il vostro trono sarà eretto sopra le montagne di Satana e senza aver bisogno di fargli omaggio, senza essere costretto a baciarne gli artigli, sarete il sovrano, padrone di tutti i regni della terra. Non vi tenta ciò che vi offro, dite? Non vi sembra cosa facile? Osservate!»

A queste parole scoprì la piccola tazza di argento dorato che conteneva la sostanza tanto lodata, prese un cucchiaio da caffè di questa confettura magica, la portò alla bocca, e l’assaporò lentamente con gli occhi semichiusi e la testa rovesciata all’indietro.

Franz gli lasciò tutto il tempo di gustare il suo cibo preferito; poi quando vide che ritornava un poco in sé gli disse: «Ma infine che cos’è questa vivanda preziosa?»

«Avete mai inteso parlare del Vecchio della Montagna, quello stesso che volle fare assassinare Filippo Augusto?»

«Senza dubbio.»

«Ebbene, voi sapete che regnava in una ricca vallata dominata dalla montagna di cui aveva preso il pittoresco nome. In questa vallata c’erano magnifici giardini piantati da Hassen-Ben-Sabah, e in questi giardini vi erano dei padiglioni isolati: in questi faceva entrare i suoi eletti, e là faceva loro mangiare, disse Marco Polo, una certa erba che li trasportava nell’Eden, in mezzo a piante sempre fiorite, a frutti sempre maturi. Ora ciò che questi giovani felici prendevano per una realtà non era che un sogno, ma un così dolce, inebriante, un così voluttuoso sogno, che si vendevano interamente a colui che lo elargiva, e gli obbedivano ciecamente. Essi andavano a colpire in capo al mondo la vittima designata, morivano fra i tormenti della tortura senza lamentarsi, nella sola idea che quella morte che soffrivano non era che un passaggio a quella vita di delizie di cui l’erba misteriosa, ora davanti a voi, aveva dato un saggio.»

«Allora», gridò Franz, «è l’hashish. Sì, la conosco, almeno di nome.»

«Precisamente, voi avete detto il suo vero nome, signor Aladino, questo è hashish, e del migliore e del più puro che si faccia ad Alessandria d’Egitto, l’hashish di Abou Gor, il gran confetturiere, l’uomo al quale si dovrebbe erigere un palazzo con questa iscrizione: AL MERCANTE DELLA FELICITÀ, IL MONDO RICONOSCENTE.»

«Sapete», disse Franz, «che mi viene voglia di giudicare da me stesso quanto c’è di vero nei vostri sperticati elogi?»

«Giudicate: ma non siate soddisfatto di un primo esperimento. Come in tutte le cose, bisogna abituare i sensi a una così nuova impressione, sia essa dolce o violenta, sia triste o gioconda. Vi è una lotta della natura contro questa portentosa sostanza, della natura che non è fatta per la gioia e che ci avvince al dolore. Bisogna che la natura vinta soccomba nel conflitto; bisogna che la realtà succeda al sogno, e allora il sogno regna come padrone, allora è il sogno che diventa vita, e la vita diviene sogno. Ma qual differenza in questa trasfigurazione! Paragonando i dolori dell’esistenza reale ai godimenti della fittizia, non vorrete più vivere, ma vorrete sempre sognare. Quando lascerete il vostro mondo per passare al mondo degli altri, vi sembrerà di passare a una primavera napoletana da un inverno della Lapponia. Vi sembrerà di lasciare l’Eden per la terra, il cielo per l’inferno. Gustate l’hashish, mio caro, gustatene!»

Per tutta risposta Franz prese un cucchiaio di quella pasta meravigliosa, misurato sulla quantità che ne aveva preso il suo anfitrione, e lo portò alla bocca.

«Diavolo!» disse, dopo avere inghiottito quella pasta divina. «Io non so se il risultato sarà gradevole quanto dite, ma la sostanza non mi sembra tanto succulenta quanto affermavate.»

«Perché le papille del palato non sono ancora abituate alla sublimità della sostanza che gustano. Ditemi, la prima volta che gustaste le ostriche, il tè e i tartufi, li assaporaste con tanto piacere quanto ne aveste poi in seguito? Comprendereste il piacere che provavano i romani nel condire i fagiani con l’assafetida, e i cinesi, che mangiano i nidi delle rondinelle? Eh, mio Dio, no. Ebbene, è lo stesso con l’hashish: mangiatene soltanto otto giorni di seguito, e poi, nessun nutrimento al mondo vi sembrerà della squisitezza di questo, che oggi vi sembra forse fetido e nauseante. Ma ora passiamo nella camera accanto, e Alì ci servirà il caffè, e ci darà le pipe.»

Tutti e due si alzarono, e mentre colui cui si è dato il nome di Sinbad, e così chiamato per distinguerlo dal suo convitato, dava alcuni ordini al suo domestico, Franz entrò nella camera attigua.

Questa era arredata più semplicemente sebbene non meno riccamente; di forma rotonda, un gran divano le girava intorno. Ma il divano, i muri, il soffitto, e il pavimento erano ricoperti di magnifiche pelli lisce e morbide come il più morbido tappeto; erano pelli di leoni dell’Atlante, dalle superbe criniere, pelli di tigri del Bengala dalle calde righe, pelli di pantere del Capo, macchiate come quella che apparve a Dante; infine pelli d’orsi della Siberia, e di volpi della Norvegia, e tutte gettate in profusione le une sulle altre, dimodoché si sarebbe creduto di camminare sui prati più fioriti, e di riposare sui letti più soffici. Tutti e due si stesero sopra i divani, una quantità di pipe con le canne di gelsomino e il bocchino d’ambra erano a portata di mano, e già preparate affinché non si avesse la noia di fumare due volte nella stessa: ne presero una per ciascuno.

Alì le accese, e uscì per andare a prendere il caffè.

Vi fu un momento di silenzio, durante il quale Sinbad si lasciò trasportare dai pensieri che sembrava l’occupassero senza posa anche in mezzo alla conversazione, e Franz si abbandonò a quella muta esaltazione, alla quale si cede quasi sempre fumando un eccellente tabacco, che si direbbe porti via, col fumo, tutte le pene dello spirito, e renda in cambio al fumatore tutti i sogni dell’anima.

Alì portò il caffè.

«Come lo prendete?» disse lo sconosciuto. «Alla francese o alla turca, forte o leggero, con zucchero o senza, filtrato o bollito? Scegliete; c’è in tutti i modi.»

«Lo prenderò alla turca», disse Franz.

«E avete ragione: ciò prova che avete predisposizione per la vita orientale. Ah, gli orientali, sono i soli che sappiano vivere. In quanto a me», aggiunse, con uno di quei sorrisi singolari che non sfuggono, «quando avrò concluso i miei affari a Parigi, andrò a morire in Oriente, e se vorrete ritrovarmi bisognerà che mi cerchiate o al Cairo, o a Bagdad, o a Ispahan.»

«In fede mia», disse Franz, «questa sarà la cosa più facile del mondo perché sembra che mi spuntino le ali d’aquila, e con queste farei il giro del mondo in ventiquattr’ore.»

«Ah, ah, è l’hashish che agisce! Ebbene, aprite le ali, e volate nelle regioni sovrumane; non temete, si veglia su di voi, e se, come quelle d’Icaro, le vostre ali si liquefanno al sole, noi siamo qui per ricevervi.»

Disse qualche parola araba ad Alì, che fece un cenno affermativo, e si mise in disparte ma senza allontanarsi.

In quanto a Franz, una strana trasformazione si operava in lui: tutta la fatica fisica della giornata, tutte le preoccupazioni che avevano fatto nascere gli avvenimenti della sera, sparivano come in un momento di riposo in cui si è svegli abbastanza per sentire che il sonno arriva. Sembrava che il corpo acquistasse una leggerezza immateriale, lo spirito s’illuminasse in modo inaudito; i sensi sembravano raddoppiare le loro facoltà.

L’orizzonte si allargava, ma non l’orizzonte cupo sul quale aleggia un vago terrore, quale l’aveva osservato prima del sonno, ma un orizzonte azzurro, trasparente, vasto con tutto ciò che il mare ha di bello, che il sole ha di raggi, che la brezza ha di profumo: quindi, in mezzo al canto dei suoi marinai, canto così limpido e chiaro, che se ne sarebbe fatta un’armonia celeste se si fosse potuto, vedeva comparire l’isola di Montecristo non più come uno scoglio minaccioso tra i flutti, ma come un’oasi perduta nel deserto; poi a seconda che la barca s’avvicinava, i canti divenivano più numerosi, poiché un’armonia incantatrice e misteriosa saliva da quest’isola al cielo, come se qualche fata come Lorelay, o qualche mago come Anfione avesse voluto attirarvi qualche spirito, o fabbricarvi una città.

Finalmente la barca toccò la riva, ma senza scossa, allo stesso modo che le labbra toccano le labbra, e sembrò a Franz di entrare nella grotta senza che cessasse questa incantevole musica; scese, o meglio gli sembrò scendere qualche scalino respirando un’aria fresca e balsamica come quella che circondava l’isola di Circe, composta di tanti profumi da far andare in estasi, di ardori tali da far bruciare i sensi, e rivide tutto ciò che aveva visto prima del sogno, cominciando dall’ospite fantastico Sinbad fino ad Alì, il muto servitore; poi gli sembrò che tutto si cancellasse, e si confondesse sotto i suoi occhi come le ultime ombre di lanterna magica che si spenga, e si ritrovò nella camera delle statue, illuminata soltanto da una di quelle lampade antiche che ardono nel mezzo della notte sul sonno della voluttà.

Erano le stesse statue belle per le forme e per la poesia, con gli occhi magnetici, con i capelli folti; erano Frine, Cleopatra, Messalina, le tre donne più celebri per la loro dissolutezza; poi in mezzo a loro s’insinuava una di quelle ombre calme, una di quelle visioni dolci che sembrano coprire di un velo gli occhi verginali.

Allora gli sembrò che quelle tre statue avessero riunito i loro amori per un solo uomo e che questi fosse lui; che si avvicinassero al letto sul quale egli faceva un secondo sogno, coi piedi coperti dalle loro lunghe e bianche tuniche, coi capelli ondeggianti sulle spalle, in una di quelle pose irresistibili, con uno di quegli sguardi inflessibili e ardenti, pari a quello che vibra il serpente all’uccello, e che lui si abbandonasse a quegli sguardi, dolorosi come un laccio, voluttuosi come un bacio.

Sembrò a Franz di chiudere gli occhi e, lanciano un ultimo sguardo intorno, intravedere la statua pudica che si velava interamente; quindi, chiusi gli occhi alle cose reali, i suoi sensi si aprirono alle impressioni più fantastiche.

Allora, per Franz che subiva la prima volta l’effetto dell’hashish, fu una voluttà, un amore come quello che prometteva il Vecchio della Montagna ai suoi seguaci.

32. Il risveglio

Quando Franz ritornò in sé, gli oggetti che lo attorniavano gli sembrarono una seconda parte del suo sogno. Si credette in un sepolcro dove a stento penetrava appena un raggio di sole, simile a uno sguardo di pietà. Stese la mano, e sentì del marmo, si mise a sedere, e si trovò avvolto nel mantello sopra un letto di eriche, molto soffici e odorose.

Ogni visione era scomparsa, e, come se le statue non fossero state che ombre uscite dai sepolcri durante il suo sogno, erano sparite al risveglio. Fece qualche passo verso il punto da dove veniva la luce, e a tutta l’agitazione del sonno successe la calma della realtà.

Si trovò in una grotta, avanzò verso l’apertura e attraverso la porta centinata scoprì un bel cielo turchino, e un mare azzurro. L’aria e l’acqua risplendevano ai raggi del sole mattutino; i marinai erano sulla riva, discorrendo e ridendo; a distanza di dieci passi la barca ondeggiava sul mare trattenuta dall’ancora.

Gustò allora per un po’ la fresca brezza che gli accarezzava la fronte, ascoltò il mormorio dell’onda che moriva sulla spiaggia, lasciando sulle rocce merletti di schiuma bianca come l’argento; si lasciò andare senza riflettere, senza pensare, a quell’incanto celeste che hanno le cose della natura, specialmente quando si esce da un sogno fantastico: poi un poco alla volta la vita esterna così pacifica, così grande gli rimandò la inverosimiglianza del suo sogno, e gli avvenimenti del giorno prima cominciarono a presentarsi alla sua memoria.

Si ricordò dell’arrivo nell’isola, del modo con cui fu presentato al capo dei contrabbandieri, del palazzo sotterraneo pieno di splendore, dell’eccellente cena, e del cucchiaio di hashish. Solo, ripensandoci in pieno giorno, gli sembrò almeno un anno che tali cose fossero avvenute, tanto il sogno che aveva fatto si era impresso nel suo pensiero, e aveva preso forza nel suo spirito.

In certi momenti la sua immaginazione faceva apparire in mezzo ai marinai, o attraversare uno scoglio o dondolarsi sulla barca, una di quelle ombre che l’avevano deliziato durante la notte con i suoi baci. Peraltro aveva la testa del tutto libera, e il corpo perfettamente riposato; nessuna pesantezza al cervello, ma al contrario un certo benessere generale e una maggiore capacità di godere dell’aria e del sole.

Si avvicinò dunque con ilarità ai marinai.

Non appena lo videro, si alzarono, e il padrone si avvicinò a lui.

«Il signor Sinbad», disse, «ci ha incaricato di porgervi i suoi omaggi e ci ha detto di esprimervi il dispiacere per non aver potuto salutarvi personalmente, ma spera che lo scuserete quando saprete che un affare importantissimo lo ha chiamato a Malaga.»

«È dunque vero, mio caro Gaetano», disse Franz, «tutto ciò che mi è accaduto? Esiste in realtà un uomo che mi ha offerto un’ospitalità regale e che è partito durante il mio sonno?»

«È tanto vero, che potete vedere il suo piccolo yacht che si allontana a vele gonfie, e se volete prendere il cannocchiale potrete scorgere probabilmente il vostro ospite in mezzo al suo equipaggio.»

Dicendo queste parole, Gaetano stese un braccio nella direzione di un piccolo bastimento che faceva vela verso la punta meridionale della Corsica.

Franz prese un cannocchiale e lo puntò verso il luogo indicato. Gaetano non s’ingannava: sulla poppa del bastimento vedeva il misterioso ospite, che ritto, e voltato dalla sua parte, teneva anche lui il cannocchiale puntato verso di lui.

Indossava lo stesso abito con cui gli si era presentato la sera prima e come s’accorse di essere guardato agitò il fazzoletto in segno di addio. Franz gli rese il saluto, togliendosi a sua volta il fazzoletto e agitandolo allo stesso modo.

Dopo un minuto, una nuvoletta di fumo apparve a poppa del bastimento, se ne distaccò graziosamente e salì lentamente in alto, quindi una debole esplosione giunse fino a Franz.

«Sentite, sentite!» disse Gaetano. «Eccolo là, vi dice addio…»

Il giovane prese la carabina, e la scaricò in aria, ma senza speranza che il rumore potesse superare la distanza che separava lo yacht dalla costa.

«Che cosa comanda Vostra Eccellenza?» disse Gaetano.

«Che procuriate di accendere subito una torcia.»

«Ah sì, capisco», disse Gaetano, «per cercare l’ingresso del palazzo nascosto. Con molto piacere, Eccellenza, se la cosa vi diverte vi darò subito la torcia che chiedete. Ma io pure ebbi la vostra idea, e per tre o quattro volte ho stancato la mia curiosità, e ho finito per rinunciarvi. Giovanni», aggiunse, «accendi una torcia.»

Giovanni obbedì, Franz prese la torcia, ed entrò nel sotterraneo seguito da Gaetano.

Egli riconobbe il posto dove si era svegliato dal letto di eriche ancora tutto sottosopra, ma non gli valse girare la torcia su tutta la superficie della grotta; non vide nulla, eccetto qualche traccia di fumo che testimoniava che altri avevano tentato inutilmente la stessa ricerca. Tuttavia non lasciò un centimetro di quel muro di granito, impenetrabile come l’avvenire, senza esaminarlo; non vide una fessura senza che v’introducesse la lama del coltello da caccia; non osservò alcuna sporgenza senza attaccarvisi nella speranza che cedesse; ma tutto fu inutile, e senza alcun risultato perse due ore in questa ricerca. Infine rinunciò a ogni ulteriore indagine.

Gaetano era trionfante.

Quando Franz ritornò sulla spiaggia, lo yacht non era che un punto bianco all’orizzonte; ricorse al cannocchiale, ma anche con quello strumento non distinse nulla.

Gaetano gli ricordò che era venuto per cacciare le capre, cosa che sembrava aver dimenticato: prese il fucile, si mise a percorrere l’isola come l’aria di chi compie un dovere invece di prendersi diletto, e in capo a un quarto d’ora aveva già ucciso una capra e due capretti. Ma queste capre, sebbene selvatiche e svelte come i camosci, assomigliavano troppo alle nostre capre domestiche, per cui Franz non le considerò selvaggina.

Poi idee molto più importanti occupavano la sua mente. Fin dalla notte precedente si riteneva il vero protagonista di un racconto favoloso delle Mille e una notte, e si sentiva attratto verso la grotta da una forza invincibile.

Malgrado l’inutilità della sua prima perquisizione, ne cominciò una seconda, dopo aver detto a Gaetano di fare arrostire uno dei capretti.

Questa seconda indagine durò molto tempo, poiché quando ritornò il capretto era arrostito e la colazione pronta.

Franz si sedette nel luogo in cui la sera prima aveva ricevuto l’invito a cena dal suo ospite misterioso, e rivide ancora un punto bianco, il piccolo yacht che continuava ad avanzare verso la Corsica.

«Ma», disse a Gaetano, «non mi avevate detto che Sinbad faceva vela per Malaga? Mi sembra invece che vada direttamente verso Porto Vecchio.»

«Non vi ricordate più», rispose il marinaio, «che fra la gente che componeva il suo equipaggio si trovavano due banditi corsi?»

«È vero! Andrà a lasciarli sulla costa.»

«Precisamente. Ah, è un individuo», gridò Gaetano, «che non teme cosa alcuna, a quanto si dice, e che per dare aiuto a un pover’uomo devierebbe il suo viaggio di duecentocinquanta chilometri.»

«Ma questo genere di aiuto potrebbe metterlo nei pasticci con le autorità del paese dove esercita tal genere di filantropia…» disse Franz.

«Ebbene», aggiunse Gaetano ridendo, «che cosa importa a lui delle autorità? Egli se la ride! Non hanno che da tentare di perseguitarlo. Intanto il suo yacht non è una nave, ma un uccello, e darebbe tre nodi su dodici a una fregata, e poi non ha che da scendere a terra egli stesso, e in ogni luogo troverebbe amici.»

Era chiaro in questa faccenda che Sinbad, l’ospite di Franz, aveva l’onore di essere in relazione con i contrabbandieri e i banditi di tutte le coste del Mediterraneo. Il che, però, rendeva ancora più strana la sua posizione.

Franz non aveva più nulla che lo trattenesse a Montecristo; aveva perso ogni speranza di scoprire il segreto della grotta. Si affrettò dunque a far colazione, ordinando ai suoi uomini di tener pronta la barca per quando avesse finito. Mezz’ora dopo era a bordo. Gettò un ultimo sguardo allo yacht che stava per sparire nel golfo di Porto Vecchio.

Dette il segnale della partenza.

Nel momento stesso in cui la barca si metteva in movimento, lo yacht spariva, e con esso si cancellava l’ultima realtà della notte precedente: la cena, Sinbad, l’hashish e le statue, tutto cominciava per Franz a confondersi nel medesimo sogno.

La barca navigò tutto il giorno e tutta la notte: e l’indomani, allo spuntar del sole, l’isola di Montecristo era a sua volta sparita.

Messo piede a terra, Franz dimenticò, momentaneamente almeno, gli avvenimenti passati, per non occuparsi più che dei suoi affari di piacere a Firenze, e di raggiungere l’amico che lo aspettava a Roma: partì dunque col corriere e il sabato sera si ritrovò in piazza della Dogana.

L’appartamento, come si disse, era già stato fissato da tempo; non restava dunque che recarsi all’albergo di Pastrini. Cosa non molto facile, mentre la folla ingombrava le strade, e Roma era già in preda a quel rumore sordo e febbrile che precede i grandi avvenimenti.

A Roma non vi sono che quattro grandi avvenimenti in un anno: il carnevale, la settimana santa, il Corpus Domini, e la festa di San Pietro. Il resto dell’anno la città ricade nella solita apatia, stato intermedio fra la vita e la morte, che la rende simile a una specie di stazione fra questo mondo e l’altro; stazione sublime, piena di poesia e di carattere, che Franz aveva già visitato cinque o sei volte, e aveva ritrovato ogni volta sempre più meravigliosa e fantastica.

Finalmente attraversò quella folla, che sempre più s’ingrossava, e giunse all’albergo.

Alla prima domanda, gli fu risposto, con quell’impertinenza propria dei vetturini delle carrozze e degli albergatori delle grandi locande, che non vi era posto per lui all’albergo Londra. Allora inviò il suo biglietto da visita a Pastrini, e si fece annunciare ad Albert di Morcerf. La cosa riuscì, e Pastrini accorse in persona scusandosi di aver fatto aspettare Sua Eccellenza, rimproverando i camerieri, prendendo il lume dalla mano del cicerone che si era già impadronito del viaggiatore. Si accingeva a condurlo da Albert, quando questi gli venne incontro.

L’appartamento fissato si componeva di due piccole stanze e di un soggiorno. Le due camere davano sulla strada, particolarità che Pastrini fece valere come un merito inapprezzabile. Il resto del piano era affittato a un ricco personaggio, creduto maltese o siciliano; l’albergatore non poté dirlo precisamente.

«Va benissimo, signor Pastrini», disse Franz, «ma ci vorrebbe subito una cena per questa sera, e una carrozza per domani e per i giorni successivi.»

«In quanto alla cena sarete subito servito, ma in quanto alla carrozza…»

«Come, in quanto alla carrozza!» esclamò Albert. «Un momento, un momento… non scherziamo, Pastrini, ci occorre una carrozza.»

«Eccellenza», disse l’albergatore, «si farà tutto quello che si potrà per averne una, ecco ciò che posso dirvi.»

«E quando avremo la risposta?» domandò Franz.

«Domani mattina», rispose l’albergatore.

«Che diavolo!» disse Albert, «la si pagherà più cara, ecco tutto… Il conto è presto fatto: da Drake e da Aaron si pagano venticinque franchi nei giorni ordinari e trenta o trentacinque franchi alla domenica e nei giorni festivi; aggiungete cinque franchi al giorno di senseria che farà quaranta, e non ne parliamo più.»

«Ho paura, signori, che anche offrendo il doppio, non riuscirete a trovarla.»

«Allora si facciano attaccare i cavalli alla mia. È un po’ malandata per il viaggio, ma non importa.»

«Non si troveranno cavalli.»

Albert guardò Franz come un uomo che riceve una risposta incomprensibile.

«Capite, Franz? Non si troveranno cavalli! Ma si potranno avere cavalli da posta?»

«Sono tutti noleggiati da quindici giorni, e non restano che quelli indispensabili al servizio.»

«Che ne dite?» domandò Franz.

«Dico che quando una cosa è al di sopra della mia intelligenza, ho l’abitudine di non fermarmici, e di passare avanti. La cena è pronta?»

«Sì, Eccellenza.»

«Ebbene, per ora ceniamo.»

«Ma la carrozza e i cavalli?» domandò Franz.

«State tranquillo, amico caro, verranno da sé; non si tratterà che di fissare il prezzo.»

Morcerf, con quell’ammirabile filosofia dell’uomo, che nulla crede impossibile fino a che la borsa è piena e il portafoglio guarnito, cenò, andò a letto, e sognò di essere al corso mascherato in una carrozza a sei cavalli.

33. I briganti romani

Il giorno seguente Franz si svegliò per primo e, appena riprese coscienza, suonò.

Il tintinnio del campanello risuonava ancora, che Pastrini in persona entrò.

«Ecco», disse l’albergatore con aria trionfante, e senza attendere che Franz lo interrogasse, «facevo bene ieri sera a non promettere niente; avete aspettato troppo, e adesso non c’è neppure una carrozza a nolo a Roma: per gli ultimi tre giorni, s’intende.»

«Sì», rispose Franz, «cioè per quelli in cui è assolutamente necessaria!»

«Che cosa c’è?» domandò Albert entrando. «Non si trovano carrozze?»

«Precisamente, mio caro amico», rispose Franz. «Avete indovinato al primo colpo.»

«Ah, è una gran bella città questa vostra città eterna!»

«Cioè, Eccellenza», riprese Pastrini, che ci teneva a veder rispettata dai clienti la capitale del mondo cristiano, «non vi sono più carrozze da domenica mattina a martedì sera; ma da oggi a domenica ne troverete cinquanta, se lo volete.»

«Non è poco», disse Albert. «Oggi è giovedì; chissà di qui a domenica quello che può accadere.»

«Accadrà l’arrivo di dieci o dodicimila forestieri», rispose Franz,«i quali renderanno la difficoltà sempre più grande.»

«Amico mio», disse Morcerf, «godiamo del presente, non ci prendiamo cura dell’avvenire.»

«Almeno», domandò Franz, «potremo avere una finestra?»

«Su che strada?»

«Sul Corso, perbacco!»

«Ah sì, una finestra», esclamò Pastrini. «Impossibilissimo! Ne restava una al quinto piano del palazzo Doria, ed è stata affittata a un principe russo per venti zecchini al giorno.»

I due giovani si guardarono stupefatti.

«Ebbene, mio caro», disse Franz ad Albert. «Sapete che cosa dovremmo fare? Andare a passare il carnevale a Venezia; almeno là, se non troviamo carrozze, troveremo gondole!»

«Ah, in fede mia, no», gridò Albert, «ho deciso di vedere il carnevale di Roma, e lo vedrò, fosse anche sopra a dei trampoli!»

«Bravo!» esclamò Franz. «È un’idea magnifica, soprattutto per spegnere i moccoli; ci maschereremo da Pulcinella e avremo un successo strepitoso.»

«Le Loro Eccellenze desiderano sempre la carrozza fino a domenica?»

«Perbacco», disse Albert, «credete che siamo persone da correre per le strade di Roma a piedi come scrivani o uscieri?»

«Vado a eseguire gli ordini delle Loro Eccellenze», disse Pastrini, «le avverto soltanto che la carrozza costerà sei piastre al giorno.»

«E io, caro Pastrini», disse Franz, «che non sono il milionario nostro vicino, vi avverto che essendo la quarta volta che vengo a Roma, conosco il prezzo delle carrozze per i giorni feriali, per le domeniche e le feste; vi daremo dodici piastre per oggi, domani e dopodomani, e ci troverete ancora il vostro tornaconto.»

«Ma Eccellenza…» disse Pastrini, tentando di ribellarsi.

«Andate, andate mio caro», disse Franz, «o vado io stesso a fare il prezzo dal padrone delle scuderie, che conosco bene; è un vecchio amico, mi ha già rubato non poco denaro, e, nella speranza di rubarmene dell’altro, accetterà anche per un prezzo minore di quello che vi offro; perdereste così la differenza e la colpa sarebbe vostra.»

«Non vi prendete questo incomodo, Eccellenza», disse Pastrini col sorriso dello speculatore italiano che si confessa per vinto, «farò il meglio che potrò, e sarete contento.»

«Ecco ciò che si chiama ragionare!»

«Quando volete la carrozza?»

«Fra un’ora.»

«Fra un’ora sarà alla porta.»

Un’ora dopo effettivamente la carrozza aspettava i due giovani; era un modesto calesse, che per la solennità della festa era salito al grado di carrozza. Ma sebbene di mediocre apparenza, i due giovani sarebbero stati ben contenti di avere un tale veicolo per gli ultimi tre giorni del carnevale.

«Eccellenza», gridò il cicerone, vedendo Franz affacciarsi alla finestra, «vuole che faccia avvicinare la carrozza al palazzo?»

Per quanto Franz fosse abituato all’enfasi italiana, il suo primo movimento fu di guardarsi intorno, ma era proprio a lui che venivano rivolte quelle parole.

Franz era l’Eccellenza, il calesse era la carrozza, il palazzo era l’albergo Londra.

Tutto il genio adulatorio della nazione era in quella sola frase.

Franz e Albert scesero, la carrozza si avvicinò al palazzo, le Loro Eccellenze allungarono le gambe sui posti davanti, e il cicerone saltò sul sedile di dietro.

«Dove vogliono andare le Loro Eccellenze?»

«Prima a San Pietro e poi al Colosseo», disse Albert da vero parigino.

Ma non sapeva una cosa, cioè che ci vuole un giorno per vedere San Pietro, e un mese per studiarlo.

La giornata fu tutta impiegata nel vedere San Pietro. D’improvviso i due amici si accorsero che era quasi sera. Franz guardò l’orologio: erano le quattro e mezzo. Ritornarono all’albergo. Giunti all’ingresso, Franz dette ordine al cocchiere di tenersi pronto per le otto; voleva far vedere ad Albert il Colosseo al chiaro di luna, come gli aveva fatto vedere San Pietro in pieno giorno. Quando si fa vedere a un amico una città, che si è già vista, ci si mette quella civetteria che si usa quando si indica una donna della quale si è stati l’amante. Di conseguenza Franz indicò al cocchiere il proprio itinerario: doveva uscire da porta del Popolo, girare intorno alle mura esterne della città, e rientrare da porta San Giovanni. In tal modo il Colosseo sarebbe apparso loro all’improvviso, e senza che il Campidoglio, il Foro, l’arco di Settimio Severo, il tempio di Antonino e Faustina e la Via Sacra anticipassero gli effetti di quelle maestose rovine.

Si fermarono per la cena.

Pastrini aveva promesso ai suoi ospiti un eccellente desinare, gliene dette uno discreto, non c’era nulla da dire.

Alla fine della cena, entrò egli stesso. Franz sulle prime credette che fosse venuto per ricevere i loro complimenti, e si apprestava a farglieli quando, alle prime parole, egli lo interruppe.

«Eccellenza», disse, «sono lusingato della vostra approvazione, ma non è questo il motivo che mi ha fatto salire da voi.»

«È forse per venirci a dire che avete trovato una carrozza?» domandò Albert, accendendo un sigaro.

«Nemmeno per questo, e anzi, Vostra Eccellenza farà bene a non pensarci più. A Roma le cose o si possono o non si possono fare. Quando vi si è detto che non si possono fare, tutto è finito.»

«A Parigi, è molto meglio; quando una cosa non si può avere, la si paga il doppio, e si ha all’istante ciò che si domanda.»

«Sento sempre dire la stessa cosa da tutti i francesi», disse Pastrini, un po’ contrariato, «e non so comprendere come con tante meraviglie che ci sono a Parigi, i parigini viaggino.»

«Ma vedete», disse Albert, mandando flemmaticamente alcune boccate di fumo verso il soffitto e rovesciando il capo indietro sulla sedia, «non vi sono che i pazzi, e gli oziosi come noi, che viaggino, la gente di buon senso non lascia la casa di rue Helder, il bastione di Gand, e il Café de Paris.»

Non è necessario dire che abitava nella via suddetta, che tutti i giorni faceva la sua passeggiata elegantemente vestito sul bastione di Gand, e che pranzava tutti i giorni al Café de Paris.

Pastrini rimase un momento silenzioso, era evidente che meditava sulla risposta che gli aveva dato Albert, risposta che senza dubbio non gli pareva molto convincente.

«Ma infine», disse Franz a sua volta, interrompendo le riflessioni geografiche dell’albergatore, «eravate venuto con qualche scopo: volete esporci il motivo della vostra visita?»

«Oh è vero, eccolo: avete ordinato la carrozza per le otto?»

«Precisamente.»

«Avete intenzione di visitare il Coliseo!»

«Cioè il Colosseo?»

«È la stessa cosa.»

«D’accordo.»

«Avete detto al vostro cocchiere di uscire da porta del Popolo, e fare il giro delle mura per rientrare da porta di San Giovanni?»

«Queste sono le mie precise parole.»

«Ebbene, questo itinerario è impossibile, o almeno molto pericoloso.»

«Pericoloso!? Perché?»

«A causa del famoso Luigi Vampa.»

«Per prima cosa, mio caro Pastrini, chi è questo famoso Luigi Vampa?» domandò Albert. «Può essere famosissimo a Roma, ma vi assicuro che è del tutto sconosciuto a Parigi.»

«Come, non lo conoscete?»

«Non ho quest’onore.»

«Ebbene, è un bandito, vicino al quale De Cesaris e Gasparone non sono che dei chierichetti.»

«Attenzione, Albert!» esclamò Franz. «Ecco finalmente un brigante!»

«Vi avverto, mio caro Pastrini, che non crederò una parola di tutto ciò che state per dirci; ma parlate quanto volete, vi ascolto. “C’era una volta…” Avanti dunque.»

Pastrini si voltò dalla parte di Franz sembrandogli il più ragionevole dei due giovani.

Bisogna rendere giustizia al brav’uomo: aveva alloggiato molti francesi, ma non aveva mai ben compreso certi lati del loro carattere.

«Eccellenza», disse con gravità, rivolgendosi a Franz, «se mi credete un cantastorie è inutile che vi dica ciò che volevo; posso però assicurarvi che lo facevo per la premura che ho per le Loro Eccellenze.»

«Albert non vi ha detto che siete un cantastorie, mio caro Pastrini, vi ha detto soltanto che non vi crederà, ma io vi crederò, state tranquillo: parlate dunque.»

«Però convenite, Eccellenza, che se si mette in dubbio la sincerità delle mie parole…»

«Mio caro, voi siete più permaloso di Cassandra, che pure era una profetessa, e alla quale nessuno credeva; mentre voi siete sicuro di essere creduto almeno dalla metà del vostro uditorio. Sedetevi, e diteci chi è questo signor Vampa.»

«Ve lo dissi, Eccellenza, è uno di quei banditi di cui non abbiamo mai avuto l’eguale dall’epoca di Mastrilli.»

«Ebbene, che rapporto ha questo bandito con l’ordine che ho dato al cocchiere di partire da porta del Popolo e di rientrare per porta San Giovanni?»

«C’è», rispose Pastrini, «che potreste uscire dall’una ma dubiterei che potreste entrare dall’altra.»

«E perché?» domandò Franz.

«Perché quando è notte, non c’è sicurezza in quelle strade.»

«Davvero?» esclamò Albert.

Pastrini, sempre punto nel fondo dell’anima per i dubbi sulla sua sincerità, rispose: «Signor conte, ciò che dico non è per voi, ma per il vostro compagno di viaggio che conosce Roma e sa benissimo che su queste cose non si scherza».

«Mio caro», disse Albert rivolgendosi a Franz, «ecco un’ammirabile avventura: riempiamo il nostro calesse di pistole, tromboni, e fucili a due canne. Luigi Vampa viene per arrestarci, e noi invece arrestiamo lui: lo portiamo a Roma, ne facciamo un omaggio al Senato romano: se il senatore domanda che può fare per dimostrarci la sua riconoscenza, reclamiamo puramente e semplicemente una carrozza e due cavalli delle sue scuderie: e negli ultimi giorni, godiamo del carnevale in carrozza, senza calcolare che il popolo romano riconoscente potrebbe incoronarci in Campidoglio, e proclamarci, come Curzio e Orazio Coclite, i salvatori della patria.»

«In primo luogo», domandò Franz ad Albert, «dove prendere queste pistole, questi tromboni, e questi fucili a due canne, coi quali volete riempire la vostra carrozza?»

«Certamente non potrei prenderli nel mio arsenale», diss’egli, «perché a Terracina mi è stato tolto perfino il pugnale. E voi?»

«Mi hanno fatto altrettanto ad Acquapendente.»

«Così, mio caro Pastrini», disse Albert accendendo un secondo sigaro con il mozzicone del primo, «sapete che questa è una fortuna stramaledetta per quei banditi?»

«Sua Eccellenza sa che non c’è l’uso di difendersi quando si viene aggrediti dai banditi», rispose Pastrini, che non voleva mettersi a fare osservazioni sulle leggi d’oltralpe.

«Come?» gridò Albert, il cui coraggio si rivoltava all’idea di lasciarsi svaligiare senza dir niente. «Come non c’è l’uso?»

«No, perché qualunque difesa sarebbe inutile. Che volete fare contro una dozzina di briganti che escono da un fosso, da un antro o da un acquedotto, e vi puntano le armi alla gola?»

«Ah, perbacco! Voglio farmi ammazzare!» esclamò Albert.

L’albergatore si voltò verso Franz con una espressione che voleva dire: «Davvero, Eccellenza, il vostro amico è pazzo».

«Mio caro Albert», disse Franz, «la vostra risposta è sublime, e merita il “dovea morir!” del vecchio Cornelio; soltanto che, quando Orazio rispondeva questo, si trattava della salvezza di Roma, e la cosa era abbastanza importante: ma in quanto a noi non si tratterebbe che di un capriccio, e sarebbe ridicolo rischiare la propria vita per soddisfare un tal capriccio.»

«Ah, perbacco!» esclamò Pastrini. «Questo si chiama parlare!»

Albert si versò un bicchiere di lacrima christi, che sorseggiò borbottando parole confuse che nessuno poté intendere.

«Ebbene, Pastrini», continuò Franz, «ora che il mio amico si è calmato, e voi avete potuto apprezzare le mie intenzioni pacifiche, sentiamo: chi è questo signor Luigi Vampa? È giovane o vecchio? È contadino o patrizio? descrivetecelo affinché se lo avessimo per caso da incontrare, come Jean Sbogar, o Lara, lo possiamo riconoscere.»

«Non vi potevate rivolgere meglio che a me per averne esatti particolari, poiché ho conosciuto Luigi Vampa da ragazzo, e un giorno anzi che caddi nelle sue mani, andando da Ferentino ad Alatri, si ricordò, fortunatamente per me, della nostra antica conoscenza, e non solo mi lasciò andare senza esigere riscatto, ma volle farmi il regalo di un bell’orologio, e raccontarmi tutta la sua storia.»

«Vediamo l’orologio», disse Albert.

Pastrini cavò dal taschino un magnifico Breguet, recante il nome dell’autore, il timbro di Parigi e una corona da conte.

«Eccolo qui», diss’egli.

«Caspita!» fece Albert. «Vi faccio i miei complimenti. Io ne ho uno pressappoco come questo, che costa tremila franchi. Eccolo…» e prese l’orologio dal taschino del panciotto.

«Sentiamo ora la storia», disse Franz, prendendo una sedia, e facendo segno a Pastrini di sedersi.

«Le Loro Eccellenze mi permettono?» disse l’albergatore.

«Perbacco», disse Albert, «non siete un predicatore, mio caro, per parlare sempre in piedi.»

L’albergatore si sedette, dopo aver fatto un rispettoso saluto a ciascuno dei suoi uditori come per far intendere che era pronto a dar loro quei particolari ch’essi avessero domandato.

«A noi!» disse Franz fermando Pastrini nel momento che stava per aprire bocca. «Dicevate d’aver conosciuto Luigi Vampa quando era ragazzo; è dunque ancora molto giovane?»

«Lo credo bene! Ha appena ventidue anni! È un giovanotto che ne farà di strada, state sicuri.»

«Che ne dite, Albert? È una bella cosa a ventidue anni essersi già fatta una reputazione», disse Franz.

«Sì certamente, e alla sua età, Alessandro, Cesare e Napoleone non erano famosi quanto lui, e sì che poi hanno fatto parlare di loro nel mondo.»

«E così», riprese Franz, rivolgendosi all’albergatore, «l’eroe di cui ora sentiremo la storia, non ha che ventidue anni?»

«Appena compiuti, come ebbi l’onore di dirvi.»

«È alto o piccolo?»

«Di media statura, pressappoco come voi, signore», disse l’albergatore, indicando Albert.

«Grazie del paragone», disse quegli, inchinandosi.

«Continuate, Pastrini», riprese Franz sorridendo della suscettibilità del suo amico. «E a quale classe sociale apparteneva?»

«Era un semplice pastore, addetto alla fattoria del conte di San Felice situata fra Palestrina e il lago di Gabri. Nacque a Pampinara e all’età di cinque anni entrò al servizio del conte. Suo padre, pastore ad Agnani, possedeva un piccolo gregge e viveva della lana dei montoni e del latte delle pecore che andava a vendere a Roma. Fin da fanciullo il piccolo Vampa aveva un’indole strana. Un giorno all’età di sette anni, andò a trovare il curato di Palestrina, e lo pregò d’insegnargli a leggere. Era una cosa assai difficile, perché il pastorello non poteva lasciare le pecore. Ma il buon curato andava tutti i giorni a dire la messa in un piccolo borgo, troppo povero per poter mantenere un prete, e che, non avendo neppure un nome, era conosciuto sotto quello di Borgo. Egli offrì a Luigi di trovarsi sulla strada che percorreva nell’ora del ritorno, e di fargli così lezione, avvertendolo che sarebbe stata breve, e che di conseguenza avrebbe dovuto applicarsi molto per trarne profitto. Il fanciullo accettò con gioia.

«Luigi conduceva tutti i giorni il gregge a pascolare sulla strada da Palestrina a Borgo; e la mattina alle nove il curato passava: il prete e il fanciullo si sedevano sul margine di un fosso e il giovane pastorello faceva lezione sul breviario del curato. Ma non era tutto, bisognava ora imparare a scrivere. Il curato fece fare a Roma da un maestro di calligrafia tre esemplari di alfabeto, uno grande, uno medio e l’altro piccolo, e gli mostrò che copiando quegli esemplari sopra una pietra di lavagna, con l’aiuto di una punta di ferro, poteva imparare a scrivere. La sera stessa, quando ebbe ricondotto il gregge nell’ovile, il piccolo Vampa corse dal fabbro ferraio di Palestrina, prese un grosso chiodo e lo arroventò, lo martellò, lo arrotondò, e ne formò una specie di stiletto antico: l’indomani si procurò altri pezzi di lavagna, e si mise all’opera. Dopo altri tre mesi sapeva scrivere.

«Il curato, meravigliato di quella profonda intelligenza, e ammirato da tanta buona volontà, gli regalò parecchi quaderni, alcune penne e un temperino. Era un nuovo esercizio da fare, ma ciò era niente in confronto al già fatto. Otto giorni dopo maneggiava la penna con la stessa facilità con la quale usava lo stiletto. Il curato raccontò quest’aneddoto al conte di San Felice, che volle vedere il pastorello, lo fece leggere e scrivere innanzi a sé, ordinò al suo intendente di farlo mangiare con i domestici, assegnandogli due scudi al mese. Con questo denaro Luigi comprò dei libri e delle matite. Difatti esercitava su tutti gli oggetti la sua attitudine al disegno, e, come Giotto fanciullo, ritraeva sulle lavagne le pecore, gli alberi, le case. Poi con la punta del temperino cominciò a tagliare dei pezzi di legno, e a dar loro tutte le forme che voleva. Anche Pinelli, il popolare artista, aveva cominciato così.

«Una ragazzina di sei-sette anni, cioè poco più giovane di Vampa, custodiva ella pure delle pecore in una vicina tenuta, presso Palestrina: era orfana, nata a Valmontone, e si chiamava Teresa. I due fanciulli s’incontravano, sedevano l’uno accanto all’altro, lasciavano le loro greggi mischiarsi e pascolare insieme, chiacchieravano, ridevano, giocavano; poi la sera separavano il gregge del conte di San Felice da quello del barone di Cervetri e si lasciavano, promettendosi di ritrovarsi l’indomani. L’indomani infatti mantenevano la parola, e intanto crescevano uno accanto all’altra. Vampa compì dodici anni e Teresa undici. I loro istinti naturali si svilupparono. A parte l’amore per le arti, che Luigi aveva spinto tant’oltre quanto è permesso nella solitudine, egli era a tratti triste, ardente, collerico per capriccio, burbero sempre. Nessuno dei giovani di Pampinara, di Palestrina e di Valmontone era riuscito, non solo ad avere alcuna influenza su di lui, ma neppure divenire suo amico. Il suo temperamento risoluto e l’essere sempre disposto a esigere, senza mai lasciarsi piegare ad alcuna concessione, allontanava da lui ogni sentimento di amicizia e ogni dimostrazione di simpatia. Solo Teresa comandava con una parola, con un gesto, con uno sguardo quel carattere tutto d’un pezzo, che si piegava sotto la mano di una donna, ma che sotto quella di un uomo si sarebbe irritato all’eccesso.

«Teresa, al contrario, era vivace, vispa e gaia, ma eccessivamente civettuola. I due scudi che Luigi riceveva dall’intendente del conte di San Felice e il ricavato di tutti i lavori d’intaglio che vendeva ai negozianti di giocattoli di Roma, si tramutavano in orecchini di perle, in collane di vetro, in spille d’oro. Grazie alla prodigalità del giovane amico, Teresa era la più bella e la più elegante di tutte le contadine dei dintorni di Roma.

«I due giovani continuavano a crescere, passando la giornata insieme, e si abbandonavano senza ritegno a tutti gli istinti della loro natura; così nelle conversazioni, nei loro desideri, nei loro castelli in aria, Vampa si figurava sempre capitano di vascello o governatore di una provincia; Teresa si vedeva ricca, vestita delle più belle stoffe, seguita da servitori in livrea. Quando avevano passato un’intera giornata ad abbellire il loro avvenire di questi folli e brillanti sogni, si separavano per ricondurre ciascuno il proprio gregge all’ovile, ricadendo dall’altezza dei sogni alla umiliante realtà della loro condizione. Il giovane pastore disse un giorno all’intendente del conte, che aveva visto un lupo uscire dalle montagne della Sabina e gironzolare attorno al gregge. L’intendente gli diede un fucile; era ciò che ambiva Vampa. Quel fucile aveva un’eccellente canna di Brescia che sparava come una carabina inglese; un giorno il conte, nell’ammazzare una volpe ferita, ne aveva rotto il calcio, ragion per cui il fucile era stato messo fra gli scarti. Non c’era difficoltà ad aggiustarlo per un intagliatore come Vampa. Esaminò la forma primitiva, calcolò ciò che bisognava cambiare per metterlo a posto, e fece un altro calcio, pieno di ornamenti così meravigliosi, che certamente avrebbe potuto guadagnarci una ventina di scudi, se fosse andato a venderlo in città. Ma non lo vendette: un fucile era stato da tempo il sogno del giovane.

«In tutti i paesi il primo bisogno che prova ogni cuore forte, ogni giovane vigoroso, è quello di un’arma, che assicuri nello stesso tempo l’assalto e la difesa, e che rendendo pericoloso chi la porta, spesso lo fa temuto. Da quel giorno Vampa impiegò nell’esercizio del fucile tutti i momenti che gli rimanevano liberi: comprò polvere e pallottole, e tutto gli serviva da bersaglio: il tronco di un ulivo, triste, sottile e cenerino, che vegeta sul pendio delle montagne della Sabina; la volpe, che la sera usciva dalla tana per cominciare la caccia notturna; l’aquila, che si leva in aria. Ben presto diventò così bravo, che Teresa, superato quel primo timore causato dalla detonazione, si divertiva nel vedere il giovane amico colpire il punto indicato, così precisamente come avesse accompagnato il tiro con la mano.

«Una sera, un lupo uscì effettivamente da un bosco, vicino al quale i due giovani avevano l’abitudine di stare; il lupo non aveva fatto dieci passi sulla radura che già era morto. Vampa, fiero di questo bel colpo, se lo caricò sulle spalle e lo portò alla fattoria. Tutti questi episodi davano a Luigi una certa reputazione nei dintorni della fattoria: l’uomo superiore, in qualunque luogo si trovi, si forma un seguito d’ammiratori. Nei luoghi vicini si parlava di questo giovane pastore come del più destro, del più forte, e del più bravo contadino che ci fosse a dieci leghe di distanza, e sebbene Teresa, in una cerchia più estesa ancora, passasse per la più bella delle ragazze della Sabina, nessuno si arrischiava a dirle una parola d’amore, perché la si sapeva amata da Vampa. E frattanto i due giovani non si erano mai detti che si amavano. Erano cresciuti l’uno accanto all’altro, come due alberi che uniscono le radici nel suolo e intrecciano i rami nell’aria, il profumo nel cielo; soltanto, il desiderio di vedersi era lo stesso in entrambi: il desiderio divenne bisogno, ed era per loro assai più facile comprendere la morte che una separazione, anche di un sol giorno. Teresa aveva allora sedici anni e Vampa diciassette.

«In quel tempo si cominciava a parlare molto di una banda di briganti che si rintanava sui monti Lepini. Il brigantaggio, per quanto efficaci furono le misure prese, non è mai stato completamente sconfitto nelle nostre campagne. Qualche volta manca un capo, ma, quando se ne presenta uno, è difficile che manchi di una banda. Il celebre Cucumetto, perseguitato negli Abruzzi, cacciato dal regno di Napoli ove sostenne una vera guerra, aveva attraversato il Garigliano come Manfredi, ed era giunto, fra Sonnino e Giuperno, a rifugiarsi lungo le rive dell’Amasina. Egli stava per organizzare una banda che avrebbe seguito le orme di Gasparone e di De Cesaris, che sperava ben presto di superare.

«Molti giovani di Palestrina, di Frascati e di Pampinara scomparvero da casa. Sulle prime, si stette in pena per loro, ma in breve si seppe ch’erano andati a raggiungere la banda di Cucumetto. In capo a poco tempo Cucumetto diventò l’oggetto dell’attenzione generale. Venivano ovunque citate imprese di questo capo, bandito di estrema audacia e di rivoltante brutalità.

«Un giorno rapì una ragazza, la figlia d’un agrimensore di Frosinone. Le leggi dei banditi sono positive: una giovane appartiene a colui che l’ha rapita; poi la cede agli altri che la tirano a sorte fra loro, e l’infelice serve ai piaceri di tutta la banda fino a che i banditi non l’abbandonano o muore. Quando i parenti sono ricchi abbastanza per riscattarla, si invia loro un messaggero che tratta la taglia da sborsare: la testa della prigioniera risponde della sicurezza dell’emissario. Se la taglia è rifiutata, la prigioniera è irrevocabilmente condannata.

«La giovane aveva nella banda di Cucumetto il suo amante che si chiamava Carlini. Riconoscendo il giovane, gli tese le braccia, e si credette salva. Ma il povero Carlini, vedendola, sentì spezzarglisi il cuore, perché non si faceva illusioni sulla triste sorte che l’attendeva. Tuttavia, essendo il favorito di Cucumetto, e affrontando da tre anni con lui gli stessi pericoli, e avendogli salvato una volta la vita uccidendo con un colpo di pistola un gendarme che aveva già levato la sciabola sul suo capo, sperò che costui avrebbe avuto un po’ di pietà. Lo chiamò da parte, mentre la giovane, appoggiata contro il tronco di un pino in una radura della foresta tutta nuda e ricoperta soltanto della pittoresca capigliatura delle contadine romane, nascondeva il viso ai lussuriosi sguardi dei banditi. Carlini raccontò tutto al suo capo, i suoi amori con la prigioniera, i loro giuramenti di fedeltà, e come ogni notte, quando la banda era in quei pareggi, si dessero appuntamento in un luogo appartato. Proprio quella sera, Cucumetto aveva inviato Carlini in un villaggio vicino, e così non aveva potuto trovarsi all’appuntamento; ma Cucumetto vi era giunto per caso e aveva così rapito la ragazza. Carlini supplicò il suo capo di fare un’eccezione e rispettare Rita, dicendogli che il padre era ricco, e avrebbe sborsato qualunque somma per riscattarla.

«Cucumetto parve arrendersi alle preghiere dell’amico, e lo incaricò di trovare un contadino da poter mandare dal padre di Rita a Frosinone. Carlini allora si avvicinò alla ragazza, le disse all’orecchio che era salva, e la invitò a scrivere a suo padre una lettera su quanto le era accaduto annunciandogli che la somma del riscatto era fissata in trecento piastre. Al padre non si concedevano che dodici ore, vale a dire fino alle nove del mattino del giorno seguente.

«Scritta la lettera, Carlini corse in pianura per cercarvi un messaggero. Trovò un giovane che faceva pascolare il suo gregge. I messaggeri naturali dei briganti sono i pastori, che vivono fra la città e la montagna, tra la vita selvaggia e la vita incivilita. Il giovane pastore partì subito, promettendo di essere in meno di un’ora a Frosinone.

«Carlini tornò, felice e contento, a raggiungere la sua amante e annunciarle la buona novella. La banda era al medesimo posto e cenava allegramente con le provviste che i briganti prendevano ai contadini come tributo: fra quegli allegri convitati Carlini cercò inutilmente Cucumetto e Rita. Domandò dove fossero; i banditi risposero con uno scoppio di risa. Un freddo sudore gli imperlò la fronte, e parve che l’angoscia lo prendesse per i capelli. Ripeté la domanda. Uno dei convitati riempì un bicchiere di vino di Orvieto e glielo tese dicendo: “Alla salute del bravo Cucumetto e della bella Rita!”

«In quel momento Carlini credette di udire un grido di donna: indovinò tutto. Prese il bicchiere e lo spezzò sulla faccia di colui che glielo aveva offerto, poi si lanciò nella direzione del grido. A cento passi, dietro un cespuglio, trovò Rita svenuta fra le braccia di Cucumetto. Scorgendo Carlini, Cucumetto si alzò tenendo in ognuna delle mani una pistola. I due banditi si guardarono un istante: l’uno, il sorriso della lussuria sulle labbra; l’altro, il pallore della morte sul viso. Si sarebbe creduto che tra quei due uomini stesse per succedere qualche cosa di terribile. Ma a poco a poco i lineamenti di Carlini cominciarono a distendersi: la mano, che aveva portato a una delle pistole che pendevano dalla cintura, ricadde lungo il fianco. Rita era coricata fra loro due. La luna rischiarava la scena.

«“Ebbene?” gli disse Cucumetto. “Hai fatto la commissione di cui eri incaricato?”

«“Sì, capitano”, rispose Carlini, “domani, prima delle nove, il padre di Rita sarà qui col denaro.”

«“A meraviglia! Intanto, nell’attesa, noi vogliamo passare una notte allegra. Questa giovane è magnifica, e tu hai davvero buon gusto, caro Carlini. Così, siccome non sono egoista, torniamo dai nostri compagni per tirare a sorte colui cui ora deve appartenere.”

«“Siete deciso ad abbandonarla alla legge comune?” chiese Carlini.

«“E perché si dovrebbe fare eccezione in suo favore?”

«“Avevo creduto che alla mia preghiera…”

«“Ma che cosa sei più degli altri, tu?”

«“È giusto.”

«“Ma sta’ tranquillo”, rispose Cucumetto ridendo, «prima o dopo, verrà anche il tuo turno…»

I denti di Carlini si serrarono al punto che parevano spezzarsi.

«“Andiamo”, disse Cucumetto, facendo un passo verso i convitati. “Tu non vieni?”

«“Vi seguo…”

«Cucumetto si allontanò, senza perdere di vista Carlini, perché temeva che volesse colpirlo alle spalle, ma niente nel brigante tradiva un’intenzione ostile. Era in piedi, le braccia conserte, vicino a Rita sempre svenuta. Cucumetto pensò per un istante che il giovane la stesse per prendere fra le braccia e fuggisse con lei. Ma ciò gli importava poco: da Rita aveva avuto quel che voleva; quanto al denaro, trecento piastre divise fra la banda, faceva una così povera somma che ben poco gliene importava. Continuò dunque il suo cammino verso i briganti; ma, con suo gran stupore, Carlini vi arrivò quasi prima di lui.

«“L’estrazione a sorte! l’estrazione a sorte!” gridarono tutti i banditi, nello scorgere il loro capo.

«E gli occhi di tutti quegli uomini sfavillarono di ebbrezza e di lascivia, mentre la fiamma del fuoco acceso gettava su tutti una luce rossastra che li faceva somigliare a demoni. La loro richiesta era giusta: e il capo fece un cenno con la testa, in segno di assenso. Tutti i nomi furono subito messi in un cappello, compreso quello di Carlini, e il più giovane della banda tirò fuori un foglietto dall’urna improvvisata. Quel foglietto portava il nome di Diavolaccio; era quello stesso che aveva proposto a Carlini di bere alla salute del capo, e a cui Carlini aveva risposto spezzandogli il bicchiere sulla faccia. Diavolaccio, vedendosi favorito dalla fortuna, diede in uno scoppio di risa.

«“Capitano”, disse, “poco fa, Carlini non ha voluto bere alla vostra salute; proponetegli di bere alla mia… Avrà forse più riguardo per voi che per me.”

«Ognuno si aspettava una reazione violenta di Carlini; ma, con grande stupore di tutti, prese con una mano un bicchiere, con l’altra un fiasco, e, riempiendo il bicchiere, disse con voce perfettamente calma: “Alla tua salute, Diavolaccio!” e tracannò il contenuto del bicchiere con mano ferma. Poi, sedendosi accanto al fuoco: “La mia porzione di cena!” disse. “La corsa fatta mi ha ridestato l’appetito.”

«“Viva Carlini!” gridarono i briganti.

«“Ecco ciò che si dice prender la cosa da buon compagno.”

«E tutti si rimisero in circolo intorno al fuoco, mentre Diavolaccio si allontanava.

«Carlini mangiava e beveva, come nulla fosse accaduto. I briganti lo guardavano, meravigliati dalla sua impassibilità, quando sentirono dietro di loro un passo pesante. Si voltarono e scorsero Diavolaccio che teneva tra le braccia la ragazza. Lei aveva la testa rovesciata, e i lunghi capelli arrivavano fino a terra. Mentre entravano nel cerchio di luce proiettato dal fuoco, si accorsero del pallore della donna e del bandito. Quell’apparizione aveva qualcosa di così strano e di solenne che tutti si alzarono, eccetto Carlini, che rimase seduto, e continuò a bere e mangiare come se nulla accadesse intorno a lui.

«Diavolaccio continuava ad avanzare in mezzo al più profondo silenzio e depose Rita ai piedi del capitano. Allora tutti poterono vedere la causa del pallore di entrambi. Rita aveva un coltello conficcato sino al manico sotto il seno sinistro. Tutti gli sguardi si portarono su Carlini; la guaina del coltello pendeva vuota dalla sua cintura.

«“Ah, ah”, disse il capo, “ora capisco perché Carlini era rimasto indietro.”

«Ogni natura selvaggia è capace di apprezzare una forte azione; sebbene forse nessuno di quei banditi avrebbe fatto ciò che aveva fatto Carlini, tutti però compresero il suo atto.

«“Ebbene”, disse Carlini alzandosi a sua volta e avvicinandosi al cadavere, la mano sulla impugnatura di una pistola, “c’è ancora qualcuno qui che mi disputa questa donna?”

«“No”, disse il capo. “È tua.”

«Allora Carlini la prese fra le braccia, e la portò fuori dal cerchio di luce proiettato dalla fiamma. Cucumetto dispose le sentinelle come al solito, e i banditi si sdraiarono intorno al fuoco, avvolti nei loro mantelli. A mezzanotte la sentinella dette l’allarme, e in un istante tutti furono in piedi, il capo e i suoi compagni. Era il padre di Rita, venuto lì di persona a portare la somma per il riscatto di sua figlia.

«“Tieni», disse a Cucumetto, porgendogli una borsa di denaro, “ecco le trecento piastre, rendimi mia figlia.»

«Ma il capo, senza prendere il denaro, gli fece cenno di seguirlo. Il vecchio obbedì; tutti e due si allontanarono sotto gli alberi, attraverso i cui rami filtravano i raggi della luna. Finalmente Cucumetto si fermò, allungando una mano e mostrando al vecchio due persone sotto un albero.

«“Ecco”, disse, “domanda di tua figlia a Carlini, egli te ne renderà conto.”

«E se ne tornò dai suoi compagni.

«Il vecchio rimase immobile, gli occhi fissi. Sentiva che qualche sventura ignota, immensa, inaudita gravava su di lui. Fece qualche passo, ma non riusciva a distinguere le due figure. Al rumore che il vecchio faceva avanzando, Carlini alzò la testa, e le forme delle due persone cominciarono ad apparirgli più distinte. Una donna era coricata per terra, la testa posata sulle ginocchia di un uomo seduto e chino su di lei; nell’alzare la testa, quell’uomo aveva scoperto il volto della donna, che teneva serrato contro il petto. Il vecchio riconobbe sua figlia, e Carlini riconobbe il vecchio.

«“T’aspettavo…” disse il bandito al padre di Rita.

«“Miserabile!” disse il vecchio. “Che hai fatto?”

«E guardava con terrore Rita, pallida, immobile, insanguinata, con un coltello nel petto. Un raggio di luna la rischiarava con la sua pallida luce.

«“Cucumetto ha violato tua figlia”, disse il bandito, “e siccome io l’amavo, l’ho uccisa; poiché, dopo di lui, sarebbe stata il trastullo di tutta la banda.”

«Il vecchio non pronunciò una parola; solamente divenne pallido come uno spettro.

«“E ora”, disse Carlini, “se ho avuto torto, vendicala!”

«E strappato il coltello dal seno della fanciulla, levandosi in piedi, lo porse al vecchio, mentre con l’altra mano slacciava la camicia sul petto, offrendolo nudo.

«“Hai fatto bene» gli disse il vecchio con voce cupa. “Abbracciami, figlio mio.”

«Carlini si gettò singhiozzando fra le braccia del padre della sua amata: erano le prime lacrime che versava quell’uomo sanguinario.

«“E ora”, disse il vecchio a Carlini, “aiutami a seppellire mia figlia.”

«Carlini andò a cercare due zappe, e il padre e l’amante si misero a scavare la terra ai piedi di una quercia, i cui folti rami dovevano far ombra alla tomba della fanciulla.

«Quando la fossa fu scavata, il padre abbracciò Rita per primo, dopo abbracciò l’amante. Quindi, prendendola l’uno per i piedi, l’altro per le spalle, la calarono nella fossa. Ciò fatto, s’inginocchiarono ai due lati della tomba e recitarono le preghiere dei morti. Quando ebbero terminato, gettarono terra sul cadavere sino a che la fossa fu colma. Infine, stringendogli la mano, il vecchio disse a Carlini: “Ti ringrazio, figliolo… Ora lasciami solo”.

«“Ma…” disse Carlini.

«“Lasciami, te l’ordino.”

«Carlini obbedì: andò a raggiungere i suoi compagni, si avvolse nel mantello, e poco dopo parve addormentato profondamente come gli altri.

«Il giorno prima era stato deciso che la banda avrebbe cambiato rifugio. Un’ora prima dello spuntar del sole, Cucumetto svegliò i suoi uomini e fu dato l’ordine di partenza; ma Carlini non volle lasciare la foresta senza sapere che ne fosse del padre di Rita. Si diresse verso il luogo dove lo aveva lasciato. Trovò il vecchio impiccato a uno dei rami della quercia sulla tomba della figlia. Sul cadavere dell’uno e sulla tomba dell’altra, fece allora il giuramento di vendicarli entrambi. Ma quel giuramento non lo poté mantenere perché due giorni dopo, in uno scontro coi gendarmi romani, Carlini fu ucciso. Solamente, qualcuno si stupì che avesse ricevuto una pallottola nella schiena, mentre era sempre rimasto col viso rivolto al nemico. Lo stupore cessò quando uno dei briganti fece osservare ai compagni che Cucumetto era dieci passi dietro Carlini quando costui era stato colpito. La mattina della partenza dalla foresta di Frosinone, aveva seguito Carlini nell’oscurità, aveva inteso il giuramento fatto, e da uomo cauto lo aveva preceduto.

«Si raccontavano ancora su questo terribile capobanda altre storie non meno strane di questa. Così, da Fondi a Perugia, tutti tremavano al solo nome di Cucumetto. Le storie su questo capobanda erano spesso oggetto delle conversazioni di Luigi e di Teresa. La pastorella tremava tutta a questi racconti; ma Vampa la tranquillizzava battendo in terra il suo bel fucile. Poi, se non era del tutto tranquilla, le faceva vedere un qualche corvo posato su un ramo, metteva il fucile alla guancia, premeva il grilletto, e l’animale, colpito, cadeva ai piedi dell’albero.

«Frattanto il tempo passava, i due giovani avevano stabilito di sposarsi quando Vampa avesse avuto vent’anni, Teresa diciannove. Erano orfani entrambi e non avevano altri permessi da chiedere che quello dei loro progetti per l’avvenire.

«Un giorno che parlavano dei loro propositi udirono due o tre colpi di fucile, quindi un uomo uscì dal bosco presso il quale i due giovani erano soliti far pascolare le greggi, e corse verso di loro. Giunto a portata di voce, gridò loro: “Sono inseguito, potete nascondermi?”

«I due giovani riconobbero subito nel fuggitivo un bandito: ma fra il bandito e il contadino romano vi è una innata simpatia, per cui il secondo è sempre disposto a rendere un favore al primo. Vampa, senza dire una parola, corse alla pietra che chiudeva l’ingresso di una grotta, scoprì l’entrata tirando a sé la pietra, fece segno al fuggitivo di entrare in quel nascondiglio sconosciuto a tutti, rimise la pietra a posto e ritornò a sedersi vicino a Teresa. Subito dopo quattro gendarmi a cavallo comparvero al limitare del bosco. Tre sembravano essere alla ricerca del fuggitivo, il quarto trascinava per il collo un bandito prigioniero. Essi esplorarono il luogo con un colpo d’occhio, s’accorsero dei due giovani, corsero di galoppo verso di loro, e li interrogarono; ma questi risposero che non avevano visto nulla.

«“Peccato”, disse il brigadiere, “perché quello che cerchiamo è il capo.”

«“Cucumetto?” non poterono fare a meno di gridare insieme Luigi e Teresa.

«“Sì”, rispose il brigadiere, “e siccome sulla sua testa c’è una taglia di mille scudi romani, voi ne avreste guadagnati cinquecento se ci aveste aiutati a prenderlo.”

«I due giovani si guardarono. Il brigadiere ebbe un raggio di speranza. Cinquecento scudi romani fanno circa tremila franchi e tremila franchi sono una fortuna per due poveri orfanelli sul punto di maritarsi.

«“Sì, peccato”, disse Vampa, “ma non abbiamo visto nessuno.”

«Allora i gendarmi perlustrarono i dintorni in tutte le direzioni, ma inutilmente: quindi se ne andarono. Allora Vampa andò a togliere la pietra, e Cucumetto uscì. Egli aveva visto attraverso una fessura del macigno i due giovani discorrere coi gendarmi. Non aveva alcun dubbio sull’argomento della conversazione: aveva letto sul volto di Teresa e di Luigi l’inalterabile decisione di non consegnarlo. Cavò di tasca una borsa d’oro per farne loro dono. Ma Vampa rialzò la testa con fierezza: quanto a Teresa i suoi occhi brillarono pensando a tutto ciò che avrebbe potuto comprare, ricchi gioielli e begli abiti, con quella borsa d’oro.

«Cucumetto era un demonio molto astuto, solo aveva preso le forme di un bandito invece che di serpente. S’accorse di quello sguardo, e riconobbe in Teresa una degna figlia d’Eva; e rientrò nella foresta voltandosi più volte, col pretesto di salutare i suoi liberatori.

«Il carnevale si avvicinava e il conte di San Felice annunciò un gran ballo mascherato al quale fu invitato quanto Roma aveva di più elegante. Teresa aveva una gran voglia di vedere quel ballo. Luigi domandò al suo protettore, l’intendente, il permesso per lui e per lei di assistervi, nascosti in mezzo alla servitù della casa; permesso che venne loro accordato.

«Il ballo veniva dato dal conte particolarmente per fare cosa grata a sua figlia Carmela, ch’egli adorava. Carmela aveva giusto l’età e la figura di Teresa ed era graziosa quanto lei. La sera del ballo Teresa si mise quanto aveva di più bello, le sue spille di maggior valore, i gioielli di cristallo più rilucenti.

«Aveva il costume delle donne di Frascati; Luigi aveva l’abito pittoresco del villico romano in giorno di festa. Entrambi, si mischiarono, come avevano promesso, fra i servitori e i contadini.

«La festa era magnifica. Non solo la villa era tutta illuminata, ma migliaia di lanterne colorate erano appese ai rami degli alberi nel giardino: ben presto la folla degli invitati straripò dal palazzo sulle terrazze, e dalle terrazze nei viali. A ogni crocicchio c’era un’orchestra, con buffet e rinfreschi; coloro che passeggiavano si fermavano in un punto qualsiasi, formavano delle quadriglie e ballavano. Carmela indossava il costume delle donne di Sonnino: aveva i capelli intrecciati di perle, con spilloni d’oro e di diamanti, la cintura era di seta turca a gran fiorami di broccato, il busto e le gonnelle di cachemire, il grembiule di mussola delle Indie, i bottoni del busto consistevano in altrettante perle. Due delle sue compagne portavano il costume delle donne di Ariccia. Quattro giovani delle più ricche e più nobili famiglie di Roma le accompagnavano, vestiti da contadini di Albano di Velletri, di Civita Castellana e di Sora. Quei vestiti, tanto quelli degli uomini, quanto quelli delle donne, erano risplendenti d’oro e di pietre preziose.

«A Carmela venne l’idea di fare una quadriglia; mancava però una donna. Carmela guardò intorno a sé, e fra le invitate non trovò alcuna che portasse un costume analogo al suo e a quello delle compagne. Il conte di San Felice le indicò, fra le contadine, Teresa, appoggiata al braccio di Luigi.

«“Me lo permettete, padre mio?” disse Carmela.

«“Senza dubbio!” rispose il conte. “Non siamo a carnevale?”

«Carmela si avvicinò al giovane che l’accompagnava, e gli disse alcune parole a bassa voce, indicandogli con il dito la ragazza. Il giovane si voltò, seguì con gli occhi la direzione della bella mano, acconsentì con un cenno, e andò a invitare Teresa perché venisse a figurare nella quadriglia diretta dalla figlia del conte.

«Teresa sentì come una fiamma salirle al viso. Interrogò con uno sguardo Luigi: non c’era possibilità di rifiutare. Luigi lasciò lentamente andare il braccio di Teresa, e Teresa si allontanò condotta dal suo elegante cavaliere, e tutta tremante andò a prendere posto nella quadriglia aristocratica.

«Certo, per un artista, il semplice e severo costume di Teresa sarebbe stato tutt’altro che paragonabile a quello di Carmela e delle sue compagne; ma Teresa era una ragazza frivola e civetta: i ricami sulla mussola, le palme della cintura, lo splendore del cachemire l’abbagliavano, il riflesso degli zaffiri e dei diamanti la rendevano ebbra.

«Dal canto suo, Luigi sentiva nascere in sé un sentimento sconosciuto; era come un dolore sordo che mordesse sulle prime il cuore, e di là corresse fremendo nelle sue vene e s’impadronisse di tutto il corpo. Egli non perdeva d’occhio ogni minimo movimento di Teresa e del suo cavaliere; quando le loro mani si toccavano, provava delle vertigini, le arterie gli battevano con violenza, e si sarebbe detto che il suono di una campana gli vibrasse nelle orecchie.

«Quando parlavano fra di loro, sebbene Teresa ascoltasse timidamente e con gli occhi bassi i discorsi del suo cavaliere, siccome Luigi leggeva negli occhi ardenti del bel giovane che erano elogi, gli sembrava che la terra girasse sotto di lui, e che tutte le voci dell’inferno gli soffiassero impulsi di omicidio. Allora, temendo di lasciarsi andare a qualche pazzia, si aggrappava con una mano all’albero contro il quale era appoggiato e con l’altra stringeva con un movimento convulso il pugnale dal manico intagliato, che era nella sua cintura, e che senza accorgersene qualche volta usciva dal fodero quasi interamente.

«Luigi era geloso! Capiva che Teresa poteva sfuggirgli, spinta dalla sua natura orgogliosa e ambiziosa, e infatti la contadinella, che sulle prime era timida e quasi spaventata, si mise presto a suo agio.

«Abbiamo detto che Teresa era bella. Ma non è tutto. Teresa era di quella grazia selvaggia molto più possente della nostra grazia studiata e affettata. Ebbe quasi gli onori della quadriglia, e se fu invidiosa della figlia del conte di San Felice, non oseremo dire che Carmela non fosse gelosa di lei.

«Così, colmandola di complimenti, il suo bel cavaliere la ricondusse dove l’aspettava Luigi. Due o tre volte, durante il ballo, la giovane aveva volto lo sguardo su di lui, e ogni volta le era parso più pallido, e con i lineamenti più alterati. Una volta, anzi, i suoi occhi furono colpiti da un lampo di sinistro augurio nel vedere la lama del coltello mezza sfoderata. Fu dunque quasi tremando che riprese il braccio dell’amante.

«La quadriglia era stata un successo; sembrava evidente che si sarebbe proposto di ripeterla una seconda volta. Soltanto Carmela si opponeva, ma il conte di San Felice pregò così teneramente la figlia, che questa finalmente acconsentì.

«Subito uno dei cavalieri si lanciò per invitare Teresa, senza la quale era impossibile che si potesse fare la quadriglia, ma la giovinetta era sparita. Infatti Luigi non avrebbe sopportato un secondo ballo e, con la persuasione e con la forza, aveva trascinato Teresa in un’altra parte del giardino. Teresa aveva ceduto suo malgrado, ma aveva visto il volto alterato del giovane, e capiva dal suo silenzio, interrotto da un fremito nervoso, che in lui avveniva qualche cosa di strano. Lei pure non era esente da agitazione; e sebbene non avesse fatto niente di male, comprendeva che Luigi avrebbe avuto ragione di rimproverarla. Su che? Non lo sapeva, ma si accorgeva che quei rimproveri sarebbero stati ben meritati.

«Con gran sorpresa di Teresa rimase muto, e durante il resto della sera le sue labbra non dissero più una parola. Solo, quando il freddo della notte aveva costretto tutti gli invitati a lasciare il giardino, e le porte della villa furono chiuse per continuare la festa all’interno, ricondusse a casa Teresa. Poi, quando fu sulla soglia, le disse: “Teresa, a che pensavi, mentre ballavi di fronte alla contessina di San Felice?”

«“Pensavo”, rispose la ragazza con molta franchezza, “che darei la metà della mia vita per essere vestita come lei.”

«“E che ti diceva il cavaliere?”

«“Mi diceva che dipendeva soltanto da me, e non dovevo dire che una parola per ottener questo.”

«“Aveva ragione”, rispose Luigi. “Lo desideri ardentemente come dici?”

«“Sì.”

«“Ebbene l’avrai!”»

«La ragazza alzò la testa per interrogarlo, ma il viso era così cupo e terribile, che la parola le morì sulle labbra.

«“D’altronde dicendo queste parole, Luigi si era allontanato. Teresa lo seguì con gli occhi nella notte fino a che poté vederlo. Poi, quando fu scomparso, rientrò sospirando in casa.

«Quella stessa notte accadde un grande avvenimento, dovuto senza dubbio all’imprudenza di qualche domestico che aveva dimenticato di spegnere i lumi: la villa dei San Felice prese fuoco, proprio dalla parte dell’appartamento della bella Carmela. Svegliata nel mezzo della notte dal bagliore dalle fiamme era balzata dal letto, si era avvolta nella veste da camera e aveva tentato di fuggire dalla porta; ma il corridoio per il quale doveva passare era già in preda all’incendio. Allora rientrò nella sua camera, chiamando ad alte grida soccorso. Quando la sua finestra, posta a sei metri dal suolo, si aprì, un giovane contadino si lanciò nell’appartamento, la prese fra le braccia, e con una forza e destrezza sovrumane la trasportò sull’erba del prato dove rimase svenuta. Quando aveva ripreso i sensi, il padre le era vicino, tutti i servitori la circondavano porgendolo soccorso. Un’ala della villa era bruciata, ma non importava, dal momento che Carmela era sana e salva.

«Venne ovunque cercato il suo liberatore, ma questi non si trovò più: fu domandato di lui a tutti, ma nessuno lo aveva visto. Quanto a Carmela, era così turbata che non lo aveva riconosciuto. Del resto, siccome il conte era immensamente ricco, a parte il pericolo corso da Carmela, che gli sembrò, dal modo miracoloso con cui era stata salvata, un nuovo favore della Provvidenza che un’effettiva disgrazia, la perdita causata dalle fiamme fu ben poca cosa per lui.

«L’indomani, nell’ora consueta, i due giovani si ritrovarono all’ingresso della foresta. Luigi era arrivato per primo. Egli andò incontro alla ragazza con molta allegria, e sembrava aver completamente dimenticato la scena della sera innanzi. Teresa era visibilmente pensierosa, ma vedendo la buona disposizione d’animo di Luigi, simulò un’allegra noncuranza, che era la base della sua indole, quando qualche passione non veniva a disturbarla. Luigi prese sottobraccio Teresa, e la condusse fino all’apertura della grotta. Lì si fermò. La pastorella, capendo che doveva avere qualche cosa di straordinario da dirle, lo guardò fissamente.

«“Teresa”, disse Luigi, “ieri sera tu mi hai detto che avresti dato metà della tua vita per avere un costume uguale a quello della figlia del conte.”

«“Sì”, rispose Teresa meravigliata, “ma ero pazza quando ho espresso un simile desiderio.”

«“E io ti ho risposto: ‘Va bene, l’avrai’.”»

«“Sì”, disse la ragazza, la cui meraviglia aumentava a ogni parola di Luigi, “ma tu di certo hai risposto così solo per farmi piacere.”

«“Non ti ho mai promesso cosa che non ti abbia data, Teresa”, disse con orgoglio Luigi. “Entra nella grotta, e vestiti.”

«A queste parole, tolse la pietra e mostrò a Teresa la grotta illuminata da due candele che ardevano ai lati di un magnifico specchio. Sopra una tavola rustica fatta da Luigi, erano distesi le spille di diamanti e la collana di perle; sopra una panca vicina era deposto il resto del vestiario.

«Teresa mandò un grido di gioia, e senza chiedere donde venisse quella roba, senza ringraziare Luigi, si lanciò nella grotta, trasformata in toilette.

«Luigi rimise la pietra al suo posto dietro di lei, perché s’accorse che, sulla cresta di una collinetta, che impediva di vedere Palestrina dal posto in cui stava, un viaggiatore a cavallo si era fermato, incerto sulla strada da prendere, e spiccava nell’azzurro del cielo con quella nitidezza di contorni tipica dei paesi meridionali.

«Lo straniero, vedendo Luigi, spinse il cavallo al galoppo e venne verso di lui. Luigi non si era ingannato: il viaggiatore, che andava da Palestrina a Tivoli, era incerto sul cammino da prendere. Il giovane glielo indicò; ma siccome, a quattrocento metri, la strada si divideva in tre, e il viaggiatore, giunto lì poteva nuovamente sbagliare, pregò Luigi di fargli da guida. Questi posò a terra il mantello, si mise a tracolla la carabina e, liberato così dal pesante vestito, camminò davanti al viaggiatore con quel passo rapido del montanaro che un cavallo a stento può seguire.

«In dieci minuti Luigi e il viaggiatore si trovarono al crocicchio indicato dal giovane pastore: con un gesto maestoso stese la mano e indicò al viaggiatore quella delle tre vie che doveva seguire.

«“Ecco la vostra strada, Eccellenza, ora non potrete più sbagliare.»

«“Ed ecco la tua ricompensa…» disse il viaggiatore, offrendo al pastore alcune monetine.

«“Grazie”, disse Luigi, ritirando la mano, “ma io rendo un servizio, non lo vendo.”

«“Ma”, disse il viaggiatore, abituato a quella differenza che passa tra il servilismo dell’uomo di città e l’orgoglio del campagnolo, “se rifiuti una mercede, accetterai un regalo?”

«“Ah sì, questa è un’altra cosa.”

«“Ebbene”, disse il viaggiatore, “prendi questi due zecchini di Venezia, e dalli alla tua fidanzata per comprarsi un paio di pendenti.”

«“E voi, allora, prendete questo pugnale”, disse il pastore, “non ne troverete uno la cui impugnatura sia meglio intagliata, da Albano a Civita Castellana.”

«“Lo accetto”, disse il viaggiatore, “ma allora sono io che ti resto debitore, perché il pugnale vale molto più di due zecchini.”

«“Per un mercante può darsi, ma non a me che l’ho intagliato, e mi costa appena uno scudo.”

«“Come ti chiami?” domandò il viaggiatore.

«“Luigi Vampa”, rispose il pastore con lo stesso tono come avesse risposto Alessandro re di Macedonia, “e voi?”

«“Io”, disse il viaggiatore, “mi chiamo Sinbad il marinaio…”»

Franz d’Epinay ebbe un grido di sorpresa.

«Sinbad il marinaio!» disse.

«Sì», rispose il narratore, «è il nome che il viaggiatore disse a Vampa.»

«Ebbene, che avete da ridire su questo nome?» interruppe Albert. «È un bellissimo nome e le avventure di chi lo portava mi hanno divertito molto nella mia prima gioventù.»

Franz non insistette. Il nome di Sinbad il marinaio, come si capirà bene, aveva risvegliato in lui una quantità di ricordi, non diversamente da quello che aveva fatto la sera prima quello di conte di Montecristo.

«Continuate…» disse all’albergatore.

«Vampa intascò sdegnosamente i due zecchini, e riprese lentamente il cammino per il quale era venuto. Giunto a due o trecento passi dalla grotta gli parve di sentire un grido. Si fermò ascoltando da quale parte venisse. Dopo un istante, intese pronunciare distintamente il suo nome. La voce veniva dalla parte della grotta. Balzò come un camoscio; e mentre correva, caricava il fucile, e in meno di un minuto era sulla cima della collinetta opposta a quella dove aveva visto il viaggiatore. Là si fecero più distinte le grida: “Aiuto, soccorso!” Girò gli occhi sullo spazio che dominava: un uomo rapiva Teresa come il centauro Nesso, Deianira. Quell’uomo, che si dirigeva verso il bosco, aveva già percorso tre quarti del cammino dalla grotta alla foresta.

«Vampa calcolò la distanza: quell’uomo aveva almeno duecento passi di vantaggio su di lui; non vi era possibilità di raggiungerlo prima che entrasse nel bosco. Il giovane si fermò come se i suoi piedi avessero messo radice: appoggiò il calcio del fucile alla spalla, levò lentamente la canna in direzione del rapitore, lo seguì per un secondo nella corsa, e poi fece fuoco. Il rapitore si fermò, come immobile nell’aria, le ginocchia gli si piegarono, e cadde trascinando nella sua caduta Teresa, la quale si alzò subito. L’altro restò disteso, dibattendosi nelle ultime convulsioni dell’agonia. Vampa si lanciò verso Teresa, che era a dieci passi dal moribondo, in ginocchio. Allora al giovane venne il terribile sospetto che la pallottola che aveva colpito l’avversario avesse ferito anche la fidanzata.

«Fortunatamente però non fu così, e il solo terrore aveva paralizzato le forze di Teresa. Quando Luigi fu ben sicuro che era sana e salva, si voltò verso il ferito. Era già morto, con i pugni serrati, la bocca contratta dal dolore, i capelli ritti dal sudore dell’agonia; gli occhi erano rimasti aperti e minacciosi. Vampa si avvicinò al cadavere e riconobbe Cucumetto.

«Dal giorno in cui il bandito fu salvato dai due giovani, si era innamorato di Teresa, e aveva giurato che sarebbe stata sua. Da allora, l’aveva spiata con assiduità; e approfittando del momento in cui il suo amante l’aveva lasciata sola per andare a indicare la strada al viaggiatore, l’aveva rapita, e già la credeva sua, quando la pallottola di Vampa, sparata dall’occhio infallibile del giovane pastore, gli aveva trapassato il cuore.

«Vampa lo guardò un istante senza la minima emozione sul viso, mentre Teresa, al contrario, ancora tutta tremante, non osava avvicinarsi al bandito morto che a piccoli passi, gettando uno sguardo esitante sul cadavere al di sopra della spalla del suo amante.

«Dopo un momento, Vampa si rivolse alla sua innamorata: “Tu sei già vestita. Ora tocca a me prepararmi”.

«Infatti Teresa era vestita da capo a piedi col costume della figlia del conte di San Felice. Vampa prese il corpo di Cucumetto fra le braccia, e lo portò nella grotta, mentre Teresa l’aspettava fuori. Se fosse passato un altro viaggiatore, avrebbe visto una cosa strana, cioè una pastorella guardare il gregge, vestita di cachemire coi pendenti alle orecchie, una collana di perle, delle spille di diamanti e dei bottoni di zaffiri, smeraldi e rubini. Senza dubbio avrebbe creduto di tornare ai tempi di Florian e, di ritorno a Parigi, avrebbe assicurato di avere incontrato la pastorella delle Alpi ai piedi dei monti Sabini.

«Un quarto d’ora dopo, Vampa uscì dalla grotta. Il suo abito non era meno elegante di quello di Teresa. Aveva un giubbetto di velluto granata con i bottoni d’oro cesellato, un panciotto di seta tutto ricamato, una sciarpa annodata intorno al collo, un portacartucce tutto trapuntato in oro e in seta rossa e verde, i pantaloni di velluto celeste, legati sotto al ginocchio con fibbie di diamanti, ghette di pelle di daino con mille arabeschi, e un cappello su cui sventolavano dei nastri di ogni colore; due catene da orologio gli pendevano dalla cintura e un magnifico pugnale era attaccato al portacartucce.

«Teresa lanciò un grido di ammirazione. Vampa, vestito così, assomigliava a un dipinto di Léopold Robert o di Schnetz. Aveva indossato gli abiti di Cucumetto.

«Il giovane s’accorse dell’effetto che produceva sulla sua fidanzata, e un sorriso di orgoglio gli sfiorò le labbra.

«“Ora dimmi, Teresa, sei pronta a dividere la mia sorte qualunque essa possa essere?”

«“Oh sì!” gridò la ragazza con entusiasmo.

«“A seguirmi ovunque andrò?”

«“Anche in capo al mondo.”

«“Allora prendi il mio braccio e partiamo, poiché non abbiamo tempo da perdere.”

«La pastorella passò il braccio sotto quello del suo innamorato, senza neppure domandargli dove la conduceva, perché in quel momento le sembrava bello, fiero e potente. E tutti e due si inoltrarono nella foresta di cui, in breve tempo, oltrepassarono il confine.

«Non occorre dire che Vampa conosceva tutti i sentieri della montagna. S’inoltrò dunque nella foresta senza un attimo di esitazione, sebbene non vi fosse tracciata alcuna strada, poiché riconosceva la direzione che doveva seguire dal solo guardare gli alberi e i cespugli. Camminarono così per circa un’ora e un quarto, giungendo nel punto più fitto del bosco. Un torrente, il cui letto era in secca, conduceva in una gola profonda. Vampa prese quello strano sentiero, che, incassato fra le due rive, e reso più cupo dall’ombra degli alberi, sembrava il sentiero dell’Averno di cui parla Virgilio. Teresa, tornata timorosa alla vista di quel luogo selvaggio e deserto, si stringeva a Luigi senza dir parola; ma siccome lo vedeva camminare con un passo sempre uguale, e con una calma profonda sul viso, lei aveva la forza di dissimulare la propria emozione.

«A un tratto, a dieci passi da loro, un uomo sembrò staccarsi da un albero, dietro cui era nascosto, e prendendo di mira Vampa col suo fucile, gridò: “Non fare un passo di più o sei morto”.

«“Andiamo!” disse Vampa, facendo con la mano un gesto di disprezzo, mentre Teresa, non dissimulando più il terrore, si avvinghiava a lui. “I lupi forse si sbranano fra loro?”

«“Chi sei tu?” domandò la sentinella.

«“Sono Luigi Vampa, il pastore della fattoria dei San Felice.”

«“Che vuoi?”

«“Voglio parlare ai tuoi compagni che sono sulla piana di Rocca Bianca.”

«“Allora seguimi”, disse la sentinella, “o piuttosto, poiché sai la strada, camminami davanti.”

«Vampa sorrise con aria di disprezzo alla cautela di quel bandito; passò davanti con Teresa, e continuò il suo cammino con lo stesso passo fermo e tranquillo che lo aveva condotto fin là. Dopo cinque minuti, il bandito fece loro segno di fermarsi. Essi obbedirono. Il bandito imitò tre volte il gracchiare del corvo: un altro grido uguale rispose a quel triplice appello.

«“Ora puoi continuare la strada”, disse il bandito.

«Luigi e Teresa si rimisero in cammino; ma, mentre procedevano, Teresa, tremando, si stringeva sempre più al suo amante; infatti, attraverso gli alberi, si vedevano comparire degli uomini e luccicare delle canne di fucile.

«L’altopiano di Rocca Bianca era sulla sommità di una piccola montagna, che doveva certamente essere stata un vulcano, spentosi prima che Romolo e Remo abbandonassero Alba per andare a fondare Roma.

«Teresa e Luigi giunsero alla sommità, e si trovarono circondati da una ventina di banditi.

«“Ecco un giovane che vi cerca, e desidera parlarvi”, disse la sentinella.

«“Che vuole da noi?” chiese colui che in assenza del capo ne faceva le veci.

«“Voglio dirvi che mi sono annoiato di fare il pastore”, disse Vampa.

«“Ah, capisco”, disse il luogotenente, “e tu vieni a domandarci di entrare nelle nostre file?”

«“Che sia il benvenuto!” gridarono molti banditi di Ferrusino, di Pampinara e di Anagni, i quali avevano riconosciuto Luigi Vampa.

«“Sì, ma vengo a chiedervi un’altra cosa, oltre che esser vostro compagno.”

«“E che vieni a chiederci?” dissero con meraviglia i banditi.

«“Vengo a domandarvi di essere fatto vostro capitano”, disse il giovane.

«I banditi scoppiarono a ridere.

«E che hai fatto per aspirare a questo onore?” domandò il luogotenente.

«“Ho ammazzato il vostro capo Cucumetto, di cui indosso le spoglie”, disse Luigi, “e ho appiccato il fuoco alla villa del conte di San Felice per dare il corredo di nozze alla mia fidanzata.”

«Un’ora dopo, Luigi Vampa era eletto capitano al posto di Cucumetto.

«Ebbene, mio caro Albert», disse Franz rivolgendosi all’amico, «che pensate ora del cittadino Luigi Vampa?»

«Dico che è un mito», rispose Albert, «e che non è mai esistito.»

«E che cosa significa la parola mito?» domandò Pastrini.

«Sarebbe troppo lungo a spiegarsi, mio caro Pastrini», rispose Franz. «E voi dite dunque che Vampa esercita ora la sua professione nei dintorni di Roma?»

«E con un tale ardire che nessun bandito ne ha mai dato esempio uguale.»

«E la polizia non è capace di catturarlo?»

«Che volete? Egli è d’accordo a un tempo con i pastori della pianura, con i pescatori del Tevere e i contrabbandieri della costa. Se lo si cerca sulle montagne, è sul fiume; se lo si insegue sul fiume, prende l’alto mare; poi d’improvviso quando si crede che sia rifugiato sull’isola del Giglio, di Giannutri, o di Montecristo, si vede ricomparire in Albano, a Tivoli o ad Ariccia.»

«E qual è il suo modo di fare verso i viaggiatori?»

«Eh, mio Dio, è semplicissimo: a seconda della distanza dalla città, accorda loro otto ore, dodici ore, un giorno, per pagare il loro riscatto; quando è passato il tempo concede un’ora di grazia. Al sessantesimo minuto di quest’ora, se non ha il riscatto, fa saltare le cervella del prigioniero con un colpo di pistola, o gli pianta un pugnale nel cuore, e tutto è finito!»

«Ebbene, Albert», domandò Franz al suo compagno, «siete ancora disposto ad andare al Colosseo per la strada fuori delle mura?»

«Certamente», disse Albert, «se è la strada più pittoresca.»

In quel momento suonarono le nove, la porta si aprì, e comparve il cocchiere.

«Eccellenza», disse, «la carrozza è pronta.»

«Ebbene», disse Franz, «andiamo al Colosseo.»

«Per la porta del Popolo, Eccellenza, o per le strade interne?»

«Per le strade interne, perbacco!, per le strade interne», gridò Franz.

«Ah, mio caro», disse Albert alzandosi e accendendo il suo terzo sigaro, «in verità vi credevo più coraggioso!»

Dopo queste parole i due giovani scesero le scale e salirono in carrozza.




34. Le apparizioni

Franz aveva trovato un compromesso, affinché Albert potesse giungere al Colosseo senza dover passare davanti ad alcuna rovina antica, e di conseguenza senza nulla togliere alle gigantesche proporzioni del Colosseo.

Si trattava di passare per la via Sabina, voltare ad angolo retto davanti a Santa Maria Maggiore e arrivare per la via Urbana e San Pietro in Vincoli alla via del Colosseo. D’altro canto questo itinerario offriva anche un altro vantaggio, quello di non distrarre con altre impressioni Franz da quella prodotta in lui dalla storia raccontata dal Pastrini, e nella quale vi si trovava coinvolto il suo anfitrione di Montecristo. Perciò si era rincattucciato nell’angolo, ed era ricaduto in quelle mille domande che infinite volte aveva già fatto a se stesso, e alle quali mai era riuscito a dare una risposta soddisfacente.

Un’altra cosa gli aveva ancora fatto ricordare il suo amico Sinbad il marinaio, ed era la relazione tra i banditi e i marinai. Quello che aveva detto Pastrini sul rifugio che Vampa trovava sulle barche dei pescatori e dei contrabbandieri, ricordava a Franz quei due banditi corsi ch’egli aveva visto cenare insieme all’equipaggio del piccolo yacht, che deviando a bella posta dal suo cammino era approdato a Porto Vecchio col solo scopo di rimetterli a terra.

Il nome con cui il suo ospite di Montecristo si faceva chiamare, pronunciato dall’albergatore dell’albergo Londra, provava che era lo stesso che sosteneva la parte filantropica sulle coste di Piombino, di Civitavecchia, d’Ostia e di Gaeta, come su quelle di Corsica, di Toscana, di Spagna, non meno che su quelle di Tunisi e di Palermo.

Era la prova che egli abbracciava una cerchia di relazioni molto estesa.

Ma benché queste riflessioni fossero presenti allo spirito del giovane, esse svanirono quando cominciò a farsi scorgere il tetro e gigantesco spettro del Colosseo, fra le cui rovine la luna faceva passare quei lunghi e pallidi raggi, che sembra cadano dagli occhi dei fantasmi. La carrozza si fermò a qualche passo dalla fontana denominata Meta sudans. Il cocchiere aprì lo sportello, i due giovani saltarono a terra, e si trovarono in faccia a un cicerone, che sembrava uscito da sottoterra. Anche quello dell’albergo li aveva seguiti, e così ne ebbero due.

Del resto è impossibile poter evitare, a Roma, questa abbondanza di guide: oltre il cicerone generico che s’impadronisce di voi dal momento in cui mettete il piede sulla soglia di un albergo o di una locanda, e che non vi abbandona che il giorno in cui mettete il piede fuori della città, vi è pure un cicerone addetto a ciascun monumento; si giudichi dunque se si può restar privi di cicerone al Colosseo, vale a dire al monumento per eccellenza, che faceva dire a Marziale: «Che Menfi cessi di vantare i barbari miracoli delle sue piramidi, che cessino di essere vantate le meraviglie di Babilonia, tutto deve annichilirsi davanti all’opera immensa dell’anfiteatro dei Cesari, e tutte le voci della fama devono unirsi per lodare questo monumento».

Franz e Albert non provarono nemmeno a sottrarsi alla tirannide ciceroniana, molto più poi sarebbe stato difficile al Colosseo, perché qui le sole guide hanno il diritto di percorrere i diversi punti praticabili del monumento con le torce accese. Non fecero dunque alcuna resistenza, e si abbandonarono anima e corpo alle loro guide.

Franz conosceva già questa passeggiata per averla fatta altre dieci volte: ma siccome il suo compagno, più novizio, metteva per la prima volta il piede nell’anfiteatro di Flavio Vespasiano, bisogna confessarlo a sua lode, nonostante il cicalare ignorante delle guide, egli era molto commosso. Non è possibile, senza averlo visto, farsi un’idea della maestà di una simile rovina, le cui proporzioni sono tutte raddoppiate dal misterioso chiarore di quella luna meridionale, i cui raggi sembrano i crepuscoli d’Occidente.

Franz, da uomo riflessivo che era, fatti appena cento passi sotto i portici interni, lasciò Albert alle guide, che non volevano rinunciare a fargli vedere la fossa dei leoni, le stanze dei gladiatori, il palco dei Cesari, e salì per una scala mezza rovinata e, lasciando loro continuare il metodico giro, si sedette all’ombra di una colonna, dirimpetto a una curva che gli permetteva di poter abbracciare con lo sguardo il gigante di granito in tutta la sua estensione.

Franz era là da circa un quarto d’ora, nascosto dall’ombra della colonna, e intento a guardare Albert e coloro che gli portavano le torce che uscivano in quel momento da un romitorio posto all’altra estremità del Colosseo, simili a ombre che segnano un fuoco fatuo. Scendevano di gradino in gradino verso il luogo riservato alle vestali, quando a Franz sembrò udire il rumore di una pietra che si staccasse e cadesse dalla scala ch’egli pure aveva sceso. Certo non è cosa rara sentire cadere una pietra che, per effetto del tempo, si stacca e va a rotolare nell’abisso; ma questa volta gli sembrò fosse il piede di un uomo, e che il rumore dei passi giungesse fino a lui, sebbene chi li causava facesse di tutto per renderli impercettibili.

Infatti, dopo un istante, comparve un uomo che usciva gradatamente dall’ombra a mano a mano che saliva la scala la cui apertura, posta dirimpetto a Franz, era illuminata dalla luna. Poteva essere un viaggiatore come lui, che preferiva una meditazione solitaria al ciarlare insignificante delle guide, e di conseguenza la sua comparsa nulla aveva di sorprendente; ma dall’esitazione con la quale salì gli ultimi scalini, dal modo con cui, giunto sul piano, si fermò e parve mettersi in ascolto, era evidente che era venuto lì con qualche scopo. Con un movimento istintivo Franz si nascose quanto più poté dietro la colonna.

A dieci passi dal luogo dove si trovavano entrambi, la volta era diroccata e, da un’apertura rotonda come quella di un pozzo, lasciava vedere il cielo tutto brillante di stelle. Intorno a quest’apertura, che forse da secoli dava passaggio ai raggi della luna, vegetavano dei cespugli il cui verde spiccava con vigore sul pallido azzurro del firmamento, mentre tralci di edera pendevano da questa terrazza superiore, e dondolavano sotto la volta simili a festoni.

Il personaggio che aveva attirato l’attenzione di Franz era in una penombra che non permetteva di distinguerne i tratti, ma non abbastanza oscura per impedirgli di vedere i particolari del vestito. Era avvolto in un grande mantello scuro, un lembo del quale, gettato sulla spalla sinistra, gli copriva la parte inferiore del viso, mentre un cappello a larghe tese copriva la parte superiore. L’estremità del vestito era illuminata dai raggi obliqui della luna che passavano dall’apertura, e che permettevano di distinguere i calzoni neri, che elegantemente finivano su un paio di stivali di pelle lucida. L’uomo apparteneva evidentemente se non all’aristocrazia, almeno alla buona società. Erano trascorsi alcuni minuti da che era là, e già cominciava a dare qualche segno d’impazienza, allorché si udì un piccolo rumore nella terrazza soprastante. Nello stesso momento un’ombra intercettò la luce, un uomo apparve nel vano dell’apertura, gettò uno sguardo penetrante nelle tenebre, e vide l’uomo dal mantello, che, reggendosi con le mani a quei rami d’edera, si lasciò scivolare, e, giunto a un metro dal suolo, saltò a terra. Costui era vestito da trasteverino.

«Scusatemi, Eccellenza, se vi ho fatto aspettare», disse in dialetto romano, «però non sono in ritardo che di pochi minuti; le dieci sono suonate ora a San Giovanni in Laterano.»

«Sono stato io che sono venuto prima, e non voi che avete tardato», rispose lo straniero nel più puro toscano, «non facciamo cerimonie perché quand’anche mi aveste fatto aspettare, sarei ben certo che sarebbe stato per qualche motivo indipendente dalla vostra volontà.»

«E avete ragione, Eccellenza, vengo da Castel Sant’Angelo, e ho avuto tutte le difficoltà possibili per poter parlare a Beppe.»

«Chi è questo Beppe?»

«Beppe è un impiegato delle prigioni al quale passo un piccolo compenso mensile per sapere ciò che succede nel castello.»

«Ah, ah, vedo che siete un uomo pieno di cautele, mio caro.»

«Che volete, Eccellenza, non si sa ciò che può accadere: forse io pure sarò un giorno o l’altro preso nella rete, come quel povero Peppino, e avrò io pure bisogno di un sorcio per rodere qualche maglia della mia prigione.»

«Che avete saputo?»

«Che martedì vi saranno due esecuzioni, alle due del pomeriggio, come è solito in certe ricorrenze particolari. Uno dei condannati sarà impiccato: è un miserabile che ha ucciso il prete che lo aveva allevato, e non merita alcun interesse; l’altro sarà decapitato, e questo è il povero Peppino.»

«Che volete, mio caro, voi ispirate un terrore così grande non solo al governo pontificio, ma agli Stati vicini, che assolutamente si vuol dare un esempio.»

«Ma Peppino non faceva neppure parte della mia banda; era un povero pastore che non ha commesso altro delitto che quello di fornirci i viveri.»

«E ciò lo fa vostro complice in piena regola. Anzi, gli usano pure dei riguardi. Invece di impiccarlo, come faranno con voi se mai vi metteranno le mani addosso, si accontentano di ghigliottinarlo. E vedete bene che daranno due spettacoli differenti. Senza contare quello che gli preparerò io, e che non si aspettano», aggiunse il trasteverino.

«Mio caro, permettetemi di dirvi che mi sembrate disposto a commettere qualche sciocchezza.»

«Sono disposto a far di tutto per impedire l’esecuzione di quel povero diavolo, che si trova nell’impiccio per avermi servito. Sarei un vile, se non facessi qualche cosa per quel bravo giovane.»

«E che farete?»

«Metterò una ventina di uomini intorno al patibolo, e quando vi verrà condotto, a un segnale che darò, ci lanceremo col pugnale alla mano sulla scorta, e lo porteremo via.»

«Questa è una cosa troppo incerta, e io ritengo che il mio piano sia migliore del vostro.»

«E qual è il piano di Vostra Eccellenza?»

«Farò in modo di parlare a chi so io, pregandolo di ottenere che l’esecuzione si rimandi a quest’altro anno: quindi nel corso dell’anno tornerei a parlare con commovente eloquenza a un altro tale che pure conosco, e lo farei evadere di prigione.»

«Siete sicuro della riuscita?»

«Parbleu!» disse in francese l’uomo dal mantello.

«Che vuol dire?» domandò il trasteverino.

«Vuol dire che farò più con le mie insinuanti macchinazioni che voi con tutta la vostra gente, coi loro pugnali, le loro pistole, le carabine e i tromboni. Lasciatemi dunque fare.»

«Benissimo! Ma, ricordatevi bene, se non ci riuscirete, noi ci terremo sempre pronti.»

«Tenetevi sempre pronti, se così vi piace, ma siate certi che avrò la sua grazia.»

«Ricordatevi che martedì è dopodomani. Voi non avete più che il solo domani.»

«Sta bene, ma un giorno si compone di ventiquattr’ore, ciascun’ora di sessanta minuti, ciascun minuto di sessanta secondi, e in ottantaseimilaquattrocento secondi si fanno moltissime cose.»

«Come sapremo se Vostra Eccellenza è riuscita?»

«È semplicissimo: ho preso in affitto le tre ultime finestre di palazzo Ruspoli; se ho ottenuto la grazia, le due finestre ai lati avranno un tappeto di damasco giallo, e quella di mezzo ne avrà uno di damasco bianco con una croce rossa.»

«D’accordo. E da chi farete presentare la grazia?»

«Inviatemi uno dei vostri uomini travestito da penitente della Buona Morte, e la consegnerò a lui. Mediante questo travestimento, egli potrà giungere fino ai piedi del patibolo, e consegnerà il foglio al capo della confraternita che lo passerà al carnefice. Frattanto, fate sapere questa notizia a Peppino, che egli non abbia a morire di paura, o non abbia a divenir pazzo, che sarebbe come farci fare un’opera buona inutilmente.»

«Ascoltate, Eccellenza», disse il trasteverino, «io vi sono affezionato, ne siete convinto?»

«Lo spero, almeno.»

«Ebbene, se voi salvate Peppino, la mia non sarà più devozione, ma per l’avvenire sarà cieca obbedienza.»

«Ebbene, fa’ attenzione a ciò che dici, mio caro, forse un giorno avrò a ricordarti questo discorso e chissà che un giorno io pure abbia bisogno di te…»

«Allora, Eccellenza, mi troverete nel momento del bisogno, come io avrò trovato voi; foste anche all’altra estremità del mondo, non avreste che a scrivermi “fate questo”, e io lo farei parola di…»

«Zitto», disse lo sconosciuto, «sento un rumore.»

«Sono viaggiatori che visitano il Colosseo.»

«Non bisogna che ci trovino insieme. Queste spie di guide potrebbero riconoscervi, e per quanto sia onorevole la nostra relazione, se si sapesse che siamo uniti in amicizia, questo legame mi farebbe perdere non poco del mio credito.»

«E così, se voi avrete la grazia?…»

«La finestra di mezzo avrà il tappeto bianco con una croce rossa.»

«Se non la otterrete?…»

«Tutte e tre le finestre saranno addobbate con i tappeti gialli.»

«E allora?…»

«Allora, maneggerete il pugnale a vostro piacere, vi prometto di esser là per assistervi.»

«Addio, Eccellenza; conto su di voi, e voi contate su di me.»

A queste parole il trasteverino sparì per la scala, mentre lo sconosciuto, coprendosi ancor di più il viso col mantello, passò a due passi da Franz e discese nell’arena per la gradinata esterna.

Un minuto dopo, Franz intese il proprio nome risuonare sotto le volte: era Albert che lo chiamava. Aspettò per rispondere, che i due uomini si fossero allontanati, non volendo si sapesse esservi stato un testimone, il quale, se non aveva visto i loro volti non aveva però perso una parola della loro conversazione.

Dieci minuti dopo Franz percorreva in carrozza la strada per andare a piazza di Spagna, ascoltando distratto la dotta dissertazione che Albert faceva, attingendo da Plinio e Calpurnio, sulle reti guarnite di punte di ferro che impedivano agli animali feroci di lanciarsi sugli spettatori. Egli lo lasciò discorrere senza contraddirlo; aveva troppa fretta di rimanere solo, per pensare unicamente a quanto era avvenuto vicino a lui.

Di questi due uomini uno certamente era italiano, ed era la prima volta che lo vedeva e lo sentiva, ma non era così dell’altro, e sebbene Franz non ne avesse distinto il viso, sempre nascosto nell’ombra o nel mantello, il timbro di quella voce lo aveva troppo colpito la prima volta che l’aveva inteso, perché potesse risuonare al suo orecchio senza che la riconoscesse. Vi era, soprattutto nelle inflessioni ironiche, qualche cosa di stridulo e di metallico che lo aveva fatto trasalire, sia fra le rovine del Colosseo, come nella grotta di Montecristo; per cui era convinto che quell’uomo fosse Sinbad il marinaio.

In tutt’altra circostanza, la curiosità che gli ispirava quell’uomo sarebbe stata così grande, che si sarebbe fatto riconoscere; ma in quella occasione, la conversazione che aveva udito era troppo intima per non essere trattenuto dal timore che una sua comparsa non sarebbe stata gradita. Lo aveva dunque lasciato allontanare, come si è visto, ma ripromettendosi che, se lo avesse incontrato un’altra volta, non si sarebbe lasciato sfuggire una seconda occasione.

Franz era troppo preoccupato per poter dormire. La notte fu impiegata a ripassare tutti i minimi particolari che avevano una relazione con l’uomo della grotta, e con lo sconosciuto del Colosseo; e più Franz ci pensava, più si convinceva della sua opinione. Si addormentò sul far del giorno, per cui si svegliò molto tardi.

Albert, da vero parigino, aveva già provveduto per la serata. Aveva mandato a cercare un palco al teatro Argentina. Franz aveva molte lettere da scrivere in Francia, e lasciò la carrozza ad Albert per tutta la giornata. Alle cinque questi rientrò; aveva presentato le sue lettere di raccomandazione, ricevuto inviti per quella sera, e visto Roma. Un giorno gli era bastato per far tutto questo, e aveva anche avuto il tempo di informarsi dell’opera che si rappresentava, e degli artisti che la cantavano. L’opera s’intitolava Parisina; gli artisti erano Cosselli, Moriani e la Spech. I nostri due giovani non erano sfortunati, come si vede: avrebbero assistito alla rappresentazione di una delle migliori opere dell’autore della Lucia di Lammermoor, cantata dai tre artisti più rinomati d’Italia.

Albert non aveva mai potuto abituarsi ai teatri cisalpini, nell’orchestra dei quali non è permesso andare e che non hanno né palchi, né logge scoperte; ciò era seccante per un uomo che aveva il posto fisso ai Bouffes, e ingresso libero alla loggia infernale dell’Opéra. Ciò però non gl’impediva di vestirsi con accuratezza tutte le volte che andava a teatro con Franz, toilette sprecate, perché, bisogna confessarlo a vergogna di uno dei rappresentanti più degni del nostro bon ton, in quattro mesi che viaggiava l’Italia in tutti i sensi, non aveva avuto ancora alcuna avventura.

Albert qualche volta cercava di scherzare su questo argomento; ma nel fondo del cuore era assai mortificato; lui, Albert Morcerf, uno dei giovani più intraprendenti, non aveva ancora fatto alcuna conquista. La cosa era tanto più penosa, perché, secondo l’abituale modestia dei nostri cari compatrioti, Albert era partito da Parigi con la ferma convinzione di avere in Italia il più felice successo, e di ritornare a formar la delizia del bastione di Gand col racconto delle sue avventure. Ahimè! non ne aveva avuta alcuna: le graziose contesse genovesi, fiorentine e napoletane si erano conservate per i loro mariti, per i loro amanti, e Albert si era fatto la crudele convinzione che le italiane sanno essere almeno fedeli. Anche se non voglio dire che in Italia, come in ogni altro luogo, non vi siano eccezioni.

Eppure Albert non era solo un giovanotto molto elegante, ma aveva anche dello spirito; in più, era visconte, e di nobiltà recente, è vero, ma oggi che importa, se la propria nobiltà porta la data del 1399 o del 1815? Oltretutto aveva una rendita di cinquantamila lire; e questo è molto più di quanto serve per appartenere al bel mondo di Parigi. Era dunque umiliante, per lui, non essere stato ancora seriamente guardato da alcuna signora nelle città in cui aveva soggiornato. Ma contava di rifarsi durante il carnevale, essendo questo un periodo di libertà in tutti i paesi della terra in cui si celebra tale istituzione, e nel quale anche i più stoici cadono in qualche follia. Ora, siccome il carnevale si apriva il giorno dopo, era necessario che Albert stabilisse prima il suo programma.

Albert dunque, allo scopo, aveva preso in affitto uno dei palchi più in vista del teatro, e per recarvisi si era vestito in un modo irreprensibile. Il palco era in prima fila, la quale sostituisce la galleria dei teatri francesi. Del resto, le tre prime file di palchi sono tutte ugualmente e indistintamente aristocratiche, e per questo si chiamano le file nobili. Questo palco, nel quale si poteva stare in dodici senza pigiarsi, era costato molto meno di un palco a quattro posti all’Ambigu. Albert aveva anche un’altra speranza: se fosse riuscito a conquistare il cuore di una bella romana, ciò lo avrebbe naturalmente condotto anche a conquistare un posto in una carrozza, e di conseguenza a vedere il corso mascherato dall’alto di una carrozza aristocratica o da una finestra principesca. Tutte queste considerazioni lo rendevano perciò irrequieto. Egli voltava le spalle agli attori, si sporgeva a metà fuori del palco guardando le più belle donne con un cannocchiale lungo quindici centimetri, cosa che non sollecitava alcuna signora a ricompensare di un solo sguardo, anche di semplice curiosità, tutti i movimenti di Albert. Difatti ognuna parlava dei propri affari, dei propri amori, del carnevale che cominciava l’indomani, senza fare attenzione né agli attori, né alla musica, a eccezione dei momenti in cui si voltava verso il palcoscenico per sentire un brano di Cosselli, per applaudire a qualche bella nota di Moriani, o per gridare brava alla Spech. Poi le conversazioni riprendevano il loro corso abituale.

Verso la fine del primo atto si aprì la porta di un palco rimasto vuoto fino allora, e Franz vide entrarvi una persona alla quale aveva avuto l’onore di essere stato presentato a Parigi e che credeva ancora in Francia. Albert vide il movimento che fece il suo amico a quella comparsa, e voltandosi verso di lui disse: «Conoscete forse quella signora?»

«Sì, che ve ne pare?»

«Graziosa, mio caro; e bionda. Oh, che capelli adorabili! È francese?»

«No, è veneziana.»

«Come si chiama?»

«La contessa G.»

«Oh, la conosco di nome», esclamò Albert. «Dicono che sia tanto spiritosa quanto è bella. Perbacco, avrei potuto farmi presentare a lei a Parigi all’ultimo ballo della Villefort, e non l’ho fatto, sono un vero stupido!»

«Volete che ripari a questo torto?» domandò Franz.

«Come! Voi la conoscete con abbastanza intimità per condurmi nel suo palco?»

«Ho avuto l’onore di parlarle tre o quattro volte in vita mia, ma ciò basta per non commettere una sconvenienza.»

In quel momento la contessa riconobbe Franz, e con la mano gli fece un grazioso cenno, al quale egli rispose inchinando rispettosamente il capo.

«Mi sembra che siate molto nelle sue grazie!» disse Albert.

«Ecco ciò che vi inganna, e a noi francesi farà sempre commettere mille sciocchezze all’estero: vedere ogni cosa unicamente dal nostro punto di vista. In Spagna, e soprattutto in Italia, non giudicate mai della intimità delle persone dalla libertà dei rapporti. Io e la contessa ci troviamo simpatici, ecco tutto.»

«Simpatici di cuore?» domandò ridendo Albert.

«No, di spirito…» rispose Franz serio.

«E in quale occasione?»

«In occasione di una passeggiata al Colosseo, come quella che abbiamo fatto insieme.»

«Al chiaro di luna?»

«Sì.»

«Soli?»

«Quasi.»

«E avete parlato?…»

«Di morti.»

«Ah, doveva essere una cosa assai piacevole. Ebbene, vi prometto che se avrò la fortuna di essere il cavaliere della bella contessa in una simile passeggiata, non le parlerò che dei vivi.»

«E forse farete male.»

«Intanto, presentatemi alla contessa, come mi avete promesso.»

«Non appena sarà calato il sipario.»

«Quanto è lungo questo diavolo di primo atto!»

«Ascoltate il finale, è bellissimo, e Cosselli lo canta mirabilmente.»

«Sì, ma che portamento!»

«Non si può essere però più drammatici della Spech.»

«Quando si è udito la Sontag e la Malibran…»

«Non trovate eccellente il metodo di Moriani?»

«A me non piacciono i bruni che cantano biondo.»

«Ah, mio caro», disse Franz voltandosi, mentre Albert continuava a puntare il suo cannocchiale, «in verità siete molto difficile da accontentare.»

Finalmente calò il sipario con grande soddisfazione del visconte di Morcerf, che prese il cappello, si ravviò i capelli, si sistemò la cravatta, i polsini, e disse a Franz che era pronto. Siccome la contessa, che Franz interrogava con lo sguardo, gli aveva fatto un segno impercettibile con gli occhi, per fargli capire che sarebbe stato il benvenuto, non tardò a soddisfare la premura di Albert, e mentre faceva il giro dell’emiciclo, il compagno ne approfittava per accomodare le pieghe sul colletto della camicia, e sul rovescio dell’abito. Bussarono alla porta del palco numero 4, che era quello occupato dalla contessa. Subito il giovane, che sedeva a lato della contessa, si alzò cedendo il posto, secondo l’usanza italiana, al nuovo arrivato, che deve cederlo a sua volta quando c’è un’altra visita.

Franz presentò Albert alla contessa come uno dei giovani parigini più distinti per la sua posizione sociale e per il suo spirito, cosa d’altra parte vera, perché a Parigi e nell’ambiente in cui viveva Albert era ritenuto un vero gentiluomo. Aggiunse che, dispiaciuto di non aver saputo approfittare del soggiorno della contessa a Parigi per farsi presentare a lei, lo aveva incaricato di riparare a questo errore, missione che egli adempiva, pregando la contessa di perdonare la sua indiscrezione. La contessa rispose facendo un grazioso saluto ad Albert e tendendo la mano a Franz. Invitato da lei, Albert prese il posto rimasto vuoto al suo fianco, e Franz si sedette dietro la contessa. Albert aveva trovato un ottimo argomento di conversazione: Parigi; parlava alla contessa delle loro comuni conoscenze. Franz capì che l’amico era sul terreno che gli conveniva, lo lasciò parlare, e chiestogli il grosso cannocchiale, si mise anch’egli a esplorare il teatro.

Sola, appoggiata al parapetto di un palco di terza fila, davanti a loro, c’era una donna molto bella, vestita alla greca e con tanta grazia che si capiva essere quello il suo modo di vestire abituale. Dietro di lei, nell’ombra, si delineava la forma di un uomo di cui era impossibile distinguere il viso. Franz interruppe la conversazione di Albert con la contessa per chiedere a quest’ultima se conosceva la bella greca, tanto degna di attirare l’attenzione non solo degli uomini, ma anche delle donne.

«No», disse lei, «tutto ciò che so, è che si trova a Roma dall’inizio della stagione; perché all’apertura del teatro l’ho vista dove è ora, e da un mese non è mai mancata a una rappresentazione, ora accompagnata dall’uomo con lei in questo momento, ora semplicemente seguita da un domestico nero.»

«Come la trovate, contessa?»

«Estremamente bella. Medora doveva assomigliare a quella donna.»

Franz e la contessa si scambiarono un sorriso, poi lei riprese a conversare con Albert, e Franz seguitò a fissare la bella greca.

Il sipario si alzò per la rappresentazione del ballo. Era uno dei migliori balli italiani, messo in scena dal famoso Henri, che come coreografo, si era fatto in Italia una reputazione colossale, che poi il disgraziato perse al Teatro Nautico, per uno di quei balli dove dal primo interprete all’ultima comparsa tutti prendono parte attiva all’azione, e centocinquanta persone fanno nello stesso tempo lo stesso gesto, e alzano o il medesimo braccio o la medesima gamba. Franz era troppo preoccupato della sua bella greca per potersi interessare al ballo. Quanto a lei, provava un manifesto piacere a quello spettacolo, piacere che contrastava con la noncuranza di colui che l’accompagnava, e che durante tutta la rappresentazione coreografica non fece un movimento, sembrando che in mezzo al rumore infernale che facevano le trombe, i cembali e i piatti cinesi dell’orchestra, egli godesse le celestiali dolcezze di un sonno pacifico.

Finalmente il ballo terminò, e il sipario calò in mezzo agli applausi frenetici di una platea entusiasta. Per quest’abitudine di separare col ballo i due atti dell’opera, gi intermezzi fra un atto e l’altro sono brevissimi in Italia: i cantanti hanno tutto il tempo di riposare e di cambiarsi d’abito mentre i ballerini eseguono le loro danze.

Il preludio del secondo atto cominciò.

Franz vide che, ai primi accordi di violino, l’assonnato sconosciuto andava alzandosi lentamente, e si avvicinava alla greca, che si voltò per dirgli qualche parola, quindi tornò ad appoggiarsi al parapetto del palco. La figura del suo interlocutore era sempre nell’ombra, e Franz non poteva distinguerne i tratti del volto.

Rialzato il sipario, gli attori attirarono necessariamente l’attenzione di Franz; gli occhi lasciarono per un momento il palco della bella greca per andare verso la scena.

Il secondo atto, come ognuno sa, comincia col duetto del sogno: Parisina, dormendo, si lascia sfuggire, davanti ad Azzo, il segreto del suo amore per Ugo. Lo sposo tradito passa per tutti i furori della gelosia, fino a che, convinto dell’infedeltà della sposa, la sveglia per annunciarle la sua imminente vendetta. Questo duetto è uno dei più belli, dei più espressivi, dei più tragici usciti dalla penna di Donizetti. Franz lo sentiva per la terza volta, e sebbene non passasse per un melomane, produsse su di lui un effetto profondo. Stava per aggiungere i suoi applausi a quelli del pubblico, allorché le sue mani rimasero sospese in aria, e il «bravi» che stava per uscirgli di bocca gli morì sulle labbra. L’uomo del palco si era alzato in piedi e la sua testa veniva rischiarata dalla luce: Franz riconobbe in lui il misterioso abitante di Montecristo, quello che la sera prima gli era sembrato di aver riconosciuto fra le rovine del Colosseo.

Non c’era più dubbio, lo strano viaggiatore era a Roma.

Senza dubbio, l’espressione del viso di Franz era in armonia col turbamento causatogli da quell’apparizione, poiché la contessa lo guardò, scoppiò in una risata, e gli domandò che cosa avesse.

«Signora contessa», rispose Franz, «poco fa vi ho domandato se conoscevate quella donna greca: ora vi domando se conoscete suo marito.»

«Non più di lei!» rispose la contessa.

«L’avete mai osservato?»

«Ecco una domanda alla francese! Sapete bene che per noi italiane non c’è altro uomo al mondo se non quello che amiamo!»

«È giusto!» rispose Franz.

«In ogni modo», disse lei applicando ai suoi occhi il cannocchiale di Albert, e puntandolo verso il palco, «lui dev’essere un qualche redivivo, qualche morto uscito dalla tomba col permesso dei becchini, poiché mi sembra spaventosamente pallido.»

«È sempre così…» rispose Franz.

«Voi dunque lo conoscete?» domandò la contessa. «Allora sono io che vi chiedo chi è?»

«Credo di averlo visto altre volte, e mi pare di riconoscerlo.»

«Infatti», disse lei, facendo un movimento con le sue belle spalle come se un brivido le percorresse, «capisco che quando un tal uomo si è visto una volta, non lo si dimentica più.»

L’effetto che Franz aveva provato non era dunque un’impressione individuale, perché un’altra persona l’aveva sentita al pari di lui.

«Ebbene» domandò Franz alla contessa dopo che l’ebbe guardato una seconda volta, «che ne pensate di quell’uomo?»

«A me sembra che sia lord Ruthwen in carne e ossa.»

Infatti quel nuovo ricordo di lord Byron colpì Franz: se qualcuno poteva fargli credere all’esistenza dei vampiri, era quello.

«Bisogna ch’io sappia chi è…» disse Franz alzandosi.

«Oh no», esclamò la contessa, «no, non mi lasciate! Conto su di voi per essere accompagnata a casa, e ora vi trattengo.»

«Come», le disse Franz, chinandosi al suo orecchio, «avete paura?»

«Sentite», disse lei, «Byron mi ha giurato che credeva ai vampiri, mi ha assicurato di averne visti, e me ne ha descritto i loro visi; ebbene, assomigliano perfettamente a quell’uomo là, con i capelli neri, grandi occhi brillanti di una strana fiamma, quel pallore mortale; poi notate che non è con una donna come tutte le altre, è con una straniera… una greca… una scismatica… senza dubbio con una maga al par di lui… Ve ne prego, non andatevene. Domani vi metterete sulle sue tracce, se così vi aggrada, ma questa sera vi ritengo impegnato.»

Franz insistette.

«Ascoltate», disse lei alzandosi, «io me ne vado, non posso fermarmi sino alla fine dello spettacolo, perché ho gente in casa che mi aspetta… Sareste così poco galante da negarmi la vostra compagnia?»

Franz non aveva altra risposta da dare che prendere il suo cappello, aprire la porta e offrire il braccio alla contessa. E questo fece. La contessa era effettivamente molto commossa: lo stesso Franz non poteva sfuggire a un certo timore superstizioso, tanto più naturale in quanto ciò che nella contessa era l’effetto di una sensazione istintiva, in lui era il risultato di un ricordo. Nel salire in carrozza sentì che la contessa tremava. La accompagnò fino a casa: non era vero che era attesa, e lui la rimproverò.

«In verità», disse lei, «non mi sento bene, e ho bisogno di essere lasciata sola: la vista di quell’uomo mi ha sconvolta.»

Franz rise.

«Non ridete», gli disse lei, «d’altra parte, non ne avete voglia neppure voi. Promettetemi una cosa…»

«E quale?»

«Promettetela.»

«Tutto quello che vorrete, eccetto di rinunciare a scoprire chi è quell’uomo. Ho dei motivi che non posso dirvi, per desiderare di sapere chi sia, donde venga e dove vada.»

«Donde venga non lo so, ma dove vada, ve lo posso dire con certezza: va all’inferno.»

«Ritorniamo alla promessa che volevate da me, contessa.»

«Ah, è di tornare direttamente al vostro albergo e di non cercare di vedere, per questa sera, quell’uomo. Vi è una certa affinità fra le persone che si lasciano e quelle che si raggiungono; non vogliate servire da tramite fra quell’uomo e me. Domani corretegli dietro come più vi aggrada, ma non me lo presentate mai, se non volete vedermi morire di paura. Dopo di ciò, buonasera; cercate di dormire bene; quanto a me, sento che non chiuderò occhio!»

Con queste parole la contessa si congedò da Franz, lasciandolo nel dubbio se si era divertita alle sue spalle, o se aveva veramente sentito la paura espressa.

Ritornando in albergo, Franz trovò Albert in veste da camera, con larghi calzoni e voluttuosamente seduto sopra una poltrona, fumando un sigaro.

«Ah, siete voi», disse, «non vi aspettavo che domattina.»

«Mio caro Albert», rispose Franz, «colgo l’occasione di dirvi, una volta per tutte, che avete la più falsa idea delle donne italiane; mi sembra però che le vostre delusioni amorose avrebbero dovuto farvela perdere.»

«Che volete, non c’è niente da capire con questi diavoli di donne: vi danno la mano, ve la stringono, vi parlano a bassa voce all’orecchio, si fanno accompagnare a casa; con un quarto appena di tutto ciò una parigina perderebbe la sua reputazione.»

«Eh, è appunto perché non hanno nulla da nascondere, perché agiscono alla luce del giorno, che le donne non usano tanti riguardi nel “bel paese là ove il sì suona”, come dice Dante. D’altra parte, avete visto anche voi, la contessa ha avuto veramente paura.»

«Paura di chi? Di quell’onest’uomo di fronte a noi con quella bella greca? Ho voluto vederci chiaro quando sono usciti, e sono andato loro incontro nel corridoio. Non so dove diavolo avete preso tutte le vostre idee dell’altro mondo! È un bellissimo giovane molto elegante, e gli abiti hanno l’aspetto d’esser fatti in Francia da Blin o da Humann. È un po’ pallido, è vero, ma voi sapete che il pallore è un segno di distinzione.»

Franz sorrise, perché Albert aveva la pretesa d’esser pallido.

«Io pure», disse Franz, «sono convinto che le idee della contessa su quell’uomo siano prive di buon senso. Ha parlato mentre gli eravate vicino, e avete udito qualcuna delle sue parole?»

«Ha parlato, ma in greco moderno; ho riconosciuto la lingua da qualche parola greca alterata. Bisogna che sappiate, mio caro, che in collegio ero molto bravo in greco.»

«Parlava dunque in greco.»

«È probabile.»

«Non vi è dubbio», mormorò Franz, «è lui.»

«Che dite?»

«Niente… Ma che facevate voi, là?»

«Vi preparavo una sorpresa.»

«Quale?»

«Sapete che è impossibile trovare una carrozza?»

«Perbacco! Dopo che abbiamo tentato tutto ciò che era umanamente possibile fare…»

«Ebbene, ho un’idea meravigliosa.»

Franz guardò Albert, come non avesse gran fiducia nella sua immaginazione.

«Mio caro», disse Albert, «mi onorate di uno sguardo tale, che meriterebbe vi domandassi soddisfazione.»

«Sono disposto a darvela, amico mio, se la vostra idea è ingegnosa quanto dite.»

«Ascoltate.»

«Ascolto.»

«Non c’è mezzo di procurarsi una carrozza?»

«No.»

«Neanche cavalli?»

«Nemmeno.»

«Ma sarebbe facile procurarsi un carretto?»

«Forse.»

«E un paio di buoi?»

«È probabile.»

«Ebbene, mio caro, ecco ciò che ci serve. Faccio ornare il carretto, ci mascheriamo da mietitori napoletani, e rappresentiamo al naturale il magnifico quadro di Léopold Robert. Se per una maggior somiglianza la contessa volesse vestirsi alla foggia delle donne di Pozzuoli o di Sorrento, completerebbe la mascherata, ed è tanto bella che la si scambierebbe per l’originale del quadro.»

«Perbacco», gridò Franz, «questa volta avete ragione, ecco un’idea veramente felice.»

«E tutta nazionale, rinnovata dai re dei poltroni, mio caro. Ah, signori romani, voi credete che si voglia andare a piedi per le vie, come lazzaroni, e ciò perché avete penuria di carrozze e di cavalli? Ebbene, se ne farà a meno.»

«E avete già fatto partecipe qualcuno di questa bella invenzione?»

«Il nostro albergatore. Quando sono rientrato, l’ho fatto salire e gli ho esposto i miei desideri. Mi ha assicurato che non vi è nulla di più facile. Volevo far dorare le corna dei buoi, ma mi ha detto che occorrerebbero almeno tre giorni: bisognerà dunque che tralasciamo il superfluo.»

«E dov’è lui?»

«Chi?»

«Il nostro albergatore…»

«In cerca del necessario; domani forse sarebbe tardi.»

«Di modo che ci darà la risposta questa sera stessa?»

«Io l’aspetto.»

In quel momento la porta si aprì, e Pastrini sporse la testa: «È permesso?» disse.

«Certamente», gridò Franz.

«Ebbene», disse Albert, «avete trovato il carretto e i buoi?»

«Ho trovato di meglio», rispose, con un’aria molto soddisfatta.

«Ah, mio caro Pastrini, state in guardia», disse Albert. «Il meglio è nemico del bene.»

«Le Eccellenze Vostre si fidino di me», disse Pastrini col tono di persona sicura.

«Ma infine che cosa c’è?» domandò Franz a sua volta.

«Sapete», disse l’albergatore, «che il conte di Montecristo abita su questo stesso piano?»

«Credo bene che lo sappiamo», disse Albert, «poiché è per lui che siamo alloggiati come due studenti della rue Saint-Nicolas du Chardonnet!»

«Ebbene, egli sa del vostro imbarazzo, e vi offre due posti nella sua carrozza, e due posti alle sue finestre del palazzo Ruspoli.»

Albert e Franz si guardarono.

«Ma», domandò Albert, «dobbiamo accettare l’offerta di questo straniero? Di un uomo che non conosciamo?»

«Che uomo è, questo conte di Montecristo?» domandò Franz all’albergatore.

«Un ricchissimo signore siciliano o maltese, non lo so precisamente, ma nobile come un borghese, e ricco come una miniera d’oro.»

«Mi sembra», disse Franz, «che, se questo signore avesse avuto le maniere che decanta il nostro albergatore, avrebbe dovuto farci giungere il suo invito in un altro modo, o con un biglietto, o…»

In quell’istante bussarono alla porta.

«Entrate», disse Franz.

Un domestico in elegante livrea comparve sulla soglia della camera.

«Vengo da parte del conte di Montecristo a recare questo biglietto per il signor Franz di Epinay e per il signor visconte Albert di Morcerf», disse.

E consegnò all’albergatore il biglietto che questi passò ai giovani.

«Il signor conte di Montecristo», continuò il domestico, «domanda a questi signori il permesso di potersi presentare a loro, come vicino, domattina; desidera perciò sapere a quale ora.»

«In fede mia», disse Albert a Franz, «non c’è niente da ridire; c’è tutto.»

«Dite al conte», rispose Franz, «che sarà nostro l’onore di fargli visita.»

Il domestico si ritirò.

«Ecco ciò che si chiama fare sfoggio di eleganza», disse Albert. «Avevate davvero ragione, Pastrini, il vostro conte di Montecristo è un uomo che conosce perfettamente le buone maniere.»

«Allora accettate la sua offerta?» disse Pastrini.

«In fede mia, sì», rispose Albert. «Anche se, ve lo confesso, mi dispiace per il nostro carretto da mietitori, e se non vi fosse stata la finestra del palazzo Ruspoli per compensare ciò che perdiamo, credo che ritornerei alla mia prima idea: che ne dite Franz?»

«Dico che sono proprio le finestre del palazzo Ruspoli che mi hanno fatto decidere di accettare», rispose Franz.

Infatti quell’offerta dei due posti a una finestra del palazzo Ruspoli aveva ricordato a Franz la conversazione udita fra le rovine del Colosseo, tra l’uomo del mantello e il trasteverino, conversazione nella quale l’uomo del mantello si era impegnato a ottenere la grazia del condannato. Se questi era, come tutto faceva credere a Franz, lo stesso che gli era apparso al teatro Argentina, lo avrebbe riconosciuto senza dubbio, e allora non avrebbe avuto più alcun ostacolo a soddisfare la curiosità.

Franz passò buona parte della notte a pensare alle due apparizioni, e nel desiderare l’indomani. Infatti, l’indomani tutto doveva chiarirsi e, a meno che il suo ospite di Montecristo non possedesse l’anello di Gige e la facoltà di rendersi invisibile, era evidente che questa volta non gli sarebbe sfuggito. Si svegliò prima delle otto. Quanto ad Albert, siccome non aveva gli stessi motivi di Franz per essere mattiniero, dormiva ancora profondamente. Franz fece chiamare l’albergatore, che si presentò coi soliti ossequi.

«Pastrini», gli disse, «non ci deve essere oggi un’esecuzione?»

«Sì, Eccellenza; ma se lo domandate per avere una finestra è troppo tardi.»

«No», rispose Franz, «d’altra parte, se volessi assolutamente vedere questo spettacolo, credo troverei un posto sul Pincio.»

«Oh, presumevo che Vostra Eccellenza non volesse mescolarsi con tutta quella plebaglia di cui il Pincio è in qualche modo l’anfiteatro naturale.»

«È probabile che non vi andrò», disse Franz, «ma desidererei qualche particolare.»

«Quale?»

«Vorrei sapere il numero dei condannati, i loro nomi, e il genere del loro supplizio.»

«Non poteva capitare più a proposito, Eccellenza, proprio in questo momento mi hanno portato le tavolette.»

«Che cosa sono queste tavolette?»

«Le tavolette sono quadretti di legno che vengono attaccati agli angoli delle vie il giorno prima dell’esecuzione e sulle quali sono scritti i nomi dei condannati, la causa della loro condanna e il genere di supplizio. Questo avviso ha lo scopo d’invitare i fedeli a pregare Dio di concedere ai colpevoli un sincero pentimento.»

«E ve le portano perché uniate le vostre preghiere a quelle dei fedeli?» domandò Franz.

«No, Eccellenza, io sono d’accordo con quello che le attacca, e me ne porta una copia, come mi porta un programma dello spettacolo, affinché se qualcuno dei miei ospiti desidera assistere all’esecuzione, ne sia avvertito.»

«Ma è un tratto di delicatezza squisita, il vostro!»

«Oh», disse Pastrini, «non faccio per vantarmi, ma cerco di fare tutto il possibile per soddisfare i nobili avventori che mi onorano della loro fiducia.»

«Me ne accorgo, e lo ripeterò a chi vorrà ascoltarmi, siatene pur sicuro. Frattanto desidererei una di queste tavolette.»

«È presto fatto», disse l’albergatore aprendo la porta, «ne ho fatto appendere una qui sul pianerottolo.»

Uscì, staccò la tavoletta e la presentò a Franz. Ecco le parole dell’affisso patibolare: «Si rende noto a tutti, che martedì 22 febbraio, primo giorno di carnevale, saranno, per decreto del Tribunale e della Sacra Rota, giustiziati sulla piazza del Popolo il nominato Andrea Rondolo, reo di assassinio sulla persona di un rispettabilissimo cittadino di Roma; e il nominato Peppino detto Rocca Priori, complice confesso del detestabile bandito Luigi Vampa e degli uomini della sua banda. Il primo sarà impiccato, e il secondo decapitato. Le anime caritatevoli sono pregate di domandare a Dio un sincero pentimento per questi due infelici condannati».

Questo era ciò che Franz aveva udito fra le rovine del Colosseo, e non era stato cambiato nulla al programma: i nomi dei condannati, la causa del supplizio e il genere di esecuzione erano esattamente gli stessi. Così, secondo ogni probabilità, il trasteverino non era altro che il bandito Luigi Vampa, e l’uomo dal mantello scuro Sinbad il marinaio che a Roma come a Porto Vecchio e a Tunisi proseguiva il corso delle sue filantropiche spedizioni.

Intanto il tempo passava; erano le nove, e Franz si disponeva ad andare a svegliare Albert, quando con sua grande sorpresa lo vide uscire di camera vestito di tutto punto.

«Ebbene», disse Franz all’albergatore, «ora che siamo pronti tutti e due, credete che potremmo presentarci al conte di Montecristo?»

«Certamente; ha l’abitudine di alzarsi di buon mattino, e sono sicuro che è alzato da più di due ore.»

«E credete che non sarà indiscreto fargli visita a quest’ora?»

«No, certamente.»

«In questo caso, Albert, se siete pronto…»

«Perfettamente pronto.»

«Andiamo a ringraziare il nostro vicino della sua cortesia.»

«Andiamo.»

Franz e Albert non avevano che il pianerottolo da attraversare. L’albergatore li precedeva, e suonò in loro vece; un domestico venne ad aprire.

«I signori francesi», disse l’albergatore.

Il domestico s’inchinò e fece loro segno di entrare. Essi attraversarono due camere ammobiliate con un lusso che non credevano di trovare nell’albergo di Pastrini, e furono introdotti in un salotto arredato con perfetta eleganza. Un tappeto turco era steso sul pavimento, e i sedili più comodi offrivano i loro cuscini imbottiti e i loro schienali inclinati indietro. Magnifici quadri d’autore, frammezzati da trofei di splendide armi, erano appesi alle pareti, e ricchi panneggi pendevano davanti a tutte le porte.

«Se le Loro Eccellenze vogliono accomodarsi», disse il domestico, «vado ad avvisare il signor conte.»

E disparve da una porta. Nel momento in cui questa si aprì, il suono di una guzla giunse fino ai due amici, ma si spense subito; la porta, richiusa quasi nello stesso istante in cui fu aperta, non aveva lasciato passare nel salone che, per così dire, un soffio d’armonia. Franz e Albert si scambiarono uno sguardo, e tornarono a volgere la loro attenzione sui mobili, sui quadri e sulle armi. A questa seconda ispezione tutto sembrò ancor più magnifico che alla prima.

«Ebbene», domandò Franz al suo amico, «che ne dite?»

«In fede mia, mio caro, dico che bisogna che il nostro vicino sia un qualche agente di cambio che ha speculato al ribasso sui fondi spagnoli, o qualche principe che viaggia in incognito.»

«Zitto», gli disse Franz, «è quanto sapremo fra poco, eccolo…»

Infatti il rumore di una porta che girava sui cardini si fece sentire, e quasi subito i panneggi si scostarono per lasciar passare il proprietario di tante ricchezze.

Albert gli andò incontro, ma Franz rimase al suo posto. Colui che entrava era infatti l’uomo dal mantello scuro del Colosseo, lo sconosciuto del palco, l’ospite misterioso di Montecristo.

35. Il patibolo

«Signori», disse il conte di Montecristo, «vi faccio le mie scuse per essermi lasciato prevenire; ma avrei avuto timore di essere indiscreto presentandomi prima da voi. D’altra parte, mi avevate fatto dire che sareste venuti, e io mi sono tenuto a vostra disposizione.»

«Io e Franz dobbiamo farvi mille ringraziamenti, signor conte», disse Albert. «Ci avete tolto da un grande imbarazzo, e stavamo per ricorrere a un bizzarro espediente nel momento in cui ci arrivò il vostro grazioso invito.»

«Mio Dio, signori», rispose il conte facendo segno con gli occhi ai due giovani di sedersi sopra un divano, «la colpa è di questo imbecille di Pastrini che non mi ha detto prima il vostro imbarazzo, e vi ha lasciato per così lungo tempo nell’incertezza; solo e isolato come sono qui, non cercavo che un’occasione di far conoscenza con i miei vicini. Cosicché appena seppi di poter esservi utile in qualche cosa, avete visto con quale fretta ho afferrato l’occasione di prestarvi i miei servigi.»

I due giovani s’inchinarono. Franz non aveva ancora trovato una sola parola da dire, non aveva ancora preso alcuna decisione, e poiché il conte sembrava non avesse volontà di riconoscerlo, o alcun desiderio di essere riconosciuto da lui, non sapeva se doveva fare allusione al passato con una parola qualunque, o lasciare il tempo all’avvenire per portargli nuove prove. D’altra parte, essendo certo che era quello stesso della sera prima nel palco, non poteva ugualmente assicurare che fosse quello al Colosseo di due sere prima: decise dunque di lasciar andare le cose senza fare alcuna domanda diretta al conte. Del resto, aveva un vantaggio su di lui, conosceva il suo segreto, mentre al contrario il conte non poteva avere alcun potere su Franz, che non aveva nulla da nascondere. Mentre aspettava gli avvenimenti decise di far cadere la conversazione su un punto che potesse sempre condurre a dei chiarimenti.

«Signor conte», disse, «ci avete offerto due posti nella vostra carrozza e altri due alle finestre del palazzo Ruspoli; potreste ora indicarci come potremmo fare per procurarci un posto qualunque sulla piazza del Popolo?»

«Sì, è vero», disse il conte in modo distratto, ma guardando Morcerf con attenzione, «ci deve essere, se non sbaglio, in piazza del Popolo qualche cosa di simile a un’esecuzione.»

«Sì», rispose Franz, notando che veniva da sé dove voleva condurlo.

«Aspettate, credo di aver detto ieri al mio intendente di occuparsi di questo, e forse potrò rendervi anche questo piccolo favore.»

Allungò una mano e tirò il cordone del campanello. Subito entrò un individuo sui cinquant’anni che somigliava come una goccia d’acqua a quel contrabbandiere che aveva introdotto Franz nella grotta, ma che non fece minimamente segno di riconoscerlo.

«Bertuccio», disse il conte, «vi siete incaricato, come ordinai ieri, di trovarmi una finestra sulla piazza del Popolo?»

«Sì, Eccellenza», rispose l’intendente, «ma era troppo tardi.»

«Come», disse il conte, aggrottando il sopracciglio, «vi avevo ordinato di trovarne una!»

«E Vostra Eccellenza l’avrà; è una finestra che era stata data in affitto al principe Lobanieff; ma sono stato costretto a pagarla cento…»

«Va bene, va bene, Bertuccio, risparmiate a questi signori dei particolari inutili; voi avete trovato la finestra e questo è l’importante. Date l’indirizzo della casa al cocchiere, e trattenetevi sulla scala per accompagnarci. E ora andate.»

L’intendente salutò, e fece un passo per ritirarsi.

«Aspettate!» riprese il conte. «Fatemi il favore di domandare a Pastrini se ha ricevuto la tavoletta, e se vuole inviarmi il programma dell’esecuzione.»

«È inutile», rispose Franz cavando il taccuino di tasca, «ho avuto quella tavoletta sotto gli occhi, e l’ho copiata, eccola.»

«Allora, Bertuccio, potete ritirarvi, non ho più bisogno di voi. Che ci avvisino soltanto quando sarà pronta la colazione. Questi signori», continuò rivolgendosi ai due amici, «mi faranno l’onore di far colazione con me?»

«Davvero, signor conte», disse Albert, «sarebbe un abusare…»

«No, al contrario, mi fate un vero piacere… Mi renderete tutto ciò a Parigi, l’uno o l’altro, e forse anche tutti e due… Bertuccio, ordinate che preparino per tre.» E prese il taccuino dalle mani di Franz. «Noi dicevamo dunque», continuò col tono con cui avrebbe letto tutt’altro avviso, «che saranno giustiziati oggi 22 febbraio i nominati Andrea Rondolo, reo d’assassinio sulla persona di un rispettabilissimo cittadino di Roma, e il nominato Peppino detto Rocca Priori complice confesso del detestabile bandito Luigi Vampa e degli uomini della sua banda. Il primo sarà impiccato, e il secondo decapitato… Sì, infatti proprio così doveva andare la cosa, ma credo che da ieri sia sopraggiunto qualche cambiamento nell’ordine della cerimonia.»

«Ah», disse Franz, «quale cambiamento?»

«Sì, ieri sera dal cardinale Rospigliosi, presso il quale ho passato la serata, si parlava di una dilazione accordata a uno dei due condannati.»

«Ad Andrea Rondolo?» domandò Franz.

«No…», rispose con indifferenza il conte, «all’altro…», e guardando il taccuino per ricordarsi il nome, «…a Peppino detto Rocca Priori… Questo vi priverà di vedere in azione la ghigliottina, ma vi resta l’altra esecuzione, che è un supplizio molto interessante, quando si vede per la prima volta, e anche la seconda, mentre l’altro, che voi certo dovete conoscere, è troppo semplice, troppo rapido, e nulla c’è di inaspettato. La mannaia non sbaglia, non trema, non ripete trenta volte il suo gesto come il soldato che tagliava la testa al conte di Chalais, e al quale forse era stato raccomandato da Richelieu. Ah», aggiunse il conte in tono sprezzante, «non mi parlate degli europei per le esecuzioni capitali, non se ne intendono affatto, e si trovano veramente allo stato d’infanzia o piuttosto di vecchiaia in rapporto al dare la morte.»

«In verità, signor conte», rispose Franz, «si direbbe che avete fatto uno studio comparato dei supplizi presso i diversi popoli del mondo.»

«Ve ne sono pochi che io non abbia visto.»

«E avete provato piacere ad assistere a questi spettacoli?»

«Il mio primo sentimento fu la ripugnanza, il secondo l’indifferenza, il terzo la curiosità.»

«La curiosità? La parola è terribile, sapete?»

«Perché? Non c’è nella vita una preoccupazione più grave di quella della morte… Ebbene, non è curioso studiare in quanti differenti modi l’anima può uscire dal corpo, e come, secondo i caratteri, i temperamenti, e anche i costumi dei paesi, gli individui sopportino questo supremo passaggio? Quanto a me vi risponderò una cosa, ed è che, più si vede morire, più diventa facile il morire; per cui, a mio modo di vedere, la morte è forse un supplizio, ma non un’espiazione.»

«Non vi capisco bene», disse Franz, «spiegatevi, perché non potete credere quanto punga la mia curiosità ciò che mi dite.»

«Ascoltate dunque», disse il conte, e il suo viso diventò di fiele nello stesso modo che il viso di un altro si colora col sangue. «Se un uomo avesse fatto morire fra torture inaudite, in mezzo a tormenti senza fine, vostro padre, vostra madre, la vostra amante, uno di quegli esseri che quando vengono sradicati dal nostro cuore vi lasciano un vuoto eterno e una piaga sempre sanguinosa, credete che fosse sufficiente la riparazione che vi accorda la società, perché il ferro della ghigliottina è passato fra la base dell’occipite e i muscoli delle spalle dell’assassino, e perché colui che vi ha fatto soffrire lunghi anni di morali sofferenze, ha provato qualche secondo di dolore fisico?»

«Sì, lo so», rispose Franz, «la giustizia umana è insufficiente come consolatrice delle angosce sofferte; può versare sangue per sangue, e niente più… Non bisogna però chiederle più di quello che può dare.»

«Ma io mi sono limitato a esporvi un caso materiale», riprese il conte, «quello in cui la società attaccata, per la morte violenta di un individuo, nei principi sui quali si fonda, punisce la morte con la morte. Ma non vi sono milioni di dolori dai quali possono essere straziati le viscere dell’uomo, senza che la società se ne occupi minimamente, senza ch’essa gli offra il mezzo insufficiente di castigo di cui parlavamo or ora? Non vi sono delitti per i quali il palo dei turchi, i trogoli dei persiani, i nervi attorcigliati degli indiani sarebbero supplizi troppo lievi, e che tuttavia la società indifferente lascia senza punizione? Rispondetemi, non vi sono delitti così?»

«Sì, ed è per punirli che si tollera il duello in alcuni paesi.»

«Ah, il duello!» esclamò il conte. «Bella maniera di giungere alla meta, quando questa è la vendetta! Un uomo vi rapisce l’amante, seduce vostra moglie, disonora vostra figlia; di una vita intera, che aveva il diritto di aspettarsi da Dio, la parte di felicità che ha promesso a ogni uomo nel crearlo, ha fatto un’esistenza di dolore, di miseria o di infamia, e voi vi credete vendicato perché a quell’uomo, che vi ha messo il delirio nell’anima e la disperazione nel cuore, avete passato il petto con la spada o attraversato la testa con una pallottola? Senza calcolare che spesso è il reo che riporta la vittoria nel duello, e viene così assolto agli occhi del mondo. No, no», continuò il conte, «se dovessi mai vendicarmi, non mi vendicherei così.»

«Voi disapprovate il duello? Dunque non vi battereste in duello?» domandò a sua volta Albert, meravigliato nel sentire una tale teoria.

«No certamente, non mi batterei», disse il conte.

«Ma», disse Franz al conte, «con questa teoria che vi costituisce giudice e carnefice nella vostra causa, sarebbe difficile contenervi nei limiti per fuggire gli estremi, che sono sempre pericolosi, e converrete senza difficoltà, che l’odio è cieco, la collera sorda, e colui che si mesce la vendetta, corre pericolo di bere una bevanda amara.»

«Anche questo può essere vero, e qualche volta abbiamo visto avverarsi ciò che ora affermate; ma, d’altra parte, il peggio che potrebbe accadere a un tale che avesse violato la legge, sarebbe d’incorrere in quest’ultimo supplizio di cui parlavamo or ora, quello cioè che la filantropica rivoluzione francese ha sostituito allo squartamento e alla ruota. Ebbene, che cos’è questo supplizio, se si è vendicato? In verità, sono quasi dispiaciuto che, secondo tutte le probabilità, questo miserabile Peppino non venga decapitato come si dice, vedreste il tempo che vi s’impiega, e se merita la pena di parlarne… Ma, sul mio onore, facciamo una conversazione singolare per essere il primo giorno di carnevale. Cosa dicevamo? Ah, mi ricordo: voi mi avete domandato un posto alla mia finestra… Ebbene, l’avrete! Frattanto andiamo a tavola, poiché ecco che vengono ad annunciare che tutto è pronto.»

Infatti un domestico aprì una delle quattro porte del salotto e disse la consueta frase: «È servito in tavola!»

I due giovani si alzarono e passarono nella sala da pranzo.

Durante la colazione, che fu eccellente e servita con estrema ricercatezza, Franz cercò con gli occhi lo sguardo d’Albert, per leggervi l’impressione che dovevano necessariamente avergli fatto le parole del loro ospite ma sia che, nella sua abituale noncuranza, non vi avesse prestato grande attenzione, sia che la massima del conte di Montecristo esternata in rapporto al duello lo avesse con lui riconciliato, sia finalmente che gli antecedenti raccontati, conosciuti particolarmente da Franz, avessero raddoppiato solo l’effetto delle teorie del conte, non si accorse che il compagno fosse preoccupato; anzi Albert faceva onore alla colazione come un uomo condannato da quattro o cinque mesi a una cucina ben differente dalla sua. Quanto al conte era in preda a una preoccupazione molto viva, che pareva ispirata dalla persona di Albert, e assaggiò appena ciascun piatto; si sarebbe detto, nel mettersi a tavola con i suoi convitati, che adempisse un semplice dovere di cortesia, e che aspettasse la loro partenza per farsi portare qualche cibo strano e particolare. Ciò ricordava, suo malgrado, a Franz, il terrore che il conte aveva ispirato alla contessa G. e la convinzione in cui l’aveva lasciata che il conte, l’uomo che le aveva mostrato nel palco di fronte a lei, era un vampiro. Alla fine della colazione, Franz guardò l’orologio.

«Ebbene», gli disse il conte, «che cosa fate dunque?»

«Ci scuserete, signor conte», rispose Franz, «ma abbiamo ancora mille cose da fare.»

«E quali?»

«Non abbiamo abiti da maschera, e oggi il mascherarsi è di rigore.»

«Non vi occupate di questo. A quanto sembra abbiamo sulla piazza del Popolo una stanza privata; vi farò portare gli abiti che m’indicherete e ci maschereremo là.»

«Dopo l’esecuzione?» gridò Franz.

«Dopo, durante o prima, come vorrete…»

«Dirimpetto al patibolo?»

«Il patibolo fa parte della festa.»

«Sentite, signor conte, vi ho riflettuto bene», disse Franz, «e vi ringrazio della vostra gentilezza. Mi accontenterò di accettare un posto nella vostra carrozza, e uno alla finestra del palazzo Ruspoli; vi lascio libero di disporre del mio posto alla finestra di piazza del Popolo.»

«Ma voi perderete, ve ne avverto, una cosa molto interessante», disse il conte.

«Me la racconterete», replicò Franz, «e sono convinto che dalla vostra bocca il racconto mi farà quasi tanta impressione, quanta ne potrei ricevere nel vedere il fatto. D’altra parte, più di una volta ho progettato di assistere a un’esecuzione, e poi non mi sono mai deciso. E voi, Albert?»

«Io», rispose il visconte, «ho visto giustiziare Castaing… ma credo fossi un po’ sbronzo quel giorno, perché era il primo che uscivo di collegio.»

«Ma», aggiunse il conte, «non è una ragione, che se non avete fatto una cosa a Parigi non la dobbiate neppure fare all’estero; quando si viaggia è per istruirsi: quando si cambia luogo è per vederne di nuovi. Pensate dunque quale meschina figura fareste, quando si facessero delle domande relativamente a queste esecuzioni a Roma, e voi non sapeste rispondere altro che “Non le vidi”. E poi, si dice che il condannato sia un infame malandrino, un birbante che ha ucciso a colpi di alare un buon canonico che l’aveva allevato come un figlio. Se viaggiaste in Spagna, non andreste a vedere i combattimenti dei tori? Ebbene figuratevi sia un combattimento quello che andiamo a vedere; ricordatevi degli antichi romani al Circo, dove venivano uccisi trecento leoni e un centinaio di uomini; rammentate quegli ottantamila spettatori che battevano le mani, o quelle sagge matrone che vi conducevano le loro figlie per maritarle, e quelle belle vestali dalle mani bianche che col pollice facevano un graziosissimo e piccolo segno che voleva dire: “Via, non siate pigri, finite di ammazzarmi quell’uomo, che è mezzo morto”.»

«Vi andrete dunque, Albert?» disse Franz.

«In fede mia, sì; esitavo come voi, ma l’eloquenza del conte mi ha convinto.»

«Andiamoci dunque, poiché lo volete», disse Franz, «ma nel recarmi alla piazza del Popolo desidererei passare per il Corso. È possibile, signor conte?»

«A piedi sì, in carrozza non è permesso.»

«Ebbene, vi andrò a piedi.»

«Ma avete tanta necessità di passare per il Corso?»

«Sì, ho qualche cosa da sbrigare.»

«Ebbene, passiamo tutti per il Corso. Manderemo la carrozza per via del Babuino ad aspettarci in piazza del Popolo. Del resto anch’io ho piacere di passare per il Corso, onde vedere se sono stati eseguiti alcuni ordini che ho dato.»

«Eccellenza», disse un domestico aprendo la porta, «un uomo vestito da confratello della Buona Morte chiede di parlarvi.»

«Ah sì», disse il conte, «so di che si tratta. Signori, volete avere la compiacenza di tornare in salotto? Troverete sulla tavola di mezzo degli eccellenti sigari Avana… Vi raggiungerò fra poco.»

I due giovani si alzarono e uscirono da una porta, mentre il conte, dopo aver rinnovato loro le scuse, uscì dall’altra. Albert, che era un gran amante di sigari, e che non riteneva piccolo sacrificio l’esser privo dei sigari del Café de Paris da che era in Italia, si avvicinò alla tavola, e mandò un grido di gioia nel riconoscere del veri puros.

«Ebbene», gli domandò Franz, «che pensate del conte di Montecristo?»

«Che ne penso?» disse Albert, visibilmente meravigliato che il compagno gli facesse una simile domanda. «Penso che è un uomo carissimo, che fa a meraviglia gli onori di casa, che ha molto studiato, che ha riflettuto assai, che è come il Bruto della scuola stoica, e», aggiunse, mandando una voluttuosa fumata che salì a spirale verso il soffitto, «e che, oltre tutto ciò, possiede degli eccellenti sigari.»

Questa era l’opinione di Albert sul conte. Siccome era noto a Franz che Albert aveva la pretesa di non farsi mai un’opinione degli uomini e delle cose che dopo mature riflessioni, Franz non tentò di cambiar niente alla sua.

«Ma», disse, «non avete notato una cosa singolare?»

«E quale?»

«L’attenzione con cui vi guardava.»

Albert rifletté un poco.

«Ah», disse con un sospiro, «nulla di strano in questo: sono assente da Parigi da quasi un anno, e debbo avere degli abiti di un taglio dell’altro mondo. Il conte mi avrà preso per un provinciale. Disingannatelo, caro amico, e ditegli, ve ne prego, alla prima occasione, che non è vero.»

Franz sorrise; un momento dopo il conte rientrò.

«Eccomi, signori», disse, «e sono tutto per voi! Ho già dato gli ordini necessari. La carrozza andrà in piazza del Popolo per la sua strada, e noi andremo per la nostra, se lo desiderate ancora, cioè per la strada del Corso. Su via, prendete dunque qualcuno di questi sigari, signor Morcerf…» aggiunse, strisciando in modo singolare le sillabe di questo nome che pronunciava per la prima volta.

«In fede mia, con gran piacere», disse Albert, «perché i sigari italiani sono peggiori di quelli della manifattura francese; quando verrete a Parigi vi renderò tutto questo.»

«E io non rifiuto; conto di andarvi per qualche giorno, e poiché me lo permettete, verrò a bussare alla vostra porta. Andiamo, signori, andiamo, non abbiamo tempo da perdere; è mezzogiorno e mezzo, partiamo…»

Tutti e tre discesero. Allora il cocchiere, ricevuti gli ordini del padrone, imboccò via del Babuino, mentre i pedoni risalivano per piazza di Spagna, e per via Frattina che conduce direttamente fra il palazzo Fiano e il palazzo Ruspoli. Gli sguardi di Franz furono diretti alle finestre di quest’ultimo palazzo; non aveva dimenticato il segnale convenuto al Colosseo, fra l’uomo del mantello scuro e il trasteverino.

«Quali sono le vostre finestre?» domandò al conte col tono più naturale che poté.

«Le ultime tre», rispose il conte con indifferenza, non potendo indovinare il vero scopo della domanda.

Gli occhi di Franz si volsero rapidamente alle tre finestre. Quelle laterali erano parate con un tappeto di damasco giallo, e quella in mezzo con un tappeto di damasco bianco con una croce rossa. L’uomo dal mantello scuro aveva dunque mantenuto la parola data al trasteverino, e non c’era più dubbio, era precisamente il conte.

Le tre finestre erano vuote. Da tutte le parti si facevano preparativi: si mettevano a posto le sedie, si ergevano palchi, si paravano le finestre. Le maschere non potevano comparire, le carrozze non potevano circolare che dopo il suono della campana del Campidoglio; ma si fiutavano le maschere dietro a tutte le finestre, e le carrozze dietro a tutte le porte.

Franz, Albert e il conte continuarono a discendere lungo il Corso: a mano a mano che si avvicinavano a piazza del Popolo, la folla diveniva più fitta, e, al di sopra di tutte quelle teste, si vedevano due cose: l’obelisco sormontato da una croce, che indica il centro della piazza, e davanti all’obelisco, proprio nel punto corrispondente, visto da lontano, all’imbocco delle tre vie, del Babuino, del Corso e di Ripetta, le due travi superiori del patibolo, fra le quali luccicava la lama convessa della mannaia.

All’angolo della strada, c’era l’intendente del conte che aspettava il padrone.

La finestra presa in affitto, a un prezzo senza dubbio esorbitante che il conte non aveva voluto far conoscere ai suoi invitati, era al secondo piano del gran palazzo situato fra la via del Babuino e il Pincio: era in una specie di soggiorno che comunicava con una camera da letto; chiudendo la porta di quest’ultima, quelli che avevano preso in affitto il soggiorno stavano come in casa loro. Sulle sedie erano appoggiati dei vestiti da pagliaccio, di seta bianca e celeste della più grande eleganza.

«Avendomi lasciato la scelta dei costumi», disse il conte ai due amici, «ho fatto preparare questi. Saranno ciò che di meglio verrà indossato quest’anno, poi sono anche comodissimi poiché la farina che getteranno si adatterà al costume.»

Franz non udì quasi le parole del conte, e forse non apprezzò con il giusto valore questa nuova gentilezza, poiché tutta la sua attenzione era rivolta allo spettacolo che rappresentava la piazza del Popolo e allo strumento terribile che ne formava in quell’ora il principale ornamento. Era la prima volta che Franz vedeva una ghigliottina. Noi diciamo ghigliottina, ma la mannaia romana è pressappoco della stessa forma del nostro strumento di morte. La mannaia ha la forma di una mezzaluna, taglia dalla parte convessa e cade da una minore altezza: ecco tutta la diversità!

Due uomini, seduti su un’asse ad altalena, dove viene steso il condannato, aspettavano, e mangiavano, a quanto sembrò a Franz, del pane e della salsiccia. Uno di essi sollevò l’asse, e ne estrasse un fiasco di vino, ne bevve e lo passò al suo compagno: erano gli aiutanti del boia! A quella sola vista, Franz aveva sentito il sudore bagnargli la radice dei capelli.

I condannati erano stati trasportati, dalla sera innanzi, dalle Carceri Nuove alla chiesa di Santa Maria del Popolo, e avevano passato tutta la notte, assistiti ciascuno da due preti, in una cappella chiusa da un’inferriata, davanti alla quale passeggiavano le sentinelle cambiate d’ora in ora. Una doppia fila di gendarmi, posti da ciascun lato della chiesa, si estendeva fino al patibolo, intorno al quale si allargava in cerchio in modo da lasciar libero, in mezzo alla folla, un passaggio di circa tre metri, e da formare intorno al patibolo un circolo di un centinaio di passi di circonferenza. Tutto il resto della piazza sembrava un selciato di teste d’uomini e di donne, molte delle quali tenevano i loro bambini sulle spalle, e questi vedevano meglio di tutti, perché venivano ad aver la testa al di sopra delle altre.

Il Pincio sembrava un vasto anfiteatro con i gradini gremiti di spettatori; le finestre delle due chiese che formavano l’angolo delle vie del Babuino e di Ripetta col Corso rigurgitavano di curiosi privilegiati; gli scalini dei peristili sembravano un’onda mossa e variopinta, che una marea incessante spingesse verso il portico; ogni sporgenza di muro che potesse dare appoggio a un uomo aveva la sua statua vivente.

Ciò che diceva il conte era dunque vero: ciò che vi è di più attraente nella vita è lo spettacolo della morte. E invece del silenzio, come dovrebbe essere nella solennità di un tale spettacolo, un rumore assordante saliva da quella folla; un rumore composto di risa, di urli, di grida gioiose. Era evidente, come aveva detto il conte, che a questa esecuzione era intervenuta una gran moltitudine di popolo, non per la cosa in sé ma per la coincidenza col principio del carnevale.

D’improvviso tutto questo rumore cessò come per incanto; la porta della chiesa era stata aperta. La confraternita detta di San Giovanni Decollato comparve. Ciascun membro indossava un sacco grigio con due soli fori per gli occhi, e teneva in mano una torcia accesa; il capo di questa confraternita apriva la strada. Dietro ai confratelli veniva un uomo di alta statura, nudo, a eccezione dei calzoni di tela, alla cui cintola penzolava un gran coltello nel fodero, e che portava sulla spalla destra una pesante mazza di ferro: era il boia. Aveva i sandali allacciati al polpaccio con due funicelle.

Dietro al boia camminavano, nell’ordine in cui dovevano esser giustiziati, prima Peppino e poi Andrea; ciascuno accompagnato da due preti. Né l’uno né l’altro avevano gli occhi bendati. Peppino camminava con passo molto sicuro; senza dubbio avvisato di ciò che si preparava per lui. Andrea invece era sostenuto dai due preti. Entrambi baciavano, ogni decina di passi, il crocifisso che il confessore presentava loro.

Franz, soltanto a quella vista, sentì venir meno le gambe; guardò Albert. Era pallido come la sua camicia e aveva gettato via istintivamente il sigaro, sebbene non lo avesse fumato che a metà. Solo il conte pareva impassibile. Anzi, una leggera tinta rosea adombrava il livido pallore delle sue guance, il naso si dilatava come un animale che annusa il sangue, e le labbra lasciavano vedere i denti bianchi, piccoli e aguzzi, come quelli di uno sciacallo. Tuttavia il suo viso aveva un’espressione di dolcezza sorridente, che Franz non gli aveva mai visto; gli occhi, soprattutto, erano d’una ammirabile mansuetudine.

Frattanto i due condannati continuavano a camminare verso il patibolo, e a mano a mano che avanzavano si potevano distinguere i tratti del loro viso. Peppino era un bel giovane fra i ventiquattro e i ventisei anni, dalla pelle abbronzata dal sole, con lo sguardo libero e selvaggio. Teneva la testa alta, e sembrava fiutare il vento per sapere da che parte sarebbe arrivato il liberatore. Andrea era basso e tozzo; il viso, da delinquente, non rivelava la sua età, ma poteva avere circa trent’anni. In prigione si era lasciato crescere la barba. La testa inclinata sopra una spalla, le gambe gli si piegavano sotto; tutto il suo essere sembrava obbedire a un movimento meccanico, completamente estraneo alla sua volontà.

«Mi sembra abbiate detto», disse Franz al conte, «che vi sarà una sola esecuzione.»

«Ho detto la verità», rispose egli freddamente.

«Però là ci sono due condannati.»

«Sì, ma di quei due, uno è sul punto di morire, l’altro vivrà ancora molti anni.»

«Ma se deve essere graziato, non c’è tempo da perdere.»

«Infatti, guardate…» disse il conte.

Infatti, nel momento in cui Peppino arrivava ai piedi del patibolo, un penitente, che sembrava giunto in ritardo, ruppe la fila senza che i gendarmi si opponessero al suo passaggio, e avanzando, presentò al capo della confraternita un foglio piegato in quattro. Lo sguardo ardente di Peppino non aveva perso alcuno di questi particolari; il capo della confraternita spiegò il foglio, lo lesse e alzò la mano.

«Il Signore sia benedetto e Sua Santità sia lodata!» disse ad alta e intelligibile voce. «C’è la grazia della vita per uno dei condannati».

«Grazia!» gridò il popolo con un solo grido. «C’è la grazia!»

Alla parola «grazia», Andrea si scosse e alzò la testa.

«Grazia per chi?» gridò.

Peppino restò immobile, muto e anelante.

«È la grazia della pena di morte per Peppino detto Rocca Priori», disse il capo della confraternita.

E passò il foglio nelle mani del capitano dei gendarmi, che dopo averlo letto glielo rese.

«Grazia per Peppino!» gridò Andrea, ridestatosi dallo stato di torpore in cui sembrava immerso. «Perché grazia per lui e non per me? Noi dovevamo morire insieme, mi era stato promesso che sarebbe morto prima di me, e non si ha diritto di farmi morire solo, non voglio morire solo, non lo voglio!»

E si aggrappò alle braccia dei due preti, contorcendosi, urlando, ruggendo e facendo sforzi insensati per resistere al boia che voleva, a quell’impeto imprevisto, legargli nuovamente le mani. Il boia fece un segno ai suoi due aiutanti, che saltarono giù dal patibolo e corsero a impadronirsi del condannato.

«Che accade dunque?» domandò Franz al conte, poiché la distanza non gli permetteva di intendere le parole.

«Che accade?» disse il conte. «Non lo indovinate? Accade che quella creatura umana che va alla morte, è furiosa perché il suo simile non muore con lei, e se si lasciasse fare lo sbranerebbe con le unghie e con i denti piuttosto di lasciarlo godere della vita di cui sarà in breve privata. Oh, uomini, uomini! Razza di coccodrilli, come disse Karl Moor», gridò il conte stendendo i due pugni verso tutta quella folla, «come vi riconosco bene, in ogni tempo siete sempre degni di voi stessi.»

Infatti Andrea e i due aiutanti del boia si rotolavano nella polvere, e il condannato gridava sempre: «Deve morire, voglio che muoia! Non hanno il diritto di farmi morire solo!»

«Guardate, guardate…» disse il conte, afferrando ciascuno dei due giovani per la mano, «guardate, perché, sull’anima mia, è una cosa singolare: ecco un uomo che era rassegnato alla sua sorte, che camminava verso il patibolo, che andava a morire come un vile, è vero, ma pure andava a morire senza resistenza e senza lamentarsi. Sapete ciò che gli dava un po’ di forza? Sapete ciò che lo consolava? Sapete ciò che gli faceva sopportare il supplizio con pazienza? Era un altro che condivideva le sue angosce, un altro che moriva come lui, un altro che moriva prima di lui. Conducete due montoni al macello o due buoi, e fate intendere, se vi riesce, a uno di questi che il suo compagno non morrà: il montone cred’io, belerà di gioia, il bue muggirà di piacere; ma l’uomo, a cui Iddio ha imposto per prima, per unica, per suprema legge l’amore del prossimo, l’uomo a cui Iddio ha dato la parola per esprimere il pensiero, ora vedetelo qui con i vostri propri occhi, che va sulle furie perché va a morire solo, perché sa che il compagno è salvo. In verità, non me lo sarei mai aspettato! Ecco là, non più terrore, non più rassegnazione; oh, disgraziata creatura, quanto lacrimevole è la tua sorte!»

E il conte rise, ma di un riso terribile che faceva comprendere ch’egli aveva orribilmente sofferto per poter giungere a ridere in tal modo.

Frattanto la lotta continuava, ed era uno spettacolo spaventoso a vedersi. I due aiutanti trascinavano Andrea sul patibolo; tutto il popolo era contro di lui, e ventimila voci mandavano un sol grido: «A morte! A morte!»

Franz fece per andarsene: ma il conte afferrò il suo braccio e lo trattenne davanti alla finestra.

«Che fate!» disse. «Avete pietà? In fede mia è ben riposta! Se sentiste ringhiare un cane arrabbiato, prendereste il vostro fucile, correreste in strada, e sparereste senza misericordia sulla povera bestia, che in fin dei conti non sarebbe rea che di essere stata morsa da un altro cane, e di rendere ciò che gli fu fatto; ed ecco qua che avete pietà di un uomo che non fu morso da alcun altro, e che ciò nonostante ha ucciso il suo benefattore e che ora non potendo più uccidere, perché ha le mani legate, vuole a ogni costo veder morire il suo compagno di prigionia! No, no, guardate, guardate…»

Ogni raccomandazione adesso sarebbe stata inutile, poiché Franz era come affascinato dall’orribile spettacolo. I due aiutanti avevano portato a fatica il condannato ai piedi della scala che saliva al patibolo. Il poveretto si dibatteva, si contorceva, e puntava i piedi, gettandosi con tutta la persona all’indietro. Uno di quei due tentò d’acquistare qualche vantaggio col salire alcuni scalini dalla sua parte, e tirarlo a sé mentre l’altro lo avrebbe sospinto all’insù. In quell’attimo il boia lo afferrò per la vita e lo sollevò da terra. Il condannato, senza un punto d’appoggio e tirato e spinto, in un attimo fu sotto al laccio.

A tal vista, Franz non poté trattenersi, si ritirò, e andò a cadere su una sedia, mezzo svenuto. Albert, con gli occhi chiusi, rimase al suo posto, ma aggrappato alle tende della finestra. Il conte solo era in piedi e trionfante come l’angelo del male.

36. Il carnevale di Roma

Non appena Franz tornò in sé, vide Albert che beveva un bicchier d’acqua, e il pallore rivelava che ne aveva avuto grande bisogno. Il conte cominciava già a indossare il costume da pagliaccio. Dette macchinalmente un’occhiata sulla piazza, tutto era sparito: patibolo, boia, vittime, non restava più che il popolo rumoreggiante e allegro.

La campana del Campidoglio suonò l’apertura del carnevale.

«Ebbene», domandò al conte, «cosa è dunque accaduto?»

«Niente, assolutamente niente», disse egli, «solo, il carnevale è cominciato; presto, mascheriamoci.»

«Infatti», rispose Franz, «di tutta quella orribile scena non resta che la traccia di un sogno.»

«E non fu che un sogno, non fu che un incubo, quello che aveste.»

«D’accordo, ma il condannato?»

«È un sogno anch’esso, solo che lui è rimasto addormentato, e voi vi siete risvegliato. Chi può dire quale di voi due sia il privilegiato?»

«E di Peppino», domandò Franz, «che avvenne?»

«Peppino è un giovane di senno, che non ha il minimo amor proprio e che, contro l’abitudine degli uomini che sono furiosi quando nessuno si occupa di loro, è rimasto soddisfatto nel vedere che l’attenzione generale era rivolta sul suo compagno; di conseguenza, ha approfittato di quella distrazione per sgusciare fra la folla e sparire, senza nemmeno ringraziare quei degni preti che lo avevano accompagnato. In fede mia, l’uomo è un animale molto ingrato ed egoista… Ma vestitevi; osservate, il signor Morcerf ve ne dà l’esempio.»

Infatti Albert passava macchinalmente i calzoni di seta bianca sopra i suoi neri, senza togliersi gli stivali di vernice.

«Ebbene, Albert», domandò Franz, «avete voglia di far follie? Su, rispondete francamente.»

«No», disse, «ma sono contento di aver visto una cosa simile, e comprendo ciò che diceva il signor conte, cioè, che quando uno ha potuto abituarsi a un simile spettacolo, sia il solo che dà ancora qualche emozione.»

«Senza contare che, soltanto in quel momento, si possono fare studi psicologici sui caratteri», disse il conte. «Sul primo scalino del patibolo, la morte strappa la maschera che si è portata per tutta la vita e appare il vero viso dell’uomo. Bisogna convenirne, quello di Andrea non era bello a vedersi, era un infame ributtante! Vestiamoci, ho bisogno di vedere delle maschere di cera e di stucco, per consolarmi delle maschere di carne…»

Sarebbe stato ridicolo, per Franz, fare la donnicciola, e non seguire l’esempio che gli veniva dato dai due compagni. Indossò dunque il suo costume, si mise sul viso la maschera, non certamente più pallida del suo volto. Compiuto il travestimento, scesero. La carrozza li aspettava alla porta, piena di coriandoli e di mazzettini di fiori; e si mise in fila.

È difficile farsi un’idea di un cambiamento così evidente: invece dello spettacolo di morte, tetro e silenzioso, piazza del Popolo presentava ora l’aspetto di una rumorosa festa. Una moltitudine di maschere compariva da ogni parte, uscendo dalle porte, dalle finestre; le carrozze sbucavano da tutti gli angoli delle strade, gremite di pagliacci, d’arlecchini, di domino, di marchesi, di trasteverini, di grotteschi, di cavalieri, di contadini, tutti gridando, gesticolando, lanciando uova piene di farina, coriandoli e mazzettini di fiori; aggredendo con le parole, e con gli oggetti, amici e stranieri, conoscenti e sconosciuti, senza che alcuno avesse il diritto di lamentarsi, senza che alcuno facesse altro che ridere.

Franz e Albert vedevano sempre o, per meglio dire, continuavano a sentire gli effetti di ciò che avevano visto. Ma, a poco a poco, l’ebbrezza generale li vinse; sembrò che la vacillante ragione stesse per abbandonarli; sentivano uno strano bisogno di prender parte a quel rumore, a quel movimento, a quella vertigine. Un pugno di coriandoli lanciato ad Albert da una carrozza vicina e, che coprendolo di polvere come i suoi due compagni, gli punse il collo e tutte le parti del viso non protette dalla maschera, come se gli avessero gettato un centinaio di spilli, finì col coinvolgerlo nella baraonda generale. Si alzò a sua volta nella carrozza, raccolse a piene mani coriandoli nei sacchetti, e con tutto il vigore e la destrezza di cui era capace, lanciò uova e coriandoli ai suoi vicini.

Da quel momento erano impegnati nella lotta. Il ricordo di ciò che avevano visto mezz’ora prima si cancellò dall’animo dei due giovani, tanto lo spettacolo insensato e variopinto che avevano sotto gli occhi, era sopravvenuto a distrarli. In quanto al conte non era mai stato, come si disse, un solo momento commosso.

S’immagini quella grande e bella via del Corso, fiancheggiata da un’estremità all’altra da palazzi a quattro o a cinque piani, con tutti i loro balconi addobbati, con tutte le finestre con i tappeti. A quei balconi e a quelle finestre trecentomila spettatori, romani, italiani, stranieri, venuti da tutte e quattro le parti del mondo, tutte le aristocrazie riunite, aristocrazie di nascita, di denaro, di genio, donne graziose anch’esse sotto l’influsso di quello spettacolo, si curvano dai balconi, si sporgono dalle finestre, fanno piovere sulle carrozze che passano una grandine di coriandoli che viene contraccambiata con una pioggia di fiori; la strada è tutta ingombra di coriandoli che scendono, e di fiori che salgono; poi, per le vie, una folla allegra, incessante, pazza, con costumi bizzarri: cavoli giganteschi che passeggiano, teste di bufalo che muggiscono sopra corpi d’uomini, cani che sembrano camminare ritti sulle zampe. Figuratevi tutto questo e si avrà una pallida idea di ciò che è il carnevale di Roma.

Al secondo giro, il conte fece fermare la carrozza, e domandò ai compagni il permesso di allontanarsi, lasciando a loro disposizione la carrozza. Franz alzò gli occhi: erano davanti a palazzo Ruspoli, e alla finestra di mezzo, a quella che aveva il tappeto di damasco bianco con una croce rossa, c’era un domino turchino, sotto il quale l’immaginazione di Franz si figurò senz’altro la bella greca del teatro Argentina.

«Signori», disse il conte balzando a terra, «quando sarete stanchi di essere attori, e vorrete tornare spettatori, sapete che avete i posti alle mie finestre; frattanto disponete del cocchiere, della carrozza e dei domestici.»

Abbiamo dimenticato di dire che il cocchiere del conte era vestito di una pesante pelle di orso nero, del tutto simile a quella di Odry nell’Orso e il pascià, e che i due servitori, che stavano in piedi dietro la carrozza, avevano un costume da scimmia perfettamente adattato alla loro corporatura, con maschera a molla con le quali facevano boccacce ai passanti.

Franz ringraziò il conte della gentile offerta. Quanto ad Albert faceva il galante con una carrozza piena di contadine romane, ferma come quella del conte in una di quelle soste comuni nei cortei di carri, e che egli tempestava di mazzi di fiori. Disgraziatamente per lui, la sfilata si rimise in moto, e mentre egli scendeva verso piazza del Popolo, la carrozza che aveva attirato la sua attenzione risaliva verso piazza Venezia.

«Ah, mio caro», diss’egli a Franz, «non avete visto quel calesse pieno di contadine romane?»

«No.»

«Ebbene, vi assicuro che ci sono delle graziose signore.»

«Quale disgrazia che siate mascherato, mio caro Albert!» disse Franz. «Sarebbe stato il momento di rifarvi di tutti i vostri sconcerti amorosi.»

«Oh», rispose egli tra il serio e il faceto, «spero bene che il carnevale non trascorrerà senza qualche allettante avventura.»

A onta della speranza di Albert, tutto il giorno passò senz’altra avventura, che l’incontro due o tre volte rinnovato del calesse che portava le contadinelle romane: in uno di questi, fosse caso o calcolo, la maschera cadde dal volto di Albert, ed egli approfittò di quella circostanza per prendere quanti fiori poté e gettarli nel calesse. Senza dubbio una delle graziose signore che Albert indovinava sotto il costume da contadina fu colpita da questa galanteria, e quando le due carrozze tornarono a incontrarsi, gettò un mazzetto di violette nella carrozza dei due amici. Albert si precipitò a raccoglierlo, e siccome Franz non aveva alcun motivo di credere fosse a diretto lui, lasciò che se ne impadronisse. Albert lo appuntò vittoriosamente sul petto, e la carrozza continuò a procedere trionfante.

«Ebbene», disse Franz, «ecco il principio di un’avventura.»

«Ridete quanto volete», rispose, «ma credo veramente di sì; perciò non lascio più questo mazzetto.»

«Perbacco, lo credo bene!» disse Franz ridendo. «È un segno di riconoscimento.»

Lo scherzo assunse ben presto il carattere della realtà: quando, sempre seguendo la fila, Franz e Albert incontrarono di nuovo la carrozza delle contadine, quella che aveva gettato il mazzetto ad Albert, batté le mani vedendo che lo aveva sul petto.

«Bravo! Mio caro, bravo!» disse Franz. «Ecco che la cosa si prepara a meraviglia. Volete che vi lasci? Preferite restare solo?»

«No», disse, «non imbrogliamo le cose: non voglio farmi accalappiare come uno stupido alla prima occasione, per un convegno sotto l’orologio, come diciamo noi, al ballo dell’Opéra. Se la bella contadina ha volontà di spingere la cosa più innanzi, la ritroveremo domani, o piuttosto lei troverà noi; allora mi darà segno, e vedrò ciò che mi converrà fare.»

«In verità, mio caro Albert», disse Franz, «siete saggio come Nestore e prudente come Ulisse, e se la vostra Circe vorrà trasformarvi in una bestia qualunque, bisognerà che sia molto destra e potente.»

Albert aveva ragione: la bella sconosciuta aveva deciso senza dubbio di non spingere le cose più in là quel giorno; perché sebbene facessero ancora diversi giri, non rividero più la carrozza che cercavano con attenzione, e che sicuramente era sparita per una delle vie traverse.

Allora ritornarono al palazzo Ruspoli. Il conte era sparito col domino turchino; le due finestre parate col damasco giallo continuarono però a essere occupate da persone senza dubbio invitate da lui.

La medesima campana che aveva dato il segnale di apertura del carnevale, ne suonò la chiusura: la fila del Corso si ruppe subito, e in un attimo tutte le carrozze disparvero per le strade laterali.

Franz e Albert erano in quel momento davanti alla via delle Muratte; il cocchiere la imboccò senza dir niente e, giunto in piazza di Spagna, si fermò davanti all’albergo. Pastrini venne a ricevere i suoi clienti sulla soglia. La prima cura di Franz fu d’informarsi del conte, per esprimergli il dispiacere di non essere andato in tempo a riprenderlo, ma Pastrini lo tranquillizzò dicendogli che il conte di Montecristo aveva ordinato un’altra carrozza per lui, e che questa era andata a prenderlo alle quattro al palazzo Ruspoli. Era inoltre incaricato da parte sua di offrire ai due amici la chiave del suo palco al teatro Argentina. Franz interrogò Albert sulle sue intenzioni; ma questi aveva grandi progetti da attuare prima di pensare al teatro: per cui, invece di rispondergli, s’informò se Pastrini avesse potuto procurargli un sarto.

«Un sarto! E per che farne?» domandò l’albergatore.

«Per farci per domani degli abiti da contadini romani più eleganti che sia possibile.»

Pastrini scosse la testa.

«Farvi per domani due abiti?» esclamò. «Questa è, domando perdono a Vostra Eccellenza, una vera domanda alla francese. Due abiti! Quando da oggi a otto giorni non trovereste certamente un sarto che vorrebbe attaccarvi sei bottoni a un panciotto, quand’anche li pagaste uno scudo l’uno.»

«Bisogna dunque rinunciare agli abiti che desideravo?»

«No, perché li troveremo belli e fatti. Lasciate a me la cura, e domani quando vi sveglierete, troverete una collezione di cappelli, di vestiti e di calzoni di cui rimarrete soddisfatto.»

«Mio caro», disse Franz ad Albert, «affidiamoci al nostro albergatore; egli ci ha di già provato che è un uomo pieno di risorse, pranziamo dunque tranquillamente e dopo il pranzo andiamo a vedere l’Italiana in Algeri.»

«D’accordo, ma Pastrini non dimenticate che il signore e io ci teniamo molto ad avere per domani gli abiti che vi abbiamo domandato.»

Pastrini assicurò un’ultima volta i suoi ospiti che non avevano da inquietarsi di niente, e che sarebbero stati serviti secondo i loro desideri. Albert e Franz, dopo ciò, risalirono per levarsi gli abiti da pagliacci.

Albert, nello spogliarsi, custodì con molta cura il mazzetto di viole, questo era il segno di riconoscimento per l’indomani.

I due amici si misero a tavola; ma, pranzando, Albert non poté fare a meno di osservare la netta differenza fra i meriti del cuoco di Pastrini e quello del conte di Montecristo. La verità costrinse Franz a confessare, malgrado le prevenzioni che sembrava avere contro il conte, che il paragone non era favorevole al cuoco di Pastrini. Alla frutta un domestico venne a informarsi a quale ora desideravano la carrozza. Albert e Franz si guardarono, temendo realmente di essere indiscreti.

Il domestico li capì e disse: «Sua Eccellenza il conte di Montecristo vi fa sapere di avere disposto che la carrozza restasse sempre agli ordini delle Loro Signorie; potranno perciò usarne liberamente, senza essere indiscreti».

I due giovani decisero di approfittare fino alla fine della cortesia del conte e ordinarono di attaccare i cavalli mentre loro si cambiavano gli abiti sgualciti e sporchi per i giochi a cui avevano preso parte nella giornata. Dopodiché, si fecero condurre al teatro Argentina e presero posto nel palco del conte.

Durante il primo atto la contessa G. entrò nel suo palco. Il primo sguardo lo diresse dalla parte dove la sera prima aveva visto il singolare sconosciuto; vide subito Franz e Albert nel palco di colui sul conto del quale aveva espresso a Franz, appena ventiquattr’ore prima, una strana opinione. Diresse il suo binocolo su di lui con tanta insistenza, che Franz capì sarebbe stata una crudeltà ritardare di soddisfare la curiosità di lei. Così, approfittando del privilegio concesso ai frequentatori dei teatri italiani, che consiste nel trasformare il teatro in una sala da ricevimento, i due amici lasciarono il palco per presentare i loro omaggi alla contessa.

Appena entrati nel palco, la dama fece un segno a Franz di mettersi al posto d’onore, e Albert questa volta si sedette dietro.

«Ebbene», disse, dando a Franz appena il tempo di sedersi, «sembra che non abbiate avuto niente di più urgente che fare conoscenza col nuovo lord Ruthwen… Eccovi i migliori amici del mondo!»

«Senza esserci inoltrati, quanto a voi sembra, in una reciproca amicizia», rispose Franz, «non posso negare di aver abusato tutto il giorno della sua gentilezza.»

«Come, tutto il giorno?»

«In fede mia, questa è la vera parola che conviene. Questa mattina abbiamo fatto colazione da lui; poi abbiamo partecipato al corso mascherato nella sua carrozza; e infine questa sera assistiamo allo spettacolo nel suo palco.»

«Voi dunque lo conoscevate?»

«Sì e no!»

«Come sì e no?»

«È una lunga storia.»

«Che voi mi racconterete?»

«Essa vi farà paura.»

«Ragione di più…»

«Aspettate almeno che abbia uno sviluppo.»

«Sia così: amo le storie complete. Intanto com’è che vi siete trovati a contatto? Chi vi ha presentato a lui?»

«Nessuno; al contrario, si è fatto presentare a noi ieri sera, dopo che vi ho lasciata.»

«Per mezzo di chi?»

«Oh, mio Dio, con un mezzo molto prosaico, quello del nostro albergatore.»

«È dunque alloggiato, come voi, all’albergo Londra?»

«Non solo nel medesimo albergo, ma sullo stesso piano.»

«E come si chiama? Dovete certo conoscere il nome.»

«Sì: il conte di Montecristo.»

«Non è un nome di nobile casato.»

«No, è il nome dell’isola che ha comprato.»

«Ed egli è conte?»

«Conte toscano.»

«Ci adatteremo a questo come agli altri», riprese la contessa che era di una delle più antiche famiglie dei dintorni di Venezia. «E che uomo è?»

«Domandatene al visconte di Morcerf.»

«Sentite, signore, vengo rimessa al vostro giudizio…»

«Saremmo incontentabili, se non lo trovassimo gentile», rispose Albert. «Un vecchio amico non avrebbe fatto più di quello che egli ha fatto, e ciò con tanta grazia, delicatezza e cortesia, che fanno rivelano in lui un vero uomo di mondo.»

«Attento!» disse la contessa ridendo. «Vedrete che il mio bel vampiro non sarà che un qualche nuovo arricchito che vuol farsi perdonare i suoi milioni. E lei, l’avete vista?»

«Chi, lei?» domandò Franz ridendo.

«La bella greca di ieri sera.»

«No, credo di aver inteso il suono della sua guzla, ma lei è rimasta invisibile.»

«Vale a dire, quando voi dite invisibile, mio caro Franz», disse Albert, «è soltanto per fare il misterioso. Per chi avete dunque preso quel domino turchino alla finestra parata di damasco bianco del palazzo Ruspoli?»

«Il conte dunque aveva una finestra al palazzo Ruspoli?» domandò la contessa.

«Sì, siete passata per il Corso?»

«Sì, e chi non è passato per il Corso quest’oggi?»

«Avete notato due finestre parate di damasco giallo, e una di damasco bianco con una croce rossa? Quelle tre finestre erano del conte.»

«Davvero!? Dunque, è un nababbo? Sapete quanto costano tre finestre come quelle per gli otto giorni del carnevale? E aggiungete a palazzo Ruspoli, che è nella più bella posizione del Corso?»

«Due o trecento scudi romani.»

«Dite piuttosto due o tremila.»

«Oh, diavolo!»

«È forse dalla sua isola che ricava queste rendite?»

«La sua isola non gli frutta un baiocco.»

«Perché allora l’ha comprata?»

«Per capriccio.»

«Dunque è un originale?»

«Il fatto è», disse Albert, «che mi è sembrato molto eccentrico. Se abitasse a Parigi, se frequentasse i nostri teatri, vi direi che è o un buffone che fa il dandy, o è un povero diavolo che si è perduto nella moderna letteratura. In verità, questa mattina è venuto fuori con due o tre uscite degne di Didier o d’Antony.»

In quel momento entrò un visitatore, e secondo l’uso Albert dovette cedere il posto all’ultimo arrivato; questo fatto fece decidere anche di cambiare argomento.

Un’ora dopo i due amici tornarono all’albergo. Pastrini si era già occupato dei loro abiti da maschera per l’indomani, e promise loro che sarebbero stati soddisfatti della sua intelligente alacrità.

L’indomani alle nove entrò nella camera di Franz con un sarto carico di otto o dieci costumi da contadini romani. I due amici ne scelsero due simili, e che stavano loro quasi a pennello, incaricarono l’albergatore di far cucire dei nastri a ciascuno dei cappelli, e di procurar loro due di quelle belle sciarpe di seta a righe traverse dai colori vivi, di cui i popolani sono soliti cingersi la vita nei giorni di festa.

Albert aveva fretta di vedere quale figura avrebbe fatto col nuovo abito che si componeva di una giacca e un pantalone di velluto turchino, di calze ricamate, di scarpe con le fibbie e di un panciotto di seta. Il giovane, del resto, non poteva che guadagnarci con quell’abito pittoresco, e quando la sciarpa ebbe cinto gli eleganti fianchi, quando il cappello, leggermente piegato sopra un orecchio, lasciò cadere sulle sue spalle un gran mazzo di nastri, Franz fu costretto a confessare che i costumi hanno spesso una gran parte nella superiorità fisica che noi attribuiamo a certi popoli. I turchi nei tempi addietro, tanto pittoreschi con le loro zimarre lunghe, dai colori vivi, non sono ora ributtanti coi soprabiti turchini abbottonati, e il fez che dà loro l’aspetto di una bottiglia di vino con il turacciolo rosso?

Franz si congratulò con Albert che, in piedi davanti allo specchio, si guardava sorridendo visibilmente compiaciuto.

In quel momento entrò il conte di Montecristo.

«Signori», disse loro, «per quanto sia gradevole un compagno di divertimenti, la libertà è ancora più gradevole. Vengo a dirvi che per oggi e i giorni venturi lascio a vostra disposizione la carrozza di cui vi siete serviti ieri. Il nostro albergatore vi avrà detto che ne ho prese a nolo tre o quattro; voi dunque non me ne private: usatene liberamente, sia per andare a divertirvi, sia per i vostri affari. Il nostro luogo di ritrovo, se avremo qualche cosa da dirci, sarà il palazzo Ruspoli…»

I due giovani volevano muovergli qualche obiezione, ma non avevano alcuna buona ragione per rifiutare un’offerta che, d’altra parte, gradivano assai, e finirono con l’accettare.

Il conte di Montecristo rimase circa un quarto d’ora con loro parlando di tutto con molta facilità. Era, come si è potuto notare, molto versato nella letteratura di tutti i paesi; inoltre le pareti del suo salotto provavano a Franz e ad Albert che era un amante di quadri. Qualche parola senza pretesa, lasciata cadere come a caso, provò loro che non era estraneo alle scienze; e sembrava inoltre che avesse una predilezione per la chimica.

I due amici non pensarono nemmeno di invitare a loro volta il conte a colazione; sarebbe stato uno scherzo di cattivo gusto offrirgli in cambio della sua eccellente tavola, la cucina molto mediocre di Pastrini. Glielo dissero francamente, ed egli ricevette le loro scuse, da uomo che apprezzava la loro delicatezza.

Albert era così rapito dalle maniere del conte, che, se fosse stato meno dotto, lo avrebbe creduto un vero gentiluomo. La libertà di disporre interamente della carrozza lo colmava di gioia, aveva le sue mire sulle graziose contadinelle, e siccome erano apparse il giorno prima in una elegantissima carrozza, era ben contento di continuare a comparire alla pari con loro.

Alle nove e mezzo i due giovani discesero; il cocchiere e i due servitori avevano avuto l’idea di sovrapporre, alle loro pelli di bestia, le livree, cosa che dava loro un aspetto anche più grottesco del giorno innanzi, e che procurò loro le congratulazioni di Franz e di Albert, il quale aveva infilato sentimentalmente all’occhiello della giacca il mazzetto di viole appassite.

Al primo tocco della campana partirono, e si precipitarono sul Corso per la via Vittoria. Al secondo giro, un mazzetto di viole fresche partì da una carrozza carica di pagliaccine, e venne a cadere in quella del conte, e ciò indico ad Albert e al suo amico, che le contadinelle del giorno innanzi avevano cambiato costume; e fosse per caso, o per un sentimento uguale a quello che aveva fatto mutare abiti ai due amici, che con tutta galanteria avevano preso il loro costume, esse avevano preso quello dei due amici.

Albert mise il mazzetto di viole fresche al posto dell’altro; ma lo conservò in mano, e quando incontrò di nuovo la carrozza, lo portò amorosamente alle labbra, atto che destò l’allegria non solo di quella che lo aveva gettato, ma anche di tutte le sue allegre compagne.

La giornata non fu meno animata della precedente. Anzi è probabile che un profondo osservatore vi avrebbe potuto riconoscere un crescere di rumore e di allegria. Per un istante videro il conte alla finestra, ma quando la carrozza ripassò era già sparito.

È inutile dire che lo scambio di civetterie tra Albert e la pagliaccina dei mazzetti di viole durò tutta la giornata.

La sera, quando rientrarono, Franz trovò una lettera dell’ambasciata: gli veniva annunciato che il giorno dopo avrebbe avuto l’onore di essere ricevuto da Sua Santità. In tutti i suoi viaggi precedenti a Roma aveva chiesto e ottenuto lo stesso favore; sia per religione sia per riconoscenza, non aveva mai voluto mettere piede nella capitale del mondo cristiano senza genuflettersi in rispettoso omaggio ai piedi di uno dei successori di San Pietro, raro esempio di tutte le virtù: egli non poteva dunque in quel giorno pensare al carnevale. Malgrado la bontà di cui il papa circonda la sua grandezza, è sempre con un rispetto pieno di profonda emozione che uno si appresta a inchinarsi davanti a quel nobile e santo vecchio.

Uscendo dal Vaticano, Franz ritornò direttamente all’albergo, evitando anche di passare per la strada del Corso. Portava con sé un tesoro di pensieri per i quali il contatto con la folle allegria delle maschere sarebbe stata una profanazione.

Alle cinque e dieci minuti Albert rientrò. Era al colmo della gioia. La pagliaccina aveva rimesso il costume da contadinella, e nell’incontrare la carrozza di Albert si era levata per un momento la maschera… Era graziosissima.

Franz fece i suoi complimenti ad Albert, che li ricevette convinto che gli fossero dovuti. Aveva intuito, diceva, da alcuni segni d’eleganza inimitabile, che la sua bella sconosciuta doveva appartenere alla più alta aristocrazia. Quindi risolvette di scriverle l’indomani.

Franz, mentre riceveva questa confidenza, notò che Albert voleva chiedergli qualche cosa e tuttavia esitava a domandare. Si disse pronto a fare per la sua felicità tutti i sacrifici che fossero in suo potere. Albert si fece pregare giusto quanto conveniva trattandosi di buoni amici; poi confessò a Franz che gli avrebbe reso un gran favore lasciando per l’indomani la carrozza tutta a sua disposizione. Albert attribuiva all’assenza dell’amico l’estrema bontà che aveva avuto la bella contadina nell’alzare la maschera.

Si capirà che Franz non era così egoista da trattenere Albert nel bel mezzo di un’avventura che prometteva di riuscire, a un tempo, gradita alla sua curiosità e lusinghiera per il suo amor proprio. Conosceva abbastanza il carattere espansivo del suo degno amico, per esser sicuro che lo avrebbe tenuto al corrente di ogni minimo particolare della sua buona fortuna; e siccome, dopo tre o quattro anni che percorreva l’Italia in lungo e in largo, non aveva mai avuto l’occasione di cominciare un simile intrigo per conto suo, Franz non era dispiaciuto d’imparare come vanno le cose in simili affari. Promise dunque ad Albert che l’indomani si sarebbe accontentato di guardare lo spettacolo dalle finestre del palazzo Ruspoli.

Infatti il giorno dopo vide passare e ripassare Albert. Aveva un enorme mazzo di fiori, senza dubbio portatore di un suo biglietto amoroso. Questa probabilità si cambiò in certezza, quando Franz vide il medesimo mazzo, notevole per un giro di camelie bianche, fra le mani della graziosa pagliaccina vestita di seta color rosa.

Quella sera la gioia di Albert non ebbe limiti. Albert non dubitava che la bella sconosciuta non gli avrebbe risposto con il medesimo mazzo. Franz ne prevenne i desideri, dicendogli che tutto quel rumore lo stancava, e che era deciso a impiegare la giornata seguente a rivedere il suo album e a prendere alcuni appunti. Del resto, Albert non si era ingannato nelle sue previsioni: il giorno dopo Franz lo vide precipitarsi nella sua camera agitando trionfante un foglietto che teneva per un angolo.

«Ebbene, mi sono sbagliato?»

«Ha dunque risposto?» gli domandò Franz.

«Leggete.»

Questa parola fu pronunciata con un tono di voce impossibile a descriversi.

Franz prese il biglietto e lesse: «Martedì sera, alle sette, discendete dalla carrozza dirimpetto alla via dei Pontefici, e seguite la contadina romana che vi strapperà il moccoletto. Quando arriverete al primo gradino della chiesa di San Giacomo, abbiate cura, affinché lei possa riconoscervi, di annodare un nastro rosa sulla spalla del vostro costume da pagliaccio. Da oggi sino a tale momento voi non mi rivedrete più. Costanza e discrezione».

«Ebbene!» disse Albert a Franz, quando questi ebbe finito di leggere, «che ne pensate, mio caro?»

«Penso», rispose Franz, «che la cosa prende la piega di un’avventura molto piacevole.»

«Questo è pure il mio parere, e ho un gran timore che andrete solo al ballo del principe T.»

Franz e Albert avevano ricevuto, quella stessa mattina, l’invito del celebre banchiere romano.

«State in guardia», disse Franz, «tutta l’aristocrazia sarà dal principe e se la vostra bella sconosciuta appartiene realmente alla nobiltà, non potrà fare a meno d’intervenirvi.»

«Che v’intervenga o no, io conservo l’opinione che ho di lei», continuò Albert. «Avete letto il biglietto; sapete che scarsa educazione ricevono in Italia le donne del ceto medio; ebbene, rileggete il biglietto, osservate la calligrafia e trovatemi uno errore di lingua o di ortografia.»

«Voi siete un predestinato…» disse Franz, nel rendere ad Albert per la seconda volta il biglietto.

«Ridete quanto vi piace, scherzate pure», rispose Albert, «io sono innamorato.»

«Oh, mio Dio, voi mi spaventate!» esclamò Franz. «Prevedo che, non soltanto andrò da solo al ballo del principe, ma anche che ritornerò solo a Firenze.»

«Il fatto è che, se la mia sconosciuta è amabile quanto è bella, vi avverto che mi trattengo a Roma almeno per sei settimane. Io adoro Roma, e poi ho sempre avuto una grande passione per l’archeologia.»

«Ancora un altro o due di questi incontri, e non dispero di vedervi membro dell’Accademia di belle lettere.»

Senza dubbio Albert si accingeva a discutere seriamente sui diritti che poteva avere a un seggio nell’Accademia, ma in quel momento vennero ad annunciare loro che il pranzo era servito: l’amore in Albert non era contrario all’appetito; si affrettò dunque, col suo amico, a mettersi a tavola, riservandosi di riprendere la discussione dopo il pranzo.

Ma, dopo il pranzo, fu annunciato il conte di Montecristo. Erano due giorni che i due amici non lo vedevano. Un affare lo aveva chiamato a Civitavecchia, almeno a quanto disse Pastrini. Era partito la sera del giorno prima, ed era tornato da appena un’ora.

Il conte fu gentilissimo. Sia che stesse all’erta, sia che l’occasione non risvegliasse in lui le fibre acrimoniose che aveva già fatto risuonare due o tre volte nelle sue amare parole, si comportò da tutt’altro uomo. Era, per Franz, un vero enigma. Il conte non poteva dubitare che il giovane viaggiatore non lo avesse riconosciuto, e tuttavia non aveva detto una sola parola, dopo il loro nuovo incontro, che potesse tradire di averlo visto altrove. Dal canto suo, Franz, qualunque fosse la volontà di alludere al loro primo incontro, il timore di far cosa sgradita a un uomo che aveva colmato lui e l’amico di gentilezze, lo trattenne: continuò dunque a mantenersi riservato come il conte.

Il conte aveva saputo che i due amici avevano chiesto un palco al teatro Argentina, ottenendo in risposta che non ce n’erano. Perciò portava loro la chiave del suo; almeno questo era il motivo apparente della sua visita.

Franz e Albert fecero qualche difficoltà, adducendo il timore di privarne lui; ma il conte rispose che, andando egli quella sera al teatro Valle, il suo palco al teatro Argentina sarebbe rimasto vuoto. Questa assicurazione convinse i due amici ad accettare.

Franz si era un poco per volta abituato al pallore del conte, che lo aveva tanto colpito la prima volta che l’aveva visto. Non poteva fare a meno di render giustizia alla bellezza del suo viso severo, del quale quel pallore era il solo difetto o la principale attrattiva. Vero eroe di Byron, Franz non poteva, non solo vederlo, ma neppure pensare a lui, senza immaginarsi quel viso cupo sulle spalle di Manfredi, o sotto la cotta d’armi di Lara. Egli aveva sulla fronte quella ruga che indica la presenza incessante di un amaro pensiero, aveva quegli occhi ardenti che leggono nel più profondo delle anime, quel labbro altero e sprezzante che dà alle parole quell’incisività che le fa imprimere profondamente nella memoria di chi ascolta.

Il conte non era più giovane, aveva quarant’anni almeno, ma ciò nonostante si capiva che era fatto per dominare i giovani. In realtà, per un’ultima somiglianza con gli eroi fantastici del poeta inglese, il conte sembrava avere il dono dell’affascinazione.

Albert era incantato della fortuna condivisa con Franz, d’incontrare un uomo simile. Franz era meno entusiasta, tuttavia subiva l’influenza che esercita ogni uomo superiore sull’animo di coloro che lo avvicinano. Egli pensava al progetto, che il conte aveva già manifestato due o tre volte, di andare a Parigi, e non dubitava che con le sue doti personali, con quel volto magnetico e con la sua fortuna immensa, avrebbe ottenuto un grande successo. Però non desiderava trovarsi a Parigi quando egli vi fosse andato.

La serata passò come la si passa di solito a teatro in Italia: non ad ascoltare i cantanti, ma a far visite e a discorrere. La contessa G. riparlare del conte, ma Franz le annunciò che aveva qualcosa di più recente da dirle, e, malgrado le dimostrazioni di falsa modestia alle quali si lasciò andare Albert, raccontò alla contessa l’avvenimento che da tre giorni interessava i due amici.

Siccome queste tresche non sono rare né in Italia, né altrove, almeno se si deve credere ai viaggiatori, la contessa non fece minimamente l’incredula, e si congratulò con Albert per un’avventura che prometteva di terminare in modo assai soddisfacente. Si lasciarono con l’intesa di ritrovarsi al ballo del principe T. a cui tutta Roma era stata invitata.

La giovane del mazzetto di fiori mantenne la parola: né il giorno dopo, né l’altro dette segno ad Albert di esistere.

Finalmente giunse il martedì, l’ultimo e il più rumoroso giorno del carnevale. Il martedì grasso i teatri si aprono alle dieci del mattino, perché dopo le otto della sera si entra in quaresima. Il martedì grasso tutti coloro che, per mancanza di tempo, di entusiasmo e di denaro non hanno preso parte ai precedenti festeggiamenti, si mischiano all’ultimo baccanale, si lasciano trascinare dall’orgia e portano la loro parte di rumore e di movimento al rumore e al movimento generale.

Dalle due alle cinque Franz e Albert rimasero in fila sul Corso scambiando manciate di coriandoli con le carrozze della fila opposta e con i pedoni che circolavano fra le zampe dei cavalli e fra le ruote delle carrozze senza che accadesse mai, in mezzo a quella spaventosa mischia, un solo incidente, una sola disputa, una sola rissa. Sotto questo aspetto gli italiani sono il popolo per eccellenza. Le feste per loro sono vere feste. L’autore di questa storia, che ha soggiornato in Italia cinque o sei anni, non si ricorda di aver visto una solennità turbata da uno solo di quegli avvenimenti che servono da corollario alle nostre.

Albert trionfava col suo costume da pagliaccio. Aveva annodato sopra una spalla un nastro rosa, le cui estremità gli cadevano fino al garretto, per distinguersi da Franz, che aveva indossato ancora il vestito da contadino romano.

Più il giorno avanzava, e più il tumulto aumentava: non c’era, su tutto quel selciato, in tutte quelle carrozze, a tutte quelle finestre, una bocca muta, un braccio ozioso; era un vero uragano umano, composto di un tuono di grida e di una tempesta di coriandoli, di mazzetti di fiori, di uova, di fiori e d’aranci.

Alle tre, l’esplosione dei mortaretti tirati a un tempo su piazza del Popolo e su piazza Venezia, superando a stento quell’orribile tumulto, annunciò che stavano per cominciare le corse. Le corse e i moccoli sono gli episodi particolari degli ultimi giorni di carnevale. Allo sparo dei mortaretti, le carrozze rompono nello stesso punto le file e voltano ciascuna nella via laterale più vicina al luogo dove si trovano.

Tutte queste evoluzioni si fanno con una meravigliosa rapidità, e senza che la polizia si occupi di assegnare a ciascuna il suo posto, o di tracciare la strada da percorrere.

I pedoni si addossano al muro dei palazzi, quindi si sente lo scalpitio dei cavalli e uno sguainar di sciabole.

Un plotone di gendarmi, che ne presenta quindici di fronte, percorre al galoppo in tutta la lunghezza il Corso, che fa sgombrare per dar posto alla corsa dei berberi. Quando il plotone arriva a palazzo Venezia, l’esplosione di un’altra batteria di mortaretti annuncia che la strada è libera. Quasi subito, in mezzo a un clamore immenso, inaudito, si vedono passare come ombre sette o otto cavalli, eccitati dalle grida di trecentomila persone e dalle castagnette di ferro appuntate che balzavano sul loro dorso; poi il cannone di castel Sant’Angelo spara tre colpi per annunciare che ha vinto il numero tre.

Subito. senz’altro segnale che quello, le carrozze si rimettono in movimento, rifluendo verso il Corso, uscendo da tutte le vie laterali come torrenti contenuti per un momento che si gettano tutti insieme nel letto del fiume che alimentano, e l’onda immensa riprende, più rapida che mai, il suo corso fra le due rive di granito. Soltanto un nuovo elemento di rumore si era mischiato alla folla: entrarono in scena i venditori di moccoli.

I moccoli, o moccoletti, sono ceri che variano dalla grossezza di un cero pasquale a quella della coda di un sorcio, e suscitano, negli attori della grande scena con cui termina il carnevale romano, due opposte preoccupazioni: 1. Mantenere acceso il proprio moccoletto; 2. Spegnere il moccoletto degli altri. Avviene del moccoletto ciò che accade della vita degli uomini. Per quanto è in loro potere, si adoperano a conservarla, e sebbene certi che presto o tardi debba avere fine, tuttavia hanno indagato e scoperto mille modi per reciderla e toglierla innanzi tempo: è vero anche che per questa suprema operazione il diavolo non ha mai mancato di venir loro in aiuto. Il moccoletto si accende avvicinandolo a un lume qualunque. Ma chi potrà descrivere i mille mezzi inventati per spegnerli, i soffietti giganteschi, gli spegnitoi in sembianza di mostro, i ventagli sovrumani?

Ognuno si affrettò dunque a comprare i moccoletti, e Franz e Albert fecero altrettanto. La notte si avvicinava rapidamente, e già al grido: «Moccoli!», ripetuto dalle voci stridule dei venditori ambulanti, due o tre stelle cominciarono a brillare al di sopra della folla. Fu come un segnale.

Dieci minuti dopo, quarantamila lumi scintillarono discendendo da piazza Venezia a piazza del Popolo, e risalendo da piazza del Popolo a piazza Venezia. Si sarebbe detta la festa dei fuochi fatui.

Chi non ha mai visto questa festa, è impossibile che se ne possa fare un’idea. Supponete che tutte le stelle si stacchino dal cielo, e vengano a formare sulla terra una danza fantastica, il tutto accompagnato da grida che orecchio umano non ha mai potuto sentire sulla superficie del globo.

È proprio in questo momento che non c’è più distinzione sociale. Il facchino assale il principe, questi il trasteverino, il trasteverino il borghese, ciascuno soffiando, spegnendo, riaccendendo. Se il vecchio Eolo comparisse in quel momento. sarebbe proclamato re dei moccoletti, e Aquilone l’erede alla corona.

Questa corsa folle e fiammeggiante durò circa due ore. La strada del Corso era rischiarata come in pieno giorno, si distinguevano i lineamenti degli spettatori fino al terzo o quarto piano.

Ogni cinque minuti Albert estraeva l’orologio: finalmente segnò le sette.

I due amici si ritrovarono a poca distanza dalla via dei Pontefici; Albert saltò fuori dalla carrozza col suo moccoletto in mano.

Due o tre maschere gli si avvicinarono per spegnerlo o per toglierglielo; ma, da bravo lottatore, Albert li respinse dieci passi distanti da lui, continuando la sua corsa verso la chiesa di San Giacomo.

I gradini erano gremiti di curiosi e di maschere che lottavano per strapparsi il moccoletto dalle mani. Franz seguiva Albert con gli occhi, e lo vide mettere il piede sul primo gradino, poi quasi subito una maschera che portava il ben noto costume della contadina dal mazzetto, allungò il braccio, e gli tolse il moccoletto senza ch’egli facesse la minima resistenza.

Franz era troppo lontano per udire le parole che si scambiarono, ma senza dubbio non furono ostili, poiché vide allontanarsi Albert tenendo sottobraccio la contadinella. Per un po’ li seguì in mezzo alla folla, ma in via del Macello li perse di vista.

D’improvviso, si udì il suono della campana che dà il segnale della fine del carnevale, e nel medesimo istante tutti i moccoli si spensero come per incanto. Si sarebbe detto che un solo e immenso colpo di vento li avesse annientati tutti. Franz si trovò nell’oscurità più profonda. Nello stesso momento, tutte le grida cessarono, come se il soffio possente che aveva spento i lumi avesse portato via contemporaneamente ogni rumore.

Non si udì più che il rotolar delle carrozze che riconducevano le maschere alle loro case; non si videro più che pochi lumi brillare dietro le finestre.

Il carnevale era finito!

37. Le catacombe di San Sebastiano

C’è da supporre che Franz non avesse mai provato in vita sua un’impressione così viva, un passaggio così rapido dall’allegria alla tristezza, come in quel momento. Si sarebbe detto che a opera del soffio di qualche demone della notte, Roma fosse stata cambiata in un vasto sepolcro. Una circostanza aumentava l’intensità delle tenebre: la luna, essendo in fase calante, non sorgeva che dopo le undici, e le strade per le quali passava il giovane erano immerse nella più profonda oscurità. Tuttavia il tragitto era breve, e in capo a dieci minuti, la sua carrozza, o per meglio dire quella del conte, era davanti all’albergo Londra.

Il pranzo era servito; ma poiché Albert aveva avvertito che non contava di tornare presto, Franz si mise a tavola senza di lui.

Pastrini, che aveva l’abitudine di vederli pranzare insieme, si informò della ragione dell’assenza di Albert; ma Franz si limitò a rispondergli che Albert aveva dovuto recarsi a un invito ricevuto il giorno prima. L’improvviso spegnersi dei moccoletti, l’oscurità succeduta alla luce, il silenzio che aveva sostituito l’immenso rumore, avevano lasciato nell’animo di Franz una certa malinconia non esente da inquietudine. Pranzò taciturno, nonostante le premure dell’albergatore, che entrò due o tre volte per sentire se gli servisse cosa alcuna.

Franz aveva deciso di aspettare Albert il più a lungo possibile. Ordinò dunque la carrozza per le undici, pregando Pastrini di avvisarlo non appena Albert fosse tornato in albergo, qualunque potesse essere l’ora.

Alle undici Albert non era ancora rientrato.

Franz si vestì, e uscendo avvisò l’albergatore che avrebbe passato la notte dal principe Torlonia.

Quella del principe Torlonia è una delle più belle case di Roma; sua moglie è una delle discendenti della famiglia Colonna, e riceve gli ospiti in modo perfetto: le feste del principe banchiere sono famose in tutta Europa.

Franz e Albert erano giunti a Roma con lettere di presentazione per lui, perciò la prima domanda che il principe gli rivolse fu che fosse avvenuto del suo compagno di viaggio. Franz rispose che lo aveva lasciato poco prima che si spegnessero i moccoletti e che lo aveva perso di vista nella via del Macello.

«Dunque non è rientrato?» domandò il principe.

«L’ho aspettato fino adesso», rispose Franz.

«E sapete dove sia andato?»

«Precisamente, no; ma credo si tratti di una specie di convegno.»

«Diavolo!» disse il principe. «È un brutto giorno, o per meglio dire una cattiva sera per far tardi… Non è vero, contessa?»

Queste ultime parole erano dirette alla contessa G., che giungeva allora, e che passeggiava appoggiandosi al braccio del fratello del principe, il duca di Bracciano.

«Io trovo, al contrario, che sia una bellissima notte, e coloro che sono qui non avranno a lamentarsi d’altro se non che passi troppo presto.»

«Ma io», riprese sorridendo il principe, «non parlo di quelli che sono qui, essi non corrono altro pericolo che gli uomini d’innamorarsi di voi, e le donne ammalarsi di gelosia vedendovi così bella; parlo di coloro che girano per le strade di Roma.»

«Eh, mio Dio, e chi volete che percorra le strade di Roma a quest’ora, se non quelli che vengono dal ballo?»

«Il nostro amico Albert di Morcerf, signora contessa, che ho lasciato mentre seguiva la sua bella sconosciuta verso le sette di sera», rispose Franz, «e che non ho più rivisto.»

«E non sapete dove sia?»

«No davvero!»

«È armato?»

«È vestito da pagliaccio…»

«Non avreste dovuto lasciarlo andare», disse il principe a Franz, «voi che conoscete Roma meglio di lui.»

«Sarebbe stato lo stesso che cercare di fermare il numero tre dei berberi che oggi ha vinto il premio della corsa», rispose Franz. «E poi che volete che gli accada?»

«Chi lo sa? La notte è oscura, e il Tevere è molto vicino alla via del Macello!»

Franz sentì un brivido scorrergli per le vene, vedendo che le idee del principe e della contessa condividevano le sue inquietudini.

«Per questo ho avvisato l’albergatore che avevo l’onore di passare qui la notte», disse Franz, «e debbono venire ad avvertirmi qui, appena ritorna.»

«Guardate», disse il principe a Franz, «ecco appunto un mio domestico, che credo cerchi di voi.»

Il principe non s’ingannava: appena il domestico ebbe scorto Franz, si avvicinò a lui, e gli disse: «Eccellenza, l’albergatore dell’hotel Londra vi fa avvertire che là c’è un uomo che vi aspetta con una lettera del conte di Morcerf».

«Con una lettera del conte!» esclamò Franz.

«Sì.»

«E chi è quest’uomo?»

«Non lo so.»

«E perché non è venuto a portarmela qui?»

«Il messaggero non mi ha dato alcuna spiegazione.»

«E dov’è il messaggero?»

«Se ne è andato non appena mi ha visto entrare nella sala per cercarvi.»

«Oh, mio Dio», disse la contessa a Franz, «andate, presto. Povero giovane: forse gli è accaduta qualche disgrazia.»

«Vado subito…» disse Franz.

«Tornerete per darci notizie?» chiese la contessa.

«Sì, se la cosa non è grave; altrimenti non posso prevedere ciò che farò.»

«In ogni caso, siate prudente», disse la contessa.

«Oh, state tranquilla.»

Franz prese il suo cappello e partì in tutta fretta. Aveva licenziato la carrozza, ordinandola per le due. Ma per fortuna la casa del principe, che guarda da una parte sul Corso, e dall’altra sulla piazza dei Santissimi Apostoli, è a dieci minuti di cammino dall’albergo Londra.

Avvicinandosi all’albergo, Franz vide un uomo in mezzo alla strada avvolto in un gran mantello: non dubitò che questi fosse il messaggero di Albert; restò però meravigliato che gli rivolgesse per primo la parola.

«Che volete da me, Eccellenza?» disse facendo un passo indietro come uno che voglia tenersi in guardia.

«Non siete voi», chiese Franz, «che mi avete portato una lettera del conte di Morcerf?»

«Vostra Eccellenza alloggia all’albergo di Pastrini?»

«Sì.»

«Vostra Eccellenza è il compagno di viaggio del conte?»

«Sì.»

«Come si chiama Vostra Eccellenza?»

«Barone Franz d’Epinay.»

«È proprio a Vostra Eccellenza che allora è diretta questa lettera.»

«Devo dare una risposta?» domandò Franz nel prendere la lettera dalle sue mani.

«Sì, o almeno il vostro amico lo spera.»

«Allora salite da me, ve la darò.»

«Preferisco attenderla qui…» disse ridendo il messaggero.

«E perché?»

«Vostra Eccellenza lo capirà meglio quando avrà letto la lettera.»

«Allora vi ritroverò qui?»

«Senza dubbio.»

Franz entrò nell’albergo e per le scale s’imbatté in Pastrini.

«Ebbene?» gli domandò questi.

«Ebbene, che cosa?» rispose Franz.

«Avete visto l’uomo che desiderava parlarvi da parte del vostro amico?»

«Sì, l’ho visto», rispose Franz, «e mi ha consegnato questa lettera. Vi prego di fare accendere un lume nella mia camera.»

L’albergatore dette ordine a un domestico di precedere Franz con un lume.

Il giovane aveva notato un’aria spaventata sul viso di Pastrini, il che non aveva fatto che raddoppiargli la curiosità di leggere la lettera di Albert: si accostò al candeliere, appena fu accesa la candela, e spiegò il foglio.

La lettera era scritta e firmata dalla mano di Albert. Franz la lesse due volte, tanto era lontano dal figurarsi il contenuto. Eccola riportata letteralmente: «Mio caro amico, non appena avrete ricevuto la presente, abbiate la compiacenza di prendere nel mio portafoglio, che troverete nel cassettino del mio scrittoio, la lettera di credito: uniteci la vostra, se non basta. Correte da Torlonia, e ritirate da lui sul momento quattromila scudi, che consegnerete al latore della presente. Mi preme che questa somma mi giunga senza alcun ritardo. Non insisto di più, contando su di voi, come voi potreste contare su di me. Il vostro amico, Albert di Morcerf. Post-scriptum: Adesso credo ai banditi italiani».

Sotto queste righe, erano scritte da mano sconosciuta le seguenti parole: «Se alle sei di mattina i quattromila scudi non sono nelle mie mani, alle sette il conte Albert avrà cessato di vivere. Luigi Vampa».

Questa firma spiegò ogni cosa a Franz, che capì la riluttanza mostrata dal messaggero a salire da lui: la strada gli sembrava più sicura.

Albert era caduto nelle mani di quel famoso capo di banditi, alla cui esistenza non voleva credere. Non c’era tempo da perdere: corse allo scrittoio, l’aprì e nel cassettino indicato trovò il portafoglio, e in esso la lettera di credito di seimila scudi in tutto: ma Albert ne aveva già spesi tremila.

Franz non aveva alcuna lettera di credito; abitando a Firenze, ed essendo venuto a Roma per passarvi gli otto giorni del carnevale, non aveva preso che un centinaio di luigi, e non gliene rimanevano che appena cinquanta. Gli mancavano dunque sette o ottocento scudi per poter riunire, fra lui e Albert, la somma richiesta. È vero che, in un caso simile, Franz poteva contare sulla gentilezza di Torlonia.

Egli si disponeva dunque a ritornare al palazzo del principe senza perdere un istante, quando d’improvviso gli venne alla mente una felice idea…

Pensò al conte di Montecristo.

Stava per far chiamare Pastrini, quando questi si presentò alla porta.

«Mio caro Pastrini, credete che il conte ci sia?»

«Sì, Eccellenza, è rientrato or ora.»

«Sarà già andato a letto?»

«Non credo.»

«Allora vi prego di andare a domandargli a mio nome il permesso di potermi presentare a lui.»

Pastrini si affrettò a eseguire l’incarico: cinque minuti dopo era di ritorno.

«Il conte aspetta Vostra Eccellenza», disse.

Franz attraversò il corridoio; un domestico lo introdusse dal conte. Era in un piccolo salotto che Franz non aveva mai visto, tutto circondato da divani; il conte gli andò incontro.

«Oh, qual buon vento vi conduce da me a quest’ora?» gli disse. «Venite forse a chiedermi di cenare? Perbacco, sarebbe davvero gentile per parte vostra.»

«No, vengo a parlarvi di una cosa molto grave.»

«Di una cosa molto grave!» disse il conte fissandolo con quello sguardo profondo che gli era proprio. «Di che si tratta?»

«Siamo soli?»

Il conte andò alla porta, poi ritornò. «Assolutamente soli…» disse.

Franz gli mostrò la lettera di Albert. «Leggete!» gli disse.

Il conte lesse la lettera. «Ah, ah», fece egli.

«Avete visto il post-scriptum?»

«Certamente. “Se alle sei di mattina i quattromila scudi non sono nelle mie mani, alle sette il conte Albert avrà cessato di vivere. Luigi Vampa.”»

«Che ne dite?» domandò Franz.

«Avete la somma che vi viene richiesta?»

«Sì, meno ottocento scudi.»

Il conte si avvicinò a uno scrittoio e ne aprì un cassettino pieno d’oro.

«Io spero», disse a Franz, «che non vorrete farmi il torto di rivolgervi ad altri.»

«Vedete che sono venuto direttamente da voi…» disse Franz.

«E io ve ne ringrazio: prendete.» E fece segno a Franz di prendere quanto gli occorreva.

«Ma è proprio necessario mandare questa somma a Luigi Vampa?» chiese il giovane fissando a sua volta lo sguardo sul conte.

«Diavolo, giudicate voi stesso: il post-scriptum parla chiaro.»

«Mi sembra che, se voleste prendervi la pena di pensarvi, forse trovereste un mezzo per semplificare molto la faccenda…» disse Franz.

«E quale?» chiese il conte meravigliato.

«Per esempio, se andassimo insieme a trovare Luigi Vampa, sono sicuro che non vi negherebbe la libertà di Albert.»

«A me? Quale influenza volete che io abbia su quel bandito?»

«Non gli avete appena reso uno di quei favori che non si dimenticano più?»

«E quale?»

«Non avete salvato la vita a Peppino?»

«Ah, ah», fece il conte, «e chi ve lo ha detto?»

«E che vi importa? Lo so.»

Il conte rimase per un istante muto e con le sopracciglia aggrottate.

«E se andassi a trovare Vampa, mi accompagnereste?»

«Se la mia compagnia non vi è sgradevole…»

«Ebbene, sia: la notte è bella; una passeggiata nella campagna romana non può farci che bene.»

«Occorre armarsi?»

«A quale scopo?»

«Del denaro?»

«È inutile. Dove si trova l’uomo che ha portato questo biglietto?»

«Giù in strada.»

«Aspetta la risposta?»

«Sì.»

«Bisogna sapere dove andremo: vado a chiamarlo.»

«È inutile, non ha voluto salire.»

«Da voi forse, ma da me non farà nessuna difficoltà.»

Il conte aprì la finestra del salotto che dava sulla strada, e fischiò in un modo particolare. L’uomo dal mantello si staccò dal muro cui era appoggiato e avanzò fino in mezzo alla strada.

«Salite!» disse il conte col tono con cui si darebbe un ordine al servitore.

Il messaggero obbedì senza indugio, senza esitazione, anzi con sollecitudine. Saliti i quattro gradini dell’atrio, entrò nell’albergo, e in cinque secondi era già alla porta del salotto.

«Ah, sei tu, Peppino?» disse il conte.

Ma Peppino, invece di rispondergli, gli si gettò alle ginocchia, prese le mani del conte, e v’impresse a più riprese le labbra.

«Ah, ah», disse il conte, «non hai ancora dimenticato che ti ho salvato la vita? È strano! Eppure sono già passati otto giorni.»

«No, Eccellenza, non lo dimenticherò mai…» rispose Peppino, con l’accento della più profonda riconoscenza.

«Mai è troppo; però è già molto che tu lo creda. Alzati e rispondimi.»

Peppino gettò uno sguardo inquieto su Franz.

«Puoi parlare davanti a Sua Eccellenza», disse il conte, «poiché è un mio amico.»

«Voi permettete che vi dia questo titolo?» disse in francese rivolgendosi a Franz. «È necessario per accattivarsi la fiducia di costui.»

«Potete parlare in mia presenza, sono un amico del conte.»

«Bene!» disse Peppino rivolgendosi al conte. «Vostra Eccellenza m’interroghi, e io risponderò.»

«In che modo il conte Albert è caduto nelle mani di Luigi?»

«Eccellenza, la carrozza del francese ha incrociato più di una volta quella di Teresa.»

«L’amante del capo?»

«Sì, il francese le ha fatto gli occhi dolci. Teresa si è divertita a rispondergli; il francese le ha gettato dei mazzetti di fiori, lei gliene ha ricambiati; e tutto ciò, s’intende, col consenso del capo che era nella stessa carrozza.»

«Come!» esclamò Franz. «Luigi Vampa era nella carrozza delle contadine romane?»

«Era quello che guidava, mascherato da cocchiere…» rispose Peppino.

«E poi?» chiese il conte.

«Ebbene, poi il francese si levò la maschera; Teresa, sempre col permesso del capo, fece altrettanto; il francese le domandò un appuntamento, Teresa l’accordò; soltanto fu Beppe che si trovò sugli scalini della chiesa di San Giacomo.»

«Come!» lo interruppe nuovamente Franz. «Quella persona che gli strappò il moccoletto?»

«Era un giovane di quindici anni», rispose Peppino, «ma il vostro amico non deve vergognarsi d’essere stato ingannato, ne ha ingannati molti altri.»

«E Beppe lo ha condotto fuori dalle mura?» domandò il conte.

«Precisamente. Una carrozza li aspettava in fondo a via del Macello; Beppe vi salì, invitando il francese a seguirlo: non se lo fece dire due volte. Offrì con tutta galanteria la destra a Beppe, e gli si sedette vicino; questi annunciò allora che lo avrebbe condotto in una villa a quattro chilometri da Roma; il francese lo assicurò di essere pronto a seguirlo in capo al mondo. Il cocchiere si avviò subito per la via di Ripetta, giunse alla porta San Paolo, e a duecento passi di là, in aperta campagna, siccome il francese diventava un po’ troppo intraprendente, in fede mia, Beppe gli puntò un paio di pistole alla gola, il cocchiere fermò subito i cavalli, e volgendosi sul sedile, fece altrettanto. Nello stesso tempo quattro dei nostri, che erano nascosti lungo le rive dell’Almo, si precipitarono agli sportelli. Il francese aveva buona volontà di difendersi, e per poco non ha strangolato Beppe, a quanto ho inteso dire; ma non c’era nulla da fare contro cinque uomini armati, ed è stato costretto ad arrendersi. Allora fu fatto scendere di carrozza, e seguendo l’argine del fiume, fu condotto da Teresa e Luigi che lo aspettavano nelle catacombe di San Sebastiano.»

«Bene!» disse il conte rivolgendosi a Franz. «Mi pare che questa storia ne valga bene un’altra… Che ne dite voi che ve ne intendete?»

«Dico che la troverei ridicola, se fosse capitata a tutt’altri che al mio amico.»

«Il fatto è», disse il conte, «che se non mi aveste trovato in albergo, quest’avventura sarebbe costata un po’ cara al vostro amico; ma tranquillizzatevi, se la caverà solo con un po’ di paura e basta.»

«E andremo lo stesso a cercarlo?» domandò Franz.

«Perbacco, tanto più perché si trova in una località molto pittoresca. Conoscete le catacombe di San Sebastiano?»

«No, non vi sono mai disceso: ma avevo stabilito di visitarle un giorno o l’altro.»

«Ebbene, ecco trovata l’occasione, e sarà difficile trovarne una migliore. Avete pronta la vostra carrozza?»

«No.»

«Non importa: io ho l’uso di farne stare una sempre pronta notte e giorno.»

«Sempre pronta?

«Sì, sono molto capriccioso: vi confesso che qualche volta, alzandomi alla fine del pranzo, o nel mezzo della notte, mi prende la volontà di recarmi in un punto qualunque del mondo, e parto.»

Il conte suonò una volta il campanello, e il cameriere comparve.

«Fate uscire la carrozza dalla rimessa», gli disse, «e levate le pistole che stanno nelle tasche; è inutile svegliare il cocchiere: guiderà Alì.»

Un istante dopo si udì il rumore della carrozza che si fermava davanti all’albergo.

Il conte guardò l’orologio.

«Mezz’ora dopo mezzanotte», disse. «Avremmo potuto partire tra cinque ore, e giungere ancora in tempo; ma questo ritardo forse avrebbe fatto passare una cattiva notte al vostro compagno. È meglio dunque andare di corsa a toglierlo dalle mani dei banditi. Siete sempre deciso ad accompagnarmi?»

«Più che mai.»

«Ebbene, andiamo allora.»

Franz e il conte uscirono, seguiti da Peppino.

All’ingresso trovarono la carrozza. Alì era a cassetta: Franz riconobbe lo schiavo muto della grotta dell’isola di Montecristo.

Franz e il conte salirono in carrozza; Peppino si mise vicino ad Alì e partirono al galoppo. Alì aveva già ricevuto gli ordini, poiché infilò la strada del Corso, e traversò Campo Vaccino, percorse via San Gregorio, e giunse alla porta di San Sebastiano: il guardiano mosse qualche difficoltà, ma il conte di Montecristo gli presentò un permesso del governatore di Roma di poter entrare e uscire dalla città in qualunque ora del giorno e della notte; fu dunque aperta la porta, il guardiano ricevette un luigi per il suo disturbo e passarono oltre.

La strada che percorreva la carrozza era l’antica via Appia, tutta fiancheggiata da antichi sepolcri. Di tanto in tanto, al chiarore della luna che sorgeva, a Franz sembrava di vedere una specie di sentinella staccarsi da un rudere; ma a un segnale di Peppino tornava immediatamente nell’ombra.

Poco prima delle terme di Caracalla la carrozza si fermò, Peppino si affrettò ad aprire lo sportello, e Franz e il conte discesero.

«Fra dieci minuti», disse il conte al suo compagno, «saremo arrivati.»

Prese quindi Peppino in disparte, gli diede un ordine sottovoce, e questi partì dopo essersi munito di una torcia presa nella cassetta della carrozza.

Trascorsero altri cinque minuti, nei quali Franz vide il pastore inoltrarsi per un sentiero in mezzo alle asperità del terreno della campagna romana, e sparire fra l’alta erba rossastra che sembra l’irta criniera di qualche gigantesco leone.

«Ora», disse il conte, «seguiamolo.»

Entrambi s’inoltrarono nello stesso sentiero, che dopo cento passi li condusse, per un pendio, in una piccola vallata. Ben presto videro due uomini parlarsi nell’ombra.

«Dobbiamo andare avanti» domandò Franz al conte, «o aspettare qui?»

«Avanti… Peppino deve avere avvisato la sentinella del nostro arrivo.»

Infatti uno di quei due uomini era Peppino, l’altro un bandito posto a vedetta. Franz e il conte si avvicinarono, il bandito li salutò.

«Eccellenza», disse Peppino, rivolgendosi al conte, «se volete seguirmi, l’ingresso alle catacombe è qui a due passi.»

«Va bene», disse il conte, «cammina avanti.»

Infatti, dietro a un groviglio di cespugli, e in mezzo ad alcune rocce, si vedeva un’apertura per la quale un uomo poteva passare appena. Peppino fu il primo a scivolare in quella fenditura; ma appena ebbe fatto qualche passo, il passaggio si allargò. Allora si fermò, accese la torcia, e si voltò a vedere se era seguito. Il conte si era introdotto per secondo in quello spiraglio, e Franz dopo di lui. Il terreno si abbassava con una inclinazione dolce, e si allargava man mano che s’inoltravano; ciò nonostante Franz e il conte erano obbligati a camminare curvi, e avrebbero fatto fatica a passare tutti e due di fianco. In tal modo fecero circa cinquanta passi, quindi si fermarono al grido «Chi vive?» e nello stesso tempo videro luccicare la canna di un fucile al chiarore della torcia.

«Amici!» rispose Peppino.

E avanzò solo, disse alcune parole a bassa voce a quella seconda sentinella, che, come la prima, li salutò facendo segno ai notturni visitatori che potevano proseguire. Dietro la sentinella c’era una scala di circa venti gradini. Franz e il conte li scesero e si trovarono in una specie di crocevia mortuario. Da lì partivano cinque vie come i raggi di una stella, e le pareti delle mura, scavate a nicchie sovrapposte a forma di sepolcri, indicavano che finalmente erano penetrati nelle catacombe. In una di quelle cavità, di cui era impossibile calcolare l’estensione, si vedevano alcuni riflessi di luce.

Il conte posò la mano sulla spalla di Franz, e disse: «Volete vedere un accampamento di banditi immersi nel sonno?»

«Sì», rispose Franz.

«Ebbene, venite con me… Peppino, spegni la torcia.»

Peppino obbedì, e Franz e il conte si trovarono nella più profonda oscurità; solo, a circa cinquanta passi davanti a loro, si vedevano lungo i muri alcuni raggi rossastri di luce, divenuti ancora più visibili dopo che Peppino ebbe spento la torcia.

Avanzarono in silenzio; il conte guidava Franz come se avesse avuta la singolare facoltà di vedere nelle tenebre. Lo stesso Franz acquistava maggior pratica del luogo man mano che s’inoltrava verso quel chiaro di luce che serviva di guida.

Tre arcate, di cui quella centrale serviva da porta, dettero loro passaggio. Da una parte immettevano nel corridoio dov’erano Franz e il conte, e dall’altra in una sala quadrata, tutta circondata da nicchie come quelle di cui abbiamo parlato. In mezzo s’ergevano quattro pietre che, un tempo, erano adibite ad altare, come indicava la croce che le sormontava.

Una sola lampada, posta sopra il fusto di una colonna, illuminava, con una luce fioca e vacillante, la strana scena che si presentava agli occhi dei due visitatori nascosti nell’ombra. Un uomo era seduto, col gomito appoggiato a quella colonna, e leggeva, voltando le spalle alle arcate. Era il capo della banda, Luigi Vampa.

Intorno a lui, stavano stesi e avvolti nei loro mantelli, o addossati a una specie di banco di pietra che girava tutt’intorno alle pareti di questo colombarium, una ventina circa di briganti; ciascuno teneva la carabina a portata di mano.

In fondo, silenziosa, e appena visibile, si scorgeva una sentinella che come un’ombra passeggiava su e giù, davanti a una specie di apertura, che non da altro si distingueva, se non perché erano più fitte le tenebre in quel punto.

Appena il conte s’accorse che Franz aveva abituato abbastanza gli occhi a quel quadro pittoresco, portò l’indice alle labbra per raccomandargli il silenzio, e salendo i tre scalini che dal corridoio conducevano nel colombarium, entrò nella sala dall’arcata di mezzo, e avanzò verso Vampa tanto profondamente immerso nella lettura, che non ne udì i passi.

«Chi è là?» gridò la sentinella meno assorta di lui, e che vide al chiarore della lampada due d’ombre ingrandirsi dietro il capo.

A quel grido, Vampa si alzò rapido, togliendo nello stesso tempo dalla cintura le pistole; in un attimo i banditi furono in piedi, e venti canne di carabine si puntarono sul conte.

«Ebbene», disse tranquillamente questi, con voce del tutto calma, e senza che uno solo dei muscoli del suo viso si contraesse, «ebbene, mio caro Vampa, mi sembra che non sia questo il modo di ricevere un amico.»

«Giù le armi!» gridò il capo. facendo un gesto imperativo con una mano, mentre con l’altra si levava rispettosamente il cappello.

Poi, rivolgendosi al singolare personaggio che dominava tutta quella scena: «Perdono, signor conte», disse, «ma ero così lontano dall’aspettarmi l’onore di una vostra visita, che non vi avevo riconosciuto».

«Sembra che abbiate poca memoria in tutto, Vampa», disse il conte, «e che non solo vi scordiate della fisionomia delle persone, ma anche delle condizioni pattuite.»

«E quali condizioni ho potuto dimenticare, signor conte?» domandò il bandito, come un uomo che se ha commesso un fallo non desidera che di ripararlo.

«Non è stato fra noi convenuto», disse il conte, «che vi sarebbe stata sacra non solo la mia persona, ma anche quella di tutti i miei amici?»

«E in che ho mancato all’accordo, Eccellenza?»

«Questa sera avete rapito e portato qui il visconte Albert di Morcerf: ebbene», continuò il conte con un tono che fece rabbrividire Franz, «questo giovane è uno dei miei amici, egli alloggia nello stesso albergo dove sto io, per otto giorni è stato al Corso nella mia carrozza, e inoltre, ve lo ripeto, lo avete rapito, lo avete portato qui, e», aggiunse il conte cavando di tasca la lettera, «gli avete imposto un riscatto come se fosse stato un nemico.»

«E perché non mi avete avvisato di tutto questo?» disse il capo rivolgendosi ai suoi uomini, che indietreggiarono tutti al suo sguardo. «Perché mi avete fatto mancare alla mia parola con un uomo, il signor conte, che tiene tutte le nostre vite nelle sue mani? Per il sangue di Cristo! Se potessi credere che uno di voi sapeva che il giovane era amico di Sua Eccellenza, gli brucerei le cervella con le mie mani!»

«Ebbene», disse il conte rivolgendosi a Franz, «vi avevo detto che doveva esserci un equivoco!»

«Come, non siete solo?» domandò Vampa con inquietudine.

«Sono con colui cui era diretta questa lettera e al quale ho voluto provare che Luigi Vampa era un uomo di parola. Venite avanti, Eccellenza», disse a Franz, «ecco qui il signor Luigi Vampa, che si dirà dolente dello sbaglio commesso.»

Franz avanzò, e il capo dei banditi gli andò incontro di qualche passo: «Siate il benvenuto fra noi, Eccellenza», gli disse. «Avete sentito ciò che ha detto il signor conte, e ciò che gli ho risposto; aggiungerò che non vorrei, per i quattromila scudi che avevo fissato per il riscatto, che ciò fosse accaduto.»

«Ma», disse Franz guardandosi con inquietudine intorno, «dov’è il prigioniero? Non lo vedo…»

«Spero non gli sarà accaduta cosa alcuna?» domandò il conte, aggrottando le sopracciglia.

«Il prigioniero è là», disse Vampa, mostrando con la mano il punto oscuro davanti al quale passeggiava il bandito di fazione. «Vado io stesso ad annunciargli la libertà.»

Il capo avanzò verso il luogo indicato come prigione di Albert; il conte e Franz lo seguirono.

«Che fa il prigioniero?» domandò Vampa alla sentinella.

«Sulla mia parola», rispose questi, «l’ignoro: da più di un’ora non l’ho sentito muoversi.»

«Venite, Eccellenza», disse Vampa.

Il conte e Franz salirono sette o otto scalini, sempre preceduti dal capo, che tirò un catenaccio e spinse avanti una porta. Allora, al chiarore di una lampada simile a quella che illuminava il colombarium, si poté vedere Albert, avvolto in un mantello prestato da un bandito, steso in un angolo, dormire nel sonno più profondo.

«Orsù», disse il conte con quel suo sorriso particolare, «non c’è male per un uomo che doveva essere fucilato domattina alle sette.»

Vampa guardò con una certa ammirazione Albert che dormiva, e si vide che non era insensibile a quella prova di coraggio.

«Avete ragione, signor conte», disse, «quest’uomo dev’essere uno dei vostri amici.»

E, avvicinandosi ad Albert e toccandogli una spalla, disse: «Eccellenza, si svegli, per favore».

Albert stese le braccia, si strofinò le palpebre, e aprì gli occhi: «Ah», disse, «siete voi, capitano? Perbacco, avreste potuto lasciarmi dormire: facevo un bel sogno, sognavo di ballare un valzer in casa Torlonia con la contessa G.».

Tirò fuori l’orologio, che aveva conservato, per poter controllare il tempo trascorso: «Un’ora e mezzo dopo mezzanotte; e perché diavolo mi svegliate a quest’ora?»

«Per dirvi che siete libero, Eccellenza.»

«Caro mio», aggiunse Albert con una perfetta prontezza d’animo, «ricordatevi bene, in avvenire, di questa massima di Napoleone il Grande: “Non mi svegliate che per le cattive notizie”. Se mi aveste lasciato dormire, avrei terminato il mio valzer, e ve ne sarei stato riconoscente per tutta la vita… Il mio riscatto è dunque stato pagato?»

«No, Eccellenza.»

«Come mai, allora, sono libero?»

«Qualcuno, a cui non posso nulla negare, è venuto a reclamarvi.»

«Fin qui?»

«Fin qui.»

«Oh perbacco, questo qualcuno è una persona molto amabile.»

Albert guardò intorno a sé e scorse Franz.

«Come?» disse. «Siete voi mio caro Franz, che spingete tanto oltre la vostra amicizia?»

«Non sono io», rispose Franz, «ma il nostro conte di Montecristo.»

«Ah, perbacco! Il signor conte!» disse Albert, accomodandosi la cravatta e i polsini. «Siete un uomo veramente prezioso, e spero vorrete considerarmi riconoscente per tutta la vita, prima per il prestito della carrozza, e poi per questo.» E tese la mano al conte, che fremette nel dargli la sua; però gliela diede.

Il bandito osservava stupefatto tutta questa scena: era evidentemente abituato a vedere i suoi prigionieri tremare davanti a lui, e ora ne aveva innanzi a sé uno, la cui burlevole indole non aveva sofferto alcuna alterazione; quanto a Franz, era contentissimo che Albert, anche davanti a un bandito, avesse saputo sostenere l’onore nazionale.

«Mio caro Albert», gli disse, «se volete fate presto, avremo ancora il tempo di andare a finire la notte in casa Torlonia. Riprenderete il vostro valzer al punto in cui l’avete interrotto, per cui non serberete alcun rancore al signor Luigi Vampa, che in tutta questa faccenda, si è comportato da vero galantuomo.»

«Ah sì, davvero», disse, «avete ragione, e noi potremo giungervi alle due… Signor Luigi», continuò Albert, «vi è qualche altra formalità da compiersi, prima di prendere commiato da Vostra Eccellenza?»

«Nessuna, signore», rispose il bandito, «e voi siete libero come l’aria.»

«In questo caso, buona fortuna… Venite, signori, venite.»

E Albert, seguito da Franz e dal conte, discese la scala e attraversò la sala quadrata. Tutti i banditi erano in piedi col cappello in mano.

«Peppino», disse il capo, «dammi la torcia.»

«Ebbene, che volete fare?» domandò il conte.

«Vi accompagno, questo è tutto l’onore che posso tributare a Vostra Eccellenza.»

E, prendendo la torcia accesa dalle mani del pastore, camminò davanti ai suoi ospiti, non come un cameriere che compie un atto servile, ma come un re che preceda degli ambasciatori. Giunto alla porta, s’inchinò.

«Ora, signor conte», disse, «vi rinnovo le mie scuse, e spero non conserverete alcun risentimento per l’accaduto.»

«No, mio caro Vampa», disse il conte. «Emendate i vostri errori in un modo così compito, che si è quasi costretti a esservi obbligati per averli commessi.»

«Signori», riprese il capo rivolgendosi ai due giovani, «forse l’invito non vi sembrerà molto attraente, ma se mai vi venisse la volontà di farmi una seconda visita, qui e in qualunque altro luogo potessi essere, sarete sempre i benvenuti.»

Franz e Albert lo salutarono. Il conte uscì per primo, Albert lo seguì, Franz fu l’ultimo.

«Vostra Eccellenza, ha forse qualche cosa da chiedermi?» disse Vampa.

«Sì, lo confesso», rispose Franz, «sarei curioso di sapere qual era l’opera che leggevate con tanta attenzione quando noi siamo arrivati.»

«I Commentari di Giulio Cesare, il mio libro prediletto.»

«Ebbene, non venite?» domandò Albert.

«Subito», rispose Franz, «eccomi.»

E uscì a sua volta dal pertugio. Fecero qualche passo nella pianura.

«Ah, perdonatemi», disse Albert tornando indietro. «Permettete, capitano?»

E accese il sigaro alla torcia di Vampa.

«Ora, signor conte», disse Albert, «ho grandissima premura di finire la notte dal principe Torlonia.»

La carrozza fu ritrovata nel luogo dove era stata lasciata.

Il conte disse una sola parola araba ad Alì, e i cavalli partirono a tutta carriera.

Erano le due precise all’orologio di Albert, quando i due amici entrarono nella sala da ballo. Il loro ritorno fu un avvenimento, ma siccome rientrarono insieme, tutti i timori sul conto di Albert svanirono immediatamente.

«Signora», disse il visconte di Morcerf avanzando verso la contessa, «ieri voi aveste la bontà di promettermi un valzer, vengo un po’ tardi a reclamare questa graziosa promessa; ma il mio amico, che voi sapete quant’è sincero, potrà dirvi che non fu colpa mia.»

E siccome in quell’istante l’orchestra dava il segnale di un valzer, Albert passò il braccio attorno alla vita della contessa e disparve con lei fra il nembo dei ballerini. Intanto Franz ripensava allo strano fremito del conte di Montecristo, nel momento in cui era stato costretto a stringere la mano ad Albert.

38. L’appuntamento

Il giorno dopo, al risveglio, la prima parola di Albert fu di proporre a Franz di fare visita al conte. Lo aveva già ringraziato la sera prima, ma capiva bene che, un favore come quello resogli dal conte, meritava due ringraziamenti. Franz, che provava un’attrattiva, mista a timore, verso il conte di Montecristo, non volle lasciarlo andar solo, e lo accompagnò.

Entrambi vennero introdotti in salotto: pochi minuti dopo comparve il conte.

«Signor conte», esordì Albert andandogli incontro, «permettetemi di ripetervi questa mattina, ciò che malamente vi ho detto la scorsa notte; che non dimenticherò mai in quale frangente mi siete venuto in aiuto; e mi ricorderò sempre che vi devo la vita, o quasi.»

«Caro vicino», rispose il conte ridendo, «voi esagerate i vostri obblighi verso di me; non mi dovete che una ventina di migliaia di franchi sulle vostre spese di viaggio, ecco tutto… Vedete bene che non vale la pena parlarne. Dal canto vostro», aggiunse, «vi faccio le mie congratulazioni; avete dimostrato un’ammirabile prontezza d’animo, e gran disinvoltura.»

«Che volete, conte», disse Albert, «ho immaginato di avere avuto una cattiva contesa, terminata con un duello. Ho voluto far comprendere una cosa a quei banditi: in tutti i paesi del mondo gli uomini si battono, ma non vi sono che i francesi che si battono ridendo. Ma non essendo meno grande il mio debito di riconoscenza verso di voi, vengo a chiedervi se per mezzo delle mie conoscenze potessi esservi utile in qualche cosa. Mio padre, il conte di Morcerf, d’origine spagnola, gode di un’alta posizione in Francia e in Spagna. Vengo a mettere me e tutte le persone che mi amano a vostra disposizione.»

«E dunque», disse il conte, «vi confesso, caro signor di Morcerf, che mi aspettavo da voi una simile offerta, e che l’accetto con tutto il cuore. Avevo già pensato di domandarvi un grande favore.»

«Quale?»

«Non sono mai stato a Parigi, e quindi non la conosco.»

«Davvero?» esclamò Albert. «Avete vissuto fino a ora senza vedere Parigi? Pare incredibile…»

«Vi garantisco che è così. Ma avverto che una più lunga ignoranza della capitale del mondo intellettuale è impossibile. Vi è di più; forse avrei fatto già da tempo questo viaggio indispensabile, se avessi conosciuto qualcuno che mi avesse potuto introdurre in quel mondo dove non ho alcuna relazione.»

«Oh, un uomo come voi!» esclamò Albert.

«Siete davvero gentile. Ma dal momento che non riconosco in me altro merito che quello di poter fare concorrenza, come milionario, ai vostri più ricchi banchieri, e non vado a Parigi per speculare in Borsa, questa modestia mi ha trattenuto. Ora la vostra offerta mi decide. Dunque v’impegnate, mio caro Morcerf», il conte strisciò questa parola con un singolare sorriso, «quando sarò in Francia, ad aprirmi le porte di quel mondo, dove sarò uno straniero al pari di un pellerossa, o di un cinese?»

«Quanto a questo, mio caro conte, meglio che potrò e con tutto il cuore», rispose Albert, «e tanto più volentieri (mio caro Franz, non burlatevi di me) che sono richiamato a Parigi da una lettera che ho ricevuto questa mattina stessa, e in cui si parla di una trattativa con una casa molto rispettabile e che ha le migliori relazioni col bel mondo parigino.»

«Trattativa di matrimonio?» disse ridendo Franz.

«Sì: perciò quando ritornerete a Parigi mi troverete uomo sposato, e forse padre di famiglia. Ciò si accorderà con la mia serietà naturale, non è vero? In ogni modo, conte, ve lo ripeto, io e i miei, siamo tutti, corpo e anima, a vostra disposizione.»

«E io accetto», disse il conte, «poiché vi assicuro che non mi mancava che questa occasione per realizzare un progetto che medito da lungo tempo.»

Franz non dubitò un solo istante che non fosse quello di cui si era lasciato sfuggire qualche parola nella grotta di Montecristo, e guardò il conte mentre diceva quelle parole, per tentare di leggere sul suo viso qualche rivelazione sui motivi che lo conducevano a Parigi, ma era molto difficile penetrare nell’animo di quell’uomo, soprattutto quando sorrideva.

«Ma mi scusi, conte», aggiunse Albert, contento di poter presentare a Parigi un uomo come il conte di Montecristo, «non sarà un qualche castello in aria, come se ne fanno mille in viaggio, e che, fabbricati sulla sabbia, vengono poi distrutti al primo soffio di vento?»

«No, sul mio onore», disse il conte, «voglio andare a Parigi, ho bisogno d’andarvi.»

«E quando?»

«Voi quando vi andrete?»

«Io?» disse Albert. «Oh, mio Dio, fra quindici giorni, o al più fra tre settimane; il tempo necessario per ritornare, e null’altro.»

«Ebbene, facciamo tre mesi… Vedete che vi do un lungo intervallo.»

«E fra tre mesi», esclamò Albert con gioia, «verrete a bussare alla mia porta?»

«Volete un appuntamento anche per il giorno e l’ora?» disse il conte. «Vi avverto però che sono di una puntualità esasperante.»

«Il giorno e l’ora precisa!» disse Albert. «Va benissimo.»

«Ebbene, sia.»

Egli allungò la mano verso un calendario appeso vicino allo specchio.

«Oggi siamo al 21 febbraio», tirò fuori l’orologio, «e sono le dieci e mezzo del mattino: volete aspettarmi il 21 maggio prossimo alle dieci e mezzo del mattino?»

«A meraviglia!» disse Albert. «La colazione sarà pronta.»

«Dove abitate?»

«Rue Helder numero 27.»

«Siete nella vostra casa di scapolo, e io non vi sarò d’incomodo?»

«Abito in casa di mio padre, ma in un padiglione in fondo al cortile, interamente separato.»

«Va bene.»

Il conte aprì il suo taccuino e scrisse: «Rue Helder, numero 27, 21 maggio, alle dieci e mezzo del mattino».

