Roberto Ardigò

La psicologia come scienza positiva

1870

Indice

Parte prima: La cognizione scientifica
Parte seconda: La materia e la forza nelle scienze naturali
Parte terza: Lo spirito e la coscienza in psicologia
Parte quarta: Il metodo positivo in psicologia
Parte quinta: La psicologia positiva e i problemi della filosofia

Parte prima: La cognizione scientifica

Gli antichi credevano, che la scienza dovesse condurre a conoscere le cose fino nella essenza e nelle cause loro. Lo insegnava espressamente anche il grande filosofo, che Dante ha chiamato "il maestro di color che sanno" A noi non è più possibile una tale illusione; poiché sappiamo, che lo sforzo di risalire oltre i fenomeni è vano affatto; e che il compito della scienza non può essere altro, che di rilevarne la consistenza, la successione e le somiglianze.
L’errore degli antichi era naturalissimo, e dipendeva da ciò, che l’uomo, senza punto accorgersene, pone negli oggetti le impressioni sue proprie, come il movimento della terra nel sole; e considera le idealità, formate dalla sua immaginazione, quali rappresentazioni adeguate e perfette di ciò, che esiste veramente ed opera nelle cose. Il lavoro analitico, onde la scienza pervenne a scoprire l’inganno, fu oltremodo lungo, difficile e faticoso. E la storia de’ suoi progressi, a questo riguardo, dai Greci, che la iniziarono, a noi, è piena di insegnamenti e merita di essere ricordata.

Nel primissimo e più informe rudimento del pensiero filosofico, proprio dell’età mitologica, i fatti si rappresentarono siccome altrettante manifestazioni vitali, analoghe a quelle che l’uomo sperimenta in se stesso; e perciò si riferirono all’arbitrio di virtù invisibili, intime alle cose, fornite di pensiero e di volontà, e aventi il potere di muoverle con un comando come l’uomo le sue membra. Lo stesso Talete di Mileto, primo a filosofare in Grecia, riteneva ancora, che ogni oggetto nella natura fosse avvivato dallo spirito di un qualche demone o dio; e che il magnete avesse la proprietà di attrarre il ferro dall’istinto particolare di quell’anima, che vi doveva albergare

L’idea del comando si è allargata in quella di legge, dopoché uno studio un po’ più avanzato incominciò a far conoscere la concatenazione, l’ordine e la stabile ricorrenza dei fatti; sicché dagli oggetti particolari la considerazione si estese al complesso di essi, e lo sviluppo totale degli eventi apparve, come la esecuzione infallibile, non di un capriccio del momento, ma di un piano sapiente, stabilito in precedenza. Dall’idea di un tutto naturale, già abbozzata nelle dottrine dei filosofi della Jonia, derivanti le cose da un solo elemento per ispontanea evoluzione, come la pianta dal seme, ed espressa più tardi nel modo più compiuto da Diogene di Apollonia, dai pitagorici si passò, facendosi un primo passo nella via dell’astrazione, all’idea del tutto numerico E da questa, facendosene un altro dagli eleatici, a quella del tutto metafisico. Nella apprensione complessiva e generale dei corpi, soprattutto in quella più astratta dei matematici, scomparvero le particolarità distintive di ciascheduno, e si fusero tutti nella idealità pura ed infinita della materia, reale e mutabile, indistinta nella sua unità e tuttavia divisibile. Parmenide e gli eleatici non tennero conto della divisibilità e della mutabilità, e si elevarono alla nozione dell’essere schietto, e all’infuori del limite, della moltiplicità e della variazione Su queste invece fermò l’attenzione Eraclito di Efeso, e ne creò una astrazione, onde l’essere non è il persistere immutabile, ma il divenir sempre, variando eternamente Anche il concetto del momento attivo o causante nella natura si era di mano in mano modificato, facendosi sempre più astratto. Di fronte ai numeri dei pitagorici quel momento era apparso l’armonia che li assomma e li dispone secondo un ordine; di fronte all’essere ed al divenire dei metafisici, la mente che n’è conscia, e il fato, dal cui volere irrevocabile è necessitato il corso eternamente prestabilito degli avvenimenti Tuttavia non aveva cessato di rimanere compenetrato nel momento passivo o materiale, e di formare con esso una cosa sola, come la vitalità generante ed animatrice dei Jonici (prima sparsa e divisa nei singoli esseri, poi compendiata in una unica anima del mondo); onde l’aspetto panteistico di tutti questi sistemi. Ma Anassagora di Clazomene, nel suo ardito tentativo di comporre insieme in un pensiero più grandioso e maturo i trovati della speculazione precedente, onde ideò il cosmo come un tutto d’arte divina, gli diede maggior risalto, lo staccò affatto dal composto inerte, e ne fece un essere puro distinto, impersonandovi specialmente le astrazioni della libera forza motrice e della cognizione dei fini, e glielo contrappose, come l’artefice alla materia della sua opera; restando così per lui disegnate le linee fondamentali della filosofia dualistica, che si svolse poi nei grandi sistemi di Platone e di Aristotele. Nel concetto, che si venne per tal modo formando, di una vasta, anzi infinita, armonia di cose, rispondenti immancabilmente alle disposizioni eterne di una mente sovrana, a ciascuna era affidato un ufficio speciale, insieme col potere di eseguirlo. Tale potere non aveva altra ragione di essere, che il beneplacito del donatore. Dio, dice Platone nel Timeo, volendolo, rende immortale ciò che per natura è corruttibile. E l’uso era vincolato da una legge determinata dall’intento del tutto. Al sole, dice Eraclito, è segnata la sua via; se ne uscisse, non isfuggirebbe al castigo delle Erinni vendicatrici E poiché l’esperienza aveva mostrato corrispondere ad una cosa particolare varie categorie di fatti, si era pensato, che ogni essere fosse investito di più facoltà, quasi di altrettante prerogative, regolate però anch’esse nel loro esercizio da apposite convenienti prescrizioni. Così, come si era dapprima applicato alla natura, per ispiegarla, il concetto dell’individuo, che ha in sua piena balia le diverse membra del corpo, aspettanti per muoversi il comando dello spirito animatore, in seguito le si applicò quello dell’ordine sociale, nell’ampia cerchia del quale un legislatore fissa e dirige, a suo talento, ma con legge stabile e generale, le sorti e le azioni dei sudditi, nei diversi gradi della loro condizione.

Ma una osservazione più attenta scoprì, a poco a poco, tali e tante relazioni tra l’azione esercitata dagli oggetti e la loro intima costituzione, che la scienza andò sempre più abbandonando l’idea delle proprietà gratuitamente e capricciosamente affidate e delle leggi imposte arbitrariamente; e finì col persuadersi, che le energie, proprie delle sostanze e dei corpi naturali, non fossero altro, che la conseguenza e la espressione necessaria ed inevitabile della loro essenza medesima.

Cum materies est parata

Cum locus est praesto, nec res, nec causa moratur

Ulla, geri debent, et confieri res.

diceva Lucrezio. Tale è la dottrina di Democrito di Abdera, scolaro di Leucippo. Democrito compì il tentativo di Empedocle di spiegare la varietà e il mutarsi incessante delle cose, partendo da una primitiva moltiplicità caotica, per via di un processo puramente meccanico Egli emendò la teoria del filosofo Agrigentino; invece delle quattro sorta di particelle primitive, dette i quattro elementi, e delle due forze contrarie dell’amore e dell’odio, fatte intervenire per dare spiegazione delle composizioni e scomposizioni, ammise degli atomi, distinti, non per la sostanza, ma per la forma e la grandezza, e dotati per natura di movimento E, ciò che costituisce il carattere proprio di questa dottrina, ripudiò espressamente l’intervento delle cause finali

In questo sistema i vari modi di operare riscontrati nelle cose, ritornanti invariabilmente date le identiche circostanze, si continuò a chiamarli leggi, come prima; ma con significato molto diverso. Nella immaginazione, più poetica che scientifica, degli antichi dualisti il pensiero di un ordine, nato in una mente suprema, doveva averla condotta, per realizzarlo, a divisare gli uffici relativi, ed a procacciarsi il soggetto, in cui investirli, costringendo ad assumerne l’incarico una materia del tutto inerte e passiva, e per sé indifferente a qualunque genere di azione Nel concetto assai più filosofico, che si oppose al precedente, è la stessa natura delle sostanze la ragione, come della esistenza, così anche della energia loro, e del modo di esercitarla; sicché l’ordine non è più una causa, ma un risultato; e la legge non è più un comando imposto tirannicamente ad esseri riluttanti, ma la semplice manifestazione spontanea di quello che sono.

Anche qui però la legge si diversifica ancora dal fatto, e si appoggia interamente alla sostanza, poiché ne rappresenta l’essenza e le proprietà. Per cui, in questo sistema, il fatto non può essere concepito da sé, ma si connette necessariamente alla legge, come la legge alla proprietà e alla forza, e questa alla sostanza. E il fatto, benché costituire da solo la scienza, non vi tiene neanco il primo posto, e vi figura soltanto come ultimo corollario delle idee sopraddette, che lo precedono logicamente.