«E ora», disse il conte, rimettendosi il taccuino in tasca, «state tranquillo, le lancette del vostro orologio non saranno più esatte di me.»

«Vi rivedrò, prima della mia partenza?» domandò Albert.

«Dipende… Quando partirete?»

«Parto domani sera alle cinque.»

«Allora, addio. Ho alcuni affari a Napoli, e non sarò di ritorno qui che sabato sera o domenica mattina. E voi», aggiunse rivolgendosi a Franz, «partite anche voi, signor barone?»

«Sì.»

«Per la Francia?»

«No, per Venezia. Resto ancora un anno o due in Italia.»

«Noi non ci rivedremo dunque a Parigi?»

«Temo di non avere quest’onore.»

«Animo dunque, signori, buon viaggio», disse il conte ai due amici, tendendo a ciascuno la mano.

Era la prima volta che Franz toccava la mano di quell’uomo, e rabbrividì, perché era di ghiaccio come quella di un morto.

«Per l’ultima volta», disse Albert, «resta stabilito sulla parola d’onore, non è vero? Rue Helder numero 27, il 21 maggio alle dieci e mezzo del mattino?»

«Il 21 maggio, alle dieci e mezzo del mattino, Rue Helder numero 27», ripeté il conte.

Dopo di che i due giovani amici lo salutarono.

«Che avete?» disse Albert a Franz nel rientrare nelle loro stanze. «Mi sembrate molto preoccupato.»

«Sì», disse Franz, «ve lo confesso, il conte è un uomo singolare, e vedo con inquietudine questo appuntamento a Parigi.»

«Questo appuntamento… con inquietudine? E perché? Ma siete pazzo, mio caro Franz!» esclamò Albert.

«Che volete? Pazzo o no, è così.»

«Ascoltate», riprese Albert, «sono ben contento che mi si presenti l’occasione di dirvi che vi ho sempre trovato molto freddo col conte, mentr’egli invece è sempre stato ben diverso con noi. Avete qualche avversione contro di lui?»

«Può darsi.»

«Ma l’avevate visto in qualche altro luogo prima d’incontrarlo qui?»

«Sì.»

«E dove?»

«Mi promettete di non dir mai una parola di quanto sto per raccontarvi?»

«Ve lo prometto.»

«Va bene: ascoltatemi dunque.»

Allora Franz raccontò ad Albert la sua escursione all’isola di Montecristo, in cui vi aveva trovato una banda di contrabbandieri e fra questi due banditi corsi. Egli indugiò su tutti i particolari della ospitalità incantevole che il conte gli aveva dato nella sua grotta da Mille e una notte, gli descrisse la cena, l’hashish, le statue, la realtà, il sogno e, come al suo risveglio, non restasse più, come prova e ricordo di tutti quegli avvenimenti, che il piccolo yacht che faceva vela all’orizzonte per Porto Vecchio. Quindi passò a Roma, alla notte del Colosseo, al dialogo che aveva udito fra lui e Vampa riguardante Peppino, e nel quale il conte aveva promesso di ottenere la grazia del bandito, promessa che aveva mantenuto, come avranno potuto giudicare i nostri lettori. Finalmente giunse all’avventura della notte precedente, all’impaccio in cui si era ritrovato, vedendosi mancare sette o ottocento scudi per completare la somma del riscatto; infine all’idea che gli era venuta di ricorrere al conte, idea che ebbe un risultato tanto soddisfacente.

Albert ascoltava Franz con molta attenzione.

«Ebbene», disse, quando l’amico ebbe finito, «e che c’è di riprovevole in tutto questo? Il conte è un viaggiatore; ha un bastimento proprio perché è uomo ricco. Andate a Portsmouth o a Southampton e vedrete quei porti ingombri di yacht appartenenti a ricchi inglesi che hanno lo stesso capriccio. Per sapere dove fermarsi nelle sue escursioni, per non cibarsi di quella terribile cucina, che avvelena me da quattro mesi, e voi da quattro anni, per non giacere su quei letti abominevoli nei quali non si può dormire, si è fatto ammobiliare un appartamento a Montecristo; e temendo che il governo toscano non gli desse il permesso di soggiornarvi, e tutti i suoi mobili andassero perduti, ha comprato l’isola, e ne ha assunto il nome. Mio caro, frugate nella vostra memoria, e ditemi quante persone di vostra conoscenza presero il nome di proprietà che non possedettero mai?»

«Ma», disse Franz, «e quei banditi corsi che erano fra il suo equipaggio?»

«Che c’è di strano? Capite meglio di qualunque altro che i banditi corsi non sono ladri, ma fuggitivi, perché una qualche vendetta li ha esiliati dalle loro città o dai loro villaggi; si possono dunque avvicinare senza compromettersi. In quanto a me dichiaro che se un giorno dovessi andare in Corsica, prima di farmi presentare al governatore o al prefetto, mi farei presentare ai banditi di Colomba,3 se potessi, tanto li considero gentiluomini.»

«Ma Vampa e la sua banda», riprese Franz, «sono banditi che aggrediscono per rubare, non lo negherete, spero! Che dite dunque dell’influenza che il conte ha su gente del genere?»

«Dirò che dovendo la vita, secondo tutte le apparenze, a questa influenza, non spetta a me il criticarla troppo da vicino. Così, invece di fargliene, come voi, una colpa capitale, troverete giusto che lo scusi, se non di avermi salvato la vita, il che sarebbe esagerato, almeno di avermi fatto risparmiare quattromila scudi, che fanno ventiquattromila lire della nostra moneta, somma per la quale non mi avrebbero tanto valutato in Francia.»

«Ma di che paese è il conte? Che lingua parla? Quali sono i suoi mezzi di sussistenza? Da dove gli viene la sua immensa fortuna? Qual è stata questa prima parte della sua vita misteriosa e sconosciuta, che ha sparso sulla seconda una tinta oscura e misantropica? Ecco ciò che al vostro posto vorrei sapere.»

«Mio caro Franz, quando leggendo la mia lettera vi siete accorto che avevamo bisogno dell’influenza del conte, siete andato a dirgli: “Albert, conte di Morcerf, corre un pericolo; aiutatemi a toglierlo dai guai!” Non è vero?»

«Sì.»

«Allora vi ha egli domandato: “E chi è questo signor Albert di Morcerf? Donde gli viene il suo nome? Donde gli viene la sua fortuna? Quali sono i suoi mezzi di sussistenza? Qual è il suo paese? Dove è nato?” Vi ha forse fatto queste domande?»

«No, lo confesso.»

«Egli è venuto, ecco tutto. Mi ha tolto dalle mani del signor Vampa, dove a onta di tutte le mie arie, come voi mi diceste, vi facevo barbina figura, lo confesso: ebbene, mio caro, quando in cambio di un simile favore mi domanda di far per lui ciò che si fa tutti i giorni per il primo principe russo o italiano che passa per Parigi, vale a dire presentarlo in società, volete che gli neghi questo? Via dunque, Franz, siete pazzo?»

Bisogna convenire che, contrariamente al solito, questa volta tutte le buone ragioni erano dalla parte di Albert.

«E va bene», rispose Franz con un sospiro, «fate come volete, mio caro visconte, poiché tutto quello che mi dite è persuasivo, lo confesso, ma è altrettanto vero che il conte di Montecristo è un uomo strano.»

«Il conte di Montecristo è un uomo molto generoso… Non vi ha detto con quale scopo viene a Parigi? Ebbene, viene per concorrere al premio di Monthyon, e se a ottenerlo non gli manca che il mio voto, glielo darò. E ora, non parliamone più: mettiamoci a tavola, e dopo andiamo a fare un’ultima visita a San Pietro.»

Fu fatto come aveva detto Albert, e il giorno dopo alle cinque del pomeriggio i due giovani si lasciarono: Albert di Morcerf per ritornare a Parigi, e Franz d’Epinay per passare una quindicina di giorni a Venezia. Ma Albert, prima di salire in carrozza, consegnò al cameriere dell’albergo, tanto aveva paura che il suo invitato mancasse all’appuntamento, un biglietto da visita per il conte di Montecristo, sul quale, sotto le parole «Visconte Albert di Morcerf», aveva scritto a matita: «21 maggio, alle dieci e mezzo di mattina, rue Helder numero 27».



39. La colazione

Nella casa di rue Helder, nella quale Albert di Morcerf aveva dato a Roma appuntamento al conte di Montecristo, ogni cosa veniva preparata, il mattino del 21 maggio, per fare onore alla parola data dal giovane.

Albert abitava in un padiglione all’angolo di un grande cortile e dirimpetto a un altro stabile destinato ai vari servizi della casa.

Due sole finestre di questo padiglione guardavano sulla strada; delle altre, tre davano sul cortile, e due sul giardino. Fra il cortile e il giardino s’ergeva, sebbene fabbricata con cattivo gusto di architettura imperiale, l’abitazione elegante e vasta del conte e della contessa di Morcerf.

L’intero fabbricato era cinto, verso la strada, da un muro ornato a intervalli regolari da vasi di fiori, e diviso nel centro da un cancello, a lance dorate, che serviva per le entrate solenni; una porticina, quasi addossata all’abitazione del custode. dava passaggio ai padroni e alla servitù quando entravano o uscivano a piedi.

Nella scelta del padiglione destinato a fare da abitazione ad Albert, si indovinava la delicata previdenza di una madre che, non volendo separarsi dal figlio, aveva però capito che un giovane dell’età di Albert aveva bisogno di libertà d’azione. Tuttavia, dobbiamo convenirne, vi si riconosceva anche l’intelligente narcisismo del giovane, dedito a quella vita libera e oziosa, propria dei figli di papà, al quale si indora la gabbia come all’uccello.

Dalle due finestre che guardavano sulla strada, Albert poteva guardare, con tutto il suo agio, nella via, cosa tanto necessaria ai giovani che vogliono veder passare davanti agli occhi il proprio orizzonte, fosse pur quello di una strada. Albert poteva, per le sue scappatelle, uscire da una piccola porta che era dirimpetto all’altra di cui abbiamo parlato, presso l’abitazione del portinaio, e che merita una particolare menzione.

Era solo una piccola porta, che si sarebbe detta dimenticata da tutti dal giorno in cui fu costruita la casa, e che si pensava condannata a rimanere sempre chiusa, tanto sembrava polverosa. Ma i catenacci e i cardini erano talmente ben unti, che ne tradivano l’uso continuo e misterioso.

La piccola porta segreta faceva concorrenza alle altre due, aprendosi come la famosa porta della caverna delle Mille e una notte, Sesamo incantato di Alì Babà, per mezzo di qualche parola magica, o di qualche segno convenuto, pronunciato dalla più dolce voce, ed eseguito dalla più bella mano del mondo. In fondo a un corridoio vasto e silenzioso, col quale comunicava questa piccola porta e che formava un’anticamera, s’apriva a destra la sala da pranzo d’Albert che si affacciava sul cortile, e a sinistra il suo piccolo salotto di fronte al giardino.

Cespugli e piante parassite si aprivano a ventaglio davanti alle finestre e nascondevano al cortile e al giardino l’interno di queste stanze, le sole al pianterreno, che potevano essere esposte agli sguardi degli importuni.

Al primo piano c’erano altre due camere, più una terza che corrispondeva alla sottostante anticamera: erano la camera da letto, una stanza per gli ospiti, e un salottino. La sala al pianterreno era una specie di «boudoir» algerino destinato ai fumatori. Il salotto al primo piano portava alla camera da letto e per una porta invisibile comunicava con le scale.

Si tenga mente la prudenza.

Sopra il primo piano si apriva un ampio studio, ingrandito abbattendo i muri divisori, in un disordine da artista o da damerino. Là erano rifugiati e impilati tutti i successivi capricci di Albert: i corni da caccia, i bassi, i flauti, un’orchestra completa, poiché per un momento ebbe non il gusto, ma la fantasia della musica; i cavalletti, le tavolozze, i pastelli, poiché alla fantasia della musica era succeduta la fatuità della pittura; poi i fioretti, i guanti da pugile, le spade e le lance d’ogni genere, poiché, seguendo il costume dei giovani alla moda, Albert coltivava, con maggior perseveranza di quel che non aveva fatto con la musica e la pittura, le tre arti che formano il compimento dell’educazione della gioventù elegante, vale a dire la scherma, il pugilato e il bastone, e in questa camera destinata alla ginnastica, vi riceveva successivamente Grisier, Cooks e Charles Lacour.

Il resto dei mobili di questa sala privilegiata si componeva di vecchi forzieri dei tempi di Francesco I, pieni di porcellane cinesi, di vasi giapponesi, di terraglie di Luca della Robbia e di piatti di Bernard di Palissy; di antichi troni su cui forse si era assiso Enrico IV o Sully, Luigi XIII o Richelieu, poiché due di essi, ornati di uno scudo intagliato, dove su campo azzurro brillavano i tre gigli di Francia sormontati dalla corona reale, provenivano certamente dal guardaroba del Louvre, o perlomeno da qualche castello reale. Su essi erano gettate alla rinfusa ricche stoffe a vivi colori, tinte al sole della Persia o ricamate dalle dita delle donne di Calcutta o di Chandernagor.

Cosa ci facessero là quelle stoffe non si sapeva; aspettavano, ricreando gli occhi, un destino sconosciuto anche al loro stesso proprietario, e mentre aspettavano, rischiaravano l’appartamento con i loro riflessi dorati.

Nel posto più appariscente c’era un pianoforte fabbricato da Roller e Blanchet di legno di rosa, della forma dei nostri organetti di Barberia, contenente un’intera orchestra nella sua stretta e sonora capacità, e caricato con i capolavori di Weber, di Mozart, d’Haydn, di Grétry e di Porpora.

Quindi, lungo tutti i muri, sopra le porte, nel soffitto, erano appese spade, pugnali, stocchi, mazze dorate, e complete armature damascate, incrostate; arborari, massi di minerali, uccelli imbottiti di crini, che tenevano le ali aperte in un volo immobile, con le penne color fuoco, col becco che non chiudono mai.

Non occorre dire che questa era la stanza prediletta di Albert.

Però, il giorno dell’appuntamento, il giovane in abito di mezza gala aveva fissato il suo quartier generale nel salotto del pianterreno. Lì, su una tavola circondata da un divano largo e morbido, erano disposti tutti i tabacchi conosciuti, dal giallo di Pietroburgo fino al nero del Sinai passando per il portorico e il latakiè, racchiusi in vasi di terraglia smaltata che sono il vanto degli olandesi. Accanto a essi, in cassette di legni odorosi, erano schierati per ordine di grandezza e di qualità, i sigari puros, regalia, avana, ecc.

Finalmente in un armadio aperto una collezione di pipe di Germania, di Turchia, con i bocchini d’ambra, ornate di corallo e di fregi incrostati d’oro, con lunghe canne di marocchino ripiegate a guisa di serpenti, aspettavano il capriccio o la simpatia dei fumatori. Albert aveva controllato di persona tutti quei preparativi per il dopo caffè, quando gli invitati amano osservare il fumo che sfugge loro di bocca, dirigendosi verso il soffitto in lunghe e capricciose spirali. Alle dieci meno un quarto entrò un cameriere, che, insieme a uno stalliere di quindici anni, che parlava soltanto l’inglese, e rispondeva al nome di John, erano i soli domestici di Albert. Anche se poteva disporre del cuoco di casa nei giorni ordinari e negli straordinari, e il cacciatore del conte era a sua disposizione.

Questo cameriere, che si chiamava Germain e che godeva di tutta la fiducia del giovane padrone, teneva in mano un pacco di giornali che depose sul tavolo, e alcune lettere che consegnò ad Albert, il quale vi gettò sopra uno sguardo indifferente, ne scelse due in caratteri minuti e profumate, le dissigillò, e le lesse con attenzione.

«Come sono arrivate queste lettere?» domandò.

«Una è giunta per posta, l’altra l’ha portata il cameriere della signora Danglars.»

«Fate dire alla signora Danglars, che accetto il posto che mi offre nel suo palco… Aspettate, in giornata passerete da Rosa, le direte che cenerò da lei dopo l’Opéra, e le porterete sei bottiglie di vino assortito di Cipro, Xérès di Malaga, e un barile di ostriche d’Ostenda… Prendete le ostriche da Borel, e raccomandategli che sono per me.»

«A che ora vuole che si servita la cena?»

«Che ore sono?»

«Manca un quarto alle dieci.»

«Ebbene, ordinate per le dieci e mezzo precise… Debray sarà forse obbligato ad andare al suo ministero… e d’altra parte…» Albert consultò il suo taccuino, «questa è l’ora che ho detto al conte: il “21 maggio alle dieci e mezzo del mattino”. Anche se non faccio grande affidamento sulla promessa, desidero essere esatto. A proposito, sapete se la signora contessa sia alzata?»

«Se il signor visconte lo desidera, andrò a informarmene.»

«Sì… Chiedetele una delle sue cassettine da liquori, poiché la mia è incompleta: le direte che avrò l’onore d’andar da lei verso le tre, e che le domando permesso di presentarle un signore.»

Uscito il cameriere, Albert si gettò sul divano, stracciò la fascetta a due o tre giornali, guardò gli annunci degli spettacoli, fece una smorfia vedendo che si rappresentava un’opera e non un ballo; poi gettò l’uno dopo l’altro i tre giornali più in voga a Parigi, mormorando in mezzo a uno sbadiglio prolungato: «Questi giornali diventano di giorno in giorno sempre più noiosi!»

In quel momento una carrozza si fermò davanti la porta, e un momento dopo il cameriere rientrò annunciando il signor Lucien Debray.

Un giovane biondo, alto, pallido, con gli occhi grigi e severi, le labbra sottili e fredde, l’abito blu a bottoni cesellati, la cravatta bianca, una lente di cristallo sospesa a un filo di seta, fissata all’occhio destro, entrò senza sorridere, senza parlare, con un portamento semiufficiale.

«Buongiorno, Lucien, buongiorno!» lo salutò Albert. «Voi mi spaventate, mio caro, con la vostra puntualità! Ma che dico, puntualità! Voi che non aspettavo che per ultimo, giungete alle dieci meno cinque minuti, mentre l’appuntamento non è che alle dieci e mezzo. Questo è un miracolo! Il ministero è forse caduto?»

«No, carissimo», disse il giovane, gettandosi sul divano, «tranquillizzatevi, trattiamo sempre, ma non cediamo mai, e comincio a credere che passeremo bonariamente all’immobilità, senza contare che gli affari della penisola vanno in modo da consolidarsi pienamente.»

«Ah, è vero, scacciate Don Carlos dalla Spagna.»

«No, carissimo, non confondete le cose, lo riconduciamo all’altra frontiera della Francia, e gli offriamo un’ospitalità da re a Bourges.»

«A Bourges?»

«Sì, egli non avrà di che lamentarsi; Bourges è la capitale del re Carlo VII. Come! Voi non sapete nulla? Tutta Parigi lo sa da ieri, e l’altro ieri la cosa era già trapelata alla borsa, perché Danglars (non so con in che modo quell’uomo ottiene le notizie nello stesso tempo che noi), perché Danglars ha rischiato sul rialzo dei fondi, e ha guadagnato un milione.»

«E voi una nuova decorazione, a quanto pare: poiché vedo una striscia blu in più sulla vostra giacca!»

«Bah, mi hanno inviato la decorazione di Carlo III», rispose noncurante Debray.

«Andiamo, non fate tanto l’indifferente, e confessate che vi ha fatto piacere riceverla.»

«Certo, sì, per completare l’abbigliamento una placca sta bene sopra un abito nero abbottonato, è elegante.»

«E», disse ridendo Morcerf, «si ha l’aspetto del principe di Galles, o simili…»

«Ecco dunque, carissimo, il perché mi vedete così di buon’ora.»

«Per la decorazione di Carlo III, e volevate darmi questa notizia?»

«No, ma perché ho passato tutta la notte a spedir lettere: venticinque dispacci diplomatici. Tornato a casa questa mattina, volevo dormire, ma mi ha assalito il mal di testa, e mi sono rialzato per montare un’ora a cavallo. A Boulogne sono stato preso dalla noia e dalla fame, due nemici che raramente vanno insieme, e che tuttavia si sono alleati contro di me: una specie di alleanza Carlo-repubblicana. Allora mi sono ricordato che questa mattina c’era festa in casa vostra, ed eccomi qua: ho fame, nutritemi; sono annoiato, svagatemi.»

«Questo è il mio dovere d’anfitrione, amico caro», disse Albert suonando per il cameriere, mentre Lucien con la sua bacchettina, dal pomo cesellato e incrostato di turchesi, spostava i giornali spiegati.

«Germain, una bicchiere di Xérès e un biscotto. Intanto, mio caro Lucien, ecco dei sigari, di contrabbando bene inteso: v’invito a fumarli e a persuadere il vostro ministro a vendercene uguali, invece delle foglie di noce che condanna i buoni cittadini a fumare.»

«Figuriamoci, me ne guarderò bene. Quando questi vi venissero forniti dal Governo non li vorreste più, e li trovereste detestabili. D’altra parte ciò non è compito dell’interno, spetta alle finanze, andate dal signor Humann, sezione delle imposte indirette, corridoio A, numero 26.»

«Davvero», disse Albert, «mi sorprendete con le vostre conoscenze. Ma prendete un sigaro!»

«Ah, caro conte», replicò Lucien accendendo un sigaro a una candela color rosa in una bugia d’argento dorato, e lasciandosi andare sul divano, «quanto siete felice per non avere nulla da fare! Non conoscete la vostra felicità!»

«E che fareste dunque, mio caro rappacificatore di regni», rispose Morcerf con una leggera ironia, «se non aveste nulla da fare? Come! Segretario particolare di persone influenti, lanciato nella gran cabala europea e nei piccoli intrighi di Parigi; incaricato di dirigere le elezioni; impegnato più nel vostro gabinetto e col vostro telegrafo di quel che non ha fatto Napoleone sui campi di battaglia con la spada e con le vittorie; possessore di venticinquemila franchi di rendita, oltre il vostro impiego, di un cavallo per cui Château-Renaud vi ha offerto quattrocento luigi e non glielo avete voluto dare, di un sarto che non vi sbaglia mai un paio di calzoni; frequentatore dell’Opéra, del Jockey Club, e del teatro del Varietà, non trovate dunque che tutto ciò sia buono per distrarvi? Ebbene sia, vi distrarrò io.»

«E in qual modo?»

«Col farvi fare una nuova conoscenza.»

«Un uomo o una donna?»

«Un uomo.»

«Oh, ne conosco già troppi!»

«Ma uno così non lo conoscete.»

«E da dove viene dunque? Dall’altra parte del mondo?»

«Forse anche da più lontano.»

«Spero che non sia quello che deve portare la nostra colazione?»

«No, state tranquillo, la nostra colazione è nelle cucine materne. Ma dunque avete fame?»

«Sì, lo confesso, per quanto sia umiliante dirlo. Ieri ho pranzato dal signor Villefort, e non so se abbiate mai notato come si pranza male tra i membri del tribunale: si direbbe che hanno sempre dei rimorsi.»

«Ah, voi disprezzate i pranzi degli altri! Come se si pranzasse bene dai vostri ministri…»

«Sì, ma non invitiamo la gente del bel mondo, almeno; e se non fossimo obbligati a invitare quei miserabili che pensano, e quel che più importa, che danno buoni voti, ci guarderemmo come dalla peste, di pranzare a casa nostra; questo vi prego di volerlo credere sul serio.»

«Allora, mio caro, prendete un altro bicchiere di Xeres e un altro biscotto.»

«Il vostro vino di Spagna è eccellente; avete visto che abbiamo avuto ragione a riappacificare quel Paese.»

«E ciò vi procurerà il Toson d’Oro.»

«Credo che questa mattina abbiate adottato il sistema di nutrirmi di fumo.»

«Eh, questo è quanto diverte più lo stomaco… Ma ascoltate: sento appunto la voce di Beauchamp nell’anticamera, discuterete insieme, e ciò vi farà attendere con maggiore pazienza.»

«Di cosa?»

«Di giornali.»

«Ah, caro amico», disse Lucien, con un sovrano disprezzo, «io leggo forse giornali?»

«Ragione di più, allora discuterete maggiormente…»

«Il signor Beauchamp!» annunciò il cameriere.

«Entrate, entrate, penna terribile!» salutò Albert alzandosi e andando incontro al giovane. «Ecco qui Debray che vi detesta senza leggervi, almeno a quanto ha detto.»

«Ne ha ben ragione», replicò Beauchamp. «Si comporta come me, io lo critico senza sapere quel che fa… Buongiorno, commendatore!»

«Ah, lo sapete già?» rispose il segretario particolare, scambiando col giornalista una stretta di mano e un sorriso.

«Ci mancherebbe!» rispose Beauchamp.

«E che se ne dice nel mondo?»

«In quale mondo? Abbiamo molti mondi nell’anno di grazia 1838. Eh, nel mondo critico-politico di cui siete uno dei personaggi più influenti.»

«Si dice che è una cosa giustissima.»

«Mica male», commentò Lucien. «Perché mai non siete uno dei nostri, mio caro Beauchamp? Con tanto spirito, fareste fortuna in tre o quattro anni.»

«Non aspetto che una cosa per seguire il vostro consiglio. Ora, una domanda, caro Albert, poiché bisogna bene che lasci respirare Lucien: facciamo colazione, o pranziamo? Perché io ho la Camera che mi aspetta. Non sono tutte rose, come vedete, nel nostro mestiere.»

«Faremo soltanto colazione; non aspettiamo più che due persone, e ci metteremo a tavola appena saranno arrivate.»

«E chi aspettate?» domandò Beauchamp.

«Un gentiluomo e un diplomatico», rispose Albert.

«Allora è questione di due orette per il gentiluomo, e di due abbondanti per il diplomatico; ritornerò alla frutta. Tenetemi da parte delle fragole, del caffè, e dei sigari; mangerò una costoletta alla Camera.»

«No, rimanete, Beauchamp. Anche se il gentiluomo fosse un Montmorency, e l’altro uno dei primi diplomatici, faremo colazione alle undici precise; frattanto fate come Debray: assaggiate il mio Xeres, e i miei biscotti.»

«D’accordo, resto. Ho bisogno di distrarmi questa mattina.»

«Bene, proprio come Debray: mi sembra però che quando il ministero è triste l’opposizione debba essere allegra!»

«Vedete, amico caro, non sapete da che cosa sono minacciato… Questa mattina sentirò un discorso di Danglars, e questa sera in casa di sua moglie una tragedia di un pari di Francia.»

«Capisco, avete bisogno di far scorta di divertimento.»

«Non parlate male dei discorsi di Danglars, egli vota per voi, è dell’opposizione.»

«Ecco dove sta il male: io aspetto che lo mandiate a far discorsi in Lussemburgo per riderne a mio bell’agio.»

«Caro mio», disse Albert a Beauchamp, «si vede che gli affari di Spagna si sono sistemati, questa mattina siete di un’acidità stomachevole. Ricordatevi dunque che la cronaca parigina parla di trattative di un matrimonio fra me ed Eugénie Danglars. Non posso dunque, in coscienza, lasciarvi parlar male dell’eloquenza di un uomo, che un giorno o l’altro può dirmi: “Signor visconte, sapete che assegno in dote due milioni a mia figlia”.»

«Suvvia», ribatté Beauchamp, «questo matrimonio non si farà mai. Il Re ha potuto farlo conte, ma non potrà mai farlo diventar gentiluomo, e il conte di Morcerf è una spada troppo aristocratica per acconsentire, per due meschini milioni, a una cattiva alleanza. Il visconte di Morcerf non deve sposare che una marchesa.»

«Due milioni», rispose Albert, «sono una bella cosa.»

«Questo è il capitale sociale di un teatro dei boulevard, o di una ferrovia dal Jarden des Plantes alla Rapée.»

«Lasciatelo dire Morcerf», riprese con noncuranza Debray, «e ammogliatevi. Voi sposate la cifra scritta sopra un sacco, non è vero? Ebbene! Che v’importa? Meglio su questa cifra un blasone di meno e uno zero di più.»

«In tutta sincerità, credo che abbiate ragione, Lucien», rispose Albert distratto.

«Eh certamente! D’altra parte egli è milionario e nobile come un bastardo: cioè, potrebbe esserlo.»

«Zitto! Non dite questo, Debray», lo riprese ridendo Beauchamp. «Ecco qui Château-Renaud che per guarirvi dalla mania di fare paradossi, vi trapasserebbe con la spada di Rinaldo di Montalbano, suo antenato.»

«Allora uscirebbe dalle regole dei duelli», rispose Lucien, «perché io sono un campagnolo.»

«Bene!» esclamò Beauchamp. «Ecco il funzionario che fa l’agnellino. Come andremo a finire?»

«Il signor Château-Renaud! Il signor Maximilien Morrel!» disse il cameriere, annunciando i due nuovi invitati.

«Siamo al completo!» esclamò Beauchamp. «Noi andiamo a far colazione; perché se non erro aspettavate solo due persone, Albert?»

«Morrel!» mormorò Albert. «E chi è costui?»

Ma prima che avesse terminato, il signor Château-Renaud, un bel giovane sui trent’anni, gentiluomo dalla testa ai piedi, vale a dire, con l’aspetto di un Guiche e lo spirito di un Montemart, aveva preso Albert per la mano.

«Permettetemi mio caro», disse, «di presentarvi il signor Maximilien Morrel capitano degli Spahis, mio amico, e di più, mio salvatore. Del resto si presenta abbastanza bene da se stesso: salutate il mio eroe, visconte!»

E si scostò per presentare questo grande e nobile giovane, dalla fronte larga, dallo sguardo penetrante, dai baffi neri, che i nostri lettori ricorderanno di aver visto a Marsiglia in un’occasione molto più drammatica, e che non avranno certo dimenticato.

Una ricca uniforme, metà francese, e metà orientale, mirabilmente portata, faceva risaltare il suo largo petto, la croce della Legion d’Onore, e la struttura agile delle sue forme. Il giovane ufficiale s’inchinò con eleganza; Morrel era raffinato in tutti i suoi movimenti perché era forte.

«Signore», disse Albert con affettuosa cortesia, «il barone di Château-Renaud ben sapeva tutto il piacere che mi avrebbe procurato nel farmi fare la vostra conoscenza. Voi siete uno dei suoi amici, signore; siate anche uno dei nostri.»

«Benissimo», approvò Château-Renaud, «e desidero, mio caro visconte, che all’occasione faccia per voi quel che ha fatto per me.»

«E che ha dunque fatto?» domandò Albert.

«Oh, non è il caso di parlarne, il signore esagera.»

«Come non è il caso di parlarne? La vita non vale la pena che se ne parli?… Davvero c’è troppa filosofia nelle vostre parole, mio caro Morrel… Andrà bene per voi che esponete la vostra vita tutti i giorni, ma per me che l’ho esposta una volta per caso…»

«Ciò che capisco da queste parole, barone, è che il capitano Morrel vi ha salvato la vita.»

«Sì, esattamente», replicò Château-Renaud.

«E in quale occasione?» domandò Beauchamp.

«Beauchamp, amico mio, sapete ch’io muoio di fame!» esclamò Debray. «Non perdetevi dunque in storie.»

«Ma io non impedisco che ci mettiamo a tavola. Château-Renaud ci racconterà tutto a tavola», ribatté Beauchamp.

«Signori», disse Morcerf, «non sono che le dieci e un quarto, e noi aspettiamo un altro convitato.»

«Ah, è vero, un diplomatico», riprese Debray.

«Un diplomatico, o qualche altra cosa, non so niente: ciò che so, è che lo incaricai di un’ambasciata per conto mio, da lui eseguita in modo così mirabile che se fossi stato re, lo avrei fatto cavaliere di tutti i miei ordini, anche avessi avuto a mia disposizione il Toson d’Oro, e la Giarrettiera.»

«Allora, poiché non si va ancora a tavola», disse Debray, «versatevi un altro bicchiere di Xérès come abbiamo fatto noi, e raccontateci la vostra storia, barone.»

«Voi tutti sapete che mi venne il capriccio di andare in Africa?»

«Strada tracciatavi dai vostri antenati, mio caro Château-Renaud», disse con galanteria Morcerf.

«Sì, ma dubito che vi siate andato, come loro, per liberare il Santo Sepolcro.»

«Avete ragione, Beauchamp», rispose il giovane aristocratico, «fu solo per sparare un colpo di pistola come dilettante… Il duello mi ripugna, come voi sapete, da quando due padrini, che io avevo scelti per sistemare una contesa, mi costrinsero a rompere un braccio a uno dei miei migliori amici… a quel povero Franz d’Epinay, che voi tutti conoscete.»

«Ah, è vero, vi batteste molto tempo fa… e a proposito di che?»

«Il diavolo mi porti se me ne ricordo!» esclamò Château-Renaud. «Ma ciò che mi ricordo perfettamente è che ho voluto provare sugli arabi delle pistole nuove che mi erano state regalate. Perciò m’imbarcai per Orano; di là arrivai a Costantina, e giunsi giusto in tempo per veder levare l’assedio. Mi aggregai alla ritirata come gli altri. Per quarantotto ore sopportai abbastanza bene la pioggia di giorno, e la neve di notte; poi la terza mattina il cavallo morì di freddo. Povera bestia! Abituato alle coperte e al braciere della scuderia… un cavallo arabo che si è trovato espatriato per aver trovato appena dieci gradi di freddo in Arabia…»

«Perciò volevate comprare il mio cavallo inglese», disse Debray, «supponendo forse che avrebbe sopportato il freddo meglio del vostro arabo.»

«Vi sbagliate; poiché ho fatto voto di non ritornare più in Africa.»

«Avete avuto paura dunque?» domandò Beauchamp.

«Sì, lo confesso», ammise Château-Renaud, «e ne ho avuto ben donde! Il mio cavallo dunque era morto, io facevo la mia strada a piedi, sei arabi vennero al galoppo per tagliarmi la testa, ne ammazzai due con due colpi del mio fucile, due con le mie pistole, ma ne restavano altri due, ed ero disarmato. Uno mi prese per i capelli, per questo ora li porto corti, non si sa mai ciò che può accadere, l’altro mi circondò il collo col suo yatagan, e già sentivo il freddo acuto del ferro, quando questo signore che vedete, caricò a sua volta contro di loro, atterrò quello che mi teneva per i capelli con un colpo di pistola, e con la sciabola spaccò la testa a quello che mi stava tagliando la gola. Questo signore si era imposto in quel giorno l’obbligo di salvare un uomo, la combinazione volle che fossi io: quando diventerò ricco, voglio far fare da Klagmann o da Marochetti una statua che rappresenti quell’episodio.»

«Sì», disse sorridendo Morrel, «era il 5 settembre, l’anniversario del giorno in cui mio padre fu miracolosamente salvato. Così, per quanto è in mio potere, celebro tutti gli anni questo giorno con qualche azione.»

«Eroica, non è vero?» interruppe Château-Renaud. «Insomma, fui l’eletto, ma non è finita qui. Dopo avermi salvato dal ferro mi salvò dal freddo, dandomi, non già una metà del suo mantello come fece, non mi ricordo chi, ma tutto intero. Poi dalla fame, dividendo con me, indovinate un poco che cosa?…»

«Un pasticcio di Félix?» chiese Beauchamp.

«No, il suo cavallo, di cui mangiammo entrambi un pezzo con grandissimo appetito, sebbene fosse un poco duro…»

«Il cavallo?» domandò ridendo Morcerf.

«No, il sacrificio», rispose Château-Renaud. «Domandate a Debray se sacrificherebbe il suo cavallo inglese per un estraneo?»

«Per un estraneo, no; per un amico potrebbe darsi», rispose Debray.

«E io pronosticai che sareste divenuto mio amico, signor conte», disse Morrel. «D’altra parte ho già avuto l’onore di dirvelo: eroismo o no, sacrificio o no, avevo un debito con la sorte, in compenso del favore che in un’altra occasione ci aveva fatto.»

«Questa storia a cui Morrel fa allusione, è una bellissima storia e ve la racconterà un giorno, quando lo avrete conosciuto meglio; per oggi pensiamo allo stomaco, e non alla memoria. A che ora fate colazione?»

«Alle dieci e mezzo.»

«Precise?» domandò Debray prendendo l’orologio.

«Oh, mi accorderete cinque minuti di ritardo», ribatté Morcerf, «poiché io pure aspetto un salvatore.»

«Di chi?»

«Di me stesso!» rispose Morcerf. «Credete forse che non possa essere salvato come un altro, o che non vi siano che gli arabi che tagliano la testa? La nostra colazione è una colazione di riconoscenza e avremo alla nostra tavola, spero almeno, due benefattori dell’umanità.»

«E come faremo?» domandò Debray. «Non abbiamo che un sol premio Monthyon…»

«Verrà dato a qualcuno che non avrà fatto nulla per meritarlo», disse Beauchamp. «In questo modo di solito fa l’accademia per togliersi da qualunque impaccio.»

«E da dove viene?» domandò Debray. «Scusate l’insistenza; avete già, lo so bene, risposto a questa domanda, ma molto vagamente e perciò posso permettermi di farvela una seconda volta.»

«A dire il vero», rispose Albert, «non lo so. Quando l’ho invitato tre mesi fa era a Roma. Ma da quel tempo, chi può dire dove sia stato?»

«E lo credete capace di essere puntuale?»

«Lo credo capace di tutto», rispose Morcerf.

«Fate attenzione perché, compresi i minuti di ritardo, non ne mancano che dieci.»

«Ebbene, ne approfitterò per dirvi una parola sul mio invitato.»

«Scusate», disse Beauchamp, «vi sarà materia per un articolo in ciò che stare per narrare?»

«Sì, certamente», disse Morcerf, «e anche dei più curiosi.»

«Allora raccontate, poiché vedo bene che non potrò andare alla Camera, e bisogna che mi ripaghiate.»

«Ero a Roma per l’ultimo carnevale.»

«Questo lo sappiamo già», disse Beauchamp.

«Ma ciò che non sapete è che fui rapito dai briganti.»

«Non esistono più i briganti», dichiarò Debray.

«Esistono, e sono anche bruttissimi cioè ammirabili, mentre ne ho trovati di belli, ma da far paura.»

«Vediamo, mio caro Albert», disse Debray, «confessate che il vostro cuoco è in ritardo, che le ostriche non sono ancora giunte da Marennes o da Ostenda, e che come la signora di Maintenon, volete sostituire un racconto a un piatto. Ditelo, mio caro, siamo abbastanza di buona compagnia per perdonarvelo, e per ascoltare la vostra storia, anche se sembra inventata.»

«E io vi dico, per quanto possa sembrare inventata, che è vera dal principio alla fine. I briganti dunque mi avevano condotto in un luogo molto triste, chiamato le catacombe di San Sebastiano.»

«Le conosco», disse Château-Renaud, «per poco non mi ammalai.»

«A me andò peggio. Mi fu detto che ero prigioniero, salvo il riscatto, una bagattella, quattromila scudi romani, circa ventiseimila lire francesi. Disgraziatamente non ne avevo più di millecinquecento; ero alla fine del mio viaggio, e il mio credito era esaurito. Scrissi a Franz. Per fortuna Franz era là, e potete chiedergli se mento di una virgola… Scrissi dunque a Franz che se non si fosse presentato alle sei del mattino con i quattromila scudi, alle sei e dieci minuti sarei passato all’eterna gloria, e Luigi Vampa, questo è il nome del capo dei briganti, vi prego di crederlo, avrebbe mantenuto scrupolosamente la sua parola.»

«Ma Franz sarà giunto con i quattromila scudi…» disse Château-Renaud.

«Ci mancherebbe! Non può avere problemi a trovare quattromila scudi chi porta il nome di Franz d’Epinay o di Albert di Morcerf!»

«No, ma egli giunse solamente e semplicemente accompagnato dall’invitato che vi ho annunciato, e che spero di potervi presentare.»

«E che!? È dunque Ercole che uccide Caco questo signore? Un Perseo che libera Andromeda?»

«No, è un uomo circa della mia corporatura.»

«Armato fino ai denti?»

«Non aveva neppure un ferro da calza.»

«E contrattò il vostro riscatto?»

«Disse due parole all’orecchio del capo e io fui liberato.»

«Anzi gli fecero perfino le scuse d’avervi rapito», disse Beauchamp.

«Precisamente», rispose Morcerf.

«Ma che! Era dunque l’Orlando d’Ariosto quest’uomo?»

«No, era semplicemente il conte di Montecristo.»

«Non c’è nessuno che si chiami così», disse Debray.

«Non credo», aggiunse Château-Renaud con la presenza d’animo dell’uomo che conosce sulla punta delle dita tutte le genealogie delle famiglie nobili dell’Europa, «ci sia chi conosca un conte di Montecristo…»

«Forse è un qualche casato proveniente dalla Terra Santa», disse Beauchamp: «uno dei suoi avi avrà posseduto il Calvario, come Montemart, il Mar Morto.»

«Scusate», disse Maximilien, «io credo di potervi togliere d’impaccio, signori: Montecristo è una piccola isola, di cui ho spesso sentito parlare dai marinai impiegati da mio padre, un grano di sabbia in mezzo al Mediterraneo, un atomo nell’infinito.»

«Ed è vero, signore», annuì Albert. «Ebbene, di questo grano di sabbia, di questo atomo è signore e re colui di cui vi parlo; egli avrà comprato il diploma di conte in qualche parte della Toscana.»

«È dunque ricco il vostro conte?»

«Credo proprio di sì!»

«Non lo sapete?…»

«Avete letto le Mille e una notte?»

«Bella domanda!»

«Le persone che vi appaiono sono ricche o povere? I loro grani di frumento sono rubini o diamanti? Essi hanno l’aspetto di miserabili pescatori, non è vero? Voi li trattate come tali, e subito vi aprono qualche caverna misteriosa, e vi trovate un tesoro da comprare le Indie. Il mio conte di Montecristo è uno di quei pescatori; ha perfino un nome preso da quella favola, si chiama Sinbad il marinaio, e possiede una caverna piena d’oro.»

«L’avete vista», domandò Beauchamp.

«Io no; Franz sì. Ma zitti! Non bisogna dire una parola di tutto ciò davanti a lui. Franz vi scese con gli occhi bendati, e fu servito da uomini muti, e da donne, paragonate alle quali Cleopatra non era, a quanto pare, che una donna volgare. Soltanto delle donne egli non è ben sicuro, giacché esse non apparvero che dopo aver masticato dell’hashish di modo che potrebbe darsi che quelle che ha preso per donne, non fossero che statue.»

I giovani amici guardarono Morcerf con uno sguardo che voleva dire: «Mio caro, stata diventando pazzo o vi burlate di noi?»

«Però», disse Morrel pensieroso, «ho sentito raccontare anch’io da un vecchio marinaio, chiamato Penelon, qualche cosa di simile a ciò che dice il signor di Morcerf.»

«Ah», fece Albert, «sono fortunato che Morrel venga in mio aiuto.»

«Perdonate, mio caro, ma ci raccontate cose tanto inverosimili…»

«Perché i vostri ambasciatori, i vostri consoli non ve ne parlano? Essi non ne hanno il tempo; sono troppo impegnati a molestare i loro compatrioti che viaggiano.»

«Ah, ecco che v’inquietate, e ve la prendete con i nostri poveri diplomatici. Eh, mio Dio, con che volete che vi proteggano? La Camera corrode ogni giorno i loro stipendi, e ora è al punto di non avere più fondi. Volete diventare ambasciatore? Vi farò nominare a Costantinopoli.»

«No, perché il sultano, alla prima nota in favore di Mehemet Alì, mi manderebbe una corda con la quale i miei segretari mi strangolerebbero.»

«Esattamente!» disse Debray.

«Tutto ciò non toglie che il mio conte di Montecristo esista!»

«Perbacco, tutti gli uomini esistono, bel miracolo!»

«Tutti gli uomini esistono, ma non in simili condizioni. Tutti gli uomini non hanno schiavi, gallerie principesche, cavalli di seimila franchi l’uno, e concubine greche.»

«L’avete vista la concubina greca?»

«Sì, l’ho vista e ascoltata; vista al teatro Valle, ascoltata un giorno che facevo colazione dal conte.»

«Il vostro uomo straordinario dunque mangia?»

«Certo che mangia! Ma così poco, che non merita parlarne.»

«Si scoprirà poi che è un vampiro…»

«Ridete, se volete, questa era l’opinione della contessa G. che come voi sapete, ha conosciuto lord Ruthwen.»

«Bene!» esclamò Beauchamp. «Ecco per un giornalista lo scoop del famoso serpente di mare del “Constitutionnel”: un vampiro, niente meno!»

«Occhio rossiccio, la cui pupilla si dilata e restringe a volontà», continuò Debray, «volto ossuto e scarno, fronte spaziosa, tinta livida, barba nera, denti bianchi e acuti, gentilezza tutta particolare.»

«È proprio così, Lucien», disse Morcerf, «i connotati sono esatti. Sì, gentilezza acuta e incisiva. Quest’uomo spesso mi ha fatto tremare, e particolarmente un giorno, fra gli altri, che guardavamo insieme un’esecuzione, ho creduto di svenire molto più nel vederlo e sentirlo ragionare freddamente su tutti i supplizi della terra, che guardare il carnefice eseguire il suo compito, e sentire le grida del condannato.»

«E non vi ha condotto fra le rovine del Colosseo per succhiarvi il sangue, Morcerf?» domandò Beauchamp.

«Oppure, dopo avervi liberato, non vi ha fatto firmare qualche pergamena color fuoco, in virtù della quale gli cederete la vostra anima?»

«Scherzate! Scherzate quanto volete, signori!» disse Morcerf punto sul vivo. «Quando osservo voialtri bei parigini, abituati al Boulevard de Gand, passeggiatori del Bois de Boulogne, e mi ricordo di quest’uomo, mi pare che non siamo della stessa specie.»

«Me ne vanto», disse Beauchamp.

«Il vostro conte di Montecristo», aggiunse Château-Renaud, «è però sempre un galantuomo nelle ore d’ozio, salvo le sue piccole intese con i banditi italiani…»

«Ma non vi sono banditi italiani!» sospirò Debray.

«Non vi sono vampiri!» disse Beauchamp.

«Non esiste il conte di Montecristo!» riprese Debray.

«Ascoltate, caro Albert, suonano le dieci e mezzo.»

«Confessate che avete visto un fantasma, e andiamo a far colazione», disse Beauchamp.

Ma la vibrazione dell’orologio a pendolo non si era ancora esaurita, che la porta si aprì, e Germain annunciò: «Sua Eccellenza il conte di Montecristo!»

Tutti gli astanti apparvero loro malgrado sorpresi. Albert stesso non poté evitare un’emozione momentanea. Non era stata udita né carrozza sulla strada, né passi nell’anticamera; la porta stessa si era aperta senza rumore. Il conte comparve sulla soglia, vestito con la più grande semplicità, e il damerino più esigente non avrebbe saputo trovarvi la minima mancanza. Tutto era di un gusto squisito, tutto usciva dalle mani dei più eleganti fornitori: abiti, cappello, biancheria. Sembrava avere appena trentacinque anni, ma ciò che sorprese tutti fu l’estrema rassomiglianza col ritratto che ne aveva fatto Debray. Il conte avanzò sorridendo in mezzo al salotto, e andò direttamente da Albert, che venendogli incontro gli tese con trasporto la mano.

«La puntualità», disse Montecristo, «è la gentilezza dei re, come ha preteso, io credo, uno dei vostri sovrani. Ma qualunque sia la loro buona volontà, non è però sempre quella dei viaggiatori. Però io spero, mio caro visconte, che mi scuserete i due o tre secondi di ritardo al nostro appuntamento; cinquecento leghe non si fanno senza qualche contrattempo, particolarmente in Francia dove è proibito, a quanto sembra, frustare i postiglioni.»

«Signor conte», rispose Albert, «stavo proprio preannunciando la vostra visita agli amici, da me riuniti per la promessa che mi avevate fatto e che ho l’onore di presentarvi. Questi signori sono, il conte di Château-Renaud, la cui nobiltà risale ai dodici Pari, i cui antenati hanno avuto posto alla Tavola Rotonda; Lucien Debray, segretario particolare del ministro dell’Interno; Beauchamp, terribile giornalista, il terrore del governo francese, e di cui forse, nonostante la sua celebrità, non avrete sentito parlare in Italia, visto che il suo giornale non vi può entrare; e infine Maximilien Morrel, capitano degli Spahis.»

A questo nome, il conte, che fino allora aveva salutato cortesemente, ma con una freddezza e un’impassibilità tutta inglese, fece suo malgrado un passo avanti, e una leggera tinta vermiglia gli salì come un lampo alle pallide guance.

«Il signore porta l’uniforme dei nuovi vincitori francesi», disse. «È una bella uniforme!»

Non sarebbe stato possibile dare un nome al sentimento che dava alla voce del conte una così profonda vibrazione, e faceva brillare suo malgrado lo sguardo tanto bello, tanto sereno e limpido, quando non aveva alcun motivo per velarlo.

«Voi non avevate mai visto i nostri coloniali, signor conte?» domandò Albert.

«Mai!» replicò il conte, ritornato perfettamente padrone di se stesso.

«Ebbene, signor conte, sotto quest’uniforme batte uno dei cuori più coraggiosi e più nobili dell’esercito…»

«Oh, signor conte…» interruppe Morrel.

«Lasciatemi parlare, capitano… Non ha pari», continuò Albert. «Abbiamo conosciuto un tratto così eroico del signore, che nonostante io lo veda oggi per la prima volta, pretendo il favore di potervelo presentare come mio amico.»

E si sarebbe potuto, anche a queste parole, scorgere nel conte quello strano sguardo indagatore, quel rossore fuggitivo, e quel leggero tremore della palpebra, che in lui tradiva l’emozione.

«Ah, il signore ha un cuore nobile?» disse il conte. «Tanto meglio!»

Questa specie di esclamazione che corrispondeva piuttosto al pensiero del conte, che al discorso di Albert, sorprese tutti, ma particolarmente Morrel, che guardò il conte di Montecristo con stupore. Ma il tono della voce era stato così dolce e per così dire soave, che, per quanto strana fosse apparsa questa esclamazione, non c’era ragione in alcun modo di offendersene.

«Perché dunque ne dubiterebbe?» domandò Beauchamp a Château-Renaud.

«A essere sinceri», rispose questi, che, con l’abitudine al gran mondo e la chiarezza del colpo d’occhio aristocratico, aveva riconosciuto in Montecristo molte qualità, «Albert non ci ha ingannati, è un personaggio singolare questo conte… Che ne dite, Morrel?»

«A mio avviso», rispose questi, «ha lo sguardo sincero e la voce simpatica, perciò mi piace, malgrado la bizzarra riflessione fatta sul mio conto.»

«Signori», disse Albert, «Germain mi avverte che la colazione è pronta. Mio caro conte, permettete che vi mostri la strada.» Passarono silenziosamente nella sala da pranzo, e ciascuno si mise al suo posto.

«Signori», disse il conte sedendosi, «permettete una confessione che sarà la mia scusa per tutte le sconvenienze che potrò commettere: sono straniero, ma straniero a tal punto che questa è la prima volta che vengo a Parigi. La vita francese mi è dunque totalmente sconosciuta, non avendo fino a ora seguito che lo stile orientale, il più antitetico alle buone tradizioni parigine. Vi prego dunque di scusarmi se troverete in me qualche cosa di troppo turco, o di troppo arabo. Detto ciò, signori, facciamo colazione.»

«Da come ha detto tutto ciò», mormorò Beauchamp, «si capisce che è un gran signore!»

«Un gran signore straniero», aggiunse Debray.

«Un signore cosmopolita», disse Château-Renaud.

Ricorderete che il conte era un invitato sobrio.

Albert notò la cosa, e manifestò il timore che la vita parigina potesse dispiacergli fin dal principio, essendo più materiale, è vero, ma nello stesso tempo più necessaria.

«Mio caro conte», disse, «voi mi vedete colpito da un timore: che la cucina della rue Helder non arrivi a piacervi quanto quella dei piazza di Spagna. Avrei dovuto chiedervi ciò che più vi piace, e farvi preparare qualche piatto di vostro gusto.»

«Se mi conosceste di più», rispose sorridendo il conte, «non vi preoccupereste di una cosa quasi umiliante per un viaggiatore come me, che ha successivamente vissuto con maccheroni a Napoli, con polenta a Milano, con olla podrida a Valenza, con riso asciutto a Costantinopoli, con il curry nelle Indie, e con nidi di rondini in Cina. Non c’è una cucina particolare per un cosmopolita come me: mangio di tutto e in ogni luogo; solo mangio poco, e oggi che mi rimproverate la mia sobrietà, sono in una delle giornate del mio massimo appetito, perché è da ieri che non mangio.»

«Come da ieri mattina?» esclamarono gli invitati. «Non mangiate da ventisei ore?»

«No», rispose il conte. «Fui obbligato a deviare dalla mia strada per raggiungere Nîmes a prendere alcune informazioni, di modo che ero un poco in ritardo, e non ho voluto fermarmi.»

«Ma avrete mangiato in carrozza?!» disse Morcerf.

«No, ho dormito, come mi succede quando mi annoio senza avere il coraggio di distrarmi, o quando ho fame senza avere voglia di mangiare.»

«Ma dunque comandate al sonno?» domandò Morrel.

«Pressappoco.»

«Avete una ricetta per questo?»

«Infallibile.»

«Sarebbe eccellente per noi coloniali, che non sempre abbiamo da mangiare, e sempre difficilmente da bere…» disse Morrel.

«Sì», continuò il conte, «disgraziatamente la mia ricetta, buona per un uomo come me, che conduce una vita eccezionale, sarebbe molto pericolosa applicata a un esercito, che non si sveglierebbe più, quando se ne avesse bisogno.»

«Si può conoscere questa ricetta?» chiese Debray.

«Certo», rispose il conte, «non ne faccio alcun segreto; è una mistura di eccellente oppio; io stesso sono stato a cercarlo a Canton, per esser certo di averlo puro, e del migliore hashish che si raccolga in Oriente, cioè fra il Tigri e l’Eufrate. Si riuniscono questi due ingredienti in porzioni uguali, e se ne formano delle specie di pillole che s’inghiottono quando uno ne ha bisogno. L’effetto si produce dieci minuti dopo. Domandate al barone Franz d’Epinay, che credo un giorno l’abbia assaggiato.»

«Sì», rispose Morcerf, «me ne ha accennato, anzi ne ha conservato una piacevole memoria.»

«Ma», domandò Beauchamp, che nella sua qualità di giornalista era molto incredulo, «portate sempre questa droga con voi?»

«Sempre!» rispose il conte di Montecristo.

«Sarei indiscreto se vi domandassi di vedere queste pillole?» continuò Beauchamp, nella speranza di cogliere lo straniero in fallo.

«No, signore…» rispose il conte.

E prese di tasca una meravigliosa scatolina scavata in un solo smeraldo, e chiusa con un fermaglio d’oro, che, aprendosi, lasciava uscire una pillola di color verdastro, della grossezza di un pisello.

Questa pillola aveva un odore acre e penetrante, e ve ne erano quattro o cinque all’interno dello smeraldo che ne poteva contenere circa una dozzina. La scatolina fece il giro della tavola, e gli invitati se la facevano passare più per esaminare la magnificenza dell’ammirabile smeraldo, che per guardare e fiutare le pillole contenute.

«È forse il vostro cuoco che vi prepara questo miscuglio?» domandò Beauchamp.

«No, signore», disse il conte di Montecristo, «non abbandono i miei piaceri all’arbitrio di mani inesperte; sono chimico a sufficienza per prepararmi da solo queste pillole.»

«Questo è uno smeraldo splendido, ed è il più grosso che abbia mai visto, nonostante mia madre abbia qualche gioia di famiglia di notevole valore», disse Château-Renaud.

«Di questi ne avevo tre», aggiunse il conte di Montecristo. «Uno lo regalai al Gran Visir, che ne ha adornato la sua sciabola; l’altro a una persona che non posso nominare; il terzo l’ho tenuto per me, l’ho fatto scavare, togliendogli la metà del suo valore, ma l’ho reso più adatto all’uso al quale l’ho destinato.»

Ognuno guardò il conte di Montecristo con meraviglia; parlava con tanta semplicità, che faceva ritenere vero, o falso, ciò che diceva: lo smeraldo nelle sue mani provava però la prima supposizione.

«Cosa vi hanno dato in cambio le persone cui avete fatto simili doni?» chiese Debray.

«Il Gran Visir mi ha concesso la libertà di una donna», rispose il conte, «l’altra persona la vita di un uomo. Di modo che per due volte sono stato potente come se fossi nato sui gradini di un trono.»

«Avete fatto liberare Peppino, non è vero?» gridò Morcerf. «Fu per lui che esercitaste il diritto di grazia?»

«Può darsi», disse Montecristo, sorridendo.

«Signor conte», riprese Morcerf, «non potete farvi un’idea del piacere che provo nel sentirvi parlare così. Vi avevo già descritto ai miei amici come un uomo favoloso, come un mago delle Mille e una notte, come uno stregone del medioevo, ma i parigini sono persone talmente sottili nei paradossi, che prendono per capricci dell’immaginazione le verità più inconfutabili, quando non sono abituali. Per esempio, ecco Debray che legge, e Beauchamp che scrive tutti i giorni che sul boulevard è stato fermato e spogliato qualche membro del Jockey Club in ritardo, sono state assassinate quattro persone in rue Saint-Denis o nel Faubourg Saint-Germain, sono stati arrestati quattro, dieci, venti ladri.

E negano l’esistenza dei banditi nelle Maremma, nella campagna romana, e nelle paludi pontine. Dite dunque voi stesso, ve ne prego, signor conte, che sono stato preso da questi banditi, e che, senza la vostra generosa intercessione, io oggi aspetterei, secondo tutte le probabilità, la resurrezione finale nelle catacombe di San Sebastiano, invece di offrire loro colazione nella mia piccola e indegna casa in rue Helder.»

«Mi avete promesso di non parlarmi più di questa sciocchezza.»

«Non sono io che vi ho fatto questa promessa, signor conte», gridò Morcerf, «sarà stato qualcun altro a cui avete reso un simile favore, e che ora confondete con me. Parliamone anzi, ve ne prego; perché se vi risolvete a parlare di questo episodio, non solo ridirete alcune cose che so, ma molte altre che non so.»

«Mi sembra che in tutto questo affare», aggiunse il conte ridendo, «abbiate sostenuto una parte di troppa importanza, per sapere al par mio tutto ciò che è accaduto.»

«Volete promettermi che, se dico tutto quel che so, mi direte tutto quel che non so?»

«D’accordo», rispose Montecristo.

«Ebbene», riprese Morcerf, «dovesse il mio amor proprio soffrirne nuovamente, mi sono creduto per tre giorni oggetto delle civetterie di una maschera che ritenevo discendente delle Tullie, o delle Poppee, mentre ero semplicemente il passatempo di una contadina; e notate bene che dico contadina per non dir villana.

Poi come un gonzo ho scambiato un giovane bandito sui quindici, sedici anni per quella contadina, fino a deporre un bacio sulla sua casta spalla. Lui, in quel momento, mi ha messo le pistole alla gola e con l’aiuto di altri sette o otto banditi, mi ha condotto o piuttosto trascinato in fondo alle catacombe di San Sebastiano. Qui trovai un capo di banditi molto colto, che leggeva i Commentari di Giulio Cesare, e che si è degnato d’interrompere la lettura per dirmi che se l’indomani alle sei del mattino non avessi versato quattromila scudi nella sua cassa, alle sei e un quarto avrei cessato di vivere. La lettera esiste, è nelle mani di Franz, firmata da me, con un poscritto di mastro Luigi Vampa. Se ne dubitate, scriverò a Franz che potrà mostrarvi le firme. Ecco ciò che so. Quello che mi resta da sapere è come mai, voi signor conte, siate giunto a incutere ai banditi di Roma un così gran rispetto, essi che nulla rispettano. Vi confesso che Franz e io ne fummo pieni d’ammirazione.»

«Niente di più semplice, signore», rispose il conte. «Conoscevo il famoso Vampa da più di dieci anni. Quand’era ancora giovane e faceva il pastore, un giorno gli regalai non mi ricordo quale moneta d’oro, perché mi indicò la strada ed egli mi dette in cambio un pugnale intagliato con le sue mani, e che voi forse avrete notato nella mia collezione d’armi. Col tempo, sia che egli avesse dimenticato questo scambio di piccoli regali, che doveva mantenere l’amicizia fra noi, sia che non mi avesse riconosciuto, tentò di rapirmi; ma io invece catturai lui con una dozzina dei suoi compagni. Allora potevo abbandonarlo alla giustizia romana che è spiccia, e si sarebbe affrettata ancora di più nei suoi riguardi, ma non lo feci: lo rimandai con tutti i suoi.»

«A condizione che non peccassero più», ribatté il giornalista ridendo. «Vedo con piacere che hanno mantenuta scrupolosamente la parola.»

«No, signore», rispose Montecristo, «a condizione che rispettassero sempre me e i miei amici.»

«Finalmente!» esclamò Château-Renaud. «Ecco il primo uomo coraggioso da cui sento predicare lealmente e brutalmente l’egoismo. Bravissimo, signor conte.»

«Almeno parlate sinceramente», aggiunse Morrel, «ma sono sicuro che il signor conte non si è pentito di avere mancato una volta a questi principi, esposti in modo così assoluto.»

«E in qual modo ho mancato ai miei principi, signore?» domandò Montecristo, che ogni tanto non poteva esimersi dal guardare Maximilien con tanta attenzione, che già due o tre volte l’ardito giovane era stato costretto ad abbassare gli occhi, allo sguardo limpido e chiaro del conte.

«Mi sembra», rispose Morrel, «che liberando il signor Morcerf che non conoscevate voi servivate il prossimo, e la società…»

«Di cui egli fa il più bell’ornamento», aggiunse seriamente Beauchamp vuotando in un sol fiato un bicchiere di champagne.

«Signor conte», gridò Morcerf, «eccovi coinvolto dal ragionamento, voi uno dei più aspri logici che io conosca. E quanto prima vi sarà dimostrato che invece d’essere un egoista, siete un altruista. Ah, voi vi spacciate per orientale, levantino, maltese, indiano, cinese, selvaggio, Montecristo è il vostro nome di famiglia, Sinbad il marinaio quello di battesimo ed ecco che il primo giorno che mettete piede a Parigi, già possedete il più gran difetto della nostra eccentricità parigina, vale a dire usurpate i vizi che non avete!»

«Mio caro visconte», disse Montecristo, «non vedo in tutto ciò che ho detto o fatto, una sola parola che possa meritarmi da parte vostra e di questi signori, l’elogio che ricevo. Voi non mi eravate estraneo, poiché vi avevo offerto una colazione, vi avevo prestato per otto giorni la mia carrozza, avevamo assistito insieme alla sfilata delle maschere per il Corso, e perché avevamo guardato dalla stessa finestra della piazza del Popolo quella esecuzione che vi fece tanta impressione che quasi sveniste. Ora, io domando a questi signori, potevo lasciare il mio ospite nelle mani di quegli spaventosi banditi, come voi li chiamate? D’altra parte, lo sapete, avevo nel salvarvi un secondo fine, quello di servirmi di voi per introdurmi nella società di Parigi quando fossi venuto in Francia. Per qualche tempo avete potuto considerare questa risoluzione come un disegno vago e incerto; ma oggi, lo vedete, è una bella e buona realtà, alla quale bisogna che vi sottomettiate, sotto pena di mancare alla vostra parola.»

«E io la manterrò», disse Morcerf, «ma temo che presto vi cadrà ogni illusione, mio caro conte, voi, avvezzo ai luoghi d’avventure, agli avvenimenti pittoreschi, ai fantastici orizzonti.

Presso di noi non vi accadrà il più piccolo episodio di quelli cui la vita fantastica vi ha abituato. Il nostro Chimboraco è Montmartre, il nostro Himalaya è il monte Valérien, il nostro Gran Deserto è la pianura di Grenelle. Noi abbiamo dei ladri e anche molti, sebbene non ve ne siano tanti quanti si dice; ma essi temono ugualmente la più piccola spia come il più gran signore. Infine la Francia è un Paese così prosaico, e Parigi una città tanto incivilita, che non troverete cercando per tutti gli ottantacinque nostri dipartimenti (dico ottantacinque dipartimenti, perché, ben inteso, separo la Corsica dalla Francia) che non troverete una sola montagna in cui non vi sia un telegrafo, la più piccola grotta un poco oscura, nella quale un commissario di polizia non abbia fatto installare un becco a gas. Non vi è dunque che un solo favore che posso rendervi, mio caro conte, e per questo mi metto interamente a vostra disposizione, ed è di presentarvi ovunque, e farvi presentare dai miei amici, benché voi per questo non abbiate bisogno d’alcuno: col vostro nome, la vostra fortuna, e il vostro spirito» – Montecristo s’inchinò con un sorriso leggermente ironico – «ognuno si presenta ovunque da se stesso, e ovunque è ben ricevuto. In realtà, dunque non posso essere utile per voi che a una cosa sola: se l’abitudine della vita parigina, se la esperienza dei nostri usi, se la conoscenza dei nostri bazar possono raccomandarmi a voi, mi metto a vostra disposizione per trovarvi una conveniente abitazione. Non oso proporvi di invitarvi del mio alloggio, come ho partecipato del vostro a Roma… Non professo l’egoismo, ma sono egoista per eccellenza… perché il mio alloggio non potrebbe contenere, oltre me, neppure un’ombra… a meno che non fosse quella di una donna.»

«Ah», fece il conte, «ecco una riserva di sapore matrimoniale: voi infatti a Roma mi avete detto qualche parola di un matrimonio in trattativa; debbo congratularmi per la vostra prossima felicità?»

«La cosa è sempre allo stato di progetto, signor conte.»

«E chi dice progetto», aggiunse Debray, «vuol dire eventualità.»

«No, no, mio padre si è impegnato, e spero fra poco di presentarvi se non mia moglie, almeno la mia fidanzata, la signorina Eugénie Danglars.»

«Eugénie Danglars», riprese Montecristo, «aspettate dunque… Suo padre non è il barone Danglars?»

«Sì», rispose Morcerf, «ma barone di nuova formazione.»

«Oh, che importa!» rispose Montecristo, «se ha reso allo Stato dei servigi che gli hanno fatto guadagnare questa distinzione.»

«Servigi enormi!» rispose Beauchamp. «Sebbene liberale nell’anima nel 1829, completò un prestito di sei milioni a Carlo X che lo ha, penso io, fatto barone e cavaliere della Legion d’Onore, di modo che egli porta la decorazione non al taschino del giubbetto, come si potrebbe credere, ma all’occhiello dell’abito!»

«Beauchamp», iniziò Morcerf ridendo, «riserbate questi frizzi per il “Corsaire”, e il “Charivari”, ma in mia presenza risparmiate il mio futuro suocero.»

Quindi volgendosi a Montecristo: «Ma voi poco fa ne pronunciaste il nome come se conosceste il barone?»

«Non lo conosco», disse con noncuranza Montecristo, «ma probabilmente non tarderò molto a fare la sua conoscenza, visto che ho dei crediti aperti su di lui dalla casa Richard e Blount di Londra, Arstein ed Escheles di Vienna, Thomson e French di Roma.»

Pronunciando questi due ultimi nomi, Montecristo guardò con la coda dell’occhio Maximilien Morrel. Se lo straniero aveva calcolato di produrre un effetto su Maximilien, non si era sbagliato.

Il giovane trasalì come se avesse ricevuta una scossa elettrica.

«Thomson e French!» esclamò. «Conoscete questa casa, signore?»

«Sono i miei banchieri nella capitale del mondo cristiano», rispose tranquillamente il conte. «Posso esservi utile con loro?»

«Ah, signore, voi potreste aiutarmi, forse, in certe ricerche, che fino a oggi sono state infruttuose. Tanto tempo questa casa ha reso un grandissimo favore alla nostra, e non so perché, ma ha sempre negato di avercelo reso.»

«Sono ai vostri ordini…» rispose Montecristo, inchinandosi.

«Ma noi», disse Morcerf, «ci siamo allontanati, per Danglars, dall’argomento della conversazione. Si trattava di trovare una casa conveniente al conte di Montecristo. Andiamo, signori, che idea avete?: dove alloggeremo questo nuovo ospite della grande Parigi?»

«Nel Faubourg Saint-Germain», disse Château-Renaud, «il signore troverà una graziosa abitazione posta fra il cortile e il giardino.»

«Bah, Château-Renaud», disse Debray, «voi non conoscete che il vostro triste e ammuffito Faubourg Saint-Germain… Non lo ascoltate signor conte, alloggiate nella Chaussée d’Antin, è il vero centro di Parigi.»

«Boulevard dell’Opéra», disse Beauchamp, «al primo piano, una casa con ringhiera… Il signor conte vi farà portare dei cuscini di broccato d’argento, e vedrà, fumando la sua pipa turca, o inghiottendo le sue pillole, tutta la capitale sfilare sotto i suoi occhi.»

«E voi», iniziò Château-Renaud, «voi, signor Morrel, non avete nessuna idea? Non proponete nulla?»

«Anzi», disse il giovane militare, «al contrario, ne ho una, ma aspettavo che il signore si fosse lasciato tentare da qualcuna delle brillanti proposte che gli sono state fatte. Ora, credo potergli offrire un appartamento in una casa piccola, ma graziosa, tutta alla Pompadour, che mia sorella ha presa in affitto da circa un anno in rue Meslay.»

«Voi avete una sorella?» domandò Montecristo.

«Sì, signore, e una meravigliosa sorella.»

«Sposata?»

«Ben presto saranno nove anni.»

«È felice?» domandò di nuovo il conte.

«Tanto felice, quanto è permesso a creatura umana», rispose Maximilien. «Sposò l’uomo che amava, quello che ci rimase fedele nella fortuna avversa: Emmanuel Herbaut.»

Montecristo sorrise impercettibilmente.

«Io abito là durante il mio congedo», continuò Maximilien, «e insieme a mio cognato Emmanuel, saremo a disposizione del signor conte per tutte le informazioni che potesse desiderare.»

«Un momento», gridò Albert, prima che Montecristo avesse avuto il tempo di rispondere, «riflettete su ciò che fate: volete rinchiudere un viaggiatore come Sinbad il marinaio nella vita di famiglia? Un uomo che è venuto a vedere Parigi, volete farlo diventare un patriarca?»

«Oh, no», rispose Morrel sorridendo, «mia sorella ha venticinque anni, mio cognato trenta; sono giovani, allegri e felici; d’altra parte il signor conte avrà il proprio appartamento, e non incontrerà gli ospiti che quando gli farà piacere scendere da loro.»

«Grazie, signore, grazie», disse Montecristo, «mi accontenterò di essere da voi presentato a vostra sorella e a vostro cognato, se volete farmi questo onore; ma non posso accettare le offerte di nessuno di questi signori, poiché ho già pronta la mia abitazione.»

«Come!» esclamò Morcerf. «Voi andate ad alloggiare in una locanda? Sarebbe troppo disdicevole per voi.»

«Ma stavo forse tanto male a Roma?» domandò Montecristo.

«Caspita, a Roma», disse Morcerf, «avevate speso cinquantamila scudi per farvi ammobiliare un appartamento, e presumo non sarete tutti i giorni disposto a una simile spesa.»

«Ciò non mi ha trattenuto», rispose Montecristo. «Avevo deciso di avere una casa a Parigi, intendo una casa mia. Ho mandato avanti il mio cameriere: a quest’ora l’avrà già comprata, e fatta ammobiliare.»

«Ma diteci, dunque, avete un cameriere che conosce Parigi!» osservò Beauchamp.

«È la prima volta, signore, ch’egli come me viene in Francia, è nero, e non parla…» spiegò Montecristo.

«Allora è Alì?» domandò Albert in mezzo alla sorpresa generale.

«Sì, è Alì il mio nubiano, che credo abbiate visto a Roma.»

«Sì, certamente», rispose Morcerf, «me lo ricordo benissimo.»

«Ma come mai avete incaricato uno della Nubia di comprarvi una casa a Parigi, un muto per farvelo ammobiliare? Il povero disgraziato avrà fatto tutte le cose con grande difficoltà…»

«Al contrario, signore, sono certo che avrà scelto ogni cosa secondo il mio gusto; e voi sapete che il mio gusto non è quello di tutti… Avrà percorso tutta la città con quell’istinto naturale che userebbe un bravo cane da caccia che stesse cacciando da solo. Conosce i miei capricci, le mie fantasie, i miei bisogni; avrà ordinato tutto a modo mio. Sapeva che sarei arrivato qui alle dieci; fin dalle nove mi aspettava alla barriera di Fontainebleau. Mi ha consegnato questo biglietto, col mio nuovo indirizzo: prendete e leggete…»

«Champs-Elysées, numero 30», lesse Morcerf.

«Veramente originale!» non poté fare a meno di dire Beauchamp.

«È davvero principesca!…» aggiunse Château-Renaud.

«Come, voi non conoscete la vostra casa?» domandò Debray.

«No», disse Montecristo, «vi dissi già che non volevo tardare all’appuntamento. Mi sono preparato in carrozza, e ho bussato alla porta del visconte.»

I giovani si guardarono l’un l’altro; non sapevano se Montecristo stesse interpretando una commedia; ma tutto ciò che usciva dalla bocca di quest’uomo aveva, nonostante l’originalità, una tale impronta di semplicità, che non si poteva supporre che mentisse. D’altra parte, perché avrebbe mentito?

«Dovremo accontentarci di rendere al signor conte», disse Beauchamp, «tutti quei piccoli favori che saranno in nostro potere. Io, nella mia qualità di giornalista, gli apro tutti i teatri di Parigi.»

«Grazie, signore», rispose sorridendo Montecristo, «il mio intendente ha già l’ordine di prendere in affitto un palco in ciascuno di essi.»

«E il vostro intendente è pure un nubiano, un muto?» domandò Debray.

«No, signore, è semplicemente un vostro compatriota, se un corso è compatriota di qualcuno; ma voi lo conoscete, signor Morcerf.»

«Sarebbe per caso quel bravo Bertuccio, che è così esperto a prendere in affitto le finestre?»

«Precisamente, e lo avete visto da me quel giorno ch’ebbi l’onore di avervi a colazione. È un bravissimo uomo, un po’ soldato, un po’ contrabbandiere, un po’ di tutto ciò che si può essere. Non giurerei che non abbia avuto qualche problema con la polizia, per un niente, qualche cosa di simile a un colpo di coltello.»

«E avete scelto quest’onesto cittadino del mondo come vostro intendente, signor conte?» disse Debray. «E quanto vi ruba ogni anno?»

«Ebbene, parola d’onore», rispose il conte, «niente più di un altro, ne sono sicuro; ma mi serve bene, per lui nulla è impossibile, e io lo tengo.»

«Allora», disse Château-Renaud, «eccovi con una casa pronta; avete un’abitazione agli Champs-Elysées, domestico, intendente: vi manca solo una moglie.»

Albert sorrise; pensava alla bella greca vista nel palco del conte al teatro Valle, e al teatro Argentina.

Da lungo tempo erano passati alla frutta e ai sigari.

«Mio caro», disse Debray alzandosi, «sono le due e mezzo, il vostro commensale è simpaticissimo, ma non vi è buona compagnia che non si sia obbligati a lasciare, e qualche volta anche una cattiva: devo tornare al ministero. Parlerò del conte al ministro, e bisognerà bene che scopriamo chi sia.»

«Lasciate perdere», disse Morcerf, «i più maligni vi hanno rinunciato.»

«Bah, noi abbiamo tre milioni per la nostra polizia; è vero che sono quasi sempre spesi in anticipo; ma non importa: resteranno sempre un cinquantamila franchi da impiegarsi in questo.»

«E quando saprete chi è, me lo direte?»

«Ve lo prometto. Arrivederci, Albert. Signori, servo umilissimo.»

E uscendo, Debray gridò ad alta voce: «Fate venire la carrozza!»

«Be’», disse Beauchamp ad Albert, «io non andrò alla Camera, ma avrò da offrire ai miei lettori molto meglio che un discorso del signor Danglars.»

«Per favore, Beauchamp», replicò Morcerf, «neppure una parola, ve ne supplico; non mi togliete il merito di presentarlo, e di renderlo noto. Non è vero ch’egli è interessante?»

«Molto di più», rispose Château-Renaud. «È veramente uno degli uomini più straordinari che abbia mai conosciuto in vita mia. Venite, Morrel.»

«Solo il tempo di dare il mio biglietto al signor conte, che vorrà promettermi di venire a farci una visita, rue Meslay, numero 14.»

«State sicuro che non mancherò, signore…» disse inchinandosi il conte.

E Maximilien Morrel uscì col barone di Château-Renaud, lasciando Montecristo solo con Morcerf.

40. La presentazione

Quando Albert si trovò da solo con Montecristo, gli disse: «Signor conte, consentitemi di esordire nel mio compito di cicerone col farvi la descrizione dell’appartamento di uno scapolo. Abituato ai palazzi d’Italia, non sarà piccola sorpresa per voi calcolare in quanti piedi quadrati può vivere un giovane che passa per non essere male alloggiato. Passando da una camera all’altra, apriremo le finestre, perché possiate respirare».

Montecristo già conosceva il salotto e la sala da pranzo del pianterreno. Albert lo portò prima nel suo studio: ciascuno si ricorderà che questa era la stanza prediletta dal giovane.

Montecristo era un ottimo conoscitore di tutte le cose che Albert aveva riunito in questa stanza: antichi scrigni, porcellane giapponesi, stoffe d’Oriente, specchi di Venezia, armi di tutti i Paesi del mondo. Ogni cosa gli era familiare, e al primo colpo d’occhio riconosceva il secolo, il Paese, l’origine. Morcerf credeva di dover spiegare tutto, e al contrario faceva sotto la direzione del conte un corso completo di archeologia, mineralogia e storia naturale.

Scesero quindi al primo piano.

Albert precedette il suo ospite nella salotto, tappezzato di capolavori dei moderni pittori. C’erano paesaggi di Dupré dai lunghi canneti, gli alberi slanciati, le vacche che pascolavano sotto un cielo stupendo; cavalieri arabi di Delacroix con i lunghi burnus bianchi, le cinture variopinte, le armi damaschinate, i cavalli che si mordevano con rabbia, mentre gli uomini si laceravano con la mazza di ferro; vi erano acquarelli di Boulanger, che rappresentavano tutti Notre-Dame di Parigi con un vigore degno d’un poeta; quadri di Diaz che fa i fiori più belli dei fiori, il sole più brillante del sole; disegni di Duchamp colorati quanto quelli di Salvator Rosa, ma più poetici; quadri a pastello di Giraud e di Müller che rappresentavano fanciulli con le teste d’angelo, e donne con le sembianze di vergini; schizzi presi dall’album di Dauzats nel suo viaggio in Oriente, eseguiti a matita, in pochi secondi stando o sulla sella di un cammello, o sulla cupola di una moschea: infine, tutto ciò che l’arte moderna può dare in cambio e in compenso dell’arte perduta dei secoli passati.

Albert era convinto di potere, almeno questa volta, di mostrare qualche cosa di nuovo al suo strano viaggiatore, ma con sua grande sorpresa questi, senza aver bisogno di guardare le firme, di cui alcune segnate soltanto con le iniziali, a ciascun’opera assegnava il nome dell’autore, e in modo tale che era facile accorgersi che, non solo gli erano noti i nomi di questi autori, ma che le loro opere erano state studiate e apprezzate.

Da questa sala si passò alla camera da letto. Era un modello di eleganza e di gusto severo: là non c’era che un solo ritratto, ma firmato col nome di Léopold Robert, risplendente in una cornice d’oro massiccia. Questo quadro attirò subito l’attenzione del conte, perché fece subito tre passi rapidi e andò a fermarsi davanti a esso. Vi era raffigurata una donna giovane di venticinque-ventisei anni dal colorito bianco e lo sguardo acuto, velato sotto da languide palpebre; portava il costume pittoresco delle pescatrici catalane con la giubba rossa e nera, e le spille d’oro nei capelli; guardava il mare, e l’elegante profilo si staccava sopra il doppio azzurro delle onde e del cielo.

La luce della camera era debole, altrimenti Albert si sarebbe accorto del pallore livido sulle guance del conte, e avrebbe notato il fremito che gli sfiorò le spalle e il petto. Ci fu un momento di silenzio, durante il quale Montecristo restò fisso con l’occhio sulla pittura.

«Avete una bella amica, visconte», disse Montecristo con voce assolutamente tranquilla, «e questo costume, certamente da ballo, le sta a meraviglia.»

«Ah, signore, ecco uno sbaglio che non vi perdonerei, se vicino a questo ritratto ne aveste visto qualche altro. Voi non conoscete mia madre, signore; è lei che vedete in questo quadro. Si fece ritrarre così sette od otto anni fa. Questo costume è di fantasia, a quanto pare, e la somiglianza è tanto grande, che mi se,bra sempre di vedere mia madre com’era nel 1830. La contessa si fece fare questo ritratto in assenza del conte. Senza dubbio credeva di preparargli una dolce sorpresa per il ritorno. Ma, cosa bizzarra, questo ritratto dispiacque a mio padre; e il merito della pittura, che come vedete è una delle più belle opere di Léopold Robert, non poté vincerla sulla sua antipatia. È vero, sia detto fra noi, mio caro signor conte, che mio padre è uno dei pari più assidui in Lussemburgo, un generale rinomato per la strategia, ma è un conoscitore d’arte dei più mediocri. Non così però mia madre, che dipinge in modo notevole, e che, stimando troppo questo lavoro per separarsene, l’ha regalato a me, perché qui fosse meno esposto al dispiacere del signor Morcerf, di cui vi farò vedere il ritratto dipinto da Gras.

Vogliate perdonarmi se vi parlo in tal modo di cose intime di famiglia; ma siccome avrò l’onore di presentarvi a momenti al conte, vi dico tutto ciò, perché non vi sfugga qualche elogio di questo quadro in sua presenza. Del resto, però, il quadro ha una ben triste influenza: è difficile che mia madre venga in camera mia senza fermarsi a contemplarlo, e più difficile ancora che lo contempli senza piangere. La nube che portò questa dipinto in famiglia è del resto la sola che sia insorta fra il conte e la contessa, che, sebbene sposati da più di venti anni, sono uniti come se fosse il primo giorno.»

Montecristo vibrò una rapida occhiata ad Albert, come per cercare un fine nascosto nelle sue parole, ma era evidente che il giovane le aveva pronunciate con semplicità.

«Ora», disse Albert, «avete visto tutte le mie ricchezze, signor conte, e permettetemi di offrirvele, per quanto siano indegne di voi… Consideratevi come a casa vostra, e per mettervi ancora a maggior agio, abbiate la bontà di accompagnarmi dal signor Morcerf, mio padre, al quale scrissi da Roma il favore che mi avete reso, e ho annunciato la visita che mi avevate promesso e, ve lo assicuro, il conte e la contessa aspettano con impazienza di ringraziarvi. Siete un poco singolare in tutte le cose, lo so, signor conte, e forse le scene di famiglia non hanno molta attrazione per Sinbad il marinaio: siete abituato a tutt’altre scene! Però accettate ciò che vi propongo come iniziazione alla vita parigina, vita di cortesie, di visite e di presentazioni.»

Montecristo s’inchinò senza rispondere: accettò la proposta senza entusiasmo e senza rincrescimento, come una di quelle convenienze sociali di cui ciascun uomo perbene si fa un dovere. Albert chiamò il cameriere, e gli ordinò d’andare ad avvertire il signore e la signora Morcerf del prossimo arrivo del conte di Montecristo.

Albert lo seguì col conte.

Entrando nell’anticamera del conte, si vedeva, sopra la porta che immetteva nel salotto, uno scudo che, dai ricchi fregi che lo circondavano, e dall’armonia con gli arredi della stanza, rivelava che persona importante. Montecristo si fermò davanti a quel blasone e lo esaminò con attenzione. Sette merli d’oro a stormo, in campo azzurro.

«È lo stemma della vostra famiglia?» domandò. «Escludendo le parti del blasone che mi permettono di decifrarlo, sono molto ignorante in materia araldica. Io sono conte per caso, creato in Toscana, e mi sarei accontentato d’essere semplicemente un gran signore, se non mi avessero più volte ripetuto che, per uno che viaggia molto, un titolo è necessario. In pratica portare uno stemma sullo sportello della carrozza è cosa molto utile, non fosse altro che per non subire la perquisizione dei doganieri. Scusatemi dunque se vi ho fatta questa domanda.»

«Non è affatto indiscreta», rispose Morcerf con la semplicità della convinzione, «e avete colto nel vero: queste sono le nostre armi, vale a dire, quelle del capo della famiglia, di mio padre… Ma, come vedete, sono inserite in un altro scudo con torri d’argento in campo rosso, che proviene dal capo della famiglia di mia madre. Per parte di madre io sono spagnolo, ma la famiglia Morcerf è francese, e, a quanto ho sentito dire ancora una delle più antiche del Mezzogiorno di Francia.»

«Sì», confermò Montecristo, «è questo che indicano i merli. Quasi tutti i pellegrini armati che tentarono o fecero la conquista della Terra Santa, presero come loro insegna, o una croce, simbolo della missione alla quale si erano votati, o un uccello di passaggio, simbolo del lungo viaggio che stavano per compiere… Supponendo che fosse il tempo di San Luigi, ciò vi fa risalire al XII secolo, il che è un altro pregio.»

«Ciò è possibile», convenne Morcerf, «in un angolo dell’ufficio di mio padre ‘è un albero genealogico che illustra tutto ciò, e sul quale in altri tempi ho scritto dei commentari che avrebbero soddisfatto d’Ozier e Jaucourt. Ora non ci penso più, e tuttavia vi dirò, signor conte, e questo rientra nei miei compiti di cicerone, che già cominciano di nuovo a occuparsi di queste cose sotto il nostro governo popolare.»

«Ebbene, allora il vostro governo dovrebbe scegliere nel suo passato qualche cosa di meglio che quelle due tavole che ho visto sui vostri monumenti, e che non hanno alcun senso araldico. Quanto a voi, visconte», riprese Montecristo ritornando a Morcerf, «siete più fortunato del vostro governo, perché le vostre armi sono veramente belle e parlano all’immaginazione. Sì, voi siete a un tempo di Provenza e di Spagna, e ciò mi spiega (se il ritratto che mi avete mostrato è rassomigliante) il color bruno che tanto ammirai sul viso della nobile catalana.»

Si sarebbe dovuti essere Edipo, o la stessa sfinge, per indovinare l’ironia che mise il conte in quelle parole, coperte in apparenza dalla maggior gentilezza; per cui Morcerf lo ringraziò con un sorriso, e, passando prima per fargli strada, spinse la porta che portava nel salotto da ricevimento.

Nel luogo più esposto di questo salotto si vedeva un altro ritratto; quello di un uomo dai trentacinque ai quarant’anni vestito con l’uniforme di generale, portando la doppia spallina dei gradi superiori, la decorazione di commendatore della Legion d’Onore al collo, e sul petto, a destra, l’insegna di Grande Ufficiale dell’ordine del Salvatore, a sinistra quella di Gran Croce dell’ordine di Carlo III. Quindi la persona rappresentata da quel ritratto aveva partecipato alle guerre di Grecia e di Spagna, o, ciò che è lo stesso in materia di decorazioni, aveva adempiuto qualche missione diplomatica nei due Paesi.

Montecristo era occupato a guardare questo ritratto con non minore attenzione di quel che aveva fatto con l’altro, quando la porta laterale si aprì, ed egli si trovò di fronte al conte di Morcerf in persona.

Era un uomo fra i quaranta, quarantacinque anni, ma ne dimostrava almeno cinquanta, i cui baffi e sopraccigli nerissimi contrastavano stranamente con i capelli quasi bianchi tagliati corti a spazzola secondo l’uso militare. Era in borghese, e portava all’occhiello un nastro le cui strisce a diversi colori indicavano i vari ordini di cui era decorato. L’uomo entrò con passo nobile ma sembrava di fretta.

Montecristo l’osservò restando immobile; si sarebbe detto che i piedi erano inchiodati al pavimento e gli occhi sul viso del conte.

«Padre mio», disse il giovane, «ho l’onore di presentarvi il signor conte di Montecristo, quel generoso amico che ho avuto la fortuna d’incontrare nelle difficili situazioni che sapete.»

«Signore, voi siete il benvenuto fra noi», disse il conte di Morcerf, salutando Montecristo con un sorriso. «Nel salvare alla mia famiglia l’unico suo erede, avete reso alla nostra casa un servizio che vi merita la nostra eterna riconoscenza.»

Dicendo queste parole il conte di Morcerf indicava una poltrona a Montecristo, sedendosi egli stesso di fronte alla finestra. Quanto a Montecristo, occupando la poltrona indicata dal conte di Morcerf, si sistemò in modo da rimanere nascosto nell’ombra delle grandi tende di velluto, per leggere sui tratti del conte, in ciascuna ruga del suo volto.

«La contessa», riprese Morcerf, «si stava vestendo quando il visconte l’ha fatta avvertire della visita che avrebbe avuto l’onore di ricevere; sta per scendere, e fra dieci minuti sarà in salotto.»

«È un grande onore per me», disse Montecristo, «fare la conoscenza, fin dal primo giorno in cui sono a Parigi, di un uomo il cui merito è eguale alla reputazione, e per il quale la fortuna, giusta questa volta, non ha commesso errore… Ma la sorte non ha nelle pianure di Mitidja o sulle montagne dell’Atlante un bastone da Maresciallo da offrirvi?»

«Oh!» replicò Morcerf arrossendo un poco, «io ho lasciato il servizio, signore. Nominato Pari sotto la Restaurazione, ero nella prima campagna, e servivo agli ordini del maresciallo Bourmont. Potevo dunque aspirare a un comando superiore? E chissà ciò che sarebbe accaduto, se la dinastia primogenita fosse rimasta sul trono?! Ma la rivoluzione di luglio, a quanto sembra, era abbastanza gloriosa per potersi permettere d’essere ingrata, e lo fu con tutti i servizi che non portavano la data del periodo imperiale.

Chiesi dunque la dimissione, perché quando uno ha guadagnato come me le spalline sul campo di battaglia, non sa manovrare allo stesso modo sul terreno sdrucciolevole dei salotti. Ho lasciato la spada, e mi sono buttato nella politica; mi dedico all’industria e studio le arti utili. Nei vent’anni che sono rimasto in servizio ne avevo il desiderio, ma non ne avevo avuto il tempo.»

«Sono queste idee che dimostrano la superiorità della vostra nazione sugli altri Paesi, signore», rispose Montecristo. «Gentiluomo, uscito da una gran famiglia, possedendo una bella fortuna avete sulle prime voluto conquistare i primi gradi come oscuro soldato, la qual cosa è molto rara; quindi divenuto generale, Pari di Francia, commendatore della Legion d’Onore, acconsentite a cominciare un secondo noviziato, senz’altra ricompensa che quella d’essere un giorno utile ai vostri simili… Ah! signore, ecco quello che può veramente dirsi bello; dirò anche più, sublime.»

Albert guardava e ascoltava Montecristo con meraviglia: non era abituato a vederlo lasciarsi andare a simili entusiasmi.

«Ahimè», continuò lo straniero, senza dubbio per far sparire l’impercettibile nube che era passata sulla fronte di Morcerf, «noi non facciamo così; cresciamo secondo la nostra razza e la nostra specie, e conserviamo la stessa corteccia, la stessa dimensione, e dirò ancora la stessa inutilità per tutta la nostra vita.»

«Ma, signore, per un uomo del vostro merito, l’Italia non può essere sua patria, e la Francia vi apre le braccia; rispondete alla sua chiamata, la Francia forse non sarà ingrata con tutti; essa è abituata ad accogliere generosamente gli stranieri.»

«Eh, padre mio, si vede bene che non conoscete il conte di Montecristo. Le sue soddisfazioni non sono di questo mondo, egli non aspira agli onori, e prende soltanto quelli che possono procurargli un passaporto.»

«Ecco l’espressione più giusta che abbia mai sentito sul conto mio», rispose lo straniero.

«Il signore è stato padrone del suo avvenire, ecco perché ha scelto un sentiero di fiori», disse sospirando Morcerf.

«Precisamente, signore», replicò Montecristo con uno di quei sorrisi che un pittore non potrà mai riprodurre, e che uno psicologo impazzirebbe nell’analizzare.

«Se non avessi avuto timore di stancare il signor conte», disse il generale evidentemente lusingato dalle parole di Montecristo, «lo avrei condotto alla Camera; oggi vi è una seduta curiosa per chi non conosce i nostri moderni senatori.»

«Vi sarei molto riconoscente se vorrete rinnovarmi quest’offerta un’altra volta; ma oggi sono stato lusingato dalla speranza di esser presentato alla signora contessa, e aspetterò.»

«Ah! Ecco appunto mia madre», esclamò Albert.

Difatti Montecristo, girandosi velocemente, vide la signora Morcerf immobile e pallida sul limitare della porta opposta a quella da cui era entrato il marito; appena Montecristo si voltò dalla sua parte, lasciò cadere il braccio che, non si sa perché, s’era appoggiato alla maniglia dorata; stava là, da qualche secondo, e aveva udito le ultime parole pronunciate dall’ospite.

Questi si alzò e salutò profondamente la contessa, che s’inchinò anch’essa, muta e cerimoniosa.

«Mio Dio, signora che avete?» domandò il conte. «È forse il caldo del salotto a darvi fastidio?»

«State poco bene, madre mia?» gridò il visconte andando incontro a Mercedes.

Lei li ringraziò entrambi con un sorriso.

«No», rispose, «ma ho provato una certa emozione nel vedere per la prima volta colui senza il cui aiuto ora saremmo immersi nelle lacrime e nel lutto. Signore», continuò la contessa, avanzando con la maestà di una regina, «vi debbo la vita di mio figlio, e per questo vi benedico. Ora vi sono grata del piacere che mi procurate offrendomi l’occasione di ringraziarvi con tutto il cuore.»

Il conte s’inchinò, ma più profondamente della prima volta, era ancora più pallido di Mercedes.

«Signora», disse, «il signor conte e voi mi ringraziate troppo per un’azione semplicissima. Salvare un uomo, risparmiare un tormento al padre, risparmiare la sensibilità di una donna, ciò non si chiama fare un’opera buona, ma fare un atto di umanità.»

A queste parole pronunciate con dolcezza, e con squisita gentilezza, la signora Morcerf rispose con accento profondo: «È una fortuna per mio figlio l’avervi per amico, e ringrazio Dio che ha disposto così».

E Mercedes alzò gli occhi al cielo con una gratitudine così infinita, che al conte parve di vedere tremolare due lacrime.

Il signor Morcerf si avvicinò a lei: «Signora, ho già fatto le mie scuse al signor conte per essere obbligato a lasciarlo: vi prego di rinnovarle. La seduta si è aperta alle due, ora sono le tre, e io devo parlare».

«Andate, signore; cercherò di far dimenticare la vostra assenza al nostro ospite», disse la contessa con lo stesso accento di sensibilità. «Il signor conte», proseguì la contessa volgendosi a Montecristo, «vorrà farci l’onore di passare il resto del giorno con noi?»

«Grazie, signora, sono, credetelo, riconoscente nel modo più profondo alla vostra offerta; ma questa mattina sono sceso dalla carrozza davanti alla vostra porta. Non so ancora dove si trovi il mio alloggio a Parigi. È una preoccupazione da niente, lo so, ma tuttavia…»

«Avremo questo piacere un’altra volta, almeno: ce lo promettete?» domandò la contessa.

Montecristo s’inchinò senza rispondere, ma il gesto poteva passare per un consenso.

«Allora non vi trattengo, signore», riprese la contessa, «poiché non voglio che la mia riconoscenza si trasformi in importunità o indiscrezione.»

«Mio caro conte», disse Albert, «se lo volete, cercherò di ricambiare alla vostra cortesia di Roma col mettere la mia carrozza a vostra disposizione, fino a che non avrete avuto il tempo di provvedere alla vostra.»

«Vi ringrazio della vostra cortese offerta, visconte», disse Montecristo, «ma presumo che Bertuccio avrà convenientemente impiegate le quattro ore che gli ho concesso, e che troverò alla porta una carrozza qualunque già attaccata.»

Albert era abituato a queste maniere del conte: sapeva che come Nerone era alla ricerca dell’impossibile, e non si meravigliava più di nulla; soltanto volle verificare di persona in che modo erano stati eseguiti i suoi ordini, e lo accompagnò sino alla porta di strada.

Montecristo non s’era sbagliato; appena comparve nell’anticamera del conte di Morcerf, uno staffiere, lo stesso che a Roma era venuto a portare il biglietto del conte ai due giovani, e ad annunciar loro la sua visita, si era slanciato fuori del peristilio, di modo che davanti al portone, l’illustre viaggiatore trovò la carrozza che lo aspettava.

Era un coupé della fabbrica di Keller, cui erano attaccati due cavalli, per i quali Drake aveva, come sapevano tutti i damerini di Parigi, rifiutato di spendere il giorno prima diciottomila franchi.

«Signore», disse il conte ad Albert, «non vi propongo di accompagnarmi a casa mia, non potrei mostrarvi che una dimora improvvisata… Accordatemi un giorno e allora permettetemi d’invitarvi: sarò più sicuro di non mancare alle leggi dell’ospitalità.»

«Se mi chiedete un giorno, signor conte, sono tranquillo: non sarà più una casa che mi mostrerete, ma un palazzo. Voi dovete avere qualche genio a vostra disposizione.»

«Spero che continuerete a crederlo», replicò Montecristo, mettendo sui gradini vellutati della sua splendida carrozza, «ciò potrà essermi utile, signore.»

E salito in vettura, partì al galoppo ma non tanto rapidamente che il conte non potesse accorgersi del movimento impercettibile della tenda del salotto dove aveva lasciata la signora Morcerf.

Quando Albert ritornò da sua madre, trovò la contessa nel salotto sdraiata su un divano; tutta la stanza essendo nell’ombra, non lasciava scorgere che la foglietta d’oro sfavillante, attaccata qua e là o sul corpo di qualche vaso, o agli angoli di qualche quadro. Albert non poté vedere il volto della contessa nascosto sotto la nube del velo che le circondava la testa come un’aureola di vapore, ma gli sembrò che la voce fosse alterata; distinse ancora fra gli odori di rose ed eliotropi la traccia aspra e mordente dei sali d’aceto sopra una delle tazze cesellate del caminetto, infatti la boccettina della contessa, tolta dal suo astuccio di velluto, attirò l’inquieta attenzione del giovane.

«Soffrite, madre mia», gridò entrando, «o vi siete sentita male mentre io non c’ero?»

«Io? No, Albert, ma queste rose, queste tuberose, questi fiori d’arancio nauseano quando inizia a far caldo, quando non si è ancora abituati ai profumi intensi…»

«Allora, madre mia», disse Albert portando la mano al campanello, «bisogna farli portare nella vostra anticamera: siete veramente indisposta; anche poco fa, quando entraste, eravate molto pallida.»

«Ero pallida, Albert?»

«Di un pallore che vi sta a meraviglia, madre mia, ma che però non ha spaventato meno mio padre e me.»

«Vostro padre ve ne ha parlato?» domandò vivacemente Mercedes.

«No, signora, però ve lo fece notare.»

«Non me ne ricordo…» disse la contessa.

Entrò un cameriere, chiamato dal suono del campanello tirato da Albert.

«Portate questi fiori in anticamera, o nel salotto dello spogliatoio», disse il visconte, «fanno male alla signora contessa.»

Il cameriere obbedì. Seguì un lungo silenzio, che durò per tutto il tempo in cui il cameriere provvedeva a portar via i fiori.

«Che nome è mai Montecristo?» chiese la contessa, quando il domestico uscì portando via l’ultimo vaso di fiori. «È il nome di una terra o un semplice titolo?»

«Si tratta, credo, di un titolo, madre mia, e niente più. Il conte ha comprato un’isola nell’arcipelago toscano, e ha, per quanto ha detto egli stesso questa mattina, assegnato un beneficio. Voi sapete che ciò si usa per Santo Stefano di Firenze, per San Gregorio Costantiniano di Parma e anche per l’ordine di Malta. Del resto non ha alcuna pretesa di nobiltà, e si chiama conte per caso, sebbene l’opinione generale di Roma fosse che il conte sia un gran signore.»

«I suoi modi sono eccellenti, per quanto ho potuto giudicare nei pochi momenti che si è trattenuto.»

«Perfetti, madre mia, anzi tanto perfetti, che superano di molto tutto ciò che ho conosciuto di più aristocratico nelle tre nobiltà più orgogliose d’Europa, cioè nella nobiltà inglese, spagnola e tedesca.»

La contessa rifletté un momento, poi dopo una breve esitazione riprese: «Avete visto, mio caro Albert… questa è una domanda da madre che vi faccio, lo capirete… avete conosciuto il signor di Montecristo intimamente? Voi siete perspicace, pratico della vita, e avete un tatto maggiore di quello che di solito si ha alla vostra età… Credete che il conte sia quello che sembra essere?»

«Come, sembra?»

«Voi stesso lo avete detto, non ha pari… un gran signore.»

«Vi ho detto, madre mia, ch’egli era considerato tale.»

«Ma che ne pensate voi?»

«Io non ho, ve lo confesso, un’opinione precisa su di lui: credo sia maltese.»

«Io non vi chiedo della sua origine, ma della sua persona.»

«Ah la sua persona è tutt’altro! Ho viste tante cose strane di lui, che se voleste vi dicessi ciò che ne penso, vi risponderei che lo considero come uno degli uomini alla Byron, recanti l’impronta fatale della sventura; qualche Manfredi, qualche Lara, qualche Werner, uno di quegli avanzi di antica famiglia che, diseredati dalla fortuna paterna, ne hanno creata una con la forza del loro genio avventuroso che li ha posto al di sopra delle leggi della società… Dico che Montecristo è un’isola in mezzo al Mediterraneo, senza abitanti, senza guarnigione, asilo di contrabbandieri di tutte le nazioni, di pirati di tutti i Paesi. Chi sa che questi degni trafficanti non paghino al loro signore il diritto di asilo.»

«È possibile…» commentò la contessa distratta.

«Ma non importa», riprese il giovane, «contrabbandiere o no, ne converrete madre mia (perché l’avete visto), il signor conte di Montecristo è un uomo notevole, e avrà i più grandi successi nei salotti di Parigi. E questa mattina da me ha cominciato il suo ingresso nel mondo destando in tutti ammirazione, perfino in Château-Renaud.»

«E che età potrà avere il conte?» chiese Mercedes, dando visibilmente grande importanza a questa domanda.

«Avrà trentacinque o trentasei anni, madre mia.»

«Così giovane? È possibile!» mormorò Mercedes, rispondendo contemporaneamente a ciò che le diceva Albert, e a un suo pensiero.

«Eppure questa è la verità. Tre o quattro volte mi ha detto, e certamente senza premeditazione, all’epoca avevo cinque anni, all’altra dodici. Io che ero attento a questi particolari, ho confrontato le date, e non l’ho mai colto in contraddizione. L’età di quest’uomo singolare, che non ha età, è dunque, ne sono sicuro, di trentacinque anni. In più, ricordatevi, madre mia, quanto è vivace il suo sguardo, come sono neri i capelli, e come la fronte, sebbene pallida, sia priva di rughe; questa è una natura non solo vigorosa, ma giovane.»

La contessa abbassò il capo come sotto un’onda troppo pesante di amari pensieri.

«E quest’uomo ha stretta amicizia con voi?» domandò con un fremito nervoso.

«Penso di sì, madre mia.»

«E voi… ricambiate la sua amicizia?»

«Egli mi piace, checché ne dica Franz d’Epinay, che lo voleva far apparire ai miei occhi come un uomo uscito dall’altro mondo.»

La contessa fece un movimento di terrore.

«Albert», riprese con voce alterata, «io vi ho sempre messo in guardia contro le nuove conoscenze. Ora siete un uomo, e potreste dar consigli a me, tuttavia vi ripeto: “Siate prudente, Albert”.»

«Mia cara madre, dovrei sapere di cosa non devo fidarmi. Il conte non gioca mai, il conte non beve che dell’acqua con qualche goccia di vino di Spagna, il conte si è rivelato tanto ricco, che non potrebbe chiedermi in prestito del denaro senza esporsi al ridicolo… Che volete dunque che io tema da parte sua?»

«Avete ragione», disse la contessa, «e i miei timori sono folli particolarmente nei confronti di un uomo che vi ha salvato la vita. A proposito, Albert, vostro padre lo ha ricevuto bene? È necessario che noi siamo più che ospitali col conte. Il signor Morcerf qualche volta è preoccupato, i suoi affari lo rendono distratto, e potrebbe darsi, senza volerlo…»

«Mio padre si è condotto perfettamente», interruppe Albert, «dirò di più, è sembrato grandemente lusingato dei due o tre complimenti accorti che il conte gli ha fatto tanto casualmente quanto a proposito, come se lo avesse conosciuto da trent’anni. Ciascuno di questi piccoli dardi di lode devono aver gratificato mio padre», aggiunse Albert ridendo, «poiché si sono lasciati come due vecchi amici, e il signor Morcerf lo voleva perfino condurre alla Camera per fargli sentire il suo discorso.» La contessa non rispose: era assorta in una riflessione così profonda, che i suoi occhi si erano chiusi a poco a poco.

Il giovane in piedi dinanzi a lei la guardava con quell’amor filiale che è ancor più tenero e più affettuoso nei figli le cui madri sono ancora giovani e belle; poi, dopo aver visto gli occhi di lei chiudersi, l’ascoltò respirare un momento nella sua dolce immobilità, e credendola assopita si allontanò in punta di piedi, chiudendo con cautela la porta della stanza dove lasciava sua madre.

«Che diavolo d’uomo!» mormorò scuotendo la testa, «gli avevo ben predetto laggiù che avrebbe fatto gran sensazione nel nostro mondo; io ne calcolo l’effetto su un termometro infallibile: mia madre. Dunque è davvero un uomo notevole.»

Scese nelle scuderie, non senza un segreto dispetto, perché il conte di Montecristo si era fornito di una pariglia, che relegava i cavalli di Albert in secondo piano agli occhi degli intenditori.

«Davvero», disse, «gli uomini non sono tutti eguali.»

41. Bertuccio

Intanto il conte era giunto alla sua abitazione. Aveva impiegato sei minuti a percorrere la distanza, periodo sufficiente perché fosse visto da una ventina di giovani che, conoscendo il valore della carrozza, avevano messo le loro cavalcature al galoppo, per vedere lo splendido signore che possedeva cavalli da diecimila franchi l’uno.

La casa che era stata scelta da Alì, e che doveva servire da residenza in città a Montecristo, era situata a destra salendo agli Champs-Elysées, con un bel cortile e un giardino. Un gruppo di alberi frondosi s’innalzava in mezzo al cortile, coprendo una parte della facciata; ai lati di questi alberi passavano due viali che dal cancello portavano le carrozze a una doppia scalinata, ornata su ogni gradino da un vaso di porcellana pieno di fiori. Questa casa, isolata al centro di un ampio spazio, oltre l’ingresso principale, aveva pure un’altra entrata sulla rue Ponthieu.

Prima ancora che il cocchiere avesse potuto chiamare il portinaio, il robusto cancello girò sui cardini: il conte era stato visto arrivare, e a Parigi, come a Roma, e come ovunque era servito con la rapidità di un fulmine. Il cocchiere quindi entrò, descrisse il mezzo cerchio senza rallentare la corsa, e il cancello era già rinchiuso, quando le ruote rumoreggiavano ancora sulla sabbia del viale.

La carrozza si arrestò sul lato sinistro della scalinata, due uomini comparvero allo sportello; uno era Alì, che sorrise al suo padrone con un’incredibile gioia, e che si trovò pago di un semplice sguardo di Montecristo, l’altro salutò umilmente, e offrì il braccio al conte per aiutarlo a scendere dalla carrozza.

«Grazie, Bertuccio», disse il conte, saltando leggermente i tre scalini. «Il notaio?»

«È nel salotto, Eccellenza», rispose Bertuccio.

«E i biglietti da visita che ho ordinato di far stampare, appena avuto il numero della casa?»

«Signor conte, è tutto fatto; sono stato dal migliore incisore del Palais Royal, che ha eseguito l’incisione in mia presenza, e stampato il primo biglietto, secondo i vostri ordini. Questo biglietto fu subito portato al signor Danglars, rue Chaussée d’Antin numero 7; gli altri sono sul caminetto della camera da letto di Vostra Eccellenza.»

«Va bene: che ore sono?»

«Le quattro.»

Montecristo consegnò il cappello, i guanti, e il bastone allo stesso staffiere francese che era corso fuori dall’anticamera del conte di Morcerf per fare entrare la carrozza, quindi passò nel piccolo salotto, condotto da Bertuccio, che gli mostrava la strada.

«Ecco dei mobili mediocri in quest’anticamera, spero che se ne sbarazzi al più presto», disse Montecristo.

Bertuccio s’inchinò.

Come aveva detto l’intendente, il notaio aspettava nel piccolo salotto.

«Il signore è il notaio incaricato di vendere la casa di campagna che voglio comprare?» domandò Montecristo.

«Sì, signor conte», rispose il notaio.

«L’atto di vendita è pronto?»

«Sì, signor conte.»

«Lo avete con voi?»

«Eccolo qui.»

«E dove si trova questa casa?» domandò negligentemente Montecristo in parte al notaio e in parte a Bertuccio.

Il notaio guardò il conte con stupore.

«Come?» domandò, «il signor conte non sa dove sia la casa che compra?»

«No», disse il conte.

«Il signor conte non la conosce?»

«E come potrei conoscerla? Sono arrivato da Cadice questa mattina non sono mai stato a Parigi, ed è la prima volta che metto piede in Francia.»

«Allora è ben diverso», rispose il notaio. «La casa che compra il signor conte è ad Auteuil.»

«E dov’è Auteuil?» chiese Montecristo.

«A pochi passi da qui, signor conte», disse il notaio, «poco dopo Passy, in una bellissima posizione, al centro del Bois de Boulogne.»

«Così vicino!» esclamò Montecristo. «Ma questa non è campagna. Perché diavolo siete andato a scegliermi una casa alle porte di Parigi, Bertuccio?»

«Io?» gridò l’intendente con una strana sollecitudine. «No, non sono stato io l’incaricato del signor conte per cercare una casa; prego il signor conte di ricordarsene bene, e richiamare i suoi ricordi.»

«Ah, è vero», disse Montecristo, «ora ricordo, ho letto quest’annuncio in un giornale, e mi sono lasciato sedurre dalla falsa menzione “casa di campagna”.»

«Siete ancora in tempo», disse con vivacità Bertuccio, «e se Vostra Eccellenza vuole incaricarmi di cercare un altro luogo, troverò il meglio, sia a Enghien, sia a Fontenay-aux-Roses, sia a Bellevue.»

«No», disse con noncuranza Montecristo, «poiché ho questa, la terrò.»

«Il signore ha ragione», riprese subito il notaio che temeva di perdere i suoi guadagni. «Si tratta di una graziosa proprietà: acque correnti, fitti boschi, abitazione gradevole, sebbene abbandonata da lungo tempo, senza calcolare i mobili che, sebbene vecchi, hanno del valore, particolarmente oggi che si cercano le antichità.»

«Dunque è conveniente?» domandò Montecristo.

«Ah, signore, è ancora meglio, è magnifica!»

«Presto! Non lasciamoci sfuggire l’occasione», disse Montecristo. «Il contratto, signor notaio?»

E firmò, dopo aver data un’occhiata alla parte dell’atto dove stavano indicati i nomi dei proprietari, e la situazione della villa.

«Bertuccio», diss’egli, «date cinquantacinquemila franchi al signore.»

L’intendente uscì con passo incerto, e ritornò con un pacchetto di biglietti di banca che il notaio contò come chi è abituato a maneggiare tanto denaro.

«E ora», domandò il conte, «sono adempite tutte le formalità?»

«Tutte, signor conte.»

«Avete le chiavi?»

«Sono nelle mani del portinaio che custodisce la casa; ma ecco l’ordine che gli ho dato di consegnare la proprietà al signore.»

«Benissimo.»

E Montecristo fece al notaio un cenno con la testa, che voleva dire: «Signore, non ho più bisogno di voi, andatevene».

«Ma», riprese l’onesto notaio, «mi sembra che il signor conte si sia sbagliato; mi deve solo cinquantamila franchi, tutto compreso.»

«E i vostri onorari?»

«Vengono pagati con la stessa somma, signor conte.»

«Ma non siete venuto qui da Auteuil?»

«Sì, senza dubbio.»

«Ebbene, bisogna compensare il vostro incomodo», disse il conte. E lo congedò con un gesto.

Il notaio uscì camminando all’indietro, inchinandosi fino a terra; era la prima volta, dal giorno in cui aveva preso la licenza, che trovava un simile cliente.

«Accompagnate il signore», disse il conte a Bertuccio.

E l’intendente uscì dietro il notaio.

Appena il conte fu solo, prese di tasca un portafogli con serratura, lo aprì con una chiavetta che portava al collo, e che non abbandonava mai. Dopo aver cercato un momento, si fermò sopra un foglietto su cui erano segnate alcune annotazioni, le confrontò con l’atto di vendita sul tavolo, e raccogliendo i suoi ricordi: «Auteuil, rue Fontaine 28; è questa», disse, «ora dovrò basarmi su una confessione ottenuta per mezzo del rimorso religioso, o strappata dal terrore fisico? Del resto, fra un’ora saprò tutto. Bertuccio!» gridò battendo un colpo con un martelletto dal manico flessibile su un campanello, che mandò un suono acuto e prolungato.

L’intendente apparve sulla soglia.

«Bertuccio, non mi avete detto una volta di aver viaggiato in Francia?»

«In alcune parti della Francia sì, Eccellenza.»

«Conoscerete senza dubbio i dintorni di Parigi?»

«No, Eccellenza, no», rispose l’intendente con una specie di tremito nervoso, che Montecristo, grande conoscitore in fatto di emozioni, attribuì con ragione a una viva inquietudine.

«Mi rincresce che non abbiate visitato i dintorni di Parigi, perché voglio questa sera stessa vedere la mia nuova proprietà, e venendo con me, mi avreste dato senza dubbio utili informazioni.»

«Ad Auteuil!» gridò Bertuccio, il cui viso color rame divenne quasi livido, «io andare ad Auteuil!»

«Ebbene, che c’è di strano che veniate ad Auteuil? Quando io dimorerò ad Auteuil, bisognerà bene che ci veniate, dato che fate parte della famiglia.»

Bertuccio abbassò la testa davanti allo sguardo imperioso del padrone, e restò immobile, senza rispondere.

«Ma che vi succede? Mi obbligherete dunque a suonare una seconda volta per la carrozza?» disse Montecristo col tono con cui Luigi XIV pronunciò il suo famoso: «Per poco non fui obbligato ad attendere!»

Bertuccio fece un balzo dal piccolo salotto all’anticamera, e gridò con voce rauca: «I cavalli di Sua Eccellenza».

Montecristo scrisse due o tre lettere, e mentre sigillava l’ultima, l’intendente ricomparve.

«La carrozza di Sua Eccellenza è alla porta», disse.

«Prendete i vostri guanti e il cappello.»

«Devo proprio accompagnarvi, Vostra Eccellenza?» domandò Bertuccio.

«Certamente, bisogna bene che diate i vostri ordini quando abiterò in quella casa.»

Sarebbe stata senza precedenti una replica a un ordine del conte; per cui l’intendente, senza fare alcuna obiezione, seguì il padrone che salì in carrozza, e gli fece segno di fare altrettanto.

L’intendente si sedette rispettosamente sul sedile davanti.

42. La casa di Auteuil

Montecristo aveva notato, nello scendere la scalinata, che Bertuccio si era segnato alla maniera dei corsi, vale a dire fendendo l’aria in croce con il pollice, e che, nel prendere posto nella carrozza, aveva mormorato una breve preghiera. Qualsiasi altro uomo avrebbe avuto pietà della ripugnanza che il degno intendente aveva manifestato per questa passeggiata fuori le mura, ideata dal conte. Ma a ciò che sembrava, questi era troppo curioso per dispensare Bertuccio da quel piccolo viaggio. Nel giro di venti minuti, arrivarono ad Auteuil. L’emozione dell’intendente era aumentata. Entrando nel borgo, Bertuccio, rannicchiato in un angolo della carrozza, cominciò a guardare con un’emozione febbrile tutte le case davanti alle quali passavano.

«Fermerete a rue Fontaine, 28», disse il conte, fissando senza pietà lo sguardo sull’intendente al quale dava quest’ordine.

Il sudore ora grondava dal viso di Bertuccio, che malgrado ciò obbedì, e sporgendosi fuori dalla carrozza, gridò al cocchiere: «Rue Fontaine, 28.»

Tale numero 28 era situato all’estremità opposta del sobborgo. Durante il viaggio era scesa la notte, o piuttosto una nube nera carica di elettricità dava a quelle tenebre premature l’apparenza e la solennità di un episodio drammatico. La carrozza si fermò, lo staffiere si precipitò ad aprire lo sportello.

«Allora», disse il conte, «non scendete Bertuccio? Rimarrete in carrozza? Ma a che diavolo pensate questa sera?»

Bertuccio corse alla portiera e presentò la spalla al conte, che questa volta vi si appoggiò, e discese a uno a uno i tre gradini del predellino.

«Bussate», disse il conte, «e annunciatemi.»

Bertuccio bussò, la porta si aprì e comparve il portinaio.

«Chi è?» domandò.

«È il nuovo padrone, brav’uomo», disse lo staffiere, e mostrò al portinaio il biglietto di riconoscimento dato dal notaio.

«La casa è dunque venduta?» domandò il portinaio. «Ed è questo il signore che viene ad abitarla?»

«Sì, amico mio», rispose il conte, «farò in modo che non abbiate a rimpiangere l’antico padrone.»

«Ah signore, non ne ho nostalgia, perché lo vedevamo tanto raramente… Sono più di cinque anni che non viene, e a parer mio, ha fatto molto bene a vendere una casa che non gli fruttava niente.»

«Come si chiamava il vostro antico padrone?»

«Il marchese di Saint-Méran. Ah, non ha certamente venduto la casa per quel che gli costava, ne sono sicuro.»

«Il marchese di Saint-Méran…» riprese Montecristo. «Mi sembra di conoscere questo nome.» Poi ripeté: «Il marchese di Saint-Méran». E parve cercare nella sua memoria.

«Un vecchio gentiluomo», continuò il portinaio, «era servitore fedele dei Borboni, aveva una figlia unica che maritò al signor Villefort, procuratore del re a Nîmes, e poi a Versailles.»

Montecristo vibrò uno sguardo su Bertuccio, che aveva il viso più livido del muro contro il quale si appoggiava per non cadere.

«La figlia non è morta?» domandò Montecristo. «Mi sembra di averlo sentito dire.»

«Sì, signore, sono già passati ventun anni; e da allora non abbiamo più visto che tre volte il povero marchese.»

«Grazie, grazie», rispose Montecristo, giudicando dalla prostrazione dell’intendente di non potere più toccare quella corda, senza correre il rischio di romperla. «Grazie… Datemi un lume, brav’uomo.»

«Vi accompagnerò io, signore.»

«No, è inutile. Bertuccio mi farà luce.»

E Montecristo accompagnò queste parole col dono di due monete d’oro, che causarono un’esplosione di benedizioni e sospiri.

«Ah, signore», disse il portinaio, dopo aver cercato inutilmente sulla pietra del caminetto e sui mobili vicini, «sfortunatamente qui non ho candelieri.»

«Prendete una lanterna della carrozza, Bertuccio, e fatemi vedere gli appartamenti.»

L’intendente obbedì, senza osservazioni, ma era facile scorgere, dal tremito della mano che portava il fanale, quanto gli costava obbedire.

Attraversarono un pianterreno molto vasto; un primo piano composto da un salone, una stanza da bagno, e due camere da letto; e giunsero a una scala a chiocciola che portava in giardino.

«Guardate! Una scala segreta», osservò il conte. «Questa ci farà comodo. Fatemi luce, Bertuccio, andate avanti, e vediamo dove ci condurrà.»

«Signore», rispose Bertuccio, «porta in giardino.»

«E come lo sapete?»

«Cioè, volevo dire che deve portarvi…»

«Allora assicuriamocene.»

Sospirando, Bertuccio andò avanti.

La scala portava effettivamente in giardino. Alla porta esterna l’intendente si fermò.

«Andiamo dunque, Bertuccio…» disse il conte.

Ma Bertuccio sembrava istupidito, annientato. Gli occhi stravolti cercavano intorno a lui le tracce di un passato terribile, e con le mani irrigidite cercava di allontanare degli spaventosi ricordi.

«Allora?» insistette il conte.

«No, no…» gridò Bertuccio, deponendo la lanterna in un angolo del muro interno, «no, signore, non andrò più avanti, è impossibile!»

«Sarebbe a dire?» articolò la voce imperiosa di Montecristo.

«Vedete bene, signore, che questo non è normale», gridò l’intendente, «che dovendo comprare una casa a Parigi, voi la compriate precisamente ad Auteuil, e che comprandola ad Auteuil, questa casa sia proprio il numero 28 di rue Fontaine. Ah, perché mai non vi ho detto tutto laggiù, signore? Voi certamente non mi avreste ordinato di seguirvi. Io speravo che la casa del signor conte fosse tutt’altra che questa. Possibile non ci sia altra casa in Auteuil che quella dell’assassinio!»

«Oh-oh!» disse Montecristo fermandosi. «Che parola orribile avete pronunciato? Diavolo d’uomo! Sempre superstizioni? Vediamo, prendete la lanterna e visitiamo il giardino; con me, spero che non avrete paura.»

Bertuccio raccolse il lume e obbedì.

Oltre la porta c’era un cielo cupo, nel quale la luna si sforzava invano di lottare contro un mare di nubi che la coprivano con i loro vapori oscuri; illuminava per un momento, e poi si perdeva più cupa ancora nel profondo dell’infinito.

L’intendente voleva girare a sinistra.

«No, signore… Perché andate sotto i viali?» disse Montecristo.

«Ecco qui un bel praticello, andiamo diritto.»

Bertuccio si asciugò il sudore che gli colava dalla fronte, ma obbedì; ciò nonostante continuava a tenere la sinistra.

Montecristo al contrario piegava a destra; giunto presso un gruppo di alberi si fermò.

L’intendente non poté contenersi.

«Allontanatevi, signore, allontanatevi!» gridò. «Siete proprio sul posto!»

«E quale posto?»

«Sul posto dove cadde.»

«Mio caro Bertuccio, tornate in voi, qui non siamo né a Sartena, né a Corte. Questa non è una macchia, ma un giardino inglese.»

«Signore, non rimanete là, ve ne supplico!»

«Io credo che siate un po’ matto, compare Bertuccio!» ribatté freddamente il conte. «Se è così, ditemelo, che vi farò rinchiudere in qualche casa di cura, prima che succeda una disgrazia.»

«Ahimè, Eccellenza», riprese Bertuccio, scuotendo la testa, e congiungendo le mani in un atteggiamento che avrebbe fatto ridere il conte, se ben altri pensieri non lo avessero preoccupato in quel momento, e reso molto attento alle più piccole manifestazioni di quella coscienza timorosa. «Ahimè, è qui che la disgrazia è accaduta!»

«Bertuccio», riprese il conte, «devo dirvi che gesticolate, contorcete le braccia e stralunate gli occhi come un ossesso, dal cui corpo il diavolo non voglia uscire. Ora ho sempre notato che il diavolo più ostinato a uscire è un qualsiasi segreto. Vi sapevo corso, vi stimavo taciturno, ruminando sempre qualche storia di vendetta, e vi perdonavo questo in Italia, sebbene anche in Italia questa specie di cose non siano trascurabili; ma in Francia l’assassinio è una pessima cosa; vi sono gendarmi che se ne occupano, giudici che lo condannano, patiboli che lo vendicano.»

Bertuccio congiunse le mani, e, siccome non lasciava la lanterna, la luce gli rischiarò il viso sconvolto.

Montecristo per un momento lo esaminò, come a Roma aveva osservato il supplizio di Andrea. Quindi con un tono di voce che fece scorrere un brivido lungo il corpo del povero intendente: «L’abate Busoni mi ha dunque ingannato», disse, «quando, dopo il suo viaggio in Francia nel 1829, v’inviò a me, munito di una lettera di raccomandazione, nella quale mi lodava le vostre preziose qualità. Ebbene, scriverò all’abate, gli chiederò del suo protetto, e allora saprò senza dubbio che cosa è tutto questo affare dell’assassinio. Vi dico soltanto, Bertuccio che quando io vivo in un Paese, ho l’abitudine d’uniformarmi alle sue leggi, e che non ho alcuna desiderio di mettermi nei guai per voi con la giustizia francese».

«Non fate questo, Eccellenza… Vi ho servito fedelmente, non è vero?» gridò Bertuccio disperato. «Sono stato un galantuomo, e per quanto ho potuto, ho fatto delle buone azioni.»

«Non dico di no», rispose il conte, «ma perché diavolo siete ora agitato in tal modo? Questo è un cattivo segno… Una coscienza pura non porta tanto pallore sulle guance, tanta febbre nelle mani di un uomo.»

«Ma, signor conte», interruppe Bertuccio, «non mi avete detto voi stesso che l’abate Busoni, che fu quello che raccolse la mia confessione nelle carceri di Nîmes, vi aveva avvertito, inviandomi a voi, che io avevo un rimorso nella coscienza?»

«Sì, ma siccome vi raccomandava dicendomi che avrei ritrovato in voi un eccellente intendente, credetti che voi aveste rubato, ecco tutto.»

«Oh, signor conte!» gemette Bertuccio con dolore.

«Oppure che, essendo voi corso, non avevate saputo resistere al desiderio di far la pelle a qualcuno, come si dice nel vostro Paese…»

«Ebbene, sì, mio signore, sì, mio buon signore, è così», gridò Bertuccio, gettandosi alle ginocchia del conte, «sì, fu una vendetta, lo giuro, una semplice vendetta!»

«Capisco, ma ciò che non capisco è come questa casa vi sconvolga in questo modo.»

«Eppure la cosa è comprensibile, poiché fu appunto in questa casa che si compì la vendetta.»

«Come, in casa mia?»

«Oh, signore, non era ancora vostra…» obiettò ingenuamente Bertuccio.

«Ma di chi era dunque?»

«Del signor marchese di Saint-Méran, ha detto il portinaio.»

«Perché mai dovevate vendicarvi del marchese di Saint-Méran?»

«Ah, non di lui, signore, di un altro.»

«È ben strano», riprese Montecristo, sembrando cedere alle sue riflessioni, «che vi troviate per caso in una casa dove è accaduta una scena che vi dà tanti terribili rimorsi.»

«Signore», disse l’intendente, «pare che sia una specie di fatalità a muovere tutto questo, ne sono sicuro… Per prima cosa comprate una casa ad Auteuil, e questa casa è proprio quella dove ho commesso l’assassinio; poi scendete in giardino, e giusto per la scala per cui scese lui, e vi fermate proprio nel luogo dove ricevette il colpo, e a due passi da quest’albero c’è la fossa dove aveva seppellito il bambino: tutto ciò non può essere opera del caso.»

«Ebbene, vediamo, signor corso, io suppongo sempre tutto… D’altra parte bisogna saper fare delle concessioni agli spiriti tormentati. Vediamo: richiamate il vostro buonsenso e raccontatemi tutto.»

«Io non l’ho raccontato che una sola volta, signore, all’abate Busoni. Simili cose», disse Bertuccio scuotendo la testa, «non si raccontano che sotto il sigillo della confessione.»

«Allora, mio caro Bertuccio, riterrete giusto che vi rimandi al vostro confessore; vi farete frate, e ragionerete sui vostri segreti. Ma io ho paura di un servitore spaventato da simili fantasmi; non mi piace che i miei dipendenti non abbiano il coraggio di attraversare di notte un giardino. Poi ve lo confesso, mi piacerebbe poco una visita del commissario di polizia; poiché, intendete bene, Bertuccio, si dice che in qualche luogo la polizia venga pagata perché taccia, ma in Francia al contrario si paga quando parla. Perdinci, vi credevo corso, contrabbandiere, e bravo intendente, ma ora mi accorgo che avete anche altre corde al vostro arco. Voi perciò non siete più al mio servizio, Bertuccio.»

«Signore, signore!» gridò l’intendente colpito dal terrore di quella minaccia. «Se non dipende che da questo perché io rimanga al vostro servizio, parlerò, dirò tutto; e se vi lascio, sarà soltanto per andare al patibolo!»

«Adesso va meglio», disse Montecristo, «ma se pensare di mentire, riflettete bene, non parlate affatto.»

«No, signore, ve lo giuro sulla salute dell’anima mia, vi dirò tutto… Lo stesso abate Busoni non ha saputo che una parte del segreto. Ma prima vi supplico, allontanatevi da questo platano… Guardate, la luna va a rischiarare quella nube, e là, in quella posizione, avvolto in un mantello che vi nasconde e che assomiglia a quello del signor Villefort…»

«Come?» gridò Montecristo. «Fu Villefort…?»

«Vostra Eccellenza lo conosce?»

«Sì.»

«Quello che sposò la figlia del marchese di Saint-Méran.»

«Sì, e che negli uffici godeva della reputazione dell’uomo più onesto, del più severo e del più rigido magistrato?»

«Ebbene signore», gridò Bertuccio, «quest’uomo d’irreprensibile reputazione…»

«Ebbene?»

«Era un infame!»

«Impossibile!» esclamò Montecristo.

«Eppure è come vi dico.»

«Veramente?» si stupì Montecristo. «E ne avete le prove?»

«Le avevo, almeno.»

«E le avete perdute?»

«Sì, ma cercando bene si possono ritrovare.»

«Davvero?» disse il conte. «Raccontatemi tutto, Bertuccio, perché la cosa incomincia a interessarmi davvero.»

E il conte, canticchiando una piccola aria della Lucia, andò a sedersi su una panchina, mentre Bertuccio lo seguì concentrandosi, in piedi davanti a lui.

43. La vendetta

«Da dove preferite, signor conte, che inizi il racconto?» domandò Bertuccio.

«Da dove volete», replicò Montecristo, «visto che non ne so assolutamente niente.»

«Credevo che Vostra Eccellenza avesse già saputo che…»

«Sì, qualche particolare, senza dubbio; ma sono trascorsi sette o otto anni, e non mi ricordo più mi niente.»

«Allora posso, senza paura d’annoiare Vostra Eccellenza…»

«Raccontate, farete le veci di un giornale.»

«Le cose risalgono al 1815.»

«Ah», fece Montecristo, «il 1815 è stato tanto tempo fa.»

«Esatto, signore, tuttavia i più piccoli particolari mi sono chiari come fosse oggi. Io avevo un fratello maggiore che era al servizio dell’Imperatore. Era sottotenente in un reggimento composto tutto di corsi. Era anche il mio unico amico, eravamo rimasti orfani: lui aveva diciotto anni, e io cinque; e mi aveva allevato come fossi stato suo figlio. Si sposò nel 1814 sotto i Borboni; ma quando l’Imperatore ritornò dall’isola d’Elba, mio fratello riprese subito servizio; poi ferito leggermente a Waterloo, si ritirò con l’esercito dietro la Loira.»

«Però questa, è la storia dei Cento Giorni, caro Bertuccio, ed è già stata raccontata, se non sbaglio.»

«Scusatemi, Eccellenza, questi primi particolari sono necessari, e voi mi avete promesso d’essere paziente.»

«Avanti, avanti! Non dirò più una parola.»

«Un giorno ci giunse una lettera… Bisogna dire che abitavamo nel piccolo villaggio di Rogliano, sulla punta di Capo Corso… Era una lettera di mio fratello, il quale diceva che l’esercito era stato sciolto e lui ritornava per la via di Châteauroux, Clermont-Ferrand, Le Puy e Nîmes, e che se avevo denaro glielo inviassi a Nîmes presso un albergatore di nostra conoscenza…»

«Un contrabbandiere», interruppe il conte.

«Eh, mio Dio, bisogna pur vivere.»

«Certamente. Continuate dunque.»

«Io amavo teneramente mio fratello, ve l’ho detto, per cui decisi di non inviargli il denaro, ma di portarglielo io stesso. Avevo un migliaio di franchi; ne lasciai cinquecento per Assunta, mia cognata, con gli altri cinquecento mi misi in viaggio per Nîmes… Sarebbe stato facile, avevo la mia barca, un carico da fare per mare: tutto andava per il meglio. Ma, fatto il carico, il vento divenne contrario, di modo che restammo tre o quattro giorni senza poter entrare nel Rodano. Finalmente vi riuscimmo: risaliti fino ad Arles lasciai la barca fra Bellegarde e Beaucaire, e presi la strada per Nîmes; erano i giorni in cui avveniva il famoso massacro del Mezzogiorno. Due o tre briganti chiamati Trestaillon, Truphemy e Graffan sgozzavano sulle strade tutti quelli che credevano bonapartisti. Senza dubbio il signor conte avrà sentito parlare di questi assassini.»

«Sì, ma vagamente; allora ero lontano dalla Francia.»

«Entrando a Nîmes si camminava, alla lettera, nel sangue; a ogni passo s’incontravano cadaveri: gli assassini, organizzati in bande, uccidevano, saccheggiavano, bruciavano. Alla vista di una tale carneficina, mi prese un tremito, non per me, io, semplice pescatore corso, non avevo da temere, anzi per noi contrabbandieri, quelli erano tempi buoni, ma per mio fratello, soldato dell’impero, che ritornava dall’esercito della Loira con la sua uniforme, le spalline, c’era tutto da temere… Corsi dal nostro albergatore, i miei presentimenti non mi avevano ingannato: mio fratello, arrivato il giorno prima a Nîmes, era stato assassinato sulla porta di colui a cui andava a chiedere ospitalità.

Feci il possibile per conoscere gli assassini, ma nessuno osò dirmi i loro nomi, tanto erano temuti. Pensai allora alla giustizia francese, di cui tanto mi era stato parlato, e che nulla teme, e mi presentai al procuratore del re.»

«E questo procuratore del re si chiamava Villefort?» chiese con noncuranza Montecristo.

«Sì, Eccellenza, veniva da Marsiglia dove era stato sostituto. Il suo zelo gli aveva procurato l’avanzamento. Era stato uno dei primi, si diceva, che avevano annunciato al governo lo sbarco dall’isola d’Elba.»

«Dunque», riprese Montecristo, «vi presentaste a lui?»

«“Signore”», gli dissi, «“mio fratello è stato assassinato ieri nelle strade di Nîmes, non so da chi, ma è vostro compito saperlo. Voi siete qui il capo della giustizia, e spetta alla giustizia vendicare quelli che non ha saputo difendere.”

“E che cos’era vostro fratello?” domandò il procuratore del re.

“Sottotenente nel battaglione corso.”

“Un soldato dell’imperatore allora…”

“Un soldato dell’esercito francese.”

“Ebbene», replicò, «si è servito della spada, ed è morto di spada.”

“Voi vi sbagliate, signore, egli è morto di pugnale.”

“E che volete che faccia?” risponde il magistrato.

“Ve l’ho detto, voglio che lo vendichiate.”

“Su chi?”

“Sui suoi assassini.”

“Li conosco forse?”

“Fateli cercare.”

“Per farne cosa? Vostro fratello avrà avuto una contesa, e si sarà battuto in duello. Tutti questi vecchi soldati si abbandonano a eccessi che restavano impuniti sotto l’impero, ma che ora finiscono male; adesso gli abitanti del Mezzogiorno non amano né i soldati, né gli eccessi.”

“Non è per me che vi prego. Io piangerei, o mi vendicherei, ecco tutto; ma il mio povero fratello aveva una moglie. Se accadesse anche a me qualche disgrazia, povera donna, morirebbe di fame, perché viveva esclusivamente grazie al lavoro di mio fratello. Fatele ottenere una piccola pensione dal governo.”

“Ogni rivoluzione ha la sua catastrofe; vostro fratello è rimasto vittima di questa, è una disgrazia; ma il governo non nulla alla vostra famiglia. Se dovessimo giudicare tutte le vendette che i partigiani si sono prese su quelli del re, quando avevano il potere, vostro fratello oggi forse sarebbe condannato a morte. Ciò che accade è naturale, perché è la legge di rappresaglia.”

“Signore!” gridai io. “È mai possibile che un magistrato parli così…?!”

“Tutti pazzi questi corsi”, rispose Villefort. “Credono ancora che il loro compatriota sia imperatore. Voi sbagliate epoca, dovevate venirmi a dir questo due mesi fa: oggi è troppo tardi. Andatevene dunque, e se non volete andare, vi farò buttar fuori.”

Lo guardai un momento per vedere se, con una nuova preghiera, vi fosse stata qualche cosa da sperare. Quell’uomo era di pietra. Mi avvicinai a lui.

“Ebbene”, gli dissi sottovoce, “poiché conoscete tanto bene i corsi dovete sapere in che modo mantengono la loro parola. Voi trovate che hanno fatto bene a uccidere mio fratello, che era bonapartista, perché voi siete realista; ebbene io che sono ugualmente bonapartista, vi dico una cosa: che vi ammazzerò! Da questo momento vi dichiaro vendetta; per cui guardatevi come meglio potrete; poiché la prima volta che ci ritroveremo faccia a faccia, sarà segno che per voi è giunta l’ultima ora.”

Dopo ciò, prima ancor che si fosse ripreso dalla sorpresa, aprii la porta e fuggii.»

«Oh-oh», disse Montecristo, «con la vostra faccia onesta fate cose come queste, Bertuccio, e a un procuratore del re? Va bene! Ma sapeva almeno ciò che voleva dire la parola vendetta?»

«Lo sapeva tanto bene che da quel giorno non uscì più solo, e si chiuse in casa, facendomi cercare dappertutto. Fortunatamente mi nascondevo così bene, che non poté trovarmi. Allora, preso dalla paura, non ebbe il coraggio di restare a Nîmes: sollecitò un trasferimento e siccome era davvero un personaggio influente si fece nominare a Versailles. Ma, voi lo sapete, non vi sono distanze per un corso che ha giurato di vendicarsi del suo nemico, e la sua carrozza, per quanto fosse bene condotta, non ha mai avuto più di una mezza giornata di vantaggio su di me, che lo seguivo a piedi. L’importante non era ucciderlo, cento volte ne avrei trovato l’occasione, ma ucciderlo senza essere scoperto, e particolarmente senza essere arrestato. Ormai non ero più indipendente, dovevo proteggere e nutrire mia cognata. Per tre mesi lo tenni d’occhio: e per tre mesi non fece un passo, un movimento, una passeggiata senza che il mio sguardo non lo seguisse ovunque andava. Finalmente scoprii che veniva misteriosamente ad Auteuil: lo seguii, e lo vidi entrare in questa casa dove siamo; soltanto, invece d’entrare, come tutti, dalla porta grande sulla strada, egli veniva o a cavallo, o in carrozza, e lasciando il cavallo o la carrozza all’albergo, entrava da quella piccola porta che vedete là.»

Montecristo gli fece cenno che, malgrado l’oscurità, distingueva l’entrata indicata da Bertuccio.

«Io non ero più necessario a Versailles, mi stabilii ad Auteuil, e presi informazioni. Se volevo prenderlo era qui che dovevo preparare la trappola. La casa apparteneva, come il portinaio ha detto, al signor marchese di Saint-Méran, suocero del signor Villefort. Il signor di Saint-Méran abitava a Marsiglia, e di conseguenza questa casa gli era inutile, così si diceva ch’era stata affittata a una giovane vedova, che non si conosceva sotto altro nome se non con quello di baronessa. Infatti una sera che stavo di guardia sopra il muro, vidi una donna giovane e bella che girava sola per questo giardino; ella guardava spesso dalla parte della porticina, e capii che quella sera aspettava il signor Villefort.

Quando fu abbastanza vicina a me, nonostante l’oscurità, potei distinguerne i lineamenti, e vidi una bella giovane di diciotto, diciannove anni, alta e bionda. Siccome indossava una semplice veste, e niente poteva impedirmi di vederne la corporatura, m’accorsi ch’era incinta, e che la gravidanza era molto inoltrata.

Pochi momenti dopo la porticina si aprì; entrò un uomo, la giovane gli corse incontro. Era Villefort. Calcolai che, uscendo, particolarmente di notte, avrebbe dovuto attraversare da solo il giardino in tutta la sua lunghezza.»

«Avete poi saputo il nome di questa donna?» domandò il conte.

«No, Eccellenza», rispose Bertuccio, «non ebbi il tempo d’informarmene.»

«Continuate.»

«Forse quella stessa sera avrei potuto uccidere il procuratore del re», riprese Bertuccio, «ma non conoscevo ancora abbastanza il giardino in tutti i suoi particolari. Temevo di non poter fuggire se qualcuno fosse accorso alle grida. Rinviai l’azione al successivo incontro; e perché nulla potesse sfuggirmi, presi in affitto una piccola camera di fronte al muro del giardino. Tre giorni dopo, alle sette di sera, vidi un domestico uscire di casa a cavallo, e imboccare al galoppo la strada che porta a Sèvres: supposi che sarebbe andato a Versailles, e non mi sbagliai. Tre ore dopo, l’uomo tornò coperto di polvere. Dieci minuti dopo, un altro uomo a piedi, avvolto in un mantello, apriva la piccola porta del giardino, e la richiudeva dietro di sé. Scesi rapidamente.

Anche se non avevo visto il viso di Villefort, lo riconobbi al battito del mio cuore: attraversai la strada, raggiunsi un pilastrino all’angolo del muro, su cui ero salito per guardare nel giardino la prima volta. Questa volta però non mi accontentai di guardare, presi dalla tasca il coltello, mi assicurai che la punta fosse ben affilata, e saltai al di la del muro. Per prima cosa corsi alla porta; egli aveva lasciato la chiave dentro la serratura dalla parte interna, con l’unica cautela di un doppio giro. Niente dunque poteva opporsi alla mia fuga da quel lato. Il giardino era di forma quadrata, con un prato all’inglese al centro; agli angoli di questo prato c’erano gruppi di alberi, con folti rami, all’epoca frammischiati ai fiori d’autunno. Per andare dalla porticina alla casa, tanto entrando, quanto uscendo, Villefort era obbligato a passare davanti a questi gruppi d’alberi.

Era la fine di settembre: il vento soffiava con forza; una luna pallida e languente, velata a tratti da grosse nuvole che scorrevano per il cielo, rischiarava la sabbia dei viali che conducevano alla casa, ma non poteva fendere l’oscurità di questi alberi frondosi, fra i quali un uomo poteva restare nascosto senza timore di essere scoperto. Mi nascosi in quello vicino al quale doveva passare Villefort. Mi ero appena nascosto che, ai soffi del vento che curvava i rami degli alberi, mi parve di distinguere dei gemiti. Ma voi sapete, o per meglio dire, non sapete, signor conte, che chi aspetta il momento di commettere un assassinio, crede sempre di sentire delle grida nell’aria.

Trascorsero due ore, nelle quali a più riprese credetti di sentire i medesimi gemiti. Suonò mezzanotte. L’ultimo tocco vibrava ancora cupo e sonoro, quando vidi una debole luce illuminare le finestre della scala segreta per la quale siamo scesi poco fa. La porta si aprì, e comparve l’uomo con il mantello.

Era giunto il momento terribile; ma ero pronto da molto tempo: presi il coltello, lo aprii, e rimasi all’erta. L’uomo con il mantello veniva direttamente verso di me, e mi pareva tenesse in mano un’arma: ebbi paura, non di una lotta, ma di non riuscire.

Quando fu a pochi passi da me, capii che l’arma non era che una vanga. Non avevo ancora capito a quale scopo il signor Villefort tenesse una vanga in mano, quando egli si fermò vicino al gruppo d’alberi, gettò uno sguardo intorno, e si mise a scavare una fossa: allora m’accorsi che teneva qualcosa sotto il mantello, che depose sull’erba per essere più libero nei suoi movimenti. Un po’ di curiosità, lo confesso, si mischiò al mio odio, e volli vedere ciò che era venuto a fare Villefort: rimasi immobile, trattenendo il respiro, e aspettai.

Quindi mi venne un terribile pensiero, che trovò conferma quando il procuratore del re cavò dal mantello una cassetta lunga sei piedi e larga da sei a otto pollici. Lasciai che deponesse la cassetta nella fossa che poi riempì di terra; su questa terra smossa pestò i piedi per fare scomparire lo scavo notturno.

Allora mi buttai su lui, e gli conficcai il coltello nel petto, dicendogli: “Io sono Giovanni Bertuccio! La tua morte per mio fratello, il tuo tesoro per la sua vedova: vedi bene che la mia vendetta è più completa di quel che speravo!”

Non so se capì queste parole, ma credo di no. Cadde senza mandare un gemito: sentii il suo sangue scorrermi sulle mani e sul viso, ma io ero in delirio: questo sangue mi rinfrescava invece di bruciarmi. In un secondo dissotterai la cassetta con la vanga, poi, perché nessuno si accorgesse che l’avevo portata via, riempii di nuovo la fossa, gettai la vanga al di là del muro, e corsi fuori dalla porta, che chiusi a doppio giro dal di fuori, portando con me la chiave.»

«Bene», disse Montecristo, «quest’era, a quanto vedo, un piccolo assassinio complicato con furto.»

«No, Eccellenza», rispose Bertuccio, «era una vendetta accompagnata da una restituzione.»

«E la somma almeno era forte?»

«Non era denaro.»

«Ah sì, ricordo», disse Montecristo: «non avete parlato di un bambino?»

«Esattamente, Eccellenza. Corsi fino al fiume, sedetti sulla sponda, e incuriosito dal contenuto della cassetta, ne feci saltare via la serratura col coltello. In un panno di tela era avvolto un bambino appena nato: il viso era livido, le mani violette rivelavano che era rimasto vittima di una asfissia causata dal cordone che aveva intorno al collo.

Siccome però non era ancora freddo, esitai a gettarlo nell’acqua che scorreva ai miei piedi; infatti dopo un momento mi parve di sentire un leggero battito del cuore. Gli liberai il collo dal cordone, e siccome ero stato infermiere all’ospedale di Bastia, feci tutto ciò che avrebbe potuto fare un medico in un’occasione simile, gli soffiai dell’aria nei polmoni. Dopo un quarto d’ora di sforzi inauditi, lo vidi respirare, e udii un grido sfuggirgli dal petto. Io pure gettai un grido, ma un grido di gioia. “Dio dunque non mi maledice”, dissi a me stesso, “se permette che ridoni la vita a una creatura umana in cambio della vita che ho tolto a un’altra!”

«E che faceste di quel bimbo?» domandò Montecristo.

«Era un bagaglio molto ingombrante per uno che doveva fuggire. Per questo decisi di non tenerlo… Ma sapevo che a Parigi vi è un ospizio, dove sono accolte queste povere creature. Attraversando la barriera, dichiarai di aver trovato quel bimbo sulla strada, e chiesi informazioni. La cassetta accreditava la mia versione; la biancheria di batista indicava che il bimbo apparteneva a persone ricche. Non mi venne fatta alcuna obiezione, mi fu indicato l’ospizio situato in fondo alla rue d’Enfer e, dopo aver tagliato il pannolino in due parti, in maniera che una delle lettere ricamate continuasse ad avvolgere il fanciullo, mi tenni l’altra, deposi il fardello nella ruota, e fuggii a gambe levate.

Quindici giorni dopo ero di ritorno a Rogliano, e dissi ad Assunta: “Consolati, sorella mia, Israele è morto, ma l’ho vendicato!”

Allora mi chiese la spiegazione di queste parole, e io le raccontai tutto l’accaduto.

“Giovanni”, mi disse Assunta, “avresti dovuto portarmi quel bimbo; lo avremmo chiamato Benedetto: e per questa buona azione, Dio ci avrebbe benedetti effettivamente!”

In risposta le consegnai la metà del pannolino che avevo conservato per poter reclamare il bimbo il giorno che fossimo divenuti più ricchi.»

«E con quali lettere era ricamato quel pannolino?» domandò Montecristo.

«Con una L e una N sormontate dalla corona baronale.»

«Credo, Dio me lo perdoni, che voi facciate uso di termini araldici, Bertuccio! E dove avete fatti questi studi?»

«Al vostro servizio, signor conte, dove s’impara tutto.»

«Continuate, sono curioso di sapere altre due cose.»

«E quali, signore?»

«Ciò che accadde di quel ragazzo; avete detto che era un maschio.»

«No, signore, non ricordo di avervi detto ciò.»

«Ah, credevo… Mi sarò sbagliato.»

«No, non vi siete sbagliato, perché era effettivamente un maschio… Ma Vostra Eccellenza desiderava sapere due cose, qual è la seconda?»

«La seconda è il delitto di cui foste accusato quando chiedeste un confessore, e l’abate Busoni venne a trovarvi su vostra richiesta nelle prigioni di Nîmes.»

«Sarebbe troppo lungo raccontarlo, Eccellenza.»

«Che importa? Sono appena le dieci; sapete che non dormo, e suppongo che non avrete gran voglia di dormire.»

Bertuccio s’inchinò, e riprese la narrazione.

«Io, un po’ per scacciare i tristi ricordi che mi assillavano, in parte per provvedere ai bisogni della povera vedova, tornai al mestiere di contrabbandiere, divenuto più facile per il rilassamento delle leggi, che succede sempre alle rivoluzioni.

Le coste del Mezzogiorno, in particolare, erano mal controllate a causa delle continue sommosse ad Avignone, a Nîmes, e Uzès.

Approfittammo di questa specie di tregua che ci veniva accordata dal governo per annodare relazioni su tutto il litorale.

Dopo l’assassinio di mio fratello nelle strade di Nîmes, non avevo voluto tornare in quella città. L’albergatore col quale noi facevamo affari, vedendo che non volevamo più andar da lui, era venuto da noi, e aveva aperto una succursale del suo albergo sulla strada da Bellegarde a Beaucaire, con il nome di Ponte di Gard.

In tal modo avevamo, sia dalla parte d’Aigues-Mortes, sia a Martigues, sia a Bouc, una dozzina di luoghi dove depositavamo la nostra merce, e dove al bisogno trovavamo un rifugio per metterci in salvo dai doganieri e dai gendarmi. È un mestiere che frutta molto quello del contrabbandiere, quando uno ci si applica con una certa intelligenza sostenuta da buona dose di energia.

Quanto a me, vivevo sulle montagne, avendo un doppio motivo per temere i gendarmi e i doganieri, poiché qualunque apparizione davanti a un giudice, avrebbe potuto dar vita a un processo, vale a dire un ritorno nel passato, e si poteva scoprire qualche cosa di più importante che non sigari di contrabbando, e barili d’acquavite senza lasciapassare.

Così, preferendo mille volte la morte a un arresto, conducevo a buon fine operazioni straordinarie, e che, più di una volta, mi convinsero che la troppa cura che ci prendiamo del nostro corpo, è quasi sempre il solo ostacolo alla buona riuscita di quei disegni che hanno bisogno di un’esecuzione vigorosa e determinata. Infatti, una volta fatto il sacrificio della propria vita, non si è più simili agli altri uomini, e chiunque ha presa questa decisione, ha sentito le forze centuplicarsi e allargarsi l’orizzonte.»

«Anche la filosofia! Bertuccio, voi dunque sapete un poco di tutto nella vostra vita?»

«Chiedo perdono, Eccellenza!»

«No, no, è solo che è un po’ tardi per la filosofia, alle dieci e mezzo di sera. Oltre a questo non ho altre osservazioni da fare, visto che la trovo esatta, cosa che non si può dire di tutte le filosofie.»

«I miei viaggi si fecero dunque sempre più estesi e sempre più fruttuosi. Assunta era una buona amministratrice; e la nostra fortuna andava ingigantendosi. Un giorno ch’io partivo per un viaggio, mi disse: “Vai. Al tuo ritorno troverai una sorpresa”.

L’interrogai inutilmente; non volle dirmi di più, e io partii. Il viaggio durò quasi sei settimane: eravamo stati a Lucca a caricare dell’olio, e a Livorno a prendere del cotone inglese. Sbarcammo senza problemi, fummo pagati, e tornammo allegri e contenti. Rientrando a casa, la prima cosa che vidi nel luogo più visibile della camera d’Assunta, in una culla sontuosa rispetto al resto dell’appartamento, fu un fanciullo di sette-otto mesi. Diedi un grido di gioia. Il solo momento di tristezza che provai dopo l’uccisione del procuratore del re fu quello in cui abbandonai il bambino. Non ebbi mai rimorsi per l’assassinio in se stesso.

La povera Assunta aveva indovinato tutto: approfittando della mia assenza, munita della metà del pannolino e avendo scritto, per non dimenticarlo, il giorno e l’ora precisa in cui il bimbo era stato lasciato all’ospizio, era andata a Parigi a reclamarlo. Non le venne fatta alcuna obiezione, e le fu restituito. Ah, vi confesso, signor conte, che vedendo quella creatura dormire nella culla, mi emozionai e piansi.

“Assunta, sei una brava donna”, le dissi, “e il Signore ti benedirà!”

“Ciò mostra che avevi fede…” commentò Montecristo.

“Ahimè! Eccellenza”, replicò Bertuccio. “Iddio però fece di quel fanciullo lo strumento della mia punizione. Si rivelò subito di natura perversa! E non si può dire che venisse male allevato, poiché mia sorella lo trattava come il figlio di un principe. Era un ragazzo di bellissimo aspetto, con occhi celesti come quello di certe porcellane cinesi; solamente i capelli, di un biondo troppo acceso, davano al suo viso una strana indole, che raddoppiava la vivacità dello sguardo e la malizia del sorriso.

Disgraziatamente un proverbio dice che i rossi sono o completamente buoni o assolutamente cattivi: il proverbio non mentiva sul conto di Benedetto, che fin dalla prima infanzia si manifestò del tutto cattivo. È vero però che la dolcezza di mia cognata incoraggiò le sue prime inclinazioni. Ella andava continuamente al mercato in città, a cinque leghe di distanza, per comprare le primizie e i dolci più delicati per questo ragazzo, che preferiva agli aranci di Palma e alle conserve di Genova le castagne rubate al vicino attraversando le siepi, o le mele secche del granaio, pur avendo a sua disposizione le castagne e le mele del nostro orticello.

Un giorno (Benedetto poteva avere cinque o sei anni) il vicino Wasilio, che, secondo l’uso del nostro Paese, non riponeva mai né la sua borsa, né i suoi gioielli, perché il signor conte sa meglio di chiunque altro che in Corsica non ci sono ladri, il vicino Wasilio si lamentò con noi che gli era sparito un luigi. Si pensò che avesse contato male, ma egli affermava di esser sicuro del fatto suo.

In quel giorno Benedetto era uscito di casa di buon mattino, e quando lo vedemmo tornare la sera, si portava dietro una scimmia che diceva di aver trovato legata a un albero con la catena; da più di un mese il cattivo ragazzo desiderava avere una scimmia. Un saltimbanco ch’era passato per Rogliano, e che aveva molti animali esotici che lo avevano divertito con i loro esercizi, gli aveva, senza dubbio, ispirato quella pessima fantasia.

“Nei nostri boschi non si trovano scimmie, e tanto meno incatenate”, gli dissi. “Confessami dunque come ti sei procurato questa.”

Benedetto confermò la menzogna, e l’accompagnò con tali particolari che facevano più onore alla sua fantasia che alla realtà. M’irritai, egli si mise a ridere; lo minacciai, fece due passi indietro.

“Tu non puoi battermi”, disse. “Non ne hai il diritto, perché non sei mio padre.”

Ignorammo sempre chi gli aveva rivelato questo fatale segreto, che da parte nostra era stato gelosamente custodito. Questa risposta, attraverso la quale il ragazzo rivelava la sua vera natura, quasi mi spaventò, e il mio braccio alzato ricadde senza percuotere il colpevole. Il ragazzo ebbe la meglio, e questa vittoria gli dette un’audacia tale, che da quel giorno tutto il denaro di Assunta, il cui amore sembrava aumentare man mano che se ne rendeva meno degno, fu speso in capricci che lei non sapeva combattere, e in follie che non aveva il coraggio d’impedire.

Quando io ero a Rogliano, le cose andavano meno male, ma quando partivo, Benedetto diventava il capo di casa, e tutto andava a rotoli.

All’età di dieci o undici anni tutti i suoi amici erano i giovani di diciotto-vent’anni, i peggiori soggetti di Bastia e di Corte, e già per qualche marachella, che meritava un nome più serio, la giustizia ci aveva convocato. Io ne fui spaventato: qualunque interrogatorio poteva avere conseguenze funeste. Proprio allora dovetti allontanarmi dalla Corsica per una spedizione importante. Riflettei a lungo, e nella speranza d’evitare qualche disgrazia, decisi di condurre con me Benedetto. Speravo che la vita attiva e faticosa del contrabbandiere, la disciplina severa di bordo avrebbero corretto quella indole vicina a corrompersi, se già non era spaventosamente corrotta.

Presi dunque Benedetto in disparte, e gli feci la proposta di seguirmi, con tutte quelle promesse che possono sedurre un giovane di dodici anni. Egli mi lasciò parlare fino alla fine, e quand’ebbi terminato scoppiò in una risata, dicendo: “Siete pazzo, zio mio!” (egli mi chiamava così quand’era di buonumore). “Io cambiare la mia vita con quella che fate voi? Il mio ottimo ed eccellente far niente, con le orribili fatiche che vi siete imposto? Passare la notte al freddo, il giorno al caldo, nascondersi continuamente, ricevere schioppettate, e tutto questo per guadagnare un poco di denaro? Del denaro ne ho quanto voglio, madre Assunta me ne dà quanto ne domando: sarei un imbecille se accettassi la vostra proposta.”

Io rimasi stupefatto da quell’audacia, e da quel ragionamento.

Benedetto ritornò a giocare con i suoi compagni, e lo vidi che mi additava a loro come un idiota.»

«Che magnifico ragazzo!» mormorò Montecristo.

«Se fosse stato mio figlio», rispose Bertuccio, «o anche mio nipote, lo avrei ricondotto sulla retta via. Ma l’idea di picchiare un ragazzo, di cui avevo ucciso il padre, mi rendeva impossibile ogni intervento. Detti buoni consigli a mia cognata, che nelle nostre discussioni prendeva sempre la difesa del piccolo disgraziato; e, siccome mi confessò che varie volte le erano sparite somme considerevoli, le indicai un luogo dove nascondere il nostro piccolo tesoro. In quanto a me, avevo preso la mia decisione. Benedetto sapeva leggere e fare i conti, perché quando per caso voleva studiare, imparava in un giorno ciò che gli altri apprendevano in una settimana.

La mia decisione, dicevo, era presa: lo avrei fatto assumere come segretario su un bastimento di lungo corso, e, senza avvertirlo di niente, farlo venire a prendere una mattina, e portarlo a bordo; in questo modo, raccomandandolo al capitano, tutto il suo avvenire dipendeva da lui. Deciso questo, partii per la Francia. Tutte le nostre operazioni avvenivano nel golfo di Lione, ed erano ogni giorno più difficili, perché eravamo nel 1829. La pace era stata ristabilita, e di conseguenza la sorveglianza delle coste più severa che mai. Questa sorveglianza era aumentata momentaneamente per la fiera di Beaucaire, inaugurata da poco. Gli inizi della spedizione avvennero senza problemi. Ancorammo la barca, che disponeva di un doppio fondo nel quale nascondevamo le nostre mercanzie di contrabbando, in mezzo a una quantità di battelli ancorati alle due rive del Rodano da Beaucaire fino ad Arles.

Giunti là, cominciammo notte tempo a scaricare le merci proibite, e a farle entrare in città per mezzo di uomini legati agli albergatori nelle case dei quali facevamo i depositi. Sia che la buona riuscita ci rendesse imprudenti, sia che fossimo stati traditi, una sera verso le cinque del pomeriggio, mentre stavamo per metterci a tavola, giunse tutto affannato il nostro piccolo mozzo, dicendo che aveva visto una squadra di doganieri dirigersi dalla nostra parte. Non era precisamente la squadra che ci spaventava – da un momento all’altro, e particolarmente allora, si vedevano compagnie intere pattugliare e girare sulle sponde del Rodano – ma le cautele che, al dire del mozzo, questa squadra prendeva per non essere vista.

In un attimo eravamo in piedi; ma era già troppo tardi: la nostra barca evidentemente oggetto delle loro ricerche, era circondata. Fra i doganieri riconobbi qualche gendarme; e molto sospettoso nei suoi confronti, quanto indifferente alla vista di qualunque altro militare, scesi sottocoperta, e sgusciando da un portello, mi calai nel fiume, quindi mi misi a nuotare sott’acqua, non respirando che a lunghi intervalli, così bene che, senza esser visto, raggiunsi un canale nuovo che metteva il Rodano in comunicazione con il canale da Beaucaire ad Aigues-Mortes. Una volta là fui salvo, potevo proseguire senza essere visto in quella direzione. Non era a caso, né senza premeditazione che avevo seguito questa via; ho già parlato a Vostra Eccellenza di un albergatore di Nîmes, che aveva aperto una piccola osteria fra Bellegarde e Beaucaire.»

«Sì», disse Montecristo, «me ne ricordo perfettamente, quel brav’uomo, se non erro, era uno dei vostri soci…»

«Esattamente», rispose Bertuccio, «ma da sette-otto anni aveva ceduto il suo albergo a un sarto di Marsiglia, che dopo essersi rovinato con quel mestiere, aveva voluto tentare la fortuna in un altro. I rapporti che avevamo col primo proprietario furono mantenute col secondo; dunque contavo di chiedere un riparo a quest’uomo.»

«E come si chiamava costui?» domandò il conte di Montecristo, che sembrava cominciare a interessarsi al racconto di Bertuccio.

«Si chiamava Gaspard Caderousse, ed era sposato con una donna del villaggio di Carconta, che chiamavamo con il nome del suo villaggio; una povera donna colpita dalle febbri malariche, che stava morendo di consunzione. In quanto all’uomo era gagliardo e robusto, tra i quaranta e i cinquant’anni, e più d’una volta in difficili situazioni aveva dato prova di prontezza d’animo e di coraggio.»

«E dicevate», domandò Montecristo, «che tali cose accadevano verso l’anno?…»

«L’anno 1829, signor conte.»

«In che mese?»

«Nel mese di giugno.»

«All’inizio o alla fine?»

«Precisamente la sera del 3.»

«Ah», fece Montecristo, «il 3 giugno 1829… Va bene, continuate.»

«Era dunque a Caderousse che contavo di domandare riparo; ma di solito, anche nelle occasioni normali, non entravamo da lui per la porta che dava sulla strada, e decisi di non derogare alle abitudini: scavalcai la siepe del giardino, camminai carponi fra gli ulivi e i fichi selvatici, e raggiunsi, nel dubbio che Caderousse potesse avere qualche ospite in albergo, a un soppalco nel quale avevo più di una volta comodamente passato la notte come nel miglior letto. Questo soppalco era separato dalla sala comune del pianterreno dell’albergo solo da un tramezzo di assi, nel quale erano state praticate delle fenditure a bella posta, perché di là potessimo spiare prima di farci vedere.

Volevo capire se Caderousse era solo, dargli un segno del mio arrivo, e terminare con lui il pasto interrotto dall’apparizione dei doganieri; quindi approfittare del temporale in arrivo per raggiungere le rive del Rodano, rendermi conto di ciò che era accaduto alla barca e ai suoi occupanti. Scesi dunque nel soppalco, e fui fortunato, perché quasi nello stesso istante Caderousse entrava in casa con uno sconosciuto. Rimasi tranquillo, e aspettai, non con l’intenzione di scoprire i segreti dell’albergatore, ma perché non potevo fare altrimenti; e d’altra parte la stessa cosa era già accaduta altre volte.

L’uomo che accompagnava Caderousse non era di quelle parti, ma uno di quei mercanti che vengono a vendere i loro gioielli alla fiera di Beaucaire, e che in un mese fanno affari per cinquanta e anche centomila franchi. Caderousse entrò per primo, e vedendo la sala vuota, come al solito, occupata soltanto dal cane, chiamò la moglie.

“Ehi! Carconta!” disse. “Quel bravo prete, non ci ha ingannati, il diamante è buono.”

Si sentì un’esclamazione di gioia, e quasi subito la scala scricchiolò sotto un passo appesantito dalla debolezza e dalla malattia.

“Che dici?” domandò la donna più pallida di un morto.

“Dico che il diamante è buono, ed ecco qui il signore, che è uno dei primi gioiellieri di Parigi, disposto a darci cinquantamila franchi, solo che dobbiamo provargli che è veramente nostro. Vuole che gli racconti, come gli ho già raccontato io, in che modo miracoloso il diamante è caduto nelle nostre mani. Intanto, sedetevi signore, se volete, e siccome fa caldo, vado a cercare qualcosa per rinfrescarvi.»

Il gioielliere esaminò con visibile attenzione l’interno dell’albergo, e la palese miseria di coloro che stavano per vendergli un diamante che sembrava uscito dallo scrigno di un re.

“Raccontate, signora”, la invitò questi, volendo senza dubbio approfittare dell’assenza del marito perché non vi fosse alcun segno d’intesa tra di loro, e controllare se i due racconti corrispondevano.

“Mio Dio”, cominciò la donna, «è una benedizione del cielo che non ci aspettavamo. Immaginate, caro signore, che mio marito era amico, fin dal 1814 1815, di un marinaio chiamato Edmond Dantès. Questo povero giovane non aveva dimenticato Caderousse, che lo aveva invece dimenticato del tutto, e morendo gli ha lasciato il diamante che avete visto.”

“Ma in che modo ne era entrato in possesso?” domandò il gioielliere. “Lo aveva prima d’entrare in prigione?”

“No, signore, ma in prigione fece la conoscenza, a quanto pare, di un inglese ricchissimo; e quando il suo compagno di cella si ammalò, Dantès lo trattò come un fratello, così l’inglese uscendo dal carcere lasciò al povero Dantès, che meno fortunato di lui era morto in prigione, questo diamante, ch’egli a sua volta ci ha lasciato in legato morendo, e che il degno abate ci ha portato questa mattina.”

“È lo stesso racconto”, mormorò il gioielliere, “e, in fin dei conti, la storia può essere vera, per quanto paia inverosimile. Non c’è dunque che il prezzo sul quale non siamo ancora d’accordo.”

“Come, non siamo d’accordo?” fece Caderousse. “Credevo che avreste accettato il prezzo richiesto.”

“Cioè”, replicò il gioielliere, “il prezzo di quarantamila franchi che vi ho offerto.”

“Quarantamila franchi!” gridò la Carconta. “Non lo venderemo certamente. L’abate ci ha detto che ne vale cinquantamila, senza calcolare la montatura.”

“E come si chiama quest’abate?” domandò l’instancabile interlocutore.

“L’abate Busoni”, rispose la donna.

“È dunque uno straniero?”

“Credo sia italiano, delle vicinanze di Mantova.”

“Mostratemi questo diamante”, riprese il gioielliere, “voglio vederlo una seconda volta; spesso si giudicano male le pietre a prima vista.”

Caderousse cavò di tasca un piccolo astuccio di marocchino nero, l’aprì e lo passò al gioielliere. Alla vista di questo diamante grosso quanto una piccola nocciola, me lo ricordo come lo vedessi ancora, gli occhi della Carconta brillarono di cupidigia.»

«E voi, dietro alla porta, che pensavate di tutto ciò?» domandò Montecristo. «Credevate a quella favola?»

«Sì, Eccellenza; non ritenevo Caderousse un uomo cattivo, e lo credevo incapace di aver commesso un delitto, o anche un furto.»

«Questo fa più onore al vostro cuore che alla vostra esperienza, Bertuccio. Avevate conosciuto questo Edmond Dantès di cui si parlava?»

«No, Eccellenza, fino ad allora non ne avevo mai sentito parlare, e dopo nemmeno, tranne una sola volta dallo stesso abate Busoni, quando lo incontrai nelle prigioni di Nîmes.»

«Bene, continuate.»

«Il gioielliere prese l’anello dalle mani di Caderousse, estrasse dalla tasca un paio di piccole pinzette d’acciaio, e un bilancino di rame; poi allontanando le punte d’oro che trattenevano la pietra nell’anello, fece uscire il diamante e lo pesò scrupolosamente sul bilancino.

“Vi posso offrire quarantacinquemila franchi», disse, «ma non darò un soldo di più. Siccome questo è il vero prezzo dell’anello, ho con me solo questa somma.”

“Non importa, tornerò con voi a Beaucaire a prendere gli altri cinquemila franchi.”

“No”, ribatté il gioielliere restituendo a Caderousse l’anello e il diamante, “questo non vale di più; e sono anzi dispiaciuto di avervi offerto questa somma, dato che la pietra ha un difetto che non avevo visto prima; ma non importa: sono un uomo di parola, ho detto quarantacinquemila franchi e non mi tiro indietro.”

“Almeno rimettete il diamante nell’anello”, disse con asprezza la Carconta.

Egli incastonò di nuovo la pietra.

“Bene, bene, bene”, disse Caderousse, rimettendosi in tasca l’astuccio. “Lo venderemo a un altro.”

“D’accordo”, rispose il gioielliere, “ma un altro non sarà così accomodante come me; un altro non si accontenterà delle informazioni che mi avete dato. Non è normale che un uomo come voi possegga un anello da cinquantamila franchi, informerò i magistrati, e sarà necessario ritrovare l’abate Busoni; e gli abati che regalano diamanti da duemila luigi sono rari. La giustizia comincerà a starvi addosso, sarete messo in prigione, e se riconosciuto innocente verrete rimesso in libertà dopo tre o quattro mesi di prigione; l’anello o sarà andato perduto in spese di giudizio, o vi sarà restituito con una pietra falsa che costerà tre franchi invece di cinquantamila, diciamo anche ammettere cinquantacinquemila… Ma voi converrete con me, mio brav’uomo, che si corrono sempre certi rischi a comprare.”

Caderousse e sua moglie s’interrogarono con uno sguardo.

“No”, disse Caderousse, “non siamo abbastanza ricchi per perdere cinquemila franchi.”

“Come volete, mio caro amico… Io però avevo portato, come vedete, una bella somma.”

E con una mano prese dalla tasca un pugno d’oro che fece risplendere davanti agli occhi abbagliati degli albergatori, e con l’altra un pacchetto di biglietti di banca.

L’animo di Caderousse era visibilmente agitato da una lotta interna, era evidente che quel piccolo astuccio di marocchino, che girava e rigirava nelle mani, non gli sembrava corrispondere, come valore, alla somma enorme che gli affascinava gli occhi.

Si rivolse alla moglie.

“Tu che dici?” le domandò a bassa voce.

“Daglielo, daglielo”, disse. “Se ritorna a Beaucaire senza il diamante, ci denuncerà, e come ha detto, chi sa se ritroveremo l’abate Busoni!”

“Ebbene, così sia”, accettò Caderousse. “prendete il diamante per quarantacinquemila franchi, ma mia moglie vuole una catena d’oro, e un paio di orecchini d’argento.”

Il gioielliere prese dalla tasca una scatola lunga e piatta che conteneva molti campioni degli oggetti domandati.

“Prendete”, disse. “Io sono generoso negli affari. Scegliete…”

La donna scelse una collana d’oro che poteva costare cinque luigi, e il marito un paio di orecchini del valore di quindici franchi.

“Spero che non vi lamenterete”, disse il gioielliere.

“L’abate aveva detto che costava cinquantamila franchi”, mormorò Caderousse.

“Andiamo, andiamo, date qua… Che uomo terribile!” disse il gioielliere togliendogli di mano il diamante. “Io vi sborso quarantacinquemila franchi: duemilacinquecento franchi di rendita, vale a dire una fortuna come vorrei averla io, e non siete contento.”

“E i quarantacinquemila franchi”, domandò Caderousse con voce rauca, “vediamo, dove sono?”

“Eccoli”, rispose il gioielliere. E contò sulla tavola quindicimila franchi in oro, e trentamila in biglietti di banca.

“Aspettate che accendo una lanterna”, disse Carconta.

“Non ci si vede più, e si potrebbe sbagliare.”

Infatti, durante questa discussione era sopraggiunta la notte, e con la notte il temporale che minacciava da più di una mezz’ora. Si sentivano rumoreggiare da lontano i tuoni; ma né il gioielliere, né Carconta, né Caderousse sembravano preoccuparsene, tanto tutti e tre erano presi dal demonio del guadagno. Io stesso provai uno strano fascino alla vista di quell’oro e di quei biglietti. Mi sembrava di fare un sogno, e come succede nei sogni, ero inchiodato al mio posto.

Caderousse contò e ricontò l’oro e i biglietti; quindi li passò alla moglie, che li contò e ricontò anche lei. Intanto il gioielliere puntava il lume sul diamante, che mandava lampi da far dimenticare quelli che precedevano la tempesta, e che già cominciavano a baluginare alle finestre.

“Siete soddisfatti?” domandò il gioielliere.

“Sì”, rispose Caderousse. “Carconta, dammi il portafogli, e trovami un sacchetto.”

Carconta aprì un armadio, e ritornò portando un vecchio portafogli di cuoio, dal quale tolse alcune vecchie lettere, e vi infilò i biglietti, e un sacchetto contenente due o tre scudi da sei lire, che probabilmente rappresentavano tutta la fortuna della miserabile famiglia.

“Sentite”, riprese Caderousse, “anche se mi avete alleggerito di un diecimila franchi, volete cenare con noi?”

“Grazie”, rispose il gioielliere, “deve essere tardi, e bisogna che ritorni a Beaucaire, perché mia moglie sarà preoccupata.”

Guardò l’orologio.

“Perbacco!” gridò. “Sono quasi le nove. Non sarò a Beaucaire prima di mezzanotte. Addio amici miei… Se per caso ritornassero degli abati Busoni, pensate a me.”

“Fra dieci giorni non sarete più a Beaucaire”, disse Caderousse, “perché la fiera finisce la prossima settimana.”

“Non importa; scrivetemi a Parigi, signor Joannès, Palais Royal, Galerie en Pierres, numero 45. Verrò espressamente, se ne vale la pena.”

Rimbombò un tuono, accompagnato da un lampo così vivo, che superò quasi il chiarore della lanterna.

“E volete partire con questo tempo?” domandò Caderousse.

“Non ho paura dei tuoni”, rispose il gioielliere.

“E dei ladri?” chiese Carconta. “La strada non è mai molto sicura durante la fiera.”

“Quanto ai ladri, ecco ciò che serbo per loro…»

E si tolse di tasca un paio di piccole pistole cariche.

“Ecco”, disse, “dei cani che abbaiano e mordono nello stesso tempo: queste sono per i primi due che volessero rubarmi il vostro diamante, signor Caderousse.”

Caderousse e sua moglie si scambiarono un’occhiata: sembrava che avessero pensato entrambi alla stessa cosa.

“Allora, buon viaggio”, disse Caderousse.

“Grazie”, rispose il gioielliere.

E preso il bastone che aveva posato contro un vecchio baule, uscì. Nel momento in cui aprì lo porta, entrò un colpo di vento che per poco non spense la lanterna.

“Sta proprio arrivando un tempaccio”, disse, “E io ho due leghe da percorrere!”

“Restate”, insistette Caderousse. “Dormirete qui.”

“Sì, restate”, ripeté Carconta con voce mal ferma. “Ci prenderemo cura di voi.”

“No, devo tornare a Beaucaire. Addio.”

Caderousse uscì sull’uscio.

“Non si distingue il cielo dalla terra”, disse il gioielliere già fuori di casa. “Devo andare a destra o a sinistra?”

“A destra”, rispose Caderousse. “Non potete sbagliare, la strada è fiancheggiata d’alberi su ambo i lati.”

“Va bene, ho capito”, giunse la voce da lontano.

“Chiudi la porta”, disse Carconta. “Non mi piacciono le porte aperte quando tuona.”

“E quando c’è del denaro in casa, non è vero?” replicò Caderousse dando un doppio giro alla serratura.

Poi rientrò, andò all’armadio, prese il sacchetto e il portafogli, ed entrambi si misero a contare per la terza volta l’oro e i biglietti. Io non ho mai visto un’espressione uguale a quella di quei due volti, sui quali una debole luce metteva in mostra la cupidigia. La donna, in particolare, era ributtante: il tremito febbrile che abitualmente l’animava s’era raddoppiato. Il suo viso da pallido era diventato livido; gli occhi incavati fiammeggiavano.

“Perché gli hai proposto di dormire qui?” domandò.

“Ma”, rispose Caderousse con un tremito, “perché… perché non dovesse preoccuparsi di ritornare a Beaucaire.”

“Ah”, fece la donna con un’espressione indefinibile. “Credevo fosse per un altro motivo.”

“Donna, donna!” gridò Caderousse. “Perché ti fai venire simili idee? E perché, quando ti vengono, non le tieni tutte per te?”

“È lo stesso”, disse Carconta dopo un momento di silenzio. “Tu non sei un uomo.”

“Come sarebbe a dire?” ribatté Caderousse.

“Se tu fossi stato un uomo, non sarebbe uscito di qui.”

“Donna!”

“Oppure non arriverebbe a Beaucaire.”

“Donna!”

“La strada fa una curva, è obbligato a seguire la strada, mentre lungo il canale c’è una scorciatoia.”

“Donna! Tu offendi il buon Dio… Ascolta…”

Infatti s’intese uno spaventoso tuono, nello stesso tempo un lampo rossastro infiammò tutta la scala, mentre il fulmine, scemando lentamente, sembrava allontanarsi di mala voglia dalla casa maledetta.

“Gesù!” mormorò Carconta segnandosi.

Nello stesso tempo, e in mezzo a quel silenzio di terrore che di solito segue il rombo del tuono, si udì battere alla porta. Caderousse e sua moglie sussultarono spaventati.

“Chi va là?” gridò Caderousse alzandosi, e riunendo in un gruzzolo l’oro e i biglietti ch’erano sparsi sulla tavola, e che coprì con le mani.

“Sono io”, rispose una voce.

“E chi siete?”

“Joannès il gioielliere!”

“Che dici ora?” disse Carconta con un sorriso diabolico. “Ho offeso il cielo? Ecco che il cielo pietoso ce lo rimanda!”

Caderousse ricadde pallido e ansimante sulla sedia. Carconta, invece, si alzò e andò con passo fermo ad aprire la porta.

“Entrate dunque, caro signor Joannès.”

“Avete ragione”, iniziò il gioielliere bagnato dalla pioggia, “pare che il diavolo non voglia che io ritorni a Beaucaire questa sera. Le pazzie più brevi sono le migliori, mio caro Caderousse: mi avete offerto ospitalità, l’accetto, e vengo a dormire da voi.”

Caderousse balbettò qualche parola, asciugandosi il sudore che gli colava dalla fronte. Carconta rinchiuse la porta a doppia mandata appena alle spalle del gioielliere.»

44. Pioggia di sangue

Nell’entrare il gioielliere si guardò attentamente intorno, ma niente poteva fargli nascere sospetti, se non ne aveva, e niente confermarglieli se ne avesse avuti. Caderousse copriva sempre con entrambe le mani i biglietti e l’oro. Carconta sorrideva al suo ospite, più graziosamente che poteva.

“Ah”, disse il gioielliere, “si direbbe che avevate paura di essere stati ingannati, e che vi siate rimessi a contare il denaro dopo la mia partenza,”

“No”, replicò Caderousse, “ma l’evento che ce l’ha dato è così inatteso che non riusciamo ancora a crederci, e quando non abbiamo la prova materiale sotto gli occhi, ci pare sempre di sognare.”

Il gioielliere sorrise.

“Ci sono ospiti nel vostro albergo?” domandò.

“No”, rispose Caderousse, “non offriamo pernottamento; siamo troppo vicini alla città, e nessuno si ferma.”

“Allora vi darò fastidio?”

“Fastidio voi! Mio caro signore”, rispose con grazia Carconta, “nient’affatto; ve lo giuro.”

“Dove mi metterete?”

“Nella camera in alto.”

“Ma non è la vostra camera?”

“Non importa: abbiamo un secondo letto nella camera di fianco a questa.”

Caderousse guardò con meraviglia la moglie. Il gioielliere canticchiò un motivetto mentre si riscaldava la schiena al fuoco che Carconta aveva acceso nel caminetto per il suo ospite; intanto apparecchiava a un angolo della tavola, su cui aveva steso una tovaglia e i magri avanzi di un pranzo a cui unì due o tre uova fresche.

Ora Caderousse aveva rimesso i biglietti nel portafogli, l’oro nel sacchetto, e il tutto nell’armadio. Passeggiava in lungo e in largo, cupo e pensieroso, guardando il gioielliere che stava fumando davanti al caminetto, e che si asciugava dalla pioggia.

“Ecco qui”, disse Carconta mettendo una bottiglia sulla tavola.

“Non appena vorrete cenare, tutto è pronto.”

“E voi?” domandò Joannès.

“Non cenerò”, rispose Caderousse.

“Abbiamo pranzato tardissimo”, si affrettò ad aggiungere Carconta.

“Cenerò da solo?” domandò il gioielliere.

“Vi serviremo”, rispose Carconta con una premura che non le era naturale, neppure con gli ospiti del suo paese.

Ogni tanto Caderousse le lanciava degli sguardi rapidi come il lampo. L’uragano continuava.

“Sentite? Sentite?” diceva Carconta. “Avete fatto molto bene a ritornare.”

“Ciò non impedisce che se il temporale diminuisce durante la cena io mi rimetta in viaggio.”

“Soffia il maestrale”, mormorò Caderousse scuotendo la testa. “Avremo questo tempo fino a domani.”

E dicendo ciò, gli uscì un sospiro.

“Accidenti”, commentò il gioielliere mettendosi a tavola. “Tanto peggio per quelli che sono fuori.”

“Già”, aggiunse Carconta, “passeranno una brutta notte.”

Il gioielliere cominciò la cena, e la Carconta continuò ad avere per lui tutte le piccole premure di un’albergatrice; proprio lei, così dispettosa e strana. era diventata un modello di pulizia e premure. Se il gioielliere l’avesse conosciuta prima, si sarebbe certamente meravigliato di un così grande cambiamento, e ciò non avrebbe mancato di ispirargli qualche sospetto. In quanto a Caderousse, non diceva una parola, continuava ad andare su e giù per la stanza, e sembrava perfino non osasse guardare il suo ospite.

Terminata la cena, Caderousse andò ad aprire la porta.

“Credo che l’uragano si calmi…” disse.

Ma nello stesso istante, come a volerlo smentire, un terribile rombo di tuono fece tremare la casa, e l’impeto del vento spense la lanterna. Caderousse richiuse la porta; e sua moglie accese una candela al fuoco che si stava estinguendo.

“Prendete”, disse lei al gioielliere. “Dovete essere stanco… Ho messo delle lenzuola pulite, salite a riposarvi, e dormite bene.”

Joannès si fermò ancora un momento per assicurarsi che il temporale non si calmasse, e quando fu certo che il tuono e la pioggia non facevano che aumentare, augurò la buonanotte ai suoi albergatori e salì la scala. Egli mi passò sopra la testa, e sentivo gli scalini scricchiolare sotto i suoi passi. Carconta lo seguì con sguardo avido, mentre Caderousse gli voltò le spalle, e non guardò neppure da quella parte. Tutti questi particolari, che mi sono poi ritornati in mente, non mi fecero allora nessuna impressione mentre avvenivano sotto i miei occhi, e non c’era nulla di straordinario in ciò che accadeva, tranne la storia del diamante che mi sembrava un po’ inverosimile. Così, spossato dalla fatica, e contando di approfittare della prima pausa nel temporale, decisi di dormire lì alcune ore, e di allontanarmi nel mezzo della notte. Sentivo nella camera superiore che anche il gioielliere si preparava per passare la notte il meglio che potesse.

Ben presto il letto scricchiolò sotto il suo peso; era andato a riposare. Sentivo i miei occhi chiudersi mio malgrado, e siccome non avevo alcun sospetto, mi abbandonai al sonno, lanciando però un ultimo sguardo all’interno della cucina. Caderousse sedeva di fianco a una lunga tavola, su una di quelle panche di legno in uso negli alberghi dei villaggi. Mi voltava le spalle, e non potevo vederne i lineamenti, teneva il viso sepolto nelle mani. La Carconta lo guardò per un po’, poi si strinse nelle spalle e andò a sedersi vicino a lui. La fiamma morente si appiccò a un pezzo di legno dimenticato, una luce un po’ più vivace illuminò l’interno.

Carconta teneva gli occhi fissi sul marito, e siccome questi rimaneva sempre nella stessa posizione, la vidi allungare verso di lui la mano scarna, e toccarlo sulla fronte…

Caderousse tremò. Mi sembrò che la donna muovesse le labbra, ma sia che parlasse troppo piano, sia che i miei sensi fossero già presi dal sonno, il suono della sua voce non giunse fino a me. Era come se guardarsi attraverso una nebbia; era quella fase del sonno nella quale si crede di cominciare a sognare. Finalmente i miei occhi si chiusero, e mi addormentai.

Dormivo profondamente, quando fui svegliato da un colpo di pistola seguito da un grido terribile. Sentii alcuni passi barcollanti nella stanza di sopra, poi una massa inerte cadde dalle scale. Non ero ancora del tutto sveglio. Udii dei gemiti, poi delle grida soffocate come durante una lotta. Un ultimo grido, che terminò in un gemito prolungato, mi risvegliò completamente dal mio letargo. Mi sollevai su un braccio, aprii gli occhi, che non videro niente nelle tenebre, e portai la mano alla fronte, sulla quale mi pareva che cadesse, dalle fenditure della scala, una pioggia tiepida e abbondante.

Il più profondo silenzio era succeduto a quello spaventoso rumore. Udii il passo di un uomo che camminava di sopra; questi passi fecero scricchiolare la scala. Poi l’uomo scese nella stanza, si avvicinò al caminetto, e accese una candela. Era Caderousse; aveva il viso pallido, e la camicia insanguinata. Accesa la candela risalì rapidamente la scala, e udii di nuovo i suoi passi rapidi e tremolanti.

Un momento dopo tornò a scendere; teneva in una mano l’astuccio, e si assicurò che vi fosse ancora il diamante. Pensò un momento in quale delle sue tasche doveva metterlo; poi, non ritenendo la tasca un nascondiglio abbastanza sicuro, lo avvolse nel fazzoletto rosso, che si legò al collo. Quindi corse all’armadio, prese i biglietti e l’oro e mise gli uni nelle tasche dei suoi calzoni, l’altro nella tasca del suo abito, prese due o tre camicie, si lanciò verso la porta, e sparì nell’oscurità.

Allora tutto mi fu chiaro; immaginai quanto accaduto, come fossi stato il colpevole. Mi sembrò di sentire dei gemiti: il gioielliere poteva non essere ancora morto; forse potevo riparare, portandogli soccorso, una parte di quel male che non avevo fatto, ma che avevo permesso che accadesse. Spinsi le spalle contro l’assito di quella specie di tamburo che mi separava dalla sala inferiore, l’assito cedette e io mi ritrovai in casa.

Corsi a prendere la candela, e mi lanciai verso la scala, ma un corpo la sbarrava di traverso… era il cadavere della Carconta. Il colpo di pistola che avevo udito era stato scaricato su lei: aveva la gola trapassata da parte a parte, e vomitava sangue dalla bocca.

Scavalcai il suo corpo e continuai a salire. La camera era in uno spaventoso disordine. Due o tre mobili erano stati rovesciati; il lenzuolo, al quale si era aggrappato il disgraziato gioielliere, era steso sul pavimento; egli stesso giaceva a terra, con la testa appoggiata contro il muro in un mare di sangue, che scaturiva da tre larghe ferite al petto. Nella quarta era rimasto un lungo coltello da cucina di cui non si vedeva che il manico.

Inciampai nella seconda pistola, che non aveva sparato perché forse la polvere era bagnata. Mi avvicinai al gioielliere, effettivamente non era morto: aprì gli occhi stravolti, li fissò un momento su di me, mosse le labbra come se avesse voluto parlare, e spirò.

Questo truce spettacolo mi aveva quasi fatto uscire di senno. Dal momento che non potevo più portare soccorso a nessuno, non provai che un solo bisogno, cioè quello di fuggire. Mi precipitai dalla scala, cacciandomi le mani nei capelli, e mandando un grido di terrore.

Nella sala al pianterreno c’erano cinque o sei doganieri e due o tre gendarmi. Un intero picchetto di uomini armati. Mi presero e non tentai nemmeno di fare resistenza, non ero più padrone dei miei nervi. Tentai di parlare e non emisi che qualche grido inarticolato; vidi che i doganieri e i gendarmi mi indicavano con il dito, mi guardai, e m’accorsi che ero tutto sporco di sangue. Quella pioggia tiepida che avevo sentito cadermi addosso dalle fenditure dei gradini della scala, era il sangue di Carconta.

Mostrai col dito il luogo dov’ero nascosto.

“Che vuoi dire?” domandò un gendarme.

Un doganiere andò a vedere.

“Vuol dire ch’è passato di là”, rispose.

E mostrò l’apertura per la quale effettivamente ero passato. Allora capii che ero stato scambiato per l’assassino. Ricuperai la voce, e ritrovai la forza; mi sciolsi dalle mani dei due uomini che mi tenevano gridando: “Non sono stato io! Non sono stato io!”

Due gendarmi mi tenevano sotto tiro con le carabine.

“Se ti muovi”, mi dissero, “sei morto!”

“Ma vi ripeto che non sono stato io”, gridai.

“Racconterai la tua storiella ai giudici di Nîmes”, dissero.

“Intanto vieni con noi; e se vuoi un buon consiglio, non fare resistenza.”

Non era la mia intenzione: ero spossato dalla sorpresa e dal terrore. Mi furono messe le manette, fui attaccato alla coda di un cavallo e fui condotto a Nîmes.

Ero stato seguito da un doganiere che mi aveva perso di vista nelle vicinanze della casa, e pensando che vi avrei passato tutta la notte, era andato ad avvisare i compagni, che giunsero in tempo per sentire da lontano il colpo di pistola, e per cogliere me in mezzo a tante prove di colpevolezza.

Capii quanto sarebbe stato difficile far capire la mia innocenza. Non avevo che un’unica possibilità; e la prima domanda che feci al giudice istruttore fu una preghiera: che fosse cercato un certo abate Busoni, in quel giorno fermatosi all’albergo del Ponte di Gard. Se Caderousse aveva inventato una storia, se quest’abate non esisteva, ero evidentemente perduto, a meno che Caderousse non venisse arrestato e confessasse tutto.

Passarono due mesi, durante i quali, debbo dirlo a lode dei miei giudici, furono fatte tutte le ricerche possibili per ritrovare l’abate. Avevo perso ogni speranza; Caderousse non era stato arrestato. Ero prossimo a essere giudicato nella prima seduta, allorché l’8 settembre, cioè tre mesi e cinque giorni dopo il fatto, l’abate Busoni, sul quale non speravo più, si presentò alle carceri, dicendo che sapeva che un prigioniero desiderava parlargli. Aveva saputo la cosa a Marsiglia, e si ero affrettato ad accorrere.

Capirete con quale gioia lo ricevetti; gli raccontai tutto ciò di cui ero stato testimone: cominciai con esitazione la storia del diamante. Contro ogni mia aspettativa, era vera in ogni passaggio, e di nuovo contro ogni mia aspettativa egli mostrò di credere a tutto ciò che gli dissi.

Allora convinto dalla sua dolce carità, ravvisando in lui una profonda conoscenza dei costumi del mio Paese, e pensando che il perdono del solo delitto che avevo commesso nella mia vita forse sarebbe venuto dalle sue labbra tanto caritatevoli, gli raccontai, sotto il sigillo della confessione, l’avventura di Auteuil in tutti i suoi particolari.

La confessione di questo primo assassinio, che niente mi costringeva a confessare, gli provò ch’io non avevo commesso il secondo: mi lasciò, dicendomi di sperare e promettendomi di fare ciò che sarebbe stato in suo potere per convincere i giudici della mia innocenza. Ebbi infatti la prova ch’egli si era occupato di me, quando vidi addolcirsi i trattamenti che ricevevo nella mia prigione, e seppi che il giudizio veniva differito a una seduta futura.

In quest’intervallo la Provvidenza volle che Caderousse fosse arrestato all’estero e ricondotto in Francia. Egli confessò tutto, dando alla moglie la colpa della premeditazione, e in particolare dell’istigazione, e fu condannato alla galera a vita. Io fui rimesso in libertà.»

«E fu allora», disse Montecristo, «che vi presentaste a me con la lettera dell’abate Busoni.»

«Sì, Eccellenza, egli aveva preso per me un particolare interesse.

«“Il vostro stato di contrabbandiere vi perderà”», mi disse. «”Se voi uscite di qui, lasciatelo.”»

«“Ma, padre”», gli chiesi, «“come volete che faccia a vivere e a far vivere la mia povera cognata?”»

«“Un mio penitente”», disse, «“che ha stima di me, mi ha incaricato di trovargli un uomo di fiducia. Volete essere quest’uomo? Vi raccomanderò a lui!”»

«“Oh, Padre!”», gridai. «“Quanta bontà!”»

«“Ma mi promettete che non me ne pentirò?”»

Tesi la mano per fare il mio giuramento.

«“È inutile”, diss’egli, “conosco e amo i corsi: ecco la mia raccomandazione.”»

E scrisse le poche righe che vi portai, e per le quali Vostra Eccellenza ebbe la bontà di prendermi al suo servizio. Ora domando con orgoglio a Vostra Eccellenza: ha mai dovuto lamentarsi di me?»

«No», rispose il conte, «e lo dico con piacere, siete un buon servitore sebbene manchiate di fiducia in me.»

«Io, signor conte?»

«Sì, voi. Come, avete una cognata e un figlio adottivo, e non mi avete mai parlato di loro?»

«Ahimè, Eccellenza, questo è quanto mi rimane da dirvi, ed è la parte più triste della mia vita…

Partii per la Corsica: avevo fretta, come potrete bene immaginare, d’andare a consolare quella ch’io chiamavo mia sorella, ma quando giunsi a Rogliano trovai la casa in lutto. Era accaduta una cosa orribile, e di cui i vicini conservavano ancora memoria! La mia povera cognata, secondo quanto le avevo consigliato, non cedette più alle pretese di Benedetto, che voleva sempre denaro. Una mattina egli la minacciò, e poi sparì per tutto il giorno. Lei pianse. La povera Assunta aveva per il miserabile una tenerezza materna. Giunse la sera, e lo aspettò senza andare a letto. Alle undici entrò con due dei suoi amici, compagni di tutte le sue follie. Lei gli tese le braccia, ma quelli s’impadronirono di lei, e uno dei tre (io temo sia stato quel diabolico ragazzo) gridò: “Torturiamola, bisognerà bene che confessi dove tiene nascosto il suo denaro.”

Il vicino Wasilio era a Bastia, e a casa c’era solo sua moglie. Nessuno, tranne lei, poteva vedere o sentire ciò che accadeva in casa mia. Due di loro tenevano ferma la povera Assunta, che, non potendo credere a quanto le stava accadendo, sorrideva ai carnefici, il terzo andò a barricare la porta e le finestre. Quando tornò, tutti e tre riuniti, soffocando le grida che il terrore le strappava, avvicinarono i piedi di Assunta a un braciere. Ma nella lotta il fuoco si appiccò alle vesti: lasciarono allora la poveretta per non essere bruciati anch’essi. Fra le fiamme ella corse alla porta, ma era chiusa, si slanciò verso le finestre ma erano barricate. Allora la vicina udì delle grida orribili: era Assunta che chiamava aiuto.

Ben presto la sua voce si affievolì, e le grida divennero gemiti. L’indomani, dopo una notte di terrore e d’angoscia, quando la moglie di Wasilio osò uscire di casa, fece aprire la porta dal giudice: fu ritrovata la povera Assunta per metà bruciata, ma che respirava ancora, gli armadi forzati, e il piccolo tesoro sparito. Benedetto aveva lasciato Rogliano per non tornarvi più, e da quel giorno non l’ho più visto, né ho sentito parlare di lui.

Dopo queste tristi notizie, venni da Vostra Eccellenza. Non potevo più parlarvi di Benedetto, perché era sparito, né di Assunta perché era morta.»

«E che avete pensato di ciò?» domandò Montecristo.

«Che quello era stato il castigo per il delitto che io avevo commesso», rispose Bertuccio. «Ah, questi Villefort sono una razza maledetta!»

«Lo penso anch’io», mormorò il conte in tono lugubre.

«E ora», riprese Bertuccio, «Vostra Eccellenza comprenderà che questa casa, che da allora non avevo più visto, che questo giardino dove mi sono ritrovato d’improvviso, che questo luogo dove ho ammazzato un uomo, mi hanno procurato quelle forti emozioni delle quali ha voluto conoscere l’origine. Inoltre non sono certo che davanti a me, là ai miei piedi, Villefort non sia stato sepolto nella fossa ch’egli aveva scavata per suo figlio.»

«Infatti, tutto è possibile», disse Montecristo, alzandosi dalla panchina su cui era seduto, «e anche», aggiunse a bassa voce, «che il procuratore del re non sia morto. L’abate Busoni ha fatto bene a indirizzarvi a me. E voi avete fatto bene a raccontarmi la vostra storia; perché non avrò più sospetti nei vostri confronti. In quanto a Benedetto, non avete mai cercato di sapere ciò che ne sia avvenuto?»

«No, mai. Se avessi saputo dov’era, invece d’andare da lui, sarei fuggito come davanti a un mostro. No, fortunatamente, non ne ho mai sentito parlare da chicchessia; e spero che sia morto.»

«Non lo sperate, Bertuccio», replicò il conte. «I cattivi non muoiono così, sembra che Dio li prenda sotto la sua custodia per farne gli strumenti della sua giustizia.»

«Sia pure», disse Bertuccio. «Tutto ciò però che io domando al cielo è che non lo debba mai rivedere. Ora», continuò l’intendente abbassando la testa, «voi sapete tutto, signor conte, siete il mio giudice quaggiù… Volete dirmi qualche parola di consolazione?»

«Infatti, avete ragione, e io posso dirvi ciò che vi direbbe l’abate Busoni. Colui che avete colpito meritava un castigo per ciò che aveva fatto a voi, e fors’anche a qualche altro. Benedetto, se è vivo, servirà forse da qualche strumento divino, poi a sua volta sarà punito. In quanto a voi, non avete più rimproveri da farvi. Chiedetevi piuttosto perché, avendo salvato questo bimbo dalla morte, non lo rendeste a sua madre: qui sta il delitto, Bertuccio.»

«Sì, signore, quello è il mio delitto, il vero delitto, perché in questo sono stato un vile. Una volta richiamato alla vita il bambino, non avevo che una sola cosa da fare, voi lo diceste: farlo sapere a sua madre. Ma avrei dovuto fare delle ricerche, attirare l’attenzione, e forse scoprirmi. Non volevo morire, ero attaccato alla vita per il sostentamento di mia cognata, per l’amore per me stesso, innato in ciascuno di noi, per rimaner sano e libero nelle mie vendette, infine ero attaccato alla vita anche per l’amore stesso della vita. Oh, non sono un brav’uomo come lo era mio fratello!»

E Bertuccio si nascose il viso fra le mani. Montecristo fissò su di lui un lungo e indefinibile sguardo.

Dopo un momento di silenzio, reso ancora più solenne dall’ora e dal luogo, il conte disse: «Per terminare degnamente questa conversazione, che sarà l’ultima su tali avventure, Bertuccio, ricordate bene le mie parole, le ho spesso udite pronunciare dallo stesso abate Busoni. A tutti i mali vi sono due rimedi: il tempo e il silenzio. Ora, Bertuccio, lasciatemi passeggiare un momento in questo giardino. Ciò che rammenta a voi un’emozione ripugnante, come attore di quell’orribile scena, darà a me sensazioni quasi piacevoli, come se raddoppiassero il valore di questa proprietà. Gli alberi non piacciono se non perché danno l’ombra, e l’ombra stessa non piace se non perché è piena di sogni e di visioni. Ecco che compro un giardino, credendo d’acquistare un semplice recinto circondato da muri, e d’improvviso si cambia in un giardino pieno di fantasmi non descritti nel contratto. Io amo i fantasmi, e non ho mai sentito dire che i morti abbiano in seimila anni fatto tanto male, quanto ne fanno i vivi in un solo giorno. Rientrate dunque, Bertuccio, e andate a dormire in pace».

Bertuccio s’inchinò profondamente davanti al conte, e si allontanò sospirando.

Montecristo rimase solo; e facendo quattro passi in avanti, mormorò: «Qui, vicino a questa pianta, la fossa in cui fu deposto il bambino; laggiù la piccola porta per cui si entrava nel giardino: in quest’angolo la scala segreta che conduce alla camera da letto. Credo di non aver bisogno di riportare tutto quanto nel mio taccuino, perché ecco qua, davanti ai miei occhi, intorno a me, sotto i miei piedi, il piano in rilievo, il piano vivente».

E il conte, dopo un ultimo giro in quel giardino, andò a raggiungere la sua carrozza. Bertuccio, che lo vide assorto, si sedette con il cocchiere. La carrozza riprese la strada di Parigi. La sera stessa, al suo ritorno nella casa degli Champs-Elysées, il conte di Montecristo visitò tutta la villa come avrebbe potuto fare un uomo a cui fosse stata famigliare da molti anni.

Alì lo accompagnava in questa visita notturna. Il conte dette a Bertuccio molti ordini per l’abbellimento e la nuova distribuzione degli appartamenti. Poi prendendo l’orologio disse all’attento nubiano: «Sono le undici e mezzo. Haydée non può tardare ad arrivare. Sono state avvertite le cameriere francesi?»

Alì tese la mano verso l’appartamento destinato alla bella greca (talmente isolato che, nascondendo la porta dietro la tappezzeria, la casa poteva essere visitata per intero senza che alcuno potesse sospettare esservi un altro salotto e due camere abitate), mostrò il numero tre con la mano sinistra, e su questa mano, appoggiò la testa, e chiuse gli occhi come se dormisse.

«Ah», fece Montecristo, abituato a quel linguaggio, «tre aspettano nella camera da letto, non è così?»

«Sì», fece Alì, agitando la testa.

«La signora sarà stanca questa sera, e senza dubbio vorrà dormire», continuò Montecristo, «che nessuno la faccia parlare. Le cameriere francesi devono soltanto salutare la loro nuova padrona e ritirarsi e voi sorveglierete perché la cameriera greca non parli con le francesi.»

Alì s’inchinò.

Ben presto si sentì chiamare il portinaio; il cancello s’aprì, una carrozza percorse il viale e si fermò davanti alla scalinata. Il conte scese: lo sportello era già aperto, egli tese la mano a una giovane avvolta in un manto di seta verde ricamato in oro che la copriva tutta, anche la testa. Allora, preceduta da Alì che teneva una torcia dal profumo di rose, la giovane fu condotta al suo appartamento, quindi il conte si ritirò nel padiglione che si era riservato.

Mezz’ora dopo mezzanotte tutti i lumi erano spenti nella casa, e si sarebbe potuto credere che tutti dormissero.



45. Il credito illimitato

Il giorno dopo, verso le due del pomeriggio, un elegante calesse trainato da due splendidi cavalli inglesi si fermò davanti alla porta di Montecristo. Un uomo vestito con un abito turchino, con bottoni di seta dello stesso colore, un corpetto bianco sormontato da un’enorme catena d’oro, pantaloni neri, capelli neri che scendevano sulle sopracciglia e non parevano naturali, tanto erano poco in armonia con le rughe sparse; un uomo infine di cinquanta-cinquantacinque anni, e che cercava di dimostrarne quaranta, sporse la testa dal finestrino della carrozza, che recava sullo sportello una corona di barone, e mandò lo staffiere a domandare al portinaio se il conte di Montecristo fosse in casa.

Mentre attendeva, quest’uomo osservava con attenzione minuta, fin impertinente, l’esterno della casa, per quanto poteva distinguersi dal giardino, e la livrea di quei domestici che vedevano andare e venire. Lo sguardo di quest’uomo era vivace, ma più furbo che spiritoso. Le labbra erano così sottili che, invece di sporgere in fuori, si ripiegavano in dentro. La larghezza e la protuberanza degli zigomi, segno infallibile d’astuzia, la fronte incavata, il rigonfiamento dell’occipite che sormontava un paio d’orecchie non certo aristocratiche, contribuivano a conferire un aspetto spiacevole alla fisionomia di questo personaggio, che si imponeva agli occhi del volgo per i suoi magnifici cavalli, per l’enorme diamante che portava alla camicia, e per il nastro rosso da un capo all’altro della bottoniera dell’abito.

Lo staffiere bussò alla vetrata del portinaio, domandando: «È qui che abita il conte di Montecristo?»

«Qui abita Sua Eccellenza», rispose il portinaio, «ma…»

E consultò con lo sguardo Alì, che fece un segno negativo.

«Ma?» domandò lo staffiere.

«Sua Eccellenza non può ricevere», rispose il portinaio.

«In questo caso, ecco il biglietto da visita del mio padrone, il barone Danglars… Lo consegnerete al conte di Montecristo e gli direte che andando alla Camera, il mio padrone è passato di qui per aver l’onore di vederlo.»

«Io non parlo a Sua Eccellenza», rispose il portinaio, «però il cameriere farà l’ambasciata.»

Lo staffiere ritornò alla carrozza.

«Ebbene?» domandò Danglars.

Il ragazzo, abbastanza imbarazzato per la lezione ricevuta, ripeté al padrone la risposta del portinaio.

«Oh», fece questi, «è dunque un principe questo signore che viene chiamato Eccellenza, e a cui solo il cameriere ha il diritto di parlare? Non importa, poiché ha un credito su me, lo vedrò certamente, quando avrà bisogno di denaro.»

E Danglars si ritrasse nel fondo della carrozza, gridando al cocchiere, in modo che si sarebbe sentito dall’altra parte della strada: «Alla Camera dei deputati!»

Da una persiana dell’appartamento, Montecristo, avvisato in tempo, aveva visto il barone, e lo aveva osservato, con l’aiuto di un eccellente occhialino, con non minore attenzione di quella che Danglars aveva messo ad analizzare la casa, il giardino, e le livree.

«Davvero», disse con un gesto di disgusto e facendo rientrare le lenti dell’occhialino nel loro manico d’avorio, «davvero quest’uomo è una creatura laida. Come mai, dalla prima volta che lo vedono, non riconoscono il serpente dalla fronte schiacciata, l’avvoltoio dal cranio rotondeggiante, lo sparviero dal becco acuto?»

«Alì», gridò, poi batté un colpo sul campanello di rame.

Alì comparve.

«Chiamate Bertuccio», disse il conte.

Nello stesso momento entrò Bertuccio.

«Forse Vostra Eccellenza mi ha fatto chiamare?» domandò l’intendente.

«Sì, signore», rispose il conte. «Avete visto i cavalli che si sono fermati davanti alla mia porta?»

«Certamente, Eccellenza, sono molto belli.»

«E com’è dunque», riprese Montecristo aggrottando il sopracciglio, «che mentre ho ordinato i due più bei cavalli esistenti a Parigi, vi siano ancora nelle scuderie dei cavalli più belli dei miei?»

All’aggrottarsi delle sopracciglia, e al tono severo di quella voce, Alì abbassò la testa e impallidì.

«Non è colpa tua, buon Alì», disse in arabo il conte con una dolcezza che non si sarebbe sospettato né nella sua voce, né sul suo viso. «Tu non t’intendi di cavalli inglesi.»

I lineamenti d’Alì si rasserenarono.

«Signor conte», disse Bertuccio, «i cavalli di cui mi parlate non erano in vendita.»

Montecristo si strinse nelle spalle.

«Sappiate, signor intendente», disse, «che tutto è in vendita per chi sa fissare il prezzo.»

«Il signor Danglars li ha pagati sedicimila franchi, signor conte.»

«Ebbene, bisognava offrirgliene trentaduemila… Egli è un banchiere, e un banchiere non si lascia mai sfuggire l’occasione di raddoppiare il suo capitale.»

«Il signor conte parla sul serio?» domandò Bertuccio.

Montecristo guardò l’intendente stupito che avesse osato fargli una simile domanda.

«Questa sera», disse, «ho una visita da restituire. Voglio che quei cavalli siano attaccati alla mia carrozza con finimenti nuovi.»

Bertuccio si ritirò salutando, vicino alla porta si fermò: «A che ora», chiese, «Vostra Eccellenza conta di fare la visita?»

«Alle cinque», rispose Montecristo. Poi rivolgendosi ad Alì: «Fate passare tutti i cavalli davanti alla signora», disse, «e che lei scelga la pariglia che più le piace; e mi faccia sapere se vuole pranzare con me, in questo caso sia apparecchiato nell’appartamento di lei. Andate, e scendendo mandatemi il cameriere.»

Non appena uscito Alì, entrò il cameriere.

«Battistino», disse il conte, «è ormai un anno che voi siete al mio servizio: questo è l’apprendistato che di solito fisso alla mia servitù: sono contento di voi.»

Battistino s’inchinò.

«Resta ora da sapere se voi siete contento di me.»

«Oh, signor conte!» si affrettò a dire Battistino.

«Ascoltatemi sino alla fine», riprese il conte. «Voi ricevete millecinquecento franchi l’anno di salario, vale a dire la paga di un bravo ufficiale che rischia la sua vita tutti i giorni; avete un impiego che molti capiufficio, servitori disgraziati, infinitamente più occupati di voi, vi invidierebbero. Domestico, voi stesso avete dei domestici che hanno cura della vostra biancheria e dei vostri effetti. Oltre a millecinquecento franchi di paga, voi mi rubate, negli acquisti del mio vestiario, circa altri millecinquecento franchi ogni anno.»

«Eccellenza!»

«Io non me ne lamento, Battistino, è cosa naturale; però desidererei che la cosa si limitasse qui. Voi dunque non ritrovereste un posto simile a quel che vi ha dato la buona fortuna. Io non percuoto mai la mia servitù, non bestemmio mai, non mento mai, non vado mai in collera, perdono sempre uno sbaglio, non mai però una negligenza, o una dimenticanza. I miei ordini sono in genere brevi, ma chiari e precisi; preferisco ripeterli due e anche tre volte, che vederli male interpretati. Sono abbastanza ricco di esperienze, e sono curiosissimo, vi avverto. Se io sapessi dunque che voi aveste parlato di me nel bene o nel male, che avete fatto dei commenti sulle mie azioni, sorvegliato la mia condotta, uscireste immediatamente da casa mia: io non avverto un servitore che una sola volta. Ora siete avvertito. Andate!»

Battistino s’inchinò e fece tre o quattro passi per ritirarsi.

«A proposito», riprese il conte, «dimenticavo di dirvi che ogni anno metto a frutto un certo capitale a beneficio dei miei domestici. Quelli che licenzio dal mio servizio perdono necessariamente questa somma, che va a vantaggio di quelli che rimangono, e della quale godranno il possesso dopo la mia morte. È passato un anno da che siete al mio servizio, e il vostro capitale è già intestato a voi; sappiatelo accumulare.»

Questo discorso, fatto davanti ad Alì che rimaneva impassibile, poiché non capiva una parola di francese, produsse su Battistino un effetto intuibile da tutti coloro che conoscono l’indole del domestico francese.

«Cercherò di conformarmi su tutti i punti alla volontà di Vostra Eccellenza», diss’egli, «e per far meglio, seguirò l’esempio di Alì.»

«Oh, nient’affatto», disse il conte con una freddezza di marmo.

«Alì ha molti difetti mescolati alle sue qualità; non vi modellate dunque su di lui. Poi egli è un’eccezione: non ha stipendio, non è un domestico, è uno schiavo, è il mio cane; se non facesse il suo dovere, non lo caccerei, ma lo ammazzerei!»

Battistino sbarrò gli occhi.

«Voi ne dubitate?» domandò Montecristo.

E ripeté in arabo ad Alì le stesse parole che aveva detto in francese a Battistino.

Alì ascoltò, sorrise, si avvicinò al padrone, mise un ginocchio a terra e gli baciò rispettosamente la mano. Questo piccolo corollario alla lezione portò al massimo lo stupore di Battistino, cui il conte fece segno di ritirarsi, mentre ordinava ad Alì di seguirlo. Entrambi passarono nel suo studio, e là si trattennero a lungo.

Alle cinque il conte batté tre colpi sul campanello. Un colpo chiamava Alì, due colpi Battistino, tre colpi Bertuccio.

L’intendente entrò.

«I miei cavalli!» disse Montecristo.

«Sono attaccati alla carrozza, Eccellenza», rispose Bertuccio. «Devo accompagnare Vostra Eccellenza?»

«No, soltanto il cocchiere, Battistino, e Alì.»

Il conte scese e vide attaccati alla carrozza i cavalli che la mattina aveva ammirato alla carrozza di Danglars. Passandogli vicino vi gettò un’occhiata.

«Sono belli!» diss’egli. «E voi avete fatto bene a comprarli, solo lo avete fatto un po’ tardi.»

«Ho fatto molta fatica ad averli, e sono costati un po’ cari.»

«Non per questo i cavalli sono meno belli», disse il conte, stringendosi nelle spalle.

«Se Vostra Eccellenza è soddisfatta», disse Bertuccio, «tutto va bene… Dove va Vostra Eccellenza?»

«Rue Chaussée d’Antin, dal barone Danglars.»

Questa conversazione si faceva in cima alla scalinata. Bertuccio fece un passo per scendere il primo scalino.

«Aspettate, signore», disse Montecristo, «ho bisogno di una terreno in Normandia sulla riva del mare, per esempio fra Le Havre e Boulogne. Vi do uno spazio vasto, come vedete. Bisognerebbe che in questo luogo vi fosse un piccolo porto, una piccola insenatura, una piccola baia, dove potesse entrare e uscire la mia corvetta; essa non pesca che quindici piedi d’acqua. La barca sarà sempre in ordine per partire alla vela, a qualunque ora del giorno e della notte. Voi v’informerete da tutti i notai di una proprietà che abbia i pregi che vi ho detto. Quando l’avrete trovata, andrete a visitarla, e se rimarrete contento la comprerete a vostro nome. La corvetta è in viaggio per Fécamp, non è vero?»

«La sera stessa che noi abbiamo lasciato Marsiglia, la vidi salpare.»

«E lo yacht?»

«Lo yacht ha l’ordine di restare a Martigues.»

«Va bene. Vi metterete in contatto di tanto in tanto con i due padroni comandanti, perché non si addormentino.»

«E per il battello a vapore?»

«Non è a Chalons?»

«Sì.»

«Gli stessi ordini che per i due bastimenti a vela.»

«Bene!»

«Appena comprata questa proprietà, mi fisserete dei cambi di cavalli di dieci leghe tanto sulla strada del nord, che su quella verso sud.»

«Vostra Eccellenza può fidarsi di me.»

Il conte fece un cenno di soddisfazione, scese i gradini, e saltò nella carrozza, che trascinata al trotto dalla magnifica pariglia non si fermò che alla porta del banchiere. Danglars presiedeva una commissione nominata per una ferrovia quando vennero ad annunciargli la visita del conte di Montecristo. La seduta del resto era quasi finita.

Al nome del conte egli si alzò.

«Signori», disse ai colleghi, fra i quali molti onorevoli membri dell’una e dell’altra Camera, «perdonatemi se vi lascio così… Ma la casa Thomson e French di Roma m’invia un certo conte di Montecristo aprendogli a mio mezzo un credito illimitato. Questo è lo scherzo più insolito che i miei corrispondenti all’estero si siano permessi con me. Lo capirete bene, sono preso e trattenuto dalla più grande curiosità. Questa mattina sono passato da questo preteso conte. Se fosse un vero conte, capirete bene che non sarebbe così ricco. Ebbene il signore non riceveva. Che ve ne pare? Queste maniere che si permette il nostro Montecristo, non sono più adatte a qualche principe o a qualche bella donna? D’altra parte la casa agli Champs-Elysées, che è sua, mi ne sono informato, gli deve essere costata un patrimonio… Ma un credito illimitato», riprese Danglars, ridendo grossolanamente, «rende molto esigente il banchiere sul quale viene aperto. Ho dunque fretta di vedere il nostro uomo. Credo di essere stato raggirato. Ma quelli laggiù non sanno con chi hanno a che fare: riderà bene chi riderà ultimo…»

Terminando con queste parole, e dandogli un’enfasi che gli gonfiò le narici, lasciò i suoi ospiti, e passò in un salone bianco e oro che aveva suscitato molta ammirazione nella Chaussée d’Antin. Aveva ordinato che il visitatore fosse introdotto là per abbagliarlo al primo colpo.

Il conte era in piedi, e stava osservando alcune copie dell’Albano e del Fattori vendute per originali al banchiere, e che, per quanto fossero copie, spiccavano molto sugli arabeschi d’oro e sui i colori che adornavano il soffitto. Al rumore che Danglars fece entrando, il conte si volse. Danglars fece un leggero cenno con la testa, indicando con la mano al conte di sedersi su una sedia di legno dorata, con cuscini di seta bianca broccata in oro.

Il conte si accomodò.

«Ho l’onore di parlare al signor di Montecristo?»

«E io», rispose il conte, «al barone Danglars, cavaliere della Legion d’Onore, membro della Camera dei deputati?»

Montecristo ridiceva tutti i titoli che aveva letto sul biglietto da visita del barone.

Danglars incassò il colpo e si morse le labbra.

«Scusatemi, signore», disse, «di non avervi chiamato subito con titolo sotto il quale mi siete stato annunciato, ma voi lo sapete, noi viviamo sotto un governo democratico…»

«Di modo che», rispose Montecristo, «conservando l’abitudine di farvi chiamare barone, avete perduto quella di chiamare gli altri conte.»

«Non ci faccio caso neppure per me», replicò noncurante Danglars. «Mi hanno fatto barone e cavaliere della Legion d’Onore per servizi resi, ma…»

«Ma voi avete abdicato ai titoli, come in altro tempo hanno fatto Montmorency e La Fayette? Questo è un bell’esempio da seguire, signore.»

«Però non del tutto», riprese Danglars impacciato, «per i domestici, capirete…»

«Sì, voi siete barone per la servitù, e cittadino per i giornalisti, e per i vostri clienti.»

Danglars si morse le labbra. Vide che su quel terreno non aveva le capacità di Montecristo, perciò cercò un terreno più familiare.

«Signor conte», disse inchinandosi, «ho ricevuto una lettera d’avviso della casa Thomson e French.»

«Ne sono lieto, signor barone. Permettetemi di trattarvi come la vostra servitù; è una cattiva abitudine presa nei Paesi dove ci sono ancora dei baroni, proprio perché non se ne fanno di nuovi. Ne sono lieto, dicevo, perché così non avrò bisogno di presentarmi io stesso, la qual cosa è sempre imbarazzante. Voi dunque avete ricevuto una lettera di credito?»

«Sì», rispose Danglars, «ma vi confesso che non ne ho capito bene il significato.»

«Bah!»

«E anzi ero passato da voi per chiedervi un chiarimento.»

«Fatelo, signore, eccomi, io ascolto, e sono pronto a rispondervi.»

«Questa lettera», rispose Danglars, «credo d’averla con me.»

Si frugò nelle tasche.

«Eccola, sì. Questa lettera apre al signor conte di Montecristo un credito illimitato sulla mia casa.»

«Ebbene, signor barone, che vi trovate d’oscuro?»

«Niente, signore, fuorché la parola illimitato…»

«Ebbene, questa parola non è forse francese? È comprensibile: sono anglosassoni che scrivono.»

«Oh via, signore, sulla sintassi non c’è niente da ridire, ma non è così per la contabilità.»

«Perché, la casa Thomson e French», chiese Montecristo con l’aria più ingenua a questo mondo, «non è, secondo voi, abbastanza sicura, signor barone? Mi spiacerebbe, perché vi ho depositato alcuni capitali.»

«Perfettamente sicura», rispose Danglars con un sorriso quasi beffardo, «ma la parola illimitato, in materia di finanza, è tanto vaga che…»

«Che è illimitata, non è vero», disse Montecristo.

«Proprio questo volevo dire. Ciò che è vago è dubbio, e il saggio dice: astieniti dal dubbio.»

«Il che è quanto dire», replicò Montecristo, «che se la casa Thomson e French è disposta a fare delle pazzie, la casa Danglars non è disposta a seguirne l’esempio.»

«Cosa significa, signor conte?»

«Indubbiamente Thomson e French concludono affari senza limiti di cifre, ma il signor Danglars dà un limite alle sue; è un uomo saggio, come si vantava poco fa.»

«Signore», ribatté orgogliosamente il banchiere, «nessuno ha mai fatto i conti nella mia cassa.»

«Allora», riprese freddamente Montecristo, «sembra che sarò io a cominciare.»

«E chi vi ha detto questo?»

«Le spiegazioni che voi mi chiedete, e che somigliano molto all’esitazione.»

Danglars si morse le labbra; era la seconda volta che veniva battuto da quest’uomo, e questa volta su un terreno che era il suo. La sua ironica cortesia non era che apparente e sfiorava l’impertinenza. Montecristo, al contrario, sorrideva amabilmente, e quando voleva, possedeva una certa aria di leggerezza che gli dava molti vantaggi.

«Insomma, signore», disse Danglars dopo un momento di silenzio, «cercherò di farmi capire, pregandovi di fissare voi stesso la somma che contate di riscuotere da me.»

«Ma signore», replicò Montecristo, risoluto a non perdere un pollice di terreno nella discussione, «se ho chiesto un credito illimitato su di voi, è stato esattamente perché non sapevo di quale somma potevo aver bisogno.»

Il banchiere credette finalmente giunto il momento di prendere il sopravvento; si rovesciò sulla poltrona, e con un grossolano e orgoglioso sorriso: «Oh, signore, non abbiate alcun timore nel chiedere… State sicuro che le somme della casa Danglars, per quanto limitate, possono soddisfare le più grandi esigenze, e potreste anche chiedere un milione…»

«Sarebbe a dire?» disse Montecristo.

«Dico un milione», disse Danglars con spavalderia.

«E a che mi servirebbe un milione?» ribatté il conte. «Buon Dio, signore, se avessi avuto bisogno di un unico milione, non mi sarei fatto aprire un credito su di voi per una simile miseria. Un milione! Ma ho sempre un milione nel mio portafogli, nella mia borsa da viaggio.»

E Montecristo estrasse dal piccolo taccuino, in cui teneva i biglietti da visita, due assegni di cinquecentomila franchi l’uno, pagabili dal tesoro al portatore. Un uomo come Danglars doveva essere atterrato, non punto. Il colpo fece il suo effetto: il banchiere vacillò, ebbe una vertigine, spalancò su Montecristo due occhi ebeti, la cui pupilla si dilatò a dismisura.

«Via, confessate», continuò Montecristo, «che diffidate della casa Thomson e French. Mio Dio, la cosa è semplicissima. Io però l’avevo previsto, e sebbene estraneo agli affari, ho preso le mie misure. Ecco dunque due altre lettere simili a quella che avete ricevuto: una è della casa Arnstein ed Eskeles di Vienna per il signor barone Rothschild, l’altra è della casa Baring di Londra per il Laffitte. Una vostra parola, signore, e io vi toglierò qualunque preoccupazione, presentandomi all’una o all’altra di queste due case.»

Era finita: Danglars era vinto. Egli aprì con visibile tremore la lettera di Vienna e quella di Londra che gli venivano presentate sulla punta delle dita dal conte, verificò l’autenticità delle firme, tanto minuziosamente, che sarebbe stato un insulto per Montecristo, senza la confusione del banchiere.

«Oh, signore, ecco tre firme che valgono bene dei milioni», disse Danglars alzandosi, come per salutare la potenza dell’oro personificata nell’uomo che aveva davanti. «Tre crediti illimitati sulle nostre tre prime case! Perdonatemi, signor conte, ma passo dalla diffidenza alla meraviglia.»

«Non sarà certo una casa come la vostra quella che si meraviglia di ciò!» disse Montecristo con tutta cortesia. «Dunque mi manderete un po’ di denaro, non è vero?»

«Parlate, signor conte, sono ai vostri ordini.»

«Ebbene, ora che c’intendiamo… Perché già c’intendiamo, non vero?»

Danglars fece un segno affermativo con la testa.

«E non avrete più diffidenza?» continuò Montecristo.

«Non ne ho mai avuta», disse il banchiere.

«No, desideravate una prova, ecco tutto. Ebbene», ripeté il conte, «ora che c’intendiamo, ora che non avete più alcuna diffidenza, fissiamo, se volete, una somma per il primo anno… sei milioni, per esempio.»

«Sei milioni, sia!» rispose Danglars con voce soffocata.

«Se mi occorrerà di più», disse Montecristo con noncuranza, «metteremo di più; ma penso di restare solo un anno in Francia, e non credo d’oltrepassare questa somma… però vedremo… Per cominciare, fatemi portare domani trecentomila franchi. Sarò in casa fino a mezzogiorno, se non vi sarò lascerò la ricevuta al mio intendente.»

«Il denaro sarà in casa vostra domattina alle dieci, signor conte», rispose Danglars. «Volete oro, argento, o biglietti di banca?»

«Metà oro, e metà biglietti, per favore.»

E il conte si alzò.

«Debbo confessarvi una cosa», disse Danglars a sua volta, «io credevo di avere delle informazioni esatte su tutte le belle fortune d’Europa, e tuttavia la vostra, che mi sembra considerevole, mi era, ve lo confesso, del tutto sconosciuta. È recente?»

«No, signore», rispose Montecristo, «al contrario è di vecchia data. Era una specie di tesoro di famiglia che era proibito toccare, e i cui interessi accumulandosi hanno triplicato il capitale: l’epoca fissata dal testatore è scaduta da pochi anni soltanto, e non è che da pochi anni che ce l’ho a disposizione. La vostra ignoranza su questo argomento è naturale; del resto la conoscerete meglio fra qualche tempo.»

E il conte accompagnò queste parole con uno di quei sorrisi sibillini che facevano tanta paura a Franz d’Epinay.

«Con i vostri gusti e con le vostre intenzioni, signore, sfoggerete nella nostra capitale un lusso che ci schiaccerà tutti, noi altri poveri piccoli milionari. E ora, dato che mi sembrate un appassionato, e quando sono entrato guardavate i miei quadri, vi domando il permesso di farvi vedere la mia galleria: tutti quadri antichi, tutti quadri di maestri, garantiti come tali. Io non amo i moderni.»

«Avete ragione, perché hanno in generale un gran difetto, quello cioè di non aver ancora avuto il tempo di diventare antichi.»

«Poi potrò mostrarvi qualche statua di Thorvaldsen, di Bartolini, di Canova, tutti artisti stranieri, come ben sapete: io non stimo gli artisti francesi.

«Voi avete il diritto d’essere ingiusto con loro, signore, sono vostri compatrioti.»

«Ma tutto questo sarà per un altro giorno, quando avremo approfondito la nostra conoscenza; oggi mi accontenterò, se lo permettete, di presentarvi alla signora Danglars. Scusate la mia premura, ma un cliente come voi fa quasi parte della famiglia.»

Montecristo s’inchinò come per fargli comprendere che accettava l’onore che voleva fargli.

Danglars suonò; comparve un servitore, vestito con una livrea sontuosa.

«La signora baronessa è in casa?» domandò Danglars.

«Sì, signor barone», rispose il domestico.

«Sola?»

«No, la signora è in compagnia.»

«Non sarà indiscreto presentarvi a degli estranei, vero, signor conte? Non siete in incognito?»

«No», rispose sorridendo Montecristo, «non mi riconosco questo diritto.»

«E chi c’è dalla signora? Il signor Debray?» domandò Danglars con una bonarietà che fece sorridere Montecristo, già informato dei trasparenti segreti della casa del banchiere.

«Il signor Debray, sì, signor barone», rispose il servitore.

Danglars fece un cenno con la testa, poi si girò verso Montecristo.

«Il signor Lucien Debray è un nostro vecchio amico, segretario del ministro dell’Interno; in quanto a mia moglie, appartiene a un’antica famiglia: era la signorina Servières, vedova in prime nozze del colonnello marchese di Nargonne.»

«Non ho ancora l’onore di conoscere la signora baronessa Danglars, ma ho già incontrato il signor Debray.»

«Davvero», si stupì Danglars, «e dove?»

«In casa del signor Morcerf.»

«Ah, voi conoscete il piccolo visconte?» disse Danglars.

«Ci siamo trovati insieme a Roma durante il carnevale.»

«Ah sì», annuì Danglars, «ho sentito dire qualcosa su un’avventura singolare con banditi o ladri fra certe rovine: egli fu salvato miracolosamente. Credo abbia raccontato un fatto simile a mia moglie e a mia figlia al suo ritorno dall’Italia.»

«La signora baronessa vi aspetta», annunciò il domestico al suo ritorno.

«Vi faccio strada», disse Danglars salutando.

«E io vi seguo», aggiunse Montecristo.

46. La pariglia grigio-pomellata

Il barone, seguito dal conte, attraversò una lunga serie d’appartamenti notevoli per la pesante sontuosità e il fastoso cattivo gusto. Giunse quindi fino al salotto della signora Danglars, una piccola stanza ottagonale tappezzata di seta color rosa, ricoperta di mussola indiana, le poltrone di vecchio legno dorato coperte di stoffe preziose, le sopraporte con paesaggi del Boucher, e infine due piccoli medaglioni a pastello, in armonia con il resto del mobilio: questa piccola stanza era il solo locale della casa che avesse un qualche carattere. Sfuggita al piano generale stabilito fra Danglars e il suo architetto, una delle più alte ed eminenti celebrità dell’impero, era stata decorata direttamente dalla baronessa Danglars e da Debray.

In tal modo il signor Danglars, grande ammiratore dell’antico nella maniera in cui lo intendeva il direttorio, disprezzava assai quell’ambiente civettuolo, dove del resto era ammesso soltanto quando presentava qualcuno. Non era dunque Danglars che presentava, era al contrario lui il presentato, ed era bene o male ricevuto a seconda che la fisionomia del visitatore fosse gradita o sgradita alla baronessa.

La signora Danglars, la cui bellezza poteva ancora suscitare ammirazione nonostante i suoi trentasei anni, sedeva al pianoforte, piccolo capolavoro d’intarsio, mentre Lucien Debray, seduto a un tavolino da lavoro, sfogliava un album. Lucien aveva già avuto tempo, prima dell’arrivo, di raccontare alla baronessa molte cose relative al conte. Si sa già quanta impressione Montecristo avesse fatto sugli invitati alla colazione di Albert. Questa sensazione non si era ancora cancellata in Debray.

La curiosità della signora Danglars, risvegliata anche dalle informazioni di Morcerf e da quelle recenti di Debray, era perciò al massimo. Di conseguenza questa disposizione al pianoforte e davanti all’album, non era che una di quelle piccole furbizie del gran mondo, per mezzo delle quali si celano le più forti curiosità.

La baronessa ricevette Danglars con un sorriso, fatto non molto comune; quanto al conte, ricevette, in cambio del suo saluto, una cerimoniosa ma nello stesso tempo graziosa riverenza. Lucien, da parte sua, scambiò col conte quasi un saluto di amicizia, e con Danglars un gesto d’intimità.

«Signora baronessa», cominciò Danglars, «permettete che vi presenti il signor conte di Montecristo, che mi viene indirizzato dai miei corrispondenti di Roma con le raccomandazioni più vive. Viene a Parigi con l’intenzione di restarvi un anno, e di spendervi sei milioni; ciò promette una serie infinita di balli, di pranzi, di feste nei quali voglio sperare che il signor conte non vorrà dimenticarci, come certamente noi non lo dimenticheremo nei nostri.»

Benché la presentazione fosse composta di lodi esageratamente sperticate – di solito, è cosa rara che un uomo venga a Parigi per spendervi in un anno la fortuna di un principe – la signora Danglars lanciò al conte un’occhiata non priva d’interesse.

«E siete giunto?…» domandò la baronessa.

«Ieri mattina, signora.»

«E venite, secondo la vostra abitudine a quanto mi è stato detto, dall’altro capo del mondo…»

«Da Cadice per questa volta, puramente e semplicemente da Cadice.»

«Ah, giungete in una triste stagione… Parigi in estate è detestabile: non vi sono più né balli, né riunioni, né feste. L’opera italiana si è trasferita a Londra; l’opera francese si trova dappertutto, fuorché a Parigi; e in quanto al Théâtre-Français, voi sapete che non esiste più da nessuna parte. Non ci resta dunque per distrarci che qualche sfortunata corsa al Champ de Mars, e a Sartory. Farete correre cavalli, signor conte?»

«Io, signora, farò tutto ciò che si fa a Parigi», rispose Montecristo, «se avrò la fortuna di trovare qualcuno che m’informi convenientemente delle abitudini francesi.»

«Siete un amatore di cavalli, signor conte?»

«Ho passato una parte della mia vita in Oriente e gli orientali, voi lo sapete, non stimano che due cose a questo mondo: la nobiltà dei cavalli, e la bellezza delle donne.»

«Signor conte, avreste dovuto avere la galanteria di mettere le donne al primo posto.»

«Vedete, signora, che io avevo ben ragione poco fa d’augurarmi un precettore che mi facesse da guida nelle abitudini francesi.»

In quell’istante entrò la cameriera preferita della baronessa Danglars, e avvicinandosi alla padrona le mormorò alcune parole all’orecchio.

La signora impallidì.

«Impossibile», disse.

«Eppure è la verità, signora», rispose la cameriera.

La signora Danglars si volse al marito.

«È vero signore?» domandò.

«Che cosa?» chiese Danglars visibilmente agitato.

«Ciò che mi ha detto la cameriera…»

«E che cosa vi ha detto?»

«Che quando il mio cocchiere è andato ad attaccare i miei cavalli alla carrozza, non li ha trovati in scuderia… Che significa ciò? Voglio saperlo!»

«Signora», disse Danglars, «ascoltatemi.»

«Oh, io vi ascolto, signore, perché sono proprio curiosa di sentire ciò che mi saprete dire. Questi signori ci faranno da giudici, e comincerò col dire loro come stanno le cose. Signori», continuò la baronessa, «il signor barone Danglars ha dieci cavalli in scuderia; fra essi ve ne sono due che sono i miei grigi-pomellati. E dunque, nel momento in cui la signora Villefort mi chiede in prestito la mia carrozza, e io gliel’ho promessa per domani al Bois, ecco che i due cavalli non si trovano più. Il signor Danglars avrà trovato da guadagnarvi sopra qualche migliaio di franchi. Oh, che pessima stirpe è quella degli speculatori.»

«Signora», rispose Danglars, «i cavalli erano troppo vivaci, avevano appena quattro anni, e mi facevano paura, per voi.»

«Sapete bene», replicò la baronessa, «che da un mese ho al mio servizio il miglior cocchiere di Parigi, a meno che non lo abbiate venduto con i cavalli…»

«Amica cara, ve ne troverò degli uguali, e anche di più belli, se sarà possibile, ma che saranno cavalli docili e quieti e non ispireranno simili terrori.»

La baronessa si strinse nelle spalle con l’aria del più profondo disprezzo. Danglars fece finta di non essersi accorto di quel gesto, e volgendosi a Montecristo, disse: «A dire il vero, mi dispiace non avervi conosciuto prima, signor conte. So che state arredando la vostra casa…»

«Sì», disse il conte, «e cercavo anche dei cavalli…»

«Ve li avrei proposti, poiché li ho ceduti per niente, ma, come vi dissi, volevo disfarmene, erano cavalli troppo focosi.»

«Signore», disse il conte, «vi ringrazio… Ne ho acquistati questa mattina due molti buoni, e non a caro prezzo. Anzi guardate, signor Debray, voi non siete un intenditore?»

Mentre Debray si avvicinava alla finestra, Danglars si accostò a sua moglie.

«Immaginatevi, signora», disse a sottovoce, «sono venuti a offrirmi un prezzo esorbitante per quei cavalli. Non so chi sia il pazzo sulla via di rovinarsi che mi ha inviato questa mattina il suo intendente, ma il fatto è che vi ho guadagnato sedicimila franchi. Non mi rimproverate, ne darò a voi quattromila, e duemila a Eugénie.»

La signora Danglars lasciò cadere su Danglars uno sguardo terribile.

«Oh, mio Dio!» gridò Debray.

«Che succede?» domandò la baronessa.

«Non posso sbagliarmi, quelli sono i vostri cavalli, attaccati alla carrozza del conte.»

«I miei grigi-pomellati?» gridò la signora Danglars.

E si lanciò verso la finestra.

«Infatti sono i miei cavalli.»

Danglars era stupefatto.

«Possibile?» fece Montecristo fingendo meraviglia.

«È incredibile!» mormorò il banchiere.

La baronessa disse due parole all’orecchio di Debray, che a sua volta si accostò al conte.

«La baronessa mi fa chiedere quanto ve li ha fatti pagare suo marito.»

«Non lo so bene», disse il conte, «è una sorpresa che mi ha fatto il mio intendente, e credo che mi sia costata trentamila franchi.»

Debray riportò la risposta alla baronessa. Danglars era così pallido e così sconcertato che il conte fece mostra d’averne pietà.

«Vedete come sono ingrate le donne», disse. «Questa vostra preoccupazione non ha commosso per nulla la baronessa. Ingrata non è la parola adatta, dovrei dire pazza… Ma che volete farci? Si ama sempre ciò che nuoce, per cui, credetemi, barone mio, è meglio lasciarle far sempre di testa loro; se almeno se la rompono, devono prendersela solo con se stesse.»

Danglars non rispose: sentiva prossima una terribile scenata. Le sopracciglia della baronessa si erano già aggrottate, e, come quelle di Giove Olimpico, presagivano un uragano.

Debray, sentendolo avvicinarsi, prese la scusa di un affare e si accomiatò. Montecristo che non voleva, rimanendo più lungamente, guastare una posizione da cui contava trarre qualche vantaggio, salutò la signora Danglars e si ritirò, abbandonando il barone alla collera della moglie.

«Bene», pensò Montecristo nel ritirarsi, «sono arrivato dove volevo; ecco che tengo nelle mie mani la pace della famiglia, e che in un colpo solo mi sono guadagnato la simpatia del signore e della signora… Che fortuna! Ma in mezzo a tutto questo non sono stato presentato alla signorina Eugénie Danglars, che pure avrei desiderato molto conoscere. Ma», aggiunse con quel suo sorriso particolare, «eccoci a Parigi, e abbiamo davanti a noi il tempo… Tutto verrà a suo tempo.»

Con queste riflessioni, il conte salì in carrozza e rientrò a casa. Due ore dopo la signora Danglars ricevette una graziosa lettera dal conte di Montecristo, nella quale le diceva che, non volendo cominciare il suo ingresso nel mondo parigino facendo disperare una bella donna, la supplicava di riprendere i suoi cavalli. Essi avevano gli stessi finimenti che ella aveva visto la mattina, solo che, in ciascuna rosetta che portavano sotto l’orecchio, il conte aveva fatto mettere un diamante.

Anche Danglars ricevette una lettera. Il conte gli chiedeva il permesso di perdonare alla baronessa un capriccio da milionaria, e lo pregava di scusare il modo orientale con cui aveva accompagnato la restituzione dei cavalli.

La sera il conte partì per Auteuil, accompagnato da Alì. L’indomani verso le tre, Alì fu chiamato da un tocco del campanello, ed entrò nel salotto del conte.

«Alì», disse, «tu mi hai spesso accennato alla tua destrezza nel lanciare il laccio…»

Alì fece segno di sì, e si raddrizzò con fierezza.

«Bene!… Così col laccio tu fermeresti un bue?»

Alì fece segno di sì.

«Una tigre?»

Alì fece il medesimo segno.

«Un leone?»

Alì fece il gesto dell’uomo che lancia il laccio, e imitò un ruggito soffocato.

«Bene, capisco, tu sei stato a caccia del leone.»

Alì fece un cenno orgoglioso con la testa.

«Ma, arresteresti nella loro corsa due cavalli furibondi?»

Alì sorrise.

«Ebbene, ascolta», disse Montecristo, «fra poco passerà di qui una carrozza trascinata da due cavalli grigi-pomellati imbizzarriti, gli stessi che io avevo ieri. Dovessi farti schiacciare, bisogna che fermi quella carrozza davanti alla mia porta.» Alì scese in strada, e tracciò davanti alla porta una linea nella polvere; quindi rientrò e mostrò la linea al conte che lo aveva seguito con gli occhi.

Il conte gli batté dolcemente sulla spalla, era il suo modo di ringraziare Alì. Poi il nubiano andò a fumare la pipa ne punto in cui la strada faceva angolo con la casa, mentre Montecristo si ritirava senza più occuparsi di niente. Verso le tre, vale a dire nell’ora in cui Montecristo aspettava la carrozza, si sarebbero potuti notare in lui i segni quasi impercettibili di una leggera impazienza: passeggiava in una stanza che guardava sulla strada, tendendo a intervalli l’orecchio, e andando ogni tanto alla finestra da dove scorgeva Alì, che mandava sbuffate di fumo a regolari intervalli, come se fosse assorto in una fumata oziosa.

All’improvviso s’intese un rotolar lontano che si avvicinava con la rapidità del fulmine, quindi comparve una carrozza, il cui cocchiere tentava inutilmente di trattenere i cavalli che avanzavano furiosi, con i peli irti, e si avventavano con impeto insensato. In essa, una giovane signora e un ragazzo di sette otto anni, che si tenevano abbracciati, avevano perso, per l’enorme paura, perfino la forza di gridare.

Sarebbe bastato un sasso sulla strada, o un tronco d’albero staccato, per far deragliare la carrozza che già scricchiolava tenendo il centro della strada; giungevano dalla via le grida di terrore di coloro che la vedevano arrivare.

In un baleno Alì depone la pipa, prende il laccio, lo lancia, avvolge con triplice giro le zampe davanti del cavallo di sinistra, si lascia trascinare per tre o quattro passi dalla violenza dell’impulso, ma dopo questi tre o quattro passi, il cavallo allacciato si abbatte, cade sul timone spezzandolo, paralizzando così gli sforzi del cavallo rimasto in piedi; il cocchiere approfitta di quel momento di respiro per buttarsi a terra, ma già Alì ha afferrato con le sue mani di ferro il secondo cavallo, che nitrendo di dolore si stende fremente vicino al compagno.

Per tutto non servì che il tempo necessario a una pallottola per cogliere nel segno. Ma bastò perché un uomo della casa davanti alla quale accadeva questo incidente si slanciasse fuori accompagnato da molti servitori. Mentre il cocchiere apriva la portiera, egli faceva scendere dalla carrozza la dama che con una mano era aggrappata al cuscino, con l’altra stringeva al petto il figlio svenuto.

Montecristo li trasportò entrambi nel salone, e li fece sdraiare sul sofà.

«Non temete più niente, signora», disse, «siete salva.»

La donna ritornò in sé, e come risposta accennò al figlio con uno sguardo più eloquente di tutte le preghiere.

Infatti il ragazzo era sempre svenuto.

«Sì, signora, capisco», disse il conte esaminando il fanciullo, «ma state tranquilla, non gli è accaduto alcun male, è solo la paura che lo ha ridotto in questo stato.»

«Signore», gridò la madre, «non lo dite soltanto per tranquillizzarmi! Vedete com’è pallido? Figlio mio, figlio mio! Edouard! Rispondimi! Signore, mandate a cercare un medico… La mia fortuna è di chi mi restituisce mio figlio!»

Montecristo fece un gesto per calmare la madre desolata e prese da un bauletto una piccola bottiglia di cristallo di Boemia incrostata d’oro, contenente un liquore rosso come il sangue, e ne lasciò cadere una sola goccia sulle labbra del ragazzo; il quale, sebbene sempre più pallido, riaprì subito gli occhi.

A quella vista la gioia della madre divenne quasi un delirio.

«Dove sono?» gridò. «E a chi devo tanta felicità dopo una prova così crudele?»

«Voi siete, signora», rispose Montecristo, «in casa di un uomo felice di avervi potuto risparmiare un dispiacere.»

«Maledetta curiosità!» disse la dama. «Tutta Parigi parla di questi magnifici cavalli della signora Danglars, e io ho avuto la follia di volerli sperimentare.»

«Come!» esclamò il conte con finta sorpresa. «Questi cavalli sono quelli della baronessa Danglars?»

«Sì, signore. La conoscete?»

«La signora Danglars? Ho questo onore, e la mia gioia è doppia nel vedervi salva dal pericolo che vi hanno fatto correre questi cavalli perché avreste potuto darmene la colpa: avevo acquistati questi cavalli dal barone, ma la baronessa mi parve talmente triste, che glieli rimandai ieri, pregandola di volerli accettare dalle mie mani.»

«Ma allora siete il conte di Montecristo di cui mi ha tanto parlato ieri Hermine?»

«Sì, signora», disse il conte.

«E io, signore, Héloïse Villefort.»

Il conte la salutò, come se questo cognome gli fosse del tutto nuovo.

«Quanto vi sarà riconoscente il signor Villefort!» riprese Héloïse. «Perché vi dovrà la vita di noi due, gli avete reso la moglie e il figlio! Senza il vostro generoso servitore, questo caro ragazzo e io saremmo rimasti uccisi.»

«Purtroppo, signora… Fremo ancora, pensando al pericolo che avete corso.»

«Spero che mi permetterete di compensare degnamente lo zelo di quest’uomo.»

«Signora», rispose Montecristo, «non mi guastate Alì, ve ne prego, né con elogi, né con ricompense; non voglio che prenda queste abitudini. Alì è mio schiavo; salvandovi la vita, ha servito me, ed è suo dovere servirmi.»

«Ma egli ha rischiato la sua vita!» esclamò la signora Villefort, sulla quale quel tono padronale aveva uno strano ascendente.

«E io ho salvato la sua, signora», rispose Montecristo, «di conseguenza mi appartiene.»

La signora Villefort tacque; forse rifletteva su quest’uomo, che dal primo momento faceva tanta impressione su tutti. Durante questi momenti di silenzio, il conte ebbe agio di osservare il ragazzo, che la madre copriva di tanti baci.

Era piccolo, gracile, bianco di pelle come i bambini rossi, nonostante una foresta di capelli neri, ribelli a ogni acconciatura, che ne copriva la fronte rotondeggiante, e cadendo sulle spalle ne contornava il viso raddoppiando la vivacità degli occhi pieni di furba malizia e di giovanile cattiveria; la bocca, appena ritornata vermiglia, aveva labbra sottili: i lineamenti di questo ragazzino di otto anni dimostravano un’età di almeno dodici. Il primo movimento fu di sciogliersi con una rozza scossa dalle braccia di sua madre, e di andare ad aprire il bauletto da dove il conte aveva preso la boccetta d’elisir; quindi, senza domandare il permesso a nessuno, e come fanno di solito i fanciulli avvezzi a soddisfare tutti i loro capricci, si mise a levare il turacciolo a tutte le ampolle.

«Non toccate queste, amico mio», disse subito il conte, «alcuni di questi liquori sono pericolosi non soltanto da bere, ma anche da odorare.»

La signora Villefort impallidì e fermò il braccio del figlio che ricondusse a sé; ma appena sedato il timore, gettò sul bauletto un breve ma espressivo sguardo, che il conte afferrò a volo.

In quel momento entrò Alì.

La signora Villefort fece un movimento di gioia, e tirando più vicino a sé il ragazzo, disse: «Edouard, vedi questo buon servitore? È stato molto coraggioso, perché ha rischiato la sua vita per fermare i cavalli che ci trascinavano e la carrozza ch’era sul punto di fracassarsi: ringrazialo dunque, perché senza di lui a quest’ora saremmo forse morti.»

Il ragazzo allungò le labbra, e voltò sdegnosamente la testa.

«È troppo brutto», disse.

Il conte sorrise come se il ragazzo confermasse una delle sue speranze. Quanto alla signora Villefort sgridò il figlio tanto blandamente che non avrebbe certamente soddisfatto Rousseau, se il piccolo Edouard si fosse chiamato Emile.

«Vedi», disse in arabo il conte ad Alì, «questa signora prega suo figlio di ringraziarti per la vita che tu hai salvato a entrambi, e il ragazzo risponde che sei troppo brutto.»

Alì per un momento girò la testa intelligente, e osservò il fanciullo apparentemente senza espressione, ma un semplice tremito della sua narice fece capire a Montecristo ch’era rimasto ferito nell’anima.

«Signore», chiese la signora Villefort alzandosi per ritirarsi, «questa casa è la vostra abitazione stabile?»

«No, signora», rispose il conte, «è una specie di luogo di riposo, che ho acquistato: io abito all’entrata degli Champs-Elysées numero 30. Ma vedo che vi siete del tutto rimessa e che desiderate ritirarvi. Ho ordinato che siano attaccati alla mia carrozza quei medesimi cavalli; e Alì, quel servitore così brutto», diss’egli sorridendo al ragazzino, «avrà l’onore di condurvi a casa, mentre il vostro cocchiere resterà qui per far sistemare la vettura. Così appena terminata questa piccola faccenda, una delle mie pariglie la ricondurrà direttamente dalla signora Danglars.»

«Ma», disse la signora Villefort, «non avrò mai il coraggio di ritornare con gli stessi cavalli.»

«Vedrete, signora, che sotto la mano d’Alì diventeranno come agnelli.»

Alì si era già avvicinato ai cavalli, e a grande fatica era riuscito a farli tornare in piedi.

Egli teneva in mano una piccola spugna imbevuta d’aceto aromatico; strofinò le narici e le tempie dei cavalli, coperti di sudore e di schiuma, che quasi subito si misero a soffiare fortemente e a fremere per qualche secondo. Quindi, in mezzo a una folla numerosa richiamata dall’avvenimento e dalla rottura della carrozza davanti a casa, Alì fece attaccare i cavalli alla carrozza del conte, raccolse le redini, salì a cassetta, e con grande stupore di tutti gli astanti che avevano visto questi cavalli travolti come da un turbine, pur obbligato a usare vigorosamente la frusta per farli partire, non poté ottenere dai famosi grigio-pomellati, ora intontiti, pietrificati, insonnoliti, che un trotto così stanco e languido, che occorsero alla signora Villefort quasi due ore per giungere al Faubourg Saint-Honoré dove abitava.

Appena giunta a casa, e calmate le prime emozioni di famiglia, scrisse subito il seguente biglietto alla signora Danglars.

«Cara Hermine, sono stata miracolosamente salvata insieme a mio figlio da quello stesso conte di Montecristo di cui ieri sera mi avete tanto parlato, e che ero lungi dal credere che avrei visto oggi. Ieri mi parlaste di lui con un entusiasmo tale ch’io non potei far a meno di riderne, ma oggi ritrovo questo entusiasmo molto al di sotto dell’uomo che lo ispirava. I vostri cavalli avevano preso la mano a Ranelagh come fossero stati invasi dalla frenesia, e noi probabilmente saremmo a finire, Edouard e io, contro il primo albero della strada o il primo muro del villaggio, quando un arabo, un moro, un nubiano al servizio del conte, ha, dietro un suo cenno, immagino, fermato lo slancio dei cavalli col rischio di essere egli stesso ucciso, ed è proprio un miracolo che non lo sia stato. Allora il conte è accorso, e ci ha portati in casa sua, e ha fatto rinvenire mio figlio. Fui ricondotta a casa nella sua carrozza, domani vi sarà mandata la vostra.

«Ritroverete i vostri cavalli molto fiacchi dopo questo incidente; sono divenuti come ebeti, si direbbe che non possono perdonare a se stessi di essersi lasciati vincere da un uomo. Il conte mi ha incaricata di dirvi che due giorni di riposo sulla paglia e orzo per solo nutrimento, li rimetteranno nello stesso stato florido, vale a dire spaventoso, come lo erano ieri.

«Addio, non vi ringrazio della mia passeggiata. Tuttavia, quando vi rifletto, è un’ingratitudine conservarvi rancore per il capriccio della vostra pariglia, poiché a essa devo di aver visto il conte di Montecristo: e l’illustre forestiero mi sembra, prescindendo dai milioni di cui può disporre, un enigma così curioso e così importante, che conto di studiarlo da vicino, dovessi ancora rifare un’altra passeggiata al Bois coi vostri cavalli.

«Edouard ha sopportato l’avventura con un coraggio miracoloso. É svenuto, ma non ha gettato un grido prima, né versato una lacrima dopo. Direte ancora che il mio amore materno mi acceca, ma vi è un’anima di ferro in quel piccolo corpo così gracile e delicato.

«La nostra cara Valentine manda tanti saluti alla vostra cara Eugénie; io vi abbraccio di tutto cuore.

Héloïse Villefort

«Post-scriptum. Fatemi incontrare in casa vostra, in qualunque modo, col conte di Montecristo, voglio assolutamente rivederlo. Del resto ho ottenuto dal signor Villefort che gli faccia una visita; spero che gliela restituirà.»

In serata l’avventura d’Auteuil fu al centro di tutte le conversazioni: Albert la raccontava a sua madre, Château-Renaud al Jockey Club, Debray nella sala del ministro, Beauchamp fece al conte la cortesia di inserire nel suo giornale, sotto la rubrica dei «Fatti diversi», un trafiletto di venti righe, che introdusse il nobile straniero come un eroe presso tutte le dame dell’aristocrazia.

Molte persone andarono a farsi preannunciare dalla signora Villefort, per avere poi il diritto di rinnovare la loro visita in tempo utile, e di sentire dalla bocca di lei tutti i particolari di questa pittoresca avventura.

In quanto al signor Villefort, come aveva scritto Luigia, indossò un abito nero, guanti bianchi, e salì nella sua carrozza, che si fermò al numero 30 all’entrata degli Champs-Elysées.

47. Ideologia

Se il conte di Montecristo avesse vissuto da lungo tempo nella società parigina, avrebbe apprezzato in tutto il suo valore la gentilezza che gli faceva Villefort con la sua visita.

Ben visto a corte, sia che regnasse un re del ramo primogenito o del ramo cadetto, sia che governasse un ministro liberale o conservatore; reputato abile da tutti, come si reputano generalmente abili tutte le persone che non hanno mai avuto insuccessi politici; odiato da molti, ma caldamente protetto da certuni, senza però essere amato da alcuno, il signor Villefort aveva un alto posto nella magistratura, e si teneva a questa altezza come un Harlay, o come un Molé.

Il suo salone, rimodernato da una giovane sposa e da una figlia di primo letto dell’età di appena diciotto anni, non valeva ciò nonostante meno di quei salotti aristocratici di Parigi, in cui si conserva il culto delle tradizioni e la religione dell’etichetta.

La fredda cortesia, la fedeltà assoluta ai principi del governo, un disprezzo profondo delle teorie e dei teoretici, un odio grande alle ideologie, tali erano gli elementi della vita interna e pubblica professati dal signor Villefort.

Non era solamente un magistrato, era quasi un diplomatico. Le sue relazioni con la vecchia corte, di cui parlava sempre con dignità e rispetto, lo facevano rispettare dalla nuova; sapeva tante cose, e non solo era sempre lodato, ma spesso anche consultato; e tuttavia in molti sarebbero stati lieti, se avessero potuto sbarazzarsi del signor Villefort. Ma abitava, come i signori feudatari ribelli al loro sovrano, in una fortezza inespugnabile. Questa fortezza era la sua carica di procuratore del re, di cui si avvaleva scrupolosamente a proprio vantaggio e che avrebbe lasciato soltanto per cambiare la neutralità in opposizione.

In generale faceva o rendeva raramente visite, sua moglie le faceva al posto suo, cosa accettata in questa società, ove si teneva conto delle gravi e numerose occupazioni del magistrato. Ma ciò in realtà non era che un calcolo d’orgoglio, una accortezza d’aristocratico, l’applicazione di quest’assioma: fai mostra di stimarti e sarai stimato, assioma mille volte più utile nella nostra società di quello dei greci: «conosci te stesso», sostituito ai nostri giorni dall’arte meno difficile e più vantaggiosa del «conoscete gli altri». Per i suoi amici Villefort era un protettore potente; per i suoi nemici un avversario subdolo ma accanito, per gli indifferenti la statua della legge fatta uomo: aspetto altero, fisionomia impassibile, sguardo cupo e appannato o insolentemente penetrante e scrutatore. Tale era l’uomo a cui quattro avvenimenti, abilmente intrecciati l’uno all’altro, avevano dapprima costruito, poi cementato il piedistallo.

Il signor Villefort aveva la reputazione di essere l’uomo meno curioso, meno allegro di Francia.

Dava un ballo tutti gli anni, ma non vi compariva che per un quarto d’ora; non si vedeva mai né a teatro, né ai concerti; qualche volta, ma raramente, faceva una partita di whist, ma allora aveva cura di scegliere giocatori degni di lui, qualche ambasciatore, qualche primo presidente o infine qualche duchessa primogenita.

Ecco qual era l’uomo la cui carrozza si era fermata davanti alla porta del conte di Montecristo.

Il cameriere annunciò il signor Villefort, al momento in cui il conte, chino sopra una gran tavola, seguiva su una carta geografica un itinerario da Pietroburgo alla Cina.

Il procuratore del re entrò con quello stesso passo grave e misurato con cui era solito andare in tribunale; era lo stesso uomo che noi abbiamo conosciuto a Marsiglia. La natura, conforme ai suoi principi, nulla aveva cambiato in costui nel corso degli anni. Da snello era divenuto magro, da pallido, giallo, gli occhi infossati erano cavi, gli occhiali cerchiati d’oro, appoggiati sull’orbita, sembravano far parte del viso; eccettuata la cravatta bianca, tutto il suo vestito era completamente nero; e questo colore funebre non era interrotto che dalla striscia della fettuccia rossa che gli pendeva impercettibilmente dall’occhiello del suo abito, e che sembrava una linea di sangue tirata col pennello.

Per quanto Montecristo fosse padrone di sé, esaminò con una visibile curiosità, rendendogli il saluto, il magistrato che, diffidente per abitudine, e piuttosto incredulo soprattutto nelle materie sociali, era più disposto a vedere nel nobile straniero, chiamato Montecristo, un cavaliere d’industria che cercasse nuove zone d’espansione, o un malfattore in esilio perché ricercato al suo Paese, piuttosto che un principe dello Stato romano, o un sultano delle Mille e una notte.

«Signore», esordì Villefort, con quel tono lamentevole che assumono i magistrati nelle loro perorazioni, e di cui non vogliono o non possono disfarsi nella conversazione, «signore, il prezioso servizio che ieri avete reso a mia moglie e a mio figlio mi fanno obbligo di ringraziarvi. Vengo dunque a compiere questo dovere, e a esprimervi tutta la mia riconoscenza.»

E nel pronunciare queste parole, l’occhio severo del magistrato nulla aveva perduto della sua abituale arroganza.

«Signore», disse il conte a sua volta con gelida freddezza, «sono molto fortunato di aver potuto conservare un figlio a sua madre, perché si dice che il sentimento di maternità sia il più possente e il più santo di tutti, e questa fortuna che mi sono procurata vi dispensava, signore, dal compiere un dovere di cui certamente mi onoro, poiché so che il signor Villefort non concede facilmente il suo favore, ma che, per quanto prezioso, non vale per me l’interna soddisfazione.»

Villefort, stupito da questa uscita, che non si aspettava, fremette come un soldato che avverte il colpo malgrado l’armatura che lo protegge: una piega sdegnosa del labbro indicò che non riteneva il conte di Montecristo un gentiluomo ben educato.

Gettò un’occhiata intorno a sé, come per riattaccare con un pretesto la conversazione che era già caduta e che sembrava essersi infranta cadendo. Vide la carta su cui era assorto Montecristo quando era entrato e riprese: «Vi occupate di geografia, signore? Questo è un prezioso studio, per voi particolarmente, che, a quanto si assicura, avete già visti tanti Paesi quanti ne sono incisi su quella carta».

«Sì, signore», rispose il conte, «io ho voluto fare sulla specie umana colta nella vita abituale, ciò che voi fate ogni giorno sulle individualità eccezionali, vale a dire uno studio fisiologico. Ho pensato che mi sarebbe più facile discendere dal tutto al particolare, che dal particolare salire al tutto. È un assioma algebrico che vuole che si proceda dal noto all’ignoto… Ma sedetevi dunque, ve ne prego…»

E Montecristo indicò con la mano al procuratore del re una sedia, che questi dovette prendersi da solo, mentre il conte non ebbe che la briga di lasciarsi ricadere sulla stessa su cui era inginocchiato quando il procuratore era entrato. In questo modo il conte si ritrovò per metà voltato verso il suo visitatore, avendo le spalle alla finestra e il gomito appoggiato sulla carta geografica, che per il momento formava il soggetto della conversazione. E il dialogo prendeva, come era accaduto da Morcerf e da Danglars, una piega del tutto analoga, se non alla situazione, almeno al personaggio.

«Ah, voi filosofate», riprese Villefort, dopo un momento di silenzio durante il quale, come un atleta che incontra un forte avversario, aveva raccolto le sue forze. «Ebbene, signore, parola d’onore, se come voi non avessi nulla da fare, cercherei un’occupazione meno triste.»

«È vero, signore», rispose Montecristo, «e l’uomo è un laido verme, se si osserva con il microscopio; ma voi avete detto che io non ho niente da fare… Vediamo, credereste per caso di aver voi qualche cosa da fare? O, per parlare più chiaramente, credete che ciò che fate possa chiamarsi qualche cosa?»

Lo stupore di Villefort raddoppiò a questo secondo colpo, così brutalmente vibrato dal suo strano avversario; era da molto tempo che il magistrato non si era sentito rivolgere un paradosso di questa forza, o piuttosto, per parlare più rettamente, era la prima volta che lo sentiva.

Il procuratore del re si mise a riflettere per rispondere.

«Signore», disse, «voi siete straniero, e lo dite voi stesso, ma io reputo che, avendo trascorsa gran parte della vostra vita nei Paesi orientali, dove la giustizia umana è piuttosto spiccia, non vi rendiate conto come mai abbia preso un andamento prudente e moderato.»

«Già, è il piede zoppo degli antichi. So tutto questo, perché è particolarmente della giustizia di tutti i Paesi che mi sono occupato, è la procedura giudiziaria di tutte le nazioni che ho paragonato con la giustizia naturale; e debbo dirlo, signore, è ancora la legge dei popoli primitivi, la legge del taglione che ho trovato più conforme al bisogno e la più esaustiva.»

«Se questa legge fosse adottata semplificherebbe molto i nostri codici, e allora per il colpo che ne riceverebbero, i nostri magistrati, come dicevate or ora, non avrebbero più gran cosa da fare.»

«Ciò accadrà forse nell’avvenire», disse Montecristo. «Sapete che le invenzioni umane progrediscono dal composto al semplice, e che il semplice è sempre la perfezione.»

«Mentre si aspetta questo avvenire però», disse il magistrato, «vi sono i nostri codici con i loro articoli contraddittori ricavati dai costumi gallici, dalle leggi romane, e dagli usi franchi… Ora la conoscenza di tutte queste leggi, ne converrete, non si acquista che con lunghi lavori e serve certo un lungo studio per acquisire tale conoscenza, e una gran forza di memoria perché non si dimentichi più una volta acquisita.»

«Io sono del vostro parere, signore; ma tutto ciò che sapete riguardo a questo codice francese, lo so anch’io, ma non solamente riguardo a questo codice, ma a quello di tutte le nazioni: le leggi indiane, turche, giapponesi mi sono tanto familiari quanto le leggi francesi. Avevo dunque ragione di dire che relativamente (perché tutto è relativo) a tutto ciò che ho fatto io, voi avete fatto ben poco, e che relativamente a quanto ho imparato io, voi avete molto da imparare.»

«Ma con quale scopo voi avete appreso tutto ciò?» domandò Villefort meravigliato.

Montecristo sorrise.

«Bene, signore», disse, «vedo che malgrado la fama per la quale vi si ritiene un uomo superiore, voi vedete ogni cosa sotto il punto di vista più ristretto, più circoscritto che sia stato permesso all’umana intelligenza di abbracciare.»

«Spiegatevi», lo esortò Villefort, sempre più costernato, «non vi capisco.»

«Dico, signore, che con gli occhi fissi sull’organizzazione sociale delle nazioni, voi non vedete che gli ingranaggi della macchina, e non conoscete davanti a voi, e intorno a voi, che i titolari dei posti, i cui diplomi sono stati firmati dal ministro o dal re, e che gli uomini che Dio ha messo al di sopra dei titolari, dei ministri e del re, dando loro una missione da compiere e non un posto da occupare, sfuggono alla vostra corta vista. Ciò è proprio dell’umana debolezza, e degli organi deboli e imperfetti. Tobia prendeva l’angelo che doveva rendergli la vista per un giovane comune, le nazioni prendevano Attila, che doveva annientarle, per un conquistatore come tutti gli altri: fu necessario che entrambi svelassero la loro missione celeste perché gli uomini comprendessero. Bisognò che uno dicesse: “Io sono l’angelo del Signore!” e l’altro: “Io sono il flagello di Dio!” perché la missione divina fosse rilevata.»

«Allora», disse Villefort con stupore sempre crescente, e credendo di parlare a un pazzo o a un ispirato, «voi vi considerate come uno di questi esseri straordinari che avete nominati?»

«E perché no?» ribatté freddamente Montecristo.

«Perdonatemi, signore», riprese Villefort sbalordito, «ma mi scuserete se, presentandomi a voi, non sapevo di presentarmi a un uomo il cui sapere e il cui spirito sorpassano di tanto il sapere e lo spirito ordinario e abituale degli uomini. Non è usanza, fra noi infelici, corrotti dall’incivilimento, che i gentiluomini possessori come voi di un’immensa fortuna, almeno a ciò che mi si assicura, notate bene che io non interrogo, ma ripeto soltanto ciò che ho inteso, non è usanza fra noi, dicevo, che questi privilegiati perdano il loro tempo in speculazioni sociali, in astrazioni filosofiche, fatte tutt’al più per consolare quelli che la sorte ha diseredato dei beni della terra.»

«Eh, signore», continuò il conte, «siete dunque giunto al posto eminente che occupate senza aver mai fatto o incontrato qualche eccezione? E non esercitate mai il vostro sguardo, che pure avrebbe bisogno di molta finezza e sicurezza, a indovinare in un sol colpo chi è caduto sotto questo sguardo? Un magistrato non dovrebbe essere, non dico il migliore applicatore della legge, non il più astuto interprete delle oscurità della cabala, ma uno specchio d’acciaio per provare i cuori, una pietra di paragone per scandagliare l’oro che in ciascun animo si trova sempre misto a qualche altra lega.»

«Signore», disse Villefort, «voi mi confondete; non ho mai sentito parlare come voi.»

«È che siete sempre rimasto chiuso nel cerchio delle convenzioni abituali, perché non avete mai osato innalzarvi con un batter d’ali nelle sfere superiori che sono popolate d’esseri invisibili ed eccezionali.»

«Ammettete dunque, signore, che vi siano queste sfere, e che gli esseri eccezionali e invisibili si mischino a noi?»

«E perché no? Vedete voi forse l’aria che respirate, e senza la quale non potreste vivere?»

«Allora non vediamo questi esseri di cui parlate?»

«Voi li potete vedere ogni qualvolta che questi esseri si materializzano, voi li toccate allora, li urtate, parlate loro, essi vi rispondono.»

«Vi confesso», disse Villefort sorridendo, «che vorrei essere avvertito quando uno di questi esseri si metterà in contatto con me.»

«Voi siete stato servito a seconda del vostro desiderio, signore, poiché poco fa siete stato avvisato, e vi avverto anche adesso.»

«Così, voi stesso…»

«Io sono uno di questi esseri eccezionali, sì, signore, io lo credo, sino a oggi nessun uomo si è trovato in una posizione simile alla mia. I regni dei re sono circoscritti, sia dalle montagne, sia dai fiumi, sia da un cambiamento di costumi o di lingua. Il mio regno è grande come il mondo perché non sono né italiano, né francese, né indiano, né americano, né spagnolo: io sono cosmopolita. Nessuno può dire di avermi visto nascere; Dio solo sa quale terra mi vedrà morire. Io adotto tutti i costumi, parlo tutte le lingue; voi mi credete francese perché parlo il francese con la stessa facilità e purezza di voi? Ebbene Alì, il mio moro, mi crede arabo; Bertuccio, il mio intendente, mi crede romano; Haydée, la mia schiava, mi crede greco. Dunque capirete che non essendo di alcun Paese, non domandando protezione, non riconoscendo alcun uomo per mio fratello, non un solo scrupolo che arresta i potenti, non un solo ostacolo, che paralizza i deboli, può arrestarmi, e paralizzarmi. Non ho che due avversari, non dico due vincitori perché li sottometto con la tenacia: la distanza e il tempo. Il terzo, ed è il più terribile, sta nella mia condizione di mortale. Ciò solo può fermarmi nella strada che percorro e prima che abbia conseguito lo scopo a cui miro, tutto il resto l’ho calcolato. Ciò che gli uomini chiamano capricci della fortuna, vale a dire la rovina, i cambiamenti, le eventualità, li ho previsti tutti, e se qualcuno può colpirmi, nessuno può rovesciarmi. A meno che non muoia, sarò sempre ciò che sono. Ecco perché vi dico cose che voi non avete mai inteso, neppure dalla bocca dei re, perché i re hanno bisogno di voi, e gli altri uomini hanno paura di voi. Chi è colui che non supponga, in una società ben ordinata quanto la nostra: “Forse un giorno posso avere a che fare con il procuratore del re?”»

«Ma voi stesso potete dir questo, perché, dal momento che abitate la Francia, siete naturalmente sottoposto alle leggi francesi.»

«Lo so, signore», rispose Montecristo, «ma quando devo andare in un Paese, comincio con lo studiare, con mezzi miei propri, tutti gli uomini dai quali posso avere qualche cosa da sperare o da temere, e giungo a conoscerli molto bene, forse meglio ancora di quello che non si conoscano loro stessi. Ciò porta a un risultato: che il procuratore del re, qualunque fosse, con cui avessi a che fare, sarebbe certamente più impacciato di me.»

«Ciò vuol dire», riprese con cautela Villefort, «che la natura umana è debole, e ogni uomo, secondo voi, ha commesso qualche… sbaglio.»

«Sbaglio o delitto…» rispose Montecristo noncurante.

«E che voi solo, fra gli uomini, che non riconoscete come fratelli, come avete detto voi stesso», continuò Villefort con voce leggermente alterata. «Voi solo siete perfetto.»

«Non perfetto», precisò il conte, «impenetrabile; ecco tutto. Ma lasciamo questo argomento, signore, se la conversazione vi dispiace… Tanto più se vi sentite più minacciato dalla mia profonda vista di quanto io lo sia dalla vostra giustizia.»

«No signore!» esclamò vivamente Villefort, che senza dubbio non voleva apparire sconfitto. «No! Con la vostra brillante e quasi sublime conversazione mi avete innalzato al di sopra dei livelli ordinari; noi non parliamo, dissertiamo. Voi sapete come i professori in cattedra, e i filosofi nelle loro dispute, dicano qualche volta delle crudeli verità. Fingiamo dunque di fare una disputa sociale o filosofica, vi dirò, dunque, per quanto vi sembri duro: “Caro fratello, voi vi sacrificate all’orgoglio; voi siete al di sopra degli altri, ma al di sopra di voi sta Dio!”»

«Al di sopra di tutti, signore!» rispose Montecristo con accento così profondo che Villefort ne fremette involontariamente. «Ho il mio orgoglio per gli uomini: serpenti sempre pronti a drizzarsi contro colui che li sorpassa, senza schiacciarli con il piede: ma lo depongono davanti a Dio, che mi ha tolto dal niente per farmi quel che sono.»

«Allora, signor conte, vi ammiro», disse Villefort, che per la prima volta, in questo strano dialogo, impiegava questa formula aristocratica con lo straniero, che fino allora aveva chiamato soltanto signore. «Sì, ve lo dico, se siete realmente forte, superiore, sano e impenetrabile, siatene orgoglioso, questa è la legge dei domatori.

Ma voi pertanto avrete qualche ambizione?»

«Ne ho avuta una, signore.»

«E quale?»

«Ho desiderato di essere fatto strumento della Provvidenza.»

Villefort guardò Montecristo con grande meraviglia.

«Signor conte», disse, «non avete parenti?»

«No, signore, sono solo al mondo.»

«Tanto peggio!»

«Perché?» domandò Montecristo.

«Perché avreste potuto assistere a spettacoli capaci di infrangere il vostro orgoglio. Non temete che la morte, diceste?»

«Non dico di temerla; dico ch’essa sola può arrestarmi.»

«E la vecchiaia?»

«La mia missione sarà compiuta prima che sia vecchio.»

«E la pazzia?»

«Poco è mancato che diventassi pazzo, e voi conoscete l’assioma: “Non due volte nella stessa situazione”, “Non bis in idem”: è un assioma giudiziario, e perciò di vostra competenza.»

«Signore, vi è ancora un’altra cosa da temere oltre la morte, la vecchiaia, o la pazzia; vi è, per esempio, l’apoplessia, questo colpo di fulmine che vi colpisce senza distruggervi, ma dopo il quale però tutto è finito; siete sempre voi, e ciò nonostante non siete più voi. Venite, se vi piace continuare questa conversazione, venite in casa mia, signor conte, un giorno che abbiate voglia di scontrarvi con un avversario capace di comprendervi e avido di confutarvi e vi presenterò mio padre, il signor Noirtier di Villefort, un uomo che forse non aveva visto tutti i regni della terra come voi, ma aveva aiutato a rovesciarne uno dei più forti; un uomo che come voi si credeva inviato da Dio, dall’Essere supremo, dalla Provvidenza. Ebbene, signore, la rottura di un vaso sanguigno in un lobo del cervello ha rovinato tutto questo; non in un giorno, non in un’ora, ma in un secondo. Il giorno prima il signor Noirtier disprezzava tutto, il giorno dopo era quel povero Noirtier vecchio immobilizzato, abbandonato alla volontà dell’essere più debole della casa, vale a dire sua nipote Valentine: infine cadavere muto e freddo, che vive senza gioie, e spero, senza soffrire.»

«Ahimè, signore, questo spettacolo non è nuovo né ai miei occhi, né al mio pensiero», disse Montecristo. «Sono un po’ medico, e qui rammenterò che la Provvidenza si palesa nei fatti che ci cadono sotto gli occhi, e non potete negarlo. Cento autori, dopo Socrate, dopo Seneca, hanno fatto in prosa e in versi l’accostamento che avete fatto voi… Tuttavia capisco che le sofferenze di un padre possono operare, nello spirito di un figlio, grandi mutamenti. Verrò signore, poiché lo desiderate, verrò a contemplare, a vantaggio della mia umiltà, questo triste spettacolo, che deve molto rattristare la vostra casa.»

«Questo certamente sarebbe, se il cielo non mi avesse dato un largo compenso. Al vecchio che discende nella tomba seguono due figli che entrano nella vita: Valentine, figlia della prima moglie Renée de Saint-Méran, ed Edouard, quel bambino di cui voi avete salvata la vita.»

«E che concludete da questo confronto, signore?»

«Concludo», rispose Villefort, «che mio padre, travolto dalle passioni ha commesso qualcuno di quegli errori che sfuggono all’umana giustizia ma che attirano la giustizia di Dio, che non volendo punire che uno solo non ha colpito che lui.»

Montecristo, con il sorriso sulle labbra, emise dal profondo del cuore un ruggito, che avrebbe fatto fuggire Villefort, se lo avesse inteso.

«Addio, signore», riprese il magistrato che si era alzato da un po’ e parlava in piedi, «me ne vado portando una memoria di voi piena di stima e che, spero, vi potrà essere più gradita quando mi conoscerete meglio poiché non sono un uomo leggero quanto può credersi. D’altra parte vi siete fatto della signora Villefort un’amica eterna.»

Il conte salutò, si contentò di accompagnare Villefort soltanto fino alla porta del salotto; questi raggiunse la carrozza preceduto da due domestici che, a un segno del loro padrone, si affrettarono ad aprirgli lo sportello.

Poi, quando il procuratore del re fu partito: «Andiamo», disse Montecristo mandando a stento un sospiro dal petto oppresso, «andiamo, ne abbiamo preso abbastanza di questo veleno, ora che il cuore ne è pieno, andiamo a cercare l’antidoto!»

E batté un colpo sul campanello.

«Salgo dalla signora», disse ad Alì. «Che fra mezz’ora la carrozza sia pronta.»

48. Haydée

Ricorderanno i nostri lettori quali erano le recenti, o meglio le vecchie conoscenze del conte di Montecristo, che abitavano in rue Meslay: Maximilien, Julie, ed Emmanuel.

La speranza della visita che voleva fare, pochi momenti che avrebbe passato in questa luce di paradiso filtrante nell’inferno in cui si era volontariamente posto, aveva rasserenato il conte, poiché Villefort era partito: ragion per cui Alì, accorso al noto suono, vedendo sul suo viso tanta insolita gioia, si ritirò trattenendo il respiro per non turbare i buoni pensieri che credeva intuire nella mente del padrone.

A mezzogiorno, il conte si era riservata un’ora per salire da Haydée: si sarebbe detto che la gioia non poteva entrare di colpo in quell’anima per tanto tempo rattristata e che aveva bisogno di prepararsi alle dolci emozioni, come le altre anime hanno bisogno di prepararsi a quelle violente.

La giovane greca era, come si è detto, in un appartamento interamente separato da quello del conte, tutto ammobiliato secondo l’uso orientale: i pavimenti coperti di fitti tappeti turchi, stoffe di broccato lungo i muri, e in ciascuna camera un largo divano con pile di cuscini spostabili a piacimento. Haydée aveva tre domestiche francesi, e una greca. Le tre francesi stavano nella prima stanza, pronte ad accorrere al suono di un piccolo campanello d’oro e a obbedire agli ordini della schiava greca, la quale sapeva abbastanza francese per trasmettere i voleri della sua padrona alle tre cameriere, cui Montecristo aveva raccomandato di avere per Haydée i riguardi che si sarebbero potuti avere per una regina. Lei era nella stanza più lontana del suo appartamento, in una specie di salotto rotondo, che prendeva lume soltanto dall’alto, con la luce che passava per cristalli colorati di rosa: seduta per terra sopra cuscini di seta turchina ricamata d’argento, si reggeva la testa con il braccio destro languidamente piegato, mentre con il sinistro si portava alle labbra il bocchino di corallo, al quale era attaccata la canna flessibile di un narghilè, che non lasciava giungere alla bocca il vapore, se non dopo essere stato profumato dall’acqua di benzuino.

Tale sua posa, naturale in una donna orientale, sarebbe stata per una francese di una civetteria un po’ affettata.

Il costume era quello delle donne dell’Epiro: calzoni di seta bianca ricamati a fiori di rose, che lasciavano scoperti due piedi da fanciulla che si sarebbero creduti di marmo di Paros, se non si fossero visti agitare due piccoli sandali con la punta ricurva, orlati d’oro e perle: una veste a lunghe righe turchine e bianche, con larghe maniche aperte con ricami d’argento, e bottoni di perle; infine una specie di corsetto che lasciava intravedere dall’apertura a cuore il collo e l’alto del petto, e che si allacciava sotto il seno con tre bottoni di diamanti. Quanto alla parte inferiore del corsetto, e superiore dei calzoni, essa era nascosta da una di quelle cinture a vivi colori e a larghe frange che oggi rappresentano l’ambizione delle nostre eleganti parigine. La testa, inclinata di lato, era acconciata con una piccola cuffia, sotto la quale una bella rosa naturale color porpora spiccava intrecciata ai capelli così neri, che sembravano d’ebano. La bellezza del viso era da beltà greca in tutta la sua purezza, con i grandi occhi neri vellutati, la fronte marmorea, il naso diritto, le labbra di corallo, e i denti di perla. E in questa graziosa donna il fiore della gioventù appariva in tutto il suo splendore e profumo. Haydée poteva avere diciannove o venti anni.

Montecristo chiamò la sua schiava greca e fece domandare ad Haydée il permesso di entrare. Come unica risposta Haydée fece segno alla schiava di scostare la tenda, e nel vano della porta si vide lei, la giovanetta come dipinta in un quadro. Montecristo avanzò. Lei si sollevò sul gomito del braccio con cui teneva il narghilè, e stendendo al conte la mano lo accolse con un sorriso.

«Perché», iniziò nella lingua sonora delle figlie di Sparta e d’Atene, «perché mi fai chiedere il permesso per entrare da me? Non sei tu il mio padrone? Non sono io la tua schiava?»

Montecristo sorrise a sua volta.

«Haydée», disse, «non sapete?…»

«Perché non dai del tu come sempre?» lo interruppe la giovane greca. «Ho dunque commesso qualche mancanza? In questo caso bisogna punirmi, ma non darmi del voi.»

«Haydée», disse il conte, «tu sai che siamo in Francia, e che quindi sei libera.»

«Libera di fare che?» domandò la giovane.

«Libera di lasciarmi.»

«Lasciarti!… E perché dovrei farlo?»

«Che so io?… Vedremo gente…»

«Non voglio vedere nessuno.»

«E se in mezzo ai bei giovani che incontrerai, qualcuno ti piacesse, io non sarò tanto ingiusto…»

«Non vidi mai uomo più bello di te, e non amai che mio padre e te.»

«Povera fanciulla», disse Montecristo. «È perché non hai mai parlato che con tuo padre e con me.»

«Ebbene, che bisogno ho io di parlare con altri? Mio padre mi chiamava “sua gioia”, tu mi chiami “tuo amore”, e tutti e due mi chiamate “vostra figlia”.»

«Ti ricordi di tuo padre, Haydée?»

«Egli è qui, e qui», disse lei, mettendo la mano sul cuore e sugli occhi.

«E io dove sono?» domandò sorridendo Montecristo.

«Tu?» fece lei. «Tu sei dappertutto.»

Montecristo prese la bella mano di Haydée per baciarla, ma l’ingenua fanciulla la ritirò e gli porse la fronte.

«Ora Haydée, tu sai che sei libera, padrona, regina, puoi conservare il tuo costume, o lasciarlo a tuo piacimento; resterai qui quanto vuoi restarvi, uscirai quando vorrai; vi sarà sempre una carrozza pronta per te; Alì e Myrtho t’accompagneranno ovunque, e saranno ai tuoi ordini. Soltanto di una cosa ti prego…»

«Parla.»

«Conserva il segreto della tua nascita, non dire una parola del tuo passato, non pronunciare in alcuna occasione il nome del tuo illustre padre, né quello della tua povera madre.»

«Te l’ho già detto, non voglio vedere nessuno.»

«Ascolta Haydée, questa reclusione del tutto orientale forse sarà impossibile a Parigi. Continua a conoscere il genere di vita dei nostri Paesi del Nord, come hai fatto a Roma, a Firenze, a Milano e a Madrid; ciò ti gioverà tanto se continui a vivere qui, quanto se ritorni in Oriente.»

La giovane volse al conte i suoi occhi pieni di lacrime, e rispose: «Ritorniamo forse in Oriente, hai voluto dire, vero, mio signore?»

«Sì, figlia mia», disse Montecristo, «tu sai bene che non sarò mai io quello che ti abbandonerà. Non è l’albero che si disgiunge dal fiore; è il fiore che si distacca dall’albero.»

«Io non ti lascerò mai, signore, perché sono sicura che non potrei vivere senza di te.»

«Povera fanciulla, fra dieci anni io sarò vecchio, e fra dieci anni tu sarai ancora giovane.»

«Mio padre aveva una lunga barba bianca, e ciò non mi vietava d’amarlo: mio padre aveva sessant’anni, e mi sembrava più bello di tutti i giovani ch’io vedevo.»

«Orsù, credi che ti abituerai, qui?»

«Ti vedrò?»

«Tutti i giorni.»

«Ebbene, perché queste domande, signore?»

«Temo che tu ti annoi.»

«No, signore, perché la mattina penserò che tu verrai, e la sera mi ricorderò che tu sei stato da me; del resto, quando sono sola ho grandi ricordi, rivedo immensi quadri; mi si presentano grandi orizzonti con il Pindo e con l’Olimpo in lontananza. Poi ho nel cuore tre sentimenti con i quali uno non si annoia mai: la malinconia, l’amore e la riconoscenza.»

«Sei una degna figlia dell’Epiro, Haydée, graziosa e poetica, si capisce che discendi da quella famiglia di dee che nacque nel tuo Paese. Sii dunque tranquilla, figlia mia, farò in modo che la tua gioventù non sia del tutto perduta; perché se tu mi ami come tuo padre, io ti amo come mia figlia.»

«T’inganni, signore, io non amavo mio padre come amo te; il mio amore per te è diverso: mio padre morì e io non sono morta, mentre se tu morissi io pure morirei.»

Il conte tese la mano alla giovane con un sorriso pieno di tenerezza: lei v’impresse le labbra, com’era abituata.

Così disposto per la visita che voleva fare a Morrel e alla sua famiglia, il conte partì mormorando questi versi di Pindaro: «Gioventù è fior di cui l’amore è frutto; felice il vendemmiatore che lo coglie dopo averlo visto lentamente maturare».

Secondo i suoi ordini, la carrozza era pronta, vi salì, e questa come sempre partì al galoppo.

49. La famiglia Morrel

Nel giro di pochi minuti la carrozza arrivò in rue Meslay al numero 7. La casa era bianca, luminosa, preceduta da un cortile con due aiuole e dei bellissimi fiori. Nel portinaio che gli aprì la porta, il conte riconobbe il vecchio Coclite, ma come ognuno ricorderà, questi aveva un occhio solo, e in nove anni quest’occhio si era alquanto indebolito. Coclite non riconobbe il conte.

Per fermarsi davanti all’entrata, la carrozza doveva voltare al fine di evitare un piccolo getto d’acqua che cadeva in una vasca di pietra: lusso che aveva eccitato la gelosia del quartiere, e per cui la casa veniva chiamata la Piccola Versailles. Inutile dire che nella vasca guizzavano una quantità di pesci gialli e rossi.

La casa, costruita sopra le cucine e le cantine, aveva, oltre il piano terreno, due piani e le soffitte. I giovani l’avevano acquistata con le dépendances che consistevano in un laboratorio, due padiglioni in fondo al giardino, e il giardino stesso.

Emmanuel aveva visto, a colpo d’occhio, che dietro questa disposizione dei locali si poteva fare una piccola speculazione: si era riservato la casa e metà del giardino, e aveva alzato un muretto fra la metà del giardino e il laboratorio, che aveva dato in affitto con i padiglioni e l’altra porzione di giardino. Di modo che si trovava alloggiato per una somma molto modica, e tanto ben appartato quanto il più scrupoloso proprietario di una casa del Faubourg Saint-Germain.

La sala da pranzo era in quercia, il salotto in mogano e velluto turchino, la camera da letto fatta di cedro e damasco verde: vi era inoltre un locale-studio per Emmanuel che nulla studiava, e un salotto da musica per Julie che non era musicista. Tutto il secondo piano era riservato a Maximilien, una ripetizione esatta dell’appartamento della sorella, meno la sala da pranzo, convertita in sala da bigliardo, ove conduceva i suoi amici.

Accudiva il suo cavallo fumando il sigaro all’ingresso del giardino quando la carrozza del conte si fermò alla porta. Coclite aprì la porta, come abbiamo detto, e Battistino smontò da cassetta, chiedendo se il signore e la signora Herbault e il signor Maximilien Morrel potevano ricevere il conte di Montecristo.

«Il conte di Montecristo!?» gridò Morrel gettando il sigaro, e lanciandosi verso il visitatore. «Certo che possiamo riceverlo. Grazie, cento volte grazie, signor conte, di non aver dimenticato la vostra promessa.»

Il giovane ufficiale strinse così cordialmente la mano del conte, che questi non poté ingannarsi sulla franchezza del gesto, vide bene ch’era atteso con impazienza e ricevuto con premura.

«Venite», disse Maximilien, «voglio presentarvi io stesso; un uomo come voi non deve essere annunciato da un servitore… Mia sorella è in giardino a potare le rose appassite. Mio cognato legge i suoi giornali preferiti la “Presse” e il “Débats”, vicino a lei: ovunque si trovi la signora Herbault, c’è anche Emmanuel, e viceversa.»

Il rumore dei passi fece alzare la testa a una giovane donna di venti, ventitré anni, abbigliata con una veste da camera di seta, intenta a ripulire un magnifico rosaio. Questa donna era la nostra piccola Julie, divenuta, come era stato predetto dal rappresentante della casa Thomson e French, la moglie di Emmanuel Herbault. Vedendo uno straniero lanciò un piccolo grido. Maximilien si mise a ridere.

«Non ti disturbare, sorella mia», disse. «Il signor conte è a Parigi da soli due o tre giorni, ma sa già che cos’è una borghese del Marais, e se non lo sa, tu glielo insegnerai.»

«Ah signore, presentarvi così…» disse Julie. «È un tradimento di mio fratello che non ha per sua sorella la più piccola attenzione… Penelon!… Penelon!…»

Un vecchio che zappava intorno a un rosaio bianco del Bengala, piantò la zappa in terra e si avvicinò, con il berretto in mano, dissimulando meglio che poteva il tabacco che stava masticando. Qualche capello bianco inargentava la sua fitta capigliatura scura e l’occhio ardito e vivo rivelava un vecchio marinaio abbronzato dal sole dell’equatore e disseccato al soffio delle tempeste.

«Mi avete chiamato, signorina Julie?»

Penelon aveva conservato l’abitudine di chiamare la figlia del suo padrone signorina Julie, e non aveva mai potuto chiamarla signora Herbault.

«Penelon», lo pregò Julie, «andate ad avvertire Emmanuel della bella visita, mentre Maximilien condurrà il signore in salotto.» Poi volgendosi a Montecristo: «Il signore mi permetterà di allontanarmi per un minuto, non è vero?» E senza aspettare il consenso del conte, sparì dietro un gruppo d’alberi e rientrò in casa per un viale laterale.

«Mio caro Morrel», esordì Montecristo, «m’accorgo con dispiacere che porto un grande scompiglio nella vostra famiglia.»

«Guardate, guardate», disse Maximilien ridendo, «vedete laggiù il marito che, da parte sua, va a cambiarsi la veste da camera… È perché ormai tutti vi ammirano nella rue Meslay, tanto si è parlato di voi, vi prego di crederlo…»

«Mi sembra che abbiate una famiglia felice», disse il conte rispondendo a un suo pensiero.

«Oh sì, ve lo garantisco, signor conte… Che volete?… Nulla manca loro per essere felici, sono giovani, sono allegri, si amano, e, con le venticinquemila lire di rendita, pensano di possedere le ricchezze di Rothschild.»

«È poco però venticinquemila lire di rendita», commentò Montecristo con una dolcezza così soave che penetrò il cuore di Maximilien, come avrebbe potuto farlo la voce di un tenero padre. «Ma non si fermeranno lì, i nostri giovani, diverranno a loro volta milionari. Vostro cognato è avvocato… medico?»

«Era commerciante, signor conte, e aveva rilevato la ditta del mio povero padre. Il signor Morrel è morto lasciando cinquecentomila franchi: io ne presi una metà, e mia sorella l’altra, perché non eravamo che due figli. Suo marito, che l’aveva sposata senza avere altra ricchezza che la sua nobile onestà, la sua intelligenza di prim’ordine, e la sua reputazione senza macchia, ha voluto accumulare un patrimonio pari a quello della moglie. Egli lavorò finché non ebbe risparmiato duecentocinquantamila franchi: sei anni bastarono. Era, ve lo giuro, signor conte, un commovente spettacolo vedere questi due giovani laboriosi, uniti, destinati per la loro capacità alla più gran fortuna che, non avendo voluto alcun cambiamento nelle abitudini della casa paterna, hanno messo sei anni per accumulare ciò che degli spregiudicati avrebbero potuto fare in due o tre… Marsiglia parla ancora dei sacrifici di questi due ragazzi. Infine un giorno Emmanuel andò da sua moglie che finiva di pagare le scadenze.

“Julie”, le disse, “ecco l’ultimo buono di cento franchi riscosso da Coclite, e che completa i duecentocinquantamila franchi che abbiamo fissato come limite del nostro guadagno. Sarai soddisfatta di quel poco di cui d’ora innanzi bisognerà che ci contentiamo? Ascolta, la casa ogni anno fa affari per un milione, e può produrre un utile di quarantamila franchi: se vogliamo, possiamo vendere la clientela per trecentomila franchi, perché ecco qui una lettera del signor Delaunay che ce li offre in cambio dei nostri fondi, ch’egli vuole riunire ai suoi. Cosa vorresti fare?”

“Amico mio”, rispose mia sorella, “la ditta Morrel non può essere diretta che da un Morrel. Salvare per sempre il nome di nostro padre da un qualunque evento della sorte non vale più di trecentomila franchi?”

“Lo pensavo anch’io”, disse Emmanuel, “però ho voluto sentire il tuo parere.”

“Ebbene, amico mio, eccolo. Tutti i nostri incassi sono riscossi, tutti i nostri debiti pagati; possiamo tirare una riga sotto i conti di questa quindicina, e chiudere la ditta; facciamolo.”

Il che fu fatto subito. Erano le tre; alle tre e un quarto un cliente si presentò per fare assicurare il viaggio di due navi; era un guadagno di quindicimila franchi in contanti.

“Signore”, gli disse Emmanuel, “abbiate la bontà di rivolgervi per queste assicurazioni a qualcun altro dei nostri colleghi, per esempio al signor Delaunay; in quanto a noi abbiamo lasciato gli affari.”

“E da quanto tempo?” domandò il cliente meravigliato.

“Da un quarto d’ora.” Ecco, signore», continuò sorridendo Maximilien, «perché mia sorella e mio cognato non hanno che venticinquemila lire di rendita.»

Maximilien aveva appena concluso questo racconto durante il quale il cuore del conte si era sempre più commosso, allorché Emmanuel ricomparve vestito d’un altro abito e di un cappello. Egli salutò in modo da far capire che aspettava la sua visita, e quindi, dopo aver fatto fare al conte il giro del piccolo recinto fiorito, lo condusse verso casa. Il salotto era già profumato dai fiori contenuti in un immenso vaso giapponese. Julie, ben vestita ed elegantemente pettinata (aveva impiegato tutta la sua abilità in dieci minuti!), si presentò all’ingresso per ricevere il conte. Si sentivano cinguettare gli uccelli di una uccelliera, i cui rami di falso ebano e i rami di un’acacia rosea venivano con i loro grappoli di fiori a ornare le tende di velluto turchino. Tutto ispirava calma in questo grazioso piccolo ritiro, dal canto degli uccelli fino al sorriso dei padroni. Il conte, fin dal suo entrare nella casa, si era già impregnato di questa felicità; perciò restava muto e assorto, dimenticando di esser guardato in attesa che riprendesse la conversazione interrotta dopo i primi complimenti.

Egli s’accorse che il proprio silenzio diveniva quasi sconveniente, e si strappò con forza dai suoi ricordi.

«Signora», disse finalmente, «perdonate un’emozione che deve meravigliare voi, abituata a questa pace e a questa felicità, ma per me è cosa tanto nuova la soddisfazione sul viso umano, che non mi stanco di contemplare voi e vostro marito.»

«Siamo infatti molto felici, signore», replicò Julie, «ma abbiamo sofferto così a lungo, che ben poche persone hanno conquistato la loro felicità a un così caro prezzo.»

La curiosità si dipinse sui lineamenti del conte.

«Questa è un storia di famiglia, come vi diceva l’altro giorno Château-Renaud», riprese Maximilien. «Per voi, signor conte, assuefatto a vedere sventure illustri e splendide gioie, vi sarebbe poco d’interessante in questo quadro familiare. Tuttavia abbiamo, come diceva Julie, sofferto vivi dolori, sebbene circoscritti in questo piccolo quadro.»

«E Dio versò su voi, come versa su tutti, la consolazione nelle disgrazie?» domandò Montecristo.

«Sì, conte, possiamo dirlo, perché ha fatto per noi ciò che potrebbe fare per i suoi eletti; ci ha inviato uno dei suoi angeli.»

Le guance del conte divennero rosse, ed egli tossì per cercare di dissimulare la sua emozione, portando alla bocca il fazzoletto.

«Coloro che nacquero in una culla di porpora e che non hanno mai desiderato niente», disse Emmanuel, «non sanno cosa sia il bene della vita, come non conoscono il valore di un cielo puro e sereno coloro che non hanno mai messo la loro vita in balia di quattro assi gettate sopra un mare in tempesta.»

Montecristo si alzò, e senza dir nulla, perché al tremolio della sua voce avrebbero forse riconosciuta l’emozione da cui era scosso, si mise a passeggiare per il salotto.

«La nostra magnificenza vi farà sorridere…» riprese Maximilien, che seguiva con gli occhi Montecristo.

«No, no…» rispose Montecristo molto pallido, e comprimendosi con una mano i battiti del cuore, mentre con l’altra mostrava al giovane una campana di cristallo, sotto la quale si scorgeva una borsa di seta stesa sopra un cuscino di velluto nero, «domando soltanto a che serve questa borsa che da una parte mi sembra che contenga una carta, e dall’altra un bel diamante?»

Maximilien, assumendo un aria grave, rispose: «Questo, signor conte, è il più prezioso dei nostri tesori di famiglia.»

«Infatti questo diamante è molto bello…» replicò il conte.

«Mio fratello non parla del prezzo della pietra, sebbene sia stimata centomila franchi, vuole solamente dirvi che gli oggetti racchiusi in questa borsa sono le testimonianze di quell’angelo di cui vi parlammo or ora.»

«Ecco qualcosa che non comprendo, e ciò nonostante sento di non potervi chiedere spiegazioni, signora», replicò Montecristo inchinandosi. «Perdonatemi, non volevo essere indiscreto.»

«Indiscreto, dite? Al contrario ci rendete contenti, signor conte, offrendoci l’occasione di trattenerci su questo argomento! Se noi nascondessimo come un segreto la bella azione che ci ricorda questa borsa, non la terremmo così esposta alla vista di tutti. Vorremmo poterla divulgare in tutto l’universo, affinché un cenno del nostro sconosciuto benefattore ci svelasse la sua presenza.»

«Davvero?» fece Montecristo con voce soffocata.

«Signore», riprese Maximilien sollevando la campana di cristallo e baciando religiosamente la borsa di seta, «questa ha toccato la mano di un uomo che salvò mio padre dalla morte, dalla rovina e dall’infamia; di un uomo, grazie al quale noi, poveri ragazzi destinati alla miseria e alle lacrime, possiamo vedere oggi le persone gioire per la nostra felicità. Questa lettera», e Maximilien tolse un biglietto dalla borsa e lo mostrò al conte, «questa lettera fu scritta da lui un giorno in cui mio padre aveva presa una risoluzione disperata, e questo diamante fu dato in dote a mia sorella da questo generoso sconosciuto.»

Montecristo aprì la lettera e la lesse con un’indefinibile espressione di felicità; era il biglietto che i nostri lettori conoscono, diretto a Julia, e firmato Sinbad il marinaio.

«Sconosciuto, dite? L’uomo che vi ha reso questo favore vi è rimasto ignoto?»

«Sì signore, non abbiamo mai avuta la fortuna di stringergli la mano! Non fu però per nostra mancanza, per non aver chiesto a Dio questa grazia», continuò Maximilien, «ma in tutto questo affare furono così misteriose le circostanze che non le abbiamo ancora chiarite: il tutto fu guidato da una mano invisibile, potente come quella di un mago.»

«Non ho ancora perduto del tutto la speranza di potere un giorno giungere a baciare quella mano, come bacio questa borsa che fu da essa toccata», confessò Julie. «Sono quattro anni, Penelon era a Trieste… Penelon, signor conte, è quel bravo marinaio che avete visto con la zappa alla mano, e che da secondo mastro è diventato giardiniere. Penelon era dunque a Trieste, vide sulla banchina un inglese che stava per imbarcarsi su uno yacht, e riconobbe in lui quello che venne da mio padre il 5 giugno 1829, e che mi scrisse questo biglietto il 5 settembre. Era lo stesso, a quanto assicura, ma non osò parlargli.»

«Un inglese?» ripeté Montecristo distratto, turbato da ogni sguardo di Julie.

«Sì», riprese Maximilien, «un inglese che si presentò a noi come rappresentante della casa Thomson e French di Roma. Ecco perché quando l’altro giorno diceste da Morcerf che Thomson e French erano i vostri banchieri, mi avete visto sussultare. In nome del cielo, signore, quanto vi abbiamo detto accadde nel 1829… Avete conosciuto questo inglese?»

«Ma non mi avete detto che la casa Thomson e French ha sempre negato di avervi reso questo servizio?»

«Sì.»

«Allora quest’inglese non potrebbe essere un uomo che, riconoscente verso vostro padre di qualche buona azione che forse aveva dimenticato, avesse preso questo pretesto per rendergli il servizio?»

«Tutto è possibile, anche un miracolo.»

«Come si chiamava?» domandò Montecristo.

«Non ha lasciato altro nome», rispose Julie guardando il conte con una profonda attenzione, «che la firma in calce a questo biglietto, Sinbad il marinaio.»

«Evidentemente questo non è un nome, bensì uno pseudonimo.»

Quindi, poiché Julie lo guardava più attentamente ancora, e sembrava cogliere qualche rassomiglianza nella sua voce, continuò: «Vediamo, non è un uomo con la mia corporatura, forse un poco più magro, imprigionato in una lunga cravatta, abbottonato in un abito stretto, e sempre con la matita alla mano?»

«Oh, ma allora lo conoscete?» gridò Julie con gli occhi scintillanti di gioia.

«No», rispose Montecristo. «Ho conosciuto un lord Wilmore, che esercitava in tal modo atti di generosità.»

«Senza farsi conoscere?»

«Era un uomo strano, che non credeva alla riconoscenza.»

«Oh, mio Dio!» gridò ancora Julie giungendo le mani. «E a che cosa credeva dunque l’infelice?»

«Egli non ci credeva quando lo conobbi…» disse Montecristo, che questa voce uscita dal fondo dell’anima aveva scosso fin nell’ultima fibra. «Ma da allora forse avrà avuto qualche prova che la riconoscenza esiste.»

«E voi conoscete quest’uomo?» domandò Emmanuel.

«Se lo conoscete», intervenne Julie, «potete guidarci a lui, mostrarcelo, dirci dov’è? Maximilien, Emmanuel, se lo ritrovassimo lo faremmo ricredere sulla memoria del cuore… Non è vero?»

Montecristo sentì due lacrime cadergli dagli occhi; fece ancora qualche passo nel salotto.

«In nome del cielo, signore», riprese Maximilien, «se conoscete quest’uomo, diteci ciò che sapete.»

«Ahimè», disse Montecristo, comprimendo l’emozione della sua voce, «se il vostro benefattore è lord Wilmore, temo che non lo ritroverete mai. Io l’ho lasciato due o tre anni fa a Palermo, da dove partiva per Paesi tanto favolosi, che dubito non ritorni più.»

«Siete crudele, signore!» esclamò Julie con tristezza. E le lacrime discesero dagli occhi della giovane sposa.

«Signora», continuò con gravità Montecristo divorando con lo sguardo le lacrime sulle guance di Julie, «se lord Wilmore avesse visto ciò che io vedo, egli amerebbe ancora la vita, perché le lacrime che voi versate lo rappacificherebbero con il genere umano.»

E tese la mano a Julie che gli diede la sua, trascinata com’era dallo sguardo del conte.

«Ma questo lord Wilmore» disse lei, attaccandosi a un’ultima speranza, «aveva un Paese, una famiglia, dei parenti? Non potremmo?…»

«È inutile fare ricerche, signora», disse il conte, «non fabbricate dolci chimere sopra parole che mi sono lasciato sfuggire. No, lord Wilmore probabilmente non è l’uomo che cercate; egli era mio amico, conoscevo tutti i suoi segreti e non mi ha raccontato mai niente di tutto questo.»

«Non vi ha mai detto niente di tutto ciò!» esclamò Julie.

«Niente.»

«Mai una parola che avesse potuto lasciarvi supporre?»

«Mai.»

«Tuttavia avete subito pensato a lui.»

«Sapete… in simili casi si suppone.»

«Sorella mia, sorella mia», intervenne Maximilien venendo in soccorso del conte, «il signore ha ragione. Ricordati ciò che ci diceva spesso il nostro buon padre: “Non è un inglese che ci ha procurato questa felicità”.»

Montecristo rabbrividì.

«Cosa diceva vostro padre, signor Morrel?» riprese vivamente il conte.

«Mio padre, signore, vedeva in quest’azione un miracolo. Mio padre credeva a un benefattore uscito per noi dalla tomba. Che sentimento commovente, signore, era questo… E mentre io stesso non ci credevo, ero ben lontano dal voler distruggere questa fede nel suo nobile cuore! Quante volte ci pensava, pronunciando a bassa voce il nome di un amico molto caro, di un amico perduto! E quando fu vicino alla morte, quando l’approssimarsi dell’eternità ebbe dato al suo spirito qualche cosa della chiaroveggenza della tomba, questo pensiero, che fino ad allora non era che un dubbio, divenne convinzione: e le ultime parole che pronunciò morendo furono queste: “Maximilien, egli era Edmond Dantès!”»

Il pallore del conte, che da qualche minuto stava crescendo, si fece livido a queste parole. Tutto il sangue gli affluì al cuore; non poteva parlare. Guardò l’orologio come se avesse dimenticata l’ora, prese il cappello, e fece alla signora Herbault un complimento momentaneo e impacciato, per poi stringere la mano a Emmanuel e a Maximilien.

«Signori», disse, «permettetemi di venire qualche volta a presentarvi i miei omaggi. Amo la vostra casa, e vi sono riconoscente della vostra accoglienza; è la prima volta dopo molti anni che il tempo mi è passato senza accorgermene.»

E uscì di corsa.

«Che uomo singolare è questo conte», commentò Emmanuel.

«Sì», concordò Maximilien, «ma sono sicuro che ha un cuore buono e affettuoso.»

«E a me», concluse Julie, «la sua voce ha toccato il cuore, e due o tre volte mi è sembrato che non fosse la prima volta che la sentivo.»

50. Piramo e Tisbe

Quasi in fondo al Faubourg Saint-Honoré, dietro una bella casa, fra le più importanti abitazioni di questo quartiere, si estende un ampio giardino i cui castagni foltissimi sorpassano i muri alti come bastioni, e all’arrivo della primavera lasciano cadere i loro fiori bianchi e rosa in due vasi di pietra scanalata, collocati parallelamente sopra due pilastri quadrangolari a sostenere un cancello di ferro dei tempi di Luigi XIII.

Un simile, grandioso ingresso è sacrificato, a dispetto dei magnifici gerani che crescono nei due vasi frusciando nel vento le foglie marmoree e i bei fiori porpora, fin dall’epoca in cui i proprietari del palazzo furono costretti a separare la casa dal cortile alberato che immette nel Faubourg e dal giardino dietro il cancello, un tempo uno stupendo frutteto. E ciò da quando la speculazione edilizia ha tracciato una strada ai bordi del frutteto e ha progettato di costruire altri palazzi in concorrenza alla vicina grande arteria di Parigi, il Faubourg Saint-Honoré. Anche se, quando si tratta di speculazioni, spesso l’uomo propone e il denaro dispone, la strada morì prima di nascere e ne rimase solo la targa in ferro brunito, e l’acquirente del frutteto, dopo aver terminato di pagarlo, non riuscì a rivenderlo per la somma preventivata. Così, in attesa d’un aumento del prezzo che potesse rifonderlo dei quattrini sborsati, si ridusse ad affittare il terreno agli ortolani parigini per trecento franchi l’anno, equivalenti a una rendita del mezzo percento, veramente esigua se si pensa agli speculatori che non si accontentano del 30 percento.

Così il cancello d’ingresso è chiuso e la ruggine lo corrode, e per di più un tavolato è stato applicato alle sbarre fino all’altezza di quasi due metri per impedire che gli sguardi plebei degli ortolani possano contaminarne l’intimità aristocratica. Anche se le assi sconnesse non impediscono sguardi furtivi, in una casa tuttavia dai costumi severi.

Nell’orto, invece di cavoli e carote, piselli e meloni, cresce un alto trifoglio, unica testimonianza di vita in questo luogo abbandonato. Una piccola porta bassa che si apre sulla strada dà ingresso a questo terreno recinto da alte mura, e ormai abbandonato dagli affittuari per la sua sterilità, e che quindi da otto giorni, invece di fruttare il solito mezzo per cento, non frutta un bel niente. Dal lato del palazzo, i castagni di cui si è detto circondavano le mura, anche se altre piante stendevano i loro rami fioriti fra quei grossi alberi. E in un angolo, il fogliame era talmente fitto che la luce poteva appena penetrarvi, e una larga panchina di pietra e alcune seggiole da giardino lo indicavano come il luogo favorito, o più intimo, di qualche abitante della casa, lontana circa trenta metri e che tuttavia si poteva appena scorgere fra i grovigli vegetali di quell’eremo: la scelta di questo rifugio misterioso era giustificata, inoltre, dall’assenza della luce, dalla continua freschezza pur nei giorni della più bruciante estate, dal cinguettio degli uccelli che vi si annidavano, e dalla lontananza dalla strada, cioè dal traffico e dal rumore.

Una sera di una delle più calde giornate che la primavera possa portare agli abitanti di Parigi, su questa panchina di pietra, un libro, un ombrellino, un cestello di lavoro e un fazzoletto di batista, dall’orlo appena iniziato, erano stati abbandonati da una ragazza che, vicino al cancello, guardava in una di quelle fessure fra le assi, esplorando il terreno incolto che conosciamo. Pressoché nello stesso momento, la piccola porta d’ingresso si apriva senza rumore, e un giovane alto, vigoroso, coi baffi, la barba e i capelli ben curati, entrò nel recinto. Indossava una giacca di tela grigia e un berretto di velluto nero molto ordinari, in contrasto con l’aspetto. Dopo un rapido sguardo attorno per assicurarsi di non essere visto da estranei, rinchiuse la porticina e si diresse con passo precipitoso verso il cancello. Alla vista del giovane, la ragazza si ritirò altrettanto rapidamente. Tuttavia l’uomo, con l’intuito degli innamorati, aveva già intravisto una veste bianca e una larga cintura turchina, e subito corse verso il tavolato avvicinando la bocca a una fessura.

«Non temete, Valentine, sono io», disse.

La ragazza si riaccostò.

«Perché siete venuto così tardi, oggi? Sapete che in casa mia si pranza presto, e sono state necessarie astuzia e prontezza per liberarmi dalla matrigna che mi sorveglia, dalla cameriera che mi spia e da mio fratello che mi tormenta, e per venire a lavorare a un fazzoletto di cui non riuscirò mai a finire l’orlo… Quando poi vi sarete scusato per il vostro ritardo, mi direte che significa questo nuovo vestito che avete addosso, per cui quasi me ne andavo non avendovi riconosciuto.»

«Cara Valentine, siete troppo al di sopra del mio amore perché osi parlarvene, e ciò nonostante tutte le volte che vi vedo ho bisogno di dirvi che vi amo perché l’eco delle mie proprie parole mi accarezzi dolcemente il cuore quando non vi vedo più. Vi ringrazio della vostra lusinghiera protesta, perché prova, non oso dire che mi aspettavate, ma che pensavate a me. Volevate sapere la causa del mio ritardo, e il motivo del mio travestimento? Ve li dirò, e spero che vorrete scusarmi: mi sono scelto un lavoro.»

«Un lavoro!?… Che volete dire, Maximilien? Siamo dunque così felici perché possiate parlare scherzando delle cose che ci riguardano?»

«Il cielo me ne guardi», rispose il giovane, «di scherzare con la mia vita! Ma stanco di essere un uomo che corre in guerra e che scala mura, seriamente spaventato dall’idea che vostro padre un giorno o l’altro mi avrebbe fatto giudicare come un ladro, disonorando l’esercito francese, non meno spaventato dalla possibilità che qualcuno si meravigli di vedermi ronzare intorno a questo terreno, dove non c’è la più piccola fortezza da assediare o il più piccolo ridotto da difendere, da capitano degli Spahi mi sono fatto ortolano, e ho adottato l’abito della mia nuova professione.»

«Che follia!»

«È al contrario la cosa più saggia che abbia fatto in vita mia, perché ci garantisce sicurezza. Sono andato a trovare il proprietario di questo recinto; il contratto con il vecchio affittuario era scaduto e l’ho preso io. Tutto questo trifoglio che vedete è mio, Valentine, nulla può impedirmi d’ora innanzi di far fabbricare una capanna fra questo fieno, e di vivere a venti passi da voi. Non posso contenere la mia gioia pensando alla mia fortuna. Credete, Valentine, che si possa giungere a pagare tutto questo? Eppure tutta questa felicità, tutta questa gioia, per le quali avrei dato dieci anni della mia vita, mi costano… indovinate un po’?… cinquecento franchi all’anno pagabili per trimestre. In tal modo d’ora innanzi non vi e più nulla da temere. Io qui sono in casa mia e posso appoggiare una scala contro il mio muro e guardarvi, e ho diritto di dirvi che vi amo, fino a che la vostra fierezza non si offenda di sentirsi dire questa parola dalla bocca di un povero contadino vestito con una giacchetta e coperto con un berretto.»

Valentine sospirò di gioia, poi subito si rattristò.

«Ahimè, Maximilien», disse, «ora noi saremo troppo liberi; la nostra felicità ci farà tentare Dio: abuseremo della nostra sicurezza, e la nostra sicurezza ci perderà.»

«Come potete dir questo, amica mia, a me, che da quando vi conobbi, ogni giorno vi do prove che ho sottomesso i miei pensieri e la mia vita alla vostra e ai vostri pensieri? Chi vi ha ispirato confidenza in me? Il mio onore, non è vero? Quando mi avete detto che un vago istinto v’assicurava che correvate un gran pericolo, io ho messo i miei affetti ai vostri ordini, senza chiedervi altra ricompensa che la felicità di servirvi. Da quel tempo vi ho dato, con una parola, con un gesto, il motivo di pentirvi di avermi distinto fra quelli che avrebbero dato la loro vita per voi? Voi mi avete detto, povera cara, che siete fidanzata con il signor d’Epinay, che vostro padre aveva stabilito questo matrimonio, vale a dire ch’esso era certo, perché tutto ciò che vuole il signor Villefort accade inevitabilmente. Ebbene, io sono rimasto fra le ombre aspettando tutto, non dalla mia volontà, non dalla vostra, ma dagli avvenimenti, dalla Provvidenza, da Dio… E frattanto voi mi amate, voi avete avuto pietà di me, Valentine, me lo avete detto! E io vi ringrazio di questa dolce parola, che vi prego di ripetermi di tanto in tanto, e che mi farà dimenticare tutto.»

«Ed ecco ciò che vi ha reso ardito, Maximilien, ecco ciò che rende la mia vita dolce a un tempo e infelice al punto che spesso domando a me stessa se sia meglio per me il dispiacere che mi causava il rigore della mia matrigna e la sua cieca preferenza per suo figlio, o la felicità piena di pericoli che provo nel vedervi.»

«Di pericoli!» gridò Maximilien. «Come potete dire una parola così aspra e così ingiusta? Avete mai visto uno schiavo più sottomesso di me? Voi mi avete proibito di seguirvi, e io ho obbedito. Dacché ho trovato il mezzo di penetrare in questo recinto, di parlare con voi attraverso questa porta, di essere vicino a voi senza vedervi, ditelo, ho mai domandato di toccare l’estremità del vostro vestito attraverso questo cancello? Ho mai fatto un passo per superare questo muro, ridicolo ostacolo per la mia esuberanza e la mia giovinezza? Mai un rimprovero sul vostro rigore, mai un desiderio espresso chiaramente: sono stato ligio alla mia parola, come un cavaliere dei tempi antichi. Confessatelo almeno, perché io non vi abbia a credere ingiusta.»

«È vero», disse Valentine spingendo un dito fra due assi, sul quale Maximilien posò le labbra. «È vero, siete un amico onesto. Ma infine non avete agito che nel vostro interesse, mio caro Maximilien… Sapevate che il giorno in cui lo schiavo fosse divenuto esigente, avrebbe tutto perduto. Voi avete promesso l’amicizia d’un fratello a me, che non ho amici, che sono dimenticata dal padre, perseguitata dalla matrigna, che non ho per consolazione che un vecchio immobile, muto, paralizzato, la cui mano non può stringere la mia, il cui occhio soltanto può parlarmi, e il cui cuore batte per me di un residuo calore. Derisione amara della sorte che mi fu nemica, in quanto vittima di tutti coloro che sono più forti di me, e che mi danno un cadavere per sostegno e amico. Davvero, Maximilien, ve lo ripeto, sono molto infelice, e voi avete ragione di amarmi per me e non per voi.»

«Valentine», riprese il giovane con profonda emozione, «non dirò che amo soltanto voi a questo mondo, perché amo anche mia sorella e mio cognato, ma per loro provo un amore dolce e tranquillo, che non somiglia in nulla a quello che provo per voi… Quando penso a voi, il sangue mi bolle, il petto si gonfia, il cuore irrompe; ma questa forza, quest’ardore, questa potenza sovrumana li dedicherò ad amar voi soltanto fino al giorno che mi direte di usarli per servirvi. Il signor Franz d’Epinay resterà assente ancora un anno, si dice… In un anno quante cose possono accadere! Dunque speriamo sempre, è così bello, così dolce sperare! Ma aspettando, voi, Valentine, voi che rimproverate il mio egoismo, che cosa siete stata per me? La bella e fredda statua della Venere pudica. In cambio di questo affetto, di questa obbedienza, di questa riserva, che mi avete promesso? Nulla. Che mi avete accordato? Ben poca cosa. Voi mi parlate del signor d’Epinay, vostro fidanzato, e sospirate all’idea d’essere un giorno sua. Vediamo, Valentine, è forse soltanto questo che avete nell’anima? Io v’impegno la mia vita, vi do tutto me stesso, vi consacro perfino il più insignificante battito del mio cuore, e quando sono tutto vostro, quando vi dico in segreto che morrò se vi perdo, voi non vi spaventate alla sola idea di dover divenire di un altro. Oh, Valentine, Valentine! Se io fossi voi! Se io mi sapessi amato, come voi siete sicura che vi amo, io già avrei passato la mano fra le sbarre di questo cancello, e avrei stretto quella del povero Maximilien dicendogli: “A voi, a voi solo, Maximilien, in questo mondo e nell’altro”.»

Valentine non rispose, ma il giovane la sentì sospirare e piangere.

Il pentimento fu pronto nel giovane.

«Valentine, Valentine!» gridò. «Dimenticate le mie parole, se in esse vi è qualche cosa che possa offendervi!»

«No», disse lei, «avete ragione: ma non vedete che io sono una povera creatura abbandonata in una casa straniera, e la cui volontà è stata annullata da dieci anni, giorno per giorno, ora per ora, minuto per minuto dalla volontà di ferro dei miei padroni che mi dominano? Nessuno sa quello che io soffro, e io non l’ho detto ad altri che a voi. In apparenza, e agli occhi di tutto il mondo, tutti sono buoni con me, tutti affettuosi, ma in realtà tutti mi sono nemici. Il mondo dice: “Il signor Villefort è troppo duro, è troppo severo per essere tenero con sua figlia, ma lui ha avuto almeno la felicità di trovare nella signora Villefort una seconda madre”. Ebbene il mondo s’inganna, mio padre m’abbandona con indifferenza, e la mia matrigna mi odia con un accanimento tanto più terribile, in quanto velato da un eterno sorriso.»

«Odiarvi, Valentine! E come può essere?…»

«Ahimè, amico caro, sono costretta a confessarvi che quest’odio per me viene da un sentimento quasi naturale. Lei adora suo figlio, mio fratello Edouard.»

«Ebbene?»

«Ebbene, mi sembra ingiusto mischiare tutto ciò a una questione di denaro… Eppure,amico mio, credo che tale odio per me venga da lì. Siccome non ha beni propri, e io sono già ricca anche dal solo lato di mia madre, fortuna che mi verrà un giorno raddoppiata da quella del signore e della signora di Saint-Méran, bene, credo che lei sia invidiosa. Mio Dio, potessi regalarle metà di questa fortuna e ritrovarmi presso il signor Villefort come una figlia in casa di suo padre, lo farei in questo medesimo istante.»

«Povera Valentine!»

«Sì, mi sento incatenata, e nello stesso tempo così debole, che mi sembra che questi ceppi mi sostengano, e ho paura a romperli. D’altra parte mio padre non è uomo di cui si possano infrangere impunemente gli ordini: è imperioso con me, e lo sarebbe anche con voi, lo sarebbe con altri, coperto com’è da un irreprensibile passato e da una posizione inattaccabile. Maximilien, ve lo giuro, non combatto perché temo di spezzare voi al pari di me in questa lotta.»

«Ma infine, Valentine», riprese Maximilien, «perché disperarvi sempre così, e vedere l’avvenire sempre tetro?»

«Oh, amico mio, perché lo giudico dal passato.»

«Anche se non sono un partito illustre sotto il punto di vista della nobiltà, sono però introdotto nella società nella quale vivete. Non è più il tempo in cui c’erano due France nella Francia: le più elevate famiglie della monarchia si sono fuse con quelle dell’impero; l’aristocrazia della lancia ha sposata la nobiltà del cannone. Ebbene, io appartengo a quest’ultima, ho una bella carriera davanti a me nell’esercito, ho una discreta rendita; infine la memoria di mio padre è onorata nel nostro paese come quella di uno dei più onesti armatori che siano mai esistiti. Dico nel nostro paese, Valentine, perché voi siete quasi di Marsiglia.»

«Non mi parlate di Marsiglia, Maximilien, la sola parola mi ricorda la mia buona madre, quell’angelo che fu compianto da tutti, e che, dopo aver vegliato su sua figlia durante il breve soggiorno su questa terra, veglia ancora su di lei, almeno lo spero, dall’alto del cielo. Se la mia povera mamma vivesse, Maximilien, non avrei più nulla da temere: le direi che vi amo, e lei ci proteggerebbe.»

«Ahimè, Valentine», disse Maximilien, «se lei vivesse, certamente non vi conoscerei, perché voi lo avete detto, se lei vivesse voi sareste felice, e Valentine felice mi avrebbe guardato con sdegno dall’alto della sua grandezza.»

«Amico mio», gridò Valentine, «questa volta siete voi l’ingiusto… ma ditemi…»

«Che volete che vi dica?» insistette Maximilien, vedendo che esitava.

«Ditemi», continuò la giovane, «a Marsiglia, nei tempi passati, vi fu mai qualche motivo di dissenso fra la vostra famiglia e mio padre?»

«Non che io sappia», rispose il giovane. «Se non che vostro padre era un partigiano zelante dei Borboni, e il mio un uomo affezionato all’Imperatore. Ciò è, a quanto presumo, la sola causa dei loro cattivi rapporti. Ma perché mi fate questa domanda, Valentine?»

«Ve lo dirò», riprese la giovane, «perché voi dovete sapere tutto. Ebbene era il giorno in cui fu pubblicata sui giornali la vostra nomina di ufficiale della Legion d’Onore. Noi eravamo tutti nella stanza di mio nonno, il signor Noirtier, e c’era anche il signor Danglars, quel banchiere i cui cavalli per poco non hanno ucciso mia madre e mio fratello. Io leggevo ad alta voce il giornale a mio nonno, mentre gli altri discorrevano fra loro del probabile matrimonio fra il signor Morcerf e la signorina Danglars quando, come dicevo, giunsi al brano che vi concerneva. Ero molto felice ma altrettanto tremante di dover pronunciare ad alta voce il vostro nome e lo avrei probabilmente anche omesso, se non avessi avuto il timore che il mio silenzio venisse male interpretato. Dunque raccolsi tutto il mio coraggio e lessi.»

«Cara Valentine!»

«Ebbene, appena risuonò il vostro nome, mio padre volse la testa… Io ero così convinta, vedete come sono pazza! che tutti sarebbero stati colpiti da questo nome come da un fulmine, che credetti di veder trasalire mio padre, e anche il signor Danglars, sebbene io sia sicura che fu una mia illusione. “Morrel!” esclamò mio padre. “Fermatevi!” m’intimò cupo. “Sarebbe uno di quei Morrel di Marsiglia, uno di quegli arrabbiati bonapartisti che ci hanno procurato tanto male nel 1815?” “Sì”, rispose il signor Danglars, “credo sia il figlio del vecchio armatore.”»

«Davvero?» fece Maximilien. «E che rispose vostro padre?»

«Una cosa orribile che non ho il coraggio di ripetervi.»

«Dite pure», riprese Maximilien sorridendo.

«“Il loro Imperatore” continuò egli con uno sguardo truce “sapeva mettere tutti quei fanatici al loro posto, li chiamava carne da cannone, ed era il solo nome che meritassero. Vedo però con gioia che il nuovo governo rimette in vigore questo salutare principio. Se per questo soltanto vuol conservare l’Algeria, farei le mie felicitazioni al governo, benché ci costi un po’ cara.”»

«Difatti questa è una politica un po’ brutale», riconobbe Maximilien. «Ma non arrossite, amica mia, di ciò che può aver detto il signor Villefort. Mio padre non la cedeva al vostro su questo argomento, e ripeteva continuamente: “E perché dunque l’Imperatore che fa tante belle cose, non fa un reggimento di giudici e avvocati, e non li manda in prima linea?” Vedete, amica cara, che gli uomini di partito si somigliano tutti in quanto a espressioni brutali e delicatezza di pensiero. Ma il signor Danglars che ha detto di questa uscita del procuratore del re?»

«Si mise a ridere con quel sorriso sornione che gli è particolare, e che io trovo feroce; poi si alzarono, e subito dopo se ne andarono. M’accorsi allora soltanto che mio nonno era molto agitato. Bisogna che sappiate, Maximilien, che io sola indovino le agitazioni di questo povero paralitico, e d’altra parte già temevo che la conversazione dovesse averlo molto agitato, perché non usando più alcun riguardo in presenza di questo povero vecchio, avevano parlato male dell’Imperatore, e a quanto so egli deve esserne stato un fanatico.»

«È uno dei nomi più conosciuti dell’Impero; è stato senatore e ha preso parte, come saprete, a tutte le cospirazioni bonapartiste che hanno avuto luogo sotto la Restaurazione.»

«Sì, sento qualche volta dire a bassa voce alcune cose simili, che mi sembrano strane; il nonno bonapartista, il padre realista, che volete che ne capisca? Io mi voltai dunque verso di lui, ed egli m’indicò con lo sguardo il giornale.

“Che avete, nonno?” gli chiesi. “Siete contento?”

Fece segno di sì.

“Di ciò che ha detto mio padre?” domandai.

Fece segno di no.

“Di ciò che ha detto il signor Danglars?”

Fece ancora segno di no.

“È dunque perché il signor Morrel”, non osai dire Maximilien, “ha avuto la nomina di ufficiale della Legion d’Onore?”

Fece segno di sì.

Lo credereste, Maximilien? Era contento perché eravate stato nominato ufficiale della Legion d’Onore, lui che non vi conosce; questa è forse una follia da parte sua… Dicono che ritorni fanciullo… Ma l’amo ancora di più per questo, sì.»

«La cosa è bizzarra», disse Maximilien. «Vostro padre mi odierebbe, mentre vostro nonno il contrario… Quale stranezza questi amori e questi odi di partito!»

«Zitto!» gridò Valentine. «Nascondetevi, fuggite, arriva gente.»

Maximilien corse a una zappa, e si mise a vangare con foga il trifoglio.

«Signorina, signorina!» chiamò una voce dietro gli alberi. «La signora Villefort vi cerca dappertutto. C’è una visita.»

«Una visita!» esclamò Valentine agitata. «E chi è che ci fa questa visita?»

«Un gran signore, un principe a quanto dicono, il conte di Montecristo.»

«Vengo!» disse ad alta voce Valentine.

Questa parola fece tremare dall’altra parte del cancello colui per il quale la parola di Valentine significava un addio.

«Toh», si disse Maximilien, appoggiandosi pensieroso alla zappa. «Come mai il conte di Montecristo conosce il signor Villefort?»

51. Tossicologia

Era davvero il conte di Montecristo colui che entrava dalla signora Villefort, con l’intenzione di restituirle la visita che il procuratore del re gli aveva fatto, e a questo nome tutta la casa, come è facile immaginare, s’era messa in agitazione.

La signora Villefort, che non era sola nel salotto, quando fu annunciato il conte fece subito chiamare suo figlio, affinché gli rinnovasse i ringraziamenti; Edouard, che da due giorni non aveva cessato di sentir parlare di questo gran personaggio, accorse in tutta fretta non per ubbidire a sua madre, non per ringraziare il conte, ma per pronunciare qualcuna di quelle impertinenze che facevano dire a sua madre: «Che cattivo ragazzo! Ma bisogna perdonarlo, è così intelligente!»

Dopo i primi convenevoli, il conte domandò del signor Villefort.

«Mio marito è a pranzo dal signor cancelliere», rispose la giovane sposa. «È partito da poco e sarà molto dispiaciuto, ne sono certa, di essere stato privato della fortuna di vedervi.»

Due visitatori che avevano preceduto il conte nel salotto, e che lo divoravano con gli occhi, si ritirarono dopo quel tempo conveniente che esige l’educazione e la curiosità.

«A proposito, che fa dunque vostra sorella Valentine?» domandò la signora Villefort a Edouard. «Avvisatela, affinché abbia l’onore di presentarla al signor conte.»

«Avete una figlia, signora?» s’incuriosì il conte. «Deve essere una bambina…»

«È figlia del signor Villefort», rispose la giovane sposa, «una figlia del primo matrimonio, una bella ragazza.»

«Però malinconica», interruppe il giovane Edouard, strappando, per farsene un pennacchio al cappello, una penna a uno splendido pappagallo, che gridò per il dolore nella sua gabbia dorata.

La signora Villefort si limitò a dire: «Smettila, Edoardo!» Poi aggiunse: «Questo birbante ha quasi ragione, e ripete adesso ciò che ha sentito dire da me diverse volte con dolore; perché la signorina Villefort, per quanto facciamo per distrarla, è di un’indole triste, di un umore taciturno, che spesso nuoce all’effetto della sua bellezza… Ma non viene… Edouard, vedete dunque perché».

«Perché la cercano dove non è.»

«Dove la cercano?»

«Dal nonno Noirtier.»

«E credete che non sia là?»

«No, no, no, non c’è», beffeggiò Edoardo.

«E dov’è? Se lo sapete, ditelo.»

«È sotto il grande castagno», continuò il perfido ragazzo, offrendo, nonostante le grida di sua madre, alcune mosche ancora vive al pappagallo che sembrava ghiotto di quel cibo.

La signora Villefort allungò la mano per suonare, e per far sapere alla cameriera dove stava Valentine, quando la giovane entrò.

Difatti sembrava triste, e guardandola attentamente si sarebbero potute scorgere nei suoi occhi le tracce delle lacrime.

Valentine, che per la rapidità del racconto abbiamo presentato ai nostri lettori senza farla conoscere, era alta e snella, di diciannove anni, con i capelli castano chiari, la figura morbida e ben modellata, e con quella squisita signorilità che distingueva sua madre. Le sue mani bianche e affilate, il collo d’avorio, le guance colorate, le davano, al primo aspetto, l’aria di quelle belle inglesi che con molta poesia sono state paragonate a dei cigni che si specchiano. Entrò dunque, e vedendo vicino a sua madre lo straniero di cui aveva inteso parlare, salutò, senz’alcuna smorfia da ragazzina, e senza abbassare gli occhi, con una grazia che raddoppiò l’attenzione del conte, il quale si alzò.

«La signorina Villefort, mia figliastra», disse la signora Villefort a Montecristo chinandosi sul sofà, e indicando con la mano Valentine.

«È il signor di Montecristo, re della Cina, imperatore della Cocincina!» esclamò il ragazzo impertinente, lanciando uno sguardo alla sorella.

Questa volta la signora Villefort impallidì, e quasi si adirò contro quel flagello domestico che rispondeva al nome di Edouard; ma il conte al contrario sorrise e parve guardasse il bambino con compiacenza, il che portò al colmo la gioia e l’entusiasmo della madre.

«Ma signora», riprese il conte riannodando la conversazione, e guardando ora la signora Villefort, ora Valentine, «è forse possibile che abbia avuto l’onore di veder voi e la signorina in qualche altro luogo? Poco fa ci pensavo e quando entrò la signorina la sua vista è stata uno sprazzo di luce su un confuso ricordo, perdonate l’espressione.»

«Non è probabile, signore; la signorina Villefort ama poco la società e noi usciamo raramente.»

«Ma non in società ho visto la signorina e voi, come questo grazioso folletto. La società parigina, d’altra parte, mi è sconosciuta, perché, credo di avere avuto l’onore di dirvelo, sono a Parigi da pochi giorni. No, se permettete che mi ricordi… aspettate…» Il conte appoggiò la mano alla fronte come per concentrarsi. «No, è all’estero… è… non so bene, ma mi sembra che questo ricordo sia collegato a un bel sole, e a una specie di festa religiosa… La signorina teneva dei fiori in mano, il bambino correva dietro un bel pavone in un giardino, e voi, signora, eravate sotto un pergolato di foglie… Aiutatemi dunque, signora, forse quanto vi dico non vi rammenta qualche cosa?»

«No, in verità», rispose la signora Villefort. «Eppure mi sembra che se vi avessi incontrato in qualche luogo il ricordo di voi mi sarebbe rimasto impresso.»

«Il signor conte ci avrà forse viste in Italia», disse timidamente Valentine.

«Difatti in Italia… Siete stata in Italia, signorina?»

«La signora e io ci andammo circa due anni fa; i medici temevano per la mia salute e mi avevano raccomandato l’aria di Napoli. Passammo per Bologna, Perugia e Roma.»

«Ah, è vero signorina!» esclamò Montecristo, come se questa piccola indicazione gli fosse bastata per fissare i suoi ricordi. «Fu a Perugia, il giorno di una festa, nella locanda della Posta, dove la combinazione ci riunì, signora, vostro figlio, la signorina e io.»

«Mi ricordo perfettamente di Perugia, della locanda della Posta, della festa di cui mi parlate», ammise la signora Villefort, «ma ho un bell’interrogare i miei ricordi, e mi vergogno della mia poca memoria, ma non ricordo di avere avuto l’onore di vedervi.»

«È strano, neppure io», disse Valentine alzando i suoi begli occhi sul conte di Montecristo.

«Io me ne ricordo», saltò su Edouard.

«Vi aiuterò, signora», riprese il conte. «La giornata era calda; aspettavate dei cavalli che non venivano a causa della festa. La signorina si allontanò all’interno del giardino, vostro figlio scomparve correndo dietro al pavone.»

«E lo raggiunsi, mamma, lo sai», disse Edouard, «gli strappai due penne della coda.»

«Voi signora, vi fermaste sotto il pergolato di viti… Non ricordate più che mentre eravate seduta su una panchina di pietra, mentre, come vi dicevo, la signorina Villefort e vostro figlio erano assenti, voi parlaste lungamente con qualcuno?»

«Sì, è vero», rispose la giovane sposa arrossendo, «mi ricordo, con un uomo avviluppato in un lungo mantello di lana… con un medico, credo.»

«Precisamente, signora, quell’uomo ero io. Soggiornavo da quindici giorni in quell’albergo dove avevo guarito il mio cameriere dalla febbre, e il mio locandiere dall’itterizia, per cui ero considerato un gran dottore. Parlammo a lungo, signora, di cose diverse, del Perugino, di Raffaello, delle abitudini, dei costumi, e di quella famosa acqua tofana di cui alcuni, vi era stato detto, conservano ancora il segreto a Perugia.»

«È vero!» esclamò vivamente la signora Villefort, con una certa inquietudine. «Me ne ricordo.»re, signora», riprese il conte con tranquillità, «ma rammento benissimo che, condividendo voi pure l’equivoco sulla mia professione, mi consultaste sulla salute della signorina Villefort.»

«Voi però, signore, eravate realmente medico, poiché guariste degli infermi.»

«Molière e Beaumarchais vi risponderebbero, signora, che appunto perché non medico, non ho potuto guarire i miei malati, ma essi sono guariti da sé. Mi limiterò a dirvi che ho studiato molto profondamente la chimica, le scienze naturali, ma soltanto come dilettante… capite?»

In quel momento suonarono le sei.

«Sono le sei», disse la signora Villefort visibilmente agitata. «Valentine, volete andare a vedere se vostro nonno è pronto per pranzare?»

Valentine si alzò, e salutando il conte, uscì dalla stanza senza pronunciare una parola.

«Mio Dio, signora, sarebbe mai per colpa mia che avete fatto uscire la signorina?» chiese il conte quando Valentine fu uscita.

«No, davvero», rispose vivacemente la giovane sposa. «Ma questa è l’ora nella quale facciamo servire al signor Noirtier il misero pasto che sostiene la sua triste esistenza. Sapete, signore, in quale deplorevole stato è il padre di mio marito?» «Sì, signora, il signor Villefort me ne ha parlato, credo una paralisi.»

«Purtroppo sì, per il povero vecchio vi è completa assenza di movimenti, l’anima sola veglia in quella macchina umana, pallida e tremante come una lampada vicina a estinguersi… Ma mi scusi, signore, se vi ho trattenuto sui nostri guai domestici; vi ho interrotto al momento che dicevate di essere un abile chimico.»

«Non dicevo questo, signora», rispose il conte con un sorriso. «In realtà, ho studiato la chimica quando, deciso a vivere particolarmente in Oriente, ho voluto seguire l’esempio del re Mitridate.»

«Mithridates, rex Ponti», interruppe il ragazzo impertinente stracciando dei disegni in un magnifico album. «Quello che faceva colazione tutte le mattine con una tazza di veleno al fior di latte.»

«Edouard, perfido ragazzo!» esclamò la signora Villefort, strappando il libro mutilato dalle mani del figlio. «Siete insopportabile! Andate a raggiungere vostra sorella Valentine presso il nonno.»

«L’album», disse Edoardo.

«Come l’album?»

«Sì, lo voglio…»

«Perché avete stracciato i disegni?»

«Perché mi diverte.»

«Andatevene, andatevene!»

«Non me ne andrò, se prima non mi date l’album», insistette il ragazzo, accomodandosi su una seggiola.

«Prendete e lasciateci tranquilli», disse la signora Villefort.

E dette l’album a Edouard, che uscì accompagnato da sua madre sin sulla soglia. Il conte seguì con gli occhi la signora Villefort.

«Vediamo se chiude la porta…» si disse.

La signora chiuse la porta con gran cura dietro il ragazzo; il conte fece mostra di non accorgersene. Quindi gettando un ultimo sguardo intorno, la giovane sposa si sedette sulla poltrona.

«Permettetemi di farvi osservare, signora», riprese il conte con quella bonarietà di cui lo conosciamo dotato, «che voi siete un poco severa con questo grazioso folletto.»

«È necessario, signore…» replicò lei con tono materno.

«Egli citava Cornelio Nepote, parlando del re Mitridate», disse il conte, «e voi lo avete interrotto in una recitazione che prova che il precettore non ha sprecato il tempo con lui, e che vostro figlio è molto avanti per la sua età.»

«Il fatto è, signor conte», riprese la madre dolcemente lusingata, «ch’egli ha una grande facilità, e impara tutto ciò che vuole; non ha che un difetto, ed è di avere troppa forza di volontà. Ma a proposito di ciò che si diceva, credete forse che Mitridate usasse queste cautele e che fossero efficaci?»

«Lo credo a tal punto, signora, da aver fatto lo stesso in occasioni nelle quali, senza queste cautele, vi avrei potuto lasciare la vita.»

«E l’antidoto è stato efficace?»

«Perfettamente.»

«Sì, è vero, mi ricordo che voi mi diceste qualche cosa di simile a Perugia.»

«Davvero?» fece il conte con una sorpresa mirabilmente simulata. «Non me ne rammento.»

«Io vi domandai se i veleni operavano ugualmente e con la stessa energia sugli uomini del Nord che su quelli del Mezzogiorno, e voi mi rispondeste che i temperamenti freddi e linfatici dei settentrionali non presentano la stessa attitudine della ricca ed energica natura delle persone del Mezzogiorno.»

«È vero», disse Montecristo. «Ho visto dei russi divorare senza problemi sostanze vegetali che avrebbero ucciso infallibilmente un arabo.»

«Per cui credete che in mezzo alle nostre nebbie e alle nostre piogge un uomo si potrebbe più facilmente, che in regioni calde, abituare a questo lento e progressivo assorbimento di veleno?»

«Certamente, ben inteso però senza premunirsi di antidoto contro il veleno a cui si deve abituare.»

«Capisco! E in che modo vi ci abituereste voi, per esempio, o piuttosto in che modo vi ci siete già abituato?»

«Supponete che sappiate già prima quale veleno si voglia usare contro di voi, supponete che sia della brucina.»

«La brucina si ricava dalla falsa angostura, credo», disse la signora Villefort.

«Precisamente signora», confermò Montecristo. «Ma vedo che mi resta poco da insegnarvi. Vi faccio le mie congratulazioni; simili conoscenze sono rare nelle donne.»

«Ve lo confesso signore, ho il più vivo interesse per le scienze occulte, che parlano all’immaginazione come una poesia, e si risolvono in cifre come una equazione algebrica… Ma continuate vi prego, ciò che mi dite mi interessa moltissimo.»

«Ebbene», riprese Montecristo, «supponete che questo veleno sia la brucina, per esempio, e che ne prendiate un millesimo di grammo il primo giorno, due il secondo e così via… Ebbene, dopo 10 giorni ne prenderete un centigrammo, dopo 20 ne prenderete tre centigrammi, vale a dire una dose che sopporterete senz’alcun inconveniente, e che sarebbe pericolosissima per un’altra persona che non avesse prese le stesse cautele; infine dopo un mese, bevendo nello stesso bicchiere, voi ammazzereste una persona che beva quest’acqua con voi. Vi accorgerete solo da un piccolo malessere che c’era una sostanza velenosa mescolata al liquido.»

«Non conoscete altri antidoti?»

«Non ne conosco altri.»

«Avevo spesso letto e riletto questa storia di Mitridate», disse la signora Villefort, «e l’avevo creduta una favola.»

«No, signora, diversamente dal solito, questa è una verità, ma ciò che mi dite, ciò che chiedete non è curiosità d’un momento poiché sono due anni che mi fate le stesse domande, e ora mi dite che la storia di Mitridate vi preoccupa da molto tempo.»

«È vero, signore, i due studi favoriti della mia gioventù sono stati la botanica e la mineralogia, e quando poi ho saputo che l’uso di questi semplici sostanze spiegava spesso tutta la storia dei popoli, e tutta la vita degli individui d’Oriente, nello stesso modo con cui i fiori spiegano tutti i loro pensieri amorosi, mi è spiaciuto di non essere un uomo per diventare un Flamel, un Fontana, o un Cabanis.»

«Tanto più, signora», aggiunse Montecristo, «che gli orientali non si limitano, come Mitridate, a servirsi dei veleni come una corazza, ma se ne servono come pugnali: la scienza nelle loro mani diventa non solo un’arma difensiva, ma anche offensiva: l’una serve loro contro le sofferenze fisiche, l’altra contro i loro nemici; con l’oppio, con la belladonna, con l’hashish si procurano sogni di felicità che il cielo ha loro realmente negati; con la falsa angostura, con il legno di bryonia, con il lauro-ceraso addormentano quelli che vorrebbero svegliarsi. Non vi è una fra le donne egiziane, turche, o greche, che qui chiamate “buone donne”, che non sappia in fatto di chimica stupire un medico.»

«Davvero?» si stupì la signora Villefort, i cui occhi brillavano di uno strano fuoco durante la conversazione.

«Sì, signora. I drammi segreti d’Oriente si annodano e si sciolgono così, dalla pianta che fa amare fino a quella che fa morire; dalla bevanda che vi rapisce in estasi, fino a quella che può far scendere un uomo nella tomba. Vi sono tante gradazioni di ogni genere, quanti sono i capricci e le bizzarrie dell’umana natura, fisica, e morale, e, dirò di più, l’arte di questi chimici sa adattare mirabilmente il rimedio e il male ai propri bisogni d’amore, e ai propri desideri di vendetta.»

«Ma, signore», riprese la giovane sposa, «queste società orientali, in mezzo alle quali avete passato gran parte della vostra esistenza, sono dunque fantastiche come i racconti che vengono da questi bei Paesi? È dunque una realtà la Baghdad o la Bassora del signor Galland? I sultani e i visir che reggono queste società, e che costituiscono ciò che si chiamerebbe in Francia il governo, sono dunque sul serio tanti Harun al-Rascid e tanti Giaffar, che non solo perdonano a un avvelenatore, ma lo fanno anche primo ministro, se questo delitto è stato ingegnoso; e poi, in questo caso, ne fanno stampare la storia in lettere dorate per divertirsi nelle loro ore di noia?»

«No, signora, il fantastico non esiste più, neppure in Oriente; vi sono anche laggiù, mascherati con altri nomi e nascosti sotto altri costumi, dei giudici istruttori, dei procuratori del re, e dei periti. Vi s’impicca, vi si taglia la testa, vi s’impala allegramente; ma i delinquenti, da esperti frodatori, hanno saputo illudere la giustizia umana e assicurare il successo alle loro imprese con abili combinazioni. Presso di noi un imbecille posseduto dal demone dell’odio e della cupidigia, che ha un nemico da distruggere o un parente da annientare, va da uno speziale, gli dà un nome falso, che poi più facilmente farà scoprire il suo vero, e compra cinque o sei grammi d’arsenico; s’egli è molto furbo, va da cinque o sei speziali, e non è che cinque o sei volte conosciuto meglio: poi quando possiede il suo veleno, amministra al nemico, o al parente, una dose d’arsenico che farebbe crepare un elefante o un rinoceronte, e che fa mandare alla sua vittima urli tali da mettere tutto il quartiere sossopra. Allora giunge un nugolo di agenti di polizia, o di gendarmi; si manda a cercare un medico, che fa l’autopsia, e raccoglie nello stomaco o negli intestini l’arsenico a cucchiaiate; il giorno dopo cento giornali raccontano il fatto con il nome della vittima e dell’uccisore. Fin dalla sera stessa lo speziale, o gli speziali, viene o vengono a dire “Sono io che ho venduto l’arsenico al signore” e, piuttosto che non riconoscere il compratore, ne riconoscerebbero venti; allora il maldestro colpevole è preso, imprigionato, interrogato, confrontato, confuso, condannato e ghigliottinato o, se è una donna della buona società, viene imprigionata a vita. Ecco il modo in cui i nostri settentrionali intendono la chimica. Desrues però la conosceva meglio, debbo confessarlo.»

«Che volete, signore. non tutti possiedono i segreti dei medici o dei Borgia!» disse la giovane sposa ridendo.

«Ora», riprese il conte stringendosi nelle spalle, «volete che vi dica qual è la causa di tutte queste sciocchezze? È che nei teatri, a quanto ho potuto giudicare io stesso dalla lettura delle opere che vi si rappresentano, si vede sempre qualcuno inghiottire il contenuto di un’ampolla, mordere la montatura di un anello, e cadere cadavere; cinque minuti dopo cala il sipario, gli spettatori si disperdono, s’ignorano le conseguenze dell’omicidio, non si vede mai né il commissario di polizia con la sciarpa, né il caporale coi suoi quattro agenti, e ciò autorizza i cervelli mediocri a credere che le cose finiscano così. Ma uscite un po’ dalla Francia, andate ad Aleppo o al Cairo, e vedrete passeggiare per le strade persone tutte fresche e floride, delle quali il diavolo zoppo, se vi toccasse con il suo mantello, potrebbe dirvi: “Questo signore è avvelenato da tre settimane e sarà morto tra un mese”.»

«Ma allora», replicò la signora Villefort, «hanno dunque trovato finalmente il segreto di quella famosa acqua tofana che a Perugia si diceva perduto.»

«Eh, signora, forse fra gli uomini si perde qualche cosa? Le arti si spostano e fanno il giro del mondo, le cose cambiano di nome, ecco tutto: l’uomo volgare s’inganna, ma è sempre lo stesso risultato, il veleno. Ciascun veleno opera particolarmente su un tale o tal altro organo, l’uno sullo stomaco, l’altro sul cervello, l’altro infine sugli intestini. Ebbene, il veleno determina una tosse, questa un’infiammazione di petto o qualunque altra malattia scritta nel libro della scienza, cosa che non le impedisce di essere del tutto mortale; e quand’anche non lo fosse, lo diverrebbe grazie ai rimedi somministrati da ingenui medici, che in generale sono cattivi chimici. Ecco un uomo ucciso con arte, e con tutte le regole, sul quale la giustizia non ha da ridire, come diceva un terribile chimico mio amico, l’eccellente Adelmonte di Taormina in Sicilia che aveva molto studiato i fenomeni del suo Paese.»

«È spaventoso, ma ammirabile», commentò la giovane sposa immobile per l’attenzione. «Lo confesso, credevo che tutte queste fossero invenzioni del medioevo.»

«Sì, senza dubbio, ma che si sono perfezionate ai giorni nostri. A che volete dunque che servano i tempi, gli incoraggiamenti, le medaglie, le croci, i premi alla virtù se non per condurre la società alla sua più grande perfezione? Ora l’uomo non sarà perfetto che quando saprà come creare e distruggere come la natura. Egli sa distruggere, dunque la metà del cammino è fatta.»

«Di modo che», riprese la signora Villefort, ritornando invariabilmente al suo scopo, «i veleni dei Medici, dei Renato, dei Ruggero, e più tardi probabilmente del barone von Trenck, di cui ha tanto abusato l’odierno dramma e il romanzo…»

«Erano conquiste dell’arte, signora, non altro», concluse il conte. «Credete che il vero sapiente s’indirizzi bonariamente allo stesso individuo? No, davvero. La scienza ama il recondito, le grandi fatiche, l’ideale, se ciò si può dire. Così a mo’ d’esempio, quell’eccellente Adelmonte di cui vi parlavo ha fatto al riguardo eccellenti esperienze; ve ne citerò una sola. Aveva un bellissimo giardino pieno di legumi, di fiori e di frutti. Egli sceglieva il più umile di tutti questi legumi, per esempio, un cavolo. Per tre giorni lo annaffiava con una soluzione di arsenico; il terzo giorno il cavolo cadeva malato e appassiva; era il momento di tagliarlo: per tutti sembrava maturo e conservava la normale apparenza; per Adelmonte solo era avvelenato. Allora egli portava il cavolo a casa, e prendeva un coniglio (Adelmonte aveva una collezione di conigli, di gatti, di porcellini d’India, che nulla aveva da invidiare alla collezione di legumi, di fiori e di frutti), prendeva dunque un coniglio e gli faceva mangiare una foglia di cavolo; il coniglio moriva. Quale sarebbe il giudice istruttore che potrebbe trovare da ridire su ciò? E quale procuratore del re ha mai sognato di stabilire una requisitoria contro Magendie o Flourens sul conto dei conigli, dei porcellini d’India e dei gatti che hanno ucciso? Nessuno: ecco dunque un coniglio morto senza che la giustizia se ne inquieti. Morto il coniglio, Adelmonte lo faceva sventrare dalla sua cuoca e gettava gli intestini sopra un letamaio; su questo un pollo va a beccare gli intestini, si ammala a sua volta e muore l’indomani. Mentre si dibatte nelle convulsioni dell’agonia passa un avvoltoio (vi sono molti avvoltoi nel paese di Adelmonte), piomba sul cadavere, lo porta su una roccia e lo divora. Tre giorni dopo il povero avvoltoio, che dopo questo pasto si è trovato costantemente indisposto, si sente preso da un capogiro durante il volo, s’avvita in aria e cade in un vostro vivaio di pesci: voi sapete che il luccio, l’anguilla, la murena mangiano golosamente, essi mordono l’avvoltoio. Ebbene supponete che l’indomani venga servito alla vostra tavola uno di questi lucci, una di queste anguille, una di queste murene avvelenate dopo quattro passaggi; il vostro convitato, che lo sarà al quinto, morrà in capo a otto o dieci giorni di dolore di pancia, di male al cuore, di ascesso al piloro. Verrà fatta l’autopsia, e i medici diranno: è morto di un tumore al fegato o di una febbre tifoidea.»

«Ma», ribatté la signora Villefort, «tutti questi passaggi che voi concatenate gli uni agli altri possono essere interrotti dal più piccolo accidente: l’avvoltoio, per esempio, può non passare in tempo, o cadere a cento passi dal vivaio…»

«Ecco dove sta precisamente l’arte. Per essere un gran chimico in Oriente, bisogna saper prendere l’occasione: e vi si giunge.»

La signora Villefort era tutta intenta ad ascoltarlo.

«Eppure», obiettò ancora, «l’arsenico è indelebile; in qualunque modo venga assorbito si trova sempre nel corpo umano, se introdotto in quantità sufficiente per darne la morte.»

«Esatto», gridò Montecristo, «è ciò che dissi al buon Adelmonte. Egli sorrise, e mi rispose con un proverbio siciliano, che credo sia anche un proverbio francese: “Figlio mio, il mondo non fu fatto in un giorno, ma in sette, ritornate domenica”. La domenica successiva vi andai, invece di avere annaffiato il suo cavolo con la soluzione arsenicale, l’aveva annaffiato con una soluzione a base di stricnina, strychnos colubrina come dicono gli scienziati. Questa volta il cavolo non aveva l’aspetto malato, per cui il coniglio non ne diffidava; e cinque minuti dopo era morto. Il pollo lo mangiò e il giorno dopo era morto. Allora noi facemmo come l’avvoltoio, il pollo venne sventrato. Questa volta tutti i sintomi particolari erano spariti, e non restavano che i sintomi generali. Nessuna indicazione sugli organi, soltanto esasperazione del sistema nervoso, e traccia di congestione cerebrale, nient’altro; il pollo non era stato avvelenato, era morto d’apoplessia. È un caso raro nei polli, lo so, ma comunissimo nell’uomo.»

La signora Villefort sembrava sempre più assorta.

«È una fortuna», disse, «che tali sostanze non possano essere preparate che dai chimici, perché altrimenti una metà del mondo avvelenerebbe l’altra.»

«Da chimici, e da quelli che si occupano di chimica», rispose negligentemente Montecristo.

«E poi», continuò la signora Villefort distogliendosi con forza dai suoi pensieri, «per quanto sapientemente preparato, il delitto è sempre un delitto; e se sfugge alle umane investigazioni, non sfugge però allo sguardo di Dio! Gli orientali sono più coraggiosi di noi, ecco tutto.»

«Signora, questo è un pensiero che deve naturalmente nascere in un’anima onesta come la vostra, ma che i sofismi sradicano ben presto nei perversi. La vita dell’uomo scorre facendo tali cose, e la sua intelligenza si stanca a segnarle. Voi troverete ben poche persone che vadano bestialmente a piantare un coltello nel cuore del loro simile, o a somministrare una dose d’arsenico, come quella di cui vi parlavo or ora. Questa è veramente una eccentricità o una bestialità. Per giungere a ciò bisogna che il sangue si riscaldi e che l’anima esca dai limiti ordinari. Ma se, come si usa in filologia, si passa dalla parola al sinonimo, voi fate una semplice eliminazione, invece di commettere un ignobile assassinio; se allontanate puramente e semplicemente dal vostro sentiero colui che vi dà fastidio, e ciò senza scossa, senza violenza, senza quelle sofferenze che, diventando un supplizio, fanno della vostra vittima un martire e di chi opera un carnefice in tutta l’estensione del termine; se non vi è né sangue, né urli, né contorsioni, né soprattutto la pericolosa fretta del delitto, allora voi sfuggite ai colpi della legge umana che vi dice: “Non disturbate la società”. Ecco come procedono e riescono le genti d’Oriente, persone gravi, e flemmatiche, che s’inquietano poco sulla questione del tempo nelle circostanze di una certa importanza.»

«Resta la coscienza», disse la signora Villefort con voce commossa soffocando un sospiro.

Montecristo voleva continuare, ma lei lo interruppe come per cambiar discorso.

«Tutto mi conduce a considerarvi», disse, «un gran chimico, e quell’elisir che avete fatto prendere a mio figlio, che lo ha richiamato così rapidamente alla vita…»

«Non fidatevi», la interruppe Montecristo. «Una goccia di quell’elisir bastò per richiamare vostro figlio alla vita mentre stava per morire, ma tre gocce gli avrebbero spinto il sangue ai polmoni, in modo da procurargli forti palpitazioni di cuore, sei gocce gli avrebbero sospesa la respirazione, e gli avrebbero causato una sincope molto più grave di quella in cui si trovava; dieci lo avrebbero fulminato. Avete visto, signora, in che modo lo allontanai da quelle ampolle che aveva avuto l’imprudenza di toccare…»

«È dunque un veleno terribile?»

«Mio Dio, no! Bisogna prima ammettere che la parola veleno non esiste: in medicina si servono dei veleni più violenti, che divengono, per il modo con cui sono amministrati, i rimedi più salutari.»

«Che cos’è dunque allora?»

«È una sapiente pozione del mio amico, l’eccellente Adelmonte, e di cui mi ha insegnato a servirmi.»

«Dev’essere un eccellente antispasmodico», disse la signora Villefort.

«Un ottimo rimedio, signora, lo avete visto», confermò il conte, «e io ne faccio uso frequentemente con tutta la prudenza possibile, ben inteso», aggiunse ridendo.

«Lo credo; in quanto a me, tanto nervosa e così facile a svenire avrei bisogno di pillole per respirare meglio, giacché il mio terrore è di morire soffocata. Ma siccome è difficile trovar ciò in Francia, e il vostro amico non sarà disposto a fare per me un viaggio a Parigi, io faccio uso degli antispasmodici del signor Planche, e la menta e le gocce di Hoffmann si trovano sempre in casa mia. Ecco le pastiglie che mi faccio fare espressamente: sono a doppia dose.»

Montecristo aprì la scatola di madreperla che gli porgeva la giovane sposa, e odorò le pastiglie come un esperto in grado di apprezzare quei preparati.

«Sono squisite», disse, «ma bisogna deglutirle, e spesso ciò è impossibile a una persona svenuta. Preferisco il mio preparato.»

«Certamente; io pure lo preferirei, particolarmente dopo gli effetti visti. Senza dubbio sarà un segreto, e non sono tanto indiscreta da chiedervelo…»

«Ma io sono abbastanza galante per offrirvelo.»

«Oh, signore.»

«Soltanto ricordatevi d’una cosa, che a piccola dose è un rimedio, ad alta dose è un veleno. Una goccia rende la vita, come avete visto, cinque o sei ammazzerebbero infallibilmente e in modo terribile. Sciolte in un bicchier di vino non ne altererebbero minimamente il gusto… E qui taccio, perché sembrerebbe che voglia consigliarvi…»

Le sei e mezzo erano suonate, fu annunciato un amico della signora Villefort che veniva a pranzo da lei.

«Se avessi l’onore di avervi già frequentato più volte e avessi così l’onore d’essere vostra amica, invece di avere soltanto la fortuna d’esservi obbligata, insisterei perché rimaneste a pranzo, e non mi lascerei scoraggiare da un primo rifiuto…»

«Mille grazie, signora», rispose Montecristo. «Ho un impegno al quale non posso mancare. Ho promesso di condurre a teatro una principessa greca mia amica, che non è ancora stata all’Opéra, e conta su di me per andarvi.»

«Andate dunque, ma non dimenticate la mia ricetta.»

«Come potrei, signora? Per far ciò bisognerebbe dimenticare la conversazione che ho avuta con voi, il che è impossibile.»

Montecristo salutò e partì.

La signora Villefort rimase pensierosa.

«Ecco un uomo strano» disse fra sé, «e che mi dà la sensazione di essere l’Adelmonte di cui parlava.»

In quanto a Montecristo il risultato aveva superato la sua aspettativa.

«Andiamo». si disse partendo, «ecco un buon terreno; sono convinto che il seme caduto germoglierà.»

Il giorno dopo, fedele alla sua promessa, inviò la ricetta.

52. Roberto il diavolo

La scusa dell’Opéra era tanto più credibile, in quanto quella sera era pomposamente dedicata all’Accademia reale di musica. Levasseur, dopo lunga indisposizione, si esibiva nella parte di Bertramo e come accade sempre, l’opera del maestro di moda aveva richiamato la migliore società di Parigi.

Morcerf, come la maggior parte dei giovani ricchi, aveva il suo posto fisso in orchestra, più dieci palchi di persone di sua conoscenza cui poteva domandare un posto, senza calcolare quello al quale aveva diritto nel palco dei Lyons. Château-Renaud occupava il posto vicino al suo; Beauchamp, in qualità di giornalista, sedeva dove voleva. Quella sera Lucien Debray teneva a sua disposizione il palco del ministro, e lo aveva offerto al conte Morcerf, il quale dopo il rifiuto di Mercedes lo aveva girato a Danglars, avvisandolo che quella sera avrebbe probabilmente fatto visita alla baronessa e a sua figlia, se queste signore avessero accettato il palco. Queste dame si erano guardate bene dal rifiutare. Nessuno è più desideroso di un palco gratuito di un milionario.

In quanto a Danglars, aveva dichiarato che i suoi principi politici, e la qualità di deputato dell’opposizione, non gli permettevano di andare nel palco del ministro. Di conseguenza la baronessa aveva scritto a Lucien di passare a prenderla, poiché non poteva andare all’Opéra sola con Eugénie. Infatti se le due dame vi fossero andate sole, si sarebbe giudicato di cattivo gusto, mentre nulla c’era da ridire se la signorina Danglars andava all’Opéra con sua madre e l’amante di lei… Bisogna pure prendere il mondo come è fatto.

Il sipario si alzò come sempre con il teatro quasi vuoto. Questa è una delle abitudini della società elegante parigina, che va allo spettacolo quando è già cominciato; e ne deriva che, per gli spettatori già arrivati, il primo atto passa senza essere guardato e ascoltato, mentre tutti sono attratti dagli spettatori che giungono, e non ascoltano altro che il rumore delle porte e quello delle conversazioni.

«Guarda», disse all’improvviso Albert vedendo aprirsi un palco laterale, «la contessa G.”

«E chi è questa contessa G.?» domandò Château-Renaud.

«Ecco una domanda che non vi perdono, barone… Chiedete chi è la contessa G.?»

«Oh è vero», si sovvenne Château-Renaud. «Non è quella graziosa veneziana?»

«Precisamente.»

In quel momento la contessa G. scorse Albert, e scambiò con lui un saluto accompagnato da un sorriso.

«La conoscete?» domandò Château-Renaud.

«Sì», confermò Albert. «Le fui presentato a Roma da Franz.»

«Vorreste rendermi a Parigi lo stesso favore che Franz vi rese Roma?»

«Ben volentieri.»

«Silenzio!» gridò il pubblico.

I due giovani continuarono la loro conversazione, senza curarsi del desiderio della platea di sentire la musica.

«Era alle corse al Champ de Mars», disse Château-Renaud.

«Già, oggi c’erano le corse… Avete scommesso?»

«Una miseria di cinquanta luigi…»

«Chi ha vinto?»

«Nautilus, ho scommesso su lui.»

«Ma non c’erano tre corse?»

«Sì, il premio del Jockey Club, una coppa d’oro. Anzi è accaduto un fatto curioso.»

«E quale?»

«Zitti dunque!» gridò il pubblico.

«La corsa è stata vinta da un cavallo e un fantino sconosciuti a tutti.»

«Come?»

«Sì, nessuno aveva fatto attenzione a un cavallo iscritto sotto il nome di Vampa e a un fantino chiamato Job, quando abbiamo visto entrare un magnifico sauro, e un fantino grosso come un pugno; sono stati costretti a caricarlo di 10 chili di piombo nelle tasche, cosa che non gli ha impedito di anticipare di tre lunghezze Ariel e Barbaro che correvano con lui.»

«E non si è saputo a chi appartenevano il cavallo e il fantino?»

«No.»

«Avete detto che il cavallo era iscritto con il nome di…»

«Vampa.»

«Sono più informato di voi, so a chi apparteneva il cavallo.»

«Silenzio!» gridò per la terza volta la platea.

Questa volta gli urli erano così insistenti, che i due giovani si accorsero finalmente ch’erano indirizzati a loro. Si volsero un momento cercando nella folla chi poteva essere così insolente da zittirli; ma nessuno ripeté il grido, ed essi si volsero verso la scena. In quel mentre si apriva il palco del ministro, e la signora Danglars con la figlia e Lucien Debray prendevano i loro posti.

«Ah-ah!» esclamò Château-Renaud. «Ecco delle persone di vostra conoscenza, visconte… Perché guardate a destra? Siete osservato da quest’altra parte.»

Albert si girò e i suoi occhi incontrarono quelli della baronessa Danglars, che gli fece un piccolo saluto con il ventaglio. In quanto alla signorina Eugénie fu molto se i suoi occhi si abbassarono fino all’orchestra.

«In verità, mio caro», riprese Château-Renaud, «non capisco, prescindendo dalla condizione borghese, che non credo vi preoccupi molto, quel che potete avere contro la signorina Danglars; eppure è una bellissima giovane.»

«Bellissima certamente», ammise Albert, «ma vi confesso che in fatto di bellezza amerei qualche cosa di più dolce, di più soave, infine di più femminile.»

«Ecco i giovani, non si accontentano mai», scherzò Château-Renaud, che nella sua qualità di uomo di trent’anni assumeva un’aria paterna. «Vi si trova una fidanzata costruita sul modello di Diana cacciatrice, e non siete contento!»

«Ebbene, l’avrei desiderata piuttosto del genere della Venere di Milo, o di Capua. Questa Diana cacciatrice, sempre in mezzo alle sue ninfe, mi spaventa un poco; ho paura che mi tratti come Atteone.»

Infatti, un colpo d’occhio sulla giovane, poteva quasi spiegare il sentimento di Morcerf. Eugénie Danglars era bella, ma come aveva detto Albert, di una bellezza un po’ statuaria. I capelli erano di un bel nero, ma nell’ondulazione si notava una specie di ritrosia al pettine; gli occhi, neri come i capelli, sotto magnifiche sopracciglia, che non avevano che un difetto, quello cioè di aggrottarsi qualche volta, erano particolarmente notevoli per un’espressione di fermezza rara in una donna, il naso aveva quelle proporzioni esatte che un bravo scultore darebbe alla statua di Giunone; soltanto la bocca era un po’ grande, ma con bei denti che davano risalto alle labbra, il cui carminio troppo vivo spiccava sul pallore del viso; infine, un neo nero posto all’angolo della bocca, e più largo del naturale, finiva col dare a questa fisonomia un’indole risoluta, ciò che spaventava un pochino Morcerf. Il resto della persona di Eugénie corrispondeva alla testa che abbiamo cercato di descrivere. Era come aveva detto Albert, una Diana cacciatrice, ma con qualche cosa di più fermo e di più maschio nella sua bellezza.

In quanto all’educazione ricevuta, se si poteva fare un rimprovero, sembrava in alcuni punti, come nella sua fisonomia, più propria all’altro sesso. Parlava infatti due o tre lingue, disegnava facilmente, componeva versi e musica, era soprattutto appassionata di quest’ultima arte, che studiava con una delle amiche del conservatorio, ragazza senza beni di fortuna, ma che, a quanto veniva assicurato, aveva tutte le doti possibili per divenire una eccellente cantante; si diceva che un gran compositore provava per questa ragazza un interesse quasi paterno, e la faceva studiare nella speranza che un giorno avrebbe fatto una gran fortuna con la sua voce. L’eventualità che Louise d’Armilly (questo il nome della giovane virtuosa) potesse un giorno salire sul palcoscenico, faceva sì che la signorina Danglars, sebbene la ricevesse in casa, non si facesse vedere con lei in pubblico. Del resto senza avere nella casa del banchiere il posto di un’amica, Louise godeva di una posizione superiore a quella delle istitutrici ordinarie.

Qualche istante dopo l’ingresso della signora Danglars nel palco, era calato il sipario, e grazie alla lunghezza dell’intermezzo fra un atto e l’altro, venne lasciato tutto il comodo di andare a passeggiare nei corridoi o di fare delle visite per una mezz’ora: i posti dell’orchestra si erano quasi del tutto vuotati.

Morcerf e Château-Renaud erano usciti fra i primi. Per un momento la signora Danglars credette che la sollecitudine di Albert avesse per scopo di farle i suoi complimenti, e si era chinata sull’orecchio della figlia per annunciarle questa visita, ma lei si era limitata a scuotere la testa sorridendo; e nello stesso tempo, come per provare quanto era fondato lo scetticismo d’Eugénie, Morcerf comparve nel palco di fianco: era quello della contessa G.

«Eccovi qui, signor viaggiatore», disse questa tendendogli la mano con tutta la cordialità di una vecchia conoscenza. «È gentile da parte vostra avermi riconosciuta, e soprattutto avermi accordato la preferenza della prima visita.»

«Credetemi, signora, se avessi saputo prima del vostro arrivo a Parigi, e avessi avuto il vostro indirizzo, non avrei aspettato tanto. Ma vogliate permettermi di presentarvi il barone Château-Renaud mio amico, uno dei pochi gentiluomini che rimangono ancora alla Francia, dal quale ho saputo che voi eravate alle corse del Champ de Mars.»

Château-Renaud s’inchinò.

«Eravate alle corse, signore?» domandò con vivacità la contessa.

«Sì, signora.»

«Ebbene», riprese la contessa G., «sapreste dirmi di chi era il cavallo che ha vinto il Jockey Club?»

«No, signora, e poco fa facevo la stessa domanda ad Albert.»

«Date tanta importanza alla cosa, contessa?» chiese Albert.

«A che?»

«A conoscere il padrone del cavallo.»

«Moltissimo… Immaginatevi… Sapreste, visconte, per caso, chi sia?»

«Signora, sembravate sul punto di iniziare una storia: avete detto

“immaginatevi”…»

«Ebbene! Immaginatevi che quel grazioso cavallo sauro e quel delizioso e piccolo fantino dalla casacca rosa mi avevano a prima vista ispirato una così forte simpatia, che facevo voti per l’uno e per l’altro, come se avessi scommesso su di loro la metà dei miei beni: per cui quando giunsero al nastro, battendo gli altri corridori di tre lunghezze, ne fui così contenta, che mi misi a battere le mani come una pazza. Figuratevi il mio stupore allorché, rientrando in casa, ho incontrato per le scale il piccolo fantino rosa, credetti che il vincitore della corsa abitasse per caso nella stessa casa, quando, aprendo la porta del mio salotto, la prima cosa che vidi, fu la coppa d’oro del premio vinto dal cavallo e dal fantino sconosciuti. Nella coppa c’era un pezzetto di carta sul quale erano scritte queste parole: “Alla contessa G., lord Ruthwen”.»

«È proprio lui», confermò Morcerf.

«Come “proprio lui»? Chi volete dire?»

«Voglio dire che è lord Ruthwen in persona.»

«Quale lord Ruthwen?»

«Il mostro, il vampiro, quello del teatro Argentina.»

«Davvero?» gridò la contessa. «È dunque qui?»

«Sì, è qui.»

«E voi lo vedete, lo ricevete, andate da lui?»

«È mio amico intimo; e anche il signor Château-Renaud ha l’onore di conoscerlo.»

«Ma che cosa può farvi credere che egli sia il vincitore?»

«Il suo cavallo iscritto sotto il nome di Vampa.»

«Ebbene, continuate.»

«Non vi ricordate il nome di quel famoso bandito che mi fece prigioniero?»

«Ah, è vero.»

«E dalle mani del quale il conte mi strappò miracolosamente?»

«Certamente.»

«Si chiamava Vampa… Vedete bene che è lui.»

«Ma perché ha inviato a me questa coppa?»

«Innanzitutto, signora contessa, perché gli avevo parlato molto di voi, come potete ben capire; secondo, perché sarà stato felice di aver ritrovato una compatriota, e contento dell’interesse che questa compatriota aveva per lui.»

«Spero che non gli avrete raccontato le sciocchezze che si sono dette sul suo conto.»

«In fede mia, non lo giurerei. E questo modo d’offrirvi la coppa sotto il nome di lord Ruthwen…»

«È orribile… Sarà adirato con me!»

«Le sembra il comportamento di un nemico?»

«No, lo confesso.»

«E allora?»

«Dunque è a Parigi?»

«Sì.»

«E che impressione ha fatto?»

«Se ne è parlato otto giorni», rispose Albert. «Poi c’è stata l’incoronazione della regina d’Inghilterra, e quindi il furto dei diamanti della signorina Mars, e non si è più parlato che di questo.»

«Mio caro», disse Château-Renaud, «si vede bene che il conte è vostro amico, e lo trattate come tale… Non credete, signora, a ciò che vi dice Albert… In tutta Parigi non si parla che del conte di Montecristo. Egli ha cominciato con il regalare alla signora Danglars un paio di cavalli che gli sono costati trentamila franchi; poi ha salvato la vita alla signora Villefort; poi ha guadagnato, a quanto sembra, il premio della corsa del Jockey Club. Io sostengo, qualunque sia l’opinione di Morcerf, che in questo momento tutti si occupano ancora del conte, e che si occuperanno per un buon mese ancora di lui, tanto più se continua a fare delle eccentricità, le quali, del resto, sembrano il suo modo di vivere.»

«Può darsi», concesse Morcerf. «Ma, guardate, chi ha affittato il palco dell’ambasciatore russo?»

«Qual è?» chiese la contessa.

«Quello fra i colonnati della prima galleria, che sembra rimesso completamente a nuovo.»

«È vero», riconobbe Château-Renaud. «Non c’era nessuno durante il primo atto?»

«Dove?»

«In quel palco.»

«No», rispose la contessa, «non ho visto nessuno. Così», continuò ritornando alla prima conversazione, «credete che il vostro conte di Montecristo sia stato quello che ha vinto il premio?»

«Ne sono sicuro.»

«E che mi ha inviato la coppa?»

«Senz’alcun dubbio.»

«Ma io non lo conosco, e ho l’intenzione di rimandargliela.»

«Non lo fate, ve ne manderebbe un’altra tempestata di qualche zaffiro, o scavata in qualche rubino. Questi sono i suoi modi di fare…»

In quell’istante s’intesero i campanelli: il secondo atto stava per cominciare.

Albert si alzò per tornare al suo posto.

«Vi rivedrò?» domandò la contessa.

«Nell’intermezzo, se permettete, verrò a sentire se posso esservi utile a Parigi.»

«Signori», disse la contessa, «tutti i sabati sera sto in casa per ricevere gli amici, rue de Rivoli, 22. Entrambi siete invitati.»

I due giovani salutarono e uscirono. Ritornando in platea, videro tutti in piedi con gli occhi fissi su un unico punto del teatro; i loro sguardi seguirono quelli di tutti, e si fermarono sul palco che prima apparteneva all’ambasciatore di Russia. Erano entrati un uomo vestito di nero di trentacinque, quarant’anni, e una donna che indossava un costume orientale. La donna era di una bellezza meravigliosa, e il vestito di tale ricchezza che tutti gli occhi, come si disse, erano su di lei.

«Ecco», disse Albert, «Montecristo e la sua greca.»

Infatti erano il conte e Haydée.

La giovane greca era l’oggetto dell’attenzione non solo della platea, ma di tutto il teatro; le donne si sporgevano dai palchi per vedere risplendere al chiarore dei lumi quella cascata di diamanti.

Il secondo atto passò in mezzo a quel sordo mormorio che nelle grandi platee accompagna i grandi avvenimenti. Nessuno pensò a gridare silenzio. Quella donna così bella, così giovane, così raggiante, era il più bello spettacolo che si potesse vedere.

Questa volta un segno della signora Danglars fece capire chiaramente ad Albert che la baronessa desiderava avere una sua visita, finito l’atto. Morcerf era troppo educato per farsi aspettare, quando gli veniva chiaramente detto ch’era atteso. Appena l’atto finì, si affrettò a salire al palco del proscenio.

Salutò le due dame e tese la mano a Debray. La baronessa lo accolse con un grazioso sorriso, ed Eugénie con la sua abituale freddezza.

«In tutta sincerità, mio caro», iniziò Debray, «voi vedete un uomo depresso, che vi chiama in aiuto per sollevarlo. Ecco qui la signora che mi aggredisce con le domande sul conte, e vuole ch’io sappia di dov’è, da dove viene, dove va: in fede mia, non sono Cagliostro, e per togliermi d’impaccio, ho detto: “Domandate tutto ciò a Morcerf; egli conosce benissimo Montecristo”… Allora vi hanno fatto segno.»

«Non è incredibile?» disse la baronessa. «Quando si è al ministero e si ha mezzo milione per i segreti di Stato, bisognerebbe saper rispondere a queste domande!»

«Signora», rispose Lucien, «vi prego di credere che se avessi mezzo milione a mia disposizione, lo impiegherei in tutt’altro modo, che nel prendere informazioni sul conte di Montecristo, che ai miei occhi non ha altro merito, se non quello di essere due volte più ricco di un nababbo: ma ho ceduto la parola a Morcerf, accomodatevi con lui; in ciò non ho più nulla da dire.»

«Un nababbo non mi avrebbe certo mandato in regalo un paio di cavalli di trentamila franchi con quattro diamanti da cinquemila franchi l’uno.»

«I diamanti sono la sua mania», disse ridendo Morcerf. «Io credo che, come Potemkin, ne abbia sempre in tasca, e ne semini lungo la strada, come Pollicino faceva coi sassolini.»

«Avrà scoperto qualche miniera», ribatté la signora. «Sapete che ha un credito illimitato sulla banca di mio marito?»

«Non lo sapevo, ma dev’esser così», rispose Albert.

«E che ha detto al signor Danglars che conta di stare a Parigi un anno e di spendervi sei milioni?»

«È lo scià di Persia che viaggia in incognito.»

«E quella donna, signor Lucien», intervenne Eugénie. «Avete notato quanto è bella?»

«In verità, signorina, non conosco che voi per far vanto alle persone del vostro sesso.»

Lucien accostò l’occhialino.

«Graziosa!» disse.

«E il signor Morcerf sa chi sia quella signora?»

«Signorina», disse Albert, rispondendo a questa domanda quasi diretta, «pressappoco, come tutto ciò che riguarda il personaggio misterioso di cui si parla: è una greca.»

«Si capisce facilmente dal vestito… Non mi dite nulla più di quanto a quest’ora sa tutto il teatro.»

«Sono mortificato», si dispiacque Morcerf, «d’essere un cicerone tanto ignorante; ma debbo confessarvi che le mie cognizioni si limitano a questo. So anche che ama la musica, perché un giorno che feci colazione dal conte, sentii il suono di una guzla che certamente suonava lei.»

«Il vostro conte riceve?» domandò la signora Danglars.

«In modo splendido, ve lo giuro.»

«Bisogna che obblighi il signor Danglars a offrirgli un pranzo, un ballo, affinché ce lo restituisca.»

«Come, andreste da lui?» domandò Debray, ridendo.

«E perché no? Con mio marito.»

«Ma questo misterioso conte è celibe.»

«Vedete che non è vero», ribatté ridendo la baronessa indicando la bella greca.

«Quella donna è una schiava, a quanto ci ha detto, ve ne ricordate, alla vostra colazione, Morcerf.»

«Converrete, mio caro Lucien», disse la baronessa, «che ha piuttosto l’aspetto di una principessa.»

«Delle Mille e una notte.»

«Non dico delle Mille e una notte, ma che cosa fa una principessa, caro mio? I diamanti! Ed essa ne è ricoperta.»

«Ne ha anche troppi», commentò Eugénie. «Sarebbe ancor più bella, senza; perché il collo e i polsi, che sono di forma squisita, risalterebbero di più.»

«Oh, l’artista! Sentitela», scherzò la signora Danglars, «come è entusiasta…»

«Amo tutto ciò che è bello», si difese Eugénie.

«Ma che ne dite del conte? Mi sembra che non sia male.»

«Il conte», disse Eugénie, come se non avesse ancora pensato a guardarlo, «il conte è molto pallido.»

«Di questo pallore appunto», dichiarò Morcerf, «cerchiamo di conoscere la causa. La contessa G. afferma che sia un vampiro.»

«È dunque ritornata la contessa?» domandò la baronessa.

«È nel palco a fianco», disse Eugénie, «quasi in faccia al nostro, madre mia… Quella donna con quei mirabili capelli biondi…»

«Bella…» ammise la signora Danglars. «Sapete cosa dovreste fare, Morcerf?»

«Ordinate, signora.»

«Dovreste fare una visita al vostro conte di Montecristo e condurcelo.»

«Per quale motivo?» chiese Eugénie.

«Per parlare con lui… Non sei curiosa di vederlo?»

«Niente affatto!»

«Strana fanciulla», mormorò la baronessa.

«Non occorre», disse Morcerf. «Probabilmente verrà da sé. Guardate, vi ha visto, signora, e vi saluta.»

La baronessa rese il saluto al conte accompagnandolo con un grazioso sorriso.

«Andiamo», disse Morcerf, «mi sacrifico, vi lascio per scoprire il modo di parlargli.»

«Andate nel palco, la cosa è semplicissima.»

«Ma io non sono stato presentato.»

«A chi?»

«Alla bella greca.»

«Avete detto che è una schiava…»

«Sì, ma voi affermate che sia una principessa… Spero che quando mi vedrà uscire, uscirà a sua volta…»

«È possibile, andate.»

«Vado.»

Morcerf salutò e uscì. Effettivamente nel momento in cui passava davanti al palco del conte, la porta si aprì: il conte disse alcune parole in arabo ad Alì, che stava in corridoio, e prese il braccio di Morcerf. Alì chiuse la porta, e ci si mise davanti; nel corridoio una piccola folla curiosava.

«A dire il vero», cominciò Montecristo, «la vostra Parigi è una strana città, e i vostri parigini gente curiosa. Si direbbe che questa è la prima volta che vedano un nubiano: guardate come si affollano intorno a questo povero Alì, che non capisce il perché. Vi dico però che un parigino può andare a Tunisi, a Costantinopoli, a Baghdad, al Cairo e non gli faranno cerchio intorno.»

«I vostri orientali sono persone sensate, e non guardano che ciò che merita d’essere guardato, ma credetemi, Alì non gode di questa popolarità se non perché vi appartiene… In questo momento voi siete l’uomo di moda.»

«Davvero? E chi mi ha procurato questo favore?»

«Voi stesso! Regalate pariglie da migliaia di luigi, salvate la vita alle mogli dei procuratori del re, fate correre sotto il nome del maggiore Black dei purosangue, montati da fantini grossi come formiche e infine vincete delle coppe d’oro, e le mandate in regalo a delle belle donne.»

«Chi diavolo vi ha raccontato tutte queste fandonie?»

«La prima, la signora Danglars, che muore dalla voglia di vedervi nel suo palco, o piuttosto che vi facciate vedere; la seconda, il giornale di Beauchamp; e la terza, il mio intuito. Perché avete chiamato Vampa il vostro cavallo, se volevate conservare l’incognito?»

«È vero!» riconobbe il conte. «È stata un ‘imprudenza. Ma ditemi, il conte Morcerf non viene qualche volta all’Opéra? L’ho cercato dappertutto, ma non l’ho visto da nessuna parte.»

«Verrà questa sera.»

«E dove?»

«Nel palco della baronessa, credo.»

«Quella graziosa giovane che è con lei è sua figlia?»

«Sì.»

«Vi faccio le mie congratulazioni.»

Morcerf sorrise.

«Ne riparleremo in un altro momento, e più a fondo…» disse. «Che ne dite della musica?»

«Quale musica?»

«Ma… quella che avete ascoltata!»

«È bellissima per essere una musica composta da un comune mortale, e cantata da uccelli senza ali, come diceva Diogene.»

«Che dite, caro conte? Sembrerebbe che abbiate potuto udire i sette cori celesti…»

«Sarebbe ancora poco. Quando voglio udire della musica mai sentita da orecchio umano, allora dormo.»

«Ebbene, qui siete nel posto giusto… Dormite, dormite, l’opera non è stata inventata per altro scopo.»

«No, la vostra orchestra fa troppo rumore, perché possa dormire del sonno di cui vi parlo, mi occorrono calma, silenzio, e una certa preparazione…»

«Ah, il famoso hashish!»

«Appunto, visconte, quando vorrete sentire della musica venite a cena da me.»

«Ma già la udii venendo a colazione», ribatté Morcerf.

«A Roma?»

«Sì.»

«Sarà stata la guzla di Haydée. Si diverte qualche volta a suonare delle arie del suo Paese.»

Morcerf non volle insistere, e il conte tacque. In quel momento suonò il campanello.

«Voi mi scuserete», disse il conte riprendendo la via del suo palco.

«Scusarvi di cosa?»

«Fate mille complimenti alla contessa G. da parte del suo vampiro.»

«E alla baronessa?»

«Le direte che avrò l’onore, se me lo permette, di portarle i miei omaggi nella serata.»

Il terz’atto cominciò. Il conte Morcerf venne, come aveva promesso, a raggiungere la signora Danglars. Il conte non era uno di quegli uomini che fanno colpo in un teatro: nessuno si accorse del suo arrivo, fuorché le persone del palco in cui prese posto. Ma Montecristo lo vide, e un leggero sorriso gli sfiorò le labbra. Haydée, invece, nulla vide finché il sipario rimase alzato; come tutte le nature primitive ella adorava tutto ciò che parla all’orecchio e agli occhi.

Il terzo atto passò senza applausi eccezionali. Le signorine Noblet, Julia, e Leroux eseguirono i loro soliti intermezzi, il principe di Granada fu sfidato da Roberto e infine questo maestoso re, che tutti conoscete, fece il giro della scena, per mostrare il suo manto di velluto, tenendo sua figlia per mano; poi calò il sipario, e la platea si riversò nella sala e nei corridoi. Il conte uscì dal palco e un momento dopo fu visto in quello della baronessa Danglars, la quale non poté contenere un leggero grido di sorpresa misto a gioia.

«Venite dunque, signor conte!» disse. «Desidero troppo aggiungere i miei ringraziamenti verbali a quelli che vi ho già scritti.»

«Signora, vi ricordate ancora di quella inezia, io l’avevo già dimenticata.»

«Sì, ma ciò che non si dimentica, signor conte, è che il giorno seguente salvaste la mia buona amica, la signora Villefort, dal pericolo che le facevano correre i miei cavalli.»

«Neppure questa volta merito i vostri ringraziamenti. Alì, il mio nubiano, ebbe l’opportunità di rendere alla signora Villefort questo importante servizio.»

«Ma fu sempre Alì», domandò il conte di Morcerf, «a salvare mio figlio dalle mani dei banditi romani?»

«No, signor conte», rispose Montecristo stringendo la mano che gli tendeva il generale. «Questa volta accetto i ringraziamenti, per conto mio, ma voi me li avete già fatti, e in verità sono felice di sentirvi tanto riconoscente. Fatemi dunque l’onore, ve ne prego, baronessa, di presentarmi a vostra figlia.»

«Vi siete già presentato, almeno di nome, poiché da due o tre giorni non si parla che di voi. Eugénie», continuò la baronessa voltandosi verso la figlia, «il conte di Montecristo.»

Il conte s’inchinò, la signorina Danglars fece un leggero movimento con la testa.

«Nel palco con voi c’è una bellissima signora, conte», disse Eugénie. «È vostra figlia?»

«No, signorina», spiegò Montecristo stupito da tanta ingenuità, o dalla sorprendente malizia. «È una greca di cui sono tutore.»

«Come si chiama?»

«Haydée», rispose Montecristo.

«Una greca», mormorò il conte di Morcerf.

«Sì, conte», disse la signora Danglars. «E ditemi se alla corte d’Alì Tebelen, ove avete servito gloriosamente, avete mai visto un costume così ammirabile, come quello che abbiamo innanzi agli occhi.»

«Voi avete servito a Giannina?» s’interessò Montecristo.

«Sono stato istruttore delle truppe del pascià», rispose Morcerf, «e la mia piccola fortuna, non lo nascondo, mi viene dalla liberalità di questo illustre capo albanese.»

«Guardate, dunque», insistette la signora Danglars.

«Dove?» balbettò Morcerf.

«Lassù», disse Montecristo, e attirando il conte con il braccio, sporse con lui la testa dal palco.

In quel momento Haydée, che cercava con gli occhi il conte, mostrò il suo viso pallido vicino a quella di Morcerf. Quella vista produsse sulla giovane l’effetto della testa di Medusa: fece un movimento in avanti, come per divorarli con lo sguardo poi, quasi subito, si gettò indietro, mandando un debole grido, inteso soltanto dalle persone vicine e da Alì, che aprì subito la porta.

«Avete visto?» disse Eugénie. «Che accade alla vostra pupilla, signor conte? Si direbbe che stia male.»

«Sembra», ammise il conte. «Ma non vi spaventate, signorina, Haydée è un temperamento nervoso e molto sensibile agli odori: un profumo fastidioso basta per farla svenire… Ma», aggiunse, estraendo una boccettina dalla tasca, «ho qui il rimedio.»

E dopo avere salutato la baronessa e la figlia, strinse nuovamente la mano a Morcerf e a Debray, e uscì dal palco della signora Danglars. Quando rientrò nel suo, Haydée era ancora molto pallida; appena le strinse la mano Montecristo s’accorse ch’era fredda e umida.

«Con chi parlavi, signore?» domandò Haydée.

«Con il conte di Morcerf», rispose Montecristo, «che è stato al servizio del tuo illustre padre, e che confessa di dovergli la sua fortuna.»

«Miserabile, egli lo vendette ai turchi! La sua fortuna fu il premio del suo tradimento. Tu dunque non lo sapevi, mio signore?»

«Ne avevo sentito parlare in Epiro», riconobbe Montecristo, «ma ignoro i particolari… Vieni, figlia mia, me li racconterai tu… Devono esser curiosi.»

«Sì, vieni, vieni. Penso che morirei se dovessi restare ancora di fronte a quest’uomo.»

Haydée s’alzò all’istante, s’avvolse nel suo mantello di cachemire bianco, orlato di perle e di corallo e uscì nel momento in cui si alzava il sipario per il quarto atto.

«Quell’uomo non si comporta come gli altri!» disse la contessa G. ad Albert ch’era ritornato da lei. «Ascolta attentamente il terzo atto del Roberto, e se ne va quando sta per cominciare il quarto.»



53. Rialzo e ribasso dei fondi

Qualche giorno dopo questo incontro, Albert di Morcerf andò a fare visita al conte di Montecristo nella sua casa sugli Champs-Elysées, la quale aveva già preso quell’aspetto di dimora principesca che il conte, grazie alle sue enormi ricchezze, sapeva imprimere alle sue abitazioni. Albert veniva a rinnovargli i ringraziamenti della signora Danglars, già ricevuti in una lettera firmata baronessa Danglars, nata Hermine di Salvieux. Il visitatore era accompagnato da Lucien Debray, che unì alle parole dell’amico qualche complimento, non certo ufficiale, ma di cui il conte con il suo fine intuito non poteva non sospettar la provenienza. Gli sembrò perfino che Lucien venisse a fargli visita mosso da un doppio sentimento di curiosità, di cui almeno metà proveniva dalla rue Chaussée d’Antin: infatti poteva supporre, senza timore di sbagliarsi, che la signora Danglars, non potendo con i suoi occhi ispezionare l’appartamento di un uomo che regalava cavalli da trentamila franchi e andava all’Opéra con una greca che ostentava il valore di un milione in diamanti, aveva incaricato quelli di un fidato amico per avere qualche informazione. Ma il conte non parve sospettare la minima relazione fra la visita di Lucien e la curiosità della baronessa.

«Siete in buoni rapporti con il barone Danglars?» domandò ad Albert.

«Sì, signor conte, sapete ciò che vi ho detto.»

«Pertanto è sempre valido?»

«Oggi più che mai…» confermò Lucien. «È affare fatto.»

E Lucien, reputando senza dubbio che quelle parole gli desse il diritto di estraniarsi dalla conversazione, si portò la lente all’occhio, e con il pomo del bastoncino alle labbra, fece il giro della stanza esaminando le armi e i quadri.

«Bene», riprese Montecristo. «A quanto mi diceste, non avrei creduto a una soluzione così immediata.»

«Che volete? Le cose camminano da sé… Quando voi non pensate a loro, esse pensano a voi, e quando vi voltate, siete meravigliato del cammino che hanno fatto. Mio padre e il signor Danglars hanno servito insieme in Spagna. Mio padre, rovinato dalle vicende politiche, e Danglars che non aveva mai avuto patrimonio, gettarono le prime fondamenta: mio padre della sua fortuna politico-militare, ch’è straordinaria, Danglars della sua politico-commerciale, che è ammirabile.»

«Sì, infatti», riconobbe Montecristo. «Credo che nella visita che gli ho fatto, il signor Danglars me ne abbia parlato… e», continuò, lanciando un’occhiata a Lucien che stava sfogliando un album, «è bella la signorina Eugénie?… Perché credo di ricordarmi che si chiami Eugénie…»

«Molto bella, o piuttosto molto avvenente», disse Albert, «ma di una bellezza che non apprezzo; sono un indegno.»

«Ne parlate come se foste già suo marito.»

«Oh!» fece Albert, dando anch’egli uno sguardo a Lucien.

«Sapete», riprese Montecristo abbassando la voce, «che non mi sembrate molto entusiasta di questo matrimonio?»

«La signorina Danglars è troppo ricca per me, e ciò mi spaventa», ammise Morcerf.

«Questa non è una buona ragione!» replicò Montecristo. «Non siete ricco anche voi?»

«Mio padre ha qualche cosa… circa cinquantamila lire di rendita, e maritandomi me ne cederà forse dieci o dodici.»

«La cifra è alquanto modesta, particolarmente a Parigi; ma in questo mondo non ci sono solo le ricchezze, e non è piccola cosa avere un nome e un’alta posizione in società. Il vostro nome è celebre, la vostra posizione magnifica, e poi il conte Morcerf è un soldato, ed è cosa risaputa la sua integrità… Il disinteresse è il più bel raggio di sole al quale possa balenare una nobile spada. Trovo questo matrimonio convenientissimo: voi nobiliterete la signorina Danglars, lei vi arricchirà!»

Albert scosse la testa e rimase pensieroso.

«Vi sono altre cose», disse.

«Vi confesso che non arrivo a comprendere tanta repulsione per una giovane ricca e bella.»

«Questa repulsione, se pure c’è, non viene tutta da parte mia.»

«E da quale parte, dunque? Mi avete detto che vostro padre desiderava questo matrimonio.»

«Da parte di mia madre, che ha un occhio prudente e sicuro. Ebbene, a lei non piace quest’unione; ha una certa prevenzione contro i Danglars.»

«Ciò si capisce», riconobbe il conte con un tono di voce un po’ forte. «La contessa Morcerf, che è la distinzione e la delicatezza personificate, esita alquanto a toccare una mano ordinaria, callosa e brutale.»

«Non so se sia così», ribatté Albert, «ma mi sembra che questo matrimonio la renderà infelice. Vi doveva già essere una riunione di famiglia sei settimane fa per parlarne, ma mi è venuta una forte emicrania…»

«Vera?» domandò il conte sorridendo.

«Sì, vera, la paura senza dubbio… E la riunione fu aggiornata fra due mesi. Non c’è fretta, come capite, non ho ancora ventun anni, ed Eugénie non ne ha che diciassette: ma i due mesi scadono la settimana ventura. Bisognerà affrontarla. Non potete immaginare, caro conte, quanto mi senta in imbarazzo. Ah, quanto siete felice voi, che siete libero!»

«Ebbene, restate come vi piace… Chi ve lo impedisce?»

«Sarebbe una grande delusione per mio padre, se non sposassi la signorina Danglars.»

«Sposatela dunque», disse il conte, stringendosi nelle spalle.

«Sì», annuì Morcerf, «ma per mia madre non sarà una delusione, bensì un dolore.»

«Ed allora non la sposate», ripeté il conte.

«Vedrò, proverò… Mi consiglierete, non è vero? Se vi è possibile, mi toglierete da quest’impaccio? Per non procurare un dispiacere a mia madre, credo che oserei uno sgarbo a mio padre…»

Montecristo si voltò, era commosso.

«Che fate?» domandò a Debray ch’era sprofondato in una sedia in un angolo del salotto, tenendo con una mano una matita e con l’altra un taccuino. «Uno schizzo nel genere di Poussin?»

«Io?» disse Debray tranquillamente. «Sì, uno schizzo! Amo molto la pittura! Ma questa volta faccio il contrario, scrivo dei numeri.»

«Dei numeri?»

«Sì, calcolo, e ciò riguarda voi indirettamente, visconte, calcolo ciò che la casa Danglars dovrebbe aver guadagnato sull’ultimo rialzo dei fondi di Haiti: da duecentosei i fondi sono saliti a quattrocentonove in tre giorni, e il prudente

banchiere ne aveva acquistati molti a duecentosei. Deve averci guadagnato trecentomila lire.»

«Non è il suo più bel colpo», puntualizzò Morcerf. «Non ha guadagnato un milione quest’anno con i buoni di Spagna?»

«Ascoltate, mio caro», replicò Lucien, «qui c’è il conte di Montecristo che vi dirà, come dicono gli italiani: “Denaro e santità, metà della metà”. Ed è ancora molto: per cui quando mi raccontano simili storie, mi stringo nelle spalle…»

«Ma voi avete parlato d’Haiti?» disse Montecristo.

«Haiti è un’altra cosa; Haiti è il gioco dell’écarté per il traffico di valuta della finanza francese… Si può amare la roulette, prediligere il whist, affollarsi al boston, ma poi ognuno si stancherà sempre di tutti questi giochi, e si tornerà all’écarté, che è un capolavoro. Così il signor Danglars ieri ha venduto a quattrocentocinque e si è intascato trecentomila franchi. Se avesse aspettato fino a oggi, i fondi ricadevano a duecentocinque e invece di guadagnare trecentomila franchi, ne avrebbe perduti venti o venticinquemila.»

«E per quale motivo i fondi sono scesi da quattrocentocinque a duecentocinque? Vi chiedo scusa, ma sono molto ignorante in questi intrighi di Borsa.»

«Perché», commentò ridendo Albert, «le notizie si aggrovigliano e non si assomigliano.»

«Diavolo», fece il conte ridendo, «il signor Danglars rischia di guadagnare e di perdere trecentomila franchi in un giorno? È dunque così ricco?»

«Non è lui che rischia», si affrettò a precisare Lucien. «È la signora Danglars. Lei è veramente intrepida!»

«Ma voi Lucien che siete ragionevole e che conoscete l’instabilità delle notizie, perché ne siete alla fonte, dovreste impedirlo», disse con un sorriso Morcerf.

«Come posso farlo io, se non ci riesce suo marito?» domandò Lucien. «Conoscete l’indole della baronessa: nessuno ha influenza su di lei; fa ciò che vuole.»

«S’io fossi al vostro posto…» cominciò Albert.

«Ebbene?»

«Io la guarirei; questo sarebbe un buon servizio da rendersi al futuro genero.»

«E in che modo?»

«È facile: le darei una buona lezione.»

«Una lezione?»

«Sì, la vostra posizione come segretario del ministro, vi dà una grande autorità sulle notizie: non fate in tempo ad aprir bocca che gli agenti di cambio stenografano subito le vostre parole… Fatele perdere un centinaio di migliaio di franchi, e ciò la renderà prudente.»

«Non capisco…» balbettò Lucien.

«Eppure la cosa è chiara», rispose il giovane con un’ingenuità priva d’affettazione. «Una mattina annunciatele qualche cosa d’inaudito, una notizia telegrafica che voi solo potete sapere: per esempio, che Enrico IV è stato visto vicino a Gabrielle. La notizia farà salire i fondi, lei giocherà in Borsa, e perderà certamente, quando l’indomani Beauchamp scriverà nel suo giornale: “È falso che persone bene informate affermino che Enrico IV sia stato visto ieri da Gabrielle: questo fatto è del tutto inesatto; il re Enrico IV non ha mai lasciato il Pont Neuf.»

Lucien fece un sorrisetto. Montecristo, apparentemente indifferente, non aveva perso una parola di quel discorso, e il suo sguardo penetrante aveva perfino preteso di scoprire un segreto nell’impaccio del segretario di ministero. Ma quest’impaccio, completamente sfuggito ad Albert, fece abbreviare la visita di Lucien, che non si sentiva più a suo agio.

Il conte, accompagnandolo alla porta, gli disse alcune parole a voce bassa, alle quali rispose: «Ben volentieri, accetto».

Il conte ritornò dal giovane Morcerf.

«Non credete, riflettendoci bene, di avere avuto torto a parlar così di vostra suocera in presenza di Debray?»

«Conte», disse Morcerf, «ve ne prego, non date alla baronessa questo nome prima del tempo.»

«Davvero dunque, e senza esagerazione, la contessa è contraria a tal punto a questo matrimonio?»

«A tal punto che la baronessa viene raramente a casa mia, e mia madre, credo non sia stata più di una volta a far visita alla signora Danglars.»

«Allora», disse il conte, «mi sento incoraggiato a parlarvi apertamente. Il signor Danglars è il mio banchiere, il signor Villefort mi ha colmato di gentilezze per la fortunata combinazione che mi ha messo in grado di potergli rendere un servizio. Indovino sotto tutto ciò un buon numero di pranzi e di feste. Ora, per non sembrare d’intrecciare tutto a bella posta, e anche di prendere un’iniziativa inopportuna, vi dirò che ho pensato di riunire nella mia villa di campagna d’Auteuil il signore e la signora Danglars, e il signore e la signora Villefort. Se v’invito a questo pranzo insieme al conte e alla contessa Morcerf, non avrebbe questo l’apparenza di un convegno matrimoniale, o almeno la contessa di Morcerf non penserebbe così, particolarmente se il barone Danglars mi farà l’onore di condurvi sua figlia? Allora vostra madre mi detesterà, e io non lo voglio per niente. Al contrario, ho tutta l’intenzione, e ditelo a lei ogni volta se ne presenti l’occasione, di conservare la sua stima.»

«Vi ringrazio della franchezza che avete con me, e accetto l’esclusione che mi proponete. Mi dite che desiderate conservarvi più che sia possibile nel cuore di mia madre; vi assicuro che vi siete già per sempre.»

«Lo credete?» chiese Montecristo con interesse.

«Ne sono sicuro… Quando l’altro giorno ci lasciaste, abbiamo parlato molto di voi. Ma ritorniamo a ciò che dicevamo. Se mia madre potesse sapere, e rischierò di dirglielo, il riguardo che le usate, sono certo che ve ne sarebbe oltremodo grata; sebbene mio padre dal canto suo monterebbe su tutte le furie.»

Il conte si mise a ridere.

«Ebbene, eccovi avvertito. Non solo vostro padre sarà furioso; il signore e la signora Danglars mi considereranno uno screanzato. Sanno che fra noi c’è una certa intimità, e non vedendovi alla mia villa, mi chiederanno perché non vi abbia invitato. Pensate almeno a munirvi di un impegno anticipato che possa essere valido, e di cui mi avvertirete con un bigliettino. Sapete bene che i banchieri riconoscono valide solo le cose scritte.»

«Farò anche meglio», disse Albert. «Mia madre ama andare a respirare l’aria del mare. In che giorno è fissato il vostro pranzo?»

«Per sabato.»

«Oggi è martedì… Bene, domani sera partiamo, dopodomani mattina saremo a Tréport. Sapete, signor conte, che siete meraviglioso nel togliere dagli impicci i vostri amici?»

«Io? A dire il vero mi attribuite più valore di quel che valgo; desidero farvi cosa grata, ecco tutto.»

«In che giorno avete mandati gli inviti?»

«Oggi stesso.»

«Bene, corro dal signor Danglars, ad annunciare che domani mia madre e io lasceremo Parigi. Non vi ho visto, e di conseguenza non so nulla del vostro pranzo.»

«Pazzo che siete! E il signor Debray che vi ha visto da me?»

«Ah giusto…»

«Quindi vi ho visto e vi ho invitato, e voi mi avete risposto candidamente che non potevate perché domani partivate per Tréport.»

«Bene, è concluso… Ma verrete a visitare mia madre prima di domani?»

«Prima di domani è difficile. Poi verrei a disturbare i vostri preparativi per la partenza.»

«Ebbene fate ancor meglio: non eravate che un uomo gentile, diventereste un uomo adorabile…»

«E che debbo fare per giungere a questa sublimità?»

«Oggi siete libero come l’aria, venite a pranzo con me. Saremo una piccola brigata: voi, mia madre e io. Avete appena incontrato mia madre, così la conoscerete da vicino. È una donna notevole, e mi dispiace solo che non ve ne sia una uguale con vent’anni di meno, poiché vi assicuro che vi sarebbero presto una contessa e una viscontessa Morcerf. Quanto a mio padre non lo troverete in casa, fa parte di una commissione e pranza dal Gran Referendario. Venite, parleremo di viaggi; voi che avete girato il mondo intero ci racconterete le vostre avventure, ci direte la storia di quella bella greca che dite essere vostra schiava, e che trattate come una principessa. Andiamo, accettate, mia madre ve ne sarà grata.»

«Mille grazie», disse il conte, «l’invito non può essere più bello, e mi spiace vivamente di non poterlo accettare. Non sono libero come credete, e ho un convegno importantissimo.»

«State in guardia, mi avete insegnato in qual modo, in fatto di pranzi, uno può disimpegnarsi da un invito sgradevole. Mi occorre una prova. Fortunatamente non sono un banchiere come Danglars, ma vi avverto che sono incredulo quanto lui.»

«E io vi do subito la prova», disse il conte, e suonò.

«Sono già due volte che ricusate di pranzare con mia madre. Questa sembra una decisione permanente.»

Montecristo ebbe un fremito.

«Non lo credete, ed ecco la mia prova.»

Battistino entrò e si fermò sulla porta in attesa.

«Io non ero stato avvisato della vostra visita, non è vero?»

«Diamine, siete un uomo tanto straordinario che non ci giurerei.»

«Non potevo però immaginare che mi avreste invitato a pranzo…»

«In quanto a questo, è possibile.»

«Ebbene, ascoltate: Battistino, cosa vi ho detto questa mattina quando vi ho chiamato nel mio studio?»

«Di far chiudere la porta del palazzo appena suonate le cinque», rispose il cameriere.

«E poi?»

«Signor conte…» iniziò Albert.

«No, voglio assolutamente sbarazzarmi della reputazione d’uomo misterioso che mi avete dato, mio caro visconte; è troppo difficile fare sempre la parte di

Manfredi. Voglio vivere in una casa di cristallo… E poi? Continuate Battistino…»

«E poi di non ricevere che il signor maggiore Bartolomeo Cavalcanti e suo figlio.»

«Capite, il maggiore Bartolomeo Cavalcanti, un uomo della più antica nobiltà d’Italia, e di cui Dante si è preso la pena di essere l’Ossian… Vi ricordate, o non vi ricordate, nel decimo canto dell’Inferno? Verrà anche suo figlio, un grazioso giovane della vostra età circa, e del vostro titolo, e che fa il suo primo ingresso nel mondo parigino con i milioni di suo padre. Il maggiore questa sera viene a trovarmi con suo figlio Andrea, il contino, come noi diciamo in Italia; egli me lo affida: lo presenterò se ha qualche merito… Voi mi aiuterete, non è vero?»

«Certamente. Il maggiore Cavalcanti è dunque vostro vecchio amico?» chiese Albert.

«Niente affatto! È un distinto signore molto educato, modesto e discreto, come se ne trovano in gran quantità in Italia fra i discendenti decaduti delle antiche famiglie. L’ho visto più volte, tanto a Bologna, che a Firenze e Lucca, e mi ha avvertito del suo arrivo. Le conoscenze di viaggio sono esigenti: ovunque reclamano quell’amicizia che loro si è dimostrata una volta per caso. Come se l’uomo civile, che non si cura poi troppo delle sue conoscenze, non avesse a casa sua una vita privata e affari propri da sbrigare! Questo buon maggiore ritorna a rivedere Parigi, che non vide che di passaggio sotto l’impero, quando andò ad affrontare il gelo di Mosca. Gli darò un buon pranzo, mi lascerà suo figlio, gli prometterò di sorvegliarlo, ma gli lascerò fare tutte quelle follie che gli piacerà di fare, e saremo pari.»

«A meraviglia, m’accorgo che siete un prezioso Mentore. Addio dunque, ritorneremo domenica. A proposito ho ricevuto notizie di Franz.»

«Davvero?» disse Montecristo. «Il soggiorno in Italia gli piace sempre?»

«Credo di sì, però vi desidera. Dice che eravate il sole di Roma, e che senza di voi si fa buio; non so se giunge fino a dire che piova.»

«Si è dunque ricreduto sul conto mio?»

«Tutt’altro, insiste a credervi un essere fantastico in assoluto: ecco perché vi desidera.»

«Un giovane molto gentile», ammise Montecristo, «e per il quale ho sentito una viva simpatia fin dalla prima sera in cui lo vidi spensieratamente in cerca d’una cena e mi permisi di offrirgli la mia. Egli è, credo, il figlio del generale d’Epinay?»

«Precisamente.»

«Lo stesso che fu assassinato nel 1815?»

«Dai bonapartisti.»

«Non vi è anche per lui qualche progetto di matrimonio?»

«Sì, deve sposare la figlia del signor Villefort.»

«Davvero?»

«Come io devo sposare quella del barone Danglars», rispose Albert sorridendo.

«Voi ridete?»

«Sì.»

«Perché ridete?»

«Rido perché mi sembra di vedere tra loro tanta simpatia per il matrimonio, quanta ne vedo fra la signorina Danglars e me. Ma veramente, mio caro conte, parliamo delle donne come le donne degli uomini… Questo è imperdonabile.»

Albert si alzò.

«Volete andarvene?»

«La domanda è troppo cortese, sono due ore che vi assedio, e voi avete la gentilezza di chiedermi se voglio andarmene? In verità, conte, siete l’uomo più amabile della terra! E la vostra servitù com’è educata! Battistino particolarmente. Non ho mai potuto avere un cameriere simile. I miei sembrano tutti modellarsi su quelli del Théâtre-Français, che, proprio perché non hanno che una parola da dire, vengono sempre a dirla sulla scala… Se mai aveste a disfarvi di Battistino, vi prego di darmi la preferenza.»

«D’accordo, visconte.»

«Ma non è tutto; aspettate, fate i miei complimenti al vostro discreto lucchese Cavalcanti; e se per caso avesse intenzione di dar moglie a suo figlio, trovategli una donna molto ricca, molto nobile almeno da parte di madre… Io vi aiuterò a trovarla.»

«Oh, oh!» si stupì Montecristo. «Davvero siamo a questi termini?»

«Sì.»

«In fede mia, non bisogna giurare su niente.»

«Ah, conte», gridò Morcerf, «qual servizio mi rendereste! E come vi amerei cento volte di più, se grazie a voi potessi restare celibe, altri dieci anni almeno!»

«Tutto è possibile», rispose con gravità Montecristo.

E prendendo congedo da Albert rientrò nel suo studio, e batté tre colpi sul campanello. Bertuccio comparve.

«Bertuccio, sapete che sabato do ricevimento nella mia villa di Auteuil.»

Bertuccio ebbe un leggero fremito.

«Bene, signore.»

«Ho bisogno di voi», continuò il conte, «perché tutto sia disposto convenientemente. Quella casa è bella, o perlomeno può diventare bella.»

«Per far ciò bisognerebbe cambiar tutto, signor conte, ogni cosa è invecchiata.»

«Cambiate dunque tutto, a eccezione di una camera sola, la camera da letto di damasco rosso. Anzi, la lascerete assolutamente come si trova.»

Bertuccio s’inchinò.

«Non toccherete niente neppure nel giardino; ma del cortile fate tutto ciò che volete, gradirò anzi moltissimo se sarà ridotto in modo da non essere più riconosciuto.»

«Farò il possibile perché il signor conte rimanga contento; sarei più tranquillo però se volesse dirmi le sue intenzioni sul pranzo.»

«In verità», disse il conte, «dacché siamo a Parigi vi trovo sconcertato e tremante… Dunque non mi conoscete più?»

«Ma infine Vostra Eccellenza potrebbe dirmi chi riceve?»

«Non so ancora niente, e voi pure non avete bisogno di saperlo… Lucullo, ecco tutto.»

Bertuccio s’inchinò e uscì.

54. Il maggiore Cavalcanti

Né il conte, né Battistino avevano mentito annunciando a Morcerf questa visita del maggiore lucchese, che serviva a Montecristo di pretesto per rifiutare il pranzo che gli era stato offerto.

Battevano le sette, e già da due ore Bertuccio, secondo l’ordine ricevuto, era partito per Auteuil, quando una carrozza da nolo si fermò al cancello, e fuggì subito dopo aver deposto a terra un uomo di circa cinquant’anni, vestito d’uno di quei soprabiti verdi con alamari neri, la cui specie sembra non potersi estinguere in Europa. Larghe brache di panno turchino, stivali abbastanza puliti, sebbene la vernice fosse sbiadita. e le suole un po’ troppo grosse; guanti di daino, un cappello che per la forma assomigliava a quello di un gendarme, un colletto nero con orlo bianco, che si sarebbe potuto credere uno di quei cerchi di ferro a cui si attaccano per il collo i malfattori alla berlina: tale il pittoresco abbigliamento della persona che bussò al cancello domandando se all’entrata degli Champs-Elysées 30 abitasse il conte di Montecristo, e che alla risposta affermativa del portinaio, entrò, richiuse la porta e si diresse alla scalinata.

La testa piccola e spigolosa di quest’uomo, i capelli grigi, i fitti baffi lo fecero riconoscere da Battistino, che aveva gli esatti connotati del visitatore da lui atteso nel vestibolo Appena pronunciato il nome all’intelligente servitore, Montecristo era già avvertito del suo arrivo.

Lo straniero fu introdotto nella sala meno elegante. Il conte lo aspettava, e gli andò incontro sorridendo.

«Caro signore, siate il benvenuto, vi aspettavo.»

«Davvero», si sorprese il lucchese, «Vostra Eccellenza mi aspettava?»

«Sì, ero stato avvisato per oggi del vostro arrivo alle sette.»

«Del mio arrivo? Cosicché eravate prevenuto?»

«Perfettamente.»

«Tanto meglio! Temevo, lo confesso, che avessero dimenticato di avvertirvi.»

«Invece è tutto a posto.»

«Veramente Vostra Eccellenza aspettava me alle sette?»

«Sì, veramente… D’altra parte verifichiamolo.»

«Se mi aspettavate non vale la pena.»

«No, no», insistette Montecristo.

Il lucchese parve alquanto commuoversi.

«Vediamo, non siete il marchese Bartolomeo Cavalcanti?»

«Bartolomeo Cavalcanti, esatto.»

«E maggiore al servizio dell’Austria?»

«Ero dunque maggiore?» domandò timidamente il vecchio soldato.

«Sì», rispose Montecristo, «eravate maggiore; questo è il nome che si dà in Francia al grado che avevate in Italia.»

«Bene», disse il lucchese, «non domando di meglio, capite…»

«D’altra parte non venite qui di vostra spontanea volontà?» chiese Montecristo.

«Sì, certamente.»

«Mi siete stato indirizzato da qualcuno?»

«Sì.»

«Dall’eccellente abate Busoni?»

«Da lui precisamente!» esclamò tutto contento il lucchese.

«E avete una lettera?»

«Eccola.»

«Vedete bene che tutto corrisponde. Datemela dunque.»

Montecristo prese la lettera che aprì e lesse.

Il maggiore guardava il conte con occhi spalancati e meravigliati, che si posavano con curiosità sopra ciascun oggetto della stanza, ma ritornavano involontariamente sul suo interlocutore.

«È proprio lui… quel caro Busoni… “Il maggiore Cavalcanti, un degno patrizio lucchese, discendente dai Cavalcanti di Firenze…”», continuò Montecristo leggendo a voce alta, «“e che gode una fortuna di mezzo milione di rendita…” Di mezzo milione?» aggiunse. «Mi congratulo, mio caro Cavalcanti.»

«Dice mezzo milione?» domandò il lucchese.

«In tutte lettere… E dev’essere così, l’abate Busoni è l’uomo che conosce meglio di tutti le più grandi fortune d’Europa.»

«Vada per mezzo milione», acconsentì il lucchese, «ma parola d’onore non credevo di possedere tanto.»

«Perché avete un intendente che vi deruba… Che volete, caro signor Cavalcanti, bisogna adattarsi…»

«Voi mi aprite gli occhi», disse il lucchese con gravità. «Lo metterò alla porta.»

Montecristo continuò a leggere.

«E al quale non mancava che una cosa per essere felice…»

«Sì, una sola cosa», confermò il lucchese con un sospiro.

«Di ritrovare un figlio adorato, rapito nella sua prima gioventù, o da nemici della sua famiglia o da zingari…»

«All’età di cinque anni, signore», disse il lucchese con un profondo sospiro e alzando gli occhi al cielo.

«Povero padre!» mormorò Montecristo, e continuò: «“Io gli rendo la speranza, gli rendo la vita, signor conte, annunciandogli che questo figlio, che da quindici anni cerca invano, voi potete farglielo ritrovare”».

Il lucchese guardò Montecristo con una indefinibile espressione d’inquietudine.

«Posso farlo», disse Montecristo.

Il maggiore riprese coraggio.

«La lettera è dunque vera fino alla fine?»

«Avreste potuto dubitarne?»

«E come potevo? A un uomo serio, di rispettabile carattere non sarebbe permessa un simile scherzo: ma non avete letto tutto, Eccellenza!»

«È vero», disse Montecristo, «c’è un post-scriptum: “Per non procurare al maggiore Cavalcanti l’impaccio di spostare dei fondi dal suo banchiere gli mando una tratta di duemila franchi per le spese del viaggio e gli apro credito su di voi per quarantottomila franchi che mi rimborserete”.»

Il maggiore seguiva con gli occhi questo post-scriptum con visibile ansietà.

«Bene», si contentò di dire il conte.

«Disse il vero», sussurrò il lucchese. «È così, signore?»

«Così, cosa?» domandò Montecristo.

«Il post-scriptum è accettato da voi con lo stesso favore di tutto il resto della lettera?»

«Certamente. Ho un debito con l’abate Busoni: non so se siano proprio quarantottomila franchi che ancora devo dargli, ma non guasteremo i nostri rapporti per qualche biglietto di banca. E voi dunque date grande importanza a questo post-scriptum, caro signor Cavalcanti?»

«Vi confesso», ammise il lucchese, «che pieno di fiducia nella firma dell’abate Busoni, non mi sono provveduto di altri fondi, di modo che se mi mancasse questa risorsa, mi troverei molto impacciato a Parigi.»

«Possibile che un uomo come voi possa mai trovarsi impacciato in alcun luogo?» disse Montecristo.

«Non conoscendo nessuno…» disse il lucchese.

«Ma voi siete conosciuto.»

«Sì, sono conosciuto, di modo che…»

«Terminate, caro signor Cavalcanti.»

«Di modo che mi pagherete questi quarantottomila franchi?»

«Alla vostra prima richiesta.»

Il maggiore girava gli occhi stralunati.

«Ma sedetevi dunque», lo invitò Montecristo. «Davvero non so più quel che faccio… È un quarto d’ora che vi tengo qui in piedi.»

«Non importa.»

Il maggiore prese una sedia e si accomodò.

«Ora», continuò il conte, «volete prendere qualche cosa? Un bicchiere di Xeres, di Porto, d’Alicante?»

«D’Alicante, se volete, è il mio vino prediletto…»

«Ne ho dell’eccellente. E con un biscotto, non è vero?»

«Con un biscotto, se volete…»

Montecristo suonò, Battistino comparve, il conte gli s’avvicinò.

«Ebbene?» domandò a voce bassa.

«Il giovane è di là», rispose il cameriere con lo stesso tono.

«Bene! Dove lo avete condotto?»

«Nel salotto turchino come ordinò Vostra Eccellenza.»

«A meraviglia, portate del vino d’Alicante e dei biscotti.»

Battistino uscì.

«In verità», disse il lucchese, «vi do un incomodo che m’imbarazza.»

«Che dite mai!» esclamò Montecristo.

Battistino rientrò con i bicchieri, il vino e i biscotti. Il conte riempì un bicchiere, e versò nell’altro soltanto alcune gocce del liquido rubino che conteneva la bottiglia, tutta ricoperta di tela di ragno, e di altri segni che indicano la vecchiaia del vino, molto più sicuramente che non le rughe sulla fronte dell’uomo. Il maggiore non s’ingannò nella scelta, prese il bicchiere pieno e un biscotto. Il conte ordinò a Battistino di lasciare la sottocoppa a portata di mano dell’ospite, che cominciò a gustare l’Alicante con l’estremità delle labbra, facendo una smorfia di piacere e intingendo delicatamente il biscotto nel bicchiere.

«Così, signore», riprese Montecristo, «voi abitate a Lucca, siete ricco, siete nobile, godete della stima universale, possedete tutto ciò che può formare un uomo felice?»

«Tutto, Eccellenza», confermò il maggiore, inghiottendo il suo biscotto. «Assolutamente tutto.»

«E non manca che una sola cosa per fare la vostra felicità?»

«Una sola», disse il lucchese.

«Ritrovare vostro figlio?»

«Sì», ribadì il maggiore prendendo un secondo biscotto, «solo questo mi manca.»

Il degno lucchese alzò gli occhi al cielo e si abbandonò a un sospiro.

«Vediamo, signor Cavalcanti, che cos’è questo figlio che tanto rimpiangete: mi fu detto che siete rimasto a lungo celibe.»

«Lo credevano, signore», disse il maggiore, «e io stesso…»

«Sì», riprese il conte, «e voi stesso avete accreditato questa voce. Un peccato che volevate nascondere agli occhi di tutti.»

Il lucchese si ricompose, cercò di darsi un contegno, abbassò modestamente gli occhi, sia per rassicurare il conte sulla sua condotta, sia per studiarne le reazioni. Ma il sorriso del conte rivelava sempre la stessa benevola curiosità.

«Sì, signore, volevo nascondere questo errore agli occhi di tutti.»

«Non per voi.»

«Per me no certamente», disse il maggiore con un sorriso, scuotendo la testa.

«Ma per sua madre», replicò il conte.

«Per sua madre!» esclamò il lucchese prendendo il terzo biscotto. «Per la sua povera madre!»

«Bevete dunque, caro signore», lo esortò Montecristo versando al lucchese un secondo bicchiere d’Alicante. «L’emozione vi soffoca.»

«Per la sua povera madre!» mormorò il lucchese, trattenendo le lacrime. «Che apparteneva a una delle famiglie più illustri d’Italia…»

«Patrizia, di Fiesole, signor conte!»

«E si chiamava?»

«Desiderate saperne il nome?»

«È inutile che me lo diciate, lo so.»

«Il signor conte sa tutto», disse il lucchese inchinandosi.

«Oliva Corsinari, non è vero?»

«Oliva Corsinari!»

«Marchesa?»

«Marchesa!»

«E avete finito con lo sposarla, malgrado l’opposizione della famiglia.»

«Sì, l’ho sposata.»

«E avete i documenti in regola?»

«Quali documenti?» domandò il lucchese.

«L’atto di matrimonio con Oliva Corsinari, e l’atto di nascita di vostro figlio.»

«L’atto di nascita di mio figlio?»

«Sì, l’atto di nascita di Andrea Cavalcanti… Vostro figlio non si chiama Andrea?»

«Credo di sì», rispose il lucchese.

«Come, lo credete?»

«Non oso affermarlo; è tanto tempo che l’ho perduto!»

«Avete ragione», disse Montecristo. «Avete dunque tutti questi documenti?»

«Signore, con dispiacere debbo dirvi che non essendo stato avvertito, non le ho portate con me. Erano dunque documenti necessari?»

«Indispensabili!»

Il lucchese si grattò la fronte.

«Perbacco», ripeté, «indispensabili!»

«Senza dubbio, se qui venissero mossi dei dubbi sulla legalità del vostro matrimonio, sulla legittimità di vostro figlio!»

«È vero», riconobbe il lucchese, «potrebbero insorgere dubbi.»

«Sarebbe doloroso per questo giovane.»

«Sarebbe fatale.»

«Ciò potrebbe mandargli a monte qualche magnifico matrimonio.»

«Sarebbe terribile!»

«In Francia, lo sapete, vi è molto rigore: non sono riconosciuti i matrimoni clandestini; in Francia c’è il matrimonio civile, e per maritarsi civilmente ci vogliono le carte d’identità.»

«Che disgrazia, non ho queste carte.»

«Fortunatamente le ho io», disse Montecristo.

«Voi?»

«Sì.»

«Ah!» esclamò il lucchese, che, vedendo lo scopo del suo viaggio fallire per mancanza di queste carte, temeva potessero insorgere difficoltà per i quarantottomila franchi. «Ecco, un altro vostro aiuto… Sì», riprese, «perché io non ci avrei pensato.»

«Lo credo bene, non si può sempre pensare a tutto. Ma fortunatamente l’abate Busoni ci ha pensato al vostro posto.»

«Guardate un po’ quanto è amabile questo caro abate!»

«È un uomo previdente.»

«È un uomo ammirabile!» dichiarò il lucchese. «Ve le ha inviate?»

«Eccole qui…»

Il lucchese congiunse le mani in segno di ammirazione.

«Voi avete sposato Oliva Corsinari a Montecatini, ecco il certificato.»

«Sì, davvero, eccolo», ripeté il maggiore, guardandolo con meraviglia.

«Ed ecco l’atto di nascita di Andrea Cavalcanti rilasciato a Serravezza.»

«Tutto è in regola», disse il maggiore.

«Allora, prendete queste carte, delle quali non so che farne, e le darete a vostro figlio che le custodirà con cura.»

«Lo credo bene… S’egli le perdesse…»

«Ebbene, s’egli le perdesse?» domandò Montecristo.

«Allora», rispose il lucchese, «sarebbe obbligato a scrivere laggiù, e vi sarebbero grandi difficoltà a procurarsene delle altre.»

«Infatti sarebbe difficilissimo», confermò Montecristo.

«Quasi impossibile», riprese il lucchese.

«Sono molto contento che comprendiate il valore di queste carte.»

«Le considero impagabili.»

«Ora, quanto alla madre del giovane…»

«Quanto alla madre del giovane…» ripeté il maggiore con inquietudine.

«In quanto alla marchesa Corsinari…»

«Mio Dio», gemette il lucchese nel timore che sorgessero difficoltà. «Si avrà forse bisogno di lei?»

«No, signore», rispose Montecristo, «d’altra parte non ha lei…»

«Certo», disse il maggiore, «lei ha…»

«Pagato il suo tributo alla natura.»

«Ahimè, sì», confermò vivamente il lucchese.

«Seppi», riprese il conte, «che è morta da dieci anni.»

«E io ne piango ancora la perdita», disse il maggiore prendendo di tasca un fazzoletto a quadretti e asciugandosi gli occhi.

«Che volete farci», disse Montecristo, «noi tutti siamo mortali. Ora capirete, mio caro, che è inutile che si sappia in Francia che siete stato diviso da vostro figlio per quindici anni. Tutte queste storie di zingari che rapiscono i ragazzi non hanno credito presso di noi. Voi lo avete inviato per la sua educazione in un collegio di provincia, e volete ch’egli la compia nel gran mondo di Parigi. Ecco perché avete lasciato Viareggio dove abitate dopo la morte di vostra moglie. Ciò basterà!»

«Lo credete?»

«Certamente.»

«Va benissimo allora.»

«Se si scoprisse qualche cosa di questa separazione…»

«Che dovrei dire allora?»

«Che un precettore infedele, venduto ai nemici della vostra famiglia…»

«Ai Corsinari?»

«Certamente… Ha rapito questo figlio, perché si estinguesse il vostro nome.»

«È vero, perché è figlio unico…»

«Bene, ora che tutto è combinato, che la vostra memoria è stata rinfrescata, avrete forse indovinato che vi ho preparato una sorpresa?»

«Gradevole?» domandò il lucchese.

«Mi accorgo che non si può ingannare l’occhio, come non si può ingannare il cuore di un padre», rispose Montecristo. «Vi è stata fatta qualche rivelazione indiscreta, o avete indovinato che lui è di là…»

«Chi è di là?»

«Vostro figlio, il vostro Andrea.»

«L’ho indovinato», ammise il lucchese con la più grande flemma del mondo. «Così è qui?»

«In questa stessa casa», disse Montecristo. «Il cameriere poco fa mi ha avvisato del suo arrivo.»

«Benissimo, benissimo!» esclamò il maggiore allacciandosi gli alamari.

«Mio caro signore», disse Montecristo, «comprendo la vostra emozione e bisogna accordarvi un po’ di tempo per rimettervi… Voglio pure disporre il giovane a questo incontro tanto desiderato, giacché presumo che non sia meno impaziente di voi.»

«Lo immagino», disse Cavalcanti.

«Ebbene fra un quarto d’ora saremo qui.»

«Voi dunque lo avete davvero qui? Me lo portate voi stesso?»

«No, non voglio pormi fra il padre e figlio, sarete soli… Ma state tranquillo, nel caso che la voce del sangue rimanesse muta, non potrete ingannarvi: egli entrerà da quella porta. È un bel giovane biondo, forse un po’ troppo biondo, d’aspetto veramente signorile…»

«A proposito», disse il maggiore, «sapete che non ho portato con me che i duemila franchi che mi ha versato il buon abate Busoni. Su questi bisogna togliere le spese di viaggio, e…»

«E avete bisogno di denaro, è troppo giusto. Prendete, ecco qui una cifra tonda: otto biglietti da mille franchi. Ora ve ne devo altri quarantamila.»

Gli occhi del maggiore splendettero come fiamme.

«Vostra Eccellenza vuole che le firmi la ricevuta?» domandò il maggiore, facendo scivolare i soldi nella tasca interna del soprabito.

«Per farne che?» disse il conte.

«Per darvene credito nel conto dell’abate Busoni.»

«Ebbene, mi farete una ricevuta generale quando vi sborserò gli ultimi quarantamila franchi. Fra galantuomini sono inutili queste cautele.»

«Sì, è vero», assentì il maggiore, «fra galantuomini…»

«Mi permetterete una piccola raccomandazione, non è vero?»

«Quale?»

«Non sarebbe male se vi toglieste quel soprabito.»

«Davvero?» si sorprese il maggiore, guardando con una certa compiacenza l’indumento.

«Sì, a Viareggio si porta ancora, ma è già gran tempo che questo mantello, per quanto elegante, è passato di moda a Parigi.»

«Mi rincresce», disse il lucchese.

«Ma se ci siete affezionato, potrete rimetterla al ritorno.»

«Ma intanto che mi metterò?»

«Ciò che troverete nei vostri bauli.»

«Come, nei miei bauli? Non ho portato con me che il mantello.»

«Vi credo, perché avreste dovuto impacciarvi? Un vecchio militare desidera marciare con un piccolo zaino.»

«È proprio così…»

«Ma voi siete un uomo previdente, e perciò avete mandato avanti i vostri bauli. Sono giunti ieri all’albergo dei Principi, rue Richelieu, dove avete fatto fissare il vostro alloggio.»

«Allora in quei bauli…»

«Presumo che avrete avuto la precauzione di farvi riporre dal vostro cameriere tutto ciò che vi poteva servire: abiti da passeggio, abiti di gala. Nelle grandi occasioni vestirete l’uniforme, il che va sempre bene. Non dimenticate poi le decorazioni. In Francia, le portano sempre.»

«Benissimo, benissimo!» esclamò il maggiore, passando da una sorpresa a un’altra.

«E ora che il vostro cuore si è rafforzato contro le sensazioni troppo vivaci, preparatevi, mio caro Cavalcanti, a rivedere il vostro Andrea.»

E facendo un grazioso saluto al lucchese rapito in estasi, Montecristo sparì dietro la porta.

55. Andrea Cavalcanti

Il conte di Montecristo fece il suo ingresso nel salotto vicino, che Battistino aveva indicato con il nome di salotto turchino, e dove era stato preceduto da un giovane dal portamento disinvolto, vestito con sufficiente eleganza, che mezz’ora prima era smontato alla porta del palazzo da una carrozza di piazza. Battistino non aveva fatto fatica a riconoscerlo: era davvero quel giovane alto con i capelli biondi, di un bel colorito su una candidissima pelle, come era stato detto dal padrone. Il giovane era negligentemente steso su un sofà e si percuoteva lo stivale con un sottile bastoncino dal pomo dorato. Scorgendo Montecristo si alzò.

«Il signore è il conte di Montecristo?» domandò.

«Sì, signore», rispose questi, «e credo di avere l’onore di parlare al conte Andrea Cavalcanti.»

«Il conte Andrea Cavalcanti», annuì il giovane, accompagnando le parole con un saluto disinvolto.

«Dovreste avere una lettera che vi accredita…»

«Non ve ne ho fatto cenno a causa della firma, molto strana.»

«Sinbad il marinaio, è esatto?»

«Esattamente, e siccome non ho mai conosciuto altro Sinbad il marinaio che quello delle Mille e una notte…»

«È uno dei suoi discendenti, ed è uno dei miei amici, molto ricco, un inglese, qualche cosa di più che stravagante, quasi pazzo, il cui vero nome è lord Wilmore…»

«Capisco, ecco ciò mi spiega ogni cosa», disse Andrea. «Allora tutto va a meraviglia. È quello stesso inglese che conobbi… a… sì, benissimo. Signor conte vi sono servo.»

«Se quanto avete l’onore di dirmi è vero, spero che vorrete favorirmi alcuni particolari sulla vostra famiglia…»

«Senz’altro, signor conte», rispose il giovane con una volubilità che provava la sicurezza della sua memoria. «Io sono, come avete detto, il conte Andrea Cavalcanti, figlio del maggiore Bartolomeo, discendente dai Cavalcanti iscritti al libro d’oro di Firenze. La nostra famiglia, sebbene ancora ricca, poiché mio padre gode di mezzo milione di rendita, ha subito moltissime sciagure, e io stesso, signore, all’età di cinque anni, sono stato rapito da un tutore infedele; di modo che da quindici anni non ho più rivisto mio padre. Dacché ho l’età della ragione, dacché sono libero e padrone di me, lo cerco, ma inutilmente. Infine questa lettera del vostro amico Sinbad mi annuncia ch’egli è a Parigi, e mi permette d’indirizzarmi a voi per averne notizia.»

«A essere sincero, signore, tutto ciò che mi raccontate è molto importante», disse il conte che guardava con tetra soddisfazione quella fisonomia disinvolta, di una beltà simile a quella dell’angelo ribelle, «e avete fatto benissimo ad aderire in tutto e per tutto all’invito del buon amico Sinbad, perché vostro padre infatti è qui che vi cerca.»

Il conte, fin dall’entrata nel salotto, non aveva perduto di vista il giovane, ne aveva ammirato la sicurezza dello sguardo e della voce, ma a queste parole tanto naturali, «Vostro padre è qui che vi cerca», il giovane Andrea fece un balzo gridando: «Mio padre! mio padre qui!»

«Senza dubbio», annuì Montecristo, «vostro padre il maggiore Bartolomeo Cavalcanti.»

L’espressione di terrore del giovane si cancellò quasi subito: «Ah sì, è vero, il maggiore Bartolomeo Cavalcanti. E voi dite, signor conte, che è qui, quel caro padre».

«Sì, signore, aggiungerò che l’ho lasciato in questo momento… La storia che mi ha raccontato di questo prediletto figlio perduto, mi ha molto commosso. I suoi dolori, i timori, le speranze formerebbero un poema commovente. Finalmente un giorno ricevette notizia che i rapitori di suo figlio offrivano di renderlo o d’indicare dov’era, in cambio d’una forte somma. Nulla trattenne questo buon padre, la somma fu inviata alla frontiera del Piemonte, unitamente a un passaporto regolare per l’Italia. Voi eravate nel mezzogiorno della Francia, credo…»

«Sì, signore», rispose Andrea con impaccio, «ero nel mezzogiorno della Francia.»

«Una vettura doveva aspettarvi a Nizza?»

«Proprio così, signore; essa mi condusse da Nizza a Genova, da Genova a Torino, da Torino a Chambéry, da Chambéry a Pont-de-Beauvoisin, e di lì a Parigi.»

«Vostro padre sperava sempre d’incontrarvi durante il tragitto, poiché questa era la strada che faceva egli stesso, ed ecco perché anche il vostro itinerario era stato in tal modo tracciato.»

«Ma», riprese Andrea, «se questo caro padre mi avesse incontrato temo non mi avrebbe riconosciuto; sono molto cambiato da quando l’ho perduto di vista.»

«Oh, la voce del sangue», disse Montecristo.

«Sì, è vero», rispose il giovane, «non pensavo alla voce del sangue!»

«Ora», riprese Montecristo, «una sola cosa agita il marchese Cavalcanti, ed è ciò che avete fatto durante la vostra lontananza, e il modo con il quale siete stato trattato dai vostri persecutori; e il desiderio di sapere se hanno avuto per la vostra nascita i riguardi che le si dovevano; infine se le sofferenze morali alle quali siete stato esposto, sofferenze cento volte peggiori delle fisiche, hanno indebolito le vostre facoltà, e se credete di poter sostenere nella società il rango che vi appartiene.»

«Signore», balbettò il giovane, «spero che nessuna falsa informazione…»

«Sentii parlare di voi per la prima volta dal mio amico Wilmore. Seppi che vi aveva ritrovato in una situazione molto dolorosa, però non so quale, non avendogli fatta alcuna domanda, essendo poco curioso. Le vostre disgrazie lo hanno interessato. Mi disse che voleva rendervi nel mondo la posizione che avevate perduto, che cercava vostro padre, e che lo avrebbe ritrovato. Infatti c’è riuscito, a quanto sembra, poiché è di là: finalmente mi ha avvertito ieri del vostro arrivo, dandomi anche alcune istruzioni relative alle vostre ricchezze… Ecco tutto. So che questo mio buon amico Wilmore è un originale, ma nello stesso tempo siccome è un uomo sicuro, ricco quanto una miniera d’oro, e di conseguenza può soddisfare le sue originalità, senza ch’esse lo rovinino, ho promesso di seguire le sue istruzioni. Ora, signore, non vi offendete della mia domanda. Giacché sarò obbligato a farvi un poco da padre, desidererei sapere se le disgrazie che vi sono accadute, disgrazie indipendenti dalla vostra volontà, e che non diminuiscono in alcun modo la stima che vi porto, vi abbiano reso estraneo a questo mondo nel quale le vostre ricchezze vi chiamano a fare una buona figura.»

«Signore», rispose il giovane riprendendo il suo contegno sicuro man mano che il conte parlava, «rassicuratevi su questo punto: i rapitori che mi hanno allontanato da mio padre, e che senza dubbio avevano per scopo di rendermi a lui più tardi, come hanno fatto, hanno calcolato che per cavare un buon guadagno da me, bisognava lasciarmi tutto il mio valore personale, e anzi aumentarlo ancora, se era possibile: ho dunque ricevuto un’educazione e sono stato trattato dai miei rapitori nello stesso modo, circa, con cui nell’Asia Minore erano trattati gli schiavi dai loro maestri che erano o grammatici, o medici, o filosofi, per venderli a un più caro prezzo al mercato di Roma.»

Montecristo sorrise con soddisfazione; non aveva sperato tanto dal signor Andrea Cavalcanti, a quanto sembrava.

«D’altra parte», continuò il giovane, «se vi fosse qualche difetto nella mia educazione o piuttosto nelle abitudini di società, si avrà, suppongo, l’indulgenza di scusarmi in considerazione delle disgrazie che hanno accompagnato la mia nascita, e perseguitata la mia gioventù.»

«Ebbene», disse Montecristo con noncuranza, «farete ciò che vorrete, perché voi siete il padrone, e spetta a voi decidere. Ma non direi una parola di tutte queste avventure. La vostra storia è un romanzo, e il mondo che adora i romanzi chiusi fra due copertine di carta gialla, diffida stranamente di quelli che vede legati in pergamena vivente, fossero pur anche dorati come potete esserlo voi. Ecco la difficoltà che mi permetterò di farvi notare: appena avrete raccontata a qualcuno la vostra commovente storia, verrà del tutto snaturata nella società. Non sarete più un giovane ritrovato; ma un giovane perduto. Sarete obbligato a prendere la posizione di Antony, e il tempo degli Antony è passato. Forse godreste di un momento di notorietà, ma non tutti amano farsi centro di curiosità, argomento di commenti, e ciò forse vi stancherebbe troppo.»

«Credo abbiate ragione, signor conte», disse il giovane impallidendo suo malgrado sotto lo sguardo di Montecristo. «Questo è un grande inconveniente.»

«Non bisogna però esagerarlo», riprese Montecristo, «perché allora per evitare un errore si cadrebbe in una follia. No, non si tratta che di stabilire una linea di condotta, e per un uomo intelligente come voi, è tanto più facile in quanto è conforme ai vostri interessi. Bisognerà combattere con testimonianze e onorevoli amicizie tutto ciò che può avere di oscuro la vostra vita passata.»

Andrea perdette visibilmente il coraggio.

«Mi offrirei volentieri per voi come garante», disse Montecristo. «Ma in me è un’abitudine morale dubitare sempre dei miei migliori amici, e un bisogno cercare di far dubitare gli altri… In questa occasione io rappresenterei una parte fuori del mio carattere, come dicono i tragici, e mi esporrei a farmi fischiare, il che è inutile.»

«Tuttavia, signor conte», disse Andrea con audacia, «per un riguardo a lord Wilmore, che mi ha raccomandato a voi…»

«Sì, certamente», rispose Montecristo, «ma lord Wilmore non mi ha nascosto, caro signor Andrea, che avete avuto una gioventù alquanto burrascosa… Ma», proseguì il conte vedendo l’espressione che faceva Andrea, «non vi domando delle confessioni… D’altra parte, perché non abbiate bisogno di nessuno fu fatto venire da Lucca il signor marchese Cavalcanti vostro padre.»

«Voi mi tranquillizzate, signore! L’ho lasciato da lungo tempo che non avevo più di lui alcun ricordo.»

«E poi sapete che le molte ricchezze fanno chiudere un occhio su tante cose.»

«Mio padre è dunque realmente ricco, signore?»

«Milionario… Cinquecentomila lire di rendita.»

«Allora», domandò il giovane con ansia, «mi troverò ben presto in una posizione… gradevole?»

«Delle più gradevoli, mio caro signore: vi assegna cinquantamila lire di rendita per ogni anno che resterete a Parigi.»

«Ma… in questo caso, vi resterò sempre?»

«Chi può rispondere dell’avvenire, mio caro signore? L’uomo propone e Dio dispone.»

Andrea sospirò.

«Ma infine per tutto il tempo che resterò a Parigi e… nessuna occasione me la farà abbandonare, questo denaro, di cui mi parlava poco fa, mi sarà assicurato?»

«Decisamente.»

«Da mio padre?» domandò Andrea con inquietudine.

«Sì, ma garantito da lord Wilmore, che ha su richiesta di vostro padre aperto un credito di cinquemila franchi al mese presso il signor Danglars, uno dei più sicuri banchieri di Parigi.»

«E mio padre conta di restare a lungo a Parigi?»

«Soltanto qualche giorno», rispose Montecristo. «Il suo servizio non gli permette di assentarsi più di due o tre settimane.»

«Che caro padre!» esclamò Andrea visibilmente lieto per quella pronta partenza.

«Per cui», aggiunse Montecristo, facendo finta d’ingannarsi sull’accento di queste parole, «non voglio ritardare di un solo momento la vostra riunione. Siete preparato ad abbracciare questo degno signor Cavalcanti?»

«Spero che non ne dubiterete.»

«Ebbene, entrate dunque nel salotto, mio giovane amico e troverete vostro padre che vi aspetta.»

Andrea fece un profondo saluto al conte, ed entrò nel salotto.

Il conte lo seguì con lo sguardo e avendolo visto sparire, spinse una molla corrispondente a un quadro che, scostandosi dal muro, lasciava vedere l’interno del salotto, per mezzo di una fessura magistralmente occultata. Andrea chiuse la porta dietro di sé e si avanzò verso il maggiore, che si alzò appena udito il rumore dei passi che si avvicinavano.

«Signore e caro padre», disse Andrea ad alta voce, e in modo che il conte lo sentisse al di là della porta chiusa, «siete veramente voi?»

«Buongiorno, caro figlio», disse con gravità il maggiore.

«Dopo tanti anni di separazione», ripeté Andrea, continuando a guardare dal lato della porta chiusa, «che fortuna rivederci!»

«Difatti la separazione è stata lunga.»

«E non ci abbracciamo, signore?» riprese Andrea.

«Come volete, figlio mio», aggiunse il maggiore.

E i due uomini si abbracciarono al modo degli attori del Théâtre-Français, cioè posandosi reciprocamente la testa sopra le spalle.

«Eccoci dunque riuniti», disse Andrea.

«Eccoci riuniti», ripeté il maggiore.

«Per non separarci mai più!»

«Sia, però credo, caro figlio, che ora dovrete considerare la Francia come la vostra seconda patria.»

«Il fatto è che sarei disperato se dovessi lasciare Parigi.»

«E io, capirete, non saprei vivere fuori di Lucca; ritornerò dunque in Italia appena potrò.»

«Ma, caro padre, prima di partire, mi consegnerete le carte con le quali dimostrare la mia nobile nascita?»

«Senza dubbio, sono venuto espressamente per questo, ho già molto sofferto per ritrovarvi, e non voglio perdervi una seconda volta… Soffrirei per il resto dei miei giorni.»

«E le carte?»

«Eccole.»

Andrea afferrò avidamente l’atto di matrimonio di suo padre e quello della sua nascita, e li percorse con una rapidità e una disinvoltura che denotavano un colpo d’occhio esercitato, e un vivo interesse. Appena terminato, un’indefinibile gioia gli brillò sulla fronte, e guardando il maggiore con uno strano sorriso: «E che!» diss’egli in buon toscano. «Non vi sono più galere in Italia?»

Il maggiore si irrigidì.

«E perché?» disse.

«Perché si fabbricano impunemente certificati simili… Per la metà di questo, caro padre, in Francia vi manderebbero a respirare per cinque anni l’aria di Tolone.»

«Come sarebbe a dire?» replicò il lucchese, sforzandosi d’assumere un tono maestoso.

«Mio caro signor Cavalcanti», disse Andrea stringendosi al braccio il maggiore, «quanto vi pagano per esser mio padre?»

Il maggiore voleva parlare, ma Andrea aggiunse abbassando la voce: «Zitto, sarò il primo a darvi l’esempio: a me danno cinquantamila franchi l’anno per essere vostro figlio; di conseguenza capirete bene che non sarò mai disposto a negare che voi siete mio padre».

Il maggiore guardò con inquietudine intorno a sé.

«State pur tranquillo, siamo soli», disse Andrea, «e d’altra parte noi parliamo in italiano.»

«Ebbene», riprese il lucchese, «a me danno cinquantamila franchi per una sola volta.»

«Signor Cavalcanti, credete ai racconti delle fate?»

«Prima non ci credevo, ma adesso bisogna che ci creda.»

«Avete dunque avuto delle prove?»

Il maggiore cavò dal taschino un pugno di monete d’oro: «Palpabili come vedete. Credete dunque, ch’io possa prestar fede alle promesse fatte?»

«E questo brav’uomo del conte le manterrà?»

«Sicuramente, ma capirete che per giungere allo scopo, bisogna che noi rappresentiamo bene la parte importante.»

«In che modo?»

«Io di tenero padre.»

«E io di figlio rispettoso, poiché desiderano che io discenda da voi.»

«Chi lo desidera?»

«Diavolo, non lo so, coloro che vi hanno scritto: non avete ricevuto una lettera?»

«Certamente.»

«Da chi?»

«Da un certo abate Busoni.»

«Che non conoscete?»

«Che non ho mai visto.»

«Che diceva questa lettera?»

«Voi non mi tradirete?»

«Me ne guarderei bene; abbiamo eguali interessi.»

«Allora tenete», e il maggiore presentò la lettera al giovane.

Andrea lesse a voce bassa:

«Voi siete povero, un’infelice vecchiaia vi attende, volete diventare, se non ricco, almeno felice? Partite subito per Parigi, per reclamare dal conte di Montecristo, Champs-Elysées numero 30, il figlio che avete avuto con la marchesa Corsinari, e che vi fu rapito nell’età di 5 anni. Egli si chiama Andrea Cavalcanti. Perché non abbiate alcun dubbio sulle intenzioni che il sottoscritto ha di rendersi a voi utile, troverete qui uniti: Primo: un buono di duemilaquattrocento lire toscane, pagabili dal signor Gozzi in Firenze. Secondo: una lettera di presentazione per il signor conte di Montecristo sul quale vi apro un credito della somma di quarantottomila franchi. Siate dal conte il 26 maggio alle sette pomeridiane.

Abate Busoni.»

«È questa, è questa…»

«Come, è questa? Che intendete dire?» domandò il maggiore.

«Dico che ne ho ricevuta una pressappoco come questa.»

«Voi?»

«Sì, io.»

«Dall’abate Busoni?»

«No.»

«Da chi dunque?»

«Da un inglese, un certo Wilmore, che prende il nome di Sinbad il marinaio…»

«E che voi non conoscete più che io l’abate Busoni?»

«Esatto… Ma ne so più di voi…»

«L’avete visto?»

«Sì, una volta.»

«E dove?»

«Ecco ciò che appunto non posso dirvi; voi ne sapreste quanto me, e ciò è inutile.»

«E quella lettera vi diceva?»

«Leggete.»

«Voi siete povero, e non avete che un avvenire miserabile; volete un nome, esser ricco?»

«Perbacco!» fece il giovane rizzandosi sui talloni, come se una simile domanda gli fosse stata fatta proprio in quel momento.

«Prendete la carrozza di posta che troverete già allestita uscendo da Nizza per la porta di Genova. Passate per Torino, Chambéry, e Pont-de-Beauvoisin, recatevi a Parigi. Presentatevi al signor di Montecristo, entrata degli Champs-Elysées, il 26 maggio alle sette pomeridiane, e domandategli di vostro padre. Voi siete figlio del marchese Bartolomeo Cavalcanti, e della marchesa Oliva Corsinari, come attestano le carte che vi saranno rimesse dal marchese, e che vi permetteranno di potervi presentare con questo nome nella società di Parigi. In quanto al vostro rango, una rendita di cinquantamila lire l’anno vi metterà in condizione di poterlo sostenere. Unito alla presente troverete un buono di cinquemila lire pagabile dal signor Ferrea di Nizza, e una lettera di presentazione al conte di Montecristo, incaricato da me di provvedere ai vostri bisogni.

Sinbad il marinaio.»

«Benissimo!» esclamò il maggiore. «Avete visto il conte?»

«L’ho lasciato or ora.»

«Ed egli ha approvato…?»

«Tutto.»

«Ne capite qualche cosa?»

«No, a dire il vero.»

«In questa faccenda c’è certamente un merlo.»

«In ogni caso, non saremo né io, né voi.»

«No, certamente.»

«Ebbene, allora…»

«Poco c’importa, vero?…»

«Precisamente, ciò che volevo dire anch’io, andiamo fino alla fine, e sempre uniti.»

«Vedrete che sono degno di giocare la vostra partita.»

«Non ne ho dubitato neppure un momento, caro padre.»

«Voi mi fate onore, caro figlio.»

Montecristo scelse questo momento per entrare nel salotto. Sentendo il rumore dei suoi passi, i due uomini si gettarono nelle braccia l’uno dell’altro, il conte li trovò abbracciati.

«Ebbene, marchese», diss’egli, «sembra che abbiate trovato un figlio consono al vostro cuore.»

«Conte, la gioia mi soffoca.»

«E voi?»

«Signore, la felicità mi opprime.»

«Padre fortunato! Figlio avventuroso!» esclamò Montecristo.

«Una sola cosa mi rattrista», disse il maggiore, «la necessità di dover così presto lasciar Parigi.»

«Non partirete prima che vi abbia presentato a qualche amico.»

«Sono agli ordini del signor conte», disse il maggiore.

«Or via, giovanotto, confidatevi.»

«A chi?»

«A vostro padre; ditegli qualche cosa sullo stato delle vostre finanze.»

«Ahimè!» gemette Andrea. «Voi toccate un tasto sensibile…»

«Capite, maggiore?» disse Montecristo.

«Senza dubbio.»

«Egli dice che ha bisogno di denaro.»

«E che volete che ci faccia io?»

«Che gliene diate, perbacco!»

«Io?»

«Sì, voi!»

Montecristo si pose fra loro.

«Prendete», disse ad Andrea, lasciandogli scorrere tra le mani dei biglietti di banca.

«E che cos’è?»

«La risposta di vostro padre… Non gli avete fatto capire che avevate bisogno di denaro?»

«Sì, ebbene?»

«Ebbene, egli m’incarica di darvi questi.»

«In conto delle mie rendite?»

«No, per le spese di prima sistemazione.»

«Oh, caro padre!»

«Silenzio!» intimò Montecristo. «Vedete bene che egli non vuole vi dica che vengono da lui.»

«Apprezzo questa delicatezza», disse Andrea, nascondendo i biglietti nella tasca dei calzoni.

«Bene», annuì Montecristo. «Ora andate!»

«E quando avremo l’onore di rivedere il signor conte?» domandò il maggiore.

«Sabato, per favore… Avrò parecchie persone a pranzo nella mia casa d’Auteuil, rue Fontaine 28; fra esse il signor Danglars, vostro banchiere. Vi presenterò a lui: bisogna bene che faccia la conoscenza di entrambi per sborsarvi il vostro danaro.»

«In gran tenuta?» domandò a bassa voce il maggiore.

«Sì, uniforme, decorazioni e nastrini.»

«E io?» chiese Andrea.

«Voi con gran semplicità: calzoni neri, stivali verniciati, corpetto bianco, abito nero o turchino… Andate da Blin o Véronique per abbigliarvi, se non ne sapete gli indirizzi, Battistino ve li dirà… Se prendete cavalli servitevi da Devedeux; se comprate un carrozzino andate da Baptiste.»

«A che ora potremo presentarci?»

«Alle sei e mezzo.»

«Molto bene!» disse il maggiore, portando la mano al cappello.

I due Cavalcanti salutarono il conte e partirono.

Il conte si avvicinò alla finestra, e li vide che attraversavano il cortile tenendosi sotto il braccio.

«In verità», disse, «ecco due gran miserabili! Peccato che non siano veramente padre e figlio!»

Dopo un momento di cupa riflessione: «Andiamo dai Morrel; credo che il disprezzo mi amareggi ancor più dell’odio».

56. Il recinto di trifoglio

Occorre che i nostri lettori ci permettano di riportarli a quel recinto che confina con l’abitazione del signor Villefort, e dietro il cancello nascosto dai castagni troveremo delle persone di nostra conoscenza.

Maximilien questa volta era giunto per primo, e teneva l’occhio contro l’assito cercando in fondo al giardino un’ombra fra gli alberi, e attendendo il calpestio d’uno stivaletto di seta sulla sabbia dei viali. Finalmente il tanto desiderato calpesto si fece sentire, ma invece di una furono due le ombre che si avvicinarono. Il ritardo era causato dalla visita della signora Danglars e di Eugénie, che si era prolungata oltre l’ora in cui Valentine era attesa. Allora per non mancare al suo appuntamento la ragazza aveva proposto alla signorina Danglars una passeggiata in giardino, volendo far vedere a Maximilien non esser lei la causa del ritardo per il quale, certamente, lui soffriva. Il giovane comprese tutto con la rapidità d’intuizione propria degli innamorati, e il suo cuore ne fu sollevato. D’altra parte senza giungere a portata di voce, Valentine fece la sua passeggiata in modo che Maximilien potesse vederla passare e ripassare; e a ogni sguardo dalla parte del cancello, e dal giovane raccolto, gli diceva: «Abbiate pazienza, vedete che non è colpa mia». Maximilien, infatti, si era rassegnato e stava notando il contrasto fra le due ragazze: la bionda dagli occhi languidi e dal corpo leggermente flessuoso come un bel salice; e la bruna dagli occhi vivi e dal corpo ritto come un pioppo. Non è necessario dirlo, in questo contrasto tutto il vantaggio era per Valentine, almeno nel cuore del giovane.

Dopo una mezz’ora di passeggiata le due ragazze si allontanarono; Maximilien capì essere giunto il termine della visita della signora Danglars. Un momento dopo comparve Valentine da sola. Per paura che qualche indiscreto sguardo non ne seguisse il ritorno in giardino, lei veniva piano piano; e invece d’avanzarsi direttamente verso il cancello, andò a sedersi su una panchina, dopo aver ammirato ogni gruppo di alberi e aver contemplato fino in fondo tutti i viali. Prese queste cautele corse al cancello.

«Buongiorno, Maximilien; vi ho fatto attendere, ma ne avete vista la causa.»

«Ho notato la signorina Danglars; non vi credevo in così stretta amicizia.»

«E chi vi ha detto che siamo strette amiche?»

«Nessuno, ma ho potuto intuirlo dal modo come vi tenevate per il braccio, e come parlavate: sembravate due compagne di conservatorio che si facevano le loro confidenze.»

«Sì, è vero, infatti», ammise Valentine, «mi confessava la sua avversione al matrimonio con il signor Morcerf, e io la mia infelicità nel dover sposare il signor d’Epinay.»

«Cara la mia Valentine!»

«Ecco perché, amico mio», continuò la ragazza, «avete notato quest’apparenza di intimità fra me ed Eugénie; perché parlando dell’uomo che non posso amare, pensavo a quello che amo.»

«Quanto siete buona, mia Valentine, avete un pregio che Eugénie non avrà mai: emanate quella simpatia indefinibile che per la donna è ciò che il profumo è per il fiore, il sapore per il frutto; poiché non è tutto in un fiore l’esser bello, in un frutto l’esser buono.»

«E l’amor vostro vi fa vedere in tal modo?»

«No, Valentine, ve lo giuro, poco fa vi guardavo entrambe, e sul mio onore, rendendo giustizia alla bellezza della signorina Danglars, non potevo comprendere come un uomo si possa innamorare di lei.»

«Lo dite perché c’ero anch’io, e la mia presenza vi rende ingiusto.»

«No, ma ditemi…, una domanda di semplice curiosità, e che viene da certe idee che mi sono fatte della signorina Danglars…»

«Queste idee saranno certamente ingiuste, sebbene non sappia quali siano… Quando giudicate voi uomini, noi povere donne non ci dobbiamo aspettare indulgenza.»

«È per ciò che siete tanto giuste quando vi giudicate fra di voi!»

«È perché nei vostri giudizi sono quasi sempre mischiate le passioni.»

«È forse perché la signorina Danglars ama qualche altro, che teme il matrimonio col signor Morcerf?»

«Maximilien, vi ho già detto che non sono la sua intima amica.»

«Senza essere amiche intime le ragazze si fan delle confidenze… Convenite che le avete fatto qualche domanda su quest’argomento… Vi vedo sorridere…»

«Se potete vedere tanto bene, queste tavole sono davvero inutili!»

«Sentiamo cosa vi ha detto?»

«Mi ha detto che non amava nessuno», rispose Valentine, «che aveva in orrore il matrimonio, che la sua maggiore gioia sarebbe di vivere una vita sola e felice, e che quasi desiderava che suo padre perdesse la sua fortuna per diventare artista come la sua amica Louise d’Armilly.»

«Vedete dunque…»

«Ebbene, ciò che cosa prova?» domandò Valentine.

«Nulla, è vero», rispose sorridendo Maximilien.

«Allora», riprese Valentine, «perché ora sorridete voi?»

«Allora anche voi mi guardate», proseguì Maximilien.

«Volete che mi allontani?»

«No, no, torniamo a noi.»

«Sì è vero, perché abbiamo appena dieci minuti da passare insieme.»

«Dio mio!» disse costernato Maximilien.

«Sì, avete ragione», rispose malinconicamente Valentine, «avete in me una povera amica… Quale meschina esperienza vi faccio fare Maximilien! Voi siete nato per esser felice. Credetemi; io me lo rimprovero sempre amaramente.»

«Ebbene che v’importa, se anche in tal modo mi sento felice? Se questo lungo aspettare viene compensato da cinque minuti, in cui posso vedervi, dalle poche parole che escono dalla vostra bocca e da quell’intima e permanente convinzione che Dio non può aver creato due cuori in armonia quanto i nostri, e riunirli direi quasi miracolosamente, solo per separarli?»

«Grazie! Sperate per entrambi, Maximilien: ciò mi rende in parte felice.»

«E che cosa accade ancora Valentine, perché abbiate a lasciarmi tanto presto?»

«Non lo so… La signora Villefort m’ha fatto dire di dovermi dare una notizia dalla quale, dice, dipende metà della mia fortuna. Ah, mio Dio, che se la prendano tutta, sono ricca abbastanza, ma almeno, dopo averla presa, mi lascino tranquilla! Mi amereste ugualmente anche fossi povera, non è vero, Morrel?»

«V’amerò sempre! Che m’importano la ricchezza o la povertà, fossi certo che la mia Valentine mi sposa, e che nessuno può togliermela? Ma questa non potrebbe riguardare il vostro matrimonio?»

«Non credo…»

«Però ascoltatemi Valentine, ma non vi spaventate: finché vivo, non sarò mai di un’altra!»

«Credete di tranquillizzarmi, dicendomi questo, Maximilien?»

«Scusate, avete ragione, sono un uomo brutale. Io volevo dirvi che giorni fa ho incontrato il signor Morcerf.»

«Ebbene?»

«Il signor Franz è suo amico, come voi ben sapete.»

«Sì, ebbene?»

«Ebbene, egli ha ricevuto da Franz una lettera con cui lo avverte del suo prossimo ritorno.»

Valentine impallidì, e appoggiò la testa contro il cancello.

«Povera me!» si disperò. «Fosse mai vero! Ma no, una tale notizia non mi verrebbe dalla signora Villefort.»

«Perché?»

«Perché… non lo so… Ma mi sembra che la signora Villefort, senza opporsi apertamente, non abbia simpatia per questo matrimonio.»

«Va bene, Valentine, dovrò finire con l’adorare la signora Villefort.»

«Non v’affrettate, Maximilien», disse Valentine con un amaro sorriso.

«Alla fin fine, se è contraria a questo matrimonio, non fosse altro che per romperlo, forse darebbe ascolto a qualche altra proposta.»

«Non speratelo; la signora Villefort non esclude i mariti, ma il matrimonio.»

«Come il matrimonio? Se tanto detesta il matrimonio, perché si è maritata?»

«Voi non mi capite, Maximilien… Quando un anno fa le parlai di ritirarmi in un convento, malgrado le osservazioni che si era creduta in dovere di farmi, lei aveva accolto la mia proposta con gioia, e su sua istigazione mio padre aveva acconsentito; non vi fu che il povero nonno che mi trattenne. Non potete immaginarmi quanta espressione vi sia negli occhi di questo povero vecchio che non ama che me sola al mondo, e che (Dio mi perdoni se dico una bestemmia) in questo mondo, non è amato che da me sola! Se sapeste quando apprese la mia decisione, in che modo mi ha guardato, quanti rimproveri vi erano in quegli sguardi, quanta disperazione in quelle lacrime che scorrevano senza lamenti e senza sospiri su quelle guance immobili! Maximilien, io provai rimorso, e mi gettai ai suoi piedi gridando: “Perdono, perdono, nonno mio, faranno di me ciò che vorranno, ma io non vi lascerò mai!” Allora alzò gli occhi al cielo… Maximilien, posso soffrire molto, ma quello sguardo del mio buon vecchio nonno mi ha ricompensata di tutto ciò che soffrirò…»

«Cara Valentine, siete un angelo, e io non so come abbia potuto meritare pur avendo ucciso tanti uomini in questa guerra crudele, come abbia potuto meritarmi un angelo come voi… Ma infine vediamo, Valentine, da dove può venire un’opposizione così forte della signora Villefort perché non dobbiate maritarvi?»

«Non avete capito ciò che vi dicevo poco fa, che cioè, io sono ricca, Maximilien, troppo ricca? Io ho da parte di mia madre quasi cinquantamila franchi di rendita; mio nonno e mia nonna, il marchese e la marchesa di Saint-Méran, devono lasciarmene altrettanto; il signor Noirtier ha ugualmente l’intenzione di farmi sua unica erede. Ne risulta dunque in rapporto a me, che mio fratello Edouard, che non può aspettarsi da parte di sua madre alcuna ricchezza, è povero. Ora la signora Villefort ama questo ragazzo fino all’adorazione, e se io fossi entrata in un monastero, tutti i miei beni riuniti in mio padre, che erediterebbe dal marchese, dalla marchesa e da me, sarebbero andati a suo figlio.»

«Questa cupidigia in una donna giovane e bella è molto strana!»

«Notate però che tutto ciò non è per se stessa, Maximilien, ma per suo figlio; e ciò che voi le rimproverate come un difetto, visto dall’amor materno, è quasi una virtù.»

«Ditemi, Valentine», domandò Morrel, «se voi lasciaste una parte di questi beni a questo figlio?»

«Ma come fare una simile proposta», replicò Valentine, «a una donna che continuamente ha nella bocca la parola disinteresse?»

«Valentine, il mio amore mi è stato sempre sacro, e come tutte le cose sacre io l’ho coperto col velo del rispetto: sta chiuso nel mio cuore, nessuno al mondo, neppure mia sorella dubita dunque di questo amore che io non ho confidato a nessuno. Valentine, mi permettete di parlare di questo amore con un amico?»

Valentine fremette.

«A un amico?» si agitò. «Mio Dio, Maximilien, un timore mi prende nel sentirvi parlar così! “A un amico”, e chi è dunque questo amico?»

«Ascoltate, Valentine, avete mai sentito per qualcuno una di quelle simpatie irresistibili che fanno sì che, vedendo una persona per la prima volta, credete di conoscerla da lungo tempo, e tanto che, non potendo ricordarvi né il luogo né il tempo, giungete a credere che ciò fu in un mondo anteriore al nostro, e che questa simpatia non sia che una rimembranza che si risvegli?»

«Sì.»

«Ebbene, ecco ciò che ho provato la prima volta che ho visto quest’uomo straordinario.»

«Un uomo straordinario!»

«Sì.»

«Che voi conoscete da lungo tempo allora.»

«Da otto o dieci giorni.»

«E chiamate vostro amico un uomo che conoscete da soli otto giorni? Maximilien, vi credevo molto più geloso di questo bel nome di “amico”.»

«Voi avete ragione, Valentine: ma, dite ciò che volete, nulla mi può far dubitare di questo sentimento istintivo. Credo che quest’uomo avrà un ruolo in tutto ciò che potrà accadermi di buono in un avvenire, che perfino il suo sguardo profondo sembra conoscere e la sua mano possente dirigere.»

«È dunque un indovino?» chiese sorridendo Valentine.

«A dire il vero», disse Maximilien, «sono tentato di credere che spesso egli indovini… particolarmente il bene.»

«Oh», sospirò Valentine tristemente. «Fatemi conoscere quest’uomo, che io sappia da costui, se sarò amata abbastanza per essere ricompensata di tutto ciò che ho sofferto.»

«Povera amica! Ma voi lo conoscete.»

«Io!»

«Sì, è colui che ha salvato la vita alla vostra matrigna e a suo figlio.»

«Il conte di Montecristo?»

«In persona.»

«Non può mai essere mio amico», gridò Valentine, «lo è troppo della mia matrigna.»

«Il conte amico della vostra matrigna! Valentine, il mio istinto mi avrebbe ingannato a questo punto? Sono sicuro che voi vi sbagliate.»

«Sapeste, Maximilien, non è più Edouard che regna nella casa, ma il conte, ricercato dalla signora Villefort, che vede in lui il compendio delle umane conoscenze… Ammirato, capite? Ammirato da mio padre che dice di non aver mai udito esporre con maggiore eloquenza le idee più sublimi; idolatrato da Edouard che, pur spaventato dai grandi occhi neri del conte, corre da lui appena lo vede, e gli apre la mano, dove trova sempre qualche bel giocattolo… Il signor Montecristo, quando è dalla signora Villefort, è come se fosse in casa propria.»

«Ebbene, cara Valentine, se le cose sono così come dite dovete già risentire, o risentirete ben presto gli effetti della sua presenza. Egli incontra Albert di Morcerf in Italia, e lo sottrae dalle mani dei briganti; vede la signora Danglars, e le fa un regalo da re; la vostra matrigna e vostro fratello passano davanti alla sua porta, e il suo nubiano salva loro la vita. Quest’uomo ha evidentemente ricevuto il potere di avere influenza sugli avvenimenti, sugli uomini e sulle cose. Non ho mai visto gusti più semplici collegati a una più alta signorilità. Il suo sorriso quando guarda me, è così dolce, che io dimentico come gli altri trovino il suo sorriso amaro: ditemi, Valentine, vi ha sorriso in tal modo? Se lo ha fatto voi sarete felice.»

«Sorriso a me!» esclamò la ragazza. «Egli mi guarda appena, o piuttosto, se passo per caso, volge lo sguardo altrove. Non è generoso, non ha quello sguardo profondo che legge nell’interno dei cuori, e che voi gli supponete a torto; poiché se avesse avuto questo sguardo, avrebbe visto che io sono infelice; perché se fosse generoso, vedendomi sola e triste nel mezzo di questa famiglia, mi avrebbe protetta con quella influenza che egli esercita; e poiché rappresenta, a quanto pretendete, la parte di sole, avrebbe riscaldato il mio cuore a uno dei suoi raggi. Voi dite che vi ama, Maximilien, ma che ne sapete? Gli uomini fanno sempre buon viso a un ufficiale alto come voi, che ha lunghi baffi, e una grande sciabola, ma credono di potere schiacciare senza timore una povera ragazza che piange.»

«Valentine, v’ingannate, ve lo giuro!»

«Se fosse altrimenti, se mi trattasse come un uomo che vuole in un modo o nell’altro padroneggiare la famiglia, mi avrebbe, non fosse stato che una sola volta, onorata di quel sorriso che voi tanto mi vantate… Ma invece ha capito come sono, ma capisce anche che non posso essergli utile, e allora non fa attenzione a me. Chissà, invece, per fare la corte a mio padre, alla signora Villefort, a mio fratello, che non mi perseguiti quanto sarà in suo potere di farlo? Diciamolo francamente Maximilien, io non sono una donna che si debba disprezzare così senza ragione; voi me lo avete detto… Perdonatemi», continuò la giovane vedendo l’effetto che producevano le sue parole su Maximilien, «sono cattiva, e vi dico su quest’uomo cose che non sapevo neppure di avere in cuore. Ascoltate… Non nego che quest’influenza, di cui mi parlate, vi sia e che egli non la eserciti anche su me; ma s’egli la esercita, è in modo nocivo e corruttore, come lo vedete, dei vostri buoni pensieri.»

«Sta bene, Valentine», disse Morrel con un sospiro, «non ne parliamo più, non gli dirò niente.»

«Ahimè, amico mio», disse Valentine, «io vi affliggo, lo vedo… Perché non posso stringervi la mano per domandarvi perdono! Ma infine non chiedo di meglio che di esser convinta: dite che ha dunque fatto per voi questo conte di Montecristo?»

«Voi mi mettete in un grande imbarazzo domandandomi ciò che ha fatto il conte per me; niente di grande è vero. Vi ho già detto che la mia affezione per lui è tutta d’istinto, e che nulla ha di ragionato. Il sole mi ha forse fatto qualche cosa! No, egli mi riscalda e con la sua luce vedo, ecco tutto. Il tale o tal altro profumo ha fatto qualche cosa per me? No, il suo odore ricrea gradevolmente uno dei miei sensi, non ho altro da dire quando mi si domanda perché io vanti quel tale profumo. La mia amicizia per lui è strana, com’è la sua per me. Una voce segreta m’avverte che vi è qualche cosa più di un semplice caso in quest’amicizia imprevista e reciproca, trovo una corrispondenza perfino nei suoi più segreti pensieri, fra le mie azioni ed i miei pensieri. Voi forse riderete di me, Valentine, ma da quando conosco quest’uomo mi è venuta l’assurda idea che tutto ciò che mi accade di bene provenga da lui benché abbia vissuto trent’anni senza aver mai avuto bisogno di questo protettore. Sentite un esempio! Mi ha invitato a pranzo per sabato, questa è una cosa naturale al punto in cui siamo, non è vero? Ebbene, che ho saputo dopo? Che vostro padre è invitato a questo pranzo, che vostra madre ci verrà. Chi sa ciò che potrà risultare per l’avvenire da questo incontro? Ecco delle coincidenze semplicissime in apparenza, tuttavia vi scorgo qualche cosa che mi sorprende, m’ispira una strana fiducia. Io ho pensato che il conte, quest’uomo singolare che indovina tutto, ha voluto farmi ritrovare col signore e con la signora Villefort, e qualche volta cerco, ve lo giuro, di leggere nei suoi occhi se ha indovinato il mio amore.»

«Mio buon amico», riprese Valentine, «se non udissi da voi ragionamenti simili vi prenderei per un visionario, e avrei una vera paura del vostro buon senso. Non è forse un puro caso quest’incontro? In verità rifletteteci dunque. Mio padre, che non esce mai, è stato dieci volte sul punto di negare questo invito alla signora Villefort, la quale al contrario arde dal desiderio di vedere la casa di questo straordinario nababbo, e a stento ha ottenuto di essere accompagnata da lui. No no, credetemi, tranne voi, Maximilien, non ho altri a cui chiedere soccorso che mio nonno, un impotente, né altr’appoggio che mia madre, un’ombra…»

«Comprendo che avete ragione, Valentine, e che il vostro ragionamento è giusto», disse Maximilien, «ma la vostra dolce voce, sempre così persuasiva per me, oggi non mi convince.»

«E la vostra ancor meno», replicò Valentine, «e vi dirò che se non avete altro esempio da citarmi…»

«Ne ho uno», disse Maximilien esitando, «ma, Valentine, sono costretto a dirvi che è più assurdo del primo.»

«Tanto peggio», commentò sorridendo Valentine.

«Eppure», continuò Morrel, «non è meno importante per me, uomo d’istinto e di sentimento, e che nei momenti più pericolosi della mia vita militare mi sono salvato proprio per uno di queste sensazioni inconsce.»

«Caro Maximilien, perché non attribuire alle mie preghiere quella salvezza? Quando siete in Africa, non prego più Dio per me, né per mia madre, ma solo per voi.»

«Sì, da quando vi conosco», disse sorridendo Morrel, «ma prima che vi conoscessi, Valentine?»

«Non volete essermi debitore di niente, non è vero? Tornate dunque a questo esempio che voi stesso confessate assurdo.»

«Ebbene, guardate fra le assi, e osservate, laggiù a quell’albero, il nuovo cavallo col quale sono venuto.»

«Che bestia ammirabile! Perché non lo avete condotto vicino al cancello? Gli avrei parlato ed egli mi avrebbe capita…»

«Infatti, come vedete è un animale di grande valore», continuò Maximilien. «Voi sapete che la mia rendita è limitata, e che io altro non sono, come si dice, che un uomo ragionevole. Ebbene, avevo visto da un mercante di cavalli questo magnifico Medea, così lo chiamo; ne chiesi il prezzo, mi fu risposto quattromilacinquecento franchi, dovetti astenermi, come ben capite, sebbene tanto bello, e me ne molto dispiaciuto, perché il cavallo mi aveva guardato teneramente, mi aveva accarezzato con la testa, e aveva caracollato sotto di me nel modo più elegante e grazioso. La stessa sera avevo in casa alcuni amici: il signor Château-Renaud, il signor Debray, e cinque o sei altri, che avete la fortuna di non conoscere neppure di nome. Fu proposta una partita di carte. Non gioco mai perché non sono abbastanza ricco da poter perdere, né abbastanza povero per desiderare di vincere… Però ero in casa mia, e non potevo ricusare, così fui costretto a mettermi al tavolino. Poco dopo giunse il signor di Montecristo, si giocò e io vinsi, oso appena confessarvelo, Valentine, guadagnai cinquemila franchi. Ci lasciammo a mezzanotte, e io non potei contenermi, presi un carrozzino e mi feci condurre dal mercante di cavalli. Palpitante suonai, venne ad aprirmi, e dovette prendermi per pazzo: irruppi e corsi dall’altra parte del cortile appena fu aperta la porta; entrai in scuderia, guardai alla rastrelliera. Oh, fortuna! Medea era lì, rosicava il fieno, prendo una sella, gliela metto sul dorso, gli pongo le redini; poi depositando i quattromilacinquecento franchi fra le mani del mercante stupefatto, ritorno, o piuttosto passo la notte a passeggiare negli Champs-Elysées. Ebbene, ho visto un lume alla finestra del conte, e mi è perfino sembrato di scorgerne l’ombra dietro la tenda. Ora, Valentine, giurerei che il conte ha saputo che desideravo questo cavallo, e ha perduto per farmelo comperare.»

«Mio caro Maximilien», disse Valentine, «avete troppa fantasia… Non mi amerete a lungo… Un uomo così poetico non può avere costanza in una passione monotona come la nostra. Ma sentite… mi chiamano…»

«Valentine», osò Maximilien, «il vostro dito più piccolo ch’io possa baciarlo attraverso la fessura!»

«Avevamo detto, Maximilien, che saremmo stati l’una per l’altro due voci, due ombre!»

«Come volete, Valentine…»

«Sareste felice, se facessi ciò che volete?»

«Sì sì.»

Valentine salì su una panchina, e passò, non il dito attraverso l’apertura, ma la mano al di sopra del recinto. Maximilien mandò un grido, e, arrampicandosi con un balzo sullo steccato, afferrò questa mano adorata, e v’impresse le ardenti labbra; ma subito la piccola mano sgusciò dalle sue, e il giovane vide fuggire Valentine, forse spaventata dalla sensazione provata.

57. Il signor Noirtier di Villefort

Ecco ciò che accadde nella casa del procuratore del re, successivamente alla partenza della signora Danglars e di sua figlia, durante la conversazione che abbiamo riferito. Il signor Villefort era entrato nella camera di suo padre, seguito dalla signora Villefort; in quanto a Valentine, sappiamo dov’era. Entrambi dopo aver salutato il vecchio e congedato Barrois, il domestico che era al loro servizio da venticinque anni, avevano preso posto ai suoi lati.

Il signor Noirtier, seduto in una grande poltrona a rotelle, dove veniva messo la mattina e da dove era tolto la sera, era seduto davanti a uno specchio che riflettendo tutto l’appartamento gli permetteva di vedere, impossibilitato a muoversi, chi entrava nella sua camera, chi ne usciva, e tutto ciò che si faceva intorno a lui. Il signor Noirtier, immobile come un cadavere, guardava con occhi intelligenti e vivi i suoi figli, la cui cerimoniosa reverenza gli annunciava qualche cosa di spiacevole e inatteso.

La vista e l’udito erano i due soli sensi che, simili a scintille, animavano questo corpo umano inerte, ormai pronto per la tomba: e lo sguardo che rivelava quella vita interna, era paragonabile a una di quelle luci lontane che, durante la notte, avvertono il viaggiatore perduto in un deserto che un essere umano veglia ancora in quel silenzio e in quella oscurità.

E così nell’occhio nero del vecchio Noirtier sormontato da un sopracciglio nero, mentre la capigliatura, lunga e pendente sulle spalle, era bianca, in quest’occhio, come accade in ciascun organo dell’uomo, super esercitato a spese degli altri organi, si erano concentrate tutta la forza, tutta l’intelligenza di quel corpo e di quello spirito. Certo mancavano il gesto del braccio, il suono della voce e l’attitudine del corpo; ma quell’occhio intenso suppliva a tutto: comandava con gli occhi, ringraziava con gli occhi; era un cadavere con gli occhi vivi, e niente poteva essere qualche volta più minaccioso o dolce di quel viso di marmo, quando si accendeva una collera o risplendeva una gioia.

Tre sole persone sapevano comprendere il linguaggio di questo povero paralitico: Villefort, Valentine e il vecchio domestico di cui abbiamo già parlato. Ma siccome Villefort non vedeva suo padre che rare volte, o, per così dire, solo quando non ne poteva fare a meno, e siccome quando lo vedeva, non cercava di compiacerlo, comprendendolo, tutta la felicità del vecchio era riposta nella nipote Valentine, la quale era giunta a forza di affezione, di amore e di pazienza a comprendere con lo sguardo tutti i pensieri di Noirtier.

A tale linguaggio muto o inintelligibile, lei rispondeva con tutta la sua voce, tutta la sua fisonomia, tutta la sua anima: di modo che si stabilivano dei dialoghi animati fra questa ragazza e questa forma di argilla quasi ritornata polvere, e ancora uomo di immenso sapere, di inaudita penetrazione, e di volontà così possente quanto un’anima racchiusa in un corpo su cui ha perduto il potere e l’obbedienza. Valentine era dunque riuscita a capire il pensiero del vecchio e a fargli comprendere il suo; ed era ben raro che per le cose ordinarie della vita, non indovinasse con precisione il desiderio di quest’anima vivente, o di questo cadavere per metà insensibile. Quanto al domestico, siccome serviva il padrone da venticinque anni, conosceva tanto bene tutte le abitudini di lui ch’era ben difficile che Noirtier avesse bisogno di domandare qualche cosa.

Villefort tuttavia non aveva bisogno dei soccorsi né dell’uno, né dell’altro, per intavolare con suo padre la strana conversazione che stava per incominciare. Egli stesso, abbiamo detto, conosceva perfettamente il vocabolario del vecchio, e se non se ne serviva più spesso, era per noia o per indifferenza. Dunque lasciò scendere Valentine in giardino, allontanò Barrois, e dopo aver preso posto alla destra di suo padre, mentre la signora Villefort sedeva alla sinistra, iniziò: «Signore, non vi meravigliate che Valentine non sia salita con noi, e che io abbia allontanato Barrois, perché la conversazione che stiamo per avere è una di quelle che non può essere fatta, né davanti a una ragazza, né davanti a un domestico… La signora Villefort e io abbiamo una comunicazione da farvi».

Il viso di Noirtier restò impassibile durante questo preambolo, mentre l’occhio di Villefort sembrava scrutare fino nel più profondo il cuore del vecchio.

«Questa comunicazione», continuò il procuratore del re, nel suo solito tono gelido, che non sembrava ammettere mai contestazioni, «siamo sicuri che vi farà piacere.»

L’occhio del vecchio continuò a restare immobile, ascoltava e niente più.

«Signore», riprese Villefort, «noi vogliamo maritare Valentine.»

Una figura di cera non sarebbe a questa notizia rimasta più fredda del vecchio.

«Il matrimonio avrà luogo fra tre mesi», concluse Villefort.

La signora Villefort prese a sua volta la parola e si affrettò ad aggiungere: «Abbiamo pensato che questa notizia vi avrebbe toccato, da vicino, signore, giacché Valentine sembra aver attirato tutta la vostra simpatia… Non ci rimane altro da dirvi che il nome del giovane che le viene destinato. È uno dei più onorevoli partiti ai quali possa aspirare Valentine: ricchezze, un bel nome, e garanzie sicure di felicità nella condotta e nei gusti di colui che le destiniamo, e il cui nome non dev’esservi sconosciuto: il signor Franz Quesnel, barone d’Epinay».

Villefort durante il piccolo discorso di sua moglie fissava nel vecchio uno sguardo più attento che mai. Allorché la signora Villefort pronunciò il nome di Franz, l’occhio di Noirtier, che suo figlio conosceva tanto bene, fremette e le pupille dilatandosi come fossero state due labbra al momento di dire una parola, lasciarono intravedere una certa agitazione.

Il procuratore del re, che conosceva gli antichi rapporti d’inimicizia politica tra suo padre e il padre di Franz, capì questo fuoco e quest’agitazione, ma ciò nonostante lo lasciò passare come non visto, e riprendendo la parola ove sua moglie l’aveva lasciata: «Signore, è importante, lo capite bene, essendo così vicina a compiere i diciannove anni, che Valentine venga finalmente sistemata. Tuttavia non vi abbiamo dimenticato nelle trattative, e ci hanno assicurato che il marito di Valentine accetterebbe di vivere se non con noi, la qual cosa incomoderebbe forse le loro private faccende, almeno con voi, che siete il prediletto di Valentine, e che per vostra parte sembrate portarle un’affezione uguale. Non perderete alcuna delle vostre abitudini, e avreste soltanto due figli che vi sorveglieranno invece di uno solo».

Il lampo dello sguardo di Noirtier divenne sanguigno…. Certamente passava qualche cosa di spaventoso nell’animo di questo vecchio; certamente il grido del dolore o della collera gli salivano alla gola, e non potendo scoppiare lo soffocavano, perché il viso divenne color di porpora e le labbra livide.

Villefort aprì tranquillamente una finestra dicendo: «Fa troppo caldo qui, e questo calore fa male al signor Noirtier».

Poi ritornò, ma senza sedersi.

«Questo matrimonio», riprese la signora Villefort, «piace al signor d’Epinay e alla sua famiglia, la quale d’altra parte non si compone che di uno zio e di una zia. Sua madre morì nel darlo alla luce, suo padre morì assassinato nel 1815, cioè quando il figlio aveva due anni appena… Franz d’Epinay dunque è indipendente.»

«Assassinio misterioso», sottolineò Villefort, «di cui gli autori sono rimasti sconosciuti, sebbene il sospetto si fosse sparso, pur senza soffermarsi sulla testa di precise persone.»

Noirtier fece un tale sforzo che le labbra si contrassero come per sorridere.

«Ora», continuò Villefort, «i veri colpevoli, quelli che sanno di aver commesso il delitto, quelli sui quali può discendere la giustizia degli uomini durante la loro vita, e la giustizia di Dio dopo la loro morte, sarebbero ben felici di essere al nostro posto e di avere una figlia da offrire al signor Franz d’Epinay per spegnere fino all’apparenza questo sospetto.»

Noirtier si era placato con uno di quegli sforzi che non ci si sarebbe aspettati da un uomo in quelle condizioni.

«Sì, comprendo», rispose egli con uno sguardo a Villefort, e questo sguardo esprimeva anche lo sdegno profondo e la collera intelligente.

Villefort rispose a questo sguardo, nel quale aveva letto perfettamente, con una leggera stretta di spalle. Quindi fece segno a sua moglie di alzarsi.

«Ora, signore», disse la signora Villefort, «gradite il nostro rispetto. Permettete che Edouard venga a salutarvi?»

Era convenuto che il vecchio esprimesse la sua approvazione chiudendo gli occhi, e il suo rifiuto socchiudendoli a più riprese, e quando li alzava al cielo era segno che aveva qualche desiderio da esprimere. Quando chiedeva di Valentine serrava l’occhio destro; se domandava di Barrois chiudeva l’occhio sinistro.

Alla proposta della signora Villefort socchiuse vivamente a più riprese gli occhi. Questa riconoscendo l’evidente rifiuto si morse le labbra.

«Vi manderò dunque Valentine», disse allora.

«Sì», fece il vecchio chiudendo gli occhi.

I signori Villefort lo salutarono e uscirono ordinando che si chiamasse Valentine, già avvisata che avrebbe avuto qualche cosa da fare nella giornata presso il signor Noirtier. Quando uscirono, entrava Valentine, ancora tutta rossa per l’emozione provata. Non le fu bisogno che uno sguardo per capire come soffriva il nonno e quante cose avrebbero dovuto dirsi.

«Oh caro nonno!» esclamò. «Che cosa ti è dunque accaduto? Ti hanno contrariato, non è vero? Tu sei in collera.»

«Sì», fece lui chiudendo gli occhi.

«Contro chi dunque? Contro mio padre?… No… Contro di me?»

Il vecchio fece segno di sì.

«Contro di me?» riprese Valentine meravigliata.

Il vecchio rinnovò il segno affermativo.

«E che cosa ti ho dunque fatto, caro e buon nonno?» gridò Valentine.

Non ci fu alcuna risposta e lei continuò: «Io non ti ho visto nella giornata, ti hanno dunque riportato qualche cosa sul conto mio?»

«Sì», disse lo sguardo del vecchio con vivacità.

«Vediamo dunque… Mio Dio! Ti giuro, buon nonno… Ah!… Il signore e la signora Villefort sono appena stati qui, non è vero? Ed essi ti hanno detto queste cose che ti dispiacciono? Vuoi che io vada a domandarle a loro, per avere il mezzo di scusarmi con te?»

«No, no», fece lo sguardo.

«Ma tu mi spaventi! Che ti hanno potuto dire, mio Dio?» e pensando: «Lo so!» riprese, abbassando la voce e avvicinandosi al vecchio: «Ti hanno forse parlato del mio matrimonio?»

«Sì», replicò, lo sguardo corrucciato.

«Capisco, tu ce l’hai con me per il mio silenzio… Vedi, fu perché mi avevano raccomandato di non dirti niente, perché nulla, ufficialmente, mi avevano detto, e soltanto avevo strappato di soppiatto qualche allusione… Ecco perché sono stata così riservata con te. Perdonami, caro nonno!»

Ritornato fisso e immobile, lo sguardo sembrava rispondere: «Non è soltanto il tuo silenzio che mi affligge».

«Che cosa c’è dunque?» domandò la ragazza. «Credi forse che io possa abbandonarti, caro nonno, e che il mio matrimonio mi renda smemorata?»

«No», disse il vecchio.

«Allora ti hanno detto che il signor d’Epinay acconsentiva che vivessimo insieme.»

«Sì.»

«Allora perché sei in collera?»

Gli occhi del vecchio assunsero un’espressione di infinita dolcezza.

«Sì, capisco», comprese Valentine, «perché mi vuoi bene.»

Il vecchio fece segno di sì.

«E tu temi ch’io sia infelice?»

«Sì.»

«Non ti piace il signor Franz.»

Gli occhi ripeterono tre o quattro volte: «No, no, no».

«Ma sei molto afflitto, non è vero, caro nonno? Ebbene ascolta», riprese Valentine, mettendosi in ginocchio davanti a Noirtier e passandogli le braccia intorno al collo, «io pure sono molto triste, poiché anch’io non amo il signor Franz d’Epinay.»

Un baleno di gioia passò negli occhi del nonno.

«Quando volli ritirarmi in convento, ti ricordi di essere stato tanto in collera?»

Una lacrima inumidì le aride palpebre del vecchio.

«Ebbene», continuò Valentine, «lo facevo per sfuggire questo matrimonio, che è la mia disperazione.»

Il respiro di Noirtier divenne ansante.

«Allora questo matrimonio ti fa gran dispiacere, buon nonno? Oh mio Dio, se tu potessi aiutarmi, se noi due potessimo rompere il loro disegno! Ma sei senza forze contro di essi! Tu che hai uno spirito così vivo, e una volontà così ferma, quando si tratta di lottare sei tanto debole, e anzi più debole di me. Saresti stato per me un protettore potente nei giorni della tua forza e della tua salute, ma ora non puoi fare altro che capirmi e rallegrarti, o affliggerti con me… Questa è l’ultima fortuna che Iddio ha voluto lasciarmi insieme con le altre.»

A queste parole vi fu negli occhi di Noirtier una tale espressione di malizia e di profondità, che la ragazza credette leggervi queste parole: «T’inganni, posso ancor molto per te».

«Puoi qualche cosa per me, caro e buon nonno?» tradusse Valentine.

«Sì.»

Noirtier alzò gli occhi al cielo.

Questo era il segnale convenuto fra lui e Valentine, quando aveva bisogno di qualche cosa.

«Che vuoi, caro nonno? Vediamo…»

Valentine cercò un momento cosa potesse volere il nonno: espresse ad alta voce i suoi pensieri appena si presentavano, e vedendo che a tutto ciò che diceva, il vecchio rispondeva costantemente di no: «Vediamo», disse, «ricorriamo ad altri mezzi, giacché sono così stupida».

Allora recitò una dopo l’altra tutte le lettere dell’alfabeto, mentre interrogava l’occhio del paralitico.

Alla lettera N, Noirtier fece segno di sì.

«Ah!» esclamò Valentine. «La cosa che desideri comincia con la lettera N… Ebbene, vediamo ciò che si deve aggiungere alla lettera enne. Na, ne, ni, no…»

«Sì, sì, sì», fece il vecchio.

«È no.»

«Sì.»

Valentine andò a cercare un dizionario, che poso sul leggio davanti a Noirtier, lo aprì, e quando ebbe visto gli occhi del vecchio fissarsi sui fogli, il suo dito scorse rapidamente le colonne dall’alto al basso. L’esercizio (da sei anni Noirtier era caduto nel triste stato in cui si trovava) aveva rese le prove così facili, che indovinava il pensiero del vecchio, come se lui stesso avesse potuto leggere a voce alta in un dizionario. Alla parola notaio Noirtier fece segno di fermarsi.

«Notaio», disse lei. «Vuoi un notaio, caro nonno?»

Il vecchio fece segno che desiderava effettivamente un notaio.

«Bisogna dunque mandare a cercare un notaio?» domandò Valentine.

«Sì», fece il paralitico.

«Mio padre deve saperlo?»

«Sì.»

«Hai fretta di vedere questo notaio?»

«Sì.»

«Allora vado a fartelo cercare sul momento, caro nonno. È forse questo ciò che vuoi?»

«Sì.»

Valentine corse al campanello e chiamò un domestico per far venire il signor Villefort in camera del nonno.

«Sei contento?» domandò Valentine.

«Sì.»

«Lo credo bene! Non è molto facile capirsi.»

E la ragazza sorrise al vecchio come avrebbe fatto a un bambino. Il signor Villefort rientrò condotto da Barrois.

«Che volete, signore?» chiese al paralitico.

«Mio nonno», spiegò Valentine, «desidera vedere un notaio.»

A quella strana, e soprattutto inattesa domanda, il signor Villefort scambiò uno sguardo col paralitico.

«Sì», fece segno quest’ultimo con una fermezza che indicava che, con l’aiuto di Valentine e del servitore, che già sapeva, era pronto a sostenere la lotta.

«Voi domandate un notaio?» ripeté Villefort.

«Sì.»

«Per farne che?»

Noirtier non rispondeva.

«Ma perché avete bisogno del notaio?» domandò Villefort.

«Ma insomma», s’intromise Barrois, pronto a insistere con quella pazienza abituale ai vecchi domestici, «se il signore vuole un notaio, è perché ne ha bisogno. Così lo vado a cercar subito.»

Barrois non conosceva altro padrone che Noirtier, e non ammetteva che la sua volontà fosse contestata.

«Sì, voglio un notaio», fece il vecchio chiudendo gli occhi con un’aria di sfida e come se avesse detto: «Vediamo un poco se ci sarà qualcuno che osi opporsi a ciò che voglio».

«Ci sarà un notaio, poiché lo volete assolutamente, signore… Ma mi scuserò con lui, e scuserò voi stesso, perché la scena sarà molto ridicola.»

«Non importa», disse Barrois, «vado subito a cercarlo.»

E uscì trionfante.

58. Il testamento

Nel momento in cui Barrois uscì, Noirtier guardò Valentine con quell’interesse malizioso, che rivela a un tempo tante cose. La ragazza comprese quello sguardo, e lo comprese anche Villefort, perché la sua fronte si oscurò. Prese una sedia e si sedette nella camera del paralitico per aspettare. Noirtier lo osservava con la più perfetta indifferenza, ma con l’angolo dell’occhio aveva già ordinato a Valentine di non preoccuparsi e di restare anche lei.

Nel giro di tre quarti d’ora, rientrò il domestico col notaio.

«Signore», disse Villefort dopo i saluti, «voi siete stato chiamato dal signor Noirtier di Villefort che qui vedete… Una paralisi generale gli ha tolto l’uso degli arti e della voce, e noi soltanto, e a grande stento, giungiamo a capire qualche brano dei suoi pensieri.»

Con l’occhio Noirtier fece un segnale a Valentine, così serio e imperioso che lei intervenne immediatamente: «Io, signore, comprendo tutto ciò che vuol dire mio nonno».

«È vero», confermò Barrois, «tutto, assolutamente tutto, come dicevo al signore venendo qua.»

«Permettete, signore, e voi pure signorina», esordì il notaio rivolgendosi a Villefort e a Valentine, «questo è uno di quei casi in cui il pubblico ufficiale non può procedere sconsideratamente senza assumersi una responsabilità pericolosa. La prima necessità, perché l’atto sia valevole, è che il notaio sia ben convinto che sia fedelmente interpretata la volontà di colui che l’ha dettata. Ora io non posso essere sicuro dell’approvazione o della disapprovazione di un cliente che non parla, e siccome l’oggetto dei suoi desideri e delle sue contrarietà non può essermi provato chiaramente per il suo mutismo, il mio ministero, oltre che inutile, sarebbe esercitato illegalmente.»

Il notaio fece un passo per ritirarsi. Un impercettibile sorriso di trionfo si disegnò sulle labbra del procuratore del re. Noirtier guardò Valentine con tale espressione di dolore che lei si mise davanti al notaio.

«Signore», disse, «il linguaggio ch’io parlo con mio nonno, è un linguaggio che si può imparare facilmente, e come lo comprendo io, sono in grado di poterlo in pochi minuti far comprendere a voi. Che cosa vi serve per soddisfare la piena legalità professionale?»

«È necessaria, affinché i nostri atti siano valevoli», rispose il notaio, «la certezza dell’approvazione. Si può far testamento malato di corpo, ma bisogna sempre farlo sano di mente.»

«Ebbene, signore, con due cenni voi acquisterete la certezza che mio nonno ha sempre goduto fin qui la pienezza delle sue facoltà intellettuali. Il signor Noirtier privato della voce, privato dei movimenti, chiude gli occhi quando vuol dire di sì, e batte le palpebre a più riprese quando vuol dire di no. Voi ora ne sapete abbastanza per parlare col signor Noirtier, provate…»

Lo sguardo che il vecchio lanciò a Valentine era così pieno di tenerezza e di riconoscenza che fu capito dallo stesso notaio.

«Voi avete inteso e compreso ciò che ha detto vostra nipote, signore?» domandò il notaio.

Noirtier chiuse dolcemente gli occhi e dopo un momento li riaprì.

«E approvate ciò che ha detto, cioè che i cenni da lei indicati sono quelli per mezzo dei quali fate comprendere i vostri pensieri?»

«Sì», fece ancora il vecchio.

«Siete voi che mi avete fatto chiamare?»

«Sì.»

«Per redigere il vostro testamento?»

«Sì.»

«E non volete che mi ritiri senza averlo fatto?»

Il paralitico batté fortemente le palpebre degli occhi a più riprese.

«Ebbene, signore, lo capite ora?» domandò la ragazza. «E la vostra coscienza potrà stare tranquilla?»

Ma prima che il notaio potesse rispondere, il signor Villefort lo tirò in disparte.

«Signore, è possibile che un uomo possa impunemente sopportare un colpo così terribile quanto quello che ha provato il signor Noirtier di Villefort, senza che le facoltà mentali non abbiano gravemente a risentirne?»

«Non è questo che m’inquieta, piuttosto mi chiedo in che modo giungeremo a indovinare i pensieri e le risposte.»

«Non vedete dunque ch’è impossibile?» disse Villefort.

Valentine e il vecchio udirono questo dialogo.

Noirtier fermò il suo sguardo così fiero e così risoluto su Valentine, che questo sguardo esigeva evidentemente un intervento.

«Signore», riprese lei, «non v’inquietate per questo: per quanto sia difficile, o piuttosto per quanto vi sembri difficile, scoprire il pensiero di mio nonno, ve lo rivelerò in modo da togliervi ogni dubbio su questo argomento. Sono già sei anni che gli sto vicino; vi dica egli stesso se in sei anni uno solo dei suoi pensieri è rimasto sepolto nel suo cuore per non avermelo potuto far comprendere.»

«No», fece il vecchio.

«Proviamo dunque», disse il notaio. «Accettate la signorina come vostra interprete?»

Il paralitico fece segno di sì.

«Bene, vediamo… Signore, che desiderate da me, e quale atto è quello che volete che io faccia?»

Valentine ripeté tutte le lettere dell’alfabeto fino alla lettera T. A questa lettera l’eloquente occhio di Noirtier la fermò.

«È la lettera T che il signore domanda, la cosa è chiara.»

«Aspettate», disse Valentine, poi voltandosi a suo nonno: «Ta… te…»

Il vecchio la fermò alla seconda di queste sillabe.

Allora Valentine prese il dizionario e sotto gli occhi dell’attento notaio sfogliò le pagine.

«Testamento», sillabò, il dito fermato dal colpo d’occhio di Noirtier.

«Testamento», gridò il notaio. «La cosa è evidente, il signore vuol fare testamento.»

«Sì», fece Noirtier a più riprese.

«Ciò può dirsi veramente meraviglioso, signore», disse il notaio a Villefort stupefatto. «Ammettetelo.»

«Infatti», replicò egli, «questo testamento sarà ancora più meraviglioso; poiché gli articoli non si potranno trascrivere parola per parola senza l’intelligente ispirazione di mia figlia. Ora Valentine non sarà forse parte troppo interessata a questo testamento, per essere interprete oggettiva delle oscure volontà del signor Noirtier di Villefort?»

«No, no, no», fece il paralitico.

«Come», si stupì il signor Villefort, «Valentine non è erede nel vostro testamento?»

«No», fece Noirtier.

«Signore», riprese il notaio convinto di questa prova, e ripromettendosi di raccontare in società i particolari di quel singolare episodio, «signore, nulla mi sembra più facile di quel che poco fa mi sembrava impossibile; questo testamento sarà semplicemente un testamento mistico, vale a dire previsto e permesso dalla legge, purché letto alla presenza di sette testimoni, approvato dal testatore davanti a essi, e chiuso dal notaio sempre alla loro presenza. In quanto al tempo, durerà poco più degli ordinari testamenti. Dapprima vi sono le formule consuete, sempre le stesse… In quanto ai particolari saranno definiti dall’entità e qualità degli affari del testatore, e da voi, che avendoli amministrati li conoscerete. D’altra parte, perché quest’atto non possa essere contestato, gli daremo la più compiuta autenticità: uno dei miei colleghi mi servirà d’aiutante, e contro l’uso assisterà alla dettatura. Siete soddisfatto, signore?» terminò il notaio, volgendosi al vecchio.

«Sì», rispose Noirtier contento di essere capito.

«E che farà?» chiedeva a se stesso Villefort, cui l’alta posizione imponeva discrezione, e che d’altra parte si sforzava di capire le intenzioni di suo padre.

Si volse dunque per mandare a cercare il secondo notaio, ma Barrois, che aveva tutto inteso, e indovinato il desiderio del padrone, era già partito. Allora il procuratore del re fece dire a sua moglie di salire. Nel giro di un quarto d’ora tutta la famiglia era riunita nella camera del paralitico e il secondo notaio era giunto. In poche parole i due ufficiali giudiziari si ritrovarono d’accordo.

Fu letta a Noirtier una formula di testamento vaga, insignificante quindi, per indagare sulle sue facoltà; il primo notaio gli disse: «Quando si fa testamento, signore, è in favore di qualcuno, o a pregiudizio di qualche altro».

«Sì», fece Noirtier.

«Avete qualche idea sull’entità dei vostri beni?»

«Sì.»

«Vi nominerò alcune cifre che saliranno progressivamente, mi fermerete quando sarò giunto a quella che credete possa essere il vostro ammontare.»

«Sì.»

In questa procedura c’era una specie di solennità; d’altra parte la lotta dell’intelligenza contro la malattia non poteva essere più visibile, e se questo non era uno spettacolo sublime, perlomeno era curioso. Si disposero intorno a Noirtier, il secondo notaio seduto a un tavolo pronto a scrivere, il primo notaio in piedi davanti a Noirtier per interrogarlo.

«Il vostro patrimonio sorpassa i trecentomila franchi?» domandò.

Noirtier fece segno di sì.

«Possedete quattrocentomila franchi?» riprese il notaio.

Noirtier restò immobile.

«Cinquecentomila?»

La stessa immobilità.

«Seicentomila?… Settecentomila?… Ottocentomila?… Novecentomila?»

Noirtier fece segno di sì.

«Dunque possedete novecentomila franchi?»

«Sì.»

«In immobili?» domandò il notaio.

Noirtier fece segno di no.

«In cartelle di rendita?»

Noirtier fece segno di sì.

«Queste cartelle sono nelle vostre mani?»

Uno sguardo diretto a Barrois fece uscire il vecchio servitore, che ritornò un momento dopo con una piccola cassetta.

«Permettete che si apra la cassetta?» domandò il notaio.

Noirtier fece segno di sì. Fu aperta la cassetta e si trovarono le cartelle per un ammontare di novecentomila franchi. Il primo notaio passò una dopo l’altra ciascuna cartella al suo collega: la somma era quella anticipata da Noirtier.

«È proprio così», dichiarò il notaio. «E ciò dimostra evidentemente che la sua intelligenza è vivida e lucida.» Quindi volgendosi al paralitico: «Dunque, possedete novecentomila franchi di capitale che nel modo con cui sono investiti devono produrvi circa quarantamila franchi di rendita?»

«Sì», fece Noirtier.

«A chi desiderate lasciare questa fortuna?»

«Su ciò non c’è dubbio», disse la signora Villefort. «Il signor Noirtier ama unicamente sua nipote, la signorina Valentine Villefort: lei ne ha avuto cura per sei anni; con la sua assiduità ha saputo procurarsi l’affetto di suo nonno, direi quasi la sua riconoscenza… È dunque giusto che raccolga il premio della sua affezione.»

L’occhio di Noirtier sfavillò come un lampo, per far capire che non si lasciava facilmente ingannare dal falso assenso dato dalla signora Villefort alle intenzioni che in lui supponeva.

«È dunque alla signorina Valentine Villefort che lasciate novecentomila franchi?» domandò il notaio, che credeva di non aver più altro da fare che registrare questa clausola, ma che però voleva essere ben sicuro dell’assenso di Noirtier, e far constatare questo assenso a tutti i testimoni di questa straordinaria scena.

Valentine aveva fatto un passo indietro e piangeva a occhi bassi. Il vecchio la guardò un momento con l’espressione della più profonda tenerezza, poi voltandosi verso il notaio socchiuse gli occhi nel modo più significativo.

«No?» si sorprese il notaio. «Come, non costituite vostra erede universale la signorina Villefort?»

Noirtier fece segno di no.

«Non vi sbagliate?» gridò il notaio meravigliato. «Dite effettivamente di no?»

«No», ripeté Noirtier. «No!»

Valentine rialzò la testa: era stupefatta, non dell’essere diseredata, ma di aver provocato quel sentimento che di solito detta simili atti. Ma Noirtier la guardava con una espressione di tenerezza così profonda che lei gridò: «Oh nonno caro, non mi togliete che le vostre ricchezze, ma mi lasciate sempre il cuore?»

«Sì, sì, certamente», dissero gli occhi del paralitico, chiudendosi in una espressione senza equivoci.

«Grazie, grazie», mormorò la ragazza.

Quel rifiuto aveva fatto nascere nel cuore della signora Villefort una inattesa speranza. Si avvicinò al vecchio.

«Allora dunque a vostro nipote Edouard Villefort lasciate la vostra fortuna, caro signor Noirtier?» domandò la madre.

Gli occhi di Noirtier si chiusero in un modo che esprimeva quasi l’odio.

«No», disse il notaio. «Allora sarà a vostro figlio qui presente.»

«No», replicò il vecchio.

I due notai si guardarono stupefatti; Villefort e sua moglie arrossirono, l’uno per l’onta, l’altra per il dispetto.

«Ma che vi abbiamo dunque fatto, nonno?» domandò Valentine. «Voi dunque non ci amate più?»

Lo sguardo del vecchio passò rapidamente sul figlio, sulla nuora, e si fermò su Valentine con un’espressione di profonda tenerezza.

«Ebbene», riprese lei, «se tu mi ami, nonno mio, cerca di dedicare questo amore a ciò che stai facendo in questo momento. Tu mi conosci, sai che non ho mai pensato alle tue ricchezze; d’altra parte dicono che io sia ricca da parte di mia madre, fors’anche troppo ricca… Spiegati dunque…»

Noirtier fissò l’ardente sguardo sulla mano di Valentine.