Ma una analisi più accorta del processo conoscitivo, onde si distinse ciò, che si deve alla realtà appresa, da ciò che è mero effetto di combinazione e di abitudine mentale, ha dimostrato finalmente, che le idealità formate dalla immaginazione, quali sono queste della sostanza e delle sue misteriose proprietà, non sono punto, come si credeva quasi invincibilmente adeguate e perfette di ciò, che esiste veramente ed opera nelle cose; e che la scienza, per essere veramente solida in tutte le sue parti e degna del suo nome, non deve ammettere, siccome certo, se non ciò che è accessibile alle umane facoltà, vale a dire il solo fatto Questa verità, non estranea del tutto alla scienza antica più matura, è propria soprattutto della moderna, i cui risultati hanno giustificato definitivamente gli arditi concetti di David Hume L’essenza e le proprietà della sostanza trascendono assolutamente la sfera del nostro comprendimento, e quindi non hanno diritto di entrare a far parte di un sistema di cognizioni serie e positive. Chi ve le introduca, o lo fa per dedurne i fatti, come si dedurrebbe la conseguenza dal suo principio, e allora si ha l’assurdo, che il fenomeno si accerti, non mediante l’osservazione, ma col ragionamento a priori; o lo fa per completare, con una semplice aggiunta metafisica, un corpo di veri in tutto empirici, e allora si ha nella scienza un principio discordante ed ozioso, che non aggiunge nulla alla verità del resto, e rimane come una parte viziosa, che minaccia sempre di guastare la buona.

Quando diciamo, il fatto, non escludiamo la legge. Se lo facessimo, toglieremmo anche la scienza, perché essa consiste appunto nel dimostrare le leggi dei fatti. Ma che è infine la legge, se non il fatto? La legge astronomica della gravitazione dei corpi celesti, la legge fisica della rifrazione della luce, la legge fisiologica della circolazione del sangue, sono altrettanti fatti; niente altro che fatti; invincibilmente, rappresentazioni. La gravitazione è il fatto del movimento delle grandi masse di materia, isolate nella immensità dello spazio; la rifrazione della luce è il fatto della deviazione del raggio luminoso, nell’entrare in mezzi diafani di densità diversa; la circolazione del sangue è il fatto del movimento del liquido, onde si mantiene la vita, per le arterie e le vene degli animali, in conseguenza delle contrazioni del cuore. E così dicasi di tutte le altre leggi. Non se ne trova nessuna, che sia altro più che un fatto.

La legge si distingue dal fatto, non come cosa da cosa, ma solamente, come la cosa considerata in ciò che ha di comune con altre, vale a dire il generale e l’astratto, dalla cosa considerata in tutte le sue particolarità, ossia come individuale e concreta. Dati più fatti dello stesso genere, ciò in che si rassomigliano è la loro legge. Per dirlo in una parola, la legge è la somiglianza dei fatti. L’allungamento di una spranga di ferro, esposta al sole, l’innalzamento della colonna di mercurio nel tubo di un termometro, portato in un luogo caldo, il gonfiamento di una vescica chiusa, contenente aria, messa sopra una stufa accesa, sono tre fatti particolari. Essi hanno di comune, che sono una dilatazione di corpi, diversi per la sostanza e lo stato di aggregazione molecolare, in seguito a riscaldamento. In ciò si rassomigliano; e quindi si dice, che questa è la loro legge.

Onde si vede, che, se la scienza oggi parla ancora di leggi, questo vocabolo vi ha un significato affatto diverso dal vecchio; e che il concetto da esso indicato non è, per nessuna ragione logica, subordinato a quelli delle proprietà, della sostanza, e della essenza, come presso gli antichi.

Non è però da dissimularsi, che, in quanto questa parola, anche adesso, come prima, è usata soltanto nelle scienze dinamiche, ossia di ciò che avviene o diventa, e non nelle descrittive, ossia di ciò che è, conserva tuttavia una qualche ricordanza, per quanto leggera, dell’antica significazione. Se non vi rappresenta più la forza particolare generatrice del fatto, vi indica però ancora una certa ragione logica speciale. Mi spiego con un esempio. La legge, a cui si subordina il fatto della caduta di un corpo sollevato in alto e poi abbandonato a se stesso, è quella della gravità. Questa gravità gli antichi la prendevano, come qualche cosa a cui fossero soggetti i corpi; fosse poi essa o un comando superiore onnipotente, che li spingesse irresistibilmente verso la terra, o la stessa loro natura, che li sollecitasse a cadere. In qualunque modo, sempre una vera forza particolare effettrice. Per noi invece la gravità, come abbiamo detto, è lo stesso fatto di cadere, che si rinnova ogni volta che i corpi non sono sostenuti. E quindi non ci rivela punto la causa reale, che lo produce. Ma ci serve a spiegarlo. Cioè veniamo per essa ad assegnargli un posto in un ordine ed in una serie di fatti aventi tra loro dei rapporti dinamici, ossia di successione.

Nelle scienze dinamiche si studiano i fatti, che si succedono nel tempo. L’attinenza di successione nel tempo, considerata nei fatti, fa che noi li apprendiamo, non come qualità o cose, ma come atti e funzioni; e li colleghiamo fra loro pei rapporti della causalità. È questa la ragione, per cui si conserva in quelle scienze la parola legge, colla tinta di significato speciale detta sopra. Nelle scienze descrittive, che, nei dati reali ed ideali, cercano, non quello che fanno, come le dinamiche, ma quello che sono (e ciò notando il rapporto di coesistenza dei fatti che li costituiscono), per indicare le generalità, che ne danno ragione, si preferiscono altre parole; come elemento, parte, specie, classe, rapporto, idea e simili, che si possono comprendere nell’unica di nozioni. Tutti questi vocaboli non indicano, che dei fatti in astratto, come quello di legge; né più, né meno. E non se ne differenziano, se non perché, come questo ultimo ci fa ricordare, che in antico le scienze, in cui entra, seguendo una illusione naturale e fortissima della nostra mente, credevano di mostrarci la vera causa reale degli effetti studiati; i primi appartengono a scienze, che una volta avevano, per lo stesso motivo, la pretesa di rivelarci l’essenza stessa delle cose. In una parola, la legge è il fatto stesso, ma concepito come una azione, vale a dire, avente con altri fatti una relazione di tempo; e la nozione è, essa pure, il fatto, e null’altro; ma il fatto considerato, come cosa o qualità, vale a dire, avente con altri fatti una relazione di spazio. Fuori di tali allusioni, nessun’altra differenza tra quella e questa. Tutte e due, allo stesso modo, sono generalità od astrazioni, formate sui fatti particolari, o, che è lo stesso, ne sono le somiglianze; e servono per classificarli Chi vi aggiunge di più, come vedremo innanzi farsi oggi ancora da molti di quelli, che parlano di forza e materia, di anima e di facoltà dello spirito, s’inganna, e torna ai falsi sistemi, sopra ricordati, della scienza immatura.

La scienza va in cerca dei fatti. Osservando e sperimentando, li trova, li nota, li accerta. Poi li confronta, e li distribuisce secondo le somiglianze, e ne forma dei gruppi distinti, sui quali leva le prime generalità. In seguito paragona tra loro queste generalità prime, e le distribuisce in categorie, e ne astrae delle generalità superiori; e ripete il lavoro, di grado in grado, fino a trovare, se vi riesce, quell’unica, che sta in cima a tutte, e le collega in un solo sistema. Così si forma la scienza; la quale, per tal modo, viene ad essere un grande quadro sinottico, o una classificazione dei fatti. Classificazione che giova a due scopi. Essa, in primo luogo, è un tutto proprio della mente, è un’opera d’arte della facoltà logica, è una idealità, onde l’umana contemplazione si pasce con voluttà divina, come della idealità morale ed estetica. Inoltre serve a spiegare le cose particolari, e quindi a farle conoscere, nel modo più perfetto, che è a dire, scientificamente.

Che è conoscere un oggetto particolare? Lo stesso che spiegarlo. E spiegarlo? Una cosa semplicissima associare ad esso le idee che vi hanno relazione. Il fabbro conosce un suo strumento, perché alla sua vista si risveglia in lui l’idea dell’uso a cui serve. Egli poi lo conosce solo praticamente, perché lo fa mediante l’associazione di idee particolari ed inorganiche. Il botanico, conosce una data pianta, perché, esaminandola, ricorda la varietà, la specie, la famiglia, l’ordine, e via discorrendo, a cui appartiene nel sistema dei vegetali. E la sua cognizione è scientifica, perché le idee associate, che la rendono tale, sono idee astratte, disposte secondo le diverse gradazioni di generalità, ossia secondo il loro organismo logico. Così il marinajo conosce praticamente un dato vento, mentre egli vi annette, per l’esperienza avuta, certi pericoli della navigazione. Il fisico ed il meteorologo conoscono invece quel vento scientificamente, mentre sanno associargli le idee delle leggi proprie dei movimenti dei corpi in genere, e quelle dei movimenti dei fluidi aeriformi, dell’aria, dell’atmosfera, delle sue diverse correnti, e via dicendo; e così viene ad indicare il posto, che quel fenomeno tiene nel grande quadro dei fatti della natura.