«La mia mano?»

«Sì», fece Noirtier.

«La sua mano», ripeterono tutti gli astanti.

«Signori, vedete bene che tutto è inutile, e che il mio povero padre è pazzo», disse Villefort.

«Ora capisco», gridò d’improvviso Valentine. «Il mio matrimonio, nonno non è vero?»

«Sì, sì, sì», ripeté tre volte il paralitico con lampi negli occhi ogni volta che li riapriva.

«Tu sei in collera per il mio matrimonio, non è vero?»

«Sì.»

«Ma ciò è assurdo», scattò Villefort.

«Mi scusi, signore», intervenne il notaio, «tutto ciò, al contrario, è molto ragionevole, e mi sembra si colleghi perfettamente a quanto si sta facendo.»

«Tu non vuoi che io sposi il signor Franz d’Epinay.»

«No, non voglio», espresse l’occhio del vecchio.

«E diseredate vostra nipote», domandò il notaio, «perché fa un matrimonio che non vi va a genio?»

«Sì», rispose Noirtier.

«Di modo che, senza questo matrimonio, sarebbe vostra erede?»

«Sì.»

Un profondo silenzio colse allora quelli che circondavano il vecchio. I due notai si consultavano, Valentine con le mani incrociate guardava suo nonno con un sorriso riconoscente; Villefort si mordeva le labbra sottili; la signora Villefort non poteva reprimere un sentimento di gioia, che suo malgrado le si rifletteva sul viso.

«Ma», disse finalmente Villefort rompendo per primo questo silenzio, «mi sembra che io sia il solo in grado di giudicare la convenienza di questa unione, il solo che ha la potestà della mano di mia figlia… Voglio che sposi il signor Franz d’Epinay, e lo sposerà.»

Valentine cadde piangendo sopra una sedia.

«Signore», disse il notaio indirizzandosi al vecchio, «che contate di fare dei vostri capitali nel caso che la signorina Valentine sposi il signor Franz?»

Il vecchio rimase immobile.

«Volete disporne comunque?»

«Sì», fece Noirtier.

«In favore di qualcuno della vostra famiglia?»

«No.»

«In favore dei poveri allora?»

«Sì.»

«Ma», continuò il notaio, «sapete che la legge si oppone che vengano interamente spogliati i vostri figli? Dunque non disponete che della parte che la legge vi autorizza a disporre.»

Noirtier restò immobile.

«Continuate a voler disporre di tutto?»

«Sì.»

«Ma dopo la vostra morte il vostro testamento verrà contestato.»

«No.»

«Mio padre mi conosce», disse Villefort, «sa che la sua volontà sarà sacra per me; d’altra parte comprende che nella mia posizione non posso far causa contro i poveri.»

L’occhio di Noirtier espresse il trionfo.

«Cosa decidete, signore?» domandò il notaio a Villefort.

«Niente: questa è una risoluzione presa da mio padre, e io so che mio padre non cambia le sue decisioni. Dunque mi rassegno. Questi novecentomila franchi usciranno dalla famiglia per arricchire gli ospedali; ma non cederò al capriccio del vecchio, e mi comporterò secondo la mia coscienza.»

E Villefort si ritirò con la moglie lasciando suo padre libero di testare come più gli piaceva. Nello stesso giorno fu fatto il testamento, furono trovati i testimoni, fu approvato dal vecchio, chiuso alla loro presenza e deposto presso Deschamps, notaio della famiglia.

59. Il telegrafo

I coniugi Villefort, al rientro nel loro appartamento, seppero che il conte di Montecristo, venuto a far loro visita, era stato introdotto nel salotto ove li aspettava. La signora Villefort, troppo nervosa per presentarsi subito al conte, passò per la sua camera da letto, mentre il procuratore, più padrone dei suoi nervi, si recò direttamente in il salotto. Ma per quanto sapesse dominare le sue sensazioni e ricomporre il viso, Villefort non poté allontanare tanto bene la nube dalla sua fronte, che il conte, il cui sorriso brillava raggiante, non notasse quell’aria tetra e pensierosa.

«Mio Dio», disse Montecristo dopo i saluti, «che avete dunque, signor Villefort? Sono forse arrivato in un momento in cui stavate sostenendo qualche accusa troppo difficile?»

Villefort si sforzò di ridere.

«No, signor conte», rispose, «qui non c’è nessuna vittima oltre a me, sono io che perdo la causa; e il caso, l’ostinazione, la pazzia hanno deciso la sentenza.»

«Che cosa volete dire?» domandò Montecristo con un interesse ben dissimulato. «Vi è forse capitata qualche grave disgrazia?»

«Signor conte», disse Villefort con un tono calmo ma pieno d’amarezza, «non vale neppure la pena di parlarne; è un nonnulla, una semplice perdita di denaro.»

«Infatti», annuì Montecristo, «una perdita di denaro è poca cosa per chi gode di una fortuna come la vostra, e per uno spirito filosofico ed elevato come il vostro.»

«Ragion per cui», ribatté Villefort, «non è la perdita del denaro che m’inquieta, sebbene novecentomila franchi possono ben valere un dispiacere, ma mi risento particolarmente di questa disdetta della sorte, del caso, della fatalità, non so come nominare la potenza che mi perseguita, che rovescia le mie speranze e distrugge quasi l’avvenire di mia figlia, per il capriccio di un vecchio tornato bambino.»

«Mio Dio, ma che cosa è dunque?» s’incuriosì il conte. «Novecentomila franchi avete detto? Questa somma merita che se ne affligga anche un filosofo… E chi vi procura questo dispiacere?»

«Mio padre, di cui vi ho parlato.»

«Il signor Noirtier? Davvero? Non mi diceste che era colpito da paralisi e che tutte le facoltà erano annientate?»

«Sì, le sue facoltà fisiche, perché non può né muoversi né parlare; tuttavia pensa, vuole, opera come vedete. L’ho lasciato da cinque minuti e in questo momento è occupato a dettare un testamento a due notai.»

«Ma allora dunque ha parlato?»

«Fa di più, si fa capire.»

«E in che modo?»

«Per mezzo dello sguardo; i suoi occhi hanno continuato a vivere, e come vedete uccidono.»

«Amico mio», disse la signora Villefort, che entrava in quel momento, «forse esagerate la vostra situazione.»

«Signora…» la accolse il conte inchinandosi.

La signora Villefort lo salutò col più grazioso sorriso.

«Ma che cosa dunque mi racconta il signor Villefort?» domandò Montecristo, «E quale disgrazia incomprensibile?»

«Incomprensibile, questa per l’appunto è la vera parola», riprese il procuratore del re, alzando le spalle, «un capriccio da vecchio.»

«E non vi è modo di farlo ritornare sulla sua decisione?»

«Vi sarebbe», disse la signora Villefort, «e dipende anzi da mio marito, che questo testamento, invece di essere fatto in danno di Valentine, sia fatto in favore di lei.»

Il conte, accorgendosi che i due sposi cominciavano a parlarsi per allusioni, assunse l’apparenza dell’uomo distratto, e guardò con la più profonda attenzione e con la più manifesta approvazione Edouard che versava dell’inchiostro negli abbeveratoi degli uccelli.

«Mia cara», disse Villefort, rispondendo a sua moglie, «sapete che amo poco il tono patriarcale in casa mia, e che non ho mai creduto che i destini dell’universo dipendessero da un mio movimento di capo. Tuttavia è necessario che le mie decisioni vengano rispettate in casa mia, e che la follia di un vecchio e il capriccio di una ragazzina non rovescino un progetto stabilito da molti anni. Il barone d’Epinay era mio amico, lo sapete, e un’alleanza con suo figlio era conveniente.»

«Credete», insinuò la signora Villefort, «che Valentine sia d’accordo con lui?… Infatti… lei è sempre stata contraria a questo matrimonio, e non sarei meravigliata che tutto ciò che abbiamo visto e inteso, non sia che l’esecuzione di un disegno concertato fra loro.»

«Signora», disse Villefort, «non si rinuncia così, credetemi, a una fortuna di novecentomila franchi.»

«Lei avrebbe rinunciato anche al mondo, signore, poiché un anno fa voleva entrare in un monastero.»

«Ebbene», dichiarò Villefort, «io vi dico che questo matrimonio deve farsi.»

«Contro la volontà di vostro padre?» si stupì la signora Villefort, toccando così un’altra corda. «Ciò è davvero grave!»

Montecristo, fingendo di non ascoltare, non perdeva neppure una parola di ciò che dicevano.

«Non importa», riprese Villefort. «Posso dire che ho sempre rispettato mio padre, perché al sentimento naturale si univa in me la conoscenza della sua superiorità morale, perché infine un padre è sempre sacro, sacro come nostro autore, sacro come nostro padrone; ma oggi non posso riconoscere intelligenza in un vecchio che, per odio contro il padre, perseguita il figlio in tal modo. Sarebbe dunque ridicolo uniformare la mia condotta ai suoi capricci: continuerò ad avere il più gran rispetto per il signor Noirtier, soffrirò senza lamentarmene la punizione pecuniaria che m’infligge; ma resterò irremovibile nella mia volontà, e il mondo giudicherà da che lato sia la vera ragione. Di conseguenza, mariterò mia figlia al barone Franz d’Epinay, perché questo matrimonio è, a mio avviso, buono e onorevole, e perché infine voglio maritare mia figlia a chi più mi piace.»

«Come», saltò su il conte, del quale il procuratore aveva costantemente sollecitata l’approvazione con lo sguardo, «come, il signor Noirtier disereda la signorina Valentine perché sta per sposare il barone d’Epinay?»

«Sì, signore, ecco la ragione!» disse Villefort stringendosi nelle spalle.

«La ragione visibile almeno», aggiunse la signora Villefort.

«La vera ragione, signora. Credetemi, io conosco mio padre.»

«E come è possibile?» chiese la giovane sposa. «In cosa il signor d’Epinay può dispiacere più di un altro al signor Noirtier?»

«Infatti», disse il conte, «ho conosciuto il signor Franz d’Epinay… Il figlio del generale Quesnel, non è vero, fatto barone d’Epinay da Carlo X?»

«Esatto», rispose Villefort.

«Ebbene, è un giovane distinto, mi sembra.»

«Per cui non è che un pretesto, ne sono certa», ribadì la signora Villefort. «I vecchi sono tiranni nei loro affetti; il signor Noirtier non vuole che sua nipote si mariti.»

«Ma», riprese Montecristo, «non conoscete la causa di quest’odio?»

«Chi può saperla?»

«Forse qualche contrarietà politica…»

«Infatti, mio padre e il padre d’Epinay hanno vissuto nei tempi burrascosi, dei quali non ho visto che gli ultimi giorni», ammise Villefort.

«Vostro padre non era bonapartista?» domandò Montecristo. «Mi sembra di ricordarmi che me ne avevate parlato.»

«Mio padre anzitutto fu giacobino, e di una passione oltre ogni prudenza, e la toga di senatore che Napoleone gli aveva gettato sulle spalle non faceva che mascherare il vecchio repubblicano senza averlo cambiato. Quando mio padre cospirava, non era per l’imperatore, ma contro i Borboni, perché mio padre aveva in sé questo di terribile, che non combatté mai per le utopie non realizzabili, ma per le cose possibili, e applicò alla riuscita di queste le terribili teorie della Montagna, senza indietreggiare di fronte a nessuno ostacolo.»

«Ebbene», concesse Montecristo, «il signor Noirtier e il signor d’Epinay si saranno scontrati sul campo della politica… Il signor d’Epinay, sebbene avesse servito sotto Napoleone, aveva forse conservato in fondo al cuore qualche sentimento realista? E non è lo stesso che fu assassinato uscendo da un’assemblea, dov’era stato attirato nella speranza di ritrovarvi un fratello?»

Villefort guardò il conte quasi con terrore.

«M’inganno forse?» domandò Montecristo.

«No, signore», rispose la signora Villefort, «anzi è precisamente così, e appunto per quanto avete detto, per vedere estinti questi odi antichi, il signor Villefort ha avuta l’idea di fare amare i figli dei padri che si erano odiati.»

«Idea sublime e piena di carità, e alla quale tutti dovrebbero consentire. Infatti, sarà stupendo sentire la signorina Noirtier di Villefort chiamarsi signora Franz d’Epinay.»

Villefort rabbrividì e guardò Montecristo come se avesse voluto leggergli nel fondo del cuore l’intenzione con cui aveva pronunciate queste parole. Ma il conte conservò il benevolo sorriso impresso sulle labbra, e anche questa volta, malgrado la penetrazione del suo sguardo, il procuratore del re non vide al di là dell’epidermide.

«Perciò», riprese Villefort, «sebbene sia una gran disgrazia per Valentine perdere le ricchezze di suo nonno, penso che il matrimonio sarà fatto. Non credo che il signor d’Epinay indietreggi per questo scacco pecuniario, vedrà che io valgo forse più della somma, io che la sacrifico al desiderio di mantenere la mia parola. Calcolerà inoltre che Valentine è ricca anche coi soli beni di sua madre, amministrati dal signore e dalla signora di Saint-Méran, suoi avi materni che la prediligono con tanta tenerezza.»

«E che meritano di essere amati come Valentine ha amato il signor Noirtier», disse la signora Villefort. «D’altra parte, essi verranno a Parigi fra un mese al più, e Valentine sarà dispensata dal seppellirsi come ha fatto fin qui presso il signor Noirtier.»

Il conte ascoltava con compiacenza la voce discordante di questi amor propri feriti, e di questi interessi falliti.

«Ma mi sembra», riprese, dopo un momento di silenzio, «e vi chiedo prima perdono di ciò che sto per dirvi, mi sembra che se il signor Noirtier disereda la signorina Villefort, colpevole di volersi maritare con un giovane di cui detesta il padre, non abbia lo stesso da rimproverare al caro Edouard.»

«Non è forse vero?» gridò la signora Villefort con un’intonazione impossibile a descriversi. «Non è questa un’odiosa ingiustizia? Il povero Edouard è nipote del signor Noirtier come Valentine, e tuttavia se Valentine non avesse dovuto sposare il signor Franz, il signor Noirtier le lasciava tutti i suoi beni, e in più Edouard porta il nome della famiglia, e ciò non impedirebbe, quand’anche Valentine venisse diseredata dal nonno, che lei fosse sempre tre volte più ricca di lui.»

Lanciato questo colpo, il conte ascoltò, ma non parlò più.

«Basta», dichiarò Villefort, «basta, signor conte, cessiamo, vi prego, d’intrattenerci su queste miserie di famiglia… Sì, è vero, la mia fortuna andrà a ingrossare le rendite dei poveri, che oggi sono i veri ricchi, sì, mio padre mi avrà privato di una legittima speranza e senza una ragione, ma io avrò operato da uomo di sentimento, da uomo di cuore. Il signor d’Epinay al quale avevo promesso la rendita di questa somma, la riceverà, dovessi impormi le più crudeli privazioni.»

«Però», riprese la signora Villefort, ritornando alla sola idea che torturava senza posa il suo cuore, «sarebbe forse stato meglio confidare questa disavventura al signor d’Epinay, e ch’egli stesso ritirasse la sua parola.»

«Questa sarebbe una gran disgrazia!» esclamò Villefort.

«Una gran disgrazia?» ripeté Montecristo.

«Senza dubbio», continuò Villefort raddolcendosi. «Un matrimonio fallito, anche per causa d’interesse, è sempre sfavorevole per una ragazza: poi le vecchie voci ch’io volevo estinguere, riprenderebbero consistenza. No, il signor d’Epinay, se è un onest’uomo, si sentirà ancor più impegnato dopo che Valentine è stata diseredata, altrimenti agirebbe per cupidigia… E questo è impossibile.»

«Io la penso come il signor Villefort», disse Montecristo, fissando lo sguardo sopra la signora Villefort. «E se fossi nel numero dei suoi amici per permettermi di dargli un consiglio, lo inviterei (poiché il signor d’Epinay sarà a breve di ritorno per quanto almeno mi è stato detto) ad annodare l’affare così strettamente, che non si possa più sciogliere e m’impegnerei con tutte le forze in una partita, la cui riuscita sarebbe del tutto onorevole per il signor Villefort…»

Quest’ultimo si alzò, trasportato da una gioia visibile, mentre sua moglie impallidiva leggermente.

«Bene, ecco ciò che mi aspettavo da voi, e io terrò conto dell’opinione di un consigliere come voi siete!» disse tendendo la mano a Montecristo. «Per cui dunque, tutti considerino quel che oggi è accaduto come non avvenuto, nulla è cambiato nei miei progetti.»

«Signore», disse il conte, «il mondo, per quanto sia ingiusto, vi sarà grato della vostra decisione: i vostri amici ne saranno orgogliosi, e il signor d’Epinay, dovesse anche sposare la signorina Valentine senza dote, ciò che non potrà essere, sarà orgoglioso di potere entrare in una famiglia dove si sa innalzarsi all’altezza di simili rinunce per mantenere la parola data.»

Dicendo queste parole il conte s’era alzato e si disponeva a partire.

«Voi ci lasciate, signor conte?» domandò la signora Villefort.

«Vi sono costretto, signora, io venivo soltanto a rammentarvi la vostra promessa per sabato.»

«Temevate che la dimenticassimo?»

«Siete troppo buona, ma il signor Villefort ha occupazioni così gravi, e qualche volta così urgenti.»

«Mio marito ha dato la sua parola, signore», ribadì la giovane sposa, «e avete visto che la mantiene quand’anche vi è da perdere tutto, a più forte ragione quando vi è tutto da guadagnare.»

«L’incontro avrà luogo nella vostra casa agli Champs-Elysées?»

«No», disse Montecristo, «e ciò renderà il vostro disturbo anche più meritorio: è in campagna.»

«In campagna?»

«Sì.»

«E dove? Vicino a Parigi?»

«Alle porte, a circa quattro leghe dalla barriera, ad Auteuil.»

«Ad Auteuil!» esclamò Villefort. «È vero, la signora mi aveva detto che abitavate ad Auteuil, poiché la trasportarono nella vostra casa. E in quale parte di Auteuil?»

«Rue Fontaine.»

«Rue Fontaine?» riprese Villefort con voce strozzata. «E a quale numero?»

«Al 28.»

«Vi hanno dunque venduto la casa del signor di Saint-Méran?»

«Del signor di Saint-Méran?» domandò Montecristo. «Questa casa apparteneva dunque al signor di Saint-Méran?»

«Sì», rispose la signora Villefort. «E credereste una cosa?»

«Quale?»

«Voi trovate bella questa casa, non è vero?»

«Graziosa!»

«Ebbene, mio marito non ha voluto mai abitarci.»

«Davvero?» riprese Montecristo. «Questo in verità è un pregiudizio che non comprendo.»

«Non mi piace Auteuil, signore», precisò il procuratore del re, facendo uno sforzo su se stesso.

«Ma non sarò tanto disgraziato, spero», si preoccupò con inquietudine Montecristo, «che quest’antipatia mi privi del bene di ricevervi?»

«No, credetemi, farò tutto ciò che potrò», balbettò Villefort.

«Amici miei», disse Montecristo, «non ammetto scuse. Sabato alle sei vi aspetto, e se non verrete, crederò, che so io?, che su questa casa disabitata gravi da vent’anni qualche sanguinosa leggenda.»

«Verrò, signor conte», lo rassicurò Villefort.

«Grazie», disse Montecristo. «Ora bisogna che mi permettiate di prendere congedo da voi.»

«Infatti avevate detto di essere costretto a lasciarci, signor conte», disse la signora Villefort, «e stavate ancora per dircene il motivo, quando siete stato interrotto…»

«A dire il vero, signora», continuò Montecristo, «non so se oserò dirvi dove vado.»

«Dite pure.»

«Vado, da vero allocco che sono, a visitare una cosa che spesso mi ha fatto riflettere per delle ore intere.»

«Quale?»

«Un telegrafo: ecco ve l’ho detto!»

«Un telegrafo?» ripeté la signora Villefort.

«Sì, un telegrafo. Ho visto spesso in fondo a una strada, sopra un poggio, un giorno di bel sole, innalzarsi quelle braccia nere e smodate, simili alle zampe di un immenso coleottero, e ciò non fu mai senza emozione, ve lo giuro, perché pensavo che questi simboli bizzarri fendendo l’aria con decisione, e portando a trecento leghe la volontà sconosciuta di un uomo seduto a un tavolo a un altr’uomo seduto, all’altra estremità della linea, davanti a un altro tavolo, si stagliavano sul grigio della nuvola, o nell’azzurro dei cieli per la sola forza del volere di questo capo possente. Allora io credevo ai geni, alle silfidi, ai folletti, infine a tutti i poteri occulti, e ridevo. Non mi era mai venuta la voglia di vedere da vicino questi grossi insetti dal ventre bianco, dalle zampe nere e magre, perché temevo di ritrovare sotto le loro ali di pietra il piccolo genio pedante umano, altezzoso, riboccante di scienza, di cabala, o di eloquenza. Ma ecco che un bel mattino capii che il motore di ciascun telegrafo era un povero diavolo d’impiegato a milleduecento franchi l’anno occupato tutto il giorno a guardare, non il cielo come l’astronomo, non l’acqua come il pescatore, non il paesaggio come un perdigiorno, ma invece l’insetto dal ventre bianco e dalle zampe nere, suo corrispondente, situato quattro o cinque leghe lontano da lui. Allora mi sono sentito prendere da un desiderio curioso di vedere da vicino questa crisalide vivente, e di assistere alla commedia che dal fondo della sua buccia essa dà all’altra crisalide, tirando gli uni dopo gli altri alcuni capi della cordicella.»

«E voi volete andare là?»

«Sì, ci vado.»

«A quale telegrafo, quello del ministero dell’Interno, o quello dell’osservatorio?»

«Oh, no, troverei là persone che vorrebbero costringermi a imparare cose che desidero ignorare, e che mi spiegherebbero, contro mia voglia, un mistero che essi non conoscono. Voglio conservare le illusioni che ho sugli insetti; è già troppo che abbia perduto quelle che avevo sugli uomini. Non andrò dunque né al telegrafo del ministero dell’Interno, né a quello dell’osservatorio. Mi occorre il telegrafo in piena campagna, per ritrovarvi il solo buon uomo pietrificato nella sua torre.»

«Siete strano, signore», disse Villefort.

«Quale linea mi consigliate di studiare?»

«Quella che oggi è la più occupata.»

«Bene, quella di Spagna dunque?»

«Esatto. Volete una lettera del ministero perché vi diano delle spiegazioni?»

«Ma no», disse Montecristo, «vi ho già detto che non voglio capirci niente. Dal momento in cui capissi qualche cosa, non ci sarebbe più che un segno del signor Duchatel, o del signor Montalivet trasmesso al prefetto di Bayonne, trasformato in due parole greche, tele, graphéin. È la bestia dalle zampe nere, la parola misteriosa che io voglio conservare in tutta la sua purezza e in tutta la mia venerazione.»

«Andate dunque, perché fra due ore sarà notte, e voi allora non vedreste più niente.»

«Voi mi spaventate! Qual è il più vicino? Quello sulla strada di Bayonne?»

«Sì, quello sulla strada di Bayonne!»

«È quello di Châtillon.»

«E dopo quello di Châtillon?

«Quello della torre Montlhéry, credo.»

«Grazie! E arrivederci! Sabato vi racconterò le mie impressioni.»

Alla porta il conte s’incontrò coi due notai che avevano diseredato Valentine, e che si ritiravano soddisfatti di aver fatto un atto che avrebbe certamente procurato loro un grande onore.

60. Come liberare un giardiniere dai ghiri che gli mangiano le pesche

Non la stessa sera come aveva detto, ma la mattina del giorno seguente, il conte di Montecristo uscì dalla barriera d’Enfer, si avviò lungo la strada per Orléans, oltrepassò il villaggio di Linas senza fermarsi al telegrafo che, proprio nell’istante in cui il conte passava, faceva muovere le sue lunghe e scarne braccia, e raggiunse la torre di Montlhéry collocata, come si sa, sul punto più elevato della pianura che porta questo nome. Giunto ai piedi della collina il conte scese dalla carrozza, e per un piccolo sentiero circolare largo da quarantacinque a cinquanta centimetri cominciò a salire la montagna; sulla sommità si trovò davanti a una siepe su cui delle bacche verdi erano succedute ai fiori rosa e bianchi. Il conte cercò la porta del piccolo recinto, e non tardò molto a trovarla; era un piccolo cancello di legno che girava sui cardini di giunco, e si chiudeva con un chiodo e una funicella. In un istante il conte capì il meccanismo, e la porta fu aperta.

Si trovò a quel punto in un piccolo giardino di circa sei metri di lunghezza e quattro di larghezza, delimitato da una parte dalla siepe e dal cancelletto, e dall’altra da una vecchia torre tutta coperta di edera, e disseminata di garofani e altri fiori. Non si sarebbe detto, nel vederla così ornata e fiorita (come una bisavola che i piccoli nipoti colmino di doni il giorno della sua festa) che potesse raccontare drammi terribili, avesse potuto avere una voce oltre le orecchie minacciose che un vecchio proverbio attribuisce alle muraglie.

Si percorreva questo giardino lungo uno stretto viale ricoperto di sabbia rossa, sul quale sporgevano, con un tono che avrebbe rallegrato l’occhio di Delacroix, moderno Rubens francese, due filari di bossi vecchi di molti anni. Questo viale aveva la forma di un otto e girava, innalzandosi, in modo da poter fare una passeggiata di diciotto metri in un giardino sei.

Mai Flora, la ridente e fresca dea dei giardinieri latini, era stata onorata da un culto così minuzioso e così puro, quanto quello che le veniva reso in quel piccolo recinto. E infatti dei ventotto rosai che componevano il giardino, non una foglia portava la traccia della mosca, non un piccolo stelo di gramigna verde che isterilisce e consuma le piante. Non mancava umidità a questo giardino, la terra nera come il fango e l’opacità del fogliame degli alberi lo provavano; d’altra parte l’umidità artificiale avrebbe prontamente supplito alla naturale, mediante uno stagno scavato in un angolo del giardino, e nel quale gracchiavano sopra un panno verde una rana e un rospo che, per l’incompatibilità senza dubbio dei loro umori, si voltavano sempre, e si mantenevano ai due punti opposti del circolo coi loro dorsi voltati l’uno contro l’altro.

Non un’erba nei viali, non una pianta parassita vicino alle aiuole: una ragazza pulisce e monda con minor cura il suo geranio, il cactus, e gli altri fiori della sua giardiniera di porcellana, di quel che facesse il padrone, fino allora invisibile, del piccolo recinto.

Montecristo si fermò, dopo aver chiusa la porta agganciando la cordicella al chiodo, e con uno sguardo abbracciò tutto il recinto.

«Sembra», disse tra sé, «che l’uomo del telegrafo abbia dei giardinieri alle dipendenze, o che si abbandoni appassionatamente all’agricoltura.»

D’improvviso, inciampò in qualche cosa dietro una carriola ripiena di foglie: questo qualche cosa si raddrizzò lasciando sfuggire un’esclamazione di stupore, e Montecristo si trovò davanti un uomo di circa cinquant’anni che raccoglieva delle fragole che copriva con foglie di vite. Vi erano circa dodici foglie, e quasi altrettante fragole. Il buon uomo nel rialzarsi, per poco non lasciò cadere le fragole, le foglie e il piatto.

«Fate la raccolta?» chiese Montecristo sorridendo.

«Mi scusi», rispose il buon uomo, portando la mano al berretto, «non sono lassù, è vero, ma sono sceso in questo medesimo istante.»

«Non voglio incomodarvi per niente; raccogliete le vostre fragole se ce ne sono ancora.»

«Me ne rimangono ancora dieci», disse l’uomo, «perché eccone qui undici, e ne avevo ventuno, cinque di più dell’anno scorso. Ma non c’è da stupirsi: quest’anno la primavera è stata calda, e alle fragole occorre calore. Ecco perché invece di sedici dell’anno passato, quest’anno ne ho avute dodici già raccolte, tredici, quattordici, quindici, sedici, diciassette, diciotto, diciannove… Ah, mio Dio! Me ne mancano due, e c’erano ancora ieri, le ho contate, ne sono sicuro… Il figlio di Simone me le avrà rubate; l’ho visto ronzare questa mattina. Piccola birba d’un ladro di frutta, non sa dunque a cosa lo può condurre questo?»

«Infatti, è grave», riconobbe Montecristo, «ma voi compatirete la gioventù del discolo, e la sua golosità.»

«Certamente», disse il giardiniere. «Tuttavia non è cosa meno spiacevole. Ma ancora una volta mi scusi signore: è forse un mio superiore che ho fatto tanto aspettare?» E intanto esaminava con timore il conte e il suo abito azzurro.

«Tranquillizzatevi, amico mio», rispose il conte con quel sorriso a sua discrezione tanto terribile e tanto benevolo, che questa volta esprimeva benevolenza. «Non sono un vostro superiore che viene a fare un’ispezione, ma un semplice viaggiatore condotto dalla curiosità, e che già comincia a rimproverarsi la sua visita, vedendo che vi fa perdere il vostro tempo.»

«Il mio tempo non è prezioso», replicò il buon uomo, con un sorriso di malinconia, «però è il tempo del governo, e non dovrei perderlo, ma ho ricevuto il segnale che mi annunciava di poter riposare un’ora», e gettò uno sguardo alla meridiana solare, perché vi era di tutto nel recinto della torre di Montlhéry, anche una meridiana solare, «e voi vedete, ho ancora dieci minuti… D’altra parte, lo credereste signore? I ghiri le mangiano!»

«Davvero no, non l’avrei creduto», rispose gravemente Montecristo. «Sono cattivi vicini, signore, i ghiri, per noi che non li mangiamo cotti nel miele, come facevano i romani.»

«I romani li mangiavano?» domandò il giardiniere. «Mangiavano i ghiri?»

«Lo lessi in Petronio», rispose il conte.

«Non devono esser buoni, sebbene si dica: “grasso come un ghiro”. E non è meraviglioso, signore, che i ghiri siano grassi visto che dormono tutta la santa giornata, e non si svegliano che per rosicare tutta la notte? Osservate, l’anno passato avevo quattro albicocche, essi me ne rosicchiarono una; avevo una pesca, una sola, è vero che è un frutto raro, ebbene, l’hanno divorata per metà dalla parte del muro… Una pesca superba, eccellente: non ne avevo mai mangiate delle migliori.»

«Voi l’avete mangiata?» chiese Montecristo.

«Cioè, la metà che restava, capirete bene: era squisita! Peccato! Quei signori non scelgono il peggior boccone. Fanno come il figlio di Simone che non ha scelto le fragole più cattive! Ma quest’anno non andrà così, state tranquillo; ciò non accadrà più, dovessi, quando i frutti stanno per maturare, passare tutta la notte di sentinella.»

Montecristo ne sapeva abbastanza. Ciascun uomo ha la sua passione che lo rode internamente nel fondo del cuore, come ciascun frutto ha il suo verme; quella dell’uomo del telegrafo era l’orticultura. Il conte si mise a raccogliere le foglie di vite che nascondevano i grappoli al sole, e così si conquistò il cuore del giardiniere.

«Il signore è venuto per vedere il telegrafo?» domandò questi.

«Sì, se però non è proibito dai regolamenti.»

«Non è proibito affatto», lo rassicurò il giardiniere, «giacché non vi è niente di pericoloso… Nessuno sa, né può sapere, ciò che noi diciamo.»

«Mi è stato detto infatti», riprese il conte, «che ripetete i segnali senza capirli voi stessi.»

«Certamente, e sono ben contento che sia così», disse con un sorriso l’uomo del telegrafo.

«Perché siete contento che sia così?»

«Perché, in questo modo, non ho alcuna responsabilità, sono una macchina, e nient’altro, e purché esegua le mie funzioni, non mi si domanda di più.»

«Diavolo!» pensò Montecristo. «Mi sono forse imbattuto, per caso, in un uomo senza ambizione? Sarebbe una disgrazia.»

«Signore», disse il giardiniere guardando la meridiana, «i dieci minuti stanno per scadere, e io ritorno al mio posto. Avete piacere a salire con me?»

«Vi seguo.»

Montecristo entrò infatti nella torre a tre piani. Il piano terreno dava riparo ad alcuni arnesi agricoli, come zappe, rastrelliere, annaffiatoi, attaccati al muro; e queste erano tutte le suppellettili; il secondo era l’abitazione ordinaria, o piuttosto notturna dell’impiegato: era arredato con poveri mobili d’uso, un letto, una tavola, due sedie, un vaso a cui attingere acqua; più alcune erbe secche attaccate al soffitto, che il conte riconobbe per piselli da sementi, fagioli di Spagna, dei quali il buon uomo conservava i semi nella loro buccia. Egli aveva messi i bigliettini a tutte queste sementi, con quella cura che potrebbe fare il botanico del Jardin des Plantes.

«Ci vuol molto tempo a studiare la telegrafia, signore?» domandò Montecristo.

«Lo studio non è lungo, ma l’apprendistato sì…»

«E quanto si riceve di paga?»

«Mille franchi, signore.»

«Non è gran cosa.»

«No, ma, come vedete, si ha l’alloggio.»

Montecristo guardò la camera.

«Purché non si abbiano pretese sull’alloggio.»

Passarono al terzo piano; era la sede del telegrafo. Montecristo guardò le due maniglie di ferro che servono a mettere in moto la macchina.

«Ciò è molto importante», diss’egli, «ma alla lunga questa è una vita che deve sembrare un po’ noiosa.»

«Sì, in principio procura dei torcicolli per il troppo star fissi a guardare, ma in capo a un anno o due ci si fa l’abitudine, e poi abbiamo le nostre ore di ricreazione, e i nostri giorni di riposo.»

«I vostri giorni di riposo?»

«Sì.»

«E quali?»

«Quelli in cui c’è nebbia.»

«Ah, giusto.»

«Quelli sono i miei giorni di festa; in quei giorni scendo in giardino, e pianto, taglio, accomodo, lego… Insomma il tempo passa.»

«Da quanto tempo siete qui?»

«Da dieci anni, e cinque anni da apprendista che fanno quindici.»

«Quanti anni avete?»

«Cinquantacinque anni.»

«Quanto tempo di servizio vi occorre per avere la pensione?»

«Venticinque anni.»

«E quant’è questa pensione?»

«Cento scudi.»

«Povera umanità!» mormorò Montecristo.

«Come dite, signore?» domandò l’impiegato.

«Dico che tutto ciò è importante.»

«Che cosa?»

«Tutto ciò che mi mostrate… E non capite assolutamente niente dei vostri segni?»

«Assolutamente nulla.»

«Non avete mai provato a capirli?»

«Mai! Per farne cosa?»

«Però ci sono dei segnali che inviano a voi in particolare?»

«Certo.»

«Questi li capite?»

«Sì, sono sempre gli stessi.»

«E dicono?…»

«“Niente di nuovo”… o “avete un’ora”… o “a domani”.»

«Queste sono cose senza importanza… Ma guardate, non vedete il vostro corrispondente che si mette in movimento?»

«È vero, grazie, signore.»

«E che dice? È qualcosa che capite?»

«Sì, mi chiede se sono pronto.»

«E voi gli rispondete?»

«Coi medesimi segnali, che nello stesso tempo in cui avvertono il mio corrispondente di destra che io sono pronto, invitano il corrispondente di sinistra a tenersi anch’egli preparato.»

«È molto ingegnoso», commentò il conte.

«State a vedere», riprese con orgoglio il buon uomo, «fra cinque minuti parlerà.»

«Allora ho cinque minuti», disse Montecristo, «è più del tempo che mi serve. Mio caro signore», continuò, «mi permettete di farvi una domanda?»

«Dite.»

«Amate molto l’agricoltura?»

«Con passione.»

«E sareste felice, se invece di avere un terreno di sei metri aveste un campo di due iugeri?»

«Signore, ne farei un paradiso terrestre.»

«Coi vostri mille franchi vivete male?»

«Molto male, ma vivo.»

«Sì, ma non avete che un piccolo giardino.»

«È vero, il giardino non è grande.»

«E anche popolato di ghiri che divorano tutto.»

«Questo è il mio flagello.»

«Ditemi, se aveste la disgrazia di voltare la testa quando il corrispondente di destra è in movimento?»

«Io non lo vedrei.»

«Allora che accadrebbe?»

«Non potrei ripetere i segnali.»

«E dopo?»

«Mi accadrebbe che, non avendoli ripetuti per negligenza, mi darebbero una multa.»

«Di quanto?»

«Di cento franchi.»

«Il decimo della vostra paga.»

«Sì», fece l’impiegato.

«Non vi è mai accaduto?» chiese Montecristo.

«Una sola volta che potavo un rosaio.»

«Bene, e se vi venisse in mente di cambiare un segnale o di trasmetterne un altro?»

«Allora è diverso: sarei licenziato, e perderei la pensione.»

«Di cinquecento franchi?»

«Cento scudi, sì, signore: così capirete bene che non lo farò mai.»

«Neppure per quindici anni della vostra paga? Vediamo, ciò merita riflessione, eh?»

«Per quindicimila franchi? Signore, voi volete tentarmi?»

«Precisamente quindicimila franchi, comprendete?»

«Signore, lasciatemi guardare il mio corrispondente di destra.»

«Invece non guardate, ma guardate qui.»

«Che cosa?»

«Come, non riconoscete questi piccoli pezzi di carta?»

«Biglietti di banca!»

«Appunto da mille, e sono quindici.»

«E per chi sono?»

«Per voi.»

«Per me!» gridò l’impiegato soffocato.

«Sì, soltanto vostri.»

«Ecco il corrispondente di destra che si muove.»

«Lasciatelo muovere.»

«Mi avete distratto, io sono già in multa.»

«Questa vi costerà cento franchi, vedete bene che ora avete tutta la convenienza a prendere i quindici biglietti di banca.»

«Signore, il mio corrispondente di dritta si spazientisce e raddoppia i segnali.»

«Lasciatelo fare e prendete.»

Il conte mise l’involto nelle mani dell’impiegato.

«Ora, ciò non è tutto: coi vostri quindicimila franchi non vivreste.»

«Avrò sempre il mio posto.»

«No, lo perderete, perché ora scriverete un segno diverso da quello del vostro corrispondente.»

«Signore, che mi proponete?»

«Uno scherzo.»

«Signore, a meno che non vi sia costretto…»

«E conto bene di costringervi, effettivamente.»

E Montecristo prese di tasca un altro pacchetto di banconote.

«Ecco altri diecimila franchi che coi quindicimila che avete in tasca fanno venticinquemila. Con cinquemila franchi comprerete una piccola casetta e due iugeri di terra, con altri ventimila vi farete una rendita di mille franchi.»

«Un giardino di due iugeri?»

«E mille franchi di rendita.»

«Mio Dio, mio Dio!»

«Ma prendete dunque!»

E Montecristo mise di forza i dieci biglietti in mano all’impiegato.

«Che devo fare?»

«Niente di difficile!»

«Ma cosa?»

«Ripetete i segni che vedete qui.»

Montecristo cavò di tasca una carta su cui erano bene disegnati tre segnali, coi numeri che indicavano l’ordine col quale dovevano essere fatti.

«E questo non sarà lungo, come vedete.»

«Sì, ma…»

«Rammentatevi delle pesche; se volete mangiarne delle buone, fate quanto vi dico.»

Il pensiero del raccolto ebbe la meglio. Rosso per la febbre, sudando grosse gocce, il buon uomo eseguì l’uno dopo l’altro i tre segnali dati dal conte, malgrado le insistenti chiamate del corrispondente di destra che, non comprendendo il cambiamento, cominciava a credere che l’uomo delle pesche fosse divenuto pazzo. In quanto al corrispondente di sinistra, ripeté coscienziosamente i segnali, che furono raccolti dal ministero dell’Interno.

«Ora eccovi ricco» disse Montecristo.

«Sì», rispose l’impiegato, «ma a quale prezzo?»

«Ascoltate, amico mio», riprese Montecristo, «non voglio che abbiate rimorsi; credetemi dunque, non avete fatto torto ad alcuno e avete servito una buona causa.»

L’impiegato guardava i biglietti di banca, li contava, li palpava, ora pallido, ora rosso; infine si precipitò nella sua stanza per bere un bicchier d’acqua, ma non ebbe forza di giungere fino al rubinetto, e svenne in mezzo ai fagioli secchi. Cinque minuti dopo la notizia telegrafica giunse al ministero. Debray fece attaccare i cavalli al suo coupé, e corse all’abitazione di Danglars.

«Vostro marito ha delle cartelle del prestito spagnolo?»

«Certamente! Ne ha per sei milioni.»

«Ch’egli le venda subito a qualunque prezzo.»

«E perché?»

«Perché Don Carlo è fuggito da Bourges ed è rientrato in Spagna.»

«E come lo sapete?»

«Come so le notizie?!» esclamò Debray stringendosi nelle spalle.

La baronessa non se lo fece ripetere due volte, e corse dal marito, il quale si recò subito dal suo agente di cambio, e gli ordinò di vendere a qualunque prezzo. Quando si seppe che Danglars vendeva, si abbassarono subito i titoli spagnoli. Danglars perdette cinquecentomila franchi ma si sbarazzò di tutte le cartelle. La sera si lesse nel «Messager» il seguente dispaccio telegrafico:

«Il re Don Carlo è sfuggito alla sorveglianza che si esercitava su lui a Bourges, ed è rientrato in Spagna dalla frontiera con la Catalogna. Barcellona si è sollevata in suo favore».

Per tutta la serata non si parlò d’altro che della previdenza di Danglars che aveva venduto tutte le sue cartelle e della fortuna del finanziere che non perdeva che soli cinquecentomila franchi dopo un tale colpo. Quelli che avevano conservate le loro cartelle e le avevano comprate da Danglars, si ritennero rovinati, e passarono una brutta notte.

L’indomani si lesse sul «Moniteur»:

«Senza alcun fondamento il “Messager” ha ieri annunciata la fuga di Don Carlo e la rivolta di Barcellona. Il re Don Carlo non ha lasciato Bourges, e la penisola gode la più perfetta tranquillità. Un segnale telegrafico, male interpretato a causa della nebbia, ha causato questo errore».

I titoli risalirono di una cifra doppia di quella a cui erano scesi. Ciò produsse, fra la perdita e la mancanza del guadagno, la differenza di un milione per Danglars.

«Ottimo!» disse Montecristo a Morrel, che si trovava da lui al momento in cui venne a conoscenza di questo strano rovescio di Danglars.

«Con venticinquemila franchi ho fatto una scoperta che avrei pagato centomila.»

«Che avete dunque scoperto?» domandò Maximilien.

«Ho scoperto il modo di liberare un giardiniere dai ghiri che gli mangiavano le pesche!»

61. I fantasmi

A prima vista, ed esaminata dal di fuori, la casa d’Auteuil non aveva niente di splendido, né di tutto ciò che ci si sarebbe attesi da una casa destinata ad abitazione del magnifico conte di Montecristo; tuttavia questa semplicità dipendeva dalla volontà del padrone, che aveva ordinato che nulla fosse cambiato all’esterno; e per convincersene, c’era bisogno di penetrare all’interno. Difatti non appena si apriva la porta, lo spettacolo cambiava. Bertuccio si era superato per il gusto del mobilio, e la rapidità dell’esecuzione: come in altri tempi il duca d’Antin aveva fatto abbattere in una notte un filare di alberi che disturbava la vista di Luigi XIV, così in tre giorni Bertuccio aveva fatto piantare nel cortile interamente nudo, dei bei pioppi e dei sicomori, fatti trapiantare con le loro enormi radici, a ombreggiare la facciata principale della casa, davanti a cui, invece del selciato, mezzo guasto dall’erba, si stendeva un bel prato verde preparato quella stessa mattina, un vasto tappeto dove brillavano ancora le gocce d’acqua di cui era stato annaffiato.

Il conte in persona aveva dato a Bertuccio un disegno nel quale erano indicati il numero delle piante e il posto dove dovevano essere situate, la forma e lo spazio del prato che doveva sostituire il selciato. Vista così, la casa era diventata irriconoscibile, e Bertuccio stesso protestava che non l’avrebbe più riconosciuta, circondata com’era da tanti alberi e da una così ricca vegetazione. L’intendente avrebbe fatto volentieri qualche cambiamento al giardino, ma il conte aveva proibito che si toccasse. Bertuccio fece però ornare di fiori le anticamere, le scale e i caminetti.

Quello che rivelava la grande abilità dell’intendente e la profonda scienza del padrone, l’uno nel servire, l’altro nel farsi servire, era che questa casa, deserta da vent’anni, così cupa e trista, ancora il giorno prima tutta impregnata di un disgustoso odore di vecchio, aveva preso in un giorno, con l’aspetto della vita, i profumi che preferiva il padrone, e perfino il tono della sua luce favorita. Il conte, tornando a casa, aveva sotto i suoi occhi, fin dall’anticamera, i quadri che preferiva, i cani di cui amava le moine, gli uccelli di cui amava il canto: tutta questa casa, risvegliata dal suo lungo sonno come il palazzo della Bella del bosco, viveva, cantava, si rallegrava, come quelle case che noi abitiamo, lungamente predilette, e nelle quali, quando per disgrazia le abbandoniamo, lasciamo una metà dell’anima nostra.

I domestici andavano e venivano allegri in quella bella corte: gli uni occupavano le cucine, e correvano, come avessero sempre abitato la casa, su e giù per scale restaurate il giorno innanzi; gli altri popolavano le rimesse, ove le carrozze, numerate e fissate, sembravano installate da cinquant’anni, e le scuderie ove i cavalli, schierati alle rastrelliere, rispondevano col loro nitrito ai palafrenieri che gli parlavano con maggior rispetto di quanto molti domestici parlino coi loro padroni.

La biblioteca era distribuita su due mobili alle pareti laterali di una grande sala, e conteneva circa duemila volumi; tutto un settore era destinato ai romanzi moderni, e quello stampato il giorno prima, era già collocato al suo posto, pavoneggiandosi nella sua legatura rossa e oro.

Dall’altra parte della casa, in simmetria con la biblioteca, c’era la serra, ripiena di piante rare che si rallegravano in gran vasi giapponesi, e in mezzo alla serra, meraviglia a un tempo degli occhi e dell’odorato, un bigliardo che si sarebbe detto lasciato da poco dai giocatori, che avevano abbattuti i birilli sul tappeto.

Una sola stanza era stata rispettata dal magnifico Bertuccio. Davanti a essa, all’angolo del primo piano, a cui si poteva salire dalla scala maggiore, e discendere dalla scala segreta, i domestici passavano con curiosità, e Bertuccio con terrore.

Il conte arrivò alle cinque precise, seguito da Alì, davanti alla casa d’Auteuil. Bertuccio aspettava quest’arrivo con un’impazienza mista a inquietudine: egli sperava qualche espressione di approvazione, mentre temeva anche il solo aggrottamento delle sopracciglia del conte.

Montecristo scese nel cortile, percorse tutta la casa, e fece un giro nel giardino, silenzioso e senza dare il minimo segno né di approvazione, né di malcontento. Soltanto entrando nella sua camera da letto, dirimpetto alla stanza chiusa, tese la mano verso il cassetto di un piccolo mobile di legno rosa, che aveva già osservato in precedenza.

«Questo non può servire», disse, «che a mettervi dei guanti.»

«Infatti Eccellenza», rispose tutto contento Bertuccio, «aprite e vi troverete dei guanti.»

Negli altri mobili il conte ritrovò ciò che contava di trovarvi: bottiglie, sigari, gioielli ecc.

«Bene!» disse ancora.

E Bertuccio si ritirò soddisfatto e felice, tanto era grande, potente, e reale l’influenza di quell’uomo su tutto ciò che lo circondava.

Alle sei precise s’intese scalpitare un cavallo davanti alla porta d’ingresso. Era il nostro capitano degli Spahis, che giungeva sopra Medea. Montecristo l’aspettava nel vestibolo col sorriso sulle labbra.

«Eccomi per primo, ne sono sicuro!» esclamò Morrel. «L’ho fatto per avervi un momento tutto per me solo, prima degli altri. Julie ed Emmanuel vi mandano milioni di saluti. Sapete che questo luogo è magnifico? Ditemi, conte, i vostri domestici avranno cura del mio cavallo?»

«State tranquillo, se ne intendono.»

«Ha bisogno di essere strigliato… Se sapeste di che passo è venuto! È una vera saetta.»

«Diavolo! Lo credo bene, un cavallo da cinquemila franchi!» disse Montecristo col tono di un padre che parli a suo figlio.

«Vi rincrescono?» domandò Morrel con un sorriso franco.

«Io? Dio me ne guardi!» rispose il conte. «Mi spiacerebbe soltanto che il cavallo non fosse buono.»

«È tanto buono, mio caro conte, che Château-Renaud l’intenditore di cavalli più raffinato di tutta la Francia, e Debray, che monta i cavalli arabi del ministro, corrono dietro a me in questo momento, e sono un poco indietro, come vedete, seguiti pure dai cavalli della baronessa Danglars, che vanno di un trotto da poter fare almeno sei leghe l’ora.»

«Dunque sono vicini?» domandò Montecristo.

«Eccoli.»

Infatti nello stesso momento un coupé con due cavalli tutti fumanti, e due cavalli da sella ansanti giunsero al cancello della casa, che si aprì davanti a loro, subito dopo il coupé descrisse il suo mezzo cerchio, e venne a fermarsi davanti alla gradinata seguito da due cavalieri. D’un salto Debray mise il piede a terra, e si trovò allo sportello. Offrì la mano alla baronessa che scendendo gli fece un gesto, impercettibile a tutti, meno che a Montecristo, cui nulla sfuggiva; egli vide un piccolo biglietto bianco, minuscolo quanto il gesto, che passò dalla mano della signora Danglars in quella del segretario del ministro con una facilità dovuta certo all’abitudine.

Dietro sua moglie scese il banchiere, pallido come se invece di uscire da un coupé fosse uscito da un sepolcro. La signora Danglars gettò intorno a sé uno sguardo rapido e indagatore, che Montecristo soltanto poté comprendere, e col quale essa abbracciò il cortile, il peristilio e la facciata della casa; poi reprimendo una leggera emozione che sarebbe certamente comparsa sul suo viso se fosse stato permesso al viso d’impallidire, salì la scalinata, dicendo al signor Morrel: «Signore, se foste nel numero dei miei amici vi chiederei se voleste vendere il vostro cavallo».

Morrel fece un sorriso che molto rassomigliava a una smorfia, e si voltò verso Montecristo come per pregarlo di toglierlo dall’impaccio in cui si trovava. Il conte lo capì.

«Ah, signora», disse, «perché mai questa domanda non è diretta a me?»

«Con voi, signore», ribatté la baronessa, «non si ha il diritto di desiderare niente, perché si è troppo sicuri di ottenere. Così era al signor Morrel…»

«Disgraziatamente», riprese il conte, «sono testimone che il signor Morrel non può cedervi il suo cavallo, per una questione d’onore.»

«E per quale motivo, se posso?»

«Ha scommesso di domare Medea nello spazio di sei mesi. Comprenderete ora, baronessa, che se egli se ne privasse prima del termine della scommessa, non solo la perderebbe, ma si direbbe in più che ha avuto paura; e un capitano degli Spahis, anche per soddisfare un capriccio di una bella donna, il che, a mio avviso, è una delle cose più sacre di questo mondo, non può lasciar correre questa voce.»

«Avete sentito, signora?» disse Morrel, indirizzando a Montecristo un sorriso di riconoscenza.

«Mi sembra d’altra parte», intervenne Danglars, con un tono rozzo mal nascosto da un sorriso villano, «che abbiate abbastanza cavalli.»

Non era abitudine della signora Danglars lasciar passare simili colpi senza rispondervi, e tuttavia con gran meraviglia dei giovani, finse di non capire e non rispose. Montecristo sorrise a questo silenzio, di una umiltà inusitata, e si affrettò a mostrare alla baronessa due immensi vasi di porcellana cinesi, sui quali serpeggiavano delle vegetazioni marine di una grossezza, e di forme così intricate e fantasiose da esaltare la dovizia e il genio della natura.

La baronessa era meravigliata.

«Qui dentro si potrebbe piantare uno dei castagni delle Tuileries!» esclamò. «Come hanno potuto far fabbricare simili enormi oggetti?»

«Signora», disse Montecristo, «non bisogna far simili domande a noi, fabbricanti di statuette, e di vetro appannato… È un’opera di altra età, e una specie di capolavoro dei geni della terra e del mare.»

«E come mai, e di quale epoca può essere?»

«Non lo so… Soltanto ho inteso dire che un imperatore della Cina aveva fatto costruire espressamente un forno in cui uno dopo l’altro aveva fatto cuocere dodici vasi come questo. Due si ruppero sotto l’ardore del fuoco; gli altri furono calati a trecento braccia nel fondo del mare. Il mare, come sapesse ciò che si chiedeva, gettò su essi delle liane, contorse i suoi coralli, incrostò le sue conchiglie, il tutto fu cementato per duecento anni sotto profondità inaudite. Poi una rivoluzione fece deporre l’imperatore che aveva voluto fare questo esperimento, e nessuno pensò di recuperare i vasi. Rimase soltanto il documento che parlava della cottura e della calata in mare. Dopo duecento anni si ritrovò il documento, e si pensò di cercare i vasi. I nuotatori andarono, con l’aiuto di appositi congegni, alla ricerca nella baia ove erano stati gettati; ma di dieci non ne furono più ritrovati che tre, gli altri erano stati o dispersi, o rotti dai flutti. Io amo questi vasi, nel fondo dei quali qualche volta mi figuro che dei mostri di forme spaventose e misteriose, come quelli che vedono i soli nuotatori quando si immergono molto, hanno fissato con meraviglia il loro sguardo sinistro e freddo, e nei quali hanno dormito a miriadi piccoli pesci qui rifugiati per salvarsi dalla persecuzione dei loro nemici.»

Durante questo tempo Danglars, poco amatore di curiosità, strappava distrattamente l’uno dopo l’altro, i fiori di un magnifico arancio: quando ebbe finito l’arancio, si volse a un cactus, che meno tollerante dell’arancio, lo punse oltraggiosamente. Allora rabbrividì e si strofinò gli occhi come si svegliasse da un sonno.

«Signore», gli si rivolse Montecristo sorridendo, «voi siete tanto amante di quadri, e avete delle cose magnifiche, non vi raccomando perciò i miei; però, ecco due Hobbema un Paolo Potter, un Mieris, due Gérard Dow, un Raffaello, un Van Dyck, un Zurbaran, e due o tre Murillo, degni di esservi presentati.»

«Guarda», disse Debray, «un Hobbema che io riconosco.»

«Davvero?»

«Sì, vennero a proporlo al Museo.»

«Che non ne ha, credo?» disse Montecristo.

«No, e ciò nonostante ha rifiutato di comprarlo.»

«E perché?» domandò Château-Renaud.

«Siete ingenuo! Perché il governo non è abbastanza ricco.»

«Scusate!» replicò Château-Renaud. «Io sento dire simili cose tutti i giorni da otto anni, e non mi ci posso abituare.»

«Sarà per un’altra volta», disse Debray.

«Non credo», ribatté Château-Renaud.

«Il maggiore Bartolomeo Cavalcanti, il conte Andrea Cavalcanti», annunciò Battistino. Un colletto di raso nero che usciva dalle mani del sarto, una barba fatta di recente, due baffi grigi, un occhio sicuro, un abito da maggiore adorno di tre placche e cinque croci, insomma una tenuta irreprensibile di vecchio soldato, tale apparve il maggiore Bartolomeo Cavalcanti, quel tenero padre che noi conosciamo. Accanto al padre, vestito di abiti nuovi, col sorriso sulle labbra, il conte Andrea Cavalcanti, quel rispettoso figlio che ugualmente conosciamo. I tre giovani parlavano insieme, e i loro sguardi si portarono dal padre al figlio, e si fermarono naturalmente più a lungo su quest’ultimo, per bene esaminarlo.

«Cavalcanti!» fece Debray.

«Un bel nome», commentò Morrel.

«Sì», riconobbe Château-Renaud, «è vero, questi italiani hanno bei nomi, ma vestono male.»

«Siete difficile da accontentare», riprese Debray. «I loro abiti sono di un eccellente sarto, e del tutto nuovi.»

«Ecco precisamente ciò che rimprovero loro. Questo signore ha l’aspetto di vestirsi oggi per la prima volta.»

«Chi sono questi signori?» chiese Danglars al conte di Montecristo.

«Non avete inteso? I Cavalcanti.»

«Ciò non mi dice che il loro nome, e niente di più.»

«È vero, non siete al corrente della nostra nobiltà italiana: chi dice Cavalcanti, dice razza di principi.»

«Buon patrimonio?» domandò il banchiere.

«Favoloso.»

«Che cosa fanno?»

«Provano a spenderlo senza potervi riuscire. Sono accreditati presso di voi, a quanto mi dissero l’altro giorno quando vennero a farmi visita. Io anzi li ho invitati per voi, ve li presenterò.»

«Ma mi sembra che parlino con molta scioltezza il francese», riconobbe Danglars.

«Il figlio è stato allevato in un collegio del Mezzogiorno, a Marsiglia, o nelle vicinanze, lo ritroverete entusiasta.»

«Di che cosa?» domandò la baronessa.

«Delle francesi, signora… Vuole assolutamente prender moglie a Parigi.»

«Bella idea!» disse Danglars, alzando le spalle.

La signora Danglars guardò suo marito con un’espressione che in un altro momento avrebbe scatenato un uragano; ma per la seconda volta tacque.

«Il barone sembra molto tetro quest’oggi», osservò Montecristo con la signora Danglars. «Lo vogliono forse far ministro?»

«Non ancora; credo invece che abbia speculato in Borsa, abbia perduto, e non sa con chi prendersela.»

«Il signore e la signora Villefort», gridò Battistino.

I due personaggi annunciati entrarono; il signor Villefort, nonostante il gran potere su se stesso, era visibilmente turbato. Toccandogli la mano, Montecristo si accorse che tremava.

«Non vi sono che le donne per sapere dissimulare», disse fra sé Montecristo, guardando la signora Danglars, che sorrideva al procuratore, e che abbracciava la moglie di lui. Dopo i primi saluti, il conte vide Bertuccio che, occupato fino allora nelle sue mansioni, entrava in un piccolo salotto attiguo a quello nel quale erano tutti riuniti. Andò da lui.

«Che volete, Bertuccio?» gli domandò.

«Vostra Eccellenza non mi ha ancora detto il numero dei convitati.»

«È vero.»

«Quanti coperti?»

«Contate voi stesso.»

«Sono giunti tutti, Eccellenza?»

«Sì.»

Bertuccio spinse lo sguardo attraverso la porta socchiusa. Montecristo gli teneva fissi gli occhi in viso.

«Oh mio Dio!» gridò Bertuccio.

«Che c’è dunque?» domandò il conte.

«Quella donna! Quella donna!»

«Quale?»

«Quella vestita di bianco, e con tanti diamanti… La bionda!»

«La signora Danglars?»

«Non so come si chiami. Ma è lei! Signore, è lei!»

«Chi?»

«La donna del giardino! Quella che era incinta! Quella che passeggiava aspettando… aspettando…»

Bertuccio rimase a bocca aperta, pallido, e coi capelli dritti.

«Aspettando chi?»

Bertuccio senza rispondere, mostrò Villefort col dito, presso a poco nel medesimo gesto con cui Macbeth mostrò Banco.

«Oh oh!» mormorò finalmente. «Vedete?»

«Che? Chi?»

«Lui!»

«Lui?… Il procuratore Villefort? Senza dubbio lo vedo.»

«Dunque non l’ho ucciso?»

«Credo che stiate impazzendo, mio bravo Bertuccio.»

«Dunque non morì?»

«No egli non morì, lo vedete bene: invece di colpire fra la sesta e settima costola sinistra come fanno i vostri compatrioti, avrete colpito più alto o più basso; e le persone di legge hanno l’anima bene incavigliata al corpo… o, piuttosto, non è vero ciò che mi avete raccontato, fu un sogno della vostra immaginazione, un’allucinazione del vostro spirito… Vi sarete addormentato avendo mal digerita la vostra vendetta, essa vi avrà pesato sullo stomaco, avrete avuto l’incubo, ecco tutto. Vediamo, richiamate la vostra calma e contate: il signore e la signora Villefort, due; il signore e la signora Danglars, quattro; il signor Château-Renaud, il signor Debray, il signor Morrel, sette; il maggiore Bartolomeo Cavalcanti, otto.»

«Otto», ripeté Bertuccio.

«Aspettate dunque! Avete troppa fretta di andarvene! Dimenticate uno dei miei convitati, che diavolo! Guardate un poco a sinistra… ecco là… il signor Andrea Cavalcanti, quel giovane in abito nero che guarda il quadro di Murillo, e che ora si volge.»

Questa volta Bertuccio stava per emettere un grido, che lo sguardo di Montecristo gli spense sulle labbra: «Benedetto!» mormorò egli a bassa voce.

«Fatalità!»

«Ecco le sei e mezzo che suonano, Bertuccio» disse severamente il conte, «questa è l’ora in cui ho dato l’ordine che si mettesse in tavola; sapete che non amo aspettare.»

E Montecristo rientrò nel salotto ove lo aspettavano i suoi convitati, mentre Bertuccio rientrava nella sala da pranzo, appoggiandosi contro le pareti. Cinque minuti dopo, le due porte della sala si aprirono, Bertuccio comparve, e facendo come Vatel a Chantilly un ultimo ed eroico sforzo: «Signor conte, in tavola», disse.

Montecristo offrì il braccio alla signora Villefort.

«Signor Villefort», disse, «fate voi da cavaliere alla baronessa Danglars, ve ne prego.»

Villefort obbedì, e tutti passarono nella sala da pranzo.



62. Il pranzo

Era facile accorgersi che nel passare alla sala da pranzo, un medesimo sentimento animava tutti i convitati. Essi si chiedevano quale bizzarro caso li aveva radunati tutti in quella casa, e per quanto alcuni fossero inquieti e meravigliati di trovarvisi, nessuno avrebbe voluto essere lì. Nonostante le relazioni di recente data, la posizione eccentrica e isolata, le ricchezze sconosciute e quasi favolose del conte imponessero agli uomini di essere circospetti, e alle donne di non penetrare in una casa dove non c’era una moglie per riceverle; pure uomini e donne avevano passato sopra, gli uni alla circospezione, le altre alla convenienza: la curiosità, che li stuzzicava, ve li aveva condotti malgrado tutto.

Non c’era nessuno, fino ai Cavalcanti padre e figlio, l’uno per la rozzezza, l’altro per la disinvoltura, che non sembrasse preoccupato di trovarsi presso quest’uomo di cui ignoravano lo scopo, e insieme ad altri uomini che vedevano per la prima volta.

La signora Danglars aveva fatto un movimento vedendo, dietro l’invito di Montecristo, il signor Villefort avvicinarsi a lei per offrirle il braccio e il signor Villefort aveva sentito il suo sguardo scomporsi sotto gli occhiali d’oro quando il braccio della baronessa si posò sul suo. Nessuno di questi due movimenti era sfuggito al conte, e già in quel semplice contatto degli individui, c’era qualcosa di molto interessante per l’osservatore di questa scena.

Il signor Villefort aveva alla sua destra la baronessa Danglars, e a sinistra Morrel; il conte era fra la signora Villefort e Danglars, gli altri posti erano occupati da Debray seduto fra Cavalcanti padre e Cavalcanti figlio, e da Château-Renaud seduto fra la signora Villefort e Morrel.

Il pranzo fu magnifico.

Montecristo si era proposto di rovesciare completamente l’etichetta parigina, e di saziare più la curiosità che l’appetito dei suoi convitati. Fu un banchetto orientale come potevano esserlo i banchetti delle fate arabe.

Tutti i frutti, che le quattro parti del mondo possono versare intatti e saporosi nel corno d’abbondanza d’Europa erano riuniti e ammonticchiati in piramidi entro vasi cinesi e sottocoppe giapponesi. Gli uccelli rari, con la parte più brillante delle loro penne, pesci mostruosi stesi su lastre d’argento, tutti i vini dell’Arcipelago, dell’Asia Minore, del Capo racchiusi in ampolle di forme bizzarre, la vista delle quali sembrava aggiungere anche qualche cosa di più al sapore di questi vini, passarono successivamente (come una di quelle girandole di portate che Apicio faceva passare sui convitati) davanti a questi parigini, che comprendevano potersi spendere mille luigi in un pranzo di dieci persone, ma a condizione che, come Cleopatra, si mangiassero delle perle, o che, come Lorenzo de’ Medici, si bevesse dell’oro fuso.

Montecristo notò lo stupore generale, e si mise a ridere e a scherzare ad alta voce.

«Signori», disse, «ammettete, non è vero, che giunti a un certo grado di fortuna, non vi è più, di necessario, che il superfluo, come queste signore ammetteranno, che giunti a un certo grado di esaltazione, non vi è più, di positivo, che l’ideale? Ora, seguendo il ragionamento, che cosa è il meraviglioso? Quello che non comprendiamo. Qual è il bene che crediamo veramente da desiderarsi? Quel che non possiamo avere. Ora, veder cose che non posso comprendere, procurarmi cose impossibili ad aversi, questo è lo scopo della mia vita. Vi giungo con due mezzi: il denaro e la volontà… Impiego, per conseguire una fantasia, la stessa perseveranza che, per esempio, voi mettete, signor Danglars, a creare una linea ferroviaria; voi signor Villefort, a far condannare un uomo a morte; voi signor Debray, a pacificare un regno; voi signor Château-Renaud, a piacere a una donna, e voi Morrel, a domare un cavallo che nessuno ha potuto montare. Così, per esempio, vedete questi due pesci nati, l’uno a cinquanta leghe da Pietroburgo, l’altro a cinque leghe da Napoli. Non è dilettevole il poterli riunire sulla stessa tavola?»

«Quali sono dunque questi pesci?» domandò Danglars.

«Il signor Château-Renaud, che ha abitato in Russia, vi dirà il nome dell’uno, e il signor maggiore Cavalcanti, che è italiano, vi dirà il nome dell’altro.»

«Questo qui», iniziò Château-Renaud, «è, credo, uno sterlet.»

«E questo qua», disse Cavalcanti, «una lampreda, se non sbaglio.»

«Ora, signor Danglars, domandate a questi due signori ove si pescano questi due pesci…» lo invitò Montecristo.

«Ma», precisò Château-Renaud, «gli sterlet si pescano soltanto nel Volga.»

«E io», disse Cavalcanti, «non conosco che il Fusaro che fornisca lamprede di questa grossezza.»

«Ebbene, precisamente! L’uno viene dal Volga e l’altro dal lago del Fusaro.»

«Impossibile!» gridarono insieme tutti i convitati.

«Ecco appunto ciò che mi diverte», disse Montecristo. «Io sono come Nerone, “desidero l’impossibile”… Ecco ciò che diverte voi stessi in questo momento, ed ecco infine che questa carne, che forse in realtà non vale quella del salmone e del persico, in breve vi parrà squisita… Nel vostro pensiero sembrava impossibile procurarvela: eppure eccola qua…»

«Ma come si fece a trasportare questi due pesci a Parigi?»

«Nulla di più semplice: questi due pesci sono stati portati ciascuno entro una gran tinozza imbottita internamente, una di ramoscelli e d’erbe del fiume, l’altra di giunchi e di piante del lago; sono state messe in un furgone fatto espressamente, e in tal modo hanno vissuto lo sterlet dodici giorni, e la lampreda otto; ed entrambi vivevano perfettamente quando si è impadronito di loro il cuoco per farli morire, uno nel latte, l’altro nel vino. Voi non lo credete, signor Danglars?»

«Almeno ne dubito», rispose Danglars col suo rozzo sorriso.

«Battistino», chiamò Montecristo, «fate portare l’altro sterlet, e l’altra lampreda, cioè, quelli che sono venuti nelle altre tinozze e che vivono ancora.»

Danglars aprì due occhi inebetiti: gli invitati applaudirono fragorosamente. Quattro domestici portarono due tinozze guarnite di piante marine in ciascuna delle quali si agitava un pesce simile ai due che erano stati serviti in tavola.

«Ma perché due di ciascuna specie?» domandò Danglars.

«Perché uno poteva morire», rispose semplicemente Montecristo.

«Siete veramente un uomo prodigioso», riconobbe Danglars, «e il filosofo ha un bel dire, è una gran bella cosa essere ricchi!»

«E soprattutto aver delle idee», disse la signora Danglars.

«Non attribuitemi onori per questo, signora, ciò era molto in voga presso i Romani; e Plinio racconta che si mandavano da Ostia a Roma, con delle mute di schiavi, che li portavano sulla loro testa, dei pesci di quella specie che chiamavano “mulus”, e che dal ritratto che ne fa è probabilmente l’orata. Era pure un lusso d’averli vivi e uno spettacolo divertente quello di vederli morire, perché morendo cambiavano tre o quattro volte il colore delle loro scaglie, come un arcobaleno che evapori passando da tutte le gradazioni del prisma; dopodiché li mandavano al cuoco. La loro agonia faceva parte del loro merito; se non li vedevano vivi li disprezzavano morti.»

«Sì», disse Debray, «ma da Ostia a Roma non vi sono che sette o otto leghe.»

«È vero!» esclamò Montecristo. «Ma dove starebbe il merito di venire milleottocento anni dopo Lucullo, se non si facesse meglio di lui?»

I due Cavalcanti aprivano occhi enormi, ma avevano il buon senso di non dire una parola.

«Tutto ciò è ammirabile», disse Château-Renaud, «perciò quel che ammiro di più è, lo confesso, l’ammirabile prontezza con la quale siete servito. Non avete comprato questa casa appena cinque o sei giorni fa?»

«Più o meno», annuì Montecristo.

«Ebbene, sono sicuro che in otto giorni ha subito una completa trasformazione… Se non sbaglio aveva un’entrata diversa da questa, e il cortile era selciato e orrido, mentre oggi è un magnifico prato verde, ornato di alberi che sembrano avere cento anni.»

«Che volete», disse il conte, «amo il verde e l’ombra.»

«Infatti», intervenne la signora Villefort, «prima si entrava da una porta che si apriva sulla strada, e il giorno del mio insperato salvataggio, fu dalla strada, me ne ricordo, che mi faceste entrare in casa.»

«Sì, signora», disse Montecristo, «ma dopo ho preferito un ingresso che mi permettesse di guardare il Bois de Boulogne attraverso il cancello.»

«In quattro giorni», osservò Morrel, «questo è un prodigio!»

«Infatti», disse Chateau-Renaud, «d’una vecchia casa farne una casa nuova, è una cosa miracolosa, perché era molto vecchia, e anche molto triste. Mi ricordo d’essere stato incaricato da mia madre di visitarla, quando il signor conte di Saint-Méran la mise in vendita, due o tre anni fa.»

«Il signor di Saint-Méran?» si stupì la signora Villefort. «Questa casa dunque apparteneva al signor di Saint-Méran, prima che la compraste voi, signor conte?»

«Pare di sì», rispose Montecristo.

«Come, non sapete da chi avete comprata questa casa?»

«No, in verità; è il mio intendente che si occupa di questi particolari.»

«Da circa dieci anni non era stata abitata», disse Château-Renaud. «Faceva una grande tristezza vederla sempre con le sue persiane chiuse, le porte serrate e il cortile pieno d’erba. A dire il vero se non fosse appartenuta al suocero di un procuratore del re, si sarebbe potuta prendere per una di quelle case maledette ove sia stato consumato qualche delitto.»

Villefort, che fino allora non aveva ancora toccato nessuno dei quattro o cinque bicchieri di vini straordinari davanti a lui, ne prese uno a caso e lo vuotò d’un sol fiato.

Montecristo lasciò passare un momento, poi, nel silenzio succeduto alle parole di Château-Renaud: «È bizzarro, signor barone», riprese, «ma mi sono venuti gli stessi pensieri quando vi entrai per la prima volta; e questa casa mi parve così lugubre che non l’avrei mai comprata, se l’intendente non lo avesse già fatto per me. Probabilmente il furbo aveva ricevuto una mancia dal notaio».

«È probabile», balbettò Villefort sforzandosi di sorridere, «ma, credetemi, non ne so nulla. Il signore di Saint-Méran ha voluto che questa casa, parte della dote di sua nipote, fosse venduta, perché, rimanendo tre o quattro anni disabitata, sarebbe caduta in rovina.»

Questa volta fu Morrel che impallidì.

«Vi era particolarmente una stanza…» continuò Montecristo. «Ben semplice in apparenza, una stanza come tutte le altre, parata di damasco rosso, che mi è sembrata, non so perché, drammatica all’estremo.»

«E perché?» domandò Debray. «Perché drammatica?»

«Si può forse render conto delle sensazioni istintive?» domandò Montecristo. «Non vi sono forse delle località ove ci sembra di respirare un’aria malinconica? E perché? Non se ne sa niente: per una concatenazione d’idee, per un capriccio del sentimento che vi trasporta in altri luoghi, che forse non hanno alcun rapporto coi tempi e i luoghi ove ci troviamo… Tutto ciò fa che questa stanza mi ricordi quella della marchesa di Ganges, o quella di Desdemona… Eh, in fede mia, sentite, giacché abbiamo finito di pranzare, bisogna che ve la mostri, poi scenderemo in giardino a prendere il caffè: dopo pranzo, lo spettacolo.»

Montecristo fece un segno per i convitati: la signora Villefort si alzò, Montecristo fece altrettanto, e tutti imitarono il loro esempio. Villefort e la signora Danglars rimasero ancora qualche tempo come inchiodati sulle loro sedie; s’interrogavano con gli occhi freddi, muti, agghiacciati.

«Avete sentito?» domandò la signora Danglars.

«Bisogna andarvi», rispose Villefort alzandosi e offrendole il braccio.

Tutti si erano già sparsi per la casa, spinti dalla curiosità, perché tutti pensavano che la visita non si sarebbe limitata a quella stanza, e che avrebbero visto tutto il resto della villa dalla quale Montecristo aveva saputo trarre un palazzo. Ciascuno dunque si lanciò per le porte aperte. Montecristo aspettava i due che ritardavano. Quando a loro volta furono passati, li seguì con un sorriso che, se si fosse potuto comprendere, avrebbe spaventato i convitati molto più di quella camera nella quale stavano per entrare.

Si cominciò infatti col percorrere gli appartamenti. Le camere erano ammobiliate all’orientale con divani e cuscini ovunque invece di letti, pipe e armi invece di mobili, i saloni adorni dei più bei quadri degli antichi maestri, gli studi tappezzati di stoffe cinesi, a colori capricciosi, a disegni fantastici, a tessuti meravigliosi, e infine si giunse alla famosa stanza.

Non aveva nulla di particolare, se non che, sebbene al declinare del giorno, non era illuminata, ed era rimasta, in contrasto con tutto il resto della casa, con le sue vecchie decorazioni e i vecchi mobili.

Queste due particolarità bastavano per darle un’aria lugubre.

«Oh!» esclamò la signora Villefort. «È spaventosa davvero!»

La signora Danglars provò a balbettare alcune parole che non furono intese. Molte osservazioni sorsero e s’incrociarono, e il risultato fu che la camera di damasco rosso aveva un aspetto sinistro.

«Non è vero?» continuò Montecristo. «Vedete come questo letto è posto con bizzarria, quali tetri sanguinosi paramenti! E questi due ritratti a pastello che l’umidità ha fatto impallidire, non sembrano dire con le loro labbra smunte, e i loro occhi spaventati: “Io ho visto”.»

Villefort divenne livido: la signora Danglars cadde sopra una sedia presso il caminetto.

«Avete il coraggio di sedervi sopra quella sedia, su cui forse è stato commesso un delitto?» scherzò la signora Villefort, sorridendo.

La signora Danglars si alzò immediatamente.

«E poi», riprese Montecristo, «qui non c’è tutto.»

«Che vi è dunque ancora?» domandò Debray, cui non sfuggiva l’emozione della signora Danglars.

«Sì, che vi è ancora?» domandò Danglars. «Perché fin qui non trovo gran cosa… E voi signor Cavalcanti?»

«Noi», rispose questi, «abbiamo a Pisa la Torre d’Ugolino a Ferrara la prigione di Tasso, e a Rimini la camera di Paolo e Francesca.»

«Sì, ma non avete questa piccola scala segreta», disse Montecristo aprendo una porta nascosta sotto la tappezzeria. «Guardatela, e dite ciò che ne pensate.»

«Che scala sinistra!» osservò Château-Renaud ridendo.

«Il fatto è», cominciò Debray, «che non so se sia il vino di Chio che concilia la malinconia, ma certamente vedo tutto nero in questa casa.»

In quanto a Morrel, dopo aver sentito parlare della dote di Valentine, era diventato triste, e non aveva pronunciato una parola.

«Non v’immaginate», riprese Montecristo, «un Otello, o un Ganges qualunque, scendere passo a passo, in una notte tetra e burrascosa, questa scala con qualche lugubre fardello, che si vuole nascondere alla vista degli uomini, se non allo sguardo di Dio?»

La signora Danglars si appoggiò al braccio di Villefort, egli stesso costretto ad addossarsi al muro.

«Mio Dio, signora», gridò Debray, «che avete dunque? Come impallidite!»

«Che cos’ha?» domandò la signora Villefort.

«È semplice: il signor Montecristo ci racconta delle storie spaventose, con l’intenzione senza dubbio di farci morire dalla paura.»

«Ma sì», disse Villefort, «infatti conte, voi spaventate queste signore.»

«Che avete dunque?» ripeté a bassa voce Debray alla signora Danglars.

«Niente», disse lei, facendo uno sforzo. «Ho bisogno d’aria, ecco tutto.»

«Volete scendere in giardino?» domandò Debray offrendo il braccio alla signora Danglars e avanzando verso la scala segreta.

«No!» esclamò lei. «Preferisco restare qui.»

«Ma come?» si stupì Montecristo, «avete paura sul serio?»

«No, conte», rispose la signora Danglars, «ma avete un modo di supporre le cose che dà l’illusione della realtà.»

«Mio Dio», replicò Montecristo sorridendo, «tutto questo è fantasia! Non potrebbe ugualmente rappresentarsi questa camera come quella di una buona e onesta madre di famiglia? Questo letto con le pareti color di porpora come un letto visitato dalla dea Lucina? E questa scala misteriosa, come il passaggio per il quale dolcemente, e per non disturbare il sonno confortatore dell’addormentata, passi il medico, o la nutrice, o il padre stesso portando il fanciullo che dorme?»

Questa volta la signora Danglars, invece di rasserenarsi a questa dolce pittura, gettò un gemito e svenne.

«La signora Danglars sta male», balbettò Villefort, «forse bisognerà trasportarla nella sua carrozza.»»

«Oh mio Dio!» esclamò Montecristo. «Ho dimenticata la boccettina!»

«Ho la mia», disse la signora Villefort, e passò a Montecristo una boccettina con un liquore rosso, simile a quello che il conte aveva usato per Edouard.

«Ah!» fece Montecristo prendendola dalle mani della signora Villefort.

«Sì», mormorò questa, «dietro le vostre indicazioni ho provato.»

«E vi è riuscito?»

«Credo di sì.»

La signora Danglars era stata trasportata nella camera vicina; Montecristo le lasciò cadere sulle labbra una goccia del liquore rosso, e lei ritornò subito in sé.

«Mio Dio», si lamentò, «che sogno spaventoso!»

Villefort le strinse fortemente il braccio, per farle capire che non aveva sognato.

Fu cercato il signor Danglars, ma poco disposto alle impressioni poetiche, egli era disceso in giardino e parlava col signor Cavalcanti padre di un progetto di ferrovia da Livorno a Firenze. Montecristo sembrava disperato: prese il braccio della signora Danglars, e la condusse in giardino, ove fu ritrovato il signor Danglars che prendeva il caffè fra i signori Cavalcanti padre e figlio.

«Davvero, signora», le domandò, «non vi ho troppo spaventata?»

«No, signore… Le cose fanno impressione secondo le disposizioni di spirito in cui ci troviamo.»

Villefort si sforzò di ridere.

«E allora», disse, «capirete bene che basta una supposizione, una chimera…»

«E va bene», cominciò Montecristo, «non credetemi, se volete, ma ho la convinzione che sia stato commesso un delitto in questa casa.»

«Fate attenzione», disse la signora Villefort, «abbiamo qui il procuratore del re.»

«In fede mia» riprese Montecristo, «poiché abbiamo questa occasione, ne approfitterò per fare la mia denuncia.»

«La vostra denuncia?» si sorprese Villefort.

«Sì, e alla presenza di testimoni.»

«Tutto ciò è molto importante», intervenne Debray, «e se vi fu realmente delitto, faremo un’ottima digestione.»

«Vi fu delitto», ripeté Montecristo. «Venite qui, signori, signor Villefort venite… Affinché la dichiarazione sia valevole, dev’essere fatta alle autorità competenti…»

Montecristo prese il braccio di Villefort, e mentre stringeva sotto il suo quello della signora Danglars, trascinò il procuratore fin sotto il platano ove l’ombra era più fitta. Tutti gli altri convitati li seguivano.

«Vedete», riprese Montecristo, «qui, in questo medesimo luogo», e batteva col piede la terra, «qui, per ringiovanire questi alberi già vecchi, ho fatto scavare il terreno, e mettere del concime, ebbene i miei lavoratori nello scavare hanno dissotterrato un piccolo forziere, o piuttosto le ferramenta di un baule, nel mezzo delle quali fu trovato uno scheletro di un neonato. Questa non è fantasia spero?»

Montecristo sentì irrigidirsi il braccio della signora Danglars, e fremere il pugno di Villefort.

«Un neonato…» ripeté Debray. «La cosa diventa seria, mi sembra…»

«Ebbene», disse Château-Renaud, «non mi sbagliavo quando, poco fa, pretendevo che le cose avessero un’anima, e un viso come gli uomini, e portassero sulla loro faccia il riverbero dei loro intestini. La casa era triste perché aveva dei rimorsi, perché nascondeva un delitto.»

«E chi dice che sia stato un delitto?» riprese Villefort, tentando un ultimo sforzo.

«Come, un neonato seppellito vivo in un giardino, non è un delitto?» gridò Montecristo. «Come chiamate voi quest’azione, signor procuratore del re?»

«Ma chi dice che fu seppellito vivo?»

«Perché seppellirlo là, se era morto? Questo giardino non è stato mai un cimitero.»

«Qual è la pena per gl’infanticidi in questo Paese?» domandò ingenuamente il maggiore Cavalcanti.

«Si taglia loro semplicemente il collo», rispose Danglars.

«Si taglia il collo?» disse Cavalcanti.

«È così… Non è vero signor Villefort?» domandò Montecristo.

«Sì, signor conte» rispose Villefort con un accento che non aveva più dell’umano.

Montecristo vide che questo era tutto quel che poteva far sopportare ai due individui per i quali aveva preparato la scena, e non volendo spinger le cose oltre: «Ma il caffè, signori!» disse. «Mi sembra che lo dimentichiamo.»

E ricondusse i convitati verso una tavola posta nel mezzo del praticello.

«In verità, signor conte», disse la signora Danglars, «ho vergogna di confessare la mia debolezza, ma tutte queste storie spaventose mi hanno atterrita, vi prego di lasciarmi sedere.»

E dicendo questo cadde sopra una sedia. Montecristo la salutò e si avvicinò alla signora Villefort.

«Credo che la signora Danglars abbia ancora bisogno della vostra boccettina», disse.

Ma prima che la signora Villefort si fosse avvicinata alla sua amica, il procuratore aveva già detto all’orecchio della signora Danglars: «Devo parlarvi».

«Quando?»

«Domani.»

«Dove?»

«Nel mio ufficio, al tribunale, se volete; quello è ancora il luogo più sicuro.»

«Verrò.»

In quel momento si avvicinò la signora Villefort.

«Grazie, mia cara amica», disse la signora Danglars provando a sorridere. «Non ho più niente, mi sento assai meglio!»

63. Il mendicante

La serata avanzava, e frattanto la signora Villefort aveva manifestato il desiderio di tornare a Parigi, cosa che non aveva osato fare la signora Danglars, malgrado l’evidente malessere di cui era preda. Alla richiesta di sua moglie, il signor Villefort diede per primo il segnale della partenza; offrì un posto nel suo landau alla signora Danglars, in modo che fosse assistita dalle cure di sua moglie. Riguardo al signor Danglars, assorbito in un’importante conversazione d’affari col signor Cavalcanti, non fece attenzione a tutto ciò che accadeva. Montecristo, mentre domandava la boccettina alla signora Villefort, aveva notato che il signor Villefort si era avvicinato alla signora Danglars, e aveva indovinato ciò che le aveva detto, sebbene avesse parlato tanto a bassa voce che era molto se la signora Danglars stessa lo aveva inteso. Egli lasciò partire senza opporsi Morrel, Debray e Château-Renaud a cavallo, e montare le due dame nel landau del signor Villefort; Danglars, sempre più entusiasta di Cavalcanti padre, lo invitò a salire con lui nel suo coupé. Quanto ad Andrea Cavalcanti, raggiunse il suo tilbury, che l’aspettava davanti alla porta, e di cui un groom, che esagerava le maniere all’inglese, teneva, rizzandosi sulla punta degli stivali, l’enorme cavallo grigio-ferro.

Andrea non aveva parlato granché durante il pranzo, perché era un giovane molto intelligente, e naturalmente aveva provato il timore di dire qualche sciocchezza in mezzo a convitati ricchi e potenti, fra i quali il suo occhio dilatato non discerneva senza qualche timore un procuratore del re. In seguito, era stato accaparrato dal signor Danglars, che, dopo un rapido colpo d’occhio sul vecchio maggiore, dal collo rigido, e sul figlio ancora un poco timido, e riavvicinando tutti questi elementi al fasto dell’ospitalità di Montecristo, aveva pensato di avere a che fare con qualche nababbo venuto a Parigi per introdurre il suo unico figlio nell’alta società.

Perciò aveva ammirato con indicibile compiacenza l’enorme diamante che brillava al dito mignolo del maggiore, poiché questi, da uomo prudente ed esperto, nel timore che gli fossero strappati anzitempo i tanti denari ricevuti, li aveva subito convertiti in un oggetto di valore. Poi dopo il pranzo, sempre attorno agli argomenti «industria» e «viaggio», aveva interrogato il padre e il figlio sulla loro maniera di vivere e costoro, avvisati che su Danglars era stato aperto il loro credito, all’uno di quarantottomila franchi, all’altro quello annuale di cinquantamila, erano stati gentili e pieni di affabilità col banchiere.

Un particolare soprattutto accrebbe la considerazione, diremmo quasi la venerazione di Danglars per Cavalcanti. Costui, fedele al detto d’Orazio, «Non meravigliarti di nulla», si era accontentato, come si è visto, di far sfoggio di cultura nel dire che da quel lago si estraevano le migliori lamprede; quindi ne aveva mangiata la sua parte senza dire una parola. Danglars aveva dedotto che queste specie di sontuosità erano familiari all’illustre discendente dei Cavalcanti, che forse a Lucca non mangiava che trote fatte venire dalla Svizzera, o locuste inviategli dalla Bretagna per mezzo di contenitori simili a quelli di cui il conte si era servito per far venire le lamprede dal lago del Fusaro, e gli sterlet dal fiume Volga. Così accolse con una benevolenza particolare queste parole del Cavalcanti: «Domani, signore, avrò l’onore di farvi una visita per affari».

«E io, signore», aveva risposto Danglars, «sarò lieto di ricevervi.»

Poi aveva proposto a Cavalcanti, se però non gli spiaceva separarsi dal figlio, di ricondurlo all’albergo dei Principi. Cavalcanti aveva risposto che da lungo tempo suo figlio aveva l’abitudine di condurre la sua vita indipendente, e di conseguenza aveva i suoi cavalli, e le sue carrozze, e che, non essendo venuti insieme, non vedeva nessuna difficoltà nel ritornare divisi. Il maggiore era dunque salito nella carrozza di Danglars, e il banchiere si era seduto al suo fianco, sempre più incantato dalle idee di ordine, e dall’economia di quest’uomo, che pur dava a suo figlio cinquantamila franchi l’anno, ciò che faceva supporre una fortuna di cinque o seicentomila franchi di rendita.

Quanto ad Andrea, cominciò, per darsi delle arie, col rimproverare il suo stalliere, perché invece di andare a prenderlo alla scalinata, lo aveva aspettato alla porta del cortile, cosa che gli aveva procurato l’incomodo di fare una trentina di passi a piedi per cercare il suo tilbury. Lo stalliere ricevette il rimprovero con umiltà, con la mano sinistra prese il morso per trattenere il cavallo impaziente che batteva il terreno col piede, mentre con la destra offriva le redini ad Andrea, che le prese, e posò leggermente lo stivale verniciato sul montatoio. In quel momento una mano si appoggiò sulla sua spalla. Il giovane si volse pensando che Danglars, o Montecristo avessero dimenticato qualche cosa, e ritornassero a dirglielo al momento di partire.

Ma, invece dell’uno o dell’altro, scoprì una strana figura arsa dal sole, con una barba ben curata, occhi brillanti come carboni accesi, e un sorriso ironico su labbra tra cui brillavano trentadue denti bianchi, acuti e affinati come quelli di un lupo o di una iena. Un fazzoletto a quadretti rossi copriva la testa dai capelli grigiastri e polverosi, una giacca delle più sporche e stracciate copriva il corpo magro e ossuto: sembrava che le ossa, come quelle di uno scheletro, dovessero scricchiolare camminando; la mano che si appoggiava sulla spalla di Andrea, e che fu la prima cosa che vide il giovane, gli pareva di una dimensione gigantesca.

Andrea riconobbe la figura al chiarore della lanterna del suo tilbury, o fu soltanto colpito dall’orribile aspetto di questo interlocutore? Non sapremmo dirlo, il fatto è che fremette, e indietreggiò immediatamente.

«Che volete da me?» domandò.

«Mi scusi», disse l’uomo, portando la mano al fazzoletto rosso, «forse v’infastidisco, ma ho bisogno di parlarvi.»

«La sera non si domanda l’elemosina», disse lo stalliere tentando con un movimento di sbarazzare il suo padrone dall’importuno.

«Io non domando l’elemosina, mio bel ragazzo», replicò lo sconosciuto al domestico con uno sguardo così ironico, e un sorriso così spaventoso, che questi si allontanò. «Desidero soltanto dire due parole al vostro padrone che quindici giorni or sono mi ha incaricato di una commissione.»

«Sentiamo», disse a sua volta Andrea, con abbastanza forza, perché il domestico non si accorgesse del suo turbamento. «Che volete? Dite presto, amico mio…»

«Io vorrei… io vorrei», disse a bassa voce l’uomo dal fazzoletto rosso, «che mi risparmiassi l’incomodo di tornare a Parigi a piedi; sono molto stanco, e siccome non ho pranzato tanto bene quanto te, appena posso tenermi in piedi.»

Il giovane rabbrividì a quella strana familiarità.

«Ma infine», ripeté, «che cosa volete?»

«Voglio che mi lasci salire sulla tua bella carrozza, e mi riconduca in città.»

Andrea impallidì, ma non rispose.

«Sì», disse l’uomo dal fazzoletto rosso sprofondando le mani nelle tasche, e guardando il giovane con occhi provocatori, «questa è un’idea che mi è venuta, capisci mio caro Benedetto?»

A quel nome, il giovine rifletté senza dubbio, perché si avvicinò allo stalliere, e gli disse: «Quest’uomo fu effettivamente incaricato di una commissione di cui deve rendermi conto. Andate a piedi fino alla barriera; là prenderete una carrozza per non ritardare troppo».

Il servitore rimase sorpreso, e si allontanò.

«Lasciami almeno raggiungere un posto sicuro», disse Andrea.

«Quanto a questo, io stesso ti condurrò in un bel posto», disse l’uomo dal fazzoletto rosso.

E preso il cavallo per il morso, condusse il tilbury in un luogo dove era effettivamente impossibile vederli insieme.

«Oh no», disse, «non è per la gloria di montare nella tua bella carrozza, no, è soltanto perché sono stanco, e poi perché voglio parlare un po’ d’affari con te.»

«Su, salite», disse il giovane.

Peccato che non fosse giorno, perché sarebbe stato curioso vedere questo malandrino, seduto con tutto comodo sopra i cuscini ricamati vicino al conduttore del tilbury. Andrea spinse il cavallo fino all’ultima casa del villaggio senza dire una sola parola al compagno, che sorrideva e conservava il silenzio come fosse lieto di passeggiare su una così bella carrozza. Una volta fuori d’Auteuil, Andrea guardò intorno a sé per assicurarsi che nessuno potesse vederli né sentirli, e allora, fermando il cavallo, e incrociando le braccia davanti all’uomo dal fazzoletto rosso: «A noi», disse. «Perché venite a disturbarmi nella mia carrozza?»

«Ma tu stesso, ragazzo mio, perché diffidi di me?»

«E in che modo ho diffidato di voi?»

«In che modo? E lo domandi? Ci lasciammo al ponte del Varo, mi dicesti che andavi in Piemonte e in Toscana, e, niente di tutto questo, tu vieni a Parigi.»

«E in che cosa vi dà fastidio questo?»

«In niente spero anzi che mi sia utile!»

«Voi volete ricattarmi!» esclamò Andrea.

«Andiamo, ecco che già cominciamo coi paroloni…»

«Il fatto è che avete torto, padron Caderousse, e vi avviso.»

«Non t’incomodare… Devi però sapere che cos’è la sorte… Ebbene, la sventura rende gelosi. Io ti credevo in giro per il Piemonte e la Toscana, costretto a farti facchino, o cicerone, ti compiangevo dal fondo del cuore come un figlio… Sai che ti ho sempre considerato come un figlio…»

«Avanti, avanti…»

«Pazienta, dunque, polvere da cannone che sei!»

«Ne ho di pazienza. Orsù, terminate.»

«Ti vedo passare dalla barriera Bonshommes con uno stalliere, con un tilbury, con abiti nuovi fiammanti… E che? Hai forse scoperto una miniera, o comprato qualche agente di cambio?»

«Perciò, come confessate, siete geloso?»

«No, sono contento, tanto contento che ho voluto fare i complimenti al mio piccolo; ma siccome non ero vestito come si deve, dato il tuo nuovo rango ho preso le mie cautele per non comprometterti.»

«Belle cautele», ribatté Andrea. «Mi fermate davanti al domestico…»

«Che vuoi, figlio mio? Ti fermo quando posso afferrarti… Tu hai un cavallo molto vivace, un tilbury molto leggero, guizzi naturalmente come un’anguilla… Se non ti avessi fermato questa sera, correvo il rischio di non poterti più raggiungere.»

«Vedete bene che non mi nascondo.»

«Sei ben fortunato, e io vorrei poter dire altrettanto; ma io mi nascondo, senza contare che avevo timore che tu non mi riconoscessi… Ma tu mi hai riconosciuto», aggiunse Caderousse con un sorriso sinistro. «Sei molto gentile.»

«Vediamo», disse Andrea. «Che vi serve?»

«Non mi dai più del tu! È una cattiva cosa, Benedetto, un vecchio compagno! Attento, perché diventerò esigente…»

Questa minaccia attenuò la collera del giovane; il vento della prepotenza vi aveva soffiato sopra. Egli rimise il cavallo al trotto.

«È male per te stesso, Caderousse», disse, «prendertela in tal modo con un vecchio compagno, come dicevi tu stesso poco fa… Tu sei marsigliese, io sono…»

«Lo sai dunque, ora, chi sei?»

«No, ma sono stato allevato in Corsica, tu sei vecchio e testardo, io sono giovane e puntiglioso… Fra gente come noi le minacce non vanno bene, e tutto deve risolversi on modo amichevole. È forse colpa mia, se la sorte, che continua a essere cattiva per te, è al contrario buona per me?»

«È dunque buona la sorte? Non è forse uno stalliere a prestito, non è un tilbury a prestito quelli che abbiamo? Bene, tanto meglio», disse Caderousse, con occhi che brillavano di cupidigia.

«Lo vedi bene, e lo sai, giacché mi fermi», rispose Andrea animandosi sempre più. «Se avessi avuto un fazzoletto come il tuo sulla testa, una giacca unta e lacera sulle spalle e stivali rotti ai piedi non mi avresti riconosciuto.»

«Vedi bene che ora mi disprezzi, piccolo, e hai torto: adesso che ti ho ritrovato, niente m’impedisce d’essere vestito a nuovo come un altro, visto che conosco il tuo buon cuore: se tu hai due abiti me ne darai uno… Io ti davo la mia porzione di minestra e di fagioli quando avevi troppa fame.»

«È vero», riconobbe Andrea.

«Che appetito avevi! Hai sempre buon appetito?»

«Ma sì», rispose Andrea ridendo.

«Come devi aver mangiato, da quel principe…»

«Non è un principe, ma soltanto un conte!»

«Un conte, ma ricco, eh?»

«Sì, ma non fidartene, è un signore che non ha l’aria dell’ingenuo.»

«Mio Dio, sta’ pur tranquillo! Non ho progetti sul tuo conte, e te lo lascerò tutto per te solo. Ma», aggiunse Caderousse, riprendendo quel sinistro sorriso, «bisogna dar qualche cosa per questo… Capisci?»

«Vediamo, che ti occorre?»

«Credo che con cento franchi al mese…. vivrei…»

«Cento franchi?»

«Ma male, capisci bene… Mentre con…»

«Con…»

«Con centocinquanta franchi, sarei contentissimo.»

«Eccotene duecento», disse Andrea.

E mise nelle mani di Caderousse dieci luigi d’oro.

«Bene», fece Caderousse.

«Presentati dal portinaio, il primo di ogni mese, e ne avrai altrettanti.»

«Andiamo, ecco che ancora tu mi umili.»

«E in che modo?»

«Mi metti in rapporto con dei servitori… Mentre, vedi, non voglio avere a che fare che con te.»

«E così sia, domanda di me il primo di tutti i mesi, almeno fino a tanto che riceverò la mia rendita, e tu riceverai la tua.»

«Andiamo, andiamo, vedo bene che non m’ero ingannato, sei un bravo ragazzo, ed è una benedizione quando la fortuna arriva a gente come te… Vediamo raccontami la tua bella avventura.»

«Che bisogno hai di saperla?» domandò Cavalcanti.

«Hai anche della diffidenza?»

«Ebbene, ho ritrovato mio padre.»

«Un padre vero?»

«Diavolo, fin che pagherà…»

«Tu lo crederai, e lo onorerai; giusto… Come lo chiami questo tuo padre?»

«Il maggiore Cavalcanti.»

«Ed egli è contento di te?»

«Per il momento sì.»

«E chi ti ha fatto ritrovare questo padre?»

«Il conte di Montecristo.»

«Quello dal quale esci?»

«Sì.»

«Cerca di collocarmi presso di lui come un gran parente, visto che è così munifico.»

«Sia, gli parlerò di te; ma intanto tu che farai?»

«Sei troppo buono a preoccuparti di questo», disse Caderousse.

«Mi sembra, dato che tu prendi interesse a me, che io possa prendere qualche informazione», replicò Andrea.

«È giusto… Prenderò in affitto una camera in una casa onesta, mi coprirò di abiti decenti, mi farò radere la barba tutti i giorni, e andrò a leggere i giornali al caffè. La sera andrò in qualche teatro, e avrò l’aspetto di un fornaio in ritiro: è il mio sogno prediletto.»

«Benissimo! Se vorrai realizzare solo questi progetti e sarai saggio, tutto andrà a meraviglia.»

«Ecco che ora mi fai da Bossuet!… E tu, che diventerai? Pari di Francia?»

«Eh! eh!» ridacchiò Andrea. «Chissà?»

«Il signor Cavalcanti forse è maggiore… Ma disgraziatamente è abolita l’eredità militare…»

«Non parliamo di politica, Caderousse!… E ora che hai ciò che vuoi, e siamo arrivati, salta giù, e sparisci!»

«No, amico caro.»

«Come no?»

«Ma rifletti dunque, piccolo mio: un fazzoletto rosso sulla testa, quasi senza scarpe, senza carte d’identità, e dieci napoleoni d’oro in tasca, senza calcolare ciò che c’era prima, e che fanno precisamente duecento franchi, sarei infallibilmente arrestato alla barriera! Allora, per giustificarmi, sarei costretto a dire che sei stato tu che mi hai dato questi dieci napoleoni… Subito informazioni, interrogatori: apprendono che ho lasciato Tolone senza il congedo, e vengo scortato di brigata in brigata fino alla spiaggia del Mediterraneo, ritorno puramente e semplicemente il numero centosei… Allora addio al mio sogno di somigliare a un fornaio in ritiro! No, figlio mio, preferisco restare onorevolmente nella capitale.»

Andrea si fece pensieroso. Era, come si vantava, una perfida testa, il figlio putativo del maggiore Cavalcanti. Si fermò un momento, gettò uno sguardo rapido intorno a sé, e quando terminò di compiere il giro indagatore, la mano discese innocentemente nella tasca, dove cominciò ad accarezzare la sicura di una pistola. Ma nel contempo Caderousse, che non perdeva di vista il compagno, passava le mani dietro il dorso, e apriva dolcemente un lungo coltello spagnolo che portava addosso per ogni evenienza. I due amici, come si vede, erano degni d’intendersi, e si compresero: la mano di Andrea uscì inoffensiva dalla tasca e risali fino ai baffi che accarezzò per qualche tempo.

«Buon Caderousse», riprese, «dunque stai contento!»

«Farò tutto il possibile per esserlo», replicò l’albergatore del Ponte di Gard ripiegando la lama del coltello.

«Rientriamo dunque a Parigi. Ma come vuoi fare a passare la barriera senza destare sospetti? Mi sembra che abbigliato così, rischi più in carrozza che a piedi.»

«Aspetta», disse Caderousse, «e vedrai…»

Prese la pellegrina a colletto alto, che lo stalliere allontanato dal tilbury aveva lasciata al suo posto, e se la mise indosso, quindi il cappello di Cavalcanti, e se lo pose sulla testa: aveva l’aspetto di un domestico di buona famiglia.

«E io», ribatté Andrea, «resterò senza niente in testa?»

«Bah!» fece Caderousse. «Tira tanto vento che ben può esserti caduto il cappello.»

«Andiamo dunque», disse Andrea, «e finiamola.»

«E chi è che ti ferma?» scherzò Caderousse. «Non io, spero?»

«Zitto!» intimò Cavalcanti.

Passarono la barriera senza alcun inconveniente. Alla prima strada traversa, Andrea fermò il cavallo, e Caderousse balzò a terra.

«Suvvia», disse Andrea, «il mantello del mio domestico, e il mio cappello…»

«Amico», sibilò Caderousse, «non vorrai certamente che io mi raffreddi.»

«Ma io?»

«Tu sei giovane, mentre io comincio a farmi vecchio… Arrivederci, Benedetto.»

E infilatosi nel viottolo sparì.

«Ahimè!» sospirò Andrea. «Non si potrà dunque mai essere completamente felice in questo mondo?»

64. Scena coniugale

Sulla piazza Luigi XV i tre giovani si erano separati: Morrel aveva preso la via dei boulevard, Château-Renaud aveva svoltato sul ponte di Grenelle, Debray aveva seguito la strada lungo il fiume.

Morrel e Château-Renaud, con ogni probabilità, raggiunsero i propri «focolari domestici», come si dice dalla tribuna delle Camere nei discorsi eloquenti, e al teatro della rue Richelieu nelle commedie ben scritte; non fece lo stesso Debray. Arrivato nei pressi del Louvre, svoltò a sinistra, attraversò il Carousel a gran trotto, infilò per la rue Saint Roch, sboccò su quella della Michodière, e giunse alla porta della signora Danglars al momento in cui il landau del signor Villefort, dopo aver lasciato il procuratore del re e la moglie nel Faubourg Saint-Honoré, si fermava per fare scendere la baronessa alla sua abitazione.

Debray, nella sua qualità di familiare nella casa, entrò nel cortile, affidò le redini nelle mani di uno stalliere, e ritornò alla portiera a ricevere la signora Danglars, alla quale offrì il braccio per ricondurla nei suoi appartamenti.

«Che cosa avete dunque, Hermine», domandò Debray, «e come mai vi sentiste tanto male al racconto di questa storia, o piuttosto favola del conte?»

«Fu perché dopo il pranzo ero terribilmente indisposta, amico mio», rispose la baronessa.

«Ma che dite, Hermine», riprese Debray, «non mi farete credere questo; al contrario, eravate in perfette condizioni quando siete giunta dal conte. Il signor Danglars era alquanto sguaiato, è vero, ma so quanto caso facciate del suo malumore… Qualcuno deve avervi disgustata. Raccontate, sapete bene ch’io non soffrirò mai che vi sia fatta una qualche impertinenza.»

«Vi ingannate, Lucien, ve ne assicuro», insistette la signora Danglars, «e le cose sono come vi ho detto: fu il cattivo umore di cui non vi siete accorto, e di cui non vi ho parlato, credendo non ne valesse la pena.»

Era palese che la signora Danglars si trovava sotto l’influsso di una di quelle irritazioni nervose, di cui le donne spesso non sanno rendersi conto, o, come aveva indovinato Debray, aveva provato qualche emozione nascosta che non voleva confessare ad alcuno. Da uomo assuefatto a riconoscere i malumori come uno degli elementi della vita femminile, non volle insistere oltre, aspettando il momento opportuno o di una nuova richiesta, o di una confessione «motu proprio».

Sulla porta della camera la baronessa incontrò Cornélie, la sua cameriera personale.

«Che fa mia figlia?» domandò la signora Danglars.

«Ha studiato tutta la sera», rispose Cornélie, «quindi è andata a letto.»

«Mi sembrava d’avere udito suonare il pianoforte…»

«È la signorina Louise d’Armilly che suona, mentre la signorina è a letto.»

«Bene», disse la signora Danglars, «venite a spogliarmi.»

Entrarono nella camera da letto, Debray si stese sopra un gran canapè, e la signora Danglars passò con Cornélie nel salotto di toilette.

«Mio caro Lucien», iniziò la signora Danglars attraverso la portiera del salottino, «vi lamentate sempre perché Eugénie non vi rivolge la parola.»

«Signora», disse Lucien, scherzando col cagnolino della baronessa, che, riconoscendo in lui l’amico di casa, aveva l’abitudine di fargli mille moine, «non sono il solo che faccia simili rimproveri, e credo di aver inteso Morcerf lagnarsi l’altro giorno con voi, per non poter cavare una sola parola di bocca alla sua fidanzata.»

«È vero», osservò la signora Danglars, «ma credo che una di queste mattine cambierà tutto ciò, e voi vedrete Eugénie entrare nel vostro ufficio.»

«Nel mio ufficio! Da me?»

«Vale a dire, in quello del ministro.»

«E per quale motivo?»

«Per chiedervi una scrittura all’Opéra. In verità non ho mai visto un tale fanatismo per la musica… È ridicolo per una persona di buona famiglia!»

Debray sorrise.

«E va bene», disse, «venga col consenso del barone e del vostro, e noi le faremo questa scrittura secondo suo merito, sebbene troppo poveri per pagare come si conviene un merito come il suo.»

«Andate, Cornélie», disse la signora Danglars, «non ho più bisogno di voi.»

Cornélie uscì, e un momento dopo la signora Danglars lasciò la toilette con un elegante abito da camera, e andò a sedersi accanto Debray. Lucien la guardò per un momento in silenzio, poi disse: «Vediamo, Hermine, rispondete francamente, qualche cosa v’importuna, non è vero?»

«Nulla», ripeté la baronessa.

E tuttavia siccome si sentiva soffocare, si alzò, cercò di sospirare, e andò a guardarsi in uno specchio.

«Ho una faccia da far paura questa sera», mormorò.

Debray si alzò sorridendo per rasserenare la baronessa su quell’argomento, quando d’improvviso la porta si aprì, e comparve il signor Danglars, Debray si rimise a sedere.

Al rumore della porta la signora Danglars si voltò, e guardò suo marito con una meraviglia, che non si curò di dissimulare.

«Buonasera, signora», salutò il banchiere, «buonasera, signor Debray.»

La baronessa credette senza dubbio che quella visita imprevista significasse il desiderio di riparare alle amare parole ch’erano sfuggite al barone nella giornata. Assunse un’aria dignitosa, e voltandosi verso Lucien senza rispondere a suo marito: «Leggetemi dunque qualche cosa, signor Debray».

Debray che per quell’improvvisata si era sulle prime alquanto inquietato, si rimise alla calma della baronessa, e allungò la mano verso il libro indicato, in mezzo al quale stava un tagliacarte di tartaruga incrostato d’oro.

«Scusate», disse il banchiere, «ma vi stancherete, baronessa, vegliando a ora così tarda: sono le undici, e il signor Debray abita molto lontano di qui.»

Debray fu colto da stupore, non perché il tono di Danglars non fosse tranquillo e gentile, ma perché dietro quella calma e quella gentilezza, si scorgeva una certa velleità, del tutto insolita, di contrariare la volontà della moglie. La baronessa pure fu sorpresa e manifestò la sua meraviglia con uno sguardo che senza dubbio avrebbe dato a pensare a suo marito, se questi non avesse posato gli occhi su un giornale, su cui cercava il listino dei titoli. Quello sguardo tanto fiero andò quindi a vuoto e non fece il suo effetto.

«Signor Lucien», replicò la baronessa, «sappiate che non ho la più piccola volontà di dormire, che ho mille cose da raccontarvi questa sera, e che voi passerete la notte ascoltandomi, doveste pur dormire in piedi.»

«Sono ai vostri ordini», rispose flemmaticamente Lucien.

«Mio caro signor Debray», ribatté a sua volta il banchiere, «non vi affaticate, vi prego, ad ascoltare questa notte le follie della signora Danglars, perché le potrete ascoltare ugualmente anche domani… Questa sera è per me, me la riserbo, e la consacrerò, se permettete, per parlare di gravi interessi con mia moglie.»

Questa volta il colpo era tanto ben diretto, e cadeva come piombo in modo che ne rimasero storditi la baronessa e Lucien: entrambi s’interrogarono con lo sguardo come per chiedersi aiuto reciproco contro quest’aggressione; ma l’irresistibile potere del padrone di casa trionfò, e la forza rimase al marito.

«Non vogliate però credere che io vi scacci, mio caro Debray», continuò Danglars, «no, niente affatto; una circostanza imprevista mi obbliga questa sera ad avere un colloquio con la baronessa, ciò accade abbastanza di raro perché non si abbiano risentimenti.»

Debray balbettò qualche parola, salutò e uscì urtando negli angoli, come Mathan nell’Athalie.

«È incredibile», disse quando fu chiusa la porta, «come questi mariti, che pur troviamo tanto ridicoli, prendano facilmente il sopravvento su noi!»

Partito Lucien, Danglars s’installò nel suo posto sul canapè, chiuse il libro rimasto aperto, e prendendo un atteggiamento che voleva essere disinvolto, continuò a scherzare col cagnolino. Ma siccome il cane, non avendo per lui la stessa simpatia che per Lucien, lo voleva mordere, lo prese per la collottola e lo posò dall’altra parte della stanza sopra una poltrona. L’animale gettò un guaito, ma poi si appiattì dietro un cuscino, e, stupefatto di questo trattamento al quale non era avvezzo, rimase muto e immobile.

«Sapete, signore», cominciò la baronessa senza batter ciglio, «che fate dei progressi! Ordinariamente non eravate che rozzo, questa sera siete brutale.»

«È perché questa sera sono di cattivo umore più del solito», rispose Danglars.

Hermine guardò il banchiere con sommo sdegno; ordinariamente queste occhiate esasperavano l’orgoglioso Danglars, ma questa sera sembrava appena farvi attenzione.

«E che importa a me del vostro cattivo umore?» rispose la baronessa, irritata dall’impassibilità di suo marito. «Tali cose mi riguardano forse? Chiudete i vostri cattivi umori nel vostro appartamento, o lasciateli sui vostri banchi di pegno, e poiché avete dei commessi che pagate, sfogate su loro i vostri cattivi umori.»

«No», rispose Danglars, «siete fuori strada coi vostri consigli, signora, e non li seguirò. I miei banchi sono il mio Pattolo,4 come dice, credo, Desmoutiers, e non voglio né ostacolare il lavoro né turbarne la quiete; i miei commessi sono uomini onesti, che mi fan guadagnare fior di quattrini, e che pago al di sotto di quel che meritano. Non posso dunque essere in collera con loro. Sono invece in collera con le persone che mangiano i miei pranzi, che storpiano i miei cavalli e rovinano il mio bilancio.»

«E chi sono dunque queste persone che rovinano il vostro bilancio? Spiegatevi più chiaramente, signore, ve ne prego.»

«State tranquilla se parlo per enigmi, non conto di farvi cercare a lungo il significato delle mie parole», riprese Danglars. «Le persone che rovinano il mio bilancio sono quelle che vi rapinano cinquecentomila franchi in un’ora.»

«Non vi capisco», disse la baronessa cercando di nascondere la forte emozione della voce, e il rossore del suo viso.

«Voi al contrario mi capite benissimo», ribatté Danglars, «ma se continuate a fingere di non comprendere, vi dirò che ho perduto settecentomila franchi sul prestito spagnolo.»

«Ah!» fece la baronessa beffeggiandolo. «Sono io forse che rendete responsabile di questa perdita?»

«E perché no?»

«È colpa mia se avete perduto settecentomila franchi?»

«In ogni modo non è stata mia.»

«Una volta per tutte, signore», riprese aspramente la baronessa, «vi ho detto di non parlarmi mai di bilancio… Questo è un linguaggio che non ho imparato né presso i miei parenti, né nella casa del mio primo marito.»

«Lo credo bene», replicò Danglars, «non avevano un soldo né gli uni, né l’altro!»

«Ragione di più che non abbia potuto imparare da essi il gergo della banca, che qui mi strazia le orecchie dalla mattina alla sera! Questo rumore di scudi, che si contano e ricontano, m’è odioso, e non so se vi sia suono più disgustoso di quello, se si eccettua la vostra voce.»

«A dire il vero», riprese Danglars, «mi riesce strano! Credevo che voi pigliaste interesse alle mie operazioni!»

«Io! E chi ha potuto farvi credere simile sciocchezza?»

«Voi stessa.»

«Ah, questa poi!»

«Senza dubbio.»

«Vorrei proprio che mi faceste sapere in quale occasione…»

«È cosa facile. Nel febbraio scorso mi avete parlato per prima dei fondi d’Haiti… Avete sognato che un bastimento entrava nel porto di Le Havre portando la notizia che un pagamento che si credeva rinviato, si sarebbe effettuato: conoscendo la lucidità del vostro senno feci dunque comprare sottomano tutte le polizze che ho potuto trovare del debito d’Haiti, e ho guadagnato quattrocentomila franchi di cui ve ne sono stati regolarmente rimessi cento. Voi ne avete fatto ciò che avete voluto, e questo non mi riguarda. Nel mese di marzo si parlava della concessione di una ferrovia. Si presentavano tre società offrendo eguali garanzie. Voi mi diceste che il vostro istinto (e sebbene vi crediate estranea alle speculazioni, credo invece il vostro istinto molto sviluppato in certe materie) vi faceva credere che il privilegio sarebbe stato accordato alla società del Mezzogiorno. Io mi sono fatto comprare i due terzi delle azioni di questa società. Il privilegio le fu in realtà accordato; come avevo previsto, le azioni hanno triplicato il loro valore, e io ho incassato un milione, sul quale vi sono stati retribuiti duecentocinquantamila franchi. Come avete impiegati questi duecentocinquantamila franchi? Ciò non mi riguarda affatto.»

«E dove volete andare a parare signore?» gridò la baronessa fremendo di dispetto e d’impazienza.

«Pazienza, signora, ci arriverò.»

«È una fortuna!»

«In aprile andaste a pranzo dal ministro, si parlò della Spagna, voi ascoltaste una conversazione segreta; si trattava di vari affari; io comprai dei fondi spagnoli. L’espulsione si effettuò, e il giorno in cui Carlo V ripassò la Bidassoa, io guadagnai seicentomila franchi, e vi furono pagati mille scudi; essi erano vostri, e ne avete disposto a seconda della vostra fantasia, e io non ve ne domando conto. Ma non è meno vero che voi avete ricevuto quest’anno cinquecentomila franchi…»

«Ebbene, il seguito signore?»

«Ah sì, il seguito! È proprio in seguito che la cosa diventa scottante…»

«Voi avete certi modi di parlare… in verità…»

«Esprimono le mie idee, e ciò è quanto mi abbisogna… In seguito, fu tre giorni fa che questo accadde… Tre giorni fa dunque, avete parlato di politica al signor Debray e avete creduto di capire dalle sue parole che Don Carlo era rientrato in Spagna: allora io vendo le mie cartelle, la notizia si spande, sorge un timor panico, non vendo più, regalo: l’indomani si viene a sapere che la notizia era falsa, e sopra questa falsa notizia ho perduto settecentomila franchi.»

«Ebbene?»

«Suvvia, poiché vi regalo un quarto quando guadagno, mi dovete dunque un quarto quando perdo; il quarto di settecentomila franchi è centosessantacinquemila franchi.»

«Ma questa è una stravaganza, e non vedo come potete mischiare il nome di Debray a tutta questa storia.»

«Perché, se non aveste per caso i centosessantacinquemila franchi che reclamo, li potreste prendere in prestito dai vostri amici, e il signor Debray è uno di loro.»

«Finiamola!» gridò la baronessa.

«Oh, signora, non facciamo gesti, non facciamo drammi moderni, se no mi obbligherete a dirvi che di qui vedo il signor Debray sogghignare vicino ai cinquecentomila franchi che voi gli avete donato quest’anno, e dire a se stesso che ha finalmente trovato ciò che non hanno trovato i più esperti giocatori, e vale a dire una roulette su cui si guadagna senza puntare, e non si perde quando si punta.»

La baronessa non si contenne.

«Miserabile!» gridò ancora. «Osereste dire che non sapevate ciò di cui ora mi fate un rimprovero?»

«Non vi dico che sapevo, né che non sapevo… Vi dico: osservate la mia condotta da quattro anni che siete mia moglie, e che io non sono più vostro marito, e vedrete se fu sempre conseguente. Qualche tempo prima della nostra rottura, avete desiderato studiare musica con quel famoso baritono che ebbe tanto successo nel teatro italiano; io volli studiare il ballo con quella famosa ballerina che fece tanto chiasso a Londra: ciò mi costò, tanto per voi che per me, circa centomila franchi… Non ho detto nulla perché ci vuole l’armonia nelle famiglie: centomila franchi perché la moglie impari a fondo la musica, e il marito il ballo, non è molto caro. Ben presto eccovi disgustata del canto, e vi vien voglia di studiare la diplomazia con un segretario del ministro; vi lascio studiare… D’altra parte, non è affar mio, visto che pagate di tasca vostra! Ma ora m’accorgo che avete preso di mira la mia, e che il vostro studio mi può costare settecentomila franchi il mese… Altolà, signora, la cosa non può andare avanti così, o il diplomatico darà le sue lezioni gratuite, e io lo tollererò, ovvero non metterà più piede in casa mia! Ci siamo capiti, signora?»

«Questo è troppo!» gemette Hermine soffocata. «Voi andate al di là dell’ignobile!»

«Ma», riprese Danglars, «vedo con piacere che non vi siete fermata qua, e che avete volontariamente obbedito all’assioma del codice: “La moglie deve seguire il marito”.»

«Ingiurie!»

«Avete ragione; ma ragioniamo freddamente. Io non mi sono mai mischiato nei vostri affari che per il vostro bene; farete voi pure altrettanto. La mia cassa, voi dite che non vi riguarda? Sia, ma operate con la vostra, e non riempite, né vuotate la mia. D’altra parte, chi sa che ciò non sia un colpo di stiletto politico? Che il ministro furioso di vedermi all’opposizione, e geloso delle simpatie popolari che suscito, non se la intenda col signor Debray per rovinarmi?»

«E come può essere possibile?»

«Chi ha mai visto una notizia telegrafica falsa, cioè il quasi impossibile, dei segnali diversi dati dagli ultimi due uffici? Ciò senza dubbio è stato fatto espressamente per me.»

«Signore», disse più umilmente la baronessa, «voi non ignorate che quest’impiegato è stato cacciato, e sarebbe stato chiamato in giudizio se non si fosse salvato con la fuga, il che prova la sua follia, o la sua reità… È stato un errore.»

«Sì, che ha fatto ridere gli stupidi, che ha fatto passare una cattiva notte al ministero, che ha fatto coprire di nero molta carta ai segretari di Stato, ma che a me costa settecentomila franchi.»

«Ma, signore», riprese d’improvviso Hermine, «poiché tutto ciò deriva, a quanto sembra, dal signor Debray, perché invece di dirlo a lui direttamente, lo dite a me?»

«Conosco forse il signor Debray, io? Lo voglio forse conoscere? Voglio forse sapere se dà dei consigli? Li seguo forse? Arrischio io forse? Voi fate tutto questo, e non io!»

«Mi sembra però, che dal momento che ne approfittate…»

Danglars si strinse nelle spalle.

«Sono assai pazze creature queste donne che si credono geni perché hanno saputo condurre una decina d’intrighi in modo da non essere esposte alle chiacchiere di tutta Parigi! Ma pensate dunque, se aveste nascosto le vostre sregolatezze allo stesso vostro marito, che è all’abicì dell’arte, perché i mariti non vogliono vedere… Sareste stata una pallida copia di ciò che sono la metà delle vostre amiche, le donne di mondo. Ma non è così per me. Io ho visto, e ho visto sempre, in sedici anni circa, voi forse mi avrete nascosto un pensiero, ma non un passo, non un atto, uno sbaglio. Mentre vi applaudivate della vostra furberia, e credevate fermamente d’ingannarmi, che cosa ne risultò? Che grazie alla mia pretesa ignoranza, dal signor Villefort fino al signor Debray, non vi fu mai uno dei vostri amici che non tremasse davanti a me; non ve ne fu uno che non mi trattasse da padrone di casa, mia unica pretesa verso di voi finalmente non ve ne fu uno che abbia osato dirvi di me ciò che vi dico io stesso questa sera. Io vi permetto di rendermi odioso, ma v’impedirò di rendermi ridicolo, e in particolare vi proibisco positivamente, e sopra ogni altra cosa, di rovinarmi.»

Fino al momento in cui fu pronunciato il nome di Villefort la baronessa aveva sostenuta una ferma apparenza; ma a quel nome era impallidita, e alzandosi come mossa da una molla, aveva steso le braccia come per scongiurare un’apparizione, e fatti tre passi verso suo marito, come per strappargli quel segreto a lui ignoto, ma che forse, per qualche odioso secondo fine, come presso a poco erano tutti i calcoli di Danglars, non voleva lasciarsi sfuggire completamente.

«Il signor Villefort! Che significa ciò?» domandò la baronessa.

«Vuol significare», riprese Danglars, «che il signor di Nargonne, vostro primo marito, non essendo né un filosofo, né un banchiere, e forse essendo l’uno e l’altro, e vedendo che non vi era da cavare alcun partito da un procuratore del re, è morto dal dispiacere e dalla collera di avervi ritrovata incinta di sei mesi, dopo nove mesi di lontananza… Ma io sono troppo brutale, non solamente lo so, ma me ne vanto; è uno dei miei espedienti nelle mie speculazioni di commercio… Perché invece di uccidere si fece uccidere? Perché non aveva un bilancio da salvare, ma io mi devo conservare per il mio bilancio. Il signor Debray, mio socio, mi ha fatto perdere settecentomila franchi: che egli sopporti la sua porzione di perdita, e noi continueremo i nostri affari; se no, si dichiari fallito per questi centosessantacinquemila franchi, e sparisca… È un grazioso giovane, lo so, quando le sue notizie sono esatte; ma quando non lo sono, ve ne sono cinquanta al mondo che valgono più di lui!»

La signora Danglars era atterrita, eppure fece un estremo sforzo per rispondere a questo ultimo assalto. Ma cadde sopra un divano pensando a Villefort, alla scena del pranzo, a quella strana serie di disgrazie che da qualche giorno piombavano una dopo l’altra sulla sua casa, e convertivano in scandalosi litigi la perfetta quiete della sua famiglia.

Danglars non la guardò neppure, sebbene lei facesse tutto quel che poteva per svenire. Aprì la porta della camera da letto senz’aggiungere altra parola, e ritornò nel suo appartamento. Di modo che la signora Danglars, rinvenendo dal suo semisvenimento, poté credere che aveva soltanto fatto un cattivo sogno.

65. Progetti di matrimonio

Il giorno dopo, all’ora che Debray aveva l’abitudine di scegliere per andare a fare una piccola visita alla signora Danglars nel recarsi al suo ufficio, il suo coupé non apparve nel cortile.

A quell’ora, ovvero mezz’ora dopo mezzogiorno, la signora Danglars ordinò la sua carrozza e uscì; Danglars, nascosto dietro una tenda, aveva spiato quell’uscita che s’aspettava. Dette l’ordine d’essere avvertito appena fosse ritornata la signora; ma alle due non era ancora rientrata. Allora, richiesta la sua carrozza, raggiunse la Camera e si fece iscrivere per parlare contro il «preventivo delle spese». Da mezzogiorno fino alle due Danglars era rimasto nel suo ufficio dissigillando dispacci, e diventando sempre più tetro, ammassando cifre, e ricevendo visite, fra le altre quella del maggiore Cavalcanti, che si presentò all’ora annunciata il giorno prima per concludere il suo affare col banchiere.

Di ritorno dalla Camera, Danglars, che aveva dati molti segni di grande agitazione durante la seduta, e che soprattutto era stato più acido che mai contro il ministero, risalì in carrozza, e ordinò al cocchiere di condurlo all’ingresso degli Champs-Elysées al numero 30.

Montecristo si trovava a casa, soltanto aspettava una persona, e pregava Danglars di attenderlo un momento nel salone. Mentre il banchiere aspettava, la porta si aprì e vide entrare un uomo vestito da abate che, invece d’aspettare come lui, più familiare senza dubbio alla casa, lo salutò, ed entrando nell’interno degli appartamenti, sparì. Un attimo dopo, la porta per la quale era entrato il prete, si riaprì e comparve Montecristo.

«Mi scusi», disse, «caro barone, ma uno dei miei buoni amici, l’abate Busoni, che avete potuto veder passare, è giunto a Parigi. Era molto tempo che eravamo divisi, e non ho avuto il coraggio di lasciarlo subito… Spero perciò che mi scuserete di avervi fatto aspettare.»

«Come?» disse Danglars. «È una cosa naturale! Sono io che ho scelto male il momento. E mi ritiro.»

«Niente affatto, anzi, al contrario, sedetevi. Ma, buon Dio! Avete un aspetto molto pensieroso, in verità mi spaventate: un capitalista afflitto è come una cometa, presagisce sempre qualche gran disgrazia al mondo.»

«Mio caro signore, la cattiva fortuna pesa su me da qualche giorno, e non ricevo che pessime notizie!»

«Avete forse avuto qualche altra perdita in borsa?»

«No, ne sono guarito, almeno per qualche giorno. Si tratta semplicemente di un fallimento a Trieste.»

«Davvero? Il banchiere fallito sarebbe fosse Jacopo Manfredi?»

«Esattamente! Un uomo che ogni anno, non so da quanto tempo, faceva affari con me per otto o novecentomila franchi. Mai uno sbaglio, un ritardo, un uomo perbene che pagava… come un principe… che paga. Mi metto in credito di un milione con lui e il mio diavolo non vuole che Jacopo Manfredi sospenda i pagamenti?»

«Davvero?»

«È una fatalità inaudita. Faccio una tratta sopra lui per seicentomila franchi che ritornano senz’essere pagate, e di più sono ancora pagabili alla fine del corrente mese dal suo corrispondente di Parigi: siamo al 30, mando a riscuoterle… sì! Il corrispondente è sparito! Col mio affare di Spagna, fa un bel fine di mese…

«Ma è stata davvero una perdita il vostro affare di Spagna?»

«Nient’altro che settecentomila franchi fuori cassa.»

«Come diavolo avete mai fatto un simile errore, voi, vecchio conoscitore del mestiere?»

«Incredibile! È stata colpa di mia moglie. Ha sognato che Don Carlo era tornato in Spagna, e crede ai sogni. È magnetismo, dice lei, e quando sogna una cosa, questa cosa, assicura, deve infallibilmente accadere. Su questa convinzione io le permetto di arrischiare; lei ha la sua cassetta e il suo agente di cambio, perde… È vero che non è denaro mio, ma suo, quello con cui rischia, ma non importa. Capirete che quando escono settecentomila franchi dalla cassetta della moglie, il marito ne patisce sempre un poco. Come, non lo sapevate? La cosa ha fatto un enorme rumore…»

«È vero, ne avevo inteso parlare, ma non ne conoscevo i particolari; e poi non si può essere più ignorante di me in questi affari di borsa.»

«E voi non rischiate mai?»

«Io? E come volete che arrischi se ho già tanti guai nel tenere in piedi le mie rendite? Sarei costretto oltre il mio intendente, a prendere un commesso e un cassiere. Ma a proposito di Spagna, mi sembra che la baronessa non avesse del tutto sognato il ritorno di Don Carlo. I giornali non hanno detto qualche cosa su questo argomento?»

«Voi dunque credete ai giornali!»

«Io? Niente affatto! Ma mi sembrava che questo onesto “Messager” facesse eccezione alla regola e non annunciasse che notizie certe, le notizie telegrafiche.»

«Ecco ciò che è inspiegabile», riprese Danglars. «Appunto il ritorno di Don Carlo era una notizia telegrafica.»

«Di modo che», continuò Montecristo, «in questo mese perdete circa un milione e settecentomila franchi.»

«Non circa, è proprio la cifra che perdo.»

«Diavolo, per una fortuna di terz’ordine», disse Montecristo, «questo è un brutto colpo.»

«Di terz’ordine?» ribatté Danglars, «che diavolo intendete dire?»

«Certamente», continuò Montecristo. «Io divido i ricchi in tre categorie: fortune di primo ordine, fortune di secondo ordine, fortune di terzo ordine. Chiamo di primo ordine quelle che si compongono di tesori che si hanno sotto le mani, le terre, le miniere, le rendite sui grandi Stati come la Francia, l’Austria, e l’Inghilterra, purché questi tesori, queste miniere, queste rendite formino un totale di un centinaio di milioni; chiamo fortune di second’ordine le imprese manifatturiere, le imprese di associazione, i vice-reami, i principati, che non sorpassano un milione e centomila franchi di rendita, il tutto formante un capitale di un cinquanta milioni, infine, chiamo fortune di terzo ordine i capitali fruttiferi per interessi composti, i guadagni dipendenti dall’altrui volontà, o dalle combinazioni della sorte, che un fallimento danneggia e una notizia telegrafica rovina; le banche, le speculazioni eventuali le operazioni sottomesse a quelle combinazioni della fatalità, che si potrebbe chiamare forza sotterranea, paragonandola alla maggiore che è la forza naturale, il tutto formante un capitale fittizio, o reale di un quindici milioni circa. Non è questa la vostra posizione?»

«Purtroppo, sì», rispose Danglars.

«Ne risulta che, con sei fine mese come questo» continuò Montecristo, «una casa di terzo ordine si troverebbe all’agonia.»

«Oh», gemette Danglars, con un sorriso molto pallido, «come fate presto!»

«Mettiamo sette mesi», incalzò Montecristo nel medesimo tono. «Ditemi: avete mai pensato qualche volta che sette volte un milione e settecentomila franchi fanno dodici milioni circa?… No?… Ebbene, avete ragione, perché con simili riflessioni, non s’impegnerebbero mai i propri capitali, che sono per il finanziere ciò che è la pelle per l’uomo. Noi abbiamo i nostri abiti più o meno sontuosi, questo è il nostro credito. Ma quando l’uomo muore non ha che la sua pelle, di modo che uscendo dagli affari non avete che il vostro capitale reale, cinque o sei milioni al più: poiché le fortune di terz’ordine non rappresentano che il terzo o il quarto delle loro apparenze, come la locomotiva della ferrovia, che svanito il fumo che l’avvolge e l’ingrandisce, rimane una macchina più o meno forte. Ebbene, su questi cinque o sei milioni che formano il vostro attivo reale, ne avete perduti circa due, che diminuiscono d’altrettanto la vostra fittizia fortuna, o il vostro credito: vale a dire, mio caro Danglars, che la vostra pelle è stata aperta da un salasso che replicato quattro volte porterebbe la morte. Eh, eh, fate attenzione… Avete bisogno di denaro? Volete che ve ne presti?»

«Siete un cattivo calcolatore!» gridò Danglars, chiamando in suo soccorso tutta la filosofia e tutta la dissimulazione. «A quest’ora il denaro è già rientrato nel mio scrigno con altre speculazioni riuscite. Il sangue esce per i salassi, e rientra con la nutrizione: ho perduto una battaglia in Spagna, sono stato battuto a Trieste, ma la mia armata navale delle Indie avrà preso qualche galeone, i miei minatori del Messico avranno scoperto qualche miniera.»

«Benissimo! benissimo! Ma la cicatrice resta, e alla prima perdita si riaprirà.»

«No, perché io cammino sulle certezze», continuò Danglars con l’eloquenza giocosa del ciarlatano, che cerca d’innalzare il suo credito. «Per rovesciare il mio credito bisognerebbe che crollassero tre governi.»

«È accaduto.»

«Che la terra manchi di raccolto…»

«Ricordatevi le sette vacche grasse, e le sette vacche magre.»

«…O che il mare si ritirasse come ai tempi di Faraone! E poi vi sono molti mari, e ai miei vascelli non accadrebbe altro se non di divenire carovane…»

«Tanto meglio, caro signor Danglars», disse Montecristo, «e io vedo che mi ero sbagliato, e che voi rientrate nelle fortune di secondo ordine.»

«Credo di potere aspirare a questo onore», dichiarò Danglars con uno di quei sorrisi composti che facevano a Montecristo l’effetto di una di quelle lune impiastricciate di cui i cattivi pittori intonacano le loro rovine. «Ma giacché stiamo parlando d’affari», aggiunse, contento di trovare questo mezzo per cambiare la conversazione, «ditemi dunque ciò che posso fare per il signor Cavalcanti.»

«Dargli del denaro, se ha su voi un credito che vi sembri buono.»

«Eccellente! Si è presentato questa mattina con una cambiale di quarantamila franchi pagabile a vista sopra di voi, firmata Busoni, e rimandata da voi a me con la vostra girata… Capirete che gli ho contato subito quaranta biglietti da mille.»

Montecristo fece un segno di assenso.

«Ma non è tutto», continuava Danglars. «Egli ha aperto a suo figlio un credito presso di me.»

«E quanto, se non sono indiscreto, ha assegnato al giovane?»

«Cinquemila franchi al mese.»

«Sessantamila franchi l’anno. Io ne dubitavo…» commentò Montecristo alzando le spalle. «Sono veri spilorci i Cavalcanti… Che può fare un giovane con cinquemila franchi al mese?»

«Ma capirete che se il giovane ha bisogno di qualche migliaio di franchi in più…»

«Non ne fate niente, il padre li lascerebbe in conto vostro! Non conoscete questi milionari d’oltralpe: sono veri Arpagoni. E da chi vi fu aperto il credito?»

«Dalla casa Fenzi, una delle migliori di Firenze.»

«Non voglio dire che ci perderete, ma tenete i vostri conti negli stretti limiti della lettera.»

«Non avreste dunque fiducia in questi Cavalcanti?»

«Darei dieci milioni sulla loro firma. La loro fortuna entra in quelle di second’ordine di cui vi parlavo, mio caro Danglars…»

«È tanto semplice, che lo avrei preso per un maggiore e niente di più!»

«E voi gli avreste fatto onore, perché avete ragione, egli non tiene alle apparenze. Quando l’ho visto per la prima volta mi ha fatto l’effetto di un sottotenente ammuffito sotto le spalline. Ma tutti questi tipi somigliano molto a vecchi ebrei, quando non risplendono come i magi d’Oriente.»

«Il giovane è migliore», disse Danglars.

«Sì, forse un po’ timido, ma in sostanza mi è sembrato educato. Io ne ero un poco inquieto.»

«E perché?»

«Perché voi lo avete visto al suo primo ingresso in società, almeno mi è stato detto. Prima viaggiava con un precettore severissimo, e non era mai venuto a Parigi.»

«Tutti questi italiani della nobiltà hanno l’abitudine di imparentarsi fra loro, non è vero?» domandò negligentemente Danglars. «Essi amano accumulare le loro fortune.»

«Di solito fanno così, è vero, ma Cavalcanti è un originale che non fa niente come gli altri. Nessuno mi toglie l’idea che abbia mandato in Francia suo figlio perché vi trovi moglie.»

«Lo credete?»

«Ne sono sicuro.»

«E avete sentito parlare della sua rendita?»

«Non si parla che di ciò in Italia… gli uni li accreditano di milioni, altri pretendono che non posseggano un soldo.»

«E la vostra opinione?»

«Non bisogna farvi sopra alcun fondamento, essendo del tutto personale.»

«Ma infine…»

«La mia opinione è che tutti questi vecchi podestà, tutti questi antichi condottieri, poiché questi Cavalcanti hanno comandato degli eserciti, hanno comandato delle province, la mia opinione, dicevo, è che abbiano seppellito dei milioni in luoghi conosciuti soltanto dai loro antenati, e che rivelano ai loro primogeniti, di generazione in generazione, e la prova è che sono tutti gialli e secchi come i loro fiorini dei tempi della repubblica, di cui conservano il riverbero a forza di guardarli.»

«Proprio così», annuì Danglars, «e ciò è tanto vero in quanto non si sa se abbiano un palmo di terra loro…»

«Almeno molto poco; non conosco dei Cavalcanti che il solo palazzo che hanno in Lucca.»

«Ah, hanno un palazzo?» disse ridendo Danglars. «È già qualcosa.»

«Sì, e anche lo danno in affitto al ministro delle Finanze, mentre il vecchio Cavalcanti abita in una casetta. Ve l’ho già detto, credo il buon uomo avaro…»

«Andiamo, andiamo, voi non l’adulate per niente.»

«Ascoltate, lo conosco appena; credo di averlo visto tre volte in vita mia… Ciò che so, è da parte dell’abate Busoni, e da lui stesso… Mi parlava, questa mattina, dei suoi progetti per suo figlio, e mi lasciava intravedere che stanco di veder dormire dei capitali considerevoli in Italia, vorrebbe trovare un mezzo sia in Francia sia in Inghilterra, di far fruttare i suoi milioni. Ma, notate bene, che sebbene io abbia la più gran fiducia nell’abate Busoni, personalmente non rispondo di niente.»

«Non importa, grazie del cliente che mi avete procurato: questo è un gran bel nome da iscrivere sui miei registri; e il mio cassiere, a cui ho spiegato chi erano i Cavalcanti, ne va superbo. A proposito, e questa è una semplice domanda: quando questi personaggi danno moglie ai figlioli, assegnano loro una dote?»

«Secondo le circostanze… Ho conosciuto un principe italiano ricco come una miniera d’oro, uno dei primi nomi della Toscana, che quando i figli si ammogliavano a suo genio, assegnava loro dei milioni, e quando lo facevano contro il suo beneplacito, si contentava di assegnar loro una rendita di trenta scudi al mese. Ammettiamo che Andrea si ammogli secondo le vedute di suo padre, allora gli assegnerà forse uno, due, tre milioni. Se ciò fosse con la figlia di un banchiere, per esempio, forse prenderebbe un interesse nella casa del suocero di suo figlio… Ma supponete che la nuora gli dispiacesse… Buonanotte! Il padre Cavalcanti mette mano alla chiave dello scrigno, dà un doppio giro alla serratura, ed ecco mastro Andrea obbligato a vivere come un figlio di papà parigino, segnando le carte, o giocando a dadi falsi.»

«Questo giovane troverà una principessa bavarese o peruviana, vorrà una corona chiusa, un Eldorado.»

«No, tutti questi gran signori dall’altra parte dei monti sposano frequentemente delle semplici mortali. Ma perché mi fate tutte queste domande, caro signor Danglars? Avete forse intenzione di sistemare Andrea?»

«In fede mia, non mi sembrerebbe una cattiva speculazione, e io sono uno speculatore.»

«Ma non con la signorina Danglars, presumo: vorreste fare scannare questo povero Andrea da Albert?»

«Albert…» disse Danglars alzando le spalle. «Egli se ne cura ben poco!»

«Ma è fidanzato a vostra figlia, credo?»

«Cioè, il signor Morcerf e io abbiamo qualche volta parlato di questo matrimonio, ma la signora Morcerf e Albert…»

«Non mi direte che non è un buon partito?»

«La signorina Danglars val bene un Morcerf, mi sembra!»

«La dote della signorina Danglars sarà straordinaria, e non ne dubito, particolarmente se il telegrafo non fa nuove pazzie.»

«Non è soltanto la dote… Ma a proposito, ditemi dunque?»

«Cosa?»

«Per quale motivo non avete invitato al vostro pranzo Morcerf e la sua famiglia?»

«Lo avevo già fatto, ma si è scusato per un viaggio a Tréport con la signora Morcerf, alla quale è stato raccomandato di respirare l’aria di mare.»

«Sì, sì», disse Danglars, ridendo, «quell’aria le deve far bene…»

«E perché?»

«Perché è l’aria che ha respirato nella sua gioventù.»

Montecristo lasciò cadere l’indiscrezione senza mostrare di avervi fatto attenzione.

«Ma tuttavia», riprese il conte, «se Albert non è così ricco come la signorina Danglars, non potete però negare che non porti un bel nome?»

«Sia, ma io amo altrettanto il mio, che non vale di meno», replicò Danglars.

«Certamente il vostro nome è popolare, e ha ornato il titolo di cui si è creduto ornarlo; ma siete un uomo troppo intelligente per non aver compreso che, per alcuni pregiudizi troppo profondamente radicati, una nobiltà di cinque secoli vale molto più di una nobiltà di venti anni.»

«Ed ecco precisamente il perché», disse Danglars, con un sorriso che si sforzava di rendere sardonico, «ecco perché io preferirei il signor Andrea Cavalcanti ad Albert Morcerf.»

«Io non credo», obiettò Montecristo, «che i Morcerf la cedano ai Cavalcanti…»

«I Morcerf!? Sentite, mio caro conte, siete un galantuomo, non vero?»

«Lo credo.»

«E in più conoscitore di blasoni?»

«Un poco.»

«Ebbene, guardate il colore del mio; è più solido di quello di Morcerf.»

«E perché?»

«Perché, se io non sono barone di nascita, almeno mi chiamo Danglars.»

«E poi?»

«Mentre lui non si chiama Morcerf.»

«Come, non si chiama Morcerf?»

«Niente affatto.»

«Eh via, dunque!»

«Io da qualcuno sono stato fatto barone, di modo che lo sono; egli si è fatto conte da sé, per cui non lo è.»

«Impossibile!»

«Ascoltate, mio caro conte», continuò Danglars, «il signor Morcerf è mio amico, o piuttosto una mia conoscenza di trent’anni… Sapete che faccio poco conto dei miei stemmi, poiché non ho mai dimenticato da dove sono partito…»

«Questa è una prova», disse Montecristo, «o di grande umiltà, o di grande orgoglio.»

«Ebbene, quando io ero semplice commesso, Morcerf era semplice pescatore.»

«E allora si chiamava?»

«Fernando.»

«E poi?»

«Fernando Mondego.»

«Ne siete sicuro?»

«Perbacco, mi ha venduto abbastanza pesce perché lo conosca.»

«Allora perché volevate dargli vostra figlia?»

«Perché Fernando e Danglars erano due nobili, due ricchi, due fortunati di fresca data, in fondo uno valeva l’altro, se si eccettuano alcune cose che si sono dette di lui, e che non si sono mai potute dire di me.»

«Cosa dunque?»

«Niente.»

«Ora capisco, ciò che dite mi rinfresca la memoria a proposito del nome di Fernando Mondego. L’ho sentito in Grecia.»

«A proposito dell’affare di Alì Pascià?»

«Precisamente.»

«Ecco il mistero», riprese Danglars, «e vi confesso che avrei pagato molto per scoprirlo.»

«Non era difficile, se ne aveste avuto voglia.»

«E in che modo?»

«Senza dubbio avrete qualche corrispondente in Grecia…»

«Si capisce!»

«A Giannina?»

«Ne ho dappertutto.»

«Ebbene, scrivete al vostro corrispondente di Giannina, e domandategli quale parte ha avuta nella catastrofe di Alì Tebelen un uomo chiamato Fernando.»

«Avete ragione!» esclamò Danglars alzandosi con vivacità. «Scriverò oggi stesso.»

«Fatelo.»

«Vado a scrivere.»

«E se avete qualche notizia scandalosa…»

«Ve la comunicherò.»

«Mi farete un piacere.»

Danglars si slanciò fuori dall’appartamento, e non fece che correre fino alla sua carrozza.

66. L’ufficio del procuratore del re

Ora lasciamo il nostro banchiere andarsene al passo rapido dei suoi cavalli, e occupiamoci della signora Danglars nella sua escursione mattutina. Circa mezz’ora dopo mezzogiorno, aveva ordinato i cavalli e quindi era uscita in carrozza. Si diresse verso il Faubourg Saint-Germain, imboccò la strada lungo la Senna e fece fermare al passaggio del Pont Neuf; qui discese, e traversò il passaggio. Era abbigliata con molta semplicità, come si conviene a una donna elegante che esce la mattina. In rue Guénégaud salì su una vettura di piazza, indicando come termine della corsa rue Harlay. Non appena entrata in carrozza, si tolse di tasca un velo nero molto pesante, che attaccò al suo cappello di paglia; quindi si rimise il cappello in testa, e notò con piacere, guardandosi in uno specchio tascabile, che non si poteva distinguere di lei che la pelle bianca e la pupilla scintillante.

La carrozza si diresse verso il Pont Neuf ed entrò per la piazza Dauphine nel cortile di Harlay: il cocchiere fu pagato nell’aprire la portiera e la signora Danglars, affrettandosi verso la scala che salì con leggerezza, giunse ben presto alla sala dei Passi Perduti. Quella mattina vi erano molti affari in corso, e ancora una maggior quantità di gente affaccendata nel Palazzo. Le persone affaccendate non guardano molto le donne; la signora Danglars traversò dunque la sala senz’essere osservata più di altre donne che stavano ad aspettare i loro avvocati. Vi era folla nell’anticamera del signor Villefort, ma la signora Danglars non ebbe neppure bisogno di pronunciare il suo nome; appena arrivata un usciere si alzò, si avvicinò a lei, le chiese se fosse la persona a cui il procuratore del re aveva dato convegno, e alla sua risposta affermativa, la condusse, per un corridoio riservato, nell’ufficio del signor Villefort.

Il magistrato, seduto sopra un seggio, scriveva, con le spalle voltate alla porta; la intese aprirsi, e l’usciere pronunciò queste parole: «Entrate, signora».

La porta si richiuse senza che egli avesse fatto il più piccolo movimento ma appena sentì allontanarsi il rumore dei passi dell’usciere, si alzò, mise il catenaccio, tirò le tende, visitò tutti gli angoli dell’ufficio. Quindi allorché ebbe acquistata la certezza che non poteva essere né visto né udito da alcuno si fermò.

«Vi ringrazio, signora», disse, «grazie della vostra puntualità.»

Quindi le offrì una sedia che la signora Danglars accettò perché il cuore le batteva tanto forte, che si sentiva vicina a soffocare.

«Ecco», disse il procuratore sedendo egli pure, e facendo descrivere un mezzo cerchio al suo seggio, in modo da trovarsi dirimpetto alla signora Danglars, «ecco passato molto tempo, signora, da che non ho avuto la fortuna di parlare da solo con voi, e con mio sommo dispiacere ci ritroviamo per intavolare una conversazione molto dolorosa.»

«D’altra parte, signore, avete visto che sono venuta, sebbene questa conversazione debba riuscire assai più dolorosa a me che a voi.»

Villefort sorrise amaramente.

«Dunque è vero», riprese, rispondendo piuttosto al proprio pensiero che alle parole della signora Danglars, «che tutte le nostre azioni lasciano le loro tracce, le une tetre le altre luminose nel nostro passato? È dunque vero che tutti i passi della nostra vita somigliano allo strisciare del rettile sulla sabbia e fanno un solco? Ahimè, per molti questo solco è quello delle loro lacrime.»

«Signore, voi comprendete la mia emozione, non è vero?» disse la signora Danglars. «Abbiatemi dunque dei riguardi, ve ne prego. Questa camera entro cui sono passati tanti colpevoli tremanti e vergognosi, questo seggio su cui mi trovo a mia volta vergognosa e tremante!… Ho bisogno di tutta la mia ragione per non vedere in me una donna molto colpevole, e in voi un giudice minaccioso.»

Villefort scosse la testa, sospirando, poi disse: «E io dico a me stesso, che il mio posto non è sul seggio del giudice, ma sul banco dell’accusato».

«Voi!» esclamò la signora Danglars meravigliata.

«Sì, io.»

«Credo, signore, che il vostro puritanesimo esageri», obiettò la signora Danglars, il cui bell’occhio si illuminò di passeggera luce. «Questi solchi di cui parlavate sono stati tracciati dalla vita di una gioventù ardente. Nel fondo delle passioni al di là dei piaceri, vi è sempre un po’ di rimorso; è perciò che il Vangelo, questa eterna risorsa degli infelici, ha dato per conforto a noi povere donne l’ammirabile parabola della giovane peccatrice, e della donna adultera. Così, ve lo confesso, riportandomi agli errori della mia gioventù, qualche volta penso che Dio me li perdonerà, poiché se essi non possono trovare scusa, troveranno pietà, in compenso dei patimenti sofferti dopo. Ma voi che avete da temere da tutto ciò? Voi uomini, che il mondo scusa, e che lo scandalo rende celebri?»

«Signora», replicò Villefort, «voi mi conoscete, non sono un ipocrita, o perlomeno non faccio l’ipocrita, senza qualche ragione. Se la mia fronte è severa, i molti infortuni la offuscarono, se il mio cuore si è pietrificato, è stato per poter sopportare i colpi che ho ricevuto: non ero così nella mia gioventù, non lo ero nella sera del mio fidanzamento, quando eravamo tutti seduti intorno a una tavola del Corso a Marsiglia. Ma da quel tempo tutto è cambiato in me, e intorno a me. La mia vita si è consumata nel conseguire cose difficili, e a infrangere nelle difficoltà tutti coloro che volontariamente, o involontariamente, per determinata intenzione o per caso, incontrai sulla mia strada a suscitarmi difficoltà. È difficile che ciò che si desidera ardentemente non sia conteso tenacemente da quelli che hanno voluto ottenerlo, e ai quali si tenta di strapparlo. Così, la maggior parte delle cattive azioni degli uomini sono venute loro incontro, mascherate dalle sembianze della necessità; quindi commessa la cattiva azione in un momento d’esaltazione, di timore, o di delirio, si vede che si sarebbe potuto passarle vicino evitandola. Il mezzo che sarebbe stato buono, e che non si è visto, ciechi come si era, si presenta ai nostri occhi facile e semplice, e diciamo a noi stessi: “E come mai non ho fatto questo, invece di fare quest’altro?” Voi donne, al contrario, ben difficilmente siete tormentate dai rimorsi, perché raramente la scelta viene da voi; le vostre sventure vi sono quasi sempre imposte, i vostri sbagli sono quasi sempre i delitti degli altri.»

«In ogni modo, signore, ammettete, se ho commesso un errore», disse la signora Danglars, «anche personale, ieri sera ho ricevuto una severa punizione.»

«Povera donna!» disse Villefort stringendole la mano. «Troppo severa per le vostre forze; per due volte c’è mancato poco che crollaste… Eppure…»

«Ebbene?»

«Devo dirvelo?… Raccogliete tutto il vostro coraggio, perché non siete ancora alla fine…»

«Mio Dio!» esclamò la signora Danglars tutta spaventata. «Che vi è dunque ancora?»

«Voi non vedete che il passato, signora, certamente tetro, ma figuratevi un avvenire… spaventoso certamente… sanguinoso forse!»

La baronessa conosceva la calma di Villefort, fu così spaventata dalla sua esaltazione, che aprì la bocca per gridare, ma il grido le si estinse in gola.

«E come mai è risorto questo terribile passato?» proseguì Villefort. «Come mai dal fondo della tomba, dal fondo dei nostri cuori ove dormiva è uscito come un fantasma, per fare impallidire le nostre guance e arrossire le nostre fronti?»

«Ahimè», gemette Erminia. «Senza dubbio il caso…»

«Il caso!» riprese Villefort. «No, no, non è il caso!»

«Ma sì, fu una coincidenza fatale, è stato il caso che ha operato… Non fu per caso che il conte di Montecristo comprò quella casa? Non fu per caso ch’egli fece scavare la terra? Non fu per caso finalmente che quel disgraziato bambino fosse dissotterrato ai piedi di quell’albero? Povera e innocente creatura! Nata da me, cui non ho potuto mai dare un bacio, ma per la quale ho sparso tante lacrime! Ah, il mio cuore è volato verso il conte quando ha parlato di quella cara spoglia ritrovata sotto i fiori.»

Ebbene no, signora, ecco quanto avevo di terribile da dirvi», continuò Villefort con voce sorda. «Non si è trovata alcuna spoglia sotto i fiori, no, non vi è stato alcun neonato dissotterrato, no, non bisogna piangere, no, non bisogna gemere… Bisogna tremare!»

«Che volete dire?» gridò la signora Danglars rabbrividendo.

«Voglio dire che il signor di Montecristo, nello scavare ai piedi di quell’albero, non ha potuto trovare né scheletro di neonato, né cassetta, perché sotto quell’albero non c’erano né l’uno né l’altra.»

«Non c’erano né l’uno né l’altra?» replicò la signora Danglars, fissando sul procuratore certi occhi, la cui spaventosa dilatazione indicava il terrore, «né l’uno né l’altra?» ripeté come una persona che tenta di fissare le sue idee per mezzo delle parole e del suono della voce.

«Sì», annuì il regio procuratore, lasciandosi cadere la fronte fra le mani. «Non c’era neonato, non c’era cassetta…»

«Non fu dunque là il luogo ove deponeste la povera creatura? Perché ingannarmi? Con quali intenzioni? Parlate…»

«Fu là, ma ascoltatemi, e compiangerete me, che per vent’anni, senza dirvene la più piccola parte, ho portato il peso dei dolori che sto per narrarvi.»

«Mio Dio, mi spaventate! Ma non importa, vi ascolto.»

«Sapete cosa accadde quella notte dolorosa, in cui voi eravate svenuta sul vostro letto, in quella camera di damasco rosso, e mentre io, non meno anelante di voi, aspettavo la vostra rianimazione? Il fanciullo nacque, mi fu consegnato senza movimenti, senza respiro, senza voce: lo credemmo morto.»

La signora Danglars fece un movimento rapido, come se avesse voluto alzarsi dalla sedia. Ma Villefort la fermò giungendo le mani, come per implorarne l’attenzione.

«Noi lo credemmo morto», ripeté. «Io lo misi in una cassetta che doveva essere la sua bara, scesi in giardino, scavai una fossa, lo seppellii in fretta. Terminavo appena di coprirlo di terra, che il braccio del corso si stese contro di me. Vidi un’ombra drizzarsi, un lampo sfolgorare. Sentii un dolore, volli gridare, un brivido mi percorse tutta le membra, e mi serrò la gola… Caddi, e mi credetti in fin di vita: non dimenticherò mai il vostro sublime coraggio, quando tornato in me, mi trascinai fino ai piedi della scala, dove, a stento voi pure, veniste incontro a me… Era necessario custodire il silenzio sulla terribile catastrofe… Voi aveste il coraggio di tornare in casa, sostenuta dalla nutrice; un duello fu il pretesto della mia ferita. Contro ogni aspettativa, il silenzio fu mantenuto. Trasportato a Versailles per tre mesi lottai con la morte; quando sembrò che mi riattaccassi alla vita, mi fu ordinato il sole e l’aria del Mezzogiorno. Quattro uomini mi portarono da Parigi a Châlon, facendo sei leghe al giorno. La signora Villefort seguiva la barella nella sua carrozza. A Châlon fui imbarcato sulla Saône, quindi passai sul Rodano, e per la sola forza della corrente discesi fino ad Arles, poi da Arles ripresi la lettiga e continuai la strada per Marsiglia. La mia convalescenza durò sei mesi. Non sentivo più parlare di voi, non osavo informarmi di ciò che ne era avvenuto. Quando ritornai a Parigi, sentii che, vedova del signor di Nargonne, avevate sposato il signor Danglars.

A che cosa avevo sempre pensato dal momento che recuperai la conoscenza? Incessantemente alla stessa cosa, a quel cadavere di bambino, che ogni notte nei miei sonni sorgeva dal seno della terra, e si fermava al di sopra della fossa, minacciandomi con lo sguardo e col gesto. Per cui appena tornato a Parigi mi informai: la casa non era stata frequentata né visitata da alcuno dal momento che ne eravamo usciti, ma era stata data in affitto per nove anni. Andai a trovare quello che l’aveva presa in affitto, finsi di aver gran desiderio di non veder passare in mani estranee una casa che apparteneva al padre e alla madre di mia moglie, offrii una buona uscita perché fosse sciolto il contratto: mi furono chiesti seimila franchi… Ne avrei dati diecimila, anche ventimila. Li avevo con me: feci sottoscrivere su due piedi la rinuncia; e quando fui in possesso di questa tanto desiderata cessione, partii al galoppo per Auteuil. Nessuno era entrato nella casa dal momento che ero uscito io. Erano le cinque dopo mezzogiorno; salii nella camera rossa, e aspettai la notte. Là, tutto ciò che mi ripetevo da un anno nella continua disperazione, si presentò al mio pensiero più minaccioso che mai.

Quel corso che mi aveva giurato la sua vendetta, che mi aveva seguito da Nîmes a Parigi, quel corso, che nascosto nel giardino, mi aveva ferito, aveva certamente visto scavare la fossa, mi aveva visto seppellire il bambino, poteva giungere a conoscervi, forse vi conosceva già… Non vi avrebbe un giorno fatto pagare il segreto di questo terribile affare?… Non sarebbe stata questa per lui una ben dolce vendetta, quando avesse saputo che io non ero morto della sua pugnalata? Era dunque urgente che prima di ogni altra cosa, a qualsiasi rischio, facessi sparire le tracce di questo fatto, che distruggessi le eventuali prove materiali… Sarebbe sempre rimasta abbastanza realtà nella mia memoria…

Giunse la notte: lasciai che diventasse buio fondo. Io stavo senza lume in quella camera, dove i soffi del vento agitavano le tende, dietro cui mi pareva sempre veder nascondersi qualche spia; ero anche agitato da fremiti, mi sembrava, dietro a me, e in quel letto, sentire i vostri lamenti: non osavo voltarmi. Il mio cuore batteva nel silenzio così violentemente che pensavo si sarebbe riaperta la mia ferita… Finalmente intesi spegnersi, gli uni dopo gli altri, tutti i rumori della campagna. Capii che non avevo più niente da temere, che non potevo essere né visto né inteso, e decisi di scendere.

Ascoltate, Hermine: mi credo tanto coraggioso quanto un altro uomo, ma quando mi sfilai dal petto questa piccola chiave della scala segreta che avevo ritrovata nei miei abiti, che entrambi amavamo tanto, e che voi voleste attaccare a un anello d’oro… Allorché aprii la porta, quando dalla finestra vidi una pallida luna filtrare sugli scalini a chiocciola, una striscia di luce bianca simile a uno spettro, mi trattenni al muro, stetti quasi per gridare; mi sembrava di diventar pazzo. Finalmente riuscii a calmarmi. Discesi la scala gradino per gradino; la sola cosa che non avevo potuto vincere era uno strano tremore che mi aveva preso le ginocchia; mi aggrappai alla balaustra, l’avessi lasciata un momento, sarei precipitato. Giunsi alla porta da basso: fuori una zappa era appoggiata al muro; la presi e m’inoltrai verso il gruppo d’alberi. Mi ero munito di una lanterna cieca, in mezzo al prato mi fermai per accenderla, poi continuai il cammino. Novembre stava per finire, tutta la vegetazione del giardino era sparita, gli alberi non erano più che scheletri con lunghe braccia scarne, e le foglie morte scricchiolavano con la sabbia sotto i miei piedi.

La paura mi prese così forte il cuore che nell’avvicinarmi agli alberi cavai una pistola di tasca e la caricai; credevo sempre di vedere la figura del corso comparire tra i rami. Scrutai nei luoghi più folti con la lanterna cieca: erano vuoti. Gettai gli occhi ovunque intorno a me, ero realmente solo: nessun rumore turbava il silenzio della notte, se non il canto della civetta. Attaccai la lanterna a un ramo forcuto che avevo notato un anno prima, nella stessa posizione dove mi ero fermato per scavare la fossa. L’erba durante l’estate era cresciuta moltissimo in quel luogo, e, giunto l’autunno, nessuno era venuto per tagliarla. Però un luogo meno erboso attirò la mia attenzione; era evidente che là avevo scavato la fossa: mi misi all’opera. Era finalmente giunta quell’ora che aspettavo da un anno! Ma speravo, lavoravo, esaminavo ogni zolla di terra, credendo di sentire della resistenza all’estremità della mia zappa: niente! Eppure avevo fatto una buca due volte più grande della prima.

Credetti di essermi ingannato, di avere sbagliato il posto. Mi orizzontai, guardai gli alberi, cercai di riconoscere i particolari che mi avevano colpito. Una brezza fredda e acuta fischiava attraverso i rami spogli, e tuttavia il sudore mi grondava dalla fronte. Mi ricordai che avevo ricevuto il colpo di pugnale nel momento in cui stavo pestando la terra per fare sparire le tracce della fossa. Mentre pestavo questa terra mi appoggiavo a un falso ebano, dietro a me una roccia artificiale destinata a panchina: cadendo la mia mano aveva lasciata la zappa e sentito il freddo della pietra… Mi lasciai andare nella stessa posizione, mi rialzai, e mi rimisi a scavare allargando la fossa: niente, sempre niente, la cassetta non c’era più!»

«La cassetta non c’era più?» mormorò la signora Danglars soffocata dall’ansia.

«Non crediate che mi sia limitato a questo tentativo: esaminai tutto attorno, pensai che l’assassino, dissotterrata la cassetta, credendo fosse un tesoro, avesse voluto impadronirsene, e l’avesse portata via, ma poi accorgendosi dell’errore avesse scavato una nuova fossa, e ve l’avesse deposta: niente. Mi venne allora l’idea che senza prendere tante cautele l’avesse puramente e semplicemente gettata in qualche angolo. Quest’ultima ipotesi mi costringeva ad aspettare il giorno per fare le mie ricerche: risalii nella camera e aspettai.

Venne il giorno, scesi di nuovo, la mia prima ispezione fu intorno al gruppo d’alberi; speravo di ritrovarvi delle tracce sfuggite nell’oscurità. Avevo rivoltato la terra sopra una superficie di due metri quadrati, e per una profondità di più di venti centimetri; una giornata sarebbe appena bastata a un operaio salariato per far ciò che io avevo fatto in un’ora: niente, non vidi assolutamente niente. Allora mi misi alla ricerca della cassetta.

Secondo le supposizioni fatte, doveva essere sul sentiero che conduceva alla porticina d’uscita, ma questa nuova ricerca fu inutile quanto la prima. Col cuore serrato, tornai agli alberi, che pure non mi lasciavano più alcuna speranza.»

«C’era da diventar pazzi!» esclamò la signora Danglars.

«Lo sperai un momento», riprese Villefort, «ma non ebbi questa fortuna… Però richiamando la mia forza, e le mie idee: “Perché quest’uomo avrebbe portato via quel cadavere?” domandavo a me stesso.»

«Voi lo avete detto, per avere una prova.»

«No, signora, non poteva più essere… Non si conserva un cadavere per un anno; si porta a un magistrato, e si fa una deposizione. Non era accaduto niente di tutto ciò…»

«Ebbene, allora?» domandò Hermine palpitante.

«Allora? Vi era qualche cosa di più terribile, di più fatale, di più spaventoso per noi, che il bambino fosse ancora vivo, e che l’assassino lo avesse salvato.»

La signora Danglars mandò un grido, afferrando le mani di Villefort.

«Mio figlio vivo, signore! Avete seppellito mio figlio vivo, signore! Non eravate sicuro che era morto, e lo avete seppellito! Ah!»

La signora Danglars si era alzata, e stava ritta davanti al procuratore del re, di cui teneva strette le mani fra le sue delicate, quasi minacciosa.

«Che ne so io? Vi dico ciò come vi direi qualunque altra cosa…» rispose Villefort con un’immobilità nello sguardo che indicava che quest’uomo così potente era vicino a toccare la follia, o la disperazione.

«Figlio mio, mio povero figlio!» esclamò la baronessa ricadendo sulla sedia, e soffocando i singulti col fazzoletto.

Villefort ritornò in sé, e comprese che per stornare l’uragano che si accumulava sulla sua testa, bisognava far passare nella signora Danglars il terrore che egli stesso provava.

«Comprendete che se la cosa è così», disse, alzandosi e avvicinandosi alla baronessa per parlare a voce anche più bassa, «siamo perduti! Questo ragazzo vive, e qualcuno sa che egli vive, qualcuno è in possesso del nostro segreto… E poiché Montecristo parla di un neonato dissotterrato là dove questo neonato non c’è più, lui è certamente in possesso di questo segreto.»

«Dio giusto! Dio vendicatore!» mormorò la signora Danglars.

Villefort non rispose che con una specie di ansito.

«Ma questo figlio, signore?» riprese la madre ostinata.

«Quanto l’ho cercato!» rispose Villefort, contorcendosi le braccia. «Quante volte l’ho chiamato, nelle mie lunghe notti senza sonno, quante volte ho desiderato una ricchezza da re, per acquistare un milione di segreti da un milione d’uomini, e per trovare il mio segreto nel loro! Finalmente un giorno che per la centesima volta riprendevo la zappa, domandando a me stesso per la centesima volta ciò che quel corso avesse potuto fare del bambino, pensai che un neonato impaccia un fuggitivo, che, forse, accorgendosi che era ancora vivo lo aveva gettato nel fiume.»

«Impossibile!» gridò la signora Danglars. «Si assassina un uomo per vendetta, ma non si annega a sangue freddo un bambino!»

«Forse», continuò Villefort, «lo aveva portato all’ospizio degli abbandonati.»

«Sì! sì!» esclamò la baronessa. «Mio figlio è là, signore!»

«Corsi all’ospizio, e venni a sapere che quella notte stessa, la notte del 20 settembre, un neonato era stato deposto nella ruota avviluppato in una mezza salvietta di tela fina, stracciata ad arte. Quella metà di salvietta portava una metà di corona da barone, e la lettera Elle.»

«È quello, è quello!» gridò ancora la signora Danglars. «La mia biancheria era marcata in tal modo; il signor di Nargonne era barone, e si chiamava Luigi, le salviette erano tutte marcate in tal modo. Grazie, mio Dio, mio figlio non è morto!»

«No, non è morto.»

«E voi me lo dite? Mi dite questo senza temere di farmi morire di gioia, signore? Dov’è, mio figlio?»

Villefort alzò le spalle.

«Lo so io forse? E credete che se lo sapessi, vi farei passare per tutte queste prove, e per tutte queste gradazioni come farebbe un drammaturgo, o un romanziere? No, non lo so. Una donna, circa sei mesi dopo, era andata a reclamare il bambino, con l’altra metà della salvietta. Questa donna aveva date tutte le garanzie che esige la legge, e le fu consegnato.»

«Ma bisognava informarsi su questa donna… scoprirla.»

«E di cosa credete mi sia occupato, signora? Ho simulato un’istruzione giudiziaria, e ho messo in moto, e in azione, quanto la polizia possiede in sagaci e destri agenti. Le sue tracce furono ritrovate a Châlon; ma a Châlon si sono perdute.»

«Perdute?»

«Sì, perdute, perdute per sempre.»

La signora Danglars aveva ascoltato questo racconto con un sospiro, versando una lacrima, un grido per ciascun particolare.

«Ed è tutto? Vi siete limitato a ciò?»

«No», replicò Villefort, «non ho mai cessato di cercare, di continuare a informarmi, però dopo due o tre anni avevo molto diradato le ricerche, e infine le avevo esaurite… Oggi però tornerò a riprenderle, e con maggior accanimento che mai, e vi riuscirò, poiché non è più la coscienza che mi spinge, bensì la paura.»

«Ma», riprese la signora Danglars, «il conte di Montecristo non sa niente… Se no, perché ambirebbe alla nostra amicizia come fa?»

«La perversità degli uomini è profonda», disse Villefort, «è più profonda della bontà di Dio… Avete osservato gli occhi di quell’uomo mentre ci parlava.»

«No.»

«L’avete qualche volta esaminato profondamente?»

«Indubbiamente è bizzarro, ecco tutto… Una cosa soltanto mi ha colpita ed è che di tutto quello squisito pranzo che ci ha dato non mangiò niente.»

«Sì, sì!» esclamò Villefort. «Io pure l’ho notato. Se avessi saputo ciò che so ora, non avrei toccato niente; avrei creduto che avesse voluto avvelenarci.»

«E vi sareste sbagliato, ben lo vedete.»

«Sì, senza dubbio; ma credetemi, quell’uomo nasconde altri scopi… Ecco perché vi ho voluta vedere, ecco perché ho voluto premunirvi contro tutti, ma particolarmente contro di lui. Ditemi», continuò Villefort, fissando gli occhi sulla baronessa ancor più profondamente, «ditemi, non avete parlato del nostro legame con nessuno?»

«Mai con nessuno.»

«Mi capite?» riprese affettuosamente Villefort. «Quando dico nessuno, perdonatemi questa insistenza, intendo nessuno al mondo!»

«Sì, sì, comprendo perfettamente», annuì la baronessa arrossendo. «Mai, ve lo giuro!»

«Non avete l’abitudine di scrivere la sera ciò che vi è accaduto nel giorno? Non tenete un vostro diario?»

«No, ahimè! La mia vita passa; passa trasportata dalle frivolezze, e la dimentico io stessa.»

«Non parlate sognando?»

«Ho un sonno da bambina… Non lo rammentate?»

Un rosso porpora salì al viso della baronessa, mentre il pallore invase quello di Villefort.

«È vero», diss’egli a voce tanto bassa che appena fu udito.

«Ebbene?» domandò la baronessa.

«Ebbene, capisco ciò che mi resta da fare», riprese Villefort. «Entro otto giorni, saprò chi è questo signor di Montecristo, da dove viene, dove va, e per quale ragione parla in nostra presenza di neonati dissotterrati nel suo giardino.»

Villefort pronunciò queste parole con un accento che avrebbe fatto fremere il conte se lo avesse potuto sentire. Quindi strinse la mano alla baronessa che non fu pronta a dargliela, e la accompagnò, rispettosamente, fino alla porta.

La signora Danglars prese un’altra vettura di piazza che la ricondusse al passaggio, dalla parte opposta ritrovò la sua carrozza e il cocchiere, che aspettandola, dormiva tranquillamente al suo posto.

67. Un ballo estivo

In quello stesso giorno, all’incirca nell’ora in cui la signora Danglars si trovava, come abbiamo detto, nell’ufficio del procuratore del re, una carrozza da viaggio entrando in rue Helder si introduceva per la porta numero 27, e si fermava nel cortile. Un istante dopo si apriva lo sportello e la signora Morcerf scendeva appoggiandosi al braccio di suo figlio. Non appena Albert ebbe accompagnato la madre alle sue stanze, dopo aver fatto un bagno e fatto attaccare i cavalli, si fece condurre agli Champs-Elysées dal conte di Montecristo.

Il conte lo ricevette col suo abituale sorriso; il fatto straordinario era che nessuno sembrava potesse fare un passo avanti nel cuore di quest’uomo. Quelli che volevano, per così dire, forzare il passaggio della sua intimità, trovavano un muro. Morcerf, che accorreva verso di lui a braccia aperte, lasciò, vedendolo, malgrado il suo sorriso amichevole, cadere le braccia, e osò appena tendergli la mano. Dal canto suo Montecristo gliela toccò come faceva sempre, ma senza stringerla.

«Ebbene, eccomi», disse Albert, «caro conte.»

«Siete il benvenuto.»

«Sono arrivato da un’ora.»

«Da Dieppe?»

«No, da Tréport, la prima visita è per voi.»

«Vi ringrazio», disse Montecristo, nel modo con cui avrebbe detto qualunque altra cosa.

«Dunque, vediamo, che novità ci sono?»

«Novità? E le chiedete a me, a uno straniero?»

«Lo so ben io: quando chiedo novità, vi chiedo se avete fatto qualche cosa per me.»

«Mi avete dunque incaricato di qualche commissione?» domandò Montecristo, fingendo d’esser inquieto.

«Via, via», disse Albert, «non fingete indifferenza! Si dice che le sensazioni simpatiche attraversino le distanze… Ebbene a Tréport ho ricevuto la mia scossa elettrica: se non avete operato per me, almeno avete pensato a me.»

«Ciò è possibile», replicò Montecristo. «Ho infatti pensato a voi, ma la corrente elettrica operava, ve lo confesso, indipendentemente dalla mia volontà.»

«Davvero? Raccontatemi, ve ne prego.»

«È facile… Il signor Danglars ha pranzato da me.»

«Lo so bene, poiché per fuggire la sua presenza, mia madre e io partimmo.»

«Ma ha pranzato anche col signor Andrea Cavalcanti.»

«Il vostro principe italiano.»

«Non esageriamo, il signor Andrea si dà soltanto il titolo di conte.»

«Sì dà, dite voi?»

«Lo dico, si dà.»

«Dunque non lo è?»

«E lo so io forse? Egli se lo dà, io lo do a lui, tutti glielo danno… Non è come se lo avesse?»

«Che uomo strano siete… Ma mi preme sapere… Il signor Danglars ha dunque pranzato qui?»

«Sì.»

«Col vostro conte Andrea Cavalcanti?»

«Col conte Andrea Cavalcanti, il marchese suo padre, e la signora Danglars e la signora Villefort, il signor Debray, Maximilien Morrel, e poi chi altri ancora?… Aspettate… Ah, il signor Château-Renaud.»

«Si è parlato di me?»

«Non se n’è detta una parola.»

«Tanto peggio.»

«Perché tanto peggio? Mi pare che, se siete stato dimenticato, fu quel che desideravate.»

«Mio caro conte, se non si è parlato di me, è segno che mi si è pensato molto; e allora sono alla disperazione.»

«Che v’importa, quando la signorina Danglars non era nel numero di quelli che qui vi pensavano? Ah, è vero, lei poteva pensarvi da casa sua.»

«In quanto a questo, no, ne sono sicuro, o se lei mi pensava, fu certo allo stesso modo ch’io pensavo a lei.»

«Commovente simpatia!» disse il conte.

«Allora vi detestate?»

«Ascoltate», disse Morcerf. «Se la signorina Danglars fosse donna da prendere pietà del martirio ch’io soffro per lei e da ricompensarmene al di fuori delle conversazioni matrimoniali stabilite fra le nostre due famiglie, ciò mi andrebbe a meraviglia. Alle corte, credo che la signorina Danglars sarebbe una graziosissima amica, ma come moglie…»

«Bravo!» disse Montecristo ridendo. «Questo è il vostro modo di pensare sulla vostra fidanzata?»

«Un poco brutale, è vero, ma perlomeno sincero. Ora, giacché questo sogno non si può convertire in realtà, e siccome per giungere a un certo scopo bisogna che la signorina diventi mia moglie, vale a dire venga a vivere con me, che pensi, canti, vicino a me, che componga versi e musica a dieci passi da me, e tutto questo durante tutta la mia vita, allora mi spaventa… Un’amica, mio caro conte, si lascia, ma la moglie, è un’altra cosa; vale a dire si conserva eternamente, e da vicino e da lontano.»

«Siete difficile, visconte.»

«Sì, perché spesso penso a una cosa impossibile.»

«A quale?»

«A trovarmi per moglie una donna come quella che mio padre ha trovato per se stesso.»

Montecristo impallidì, e guardò Albert che giocava con delle magnifiche pistole, delle quali faceva rapidamente scattare i grilletti.

«Dunque vostro padre è stato molto felice?» disse.

«Sapete la mia opinione sul conto di mia madre, signor conte: un angelo del cielo! Ed è come voi la vedete: bella ancora, spiritosa sempre, più buona che mai. Giungo da Tréport… Per tutt’altro figlio accompagnare sua madre sarebbe una compiacenza o un sacrificio. Ma io, passo quattro giorni da solo con lei, più soddisfatto, più entusiasta ancora, che se avessi accompagnato a Tréport la regina Mab, o Titania.»

«Questa è una perfezione che dispera, e voi date, a quanti vi sentono, gran voglia di restare celibi.»

«Ecco precisamente», rispose Morcerf, «perché sapendo che esiste al mondo una donna perfetta, non mi curo di sposare la signorina Danglars. Avete mai notato come il nostro egoismo riveste dei colori più brillanti tutto ciò che ci appartiene? Il diamante che luccicava nella vetrina di Marlé o di Fossin diventa più bello ancora dopo che è nostro, ma se l’evidenza ci obbliga a riconoscere che ce n’è un altro di un’acqua più pura, e che voi siete condannato a portare eternamente questo diamante inferiore all’altro, capite quanto dev’essere il soffrire! Ecco perché io balzerò di gioia il giorno in cui la signorina Danglars si accorgerà che non sono che un meschino atomo, e che ho appena tante centinaia di mille franchi per quanti milioni ha lei.»

Montecristo sorrise.

«Avevo ben pensato a una cosa», continuò Albert. «Franz ama le cose eccentriche; volevo che s’innamorasse della signorina Danglars, ma malgrado quattro lettere che gli ho scritto nello stile più insinuante, mi ha imperturbabilmente risposto: “Io sono eccentrico, è vero, ma la mia eccentricità non giunge fino a ritirare la mia parola quando l’ho impegnata”.»

«Ecco ciò che io chiamo trasporto d’amicizia, dare a un altro per moglie la donna che non si vorrebbe per sé che nella condizione d’amica.»

Albert sorrise. «A proposito, è in arrivo il caro Franz… Ma poco v’importa, perché credo non lo vediate tanto di buon occhio.»

«Io?» disse Montecristo. «Mio caro visconte, e da cosa arguite che non amo il signor Franz? Caro visconte, io amo ogni persona…»

«E io sono compreso da ogni persona… Grazie!»

«Non confondiamo», disse Montecristo. «Amo tutti cristianamente; ma non odio che certe determinate persone. Ma quanto al signor Franz: dite che ritorna?»

«Sì, chiamato dal signor Villefort anche lui accanito a ciò che sembra nel voler maritare la signorina Valentine, quanto Danglars nel maritare la signorina Eugénie. Pare che lo stato più faticoso sia quello di essere padre di ragazze in età da marito: sembra che dia loro la febbre, e che il loro polso batta ottanta volte il minuto fin tanto che se ne siano sbarazzati.»

«Ma il signor d’Epinay non vi assomiglia; sembra prenda il suo male con pazienza.»

«Anche meglio, lo prende sul serio, si mette già la cravatta bianca e parla della sua famiglia. Del resto ha per Villefort grandissimo rispetto.»

«Meritato, non è vero?»

«Lo credo, il signor Villefort è sempre passato per un uomo severo, ma giusto.»

«Alla buon’ora, eccone finalmente uno», disse Montecristo, «che non trattate come quel povero Danglars.»

«Forse dipenderà dal non essere obbligato a sposarne la figlia», disse Albert ridendo.

«In verità, mio caro signore», ripeté Montecristo, «siete di una frivolezza mostruosa.»

«Io?»

«Sì, voi… Prendete un sigaro?»

«Volentieri, e perché sono frivolo?»

«Ma perché state a difendervi, a dibattervi per non volere sposare la signorina Danglars. Lasciate scorrere le cose, e forse non sarete il primo a ritirare la vostra parola.»

«Bah!» fece Albert, strabuzzando gli occhi.

«Senza dubbio, signor visconte, non vi si metterà per forza la testa fra le porte, che diavolo! Via, sul serio, avete la volontà di sciogliervi da questo matrimonio?»

«Pagherei centomila franchi per questo.»

«Ebbene siete fortunato; il signor Danglars è disposto a pagare il doppio per giungere alla stessa meta.»

«Ed è vera questa fortuna?» disse Albert, senza però impedire che passasse una impercettibile nube sul suo viso. «Mio caro conte, il signor Danglars ha dunque dei motivi?…»

«Eccoti, natura orgogliosa ed egoista! Alla buon’ora, ritrovo l’uomo che vuole lacerare l’amor proprio degli altri a colpi di mannaia, e che grida quando si fora il suo con una spilla.»

«No, perché mi sembra che il signor Danglars…»

«Dovesse essere contentissimo di voi, non è vero? Ebbene il signor Danglars è un uomo di cattivo gusto, ma è ancor più contento di un altro…»

«E di chi dunque?»

«Non lo so… Studiate, guardate, afferrate le allusioni al loro passaggio, e ricavatene profitto per voi…»

«Certo, capisco… Ascoltate, mia madre… no, non mia madre, mi sbaglio, mio padre ha concepito l’idea di dare una festa da ballo.»

«Una festa da ballo in questa stagione dell’anno?»

«I balli in estate sono di moda.»

«Se non fossero di moda, la contessa non dovrebbe che desiderarlo, e lo diventerebbero.»

«Non c’è male… Capirete che questi sono balli di alta società: quelli che restano a Parigi nel mese di giugno sono veri parigini. Vorreste incaricarvi di un invito per i signori Cavalcanti?»

«Fra quanti giorni avrà luogo questo ballo?»

«Sabato.»

«Il signor Cavalcanti padre sarà partito.»

«Ma il signor Cavalcanti figlio rimane. Volete incaricarvi voi di accompagnarlo?»

«Sentite, visconte, non lo conosco.»

«Non lo conoscete?»

«No, l’ho visto per la prima volta tre o quattro giorni fa, e non ne rispondo per niente.»

«Ma voi però lo ricevete…»

«Per me è un’altra cosa; mi è stato raccomandato da un bravo abate che potrebbe anche essere stato ingannato. Invitatelo direttamente, sta bene, ma non mi chiedete di presentarvelo; se in seguito dovesse sposare la signorina Danglars, mi accusereste di maneggio, e mi vorreste tagliar la gola. D’altra parte non so se ci verrò io stesso.»

«Dove?»

«Al vostro ballo.»

«E perché non ci verrete?»

«Innanzitutto non mi avete ancora invitato.»

«Vengo espressamente per portarvi l’invito.»

«Siete troppo gentile; ma posso esserne impedito.»

«Quando vi avrò detta una cosa, sarete abbastanza amabile da sacrificare tutti i vostri impedimenti.»

«Dite.»

«Mia madre ve ne prega.»

«La contessa Morcerf?» riprese Montecristo rabbrividendo.

«Conte», disse Albert, «vi avviso che la signora Morcerf parla con me liberamente, e se non avete sentito scricchiolare le fibre della simpatia di cui vi parlavo, è segno che ne siete del tutto privo: per quattro giorni non abbiamo fatto che parlare di voi.»

«Di me? Voi mi colmate di gioia!…»

«È il privilegio della vostra posizione, quando si è un enigma vivente!»

«Sono dunque un enigma anche per vostra madre? In verità, l’avrei creduta troppo ragionevole per abbandonarsi a simili voli di fantasia!»

«Mio caro conte, siete un enigma, per tutti, per mia madre come per tutti gli altri; enigma accettato ma non ancora sciolto… Mia madre, soltanto, mi chiede sempre come mai siete così giovane. Credo che in sostanza, mentre la contessa G. vi prende per lord Ruthwen, mia madre vi prenda per Cagliostro o per il conte di Saint Germain. Nella prima visita che farete alla signora Morcerf, confermatela in quest’opinione. Ciò non sarà difficile a voi, che possedete la pietra filosofale dell’uno e lo spirito dell’altro.»

«Vi ringrazio d’avermi avvisato», disse il conte sorridendo. «Cercherò di prepararmi a far fronte a ogni supposizione.»

«Così, verrete sabato?»

«Dato che la signora Morcerf me lo comanda.»

«Siete atteso.»

«E il signor Danglars?»

«Ha già ricevuto il suo triplice invito; mio padre se n’è incaricato. Cercheremo pure di avere il signor Villefort, ma ne disperiamo ancora.»

«Non bisogna mai disperare di niente, dice il proverbio.»

«Danzate, caro conte?»

«Io?»

«Sì, voi… Che vi sarebbe di strano se danzaste?»

«Infatti finché non si siano oltrepassati i quarant’anni… No, non danzo; ma amo veder danzare. E la signora Morcerf danza?»

«Mai! Parlerete, ha tanta voglia di parlare con voi! Siete il primo uomo per il quale mia madre ha manifestato una simile curiosità.»

Albert prese il cappello e si alzò, il conte lo ricondusse sino alla porta.

«Mi faccio un rimprovero», diss’egli fermandolo sull’alto della scalinata.

«E quale?»

«Sono stato indiscreto; non dovevo parlarvi del signor Danglars.»

«Al contrario, parlatemene pure, spesso, sempre, ma nello stesso modo.»

«Bene! A proposito, quando arriverà d’Epinay?»

«Fra cinque o sei giorni al più.»

«E quando si sposerà?»

«Appena arriveranno il signore e la signora di Saint-Méran.»

«Conducetemelo dunque, appena sarà a Parigi. Sebbene pretendiate che non l’ami, vi confido che sarò lieto di rivederlo.»

«Benissimo, i vostri ordini saranno eseguiti.»

«Arrivederci.»

«Sabato, in ogni caso, sicuramente… Non è vero?»

«Certo, avete la mia parola.»

Il conte seguì con gli occhi Albert salutandolo con la mano: quando fu risalito sul suo calesse, si voltò, e trovando Bertuccio dietro di sé: «Ebbene?» gli domandò.

«Lei è andata al palazzo», rispose l’intendente.

«E vi si è fermata a lungo?»

«Un’ora e mezzo.»

«Ed è rientrata in casa sua?»

«Direttamente.»

«Ebbene, caro Bertuccio», disse il conte, «se ora mi resta un consiglio da darvi, è di vedere se in Normandia potete trovare quella piccola terra di cui vi ho parlato.»

Bertuccio salutò il conte e siccome i suoi desideri erano in perfetta armonia con l’ordine che aveva ricevuto, partì quella stessa sera.

68. Le informazioni

Villefort seppe mantenere la parola alla signora Danglars, e soprattutto a se stesso, nel tentare di conoscere in che modo il conte di Montecristo aveva potuto apprendere la storia della casa di Auteuil: scrisse nello stesso giorno a un certo signor Boville, che, dopo essere stato in altri tempi ispettore delle prigioni, era impiegato con un grado superiore nella polizia di sicurezza, per avere le informazioni che desiderava e questi chiese due giorni per sapere con esattezza da chi avrebbe potuto informarsi.

Trascorsi i primi giorni, Villefort ricevette la seguente nota: «La persona che si chiama il conte di Montecristo è conosciuta particolarmente da lord Wilmore, ricco inglese che qualche volta si vede a Parigi, e che presentemente vi si trova; egli è conosciuto ugualmente dall’abate Busoni, prete siciliano di grande reputazione in Oriente, dove ha fatto moltissime buone opere».

Villefort replicò con l’ordine di prendere sopra questi due stranieri le informazioni più sollecite e più precise; l’indomani sera i suoi ordini erano eseguiti, ed ecco le informazioni che ricevette.

L’abate, che non era a Parigi che per un mese, abitava dietro Saint Sulpice, in una piccola casa composta di un sol piano e di un piano terreno: quattro camere, due in alto e due in basso, formavano tutta l’abitazione, di cui egli era l’unico inquilino. Le due camere al piano terra si componevano di una sala da pranzo con tavola, sedie, e credenza di noce, e di un salotto tinto in bianco senza ornamenti, senza tappeto, e senza orologio a pendolo. Si notava che l’abate si limitava agli oggetti di stretta necessità. È pur vero che preferiva abitare il primo piano composto di un salotto, tutto ricoperto di libri di teologia, e di pergamene, fra le quali lo si vedeva studiare, al dire del suo cameriere, per mesi interi, e in realtà era piuttosto una biblioteca che un salotto. Questo cameriere guardava i visitatori da una specie di feritoia, e allorché la loro figura gli era sconosciuta e non gli piaceva, rispondeva che il signor abate non era a Parigi; ciò contentava molti, sapendo che l’abate viaggiava spesso, e che qualche volta restava assente lungo tempo. Del resto che sia in casa, o no, che si trovi a Parigi o al Cairo, l’abate fa sempre beneficenza, e la feritoia serve da ruota alle elemosine che il cameriere distribuisce incessantemente a nome del suo padrone. Quanto all’altra camera, situata vicino alla biblioteca, era una camera da letto. Un letto senza tende, quattro sedie, e un canapè di velluto d’Utrecht giallo, formavano, con un inginocchiatoio, tutto il mobilio.

Circa lord Wilmore, abitava rue Fontaine-Saint-Georges. Era uno di quegli inglesi «touristes» che consumano tutta la loro fortuna in viaggi: prendeva in affitto e ammobiliato l’appartamento in cui abitava, e nel quale passava solo due ore nel giorno, e vi dormiva raramente. Una delle sue manie era di non volere assolutamente parlare la lingua francese, che però scriveva, si assicurava, con molta purezza.

Il giorno dopo in cui erano giunte queste preziose informazioni al procuratore del re, un uomo, che scendeva di carrozza all’angolo della rue Féron, venne a bussare a una piccola porta tinta di verde oliva, e domandò dell’abate Busoni.

«L’abate è uscito fin da questa mattina», rispose il cameriere.

«Potrei non contentarmi di questa risposta», disse il visitatore, «poiché vengo da parte di una persona, per la quale si è sempre in casa. Ma vogliate rimettere all’abate Busoni…»

«Vi ho già detto che non c’è», ribatté il cameriere.

«Allora, quando tornerà, consegnategli questa carta e questo foglio sigillato. Questa sera alle otto il signor abate sarà in casa?»

«Senza dubbio, a meno che non sia occupato nei suoi lavori, perché allora è come se fosse uscito.»

«Ritornerò dunque questa sera all’ora convenuta», riprese il visitatore, e si ritirò.

Infatti all’ora indicata, lo stesso uomo ritornò con la stessa carrozza, ma questa volta, invece di fermarsi all’angolo della rue Féron, si fermò davanti alla porta verde.

Bussò, gli fu aperto ed entrò. Ai segni di rispetto di cui fu prodigo il cameriere verso di lui, comprese che la lettera aveva fatto l’effetto desiderato.

«Il signor abate è in casa?»

«Sì, lavora nella sua biblioteca, ma aspetta il signore», rispose il servitore.

Lo straniero salì una scala abbastanza ripida, e davanti a una tavola, la cui superficie era inondata dalla luce di un gran paralume, mentre il resto dell’appartamento era nell’ombra, vide l’abate in abito ecclesiastico, con la testa coperta da una di quelle grandi cuffie sotto le quali nascondevano il cranio i saggi del medioevo.

«Ho l’onore di parlare all’abate Busoni?» domandò il visitatore.

«Sì, signore», rispose l’abate. «E voi siete la persona che il signor Boville, antico intendente delle prigioni, m’invia da parte del signor prefetto di polizia?»

«Precisamente, signore.»

«Uno degli ufficiali incaricati alla pubblica sicurezza di Parigi?»

«Sì, signore», rispose lo straniero, con una specie di esitazione, e soprattutto con un poco di rossore.

L’abate si accomodò i grandi occhiali che gli coprivano gli occhi, e si mise a sedere, facendo segno al visitatore di fare altrettanto.

«Vi ascolto, signore», disse l’abate con un accento italiano pronunciato.

«La missione di cui sono stato incaricato, signore», riprese il visitatore, calcando sopra ciascuna parola come se avessero fatto fatica a uscire, «è una missione confidenziale tanto per colui che la compie, che per colui per mezzo del quale si compie.»

L’abate s’inchinò.

«Sì», riprese lo straniero, «la vostra probità, signor abate, è tanto conosciuta dal prefetto di polizia, ch’egli, come magistrato, vuole sapere una cosa che importa a questa pubblica sicurezza a nome della quale sono stato eletto deputato: speriamo dunque, che non vi saranno né legami d’amicizia, né considerazioni umane che possano impegnarvi a nascondere la verità alla giustizia.»

«Purché, signore, le cose che vi interessano sapere non tocchino in alcun modo gli scrupoli della mia coscienza; sono prete, e i segreti della confessione devono rimanere fra me e la giustizia di Dio, e non fra me e la giustizia umana.»

«State tranquillo, signor abate, in ogni modo metteremo al sicuro la vostra coscienza.»

A queste parole, l’abate spostando il paralume, lo alzò dalla parte opposta, in modo che, illuminando il viso dello straniero, il suo rimaneva sempre nell’ombra.

«Perdonate, signor abate», disse l’inviato del prefetto di polizia, «ma questa luce mi stanca terribilmente la vista.»

L’abate abbassò il cartone verde.

«Ora, signore, vi ascolto; parlate.»

«Eccomi al fatto. Conoscete il signor conte di Montecristo?»

«Volete parlare del signor Zaccone, presumo?»

«Zaccone? Non si chiama dunque Montecristo?»

«Montecristo è il nome di una terra, o piuttosto di un’isola, e non il nome di famiglia.»

«Ebbene, sia, non discutiamo sulle parole, e poiché il signor Montecristo e il signor Zaccone sono lo stesso uomo…»

«Assolutamente lo stesso.»

«Parliamo del signor Zaccone.»

«Sia.»

«Vi domandavo se lo conoscete?»

«Molto bene.»

«Chi è?»

«È il figlio di un ricco armatore di Malta.»

«Sì, lo so bene, questo è quanto si dice, ma, capirete, la polizia non può contentarsi di un “si dice”.»

«Tuttavia», riprese l’abate, con un sorriso del tutto affabile, «quando questo “si dice” è la verità, bisogna bene che tutti se ne contentino, e che la polizia faccia come gli altri.»

«Ma siete sicuro di ciò che dite?»

«Come, se ne sono sicuro?»

«Faccio notare, signore, che non ho alcun sospetto sulla vostra buona fede. Vi dico, siete sicuro?»

«Ascoltate: ho conosciuto il signor Zaccone padre, e quando ero piccolo ho giocato un mucchio di volte con suo figlio nei cantieri.»

«Ma questo titolo di conte?»

«Sapete bene che si può comprarlo…»

«In Italia?»

«Dappertutto.»

«Ma queste ricchezze immense, a quanto si dice?»

«In quanto a ciò, immense è una parola grossa.»

«Quanto credete che possegga?»

«Avrà da centocinquanta a duecentomila lire di rendita.»

«Ah, ecco, è ragionevole», disse il visitatore, «ma si parlava di tre quattro milioni.»

«Duecentomila lire di rendita, fanno appunto un capitale di quattro milioni.»

«Ma si parlava di tre o quattro milioni di rendita.»

«Oh, non è credibile…»

«E voi conoscete la sua isola di Montecristo?»

«Certamente… Chiunque venga da Palermo, da Napoli, o da Roma in Francia per via mare, la conosce perché le è passato vicino e l’ha vista passando.»

«È un soggiorno incantevole, a quanto si assicura.»

«Non è che un semplice scoglio.»

«E perché dunque il conte ha comprato uno scoglio?»

«Per esser conte. In Italia per diventare conte, c’è ancora bisogno di una contea.»

«Avrete senza dubbio inteso parlare delle avventure giovanili del signor Zaccone?»

«Il padre?»

«No, il figlio.»

«Ecco dove cominciano le mie incertezze, perché lì ho perduto di vista il mio giovane amico.»

«Ha fatto la guerra?»

«Credo sia stato di leva.»

«In quale arma?»

«La marina.»

«Non siete il suo confessore?»

«No, signore; credo sia luterano.»

«Come luterano?»

«Dico credo, non affermo. D’altra parte, credevo che in Francia fosse stata stabilita la libertà dei culti.»

«Senza dubbio, per cui non ci occupiamo in questo momento delle sue credenze, ma delle sue azioni; in nome del signor prefetto di polizia, v’intimo di dire tutto ciò che sapete.»

«Egli passa per un uomo molto caritatevole. A Roma è stato fatto cavaliere del Cristo, per gli eminenti servizi resi ai cristiani d’Oriente; e ha cinque o sei croci per servizi resi ai principi o agli Stati.»

«E non le porta?»

«No, ma ne va orgoglioso, dice di amare più le ricompense date ai benefattori dell’umanità, che quelle accordate ai distruttori degli uomini.»

«È dunque una specie di quacchero.»

«Precisamente.»

«Si sa se abbia amici?»

«Sì, perché ha per amici tutti quelli che lo conoscono.»

«Ma insomma avrà qualche nemico?»

«Uno solo.»

«Come si chiama?»

«Lord Wilmore.»

«Dov’è?»

«In questo momento si trova a Parigi.»

«E può darmi informazioni?»

«Preziose. Era in India nello stesso tempo di Zaccone.»

«Sapete dove abiti?»

«Da qualche parte in Chaussée d’Antin; ma non so né il numero, né la strada.»

«Siete in cattivi rapporti con questo inglese!»

«Io amo Zaccone, egli lo detesta, perciò siamo freddi per questa ragione.»

«Signor abate, credete che il conte di Montecristo sia mai stato in Francia, prima di questo viaggio a Parigi?»

«Posso assicurarvelo: non c’è mai stato. Si è rivolto a me, sei mesi fa, per avere le informazioni che desiderava. Ma siccome non sapevo io stesso quando sarei tornato a Parigi, gli ho fatto conoscere il signor Cavalcanti.»

«Andrea?»

«No, Bartolomeo, il padre.»

«Benissimo, signore; non ho più da chiedervi che una cosa, e v’intimo, in nome dell’onore, dell’umanità e della religione, di rispondermi senza giri di parole.»

«Dite pure, signore.»

«Sapete con quale scopo il signore di Montecristo ha comprato una casa ad Auteuil?»

«Certamente, perché me lo ha detto.»

«Con quale scopo, signore?»

«Quello di fondarvi un ospizio per malati mentali, del genere di quello fondato a Palermo dal barone Pisani. Conoscete questo ospizio?»

«Di fama sì, signore.»

«È una istituzione magnifica.»

E con questo, l’abate salutò lo straniero come per fargli capire che voleva riprendere il lavoro interrotto. Il visitatore sia che capisse il desiderio dell’abate, sia che fosse al termine delle sue domande, si alzò a sua volta. L’abate lo ricondusse fino alla porta: «Voi fate delle splendide elemosine», disse il visitatore, «e sebbene si dica siate ricco, oserei offrirvi qualche cosa per i vostri poveri… Sdegnereste la mia offerta?»

«Grazie, signore, non c’è che una sola cosa di cui io sia geloso in questo mondo, ed è che la beneficenza la devo pagare di persona…»

«Ma pure…»

«Questa è una decisione irrevocabile. Ma cercate, signore, e troverete: purtroppo sul sentiero di ciascun ricco, si urta in molte miserie!»

L’abate salutò un’ultima volta aprendo la porta: lo straniero salutò anch’egli e uscì. La carrozza lo condusse direttamente dal signor Villefort. Un’ora dopo, la carrozza uscì nuovamente, e questa volta si diresse verso la rue Fontaine-Saint-George: là abitava lord Wilmore.

Lo straniero aveva scritto a lord Wilmore per domandargli un convegno che questi aveva fissato per le dieci. Così, siccome l’inviato del prefetto di polizia era giunto dieci minuti prima delle dieci, gli fu risposto che lord Wilmore, l’esattezza e la puntualità in persona, non era ancora rientrato, ma che sarebbe rientrato al battere delle dieci.

Il visitatore aspettò nella sala, che nulla aveva di notevole, ed era come tutte le sale degli appartamenti ammobiliati. Un caminetto con due vasi di Sèvres moderni, un orologio a pendolo con un Amore che tendeva l’arco, uno specchio in due parti; da ciascun lato di questo specchio un’incisione, una rappresentante Omero cieco condotto da una Musa, l’altra Belisario questuante; una carta grigia sul muro, un tavolo ricoperto da un tappeto rosso stampato in nero: tale era la sala di lord Wilmore. Era illuminata da due globi di vetro appannato che non spandevano che una debolissima luce, disposta espressamente per gli occhi stanchi dell’inviato del signor prefetto di polizia. In capo a dieci minuti suonarono le dieci; al quinto colpo, la porta si aprì, e comparve lord Wilmore.

Era un uomo piuttosto alto, aveva le basette rade e rosse, la pelle bianca, e i capelli biondi grigiastri; era vestito con tutta l’eccentricità inglese, cioè, un abito turchino coi bottoni d’oro e col colletto alto e imbottito, un gilè di cachemire bianco, e un pantalone di nanchino, di sette centimetri troppo corto, ma a cui i sottopiedi della stessa stoffa impedivano di risalire fino alle ginocchia.

La sua prima parola entrando fu: «Sapete, signore, che io non parlo il francese».

«So almeno che non amate parlare la nostra lingua», ribatté l’inviato del prefetto di polizia.

«Ma potete parlarla», riprese lord Wilmore, «perché se non la parlo, la capisco.»

«E io», replicò il visitatore, cambiando idioma, «parlo abbastanza facilmente l’inglese per sostenere la conversazione in questa lingua. Non v’incomodate dunque, signore.»

L’inviato del prefetto di polizia gli presentò la lettera di presentazione.

«Ah!» esclamò lord Wilmore con quella freddezza che non appartiene che ai figli più puri d’Inghilterra, poi lesse con tutta la flemma anglicana, e quando ebbe terminato: «Capisco», disse in inglese, «capisco benissimo».

Allora cominciarono le domande, che furono pressappoco le stesse di quelle rivolte all’abate Busoni. Ma siccome lord Wilmore, nemico del conte di Montecristo, non aveva la stessa discrezione dell’abate, furono molto più estese. Raccontò la gioventù di Montecristo, che, secondo lui, era entrato al servizio all’età di dieci anni presso uno di quei piccoli sovrani d’India che fanno la guerra agl’inglesi; là lo aveva incontrato per la prima volta, e avevano combattuto l’uno contro l’altro. In questa guerra Zaccone era stato fatto prigioniero, e mandato in Inghilterra, adibito al lavoro sui ponti delle navi e da una di esse era fuggito a nuoto. Allora aveva incominciato i suoi duelli, le sue avventure… Durante l’insurrezione della Grecia, aveva servito nelle file dei greci. Mentre era al loro servizio, aveva scoperto una miniera di argento nelle montagne della Tessaglia, ma si era ben guardato dal parlarne con chicchessia. Dopo la battaglia di Navarino, e quando il governo greco fu consolidato, domandò al re Ottone un privilegio per lo scavo di quella miniera, e gli fu accordato. Di là venne quell’immensa fortuna che poteva, secondo lord Wilmore, calcolarsi a due milioni di rendita, la quale però poteva d’improvviso cessare, se la miniera si fosse esaurita.

«Ma», domandò il visitatore, «sapete perché sia venuto in Francia?»

«Vuole speculare sulle ferrovie», disse lord Wilmore, «e poi, essendo un valente chimico, e un fisico non meno distinto, ha scoperto un nuovo telegrafo di cui cerca l’applicazione.»

«Quanto spenderà circa ogni anno?» domandò l’inviato.

«Cinque o seicentomila franchi tutt’al più», rispose lord Wilmore. «È avaro.»

Era evidente che l’odio faceva parlare l’inglese, e che, non sapendo che cosa rimproverare al conte, gli rimproverava la sua avarizia.

«Sapete qualche cosa della sua casa di Auteuil?»

«Sì, certamente.»

«Ebbene che ne sapete?»

«Domandate con quale scopo l’ha comprata?»

«Sì.»

«Ebbene, il conte è uno speculatore che certamente si rovinerà in esperimenti e utopie: pretende che ad Auteuil, nelle vicinanze della casa che ha comprato, vi sia una corrente di acqua minerale, che può rivaleggiare con le acque di Bagnères-de-Luchon e di Cauterets. Egli vuol fare del suo acquisto una “Badhaus”, come dicono in Germania: ha già due o tre volte zappato tutta la terra del giardino, per ritrovare la famosa corrente d’acqua; e siccome non l’ha potuta scoprire, vedrete che in breve comprerà tutte le case che circondano la sua. Adesso, per il bene che gli voglio, spero che con la sua ferrovia, col suo telegrafo elettrico, o con la sua speculazione possa rovinarsi. Lo aspetto al varco per godere della sua sconfitta che non può tardare a venire, o presto o tardi!»

«E perché l’odiate?» domandò il visitatore.

«L’odio», rispose lord Wilmore, «perché passando in Inghilterra, ha sedotto la moglie di uno dei miei amici.»

«Ma se l’odiate, perché non cercate di vendicarvi di lui?»

«Mi sono già battuto tre volte col conte; la prima volta alla pistola, la seconda alla spada, la terza alla sciabola.»

«E quale fu il risultato di questi duelli?»

«La prima volta mi ha rotto un braccio, la seconda mi ha traversato il polmone, la terza mi ha fatto questa ferita.»

L’inglese voltò il colletto della camicia che gli saliva fino alle orecchie, e mostrò la cicatrice di una recente ferita.

«Per cui ce l’ho con lui sempre più» ripeté l’inglese, «ed egli certamente non morirà che per mia mano.»

«Ma», osservò l’inviato, «a me sembra che non abbiate scelto la via più giusta per ucciderlo.»

«Vado tutti i giorni al bersaglio, e prendo lezioni da Grisier ogni due giorni!» esclamò l’inglese.

Ciò era quanto voleva sapere il visitatore, o piuttosto tutto ciò che gli sembrava sapesse l’inglese. Egli dunque si alzò, e, dopo avere salutato lord Wilmore, che gli rispose con quella rigidezza e compitezza propria degli inglesi, si ritirò.

Dal suo canto lord Wilmore, dopo avere sentito chiudersi la porta di strada, rientrò nella camera da dove, con due rapidi tocchi, perdette i capelli biondi, le basette rosse, la falsa mascella, e la cicatrice, per ritrovare i capelli neri, il colorito pallido, e i denti di perla del conte di Montecristo.

È vero che il signor Villefort, e non l’inviato del prefetto di polizia, fu colui che rientrò in casa del signor Villefort. Il procuratore si era alquanto calmato con quella doppia visita, la quale, benché nulla gli offrisse di rassicurante, non gli procurò neppure nuove inquietudini. Per la prima volta, dopo il pranzo d’Auteuil, dormì un poco più tranquillo.

69. La festa da ballo

Si era arrivati alle più calde giornate del mese di luglio, allorché venne quel sabato in cui doveva aver luogo il ballo del signor Morcerf. Erano le dieci di sera: i grandi alberi del giardino del palazzo del conte si innalzavano con vigore sotto un cielo ove scorrevano, in un fondo azzurro disseminato di stelle d’oro, gli ultimi vapori di una tempesta che aveva minacciosamente mormorato tutta la giornata.

Nelle sale del pianterreno si udiva il rumore della musica e lo strisciare del valzer, mentre i raggi luminosi delle lampade passavano attraverso le aperture delle persiane. Nel giardino si scorgevano una decina di servitori, ai quali la padrona di casa, rassicurata dal tempo che sempre più si rasserenava, aveva dato ordine di preparare la cena.

Sino a quel momento si era esitato se la cena dovesse farsi nella sala da pranzo, o sotto una lunga tenda innalzata sul prato. Quel bel cielo azzurro, tutto sparso di stelle, aveva risolto il problema a favore della tenda e del prato. Si illuminavano i viali del giardino con lampioni a colori, come si usa in Italia, e si sovraccaricava di candele e di fiori la tavola, come si usa in tutti i Paesi in cui si intende il vero lusso della tavola, rarissimo quando si vuole ottenerlo completo.

Nell’istante in cui la contessa Morcerf rientrava nelle sale, dopo aver dato gli ultimi ordini, queste cominciavano a riempirsi d’invitati attirati dalla graziosa ospitalità della contessa, molto più che dalla distinta posizione del conte; perché si era certi che questa festa avrebbe offerto, grazie al buon gusto di Mercedes, qualche particolare degno di essere raccontato, o, al bisogno, imitato.

La signora Danglars, cui gli avvenimenti che abbiamo narrato avevano ispirato una profonda inquietudine, esitava ad andare dalla signora Morcerf, quando la mattina la sua carrozza incontrò quella di Villefort, il quale le aveva fatto un segno, le due carrozze si erano avvicinate, e dai finestrini: «Andate dalla signora Morcerf, non è vero?» aveva domandato il procuratore del re.

«No!» aveva risposto la signora Danglars. «Soffro troppo.»

«Avete torto, sarebbe importante che vi ci vedessero.»

«Ebbene, vi andrò.»

E le due carrozze ripresero il loro corso in senso opposto.

La signora Danglars era dunque venuta, non solamente bella della sua bellezza, ma anche abbagliante per il lusso: entrava da una porta, nel momento in cui Mercedes entrava dall’altra. La contessa mandò avanti Albert a incontrare la signora Danglars; Albert si avanzò, fece alla baronessa i complimenti meritati per la sua toilette, e le offrì il braccio per accompagnarla.

Albert guardò intorno a sé.

«Voi cercate mia figlia?» disse sorridendo la baronessa.

«Lo confesso… Avreste avuto la crudeltà di non condurla?…»

«Rassicuratevi, ha incontrato la signorina Villefort, e ne ha preso il braccio, osservate, ci seguono tutte e due vestite di bianco, l’una con un mazzetto di camelie, l’altra con un mazzetto di nontiscordardime; ma ditemi dunque…»

«Chi cercate voi pure?» domandò sorridendo Albert.

«Questa sera non avete con voi il conte di Montecristo?»

«Diciassette!» esclamò Albert.

«Che intendete dire?»

«Voglio dire che così va bene», rispose il visconte ridendo, «e che voi siete la diciassettesima persona che mi fa la stessa domanda. Fortunato conte!… Voglio fargli i miei complimenti.»

«E rispondete a tutti come a me?»

«Ah, è vero, non vi ho risposto… Tranquillizzatevi, signora, avremo l’uomo alla moda, siamo fra i suoi privilegiati.»

«Eravate all’Opéra ieri sera?»

«No.»

«Lui c’era.»

«Davvero? L’eccentrico ha fatto qualche follia?»

«Può farsi vedere senza farne? Ballava la Essler nel Diavolo zoppo; la principessa greca era in estasi. Dopo il ballo, ha infilato un magnifico anello di brillanti nel nastro che legava il suo mazzetto di fiori, e lo ha gettato alla graziosa ballerina, la quale, al terzo atto, per fargli onore, si è presentata col suo anello al dito. E la sua principessa greca verrà questa sera?»

«No, bisogna farne a meno: la sua posizione nella casa del conte non è del tutto ufficiale…»

«Basta lasciatemi qui e salutate la signora Villefort», disse la baronessa, «vedo che muore dal desiderio di parlarvi.»

Albert salutò la signora Danglars, e s’avvicinò alla signora Villefort: «Scommetto», disse Albert anticipandola, «che so ciò che volete dirmi…»

«Sentiamo», disse la signora Villefort.

«Se indovino, me lo direte?»

«Sì.»

«Stavate per chiedermi se veniva il conte di Montecristo.»

«Niente affatto. Non è di lui che mi occupo in questo momento. Volevo chiedervi se avete notizie di Franz.»

«Sì, da ieri.»

«Che vi diceva?»

«Che partiva contemporaneamente alla lettera.»

«Bene. Ora il conte?…»

«Il conte verrà, state tranquilla.»

«Sapevate che Montecristo ha un altro nome?»

«No, non lo sapevo.»

«Montecristo è il nome di un’isola, ma egli ha anche un nome di famiglia.»

«Non l’ho mai sentito dire, da lui.»

«Io sono più informata di voi, si chiama Zaccone.»

«È possibile.»

«So anche che è maltese.»

«Ciò pure è possibile.»

«Figlio di un armatore.»

«Dovreste raccontare simili cose ad alta voce, otterreste un grandissimo successo!»

«Ha servito nelle Indie, possiede una miniera d’argento nella Tessaglia, e viene a Parigi per fondare uno stabilimento di acque minerali ad Auteuil.»

«Ebbene», osservò Morcerf, «ecco delle notizie! Mi permettete di divulgarle?»

«Sì, ma a poco a poco, a una a una, senza dire che vengono da me.»

«E perché?»

«Perché è quasi un segreto sottratto.»

«A chi?»

«Alla polizia.»

«Allora queste notizie da chi le avete sapute?»

«Ieri sera, in casa del prefetto. Parigi si è stupita, capirete bene, alla vista di un lusso così straordinario, e la polizia ha preso le sue informazioni.»

«Ma bene! Non sarebbe mancato altro che avessero arrestato il conte come vagabondo, sotto il pretesto che è troppo ricco!»

«Era quanto poteva accadergli, se le informazioni non fossero state così favorevoli.»

«Povero conte! Egli non pensa neppure al pericolo che ha corso.»

«Lo credo bene.»

«Allora bisogna avvertirlo.»

«Al suo arrivo non mancherò.»

In quel momento un bel giovane dagli occhi vivi, i capelli neri, i baffi lucidi, venne a salutare rispettosamente la signora Villefort. Albert gli tese la mano.

«Signora», disse, «ho l’onore di presentarvi il signor Maximilien Morrel, capitano degli Spahis, uno dei nostri buoni e soprattutto bravi ufficiali.»

«Ho già avuto il piacere d’incontrare il signore ad Auteuil, in casa del conte di Montecristo…» rispose la signora Villefort, voltandosi con una marcata freddezza.

Questa risposta, e soprattutto il tono con cui fu fatta, strinsero il cuore del povero Morrel, ma gli era preparato un compenso: nel voltarsi, vide sul limite della porta una bella e bianca figura, i suoi grandi occhi turchini, senza un’apparente espressione, erano fissi su di lui, mentre le labbra si posavano su un mazzetto di nontiscordardime. Questo saluto fu così bene inteso, che Morrel, con la stessa espressione, avvicinò anch’egli il fazzoletto alla bocca: i due innamorati il cui cuore batteva fortemente sotto l’apparente calma dei visi, separati l’uno dall’altra dalla vastità della sala dimenticarono un momento se stessi, o per dir meglio, dimenticarono la folla in questa muta contemplazione. Sarebbero potuti restar così per lungo tempo perduti l’una nell’altro, senza che nessuno s’accorgesse del loro oblio. Ma entrava appunto il conte di Montecristo.

Lo abbiamo già detto, fosse prestigio fittizio o naturale, il conte attirava l’attenzione generale in qualunque luogo si presentasse. Non era il suo abito, irreprensibile nel taglio, ma semplice e senza decorazioni, né il gilè bianco senza alcun ricamo, né il calzone che cadeva su un piede di forma delicata, ad attirare l’attenzione, ma il colorito pallido, i capelli neri ondulati, il viso tranquillo e sereno, l’occhio profondo e malinconico, la bocca disegnata con finezza meravigliosa, e che prendeva tanto facilmente l’espressione dell’alto sdegno: tutti gli occhi poco dopo erano fissi su di lui.

Vi potevano essere uomini più belli, ma non ve ne potevano essere più interessanti (ci sia permessa questa espressione). Tutto nel conte voleva dire qualche cosa, e aveva valore: l’abitudine del pensare aveva dato ai lineamenti, all’espressione del viso e al più insignificante dei suoi gesti, grazia e fermezza incomparabili. E poi la società parigina è così strana che forse non si sarebbe fatto attenzione a tutto ciò, se non vi fosse stata, sotto a tutto questo, una misteriosa storia, dorata da un’immensa ricchezza.

Entrò nella sala sotto gli sguardi di tutti e scambiando brevi saluti, sino alla signora Morcerf, che in piedi davanti al caminetto ornato di fiori, lo aveva visto comparire da uno specchio posto di fronte alla porta, e si era preparata a riceverlo. Dunque si voltò verso di lui, con un sorriso composto, nello stesso momento che egli s’inchinava davanti a lei. Senza dubbio pensò invece che sarebbe stata lei a rivolgergli la parola, ma tutt’e due restarono muti, tanto sembrava loro indegna d’entrambi una finzione; e dopo essersi scambiato il saluto, Montecristo si diresse verso Albert, che gli veniva incontro tendendogli la mano.

«Avete visto mia madre?» domandò Albert.

«Ho avuto l’onore di salutarla», rispose il conte, «ma non ho visto il vostro signor padre.»

«Eccolo laggiù, che parla di politica in quel piccolo gruppo di grandi celebrità.»

«Davvero?» disse Montecristo. «Quei signori che vedo sono celebrità? Non l’avrei pensato. E di quale specie? Vi sono delle celebrità di ogni specie, come sapete.»

«Primo uno scienziato, quel signore grande e secco; ha scoperto nella campagna romana una specie di lucertola che ha una vertebra in più delle altre, ed è tornato per informare l’istituto di questa scoperta. La cosa fu per lungo tempo contestata, ma alla fine il vantaggio è rimasto all’uomo secco. La vertebra aveva fatto un gran fracasso nel mondo sapiente, il signore grande e secco, che era solamente cavaliere della Legion d’Onore, fu nominato ufficiale.»

«Alla buon’ora!» esclamò Montecristo. «Ecco una croce che mi sembra data saggiamente; se ritrova una seconda vertebra, lo faranno commendatore!»

«È probabile», concordò Morcerf.

«E quell’altro, che ha avuto la singolare idea di imbacuccarsi in un abito turchino orlato di verde, che può mai essere?»

«Non è sua l’idea di paludarsi in quell’abito ma dello Stato che, come sapete, è sempre poco artista, e, volendo dare un’uniforme agli accademici, pregò David di disegnare loro un abito.»

«Davvero? Così vestito quel signore è un accademico?»

«Da otto giorni fa parte della dotta assemblea.»

«E qual è il suo merito, la sua specialità?»

«La sua specialità? Credo conficchi gli aghi nella testa dei conigli, faccia mangiare della robbia ai polli, ed estragga con ossa di balena il midollo spinale ai cani.»

«E per questo è dell’Accademia delle Scienze?»

«No, dell’Accademia di Francia.»

«Ma che cosa ha dunque a che fare l’Accademia di Francia con tutto questo?»

«Ve lo dirò, sembra…»

«Che queste esperienze abbiano fatto fare un gran passo alla scienza, senza dubbio…»

«No, ma che scriva con un bello stile.»

«Ciò deve», osservò Montecristo, «lusingare enormemente l’amor proprio dei cani ai quali fu tolto il midollo spinale!»

Albert si mise a ridere.

«E quell’altro?» domandò il conte.

«L’abito turchino fiordaliso?»

«Sì.»

«È un collega del conte, quello che si è opposto più calorosamente alla proposta che la Camera dei Pari abbia un’uniforme. Ha avuto un gran successo all’assemblea su questo argomento; era in pessima luce presso i giornali liberali, ma la sua nobile opposizione ai desideri della corte, lo ha riconciliato con loro… Si dice che verrà nominato ambasciatore.»

«E quali sono i suoi titoli per essere divenuto Pari?»

«Ha scritto due o tre opere comiche, ha preso quattro o cinque azioni al “Siècle”, e ha votato a favore del governo per cinque o sei anni.»

«Bravo visconte», disse Montecristo ridendo, «voi siete uno spiritoso cicerone… Ora mi farete un favore, non è vero?»

«Quale?»

«Non mi presenterete a quei signori, e se domandano essermi presentati, me lo eviterete.»

In quel momento il conte sentì una mano posarsi sul suo braccio; si voltò, era Danglars.

«Siete voi, barone?» diss’egli.

«Perché mi chiamate barone? Sapete bene che non do importanza al mio titolo. Non sono come voi, visconte, voi ci tenete, non è vero?»

«Certamente», replicò Albert, «perché se non fossi visconte, non sarei più niente, mentre voi potreste sacrificare il vostro titolo di barone, e restereste sempre milionario.»

«Che è il più bel titolo, sotto il governo di luglio.»

«Disgraziatamente», disse Montecristo, «non si è sempre milionari a vita, come si può essere barone, Pari di Francia, o accademico, ne facciano fede i milionari Frank e Poulmann di Francoforte che hanno fatto bancarotta.»

«Davvero?» disse Danglars impallidendo.

«Sulla mia parola, ho ricevuto la notizia questa sera da un corriere: avevo qualche cosa, circa un milione sul loro conto ma, avvertito in tempo, ho fatto esigere il rimborso circa un mese fa.»

«Mio Dio!» esclamò Danglars. «Hanno spiccato una tratta su di me per duecentomila franchi.»

«Ebbene, siete avvisato: la loro firma non vale più che il cinque percento.»

«Sì, ma io sono stato avvertito troppo tardi… Ho fatto onore alla loro firma.»

«Bravo!» esclamò Montecristo. «Ecco altri duecentomila franchi che sono andati a raggiungere…»

«Zitto», replicò Danglars, «non parlate di questi affari…» e, avvicinandosi a Montecristo, «particolarmente in presenza del signor Cavalcanti figlio», aggiunse il banchiere, che, pronunciando queste parole, si volse sorridendo dalla parte del giovane.

Morcerf aveva lasciato il conte per parlare a sua madre. Danglars lo lasciò per salutare Cavalcanti figlio. Montecristo si ritrovò per un momento solo. Frattanto il caldo cominciava a divenire eccessivo. I camerieri circolavano per le sale con vassoi carichi di frutta e di gelati. Montecristo si asciugò col fazzoletto il viso bagnato di sudore, ma quando il vassoio gli passò davanti, non prese nulla per rinfrescarsi.

La signora Morcerf non lo perdeva di vista, vide passare il vassoio e notò il suo rifiuto: afferrò perfino il movimento che fece nell’allontanarsi.

«Albert», disse, «avete osservato una cosa?»

«Quale, madre mia?»

«Che il conte non ha mai voluto accettare un pranzo dal signor Morcerf.»

«Sì, ma ha accettato una colazione da me, e grazie a questa colazione ha fatto il suo ingresso nella società.»

«Da voi non è dal conte», mormorò Mercedes, «e da quando è qui, l’ho osservato…»

«E allora?»

«Non ha ancora preso nulla.»

«Il conte è molto sobrio.»

Mercedes sorrise tristemente.

«Riavvicinatevi a lui», suggerì, «e al primo vassoio che passa, insistete.»

«E perché, madre mia?»

«Fatemi questo piacere, Albert», disse Mercedes.

Albert baciò la mano di sua madre, e andò accanto al conte. Passò un altro vassoio carico come i precedenti: lei vide Albert insistere presso il conte, prendere anche un gelato e presentarglielo, ma il conte rifiutare ostinatamente.

«Ebbene», disse, «vedete, ha rifiutato.»

«Ma in cosa può preoccuparvi questo?»

«Lo sapete, Albert, le donne sono singolari. Avrei visto con piacere il conte prendere qualche cosa in casa mia, fosse anche stato un solo grano di melagrana. Del resto forse non saprà adattarsi ai costumi francesi, forse preferirà qualche altra cosa.»

«Mio Dio, no, l’ho visto in Italia mangiare di tutto; senza dubbio questa sera sarà indisposto.»

«Poi», aggiunse la contessa, «avendo sempre abitato nei climi ardenti, forse sarà meno sensibile di un altro a questo caldo.»

«Non credo, poiché si lagnava di sentirsi soffocare. Domandava anzi perché, avendo già aperte le finestre, non aprano pure le persiane.»

«Infatti questo è il mezzo per assicurarmi se questa astinenza è un piano prestabilito.»

E uscì dalla sala.

Un momento dopo si aprirono le persiane e si poté, attraverso i gelsomini e le clematidi che tappezzavano le finestre, vedere tutto il giardino illuminato con lanterne, e la cena imbandita sotto una tenda. Ballerini e ballerine, giocatori e conversatori, mandarono un grido di gioia, tutti respiravano con delizia l’aria che entrava a torrenti.

Nello stesso punto ricomparve Mercedes, più pallida di quando era uscita, ma con quella fermezza ch’era in lei notevole in certe occasioni. Andò direttamente al gruppo di cui suo marito era il centro.

«Non trattenete questi signori, signor conte», disse, «preferiranno, se non giocano, respirare nel giardino che soffocare in questa sala.»

«Ah, signora», rispose un vecchio generale, molto galante, che nel 1809 aveva cantato Nel partire per la Siria, «non andremo soli in giardino.»

«Sia», annuì Mercedes, «vi darò il buon esempio.»

E voltandosi verso Montecristo.

«Signor conte», disse, «fatemi l’onore di offrirmi il braccio.»

Il conte quasi vacillò a queste semplici parole; poi guardò un momento Mercedes, un momento che ebbe la rapidità del lampo, eppure sembrò alla contessa che durasse un secolo, tanti pensieri aveva Montecristo espressi in quello sguardo. Offrì il braccio alla contessa, che vi si appoggiò, o, per meglio dire, lo sfiorò con la sua piccola mano, ed entrambi discesero dai gradini dalla scalinata. Dietro a essi, e per l’altra parte della scalinata si lanciarono nel giardino, con le più rumorose esclamazioni di piacere, una ventina d’invitati.

70. Il pane e il sale

La signora Morcerf passò col suo compagno sotto un arco di foglie venendo da un viale di tigli che conduceva a una serra.

«Faceva troppo caldo nella sala, non è vero, signor conte?» gli disse.

«Sì, signora, è stata un’eccellente idea la vostra di fare aprire le porte e le persiane.»

Nel pronunciare queste parole il conte s’accorse che la mano di Mercedes tremava.

«Ma voi», osservò, «con questa veste leggera e senz’altro al collo che questa sciarpa di velo, non avrete freddo?»

«Sapete dove vi porto?» domandò la contessa senza rispondere alla domanda di Montecristo.

«No, signora, ma, lo vedete, non faccio resistenza.»

«A quella serra che vedete là, in fondo al viale.»

Il conte guardò Mercedes come per interrogarla: ma lei continuò il cammino senza dir parola, e Montecristo divenne muto. Arrivarono alla serra ricolma di frutti magnifici, che al principio di luglio giungono alla loro maturità in questa temperatura sempre calcolata per sostituire il calore del sole. La contessa lasciò il braccio di Montecristo, e colse un grappolo di uva moscatella.

«Prego, signor conte», lo invitò, con un sorriso fatto più triste da due lacrime che le spuntavano dagli occhi, «prendete, la nostra uva di Francia non è paragonabile, lo so, alle vostre di Sicilia e di Cipro, ma sarete indulgente col nostro debole sole del Nord.»

Il conte s’inchinò, e fece un passo indietro.

«La rifiutate?» disse Mercedes con voce tremante.

«Signora» rispose Montecristo, «vi prego umilmente di scusarmi, ma non mangio mai uva.»

Mercedes lasciò cadere il grappolo sospirando.

Una pesca magnifica pendeva da una spalliera vicina, riscaldata pure dal calore artificiale della stufa. Mercedes si avvicinò al frutto vellutato e lo colse.

«Allora prendete questa pesca», insistette.

Ma il conte fece lo stesso gesto di rifiuto.

«Oh, ancora!» sospirò lei, con accento così doloroso da potersi capire che soffocava un singhiozzo. «Sono davvero sfortunata…»

Un lungo silenzio seguì questa scena; la pesca, come il grappolo d’uva, era rotolata al suolo.

«Signor conte», riprese Mercedes, guardando Montecristo con occhio supplichevole, «vi è un commovente costume in Arabia che fa eternamente amici quelli che hanno fra loro diviso il pane e il sale sotto il medesimo tetto.»

«Lo conosco, ma noi siamo in Francia e non in Arabia; e in Francia non vi è divisione di pane e di sale, come non vi sono amicizie eterne.»

«Ma infine», continuò la contessa palpitante con gli occhi fissi in quelli di Montecristo, del quale riafferrava il braccio con ambo le mani, «noi siamo amici, non è vero?»

Il sangue affluì al cuore del conte, che divenne pallido come la morte, poi rifluendo dal cuore alla gola, ne colorì le guance; gli occhi nuotarono nel vago per qualche secondo, come quelli di un uomo colpito da improvviso bagliore.

«Certamente che siamo amici, signora», replicò egli. «E d’altra parte perché non dovremmo esserlo?»

Questo convegno era talmente diverso da quello che desiderava la madre d’Albert, che si volse per esalare un sospiro che rassomigliava a un gemito.

«Grazie», disse e si rimise a camminare.

«Signore», riprese, dopo dieci minuti di silenziosa passeggiata, «è vero che avete visto tanto, tanto viaggiato, e tanto sofferto?»

«Ho sofferto moltissimo, signora», rispose Montecristo.

«Ma ora siete felice?»

«Senza dubbio, nessuno può dire che io mi lamenti.»

«E la vostra felicità presente vi fa l’anima più dolce?»

«No, eguaglia la mia passata infelicità.»

«Non siete sposato?» domandò la contessa.

«No, non sono sposato», rispose Montecristo fremendo. «Chi ha potuto dirvi una cosa simile?»

«Non mi fu detto, ma più di una volta siete stato visto condurre all’Opéra una bella e giovane donna.»

«È una schiava che comprai a Costantinopoli, la figlia di un principe, che tengo con me come una figlia, non avendo altre affezioni in questo mondo.»

«Vivete dunque solo?»

«Vivo solo.»

«Non avete sorelle… figli… padre?»

«Non ho alcuno.»

«Come potete vivere così, senza nessun vincolo, senza una donna…?»

«Non è colpa mia, signora. A Malta amavo una donna, e stavo per sposarla, quando sopraggiunse la guerra e mi portò lontano da lei, rapito come da un turbine. Credevo che lei mi amasse abbastanza per aspettarmi, per restarmi fedele sino alla tomba. Quando ritornai era maritata. Questa è la storia di tutti gli uomini che sono passati per i vent’anni: avevo forse il cuore più debole degli altri, e ho sofferto più di quello che altri avrebbero fatto al mio posto.»

La contessa si fermò un momento come se avesse avuto bisogno di fermarsi per respirare.

«Sì», disse, «e quest’amore vi è rimasto nel cuore… Non si ama davvero che una sola volta… E avete mai più rivista quella donna?»

«Mai!»

«Mai?»

«Non sono più ritornato nel Paese dove lei stava.»

«A Malta?»

«Sì, a Malta.»

«Dunque, è a Malta?»

«Esatto.»

«E le avete perdonato quanto vi fece soffrire?»

«A lei sì.»

«Ma a lei soltanto? Odiate sempre quelli che vi hanno diviso da lei?»

«No… Perché dovrei odiarli?»

La contessa si pose di fronte a Montecristo, e cogliendo un altro grappolo d’uva: «Prendete», disse.

«Non mangio mai uva, signora.»

La contessa gettò il grappolo nel cespuglio più vicino, con un gesto di dispetto.

«È inflessibile!» mormorò.

Montecristo restò impassibile come se il rimprovero non fosse stato diretto a lui. Albert accorreva in quel momento.

«Oh, madre mia!» esclamò. «Una gran disgrazia!»

«Che cosa è accaduto?» domandò la contessa allarmata e scuotendosi, come se dopo il sogno fosse giunta la realtà, «una disgrazia, avete detto? Infatti poteva accadere!»

«Il signor Villefort è qui.»

«Ebbene?»

«Viene a cercare sua moglie e sua figlia.»

«E perché?»

«Perché la marchesa di Saint-Méran è giunta a Parigi, portando la notizia che il signor di Saint-Méran è morto alla prima posta lasciando Marsiglia. La signora Villefort ch’era molto allegra, non voleva né comprendere né credere a questa disgrazia; ma la signorina Valentine, alle prime parole, per quante cautele avesse preso suo padre, ha indovinato tutto: questo colpo l’ha colpita come un fulmine, ed è caduta svenuta.»

«E che cos’è il conte di Saint-Méran per la signorina Villefort?» chiese il conte.

«Suo nonno materno. Veniva per concludere il matrimonio di sua nipote con Franz.»

«Davvero! Ecco il matrimonio di Franz rinviato… Ah, perché Saint-Méran non è anche nonno della signorina Danglars!»

«Albert! Albert!» ribatté la signora Morcerf in tono di rimprovero. «Che dite? Conte, voi, per cui ha tanta considerazione, ditegli dunque che non sono cose da pensarsi queste!»

Lei fece qualche passo avanti. Montecristo la guardò così stranamente, e con così affettuosa ammirazione, che lei ritornò indietro, gli prese la mano, mentre stringeva quella del figlio, e unendole entrambe: «Noi siamo amici, non è vero?» domandò.

«Vostro amico, signora, non ho questa pretesa», rispose il conte. «In ogni caso sono sempre vostro rispettosissimo servitore.»

La contessa si allontanò con un inesprimibile stringimento di cuore, e, prima che avesse fatto dieci passi, il conte la vide portarsi il fazzoletto agli occhi.

«C’è stato qualche screzio con mia madre?» domandò Albert meravigliato.

«Al contrario», rispose il conte, «avete sentito, siamo amici.»

Rientrarono nella sala che era stata allora lasciata da Valentine, dal signore e dalla signora Villefort. È superfluo aggiungere che Morrel partì dopo di loro.

71. La signora di Saint-Méran

Una scena macabra in casa del signor Villefort. Dopo la partenza delle due signore per la festa da ballo, a cui tutte le insistenze della signora Villefort non avevano potuto convincere il marito ad accompagnarla, il procuratore del re, secondo il suo costume, si era chiuso in ufficio con una sfilza di carte che avrebbe sgomentato chiunque, ma non Villefort, che era un lavoratore. Questa volta la sfilza di carte conteneva cose di pura e semplice firma.

Villefort in verità non si rinchiudeva per lavorare, ma per riflettere; e, chiusa la porta, ordinò di non essere disturbato che per cose importanti: si sedette e ripercorse nella memoria tutto ciò che, da sette o otto giorni, faceva straripare la coppa dei suoi tetri dispiaceri, dei suoi amari ricordi. A quel punto, invece di portare la mano sul monte di carte ammassate davanti a lui, aprì un cassetto dello scrittoio, fece scattare uno stipo ed estrasse un plico che conteneva le sue note personali, manoscritto prezioso, nel quale aveva classificato e distinto, con cifre conosciute da lui solo, i nomi di tutti coloro che, nella sua carriera politica, nei suoi affari d’interesse pecuniario, nelle sue cause criminali o nei suoi misteriosi amori, erano diventati suoi nemici. Il numero era molto elevato e con nomi da incutere paura. E tuttavia tutti questi nomi, per quanto minacciosi o temibili fossero, lo avevano fatto molte volte sorridere, come sorride il viaggiatore che dalla montagna guarda ai suoi piedi gli acuti picchi, le strade impraticabili, gli orli dei precipizi per i quali si è arrampicato per poter giungere a quell’altezza.

Dopo che ebbe ripassato ben bene tutti quei nomi nella memoria, quando li ebbe bene commentati sulle sue liste, scosse la testa: «No», mormorò, «nessuno di questi nemici avrebbe atteso pazientemente e inoperosamente fino al giorno in cui siamo, per venirmi ora a schiacciare con questo segreto. Qualche volta, come dice Amleto, il rumore delle cose più profondamente seppellite sotto terra sorge, e, come i fuochi fatui, corre follemente per l’aria; ma queste sono fiamme che illuminano per un momento per quindi spegnersi. La storia sarà stata raccontata dal corso a qualche prete, che l’avrà a sua volta raccontata. Il signore di Montecristo l’avrà saputa, e per scoprire la verità… Ma con quale vantaggio?» riprendeva Villefort dopo un momento di riflessione. «Per quale motivo il signore di Montecristo, il signor Zaccone, il figlio di un armatore di Malta, il proprietario di una miniera d’argento nella Tessaglia, che viene per la prima volta in Francia, vuole chiarire un fatto cupo, misterioso, e inutile come questo? In mezzo alle informazioni incoerenti che mi sono state date da quell’abate Busoni, e da quel lord Wilmore, da quell’amico e da questo nemico, una sola cosa spicca chiara, precisa, ai miei occhi: in nessun caso, in nessuna occasione può avere avuto il più piccolo contatto con me.»

Tuttavia Villefort ripeteva spesso queste parole a se stesso senza credere a quanto diceva. Terribile per lui non era una rivelazione, perché poteva negare, o anche rispondere: si inquietava poco di quel «Mane, Tekel, Phares» che appariva d’improvviso in lettere di sangue sul muro; ciò che lo tormentava era conoscere il corpo al quale apparteneva la mano che le aveva tracciate. Mentre tentava di tranquillizzare se stesso, e, invece di quell’avvenire politico che nei sogni d’ambizione aveva qualche volta intravisto, nel timore di svegliare questo nemico addormentato da lungo tempo, si componeva un avvenire ristretto alle gioie della famiglia, il rumore di una carrozza rimbombò nel cortile, intese sulla scala passi di una persona anziana, poi dei singhiozzi e dei sospiri.

Si affrettò a levare il chiavistello alla porta dell’ufficio, e ben presto, senza essere annunciata entrò una vecchia signora, con lo scialle sul braccio e il cappello in mano. I capelli bianchi coprivano una fronte scura come l’avorio ingiallito e gli occhi, appesantiti dalle rughe dell’età, sparivano quasi del tutto sotto il gonfiore prodotto dal pianto.

«Oh, signore», gemette, «quale disgrazia! Io pure ne morirò! Sì, certo ne morirò…»

E cadendo sulla sedia più vicina alla porta, proruppe in singhiozzi. I domestici, in piedi sulla soglia, non osavano avanzare: guardavano il vecchio servitore di Noirtier che, avendo sentito rumore dalla camera del padrone, era accorso egli pure, e si teneva dietro gli altri.

Villefort si alzò, e corse incontro a sua suocera.

«Mio Dio, signora», domandò, «cos’è accaduto? Che cosa vi sconvolge così? E il signor di Saint-Méran?»

«È morto», disse la vecchia marchesa senza preamboli, senza espressione e con una specie di stupore. Villefort indietreggiò di un passo e batté le mani una contro l’altra.

«Morto!… Morto così… improvvisamente?»

«Otto giorni fa», continuò la signora di Saint-Méran, «dopo avere pranzato salimmo insieme in carrozza. Il signor di Saint-Méran era indisposto da qualche giorno; però l’idea di rivedere la nostra cara Valentine lo rendeva coraggioso, e, malgrado i suoi dolori, aveva voluto partire, quando, a sei leghe da Marsiglia, dopo aver preso le consuete pastiglie, fu colto da un sonno profondo che non mi sembrava naturale; tuttavia esitai a svegliarlo, quando mi sembrò che il viso diventasse rosso, e le arterie delle tempie battessero più del solito. Ma, siccome era sopraggiunta la notte, e io non vedevo altri sintomi, lo lasciai dormire… A un certo punto mandò un grido sordo e straziante come quello di un uomo che soffre un incubo, e con improvviso movimento rovesciò la testa all’indietro. Chiamai il cameriere, feci fermare il postiglione, invocai il signor di Saint-Méran, gli feci respirare la mia boccetta di sali… Tutto era finito: era morto. A fianco del suo cadavere giunsi fino ad Aix.»

Villefort rimase stupefatto e con la bocca aperta.

«E voi senza dubbio chiamaste un medico?»

«Nello stesso momento, ma, come vi ho già detto, era troppo tardi.»

«Ma almeno poteva dirvi di che malattia era morto il povero marchese.»

«Sì, me l’ha detto: sembra sia stata un’apoplessia fulminante.»

«E allora che avete fatto?»

«Il signor di Saint-Méran aveva sempre detto che se fosse morto lontano da Parigi desiderava che il suo corpo fosse ricondotto nella tomba di famiglia; l’ho fatto mettere in una cassa di piombo, e lo precedo di pochi giorni.»

«Mio Dio, povera madre!» disse Villefort. «Simili cure dopo un tale colpo alla vostra età!»

«Dio mi ha dato forza sino alla fine, il caro marchese avrebbe fatto per me ciò che ho fatto per lui. È vero che dal momento in cui l’ho lasciato laggiù, mi sembra di esser pazza: non posso piangere, alla mia età non ci sono più lacrime; anche se mi sembra che fino a che si soffre, si deve poter piangere. Dov’è Valentine, signore? È per lei che ritorniamo, voglio vedere Valentine.»

Villefort pensò che sarebbe stato orribile rispondere che Valentine era al ballo; disse alla marchesa che sua nipote era uscita con la matrigna, e che avrebbe mandato ad avvertirla.

«Mandate subito, signore, ve ne supplico!»

Villefort offrì il braccio alla signora di Saint-Méran e la condusse al suo appartamento.

«Riposatevi, madre mia.»

A quelle parole la marchesa alzò la testa, e vedendo quell’uomo che le ricordava la figlia tanto pianta, e che riviveva per lei in Valentine, si sentì colpita da questo nome di madre; si sciolse in lacrime, e cadde su una poltrona. Villefort la raccomandò alle cure delle cameriere, mentre il vecchio Barrois risaliva tutto ansante dal suo padrone. Niente spaventa tanto i vecchi come quando la morte li abbandona un momento per colpire un altro vecchio.

Intanto Villefort, mentre la signora di Saint-Méran, sempre inginocchiata, pregava dal fondo del cuore, mandò a cercare una carrozza di piazza, e andò egli stesso in casa della signora Morcerf, per ricondurre a casa sua moglie e la figlia. Era tanto pallido, quando apparve sulla soglia della sala, che Valentine corse da lui gridando: «Padre mio, quale disgrazia è accaduta?»

«Vostra nonna, è arrivata…» disse Villefort.

«E mio nonno?» domandò la ragazza tremante.

Il signor Villefort non rispose, se non offrendo il braccio a sua figlia. Era tempo: Valentine, presa da vertigine, vacillava; la signora Villefort si affrettò a sostenerla, e aiutò suo marito a trascinarla verso la carrozza, dicendo: «Tutto ciò è terribile! Chi avrebbe potuto pensarlo?»

E quella famiglia desolata se ne andò così, gettando la tristezza come un velo nero su quella che avrebbe dovuto essere una festa.

In fondo alla scala Valentine trovò Barrois che l’aspettava.

«Il signor Noirtier desidera vedervi questa sera stessa…» le disse a bassa voce.

«Ditegli che andrò da lui quando uscirò dalla camera di mia nonna.»

Nella delicatezza della sua anima, la ragazza capì bene che chi aveva più di tutti bisogno di lei in quell’ora, era la signora di Saint-Méran.

Valentine trovò la nonna a letto: mute carezze, sospiri interrotti, lacrime ardenti, ecco i soli particolari da narrare di questa conversazione, alla quale assisteva, stando sotto il braccio di suo marito, la signora Villefort, piena di rispetto, almeno apparente, per la povera vedova.

Dopo un momento, si accostò all’orecchio del marito.

«Col vostro permesso», disse, «è meglio che mi ritiri, perché sembra che la mia vista affligga ancor più vostra suocera.»

La signora di Saint-Méran l’udì.

«Sì, sì», mormorò all’orecchio di Valentine, «che se ne vada, ma tu resta.»

La signora Villefort uscì, e Valentine rimase sola vicino al letto della nonna. Il procuratore costernato da questa morte improvvisa, seguì la moglie. Barrois era salito la prima volta dal vecchio Noirtier, che, udito tutto il rumore che si faceva in casa, aveva inviato il vecchio servitore a informarsi. Al ritorno quell’occhio vivo e soprattutto intelligente, interrogò il messaggero: «Ah, signore», iniziò Barrois, «è accaduta una grande disgrazia. È giunta la signora di Saint-Méran, e suo marito è morto».

Saint-Méran e Noirtier non erano mai stati legati da buona amicizia, eppure Noirtier lasciò cadere la testa pensieroso.

«La signorina Valentine?» domandò Barrois.

Noirtier fece segno di sì.

«È a un ballo, il signore lo sa bene, è venuta a salutarlo in gran toilette.»

Noirtier chiuse l’occhio sinistro.

«Sì, volete vederla?»

Il vecchio fece segno che ciò era quanto desiderava.

«Ebbene, avranno già mandato a cercarla, senza dubbio, dalla signora Morcerf; l’aspetterò al suo ritorno, e le dirò di salire da voi. Va bene?»

«Sì», accennò il paralitico.

Barrois aveva dunque aspettato il ritorno di Valentine, e come abbiamo visto, al ritorno di lei espose il desiderio del nonno. Valentine salì dal signor Noirtier, dopo essere uscita dalle stanze della signora di Saint-Méran, che per quanto fosse agitata aveva finalmente finito col soccombere alla fatica, e dormiva di un sonno febbrile. Le avevano avvicinato a portata di mano una piccola tavola sulla quale era una caraffa di aranciata, sua bibita abituale, e un bicchiere. La ragazza lasciò il letto della marchesa per salire dal signor Noirtier.

Valentine corse ad abbracciare il vecchio che la guardò tanto teneramente che la ragazza sentì di nuovo salire le lacrime. Il vecchio insisteva col suo sguardo.

«Sì, sì», capì Valentine, «vuoi dire che ho sempre un buon nonno, non è vero?»

Il vecchio fece segno che era quanto aveva voluto esprimere con lo sguardo.

«Senza di te che cosa ne sarebbe di me?»

Era l’una dopo mezzanotte.

Barrois, che aveva voglia di andarsene a letto, fece osservare che dopo una serata così dolorosa, tutti avevano bisogno di riposo. Il vecchio non volle dire che il suo riposo era vedere sua nipote: congedò Valentine sul cui viso si vedevano dipinti il dolore e la fatica di chi soffre. L’indomani entrando nella camera di sua nonna la ritrovò a letto, la febbre non si era sedata, anzi, un fuoco nascosto trapelava dagli occhi della vecchia marchesa, che sembrava in preda a una violenta irritazione nervosa.

«Mia buona nonna, soffrite anche di più?!» gridò Valentine notando quei brutti sintomi.

«No, figlia mia, no», rispose la signora di Saint-Méran, «ma aspettavo con impazienza che tu giungessi, per mandare a chiamare tuo padre.»

«Mio padre?» domandò Valentine inquieta.

«Sì, voglio parlargli.»

Valentine non osò opporsi al desiderio della nonna, del quale d’altra parte non conosceva la causa, e un momento dopo entrò Villefort.

«Signore», iniziò la signora di Saint-Méran senza alcun giro di parole, e come se le mancasse il tempo, «mi avete scritto che si tratta di un progetto di matrimonio per questa ragazza?»

«Sì, signora», rispose Villefort, «è anzi più che un progetto, è già un impegno.»

«Vostro genero si chiama Franz d’Epinay?»

«Sì, signora.»

«È figlio del generale d’Epinay, che è dei nostri, non è vero? E che fu assassinato qualche giorno prima che l’usurpatore ritornasse dall’Elba?»

«Sì, proprio lui.»

«Questa parentela con la nipote di un giacobino, non gli ripugna?»

«Le nostre dispute civili si sono fortunatamente estinte, madre mia», disse Villefort. «Il signor d’Epinay era quasi un bambino alla morte di suo padre; conosce pochissimo il signor Noirtier, e lo vedrà, se non con piacere, almeno con indifferenza.»

«È un partito conveniente?»

«Sotto tutti i rapporti, e il giovane gode della stima universale.»

«È buono?»

«È uno degli uomini più distinti che io conosca.»

Durante tutta questa conversazione Valentine era rimasta muta.

«Ebbene, signore», riprese dopo qualche secondo di riflessione la signora di Saint-Méran, «bisogna fare presto, perché poco mi resta da vivere.»

«Voi, signora, voi, buona nonna!» gridarono all’unisono il signor Villefort e Valentine.

«So quel che dico, bisogna dunque sbrigarsi, affinché, non avendo più sua madre, abbia almeno una nonna per benedire il matrimonio… Sono la sola che le resta dal lato della povera Renée, che voi signore, avete così presto dimenticata.»

«Signora», ribatté Villefort, «dimenticate che bisognava dare una madre a questa povera ragazza, che non l’aveva più!»

«Una matrigna non è una madre, signore. Ma non è di ciò che si tratta, si tratta di Valentine, lasciamo dunque i morti tranquilli.»

Tutto ciò era detto con una tale volubilità, e un tale accento, che c’era in questa conversazione qualche cosa di delirante.

«Sarà fatto tutto secondo i vostri desideri», disse Villefort, «e tanto più che il vostro desiderio è in armonia col mio; e appena arriva a Parigi il signor d’Epinay…»

«Mia cara nonna, le convenienze, il lutto così recente… Vorreste fare un matrimonio sotto così tristi auspici?»

«Figlia mia», interruppe vivamente la nonna, «non facciamo queste inutili riflessioni che impediscono agli spiriti indipendenti di fabbricare solidamente il loro avvenire. Io pure sono stata maritata sul letto di morte di mia madre, e non sono stata per questo infelice.»

«Ancora questa idea di morte», riprese Villefort.

«Ancora? Sempre!… Vi dico che sto per morire. Capite? Ebbene, prima di morire, voglio vedere mio genero, voglio infine conoscerlo, per venire poi a ritrovarlo dal fondo della mia tomba, se non sarà quel che deve essere, quel che bisogna ch’egli sia.»

«Signora», disse Villefort, «bisogna che allontaniate da voi queste idee esaltate, che quasi toccano la follia; i morti, una volta rinchiusi nella tomba, ci rimangono senza muoversi più.»

«Sì, cara nonna, calmati!» aggiunse Valentine.

«E io vi dico, signore, che la cosa non è così come voi credete. Questa notte ho dormito… ma d’un sonno terribile perché mi vedevo in qualche modo dormire, come la mia anima avesse già sciolto i legami col corpo: gli occhi, che mi sforzavo d’aprire, si richiudevano mio malgrado, tuttavia so bene che ciò sembrerà impossibile a voi, ma io, coi miei occhi chiusi, ho visto, nel luogo ove siete, ho visto da quell’angolo dov’è la porta che conduce alla toilette della signora Villefort, ho visto entrare senza rumore un’ombra bianca.»

Valentine emise un grido.

«Era la febbre che vi agitava», disse Villefort.

«Dubitatene quanto volete, io però sono sicura di quel che vi dico. Ho visto un’ombra bianca, e quasi che Dio avesse temuto che non prestassi fede alla testimonianza di uno solo dei miei sensi, ho sentito rimescolare entro il mio bicchiere…, quello stesso che è lì, sulla tavola…»

«Cara nonna, questo era un sogno!»

«Era tanto poco un sogno, che ho teso la mano verso il campanello, e a questo gesto l’ombra fuggì. La cameriera entrò allora con un lume.»

«Ma avete visto qualcuno?»

«I fantasmi non si mostrano che a quelli che devono vederli: era l’anima di mio marito. Ebbene se l’anima di mio marito ritorna per chiamarmi, perché non dovrò tornare per difendere mia nipote? Il vincolo è ancora più diretto, mi sembra.»

«Signora, non date retta a queste lugubri idee, voi vivrete lungamente felice, amata, onorata, e vi faremo dimenticare…»

«No, mai! mai! Quando ritorna il signor d’Epinay?»

«Lo aspettiamo da un momento all’altro.»

«Va bene: appena arriva avvisatemi. E noi sbrighiamoci… Vorrei anche avere un notaio per assicurarmi che tutti i nostri beni passeranno a Valentine.»

«Oh, nonna mia», mormorò Valentine appoggiando le labbra sulla fronte ardente della vecchia, «dunque volete farmi morire? Voi avete la febbre. Non è un notaio che bisogna chiamare, ma un medico!»

«Un medico? Io non soffro; ho sete, ecco tutto.»

«Cosa bevete, cara nonna?»

«Come sempre, tu lo sai bene, la mia aranciata. Il bicchiere è lì su quella tavola… Dammelo, Valentine.»

Questa versò l’aranciata dalla bottiglia nel bicchiere, e lo prese con un certo spavento per porgerlo a sua nonna, perché era lo stesso bicchiere, a quanto pretendeva, toccato dall’ombra. La marchesa vuotò il bicchiere d’un sol fiato, poi si rivoltò sul cuscino, ripetendo: «Il notaio! il notaio!»

Il signor Villefort uscì, Valentine si sedette vicino al letto della nonna. La povera ragazza sembrava aver gran bisogno lei stessa del medico. Un rossore simile a una fiamma le bruciava le guance, la respirazione era affannosa, e il polso le batteva come se avesse avuto la febbre. La povera giovane pensava alla disperazione di Maximilien, quando avrebbe saputo che la signora di Saint-Méran, invece di essere una loro alleata, operava senza saperlo, come se fosse stata una nemica. Più di una volta Valentine aveva pensato di svelare tutto a sua nonna, e non avrebbe esitato un sol momento se Maximilien Morrel si fosse chiamato Albert Morcerf, o Raoul Château-Renaud, ma Morrel era di estrazione plebea, e Valentine sapeva il disprezzo che l’orgogliosa marchesa di Saint-Méran portava a tutto quel che non era della sua casta. Il suo segreto, nel momento in cui stava per svelarlo, era dunque ricacciato nel cuore: svelarlo a suo padre e alla sua matrigna, sarebbe stato solo dannoso. Due ore circa passarono così. La signora di Saint-Méran dormiva d’un sonno ardente e agitato. Fu annunciato il notaio. Sebbene quest’annuncio fosse fatto molto a bassa voce la signora di Saint-Méran si sollevò sul cuscino: «Il notaio!» disse. «Che venga, che venga!»

Il notaio era alla porta, ed entrò.

«Vattene, Valentine», disse la signora di Saint-Méran, «e lasciami col notaio.»

«Oh, nonna.»

«Va’.»

La ragazza baciò la nonna in fronte, e uscì col fazzoletto tra gli occhi. Alla porta trovò il cameriere; le disse che il medico aspettava nella sala.

Valentine scese rapidamente.

Il medico era un amico di famiglia, e uno dei più abili: amava molto Valentine, da lui vista nascere: aveva una figlia dell’età circa della signorina Villefort, ma nata da una madre tisica, per cui era in continuo timore per la vita di sua figlia.

«Caro d’Avrigny», lo salutò Valentine, «vi aspettavamo con molta impazienza. Ma prima di tutto, come stanno Madeleine e Antoinette?»

Il signor d’Avrigny sorrise tristemente.

«Benissimo Antoinette», disse, «e abbastanza bene Madeleine. Ma voi cara ragazza, mi avete mandato a chiamare? Non è né per vostro padre, né per la signora Villefort. In quanto a voi, sebbene veda bene che siete sempre nervosa, non presumo abbiate bisogno di me che per raccomandarvi di non lasciare che la vostra immaginazione corra troppo…»

Valentine arrossì; il signor d’Avrigny spingeva l’intuizione fin quasi al miracolo, perché era uno di quei medici che curava sempre il fisico attraverso la psiche.

«No», disse, «è per la mia povera nonna: sapete la disgrazia che ci è accaduta, non è vero?»

«Non so niente», disse il signor d’Avrigny.

«Ahimè», riprese Valentine, trattenendo i singhiozzi, «mio nonno è morto.»

«Il signor di Saint-Méran?»

«Sì.»

«Improvvisamente?»

«Un attacco d’apoplessia fulminante.»

«Di apoplessia?» ripeté il medico.

«Sì, e adesso la povera nonna è convinta che suo marito, che lei non aveva mai lasciato, la chiami, e che andrà presto a raggiungerlo. Oh, signor d’Avrigny, portatele conforto.»

«Dove si trova?»

«Nella sua camera col notaio.»

«E il signor Noirtier?»

«Sempre lo stesso, una lucidità perfetta; ma la medesima immobilità, lo stesso mutismo.»

«E lo stesso amore per voi, vero, cara ragazza?»

«Sì», disse Valentine sospirando, «mi ama molto.»

«E chi non vi amerebbe?»

Valentine sorrise tristemente.

«E che cosa si sente la nonna?» riprese d’Avrigny.

«Un’esaltazione nervosa particolare, un sonno agitato e strano… Pretendeva questa mattina che durante il sonno, la sua anima s’era disgiunta dal corpo, e di aver visto un fantasma entrare nella camera, e inteso il rumore che faceva il preteso fantasma nel toccare il suo bicchiere.»

«È strano», ammise il dottore, «non sapevo che la signora di Saint-Méran fosse soggetta a queste allucinazioni.»

«È la prima volta che la vedo in un simile stato», concordò Valentine, «e questa mattina mi ha fatto una gran paura: l’ho creduta folle… E mio padre, voi signor d’Avrigny, conoscete certamente l’indole di mio padre, ebbene, lo stesso padre mio mi è sembrato molto impressionato.»

«Andiamo a vederla», disse il signor d’Avrigny. «Ciò che mi raccontate mi sembra molto strano.»

Il notaio scendeva, e vennero ad avvertire Valentine che sua nonna era sola.

«Salite», disse lei al dottore.

«E voi?»

«Non ho coraggio: mi aveva proibito di mandarvi a chiamare, e poi, come dite, io stessa sono molto agitata, febbricitante, e indisposta, vado a fare un giro in giardino per rimettermi.»

Il dottore strinse la mano a Valentine, e mentre saliva da sua nonna la ragazza scendeva dalla scalinata.

Non abbiamo bisogno di dire quale fosse la parte di giardino preferita da Valentine. Dopo aver fatto due o tre giri sul praticello che circondava la casa, dopo aver raccolto una rosa per metterla alla cintura, o nei capelli, s’inoltrava sotto il viale ombroso che conduceva alla panchina, poi dalla panchina al cancello. Questa volta Valentine fece, secondo la sua abitudine, due o tre giri in mezzo ai fiori, ma senza raccoglierli. Il lutto del cuore, che non aveva avuto ancora il tempo di giungere alla piena coscienza, tuttavia rifiutava istintivamente la giocosità dei fiori. Poi s’incamminò verso il viale.

Mentre s’inoltrava, le parve di sentire una voce che pronunciasse il suo nome; si fermò meravigliata. Questa volta la voce giunse più distinta al suo orecchio, e lei riconobbe quella di Maximilien.



72. La promessa

Infatti era Morrel che dalla sera precedente non viveva più. Con l’istinto particolare agli innamorati, e alle madri, aveva indovinato che in seguito al ritorno della signora di Saint-Méran e alla morte del marchese, sarebbe accaduto qualcosa in casa Villefort, qualcosa che riguardava il suo amore per Valentine. I suoi presentimenti si erano avverati; non era più una semplice inquietudine quella che lo conduceva così sconvolto e tremante al cancello dei castagni. Tuttavia Valentine non sapeva che lui fosse là ad attenderla; quella non era l’ora in cui ordinariamente si vedevano, e fu un puro caso, o meglio una combinazione, che la condusse al giardino.

Quando comparve, Morrel la chiamò, ed ella corse al cancello.

«Voi, a quest’ora?» si stupì.

«Ebbene sì, vengo a cercare e a portare cattive notizie.»

«Dunque è il giorno delle disgrazie? Parlate, anche se la somma dei miei dolori è sufficiente.»

«Mia cara Valentine», disse Morrel, cercando di rimettersi dalla propria emozione, per parlare pacatamente, «ascoltatemi bene, perché tutto ciò che sto per dirvi è solenne. Quando contano di maritarvi?»

«No, non è il momento», rispose Valentine, «ma non voglio nascondervi nulla, Maximilien. Questa mattina hanno parlato del mio matrimonio, e mia nonna, sulla quale contavo per un appoggio, non solo si è dichiarata favorevole, ma lo desidera a tal punto che la sola lontananza del signor Franz lo ritarda, e l’indomani del suo arrivo il contratto sarà firmato.»

Un penoso sospiro uscì dal petto del giovane che guardò lungamente e tristemente la sua diletta.

«È spaventoso», disse a voce bassa, «sentir dire tranquillamente dalla donna che si ama: “Il momento del nostro supplizio è fissato; fra poche ore avrà luogo”. Ma non importa, bisogna sia così, e dal canto mio non opporrò ostacoli. Poiché non si aspetta che l’arrivo del signor d’Epinay per sottoscrivere il contratto, e voi sarete sua l’indomani del suo arrivo, domani voi apparterrete a lui, perché egli è giunto a Parigi questa mattina.»

Valentine mandò un grido.

«Ero dal conte di Montecristo, un’ora fa…» continuò Morrel. «Parlavamo, egli del dolore della vostra casa, e io del dolore vostro, quando d’improvviso si sente una carrozza in cortile. Ascoltate! Io non credevo ai presentimenti, ma ora bisogna che vi creda: al rumore di quella carrozza sono stato investito da un fremito in tutto il corpo; ben presto udii dei passi sulla scala. Finalmente si apre la porta: Albert Morcerf entra per primo; stavo per dubitare di me stesso, stavo per credere d’essermi ingannato, quando dietro a lui s’avanza un altro giovane, e il conte esclama: “Ah, barone Franz d’Epinay!”

Quanto ho di forza e di coraggio lo raccolsi per contenermi. Forse sono impallidito, forse ho tremato, ma certo sono rimasto col sorriso sulle labbra… Cinque minuti dopo sono uscito senza avere udito una parola di ciò che fu detto, in quei cinque minuti, ero annientato.»

«Povero Maximilien!» mormorò Valentine.

«Guardatemi, Valentine. Vediamo, rispondete come a un uomo al quale la vostra risposta deve dare la vita o la morte: che contate di fare?»

Valentine abbassò la testa; era oppressa.

«Ascoltate», riprese Morrel. «Non è la prima volta che voi pensate alla nostra situazione: ora è grave, è pressante, è suprema! Non credo sia il momento di abbandonarsi a uno sterile dolore, buono per quelli che vogliono soffrire a loro agio, e bere in pace le loro lacrime… Ci sono di queste persone, e Dio certamente ricompenserà nel cielo la loro rassegnazione sulla terra, ma chiunque si sente la volontà di lottare, non perde tempo prezioso, e rende immediatamente alla sorte il colpo col quale fu colpito. Avete la volontà di lottare contro l’avversa sorte? Dite, Valentine, questo è quanto vi domando…»

Valentine tremò, e guardò Morrel con occhi spaventati. L’idea di resistere a sua nonna, infine a tutta la famiglia, non le era ancora venuta.

«Che mi dite, Maximilien? E cosa chiamate una lotta? Dite piuttosto un sacrilegio. Io lottare contro l’ordine di mio padre, contro il desiderio della mia nonna moribonda? Questo è impossibile.»

Morrel fece un movimento; Valentine continuò: «Voi avete un cuore troppo nobile per non comprendermi, e mi comprendete tanto bene, che vi ho ridotto al silenzio. Lottare, io? Dio me ne salvi! No, no, serbo tutta la mia forza per lottare contro me stessa, e per bere le mie lacrime, come voi dite… In quanto ad affliggere mio padre, in quanto a turbare gli ultimi momenti di mia nonna, mai!»

«Avete ragione», disse freddamente Morrel.

«Mio Dio, in che modo me lo dite!» esclamò Valentine offesa.

«Vi dico ciò, come un uomo che vi ammira, signorina!»

«Signorina!» gridò ancora Valentine. «Signorina! L’egoista! Mi vede alla disperazione, e finge di non capirmi…»

«V’ingannate, anzi vi capisco perfettamente. Voi non volete contrariare il signor Villefort, non volete disobbedire alla marchesa, e domani sottoscriverete il contratto che deve unirvi al vostro sposo.»

«Mio Dio! Come potrei fare altrimenti?»

«Non bisogna appellarsi a me, perché sono un cattivo giudice in questa causa, e il mio egoismo mi accecherebbe», rispose Morrel, la cui voce cupa e i pugni stretti indicavano la crescente esasperazione.

«Che mi avreste dunque proposto, Morrel, se mi aveste trovata disposta ad accettare la vostra follia? Sentiamo, rispondete, non si tratta di dire “fate male”, si tratta di dare un consiglio.»

«Parlate seriamente, Valentine? E devo io darvi questo consiglio?»

«Certamente, caro Maximilien, perché se è buono, io lo seguirò: sapete bene quanto vi amo.»

«Valentine», riprese Morrel terminando di staccare un’asse già sconnessa, «datemi la vostra mano come promessa che perdonate la mia collera… Ho la testa sconvolta, vedete bene, da un’ora le idee più insensate hanno percorso una per volta il mio cervello. Nel caso che rifiutaste il mio consiglio…»

«Ebbene, questo consiglio?»

«Ebbene, Valentine.»

La giovane alzò gli occhi al cielo e sospirò.

«Io sono libero», rispose Maximilien, «sono abbastanza ricco per noi due, vi giuro innanzi all’Eterno che sarete mia moglie prima che le mie labbra si siano posate sulla vostra fronte…»

«Voi mi fate tremare», mormorò la giovane.

«Seguitemi», continuò Morrel, «vi condurrò da mia sorella che è degna di essere anche vostra sorella… Poi c’imbarcheremo per Algeri, per l’Inghilterra, o per l’America o, se preferite, ci ritiriamo in qualche provincia, dove aspetteremo che qualche amico abbia vinto la resistenza della vostra famiglia.»

Valentine scosse la testa.

«Io me l’aspettavo, Maximilien», disse lei. «Questo è un consiglio insensato, e sarei ancor più insensata di voi se non vi fermassi con queste sole parole: impossibile, Morrel, impossibile!»

«Soffrirete dunque la sorte come si presenta, senza neppure tentare di combatterla?» domandò Morrel cupo.

«Sì, dovessi anche morire!»

«Valentine, vi ripeterò di nuovo che avete ragione; infatti io sono un pazzo, e voi mi provate che la passione acceca gli spiriti più retti. Grazie, dunque, a voi che ragionate senza passione. Sia dunque così, è cosa intesa: domani sarete irrevocabilmente promessa al signor d’Epinay, non già con quella formalità immaginata per sciogliere gli intrecci delle commedie, e che si chiama “sottoscrizione del contratto”, ma per vostra propria volontà.»

«Ancora una volta mi gettate nella disperazione, Morrel», ribatté Valentine, «e ancora una volta ricacciate il pugnale nella ferita! Che fareste, dite, se vostra sorella ascoltasse un consiglio uguale a quello che mi date?»

«Signorina», rispose Morrel, con un amaro sorriso, «sono un egoista, e nella mia qualità d’egoista, non penso a quel che farebbero gli altri nella mia posizione, ma a quel che conto di fare io. Penso che vi conosco da un anno, che ho riposto, dal giorno in cui vi conobbi, tutte le possibili felicità nel vostro amore, che venne un giorno in cui mi diceste che mi amavate, che da quel giorno fissai le sorti del mio avvenire sul vostro possesso, giacché il possedervi è per me la vita. Ora non penso più a niente: dico solo a me stesso che le cose sono cambiate, che credevo aver guadagnato la felicità, e l’ho invece perduta. Ciò accade sempre al giocatore che perde non solo quel che aveva, ma quello che non aveva.»

Morrel pronunciò queste parole con la più perfetta calma. Valentine lo guardò un momento con i suoi grandi occhi scrutatori, e, cercando di non far comprendere a Morrel quanto era agitata nel cuore, disse: «Ma infine, che farete?»

«Ho l’onore di dirvi addio, signorina, chiamando testimone Dio, che sente le mie parole, e legge nel fondo del mio cuore, che vi auguro una vita molto calma e felice, e tanto piena in gioie, che non vi rimanga posto per la mia memoria.»

«Oh!» mormorò Valentine.

«Addio, Valentine, addio!» disse Morrel inchinandosi.

«Dove andate?» gridò, allungando la mano attraverso il cancello e afferrando Maximilien per l’abito. Valentine comprendeva, dall’interna agitazione, che la calma del suo innamorato non poteva essere reale. «Dove andate?»

«Vado a occuparmi di non arrecare un nuovo dispiacere alla vostra famiglia, a dare un esempio che potranno seguire tutte le oneste persone che si troveranno nella mia posizione.»

«Prima di lasciarmi ditemi ciò che volete fare?»

Il giovane sorrise con tristezza.

«Parlate! parlate!» gemette Valentine. «Ve ne prego!»

«La vostra decisione è forse cambiata, Valentine?»

«Non può cambiare, infelice! Voi ben lo sapete!» esclamò la giovane.

«Allora, addio, Valentine!»

Questa scosse il cancello con una forza di cui non si sarebbe creduta capace, e siccome Morrel si allontanava, passò le due mani attraverso le sbarre, congiungendo e contorcendo le braccia.

«Che andate a fare? Voglio saperlo! Dove andate?»

«State tranquilla», disse Maximilien, fermandosi a tre passi dalla porta, «la mia intenzione non è di prendermela con un altro uomo per una sorte che riguarda me solo. Un altro minaccerebbe di andare a trovare il signor Franz, provocarlo, e battersi con lui: tutto ciò sarebbe da insensato. Che ha a che fare il signor Franz con tutto ciò? Lui mi ha visto questa mattina per la prima volta, ha già dimenticato di avermi visto; non sapeva neppure che io esistessi quando furono presi gli accordi fra le vostre due famiglie: non ho dunque a che fare col signor Franz, e ve lo giuro, non me la prenderò con lui.»

«Ma con chi ve la prenderete? Con me?»

«Con voi, Valentine?! Dio me ne guardi! La donna che si ama è un idolo…»

«Con voi stesso allora, disgraziato, con voi stesso!»

«Sono io il colpevole, non è vero?» disse Morrel.

«Maximilien», ordinò Valentine, «venite qui, lo voglio!»

Maximilien si avvicinò col suo dolce sorriso, e se non fosse stato il pallore del viso si sarebbe detto che era come sempre.

«Ascoltatemi, mia adorata Valentine», disse con voce grave e melodiosa, «le persone come noi, che non hanno mai avuto un pensiero di cui abbiano ad arrossire davanti al mondo, davanti ai parenti, e a Dio, possono leggere nel cuore l’uno dell’altro apertamente. Io non ho mai fatto il romantico, non sono un eroe malinconico, non rappresento né un Manfredi, né un Antony; ma senza parole, senza proteste, senza giuramenti, ho messo la vita in voi, voi mi venite meno, e avete ragione di agire così, ve l’ho detto, ve lo ripeto, ma infine voi mi tradite, e la mia vita è perduta. Dal momento che vi allontanate da me, Valentine, io resto solo al mondo. Mia sorella è felice con suo marito; suo marito non è che un mio cognato, vale a dire, un uomo che le convenzioni sociali soltanto uniscono a me; nessuno dunque sulla terra ha bisogno della mia esistenza divenuta inutile. Ecco ciò che io farò: aspetterò fino all’ultimo, che voi siate maritata, perché non voglio perdere nemmeno l’ombra di una di quelle inattese eventualità che qualche volta ci riserba il destino, perché anche di qui a quel momento Franz d’Epinay può morire, nel momento in cui vi avvicinerete a lui il fulmine può cadere sull’altare: tutto sembra credibile al condannato a morte, per lui tutto è possibile: invoca, aspetta un miracolo per lui solo, giacché si tratta della sua salvezza, della sua vita. Io dunque aspetterò fino all’ultimo momento, e quando la mia infelicità sarà certa, senza rimedio, senza speranze, scriverò una lettera a mio cognato, un’altra lettera al prefetto di polizia per avvisarlo del mio progetto, e nell’oscurità di qualche bosco, sulla riva di qualche fosso, sulla sponda di qualche fiume, mi farò saltare le cervella, quanto è vero che sono il figlio del più onesto uomo che abbia vissuto in Francia.»

Un tremito agitò le membra di Valentine, lasciò il cancello che teneva con ambo le mani, le braccia ricaddero abbandonate, e due grosse lacrime le scesero sulle guance.

Il giovane rimase davanti a lei, tetro e risoluto.

«Per pietà», disse lei, «vivrete, non è vero?»

«No, sul mio onore», rispose Maximilien. «Ma che importa a voi? Avrete fatto il vostro dovere, e vi rimarrà la vostra coscienza.»

Valentine cadde in ginocchio comprimendosi il cuore che pareva volesse scoppiarle.

«Maximilien», lo pregò, «amico mio, mio fratello sulla terra, mio sposo nel cielo, ti supplico, fa’ come faccio io, vivi e soffri, un giorno forse saremo riuniti.»

«Addio Valentine» replicò Morrel.

«Mio Dio!» esclamò Valentine, alzando le mani al cielo in una sublime espressione. «Voi lo vedete, ho fatto tutto ciò che ho potuto per restare una figlia sottomessa, ho pregato, supplicato, implorato… Costui non ha ascoltato le mie preghiere, le mie suppliche, le mie lacrime. Ebbene», continuò asciugando le lacrime, e riprendendo la sua fermezza, «ebbene, non voglio morire di rimorsi, preferisco piuttosto morire di vergogna: vivrete, Maximilien, e io non sarò di alcuno fuorché vostra. A che ora? Quando? Subito, parlate, ordinate, sono pronta.»

Morrel che aveva già fatto qualche passo per allontanarsi, era tornato di nuovo, pallido di gioia, col cuore commosso, afferrando attraverso il cancello nelle sue mani quelle di Valentine.

«Valentine», disse, «amica cara, non è così che bisogna parlarmi, altrimenti bisogna lasciarmi morire. Perché dovrò ottenervi con la violenza, se mi amate come vi amo? Mi costringete a vivere per umanità? Ecco tutto: in questo caso, preferisco piuttosto morire.»

«Infatti», continuò Valentine, «chi mi ama in questo mondo? Chi mi ha consolato in tutti i miei dolori? Su chi riposano le mie speranze? Su chi si ferma la mia vista sconvolta? Su chi riposa il mio cuore sanguinante? Su di voi, sempre su di voi! Ebbene voi avete ragione, Maximilien, vi seguirò, abbandonerò la casa paterna, tutto! Ingrata che sono!» gridò Valentine singhiozzando. «Tutto, anche il mio buon nonno che dimenticavo!»

«No», ribatté Maximilien, «non lo lascerete. Non mi diceste che il signor Noirtier sembrò nutrire qualche simpatia per me? Ebbene, prima di fuggire gli direte tutto, vi farete scudo davanti a Dio del suo consenso poi, subito dopo maritati, egli verrà con noi, e, invece di uno, avrà due nipoti. Voi mi avete detto che vi parla, e come gli rispondete; imparerò ben presto quel muto linguaggio. Andate, Valentine… Ve lo giuro, invece della disperazione che ci aspettava, forse avremo la felicità…»

«Vedete, Maximilien, vedete qual è il vostro potere su di me? Mi fate quasi credere a quel che mi dite, eppure è insensato, perché mio padre mi maledirà, perché io lo conosco, ha il cuore inflessibile, non mi perdonerà mai. Eppure, Maximilien, se per artificio, per le nostre preghiere, per buona sorte, che so io, se infine per un caso qualsiasi si può ritardare il matrimonio, mi aspetterete, non è vero? Non farete pazzie?»

«Sì, ve lo giuro! Così voi dovrete giurarmi che questo sacrilego matrimonio non si farà mai, e che quand’anche vi trascinassero davanti al magistrato o davanti al prete, voi direte sempre di no!»

«Ve lo giuro, Maximilien, per tutto ciò che ho di più sacro al mondo, per mia madre!»

«Allora, aspettiamo», disse Morrel.

«Sì, aspettiamo», confermò Valentine, che respirava a quella parola. «Tante cose possono accadere e salvare due infelici come noi.»

«Mi affido a voi, Valentine», disse Morrel, «tutto ciò che farete sarà ben fatto. Soltanto se non si ascoltano le vostre preghiere, se vostro padre, se la signora di Saint-Méran esigono che il signor d’Epinay sia chiamato domani a firmare il contratto…»

«Allora avete la mia parola, Morrel.»

«Invece di firmare…»

«Vi raggiungerò, e fuggiremo; ma fino allora, non tentiamo Iddio… Morrel, è meglio che non ci vediamo più, giacché è un miracolo, è una provvidenza che non siamo stati ancora sorpresi; se lo fossimo, se si sapesse come ci vediamo, non avremmo più alcuna risorsa…»

«Avete ragione, Valentine… Ma come saprò…?»

«Dal notaio, il signor Deschamps.»

«Lo conosco.»

«E da me stessa, vi scriverò.»

«Grazie, adorata Valentine!» esclamò Morrel. «Allora tutto è convenuto: una volta che io sappia l’ora, accorrerò qui, voi sorpasserete questo muro fra le mie braccia, una carrozza ci aspetterà alla porta del recinto, vi salirete con me, vi condurrò da mia sorella. A casa nostra, nascosti, se così vi piace, facendo strepito se lo desiderate, avremo la coscienza della nostra libertà, e non ci faremo scannare come l’agnello, che non oppone resistenza che con i suoi belati.»

«Sia così», disse Valentine. «Io pure dirò: tutto ciò che farete sarà ben fatto. Ebbene siete contento di vostra moglie?» domandò tristemente la ragazza.

«Mia adorata Valentine, è ben poco dir di sì.»

«Ditelo sempre.»

Valentine si era avvicinata, o piuttosto aveva avvicinato le labbra al cancello, e le sue parole passavano come un soffio fino alle labbra di Morrel, che teneva la bocca attaccata all’altra parte del freddo e inesorabile cancello.

«Arrivederci», disse Valentine, togliendosi con uno sforzo dalla sua felicità, «arrivederci.»

«Io avrò dunque una vostra lettera?»

«Sì.»

«Grazie, mia cara sposa, arrivederci.»

Il suono di un bacio innocente e perduto si fece sentire, e Valentine fuggì sotto i tigli. Morrel ascoltò gli ultimi rumori della sua veste fluttuante contro i cespugli, dei piedi che facevano scricchiolare la sabbia, alzò gli occhi al cielo con un ineffabile sorriso, per ringraziarlo perché permetteva che fosse amato in tal modo, e anche lui corse via. Il giovane rientrò in casa sua, e aspettò per tutto il resto della sera e il giorno seguente senza nulla ricevere. Finalmente il secondo giorno verso le dieci del mattino, mentre stava per andare da Deschamps, ricevette con la posta un bigliettino, che riconobbe di Valentine, sebbene non avesse mai visto un suo scritto. Diceva:

«Lacrime, suppliche, preghiere, nulla hanno ottenuto. Ieri per due ore sono stata alla chiesa di Saint-Philippe du Roule e per due ore ho pregato Dio dal fondo della mia anima; Dio non ha voluto esaudirmi, e le firme del contratto sono fissate per questa sera alle nove. Non ho che una parola sola, come non ho che un solo cuore; Morrel, questa parola è impegnata con voi, questo cuore è vostro. Questa sera dunque, alle nove meno un quarto al cancello.

Vostra sposa Valentine Villefort

Post scriptum. La mia povera nonna va di male in peggio: ieri sera la sua esaltazione giunse al delirio; oggi il suo delirio è quasi una pazzia: mi amerete, per farmi dimenticare che l’avrò abbandonata in questo stato? Io credo che nascondano a mio nonno Noirtier che la firma del contratto deve aver luogo questa sera.»

Morrel non si limitò alle informazioni che gli dava Valentine: andò dal notaio, che gli confermò la notizia che la firma del contratto era fissata per le nove della sera. Quindi passò da Montecristo, e là ne seppe di più: Franz era venuto ad annunciargli la cerimonia; dal canto suo la signora Villefort aveva scritto un biglietto al conte, per pregarlo di scusarla se non lo invitava, ma la morte del signor di Saint-Méran, e lo stato in cui si trovava la vedova stendevano sopra questa unione un velo di tristezza, con cui non voleva rattristare il conte, cui augurava ogni sorta di felicità. La sera prima Franz era stato presentato alla signora di Saint-Méran, che aveva lasciato il letto per questa cerimonia, ma che vi ritornò subito dopo.

Morrel, è cosa facile a comprendersi, era in uno stato di agitazione che non poteva sfuggire a un occhio tanto penetrante quanto quello del conte; per cui Montecristo fu con lui più affettuoso che mai, tanto affettuoso che due o tre volte Maximilien fu sul punto di confessargli tutto, ma si ricordò la formale promessa data a Valentine, e il segreto rimase sepolto nel fondo del suo cuore.

Maximilien lesse e rilesse venti volte nel corso della giornata la lettera di Valentine. Era la prima volta che gli scriveva, e in quale occasione! Ogni volta che rileggeva quella lettera, rinnovava a se stesso il giuramento di renderla felice. Infatti quale diritto non ha una donna che prenda una così coraggiosa risoluzione? Quale affetto non merita da parte di colui al quale ha tutto sacrificato? Come può non essere per il suo amante il primo e il più caro oggetto, degno di tutta la sua venerazione? Ne è a un tempo la regina e la sposa, e non basta un’anima per adorarla e amarla. Morrel pensava, con un’inesprimibile agitazione, al momento in cui Valentine sarebbe arrivata dicendogli: «Eccomi, Maximilien».

Egli aveva disposto tutto per la fuga: due scale erano state nascoste nel piccolo fabbricato del recinto; un calessino, che doveva guidare lo stesso Maximilien, lo aspettava; nessun domestico, nessun lume; alla prima svolta della strada, avrebbero acceso i fanali, perché non bisognava, per un eccesso di cautele, cadere nelle mani della polizia. Ogni tanto dei fremiti scorrevano per tutto il corpo di Morrel; egli pensava al momento, in cui dall’alto di quel muro, avrebbe protetto la fuga di Valentine e l’avrebbe sentita tremante e abbandonata fra le sue braccia, proprio lei di cui non aveva mai stretto che la mano, né baciato che la punta di un dito. Ma quando fu oltrepassato il mezzogiorno, quando Morrel sentì avvicinarsi l’ora, provò il bisogno di restar solo, il sangue bolliva nelle vene, le semplici domande, la sola voce di un amico l’avrebbero irritato. Si rinchiuse in casa sua, provò a leggere, ma lo sguardo strisciò sulle pagine senza nulla capire, e finì col gettare il libro, per tornare a meditare per la decima volta il suo piano, le scale, il recinto. Finalmente l’ora si avvicinò. Mai un uomo veramente innamorato ha lasciato fare all’orologio il suo pacifico cammino; Morrel tormentò tanto il suo che finì col segnare le otto e mezzo quando non erano ancora le sei.

Allora disse a se stesso che era giunta l’ora di partire, che le nove era effettivamente l’ora della firma del contratto, ma che, secondo ogni probabilità, Valentine non avrebbe aspettato quella inutile cerimonia; di conseguenza, Morrel, dopo essere partito dalla rue Meslay alle otto e mezzo del suo orologio, entrò nel recinto quando le otto suonavano a Saint-Philippe du Roule. Il cavallo e il calessino furono nascosti dietro una piccola casetta in rovina, nella quale Morrel aveva l’abitudine di celarsi. A poco a poco si fece notte, e le foglie del giardino si tramutarono in grossi massi di un nero opaco.

Allora Morrel uscì dal nascondiglio, e col cuore palpitante venne a guardare alle fessure del cancello: non c’era ancora nessuno. Suonarono le otto e mezzo. Una mezz’ora passò nell’aspettare: Morrel passeggiava in lungo e in largo, poi, a intervalli sempre più vicini, veniva ad appoggiar l’occhio alle assi. Il giardino si oscurava sempre più, ma nella oscurità cercava invano la veste bianca, nel silenzio ascoltava inutilmente il rumore dei passi. La casa, che si scopriva attraverso il fogliame, restava tetra e silenziosa, e non tradiva alcun segno di una casa in cui stanno per accadere fatti eccezionali, quanto la firma di un contratto di matrimonio e la fuga di una fidanzata.

Morrel consultò l’orologio, che suonò le nove e tre quarti, ma, quasi subito dopo, il suono dello stesso orologio già inteso due o tre volte, rettificò l’errore, e suonò le nove e mezzo. Era già mezz’ora in più di quel che aveva fissato la stessa Valentine: lei aveva detto le nove, anzi piuttosto prima che dopo. Quello fu il momento più terribile per il cuore del giovane, sul quale a ogni secondo cadeva un martello di piombo. Il più debole rumore di foglie, il più piccolo soffio di vento richiamava la sua attenzione, e gli procurava un freddo sudore; allora, tutto tremante, accomodava la scala, e, per non perder tempo, metteva il piede sul primo scalino.

In mezzo a queste alternative di timore e di speranze, in mezzo a tali dilatazioni e stringimenti di cuore, suonarono le dieci all’orologio della chiesa.

«Oh», mormorò Maximilien con terrore, «è impossibile che la firma di un contratto duri così a lungo, a meno che avvenimenti imprevisti non siano sopraggiunti; ho misurato tutte le possibilità, calcolato il tempo di durata di tutte le formalità, è dunque accaduto qualche cosa.»

E ora un po’ passeggiava davanti al cancello, un po’ veniva ad appoggiare la fronte bruciante sul gelido ferro. Valentine sarebbe forse svenuta dopo il contratto? O sarebbe stata fermata mentre fuggiva? Erano le due sole ipotesi sulle quali poteva soffermarsi il giovane, entrambe terribili. L’idea però che più lo convinse fu che a metà della fuga fosse venuta meno la forza a Valentine, e che fosse caduta svenuta in mezzo a qualche viale.

«Se fosse così», gridò lanciandosi sulla sommità della scala, «la perderei, e per mia colpa!»

Il demone che gli aveva soffiato questo pensiero non lo lasciò più, e ronzò al suo orecchio con quella perseveranza che fa di alcuni dubbi dopo pochi momenti, per la forza del ragionamento, radicate convinzioni. I suoi occhi, che cercavano di fendere la crescente oscurità, credevano di vedere sotto l’ombroso viale un oggetto steso, Morrel s’arrischiò perfino a chiamare, e gli sembrò che il vento portasse fino a lui un lamento inarticolato. Finalmente passò un’altra mezz’ora, era impossibile poter pazientare più lungamente, tutto accresceva l’ansia: le tempie di Maximilien battevano con forza; scavalcò il muro, saltò dall’altra parte.

Egli era nella proprietà di Villefort, vi penetrava per mezzo d’una scala. Pensò allora alle conseguenze che poteva avere una simile azione, ma non era arrivato così avanti per tornare indietro. Per qualche tratto andò rasente il muro, e, traversando il viale con un salto, si lanciò nel folto degli alberi. In un momento fu all’estremità del boschetto. Dal punto in cui era giunto, si poteva scorgere la casa. Allora Morrel si assicurò di quanto aveva già potuto sospettare, e fu che invece dei lumi che si poteva credere di veder risplendere a ciascuna finestra, com’è naturale nei giorni di cerimonia, non vide altro che una massa grigia e velata ancora da un grande stato d’ombra che proiettava un’immensa nube distesa davanti alla luna.

Un lume scorreva a tratti come perduto, e passava davanti a tre finestre del primo piano. Queste erano quelle dell’appartamento della signora di Saint-Méran. Un altro lume restava immobile dietro un tendaggio rosso, che era quello della camera della signora Villefort. Morrel indovinò tutto questo. Tante volte, per seguire Valentine col pensiero in tutte le ore del giorno, si era fatto descrivere questa casa che conosceva senza averla mai vista. Fu ancora più spaventato da questo silenzio, di quel che fosse stato per l’assenza di Valentine.

Perduto, folle di dolore, risoluto a tentare tutto per rivedere Valentine, e assicurarsi dell’infortunio che presentiva, qualunque fosse, Morrel arrivò all’estremità del boschetto, e s’accingeva ad attraversare di corsa il prato, del tutto allo scoperto, quando gli giunse il suono di voci assai lontane, che il vento gli portava. A questo rumore fece un passo indietro, già uscito dal fogliame, si celò completamente, e restò immobile e muto avvolto nell’oscurità. La sua decisione era presa: se Valentine era sola, l’avrebbe chiamata sottovoce mentre passava; se Valentine era accompagnata, almeno l’avrebbe vista, e si sarebbe accertato che non le era accaduta alcuna disgrazia; se fossero stati estranei, avrebbe udito qualche parola della loro conversazione, e sarebbe riuscito a chiarire un mistero per lui inesplicabile.

La luna uscì dalle nubi che la nascondevano, e sulla porta della scalinata Morrel vide comparire il signor Villefort in compagnia di un uomo vestito di nero. Essi scesero gli scalini, e s’inoltrarono nel boschetto. Non avevano ancora fatto quattro passi, che nell’uomo vestito di nero Morrel aveva riconosciuto il dottore d’Avrigny. Il giovane, vedendoli venire, indietreggiò macchinalmente fino a che urtò nel tronco di un albero che formava il centro del boschetto; là fu costretto a fermarsi. Ben presto la sabbia cessò di stridere sotto i piedi dei due che stavano sopraggiungendo.

«Caro dottore», stava dicendo il procuratore del re, «ecco che il cielo si rivela avverso alla mia casa. Che morte orribile! Che colpo di fulmine! Non cercate di consolarmi, ahimè! Non ci sono consolazioni per simili disgrazie, la piaga è troppo viva e troppo profonda: morta! morta!»

Un sudore freddo fece agghiacciare la fronte del giovane e battere i denti. Chi dunque era morto in quella casa, che lo stesso Villefort diceva maledetta?

«Mio caro signor Villefort», rispose il medico, con un accento che raddoppiò il terrore del giovane, «non vi ho condotto qui per consolarvi, anzi tutto il contrario.»

«Che volete dire?» domandò il procuratore spaventato.

«Voglio dirvi che, dietro alla disgrazia che vi è accaduta, ce n’è un’altra forse anche maggiore.»

«Oh mio Dio!» mormorò Villefort, giungendo le mani. «Che volete dirmi ancora?»

«Siamo ben sicuri d’essere soli?»

«Sì, siamo soli… Ma che significano tutte queste precauzioni?»

«Significano che ho una confidenza terribile da farvi», disse il dottore. «Sediamoci.»

Villefort cadde piuttosto che sedersi sopra una panchina. Il dottore rimase in piedi davanti a lui, tenendogli una mano sopra una spalla. Morrel, agghiacciato dallo spavento, con una mano si reggeva la fronte, con l’altra si teneva compresso il cuore quasi temesse che si sentissero le sue pulsazioni. Morta! morta! ripeteva nel pensiero con la voce del cuore, ed egli stesso si sentiva morire.

«Parlate, dottore, vi ascolto», disse Villefort, «e poi sono preparato a tutto.»

«La signora di Saint-Méran era in età avanzata, non vi è dubbio, ma godeva ancora di una eccellente salute.»

Morrel per la prima volta respirò dopo dieci minuti.

«Il dolore l’ha uccisa», mormorò Villefort, «sì, il dispiacere, dottore! L’abitudine per quarant’anni di vivere col marchese…»

«Non fu il dispiacere, caro Villefort», disse il dottore. «I dispiaceri possono uccidere, sebbene i casi siano molto rari, ma non uccidono in un giorno, in un’ora, in dieci minuti.»

Villefort nulla rispose, soltanto alzò la testa che fino allora aveva tenuta bassa, e guardò il dottore con occhi atterriti.

«Eravate là, durante l’agonia?» domandò il dottor d’Avrigny.

«Certamente», rispose il procuratore. «Mi diceste a bassa voce di non allontanarmi.»

«Avete osservato i sintomi del male sotto cui ha dovuto soccombere la signora di Saint-Méran?»

«Certamente, ha avuto tre attacchi successivi, a qualche minuto di distanza gli uni dagli altri, e ogni volta fra loro più vicini e più forti. Quando siete giunto, già da qualche minuto la signora di Saint-Méran rantolava; ha avuto una crisi che ho creduto un semplice attacco nervoso, e non ho cominciato a spaventarmi realmente che quando l’ho vista sollevarsi sul letto, con gli arti e il collo irrigiditi. Allora dal vostro viso ho compreso che la cosa era più grave di quel che io credevo. Cessata la crisi, cercavo i vostri occhi, essi non s’incontrarono coi miei. Voi tenevate fra le dita il suo polso, contavate le pulsazioni, e comparve la seconda crisi, che non v’eravate ancora rivolto dalla mia parte. Quella è stata più terribile della prima; gli stessi movimenti nervosi si sono riprodotti e la bocca si è contratta ed è divenuta violetta.»

«Alla terza, è spirata.»

«Avevo già riconosciuto il tetano fin dalla fine della prima crisi; voi mi confermaste in questa opinione.»

«Sì, alla presenza di tutti», disse il dottore, «ma ora siamo soli.»

«Che cosa volete dirmi, mio Dio?»

«Che i sintomi del tetano e dell’avvelenamento con sostanze vegetali sono assolutamente gli stessi.»

Villefort si rizzò in piedi, poi dopo un minuto d’immobilità e di silenzio, ricadde sulla panchina.

«Mio Dio, dottore, pensate bene a quel che dite!»

Morrel non sapeva se stava sognando o vegliava.

«Ascoltate, conosco la gravità delle mie parole, e il carattere della persona cui le dico.»

«Parlate all’amico o al magistrato?» domandò Villefort.

«All’amico soltanto, in questo momento… I rapporti fra i sintomi del tetano e quelli dell’avvelenamento con sostanze vegetali sono talmente identici, che se fossi obbligato a firmare quanto vi dico, vi dichiaro che esiterei. Per cui ve lo ripeto, non è al magistrato ch’io parlo, ma all’amico. Ebbene, dico all’amico: nei tre quarti d’ora che è durata, ho studiato l’agonia, le convulsioni, e la morte della signora di Saint-Méran, e sono convinto, non solo che è morta avvelenata, ma anche con quale veleno è stata uccisa.»

«Signore! Signore!»

«Tutto coincide: sonnolenza interrotta da crisi nervose, sovraeccitazione del cervello. La signora di Saint-Méran è morta per una dose violenta di brucina o di stricnina che senza dubbio per caso, o forse per errore, le fu somministrata.»

Villefort afferrò la mano del dottore: «È impossibile», disse. «Sogno, mio Dio, sogno! È spaventoso sentire simili cose da un uomo come voi! In nome del cielo, ve ne supplico, caro dottore, ditemi che potete esservi ingannato!»

«Senza dubbio è possibile, ma…»

«Ma?…»

«Ma non lo credo.»

«Dottore, abbiate pietà di me! Da qualche giorno mi accadono cose tanto inaudite, che io credo alla possibilità di diventar pazzo.»

«La signora di Saint-Méran è stata visitata da un altro medico?»

«Da nessuno.»

«È stata presa alla farmacia un’altra ricetta che non ho visto?»

«Nessuna.»

«La signora di Saint-Méran aveva qualche nemico?»

«Non ne conosco alcuno.»

«C’è qualcuno che possa desiderare la sua morte?»

«Ma no, mio Dio, ma no, mia figlia è la sola ereditiera, Valentine sola… Oh, se mi potesse venire un simile pensiero, mi conficcherei un pugnale nel cuore per punirlo di aver potuto, per un sol momento, fermarsi sopra tal pensiero.»

«Caro amico», gridò a sua volta d’Avrigny, «non voglio accusare nessuno… Non parlo che di un incidente, o errore: il fatto è là che parla a bassa voce nella mia coscienza, la quale esige però che ve lo dichiari. Prendete le vostre informazioni.»

«Da chi? Come? Su che cosa?»

«Vediamo, Barrois il vecchio domestico si sarebbe sbagliato, e dato alla signora di Saint-Méran qualche bevanda preparata per il suo padrone?»

«Per mio padre?»

«Sì.»

«Ma come una bevanda preparata per il signor Noirtier può avvelenare la signora di Saint-Méran?»

«Niente di più semplice: sapete che in certe malattie i veleni divengono rimedi; la paralisi è una di queste malattie. Da circa tre mesi, per esempio, e dopo aver tutto tentato per rendere la parola al signor Noirtier, ho tentato un ultimo mezzo: lo curo con la brucina. Nell’ultima bevanda che ho ordinato per lui, ce n’erano sei centigrammi; questi, innocui per gli organi paralizzati del signor Noirtier, bastano per uccidere qualunque altra persona.»

«Mio caro dottore, non c’è nessuna comunicazione fra l’appartamento del signor Noirtier e quello della signora di Saint-Méran, e Barrois non è mai entrato nella camera di mia suocera. Sebbene vi conosca per l’uomo più abile, e soprattutto più coscienzioso del mondo, sebbene in tutt’altra congiuntura la vostra parola sarebbe stata per me una fiaccola pari alla luce del sole ora ho bisogno, malgrado questa convinzione, di appoggiarmi su questo assioma: “Sbagliare è umano”.»

«Ascoltate Villefort», riprese il dottore, «conoscete uno dei miei colleghi nel quale possiate avere la stessa fiducia che avete in me?»

«Perché dite questo? E che volete concluderne?»

«Chiamatelo, gli dirò ciò che ho visto, ciò che ho osservato, e poi faremo l’autopsia.»

«E troverete le tracce dell’avvelenamento?»

«No, non ho detto questo, ma constateremo la contrazione dei nervi, riconosceremo l’asfissia patente, incontestabile, e vi diremo, caro Villefort: se fu per negligenza, vegliate sui vostri servi; se fu per odio, vegliate sui vostri nemici!»

«Mio Dio, che mi proponete mai, d’Avrigny?» gemette Villefort abbattuto. «Dal momento che ci sarà un altro oltre voi a conoscenza del segreto, ci vorrà un processo, e in casa mia è impossibile! Tuttavia», continuò il regio procuratore, guardando il dottore con inquietudine, «se lo esigete assolutamente, lo farò. Infatti, dovrò dare seguito a quest’affare, il mio carattere me lo comanda. Ma, dottore, mi vedete, già accasciato di tristezza, introdurre nella mia casa un così grande scandalo, dopo un così grande dolore? Mia moglie e mia figlia ne morirebbero! Dottore, lo sapete, un uomo non è stato procuratore del re per venti anni senza essersi fatto un buon numero di nemici, e i miei sono molti. Quest’affare scandaloso sarà per essi un trionfo che li farà esultare di gioia, e coprirà me di vergogna… Perdonatemi queste idee mondane. Se foste un prete, non oserei parlarvi così, ma siete un uomo, conoscete gli altri uomini… Dottore, non mi avete detto niente, non è vero?»

«Mio caro signor Villefort», rispose il dottore, costernato, «il mio primo dovere è l’umanità. Se avessi salvato la signora di Saint-Méran, se la scienza avesse avuto il potere di farlo… ma lei è morta, e io devo dedicarmi ai vivi. Seppelliamo nel più profondo dei nostri cuori questo terribile segreto… Permetterò, se gli occhi di qualcuno si dovessero aprire su questa tragedia, che sia imputato a mia ignoranza il silenzio che avrò conservato. Però, signore, cercate sempre, e operosamente, perché forse ciò non si fermerà qui… E quando avrete trovato il colpevole, se pur lo ritroverete, vi dirò: voi siete magistrato, fate ciò che volete!»

«Grazie, grazie dottore!» esclamò Villefort, con indicibile gioia. «Non ho mai avuto amico migliore di voi.»

E quasi che avesse temuto che il dottore d’Avrigny non si pentisse di questa promessa, si alzò e trascinò il dottore dalla parte della casa. Essi si allontanarono. Morrel, come se avesse avuto bisogno di respirare, sporse la testa dai tigli, e la luna illuminò quel viso tanto pallido, che si sarebbe potuto prendere per un fantasma.

«Dio mi protegge in un palese, ma terribile modo!» diss’egli. «Ma Valentine, povera amica, resisterà a tanti dolori?»

Dicendo queste parole guardava, alternativamente, la finestra con le tende rosse, e le tre finestre con le tende bianche. La luce era quasi completamente sparita dalla finestra con le tendine rosse. Senza dubbio la signora Villefort aveva spento il suo lume, e il solo lume da notte mandava qualche riflesso sui vetri. All’estremità del palazzo, al contrario, vide aprirsi una delle tre finestre con le tende bianche. Una candela posta sul caminetto mandò al di fuori qualche raggio della sua pallida luce, e un’ombra venne per un momento ad appoggiarsi al balcone.

Morrel tremò; gli sembrò di avere udito un singhiozzo. Non c’era da stupirsi che quest’anima ordinariamente tanto coraggiosa e forte, ora sconvolta ed esaltata dalle più forti passioni dell’uomo, l’amore e la paura, si fosse indebolita al punto da subire allucinazioni superstiziose. Sebbene fosse impossibile, nascosto com’era, che l’occhio di Valentine lo distinguesse, pure gli parve di vedersi chiamato dall’ombra della finestra; il suo spirito sconvolto glielo diceva, il cuore ardente glielo ripeteva. Questo doppio impulso divenne realtà irresistibile, e per uno di quegli slanci incomprensibili della gioventù, balzò fuori dal suo nascondiglio, e in due salti, col pericolo di essere visto, di spaventare Valentine, di dare l’allarme, se alla giovinetta fosse sfuggito un qualche grido involontario, traversò il prato, che la luna faceva largo e chiaro come un lago, e raggiunta la fila degli aranci davanti alla casa, giunse ai gradini della scalinata, che salì rapidamente, spinse la porta, che si aprì senza alcuna resistenza davanti a lui.

Valentine non lo aveva visto, gli occhi seguivano una nube d’argento che solcava l’azzurro del cielo, e la cui forma era quella di un’ombra che sale, il suo spirito poetico ed esaltato le diceva che quella era l’ombra di sua nonna. Frattanto Morrel aveva traversato l’anticamera e ritrovato la rampa della scala, i tappeti stesi sugli scalini resero silenziosi i suoi passi: era giunto a un grado di esaltazione che non lo avrebbe spaventato la presenza stessa del signor Villefort. Se gli fosse comparso davanti, la risoluzione era presa: gli avrebbe confessato tutto pregandolo di scusare e approvare quest’amore che lo univa a sua figlia… Morrel era pazzo.

Per fortuna non incontrò nessuno. Le informazioni avute da Valentine sul piano interno della casa gli giovarono: giunse senza alcun incidente in cima alla scala e arrivato là non sapendo che fare, udì un singhiozzo, che riconobbe, e gli indicò il cammino da prendere; si voltò: una porta era socchiusa, e lasciava giungere a lui il riflesso di una lampada, e il suono della voce che gemeva.

Spinse questa porta ed entrò.

Nel fondo di un’alcova, sotto un bianco drappo che ricopriva la testa, e tutta la forma del corpo, giaceva la morta, più spaventosa ancora agli occhi di Morrel dopo la rivelazione segreta. Di fianco al letto in ginocchio, con la testa sepolta nei cuscini di una larga poltrona, Valentine tremante e singhiozzante, stendeva al di sopra della testa, che non si vedeva, ambo le mani giunte e irrigidite: aveva lasciato la finestra aperta, e pregava ad alta voce con accenti che avrebbero commosso il cuore più insensibile; la parola le sfuggiva dalle labbra, rapida, incoerente, inintelligibile, tanto il dolore le serrava la gola. La luna, strisciando attraverso l’apertura delle persiane, faceva impallidire la luce della lampada, e dava un fondo azzurro alle funebri tinte di questo quadro di desolazione.

Morrel non poté resistere a quello spettacolo; egli non era di una pietà esemplare, non era facile alle emozioni, ma Valentine sofferente, piangente e le braccia strette, davanti ai suoi occhi era più di quanto poteva sopportare in silenzio. Emise un sospiro, mormorò un nome, e il volto bagnato dalle lacrime, si volse verso di lui.

Valentine lo vide, e non manifestò alcuna meraviglia. Non vi sono più emozioni intermedie per un cuore gonfio di supremo dolore. Morrel le tese la mano, Valentine gli indicò il cadavere che giaceva sotto il funebre drappo, e ricominciò a singhiozzare.

Né l’uno, né l’altra osavano parlarsi. Esitavano a rompere il silenzio che sembrava venisse imposto da un fantasma, col dito sulle labbra. Finalmente Valentine osò parlare per prima.

«Amico mio», disse, «come mai siete qui? Ahimè, vi direi: “Siate il ben venuto!”, se non fosse che la morte vi ha aperto la porta di questa casa.»

«Valentine», disse Morrel con voce tremante, e con le mani giunte, «ero là dalle otto e mezzo, non vi vedevo venire: fui preso dall’inquietudine, ho saltato il muro, sono penetrato nel giardino, allora delle voci che parlavano del fatale accidente…»

«Quali voci?» domandò Valentine.

Morrel fremette perché tutta la conversazione fra il dottore e Villefort gli tornava alla mente, e attraverso il drappo credeva vedere quelle braccia contorte, quel collo irrigidito, quelle labbra livide.

«Le voci dei vostri domestici», continuò, «mi hanno rivelato tutto.»

«Ma venir fin qui, è lo stesso che perderci, amico mio», disse Valentine senza collera e senza spavento.

«Perdonatemi», rispose Morrel, col medesimo tono, «mi ritiro.»

«No», disse Valentine, «incontrereste qualcuno, restate.»

«Ma se venissero qui?…»

La giovane scosse la testa e rispose: «Nessuno verrà, state tranquillo, ecco la nostra salvaguardia».

E mostrò la forma del cadavere modellata dal drappo che la copriva.

«Ma che è accaduto del signor d’Epinay? Ditemelo, ve ne supplico», riprese Morrel.

«Il signor Franz è venuto per firmare il contratto al momento in cui mia nonna rendeva l’ultimo respiro.»

«Ahimè!» esclamò Morrel con un sentimento egoista, perché pensava che quella morte ritardava il matrimonio di Valentine.

«Ma ciò che raddoppia il mio dolore è che questa povera cara nonna, morendo, mi ordinò che si facesse il matrimonio il più presto possibile…»

«Ascoltate!» disse Morrel.

I due giovani fecero silenzio. Si udì una porta aprirsi, e dei passi fecero scricchiolare il pavimento del corridoio e i gradini della scala.

«È mio padre che esce dal suo ufficio», disse Valentine.

«E che riaccompagna il dottore», aggiunse Morrel.

«Come sapete che è il dottore?» domandò Valentine meravigliata.

«Lo presumo», rispose Morrel.

Valentine guardò il giovane. Frattanto si sentì chiudere la porta di strada. Il signor Villefort andò a dare un doppio giro di chiave a quella del giardino, poi risalì le scale. Giunto nell’anticamera si fermò un momento, come esitando se dovesse entrare nel suo appartamento, o nella camera della signora di Saint-Méran. Morrel si nascose dietro una tenda. Valentine non fece alcun movimento: si sarebbe detto che il sommo dolore la poneva al di sopra degli ordinari timori.

Ma Villefort entrò nelle sue stanze.

«Ora», mormorò Valentine, «non potete più uscire né dalla porta del giardino, né da quella sulla strada.»

Morrel guardò la giovane con meraviglia.

«Ora», continuò lei, «non c’è più che un’uscita sicura e permessa, ed è quella dell’appartamento di mio nonno.»

Si alzò.

«Venite», disse.

«E dove?» domandò Maximilien.

«Da mio nonno.»

«Io, dal signor Noirtier!?»

«Sì.»

«Pensateci bene, Valentine,»

«Ci penso, e da lungo tempo. Non ho più che questo vecchio al mondo, ed entrambi abbiamo bisogno di lui… Venite.»

«Rifletteteci, Valentine», ripeté Morrel, esitando a fare ciò che gli ordinava la ragazza, «state attenta, la benda mi è caduta dagli occhi. Venendo qui, ho commesso un atto di pazzia. Avete voi stessa tutta la vostra ragione, amica cara?»

«Sì», disse Valentine, «e non ho che uno scrupolo al mondo, quello di lasciar soli questi ultimi resti della mia povera nonna, che mi sono incaricata di vegliare.»

«Valentine», sussurrò Morrel, «la morte è sacra per se stessa.»

«Sì», rispose la giovane, «d’altronde, sarà per poco, venite.»

Valentine traversò il corridoio, e discese una piccola scala che conduceva dal signor Noirtier. Morrel la seguiva in punta di piedi. Giunti sul pianerottolo trovarono il vecchio domestico.

«Barrois», disse Valentine «chiudete la porta, e non lasciate entrare nessuno.»

Lei entrò per prima. Noirtier, ancora seduto sulla sua poltrona, attento al più piccolo rumore, istruito dal vecchio servitore di tutto ciò che accadeva, fissò gli sguardi avidi all’entrata della camera, vide Valentine, e il suo occhio brillò. C’era nel portamento, nell’attitudine della ragazza qualche cosa di grave e di solenne che sorprese il vegliardo: e lo sguardo, che era brillante, divenne interrogativo.

«Caro nonno», iniziò lei a bassa voce, «ascoltami bene: tu sai che la buona nonna di Saint-Méran è morta un’ora fa, e che adesso, eccetto te, non ho più alcuno che mi ami in questo mondo.»

Un’espressione d’infinita tenerezza passò negli occhi del vecchio.

«È dunque a te solo, non è vero, che io debbo confidare tutti i miei dispiaceri e le mie speranze?»

Il paralitico fece segno di sì.

Valentine prese Maximilien per la mano.

«Allora», disse lei, «guarda bene questo signore.»

Il vecchio fissò lo sguardo scrutatore, e leggermente meravigliato, su Morrel.

«Questi è il signor Maximilien Morrel», continuò lei, «il figlio di quell’onesto negoziante di Marsiglia di cui tu avrai senza dubbio inteso parlare.»

«Sì», fece il vecchio.

«È un nome irreprensibile, che Maximilien è in via di rendere ancora più stimabile, perché a trent’anni è capitano degli Spahis, e ufficiale della Legion d’Onore.»

Il vecchio fece segno che se ne ricordava.

«Ebbene, caro nonno», disse Valentine, mettendosi in ginocchio e mostrando Maximilien con una mano, «io l’amo, e non sarò mai d’altri che di lui! Se mi costringeranno a sposare un altro mi lascerò morire, o mi ucciderò.»

Gli occhi del paralitico esprimevano una folla di pensieri tumultuosi.

«Tu ami il signor Morrel, non è vero nonno?» domandò la giovinetta.

«Sì», fece il vecchio immobile.

«E vuoi tu proteggerci, noi siamo tuoi figli, contro la volontà di mio padre?»

Noirtier fissò lo sguardo intelligente su Morrel, quasi avesse voluto dire: «Per questo vedremo».

Maximilien capì.

«Signorina», disse, «voi avete un sacro dovere da compiere nella camera di vostra nonna… Volete permettermi di avere l’onore di parlare un momento col signor Noirtier?»

«Sì, sì, lo voglio», indicava l’occhio del vecchio; poi guardò Valentine con inquietudine.

«Come farà egli per intenderti, vuoi dire, buon nonno?»

«Sì.»

«Sta’ tranquillo, abbiamo tanto spesso parlato di te, che egli conosce bene il modo…» Poi, volgendosi a Morrel con un adorabile sorriso, velato però da una profonda tristezza: «Egli sa tutto quel che so io», disse.

Valentine si alzò, avvicinò una sedia per Morrel raccomandando a Barrois di non lasciare entrare nessuno, e dopo avere teneramente abbracciato suo nonno, e detto addio tristemente a Maximilien, se ne andò. Allora Morrel per provare a Noirtier che aveva la fiducia di Valentine, e che conosceva tutti i suoi segreti, prese il dizionario, la penna e la carta, e pose tutto sopra una tavola su cui stava il lume.

«Ma per prima cosa», cominciò Morrel, «permettetemi, signore, di raccontarvi chi sono io, come amo la signorina Valentine, e quali sono le mie intenzioni su di lei.»

«Ascolto», accennò Noirtier.

Era uno spettacolo curioso vedere questo vecchio, inutile in apparenza, divenuto il solo protettore, il solo appoggio, il solo giudice dei due giovani innamorati, belli e ardenti, che entravano nella vita. La sua figura nobile e austera incuteva rispetto a Morrel, che cominciò il racconto tremando. Narrò come aveva conosciuto, come aveva amato Valentine, e come questa nel suo isolamento, e nella sua infelicità, aveva accolto l’offerta della sua devozione. Gli disse qual era la sua nascita, la sua posizione, la sua fortuna, e più d’una volta interrogò lo sguardo del paralitico che gli rispondeva: «Va bene, continuate».

«Ora», disse Morrel, quando ebbe finito questa prima parte del suo racconto, «ora, che vi ho detto, signore, il mio amore e le mie speranze, debbo dirvi i miei progetti?»

«Sì», fece il vecchio.

«Ebbene, ecco ciò che noi avevamo deciso.»

Allora raccontò tutto a Noirtier, che un calessino aspettava nel recinto, come contava di rapire Valentine, condurla da sua sorella, sposarla, e, in rispettosa attesa, sperare il perdono del signor Villefort.

«No», accennò Noirtier.

«No», ripeté Morrel, «non è così che si deve fare?»

«No.»

«Questo progetto non ha il vostro assenso?»

«No.»

«Ebbene. C’è un altro mezzo», disse Morrel.

Lo sguardo interrogatore del vecchio domandò: «Quale?»

«Andrò a trovare il signor Franz d’Epinay», continuò Morrel, «sono contento di potervi dir questo in assenza della signorina Villefort; mi condurrò in modo da obbligarlo a essere un uomo d’onore.»

Lo sguardo di Noirtier continuò a interrogare.

«Ciò che io farò?»

«Sì.»

«Ecco, come vi dicevo, io andrò a trovarlo, gli racconterò i legami che mi uniscono alla signorina Valentine. Se è uomo d’onore, lo proverà rinunciando alla mano della sua fidanzata, e la mia amicizia e devozione gli sono dovute per sempre; se rifiuta, sia che lo spinga l’interesse, sia che un ridicolo orgoglio lo faccia persistere, dopo avergli provato che egli violenterebbe la mia sposa, che Valentine mi ama, e non può amare altri che me, mi batterei con lui, dandogli tutti i vantaggi, e l’ucciderò o egli ucciderà me: se lo uccido non sposerà Valentine, se mi uccide sono ben sicuro che Valentine non lo sposerà.»

Noirtier considerava con piacere questa nobile e sincera fisionomia, sulla quale si dipingevano tutti i sentimenti che la sua lingua esprimeva, aggiungendovi con l’espressione di un bel viso, tutto ciò che il colorito aggiunge a un disegno solido e vero. Quando Morrel ebbe finito di parlare, Noirtier chiuse gli occhi a più riprese che era il suo modo d’esprimere il no.

«No?» domandò Morrel. «Voi dunque disapprovate anche questo secondo progetto?»

«Sì, lo disapprovo», accennò il vecchio.

«Ma che fare allora, signore?» lo interrogò Morrel. «Le ultime parole della signora di Saint-Méran hanno affrettato il matrimonio di sua nipote… Debbo lasciar compiere le cose?»

Noirtier rimase immobile.

«Comprendo», riprese Morrel. «Debbo aspettare?»

«Sì.»

«Ma ogni ritardo può perderci, signore», obiettò il giovane. «Valentine è sola, senza difesa, e vi sarà costretta come un bambino. Entrato qui per sapere che cosa accade, ammesso miracolosamente alla vostra presenza, ragionevolmente non posso sperare che si rinnovi un’occasione così bella. Credetemi, di buono non vi è che l’uno o l’altro dei due progetti che vi propongo (perdonate questa vanità alla mia giovinezza), ditemi quale dei due preferireste: autorizzereste voi la signorina Valentine ad affidarsi al mio cuore?»

«No.»

«Preferite che io vada a trovare il signor d’Epinay? Ma, mio Dio, da chi verrà il soccorso che noi aspettiamo? Dal cielo?»

Il vecchio sorrise con gli occhi, come aveva abitudine di fare quando gli si parlava di cielo: nelle idee del vecchio giacobino era sempre rimasto un po’ d’ateismo.

«Dal caso?» riprese Morrel.

«No.»

«Da voi?»

«Sì.»

«Da voi?»

«Sì», ripeté il vecchio.

«Capite bene ciò che domando, signore? Scusate la mia insistenza, la mia vita sta nella vostra risposta: la nostra salvezza ci verrà da voi?»

«Sì.»

«Ne siete sicuro?»

«Sì.»

«Lo garantite voi?»

«Sì.»

E in quello sguardo affermativo c’era una fermezza da non lasciar dubbi sulla volontà, se non sul potere.

«Grazie, signore, mille volte grazie! Ma in qual modo, a meno che un miracolo del Signore non vi renda la parola, il gesto, il moto, in qual modo potrete voi, inchiodato su quella seggiola, muto e immobile, in qual modo potrete opporvi a questo matrimonio?»

Un sorriso rischiarò la faccia del vecchio, sorriso strano com’è quello degli occhi sopra un volto immobile.

«Debbo dunque aspettare?»

«Sì.»

«Ma il contratto?»

Il medesimo sorriso.

«Volete dirmi che il contratto non sarà firmato?»

«Sì», indicò il vecchio.

«Il contratto dunque non sarà firmato!» gridò Morrel. «Perdonatemi, signore, ma all’annuncio d’una gran felicità, è ben permesso dubitare… Il contratto dunque non sarà firmato?»

«No», fece il vecchio paralitico.

Malgrado tale assicurazione, Morrel esitava a credere: la promessa di un vecchio impotente era così strana, che invece di provenire da forza di volontà, pareva emanare da indebolimento di facoltà. Non è forse naturale che l’insensato, ignaro della sua follia, pretenda di realizzare cose al di sopra del suo potere? Il debole parla dei pesi che innalza, il timido dei giganti che affronta, il povero del tesoro che maneggia, l’infimo dei contadini, per orgoglio, si chiama Giove. Sia che Noirtier comprendesse l’indecisione del giovane, sia che non prestasse completamente fede alla docilità che aveva mostrata, lo guardò fisso.

«Che cosa volete, signore?» domandò Morrel. «Che rinnovi la promessa di non tentar nulla?»

Lo sguardo di Noirtier rimase fermo e immoto, come per dire che una promessa non bastava, quindi passò dal viso alla mano.

«Volete che giuri, signore?» domandò Maximilien.

«Sì», indicò il paralitico con la stessa solennità, «lo voglio.»

Morrel capì che il vecchio annetteva grande importanza a tal giuramento, per cui, stese la mano.

«Sul mio onore», disse, «vi giuro che aspetterò la vostra decisione prima d’agire contro il signor d’Epinay.»

«Bene», indicarono gli occhi del vecchio.

«Ora, signore», domandò Morrel, «volete che mi ritiri?»

«Sì.»

«Senza rivedere Valentine?»

«Sì.»

Morrel fece un gesto per significare che era pronto a obbedire.

«Ora», continuò Morrel, «permettete voi, signore, che vostro figlio vi abbracci, come ha fatto vostra figlia?»

L’occhio di Noirtier si atteggiò a un’espressione che non lasciava dubbi. Il giovane posò sulla fronte del vecchio le sue labbra dove la ragazza aveva deposte le sue, e salutato una seconda volta il vecchio, partì. Sul pianerottolo ritrovò il vecchio servitore avvisato da Valentine, che aspettava Morrel, e lo condusse per un corridoio oscuro alla porticina del giardino. Là giunto, Morrel si portò al cancello, arrampicandosi sopra una spalliera di carpini, giunse rapidissimo alla sommità del muro e per mezzo di una scala, in un secondo, fu nel recinto di trifoglio, ove lo aspettava ancora il calessino. Salì, e pieno di tante emozioni, ma col cuore più libero, verso mezzanotte rientrò in rue Meslay. Gettatosi sul letto, dormì come se si trovasse in uno stato di profonda ubriachezza.

73. La tomba della famiglia Villefort

Trascorsi due giorni da questi avvenimenti, una folla di persone affluì, verso le sei del mattino, alla porta del signor Villefort; e una lunga fila di carrozze a lutto e di carrozze private confluì lungo tutto il Faubourg Saint-Honoré e la rue Pépinière. Tra le carrozze se ne distingueva una di forma particolare, e che sembrava arrivare da lontano: era una specie di furgone coperto, tinto di nero, giunto fra i primi al convegno. Si chiesero informazioni e si seppe che, per una strana coincidenza, quel carro mortuario racchiudeva il corpo del signor di Saint-Méran e che quelli che erano venuti per un solo funerale, avrebbero seguito due cadaveri.

L’affluenza di gente era grande: il signor marchese di Saint-Méran, uno dei più zelanti e fedeli dignitari di re Luigi XVIII, e di re Carlo X, aveva conservato un grande numero di amici, che, uniti alle persone in relazione con Villefort, formavano un numero considerevole. Avvertite subito le autorità, si ottenne che i due carri funebri partissero nel medesimo tempo. Una seconda carrozza, addobbata con la stessa pompa mortuaria, fu condotta davanti alla porta del signor Villefort, e la cassa dal furgone fu messa nella carrozza funebre. I due corpi dovevano essere seppelliti nel cimitero del Père-Lachaise, ove da lungo tempo il signor Villefort aveva fatto erigere la tomba destinata alla sepoltura di tutta la sua famiglia. In quella tomba era già stato deposto il corpo della povera Renée, che suo padre e sua madre venivano a raggiungere dopo dieci anni di separazione.

Parigi, sempre curiosa, sempre commossa per ogni evento funebre, vide con religioso silenzio passare lo splendido corteo che accompagnava alla loro ultima dimora due nomi della vecchia aristocrazia, tra i più celebri per spirito di tradizione, fortuna di commercio e ferma devozione ai principi.

Nella stessa carrozza da lutto Beauchamp, Albert e Château-Renaud discorrevano su queste morti quasi subitanee.

«Ho incontrato la signora di Saint-Méran l’anno scorso a Marsiglia», diceva Château-Renaud, «ritornava dall’Algeria; pareva avesse ancora da vivere cent’anni, tanto era in lei perfetta la salute, pronta la mente, e prodigiosa l’attività. Quanti anni aveva?»

«Sessantasei», rispose Albert, «almeno per quanto Franz mi ha assicurato. Ma non è morta per gli anni, bensì per il dispiacere sofferto a causa della morte del marchese, per cui fu talmente addolorata che pare non abbia ripreso completamente la ragione.»

«Di una congestione cerebrale, a quanto sembra, o di una apoplessia fulminante.»

«Non è forse lo stesso?»

«Sì, pressappoco», rispose Beauchamp, «è difficile a credersi. La signora di Saint-Méran, che io pure ho visto una o due volte in vita mia, era piccola, gracile, di temperamento nervoso, piuttosto che linfatico; le apoplessie prodotte da dispiaceri sono rarissime in un corpo di tempra simile a quello della signora di Saint-Méran.»

«In tutti i casi», ragionò Albert, «qualunque sia la malattia o il medico che l’ha uccisa, ecco il signor Villefort, o piuttosto la signorina Valentine, o meglio ancora il nostro amico Franz in possesso di una magnifica eredità: ottantamila franchi di rendita, credo.»

«Un’eredità che sarà quasi raddoppiata alla morte di quel vecchio giacobino di Noirtier.»

«Quello è un vecchio tenace», disse Beauchamp. «Tenacem propositi virum… Ha scommesso con la morte che avrebbe visto seppellire tutti i suoi eredi, e sulla mia parola ci riuscirà. È sempre lo stesso della Convenzione del ’93, che diceva a Napoleone nel 1814: “Voi cedete perché il vostro impero è come un giovane stelo indebolito per il soverchio crescere: prendete la repubblica per tutore, e ritorniamo con una buona costituzione sui campi di battaglia, e vi garantisco cinquecentomila soldati, un’altra Marengo e una seconda Austerlitz. Le idee non muoiono, sire, sonnecchiano talvolta, si risvegliano poi più forti di prima”.»

«Pare», disse Albert, «che gli uomini siano per lui come le idee; ciò che mi dà pensiero è che vorrei sapere come si comporterà Franz d’Epinay col vecchio nonno, che non può fare a meno della sua sposa… Ma, a proposito, Franz dov’è?»

«Nella prima carrozza col signor Villefort, che lo considera già un membro di famiglia.»

In ciascuna delle carrozze che formavano il corteo funebre, i discorsi erano pressappoco simili. Meravigliati tutti di quelle due morti, rapide e vicine, nessuno però sospettava il terribile segreto svelato quella notte dal dottore d’Avrigny al signor Villefort.

Dopo un’ora di cammino circa, giunsero al cimitero: era una giornata calma ma cupa, e di conseguenza in armonia con la funebre cerimonia che vi si compiva. Fra le persone che si avviavano verso il sepolcro della famiglia, Château-Renaud riconobbe Morrel, che era venuto solo e in carrozzino: passeggiava pallidissimo e silenzioso sul sentiero costeggiato da bossi.

«Voi qui?» si stupì Château-Renaud, passando il braccio sotto quello del capitano. «Conoscete dunque il signor Villefort? Com’è quindi che non vi ho mai incontrato in casa sua?»

«Non è il signor Villefort che conosco», rispose Morrel, «ma conoscevo la signora di Saint-Méran.»

In quel momento li raggiunse Albert con Franz.

«Il luogo non è bello per una presentazione», disse Albert, «ma non importa, bando alle superstizioni. Signor Morrel, permettete ch’io vi presenti il signor Franz d’Epinay, eccellente compagno di viaggio col quale ho fatto il giro d’Italia. Mio caro Franz, il signor Maximilien Morrel è un eccellente amico acquistato in tua assenza, e del quale tu udrai spesso ripetersi il nome ogni qualvolta ti parlerò di coraggio, di spirito e di amabilità.»

Morrel rimase indeciso un momento, chiedendosi se fosse un segno di riprovevole ipocrisia il salutare amichevolmente quell’uomo, che detestava di cuore: ma si ricordò della gravità della circostanza e del suo giuramento, per cui si sforzò di non far trasparire il rancore, e salutò Franz contegnoso.

«La signorina Villefort è molto afflitta, non è vero?» chiese Debray a Franz.

«Oh, signore», rispose Franz, «di un’afflizione inesprimibile! Stamattina era così abbattuta, che appena l’ho riconosciuta!»

Tali parole, in apparenza semplicissime, lacerarono il cuore di Morrel. Franz aveva dunque visto Valentine, e parlato con lei. Il giovane e fervido ufficiale ebbe allora bisogno di tutte le forze per resistere al desiderio di mancare al suo giuramento, e, preso sotto braccio Château-Renaud, lo trascinò rapidamente verso la tomba, davanti a cui gli incaricati delle pompe funebri avevano deposto le due casse.

«Magnifica abitazione!» disse Beauchamp dando uno sguardo al mausoleo. «Palazzo d’estate e palazzo d’inverno. Verrà pure la vostra volta di venirci ad abitare caro d’Epinay, perché sarete ben presto della famiglia. Io, nella mia qualità di filosofo, voglio una casetta di campagna, una capanna laggiù sotto gli alberi, e non voglio tanti macigni sul mio povero corpo. Morendo, dirò a quelli che mi saranno d’intorno ciò che scriveva Voltaire a Piron: “Vado in campagna, e tutto sarà finito…” Orsù, Franz, ci vuole coraggio, vostra moglie eredita.»

«Davvero, Beauchamp», replicò Franz, «siete diventato insopportabile. La politica vi ha dato l’abitudine di scherzare su tutto, come gli uomini che maneggiano gli affari hanno quella di non credere a niente. Ma finalmente, quando vi trovate con uomini comuni, lasciate per un momento la politica, cercate di riprendere il vostro cuore, che lasciate nel vestibolo della Camera dei Deputati o della Camera dei Pari.»

«Mio Dio che cos’è la vita, una fermata nell’anticamera della morte…»

«Nemmeno io posso soffrirlo», disse Albert, e si ritirò quattro passi dietro Franz, lasciando Beauchamp continuare le sue dissertazioni filosofiche con Debray.

Il sepolcro della famiglia Villefort formava una specie di quadrato di pietre bianche dell’altezza di circa sei metri, e l’interno si divideva in due parti, una destinata alla famiglia di Saint-Méran l’altra alla famiglia Villefort, e ciascuna aveva la sua porta d’ingresso. Non si vedevano, come nelle altre tombe, quelle ignobili cassette sovrapposte che racchiudono i morti con un’iscrizione somigliante a un’etichetta, si vedeva sulle prime un’anticamera cupa e scura, con in fondo un muro tombale, in cui si aprivano le due porte di cui parlammo, e che comunicavano coi sepolcri dei Villefort e dei Saint-Méran. Là si poteva dare sfogo al dolore senza che gli spensierati passanti, che fanno di una visita al cimitero una gita di campagna o un appuntamento amoroso, venissero a disturbare col canto, con le grida o con le corse, la muta contemplazione o la preghiera o le lacrime di chi visita il sepolcro.

I due cadaveri furono collocati nella tomba a destra, quella della famiglia di Saint-Méran. Entrambi furono deposti sopra i cavalletti, che aspettavano da qualche tempo le loro spoglie mortali: Villefort, Franz e alcuni parenti prossimi entrarono soli nel famedio. Siccome le cerimonie funebri si erano compiute alla porta, e non c’era discorso da recitare, gli amici si separarono subito: Château-Renaud, Albert e Morrel si ritirarono da una parte, e Debray e Beauchamp da un’altra.

Franz rimase col signor Villefort. Alla porta del cimitero, Morrel si fermò con un pretesto e vedendo uscire Franz e il signor Villefort in carrozza a lutto, ne fu inquietato. Ritornò dunque a Parigi, e sebbene fosse nella stessa carrozza di Château-Renaud e Albert, non udì parola di quel che dissero i suoi due amici.

Infatti, nel momento in cui Franz stava per andarsene, il signor Villefort aveva detto: «Signor barone, quando potrò rivedervi?»

«Quando vorrete, signore», aveva risposto Franz.

«Il più presto possibile.»

«Sono ai vostri ordini, signore… Se volete, possiamo tornare insieme.»

«Se non vi disturba.»

«No, assolutamente.»

Così il futuro suocero e il futuro genero salirono nella stessa carrozza, ed ecco come Morrel, vedendoli passare, concepì gravi inquietudini. Villefort e Franz tornarono al Faubourg Saint-Honoré. Il regio procuratore, senza veder alcuno, senza parlare né alla moglie, né alla figlia, condusse il giovane nel suo studio e, mostrandogli una sedia: «Signor d’Epinay», disse, «debbo ricordarvi, né il momento è fuor di proposito, come potrebbe credersi a tutta prima per il rispetto dovuto ai morti, debbo dunque ricordarvi il voto espresso dalla signora di Saint-Méran sul suo letto di morte, che cioè al matrimonio di Valentine non si ponga ritardo. Sapete che gli affari della defunta sono in perfetta regola, che il suo testamento assicura a Valentine l’eredità dei Saint-Méran; il notaio mi ha mostrato ieri questi atti, che permettono di redigere in modo definitivo il contratto di matrimonio. Potete andare dal notaio, e dirgli, per parte mia, che vi mostri queste carte. È il signor Deschamps, place Beauvau, Faubourg Saint-Honoré».

«Signore», rispose d’Epinay, «per la signorina Valentine, immersa com’è nel dolore, non è forse questo il momento opportuno di pensare a uno sposo… In verità io temerei…»

«Valentine», interruppe il signor Villefort, «non avrà desiderio più intenso di quello di compiere le ultime volontà di sua nonna, e io vi sono garante che da parte sua non sorgeranno difficoltà.»

«In tal caso, signore», rispose Franz, «siccome non ne insorgeranno neppure dalla mia, potete fare ciò che più vi accomoda; ho impegnata la parola, e l’adempirò.»

«Allora», proseguì Villefort, «non abbiamo più nulla che impedisca: il contratto doveva esser firmato tre giorni fa, lo troveremo dunque già preparato, e potremo sottoscriverlo oggi stesso.»

«Ma il lutto?» disse esitando Franz.

«State tranquillo, signore», riprese Villefort, «non in casa mia certamente verranno trascurate le convenienze. La signorina Villefort potrà ritirarsi, durante i tre mesi richiesti, nel suo podere di Saint-Méran… Dico suo podere, perché da oggi quella proprietà è sua. Ma, fra otto giorni, se lo desiderate, senza rumore, senza lusso, sarà concluso il matrimonio civile. Era desiderio della signora di Saint-Méran che sua nipote si maritasse in quella terra: concluso il matrimonio, signore, potrete ritornare a Parigi, mentre vostra moglie passerà il tempo del lutto in compagnia della sua matrigna.»

«Come vi piace, signore», annuì Franz.

«Allora», riprese il signor Villefort, «vi prego di aspettare, fra mezz’ora Valentine scenderà in salotto. Manderò a cercare Deschamps, leggeremo e firmeremo il contratto in una sola seduta, e fin da questa sera la signora Villefort condurrà Valentine nella sua terra, ove fra otto giorni noi andremo a raggiungerla.»

«Signore», disse Franz, «ho una domanda da farvi.»

«E quale?»

«Desidero che Albert di Morcerf e Raoul di Château-Renaud siano presenti a questa firma: come sapete, essi sono i miei due testimoni.»

«Una mezz’ora basta ad avvertirli; volete andare voi stesso a cercarli, o volete mandar qualcuno?»

«Preferisco andarci io, signore.»

«Vi aspetto dunque fra mezz’ora, e fra mezz’ora Valentine sarà pronta.»

Franz salutò il signor Villefort, e uscì.

Appena chiusa la porta di strada dietro al giovane, Villefort mandò ad avvertire Valentine che scendesse in salotto entro mezz’ora, perché si aspettavano il notaio e i testimoni del signor d’Epinay. Tale inaspettata notizia produsse gran sensazione nella famiglia. La signora Villefort non voleva crederci, e Valentine ne rimase atterrita come da un colpo di fulmine: guardò intorno a sé, come per cercare a chi domandare soccorso. Volle scendere da suo nonno; ma incontrò per la scala il signor Villefort, che la prese per un braccio, e la condusse in sala. Nell’anticamera Valentine incontrò Barrois, e gettò al vecchio servitore uno sguardo di disperazione.

Poco dopo Valentine, la signora Villefort entrò nel salotto col piccolo Edouard. Si vedeva chiaro che la giovane sposa aveva grandemente condiviso i dispiaceri di famiglia; era pallida, e sembrava molto stanca. Si sedette, prendendo Edouard sulle ginocchia e, a tratti, comprimeva, con moti quasi convulsi, contro il petto il ragazzino, sul quale sembrava concentrarsi tutta la sua vita. Ben presto s’udirono due carrozze entrare nel cortile. Una era quella del notaio, l’altra quella di Franz con gli amici; in un istante furono tutti riuniti nella sala.

Valentine era così pallida, che si vedevano le vene turchine delle tempie, intorno agli occhi e lungo le guance. Franz non poté esimersi dal provare una forte commozione; Château-Renaud e Albert si guardavano in viso con meraviglia; la cerimonia che stava per cominciare non era meno triste di quella a cui avevano assistito poco prima. La signora Villefort si era messa all’ombra di una tenda di velluto, e siccome stava sempre china sopra suo figlio, era difficile leggerle in viso ciò che accadeva nel suo cuore.

Il signor Villefort si mostrava, come sempre, impassibile. Il notaio, dopo avere, secondo la consuetudine dei legali, distribuito sulla tavola le carte, preso posto sulla poltrona, e inforcati gli occhiali, si voltò verso Franz: «Siete voi il signor Franz di Quesnel, barone di Epinay?» domandò, sebbene lo sapesse perfettamente.

«Sì, signore», rispose Franz.

Il notaio gli fece un inchino.

«Debbo avvertirvi, signore», disse, «in nome del signor Villefort che il matrimonio progettato fra voi e la signorina Villefort ha fatto cambiare le disposizioni testamentarie del signor Noirtier verso sua nipote, poiché egli aliena interamente tutta la sostanza che le doveva trasmettere. Ci affrettiamo però ad aggiungere», continuò il notaio, «che avendo il testatore alienata tutta la sua sostanza, mentre in diritto poteva alienarne soltanto una parte, il testamento non resisterà agli attacchi, e sarà dichiarato nullo e come non avvenuto.»

«Sì», intervenne Villefort, «vi prevengo però fin d’ora, signor d’Epinay, che finché vivrò, il testamento di mio padre non sarà mai messo in discussione; la mia posizione mi proibisce persino l’ombra di questo scandalo.»

«Signore», disse Franz, «sono dolente che si sia intavolata simile questione davanti alla signorina Valentine. Io non mi sono mai informato dell’ammontare del suo patrimonio, che per quanto possa venire diminuito, sarà sempre maggiore del mio. Nelle trattative col signor Villefort la mia famiglia ha avuto di mira il suo nome stimabile, e io cerco la felicità.»

Valentine fece un segno impercettibile di ringraziamento, mentre due silenziose lacrime le scorrevano sulle guance.

«Del resto, signore», disse Villefort al suo futuro genero, «prescindendo dalla perdita di parte delle vostre speranze, in questo inatteso testamento non c’è nulla che debba offendervi personalmente, è giustificato dalla debolezza di spirito del signor Noirtier. Il dispiacere di mio padre non è che mia figlia si sposi con voi, ma che mia figlia prenda marito; una unione con qualunque altro gli sarebbe ugualmente dispiaciuta. La vecchiaia è egoista, signore, e la signorina Villefort faceva al signor Noirtier fedele compagnia, cosa che non potrà mai fargli la baronessa d’Epinay. Lo stato infelice nel quale si trova mio padre fa che gli si parli raramente di affari, la debolezza del suo spirito non gli permette di occuparsene e sono ampiamente convinto che a quest’ora, mentre sa che sua nipote si marita, non si ricorda neppure il nome di quello che sta per diventare suo nipote.»

Appena terminate dal signor Villefort queste parole, alle quali Franz rispondeva con un inchino, d’un tratto si aprì la porta del salotto, e comparve Barrois.

«Signori, signori», annunciò, con una voce stranamente sicura per un servitore che parla ai suoi padroni in una circostanza così solenne, «signori, il signor Noirtier Villefort desidera parlare sul momento al signor Franz di Quesnel barone di Epinay.»

Egli pure, come aveva fatto il notaio, affinché non potesse nascere alcun errore di persona, aveva dato al fidanzato tutti i suoi titoli. Villefort rabbrividì, la signora Villefort lasciò scivolare il figlio giù dalle ginocchia, Valentine si alzò pallida e muta come una statua. Albert e Château-Renaud si scambiarono un secondo sguardo più meravigliati ancora di prima. Il notaio guardò Villefort.

«È impossibile», disse il regio procuratore. «D’altra parte il signor d’Epinay non può in questo momento lasciare la sala.»

«È precisamente in questo momento», riprese Barrois, con la stessa fermezza, «che il signor Noirtier, mio padrone, desidera parlare di affari importanti al signor Franz d’Epinay.»

«Parla forse adesso il nonno Noirtier?» domandò Edouard con la sua solita impertinenza.

Ma questo lazzo non fece ridere neppure la signora Villefort, tanto gli spiriti erano preoccupati, tanto il momento sembrava solenne.

«Dite al signor Noirtier», rispose Villefort, «che non possiamo fare com’egli domanda.»

«Allora il signor Noirtier avvisa questi signori», riprese Barrois, «che si farà subito portare lui stesso nel salotto.»

Lo stupore era al colmo. Una specie di sorriso si disegnò sul viso della signora Villefort. Valentine, quasi involontariamente, alzò gli occhi al soffitto per ringraziare il cielo.

«Valentine», disse il signor Villefort, «andate un po’ a sentire, vi prego, che nuova fantasia è questa di vostro nonno.»

Valentine fece subito qualche passo per uscire, ma il signor Villefort cambiò parere.

«Aspettate», la fermò, «v’accompagnerò.»

«Scusate, signore», disse Franz, a sua volta, «mi pare che, avendo il signor Noirtier fatto chiedere di me, tocchi a me in particolare arrendermi ai suoi desideri. D’altra parte sarei fortunato di potergli presentare i miei rispetti, non avendo ancora avuto l’occasione di procurarmi questa fortuna.»

«Mio Dio!» ribatté Villefort, con visibile inquietudine. «Non v’incomodate.»

«Perdonatemi, signore», disse Franz, col tono d’uomo che ha preso una risoluzione. «Desidero non perdere questa occasione per provare al signor Noirtier quanto avrebbe torto di concepire verso di me delle antipatie che sono deciso a vincere, con profonda devozione.»

E senza lasciarsi trattenere più da Villefort, Franz si alzò, e seguì Valentine, la quale scendeva già la scala con la gioia di un naufrago che afferra con la mano una corda. Il signor Villefort li seguì entrambi. Château-Renaud e Morcerf si scambiarono un terzo sguardo ancora più stupiti.

74. Il processo verbale

Noirtier attendeva, vestito di nero, assiso nella sua sedia a braccioli. Entrate le tre persone che calcolava dovessero venire, guardò la porta, che fu subito chiusa dal suo cameriere.

«Badate», disse sottovoce Villefort a Valentine, che non poteva nascondere la sua gioia, «che se il signor Noirtier vi comunica cose che possano impedire il vostro matrimonio, io vi proibisco di rivelarle.»

Valentine arrossì ma non rispose. Villefort si avvicinò a Noirtier.

«Ecco il signor Franz d’Epinay», gli disse. «Voi lo avete fatto chiamare signore, ed egli si è arreso ai vostri desideri. Senza dubbio noi desideravamo farvi questa visita da lungo tempo, e sarei contento se questa vi provasse quanto poco è fondata la vostra opposizione a un tal matrimonio.»

Noirtier rispose con uno sguardo che fece correre un brivido lungo le vene a Villefort. Fece con l’occhio segno a Valentine di avvicinarsi. In un momento, con i mezzi cui era abituata nelle conversazioni con suo nonno, lei trovò la parola «chiave». Allora consultò lo sguardo del paralitico, che si fissò sulla cassetta d’un piccolo mobile posto fra le due finestre e aperta la cassetta, ritrovò effettivamente una chiave. Quando ebbe quella chiave, e il vecchio le fece segno che era veramente quella che domandava, gli occhi del paralitico si diressero verso un armadio dimenticato da molti anni, e che si credeva non racchiudesse che delle cartacce inutili.

«Desiderate che apra l’armadio?» domandò Valentine.

«Sì», indicò il vecchio.

«Che apra i cassetti?»

«Sì.»

«I laterali?»

«No.»

«Quello di mezzo?»

«Sì.»

Valentine aprì, e ne estrasse un fascio di carte.

«È quello che desiderate, mio buon nonno?» chiese lei.

«No.»

Estrasse allora tutte le altre carte, fino a che non rimase assolutamente nulla nel cassetto.

«Ma il cassetto è vuoto ora», disse.

Gli occhi del vecchio erano fissi sul dizionario.

«Sì, buon nonno, vi capisco», disse la giovane.

E ripeté una dopo l’altra tutte le lettere dell’alfabeto; Noirtier si fermò alle lettera S. Aprì il dizionario, e cercò fino alla parola «segreto».

«È uno stipo segreto?» domandò Valentine.

«Sì», indicò Noirtier, poi guardò verso la porta dalla quale era uscito il domestico.

«Barrois?» disse lei.

«Sì», rispose Noirtier.

«Volete che lo chiami?»

«Sì.»

Valentine andò alla porta, e chiamò Barrois. Durante questo tempo il sudore dell’impazienza rigava le guance di Villefort, e Franz rimaneva stupefatto per la meraviglia. Il vecchio servitore ricomparve.

«Barrois», disse Valentine, «mio nonno mi ha ordinato di prendere la chiave da quel mobile, di aprire questo armadio e di tirare il cassetto: ora, in questo cassetto vi è uno stipo segreto, e sembra che voi lo conosciate: apritelo.»

Barrois guardò il vecchio.

«Obbedite», disse l’occhio intelligente di Noirtier.

Barrois obbedì, e, aperto un doppio fondo, apparve un plico di carte annodate con un nastro nero.

«È questo che volete, signore?» domandò Barrois.

«Sì», indicò Noirtier.

«A chi volete che si diano queste carte? Al signor Villefort?»

«No.»

«Alla signorina Valentine?»

«No.»

«Al signor Franz d’Epinay?»

«Sì.»

Franz attonito fece un passo avanti dicendo: «A me, signore?»

Franz ricevette il plico dalle mani di Barrois, e gettando gli occhi sull’intestazione, lesse: «Da depositarsi dopo la mia morte presso il mio amico il generale Durand; egli stesso morendo lascerà a suo figlio questo plico con l’ingiunzione di conservarlo come contenente un foglio della più alta importanza».

«Ebbene, signore», domandò Franz, «quale uso volete ch’io faccia di questo plico?»

«Che voi, certo, lo conserviate sigillato come si trova», dichiarò il regio procuratore.

«No, no», fece segno prontamente Noirtier.

«Desiderate forse che il signore lo legga?» domandò Valentine.

«Sì», rispose il vecchio.

«Capite, signor barone? Mio nonno vi prega di leggere quella carta», disse Valentine.

«Sì», confermò il vecchio.

«Allora sediamoci», disse Villefort, con impazienza, «perché ci vorrà del tempo.»

«Sedetevi», indicò con l’occhio il vecchio.

Villefort si sedette, ma Valentine restò in piedi accanto al nonno, appoggiata alla sua seggiola, e Franz in piedi davanti a lui, tenendo il misterioso foglio fra le mani.

«Leggete», ordinarono gli occhi del vecchio.

Franz dissigillò il plico e si fece un gran silenzio nella camera quando cominciò a leggere: «Estratto dei processi verbali di una seduta del club bonapartista della rue Saint-Jacques tenutasi il 5 febbraio 1815». Franz si fermò. «Il 5 febbraio 1815 fu il giorno in cui mio padre venne assassinato!» esclamò. Valentine e Villefort rimasero muti. Il solo occhio del vecchio diceva chiaramente: «Continuate».

«Ma fu nell’uscire da quel club», proseguì Franz, «che mio padre scomparve.»

Lo sguardo di Noirtier continuò a esprimere: «Leggete».

Egli riprese: «I sottoscritti Louis-Jacques Beauregard, luogotenente colonnello d’artiglieria; Etienne Duchampy, generale di brigata, e Claude Lecharpal, direttore delle acque e foreste, dichiarano che il 4 febbraio 1815 giunse una lettera dall’isola d’Elba, che raccomandava alla benevolenza e fiducia dei membri del circolo bonapartista il generale Flavien di Quesnel, che, avendo servito l’imperatore dal 1804 al 1815, doveva essere tutto dedito alla sua causa malgrado il titolo di barone che Luigi XVIII aveva aggiunto alla sua terra d’Epinay. In conseguenza fu scritto un biglietto al generale Quesnel, in cui lo si pregava di assistere alla seduta dell’indomani 5. Il biglietto non indicava né la strada, né il numero della casa in cui si teneva la riunione e non portava alcuna firma, ma avvertiva il generale, che se aderiva, sarebbero andati a prenderlo alle nove della sera. La seduta aveva luogo dalle nove di sera a mezzanotte. Il presidente del circolo alle nove si presentò al generale, il generale lo aspettava. Il presidente gli disse che una delle condizioni per la sua ammissione era l’ignoranza del luogo della riunione, e che perciò avrebbe dovuto lasciarsi bendare gli occhi giurando di non togliersi mai la benda. Il generale Quesnel accettò le condizioni, e promise sul suo onore che non avrebbe tentato di conoscere il luogo dove lo conducevano. Il generale aveva fatto preparare la sua carrozza, ma il presidente disse che non potevano servirsene poiché sarebbe stato inutile bendare gli occhi al padrone, se il cocchiere doveva conoscere le strade per cui passava.

“Come fare allora?” domandò il generale.

“Ci attende la mia carrozza”, rispose il presidente.

“Siete dunque così sicuro del vostro cocchiere da confidargli un segreto che giudicate imprudente far conoscere al mio?”

“Il nostro cocchiere è un membro del circolo”, rispose il presidente, “saremo guidati da un consigliere di Stato.”

“Allora”, aggiunse ridendo il generale, “corriamo un altro pericolo, quello di rovesciarci con la carrozza!”

Noi trascriviamo questo scherzo come una prova che il generale non è stato minimamente forzato ad assistere alla seduta, e che vi è intervenuto di sua piena volontà. Saliti in carrozza, il presidente ricordò al generale la promessa fatta di lasciarsi bendare gli occhi. Il generale non si oppose: fu adoperato un fazzoletto che stava nella carrozza. Lungo la via, il presidente s’accorse che il generale cercava di guardare sotto la benda, gli ricordò il suo giuramento.

“Ah, è vero”, disse il generale.

La carrozza si fermò all’ingresso d’un viale della rue Saint-Jacques. Il generale scese appoggiandosi al braccio del presidente, che non gli era noto, e che supponeva fosse un semplice membro del circolo, attraversarono il viale, salirono una scala, ed entrarono nella sala delle deliberazioni. La seduta era cominciata. I membri del circolo, avvisati dell’individuo che doveva esser presentato quella sera, erano presenti al gran completo. Giunto in mezzo alla sala, il generale fu invitato a togliersi la benda: ubbidì subito all’invito, e parve molto stupito che un così gran numero di persone di sua conoscenza appartenessero a una società di cui fino ad allora non aveva neppure sospettato l’esistenza. Fu interrogato sulle sue opinioni, ma si limitò a rispondere che le lettere dell’isola d’Elba avrebbero già dovuto farle conoscere…»

Franz s’interruppe.

«Mio padre era realista», disse, «non c’era bisogno d’interrogarlo sulle sue opinioni poiché erano note.»

«E da ciò», spiegò Villefort, «ebbe origine la mia amicizia con vostro padre, mio caro Franz, come accade quando si condividono le stesse opinioni.»

«Leggete», indicò l’occhio del vecchio.

Franz continuò: «Il presidente prese allora la parola per impegnare il generale a spiegarsi esplicitamente: ma il signor di Quesnel rispose che prima di tutto desiderava sapere che cosa volessero da lui. Allora fu comunicata al generale la lettera dell’isola d’Elba che lo raccomandava al circolo come uomo sul quale si poteva contare. Un paragrafo tutto intero esponeva il probabile ritorno dall’isola e prometteva un’altra lettera con più minuti particolari all’arrivo del Pharaon, bastimento appartenente all’armatore Morrel di Marsiglia, il cui capitano era interamente devoto all’imperatore. Durante quella lettura, il generale, sul quale si era creduto di poter contare come su un fratello, dette invece segni visibili di malcontento e di disaccordo. Terminata la lettura, stette silenzioso e con le sopracciglia aggrottate.

“Ebbene”, domandò il presidente, “che ne dite, signor generale?”

“Io dico che è troppo poco tempo che abbiamo prestato giuramento al re Luigi XVIII da violarlo di già a beneficio dell’ex imperatore.”

Questa volta la risposta era chiarissima perché si potesse dubitare dei suoi sentimenti.

“Generale”, disse il presidente, “per noi non vi è più né re Luigi XVIII né ex imperatore. Vi è soltanto Sua Maestà l’imperatore e re, allontanato da dieci mesi dalla Francia, suo impero, dalla violenza e dal tradimento.”

“Scusate, signori, può darsi che per voi non esista un re Luigi XVIII, ma per me sì, visto che mi fece barone e maresciallo di campo, e io non dimenticherò mai che devo questi due titoli al suo fortunato ritorno in Francia.”

“Signore”, disse il presidente alzandosi e col tono più severo, “badate a ciò che dite! Le vostre parole ci dimostrano chiaro che all’isola d’Elba si sono ingannati sul conto vostro, e che hanno ingannato noi! L’invito vi è stato fatto a motivo della fiducia che voi ispiravate, e quindi di un sentimento per voi onorevole. Noi però eravamo in errore, un titolo e un grado vi hanno fatto partigiano del nuovo governo che vogliamo rovesciare. Noi non vi costringeremo a prestarci il vostro aiuto, giacché non arruoliamo nessuno contro la propria coscienza e volontà, ma vi forzeremo ad agire da galantuomo, anche qualora non ne foste disposto.”

“Chiamate essere galantuomo conoscere la vostra cospirazione e non denunciarla! Io chiamo ciò essere vostro complice. Vedete che sono ancora più franco di voi…”»

«Ah! Padre mio!» disse Franz interrompendosi. «Capisco ora perché ti hanno assassinato.»

Valentine non poté fare a meno di volgere uno sguardo a Franz; il giovane era veramente bello nel suo entusiasmo. Villefort passeggiava su e giù dietro a lui. Noirtier osservava l’emozione di ciascuno, e conservava la sua attitudine dignitosa e severa.

Franz riprese il manoscritto, e continuò: «“Signore”, disse il presidente, “foste pregato di venire in seno all’assemblea, e non vi foste trascinato per forza; vi fu proposto che vi lasciaste bendare gli occhi, e accettaste. Quando avete acconsentito a questo doppio invito, sapevate benissimo che non era nostra intenzione d’assicurare il trono a Luigi XVIII, senza di che non ci saremmo prese tante precauzioni di nasconderci alla polizia. Ora, come ben capirete sarebbe una cosa troppo comoda potersi mettere una maschera per sorprendere il segreto delle persone, e poi togliersi questa maschera per perdere quelli che si sono fidati di voi. No, no, per prima cosa dovrete dire francamente se siete per il re che ora governa, o per Sua Maestà l’imperatore”.

“Sono realista”, rispose il generale, “ho giurato per Luigi XVIII; manterrò il mio giuramento.”

Queste parole furono seguite da un mormorio generale e si poteva capire dalla concitazione di molti membri componenti il circolo, che discutevano il modo di far pentire il signor d’Epinay di quelle imprudenti parole. Il presidente si alzò di nuovo e impose il silenzio.

“Signore”, diss’egli, “siete troppo assennato per non comprendere le conseguenze della situazione in cui ci troviamo, gli uni in faccia agli altri, e la vostra stessa franchezza ci detta le condizioni che dobbiamo proporvi. Dovete dunque giurare sul vostro onore di non rivelar nulla di tutto ciò che avete visto e udito.”

Il generale portò la mano alla spada, e gridò: “Se parlate di onore, cominciate col non travisare le sue leggi, e non imponete nulla con la violenza”.

“E voi signore”, replicò il presidente, con calma forse più terribile della collera del generale, “non toccate la spada, vi do questo consiglio.”

Il generale volse intorno lo sguardo, da cui trapelava un principio d’inquietudine. Però non cedette; al contrario, richiamando il suo coraggio: “Io non giurerò”, diss’egli.

“Allora, signore, voi morirete”, rispose tranquillamente il presidente.

Il signor d’Epinay divenne pallidissimo, guardò una seconda volta intorno a sé: molti membri del circolo brandivano o cercavano armi sotto i loro mantelli.

“Generale”, riprese il presidente, “state tranquillo, siete in mezzo a uomini d’onore che tenteranno ogni via per persuadervi, prima di ricorrere all’estremo contro di voi, ma come ben diceste, vi trovate pure in mezzo a cospiratori, e bisogna che ci restituiate il segreto di cui siete in possesso.”

Un silenzio significativo seguì queste parole, e siccome il generale non rispondeva, “Chiudete le porte”, ordinò il presidente agli uscieri. Un eguale silenzio di morte seguì queste altre parole. Allora il generale si avanzò e facendo un violento sforzo su di sé, disse: “Ho un figlio e devo pensare a lui nel ritrovarmi in mezzo ad assassini”.

“Generale”, parlò con nobiltà il capo dell’assemblea, “un uomo solo ha sempre il diritto d’insultarne cinquanta, è il privilegio della debolezza; fa però male a servirsi di questo diritto. Credete a me, generale, giurate e non insultate.” Il generale, vinto anche questa volta dalla superiorità del capo dell’assemblea, esitò un istante; ma finalmente, avvicinandosi al banco del presidente domandò: “Qual è la formula?”

“Eccola: Io giuro sul mio onore di non rivelare a nessuno al mondo ciò che ho visto e udito il 5 febbraio 1815 fra le nove e le dieci di sera, e mi dichiaro meritevole di morte se infrango il mio giuramento.”

Il generale parve provare un tremito nervoso, che per qualche secondo gli impedì di rispondere; poi, finalmente, vincendo ogni riluttanza, pronunciò il richiesto giuramento ma con voce bassa, che a grande stento fu udita, cosicché molti membri vollero che lo ripetesse a voce più alta e più distinta, il che fu fatto.

“Ora desidero ritirarmi”, disse il generale. “Sono finalmente libero?”

Il presidente si alzò, scelse tre membri dell’assemblea per accompagnarlo, salì in carrozza col generale dopo avergli bendato gli occhi. Tra questi tre membri c’era il cocchiere che li aveva condotti; gli altri membri del circolo si separarono in silenzio.

“Dove volete che vi conduciamo?” domandò il presidente.

“Ovunque possa essere libero dalla vostra presenza”, rispose il signor d’Epinay.

“Signore”, riprese allora il presidente, “badate! Voi qui non siete più nell’assemblea, non avete più a che fare se non con uomini isolati, non insultate dunque, se non volete essere responsabile dell’insulto.”

Ma invece di capire tale linguaggio il signor d’Epinay rispose: “Il motivo per cui siete tanto coraggioso sia in carrozza che nell’assemblea, signore, è perché quattro uomini sono sempre più forti di uno solo”.

Il presidente fece fermare la carrozza, erano precisamente nelle vicinanze del Quai des Ormes.

“Perché vi fermate qui?” domandò il generale d’Epinay.

“Perché, signore”, rispose il presidente, “avete insultato un uomo, e quest’uomo non vuole fare un passo di più senza chiedervi una leale riparazione.”

“Un altro genere d’assassinio!” disse il generale stringendosi nelle spalle.

“Non fate chiacchiere, signore”, replicò il presidente, “se non volete che consideri voi pure come uno di coloro che definivate poco fa, un vile che si fa scudo della sua stessa viltà. Siete solo, e uno solo vi risponderà; avete una spada al fianco, io ne ho una in questo bastone, non avete padrini, uno di questi signori sarà il vostro. Ora, se vi aggrada, toglietevi la benda.”

“Finalmente”, disse, “saprò con chi ho a che fare.”

Fu aperta la carrozza; tutti e quattro scesero…»

Franz s’interruppe un’altra volta, e si asciugò un freddo sudore che gli grondava dalla fronte. Faceva spavento vedere un figlio, tremante e pallido, leggere ad alta voce i particolari, fino allora ignoti, della morte di suo padre. Valentine congiunse le mani come se mormorasse una preghiera al cielo; Noirtier guardava Villefort con un’espressione quasi di sublime disprezzo e orgoglio.

Franz continuò: «Era come abbiamo detto il 5 febbraio. Da tre mesi gelava a cinque o sei gradi; la scalinata era tutta ricoperta di ghiaccio: il generale era alto e grosso, il presidente gli additò i punti per scendere. I due testimoni li seguivano. La notte era oscura. In fondo alla scalinata, in riva al fiume c’erano molta neve e brina; si vedeva l’acqua scorrere nera, profonda, trasportando massi di ghiaccio. Uno dei padrini andò a cercare una lanterna in una chiatta di carbone, e al suo chiarore furono esaminate le armi.

La spada del presidente, consistente appena, come aveva detto, in uno stocco che portava nel bastone, era dodici centimetri più corta di quella del suo avversario, e senza guardia. Il generale d’Epinay propose di tirare a sorte le spade, ma il presidente rispose che essendo lui il provocatore, pretendeva che ciascuno si servisse delle proprie armi. I padrini vollero insistere, il presidente impose loro silenzio.

Posta la lanterna al suolo, i due avversari si misero ai due lati e cominciò il combattimento. Le due spade guizzavano al chiarore della lanterna come due lampi, ma le persone appena si potevano discernere, tanto era oscura quella notte. Il generale d’Epinay era considerato il migliore spadaccino dell’esercito, ma fu stretto tanto vivamente, che fino dalle prime botte indietreggiò e cadde. I due padrini lo credettero ucciso, ma il suo avversario, che sapeva di non averlo ferito, gli presentò la mano per aiutarlo ad alzarsi. Questa circostanza invece di calmarlo, irritò il generale, che piombò a sua volta sull’avversario. Ma questi non cedette d’un palmo il terreno, e ricevendolo per tre volte sulla sua spada, per tre volte costrinse il generale a indietreggiare; finalmente alla terza ricadde senza alzarsi. Dapprima i padrini credettero che avesse ancora posto piede in fallo, ma vedendo che non si rialzava, corsero per rialzarlo, però, quello che lo aveva afferrato, sentì la mano umida e calda: era sangue. Il generale, che era quasi svenuto, riprese i sensi.

“Ah”, disse, “mi hanno mandato qualche spadaccino, qualche maestro di reggimento.”

Il presidente, senza rispondere, si avvicinò a quello dei due padrini che teneva la lanterna, e, sollevando la manica, mostrò il braccio traforato da due colpi di spada; poi slacciando il soprabito e il panciotto, scoprì il fianco insanguinato per una terza ferita. Il generale d’Epinay spirò dopo un’agonia di cinque minuti.»

Franz lesse queste ultime parole con voce soffocata, che appena si poteva intendere, e dopo aver letto si fermò, portando la mano agli occhi, come per scacciare una nube. Ma dopo un istante di silenzio continuò: “Il presidente risalì la scala dopo aver rimesso la spada nel bastone; una striscia di sangue segnava il suo cammino sulla neve.

Non era ancora giunto in cima alla scalinata, che udì un sordo tonfo nell’acqua: era il corpo del generale, che i testimoni avevano gettato nel fiume dopo averne verificata la morte. In fede di che, abbiamo sottoscritto la presente per ristabilire la verità dei fatti, per tema che arrivi un momento in cui uno dei personaggi di quella terribile scena non si trovi accusato di omicidio premeditato o di violazione delle leggi d’onore.

Sottoscritti: Beauregard, Duchampy e Lecharpal.»

Quando Franz ebbe terminato la lettura, così terribile per un figlio, quando Valentine, pallida per l’emozione, ebbe asciugato una lacrima, quando Villefort, tremante e rannicchiato in un canto, ebbe tentato di scongiurare l’uragano per mezzo di sguardi supplichevoli diretti al vecchio implacabile, «Signore», disse d’Epinay a Noirtier, «poiché voi conoscete questa terribile storia in tutti i suoi particolari, dacché l’avete fatta testificare da firme onorevoli; poiché sembrate avere cura di me, sebbene la vostra premura non si sia ancora rivelata che per mezzo del dolore, non mi rifiutate un ultimo desiderio, ditemi il nome del presidente del circolo, che io conosca finalmente colui che ha ucciso il mio povero padre».

Villefort cercò, come un mentecatto, la maniglia della porta; Valentine, che aveva compreso prima di tutti la risposta del vecchio e che spesso aveva osservato sull’avambraccio del nonno le cicatrici di due ferite, indietreggiò d’un passo.

«In nome del cielo, signorina», implorò Franz rivolgendosi alla sua fidanzata, «unitevi a me, che io sappia il nome di quell’uomo che mi ha reso orfano a due anni.»

Valentine restò immobile e muta.

«Ascoltatemi, signore», disse Villefort, «credetemi, non prolungate questa orribile scena… I nomi del resto sono stati nascosti ad arte. Mio padre stesso non conosce questo presidente, e quand’anche lo conoscesse non potrebbe dirlo, perché i nomi propri non si trovano nel dizionario.»

«Sventura!» esclamò Franz. «La sola speranza durante tutta questa lettura, che mi ha dato la forza di giungere sino alla fine, era di conoscere almeno il nome di colui che ha ucciso mio padre! Signore», esclamò volgendosi a Noirtier, «in nome del cielo! Fate tutto ciò che potete… cercate, ve ne supplico, d’indicarmi o farmi comprendere…»

«Sì», fece cenno Noirtier.

«Oh, signorina!» gridò ancora Franz. «Vostro nonno ha fatto segno che vuole indicarmi… quest’uomo… aiutatemi… Voi lo capite… concedetemi il vostro aiuto…»

Noirtier guardò il dizionario. Franz lo prese con un tremito convulso e pronunciò successivamente le lettere dell’alfabeto fino alla vocale I. A questa lettera il vecchio fece segno di sì.

«I?» ripeté Franz.

Il dito del giovane strisciò sulle parole, ma a tutte le parole Noirtier faceva un segno negativo. Valentine nascondeva la testa fra le mani. Finalmente Franz giunse alla parola «io».

«Sì», indicò il vecchio.

«Voi!» disse Franz, gli occhi sbarrati. «Voi, signor Noirtier, siete voi che avete ucciso mio padre?»

«Sì», replicò Noirtier, fissando sul giovane uno sguardo maestoso.

Franz cadde su una sedia. Villefort aprì la porta e fuggì, perché lo tormentava un terribile pensiero, il pensiero di soffocare quel lume di vita che ancora restava nel corpo del vecchio.

75. I progressi del signor Cavalcanti figlio

Il signor Cavalcanti padre era ripartito per riprendere il suo servizio, non già nell’esercito di Sua Maestà l’imperatore d’Austria, ma al casinò di Bagni di Lucca, di cui era tra i più assidui. Non occorre dire che aveva ritirato con la più scrupolosa esattezza fino all’ultimo soldo della somma che gli era stata destinata per il viaggio e come ricompensa del modo maestoso e solenne col quale aveva impersonato la parte di padre.

Il signor Andrea aveva ricevuto, alla sua partenza, tutte le carte comprovanti aver egli avuto l’onore di essere il figlio del marchese Bartolomeo e della marchesa Oliva Corsinari; era dunque quasi introdotto in quella società parigina, tanto facile ad accogliere gli stranieri e a considerarli, non per quello che sono, ma per ciò che appaiono. D’altra parte che cosa si richiede a un giovane a Parigi? Di parlare la lingua francese, essere vestito elegantemente, essere buon giocatore, e pagare in oro. Non occorre dire che si esige meno da un forestiero che da un parigino.

Dunque Andrea, in quindici giorni, s’era procurato un buon credito; lo chiamavano il signor conte, si diceva che avesse cinquantamila lire di rendita, e si parlava degli immensi tesori sepolti da suo padre nei sotterranei di Serravezza. Uno scienziato, alla cui presenza si facevano tali discorsi, disse d’avere visto i sotterranei di cui si parlava, il che dette un gran peso alle asserzioni fino allora dubbie, che da quel momento presero l’aspetto della realtà.

Le cose erano quindi giunte a tal punto nel mondo parigino, dove abbiamo introdotto i nostri lettori, allorché il conte andò a fare visita al signor Danglars. Il signor Danglars era uscito, ma quando fu detto al conte che la baronessa era disponibile, egli entrò da lei. Mai senza una specie di brivido nervoso, la signora Danglars udiva pronunciare il nome di Montecristo, dopo il pranzo d’Auteuil e gli avvenimenti che ne erano seguiti. Se il conte non si fosse presentato, la sensazione dolorosa sarebbe divenuta più intensa; se invece fosse comparso, la sua fisionomia aperta, i suoi occhi brillanti, la sua amabilità e galanteria verso la signora Danglars, avrebbero scacciato ben presto fino all’ultimo timore. Pareva impossibile alla baronessa che un uomo così gentile all’esterno potesse nutrire contro di lei malvagi disegni; d’altra parte, i cuori più corrotti non possono credere al male, se non è eccitato da qualche interesse: il male inutile e senza causa ripugna come una anomalia.

Montecristo entrò dunque nel salotto, ove noi abbiamo già una volta introdotto i nostri lettori, e dove la baronessa esaminava con occhio inquieto alcuni disegni che le porgeva sua figlia, dopo averli guardati col signor Cavalcanti figlio: la sua presenza produsse l’ordinario effetto, e calmato lo sconvolgimento prodotto in lei all’udire il suo nome, la baronessa ricevette il conte con un sorriso. Questi, dal canto suo, indovinò tutto con uno sguardo.

Vicino alla baronessa, e quasi stesa sopra una poltroncina stava Eugénie, e in piedi Cavalcanti, vestito di nero come un eroe di Goethe, scarpe verniciate e calze di seta bianca a giorno. Il giovane passava una mano molto bianca e pulita fra i capelli biondi, facendo scintillare un diamante, che, malgrado i consigli del conte di Montecristo, il vanitoso giovane non aveva potuto resistere al desiderio di infilarsi al dito mignolo. Quel moto era accompagnato da sguardi infocati lanciati alla signorina Danglars, e da sospiri inviati al medesimo indirizzo. La signorina Danglars era sempre la stessa, vale a dire bella, fredda e ironica. Non le sfuggiva un sospiro, uno sguardo d’Andrea, ma si sarebbe detto che scivolassero sulla corazza di Minerva; corazza che alcuni filosofi pretendono che qualche volta ricopra il petto di Saffo.

Eugénie salutò freddamente il conte, e approfittò del primo momento in cui vide impegnato il discorso, per ritirarsi nel suo studio, da dove presto uscirono due voci forti e scherzose, miste ai primi accordi di un clavicembalo, che rivelarono a Montecristo come la signorina preferisse alla sua e a quella di Cavalcanti la compagnia della signorina Louise d’Armilly sua maestra di canto. Fu allora, particolarmente, che, parlando con la signora Danglars, e fingendo d’essere tutto assorto in quel colloquio, il conte osservò la premura del signor Andrea Cavalcanti, il suo modo di andare ad ascoltare la musica alla porta, che non osava oltrepassare, e di manifestare la sua ammirazione.

Il banchiere non tardò a comparire: il suo primo sguardo fu per Montecristo, è vero, ma il secondo fu per Andrea. In quanto a sua moglie, la salutò nel modo che molti mariti salutano le proprie, e di cui i celibi non potranno capacitarsi fino a che non venga pubblicato un codice estesissimo sullo stato coniugale.

«Queste signorine non vi hanno forse invitato a cantare insieme?» domandò Danglars ad Andrea.

«Ahimè, no, signore», rispose Andrea con un sospiro più profondo ancora degli altri.

Danglars si avvicinò alla porta di comunicazione, e l’aprì: allora si videro le due donne sedute sulla medesima sedia davanti al pianoforte, suonando ciascuna con una mano, esercizio al quale si erano abituate per fantasia, e nel quale erano riuscite con sorprendente bravura. La signorina d’Armilly formava con Eugénie, nella cornice dell’uscio, uno di quei quadri viventi alla maniera tedesca, ed era di una bellezza notevole o, a dir meglio, di una gentilezza squisita, sottile e bionda come una fata, con due gran ciocche di ricci sul collo, un po’ troppo lungo, come pecca talvolta il Perugino nelle sue figure, e gli occhi velati quasi per stanchezza. Si diceva che avesse il petto debole, e che, come Antonia, nel Violino di Cremona, sarebbe morta un giorno cantando.

Montecristo volse un rapido sguardo a quel gineceo: era la prima volta che vedeva la signorina d’Armilly, di cui aveva udito parlare spesso in quella casa.

«Ebbene», domandò il banchiere a sua figlia, «perché noialtri siamo esclusi?»

E condusse il giovane nella saletta, e, fosse caso o arte, la porta fu spinta dietro Andrea in modo che, dal luogo ove erano seduti Montecristo e la baronessa, non si potesse vedere nulla. Ma siccome il banchiere aveva seguito Andrea, la signora Danglars non parve badare a tale circostanza. Poco dopo il conte udì la voce di Andrea accordarsi al piano, e cantare una canzone corsa.

Mentre il conte ascoltava sorridendo quella canzone, che gli faceva dimenticare Andrea per ricordarsi di Benedetto, la signora Danglars vantava a Montecristo la forza d’animo di suo marito, che in quella mattina aveva perduto altri tre o quattrocentomila franchi in un fallimento di Milano. E difatti l’elogio era ben meritato; perché se il conte non lo avesse saputo dalla baronessa, o per uno di quei mezzi che forse aveva per sapere tutto, il volto del barone non ne avrebbe dato il più piccolo indizio.

«Bene!» pensò Montecristo. «È già arrivato al punto di dover tenere nascoste le perdite. un mese fa se ne vantava.»

Quindi alzando la voce: «Oh, signora», disse il conte, «il signor Danglars conosce così bene la Borsa, che potrà sempre guadagnarvi ciò che perde altrove».

«Vedo che condividete l’errore comune», osservò la signora Danglars.

«E quale errore?» domandò Montecristo.

«Che il signor Danglars speculi sui fondi, mentre non specula mai.»

«È vero, signora, mi ricordo che Debray mi disse… A proposito, che cosa n’è stato di Debray? Sono tre o quattro giorni che non lo vedo.»

«Anch’io», disse la signora Danglars con mirabile indifferenza. «Ma voi avete cominciato una frase che è rimasta interrotta.»

«E quale?»

«Il signor Debray mi disse…, avete detto.»

«Ah, è vero… Il signor Debray mi disse che eravate voi a sacrificare al demone dell’azzardo.»

«Ho avuto questo capriccio per qualche tempo, lo confesso, ma ora non l’ho più.»

«E avete torto, signora. Mio Dio! I capricci della fortuna sono precari, e se fossi stato donna, e la combinazione mi avesse fatto moglie di un banchiere, qualunque fiducia avessi avuto nella prospera sorte di mio marito, avrei sempre cominciato con l’assicurarmi uno stato indipendente, avessi dovuto anche acquistare questa fortuna affidando i miei interessi in mani a lui ignote.»

La signora Danglars arrossì suo malgrado.

«Vedete», continuò Montecristo, come se non se ne fosse accorto, «si parla di un bel colpo che è stato fatto ieri sui titoli di Napoli.»

«Io non ne ho», disse prontamente la baronessa, «e non ne ho mai avuti… Ma, in verità, abbiamo parlato abbastanza di Borsa, signor conte: sembriamo due agenti di cambio. Parliamo un po’ dei poveri Villefort, così tormentati dal destino.»

«Che cosa è loro accaduto?» domandò Montecristo con la più perfetta calma.

«Ma lo saprete già: dopo aver perduto il signore di Saint-Méran, tre o quattro giorni dopo la partenza da Marsiglia, hanno ora perduto la marchesa, tre o quattro giorni dopo il suo arrivo.»

«Ah, è vero», annuì Montecristo, «l’ho sentito raccontare… ma come dice Claudio ad Amleto, è una legge di natura; i loro padri sono morti prima di loro, ed essi li avevano pianti; essi moriranno prima dei loro figli, e questi li piangeranno.»

«Ma non è finita qui.»

«Come! Non è finita qui?»

«No, voi sapete che dovevano maritare la loro figlia.»

«Al signor Franz d’Epinay… È forse andato in fumo il matrimonio?»

«Ieri mattina, a quanto sembra, Franz ha ritirato la sua parola.»

«Davvero?… E si conoscono i motivi di quella rottura?»

«No.»

«Che cosa mi raccontate, buon Dio, signora… E come sopporta il signor Villefort tali disgrazie?»

«Sempre con filosofia.»

Furono interrotti dal ritorno di Danglars.

«Ebbene», disse la baronessa, «lasciate il signor Cavalcanti con vostra figlia?»

«E la signorina d’Armilly», aggiunse il banchiere, «per chi la prendete dunque?»

Poi rivolgendosi a Montecristo: «Che giovane cortese, vero, signor conte, è il principe Cavalcanti?… Ma è veramente principe?»

«Io non posso garantirlo», rispose Montecristo. «Mi fu presentato suo padre come marchese, egli sarebbe conte… Ma io credo ch’egli stesso non dia gran importanza a questo titolo.»

«Perché?» si stupì il banchiere. «Se è principe, ha torto a non vantarsene. A ciascuno ciò che è di diritto. Io non ho caro chi rinnega la propria origine.»

«Voi non siete troppo democratico», disse Montecristo sorridendo.

«Ma, vedete», osservò la baronessa, «a che cosa vi esponete se per caso venisse il signor Morcerf? Troverebbe il signor Cavalcanti in una stanza, dove lui, fidanzato d’Eugénie, non ha mai avuto il permesso d’entrare.»

«Fate bene a dire se per caso, poiché, in verità, si vede tanto di rado, che si può proprio dire che è stato il caso che ce l’ha condotto.»

«Ma infine, se venisse e trovasse questo giovane vicino a vostra figlia, potrebbe non esserne contento.»

«Lui? Mio Dio, v’ingannate… Il signor Albert non ci fa l’onore d’essere geloso della sua fidanzata, non l’ama abbastanza da arrivare a tal punto. D’altra parte, che importa a me se egli è scontento?»

«Però, al punto in cui siamo…»

«Sì, al punto in cui siamo… Volete sapere a che punto siamo? A questo, che alla festa di sua madre ha ballato una volta sola con mia figlia, e il signor Cavalcanti ha ballato con lei tre volte, senza che neppure se ne sia accorto.»

«Il signor visconte Albert di Morcerf», annunciò il cameriere.

La baronessa si alzò prontamente, voleva passare nella stanza della figlia, quando Danglars la trattenne per il braccio: «Lasciate», disse.

Lei lo guardò meravigliata; Montecristo finse di non aver visto quella scena. Albert entrò: era molto leggiadro e allegro, salutò la baronessa con rispetto, Danglars con familiarità, Montecristo con affezione.

Poi, volto verso la baronessa: «Volete permettermi, signora», domandò, «di chiedervi come sta la signorina Danglars?»

«Benissimo, signore», rispose allegramente Danglars. «In questo momento sta provando della musica, nel suo salottino in compagnia del signor Cavalcanti.»

Albert conservò la sua aria calma e indifferente; forse sentiva internamente un po’ di dispetto, ma vedeva lo sguardo di Montecristo fisso su di lui.

«Il signor Cavalcanti ha una bellissima voce da tenore», disse Albert, «e la signorina Eugénie è un magnifico soprano, senza contare che suona il pianoforte come un Thalberg: dev’essere un concerto sorprendente.»

«Il fatto è», continuò Danglars, «che vanno perfettamente d’accordo.»

Albert parve non raccogliere quel gioco di parole grossolano, per cui la signora Danglars arrossì.

«Anch’io», continuò il giovane, «sono musicista, per quanto dicono almeno i miei maestri. Ebbene, cosa strana, non ho mai potuto accordare la mia voce con alcun’altra, e molto meno ancora con voci da soprano.»

Danglars fece un piccolo sorriso che significava: «Offenditi pure, dunque».

«Così», aggiunse, sperando di spingere le cose al punto che desiderava, «il principe e mia figlia ieri hanno raccolto l’ammirazione generale. Non c’eravate ieri, signore di Morcerf?»

«Quale principe?» domandò Albert.

«Il principe Cavalcanti», rispose Danglars che si ostinava a voler dar sempre questo titolo a quel giovane.

«Scusate», disse Albert, «non sapevo che fosse principe. Così il principe Cavalcanti ha cantato ieri con Eugénie? Sarà stata una cosa da destar entusiasmo, e mi dispiace vivamente non averli uditi. Ma io non ho potuto accettare il vostro invito, avendo dovuto accompagnare la signora Morcerf dalla baronessa madre di Château-Renaud ove cantavano i tedeschi.»

Poi, dopo un breve silenzio, come si fosse di nulla parlato: «Mi sarà permesso», riprese Morcerf, «di presentare i miei omaggi alla signorina Danglars?»

«Aspettate, aspettate ve ne supplico!» esclamò il banchiere fermando il giovane. «Sentite la deliziosa cavatina? Ta, ta, ta, ti, ta, ti ta… Trasporta! Sta per finire… Un solo secondo. Perfetta! Bravo! Bravi! Brava!»

E il banchiere si mise ad applaudire con frenesia.

«Infatti», annuì Albert, «è squisita. È impossibile esprimere meglio del principe Cavalcanti la musica del proprio Paese. Avete detto principe, vero? D’altra parte se non è principe, si farà fare. In Italia è cosa facile. Ma per tornare ai nostri adorabili cantanti, dovreste farci un piacere, signor Danglars, senza dir loro che vi sia un estraneo, dovreste pregare la signorina Danglars e il signor Cavalcanti di cominciare un altro pezzo. È una cosa così deliziosa godere la musica a un po’ di distanza, in una mezza luce, senz’essere visti, senza vedere e di conseguenza senza disturbare i cantanti, che possono lasciarsi trasportare da tutto l’istinto del genio e da tutto lo slancio del cuore!»

Danglars questa volta fu sconcertato dalla flemma del giovane, e, preso Montecristo in disparte: «Conte», disse, «che ve ne pare del nostro innamorato?»

«Mi sembra un po’ freddo, non c’è dubbio: ma che volete? Vi siete impegnato.»

«Senza dubbio mi sono impegnato, ma a dare mia figlia a un uomo che l’ami, e non a un uomo che non l’ama affatto. Vedetelo là, freddo come il marmo, orgoglioso come suo padre… Fosse ricco almeno, avesse la fortuna del Cavalcanti, si potrebbe passarci sopra… In fede mia, non ho ancora consultato mia figlia, ma se lei avesse buon senso…»

«Be’», osservò Montecristo, «non so se sia la mia amicizia che mi acceca, ma vi assicuro che il signor Morcerf è un giovane di qualità che presto o tardi riuscirà in qualche cosa, e, infine, la posizione di suo padre è eccellente!»

«Mmmh!» mugugnò Danglars.

«Perché questo dubbio?»

«Vi è sempre il passato… passato oscuro.»

«Ma il passato del padre non ha niente a che fare coi figli.»

«Sì, è vero però…»

«Orsù, non vi fasciate la testa… Un mese fa questo matrimonio vi pareva un eccellente affare… Ma, come ben capirete, io sono tristissimo: fu in casa mia che voi avete incontrato questo giovane Cavalcanti, che io non conosco, ve lo ripeto.»

«Lo conosco io», ribatté Danglars, «e basta così.»

«Voi lo conoscete? Avete dunque preso informazioni sul suo conto?» domandò Montecristo.

«E c’è bisogno di questo? Non si conosce subito a prima vista con chi si ha a che fare?… Prima di tutto è ricco…»

«Non lo assicuro.»

«Voi però rispondete per lui.»

«Di una miseria, di cinquantamila franchi.»

«Ha un’educazione distinta.»

«Mmmh», fece a sua volta Montecristo.

«Conosce la musica.»

«Tutti gli italiani la conoscono.»

«Vedete, conte, siete ingiusto con questo giovane.»

«Ebbene, sì, lo confesso… Vedo a malincuore, conoscendo i vostri impegni coi Morcerf, che quello viene in tal modo a mettersi di mezzo, abusando del nome e della sua fortuna…»

Danglars si mise a ridere.

«Come siete puritano!» esclamò. «Ma questo succede tutti i giorni nel mondo.»

«Voi però non potete rompere così, mio caro Danglars; i Morcerf contano su tale matrimonio.»

«Ci contano?»

«Io credo.»

«Allora si spieghino! Dovreste spendere due parole col padre su questo argomento, caro conte, voi che siete tanto nelle buone grazie della famiglia…»

«Io, e come potete pensarlo?»

«Dopo il loro ballo, sì. Come? La contessa, l’orgogliosa Mercedes, la sdegnosa catalana, che si degnò appena di rivolgere la parola alle sue più antiche conoscenze, vi ha preso per il braccio, è uscita con voi nel giardino, si è infilata nei viali, e non è ricomparsa che mezz’ora dopo.»

«Barone, barone! Voi c’impedite di udire», disse Albert. «Per un melomane come voi, questa è una vera barbarie!»

«Va bene, va bene», disse Danglars.

Quindi volgendosi a Montecristo: «V’incaricate di parlare al padre?»

«Volentieri, se lo desiderate.»

«Ma questa volta si faccia in modo esplicito e definitivo; soprattutto mi domandi mia figlia, fissi una data, dichiari le condizioni per il denaro, finalmente si stabilisca o si rompa: ma, capite bene, non più dilazioni.»

«Ebbene, la dichiarazione sarà fatta.»

«Non dirò che l’aspetto con piacere, ma infine l’aspetto: un banchiere lo sapete, deve mantenere la sua parola.»

E Danglars mandò fuori uno di quei sospiri sul tipo di quelli di Cavalcanti mezz’ora prima.

«Bravi, bravo, brava», gridò Morcerf, facendo parodia al banchiere, e applaudendo alla fine del pezzo. Danglars cominciava già a guardare Albert di traverso, quando gli vennero a riferire un messaggio all’orecchio.

«Ritorno subito», disse il banchiere a Montecristo, «aspettatemi, forse dovrò dirvi due parole fra poco.»

E uscì.

La baronessa approfittò dell’assenza del marito per aprire la porta dello studio di sua figlia, e vide il signor Andrea, che era seduto davanti al pianoforte con la signorina Eugénie, alzarsi in fretta. Albert salutò sorridendo la signorina Danglars che, senza mostrarsi turbata, gli rese il saluto con la consueta freddezza. Cavalcanti parve evidentemente imbarazzato; salutò Morcerf che gli rese il saluto col fare più impertinente del mondo.

Allora Albert cominciò a effondersi in elogi sulla voce della signorina Danglars, e sul dispiacere che provava per non aver potuto assistere alla serata del giorno prima. Cavalcanti, lasciato solo, prese da parte Montecristo.

«Orsù», disse la signora Danglars. «Tregua alla musica e ai complimenti… Volete prendere il tè?»

«Vieni, Louise», disse la signorina Danglars all’amica.

Passarono nel salotto vicino, dove infatti era pronto il tè. Al momento in cui si cominciava, all’uso inglese, a lasciare i cucchiaini nelle tazze, la porta si riaprì, ed entrò Danglars agitatissimo. Montecristo più di tutti notò quell’agitazione e interrogò il banchiere con l’occhio.

«Accidenti!» imprecò Danglars. «Ricevo in questo momento il mio corriere dalla Grecia.»

«Oh, oh!» borbottò il conte. «È per questo che siete stato chiamato?»

«Sì.»

«Come sta il re Ottone?» domandò Albert col tono più scherzoso.

Danglars lo guardò di traverso senza rispondergli, e Montecristo si volse per nascondere il senso di commiserazione che gli era comparso sul viso.

«Noi ce ne andremo assieme, non è vero?» domandò Albert al conte.

«Sì, se volete», rispose questi.

Albert non poteva capir nulla del contegno del banchiere, quindi volgendosi verso Montecristo che aveva perfettamente capito: «Avete visto», disse, «come mi ha guardato?»

«Sì», rispose il conte, «ma trovate qualche cosa di particolare nel suo sguardo?»

«C’è qualcosa di ostile… Ma che vuol dire con le sue notizie di Grecia?»

«E come volete che lo sappia io?»

«Perché, a quanto presumo, avete delle relazioni in quel Paese.»

Montecristo sorrise, come sorride sempre chi vuole esimersi dal rispondere.

«Guardate», riprese Albert, «eccolo che vi si avvicina… Io vado a fare i miei complimenti alla signorina Danglars sul suo cammeo, intanto il padre potrà parlarvi.»

«Se le fate dei complimenti, fateli almeno sulla sua voce», suggerì Montecristo.

«No, perché è quello che fanno tutti.»

«Mio caro visconte», disse Montecristo, «siete davvero impertinente.»

Albert si avvicinò a Eugénie col sorriso sulle labbra, Danglars si accostò all’orecchio del conte.

«Voi mi avete dato un eccellente consiglio», disse. «C’è un’intera e orribile storia riguardo le parole Fernando e Giannina.»

«Bah!» esclamò Montecristo.

«Sì, vi racconterò tutto, ma conducete via il giovane. Mi troverei troppo imbarazzato a restare ora con lui.»

«È quel che sto per fare, mi accompagna. Ora, è ancora necessario che vi mandi suo padre?»

«Sì, più che mai.»

«Bene.»

Il conte fece un segno ad Albert. Entrambi salutarono le signore, e uscirono: Albert con aria del tutto indifferente per la freddezza della signorina Danglars, Montecristo rinnovando alla signora Danglars il consiglio sulla prudenza che deve avere la moglie di un banchiere, nell’assicurarsi il proprio avvenire. Il signor Cavalcanti rimase padrone del campo di battaglia.

76. Haydée

Non appena i cavalli del conte voltarono l’angolo del bastione, Albert si girò verso il conte scoppiando in una risata così rumorosa da non parer naturale.

«Amico», gli disse, «io vi domanderò come re Carlo IX domandava a Caterina de’ Medici dopo la giornata di San Bartolomeo: come vi pare che abbia interpretato la mia parte?»

«A che proposito?» domandò Montecristo.

«Ma a proposito della installazione del mio rivale in casa del signor Danglars…»

«Quale rivale?»

«Come, quale rivale? Il vostro protetto, il signor Andrea Cavalcanti.»

«Lasciate perdere gli scherzi, visconte, io non proteggo assolutamente il signor Andrea, almeno presso il signor Danglars.»

«Vi farei forse un rimprovero, se il giovane avesse bisogno di protezione? Ma, fortunatamente per me, può farne senza.»

«Come, voi credete che le faccia la corte?»

«Ve l’assicuro! Fa girate d’occhi da spasimante, e modula note da innamorato: aspira alla mano della orgogliosa Eugénie.»

«Che importa, se pensa a voi?»

«Non dite questo, mio caro conte, mi maltrattano da ambo le parti.»

«Come da ambo le parti?»

«Sicuro! La signorina Eugénie mi ha risposto appena, e la signorina d’Armilly non mi ha dato nemmeno risposta.»

«Sì, ma il padre vi adora», ribatté Montecristo.

«Lui? Mi ha piantato mille pugnali nel cuore, pugnali con la lama che rientra nel manico, pugnali da tragedia, ma ch’egli crede taglienti e ben penetranti.»

«La gelosia scopre l’amore.»

«Sì, ma io non sono geloso.»

«Ma lo è ben lui.»

«Di chi? Di Debray?»

«No, di voi.»

«Di me? Scommetto che prima di otto giorni mi avrà chiuso la porta sul naso.»

«V’ingannate, mio caro visconte.»

«Una prova.»

«La volete?»

«Sì.»

«Sono stato incaricato di pregare il conte Morcerf di fare una domanda definitiva al barone.»

«Da chi?»

«Dal barone stesso.»

«Oh!» gemette Albert con tutta l’intensità di cui era capace. «Voi non lo farete, vero, mio caro conte?»

«V’ingannate, Albert, io lo farò, poiché l’ho promesso.»

«Allora», riprese Albert con un sospiro, «pare che vi stia molto a cuore ch’io prenda moglie.»

«Io ho a cuore di andare d’accordo con tutti. Ma a proposito di Debray: non lo vedo più dalla baronessa…»

«C’è stato un litigio.»

«Con la signora?»

«No, col signore.»

«Si è dunque accorto di qualche cosa?»

«Che bella facezia!»

«Credete che già ne sospettasse?» domandò Montecristo con finta ingenuità.

«Ma da dove venite, voi dunque, mio caro conte?»

«Dal Congo, se volete.»

«Non è ancora abbastanza lontano.»

«Conosco forse i vostri mariti parigini?»

«Eh, mio caro conte, i mariti sono uguali dappertutto. Dal momento che in un Paese ne avete studiato un campione, ne avete conosciuto la razza.»

«Ma allora che cosa ha potuto causare questo malinteso fra Debray e Danglars? Pareva che andassero d’accordo!» replicò Montecristo con la stessa ingenuità.

«Ecco, noi rientriamo nei misteri d’Iside, e io non sono un iniziato. Quando il signor Cavalcanti sarà della famiglia potrete domandarlo a lui.»

La carrozza si fermò.

«Eccoci arrivati», disse Montecristo. «Non sono che le dieci e mezzo, salite da me.»

«Volentieri.»

«La carrozza vi accompagnerà a casa.»

«No, grazie, il mio calesse deve averci seguiti.»

«Infatti, eccolo», disse Montecristo saltando a terra.

Tutti e due entrarono in casa, e quindi nella sala già illuminata.

«Ordinate il tè, Battistino», disse Montecristo. Battistino uscì senza dir parola; due secondi dopo ricomparve con un vassoio completamente servito, e che, come nelle commedie di fate, sembrava sorgere da sottoterra.

«Davvero», riprese Morcerf, «quello che ammiro in voi non è la ricchezza, vi sono forse persone più ricche di voi, e neanche lo spirito, Beaumarchais ne aveva tanto quanto voi, bensì il modo con cui siete servito, senza che vi sia risposta una parola… al minuto, al secondo… Come se si indovinasse dal modo che suonate quello che desiderate, e come se tutto ciò che desiderate avere, sia già tutto pronto.»

«Ciò che dite è in parte vero. Conoscono le mie abitudini… Per esempio, osservate: desiderate fare qualche cosa mentre bevete il tè?»

«Desidero fumare.»

Montecristo si avvicinò al campanello, e batté un colpo. Dopo un secondo si aprì una porta riservata, e comparve Alì con due pipe turche piene di eccellente latakiè.

«È meraviglioso!» esclamò Morcerf.

«Per niente, è semplicissimo», riprese Montecristo. «Alì sa che prendendo il tè, o il caffè, di solito io fumo, sa che ho domandato il tè, sa che sono tornato con voi, viene chiamato e non dubita del perché, e siccome è di un Paese in cui l’ospitalità si esercita particolarmente con la pipa, invece di una, ne porta due.»

«Questa certamente è una spiegazione come le altre, non è però meno vero che siete soltanto voi… Oh, ma che cosa mai ascolto?»

E Morcerf si chinò verso la porta, dalla quale effettivamente arrivavano suoni simili a quelli di una chitarra.

«Davvero, mio caro visconte, siete destinato a udire musica; fuggite il pianoforte della signorina Danglars, per cadere nella guzla di Haydée.»

«Haydée! Che nome adorabile! Vi sono dunque delle donne che veramente si chiamano Haydée, oltre quelle che sono nominate nei poemi di lord Byron?»

«Certamente; Haydée è un nome rarissimo in Francia, ma comunissimo in Albania e nell’Epiro; è come se voi diceste, per esempio, Castità, Pudore, Innocenza, è una specie di nome di battesimo come dicono i cristiani.»

«Quanto è grazioso!» disse Albert. «Quanto vedrei volentieri le nostre francesi chiamarsi signorina Bontà, signorina Silenzio, signorina Carità Cristiana! Dite dunque, se la signorina Danglars, invece di chiamarsi Claire-Marie-Eugénie, come la chiamano, si chiamasse signorina Castità-Pudore-Innocenza Danglars, che effetto farebbe nelle pubblicazioni matrimoniali!»

«Pazzo!» lo richiamò il conte. «Non scherzate così ad alta voce! Haydée potrebbe udirvi.»

«Si irriterebbe?»

«No», rispose il conte, con la sua aria grave.

«È buona?» domandò Albert.

«Non è bontà, è dovere: una schiava non deve irritarsi contro il suo padrone.»

«Via, adesso non scherzate! Forse ci sono ancora degli schiavi?»

«Senza dubbio, poiché Haydée è mia schiava.»

«Infatti voi non fate niente, e non avete niente come gli altri. Schiava del signor conte di Montecristo! E succede in Francia! Al modo con cui rimescolate l’oro, è un impiego che deve costare almeno centomila scudi l’anno.»

«Centomila scudi! La povera ragazza ne ha posseduti ben altri che questi: è venuta al mondo, e ha dormito sopra tesori tali, che quelli delle Mille e una notte sono ben poca cosa.»

«È dunque proprio una principessa?»

«Lo avete detto, ed è anche una delle più illustri del suo Paese.»

«Non ne dubitavo. Ma in che modo una gran principessa è divenuta schiava?»

«In che modo Dionigi il tiranno diventò maestro di scuola? La guerra, mio caro visconte, e il capriccio della sorte.»

«E il suo nome è un segreto?»

«Per tutti sì, ma non per voi, mio caro visconte. Siete mio amico, e tacerete, non è vero? Se lo promettete…»

«Sul mio onore!»

«Conoscete la storia del pascià di Giannina?»

«Alì Tebelin? Senza dubbio, poiché fu al suo servizio che mio padre ha fatto fortuna.»

«È vero, me n’ero dimenticato.»

«Ebbene, che cosa è Haydée rispetto ad Alì Tebelin?»

«Non è altro che sua figlia.»

«Come, la figlia di Alì Pascià!?…»

«Sì, e della bella Vasiliki.»

«Ed è vostra schiava?»

«Sì.»

«In che modo?»

«Un giorno sono passato dal mercato di Costantinopoli, e l’ho comprata.»

«Cosa meravigliosa! Con voi, mio caro conte, non si vive, ma si sogna. Ora ascoltate, forse però la mia domanda sarà troppo indiscreta…»

«Dite pure.»

«Ma poiché uscite con lei, poiché la conducete all’Opéra…»

«Dunque?»

«Posso bene arrischiare di domandarvelo?»

«Potete arrischiare di domandarmi tutto quello che volete.»

«Ebbene, mio caro conte, presentatemi ad Haydée.»

«Volentieri, ma a due condizioni.»

«Le accetto subito.»

«La prima è che voi non confiderete mai ad alcuno questa presentazione.»

«Benissimo», annuì Morcerf, «lo prometto.»

E tese la mano.

«La seconda è che non direte che vostro padre abbia servito il suo.»

«Prometto anche questo.»

«A meraviglia, visconte… Non dimenticherete queste due promesse, non è vero?»

«No!» esclamò Albert.

«Benissimo. So che siete un uomo d’onore.»

Il conte batté di nuovo sul campanello. Alì ricomparve.

«Avvertite Haydée» gli disse, «che vado a prendere il caffè da lei, e fatele comprendere che le domando il permesso di presentarle uno dei miei amici.»

Alì s’inchinò, e uscì.

«In tal modo, siamo d’accordo, nessuna domanda diretta, caro visconte… Se desiderate sapere qualche cosa, domandatelo a me che la chiederò.»

«D’accordo.»

Alì ricomparve per la terza volta, e tenne la tenda sollevata per indicare al suo padrone e ad Albert, che potevano passare.

«Entriamo», disse Montecristo.

Albert si passò una mano nei capelli, e si arricciò i baffi, e il conte riprese il cappello, si mise i guanti, e precedette Albert nell’appartamento, che era sorvegliato da Alì e difeso dalle tre cameriere francesi agli ordini di Myrtho.

Haydée aspettava nella prima stanza, che era la sala, con due grand’occhi dilatati dallo stupore: era la prima volta che giungeva fino a lei un uomo, oltre Montecristo. Era seduta sopra un sofà, in un angolo, con le gambe incrociate, e si era fatto, per così dire, un nido delle stoffe di seta broccate e rigate, le più ricche d’Oriente. Vicino a lei la guzla, il cui suono aveva colpito Morcerf: in quella posa era graziosissima.

Vedendo Montecristo, si sollevò con quel doppio sorriso di figlia e di amante che era tutto suo; Montecristo le si accostò, e le tese la mano, sulla quale, come d’uso, lei appoggiò le labbra.

Albert era rimasto sulla soglia, preso dal fascino di quella strana bellezza, così estranea alla Francia.

«Chi mi porti?» domandò in greco la giovane a Montecristo, «un fratello, un amico, una semplice conoscenza, o un nemico?»

«Un amico», rispose Montecristo nella stessa lingua.

«Il suo nome?»

«Il conte Albert, quello stesso che a Roma liberai dalle mani dei banditi.»

«In quale lingua vuoi che gli parli?»

Montecristo si voltò ad Albert.

«Sapete il greco moderno?» domandò al giovane.

«Ahimè», gemette Albert, «neppure il greco antico, mio caro conte! Mai Omero e Platone hanno avuto uno scolaro più svogliato e direi quasi più sdegnoso, di me.»

«Allora», disse Haydée, dimostrando con la domanda stessa che aveva capito la domanda di Montecristo e la risposta di Albert, «io parlerò in francese o in italiano: se il mio signore vuole che parli.»

Montecristo rifletté un istante.

«Parlerai in italiano», disse.

Poi volgendosi ad Albert: «Mi spiace che non intendiate il greco moderno o il greco antico, Haydée li parla entrambi mirabilmente… La povera ragazza sarà costretta a parlarvi in italiano, cosa che forse vi darà una falsa idea di lei».

Egli fece un segno ad Haydée.

«Sia benvenuto l’amico che viene col mio signore e padrone», salutò la giovane in eccellente italiano, e con quel dolce accento romano che rende sonora la lingua di Dante al pari di quella d’Omero.

«Alì, portate il caffè e le pipe.»

E Haydée fece un gesto con la mano ad Albert di avvicinarsi, mentre Alì si ritirava per eseguire gli ordini della padroncina.

Montecristo mostrò ad Albert due sedie pieghevoli, e ciascuno andò a prendere la sua per avvicinarla a una specie di candelabro, con un paniere al centro, sovraccarico di fiori naturali, di disegni, di album e di musica. Alì rientrò, portando il caffè e le pipe; in quanto a Battistino, questa parte dell’appartamento gli era interdetta. Albert rifiutò la pipa che gli presentava il nubiano.

«Prendete, prendete», lo invitò Montecristo. «Haydée è quasi simile a una parigina: il fumo degli avana le riesce ingrato, perché non ama i cattivi odori, ma come ben sapete, il tabacco d’Oriente è un profumo.»

Alì uscì. Le tazze di caffè erano già pronte; soltanto era stata aggiunta una zuccheriera per Albert. Montecristo e Haydée bevevano il liquore arabo alla maniera degli arabi, cioè senza zucchero. Haydée allungò la mano, e presa con la punta delle sue dita rosee e affilate la tazza di porcellana giapponese, se la portò alle labbra con l’ingenuo piacere di un bimbo che beve o mangia una cosa che gli piace. Nello stesso tempo entrarono due donne, portando due vassoi pieni di gelati e di sorbetti, che deposero sopra due tavolini da dessert.

«Mio caro ospite, e voi, signora», cominciò Albert in italiano, «scusate il mio stupore. Sono tutto stordito, ed è cosa naturalissima, poiché mi trovo in Oriente, nel vero Oriente, non come l’avrei potuto vedere, ma come lo sogno, in piena Parigi, dove poco fa udivo correre le carrozze, e tintinnare i campanelli dei mercanti di limonata. Oh, signora, perché mai non so parlare il greco! La vostra conversazione, con tutto ciò che vi circonda d’incantevole, darebbe la piena armonia a una serata di cui mi ricorderei per sempre.»

«Io parlo abbastanza bene l’italiano per discorrere con voi, signore», disse tranquillamente Haydée. «Se vi piace l’Oriente, farò del mio meglio perché lo troviate qui.»

«Di che cosa debbo parlare?» domandò sottovoce Albert a Montecristo.

«Di tutto ciò che volete: del suo Paese, della sua gioventù, dei suoi ricordi, oppure, se così preferite, di Roma, di Napoli o di Firenze.»

«Sarebbe un’indegnità», riprese Albert, «avere davanti questa bella greca, e parlare come si parlerebbe a una parigina! Lasciate ch’io le parli dell’Oriente…»

«Fate pure, mio caro Albert, è il discorso a lei più gradevole.»

Albert si voltò verso Haydée.

«A quale età la signora ha lasciato la Grecia?» domandò.

«A cinque anni», rispose Haydée.

«Vi ricordate ancora della vostra patria?» domandò ancora Albert.

«Quando chiudo gli occhi, rivedo tutto ciò che ho visto. Vi sono due sguardi, lo sguardo del corpo può qualche volta dimenticare, quello dell’anima non dimentica mai.»

«Qual è l’epoca più lontana di cui vi ricordate?»

«Io camminavo appena, mia madre che si chiamava Vasiliki, e Vasiliki vuol dire reale», aggiunse la giovane donna, sollevando la testa, «mia madre mi prendeva per mano, ed entrambe coperte da un velo, dopo aver messo nel fondo della borsa tutto l’oro che possedevamo, andavamo a domandare l’elemosina per i prigionieri, dicendo: “Chi dà ai poveri, presta all’Eterno”. Quindi, siccome la nostra borsa era piena, ritornavamo al palazzo, e, senza dir niente a mio padre, mandavamo tutto il denaro della questua all’elemosiniere del convento che lo divideva fra i prigionieri.»

«E a quell’epoca quanti anni avevate?»

«Tre anni», rispose Haydée.

«Allora vi ricorderete di tutto ciò che accadde intorno a voi all’età di tre anni?»

«Di tutto.»

«Conte», disse sottovoce Morcerf a Montecristo, «dovreste permettere alla signora di raccontarci qualche cosa della sua storia. Voi mi avete proibito di parlarle di mio padre, ma forse me ne parlerà lei stessa, e voi non potete comprendere come sarei felice di udire il nostro nome proferito da una bocca così bella.»

Montecristo si volse ad Haydée, e sollevando il sopracciglio, segno col quale le indicava di prestare la maggiore attenzione alla raccomandazione che stava per farle, le disse in greco: «Raccontaci la sorte di tuo padre, ma guardati dal nominare il traditore e il tradimento».

Haydée inspirò profondamente, e una tetra nube passò su quella fronte pura.

«Che cosa le avete detto?» domandò sottovoce Morcerf.

«Le ho ripetuto che siete un mio amico, e che non nasconda nulla davanti a voi.»

«Dunque il vostro pio pellegrinaggio», riprese Albert, «in favore dei prigionieri, è il vostro primo ricordo… E che cosa ricordate poi?»

«Poi? Mi vedo sotto l’ombra dei sicomori, vicina a un lago, e ne scorgo ancora, attraverso il fogliame, il tremulo specchio: appoggiato al più vecchio e frondoso, mio padre era seduto sopra dei cuscini e io, debole creatura, mentre mia madre gli era stesa ai piedi, io giocavo con la barba bianca che gli scendeva sul petto e col pugnale dall’impugnatura di diamanti, che gli pendeva dalla cinta… Ogni tanto gli si presentavano degli albanesi dicendogli parole a cui io non prestavo attenzione, e a cui lui rispondeva sempre con lo stesso tono di voce: “Uccidete!” o “Fate grazia!”»

«È strano», disse Albert, «udire cose simili uscire dalla bocca di una giovane donna in tutt’altro luogo che a teatro, e dover dire “non è una finzione”.»

Quindi le chiese: «Con un orizzonte così poetico, con queste rimembranze meravigliose, che impressione può farvi la Francia?»

«Io credo che sia un bel Paese», rispose Haydée. «Ma vedo la Francia com’è, perché la vedo con gli occhi di donna, mentre ho visto il mio Paese con occhi di bambina, e sempre avvolto da nebbia tetra, o luminosa, a seconda che i ricordi mi richiamino alla mente la patria come luogo di dolcezze o di amari patimenti.»

«Così giovane, signora», riprese Albert, cedendo suo malgrado alla forza della leggerezza, «come avete, così piccola, potuto soffrire?»

Haydée voltò gli occhi verso Montecristo, che con un segno impercettibile, mormorò: «Racconta».

«Nulla è così scolpito in fondo all’anima, come le prime rimembranze, e tranne le due che vi ho dette, tutte le altre sono tristissime.»

«Parlate, parlate, signora», disse Albert, «vi giuro che vi ascolto con inesprimibile trasporto.»

Haydée sorrise mestamente.

«Volete dunque che vi racconti gli altri miei ricordi?» domandò.

«Vi supplico», insistette Albert.

«Dunque, noi eravamo nel palazzo di Giannina, quando una sera fui svegliata da mia madre. Nell’aprirsi, i miei occhi s’incontrarono nei suoi pieni di lacrime: mi prese coi cuscini sui quali dormivo, e mi trasportò fuori senza dir parola. Vedendola piangere, stavo io pure per lasciarmi andare al pianto.

“Silenzio, bimba mia”, disse lei.

Spesso, malgrado le consolazioni o le minacce materne, capricciosa come tutti i bambini, continuavo a piangere, ma quella volta c’era negli occhi della mia povera madre una tale espressione di terrore, che tacqui nel medesimo istante. Lei camminava a rapidi passi. Mi accorsi allora che scendevamo una larga scala, davanti a noi tutte le donne di mia madre, portando bauli, sacchetti, oggetti di ornamento, gioielli e borse d’oro, scendevano, o piuttosto si precipitavano. Dietro alle donne veniva una scorta di venti uomini, armati di lunghi fucili e di pistole, e vestiti con quell’abito che conoscete in Francia dopo che la Grecia è tornata nazione. C’era qualcosa di sinistro, credetelo», aggiunse Haydée scuotendo la testa e impallidendo a tale ricordo, «in quella lunga fila di schiavi e di donne oppresse dal sonno, o almeno tali me le figuravo, io, che forse credevo gli altri addormentati, perché non ero ben desta. Per le scale correvano ombre gigantesche, che le torce di frassino facevano tremolare sopra le volte.

“Affrettiamoci!” disse una voce dal fondo della galleria.

Quella voce fece incurvare tutti, come il vento passando sulla pianura fa curvare un campo di spighe. Io invece ne rabbrividii: era la voce di mio padre. Ci seguiva, ultimo, con indosso le sue splendide vesti, tenendo in mano la carabina, che gli era stata regalata dal vostro imperatore; e, appoggiato al suo fedele Selim, ci spingeva avanti, come fa un pastore col suo gregge sparso. Mio padre», spiegò Haydée, rialzando la testa, «era quell’uomo illustre che l’Europa ha conosciuto sotto il nome di Alì Tebelin, pascià di Giannina, e davanti al quale la Turchia ha tremato.»

Albert, senza sapere perché, fremeva nell’udire quelle parole pronunciate con un accento indefinibile di fermezza e di dignità, gli pareva che qualche cosa di sinistro e spaventoso tralucesse dagli occhi della giovane donna, quando, simile a una pitonessa che evoca uno spettro, rammentò quella insanguinata figura che la morte fece comparire gigantesca agli occhi dell’Europa contemporanea.

«Presto», continuò Haydée, «si sospese la marcia: eravamo ai piedi della scala e sulla riva del lago. Mia madre mi premeva contro il petto ansante, e io vidi, due passi dietro a noi, mio padre che girava da ogni lato lo sguardo inquieto. Ci rimanevano ancora quattro scalini da scendere, e al termine del quarto ondulava una barca. Dal luogo dove eravamo, si vedeva innalzarsi nel mezzo del lago una massa nera: era l’isola verso cui stavamo fuggendo.

Quest’isola mi sembrava molto lontana, forse a causa dell’oscurità. Salimmo nella barca. Mi ricordo che i remi non facevano alcun rumore fendendo l’acqua. Mi chinai per guardarli: erano fasciati con le cinture delle nostre guardie. Nella barca, oltre i rematori, stavano soltanto le donne, mio padre, mia madre, Selim e io. Le guardie erano rimaste sulla riva del lago, pronte a proteggere la ritirata, inginocchiate sull’ultimo gradino, facendosi riparo degli altri tre, nel caso fossero state assalite.

La nostra barca vogava come spinta dal vento.

“Perché la barca va così veloce?” domandai a mia madre.

“Zitta, figlia mia”, disse, “perché noi fuggiamo.”

Io non capii perché mio padre fuggisse, lui così potente, lui, davanti al quale fuggivano gli altri, lui che aveva preso per motto: “Mi odiano, dunque mi temono!”

Era infatti una fuga che mio padre faceva sul lago. Mi fu detto poi che la guarnigione del castello di Giannina, stanca del lungo servizio…»

Qui Haydée fermò il suo sguardo espressivo su Montecristo, i cui occhi non si erano staccati dai suoi. La giovane continuò dunque lentamente come fa chi inventa o modifica.

«Dicevate, signora», riprese Albert, che poneva la più grande attenzione a quel racconto, «che la guarnigione di Giannina, stanca del lungo servizio…»

«Aveva trattato con il generale Kourchid, inviato dal sultano per impadronirsi di mio padre. Fu allora che mio padre prese la risoluzione di ritirarsi, dopo avere inviato al sultano un ufficiale francese in cui aveva riposta tutta la fiducia, nell’asilo ch’egli stesso si era preparato da lungo tempo e che chiamava kataphygion, cioè il suo rifugio.»

«Vi ricordate il nome di quest’ufficiale, signora?» domandò Albert.

Montecristo scambiò con la giovane donna uno sguardo rapido, che sfuggì a Morcerf.

«No», rispose lei, «non me ne ricordo, ma forse più tardi me ne ricorderò, e lo dirò.»

Albert stava per pronunciare il nome di suo padre, allorché Montecristo alzò dolcemente il dito in segno di silenzio. Il giovane si ricordò il giuramento, e tacque.

«Era verso un palazzo sull’isola che noi vogavamo. Un pianterreno ornato di arabeschi, che bagnava i suoi terrazzi nell’acqua, e un primo piano che guardava sul lago, ecco quanto il palazzo offriva di visibile agli occhi. Ma al di sotto del pianterreno, prolungandosi nell’isola, c’era un sotterraneo, una vasta caverna dove fummo condotti, mia madre, io e le nostre donne e dove erano accatastati sessantamila borse e più di duecento barili. In queste borse c’erano venticinque milioni in oro, e nei barili trentamila libbre di polvere. Vicino a quei barili stava Selim, il favorito di mio padre, di cui vi ho parlato. Vegliava giorno e notte, con la lancia stretta in pugno, all’estremità della quale ardeva una miccia accesa; aveva ordine di far saltare palazzo, guardie, pascià, donne e oro al primo segnale di mio padre. Io mi ricordo che i nostri schiavi, conoscendo quel terribile progetto, passavano il giorno e la notte a piangere, pregare e gemere.

Quanto a me, vedo sempre il giovane soldato, col colorito pallido e l’occhio nero, e, quando l’angelo della morte scenderà verso di me, sono sicura che in lui tornerò a incontrare Selim.

Non vi saprei dire quanti giorni siamo rimasti in tale stato, allora ignoravo che cosa fosse il tempo. Qualche volta, ma raramente, mio padre faceva chiamare me e mia madre sulla terrazza del palazzo. Erano per me ore di festa, poiché nel sotterraneo non vedevo che ombre gementi, e la lancia ardente di Selim. Mio padre, seduto davanti a una grande apertura, fissava un tetro sguardo sul lontano orizzonte, osservando a lungo ciascun punto nero che compariva sul lago, mentre mia madre, stesa vicina a lui, appoggiava la testa sulla sua spalla, e io giocavo ai suoi piedi, ammirando, con la meraviglia propria dell’infanzia che ingrandisce sempre gli oggetti, il pendio del Pindo che s’ergeva all’orizzonte, i castelli di Giannina che apparivano bianchi e acuti sulle acque azzurre del lago, i cespugli verdi scuri attaccati come licheni alle rocce della montagna, che di lontano sembravano muschio, ed erano invece giganteschi abeti e mirti immensi.

Mio padre una mattina ci fece chiamare. Mia madre aveva pianto tutta la notte, e noi trovammo mio padre assai calmo, ma più pallido del consueto.

“Abbi pazienza, Vasiliki”, disse. “Oggi tutto sarà finito, giunge l’ordine del sultano, e la mia sorte sarà decisa. Se la grazia è totale, ritorneremo trionfanti a Giannina: se le notizie sono cattive, fuggiremo stanotte.”

“Ma se non ci lasciano fuggire?” aggiunse mia madre.

“Sta’ tranquilla”, rispose sorridendo, “Selim e la sua lancia accesa rispondono di loro; vorrebbero bene che io morissi, ma non a condizione dl morire con me.”

Mia madre non rispondeva che con sospiri a quelle parole che non partivano dal cuore di mio padre. Gli preparò l’acqua ghiacciata, che mio padre beveva a ogni istante, poiché dopo la ritirata nel palazzo era arso da febbre ardente; gli profumò la bianca barba, e gli accese la pipa, di cui, qualche volta per ore intere, egli seguiva con gli occhi il fumo a spire nell’aria. A un tratto fece un gesto così rapido, ch’io ebbi gran paura. Quindi, senza staccare gli occhi dal punto che fissava, domandò il cannocchiale.

Mia madre glielo consegnò, più pallida della statua contro cui stava appoggiata. Vidi la mano di mio padre tremare.

“Una barca!… due!… tre!…” mormorò mio padre, “quattro!…”

E si alzò brandendo le armi, e versando, me ne ricordo, della polvere nelle sue pistole.

“Vasiliki”, disse a mia madre, con visibile tremito, “ecco l’istante che decide di noi: fra mezz’ora avremo la risposta della Sublime Porta. Ritirati nel sotterraneo con Haydée.”

“Io non voglio lasciarvi”, replicò Vasiliki. “Se voi morirete, mio signore, voglio morire con voi.”

“Andate da Selim!” gridò mio padre.

“Addio, signore”, mormorò mia madre, obbediente e rassegnata come all’avvicinarsi della morte.

“Portate con voi Vasiliki!” ordinò mio padre alle sue guardie.

Ma io, che ero stata dimenticata, corsi da lui, tendendogli le mani. Mi vide, e chinandosi su di me, premette la mia fronte contro le sue labbra. Oh, quel bacio! Fu l’ultimo, ed è sempre impresso sulla mia fronte.

Scendendo distinguemmo, attraverso le inferriate della terrazza, le barche che s’ingrandivano sul lago, e, simili a punti neri, sembravano uccelli radenti la superficie delle acque. In quel punto, nel palazzo, venti guardie, sedute ai piedi di mio padre e nascoste dai cespugli, spiavano con occhio sanguinoso l’arrivo di quei battelli, e tenevano pronti i loro lunghi fucili incrostati d’avorio e di argento; cartucce in gran numero erano sparse sul terreno. Mio padre guardava il suo orologio e passeggiava con angoscia. Ecco ciò che mi colpì quando lasciai mio padre dopo l’ultimo bacio che ricevetti da lui.

Mia madre e io attraversammo il sotterraneo. Selim era sempre al suo posto; ci sorrise con tristezza. Cercammo dei cuscini dall’altra parte della caverna e sedemmo vicino a Selim: nei grandi pericoli si cercano le persone affezionate, e sebbene fossi piccola, sentivo per istinto che una gran disgrazia stava per avvenire.»

Albert aveva spesso udito raccontare, non già da suo padre, che non ne parlava mai, ma da due forestieri, gli ultimi momenti del pascià di Giannina: aveva letto diversi racconti sulla sua morte: ma quella storia divenuta palpitante racconto, e la voce della giovane donna, quel vivo accento e quella lamentevole elegia gli facevano provare un incanto e un orrore inesprimibili.

In quanto ad Haydée, tutta immersa nelle sue terribili rimembranze, era per un momento rimasta in silenzio: la sua fronte, come un fiore che si piega sotto l’uragano, si era inclinata sulla sua mano, e i suoi occhi erranti sembravano scorgere ancora all’orizzonte il Pindo verdeggiante, e le acque azzurre del lago di Giannina, specchio magnifico che rifletteva il tetro quadro di cui faceva lo schizzo. Montecristo la guardava con indefinibile espressione di affetto e di pietà.

«Continua, figlia mia», disse il conte in lingua greca.

Haydée rialzò la fronte, come se le parole di Montecristo l’avessero distolta da un sogno, e riprese: «Erano le quattro della sera: ma, benché il giorno fosse chiaro e lucente al di fuori, noi stavamo immersi nell’oscurità del sotterraneo. Una sola luce brillava nella caverna, come una stella risplendente in un nero cielo, ed era la miccia di Selim. Mia madre era cristiana, e pregava. Selim ripeteva di tanto in tanto queste sante parole: “Dio è grande!” Mia madre però nutriva ancora qualche speranza. Nel scendere le era sembrato di riconoscere il francese che era stato inviato a Costantinopoli, e nel quale mio padre aveva riposta ogni fiducia, perché sapeva che i soldati del re francese sono ordinariamente nobili e generosi: avanzò di qualche passo verso la scala e ascoltò.

“Si avvicinano”, disse. “Purché portino la pace e la vita!”

“Che temi, Vasiliki?” domandò Selim con la voce soave e, a un tempo, fiera. “Se non portano la pace, daremo loro la guerra; se non portano la vita, daremo loro la morte.”

E agitava il fuoco attaccato alla sua lancia con un gesto che lo faceva somigliare a Dionisio nell’antica Creta.

Ma io, che ero così piccola e così ingenua, avevo paura di quel coraggio che trovavo feroce e insensato, e atterrivo di quella morte spaventosa nell’aria e fra le fiamme. Mia madre provava le stesse emozioni, perché la sentivo fremere.

“Mio Dio, mio Dio, mamma!” gridai io. “Dobbiamo forse morire?”

Alla mia voce raddoppiarono i pianti e le preghiere degli schiavi.

“Fanciulla”, mi disse Vasiliki, “Dio ti salvi dal dovere un giorno desiderare questa morte che oggi ti spaventa.”

Quindi a bassa voce disse: “Selim, qual è l’ordine che hai ricevuto dal tuo signore?”

“S’egli m’invia il pugnale, è segno che il sultano rifiuta di fargli grazia, e io do fuoco; se m’invia l’anello è segno che il sultano gli perdona, e io libero la polveriera.”

“Amico”, riprese mia madre, “quando giungerà l’ordine del padrone, se t’invia il pugnale, invece di ucciderci entrambe con quella morte che ci spaventa, ci ucciderai con quel pugnale?”

“Sì, Vasiliki”, rispose tranquillamente Selim.

A un tratto sentimmo come grandi grida; ascoltammo: erano grida di gioia! Il nome del francese che era stato inviato a Costantinopoli echeggiava ripetuto dalle nostre guardie: certo portava la risposta della Sublime Porta, e la risposta era propizia…»

«E non ricordate il suo nome?» domandò Morcerf pronto a soccorrere la memoria della narratrice.

«Non me ne ricordo», rispose Haydée. «Il rumore raddoppiava, si sentivano passi più vicini, qualcuno scendeva la scala del sotterraneo. Selim preparò la sua lancia. Ben presto comparve un’ombra nell’incerto crepuscolo, formato da quella luce che penetrava fin nell’ingresso del sotterraneo. “Chi sei tu?” gridò Selim. “Chiunque tu sia, non fare un passo di più.”

“Gloria al sultano”, disse l’ombra. «È fatta piena grazia al pascià Alì, e non solo ha salva la vita, ma gli vengono resi i beni e le sostanze.”

Mia madre mandò un grido di gioia, e mi strinse al cuore.

“Fermati”, le disse Selim, vedendo che si apprestava già a uscire. “Tu sai che mi serve l’anello.”

“È vero”, mormorò mia madre.

E cadde in ginocchio levandomi verso il cielo, come se, nello stesso tempo che pregava Dio per me, volesse anche sollevarmi verso di Lui…»

E per la seconda volta Haydée si fermò, vinta da tale emozione che il sudore le grondava dalla pallida fronte, e la voce soffocata sembrava non poterle uscire dall’arida gola. Montecristo versò un po’ d’acqua gelata in un bicchiere, e glielo offrì, dicendole con una dolcezza da cui trapelava un’ombra di comando: «Coraggio, figlia mia».

«Allora i nostri occhi, abituati all’oscurità, riconobbero l’inviato del sultano; era un amico. Selim lo aveva riconosciuto, ma il bravo giovane non sapeva che una cosa: obbedire! “In nome di chi vieni tu?” domandò Selim.

“In nome del nostro padrone Alì Tebelin.”

“Se vieni in nome di Tebelin, saprai che cosa devi consegnarmi.”

“Sì”, rispose l’inviato, “ti porgo il suo anello.”

E nello stesso tempo alzò la mano sopra la testa, ma era troppo lontana, e faceva troppo buio perché Selim potesse, dal luogo dov’era, distinguere e conoscere l’oggetto che gli presentava.

“Io non vedo ciò che tieni”, disse Selim.

“Avvicinati”, disse il messaggero, “o mi avvicinerò io.”

“Né l’uno, né l’altro”, rispose il giovane soldato. “Deponi nel posto dove sei, sotto quel raggio di luce, l’oggetto che tu mi mostri, e ritirati fino a che io l’abbia visto.”

“Ecco”, annuì il messaggero.

E si ritirò dopo aver deposto il segno convenuto nel luogo indicato. Il nostro cuore palpitava, perché l’oggetto ci sembrava effettivamente un anello. Ma era quello l’anello di mio padre? Selim, tenendo sempre in mano la miccia accesa, s’accostò all’apertura, e, chinatosi sotto il raggio di luce, raccolse il segnale.

“L’anello del mio signore”, diss’egli baciandolo.

E, rovesciando la miccia a terra, vi pestò sopra il piede, e la spense. Il messaggero mandò un grido di gioia, e batté le mani.

A quel segnale accorsero quattro soldati del generale Kourchid, e Selim cadde trapassato da cinque colpi di pugnale. Ebbri per il loro delitto, sebbene ancora pallidi per la paura, irruppero nel sotterraneo, cercando dappertutto se vi era fuoco, e rotolandosi sui sacchi d’oro.

Intanto mia madre mi prese nelle sue braccia, e, agile, correndo per corridoi ignoti, giunse fino alla scala segreta del palazzo, nel quale regnava uno spaventoso tumulto. Le sale del pianterreno erano interamente gremite di soldati di Kourchid, vale a dire di nostri nemici, e mentre mia madre stava per spingere la porticina udimmo la voce del pascià risuonare terribile e minacciosa. Mia madre rimase in ascolto, e guardava dalle fessure d’un’asse.

“Che cosa volete?” domandava mio padre a persone che tenevano in mano una carta con caratteri d’oro.

“Che cosa vogliamo?” rispondeva una voce. “Comunicarvi la volontà di Sua Altezza. Vedi l’ordine?”

“Lo vedo”, rispose mio padre.

“Ebbene, leggi: domanda la tua testa!”

Mio padre ebbe uno scoppio di riso feroce, e non aveva ancora cessato, che due colpi di pistola avevano ucciso due uomini. Le guardie, tutte distese intorno a mio padre con la faccia a terra, si alzarono, e fecero fuoco. La sala si riempì di frastuono, di fumo e di fiamme. Nel medesimo istante il fuoco cominciò dall’altro lato, e le pallottole vennero a forare l’asse intorno a noi. Oh, quanto era bello! Quanto era grande il pascià Alì Tebelin, mio padre, in mezzo alle pallottole, con la scimitarra alla mano, il viso annerito dalla polvere: come fuggivano i suoi nemici!

“Selim! Selim! guardiano del fuoco!” gridò egli, “fa’ il tuo dovere!”

“Selim è morto”, rispose un’altra voce che sembrava uscire dalle palizzate del palazzo, “e tu, Alì, sei perduto!”

Nello stesso tempo si udì una sorda detonazione, e il recinto saltò in schegge tutto intorno a mio padre. I soldati sparavano attraverso la palizzata di legno: tre o quattro guardie caddero ferite. Mio padre ruggì, introdusse le dita nei fori della palizzata, e strappò un’asse intera. Ma, contemporaneamente, venti colpi di moschetto partirono da quell’apertura, e la fiamma, uscendo come da un cratere di vulcano, si appiccò alle tende, e in mezzo a quelle grida terribili, due colpi più distinti degli altri, due grida più straziate delle altre mi agghiacciarono di terrore. Quei due colpi avevano ferito mio padre; quelle grida erano sue. Però era rimasto in piedi, aggrappato a una finestra.

Mia madre squassava la porta per correre a morire al suo fianco, ma la porta era chiusa dal di dentro. Intorno a lui le guardie si contorcevano morenti; due o tre che erano senza ferite, o ferite leggermente, si lanciarono dalle finestre. Nello stesso tempo il palazzo di legno scricchiolò: mio padre cadde sopra un ginocchio, e subito venti braccia si stesero sopra il suo capo armate di sciabole, di pistole e di pugnali: venti colpi colpirono a un tratto, e mio padre, trafitto, scomparve in un turbine di fuoco, attizzato da quei demoni ruggenti, come se l’inferno si fosse aperto sotto i suoi piedi. Io mi sentii rotolare a terra; era mia madre che cadeva svenuta.»

Haydée lasciò cadere le braccia mandando un gemito, e guardando il conte, come per domandargli s’era contento della sua obbedienza.

Il conte si alzò, andò a lei, la prese per mano e le disse in greco: «Riposati cara ragazza, e riprendi coraggio, pensando che vi è un Dio per punire i traditori».

«Ecco una storia raccapricciante, conte», disse Albert, atterrito dal pallore d’Haydée, «e ora mi pento di essere stato così crudelmente indiscreto.»

«Non è nulla», rispose Montecristo.

Quindi, mettendo una mano sulla testa della giovane donna: «Haydée». continuò, «è una donna coraggiosa e qualche volta ha trovato sollievo nel racconto delle sue sventure».

«Perché, mio signore», disse vivamente la giovane, «perché le mie sventure mi ricordano i tuoi benefici.»

Albert la guardò con tenerezza, perché non aveva ancora narrato quello che più desiderava sapere, vale a dire in che modo fosse divenuta schiava del conte.

Haydée vide quel desiderio espresso tanto negli occhi d’Albert, quanto in quelli del conte, per cui continuò.

«Quando mia madre recuperò i sensi, noi eravamo davanti al generale.

“Uccidetemi” disse lei, “ma rispettate la vedova di Alì.”

“Non è a me che tu devi rivolgerti”, disse Kourchid.

“E a chi dunque?”

“Al tuo nuovo signore.”

“Quale?”

“Eccolo.”

E Kourchid ci mostrò uno di quelli che avevano contribuito alla morte di mio padre», disse la giovane donna con una cupa collera.

«Allora», domandò Albert, «voi diveniste schiava di quest’uomo?»

«No», rispose Haydée, «non osò tenerci, ci vendette a dei mercanti di schiavi che andavano a Costantinopoli. Traversammo la Grecia, e giungemmo morenti alla porta imperiale, ingombra di curiosi che ci facevano ala per lasciarci passare, quando a un tratto mia madre seguì con lo sguardo la direzione degli occhi di tutti, e gettato un grido cadde mostrando una testa al di sopra di quella porta. Sopra quella testa, erano scritte queste parole: ECCO LA TESTA DEL PASCIÀ DI GIANNINA.

Cercai piangendo di far rialzare mia madre; era morta! Fui portata al bazar: un ricco armeno mi comperò, mi fece istruire, mi procurò dei maestri, e quando ebbi tredici anni mi vendette al sultano Mahmoud.»

«Dal quale», intervenne Montecristo, «io la riscattai, come vi dissi, Albert, con uno smeraldo uguale a questo in cui metto le mie pasticche di hashish.»

«Tu sei buono, tu sei grande, mio signore», disse Haydée, baciando la mano a Montecristo, «e io sono ben felice di essere tua.»

Albert era rimasto stordito da quanto aveva sentito.

«Terminate di bere il caffè», gli disse Montecristo, «la storia è finita.»

77. Ci scrivono da Giannina

Franz aveva lasciato la camera di Noirtier tanto tremante, e fuori di sé, al punto che Valentine stessa ne aveva avuto compassione. Villefort, da parte sua, non aveva articolato che poche e disordinate parole, ed era fuggito nel suo studio; ricevette due ore dopo il seguente scritto: «Dopo la rivelazione di questa mattina, il signor Noirtier di Villefort non potrà supporre che una parentela sia possibile fra la sua famiglia e quella del signor Franz d’Epinay. Il signor Franz d’Epinay prova orrore pensando che il signor Villefort che doveva conoscere gli avvenimenti raccontati questa mattina, non lo abbia prevenuto in tale pensiero».

Chiunque avesse visto allora il magistrato, oppresso dalla sua sciagura, non avrebbe potuto credere che l’avesse prevista, e difatti egli non aveva mai pensato che suo padre fosse capace di spingere la franchezza, o piuttosto l’ardimento sino al punto di raccontare quella storia. Vero è che il signor Noirtier, sdegnoso dell’opinione di suo figlio, non si era preoccupato di chiarire i fatti agli occhi di Villefort, e che questi aveva sempre creduto che il generale Quesnel, o barone d’Epinay, secondo che si vorrà chiamare o col nome che si era fatto o con quello che gli era stato dato, fosse morto assassinato e non ucciso lealmente in duello.

Quella lettera tanto pungente da parte di un giovane fino allora così rispettoso, feriva mortalmente l’orgoglio di un uomo come Villefort. Appena fu nello studio, entrò sua moglie. La partenza di Franz, chiamato da Noirtier, aveva tanto stupito gli astanti, che la posizione della signora Villefort, rimasta sola col notaio e i testimoni, si fece di momento in momento più imbarazzante. Allora la signora Villefort aveva deciso d’uscire dicendo che andava a raccogliere notizie. Il signor Villefort si contentò di dirle che, in seguito ad alcune spiegazioni fra lui, il signor Noirtier e il signor Franz d’Epinay, il matrimonio di Valentine con Franz era rotto. Non era conveniente riportare tale ambasciata a coloro che aspettavano; per cui la signora Villefort, rientrando, si limitò a dire che avendo avuto il signor Noirtier all’inizio del colloquio una specie d’attacco d’apoplessia, il contratto era stato differito di qualche giorno. Tale notizia, per quanto fosse falsa, era così sorprendente in seguito alle altre due disgrazie dello stesso genere, che gli uditori si guardarono sorpresi, e si ritirarono senza dir parola.

Intanto Valentine, felice e spaventata dopo avere abbracciato e ringraziato il vecchio, che aveva in tal modo rotto a un tratto la catena che ormai lei considerava indissolubile, aveva domandato di ritirarsi nelle sue camere per riprendersi, e Noirtier le aveva accordato il permesso. Ma Valentine, una volta uscita, prese invece il corridoio, e, sgusciando dalla piccola porticina, si lanciò nel giardino. In mezzo a tutti gli avvenimenti che si accumulavano gli uni sugli altri, un sordo terrore le aveva costantemente compresso il cuore: si aspettava da un momento all’altro di vedersi comparire Morrel, pallido e minaccioso, come lord Ravenswood allo sposalizio di Lucia di Lammermoor.

Maximilien, che aveva sospettato quel che sarebbe accaduto quando aveva visto Franz lasciare il cimitero in compagnia del signor Villefort, lo aveva seguito, poi, dopo averlo visto entrare, lo aveva anche visto uscire e rientrare nuovamente in compagnia di Albert e Château-Renaud. Per lui non c’era dunque più alcun dubbio: allora si era gettato nel suo recinto, pronto a qualunque avvenimento, ben certo che, al primo attimo di libertà, Valentine sarebbe corsa da lui. Non s’era ingannato; il suo occhio applicato alle assi, vide infatti comparire la ragazza che, senza prendere le solite precauzioni, correva al cancello. Al primo sguardo Maximilien fu tranquillizzato; alla prima parola che pronunciò, balzò di gioia.

«Salvi!» esclamò Valentine.

«Salvi», ripeté Morrel, non potendo credere a tanta felicità. «Ma per opera di chi?»

«Di mio nonno. Oh, amatelo molto, Morrel!»

Morrel giurò d’amare il vecchio con tutta l’anima sua; e questo giuramento non gli costava niente a farlo, perché in quel momento non si sentiva solo di amarlo come amico, come padre, lo adorava quasi come Dio.

«Ma cosa è successo, come mai?» domandò Morrel. «Quale strano espediente ha trovato?»

Valentine aprì la bocca per raccontare tutto, ma pensò che in fondo era un segreto terribile che non apparteneva soltanto a suo nonno.

«Più tardi», disse, «vi racconterò tutto.»

«Ma quando?»

«Quando sarò vostra moglie.»

Era sviare la conversazione in un modo che rendeva facile a Morrel concedere tutto; e infatti capì che doveva accontentarsi di quanto sapeva e che per quel giorno ciò bastava. Però non acconsentì a ritirarsi che sulla promessa che Valentine sarebbe tornata l’indomani sera. Valentine promise quanto volle Morrel. Tutto era cambiato ai loro occhi, e certo per Valentine era meno difficile adesso credere di potersi sposare con Maximilien, di quanto fosse un’ora prima non dover sposare il signor Franz.

Frattanto la signora Villefort era salita dal signor Noirtier. Il vecchio la guardò con occhio cupo e severo, come usava nel riceverla.

«Signore», gli disse lei, «non ho bisogno di dirvi che il matrimonio di Valentine è rotto, poiché tale rottura fu decisa qui.»

Noirtier rimase impassibile.

«Ma», continuò la signora Villefort, «quello che non sapete, signore, è che io sono sempre stata contraria a questo matrimonio e che si faceva mio malgrado.»

Noirtier guardò la nuora come chi aspetta una spiegazione.

«Ora, poiché questo matrimonio, per il quale conoscevo la vostra opposizione, è rotto, vengo a farvi una rimostranza che non possono farvi né il signor Villefort, né Valentine.»

Gli occhi di Noirtier chiesero quale fosse questa rimostranza.

«Vengo a pregarvi, signore», riprese la signora Villefort, «come la sola che ne abbia il diritto, perché sono la sola a cui non frutterà niente, vengo a pregarvi di rendere, non dirò le vostre grazie, che le ha sempre godute, ma la vostra eredità a vostra nipote.»

Gli occhi di Noirtier rimasero un istante incerti: cercavano evidentemente i motivi di quella rimostranza, e non li poteva trovare.

«Posso sperare», domandò la signora Villefort, «che le vostre intenzioni siano in armonia con la preghiera che vi faccio?»

«Sì», fece Noirtier.

«In tal caso, signore, io mi ritiro, riconoscente a un tempo e felice.»

E salutando il signor Noirtier, si ritirò.

Infatti, il giorno dopo Noirtier fece venire il notaio: fu stracciato il primo testamento, ne fu fatto un secondo, nel quale lasciava tutta la sua sostanza a Valentine, sotto condizione che non si fosse separata da lui. Alcune persone allora calcolarono che la signorina Villefort, ereditiera del marchese e della marchesa di Saint-Méran, e rientrata nella grazia di suo nonno, avrebbe un giorno potuto godere di una rendita di trecentomila franchi annui.

Mentre si rompeva questo matrimonio presso i Villefort, il signor conte Morcerf aveva ricevuto la visita di Montecristo, e per far vedere la sua premura a Danglars, indossò la grande uniforme di luogotenente generale che aveva fatto ornare di tutte le sue decorazioni, e ordinò i migliori cavalli. Morcerf, così abbigliato, si fece condurre alla rue Chaussée d’Antin, e annunciare a Danglars, che stava facendo il suo bilancio di fine mese. Non era quello il momento adatto per trovare il banchiere di buon umore.

Così, all’apparire del vecchio amico, Danglars prese un’aria misteriosa, e si accomodò meglio sulla sua sedia. Morcerf, di solito così serio, aveva assunto un’aria sorridente e affabile: per cui, sicuro d’essere ben accolto fin dalle sue prime parole, non fece il diplomatico, e andò direttamente e di colpo allo scopo.

«Barone», cominciò, «eccomi da voi. Da lungo tempo ci aggiriamo attorno alle parole…»

Morcerf si aspettava di veder rasserenarsi il viso del banchiere, il cui sussiego attribuiva al proprio silenzio, ma al contrario egli divenne, e pareva quasi impossibile, più indifferente e più freddo. Ecco perché Morcerf si era fermato a metà della frase.

«Quali parole, signor conte?» domandò il banchiere, come cercasse invano nella sua mente la spiegazione di quanto voleva dire il generale.

«Siete amante delle formalità mio caro signore», riprese il conte, «e mi rammentate che il cerimoniale deve eseguirsi secondo tutti i riti. Benissimo, in fede mia. Perdonate, ma siccome non ho che un solo figlio, e questa è la prima volta che penso ad ammogliarlo, io sono ancor novizio, perciò, mi adatto…»

E Morcerf, con un sorriso forzato, si alzò e fatta una profonda riverenza a Danglars gli disse: «Signor barone, ho l’onore di domandarvi la mano della signorina Eugénie Danglars vostra figlia, per mio figlio il visconte Albert Morcerf».

Ma Danglars, invece d’accogliere queste parole col favore che Morcerf si aspettava da lui, aggrottò le sopracciglia, e senza invitare il conte, rimasto in piedi, a sedersi di nuovo, rispose: «Signor conte, prima di potervi rispondere ho bisogno di riflettere».

«Di riflettere?» ripeté Morcerf sempre più meravigliato. «Non avete dunque avuto tempo di riflettervi in otto anni circa che parliamo di questo matrimonio?»

«Signor conte, tutti i giorni accadono cose sulle quali non si è mai riflettuto abbastanza.»

«Come? Io non vi capisco più, barone!»

«Voglio dire, signore, che da quindici giorni nuove circostanze…»

«Permettete», lo interruppe Morcerf. «Non è una commedia quella che rappresentiamo…»

«E perché dovrebbe essere una commedia?»

«Già, spieghiamoci fino in fondo.»

«Non chiedo di meglio.»

«Avete visto il signor conte di Montecristo?»

«Lo vedo spessissimo», rispose Danglars scuotendosi il merletto della camicia, «è uno dei miei amici.»

«Ebbene, una delle ultime volte che lo avete visto, voi gli avete detto ch’io sembravo smemorato, indeciso sul conto di questo matrimonio?»

«È vero.»

«E allora eccomi. Io non sono né indeciso, né smemorato, lo vedete vengo a domandare che manteniate la vostra parola.»

Danglars non rispose.

«Avete cambiato idea», continuò Morcerf, «o provocate soltanto per il piacere d’umiliarmi?»

Danglars comprese che, continuando il discorso sul tono con cui l’aveva cominciato, la cosa poteva mettersi male per lui.

«Signor conte, dovete essere a buon diritto meravigliato della mia perplessità, lo capisco… Credetemi, sono il primo ad affliggermene, e, ve l’assicuro, mi è imposta da circostanze imperiose.»

«Queste sono scuse vaghe, mio caro signore», protestò il conte, «e tutt’al più potrebbe esserne contento il primo arrivato, ma il conte Morcerf non è un primo arrivato, e quando un uomo come lui viene a trovare un uomo come voi per ricordargli la parola data, e questo uomo manca alla sua parola, ha diritto di esigere, sul momento, che almeno gli venga addotta una buona giustificazione.»

Danglars era vile, ma non voleva sembrarlo, fu punto dal tono che aveva preso Morcerf.

«Non è certo una buona ragione quella che mi manca», rispose.

«Che cosa vorreste dire?»

«Che la buona ragione ce l’ho, ma che è difficile da rivelare.»

«Però capirete», riprese Morcerf, «che non posso ritenermi soddisfatto delle vostre reticenze, e una cosa in ogni modo mi sembra chiara, ed è che rifiutate la mia parentela.»

«No, signore», replicò Danglars, «io sospendo la mia decisione, ecco tutto.»

«Ma non avrete però la pretesa, credo, che debba sottostare ai vostri capricci al punto d’aspettare tranquillamente e umilmente il ritorno del vostro favore?»

«Allora, signor conte, se non potete aspettare, consideriamo i nostri progetti come non fatti.»

Il conte si morse le labbra a sangue per non andare su tutte le furie, come avrebbe preteso il suo carattere superbo e irritabile, però, sapendo che in simile circostanza gli sarebbe caduto addosso il ridicolo, aveva già cominciato ad accostarsi alla porta della sala, quando, pentendosi, tornò indietro. Una fosca nube gli era passata sulla fronte, lasciandogli, invece dell’offeso orgoglio, una vaga inquietudine.

«Noi ci conosciamo da molti anni disse, mio caro Danglars», disse, «e quindi dobbiamo aver riguardo l’uno per l’altro. Voi mi dovete una spiegazione: ch’io sappia almeno a quale disgraziata circostanza mio figlio sia debitore della perdita delle vostre buone intenzioni.»

«Non è colpa del visconte, ecco cosa posso dirvi…» rispose Danglars che tornava impertinente vedendo Morcerf addolcirsi.

«E di chi sarebbe dunque colpa?» domandò con voce alterata Morcerf la cui fronte si coprì di pallore.

Danglars, cui non sfuggiva nessuno di quei sintomi, fissò su di lui uno sguardo più sicuro di quanto non osasse abitualmente.

«Ringraziatemi, se non mi spiego di più», rispose.

Un tremito convulso, certo eccitato dalla collera soffocata, agitava Morcerf.

«Io ho diritto», ribatté facendosi forza, «io ho diritto di esigere che vi spieghiate: è dunque contro la signora Morcerf che avete qualche rancore? Non sono abbastanza ricco? Sono forse le mie opinioni, contrarie alle vostre?…»

«Nulla di ciò, signore», disse Danglars, «e sarebbe per me imperdonabile, poiché mi sono impegnato conoscendo quanto mi dite. No, non cercate di più… Sono mortificato di costringervi a fare questo esame di coscienza… Fermiamoci qui, credetemi… Prendiamo un termine medio, che non sia né una rottura, né un impegno. Niente ci fa fretta! Mia figlia ha diciassette anni, e vostro figlio ventuno. Il tempo passerà, ciò che sembra oscuro oggi, può divenir chiaro domani: qualche volta basta una parola per distruggere le più crudeli calunnie.»

«Calunnie avete detto, signore?» gridò Morcerf, diventando livido. «Sono io forse calunniato?»

«Signor conte, vi dico: non parliamone più.»

«Per cui, signore, dovrei subire tranquillamente questo rifiuto?»

«Penoso soprattutto per me, signore. Sì, più penoso per me che per voi, perché io contavo sulla vostra parentela, e un matrimonio andato a monte, fa sempre più torto alla fidanzata che al fidanzato.»

«Vi riverisco, signore, non ne parliamo più», concluse Morcerf. E strofinandosi i guanti per la rabbia, uscì.

Danglars osservò che neppure una volta Morcerf aveva osato domandare se il matrimonio si rendeva nullo per causa sua. La sera ebbe una lunga conversazione con molti amici, e il signor Cavalcanti, che si era costantemente fermato nella sala delle signore, uscì per ultimo dalla casa del banchiere. L’indomani svegliandosi, Danglars domandò i giornali, che gli furono portati: ne sfogliò tre o quattro, e scelse «L’impartial».

Era quello di cui era redattore Beauchamp. Ruppe rapidamente la fascetta aprendolo con precipitazione convulsa, e passato sdegnosamente sul «Premier Paris», giunto ai «Fatti diversi», si fermò col suo finissimo sorriso sopra un periodo virgolato, che cominciava con queste parole: «Ci scrivono da Giannina».

«Bene», disse, dopo averlo letto, «ecco un piccolo trafiletto sul colonnello Fernando, che, secondo tutte le probabilità, mi dispenserà dal dare spiegazioni al signor conte Morcerf.»

Nella stessa mattina, mentre battevano le nove, Albert Morcerf, vestito di nero, abbottonato diligentemente, agitato, e con brevi parole, si presentò alla casa degli Champs-Elysées.

«Il signor conte è uscito, sarà una mezz’ora», disse il portinaio.

«Ha condotto con sé Battistino?» domandò Morcerf.

«No, signor visconte.»

«Chiamate Battistino: voglio parlargli.»

Il portinaio andò di persona a cercare il cameriere, e un istante dopo ritornò con lui.

«Amico mio», disse Albert, «vi chiedo scusa della mia indiscrezione ma ho voluto domandare a voi stesso se il vostro padrone è realmente uscito.»

«Sì, signore», rispose Battistino.

«Anche per me?»

«Io so quanto il mio padrone è contento di ricevere il signore, e mi guarderei bene di usare col signore una scusa qualsiasi.»

«Avete ragione, perché io debbo parlargli di un affare serio. Credete che tarderà a tornare?»

«No, perché ha ordinato la colazione per le dieci.»

«Bene, vado a fare un giro agli Champs-Elysées, alle dieci sarò qui. Se il signor conte rientra dopo di me, ditegli che lo prego di aspettarmi.»

«Non mancherò, il signore può star tranquillo.»

Albert lasciò alla porta del conte il calessino da nolo che aveva preso, e andò a passeggiare a piedi. Passando davanti a boulevard des Veuves, gli parve di riconoscere i cavalli del conte, fermi davanti alla porta del tiro al bersaglio di Gosset; si avvicinò, e, dopo averli riconosciuti bene, riconobbe il cocchiere.

«Il signor conte è al tiro al bersaglio?» gli domandò Morcerf.

«Sì, signore», rispose il cocchiere.

Infatti, molti colpi regolari si erano uditi mentre Morcerf si accostava al recinto del bersaglio. Entrò. Nel primo giardino stava l’inserviente.

«Scusate», diss’egli, «ma il signor visconte abbia la bontà di aspettare un momento.»

«E perché, Philippe?» domandò Albert, che essendo uno di quelli che frequentavano spesso il bersaglio, si meravigliava di quel divieto inconcepibile.

«Perché la persona che si esercita in questo momento ha preso il bersaglio tutto per sé, e non tira mai in presenza di alcuno.»

«Neppure in vostra presenza, Philippe?»

«Lo vedete, signore.»

«E chi gli carica le pistole?»

«Il suo domestico.»

«Un nubiano?»

«Sì, un negro.»

«È lui.»

«Voi dunque conoscete questo signore?»

«Vengo a cercarlo; è amico mio.»

«Allora è tutt’altra cosa; entrerò per avvertirlo.»

E Philippe, spinto dalla propria curiosità, entrò nel capanno di assi. Un secondo dopo, Montecristo comparve solo sulla soglia.

«Scusate se vi perseguito fin qui, mio caro conte», disse Albert. «Ma comincio col dirvi che non è colpa della vostra servitù, e che io solo sono l’indiscreto. Mi sono presentato alla vostra abitazione, e mi fu detto che eravate a passeggiare, ma che sareste rientrato alle dieci per fare colazione. Mi sono messo a passeggiare io pure per aspettare le dieci, e passeggiando ho riconosciuto i vostri cavalli e la vostra carrozza.»

«Ciò che mi dite, mi fa sperare che veniate a invitarvi a una colazione.»

«No, grazie, non si tratta di far colazione a quest’ora… Forse faremo colazione più tardi, ma in cattiva compagnia.»

«Che diavolo dite?»

«Mio caro, oggi mi batto.»

«Voi? E per far che?»

«Per battermi, per Dio.»

«Sì, capisco, ma per quale motivo? Possiamo batterci per tante cause, capite bene…»

«Per causa d’onore.»

«Ah, è cosa seria.»

«Tanto seria, che vengo a pregarvi di farmi un favore.»

«E quale?»

«Quello di farmi da padrino.»

«Allora la cosa diventa grave… Non parliamone qui, torniamo a casa mia. Alì, dammi dell’acqua.»

Il conte si rimboccò le maniche, e passò nel piccolo vestibolo che precedeva il luogo del bersaglio, e dove i tiratori avevano l’abitudine di lavarsi le mani.

«Entrate dunque, signor visconte, e vedrete una cosa singolare…» disse a bassa voce Philippe ad Albert.

Morcerf entrò. Sulla placca del bersaglio invece di esservi attaccati i soliti segni, vi erano incollate delle carte da gioco. Da lontano Morcerf credette di riconoscere un mazzo intero, dall’asso fino al dieci.

«Oh, oh!» esclamò Albert. «Avevate voglia di giocare a picchetto?»

«No, avevo voglia di fare un gioco di carte.»

«E in che modo?»

«Erano degli assi e dei due: le mie pallottole li hanno convertiti in tre, in quattro, in cinque, in sei, in nove e dieci.»

Albert si avvicinò. Infatti le pallottole avevano a linee ugualmente distanti e perfettamente esatte riempito i segni mancanti, e forate le carte nel posto dove dovevano essere dipinte. Avvicinandosi alla placca, Morcerf raccolse diverse rondinelle che avevano avuto l’imprudenza di passare a portata delle pistole del conte, e che il conte aveva abbattuto.

«Diavolo!» esclamò Morcerf.

«Che volete, caro visconte», disse Montecristo, asciugandosi le mani con la salvietta portata da Alì, «bisogna bene che occupi i miei momenti d’ozio. Ma venite, vi aspetto.»

Entrambi salirono nella carrozza di Montecristo, che in pochi istanti li condusse davanti alla porta numero 30. Montecristo condusse Morcerf nel suo studio e gli mostrò una sedia. Tutti e due sedettero.

«Ora parliamo tranquillamente», riprese il conte.

«Ma io sono perfettamente tranquillo.»

«Con chi volete battervi?»

«Con Beauchamp.»

«Uno dei vostri amici?»

«Non è sempre con gli amici che ci battiamo?»

«Ma ci vuole almeno una ragione.»

«Ce l’ho.»

«Che cosa vi ha fatto?»

«È nel suo giornale di ieri sera… Ma, prendete, leggete.»

E Albert presentò a Montecristo un giornale ove lesse queste parole: «Ci scrivono da Giannina: È giunto a nostra conoscenza un fatto fin qui ignorato, o per lo meno inedito. Le fortezze che difendevano la città furono vendute ai turchi da un ufficiale francese nel quale il visir Alì Tebelin aveva riposta tutta la fiducia, e che si chiamava Fernando.»

«Ebbene», domandò Montecristo, «che ci trovate di offensivo qua dentro?»

«Come, che ci trovo?»

«Sì, che importa a voi che i forti di Giannina siano stati venduti da un ufficiale francese di nome Fernando?»

«M’importa perché il nome di battesimo di mio padre, il conte Morcerf, è Fernando.»

«E vostro padre serviva Alì Pascià?»

«Vale a dire, combatteva per l’indipendenza della Grecia: ecco dov’è la calunnia.»

«Mio caro visconte, parliamo ragionevolmente.»

«Non chiedo altro.»

«Ditemi un po’: chi diavolo sa in Francia che l’ufficiale Fernando è lo stesso nome del conte Morcerf, e chi si occupa a quest’ora di Giannina, che è stata presa nel 1822 o 1823, credo?»

«Ecco dov’è la perfidia: hanno lasciato passare un sacco di tempo, e oggi tornano su avvenimenti dimenticati per fare sorgere uno scandalo che può pregiudicare un nome. Ebbene, erede del nome di mio padre, non voglio che su questo nome cada neppure ombra di sospetto. Invierò a Beauchamp, il cui giornale ha pubblicato questa nota, due padrini, e la ritratterà.»

«Beauchamp non ritratterà.»

«Allora ci batteremo.»

«No, non vi batterete, perché Beauchamp vi risponderà che nell’esercito greco ci potevano essere cinquanta ufficiali che si chiamavano Fernando.»

«Ci batteremo malgrado questa risposta… Voglio che questa notizia sia smentita… Mio padre, un così nobile soldato, una illustre carriera…»

«Oppure inserirà: “Abbiamo tutte le ragioni di credere che questo Fernando non abbia niente in comune col signor conte Morcerf, il cui nome di battesimo è ugualmente Fernando”.»

«Esigo una ritrattazione piena e completa, non mi accontenterò di questa!»

«E volete mandargli i vostri padrini?»

«Sì.»

«Avete torto.»

«Vale a dire che mi negate il servizio che venivo a chiedervi?»

«Voi conoscete le mie teorie sui duelli, ve ne parlai a Roma: ve ne ricordate?»

«Però, caro conte, questa mattina, anzi poco fa, vi ho trovato occupato in un esercizio che non va d’accordo con le vostre teorie.»

«Perché, amico caro, capirete, non bisogna mai essere fanatici. Quando si vive con dei pazzi, bisogna anche fare scuola di follia: da un momento all’altro, qualche cervello bollente, che non avrà maggior ragione di muovermi querela di quella che avete voi contro Beauchamp, mi verrà a trovare per una frivolezza, o mi manderà i suoi padrini, o m’insulterà in un luogo pubblico: ebbene, questo cervello bollente bisogna bene che io lo sappia uccidere!»

«Ammettete dunque che voi stesso vi battereste?»

«Per difendermi.»

«Ebbene, perché dunque non volete che mi batta io?»

«Io non dico che non vi dobbiate battere, dico soltanto che il duello è cosa grave, e sulla quale bisogna riflettere.»

«Ha egli riflettuto nell’insultare mio padre?»

«Se non ci ha riflettuto, e ve lo confessa, non bisogna avercela con lui.»

«Ah, mio caro conte, voi siete troppo indulgente.»

«E voi troppo severo. Ascoltate bene, io suppongo… Ma non andate in collera per quel che vi dico!»

«Ascolto.»

«Io suppongo che il fatto raccontato sia vero…»

«Un figlio non può ammettere tale supposizione, che offende l’onore di suo padre.»

«Siamo in un’epoca in cui si ammettono tante cose!»

«È precisamente il difetto dell’epoca.»

«Avreste voi la pretesa di riformarla?»

«Sì, per quanto mi riguarda.»

«Siete troppo rigoroso, caro amico.»

«Sono fatto così.»

«Siete inaccessibile ai buoni consigli?»

«No, quando mi vengono da un amico.»

«E mi credete vostro amico?»

«Sì.»

«Ebbene, prima d’inviare i vostri testimoni a Beauchamp, informatevi.»

«E da chi?»

«Da Haydée, per esempio.»

«Immischiare una donna in questo affare! Cosa può fare?»

«Dichiarare, per esempio, che vostro padre non ha avuto parte nella disfatta e nella morte del suo, ossia chiarirvi su questo argomento, nel caso che vostro padre avesse avuto la disgrazia…»

«Vi ho già detto, caro conte, che io non posso ammettere tale supposizione.»

«Voi rifiutate dunque questo mezzo?»

«Lo rifiuto.»

«Assolutamente?»

«Assolutamente.»

«Allora un ultimo consiglio.»

«Sia! Ma l’ultimo.»

«Non lo volete?»

«Al contrario, ve lo domando.»

«Non mandate i vostri testimoni a Beauchamp.»

«Come?»

«Andate voi stesso a trovarlo.»

«È contro tutti gli usi.»

«Il vostro affare non è affare comune.»

«E perché debbo andare io stesso? Sentiamo.»

«Perché in tal modo la cosa resterà fra voi e Beauchamp.»

«Spiegatevi.»

«Certo, se Beauchamp è disposto a ritirarsi, bisogna lasciargli il merito della buona volontà. Se rifiuta, al contrario, farete sempre in tempo ad ammettere due estranei al vostro segreto.»

«Non saranno due estranei, saranno due amici.»

«Gli amici d’oggi sono i nemici di domani.»

«E chi, per esempio?»

«Beauchamp.»

«E dunque…»

«Dunque vi raccomando prudenza.»

«Per cui credete che debba andare io stesso a trovare Beauchamp?»

«Sì.»

«Solo?»

«Solo. Quando si vuole ottenere qualche cosa dall’amor proprio di un uomo, bisogna salvargli questo stesso suo amor proprio.»

«Credo che abbiate ragione.»

«Per fortuna!»

«Ci andrò solo.»

«Andate, ma fareste anche meglio non andandoci.»

«È impossibile.»

«Fate dunque così, sarà sempre meglio di quello che volevate fare.»

«Ma se dopo tutte le mie precauzioni, tutti i riguardi, avessi un duello, mi fareste da padrino?»

«Mio caro visconte», rispose Montecristo con gravità, «voi avete sperimentato che a tempo e luogo io vi sono dedito, ma il favore che mi chiedete esce dalla cerchia di quelli che posso rendervi.»

«E perché?»

«Forse lo saprete un giorno.»

«E nel frattempo?»

«Domando la vostra indulgenza per il mio segreto.»

«Sia. Prenderò Franz e Château-Renaud.»

«Prendete Franz e Château-Renaud, e andrà a meraviglia.»

«Ma infine, se dovrò battermi, mi darete almeno una piccola lezione di spada o di pistola.»

«No, anche questo è impossibile.»

«Siete un uomo strano! Allora voi non volete immischiarvi per niente?»

«Per niente assolutamente.»

«Allora non parliamone più. Addio, conte.»

«Addio, visconte.»

Morcerf prese il cappello, e uscì. Alla porta trovò il suo calessino, e contenendo meglio che poteva la sua collera, si fece condurre a casa di Beauchamp. Beauchamp era all’ufficio del suo giornale. Albert si fece condurre là. Beauchamp era in uno studio oscuro e polveroso, come sono sin dalla loro fondazione tutti gli uffici dei giornali. Nel sentirsi annunciare Albert Morcerf, si fece ripetere due volte l’annuncio, quindi non convinto ancora, gridò: «Entrate!»

Albert comparve. Beauchamp mandò un’esclamazione di sorpresa, vedendo il suo amico oltrepassare i pacchi dei giornali, e pestare con piede maldestro i fogli di tutte le grandezze che tappezzavano i mattoni rossi del pavimento.

«Per di qui! Per di qui, mio caro Albert!» diss’egli tendendo la mano al giovane. «Che cosa vi conduce? Vi siete perduto come Pollicino, o venite bonariamente a chiedermi una colazione? Procuratevi una sedia, laggiù, vicino a quel geranio, che, solo qui, mi ricorda esservi una immensità di foglie che non sono fogli di carta.»

«Beauchamp», iniziò Albert, «vengo a parlarvi del vostro giornale.»

«Voi, Morcerf? Che desiderate?»

«Desidero una rettifica.»

«Voi, una rettifica! A proposito di che, Albert? Ma sedete dunque…»

«Grazie», rispose Albert per la seconda volta, e con un leggero cenno della testa.

«Spiegatevi.»

«Una rettifica relativa a un fatto che offende l’onore di un membro della mia famiglia.»

«Che fatto?» domandò Beauchamp sorpreso.

«Il fatto che vi pervenne da Giannina.»

«Da Giannina?»

«Sì, da Giannina… Ma ignorate davvero il motivo che mi ha condotto qui?»

«Sul mio onore!… Battista, un giornale di ieri!» esclamò Beauchamp.

«Lasciate, vi porto il mio.»

Beauchamp lesse brontolando: «Ci scrivono da Giannina ecc., ecc.»

«Voi comprenderete che il fatto è grave», riprese Morcerf, non appena Beauchamp ebbe finito.

«Quest’ufficiale è dunque vostro parente?» domandò il giornalista.

«Sì», rispose Albert arrossendo.

«Ebbene, che cosa volete che faccia per compiacervi?» chiese Beauchamp con dolcezza.

«Io vorrei, mio caro Beauchamp, che voi ritrattaste questo fatto.»

Beauchamp guardò Albert con attenzione non priva di molta benevolenza.

«Vediamo», disse, «ragioniamoci! Una ritrattazione è sempre cosa grave… Sedetevi, io rileggerò queste tre o quattro righe.»

Albert si sedette, e Beauchamp rilesse le righe incriminate con più attenzione della prima volta.

«Ebbene lo vedete», riprese Albert con fermezza anzi con asprezza, «nel vostro giornale si insulta un membro della mia famiglia e io voglio una ritrattazione.»

«Voi volete?»

«Esigo.»

«Permettetemi di dirvi che non siete un buon diplomatico, mio caro visconte.»

«Non voglio esserlo», replicò il giovane alzandosi. «Io esigo la ritrattazione del fatto che avete annunciato ieri, e l’otterrò. Mi siete abbastanza amico», continuò Albert con la mascella serrata, vedendo che dal canto suo Beauchamp cominciava ad alzare la testa sdegnoso, «mi siete abbastanza amico, e come tale, mi capite a sufficienza, lo spero, per conoscere la mia fermezza in simili circostanze.»

«Se io sono vostro amico, Morcerf, finirete per farmelo dimenticare con tali parole… Ma non litighiamo, o almeno per ora… Voi siete inquieto, irritato e offeso… Dite, chi è questo parente che si chiama Fernando?»

«È mio padre», dichiarò Albert. «Egli stesso, e non altri, il signor Fernando Mondego conte Morcerf, vecchio militare che ha visto venti campi di battaglia, e del quale si vogliono coprire le nobili cicatrici col fango!»

«Vostro padre!» esclamò Beauchamp. «Allora è tutt’altro affare! Capisco la vostra indignazione, mio caro Albert. Rileggiamo dunque…»

E tornò a leggere la nota, meditando questa volta ciascuna parola.

«Ma come potete provare voi», domandò Beauchamp, «che questo Fernando del giornale sia vostro padre?»

«Non lo so bene, ma lo proveranno altri. E perciò voglio che il fatto sia smentito.»

Alla parola «voglio» Beauchamp alzò gli occhi sopra Morcerf, e, abbassandoli quasi subito, rimase un istante pensieroso.

«Voi smentirete questo fatto, non è vero, Beauchamp?» ripeté Morcerf con collera crescente, sebbene sempre contenuta.

«Sì», rispose Beauchamp.

«Finalmente!» esclamò Albert.

«Ma quando sarò sicuro che sia falso.»

«In che modo?»

«La cosa vale la pena d’essere chiarita, e la chiarirò.»

«Ma che avete da chiarire, signore?» gridò Albert alterato fuori misura. «Se non credete che sia mio padre, ditelo subito, se invece credete che sia lui, rendetemene ragione.»

Beauchamp guardò Albert con un sorriso particolare.

«Signore», ripeté, «poiché credo di aver a che fare con un signore, se siete venuto qui per domandarmi ragione, dovevate farlo dall’inizio, e non venire a parlare d’amicizia e di altre cose inutili, come quelle che ho la pazienza d’ascoltare da più di mezz’ora. Dobbiamo camminare su questo terreno d’ora in avanti? Rispondete.»

«Sì, se non ritrattate l’infame calunnia!»

«Calma con le minacce, vi prego, signor Albert Mondego, visconte di Morcerf: io non ne tollero dai nemici, tanto meno dagli amici! Desiderate che io smentisca il fatto del generale Fernando, fatto al quale non ho, vi assicuro, avuta nessuna parte?»

«Sì, lo voglio!» disse Albert, la cui testa non era più in grado di ragionare.

«Altrimenti ci batteremo?» continuò Beauchamp con la medesima calma.

«Sì», rispose Albert alzando la voce.

«Ebbene», replicò Beauchamp, «ecco la mia risposta, mio caro signore: questo trafiletto non fu pubblicato da me, che non lo conoscevo, ma voi con la vostra protesta avete attirato la mia attenzione, per cui verrà stampato fino a che non verrà smentito, o confermato da chi di diritto.»

«Signore!» disse Albert alzandosi. «Avrò l’onore di mandarvi i miei padrini, coi quali sceglierete il luogo e le armi.»

«Accetto, mio caro signore.»

«E stasera, se volete, o domani mattina al più tardi noi c’incontreremo.»

«No! Mi batterò quando sarà il momento, e a mio avviso (ho diritto alla scelta poiché sono stato io che ho ricevuto la sfida), e, a mio avviso, ripeto, l’ora non è ancora giunta. So che voi tirate benissimo di spada, io invece appena passabilmente; so che voi cogliete tre volte su cinque nel segno, questa abilità è quasi uguale alla mia; so che un duello fra noi sarà un duello serio, perché siete coraggioso, e io… io lo sono altrettanto.

Non voglio dunque espormi a uccidervi, o essere ucciso io stesso da voi senza una causa. Sono io ora, che intendo discutere della questione ca-te-go-ri-ca-men-te. Esigete voi questa ritrattazione a costo di uccidermi se non la faccio, sebbene vi abbia detto, ripetuto e affermato sul mio onore, che non ne sapevo nulla, sebbene vi dichiari finalmente essere impossibile a tutt’altri che a un don Jafet come voi, d’indovinare che sotto il nome di Fernando si celi il conte Morcerf?»

«Lo voglio assolutamente.»

«Ebbene, mio caro signore, acconsento, ma concedetemi tre settimane. Fra tre settimane vi rivedrò per dirvi: “Sì, il fatto è falso, e io lo cancello”, oppure: “Sì, il fatto è vero, e io sfodero la spada, o afferro le pistole, a vostra scelta”.»

«Tre settimane!?» gridò Albert. «Ma tre settimane sono tre secoli di disonore!»

«Se non mi aveste tolto la vostra amicizia, vi direi: “Amico, abbi pazienza ancora un poco”, ma poiché vi dichiarate invece nemico, vi risponderò francamente: “E che importa a me, signore?”»

«Sia fra tre settimane, lo concedo! Ma pensateci bene, dopo tre settimane non ammetterò altra dilazione, né sotterfugio che possa dispensarvi…»

«Signor Albert Morcerf», ribatté Beauchamp, alzandosi a sua volta, «non posso gettarvi dalla finestra che fra tre settimane, vale a dire fra ventiquattro giorni, e voi non avete diritto d’insultarmi che in quell’epoca. Ora siamo al ventinove del mese di agosto, al ventuno dunque del mese di settembre… Fin là, credetemi, ed è un consiglio da gentiluomo che vi do, fin là non latriamo come due cani mastini incatenati a una certa distanza.»

E Beauchamp salutando gravemente il giovane, gli voltò le spalle, ed entrò nella stamperia.

Albert si vendicò sopra una massa di giornali che disperse frustandoli a gran colpi con la bacchettina, dopodiché partì, non senza essersi voltato due o tre volte verso la porta della stamperia. Mentre Albert attraversava nel suo calesse il boulevard, vide Morrel, che col capo alto, l’occhio aperto e le braccia sciolte, passava davanti ai bagni cinesi, venendo dalla parte di Saint Martin e andando verso la Madeleine.

«Ah», sospirò Albert, «ecco un uomo felice.»

Per caso aveva indovinato.



78. La limonata

E infatti Morrel era felicissimo. Il signor Noirtier lo aveva mandato a cercare, ed era così trepidante di sapere che cosa volesse, che non aveva preso il calessino, fidandosi molto più delle sue gambe, che delle quattro di un cavallo da piazza. Era perciò partito correndo dalla rue Meslay, diretto al Faubourg Saint-Honoré. Morrel camminava a passo svelto, e il povero Barrois lo seguiva a stento: Morrel aveva trentun anni, Barrois ne aveva sessanta; Morrel era ebbro d’amore, Barrois era trafelato per l’eccessivo calore. Questi due uomini diversi per interessi e per età somigliavano alle due linee che formano un triangolo, allontanate alla base e riunite alla sommità: la sommità era Noirtier, il quale aveva mandato a cercare Morrel, raccomandandogli di far presto, raccomandazione che Morrel adempiva scrupolosamente, con gran disperazione di Barrois.

Nel giungere, Morrel non era neppure trafelato; l’amore somministra le ali; ma Barrois, che da lungo tempo non era più innamorato, nuotava nel sudore. Il vecchio servitore fece entrare Morrel dalla porta segreta, chiuse quella dello studio e ben presto il fruscio di una veste sul pavimento annunciò la visita di Valentine: era ancora più bella nel suo abito a lutto. L’incanto era tanto dolce, che Morrel si sarebbe anche dispensato dal colloquio col signor Noirtier, ma la poltroncina del vecchio s’udì rotolare ben presto sul pavimento, ed egli entrò.

Noirtier accolse con sguardo benevolo i ringraziamenti di Morrel per il meraviglioso intervento che aveva salvato Valentine e lui dalla disperazione. Valentine intanto, timida e seduta lontano da Morrel, aspettava di essere costretta a parlare.

Noirtier la guardò anche lui.

«Devo dunque riferire ciò di cui mi avete incaricato?» domandò.

«Sì», indicò Noirtier.

«Signor Morrel», disse allora Valentine al giovane, che la divorava con gli occhi, «il mio buon nonno Noirtier aveva mille cose da dirvi, e in questi tre giorni le ha dette a me. Oggi vi manda a cercare perché ve le ripeta; ve le ripeterò dunque, poiché mi ha scelto come suo interprete, senza cambiarne una parola.»

«Non vedo l’ora di ascoltarvi», rispose il giovane. «Parlate, signorina, parlate.»

Valentine abbassò gli occhi; questo fu un presagio che parve dolce a Morrel, Valentine non era timida che nella felicità.

«Mio nonno vuole abbandonare questa casa», disse. «Barrois gli sta cercando un comodo appartamento.»

«Ma, voi, signorina», interruppe Morrel, «voi che siete così cara e necessaria al signor Noirtier… Voi che…»

«Io», riprese la ragazza, «non lascerò mio nonno, è cosa già decisa fra lui e me. Il mio appartamento sarà vicino al suo… O avrò il consenso del signor Villefort per andare ad abitare con il nonno, o me lo rifiuterà: nel primo caso io parto fin da questo momento; nel secondo, aspetterò la maggior età, che sarà fra dieci mesi. Allora io sarò libera, avrò uno stato indipendente, e…»

«E?…» domandò Morrel.

«E, con l’autorizzazione del nonno, manterrò la promessa che vi ho fatto.»

Valentine pronunciò quelle ultime parole a voce così bassa, che Morrel non avrebbe potuto udirle senza l’interesse che aveva di divorarle.

«Non ho così espresso il vostro pensiero, caro nonno?» chiese Valentine a Noirtier.

«Sì», confermò il vecchio.

«Una volta in casa di mio nonno», aggiunse Valentine, «il signor Morrel potrà venire a trovarmi in presenza di questo buono e degno protettore… Se il legame che unisce i nostri cuori, forse ignoranti o capricciosi, sarà durevole e offrirà garanzie di futura felicità (ahimè, si dice che i cuori, infiammati dagli ostacoli, si raffreddino nelle abituali certezze), allora il signor Morrel potrà chiedermi in sposa, io lo aspetterò.»

«Oh!» gridò Morrel, tentando d’inginocchiarsi davanti al vecchio come davanti a un nume, davanti a Valentine come davanti a un angelo. «Che mai ho fatto di bene nella mia vita da meritarmi tanta felicità?»

«Fino a quel momento», continuò la ragazza, con la sua voce pura e severa, «noi rispetteremo le convenienze, e anche la volontà dei nostri parenti, purché questa volontà non tenda a separarci per sempre. In una parola, la ripeto questa parola perché dice tutto, noi aspetteremo.»

«E i sacrifici che questa parola impone, signorina», annuì Morrel, «vi giuro che li compirò, non già con rassegnazione, ma con felicità.»

«Così», continuò Valentine, con uno sguardo dolce al cuore di Maximilien, «non più imprudenze, amico mio, non compromettete colei che, da questo momento, si considera destinata a portare onorevolmente e degnamente il vostro nome.»

Morrel si appoggiò la mano sul cuore.

Noirtier li guardava entrambi con tenerezza, e Barrois, che era rimasto sul fondo, sorrideva asciugandosi le grosse gocce che gli cadevano dalla fronte calva.

«Mio Dio, com’è trafelato il buon Barrois!» esclamò Valentine.

«È perché ho corso molto», spiegò Barrois. «Vedete, signorina, il signor Morrel, debbo rendergli giustizia, correva ancora più di me.»

Noirtier indicò con l’occhio un vassoio, sul quale era preparata una bottiglia di limonata e un bicchiere. Ciò che mancava dalla bottiglia era stato bevuto mezz’ora prima dal signor Noirtier.

«Prendi buon Barrois», disse la ragazza, «prendi, poiché già vedo che vagheggi con gli occhi questa bottiglia.»

«Il fatto è», rispose Barrois, «che muoio di sete, e berrò ben volentieri un bicchiere di limonata alla vostra salute.»

«Bevi dunque», disse Valentine, «e ritorna subito.»

Barrois portò via il vassoio, e appena fu nel corridoio, attraverso la porta che aveva dimenticato di chiudere, fu visto rovesciare indietro la testa per vuotare il bicchiere riempitogli da Valentine.

Valentine e Morrel si stavano salutando in presenza di Noirtier, quando s’udì suonare il campanello della scala di Villefort. Era il segnale di una visita. Valentine guardò l’orologio a pendolo.

«È mezzogiorno», disse, «e oggi è sabato, caro nonno, è senza dubbio il dottore.»

Noirtier fece segno che doveva esser lui.

«Sta venendo qui… Bisogna che il signor Morrel se ne vada. Non è vero nonno?»

«Sì», accennò Noirtier.

«Barrois!» chiamò Valentine. «Barrois, venite!»

S’udì la voce del vecchio servitore che rispondeva: «Vengo, signorina».

«Barrois vi accompagnerà fino alla porta», disse Valentine a Morrel. «E ora ricordatevi una cosa, signor ufficiale, ed è che il nonno vi raccomanda di non tentare alcuna cosa capace di compromettere la nostra felicità.»

«Ho promesso di aspettare, e aspetterò.»

In quel momento entrò Barrois.

«Chi ha suonato?» domandò Valentine.

«Il dottor d’Avrigny», rispose Barrois, traballando sulle gambe.

«Che avete, Barrois?» domandò Valentine.

Il vecchio non rispose: guardava il padrone con gli occhi stravolti, mentre con la mano cercava un appoggio per rimanere in piedi.

«Sta per cadere!» gridò Morrel.

Infatti, il tremito, da cui Barrois era preso, aumentava visibilmente, i tratti del viso, alterato dai moti convulsi dei muscoli della faccia, preannunciavano una crisi nervosa delle più violente. Noirtier, vedendo Barrois sconvolto, rivelava con gli sguardi tutte le emozioni che gli agitavano il cuore.

Barrois fece qualche passo verso il suo padrone.

«Mio Dio! Mio Dio! Signore», ansimò. «Ma che ho mai?… Soffro… non ci vedo più… la mia testa è trafitta da mille punte di fuoco. Non mi toccate, non mi toccate!»

Infatti i suoi occhi divennero sporgenti e incerti, la testa si rovesciava all’indietro, mentre la parte inferiore del corpo si irrigidiva. Valentine spaventata gridò. Morrel la prese nelle sue braccia, come se volesse difenderla da qualche ignoto pericolo.

«Signor d’Avrigny! Signor d’Avrigny!» esclamò Valentine con voce soffocata. «Correte!»

Barrois si girò, facendo tre passi indietro, vacillò, e andò a cadere ai piedi di Noirtier, sul ginocchio del quale appoggiò la sua mano gridando: «Padrone mio! Padrone mio!»

Allora il signor Villefort, attirato dalle grida, comparve sulla soglia della camera. Morrel lasciò Valentine semisvenuta, e si nascose in un angolo dietro una tenda. Pallido come se avesse visto uno spettro sorgere davanti a sé, fissò lo sguardo sull’infelice moribondo.

Noirtier ardeva d’impazienza e di terrore; la sua anima volava in soccorso al povero vecchio, suo amico, piuttosto che suo domestico. Si vedeva la lotta terribile della vita e della morte riflettersi sulla sua fronte. Barrois con la faccia sconvolta, gli occhi sanguigni, il collo rovesciato indietro, giaceva bocconi: una leggera schiuma colava dalle sue labbra, e respirava affannosamente.

Villefort, stupefatto, contemplò un istante quel quadro. Dopo quella muta contemplazione, durante la quale il pallore gli illividiva il viso, gridò lanciandosi verso la porta: «Dottore! Venite! Venite!»

«Signora! Signora!» gridò Valentine chiamando la matrigna, e urtando nelle pareti della scala. «Accorrete, accorrete con la boccettina dei sali.»

«Che cosa è accaduto?» domandò la voce metallica e dignitosa della signora Villefort.

«Venite! venite!»

«Ma dov’è dunque il dottore?» gridò Villefort. «Dov’è?»

La signora Villefort scese lentamente, facendo scricchiolare le assi sotto i suoi piedi, tenendo in una mano il fazzoletto col quale si asciugava il viso, nell’altra la boccettina dei sali inglesi. Il suo primo sguardo, entrando, lo volse a Noirtier, il cui aspetto, salva l’emozione, era calmo e fermo; il secondo al moribondo.

«Ma in nome del cielo, signora, dov’è andato dunque il dottore? È entrato da voi. Questa è un’apoplessia, come vedete bene, con un salasso di sangue si può salvare.»

La signora impallidì, e il suo occhio si volgeva dal servitore al padrone.

«Ha mangiato da poco?» domandò la signora Villefort eludendo la domanda.

«Non ha fatto colazione», disse Valentine, «ma ha camminato molto questa mattina, per eseguire una commissione di cui l’aveva incaricato mio nonno. Al ritorno soltanto ha preso una limonata.»

«Ah!» gridò la signora Villefort. «Perché non ha preso del vino? Non fa bene una limonata.»

«La limonata era là, nella bottiglia del nonno; il povero Barrois aveva sete, ha bevuto ciò che ha trovato.»

La signora Villefort tremò, Noirtier la guardò con attenzione.

«Ha il collo storto!» gemette lei guardando con orrore Barrois.

«Signora», riprese Villefort, «dov’è il signor d’Avrigny? In nome del cielo, rispondete!»

«Nella camera d’Edouard, non sta molto bene», rispose la signora Villefort, che non poteva più eludere la domanda.

Villefort si lanciò su per la scala per andare a cercarlo egli stesso.

«Prendete», disse la giovane sposa dando la sua boccettina a Valentine. «Fra poco gli faranno senza dubbio un salasso: ritorno nelle mie stanze poiché non posso sopportare la vista del sangue.»

E seguì suo marito. Morrel uscì dal nascondiglio.

«Presto, andatevene, Maximilien», gli disse Valentine, «e aspettate che io vi richiami. Andate!»

Morrel consultò Noirtier con un gesto. Noirtier, che aveva conservato tutta la sua calma, gli fece segno di sì. Allora strinse la mano di Valentine contro il suo cuore, e uscì dal corridoio mentre Villefort e il dottore rientravano dalla parte opposta. Barrois cominciava a ritornare in sé; anzi essendo passata la crisi, si era sollevato su un gomito, mandando profondi gemiti. D’Avrigny e Villefort lo portarono al sofà.

«Di cosa avete bisogno, dottore?» domandò Villefort.

«Fatemi portare dell’acqua e dell’etere, se ce n’è in casa.»

«Sì.»

«Mandate a prendere dell’olio di trementina e dell’emetico.»

«Andate!» ordinò Villefort.

«Ora, si ritirino tutti.»

«Anche io?» domandò timidamente Valentine.

«Sì, signorina, voi soprattutto», disse burbero il dottore.

Valentine guardò il signor d’Avrigny con meraviglia, baciò sulla fronte il signor Noirtier, e uscì. Dietro di lei il dottore chiuse la porta con aria cupa.

«Guardate, guardate, dottore, eccolo che rinviene; era un attacco di nessuna importanza.»

Il signor d’Avrigny sorrise mestamente.

«Come vi sentite, Barrois?» domandò il dottore.

«Un po’ meglio, signore.»

«Riuscite a bere un bicchiere di questo etere?»

«Mi sforzerò, ma non toccatemi.»

«Perché?»

«Perché sento che se mi toccaste, anche solo con la sola punta di un dito, l’accesso mi ritornerebbe.»

«Bevete.»

Barrois prese il bicchiere, se l’avvicinò alle labbra violacee, e ne vuotò circa la metà.

«Sentite dolore?» domandò il dottore.

«Dappertutto, ho dei terribili crampi.»

«Vi trema l’occhio?»

«Sì.»

«Tintinnio alle orecchie?»

«Spaventoso.»

«Quando vi è cominciato?»

«Poco fa.»

«Rapidamente?»

«Come il fulmine.»

«Niente ieri? Ieri l’altro?»

«Niente.»

«Neppure sonnolenza? Peso?»

«No.»

«Che cosa avete mangiato quest’oggi?»

«Non ho mangiato niente, ho bevuto soltanto un po’ di limonata del signore, ecco tutto.»

E Barrois fece con la testa un segno per indicare Noirtier, che immobile sulla sedia contemplava quella terribile scena, senza che alcuna parola gli sfuggisse.

«Dov’è la limonata?» domandò vivamente il dottore.

«In una bottiglia.»

«Dov’è?»

«In cucina. Volete che vada a cercarla, dottore?» domandò Villefort.

«No, restate qui, e cercate di far bere al malato il resto di quel bicchiere d’acqua.»

«Ma la limonata…»

«Vado io stesso.»

D’Avrigny balzò in piedi, e aperta la porta, si lanciò giù dalle scale, poco mancando che non rovesciasse la signora Villefort, che anch’essa scendeva in cucina, per cui mandò un grido. D’Avrigny non vi fece attenzione, assorto com’era in una sola idea: saltò i primi tre o quattro scalini, e scoprì la bottiglia per tre quarti vuota sul vassoio. Vi piombò sopra come un’aquila sulla sua preda quindi, ansante, risalì, e rientrò in camera.

La signora Villefort risaliva lentamente la scala che conduceva alle sue stanze.

«Era questa la bottiglia che era qui?» domandò d’Avrigny.

«Sì, signor dottore.»

«Questa limonata è la stessa che avete bevuta?»

«Credo di sì.»

«Che gusto avete sentito?»

«Un gusto amaro.»

Il dottore versò qualche goccia di limonata nel cavo della mano, l’aspirò con le labbra, e dopo aver sciacquato la bocca come si fa quando si vuole gustare il vino, sputò il liquido nel caminetto.

«È la stessa», disse.

«E voi, signor Noirtier, l’avete bevuta?»

Il vecchio fece segno di sì.

«Avete sentito il medesimo gusto amaro?»

Il vecchio ripeté ancora di sì.

«Signor dottore», gridò Barrois, «ecco che il male mi riprende! Mio Dio, Signore, abbiate pietà di me!»

Il dottore corse dal malato.

«Questo emetico, Villefort, guardate se arriva.»

Villefort si lanciò fuori gridando: «L’emetico! L’emetico! L’hanno portato?»

Nessuno rispose. Il più profondo terrore regnava nella casa.

«Se potessi soffiargli dell’aria nei polmoni», disse d’Avrigny, guardandosi intorno, «sarei in grado di prevenire l’asfissia. Ma no! Niente! Niente!»

«Ah, signore», gridava Barrois, «mi lascerete morire senza soccorso? Oh, io muoio! Mio Dio, io muoio!»

«Una penna! Una penna!» gridò il dottore.

Ne afferrò una sulla tavola, e tentò d’introdurla nella gola del malato, che si contorceva, ma le mascelle erano talmente serrate, che la penna non poté passarvi. Barrois, in preda a un attacco nervoso anche più intenso del primo, era scivolato giù dal sofà, e si contorceva sul pavimento. Il dottore lo lasciò in preda a questo accesso, al quale non poteva portare sollievo, e ritornò da Noirtier.

«Come vi sentite voi?» gli domandò precipitosamente e sotto voce. «Bene?»

«Sì.»

«Leggero di stomaco, o pesante? Leggero?»

«Sì.»

«È stato Barrois a fare la vostra limonata?»

«Sì.»

«L’avete sollecitato voi a berne? È stato il signor Villefort?»

«No.»

«La signora?»

«No.»

«Fu dunque Valentine, allora?»

«Sì.»

Un sospiro di Barrois, uno sbadiglio che gli faceva scricchiolare le ossa della mascella, richiamarono l’attenzione di d’Avrigny; lasciò il signor Noirtier, e corse dal malato.

«Barrois», disse il dottore, «potete parlare?»

Barrois balbettò qualche parola inintelligibile.

«Fate uno sforzo, amico mio.»

Barrois riaprì gli occhi.

«Chi ha fatto la limonata?»

«Io.»

«L’avete portata subito al vostro padrone, dopo averla fatta?»

«No.»

«L’avete lasciata da qualche parte allora?»

«Nella credenza; fui chiamato.»

«Chi la portò qui?»

«La signorina Valentine.»

D’Avrigny si batté la fronte.

«Oh, mio Dio, mio Dio!» mormorò egli.

«Dottore!» gridò Barrois, che sentiva avvicinarsi un terzo attacco.

«Dov’è questo emetico?» gridò il dottore.

«Eccone un bicchiere già preparato», disse Villefort rientrando.

«Da chi?»

«Dal giovane della farmacia che è venuto con me.»

«Bevete.»

«Impossibile, dottore, è troppo tardi; ho la gola che si restringe! Oh, il mio cuore! Oh, la mia testa!… Oh, quale inferno!… E dovrò soffrire a lungo così?»

«No, no, amico mio», disse il dottore, «ben presto non soffrirete più.»

«Vi capisco! Mio Dio, abbiate pietà di me!»

E, gettando un grido, cadde, come se fosse stato colpito da un fulmine. D’Avrigny gli mise una mano sul cuore, e avvicinò uno specchio alle labbra.

«Ebbene?» domandò Villefort.

«Andate a dire in cucina di portarmi subito dello sciroppo di viole.»

Villefort scese immediatamente.

«Non vi spaventate, signor Noirtier», disse d’Avrigny. «Trasporto il malato in un’altra camera, per cavargli del sangue; davvero questa sorta d’accessi sono un triste spettacolo a vedersi.»

E, prendendo Barrois sotto le braccia, lo trascinò in una camera vicina, ma subito dopo rientrò dal signor Noirtier per prendere il resto della limonata. Noirtier chiuse l’occhio diritto.

«Valentine, è vero? Voi volete Valentine? Ordino subito che ve la mandino.»

Villefort risaliva; d’Avrigny lo incontrò nel corridoio.

«Ebbene?» domandò Villefort.

«Venite», disse d’Avrigny.

E lo condusse nella camera.

«Sempre svenuto?» domandò il regio procuratore.

«Morto!»

Villefort indietreggiò due o tre passi, e si congiunse le mani sopra della testa, con una commiserazione non equivoca.

«Morto così all’improvviso?» domandò, guardando il cadavere.

«Sì, all’improvviso, è vero?» annuì d’Avrigny. «Ma ciò non deve sorprendere: il signore e la signora di Saint-Méran sono morti essi pure così in fretta. Si muore alla spiccia in casa vostra, signor Villefort.»

«Cosa?» gridò il magistrato, con accento d’orrore e di costernazione. «Voi ritornate alla vostra terribile idea?»

«Sempre, signore, sempre», dichiarò d’Avrigny con solennità, «perché essa non mi ha abbandonato un istante… E perché siate ben convinto che questa volta non mi inganno ascoltatemi bene, signor Villefort.»

Villefort tremava terribilmente.

«C’è un veleno che ammazza senza quasi lasciare traccia. Io lo conosco, l’ho studiato in tutti gli incidenti, in tutti i fenomeni che produce. Questo veleno l’ho riconosciuto poco fa nel povero Barrois, come già prima nella signora di Saint-Méran. C’è un modo per riconoscerne la presenza: ridona il colore azzurro alla carta di tornasole arrossata con un acido, e tinge di verde lo sciroppo di violette. Non abbiamo la carta di tornasole, ma adesso porteranno lo sciroppo di violette che ho ordinato.»

Infatti si udivano dei passi nel corridoio: il dottore socchiuse la porta, prese dalle mani della cameriera un vaso, nel fondo del quale vi erano due o tre cucchiai di sciroppo, e richiuse la porta.

«Guardate», disse al regio procuratore, a cui il cuore batteva fortemente, «ecco in questa tazza lo sciroppo di violette, e in questa bottiglia il rimanente della limonata che hanno bevuto Noirtier e Barrois. Se la limonata è pura e inoffensiva, lo sciroppo conserverà il suo colore, se la limonata è avvelenata, lo sciroppo deve diventar verde. Osservate!»

Il dottore versò lentamente qualche goccia di limonata nella tazza, e si vide nello stesso istante formarsi sul fondo un cambiamento di colore da prima azzurro, poi zaffiro, poi opale, indi smeraldo; l’esperimento non lasciava più alcun dubbio.

«L’infelice Barrois è stato avvelenato con la falsa angostura, o con la noce di Sant’Ignazio», disse d’Avrigny. «Ora lo affermerei davanti agli uomini e davanti a Dio.»

Villefort, muto, alzò le braccia al cielo, aprì gli occhi stravolti, e cadde sopra una sedia.

79. L’accusa

Il dottore sollevò ben presto il magistrato dal suo grave abbattimento: era tale il pallore del suo viso, da farlo parere un altro cadavere, in quella funebre stanza.

«La morte è nella mia casa!» gridò Villefort.

«Sarebbe meglio dire il delitto!» ribatté il dottore.

«Signor d’Avrigny», proruppe ad alta voce Villefort, «io non riesco a esprimervi tutto ciò che provo in me in questo momento: spavento, dolore, follia.»

«Sì», disse il signor d’Avrigny, con una calma imponente, «ma credo che sia il tempo di agire, credo che sia tempo di mettere un argine a questo torrente di mortalità. In quanto a me, non mi sento capace di portare più a lungo un tale segreto senza la speranza di averne giustizia, a soddisfazione della società intera e delle vittime.»

«In casa mia», mormorò Villefort, «in casa mia?!»

«Riflettiamo, magistrato», riprese d’Avrigny, «siate uomo! Interprete della legge! Onoratevi con un reale sacrificio!»

«Sacrificarmi!? Che dite? Dunque i vostri sospetti cadono su qualcuno… Mi fate tremare, dottore.»

«Non ho alcun sospetto, ma la morte batte alla vostra porta, non entra cieca, ma intelligente, passa di camera in camera… Ebbene, io seguo le sue tracce, riconosco il suo passaggio… Adotto la saggezza degli antichi, vado a tastoni, perché la mia amicizia per la vostra famiglia, il rispetto per voi sono come due bende che porto agli occhi… Ebbene…»

«Parlate, parlate, dottore, avrò coraggio.»

«Ebbene, signore, in casa vostra, nel seno forse della vostra famiglia accade uno di quegli orribili e misteriosi fenomeni che sono accaduti anche nella storia… Locusta5 e Agrippina, perché vivevano nel medesimo tempo, erano un’eccezione che provava l’ira del destino contro l’impero romano, lordato da tanti delitti.

Brunechilde e Fredegonda sono i risultati del lavoro penoso di un incivilimento alla sua genesi, nel quale l’uomo impara ad assopire lo spirito, fosse pure per inviarlo alle tenebre. Ebbene, tutte queste donne erano giovani e belle: sulla loro fronte era impresso lo stesso fiore d’innocenza che sta sulla fronte della colpevole che è in casa vostra.»

Villefort mandò un grido, congiunse la mani, e guardò il dottore con un gesto supplichevole. Questi continuò senza interrompersi: «Bada a chi è utile il delitto, dice un assioma di giurisprudenza».

«Dottore», gridò Villefort, «ahimè, dottore, quante volte la giustizia degli uomini si è ingannata su queste funebri parole! Io non so, ma mi sembra che questo delitto…»

«Lo confessate, dunque, finalmente che c’è un delitto?»

«Sì, lo riconosco, ma lasciatemi continuare: mi sembra, dicevo, che questo delitto cada soltanto sopra di me, e non sulle vittime. Io prevedo qualche sciagura, sotto tutti questi strani eventi.»

«Oh, uomo», mormorò d’Avrigny, «che ti mostri il più egoista di tutti gli animali, che puoi credere che sempre soltanto per te giri la terra, brilli il sole, e si affatichi la morte, formica che mormora della provvidenza dall’alto di un filo d’erba! E quelli che hanno perduto la vita non hanno pure perduto qualche cosa? Il signore di Saint-Méran, la signora di Saint-Méran, il signor Noirtier…»

«Come, il signor Noirtier…»

«Sì, credete voi, per esempio, che abbiano voluto uccidere questo disgraziato servitore? No, no… come il Polonio di Shakespeare, egli è morto per un altro, perché era il signor Noirtier che doveva bere la limonata, è Noirtier che l’ha bevuta secondo l’ordine logico delle cose… L’altro non l’ha bevuta che per coincidenza e, sebbene sia stato Barrois quello che è morto, pure era Noirtier quello che doveva morire.»

«Ma allora come è che mio padre non ha sofferto!?»

«Ve l’ho già detto una sera, in giardino, dopo la morte della signora di Saint-Méran: perché il suo corpo è divenuto quasi uno stesso veleno, perché la dose per lui insignificante, era mortale per un altro, perché infine nessuno sa, e neppure l’assassino, che da un anno io curo con la brucina la paralisi del signor Noirtier, mentre l’assassino non ignora, e se ne è assicurato con l’esperienza, che la brucina è un veleno terribile.»

«Mio Dio, mio Dio!» mormorò Villefort, stringendosi nelle braccia.

«Seguite i passi del colpevole: esso uccide il signor di Saint-Méran…»

«Dottore?»

«Ci giurerei, ciò che mi è stato detto dei sintomi si accorda troppo bene con ciò che ho visto io stesso coi miei propri occhi.»

Villefort cessò di fare obiezioni, e mandò un gemito.

«Uccide il signore di Saint-Méran», ripeté il dottore, «uccide la signora di Saint-Méran: doppia eredità da raccogliere.»

Villefort asciugò il sudore che gli grondava dalla fronte.

«Ascoltate bene.»

«Non perdo neppure una parola», balbettò Villefort.

«Il signor Noirtier», continuò con la sua voce implacabile il signor d’Avrigny, «il signor Noirtier aveva non da molto fatto un testamento contro di voi, contro la vostra famiglia, in favore dei poveri: il signor Noirtier viene risparmiato perché nulla si spera da lui. Ma ha appena distrutto il suo primo testamento, e fatto un secondo, che per timore che si penta e ne faccia un terzo, è assalito: il testamento fu fatto ieri l’altro, io credo: voi lo vedete, non hanno perduto tempo.»

«Oh, grazia, signor d’Avrigny.»

«Nessuna grazia, signore! Il medico ha una missione sacra sulla terra, e, per adempiere a tale missione, risale fino alle sorgenti della vita, e discende nelle misteriose tenebre della morte. Quando il delitto è stato commesso, e Dio, sdegnato senza dubbio, rivolge il suo sguardo sul delinquente, spetta al medico denunciarlo.»

«Grazia per mia figlia, signore», gemette Villefort.

«Voi stesso l’avete nominata, voi, suo padre!»

«Grazia per Valentine! Sentite, è impossibile! Preferirei accusare me stesso! Valentine, un cuore di diamante, un giglio d’innocenza!»

«Nessuna grazia, signor regio procuratore! Il delitto è flagrante. La signorina Villefort ha impacchettato con le sue mani i medicamenti che furono inviati al signor di Saint-Méran, e il signor di Saint-Méran è morto. La signorina Villefort ha preparato l’aranciata alla signora di Saint-Méran, e la signora di Saint-Méran è morta. La signorina Villefort ha preso dalle mani di Barrois, che fu mandato fuori, la bottiglia di limonata che il vecchio di solito beve la mattina, e il vecchio non è sfuggito che per un miracolo. La signorina Villefort è la colpevole, è l’avvelenatrice! Signor regio procuratore, io vi denuncio la signorina Villefort! Fate il vostro dovere!»

«Dottore, io non resisto più, non mi difendo più, vi credo, ma per pietà, risparmiate la mia vita, il mio onore!»

«Signor Villefort», riprese il dottore con forza crescente, «vi sono circostanze che oltrepassano tutti i limiti della sciocca circospezione umana. Se vostra figlia avesse commesso soltanto un primo delitto, e la vedessi meditarne un secondo, vi direi: “Avvertitela, punitela, che ella passi il resto della sua vita in un ritiro, in un convento a piangere e pregare”. Se avesse commesso un secondo delitto, vi direi: “Prendete, signor Villefort, ecco un veleno ignoto all’avvelenatrice, un veleno di cui non si conosce alcun antidoto, pronto come il pensiero, rapido come il lampo, mortale come il fulmine; datele questo veleno, raccomandate la sua anima a Dio, e salvate così il vostro onore e i vostri giorni, perché ora sta a voi divenire la vittima, e io la vedo avvicinarsi al vostro capezzale coi suoi sorrisi ipocriti e le sue dolci esortazioni. Voi, infelice signor Villefort, se non siete il primo a colpire!” Ecco che cosa vi direi se non avesse ucciso che due persone; ma lei ha visto l’agonia di tre, ha contemplato tre moribondi, si è inginocchiata vicino a tre cadaveri: al patibolo l’avvelenatrice! Al patibolo! Voi parlate del vostro onore? Fate ciò che vi dico, e l’immortalità vi aspetta.»

Villefort cadde in ginocchio.

«Aspettate», supplicò, «io non ho la forza che avete voi, o piuttosto che neppure voi avreste, se invece di mia figlia Valentine, si trattasse di vostra figlia Madeleine.»

Il dottore impallidì.

«Dottore, ogni uomo è figlio di donna, è nato per soffrire e morire; io soffrirò e aspetterò la morte.»

«Guardatemi», disse il signor d’Avrigny, «sarà lenta… questa morte… Voi la vedrete avvicinarsi dopo che avrà colpito vostro padre, vostra moglie, e forse vostro figlio anche…»

Villefort, soffocando, strinse il braccio del dottore.

«Ascoltatemi!» gridò. «Compiangetemi, soccorretemi. No, mia figlia non è colpevole. Trascinatela davanti a un tribunale, io dirò sempre: “No, mia figlia non è colpevole”. Non vi è delitto in casa mia; perché quando il delitto entra da qualche parte, è come la morte: non entra mai solo. Ascoltate, che importa a voi che io muoia assassinato?… No, voi siete un medico!… Ebbene, io ve lo dico: no, mia figlia non sarà trascinata da me nelle mani del carnefice! Quest’idea mi divora, mi spinge come un insensato a lacerarmi il petto con le unghie!… E se voi v’ingannaste, dottore? Se fosse altri invece di mia figlia?… Se un giorno io venissi pallido come uno spettro a dirvi: “Assassino! Tu hai ucciso mia figlia!” Vedete, se ciò accadesse, io sono cristiano, signor d’Avrigny, e ciò nonostante mi ucciderei!»

«Va bene», disse il dottore, dopo un istante di silenzio, «aspetterò.»

Villefort lo guardò come se dubitasse ancora delle sue parole.

«Soltanto», continuò d’Avrigny, con voce lenta e solenne, «se qualcuno della vostra casa si ammalasse, se voi stesso vi sentiste male, non mi chiamate, perché io non verrò più. Io dividerò con voi questo segreto terribile… ma non voglio che la vergogna e i rimorsi vadano fruttificando e ingrandendo nella mia coscienza, come il delitto e l’infelicità si ingrandiranno e fruttificheranno nella vostra casa.»

«E così, dottore, voi mi abbandonate?»

«Sì, perché non posso seguirvi più oltre, e mi fermo ai piedi del patibolo. Verrà qualche altra rivelazione a mettere fine a questa terribile tragedia. Addio.»

«Dottore, vi supplico!»

«Tutti gli orrori che turbano la mia mente mi rendono la vostra casa odiosa e inospitale. Addio, signore.»

«Una parola, una parola sola ancora, dottore! Voi mi lasciate in tutto l’orrore della situazione, orrore che avete accresciuto con la rivelazione fattami… Ma che si dirà della morte istantanea di questo povero vecchio servitore?»

«È vero», disse d’Avrigny, «accompagnatemi.»

Il dottore uscì per primo, seguito dal signor Villefort; i domestici inquieti erano nel corridoio e sulle scale dove doveva passare il medico.

«Signore», disse d’Avrigny a Villefort, parlando ad alta voce e in modo che lo udissero tutti, «il povero Barrois era da qualche anno troppo sedentario. Abituato in altri tempi a correre col suo padrone, a cavallo o in carrozza per tutta l’Europa, questo servizio monotono, intorno a una poltroncina, gli è stato fatale. Il sangue è divenuto pesante, era pingue, aveva il collo grosso e corto, è stato colpito da un’apoplessia fulminante, e io sono stato avvertito troppo tardi… A proposito», aggiunse poi a bassa voce, «abbiate cura di gettare nelle ceneri quella tazza con lo sciroppo di violette.»

Il dottore senza stringere la mano di Villefort, senza tornare un istante su ciò che aveva detto, uscì accompagnato dalle lacrime e dai lamenti di tutte le persone di casa. La sera stessa, tutti i domestici di Villefort che erano radunati in cucina, e che avevano a lungo parlato fra di loro, vennero a domandare alla signora Villefort il permesso di ritirarsi dal servizio. Nessuna istanza, nessuna proposta di aumento di paga poté trattenerli: a tutte le parole rispondevano: «Noi vogliamo andarcene, perché la morte è entrata nella casa».

Partirono dunque, malgrado le preghiere, testimoniando vivissimo dispiacere per dovere abbandonare così buoni padroni, e particolarmente la signorina Valentine, tanto buona, benefica e affabile. Villefort, a queste parole, guardò Valentine: piangeva, cosa strana! In mezzo all’emozione che gli fecero provare quelle lacrime, guardò anche la signora Villefort, e gli sembrò vederle passare sulle labbra sottili un sorriso fuggitivo e sinistro, come quelle meteore che si vedono strisciare, funeste, fra due nubi nel fondo di un cielo tempestoso.

80. La stanza del fornaio in pensione

La sera stessa del giorno durante il quale il conte Morcerf era uscito da Danglars con l’animo colmo di vergogna e furore per il rifiuto del banchiere, il signor Andrea Cavalcanti, coi capelli arricciati e lucenti, i baffi arricciati, i guanti bianchi, era entrato, quasi in piedi sul suo carrozzino, nel cortile del banchiere della Chaussée d’Antin.

Nel giro di dieci minuti di presentazione nel salone, aveva trovato il mezzo di isolare Danglars nel vano di una finestra, e là, dopo un astuto preambolo, gli aveva esposto i tormenti della sua vita dopo la partenza del suo nobile padre. Dopo questa partenza, diceva che nella famiglia del banchiere, ove era stato ricevuto come un figlio, aveva trovato tutte le garanzie di felicità, a cui deve sempre badare l’uomo prima che al capriccio della passione, e in quanto alla passione stessa aveva avuto la felicità di trovarla nei begli occhi della signorina Danglars.

Danglars lo ascoltava con la più profonda attenzione; erano già due o tre giorni che aspettava questa dichiarazione, e quando finalmente giunse, l’occhio gli si dilatò, quanto si era corrugato ascoltando Morcerf. Non volle peraltro accogliere la proposta del giovane, senza fare qualche osservazione coscienziosa.

«Signor Andrea», gli disse, «non siete ancora un po’ troppo giovane per pensare ad ammogliarvi?»

«Oh no, signore», riprese Cavalcanti, «almeno non lo credo, poiché in Italia i gran signori, in generale, si sposano giovani; questa è un’abitudine logica: la vita è così piena di tribolazioni, che bisogna afferrare la fortuna appena capita.»

«Però, signore», obiettò Danglars, «ammettendo che le vostre proposte, per me onorevoli, siano gradite a mia moglie e a mia figlia, con chi dovremo noi trattare le questioni d’interesse? Questo mi sembra un affare importante, che i soli padri sanno convenientemente trattare per la felicità dei loro figli.»

«Signore, mio padre è uomo saggio, pieno di prudenza e di senno; ha previsto ch’io potessi provare il desiderio di stabilirmi in Francia, per cui partendo, mi ha lasciato tutte le carte concernenti la mia persona, e una lettera, con la quale mi assicura, nel caso che io faccia una scelta che gli sia gradita, centocinquantamila lire di rendita dal giorno del mio matrimonio. Da quanto posso giudicare, è il quarto delle rendite di mio padre.»

«Ma», disse Danglars, «io ho sempre avuto intenzione di dare a mia figlia cinquecentomila franchi, maritandola: lei è inoltre l’unica mia erede.»

«Benissimo!» approvò Andrea. «Le cose vanno per il meglio, supponendo che la mia domanda non sia respinta dalla baronessa Danglars e dalla signorina Eugénie: eccoci a un totale di centosettantacinquemila lire di rendita. Supponiamo che ottenga dal marchese, invece di pagarmi la rendita, di cedermi il capitale (cosa che non sarà facile, lo so bene, ma neppure impossibile), voi farete fruttare questi due o tre milioni, e due o tre milioni, fra le vostre abili mani, possono sempre produrre il dieci percento.»

«Io non prendo mai più del quattro», dichiarò il banchiere, «e anche il tre e mezzo. Ma per mio genero prenderò il cinque, e poi divideremo gli utili.»

«Ebbene, a meraviglia, suocero», disse Cavalcanti, lasciandosi trasportare alquanto da quella volgare natura, che, malgrado i suoi sforzi, faceva spesso oscurare la vernice aristocratica con cui cercava di coprirla.

Ma ricomponendosi riprese: «Mi scusi, signore, la sola speranza mi rende quasi pazzo… Cosa dovremo fare, dunque?»

«Ma», rispose Danglars, che non si accorgeva come questo colloquio, disinteressato sulle prime, si riduceva di colpo a una questione d’affari, «vi è senza dubbio una porzione del vostro patrimonio che vostro padre non può rifiutarvi?»

«E quale?» domandò il giovane.

«Quella che proviene da vostra madre.»

«Certamente, quella che viene da mia madre Oliva Corsinari.»

«E a quanto può ammontare?»

«È vero», riconobbe Andrea, «vi assicuro, signore, che non ci ho mai pensato… Stimo che possa esser di due milioni…»

Danglars sentì quella specie di soffocamento inebriante che prova l’avaro trovando il tesoro perduto, o l’uomo vicino ad annegarsi toccando sotto i piedi la terra solida, invece del vuoto nel quale stava per essere ingoiato.

«Ebbene, signore», riprese Andrea, salutando il banchiere con tenero rispetto, «posso sperare?»

«Signor Andrea», disse Danglars, «sperate, e siate certo che se nessun ostacolo da parte vostra arresta l’andamento di questo affare, si può ritenere concluso.»

«Voi mi colmate di gioia, signore!» esclamò Andrea.

«Ma», osservò Danglars riflettendo, «come mai il conte di Montecristo, vostro protettore nel bel mondo parigino, non è venuto con voi a farmi questa domanda?»

«Vengo appunto da casa del conte», rispose Andrea, arrossendo impercettibilmente. «È un uomo cortese, ma molto originale. Ha approvato tutto. Mi ha detto anzi di non credere che mio padre avrebbe esitato a darmi il capitale invece della rendita, e mi ha promesso la sua influenza per ottenerlo da lui… Ma ha dichiarato che personalmente non aveva mai preso, e non prenderebbe mai sopra di sé la responsabilità di fare una domanda di matrimonio. Ma debbo rendergli giustizia: si è degnato di aggiungere che se aveva mai deplorato questa occasione, era per una promessa fatta a se stesso, poiché pensava che la progettata unione sarebbe stata felice e bene assortita. Del resto, se non vuol fare passi ufficialmente, si riserva di risponderne, mi ha detto, quando gli parlerete voi.»

«Benissimo.»

«Ora», riprese Andrea col suo grazioso sorriso, «ho finito di parlare al suocero, e mi rivolgo al banchiere.»

«Che volete da lui, vediamo?» disse Danglars, ridendo anch’egli.