Non sempre le generalità, che si associano a dati fatti particolari, per ispiegarli, sono cavate, nel modo detto sopra, da quei fatti medesimi; e quindi non sempre sono a loro posteriori nel processo ideologico. Spessissimo vi si applicano delle generalità già formate prima. Per conoscere gli avanzi fossili di un animale di una specie perduta, il paleontologo ricorre alle classificazioni già preparate dalla scienza, dietro lo studio degli individui tuttora viventi. La scienza gli presta, o il genere, o la classe, in cui collocare il nuovo animale; mentre i suoi caratteri particolari lo conducono a delineare una famiglia, una specie novella. La teoria, recentissimamente provata vera dal professore Schiaparelli e da altri, sulle meteore cosmiche a cui appartengono gli aeroliti, non è altro che una giusta e felice applicazione ad un nuovo caso delle leggi astronomiche delle comete. Qui l’ipotesi si è convertita in tesi; ossia la somiglianza presunta è divenuta una somiglianza verificata.

In mancanza di somiglianze vere e proprie, si ricorre anche a supposte e lontanissime, pur che si trovi una qualche spiegazione. Tanto è forte siffatta tendenza della mente umana. Se cade una goccia di un acido su un panno e ne altera il colore, si vuol subito spiegare il fatto; e, in mancanza d’altro, si ricorre all’idea del mangiare, che non ha con quello se non una lontanissima analogia; e si dice, che l’acido ha mangiato il colore. E chi non è istruito nella chimica se ne contenta, come se non gli restasse altro da sapere in proposito. Tale procedere è immensamente più comune, che non si creda. N’è frutto la massima parte delle nostre cognizioni. Il linguaggio umano n’è, si può dire, formato di pianta. E non è straniero alla stessa scienza; che anzi il suo progresso consiste appunto in ciò, di venire sostituendo a poco a poco delle somiglianze vicine e giuste alle false e lontane.

L’anteriorità cronologica delle nozioni generali, adoperate nelle così dette scienze a priori, per rendere ragione dei fatti particolari, è tanta, che se ne sconosce perfino del tutto la natura. Onde il debole di quelle scienze. Il debole dei metafisici sta nel credere, che quelle nozioni universalissime, che essi chiamano le idee, precedano la esperienza di qualunque fatto, e ne siamo affatto indipendenti; e quindi siano atte a rappresentare più che il mero fatto; a rappresentare cioè la stessa sostanza ed attività della cosa, onde il fatto procede, e le cagioni assolute di esso. Se il matematico non incorre nelle assurdità dei metafisici, è perché prende le sue linee e i suoi punti per quello che sono veramente, cioè come astrazioni, e niente di più. Se egli, per esempio, per calcolare il rapporto, che corre tra due forze date, le indica con una lettera e le considera concentrate ciascheduna in un punto, con ciò non vuol dire di conoscere il modo, onde nella natura si sviluppano quelle forze, e non intende di sostenere contro i fisici, che una energia sperimentabile non supponga una certa quantità estesa di materia. Le sue conclusioni sono delle relazioni puramente mentali, quali risultano dal confronto logico dei dati astratti su cui lavora, ed egli non dà ad esse altro valore E così non argomenta dalla divisibilità all’infinito dello spazio matematico ad una uguale divisibilità dei corpi concreti. Anzi non gli ripugna neanco di concepire il corpo in sé come una cosa non estesa. Chi non sa, che tale idea ebbe i principali suoi sostenitori fra i matematici, quali erano certamente, per non citare che questi, Leibniz e Boscowich? Le idee di tempo e di spazio, su cui lavorano i matematici, quelle di essere, realtà, sostanza, causa e simili, onde si occupano i metafisici, non sono, come essi credono, nozioni precedenti l’esperienza dei fatti, o, come si dice, idee a priori. Esse sono il frutto della nostra prima e più costante esperienza, aiutata dallo strumento della parola, che rappresenta l’esperienza delle generazioni passate. Il crederle non semplici somiglianze di genere, fatti sperimentali, ma tipi universali, necessari e trascendenti, e senza dipendenza da essi, proviene unicamente dal modo inavvertito, onde si vennero disegnando nella nostra intelligenza di mano in mano, che si andava formando.

Ad ogni modo, sia che si parta dal fatto particolare, per indurne la nozione o la legge generale, sia che, ottenutala prima per tale via, si parta da essa, o per chiarire nuovi fatti, associandovela per la ragione della analogia e applicandovela come una ipotesi, o per creare nuovi dati, servendosene come di proposizione maggiore di un sillogismo, resta sempre, che nella scienza non si ha che il fatto e la nozione o legge; vale a dire, il fatto considerato ora in concreto ed ora in astratto; e che quindi essa non può risalire oltre i fenomeni, e non può far altro che rilevarne la consistenza, la successione e le somiglianze; e che al tutto vana era la credenza degli antichi, che potesse condurre a conoscere le cose fino nella essenza e nelle cause loro.

La nostra conclusione a molti parerà desolante. Parerà, che, a questo modo, la scienza debba riuscire alla negazione di se stessa. E si rimpiangeranno i tempi felici, in cui l’uomo, pure illudendosi, poteva sentire la compiacenza, quasi divina, di credersi in possesso dei segreti più nascosti della natura, e di rifare, con una vera creazione della sua mente, il mondo, per la cognizione delle cause medesime, onde è l’effetto. Rimpianto irragionevole; come di chi, ridestandosi improvvisamente, sentisse rincrescimento di un bel sogno svanito. Le palpebre, chiuse pel sonno, si aprono al chiaro del giorno ed alla verità delle esistenze concrete, se un raggio di sole le offende e le irrita. Nello stesso modo la luce della scienza moderna punge e molesta lo spirito addormentato nelle piacevoli fantasie delle passate età, e lo sforza a risvegliarsi. Le false immagini del sogno si dileguano, e sottentrano quelle della veglia. Ma di quanto maggiore bellezza e valore!

La scienza in passato si occupava specialmente delle sostanze, e si compiaceva di descriverne, con ingenua baldanza, la natura e la proprietà. Era quello un sogno; ciò che essa credeva la sostanza non era che una formazione al tutto chimerica di una poetica fantasia. Che era la sostanza di Aristotele? Un accoppiamento meramente mentale di due entità astratte, la materia e la forma E per Platone? Egli ha invertito l’ordine dei concetti. Per lui le vere sostanze sono le idee; ciò che tocchiamo colle mani e vediamo cogli occhi non é la sostanza nel giusto senso, ma solo un non so quale riflesso della vera, ossia della idea E per gli atomisti? Una riunione di atomi, ossia di corpi estremamente piccoli. Cioè hanno creduto che un corpo, una montagna per esempio, fosse bello e spiegato, se, invece di pensarlo grande come lo vediamo, fossimo riusciti, facendo uno sforzo di immaginazione, a ridurlo a dimensioni di una estrema piccolezza, come a dire parecchi milioni di volte minore della punta di un ago. E per gli altri? L’abbiamo detto sopra; ora l’astrazione matematica del numero, ora quella dell’essere metafisica; uno ed immutabile, secondo gli eleatici; vario e sempre diverso da se stesso, secondo Eraclito.

La scienza nuova ci ha fatto aprire gli occhi alla realtà, ed ora ci accorgiamo essere ciò che si conosce il solo fenomeno; ma un fenomeno vero ed effettivo, e non immaginario; un fenomeno di cui siamo veramente in possesso, e che costituisce un dato di cognizione solido, e non dipendente dalla nostra volontà; che non può, come nella scienza passata, o ritenerlo o ripudiarlo a piacimento, secondo che si accordi o meno con un sistema prestabilito. E la realtà di questo semplice fenomeno, in apparenza inconsistente e vuota, è in effetto piena di una inesauribile ricchezza e fecondità; e nulla valgono, al suo paragone, le astrazioni aride ed impotenti degli antichi.