«Dopodomani devo riscuotere qualche cosa, un quattromila franchi da voi, ma il conte ha capito che il mese prossimo comporterà forse più spese per le quali non sarebbe sufficiente la mia piccola rendita da celibe ed ecco un assegno di ventimila franchi, che mi ha, non dirò regalato, ma offerto. È firmato di sua mano, come vedete… Vi va?»

«Portatemene un milione, e li accetterò sempre», replicò Danglars mettendoselo in tasca. «Ditemi a che ora preferite domani, e il mio giovane di cassa passerà da voi con l’ammontare di ventimila franchi.»

«Alle dieci di mattina, se vi va bene; se però si potesse prima, sarebbe meglio… Domani vorrei andare in campagna.»

«Vada per le dieci. Siete sempre all’Hôtel des Princes?»

«Sì.»

All’indomani, con un’esattezza che faceva onore alla puntualità del banchiere, i ventiquattromila franchi erano dal giovane, il quale uscì poi effettivamente, lasciando al portiere duecento franchi per Caderousse. Scopo di quella partenza, da parte di Andrea, era principalmente quello di evitare il suo pericoloso amico; per cui rientrò la sera il più tardi possibile. Ma appena messo piede sul lastricato del cortile, si ritrovò davanti il portinaio dell’albergo, che lo aspettava col berretto in mano.

«Signore», diss’egli, «è venuto quell’uomo.»

«Che uomo?» domandò noncurante Andrea, come se avesse dimenticato colui che, al contrario, ricordava benissimo.

«Quello a cui vostra eccellenza ha fatto quel piccolo assegno.»

«Ah sì», disse Andrea, «quel vecchio servitore di mio padre. Ebbene, gli avete dato i duecento franchi che vi ho lasciato?»

«Sì, eccellenza.»

Andrea si faceva chiamare eccellenza.

«Ma», continuò il portinaio, «non ha voluto prenderli.»

Andrea impallidì.

«Come, non ha voluto prenderli?» ribatté con voce alterata.

«No, voleva parlare con vostra eccellenza. Ho risposto che eravate uscito, ha insistito, ma finalmente è parso convinto, e mi ha dato questa lettera che portava con sé sigillata.»

«Vediamo», disse Andrea.

E lesse al chiarore del fanale del carrozzino: «Tu sai dove abito, domani ti aspetto alle nove di mattina».

Andrea guardò il sigillo per vedere se era stato forzato, e se sguardi indiscreti avevano potuto penetrare all’interno della lettera, ma era piegata con tal lusso di pieghe e di angoli, che per leggerla bisognava romperne il sigillo, e questo era perfettamente intatto.

«Benissimo», commentò. «Pover’uomo! È una bravissima persona.»

E lasciò il portinaio edificato da quelle parole, non sapendo chi dovesse ammirare di più, se il giovane padrone o il vecchio servitore.

«Fate presto e salite da me», ordinò Andrea al valletto.

E in due salti il giovane fu nella sua camera, bruciò la lettera di Caderousse, di cui fece scomparire perfino le ceneri. Terminava quest’operazione all’entrare del domestico.

«Tu sei della mia stessa corporatura, Pierre», gli disse.

«Ho quest’onore, eccellenza», rispose il servitore.

«Devi avere un’altra livrea nuova che ti fu portata ieri.»

«Sì, signore.»

«Ho alcune cosucce da sbrigare con una signorina alla quale non posso dire né il mio nome, né la mia condizione; prestami la tua livrea, e dammi pure i tuoi documenti, affinché io possa, se necessario, dormire in qualche albergo.»

Pierre obbedì.

Cinque minuti dopo, Andrea completamente travestito, prendeva un calessino e si faceva condurre all’albergo del Cheval Rouge a Picpus. Il giorno dopo uscì dall’albergo del Cheval Rouge come era partito dall’Hôtel des Princes, vale a dire senza essere notato; discese il Faubourg Saint-Antoine, seguì il boulevard fino a rue Ménilmontant, e fermandosi alla porta della terza casa a sinistra, si fermò a riflettere, in mancanza di portinaio, da chi dovesse prendere informazioni.

«Che cosa cercate, mio bel giovanotto?» domandò la fruttivendola di fronte.

«Il signor Pailletin, per favore», rispose Andrea.

«Il fornaio in pensione?» domandò la fruttivendola.

«Precisamente.»

«In fondo al cortile, a sinistra, terzo piano.»

Andrea prese la strada indicata, e al terzo piano trovò una zampa di lepre, che tirò a sé di cattivo umore, in modo che di quel gesto affrettato ne risentì lo stesso campanello. Un momento dopo, dietro la griglia dello spioncino, comparve il volto di Caderousse.

«Sei puntuale», disse.

E così dicendo tolse i catenacci.

«Eccomi!» disse Andrea entrando.

Buttò davanti a sé il berretto da livrea, che non essendovi sedie, cadde a terra, facendo il giro della camera rotoloni su se stesso.

«Su», disse Caderousse, «non t’inquietare, piccino mio, guarda un po’ che colazione avremo: nientemeno che tutte cose che ti piacciono.»

Andrea sentì infatti, annusando, un odore di cucina, i cui grossolani aromi non mancavano di una certa attrattiva per uno stomaco affamato: era la mescolanza dello strutto e dell’aglio, che distinguono la cucina provenzale di classe inferiore, e soprattutto l’aspro profumo della noce moscata e del garofano. Tutto ciò esalava da due piatti pieni e coperti, posti sopra due fornelli, e da una casseruola che arrostiva nel forno da campagna.

Nella stanza vicina, Andrea vide inoltre una tavola pulitissima, preparata con due piatti, due bottiglie di vino sigillato, una buona dose di acquavite in una bottiglia, e una fruttiera a forma di foglia di cavolo, posta con arte sopra una salvietta pulita.

«Che te ne sembra, mio piccino?» domandò Caderousse. «Che odore balsamico! Tu lo sai bene, laggiù ero cuoco: ti ricordi come si leccavano le dita alla mia cucina? E tu per primo ne hai gustati dei miei intingoli, e non li disprezzavi, credo…»

E si mise a preparare un supplemento di cipolle.

«Va bene, va bene», rispose Andrea, di malumore. «Se mi hai scomodato solo perché venissi a far colazione con te, che il diavolo ti porti!»

«Figlio mio», sentenziò Caderousse, «mangiando si parla; e poi, ingrato che sei! Non ti fa dunque piacere vedere un po’ il tuo amico? Io piango di felicità.»

Caderousse infatti piangeva realmente; benché fosse difficile dire se la leggera irritazione alla ghiandola lacrimale dell’antico albergatore del Ponte di Gard fosse cagionata dalla gioia o dalle cipolle.

«Taci dunque, ipocrita!» esclamò Andrea. «Sei mio amico?»

«Sì, io sono tuo amico, o il diavolo mi porti! È una debolezza», disse Caderousse, «lo so bene, ma è più forte di me.»

«Eppure mi hai certamente fatto venir qui per qualche perfidia.»

«Suvvia», disse Caderousse, asciugando nel grembiule un grosso coltello. «Se non t’amassi, sopporterei forse la vita miserabile che mi fai fare? Guarda un po’, tu hai sulle spalle l’abito del tuo domestico, dunque hai un domestico, io non ne ho, e sono costretto a pulirmi i legumi da solo; tu disprezzi la mia cucina, perché pranzi, o alla tavola rotonda, o all’Hôtel des Princes, o al Café de Paris. Ebbene, io pure potrei avere domestico e calesse, io pure potrei pranzare dove volessi… Perché dunque me ne privo? Per non farti dispiacere, mio piccolo Benedetto. Parla, confessa soltanto che lo potrei…»

E un’occhiata significativa di Caderousse terminò il senso della frase.

«Allora», riprese Andrea, «ammettiamo che tu mi voglia bene: perché esigi che io venga a far colazione con te?»

«Ma per vederti, piccino mio.»

«Per vedermi? E a che serve, se abbiamo fissato in precedenza le nostre condizioni?»

«Caro amico», riprese Caderousse, «ci sono forse testamenti senza codicilli? Ma tu sei venuto innanzitutto per far colazione, non è vero? Su, via, sediamoci, e cominciamo con queste alici e questo burro fresco, che ho messo sopra foglie di vite espressamente per te. Sì, tu guardi la mia camera, le mie quattro sedie di paglia, le mie stampe da tre franchi l’una, compresa la cornice. Non siamo mica all’Hôtel des Princes…»

«Tu ti sei già stufato della tua situazione e non sei più contento, tu che domandavi soltanto di sembrare un fornaio in pensione…»

Caderousse sospirò.

«Ebbene, che hai da dirmi? Il tuo sogno si è avverato, e sei già deluso?»

«È ancora un sogno: un fornaio in pensione, mio povero Benedetto, è ricco, cioè ha rendite.»

«Tu hai delle rendite!»

«Io?»

«Sì, tu, poiché ti ho assegnato duecento franchi al mese.»

Caderousse si strinse nelle spalle.

«È una umiliazione» disse, «ricevere in tal modo del denaro dato di malavoglia, del denaro effimero, che può mancare da un giorno all’altro. Poi devi ben capire che sono costretto a fare qualche risparmio, nel caso in cui la tua fortuna non durasse. Eh, amico mio, la fortuna è incostante, come diceva l’elemosiniere del… reggimento. Io so bene, scellerato, che la tua ricchezza è immensa: tu stai per sposare la figlia di Danglars!»

«Come, Danglars?»

«Esatto, di Danglars! Vi è forse bisogno che io specifichi del barone Danglars? Sarebbe lo stesso che dicessi del conte Benedetto… Era mio amico Danglars, e se non avesse avuto la memoria così debole, avrebbe dovuto invitarmi alle sue nozze, visto che è venuto alle mie… Sì, sì, sì, alle mie, diavolo! Non era così superbo a quei tempi, quando era contabile presso il buon signor Morrel. Ho pranzato più d’una volta con lui e col conte Morcerf… Come ben vedi, ho straordinarie conoscenze, e se volessi coltivarle un po’, ci potremmo incontrare nelle stesse compagnie.»

«Suvvia! La tua gelosia ti fa vedere lucciole per lanterne, Caderousse.»

«Come vuoi, Benedetto mio, so quel che dico. Forse un giorno potrò mettermi l’abito della festa, e presentarmi a palazzo dicendo: “Una decorazione, per favore!” Intanto, siedi e mangiamo.»

Caderousse dette l’esempio, e si mise a far colazione con buon appetito, mentre faceva l’elogio di tutte le vivande che metteva in tavola davanti al suo ospite. Questi sembrava aver preso la sua decisione, aprì le bottiglie, e attaccò la carne arrostita e il merluzzo condito con aglio e olio.

«Compare», riprese Caderousse, «sembra che ti stai riconciliando col tuo antico padrone di locanda, eh?»

«In fede mia, sì», rispose Andrea, che giovane e vigoroso com’era, si lasciava sempre vincere dall’appetito.

«E ti piace, birbante?»

«È così buono che non capisco come un uomo che cucina e mangia così buoni bocconi possa pensare che la vita è cattiva.»

«Vedi?» disse Caderousse. «È perché tutta la mia felicità è guastata da un solo pensiero.»

«E quale?»

«Quello di vivere alle spese di un amico, io che mi sono sempre guadagnato la mia esistenza da solo.»

«Non dartene pensiero», lo calmò Andrea, «ne ho abbastanza per due, non ti preoccupare.»

«No, davvero! Sei padrone di non credermi, ma alla fine d’ogni mese provo dei rimorsi.»

«Buon Caderousse!»

«Al punto che ieri non ho voluto prendere i duecento franchi.»

«Sì, perché tu volevi parlare con me… Ma fu veramente il rimorso?»

«Vero rimorso… E poi mi era venuta un’idea…»

Andrea tremò; tremava sempre quando venivano idee a Caderousse.

«È una cosa triste, vedi», continuò questi, «quella di dover sempre aspettare la fine del mese.»

«Eh!» disse filosoficamente Andrea, deciso a far parlare il suo amico. «Forse non passiamo la vita sempre aspettando? Faccio forse altro io! Eppure ho pazienza, non è vero?»

«Sì, perché invece di aspettare duecento miserabili franchi, ne aspetti cinque o seimila, fors’anche diecimila, perché sei un individuo misterioso… Laggiù avevi sempre qualche cosuccia che cercavi di nascondere a questo povero amico Caderousse… Fortunatamente, l’amico Caderousse di cui si parla, aveva il naso fino.»

«Suvvia, ecco che ti metti di nuovo a cambiar discorso», disse Andrea, «a parlare e riparlare sempre del passato… Ma a che pro rivangare certe cose?»

«Perché, se tu, che hai ventun anni, puoi dimenticare il passato, io però, che ne ho cinquanta, sono costretto a ricordarmene… Ma, non importa ritorniamo agli affari…»

«Sì.»

«Io volevo dire che se fossi in te…»

«Ebbene?»

«Realizzerei…»

«Come, realizzeresti…?»

«Sì, domanderei un semestre anticipato, con il pretesto di diventare deputato, o di voler comprare una fattoria, poi col mio semestre me ne scapperei.»

«Ma guarda!» esclamò Andrea. «Non è una brutta pensata.»

«Mio caro amico», aggiunse Caderousse, «mangia alla mia cucina, e segui i miei consigli! Non te ne verrà male, né al fisico, né al morale.»

«Benissimo», commentò Andrea. «Ma perché non seguire tu stesso il consiglio che mi dai? Perché non realizzare un semestre, o anche un anno, e ritirarti a Bruxelles? Invece di passare per un fornaio in pensione, sembreresti un fallito sfuggito ai creditori: è ben pensata anche questa.»

«Ma come diavolo vuoi che vada in pensione con milleduecento franchi?»

«Ah, Caderousse», disse Andrea, «come diventi esigente! Due mesi fa morivi di fame.»

«L’appetito vien mangiando», osservò Caderousse, mostrando i denti come una scimmia quando ride, o una tigre quando ruggisce. «Perciò», aggiunse, spezzando con quei medesimi denti, così bianchi e acuti malgrado l’età, un enorme boccone di pane, «ho fatto un piano.»

I piani di Caderousse spaventavano Andrea ancora più delle sue idee; le idee non erano che il germe, il piano era la realizzazione.

«Sentiamo questo piano», disse, «deve essere bello.»

«E perché no? Il piano per cui abbiamo lasciato lo stabilimento del signor Chose, da chi veniva? Da me, suppongo, e non era cattivo, mi pare, poiché siamo qua!»

«Io non dico», riprese Andrea, «che qualche volta tu non ne abbia dei buoni; ma infine vediamo il tuo piano.»

«Vediamo», proseguì Caderousse, «puoi, senza sborsare un soldo, farmi avere una quindicina di migliaia di franchi?… No, non basta una quindicina di migliaia di franchi, io non posso ritornare galantuomo per meno di trentamila franchi.»

«No», rispose seccamente Andrea, «non posso.»

«Tu non hai capito, a quanto pare», replicò freddamente Caderousse, tranquillo, «io ti ho detto senza sborsare un soldo.»

«Non vorrai certamente che io rubi, per guastare tutto il mio affare, e col mio anche il tuo, e farci poi rimandare laggiù?»

«Per me è lo stesso che mi riprendano, o no!» ribatté Caderousse. «Io sono molto originale, mi annoia, qualche volta, perfino esser lontano dai compagni; non sono come te, uomo senza cuore, che non vorresti rivederli più!»

Andrea fece più che fremere, questa volta impallidì.

«Insomma, Caderousse, non facciamo bestialità», disse.

«No, sta’ tranquillo, mio caro Benedetto! Indicami piuttosto qualche mezzo per guadagnare questi trentamila franchi, senza immischiarti di niente: tu mi lascerai fare, ecco tutto!»

«Ebbene, vedrò, cercherò…» disse Andrea.

«Ma mentre aspetto, porterai il mio mensile ad almeno cinquecento franchi, non è vero? Vorrei prendermi una governante!»

«Avrai i cinquecento franchi», concesse Andrea. «Ma sarà troppo pesante, per me, mio povero Caderousse… Tu abusi…»

«Bah!» sbottò Caderousse. «Tu attingi a casse senza fondo!»

«Questa è la verità», rispose Andrea, «e il mio protettore è generoso con me.»

«Questo caro protettore», riprese Caderousse, «non ti fa dunque un assegno mensile di…?»

«Cinquemila franchi», disse Andrea.

«Quante migliaia, quante centinaia vuoi darmi?» riprese Caderousse. «Davvero i bastardi sono i soli ad avere fortuna. Cinquemila franchi al mese… Che diavolo puoi farne di tutta questa somma?»

«Mio Dio! È ben presto spesa. Quindi la penso anch’io come te, preferirei avere il mio capitale.»

«Un capitale!… Sì… capisco, tutti desidererebbero avere un capitale.»

«Ebbene, me ne verrà dato uno.»

«E chi te lo darà? Il tuo principe?»

«Sì, il mio principe… Disgraziatamente bisogna aspettare.»

«Aspettare che cosa?» domandò Caderousse.

«La sua morte.»

«La morte del tuo principe?»

«Sì.»

«E in che modo?»

«Perché sono stato nominato nel suo testamento.»

«Davvero?»

«Parola d’onore!»

«Per quanto?»

«Cinquecentomila franchi.»

«Nientemeno!»

«La cosa sta come ti dico.»

«Suvvia, non è possibile!»

«Caderousse, mi sei amico?»

«Per la vita e per la morte.»

«Ebbene, ti dirò un segreto.»

«Parla.»

«Ascoltami.»

«Sono muto come un pesce.»

«Ebbene, io credo…»

Andrea si fermò guardandosi intorno.

«Che cosa credi? Non aver paura! Siamo soli.»

«Io credo di aver ritrovato mio padre.»

«Il tuo vero padre?»

«Sì.»

«Non il padre Cavalcanti?»

«No, poiché quello è partito, il vero, come tu dici.»

«E questo padre è?…»

«Ebbene, Caderousse, è il conte di Montecristo.»

«Bah!»

«Sì, come vedi, si spiega tutto. Egli non può confessarmelo ad alta voce, a quanto sembra, ma mi fa riconoscere dal signor Cavalcanti, e gli regala a tale scopo cinquantamila franchi.»

«Cinquantamila franchi per essere tuo padre!? Ma io avrei accettato per la metà del prezzo, forse per ventimila, per quindicimila… E com’è che non hai pensato a me?»

«E lo sapevo io? Tutto quello che si è combinato, lo fu senza di me, mentre eravamo laggiù.»

«Ah, è vero… E tu dici che nel suo testamento?…»

«Egli mi lascia mezzo milione.»

«Ne sei sicuro?»

«Me lo ha mostrato, ma non è tutto qui.»

«Ci sarà un codicillo, come dicevo poco fa.»

«Probabilmente.»

«E in questo codicillo?»

«Egli mi riconosce.»

«Che buon uomo è tuo padre! Che brav’uomo!» esclamò Caderousse, facendo volare un tovagliolo in aria, riprendendolo poi con le mani.

«Ecco, di’ ora che ho dei segreti per te.»

«No, e la tua confidenza ti onora ai miei occhi. E il tuo principe padre è dunque ricco, ricchissimo?»

«Lo credo. Non sa nemmeno a quanto ammonti la sua sostanza.»

«È possibile?»

«Diamine! Lo vedo bene, io, che sono ricevuto a ogni ora! L’altro giorno c’era un giovane di banca a portargli cinquantamila franchi in un portafoglio grosso come un piatto; ieri il suo banchiere con centomila franchi in oro.»

Caderousse era stupefatto; gli pareva che le parole del giovane avessero il suono del metallo, e di sentire il tintinnio dei luigi.

«E tu sei accolto in quella casa?» gridò con ingenuità.

«Quando voglio.»

Caderousse rimase pensieroso un istante. Era facile vedere che rimuginava nella mente qualche pensiero. Poi a un tratto: «Quanto mi piacerebbe vedere tutto ciò», gridò ancora, «come deve esser bello!»

«Il fatto è», disse Andrea, «che è magnifico.»

«E non abita all’entrata degli Champs-Elysées?»

«Al numero 30.»

«Al numero 30?» ripeté Caderousse.

«Sì, una bella casa isolata fra il cortile e il giardino: non c’è che quella.»

«Può darsi: ma l’esterno a me non importa, m’importa l’interno… i bei mobili! Che cosa ci dev’essere mai là dentro!»

«Hai visto qualche volta le Tuileries?»

«No.»

«Ebbene, è ancor più bello.»

«Dici davvero, Andrea? Sarà già una fortuna abbassarsi quando questo buon signore di Montecristo lascia cadere la borsa!»

«Mio Dio, non vale la pena di aspettare un momento simile», disse Andrea. «Il denaro abbonda in quella casa come i frutti in un giardino.»

«Dovresti portarmici con te.»

«Com’è possibile? E con qual titolo?»

«Hai ragione, ma mi hai fatto venire l’acquolina in bocca, e bisogna assolutamente che io veda tutto ciò; troverò io un mezzo.»

«Non facciamo sciocchezze, Caderousse.»

«Mi presenterò come spazzino.»

«Non ne ha bisogno, perché vi sono tappeti ovunque.»

«Peccato! Allora bisogna che mi accontenti di immaginarmi con la fantasia tutta quella roba.»

«È quanto puoi fare di meglio, credimi.»

«Cerca almeno di farmi capire la pianta dell’edificio.»

«Cosa vuoi fare?»

«È grande il palazzo?»

«Né troppo grande, né troppo piccolo.»

«Ma come sono distribuite le stanze?»

«Ci vorrebbe dell’inchiostro e della carta per fartene la pianta.»

«Un istante!» esclamò avidamente Caderousse.

E andò a cercare sopra un vecchio scrittoio un foglio di carta bianca, l’inchiostro e una penna.

«Prendi», disse Caderousse, «tracciami il disegno sulla carta, figlio mio.»

Andrea prese la penna con un impercettibile sorriso, e cominciò: «La casa, come ti ho detto, è situata fra un giardino e il cortile; ecco il disegno».

E Andrea fece la pianta del giardino, del cortile e della casa.

«Le mura sono alte?»

«No, due metri e mezzo, tre al massimo.»

«Che imprudenza», mormorò Caderousse.

«Nel cortile vi sono dei grandi vasi d’aranci, dei praticelli, dei fiori, dei cespugli.»

«Nessuna trappola?»

«No.»

«E le scuderie?»

«Di fianco, ai lati del cancello… Vedi qui?»

E Andrea continuava la sua pianta.

«Vediamo il pianterreno», disse Caderousse.

«Al pianterreno, sala da pranzo, due salotti, sala da biliardo, scala nel vestibolo, e piccola scala segreta.»

«Le finestre?»

«Finestre magnifiche, così belle e larghe, che, in fede mia, credo che un uomo della mia statura passerebbe per il vano di uno di quei cristalli.»

«E perché diavolo si fa uso di scale quando si hanno tali finestre?»

«Che vuoi farci, è un lusso.»

«Ma ci sono persiane?»

«Sì, persiane, ma non le usano mai. Montecristo è così originale, che vuol vedere il cielo anche di notte.»

«E dove dormono i domestici?»

«Hanno la loro casa separata. Figurati, un bel padiglione entrando a destra, dove stanno i custodi delle scale, sopra questo padiglione c’è una quantità di stanze per i domestici, con dei campanelli corrispondenti alle camere.»

«Diavolo, dei campanelli!»

«Che dici?»

«Io, niente. Dico che costerà caro mettere questi campanelli. E a cosa servono?»

«Un tempo c’era un cane che passeggiava la notte nel cortile, ma lo hanno portato nella casa di Auteuil, sai, quella dove sei venuto…»

«Sì.»

«Io glielo dicevo anche ieri: “È un’imprudenza la vostra, signor conte, perché quando andate ad Auteuil, e conducete via i domestici, la casa resta incustodita”.»

«E poi?»

«E poi: “Un qualche giorno vi deruberanno”.»

«E che cosa ha risposto?»

«Che cosa ha risposto?»

«Sì.»

«Ha risposto: “Ebbene, che danno me ne viene se qualcuno mi deruba?”»

«Andrea, avrà un qualche armadio a molla…»

«Di che tipo?»

«Una di quelle trappole che prendono il ladro in un laccio e lo tirano in aria… Mi è stato detto che all’ultima esposizione ce n’erano, di questo genere.»

«Ha solo un semplice armadio di mogano al quale ho sempre visto attaccata una chiave.»

«E non è mai stato derubato?»

«No, le persone di servizio gli sono tutte affezionate.»

«Quanto ci sarà in quell’armadio… ehm… quanto denaro?»

«Vi sarà forse… Non si può sapere quanto ci sarà.»

«E dov’è questo armadio?»

«Al primo piano.»

«Fammi dunque la pianta del primo piano, piccolo mio, come hai fatto quella del pianterreno.»

«È facile.»

E Andrea riprese la penna.

«Al primo piano, vedi?, c’è l’anticamera, la sala grande, a destra della sala, biblioteca e stanza da lavoro, a sinistra della sala, una camera da letto, e uno spogliatoio… Il famoso armadio è nello spogliatoio.»

«C’è qualche finestra nello spogliatoio?»

«Due, una qui e l’altra qua.»

E Andrea aggiunse le due finestre alla stanza che stava nell’angolo del primo piano, disegnando un quadrato meno grande, aggiunto al quadrato lungo della camera da letto.

Caderousse si fece pensieroso.

«E va spesso ad Auteuil?» domandò.

«Due o tre volte la settimana; domani per esempio, deve passare la giornata e la notte là.»

«Ne sei sicuro?»

«Mi ha invitato ad andarvi a pranzo.»

«Questo sì che si chiama vivere», osservò Caderousse. «Casa in città, casa in campagna.»

«Ecco che cosa vuol dire esser ricchi.»

«E ci andrai a pranzo?»

«Probabilmente.»

«Quando vai là a pranzo, ci stai anche a dormire?»

«Quando mi fa piacere. In casa del conte sono come a casa mia.»

Caderousse guardò il giovane come per strappargli la verità dal fondo del cuore. Ma Andrea prese un portasigari di tasca, estrasse un avana, l’accese tranquillamente, e cominciò a fumarlo senz’affettazione.

«Quand’è che vuoi i tuoi cinquecento franchi?» domandò a Caderousse.

«Ma anche subito, se li hai.»

Andrea tirò fuori di tasca venticinque luigi.

«Monete d’oro?» disse Caderousse. «No, grazie.»

«Adesso le disprezzi?»

«Al contrario le stimo, ma non ne voglio.»

«Guadagnerai nel cambio, imbecille: l’oro ha un aggio di cinque soldi.»

«Sarà, ma poi il cambiavalute fa seguire l’amico Caderousse, e gli mettono le mani sopra, e poi bisognerà che dica chi sono i fittavoli che gli pagano queste rendite in oro. Non facciamo bestialità, piccolo mio: argento semplicemente, pezzi rotondi con l’effigie di un principe qualunque. Tutti al mondo possono avere un pezzo da cinque franchi.»

«Tu capisci bene che non posso portarmi appresso cinquecento franchi in argento: ci vorrebbe un facchino.»

«Ebbene, lasciali dunque al portinaio; è un brav’uomo, andrò a prenderli da lui.»

«Oggi?»

«No, domani, oggi non ho tempo.»

«E sia, domani glieli lascerò nel partire per Auteuil.»

«Posso contarci?»

«Certamente.»

«Se è così, vado a prendere fin d’ora una governante.»

«Prendila pure… Ma non ci saranno altri fastidi, vero? Non mi tormenterai più?»

«Mai più.»

Caderousse era diventato così pensieroso, che Andrea temette di rivelare che s’era accorto di questo cambiamento. Raddoppiò dunque la sua allegria e indifferenza.

«Come sei allegro», disse Caderousse, «si direbbe quasi che possiedi già la tua eredità.»

«No, disgraziatamente! Ma il giorno in cui la riceverò…»

«Ebbene?»

«Ebbene, mi ricorderò degli amici, non ti dico altro.»

«Sì, hai buona memoria…»

«Meno male! Credevo che volessi rimproverarmi.»

«Io? Che idea! Al contrario, ti voglio dare un consiglio da amico…»

«E quale?»

«Quello di lasciar qui quel diamante che hai al dito. Vuoi dunque farci prendere tutti e due per simili bestialità?»

«E perché?» domandò Andrea.

«Come! Prendi una livrea, ti travesti da servitore, e conservi al dito un diamante di quattro, cinquemila franchi!»

«Come stimi giusto! Perché non fai l’esperto di gioielli?»

«Conosco il valore dei diamanti, perché ne ho avuti.»

«Sì, fai bene a vantartene», ribatté Andrea, che, senza irritarsi, come temeva Caderousse, per questa nuova estorsione, lasciò con compiacenza l’anello. Caderousse lo guardò tanto da vicino da far capire chiaramente che esaminava se gli spigoli del taglio erano ben vivi.

«È un diamante falso», dichiarò Caderousse.

«Scherzi?»

«Non ti arrabbiare, posso provartelo.»

E Caderousse andò alla finestra, e strisciando il diamante sul vetro s’intese uno stridio.

«Confiteor!» esclamò Caderousse mettendosi l’anello al dito mignolo. «Mi sono sbagliato; ma questi ladri di gioiellieri imitano tanto bene le pietre vere, che non si ha più coraggio di andare a rubare nelle loro botteghe, ed ecco un altro ramo d’industria paralizzato.»

«Ebbene», disse Andrea, «hai finito? Hai ancora qualche cosa da domandarmi? Ti serve il mio vestito, il mio berretto? Su, parla, parla liberamente.»

«No, alla fine sei un bravo compagno. Non ti trattengo di più, e cercherò di guarire la mia ambizione.»

«Ma bada che, nel vendere questo diamante, non ti accada ciò che temevi ti accadesse per le monete d’oro.»

«Non lo venderò, sta’ pure tranquillo.»

«Non prima di dopodomani», pensò il giovane.

«Fortunato furbacchione», disse Caderousse. «Tu te ne vai a trovare i tuoi servitori, i tuoi cavalli, la tua carrozza e la tua fidanzata…»

«Ma sì», sospirò Andrea.

«Di’, dunque, spero che mi farai un bel regalo di nozze il giorno che sposerai la figlia dell’amico Danglars.»

«Ti ho già detto che questa è una fantasia della tua testa.»

«E quanto di dote?»

«Ma se ti dico…»

«Un milione?»

Andrea si strinse nelle spalle.

«Vada per un milione», disse Caderousse. «Non ne avrai mai tanti, quanti te ne auguro io.»

«Grazie», disse il giovane.

«Che buon cuore», aggiunse Caderousse, ridendo del suo riso grossolano.

«Aspetta che ti accompagni.»

«Non ne vale la pena.»

«Tutt’altro.»

«E perché?»

«Perché alla porta c’è un piccolo segreto; una precauzione che ho creduto di dovere adottare: serratura Huret e Fichet, rivista e corretta da Gaspard Caderousse. Te ne fabbricherò una simile, quando diventerai capitalista.»

«Grazie», disse Andrea, «ti farò avvertire otto giorni prima.»

Essi si separarono. Caderousse restò sul pianerottolo fino a che ebbe visto Andrea, non solo scendere i tre piani, ma attraversare il cortile. Allora rientrò precipitosamente, richiuse l’uscio con cura e si mise a studiare, come un esperto architetto, la pianta lasciatagli dal giovane.

«Al caro Benedetto», disse, «non rincrescerà, credo, di ereditare, e colui che solleciterà il giorno in cui deve intascare i suoi cinquecentomila franchi non sarà il suo peggiore amico.»

81. Lo scasso

Il giorno successivo a quello in cui ebbe luogo il dialogo descritto, il conte di Montecristo partì per Auteuil in compagnia di Alì, di diversi domestici e alcuni cavalli che voleva provare. Il motivo che aveva determinato tale partenza, alla quale non pensava nemmeno il giorno innanzi, e alla quale neppure Andrea pensava più di lui, fu soprattutto l’arrivo di Bertuccio, che, di ritorno dalla Normandia, portava le notizie della casa e della corvetta. La casa era arredata e la corvetta, giunta da otto giorni era all’ancora, in un piccolo porticciolo, dove, adempite tutte le formalità, era pronta, con i suoi sei uomini d’equipaggio, a riprendere il mare. Il conte lodò lo zelo di Bertuccio, e lo invitò a tenersi pronto a una rapida partenza, non dovendo il suo soggiorno in Francia prolungarsi al di là di un mese.

«Ora», gli disse, «posso aver bisogno di andarmene da Parigi a Tréport in una notte. Voglio dei cambi di cavalli disposti sulla strada, che mi permettano di fare cinquanta leghe in dieci ore.»

«Vostra Eccellenza aveva già manifestato questo desiderio», rispose Bertuccio, «e i cavalli sono già pronti. Li ho appostati io stesso nei luoghi più convenienti; vale a dire in quei villaggi ove di solito non si ferma nessuno.»

«Va bene», aggiunse Montecristo, «io resto qui un giorno o due, di conseguenza preparatevi.»

Mentre Bertuccio stava per uscire e ordinare l’occorrente per quel soggiorno, Battistino aprì la porta; portava una lettera sopra un piatto di argento dorato.

«Che cosa venite a fare qui?» domandò il conte, vedendolo tutto coperto di polvere. «Non vi ho certo fatto chiamare, credo?»

Battistino senza rispondere si avvicinò al conte, presentandogli la lettera.

«Importante e urgente», disse.

Il conte aprì la lettera, e lesse: «Si avverte il conte di Montecristo che questa notte un uomo si introdurrà nella sua casa degli Champs-Elysées per sottrarre delle carte, ch’egli crede chiuse nell’armadio dello spogliatoio. Lo scrivente conosce abbastanza il coraggio del signor conte di Montecristo, da sapere che non ricorrerà all’intervento della polizia, intervento che potrebbe compromettere grandemente lo stesso scrivente. Il signor conte, sia da un’apertura che mette dalla camera da letto nello spogliatoio, sia nascondendosi in esso, potrà farsi giustizia da sé. Se scorgesse molte persone e precauzioni, il malfattore certamente si allontanerebbe, e il signore di Montecristo perderebbe l’occasione di conoscere un nemico, che il caso ha fatto scoprire alla persona che gli dà quest’avviso, avviso che non avrebbe forse più l’occasione di rinnovare, se andando a vuoto questa prima intrapresa, il malfattore ne ritentasse un’altra».

Il primo pensiero del conte fu quello di credere che fosse una furberia del ladro, un tranello grossolano per segnalargli un pericolo mediocre ed esporlo a uno più grave. Stava dunque per far portar la lettera a un commissario di polizia, malgrado la raccomandazione dell’anonimo, quando a un tratto gli venne l’idea che poteva essere effettivamente qualche suo nemico particolare, ch’egli solo poteva riconoscere e dal quale, se la cosa era così, egli solo poteva trarre partito, come aveva fatto Fieschi del Moro che aveva voluto assassinarlo.

Noi conosciamo il conte, non ci occorre quindi dire ch’era pieno d’audacia e di vigore, e che non si sarebbe ritirato nemmeno davanti all’impossibile, quella energia ch’è la caratteristica degli uomini eminenti. Per la vita che aveva condotto, e la decisione presa di non indietreggiare mai, il conte era giunto a gustare gioie sconosciute nelle lotte contro la natura e contro il mondo.

«Non vogliono rubarmi le carte», ragionò Montecristo, «bensì uccidermi; non sono ladri, ma assassini. Non voglio che il prefetto di polizia si immischi nei miei affari; io sono abbastanza ricco, da sgravare di tale spesa il preventivo della sua amministrazione.»

Il conte richiamò Battistino, ch’era uscito dalla camera dopo aver dato la lettera.

«Ritornerete a Parigi», gli disse, «e condurrete qui tutta la servitù che è rimasta lassù. Ho bisogno che tutti siano qui ad Auteuil.»

«Ma non deve restare nessuno in casa, signor conte?» domandò Battistino.

«No, rimarrà il portinaio.»

«Ma il signor conte sa che l’alloggio del portinaio è assai distante dalla casa…»

«Ebbene?»

«Si potrebbero svaligiare tutti gli appartamenti senza che il portinaio sentisse il minimo rumore.»

«E chi lo farebbe?»

«I ladri.»

«Voi siete uno sciocco, Battistino… Che i ladri mi svaligino tutta la casa, non mi dispiace tanto quanto un servizio fatto male.»

Battistino s’inchinò.

«Voi mi avete capito», riprese il conte. «Conducete qui tutti, dal primo fino all’ultimo servo, ma tutto resti come al solito: chiuderete le persiane del pianterreno, e nient’altro.»

«E quelle del primo?»

«Sapete bene che non si chiudono mai. Andate.»

Il conte disse che pranzava nella sua camera, e che voleva essere servito soltanto da Alì. Pranzò con tranquillità e con la solita sobrietà, e, dopo il pranzo, facendo segno ad Alì di seguirlo, uscì dalla porticina, raggiunse il Bois de Boulogne come se passeggiassero, e presa come per caso la strada di Parigi, al cader della notte si trovò dirimpetto alla sua casa vicino agli Champs-Elysées.

Tutto era scuro, soltanto una debole lampada ardeva nell’alloggio del portinaio, distante una quarantina di passi circa dalla casa, come aveva detto Battistino. Frattanto Montecristo si addossava a un albero, e con quel colpo d’occhio che sbagliava raramente, esplorò il doppio viale, esaminò quelli che passavano, e spinse lo sguardo nelle strade vicine. In capo a dieci minuti, fu perfettamente convinto che nessuno lo disturbava. Corse alla porta con Alì, entrò precipitosamente, e per una piccola scala segreta, di cui aveva la chiave, rientrò nella sua camera da letto senza aprire, né smuovere una tenda, senza che il portinaio potesse neppure dubitare che nella casa, da lui creduta vuota, era ritornato il suo principale abitante. Giunto nella camera da letto, il conte fece segno ad Alì di fermarsi, quindi entrò nello spogliatoio, passandola in esame: tutto era nello stato abituale. Il prezioso armadio era al suo posto, e la chiave dentro; egli lo chiuse a doppio giro, e presa la chiave, ritornò in camera da letto, tolse i due ganci al catenaccio, e rientrò.

In quell’istante, Alì metteva su una tavola le armi che il conte stesso gli aveva richiesto, cioè una carabina corta, un paio di pistole a doppio tiro le cui canne sovrapposte permettevano di prendere la mira come fossero state pistole da bersaglio. Così armato il conte aveva fra le sue mani la vita di cinque nemici. Erano le nove e mezzo circa, il conte e Alì mangiarono in fretta del pane, e bevvero un bicchiere di vino di Spagna, quindi Montecristo fece scorrere uno di quei quadri mobili che gli permettevano di vedere una stanza stando nell’altra. Teneva vicino le pistole e la carabina, e Alì, in piedi accanto a lui, teneva alla mano una di quelle asce arabe che non hanno ancora cambiato forma dall’epoca delle crociate. Da una finestra della camera da letto, simile a quella dello spogliatoio, il conte poteva vedere la strada.

In tal modo passarono due ore; regnava l’oscurità più profonda, e tuttavia Alì per la sua natura selvaggia, e il conte per la facoltà acquistata, distinguevano in quella notte fin la più piccola oscillazione degli alberi nel cortile. Da lungo tempo il lume nella stanza del portinaio era stato spento. Era presumibile che l’attacco, se ci doveva essere un attacco, avrebbe avuto luogo sulla scalinata del pianterreno, e non scalando una finestra. Nell’idea che i malfattori attentassero alla sua vita, e non al denaro, Montecristo pensava che mirassero alla sua camera da letto, potendovi giungere sia dalla scala segreta, sia dalla finestra dello spogliatoio. Mise Alì davanti alla porta della scala, ed egli continuò a sorvegliare lo spogliatoio.

Le undici e tre quarti suonarono all’orologio des Invalides: il vento di ponente portava col suo umido soffio la lugubre vibrazione dei tre colpi. Allorché stava per svanire il suono dell’ultimo tocco, il conte credette di sentire un rumore leggero dalla parte dello spogliatoio; questo primo rumore, o piuttosto questo primo scricchiolio, fu seguito da un secondo, poi da un terzo; al quarto il conte sapeva già che cos’era. Una mano ferma ed esercitata era intenta a tagliare i quattro lati di un vetro per mezzo di un diamante.

Il conte sentì battere più rapidamente il cuore.

Per quanto l’uomo sia indurito nel pericolo, e ben prevenuto contro di esso, capisce sempre dal battito del cuore e dal brivido della carne l’enorme differenza che esiste fra il sogno e la realtà, fra il progetto e l’esecuzione. Però Montecristo non fece che un cenno per prevenire Alì, il quale, comprendendo che il pericolo era dalla parte dello spogliatoio, fece un passo per avvicinarsi al suo padrone.

Montecristo era avido di sapere con quali e quanti uomini aveva a che fare. La finestra su cui lavoravano era di fronte all’apertura da cui il conte guardava nello spogliatoio. I suoi occhi dunque fissarono la finestra; vide un’ombra disegnarsi più densa nell’oscurità; quindi un vetro diventò del tutto opaco, come vi fosse stato sovrapposto dal di fuori un foglio di carta, poi il vetro crepitò senza cadere.

Dall’apertura praticata s’introdusse un braccio che cercava il catenaccio: dopo un secondo la finestra girò sui cardini, e un uomo entrò. Era solo.

«Ecco un birbante ardito…» mormorò il conte.

In quel momento sentì Alì toccargli leggermente la spalla; si voltò e Alì gli mostrò la finestra della camera dov’erano loro, che guardava sulla strada. Montecristo fece tre passi verso quella finestra; conosceva l’acutezza dei sensi del suo fedele servitore. Infatti vide un altro uomo che si staccava da una porta, e salendo sopra un sostegno, sembrava cercare di vedere che cosa accadeva in casa del conte.

«Bene», mormorò, «sono in due, uno agisce, l’altro sta di guardia.»

Fece segno ad Alì di non perdere di vista l’uomo della strada, e ritornò a quello dello spogliatoio.

Il tagliatore di vetri era entrato, e camminava a tentoni con le braccia tese in avanti. Finalmente parve trovare l’orientamento; vi erano due porte nella stanza, egli andò a mettere il catenaccio a entrambe. Allorché si avvicinò a quella della camera da letto, Montecristo pensò volesse entrare da quella, e preparò una delle pistole; ma non intese che il rumore dei catenacci fatti scorrere nei loro anelli di rame. Era una precauzione, e nient’altro; il visitatore notturno, ignorando l’operazione fatta in precedenza dal conte di togliere le sicure dei ganci, poteva ormai credersi in casa sua, e agire con tutta tranquillità.

Solo e libero in tutti i suoi movimenti, l’uomo estrasse allora dalla sua larga sacca qualche cosa che il conte non poté distinguere, posò qualche cosa sopra un tavolino, quindi andò direttamente all’armadio, si mise a toccarlo cercando la serratura e si accorse che, contro la sua aspettativa, mancava la chiave. Ma il tagliatore di vetri, da uomo pieno di precauzioni, aveva previsto tutto: il conte intese ben presto quel rumore del ferro contro il ferro che vien prodotto quando si manovra coi grimaldelli, che dai ladri chiamano «usignoli», senza dubbio per il piacere che essi provano nel sentirne il loro canto notturno quando stridono sul perno della serratura.

«Non è che un ladro», mormorò Montecristo, con un sorriso sconcertato.

Ma l’uomo, nell’oscurità, non poteva scegliere lo strumento conveniente. Allora ricorse a quel qualche cosa che aveva deposto sul tavolino, fece giocare una molla, e subito una luce pallida, ma abbastanza viva da poterci vedere, inviò un suo riflesso dorato sulle mani e sul viso di quell’uomo.

«Ma guarda», disse a un tratto Montecristo, arretrando con un movimento di sorpresa, «è…»

Alì alzò la sua ascia.

«Non ti muovere», gli disse Montecristo a bassa voce. «Lascia la tua ascia, poiché noi qui non abbiamo più bisogno di armi.»

Quindi aggiunse qualche parola abbassando ancor più la voce, perché l’esclamazione di sorpresa del conte, per quanto debole, era comunque bastata a far rabbrividire l’uomo, che era rimasto nella posizione dell’antico arrotino.

Il conte aveva dato un ordine, subito dopo Alì si allontanò sulla punta dei piedi, e staccò dai muri dell’alcova un vestito nero e un cappello triangolare. Montecristo si tolse rapidamente l’abito, il panciotto e la camicia scoprendo sul petto una di quelle soffici e fini tuniche in maglia d’acciaio, le ultime delle quali in questa Francia, ove non si temono più i pugnali, furono forse portate dal re Luigi XVI che temeva il coltello nel petto, e fu colpito dalla scure sul collo. Questa tunica fu coperta da una lunga sopravveste nera, i capelli del conte da una parrucca da prete, e il cappello trasformò del tutto il conte in un abate.

Intanto l’uomo, non sentendo più nulla, si era rialzato, e, durante il tempo impiegato da Montecristo per fare la sua metamorfosi, era andato direttamente all’armadio, la cui serratura cominciava già a cedere sotto il suo «usignolo».

«Bene!» mormorò il conte, certamente tranquillo per qualche segreto del fabbro ignorato dallo scassinatore, per quanto abile.

«Ne hai ancora per qualche minuto.»

Egli andò alla finestra.

L’uomo che aveva visto salire sul sostegno era sceso, e passeggiava sempre sulla strada; ma, cosa strana, invece d’inquietarsi di quelli che potevano venire, sia dall’ingresso degli Champs-Elysées, sia dal Faubourg Saint-Honoré, non sembrava preoccupato che di quanto accadeva in casa del conte, e scopo di tutti i suoi movimenti era guardare che cosa si facesse nello spogliatoio.

Montecristo, tutto a un tratto, si batté la fronte, e lasciò sfuggire un silenzioso sorriso. Quindi, avvicinandosi ad Alì: «Rimani qui», gli disse sottovoce, «nascosto nell’oscurità, e qualunque rumore tu senta, qualunque cosa succeda, non entrare, e non farti vedere se non ti chiamo».

Alì fece segno con la testa che aveva capito, e che avrebbe obbedito. Allora Montecristo prese da un armadio una candela già accesa e nel momento in cui il ladro era più che mai occupato alla serratura, aprì dolcemente la porta, avendo cura che la luce del lume che teneva in mano cadesse tutta sul suo viso. La porta girò così dolcemente, che il ladro non ne intese il rumore. Ma con sua gran sorpresa, vide a un tratto la stanza illuminarsi. Egli si voltò.

«Buonasera, caro signor Caderousse», disse Montecristo, «che diavolo venite a fare qui, a quest’ora?»

«L’abate Busoni!» gridò Caderousse.

E non sapendo come fosse avvenuta quella strana apparizione, poiché aveva chiuso le porte, lasciò cadere il mazzo di chiavi false. Il conte andò a mettersi fra Caderousse e la finestra, impedendo in tal modo al ladro spaventato la sua unica via di ritirata.

«L’abate Busoni!» ripeté Caderousse, fissando sul conte due occhi stravolti.

«Senza dubbio, l’abate Busoni» ripeté Montecristo, «lui stesso, in persona… E io sono ben contento che mi riconosciate, mio caro Caderousse: questo prova che abbiamo buona memoria, perché, se non sbaglio, sono ormai dieci anni che non ci vediamo.»

Quella calma, ironica e possente, colpì Caderousse e lo spaventò.

«L’abate! L’abate!…» mormorò, serrando i pugni e stringendo i denti.

«Volevate derubare il conte di Montecristo?» continuò il finto abate.

«Signor abate», balbettò Caderousse, cercando di guadagnare la finestra, ostruita senza pietà dal conte, «signor abate, non so… vi prego di credere… vi giuro…»

«Un vetro tagliato», continuò il conte, «una lanterna cieca, un mazzo di grimaldelli, un armadio per metà forzato: l’affare è chiaro.»

Caderousse stropicciava imbarazzato la cravatta, cercava un angolo per nascondersi, un varco per passare.

«Suvvia», continuò il conte, «vedo che siete sempre lo stesso, signor assassino.»

«Signor abate, poiché sapete tutto, saprete che non sono stato io, ma Carconta ciò è stato riconosciuto al processo, poiché non mi hanno condannato che alla galera.»

«Avete dunque scontato la vostra condanna, che vi trovo sulla strada di farvici ricondurre?»

«No, signor abate, sono stato liberato da una persona.»

«Questa persona ha reso un bel servizio alla società…»

«Be’», disse Caderousse, «io avevo promesso…»

«Così voi infrangete doppiamente la legge?» l’interruppe Montecristo.

«Purtroppo, sì…» rispose Caderousse terrorizzato.

«Pessima recidiva… Ciò vi condurrà, se non sbaglio, alla ghigliottina. Tanto peggio, tanto peggio, come dicono al mio Paese.»

«Signor abate, io ho ceduto alla tentazione…»

«Tutti i delinquenti dicono così.»

«Il bisogno…»

«Smettetela!» esclamò sdegnosamente Busoni. «Il bisogno può trascinare a domandare l’elemosina, a rubare un pane alla porta di un fornaio, ma non a forzare un armadio in una casa che si crede disabitata. E quando il gioielliere Joannès venne a contarvi quarantacinquemila franchi, in cambio del diamante che vi avevo dato, e voi lo avete ucciso per avere il diamante e il denaro, fu pure allora il bisogno?»

«Perdono, signor abate», supplicò Caderousse, «voi mi avete salvato una volta, salvatemi ancora una seconda.»

«La vostra condotta mi scoraggia!»

«Siete solo, signor abate?» domandò Caderousse, congiungendo le mani, «o avete di là i gendarmi, già pronti per catturarmi?»

«Sono solo», rispose l’abate, «e avrei ancora pietà di voi, e vi lascerei andare, a rischio che da questa mia debolezza possano venire nuove disgrazie, se mi diceste tutta la verità.»

«Ah, signor abate!» gridò Caderousse, a mani giunte, e avvicinandosi di un altro passo a Montecristo, «posso ben dire che siete il mio salvatore.»

«Voi affermate di essere stato liberato dalla galera?»

«Su questo, parola di Caderousse, signor abate.»

«Chi vi liberò?»

«Un inglese.»

«Come si chiamava?»

«Lord Wilmore.»

«Lo conosco: saprò dunque se mentite.»

«Signor abate, io dico la pura verità.»

«Quest’inglese dunque vi proteggeva?»

«Non proteggeva me, ma un giovane corso mio compagno di catene.»

«Come si chiamava questo giovane corso?»

«Si chiamava Benedetto.»

«Questo è un nome di battesimo.»

«Non ne aveva altri, perché era un bastardo.»

«Allora questo giovane è evaso con voi?»

«Sì.»

«E in che modo?»

«Noi lavoravamo a Saint-Mandrier, vicino a Tolone. Conoscete Saint-Mandrier?»

«Sì, lo conosco…»

«Ebbene nell’ora del riposo, tra mezzogiorno e l’una…»

«I forzati hanno la siesta! Oh, compiangete quei birbanti!» esclamò l’abate.

«Non si può sempre lavorare, non siamo cani», disse Caderousse.

«Fortunatamente per i cani…» riprese Montecristo.

«Mentre dunque gli altri facevano la siesta, noi ci siamo allontanati un poco, abbiamo segato le nostre catene con una lima, che ci aveva fornito l’inglese, e ci siamo salvati a nuoto.»

«E che cosa è avvenuto di Benedetto?»

«Non ne so niente!»

«Eppure dovete saperlo.»

«No, davvero. Ci siamo separati a Hyères.»

E per dare più peso alla sua protesta, Caderousse fece ancora un passo verso l’abate, che rimase sempre immobile e calmo al suo posto, interrogando.

«Voi mentite!» accusò l’abate Busoni, in tono di irresistibile autorità.

«Signor abate!…»

«Voi mentite! Quell’uomo è ancora vostro amico, e voi vi servite di lui come complice.»

«Signor abate!…»

«Da che avete lasciato Tolone, come avete vissuto? Rispondete.»

«Come ho potuto.»

«Voi mentite!» ripeté per la terza volta l’abate, con un accento ancora più imperativo.

Caderousse, spaventato, guardò il conte.

«Voi avete vissuto», riprese questi, «col denaro che vi è stato dato.»

«Ebbene, è vero», confessò Caderousse, «Benedetto è diventato figlio di un gran signore.»

«In che modo può esser figlio di un signore?»

«Figlio naturale.»

«E come si chiama questo gran signore?»

«Il conte di Montecristo, il signore che vive qui.»

«Benedetto figlio del conte?» riprese Montecristo, meravigliato a sua volta.

«Diamine, bisogna ben credere così, poiché il conte gli ha trovato un falso padre, gli passa quattromila franchi al mese, e gli lascia cinquecentomila franchi nel suo testamento.»

«E che nome porta intanto questo giovane?» domandò il falso abate, che cominciava a comprendere.

«Si chiama Andrea Cavalcanti.»

«Allora è il giovane che il mio amico, il conte di Montecristo, riceve in casa sua, e che sta per sposare la figlia del banchiere Danglars?»

«Precisamente.»

«E voi tollerate questa cosa? Impossibile! Voi che ne conoscete la vita e i delitti!»

«Perché volete che impedisca al mio compagno di riuscirvi?» domandò Caderousse.

«È vero, non sta a voi avvisare il signor Danglars, sta a me.»

«Signor abate, voi non lo farete…»

«E perché?»

«Perché in tal modo ci farete perdere il nostro pane.»

«E voi credete che per conservare il pane a due miserabili come voi, voglia farmi fautore dei loro raggiri, complice dei loro delitti!»

«Signor abate…» riprese Caderousse, avvicinandosi.

«Io dirò tutto.»

«A chi?»

«Al signor Danglars.»

«Mille fulmini!» gridò Caderousse, estraendo un coltello dal panciotto già aperto e colpendo il conte nel mezzo del petto.

«Tu non dirai niente, abate!»

Ma, con grande sorpresa di Caderousse, il pugnale, invece di penetrare nel petto del conte, rimbalzò smussato. Nello stesso tempo il conte afferrò con la mano sinistra il polso dell’assassino, e lo contorse con tal forza, che il coltello gli cadde di mano e Caderousse mandò un forte grido di dolore. Il conte, senza fermarsi a quel grido, continuò a torcere il polso del bandito, fino a che, col braccio quasi lussato, egli dapprima cadde in ginocchio, quindi con la faccia contro terra.

Il conte gli appoggiò un piede sulla testa e disse: «Non so chi mi trattenga dallo schiacciarti il cranio, scellerato!»

«Grazia! grazia!» gridò Caderousse.

Il conte ritirò il piede.

«Alzati!» disse.

Caderousse si rialzò.

«Potere di Dio, che mano avete, signor abate», disse, strofinandosi il braccio quasi morto per la stretta patita, «potere di Dio, che forza!»

«Silenzio. Quel Dio, in nome di cui agisco, mi dà la forza di domare una bestia feroce come te, ricordatene, miserabile, e se in questo momento risparmio la tua vita, è per servire ai Suoi scopi.»

«Ahi!» gemette Caderousse tutto dolorante.

«Prendi questa penna e questa carta, e scrivi ciò che ti detto.»

«Non so scrivere, signor abate.»

«Tu menti: prendi questa penna, e scrivi.»

Caderousse soggiogato si sedette e scrisse: «Signore, l’uomo che ricevete in casa vostra e al quale destinate vostra figlia, è un antico forzato, fuggito con me dalla galera di Tolone; egli portava il numero 59 e io il 58. Si chiama Benedetto; ma non sa nemmeno il suo cognome, non avendo mai conosciuto i suoi parenti».

«Firma!» ordinò il conte.

«Ma voi dunque volete rovinarmi?»

«Se volessi rovinarti, imbecille, ti trascinerei fino al primo corpo di guardia; d’altra parte, prima che il tuo biglietto sia recapitato al suo indirizzo, è probabile che tu non abbia più nulla da temere… Firma dunque.»

Caderousse firmò.

«L’indirizzo: Al signor barone Danglars banchiere, rue Chaussée d’Antin.»

Caderousse scrisse l’indirizzo. L’abate prese il biglietto.

«Ora vattene», intimò.

«Da dove?»

«Da dove sei venuto.»

«Volete che esca da questa finestra?»

«Ci sei entrato.»

«Voi meditate qualcosa contro di me, signor abate!»

«Imbecille! Che cosa vuoi ch’io mediti?»

«Perché dunque non aprirmi la porta?»

«A che pro svegliare il portinaio?»

«Signor abate, ditemi che non volete la mia morte.»

«Voglio ciò che vuole Iddio.»

«Ma giuratemi che non mi colpirete mentre scenderò.»

«Sei pur pazzo e vile!»

«Che volete farne di me?»

«Lo domando a te! Ho cercato di fare di te un uomo felice, e non ne ho fatto che un assassino!»

«Signor abate», implorò Caderousse, «tentate una seconda volta.»

«Sia!» disse il conte. «Ascolta, tu sai che sono uomo di parola…»

«Sì», disse Caderousse.

«Se rientri in casa tua sano e salvo…»

«A meno che non venga colpito da voi, che cosa ho da temere?»

«Se rientri in casa tua sano e salvo, lascia Parigi, lascia la Francia, e in qualunque luogo sarai, fino a che ti porterai onestamente, ti farò avere una piccola pensione… Poiché se rientri in casa tua sano e salvo…»

«Ebbene?» domandò Caderousse tremando.

«Io crederò allora che Dio ti ha perdonato, e ti perdonerò anch’io.»

«Quanto è vero che sono cristiano», balbettò Caderousse, facendosi indietro, «voi mi fate morire di paura!»

«Ora vattene!» ordinò il conte mostrando col dito la finestra a Caderousse.

Caderousse, ancora mal rassicurato da quella promessa, scavalcò la finestra, e mise il piede sulla scala. Là si fermò tremando.

«Ora scendi», disse l’abate incrociando le braccia sul petto.

Caderousse capì che non aveva niente da temere da lui e scese. Allora il conte si avvicinò con la candela, e così si poteva distinguere fin dagli Champs-Elysées quell’uomo che scendeva da una finestra illuminata da un altro uomo.

«Che fate, dunque, signor abate?» si spaventò Caderousse. «Se passasse una pattuglia…»

E soffiò sulla candela. Quindi continuò a scendere; ma fu quando sentì il suolo del giardino sotto i piedi, che si credette sufficientemente sicuro. Montecristo rientrò nella sua camera da letto e, gettando un rapido sguardo in giardino, vide Caderousse che, dopo essere sceso, faceva un giro nel giardino, e andava a piantare la sua scala all’estremità del muro, per uscire da una parte diversa da quella da cui era entrato. Quindi, volgendo gli sguardi dal giardino alla strada, vide l’uomo che sembrava aspettare, correre parallelamente nella strada, e rifugiarsi dietro l’angolo stesso, vicino a dove stava per scendere Caderousse.

Caderousse salì lentamente sulla scala, e arrivato agli ultimi gradini, sporse la testa oltre il muro per assicurarsi che la strada fosse del tutto solitaria. Non si vedeva nessuno, non si sentiva alcun rumore. Suonò l’una all’orologio des Invalides. Allora Caderousse si mise a cavalcioni sul muro e tirando a sé la scala la calò dall’altra parte, quindi si mise a scendere, o piuttosto si lasciò strisciare lungo i due montanti, manovra che operò con sveltezza. Ma scivolando lungo la scala non poté fermarsi. Vide un uomo slanciarsi dall’ombra nel momento in cui era a mezza strada, e vide alzarsi un braccio nel momento che toccava terra e prima che potesse difendersi quel braccio lo colpì tanto furiosamente nella schiena, che abbandonò la scala gridando «Soccorso!» Un secondo colpo lo raggiunse quasi subito al fianco, e cadde gridando «All’assassino!» Infine, siccome si rotolava per terra, il suo avversario lo prese per i capelli, e gli diede un terzo colpo nel petto. Questa volta Caderousse volle gridare ancora, ma non poté mandare che un gemito, mentre tre rivoli di sangue sgorgavano dalle tre ferite. L’assassino vedendo che non gridava più, gli sollevò la testa per i capelli: Caderousse aveva gli occhi chiusi e la bocca contorta. L’assassino, credendolo morto, lasciò ricadere la testa e fuggì. Allora Caderousse sentendolo allontanarsi, si raddrizzò sul gomito, e in un supremo sforzo gridò con voce morente: «All’assassino! Io muoio, signor abate accorrete!»

Questa lugubre chiamata passò tra le ombre della notte. Apertasi allora la porta della scala segreta, e poi la porticina del giardino, accorsero coi lumi Alì e il suo padrone.

82. La giustizia di Dio

Caderousse seguitava a gridare con voce lamentosa: «Signor abate, soccorso! soccorso!»

«Che cosa c’è?» domandò Montecristo.

«In mio aiuto, venite!» ripeté Caderousse. «Sono stato assassinato.»

«Eccomi, coraggio.»

«È finita. Voi arrivate troppo tardi, arrivate per vedermi morire. Che colpi! Quanto sangue!»

E svenne; allora Alì e il suo padrone presero il ferito, e lo trasportarono in una camera. Là Montecristo fece segno ad Alì di spogliarlo, e scoprì le tre terribili ferite.

«Dio mio», disse, «la vostra vendetta qualche volta si fa aspettare, ma soltanto, credo, per scendere dal cielo più terribile.»

Alì volse lo sguardo verso il suo padrone come per domandargli ciò che doveva fare.

«Va’ a cercare il procuratore Villefort, che abita nel Faubourg Saint-Honoré e conducilo qui; nel passare sveglierai il portinaio, e digli di andare a cercare un medico.»

Alì obbedì, e lasciò il finto abate solo con Caderousse sempre svenuto. Quando lo sciagurato riaprì gli occhi, il conte, seduto a pochi passi da lui lo guardava con tetra espressione di pietà, e le sue labbra, agitandosi sembravano mormorare una preghiera.

«Un chirurgo, signor abate, un chirurgo!» gemette Caderousse.

«Ho mandato a cercarlo», rispose l’abate.

«So bene che è inutile, ma lui potrà ridarmi della forza, e voglio avere il tempo di fare la mia deposizione.»

«Su cosa?»

«Sul mio assassino.»

«Lo conosci dunque?»

«Sì, l’ho riconosciuto, lo conosco, è Benedetto.»

«Quel giovane corso?»

«Esatto.»

«Il tuo compagno?»

«Sì. Dopo avermi dato il piano della casa del conte, sperando senza dubbio che io l’uccidessi per entrare così in possesso dell’eredità, o che questi uccidesse me, e così sbarazzarsi di me, mi ha aspettato sulla strada e mi ha assassinato.»

«Ho mandato a cercare un medico e a chiamare il procuratore.»

«Giungerà troppo tardi, giungerà troppo tardi», mormorò Caderousse, «sento che tutto il mio sangue se ne va.»

«Aspetta», disse Montecristo. Uscì, e poco dopo rientrò con una boccettina. Gli occhi del moribondo, spaventosamente immobili, non avevano intanto lasciato un istante quella porta dalla quale aspettava qualche soccorso.

«Spicciatevi, signor abate, spicciatevi», disse, «sento che torno a svenire.»

Montecristo si avvicinò, e versò sulle labbra livide del ferito tre o quattro gocce del liquido che conteneva la boccettina. Caderousse mandò un sospiro.

«Oh!» disse, «voi mi versate la vita… Ancora… ancora…»

«Due gocce di più ti ucciderebbero», rispose l’abate.

«Venga dunque qualcuno al quale possa denunciare il miserabile.»

«Vuoi che scriva la tua deposizione? Tu la firmerai.»

«Sì… Sì…» disse Caderousse, con gli occhi sfavillanti per la speranza di questa postuma vendetta.

Montecristo scrisse: «Io muoio assassinato dal corso Benedetto, mio compagno di catena a Tolone sotto il numero 59».

«Spicciatevi! Spicciatevi!» ansimò Caderousse. «O non potrò più firmarla.»

Montecristo passò la penna a Caderousse, che raccolse tutte le forze, firmò, e ricadde sul letto dicendo: «Voi racconterete il resto, signor abate, direte che si fa chiamare Andrea Cavalcanti, che alloggia all’Hôtel des Princes, che… Ah, mio Dio, ecco ch’io muoio!»

E Caderousse svenne per la seconda volta. L’abate gli fece respirare l’odore della boccettina, il ferito riaprì gli occhi, il desiderio di vendetta non lo aveva abbandonato durante lo svenimento.

«Tutto, sì, e altre cose ancora.»

«Dirò che ti aveva dato la pianta di questa casa nella speranza che il conte ti uccidesse: dirò che aveva avvertito il conte con un biglietto; dirò che il conte era assente, e che ho ricevuto io questo biglietto, e vegliato per aspettarti.»

«E sarà ghigliottinato, non è vero?» domandò Caderousse. «Sarà ghigliottinato, me lo promettete? Muoio con questa speranza.»

«Dirò», continuò il conte, «che è giunto dopo di te, che è stato in agguato tutto il tempo che sei stato qui, che quando ti ha visto uscire, è corso all’angolo del muro, si è nascosto…»

«Voi dunque avete visto tutto?»

«Ricordati le mie parole: “Se rientri a casa tua sano e salvo, crederò che Dio ti ha perdonato, e ti perdonerò anch’io pure”.»

«E non mi avete avvertito?» gridò Caderousse cercando di sollevarsi sul gomito. «Sapevate che avrei corso pericolo di essere ucciso uscendo di qui, e non mi avete avvertito!»

«No, perché nella mano di Benedetto io vedevo la giustizia di Dio, avrei creduto di commettere un sacrilegio opponendomi alle intenzioni della Provvidenza.»

«La giustizia di Dio! Non me ne parlate, signor abate, perché se ci fosse, come voi sapete più di chiunque altro, sarebbero punito persone che non lo sono mai.»

«La giustizia di Dio è lenta», disse l’abate con un tono che fece fremere il moribondo, «ma non sbaglia mai… Occorre essere pazienti.»

Caderousse lo guardò con stupore.

«E poi», continuò l’abate, «Dio è pieno di misericordia per tutti, come lo è stato per te: egli è padre prima di essere giudice.»

«Ma come, voi dite di credere in Dio, e m’avete lasciato uccidere?» ribatté Caderousse.

«Se avessi avuto la disgrazia di non crederci fino a ora», replicò Montecristo, «ci crederei vedendoti.»

Caderousse alzò i pugni chiusi al cielo.

«Ascolta», riprese l’abate, stendendo una mano sul ferito, come per imporgli la fede, «guarda che ha fatto per te questo Dio, che non vuoi riconoscere nel tuo ultimo momento: ti aveva dato salute, forza, lavoro sicuro, e anche amici, la vita finalmente, quale può bastare all’uomo perché vi si adatti con la calma della coscienza e la soddisfazione dei desideri, in accordo con la legge divina; invece di essere contento di questi doni del Signore, così raramente accordati da lui nella loro pienezza, guarda che cosa ne hai fatto: ti sei abbandonato alla pigrizia e alla ubriachezza, e nella ubriachezza hai tradito uno dei tuoi migliori amici.»

«Aiuto!» gridò Caderousse. «Non ho bisogno di un prete, ma di un medico! Forse non sono ferito mortalmente, forse non sto ancora per morire, forse posso ancora salvarmi…»

«No, sei ferito mortalmente. Senza le tre gocce del liquido che ti ho dato, saresti già spirato. Ascolta dunque.»

«Siete uno strano prete», mormorò Caderousse. «Invece di consolare i moribondi, li fate disperare.»

«Ascolta», continuò l’abate, «quando hai tradito l’amico, Dio ha cominciato non a punirti, ma ad avvisarti: tu sei caduto nella miseria, hai sofferto la fame, e già pensavi al delitto giustificandoti con la necessità. Quando Dio fece per te un miracolo, e per mio tramite, t’inviò nel pieno della tua miseria una fortuna straordinaria, tu, disgraziato, che non avevi mai posseduto niente, non hai capito. Questa fortuna inattesa, non sperata, inaudita, non ti bastò più dal momento che la possedevi: volesti raddoppiarla, e con quale mezzo? Per mezzo di un omicidio. Tu l’hai raddoppiata, e Dio allora te l’ha tolta, conducendoti davanti all’umana giustizia.»

«Non sono stato io», disse Caderousse, «che ho voluto uccidere l’ebreo, fu la Carconta.»

«Sì», disse Montecristo. «E per questo la misericordia di Dio non volse lo sguardo da te neppure quella volta, perché la sua giustizia ti avrebbe condannato a morte; ma Dio, sempre misericordioso, permise che i tuoi giudici si commovessero alle tue parole, e ti lasciassero la vita.»

«Per condannarmi alla galera a vita! Bella grazia!»

«Questa grazia, miserabile!, tu però la considerasti come una vera grazia quando ti fu fatta. Il tuo cuore vile, che tremava davanti alla morte, sussultò di gioia all’annuncio della tua perpetua infamia, perché dicesti a te stesso, come tutti i forzati: “Nella galera vi è una porta, non una tomba”. E avevi ragione perché la porta della galera si è aperta per te in modo insperato: capita a visitare Tolone un inglese, che aveva fatto voto di salvare due uomini dall’infamia, la sua scelta cade su te e sul tuo compagno, una seconda fortuna scende per te dal cielo: ritrovi denaro e tranquillità, puoi ricominciare a vivere la vita di tutti gli uomini, tu, condannato a vivere soltanto quella dei forzati… Ma allora, miserabile!, allora ritorni a tentare Dio una terza volta. “Io non ho abbastanza”, dicesti, quando avevi più di quello che tu abbia mai posseduto, e commetti un terzo delitto, senza ragione, senza scusa. Dio si è stancato, Dio ti ha punito.»

Caderousse s’indeboliva a vista d’occhio.

«Da bere!» supplicò questi. «Ho sete… io brucio.»

Montecristo gli dette un bicchiere d’acqua.

«Scellerato Benedetto», disse Caderousse, restituendo il bicchiere. «Lui però fuggirà!»

«Nessuno fuggirà, sono io che te lo dico, Caderousse, Benedetto sarà punito.»

«Allora sarete punito voi pure», ribatté Caderousse, «perché non avete fatto il dovere del vostro ministero… voi dovevate impedire a Benedetto di uccidermi…»

«Io?» fece stupito il conte, con un sorriso che agghiacciò di spavento il moribondo. «Io impedire a Benedetto di ucciderti, nel momento in cui tu spezzavi il tuo coltello contro la cotta di maglia che mi copriva il petto? Sì, forse, se ti avessi ritrovato umile e pentito, avrei impedito a Benedetto d’ucciderti, ma ti ho ritrovato orgoglioso e sanguinario, e ho lasciato che si compisse la volontà di Dio.»

«Io non credo in Dio!» urlò Caderousse. «E nemmeno tu ci credi… tu menti… tu menti!»

«Taci», intimò l’abate. «Perderai l’ultima possibilità con le ultime gocce di sangue… Ah, tu non credi in Dio, mentre muori colpito dalla sua tremenda giustizia… Tu non credi in Dio, in Dio che chiede al contrito solo una preghiera, una lacrima per perdonargli… Dio che poteva dirigere il pugnale dell’assassino in modo che tu spirassi sul colpo… Dio ti ha dato un quarto d’ora per pentirti… Rientra dunque in te stesso, disgraziato, e pentiti.»

«No», gemette Caderousse, «no, io non mi pento, non vi è Dio, non c’è Provvidenza!»

«Vi è Dio, c’è Provvidenza», replicò Montecristo, «e la prova è questa, che tu sei là gemente, disperato, rinnegando Dio, e io sono qui, ritto davanti a te, ricco, felice, sano e salvo, e giungendo le mani davanti a questo Dio, al quale benché ti sforzi di non credere, pur credi nel fondo del cuore.»

«Ma chi siete voi dunque allora?» domandò Caderousse fissando gli occhi moribondi sul conte.

«Guardami bene», disse Montecristo, prendendo il lume, e avvicinandoselo al volto.

«L’abate… l’abate Busoni.»

Montecristo si levò la parrucca che lo sfigurava, e lasciò ricadere i bei capelli neri che gli abbellivano il pallido viso.

«Oh!» mormorò Caderousse spaventato. «Se non fossero questi capelli neri, direi che siete l’inglese, direi che siete lord Wilmore.»

«Io non sono né Busoni, né lord Wilmore», disse Montecristo. «Guardami meglio, guarda più lontano nei tuoi primi ricordi.»

Alle parole vibranti del conte, il moribondo fu come rianimato.

«Infatti», disse, «mi sembra di avervi visto, di avervi conosciuto, in altri tempi.»

«Sì, Caderousse, sì tu mi hai conosciuto, sì tu mi hai visto.»

«Ma chi siete allora? E perché, se mi avete visto, se mi avete conosciuto, perché mi lasciate morire?»

«Perché non c’è nulla che possa salvarti, Caderousse, le tue ferite sono mortali. Se tu avessi potuto essere salvato, avrei intravisto un’ultima misericordia del Signore, e sarei accorso per restituirti alla vita e al pentimento, te lo giuro sulla tomba di mio padre!»

«Sulla tomba di tuo padre!» ripeté Caderousse rianimato da un’ultima scintilla, e sollevandosi per osservare più da vicino l’uomo che faceva questo giuramento, sacro a tutti gli uomini. «Ma chi sei dunque?»

Il conte non aveva cessato di osservare il progredire dell’agonia; capì che questo slancio di vita era l’ultimo, si avvicinò al moribondo, e fissandolo con uno sguardo calmo e triste a un tempo, mormorò all’orecchio: «Io sono…»

E le labbra, appena aperte, lasciarono passare un nome pronunciato così sottovoce, che il conte sembrava temesse di sentirlo lui stesso. Caderousse, che si era alzato sulle braccia, fece uno sforzo per tirarsi indietro, poi congiungendo le mani e alzandole con un estremo sforzo, disse: «Mio Dio, mio Dio! Perdono! Voi esistete, sì, voi esistete, e nella vostra infinita misericordia e giustizia, voi siete il padre, il giudice degli uomini. Mio Dio e Signore, io non vi ho per lungo tempo conosciuto! Mio Dio e Signore, perdonatemi! Mio Dio e Signore, ricevetemi!»

Caderousse chiuse gli occhi e cadde all’indietro con un ultimo grido, con un ultimo sospiro. Il sangue si fermò subito sulle larghe ferite. Era morto.

«Uno!» disse misteriosamente il conte, con gli occhi fissi sul cadavere già sfigurato dalla terribile morte.

Dieci minuti dopo, il medico e il procuratore giunsero condotti, l’uno dal portinaio, l’altro da Alì, e furono ricevuti dall’abate Busoni che pregava vicino al morto.

83. Beauchamp

Per quindici giorni non si discusse d’altro a Parigi che del tentativo di furto, effettuato con tanta audacia in casa del conte: il moribondo aveva firmato una dichiarazione che indicava in Benedetto il suo assassino. La polizia venne invitata a lanciare tutti i suoi agenti sulle tracce dell’omicida. Il coltello di Caderousse, la lanterna cieca, il mazzo di grimaldelli e gli abiti, meno il panciotto che non poté ritrovarsi, furono depositati alla polizia; il corpo fu trasportato alla Morgue. Il conte rispondeva a tutti, che quest’avventura era accaduta mentre era nella sua casa d’Auteuil, e di conseguenza, sapeva soltanto ciò che aveva raccontato l’abate Busoni, che quella sera, per una strana combinazione gli aveva chiesto di poter passare la notte in casa sua, per consultare alcuni libri preziosi della sua biblioteca. Bertuccio solo impallidiva tutte le volte che veniva pronunciato in sua presenza il nome di Benedetto, ma non c’era motivo perché qualcuno notasse il pallore di Bertuccio. Villefort, chiamato a constatare il delitto, aveva reclamato per sé l’affare, e avviato l’istruzione con quell’ardore appassionato che metteva in tutte le cause criminali. Ma erano già passate tre settimane senza che le ricerche più attive avessero condotto ad alcun risultato, e nell’alta società cominciavano a dimenticare il furto tentato nella casa del conte, e l’assassinio del ladro commesso dal suo complice, per occuparsi del vicino matrimonio della signorina Danglars col principe Andrea Cavalcanti.

Tale matrimonio era quasi dichiarato, e il giovane veniva ricevuto in casa del banchiere con il titolo di fidanzato. Era stato scritto al signor Cavalcanti padre, che aveva inviato la propria approvazione al matrimonio, esprimendo tutto il suo dispiacere perché il servizio gli impediva assolutamente di lasciare l’arma dove era di guarnigione, e confermando un capitale di centocinquantamila lire di rendita. Era convenuto che i tre milioni sarebbero stati collocati presso la banca di Danglars, dove il banchiere stesso li avrebbe fatti fruttare; alcune persone avevano tentato di insinuare dei dubbi al giovane sulla solidità della posizione del suo futuro suocero, che da qualche tempo sopportava in Borsa reiterate perdite, ma il giovane con sublime disinteresse rigettò tutti questi tentativi, sui quali ebbe la delicatezza di non dire neppure una parola al barone. Per questo il barone adorava il principe Andrea Cavalcanti. Non era però lo stesso per la signorina Danglars. Nel suo odio istintivo contro il matrimonio, aveva accolto Andrea per allontanare Morcerf, ma ora che Andrea si avvicinava troppo, incominciava a provare per lui una visibile repulsione. Forse il barone se ne era accorto, ma siccome non poteva attribuire questa repulsione che a un capriccio, aveva fatto finta di non vedere.

Frattanto la dilazione chiesta da Beauchamp era quasi trascorsa.

Morcerf, da parte sua, aveva potuto apprezzare il valore del consiglio di Montecristo, quando questi gli aveva detto di lasciar cadere le cose: nessuno aveva rilevato la nota sul generale, a nessuno era venuta l’idea di riconoscere nell’ufficiale che aveva venduto la fortezza di Giannina, il nobile conte che sedeva alla Camera dei Pari. Però questo non era servito a placare Albert, che si credeva insultato, perché in quelle poche righe che lo avevano ferito c’era certamente l’intenzione di offenderlo e inoltre, il modo con cui Beauchamp aveva terminato il colloquio, gli aveva lasciato amare sensazioni nel cuore. Egli dunque accarezzava l’idea di quel duello, del quale sperava, con la collaborazione di Beauchamp, di nascondere la causa reale persino ai suoi padrini. In quanto a Beauchamp, nessuno lo aveva più visto dopo il giorno della visita fattagli da Albert, e a tutti quelli che andavano a domandare di lui rispondevano che era assente per un viaggio di qualche giorno. Dove fosse andato nessuno lo sapeva.

Una mattina Albert fu svegliato dal suo cameriere, che gli annunciò Beauchamp. Albert si strofinò gli occhi, ordinando che facessero aspettare Beauchamp nella saletta al pianterreno e vestitosi velocemente scese da lui. Trovò Beauchamp che passeggiava per la stanza; non appena lo vide, Beauchamp si fermò.

«Presentandovi in casa mia senza aspettare la visita che contavo di farvi oggi appunto, mi fate molto piacere, signore», cominciò Albert. «Ditemi, presto, debbo tendervi la mano dicendo: “Beauchamp, confessate un torto, e conservatemi un amico”, o domandarvi semplicemente: “Quali sono le vostre armi?”»

«Albert», iniziò Beauchamp, con una tristezza che colpì il giovane di stupore, «sediamoci prima, e parliamo.»

«Mi pare, al contrario, signore, che prima di sederci dobbiate rispondermi.»

«Albert», disse il giornalista, «vi sono circostanze in cui la difficoltà sta precisamente nella risposta.»

«Io ve la renderò facile, signore, ripetendovi la domanda: volete voi ritrattare, sì, o no?»

«Morcerf, non bisogna limitarsi a rispondere sì o no alle domande che interessano l’onore, la posizione sociale, la vita di un uomo qual è il conte Morcerf, Pari di Francia…»

«E che cosa si fa allora?»

«Si fa tutto ciò che ho fatto io, Albert. Si dice: il denaro, il tempo e la fatica sono nulla, allorché si tratta della reputazione e degli interessi di un’intera famiglia; si dice: se incrocio la spada o stringo una pistola puntandola sopra un uomo al quale per due anni ho stretto la mano, bisogna ch’io sappia almeno perché faccio una cosa simile, affinché possa giungere sul terreno col cuore calmo, e con la coscienza tranquilla necessaria a un uomo quando deve col suo braccio salvarsi la vita…»

«Ebbene?» domandò Morcerf con impazienza. «Che vuol dire tutto ciò?»

«Vuol dire che vengo da Giannina.»

«Da Giannina? Voi!»

«Sì, io.»

«Impossibile!»

«Mio caro Albert, ecco il mio passaporto; guardate i visti! Ginevra, Milano, Venezia, Trieste, Delvino, Giannina. Credete voi alla polizia di una repubblica, di un regno, di un impero?»

Albert gettò gli occhi sul passaporto, e li rialzò meravigliato su Beauchamp.

«Voi siete stato a Giannina!» esclamò.

«Albert, se foste uno straniero, uno sconosciuto, un semplice lord, come quell’inglese che tre o quattro mesi fa venne a chiedermi soddisfazione, e che ho ucciso per sbarazzarmene, voi mi capirete che non mi sarei dato una briga simile; ma ho creduto di dovervi dare questo segno di stima. Ho impiegato otto giorni nell’andata, otto giorni nel ritorno, più quattro giorni di quarantena, e quarantotto ore di soggiorno; tutto questo in tre settimane. Sono giunto questa notte, ed eccomi qua.»

«Mio Dio, quanti giri di parole, Beauchamp, e quanto tardate a dirmi ciò che aspetto da voi!»

«Ed è la verità, Albert.»

«Si direbbe che esitate.»

«Sì, ho paura.»

«Avete paura di confessare che il vostro corrispondente vi aveva ingannato? Oh, dimenticate l’amor proprio, Beauchamp, confessate! Il vostro coraggio non può essere messo in dubbio.»

«Non è questo», mormorò il giornalista, «al contrario…»

Albert impallidì spaventosamente, tentò di parlare, ma la parola gli morì sulle labbra.

«Amico mio», disse Beauchamp, col tono più affettuoso, «credetemi, sarei felice di potervi fare le mie scuse, e ve le farei di tutto cuore, ma ahimè!…»

«Ma…?»

«La nota aveva ragione, amico mio.»

«Come, quell’ufficiale francese…»

«Sì.»

«Quel Fernando?»

«Sì.»

«Quel traditore che cedette la fortezza dell’amico di cui era al servizio?…»

«Perdonatemi, amico mio, ma devo dirvi che quell’uomo è vostro padre!»

Albert fece un movimento furioso per lanciarsi sopra Beauchamp, ma questi lo trattenne, più con la dolcezza dello sguardo che con la fermezza della mano.

«Guardate, amico mio», disse prendendo un foglio dalla tasca, «eccone la prova.»

Albert aprì il foglio: era un attestato di quattro dei più nobili abitanti di Giannina che provavano come il colonnello Fernando Mondego, colonnello istruttore al servizio del visir Alì Tebelin, aveva ceduto la fortezza di Giannina, ricevendone in compenso duemila borse di monete d’oro. Le firme erano legalizzate dal console.

Albert vacillò, e cadde sopra una sedia. Questa volta non c’era più alcun dubbio, il nome della sua famiglia era disonorato. Così, dopo un momento di silenzio e di dolore, il cuore gli si gonfiò, si inturgidirono le vene del collo, e gli sgorgò dagli occhi un torrente di lacrime. Beauchamp, che aveva guardato il giovane con profonda pietà mentre cedeva al dolore, si avvicinò a lui.

«Albert», gli disse, «ora mi capite, non è vero? Ho voluto veder tutto, giudicare tutto di persona, sperando che la spiegazione sarebbe stata favorevole a vostro padre, e che avrei potuto rendergli una completa giustizia. Ma, al contrario, le informazioni prese comprovano che questo ufficiale istruttore, che questo Fernando Mondego, elevato da Alì Pascià al titolo di governatore generale, non è altro che il conte Fernando Morcerf; allora sono ritornato, ricordandomi dell’onore che mi avete fatto di ammettermi alla vostra amicizia, e sono corso da voi.»

Albert, sempre immobile sulla seggiola, teneva le mani sugli occhi, quasi avesse voluto impedire alla luce di arrivare fino a lui.

«Sono accorso», continuava Beauchamp, «per dirvi: Albert, gli errori dei nostri padri non possono ricadere sui figli. Albert, pochissimi hanno attraversato le rivoluzioni, in mezzo alle quali siamo nati, senza che qualche macchia di fango o di sangue abbia lordato loro l’uniforme da soldato, o la toga da giudice. Albert, nessuno al mondo, ora che ne ho tutte le prove, ora che sono padrone del vostro segreto, può obbligarmi a un duello che la vostra coscienza, ne sono certo, si rimprovererebbe come un delitto; ma ciò che voi non potete esigere da me, io stesso vengo a offrirvelo. Queste prove, queste rivelazioni, questi attestati che io solo possiedo, volete che scompaiano? Volete che questo terribile segreto resti fra voi e me? Confidate nella mia parola d’onore? Il segreto non uscirà mai dalla mia bocca. Dite, lo volete, Albert, dite, lo volete voi?»

Albert si lanciò al collo di Beauchamp.

«Ah, nobile cuore!» gridò egli.

«Prendete», disse Beauchamp, presentando il foglio ad Albert.

Albert lo afferrò con mano tremante, lo strinse, lo spiegazzò, pensò di stracciarlo, ma, temendo che la più piccola particella trasportata dal vento non venisse un giorno a far riemergere la vicenda, andò alla candela, sempre accesa per i sigari, e ne consumò fin l’ultimo frammento.

«Caro amico, ottimo amico!» mormorò Albert mentre bruciava la carta.

«Ora tutto sia dimenticato come un cattivo sogno», riprese Beauchamp, «e se ne disperda la memoria, come svaniscono queste ultime scintille che scorrono sulla carta annerita, e quest’ultimo fumo che sfugge da queste mute ceneri.»

«Sì, sì», disse Albert, «e rimanga soltanto l’eterna amicizia che trasmetteremo ai nostri figli, amicizia che mi ricorderà sempre che il sangue delle mie vene, la vita del mio corpo, l’onore del mio nome, lo debbo soltanto a voi. Perché se tal cosa fosse stata conosciuta, oh, Beauchamp, vi dichiaro che mi sarei bruciato le cervella… Oh no, povera madre, non avrei voluto ucciderla con lo stesso colpo, sarei stato espatriato.»

«Caro Albert!» mormorò Beauchamp.

Ma il giovane perse ben presto quella gioia inattesa e, per così dire, fatidica, e ricadde più profondamente nella sua tristezza.

«Ebbene», domandò Beauchamp, «ditemi, che cosa c’è di nuovo, amico mio?»

«C’è», riprese Albert, «che qualche cosa mi lacera il cuore. Ascoltate, Beauchamp. Non è possibile a un figlio spogliarsi così in un attimo di quel rispetto, di quella confidenza e di quell’orgoglio che gli ispirava il nome immacolato di suo padre. Oh, Beauchamp, come potrò ora presentarmi a lui? Come potrò offrirgli la fronte e le guance, quando avvicinerà le sue labbra? Ritirerò la mano quando mi tenderà la sua?… Beauchamp, io sono il più infelice degli uomini. Ah, madre mia, mia povera madre», sospirò Albert, guardando attraverso occhi pieni di lacrime il ritratto di sua madre, «se veniste a saperlo quanto soffrireste!»

«Coraggio», disse Beauchamp tendendogli le mani, «coraggio, amico!»

«Ma da dove veniva quella prima nota inserita nel vostro giornale?» gridò Albert. «Dietro a tutto ciò, c’è un odio sconosciuto, un nemico invisibile.»

«Ebbene», continuò Beauchamp, «ragione di più. Coraggio, Albert! Non fate comparire alcuna traccia di emozione sul volto, portate questo dolore in voi, come la nube porta in sé la rovina e la morte, segreto fatale che si comprende soltanto nel momento in cui scoppia la tempesta. Andate, amico, serbate le vostre forze per il momento di questo scoppio.»

«Voi credete dunque che non siamo giunti al termine?» domandò Albert spaventato.

«Io non credo niente, amico mio, ma tutto è possibile. A proposito…»

«Cosa?…» domandò Albert, vedendo che Beauchamp esitava.

«Sposate sempre la signorina Danglars?»

«Perché mi fate questa domanda in un momento simile?»

«Perché penso che la rottura o il compimento di questo matrimonio sia in relazione con ciò che ci preoccupa in questo momento.»

«In che modo?» si stupì Albert. «Voi credete che il signor Danglars…»

«Vi domando soltanto a che punto siete con questo matrimonio. Che diavolo! Non date alle mie parole altro senso di quello che vi do io, né importanza maggiore di quella che hanno.»

«No», rispose Albert, «il matrimonio è andato a monte.»

«Bene», disse Beauchamp.

Quindi, vedendo che il giovane ricadeva nella sua malinconia, continuò: «Sentite, Albert, un giro al Bois in calesse o a cavallo vi distrarrà… Torneremo per far colazione da qualche parte e poi torneremo ciascuno ai propri affari.»

«Volentieri», acconsentì Albert, «ma usciamo a piedi; mi sembra che un po’ di moto mi farà bene.»

«D’accordo», disse Beauchamp.

E i due amici uscendo a piedi s’avviarono verso il boulevard. Giunti alla Madeleine, Beauchamp riprese: «Sentite, dato che siamo di strada, andiamo un po’ a trovare il conte di Montecristo, egli vi distrarrà… È un uomo eccezionale nel riconfortare gli spiriti, e non fa mai domande, e a mio avviso, la gente che non fa domande, è la più abile consolatrice».

«Andiamo pure», disse Albert, «andiamo da lui, mi fa piacere.»

84. Il viaggio

Alla vista dei due giovani, Montecristo proruppe in un grido di gioia.

«Oh!» esclamò. «Spero che tutto sia finito, spiegato, accomodato…»

«Sì», disse Beauchamp. «Voci assurde che sono cadute da se stesse, e che ora, se si rinnovassero, mi avrebbero per loro primo antagonista. Non ne parliamo dunque più.»

«Albert vi dirà», riprese il conte, «ch’io gli avevo dato il medesimo consiglio. Ma osservate», aggiunse, «che terribile mattina sto passando…»

«E che cosa fate? Mi sembrate occupato a mettere in ordine le vostre carte.»

«Le mie carte? Grazie a Dio, no! Nelle mie carte c’è sempre ordine, un ordine meraviglioso, poiché non ne ho… Queste sono le carte del signor Cavalcanti.»

«Del signor Cavalcanti?» domandò Beauchamp.

«Eh sì, sapete bene, quel giovanotto lanciato in società dal conte», spiegò Morcerf.

«No davvero», continuò Montecristo, «io non ho lanciato nessuno, e il signor Cavalcanti meno di chiunque altro.»

«E che sposerà la signorina Danglars al posto mio, cosa che», sottolineò Albert, sforzandosi di sorridere, «come potete bene immaginare, mi addolora profondamente, mio caro Beauchamp.»

«E che? Venite forse dai confini del mondo?» domandò Montecristo. «Voi, giornalista, sposato alla signora Fama! Ne parla tutta Parigi.»

«E siete voi, signor conte, ad aver combinato questo matrimonio?» domandò Beauchamp.

«Io? Ehi, silenzio, mio signor scribacchino! Non raccontate simili cose: io, mio Dio, combinare un matrimonio! No, voi non mi conoscete. Mi ci sono anzi opposto con tutto il mio potere, ho rifiutato di fare la domanda.»

«Capisco», disse Beauchamp, «a causa del nostro amico Albert?»

«Per causa mia?» saltò su il giovane. «Oh, no, davvero! Il conte può testimoniare che l’ho sempre pregato, al contrario, di ostacolare questo progetto, che fortunatamente è fallito. Il conte pretende di non essere lui quello che devo ringraziare, sia, innalzerò, come gli antichi, un altare al dio ignoto.»

«Ascoltate», riprese Montecristo, «ho avuto così poca parte in questo affare, che sono ricevuto freddamente dal futuro genero, dal giovane. La sola che mi abbia conservato un po’ di affetto, è la signorina Eugénie, alla quale, come noto, ero ben lontano dall’idea di far perdere la sua cara libertà.»

«E dite che questo matrimonio è sul punto di realizzarsi?»

«Mio Dio, sì, malgrado tutto ciò che ho potuto dire. Io non conosco il giovane; affermano che sia ricco e di buona famiglia, ma per me tali cose non sono che un semplice “si dice”. Ho ripetuto tutto questo a sazietà, al signor Danglars, ma lui si è incapricciato del suo lucchese. Sono perfino giunto a confidargli una circostanza, che per me è gravissima: il giovane è stato, non so bene se scambiato a balia, rapito dagli zingari o perduto dal suo precettore. Ma quello che so è che suo padre è stato senza vederlo per più di dieci anni; ciò che ha fatto durante questi dieci anni di vita errante, Dio solo lo sa. Mando loro le sue carte, ma come Pilato, me ne lavo le mani.»

«E la signorina d’Armilly», domandò Beauchamp, «come vi tratta, visto che le portate via la sua allieva?»

«Non ne so molto, ma sembra che parta per l’Italia. La signorina Danglars mi ha parlato di lei, e domandato lettere per gli impresari: le ho dato due righe per il direttore del teatro Valle, che mi deve qualche favore. Ma che cosa avete dunque, Albert? Mi sembrate ben triste: sareste forse, senza accorgervene, innamorato della signorina Danglars, per esempio?»

«No, ch’io sappia…» mormorò Albert sorridendo amaramente.

Beauchamp si mise a guardare i quadri.

«Però», continuò Montecristo, «non siete del solito umore. Sentiamo, che cosa avete? Dite.»

«Ho l’emicrania», disse Albert.

«Ebbene, mio caro visconte», riprese Montecristo, «io ho per questi casi un rimedio infallibile, rimedio che ha sempre funzionato ogni volta che ho avuto qualche fastidio.»

«E quale?» domandò il giovane.

«Partire.»

«Davvero?» disse Albert.

«Sì, e sentite: siccome in questo momento ho diversi fastidi, me ne vado. Volete venire con me?»

«Voi dei fastidi, signor conte?» si stupì Beauchamp. «E perché?»

«Voi ne parlate con molta indifferenza… Vorrei veder voi con un processo che si istruisce in casa vostra!»

«Un processo! Che processo?»

«Quello che il signor Villefort istruisce contro il mio amabile assassino, una specie di brigante fuggito di galera, a quanto sembra.»

«È vero», disse Beauchamp, «ho saputo di quest’affare al giornale. Chi è questo Caderousse?»

«Mi sembra sia un provenzale. Il signor Villefort ne ha sentito parlare quando era a Marsiglia, e il signor Danglars si ricorda d’averlo già visto. Ne risulta che il procuratore prende l’affare assai a cuore, molto più di quanto abbia, a quanto sembra, interessato il prefetto di polizia, e questo interesse, di cui gli sono riconoscente, mi fa inviare tutti i banditi che si possono raccogliere a Parigi e nelle vicinanze, sotto pretesto ch’essi sono gli assassini di Caderousse, e ne risulta che in tre mesi, se continua così, non vi sarà più un ladro o un assassino in questo regno, che non conosca la pianta della mia casa sulla punta delle dita. Per cui decido di abbandonarla loro interamente, e di andarmene lontano quanto mi potrà portare la terra. Venite con me, visconte?»

«Sì, volentieri!»

«Allora è deciso?»

«Sì, ma dove andremo?»

«Ve l’ho detto, dove l’aria è più pura, e tutto è silenzio, dove, per quanto uno sia orgoglioso, si sente umile e si ritrova piccolo. Malgrado mi chiamino padrone dell’universo come Augusto, a me piace questa umiliazione.»

«Ma infine dove andate?»

«Al mare, visconte, al mare. Io sono un marinaio, sapete… Da bambino sono stato cullato fra le braccia del vecchio Oceano, e sul seno della bella Anfitrite; ho giocato col mantello verde dell’uno e con la sottana azzurra dell’altra. Amo il mare come si può amare un’amica, e quando è lungo tempo che non lo vedo, mi vengono le smanie.»

«Andiamo, conte, andiamo…»

«Al mare?»

«Sì.»

«Accettate?»

«Accetto.»

«Ebbene visconte, questa sera nel mio cortile ci sarà una carrozza da viaggio in cui uno può stendersi come nel proprio letto; ci saranno attaccati quattro cavalli da posta. Signor Beauchamp, quattro persone ci stanno comodamente. Volete venir con noi? Vi prendo con me.»

«Grazie, arrivo ora dal mare.»

«Come, venite dal mare?»

«Sì, o quasi, ritorno da un piccolo viaggio alle isole Borromee.»

«Che importa… Venite lo stesso!» ripeté Albert.

«No, caro Morcerf, dal modo come rifiuto, dovete capire che la cosa è impossibile. D’altra parte è necessario ch’io resti a Parigi», replicò, parlando a bassa voce, «non fosse altro, che per sorvegliare la cassetta del giornale.»

«Voi siete un ottimo ed eccellente amico!» disse Albert. «Sì, avete ragione, vegliate, sorvegliate, Beauchamp e cercate di scoprire l’autore di quella nota.»

Albert e Beauchamp si separarono; la loro ultima stretta di mano esprimeva tutto ciò che le loro labbra non potevano dire davanti allo straniero.

«È un eccellente giovane questo Beauchamp», disse Montecristo, dopo la partenza del giornalista, «non è vero, Albert?»

«Sì, un uomo di cuore, ve lo garantisco; per questo io l’amo con tutta l’anima. Ma ora che siamo soli, sebbene per me sia lo stesso, dove andiamo?»

«In Normandia, se non vi spiace.»

«A meraviglia. Saremo in campagna, non è vero? Nessuna compagnia, nessun vicino?»

«Saremo a quattr’occhi con cavalli per correre, cani per cacciare, barche per pescare, ed ecco tutto.»

«È quello che mi serve. Vado ad avvertire mia madre, e sono ai vostri ordini.»

«Ma», disse Montecristo, «vi daranno il permesso?»

«Di che?»

«Di venire in Normandia…»

«A me? E perché? Non sono più libero?»

«Di andare dove vi piace, da solo, lo so bene, dato che vi ho incontrato in giro per l’Italia…»

«E allora?»

«Ma venire con l’uomo misterioso che si chiama conte di Montecristo…»

«Avete poca memoria, conte.»

«Perché?»

«Non vi ho parlato di tutta la simpatia che ha per voi mia madre?»

«Spesso la donna cambia, ha detto Francesco I: la donna è un’onda, ha detto Shakespeare: l’uno fu un gran re, l’altro un gran poeta, ed entrambi dovevano conoscere la donna.»

«Sì, la donna, ma mia madre non è la donna, è una donna.»

«Scusatemi, se, da straniero, non arrivo a capire tutta la sottigliezza contenuta in questo gioco di parole!»

«Voglio dire che mia madre è avara dei suoi affetti, ma, quando li ha concessi una volta, è per sempre.»

«Davvero?» sospirò Montecristo. «E credete che mi faccia l’onore di sentire per me qualche cosa di più di una perfetta indifferenza?»

«Ve l’ho già detto e ve lo ripeto», rispose Morcerf, «voi siete un uomo straordinario e superiore agli altri.»

«Oh!»

«Sì, poiché mia madre si è lasciata prendere, non dirò dalla curiosità, ma dall’interesse che avete saputo ispirarle. Quando noi siamo soli non parliamo che di voi.»

«Vi dice dunque di non fidarvi di questo Manfredi?»

«Al contrario, mi dice: “Albert, io credo che il conte abbia un nobile carattere; cerca di farti amare da lui”.»

Montecristo girò gli occhi e sospirò.

«Davvero?» disse.

«Di modo che, come ben capirete», continuò Albert, «invece di opporsi al mio viaggio, lo approverà di tutto cuore, poiché coincide con le raccomandazioni che mi fa ogni giorno.»

«Andate dunque», lo invitò Montecristo. «Questa sera siate qui alle cinque, noi arriveremo laggiù a mezzanotte o all’una.»

«Come a Tréport…?»

«Tréport o nei dintorni.»

«Otto ore appena per fare quarantotto leghe?»

«È anche troppo», osservò Montecristo.

«Voi siete decisamente l’uomo dei prodigi, e giungerete non solo a superare le ferrovie, cosa non molto difficile in Francia, ma anche a correre più presto d’una notizia telegrafica.»

«Tuttavia, visconte, siccome ci vogliono sempre sette od otto ore per giungere laggiù, siate puntuale.»

«State tranquillo: non ho nient’altro da fare fino ad allora, se non prepararmi.»

«Alle cinque dunque.»

«Alle cinque.»

Albert sorrise, Montecristo dopo avergli fatto, sorridendo, un segno con la testa, stette per un istante pensieroso, e come assorto da una profonda meditazione. Finalmente, passandosi la mano sulla fronte come per allontanare una visione, andò al campanello e batté due colpi. Subito dopo, entrò Bertuccio.

«Bertuccio», cominciò, «ho deciso di andare in Normandia non dopodomani, né domani, come avevo pensato, ma questa sera stessa. Da qui alle cinque c’è più tempo di quello che occorre: farete preparare i cavalli della prima posta. Mi accompagna il signor Morcerf. Andate.»

Bertuccio obbedì, e un corriere corse a Pontoise ad annunciare che la carrozza da posta sarebbe passata alle sei precise; il palafreniere di Pontoise ne inviò un altro alla seconda posta, e questi un altro alla terza; e sei ore dopo, tutte le stazioni di cambio disposte lungo la linea erano avvertite.

Prima di partire il conte salì da Haydée ad avvertirla che partiva, dicendole per dove, e mise tutta la casa ai suoi ordini.

Albert fu puntuale. Il viaggio, taciturno all’inizio, divenne presto espansivo per l’effetto della rapidità. Morcerf non aveva idea di tanta celerità.

«Infatti», disse Montecristo, «con la vostra posta che fa due leghe l’ora, con quella stupida legge che proibisce ai viaggiatori di sorpassarsi l’un l’altro senza averne ottenuto il permesso, in modo che un viaggiatore ammalato ha diritto di far stare dietro a sé i viaggiatori sani che hanno fretta, non è possibile andare sulle strade pubbliche; evito questo inconveniente, viaggiando col mio postiglione e i miei cavalli. Non è vero Alì?»

E il conte sporse la testa dallo sportello, ed emise un piccolo grido di eccitazione che mise le ali ai piedi dei cavalli; non correvano più, volavano. La carrozza andava come un fulmine, sulla strada regia, e ciascuno si voltava per veder passare la meteora. Alì, ripetendo quel grido, sorrideva mostrando i denti bianchi, e, stringendo fra le robuste mani le redini spumeggianti, spronava i cavalli, le cui criniere fremevano al vento; Alì, il figlio del deserto, si trovava nel suo elemento, e col viso nero, gli occhi ardenti, il mantello bianco come neve, sembrava in mezzo alla polvere che si sollevava, il genio delle tenebre e il dio degli uragani.

«Ecco», disse Morcerf, «un piacere che io non conoscevo, il piacere della velocità.»

E le ultime nubi sulla sua fronte si dissiparono, come se l’aria che fendeva le avesse portate via con sé.

«Ma dove diavolo trovate simili cavalli?» domandò Albert. «Li fate forse fare apposta?»

«Esatto», rispose il conte. «Sei anni fa trovai in Ungheria un famoso stallone rinomato per la sua velocità; lo comprai non so bene per quanto, perché lo pagò Bertuccio. Nello stesso anno ebbe trentadue figli: stiamo vagliando tutta la sua prole. Essi sono tutti uguali, neri, senza alcuna macchia, fuorché una stella in fronte, perché a questa privilegiata razza furono destinate tutte cavalle scelte, come si scelgono ai pascià le favorite.»

«Ammirabile! Ma, ditemi, conte, che ne fate di tutti questi cavalli?»

«Lo vedete, viaggio.»

«Ma non viaggiate sempre…»

«Quando non ne avrò più bisogno, Bertuccio li venderà, e scommetto che ci guadagnerà trenta o quarantamila franchi.»

«Ma in Europa non ci sarà principe così ricco da comprarli.»

«Allora li venderò a qualche semplice visir d’Oriente, che vuoterà il suo tesoro per comprarli, e lo riempirà poi di nuovo facendo somministrare bastonate sotto la pianta dei piedi ai sudditi.»

«Conte, volete che vi dica un pensiero che mi è venuto?»

«Ditelo.»

«Dopo voi, il signor Bertuccio deve essere il più ricco privato d’Europa.»

«Vi sbagliate, visconte, sono sicuro che se rovesciate le tasche di Bertuccio non ci troverete il valore di dieci soldi.»

«E perché?» domandò il giovane. «Il signor Bertuccio è dunque un fenomeno? Ah, mio caro conte, non mi ingolfate troppo nel favoloso, o io non crederò più, vi avverto.»

«Non troverete mai il favoloso vicino a me, Albert: cifre e ragione, ecco tutto. Ora ascoltate questo dilemma: un intendente ruba, ma perché ruba?»

«Perché è nella sua natura mi pare», rispose Albert, «ruba per rubare.»

«No, v’ingannate. Ruba perché ha moglie, figli, desideri ambiziosi per sé e per la famiglia; ruba perché non è sicuro di star sempre col suo padrone, vuol farsi un avvenire. Ebbene, il signor Bertuccio è solo al mondo, fa uso della mia borsa senza renderne conto, è sicuro di non lasciarmi mai.»

«E perché?»

«Perché non potrei trovarne uno migliore.»

«Voi vi aggirate in un circolo vizioso quale è quello delle probabilità.»

«Oh no, sono in quello delle certezze: il buon servitore, per me, è quello sul quale ho diritto di vita e di morte.»

«E avete questo diritto sopra Bertuccio?»

«Sì», rispose freddamente il conte.

Vi sono parole che chiudono il discorso come una porta di ferro; il sì del conte era una di queste. Il resto del viaggio si compì con la stessa celerità; i trentadue cavalli divisi in otto poste, fecero le loro quarantasette leghe in otto ore. Nel cuor della notte giunsero alla porta di un bel parco; il portinaio era in piedi, e teneva il cancello aperto, essendo stato avvertito dal palafreniere dell’ultima posta. Erano le due e mezzo del mattino; Albert fu condotto nel suo appartamento, dove trovò pronto un bagno e la cena. Il domestico, che aveva fatto la strada sul sedile dietro la carrozza, fu messo a sua disposizione. Battistino, che aveva fatto la strada sul sedile davanti, era agli ordini del conte.

Albert fece il bagno, cenò, e se ne andò a letto. Tutta la notte fu cullato dal malinconico rumore delle onde. Alzandosi, andò direttamente alla finestra, e apertala si trovò sopra un piccolo terrazzo affacciato sulla distesa del mare, nella parte posteriore un bel parco che conduceva a una piccola foresta. In una rada piuttosto ampia galleggiava una piccola corvetta, di stretta carena, con alberatura slanciata, e che portava una bandiera con lo stemma di Montecristo, stemma che rappresentava una montagna d’oro sopra un mare azzurro. Intorno alla goletta una quantità di piccole barchette che appartenevano ai pescatori dei villaggi vicini e sembravano umili sudditi che stessero ad aspettare gli ordini della loro regina.

Là, come in tutti i luoghi dove si fermava Montecristo, fosse pure per due o tre giorni soltanto, la vita era organizzata con tutti i comodi e piaceri: in tal modo il vivere diventa facile. Albert trovò nella sua anticamera due fucili, e tutti gli attrezzi necessari a un cacciatore. Un’altra stanza, al pianterreno, era consacrata a tutti quegli utensili e a quelle macchinette ingegnose che gli inglesi, grandi pescatori, perché pazienti e oziosi, non hanno ancora potuto far adottare ai pescatori francesi, tenaci nelle vecchie usanze.

Tutta la giornata passò in questi diversi esercizi, nei quali Montecristo era eccellente: furono uccisi una dozzina di fagiani nel parco, e pescate delle trote nei ruscelli; e, dopo il pranzo fatto nel chiosco, che dava sul mare, fu servito il tè nella biblioteca.

Verso la sera del terzo giorno, Albert spossato dalla fatica di quella laboriosa vita, che sembrava un gioco per Montecristo, dormiva su un sofà vicino a una finestra, mentre il conte faceva col suo architetto il piano di una serra che voleva erigere nella casa, allorché il rumore di un cavallo al galoppo nella strada fece alzare la testa al giovane. Guardò dalla finestra e con gradevolissima sorpresa scoprì nel cortile il suo cameriere, dal quale non aveva voluto farsi seguire per non imbarazzare troppo Montecristo.

«Florentin qui», gridò balzando dal sofà. «Che mia madre si sia ammalata?»

E si precipitò verso la porta della camera. Montecristo lo seguì con gli occhi, e lo vide accostarsi al cameriere, che tutto ansante, tolse di tasca una lettera e un giornale.

«Di chi è questa lettera?» domandò con vivacità Albert.

«Del signor Beauchamp», rispose Florentin.

«È dunque Beauchamp che vi manda qui?»

«Sì, signore. Mi ha fatto andare da lui, mi ha dato il denaro necessario per il viaggio, mi ha fornito di un cavallo da posta, e mi ha fatto promettere che non mi sarei fermato fino a che non vi avessi raggiunto signore: ho fatto la strada in quindici ore.»

Albert aprì la lettera fremendo; alle prime righe mandò un grido, poi afferrò il giornale con visibile tremito. A un tratto gli si oscurarono gli occhi, le gambe gli vennero meno, e, vicino a cadere, si appoggiò a Florentin, che tese le braccia per sostenerlo.

«Povero giovane!» mormorò Montecristo tanto sommessamente, che neppure lui stesso poté udire il suono di queste parole di compassione. «È dunque stabilito che gli errori dei padri debbano ricadere sui figli fino alla terza o quarta generazione?»

Albert aveva recuperato il dominio di sé e, dopo aver riletto la lettera l’aveva spiegazzata insieme al giornale. Quindi aveva chiesto al servo: «Mio Dio, in che stato era la mia famiglia, quando l’avete lasciata?»

«Ritornando dalla casa del signor Beauchamp, ho trovato la signora in lacrime. Mi aveva fatto chiamare per sapere quando avreste potuto essere di ritorno. Allora le ho detto che partivo subito su incarico del signor Beauchamp. Il suo primo impulso è stato quello di fermarmi, ma dopo un istante di riflessione, ha detto: “Sì, andate Florentin. È meglio che ritorni…”»

«Sì, madre mia», proruppe Albert, «ritorno, stai tranquilla, ritorno… E guai all’infame! Ma innanzitutto bisogna che io parta… Florentin», aggiunse, «il vostro cavallo è in grado di riprendere la strada di Parigi?»

«È un cattivo ronzino da posta, e in più storpio…»

Allora Albert tornò nella stanza dove aveva lasciato Montecristo. Non era più lo stesso uomo; cinque minuti erano bastati a cambiarlo: ora il conte si trovava davanti un Albert con la voce alterata, il viso rosso di febbre, l’occhio sfavillante, il passo vacillante.

«Conte», disse, «vi ringrazio dell’ospitalità. Avrei voluto goderne più a lungo, ma è necessario che io torni a Parigi.»

«Ma cosa è dunque accaduto?»

«Una gran disgrazia. Ma permettetemi di partire, si tratta di una cosa molto più preziosa della mia vita. Non mi fate domande, conte, ve ne supplico, ma datemi un cavallo.»

«Le mie scuderie sono al vostro servizio, visconte», disse Montecristo, «ma voi morirete di fatica correndo a cavallo; prendete un calesse, una carrozza.»

«No, sarebbe troppo lunga, e poi ho bisogno di fare questa fatica di cui temete, mi farà bene.»

Albert fece alcuni passi barcollando come un uomo colpito da una pallottola, e andò a cadere sopra una sedia vicino alla porta.

Montecristo non vide questo secondo momento di debolezza; era alla finestra che gridava: «Alì, un cavallo per il signor Morcerf! Presto, che ha premura!»

Queste parole ridiedero la vita ad Albert; si lanciò fuori dalla stanza, seguito dal conte.

«Grazie», mormorò il giovane balzando in sella. «Voi, Florentin, tornerete più presto che potrete. Nessuna parola d’ordine per il cambio del cavallo?»

«Nient’altro che lasciare quello che cavalcate, ve ne selleranno all’istante un altro.»

Albert stava per partire, ma si fermò.

«Forse vi parrà strana, insensata la mia partenza», spiegò il giovane. «Voi non comprendete come poche righe d’un giornale possano portare un uomo alla disperazione. Ebbene», aggiunse gettandogli il quotidiano, «leggete queste, ma solo quando sarò partito, affinché non vediate la mia vergogna.»

Mentre il conte raccoglieva il giornale, egli piantò gli speroni nel ventre del cavallo, che scosso il cavaliere che credeva necessario un simile strumento per lui, partì come un dardo. Il conte seguì il giovane con gli occhi, con un sentimento di compassione infinita, e come fu scomparso, abbassando gli occhi sul giornale, lesse ciò che segue: «Quell’ufficiale francese al servizio di Alì Pascià di Giannina, di cui parlava tre settimane fa il giornale “L’impartial” e che non soltanto vendette la fortezza di Giannina, ma anche il suo benefattore ai turchi, si chiamava in quell’epoca Fernando, come ha detto il nostro onorevole collega. In quell’occasione ha aggiunto al suo vero nome un titolo di nobiltà e un nome di terra. Oggi si chiama signor conte Morcerf, e fa parte della Camera dei Pari».

In tal modo, dunque, il terribile segreto che Beauchamp aveva seppellito con tanta generosità ricompariva come fantasma armato, e un altro giornale, brutalmente informato, aveva pubblicato, il giorno dopo la partenza d’Albert per la Normandia, quelle righe che per poco non fecero diventar pazzo il giovane.

85. Il giudizio

Alle otto della mattina, Albert entrò come un fulmine nella casa di Beauchamp. Il cameriere, avvertito, introdusse Morcerf nella camera del suo padrone, ch’era allora entrato in bagno.

«Ebbene?» domandò Albert.

«Ebbene, povero amico mio, vi attendevo», rispose Beauchamp.

«Eccomi. Non starò a dirvi, Beauchamp, che assai persuaso della vostra lealtà e virtù, non penso neppure che abbiate parlato a qualcuno di tutto ciò… D’altro canto, il messaggio che mi avete spedito è una garanzia della vostra affermazione. Per cui, non perdiamo tempo in preamboli. Avete qualche sospetto da dove possa venire questo colpo?»

«Vi dirò due parole in breve.»

«Ma prima, amico mio, dovete informarmi sulla storia di questo abominevole tradimento.»

Allora Beauchamp raccontò al giovane, schiacciato sotto il peso della vergogna e del dolore, i fatti che racconteremo in tutta la loro semplicità. La mattina dell’antivigilia, l’articolo era comparso in un giornale ch’era tutt’altro che «L’impartial», e ciò dava maggiore gravità all’affare, in un giornale molto diffuso appartenente al governo. Beauchamp faceva colazione quando gli capitò sott’occhio la nota; mandò subito a prendere un calesse, senza finire il pasto, e corse alla direzione del giornale.

Benché professasse sentimenti politici diametralmente opposti a quelli del direttore del giornale accusatore, Beauchamp, cosa che accade qualche volta, e noi diremo anche sovente, era suo intimo amico. Allorché arrivò da lui, il direttore leggeva il proprio giornale e sembrava compiacersi nel vedere in una prima colonna, sotto la cronaca di Parigi, un articolo sullo zucchero di barbabietola, che probabilmente aveva scritto lui.

«Amico mio», iniziò Beauchamp, «poiché avete fra le mani il vostro giornale, mio caro, non ho bisogno di dirvi che cosa mi conduce da voi.»

«Sareste per caso sostenitore dello zucchero di canna?» domandò il direttore del giornale ministeriale.

«No, anzi sono estraneo alla questione, vengo per tutt’altra cosa.»

«Per che cosa venite?»

«Per l’articolo Morcerf.»

«Davvero? Non è un articolo curioso?»

«Tanto curioso che correte il rischio di essere citato per diffamazione, mi pare, e d’andare incontro a un processo molto pericoloso.»

«Niente affatto: con la nota abbiamo ricevuto tutti i documenti di prova, e siamo perfettamente convinti che il signor Morcerf rimarrà tranquillo: d’altra parte è un servizio che si rende al Paese, denunciare i nomi di coloro che sono immeritevoli degli onori che godono.»

Beauchamp restò interdetto.

«Ma chi è stato dunque, a informarvi così bene?» domandò. «Il mio giornale, che ha risvegliato l’attenzione per primo, è stato costretto ad astenersi d’andar oltre per mancanza di prove. Anche se noi siamo più interessati di voi nello smascherare il signor Morcerf, che è della Camera dei Pari, mentre noi scriviamo per l’opposizione.»

«La cosa è semplicissima: non siamo corsi noi dietro allo scandalo, è venuto esso a trovarci. È giunto un uomo da Giannina portando il dossier, e siccome esitavamo a pubblicarlo, ci ha manifestato che se noi ci fossimo rifiutati, l’articolo sarebbe comparso su un altro giornale. In fede mia, voi ben lo sapete, Beauchamp, cosa sia una notizia importante: non abbiamo voluto lasciarcela rubare. Ora il colpo è dato: è terribile, e rimbomberà fino ai confini d’Europa.»

Beauchamp comprese che non c’era più che da abbassare la testa e uscì disperato per mandare un corriere a Morcerf. Ma ciò che non aveva potuto scrivere ad Albert, poiché le cose che stiamo per raccontare avvennero dopo la partenza del corriere, è che alla Camera dei Pari, in quello stesso giorno, regnava una grande agitazione tra i diversi gruppi di quell’alta assemblea, di solito così calma. Quasi tutti erano giunti prima dell’ora, e discorrevano del sinistro avvenimento che stava per occupare l’attenzione del pubblico e per fissarla sopra uno dei membri più distinti e conosciuti di quell’illustre consesso.

Erano letture a bassa voce dell’articolo, commenti e scambi di ricordi che stabilivano ancor meglio i fatti. Il conte Morcerf non era amato fra i suoi colleghi. Come tutti gli innalzati da poco, era stato costretto, per mantenersi al suo rango, a osservare un eccesso di alterigia. L’antica nobiltà rideva di lui, e gli ingegni lo ripudiavano, gli uomini celebri lo disprezzavano per istinto. Il conte era ormai diventato la vittima sacrificale. Una volta designato dall’Ente supremo per il sacrificio, ciascuno si affrettava a gridare: «A morte!» Il solo conte Morcerf non ne sapeva nulla, non essendo abbonato al giornale che aveva riportato la notizia infamante, e avendo passato tutta la mattina a scriver lettere e a provare un cavallo. Egli giunse dunque alla sua ora solita, a testa alta, l’occhio superbo, il contegno insolente, e, sceso di carrozza, oltrepassò i corridoi, ed entrò nella sala senza notare l’esitazione degli uscieri e i saluti equivoci dei colleghi.

Quando Morcerf entrò, la seduta era già aperta da una mezz’ora.

Sebbene il conte fosse ignaro, come abbiamo detto, dell’accaduto, e di conseguenza non avesse cambiato in nulla il suo contegno, pure agli occhi di tutti parve più superbo del solito, e la sua presenza in quell’occasione parve così insultante a quell’assemblea tanto gelosa del proprio onore, che tutti la considerarono come una mancanza di riguardo, molti come una bravata, alcuni come un insulto. Era evidente che tutta la Camera ardeva dal desiderio di giungere a una discussione. Si vedeva il giornale accusatore nelle mani di tutti; ma, come sempre, ciascuno esitava a prendere su di sé la responsabilità dell’attacco. Finalmente uno di quegli onorevoli Pari, nemico dichiarato del conte Morcerf, salì alla tribuna con una solennità che preannunciava il momento tanto atteso.

Si fece un glaciale silenzio. Morcerf solo ignorava la causa della profonda attenzione che questa volta si prestava a un oratore di solito non ascoltato con tanta compiacenza. Il conte lasciò passare tranquillamente il preambolo, per mezzo del quale l’oratore stabiliva ch’egli stava per parlare di cose talmente gravi e sacre e vitali per la Camera, che domandava tutta l’attenzione dei suoi colleghi. Alle prime parole di Giannina e del colonnello Fernando, il conte Morcerf impallidì così orribilmente, che, in un solo fremito, l’assemblea concentrò tutti gli sguardi sul conte. Le ferite mortali hanno questo di particolare, che si nascondono, ma non si chiudono; sempre dolorose, sempre pronte a spremere sangue quando si toccano, rimangono vive e sensibili nel cuore.

Terminata la lettura dell’articolo, sempre nel più assoluto silenzio, interrotto soltanto da un fremito che cessò nell’istante in cui si vide che l’oratore stava per riprendere nuovamente la parola, l’accusatore espose il suo scrupolo, e la difficoltà della sua impresa; si trattava dell’onore del signor Morcerf, di quello di tutta la Camera, che pretendeva difendersi esigendo una discussione, che doveva però affrontare argomenti personali e quindi sempre troppo scandalistici per essere trattati pubblicamente. Finalmente concluse chiedendo che fosse istituito un processo tanto rapido da confondere la calunnia, prima che avesse il tempo di ingigantire, e per ristabilire il signor Morcerf, vendicandolo, nel posto che la pubblica opinione gli aveva riconosciuto da lungo tempo.

Morcerf era così oppresso, così tremante di fronte a quell’immensa e inattesa calamità, che appena poté balbettare alcune parole, guardando i suoi colleghi con occhio stravolto. Quella timidezza, che d’altra parte si poteva ancora spiegare per lo stupore che porta all’innocente l’onta del delitto, gli conciliò la simpatia di alcuni. Gli uomini veramente generosi sono sempre pronti a diventare misericordiosi, quando la disgrazia del nemico oltrepassa i limiti della loro collera. Il presidente mise ai voti se avesse dovuto aver luogo il processo; dopo votazione per mezzo di alzata e seduta, fu chiesto quanto tempo gli occorresse per preparare la sua difesa. Era tornato il coraggio a Morcerf, da quando si era sentito ancora vivo dopo un così terribile colpo.

«Signori colleghi», rispose, «non è già col tempo che si respinge un attacco come quello che oggi mi viene diretto da nemici sconosciuti, rimasti fra le ombre della loro oscurità. Con un fulmine devo rispondere al baleno che per un momento mi ha abbagliato. Ah, perché mai non mi è dato, invece di esser costretto a tale giustificazione, di dover spargere il mio sangue per provare ai miei nobili colleghi che sono degno di camminare al loro fianco?»

Queste parole produssero un’impressione favorevole all’accusato.

«Io domando dunque», continuò, «che il processo abbia luogo il più presto possibile e produrrò alla Camera tutte le prove necessarie per l’efficacia di questo processo.»

«Che giorno fissate?» domandò il presidente.

«Mi metto fin d’oggi a disposizione della Camera», rispose il conte.

Il presidente suonò il campanello.

«È del parere la Camera», domandò, «che abbia luogo oggi stesso?»

«Sì», fu l’unanime risposta dell’assemblea.

Fu nominata una commissione di dodici membri per esaminare i documenti che doveva presentare Morcerf. L’ora della prima seduta di quella commissione fu stabilita alle otto della sera negli uffici della Camera. Se fossero state necessarie diverse sedute sarebbero state fatte alla stessa ora e nello stesso luogo. Presa questa decisione, Morcerf domandò il permesso di ritirarsi. Egli doveva raccogliere i documenti già da lui preparati da lungo tempo, per far fronte a questo uragano previsto dal suo astuto e indomabile carattere.

Beauchamp raccontò all’amico tutto ciò che fin qui abbiamo narrato, tranne che il suo racconto aveva sul nostro il vantaggio che hanno le cose vive sulle morte. Albert lo ascoltò ora, fremente di speranza, ora di collera, ora di vergogna; poiché dalla confidenza fattagli da Beauchamp sapeva che suo padre era colpevole e rifletteva in che modo, poiché era colpevole, poteva giungere a provare la sua innocenza.

Giunto a tal punto, Beauchamp tacque.

«E poi?» domandò Albert.

«Poi?» ripeté Beauchamp.

«Sì.»

«Amico mio, questa domanda mi trascina a una orribile necessità. Volete sapere il resto?»

«Bisogna che lo sappia, amico mio, e desidero saperlo piuttosto dalla vostra bocca che da qualunque altra.»

«Ebbene», riprese Beauchamp, «raccogliete dunque tutto il vostro coraggio, Albert, voi non ne avete mai avuto tanto bisogno.»

Albert si passò una mano sulla fronte per farsi animo, come un uomo che, preparandosi a difendere la propria vita, prova la sua corazza, e fa piegare la lama della sua spada. Si sentì forte, perché prese la febbre per energia.

«Avanti!» disse.

«Giunse la sera», continuò Beauchamp, «e tutta Parigi era in attesa di questo avvenimento. Molti pretendevano che a vostro padre bastasse mostrarsi per far crollare tutta l’accusa; molti dicevano che il conte non si sarebbe presentato; certuni assicuravano di averlo visto partire per Bruxelles; altri andarono alla polizia per vedere se era vero, com’essi dicevano, che il conte fosse andato a prendere i passaporti. Io feci tutto il possibile, ve lo confesso», proseguì Beauchamp, «per ottenere da uno dei membri della commissione, un giovane Pari mio amico, di essere introdotto in una specie di tribuna. Alle sette venne a prendermi, e, prima che fosse giunto qualcuno, mi raccomandò al portiere, che mi chiuse in una specie di loggia. Io ero nascosto da una colonna, e perduto nell’oscurità più completa, in attesa di vedere e sentire la terribile scena che stava per svolgersi. Alle otto precise tutti erano giunti. Il signor Morcerf entrò all’ultimo tocco delle otto: teneva in mano alcune carte e dal suo contegno sembrava calmo; contro il solito, la sua andatura era semplice, il vestire ricercato e severo, e, secondo il costume degli antichi militari, portava l’abito tutto abbottonato. La sua presenza produsse il miglior effetto: la commissione era lungi dall’essere ostile al conte, e molti dei suoi membri gli andarono incontro, stringendogli la mano.»

Albert sentiva il cuore crivellato da tutti quei particolari, e nel suo dolore provava un sentimento di riconoscenza; avrebbe voluto abbracciare quegli uomini, che avevano dato a suo padre tale dimostrazione di stima in un momento in cui il suo onore era compromesso.

«In quel momento entrò un usciere, e rimise una lettera al presidente. “Voi avete la parola, signor Morcerf”, disse il presidente mentre dissigillava la lettera. Il conte incominciò la sua apologia, e vi assicuro, Albert», continuò Beauchamp, «che mostrò un’eloquenza e un’abilità straordinarie. Egli produsse dei documenti comprovanti che il visir di Giannina lo aveva, fino all’ultima ora, onorato della sua fiducia avendolo incaricato di una negoziazione di vita e di morte con lo stesso sultano. Mostrò l’anello segnale del comando, col quale Alì Pascià sigillava d’ordinario le sue lettere, e che questi gli aveva dato perché potesse, a qualunque ora del giorno o della notte, penetrare fino a lui, fosse anche stato nell’harem.

“Disgraziatamente”, disse, “le trattative erano andate a vuoto, e quando fu di ritorno per difendere il suo benefattore, questi era già morto. Ma”, continuò il conte, “morendo, Alì Pascià, tanta era grande la sua fiducia, gli aveva affidato la favorita e la figlia.”»

Albert rabbrividì a quelle parole poiché man mano che Beauchamp parlava gli tornava alla mente tutto il racconto di Haydée: si ricordava ciò che la bella greca aveva detto del messaggio, dell’anello, e del modo con cui era stata venduta e condotta in schiavitù.

«E quale fu l’effetto del discorso del conte?» domandò con ansia Albert.

«Vi confesso ch’esso mi commosse e con me tutta la commissione…» continuò Beauchamp. «Intanto il presidente gettò negligentemente gli occhi sulla lettera che gli era stata portata, ma le prime righe risvegliarono tutta la sua attenzione: la lesse, poi la rilesse, e fissando gli occhi sopra il signor Morcerf, disse: “Signor conte, voi ci avete detto che il visir di Giannina vi aveva affidato sua moglie e sua figlia?”

“Sì, signore”, rispose Morcerf, “ma in ciò, come in tutto il resto, la sventura mi perseguitava. Al mio ritorno, Vasiliki e sua figlia Haydée erano scomparse.”

“Voi le conoscevate?”

“La mia intimità col pascià, e la somma fiducia che aveva nella mia fedeltà, mi avevano permesso di vederle più di venti volte.”

“Avete nessuna idea di ciò che sia accaduto di loro?”

“Sì, signore. Ho sentito dire ch’erano state vinte dal dispiacere, e fors’anche dalla miseria. Io non ero ricco, la mia vita era circondata da grandi pericoli, con mio sommo dispiacere non potei mettermi a cercarle.”

Il presidente aggrottò impercettibilmente il sopracciglio.

“Signori”, diss’egli, “voi avete inteso e seguito il conte Morcerf nelle sue spiegazioni. Signor conte, potete voi, in appoggio al vostro racconto, fornirci qualche testimone?”

“Ahimè, no, signore”, rispose il conte. “Tutti quelli che circondavano il visir, e che mi hanno conosciuto alla sua corte, sono morti o dispersi. Io solo, credo, io solo dei miei compatrioti sono sopravvissuto a questa spaventosa guerra; non ho che le lettere di Alì Tebelin, e le ho poste sotto i vostri occhi; non ho che l’anello, pegno della sua volontà, ed eccolo; finalmente ho la prova più convincente che posso fornire, cioè, dopo un assalto anonimo, l’assenza di ogni testimonianza contro la mia parola d’onore; e la purezza di tutta la mia vita militare.”

Un mormorio d’approvazione corse per tutta l’assemblea in quel momento, Albert, e se non fosse sopravvenuto alcun altro nuovo incidente la causa di vostro padre era vinta. Non restava più che andare ai voti, allorché il presidente prese la parola.

“Signori”, disse, “e voi signor conte di Morcerf, non sarete contrari presumo, ad ascoltare un testimone importantissimo, a quanto assicura, e che viene a offrirsi da sé. Questo testimone, non ne dubitiamo, dopo ciò che ha detto il conte, è chiamato a provare la perfetta innocenza del nostro collega. Ecco la lettera che ho ricevuto a questo riguardo: desiderate che vi sia letta, o decidete di passar oltre senza fermarci a questo incidente?”

Il signor Morcerf impallidì, e strinse tra le mani le carte che aveva davanti, che frusciarono sotto le sue dita. La risposta della commissione fu per la lettura; in quanto al conte, era passivo, e non aveva opinione da dichiarare. Di conseguenza il presidente lesse la lettera seguente: “Signor presidente, io posso fornire alla commissione giudicante, incaricata di esaminare la condotta in Epiro e in Macedonia del luogotenente generale conte Morcerf, le informazioni più positive”.

Il presidente fece una breve pausa. Il conte Morcerf impallidì, il presidente interrogò con lo sguardo gli uditori.

“Continuate!” fu gridato da tutte le parti.

Il presidente riprese: “Io ero sul luogo alla morte di Alì Pascià, assistevo ai suoi ultimi momenti, so che cosa è avvenuto di Vasiliki e d’Haydée; io mi metto a disposizione della commissione, e anzi chiedo l’onore di farmi ascoltare. Sarò nel vestibolo della camera quando vi sarà rimesso il presente biglietto”.

“E chi è questo testimone, o piuttosto questo nemico?” domandò il conte con voce profondamente alterata.

“Lo sapremo ben presto, signore”, rispose il presidente. “La commissione è dell’avviso di ascoltarlo?”

“Sì, sì”, dissero tutte le voci.

Fu chiamato l’usciere.

“Usciere”, domandò il presidente, “vi è qualcuno che aspetta nel vestibolo?”

“Sì, signor presidente.”

“Chi è?”

“Una donna accompagnata da un servo.”

Si guardarono tutti in viso l’un l’altro.

“Fate entrare questa donna”, disse il presidente.

Cinque minuti dopo, ricomparve l’usciere; tutti gli occhi erano fissi sulla porta, e io stesso», proseguì Beauchamp, «partecipavo alla generale aspettativa. Dietro all’usciere camminava una donna avvolta in un lungo velo che la nascondeva interamente. S’indovinava bene, dalle forme che tradiva questo velo, dai profumi che esalava, una donna giovane ed elegante; ma nient’altro. Il presidente la pregò di alzare il velo, e allora si poté vedere una donna vestita alla greca e d’una bellezza sorprendente.»

«Era lei», disse Morcerf.

«Come, lei?»

«Sì, Haydée.»

«Chi ve l’ha detto?»

«Ahimè, l’indovino… Ma continuate, Beauchamp, ve ne prego, vedete ch’io sono calmo e coraggioso, e poi dobbiamo arrivare alla fine.»

«Il signor Morcerf guardava questa donna», continuò Beauchamp, «con sorpresa mista a spavento. Per lui era la vita o la morte che stava per uscire da quella graziosa bocca. Per tutti gli altri era un’avventura così strana e piena di curiosità che la salvezza o la perdita del signor Morcerf non entrava già più in tale avvenimento che come elemento secondario.

Il presidente con un segno della mano offrì una sedia alla giovane, ma lei fece segno con la testa che restava in piedi. In quanto al conte, era ricaduto sul suo sedile, e si vedeva manifestamente che le gambe rifiutavano di sostenerlo.

“Signora”, disse il presidente, “avete scritto alla commissione per darle informazioni sull’affare di Giannina, e avete assicurato che siete stata testimone oculare di quegli avvenimenti.”

“E lo fui di fatto”, rispose la sconosciuta con voce piena di malinconia, e con quella sonorità particolare alle voci orientali.

“Però permettetemi di dirvi che voi allora dovevate essere molto giovane.”

“Avevo quattro anni, ma siccome allora gli avvenimenti avevano per me un’importanza suprema, non mi è fuggito dalla mente un fatto, né si è cancellato un solo particolare.”

“Ma quale importanza avevano dunque per voi tali avvenimenti? E chi siete voi perché questa catastrofe abbia in voi prodotta una così grande impressione?”

“Si trattava della vita o della morte di mio padre”, rispose la giovane donna, “e io mi chiamo Haydée, figlia di Alì Tebelin, pascià di Giannina, e di Vasiliki sua moglie prediletta.”

Il rossore modesto e fiero a un tempo che imporporò le guance della giovane, il fuoco del suo sguardo, e la maestà della sua rivelazione, produssero su tutta l’assemblea un effetto inesprimibile. In quanto al conte, non sarebbe stato più annichilito, se il fulmine cadendo gli avesse scavato un abisso ai piedi.

“Signora”, riprese il presidente, dopo essersi inchinato con rispetto, “permettetemi una semplice domanda, che non è un dubbio, e questa domanda sarà l’ultima: potete giustificare l’autenticità di quanto dite?”

“Posso, signore”, rispose Haydée, togliendo da sotto il velo una borsa profumata, “ecco il mio atto di nascita, redatto da mio padre e sottoscritto dai suoi principali ufficiali; ecco qui il mio atto di battesimo, avendo mio padre acconsentito che venissi allevata nella religione di mia madre, atto firmato dal primate di Macedonia e dell’Epiro, munito del suo sigillo; ecco finalmente, e questo senza dubbio è il più interessante, l’atto di vendita di me e di mia madre al mercante armeno El Kobbir dall’ufficiale francese, che nel suo infame mercato con la Sublime Porta si era riservato come bottino la figlia e la moglie del suo benefattore, che vendette per la somma di mille borse, vale a dire per circa quattrocentomila franchi.”

Un pallore verdastro invadeva le guance del conte Morcerf, e i suoi occhi s’iniettavano di sangue all’udire quelle terribili imputazioni, che furono accolte dall’assemblea con lugubre silenzio.

Haydée, sempre calma ma molto più minacciosa nella calma che non nella collera, porgeva al presidente l’atto di vendita redatto in lingua araba. Ma siccome si era previsto che qualcuno degli atti prodotti da Morcerf sarebbero stati redatti in arabo, in greco o in turco, l’interprete della Camera era stato avvisato, e fu chiamato.

Uno dei nobili Pari, a cui la lingua araba era familiare, per averla appresa nella famosa campagna d’Egitto, seguì con gli occhi sulla pergamena la lettura che il traduttore ne faceva ad alta voce.

“Io El Kobbir, mercante di schiavi e fornitore dell’harem di Sua Altezza, riconosco di aver ricevuto per rimetterlo al Sublime Imperatore, dal signor conte di Montecristo, uno smeraldo stimato del valore di mille borse, per il prezzo di una giovane schiava cristiana, dell’età di undici anni, di nome Haydée, e figlia riconosciuta del defunto Alì Tebelin, pascià di Giannina, e di Vasiliki sua favorita, la quale mi era stata venduta sette anni fa unitamente a sua madre, che morì giungendo a Costantinopoli, da un colonnello franco, al servizio del visir Alì Tebelin, chiamato Fernando Mondego. La suddetta vendita mi era stata fatta per conto di Sua Altezza, per la quale avevo il mandato, mediante la somma di mille borse.

Fatto a Costantinopoli con l’autorizzazione di Sua Altezza, l’anno 1247 dell’Egira.

Firmato: El Kobbir

Per dare al presente atto la maggior fede e autenticità possibile, sarà munito del sigillo imperiale, che il venditore si obbliga di farvi apporre.”

Vicino alla firma del mercante, si vedeva infatti il sigillo del Sublime Imperatore. A questa lettura e a quella vista seguì un terribile silenzio; il conte non aveva più che lo sguardo, e questo sguardo, fissato suo malgrado su Haydée era di fiamma e di sangue.

“Signora”, riprese il presidente, “si potrebbe interrogare il signor conte di Montecristo, che io credo a Parigi e vicino a voi?”

“Signore”, rispose Haydée, “il signor conte di Montecristo, mio secondo padre, si trova da tre giorni in Normandia.”

“Ma, allora, signora”, continuò il presidente, “chi vi ha consigliato questa testimonianza, di cui la Corte vi ringrazia, e che d’altra parte è ben naturale per la vostra nascita e per le vostre disgrazie?”

“Signore”, rispose Haydée, “questa testimonianza mi è stata consigliata dal rispetto e dal dolore. Sebbene cristiana, Dio mi perdoni!, ho sempre pensato a vendicare il mio illustre padre.

Ora, quando io ho messo piede in Francia, quando ho saputo che il traditore abitava a Parigi, le orecchie e gli occhi mi sono rimasti costantemente aperti. Io vivo, ritirata nella casa del mio nobile protettore, ma vivo così, perché mi piacciono l’ombra e il silenzio, che mi permettono di vivere col mio pensiero e col mio raccoglimento. Il signor conte di Montecristo mi circonda di cure paterne, e niente mi è estraneo di quanto concerne la vita del gran mondo, benché mi tenga al corrente della lontana eco. Quindi leggo tutti i giornali, mi vengono inviati tutti gli album, ricevo tutte le melodie: e in tal modo, seguendo cioè soltanto la vita degli altri, ho saputo che cos’è accaduto questa mattina alla Camera dei Pari, e cosa doveva accadere questa sera… Allora ho scritto.”

“Per cui il conte di Montecristo è estraneo alla vostra decisione?”

“Egli la ignora del tutto, signore, e anzi, non ho che un timore, che cioè la disapprovi; però è un bel giorno per me”, continuò la giovane, alzando al cielo uno sguardo ardente, “quello in cui, finalmente, ritrovo l’occasione di vendicare mio padre!”

In tutto questo tempo il conte Morcerf non aveva pronunciato una parola; i suoi colleghi lo guardavano, e senza dubbio compiangevano questa fortuna infranta, per il soffio profumato di una donna: la sua disgrazia si andava a poco a poco scrivendo sulla sua fronte a linee sinistre.

“Signor Morcerf”, disse il presidente, “riconoscete voi la signora per la figlia di Alì Tebelin, pascià di Giannina?”

“No”, rispose Morcerf, facendo uno sforzo per alzarsi. “È una trama ordita dai miei nemici.”

Haydée che teneva gli occhi fissi verso la porta, come se aspettasse qualcuno, si voltò all’improvviso, e vedendo il conte in piedi, mandò un grido terribile.

“Tu non mi riconosci?” proruppe. “Ebbene, io riconosco te! Tu sei Fernando Mondego, l’ufficiale francese che istruiva le truppe del mio nobile padre. Sei tu che hai venduto la fortezza di Giannina! Sei tu che, inviato a Costantinopoli per trattare direttamente della vita e della morte del tuo benefattore, hai riportato un falso documento che accordava grazia intera! Sei tu che con questo documento hai ottenuto da mio padre l’anello che doveva farti obbedire da Selim, il guardiano del fuoco! Sei tu che hai pugnalato Selim! Sei tu che hai venduto mia madre e me al mercante El Kobbir! Assassino! Assassino! Assassino! Tu hai ancora sulla fronte il sangue del tuo padrone! Guardate tutti!”

Queste parole furono pronunciate con tale impeto di verità, che tutti gli occhi si portarono sulla fronte del conte, alla quale egli stesso portò la mano, come se vi avesse sentito, tiepido ancora, il sangue di Alì.

“Voi riconoscete dunque nel conte Morcerf quello stesso ufficiale Fernando Mondego?”

“Sì, lo riconosco!” gridò Haydée. “Ah, madre mia! Tu mi hai detto: ‘Tu eri libera, tu avevi un padre che ti amava, tu eri destinata a esser quasi una regina! Guarda bene quest’uomo, è lui che ti ha fatto schiava, è lui che ha fatto innalzare sull’estremità di un’asta la testa di tuo padre, è lui che ci ha venduto, è lui che ci ha traditi tutti! Guarda bene la sua mano destra, quella che ha una larga cicatrice, se tu ti dimenticassi il suo viso, lo riconoscerai da quella mano, sulla quale sono cadute a una a una tutte le monete d’oro del mercante El Kobbir!’ Se lo riconosco! Oh! Dica egli adesso se riconosce me!”

Ciascuna parola cadeva come una falce sopra Morcerf, e strappava una parte della sua energia, alle ultime parole si nascose istintivamente, e suo malgrado, la mano nel petto, mutilata infatti da una ferita, e ricadde sul seggio inabissato in una cupa disperazione.

Questa scena aveva sconvolto gli animi di tutta l’assemblea, come si vedono sconvolgere le foglie sotto il possente vento del Nord.

“Signor conte Morcerf”, disse il presidente, “non vi lasciate abbattere, rispondete! La giustizia della Corte è suprema ed eguale per tutti, come quella di Dio, essa non vi lascerà schiacciare dai vostri nemici, senza lasciarvi i mezzi per combatterli. Volete che ordini a due membri della commissione di andare a fare un viaggio a Giannina? Parlate!”

Morcerf non rispose.

Allora tutti i membri della commissione si guardarono con una specie di terrore. Si conosceva il carattere energico e violento del conte; ci voleva una prostrazione ben terribile per annichilire la difesa di quest’uomo, bisognava pensare che, a questo silenzio, simile a un sonno, sarebbe succeduto un risveglio simile a un fulmine.

“Ebbene” gli domandò il presidente, “che decidete?”

“Niente!” rispose il conte con voce sorda alzandosi.

“La figlia di Alì Tebelin”, riprese il presidente, “ha dunque dichiarato realmente la verità? Lei è dunque proprio quel testimone terribile al quale, come sempre accade, il reo non ha coraggio di dire ‘No’? Avete dunque fatto realmente tutte quelle cose di cui siete accusato?”

Il conte girò intorno a sé uno sguardo disperato che avrebbe commosso le tigri, ma non poteva disarmare dei giudici, quindi alzò gli occhi verso la volta, ma li abbassò tosto, come se avesse temuto che questa volta aprendosi facesse risplendere un altro tribunale che si chiama cielo e un altro giudice che si chiama Dio. Allora, con un improvviso movimento, strappò i bottoni di quell’abito chiuso che lo soffocava, e uscì dalla sala come folle, i suoi passi risuonarono per un istante sotto la volta sonora, quindi ben presto il suono delle ruote della carrozza che lo trascinava al galoppo rintronò con fracasso sotto il portico dell’edificio.

“Signori”, riprese il presidente, quando il silenzio fu ristabilito, “il conte Morcerf è colpevole di fellonia, di tradimento, d’indegnità?”

“Sì!” risposero a voce unanime tutti i membri della commissione processante.

Haydée aveva assistito sino alla fine della seduta: ascoltò pronunciare la sentenza del conte senza che nei lineamenti del suo viso si potesse leggere il minimo indizio di gioia o di pietà.

Allora, abbassando il velo, salutò maestosamente i consiglieri, e uscì di quel passo con cui Virgilio vedeva camminare le sue dee.»



86. La sfida

«E poi», continuò Beauchamp, «approfittai del silenzio e dell’oscurità della sala per uscirne senza farmi notare. L’usciere, che mi aveva introdotto, mi attendeva sulla porta: mi portò attraverso vari corridoi fino a una porticina che dava sulla rue Vaugirard. Uscii con l’anima addolorata ed eccitata, perdonatemi quest’espressione, Albert; addolorata per quanto riguarda voi, eccitata, per la nobiltà di questa giovane donna nel conseguire la vendetta paterna. Sì, ve lo giuro, Albert, da qualunque parte venga questa rivelazione, dico che sì può venire da un nemico, ma questo nemico non è che l’inviato della Provvidenza.»

Albert si teneva la testa fra le mani; poi alzò il viso rosso per la vergogna e bagnato di lacrime, e afferrò il braccio di Beauchamp.

«Amico», disse, «la mia vita è finita; mi rimane non ripetere con voi che la Provvidenza mi ha vibrato il colpo, ma cercare chi è l’uomo che mi perseguita con la sua inimicizia… Quando lo conoscerò, o io ucciderò lui, o lui ucciderà me! Ora conto sulla vostra amicizia per aiutarmi, Beauchamp, se però il disprezzo non l’ha già uccisa nel vostro cuore.»

«Il disprezzo, amico mio! E in che cosa mai vi riguarda, questa disgrazia? No, grazie al cielo, non siamo in quei tempi in cui un ingiusto pregiudizio rendeva i figli responsabili delle azioni dei loro padri. Ripercorrete tutta la vostra vita, Albert: data da ieri, è vero, ma non vi fu mai più pura aurora di quella del giorno in cui nasceste. No, Albert, credetemi, voi siete giovane, siete ricco… Lasciate la Francia! Tutto si dimentica in questa grande Babilonia che ha un’esistenza agitata e piaceri passeggeri: ritornerete fra tre o quattro anni, avrete sposato qualche bella russa, e nessuno penserà più a quello che è accaduto ieri, e meno ancora a quello che è accaduto sedici anni fa.»

«Vi ringrazio, caro Beauchamp, vi ringrazio delle vostre parole, ma la cosa non può andare così. Vi ho illustrato il mio desiderio, ora, se occorre, cambierò la parola desiderio in quella di volontà. Capite bene che, coinvolto come sono in questo affare, non posso vedere la cosa con lo stesso occhio con cui la vedete voi.

Quanto a voi sembra venire da una sorgente celeste, a me sembra uscire da un luogo meno puro. La Provvidenza, ve lo confesso, mi sembra totalmente estranea a tutto questo, e ciò fortunatamente, perché invece dell’invisibile e incorporeo messaggero, troverò un essere materiale e visibile sul quale mi vendicherò, oh, sì, ve lo giuro, di tutto ciò che soffro da un mese. Ora, ve lo ripeto, Beauchamp, rientrerò nella vita umana, e se voi siete ancora mio amico, come dite, aiutatemi a ritrovare la mano che ha scagliato il colpo.»

«Sia come volete», rispose Beauchamp, «e se vi sta a cuore mettervi in cerca di un nemico, vi aiuterò, e lo troverò perché il mio onore vi è interessato quasi al pari del vostro.»

«Beauchamp, cominciamo fin d’ora le nostre ricerche. Ogni minuto di ritardo è un’eternità per me; il delatore non è ancora punito, può dunque sperare di non esserlo più, e sul mio onore, se lo spera, s’inganna.»

«Ascoltatemi, Morcerf.»

«Ah, Beauchamp, vedo che ne sapete qualche cosa… Voi mi ridonate la vita.»

«Non vi dico che sia un indizio reale, Albert, ma per lo meno è un lume nelle tenebre; seguendo questa luce, giungeremo forse alla meta.»

«Vedete bene che fremo d’impazienza.»

«Vi racconterò ciò che non ho voluto dirvi al mio ritorno da Giannina.»

«Parlate.»

«Ecco cosa è accaduto, Albert: andai dal primo banchiere della città per prendere le mie informazioni. Alla prima parola che dissi dell’affare, prima ancora che fosse pronunciato il nome di vostro padre, disse: “Indovino che cosa vi conduce”.

“Come e perché?”

“Perché sono appena quindici giorni che sono stato interrogato sullo stesso oggetto.”

“Da chi.”

“Da un banchiere di Parigi, mio corrispondente.”

“Il suo nome?”

“Signor Danglars.”»

«Lui!» gridò Albert. «Infatti, è proprio lui che da lungo tempo perseguita il mio povero padre col suo odio e con la sua gelosia, lui, l’uomo che si pretende popolare, che non sa perdonare al conte Morcerf d’essere Pari di Francia… E, sentite me, questa rottura di matrimonio senza darne una ragione, dipende da ciò.»

«Informatevi, Albert, non lasciatevi trasportare dall’ira, informatevi dico, e se la cosa è vera…»

«Sì», gridò il giovane, «e se la cosa è vera, mi pagherà tutto ciò che ho sofferto.»

«State in guardia Morcerf, abbiamo a che fare con un vecchio.»

«Ebbe forse riguardo per l’onore della mia famiglia? Se odiava mio padre, perché non ha colpito mio padre? Oh, no! Ha avuto paura di trovarsi faccia a faccia a un uomo…»

«Albert, non vi condanno, non faccio che moderarvi… Albert, agite con prudenza.»

«Non abbiate paura; d’altra parte mi accompagnerete, Beauchamp: le cose solenni devono essere trattate davanti a testimoni. Prima che questa giornata sia finita, se il signor Danglars è reo, avrà cessato di vivere, o sarò morto io. Per Dio, Beauchamp, voglio fare bei funerali al mio onore!»

«Quando si prendono tali risoluzioni, Albert, bisogna sull’istante metterle in esecuzione. Volete andare dal signor Danglars? Partiamo.»

Mandarono a prendere un carrozzino a nolo. Entrando nel palazzo del banchiere, videro alla porta il calessino e il domestico del signor Andrea Cavalcanti.

«La sorte mi favorisce!» disse Albert, con voce cupa. «Se il signor Danglars non vuole battersi, gli ucciderò il genero. Deve essere uomo da accettare una sfida, dovrà battersi: è un Cavalcanti!»

Annunciato al banchiere, questi, al nome di Albert, sapendo che cosa era accaduto il giorno prima, gli fece proibire l’ingresso, ma troppo tardi: Albert, avendo seguito il servitore, udì l’ordine dato e forzando la porta penetrò, seguito da Beauchamp, fino allo studio del banchiere.

«Ma, signore», gridò questi, «non si è più padroni in casa propria di ricevere chi si vuole e rifiutare chi non si vuole? Mi sembra lo dimentichiate in modo molto strano.»

«No, signore», ribatté freddamente Albert, «vi sono circostanze, e questa ne è una in cui bisogna, salvo il caso di viltà, essere in casa almeno per certe persone.»

«Allora, che volete dunque da me, signore?»

«Voglio», disse Morcerf, avvicinandosi senza sembrare accorgersi di Cavalcanti, che si era appoggiato al caminetto, «voglio proporvi un appuntamento in un luogo appartato, dove nessuno possa disturbarci per dieci minuti, non vi domando di più, e dove di due uomini che si saranno incontrati, uno rimarrà sul terreno.»

Danglars impallidì, Cavalcanti fece un gesto, Albert si voltò verso il giovane.

«Venite voi pure, se vi piace, signor principe!» esclamò. «Avete il diritto di esserci, siete quasi della famiglia, e io do questa specie di appuntamenti a chiunque sia pronto ad accettarli.»

Cavalcanti guardò con aria stupefatta Danglars, il quale, facendo uno sforzo, si alzò, andando a mettersi tra i due giovani. L’invito di Albert ad Andrea lo illudeva che la questione si spostasse, e che la visita d’Albert avesse altro scopo, diverso da quello immaginato in principio.

«Signore», cominciò Danglars, «se venite qui a muovere lite al signore, perché lo preferisco a voi, vi avverto che, su questo argomento, farò causa davanti al regio procuratore.»

«Sbagliate, signore», replicò Morcerf, con un tetro sorriso, «io non parlo affatto di matrimonio, e mi sono rivolto al signor Cavalcanti, perché mi è sembrato abbia avuto intenzione d’intervenire nella nostra discussione. E, del resto, avete ragione: oggi cerco contesa con tutti! Tuttavia state tranquillo, signor Danglars, la preferenza spetta a voi.»

«Signore», rispose Danglars pallido per la collera e la paura, «vi avverto che quando ho la disgrazia d’incontrarmi fra i piedi qualche cane arrabbiato, lo ammazzo, e lungi dal credermi colpevole, mi sembra di avere reso qualche servizio alla società. Ora siete arrabbiato e tentate di mordermi, ma vi avviso che vi ammazzerò senza pietà. È forse colpa mia se vostro padre è disonorato?»

«Sì, miserabile!» gridò Morcerf. «È colpa vostra.»

Danglars arretrò di un passo.

«Colpa mia?» si stupì. «Ma siete pazzo! Conosco forse la storia greca, io? Ho forse viaggiato in quei Paesi? Ho forse consigliato vostro padre di vendere la fortezza di Giannina? Di tradire?»

«Silenzio!» ordinò Albert con voce sorda. «No, non siete stato voi a causare direttamente questo chiasso, a cagionare questa disgrazia, ma siete stato voi che l’avete ipocritamente istigata.»

«Io!»

«Sì, voi! Da dove viene la rivelazione?»

«Mi pare che il giornale ve lo abbia detto, da Giannina!»

«Chi ha scritto a Giannina?»

«A Giannina?»

«Sì. Chi ha scritto per domandare informazioni su mio padre?»

«Mi sembra che chiunque possa scrivere a Giannina.»

«Chi ha scritto, però, è uno solo.»

«Uno solo?»

«Sì, e questo siete voi.»

«Certo che ho scritto… Quando uno marita sua figlia a un giovane, mi pare che possa prendere informazioni sulla famiglia… Non è soltanto un diritto ma un dovere.»

«Avete scritto, signore», disse Albert, «sapendo perfettamente che risposta vi sarebbe venuta.»

«Io? Vi giuro», gridò Danglars, con una fiducia e una sicurezza che venivano ancor meno dalla sua paura, che dall’interesse che sentiva in fondo per il disgraziato giovane, «vi giuro, che non avrei mai pensato a scrivere a Giannina. Conoscevo forse la tragedia di Alì Pascià?»

«Allora qualcuno vi ha spinto a scrivere?»

«Certamente.»

«Siete stato istigato?»

«Sì.»

«Chi è stato?… Terminate… dite…»

«È una cosa semplicissima: parlavo degli antecedenti di vostro padre, dicevo che la fonte delle sue ricchezze era sempre rimasta ignota. La persona mi domandò in che luogo vostro padre aveva fatto questa fortuna; risposi “In Grecia”. Allora mi disse: “Ebbene, scrivete a Giannina”.»

«E chi vi ha dato questo consiglio?»

«Il conte di Montecristo, vostro amico.»

«Il conte di Montecristo vi ha detto di scrivere a Giannina?»

«Sì, e io ho scritto. Volete vedere la mia corrispondenza? Ve la mostrerò.»

Albert e Beauchamp si guardarono in volto.

«Signore», disse allora Beauchamp che non aveva preso ancora la parola, «mi pare che accusiate il conte, assente da Parigi, e che non può giustificarsi in questo momento.»

«Non accuso nessuno, signore», ribatté Danglars, «ma narrerò e ripeterò davanti al signore di Montecristo ciò che dico davanti a voi.»

«E il conte conosce la risposta che avete ricevuto?»

«Gliela mostrai.»

«Sapeva che mio padre si chiamava Fernando e che il suo cognome era Mondego?»

«Sì, glielo avevo detto da lungo tempo, del resto ho fatto quello che avrebbe fatto qualunque altro al mio posto e fors’anche molto meno. Quando all’indomani di questa risposta, sollecitato dal signore di Montecristo, venne vostro padre a domandarmi ufficialmente mia figlia, come si fa quando si vuol concludere, rifiutai, è vero, ma senza spiegazioni, senza scandalo. Infatti, perché avrei dovuto fare strepito? In che poteva interessarmi l’onore o il disonore di Morcerf? Ciò non faceva né alzare, né abbassare i miei titoli.»

Albert sentì il rossore salirgli alla fronte: non c’era più dubbio, Danglars si difendeva con viltà, ma con la sicurezza di chi dice, se non tutta, almeno parte della verità, non per coscienza, è vero, ma per terrore. D’altra parte, che cosa cercava Morcerf? Non la colpevolezza di Danglars o di Montecristo, ma chi rispondesse dell’offesa, chi si battesse, ed era evidente che Danglars non si sarebbe battuto.

Adesso gli tornavano in mente tante cose di cui si era dimenticato. Montecristo sapeva tutto, perché aveva comprato la figlia di Alì Pascià; sapendo tutto, aveva incaricato Danglars di scrivere a Giannina. Conosciuta la risposta, aveva acconsentito al desiderio manifestato da Albert di esser presentato ad Haydée: una volta davanti a lei, aveva avviato il discorso sulla morte di Alì senza opporsi al racconto d’Haydée, ma avendo senza dubbio dato alla donna, nelle poche parole che aveva pronunciato in greco, le sue istruzioni, in modo che Morcerf nel racconto non riconoscesse suo padre… E poi, non aveva pregato Morcerf di non pronunciare il nome di suo padre davanti ad Haydée? Infine aveva condotto Albert in Normandia nel momento in cui doveva nascere il grande scandalo. Tutto ciò era calcolato, e Montecristo senza dubbio se la intendeva coi nemici di suo padre.

Albert prese Beauchamp in disparte, e gli comunicò tutte queste idee.

«Avete ragione», disse questi, «il signor Danglars non entra in questo affare che per la parte brutale e materiale; la spiegazione dovete domandarla al signore di Montecristo.»

Albert si volse.

«Signore», disse a Danglars, «capirete che non prendo ancora da voi un congedo definitivo; mi resta da sapere se le vostre spiegazioni sono giuste, e vado sull’istante ad assicurarmene presso il conte di Montecristo.»

E salutando il banchiere, uscì con Beauchamp senza occuparsi minimamente di Cavalcanti. Danglars li ricondusse fino alla porta, rinnovando ad Albert le assicurazioni che nessun motivo di odio personale lo guidava contro il signor conte Morcerf.

87. L’insulto

Beauchamp trattenne Morcerf sulla porta del banchiere.

«Ascoltate», gli disse, «poco fa vi ho detto, nella casa Danglars, che la spiegazione dovete domandarla a Montecristo…»

«Certo, ed è per questo andiamo da lui.»

«Un momento, Morcerf, prima di andare dal conte, pensateci bene.»

«A che cosa volete che pensi?»

«Pensate alla gravità del passo.»

«È forse più grave che andare dal signor Danglars?»

«Sì, il signor Danglars è un uomo facoltoso, e voi lo sapete, gli uomini facoltosi conoscono troppo bene a qual pericolo vanno incontro battendosi. L’altro, al contrario, è gentiluomo almeno in apparenza… E non temete, sotto il gentiluomo, di trovare l’abilità delle armi?»

«Non temo che una cosa, di trovare un uomo che rifiuti di battersi.»

«Non temete», disse Beauchamp, «si batterà. Ho anzi paura di una cosa, ch’egli cioè si batta troppo bene: state in guardia!»

«Amico», replicò Morcerf sorridendo, «è quanto io domando! Cosa mi può accadere di più rischioso? Appunto di essere ucciso per mio padre, così saremo tutti salvi.»

«Ma vostra madre ne morirà.»

«Povera madre!» disse Albert, passandosi la mano sugli occhi. «Lo so bene, ma preferisco morire in duello, che di vergogna.»

«Siete deciso, Albert?»

«Andiamo, dunque!»

«Ma credete che lo troveremo?»

«Doveva tornare poche ore dopo di me, e certamente sarà arrivato.»

Salirono in carrozza e si fecero condurre all’ingresso degli Champs-Elysées numero 30. Beauchamp voleva scendere solo, ma Albert gli fece osservare che quest’affare, fuori dalle regole ordinarie, gli permetteva di non rispettare l’etichetta del duello. Il giovane agiva per una causa così santa, che Beauchamp non aveva altro da fare, che accondiscendere ai suoi voleri: cedette dunque a Morcerf, e si contentò di seguirlo. Albert non fece che un salto dalla loggia del portinaio alla scalinata, dove fu ricevuto da Battistino. Il conte era difatti arrivato, ma stava in bagno, e aveva proibito di ricevere chicchessia.

«Ma dopo il bagno?» domandò Morcerf.

«Il signore pranzerà.»

«E dopo il pranzo?»

«Il signore dormirà un’ora.»

«E dopo?»

«Andrà all’Opéra.»

«Ne siete sicuro?» domandò Albert.

«Perfettamente sicuro. Il signore ha ordinato i cavalli per le otto.»

«Benissimo!» replicò Albert. «Ecco quanto volevo sapere.»

Quindi volgendosi a Beauchamp: «Se avete qualche cosa da fare, Beauchamp, fatelo presto; se avete appuntamenti per stasera, prorogateli a domani. Capirete che conto su di voi per andare all’Opéra. Se potete conducete con voi Château-Renaud».

Beauchamp approfittò del permesso, e lasciò Albert, dopo avergli promesso che sarebbe andato a prenderlo alle otto meno un quarto. Rientrato a casa, Albert avvisò con un biglietto Franz, Debray e Morrel del desiderio che aveva di vederli quella sera all’Opéra.

Quindi andò a visitare la madre, che dopo l’avvenimento del giorno prima stava ritirata nella sua camera: la trovò a letto oppressa dal dolore per quella pubblica umiliazione. La vista d’Albert produsse l’effetto che possiamo immaginarci; strinse la mano al figlio, e ruppe in singhiozzi. Però quelle lacrime la sollevarono. Albert rimase un istante, in piedi e muto, vicino al letto di sua madre. Dal pallido viso, e dal sopracciglio aggrottato, si capiva che il desiderio di vendetta si andava sempre più radicando nel suo cuore.

«Madre mia», proruppe Albert, «conoscete qualche nemico del signor Morcerf?»

Mercedes tremò; aveva notato che il giovane non aveva detto «di mio padre».

«Figlio mio», rispose, «gli uomini nella posizione del conte hanno molti nemici che non conoscono; d’altra parte i nemici che si conoscono, lo sapete, non sono i più pericolosi.»

«Sì, lo so, e per questo ricorro alla vostra perspicacia. Madre mia, siete una donna superiore alle altre, e niente vi sfugge!»

«Perché mi dite questo?»

«Perché avete notato, per esempio, che la sera che abbiamo dato il ballo, il signore di Montecristo non ha voluto prendere niente in casa nostra.»

Mercedes sollevandosi su un braccio tutta tremante e ardente per la febbre: «Il conte di Montecristo!» esclamò. «E che rapporto avrebbe con la domanda che mi fate?»

«Come ben sapete, madre mia, il signore di Montecristo è un uomo d’Oriente, e gli orientali, per conservare la loro libertà di vendetta, non mangiano né bevono in casa dei loro nemici.»

«Il signore di Montecristo nemico, voi dite, Albert!» riprese Mercedes più pallida del lenzuolo che la copriva. «Chi vi ha detto questo? Siete folle Albert. Il signore di Montecristo con noi non ha usato che gentilezze. Il signore di Montecristo vi ha salvato la vita, e voi stesso ce lo avete presentato. Oh, ve ne prego, figlio mio, se avete simile idee, allontanatele, e se ho una raccomandazione da farvi, anzi dirò di più, una preghiera, è che vi manteniate in armonia con quest’uomo.»

«Madre mia», replicò il giovane, con uno sguardo sinistro, «avete le vostre ragioni per dirmi di usare riguardi a quest’uomo?»

«Io?» gridò Mercedes, arrossendo con quella rapidità con cui era impallidita, e tornando quasi subito più pallida ancora.

«Sì, senza dubbio, e questa ragione non è», riprese Albert, «perché quest’uomo può farci del male?»

Mercedes fremette, e fissando su suo figlio uno sguardo scrutatore, disse: «Voi mi parlate in modo strano, e mi pare che abbiate strani pregiudizi. E che cosa vi ha dunque fatto il conte? Tre giorni fa eravate con lui in Normandia, tre giorni fa, io lo consideravo, e lo ritenevate voi pure, come uno dei vostri migliori amici».

Un sorriso ironico sfiorò le labbra d’Albert. Mercedes vide quel sorriso, e col doppio istinto di donna e di madre, indovinò tutto; ma prudente e forte seppe nascondere il suo turbamento. Albert lasciò cadere il discorso. Dopo un istante, la contessa riprese.

«Siete venuto a chiedermi come stavo; io vi risponderò francamente, figlio mio, non mi sento bene. Dovreste fermarvi qui, Albert, dovreste tenermi compagnia: ho bisogno di non rimaner sola.»

«Madre mia», disse il giovane, «io obbedirei ai vostri ordini, e voi sapete con che facilità, se non mi obbligasse a dovervi lasciare tutta la sera, un affare di premura e d’importanza…»

«Benissimo», rispose Mercedes con un sospiro. «Andate, Albert, non voglio rendervi schiavo della vostra pietà filiale.»

Albert fece finta di non capire, salutò sua madre, e uscì.

Appena il giovane ebbe chiuso la porta, Mercedes fece chiamare un servitore fidato, e gli ordinò di seguire Albert ovunque andasse, e di venirgliene a render conto all’istante; poi chiamò la cameriera, e sebbene debolissima, si fece vestire per essere pronta a ogni avvenimento.

La commissione data al servitore non era difficile da eseguirsi. Albert rientrò nelle sue camere, e si rivestì con ricercata severità. Beauchamp giunse alle otto meno dieci; aveva incontrato Château-Renaud che gli aveva promesso di trovarsi in platea prima dell’alzata del sipario. Salirono entrambi nella carrozza di Albert, che, non avendo alcun motivo di nascondere dove andava, disse ad alta voce: «All’Opéra».

Nella sua impazienza era entrato assai prima dell’alzata del sipario. Château-Renaud era già al suo posto, avvisato di tutto da Beauchamp; Albert non aveva alcuna spiegazione da dargli. La condotta di questo figlio che cercava di vendicare suo padre, era così semplice, che Château-Renaud non osò neppure dissuaderlo, e si contentò di rinnovargli l’assicurazione che era a sua disposizione. Debray non era ancora giunto, ma Albert sapeva quanto fosse difficile che mancasse a una rappresentazione dell’Opéra.

Andò errando per il teatro fino all’alzata del sipario. Sperava d’incontrare Montecristo nei corridoi o per le scale: il campanello lo richiamò al suo posto, e andò a sedersi in platea fra Beauchamp e Château-Renaud. Ma Albert non levò un momento gli occhi dal palco fra le colonnine, che durante tutto il primo atto sembrava ostinarsi a rimanere vuoto. Finalmente, mentre Albert per la centesima volta guardava il suo orologio, al principio del secondo atto, l’uscio del palco si aprì, e Montecristo vestito di nero, entrò e si appoggiò al parapetto per guardare in platea. Lo seguiva Morrel cercando con gli occhi la sorella e il cognato; li scoprì in un palco di second’ordine, e fece loro un segno.

Il conte, gettando uno sguardo nella sala, scorse una testa pallida e due occhi scintillanti, che sembravano evidentemente attirare i suoi sguardi; riconobbe Albert, ma l’espressione che notò in quel viso contraffatto lo consigliò senza dubbio di far finta di non averlo visto. Senza far dunque alcun atto che scoprisse il suo pensiero, si mise a sedere, estrasse il cannocchiale dall’astuccio, e guardò da un’altra parte. Ma senza mostrare di guardare Albert, il conte non lo perdeva di vista, e quando fu calato il sipario alla fine del secondo atto, seguì con gli occhi il giovane che usciva dalla platea accompagnato dai suoi due amici. Quindi la stessa testa ricomparve da una loggia dirimpetto alla sua. Il conte sentì approssimarsi la tempesta, e quando sentì toccare l’uscio del suo palco, sebbene in quello stesso istante parlasse a Morrel col viso più ridente, il conte sapeva che cosa doveva aspettarsi, e si era preparato a tutto. La porta s’aprì.

Montecristo si voltò soltanto allora e vide Albert livido e tremante; dietro a lui erano Beauchamp e Château-Renaud.

«Guardate!» disse con quella benevola gentilezza che distingueva il suo saluto dalla fatua urbanità sociale. «Ecco il mio cavaliere giunto alla meta. Buonasera, signor Morcerf.»

E il viso di quest’uomo, straordinariamente padrone di sé, esprimeva la più perfetta cordialità.

Morrel si ricordò soltanto allora della lettera che aveva ricevuto dal visconte, e nella quale, senz’altra spiegazione, questi lo pregava di trovarsi all’Opéra, e capì subito che stava per accadere qualcosa di terribile.

«Noi non veniamo qui per scambiarci ipocrite gentilezze o false apparenze d’amicizia», ribatté il giovane, «veniamo a domandarvi una spiegazione, signor conte.»

La voce tremante del giovane faceva fatica a passare fra i denti stretti.

«Una spiegazione all’Opéra?» domandò il conte, con tono calmo e sguardo penetrante. «Per quanto sia poco familiare alle costumanze parigine, non avrei creduto, signore, che fosse questo il luogo di domandare spiegazioni.»

«Però, quando le persone si tengono nascoste», rispose Albert, «quando non si può giungere fino a loro, sotto pretesto che sono al bagno, a tavola, o a letto, bisogna bene andarle a trovare dove si può.»

«Non è difficile trovarmi, perché ancora ieri, se ben ricordo, voi eravate mio ospite.»

«Ieri, signore», disse il giovane, cui cominciava a dolere la testa, «ero in casa vostra perché non sapevo chi foste.»

E dicendo queste parole, Albert aveva alzato la voce in modo da farsi sentire dalle persone delle logge vicine e da quelle che passavano per il corridoio. Perciò le persone delle logge si voltarono, quelle del corridoio si fermarono dietro Beauchamp e Château-Renaud al rumore di questo alterco.

«E da dove venite dunque, signore?» disse Montecristo senza la minima apparente emozione. «Mi sembra che non siate affatto in voi.»

«Purché capisca le vostre perfidie, signore, e giunga a farvi capire che voglio vendicarmene, sarò sempre abbastanza ragionevole», disse Albert furioso.

«Signore, io non vi capisco», replicò Montecristo, «e quand’anche vi capissi, parlereste sempre troppo forte. Qui sono in casa mia, signore, e io solo ho qui il diritto d’alzare la voce al di sopra degli altri. Uscite, signore!»

E Montecristo mostrò la porta ad Albert con un gesto imperioso.

«Ah, vi farò io uscire da casa vostra!» riprese Albert, spiegazzando un guanto con le mani convulse, che Montecristo non perdeva di vista.

«Bene! Bene!» disse flemmaticamente Montecristo. «Voi cercate lo scontro, signore, lo vedo, ma voglio darvi un consiglio, visconte, e tenetevelo bene in mente: è cattivo costume urlare nel provocare; il fracasso può disturbare gli altri, signor Morcerf.»

A questo nome, un mormorio di meraviglia si destò in tutti gli spettatori di quella scena. Fin dal giorno innanzi il nome di Morcerf era sulla bocca di tutti.

Albert, meglio degli altri, e prima di tutti, comprese l’allusione, e fece un gesto, per gettare il guanto sul viso del conte, ma Morrel gli afferrò il pugno, mentre Beauchamp e Château-Renaud, temendo che la scena oltrepassasse i limiti di una provocazione lo tenevano da dietro.

Montecristo, senza alzarsi, inchinandosi sulla sedia, tese soltanto la mano, prendendo da quelle del giovane il guanto strofinato.

«Signore», disse con accento terribile, «ritengo il vostro guanto come gettato, e ve lo rimetterò con una pallottola. Ora uscite da casa mia, o chiamo i miei servi, e vi faccio mettere alla porta.»

Ebbro, atterrito, con gli occhi febbrili, Albert fece due passi indietro; Morrel ne approfittò per chiudere la porta. Montecristo riprese il suo cannocchiale, e si mise a guardare come se non fosse accaduto niente.

Morrel gli si accostò all’orecchio.

«Che cosa gli avete fatto?» domandò.

«Io? Nulla, almeno personalmente», rispose Montecristo. «Però questa scena deve avere una causa… L’avventura del conte Morcerf esaspera lo sfortunato giovane.»

«C’entrate in qualche modo voi?»

«Fu per mezzo di Haydée che la Camera venne informata del tradimento del padre.»

«Difatti», annuì Morrel, «me l’hanno detto; ma io non volevo credere che quella schiava greca che ho visto qui, in questo stesso palco, fosse la figlia d’Alì Pascià.»

«Eppure è la verità.»

«Mio Dio! Ora comprendo tutto», disse Morrel, «questa scena era premeditata.»

«In che modo?»

«Albert mi ha scritto di trovarmi questa sera all’Opéra, lo ha fatto perché fossi testimone dell’insulto.»

«Probabilmente», disse Montecristo, con la sua imperturbabile tranquillità.

«Ma che farete di lui?»

«Di Albert?» riprese Montecristo, con lo stesso tono. «Che ne farò, Maximilien? Com’è vero che siete qui e che vi stringo la mano, lo ucciderò domani prima delle dieci antimeridiane, ecco che cosa ne farò.»

Morrel prese fra le sue la mano di Montecristo e rabbrividì nel sentirla calma e fredda.

«Ah, conte», disse, «suo padre lo ama tanto!»

«Non mi dite altro, altrimenti lo farò soffrire!» gridò Montecristo, col primo movimento di collera che fino allora dimostrasse.

Morrel stupefatto lasciò cadere la mano di Montecristo esclamando: «Conte! Conte!»

«Caro Maximilien», lo interruppe il conte, «ascoltate dunque in che adorabile modo Duprez canta questo verso “Oh Matilde, idolo del mio cuor”. Sono stato il primo, a Napoli, a indovinare un grande artista nel Duprez. Bravo! Bravo!»

Morrel capì che non c’era più nulla da aggiungere. Il sipario, che si era alzato al finire della disputa di Albert, tornò a cadere; quasi subito dopo, si sentì bussare alla porta.

«Entrate», disse Montecristo, senza che la sua voce manifestasse la minima emozione.

Beauchamp comparve.

«Buonasera, signor Beauchamp», salutò Montecristo, come se vedesse il giornalista per la prima volta nella serata. «Sedete.»

Beauchamp salutò entrando, e si sedette.

«Signore», disse a Montecristo, «accompagnavo, come avrete potuto vedere, il signor Morcerf…»

«Ciò vuol dire», riprese Montecristo ridendo, «che probabilmente avrete pranzato assieme. Sono contento di vedere, signor Beauchamp, che voi siete più sobrio di lui.»

«Signore», disse Beauchamp, «Albert ha avuto, ne convengo, torto nel lasciarsi trasportare, e vengo per mio conto a farvene le scuse. Ora che le mie scuse sono fatte, le mie, intendete bene, signor conte?, vengo a dirvi che vi credo troppo galantuomo per rifiutarvi di darmi spiegazioni sulle vostre relazioni con le persone di Giannina. Quindi aggiungerò due parole sul conto della giovane greca.»

Montecristo fece con gli occhi e con le labbra un piccolo gesto che comandava il silenzio.

«Suvvia!» aggiunse ridendo. «Ecco tutte le mie speranze distrutte.»

«In che modo?» domandò Beauchamp.

«Senza dubbio, voi vi siete affannati a dipingermi come un eccentrico… Io ero, a parer vostro, un Lara, un Manfredi, un lord Ruthwen! Poi, passato il momento di vedermi eccentrico, voi cambiate il mio tipo, tentate di farmi diventare un uomo oscuro. Mi volete comune, volgare! Infine mi domandate spiegazioni. Suvvia, signor Beauchamp, voi volete scherzare!»

«Eppure», riprese Beauchamp con freddezza, «vi sono circostanze in cui la probità ordina…»

«Signor Beauchamp», interruppe il conte, «chi comanda al conte di Montecristo è il conte di Montecristo. Quindi, non dite una parola di più su questo argomento, per favore. Io faccio ciò che voglio, signor Beauchamp, e, credetemi, è sempre fatto benissimo.»

«Signore», riprese il giovane, «le persone oneste non si pagano con tal moneta; sono necessarie delle garanzie all’onore.»

«Signore, io sono una garanzia vivente», rispose Montecristo impassibile, ma negli occhi balenavano fiamme. «Entrambi abbiamo nelle vene del sangue, che abbiamo volontà di versare, ecco la nostra mutua garanzia. Riportate questa risposta al visconte, e ditegli che domani alle dieci c’incontreremo.»

«Non mi rimane dunque», disse Beauchamp, «che stabilire le condizioni del combattimento.»

«Anche questo mi è del tutto indifferente, signore», disse il conte di Montecristo. «Era dunque inutile venire a disturbarmi a teatro per cosa di così poco conto. In Francia si battono alla spada o alla pistola; nelle Colonie preferiscono la carabina; nell’Arabia adoperano il pugnale. Dite al vostro committente, che benché sia io l’insultato, gli lascio la scelta delle armi, e che accetterò tutto senza contestazione, tutto, intendete bene, tutto! Anche il duello per mezzo della sorte, cosa che è sempre stupida. Ma per me è un affare diverso, io sono sicuro di vincere.»

«Sicuro di vincere», ripeté Beauchamp, guardando il conte terrorizzato.

«Certamente», disse Montecristo, alzando leggermente le spalle. «Senza questa certezza non mi batterei col signor Morcerf. Io lo ucciderò, è necessario, e lo farò. Soltanto, non fate una parola di tutto ciò in casa mia questa sera, indicatemi l’arma e l’ora, preferisco che nessuno sappia.»

«Alla pistola, alle otto del mattino, al bosco di Vincennes», disse Beauchamp sconcertato, non sapendo se aveva a che fare con un fanfarone tracotante o con un essere soprannaturale.

«Va bene, signore», disse Montecristo. «E ora che tutto è in regola, lasciatemi sentire la musica, ve ne prego, e dite al vostro amico Albert di non tornare stasera; si farebbe torto con tutte le sue brutalità di cattivo gusto: ritorni a casa a dormire.»

Beauchamp uscì esterrefatto.

«Ora», riprese Montecristo, volgendosi a Morrel, «posso contare su di voi, vero?»

«Certo», rispose Morrel, «voi potete disporre di me, conte, però…»

«Sì?»

«Sarebbe importante, conte, che io conoscessi la vera causa.»

«Vale a dire che vi rifiutate?»

«No.»

«La vera causa, Morrel» disse il conte, «il giovane, che cammina alla cieca, non la conosce neppure lui. La vera causa non è conosciuta che da me e dal cielo; ma vi do la mia parola d’onore, Morrel, che il cielo la conosce, e sarà a nostro favore.»

«Basta così, conte», disse Morrel. «Chi è il vostro secondo padrino?»

«Io non conosco nessuno a Parigi cui dare questo onore, che voi Morrel, e vostro cognato Emmanuel. Credete voi che Emmanuel vorrà rendermi questo favore?»

«Vi garantisco per lui, come per me, conte.»

«Bene, non mi occorre altro. Domattina alle sette sarete da me…»

«Ci saremo.»

«Zitto! Ecco che si rialza il sipario, ascoltiamo. Non perdo una nota di quest’opera, è tanto deliziosa la musica del Guglielmo Tell!»

88. La notte

Il signore di Montecristo attese, secondo la sua abitudine, che Duprez avesse cantato il suo famoso Seguitemi! e allora soltanto si alzò e uscì. Sulla porta Morrel lo lasciò, rinnovando la promessa di essere da lui con Emmanuel, la mattina dopo alle sette precise. Indi salì nella sua carrozza, sempre calmo, sorridente. Cinque minuti più tardi era a casa sua. Bisognava non conoscere il conte per lasciarsi ingannare dall’espressione con la quale entrando in casa disse ad Alì: «Dammi le mie pistole col calcio d’avorio.»

Alì porse la cassetta al padrone, e questi esaminò le armi con l’attenzione naturale a un uomo che sta per affidare la vita a un ferro o a una pistola. Si trattava di pistole particolari che Montecristo aveva fatto costruire appositamente per tirare al bersaglio nel suo appartamento. Una capsula bastava per sparare una pallottola, e, dalla stanza vicina, non si sarebbe potuto credere che il conte stava, come si dice in termine militare, esercitandosi. Stava prendendo la mira sopra un pezzettino di tela che serviva da bersaglio, quando si aprì la porta del suo studio, ed entrò Battistino. Ma prima ancora che avesse aperto la bocca, il conte vide una donna velata in piedi, illuminata dalla debole luce della stanza vicina, che aveva seguito Battistino. Questa donna, avendo scorto il conte con la pistola alla mano e due spade sopra una tavola, si lanciò dentro. Battistino consultò con uno sguardo il suo padrone. Il conte gli fece un segno, e Battistino si ritirò, chiudendo la porta dietro di sé.

«Chi siete, signora?» domandò il conte rivolto alla donna velata.

La sconosciuta lanciò uno sguardo intorno a sé per assicurarsi che fossero soli, poi, inchinandosi come se avesse voluto inginocchiarsi, congiunse le mani, e con l’accento della disperazione, disse: «Edmond, voi non ucciderete mio figlio!»

Il conte fece un passo indietro, mandò un debole grido, e lasciò cadere l’arma di mano.

«Che nome avete pronunciato, signora Morcerf!?»

«Il vostro», gridò lei gettando il velo, «il vostro che, solo io forse, non ho dimenticato mai! Edmond, non è la signora Morcerf che viene da voi, è Mercedes!»

«Mercedes è morta, signora», ribatté Montecristo, «e io non conosco più nessuno che porti questo nome.»

«Mercedes vive, signore, e Mercedes vi ricorda, poiché lei sola vi ha riconosciuto quando vi vide, e anche senza vedervi, alla sola voce Edmond, al solo accento della vostra voce… Lei vi ha seguito passo passo, vi sorveglia, vi teme, e non ha avuto bisogno di cercare la mano da cui partiva il colpo che ha percosso il signor Morcerf.»

«Fernando, volete dire, signora», riprese Montecristo con amara ironia, «poiché ricordiamo i nostri nomi, ricordiamoli tutti.»

E Montecristo aveva pronunciato il nome di Fernando con tale espressione d’odio, che Mercedes sentì il brivido dello spavento correrle per tutto il corpo.

«Vedete bene che non mi sono ingannata», gridò Mercedes, «e che ho ragione di dirvi: risparmiatemi il figlio!»

«E chi vi ha detto, signora, che odio vostro figlio?»

«Nessuno, mio Dio. Ma una madre è dotata di una doppia vista. Ho indovinato tutto: l’ho seguito stasera all’Opéra, e, nascosta in un palco, ho visto ogni cosa.»

«Se avete visto tutto, signora, avrete notato che il figlio di Fernando mi ha insultato pubblicamente», disse Montecristo con calma terribile.

«Oh, per pietà!»

«Avrete visto», continuò il conte, «che mi avrebbe gettato il guanto in faccia, se uno dei miei amici, Morrel, non gli avesse fermato il braccio.»

«Ascoltatemi, anche mio figlio ha intuito, e attribuisce a voi la disgrazia che è caduta su suo padre.»

«Signora», disse Montecristo, «non è una disgrazia, è un castigo. Non sono io che perseguito il signor Morcerf, è la Provvidenza che lo colpisce.»

«E perché vi sostituite alla Provvidenza? Perché ricordate voi ciò che questa ha dimenticato? Che importa a voi, Edmond, di Giannina e del suo visir? Che torto ha fatto a voi Fernando Mondego, col tradire Alì Tebelin?»

«Tutto questo», rispose Montecristo, «tutto questo è un affare fra il capitano francese e la figlia di Vasiliki. Ciò non mi riguarda affatto, avete ragione, e se ho giurato di vendicarmi, non è del capitano francese, né del signor Morcerf, ma bensì del pescatore Fernando, marito della catalana Mercedes.»

«Ah, signore», gridò la contessa, «che terribile vendetta per una colpa che la fatalità mi ha fatto commettere! Poiché la vera colpevole sono io, Edmond, e se dovete vendicarvi di qualcuno, è di me che ho mancato, costretta dalla vostra assenza e dal mio isolamento.»

«Ma», gridò Montecristo, «perché sono stato assente? Perché siete rimasta isolata?»

«Perché foste arrestato, Edmond, perché eravate in prigione!»

«E perché fui arrestato, perché ero in prigione?»

«Lo ignoro», rispose Mercedes.

«Sì, voi lo ignorate, signora, almeno lo spero. Ebbene, ve lo dirò io. Fui arrestato e messo in prigione, perché sotto il pergolato dell’osteria della Riserva, la stessa vigilia del giorno in cui dovevo sposarvi, un uomo chiamato Danglars scrisse questa lettera che il pescatore Fernando s’incaricò di consegnare lui stesso alla posta.»

E Montecristo, andando allo scrittoio, estrasse un foglio che aveva perduto il primitivo colore, e la cui scrittura aveva preso quello della ruggine, e lo mise sotto gli occhi di Mercedes. Era la lettera di Danglars al regio procuratore, che il giorno in cui aveva pagato i duecentomila franchi al signor di Boville, il conte di Montecristo, travestito da commesso della casa Thomson e French, aveva sottratto dalla pratica di Edmond Dantès.

Mercedes lesse con spavento: «Il signor regio procuratore è avvisato da un amico del trono e della religione, che il nominato Edmond Dantès, secondo sul bastimento Pharaon, giunto questa mattina da Smirne, dopo aver toccato Napoli e Portoferraio, ha ricevuto l’incarico da Murat di consegnare una lettera per l’usurpatore, e dall’usurpatore di una lettera per il comitato bonapartista di Parigi. Si avrà la prova del suo delitto arrestandolo, poiché si troverà questa lettera, o nelle sue tasche o presso suo padre, o nella sua cabina a bordo del Pharaon».

«Oh, mio Dio!» gridò Mercedes, passando la mano sulla fronte bagnata di sudore. «Questa lettera…»

«L’ho comprata per duecentomila franchi, signora», disse Montecristo, «ma è ancora a buon mercato, perché oggi mi permette di giustificarmi ai vostri occhi.»

«E il risultato di questa lettera?»

«Voi lo sapete, signora, fu il mio arresto. Quello però che non sapete è che io sono stato per quattordici anni a un quarto di lega da voi, in una prigione segreta del castello d’If. Ciò che non sapete, è che ogni giorno di questi quattordici anni ho rinnovato il mio giuramento di vendetta che avevo fatto il primo giorno. Eppure ignoravo che aveste sposato Fernando, il mio delatore, e che mio padre fosse morto, e morto di fame!»

«Giusto Dio!» gridò Mercedes vacillando.

«Ecco ciò ch’io ho saputo nell’uscire di prigione, quattordici anni dopo esservi entrato, ed ecco quello che mi ha indotto a giurare su Mercedes viva e su mio padre morto, di vendicarmi, e… io mi vendico.»

«E siete sicuro che il disgraziato Fernando abbia fatto tutto questo?»

«Sull’anima mia, ha fatto quello che vi ho detto. D’altra parte non è molto più odioso che, francese d’adozione, essere passato nelle file degli inglesi; spagnolo di nascita, aver combattuto contro gli spagnoli; stipendiato da Alì, avere tradito e assassinato Alì! In faccia a simili cose, che cosa è mai la lettera che avete letto? Una sopraffazione galante che può perdonare, lo vedo e lo rilevo, la donna che ha sposato quest’uomo, ma che non perdona l’amante che doveva sposarla.

Ebbene, i francesi non si sono vendicati del traditore; gli spagnoli non hanno fucilato il traditore; Alì, sepolto nella sua tomba, ha lasciato impunito il traditore; ma io, tradito, assassinato, gettato vivo in una tomba, da cui sono uscito per miracolo, io debbo vendicarmi, e il cielo, giusto punitore dei malvagi, mi ha inviato a punire, ed eccomi qui.»

La povera donna lasciò ricadere la testa e le mani; le gambe le si piegarono sotto, e cadde in ginocchio.

«Perdonate, Edmond», supplicò, «perdonate per me, che vi amo ancora!»

La dignità della sposa mise un freno allo slancio dell’amante e della madre; la sua fronte s’inchinò fino a toccare il tappeto. Il conte si chinò su di lei, e la rialzò. Allora poté, attraverso le lacrime, guardare il pallido viso di Montecristo, al quale il dolore e l’odio imprimevano un carattere minaccioso.

«Che io non schiacci questa razza maledetta?» mormorò. «Che io disobbedisca al cielo, il quale mi ha risorto per la loro punizione? Impossibile, signora, impossibile!»

«Edmond», riprese la povera madre, tentando tutti i mezzi. «Quando vi chiamo Edmond, perché non mi chiamate Mercedes?»

«Mercedes!» ripeté Montecristo, «Mercedes! Ebbene, sì, voi avete ragione, questo nome è dolce ancora da pronunciare, ed ecco la prima volta, dopo lunghi anni, che risuona chiaro sulle mie labbra. Ah, Mercedes! Il vostro nome io l’ho pronunciato coi sospiri della malinconia, coi gemiti del dolore, con la rabbia della disperazione; l’ho pronunciato gelido per il freddo, rattrappito sulla paglia della mia cella; l’ho pronunciato divorato dal caldo, l’ho pronunciato rotolandomi sul pavimento del carcere.

Mercedes, è necessario ch’io mi vendichi, perché ho sofferto per quattordici anni: per quattordici anni ho pianto, ho maledetto. Ora, io ve lo ripeto, Mercedes, bisogna ch’io mi vendichi!»

E il conte di Montecristo, temendo di cedere alle lacrime di quella donna che aveva amato tanto, chiamava in soccorso del suo odio i ricordi del passato.

«Vendicatevi, Edmond», gridò la povera madre, «ma vendicatevi sui colpevoli, vendicatevi su di me, non su mio figlio!»

«Mi rammento d’aver trovato scritto, né m’inganno», disse Montecristo, «“Le colpe dei padri ricadranno sui figli fino alla terza e quarta generazione.”»

«Edmond», continuò Mercedes, le braccia tese verso il conte, «da quando vi ho conosciuto ho adorato il vostro nome, ho rispettato la vostra memoria. Edmond, amico mio, non mi costringete a cancellare questa immagine nobile e pura, che m’è sempre stata impressa nel cuore. Edmond, se voi sapeste tutte le preghiere che ho innalzato a Dio per voi, fino a che vi ho sperato vivo, e dopo che vi ho creduto morto! Sì, morto, ahimè! Credevo il vostro cadavere sepolto nel fondo di quella torre, il vostro corpo precipitato in qualcuno di quegli abissi in cui i carcerieri rotolano i morti, e io vi piangevo! Che cosa potevo fare per voi, Edmond, se non pregare e piangere? Ascoltatemi, per dieci anni ho fatto ogni notte lo stesso sogno. Si disse che voi avevate tentato di fuggire, che preso il posto di un altro prigioniero, vi eravate introdotto nel sacco mortuario, e che quando avevano gettato il corpo dall’alto del castello d’If, solo dal grido nell’infrangervi sugli scogli, i becchini vostri carnefici avevano capito dello scambio. Ebbene, Edmond, ve lo giuro sulla testa di questo figlio per il quale v’imploro, Edmond, per dieci anni ho visto ogni notte gli uomini che libravano qualche cosa d’informe e di sconosciuto dall’alto della roccia; per dieci anni ho udito ogni notte un grido terribile che mi faceva destare, rabbrividire e gelare. E io pure, Edmond, credetemi, per quanto sia rea, oh sì, io pure ho sofferto molto!»

«Avete voi saputo che vostro padre moriva in vostra assenza?» gridò Montecristo, cacciandosi le mani fra i capelli. «Avete visto la donna che amavate, tendere la mano al vostro rivale, nel tempo che morivate nell’abisso di un vortice?»

«No», interruppe Mercedes, «ma ho visto quello che io amavo, pronto a diventare l’assassino di mio figlio!»

Mercedes pronunciò queste parole con un dolore così possente, con accento così disperato, che un singhiozzo sfuggì dalla gola del conte.

Il leone era domato, il vendicatore era vinto.

«Che cosa volete da me?» gridò. «Che vostro figlio viva? Ebbene vivrà!»

Mercedes mandò un grido che fece scaturire due lacrime dalle pupille di Montecristo, ma esse scomparvero subito, poiché si staccò dal cielo un angelo per raccoglierle, essendo più preziose al Signore che le più ricche perle di Gizerate e d’Ofir.

«Grazie!» gridò lei afferrando la mano del conte e portandosela alle labbra. «Grazie, Edmond, grazie! Eccoti come ti ho sempre sognato come ti ho sempre amato… Oh, ora posso dirlo!»

«Tanto più», riprese Montecristo, «che il povero Edmond non avrà molto tempo per essere amato. Il morto rientra nella tomba, il fantasma rientra nella notte.»

«Che cosa intendete dire, Edmond?»

«Dico che, poiché l’ordinate, Mercedes, bisogna morire.»

«Morire? E chi lo dice? Chi parla di morire? Da dove vi tornano simili idee di morte?»

«Non supporrete, che, oltraggiato pubblicamente, di fronte a tutto un teatro in presenza dei vostri amici e di quelli di vostro figlio, provocato da un giovanetto che si glorierebbe del mio perdono come di una vittoria, voi non supporrete già, dicevo, che io sia disposto a vivere un solo momento. Ciò che ho amato di più, dopo di voi, Mercedes, è me stesso, vale a dire la mia dignità, quella forza che mi rendeva superiore agli altri uomini, quella forza ch’era la mia vita. Con una parola, voi la rompete. Io muoio.»

«Ma questo duello non avrà luogo, Edmond, poiché perdonate.»

«Avrà luogo, signora», disse solennemente Montecristo. «Soltanto che sul terreno, che doveva essere bagnato dal sangue di vostro figlio, scorrerà il mio sangue.»

Mercedes mandò un grido, e si lanciò verso Montecristo; ma a un tratto si fermò.

«Edmond», disse, «vi è un Dio sopra di noi, poiché vi ho rivisto, e io confido in lui dal più profondo del cuore. Aspettando il suo aiuto, mi affido alla vostra parola: voi avete detto che mio figlio vivrà; vivrà, non è vero?»

«Vivrà, signora», ripeté Montecristo, sorpreso che senz’altra opposizione, senz’altra meraviglia, Mercedes avesse accettato l’eroico sacrificio che le offriva.

Mercedes tese la mano al conte.

«Edmond», disse, mentre gli occhi le si bagnavano di lacrime guardando l’uomo a cui rivolgeva queste parole, «quanto è bello da parte vostra, come è grande ciò che avete fatto! Quanto è sublime avere avuto pietà d’una povera donna che vi pregava senza offrirvi nessuna speranza! Ahimè, sono invecchiata per i dispiaceri più ancora che per gli anni, non posso più rammentare al mio Edmond con uno sguardo quella Mercedes d’un tempo ch’egli passava tante ore a contemplare. Ah, credetemi, Edmond, vi ho detto che io pure ho sofferto molto, ve lo ripeto; è ben triste veder passare la vita senza ricordarsi una sola gioia, senza conservare una sola speranza! Anche se ciò può essere una prova che non tutto è finito… No, tutto non è finito, lo sento da ciò che mi rimane ancora nel cuore. Oh, ve lo ripeto Edmond, è bello, è grande, è sublime il perdonare come voi fate!»

«Voi dite ciò, Mercedes? E che direste se sapeste tutta l’estensione del sacrificio che vi offro? Voi non ne avete un’idea, o piuttosto, no, no, voi non potrete mai farvi un’idea di ciò ch’io perdo, perdendo la vita in questo momento.»

Mercedes guardò il conte esprimendo a un tempo la meraviglia, l’ammirazione e la riconoscenza. Montecristo appoggiò la fronte sulle mani ardenti, come se non potesse più sostenere il peso dei pensieri.

«Edmond», disse Mercedes, «non ho che una parola da dirvi.»

Il conte sorrise amaramente.

«Edmond», continuò, «vedrete che se la mia fronte è impallidita, se i miei occhi sono spenti, se la mia bellezza è perduta, se infine non assomiglio più alla Mercedes d’una volta, vedrete che sono sempre la stessa nel cuore! Addio dunque, Edmond, non ho più nulla da chiedere al cielo… Vi ho rivisto, e rivisto ugualmente nobile e grande come in altri tempi. Addio, Edmond… Addio e grazie!»

Il conte non rispose.

Mercedes aveva riaperto la porta dello studio, ed era scomparsa prima ancora che il conte fosse rinvenuto dalla dolorosa e profonda prostrazione in cui lo aveva immerso la fallita vendetta.

Suonava l’una all’orologio des Invalides, quando la carrozza che trasportava la signora Morcerf correndo per gli Champs-Elysées, fece rialzare la testa al conte di Montecristo.

«Pazzo!» disse. «Dovevo strapparmi il cuore il giorno in cui decisi di vendicarmi!»

89. Il duello

Quando Mercedes si fu allontanata, Montecristo si disse: «L’edificio così lentamente preparato, elevato con tante pene e tanti affanni, ecco che crolla a un tratto con una sola parola, sotto un soffio! E dunque, sono ancora quello che si credeva qualche cosa? Che era così superbo di se stesso? Che vistosi piccolo nel carcere d’If, era riuscito a diventare così grande? La mia salma sarà dunque domani un poco di polvere? Ahimè, non è la morte del corpo quella che rimpiango. Questa distruzione della materia, non è forse il riposo a cui tende tutto, a cui aspira ogni infelice? Quella calma della materia alla quale m’incamminavo per la strada dolorosa della fame, quando Faria comparve nel mio cuore? Che cosa è dunque la morte per me? Un grado in più nella calma, forse nel silenzio. No, non è dunque la cessazione dell’esistenza che io rimpiango, poiché il mio spirito sopravvivrà: ma la rovina dei progetti così lentamente elaborati, così faticosamente costruiti, ecco ciò che amaramente piango. La Provvidenza, che io avevo creduto favorevole, è dunque contraria? Dio non vuol dunque che i fatti si compiano? Il fardello che avevo sollevato, pesante quasi al pari del mondo e che avevo creduto di poter portare fino al termine, era secondo i miei desideri, ma non secondo la mia forza; secondo la mia volontà, ma non secondo il mio potere? Dovrò deporlo, giunto appena alla metà della mia corsa? O diventerei forse fatalista, io, che sono stato reso previdente da quattordici anni di disperazione e dieci di speranze? E tutto questo, tutto questo, mio Dio, perché il mio cuore, che credevo morto non era che assopito, perché si è risvegliato, perché ha palpitato di nuovo, perché ho ceduto al dolore che questo palpito solleva dal fondo del mio petto per la voce di una donna! Eppure», continuò il conte, inabissandosi sempre più nelle previsioni di quel domani terribile che aveva accettato da Mercedes, «eppure è impossibile che questa donna d’un cuore così nobile, abbia in tal modo, per egoismo, acconsentito a lasciarmi uccidere, me, così pieno di forze, d’esistenza! È impossibile che lei spinga a tal punto l’amore, o piuttosto il delirio materno! Vi sono virtù in cui l’esagerazione sarebbe un delitto. Ma lei avrà immaginato qualche scena poetica: verrà a gettarsi fra le spade, e sarà cosa ridicola…»

Il rossore dell’orgoglio salì sul viso del conte.

«È ridicolo», ripeté, «e il ridicolo ricadrà su di me… Io ridicolo! Piuttosto, preferisco morire.»

A forza di esagerarsi in questo modo i fatti che sarebbero potuti accadere l’indomani, nel quale si era condannato, promettendo a Mercedes che avrebbe lasciato vivere suo figlio, il conte finì col dirsi: «Pazzie! Pazzie! Pazzie! Mettersi come segno inerte davanti alla mira del giovane! Non crederà mai che la mia morte sia un suicidio, eppure per l’onore della mia memoria (questa non è vanità, ma giusto orgoglio, ecco tutto), per l’onore della mia memoria voglio che il mondo sappia che ho acconsentito di mia volontà, con una libera decisione, a fermare il braccio abituato a percuotere, a ferirmi da me stesso con questo braccio uso a vincere gli altri… È necessario, lo farò.»

E presa una penna, scrisse alcune righe in calce a un foglio, che era il testamento fatto al suo arrivo a Parigi, e stese una specie di codicillo, nel quale faceva comprendere la sua morte anche agli uomini meno perspicaci.

«Faccio questo, Dio mio, per il solo mio onore, e per umiliare me stesso agli occhi miei. Da dieci anni mi sono considerato ministro della vendetta celeste, è indispensabile che questi miserabili, che un Danglars, un Villefort, un Morcerf non si figurino d’essersi sbarazzati di me per opera del solo caso, che il solo caso li abbia liberati del loro nemico. Sappiano, al contrario, che non ha avuto luogo la deliberata punizione, perché è stata corretta dalla mia sola volontà: che il castigo evitato in questo mondo li aspetta nell’altro e che essi non hanno fatto altro cambio che quello del tempo con l’eternità.»

Mentre ondeggiava in queste cupe incertezze, sogni d’uomo risvegliato dal dolore, venne il giorno a rischiarare sotto le sue mani la carta azzurra sulla quale tracciava l’ultima sua giustificazione: erano le cinque del mattino.

A un tratto gli giunse all’orecchio un leggero rumore.

Montecristo credette di avere udito qualche cosa, come un sospiro soffocato; volse la testa, guardò intorno a sé, e non vide nessuno.

Soltanto, il rumore si ripeté molto distintamente. Allora il conte si alzò, aprì dolcemente la porta del salotto, e sopra una sedia, con la bella testa pallida e inclinata indietro, vide Haydée, che si era posta davanti alla porta affinché non potesse uscire senza vederla, ma il sonno possente nella gioventù l’aveva sorpresa dopo la fatica di una lunga veglia. Il rumore che fece la porta nell’aprirsi non poté scuotere Haydée dal sonno. Montecristo fissò su di lei uno sguardo pieno di dolcezza e di dolore.

«Lei si è ricordata che aveva un padre e io mi sono dimenticato che ho una figlia!»

Scosse tristemente la testa.

«Povera Haydée!» disse. «Ha voluto vedermi, ha voluto parlarmi, ha temuto o indovinato qualche cosa. Oh, non posso partire senza dirle addio, non posso morire senza affidarla a qualcuno.»

E ritornò al suo posto e scrisse sotto alle righe già vergate: «Lascio a Maximilien Morrel, capitano degli Spahis, e figlio del mio antico padrone Pierre Morrel, armatore in Marsiglia, la somma di venti milioni, di cui ne sarà da lui offerta una parte a sua sorella Julie e a suo cognato Emmanuel, a meno che non creda che questo aumento di fortuna possa nuocere alla loro felicità. Questi venti milioni sono sepolti nella mia grotta dell’isola di Montecristo, di cui Bertuccio conosce il segreto. Se il suo cuore è libero, e vorrà sposare Haydée, figlia d’Alì pascià di Giannina, da me allevata con l’amore di padre, e che ha avuto per me l’amore e la tenerezza di una figlia, esaudirà non dirò l’ultima mia volontà, ma l’ultimo mio desiderio. Il presente testamento ha già fatto Haydée erede del resto della mia sostanza consistente in terre, rendite in Inghilterra, Austria e Olanda, mobili dei miei diversi palazzi e case, e che prelevati i venti milioni, altri lasciti fatti ai miei servitori ecc., formerà una somma che potrà ammontare a sessanta milioni». Terminava appena di scrivere quest’ultima riga, quando un grido dietro di lui gli fece cadere la penna dalla mano.

«Haydée», disse, «voi avete letto!»

Infatti la giovane, risvegliata dal chiarore del giorno che le aveva colpito le pupille, si era alzata e avvicinata al conte, senza che egli potesse sentirne i passi leggeri, attutiti dal tappeto.

«Oh, mio signore», disse lei, congiungendo le mani, «perché scrivete a quest’ora? Perché mi lasciate le vostre ricchezze? Mio signore, mi abbandonate forse?»

«Vado a fare un viaggio, cara fanciulla», disse Montecristo con espressione di malinconia e di tenerezza infinita, «e se mi accadesse qualche disgrazia…»

Il conte si fermò.

«Ebbene?» domandò la giovane donna con un accento imperioso ignoto al conte, e che lo fece fremere.

«Ebbene, se mi accade qualche disgrazia», riprese Montecristo, «voglio che mia figlia sia felice.»

Haydée sorrise tristemente scuotendo la testa.

«Voi pensate a morire, mio signore?»

«È un pensiero salutare, figlia mia, ha detto il saggio.»

«Ebbene, se voi morite», disse, «lasciate pure la vostra sostanza ad altri eredi; perché se morite… non avrò più bisogno di niente.»

E prendendo il foglio lo stracciò in quattro pezzi che gettò in mezzo al salotto. Quindi spossata da quell’attimo di energia così poco comune a una schiava, cadde, non più addormentata, ma svenuta sul pavimento.

Montecristo si chinò su di lei, la sollevò fra le braccia, e, vedendo quel bel viso pallido, e quegli occhi chiusi, quel bel corpo inanimato e come abbandonato, gli venne per la prima volta l’idea che lo amasse ben diversamente da come una figlia ama suo padre.

«Povero me», mormorò, con profondo scoraggiamento, «avrei ancora potuto esser felice!»

Quindi portò Haydée fino al suo appartamento, la rimise fra le mani delle sue donne, e rientrando nello studio, che stavolta chiuse attentamente, ricopiò il testamento distrutto. Mentre terminava sentì il rumore di un calessino che entrava nel cortile.

Montecristo si avvicinò alla finestra, e vide scendere Maximilien ed Emmanuel.

«Bene!» disse. «È giunta l’ora.»

Sigillò il suo testamento con triplo sigillo. Un istante dopo udì un rumore di passi nella sala, e andò ad aprire egli stesso. Morrel comparve sulla soglia: aveva anticipato l’ora di venti minuti.

«Vengo forse troppo presto, signor conte», disse, «ma vi confesso francamente che non ho potuto dormire un minuto, è accaduto lo stesso a tutta la famiglia; avevo molto bisogno di vedere la vostra coraggiosa fermezza per recuperarla io stesso.»

Montecristo non poté contenersi a tal prova di affezione, e non pago di tendergli la mano, gli aprì le braccia.

«Morrel», gli disse, con voce commossa, «è per me un bel giorno quello in cui mi sento amato da un uomo come voi. Buongiorno, signor Emmanuel. Voi dunque venite con me, Maximilien?»

«Assolutamente!» disse il giovane capitano. «Ne avete dubitato?»

«Ma pure, se io avessi torto…»

«Ascoltate, vi ho osservato ieri durante tutta la scena di sfida: ho pensato alla vostra fermezza tutta questa notte e ho detto a me stesso ch’eravate dalla parte della giustizia.»

«Però, Morrel, Albert è vostro amico…»

«Una semplice conoscenza, conte.»

«Non lo vedeste la prima volta lo stesso giorno che vedeste me?»

«Sì, è vero; ma che volete, bisogna che me lo ricordiate voi, perché me ne sovvenga.»

Quindi suonò il campanello.

«Prendi», disse ad Alì, che comparve subito. «Sia consegnato al mio notaio: è il mio testamento, Morrel. Quando sarò morto, andrete a prenderne visione.»

«Come!» gridò Morrel. «Voi morto?»

«Non bisogna sempre prevedere tutto, amico caro? Ma che cosa avete fatto ieri sera dopo avermi lasciato?»

«Sono stato al caffè Tortoni, dove, come m’aspettavo, ho trovato Beauchamp e Château-Renaud, vi confesso che li cercavo.»

«Per far che, quando tutto era già convenuto?»

«Ascoltate, conte, l’affare è grave e inevitabile…»

«Ne dubitavate?»

«No, l’offesa è stata pubblica, e già tutti ne parlano.»

«Ebbene?»

«Speravo di far cambiare le armi, sostituire alla pistola, la spada. La pistola è cieca.»

«Ci siete riuscito?» domandò vivacemente Montecristo con un’impercettibile speranza.

«No, perché si conosce la vostra destrezza alla spada.»

«E chi mi ha visto maneggiare una spada?»

«I maestri di scherma che avete battuto.»

«E non ci siete riuscito?»

«Hanno ricusato formalmente.»

«Morrel», disse il conte, «mi avete mai visto tirare alla pistola?»

«Mai.»

«Ebbene, guardate.»

Il conte di Montecristo prese le pistole che aveva in mano quando era entrata Mercedes, e attaccato un asso di fiori contro il muro, in quattro colpi portò via successivamente i quattro rami del fiore. A ogni colpo Morrel impallidiva. Esaminò le pallottole con le quali Montecristo aveva eseguito il tiro, e vide che non erano più grosse dei pallini da lepre.

«È una cosa spaventosa», mormorò. «Guardate, Emmanuel!»

Quindi si voltò verso Montecristo.

«Conte», disse, «in nome del cielo, non uccidete Albert! Il disgraziato ha una madre.»

«È giusto», rispose Montecristo, «e io invece sono solo al mondo.»

Queste parole furono pronunciate con un tono che fece tremare Morrel.

«Voi siete l’offeso, conte.»

«Senza dubbio… E che volete dire con ciò?»

«Voglio dire che siete il primo a tirare.»

«Tiro io per primo?»

«Questo l’ho preteso: facciamo loro tante concessioni che possono ben fare a noi questa.»

«E a quanti passi?»

«A venti.»

Uno spaventoso sorriso passò sulle labbra del conte.

«Morrel», disse, «non dimenticate quello che ora avete visto.»

«Per cui», riprese il giovane, «bisogna contare sulla vostra emozione per salvare Albert.»

«Io emozionato?» domandò Montecristo.

«O sulla vostra generosità, amico mio! Sicuro come siete del colpo, dovrò farvi una raccomandazione, ridicola se la facessi a un altro…»

«E quale?»

«Rompetegli un braccio, feritelo, ma non uccidetelo.»

«Morrel, ascoltate anche questo», disse il conte, «non ho bisogno di preghiere per usare riguardi a Morcerf… Vi avverto prima, sarà ben trattato, tornerà tranquillamente da sua madre, mentre io…»

«E voi?»

«La vita per me non ha importanza…»

«Cosa dite?» gridò Morrel fuori di sé.

«La cosa andrà come vi dico io, mio caro Morrel, il signor Morcerf mi ucciderà.»

Morrel guardò il conte allibito.

«Conte, che cosa è accaduto dopo ieri sera?»

«Ciò che accadde a Bruto alla vigilia della battaglia di Filippi: ho visto un fantasma.»

«E questo fantasma?»

«Questo fantasma, Morrel, mi ha detto che ho vissuto abbastanza.»

Maximilien ed Emmanuel si guardarono; Montecristo estrasse l’orologio.

«Andiamo», disse. «Sono le sette e cinque minuti, e l’appuntamento è per le otto precise.»

Una carrozza li aspettava coi cavalli già attaccati. Montecristo salì con i suoi due testimoni. Attraversando il corridoio, Montecristo si era fermato per ascoltare a una porta, e Maximilien ed Emmanuel che per discrezione avevano fatto qualche passo avanti, credettero di sentire un sospiro e un singhiozzo.

Suonarono le otto nel momento in cui giungevano all’appuntamento.

«Eccoci arrivati», disse Morrel, mettendo la testa fuori dallo sportello, «siamo i primi.»

«Il signore mi scuserà», disse Battistino, che aveva seguito il suo padrone con un indicibile terrore, «ma credo di scorgere una carrozza laggiù sotto quegli alberi.»

Montecristo saltò leggermente giù dal calesse, e dette la mano a Emmanuel e Maximilien per aiutarli a smontare.

Maximilien trattenne la mano del conte fra le sue.

«Alla buon’ora», disse, «ecco la mano di un uomo la cui vita riposa sulla giustizia della causa.»

«Laggiù», disse Emmanuel, «scorgo due giovani che passeggiano come aspettando.»

Montecristo tirò Morrel un passo o due dietro suo cognato.

«Maximilien», gli domandò, «avete il cuore libero?»

Morrel guardò Montecristo con stupore.

«Non è una confidenza che vi chiedo, amico caro, ma una domanda precisa che vi faccio: rispondete sì o no, ecco cosa vi chiedo.»

«Io amo una ragazza, conte.»

«L’amate molto?»

«Più della mia vita.»

«Ecco un’altra speranza che mi sfugge», disse Montecristo. Poi dopo un sospiro, «Povera Haydée!» mormorò.

«In verità, conte», riprese Morrel, «se vi conoscessi meno, vi crederei meno temerario di quello che siete.»

«Perché penso a qualcuno che lascerò, e sospiro? Dunque, Morrel, un soldato deve intendersi così poco di coraggio? Temo forse la morte? Cosa volete che conti per me, per me che ho trascorso vent’anni fra la vita e la morte, vivere o morire? State tranquillo, Morrel, questa debolezza, se pure è tale, si palesa a voi solo. So che il mondo è una sala, dalla quale bisogna uscire gentilmente e onestamente, vale a dire salutando e pagando i debiti di gioco.»

«Ecco ciò che si chiama parlare», disse Morrel. «A proposito, avete portato le vostre armi?»

«Io? Per farne che? Spero che quei signori abbiano portato le loro.»

«Vado a informarmene», disse Morrel.

«Sì, ma non negoziate.»

«State tranquillo.»

Morrel avanzò verso Beauchamp e Château-Renaud, i quali vedendo avvicinarsi Maximilien gli andarono incontro. I tre giovani si salutarono, se non con affabilità, almeno con cortesia.

«Scusate, signori», disse Morrel, «ma io non scorgo il signor Morcerf.»

«Questa mattina», rispose Château-Renaud, «ci ha fatto avvertire che ci avrebbe raggiunti soltanto sul terreno.»

«Ah!» esclamò Morrel.

Beauchamp prese l’orologio.

«Otto e cinque, siamo ancora in tempo, signor Morrel.»

«Non lo dicevo con tale intenzione», replicò Maximilien.

«Intanto», interruppe Château-Renaud, «ecco una carrozza.»

Infatti una carrozza arrivava al gran trotto da uno dei viali che immettevano al luogo dove si trovavano.

«Signori», disse Morrel, «senza dubbio vi sarete muniti delle pistole. Il signore di Montecristo dichiara di rinunciare al diritto che aveva di servirsi delle sue.»

«Noi abbiamo previsto questa delicatezza da parte del conte, signor Morrel», rispose Beauchamp, «e ho portato delle armi che ho comprato otto o dieci giorni fa, credendo di dovermene servire per un affare di questo genere; sono perfettamente nuove, e non sono ancora state adoperate: volete controllarle?»

«Signor Beauchamp», replicò Morrel inchinandosi, «quando assicurate che il signor Morcerf non conosce queste armi, mi basta la vostra parola.»

«Signori», intervenne Château-Renaud, «non è Morcerf che arriva in quella carrozza. Sono Franz e Debray.»

Infatti i due giovani si avvicinarono di corsa.

«Voi qui, signori», si stupì Château-Renaud. «E per quale ragione?»

«Perché», spiegò Debray, «Albert ci ha fatto pregare questa mattina di ritrovarci sul terreno.»

Beauchamp e Château-Renaud si guardarono in viso con aria di stupore.

«Signori», disse Morrel, «io credo di capire come va la faccenda.»

«Sentiamo!»

«Ieri, dopo mezzogiorno, ho ricevuto una lettera dal signor Morcerf che mi pregava di trovarmi all’Opéra.»

«E io pure», disse Debray.

«E anch’io pure», dichiarò Franz.

«E noi pure», dissero insieme Château-Renaud e Beauchamp.

«Voleva che fossimo presenti alla sfida», riprese Morrel, «oggi vuole che siamo presenti al duello.»

«Sì», dissero i giovani, «è così, signor Maximilien, e secondo ogni probabilità, avete indovinato.»

«Ma con tutto ciò», mormorò Château-Renaud, «Albert non si vede, ed è già in ritardo di dieci minuti.»

«Eccolo», disse Beauchamp, «è a cavallo, osservate, viene al galoppo, seguito dal domestico.»

«Che imprudenza!» commentò Château-Renaud. «Venire a cavallo per battersi alla pistola! Gli avevo così bene insegnato la lezione!»

«E poi osservate», rimarcò Beauchamp, «col colletto alla cravatta, l’abito aperto, un gilè bianco… E perché non si è fatto anche disegnare un bersaglio sullo stomaco? Tutto sarebbe finito al più presto.»

Frattanto Albert era giunto a dieci passi dal gruppo che formavano i cinque giovani; saltò a terra, e gettò le redini al domestico. Si avvicinò: era pallido, e con gli occhi rossi e gonfi, segno che non aveva dormito un minuto in tutta la notte. Su tutta la fisionomia era sparsa una nube di tristezza che non gli era naturale.

«Grazie, signori», disse, «di aver voluto accettare il mio invito; credetemi, la mia riconoscenza per questa dimostrazione di amicizia, non può esser maggiore.»

Morrel, all’avvicinarsi di Albert, aveva fatto una dozzina di passi indietro, e si teneva in disparte.

«A voi pure Morrel», disse Albert, «sono diretti i miei ringraziamenti avvicinatevi pure, non siete di troppo.»

«Signore», iniziò Maximilien, «voi forse non sapete che io sono il padrino di Montecristo…»

«Non ne ero certo, ma lo immaginavo. Tanto meglio! Più vi saranno qui uomini d’onore, e più sarò soddisfatto.»

«Signor Morrel», disse Château-Renaud, «potete annunciare al conte di Montecristo che è giunto il signor Morcerf e che siamo a sua disposizione.»

Morrel fece un movimento per svolgere la commissione, e nello stesso tempo Beauchamp prese dalla carrozza la cassetta delle pistole.

«Aspettate, signori», disse Albert, «ho due parole da dire al signore di Montecristo.»

«In segreto?» domandò Morrel.

«No, signore, in presenza di tutti.»

I testimoni di Albert si guardarono con sorpresa; Franz e Debray si scambiarono alcune parole a bassa voce; e Morrel, contento di questo inatteso incidente, andò a cercare il conte che passeggiava in un altro viale con Emmanuel.

«Che cosa vuole da me?» domandò Montecristo.

«Non lo so, ma chiede di parlarvi.»

«Oh», disse Montecristo, «non si arrischi a oltraggiarmi di nuovo!»

«Non credo sia la sua intenzione.»

Il conte s’avviò, accompagnato da Maximilien e da Emmanuel. Il suo viso calmo e sereno faceva un contrasto assai strano col viso sconvolto di Albert, che si avvicinava seguito dai quattro giovani, a tre passi l’uno dall’altro. Albert e il conte si fermarono.

«Signori», disse Albert, «avvicinatevi, desidero che non vada perduta una parola di quanto avrò l’onore di dire al conte di Montecristo, perché quello che avrò l’onore di dirgli deve essere ripetuto da voi a chiunque, per quanto strano vi possa sembrare.»

«Aspetto, signore», disse il conte.

«Signore», cominciò Albert, con voce prima tremante, poi sempre più sicura. «Signore, io vi rimproveravo di aver divulgato la condotta di mio padre nell’Epiro, perché per quanto fosse colpevole il signor Morcerf, non credevo aveste il diritto di punirlo. Ma oggi so, signore, che avete questo diritto. Non è il tradimento che Fernando Mondego fece ad Alì Pascià quello che mi rende pronto a scusarvi, ma il tradimento che usò a voi il pescatore Fernando, sono le disgrazie inaudite che sono seguite a questo tradimento. Perciò lo dico, e lo proclamo ad alta voce: sì, signore, avete avuto ragione di vendicarvi di mio padre, e vi ringrazio di non avergli fatto un male peggiore.»

Se fosse caduto un fulmine in mezzo agli spettatori di quella scena inattesa, non li avrebbe certo stupefatti come quella dichiarazione di Albert. Quanto a Montecristo, i suoi occhi erano rivolti al cielo con un’espressione d’infinita riconoscenza, e non avrebbe saputo spiegare come l’indole focosa d’Albert, di cui aveva ammirato il coraggio fra i banditi di Roma, si fosse potuta d’un tratto piegare a tanta umiliazione. Subito riconobbe l’influenza di Mercedes, e capì come questo nobile cuore non si era opposto al suo sacrificio, sapendo che non ce n’era bisogno.

«Ora, signore», riprese Albert, «se trovate sufficienti le scuse che vi ho fatto, datemi la vostra mano, vi prego. Dopo il merito così raro dell’infallibilità, che sembra appartenere a voi, il primo di tutti gli altri meriti, a mio avviso, è quello di saper confessare i propri torti. Ma questa confessione appartiene a me solo. Io agivo bene secondo il volere della Provvidenza! Un angelo soltanto poteva salvare uno di noi dalla morte certa, e l’angelo è comparso, se non per fare di noi due amici (perché purtroppo la fatalità rende la cosa impossibile), almeno per fare di noi due uomini che si stimino.»

Montecristo, con l’occhio umido, il petto ansante, la bocca semiaperta, tese una mano ad Albert stringendo la sua con affetto.

«Signori», disse, «il conte di Montecristo gradisce e accetta le mie scuse. Io avevo agito troppo precipitosamente contro di lui; la precipitazione dà cattivi consigli, avevo agito male. Ora il mio sbaglio è riparato. Spero che la società non mi taccerà di vile, perché ho fatto ciò che la mia coscienza mi ha ordinato di fare. Ma, in ogni caso, se qualcuno si sbagliasse sul conto mio», aggiunse il giovane, rialzando la testa con orgoglio, e come se indirizzasse la sfida agli amici e ai nemici, «cercherò di rettificare le opinioni.»

«Che cosa è dunque accaduto questa notte?» domandò Beauchamp a Château-Renaud. «Mi pare che ormai siamo qui inutilmente.»

«Infatti ciò che ora ha fatto Albert, dev’essere o molto meschino o molto bello», osservò il barone.

«Che significa tutto ciò?» domandò Debray a Franz. «Come, il conte di Montecristo disonora il signor Morcerf, e ha ragione agli occhi del figlio?! Avessi avuto dieci Giannine nella mia famiglia, mi crederei obbligato a una cosa sola, cioè a battermi dieci volte.»

In quanto a Montecristo, con la fronte china, le braccia inerti, oppresso dal peso di ventiquattro anni di ricordi, non pensava né ad Albert, né a Beauchamp, né a Château-Renaud, né ad alcuno di quelli che si trovavano là. Pensava a quella coraggiosa donna ch’era venuta a chiedergli la vita del figlio, e alla quale aveva offerto la sua, che lei però salvava rivelando un segreto terribile di famiglia, capace di togliere per sempre dal cuore del giovane qualunque sentimento di pietà filiale.

«Sempre la Provvidenza!» mormorò. «Da oggi soltanto comincio a credere veramente di essere suo strumento.»

90. Madre e figlio

Il conte di Montecristo salutò i giovani con un sorriso colmo di malinconia e dignità, quindi risalì nella sua carrozza in compagnia di Maximilien e di Emmanuel. Albert, Beauchamp e Château-Renaud restarono soli. Il giovane puntò sui testimoni uno sguardo che, anche se non timido, sembrava tuttavia chiedere il loro parere sull’accaduto.

«Mio caro amico», disse Beauchamp per primo, forse perché più sensibile, o meno simulatore, «permettetemi di congratularmi con voi: ecco una conclusione inattesa per uno spiacevole affare.»

Albert rimase silenzioso e immerso nei suoi pensieri. Château-Renaud si accontentò di battere contro lo stivale il suo scudiscio.

«Non ce ne andiamo?» domandò, dopo quell’imbarazzante silenzio.

«Quando volete», rispose Beauchamp. «Lasciatemi solo il tempo di fare i miei complimenti a Morcerf… Ha dato quest’oggi un’immensa prova di cavalleresca generosità, tanto rara!»

«Oh, sì», annuì Château-Renaud.

«È una cosa magnifica», continuò Beauchamp, «poter avere su se stessi un dominio così grande!»

«Certamente, in quanto a me ne sarei stato incapace», disse Château-Renaud con eloquente freddezza.

«Signori», li interruppe Albert, «credo che non abbiate capito che fra il conte di Montecristo e me è accaduto qualche cosa di molto grave.»

«Sia pure, sia pure», disse subito Beauchamp, «ma i soliti chiacchieroni non sarebbero in grado di capire il vostro eroismo, e presto o tardi sareste costretto a spiegarlo loro con un po’ più d’energia di quello che convenga alla salute del vostro corpo e alla durata della vostra vita. Volete che vi dia un consiglio da amico? Partite per Napoli, per l’Aja o per Pietroburgo, Paesi calmi, dove gli uomini hanno opinioni più intelligenti sul vero punto d’onore che noi teste ardenti di parigini. Una volta là esercitatevi molto a tirare al bersaglio con la pistola, e per gioco, di terza e di quarta con la spada; fate una vita spensierata, per poi tornare pacificamente in Francia fra qualche anno, abbastanza rispettabile per gli esercizi accademici, per conquistare una qualsiasi posizione nella società… Non è così, signor Château-Renaud? Non ho ragione?»

«Questa è anche la mia opinione. Non vi è niente che procuri i veri duelli, come un duello che non ha avuto luogo.»

«Grazie, signori», rispose Albert con un sorriso, «seguirò il vostro consiglio non perché me lo abbiate dato, ma perché era mia intenzione lasciare la Francia. Vi ringrazio ugualmente del servizio che mi avete reso, servendomi da padrini: è profondamente impresso nel mio cuore, poiché dopo le parole che ho sentito, non vi dimenticherò mai più.»

Château-Renaud e Beauchamp si guardarono. L’impressione era la stessa di entrambi, l’accento col quale Albert aveva pronunciato il suo ringraziamento era così risoluto da riuscire imbarazzante per tutti, se il dialogo fosse continuato.

«Addio, Albert», disse Beauchamp tendendo la mano al giovane, senza che questi desse segno di ridestarsi dai suoi pensieri.

«Addio», disse a sua volta Château-Renaud salutando.

Le labbra del giovane mormorarono appena «Addio!», il suo sguardo era più chiaro; racchiudeva un poema di collera trattenuta, d’orgogliosi sdegni, di generose indignazioni.

Quando i due padrini furono in carrozza, conservò per qualche tempo la sua posizione immobile e malinconica. Quindi all’improvviso, staccando il cavallo dal piccolo albero intorno al quale erano state annodate le redini, saltò in sella, e riprese al galoppo la strada di Parigi. Un quarto d’ora dopo rientrava nel palazzo della rue Helder. Scendendo da cavallo gli sembrò, dietro la cortina delle finestre della camera da letto del conte, di scorgere la pallida figura di suo padre; Albert girò la testa con un sospiro, ed entrò nel suo appartamento. Giuntovi, gettò un ultimo sguardo su tutte quelle ricchezze che gli avevano resa la vita così dolce e felice fin dall’infanzia, guardò ancora una volta quei ritratti, che parevano sorridergli, e tutti i paesaggi che gli sembrava s’animassero di vivi colori. Staccò quindi dalla intelaiatura di quercia il ritratto di sua madre, e lo arrotolò lasciando vuota la cornice d’oro che lo circondava.

Quindi mise in ordine le belle armi turche, i bei fucili inglesi, le porcellane giapponesi, le coppe cesellate, i bronzi artistici, introdusse la chiave in ogni armadio; gettò in un cassetto dello scrittoio, che lasciò aperto, tutto il denaro che portava con sé in tasca, vi aggiunse i mille gioielli che riempivano le coppe, gli scrigni, le scansie; fece un inventario esatto e preciso di tutto, e lasciò questo inventario nel luogo più esposto della tavola, dopo averla liberata di tutti i libri e carte che la ingombravano. All’inizio di quel lavoro, il suo domestico, malgrado l’ordine che gli aveva dato Albert di lasciarlo solo, era entrato nella sua camera.

«Che volete?» gli chiese con accento più triste che corrucciato.

«Scusate, signore», disse il cameriere, «è vero che il signore mi aveva proibito di disturbarlo, ma il signor conte Morcerf mi ha fatto chiamare.»

«Ebbene?» domandò Albert.

«Non ho voluto andare dal signor conte senza ricevere i vostri ordini, signore.»

«E perché?»

«Perché il signor conte saprà senza dubbio che io vi ho accompagnato al duello.»

«È probabile», disse Albert.

«E se mi fa chiamare, è senza dubbio per interrogarmi su ciò che è accaduto. Che cosa devo dire?»

«La verità.»

«Allora debbo dirgli che il duello non c’è stato?»

«Gli direte che ho chiesto scusa al signor conte di Montecristo. Andate.»

Il cameriere s’inchinò e uscì.

Allora Albert si rimise a fare il suo inventario. Mentre compiva il suo lavoro, lo scalpitio di due cavalli nel cortile e il rumore delle ruote di una carrozza attirarono la sua attenzione, si avvicinò alla finestra, e vide suo padre salire in calesse e andarsene. Non appena il portone fu chiuso dietro al conte, Albert si diresse verso l’appartamento di sua madre, e siccome non trovò nessuno in sala per annunciarlo, s’inoltrò fino alla camera da letto di Mercedes e, col cuore gonfio per quanto vedeva e indovinava, si fermò sulla soglia. Come se la medesima anima stesse in questi due corpi, Mercedes faceva nelle sue camere ciò che Albert aveva fatto nelle proprie. Tutto era stato messo in ordine: i merletti, le vesti, i gioielli, la biancheria, il denaro erano ordinati sul fondo dei cassetti, e la contessa ne riuniva le chiavi con cura. Albert vide tutti quei preparativi, comprese tutto, e gridando «Madre mia!» andò a gettare le sue braccia intorno al collo di Mercedes.

Chi avesse potuto ritrarre l’espressione di quelle due figure avrebbe certamente fatto un bel quadro. Infatti tutti questi analoghi preparativi causati da un’energica decisione, e che non avevano fatto paura ad Albert per sé, lo spaventavano per sua madre.

«Che cosa fate dunque?» domandò.

«Che cosa avete fatto voi?» rispose lei.

«Oh, madre mia», gridò Albert, commosso al punto da non poter parlare, «non può essere di voi come di me; no, voi non potete aver deciso ciò che ho deciso io, poiché vengo a dirvi che do addio alla vostra casa e a voi.»

«Anch’io, Albert», rispose Mercedes, «anch’io parto. Avevo contato, lo confesso, sul fatto che mio figlio mi avrebbe accompagnato… Mi sono sbagliata.»

«Madre mia», disse Albert con fermezza, «non posso farvi condividere la mia sorte. D’ora innanzi bisogna ch’io viva senza nome e senza fortuna e, agli inizi, occorre che io non mi serva del nostro denaro, ma chieda aiuto a un amico finché non sarò in grado di guadagnarmene da solo. Così, mia buona madre, vado da Franz a pregarlo di prestarmi quella piccola somma che presumo necessaria.»

«Tu, mio povero figlio, tu soffrire la fame!» gridò Mercedes. «Non dirlo, tu infrangeresti tutti i miei propositi.»

«Ma non parliamo di me, madre mia», rispose Albert. «Sono giovane, sono forte, credo di essere coraggioso, e da ieri ho imparato che cosa può la mia volontà. Ahimè, madre mia, vi sono esseri che hanno sofferto tanto, e che non solo non sono morti, ma hanno edificato una nuova fortuna sulla rovina di tutte le promesse di felicità che il cielo aveva fatto loro, sui resti di tutte le speranze che Dio aveva dato loro! Io ho imparato presto, madre mia, io ho visto questi uomini, io so che dal fondo dell’abisso in cui li aveva immersi il loro nemico, si sono rialzati con tanto vigore e tanta gloria che hanno dominato il loro antico vincitore e lo hanno a loro volta gettato nel baratro. No, madre mia, no, ho rotto da quest’oggi col passato e non ne accetto più nulla, neppure il nome, perché, voi lo capite, non è vero madre mia?, vostro figlio non può portare il nome di un uomo che deve arrossire davanti a un altro!»

«Albert, figlio mio», disse Mercedes, «se io avessi avuto un cuore più forte sarebbe stato questo il consiglio che ti avrei dato… La tua coscienza ha parlato quando la mia voce spenta taceva: ascolta la tua coscienza, figlio mio! Tu avevi degli amici, Albert, tronca momentaneamente ogni rapporto con loro, ma non disperare in nome di tua madre! La vita è ancora bella alla tua età, mio caro Albert, perché tu hai appena ventidue anni, e siccome a un cuore puro come il tuo occorre un nome senza macchia, prendi quello di mio padre: egli si chiamava Herrera. Io ti conosco, Albert mio, qualunque carriera tu segua, in breve tempo renderai questo nome illustre. Allora amico mio, ricompari nel mondo più splendido ancora per il vanto delle tue passate disavventure. E se, malgrado tutte le mie previsioni, non dovesse andare così, lasciami almeno questa speranza, a me che non avrò più altro pensiero, a me che non ho più avvenire, e per cui la tomba comincia dalla soglia di questa casa.»

«Farò secondo i tuoi desideri, madre mia», annuì il giovane. «Sì, condivido la tua speranza: la collera del cielo non perseguiterà te così pura, me così innocente. Ma poiché siamo risoluti, agiamo in fretta. Il signor Morcerf ha lasciato il suo palazzo circa mezz’ora fa: l’occasione, come vedi, è favorevole per evitare scontri e spiegazioni.»

«Ti aspetto, figlio mio», disse Mercedes.

Albert corse sul boulevard da dove tornò in una carrozza di piazza che doveva condurli fuori del palazzo. Si ricordò d’una piccola casa ammobiliata nella rue des Saints Pères, dove sua madre avrebbe trovato un alloggio modesto ma decente; ritornò dunque a prendere la contessa. Nel momento in cui la carrozza si fermava davanti alla casa, proprio mentre Albert usciva, un uomo si avvicinò a lui, e gli consegnò una lettera. Albert riconobbe Bertuccio.

«Dal conte», disse l’intendente.

Albert prese la lettera, e apertala la lesse; dopo averla letta, cercò con gli occhi Bertuccio, ma Bertuccio era scomparso mentre il giovane leggeva. Allora Albert, con le lacrime agli occhi, il petto gonfio dall’emozione, rientrò nella camera di Mercedes, e senza pronunciare parola, le presentò la lettera.

Mercedes lesse: «Albert, nel farvi sapere che sono venuto a conoscenza del progetto al quale siete sul punto di abbandonarvi, voglio farvi sapere che ne comprendo la delicatezza. Eccovi libero! Voi lasciate il palazzo del conte, vi ritirate con vostra madre, libera come voi. Ma riflettete! Albert, voi le dovete più di quello che potete offrirle, povero e nobile cuore.

Riservate a voi la lotta, reclamate per voi le sofferenze, ma risparmiatele quella prima miseria che accompagnerà inevitabilmente i vostri primi sforzi, poiché lei non merita neppure il riflesso della disgrazia che oggi la colpisce, e la Provvidenza non vuole che l’innocente paghi per il colpevole.

So che lasciate entrambi la casa della rue Helder senza portare via niente. Non cercate di scoprire in che modo l’ho saputo. Io lo so, e basta. Ascoltate Albert. Ventiquattro anni or sono, io tornavo molto fiero nella mia patria. Avevo una fidanzata, Albert, una santa donna che io adoravo, e portavo alla mia fidanzata centocinquanta luigi accumulati penosamente con le mie fatiche senza riposo. Questo denaro era per lei, io lo destinavo a lei, e sapendo quanto il mare è perfido, avevo seppellito il nostro tesoro in un piccolo giardino della casa che mio padre abitava a Marsiglia sopra i viali di Meilhan. Vostra madre, Albert, conosce quella povera casa. Ultimamente, venendo a Parigi, sono passato da Marsiglia. Sono andato a vedere questa casa di dolorosi ricordi; e la sera, con una vanga in mano, ho esplorato l’angolo dove era sepolto il mio tesoro. La cassetta di ferro era ancora nel medesimo posto, nessuno l’aveva toccata: è accanto a un fico, piantato da mio padre il giorno della mia nascita, e la ricopre con la sua ombra. Albert, quel denaro, che allora avrebbe dovuto provvedere alla vita e alla tranquillità di questa donna che adoravo, ecco che oggi, per una strana e dolorosa combinazione, può avere lo stesso uso. So che capite il mio pensiero, io, che potrei offrire dei milioni a questa povera donna, le rendo soltanto il tozzo di pane nero dimenticato sotto il mio povero tetto, dal giorno in cui fui separato per sempre da lei. Voi siete generoso, Albert, ma a volte siete accecato dall’orgoglio o dal risentimento: se rifiutate, se domandate ad altri ciò che ho io il diritto di offrirvi, dirò che siete poco generoso nel rifiutare ciò che appartiene alla vita di vostra madre, e offerto da un uomo a cui vostro padre ha fatto morire il padre suo, negli orrori della fame e della disperazione».

Finita questa lettera, Albert, pallido e immobile, aspettava ciò che avrebbe deciso sua madre. Mercedes alzò al cielo uno sguardo ineffabile.

«Accetto», disse. «Egli ha il diritto di pagare la dote che io porterò in un convento.»

E mettendosi la lettera sul cuore, prese il braccio di suo figlio, e, con passo più sicuro di quello che forse si aspettava, scese le scale.

91. Il suicidio

Anche il conte di Montecristo era rientrato in città con Emmanuel e Maximilien. Il ritorno fu lieto; Emmanuel non nascondeva la gioia di aver visto succedere la pace alla guerra, e confessava i suoi principi umanitari. Morrel, in un angolo della carrozza, lasciava trasparire in parole l’allegria del cognato, e conservava per sé una gioia non meno sincera, ma che brillava soltanto dai suoi occhi. Alla barriera del Trône incontrarono Bertuccio che aspettava là, immobile come una sentinella al suo posto.

Montecristo sporse la testa dalla carrozza, scambiò con lui qualche parola a bassa voce, e l’intendente scomparve.

«Signor conte», disse Emmanuel, «arrivando vicino alla piazza reale, lasciatemi scendere, vi prego, alla mia porta, affinché mia moglie non abbia un momento di più di pena né per voi né per me.»

«Se non fosse una cosa ridicola andare a fare mostra del proprio trionfo», disse Morrel, «inviterei il conte a entrare da noi, ma il signor conte, senza dubbio, ha pure dei cuori da tranquillizzare. Ed eccoci arrivati, Emmanuel, ora salutiamo il nostro amico e lasciamolo continuare la sua strada.»

«Aspettate un momento», disse Montecristo, «non privatemi così dei miei due compagni! Voi, Emmanuel, rientrate presso la vostra graziosa moglie alla quale v’incarico di presentare i miei saluti, e voi, Morrel, accompagnatemi fino agli Champs-Elysées.»

«Senz’altro», acconsentì Maximilien. «Tanto più che ho alcune faccende da sbrigare nel vostro quartiere, conte.»

«Dobbiamo aspettarvi per fare colazione?» domandò Emmanuel.

«No», rispose il giovane.

Lo sportello si richiuse e la carrozza continuò la sua strada.

«Visto come vi ho portato fortuna!» esclamò Morrel quando fu solo col conte. «Non ci avevate pensato?»

«Sì, certo», disse Montecristo, «ecco perché vorrei sempre tenervi vicino a me.»

«È un miracolo!» ribatté Morrel, seguendo un suo pensiero.

«Che cosa?» domandò Montecristo.

«Quello che è accaduto.»

«Sì», rispose il conte con un sorriso, «avete usato la parola esatta, Morrel, è un miracolo.»

«Perché in fondo», proseguì Morrel, «Albert è coraggioso.»

«Coraggiosissimo», annuì Montecristo, «io l’ho visto dormire con un pugnale sospeso sul capo.»

«E io so che si è battuto due volte, e molto bene», disse Morrel. «Apprezzate dunque la sua condotta questa mattina…»

«È stata la vostra influenza», rispose sorridente Montecristo.

«È una fortuna che Albert non sia soldato.»

«E perché?»

«Perché ci vogliono altro che scuse sul campo!» rispose il giovane capitano scuotendo la testa.

«Su», riprese il conte con dolcezza, «non andate a cadere nei pregiudizi degli uomini ordinari, Morrel. Convenite con me: Albert è coraggioso, dunque non può essere vile: per agire come ha fatto questa mattina bisogna che abbia avuto una forte ragione, quindi la sua condotta è stata eroica.»

«Senza dubbio, senza dubbio», rispose Morrel. «Ma come disse lo spagnolo: “Oggi fu meno coraggioso di ieri”.»

«Fate colazione con me, non è vero, Morrel?» chiese il conte per troncare il discorso.

«No, vi lascerò alle dieci.»

«Il vostro appuntamento è dunque per una colazione?»

Morrel sorrise e scosse la testa.

«Eppure dovrete fare colazione da qualche parte?»

«E se non avessi fame?» disse il giovane.

«Non conosco che due sentimenti che tolgono in tal modo l’appetito: il dolore (ma siccome vi vedo abbastanza allegro, fortunatamente non è questo) e l’amore. Ora, dopo ciò che mi avete detto a proposito del vostro cuore, mi è permesso di credere…»

«Sapete, conte», replicò felice Morrel, «non dico di no.»

«E non mi raccontate nulla, Maximilien?» riprese il conte con tono così vivace da far capire l’ansia di conoscere quel segreto.

«Questa mattina vi ho parlato di un amore, non è vero conte?»

Per tutta risposta Montecristo tese la mano al giovane.

«Ebbene, poiché il mio cuore non è più con voi al bosco di Vincennes», e si voltò da un’altra parte, «vado da lei.»

«Andate», disse lentamente il conte, «andate, amico caro… Ma vi prego, se trovaste qualche ostacolo, ricordatevi che ho del potere in questa società, e che sono felice di usare questo potere a vantaggio delle persone che amo, e io vi amo moltissimo, Morrel…»

«Grazie», rispose il giovane, «me ne ricorderò come i bambini egoisti si ricordano dei genitori quando ne hanno bisogno. Quando avrò bisogno di voi, e forse questo momento verrà, verrò da voi, conte.»

«Bene, ho la vostra parola… Arrivederci, dunque.»

«Arrivederci.»

Erano giunti alla porta della casa degli Champs-Elysées.

Montecristo aprì lo sportello, Morrel balzò a terra, e scomparve all’ingresso di Marigny; Montecristo andò incontro a Bertuccio che aspettava sulla scalinata.

«Ebbene?»

«Ebbene», rispose l’intendente, «lascia la casa.»

«E il figlio?»

«Florentin, il suo cameriere, crede che faccia altrettanto.»

«Venite.»

Montecristo condusse Bertuccio nel suo studio, scrisse la lettera che conosciamo, e l’affidò all’intendente.

«Andate», disse, «e fate le cose a modo. A proposito, fate avvisare Haydée che sono tornato.»

«Eccomi», disse la giovane donna, che al rumore della carrozza era già scesa, col viso raggiante di gioia nel rivedere il conte salvo.

Bertuccio uscì.

Tutti i trasporti di una figlia nel rivedere un padre prediletto, tutti i deliri di un’amica nel rivedere l’amante adorato, Haydée li provò nei primi istanti di quel ritorno atteso con tanta impazienza. Certamente, sebbene meno espansiva, la gioia di Montecristo non era meno grande: la gioia, per i cuori che hanno lungamente sofferto, è simile alla rugiada, cuore e terra assorbono la pioggia benefica, e niente appare al di fuori. Da qualche giorno il conte di Montecristo capiva, e non osava crederlo, che c’erano due Mercedes al mondo, e che poteva ancora essere felice su questa terra. Contemplava, avido di felicità, Haydée, quando a un tratto la porta si aprì. Il conte aggrottò la fronte.

«Il signor Morcerf!» annunciò Battistino, come se questa sola parola racchiudesse tutte le sue scuse.

Infatti il viso del conte si rischiarò.

«Quale?» domandò egli. «Il visconte o il conte?»

«Il conte.»

«Mio Dio!» gridò Haydée. «Non è ancora finita dunque?»

«Non so se sia finita, ragazza mia diletta», rispose Montecristo, prendendo le mani della figlia adottiva, «ma ciò che so è che non hai nulla da temere.»

«Se però il miserabile…»

«Quest’uomo non ha nessun potere su di me, Haydée», disse Montecristo. «Quando avevo a che fare con suo figlio, allora sì, che c’era da temere.»

«Quanto ho sofferto», disse la giovane donna, «tu non lo saprai mai, mio signore.»

«Sulla tomba di mio padre», disse Montecristo, sorridendo e accarezzando la testa della ragazza, «io ti giuro, Haydée, che se accadrà una disgrazia a qualcuno, non sarà a me.»

«Io ti credo, mio signore, come se mi parlasse una voce del cielo», rispose la giovane presentando la sua fronte al conte.

Montecristo depose su quella fronte pura e bella un bacio che fece battere contemporaneamente due cuori, uno con violenza, e l’altro timidamente.

«Mio Dio», mormorò il conte, «mi permettereste di amare ancora? Fate entrare il conte Morcerf nel salotto», disse a Battistino, mentre riconduceva la bella greca nelle sue camere per la scala segreta.

Una parola di spiegazione su questa visita, attesa forse da Montecristo, ma inaspettata senza dubbio per i nostri lettori.

Mentre Mercedes, come abbiamo detto, faceva nelle sue stanze l’inventario che Albert aveva già fatto nelle proprie, mentre classificava i gioielli, chiudeva i cassetti, riuniva le chiavi, per lasciare tutto nell’ordine più perfetto, non si era accorta che una testa pallida e sinistra era comparsa alla vetrata di una porta che dava luce a un corridoio. Di là non solo si poteva vedere, ma si poteva anche sentire.

L’uomo, pallido, entrò poi nella camera da letto del conte Morcerf, e giunto là sollevò con mano contratta la tendina della finestra che guardava nel cortile. Per dieci minuti restò immobile e silenzioso, ascoltando i battiti del proprio cuore. Per lui dieci minuti erano molto lunghi.

Fu allora che Albert ritornò dal suo appuntamento, e il padre in attesa del suo ritorno dietro la tendina, voltò la testa. L’occhio del conte si dilatò: sapeva che l’insulto di Albert a Montecristo era stato terribile, che un simile insulto, in tutti i Paesi del mondo, trascinava a un duello, alla morte. Ora, Albert ritornava sano e salvo, dunque il conte era vendicato. Un lampo di gioia indicibile illuminò quel lugubre viso, come un ultimo raggio di sole prima di perdersi nelle nubi. Ma, come abbiamo detto, attese invano che il giovane salisse nel suo appartamento per rendergli conto del trionfo. Che suo figlio prima di andare a battersi, non avesse voluto vedere il padre di cui andava a vendicare l’onore, questo era facile a capirsi… Ma una volta vendicato questo onore, perché il figlio non veniva a gettarsi nelle braccia del padre? Il conte, non vedendo arrivare Albert, mandò il domestico a cercare informazioni, il quale, come abbiamo detto, fu autorizzato da Albert a non tenere nascosta la verità a suo padre.

Dieci minuti dopo, uscito il domestico, si vide comparire sulla scalinata il conte Morcerf, con l’uniforme di luogotenente. A quanto pareva, aveva già dato ordini precedenti, poiché, appena toccato l’ultimo gradino della scala, la carrozza venne a fermarsi dinanzi a lui. Allora il cameriere gettò nella carrozza un mantello militare, che avvolgeva due spade, quindi, chiuso lo sportello, si sedette vicino al cocchiere che si chinò verso le portiere per ricevere l’ordine.

«Agli Champs-Elysées», ordinò il generale, «al palazzo del conte di Montecristo.»

I cavalli si lanciarono percossi dalla frusta: cinque minuti dopo si fermavano alla casa del conte. Il signor Morcerf aprì lo sportello, arrivò al cancello, suonò, e aperta la porta, sparì in compagnia del cameriere. Un minuto dopo Battistino annunciava al signore di Montecristo il conte Morcerf, e Montecristo, riconducendo Haydée, dava ordine che il conte Morcerf fosse introdotto nella sala.

Il generale misurava a grandi passi per la terza volta la lunghezza della sala, quando, voltandosi, vide Montecristo in piedi sulla soglia.

«Ah, il signor Morcerf» disse tranquillamente Montecristo, «credevo di aver capito male.»

«Sì, sono io», affermò il conte con una brutta contrazione della bocca che gli impediva di articolare le parole.

«Dunque non mi resta che capire», proseguì Montecristo, «cosa mi procura il piacere di vedere il signor Morcerf così di buon’ora.»

«Questa mattina, signore, avete avuto un duello con mio figlio?» chiese il generale.

«Non lo sapete?» replicò il conte.

«So pure che mio figlio aveva buone ragioni per desiderare di battersi con voi, e di fare tutto ciò che poteva per uccidervi.»

«Infatti, signore, ne aveva di buonissime. Ma pur con queste buone ragioni, non mi ha ucciso, anzi non si è neppure battuto.»

«E tuttavia vi considerava la causa del disonore di suo padre, non meno che della terribile rovina che in questo momento opprime la mia famiglia.»

«È vero», rispose Montecristo, con la sua calma spaventosa. «Causa secondaria, e non principale.»

«Senza dubbio gli avrete fatto qualche scusa, e dato qualche spiegazione?»

«Non gli ho dato nessuna spiegazione, ed è stato lui che mi ha chiesto scusa.»

«Ma a che cosa attribuite questa sua condotta?»

«Probabilmente alla convinzione che in tutto questo vi era un uomo più colpevole di me.»

«E chi è quest’uomo?»

«Suo padre.»

«Tuttavia», ribatté Morcerf, impallidendo, «voi sapete che neppure al più colpevole piace sentirsi rinfacciare la sua colpa.»

«Lo so… Quindi ero preparato a questo.»

«Eravate preparato a trovare in mio figlio un vile?» gridò il conte.

«Il signor Albert Morcerf non è un vile!» disse Montecristo.

«Un uomo che tiene in mano una spada, un uomo che a portata di questa spada ha un nemico mortale, quest’uomo, se non si batte, è un vile! Ah, perché non è qui? Glielo direi in faccia!»

«Signore», replicò freddamente Montecristo, «non penso che siate venuto a trovarmi per raccontarmi i vostri segreti di famiglia. Andate a dire tutto questo ad Albert, forse vi risponderà.»

«No!» reagì il generale, con un sorriso che subito svanì. «No! Voi avete ragione, io non sono venuto qui per questo. Sono venuto per dirvi che io vi considero mio nemico! Sono venuto per dirvi che vi odio istintivamente, che mi sembra d’avervi sempre conosciuto, sempre odiato, e che infine, poiché i giovani di questo secolo non si battono più, sta a noi batterci… La pensate anche voi così, signore?»

«Precisamente. Così quando vi ho detto che mi ero preparato a quanto accade, io intendevo parlare dell’onore della vostra visita.»

«Tanto meglio… Siete pronto?»

«Lo sono sempre, signore.»

«Voi sapete che ci batteremo a morte», disse il generale coi denti stretti per la rabbia.

«A morte», ripeté il conte di Montecristo annuendo.

«Cominciamo, allora, non abbiamo bisogno di testimoni.»

«Infatti», disse Montecristo, «è inutile, ci conosciamo troppo bene!»

«Al contrario», ribatté il conte, «noi non ci conosciamo.»

«Davvero?» domandò Montecristo, con la stessa flemma irritante. «Vediamo. Non siete il soldato Fernando che disertò alla vigilia della battaglia di Waterloo? Non siete il sottotenente Fernando, che fece da guida e da spia all’armata francese in Spagna? Non siete il capitano Fernando, che ha tradito, venduto, assassinato il suo benefattore Alì? E tutti questi Fernando riuniti, non hanno formato il luogotenente conte Morcerf, Pari di Francia?»

«Ah!» gridò il generale colpito da queste parole. «Miserabile che mi rimproveri la vergogna nel momento, forse, in cui stai per uccidermi! No, non ti ho detto di essere uno sconosciuto per te… So bene, demonio, che hai penetrato nella notte del passato, e che hai letto, al chiarore di non so quale fiaccola, tutte le pagine della mia vita, ma forse io ho ancora più onore nel mio obbrobrio, che tu sotto le tue apparenze. No, io ti sono noto, lo so, ma io non conosco te, avventuriero coperto d’oro e di gemme! Tu ti sei fatto chiamare a Parigi conte di Montecristo, in Italia Sinbad il marinaio, a Malta altro ancora… Ma è il tuo vero nome che io ti domando, è il tuo vero nome ch’io voglio sapere, fra i tuoi cento nomi, affinché io lo pronunci sul terreno del duello, nell’istante in cui t’immergerò la spada nel cuore!»

Il conte di Montecristo impallidì terribilmente, lo sguardo di fuoco, corse nel salotto attiguo alla sua camera, e in meno di un secondo si strappò la cravatta, l’abito e il gilè, indossò una piccola giacca da marinaio, si mise un berretto da uomo di mare, sotto il quale sciolse i suoi lunghi capelli neri.

Ritornò così, spaventoso, implacabile, andando incontro al generale che l’aspettava e che, sentendo stridere i denti, indietreggiò di un passo, e non si fermò che trovando in un tavolo un punto d’appoggio per la mano.

«Fernando!» gridò il conte. «Dei miei cento nomi, io non avrei bisogno che di dirtene uno solo per fulminarti! Ma questo nome tu l’indovini, non è vero? O piuttosto te lo ricordi? Poiché malgrado tutti i miei affanni, tutte le mie torture oggi ti mostro un viso che la felicità della vendetta ringiovanisce, un viso che devi aver visto molte volte nei tuoi sogni dopo il tuo matrimonio… con Mercedes, mia fidanzata!»

Il generale, con la testa rovesciata indietro, le mani tese, lo sguardo fisso, divorava in silenzio quelle terribili parole. Subito dopo, appoggiandosi alle pareti, strisciò lentamente fino alla porta, da cui uscì a ritroso, lasciando sfuggire un solo grido, lugubre, lamentevole, dilaniante: «Edmond Dantès!»

Quindi, con sospiri che non avevano niente di umano, si trascinò fino al peristilio della casa, attraversò il cortile come ubriaco, e cadde fra le braccia del cameriere mormorando soltanto con voce inintelligibile: «A casa! a casa!»

Sulla strada del ritorno, la freschezza dell’aria, e il vedersi esposto all’attenzione dei servi, lo rimisero in grado di raccogliere le sue idee, ma il tragitto fu corto, e via via che si avvicinava alla sua abitazione, il conte sentiva rinnovarsi tutte le sue angosce.