Che era l’acqua per Empedocle, uno dei filosofi più positivi dell’antichità? Era l’agglomerazione di piccole particelle, non calde e rilucenti, come quelle del fuoco, ma fredde ed opache Tale, e niente di più, era acqua per quel naturalista, che riteneva di conoscerla, non nella sua povera esteriorità fenomenica, ma proprio nella essenza costitutiva della sua sostanza E tale, presso a poco, è rimasta, per una lunga serie di secoli, fino a Watt, che, compiendo le osservazioni di Wartlire, Cavendish, Lavoisier ed altri, ne annunciò il 26 Aprile 1783 la composizione. Secondo quelli che pensano, che a dire fenomeno non si dica nulla, noi, che pretendiamo di andare fino in fondo della essenza, e ci contentiamo di arrestarci a quelle, che si chiamano le apparenze superficiali dei fatto, dovremmo avere dell’acqua un’idea assai più meschina. Ma quanto si ingannano? Quante cose non abbiamo noi, o scoperto, o intravveduto in una particella appena visibile di acqua; in ciò che, per Empedocle e per i fisici vecchi, non è altro, che un atomo freddo ed oscuro! Un mondo addirittura.

Che cosa è per noi una gocciolina piccolissima d’acqua? Essa, prima di tutto, è un cumulo formato da un numero straordinariamente grande di particelle di una piccolezza, che sorpassa ogni immaginazione, dette molecole. Una sola onda luminosa, che, in media, ha la lunghezza di circa mezzo millesimo di millimetro, ne può abbracciare molti milioni. Cosa che non deve parere incredibile, perché possono essere nella stessa gocciolina d’acqua degli animaletti microscopici più piccoli di quell’onda, eppure forniti di tutti gli organi necessari alle funzioni vitali. Ma queste molecole non vi giacciono, le une sulle altre, come i granelli in un mucchio di sabbia. Degli spazi, in proporzione notevoli, le dividono, che, malgrado la estrema loro esiguità, non poterono sfuggire alle nostre indagini e ai nostri calcoli. Scoprimmo come dipendano dal calore, che intromettendosi li allarga, e dalla pressione esterna che li restringe; e ne fissammo con certezza e precisione i rapporti di grandezza, pei diversi stati di aggregazione. E ciascheduna molecola, secondo la magnifica teoria seguita ed illustrata dal Secchi, gira sopra se stessa rapidamente, insieme al vortice da essa formato nell’etere; e nello stesso tempo, non avendo asse stabile di rotazione, oscilla irregolarmente tra le vicine; onde l’incoerenza e la fluidità della massa. Che se poi vien meno un poco il calore, causa della divisione e del disordine, si manifesta, come per incanto, in tutte le molecole, una tendenza comune; diventano come i soldati, vaganti senz’ordine nel campo, quando il tamburo suona a raccolta. Ciascuna conosce il suo posto e vi accorre; in un momento le file sono composte e si formano delle stelle a sei raggi, come dei fiori a sei petali, di una esattezza geometrica perfetta; vale a dire si fa il ghiaccio. Egli è, che, diminuito colla temperatura, il moto traslatorio delle molecole, e queste per ciò ravvicinandosi tra loro, i vortici eterei delle une entrano nella sfera d’azione di quelli delle altre, e sono tutti travolti insieme, sicché gli assi di rotazione di tutte prendono una orientazione regolare e si muovono, per così dire, in cadenza. Nel solido, così formato, le particelle componenti non possono più scorrere le une sulle altre; e resistendo, senza spostarsi, all’urto delle onde luminose, non le estinguono, ma ne permettono la propagazione normale per gli strati sottili e rarefatti dell’etere interposto. Così, se si oppongono alla trasmissione del calore e della elettricità, che esigono facilità di movimento longitudinale, sono in compenso permeabili alla luce e trasparenti. Ma tutto questo non è ancor nulla. Delle innumerevoli molecole, che compongono una gocciolina, appena percettibile, d’acqua, consideriamone una sola. Essa non è l’atomo freddo ed oscuro di Empedocle. Ma la compongono l’idrogeno, che ci serve così bene per vederci la notte, e l’ossigeno, per cui si genera la fiamma, ed il calore. E questo lo sappiamo così bene che ne abbiamo perfino misurato i volumi ed i pesi rispettivi; onde ci è risultato, che il volume dell’idrogeno sta all’altro, come due ad uno, quantunque i tre, combinandosi, si condensino in due soli; ed il peso del primo vi è l’ottava parte di quello del secondo. Per noi poi gli atomi dell’ossigeno e dell’idrogeno sono essi stessi altrettanti sistemi di altre particelle elementari, contornati ciascuno dalla propria atmosfera eterea, avente un proprio movimento, che, da una parte, mantiene la composizione particolare dell’atomo, come l’aria tiene uniti fortemente tra loro due emisferi cavi, combacianti e vuoti e, dall’altra, è subordinato al movimento della atmosfera maggiore della molecola acquea intera. Sicché potremmo a tutta ragione considerarla, siccome un vero congegno meccanico, i cui vari organi, accortissimamente calcolati e disposti e spinti di continuo per gli urti esterni, che ne mantengono l’attività, servono a trasformare in diverse guise il movimento ricevuto, e a trasmetterlo, così elaborato, intorno a sé; potremmo anzi paragonarla ad un tutto naturale assai più grande, qual è, per esempio, un intero sistema planetario; poiché, per la natura, come è piccolissima, sovrabbondandole sempre la forza infinitamente, la distanza che separa pianeta da pianeta, né punto più dello spazio dividente le parti di un granello d’arena, così gli interstizi fra atomo e atomo, impermeabili ai sensi ed agli strumenti più raffinati dell’uomo, sono campi larghissimi, in cui essa trova sempre luogo a quante cose invisibili e minute le piaccia di collocarvi. E la forza, che nella nostra molecola collega in un solo gruppo l’idrogeno e l’ossigeno, la conosciamo. E, a questo riguardo, siamo assai più potenti del fato di Empedocle; poiché ci è possibile ciò, che a quello non era dato; di disfare l’acqua e di rifarla, come ci piace; quantunque la forza in giuoco sia meravigliosamente grande; mentre giusta i calcoli di Dupré per separare violentemente l’ossigeno e l’idrogeno, sopra una sezione di un millimetro quadrato, occorre tanto quanto per ismuovere il peso di 1673 chilogrammi.

Insomma Empedocle ha voluto, secondo che richiedeva la scienza del suo tempo, mostrarci la stessa sostanza dell’acqua, ma ci diede una sostanza, che non esisteva, se non nella sua mente. Invece della sussistenza, della concretezza, di una cosa reale, e del portento della sua attività, l’esperienza non vi ha trovato, che la vanità di una larva impalpabile e senza vita. L’acqua dei nostri chimici ci è data, come un semplice fenomeno poiché vi si prescinde affatto da una teoria qualunque circa la intrinseca natura delle monadi materiali ed eteree; e le affermazioni sono tutte l’espressione, immediata o mediata, di fatti osservati. E tuttavia non è quella cosa inconsistente e desolata, che altri avrebbe creduto; ciò che ne abbiamo detto, per quanto sia pur qualche cosa, è di gran lunga assai meno di quello, che se ne potrebbe dire ancora; ma contiene in sé una ricchezza di dati ed una fecondità di aspetti e di funzioni inesauribili. E ciò, perché quell’acqua è un fenomeno sì, ma un fenomeno che esiste; non è una apparenza vana, come quella di un sogno, sibbene la percezione effettiva di ciò, che è realmente, fatta da un uomo, che non dorme.

Il procedere di uno scienziato moderno è veramente tale da far venire il capogiro agli ammiratori della scienza vecchia. Lasciamo, che un oggetto cada per terra. Nessuno mostra di stupirsi del fenomeno, che ha luogo. Tutti sono interamente soddisfatti di ciò, che ne sanno; e dalla scienza si aspettano delle spiegazioni, non su di esso, che credono non averne bisogno, ma sulle altre cose più elevate; come sarebbe, per esempio, il sistema dell’universo. E lo scienziato? Senza enfasi e senza pretesa egli vi dirà, che il sistema dell’universo, lo conosce; e tanto, che non gli reca oramai più nessuna meraviglia. Egli vi dirà, che il mondo non è mica dentro a quelle fodere o buccie più o meno dure, dette cieli, in cui gli antichi l’avevano imprigionato, ma che i campi dello spazio sono da ogni lato aperti, e interminati, e fecondi. E che si trovano da per tutto dei mondi vecchi e in dissoluzione, e di quelli recenti e che vanno formandosi; quali luminosi e quali opachi; quali compatti e quali composti di minuzzoli disgregati o di tenuissimi vapori; quali, infine, aggiogati ad un sistema particolare di astri e quali indipendenti, o che si versano, come torrenti di materia cosmica, ora nell’uno ed ora nell’altro. Egli vi dirà di sapere, di che si alimenti la luce di un sole, e come, stando nel suo studio, ne possa assaggiare i raggi e quindi conoscere la materia, ond’è formato. E vi dirà anche, che egli sa, con tutta precisione, quanto è grosso ogni pianeta, e quanto pesa, e quanto corre e perché ha cominciato a correre, e corre così tuttavia, e per quanto tempo potrà seguitare a correre E se voi, sorpresi del tono semplice e niente esaltato del suo parlare, gli domanderete, da che ha preso tanta sicurezza di affermare, discorrendo di sì grandi cose, come se non dicesse nulla di straordinario, egli vi richiamerà all’oggetto caduto, e vi soggiungerà: Eh! tutto quello, che avete sentito, che è mai, se non lo stesso fenomeno volgarissimo della caduta di un corpo qualunque? Felice questo scienziato, esclamerete voi allora, che par che non sappia nulla, e sa tutto. No, dirà egli freddamente; anzi ignoro, che sia questo volgarissimo movimento di un oggetto che cade Ammiratemi, se volete, per le mie cognizioni sui corpi, che si aggirano in cielo; ma ricordatevi, come io debba confessare di ignorare perfettamente questo vil fatto, che non eccita la curiosità di nessuno.

Tale è il linguaggio dei cultori della moderna scienza positiva. Essi non fanno come i metafisici, che sostengono di sapere ciò che non sanno, e non si potrà mai sapere; e tuttavia a quante cose verissime è pure arrivata la loro induzione, che non si sarebbero mai nemmeno sognate, se si fosse data retta a quei sapienti delle cause e delle essenze.

Ciò che fa credere ai molti, che il ridurre la scienza al mero fatto la distrugga, è il pregiudizio volgare, rinforzato dai placiti apparentemente scientifici dei metafisici, per cui in ogni singola cosa si pone un’essenza e delle fenomenalità, che l’accompagnano; e quindi l’esistenza ritenuta propria solo della prima si distingue da quella delle seconde, in modo che, mentre nella essenza si riconosce una realtà nel senso vero, vale a dire fissa ed immutabile e basata sopra una ragione eterna ed universale, al fenomeno non si concede che una realtà incerta ed apparente, e tutta mobile e transitoria, e affatto fortuita, e di importanza puramente particolare Con tale pregiudizio è naturale, che il fatto per sé sia reputato insufficiente a stabilire la scienza, che non può aver luogo senza una perfetta stabilità nelle nozioni e nelle leggi delle cose

E si dice inoltre: La speculazione antica ha trovato ed ha assicurato per sempre alla scienza i concetti sovrani della unità e dell’ordine delle cose, della razionalità delle leggi che le governano, e della loro perfetta corrispondenza colla natura delle sostanze in cui si manifestano. E il principio della stabilità delle nozioni e delle leggi, indispensabile alla scienza, è appunto un corollario di quei concetti, e non può stare senza di essi. E la scienza moderna non esita ad ammetterli e ad appropriarseli; anzi è costretta a farlo, se vuol essere scienza. E quindi si soggiunge: Or bene, quei concetti, che, oltre essere verissimi e costituire un progresso reale ed importantissimo della scienza, ne sono anche il principale fondamento, non si trovarono già partendo dal principio della sola conoscibilità ed ammissibilità del fatto, ma sì tenendo al contrario lo sguardo rivolto alla essenza e alle cause delle cose.

Non c’è punto di dubbio. I concetti accennati, dell’unità e dell’ordine delle cose, della razionalità delle leggi che le governano e della loro perfetta corrispondenza colla natura delle sostanze in cui si manifestano, sono verissimi, sono una conquista preziosa ed un vanto della scienza; e quella, che non li adottasse, non ne meriterebbe neanco il nome; in ciò siamo pienamente d’accordo. E conveniamo anche, che la speculazione antica, come mostrammo al principio, li trovò, li asserì, e li pose a fondamento del sistema della scienza. Ma neghiamo assolutamente, che siano un portato proprio della scienza delle essenze e delle cause; e che quindi siano inaccessibili alla scienza dei soli fatti. Neghiamo, che questa, ammettendoli, come fa, li prenda a prestito dall’altra e contraddica a’ propri principi. Per provare il nostro asserto, dobbiamo prima passare in rivista quei concetti, e vedere come erano intesi dagli antichi, e come lo sono nella scienza positiva attuale.

Gli antichi avevano il concetto dell’unità della natura. Ma tale concetto, nella forma che aveva preso nel loro pensiero, non era vero che in arte. E mancava poi al tutto di certezza scientifica. Era vero, in quanto era stato indovinato dietro una osservazione più o meno estesa dei fatti; era erroneo e non giustificato scientificamente, in quanto era spiegato, non pei fatti stessi osservati, ma per delle astrazioni, dalle quali era arbitrariamente derivato. Pei fisici della Jonia l’unità dipendeva dalla generazione, da loro falsamente asserita, di tutte le cose da un elemento, come l’acqua e l’aria Pei metafisici da un rapporto da loro supposto di ciascun essere con una idea della loro mente. L’idea, che i moderni hanno dell’unità della natura, non è assoluta, come quella degli antichi. Non lo è, perché non partono da un dato metafisico assoluto, ma unicamente dai fatti; e l’unità l’affermano ogni volta che ne può essere indotta e solo per quanto tale induzione lo esige e lo permette. I moderni affermano l’unità, quanto alla legge della genesi di tutti i corpi celesti, pel confronto delle loro condizioni fisiche diverse e mutabili; per le trasformazioni in successive condizioni analoghe, a cui, come ha mostrato la geologia, andò soggetta la terra; e per la consonanza di tutto ciò colle proprietà del calorico scoperte dalla fisica. Affermano l’unità, quanto ad una scambievole influenza effettiva degli astri fra loro, per l’attrazione che la luna e anche il sole esercitano sul mare, e i pianeti tra loro e sulle comete ; e le stelle e le grandi masse siderali fra loro; per gli effetti della luce e del calore solare sulle condizioni atmosferiche e sulla vita organica terrestre; e per la corrispondenza tra il movimento e le condizioni del sole e il magnetismo terrestre. Affermano l’unità nella legge della attività della materia, dovunque si trovi, qualunque ne sia il volume, la massa, l’intima costituzione, la forma, l’apparenza; perché l’azione reciproca degli atomi materiali, onde si attraggono e si respingono, è affatto somigliante a quella onde si hanno i movimenti delle grandi masse cosmiche; non solo, ma tutte le operazioni naturali, siano chimiche, o fisiche, o fisiologiche, si riducono al medesimo genere di fenomeni. Affermano in fine l’unità, quanto alla medesimezza e alla continuità degli elementi componenti, per l’analisi chimica delle pietre meteoriche e per quella spettroscopica delle luci stellari, e per l’esistenza indotta di un fluido etereo, nel quale, come in oceano infinito, a tutti comune, nuotino i mondi anche più lontani, dal quale traggano la materia onde sono composti, e pel quale si comunichino, come da lido a lido, la luce, il calore ed ogni altro genere di influenza. Queste unità conosce ed afferma la scienza moderna della natura. Invece della unità assoluta, erronea ed immaginaria, che rimase alla scienza degli antichi poiché, dimenticate le osservazioni onde l’avevano sospettata, la derivarono da un dato metafisico, i moderni, col solo appoggio dei fatti, riuscirono a scoprire diverse unità proprie delle cose. Ma queste, che nella modestia della loro relatività, sono senza confronto più grandiose e sublimi della assoluta degli antichi, sono poi vere in tutto e affatto certe, e nuove scoperte possono allargarne gli aspetti e la sfera, non mai sbugiardarle.