A qualche passo dalla casa fece fermare, e scese. La porta del palazzo era spalancata, e in mezzo al cortile stava una carrozza di piazza. Il conte guardò la carrozza con terrore, ma senza avere il coraggio di chiedere a qualcuno, corse verso il suo appartamento. Due persone scendevano la scala, non ebbe che il tempo di nascondersi in uno stanzino per evitarle. Era Mercedes appoggiata al braccio di suo figlio: abbandonavano entrambi la casa. Passarono a pochi passi dal disgraziato, che, nascosto dietro la tenda di damasco, fu sfiorato dalla veste di lana di Mercedes, e sentì il tiepido alito delle parole pronunciate dal figlio: «Coraggio, madre mia, venite, venite, noi qui non siamo più in casa nostra».

Le parole si spensero, i passi si allontanarono.

Il generale si drizzò tenendosi con le mani alla tenda di damasco: tratteneva il più orribile singhiozzo che fosse mai uscito dal petto di un padre, abbandonato dalla moglie e dal figlio. Ben presto udì sbattere lo sportello della carrozza, poi la voce del cocchiere, quindi il pesante veicolo fece tremare i vetri. Allora corse nella sua camera da letto per vedere almeno una volta tutto ciò che aveva amato al mondo: ma la carrozza partì senza che la testa di Mercedes o quella di Albert comparissero per dare alla casa solitaria, al padre e allo sposo abbandonato l’ultimo sguardo, l’addio o almeno mostrare il rammarico, vale a dire il perdono. Così, nel momento stesso in cui le ruote della carrozza rimbombavano sul pavimento sotto la volta, si sentirono dei colpi di pistola, e un fumo uscì da uno dei vetri della camera da letto, infranto forse da una pallottola.

92. Valentine

Non è difficile indovinare di cosa si preoccupasse Morrel, e con chi avesse il suo appuntamento. Morrel, pertanto, nel lasciare Montecristo s’avviò lentamente verso la casa di Villefort. Lentamente poiché Morrel aveva oltre mezz’ora a disposizione per percorrere cinquecento passi, ma malgrado quel tempo più che sufficiente, si era affrettato a lasciare Montecristo, avendo desiderio di rimanere solo coi suoi pensieri. Conosceva l’ora nella quale Valentine, assistendo alla colazione di Noirtier, era certa di non essere disturbata. Noirtier e Valentine gli avevano accordato due visite la settimana, e andava a godere dei suoi diritti. Arrivò che Valentine lo aspettava. Inquieta, quasi assente, lo prese per mano, e lo condusse davanti al nonno.

Tale inquietudine veniva dall’emozione che la sfida di Morcerf aveva suscitato nel gran mondo; si sapeva (il gran mondo sa sempre tutto) dell’insulto all’Opéra. In casa di Villefort nessuno dubitava che quell’insulto non fosse seguito da un duello; Valentine, col suo istinto di donna, aveva indovinato che Morrel sarebbe stato il padrino di Montecristo, e conoscendo il coraggio del giovane, e la sua amicizia profonda per il conte, temeva che non si sarebbe limitato alla semplice parte passiva di testimone che gli era toccata. Sarà dunque facile comprendere con quale avidità furono richiesti e ascoltati i particolari; e Morrel poté leggere un’indicibile gioia negli occhi della sua diletta quando seppe che questo terribile affare aveva avuto una conclusione tanto felice quanto inattesa.

«Adesso», disse Valentine, facendo segno a Morrel di sedersi accanto al vecchio, e sedendo lei stessa sullo sgabello dove riposavano i suoi piedi, «ora parliamo un poco dei nostri affari. Voi sapete, Maximilien, che il mio buon nonno aveva avuto per un momento l’idea di abbandonare la casa, e di prendere un appartamento fuori dal palazzo del signor Villefort.»

«Sì, senz’altro», disse Maximilien, «mi ricordo di questo progetto, e lo avevo anche approvato.»

«E dunque», replicò Valentine, «approvate ancora, Maximilien, poiché il buon nonno ci sta di nuovo pensando.»

«Bravo!» esclamò Maximilien.

«E sapete», riprese Valentine, «quale ragione adduce il nonno per lasciare la casa?»

Noirtier guardava la ragazza per imporle silenzio con l’occhio, ma Valentine non guardava Noirtier; i suoi occhi, il suo sguardo, il suo sorriso erano tutti per Morrel.

«Qualunque sia la ragione che addurrà il signor Noirtier», dichiarò Morrel, «sarà certamente buona.»

«Eccellente», riprese Valentine. «Afferma che l’aria del Faubourg Saint-Honoré sia dannosa alla mia salute.»

«Infatti», disse Morrel. «Ascoltate, Valentine, il signor Noirtier potrebbe realmente avere ragione… Da quindici giorni trovo che non abbiate una buona cera.»

«Sì, è vero», annuì Valentine, «perciò il nonno si è dichiarato mio medico, e siccome egli sa di tutto, ho gran fiducia in lui.»

«State male davvero, Valentine?» domandò sollecito Morrel.

«Non è un soffrire il mio, ma sento un malessere generale, ecco tutto: ho perduto l’appetito, e mi pare che il mio stomaco sia in lotta per abituarsi a qualche cosa.»

Noirtier non perdeva una parola di Valentine.

«E che cura seguite per questa ignota malattia?»

«Semplicissima», rispose Valentine, «prendo tutte le mattine una cucchiaiata della medicina del nonno, e dicendo una cucchiaiata, intendo che ho incominciato col prenderne una, ora però ne prendo già quattro… Il nonno afferma che sia un rimedio universale.»

Valentine sorrideva, ma c’era qualche cosa di triste e sofferente in quel sorriso. Maximilien, ebbro d’amore, la guardava in silenzio: era bella ma il suo pallore aveva preso una tinta più bianca, i suoi occhi brillavano di un fuoco ardente più del solito, e le sue mani, ordinariamente bianche come l’avorio, sembravano di cera con una velatura giallastra. Da Valentine il giovane volse gli occhi a Noirtier: questi osservava con strana e profonda intelligenza la ragazza, assorta nel suo amore. Lui pure, come Morrel, scorgeva quelle tracce di un sordo soffrire, sfuggito agli occhi di tutti.

«Ma», riprese Morrel, «quella pozione di cui siete giunta a prendere quattro cucchiai, credevo fosse una medicina per il signor Noirtier…»

«So che è molto amara», disse Valentine, «tanto amara che tutto ciò che bevo dopo mi sembra avere lo stesso gusto.»

Noirtier guardò la nipote come volesse chiederle qualcosa.

«Sì, nonno», ripeté Valentine, «è come vi dicevo. Poco fa, prima di venire da voi, ho bevuto un bicchiere d’acqua zuccherata. Ebbene? Ne ho lasciata metà, tanto quest’acqua mi sembrava amara.»

Noirtier impallidì, e fece segno che voleva parlare, Valentine si alzò per andare a cercare il dizionario. Noirtier la seguiva con gli occhi e con visibile angoscia. Difatti il sangue affluì alla testa della ragazza, e le sue guance arrossirono.

«Be’», disse, senza perdere nulla della sua allegria, «che strano, un capogiro! È il sole che mi ha ferito gli occhi?»

E si appoggiò al davanzale della finestra.

«Non è il sole», replicò Morrel, inquieto più per l’espressione del viso di Noirtier, che per l’indisposizione di Valentine.

E corse da lei. La ragazza sorrise.

«Rassicurati, nonno», disse a Noirtier, «rassicuratevi, Maximilien, non è niente, è già passato… Ma ascoltate!… Non è il rumore di una carrozza, che sento nel cortile?»

Aprì la porta, corse a una finestra del corridoio, e tornò precipitosamente.

«Sì», dichiarò, «è la signora Danglars con sua figlia che vengono a farci visita. Vi saluto, me ne vado, perché verrebbero a cercarmi qui… Arrivederci, con il nonno, signor Maximilien, vi prometto che non farò nulla per trattenerle.»

Morrel la seguì con gli occhi, la vide chiudere la porta, e la sentì salire la piccola scala che conduceva alla camera della signora Villefort e alla sua. Dal momento che fu scomparsa, Noirtier fece segno a Morrel di prendere il dizionario. Morrel obbedì. Guidato da Valentine, si era presto abituato a capire il vecchio. Però, per quanto abituato, siccome bisognava scorrere gran parte delle lettere dell’alfabeto, e ritrovare ciascuna parola nel dizionario, soltanto dopo dieci minuti il pensiero del vecchio fu tradotto in queste parole: «Cercate il bicchiere d’acqua e la bottiglia in camera di Valentine».

Morrel suonò subito per il domestico succeduto a Barrois, e in nome di Noirtier gli dette quest’ordine. Il domestico tornò un istante dopo, ma la bottiglia e il bicchiere erano completamente vuoti.

Noirtier fece segno che voleva parlare.

«Perché il bicchiere e la bottiglia sono vuoti?» domandò. «Valentine ha detto di averne bevuto soltanto mezzo.»

La traduzione di questa nuova domanda occupò ancora altri cinque minuti.

«Non lo so», rispose il domestico, «ma c’è la cameriera nell’appartamento della signorina Valentine; forse è stata lei a vuotarli.»

«Domandatele il perché», disse Morrel, traducendo questa volta il pensiero di Noirtier con lo sguardo.

Il domestico uscì, e rientrò quasi subito.

«La signorina Valentine è passata dalla sua camera prima di andare dalla signora Villefort, nel passare, siccome aveva sete, ha bevuto ciò che rimaneva nel bicchiere. In quanto alla bottiglia, l’ha vuotata il signor Edouard per fare un laghetto per le sue anatre.»

Noirtier alzò gli occhi al cielo come fa un giocatore che rischia in un colpo tutto quanto possiede. Da quel momento gli occhi del vecchio si fissarono sulla porta. Le persone in visita erano difatti la signora Danglars e sua figlia, ed erano state condotte nelle stanze della signora Villefort, che aveva dato ordine di riceverle nel suo appartamento; e per questo Valentine era passata dalla sua stanza sullo stesso piano della matrigna, e separata da lei soltanto dalla camera di Edouard.

Le due signore entrarono nel salotto con la rigidità di chi sta per fare una rivelazione. E siccome le persone dello stesso ceto si capiscono al volo, così la signora Villefort rispose con lo stesso tono, anzi, essendo in quel momento entrata Valentine, ricominciarono con lo stesso tono.

«Cara amica», cominciò la baronessa, mentre le due ragazze si prendevano per mano, «vengo con Eugénie ad annunciarvi per prima il prossimo matrimonio di mia figlia col principe Cavalcanti.»

Il banchiere democratico aveva ritenuto che questo titolo andava meglio che quello di conte.

«Allora permettete che vi faccia le mie congratulazioni», disse la signora Villefort. «Il principe Cavalcanti sembra un giovane di rare qualità.»

«Ascoltate», disse la baronessa sorridendo, «parlandovi da amica, debbo dirvi che il principe non ci sembra ancora quello che può diventare: ha in sé un po’ di quella stravaganza, che a noi francesi fa riconoscere al primo sguardo un gentiluomo italiano o tedesco. Però sembra di buonissimo carattere, molta acutezza di spirito, e, in quanto a interesse, il signor Danglars afferma che la sua sostanza sia ragguardevole: queste sono le sue parole.»

«E poi», proseguì Eugénie, mentre sfogliava l’album della signora Villefort, «aggiungete, signora, che avete una predilizione particolare per questo giovane.»

«Non ho bisogno di domandarvi se condividete questa predilizione», disse la signora Villefort.

«Io?» fece Eugénie con la sua solita serietà. «Niente affatto signora! La mia vocazione non è d’ingolfarmi nelle cure di famiglia e nei capricci di un uomo qualunque. La mia vocazione è di essere artista, e di conseguenza libera nel cuore, nel pensiero e nelle azioni.»

Eugénie pronunciò queste parole con accento così fermo, che Valentine arrossì. La timida ragazza non poteva comprendere questo carattere energico, che non aveva niente in comune con i normali pudori di una donna.

«Del resto», continuò, «poiché il mio destino è quello di sposarmi, che lo voglia o meno, debbo ringraziare la Provvidenza che mi abbia procurato il disprezzo del signor Albert Morcerf; senza questa Provvidenza, oggi sarei la moglie di un uomo disonorato.»

«È purtroppo vero», riprese la baronessa, con quella strana ingenuità che qualche volta si trova nelle grandi signore. «Senza l’esitazione dei Morcerf, mia figlia avrebbe sposato il signor Albert. Il generale ci teneva molto, era anzi venuto per costringere il signor Danglars a dare la sua parola… L’abbiamo scampata bella!»

«Ma», accennò timidamente Valentine, «forse l’onta del padre ricade sul figlio? Il signor Albert mi sembra innocente di tutti questi tradimenti del generale.»

«Scusa, cara amica», ribatté l’implacabile ragazza, «il signor Albert domanda e merita la sua parte… Pare che dopo aver ieri sera provocato Montecristo all’Opéra, oggi gli abbia fatto le scuse prima del duello.»

«Impossibile!» esclamò la signora Villefort.

«Mia cara», continuò la signora Danglars, «è tutto vero, lo so dal signor Debray che era presente alle spiegazioni.»

Anche Valentine sapeva la verità, ma non rispose. Risospinta da una parola nei suoi affanni, era già col pensiero nella camera di Noirtier dove Morrel l’aspettava. Le sarebbe stato perfino impossibile ripetere ciò che aveva detto pochi minuti prima, quando a un tratto la mano della signora Danglars, appoggiandosi sul suo braccio, la distolse da quella distrazione.

«Che c’è, signora?» domandò Valentine rabbrividendo al contatto delle dita della signora Danglars.

«C’è, mia cara Valentine», rispose la baronessa, «che voi state senza dubbio male.»

«Io?» disse la ragazza passandosi la mano sulla fronte ardente.

«Sì, guardatevi in questo specchio: siete arrossita e impallidita tre o quattro volte nello spazio di un minuto.»

«Infatti», osservò Eugénie, «sei molto pallida.»

«Non preoccuparti, Eugénie, sono così da qualche giorno.»

E per quanto la ragazza fosse poco astuta, capì che quella era una buona occasione per uscire. D’altra parte la signora Villefort venne in suo aiuto.

«Ritiratevi, Valentine», disse, «voi state male sul serio, e queste signore vorranno perdonarvi: bevete un bicchiere d’acqua, e vi riprenderete.»

Valentine abbracciò Eugénie, salutò la signora Danglars, e uscì.

«Questa povera ragazza», riprese la signora Villefort, quando Valentine fu scomparsa, «mi fa stare molto in pena per la sua salute, e non mi meraviglierei se le capitasse qualcosa di grave.»

Intanto Valentine, con una specie d’esaltazione di cui non sapeva farsi ragione, aveva attraversato la camera d’Edouard senza rispondere a un’impertinenza del ragazzino, e dalla sua camera aveva raggiunto la scaletta. Aveva già sceso tutti gli scalini, meno gli ultimi tre, sentiva già la voce di Morrel, quando d’un tratto una nube le passò davanti agli occhi, il piede irrigidito scivolò, le mani non ebbero più forza per afferrare il cordone, e rasente la ringhiera, rotolò dall’alto dei tre ultimi gradini.

Morrel fece un balzo, aprì la porta, e trovò Valentine stesa sul pianerottolo. Rapido come il lampo, l’alzò fra le braccia, e andò a deporla sopra una sedia.

Valentine riaprì gli occhi.

«Oh, quanto sono maldestra», mormorò con sguardo febbrile, «non so più stare in piedi! Dimenticavo che vi sono tre scalini prima del pianerottolo.»

«Vi siete ferita, Valentine?» gridò Morrel. «Mio Dio! mio Dio!»

Valentine si guardò intorno; vide il più profondo spavento negli occhi di Noirtier.

«Rassicurati, nonno mio», disse, sforzandosi di sorridere, «non è niente, non è niente… Mi è venuto un capogiro, ecco tutto.»

«Un altro capogiro!» esclamò Morrel congiungendo le mani. «Riguardatevi, Valentine, ve ne supplico.»

«Ma no», replicò Valentine, «ma no, vi dico che tutto è passato, e che non è niente. Ora, lasciate che vi dia una notizia: fra otto giorni Eugénie si sposa, e fra tre vi è una specie di festa, un ricevimento per il fidanzamento. Noi siamo tutti invitati, mio padre, la signora Villefort, e io… Almeno a quanto mi è sembrato di capire.»

«E quando avverrà che tocchi a noi occuparci di questo? Oh, Valentine, voi che avete tanto potere sul vostro buon nonno, fate in modo che vi risponda “Ben presto”.»

«Così», domandò Valentine, «voi contate su di me per affrettare i tempi o per risvegliare la memoria del buon nonno?»

«Sì», gridò Morrel. «Mio Dio, mio Dio, fate presto! Fino a che voi non sarete mia, Valentine, mi sembrerà sempre che possiate sfuggirmi.»

«Davvero», disse Valentine nervosa, «voi Maximilien mostrate troppa timidezza per essere quell’ufficiale, quel soldato che dicono non abbia mai conosciuto la paura.»

E uscì in una risata stridula e dolorosa, le braccia le si torsero e contorsero, la testa si rovesciò sulla sedia, e rimase immobile. Il grido di terrore che Dio incatenava sulle labbra di Noirtier, scaturì dallo sguardo. Morrel lo comprese: bisognava chiamare soccorso. Il giovane si attaccò al campanello; la cameriera che era nell’appartamento di Valentine, e il domestico che aveva sostituito Barrois, accorsero simultaneamente.

Valentine era così pallida, fredda, e inanimata, che senza ascoltare parola, assaliti dalla paura che vegliava in quella maledetta casa, corsero nel corridoio cercando aiuto. La signora Danglars ed Eugénie uscite in quel momento, furono subito informate della causa di tutto quel gridare. La signora Villefort, affettando un sentimento materno e una compassione che non sentiva, e chiudendo in cuor suo le malvage intenzioni da vera matrigna, disse alle visitatrici: «Povera ragazza! Ve lo aveva detto!»

93. Confessione

Nello stesso momento si udì la voce del signor Villefort, che gridava dal suo studio: «Cosa è stato?»

Morrel consultò con uno sguardo Noirtier, che aveva riacquistato tutta la sua calma, e con un cenno indicò lo stanzino, dove già un’altra volta, in circostanza pressappoco simile, si era rifugiato. Non ebbe che il tempo di prendere il cappello e di gettarsi nel luogo indicato. Si sentivano già i passi del procuratore in corridoio.

Villefort corse subito nella camera, corse da Valentine e la prese fra le sue braccia.

«Un medico! Un medico! Il signor d’Avrigny!» gridò Villefort. «Vi andrò io stesso.»

E corse fuori dall’appartamento. A quel punto Morrel uscì dallo stanzino, e corse per le scale. Era stato colpito da un terribile ricordo. Il colloquio fra il signor Villefort e il dottore, che aveva udito in giardino la notte in cui morì la signora di Saint-Méran, gli ritornò tutto alla memoria: quei sintomi, benché in forma meno acuta, erano gli stessi che avevano preceduto la morte di Barrois. Nello stesso tempo gli era sembrato di risentire all’orecchio la voce di Montecristo: «Di qualunque cosa possiate avere bisogno, venite da me, io posso molto».

Più veloce del pensiero, corse dunque dal Faubourg Saint-Honoré alla rue Matignon, e dalla Matignon all’ingresso degli Champs-Elysées.

Intanto il signor Villefort giunse in calesse alla porta del signor d’Avrigny, e suonò con tanta violenza, che il portinaio venne ad aprirgli tutto spaventato. Villefort in un balzo fu sulle scale senza aver la forza di dire una parola. Il portinaio lo conosceva, e lo lasciò passare gridando soltanto: «Nel suo studio, signor procuratore, nel suo studio!»

Villefort ne spingeva già, anzi sbatteva la porta.

«Ah», disse il dottore. «Siete voi.»

«Sì», annuì Villefort, richiudendo la porta dietro di sé. «Sì, dottore, sono io, vengo a chiedervi a mia volta se siamo soli. Dottore, la mia è una casa maledetta!»

«Cosa dite?» disse questi con apparente freddezza, ma con profonda emozione interna. «Si è ammalato ancora qualcuno?»

«Sì, dottore!» gridò Villefort, mettendosi le mani nei capelli. «Sì!»

Lo sguardo di d’Avrigny diceva: «Ve l’avevo detto». Quindi le sue labbra articolarono lentamente: «Chi sta dunque per morire in casa vostra? E quale nuova vittima va ad accusarvi di debolezza davanti a Dio?»

Un doloroso singhiozzo scaturì dal cuore di Villefort, si avvicinò al medico, e afferrandolo per il braccio, gridò: «Valentine! Questa volta è Valentine!»

«Vostra figlia?» gridò d’Avrigny preso da dolore e sorpresa.

«Vi sbagliavate», mormorò il magistrato. «Venite a visitarla, e chiedetele scusa dei vostri sospetti.»

«Ogni volta che mi avete chiamato», disse il signor d’Avrigny, «era sempre troppo tardi… Non importa, vengo, ma affrettiamoci, signore: coi nemici di casa vostra non c’è tempo da perdere.»

«Questa volta, dottore, non mi rimprovererete più la mia debolezza. Questa volta troverò l’assassino, e lo colpirò!»

«Tentiamo prima di salvare la vittima, poi penseremo a vendicarla», disse d’Avrigny. «Andiamo!»

E il calesse che aveva condotto Villefort lo ricondusse al gran trotto col signor d’Avrigny, nello stesso momento in cui Morrel batteva al portone del conte di Montecristo.

Questi era nel suo studio, e molto pensieroso, leggeva un foglio inviatogli da Bertuccio in tutta fretta. Molte cose erano passate in quelle due ore, tanto per il conte, che per il giovane, e questi, dopo averlo lasciato col sorriso sulle labbra, adesso ritornava tutto sconvolto. Si alzò, e corse incontro a Morrel.

«Cos’è accaduto, Maximilien?» gli domandò. «Siete pallido e la vostra fronte è madida di sudore.»

Morrel cadde su una sedia.

«Sì», ansimò, «sono venuto in fretta, ho bisogno di parlarvi.»

«Stanno tutti bene a casa vostra?» domandò il conte con un’affettuosa benevolenza sulla cui sincerità nessuno avrebbe potuto ingannarsi.

«Grazie, conte, grazie», rispose il giovane, visibilmente imbarazzato nell’intavolare il discorso. «Sì, in famiglia tutti stanno bene.»

«Però avete qualche cosa da dirmi?» riprese il conte sempre più inquieto.

«Sì», disse Morrel, «è vero, esco da una casa dove è entrata la morte, e sono corso da voi.»

«Uscite forse dalla casa del signor Morcerf?» domandò Montecristo.

«No», disse Morrel. «È morto qualcuno in casa del signor Morcerf?»

«Il generale si è sparato alla testa», rispose freddamente Montecristo.

«Che orribile disgrazia!» gridò Maximilien.

«Non però per la contessa, né per Albert», osservò Montecristo. «È meglio un padre e uno sposo morto, che un padre e uno sposo disonorato: il sangue laverà l’infamia.»

«Povera contessa!» mormorò Maximilien. «Compiango lei, soprattutto, una donna così nobile!»

«Piangete pure Albert, Maximilien, poiché, credetelo, è degno della contessa. Ma ritorniamo a voi… Avete detto che correvate da me: avete bisogno del mio aiuto?»

«Sì, ho bisogno di voi, cioè sono corso come un folle per vedere se mi potete portar soccorso in una circostanza in cui Dio solo può soccorrermi.»

«Dite», lo invitò Montecristo.

«A dire il vero», disse Morrel, «non so se mi è permesso rivelare un segreto simile, ma la fatalità mi spinge, la necessità mi costringe, conte…»

Morrel si fermò esitando.

«Non sapete che vi voglio bene?» disse Montecristo, prendendo affettuosamente la mano del giovane fra le sue.

«Voi mi incoraggiate! E poiché qualche cosa mi dice, qui», Morrel si mise la mano sul cuore, «che io non debba aver segreti per voi…»

«Avete ragione, Morrel, Dio vi parla al cuore, e il cuore parla a voi… Ditemi che cosa vi dice il cuore.»

«Conte, volete permettermi di inviare Battistino a domandare da parte vostra notizie di una persona che conoscete?»

«Ho messo me a vostra disposizione, a più forte ragione disponete dei miei domestici.»

«Il motivo è che non mi sembrerà di vivere fintanto che non sarò certo che lei sta meglio.»

«Volete che chiami Battistino?»

«No, vado a parlargli io stesso.»

Morrel uscì, e chiamato Battistino, gli disse alcune parole a bassa voce. Il cameriere partì correndo.

«Avete fatto?» domandò Montecristo, vedendo ricomparire Morrel.

«Sì, e sono un po’ più tranquillo.»

«Voi sapete che sto aspettando», disse Montecristo sorridendo.

«Sì, e io parlo. Ascoltate. Una sera mi trovavo in un giardino nascosto dietro un gruppo di alberi; nessuno pensava che io potessi essere là. Due persone mi passarono vicino, permettete che per ora vi taccia i nomi. Parlavano a bassa voce, eppure non perdetti nemmeno una delle loro parole tanto mi premeva quel colloquio.»

«È un inizio molto lugubre a giudicare dal vostro pallore e dal vostro tremore, Morrel.»

«Sì, molto lugubre, amico mio: era morto qualcuno in casa del padrone del giardino dove mi trovavo… Uno dei due signori di cui ascoltavo il discorso, era il padrone del giardino, e l’altro un medico… Ora il primo confidava al secondo i suoi timori e i suoi dolori, poiché questa era la seconda volta in un mese che la morte piombava rapida e improvvisa in casa sua, e si credeva condannato alla collera di Dio da qualche angelo sterminatore.»

«Ah», disse Montecristo, guardando fisso il giovane, e girando la sedia in modo da spostarsi nell’ombra mentre la luce cadeva sul viso di Maximilien.

«Sì», continuò questi, «la morte era entrata due volte in quella casa in meno di un mese.»

«E che cosa rispondeva il dottore?» domandò Montecristo.

«Diceva… diceva che quella morte non era naturale, e che bisognava attribuirla…»

«A che?»

«A del veleno!»

«Davvero?» si stupì Montecristo, con quella tosse leggera che, nei momenti di forte emozione, gli serviva a mascherare sia il rossore, sia il pallore, sia l’attenzione stessa con cui ascoltava, «davvero, Maximilien, voi avete sentito una cosa del genere?»

«Sì, caro conte, e il dottore aggiungeva che se si fossero rinnovati simili avvenimenti, si sentiva obbligato a rivolgersi alla giustizia.»

Montecristo ascoltava, o sembrava ascoltare, con la massima calma.

«Ebbene», continuò Maximilien, «la morte ha colpito una terza volta, conte, e a che cosa credete che mi impegni la conoscenza di questo segreto?»

«Mio caro amico», disse Montecristo, «mi sembra che raccontiate un’avventura che ciascuno di noi sa a memoria. La casa in cui avete sentito questo discorso, io la conosco, una casa in cui c’è un giardino, un padre di famiglia, un dottore, una casa in cui ci sono state tre morti strane e inattese. Ebbene, guardatemi, io che non ho ascoltato alcuna confidenza, e tuttavia so tutto questo come voi, ho forse scrupoli di coscienza? No, ciò non mi riguarda. Voi dite che un angelo sterminatore sembra offrire questa casa alla collera del Signore… Ebbene, chi vi dice che la vostra supposizione non sia una realtà? Se è la giustizia, e non la collera di Dio che passa su quella casa, Maximilien, voltate la testa, e lasciate passare la giustizia di Dio.»

Morrel tremò. Vi era qualche cosa al contempo lugubre, solenne e terribile nel tono del conte.

«D’altra parte» continuò egli, con un cambiamento di voce così marcato che si sarebbe detto non uscisse dalla bocca dello stesso uomo, «chi vi dice che questo debba di nuovo a succedere?»

«È successo infatti, conte», gridò Morrel, «ed ecco perché corro da voi.»

«Che cosa volete che ci faccia, Morrel? Volete che avverta il procuratore?»

Montecristo articolò quelle ultime parole con una chiarezza e un tono così violento, che Morrel, alzandosi d’un tratto, gridò: «Conte, conte voi sapete di che cosa voglio parlarvi, non è vero?»

«Sì, mio buon amico, e ve lo proverò mettendo i puntini sulle i, cioè dando un nome a quegli uomini. Voi siete stato a passeggiare una sera nel giardino del signor Villefort; da quanto mi dite, presumo fosse la sera in cui morì la signora di Saint-Méran. Avete sentito il signor Villefort parlare col signor d’Avrigny della morte del signor di Saint-Méran e di quella non meno improvvisa della baronessa. Il signor d’Avrigny diceva di credere a un avvelenamento e anzi a due avvelenamenti, ed ecco voi, uomo onesto per eccellenza, eccovi da quel momento occupato a scandagliare il vostro cuore, a gettare la sonda nella vostra coscienza per sapere se dovete rivelare questo segreto oppure tacerlo. Non siamo più nel medioevo, caro amico, non vi sono più i giudici franchi… Che diavolo volete domandare a queste persone? “Coscienza, che vuoi tu da me?” come disse Sterne. Mio caro, lasciateli dormire, se dormono, e per l’amor di Dio, dormite anche voi, che non avete rimorsi che v’impediscono di poter dormire.»

Un orribile dolore accese i lineamenti di Morrel, egli afferrò la mano di Montecristo.

«Ma si uccide ancora, vi dico.»

«E allora», replicò il conte, meravigliato di questa insistenza, che non capiva, e guardando Maximilien più attentamente, «lasciate che uccidano! È una famiglia di Atridi: Dio li ha condannati, ed essi subiranno la sentenza, scompariranno tutti come quelle casette costruite dai bambini con le carte da gioco, che cadono le une dopo le altre sotto il soffio del loro creatore, ve ne fossero anche duecento. Tre mesi fa toccò al signor di Saint-Méran, due mesi fa a sua moglie, l’altro giorno a Barrois, oggi toccherà al vecchio Noirtier o alla giovane Valentine.»

«Voi lo sapevate?» gridò Morrel, in un tale accesso di terrore che Montecristo ne rabbrividì, lui che sarebbe rimasto impassibile se anche avesse visto cadere il cielo, «voi lo sapevate, e non dicevate niente?»

«E che m’importa?» riprese Montecristo, stringendosi nelle spalle. «Conosco forse quella gente? C’è forse ragione che io salvi l’uno per perdere l’altro? Non credo proprio, poiché fra il colpevole e la vittima non ho alcuna preferenza.»

«Ma io, io» gridò Morrel, urlando dal dolore, «io l’amo!»

«Voi amate, chi?» gridò Montecristo, balzando in piedi, e afferrando le due mani che Morrel alzava verso il cielo.

«Io amo perdutamente, io amo come un folle, io amo come uomo che darebbe tutto il suo sangue per risparmiarle una lacrima, io amo Valentine Villefort, che stanno assassinando in questo momento! Mi capite? Io l’amo, e domando a Dio e a voi, in che modo salvarla!»

Montecristo lanciò un grido così selvaggio da leone ferito.

«Pazzo!» urlò, torcendosi a sua volta le mani. «Pazzo! Tu ami Valentine! Tu ami questa figlia di razza maledetta!»

Morrel non aveva mai visto un’espressione simile, né uno sguardo così terribile. Il genio del terrore, da lui visto tante volte sia sui campi di battaglia, sia nelle notti assassine d’Algeria, non aveva mai scosso davanti a lui fuochi più sinistri.

Arretrò spaventato. In quanto a Montecristo, dopo questo moto istintivo, chiuse un momento gli occhi, come abbagliato da lampi interni, e si raccolse con tanta forza, che a poco a poco riacquistò il controllo, come si vede dopo la burrasca calmarsi sotto i raggi del sole i flutti turbolenti o schiumeggianti. Quel silenzio, quel raccoglimento, quella lotta durarono venti secondi circa. Quindi il conte rialzò la pallida fronte.

«Voi vedete», disse, con voce appena alterata, «vedete mio caro amico in che modo Dio sa punire della loro indifferenza gli uomini più sciocchi e più freddi davanti ai terribili spettacoli che loro si offrono. Io spettatore impassibile e curioso, guardavo lo sviluppo di questa lugubre tragedia, e simile all’angelo del male, ridevo del male che fanno gli uomini, sicuro dietro il segreto (il segreto è facile da custodire per i ricchi e potenti), ed ecco che, a mia volta, mi sento morso da questo serpente di cui spiavo la marcia tortuosa, e morso al cuore.»

Morrel mandò un sordo gemito.

«Basta col pianto», continuò il conte, «siate uomo, forte e pieno di speranza; veglio su di voi.»

Morrel scosse tristemente la testa.

«Io vi dico di sperare, mi capite?» gridò Montecristo. «Sappiate che non ho mai mentito e che non sbaglio mai. È mezzogiorno, Maximilien… Ringraziate il cielo di essere venuto a mezzogiorno invece che questa sera o domattina. Ascoltate dunque quanto sto per dirvi, Morrel: è mezzogiorno se Valentine non è morta a quest’ora, non morirà più.»

«Oh mio Dio!» gridò Morrel, «io l’ho lasciata moribonda.»

Montecristo si appoggiò una mano sulla fronte. Che cosa pensava quella testa carica di segreti? Che cosa dicevano, a quello spirito implacabile e umano, l’angelo luminoso, o l’angelo delle tenebre? Dio solo lo sa.

Montecristo rialzò la fronte un’altra volta, e questa volta era serena come quella di un bimbo che si sveglia.

«Maximilien», riprese, «ritornate tranquillamente a casa vostra, non fate nulla, né lasciate apparire sul vostro viso ombra di preoccupazione, vi farò avere notizie, andate…»

«Mio Dio», disse Morrel, «voi mi spaventate, conte, con la vostra imperturbabilità. Potete dunque agire contro la morte? Siete voi più di un uomo? Siete un demone?»

E il giovane, che non aveva mai arretrato davanti ad alcun pericolo, arretrava di fronte a Montecristo, vinto da invincibile terrore. Montecristo lo guardò con un sorriso malinconico e dolce, e Maximilien sentì spuntare le lacrime agli occhi.

«Io posso molto, amico mio», rispose il conte. «Andate, ho bisogno di restar solo.»

Morrel, soggiogato da quel prodigioso ascendente che Montecristo esercitava su tutti, non cercò neppure di sottrarvisi, e scambiata una stretta di mani, partì. Alla porta si fermò per aspettare Battistino, che vide comparire dal fondo della rue Matignon, e che ritornava correndo.

Nel frattempo Villefort e d’Avrigny si erano affrettati. Al loro ritorno Valentine era ancora svenuta, e il medico aveva esaminato l’ammalata con la massima cura, e con attenzione raddoppiata dalla conoscenza del segreto. Villefort, appeso alle sue labbra e al suo sguardo, aspettava con ansia il risultato dell’esame.

Noirtier, più pallido della ragazza, più ansioso di sapere di Villefort stesso, aspettava egli pure. Finalmente d’Avrigny si lasciò sfuggire lentamente queste parole: «È ancora viva».

«Ancora?» gridò Villefort. «Dottore, che terribile parola avete pronunciata!»

«Sì», disse il medico, «ripeto: è ancora viva, e ne sono sorpreso.»

«Ma è salva?» domandò il padre.

«Sì, poiché vive.»

In quel momento lo sguardo di d’Avrigny s’imbatté in quello di Noirtier che scintillava di gioia straordinaria, di un pensiero talmente tenero e affettuoso, che il medico ne rimase colpito. Fece riadagiare sulla sedia la ragazza, le cui labbra appena si distinguevano, tanto erano pallide e bianche, e rimase immobile guardando Noirtier, dal quale ogni gesto del dottore era atteso con ansia.

«Signore», disse allora d’Avrigny a Villefort, «chiamate la cameriera della signorina Valentine, per favore.»

Villefort corse egli stesso a chiamare la cameriera.

Appena Villefort chiuse la porta, d’Avrigny si accostò al vecchio: «Avete qualche cosa da dirmi?» domandò. Il vecchio strinse gli occhi nel modo espressivo con cui era solito esprimere una conferma.

«Solo a me?»

Noirtier fece segno di sì.

«Bene, resterò con voi.»

In quel momento Villefort rientrò, seguito dalla cameriera; dietro la cameriera veniva la signora Villefort.

«Ma che cosa ha dunque questa cara fanciulla?» gridò lei. «Uscendo dalle mie stanze, si è lamentata di non sentirsi bene, ma non avrei creduto che fosse una cosa così seria.»

E la giovane sposa, con le lacrime agli occhi e tutti i segni dell’affetto di una vera madre, si avvicinò a Valentine, prendendole la mano. D’Avrigny continuava a guardare Noirtier: vide gli occhi del vecchio dilatarsi e farsi minacciosi, le sue guance tendersi e tremare, il sudore colare dalla fronte.

«Ah!» esclamò involontariamente, seguendo la direzione degli sguardi di Noirtier, cioè fissando gli occhi sulla signora Villefort, che ripeteva: «Questa povera ragazza starà meglio nel suo letto. Venite, Fanny, portiamola là».

Il signor d’Avrigny che vedeva in quella proposta un mezzo per restare solo con Noirtier, fece segno con la testa che questo era effettivamente quanto c’era di meglio da fare, ma ordinò che non le fosse dato nient’altro che quello che avesse ordinato.

Portarono via Valentine, che aveva recuperato l’uso dei sensi, ma incapace di agire e quasi di parlare, tanto le sue membra erano state indebolite dal malore subito. Però ebbe la forza di salutare con uno sguardo il nonno, a cui sembrava strappassero l’anima nel vederla portar via. D’Avrigny seguì l’ammalata, terminò le sue prescrizioni, e ordinò a Villefort di prendere un calesse, e andare di persona dal farmacista per far preparare in sua presenza le pozioni ordinate, riportarle lui stesso e aspettarlo nella camera di sua figlia.

Quindi, dopo aver rinnovata l’ingiunzione di non lasciar prendere niente a Valentine, ridiscese da Noirtier, chiuse accuratamente le porte, e dopo essersi assicurato che nessuno lo ascoltava, disse: «Voi sapete qualcosa sulla malattia di vostra nipote».

Il vecchio fece segno di sì.

«Ascoltate, non abbiamo tempo da perdere, io vi interrogherò, e voi mi risponderete.»

Noirtier fece segno ch’era pronto a rispondere.

«Avevate previsto il malore che ha colto Valentine?»

«Sì.»

D’Avrigny rifletté un istante, poi riavvicinandosi a Noirtier: «Perdonate ciò che sto per dirvi», mormorò, «ma non deve essere trascurato nessun indizio nella situazione terribile in cui siamo. Avete visto morire il povero Barrois?»

Noirtier levò gli occhi al cielo.

«Sapete di che cosa è morto?» domandò d’Avrigny, posando la mano sulla spalla del vecchio. Il vecchio accennò di sì.

«Credete che la sua morte sia stata naturale?»

Le inerti labbra di Noirtier si atteggiarono come a un sorriso.

«Allora vi è venuta l’idea che Barrois sia stato avvelenato! Credete che il veleno di cui rimase vittima fosse destinato a lui?»

Il vecchio fece cenno di no.

«Credete che la stessa mano che colpì Barrois, volendo colpire un altro, sia oggi quella che colpisce Valentine?»

«Sì.»

«Lei dunque soccomberà nello stesso modo?» domandò d’Avrigny fissando Noirtier. E aspettò l’effetto di questa frase sul vecchio.

«No!» rispose con un’aria di trionfo, che avrebbe potuto stupire il più abile indovino.

«Allora voi sperate?» domandò d’Avrigny sorpreso.

«Sì.»

«Che cosa sperate?»

Il vecchio gli fece capire con gli occhi che non poteva rispondere.

«Ah sì, è vero», mormorò d’Avrigny. Quindi a Noirtier: «Voi sperate che l’assassino si stancherà?»

«No.»

«O che il veleno non farà il suo effetto su Valentine?»

«Sì.»

«Perché non vi sto dicendo una novità, non è vero», aggiunse d’Avrigny, «dicendovi che si è tentato di avvelenarla?»

Il vecchio fece segno con gli occhi che non aveva alcun dubbio in merito.

«Allora come sperate che Valentine possa salvarsi?»

Noirtier tenne allora gli sguardi sempre fissi nella stessa direzione. D’Avrigny seguì quella direzione, e vide che guardava una bottiglia contenente la pozione che gli veniva data tutte le mattine.

«Ah!» esclamò d’Avrigny, colpito da un’idea. «Avete pensato di?…»

Noirtier non lo lasciò terminare e fece subito cenno di sì.

«Di premunirla contro il veleno?…»

«Sì.»

«Abituandola a poco a poco…»

«Sì, sì, sì», fece Noirtier lietissimo d’essere capito.

«Infatti, mi avete sentito dire che c’era della brucina nella pozione che vi do?»

«Sì.»

«E abituandola a questo veleno avete voluto neutralizzare gli effetti di un veleno simile?» La stessa gioia trionfante di Noirtier. «Ci siete riuscito!» gridò d’Avrigny. «Senza questa precauzione Valentine oggi sarebbe stata uccisa, uccisa irrimediabilmente, e senza misericordia; l’attacco è stato violento, ma non è rimasta che spossata, e per questa volta almeno Valentine non morirà.»

Una gioia sovrumana appannava gli occhi del vecchio, con espressione d’infinita riconoscenza. In quel momento entrò Villefort.

«Prendete, dottore, ecco quanto avete ordinato.»

«Questa medicina è stata preparata in vostra presenza?»

«Sì», rispose il procuratore.

«Non è stata in altre mani?»

«No.»

D’Avrigny prese la bottiglia, versò nel cavo della mano qualche goccia del liquido che conteneva, e l’assaggiò.

«Bene», disse, «andiamo da Valentine, darò le mie istruzioni a tutti, e sorveglierete voi stesso, signor Villefort, che vengano rispettate.»

Nel momento in cui d’Avrigny entrava nella camera di Valentine accompagnato dal signor Villefort, un prete italiano di aspetto severo con parole calme e decise, prendeva in affitto la casa attigua al palazzo abitato dal signor Villefort. Non si poté sapere per quale motivo i tre locatari di quella casa sgombrarono due ore dopo, ma nel quartiere corse voce che la casa non fosse abbastanza sicura nelle sue fondamenta e minacciasse di crollare; il che, però, non impedì al nuovo locatario di stabilirvisi col suo modesto mobilio, il giorno stesso verso le cinque. L’affitto fu deciso per tre, sei e nove anni, e secondo l’abitudine stabilita fra i proprietari, il nuovo locatorio pagò sei mesi anticipati. Questo nuovo locatario che, come abbiamo detto, era italiano, si chiamava Giacomo Busoni. Furono immediatamente chiamati gli operai e la notte stessa i pochi passanti che passarono per di là in ora tarda, videro con sorpresa i falegnami e i muratori occupati a puntellare la casa vacillante.

94. Padre e figlia

Nell’ultimo capitolo abbiamo visto la signora Danglars andare ad annunciare ufficialmente alla signora Villefort l’imminente matrimonio della signorina Eugénie Danglars con il signor Andrea Cavalcanti. Quell’annuncio ufficiale, che indicava o almeno sembrava indicare una decisione presa da tutte le parti interessate a tale grande affare, era tuttavia stato preceduto da una scena, di cui dobbiamo render conto ai nostri lettori. Li pregheremo dunque di fare un passo indietro sino alla mattina stessa delle grandi catastrofi, in quel salotto dorato che già abbiamo fatto conoscere, e che era l’orgoglio del suo proprietario, il barone Danglars.

In quel salotto, attorno alle dieci del mattino, passeggiava da qualche minuto, in pensiero e visibilmente agitato, il banchiere, osservando tutte le porte, e fermandosi a ogni rumore. Quando ebbe esaurito la pazienza, chiamò il cameriere.

«Etienne», gli disse, «andate dalla signorina Eugénie e chiedetele come mai mi ha pregato di aspettarla in questo salotto, e sappiatemi dire perché mi fa aspettare così tanto.»

Dopo quel moto d’impazienza, il barone si calmò.

La signorina Danglars, al risveglio, aveva infatti chiesto di vedere suo padre, e aveva scelto il salotto per quell’incontro. La stranezza di tale capriccio, e soprattutto il suo carattere ufficiale, avevano un po’ sorpreso il banchiere, che aveva immediatamente obbedito ai desideri di sua figlia entrando per primo in salotto.

Etienne tornò presto dalla sua ambasciata.

«La cameriera», disse, «mi ha riferito che la signorina stava finendo la sua toilette, e che non avrebbe tardato molto.»

Danglars fece un segno con il capo, indicando che era soddisfatto. Danglars sia in società, e persino con le persone di servizio, fingeva buonumore, e modi di padre affettuoso e debole; era un brano della parte che si era imposto nella commedia popolare che rappresentava. Affrettiamoci a dire che, nell’intimità, la maggior parte delle volte, il buonumore scompariva per lasciar posto al marito brutale e al padre tiranno.

«Per quale ragione questa pazza, che pretende di parlarmi», mormorava Danglars, «non viene nel mio studio, e perché soprattutto vuole parlarmi?»

Stava rimuginando per la ventesima volta questo pensiero inquietante nella sua mente, quando si aprì la porta e comparve Eugénie, vestita di seta nera broccata con fiori pallidi dello stesso colore, i capelli acconciati, e i guanti, come se dovesse andare al Théâtre Italien.

«Ebbene, Eugénie, che succede?» chiese il padre. «E perché nel salotto mentre si sta ugualmente bene nel mio studio?»

«Avete ragione, signore», rispose Eugénie, facendo segno a suo padre che poteva sedersi, «voi ponete già le due domande in cui si riassume tutto il colloquio che avremo. Io dunque risponderò a entrambe, e, contro le leggi dell’abitudine, comincerò dalla seconda. Ho scelto il salotto, signore, come luogo d’appuntamento, al fine d’evitare le impressioni sgradevoli e gli influssi dello studio di un banchiere. Quei libri di cassa, per quanto siano ben dorati, quei cassetti chiusi come le porte di una fortezza, quelle masse di biglietti di banca che vengono non si sa da dove, e quella quantità di lettere provenienti dall’Inghilterra, dall’Olanda, dalla Spagna, dalle Indie, dalla Cina e dal Perù, in generale agiscono stranamente sullo spirito di un padre, e gli fanno dimenticare che nel mondo vi è un interesse più grande e più sacro di quello dello stato sociale e dell’opinione dei suoi clienti… Ho dunque preferito questo salotto dove vedete, sorridenti e felici nei loro quadri magnifici, il vostro ritratto, il mio, quello di mia madre, e molte specie di paesaggi che inteneriscono.

Io mi fido molto del potere delle impressioni esterne. Forse riguardo a voi, in particolare, mi sbaglio… Ma che volete? Non sarei artista se non mi restasse qualche illusione.»

«Benissimo», disse il signor Danglars, che aveva ascoltato imperturbabile tutta quella tiritera, ma senza comprenderne una parola, assorto com’era nel cercare il motivo di una causa qualsiasi alla richiesta dell’interlocutrice.

«Ecco dunque spiegato il secondo punto, o pressappoco», riprese Eugénie, senza il minimo turbamento e con quel distacco maschile che caratterizzava il suo gesto e la sua parola, «e voi mi sembrate contento della spiegazione. Ora veniamo al primo: voi mi chiedete perché vi ho chiesto questo incontro… Ve lo dirò in due parole, signore, eccole: non voglio sposare il conte Andrea Cavalcanti.»

Danglars fece un salto sulla sedia, e per la scossa alzò insieme braccia e occhi al cielo.

«Mio Dio, sì, signore», continuò Eugénie, sempre calma.

«Voi ne siete meravigliato, poiché finora non ho mai manifestato la più piccola opposizione, certa al momento opportuno d’opporre alle persone che non mi hanno consultato, e alle cose che mi sono dispiaciute, una volontà ferma e assoluta. Però stavolta, la tranquillità, la passività, come dicono i filosofi, veniva da altra sorgente, veniva dal fatto che, figlia sottomessa e affezionata…» un leggero sorriso apparve sulle labbra purpuree della ragazza, «io volevo cedere all’obbedienza.»

«Quindi?» domandò Danglars.

«Quindi, signore» riprese Eugénie, «ho provato fino all’ultimo, ma ora che è giunto il momento, malgrado tutti gli sforzi, mi sento incapace di obbedire.»

«Ma infine», disse Danglars, che sembrava preoccupato dal peso di quell’implacabile logica, la cui calma sapeva di tanta premeditazione e forza di volontà, «qual è la ragione di questo rifiuto, Eugénie?»

«La ragione», replicò la ragazza, «non è perché il signor Andrea Cavalcanti sia brutto, sciocco o sgradevole, no, può anzi essere stimato un partito. Non è neppure perché il mio cuore sia stato preso meno da lui che da altri; sarebbe una ragione da ragazzina di collegio… Io non amo assolutamente nessuno, signore! Voi lo sapete bene, non è vero? Non vedo dunque perché, senza un’assoluta necessità, mi dovrei legare eternamente a un compagno. Il saggio non ha detto “Niente di troppo” e altrove “Porta tutto con te stesso”? Ebbene, caro padre, nel naufragio eterno delle nostre speranze, butto a mare tutto quanto ho di inutile nel mio bagaglio, e resto con la mia volontà, disposta a vivere perfettamente sola, e di conseguenza perfettamente libera.»

«Disgraziata! Disgraziata», mormorò Danglars, impallidendo, poiché sapeva per lunga esperienza la solidità dell’ostacolo che all’improvviso incontrava.

«Disgraziata?» riprese Eugénie. «Disgraziata dite, signore? Ma no, davvero, l’esclamazione mi sembra affettata e teatrale. Felice, al contrario, poiché io vi domando: che cosa mi manca? Il mondo mi trova bella, è già qualcosa… Amo accogliere le persone, rallegrano il viso, e quelli che mi circonderanno mi sembreranno allora meno brutti… Sono dotata di un po’ di spirito e di una certa sensibilità che mi permette di trarre dall’esistenza, per farlo entrare nella mia vita, ciò che vi trova di buono, come fa la scimmia quando rompe la noce acerba per cavare ciò che contiene… Sono ricca, poiché voi avete uno dei più grossi patrimoni di Francia, perché sono figlia unica, e voi non siete tenace al punto che lo sono i padri del quartiere di Saint-Martin e della Gaité che diseredano le figlie perché non vogliono dar loro nipoti; d’altra parte la legge previdente vi ha tolto il diritto di diseredarmi, almeno del tutto, come vi toglie il potere di costringermi a sposare un signor tale o tal altro. Quindi se io sono bella, spiritosa, adorna di qualche talento, come si dice all’opera comica, e ricca, il che è vera felicità, signore, perché mi chiamate disgraziata?»

Danglars, vedendo sua figlia sorridente e orgogliosa fino all’insolenza, non poté reprimere un gesto di rabbia che si tradì con un rantolo; ma sotto lo sguardo indagatore di sua figlia, vedendo le sopracciglia corrugate, si calmò subito, domato dalla circospezione.

«Infatti, figlia mia», rispose con un sorriso, «siete come vi vantate di essere, tranne una sola cosa, figlia mia, né voglio dirvi quale, desidero piuttosto lasciarvela indovinare.»

Eugénie guardò Danglars meravigliata.

«Figlia mia», continuò il banchiere, «mi avete perfettamente spiegato quali sono i sentimenti che danno forza alle decisioni di una figlia quando ha deciso di non maritarsi, spetta ora a me dirvi quali sono i motivi di un padre, come sono io, quando ha deciso che sua figlia si mariti.»

Eugénie s’inchinò, non già come figlia sottomessa che ascolta, ma come avversario pronto a discutere su ciò che ascolta.

«Figlia mia», riprese Danglars, «quando un padre domanda a sua figlia di prendere uno sposo, ha sempre qualche ragione per desiderare tale matrimonio. Gli uni sono presi dalla mania che dicevate or ora di vedersi rivivere nei loro nipoti. Io comincerò dal dirvi che non ho tale debolezza: le gioie di famiglia mi sono quasi indifferenti. Lo posso confessare a una figlia che conosco abbastanza filosofa da comprendere tale indifferenza e da non farmene una colpa.»

«Finalmente», disse Eugénie, «parliamo schiettamente, signore, è quello che voglio.»

«Ora vedete che, quando credo che la circostanza sia favorevole, mi sottometto alla vostra franchezza: continuerò dunque», proseguì Danglars. «Io vi propongo un marito, non per voi, perché in verità non pensavo a voi minimamente in tal momento (a voi piace la franchezza e mi pare di darvene prova), ma perché avevo bisogno che prendeste questo sposo il più presto possibile, per certe combinazioni commerciali che mi preme stabilire in questo momento.»

Eugénie fremette.

«Le cose stanno proprio come ho l’onore di dirvi, figlia mia, e non per questo dovete essere inquieta con me, perché siete voi che mi vi costringete… Io entro, mio malgrado, come voi ben capirete, in queste spiegazioni aritmetiche, con un artista come voi, che teme d’entrare in un ufficio di banchiere per timore di ricevervi impressioni e sensazioni sgradevoli o antipoetiche. Ma in questo ufficio di banchiere, nel quale però vi siete compiaciuta di entrare ieri l’altro per venire a domandarmi i mille franchi che accordo ogni mese ai vostri capricci, sappiate, mia cara signorina, che s’imparano molte cose anche a vantaggio delle ragazze che non vogliono maritarsi. Vi si impara, per esempio, e per riguardo alla vostra suscettibilità ve lo insegno in questo salotto, vi si impara che il credito di un banchiere è la sua vita fisica e morale, che il credito sostiene l’uomo come il soffio anima il corpo, e il signore di Montecristo mi fece un giorno un discorso su questo argomento che non dimenticherò mai. Vi si impara che, a misura che il credito si ritira, il corpo diviene cadavere, e che ciò è quanto potrà accadere in brevissimo tempo al banchiere che si onora di essere il padre di una figlia che è così padrona della logica.»

Ma Eugénie, invece di curvarsi, si raddrizzò improvvisamente.

«Rovinato!?» mormorò.

«Avete trovato l’espressione giusta, esatta, figlia mia», disse Danglars sfregandosi il petto, ma conservando il suo freddo sorriso. «Rovinato! Esattamente.»

«Ah!» esclamò Eugénie.

«Sì, rovinato! Eccolo dunque messo a nudo questo orribile segreto! Ora, figlia mia, imparate dalla mia bocca in che modo questa disgrazia può, per mezzo vostro, divenire minore, non dirò per me, ma per voi.»

«Oh!» gridò Eugénie. «Siete un cattivo psicologo, signore, se v’immaginate che deplori per me la catastrofe che m’avete esposta. Io rovinata! E che importa? Non mi restano i miei talenti? Non posso come la Pasta, come la Malibran, come la Grisi, procurarmi ciò che mi avreste potuto dare, qualunque fosse la vostra ricchezza, cento o centocinquantamila franchi di rendita che io non dovrei che a me sola, e che invece di giungermi, come mi giungono questi poveri dodicimila franchi che mi date, con sguardi tetri e parole di rimprovero sulla mia prodigalità, mi verrebbero accompagnati da acclamazioni, da lodi e da fiori? E quando non avessi questo talento, del quale il vostro sorriso mi fa vedere che dubitate, non mi resterebbe ancora questo amore per l’indipendenza, che domina in me più dell’istinto di conservazione? No, non è per me che mi rattristo, poiché saprei sempre cavarmi d’impiccio: i libri, i pennelli, il clavicembalo, tutte cose che non costano molto care, e che potrei sempre procurarmi, mi resteranno sempre. Voi crederete forse che mi affligga per la signora Danglars? Disingannatevi pure! O io mi inganno di grosso, o mia madre ha già preso tutte le precauzioni contro la catastrofe che vi minaccia, e che passerà senza toccarla… Si è messa al sicuro, lo spero, e non fu vegliando su di me che ha potuto distrarsi dalle sue preoccupazioni, poiché, grazie a Dio, mi ha lasciato tutta la mia indipendenza col pretesto che amava la mia libertà. No, signore, nella mia infanzia ho visto accadere troppe cose intorno a me, e le ho capite tutte troppo bene, perché la disgrazia faccia su di me maggiori impressioni di quello che meriti. Ch’io mi ricordi non sono stata amata da alcuno… Tanto peggio! Da ciò forse ho imparato a non amare nessuno… Tanto meglio!»

«Allora», disse Danglars, alzandosi pallido di dolore, ma non per offeso amore paterno, «allora signorina, voi persistete a voler causare la mia rovina.»

«La vostra rovina?» si stupì Eugénie. «Io causare la vostra rovina! Che intendete dire? Non capisco.»

«Tanto meglio, questo mi lascia un raggio di speranza. Ascoltate…»

«Ascolto», disse Eugénie guardando suo padre.

«Il signor Cavalcanti», continuò Danglars, «vi sposa e, sposandovi, mi porta tre milioni di dote che deposita nella mia cassa.»

«Benissimo», disse con supremo disprezzo Eugénie.

«Voi credete che voglia buttare questi tre milioni?» domandò Danglars. «Niente affatto. Questi tre milioni sono destinati a produrne almeno dieci. Ho ottenuto, in società con un banchiere, la concessione di una ferrovia, unica industria che, ai nostri giorni, presenti qualche eventualità di successo. Ebbene, fra otto giorni dovrò depositare per conto mio quattro milioni, e questi quattro milioni, ve lo prometto, ne produrranno almeno dieci o dodici.»

«Ma durante la visita che vi ho fatto l’altro ieri, signore, e di cui vi dovete ben ricordare, vi ho visto incassare, non è vero?, cinque milioni e mezzo. Anzi mi avete mostrato la somma in due buoni del tesoro, e non vi deve stupire che un pezzo di carta di così gran valore mi colpisse come un lampo.»

«Sì, ma quei cinque milioni e mezzo non sono miei, erano soltanto una gran prova della fiducia di cui sono onorato: il mio titolo di banchiere democratico mi ha meritato la stima degli ospedali, e i cinque milioni e mezzo sono degli ospedali. In tutt’altri tempi non avrei esitato un momento a servirmene, ma oggi sono note le grandi perdite che ho subito, e come vi dissi, il credito comincia ad allontanarsi. Da un momento all’altro l’amministrazione può richiedere il suo deposito, e se l’avessi impiegato altrove sarei costretto a fallire. Io non disprezzo i fallimenti, ma quelli che arricchiscono, intendiamoci bene, non quelli che rovinano. Ora se sposate il signor Cavalcanti, e io metto le mani sui tre milioni della dote, o perlomeno si crede che io le metta, il mio credito si ristabilisce, e la mia fortuna, che da un mese o due è molto scaduta, si rialza. Mi capite, ora?»

«Perfettamente, mi date in pegno per tre milioni, non è vero?»

«Più la somma è grande, più è lusinghiera, e vi dà idea del vostro valore.»

«Grazie. Ancora una parola, signore, mi promettete di servirvi quanto vorrete della cifra di questa dote che deve portarmi il signor Cavalcanti, ma di non toccare la somma? Questo non è un affare d’egoismo, è un affare di delicatezza. Io voglio cooperare a riedificare la vostra fortuna, ma non voglio essere complice della rovina degli altri.»

«Ma se vi ho detto», gridò Danglars, «che questi tre milioni…»

«Credete di togliervi d’impiccio, signore, senza aver bisogno di toccare questi tre milioni?»

«Lo spero, ma sempre alla condizione che, facendosi il matrimonio, esso consolidi il mio credito.»

«Potrete pagare al signor Cavalcanti i cinquecentomila franchi che mi assegnate nel contratto?»

«Gli saranno versati al ritorno dall’ufficio del sindaco.»

«Bene!»

«Che pensate? Che volete dire?»

«Voglio dire che, chiedendo la mia firma, mi lasciate perfettamente libera della mia persona?»

«Assolutamente.»

«Allora, bene, come vi dicevo, signore, sono pronta a sposare il signor Cavalcanti.»

«Ma qual è il vostro progetto?»

«È un mio segreto. Dove sarebbe la mia superiorità su di voi, se conoscendo il vostro segreto, vi rivelassi il mio?»

«Per cui», diss’egli, «siete pronta a fare tutte le visite che sono assolutamente indispensabili?

«Sì», rispose Eugénie.

«E a sottoscrivere il contratto fra tre giorni.»

«Sì.»

«Allora siamo d’accordo!»

Danglars prese la mano della figlia, e la strinse tra le sue. Ma, cosa straordinaria, durante quella stretta di mano, il padre non osò dire: «Grazie, figlia mia!» e la figlia non ebbe un sorriso per suo padre!

«La conversazione è finita?» domandò Eugénie alzandosi.

Danglars fece segno che non aveva più niente da dire. Cinque minuti dopo il pianoforte risuonò sotto le dita della signorina d’Armilly, e la signorina Danglars cantava la maledizione di Brabanzio su Desdemona. Alla fine del pezzo, entrò Etienne, e annunciò a Eugénie che i cavalli erano attaccati alla carrozza, e che la baronessa l’aspettava per le visite. Noi abbiamo visto le due donne in casa della signora Villefort, da dove uscirono per continuare il loro giro.

95. Il contratto di nozze

A distanza di tre giorni dalla scena che abbiamo raccontato, ovvero verso le cinque pomeridiane del giorno stabilito per la firma del contratto di matrimonio fra la signorina Eugénie Danglars e Andrea Cavalcanti, che il banchiere si era ostinato a chiamare principe, e mentre una fresca brezza faceva frusciare tutte le foglie del piccolo giardino situato davanti alla casa del conte di Montecristo, nel momento in cui questi si preparava a uscire, e i cavalli lo aspettavano battendo le zampe, trattenuti dalla mano del cocchiere che era già a cassetta da un quarto d’ora, l’elegante carrozzino, col quale abbiamo già più volte fatto conoscenza, e particolarmente nella serata d’Auteuil, venne a girare rapidamente intorno all’angolo della porta d’ingresso, e lanciò, piuttosto che deporre, sulla scalinata il signor Andrea Cavalcanti, splendido e raggiante, come se fosse stato sul punto di sposare una principessa. Egli s’informò della salute del conte con quella familiarità che gli era abituale, e salendo leggermente al primo piano, incontrò il conte stesso in cima alla scala.

Nel vedere il giovane, il conte si fermò. In quanto al giovane era lanciato e quando era lanciato, niente lo tratteneva.

«Buongiorno, caro conte di Montecristo», disse al conte.

«Signor Andrea», esclamò questi di rimando con voce beffarda, «come state?»

«Benissimo, come vedete. Vengo a parlare con voi di mille cose… Ma prima di tutto, uscite?»

«Infatti, stavo per uscire, signore.»

«Allora per non farvi tardare, monterò, se volete, nel vostro calesse, e Tom ci seguirà conducendo il carrozzino a rimorchio.»

«No», replicò con un impercettibile sorriso di disprezzo il conte, che non voleva essere visto in compagnia del giovane. «No, preferisco darvi udienza qui, caro signor Andrea. Si parla meglio in una stanza, e non si ha il cocchiere che può cogliere al volo le parole.»

Il conte rientrò dunque in un piccolo salotto che faceva parte del primo piano, si sedette, e accavallando le gambe, fece segno al giovane di accomodarsi.

Andrea era di ottimo umore.

«Sapete, caro conte, che la cerimonia avrà luogo stasera? Alle nove si firma il contratto in casa del suocero.»

«Davvero?» disse Montecristo.

«Come, è forse una novità per voi questa? Non siete stato avvertito dal signor Danglars?»

«Sì», rispose il conte, «ieri ho avuto una sua lettera, ma non credo vi fosse indicata l’ora.»

«È possibile; mio suocero avrà fatto affidamento sul passaparola.»

«Ebbene», disse Montecristo, «eccovi felice, signor Cavalcanti: è una delle migliori famiglie quella in cui state per entrare, e poi la signorina Danglars è bella.»

«Sì», annuì Cavalcanti con un tono pieno di modestia.

«Lei è soprattutto ricca, almeno a quanto credo», disse Montecristo.

«Molto ricca, dite?» fece il giovane.

«Indubbiamente. Si dice che il signor Danglars taccia perlomeno metà della sua sostanza.»

«E confessa quindici o venti milioni», disse Andrea con uno sguardo sfavillante di gioia.

«Senza contare», aggiunse Montecristo, «che sta per entrare in un genere di speculazione in uso negli Stati Uniti e in Inghilterra, ma del tutto nuovo in Francia.»

«Sì, sì, so di che cosa parlate: si è aggiudicato l’appalto per la ferrovia, non è vero?»

«Egli guadagnerà almeno, è opinione comune, almeno dieci milioni in questo affare.»

«Dieci milioni, dite? È un affare magnifico!» esclamò Cavalcanti che si inebriava a quel rumore metallico di parole dorate.

«Senza contare», riprese Montecristo, «che tutta quella ricchezza si riverserà su di voi, e giustamente, poiché la signorina Danglars è figlia unica. D’altra parte la vostra sostanza, da quanto almeno mi ha detto vostro padre, è quasi uguale a quella della vostra fidanzata. Ma lasciamo stare gli affari monetari. Sapete, signor Andrea, che avete condotto questa faccenda con molta abilità e destrezza?»

«Lo ammetto», disse il giovane, «sono nato per fare il diplomatico.»

«Ebbene vi faremo entrare in diplomazia. La diplomazia, come ben sapete, non s’impara; è una cosa d’istinto… Siete innamorato?»

«In verità, ne ho paura», rispose Andrea, col tono con cui aveva visto al Théâtre Française Dorante o Valerio rispondere ad Alceste.

«E lei vi ama un poco?»

«Lo immagino, visto che è contenta di prendermi per sposo…» rispose Andrea con un sorriso altero. «Però non dimentichiamo il punto principale.»

«E sarebbe?»

«È che in tutto questo sono stato particolarmente aiutato.»

«Bah!»

«È vero.»

«Dalle circostanze?»

«No, da voi.»

«Da me? Lasciate stare, principe», replicò Montecristo, calcando con affettazione sopra questo titolo. «E che cosa ho potuto fare per voi? Forse non bastavano il vostro merito e la vostra posizione sociale?»

«No», rispose Andrea, «no, e voi avete un bel dire, signor conte, ma sostengo che la posizione di un uomo come voi ha fatto di più che il mio nome, la mia posizione sociale e il mio merito.»

«V’ingannate, signore», disse con freddezza Montecristo, che avvertiva la perfida furbizia del giovane, e che comprese il valore delle sue parole. «Avete avuto la mia protezione soltanto dopo ch’ebbi preso le mie informazioni su vostro padre e sulla vostra famiglia… E chi ha procurato a me, che non avevo mai visto né voi né l’illustre autore dei vostri giorni, la fortuna di fare la vostra conoscenza? Sono stati due miei buoni amici, lord Wilmore e l’abate Busoni. Chi mi ha incoraggiato, non già a farvi da garante, ma a proteggervi? Fu il nome di vostro padre così conosciuto e così onorato in Italia. Personalmente, io non vi conosco.»

Quella calma, quella perfetta sicurezza, fecero capire ad Andrea che era in svantaggio.

«Come volete voi, ma», riprese, «mio padre è veramente così ricco, signor conte?»

«Pare di sì, signore», disse Montecristo.

«Sapete se la dote che mi ha promesso è garantita?»

«Ho ricevuto una lettera d’accredito.»

«Ma i tre milioni?»

«Saranno in viaggio.»

«Dunque li avrò realmente?»

«Ma certo!» riprese il conte. «Mi sembra che fino adesso, signore, il denaro non vi sia mancato.»

Andrea fu talmente sorpreso, che non poté fare a meno di rimanere assorto per qualche istante.

«Allora», disse, uscendo dalla sua meditazione, «non mi rimane, signore, che farvi una domanda, e la farò, anche se vi riuscisse sgradita.»

«Parlate», disse Montecristo.

«Ho conosciuto, grazie alle mie ricchezze, molte persone distinte, e ho, per il momento almeno, una folla d’amici. Ma sposandomi al cospetto di tutta la società parigina, devo essere sostenuto da un nome illustre, e in mancanza della mano paterna, è una mano possente che deve condurmi all’altare. Ora mio padre non viene a Parigi, non è vero?»

«È vecchio, coperto di ferite, e soffre.»

«Capisco. Ebbene, vengo a farvi una domanda.»

«A me?»

«Sì, a voi.»

«E quale, mio Dio?»

«Di sostituirlo.»

«Eh, mio caro signore! Dopo i numerosi incontri che ho avuto l’onore di avere con voi, mi conoscete tanto male da farmi una simile domanda? Chiedetemi un prestito di mezzo milione, sebbene un tale prestito sia molto difficile, pure, parola d’onore!, mi dareste meno problemi. Sappiate dunque, credevo d’avervelo già detto, che nella sua partecipazione, particolarmente morale, alle cose di questo mondo, mai il conte di Montecristo ha cessato di avere gli scrupoli, e dirò di più, le superstizioni degli uomini d’Oriente. Io che ho un harem al Cairo, uno a Smirne e uno a Costantinopoli, presiedere a un matrimonio? Mai!»

«Così rifiutate?»

«Esatto, foste anche mio figlio, foste mio fratello, rifiuterei ugualmente.»

«Ah!» gridò Andrea sconcertato dalla freddezza del conte. «Come fare allora?»

«Avete centinaia di amici, come avete detto voi stesso.»

«Sono d’accordo, ma siete stato voi a presentarmi al signor Danglars.»

«Niente affatto, io vi ho fatto pranzare con lui ad Auteuil, e voi vi presentaste. È ben diverso.»

«Sì, ma avete contribuito al mio matrimonio.»

«In nessuno modo, vi prego di crederlo. Quando siete venuto a pregarmi di fare la domanda, vi dissi: “Non combino mai matrimoni, mio caro principe, è una mia massima inderogabile”.»

Andrea si morse le labbra.

«Ma infine ci sarete, almeno?»

«Vi sarà tutta Parigi?»

«Certamente!»

«E allora ci sarò anch’io», disse il conte.

«Firmerete il contratto?»

«Non ci trovo alcun inconveniente, e i miei scrupoli non arrivano sino a questo punto.»

«Infine, dato che non volete accordarmi di più, bisogna bene che mi accontenti di quanto mi date. Ma, un’ultima parola, conte.»

«Cosa?»

«Un consiglio.»

«State in guardia: un consiglio è peggio che un favore.»

«Questo potete darmelo senza compromettervi.»

«Dite.»

«La dote che porta mia moglie è di cinquecentomila lire?»

«Questa almeno è la cifra che il signor Danglars mi ha detto.»

«La riceverò o dovrò lasciarla in deposito nelle mani del notaio?»

«In generale, ecco come si svolgono queste cose quando si vuole succedano con certa eleganza. I vostri due notai prendono appuntamento al contratto per domani o dopodomani. Domani o dopodomani scambiano le doti, delle quali si danno mutua ricevuta; quindi, celebrato il matrimonio, mettono i milioni a vostra disposizione, come capo della famiglia.»

«La ragione è», iniziò Andrea, con un’inquietudine mal dissimulata, «che mi sembrava di aver sentito dal mio futuro suocero che aveva intenzione di investire i nostri fondi in quel famoso affare delle ferrovie di cui mi parlavate.»

«Ebbene», riprese Montecristo, «questo, a quanto si assicura, è il miglior mezzo perché i vostri capitali siano triplicati in un anno. Il signor Danglars è un buon padre, e sa far bene i suoi conti.»

«Quindi», concluse Andrea, «va tutto bene, salvo il vostro rifiuto che mi ferisce il cuore.»

«Non lo attribuite che a scrupoli naturalissimi in simili circostanze.»

«Sia dunque fatto come volete. A stasera alle nove», disse Andrea.

«A stasera.»

E nonostante una leggera resistenza da parte di Montecristo, le cui labbra impallidirono, malgrado il sorriso cerimonioso, Andrea prese la mano del conte, la strinse, saltò sul carrozzino e scomparve. Le quattro o cinque ore che gli restavano fino alle nove, Andrea le impiegò in corse, in visite con gli amici di cui aveva parlato, presentati al banchiere con tutto il lusso delle loro carrozze, e congedati con la promessa di quelle azioni che in seguito fecero girare tante teste, e di cui Danglars in quel momento sembrava l’elargitore.

Alle otto e mezzo della sera, la sala di Danglars, la galleria attigua a questa, e le altre tre sale di quel piano, erano piene di una folla profumata, attirata non dalla simpatia, ma da quell’irresistibile bisogno di ritrovarsi là dove si sa che accade qualche cosa di nuovo. Un accademico direbbe che le serate in società sono una collezione di fiori che attirano le incostanti api affamate, insetti irrequieti. Non occorre dire che le sale erano splendenti, che la luce scorreva a onde dai candelabri d’oro sulle tende di seta e su tutti quei mobili di cattivo gusto, che non avevano altro merito che la ricchezza sfolgorante in tutto il suo splendore.

La signorina Eugénie era vestita con la più elegante semplicità: una veste di seta bianca ricamata in bianco, una rosa bianca tra i capelli neri d’ebano, componevano tutto il suo abbigliamento, non arricchito da gioielli. Soltanto si poteva leggere nei suoi occhi quella perfetta sicurezza destinata a smentire ciò che quell’abito nuziale aveva di volgarmente verginale ai suoi occhi.

La signora Danglars, a trenta passi da lei, parlava con Debray, Beauchamp e Château-Renaud. Debray era tornato in quella casa per quella solennità, ma come tutti gli altri e senza alcun privilegio particolare. Il signor Danglars, circondato da deputati e da uomini della finanza, spiegava una nuova teoria di contribuzioni, che contava di mettere in pratica quando la forza delle cose avrebbe costretto il governo a chiamarlo al ministero. Andrea, tenendo sottobraccio i più noti cicisbei dell’Opéra, spiegava loro con frivola impertinenza, visto che aveva bisogno di essere ardito per sembrare disinvolto, i suoi progetti per l’avvenire, e i progressi che contava di fare, con le centosettantacinquemila lire di rendita, nel vestirsi alla moda parigina. La folla si aggirava nelle sale: dappertutto si notava che le donne meglio abbigliate erano le vecchie, e le più brutte quelle che si mostravano con maggiore ostentazione. Se v’era qualche bel giglio, qualche rosa soave e profumata, bisognava cercarla o scoprirla nascosta in un angolo con qualche madre in turbante o con una zia col cappellino stravagante. Ogni tanto, in mezzo a quella calca, a quel mormorio, a quelle risa, un cameriere lanciava un nome conosciuto nella finanza; rispettato nell’esercito, o illustre nelle lettere, e allora un leggero moto nei gruppi accoglieva quel nome. Nel momento in cui la sfera del pendolo batteva le nove sul suo quadrante d’oro, e queste scoccavano, risuonò anche il nome del conte di Montecristo e, come svegliata da una scossa elettrica, tutta l’assemblea si voltò verso la porta.

Il conte era vestito semplicemente di nero, con panciotto bianco e cravatta nera. Si formò all’istante un cerchio intorno alla porta. Il conte con una sola occhiata scoprì la signora Danglars a un’estremità della sala, il signor Danglars all’altra, e la signorina Eugénie davanti a lui. Si avvicinò prima alla baronessa che parlava con la signora Villefort, ch’era venuta sola, Valentine era ancora malata; si rivolse alla baronessa e a Eugénie a cui fece i complimenti con termini così rapidi e riservati che l’orgogliosa artista ne fu commossa. Vicino a lei era la signorina Louise d’Armilly, che ringraziò il conte delle lettere di raccomandazione che le aveva gentilmente dato per l’Italia, e di cui contava far presto uso. Lasciando queste signore, si voltò e si trovò presso Danglars, che si era avvicinato per stringergli la mano.

Compiuti questi convenevoli sociali, Montecristo si fermò puntando ovunque quello sguardo sicuro, pieno di quella particolare espressione della gente di società, e particolarmente di quella snob, sguardo che sembra dire: «Io ho fatto il mio dovere con gli altri, facciano gli altri il loro con me».

Andrea, che era in un salotto attiguo, avvertito dell’arrivo del conte di Montecristo, corse a salutarlo. Lo trovò circondato da molte persone che si disputavano le sue parole, come accade generalmente alle persone che parlano poco, e che non dicono mai una parola senza significato. I notai entrarono in quel momento, e aprirono le loro carte sui velluti ricamati in oro che coprivano la tavola preparata per le firme.

Uno dei notai sedette, l’altro rimase in piedi per procedere alla lettura del contratto, che la metà di Parigi, presente a quella solennità, doveva sottoscrivere. Ciascuno si sedette, o piuttosto le donne fecero circolo, mentre gli uomini, più vicini a quello «stile energico» di cui parla Boileau, fecero i loro commenti sull’agitazione febbrile di Andrea, sull’attenzione del signor Danglars, sull’impassibilità di Eugénie, e sul modo disinvolto e scherzoso con cui la baronessa trattava quell’importante affare.

Il contratto fu letto in mezzo al più profondo silenzio. Ma terminata la lettura, il bisbiglio ricominciò subito nelle sale. Quelle somme, quei milioni dedicati all’avvenire dei due giovani, e che completavano l’esposizione del corredo e dei diamanti della giovane sposa in una sala apposita, avevano risuonato con tutto il loro prestigio nell’invidiosa assemblea. Le grazie della signorina Danglars ne venivano raddoppiate agli occhi dei giovani, e per il momento eclissavano lo splendore del sole. In quanto alle donne, non c’è bisogno di dirlo, mentre invidiavano quei milioni, si consolavano dicendo di non averne bisogno per essere belle.

Andrea, stretto fra i suoi amici, complimentato, adulato, cominciava a credere alla realtà del sogno che faceva. Andrea era sul punto di perdere la testa.

Il notaio prese solennemente la penna fra le due dita, l’alzò sopra la testa, e disse: «Signori, ora si sottoscrive il contratto».

Il barone doveva firmare per primo, quindi il rappresentante del signor Cavalcanti padre, poi la baronessa, in seguito i futuri coniugi. Il barone prese allora la penna e sottoscrisse, poi il rappresentante del padre. La baronessa si avvicinò tenendo sottobraccio la signora Villefort.

«Amica mia», le disse prendendo la penna, «non è terribile? Un inatteso incidente, avvenuto in questo affare dell’assassinio e del furto di cui il signor conte di Montecristo per poco non è rimasto vittima, ci priva del piacere di avere il signor Villefort.»

«Mio Dio!» esclamò Danglars con lo stesso tono con cui avrebbe detto «La cosa mi è del tutto indifferente!»

«Sì», disse Montecristo nell’avvicinarsi, «credo di essere io la causa involontaria di questa assenza.»

«Come, voi conte?» si stupì la signora Danglars firmando. «Se fosse vero, guardatevene, non ve lo perdonerò mai.»

«Non è certamente per colpa mia», rispose il conte, «e desidero provarlo.»

Quindi aggiunse in mezzo al più profondo silenzio: «Vi ricorderete che fu in casa mia che morì quel disgraziato che era venuto per derubarmi, e che scappando fu ucciso, a quanto si crede, dal suo complice?»

«Sì», disse Danglars.

«Ebbene, per portargli aiuto fu spogliato, e i suoi abiti furono gettati in un angolo dove li raccolse la polizia… Ma la polizia, prendendo l’abito e i calzoni per depositarli in tribunale, aveva dimenticato il panciotto.»

Andrea impallidì visibilmente, e si ritirò verso la porta. Vedeva comparire una nube all’orizzonte, e quella nube gli sembrava racchiudere una tempesta.

«Ebbene, oggi è stato ritrovato quel disgraziato panciotto, tutto coperto di sangue e forato sopra il cuore.»

Le dame mandarono un grido, e due o tre di loro si prepararono a svenire.

«L’hanno portato a me. Nessuno sapeva da dove venisse quel cencio, e io solo pensai che fosse probabilmente il panciotto della vittima. A un tratto il mio cameriere, frugando con ribrezzo e precauzione nell’indumento, ha sentito una carta nella tasca: un biglietto diretto… Indovinate un po’ a chi, barone?… Diretto a voi.»

«A me?» gridò Danglars.

«Sì, a voi… Sono riuscito a leggere il vostro nome attraverso il sangue di cui è macchiato quel biglietto», rispose Montecristo in mezzo alla sorpresa generale.

«Ma», domandò la signora Danglars, guardando il marito con inquietudine, «in che modo ciò impedisce al signor Villefort?…»

«È semplicissimo, signora», rispose Montecristo. «Quel panciotto e quella lettera erano le cosiddette prove del delitto; l’uno e l’altra li ho inviati al regio procuratore. Capirete, mio caro barone, la via legale è la più sicura in materia criminale, e poteva trattarsi di qualche macchinazione contro di voi.»

Andrea guardò Montecristo, e si ritirò nella seconda sala.

«È possibile», ammise Danglars. «Quell’uomo assassinato non era un vecchio forzato?»

«Sì», rispose il conte, «un vecchio forzato, Caderousse.»

Danglars impallidì leggermente, Andrea lasciò la seconda sala, ed entrò in anticamera.

«Ma firmate dunque, firmate», disse Montecristo. «Mi accorgo che il mio racconto ha messo tutti in agitazione, e ne domando umilmente perdono a voi, signora baronessa e alla signorina Danglars.»

La baronessa, che aveva firmato, restituì la penna al notaio.

«Signor principe Cavalcanti», domandò il notaio, «signor principe Cavalcanti, dove siete?»

«Andrea! Andrea!» ripeterono molte voci di giovani, già arrivati a quel grado d’intimità col nobile italiano da chiamarlo col nome di battesimo.

«Chiamate dunque il principe! Avvertitelo che tocca a lui firmare!» gridò Danglars a un cameriere.

Ma nel medesimo istante la folla spaventata rifluì nella sala principale, come se qualche terribile mostro fosse entrato negli appartamenti, «cercando chi doveva divorare».

Un ufficiale della gendarmeria disponeva due gendarmi alla porta di ciascuna sala, e avanzava verso Danglars, preceduto da un commissario di polizia. La signora Danglars gettò un grido e svenne. Il signor Danglars, che si credeva minacciato (certe coscienze non sono mai tranquille), offrì agli occhi dei suoi invitati un viso sconvolto dal terrore.

«Che c’è dunque signore?» domandò Montecristo avvicinandosi al commissario.

«Chi di voi, signori» chiese il magistrato senza rispondere al conte, «si chiama Andrea Cavalcanti?»

Un grido di stupore salì da tutti gli angoli della sala. Si cercò, si interrogò.

«Ma chi è dunque questo Andrea Cavalcanti?» domandò Danglars quasi fuori di sé.

«Un forzato fuggito dalle galere di Tolone.»

«E che delitto ha commesso?»

«È accusato», rispose il commissario con voce impassibile, «di avere assassinato Caderousse, suo compagno di cella, nel momento in cui questi uscì dalla casa del conte di Montecristo.»

Montecristo gettò uno sguardo intorno a sé; Andrea era scomparso.



96. La strada del Belgio

Pochi istanti dopo la scena verificatasi nelle sale del signor Danglars, l’ampio palazzo si era svuotato con una rapidità paragonabile a quella che avrebbe prodotto l’annuncio di un caso di peste in mezzo agli invitati: in pochi minuti, da tutte le porte, da tutte le uscite, ognuno si era affrettato a ritirarsi, o piuttosto a fuggire; era una di quelle circostanze in cui non si può nemmeno tentare di dare una di quelle cerimoniose consolazioni solite a darsi nelle grandi catastrofi.

Nel palazzo del banchiere erano rimasti soltanto Danglars, chiuso nel suo studio a rilasciare la deposizione fra le mani del sottufficiale di gendarmeria; la signora Danglars spaventata, nel salotto che conosciamo, ed Eugénie che, con lo sguardo altero e una smorfia sdegnosa, si era ritirata nella sua camera con l’inseparabile compagna, Louise d’Armilly. In quanto ai domestici, più numerosi ancora del solito quella sera, perché erano stati aggiunti in occasione della festa i sorbettieri, i cerimonieri e i maître del Café de Paris, riversando contro il padrone la collera per il cosiddetto affronto ricevuto, se ne stavano a gruppi nelle cucine, nelle stanze, protestando non poco per il servizio interrotto.

Tra questi differenti personaggi, angosciati ognuno per diversi motivi, due soli meritano che ce ne occupiamo: Eugénie Danglars e Louise d’Armilly. La giovane fidanzata, come abbiamo detto, si era ritirata con aria altera e sdegnata, e col comportamento di regina oltraggiata, seguita dalla sua compagna più pallida e più commossa di lei. Giungendo nella sua camera, Eugénie chiuse la porta dal di dentro, mentre Louise si lasciava cadere su una poltrona.

«Dio mio, che cosa orribile!» esclamò la giovane musicista. «Chi l’avrebbe immaginato? Il signor Andrea Cavalcanti… assassino… fuggito dalla galera… un carcerato!»

Un sorriso ironico increspò le labbra di Eugénie.

«A dire il vero, sembra un destino», disse. «Sfuggo da Morcerf per imbattermi in Cavalcanti!»

«Non confondiamo l’uno con l’altro, Eugénie!»

«Taci! Tutti gli uomini sono infami, e io sono felice di poter fare di più che detestarli: ora li disprezzo.»

«Che faremo?» domandò Louise.

«Che faremo? Ciò che dovevamo fare fra tre giorni, partire.»

«Così, anche se non ti sposi più, vuoi sempre…»

«Ascolta, Louise, mi disgusta questa vita sempre ordinata, misurata, regolata come un foglio di musica. Ciò che sempre ho desiderato, voluto, ciò che ha formato sempre la mia ambizione, è la vita dell’artista, la vita libera, indipendente, in cui non si deve render conto ad altri che a sé. Restare, per fare che? Perché tentino fra un mese di sposarmi di nuovo? A chi? Al signor Debray, forse, come se ne fece già parola? No, Louise, no, l’avventura di questa sera mi servirà di scusa. Io nulla cercavo, nulla domandavo; Dio mi ha inviato questo incidente, sia il benvenuto!»

«Come sei forte e coraggiosa!»

«Non mi conosci dunque ancora? Vediamo, Louise, parliamo dei nostri affari. La carrozza da posta…»

«Ci aspetta da tre giorni.»

«L’hai fatta portare dove dobbiamo prenderla?»

«Sì.»

«Il nostro passaporto?»

«Eccolo.»

Ed Eugénie, con la sua abituale freddezza, aprì il documento e lesse: «Signor Léon d’Armilly, dell’età di venti anni, professione artista, capelli neri, occhi neri; viaggia con sua sorella. Perfetto! Come te lo sei procurato?»

«Andando dal signore di Montecristo a chiedere lettere di raccomandazione per gli impresari dei teatri di Roma e di Napoli, ho espresso i miei timori nel viaggiare come donna; egli allora promise di procurarmi un passaporto da uomo, e due giorni dopo ho ricevuto questo, al quale ho aggiunto di mia mano: viaggia con sua sorella.»

«Ebbene, non ci rimane che fare i nostri bauli: partiremo la sera della firma del contratto, invece di partire la sera delle nozze, ecco tutto.»

«Riflettici bene, Eugénie.»

«Ho riflettuto a sufficienza, sono stanca di sentire parlare di riporti, di scadenze, di rialzo e di ribasso dei fondi spagnoli, dei titoli di Haiti. Invece di tutto ciò, Louise, comprendi?, l’aria, la libertà, il canto degli uccelli, le pianure della Lombardia, i canali di Venezia, i palazzi di Roma, la spiaggia di Napoli. Quanto possediamo, Louise?»

La giovane prese da un armadio intarsiato un piccolo portafoglio, lo aprì, e contò ventitré biglietti di banca.

«Ventitremila franchi», disse.

«E altrettanto almeno in perle, diamanti e gioielli», calcolò Eugénie. «Siamo ricche. Con quarantacinquemila franchi avremo di che vivere da principesse per due anni, e decentemente per quattro. Ma prima di sei mesi, tu con la tua musica, io con la mia voce, avremo raddoppiato il nostro capitale. Tu terrai il denaro, io i gioielli, in modo che, se una di noi due avesse la disgrazia di perdere il suo tesoro, l’altra avrebbe sempre il suo. Ora la valigia, presto, la valigia!»

«Aspetta», disse Louise, andando ad ascoltare alla porta della signora Danglars.

«Cosa temi?»

«Che ci sorprenda qualcuno.»

«La porta è chiusa.»

«E se ci ordinano d’aprire?»

«Che l’ordinino se vogliono, noi non apriremo.»

«Tu sei una vera amazzone, Eugénie.»

E le due giovani si misero a infilare velocemente in un baule tutti gli oggetti da viaggio di cui credevano aver bisogno.

«Ecco fatto», disse Eugénie. «Ora, mentre mi cambio d’abito, tu chiudi la valigia.»

«Ma non ho abbastanza forza: chiudila tu.»

«È vero», disse ridendo Eugénie, «dimenticavo che io sono Ercole, e tu sei la pallida Onfale.»

E la ragazza, appoggiando il ginocchio sul coperchio del baule, fece forza fino a che il gancio non passò nei due anelli. Terminata questa operazione, Eugénie aprì un cassetto, di cui portava addosso la chiave, prese un mantello da viaggio di seta viola.

«Prendi», disse. «Vedi che ho pensato a tutto, con questo mantello non avrai freddo.»

«Ma tu?»

«Io non ho mai freddo, lo sai bene; d’altra parte con questi abiti da uomo…»

«Ti vesti qui?»

«Sì.»

«Abbiamo tempo?»

«Non temere; tutti sono preoccupati per il fattaccio. D’altra parte, chi vuoi che si stupisca, quando si pensa alla grande disperazione in cui dovrei essere, che io mi sia rinchiusa qui dentro?»

«Tu mi tranquillizzi…»

«Vieni, aiutami.»

E dal medesimo cassetto dal quale aveva tratto il mantello per la signorina d’Armilly, e col quale questa si era coperta le spalle, tolse un completo da uomo, dagli stivaletti fino al cappello, con una scorta di biancheria in cui non c’era niente di superfluo, ma non mancava nulla del necessario.

Allora con una sveltezza da far intuire che, senza dubbio, non era la prima volta che vestiva abiti dell’altro sesso, Eugénie calzò gli stivaletti, infilò i pantaloni, si annodò la cravatta, abbottonò fino al collo un panciotto a due petti, e indossò un soprabito che delineava la corporatura snella e ben fatta.

«Perfetta», commentò Louise guardandola con ammirazione. «Ma questi bei capelli, queste trecce magnifiche che facevano sospirare d’invidia tutte le donne, potranno stare raccolte sotto un cappello da viaggio come questo?»

«Adesso vedrai», disse Eugénie.

E afferrando con la mano sinistra la folta treccia, sulla quale arrivavano a stento a chiudersi le sue lunghe dita, con la destra prese un paio di forbici, e ben presto l’acciaio stridette in mezzo alla lunga e splendida chioma, che cadde tutta intera ai piedi della ragazza. Quindi tagliata la treccia superiore, passò alle tempie, e tagliò senza lasciarsi sfuggire il minimo gesto di dispiacere, anzi gli occhi brillavano più vivi e allegri sotto le sopracciglia nere come l’ebano.

«Oh quei capelli magnifici!» esclamò Louise dispiaciuta.

«Non sto cento volte meglio così?» gridò Eugénie lisciandosi le ciocche della sua capigliatura mascolina. «Non mi trovi ancora più bella?»

«Sempre bella!» gridò Louise. «Ora dove andiamo?»

«A Bruxelles, la frontiera più vicina; raggiungeremo Bruxelles, Liegi, Aix-la-Chapelle, risaliremo il Reno fino a Strasburgo, attraverseremo la Svizzera, e scenderemo in Italia per il San Gottardo: ti va bene così?»

«Sì.»

«Ma che cosa guardi?»

«Guardo te. Sei adorabile! Si direbbe che stai per rapirmi.»

«E avrebbero ragione.»

«Cominci a cospirare, Eugénie!»

E le due, che chiunque avrebbe creduto immerse nelle lacrime, scoppiarono in una risata, facendo scomparire tutte le tracce visibili del disordine che naturalmente aveva accompagnato i preparativi della loro evasione. Quindi, spenti i lumi, con l’occhio vigile, l’orecchio attento, il collo teso, le due fuggitive aprirono la porta di uno spogliatoio che portava a una scala interna e di là fino al cortile: Eugénie camminava davanti, sostenendo con un braccio la valigia portata dalla signorina d’Armilly con entrambe le mani.

Suonava mezzanotte, il cortile era vuoto, ma il portinaio vegliava ancora. Eugénie si accostò pian piano, e vide dai vetri lo svizzero che dormiva in fondo alla loggia sdraiato sul sofà. Ritornò verso Louise, riprese il baule, che per un istante aveva deposto in terra, ed entrambe, seguendo l’ombra proiettata dal muro, raggiunsero il peristilio. Eugénie fece nascondere Louise in un angolo della porta, in modo che il portinaio, se per caso si fosse alzato, non vedesse che una persona. Quindi offrendosi al pieno raggio del lampione che illuminava il cortile, gridò con la sua più bella voce da contralto, battendo sul vetro: «La porta!»

Il portinaio si alzò, come aveva previsto Eugénie, e fece ancora qualche passo per riconoscere la persona che usciva, ma vedendo un uomo che batteva spazientito lo scudiscio sui calzoni, aprì immediatamente. Louise subito strisciò come una biscia dalla porta semiaperta. Eugénie, calma di speranza, anche se, con ogni probabilità, il suo cuore battesse rapidamente, uscì a sua volta. Un fattorino fu incaricato di portare il baule; quindi le due giovani gli indicarono come meta rue de la Victoire 36. Così s’incamminarono dietro a quest’uomo, la cui presenza tranquillizzava Louise; in quanto a Eugénie, era forte come Giuditta o come Dalila.

Giunta al numero indicato, Eugénie ordinò al fattorino di deporre il baule, gli regalò alcune monete, e dopo aver battuto a una persiana, lo congedò. La persiana era quella di una piccola lavandaia avvertita anticipatamente, che non era ancora andata a dormire. Aprì lei stessa.

«Signorina», disse Eugénie, «fate tirar fuori dal portinaio la carrozza, e mandate a prendere i cavalli alla posta. Ecco cinque franchi per il disturbo.»

«Sai», disse Louise, «ti ammiro, e direi quasi ti invidio.»

La lavandaia guardava stupita, ma siccome le avevano promesso venti luigi non fece la minima osservazione. Un quarto d’ora dopo, il portinaio tornava col postiglione e i cavalli, che in un minuto furono attaccati alla carrozza, sulla quale il portinaio assicurò il baule per mezzo di una corda.

«Ecco il passaporto», disse il postiglione. «Che strada prendiamo, giovanotto?»

«La strada di Fontainebleau», rispose Eugénie con voce quasi maschile.

«Che dici?» domandò Louise.

«Una piccola bugia», disse Eugénie. «Questa donna, alla quale diamo venti luigi, può tradirci per quaranta: sul boulevard prenderemo un’altra direzione.»

E la ragazza salì in carrozza, preparata con tutti i comodi, senza neppure toccare il predellino. Un quarto d’ora dopo, il postiglione, rimesso sul diritto sentiero, oltrepassava, facendo scoppiettare la frusta, il cancello della barriera Saint-Martin.

«Eccoci dunque uscite da Parigi», disse Louise sospirando.

«Sì, mia cara, e il rapimento è bello che combinato», aggiunse Eugénie.

«Sì, ma senza violenza», disse Louise.

«La riterrò una circostanza attenuante.»

Queste parole si perdettero nel rumore che faceva la carrozza sul selciato della Villette. Il signor Danglars non aveva più una figlia.

97. L’osteria della Campana e della Bottiglia

Lasciamo la signorina Danglars e la sua amica mentre corrono sulla strada di Bruxelles, e torniamo al povero Andrea Cavalcanti, così goffamente rovinato dalla sua fortuna. Nonostante la sua giovane età, Andrea Cavalcanti era svelto e intelligente. Quindi, alle prime voci giunte nelle sale, lo abbiamo visto lentamente e cautamente accostarsi alla porta, attraversare una o due stanze, e infine scomparire. Una circostanza che abbiamo dimenticato di menzionare, e non va omessa, è che in una di quelle due stanze che doveva attraversare era esposto il corredo della sposa: scrigni di diamanti, scialli di cachemire, merletti di Valenciennes, veli d’Inghilterra, e ogni sorta di oggetti tentatori, al cui nome soltanto salta di gioia il cuore delle signorine da marito, e che concorre a formare ciò che si chiama la dote di nozze.

Ora, passando da questa camera, e tal cosa prova che non solo il giovane era molto svelto e intelligente, ma anche molto previdente, egli afferrò l’astuccio che conteneva la più ricca parure di brillanti fra quelle esposte. Munito di questo viatico, Andrea si era sentito più coraggioso nel saltare dalla finestra, e fuggire dalle mani dei gendarmi. Alto e snello come l’antico gladiatore, muscoloso come uno spartano, Andrea aveva fatto una corsa di un quarto d’ora senza sapere dove andava, e allo scopo soltanto d’allontanarsi dal luogo, dove per poco non era stato arrestato. Partendo dalla rue Mont Blanc, si era ritrovato in fondo alla rue Lafayette. Là, senza fiato e ansimante, si fermò: era solo, e aveva alla sinistra il recinto di Saint-Lazare, vasto, deserto; alla sua destra, Parigi in tutta la sua estensione.

«Sono perduto?» domandò a se stesso. «No, ho a mia disposizione un tempo superiore a quello dei miei nemici. La mia salvezza è dunque semplicemente una questione di chilometri.»

In quel momento scoprì, salendo per il Faubourg Poissonnière, una carrozza da piazza, il cui cocchiere pensieroso, fumando la sua pipa, sembrava voler raggiungere l’estremità opposta del Faubourg Saint-Denis, dove, senza dubbio, solitamente parcheggiava.

«Ehi, amico!» disse Benedetto.

«Che c’è, giovanotto?» domandò il cocchiere.

«È stanco il vostro cavallo?»

«Stanco? Come no?! Non ha fatto niente per tutto il giorno. Quattro brutte corse e venti soldi di mancia, in tutto sette franchi, e devo darne dieci al padrone!»

«Volete aggiungerne altri venti a questi sette franchi»?

«Con piacere, venti franchi non sono da buttare. Dove andate? Sentiamo.»

«Facilissimo, sempre che il vostro cavallo non sia stanco.»

«Vi dico che volerà come zefiro… Tutto sta a sapere da quale parte volete che vada.»

«Dalla parte di Louvres.»

«Lo conosco: il paese del ratafià.»

«Esattamente. Si tratta di raggiungere un amico, col quale domani mattina debbo andare a caccia a Chapelle-en-Serval. Doveva aspettarmi qui fino alle undici e mezzo, è mezzanotte, si sarà stancato di aspettarmi, e sarà partito solo.»

«È probabile.»

«Ebbene, volete tentare di raggiungerlo?»

«Non chiedo di meglio.»

«Se non lo raggiungiamo prima di Bourget, avrete venti franchi. Se non lo raggiungiamo prima di Louvres, trenta.»

«E se lo raggiungiamo?»

«Quaranta!» disse Andrea, che dopo un momento di esitazione, aveva pensato che non rischiava niente a promettere.

«Va bene!» disse il cocchiere. «Salite, e partiamo!»

Andrea salì sul calesse che, con una rapida corsa, attraversò il Faubourg Saint-Denis, costeggiò il Faubourg Saint-Martin, passò la barriera, e infilò la interminabile Villette. Ma sì, aveva un bel correre per raggiungere l’amico che non era mai esistito. Di tratto in tratto, alle bettole ancora aperte, Cavalcanti chiedeva informazioni su un calesse verde, con un cavallo baio scuro, e, siccome sulla strada dei Paesi Bassi circola un buon numero di vetture che per nove decimi sono verdi, tutti lo avevano sempre visto passare poco prima, non poteva essere lontano più di cinquecento passi, più di duecento, più di cento; ma raggiuntolo, lo oltrepassavano, perché non era quello.

Una volta passò un calesse, rapidamente tirato da due buoni cavalli da posta.

«Ah», disse fra sé Cavalcanti. «Se avessi quel calesse, quei due buoni cavalli, e soprattutto il passaporto che ci vuole per prenderli!» E sospirò profondamente. Quel calesse era quello che trasportava la signorina Danglars e la signorina d’Armilly.

«Presto! presto!» incitò Andrea. «Non possiamo tardare a raggiungerlo.»

Il povero cavallo riprese il trotto, e giunse ansimante a Louvres.

«Mi accorgo», disse Andrea, «che non è possibile raggiungere il mio amico, e che ammazzerei il vostro cavallo, è quindi meglio che mi fermi. Ecco i vostri trenta franchi. Me ne vado a dormire al Cheval Rouge, e la prima carrozza nella quale troverò un posto, la prenderò. Buonanotte, amico.»

E Andrea, dopo aver messo sei monete da cinque franchi nella mano del cocchiere, saltò lestamente sulla strada. Il cocchiere si mise allegramente il denaro il tasca, e riprese lentamente la strada di Parigi.

Andrea finse di andare al Cheval Rouge ma, dopo essersi fermato un istante alla porta, aspettando che il rumore del calesse si perdesse nella campagna, riprese la strada, e con passo elastico e sveltissimo, fece una corsa di almeno due leghe. Là si riposò; doveva esser vicino a Chapelle-en-Serval, dove aveva detto di voler arrivare.

Non era per la fatica che si fermava Andrea Cavalcanti, ma per bisogno di prendere una decisione, per la necessità di adottare un piano. Salire su una diligenza era impossibile, prendere la posta, impossibile ugualmente. Per viaggiare nell’uno o nell’altro modo, il passaporto è la prima necessità. Restare nel dipartimento dell’Oise, vale a dire in uno dei dipartimenti più frequentati e più sorvegliati di Francia, era ugualmente impossibile, impossibile soprattutto per un uomo come Andrea, che aveva a che fare con la giustizia.

Andrea sedette sulle rive di un fosso, si prese la testa fra le mani e rifletté. Dieci minuti dopo rialzò la testa: la decisione era presa. Si coprì di polvere una parte del soprabito che aveva avuto il tempo di prendere nell’anticamera, lo abbottonò del tutto in modo da nascondere l’abito da sera e giungendo alla Chapelle-en-Serval corse a bussare alla porta del solo albergo del paese.

L’oste venne ad aprire.

«Signore», iniziò Andrea, «stavo andando da Mortefontaine a Senlis, quando il mio cavallo, che è un animale cattivo, s’è imbizzarrito e mi ha disarcionato. Devo raggiungere stanotte Compiègne per non far preoccupare la mia famiglia. Avreste un cavallo da darmi a nolo?»

Buono o cattivo, un albergatore ha sempre un cavallo, per cui l’albergatore della Chapelle-en-Serval chiamò lo stalliere, gli ordinò di sellare il Bianco, e svegliò suo figlio, un bambino di sette anni che doveva montare in groppa col signore, per ricondurre il quadrupede.

Andrea pagò venti franchi all’albergatore, e sfilandoli di tasca, lasciò cadere un biglietto da visita. Quel biglietto da visita era quello di uno dei suoi amici del Café de Paris, e così l’albergatore, quando Andrea se ne andò, ed ebbe raccolto il biglietto caduto di tasca, fu convinto di aver dato il suo cavallo al conte di Mauléon, rue Saint-Dominique 25: il nome e l’indirizzo che si trovavano sul biglietto.

Se il Bianco non andava di galoppo, andava però con passo costante: in tre ore e mezzo Andrea fece le nove leghe che lo separavano da Compiègne; suonavano le quattro, quando giunse sulla piazza dove si fermano le diligenze.

A Compiègne vi è un eccellente albergo, di cui si ricordano anche quelli che vi hanno alloggiato una sola volta. Andrea, che vi si era fermato in occasione di una corsa nei dintorni di Parigi, si ricordò dell’albergatore della Campana e della Bottiglia. Si orizzontò, vide al chiarore del lampione l’insegna e dopo aver congedato il bambino, al quale regalò quanto aveva di moneta, andò a battere alla porta, riflettendo con molta perspicacia, che aveva tre o quattro ore di vantaggio, e che il meglio era premunirsi con un buon sonno e una buona cena contro le fatiche future.

Il cameriere gli venne ad aprire.

«Signore», esordì Andrea, «arrivo da Saint Jean du Bois, dove ho cenato, contavo di prendere la carrozza che passa a mezzanotte, ma mi sono perso come uno stupido, e sono già quattro ore che vago nella foresta. Datemi una di quelle camere che danno sul cortile, e vedete di portarmi un pollo freddo e una bottiglia di Bordeaux.»

Il cameriere non ebbe alcun sospetto: Andrea parlava con calma, aveva il sigaro in bocca e le mani nelle tasche dell’abito; aveva l’aspetto di un persona in ritardo, ecco tutto.

Mentre il cameriere preparava la camera, l’ostessa si alzò. Andrea l’accolse col più grazioso sorriso, e le domandò se poteva avere la camera numero 3 in cui aveva dormito l’ultima volta che era passato da Compiègne; disgraziatamente la numero 3 era occupata da un giovane che viaggiava con sua sorella.

Andrea sembrò disperato, ma si consolò quando l’ostessa lo rassicurò che gli stavano preparando la numero 7, quindi scaldandosi i piedi e parlando delle ultime corse di Chantilly, aspettò che l’avvisassero che la camera era in ordine.

Non senza ragione Andrea aveva parlato di quei begli appartamenti che davano sul cortile. Il cortile dell’albergo della Campana aveva una triplice fila di gallerie che gli davano l’aspetto di un anfiteatro, con i suoi gelsomini e le sue clematidi che salivano lungo le colonne, leggere come una decorazione naturale: è uno dei più graziosi ingressi d’albergo ch’esistano al mondo.

Il pollo era delizioso, il vino vecchio, il fuoco ardente e scoppiettante; Andrea, cenando, fu sorpreso del buon appetito che aveva, come se nulla gli fosse accaduto. Quindi andò a letto, e si addormentò subito con quel sonno implacabile che l’uomo a vent’anni trova sempre, anche quando ha rimorsi. Ora siamo costretti a confessare che Andrea avrebbe dovuto avere dei rimorsi, ma che non ne aveva.

Ecco qual era il piano di Andrea, piano che gli aveva infuso quasi tutta la sua sicurezza. Il giorno seguente si sarebbe alzato, sarebbe partito dall’albergo, dopo avere pagato scrupolosamente i suoi conti; si sarebbe nascosto nella foresta, avrebbe ottenuto, spacciandosi per pittore dilettante, l’ospitalità di un paesano; si sarebbe procurato un abito da campagnolo, spogliandosi dell’apparenza di ricco per prendere quella dell’artista; quindi con le mani sporche di terra, i capelli imbruniti dalla polvere del piombo, con la carnagione alterata da una preparazione di cui i suoi vecchi compagni gli avevano dato la ricetta, di foresta in foresta avrebbe poi raggiunto la frontiera più vicina, camminando la notte, dormendo il giorno nel bosco, senza avvicinarsi ai luoghi abitati che per comprare del pane. Una volta superata la frontiera, Andrea avrebbe trasformato in denaro i suoi diamanti, e aggiunto, al prezzo che ne avrebbe ricavato, una decina di biglietti di banca che portava sempre con sé per qualsiasi inconveniente, si sarebbe trovato ancora padrone di circa cinquantamila franchi.

D’altronde contava molto sull’interesse dei Danglars di soffocare le dicerie della loro disavventura. Ecco perché, oltre la stanchezza, Andrea si addormentò così presto e bene. D’altronde, per esser sveglio di buon mattino, Andrea non aveva chiuso le persiane; si era soltanto accontentato di mettere il catenaccio alla porta, e di tenere aperto, sul tavolino da notte, un certo coltello, di cui conosceva l’eccellente fattura, e che non lasciava mai.

Verso le sette del mattino Andrea fu svegliato da un raggio di sole, che veniva tiepido e brillante a infastidirgli il viso.

In tutti i cervelli all’erta c’è sempre un’idea dominante, ed è quella che s’addormenta per ultima e appare per prima al risveglio. Andrea non aveva ancora interamente aperti gli occhi, che un pensiero già lo possedeva, e gli soffiava all’orecchio: aveva dormito troppo. Saltò giù dal letto, e corse a una finestra.

Un gendarme attraversava il cortile. Un gendarme è una di quelle apparizioni che fanno sempre sensazione, anche all’occhio d’un uomo onesto, ma per ogni coscienza inquieta, e che ha motivo di esserlo, il giallo, l’azzurro e il bianco dell’uniforme diventano colori spaventosi.

«Perché un gendarme?…» si chiese Andrea.

Quindi d’un tratto si disse, con quella logica che il lettore ha già notato in lui: «Non c’è motivo di meravigliarsi se c’è un gendarme in un’osteria: su, vestiamoci».

E il giovane si vestì con una rapidità che non aveva perduto, malgrado fosse stato accudito dal suo cameriere durante i pochi mesi di vita elegante a Parigi.

«Bene!» pensò Andrea vestendosi. «Aspetterò che se ne sia andato, e quando sarà sparito, me la filerò anch’io.»

E, mentre pensava quelle parole, Andrea tornò alla finestra e sollevò una seconda volta la tendina. Non solo il primo gendarme non se n’era andato, ma il giovane scoprì un’altra uniforme azzurra, gialla e bianca alla fine della scala, la sola da cui si poteva scendere, e un terzo gendarme a cavallo, e con la carabina in mano, di sentinella sulla porta di strada, la sola da cui si poteva uscire.

Questo terzo gendarme era fondamentale, perché davanti a lui c’era un semicerchio di curiosi che bloccava ermeticamente la porta dell’albergo.

«Mi cercano, maledizione!» fu il primo pensiero di Andrea.

Il pallore sbiancò la fronte del giovane, che si guardò intorno con ansia. La sua camera non aveva altra uscita che sulla loggia esterna esposta agli sguardi di tutti.

«Sono perduto!» fu il secondo pensiero.

Infatti, per un uomo nella situazione di Andrea, l’arresto voleva dire: processo, giudizio, morte, morte senza misericordia e senza scampo. Per un istante si prese la testa fra le mani. Poco mancò che non diventasse pazzo di paura. Ma ben presto da quella folla di pensieri contrastanti, uscì un lume di speranza; un pallido sorriso si delineò sulle sue labbra tremanti e sulle guance contratte. Guardò intorno a sé: vide su un tavolino gli oggetti che cercava, erano penna, calamaio e carta. Bagnò la penna nell’inchiostro e scrisse, con mano che cercò di rendere ferma, le seguenti righe sul primo foglio: «Non ho denaro per pagare, ma sono un uomo onesto; lascio in pegno questa spilla che vale dieci volte la spesa che ho fatto; chiedo scusa per essere fuggito allo spuntar del giorno, ma mi vergogno!»

Si tolse la spilla della cravatta, e la depose sul foglio. Fatto ciò, invece di lasciare chiusi i catenacci, li aprì, socchiuse anzi la porta, come fosse uscito dalla camera dimenticando di chiuderla, e arrampicandosi su per la cappa del camino, come uomo già avvezzo a questa specie di ginnastica, attirò il paracamino, cancellò coi piedi anche la traccia dei passi nella stanza, e scalò la cappa che gli offriva la sola via di salvezza nella quale sperasse ancora.

In quel momento il primo gendarme che aveva colpito la vista di Andrea, saliva la scala preceduto da un commissario di polizia, e seguito dal secondo gendarme che controllava l’estremità della scala, e che aveva sempre le spalle coperte dal terzo che stava alla porta.

Ecco a quale circostanza Andrea doveva quella visita, tanto ingrata e dalla quale si era voluto così faticosamente sottrarre. Al sorgere del giorno i telegrafi erano stati messi in moto in tutte le direzioni, e quasi immediatamente la gendarmeria si era posta alla ricerca dell’assassino di Caderousse.

Compiègne, residenza reale, Compiègne, città di caccia, Compiègne, città di guarnigione, è abbondantemente provvista di gendarmi e di commissari di polizia. Le indagini erano dunque cominciate subito dopo l’ordine telegrafico, e, essendo l’osteria della Campana e della Bottiglia la prima della città, si era naturalmente incominciato da quella. D’altronde, dal rapporto delle sentinelle che erano state di guardia durante la notte, risultava che diversi viaggiatori erano scesi al detto albergo.

La sentinella che era stata di guardia fino alle sei del mattino si ricordava ancora che al momento in cui era cominciato il suo turno, cioè alle quattro e alcuni minuti, aveva visto un giovane su un cavallo bianco, con un piccolo contadino in groppa, andare a bussare all’albergo della Campana, entrarvi, e dopo chiudersi la porta alle spalle. Su questo giovane, che era arrivato così tardi, si erano appuntati tutti i sospetti. E questo giovane non era altri che Andrea. Per la certezza di questi dati, il commissario di polizia e il gendarme, che era un brigadiere, si incamminavano verso la porta di Andrea con una certa circospezione.

Trovarono la porta socchiusa.

«Oh-oh», disse il brigadiere, vecchia volpe allevata tra le furberie dello Stato, «cattivo indizio, una porta aperta! Avrei preferito fosse chiusa con triplice catenaccio.»

Infatti la piccola lettera e la spilla lasciati da Andrea sulla tavola confermarono, o piuttosto avallarono la supposizione: Andrea era fuggito. Noi diciamo confermarono, ma il brigadiere non era uomo da arrendersi all’evidenza. Si guardò intorno, scrutò sotto il letto, scostò le tende, aprì gli armadi, e finalmente si fermò al caminetto.

Date le precauzioni di Andrea, nelle ceneri non era rimasta alcuna traccia del suo passaggio. Però era un’uscita possibile, e in simili circostanze, tutte le uscite devono essere controllate minuziosamente. Il brigadiere si fece dunque portare una fascina e della paglia, ne fece un involto, l’infilò nel caminetto come avrebbe fatto in un mortaio per una bomba, e vi appiccò il fuoco. Il fuoco fece crepitare le pareti della cappa: una colonna opaca di fumo si slanciò su per il condotto, e salì verso il cielo come il tetro getto di un vulcano, ma non vide cadere il prigioniero, come si aspettava.

Per questo Andrea, in lotta con la società fino dalla giovinezza, ci voleva altro che un gendarme, fosse anche elevato al grado rispettabile di brigadiere. Prevedendo l’incendio, era salito sul tetto e si era nascosto dietro il comignolo.

Per il momento ebbe qualche speranza di essersi salvato, perché intese il brigadiere che, chiamando i due compagni, diceva loro ad alta voce: «Non c’è più!» Ma allungando cautamente il collo, vide i due gendarmi che, invece di ritirarsi, come sembrava naturale, vide, dicevamo, i due gendarmi raddoppiare l’attenzione. Allora, a sua volta, girò intorno a sé lo sguardo: il municipio, fabbrica colossale del XVI secolo, s’innalzava come un tetro muro alla sua destra e, dalle finestre del palazzo, si potevano controllare tutti gli angoli del tetto, come dall’alto della montagna si vede la vallata. Andrea comprese che in breve avrebbe visto comparire la testa del brigadiere a qualcuna di quelle finestre… Scoperto, sarebbe stato perduto: una caccia sul tetto non gli offriva probabilità di successo. Risolse dunque di scendere, non per lo stesso fumaiolo da cui era venuto, ma per un fumaiolo vicino. Ne cercò con gli occhi uno che non mandasse fumo, lo raggiunse a carponi, e sparì all’interno senza essere stato visto da nessuno.

Un istante dopo si aprì una piccola finestra del municipio; e apparve la testa del brigadiere. Quella testa rimase per alcuni istanti immobile, come uno di quei bassorilievi di pietra che decorano il fabbricato; quindi con un lungo sospiro d’inquietudine, la testa sparì. Il brigadiere, tranquillo e dignitoso come la legge di cui era il rappresentante, passò senza rispondere alle mille domande tra la folla riunita sulla piazza, e rientrò in albergo.

«Ebbene?» domandarono a loro volta i due gendarmi.

«Ebbene, ce lo siamo lasciati sfuggire», rispose il brigadiere, «deve essere scappato questa mattina presto, ma ora lo faremo inseguire sulla strada di Noyon, e faremo perlustrare la foresta, dove lo acchiapperemo sicuramente.»

L’onorevole funzionario aveva appena finito la frase, con quel tono proprio ai brigadieri di gendarmeria, quando un lungo grido di spavento, accompagnato dal tintinnio di un campanello, echeggiarono nel cortile dell’albergo.

«Che cosa c’è?» gridò il brigadiere.

«Ecco un viaggiatore che sembra avere molta fretta», disse l’oste.

«A quale numero suonano?»

«Al numero 3.»

«Correte cameriere.»

In quell’istante le grida e il suono del campanello raddoppiarono, il cameriere si mise a correre.

«No, fermatevi!» lo bloccò il brigadiere, trattenendolo. «Da come gridano, chiedono ben altro che un cameriere… Manderemo loro un gendarme per servirli. Chi alloggia al numero 3?»

«Un giovane giunto con una sorella questa notte con la posta, e che ha domandato una camera a due letti.»

Il campanello suonò per la terza volta molto a lungo, troppo.

«Con me, signor commissario! Seguitemi, in fretta!» disse il brigadiere.

«Un momento», li fermò l’oste, «nella camera numero tre ci sono due uscite, una interna e l’altra esterna.»

«Bene!» disse il brigadiere. «Io prenderò l’interna. Le carabine sono cariche?»

«Sì, brigadiere.»

«Voi altri di corsa all’esterno, e se vuole fuggire, fuoco… È un gran criminale, a quanto dice il telegrafo.»

Il brigadiere, seguito dal commissario, s’infilò subito per la scala interna, accompagnato dal bisbiglio che le rivelazioni su Andrea avevano destato nella folla.

Ecco ciò ch’era accaduto.

Andrea era sceso con molta agilità fin oltre la metà del camino, ma là, gli era mancato un piede, e, nonostante l’appoggio delle mani, era precipitato rovinosamente, e soprattutto con più rumore di quello che avrebbe desiderato. Non sarebbe stato niente se la camera fosse stata vuota, ma disgraziatamente era occupata. Due donne dormivano in un letto, il rumore le aveva svegliate, i loro sguardi si erano fissati sul punto da cui veniva il rumore, e, dall’apertura del caminetto, avevano visto comparire un uomo. Una di queste due donne, la bionda, aveva mandato quel grido terribile che era echeggiato per tutta la casa, mentre la bruna, correndo al cordone del campanello, aveva dato l’allarme, agitandolo a tutta forza. Come si vede, Andrea cadeva di disgrazia in disgrazia.

«Per pietà!» gridò, pallido, confuso, senza riconoscere le persone alle quali si rivolgeva. «Per pietà, non chiamate, salvatemi! Io non voglio farvi del male.»

«Andrea, l’assassino!» gridò una delle due donne.

«Eugénie, la signorina Danglars!» mormorò Cavalcanti, passando dallo spavento allo stupore.

«Aiuto! Aiuto!» gridò Louise d’Armilly, levando il cordone del campanello dalle mani inerti d’Eugénie, e suonando con forza maggiore della compagna.

«Salvatemi! Non perseguitatemi!» implorò Andrea, congiungendo le mani. «Per pietà, di grazia, non consegnatemi alla polizia!»

«È troppo tardi, salgono», rispose Eugénie.

«Vi prego, nascondetemi da qualche parte: direte che avete avuto paura senza motivo; in tal modo allontanerete i sospetti, e mi avrete salvato la vita.»

«Ebbene, sia, disgraziato! Ritornate da dove siete venuto. Andatevene, e non diremo niente.»

«Eccolo! Eccolo!» gridò una voce sul pianerottolo. «Eccolo! Lo vedo.»

Infatti il brigadiere aveva accostato l’occhio al buco della serratura, e aveva scoperto Andrea, in piedi e supplicante. Un violento colpo col calcio del fucile fece saltare il catenaccio, altri due fecero saltare i cardini: la porta cadde dentro la stanza. Andrea corse all’altra porta che portava alla loggia del cortile, ma i due gendarmi erano là con le carabine puntate. Andrea si fermò; dritto, pallido, col corpo un poco rovesciato all’indietro, tenendo il suo inutile coltello nella mano rigida.

«Fuggite, dunque!» gridò la signorina d’Armilly, nel cui cuore rientrava la pietà appena uscito lo spavento. «Fuggite.»

«O uccidetevi!» disse Eugénie, col tono e l’atteggiamento di una di quelle vestali che nel circo ordinavano al gladiatore vittorioso di finire il suo avversario atterrato.

Andrea tremò, e guardò la ragazza con un sorriso di disprezzo col quale provò che la corruzione non include l’onore.

«Uccidermi», ripeté, gettando il coltello. «A che scopo?»

«Come diceste voi stesso», gridò Eugénie Danglars, «sarete condannato a morte, e giustiziato come l’ultimo dei delinquenti.»

«Bah!» replicò Cavalcanti, a braccia conserte. «Ho sempre degli amici.»

Il brigadiere avanzò verso di lui con la sciabola alla mano.

«Su», disse Cavalcanti, «calmatevi, brav’uomo, non vale la pena di fare chiasso, perché mi arrendo.»

E tese le mani alle manette.

Le due ragazze guardarono con terrore la vergognosa metamorfosi che avveniva sotto i loro occhi: l’uomo galante si spogliava del suo falso costume per tornare uomo di galera. Andrea si girò verso di loro, e col riso dell’impudenza, domandò: «Avete qualche commissione per vostro padre, signorina Eugénie? È molto probabile che torni a Parigi».

Eugénie si prese la testa fra le mani.

«Oh-oh!» disse Andrea. «Non c’è ragione di vergognarsi, e io non sono deluso che abbiate preso la posta per corrermi dietro… Non ero forse quasi vostro marito?»

E detto questo, Andrea uscì, lasciando le due fuggitive molto inquiete e avvilite, tra i commenti degli spettatori. Un’ora più tardi, vestite entrambe con abiti da donna, salivano nel loro calesse da posta. La porta dell’albergo era stata chiusa per sottrarle ai primi sguardi, ma non si poté evitare, quando questa porta fu riaperta, di passare in mezzo a una doppia fila di curiosi. Eugénie abbassò le tendine, ma se non vedeva più, udiva ancora le grida ingiuriose che giungevano fino a lei.

«Perché il mondo non è un deserto?» gridò, gettandosi nelle braccia della signorina d’Armilly con gli occhi sfavillanti di rabbia, come Nerone quando desiderava che tutto il mondo romano avesse una sola testa per poterla tagliare in un colpo solo.

L’indomani scesero all’albergo delle Fiandre a Bruxelles, mentre Andrea era già da un giorno incarcerato alla Conciergerie.

98. La legge

Abbiamo visto con che tranquillità Eugénie Danglars e Louise d’Armilly avevano potuto compiere il travestimento e la fuga: la ragione era che ciascuno si occupava dei propri affari, e non poteva interessarsi a quelli degli altri. Lasceremo il banchiere, ancora con il sudore alla fronte, allineare con il fantasma del fallimento le enormi colonne del suo passivo; seguiremo la baronessa che, dopo essere rimasta un istante schiacciata dalla violenza del colpo che l’aveva colpita, era andata a trovare il suo solito consigliere, Lucien Debray. La baronessa contava su questo matrimonio per abbandonare finalmente la tutela che, con una figlia dal carattere di Eugénie, non cessava di essere molto penosa: in quella specie di tacito contratto che mantiene i legami di gerarchia in una famiglia, la madre non è realmente padrona di sua figlia, se non a condizione di essere continuamente esempio di saggezza e perfezione. Ora la signora Danglars temeva la perspicacia di Eugénie e i consigli della signorina d’Armilly, e aveva sorpreso alcuni sguardi sprezzanti, lanciati da sua figlia a Debray: sguardi che sembravano significare che sua figlia sapeva tutto delle sue relazioni galanti e pecuniarie col sottosegretario, mentre una interpretazione più sagace e profonda avrebbe, al contrario, dimostrato alla baronessa che Eugénie detestava Debray, non già perché fosse nella casa paterna una pietra d’inciampo e di scandalo, ma perché lo poneva nella categoria di quei bipedi che Platone cercava di non chiamare più uomini, e che Diogene definiva per parafrasi animali a due piedi e senza penne.

La signora Danglars, nel suo modo di vedere, e disgraziatamente a questo mondo tutti hanno il loro modo di vedere che impedisce di capire quello con cui vedono gli altri, la signora Danglars, nel suo modo di vedere, dicevamo, era dunque infinitamente triste che fosse andato in fumo anche questo matrimonio di Eugénie, non perché fosse conveniente e dovesse fare la felicità di sua figlia, ma perché questo matrimonio le rendeva tutta la libertà. Corse dunque, come abbiamo detto, da Debray che dopo avere, come tutta Parigi, assistito alla serata del contratto e allo scandalo che ne era stata la conseguenza, si era affrettato a ritirarsi al suo club, dove con alcuni amici parlava dell’avvenimento al centro della conversazione di tre quarti di questa città pettegola, che si definisce la capitale del mondo.

Nel momento in cui la signora Danglars, vestita di nero, e nascosta sotto un lungo velo, saliva la scala che conduceva all’appartamento di Debray, nonostante il portinaio le avesse assicurato che il giovane non era ancora rientrato, Debray era impegnato a respingere le argomentazioni di un amico affannato a provargli che, dopo il terribile scandalo, era suo dovere, come amico di casa, sposare Eugénie Danglars e i suoi due milioni.

Debray si difendeva come uno a cui non dispiace perdere, poiché spesso questa idea gli era venuta in mente, ma siccome conosceva Eugénie e il suo carattere indipendente e fiero, si difendeva dicendo che questa unione era impossibile, anzi del tutto impossibile. Però sotto sotto, si lasciava stuzzicare dalle peggiori brame che, al dire di tutti i moralisti, preoccupano incessantemente l’uomo più retto e più puro vegliando al fondo della sua anima, come Satana veglia dietro la croce.

Il tè, il gioco, la conversazione interessante, come si può capire dato che vi si discutevano affari così gravi, durarono fino all’una del mattino. Per tutto quel tempo, la signora Danglars introdotta dal cameriere di Lucien, aspettava velata e palpitante, nel piccolo salotto verde, fra due cestelli di fiori inviati da lei stessa quella mattina, e accomodati, bisogna dirlo, distribuiti e montati da Debray stesso con una cura che fece alla povera donna perdonare la sua assenza.

Alle undici e quaranta minuti, la signora Danglars, stanca di attendere inutilmente, risalì in carrozza e si fece ricondurre a casa. Le donne di una certa condizione hanno questo in comune con le sarte di buoni costumi, che di solito non tornano mai a casa dopo mezzanotte. La baronessa rientrò nel palazzo con tanta precauzione, quanto ne aveva messa Eugénie nell’uscire. Salì cautamente, col cuore angosciato, la scala del suo appartamento, contiguo a quello di Eugénie, temendo di far rumore, poiché la povera donna confidava nell’innocenza della figlia e nella inviolabilità del focolare paterno! Rientrando nelle sue stanze origliò alla porta di Eugénie, quindi, non sentendo alcun rumore, tentò di entrare, ma era chiusa; pensò che la figlia, stanca delle forti emozioni della sera, si fosse messa a letto e dormisse. Poi chiamò la cameriera, e la interrogò.

«La signorina Eugénie», rispose la cameriera, «è rientrata nel suo appartamento con la signorina d’Armilly, quindi hanno preso il tè assieme, dopo mi hanno congedata dicendo che non avevano più bisogno di me.»

La signora Danglars dunque andò a letto senz’ombra di sospetto. Ma pensando allo scandalo, all’ignominia di quella sera, la baronessa si ricordò che era stata spietata con la povera Mercedes, colpita duramente, nello sposo e nel figlio, da una così grande sventura.

«Eugénie», diceva a se stessa, «è perduta, e noi ugualmente. L’affare come poi sarà divulgato, ci ricopre di vergogna. In un ceto come il nostro, il ridicolo è una piaga viva, sanguinosa e incurabile. Che felicità», mormorava, «che Dio abbia dato a Eugénie un carattere così stravagante anche se mi ha fatto più d’una volta soffrire!»

E il suo sguardo riconoscente si alzava verso il cielo, dove una misteriosa provvidenza dispone tutto in anticipo, a seconda degli avvenimenti che devono accadere, e di un difetto, e talvolta anche di un vizio, ne fa una virtù. Quindi il suo pensiero oltrepassò lo spazio, come fa l’uccello sorvolando un abisso, e si fermò su Cavalcanti.

Andrea era un miserabile, un ladro, un assassino, e ciò nonostante, possedeva modi che tradivano una certa educazione, se non un’educazione completa; questo Andrea si era presentato nella società con l’apparenza di un gran signore, e con l’appoggio di nomi illustri. Come veder chiaro in quell’intrigo? A chi chiedere consiglio per uscire da quella crudele posizione? Debray, al quale aveva fatto ricorso nel primo slancio della donna che confida nell’amante, Debray non poteva darle che un consiglio: c’era qualcun altro più potente di lui al quale doveva rivolgersi. La baronessa pensò allora al signor Villefort. Chi aveva voluto fare arrestare Cavalcanti, era il signor Villefort; chi senza pietà, aveva portato la confusione in mezzo alla sua famiglia come se fosse stata una famiglia estranea, era il signor Villefort. Ma no, riflettendovi, non era un uomo senza pietà il regio procuratore, era un magistrato, schiavo dei suoi doveri.

La condotta di Villefort, riflettendovi bene, compariva dunque alla baronessa sotto un aspetto che poteva risolversi a loro comune vantaggio. L’inflessibilità del procuratore avrebbe dovuto cedere su questo punto: lei sarebbe andata a trovarlo all’indomani, e avrebbe ottenuto, se non che mancasse ai suoi doveri di magistrato, almeno che conducesse il processo con tutta la possibile indulgenza. La baronessa avrebbe invocato il passato, e lo avrebbe supplicato in nome di un amore, riprovevole sì, ma felice; il signor Villefort avrebbe ridotto la gravità dell’affare, o almeno avrebbe lasciato fuggire Cavalcanti, e non avrebbe continuato il processo che sotto l’ombra del reo in contumacia. Allora soltanto si addormentò più tranquilla.

L’indomani alle nove si alzò, e senza chiamare la cameriera, si abbigliò, e vestita con la stessa semplicità della sera innanzi, scese la scala, uscì dal palazzo, camminò fino alla rue de Provence, salì in una carrozza da nolo, e si fece condurre alla casa del signor Villefort.

Da un mese quella casa aveva l’aspetto lugubre di un lazzaretto in cui si fosse dichiarata la peste: una parte degli appartamenti erano chiusi all’interno e all’esterno. Quando le persiane si aprivano per ventilare le stanze, si vedeva comparire la testa di un servitore, quindi si richiudevano come ricade la lapide di una tomba sopra una sepoltura, e i vicini si dicevano a bassa voce: «Forse vedremo un’altra bara uscire dalla casa del regio procuratore?»

La signora Danglars fu percorsa da un fremito all’aspetto di quella casa; scese dalla carrozza di piazza e, con le ginocchia tremanti, si accostò alla porta chiusa e suonò.

Dopo la terza volta, il portinaio aprì appena la porta in modo da lasciare passare solo le parole, e rimase a osservarla.

«Ma, aprite, dunque!» esclamò la baronessa.

«Prima di tutto, signora, chi siete?» domandò il portinaio.

«Chi sono? Ma voi mi conoscete.»

«Noi non conosciamo più nessuno, signora.»

«Ma siete pazzo, amico mio?» gridò la baronessa.

«Da parte di chi venite?»

«Oh, questo è troppo!»

«Signora, scusatemi ma questi sono gli ordini: il vostro nome?»

«La baronessa Danglars, mi avete visto almeno venti volte.»

«È possibile, signora. Ora che volete?»

«Che impertinenza! Mi lagnerò col signor Villefort della servitù.»

«Signora, questa non è impertinenza, ma precauzione! Nessuno entra più qui senza una parola d’ordine del dottor d’Avrigny, o senza aver parlato al regio procuratore.»

«Ebbene, è precisamente con il regio procuratore che devo parlare.»

«Per un affare urgente?»

«Esatto, poiché non sono ancora risalita in carrozza. Ma finiamola: ecco il mio biglietto da visita, portatelo al vostro padrone.»

«La signora aspetterà il mio ritorno?»

«Sì, andate.»

Il portinaio richiuse. La baronessa non aspettò a lungo, un momento dopo la porta si riaprì: entrò, e la porta si richiuse dietro di lei. Arrivati in cortile, il portinaio senza perdere un momento di vista la porta, fece un fischio. Il cameriere del signor Villefort comparve sulla scala.

«La signora scuserà questo brav’uomo», disse, andando incontro alla baronessa, «ma i suoi ordini sono severi, e il signor Villefort mi ha incaricato di dire alla signora che non poteva fare diversamente da quel che ha fatto.»

Nel cortile c’era un fornitore, introdotto con le stesse precauzioni, di cui si esaminava la merce. La baronessa salì sulla scala, e, sempre guidata dal cameriere, fu introdotta nello studio del magistrato, senza che la sua guida l’avesse persa di vista un momento. Quella generale tristezza le faceva una grandissima impressione.

Per quanto la signora Danglars fosse preoccupata da ciò che la spingeva in quel luogo, l’accoglienza ricevuta dalla servitù le parve così indegna che cominciò a lamentarsene. Ma Villefort sollevò la testa gravata dal dolore, e la guardò con un sorriso così triste, che le lamentele le si spensero sulle labbra.

«Scusate i miei servitori per un fatto di cui non posso incolparli: dopo essere stati sospettati, sono divenuti sospettosi.»

La signora Danglars aveva spesso sentito parlare di quel terrore accennato da Villefort, ma non avrebbe mai potuto credere, se non lo avesse sperimentato coi propri occhi, che questo sentimento potesse essere portato a tal punto!

«Anche voi», disse, «siete infelice!»

«Sì, signora», rispose il magistrato.

«Allora mi compiangete?»

«Sinceramente, signora.»

«Indovinate il motivo che mi porta da voi?»

«Venite per parlarmi di quanto vi accade, non è vero?»

«Sì, signore, una terribile disgrazia.»

«Vale a dire, una disavventura.»

«Una disavventura?» gridò la baronessa.

«Ahimè, signora», rispose il procuratore, con la sua calma imperturbabile. «Io riesco a chiamare disgrazia soltanto le cose irreparabili.»

«Signore, credete che si dimenticherà?»

«Tutto si dimentica, signora», replicò Villefort. «Il matrimonio di vostra figlia si farà domani, se non si fa oggi; fra otto giorni, se non si fa domani; né credo che vogliate rimpiangere il fidanzato della signorina Eugénie.»

La signora Danglars guardò Villefort stupefatta di vederlo così tranquillo e quasi scherzoso.

«Sono venuta da un amico?» domandò con tono pieno di dolorosa dignità.

«Voi sapete che è così, signora», rispose Villefort, arrossendo. Infatti questa assicurazione faceva allusione a ben altri avvenimenti rispetto a quelli che occupavano in quel momento lui e la baronessa.

«Allora», riprese la baronessa, «siate più affettuoso, mio caro Villefort, comportatevi da amico, e non da magistrato, e quando mi ritrovo profondamente infelice, non trattatemi con troppa allegria.»

Villefort s’inchinò.

«Quando sento parlare di disgrazia, signora, la mia mente comincia egoisticamente a paragonarla con le mie, e questa abitudine ce l’ho da tre mesi. Ecco perché in confronto alle mie disgrazie, le vostre mi sembrano disavventure, ecco perché, a confronto della mia terribile situazione, la vostra mi sembra una posizione invidiabile… Ma se ciò vi dispiace, non parliamone più… Che dicevate, signora?»

«Venivo per sapere da voi, amico mio, a che punto è l’affare di quell’impostore.»

«Impostore!» replicò Villefort. «Ditemi, signora, avete deciso di esagerare sul conto vostro e di attenuare nei casi altrui: impostore, il signor Andrea Cavalcanti o piuttosto il signor Benedetto? Voi sbagliate, signora, il signor Benedetto è un assassino.»

«Signore, non nego l’esattezza della vostra rettifica, ma più severamente procederete contro quel disgraziato, più colpirete la nostra famiglia. Dimenticate per un momento le sue colpe. Non è possibile, invece di perseguitarlo, attenuare un poco l’accusa, o lasciarlo fuggire.»

«Arrivate troppo tardi, gli ordini sono stati già dati.»

«Tuttavia se si arresta… Credete che verrà arrestato?»

«Lo spero.»

«Se si arresta, ebbene lasciatelo in prigione…»

Il procuratore fece un cenno negativo.

«Almeno fino a che mia figlia non sarà sposata», aggiunse la baronessa.

«Impossibile signora, la giustizia ha le sue formalità.»

«Per tutti?» domandò la baronessa tra il serio e il faceto.

Villefort la osservò con uno sguardo indagatore.

«Sì, capisco quello che volete dire», riprese. «Alludete alle voci sparse su tutti quei morti che da tre mesi mi costringono al lutto, e che quelle morti e quella cui è sfuggita Valentine, quasi per miracolo, non siano naturali.»

«Io non pensavo affatto a questo», replicò vivacemente la signora Danglars.

«Se ci pensavate, eravate nel giusto, perché non potete non pensarci, e non dire a voi stessa sotto voce: “Tu che perseguiti il delitto, rispondi com’è dunque che intorno a te esistono delitti che restano impuniti?”»

La baronessa impallidì.

«Voi parlavate così dentro di voi, non è vero, signora?»

«Ebbene, sì, lo confesso.»

«Vi risponderò.»

Villefort avvicinò la sua sedia a quella della signora Danglars, quindi, appoggiando le mani sullo scrittoio, e in tono più basso del consueto: «Vi sono delitti che restano impuniti, perché non si conoscono i rei, e si teme di colpire una testa innocente invece di una colpevole. Ma quando questi colpevoli saranno noti», Villefort tese la mano verso un gran crocifisso di fronte allo scrittoio, «quando i colpevoli saranno noti», ripeté, «per il Dio vivente, signora, chiunque siano, moriranno! Ora, dopo il giuramento che ho fatto, e che manterrò, signora, avrete il coraggio di chiedermi grazia per quel miserabile?»

«Signore», riprese la baronessa, «siete sicuro che sia colpevole quanto si dice?»

«Ascoltate, Benedetto fu condannato prima a cinque anni di galera come falsario, all’età di sedici anni… Il giovane prometteva bene, come vedete! Poi ricercato come evaso, e infine come assassino.»

«E chi è questo sciagurato?»

«Chi lo sa! Un vagabondo, un corso…»

«Non è stato dunque riconosciuto da nessuno?»

«Da nessuno, non si conoscono i suoi parenti.»

«Ma quell’uomo ch’era venuto da Lucca?»

«Un altro scroccone come lui, forse il suo complice.»

La baronessa congiunse le mani.

«Villefort!» riprese con il tono più dolce.

«Signora», rispose il regio procuratore con fermezza. «Non domandatemi mai grazia per un delinquente! Chi sono io? La legge. Forse la legge ha occhi per vedere la vostra tristezza? Ha orecchie per sentire la vostra dolce voce? Ha memoria per applicare i vostri delicati pensieri? No, signora, no: la legge ordina, e quando la legge ordina, colpisce! Voi mi direte che io sono un essere vivente e non un codice, un uomo, e non un volume.

Guardatemi, signora, guardate intorno a me! Gli uomini mi hanno trattato come fratello? Mi hanno amato? Hanno avuto riguardi per me? Mi hanno risparmiato? C’è forse qualcuno che abbia domandato e ottenuto la grazia per il signor Villefort? No! No! No! Percosso, sempre percosso! Voi continuate, donna o sirena che siate, a guardarmi con quello sguardo attraente ed espressivo che mi fa arrossire. Ebbene, sì, arrossirò di ciò che sapete, e forse di altro ancora! Ma da quando ho mancato a me stesso, e forse più degli altri, ebbene, da quel momento, ho frugato i panni altrui per stanare il delitto, e l’ho sempre trovato, e, dirò di più, ho trovato con piacere, con gioia questo sigillo della debolezza e della perversità umana! Poiché ciascun uomo che riconoscevo colpevole, e ciascun colpevole che colpivo, mi sembrava una prova vivente, una prova nuova, che non ero una vergognosa eccezione! Ahimè, non tutti gli uomini sono cattivi, signora, proviamolo punendo i cattivi!»

Villefort pronunciò queste ultime parole con una rabbia febbrile, che dava al suo linguaggio una feroce eloquenza.

«Ma», riprese la signora Danglars, facendo un ultimo tentativo, «voi dite che questo giovane è un vagabondo, un orfano, un uomo abbandonato da tutti.»

«Tanto peggio! Tanto peggio! O piuttosto tanto meglio: la Provvidenza ha così disposto, perché nessuno debba piangere per lui.»

«Questo è accanirsi su un debole, signore.»

«Un debole che uccide?»

«Il suo disonore ricade sulla mia famiglia!»

«Non ho io forse la morte nella mia?»

«Signore», gridò la baronessa, «non avete pietà per gli altri! Ebbene, sono io che ve lo dico, gli altri non avranno pietà per voi!»

«Sia!» esclamò Villefort alzando un braccio al cielo con gesto minaccioso.

«Rinviate almeno la causa di questo sciagurato, se lo arrestano, alle prossime sedute, così avremo almeno sei mesi di tempo, e intanto tutto sarà dimenticato.»

«No», disse Villefort, «ho ancora cinque giorni. L’istruttoria è fatta, cinque giorni è più di quello che mi serve… D’altra parte, non capite, signora, che anch’io ho bisogno di dimenticare? Ebbene, quando lavoro, e lavoro notte e giorno, quando lavoro, vi sono momenti in cui dimentico me stesso, e quando non mi ricordo di me, sono felice come lo sono i morti, ma questo è meglio che soffrire.»

«Signore, è fuggito, lasciatelo fuggire! L’inerzia è una clemenza facile.»

«Vi ripeto che è troppo tardi… Il telegrafo ha trasmesso gli ordini all’alba, e a quest’ora forse…»

«Signore», disse il cameriere entrando, «un dragone ha portato questo dispaccio del ministro dell’Interno.»

Villefort afferrò la lettera e la dissigillò. La signora Danglars fremette di terrore; Villefort rabbrividì di gioia.

«Arrestato!» gridò Villefort. «Arrestato a Compiègne! È finita.»

La signora Danglars si alzò fredda e pallida.

«Addio, signore», disse.

«Addio, signora», disse il procuratore, quasi allegro nel ricondurla fino alla porta.

Poi tornò allo scrittoio.

«Benissimo», disse, battendo la lettera col dorso della mano destra, «era un falsario, aveva commesso tre furti, due incendi… Non gli mancava che un assassinio, eccolo! La sessione sarà interessante!»

99. L’apparizione

Come il procuratore aveva riferito alla signora Danglars, Valentine non si era ancora rimessa: spossata dalla fatica, era infatti obbligata a restare a letto, e nella sua camera, dalla bocca della signora Villefort, apprese gli avvenimenti che abbiamo raccontato, ovvero la fuga di Eugénie e l’arresto di Cavalcanti, o piuttosto di Benedetto, e l’accusa d’assassinio contro di lui. Ma Valentine era così debole che questo racconto non le fece tutto quell’effetto che avrebbe prodotto se fosse stata in buona salute. Infatti, non si trattò che di vaghe idee, figure evanescenti, mischiate a strani pensieri e a fantasmi fugaci, come sono quelli che nascono in un cervello malato, o che passano davanti agli occhi, ma ben presto si cancellano per lasciar riprendere le forze alle sensazioni personali.

Durante il giorno, Noirtier si faceva portare nella camera di sua nipote e vi si tratteneva tenendo compagnia a Valentine, quindi, quando ritornava da Palazzo, a sua volta il signor Villefort si ritirava nel suo studio, e alle otto arrivava il signor d’Avrigny, che portava la pozione della notte preparata per la ragazza. Quindi Noirtier veniva trasportato nelle sue stanze. Allora un’infermiera scelta dal dottore sostituiva tutti, e non si ritirava che verso le dieci o le undici, quando Valentine si era addormentata. Nel scendere, restituiva le chiavi della camera di Valentine al signor Villefort stesso, di modo che non si poteva più entrare dalla malata, se non attraversando l’appartamento della signora Villefort e la camera del piccolo Edouard.

Morrel andava tutte le mattine da Noirtier per avere notizie di Valentine, ma Morrel, cosa straordinaria, sembrava di giorno in giorno meno inquieto. Prima di tutto, perché di giorno in giorno Valentine, sebbene in preda a una eccitazione nervosa, stava meglio; e poi Montecristo non gli aveva detto, quando tutto smarrito era corso da lui, che se in due ore Valentine non era morta, era salva? Ora, Valentine viveva ancora, ed erano passati quattro giorni.

Questa eccitazione nervosa di cui abbiamo parlato perseguitava Valentine persino nel sonno, o piuttosto nello stato di sonnolenza che succedeva alla veglia: allora nel silenzio della notte e nella mezza oscurità del lume notturno posto sul caminetto, vedeva passare quelle ombre che vanno a popolare la camera dei malati, suscitate dal delirio della febbre. Allora le sembrava di vedere ora Morrel che le tendeva le braccia, ora esseri estranei, come il conte di Montecristo. Perfino i mobili, in quei momenti di delirio, le sembravano muoversi: cosa che durava fino alle due o alle tre dopo mezzanotte, momento in cui un sonno profondo s’impadroniva della giovane fino a giorno.

La sera della fuga d’Eugénie e dell’arresto di Benedetto, e quando, dopo essersi mischiati un istante alle sue sensazioni, questi avvenimenti cominciavano a svanire anche per le visite successive di Villefort, di d’Avrigny, di Noirtier, mentre suonavano le undici all’orologio di Saint-Philippe de Roule, e l’infermiera, dopo averle portato la bevanda preparata dal dottore, e, chiusa la porta della camera, ascoltava fremendo in cucina i commenti dei domestici, e metteva a dura prova la sua memoria con le lugubri storie che da tre mesi occupavano le serate dell’anticamera del procuratore, una scena inattesa si verificò in quella camera chiusa tanto accuratamente.

Erano già dieci minuti circa che l’infermiera si era ritirata. Valentine in preda da un’ora a quella febbre che ritornava ogni notte, lasciava la sua testa, ribelle alla volontà, continuare quel lavoro attivo, monotono e implacabile del cervello che si affaticava a riprodurre incessantemente gli stessi pensieri o a generare le stesse immagini. Dal lucignolo del lume notturno filtravano mille raggi che davano vita a strani riverberi, quando d’un tratto, al suo riflesso tremulo, Valentine vide aprirsi lentamente la scansia dei libri, posta di fianco al caminetto in un incavo del muro, senza che i cardini sui quali essa sembrava ruotare producessero il minimo rumore. In altri tempi Valentine avrebbe afferrato il campanello, o avrebbe tirato il cordone per chiamare aiuto, ma niente la stupiva nella situazione in cui si trovava, convinta com’era che tutte le visioni erano prodotte dal suo delirio, e questa convinzione le era venuta perché la mattina non rimaneva alcuna traccia di tutti quei fantasmi notturni. Dietro la porta comparve un figura umana.

Valentine, per la febbre, non provava più meraviglia per queste apparizioni, per spaventarsi; aprì soltanto due grandi occhi, sperando di riconoscere Morrel. La figura continuò ad avanzare verso il letto, quindi si fermò e parve ascoltare con profonda attenzione. In quel momento il volto del visitatore notturno fu illuminato da un riflesso di luce.

«Non è lui!» mormorò la ragazza.

E aspettò, convinta di sognare, che quest’uomo, come accade nei sogni, scomparisse o si trasformasse in un’altra persona.

Si toccò soltanto il polso e sentendolo battere violentemente, ricordò che il miglior mezzo per far scomparire quelle importune visioni, era di bere. La freschezza della bevanda, composta d’altra parte allo scopo di calmare le agitazioni di cui Valentine si era lamentata col dottore, facendole diminuire la febbre, le provocava una ripresa delle sensazioni: quando aveva bevuto, per un momento si sentiva meglio.

Valentine tese dunque la mano per prendere il bicchiere dal piatto di cristallo su cui posava, ma mentre allungava il braccio fuori dal letto, l’apparizione fece ancora due passi più rapidi degli altri e giunse così vicino alla ragazza, che questa ne udì il respiro, e credette di sentire la pressione della mano. Stavolta l’illusione o piuttosto la realtà superava tutto ciò che Valentine aveva provato fino ad allora; cominciò a credere d’essere realmente sveglia, sentì la sensazione, e tremò.

La pressione aveva lo scopo di fermarle il braccio. Valentine lo ritirò lentamente. Allora questa figura, da cui non poteva staccare lo sguardo, e che d’altra parte sembrava più protettrice che minacciosa, questa figura prese il bicchiere, si avvicinò al lume, e guardò la bevanda, come se avesse voluto giudicarne la trasparenza e la limpidezza. Ma questa prima prova non bastò a quell’uomo, o piuttosto fantasma – camminava così dolcemente che il tappeto soffocava il rumore dei passi – perché quest’uomo prese dal bicchiere un cucchiaio della pozione e l’inghiottì. Valentine guardava stupita ciò che accadeva: credeva che quella visione stesse per scomparire e lasciare il posto a un’altra, ma l’uomo invece di svanire come ombra, si riavvicinò e tendendole il bicchiere, con voce piena di emozione, disse: «Ora bevete!»

Valentine rabbrividì.

Era la prima volta che una delle sue visioni le parlava: aprì la bocca per gridare. L’uomo le posò un dito sulle labbra.

«Il signor Montecristo!» mormorò lei.

Allo spavento negli occhi della ragazza, al tremito delle sue mani, al gesto rapido che fece per nascondersi sotto le lenzuola, si poteva intuire l’intima lotta dei suoi sentimenti. La presenza di Montecristo nella sua camera a quell’ora, la sua entrata misteriosa, fantastica, inesplicabile, da un muro, sembravano impossibili alla mente sconvolta di Valentine.

«Non gridate, state calma», disse il conte, «non abbiate, neppure in fondo al cuore, l’ombra di un sospetto, di un’inquietudine! L’uomo che vi sta dinanzi (infatti questa volta avete ragione, Valentine, la vostra non è un’illusione), l’uomo che vi sta dinanzi è per voi il più tenero padre, il più rispettoso amico che possiate immaginare.»

Valentine non trovò parole per rispondere: quella voce, rivelandole la sua presenza reale, le faceva così paura che temeva di parlare. Ma il suo sguardo spaventato voleva dire: «Se le vostre intenzioni sono buone, perché siete qui?» Con la sua incredibile sagacità il conte capì quello che passava nel cuore della ragazza.

«Ascoltatemi», disse, «o piuttosto guardatemi: vedete i miei occhi arrossati e il mio viso più pallido ancora del solito? È perché da quattro notti non chiudo occhio, da quattro notti veglio su di voi, vi proteggo, vi conservo al nostro amico Maximilien.»

Un lieve rossore salì rapidamente alle guance dell’ammalata poiché il nome pronunciato dal conte le toglieva il residuo di diffidenza che le aveva ispirato.

«Maximilien!» ripeté Valentine, tanto questo nome le sembrava dolce da pronunciare. «Maximilien, dunque vi ha confessato tutto?»

«Tutto. Mi ha detto che la vostra vita era la sua, e gli ho promesso di proteggervi.»

«Gli avete promesso la mia vita?»

«Sì.»

«Infatti, signore, avete parlato di vigilanza e di protezione. Siete dunque medico?»

«Sì, e il migliore che il cielo possa mandarvi in questo momento, credetemi.»

«Dite che avete vegliato?» domandò Valentine inquieta. «E dove? Io non vi ho visto.»

Il conte tese la mano nella direzione della scansia.

«Ero nascosto dietro quella porta, collegata a una casa vicina che ho preso in affitto.»

Valentine, per un momento di pudico orgoglio, girò gli occhi, e con sdegno disse: «Signore, ciò che voi avete fatto è una pazzia, e la protezione che mi avete accordata, somiglia molto a un insulto».

«Valentine, questa lunga veglia mi serviva per sapere quali persone venivano da voi, quali cibi vi preparavano, quali bevande vi servivano; e quando queste bevande mi sembravano pericolose, entravo, come ho fatto ora, vuotavo il vostro bicchiere, e sostituivo al veleno una bevanda benefica che invece della morte che vi era stata preparata vi desse vita.»

«Il veleno! La morte!» gridò Valentine, credendosi nuovamente preda di qualche allucinazione. «Di cosa parlate, signore?»

«Zitta, figlia mia», mormorò Montecristo portando nuovamente il dito alle labbra. «Ho detto il veleno, ho detto la morte, sì lo ripeto, la morte… Ma prima bevete questo…» e il conte sfilò dalla tasca una boccettina contenente un liquore rosso, di cui versò alcune gocce nel bicchiere. «E quando avrete bevuto, non prendete più niente per tutta la notte.»

Valentine allungò la mano, ma appena ebbe toccato il bicchiere, la ritrasse con spavento. Montecristo prese il bicchiere ne bevve la metà, e lo porse a Valentine, che trangugiò sorridendo il resto del liquido che conteneva.

«Oh, sì», disse, «riconosco il gusto delle mie bevande notturne, è quest’acqua che portava un po’ di fresco al mio petto, un po’ di calma al mio cervello. Grazie, signore, grazie.»

«Ecco come vivete da quattro notti, Valentine», disse il conte. «Ma io, in che modo vivevo io? Che ore crudeli ho passato per voi! Che terribili torture, quando vedevo versare nel vostro bicchiere il veleno mortale, quando temevo che aveste il tempo di berlo, prima che io potessi intervenire!»

«Voi dite, signore», riprese Valentine, al colmo del terrore, «che avete subito mille torture vedendo versare nel mio bicchiere un veleno mortale? Ma, se avete visto versare il veleno nel mio bicchiere, avrete pur visto la persona che lo versava…»

«Sì.»

Valentine si levò a sedere sul letto, alzando sul seno più pallido della neve la batista ricamata ancor umida del sudore del delirio, al quale cominciava ad accompagnarsi quello più glaciale del terrore.

«L’avete vista?» ripeté la ragazza.

«Sì», ripeté una seconda volta il conte.

«Quanto mi dite è terribile, signore, ciò che mi volete far credere ha qualche cosa d’infernale! Nella casa di mio padre! Nella mia camera! Sul mio letto di dolore si continua ad assassinarmi? Andatevene, signore. Voi tentate la mia coscienza, voi bestemmiate la divina bontà! Ciò che dite è impossibile, non può essere.»

«Siete voi dunque la prima che questa mano colpisce, Valentine? Non avete visto cadere intorno a voi il signor di Saint-Méran, la signora di Saint-Méran, Barrois? Non avreste visto cadere il signor Noirtier, se la cura che fa da tre anni non lo avesse protetto, combattendo il veleno con l’abitudine al veleno?»

«Oh mio Dio! Allora è per questo», disse Valentine, «che da circa un mese il mio buon nonno mi obbliga a bere un cucchiaio della sua pozione?»

«E queste pozioni», continuò Montecristo, «hanno un gusto amaro, come quello della scorza d’arancio semidisseccata, non è vero?»

«Sì, mio Dio, sì.»

«Ecco tutto spiegato», disse Montecristo. «Anch’egli sa che qui si avvelena, e forse chi avvelena. Perciò ha protetto voi, sua figlia prediletta, contro la sostanza mortale, e la sostanza mortale è stata sconfitta dall’assuefazione… Ecco perché siete ancora viva. Cosa che non potevo capire, poiché eravate stata avvelenata con una sostanza che non perdona.»

«Ma chi è dunque l’assassino?»

«Prima ho una domanda da farvi: non avete mai visto entrare nessuno di notte in questa camera?»

«Può darsi. Spesso ho creduto di veder passare delle ombre; queste ombre si avvicinavano, si allontanavano, sparivano…»

«Così voi non conoscete la persona che attenta alla vostra vita?»

«No. E perché qualcuno dovrebbe desiderare la mia morte?»

«Voi la conoscerete presto», rispose Montecristo, tendendo le orecchie.

«E come?» domandò Valentine, guardandosi intorno spaventata.

«Perché questa sera voi non avete più né febbre, né delirio, perché questa sera siete ben sveglia, perché ora suona la mezzanotte, e questa è l’ora degli assassini.»

«Mio Dio, mio Dio!» gemette Valentine, asciugandosi con la mano il sudore dalla fronte.

Infatti mezzanotte suonava lenta e triste. Si sarebbe detto che ciascun colpo del martello di bronzo battesse nel cuore della ragazza.

«Valentine», continuò il conte, «richiamate tutte le forze in vostro aiuto, comprimete il cuore nel petto, chiudete la voce nella gola, fingete di dormire e vedrete, vedrete…»

Valentine afferrò la mano del conte.

«Mi sembra di sentire dei rumori, andate.»

«Addio, o piuttosto arrivederci», rispose il conte.

Quindi con un sorriso così triste e paterno, che la ragazza gliene fu grata, raggiunse in punta di piedi la porta dietro la scansia. Ma fermandosi prima di richiuderla dietro di sé, aggiunse: «Non un gesto, non una parola… Vi devono credere addormentata, altrimenti, forse sareste uccisa prima che abbia il tempo di accorrere».

E dopo quella tremenda ingiunzione, il conte scomparve dietro la scansia che si richiuse dietro di lui.

100. Locusta

Valentine restò sola. Altri due orologi a pendolo, in ritardo rispetto a quello di Saint-Philippe de Roule, suonarono ancora mezzanotte a differenti intervalli. Poi, a eccezione di qualche carrozza lontana, tutto ricadde nel silenzio. Allora tutta l’attenzione di Valentine si concentrò sul pendolo della sua camera, la cui sfera segnava i secondi. Si mise a contare questi secondi, e notò che erano più lenti delle pulsazioni del suo cuore. Eppure dubitava ancora: l’inoffensiva Valentine non riusciva a immaginare che qualcuno desiderasse la sua morte: perché? Con quale scopo? Che male aveva fatto per avere un nemico? Non c’era timore che s’addormentasse. Una sola idea, un’idea terribile teneva il suo spirito attento: che cioè vi potesse essere qualcuno che avesse tentato d’avvelenarla, e che stava per tentare una seconda volta. Se questa volta quella persona, stanca di vedere inefficace il veleno, come aveva detto Montecristo, avesse usato un pugnale? Se il conte non avesse avuto il tempo di accorrere? Se fosse prossima alla morte? Se non avesse più potuto rivedere Morrel? A questo pensiero, che le suscitava allo stesso tempo un livido pallore e un gelido sudore, Valentine era preparata ad afferrare il cordone del campanello, e a chiamare aiuto. Ma le sembrava di vedere, attraverso la libreria, sfavillare l’occhio del conte, quell’occhio che vegliava sul suo avvenire, e che, quando ci pensava, l’opprimeva di tale vergogna che si chiedeva se mai la riconoscenza avrebbe cancellato il penoso effetto dell’indiscreta amicizia del conte. Venti minuti, venti eterni minuti passarono in tal modo, poi altri dieci minuti ancora: finalmente il pendolo, stridendo leggermente, finì col battere un colpo sotto la molla sonora. In quello stesso momento, il raschiare impercettibile di un’unghia contro il legno della scansia avvisò Valentine che il conte vegliava e le raccomandava di vegliare.

Infatti dalla parte opposta, vale a dire verso la camera di Edouard, sembrò a Valentine di sentir scricchiolare il pavimento di legno, tese l’orecchio, trattenne il respiro; si sentì stridere la maniglia e la porta si aprì.

Valentine si era sollevata sul gomito, ed ebbe appena tempo di lasciarsi ricadere sul letto, coprendosi gli occhi con un braccio.

Quindi tremante, agitata, col cuore stretto da un indicibile spavento, aspettò. Qualcuno si avvicinò al letto, sfiorandolo. Valentine raccolse tutte le forze, e lasciò sentire quel mormorio regolare della respirazione, che annuncia un sonno tranquillo.

«Valentine!» chiamò una voce sommessa.

La ragazza tremò fino in fondo al cuore, ma non rispose.

«Valentine!» ripeté nel medesimo tono la stessa voce.

Sempre silenzio: Valentine aveva promesso di far finta di dormire. Poi tutto rimase immobile, tranne il rumore appena udibile di un liquido che cadeva nel bicchiere che aveva vuotato. Allora osò, al riparo del braccio steso, aprire le palpebre, e vide una donna, in accappatoio bianco, che vuotava nel suo bicchiere un liquido contenuto in una boccetta.

In quell’istante, Valentine forse trattenne il respiro, o fece senza dubbio un moto, poiché la donna, inquieta, si fermò e si chinò sul letto per capire meglio se dormiva realmente: era la signora Villefort. Valentine, nel riconoscere la matrigna, fu presa da un fremito che impresse un moto al letto. La signora Villefort si addossò al muro, e là, nascosta dietro alle cortine del letto, muta e attenta spiò il minimo movimento di Valentine. Questa si ricordò le terribili parole di Montecristo: le era sembrato, nella mano che non teneva la boccetta, di veder brillare una specie di coltello lungo e affilato. Allora Valentine, richiamando in suo aiuto tutto il potere della volontà, si sforzò di chiudere gli occhi; ma questa funzione del più timoroso dei nostri sensi, questa funzione di solito così semplice, diveniva in quel momento quasi impossibile, tanto l’avida curiosità faceva sforzi per conoscere la verità. Rassicurata dal silenzio, in cui si sentiva soltanto il respiro che provava il sonno di Valentine, la signora Villefort tese di nuovo il braccio, e, rimanendo per metà nascosta dietro le cortine riunite al capezzale del letto, terminò di vuotare nel bicchiere di Valentine il contenuto della boccetta.

Quindi si ritirò senza che il minimo rumore facesse capire a Valentine che la matrigna era uscita.

Il raschiare di un’unghia sulla scansia sottrasse Valentine a quello stato di torpore nel quale era immersa e che assomigliava a un’asfissia. Sollevò la testa a stento. La scansia, sempre silenziosamente, girò una seconda volta e Montecristo ricomparve.

«Ebbene», domandò il conte, «dubitate ancora?»

«Oh, mio Dio!» mormorò la ragazza.

«Avete visto?»

«Sì», rispose Valentine, mandando un gemito, «ma non ci posso credere.»

«Voi dunque desiderate piuttosto morire, e far morire Maximilien?»

«Mio Dio! mio Dio!» ripeté la giovane, quasi smarrita. «Ma non posso lasciare la casa? Fuggire?»

«Valentine, la mano che vi perseguita vi raggiungerà dappertutto, con l’oro e col denaro sedurrà i vostri domestici, e vi presenterà la morte mascherata sotto tutti gli aspetti, nell’acqua zuccherata che berrete, nel frutto che coglierete dall’albero…»

«Ma non mi avete detto che la precauzione presa dal nonno mi aveva premunita contro il veleno?»

«Contro uno dei veleni, e anche non usato in forte dose, ma cambierà il veleno, o crescerà la dose.»

Il conte prese il bicchiere e vi accostò le labbra.

«E guardate, l’ha già fatto. Il veleno non è più la brucina, ma un semplice narcotico. Riconosco il gusto dell’alcol nel quale è stato sciolto. Se aveste bevuto ciò che la signora Villefort ha versato in questo bicchiere, Valentine, voi sareste perduta!»

«Ma, mio Dio», gridò la ragazza, «perché dunque mi perseguita in tal modo?»

«Come, siete così buona, così dolce, così incredula di fronte al male, che non avete capito, Valentine?»

«No», rispose la ragazza, «io non le ho mai fatto del male.»

«Ma voi siete ricca, Valentine, avete duecentomila lire di rendita, e queste duecentomila lire di rendita voi le togliete a suo figlio.»

«In che modo? I miei beni non sono suoi, li ho ereditati dai miei parenti.»

«Naturalmente, e se il signore e la signora di Saint-Méran furono uccisi fu perché poteste ereditare dai vostri parenti; ecco perché dal giorno in cui anche il signor Noirtier vi fece sua erede fu condannato a morte; e ora è il vostro turno, voi dovete morire, Valentine, e ciò affinché vostro padre erediti da voi, e vostro fratello, divenuto figlio unico, erediti da vostro padre.»

«Edouard? Povero bambino! Ed è per lui che si commettono tanti delitti?»

«Capite, finalmente?»

«Mio Dio, purché non paghi lui il prezzo di questi delitti!»

«Voi siete un angelo, Valentine.»

«Ha dunque rinunciato a uccidere mio nonno?»

«Avrà riflettuto che, morta voi, a meno di un nuovo cambiamento di testamento, i suoi beni andranno naturalmente a vostro fratello, e avrà pensato che questo delitto, in fin dei conti, era inutile, e anzi doppiamente pericoloso commetterlo.»

«E una donna ha potuto concepire tutti questi delitti? Mio Dio, mio Dio!»

«Ricordatevi Perugia, il pergolato dell’albergo della Posta, l’uomo dal mantello scuro interrogato da vostra madre sull’acqua tofana… Da allora ha predisposto tutto questo infernale progetto.»

«Signore», gridò la ragazza in lacrime, «quand’è così, vedo bene che sono condannata a morire.»

«No, Valentine, no, poiché ho previsto tutto; no, perché la nostra nemica è stata sconfitta, avendola scoperta; no, voi vivrete, Valentine, vivrete per amare ed essere amata, vivrete per essere felice e per render felice un cuore nobile… Ma, Valentine, per vivere dovete avere piena fiducia in me.»

«Ordinate, signore, che cosa devo fare?»

«Dovete prendere ciecamente ciò che vi darò.»

«Dio mi è testimone», gridò Valentine, «che se fossi sola, preferirei lasciarmi uccidere.»

«Voi non vi confiderete con nessuno, neppure a vostro padre?»

«Mio padre non ha a che fare con questo complotto, vero, signore?» domandò Valentine.

«No. Eppure vostro padre, uomo abituato alle trame criminali, deve avere qualche sospetto che tutte queste morti che accadono in casa sua non siano naturali. Vostro padre, è lui che avrebbe dovuto vegliare su voi, è lui che avrebbe dovuto essere a quest’ora nel posto che occupo io, è lui che avrebbe dovuto svuotare questo bicchiere, è lui che avrebbe dovuto ergersi contro l’assassino. Spettro contro spettro!» mormorò terminando la frase sottovoce.

«Signore, io farò di tutto per vivere, perché vi sono due esseri al mondo che mi amano, e che morirebbero se io morissi: mio nonno e Maximilien.»

«Io veglierò su loro, come ho vegliato su voi.»

«Allora, signore, disponete di me», disse Valentine. Poi aggiunse a bassa voce: «Oh, mio Dio, che sarà di me?»

«Qualunque cosa accada, Valentine, non spaventatevi… Se soffrite, se perdete la vista, l’udito, il tatto, non temete niente, se vi svegliate senza sapere dove siete, non abbiate paura, doveste anche, nello svegliarvi, trovarvi in una tomba o chiusa in una bara, fatevi subito animo e dite a voi stessa: “In questo momento un amico, un padre, un uomo che vuole la mia felicità e quella di Maximilien, quest’uomo veglia su di me”.»

«Povera me, che terribile situazione!»

«Valentine, preferite denunciare la vostra matrigna?»

«Preferirei morire cento volte! Sì! Morire!»

«No, non morirete, e qualunque cosa vi accada, non vi lamenterete, e spererete. Me lo promettete?»

«Penserò a Maximilien.»

«Voi siete la mia figlia prediletta, Valentine: io solo posso salvarvi, e vi salverò.»

Valentine, al colmo del terrore, congiunse le mani, e si alzò per pregare, mormorando parole monche, dimenticando che le sue bianche spalle non avevano altro velo che la lunga capigliatura, e che si vedeva batterle il seno sotto il fine merletto del corpetto da notte.

Il conte appoggiò dolcemente la mano sul braccio della ragazza, le rialzò fino al collo la trapunta di velluto, e con sorriso tutto paterno, disse: «Figlia mia, credete nel mio affetto come credete nella bontà di Dio e nell’amore di Maximilien».

Valentine lo guardò con riconoscenza, e obbedì docile come un bimbo ai suoi desideri. Allora il conte prese dal taschino del panciotto la scatola di smeraldo, sollevò il coperchio d’oro e versò nella mano destra di Valentine una piccola pastiglia rotonda della grandezza di un pisello. Valentine la prese con l’altra mano e guardò il conte attentamente: nei lineamenti di quell’intrepido protettore si leggeva un riflesso della potenza celeste. Valentine lo interrogò con lo sguardo.

«Sì», rispose questi.

Valentine si portò la pastiglia alla bocca e l’inghiottì.

«E ora, arrivederci, figlia mia», disse, «vado a cercare di dormire, perché ora siete salva.»

«Andate», replicò Valentine, «qualunque cosa mi accada, vi prometto di non aver paura.»

Montecristo tenne a lungo gli occhi fissi sulla ragazza, che a poco a poco si addormentò, vinta dalla forza del narcotico datole dal conte. Allora prese il bicchiere, e vuotandolo per tre quarti nel caminetto, perché si pensasse che Valentine aveva bevuto, lo rimise sul tavolino da notte; quindi, passando dietro la scansia, scomparve, dopo aver dato un ultimo sguardo alla giovane, che si addormentava con quella fiducia e quel candore con cui un angelo riposa ai piedi del Signore.

101. Valentine

Il lume da notte posato sul caminetto di Valentine consumava le sue ultime gocce di olio che galleggiavano ancora sull’acqua, già un cerchio più rossiccio colorava il globo d’alabastro, mentre la fiamma più viva lasciava sentire gli ultimi crepitii che sembrano, negli esseri inanimati, le ultime convulsioni dell’agonia, così spesso paragonate a quelle delle povere creature umane; una luce cupa e sinistra rifletteva un colore opaco sulle cortine bianche e sulle coperte della ragazza. I rumori della strada erano cessati, e il silenzio in casa era profondo. Allora si aprì la porta della camera di Edouard, e una testa, che abbiamo già riconosciuta, comparve sullo specchio di fronte alla porta. Era la signora Villefort che tornava per vedere l’effetto della sua bevanda.

Si fermò sulla soglia, ascoltò il crepitio della lampada, solo rumore percettibile in quella camera che si sarebbe creduta deserta, quindi avanzò dolcemente verso il comodino per vedere se il bicchiere di Valentine era stato svuotato. Non ve n’era che un quarto, come abbiamo visto. La signora Villefort lo prese, e andò a versarlo sulle ceneri, smuovendole perché assorbissero meglio il liquido, quindi pulì con cura il cristallo, l’asciugò col proprio fazzoletto, e lo rimise sul comodino.

Se qualcuno avesse potuto penetrare con lo sguardo all’interno di quella camera, avrebbe visto l’esitazione della signora Villefort nel guardare Valentine e accostarsi al letto. Quella luce lugubre, quel silenzio, quella terribile poesia della notte si trasformavano ora nella spaventosa poesia della sua coscienza; l’avvelenatrice aveva paura di guardare la sua opera. Prese finalmente coraggio, allontanò la cortina, e appoggiandosi al capezzale del letto, si curvò sopra Valentine.

La ragazza non respirava più; le sue labbra semichiuse non lasciavano sfuggire un alito di quel soffio che manifesta la vita: imbiancandosi avevano cessato di fremere, i suoi occhi velati da un vapore violetto, che sembrava essersi infiltrato sotto la pelle, formavano una sporgenza più bianca dove il globo gonfiava la palpebra, e le sue lunghe ciglia nere rigavano una pelle già pallida come la cera.

La signora Villefort contemplò quel viso con un’espressione eloquentissima nella sua immobilità. Allora crebbe il suo ardire, e sollevando la coperta appoggiò la mano sul cuore della ragazza: era muto e ghiacciato; udiva i battiti nelle vene delle proprie dita, per cui subito si ritrasse piena di spavento. Il braccio di Valentine pendeva fuori dal letto: quel braccio sembrava modellato su quello di una delle Grazie di Germain Pilon, ma l’avambraccio leggermente deformato da una contrazione, e il polso della mano di forma purissima, si appoggiavano, un po’ irrigiditi e con le dita separate, sulla sponda del letto. La radice delle unghie era bluastra.

Per la signora Villefort non c’era più dubbio, tutto era finito; l’opera terribile, l’ultima che volesse compiere, era consumata. L’avvelenatrice non aveva più niente da fare in quella camera. Si ritirò con tanta precauzione, da temere il rumore dei piedi sul tappeto, ma nel ritirarsi teneva ancora sollevata la cortina, assorbendo quello spettacolo della morte che porta in sé un’irresistibile attrazione fino a che la morte non ha prodotto la decomposizione: finché dura il mistero, non vi è ancora il ribrezzo.

I minuti passavano, la signora Villefort sembrava non potersi staccare da quella cortina che teneva sospesa come una sindone sopra la testa di Valentine; pagò il suo tributo alla meditazione. La meditazione del delitto deve essere il rimorso. In quel momento i crepitii del lume raddoppiarono. A quel rumore la signora Villefort tremò, e lasciò ricadere la cortina. Nello stesso istante si spense il lume, e la camera fu immersa in una spaventosa oscurità. In mezzo a quell’oscurità si risvegliò la pendola, e suonò le quattro e mezzo. L’avvelenatrice, spaventata da quelle successive emozioni, raggiunse a tastoni la porta e rientrò nella sua camera col sudore dell’angoscia sulla fronte. L’oscurità continuò per due ore ancora. Quindi, a poco a poco, una sinistra e debole luce penetrò nell’appartamento, filtrando dagli interstizi delle persiane, a poco a poco si fece maggiore, e venne a restituire il colore e la forma agli oggetti e ai corpi.

In quell’attimo si sentì per le scale la tosse dell’infermiera, la quale entrò nella camera di Valentine con una tazza in mano. Per un padre, per un amante, il primo sguardo avrebbe rivelato tutto, che Valentine era morta; per questa donna, Valentine dormiva.

«Bene», disse, avvicinandosi al comodino, «ha bevuto una parte della sua pozione, il bicchiere è per due terzi vuoto.»

Quindi andò al caminetto riaccese il fuoco, e s’installò in una poltroncina, e sebbene si fosse appena alzata, approfittò del sonno di Valentine per dormire ancora alcuni momenti. La pendola la svegliò suonando le otto. Allora, meravigliata del sonno ostinato di Valentine, spaventata da quel braccio penzoloni fuori dal letto, si avvicinò alla dormiente, e soltanto in quell’istante notò le labbra fredde e il petto gelido. Voleva riportare il braccio vicino al corpo, ma era di una rigidità spaventosa, sulla quale un’infermiera non poteva ingannarsi. Mandò un orribile grido. Quindi correndo alla porta, gridò: «Soccorso! Soccorso!»

«Come, aiuto?» chiese dal fondo della scala il signor d’Avrigny.

Era quella l’ora in cui arrivava il dottore.

«Come, aiuto?» gridò la voce del signor Villefort, uscendo precipitosamente dallo studio. «Dottore, avete sentito chiamare aiuto?»

«Sì, sì, saliamo», rispose il signor d’Avrigny, «saliamo presto! Viene dalla camera di Valentine.»

Ma prima del padre e del dottore, erano entrati i servi che si trovavano sullo stesso piano, sparsi per le camere o per i corridoi, e vedendo Valentine pallida e immobile a letto, alzando le mani al cielo, vacillavano come se avessero avuto le vertigini.

«Chiamate la signora Villefort, svegliate la signora Villefort!» gridò il procuratore dalla porta della camera, nella quale sembrava non osasse entrare.

Ma i domestici, invece di rispondere, guardarono il signor d’Avrigny, che, entrato, era corso da Valentine, e la sollevava sulle sue braccia.

«Anche lei!» mormorò, lasciandola ricadere. «Mio Dio, mio Dio! Quando vi stancherete?»

Villefort entrò nella stanza.

«Che dite? Mio Dio!» gridò, alzando le braccia al cielo. «Dottore! Dottore!»

«Dico che Valentine è morta!» rispose il signor d’Avrigny con voce solenne e terribile nella sua solennità.

Il signor Villefort stramazzò, come se le sue gambe si fossero spezzate, e cadde con la testa contro il letto di Valentine. Alle parole del dottore, alle grida del padre, i domestici spaventati fuggirono mandando sorde imprecazioni. Si udirono per i corridoi e per le sale i loro passi affrettati, quindi un gran movimento nei cortili, poi tutto finì, e il rumore si spense: dal primo all’ultimo erano fuggiti da quella casa maledetta.

In quel momento la signora Villefort, col braccio per metà infilato nell’accappatoio, sollevava la tenda; si fermò per un momento sulla soglia nell’atto d’interrogare i presenti, e chiamando in suo aiuto alcune false lacrime. A un tratto fece un passo, o piuttosto un balzo con le braccia tese verso il comodino: aveva visto d’Avrigny piegarsi con curiosità sul mobile, e prendere il bicchiere che era certa d’aver vuotato nella notte. Il bicchiere era di nuovo pieno per un terzo, proprio come quando ne aveva gettato il contenuto nelle ceneri.

Lo spettro di Valentine, dritto davanti all’avvelenatrice, avrebbe prodotto su di lei un effetto minore. Di fatto era quello il colore della bevanda da lei versata nel bicchiere di Valentine, e da lei bevuta, era quello il veleno che non poteva ingannare l’occhio del signor d’Avrigny, e che d’Avrigny guardava attentamente: era quello un miracolo che senza dubbio faceva Dio, affinché restasse, malgrado tutte le precauzioni, una prova, una testimonianza del delitto.

Mentre la signora Villefort restava immobile come la statua del terrore, mentre Villefort, con la testa nascosta nelle lenzuola del letto funebre, non vedeva nulla di quanto accadeva intorno a lui, d’Avrigny si avvicinava alla finestra per meglio esaminare con l’occhio il contenuto del bicchiere, e gustandone una goccia presa sulla punta di un dito, mormorò: «Ah, ora non è più la brucina; vediamo che cos’è…»

Corse a uno degli armadi della camera di Valentine, armadio trasformato in farmacia, e sfilando dalla sua piccola nicchia d’argento una boccetta d’acido nitrico, ne lasciò cadere alcune gocce nel liquido azzurrognolo, che d’un tratto si trasformò in un mezzo bicchiere di sangue vermiglio.

«Ah!» esclamò d’Avrigny, con l’orrore del giudice che scopre la verità, e con la soddisfazione d’uno scienziato che risolve un problema.

La signora Villefort si volse un istante, gli occhi fiammeggianti, poi si calmò: cercò vacillante la porta con la mano e uscì. Un momento dopo si udì il rumore d’un corpo che cade. Ma nessuno vi fece attenzione: l’infermiera era occupata a guardare l’analisi chimica, Villefort era sempre oppresso dal dolore.

Soltanto il signor d’Avrigny aveva seguito con gli occhi la signora Villefort, e aveva notato la sua precipitosa scomparsa. Sollevò la tenda della camera di Valentine e, attraverso la stanza di Edouard, poté vedere nella sua stanza la signora Villefort, priva di sensi e stesa sul pavimento.

«Andate a soccorrere la signora Villefort», disse all’infermiera, «la signora Villefort si sente male.»

«Ma la signorina Valentine?» balbettò questa.

«Valentine non ha più bisogno di aiuto», rispose d’Avrigny, «poiché è morta.»

«Morta! Morta!» sospirò Villefort, nel suo parossismo, tanto più dilaniante, in quanto nuovo, sconosciuto in quel cuore di bronzo.

«Morta, dite?» gridò una terza voce. «Chi ha detto che Valentine è morta?»

I due uomini si voltarono, e sulla porta scoprirono Morrel, pallido, sconvolto e terribile.

Ecco ciò ch’era accaduto. All’ora consueta, e per la porticina che conduceva dal signor Noirtier, Morrel si era presentato. Diversamente dal solito trovò la porta aperta, e, senza bisogno di suonare il campanello, entrò. Nel vestibolo aspettò un istante, chiamando un domestico qualunque che lo introducesse presso il signor Noirtier, ma nessuno rispose; i domestici, come si sa, erano tutti fuggiti dalla casa. Morrel quel giorno non aveva alcun particolare motivo d’inquietudine; aveva la promessa di Montecristo che Valentine sarebbe vissuta, e fino a quel giorno la promessa era stata mantenuta fedelmente. Ogni sera il conte gli dava delle buone notizie, che l’indomani venivano confermate dallo stesso signor Noirtier. Però quella solitudine gli sembrò strana; chiamò una seconda, una terza volta, ma sempre lo stesso silenzio.

Allora si decise a salire. La porta del signor Noirtier era aperta come tutte le altre porte. La prima cosa che vide, fu il vecchio nella sua poltrona al posto solito, ma i suoi occhi dilatati sembravano esprimere uno spavento interiore, che veniva confermato dallo strano pallore dei suoi lineamenti.

«State bene, signore?» domandò il giovane, non senza una certa preoccupazione.

Il vecchio col suo battere di palpebre fece segno di sì. Ma la sua fisionomia sembrò tradire l’inquietudine.

«Siete preoccupato», continuò Morrel. «Avete bisogno di qualche cosa? Volete che chiami qualcuno?»

Noirtier indicò di sì. Morrel si attaccò al cordone del campanello, ma ebbe un bel tirare fino a romperlo, non venne alcuno. Si voltò verso Noirtier; il pallore e l’angoscia andavano crescendo sul viso del vecchio.

«Mio Dio!» esclamò Morrel. «Ma perché non viene nessuno? Qualcuno si è ammalato in casa?»

Gli occhi di Noirtier sembrarono sul punto di schizzare dalle orbite.

«Ma che avete dunque?» riprese Morrel. «Voi mi spaventate. Valentine, Valentine!»

Noirtier accennò di sì.

Maximilien aprì la bocca per parlare, ma non riuscì ad articolare parola: vacillò e si appoggiò a un mobile; quindi tese la mano verso la porta, e il vecchio accennò ancora di sì. Maximilien si lanciò verso la piccola scala, che salì in due salti, mentre Noirtier sembrava gridargli con gli occhi: «Più presto! Più presto!» Bastò un minuto al giovane per attraversare molte stanze, solitarie come il rimanente della casa, e giungere fino a quella di Valentine. Non ebbe bisogno di spingere la porta, che era spalancata. Un singhiozzo fu il primo suono che sentì; vide, come attraverso una nube, una figura nera inginocchiata e piangente ai piedi del letto di Valentine. Il timore, lo spaventoso timore, lo inchiodava sulla soglia. Allora udì una voce che diceva: «Valentine è morta» e una seconda voce che, come un’eco, rispondeva: «Morta! morta!»

102. Maximilien

Villefort si rialzò, quasi imbarazzato d’essere stato colto nel pieno di quel dolore; il terribile mestiere che esercitava da venticinque anni, era arrivato a fare di lui più e meno che un uomo. Il suo sguardo, un istante prima perduto, si fissò su Morrel.

«Chi siete voi, signore?» domandò. «Dimenticate che non si entra così in una casa abitata dalla morte? Fuori, signore, fuori!»

Ma Morrel restava immobile, senza poter staccare gli occhi dal terribile spettacolo di quel letto in disordine e dalla pallida figura che sopra vi era stesa.

«Fuori! Capite?» gridò Villefort mentre d’Avrigny si avvicinava per far uscire Morrel.

Questi guardò smarrito il cadavere, i due uomini, la camera, sembrò esitare un momento, aprì la bocca, quindi finalmente, non potendo pronunciare parola, retrocesse mettendosi le mani fra i capelli, in modo tale che Villefort e d’Avrigny, per un istante attoniti, scambiarono fra di loro uno sguardo senza espressione.

Cinque minuti dopo si udì scricchiolare la scala e si vide Morrel che, con una forza sovrumana, sollevava la poltrona di Noirtier, portando il vecchio al primo piano della casa. Giunto sulla scala, Morrel posò la poltrona a terra, e la spinse rapidamente fino alla camera di Valentine. Tutto questo con una forza raddoppiata dall’esaltazione.

Spaventosa soprattutto era la figura di Noirtier: il suo viso pallido, lo sguardo infiammato, fu per Villefort un’apparizione terribile.

«Guardate che cosa hanno fatto!» gridò Morrel, appoggiato ancora con una mano allo schienale della poltrona, che aveva spinto fin contro il letto, e l’altra tesa verso Valentine.

«Guardate, padre, guardate!»

Villefort arretrò di un passo, e guardò con meraviglia il giovane a lui quasi sconosciuto, che chiamava Noirtier suo padre.

In quel momento tutta l’anima del vecchio sembrò passare nei suoi occhi, che si iniettarono di sangue; quindi gli si gonfiarono le vene del collo: un colore azzurrognolo, come quello d’un epilettico, gli coprì il collo, le guance e le tempie. Non mancava a questa esplosione interna di tutto l’essere che un grido.

Questo grido uscì, per così dire, da tutti i pori, spaventoso nel suo mutismo, dilaniante nel suo silenzio. D’Avrigny si precipitò verso il vecchio, e gli fece annusare un energico revulsivo.

«Signore», gridò Morrel, afferrando la mano inerte del paralitico, «domandano chi sono io, e quale diritto ho di essere qui. Voi che lo sapete, ditelo voi, ditelo!»

E la voce del giovane si spense con un singhiozzo.

Intanto il respiro del vecchio scuoteva il suo petto: lo si sarebbe detto in preda all’agonia. Finalmente alcune lacrime caddero dagli occhi di Noirtier, mentre il giovane singhiozzava senza poter piangere. Non potendo piegare la testa, chiuse gli occhi.

«Dite», continuò Morrel con voce strozzata, «dite che ero il suo fidanzato! Dite che era la mia nobile amica, il mio solo amore sulla terra! Dite, dite, che questo cadavere mi appartiene!»

E il giovane cadde in ginocchio davanti a quel letto, che strinse con violenza. Quel dolore era così vivo che d’Avrigny si voltò per nascondere la sua emozione, e Villefort, senza chiedere altra spiegazione, spinto da quella specie di attrazione che ci porta verso quelli che hanno amato coloro che piangiamo, tese la mano al giovane, che stringeva la mano gelida di Valentine. Per qualche istante in quella camera non si sentirono che singhozzi, imprecazioni e preghiere dominati dalla respirazione rauca e straziante del petto di Noirtier.

Finalmente Villefort, più padrone di sé, dopo avere, per così dire, ceduto il suo posto a Maximilien, prese la parola.

«Signore», disse a Maximilien, «voi amavate Valentine, dite, eravate suo fidanzato; io ignoravo questo amore, ignoravo questo impegno… Eppure, io, suo padre, vi perdono, poiché, lo vedo, il vostro dolore è grande, reale e vero. D’altra parte anche in me il dolore è troppo grande perché mi resti nel cuore posto alla collera. Ma voi lo vedete: l’angelo che speravate di avere, ha lasciato la terra, non sa più che fare delle adorazioni degli uomini, lei, che a quest’ora, adora il Signore… Dite dunque addio alla triste spoglia, stringete un’ultima volta la mano che aspettavate, e separatevi da lei per sempre! Valentine ora non ha più bisogno che di un prete che la benedica!»

«Voi vi sbagliate, signore», gridò Morrel, rialzandosi su un ginocchio col cuore dilaniato da un dolore più acuto di quanti ne aveva fino allora sentiti, «voi sbagliate! Valentine morta in questo modo, non solo ha bisogno di un prete, ma anche di un giudice. Signor Villefort, mandate a cercare il prete, il giudice sarò io!»

«Che volete dire, signore?» mormorò Villefort, tremante per le parole di Morrel.

«Voglio dire», continuò Morrel, «che in voi esistono due uomini, signore: il padre ha pianto abbastanza, ora il procuratore cominci la sua opera.»

Gli occhi di Noirtier sfavillarono; d’Avrigny si avvicinò.

«Signore», continuò il giovane, cogliendo negli occhi di tutti i presenti i sentimenti che si risvegliavano loro sul volto, «so quello che dico, e voi sapete bene al pari di me tutto ciò che sto per dire: Valentine è morta avvelenata.»

Villefort abbassò la testa, d’Avrigny si avvicinò ancora di un passo, Noirtier affermò con gli occhi.

«Ora, signore», riprese Morrel, «nei tempi in cui viviamo, una creatura, quand’anche non fosse così giovane, così bella, così adorabile, una creatura non scompare così violentemente dal mondo senza che si domandi conto della sua scomparsa. Perciò, signor procuratore», aggiunse Morrel, con una veemenza sempre crescente, «bando alla pietà! Io denuncio il delitto, cercate l’assassino!»

E il suo occhio implacabile interrogava Villefort, che dal canto suo sollecitava uno sguardo, ora da Noirtier, ora da d’Avrigny. Ma invece di trovare soccorso da suo padre e dal dottore, Villefort non trovò in essi che uno sguardo inflessibile al pari di quello di Morrel.

«Certamente», ribadì d’Avrigny.

«Signore», replicò Villefort, tentando di lottare ancora contro quella triplice volontà e contro la propria emozione, «signore, vi sbagliate… Non si commettono delitti in casa mia, la fatalità mi colpisce! Dio mi prova! È un pensiero orribile, ma in casa mia non si assassina nessuno!»

Gli occhi di Noirtier fiammeggiarono, d’Avrigny aprì la bocca per parlare, Morrel tese la mano chiedendo silenzio.

«E io vi dico che qui si uccide!» gridò Morrel, abbassando la voce, ma senza perder nulla della sua emozione. «Vi dico che questa è la quarta vittima che si colpisce in quattro mesi! Vi dico che avevano già provato una volta, quattro giorni fa, ad avvelenare Valentine, e che questo delitto era andato a vuoto, grazie alle precauzioni prese dal signor Noirtier! Vi dico che fu raddoppiata la dose, o cambiata la natura del veleno, e che questa volta è riuscito! Vi dico che voi sapete tutto ciò al pari di me, poiché il signore qui presente vi ha avvisato, come medico e amico.»

«Voi delirate, signore!» disse Villefort, tentando invano di svicolare dal cerchio in cui era stato costretto.

«Io deliro?!» gridò Morrel. «Mi appello al signor d’Avrigny stesso. Domandategli, signore, se si ricorda ancora delle parole che ha pronunciato nel vostro giardino, nel giardino di questo palazzo, la sera stessa della morte della signora di Saint-Méran, quando entrambi, voi e lui, credevate d’esser soli? Voi discutevate di questa morte tragica, e quella fatalità di cui parlate, e Dio che accusate ingiustamente, non hanno altra colpa che d’aver permesso l’assassinio di Valentine!»

Villefort e d’Avrigny si guardarono.

«Sì, sì, ricordate», continuò Morrel, «perché quelle parole, che credevate dette al silenzio e alla solitudine, sono cadute nelle mie orecchie. Certamente da quella sera, vedendo la colpevole compiacenza del signor Villefort per i suoi, avrei dovuto rivelare tutto alle autorità… Non sarei complice, come lo sono in questo momento, della tua morte, Valentine! Mia Valentine prediletta! Ma il complice diventerà il vendicatore: questo quarto omicidio è flagrante, visibile agli occhi di tutti, e se tuo padre ti abbandona, Valentine, sta a me, te lo giuro, perseguitare l’assassino!»

E questa volta, come se la natura avesse avuto infine pietà di quella vigorosa psiche, le parole di Morrel si spensero nella gola, il petto scoppiò in singhiozzi, le lacrime, tanto lungamente trattenute, scaturirono dagli occhi: Morrel si piegò su se stesso, e ricadde in ginocchio piangendo vicino al letto di Valentine.

Allora toccò a d’Avrigny.

«E io pure», disse con voce forte, «io pure mi unisco al signor Morrel per domandarvi giustizia del delitto; poiché il mio cuore si ribella all’idea che la mia vile compiacenza abbia incoraggiato l’assassino!»

«Mio Dio, mio Dio!…» mormorò Villefort annientato.

Morrel rialzò la testa, e leggendo negli occhi del vecchio che lanciavano fiamme, disse: «Guardate», disse, «il signor Noirtier vuol parlare».

Noirtier aveva un’espressione così terribile, che tutte le facoltà di quel povero vecchio impotente erano concentrate nel suo sguardo.

«Conoscete l’assassino?» domandò Morrel.

Noirtier accennò di sì.

«E volete dirci il suo nome?» gridò il giovane. «Ascoltiamo, signor d’Avrigny, ascoltiamo.»

Noirtier rivolse all’infelice Morrel un sorriso malinconico, uno di quei sorrisi con gli occhi che tante volte avevano reso felice Valentine, e in tal modo fissò la sua attenzione. Quindi, avendo attaccati, per così dire, gli occhi del suo interlocutore ai suoi, li voltò verso la porta.

«Volete che io esca?» gridò dolorosamente Morrel.

Noirtier accennò di sì.

«Ahimè! Signore, abbiate dunque pietà di me!»

Gli occhi del vecchio rimasero irremovibilmente fissi sulla porta.

«Potrò almeno tornare?» domandò Morrel. «Devo uscir da solo?»

Noirtier accennò di no.

«Chi deve dunque venir con me, il procuratore?»

Noirtier accennò nuovamente di no.

«Il dottore?»

Il vecchio fece segno di sì.

«Volete restar solo col signor Villefort? Ma riuscirà a capirvi?»

«Certo», rispose il signor Villefort, quasi contento che la spiegazione avvenisse a quattr’occhi. «State tranquillo, capisco benissimo mio padre.»

E mentre diceva così, con viva espressione di gioia, i denti del procuratore battevano violentemente.

D’Avrigny prese Morrel per un braccio, e trascinò il giovane nella stanza vicina. Allora si fece in tutta la casa un silenzio più profondo di quello della morte. Ma, dopo un quarto d’ora, si udì un passo vacillante, e Villefort comparve sulla soglia del salotto dove aspettavano d’Avrigny e Morrel.

«Venite!» disse, e li ricondusse da Noirtier.

Morrel guardò attentamente Villefort: la faccia del procuratore era livida, larghe macchie color ruggine gli erano apparse sulla fronte; fra le dita teneva una penna, contorta in mille modi e rotta in diversi pezzi.

«Signori», riprese rivolgendosi con voce soffocata a d’Avrigny e a Morrel, «signori, la vostra parola d’onore che l’orribile segreto rimarrà sepolto fra noi…»

I due uomini trasalirono.

«Ve ne scongiuro!…» continuò Villefort.

«Ma…» balbettò Morrel, «il colpevole!… L’uccisore!… L’assassino!…»

«State tranquilli, signori, giustizia sarà fatta», disse Villefort.

«Mio padre mi ha rivelato il nome del colpevole, mio padre ha sete di vendetta al pari di voi, eppure mio padre vi scongiura, come me, di conservare il segreto del delitto. Non è vero, padre mio?»

Noirtier fece segno di sì.

Morrel si lasciò sfuggire un moto d’orrore e d’incredulità.

«Signore!» gridò Villefort, fermando Morrel per un braccio. «Caro signore, se mio padre, l’uomo che sapete inflessibile, vi fa questa domanda, è perché, state tranquilli, Valentine sarà terribilmente vendicata. Non è vero, padre mio?»

Il vecchio fece segno di sì.

Villefort continuò: «Egli mi conosce, ed è per lui che vi do la mia parola. Tranquillizzatevi dunque, signori! Tre giorni, non vi domando che tre giorni, è il meno che potreste domandare alla giustizia, e fra tre giorni la vendetta che avrò avuto sull’uccisore di mia figlia, farà fremere fin dal profondo del cuore anche gli uomini più indifferenti».

E dicendo queste parole, stringeva i denti scuotendo la mano inerte del vecchio.

«Sarà mantenuta questa promessa, signor Noirtier?» domandò Morrel, mentre d’Avrigny lo interrogava con lo sguardo.

Il vecchio accennò uno sguardo di sinistro assenso.

«Giurate dunque, signori» disse Villefort, unendo le mani di d’Avrigny e di Maximilien, «giurate che avrete pietà dell’onore della famiglia, e mi lascerete la cura di vendicarla.»

D’Avrigny si voltò, e mormorò un debole sì; ma Morrel strappò la mano da quella del magistrato si precipitò verso il letto, impresse le labbra su quelle fredde di Valentine, e fuggì col lungo gemito di un’anima che annega nella disperazione.

Abbiamo detto che i domestici erano tutti scomparsi; il signor Villefort fu dunque obbligato a pregare d’Avrigny d’incaricarsi di tutti quegli atti, numerosi e delicati, che esige la morte nelle nostre grandi città: e, particolarmente, una morte accompagnata da circostanze sospette. In quanto a Noirtier, era terribile vedere quel dolore, quella disperazione, quel pianto concentrato.

Villefort rientrò nel suo studio, d’Avrigny andò a cercare il medico della municipalità, che adempie le funzioni di ispettore di sanità, e che si chiama con tanta precisione «medico legale».

Noirtier non volle lasciare la salma di sua nipote.

Mezz’ora dopo il signor d’Avrigny ritornò con un collega. Erano state chiuse le porte che davano sulla strada, e siccome persino il portinaio era scomparso con tutti gli altri servitori, Villefort stesso andò ad aprire. Ma si fermò sul pianerottolo, poiché non aveva più il coraggio di rientrare nella camera mortuaria. I due medici entrarono da soli nella stanza di Valentine. Noirtier era vicino al letto, pallido, immobile e muto.

Il medico legale si avvicinò con la indifferenza dell’uomo assuefatto a passare la metà della sua vita tra cadaveri, e sollevato il drappo che copriva la ragazza, le aprì le labbra.

«Povera fanciulla!» sospirò d’Avrigny. «È morta, vero?»

«Sì», rispose laconicamente il medico, lasciando ricadere il lenzuolo che copriva il viso di Valentine.

Noirtier emise un sordo rantolo; d’Avrigny si voltò, gli occhi del vecchio sfavillavano. Il buon dottore capì che Noirtier chiedeva di vedere sua nipote: si riaccostò al letto, e mentre il medico legale si lavava le dita nell’acqua col cloruro, scoprì quel calmo e pallido viso, che assomigliava a quello di un angelo addormentato. Una lacrima ricomparve nell’occhio di Noirtier. Il medico legale scrisse il suo verbale sull’angolo di un tavolo, nella stessa camera di Valentine e, adempita questa suprema formalità, uscì accompagnato dal dottore.

Villefort aspettava che scendessero, e apparve sulla porta del suo studio. In poche parole ringraziò il medico, e voltandosi a d’Avrigny, disse: «E ora il prete».

«C’è qualche sacerdote in particolare a cui desiderate dare l’incarico di pregare per Valentine?» domandò d’Avrigny.

«No», rispose Villefort, «andate a cercare il più vicino.»

«Il più vicino», disse il medico legale, «è un buon abate italiano che è venuto ad abitare nella casa accanto alla vostra; se volete, lo avvertirò nel passare.»

«D’Avrigny», riprese Villefort, «volete avere la bontà di accompagnare il signore? Ecco la chiave perché possiate entrare e uscire a vostro piacere. Condurrete il prete, e lo guiderete alla camera della mia povera figlia.»

«Desiderate parlargli, amico mio?»

«Desidero restar solo. Mi scuserete, non è vero? Un prete deve comprendere tutti i dolori, anche il dolore paterno.»

E il signor Villefort, consegnando una chiave a d’Avrigny, salutò un’ultima volta il dottore sconosciuto, rientrò nello studio e si mise a scrivere. Per alcune menti il lavoro è un rimedio a tutti i dolori. Nel momento in cui scendevano in strada, videro un uomo in tonaca nera sulla soglia della porta vicina.

«Ecco la persona di cui vi parlavo», disse il medico dei morti a d’Avrigny.

D’Avrigny s avvicinò all’ecclesiastico.

«Signore», disse, «sareste disposto a prestare il vostro servizio a un padre disgraziato che ha perduto sua figlia, al regio procuratore, Villefort?»

«Ah, signore», rispose il prete, con un accento italiano molto pronunciato, «lo so, la morte è nella sua casa.»

«Allora non ho bisogno di dirvi che genere di servizio si aspetta da voi?»

«Venivo a offrirmi io stesso, signore», disse il prete. «Fa parte della nostra missione andare incontro ai nostri doveri.»

«È una ragazza.»

«Sì, lo so, l’ho saputo dai domestici che fuggivano di casa. Ho saputo inoltre che si chiamava Valentine, e ho già cominciato a pregare per lei.»

«Grazie, grazie, signore», disse d’Avrigny, «e poiché avete già cominciato a esercitare il vostro santo ministero, vi prego di continuarlo. Venite con me vicino alla morta, e tutta una famiglia sepolta nel lutto vi sarà riconoscente.»

«Vengo, signore, e oso dire che non saranno mai state fatte preghiere più fervide delle mie.»

D’Avrigny prese l’abate per mano, e senza incontrare Villefort, chiuso nello studio, lo condusse fino alla camera di Valentine, nella quale i becchini non sarebbero arrivati che la sera seguente. Entrando nella camera, lo sguardo di Noirtier aveva incrociato quello dell’abate, e senza dubbio vi scorse qualcosa di particolare, perché non lo abbandonò più.

D’Avrigny raccomandò al prete non solo la morta, ma anche il vivo, e il prete promise a d’Avrigny di dire le sue preghiere alla morta, e di prestare la sua cura a Noirtier. L’abate vi si obbligò solennemente. E senza dubbio per non essere disturbato nelle preghiere, e affinché Noirtier non fosse disturbato nel suo dolore, andò, appena d’Avrigny ebbe lasciato la camera, a chiudere le serrature, non solo della porta dalla quale era uscito d’Avrigny, ma anche di quella che portava nelle stanze della signora Villefort.

103. La firma di Danglars

Il giorno successivo si annunciò triste e nuvoloso. I becchini, nella notte, avevano eseguito il loro funebre ufficio, preparato il corpo, che era stato deposto sul letto, avvolto nel lugubre sudario chrricopre i trapassati, prestando loro, per quanto si parli di uguaglianza davanti alla morte, un’ultima testimonianza del lusso ch’essi amavano durante la vita. Il sudario non era altro che una pezza di magnifica batista che la ragazza aveva comprato quindici giorni prima.

Nel corso della serata, uomini chiamati per questo, avevano trasportato Noirtier dalla camera di Valentine alla sua, e contro ogni aspettativa, il vecchio non aveva fatta alcuna difficoltà ad allontanarsi dal corpo di sua nipote.

L’abate Busoni aveva vegliato fino al giorno, e all’alba si era ritirato in casa sua senza chiamare nessuno. Verso le otto di mattina era tornato d’Avrigny, e avendo incontrato Villefort che andava da Noirtier, lo aveva accompagnato per sapere in che modo il vecchio avesse passato la notte. Lo ritrovarono nel suo seggiolone, che gli serviva anche da letto, che dormiva un sonno dolce e quasi sorridente. Entrambi si fermarono stupiti sulla soglia.

«Guardate», disse d’Avrigny a Villefort, che guardava suo padre addormentato, «guardate come la natura sa calmare i dolori più laceranti: non si può certo dire che Noirtier non amasse sua nipote, eppure dorme.»

«Sì, avete ragione», osservò Villefort sorpreso, «dorme, ed è una cosa ben strana, poiché la minima contrarietà lo tiene sveglio delle notti intere.»

«Il dolore lo ha distrutto…» replicò d’Avrigny.

Ed entrambi tornarono pensierosi nello studio del regio procuratore.

«Vedete io non ho dormito affatto», disse Villefort, mostrando a d’Avrigny il suo letto intatto. «Il dolore non mi ha atterrato… Sono due notti che non dormo, ma invece, guardate la scrivania, ho scritto, mio Dio! In queste due notti… ho sfogliato pratiche giudiziarie, ho preparato quest’atto d’accusa contro Benedetto! Oh, lavoro, lavoro, mia gioia, mia rabbia, sta a te combattere tutti i miei dolori!»

E strinse convulsamente la mano a d’Avrigny.

«Avete bisogno di me?» domandò il dottore.

«No, vi prego soltanto di tornare alle undici… A mezzogiorno ha luogo… la partenza… mio Dio! Povera figlia mia, povera figlia mia!»

Il procuratore, riavutosi, alzò gli occhi al cielo e mandò un sospiro.

«Vi troverò a ricevere?»

«No, ho un cugino che s’incarica di questo triste onore. Io lavorerò, dottore, quando lavoro, tutto sparisce.»

Infatti, il dottore non era arrivato alla porta, che il regio procuratore si era messo al lavoro.

Sulla scalinata d’Avrigny incontrò il parente di cui gli aveva parlato Villefort, personaggio insignificante in questa storia come in quella famiglia, uno di quegli esseri che sono destinati nascendo a rappresentare in società la parte dell’inutilità. Era puntuale, vestito di nero, col velo al braccio e, venendo da suo cugino, aveva assunto un viso compunto che contava di conservare finché vi fosse stato bisogno.

Alle undici le carrozze funebri rumoreggiavano sul selciato del cortile, e la strada del Faubourg Saint-Honoré si riempiva del mormorio della folla, avida sia delle gioie che dei lutti dei ricchi, e che corre a un pomposo funerale con la stessa fretta che al matrimonio di una duchessa.

A poco a poco la camera ardente si riempì, e si vide giungere prima una parte delle nostre antiche conoscenze, come Debray, Beauchamp, Château-Renaud, quindi tutte le persone più illustri del tribunale, delle Camere, della letteratura, dell’esercito, poiché il signor Villefort occupava il primo rango di un’alta posizione sociale, meno per la sua carica che per i suoi meriti personali. Il cugino stava alla porta, e faceva entrare tutti; e per gli indifferenti era un gran sollievo, bisogna dirlo, quello di ritrovar là una persona indifferente, che non esigeva dagli invitati un dolore finto, o false lacrime, come avrebbe fatto un padre, un fratello, un fidanzato.

Quelli che si conoscevano si chiamavano con lo sguardo e si riunivano in gruppi. Uno di questi gruppi era composto da Debray, Château-Renaud e Beauchamp.

«Povera ragazza!» disse Debray, pagando, del resto, come ciascuno, quasi suo malgrado, un tributo al doloroso avvenimento.

«Povera ragazza! Così ricca, bella! Lo avreste pensato, Château-Renaud, quando venimmo, saranno circa due settimane o un mese al più, per firmare il contratto che poi non fu firmato?»

«Proprio no», rispose Château-Renaud.

«La conoscevate?»

«Avevo parlato una volta o due con lei, al ballo della signora Morcerf; mi sembrò graziosa, anche se un po’ malinconica. Dov’è la sua matrigna, lo sapete?»

«È andata a trascorrere la giornata dalla moglie del signore che ci riceve.»

«E chi è?»

«Chi?»

«Il signore che ci riceve… Un deputato?»

«No», rispose Beauchamp. «Sono condannato a vedere i nostri onorevoli tutti i giorni, ma questo non lo conosco.»

«Avete parlato di questa morte nel vostro giornale?»

«L’articolo non è mio, ma se n’è parlato: e dubito che la cosa sia gradito al signor Villefort. Vi si dice, credo, che se quattro morti successive avessero luogo in tutt’altra casa che in quella del regio procuratore, il procuratore di Stato se ne sarebbe certamente preoccupato.»

«Del resto», riprese Château-Renaud, «il dottor d’Avrigny, che è il medico di mia madre, afferma che Villefort sia disperato. Ma chi cercate dunque, Debray?»

«Cerco il conte di Montecristo», rispose il giovane.

«L’ho incontrato sul boulevard, venendo qui, e credo stia per partire; andava dal suo banchiere», spiegò Beauchamp.

«Dal suo banchiere? Non è Danglars il suo banchiere?» domandò Château-Renaud a Debray.

«Credo di sì», rispose il sottosegretario con un leggero imbarazzo.

«Ma il conte di Montecristo non è il solo a mancare… Non vedo Morrel.»

«Morrel! Ma la conosceva?» domandò Château-Renaud. «Credo sia stato presentato soltanto alla signora Villefort.»

«Non importa, sarebbe dovuto venire», disse Debray. «Di che cosa si parlerà questa sera? Questi funerali sono la notizia della giornata. Ma zitti, attenti, ecco il ministro di Grazia e Giustizia: si crederà senza dubbio obbligato a fare il suo discorsetto al cugino lacrimevole.»

E i tre giovani si accostarono alla porta per sentire il discorso del ministro di Grazia e Giustizia.

Beauchamp aveva detto la verità. Recandosi alla cerimonia funebre, aveva incontrato Montecristo, che dal canto suo si dirigeva all’abitazione di Danglars, in rue Chaussée d’Antin. Il banchiere aveva riconosciuto dalla sua finestra la carrozza del conte che entrava nel cortile, e gli era andato incontro con viso triste, ma affabile.

«Ebbene conte», esordì, tendendo la mano a Montecristo, «venite a farmi le condoglianze? La disgrazia è entrata in casa mia, e quando vi ho scorto, mi stavo chiedendo se avevo mandato qualche maledizione a quei poveri Morcerf, cosa che avrebbe giustificato il proverbio: “A chi vuol male accade male”.

Ebbene, sulla mia parola, no, non ho augurato del male a Morcerf. Era forse un po’ orgoglioso, per un uomo venuto dal niente come me, e che doveva tutto a se stesso, come me, ma ciascuno ha i suoi difetti. Ah, state in guardia, conte, gli uomini della nostra generazione… ma scusate, voi non siete di questa generazione… siete ancora giovane…, gli uomini della nostra generazione non sono fortunati quest’anno: ne fa fede il nostro puritano procuratore, il signor Villefort, che ha perduto anche sua figlia. Così riepiloghiamo: Villefort, come dicevamo, perde tutta la sua famiglia in un modo strano, Morcerf disonorato e ucciso, io coperto di ridicolo per la scelleratezza di questo Benedetto, e poi…»

«E poi cosa?» domandò il conte.

«Ahimè, voi dunque lo ignorate?»

«Qualche nuova disgrazia?»

«Mia figlia…»

«La signorina Danglars?»

«Eugénie ci ha lasciati.»

«Oh, mio Dio, che cosa dite mai!?»

«La verità, mio caro conte. Quanto siete fortunato voi a non avere né moglie. né figli.»

«Credete?»

«Altroché, se lo credo…»

«E dicevate che la signorina Danglars?»

«Non ha sopportato l’affronto che ci ha fatto quel miserabile, e mi ha chiesto il permesso di partire.»

«E l’ha fatto?»

«L’altra notte.»

«Con la signora Danglars?»

«No, con una nostra parente… Ma noi la perderemo, la cara Eugénie, perché dubito, col carattere che ha, che acconsentirà mai a ritornare in Francia.»

«Che volete, mio caro barone», disse Montecristo, «dispiaceri di famiglia! Dispiaceri che potrebbero sconvolgere un povero diavolo, che avesse riposto tutta la sua speranza in sua figlia, ma sopportabili per un milionario come voi. I filosofi hanno un bel dire, ma gli uomini pratici li smentiranno sempre: il denaro consola molti dispiaceri, e voi dovete essere consolato più di qualunque altro, se ammettete la virtù di questo balsamo salutare, voi, il re dei finanzieri, il punto d’incontro di tutti i poteri.»

Danglars lanciò uno sguardo obliquo al conte per vedere se scherzava o se parlava sul serio.

«Sì», disse, «il fatto è che se la fortuna consola, io devo sentirmi consolato, perché sono ricco!»

«Tanto ricco, mio caro barone, che le vostre ricchezze somigliano alle piramidi: se si vogliono demolire, nessuno osa, se qualcuno l’osasse, non potrebbe.»

Danglars sorrise della bontà del conte, e rispose: «Ora mi ricordo che quando siete entrato, stavo firmando cinque piccoli assegni. Ne avevo già firmati due, volete permettermi di firmare gli altri tre?»

«Fate pure, mio caro barone.»

Ci fu un momento di silenzio, durante il quale s’udì stridere la penna del banchiere, mentre Montecristo guardava le modanature dorate del soffitto.

«Titoli di Spagna», domandò Montecristo, «titoli di Haiti o di Napoli?»

«No», rispose Danglars con quella sua risata strana, «assegni al portatore, buoni sulla Banca di Francia. Guardate, signor conte, voi che siete l’imperatore della finanza, se io ne sono il re… Avete mai visto foglietti di questa grandezza che valgono un milione ciascuno?»

Montecristo prese in mano, come per pesarli, i cinque fogli di carta presentatigli orgogliosamente da Danglars, e lesse:

«Voglia il signor reggente della banca far pagare al mio ordine, e sui fondi da me depositati, la somma di un milione, valuta in conto.

Barone Danglars

«Uno, due, tre, quattro e cinque», disse Montecristo, «cinque milioni! Perbacco in che modo lavorate signor Creso?»

«Ecco come faccio gli affari!» disse Danglars.

«È una cosa stupenda, soprattutto se, come non dubito, questo somma viene pagata in contanti.»

«Lo sarà.»

«È bello avere un credito simile. Davvero, queste cose si vedono soltanto in Francia: cinque pezzi di carta del valore di cinque milioni! Bisogna vedere per credere.»

«Ne dubitate?»

«No.»

«Lo dite in un modo… Conte, prendetevi questa soddisfazione, accompagnate il mio commesso alla banca, e lo vedrete uscire con tanti buoni del Tesoro per la stessa somma.»

«No», replicò Montecristo, pesando i cinque biglietti, «no, la cosa è troppo strana, e farò io stesso l’esperimento. Il mio credito presso di voi era convenuto in sei milioni, io ho preso novecentomila franchi: non vi resta dunque che darmi altri cinque milioni e centomila franchi. Prendo questi cinque pezzi di carta, che credo ottimi alla sola vista della vostra firma, ed ecco una ricevuta generale di sei milioni con la quale è regolato il nostro conto: l’avevo preparata anticipatamente, perché, bisogna che ve lo dica, oggi ho molto bisogno di denaro.»

E con una mano Montecristo mise i cinque biglietti in tasca, mentre con l’altra presentava la sua ricevuta al banchiere. Un fulmine caduto ai piedi di Danglars non lo avrebbe colpito con maggiore spavento e terrore.

«Come? Signor conte, voi prendete questo denaro? Ma scusate, scusate, questo è il denaro che debbo agli ospizi, un deposito, e avevo promesso di pagare stamattina.»

«Allora è diverso», replicò Montecristo. «A me non importano questi cinque biglietti, pagatemi in altra valuta. Li avevo presi per curiosità, per poter dire a tutti che, senza alcun avviso, senza chiedermi cinque minuti di dilazione, la casa Danglars mi aveva pagato cinque milioni in contanti, la qual cosa sarebbe stata rimarchevole. Ma ecco i vostri foglietti, vi ripeto, pagatemi in altra valuta, o fatemene degli altri.»

E tese i cinque assegni a Danglars, che livido, prima allungò la mano come l’avvoltoio allunga gli artigli tra le sbarre della sua gabbia per trattenere la carne che si tenta di levargli. Ma a un tratto si pentì, fece uno sforzo violento e si contenne. Quindi si vide il sorriso tornargli a poco a poco sul viso sconvolto.

«Torniamo a noi», riprese. «La vostra ricevuta vale denaro contante?»

«Sì, certamente. E se foste a Roma, la casa Thomson e French, su una mia ricevuta, avrebbe minor difficoltà a pagarvi di quanto ne fate voi a pagare me.»

«Scusate, signor conte, scusate…»

«Posso dunque conservare questi biglietti?»

«Sì», rispose Danglars asciugandosi il sudore che gli colava dalla fronte, «conservateli, conservateli.»

Montecristo rimise i cinque assegni in tasca con quell’intraducibile movimento degli occhi che vuol dire: «Riflettete, se vi pentite, siete ancora in tempo».

«Sì», ripeté Danglars, «sì, teneteli. Voi lo sapete, nessuno è tanto pieno di formalità quanto un uomo di finanza: io destinavo questi fondi agli ospizi, e per un momento mi era sembrato di derubarli non dando loro proprio questi; come se uno scudo non valesse quanto un altro scudo. Scusate!»

E si mise a ridere rumorosamente, ma di un riso convulso.

«Scuso», disse graziosamente Montecristo, «e metto in tasca.»

«Ma», riprese Danglars, «abbiamo ancora una somma di centomila franchi.»

«Oh, una bagattella», disse Montecristo. «L’aggio deve ammontare circa a questa somma, tenetela, e saremo pari.»

«Conte», disse Danglars, «parlate sul serio?»

«Io non scherzo mai con i banchieri», replicò Montecristo con una serietà che sfiorava l’impertinenza.

E s’avviò verso la porta, giusto nel momento in cui il cameriere annunciava il signor Boville, amministratore generale degli ospizi.

«Sembra che sia giunto appena in tempo per godere delle vostre firme», disse Montecristo, «sono assai disputate.»

Danglars impallidì una seconda volta, e si affrettò a prendere congedo dal conte. Il conte di Montecristo rispose con un cerimonioso saluto a quello di Boville, che aspettava nella camera adiacente e che, passato Montecristo, fu subito introdotto nello studio del signor Danglars.

Si sarebbe potuto vedere il viso severo del conte illuminarsi d’un passeggero sorriso nello scorgere il portafogli che teneva in mano l’amministratore degli ospizi. Alla porta ritrovò la carrozza, e si fece condurre subito in banca.

Intanto Danglars, nascondendo tutta la sua emozione, andava incontro al ricevitore generale.

«Buongiorno mio caro amico», salutò, tutto grazia e sorrisi, «scommetto che venite in veste di creditore…»

«Avete proprio indovinato, signor barone», annuì Boville. «Gli ospizi si presentano a voi nella mia persona. Gli ammalati, le vedove, gli orfani vengono per mio tramite a domandarvi un’elemosina di cinque milioni.»

«E si dice che gli orfani sono da compiangere!» disse Danglars, prolungando lo scherzo. «Poveri bambini!»

«Vengo in loro nome», confermò il signor Boville. «Avrete ricevuto la mia lettera di ieri?»

«Sì.»

«Sono qui con la mia ricevuta.»

«Mio caro signor Boville», iniziò Danglars, «i vostri malati, le vostre vedove, i vostri orfani avranno, se voi acconsentite, la bontà d’aspettare ventiquattro ore, dato che il signore di Montecristo, che avete visto uscire di qui… Lo avete visto, non è vero?»

«Sì, ebbene?»

«Ebbene, il signore di Montecristo si è portato via i loro cinque milioni.»

«E come?»

«Il conte aveva un credito illimitato su di me, credito aperto dalla casa Thomson e French di Roma… È venuto a domandarmi la somma di cinque milioni in un sol colpo, e gli ho dato cinque assegni della Banca di Francia. I miei fondi stanno depositati là, e voi capirete che temerei, ritirando dalle mani del reggente dieci milioni tutti in un giorno, che la cosa possa sembrare troppo strana. In due giorni», aggiunse Danglars sorridendo, «è un’altra cosa.»

«Andiamo!» gridò il signor Boville, nella più completa incredulità. «Cinque milioni a quel signore che è uscito poco fa, e che mi ha salutato come se lo conoscessi?»

«Può darsi che vi conosca senza che voi lo conosciate. Il signore di Montecristo conosce tutti.»

«Cinque milioni!»

«Ecco la sua ricevuta. Fate come l’apostolo che non voleva credere: guardate e toccate.»

Il signor Boville prese il foglio presentatogli da Danglars e lesse: «Ho ricevuto dal signor barone Danglars la somma di sei milioni di cui egli si rimborserà a suo piacere sulla casa Thomson e French di Roma.

Conte di Montecristo

«È vero!» esclamò il signor Boville.

«Conoscete la casa Thomson e French?»

«Sì, ho fatto una volta un affare di duecentomila franchi con questa casa, ma dopo non ne ho più sentito parlare.»

«È una delle migliori case d’Europa», disse Danglars, gettando con noncuranza sullo scrittoio la ricevuta di Montecristo che aveva ripreso dalle mani di Boville.

«E quel conte aveva credito nientemeno che per cinque milioni presso di voi? Ma è dunque un nababbo questo conte di Montecristo?»

«A dire il vero non so cosa sia. Ma aveva tre crediti illimitati, uno su di me, uno su Rothschild e uno su Laffitte, e», aggiunse negligentemente Danglars, «come vedete, ha dato a me la preferenza, lasciandomi centomila franchi per l’aggio del cambio.»

Il signor Boville espresse la più grande ammirazione.

«Bisognerà che vada a trovarlo», disse, «e che ottenga da lui un lascito per qualche pia fondazione.»

«Oh, è come se l’aveste già: le sue elemosine ammontano a più di ventimila franchi al mese.»

«Magnifico! D’altronde gli citerò l’esempio della signora Morcerf e di suo figlio.»

«Quale esempio?»

«Hanno donato tutti i loro beni agli ospizi.»

«Quali beni?»

«Quelli del defunto generale Morcerf.»

«E come mai?»

«Perché non vogliono beni così mal acquisiti.»

«E di cosa vivranno?»

«La madre si ritira in provincia, e il figlio si è arruolato nell’esercito.»

«Senti senti! Questi sì che sono scrupoli!»

«Ho fatto registrare ieri l’atto di donazione.»

«E quanto possedevano?»

«Oh, non molto: un milione e trecentomila franchi. Ma torniamo ai nostri milioni.»

«Volentieri», disse Danglars con la più grande naturalezza del mondo. «Avete dunque molta fretta di ritirare questo denaro?»

«Sì, il riscontro di cassa si fa domani.»

«Domani! Perché non lo avete detto subito? Ma è un secolo, domani! A che ora è la verifica?»

«Alle due pomeridiane.»

«Venite a mezzogiorno», disse Danglars, col suo sorriso.

Il signor Boville non rispose, ma fece segno di sì con la testa, voltando e rivoltando il suo portafoglio fra le mani.

«Ma ora che ci penso», riprese Danglars, «potete anche fare diversamente…»

«Come?»

«La ricevuta di Montecristo vale denaro contante… Passate con questa ricevuta da Rothschild o da Laffitte, e l’accetteranno all’istante.»

«Anche se è rimborsabile a Roma?»

«Certamente, vi costerà solo una piccola ritenuta di sei o settemila franchi.»

L’amministratore sussultò.

«A dire il vero, no, preferisco aspettare domani, come dicevate voi.»

«Ho creduto per un momento, perdonatemi», disse Danglars, con estrema impudenza, «ho creduto che aveste un piccolo deficit, una piccola mancanza da riempire.»

«No!» gridò l’amministratore.

«È successo altre volte e, in tal caso, si fa un sacrificio.»

«Grazie a Dio, no», ribatté il signor Boville.

«Allora, a domani, non è vero, mio caro signor amministratore?»

«Sì, a domani, ma senza fallo!»

«Ancora? Voi volete scherzare… Mandate qualcuno a mezzogiorno, la banca sarà avvisata.»

«Verrò io stesso.»

«Meglio ancora, perché così avrò il piacere di rivedervi.»

«A proposito», riprese il signor Boville, «non andate al funerale di quella povera signorina Villefort, di cui ho incontrato il corteo funebre sul boulevard?»

«No», rispose il banchiere. «Sono ancora pieno di vergogna per quello scandalo di Benedetto.»

«Be’, avete torto… È forse colpa vostra?»

«Ascoltate, mio caro signore, quando si porta un nome senza macchia come il mio, si ha un po’ di suscettibilità.»

«Tutti vi compiangono, e soprattutto si compiange la signorina vostra figlia.»

«Povera Eugénie!» esclamò Danglars, con un profondo sospiro.

«Sapevate che entra in monastero, signore?»

«No.»

«Purtroppo è vero. All’indomani dell’incidente, si è decisa a partire con una monaca sua amica, ed è andata a cercare un convento in Italia o in Spagna.»

«È terribile!»

Il signor Boville si ritirò dopo questa esclamazione, esprimendo al padre la propria mortificazione. Ma non era ancora uscito, che Danglars esclamò: «Imbecille!»

E chiudendo la quietanza di Montecristo in un piccolo portafogli, mormorò: «Vieni pure a mezzogiorno. A mezzogiorno sarò lontano».

Quindi si chiuse nella stanza a doppio giro di chiave, vuotò tutti i cassetti della casa, riunì una cinquantina di mille franchi in biglietti di banca, bruciò diverse carte, ne mise altre in evidenza, e scrisse una lettera che sigillò aggiungendo la scritta: «Alla signora baronessa Danglars».

«Stasera», mormorò, «la lascerò io stesso sulla sua toilette.»

Quindi, prese da un cassetto un passaporto.

«Bene», disse, «è ancora valido per due mesi.»

104. Il cimitero del Père-Lachaise

Il signor Boville aveva in effetti incontrato il corteo funebre che accompagnava Valentine alla sua ultima dimora. Il cielo era cupo, nuvoloso; un vento ancora tiepido, ma già mortale per le foglie ingiallite, le staccava dai rami a poco a poco spogliati e le faceva volare sulla folla immensa che ingombrava i boulevard.

Il signor Villefort, da puro parigino, considerava il cimitero del Père-Lachaise, come l’unico degno di ricevere le spoglie mortali di una famiglia parigina. Gli altri gli sembravano cimiteri di campagna, appartamenti ammobiliati della morte. Soltanto al Père-Lachaise un trapassato del buon ceto poteva essere alloggiato come in casa propria. Come abbiamo visto, egli aveva comprato l’area sulla quale s’innalzava il monumento popolato così rapidamente da tutti i morti della sua prima famiglia. Si leggeva sul frontone del mausoleo: «Famiglia di Saint-Méran e Villefort», perché tale era stata l’ultima volontà di Renée, madre di Valentine.

Il pomposo corteo, partito dal Faubourg Saint-Honoré, s’incamminava dunque verso il Père-Lachaise attraversando tutta Parigi, e passando per il Faubourg du Temple, quindi per i boulevard esterni fino al cimitero. Più di cinquanta carrozze signorili seguivano venti carrozze da lutto, e dietro alle cinquanta carrozze più di cinquecento persone ancora camminavano a piedi. Erano quasi tutti giovani colpiti come da un fulmine dalla morte di Valentine, e che, malgrado il vapore glaciale del secolo e lo scetticismo dell’epoca, subivano l’influenza poetica di quella bella, casta e adorabile giovane donna, strappata nel fiore degli anni! Uscendo da Parigi si vide arrivare rapidamente una carrozza trascinata da quattro cavalli, che all’improvviso si fermarono, irrigidendo i nervosi garretti come molle d’acciaio: era il signore di Montecristo.

Il conte scese di carrozza, e andò a confondersi fra la folla che camminava a piedi dietro il carro funebre. Château-Renaud lo vide, e sceso subito dal suo carrozzino, si unì a lui. Beauchamp ugualmente lasciò il calesse nel quale si trovava. Il conte guardava attentamente fra la folla, cercava evidentemente qualcuno; infine non riuscì più a trattenersi.

«Dov’è Morrel?» domandò. «Qualcuno di voi, signori, sa dove sia?»

«Ci siamo fatti la stessa domanda», rispose Château-Renaud, «ma nessuno di noi lo ha visto.»

Il conte tacque, ma continuò a guardare intorno a sé. Intanto si giunse al cimitero. L’occhio penetrante di Montecristo si insinuò in tutti i boschetti, e ben presto si calmò: un’ombra strisciava sotto i cupi cipressi, e Montecristo aveva capito di chi si trattava.

Si sa che cos’è una sepoltura in quella città di morti: gruppi neri disseminati nei bianchi viali, un silenzio del cielo e della terra, rotto soltanto dal rumore dello spezzarsi di qualche ramo, dall’affondarsi di qualche siepe intorno alla tomba; poi il canto malinconico dei preti, al quale si mischia qua e là un singhiozzo sfuggito da un cespuglio di fiori, vicino a cui si vede qualche donna prostrata e con le mani giunte.

L’ombra osservata da Montecristo attraversò rapidamente il sentiero che passava dietro la tomba di Abelardo ed Eloisa, e andò a mettersi con i becchini alla testa dei cavalli che trascinavano il corpo, e col medesimo passo giunse al luogo della sepoltura.

Montecristo non guardava che quell’ombra appena notata da quelli che gli stavano vicino; anzi, due volte uscì dalle file per vedere se quell’uomo cercasse un’arma nei propri abiti. L’ombra, quando il corteo si fermò, fu riconosciuta: Morrel, con l’abito nero abbottonato fino al collo, la fronte livida, le guance scavate, il cappello ammaccato in più posti dalle mani convulse, si era appoggiato a un albero sopra un rialto che dominava il mausoleo, in modo da non perdere nessuno dei particolari della cerimonia funebre.

Tutto terminò secondo l’uso. Alcuni uomini, che, come sempre, erano i meno commossi, pronunciarono dei discorsi. Gli uni compiansero quella morte prematura, gli altri indugiarono sul dolore del padre, qualcuno fu abbastanza ingegnoso da trovare che la ragazza aveva più di una volta pregato il signor Villefort in favore dei colpevoli che il procuratore stava per giudicare, e infine si terminarono le metafore fiorite e le frasi dolorose, commentando in tutti i modi le sentenze di Malherbe e Dupérier.

Il conte di Montecristo non ascoltava, né vedeva nulla; o piuttosto non vedeva che Morrel, la cui calma e immobilità erano preoccupanti per lui che solo poteva intuire ciò che accadeva nel fondo del cuore del giovane ufficiale.

«Guarda», disse a un tratto Beauchamp a Debray, «ecco Morrel! Dove diavolo si è andato a cacciare?»

«Com’è pallido!» mormorò Château-Renaud tremando.

«Avrà freddo», replicò Debray.

«No», disse lentamente Château-Renaud, «credo che sia commosso, Maximilien è sensibilissimo.»

«Ma», ribatté Debray, «conosceva appena Valentine Villefort, l’avete detto voi stesso.»

«È vero. Però ricordo che al ballo della signora Morcerf ha ballato tre volte con lei… Sapete, conte, a quel ballo dove voi faceste così grande effetto?»

«No, non lo so», rispose Montecristo, senza sapere a che cosa rispondeva né a chi, tanto era occupato a sorvegliare Morrel, le cui guance si animavano come accade a quelli che trattengono il respiro.

«I discorsi sono finiti, addio, signori», disse il conte.

E salutò, scomparendo senza che nessuno capisse in quale direzione. La cerimonia era terminata, e i presenti ripresero la strada per Parigi. Solo Château-Renaud cercò Morrel con gli occhi, ma, mentre seguiva il conte che si allontanava, Morrel aveva lasciato il suo posto, e Château-Renaud, dopo averlo cercato invano, aveva seguito Debray e Beauchamp. Montecristo si era gettato fra i tigli, e nascosto dietro un’ampia tomba, spiava il minimo movimento di Morrel, che a poco a poco si accostò al mausoleo, abbandonato prima dai curiosi e poi dagli operai.

Morrel si guardò intorno, e quando ebbe rivolto il viso dall’altra parte, Montecristo gli si avvicinò ancora di una decina di passi senza essere visto. Morrel, inginocchiatosi, chinò la fronte sulla pietra, abbracciò il cancello con entrambe le mani, ed esclamò: «Valentine!»

Il cuore del conte fu trafitto da queste parole; fece un passo, e battendo sulla spalla di Morrel, disse: «Eccovi, mio caro. Vi cercavo».

Montecristo si aspettava rimproveri e recriminazioni, ma si sbagliava. Morrel si voltò dalla sua parte, e con calma apparente, disse: «Vedete, pregavo!»

Lo sguardo scrutatore di Montecristo percorse il giovane dalla testa ai piedi. Dopo questo esame sembrò più tranquillo.

«Volete che vi riconduca a Parigi?» domandò.

«No, grazie.»

«Desiderate qualche cosa?»

«Lasciatemi pregare.»

Il conte s’inginocchiò senza fare obiezioni, ma non perdeva un sol gesto di Morrel; finalmente questi si alzò, e riprese la strada di Parigi senza girarsi nemmeno una volta. Maximilien scese lentamente la rue de la Roquette. Il conte rimandò a casa la carrozza, ferma all’ingresso del cimitero, e lo seguì a cento passi di distanza. Maximilien attraversò il canale, e rientrò in rue Meslay dai boulevard. Cinque minuti dopo che la porta fu chiusa da Morrel si riaprì per Montecristo.

Julie era all’ingresso del giardino e osservava con la più profonda attenzione mastro Penelon, che, prendendo la sua professione di giardiniere sul serio, lavorava intorno a un rosaio del Bengala.

«Conte di Montecristo!» gridò con quella gioia che manifestava sempre ogni membro della famiglia, quando Montecristo faceva la sua visita in rue Meslay.

«Maximilien è entrato ora, non è vero, signora?» domandò il conte.

«Credo di averlo visto passare, sì» rispose la giovane sposa, «ma vi prego, chiamate Emmanuel.»

«Scusate, signora, ma bisogna che salga immediatamente da Maximilien», replicò Montecristo. «Devo dirgli una cosa della massima importanza.»

«Andate dunque», disse, accompagnandolo col suo grazioso sorriso fino a che non fu scomparso su per le scale.

Montecristo raggiunse ben presto il secondo piano, che separava il pianterreno dall’appartamento di Maximilien. Giunto sul pianerottolo ascoltò, ma non udì nessun rumore. Come nella maggior parte delle case antiche abitate da un solo padrone, il pianerottolo era chiuso soltanto da una porta a vetri. Maximilien aveva chiuso a chiave dall’interno, ed era impossibile vedere al di là della porta, perché una tenda di seta rossa copriva i vetri.

L’ansia del conte di Montecristo si manifestò con un vivo rossore, sintomo di emozione straordinaria in quest’uomo veramente impassibile.

«Che fare?» mormorò.

E rifletté un istante.

«Suonare?» riprese. «No. Spesso il rumore di un campanello, di una visita, accelera la decisione di quelli che si trovano nello stato in cui dev’essere Maximilien in questo momento.»

Montecristo tremò dalla testa ai piedi, e siccome in lui la decisione aveva la rapidità del lampo, dette un colpo di gomito contro un cristallo della vetrata, che andò a pezzi; quindi sollevò la tenda, e vide Morrel davanti a uno scrittoio con una penna in mano, che aveva fatto uno balzo sulla sedia al rumore del cristallo rotto.

«Non è niente», disse il conte, «vi faccio le mie scuse… Sono scivolato, e scivolando ho battuto col gomito sul cristallo; dato che è rotto, ne approfitto per entrare… Non vi scomodate, non vi scomodate…»

E passando il braccio dal buco nel vetro il conte aprì la porta. Morrel si alzò evidentemente contrariato, e andò incontro a Montecristo più per impedirgli il passo che per andarlo a ricevere.

«A dir la verità», riprese Montecristo, strofinandosi il gomito, «la colpa è dei vostri domestici, i vostri pavimenti sono lisci come specchi…»

«Siete ferito, signore?» domandò freddamente Morrel.

«Non so… Ma che facevate? Scrivevate?»

«Io?»

«Avete le dita macchiate d’inchiostro.»

«Sì, è vero», rispose Morrel, «lo faccio qualche volta, anche se sono un soldato.»

Montecristo fece qualche passo nella stanza, e Maximilien fu costretto a lasciarlo passare, ma lo seguì.

«Scrivevate?» riprese Montecristo, con uno sguardo imbarazzante per la sua fermezza.

«Ho già avuto l’onore di dirvi di sì», rispose Morrel.

Il conte gettò uno sguardo intorno a sé.

«Le vostre pistole di fianco al calamaio?» osservò, mostrando a Morrel le armi sullo scrittoio.

«Parto per un viaggio», rispose con dispetto Maximilien.

«Amico mio!» disse Montecristo, con voce piena d’infinita dolcezza.

«Signore?»

«Amico mio, mio caro Maximilien, non prendete decisioni estreme, ve ne supplico.»

«Io decisioni estreme?» ripeté Morrel, stringendosi nelle spalle. «Che cosa trovate di estremo in un viaggio?»

«Maximilien», disse Montecristo, «deponiamo la maschera. Voi non mi ingannate con questa calma forzata, più di quello che io inganni voi con la mia frivola sollecitudine. Voi capite bene, non è vero, che per aver fatto ciò che ho fatto, per aver rotto un vetro, violato il segreto della camera di un amico, voi capite bene, dicevo, che per aver fatto tutto ciò che ho fatto, bisogna che avessi una reale inquietudine, o piuttosto una terribile convinzione? Morrel, voi volevate uccidervi.»

«Bah!» fece Morrel tremando. «Da dove vi vengono queste idee, signor conte?»

«Vi dico che volevate uccidervi», continuò il conte col medesimo tono di voce, «ed eccone la prova.»

E avvicinatosi allo scrittoio, sollevò il foglio bianco che il giovane aveva gettato sulla lettera incominciata, e prese la lettera. Morrel si lanciò per levargliela di mano. Ma Montecristo lo prevenne, afferrando Maximilien per un braccio, e fermandolo.

«Vedete bene che volevate uccidervi, Morrel», disse il conte, «è scritto qui!»

«E allora?» gridò Morrel, passando dalla calma apparente alla violenza. «Anche se così fosse, anche se avessi deciso di volgere contro di me la canna di quella pistola, chi me lo impedirà? Quando io dirò: tutte le mie speranze sono rovinate, il mio cuore è spezzato, la mia vita è estinta, non vi è più che lutto e disgusto intorno a me, la terra è divenuta cenere, ogni voce umana mi dilania, quando dirò: è pietà lasciarmi morire, perché se non mi lasciate morire, perderò la ragione, diventerò pazzo! Rispondete signore quando vi dirò così, quando si vedrà che lo dico con le angosce e le lacrime del cuore, mi si risponderà forse: avete torto? Mi si impedirà di non essere più infelice? Dite, signore, dite, avreste voi questo coraggio?»

«Sì, Morrel», rispose il conte, con voce la cui calma contrastava stranamente con la esaltazione del giovane, «io, sì.»

«Voi!» gridò Morrel, con espressione crescente di collera e di rimprovero, «voi che mi avete ingannato con un’assurda speranza, che mi avete trattenuto, cullato, addormentato con vane promesse, mentre avrei potuto, con qualche estrema risoluzione, salvarla o almeno vederla morire fra le mie braccia, voi che fingete tutte le risorse dell’intelligenza, tutte le potenze della materia, che rappresentate, o almeno ostentate di rappresentare sulla terra la parte della Provvidenza, e che non avete neppure il potere di dare un antidoto a una ragazza avvelenata? Ah, in verità, signore, mi fareste pietà, se non mi faceste orrore!»

«Morrel!…»

«Sì, voi mi avete detto di deporre la maschera, ebbene, siate soddisfatto, io la depongo. Sì, quando voi mi avete seguito al cimitero, io vi ho risposto, perché il mio cuore è buono, quando siete entrato qui vi ho lasciato venire… Ma poiché abusate, e venite a imporvi fin dentro la mia camera, dove mi ero ritirato come entro una tomba, poiché mi recate una nuova tortura, mentr’io credevo di averle tutte provate, conte di Montecristo, mio preteso benefattore, conte di Montecristo, salvatore universale, siate soddisfatto, voi vedrete morire il vostro amico…»

E Morrel col sorriso della follia sulle labbra, si slanciò una seconda volta verso le pistole. Montecristo, pallido come uno spettro, ma con gli occhi che mandavano lampi, tese la mano sulle armi, e disse al folle: «E io vi ripeto che non vi ucciderete!»

«Impeditemelo dunque!» replicò Morrel, con un ultimo slancio, che, come il primo, andò a infrangersi contro il braccio di ferro del conte.

«Sì, ve lo impedirò.»

«Ma chi siete dunque per arrogarvi questo tirannico diritto sopra le creature viventi e pensanti?» gridò Morrel.

«Chi sono io?» ripeté Montecristo. «Ascoltate, io sono il solo uomo al mondo che abbia il diritto di dirvi: “Io non voglio che oggi muoia il figlio del vecchio Morrel!”»

E Montecristo, maestoso, trasfigurato, sublime, avanzò a braccia incrociate verso il giovane che, palpitante suo malgrado, arretrò di un passo.

«Perché parlate di mio padre?» balbettò. «Perché mescolare il suo ricordo con ciò che mi accade?»

«Perché io salvai la vita a tuo padre, un giorno ch’egli voleva uccidersi, come oggi lo vuoi tu, perché io mandai la borsa alla tua giovane sorella, e il Pharaon al vecchio Morrel, perché io sono Edmond Dantès, che ti cullò sulle sue ginocchia quando eri bambino!»

Morrel fece ancora un passo indietro, vacillante, ansante, soffocato, oppresso, quindi a un tratto le forze lo abbandonarono, e, con un grido, cadde prosternato ai piedi di Montecristo. A un tratto si alzò, e balzando fuori della stanza, si precipitò in cima alla scala gridando con tutta la forza della sua voce: «Julie! Julie! Emmanuel! Emmanuel!»

Montecristo corse per trattenerlo, ma Maximilien si sarebbe piuttosto fatto uccidere che lasciare la maniglia della porta. Alle grida di Maximilien, Julie, Emmanuel e alcuni domestici accorsero spaventati. Morrel li prese per le mani, e, riaprendo la porta, gridò con voce soffocata dai singulti: «Ecco il salvatore, ecco il benefattore di nostro padre ecco…» Stava per dire: «Ecco Edmond Dantès!» Ma il conte lo fermò afferrandogli il braccio.

Julie prese la mano del conte, Emmanuel lo abbracciò, Morrel cadde per la seconda volta alle sue ginocchia, prostrandosi a terra. Allora l’uomo di bronzo sentì il cuore dilatarsi nel petto, e salirgli agli occhi un fuoco divoratore, chinò la testa, e pianse.

In quella stanza non si videro per alcuni istanti che lacrime, non si udirono che gemiti. Julie, appena ripresasi dalla profonda emozione provata, uscì dalla camera, scese un piano, corse in sala con una gioia immensa, e sollevò la campana di cristallo che ricopriva la borsa datale dallo sconosciuto nella casa dei viali di Meilhan, mentre Emmanuel con voce commossa diceva al conte: «Oh, signor conte, perché, sentendoci parlare così spesso del nostro ignoto benefattore, vedendoci ricordare la sua memoria con tanta riconoscenza e adorazione, perché avete aspettato fino a oggi per farvi conoscere? Oh, foste ben crudele verso di noi, e oserei dire, signor conte, verso voi stesso».

«Ascoltate, amico mio», disse il conte, «posso chiamarvi così, poiché, senza che voi lo sappiate, siete amico mio da undici anni… È stato necessario svelare questo segreto in seguito a un grande avvenimento che dovete ignorare. Dio mi è testimone che avrei desiderato tenerlo nascosto nel fondo del cuore per tutto il tempo della mia vita, ma vostro fratello Maximilien me lo ha strappato con una violenza di cui adesso, sono sicuro, è molto dispiaciuto.»

Quindi vedendo Maximilien rannicchiato in un angolo contro un sofà, restando però sempre in ginocchio, aggiunse a bassa voce: «Vegliate su di lui», stringendo in modo significativo la mano di Emmanuel.

«Perché?» domandò il giovane meravigliato.

«Non posso dirvi di più, ma vegliate su di lui.»

Emmanuel si guardò intorno nella stanza, e vide le pistole di Morrel. I suoi occhi si fissarono spaventati su quelle armi, e le indicò a Montecristo. Il conte chinò la testa. Emmanuel fece un passo verso le pistole.

«Lasciate», disse il conte.

Quindi andando da Morrel, lo prese per la mano: i moti tumultuosi che avevano per un momento scosso il cuore del giovane, avevano lasciato il posto a uno stupore profondo. Julie risalì, teneva in mano la borsa di seta, e due lacrime le brillavano sulle guance, come due gocce di rugiada mattutina.

«Ecco la reliquia», disse. «Non crediate che mi sia meno cara da quando mi è stato rivelato il salvatore.»

«Figlia mia», rispose Montecristo, arrossendo, «permettetemi di riprendere questa borsa, ora che mi conoscete, non voglio essere ricordato alla vostra memoria che per l’affetto che vi prego d’accordarmi.»

«No», disse Julie, stringendo la borsa sul cuore. «No, no, vi supplico, perché un giorno voi potreste lasciarci… Perché un giorno, disgraziatamente, ci lascerete, non è vero?»

«Avete indovinato, signora», rispose Montecristo, sorridendo. «Fra otto giorni avrò lasciata questa città, dove vivevano felici tante persone che avevano meritato la vendetta celeste, mentre mio padre moriva di fame e di dolore.»

Annunciando la sua prossima partenza, Montecristo teneva gli occhi fissi su Morrel, e notò che le parole «avrò lasciata questa città» non erano riuscite a togliere Morrel dal suo letargo. Capì allora che era necessario sostenere un’ultima lotta col dolore del suo amico, e prendendo le mani di Julie e di Emmanuel, che riunì stringendole fra le sue, disse loro con la dolce autorità di un padre: «Miei buoni amici, vi prego di lasciarmi solo con Maximilien».

Ciò diede modo a Julie di portar via quella preziosa reliquia, di cui Montecristo si era dimenticato. Trascinò con sé il marito dicendogli: «Lasciamoli».

Il conte rimase solo con Morrel, che era ancora immobile come una statua.

«Maximilien», riprese il conte, toccandogli una spalla, «ritorna finalmente a essere uomo…»

«Sì, per ricominciare a soffrire…»

Il conte s’immerse in una cupa riflessione.

«Maximilien! Maximilien! Queste idee di sconforto sono indegne di un cristiano.»

«State tranquillo, amico», disse Morrel, rialzando la testa, e mostrando al conte un sorriso d’ineffabile tristezza, «non cercherò più di uccidermi.»

«Quindi», riprese Montecristo, «niente più armi, né disperazione?»

«No, poiché ho di meglio, per guarire del mio dolore, della canna di una pistola o la punta di un coltello.»

«Povero pazzo!… Che cos’hai dunque?»

«Sarà il mio dolore a uccidermi.»

«Amico», disse Montecristo, con malinconia pari alla sua, «ascoltami. Un giorno, in un momento di disperazione, io volli uccidermi come te. Tuo padre un giorno, ugualmente disperato, ha pure voluto uccidersi. Se qualcuno avesse voluto dire a tuo padre, nel momento che volgeva la canna della pistola verso la fronte, se qualcuno avesse voluto dire a me quando rifiutavo il pane del prigioniero, che non avevo toccato da tre giorni, se qualcuno finalmente in quei supremi momenti ci avesse voluto dire: “Vivete, e verrà il giorno in cui sarete felici e benedirete la vita”, da qualsiasi parte ci fosse venuta questa voce, l’avremmo accolta col sorriso del dubbio o con l’angoscia dell’incredulità… Eppure quante volte tuo padre, abbracciandoti, non ha benedetto la vita? Quante volte io stesso…»

«Ah!» gridò Morrel, interrompendo il conte. «Voi non avevate perduto che la libertà, mio padre non aveva perduto che le ricchezze! E io? Io ho perduto Valentine.»

«Guardami, Morrel», riprese Montecristo, con quella solennità che in certe occasioni lo rendeva grande e convincente, «guardami, io non ho né lacrime agli occhi, né febbre nelle vene; eppure ti vedo soffrire, Maximilien, vedo soffrire te che amo come un figlio… Ebbene, non capisci da ciò, Morrel, che il dolore è come la vita, e che al di là c’è sempre qualche cosa di ignoto? Ora, se io ti prego, se ti ordino di vivere, Morrel, e perché sono convinto che un giorno mi ringrazierai di averti salvato la vita.»

«Mio Dio!» gridò il giovane. «Mio Dio, che cosa dite, conte? Badate! Voi forse non avete mai amato…»

«Incosciente!» rispose il conte.

«Con amore», riprese Morrel, «intendo… Vedete, io sono sempre stato un soldato, sono arrivato fino a ventinove anni senza amare, perché nessuna delle sensazioni che ho provato fin là merita di chiamarsi amore. Ebbene, a ventinove anni ho incontrato Valentine, l’amo da quasi due anni, da quasi due anni ho potuto leggere tutte le virtù di figlia e di donna scritte dalla mano stessa del Signore in quel cuore aperto per me come un libro. Conte, Valentine era per me una felicità infinita, immensa, ignota, una felicità troppo grande, troppo completa, troppo superiore a questo mondo, e questo mondo non me l’ha concessa! Senza Valentine, per me sulla terra non c’è che disperazione e desolazione.»

«Vi dico di sperare», ripeté il conte.

«Attento a ciò che dite», disse Morrel. «Mentre cercate di persuadermi, mi fate invece perdere la ragione, dato che mi fate credere che potrò rivedere Valentine.»

Il conte sorrise.

«Amico mio, padre mio», gridò Morrel esaltato, «fate attenzione! Vi ripeterò per la terza volta, poiché l’ascendente che avete mi spaventa: fate attenzione a ciò che dite, perché i miei occhi si rianimano, il mio cuore si riaccende e rinasce. State in guardia, perché mi farete credere a qualcosa di soprannaturale. Io vi obbedirei, se mi comandaste di rialzare la pietra sepolcrale della figlia della vedova, camminerei sulle onde come l’apostolo se mi faceste segno con la mano di camminare sui flutti… Fate attenzione, perché vi obbedirei!»

«Spera, amico mio», ripeté il conte.

«Ah!» gridò Morrel, ricadendo dall’altezza della sua esaltazione nell’abisso della sua tristezza, «voi vi prendete gioco di me, voi fate come quelle buone madri, o per meglio dire, come quelle madri egoiste, che calmano con parole dolci i dolori del bambino, perché sono stanche delle sue grida. No, amico mio, no, io avevo torto di dirvi di stare in guardia, no, non temete niente, io seppellirò il mio dolore con tanta cura nel più profondo del petto, lo renderò così oscuro, così segreto, che non avrete neppure il disturbo di compiangermi… Addio, amico mio, addio!»

«Al contrario», disse il conte, «da questo momento, Maximilien, tu vivrai vicino a me e con me, tu non mi lascerai più, e fra otto giorni avremo girato le spalle alla Francia.»

«E mi dite ancora di sperare?»

«Ti dico sempre di sperare, perché conosco il modo per guarirti.»

«Conte, mi rattristate ancora di più, se ciò fosse possibile. Voi pensate che io sia preso dal semplice sconforto, e di potermi consolare con un viaggio…»

E Morrel scosse la testa con sdegnosa incredulità.

«Che cosa vuoi che ti dica?» rispose Montecristo. «Io ho fede nelle mie promesse; lasciamene fare esperienza.»

«Conte, voi prolungate la mia agonia.»

«Così», disse il conte, «hai un cuore così debole da non aver la forza di donare al tuo amico qualche giorno per la prova che vuole fare? Ma tu lo sai di che cosa è capace il conte di Montecristo? Non sai che ha potere su molte leggi di natura? Sai che ha tanta fede in Dio da ottenere miracoli da colui il quale ha detto che l’uomo con la fede può sollevare una montagna? Ebbene, questo miracolo in cui io spero, aspettalo, oppure…»

«Oppure…» ripeté Morrel.

«Oppure bada, Morrel, dovrò chiamarti ingrato.»

«Conte, abbiate pietà di me.»

«Io ho talmente pietà di te, Maximilien, ascoltami bene, ho talmente pietà di te, che se tu non guarisci entro un mese, rammenta bene le mie parole, Morrel, io stesso ti metterò davanti due pistole cariche, o una tazza del veleno più fulminante, più infallibile, credimi, di quello che ha ucciso Valentine.»

«Me lo promettete?»

«Sì, perché anch’io sono uomo, anch’io ho sofferto, anch’io, come ti ho detto, volevo morire, e spesso, anche dopo che la sventura smise di perseguitarmi, anch’io ho pensato alle delizie del sonno eterno.»

«Dunque siete certo di ciò che mi promettete, conte?» gridò Morrel inebriato.

«Non solo te lo prometto, ma te lo giuro», rispose Montecristo tendendo la mano.

«Fra un mese, sul vostro onore, se non sarò consolato, mi lascerete libero di decidere della mia vita, e qualunque cosa io faccia non mi chiamerete ingrato?»

«Fra un mese, in questo stesso giorno, Maximilien. Oggi è il 5 settembre, e oggi sono dieci anni che salvai tuo padre che voleva uccidersi.»

Morrel afferrò le mani del conte e le baciò; il conte lo lasciò fare, come se capisse che questo gli era dovuto.

«Dunque», continuò Montecristo, «mi prometti di aspettare fino ad allora e di vivere?»

«Sì», gridò Morrel, «ve lo giuro!»

Montecristo strinse il giovane in un lungo e tenero abbraccio.

«E ora», disse, «da oggi tu verrai ad abitare con me. Occuperai l’appartamento di Haydée, e mia figlia sarà sostituita da mio figlio.»

«Haydée!» esclamò Morrel. «Che cosa è accaduto ad Haydée?»

«È partita stanotte.»

«Per lasciarvi?»

«Per aspettarmi… Tieniti dunque pronto per raggiungermi agli Champs-Elysées, e fammi uscire da qui senza che nessuno mi veda.»

Maximilien abbassò la testa e obbedì come un bambino.

105. La separazione

Nella casa in rue de Saint-Germain des Prés, che era stata scelta da Albert Morcerf per sé e per sua madre, il primo piano, formato da un piccolo appartamento, era affittato a un personaggio assai misterioso. Lo stesso portinaio non era mai riuscito a vederlo in viso, sia che entrasse o che uscisse, poiché d’inverno nascondeva il mento in una di quelle sciarpe rosse che portano i cocchieri delle case signorili, quando aspettano i padroni all’uscita del teatro, e d’estate si soffiava il naso proprio quando passava davanti alla loggia del portinaio. Contro tutte le abitudini in uso, questo inquilino, è il caso di dirlo, non era mai stato spiato da nessuno, poiché correva voce che sotto quello sconosciuto si nascondesse un personaggio molto potente delle alte sfere, motivo per cui furono rispettate quelle misteriose apparizioni Rientrava sempre a un orario fisso, sebbene talvolta in anticipo o in ritardo. Quasi sempre però, fosse d’inverno o d’estate, tornava nel suo appartamento verso le quattro pomeridiane, e non vi passava mai la notte. D’inverno, una domestica che aveva la cura dell’appartamento, accendeva il fuoco alle tre e mezzo, e d’estate alla stessa ora preparava il ghiaccio. Alle quattro, come abbiamo detto, entrava il misterioso personaggio.

Venti minuti dopo di lui, si fermava una carrozza davanti alla casa, e ne scendeva una donna vestita di nero e di azzurro, ma sempre avvolta in un gran velo, la quale, passando come un’ombra davanti alla guardiola del portinaio, saliva la scala senza che si sentisse scricchiolare un solo scalino sotto il suo piede leggero. Non era mai accaduto che le venisse chiesto dove andava. Il suo viso, come quello dello sconosciuto, era quindi perfettamente estraneo ai due portinai, i soli forse della capitale capaci di una simile discrezione. Non è necessario dire che non saliva più in alto del primo piano.