Riconobbero pure gli antichi un ordine ed una razionalità delle cose. Un piccolo ordine e povero, del quale era centro la terra e confine, vicino e chiuso, la curva apparente del cielo; un ordine ristretto alla sola vicenda monotona del rinnovamento periodico degli esseri attuali. Anche qui l’idea preconcetta della ragione finale dell’ordine, sostituita all’osservazione dei fatti, che l’attestano, ne aveva poi reso falso e bizzarro il concetto. I pitagorici al cielo delle stelle fisse, ai cinque pianeti che soli conoscevano, al sole, alla luna, e alla terra credettero di dover aggiungere un altro corpo, cioè l’antiterra, per la sola ragione, che mancava uno a far dieci, numero secondo loro perfetto. E gli altri che credettero di trovare la ragione e lo scopo dell’ordinamento delle cose in una idea presa dalle facoltà estetiche e morali dell’uomo, crearono dei sistemi, in cui le contraddizioni, le bizzarrie, le lacune mal riempite si prestano, come è noto, troppo facilmente alle critiche ed ai dileggi di chi li voglia combattere. Or che pensano i moderni quanto all’ordine ed alla razionalità delle cose? Per loro non è più la terra il centro dell’universo; e neanche il sole, o parte altra qualunque del cielo. Il centro è da per tutto e la circonferenza in nessun sito, per adoperare l’espressione sublime di Giordano Bruno. Una molecola corporea, presa in qualunque punto della realtà estesa, è, come diceva Laplace, un mondo per sé; un atomo di materia, secondo Faraday, è un punto da cui irraggia la forza, intorno intorno, indefinitamente, per mezzo al resto delle cose. L’intelligenza dell’uomo, questo piccolo ed effimero fenomeno proprio di un angolo ristrettissimo dell’universo, e di un istante brevissimo della sua esistenza, è capace, riferendo tutto a sé, come a centro delle cose, di abbracciarne, in qualche modo, le parti, che ne dividono la estensione, e gli avvenimenti, che ne misurano la durata. Oltre la cosa più grande sensibile si estendono grandezze maggiori all’infinito; cose sempre più piccole, all’infinito, si rinchiudono nelle cose più piccole sensibili. L’ordine attuale, colla varietà sterminata delle sue forme, non è che un semplice momento di un ordine senza confronto più grande, che si esprime in una serie interminata di momenti. La condizione attuale di un astro dista immensamente, e per la durata e per la forma, dalla sua prima formazione e dalla sua dissoluzione finale, secondo le idee di W. Herschell e di Laplace; lo stato presente della terra è l’aspetto momentaneo di una evoluzione prodigiosamente lunga, insensibilmente lenta, ma incessante, come ha mostrato Lyell; la vegetazione e l’animalità viventi, una fase fuggevolissima di uno svolgimento progressivo ed indefinito degli organismi, come ritiene Darwin. La costituzione e la storia di una semplice fogliolina, di un insettuccio, anche per quella sola ristrettissima parte, che se ne conosco, è cosa prodigiosamente grande ed ammirabile; e non ne capirebbe la descrizione un grosso volume. E tuttavia per la natura, che tante ne produce e ne distrugge, quella fogliolina e quell’insetto sono meno che nulla. Ma anche un uomo, che vive molti anni, ed ha un impero sul mondo; anzi, anche un intero corpo celeste, che ha un diametro di molte migliaia di chilometri, ed una esistenza di molti milioni di secoli, verso la durata e la immensità delle cose, contano, come una foglia, che dura una stagione, ed un insetto che dura un giorno. Ma la maggior maraviglia dell’ordine della natura, quale oggi si conosce, sta in ciò, che la diversità prodigiosa delle cose che lo compongono, e la variabilità inesauribile delle forme, che vi si vanno continuamente sostituendo, è il risultato di un semplice lavoro meccanico, cioè di null’altro che urti e movimenti; e che, essendo ogni più piccola parte di ogni più piccola cosa già un grande tutto per sé, che lavora, si può dire, in disparte e per suo conto, e inconscio di tutto il resto e così meccanicamente e a caso, per urti dati e ricevuti, e solo secondo che esige la forza cieca, che lo move, e le circostanze accidentalissime nelle quali si dà, che si incontri, come un pugno di dadi, che si agitano e si gettano, finisca poi per accordarsi perfettamente col piccolo tutto di cui fa parte, e questo con tutti gli altri; e non una volta sola, ma sempre e in ogni momento; non solo, ma un ordine inappuntabile, una razionalità dell’insieme sapientissima riesca ad esserci sempre, anche quando si direbbe, che c’è disordine nelle parti, e che queste mancano al loro scopo. Chi vede le celle delle api non può non pensare ad un’arte di farle così belle e regolari. Newton, studiando l’occhio umano, non ha potuto trattenersi dall’esclamare, che chi l’aveva fatto doveva conoscere le leggi dell’ottica. Ma d’altra parte, è pur vero che la forma esagona delle cellette delle api, come Darwin acutamente osserva, si deve, più che ad altro, alla fortuita pressione delle pareti delle cellette, tirate cilindriche dalle api, ma troppo vicine le une alle altre, perché possano trovar luogo per tale forma. Il che, chi bene osserva, vale anche per l’occhio; il quale, se riesce così formato, in seguito al precedente lavorio embrionale, come risultato finale di esso è pur sempre dovuto ad una felice combinazione di una lunghissima serie di casi fortuiti analoghi a quello, onde finiscono ad essere esagone le celle delle api. Dal che si vede, che, se l’uomo è costretto, per rendersi un po’ ragione di ciò che succede davanti a lui, di servirsi, in mancanza di altra idea più adequata, della nozione dell’arte, ossia di quel genere di causalità, in cui entra principalmente il fenomeno della intelligenza umana, questa però è ancora affatto insufficiente a spiegare la totalità del fatto, anche solo per quanto può essere conosciuto; e quelli che vollero, che alla proposizione - all’augello furono fatte le ali perché volasse - si sostituisse l’altra - l’augello vola perché si trova di averle - hanno una parte di ragione, almeno in quanto con tale sostituzione mostrano quanto sia difettosa ed inadeguata la spiegazione dei primi. Insomma i fatti, che, unicamente, furono consultati dalla scienza moderna, non hanno potuto darci l’ordine assoluto, e la ragione finale delle cose, come troppo leggermente credeva di poter fare la scienza antica; questo è certo. Anzi è certo eziandio che, per quanto si allarghi la conoscenza dei fatti, l’ordine assoluto e la ragione finale resteranno sempre al di là e al dissopra di ogni umana comprensione. Ma è pur fuori d’ogni dubbio, che la cognizione empirica nostra per quanto imperfetta, è ciò nulla ostante immensamente più bella e grandiosa e soprattutto più certa della vecchia metafisica.

Come sopra notammo, il progresso della scienza antica è arrivato fino al punto di affermare, che le proprietà e gli effetti delle cose sono la espressione della stessa loro natura. Questo fu veramente un progresso. Ma si inganna chi crede, che la sentenza - il fatto è l’espressione della natura della cosa che lo produce - non contenga tuttavia un errore, o almeno un equivoco. E in vero, che s’intende per natura di una cosa? Forse quella essenza affatto misteriosa, che si confessa di non conoscere? Ma, se non si conosce, come si fa a sostenere, che i fenomeni apparenti vi corrispondono e la rappresentano? Non avrebbero lo stesso diritto di asserire il contrario quelli che credono, che gli esseri posseggano le proprietà, che li distinguono, per una specie di concessione gratuita, da parte di una potenza superiore? O si intende per natura di una cosa ciò che ne sappiamo? E allora noi soggiungeremo: Ciò che ne sappiamo è il puro fenomeno, e nient’altro. Gli antichi ritenevano che le qualità sensibili di una cosa le appartenessero veramente, anzi ne rivelassero proprio la natura intima. Secondo tale modo di vedere, giacché una fiamma si manifesta mediante la luce onde risplende, e il calore onde riscalda, essa deve essere formata di essa luce e di esso calore; e tutte le fiamme devono essere identiche nella sostanza costitutiva, poiché tutte riscaldano e risplendono. Anzi la stessa sostanza speciale del fuoco, mobile, sottile, leggerissima, onde consta ogni fiamma, deve pure trovarsi nascosta anche in que’ corpi, che hanno proprietà analoghe a quelle delle fiamme; come di produrre chiarore, riscaldamento, bruciore, essiccazione. Ma tale illusione non esiste più per noi. Ora si sa da tutti, che le qualità apparenti non valgono per sé a distinguere le sostanze tra loro. Due fiamme, anche somigliantissime, possono essere due sostanze affatto diverse. Il carbone, la grafite, il diamante, tanto all’aspetto differenti, constano dello stesso carbonio. L’ossigeno e l’idrogeno, coi quali e si illumina e si riscalda, compongono l’acqua, che serve a spegnere e a raffreddare. E si sa, che le qualità sensibili, dalle quali un tempo si voleva arguire la essenza delle cose, non sono neanco una loro appartenenza, e dipendono totalmente dal senso impressionato. Ciò che si chiama luce, pel soggetto senziente, nel corpo luminoso non è più luce, ma una semplice vibrazione delle sue molecole. E la stessa vibrazione, senza cambiarsi menomamente, dove, trasmettendosi alla retina dell’occhio, si traduce in effetto luminoso, trasmettendosi ai nervi tattili, si traduce in effetto calorifico. Quando si dice, la tale sostanza, che cosa si viene realmente ad indicare? Non altro che un gruppo, più o meno stabilmente connesso, di dati fenomenali, al quale questi dati ora si aggiungono, ora si levano. Aggiungendone, la sostanza si specializza; levandone, si generalizza. Aggiungendo ai dati componenti l’idea della materia certi dati empirici, come del peso specifico, della durezza, della affinità, della forma cristallina, della conducibilità elettrica e calorifica, del sapore e così via, si formano le idee delle diverse sostanze elementari, e anche di quelle composte, sia sotto l’aspetto chimico, che mineralogico e fisico. E ritogliendoli, si risale all’idea della sostanza più generica, ossia della materia; la quale poi, anch’essa, come dimostreremo a suo luogo, è composta, in tutto e per tutto, di dati affatto sperimentali e fenomenici. Or dunque, tornando al nostro argomento, che resta di veramente esatto nella dottrina, a cui arrivarono gli antichi, e che lodammo, della perfetta corrispondenza della proprietà e della attività della cosa colla sua natura? Sol questo: Che certi fenomeni si collegano costantemente con certi altri. Matematicamente, se si cerca l’effetto di una palla, lanciata contro un ostacolo, si parte dai dati della forma, del volume, della densità, della velocità, della direzione di essa, e non della sua essenza materiale. E il calcolo astratto è applicabile con infallibile precisione a tutte le palle, in cui, per avventura, si incontrino i medesimi estremi di fatto, qualunque sia la sostanza onde constano. Fisicamente, due fiamme, anche diverse quanto alla sostanza dei corpi che ardendo la formano, possono produrre i medesimi effetti di illuminare, di essiccare, di riscaldare e via discorrendo. Ciò è tanto vero, che gli antichi, precisamente per tale ragione, hanno creduto, che tutte le fiamme, fossero identiche nella sostanza costitutiva. E che gli effetti naturali dipendano per noi dai fenomeni, e non dalla essenza di ciò intorno a cui si presentano, che apparisce, come per le fiamme ora dette, in tutte le altre condizioni ed operazioni naturali dei corpi studiate dalla fisica. La quale, come si sa, in ciò si distingue, o almeno si distingueva, dalla chimica e dalla fisiologia, che considera i fenomeni in sé e per sé, prescindendo affatto dalla essenza particolare del corpo in cui si osservano. Siffattamente, che per lo passato, come a tutti è noto, le forze fisiche erano credute altrettanti fluidi, che, invadendo i corpi, vi operassero (essi fluidi, e non la materia o forza stessa dei corpi) gli effetti relativi. Ma in chimica, non conduce a un tale ordine di idee la legge di Dulong e Petit, estesa ai corpi composti da Avogadro e Neumann, per cui il prodotto del peso di ogni atomo pel calorico specifico corrispondente è un numero costante; il che vorrebbe dire, che gli atomi dei corpi semplici, senza differenza di specie, hanno esattamente la medesima capacità pel calore? È la legge di Prout, sulle relazioni che si manifestano tra le cifre indicanti gli equivalenti dei corpi semplici, la quale farebbe supporre, che i corpi semplici attuali non siano, se non la condensazione, in grado diverso, della stessa materia, e che basti variare la condensazione per avere differenza di proprietà? E l’isomeria, per cui sostanze composte dei medesimi elementi, nelle medesime proporzioni, offrono proprietà chimiche differenti; onde si deve credere che esista una disposizione diversa negli atomi componenti la molecola, e ciò basti a produrre le variazioni? E l’isomorfismo, in forza del quale, per la sola analogia del tipo chimico di combinazione, delle sostanze tra loro diverse sono sensibilmente equivalenti sotto il punto di vista fisico e della cristallizzazione, e si possono adoperare indifferentemente le une per le altre, per produrre gli stessi effetti, malgrado la loro diversità di natura chimica? E in generale la tendenza a riferire le diversità delle sostanze, anziché ad una natura tutta propria di ognuna, da un lato alle disposizioni delle parti componenti secondo pochi tipi fondati sopra rapporti numerici semplici e costanti, e in cui atomi equivalenti si possono sostituire, e dall’altro alle deviazioni da questi tipi radicali, coordinate secondo una ragione numerica ordinata e fissa? Tutte le accennate dottrine chimiche, e le altre somiglianti, non conducono ad una teoria, circa la proprietà della materia opposta a quella di Berzelins, che voleva che l’attività specifica di un elemento corporeo corrispondesse ad una singolare ed incomunicabile natura di esso? Ma, per provare meglio il mio assunto, invece di moltiplicare gli esempi, come si potrebbe fare assai facilmente, amo piuttosto di aggiungere una osservazione. Un tempo si riteneva universalmente, che il lavoro fisiologico, che ha luogo negli organismi degli animali e delle piante, fosse dovuto ad una forza particolare, detta forza vitale, che vi si immaginava funzionare; oggi invece si va sempre più estendendo l’opinione, che basti a tutto la forza chimica comune. Gli stessi fenomeni chimici poi, anch’essi, si vuol riportarli alle forze fisiche generali, e queste alle meccaniche. Che è quanto dire, a quel concetto della causalità, in cui non si tiene verun conto della essenza dei corpi e si considerano unicamente le fenomenalità dell’urto e del movimento, della figura, del volume, del peso, della velocità e della direzione. Il principio adunque della correlatività dei fenomeni e delle leggi delle cose colla natura di esse, che non esitammo a riconoscere per vero, qualora sia inteso a dovere, cioè secondo lo spirito della scienza positiva attuale, non si oppone al nostro della sola ammissibilità del fatto nella scienza; anzi ne costituisce la prova più convincente e decisiva, tanto esso è irrepugnabile. E possiamo conchiudere, non potersi dire, che la scienza moderna debba, in tutto e per tutto, il principio dell’unità, dell’ordine, della razionalità delle cose, e della corrispondenza dei fatti colla loro natura, all’antica; che li tenga da essa quasi a prestito, e con una certa incertezza e ripugnanza, come se lo facesse in onta al suo metodo, al suo spirito, alle sue massime. Quei principi la scienza moderna se li è appropriati, dopo che li ebbe, per così dire, trovati di nuovo; sicché per essa si sono trasformati, ingranditi, e sopra tutto resi veramente scientifici, certi e positivi. Ai quali poi essa ne aggiunse un altro, tutto nuovo e tutto suo, e che si può dire essere la conseguenza, il compendio e la prova loro; il principio cioè, che la forza non si crea e non si perde, e che nella natura si conserva inalterabilmente la totalità della sua energia, malgrado le continue infinite variazioni della sua azione nelle singole cose. Come si sa, l’osservazione, che l’elettricità si svolge a danno di una quantità proporzionata di affinità, che il lavoro meccanico del vapore è in ragione del diminuirsi del suo calorico, che una forza qualunque, quando sembra venir meno e scomparire, è surrogata immancabilmente da un’altra, che le equivale, e che c’è ogni ragione di credere, che questo principio valga anche per lo stesso pensiero, ha finito di distruggere l’opinione, universale un tempo, che la forza, che in un dato momento produce un dato effetto, si crei nell’atto di operare, a quel modo che, nell’atto del volere e per esso, nasce apparentemente nell’uomo la forza di muoversi e di agire.

Possiamo anche conchiudere, che a quel principio gli antichi stessi sono arrivati, per quel tanto che rettamente ne intesero, non già tenendo lo sguardo rivolto alle essenze e alle cause delle cose, ma mediante l’osservazione dei fatti. Quella chimera, che essi chiamavano la essenza e la causa delle cose, non solo non li condusse a scoprire nessuno dei veri, che conobbero; e nemmeno ad illustrarli, dopo averli conosciuti empiricamente, di un qualche lume di certezza, ma nocque alla scienza immensamente, come abbiamo veduto. Chi vorrà dunque negare, che il principio dei moderni, di non dar peso se non ai fatti, è il solo giusto? Chi vorrà credere oggi, che la Cosmologia di Cristiano Wolff, dedotta con metodo irreprensibile, sia riuscita a ritrarre una immagine del mondo reale più bella, più grande, più vera, più certa di quella, che Alessandro Humboldt, nel suo Cosmos, ricava dalla semplice osservazione dei fenomeni?

Possiamo conchiudere infine, che il fatto, da sé, può offrire, ed offre effettivamente, delle nozioni e delle leggi veramente fisse e stabili; anzi di più, che non si dà per l’uomo altra stabilità di principio scientifici fuori della empirica, che risulta unicamente dalla ripetizione costante ed uniforme degli stessi fatti. La pretesa stabilità metafisica delle idee, che si vuole eterna, universale, assoluta, non può essere retaggio dell’uomo; ed è una illusione quella dei metafisici di credere di possederla, e di avere a loro disposizione le essenze, onde attingerla. La distinzione tra la realtà ferma e certa della sostanza e quella mobile ed incerta del fenomeno è una pura finzione della loro mente. Dicendo essenza, o non dicono nulla, o dicono solamente dei fenomeni, o delle astrazioni di fenomeni. Le loro idee non sono fornite di altra evidenza, se non della fisica; ed anche di questa in grado assai minore, che le cognizioni positive corrispondenti alle immediate apprensioni del senso. Minore di tanto, di quanto il concreto ed il reale hanno più consistenza dell’astratto e dell’immaginario. Per ciò e non per altro fu in ogni tempo facilissima cosa, creata per astratti ragionamenti una dottrina, contrapporgliene un’altra diametralmente opposta. Per ciò e non per altro i sistemi metafisici di fronte ad un vero dedotto dalla pura esperienza hanno dovuto cedere sempre ed inappellabilmente. Colla stessa facilità, colla quale gli eleatici avevano affermato, che l’essenza dell’essere è l’immobilità, Eraclito asserì il contrario. Dopo le esperienze di Torricelli e di Pascal, non solo non si è più parlato di orrore della natura pel vuoto, ma si considererebbe, siccome destituito di senso comune, chi volesse ancora mettere in dubbio il peso dell’aria, che fu per quelle dimostrato.