Picchiava leggermente a una porta secondo un modo convenuto, la porta si apriva, si chiudeva, e tutto era finito. Quando usciva, adoperava lo stesso metodo di quando entrava. La sconosciuta usciva per prima, sempre velata, e risaliva nella carrozza che alle volte partiva verso una direzione, alle volte verso un’altra; quindi, venti minuti dopo, spariva anche lo sconosciuto, uscendo nascosto dalla cravatta o dal fazzoletto.

L’indomani del giorno in cui il conte di Montecristo aveva fatto visita a Danglars, giorno in cui fu sepolta Valentine, il misterioso abitante arrivò verso le dieci di mattina, invece di arrivare, come al solito, verso le quattro pomeridiane. Quasi subito dopo, e senza osservare il solito intervallo, giunse una carrozza da piazza, e la dama velata salì rapidamente la scala. La porta si aprì e si chiuse. Ma prima ancora che la dama fosse entrata, aveva esclamato: «Oh, Lucien! Amico mio!», di modo che il portinaio, che senza volerlo aveva inteso questa esclamazione, seppe allora per la prima volta che l’inquilino si chiamava Lucien, ma siccome era un portinaio modello, si ripromise di non dirlo neppure a sua moglie.

«Ebbene, che c’è, mia cara amica?» domandò la persona, che nella sua confusione e fretta la dama velata aveva nominato davanti al portinaio. «Parlate!»

«Amico mio, posso contare su voi?»

«Certamente, lo sapete bene… Ma che cosa c’è? Il biglietto di questa mattina mi ha gettato in una terribile perplessità. Questa fretta, la calligrafia disordinata, vediamo, calmatevi, o spaventerete anche me!»

«Lucien, una cosa incredibile!» esclamò la dama, fissando su Lucien uno sguardo scrutatore. «Il signor Danglars è partito questa notte.»

«Partito? Il signor Danglars, partito? E dove è andato?»

«Lo ignoro.»

«Come, lo ignorate? È dunque partito per non ritornare più?»

«Senza dubbio! Alle dieci di sera i suoi cavalli lo hanno condotto alla barriera Charenton, dove ha trovato una carrozza di posta coi cavalli già attaccati, e vi è salito col suo cameriere, dicendo al cocchiere che andava a Fontainebleau.»

«Che dicevate dunque?»

«Aspettate, amico mio. Mi ha lasciato una lettera.»

«Una lettera?»

«Sì, leggetela.»

E la baronessa prese dalla borsa una lettera dissigillata che presentò a Debray. Questi, prima di leggere, esitò un momento, come se volesse tentare di indovinare ciò che conteneva, o piuttosto come se, qualunque fosse il contenuto, avesse preso una decisione in proposito. Ecco che cosa conteneva questo biglietto, che aveva portato un così gran turbamento nel cuore della signora Danglars:

«Signora e fedelissima sposa.»

Senza pensarci, Debray si fermò, e guardò la baronessa che arrossì fino agli occhi.

«Leggete», insistette lei.

Debray continuò:

«Quando riceverete questa lettera voi non avrete più marito. Oh, non spaventatevi più del necessario, non avrete più marito, come non avete più figlia; vale a dire che sarò su una delle trenta o quaranta strade che portano fuori dalla Francia.

Io vi debbo alcune spiegazioni e, siccome siete una donna in grado di comprenderle, ve le darò. Questa mattina mi è stato chiesto un rimborso di cinque milioni, e l’ho fatto, e un altro più o meno della stessa somma lo ha seguito quasi immediatamente; l’ho differito a domani e oggi parto per evitare questo domani, che mi sarebbe troppo increscioso affrontare. Voi capirete benissimo, signora e preziosissima sposa… Io dico capirete perché voi conoscete i miei affari quanto me, anzi meglio di me, dato che se si dovesse far sapere dov’è finita una buona metà delle mie ricchezze, quand’erano rilevanti, io ne sarei incapace, mentre voi al contrario, ne sono certo, ve la cavereste perfettamente. Poiché le donne hanno degli istinti infallibili e spiegano, con un’algebra particolare da loro inventata, anche il mistero. Io che conosco soltanto le mie cifre, non ne ho saputo più nulla dal giorno in cui queste mi hanno ingannato.

Avete qualche volta ammirato la rapidità della mia caduta, signora? Siete rimasta un po’ abbagliata da quella incandescente fusione delle mie verghe d’oro? Io ve lo confesso non vi ho visto che fuoco; speriamo che voi abbiate trovato un po’ d’oro fra quelle ceneri.

Con questa consolante speranza mi allontano, signora e prudentissima sposa, senza che la mia coscienza mi rimproveri d’abbandonarvi, a voi restano degli amici, le ceneri di cui vi parlavo, e, per colmo di felicità, la libertà che mi affretto a restituirvi.

Però, signora, è giunto il momento di inserire in questo paragrafo una parola d’intima spiegazione. Fino a che io ho sperato che v’adoperaste per il bene della nostra casa, per la fortuna di nostra figlia, ho chiuso gli occhi, ma siccome avete fatto della casa un’immensa rovina, non voglio servire alla fondazione della fortuna degli altri. Vi ho presa ricca, ma poco onorata.

Perdonatemi se vi parlo con franchezza, ma siccome probabilmente non parlo che per noi due, non vedo il perché dovrei trattenermi. Io ho aumentato la nostra fortuna, che per quindici anni non ha fatto che aumentare, fino all’istante in cui catastrofi sconosciute, inintelligibili anche per me, sono venute a prendersela, franco su franco, a rovesciar la mia fortuna, senza che io possa dire di averne avuto la minima colpa.

Voi, signora, vi siete adoperata soltanto ad accrescere la vostra, cosa nella quale siete riuscita: ne sono moralmente convinto. Vi lascio dunque come vi ho preso, ricca, ma poco onorata. Addio! Io pure, da oggi, lavorerò per conto mio. Credete a tutta la mia riconoscenza per l’esempio che mi avete dato e che io seguirò.

Vostro affezionatissimo marito barone Danglars».

La baronessa aveva tenuto gli occhi fissi su Debray durante questa lunga e penosa lettura, e aveva notato il giovane cambiare due o tre volte colore. Quando ebbe finito, ripiegò lentamente la lettera, e tornò pensieroso.

«Ebbene?» domandò la signora Danglars con un’ansia facile da comprendere.

«Ebbene, signora?» ripeté macchinalmente Debray.

«Che cosa ne pensate?»

«Oh, ve lo dico senza difficoltà, penso che il signor Danglars sia partito con dei sospetti.»

«Senza dubbio, ma non avete altro da dirmi?»

«Non vi capisco», disse Debray con freddezza glaciale.

«È partito! Partito per non ritornare più!»

«Non illudetevi, baronessa.»

«No, vi dico che non ritornerà più. Lo conosco, è un uomo irremovibile in tutte le decisioni che riguardano il suo interesse. Se mi avesse ritenuta utile per qualche cosa, mi avrebbe portato con sé. Ma mi lascia a Parigi, e questo è segno che la nostra separazione fa parte dei suoi progetti… È dunque irrevocabile, e io sono libera per sempre», aggiunse la signora Danglars, con un’espressione di preghiera.

Ma Debray, invece di rispondere, la lasciò in quell’angosciosa interrogazione dello sguardo e del pensiero.

«Non mi rispondete, signore?» domandò infine.

«Io non ho che una domanda da rivolgervi: che cosa contate di fare?»

«Ve lo stavo chiedendo io», rispose la baronessa palpitando.

«È dunque un consiglio che mi chiedete?»

«Sì, un consiglio», disse la baronessa con il cuore chiuso in una morsa.

«Allora se è questo che mi chiedete, vi consiglio di viaggiare.»

«Di viaggiare?» mormorò la signora Danglars.

«Certamente. Come ha detto Danglars, voi siete ricca e assolutamente libera. Dopo il chiasso che hanno fatto i due matrimoni andati a monte della signorina Eugénie, e la duplice sparizione di vostra figlia e di vostro marito, è assolutamente necessario che voi vi assentiate da Parigi per qualche tempo, almeno a quanto credo… Ora è necessario che tutta la società sappia che siete povera, e vi creda abbandonata, poiché non si perdonerebbe alla moglie di un banchiere fallito la ricchezza e l’opulenza della sua casa. Intanto, basta che restiate a Parigi soltanto quindici giorni, raccontando ai vostri migliori amici, che ripeteranno ovunque in che modo siete stata lasciata.

Quindi lascerete il vostro palazzo, abbandonando i gioielli e il denaro, e tutti loderanno il vostro disinteresse. Allora vi crederanno abbandonata e povera, poiché io solo conosco la vostra situazione finanziaria, e sono pronto a restituirvi i vostri conti da socio leale.»

La baronessa, pallida, atterrita, aveva ascoltato questo discorso con tanto spavento e disperazione, quanta era stata la calma e l’indifferenza mostrata da Debray nel pronunciarlo.

«Abbandonata!» ripeté. «Oh, davvero abbandonata… Sì, avete ragione signore, nessuno avrà dubbi sul mio abbandono.»

Tali furono le sole parole che questa donna altera e innamorata riuscì a dire a Debray.

«Ma ricca, anzi ricchissima», continuò Debray, estraendo dal portafogli e stendendo sul tavolo alcune carte.

La signora Danglars lo lasciò fare, essendo occupata a contenere i battiti del suo cuore, e a trattenere le lacrime che sentiva spuntare sotto le palpebre. Ma infine il sentimento della propria dignità ebbe il sopravvento, e se non riuscì a comprimere il cuore, la baronessa riuscì almeno a non versare una lacrima.

«Signora», riprese Debray, «sono circa sei mesi che siamo in società. Voi avete fornito il capitale sotto forma di centomila franchi. La nostra società fu costituita nel mese di aprile di quest’anno. In maggio cominciarono le nostre operazioni, e abbiamo guadagnato quattrocentocinquantamila franchi. In giugno l’utile è salito a novecentomila. In luglio abbiamo aggiunto un milione e settecentomila franchi. Come voi sapete fu sui titoli di Spagna.

In agosto perdemmo, all’inizio del mese, trecentomila franchi, ma il quindici dello stesso mese li abbiamo riguadagnati, e alla fine abbiamo preso la nostra rivincita, perché i nostri conti, dal giorno della nostra associazione a ieri, quando li ho chiusi, ci danno un attivo di due milioni e quattrocentomila franchi, vale a dire un milione e duecentomila franchi a testa. Ora», continuò Debray, sfogliando il suo libro dei conti, col metodo e la tranquillità di un agente di cambio, «vanno aggiunti anche ottantamila franchi di interesse per la somma rimasta fra le mie mani.»

«Ma», interruppe la baronessa, «che significano questi interessi, se la somma non è mai stata adoperata?»

«Vi chiedo scusa, signora», rispose freddamente Debray, «mi avevate dato facoltà di far fruttare questo denaro, e l’ho fatto. Ci sono dunque altri quarantamila franchi di interesse, più i centomila franchi del primo capitale di fondo, vale a dire un milione e trecentoquarantamila franchi per voi. Ora, signora», continuò Debray, «l’altro ieri ho avuto la precauzione di riscuotere tutto il vostro denaro. Come vedete si sarebbe detto che io prevedessi di essere presto chiamato a rendervi conto della vostra fortuna; il vostro denaro è qui, metà in assegni al portatore. Ho detto qui, perché siccome non ritenevo la mia casa abbastanza sicura, né i notai abbastanza discreti, e siccome le case parlano ancora più facilmente di questi, e siccome infine non avevate il diritto di comprare né possedere niente fuori della comunione coniugale, io ho custodito questa somma, che oggi forma tutta la vostra ricchezza, in una cassetta sigillata in fondo di questo armadio, e per maggior sicurezza l’ho costruita io stesso. Adesso», continuò, aprendo prima l’armadio e poi la cassetta, «adesso, signora, ecco qui ottocento biglietti da mille franchi l’uno, che somigliano, come vedete, a un grosso album rilegato in ferro; vi unisco un mazzetto di carte di credito per venticinquemila franchi, quindi una cambiale di centodiecimila franchi, eccola qui, sul mio banchiere, pagabile a vista, e siccome il mio banchiere non è il signor Danglars, la cambiale sarà pagata, potete stare tranquilla.»

La signora Danglars prese macchinalmente la cambiale a vista, le carte di credito e il mazzo di biglietti di banca. Tale enorme somma sembrava ben poca cosa, disposta là sopra il tavolo. La signora Danglars, con gli occhi asciutti, ma il petto gonfio di singhiozzi, chiuse l’astuccio nella borsa, mise le carte di credito e la cambiale a vista nel portafogli, e in piedi, pallida e muta aspettava una dolce parola che la consolasse dell’essere così ricca. Ma aspettò invano.

«Ora, signora», disse Debray, «avete un capitale magnifico, che vi dà all’incirca una rendita di settantamila franchi; somma enorme per una donna che non potrà apparire in società per almeno un anno. Questo è un privilegio per tutti i capricci che vi passeranno per la mente! Senza contare che se trovate la vostra parte insufficiente, potete ricorrere alla mia, signora, e io sono disposto a offrirvela… Oh, a titolo di prestito, beninteso, tutto ciò che possiedo, vale a dire un milione e sessantamila franchi è a vostra disposizione.»

«Grazie, signore», rispose la baronessa, «grazie… Capirete bene che mi avete dato molto più di quello che serve a una povera donna che non conta per molto tempo di riapparire in società…»

Debray fu per un momento meravigliato, ma si riprese con un gesto che voleva esprimere in modo meno educato questo pensiero: «Farete come più vi piacerà».

La signora Danglars aveva forse fino allora sperato in qualcosa, ma quando vide il gesto di noncuranza sfuggito a Debray e lo sguardo obliquo con cui aveva accompagnato quel gesto, come pure il profondo inchino e il significativo silenzio che lo seguirono, allora rialzò la testa, aprì la porta, e senza rabbia, senza agitazione, né esitazione, si lanciò giù per la scala, evitando perfino d’indirizzare un ultimo saluto a colui che la lasciava partire in quel modo.

«Bah!» disse Debray quando la baronessa fu partita. «Con tutto quello che potrebbe fare, resterà nel suo palazzo, leggerà dei romanzi e giocherà a carte, non potendo più giocare in Borsa.»

Poi riprese il suo libro dei conti, tirando una linea sulle somme che aveva pagato.

«Mi restano un milione e sessantamila franchi», disse. «Che disgrazia che la signorina Villefort sia morta! Quella ragazza faceva al caso mio, e l’avrei sposata.»

E flemmaticamente, secondo la sua abitudine, aspettò che fossero passati venti minuti dalla partenza della signora Danglars, per uscire a sua volta, tempo durante il quale non fece che fare conti, tenendo accanto a sé l’orologio.

Quel personaggio diabolico che ogni ricca fantasia avrebbe potuto creare con maggiore o minor felicità, se Lesage non avesse messo nel suo capolavoro Asmodeo, che scoperchiava le case per guardarvi dentro, avrebbe goduto di un singolare spettacolo se, nel momento in cui Debray faceva i suoi conti, avesse divelto il tetto della casa in rue de Saint-Germain des Prés. Proprio sopra quella stanza, dove Debray aveva fatto la spartizione con la signora Danglars di due milioni e mezzo, c’era un’altra stanza abitata da personaggi di nostra conoscenza, che hanno rappresentato una parte importantissima negli avvenimenti da noi raccontati, e avremo piacere di ritrovarli. In quella camera c’erano Mercedes e Albert.

In pochi giorni Mercedes era molto cambiata; non che, anche nei tempi della maggiore ricchezza, fosse attaccata al fasto, che fa sì che non si riconosca più una donna costretta a indossare abiti più semplici, e nemmeno che fosse caduta in quello stato di depressione in cui si precipita quando si è costretti alla miseria; no, Mercedes era cambiata perché il suo sguardo non brillava più, perché la sua bocca non sorrideva più, perché un perpetuo imbarazzo fermava sulle sue labbra la battuta rapida che un tempo aveva sempre pronta. Non era la povertà ad aver avvilito l’animo di Mercedes, non era la mancanza di coraggio a renderle pesante la sua povertà. Mercedes, caduta dal centro in cui viveva, perduta nella nuova sfera che si era scelta, come coloro che passano da un luogo illuminato alle tenebre, Mercedes sembrava una regina scesa dal suo palazzo a una capanna, e ridotta al puro necessario. Non si riconosceva né dai piatti d’argilla, ch’era obbligata a portare in tavola, né dal sofà che aveva sostituito il letto.

Difatti la bella catalana, o la nobile contessa, non aveva più lo sguardo fiero e il grazioso sorriso di prima, perché non vedeva che oggetti tristi. Una camera tappezzata con una di quelle carte grigio chiaro e scuro che i proprietari poveri scelgono di preferenza come le meno facili a sporcarsi, un pavimento senza tappeti, mobili che richiamavano l’attenzione costringendo a notare la modestia di quella falsa ostentazione, tutte queste cose erano in disaccordo con l’armonia necessaria a chi è stato abituato all’eleganza.

La signora Morcerf viveva là da quando aveva abbandonato il suo palazzo. La testa le girava in quell’eterno silenzio, come a un viaggiatore che si trova sull’orlo di un abisso. Accorgendosi che Albert la guardava di nascosto per capire il suo stato d’animo, si era obbligata a un monotono sorriso, che in assenza di quel fuoco dolce, del sorriso dei suoi occhi, faceva l’effetto di un semplice riverbero, cioè di una chiarezza senza colore. Dal canto suo, Albert era preoccupato, imbarazzato, impacciato da un falso lusso che gli impediva di vivere al livello della sua reale condizione: voleva uscire senza guanti, e giudicava le mani troppo bianche, voleva correre per la città a piedi, e trovava gli stivali troppo ben verniciati. Però quelle due creature nobili e intelligenti, riunite dai legami dell’amore materno e filiale, erano riuscite a intendersi senza parlare, risparmiando ogni spiegazione sugli aspetti materiali della loro vita. Albert un giorno aveva però dovuto dire a sua madre senza farla impallidire: «Madre mia, non abbiamo più denaro».

Mercedes non aveva mai conosciuto la vera miseria. Lei stessa aveva in gioventù parlato di povertà, ma non era lo stesso, perché fra bisogno e necessità, sebbene sinonimi, c’è una grandissima differenza. Al villaggio dei Catalani, Mercedes aveva bisogno di mille cose, ma non mancava mai di certe altre. Fino a che le lenze erano buone si prendeva pesce, fino a che si vendeva pesce, si acquistava il filo per fare le reti. E poi, isolata dagli amici, non avendo che un amore, totalmente estraneo ai dettagli della sua condizione, era già molto che del poco che aveva partecipasse agli altri il più generosamente possibile. Ma oggi doveva fare due parti, e con niente.

L’inverno si avvicinava. Mercedes, in quella camera nuda e già fredda, non aveva fuoco, lei, cui un calorifero riscaldava poco prima tutta la casa dalle anticamere fino al tetto; non aveva neppure un piccolo fiore, lei, il cui appartamento si poteva dire una serra calda, popolata di fiori di ogni specie! Ma aveva suo figlio!… L’esaltazione di un dovere forse esagerato li aveva sostenuti fino a quel momento. L’esaltazione è quasi un entusiasmo, e l’entusiasmo rende insensibili alle cose della terra! Ma l’entusiasmo si era sopito, ed era stato necessario scendere a poco a poco dai sogni alla realtà. Bisognava infine parlare del positivo, dopo aver esaurito l’ideale.

«Madre mia», disse Albert nello stesso momento in cui la signora Danglars scendeva la scala, «contiamo il denaro che ci resta, per favore: ho bisogno di un conto complessivo per fare i nostri progetti.»

«Totale? Niente», disse Mercedes, con un doloroso sorriso.

«Non può essere, madre mia. Nell’insieme dovremmo avere tremila franchi, e con tremila franchi potremo vivere splendidamente!»

«Ragazzo mio!» sospirò Mercedes.

«Madre mia», riprese il giovane, «purtroppo ho speso molto denaro prima di imparare a conoscerne il valore. È una somma enorme, vedete, tremila franchi, e su di essa ho ideato un prospero avvenire.»

«Voi parlate così, figlio mio», continuò la povera madre, «ma prima di tutto accetteremo questa somma di tremila franchi?» domandò Mercedes arrossendo.

«Questo è deciso, mi pare», disse Albert, con tono fermo. «Li accettiamo, tanto più che non li abbiamo, perché sono, come ben sapete, sepolti nel giardino di quella casa lungo i viali di Meilhan, a Marsiglia. Con duecento franchi», continuò Albert, «raggiungeremo Marsiglia.»

«Con duecento franchi! Siete sicuro, Albert?»

«Mi sono informato alla direzione delle diligenze, e dei battelli a vapore, e ho fatto i miei calcoli. Viaggerete per Châlon sul davanti della diligenza… Vedete, madre mia, che vi tratto da regina. Trentacinque franchi.»

Albert prese una penna e, scrivendo, disse: «Da qui a Châlon: trentacinque franchi; da Châlon a Lione, col battello a vapore: sei franchi; da Lione ad Avignone, sempre col battello a vapore: sedici franchi; da Avignone a Marsiglia: sette franchi; spese di viaggio: cinquanta franchi. Totale centoquattordici franchi. Facciamo centoventi», aggiunse Albert sorridendo. «Sono generoso, vero, madre mia?»

«Ma tu, mio povero figlio?»

«Io? E non avete visto che mi tengo ottanta franchi? Un giovane, madre mia, non ha bisogno di tanti comodi; d’altra parte so che cosa significa viaggiare.»

«In carrozza da posta, e col tuo cameriere!»

«In ogni modo, madre mia.»

«Ebbene, sia», disse Mercedes. «Ma questi duecento franchi?»

«Questi duecento franchi, eccoli, e di più, eccone altri duecento. Ho venduto il mio orologio, cento franchi, e la catenella trecento… Come sono fortunato! Catenelle che valgono tre volte l’orologio. Sempre per la famosa storia delle cose superflue. Eccoci dunque ricchi poiché invece di centoquattordici franchi che vi servivano per fare il viaggio, ne avete duecentocinquanta.»

«Ma non dobbiamo pagare qualche cosa per questa casa?»

«Trenta franchi, ma li pago io con i miei centocinquanta. E poiché non mi servono che ottanta franchi per fare il viaggio, vedete che nuoto nel lusso. Ma non è tutto: che ne dite di questo, madre mia?»

E Albert estrasse da un piccolo portafoglio con fermaglio d’oro, unico resto della sua antica eleganza o fors’anche tenero ricordo di una di quelle donne che bussavano alla sua porticina, un biglietto da mille franchi.

«Che cos’è quello?» domandò Mercedes.

«Un biglietto da mille franchi, madre mia. Oh, è perfettamente quadrato…»

«Ma da dove arrivano questi mille franchi?»

«Ascoltate, madre mia, ma non commuovetevi troppo.»

Albert baciò sua madre, e si fermò a guardarla.

«Non potete immaginare, madre mia, quanto siete bella!» disse il giovane con profondo amor filiale. «Siete la più bella, come siete la più virtuosa delle donne che ho conosciute.»

«Caro figlio!» disse Mercedes, sforzandosi invano di trattenere una lacrima che le spuntava dalla palpebra.

«A dire il vero, non vi mancava che diventare infelice per trasformare il mio amore in adorazione.»

«Io non sono infelice fino a che mi resta mio figlio», disse Mercedes, «non sarò infelice fino a che ti avrò.»

«Per sempre», disse Albert. «Ma ecco dove comincia la prova, madre mia! Voi ricordate il nostro accordo?»

«Quale?» domandò Mercedes.

«Che voi abiterete a Marsiglia, e io partirò per l’Africa, dove invece del nome che ho lasciato, renderò illustre il nome che ho assunto.»

Mercedes sospirò.

«Ebbene, madre mia, da ieri mi sono arruolato negli Spahis», aggiunse il giovane abbassando gli occhi intimidito, poiché non sapeva egli stesso quanto v’era di sublime nel fare il soldato. «Diciamo che mi sono accorto di avere un corpo, e che potevo venderlo. Mi sono venduto, come si dice», aggiunse tentando di sorridere, «più caro di quanto pensassi di valere, vale a dire per duemila franchi.»

«Per cui questi mille franchi?…» disse tremando Mercedes.

«Sono metà della somma, madre mia, l’altra la riscuoterò fra un anno.»

Mercedes alzò gli occhi al cielo con un’espressione che nessuno avrebbe saputo descrivere, e due lacrime trattenute sgorgarono per l’emozione scivolando silenziosamente lungo le guance.

«Il prezzo del sangue», mormorò.

«Sì, se sarò ucciso», disse ridendo Morcerf, «ma ti assicuro, cara madre, che, al contrario, ho intenzione di difendere vigorosamente la mia povera pelle. Non ho mai avuto tanta voglia di vivere come in questo momento.»

«Mio Dio, mio Dio!» esclamò Mercedes.

«Ma perché pensate che verrò ucciso, madre mia? Forse Lamoricière, questo Ney del Mezzogiorno, è stato ucciso? E Changarnier e Bedeau? Forse Morrel, che noi conosciamo, è stato ucciso? Pensate dunque alla vostra gioia, madre mia, quando mi vedrete tornare con un’uniforme ricamata. Con quella sarò orgoglioso.»

Mercedes sospirò, mentre cercava di sorridere: capiva che non doveva lasciar portare a suo figlio tutto il peso del sacrificio.

«Ebbene, madre mia», disse Albert, «eccovi già più di quattromila franchi assicurati; con questi quattromila franchi vivrete bene due anni.»

«Davvero?» disse Mercedes.

Queste parole sfuggite alla contessa contenevano un tale dolore che il loro vero senso non sfuggì ad Albert: sentì stringersi il cuore, e prendendo la mano della madre la strinse teneramente fra le sue.

«Sì, voi vivrete», disse.

«Io vivrò, ma tu non partirai, figlio mio, non è vero?»

«Madre mia, io partirò», ripeté Albert, con voce calma e ferma. «Mi amate troppo per permettermi di non fare niente, e inoltre ho firmato.»

«Segui la tua volontà, figlio mio, e io seguirò la volontà di Dio.»

«Non secondo la mia volontà, madre mia, ma secondo la ragione, secondo la necessità. Noi siamo due creature disperate, non è vero? Che cosa è la vita per voi oggi? Nulla. Che cosa è mai la vita per me? Oh, ben poca cosa senza di voi, madre mia, credetelo; perché senza di voi questa vita, ve lo giuro, sarebbe cessata nel giorno in cui concepii qualche dubbio sull’onore di mio padre e rinnegai il suo nome! Finalmente vivo, se mi promettete di sperare ancora e, se mi lasciate la cura della vostra futura felicità, raddoppierete la mia forza. Allora andrò laggiù a trovare il governatore d’Algeria; è uomo leale e soprattutto soldato. Gli racconterò la mia condotta, e spero, prima che si compiano sei mesi, di essere ufficiale: da ufficiale, la vostra sorte è assicurata, madre mia, perché allora avrò del denaro, e per voi e per me, e di più un nuovo nome di cui saremo orgogliosi, poiché quello sarà il vostro vero nome… Se invece sarò ucciso… ebbene, se sarò ucciso, cara madre, morirete, se lo vorrete, e allora i nostri guai avranno termine.»

«Sì», rispose Mercedes, col suo nobile ed eloquente sguardo, «hai ragione, figlio… Dimostriamo a quella società che ci osserva, che guarda le nostre azioni per giudicarci, proviamo che siamo almeno degni di essere compianti.»

«Bando a questi pensieri funebri, cara madre!» gridò il giovane. «Vi giuro che noi siamo, o almeno potremo essere felicissimi. Voi siete dotata di spirito e di rassegnazione, io sono divenuto semplice nei miei gusti, e senza passioni, almeno lo spero. Una volta in servizio, sarò ricco; una volta che voi sarete in casa del signor Dantès, sarete tranquilla. Proviamo, ve ne prego, madre mia, proviamo!»

«Sì, proviamo, figlio mio, perché tu devi vivere, perché tu devi essere felice», rispose Mercedes.

«Ecco decisa la nostra separazione», aggiunse il giovane. «Possiamo partire oggi stesso. Come vi ho detto, vi ho prenotato un posto.»

«E tu, figlio mio?»

«Io devo restare qui altri due o tre giorni… Questo sarà solo un inizio di separazione, e dobbiamo abituarci. Devo cercare alcune raccomandazioni, raccogliere informazioni sull’Algeria, e poi vi raggiungerò a Marsiglia.»

«Sia, partiamo», annuì Mercedes avvolgendosi nel solo scialle che aveva portato con sé. «Partiamo!»

Albert raccolse in fretta le sue carte, suonò per pagare i trenta franchi che doveva al padrone di casa, e offrendo il braccio a sua madre scese la scala. Qualcuno scendeva davanti a loro, e sentendo lo strascico di una veste di seta sugli scalini, si volse.

«Debray!» mormorò Albert.

«Voi… Morcerf!» si stupì il segretario del ministro fermandosi sullo scalino su cui si trovava.

La curiosità vinse in Debray il desiderio di conservare l’incognito. Gli sembrava infatti strano ritrovare in quella casa remota quel giovane, la cui disgraziata avventura aveva fatto tanto chiasso a Parigi.

«Morcerf!» ripeté Debray.

Quindi scorgendo nella penombra le forme ancora giovani di una donna velata, aggiunse con un mezzo sorriso: «Scusate! Vi lascio, Albert».

Albert capì il pensiero di Debray.

«Madre mia», disse, volgendosi a Mercedes, «è il signor Debray, segretario del ministro dell’Interno, un mio vecchio amico.»

«Come, vecchio!» balbettò Debray. «Che volete dire?»

«Dico questo, signor Debray, perché oggi non ho e non posso più avere amici. Vi ringrazio, anzi, moltissimo, di avermi voluto riconoscere, signore.»

Debray risalì i due scalini per dare un’energica stretta di mano al suo interlocutore.

«Credetemi, Albert», disse, con tutta l’emozione possibile, «sono rimasto profondamente colpito dalla disgrazia che vi ha colpito, e mi metto a vostra disposizione in tutto e per tutto.»

«Grazie, signore», disse sorridendo Albert, «ma in mezzo alla nostra disgrazia, siamo rimasti abbastanza ricchi per non avere bisogno di ricorrere a nessuno. Lasciamo Parigi, e, pagato il nostro viaggio, ci rimangono ancora cinquemila franchi.»

Il rossore salì alla fronte di Debray che aveva un milione nel portafogli, e per quanto fosse poco poetico, non poté non riflettere che la stessa casa era stata abitata poco prima da due donne, delle quali una, giustamente disonorata, se ne andava con un milione e cinquecentomila franchi, e l’altra ingiustamente colpita, ma sublime nella sua infelicità, si riteneva ricca con pochi denari. Questo paragone lo imbarazzò. Balbettò qualche parola e scese rapidamente. Ma la sera stessa aveva comprato una bella casa sul boulevard de la Madeleine, che gli dava cinquemila lire di rendita.

L’indomani, all’ora in cui Debray firmava il contratto, cioè verso le cinque pomeridiane, la signora Morcerf, dopo avere teneramente abbracciato suo figlio ed essere stata teneramente abbracciata da lui, salì sulla diligenza. Un uomo nascosto nel cortile dell’amministrazione Laffitte, dietro una di quelle finestre arcate del pianterreno che sormontano tutti gli uffici, vide partire la diligenza, e allontanarsi Albert. Si passò allora la mano sulla fronte, dicendo: «Ahimè, in che modo restituirò a questi innocenti la felicità che gli ho tolto?… Dio mi aiuterà!»

106. La fossa dei leoni

Uno dei raggi della prigione, e precisamente quello che rinchiude i detenuti più compromessi e pericolosi, si chiama il cortile di San Bernardo. I prigionieri, nel loro gergo, lo hanno soprannominato «la fossa dei leoni», probabilmente perché i detenuti che vi sono rinchiusi spesso mordono le inferriate e non di rado i carcerieri. È questa una prigione all’interno della stessa prigione; le mura sono spesse il doppio delle altre. Ogni giorno un carceriere esplora con somma cura le inferriate massicce; e si capisce, dalla statura erculea, dallo sguardo freddo del guardiano, che è stato scelto per regnare col terrore su quella gente.

Il prato di quel raggio è circondato da mura alte e grosse, illuminate obliquamente dal sole, quando si decide a penetrare in quel baratro fisico e morale. Là, su quel prato, fin dalla mattina vagano pensierosi, feroci, pallidi, come ombre, coloro che la giustizia tiene in scacco sotto la mannaia che si sta affilando, e che si vedono addossarsi, raggrupparsi contro il muro, che assorbe e conserva la maggior parte del loro calore. Essi rimangono là, parlando a due a due, il più spesso isolati, con l’occhio incessantemente puntato verso la porta, che si apre per chiamare qualcuno degli abitanti di quel lugubre soggiorno, o per vomitare in quel luogo una nuova feccia tolta dal crogiolo della società.

Il cortile di San Bernardo ha il suo parlatorio particolare: un quadrato oblungo, diviso in due parti da due inferriate, piantate parallelamente a novanta centimetri l’una dall’altra, di modo che il visitatore non possa stringere la mano del prigioniero, o passargli qualche oggetto. Questo parlatorio è scuro, umido e orribile, sotto tutti i punti di vista, particolarmente quando si pensa alle orribili confidenze che sono passate per quelle inferriate, che hanno arrugginito il ferro delle sbarre. Però quel luogo, per quanto spaventoso, è un paradiso dove vengono a riparare quegli uomini per i quali i giorni sono contati: è raro che qualcuno esca dalla «fossa dei leoni» per andare in tutt’altro luogo che non sia la barriera Saint-Jacques, o la galera, o il carcere penitenziario.

Nel cortile che abbiamo descritto e che esala una fetida umidità, passeggiava con le mani in tasca un giovane osservato con molta curiosità dagli abitanti della «fossa». Lo si sarebbe giudicato un giovane elegante dal taglio degli abiti che, benché con degli strappi, non erano usati, anzi il panno era fino e lucido, e, dov’era intatto riprendeva facilmente il suo splendore sotto le carezze del prigioniero che cercava di conservare l’abito nuovo. Usava la stessa cura nell’abbottonare una camicia di batista considerevolmente cambiata di colore dalla sua entrata in prigione; e sopra gli stivali verniciati passava e ripassava l’angolo di un fazzoletto con le iniziali ricamate e sormontate da una corona araldica.

Alcuni carcerati della «fossa dei leoni» consideravano con manifesto interesse la ricercata toilette del prigioniero.

«Guarda, ecco là il principe che si fa bello», commentò uno dei ladri.

«È bellissimo naturalmente», disse un altro. «Se avesse un pettine e un po’ di pomata, eclisserebbe tutti i signori in guanti bianchi.»

«L’abito doveva essere nuovo, e gli stivali lucidi! È un vanto per noi avere un simile coinquilino, e quei briganti di gendarmi sono stati maleducati a rovinare una toilette come quella!»

«Sembra che sia un personaggio famoso», aggiunse un altro. «Ne ha combinate delle belle… E ad alto livello…»

E l’oggetto di quella terribile ammirazione sembrava gustarsi gli elogi, o il vapore degli elogi, perché non capiva una parola. Terminata la toilette, si avvicinò alla porta della «fossa», alla quale stava appoggiato il carceriere di guardia.

«Signore», disse, «prestatemi venti franchi, li riavrete presto, con me non si corre alcun rischio. Pensate che ho parenti che hanno più milioni di quanto voi abbiate franchi… Su, venti franchi, vi prego, per comprare un paio di pantofole e una veste da camera. Soffro orribilmente a stare sempre col vestito e gli stivali… Che abito, signore, per un principe Cavalcanti!»

Il guardiano gli diede la schiena, stringendosi nelle spalle, non rise neppure di quelle parole che avrebbero fatto ridere qualunque altro, perché quell’uomo ne aveva sentiti molti altri, o piuttosto aveva sempre sentito la stessa storia.

«Signore, siete uomo senza cuore, vi farò perdere l’impiego…»

Questa parola fece il suo effetto sul guardiano, che questa volta si lasciò sfuggire un gran scoppio di risa. Allora i prigionieri gli si avvicinarono tutti facendogli cerchio intorno.

«Vi dico», continuò Andrea, «che con questa miserabile somma vorrei procurarmi un abito e una veste da camera, per poter ricevere in modo decente la visita illustre che aspetto da un momento all’altro.»

«Ha ragione! Ha ragione!» dissero i prigionieri. «Si vede bene che è un uomo come si deve!»

«E allora prestategli voi venti franchi!» ribatté il guardiano, appoggiandosi. «Forse dovreste farlo per un compagno.»

«Non sono un loro compagno», replicò orgogliosamente il giovane. «Non m’insultate, non ne avete diritto!»

«Lo sentite?» disse il guardiano, con un sinistro sorriso. «Vi ha sistemato per bene: prestategli venti franchi…»

I ladri si guardarono mormorando tra loro, e questa tempesta, provocata più dalle parole del guardiano che da quelle di Andrea, cominciò a minacciare di scoppiare intorno al prigioniero aristocratico. Il guardiano, sicuro di poter padroneggiare la situazione, quando il tumulto si fosse fatto troppo forte, li lasciava a poco a poco alterarsi per giocare un brutto tiro all’importuno scocciatore, e procurarsi così una ricreazione durante la lunga guardia della giornata. Già i ladri si avvicinavano ad Andrea, in parte dicendo: «La ciabatta! La ciabatta!», crudele operazione che consiste nel torturare con colpi, non certo di ciabatta, ma di scarpa ferrata, un compagno caduto in disgrazia. Gli altri proponevano «l’anguilla», altro genere di divertimento consistente nel riempire di sabbia, sassolini e grosse monete un fazzoletto attorcigliato, che viene scaricato sulle spalle e sulla testa del paziente.

«Frustiamo il signorino», dissero alcuni, e altri: «Il signor uomo onesto!»

Ma Andrea, volgendosi verso di loro, gli fece l’occhiolino, gonfiò con la lingua la guancia, e produsse uno schiocco, un segno convenzionale che fra i galeotti significa «silenzio».

Questo segnale gli era stato insegnato da Caderousse. Essi lo riconobbero come uno di loro. I fazzoletti ricaddero, la ciabatta ferrata rientrò nel piede del principale aguzzino, si udì qualche voce proclamare che il signore aveva ragione, che il signore poteva a modo suo essere onesto, e che i prigionieri volevano dare l’esempio di libertà di coscienza. L’ammutinamento cessò. Il guardiano ne fu talmente stupefatto, che prese Andrea per le mani e si mise a frugarlo, attribuendo a qualcosa di più concreto quel cambiamento istantaneo degli abitanti della «fossa dei leoni». Andrea si lasciò perquisire, non senza forti proteste. A un tratto una voce lo chiamò.

«Benedetto!» gridò un ispettore.

Il guardiano lasciò la sua preda.

«Mi hanno chiamato?» disse Andrea.

«In parlatorio!» disse la voce.

«Avete visto? Vengono a farmi visita?… Caro il mio signore, ora vedremo se si può trattare impunemente un Cavalcanti come un uomo qualsiasi!»

E Andrea, attraversando il cortile come un’ombra, si precipitò alla porta lasciando sbigottiti gli altri carcerati e il guardiano. Era difatti chiamato al parlatorio, cosa che stupiva lo stesso Andrea, poiché l’astuto giovanotto nel suo entrare alla «fossa», invece di avvalersi, come la gente comune, del beneficio di poter scrivere per ricevere delle visite, aveva osservato il più stoico silenzio.

«Sono evidentemente protetto da qualche potente», si diceva. «Tutto me lo prova: questa fortuna imprevista, la facilità con cui ho appianato tutti gli ostacoli, una famiglia improvvisata, un nome illustre divenuto anche il mio, l’oro che mi pioveva addosso, le alleanze, le più magnifiche promesse alle mie ambizioni. Un momentaneo oblio della mia fortuna, l’assenza del mio protettore mi hanno perduto, ma non del tutto, non per sempre! La mano si è ritirata per un momento, essa ritornerà su di me, per riafferrarmi di nuovo nel momento in cui mi crederò vicino a piombare nel precipizio. Perché rischiare un’ultima imprudenza scrivendo? Potrei seccare il mio protettore! Lui possiede due mezzi per togliermi d’impiccio: l’evasione misteriosa comprata a prezzo d’oro, o forzare la mano ai giudici per ottenere la mia assoluzione. Per parlare e agire aspettiamo di avere la certezza di essere stato abbandonato, e allora…»

Andrea aveva escogitato il suo piano con molta accortezza; il disgraziato era coraggioso nell’attacco e astuto nella difesa. La miseria della prigione in comune, le privazioni di ogni genere, le aveva sopportate; però, a poco a poco, la sua natura o piuttosto l’abitudine aveva preso il sopravvento. Andrea soffriva nel trovarsi nudo, sporco, affamato: il tempo non passava mai. Attraversava uno di questi momenti quando fu chiamato dall’ispettore in parlatorio.

Andrea sentì il cuore balzare di gioia. Era troppo presto perché quella fosse una chiamata del giudice istruttore, e troppo tardi perché fosse del direttore della prigione o del medico.

Dietro l’inferriata del parlatorio, dove Andrea fu introdotto, scoprì la figura cupa e intelligente del signor Bertuccio, il quale guardava con dolorosa meraviglia le inferriate, le porte sprangate, e l’ombra che si agitava dietro le sbarre incrociate.

«Ah!» esclamò Andrea, con un tonfo al cuore.

«Buongiorno, Benedetto», rispose Bertuccio con la sua voce chiara e sonora.

«Voi!» disse il giovane guardandosi intorno spaventato.

«Non mi conosci più?» domandò Bertuccio. «Giovane disgraziato!»

«Silenzio! Silenzio dunque!» disse Andrea che conosceva la finezza dell’udito di quelle mura. «Mio Dio, non parlate così ad alta voce!»

«Tu vorresti parlare con me», disse Bertuccio, «a tu per tu, non è vero?»

«Sì, sì!» rispose Andrea.

E Bertuccio, frugandosi in tasca, fece segno a un guardiano in piedi dietro a una vetrata. «Leggete», gli disse Bertuccio.

«Che cos’è?» domandò Andrea.

«L’ordine di condurti in una stanza, e di lasciarmi parlare liberamente con te.»

«Oh!» esclamò Andrea, balzando di gioia. E subito dopo riprendendosi si diceva: «Ancora il protettore sconosciuto! Non sono stato dimenticato! Vuole la discrezione, visto che desidera parlarmi in una stanza isolata. Sono in mio potere… Bertuccio è stato inviato dal protettore!»

Il guardiano conferì un momento con un superiore, quindi aprì le due porte sprangate, e li condusse in una cella del primo piano che si affacciava sul cortile. Andrea non stava più in sé dalla gioia. La cella era imbiancata a calce, come è d’uso nelle prigioni. Aveva un aspetto allegro che al prigioniero sembrava raggiante. Un braciere, un letto, una cassa, una tavola, erano il sontuoso mobilio. Bertuccio si sedette sulla cassa, Andrea si gettò sul letto; il guardiano si ritirò.

«Sentiamo», disse l’intendente, «che cos’hai da dirmi?»

«E voi?» domandò Andrea.

«Parla prima…»

«Oh no, siete voi che avete molte cose da dirmi, poiché siete venuto a trovarmi.»

«Ebbene, sia. Tu hai continuato il corso delle tue scelleratezze, tu hai rubato, assassinato…»

«Se mi avete fatto condurre in una cella appartata per dirmi queste cose, tanto valeva che non vi scomodaste. Le so già tutte, tuttavia ve ne sono altre che non so. Parliamo di queste, se vi va. Chi vi ha mandato?»

«Oh-oh! Andate per le spicce, signor Benedetto…»

«Vero? E dritto al punto. Soprattutto risparmiamo le parole inutili. Chi vi manda?»

«Nessuno.»

«E come sapevate che ero in prigione?»

«È già da parecchio che ti avevo riconosciuto per quell’insolente zerbinotto che guidava tanto leggiadramente un cavallo sugli Champs-Elysées.»

«Gli Champs-Elysées… Ah! “Fuoco, fuoco” si direbbe al gioco delle carte… Gli Champs-Elysées! Parliamo un poco di mio padre, volete?»

«Chi sono io, dunque?»

«Voi, mio bravo signore, voi siete mio padre adottivo… Ma non siete voi, immagino, che avete disposto in mio favore un centinaio di mille franchi, che ho divorato in quattro o cinque mesi; non siete voi che mi avete fornito un padre italiano e gentiluomo; non siete voi che mi avete fatto entrare nel gran mondo, e invitato a un certo pranzo, dove mi pare di essere ancora, ad Auteuil, con la miglior società di Parigi, con un certo regio procuratore, di cui ho avuto il grandissimo torto di non coltivare la conoscenza, che in questo momento mi sarebbe stata utile; non siete voi, infine, che mi avete fatto garanzia per uno o due milioni, quando mi è accaduto l’incidente fatale della scoperta del vaso delle rose… Sentiamo, parlate, stimabile corso, parlate…»

«Che cosa vuoi che ti dica?»

«Vi aiuterò io. Voi parlavate degli Champs-Elysées poco fa, mio degno padre putativo.»

«Ebbene?»

«Ebbene… Agli Champs-Elysées abita un signore molto, ma molto ricco.»

«In casa del quale tu hai rubato e assassinato, non è vero?»

«Credo di sì…»

«Il signor conte di Montecristo.»

«Siete voi che l’avete nominato, come dice Racine… Ebbene, devo gettarmi fra le sue braccia, soffocarlo contro il mio petto gridando “Padre mio! Padre mio!”, come dice Pixérécourt?»

«Non scherziamo», rispose gravemente Bertuccio. «E non pronunciare quel nome come fai tu.»

«E perché no?» fece Andrea, un po’ confuso dal sussiego e dal contegno del signor Bertuccio.

«Perché chi porta quel nome, è troppo favorito dal cielo per essere padre di un miserabile come voi.»

«Oh, che paroloni!»

«E vedrai che effetti se non starai in guardia.»

«Minacce! Io non temo niente… Io dirò…»

«Credi di avere a che fare con dei pigmei della tua specie?» ribatté Bertuccio, con un tono così calmo e uno sguardo così sicuro che Andrea ne fu colpito fino nel profondo. «Credi di aver a che fare coi tuoi scellerati compagni di galera, o con quegli ingenui che hai raggirato in società? Benedetto, tu sei in mani terribili: se vogliono aprirsi per soccorrerti, approfittane. Non giocare però col fulmine che per un momento depongono, ma che possono riprendere, se tenti di impedire a quelle mani il loro libero movimento.»

«Mio padre… Voglio sapere chi è mio padre…» ripeté l’ostinato. «Morirò, se occorre, ma lo saprò. Che cosa può farmi uno scandalo? Del bene… del credito… della pubblicità, come dice Beauchamp, il giornalista. Ma voi, persone dell’alta società, voi avete sempre qualcosa da perdere nello scandalo, malgrado i vostri stemmi gentilizi… Chi è mio padre?»

«Sono venuto per dirtelo.»

«Ah!» gridò Benedetto, con gli occhi scintillanti di gioia.

In quel momento si aprì la porta, e il carceriere disse a Bertuccio: «Scusate, signore, il giudice istruttore aspetta il prigioniero».

«È la fine del mio colloquio», disse Andrea al degno intendente. «Al diavolo l’importuno!»

«Ritornerò domani», disse Bertuccio.

Andrea gli tese la mano, Bertuccio tenne le sue in tasca, facendo risuonare alcune monete.

«Era quello che volevo dirvi», disse Andrea con un sorriso forzato, ma profondamente turbato dalla strana tranquillità di Bertuccio.

«Mi sono sbagliato?» disse fra sé nel salire nella carrozza nota come il cesto dell’insalata. «Vedremo!» e aggiunse, voltandosi verso Bertuccio: «A domani».

«A domani», rispose l’intendente.



107. Il giudice

Il lettore ricorderà che l’abate Busoni era rimasto solo con Noirtier nella camera ardente, e il nonno e il prete si erano eletti guardiani del corpo della ragazza. E forse le esortazioni dell’abate, forse la sua parola persuasiva avevano ridato coraggio al vecchio, poiché dal momento che aveva conferito col prete, invece della disperazione che sulle prime si era impadronita di lui, tutto rivelava in Noirtier una grande rassegnazione, una calma assai sorprendente per tutti quelli che ricordavano l’affetto profondo portata da lui a Valentine. Il signor Villefort non aveva più visto il vecchio dalla mattina del giorno funesto. Tutte le persone di servizio erano state sostituite, aveva assunto un altro cameriere per se stesso, e un altro servitore per Noirtier; due donne erano entrate al servizio della signora Villefort; tutti, perfino il portinaio e il cocchiere, erano volti nuovi per i diversi padroni di quella casa maledetta, e tuttavia avevano già capito i pessimi rapporti, già molto freddi, esistenti fra di loro.

D’altra parte, le sedute del tribunale si sarebbero aperte fra due o tre giorni, e Villefort, chiuso nel suo studio, proseguiva con febbrile attività l’istruttoria ordita contro l’assassino di Caderousse. Questo affare, come tutti quelli in cui si trovava immischiato Montecristo, aveva provocato un grande scandalo nel mondo parigino.

Le prove non erano convincenti, poiché si fondavano su alcune parole scritte da un forzato moribondo, vecchio compagno di galera dell’imputato, e che poteva avere accusato il suo compagno per odio o per vendetta. C’era però la coscienza del magistrato. Il regio procuratore aveva finito col convincersi che Benedetto era colpevole, e che doveva strappare da questa difficile vittoria uno di quei godimenti di amor proprio che soli sapevano risvegliare un poco le fibre del suo cuore di ghiaccio.

Il processo dunque s’istruiva, grazie al lavoro incessante di Villefort, che voleva con questo procedere all’apertura delle prossime sedute, per cui era stato obbligato a vivere ritirato più che mai, allo scopo di evitare di rispondere alla prodigiosa quantità di domande che gli venivano rivolte per ottenere inviti all’udienza. E poi era trascorso così poco tempo da quando la povera Valentine era stata trasportata nella tomba, il dolore della famiglia era ancora così recente, che nessuno si stupiva nel vedere il padre così rigorosamente assorto nel suo dovere, cioè nell’unica distrazione che potesse trovare al dolore.

Una sola volta, ed era l’indomani del giorno in cui Bertuccio era andato a trovare Benedetto per la seconda volta, dicevamo, Villefort aveva visto Noirtier. Fu nel momento in cui il magistrato, oppresso dalla fatica, era sceso nel giardino del suo palazzo, e cupo, curvo, sotto un implacabile pensiero, simile a Tarquinio quando tranciava con la sua bacchettina le teste dei papaveri più elevate, il signor Villefort con la canna abbatteva i lunghi e inariditi steli delle rose che si ergevano lungo i viali, come spettri dei fiori tanto brillanti nella stagione precedente.

Già più d’una volta aveva percorso in lungo tutto il giardino, ed era giunto a quel famoso cancello che immetteva nel recinto abbandonato, ritornando sempre per lo stesso viale, riprendendo sempre la passeggiata col medesimo passo e lo stesso gesto, quando i suoi occhi si spostarono meccanicamente verso la casa nella quale sentiva giocare suo figlio, tornato dal collegio per passare la domenica e il lunedì con sua madre. In quell’istante vide a una delle finestre aperte il signor Noirtier, che si era fatto trasportare nella sua sedia contro quella finestra per godere degli ultimi raggi di un sole ancora caldo, e salutava i fiori morenti e le foglie arrossate delle viti, che tappezzavano il muro e oltrepassavano la finestra.

L’occhio del vecchio era fisso sopra un punto, che Villefort localizzava imperfettamente. Quello sguardo di Noirtier era così pieno di odio, così selvaggio, così ardente d’impazienza, che il procuratore, abile nell’afferrare tutte le espressioni di quel viso, che conosceva tanto bene, cercò di seguirne la traiettoria, per vedere su che cosa o su che persona cadesse quello sguardo significativo.

Allora vide sotto un gruppo di tigli coi rami già quasi spogli, la signora Villefort che, seduta con un libro in mano, interrompeva a tratti la lettura per sorridere a suo figlio, o per rimbalzargli la palla che ostinatamente lanciava dalla sala nel giardino.

Villefort impallidì, poiché comprese che cosa voleva dire il vecchio. Noirtier guardava sempre lo stesso punto, ma, all’improvviso, il suo sguardo si portò dalla moglie al marito, e Villefort stesso dovette allora subire l’attacco di quegli occhi fulminanti, che nel cambiar persona, avevano pure cambiato linguaggio, senza tuttavia perdere nulla della loro espressione minacciosa.

La signora Villefort, estranea a tutte quelle passioni, tratteneva in quel momento la palla del figlio, facendogli cenno di andarla a prendere con un bacio, ma Edouard si fece pregare lungamente: le carezze materne non gli sembravano probabilmente una ricompensa sufficiente per il disagio che gli veniva imposto: finalmente si decise, saltò dalla finestra in mezzo a un cespuglio di eliotropi e margherite, e corse dalla signora Villefort con la fronte coperta di sudore. La signora Villefort gli asciugò la fronte, vi posò le labbra, e rimandò il ragazzo con la palla in una mano e un pugno di confetti nell’altra.

Villefort, attirato da un’invincibile malia, come l’uccello attirato dal serpente, si avvicinò alla casa, e, mentre si avvicinava, lo sguardo di Noirtier si abbassava seguendolo, con il fuoco delle sue pupille che sembrava diventare così incandescente, che Villefort se ne sentiva divorato fino in fondo del cuore. Infatti si leggeva in quello sguardo un sanguinoso rimprovero, e nello stesso tempo una terribile minaccia. Infine le pupille e gli occhi di Noirtier si alzarono al cielo come se ricordasse a suo figlio un giuramento dimenticato.

«Va bene, signore», replicò Villefort, dal fondo del cortile, «va bene! Abbiate pazienza ancora un giorno, ciò che ho detto sarà.»

Noirtier parve calmato da quelle parole, e i suoi occhi si voltarono con indifferenza da un’altra parte. Villefort si sbottonò violentemente l’abito che lo soffocava, si passò una mano livida sulla fronte e rientrò nello studio.

La notte passò fredda e tranquilla; tutti andarono a letto, e dormirono, come di consueto, in quella casa. Solo, ugualmente per consuetudine, Villefort non andò a letto quando vi andarono gli altri, e lavorò fino alle cinque del mattino, per rivedere gli ultimi interrogatori fatti il giorno innanzi dai giudici istruttori, confrontare le deposizioni dei testimoni, e fare chiarezza in tutto il suo atto d’accusa, uno dei più energici e abilmente concepiti.

Lunedì era il giorno in cui doveva aver luogo la prima seduta della Corte d’Assise. Quel giorno spuntò tetro e sinistro, e la luce azzurrastra venne a illuminare sulla carta le linee tracciate con l’inchiostro rosso.

Il magistrato, che si era per un momento addormentato, mentre la lanterna mandava le ultime scintille, si risvegliò al crepitio del lucignolo che stava per spegnersi e lo smozzicò con le dita umide e imporporate come se le avesse intinte nel sangue. Aprì la finestra: una grande striscia arancio colorava il cielo in lontananza, e tagliava in due l’ombra dei sottili pioppi che si disegnavano all’orizzonte. Nel campo del trifoglio, al di là del cancello dei castagni, un’allodola saliva verso il cielo facendo udire il suo canto mattutino. L’aria umida dell’alba inondò la testa di Villefort, e gli rinfrescò la memoria.

«Avverrà oggi», disse con uno sforzo. «Oggi l’uomo che tiene la spada della giustizia nella sua mano, dovrà colpire ovunque si trovino colpevoli.»

I suoi sguardi si portarono suo malgrado verso la finestra di Noirtier, la finestra a cui il giorno prima aveva visto il vecchio. La tenda era tirata. Eppure l’immagine di suo padre gli era talmente presente, che si voltò verso quella finestra chiusa come se fosse stata aperta, e da quell’apertura vedesse ancora il vecchio in atto di minaccia.

«Sì», mormorò, «sì, stai tranquillo!»

La testa gli cadde sul petto, e con la testa china fece il giro dello studio, infine si buttò tutto vestito sopra un sofà, meno per dormire che per ammorbidire le membra intirizzite dalla fatica e dal freddo che gli penetrava fin dentro le ossa. Poco per volta tutti i componenti della famiglia si risvegliarono: Villefort, nel suo studio, udì i successivi rumori che costituiscono, per così dire, la vita della casa, le porte aperte, il tintinnio del campanello della signora Villefort che chiamava la cameriera, i primi gridi del bambino che si alzava allegro e contento, come tutti alla sua età.

Anche Villefort suonò. Il suo nuovo cameriere entrò portandogli i giornali. Insieme ai giornali, reggeva una tazza.

«Che cosa mi portate?» domandò Villefort.

«Una tazza di cioccolata.»

«Non l’ho chiesta. Chi si prende cura di me?»

«La signora. Ha detto che il signore oggi parlerà molto nel processo dell’assassinio, e avrà bisogno di qualcosa di forte e caldo.»

E il cameriere depose sul tavolo vicino al sofà la tazza d’argento dorata, e poi uscì. Villefort guardò un istante la tazza col volto cupo, quindi d’un tratto la prese con un moto rapido, e ne bevve tutto il contenuto.

Si sarebbe detto sperasse che questa bevanda fosse stata mortale, e invocasse la morte per liberarlo da un dovere che gli comandava una cosa più difficile del morire. Quindi si alzò e passeggiò per lo studio con una specie di sorriso, che avrebbe ispirato terrore a chi l’avesse guardato. Giunse l’ora della colazione e il signor Villefort non comparve a tavola. Il cameriere rientrò nello studio.

«La signora fa avvertire il signore», disse, «che sono suonate le undici, e che l’udienza è per mezzogiorno.»

«Ebbene…» rispose Villefort. «C’è altro?»

«La signora è pronta, e vorrebbe sapere se l’accompagnerà.»

«E dove?»

«Al palazzo di giustizia.»

«Per far che?»

«La signora dice che desidera assistere a questa seduta.»

«Ah!» esclamò Villefort, con un accento quasi spaventoso. «Desidera questo?»

Il domestico arretrò d’un passo.

«Se il signore desidera uscire solo andrò a dirlo alla signora.»

Villefort restò un istante muto, accarezzandosi il mento coperto da una barba nera.

«Dite alla signora», rispose finalmente, «che desidero parlarle, e la prego di aspettarmi nelle sue stanze.»

«Sì, signore.»

«Poi ritornate per radermi e vestirmi.»

«Sì.»

Il cameriere uscì per tornare quasi subito, rase la barba a Villefort e lo aiutò a vestirsi. Quindi aggiunse: «La signora ha detto che aspettava il signore, appena avesse finito di prepararsi».

«Vado.»

E Villefort, col plico delle carte sotto il braccio e il cappello in mano, si diresse verso l’appartamento di sua moglie. Si fermò un istante sulla porta, per asciugarsi col fazzoletto il sudore che gli colava dalla fronte livida, quindi entrò.

La signora Villefort era seduta su un divano, sfogliando con impazienza dei giornali e degli opuscoli, che il giovane Edouard si divertiva a tagliare prima ancora che sua madre avesse avuto tempo di terminarne la lettura. Era pronta per uscire; il cappello l’aspettava sopra una sedia; indossava i guanti.

«Eccovi finalmente, signore», lo accolse con voce naturale e calma. «Ma Dio, come siete pallido! Avete dunque lavorato tutta la notte? Perché non siete venuto a fare colazione con noi? Allora, mi accompagnerete voi o andrò sola con Edouard?»

La signora Villefort, come si vede, aveva moltiplicato le sue domande per ottenere una risposta; ma a tutte quelle domande il signor Villefort era rimasto freddo e muto.

«Edouard», disse Villefort, fissando sul bambino uno sguardo imperativo, «andate a giocare in sala, ho bisogno di parlare a vostra madre.»

La signora Villefort vedendo quel freddo contegno, quel tono risoluto, quegli strani preliminari, fremette. Edouard aveva alzato la testa e guardato sua madre, e, vedendo che non confermava l’ordine del signor Villefort, si era rimesso a troncare la testa ai soldatini di piombo.

«Edouard!» gridò il signor Villefort così violentemente che il bambino ebbe un sussulto. «Avete capito? Andate!»

Il bambino, non abituato a quel trattamento, si alzò in piedi e impallidì; sarebbe stato difficile dire se di collera o di paura. Suo padre andò da lui, lo prese per un braccio, e lo baciò in fronte.

«Va’, figlio mio», disse, «va’.»

Edouard uscì. Il signor Villefort andò alla porta, e la chiuse a doppia mandata.

«Oh, mio Dio!» esclamò la giovane sposa guardando suo marito fin nel profondo dell’anima, e obbligandosi a un sorriso che venne troncato dall’impassibilità di Villefort. «Che cosa c’è dunque?»

«Signora, dove mettete il veleno di cui vi servite ordinariamente?» articolò chiaramente e senza preamboli il magistrato, in piedi fra la moglie e la porta.

La signora Villefort provò quello che deve provare l’allodola quando vede il falco stringere i suoi cerchi mortali sulla sua testa. Un suono rauco, smorzato, che non era né un grido, né un sospiro, sfuggì dal petto della signora Villefort, che impallidì fino a diventar livida.

«Signore», disse, «io… io non capisco.»

E siccome, in preda a un parossismo di terrore, si era alzata, si lasciò ricadere sul cuscino del divano.

«Io vi domandavo», continuò Villefort, con voce perfettamente calma, «dove nascondete il veleno con il quale avete ucciso mio suocero, il signor di Saint-Méran, mia suocera, Barrois e mia figlia Valentine.»

«Signore», gridò lei giungendo le mani, «che cosa dite?»

«Non sta a voi interrogarmi, ma rispondere!»

«Al giudice, o al marito?…» balbettò la signora Villefort.

«Al giudice, signora, al giudice!»

Era terribile vedere il pallore di quella donna, l’angoscia del suo sguardo, il fremito di tutto il suo corpo.

«Ah! Signore!» mormorò.

E non disse altro.

«Voi non rispondete, signora!» gridò il terribile inquisitore. Quindi aggiunse, con un sorriso più spaventoso della sua collera: «Però non negate!»

Lei fece un cenno.

«E non potreste negarlo», continuò Villefort, tendendo la mano verso di lei come per afferrarla in nome della giustizia. «Avete compiuto questi delitti con impudente furbizia, ma non potevate ingannare le persone troppo affezionate alle vittime e non certo disposte a essere cieche. Fin dalla morte della signora di Saint-Méran, ho saputo che c’era un avvelenatore in casa mia, il signor d’Avrigny mi aveva avvertito. Dopo la morte di Barrois, Dio mi perdoni!, i sospetti caddero su un angelo. Ma dopo la morte di Valentine non vi è più alcun dubbio per me, signora, e non solo per me, ma anche per altri… Così il vostro delitto, noto ora a due persone, sospettato da molti, diventerà pubblico. E, come vi dicevo, signora, non è più un marito che vi parla, è un giudice!»

La giovane sposa nascose il viso fra le mani.

«Signore», balbettò, «vi supplico, non credete alle apparenze.»

«Siete anche vile?» gridò Villefort, con disprezzo. «Infatti ho notato che gli avvelenatori sono sempre vili. Siete vile, voi, che avete avuto l’orribile coraggio di guardar morire davanti ai vostri occhi due vecchi e una giovane assassinati da voi?»

«Signore! Signore!»

«Siete vile», continuò Villefort, con crescente esaltazione, «voi che avete contato a uno a uno i minuti di quattro agonie? Voi che avete progettato i vostri piani infernali, rimescolato le vostre infami bevande con un’abilità e precisione metodiche! Voi, che avete così ben calcolato tutto, avete dimenticato di calcolare una cosa sola, cioè che potevate essere condotta alla rivelazione dei vostri delitti? Oh, questo è impossibile: voi vi serbate qualche veleno più dolce, sottile e mortale degli altri, per sfuggire alla punizione che vi è dovuta… Voi lo dovete averlo fatto, almeno lo spero.»

La signora Villefort si contorse le mani e cadde in ginocchio.

«Lo so bene… lo so bene», incalzò Villefort, «voi confessate… Ma la confessione fatta ai giudici, la confessione fatta nell’ultimo istante, la confessione fatta quando non si può più negare, è una confessione che non diminuisce la punizione che devono infliggere al colpevole!»

«La punizione!» gridò la signora Villefort, «la punizione! Signore, voi avete pronunciato due volte questa parola!»

«Certo! Forse che, per essere quattro volte colpevole, avevate pensato di sfuggirla? Forse che, essendo la moglie di quello che domanda la punizione degli altri colpevoli, avevate creduto di eludere la vostra punizione? No, signora, no! Chiunque sia, il patibolo aspetta l’avvelenatore, se, soprattutto, come vi dicevo, l’avvelenatore non ha avuto premura di conservare per sé qualche goccia del suo più mortale veleno.»

La signora Villefort mandò un grido selvaggio, e un ributtante e indomabile terrore invase i suoi lineamenti scomposti.

«Non temete il patibolo, signora», disse il magistrato. «Io non voglio disonorarvi, perché sarebbe come disonorare me stesso, no, al contrario, se mi avete ben inteso, dovete avere capito che non potete morire su un patibolo.»

«No, non ho capito cosa volete dire», balbettò la disgraziata completamente annichilita.

«Voglio dire che la moglie del primo magistrato della capitale non macchierà con la sua infamia un nome rimasto immacolato e non disonorerà nel medesimo tempo suo marito e suo figlio.»

«No! Oh, no!»

«Ebbene, signora, questa sarà una buona azione da parte vostra, e di questa buona azione vi ringrazio.»

«Voi mi ringraziate? E di che?»

«Di ciò che avete detto.»

«E che cosa ho detto? Io ho perso la testa, non capisco più niente!»

E si alzò coi capelli sparsi, le labbra schiumanti.

«Non avete ancora risposto, signora, alla domanda che vi ho fatto entrando qui: dove avete messo il veleno di cui abitualmente vi servite?»

La signora Villefort alzò le braccia al cielo e batté convulsamente le mani l’una contro l’altra.

«No!» gridò. «No, voi non volete questo!»

«Ciò che io non voglio, signora, è che moriate sul patibolo, mi capite?» disse Villefort.

«Oh, signore, grazia!»

«Ciò che io voglio è che sia fatta giustizia. Io sono sulla terra per punire, signora», ribadì il procuratore, con uno sguardo fiammeggiante, «e tutt’altra donna, fosse anche una regina, la manderei al carnefice! Ma con voi sarò misericordioso. Io vi ho detto: non avete, signora, conservato qualche goccia del vostro veleno più dolce, più pronto, più sicuro?»

«Perdonatemi, signore, lasciatemi vivere!»

«Siete così vile?»

«Pensate che sono vostra moglie!»

«Penso che siete un’avvelenatrice.»

«In nome del cielo…»

«No!»

«In nome dell’amore che avete avuto per me!»

«No! No!»

«In nome di nostro figlio! Ah, per nostro figlio, lasciatemi vivere!»

«No! no! No, vi dico. Se vi lascio vivere, verrà un giorno che ucciderete anche lui come tutti gli altri.»

«Io uccidere mio figlio?» gridò quella madre selvaggia, lanciandosi verso Villefort. «Io uccidere il mio Edouard!… Ah! ah! ah!»

E una risata spaventosa, una risata da demonio, da pazza chiuse la frase e si perdette in un rantolo sanguinoso. La signora Villefort era caduta ai piedi di suo marito; Villefort le si avvicinò.

«Pensateci, signora», disse, «se al mio ritorno, non sarà stata fatta giustizia, vi denuncerò io stesso, e vi arresterò con le mie proprie mani.»

Lei ascoltava ansimante, abbattuta, oppressa: solo lo sguardo viveva in lei, uno sguardo fiammeggiante.

«Siamo intesi!» disse Villefort. «Io vado alla seduta a chiedere la morte di un assassino… Se al mio ritorno vi ritrovo viva, stasera dormirete alla Conciergerie.»

La signora Villefort mandò un sospiro, i suoi nervi si spezzarono e stramazzò sul tappeto. Il regio procuratore sembrò provare un accenno di pietà, la guardò meno severamente, e chinandosi leggermente su di lei, disse: «Addio, signora».

Questo addio trafisse mortalmente il cuore della signora Villefort, che svenne. Il procuratore uscì, e, nell’uscire, chiuse la porta a doppia mandata.

108. La Corte d’Assise

Il fatto di Benedetto, come si diceva allora tanto nel palazzo di giustizia che nel gran mondo, aveva prodotto un’enorme sensazione. Uno dei frequentatori del Café de Paris, del boulevard di Gand e del Bois de Boulogne, il falso Cavalcanti, nel tempo che si era trattenuto a Parigi, e nei due o tre mesi ch’era durato il suo splendore, aveva fatto molte conoscenze. I giornali avevano riferito le diverse avventure dell’imputato nella sua vita elegante e nella sua vita di galera, e ne risultava la storia più viva e curiosa, per coloro, particolarmente, che avevano conosciuto di persona il principe Andrea Cavalcanti. Pertanto erano tutti decisi a rischiare qualunque cosa per andare a vedere sul banco degli accusati il signor Benedetto, l’assassino del suo compagno di prigione. Per molti Benedetto era, se non una vittima, almeno un errore della giustizia: si era visto a Parigi il signor Cavalcanti padre, e si aspettava di vederlo di nuovo comparire per reclamare il suo illustre rampollo. Un buon numero di persone che non avevano mai sentito parlare del famoso soprabito alla polacca col quale era piovuto dal conte di Montecristo, erano rimaste colpite dall’aria di dignità, dalla nobiltà e stile mondano mostrati dal vecchio patrizio, il quale, bisogna dirlo, sembrava un signore perfetto tutte le volte che non parlava o non faceva calcoli d’aritmetica.

In quanto allo stesso accusato, molte persone si ricordavano di averlo visto così abile, così bello, così prodigo che preferivano credere a qualche macchinazione da parte di un nemico, come se ne trova in questo mondo, in cui le grandi fortune elevano i mezzi di fare il male e il bene all’altezza della perfezione o alla potenza dell’inaudito. Tutti si precipitarono dunque alla seduta della Corte d’assise, gli uni per gustare lo spettacolo, gli altri per commentarlo. Fin dalle sette del mattino c’era ressa al cancello, e un’ora prima dell’apertura della seduta, la sala era già piena di privilegiati.

Prima dell’ingresso della corte, e qualche volta anche dopo, una sala d’udienza nei giorni dei grandi processi assomiglia molto a un salotto, in cui molte persone si riconoscono, si parlano, quando sono abbastanza vicine le une alle altre da non perdere i loro posti, o si fanno segni, quando sono separate da un numero di persone troppo grande, da avvocati e da gendarmi.

Era una di quelle magnifiche giornate di autunno che qualche volta ci compensano di un’estate corta o temporalesca: le nubi, che il signor Villefort aveva visto la mattina velare il sole nascente, si erano dissipate come per magia, e lasciavano risplendere in tutta la sua purezza uno dei più bei giorni di settembre. Beauchamp, uno dei re della stampa e che, di conseguenza, aveva il suo trono riservato ovunque, guardava con l’occhialino a destra e a sinistra. Scoprì Château-Renaud e Debray, ch’erano riusciti a guadagnarsi le buone grazie di un sergente di città, e lo avevano convinto a mettersi dietro di loro invece di star davanti, come sarebbe stato suo diritto. Il degno agente aveva fiutato la carica di segretario del ministro e il titolo di milionario; e si mostrò pieno di riguardi per i suoi nobili vicini, permise persino che andassero a fare una visita a Beauchamp, promettendo di conservare loro i posti.

«Eccoci qui a vedere il nostro amico!» esordì Beauchamp.

«Mio Dio, sì», aggiunse Debray, «questo degno principe. Che vadano al diavolo tutti i principi senza principato!»

«Un uomo che ha avuto Dante per antenato, e che risale alla Divina Commedia!»

«Nobiltà da forca», commentò flemmatico Château-Renaud.

«Sarà condannato, non è vero?» domandò Debray a Beauchamp.

«Eh, caro mio», rispose il giornalista, «mi pare che questa domanda dobbiamo farla a voi, che conoscete meglio di noi gli uffici… Avete visto il presidente all’ultima serata del ministro?»

«Sì.»

«E che cosa vi ha detto?»

«Qualcosa che vi sorprenderà.»

«Parlate presto, allora, amico mio, è tanto tempo che non discutiamo di questo argomento.»

«Mi ha detto che Benedetto, considerato poco meno di una fenice per l’astuzia, e un gigante di furbizia, non è che un borsaiolo da strapazzo e stupido, e del tutto indegno delle autopsie che si faranno dopo la sua morte per studiarne la criminalità.»

«Bah, però faceva discretamente la parte di un principe», disse Beauchamp.

«Per voi, che detestate questi disgraziati principi e siete felice ogni volta che potete trovare in loro qualcosa da biasimare. Ma non per me, che adoro la nobiltà, e che fiuto una famiglia aristocratica, qualunque sia, da vero bracco del blasone.»

«Così voi non avete mai creduto al suo principato?»

«Alla sua aria da principe, sì… al suo principato, no.»

«Non c’è male», disse Debray. «Vi assicuro però, che per tutt’altri poteva passare… L’ho constatato con i ministri.»

«Ah sì», disse Château-Renaud, «è proprio vero che i nostri ministri s’intendono di principi!»

«Vi è del buon senso in quanto dite, Château-Renaud», intervenne Beauchamp ridendo. «La frase è corta, ma bella. Vi chiedo il permesso di poterla usare nel mio articolo.»

«Prendetela, mio caro signor Beauchamp», disse Château-Renaud, «prendetela, vi regalo la frase per quanto vale.»

«Ma», disse Debray a Beauchamp, «se io ho parlato al presidente, voi dovete aver parlato al regio procuratore…»

«Impossibile! Da otto giorni il signor Villefort si tiene nascosto, ed è naturale: quella strana sequela di dispiaceri domestici, coronati dalla morte non meno strana di sua figlia…»

«Morte strana! Che dite, Beauchamp?»

«Adesso fate l’ingenuo, con la scusa di non sapere quel che riguarda la nobiltà di toga», disse Beauchamp applicando la lente all’occhio e sforzandosi di tenerla ferma col sopracciglio.

«Mio caro signore», replicò Château-Renaud, «permettetemi di dirvi che, nel tenere la lente, voi non avete l’abilità di Debray. Debray, date dunque una lezione al signor Beauchamp.»

«Guardate», disse Beauchamp, «non mi sbaglio.»

«In che cosa?»

«È lei.»

«Chi?»

«Dicevano che fosse partita.»

«La signorina Eugénie?» domandò Château-Renaud. «Sarebbe già tornata?»

«No, sua madre.»

«La signora Danglars?»

«Ma no», si stupì Château-Renaud, «è impossibile: dieci giorni dopo la fuga di sua figlia, tre giorni dopo il fallimento di suo marito?»

Debray arrossì leggermente, e seguì la direzione dello sguardo di Beauchamp.

«No», disse, «è una donna velata, una donna sconosciuta, qualche principessa straniera, forse anche la madre del principe Cavalcanti… Ma voi dicevate, o piuttosto volevate dire una cosa molto interessante, Beauchamp, mi sembra…»

«Io?»

«Sì, parlavate della strana morte di Valentine.»

«Ah sì, è vero… Perché dunque la signora Villefort non è qui?»

«Povera e cara donna!» disse Debray. «Senza dubbio sarà occupata a distillare acqua di melissa per gli ospedali, e a comporre cosmetici per sé e per le sue amiche. Voi sapete che spende per questo passatempo due o tremila scudi ogni anno, a quanto si dice? Ma veniamo al fatto, voi avete ragione, perché mai non è qui la signora Villefort? L’avrei vista con molto piacere, mi piace molto quella donna.»

«Io no», ribatté Château-Renaud, «io la detesto.»

«Perché?»

«Non lo so. Da dove viene in noi l’amore e l’odio? Io la detesto per antipatia.»

«Oh sempre d’istinto!»

«Può darsi… Ma torniamo a ciò che dicevate, Beauchamp…»

«Dicevo?…» riprese Beauchamp. «Ah sì… Non desiderate, signori, sapere perché si muore così di frequente e all’improvviso in casa Villefort?»

«Di frequente! Bella espressione», disse Château-Renaud.

«Mio caro, l’espressione, in casa del signor Villefort, è vera! Ma torniamo a lui…»

«Per quanto mi riguarda», disse Debray, «vi confesso che non perdo di vista quella casa in lutto da tre mesi, e ieri l’altro, a proposito della morte di Valentine, la signora mi diceva che avrebbe voluto saperne di più.»

«E chi è la signora?» domandò Château-Renaud.

«La moglie del ministro, perbacco!»

«Ah, scusate», disse Château-Renaud, «non vado dai ministri, lascio che ci vadano i principi.»

«Voi eravate solo bello, ma ora diventate fulminante, caro barone; abbiate pietà di noi, altrimenti ci brucerete come un novello Giove.»

«Non dirò più niente», replicò Château-Renaud. «Ma, insomma! Abbiate pietà di me, non mi rendete la pariglia.»

«Via, cerchiamo di concludere, Beauchamp, vi dicevo dunque che ieri l’altro la signora mi domandava informazioni su questo argomento, illuminatevi, e io illiminerò lei.»

«Ebbene, signori, se si muore così di frequente in casa Villefort, è perché nella casa c’è un assassino.»

I due giovani rabbrividirono, poiché più d’una volta avevano avuto la stessa idea.

«E chi è questo assassino?» domandarono all’unisono.

«Il giovane Edouard.»

Lo scoppio di risa dei due amici non sconcertò per niente l’oratore, che continuò: «Sì, signori, il giovane Edouard, criminale precoce che uccide già come il padre e la madre».

«È uno scherzo?»

«Niente affatto; ieri ho assunto uno dei domestici che si è licenziato dalla casa del signor Villefort… Ascoltate ciò che mi ha detto.»

«Sentiamo.»

«Intanto vi dirò che quel cameriere lo licenzierò presto anch’io, perché mangia enormemente per rimettersi dal digiuno che si era imposto per il terrore in quella casa… Ma lasciamo perdere. Dunque, sembra che quel caro bambino abbia messo la mano su qualche boccetta di droghe, e che le usi contro quelli che non gli piacciono. Per primo toccò al nonno e alla nonna di Saint-Méran, che gli erano antipatici e versò alcune gocce del suo elisir: tre gocce bastano; quindi toccò al bravo Barrois, vecchio servitore di nonno Noirtier, il quale sgridava spesso l’amabile monello che conoscete: l’amabile monello gli versò tre gocce del suo elisir, e fu fatta; così accadde pure alla povera Valentine, che non lo sgridava, ma di cui era geloso: versò tre gocce, e per lei come per gli altri fu questione di poche ore.»

«Ma che diavolo raccontate?» ribatté Château-Renaud.

«Sì», insistette Beauchamp, «una storia dell’altro mondo, vero?»

«È un’assurdità», disse Debray.

«Ecco», riprese Beauchamp, «ecco che già cercate delle scuse! Insomma, domandatelo al mio domestico, o piuttosto a quello che presto non sarà più il mio domestico: questa è la voce che corre in tutta la famiglia.»

«Ma dov’è questo elisir? Che cos’è?»

«Diamine! Il fanciullo lo tiene nascosto.»

«Dove l’ha preso?»

«Nel laboratorio di sua madre.»

«Sua madre ha dunque dei veleni nel suo laboratorio?»

«Cosa ne so io? Mi fate delle domande da regio procuratore. Io ripeto quanto mi è stato detto, ecco tutto. Vi cito nome e autore, non posso fare di più. Il povero diavolo non mangiava più dallo spavento.»

«È incredibile!»

«Ma no, mio caro, non è per niente incredibile: dovete aver sentito l’anno scorso di quel bimbo della rue Richelieu che si divertiva a uccidere i suoi fratelli e le sue sorelle ficcandogli spille nelle orecchie mentre dormivano. La nuova generazione è molto precoce, mio caro!»

«Amico mio», disse Château-Renaud, «scommetto che non credete a una parola di tutto ciò che ci avete raccontato… Ma non vedo il conte di Montecristo… Come mai non è qui?»

«Sarà seccato», azzardò Debray, «e poi non vorrà comparire davanti a tutti, lui, che è stato ingannato da questi Cavalcanti; gli sono stati presentati con false credenziali e si trova scoperto di un centinaio di mille franchi, ipotecati sul loro principato… A proposito, signor Château-Renaud», domandò Beauchamp, «come sta Morrel?»

«Non so cosa dirvi», rispose il gentiluomo. «Sono stato tre volte a casa sua e non l’ho mai trovato, però sua sorella non mi è sembrata inquieta, e mi ha detto, con molta gentilezza, che non lo vede da due o tre giorni, ma è certa che sta bene.»

«Ora che ci penso, il conte di Montecristo non può venire qui!» esclamò Beauchamp.

«E perché?»

«Perché è attore nel dramma.»

«Ha forse assassinato qualcuno?» domandò Debray.

«Ma no, è lui, al contrario, che hanno voluto assassinare. Sapete bene che quel degno signor Caderousse fu ucciso dal suo giovane amico Benedetto mentre usciva dalla sua casa, e che in quella casa fu trovato quel famoso panciotto contenente la lettera che andò a sconvolgere la serata del fidanzamento. Non lo vedete il famoso panciotto? È là, tutto insanguinato, come capo d’imputazione.»

«Quello?»

«Zitti, signori! Ecco la corte! Ai nostri posti…»

Infatti si sentì un gran rumore nel pretorio: il sergente richiamò energicamente i due chiacchieroni, e l’usciere, comparendo sulla soglia della sala del tribunale, gridò con quella voce acuta che gli uscieri avevano fin dal tempo di Beaumarchais: «La Corte, signori!»

109. L’atto d’accusa

I giudici si sedettero sui loro scranni attorniati dal più profondo silenzio; i giurati si sistemarono al loro posto; il signor Villefort, l’oggetto dell’attenzione e diremo quasi dell’ammirazione generale, si accomodò sulla sua sedia, volgendo uno sguardo tranquillo intorno a sé. Ognuno guardava con meraviglia quella fisionomia grave e severa, sulla cui impassibilità sembrava che i dolori personali non avessero alcun potere; si osservava con una specie di terrore quell’uomo estraneo alle emozioni dell’umanità.

«Gendarmi!»disse il presidente. «Conducete l’accusato!»

A tali parole, la pubblica attenzione si fece più intensa, e tutti gli occhi si fissarono sulla porta dalla quale doveva entrare Benedetto. Ben presto la porta si aprì, e comparve l’imputato.

L’impressione fu la stessa su tutti, e nessuno s’ingannò davanti al suo aspetto. I suoi lineamenti non tradivano quella profonda emozione che fa affluire il sangue al cuore e scolora la fronte e le guance. Le sue mani, delle quali una reggeva il cappello, l’altra era infilata nell’apertura del gilè di piqué bianco, erano fermissime; lo sguardo era calmo, anzi brillante. Appena entrato nella sala, lo sguardo del giovane scrutò rapidamente tutte le file dei giudici e degli assistenti, e si fermò a lungo sul presidente, e particolarmente sul regio procuratore. Vicino ad Andrea si mise l’avvocato difensore, avvocato nominato d’ufficio (poiché Andrea non aveva voluto occuparsi di questi dettagli, ai quali sembrava non annettere alcuna importanza). L’avvocato era un giovane dai capelli biondo chiaro, il viso rosso per un’emozione cento volte più grande di quella dell’accusato.

Il presidente chiese la lettura dell’atto d’accusa, redatto, come si sa, dalla penna abile e implacabile di Villefort. Durante la lettura, che fu lunga, e che per chiunque altro sarebbe stata esasperante, la pubblica attenzione non cessò di osservare Andrea, che ne sostenne il peso con la tranquillità d’animo di uno spartano. Mai forse Villefort era stato così conciso e così eloquente. Il delitto era rappresentato sotto i colori più vivi: gli antecedenti del prigioniero, la sua metamorfosi, il susseguirsi dei suoi atti criminali da un’età molto tenera, erano raccontati con tutto il talento che la pratica della vita e la conoscenza del cuore umano potevano suggerire a uno spirito così elevato come quello del regio procuratore. Con questo solo preambolo, Benedetto era perduto per sempre nella pubblica opinione, mentre aspettava che fosse punito concretamente dalla legge.

Andrea non prestò la minima attenzione alle successive accuse che si elevavano e ricadevano su lui: il signor Villefort, che lo esaminava spesso, e che senza dubbio, continuava gli studi psicologici che aveva avuto così spesso occasione di fare su altri accusati, il signor Villefort non poté una sola volta fargli abbassare gli occhi, per quanta fosse la fermezza e la profondità del suo sguardo.

Finalmente terminò la lettura.

«Accusato», disse il presidente, «il vostro nome e il vostro cognome?»

Andrea si alzò.

«Perdonatemi», disse con voce calma, «vedo che avete scelto un ordine di domande nel quale non posso seguirvi. Ho la pretesa, della quale darò spiegazioni in seguito, di essere un’eccezione tra i comuni accusati. Vogliate dunque, ve ne prego, permettermi di rispondere seguendo un ordine diverso; non risponderò neppure a tutto.»

Il presidente, sorpreso, guardò i giurati, che guardarono il regio procuratore. Un grande stupore si manifestò in tutta l’assemblea. Ma Andrea non parve per niente farci caso.

«La vostra età?» chiese il presidente. «Risponderete a questa domanda?»

«A questa, come alle altre, risponderò, signor presidente, ma a suo tempo.»

«La vostra età?» ripeté il magistrato.

«Ho ventun’anni, o piuttosto li avrò fra qualche giorno, essendo nato nella notte fra il 27 e il 28 di settembre del 1817.»

Il signor Villefort, che era impegnato a prendere una nota, alzò la testa nel sentire quella data.

«Dove siete nato?» continuò il presidente.

«Ad Auteuil, vicino a Parigi», rispose Benedetto.

Il signor Villefort alzò una seconda volta la testa, guardò Benedetto come se avesse visto la testa di Medusa, e divenne livido. In quanto a Benedetto, si portò graziosamente alle labbra l’angolo di un fazzoletto di fine batista.

«La vostra professione?» domandò il presidente.

«Prima ho fatto il falsario», rispose Andrea, con la massima tranquillità, «in seguito sono diventato ladro, e recentemente assassino.»

Un mormorio, o piuttosto una tempesta di indignazione e di sorpresa, scoppiò in tutte le parti della sala; i giudici stessi si guardarono stupefatti, i giurati manifestarono il più gran disgusto per quel cinismo, che proprio non si aspettavano da un uomo elegante.

Il signor Villefort si appoggiò una mano sulla fronte, che, pallida dapprima, era divenuta rossa e bollente; a un tratto si alzò, guardando intorno a sé come un uomo impazzito: gli mancava il respiro.

«Cercate qualche cosa, signor procuratore?» domandò Benedetto col sorriso più cortese.

Il signor Villefort non rispose; tornò a sedersi, o, per meglio dire, ricadde sul suo seggio.

«È forse adesso, accusato, che acconsentite a dire il vostro nome?» domandò il presidente. «L’affettazione brutale che avete mostrato nell’enumerare i vostri differenti delitti, da voi qualificati come professione, quella specie di punto d’onore cui vi attaccate, cosa di cui, in nome della morale e del rispetto dovuto all’umanità, la Corte deve biasimarvi severamente, ecco forse la ragione che vi ha fatto ritardare nel dire il vostro nome, volevate far spiccare questo nome nel mezzo dei titoli che lo precedono.»

«Sembra incredibile, signor presidente», riprese Benedetto, col tono di voce più dolce e con le maniere più gentili, «che abbiate letto così a fondo nel mio pensiero, è questo infatti lo scopo per cui vi ho pregato di invertire l’ordine delle domande.»

Lo stupore era al colmo; non c’era più nelle parole dell’accusato né sfrontatezza, né cinismo: l’uditorio emozionato presentiva un qualche fulmine rumoreggiante nel fondo di questa tetra nube.

«Ebbene», disse il presidente, «il vostro nome?»

«Non posso dirvi il mio nome, perché non lo so, ma so quello di mio padre, e posso dirvelo.»

Un doloroso offuscamento accecò Villefort; si videro cadere dalle sue guance alcune gocce di acre sudore sui fogli, che rimescolava con mano tremante e smarrita.

«Allora dite il nome di vostro padre», riprese il presidente.

Non un soffio, non un respiro turbava il silenzio di quella immensa assemblea; tutti aspettavano.

«Mio padre è un regio procuratore», rispose tranquillamente Andrea.

«Regio procuratore?» disse con stupore il presidente senza rilevare lo sconvolgimento sul volto del signor Villefort. «Regio procuratore!»

«Sì, e poiché volete sapere il suo nome, ve lo dirò: si chiama Villefort!»

L’esplosione così lungamente trattenuta dal rispetto che si porta alla giustizia, scoppiò come un tuono dal fondo di tutti i petti; la Corte stessa non pensò a reprimere quel moto della moltitudine.

Le imprecazioni, le ingiurie scagliate contro Benedetto che rimaneva impassibile, i gesti energici, il movimento dei gendarmi, il sogghigno di quella parte fangosa che, in tutte le assemblee, sale alla superficie nei momenti di commozione e di scandalo, tutto ciò durò cinque minuti, prima che i magistrati e gli uscieri fossero riusciti a ristabilire il silenzio.

In mezzo a quel rumore si sentiva la voce del presidente che gridava: «Vi prendete gioco della giustizia, accusato, e come osate offrire ai vostri concittadini lo spettacolo di una corruzione che, in un’epoca che tuttavia non lascia niente a desiderare sotto questo profilo, non aveva ancora avuto visto niente di simile?»

Dieci persone si erano premurosamente affollate attorno al regio procuratore, sconvolto sulla sua sedia, e gli offrivano consolazioni, incoraggiamenti, manifestazioni di zelo e di simpatia. La calma si era ristabilita nella sala, tranne in un punto dove si agitava e si urtava un gruppo abbastanza numeroso. Era svenuta una donna, si diceva; le avevano fatto respirare dei sali, e si stava riprendendo.

Andrea, durante tutto questo tumulto, aveva voltato la faccia sorridente verso l’assemblea, quindi appoggiandosi con una mano sul suo banco, nella posa più elegante, riprese: «Signori, non crediate che cerchi di insultare la Corte, e di fare, in presenza di questa onorevole assemblea, un inutile scandalo. Mi domandano quanti anni ho, lo dico; mi domandano dove sono nato, rispondo; mi domandano il mio nome, non posso dirlo, poiché i miei genitori mi hanno abbandonato. Ma posso, senza dirvi il mio nome, poiché non lo so, dire quello di mio padre: ora, lo ripeto, mio padre si chiama signor Villefort, e sono pronto a dimostrarlo».

Nel tono del giovane c’era una certezza, una convinzione, un’energia che ridussero il tumulto al silenzio. Gli sguardi si volsero un momento sul procuratore, che conservava, al suo posto, l’immobilità di un uomo che il fulmine ha trasformato in cadavere.

«Signori», continuò Andrea, esigendo il silenzio col gesto e con la voce, «io vi devo la prova e la spiegazione delle mie parole.»

«Ma», gridò il presidente irritato, «nell’istruttoria voi avete dichiarato di chiamarvi Benedetto, avete detto di essere orfano, e indicato la Corsica come vostra patria!»

«Nell’istruttoria ho detto ciò che mi conveniva dire, perché non volevo che s’indebolisse o si sospendesse – cosa che sarebbe certamente accaduta – il fragore solenne che volevo dare alle mie parole. Ora vi ripeto che sono nato ad Auteuil nella notte tra il 27 e il 28 settembre 1817, e che sono figlio del signor regio procuratore Villefort. Volete alcuni particolari? Sono pronto a darveli. Nacqui al primo piano della casa numero 28, rue de la Fontaine, in una camera parata di damasco rosso. Mio padre mi raccolse nelle sue braccia dicendo a mia madre che ero morto, mi avvolse in un pannolino ricamato con le lettere “Elle” ed “Enne”, e mi portò dentro una cassetta in giardino, dove mi seppellì vivo.»

Un fremito percorse tutti i presenti, quando videro che la sicurezza dell’imputato ingigantiva col crescere dello spavento del signor Villefort.

«Ve lo dico subito, signor presidente. Nel giorno in cui mio padre mi aveva sepolto, in quel giardino si era introdotto, quella notte stessa, un uomo che lo odiava mortalmente, e che lo curava da lungo tempo per compiere su di lui una vendetta corsa. L’uomo si era nascosto dietro un albero; egli vide mio padre nascondere un involto sotto terra, e lo colpì con un coltello mentre terminava questa operazione; quindi, credendo che questo involto nascondesse qualche tesoro, lo dissotterrò e mi ritrovò ancora vivo.

Quest’uomo mi portò all’ospizio dei trovatelli, dove fui iscritto sotto il numero 37. Tre mesi dopo, una donna fece il viaggio da Rogliano a Parigi per venirmi a cercare, mi reclamò come suo figlio e mi portò con sé. Ecco in che modo, sebbene nato ad Auteuil, fui allevato in Corsica.»

Ci fu un momento di silenzio, ma un silenzio profondo, che, senza l’ansia che si vedeva respirare da mille petti, la sala sarebbe sembrata vuota.

«Continuate», disse la voce del presidente.

«Certamente», riprese Benedetto, «potevo essere felice presso quella brava gente, che mi adorava, ma la mia natura, non so se perversa sin dalla nascita, o divenuta criminale in questa società di gente violenta, o se col passare degli anni inasprita e corrotta, la mia natura, dicevo, alla fine la vinse su tutte le virtù che la mia madre adottiva cercava di insegnarmi: crebbi nel male, e giunsi a commettere delitti. Un giorno in cui maledicevo la provvidenza per avermi fatto, dicevo, così perverso e precipitato in una condizione così abbietta, mio padre adottivo mi disse: “Non bestemmiare, disgraziato! Poiché Dio ti ha dato alla luce senza collera, il delitto viene da tuo padre, e non da te, né da altri, da tuo padre che ti aveva destinato all’inferno se tu morivi, alla miseria se un miracolo ti conservava in vita”. Da quel giorno cessai di bestemmiare, ma maledii mio padre! Ecco perché ho fatto qui sentire le parole che voi, signor presidente, mi avete rimproverato, ecco perché ho provocato lo scandalo di cui freme ancora quest’assemblea. Se questo è un delitto di più punitemi, ma se vi ho convinto che dal giorno in cui nacqui il mio destino fu fatale, doloroso, lamentevole, amaro, compiangetemi!»

«Ma vostra madre?» domandò il presidente.

«Mia madre mi credeva morto: mia madre non era colpevole. Non ho voluto sapere il nome di mia madre, non la conosco.»

In quel momento un grido acuto, che terminò in un singulto, si levò dal gruppo che circondava, come abbiamo detto, una donna che, assalita da violenti tremiti, fu portata fuori dal pretorio. Nel trasportarla, il fitto velo che nascondeva il suo viso si scostò, e si riconobbe la signora Danglars.

Malgrado l’oppressione dei sensi snervati, e il ronzio che gli fremeva alle orecchie, malgrado una specie di follia che gli sconvolgeva il cervello, Villefort la vide, e si alzò.

«Le prove! Le prove!» disse il presidente. «Accusato, ricordate che questo tessuto d’orrori ha bisogno di essere sostenuto con le prove più certe.»

«Le prove?» ripeté Benedetto ridendo. «Volete le prove?»

«Sì!»

«Ebbene, guardate il signor Villefort, e poi domandatemi ancora delle prove.»

Tutti si voltarono verso il regio procuratore, che sotto il peso di quei mille sguardi su di lui, avanzò vacillando nell’aula del tribunale, coi capelli in disordine e il viso livido. Nell’assemblea salì un lungo mormorio di attonito stupore.

«Mi domandano delle prove, padre mio», disse Benedetto a Villefort, «volete che le dia?»

«No, no…» balbettò Villefort, con voce soffocata, «no, è inutile.»

«Come inutile?» gridò il presidente. «Che cosa intendete dire?»

«Intendo dire», gridò a sua volta il regio procuratore, «che mi dibatterei invano sotto la stretta mortale che mi schiaccia. Signori, io sono, lo riconosco, colpito dalla mano d’un Dio vendicatore. Non chiedete prove, non ve ne occorrono: tutto ciò che ha detto questo giovane, è vero.»

Un silenzio cupo e pesante come quello che precede le catastrofi della natura, avvolse in un manto di piombo tutti i presenti.

«Come, signor Villefort», si stupì il presidente, «non state forse cedendo alla follia? Siete certo di rispondere delle vostre facoltà mentali? Si capirebbe facilmente come un’accusa così assurda, così imprevista, terribile, abbia potuto turbarvi lo spirito… Su, vediamo, riprendetevi…»

Il procuratore scosse la testa. I suoi denti battevano con violenza, come nell’uomo divorato dalla febbre, e tuttavia era d’un pallore mortale.

«Io godo di tutte le mie facoltà, signore», replicò, «solo il corpo soffre. Io mi riconosco colpevole di tutto ciò che questo giovane ha detto contro di me, e, fin da questo momento, mi metto a disposizione del regio procuratore mio successore.»

E pronunciando queste parole, con voce quasi spenta, il signor Villefort si diresse vacillando verso la porta, che con un gesto abituale gli venne aperta dall’usciere di servizio. L’assemblea rimase muta e costernata da tale rivelazione, che offriva un finale così terribile alle diverse peripezie che da quindici giorni agitavano l’alta società parigina.

«Amici», disse Beauchamp, «provino ora a dirci che il dramma non esiste in natura!»

«Parola mia», ribatté Château-Renaud, «preferirei finirla come il signor Morcerf: un colpo di pistola mi sembrerebbe niente dopo una simile catastrofe.»

«E poi, esso uccide», disse Beauchamp.

«E io che per un momento avevo avuto l’idea di sposare sua figlia!» disse Debray. «Mio Dio, ha fatto bene a morire la povera fanciulla!»

«La seduta è finita, signori», annunciò il presidente, «e la causa viene rinviata alla prossima sessione. Il processo deve essere istruito di nuovo, e affidato a un altro magistrato.»

Andrea, sempre tranquillo e molto più interessante, lasciò la sala scortato dai gendarmi, che gli usarono involontariamente dei riguardi.

«Infine che ne pensate voi di tutto ciò, mio brav’uomo?» domandò Debray al sergente facendogli scivolare un luigi in mano.

«Gli daranno le circostanze attenuanti!» rispose questi.

110. Espiazione

Il signor Villefort aveva visto aprirsi al suo passaggio le file della folla, per quanto compatta. Le grandi disgrazie sono talmente venerabili, che non vi è esempio, anche nei tempi più sfortunati, che il primo gesto della folla riunita non sia di simpatia per una grande catastrofe. Può anche accadere che in una sommossa siano assassinate molte persone odiate, ma è ben difficile che un disgraziato, per quanto colpevole, sia insultato dagli uomini che assistono alla sua sentenza di morte. Villefort passò dunque in mezzo agli spettatori, alle guardie, agli agenti del palazzo di giustizia, e si allontanò, riconosciuto colpevole dalla sua propria confessione ma protetto dal suo dolore.

Vi sono situazioni che gli uomini afferrano per istinto, ma che non si possono commentare con la parola: il più gran poeta, in questo caso, è colui che manda il grido veemente e più naturale. La folla considera quel grido come un intero racconto, e ha ragione di accontentarsi, e più ragione ancora di trovarlo sublime, quando è vero. Del resto, sarebbe difficile dire lo stato di stordimento in cui si trovava Villefort uscendo dal palazzo di giustizia, e descrivere quella febbre che sconvolgevano tutte le sue fibre. Villefort si trascinò lungo i corridoi, guidato soltanto dall’abitudine; si tolse la toga magistrale, non perché pensasse di lasciarla, ma perché era un fardello opprimente, una camicia di Nesso feconda di torture: giunse vacillando fino al cortile del Delfino, dove riconobbe la sua carrozza, risvegliò il cocchiere aprendola da sé, e si lasciò cadere sui cuscini mostrando col dito la direzione del Faubourg Saint-Honoré.

Il cocchiere partì. Tutto il peso della sua crollata fortuna veniva a ricadergli sulla testa; quel peso lo schiacciava. Non sapeva le conseguenze, non le aveva misurate, le sentiva; non ragionava sul codice, come fa il freddo assassino che commenta un articolo sconosciuto: aveva Dio in fondo al cuore.

«Dio», mormorava, senza neppure sapere che cosa diceva, «Dio! Dio!»

E non vedeva che Dio dietro la frana che si era formata. La carrozza era partita di gran carriera. Villefort, nell’agitarsi sul cuscino, sentì qualche cosa che gli dava fastidio. Frugò con la mano: era un ventaglio dimenticato dalla signora Villefort fra il cuscino e lo schienale della carrozza; quel ventaglio risvegliò in lui un ricordo, e quel ricordo fu come un lampo in mezzo alla notte. Villefort pensò a sua moglie…

«Oh!» gridò come se un ferro rovente gli avesse trapassato il cuore.

Infatti, da un’ora non aveva più sotto gli occhi che una prospettiva alla sua miseria, ed ecco che d’un tratto se ne offriva al suo spirito un’altra non meno terribile: la moglie! Egli aveva fatto con lei la parte di giudice inesorabile, l’aveva condannata a morte, e lei colpita dal terrore, oppressa dai rimorsi, inabissata sotto l’onta che le aveva descritto con l’eloquenza della sua irreprensibile virtù, lei povera donna, debole e senza difesa contro un potere assoluto e supremo, forse si preparava in quel momento stessi a morire! Era trascorsa un’ora dal momento della sua condanna, senza dubbio in quel momento ripassava tutti i suoi delitti nella sua memoria, domandava grazia a Dio, scriveva per implorare in ginocchio il perdono dal suo virtuoso consorte, perdono che comprava con la sua morte. Villefort mandò un secondo ruggito di dolore e di rabbia.

«Ah!» gridò. «Questa donna è diventata rea solo perché mi ha amato. Io traspiro il delitto, e lei ha contratto il delitto come si contrae il tifo, come si contrae il colera, come si contrae la peste, e io la punisco!… Io oso dirle: pentitevi e morite… Io… Oh, no! No! Vivrà… mi seguirà… Noi fuggiremo, lasceremo la Francia dietro di noi finché la terra potrà accoglierci… Io le parlavo di patibolo!… Gran Dio! Come ho osato pronunciare questa parola? Il patibolo aspetta anche me!… Noi fuggiremo… Sì, io mi confesserò a lei, sì, tutti i giorni le dirò, umiliandomi, che io pure ho commesso un delitto… Oh, alleanza della tigre col serpente! Oh, degna moglie di un marito quale sono io!… È necessario che viva, è necessario che la mia infamia faccia impallidire la sua!»

E Villefort rompendo un cristallo davanti, gridò: «Presto, più presto!» con voce che fece trasalire il cocchiere sul sedile.

I cavalli, percossi dallo scudiscio, volarono fino a casa.

«Sì, sì», ripeteva Villefort, avvicinandosi a casa, «sì, bisogna che questa donna viva, bisogna che questa donna si penta, che allevi mio figlio, il povero mio figlio, il solo, con l’indistruttibile vecchio, che sia sopravvissuto alla distruzione della mia famiglia. Lei lo ama, per lui ha fatto tutto. Non bisogna mai disperare del cuore di una madre che ama suo figlio; si pentirà: nessuno saprà che era colpevole. Questi delitti commessi in casa mia e di cui la società già s’inquieta, saranno dimenticati col tempo, o, se qualche nemico se ne ricorderà, ebbene, li prenderò su di me, tra i miei delitti. Uno, due o tre di più, che importa! Mia moglie fuggirà portando con sé dell’oro, e soprattutto portando mio figlio, lontano dall’abisso in cui mi sembra che il mondo debba cadere con me; lei vivrà, sarà ancora felice, poiché tutto il suo amore è riposto in suo figlio, e suo figlio non la lascerà. Io avrò fatta una buona azione, e questo mi alleggerisce il cuore.»

E il regio procuratore respirò più liberamente, come non aveva fatto da lungo tempo. La carrozza si fermò nel cortile del palazzo. Villefort si slanciò fuori e salì la scala, vide i domestici sorpresi nel vederlo tornare così presto. Passò davanti alla camera di Noirtier, e, dalla porta semiaperta, vide due ombre, ma non s’interessò di sapere chi fosse la persona che stava con suo padre: la sua inquietudine lo attirava altrove.

«Meno male», disse, salendo la scaletta che conduceva al pianerottolo dell’appartamento di sua moglie e alla camera vuota di Valentine, «qui nulla è cambiato.»

Prima di tutto chiuse la porta del pianerottolo.

«Nessuno deve disturbarci», disse, «devo parlare liberamente, accusarmi davanti a lei, dirle tutto…»

Si avvicinò alla porta, che si aprì.

«Non è chiusa! Bene, benissimo», mormorò.

Ed entrò nel salotto dove tutte le sere si preparava un letto per Edouard, poiché, sebbene frequentasse il collegio, il ragazzo tornava tutte le sere; sua madre non aveva mai voluto separarsi da lui di notte.

Girò lo sguardo sul salotto.

«Nessuno!» disse. «È certamente nella sua camera da letto.»

Si slanciò verso la porta. C’era il catenaccio. Si fermò tremando.

«Héloïse!» gridò.

Gli sembrò di sentire muovere un mobile.

«Héloïse!» ripeté.

«Chi è?» domandò una voce.

E quella voce gli parve più debole del solito.

«Aprite, aprite!» gridò Villefort. «Sono io!»

Ma malgrado la richiesta e il tono angosciato con cui era stata fatta, la porta non si aprì. Villefort la sfondò con un calcio. Sulla soglia della stanza che immetteva nel suo studio, la signora Villefort era in piedi, pallida, coi lineamenti contratti, e gli occhi spaventosamente immobili.

«Héloïse! Héloïse» gridò. «Che cosa avete? Parlate!»

La donna tese verso di lui la mano rigida e livida.

«Tutto è fatto, signore», disse, con un rantolo che sembrava squarciarle la gola. «Che volete dunque di più?»

E cadde sul tappeto. Villefort corse da lei, le afferrò la mano. Stringeva convulsamente una boccetta di cristallo col turacciolo d’oro. La signora Villefort era morta. Villefort, inorridito, arretrò fino sulla soglia della camera e guardò il cadavere.

«Mio figlio!» gridò a un tratto. «Dov’è mio figlio? Edouard! Edouard!»

E si precipitò fuori dall’appartamento gridando «Edouard! Edouard!» con tale angoscia, che i domestici accorsero.

«Mio figlio! Dov’è mio figlio?» domandò Villefort. «Che venga allontanato dalla casa, non veda…»

«Il signor Edouard non è dabbasso, signore», rispose il cameriere.

«Sicuramente sta giocando in giardino… Cercate! Cercate!»

«No, signore. La signora ha chiamato suo figlio circa mezz’ora fa, e il signorino Edouard è salito nelle camere della signora, da dove non è più uscito.»

Un sudore glaciale colse la fronte di Villefort, le gambe gli tremarono, le idee cominciarono a confondersi nella sua testa, come un congegno di rotelle e molle di un orologio che si rompe.

«Dalla signora», mormorò, «dalla signora!»

E tornò lentamente indietro, asciugandosi la fronte con una mano, appoggiandosi con l’altra alla parete. Rientrando nella camera dovette rivedere il corpo della disgraziata consorte. Per chiamare Edouard, doveva alzare la voce, e forse urlare in quell’appartamento divenuto un sepolcro: parlare era violare il silenzio della tomba. Villefort aveva la lingua paralizzata.

«Edouard, Edouard!» balbettò.

Il bambino non rispondeva. Il cadavere della signora Villefort era steso di traverso sulla porta dello studio nel quale si trovava sicuramente Edouard. Quel cadavere sembrava vegliare sulla soglia con gli occhi fissi e aperti, con una spaventosa e misteriosa ironia sulle labbra. Dietro il cadavere, la tenda rialzata lasciava scorgere una parte dello studio, un pianoforte e l’estremità di un divano di seta azzurro. Villefort avanzò tre o quattro passi, e sul divano scoprì suo figlio, che senza dubbio dormiva.

Il disgraziato ebbe un lampo di gioia, un raggio di pura luce scese in quell’inferno nel quale si dibatteva. Non si trattava più dunque che di passare sopra il cadavere, entrare nello studio, prendere il bambino tra le braccia, e fuggire con lui lontano, molto lontano. Villefort non era più quell’essere la cui squisita cultura ne faceva un uomo civilizzato: era una tigre ferita a morte che lascia i denti nella sua ultima ferita: non aveva più paura dei pregiudizi, ma dei fantasmi.

Fece un balzo e scavalcò il cadavere, come si fosse trattato di oltrepassare un braciere ardente. Prese il bambino fra le braccia, lo strinse, lo scosse, lo chiamò; il bambino non rispose: portò le aride labbra sulle guance, le guance erano livide e ghiacciate; palpò le sue membra, erano irrigidite; appoggiò la mano sul suo cuore, quel cuore non batteva più. Il bambino era morto.

Un foglio piegato cadde dal petto di Edouard.

Villefort si lasciò cadere sulle ginocchia; il bambino sfuggì dalle braccia inerti, e rotolò a lato della madre. Villefort raccolse il foglio, riconobbe la scrittura di sua moglie, e lesse avidamente.

Ecco ciò che conteneva: «Voi sapete che ero una madre affettuosa, e infatti fu per mio figlio che commisi il delitto! Una madre non parte senza suo figlio!» Villefort non riusciva a credere a ciò che vedeva, si trascinò verso il corpo di Edouard, e lo esaminò ancora una volta. Quindi un gemito straziante gli sfuggì dal petto: «Dio!» gridò, «sempre Dio!» Quelle due vittime lo spaventavano, si sentiva inorridire per la terribile visione dei due cadaveri e la macabra solitudine della stanza.

Fino ad allora era sostenuto dalla rabbia, da quell’immensa facoltà degli uomini forti, dalla disperazione, da quell’impeto irresistibile dell’agonia che spingeva i Titani a dar la scalata al cielo, che spingeva Aiace a mostrare il pugno agli Dei.

Villefort curvò la testa sotto il peso dei dolori, si rialzò sulle ginocchia, scosse i capelli umidi di sudore, irti per lo spavento, e colui che non aveva mai avuto pietà di nessuno, andò a cercare il suo vecchio padre per avere qualcuno a cui affidare la propria infelicità, qualcuno presso cui piangere. Scese la scaletta che conosciamo, ed entrò nella camera di Noirtier.

Questi pareva ascoltasse con tutta attenzione l’abate Busoni, sempre calmo e freddo come di consueto. Villefort, riconoscendo l’abate, portò la mano alla fronte. Il passato ritornò come uno di quei flutti la cui collera solleva più schiuma degli altri: si sovvenne della visita che aveva fatto all’abate alcuni giorni dopo il pranzo d’Auteuil, e della visita che aveva fatto l’abate il giorno stesso della morte di Valentine.

«Voi qui, signore!» esclamò. «Voi dunque non apparite che per scortare la morte?»

Busoni s’alzò, e vedendo l’alterazione sul viso del magistrato, il fuoco dei suoi sguardi, capì, o credette di capire che la scena in corte d’assise era già avvenuta. Ignorava il resto.

«Sono venuto una volta per pregare sul corpo di vostra figlia», rispose Busoni.

«E oggi che venite a fare?»

«Vengo a dirvi che avete pagato abbastanza il vostro debito, e che da questo momento pregherò Iddio, affinché egli pure abbia clemenza come me.»

«Mio Dio!» esclamò Villefort, arretrando spaventato. «Questa non è la voce dell’abate Busoni.»

«No!»

L’abate si strappò la falsa tonsura, scosse la testa, e i suoi lunghi capelli neri, non più compressi, ricaddero sulle spalle contornando il pallido viso.

«Questo è il viso del signore di Montecristo!» gridò Villefort con gli occhi stravolti.

«Neppure, signor procuratore, cercate meglio e più lontano nel tempo.»

«Questa voce! Questa voce! Dove mai l’ho sentita?»

«L’avete sentita a Marsiglia, ventitré anni fa, il giorno del vostro fidanzamento con la signorina di Saint-Méran. Cercate nei vostri registri.»

«Voi non siete Busoni? Non siete Montecristo? Mio Dio, voi siete quel nemico nascosto, implacabile, mortale!… Io senza dubbio ho commesso un delitto contro di voi a Marsiglia… Oh, me disgraziato!»

«Sì, avete memoria», disse il conte incrociando le braccia sul petto. «Cercate, cercate…»

«Ma che cosa vi ho dunque fatto?» gridò Villefort, il cui spirito già vacillava tra la ragione e la follia in una caligine che non era più né sogno né veglia. «Che vi ho dunque fatto? Dite! Parlate!»

«Voi mi avete condannato a una morte lenta e avete ucciso mio padre, mi avete tolto l’amore con la libertà, e la felicità con l’amore!»

«Chi siete? Chi siete dunque, mio Dio?»

«Io sono lo spettro d’un disgraziato che avete sepolto nelle carceri del castello d’If. A questo spettro, sorto finalmente dalla tomba, il cielo ha messo la maschera del conte di Montecristo, e lo ha ricoperto di diamanti e d’oro perché solo oggi lo riconosciate.»

«Ah, ti riconosco, ti riconosco!» gemette il regio procuratore. «Tu sei…»

«Io sono Edmond Dantès!»

«Tu sei Edmond Dantès!» gridò il procuratore afferrando il conte per la mano. «Allora vieni!»

E lo trascinò su per la scala, lungo la quale Montecristo attonito lo seguì, ignorando egli stesso dove il procuratore lo conducesse, e prevedendo qualche nuova catastrofe.

«Guarda, Edmond Dantès», disse, mostrando al conte il cadavere di sua moglie e il corpo di suo figlio. «Guarda, sei stato ben vendicato?»

Montecristo impallidì a quell’orribile spettacolo, comprese che aveva oltrepassato i limiti della vendetta, comprese che non poteva più dire: «Dio è per me e con me». Si gettò con un sentimento d’angoscia inesprimibile sul corpo del bimbo, gli riaprì gli occhi, gli tastò il polso, e si lanciò con lui nella camera di Valentine, che chiuse a doppia mandata.

«Mio figlio!» gridò Villefort. «Che fate? Il cadavere di mio figlio! Dove lo portate? Oh, maledizione! Sciagura!»

E volle buttarsi dietro a Montecristo, ma, come in un sogno, sentì i piedi pesanti, gli occhi gli si dilatarono in modo da spezzare le orbite, le dita, confitte nella carne del petto, si arrossarono di sangue, le vene delle tempie si gonfiarono, e il cervello s’immerse in un diluvio di fuoco. Quella immobilità durò molti minuti, fino a che si compì uno stravolgimento della sua ragione. Allora mandò un grido seguito da un lungo scoppio di risa, e si precipitò per le scale.

Un quarto d’ora dopo si riaprì la camera di Valentine, e il conte di Montecristo ricomparve. Pallido, con lo sguardo cupo, il petto oppresso, tutti i tratti della fisionomia, ordinariamente serena, erano sconvolti dal dolore. Teneva fra le braccia il bambino, al quale nessun soccorso aveva potuto rendere la vita.

Mise un ginocchio a terra e lo depose religiosamente vicino a sua madre, con la testa appoggiata sul suo petto. Quindi, rialzandosi, corse subito in cerca del procuratore, e, incontrando un domestico sulla scala, domandò: «Dov’è il signor Villefort?»

Il domestico senza rispondere tese la mano, e gli indicò l’uscita verso il giardino. Montecristo scese la scalinata, e corse in giardino. Qui vide, in mezzo ai servitori che facevano cerchio intorno a lui, Villefort con una vanga in mano che frugava la terra con una specie di rabbia.

«Qui non c’è», diceva, «e qui nemmeno! Dove l’hanno messo?»

E scavava un poco più lontano.

Montecristo si avvicinò a lui, e gli disse a bassa voce, con tono quasi umile: «Signore, voi avete perduto un figlio, ma…»

Villefort lo interruppe: non aveva né ascoltato, né compreso.

«Oh, lo ritroverò», disse, «non potete dirmi che non c’è più, io lo ritroverò, dovessi cercarlo fino al giorno del giudizio!»

Montecristo arretrò sconvolto.

«Dio», mormorò, «è impazzito!»

E, come avesse temuto che i muri della casa maledetta avessero potuto crollare su di lui, corse verso la strada, dubitando per la prima volta della vendetta, e di tutto ciò che aveva fatto.

«Basta, basta!» gridò. «Almeno si salvi l’ultima.»

Rientrando a casa sua, Montecristo incontrò Morrel che, inquieto, vagava per il palazzo degli Champs-Elysées, silenzioso come l’ombra che aspetta il momento per rientrare nella propria tomba.

«Preparatevi, Maximilien», gli disse con un sorriso, «domani lasceremo Parigi.»

«Non avete più niente da fare?» domandò Morrel.

«No», rispose Montecristo, «e Dio voglia che non abbia fatto anche troppo.»

L’indomani infatti partirono. Presso il signor Noirtier rimase Bertuccio.

111. La partenza

La sequenza degli avvenimenti teneva occupata tutta Parigi. Emmanuel e sua moglie li commentavano con grandissimo stupore nel loro salotto della rue Meslay, confrontando le tre catastrofi improvvise, non meno che inattese, di Morcerf, Danglars e Villefort. Maximilien, che era andato a trovarli, li ascoltava o meglio assisteva alla loro conversazione, immerso nell’apatia che gli era ormai abituale.

«Davvero», diceva Julie, «non si direbbe quasi, Emmanuel, che ciascuna di queste ricche persone, ieri così felici, avessero dimenticato, nel calcolo sul quale avevano stabilito la loro fortuna, felicità e reputazione, la parte dovuta al genio del male? E che il genio come le fate malefiche dei racconti di Perrault, trascurato e dimenticato nell’invito alla festa di nozze, sia poi comparso d’un tratto per vendicarsi di questa fatale dimenticanza?»

«Quanti disastri!» mormorava Emmanuel, pensando a Morcerf e a Danglars.

«Quante sofferenze!» diceva Julie, ricordandosi di Valentine, che per un istinto femminile non voleva nominare davanti a suo fratello.

«Se Dio li ha colpiti», rispondeva Emmanuel, «è perché, nella sua suprema bontà, non ha trovato nulla nella loro vita passata che meritasse l’attenzione della pietà, perché quella gente era maledetta.»

«Il tuo è un giudizio avventato, Emmanuel!» replicò Julie. «Quando mio padre, con la pistola in mano, fu sul punto di uccidersi, se qualcuno avesse detto, come tu dici, “Quest’uomo ha meritato la sua pena”, non si sarebbe sbagliato?»

«Sì, ma Dio non ha permesso che nostro padre soccombesse, come non ha permesso che Abramo sacrificasse suo figlio; al patriarca, come a noi, inviò un angelo che tarpò le ali della morte.»

Aveva appena finito di pronunciare queste parole, che risuonò il campanello. Era il segnale dato dal portinaio che c’era una visita. Quasi nel medesimo istante si aprì la porta del salotto, e sulla soglia comparve il conte di Montecristo. Fu un doppio grido di gioia da parte dei giovani sposi. Maximilien alzò la testa, e la lasciò ricadere.

«Maximilien», esordì il conte, senza sottolineare le diverse impressioni che la sua presenza aveva prodotto nei suoi ospiti, «sono venuto a cercarvi.»

«A cercarmi?» disse Morrel, come si svegliasse da un sogno.

«Sì», dichiarò Montecristo, «non eravamo d’accordo che sareste venuto con me? Non vi ho avvertito ieri di tenervi pronto?»

«Eccomi», disse Maximilien, «ero venuto a salutare i miei.»

«E dove andate, signor conte?» domandò Julie.

«Prima a Marsiglia, signora.»

«A Marsiglia?» ripeterono all’unisono i due sposi.

«Sì, e porto con me vostro fratello.»

«Ah, signor conte», disse Julie, «riportatecelo guarito.»

Morrel voltò la faccia per nascondere il vivo rossore.

«Avete capito perché non stava bene?» domandò il conte.

«No», rispose la giovane, «ma ho paura che si annoi a stare con noi.»

«Lo distrarrò», riprese il conte.

«Sono pronto, signore», disse Morrel. «Addio Emmanuel, addio Julie!»

«Come, addio!» gridò Julie. «Partite così, subito, senza preparativi, senza passaporti?»

«Troppi preparativi raddoppiano il dispiacere della separazione», disse Montecristo, «e Maximilien, ne sono sicuro, avrà agito con precauzione; è quanto gli avevo raccomandato.»

«Ho il mio passaporto, e la mia valigia è fatta», disse Morrel, con la sua apatica tranquillità.

«Benissimo», apprezzò Montecristo sorridendo, «si riconosce la disciplina di un buon soldato.»

«E ci lasciate in questo modo?» si stupì Julie. «All’istante? Non ci accordate neppure un giorno, neppure un’ora?»

«La mia carrozza è alla porta, signora: fra cinque giorni devo essere a Roma.»

«Ma Maximilien non viene a Roma?» domandò Emmanuel.

«Io vado dove vorrà il conte; gli appartengo ancora per un mese.»

«Mio Dio, in che modo lo dice, signor conte!»

«Maximilien viene con me», disse il conte, con la sua persuasiva affabilità. «Tranquillizzatevi sul conto di vostro fratello.»

«Addio, sorella mia!» ripeté Morrel. «Addio, Emmanuel!»

«La sua apatia mi strazia il cuore!» gemette Giulia. «Oh, Maximilien, Maximilien, tu ci nascondi qualche cosa…»

«Lo vedrete tornare gaio, allegro e contento», disse Montecristo.

Maximilien lanciò a Montecristo uno sguardo sdegnoso, quasi irritato.

«Andiamo!» esclamò il conte.

«Prima che andiate, signor conte», riprese Julie, «permetteteci di dirvi tutto ciò che l’altro giorno…»

«Signora», la interruppe il conte, prendendole le mani, «tutto ciò che direste non varrà mai ciò che leggo nei vostri occhi, ciò che il vostro cuore ha pensato, ciò che il mio ha sentito. Come i benefattori da romanzo, sarei partito senza rivedervi, ma questa virtù sarebbe stata al di là delle mie forze, perché sono un uomo debole e vanitoso, perché lo sguardo umido, gioioso e tenero dei miei simili mi fa del bene. Ora parto, e spingo l’egoismo fino a dirvi: non dimenticatemi, amici miei, perché probabilmente non mi rivedrete più.»

«Non vi rivedremo più?» gridò Emmanuel, mentre due grosse lacrime scorrevano sulle guance di Julie. «Non vi rivedremo più? Non siete dunque un uomo, ma un angelo che ci lascia, un angelo che risale al cielo dopo essere comparso sulla terra per farci del bene.»

«Non parlate così», riprese vivacemente Montecristo, «non dite mai tali cose, amici miei: gli angeli non fanno mai del male, sanno a che punto devono fermarsi, il caso, le circostanze, le combinazioni non sono mai più forti di loro. No, io sono uomo, Emmanuel, e non è meno ingiusta la vostra ammirazione di quanto siano blasfeme le vostre parole.»

E si portò alle labbra la mano di Julie che si precipitò fra le sue braccia, mentre tendeva l’altra a Emmanuel; quindi, strappandosi da quella casa, dolce nido di domestica felicità, con un cenno chiamò Maximilien, passivo, insensibile, costernato fin dalla morte di Valentine.

«Rendete la gioia a mio fratello», bisbigliò Julie all’orecchio di Montecristo.

Montecristo le strinse la mano come gliel’aveva stretta undici anni prima sulla scala che conduceva all’ufficio di Morrel.

«Vi fidate sempre di Sinbad il marinaio?» le domandò sorridendo.

«Oh, sì!»

«Dunque, state pure in pace, confidando nel Signore.»

Come abbiamo accennato, la carrozza da posta aspettava: quattro vigorosi cavalli sollevavano le loro criniere e scalpitavano con impazienza. Ai piedi della scalinata, Alì aspettava col viso grondante di sudore; sembrava arrivare da una lunga corsa.

«Ebbene», gli domandò il conte in arabo, «sei stato dal vecchio?»

Alì fece segno di sì.

«E gli hai aperto la lettera sotto gli occhi nel modo in cui ti avevo ordinato?»

«Sì», rispose ancora rispettosamente lo schiavo.

«E che cosa ha detto, o, piuttosto, che cenno ha fatto?»

Alì si mise sotto la luce, in modo che il suo padrone potesse vederlo, e imitando con la sua intelligenza la fisionomia del vecchio, chiusi gli occhi come faceva Noirtier quando voleva dire «sì».

«Bene, accetta», disse Montecristo. «Partiamo!»

Si era appena lasciato sfuggire questa parola, che già la carrozza si era mossa sollevando una nuvola di polvere mista a scintille.

Maximilien si accomodò in un angolo senza dire parola. Dopo mezz’ora, la carrozza improvvisamente si fermò; il conte aveva tirato la funicella di seta che corrispondeva al dito d’Alì. Il moro scese, e aprì lo sportello.

La notte sfavillava di stelle. Erano in cima alla salita di Villejuif, sulla spianata da dove si vede Parigi che, come un tetro mare, agita i suoi milioni di lumi fosforescenti. più numerosi e mobili di quelli dell’oceano, che non conoscono bonaccia, che si urtano sempre, e sempre s’infrangono, e sempre s’inghiottono fra loro. Il conte scese e fece qualche passo, solo, e, dopo un cenno della mano, la carrozza si scostò di qualche metro Allora considerò lungamente, e con le braccia incrociate, quella fornace in cui vengono a fondersi, a torcersi tante di quelle idee che dopo essersi mescolate nel magma incandescente, sprizzano per andare ad agitare il mondo. Quindi, dopo aver fissato il suo sguardo potente su quella nuova Babilonia, mormorò: «Gran città!» mormorò, chinando la testa e congiungendo le mani come pregando. «Non sono ancora sei mesi da che ho oltrepassato le tue porte. Lo spirito della Provvidenza che credevo mi vi avesse condotto, ora me ne allontana trionfante. Il segreto della mia presenza fra le tue mura l’ho confidato soltanto a Dio, che solo ha potuto leggere nel mio cuore, solo sa che mi ritiro senza odio, né orgoglio, ma non senza dispiaceri, solo sa che non ho fatto uso né per me, né per vane cause, del potere di cui mi ha fornito. Oh gran città! Nel tuo seno palpitante ritrovai ciò che cercavo, minatore paziente, ho rimescolato le tue viscere per farne sortire il male, ora la mia opera è compiuta, quella che ho creduto la mia missione è terminata, ora tu non puoi più offrirmi né gioie, né dolori: addio, Parigi! addio!»

Passò nuovamente lo sguardo sulla vasta pianura, come quello di un genio notturno, quindi, portandosi la mano sulla fronte, risalì nella carrozza che si chiuse dietro di lui, e scomparve ben presto dall’altra parte della salita in un nugolo di polvere.

112. La casa dei viali di Meilhan

Morrel era assorto in profonda meditazione, e Montecristo lo guardava: fecero dieci leghe senza dire una sola parola. Morrel fantasticava; Montecristo leggeva nella sua mente.

«Morrel», disse il conte, «vi siete pentito di avermi seguito?»

«No, signor conte, ma di lasciare Parigi…»

«Se avessi pensato che la vostra felicità vi aspettava a Parigi, Morrel, vi ci avrei lasciato.»

«A Parigi riposa Valentine; lasciare Parigi è come perderla una seconda volta.»

«Maximilien», disse il conte, «gli amici che abbiamo perduto non riposano nella terra, ma sono sepolti nel nostro cuore, e fu Dio che così volle, perché ne fossimo sempre accompagnati. Ho due amici che mi accompagnano sempre in tal modo; uno di essi mi ha dato la vita, l’altro mi ha dato l’intelligenza. Lo spirito d’entrambi è in me: io li consulto nei dubbi, e, se faccio qualche cosa di bene, lo debbo ai loro consigli. Consultate la voce del vostro cuore, Morrel, e domandategli se dovete continuare a guardarmi con uno sguardo così tetro.»

«Amico mio», replicò Maximilien, «la voce del mio cuore è triste, e non mi promette che disgrazie.»

«È degli spiriti deboli vedere tutte le cose attraverso un velo nero; è l’anima che si crea i propri orizzonti: la vostra anima è triste, e vi fa vedere un cielo tempestoso.»

«Può darsi», mormorò Maximilien.

E ricadde nei suoi pensieri ossessivi. Il viaggio si fece con quella inaspettata rapidità ch’era una delle prerogative del conte: le città passavano come ombre sulla loro strada, gli alberi, scossi dal primo vento d’autunno, sembravano venire incontro come giganti scapigliati, che fuggivano rapidamente appena li raggiungevano.

L’indomani di buon mattino arrivarono a Châlon, dove li aspettava il battello a vapore del conte. Senza perdere un istante, la carrozza fu trasportata a bordo con i due viaggiatori. Il battello era pronto alla corsa, lo si sarebbe detto una piroga indiana: e infatti le sue due ruote sembrarono due ali, con cui fendeva l’acqua come uccello viaggiatore; Morrel stesso provò quella specie di ebbrezza che produce la velocità, e qualche volta il vento, che faceva ondeggiare i suoi capelli, riusciva ad allontanare per un momento le nubi dalla sua fronte. In quanto al conte, via via che si allontanava da Parigi, una serenità quasi sovrumana sembrava penetrarlo ed emanare da lui come un alone; si sarebbe detto un esule che ritornava in patria.

Ben presto Marsiglia, bianca, tiepida e viva, Marsiglia, la sorella minore di Tiro e di Cartagine, loro erede nell’impero del Mediterraneo, Marsiglia, sempre più giovane quanto più invecchia, comparve ai loro occhi. Era per entrambi una visione feconda di ricordi quella torre rotonda, il forte di Saint-Nicolas e il municipio di Puget, quel porto con gli scali di selce dove entrambi avevano giocato da ragazzi. Quindi si fermarono di comune accordo sulla Canebière.

Una nave partiva per Algeri: i bagagli e le merci, i passeggeri ammassati sul ponte, la folla di parenti e amici che si dicevano addio, e gridavano, e piangevano, scenario sempre commovente, anche per quelli che vi assistono ogni giorno, tutto quel movimento non poté distrarre Maximilien da un’idea che l’aveva afferrato, dal momento in cui aveva messo il piede sui larghi blocchi di granito dello scalo.

«Guardate», disse, stringendo il braccio di Montecristo, «ecco il luogo dove si fermò mio padre, quando il Pharaon entrò in porto. Qui il brav’uomo, che voi salvaste dalla morte e dal disonore, si gettò fra le mie braccia; sento ancora le sue lacrime sul mio viso, e non piangeva lui solo, molti piangevano nel vederci piangere.»

Montecristo sorrise.

«Io ero là», disse, mostrando a Morrel l’angolo di una strada.

Nella direzione indicata dal conte, s’intese un gemito doloroso, e si vide una donna che faceva segni a un passeggero sulla nave in partenza. Quella donna era velata; Montecristo la seguì con gli occhi, con un’emozione che Morrel avrebbe facilmente compreso se, diversamente dal conte, i suoi occhi non fossero stati fissi sul bastimento.

«Amico mio», gridò Morrel, «quel giovane che saluta, col cappello, quel giovane in uniforme, è Albert Morcerf!»

«Sì», disse Montecristo, «lo avevo riconosciuto.»

«In che modo, se guardate dalla parte opposta?»

Il conte sorrise, come faceva quando non voleva rispondere. I suoi occhi si riportarono sulla donna velata che sparì all’angolo della strada. Allora si girò.

«Amico caro», domandò a Maximilien, «non avete niente da fare in questa città?»

«Ho da piangere sulla tomba di mio padre» rispose cupamente Morrel.

«D’accordo, andate ad aspettarmi là: vi raggiungerò.»

«Mi lasciate?»

«Sì… Anch’io ho una visita dolorosa da fare.»

Morrel abbandonò la mano nella mano tesa del conte, quindi, con un gesto di cui sarebbe impossibile esprimere la malinconia lasciò il conte, e si diresse verso la parte orientale della città.

Montecristo lasciò allontanarsi Maximilien, quindi si incamminò verso i viali di Meilhan, in cerca della casupola già nota ai nostri lettori. Quella casa era ancora all’ombra dei tigli sotto cui passeggiano gli oziosi marsigliesi, tappezzata di vasti festoni di viti che s’incrociano, sulla pietra ingiallita dall’ardente sole del Mezzogiorno, in braccia annerite e disseccate per l’età. Due scalini di pietra, consunti dal passaggio ripetuto del piede umano, conducevano alla porta d’ingresso, porta fatta di tre tavole sconnesse che non avevano mai conosciuto il mastice e la vernice. Quella casa, graziosa malgrado la sua antichità, allegra malgrado la sua apparente miseria, era quella abitata dal padre di Dantès. Ma, mentre il vecchio era vissuto nella soffitta, il conte aveva messo l’intera casa a disposizione di Mercedes.

Là entrò la donna dal lungo velo che Montecristo aveva visto allontanarsi dal battello in partenza; chiudeva la porta nel momento stesso in cui egli compariva all’angolo della strada. Per lui gli scalini erano antiche conoscenze e sapeva meglio di chiunque altro aprire quella vecchia porta, in cui un chiodo a larga testa serviva a sollevare il saliscendi interno. Così, senza bussare, né avvertire, come amico, come ospite, entrò.

In fondo a un corridoio lastricato di selci si apriva un piccolo giardino, quello stesso giardino in cui Mercedes aveva trovato la somma che il conte aveva detto di aver nascosto ventiquattro anni prima.

Dalla soglia della porta di strada si vedevano i primi alberi di quel giardino, e lì Montecristo udì dei singhiozzi. Sotto un pergolato di gelsomini della Virginia, dalle foglie fitte e dai lunghi fiori color porpora, vide Mercedes curva e piangente che, seduta sola sotto quel cielo splendido, col viso nascosto fra le mani, dava libero sfogo ai sospiri e al pianto così lungamente contenuti in presenza del figlio.

Montecristo fece qualche passo avanti, e la sabbia scricchiolò sotto i suoi piedi; Mercedes rialzò la testa, e mandò un grido di spavento vedendosi improvvisamente davanti un uomo.

«Signora», disse il conte, «non posso più portarvi la felicità, ma vi offro consolazione; vi prego di accettarla come un’amica.»

«Sono infatti molto infelice», replicò Mercedes. «Sola al mondo!… Non avevo che mio figlio, e mi ha lasciato.»

«E ha fatto bene, signora», disse il conte. «Ha dato prova di nobiltà. Ha capito che ogni uomo deve un tributo alla patria: gli uni con i talenti, gli altri con l’industria; questo con le veglie, quello con il sangue. Restando con voi, avrebbe consumato vicino a voi la sua vita divenuta inutile, non avrebbe potuto capire i vostri dolori, sarebbe divenuto odioso a stesso per impotenza; invece diventerà grande e forte lottando contro l’avversità, e la trasformerà in fortuna. Lasciate che ricostruisca il vostro avvenire, anzi quello d’entrambi, signora: oso promettervi che egli si trova fra mani sicure.»

«Questa fortuna di cui parlate», riprese la povera donna, scuotendo tristemente la testa, «e che dal fondo del cuore prego Dio gli venga concessa, io non la godrò. Tante cose si sono infrante dentro di me, intorno a me, che mi sento vicina alla tomba. Avete fatto bene, signor conte, a farmi tornare nel luogo dove sono stata felice: nel luogo ove si è stati felici, si può anche morire.»

«Cosa dite, signora», ribatté Montecristo. «Le vostre parole sono amare e brucianti, tanto più amare e brucianti, in quanto avete ragione di odiarmi essendo io la causa di tutti i vostri mali… Ah, perché non mi compiangete, invece di accusarmi? Così mi renderete molto più infelice ancora…»

«Io odiarvi, accusare voi, voi, Edmond! Odiare, accusare l’uomo che ha salvato la vita di mio figlio!? Non era certo vostra, e fatale e sanguinosa intenzione uccidere al signor Morcerf questo figlio di cui andava così orgoglioso. Guardatemi, e vedrete se vi è in me la volontà di un rimprovero.»

Il conte sollevò lo sguardo, e lo fermò sopra Mercedes, che per metà sollevata, tendeva le mani verso di lui.

«Guardatemi», continuò con un sentimento di profonda malinconia, «oggi si può sopportare tutto lo splendore dei miei occhi… Non è più il tempo in cui venivo a sorridere a Edmond Dantès, che mi aspettava lassù alla finestra di quella soffitta, dove abitava il suo vecchio padre… Da quel tempo sono trascorsi molti giorni dolorosi. Io accusare voi, Edmond, odiarvi, amico mio? No, me sola accuso e odio! Oh, miserabile che sono!» gridò, giungendo le mani e alzando gli occhi al cielo. «Sono stata ben punita!… Avevo la fede, l’innocenza, l’amore, questi tre beni che formano gli angeli, e, miserabile, ho dubitato di Dio.»

Montecristo fece un passo verso di lei e le tese silenziosamente la mano.

«No», disse lei ritirando dolcemente la sua, «no, amico mio, non mi toccate… Voi mi avete risparmiato, e benché fossi la più colpevole di quanti avete colpito. Tutti gli altri hanno agito per odio, per cupidigia, per egoismo: ma io ho agito per viltà. Essi desideravano, io ho avuto paura. No, non mi stringete la mano, Edmond, voi meditate qualche parola affettuosa, io lo sento… Non la dite, serbatela per un’altra, io non ne sono più degna, io… Guardate…» Scoprì del tutto il viso. «Guardate, le disgrazie hanno reso i miei capelli grigi, i miei occhi hanno versato tante lacrime che sono cerchiati di vene violacee, la mia fronte è solcata di rughe… Voi, al contrario, Edmond, voi siete sempre giovane, sempre bello, sempre altero, perché voi avete avuto la forza, perché avete confidato in Dio, e Dio vi ha sostenuto. Io sono stata vile, l’ho rinnegato, e Dio m’ha abbandonata.»

Mercedes si struggeva in lacrime, il cuore della donna si spezzava all’urto dei ricordi. Montecristo le baciò rispettosamente la mano, ma lei sentì che quel bacio era senza ardore.

«Vi sono», continuò, «esistenze predestinate a cui il primo errore spezza tutto l’avvenire. Io vi credevo morto, avrei dovuto morire: poiché a cosa è servito portare eternamente il vostro lutto nel mio cuore? A fare di una donna di trentanove anni una donna di cinquant’anni, ecco tutto. A cosa è servito, che, sola fra tutti, vi abbia riconosciuto? Ho soltanto salvato mio figlio. Non dovevo ugualmente salvare l’uomo, per quanto colpevole, che avevo accettato come marito? L’ho lasciato morire… Che dico, mio Dio? Ho contribuito alla sua morte, con la mia vile insensibilità, col mio disprezzo, non ricordandomi o non volendo ricordarmi che diventò spergiuro e traditore per me! A che serve infine che io abbia accompagnato mio figlio fin qui, se qui lo abbandono, se qui lo lascio partire, se qui lo getto su quella terra divoratrice d’Africa! Oh, io sono stata vile, ve lo ripeto, ho rinnegato il mio amore, e come i rinnegati porto disgrazia a tutto quanto mi circonda.»

«No, Mercedes», replicò Montecristo, «no, giudicate meglio voi stessa. No, voi siete una nobile e santa donna, mi avete disarmato col vostro dolore. Ma dietro a me, invisibile, sconosciuta, irritata, vi era una Provvidenza di cui non ero che lo strumento, e che non ha voluto arrestare il fulmine che avevo lanciato. Oh, lo giuro su Dio, ai piedi del quale, da dieci anni, mi prostro ogni giorno, attesto a questo Dio che vi avevo fatto il sacrificio della vita, e con essa quello dei progetti che vi erano donati. Ma, lo dico con orgoglio, Mercedes, sembra che la Provvidenza voleva servirsi di me, e mi fece vivere. Esaminate il passato, esaminate il presente, cercate d’indovinare l’avvenire, e poi vedrete se ho ragione di credermi uno strumento del Signore; i più spaventosi infortuni, le più crudeli sofferenze, l’abbandono di tutti quelli che mi amavano, la persecuzione di coloro che non mi conoscevano, ecco la prima parte della mia vita; quindi, d’un tratto, dopo la prigionia e la solitudine e la miseria, l’aria, la libertà, la ricchezza così enorme, così fatidica, che, a meno di essere cieco, ho dovuto pensare che Dio me la inviava per grandi disegni. Da quel momento questa ricchezza mi è sembrata un sacerdozio, da allora, non più un pensiero in me per questa vita, di cui, povera donna, avete qualche volta assaporato la dolcezza, non più un’ora di calma, mi sono sentito come una nube di fuoco spinta dal ciclo per bruciare le città maledette. Come quegli avventurosi capitani che s’imbarcano per un viaggio pericoloso, o che meditano una pericolosa spedizione, io preparavo i viveri, caricavo le armi, accumulavo i mezzi di attacco e di difesa, abituando il corpo agli esercizi più violenti, lo spirito alle cose più faticose, addestrando il braccio a uccidere, assuefacendo gli occhi a veder uccidere, a vedere soffrire, la bocca a sorridere agli spettacoli più terribili; da buono, fiducioso, incurante che ero,sono diventato vendicativo, cattivo, o piuttosto impassibile, come la sorda e cieca fatalità. Allora mi sono buttato sulla via che mi era stata aperta, ho oltrepassato lo spazio, ho toccato la meta: guai a coloro che ho incontrato sul mio cammino!»

«Basta, basta, Edmond! Credete a quella che sola ha potuto riconoscervi, e sola anche ha saputo comprendervi? Ora, Edmond, quella che ha saputo riconoscervi, quella che ha saputo comprendervi, quella che, se l’aveste incontrata sulla vostra strada, avreste infranta come vetro, quella ha dovuto tuttavia ammirarvi, Edmond! Come c’è un abisso fra me e il passato così ce n’è un altro fra voi e gli uomini, e la mia più dolorosa tortura, ve lo dirò, è fare dei confronti, poiché nulla trovo nel mondo che vi valga, nulla che vi assomigli. Ora, addio, Edmond…»

«Prima che vi lasci, cosa desiderate, Mercedes?» domandò Montecristo.

«Desidero, Edmond, che mio figlio sia felice.»

«Pregate il Signore, che tiene l’esistenza degli uomini fra le sue mani, di allontanare da lui la morte, io m’incarico del resto.»

«Grazie, Edmond.»

«Ma voi, Mercedes?»

«Io non ho bisogno di niente, vivo fra due tombe: una è quella di Edmond Dantès, morto da lungo tempo, e che io amavo!… Questa parola non è più adatta alle mie labbra, ma il mio cuore se ne ricorda ancora, e per niente al mondo vorrei perdere la memoria del cuore… L’altra è quella di un uomo ucciso da Edmond Dantès: io approvo l’uccisione, ma devo piangere la vittima.»

«Vostro figlio sarà felice, signora», ripeté il conte.

«Allora sarò felice anch’io, per quanto potrò esserlo.»

«Ma… infine… che cosa farete?»

Mercedes sorrise tristemente.

«Se vi dicessi che vivrò in questo paese come la Mercedes di una volta, lavorando, non ci credereste; io non sono più adatta che a pregare, e non ho bisogno di lavorare: ho ritrovato, nel posto indicato, il piccolo tesoro sepolto da voi. Ci si domanderà chi sono, che cosa faccio, non si saprà come vivo… Che importa? Questo è un segreto fra Dio, voi e me.»

«Mercedes», disse il conte, «io non vi rimprovero, ma avete esagerato il sacrificio, abbandonando tutti i beni del signor Morcerf, la cui metà vi apparteneva di diritto per la vostra parsimonia e previdenza.»

«Immagino ciò che volete propormi, ma non posso accettare; mio figlio me lo proibirebbe.»

«Mi guarderò bene dal fare per voi qualsiasi cosa che non avesse l’approvazione di Albert. Io saprò le sue intenzioni, e mi sottometterò. Ma se egli accetta ciò che voglio fare, lo seguirete senza esitazioni?»

«Voi sapete, Edmond, che non sono più una creatura pensante, io non ho alcuna determinazione. Dio mi ha talmente scosso che ho perso la volontà. Sono fra le sue mani, come passero fra gli artigli dell’aquila. Egli non vuole che io muoia, poiché vivo. Se mi manderà soccorsi, è segno che lo vorrà, e io li prenderò.»

«Badate, signora, che Dio non va adorato così», disse Montecristo. «Egli vuole essere compreso, vuole che si conosca la sua potenza, e per questo ci ha dato libero arbitrio.»

«Ah crudele!» gridò Mercedes. «Non parlatemi così, lasciatemi l’illusione di non avere libero arbitrio! Se no, che mi resterebbe per salvarmi dalla disperazione?»

Montecristo impallidì leggermente, e abbassò la testa oppressa dalla veemenza del dolore.

«Non volete rivedermi?» disse, tendendole la mano.

«Al contrario, vi rivedrò», replicò Mercedes, indicandogli solennemente il cielo. «Questo vi prova che spero ancora.»

E dopo aver stretto con mano tremante quella del conte, Mercedes corse in casa, e sparì alla sua vista. Montecristo uscì con passo lento da quella casa, e prese la strada del porto. Ma Mercedes non lo vide allontanarsi, nonostante fosse alla finestra della piccola camera del padre di Dantès; i suoi occhi cercavano lontano il bastimento che trasportava suo figlio verso il mare. È però vero che la voce, suo malgrado, mormorava sommessamente: «Edmond, Edmond, Edmond…»

Il conte era uscito con l’animo oppresso da quella casa, dove, secondo tutte le probabilità, lasciava Mercedes per non rivederla mai più.

113. Il passato

Dopo la morte del piccolo Edouard, si era verificato un grande cambiamento in Montecristo. Arrivato all’apice della sua vendetta per il lento e tortuoso declivio che aveva seguito, incontrò l’abisso del dubbio. C’era di più: il colloquio con Mercedes gli aveva risvegliato tanti ricordi nel cuore che doveva combattere.

Un uomo del carattere del conte non poteva fluttuare lungamente in quella malinconia che può far vivere gli spiriti volgari dando loro una apparente originalità, ma che uccide le anime elevate. Il conte diceva a se stesso che per essere giunto quasi a biasimarsi, bisognava che si fosse sbagliato nei suoi calcoli.

«Io guardo male il passato», disse, «non posso essermi sbagliato così», continuava. «Lo scopo che mi ero proposto sarebbe insensato? Ho percorso una falsa strada per dieci anni? Un’ora sarebbe bastata per provarmi che l’opera di tutte le mie speranze era un’opera, se non impossibile, almeno perversa? Io non voglio abituarmi a quest’idea, mi renderebbe pazzo. Ciò che manca ai miei ragionamenti d’oggi è l’apprezzamento esatto del passato. Infatti, a mano a mano che ci si allontana, il passato, simile al paesaggio attraverso cui si passa, si cancella dalla memoria. Mi accade come a coloro che si sono feriti in sogno: guardano e sentono la loro ferita, e non si ricordano di averla ricevuta. Forza, dunque, uomo rigenerato, ricco, stravagante, dormiente, risvegliati! Visionario potente, milionario invincibile, riprendi per un istante questa prospettiva funesta della tua vita miserabile e affamata, ripassa per il sentiero in cui ti ha spinto la tua stella, in cui ti ha condotto la cattiva sorte, in cui ti ha ricevuto la disperazione! Troppi diamanti, troppo oro, troppa felicità si riflettono oggi sul cristallo di questo specchio da cui Montecristo guarda Dantès… Nascondi questi diamanti, insozza quest’oro, cancella questi raggi; ricco, ritorna povero, libero ritorna prigioniero, resuscitato, ritorna cadavere.»

Mormorando queste frasi, Montecristo percorreva la rue de la Caisserie, la stessa per la quale, vent’anni prima, era stato condotto da una guardia silenziosa: tutto era per lui in quella notte tetro, muto e chiuso.

«Eppure sono le stesse case», mormorò Montecristo, «soltanto, allora, faceva notte, e oggi è giorno chiaro; è il sole che rende tutto così gaio.»

Scese allo scalo di Saint-Laurent e avanzò verso il posto di guardia, era il punto dove era stato imbarcato. C’era un battello da diporto a poca distanza. Montecristo chiamò il barcaiolo che subito remò verso di lui, con la sollecitudine consueta dei battellieri. Il tempo era magnifico, il viaggio fu una festa. Il sole scendeva all’orizzonte rosso e fiammeggiante sui flutti che si arrossavano al suo avvicinarsi, il mare, terso come uno specchio, si agitava a tratti sotto il guizzo dei pesci, che, perseguitati da qualche nascosto nemico, guizzavano fuori dall’acqua per chiedere la loro salvezza all’aria mortale; infine all’orizzonte si vedevano passare, bianche e graziose come gabbiani, le vele delle barche dei pescatori che tornavano da Martigues, o bastimenti mercantili carichi per la Corsica o per la Spagna. Pur con quel bel cielo, malgrado quelle barche dai graziosi profili, in quella luce dorata che inondava il paesaggio, il conte, avvolto nel suo mantello, si ricordava a uno a uno tutti i particolari del terribile viaggio: il lume isolato che ardeva al villaggio dei Catalani, la vista del castello d’If, che gli aveva fatto capire dove lo conducevano, la lotta con i gendarmi quando volle buttarsi in mare, la sua disperazione quando si sentì vinto, e la sensazione di freddo provata sentendo alla tempia l’estremità della canna di carabina come un anello di ghiaccio.

Allora per lui non vi fu più cielo, più barche, più luce ardente; il cielo si velò di nubi, l’apparizione del tetro gigante che si chiama castello d’If lo fece rabbrividire, come se gli fosse d’un tratto comparso il fantasma d’un nemico mortale. Istintivamente il conte arretrò fino all’estremità del battello.

Invano il barcaiolo si affannava a dire con la sua voce melliflua: «Siamo a terra, signore».

Montecristo si ricordò che in quel medesimo luogo, sopra quel medesimo scoglio, era stato trascinato violentemente dalle guardie, che lo avevano obbligato a salirvi, pungendogli le reni con la punta di una baionetta. Il percorso era sembrato molto lungo allora a Dantès, Montecristo l’aveva trovato cortissimo; ogni colpo di remo, che sollevava, come allora, tanti spruzzi, aveva ridestato in lui un milione di pensieri e di ricordi.

Dopo la rivoluzione di luglio non c’erano più prigionieri al castello d’If; un picchetto destinato a impedire il contrabbando abitava i corpi di guardia; un custode aspettava i curiosi alla porta per mostrar loro questo monumento di terrore, divenuto luogo di curiosità. Eppure, nonostante conoscesse tutti quei particolari, quando entrò sotto la volta, quando scese la scala buia, quando fu condotto al carcere che aveva chiesto di vedere, un gelido pallore gli ricoprì la fronte, il freddo sudore fu respinto fino al cuore.

Il custode che lo accompagnava era là soltanto dal 1830. Fu condotto nella sua cella. Rivide la pallida luce che filtrava dallo stretto spiraglio, rivide il posto dove c’era il letto, e dietro al letto, murata ma visibile ancora per le pietre più nuove, rivide l’apertura scavata dall’amico Faria. Montecristo sentì le gambe indebolirsi, e, preso uno sgabello di legno, si sedette.

«Si racconta nessuna storia su questo castello oltre l’imprigionamento di Mirabeau?» domandò il conte. «Non c’è qualche ricordo su queste lugubri dimore, dove si stenta a credere che uomini vivi possano mai essere stati rinchiusi?»

«Sì, signore», rispose il custode, «e di questa stessa prigione il carceriere Antoine me ne ha raccontata una.»

Montecristo fremette. Antoine era stato il suo carceriere. Ne aveva quasi dimenticato il nome e il viso, ma a sentirne pronunciare il nome, lo ripensò com’era: faccia nascosta da una folta barba, la veste bruna, e il mazzo di chiavi, di cui gli sembrava ancora di sentire il tintinnio. Il conte si voltò, e credette di rivederlo nell’ombra del corridoio, resa più scura dalla luce della torcia che ardeva nelle mani del portinaio.

«Signore, vuole che gliela racconti?» chiese il custode.

«Sì», disse il conte di Montecristo, «dite.»

Quindi si mise la mano sul petto per comprimere i frequenti battiti del cuore, spaventato al pensiero di udire la propria storia.

«Dite», ripeté.

«Questa cella», riprese il custode, «era abitata molto tempo fa da un prigioniero, un uomo pericoloso, a quanto sembra, e tanto più pericoloso in quanto era molto ingegnoso. Un altro uomo era imprigionato a quel tempo in questo stesso castello, questi però non era cattivo, era un povero abate, diventato pazzo.»

«Pazzo!» ripeté Montecristo. «E qual era la sua pazzia?»

«Offriva milioni a chi gli avesse reso la libertà.»

Montecristo alzò gli occhi al cielo, c’era una striscia nera fra lui e il firmamento. Pensò allora che c’era stato un simile accecamento tra Faria che offriva tesori e gli occhi di coloro ai quali venivano offerti.

«I prigionieri potevano vedersi?» domandò Montecristo.

«No, signore, era espressamente proibito, ma elusero la proibizione scavando un passaggio che andava da una prigione all’altra.»

«Chi fu dei due quello che scavò il passaggio?»

«Fu certamente il giovane», disse il custode. «Il giovane era abile e forte, mentre il povero abate era vecchio e debole; d’altra parte era troppo malato di mente per tener seguire un’idea.»

«Ciechi!…» mormorò Montecristo.

«Tanto è vero», continuò il custode, «che il giovane scavò questo passaggio, non si sa come, ma lo scavò, e la prova è che se ne vedono ancora le tracce… Le vedete?»

E avvicinò la torcia al muro.

«Sì, è vero!» esclamò il conte, con voce affievolita per l’emozione.

«Ne risultò che i due prigionieri si videro e si parlarono. Quanto tempo sia durato questo loro rapporto, non si sa. Un giorno il vecchio si ammalò e morì. Indovinate un po’ cosa fece il giovane?» domandò il custode interrompendosi.

«Dite.»

«Trasportò il defunto nel proprio letto col viso contro il muro, quindi ritornò nella cella vuota, chiuse il foro, e s’infilò nel sacco del morto. Vi sarebbe mai venuta una simile idea?»

Montecristo chiuse gli occhi, e tornò a risentire tutte le sensazioni che aveva provato allora quando quella grossa tela, ancora fredda per il cadavere che aveva contenuto, quasi lo soffocava.

Il custode continuò: «Sentite ora qual era il suo progetto: pensava che nel castello d’If i morti si seppellissero, e credendo che non si facessero grandi spese per sotterrare i prigionieri, calcolava forse di potere sollevare la terra con le spalle, ma, disgraziatamente, nel castello c’era un altro uso: i morti non si seppellivano; gli si attaccava ai piedi una grossa pietra o una palla di cannone, e li si gettava in mare. E così fu fatto; il nostro uomo fu gettato in acqua dall’alto del bastione, il giorno dopo si trovò il vero morto nel suo letto e s’indovinò tutto, poiché i becchini dissero allora, cosa che non avevano osato dire prima, che quando il corpo fu lanciato nel vuoto, avevano sentito un terribile grido soffocato provenire dall’acqua in cui il corpo era scomparso.»

Il conte respirava con fatica, il sudore gli colava dalla fronte, l’angoscia gli stringeva il cuore.

«No!» mormorò. «Quel dubbio che provai era un principio d’oblio, ma qui il cuore si riapre di nuovo e torna affamato di vendetta… E del prigioniero», domandò, «se ne è più sentito parlare?»

«Mai più… E, capirete bene, delle due cose l’una: o è caduto di piatto, e siccome precipitava da una cinquantina di piedi d’altezza, sarà rimasto ucciso sul colpo…»

«Avete detto che gli era stata attaccata una pietra ai piedi… Sarà caduto dritto.»

«…O è caduto dritto», riprese il custode, «e allora il peso della pietra lo avrà trascinato sul fondo, dove è rimasto, pover’uomo…»

«Lo compiangete?»

«Da parte mia sì, sebbene fosse il suo elemento.»

«Che cosa volete dire?»

«Correva voce che quel disgraziato fosse stato, in altri tempi, ufficiale di marina, detenuto come bonapartista.»

«O verità», mormorò il conte, «Dio ti ha fatto per galleggiare al di sopra dei flutti e delle fiamme… Così il povero marinaio vive nella memoria di qualche narratore, si racconta la sua terribile storia all’angolo del caminetto, e si trema nel momento in cui precipitò nello spazio per essere inghiottito nel fondo del mare… Non si è mai saputo il suo nome?» domandò il conte, alzando la voce.

«No», rispose il custode.

«Perché?»

«Era conosciuto solo per il suo numero, 34.»

«Villefort!» mormorò Montecristo. «Ecco ciò che molte volte ti sarai detto, quando il mio spettro importunava le tue veglie.»

«Il signore vuole continuare la visita?» domandò il guardiano.

«Sì, vorreste mostrarmi la cella dell’abate?»

«Ah, il numero 27.»

«Sì, il 27», ripeté Montecristo.

E gli sembrò ancora di sentire la voce di Faria, quando gli aveva domandato il suo nome, e questi gli aveva gridato il proprio attraverso il muro.

«Venite.»

«Aspettate», disse Montecristo, «vorrei guardare un’ultima volta questa cella.»

«Con comodo», disse la guida, «ho dimenticato la chiave dell’altra.»

«Andate a prenderla.»

«Vi lascio la torcia.»

«No, portatela con voi.»

«Ma resterete al buio.»

«Ci vedo lo stesso.»

«Toh, come lui.»

«Lui chi?»

«Il 34. Si dice che si fosse talmente abituato all’oscurità, che sarebbe stato in grado di vedere una spilla nell’angolo più scuro di questa cella.»

«Gli fu però necessaria una decina d’anni per riuscirci», mormorò il conte.

La guida si allontanò portando la torcia. Il conte aveva detto la verità: dopo esser rimasto alcuni secondi nell’oscurità, cominciò a distinguere tutto come a giorno chiaro. Allora si guardò intorno, e riconobbe il suo carcere.

«Sì», disse, «ecco la pietra sulla quale sedevo, ecco l’impronta delle mie spalle che hanno consumato il muro, ecco le tracce del sangue che mi colò dalla fronte il giorno in cui volli ferirmi la testa contro la parete!… Oh, queste cifre… io me ne ricordo… le feci un giorno che calcolavo l’età di mio padre per sapere se lo avrei rivisto vivo, e l’età di Mercedes per sapere se l’avrei ritrovata libera… Ebbi un momento di speranza dopo aver finito questo calcolo… Non tenevo conto della fame e dell’infedeltà.»

E un riso amaro gli sfuggì dalla bocca. Vide come in sogno suo padre portato alla tomba… Mercedes condotta all’altare! Sull’altra parete del muro un’iscrizione attrasse la sua attenzione. Spiccava, ancora netta, sul muro verdastro: «Mio Dio», lesse Montecristo, «conservatemi la memoria».

«Sì», gridò, «ecco la sola preghiera dei miei ultimi tempi. Non chiedevo più la mia libertà, io chiedevo la memoria, temevo di diventare pazzo, e di dimenticare tutto. Mio Dio, mi avete conservato la memoria, e io mi sono ricordato di tutto. Grazie, grazie, mio Dio!»

In quel momento la luce della torcia illuminò il muro; era la guida che scendeva. Montecristo gli andò incontro.

«Seguitemi», disse l’uomo con la torcia.

E, senza avere bisogno di tornare verso l’uscita, lo fece continuare per un corridoio sotterraneo che lo condusse a un’altra cella. Anche lì Montecristo fu assalito da una folla di pensieri. La prima cosa che gli colpì gli occhi, fu la meridiana sul muro con cui Faria contava le ore, quindi i resti del letto sul quale era morto il povero prigioniero. A quella vista il conte di Montecristo, invece di risentire le angosce vissute nella sua cella, provò un dolce e tenero sentimento: il sentimento della riconoscenza gli avvolse il cuore, e due grosse lacrime gli scesero dagli occhi.

«Qui», riprese la guida, «abitava il pazzo, e di là veniva il giovane a ritrovarlo», e mostrò a Montecristo l’apertura, che da quella parte era rimasta aperta. «In base al colore della pietra», continuò, «un perito ha stabilito che dovevano essere almeno dieci anni che i due prigionieri comunicavano insieme. Povera gente, devono essersi annoiati molto in quei dieci anni!»

Dantès cavò alcuni luigi di tasca, e tese la mano verso quell’uomo che lo compiangeva per la seconda volta senza conoscerlo. Il custode li prese, credendo si trattasse di spiccioli; ma quando, al chiarore della torcia, riconobbe il valore del denaro dato dal visitatore, disse: «Signore, vi siete sbagliato».

«E perché?»

«Mi avete dato dell’oro.»

«Lo so.»

«Come, lo sapete?»

«Lo so.»

«Allora volevate darmelo davvero?»

«Sì.»

«Dunque posso tenerlo senza scrupoli?»

«Sì.»

Il custode guardò Montecristo con meraviglia.

«Oh, onestà!» disse il conte, come Amleto.

«Signore», riprese il custode, che non osava credere alla sua fortuna, «signore, io non capisco la vostra generosità.»

«Eppure è facile da comprendere, amico mio», spiegò il conte. «Sono stato un marinaio, e la vostra storia mi ha commosso in modo straordinario.»

«Allora, signore», disse la guida, «poiché siete così generoso, meritate che vi offra qualcosa.»

«Che cos’hai da offrirmi, amico mio? Delle conchiglie? Dei lavori di paglia? Grazie.»

«No, signore, no… Qualcosa che ha a che fare con la storia che vi narravo.»

«Davvero?» gridò vivacemente il conte. «Che cos’è dunque?»

«Ascoltate», disse il custode, «ecco che cos’è accaduto: pensando fra me stesso, che nella cella di un prigioniero, quando questi vi è rimasto quindici anni, si trova sempre qualche cosa, mi sono messo a esplorare i muri.»

«Ah!» gridò Montecristo, ricordandosi il doppio nascondiglio dell’amico.

«A forza di ricerche», continuò il custode, «trovai che il muro sotto il capezzale del letto risuonava come sotto un caminetto.»

«Sì», disse Montecristo.

«Levai le pietre, e trovai…»

«Una scala di corda, degli utensili!» gridò il conte.

«E come lo sapete?» domandò il custode sorpreso.

«Non lo so, ma lo indovino», rispose il conte. «Normalmente sono queste le cose che si ritrovano nei nascondigli dei prigionieri.»

«Sì, signore», disse la guida, «una scala di corda e degli utensili…»

«E li hai ancora?» gridò Montecristo.

«No, signore, ho venduto quegli diversi oggetti, così strani, ad alcuni visitatori, ma mi resta un’altra cosa.»

«Che cosa dunque?» domandò il conte con impazienza.

«Mi resta una specie di libro, scritto su delle strisce di tela.»

«Oh!» gridò Montecristo. «Ce l’hai ancora questo libro?»

«Non so se sia un libro», chiarì il custode, «ma ce l’ho ancora, sì.»

«Amico mio, va’ a cercarlo», disse il conte, «e, se è quello che presumo, sta’ pur tranquillo, non te ne pentirai.»

«Corro, signore…»

E la guida uscì. Allora Montecristo andò a inginocchiarsi pietosamente davanti ai resti di quel letto, che per lui la morte aveva trasformato in un altare.

«Oh, mio secondo padre», disse, «tu mi hai dato la libertà, la scienza, la ricchezza, tu, che simile alle creature di natura superiore alla nostra, avevi la conoscenza del bene e del male, se dal fondo della tua tomba resta ancora qualche cosa che frema alla voce di quelli che sono rimasti sulla terra, se nella trasfigurazione che subisce il cadavere qualche cosa di animato si agita nei luoghi dove noi abbiamo molto amato o molto sofferto, nobile cuore, spirito superiore, anima profonda, con una parola, con un gesto, con una rivelazione qualunque, te ne scongiuro, in nome dell’amore paterno che mi accordavi, e del rispetto filiale che ti portavo, toglimi questo resto di dubbio, fa’ che si cambi in convinzione, e sgombra il rimorso.»

Il conte abbassò la testa, e congiunse le mani.

«Prendete, signore», disse una voce dietro a lui.

Montecristo rabbrividì, e si voltò.

Il custode gli tese quelle strisce di tela su cui Faria aveva sparso tutti i tesori della sua scienza. Quel manoscritto era la grande opera di Faria, di cui abbiamo parlato.

Il conte lo afferrò in tutta fretta, e gli occhi gli caddero subito sull’epigrafe. Lesse: «Tu strapperai i denti al drago, e calpesterai sotto i tuoi piedi i leoni, ha detto il Signore».

«Ecco la risposta!» gridò. «Grazie, padre mio, grazie!»

E sfilando di tasca un piccolo portafoglio che conteneva dieci biglietti di banca di mille franchi ciascuno, disse: «Prendi questo portafoglio».

«Me lo regalate?»

«Sì, ma a condizione di aprirlo solo quando me ne sarò andato.»

E stringendosi al petto la reliquia che aveva ritrovato, e che per lui aveva il prezzo del più gran tesoro, si lanciò fuori dal sotterraneo, e risalendo nella barca, disse: «A Marsiglia!»

Quindi allontanandosi con gli occhi fissi sulla tetra prigione, esclamò: «Maledetti coloro che mi hanno fatto rinchiudere in quel tetro carcere, e a coloro che hanno dimenticato che vi ero rinchiuso!»

E ripassando davanti al villaggio dei Catalani, il conte si girò e, avvolgendosi nel mantello, mormorò il nome di una donna. La vittoria era completa, il conte aveva per due volte vinto ogni dubbio. Il nome che pronunciò con quell’espressione di tenerezza che tradiva l’amore, era il nome di Haydée.

Mettendo piede a terra, Montecristo s’incamminò verso il cimitero dove sapeva di ritrovare Morrel. Anche là, in quel cimitero, dieci anni prima, aveva pietosamente cercato una tomba, ma inutilmente.

Il conte, che ritornava in Francia ricco, non aveva potuto ritrovare la tomba di suo padre, morto di fame. Morrel vi aveva fatto mettere una croce, ma la croce era caduta, e i becchini ne avevano fatto legna da ardere. L’onesto armatore era stato più fortunato: morto fra le braccia dei suoi figli, fu condotto da loro a riposare vicino a sua moglie che lo aveva preceduto di due anni nell’eternità. Due larghe pietre di marmo, sulle quali erano scritti i loro nomi, erano l’una vicina all’altra in un piccolo recinto chiuso da un cancello di ferro e ombreggiato da quattro cipressi.

Maximilien era appoggiato a uno di questi alberi, gli occhi che non vedevano fissi sulle due tombe. Il suo dolore era profondo, quasi smarrito.

«Maximilien», gli disse il conte, «non è li che dovete guardare, ma là!» E gli indicò il cielo.

«I morti sono ovunque», ribatté Morrel. «Non mi avete detto così voi stesso mentre lasciavamo Parigi?»

«Maximilien, durante il viaggio, mi avete domandato di fermarvi qualche giorno a Marsiglia: avete sempre lo stesso desiderio?»

«Io non ho più nessun desiderio», rispose Morrel. «Mi sembra soltanto che aspettare a Marsiglia mi sarebbe meno penoso che in qualsiasi altro luogo.»

«Tanto meglio, Maximilien, perché io vi lascio e porto con me la vostra parola… Non è vero?»

«Ah, io la dimenticherò, conte», disse Maximilien, «la dimenticherò!»

«No, non la dimenticherete! Prima di tutto, perché siete un uomo d’onore Morrel, poi perché lo avete giurato, perché tornerete a giurarlo.»

«Conte, abbiate pietà di me! Sono così infelice…»

«Ho conosciuto un uomo più infelice di voi.»

«Impossibile!»

«Amico», riprese Montecristo, «è uno degli orgogli della nostra povera umanità quello per cui un uomo si crede sempre più disgraziato di un altro che piange e si dispera vicino a lui.»

«Chi è più disgraziato di colui che ha perduto il solo bene che amava e desiderava al mondo?»

«Ascoltate, Morrel», continuò Montecristo, «e fissate un istante il vostro pensiero su quanto sono per dirvi. Io ho conosciuto un uomo che, come voi, aveva riposto tutte le sue speranze di felicità in una donna. Quest’uomo era giovane, aveva un vecchio padre che amava, una fidanzata che adorava, era sul punto di sposarla, e per uno di quei capricci della sorte che farebbero quasi dimenticare la bontà di Dio, se Dio poi non si rivelasse più tardi, mostrando che tutto è per lui un mezzo per condurre alla sua unità infinita, per un capriccio della sorte dicevo, gli fu tolta, a un tratto, la libertà, la fidanzata, l’avvenire che sognava e che credeva suo (poiché, cieco com’era, non poteva leggere che nel presente), per seppellirlo nel fondo di un carcere.»

«Ah!» esclamò Morrel. «Si può uscire dal carcere dopo otto giorni, un mese, un anno.»

«Vi restò quattordici anni, Morrel» disse il conte, posando una mano sulla spalla del giovane.

Maximilien rabbrividì.

«Quattordici anni!»

«Quattordici anni», ripeté il conte. «Anch’egli, in quei quattordici anni, ebbe momenti di disperazione, anch’egli, come voi, Morrel, si credeva il più disgraziato degli uomini, desiderava uccidersi.»

«Ebbene?» domandò Morrel.

«Ebbene, nel momento supremo, Dio si rivelò a lui con uno strumento umano. Forse al primo istante non comprese questa misericordia infinita del Signore, poiché ci vuole tempo agli occhi velati di lacrime per schiudersi del tutto, ma infine si armò di pazienza e aspettò. Un giorno uscì dalla sua tomba trasfigurato, ricco, potente. Il suo primo grido fu per suo padre, suo padre era morto.»

«Anche il mio è morto», disse Morrel.

«Sì, ma vostro padre è morto fra le vostre braccia, amico… felice, onorato, ricco, pieno di affetti; suo padre invece morì povero, disperato, affamato, e quando dieci anni dopo la sua morte, suo figlio cercò la sua tomba, anche questa era scomparsa, e nessuno poté dirgli “là riposa nel Signore colui che ti ha tanto amato”.»

«Oh!» esclamò Morrel.

«Questo era un figlio più disgraziato di voi, Morrel, poiché non sapeva neppure dove cercare la tomba di suo padre.»

«Ma», mormorò Morrel, «gli restava almeno la donna che aveva amato.»

«Vi sbagliate Morrel, questa donna…»

«Era morta?» gridò Maximilien.

«Peggio ancora: non gli era stata fedele, aveva sposato uno dei persecutori del suo fidanzato. Vedete dunque, Morrel, che quest’uomo era più disgraziato di voi.»

«E a quest’uomo», domandò Morrel, «Dio ha inviato consolazione?»

«Gli ha inviato almeno la calma.»

«E potrà ancora, un giorno, essere felice?»

«Lo spero, Maximilien.»

Il giovane lasciò cadere la testa sul petto, e disse: «Voi avete la mia promessa».

E dopo un istante di silenzio, e tendendo la mano a Montecristo, aggiunse: «Ricordatevi soltanto che…»

«Il 5 ottobre, Morrel, vi aspetto sull’isola di Montecristo. Il 4 uno yacht vi aspetterà nel porto di Bastia, si chiamerà Eurus: vi presenterete al capitano, che vi condurrà da me. Siamo d’accordo, non è vero, Maximilien?»

«Sì, conte, farò ciò che ho detto; ma ricordatevi che il 5 ottobre…»

«Ragazzo che non sa ancora cosa sia la promessa di un uomo… Vi ho detto venti volte che se quel giorno vorrete ancora morire… Morrel, addio.»

«Mi lasciate?»

«Sì, ho alcune faccende da sbrigare in Italia.»

«Quando partite?»

«Adesso. Il battello a vapore mi aspetta, fra un’ora sarò molto lontano da voi. Mi accompagnate fino al porto, Morrel?»

«Sono tutto vostro, conte.»

«Abbracciatemi.»

Morrel accompagnò il conte fino al porto. Ben presto il battello partì, e un’ora dopo, come aveva detto Montecristo, il fumo biancastro che usciva dalla ciminiera era appena visibile all’orizzonte offuscato dalla prima nebbia della sera.

114. Peppino

Mentre il battello a vapore del conte superava il capo Morgiou sparendo alla vista, un uomo correva sulla diligenza da Firenze a Roma, passando dalla città di Acquapendente. Vestito con un lungo soprabito da viaggio molto consunto, ma su cui spiccava il nastro della Legion d’Onore, quest’uomo, non soltanto da questo doppio segno, ma anche per l’accento col quale si rivolgeva al postiglione, era palesemente francese.

Una prova ulteriore che era nato in Francia, e che non sapeva una parola d’italiano, a eccezione di quelle della musica che sostituire tutte le finezze di una lingua particolare, diceva ai postiglioni a ogni salita: «Allegro!» e gridava a ogni discesa «Moderato!» E Dio sa se quante salite e discese ci sono da Firenze a Roma lungo la strada di Acquapendente! Queste due parole, del resto, facevano molto ridere coloro ai quali erano rivolte.

Di fronte alla città eterna, cioè alla Storta, punto da dove si scorge Roma, il viaggiatore non provò quel sentimento di entusiastica curiosità che spinge ogni straniero ad alzarsi dal fondo della carrozza per vedere la famosa cupola di San Pietro, che si vede molto prima di distinguere qualunque altro palazzo.

No, prese soltanto il portafoglio dalla tasca, e dal portafoglio una carta piegata in quattro, che spiegò e ripiegò con una cura che somigliava a rispetto, e si limitò a dire: «Bene, l’ho sempre».

La carrozza oltrepassò Porta del Popolo, girò a sinistra, e si fermò dirimpetto a Palazzo di Spagna. Mastro Pastrini, nostra antica conoscenza, ricevette il viaggiatore sulla soglia della porta col cappello in mano. Il viaggiatore scese, ordinò un buon pranzo, e chiese l’indirizzo della casa Thomson e French, che gli fu indicato all’istante; era una delle più conosciute di Roma, situata in via dei Banchi, vicino a Castel Sant’Angelo.

A Roma, come in qualsiasi altro posto, l’arrivo di una carrozza da posta è un avvenimento. Dieci giovani, discendenti di Mario e dei Gracchi, coi piedi nudi, i gomiti stracciati, ma il pugno sull’anca, e il braccio pittorescamente ricurvo sopra la testa, guardavano il viaggiatore, la carrozza e i cavalli; a questi scapestrati della città per eccellenza, si erano uniti una cinquantina di balordi dello Stato romano, di quelli che fanno dei cerchi sputando nell’acqua del Tevere dall’alto del ponte di Castel Sant’Angelo, quando nel Tevere c’è acqua. Ora siccome i monelli e i balordi di Roma, più felici di quelli di Parigi, capiscono tutte le lingue, e particolarmente la lingua francese, intesero che il viaggiatore domandava un appartamento, un pranzo e infine l’indirizzo della casa Thomson e French. Ne risultò che quando il nuovo arrivato uscì dall’albergo col cicerone d’obbligo, un uomo si staccò dal gruppo di curiosi, e senza esser notato dal viaggiatore, né dalla guida, s’incamminò a poca distanza dallo straniero, seguendolo con tanta maestria quanta ne avrebbe potuto avere un agente della polizia parigina. Il francese era così galvanizzato dalla fretta di fare visita alla casa Thomson e French, che non ebbe tempo d’aspettare che i cavalli fossero attaccati; la carrozza lo avrebbe raggiunto per strada, o aspettato alla porta del banchiere. Arrivarono senza che la carrozza li avesse ripresi.

Il francese entrò lasciando in anticamera la guida, che subito si mise a discorrere con due o tre di quegli industriosi senza industria, o meglio che esercitavano una di quelle mille industrie che si professano a Roma, alle porte dei banchieri, delle chiese, degli scavi archeologici, dei musei e dei teatri.

Contemporaneamente al francese entrò pure l’uomo che si era staccato dal gruppo dei curiosi; il francese fece ingresso nella prima stanza, la sua ombra fece altrettanto.

«I signori Thomson e French?» domandò lo straniero.

Una specie di impiegato si alzò al segnale di un commesso, guardiano formale del primo ufficio.

«Chi devo annunciare?» domandò l’impiegato.

«Il barone Danglars», rispose il viaggiatore.

«Venite», disse l’altro.

E l’impiegato e il barone sparirono dietro una porta. L’uomo ch’era entrato dietro Danglars si sedette su una panca. Il commesso continuò a scrivere per circa cinque minuti; in quei cinque minuti, l’uomo seduto conservò il più profondo silenzio e la più assoluta immobilità. Quindi la penna cessò di stridere sulla carta, il commesso alzò la testa, guardò attentamente attorno a sé, e dopo essersi assicurato che non c’era nessun altro, disse: «Finalmente eccoci qui, Peppino…»

«Sì», rispose questi laconicamente.

«Hai fiutato qualche buon affare in quel signore?»

«Non c’è gran merito in questo, siamo stati avvisati.»

«Sai dunque cos’è venuto a fare qui?»

«Perdinci, è venuto a riscuotere. Resta solo da sapere quanto.»

«Te lo dirò fra poco, amico.»

«Benissimo, ma non darmi, come l’altro giorno, delle false informazioni.»

«Che vuoi dire? Di chi parli? Forse di quell’inglese che giorni fa portò via tremila scudi?»

«No, quello aveva davvero tremila scudi, e li abbiamo ritrovati. Io parlavo del principe russo.»

«Ebbene?»

«Tu ci avevi detto trentamila lire, e non ne abbiamo ritrovate che ventiduemila.»

«Avrete cercato male.»

«È stato Luigi Vampa a perquisirlo.»

«In tal caso avrà avuto dei debiti da pagare.»

«Un russo?»

«Oppure avrà speso il danaro…»

«È più probabile.»

«È sicurissimo. Ma lasciatemi andare al mio osservatorio, altrimenti il francese se ne andrà, senza che abbia saputo la cifra.»

Peppino fece un segno affermativo con la testa, e si mise a osservare alcune incisioni appese al muro, mentre il commesso scompariva per la stessa porta attraversata dall’impiegato e dal barone. Dopo circa dieci minuti, il commesso ricomparve tutto raggiante.

«Ebbene?» domandò Peppino al suo amico.

«Attenzione!Attenzione!» bisbigliò il commesso. «La somma è grossa!»

«Tra i cinque e i sei milioni, vero?»

«Sì… Come sai la cifra?»

«Su una ricevuta di sua eccellenza il conte di Montecristo?»

«Conosci il conte?»

«E della quale è stato accreditato su Roma, Venezia e Vienna?»

«È così!» gridò il commesso. «Come mai sei così bene informato?»

«Te l’ho detto, siamo stati avvertiti.»

«Allora perché sei venuto da me?»

«Per essere sicuro che era questo l’uomo col quale avevamo a che fare.»

«È proprio lui… cinque milioni. Una bella somma, eh?»

«Sì.»

«Noi non ne avremo mai così tanti.»

«Ma almeno avremo gli avanzi», replicò filosoficamente Peppino.

«Zitto! Ecco il nostro uomo.»

Il commesso riprese la penna, e Peppino tornò di nuovo a osservare i quadri.

Danglars apparve raggiante insieme al banchiere che lo accompagnò fino alla porta. Secondo gli accordi, la carrozza che doveva ricondurre Danglars aspettava davanti alla porta di Thomson e French. Il cicerone teneva lo sportello aperto. Danglars saltò in carrozza, leggero come un giovane di vent’anni. Il cicerone chiuse lo sportello, e salì vicino al cocchiere. Peppino montò nel posto dietro.

«Sua eccellenza vuole andare a vedere San Pietro?» domandò il cicerone.

«Per fare cosa?» rispose il barone.

«Diamine, per vedere!»

«Io non sono venuto a Roma per vedere», disse ad alta voce Danglars. Quindi aggiunse sommessamente con un cupido sorriso: «Sono venuto per intascare».

E infatti toccò il portafoglio, nel quale aveva chiuso una lettera.

«Allora sua eccellenza va…?»

«In albergo.»

«Casa Pastrini!» disse il cicerone al cocchiere.

E la carrozza partì rapida come un cocchio signorile. Dieci minuti dopo il barone era rientrato nel suo appartamento, e Peppino si era installato su una panca posta contro un muro vicino alla porta, dopo aver detto alcune parole all’orecchio di uno di quei discendenti di Mario e dei Gracchi che abbiamo segnalato all’inizio di questo capitolo, il quale prese di corsa la strada del Campidoglio.

Danglars era stanco, soddisfatto e aveva sonno. Si mise a letto, infilò il portafoglio sotto il capezzale, e si addormentò. In quanto a Peppino, avendo tempo, giocò alla morra con alcuni facchini, perdette due o tre scudi, e, per consolarsi, bevve un fiasco di vino d’Orvieto.

L’indomani Danglars si svegliò tardi, sebbene fosse andato a letto di buon’ora; erano cinque o sei notti che non dormiva, o che dormiva malissimo. Fece una lauta colazione, e noncurante come aveva detto, di vedere le bellezze della città eterna, ordinò i cavalli da posta per mezzogiorno. Ma Danglars non aveva tenuto conto delle formalità della polizia e della lentezza del postiglione. I cavalli giunsero soltanto alle due, e il cicerone non portò il passaporto coi visti che alle tre. Tutti questi preparativi avevano richiamato alla porta di mastro Pastrini un buon numero di oziosi, né mancavano i discendenti dei Gracchi e di Mario. Il barone attraversò trionfalmente quella folla che lo chiamava eccellenza per avere un baiocco. Siccome Danglars, uomo popolarissimo, come si sa, fino a quel momento si era accontentato di farsi chiamare barone, quel titolo lo lusingò e distribuì una dozzina di paoli a tutta quella canaglia, pronta, per un’altra dozzina di paoli, a trattarlo col titolo di altezza.

«Che via?» domandò il postiglione in italiano.

«Per Ancona», rispose il barone.

Mastro Pastrini tradusse la domanda e la risposta, e la carrozza partì al galoppo. Danglars voleva effettivamente passare da Venezia, per riscuotere parte del credito, quindi da Venezia andare a Vienna per realizzare il resto. Era sua intenzione stabilirsi in quest’ultima città, che gli avevano assicurato essere una città di piaceri. Dopo appena due leghe nella campagna di Roma, cominciò a farsi buio. Danglars non pensava di dover partire così tardi, altrimenti sarebbe rimasto; domandò al postiglione quanto mancava per giungere alla prima città.

«Non capisco!» rispose in italiano il postiglione.

Danglars fece un cenno con la testa, che voleva dire: «Non importa!»

E la carrozza continuò la sua strada.

«Mi fermerò alla prima posta», diceva fra sé Danglars.

Danglars provava ancora un po’ del benessere della sera precedente, e che gli aveva procurato una così buona notte. Steso nella sua carrozza inglese a doppie molle, si sentiva trascinato al galoppo da due buoni cavalli: il viaggio era di sette leghe, lo sapeva. Che fare quando uno è banchiere, e ha concluso un fallimento felice? Danglars pensò dieci minuti a sua moglie rimasta a Parigi, altri dieci minuti a sua figlia che girovagava con Louise d’Armilly; concesse dieci minuti ai suoi creditori, e a come avrebbe reimpiegato il loro denaro; quindi non avendo più niente da fare, chiuse gli occhi e si addormentò. Qualche volta però, scosso da un urto più forte degli altri, Danglars riapriva gli occhi: allora si sentiva sempre trasportato alla stessa velocità attraverso quella campagna di Roma, tutta seminata di ruderi, d’acquedotti che sembravano giganti di granito pietrificati a metà della loro corsa. Ma la notte era fredda, oscura e piovosa, ed era meglio per un uomo mezzo assopito, rimanere in fondo alla sua carrozza con gli occhi chiusi, che mettere la testa fuori dello sportello per domandare dove ci si trovava al postiglione, che non sapeva rispondere altro che: «Signore, non capisco». Danglars continuò dunque a dormire, pensando che avrebbe sempre fatto in tempo a svegliarsi quando fosse giunto al cambio dei cavalli.

La carrozza si fermò. Danglars pensò che finalmente aveva raggiunto il posto desiderato. Riaprì gli occhi, guardò attraverso il vetro, credendo di trovarsi in qualche città o almeno in qualche villaggio, ma non vide nient’altro che una specie di capanna isolata, e tre o quattro uomini che andavano e venivano come ombre.

Danglars aspettò un momento che il postiglione, ormai finita la corsa, venisse a reclamare il suo denaro; contava di approfittare di quell’occasione per chiedere qualche informazione al suo nuovo conduttore, ma i cavalli furono staccati e sostituiti con altri senza che nessuno andasse a chiedere denaro al viaggiatore. Danglars, meravigliato, aprì lo sportello, ma una mano vigorosa lo richiuse subito, e la carrozza partì.

«Ehi, mio caro!» disse al postiglione.

Anche questa era una parola italiana di una romanza che Danglars aveva ricordato dalla volta che sua figlia aveva cantato qualche duetto col principe Cavalcanti. Ma il «mio caro» non gli rispose.

Danglars si accontentò allora di abbassare il vetro e gridare in francese, mettendo fuori la testa: «Ehi, amico, dove andiamo dunque?»

«Dentro la testa!» gridò una voce grave e imperiosa, accompagnata da un gesto minaccioso.

Danglars capì cosa significavano dire quelle parole. Faceva, come si vede, rapidi progressi nella lingua italiana: obbedì, non senza inquietudine, e siccome la sua inquietudine aumentava di minuto in minuto, dopo alcuni istanti la sua mente, invece del vuoto che abbiamo segnalato al momento in cui si era messo in viaggio e che gli aveva procurato il sonno, la sua mente, dicevamo, si trovò piena di una quantità di pensieri capaci di tenere sveglio un viaggiatore, e soprattutto un viaggiatore che si trovava nella situazione di Danglars. Nell’oscurità vide un uomo avvolto in un mantello che galoppava allo sportello di destra.

«Qualche gendarme», commentò a bassa voce. «Che sia stato segnalato dal telegrafo francese alle autorità pontificie?»

E decise di porre fine a quell’incertezza.

«Dove mi portate?» domandò, sempre in francese.

«Dentro la testa!» ripeté la stessa voce, col medesimo tono di minaccia.

Danglars si voltò subito verso sinistra: vide che un altro uomo a cavallo galoppava vicino allo sportello.

«Sono stato arrestato», diceva tra sé Danglars, col sudore sulla fronte.

E si gettò nel fondo della carrozza, non per dormire stavolta, ma per pensare. Un istante dopo apparve la luna. Dal fondo della carrozza Danglars fissò lo sguardo sulla campagna: rivide allora quei grandi acquedotti, fantasmi di pietra che aveva notato passando, invece di averli a destra, li aveva a sinistra. Capì allora che avevano fatto girare la carrozza e che lo riconducevano a Roma.

«Oh, me disgraziato!» mormorò. «Devono aver ottenuto la mia estradizione.»

La carrozza continuò a correre a gran velocità. Un’ora passò, terribile, poiché a ogni nuovo sguardo gettato al suo passaggio, il fuggitivo capiva che lo riportavano indietro. Finalmente vide una massa scura contro la quale sembrava che la carrozza stesse per urtare. Ma la carrozza girò, e corse lungo quella massa scura, che altro non erano che le mura di Roma.

«Non rientriamo in città», mormorò Danglars. «Dunque non è la polizia che mi arresta. Buon Dio, che siano…»

E gli si drizzarono i capelli; si ricordò le strane storie dei banditi della campagna romana, tanto poco credute a Parigi, e che Albert Morcerf aveva raccontato alla signora Danglars e a Eugénie.

«Che siano ladri…» mormorò.

A un tratto la carrozza traballò, era un terreno più aspro che quello di una strada postale. Danglars s’arrischiò a gettare uno sguardo ai lati della strada: vide monumenti di forme strane, e il suo istinto, preoccupato dal racconto di Morcerf, che ora si presentava a lui in tutti i suoi minuziosi particolari, il suo istinto gli disse che doveva trovarsi sulla via Appia.

A sinistra della carrozza, in una specie di vallo, si vedeva uno scavo circolare: era il circo di Caracalla. A una parola di colui che galoppava a destra, la carrozza si fermò, mentre lo sportello di sinistra si aprì.

«Scendi», gli comandò una voce.

Danglars scese subito; non parlava ancora l’italiano, ma cominciava già a capirlo. Più morto che vivo, il barone si guardò. Quattro uomini lo circondavano, senza contare il postiglione.

«Di qua», disse uno dei quattro, scendendo lungo un sentiero che conduceva tra le alture della campagna romana.

Danglars seguì la sua guida senza rispondere, e non ebbe bisogno di voltarsi per sapere che era seguito da altri tre uomini, ma gli sembrò che questi poi si fermassero come di sentinella a distanze quasi uguali. Dopo dieci minuti di cammino, durante i quali Danglars non scambiò neppure una parola con la sua guida, si trovò fra un poggio e un cespuglio; vide da lontano parecchi uomini a cavallo, vestiti nel pittoresco costume della campagna romana, col fucile in alto.

«Avanti», disse la medesima voce in tono breve e imperioso.

Stavolta Danglars capì doppiamente, voglio dire la parola e il gesto, poiché l’uomo che camminava dietro di lui lo spinse così violentemente in avanti, che andò a urtare la guida: era il nostro amico Peppino, che s’inoltrò fra le erbe per un viottolo che solo le faine e le volpi potevano conoscere. Peppino si fermò davanti a una roccia ricoperta da fitti cespugli trafitta da una spaccatura, entro cui il giovane scomparve come scompaiono nelle bolge i diavoli delle nostre favole. La voce e il gesto di quello che seguiva Danglars costrinsero il banchiere a fare altrettanto. Non c’era più da dubitare, il francese fallito aveva a che fare coi briganti. Danglars obbedì; posto fra due terribili pericoli, era reso coraggioso dalla paura. Malgrado il ventre, troppo prominente per penetrare nei crepacci della campagna romana, s’infilò dietro a Peppino, e lasciandosi scivolare, chiudendo gli occhi, cadde in piedi. Toccando il suolo riaprì gli occhi. Il percorso era largo ma buio. Peppino, non curandosi di essere riconosciuto, ora che si trovava in casa sua, accese una fiaccola. Altri due scesero dietro Danglars, spingendolo quando si fermava, e lo fecero arrivare, per un dolce declivio, al centro di un crocicchio dall’aspetto sinistro. Infatti, le pareti dei muri, scavate a loculi sovrapposti, sembravano, in mezzo alle pietre bianche, quelle orbite nere e profonde che si vedono nei crani dei morti.

«Chi va là?» disse la sentinella, facendo scattare con la mano sinistra la sicura della carabina.

«Amici, amici», rispose Peppino. «Dov’è il capitano?»

«Lassù», disse la sentinella, mostrando sopra la spalla una specie di sala scavata nella roccia, e la cui luce si rifletteva nei corridoi per mezzo di grandi aperture concentriche.

«Buona preda, capitano», disse Peppino in italiano.

E prendendo Danglars per il colletto dell’abito, lo condusse verso un’apertura che assomigliava a una porta, e per la quale si penetrava nella caverna in cui sembrava che il capitano avesse stabilito il suo alloggio.

«È quell’uomo?» domandò un uomo che stava leggendo con molta attenzione la Vita di Alessandro di Plutarco.

«Proprio lui, capitano.»

«Benissimo, mostratemelo.»

Peppino avvicinò così arditamente la torcia al viso di Danglars, che questi indietreggiò per non farsi bruciare le sopracciglia. Quel viso era sconvolto dal terrore.

«Quest’uomo è stanco», disse il capitano. «Conducetelo al suo letto.»

«Questo letto sarà probabilmente un sepolcro scavato nel muro, e il sonno sarà la morte che mi verrà da uno di quei pugnali che vedo luccicare fra le ombre», pensò Danglars

Nella profonda oscurità della grotta si vedevano alzarsi sopra strami d’erbe secche o pelli di lupi i compagni di colui che Albert Morcerf aveva sorpreso mentre leggeva i Commentari di Giulio Cesare, e che Danglars trovava immerso le Vite Parallele di Plutarco.

Il banchiere mandò un sordo gemito, e seguì la guida. Non ebbe coraggio né di pregare, né di protestare, non aveva più né forza, né volontà, né potenza, né sentimento, andava perché lo trascinavano. Urtò un gradino, e capì che aveva una scala davanti a sé; alzò meccanicamente i piedi, quattro o cinque volte.

Allora gli si aprì davanti una porta bassa; si curvò per non picchiare con la fronte, e si ritrovò in una cella tagliata nella roccia. Quella cella era asciutta, benché nuda e scavata nella terra a una profondità enorme. Un letto fatto di erbe secche, e ricoperto di pelli di capra, era steso in un angolo della cella.

Danglars, nello scoprirlo, lo credette il simbolo della sua salvezza.

«Sia lodato Iddio!» mormorò. «È un vero letto.»

Era la seconda volta, in un’ora, che invocava il nome di Dio, e ciò non gli accadeva da più di dieci anni.

«Ecco», disse la guida.

E spingendo Danglars verso la cella, chiuse la porta dietro a lui. Il catenaccio cigolò; Danglars era prigioniero. D’altra parte, anche se non vi fosse stato il catenaccio, ci sarebbe voluto un miracolo per passare in mezzo alle sentinelle che in quel punto custodivano le catacombe di San Sebastiano, e che erano accampate intorno al loro capo, nel quale i nostri lettori avranno certamente riconosciuto il famoso Luigi Vampa.

Anche Danglars aveva riconosciuto quel bandito, all’esistenza del quale non aveva voluto credere quando Morcerf aveva cercato di convincerlo in Francia. Non solo lo aveva riconosciuto, ma aveva anche riconosciuto la cella nella quale Albert era stato rinchiuso, e che, secondo tutte le probabilità, era l’alloggio dei forestieri.

Quei ricordi, su cui Danglars indugiava con una certa gioia, gli avevano restituito la tranquillità. Poiché i banditi non lo avevano ucciso subito, era segno che non avevano deciso di ucciderlo, ma lo avevano arrestato per derubarlo, e siccome non aveva con sé che pochi luigi, avrebbero chiesto un riscatto. Si ricordò che per Morcerf avevano domandato circa quattromila scudi, e siccome si attribuiva un valore molto più importante di Albert, fissò da sé il proprio riscatto a ottomila scudi. Ottomila scudi non facevano più di quarantatremila lire. Gli restava ancora una somma di circa cinque milioni e cinquantamila lire. Con questa somma ci si può cavarsi d’impaccio ovunque.

Dunque, quasi certo di togliersi dai guai, poiché non ricordava situazione in cui su un uomo fosse stato chiesto un riscatto di cinque milioni e cinquantamila lire, Danglars si stese sul letto, dove, dopo essersi girato e rigirato due o tre volte, si addormentò con la tranquillità dell’eroe di cui Luigi Vampa leggeva la storia.

115. La carta di Luigi Vampa

A ogni sonno, che non sia quello temuto da Danglars, segue il suo risveglio. Danglars si svegliò. Per un parigino abituato alle cortine di seta, alle pareti coperte di velluto, al profumo che emana il legno sul caminetto e che scende dalle volte di seta, il risveglio in una grotta di pietra calcarea deve essere come un brutto sogno. Al tocco delle coperte di pelle di capra, Danglars dovette credere di sognare i curdi. Ma in simile circostanza bastò un secondo per cambiare il dubbio in certezza.

«Sì, sì», mormorò, «sono nelle mani dei banditi di cui mi parlò Albert Morcerf.»

Per prima cosa respirò con forza, per assicurarsi di non essere stato ferito, un espediente che aveva imparato dal Don Chisciotte, il solo libro, non che avesse letto, ma di cui aveva sentito parlare.

«No», pensò. «Non mi hanno né ucciso né ferito, ma mi avranno derubato.»

E si mise subito le mani in tasca. C’era tutto: i cento luigi che aveva conservato in contanti per fare il viaggio da Roma a Venezia, erano nella tasca dei pantaloni, e il portafoglio nel quale si trovava la lettera di credito per cinque milioni e cinquantamila franchi era nella tasca interna dell’abito.

«Che strani banditi!» disse fra sé. «Mi hanno lasciato la borsa e il portafoglio! Come dicevo ieri sera, m’imporranno un riscatto. Ho ancora il mio orologio! Vediamo un po’ che ora è.»

L’orologio di Danglars, un capolavoro di Bréguet, che aveva montato con cura prima di mettersi in viaggio, segnava le cinque e mezzo del mattino. Senza di esso, Danglars sarebbe rimasto incerto sull’ora, poiché la luce del giorno non penetrava nella cella. Doveva sollecitare i banditi a spiegarsi, o aspettare pazientemente che si decidessero da soli? L’ultima alternativa era la più prudente; Danglars aspettò, aspettò fino a mezzogiorno.

In tutto quel tempo una sentinella aveva vegliato alla porta. Alle otto del mattino, la sentinella era stata cambiata, e Danglars voleva capire da chi fosse sorvegliato. Aveva notato che alcuni raggi di luce, non già del giorno, ma della lampada filtravano attraverso le fessure della porta mal accostata; si avvicinò a una di quelle fessure nel momento preciso in cui il bandito beveva alcuni sorsi di acquavite, che, attraverso l’otre di pelle che la conteneva, spandeva un odore molto ripugnante.

«Puah!» esclamò, arretrando fino in fondo alla cella.

A mezzogiorno l’uomo dell’acquavite fu rimpiazzato da un’altra sentinella. Danglars era curioso di vedere il suo nuovo guardiano; si accostò di nuovo alla fessura. Era un bandito atletico, un Golia dagli occhi grossi, le labbra spesse e il naso schiacciato; i capelli rossi gli ricadevano sulle spalle in onde contorte come serpenti.

«Questo assomiglia più a una belva che a una creatura umana, ma in ogni caso sono vecchio e abbastanza coriaceo, e quindi non buono da mangiare.»

Come si vede, Danglars aveva ancora abbastanza presenza di spirito per scherzare. Nello stesso istante, come per provargli che non era una belva, il suo guardiano si sedette di fronte alla porta della cella, prese dalla bisaccia del pane nero, delle cipolle e del formaggio, e si mise subito a divorarli.

«Che il diavolo mi porti», disse Danglars, gettando attraverso la fessura della porta uno sguardo sul pranzo del bandito, «che il diavolo mi porti, se capisco come si possano mangiare simili porcherie!»

Tornò a sedersi sulle sue pelli, che gli ricordavano l’odore dell’acquavite della prima sentinella. Ma Danglars aveva un bel dire, poiché i segreti della natura sono incomprensibili: sentì d’improvviso l’appetito, e allora l’uomo gli sembrò meno brutto, il pane meno nero, il formaggio più fresco. Infatti quelle cipolle crude, orribile cibo del bandito, gli ricordarono certi sughi di Robert e certi intingoli che il suo cuoco eseguiva in modo sorprendente, quando Danglars gli diceva: «Signor Deniseau, preparatemi qualcosa di buono».

Si alzò e andò a bussare alla porta. Il bandito alzò la testa. Danglars si accorse che l’uomo l’aveva sentito e raddoppiò i colpi.

«Che cosa c’è?» domandò il bandito.

«Dite, amico» disse Danglars, tamburellando con le dita sulla porta, «mi sembra che sarebbe ora che pensiate a nutrire anche me.»

Ma, sia che non capisse il francese, sia che non avesse ricevuto ordini a proposito del pranzo di Danglars, il gigante si rimise a mangiare. Danglars si sentì ferito nell’orgoglio, e non volendo compromettersi di più con quella belva, andò a rannicchiarsi sulle pelli, e non disse più parola.

Passarono quattro ore: il gigante fu rimpiazzato da un altro bandito. Danglars, che soffriva di orribili crampi allo stomaco, si alzò dolcemente, applicò l’occhio alle fenditure della porta, e riconobbe la sua guida. Era infatti Peppino, che si preparava a montare la guardia, sedendosi di fronte alla porta, e appoggiando fra le gambe una teglia di terracotta contenente piselli caldi e profumati, cotti in fricassea al lardo. Vicino a quei piselli Peppino depose anche un bel paniere di uva fresca di Velletri e un fiasco di vino d’Orvieto. Peppino era un vero ghiottone. Vedendo quei preparativi gastronomici a Danglars venne l’acquolina in bocca.

«Eccone uno nuovo», disse il prigioniero, «vediamo un po’ se questo è più malleabile degli altri.»

E bussò gentilmente alla porta.

«Eccomi», disse il bandito, il quale, frequentando la casa di mastro Pastrini, aveva poi finito per imparare il francese, perfino nei suoi dialetti.

Infatti venne ad aprire. Danglars lo riconobbe per quello che gli aveva gridato in modo furioso di tirare dentro la testa, ma non era certo l’ora delle proteste. Assunse l’aspetto più gentile, e con un grazioso sorriso, disse: «Scusate, signore, non c’è qualcosa da mangiare anche a me?»

«Come», gridò Peppino, «vostra eccellenza avrebbe fame, per caso?»

«Per caso, dite?» mormorò Danglars. «Non mangio da ventiquattro ore. Sì, signore», aggiunse alzando la voce, «ho fame, e anche molta.»

«E vostra eccellenza vuol mangiare?»

«Subito, se è possibile.»

«Niente di più facile», disse Peppino, «qui si può procurare tutto ciò che desidera, pagando, beninteso, come si usa presso tutti gli onesti cristiani.»

«Naturalmente!» esclamò Danglars. «Anche se, a dire il vero, le persone che rapiscono e che imprigionano, dovrebbero almeno nutrire i loro prigionieri.»

«Ah, eccellenza», replicò Peppino, «non è nostro costume.»

«È una cattiva abitudine», rispose Danglars, che contava di addolcire il guardiano con la sua amabilità, «però non voglio insistere. Su, fatemi portare da mangiare.»

«Immediatamente, eccellenza… Che cosa desiderate?»

Peppino depose la teglia per terra in modo che il fumo salisse direttamente alle narici di Danglars.

«Comandate», continuò.

«Dunque qui avete delle cucine?»

«Cucine perfette!»

«E cuochi?»

«Eccellenti!»

«Ebbene, un pollo, un pesce, della selvaggina, non importa quello che sia, purché si mangi.»

«Come desidera vostra eccellenza. Dicevamo, dunque, un pollo, non è vero?»

«Sì, un pollo.»

Peppino si voltò, e gridò con tutta la forza dei suoi polmoni.

«Un pollo per sua eccellenza!»

La voce di Peppino vibrava ancora sotto le volte, che già compariva un giovane bello, svelto e mezzo nudo, come gli antichi portatori di pesce, portando il pollo sopra un piatto d’argento.

«È come essere al Café de Paris!» mormorò Danglars.

«Eccolo, eccellenza!» disse Peppino, prendendo il pollo dalle mani del giovane bandito, e deponendolo sopra una tavola tarlata, che con uno sgabello e il letto di pelli, formava l’arredo della stanza.

Danglars domandò un coltello e una forchetta.

«Eccoli, eccellenza», disse ancora Peppino offrendo un coltello con la punta smussata e una forchetta di legno.

Danglars prese il coltello con una mano e la forchetta con l’altra, e si apprestò a tagliare il volatile.

«Scusi, eccellenza», riprese Peppino, posando una mano sulla spalla del banchiere, «qui si paga prima di mangiare; si potrebbe non essere soddisfatti, uscendo…»

«Ecco che qui non è più come a Parigi!» esclamò Danglars. «Senza contare che probabilmente questi banditi mi scorticheranno; ma facciamo le cose in grande. Vediamo: ho sempre dire che in Italia la vita costa poco, un pollo non deve valere più di dodici soldi a Roma. Ecco», disse, «un luigi…» e lo gettò a Peppino.

Peppino raccolse il luigi, Danglars accostò il coltello al pollo.

«Un momento, eccellenza», continuò Peppino rialzandosi, «un momento: vostra eccellenza mi deve ancora qualche cosa.»

«Lo dicevo che mi avrebbero scorticato!» mormorò Danglars.

Quindi, deciso a risolvere presto la questione estorsione, domandò: «Quanto vi devo ancora per questo miserabile volatile?» domandò.

«Vostra eccellenza mi ha dato un luigi d’acconto.»

«Un luigi d’acconto per un pollo?»

«Certamente, d’acconto.»

«Bene… avanti, avanti!»

«Vostra eccellenza mi deve ancora soltanto quattromilanovecentonovantanove luigi.»

Danglars sbarrò gli occhi enormi sentendo quella cifra spropositata.

«Ah, burlone!» mormorò. «Davvero furbissimo.»

Fece per rimettersi a tagliare il pollo, ma Peppino gli fermò la mano destra con la mano sinistra, e tese l’altra mano.

«E no», disse.

«Cosa, non scherzate?» domandò Danglars.

«Noi non scherziamo mai, eccellenza» riprese Peppino.

«Come, centomila franchi per un pollo?»

«Eccellenza, non sapete quanta fatica ci costi allevare un pollo in queste maledette grotte.»

«Adesso basta», sbottò Danglars, «la situazione è divertente, ma siccome ho fame, lasciatemi mangiare. Prendete, ecco qua un altro luigi per voi, amico mio.»

«Con ciò il vostro debito non sarà più che di quattromilanovecentonovantotto luigi», ribadì Peppino conservando la medesima calma. «Con la pazienza ci arriveremo.»

«In quanto a questo», replicò Danglars, stomacato dalla minacciosa durata di quello scherzo, «in quanto a questo, mai. Andate al diavolo! Voi non sapete con chi avete a che fare.»

Peppino fece un cenno al giovane bandito, che allungò veloce le mani e portò via il pollo. Danglars si gettò sul suo giaciglio. Peppino chiuse la porta e si rimise a mangiare i suoi piselli al lardo. Danglars non poteva vedere ciò che faceva Peppino, ma lo sbattere dei denti del bandito non lasciava alcun dubbio al prigioniero sull’esercizio che lo occupava. Era chiaro che mangiava, e che mangiava rumorosamente, come fanno i maleducati.

«Villano!» gridò Danglars.

Peppino fece finta di non capire, e senza neppure voltare la testa continuò a mangiare lentamente. A Danglars pareva di avere lo stomaco perforato come la tinozza delle Danaidi, pensando che non avrebbe mai più mangiato. Però pazientò ancora una mezz’ora che gli parve un secolo. Si alzò e andò di nuovo davanti alla porta.

«Vi prego, signore», disse, «non fatemi languire ancora, e ditemi ciò che volete da me.»

«Ma eccellenza, dite piuttosto ciò che volete da noi. Dateci i vostri ordini, e noi li eseguiremo»

«Allora aprite.»

Peppino aprì.

«Voglio mangiare!» ripeté Danglars.

«Avete fame?»

«Lo sapete bene!»

«Che cosa desidera mangiare, vostra eccellenza?»

«Un tozzo di pane secco, visto che i polli hanno un prezzo esorbitante in queste maledette caverne.»

«Pane sia», disse Peppino. «Olà, pane!»

Il giovane portò un pagnotta.

«Eccolo!» disse Peppino.

«Quanto costa?» domandò Danglars.

«Quattromilanovecentonovantotto luigi. Ci sono già due luigi pagati in precedenza.»

«Come, una pagnotta centomila franchi?»

«Centomila franchi», confermò Peppino.

«Ma volevate centomila franchi per un pollo!»

«Noi serviamo a prezzo fisso. Si mangi poco, o molto, si comandino dieci piatti o uno solo, è sempre la stessa cifra.»

«Ecco un altro scherzo! Amico mio, vi dico che questa è un’assurdità, una stupidità! Ditemi piuttosto che volete che io muoia di fame, e tutto sarà finito.»

«Ma no, eccellenza, siete voi che volete commettere un suicidio. Pagate e mangiate.»

«E come potrei pagare, brutto animale?» gridò Danglars esasperato. «Credi forse che giri con centomila franchi in tasca?»

«Voi avete cinque milioni e cinquantamila franchi nella vostra, eccellenza», disse Peppino. «Bastano per cinquanta polli a centomila franchi, e un mezzo pollo a cinquantamila.»

Danglars fremette, la benda gli cadde dagli occhi; era si uno scherzo, ma adesso lo capiva. Bisogna pur rendergli giustizia, perché da quel momento non considerava più lo scherzo stupido come prima.

«Allora», disse, «pagando questi centomila franchi, mi riterrete solvente, e potrò mangiare con tutto comodo?»

«Certamente», rispose Peppino.

«Ma in che modo dovrò pagarli?» aggiunse Danglars, respirando più liberamente.

«Niente di più facile: avete un credito aperto presso i signori Thomson e French, via dei Banchi a Roma. Datemi un assegno di quattromilanovecentonovantotto luigi su questi signori, e il nostro banchiere lo sconterà.»

Danglars volle almeno attribuirsi il merito della buona volontà, prese la penna e la carta presentatagli da Peppino, scrisse la cedola e firmò.

«Prendete», disse, «ecco il vostro assegno al portatore.»

«A voi, il vostro pollo.»

Danglars tranciò il pollo sospirando, poiché gli sembrava molto magro per una così grossa somma. In quanto a Peppino, lesse attentamente il foglio, se lo mise in tasca, e continuò a mangiare i suoi piselli.

116. Il perdono

Il giorno dopo Danglars ebbe nuovamente fame: l’aria di quella caverna era certamente salubre. Il prigioniero pensava che, per quel giorno, non avrebbe avuto alcuna spesa da fare; da uomo parsimonioso aveva nascosto metà del pollo e un pezzo di pane in un angolo della cella.

Ma non appena ebbe mangiato, gli venne sete: non lo aveva previsto questo! Lottò contro la sete fino al momento in cui sentì la lingua arida attaccarsi al palato. Allora, non potendo più resistere al fuoco che lo divorava, chiamò. La sentinella aprì la porta, era un viso nuovo. Pensò che era meglio per lui aver a che fare con una vecchia conoscenza; chiamò Peppino.

«Eccomi eccellenza», disse il bandito, presentandosi con una premura che parve di buon augurio a Danglars. «Che cosa desiderate?»

«Da bere», disse il prigioniero.

«Eccellenza», riprese Peppino, «voi sapete che il vino è molto caro nelle vicinanze di Roma.»

«Allora datemi dell’acqua», replicò Danglars.

«Oh, eccellenza, l’acqua è più rara del vino; c’è una grande siccità!»

«Ecco che ricominciamo la storia di ieri, a quanto pare», disse Danglars

E mentre sorrideva per mostrare di voler scherzare, il sudore aveva ricominciato a bagnargli le tempie.

«Animo, amico mio», continuò Danglars, vedendo che Peppino era sempre impassibile, «vi chiedo un bicchiere di vino. Me lo rifiuterete?»

«Vi ho già detto, eccellenza», rispose con gravità Peppino, «che non vendiamo al dettaglio.»

«E allora datemi una bottiglia.»

«Quale?»

«Di quello che costa meno.»

«Costa tutto uguale.»

«E quanto?»

«Venticinquemila franchi la bottiglia.»

«Ditelo», gridò Danglars, con un’amarezza che solo Arpagone avrebbe potuto esprimere sul diapason della voce umana, «dite che volete spogliarmi, e farete prima che divorarmi pezzo per pezzo.»

«È possibile che questo sia il progetto del padrone», ammise Peppino.

«Chi è il padrone?»

«Quello da cui vi condussi ieri.»

«E dov’è?»

«Qui.»

«Vorrei vederlo.»

«È facile.»

Un istante dopo Luigi Vampa era davanti a lui.

«Mi avete chiamato?» domandò al prigioniero.

«Siete voi, signore, il capo di questi uomini che mi hanno rapito?»

«Sì, eccellenza. Perché?»

«Che cosa volete per il mio riscatto? Parlate.»

«Semplicemente i cinque milioni che avete in tasca.»

Danglars sentì un orribile spasimo lacerargli il cuore.

«Io non ho che questi, signore, residuo di un’immensa ricchezza; se me li togliete, tanto vale che mi togliate anche la vita.»

«Ci è proibito versare il sangue di vostra eccellenza.»

«E da chi vi è stato proibito?»

«Da colui al quale obbediamo.»

«Dunque obbedite a qualcuno?»

«Sì, a un capo.»

«Credevo foste voi il capo.»

«Io sono il capo di questi uomini, ma un altro mi comanda.»

«E questo capo obbedisce a qualcuno?»

«Sì.»

«A chi?»

«A Dio.»

«Non vi capisco», disse Danglars, rimasto un istante pensieroso.

«È probabile.»

«È questo capo che vi ha ordinato di trattarmi così?»

«Sì.»

«A che scopo?»

«Non lo so.»

«Ma la mia borsa si vuoterà.»

«È probabile.»

«Sentiamo», disse Danglars, «volete un milione?»

«No.»

«Due milioni?»

«No.»

«Tre milioni?… Quattro… vediamo, quattro? Ve li do a condizione che mi lasciate partire.»

«Perché mi offrite quattro milioni di ciò che vale cinque?» domandò Vampa. «È usura, signor banchiere, e io non me ne intendo.»

«Prendete tutto! Prendete tutto, vi dico!» gridò Danglars. «E uccidetemi.»

«Su, su, calma, eccellenza, vi scaldate il sangue, cosa che vi metterà addosso un appetito da mangiare un milione al giorno… Siate dunque più parsimonioso, perbacco!»

«Ma quando non avrò più denaro per pagarvi?»

«Allora avrete fame.»

«Avrò fame?» balbettò Danglars tremante.

«È probabile», rispose flemmaticamente Vampa.

«Ma dite che non volete uccidermi?»

«No.»

«E volete lasciarmi morir di fame?»

«Non è la stessa cosa.»

«Ebbene, miserabili!» gridò Danglars. «Sventerò i vostri piani: morire per morire, tanto vale farla subito finita! Fatemi soffrire, torturatemi, uccidetemi, ma non avrete più la mia firma.»

«Come vostra eccellenza preferisce», disse Vampa. E uscì dalla cella.

Danglars si gettò ruggendo sul suo letto di pelli. Chi erano costoro? Chi era questo capo che si presentava a lui? Chi era l’altro invisibile? Quale progetto avevano su di lui? Quando tutti potevano riscattarsi, perché lui solo non poteva? Oh, certamente la morte, una morte pronta e violenta, era un buon mezzo per deludere quei nemici accaniti, che sembravano compiere su di lui un’incomprensibile vendetta. Sì, ma morire! Danglars assomigliava a quelle bestie feroci che diventano coraggiose nella disperazione, quando sono cacciate, e che a forza di disperazione riescono qualche volta a salvarsi: pensò a una evasione. Ma le mura erano la roccia stessa, e presso la sola uscita che conduceva fuori dalla cella vi era un uomo che leggeva, e dietro a lui si vedevano passare e ripassare ombre armate di fucili. La sua decisione di non firmare durò due giorni, dopo di che domandò del cibo e offrì un milione. Gli fu servita una magnifica colazione, e fu preso un milione.

Da quel momento la vita del disgraziato prigioniero fu una distrazione continua: aveva tanto sofferto che non voleva più esporsi a soffrire, e subiva tutte le esigenze. Dopo dodici giorni, un dopopranzo in cui aveva desinato come nei più bei giorni della sua fortuna, fece i conti, e si accorse di aver sborsato così tante tratte pagabili al portatore che non gli rimanevano più che cinquantamila franchi. Allora nacque in lui una strana reazione: lui che aveva sperperato cinque milioni, tentò di salvare i cinquantamila franchi che gli restavano. Piuttosto che cedere quei cinquantamila franchi, si risolse a una vita di privazioni, ebbe lampi di speranza che si accostavano alla follia; lui che da tempo aveva dimenticato Dio, vi pensò per dire a se stesso che Dio qualche volta fa dei miracoli, che la caverna poteva inabissarsi, che i gendarmi pontifici potevano scoprire quel maledetto covo e venire in suo aiuto, che cinquantamila franchi erano una somma sufficiente per impedire a un uomo di morire di fame. Pregò Dio di conservargli quei cinquantamila franchi, e pregando pianse.

Tre giorni passarono così, durante i quali il nome di Dio fu costantemente, se non nel suo cuore, almeno sulle sue labbra; a intervalli aveva momenti di delirio, durante i quali credeva di vedere, attraverso una finestra, una povera camera e un vecchio agonizzante sopra un lettuccio, che anch’egli moriva di fame. Il quarto giorno non era più uomo, era un cadavere vivente, che aveva raccolto da terra perfino le ultime molliche dei suoi pasti, e cominciava a divorare la stuoia di cui era coperto il suolo.

Allora supplicò Peppino, come si supplica il proprio angelo custode, di dargli qualcosa da mangiare; offrì mille franchi per un tozzo di pane. Peppino non rispose. Il quinto giorno si trascinò all’entrata della cella.

«Ma voi dunque non siete cristiano», disse, inginocchiandosi. «Volete assassinare un uomo che è vostro fratello davanti a Dio? Amici miei di altri tempi! Amici miei di altri tempi!» mormorò.

E cadde con la faccia contro terra. Quindi si alzò con una specie di disperazione.

«Il capo!» gridò. «Il capo!»

«Eccomi!» disse Vampa, apparendo improvvisamente. «Che desiderate di nuovo?»

«Prendete il mio ultimo danaro», balbettò Danglars, tendendo il portafoglio, «e lasciatemi vivere qui, in questa caverna: non domando più la libertà, ma soltanto la vita.»

«Dunque soffrite molto?» domandò Vampa.

«Oh, sì, soffro, e crudelmente!»

«Eppure vi sono stati uomini che hanno sofferto ben più di voi.»

«Non credo.»

«Sì, invece! Quelli che sono morti di fame.»

Danglars pensò a quel vecchio che, durante le sue allucinazioni, vedeva gemere sul letto attraverso la finestra della sua povera camera. Batté la fronte per terra mandando un forte gemito.

«Sì», disse, «è vero, ve ne sono che hanno sofferto ben più di me, ma almeno quelli erano martiri.»

«Vi pentite finalmente!» disse una voce cupa e solenne, che fece drizzare i capelli sulla testa di Danglars.

Il suo sguardo indebolito cercò di distinguere gli oggetti, e vide dietro al bandito un uomo avvolto nel mantello, e perduto nell’ombra di un pilastro di pietra.

«E di che devo pentirmi?» balbettò Danglars.

«Di tutto il male che avete fatto», disse la stessa voce.

«Sì, mi pento!» gridò Danglars, battendosi il petto con il pugno scarno.

«Allora vi perdono», disse l’uomo, gettando il mantello, e facendo un passo avanti per esporsi meglio alla luce.

«Il conte di Montecristo!» mormorò Danglars più pallido per il terrore di quanto un momento prima per la fame e gli stenti.

«Sbagliate, non sono il conte di Montecristo.»

«E chi siete dunque?»

«Sono quello che avete venduto, denunciato, disonorato; sono quello a cui avete fatto prostituire la fidanzata; sono quello che avete calpestato per creare la vostra fortuna; sono quello al quale avete fatto morire il padre di fame… Vi avevo condannato a morire di fame, e invece vi perdono, perché io pure ho bisogno di perdono: sono Edmond Dantès!»

Danglars mandò un grido e cadde prosternato.

«Rialzatevi», disse il conte, «voi avete salva la vita. Ugual fortuna non è toccata agli altri due vostri complici: uno e pazzo, l’altro è morto! Conservate i cinquantamila franchi che vi restano, ve ne faccio dono. In quanto ai cinque milioni rubati agli ospizi, sono già stati restituiti da una mano sconosciuta. Ora mangiate e bevete, questa sera sarete mio ospite. Vampa! Quando si sarà riavuto, sia rimesso in libertà.»

Danglars rimase ancora prosternato, mentre il conte si allontanava; quando rialzò la testa, non vide più che una specie di ombra che scompariva nel corridoio, e davanti alla quale s’inchinavano i banditi.

Come il conte aveva ordinato, Danglars fu servito da Vampa, che gli fece portare il miglior vino e i più bei frutti d’Italia, e che, avendolo quindi fatto trasportare nella sua carrozza da posta, lo lasciò sulla strada appoggiato a un albero. Vi restò fino a giorno, ignorando dove fosse. Alla luce del giorno si accorse che era vicino a un ruscello; aveva sete e si strascinò fino a esso. Nell’abbassarsi per bere s’accorse che i suoi capelli erano diventati bianchi!

117. Il 5 ottobre

Erano circa le sei di sera: il cielo era ingombro di vapori, tra i quali un bel sole d’autunno filtrava i suoi raggi d’oro. Il calore del giorno si era spento gradatamente, e cominciava a spirare una brezza leggera, soffio delizioso che rinfresca le coste del Mediterraneo, e che porta, di riva in riva, il profumo degli alberi misto all’acre sentore del mare.

Sopra a quell’immenso lago che si estende da Gibilterra ai Dardanelli e da Venezia a Tunisi, uno yacht di forma pura ed elegante correva leggero. Il suo moto era quello di un cigno che apre le ali al vento e che sembra lambire l’acqua: avanzava rapido e grazioso, lasciando dietro di sé una striscia fosforescente.

A poco a poco, il sole, di cui abbiamo salutato gli ultimi raggi, era scomparso all’orizzonte occidentale, ma, come per dare ragione ai brillanti sogni della mitologia, i suoi fuochi, ricomparendo alla sommità di ciascun albero, sembravano rivelare che il dio del fuoco si era nascosto nel seno d’Anfitrite, la quale tentava invano di celarlo col suo manto azzurro.

Lo yacht avanzava rapidamente, sebbene in apparenza spirasse un lieve venticello, che avrebbe a malapena potuto agitare i capelli sciolti di una dolce ragazza.

In piedi a prua, un uomo d’alta statura, di carnagione scura, con lo sguardo vivido, vedeva apparire davanti a sé la terra sotto forma di una tetra massa disposta a cono, che sorgeva dai flutti come un immenso cappello alla catalana.

«È quella l’isola di Montecristo?» domandò con voce grave e impressa di profonda tristezza il viaggiatore, agli ordini del quale sembrava momentaneamente sottoposto il piccolo yacht.

«Sì, eccellenza», rispose il pilota. «Stiamo per arrivare.»

«Arrivare!» mormorò il viaggiatore, con indefinibile malinconia. Quindi aggiunse a bassa voce: «Sì quello sarà il porto».

E ritornò a immergersi nei suoi pensieri che trasparivano da un sorriso più triste di qualsiasi lacrima. Alcuni minuti dopo si vide a terra una fiamma che subito si spense, e il rumore di un’arma da fuoco giunse fino allo yacht.

«Eccellenza», disse il pilota, «ecco il segnale di terra. Volete rispondere voi stesso?»

«Che segnale?» domandò l’uomo.

Il pilota tese la mano verso l’isola, indicando un largo pennacchio di fumo che si squarciava allargandosi.

«Ah sì», mormorò, come se uscisse da un sogno, «date.»

Il pilota gli tese una carabina già carica, il viaggiatore la prese, l’alzò lentamente, e fece fuoco in aria. Dieci minuti dopo si ammainavano le vele, e si gettava l’ancora a cinquecento passi dal piccolo porto. La lancia era già in mare con quattro rematori e il pilota; il viaggiatore scese, e invece di sedere a poppa, per lui coperta da un tappeto, rimase in piedi a prua a braccia incrociate. I rematori aspettavano coi remi alzati, come gli uccelli che si asciugano le ali.

«Andate!» disse il viaggiatore.

Gli otto remi caddero in mare all’unisono senza far spruzzare una sola goccia d’acqua, quindi la barca strisciò rapidamente. In un istante giunsero a una piccola insenatura, e la barca toccò fondo sulla sabbia fine.

«Eccellenza», disse il pilota, «salite sulle spalle di due dei nostri uomini, vi porteranno a terra.»

Il giovane rispose a quell’invito con un gesto di completa indifferenza, sporse le gambe dalla barca, e si lasciò calare nell’acqua che gli giunse fino alla cintola.

«Eccellenza», mormorò il pilota, «avete fatto male a fare così, il padrone ci sgriderà.»

Il giovane continuò ad avanzare verso la riva seguendo i due marinai che sceglievano il fondo miglior. Dopo una trentina di passi erano a terra, il giovane pestava i piedi sul terreno secco, scrutando intorno a sé il percorso che probabilmente gli avrebbero indicato, poiché era buio pesto: nel momento in cui voltava la testa, una mano gli si posò sulla spalla, e una voce lo fece rabbrividire.

«Buonasera, Maximilien», disse quella voce, «siete puntuale, e vi ringrazio.»

«Siete voi, conte?» gridò il giovane con un gesto che assomigliava alla gioia, stringendo con entrambe le mani quella di Montecristo.

«Sì, come vedete, e puntuale come voi. Ma siete bagnato, mio caro amico, bisogna che cambiate vestito, come disse Calipso a Telemaco. Venite dunque, per di qua c’è un alloggio preparato per voi, e nel quale dimenticherete la stanchezza e il freddo.»

Montecristo accorgendosi che Morrel cercava con lo sguardo qualcuno, aspettò. Il giovane s’era accorto con sorpresa che quelli che lo avevano accompagnato non avevano detto una parola e che erano partiti senza essere pagati; sentiva già il battere dei remi della barca che tornava al piccolo yacht.

«Che fate?» domandò il conte. «Cercate i vostri marinai?»

«Certo, non li ho ricompensati.»

«Non pensateci, Maximilien», disse ridendo Montecristo. «Ho un contratto con la marina perché gli accessi alla mia isola siano esenti da qualunque spesa.»

Morrel guardò il conte con meraviglia.

«Conte», disse, «non siete più lo stesso di Parigi.»

«In che senso?»

«Voi ridete.»

La fronte di Montecristo si corrugò improvvisamente.

«Avete ragione a richiamarmi a me stesso, Maximilien», disse. «Rivedervi mi rende felice.»

«Oh, no, conte», gridò Morrel, stringendogli di nuovo le mani, «ridete, siate felice, e provatemi con la vostra indifferenza che la vita è triste solo per coloro che soffrono. Voi siete caritatevole, siete grande, amico mio, e fingete questa ilarità solo per darmi coraggio.»

«Vi sbagliate, Morrel», replicò Montecristo, «è perché sono effettivamente contento.»

«Allora vi siete scordato di me, tanto meglio!»

«E come?»

«Sì, poiché lo sapete, amico, come diceva il gladiatore entrando nel circo al Sublime Imperatore, io dico a voi: Morituri te salutant!»

«Non vi siete consolato?» domandò Montecristo con uno strano sguardo.

«Oh!» esclamò Morrel, con un’espressione piena d’amarezza. «Avete creduto realmente che potessi farlo?»

«Sentite», riprese il conte, «voi non mi prendete per uomo volgare, per uno strumento che butta fuori parole strane e prive di senso? Quando io vi chiedo se vi siete consolato, vi parlo come uno per il quale il cuore umano non ha più segreti. Ebbene, Morrel, scendete nel vostro cuore, ed esploratelo. C’è ancora quell’impetuosa impazienza del dolore che fa scuotere il corpo come balza il leone quando è punto dal tafano? C’è ancora quell’ideale del dispiacere che spinge l’uomo fuori della vita cercando la morte? O c’è piuttosto la prostrazione del coraggio spossato e la noia che spegne il raggio di speranza che vorrebbe risplendere? Oh, amico mio! Se è così, se voi non potete più piangere, se credete morto il vostro cuore gelato, se non avete più speranza che in Dio, se i vostri sguardi non s’innalzano più che verso il cielo, amico mio, lasciamo da parte le frasi troppo concise, per il senso che loro dà la nostra anima. Maximilien, voi siete consolato, non lamentatevi più.»

«Conte», disse Morrel, con un tono di voce dolce e fermo, «conte, ascoltatemi come si ascolta un uomo che parla con la mano protesa verso la terra e gli occhi rivolti al cielo. Certamente amo ancora qualcuno: amo mia sorella Julie, amo suo marito Emmanuel. Ma ho bisogno che mi si aprano braccia forti nell’ultimo mio momento. Mia sorella si struggerebbe in lacrime e svenirebbe, vedrei soffrire e ho sofferto abbastanza; Emmanuel mi strapperebbe le armi dalle mani, e riempirebbe la casa delle sue grida… Voi, conte, che me l’avete promesso, voi che siete più che un uomo, e che, se non foste mortale, chiamerei un Dio, voi mi condurrete dolcemente e con tenerezza, non è vero, fino alla morte?»

«Amico», disse il conte, «non mi resta che un dubbio: avreste così poca forza da metterci orgoglio nell’esagerare il vostro dolore?»

«No, guardate, sono tranquillo», rispose Morrel, tendendo una mano al conte, «e il mio polso non batte né più forte, né più lentamente del solito. No, mi trovo al termine della mia strada, e non andrò più avanti: mi avete parlato di aspettare e di sperare. Sapete che cosa avete fatto al disgraziato, voi saggio che siete? Ho aspettato un mese, vale a dire ho sofferto un mese di più: ho sperato… L’uomo è una povera e miserabile creatura!… Che cosa ho sperato! Non lo so, qualcosa d’ignoto, d’assurdo, d’insensato… un prodigio!… E quale? Può dirlo solo Dio, che ha mischiato alla nostra ragione il sentimento della speranza. Sì, ho sperato, e da un quarto d’ora che parliamo mi avete cento volte, senza saperlo, torturato e lacerato il cuore, poiché ciascuna delle vostre parole mi ha provato che non c’era più speranza per me. Oh, conte, con quanta dolcezza e soavità riposerò nella morte!»

Morrel pronunciò queste parole così energicamente che fecero fremere il conte.

«Amico mio» continuò Morrel, vedendo che il conte taceva, «mi avete proposto il cinque ottobre come termine della dilazione che mi avete richiesto… Amico mio, oggi è il cinque ottobre…» Morrel prese l’orologio. «Sono le nove, ho ancora tre ore da vivere.»

«Sia», rispose Montecristo, «venite.»

Morrel seguì meccanicamente il conte, ed erano già nella grotta che Maximilien non se n’era ancora accorto. Sentì i tappeti sotto i piedi, si aprì una porta, dolci profumi lo avvilupparono, una viva luce gli colpì gli occhi. Morrel si fermò, esitando a inoltrarsi; non si fidava delle snervanti delizie che lo circondavano. Montecristo lo attirò dolcemente.

«Non sarebbe bene», disse il conte, «che impiegassimo le tre ore che ci rimangono come quegli antichi romani che, condannati da Nerone loro imperatore e loro parente, si mettevano a tavola circondati di fiori, e aspiravano la morte tra i profumi delle vainiglie e delle rose?»

Morrel sorrise.

«Come preferite», rispose. «La morte è sempre morte, vale a dire l’oblio, il riposo, la cessazione della vita, e, di conseguenza, dei dolori della terra.»

E si sedette; Montecristo si mise di fronte a lui. Erano in quella meravigliosa sala da pranzo che abbiamo già descritto, e dove statue di marmo portavano sulle loro teste cofani sempre pieni di fiori e di frutti. Morrel aveva guardato tanto distrattamente, che era possibile che non avesse visto niente.

«Parliamo da uomini», disse, guardando il conte.

«Parlate», annuì il conte.

«Amico», riprese Morrel, «avete raccolte in voi tutte le conoscenze umane, e mi fate l’effetto di esser sceso da un mondo più progredito e civilizzato del nostro.»

«Nelle vostre parole c’è qualche cosa di vero, Morrel», disse il conte, con quel sorriso malinconico che lo rendeva così attraente. «Io sono sceso da un pianeta che si chiama dolore.»

«Credo tutto quanto mi dite, senza cercare di approfondirne il senso, conte, e la prova è che mi avete detto di sperare, e ho sperato. Avrò dunque il coraggio di chiedervi, come se foste già morto una volta: è doloroso morire?»

Montecristo guardava Morrel con un’indefinibile espressione di tenerezza.

«Sì», disse, «sì, senza dubbio è molto doloroso, se troncate brutalmente questo mortale involucro che chiede ostinatamente di vivere. Qualunque mezzo scegliate, soffrirete certamente, e lascerete odiosamente la vita trovandola, nel mezzo della vostra disperata agonia, migliore di un rimorso comprato a così caro prezzo.»

«Capisco», mormorò Morrel, «la morte come la vita ha i suoi segreti di dolore e di voluttà: tutto dipende dal saperli conoscere.»

«Precisamente, Maximilien, e voi avete detto una grande cosa. La morte è, a seconda delle cure che poniamo nel metterci in buona o cattiva armonia con essa, un’amica che ci culla dolcemente o come una nemica che strappa violentemente l’anima dal corpo. Un giorno, quando il nostro mondo avrà vissuto ancora un migliaio d’anni, quando si sarà reso padrone di tutte le forze distruttrici della natura per asservirle al benessere generale dell’umanità, quando l’uomo saprà, come voi desideravate, i segreti della morte, questa diverrà così dolce e voluttuosa, quanto il sonno gustato fra le braccia di una diletta consorte.»

«E se voleste morire, sapreste morire così?»

«Sì.»

Morrel gli tese la mano.

«Capisco ora», disse, «perché mi avete dato appuntamento qui su quest’isola disabitata, in mezzo al mare, in questo palazzo sotterraneo, sepolcro da fare invidia a un faraone: è perché mi amate, non è vero, conte? È perché mi amate abbastanza da darmi una di queste morti di cui parlavate or ora, una morte senza agonia, una morte che mi permetta di estinguermi pronunciando il nome di Valentine stringendovi la mano?»

«Sì, avete proprio indovinato, Morrel», disse il conte con semplicità.

«Grazie. L’idea che domani non soffrirò più è soave per il mio povero cuore.»

«Non vi rincresce per nessuno?» domandò Montecristo.

«No», rispose Morrel.

«Neppure per me?» domandò il conte, con profonda emozione.

Morrel tacque. Il suo sguardo, così puro, si oscurò d’un tratto, quindi brillò di una luce straordinaria: ne scaturì una grossa lacrima che gli scivolò sulla guancia.

«Come», riprese il conte, «provate dispiacere nell’abbandonare qualcuno sulla terra, e volete morire?»

«Vi ne supplico», gridò Morrel, con voce debole, «non dite una parola di più, non prolungate il mio supplizio.»

Il conte pensò che Morrel stesse cedendo, e tale fiducia per un momento suscitò in lui l’orribile dubbio che aveva provato già al castello d’If.

«Io mi preoccupo», pensava, «di restituire quest’uomo alla felicità, considero questa restituzione, nella bilancia, sul piatto opposto a quello in cui ho gettato tanto male. Ora, se mi sbagliassi, se quest’uomo non fosse abbastanza infelice per meritare la felicità che gli preparo? Ahimè, che accadrebbe di me, che non posso dimenticare il male se non facendo il bene?»

Quindi volgendosi al giovane, gli disse: «Ascoltate, Morrel, il vostro dolore è immenso, lo vedo, però voi credete in Dio, e non vorrete rischiare la salute dell’anima.»

Morrel sorrise con aria malinconica.

«Conte», rispose, «voi sapete che non sono esaltato, ma la mia anima non è più mia.»

«Sentite, Morrel», continuò il conte, «io non ho alcun parente al mondo, voi lo sapete. Mi sono abituato a considerarvi come mio figlio; ebbene, per salvare questo mio figlio sacrificherei la mia vita, e a più forte ragione, le mie ricchezze.»

«Che intendete dire?»

«Intendo dire, Morrel, che voi volete lasciare la vita perché non conoscete tutti i piaceri che la vita concede ai possessori di grandi ricchezze. Maximilien, io posseggo quasi cento milioni, ve li dono: con simili ricchezze, potrete ottenere tutto ciò che vorrete. Siete ambizioso? Tutte le carriere vi saranno aperte. Mettete sottosopra il mondo, cambiatene la faccia, abbandonatevi a opere insensate, siate pure colpevole, se occorre, ma vivete!»

«Conte, ho la vostra parola», rispose freddamente Morrel, e aggiunse prendendo l’orologio: «Sono le undici e tre quarti».

«Morrel, come potete pensare a ciò, qui sotto i miei occhi, nella mia casa?…»

«Allora lasciatemi partire», disse Maximilien tetro, «oppure non crederò che mi amate per il mio bene, ma per egoismo!»

E si alzò.

«D’accordo», annuì Montecristo, il viso rischiarato da tali parole. «Voi lo volete, Morrel, voi siete inflessibile, sì, voi siete profondamente infelice, e lo avete detto, un miracolo soltanto potrebbe guarirvi. Sedete, dunque, Morrel, e aspettate…»

Morrel obbedì, Montecristo si alzò e andò a frugare in un armadio chiuso con cura, di cui portava la chiave appesa a una catenella d’oro. Prese un cofanetto d’argento, meravigliosamente scolpito e cesellato, i cui angoli rappresentavano quattro figure simili a cariatidi dall’aspetto desolato, figure di donne che con inesprimibile sorriso tenevano lo sguardo rivolto al cielo: lo posò sulla tavola. Quindi aprendolo ne cavò una scatola d’oro, il cui coperchio si sollevava premendo una molla. Questa scatola conteneva una sostanza untuosa, quasi solida, il cui colore era indefinibile: aveva il riflesso dell’oro forbito, degli zaffiri, dei rubini e degli smeraldi che impreziosivano la scatola, era un miscuglio di azzurro, di porpora e d’oro. Il conte prese una piccola quantità di questa sostanza, con un cucchiaio d’argento dorato, e l’offrì a Morrel, fissando su di lui un lungo sguardo. Allora si poté vedere che questa sostanza era verdastra.

«Ecco ciò che mi avete domandato», disse, «ecco ciò che vi ho promesso.»

«Mi restituite la gioia con la morte», disse il giovane, prendendo il cucchiaio dalle mani di Montecristo. «Vi ringrazio dal profondo del cuore.»

Il conte prese un altro cucchiaio, e lo immerse una seconda volta nella scatola d’oro.

«Che cosa fate, amico?» domandò Morrel, fermandogli la mano.

«A essere sincero, Morrel, credo di essere stanco quanto voi della vita, e poiché si presenta l’occasione…»

«Fermatevi!» gridò il giovane. «Voi che amate, voi che siete amato, voi che avete la fede e la speranza, oh! non fate ciò che faccio io! Da parte vostra sarebbe un delitto. Addio, mio nobile e generoso amico, addio, corro a raccontare a Valentine tutto ciò che avete fatto per me.»

E lentamente, senz’altra esitazione che una lunga stretta con la mano sinistra che tendeva al conte, Morrel inghiottì o piuttosto assaporò la misteriosa sostanza offerta da Montecristo. Allora entrambi tacquero. Alì, silenzioso e attento, portò il tabacco e le pipe, servì il caffè e si ritirò.

A poco a poco, le lampade impallidirono nelle mani delle statue di marmo che le sostenevano, e i profumi dei vasi sembrarono meno penetranti a Morrel. Seduto di fronte a lui, Montecristo lo guardava nascosto nell’ombra, e Morrel non ne vedeva brillare che gli occhi. Un immenso torpore s’impadronì del giovane, sentì la pipa sfuggirgli di mano, gli oggetti perdevano la forma e il colore, i suoi occhi turbati vedevano aprirsi porte e tende nei muri.

«Amico», disse, «io sento che muoio, grazie!»

Fece uno sforzo per tendergli un’ultima volta la mano, ma la mano ricadde senza forze. Allora gli sembrò che Montecristo sorridesse, non più dello strano e spaventoso sorriso che molte volte gli aveva fatto intravedere i misteri di quell’anima profonda, ma con la benevolenza compassionevole che i padri hanno per i figli irragionevoli. Nello stesso tempo il conte si faceva più grande ai suoi occhi: la sua statura, quasi raddoppiata, si disegnava sulle tende rosse, aveva i capelli neri gettati indietro, e appariva in piedi e fiero, come uno di quegli angeli di cui si minaccia ai malvagi la presenza nel giorno del giudizio finale. Morrel abbattuto e vinto, si rovesciò sul divano; un torpore voluttuoso s’insinuò nelle sue vene. Steso, snervato, ansante, Morrel si sentiva trasportato in un sogno: gli sembrava di entrare a gonfie vele in quel vago delirio che precede quel transito che si chiama morte. Tentò ancora di tendere la mano al conte, ma stavolta la sua mano non si mosse nemmeno; volle articolare un ultimo addio, la lingua gli si paralizzò. I suoi occhi, carichi di languore, si chiusero suo malgrado; però dietro alle palpebre si agitava un’immagine che riconobbe anche nell’oscurità da cui si credeva avvolto. Era il conte che aveva aperto una porta. A un tratto, un immenso splendore irradiò dalla camera vicina, o piuttosto da un palazzo meraviglioso, e venne a inondare di luce la sala dove Morrel stava in braccio alla dolce agonia. Allora vide venire sulla soglia di quella sala e sul limitare di queste due stanze una donna di meravigliosa bellezza, pallida, e dolcemente sorridente: sembrava l’angelo della misericordia.

«È forse il cielo che già si apre per me?» domandò il moribondo. «Quest’angelo assomiglia a quello che ho perduto.»

Montecristo indicò col dito alla ragazza il sofà su cui riposava Morrel. Lei andò verso di lui con le mani giunte e il sorriso sulle labbra.

«Valentine! Valentine!» gridò Morrel dal fondo della sua anima.

Ma le labbra non proferirono alcun suono, e, come se tutte le sue forze fossero unite in quella emozione interna, mandò un sospiro, e chiuse gli occhi. Valentine si precipitò verso di lui. Le labbra di Morrel si mossero ancora.

«Vi chiama», disse il conte, «vi chiama dal fondo del suo sonno, colui al quale avete confidato il vostro destino, dal quale la morte ha voluto separarvi! Ma io ero là, per buona sorte, e ho vinto la morte! Valentine, d’ora in avanti non dovete separarvi più sulla terra; poiché per ritrovarvi, egli era pronto a seguirvi nella tomba. Senza di me sareste morti entrambi, possa Iddio darmi credito per queste due esistenze salvate!»

Valentine afferrò la mano di Montecristo, e, in uno slancio di gioia irresistibile, la portò alle labbra.

«Ringraziatemi», disse il conte, «ripetetemi senza stancarvi, ripetetemi ch’io vi ho resa felice! Non sapete quanto abbia bisogno di questa certezza.»

«Oh, sì, sì, vi ringrazio con tutta l’anima mia» disse Valentine, «e se dubitate che i miei ringraziamenti non siano sinceri, ebbene, domandate ad Haydée, interrogate la mia sorella prediletta Haydée, che dal momento della nostra partenza dalla Francia non ha smesso di parlarmi di voi e del felice giorno che oggi risplende per me.»

«Voi dunque amate Haydée?» domandò Montecristo, con emozione che si sforzava invano di dissimulare.

«Con tutta l’anima mia!»

«Allora, sentite Valentine», disse il conte, «ho una grazia da chiedervi.»

«A me, gran Dio! Sarei tanto felice se…»

«Sì, avete chiamato Haydée vostra sorella… Lo sia di fatto, Valentine, rendete a lei tutto ciò che voi credete di dovere a me, proteggetela voi e Morrel, poiché…» La voce del conte era vicina a spegnersi nella sua gola «…poiché d’ora innanzi lei sarà sola al mondo…»

«Sola al mondo?» ripeté una voce dietro il conte. «E perché?»

Montecristo si voltò. Haydée era là, ritta, pallida e tremante, guardando il conte con un gesto d’indescrivibile stupore.

«Perché domani, figlia mia, tu sarai libera», rispose il conte, «perché tu riprenderai nel mondo il posto che ti è dovuto, perché non voglio che il mio destino oscuri il tuo, figlia di principe! Io ti restituisco le ricchezze e il nome di tuo padre.»

Haydée impallidì, aprì gli occhi diafani come la vergine che si raccomanda a Dio, e con voce rauca dai singhiozzi, disse: «Dunque, mio signore, tu mi lasci?»

«Haydée! Haydée! Tu sei giovane, sei bella, dimentica perfino il mio nome, e sii felice!»

«Va bene», disse Haydée, «i tuoi ordini saranno eseguiti, mio signore, dimenticherò perfino il tuo nome, e sarò felice.»

E fece un passo indietro per ritirarsi.

«Oh, mio Dio!» gridò Valentine, mentre stringeva la testa di Morrel contro il suo seno. «Non vedete dunque com’è pallida, non comprendete dunque quanto soffre?»

«Perché vuoi dunque, sorella mia», le disse Haydée, con espressione triste, «che mi comprenda? Lui è il mio padrone, io sono la sua schiava; ha il diritto di non comprendere nulla.»

Il conte fremette al tono di quella voce che risvegliò perfino le fibre più segrete del suo cuore; i suoi occhi incontrarono quelli della giovane donna e non poterono sostenerne lo sguardo.

«Mio Dio, mio Dio», disse Montecristo, «sarebbe dunque vero quanto mi lasciaste supporre? Haydée, dunque sareste felice con me?»

«Io sono giovane», rispose lei dolcemente, «amo la vita che tu mi hai resa sempre così dolce, e mi dispiacerebbe morire.»

«Vuoi dire che se io ti lasciassi, Haydée?…»

«Morirei, mio signore, sì!»

«Tu dunque mi ami?»

«Valentine, chiede se io l’amo!» disse Haydée, rivolta a Valentine. «Digli tu dunque se ami Maximilien!»

Il conte sentì dilatarsi il cuore, aprì le braccia: Haydée vi si lanciò gettando un grido.

«Oh, sì, io t’amo!» gridò. «Io t’amo come si ama il proprio padre, il proprio fratello, il proprio marito! Io t’amo come si ama la vita, perché tu sei per me il più bello, il migliore, il più grande degli esseri creati!»

«Sia dunque come vuoi, angelo mio diletto!» disse il conte. «Dio mi ha suscitato contro i miei nemici. Ma chi mi ha reso vincitore? Dio! Io ben lo comprendo, ed egli non vuole mettere il pentimento in mezzo alla mia vittoria: io volevo punirmi, Dio vuole perdonarmi. Amami, dunque, Haydée! Chissà, il mio amore, forse, mi farà dimenticare ciò che è necessario dimenticare.»

«Ma che dici, dunque, mio signore?» disse la ragazza.

«Io dico che una tua parola, Haydée, mi ha illuminato più di venti anni di studio! Non ho più che te al mondo, Haydée, per te mi riaffeziono alla vita, per te posso ancora esser felice o infelice.»

«Lo senti, Valentine?» gridò Haydée. «Dice che per me può soffrire, per me che darei la vita per lui!»

Il conte si raccolse un istante.

«Ah, io intravedo la verità!» mormorò. «Oh, mio Dio, ricompensa o castigo, accetto questo destino… Vieni, Haydée vieni…»

E abbracciando la giovane donna, salutò Valentine, e uscì con lei. Circa un’ora passò, durante la quale anelante, senza voce, con gli occhi fissi, Valentine stette vicino a Morrel. Finalmente sentì battere il suo cuore, un soffio impercettibile aprì le sue labbra, e quel leggero fremito che annunciava il ritorno della vita percorse tutto il corpo del giovane. I suoi occhi finalmente si riaprirono, ma prima fissi e come insensati, quindi si rianimarono e, con la vista, gli tornò il sentimento, e col sentimento il dolore.

«Oh!» gridò con l’accento della disperazione, «io vivo ancora, il conte mi ha ingannato!»

«Amico», disse Valentine, «svegliati dunque, e guarda dalla mia parte!»

Morrel mandò un forte grido, e, delirante, pieno di dubbio, come abbagliato da visione celeste, cadde alle sue ginocchia. L’indomani, ai primi raggi del giorno, Morrel e Valentine passeggiavano, l’uno al braccio dell’altra, sulla spiaggia. Valentine raccontava a Morrel in che modo Montecristo le era apparso nella stanza, come le aveva svelato tutto, come le aveva fatto toccar con mano il delitto, e come finalmente l’aveva miracolosamente salvata dalla morte, lasciando credere a tutti che fosse morta realmente.

Morrel scoprì, alla penombra di un gruppo di rocce, un uomo che aspettava un segnale per venire avanti; indicò il giovane a Valentine.

«Ah, è Jacopo», disse, «il capitano dello yacht.»

E con un gesto lo chiamò.

«Avete qualcosa da dirci?» domandò Morrel.

«Devo consegnarvi questa lettera da parte del conte.»

«Del conte!» esclamarono entrambi i giovani.

«Sì, leggete.»

Morrel aprì la lettera e lesse:

«Mio caro Maximilien, troverete per voi una feluca all’ancora. Jacopo vi condurrà a Livorno, dove il signor Noirtier aspetta sua nipote, che vuol benedire prima che vi segua all’altare. Tutto ciò che c’è in questa grotta, amico mio, la mia casa agli Champs-Elysées e il mio piccolo castello di Tréport sono regali di nozze che Edmond Dantès fa al figlio del suo padrone Morrel; la signorina Villefort vorrà accettarne la metà, poiché la supplico di dare ai poveri di Parigi tutte le ricchezze che erediterà da suo padre, divenuto pazzo, e da suo fratello morto in settembre con sua madre. Dite all’angelo che veglierà sulla vostra vita, Morrel, di pregare qualche volta per un uomo che, simile a Satana, per un momento si è creduto simile a Dio e ha riconosciuto, con tutta l’umiltà di un cristiano, che nelle mani di Dio soltanto sta il supremo potere e l’infinita sapienza.

Queste preghiere addolciranno forse i rimorsi che porta con sé nel profondo del cuore, in quanto a voi Morrel, ecco tutto il segreto della condotta che ho tenuto verso voi: non vi è né felicità né infelicità in questo mondo, è soltanto il paragone di uno stato a un altro, ecco tutto. Solo chi ha provato l’estremo dolore può gustare la suprema felicità. Bisognava aver bramato la morte, Maximilien, per sapere che bene è vivere. Vivete dunque e siate felici, figli prediletti del mio cuore, e non dimenticate mai che, fino al giorno in cui Iddio si degnerà di svelare all’uomo l’avvenire, tutta l’umana saggezza sarà riposta in queste due parole: Aspettare e sperare.

Vostro amico Edmond Dantès, conte di Montecristo»

Durante la lettura di quella lettera, che le rivelava la follia di suo padre e la morte di suo fratello, morte e follia che ignorava, Valentine impallidì, un doloroso sospiro le sfuggì dal petto, e copiose lacrime le scesero sulla guance: la sua felicità le costava ben cara! Morrel si guardò intorno con inquietudine.

«Ma», disse, «il conte esagera la sua generosità; Valentine si accontenterà dei miei modesti beni. Dov’è il conte, amico mio?»

«Guardate!» disse Jacopo, indicando l’orizzonte.

Gli occhi dei due giovani si fissarono sulla linea indicata dal marinaio; e sull’azzurro cupo del Mediterraneo, si scoprì una bianca vela, grande come l’ala di un gabbiano.

«Partito!» gridò Morrel. «Partito! Addio, amico mio! Addio, padre mio!»

«Partita!» mormorò Valentine. «Addio, amica mia! Addio, sorella mia!»

«Chissà se li vedremo mai più!» disse Morrel asciugandosi una lacrima.

«Amico mio» disse Valentine, «il conte non ci ha lasciato scritto che l’umana saggezza sta tutta in queste due parole: aspettare e sperare?»

INDICE

1. L’arrivo a Marsiglia

2. Padre e figlio

3. I Catalani

4. Il complotto

5. Il pranzo di fidanzamento

6. Il sostituto procuratore del re

7. L’interrogatorio

8. Il castello d’If

9. La sera del fidanzamento

10. Il gabinetto delle Tuileries

11. Il lupo di Corsica

12. Padre e figlio

13. I Cento Giorni

14. I due prigionieri

15. Il numero 34 e il numero 27

16. L’abate

17. La cella dell’abate

18. Il tesoro

19. Il terzo attacco

20. Il cimitero del castello d’If

21. L’isola di Tiboulen

22. I contrabbandieri

23. L’isola di Montecristo

24. L’abbagliamento

25. Lo sconosciuto

26. L’albergo del Ponte di Gard

27. Il racconto

28. I registri delle prigioni

29. La casa Morrel

30. Il 5 settembre

31. L’Italia e Sinbad il marinaio

32. Il risveglio

33. I briganti romani

34. Le apparizioni

35. Il patibolo

36. Il carnevale di Roma

37. Le catacombe di San Sebastiano

38. L’appuntamento

39. La colazione

40. La presentazione

41. Bertuccio

42. La casa di Auteuil

43. La vendetta

44. Pioggia di sangue

45. Il credito illimitato

46. La pariglia grigio-pomellata

47. Ideologia

48. Haydée

49. La famiglia Morrel

50. Piramo e Tisbe

51. Tossicologia

52. Roberto il diavolo

53. Rialzo e ribasso dei fondi

54. Il maggiore Cavalcanti

55. Andrea Cavalcanti

56. Il recinto di trifoglio

57. Il signor Noirtier di Villefort

58. Il testamento

59. Il telegrafo

60. Come liberare un giardiniere dai ghiri che gli mangiano le pesche

61. I fantasmi

62. Il pranzo

63. Il mendicante

64. Scena coniugale

65. Progetti di matrimonio

66. L’ufficio del procuratore del re

67. Un ballo estivo

68. Le informazioni

69. La festa da ballo

70. Il pane e il sale

71. La signora di Saint-Méran

72. La promessa

73. La tomba della famiglia Villefort

74. Il processo verbale

75. I progressi del signor Cavalcanti figlio

76. Haydée

77. Ci scrivono da Giannina

78. La limonata

79. L’accusa

80. La stanza del fornaio in pensione

81. Lo scasso

82. La giustizia di Dio

83. Beauchamp

84. Il viaggio

85. Il giudizio

86. La sfida

87. L’insulto

88. La notte

89. Il duello

90. Madre e figlio

91. Il suicidio

92. Valentine

93. Confessione

94. Padre e figlia

95. Il contratto di nozze

96. La strada del Belgio

97. L’osteria della Campana e della Bottiglia

98. La legge

99. L’apparizione

100. Locusta

101. Valentine

102. Maximilien

103. La firma di Danglars

104. Il cimitero di Père Lachaise

105. La separazione

106. La fossa dei leoni

107. Il giudice

108. La Corte d’Assise

109. L’atto d’accusa

110. Espiazione

111. La partenza

112. La casa dei viali di Meilhan

113. Il passato

114. Peppino

115. La carta di Luigi Vampa

116. Il perdono

117. Il 5 ottobre