Vana dunque, ed insostenibile, e basata unicamente sopra un pregiudizio è la opinione, che, per fondare la scienza, non si possa prescindere dalla supposizione delle essenze e delle cause. La legge, e ogni altra forma di nozione generale delle cose, quantunque non sia altro, che il mero fenomeno, come dimostrammo, può tuttavia godere, e gode, in tutto e per tutto, del carattere della stabilità, e per esso, costituisce un dato conoscitivo perfettamente costante, certo, scientifico.





Parte seconda: La materia e la forza nelle scienze naturali



Alla dottrina, da noi fin qui esposta, che la scienza, per essere vera e capace di dare buoni frutti, non deve ammettere che il fatto; e che la sostanza, nel senso metafisico, entrandovi, o vi è al tutto oziosa, o la guasta, si fa una gravissima obiezione. Si dice: Siamo costretti a concedere, essere la legge lo stesso che il fatto; e lo concediamo. È però anche vero ed innegabile, che la mente, arrivata ad astrarre la legge dai fenomeni particolari, si trova poi irresistibilmente condotta alla idea delle proprietà e della sostanza, a cui e legge e fenomeno appartengono. Per ciò, non apprendersi il fatto nudamente in sé, e separato da quelle; e la sua percezione implicarle necessariamente. È, in effetto, appunto quella scienza moderna e positiva, della quale io affermo, che non vuol riconoscere se non i fatti, a smentirmi espressamente, poiché suppone, siccome postulati affatto indispensabili alla loro intelligenza, i dati metafisici della materia e della forza. Come rispondiamo noi a tale difficoltà?

Un tempo, come accennammo sopra, formate delle categorie di fatti fisici, dietro un primo imperfettissimo rilievo delle somiglianze loro, si crearono altrettante proprietà corrispondenti; e l’uomo, al suo spirito, curioso di sapere il perché di un fenomeno, rispondeva, che la cosa, onde emergeva, era stata fornita della proprietà di produrlo. La spiegazione non ispiegava nulla; pur gli bastava. Ma una osservazione più accorta ed una riflessione più matura lo costrinsero in seguito a fare il sacrificio delle sue prime creazioni. Si scoprirono delle somiglianze anche fra le diverse categorie speciali; si poterono avere, oltre le specie, anche i generi dei fatti; e le moltissime proprietà, relative alle prime, rimaste così fuori d’uso, dovettero essere sostituite da un minor numero di generiche. Ma per poco. Ché tra gli stessi pochi generi molto estesi restati, si trovarono analogie; e tali da poterne formare un solo genere comune a tutti. E allora convenne pensare ad una unica proprietà della materia; e la si chiamò la forza. Colla quale parola, come si indicò il complesso delle proprietà, che agiscono in un soggetto qualunque, e il concetto, che il fenomeno e la legge sono l’espressione della stessa natura intima della materia, e non l’effetto di un arbitrio che la muova dal di fuori, ossia che la proprietà non è data, ma naturale alla cosa, secondo il progresso scientifico spiegato sopra, certo si volle anche significare, quantunque un po’ vagamente, l’identità, presentata o riconosciuta, del processo operativo della natura, per tutte le svariatissime sue produzioni.

Ma anche a chi aveva creduto, di potersi finalmente acquietare in siffatta teoria, dovevano toccare delle amare delusioni. Secondo questa, la forza sarebbe una appartenenza della materia, anzi una sol cosa con essa; e vi si immedesimerebbe, come la proprietà colla sostanza. In questo senso parla Faraday, nelle sue ricerche sulla chimica: "Un atomo di ossigeno, egli dice, è sempre un atomo di ossigeno. Nulla può consumarlo. Può entrare in una combinazione, e non apparir più come ossigeno; può passare per mille combinazioni animali, vegetali e minerali; può rimanere nascosto per la durata di mille anni; ma, sviluppandosi, l’ossigeno con tutte le qualità, che aveva prima; né più, né meno. Tutta la sua forza primitiva, e questa forza soltanto".

Le idee, sulle quali sono basate queste parole di Faraday, hanno già subito una notevole, anzi radicale modificazione, per le osservazioni recenti di alcuni fatti e per l’applicazione, sempre più sicura ed estesa, delle nuove teorie della scienza. Prima di tutto, la molecola dell’ossigeno non può più essere considerata come un tutto semplice ed indivisibile; oggi è fuori di dubbio, che essa è composta di atomi. Nulla osta che di questi atomi, in una molecola, se ne faccia concorrere un numero grandissimo; ma è provato, che ne deve contenere almeno due. Unendosi una molecola di ossigeno ad una molecola di azoto, si formano due molecole di ossido di azoto; ciascuna delle quali contiene e ossigeno e azoto; onde è evidente, che la molecola ossigenica, per dar luogo alla combinazione, ha dovuto dividersi in due parti. Inoltre si è trovato, che in una massa di ossigeno le molecole componenti non hanno sempre la medesima costituzione atomica. Anzi di più si è dovuto stabilire, che la stessa attività intrinseca all’atomo ossigenico è soggetta ad alterazioni. Soret, dopo altri, ha dimostrato, che l’ozono, scoperto da Scho5nbein, non è altro che ossigeno condensato, e che la diversa densità dei due corpi non è spiegabile, se non ammettendo, che le molecole dell’ossigeno sono costituite di due atomi ossigenici, e quelle dell’ozono di tre. Tali atomi poi, secondo Brodie, si combinano tra di loro per effetto di una polarità, onde gli uni sono in istato positivo, di fronte agli altri, che sono in istato negativo. L’argento non si combina direttamente coll’ossigeno, mentre il cloruro d’argento e l’ossigeno non hanno acquistato la polarità necessaria alla loro unione, se non mediante l’anteriore loro combinazione col cloro e col potassio. Se un atomo di ossigeno quindi può subire un cambiamento di polarità, in seguito ad una combinazione con un corpo, questo vuol dire, che può essere influenzato nella sua intima costituzione dinamica da un’altra sostanza a cui si accosti.

L’atomo ossigenico non si è ancora riusciti a scomporlo e a risolverlo in elementi forniti di proprietà diverse da quelle del composto. Ma ciò può dipendere unicamente dalla mancanza dei mezzi atti all’effetto. "È possibile, dice Hoffmann nella sua introduzione alla chimica moderna, che il progresso della scienza abbia a svelare alle generazioni future questi mezzi, e che molti dei corpi, che noi riteniamo elementi, cessino di essere tali pei nostri successori. Discendendo dall’epoca dei classici elementi, i quali tutti hanno per noi cessato di essere tali, fino ad un tempo relativamente recente, noi troviamo nella storia della scienza esempi innumerevoli di una tale semplificazione progressiva, e sarebbe una pretesa di voler dubitare della possibilità della loro ripetizione.

Intanto, che anche l’atomo ossigenico sia un composto dissolvibile, si può desumerlo dalla considerazione, che fra un atomo di ossigeno ed uno d’idrogeno è assai diverso il peso, ma identica la gravità; la quale deve essere relativa a delle monadi costituenti, eguali nell’uno e nell’altro. Sicché è molto probabile, che il detto atomo sia un sistema particolare di monadi primitive, trattenute in certa reciproca posizione da speciali movimenti, che le animino. Poiché oggi, come si sa, si inclina ad estendere ad ogni parte del mondo fisico, e quindi anche a spiegare l’energia specifica propria dell’ossigeno, il principio, che la forza non sia altro che moto e che i diversi stati, i diversi fenomeni, che si osservano in un corpo, non siano, che diversi movimenti delle particelle componenti.

Ora, dietro questo principio, non si può più concepire la forza come una appartenenza essenziale della materia e una sol cosa con essa, al modo della proprietà colla sostanza, come dice Faraday dell’ossigeno. Che si sa del moto? Si sa, che un corpo, avendolo, lo comunica ad un altro mediante un urto; e che quel tanto, che, in seguito all’urto, è passato nel secondo, è precisamente la quantità perduta dal primo. Di movimento ne resta sempre la medesima somma; ma gli è però indifferente essere in un sito, o in un altro. La materia poi, per sé, il moto non l’ha, prima di averlo ricevuto. Avendolo, lo mantiene, finché non urta; non avendolo, non lo genera; e non può averlo, se non è, per così dire, versato in essa dal di fuori. Una palla non si muove sul bigliardo, se prima non riceve la spinta dalla stecca. Il moto, onde la palla è, per tal modo, investita, è dovuto interamente alla spinta ricevuta. E, fatta astrazione dall’attrito del piano, su cui scorre, vi dura inalterato, finché non si imbatte nell’altra e la colpisce, e quindi le comunica il suo movimento. E tanto gliene comunica, quanto ne perde. Se lo comunicasse tutto, se ne priverebbe affatto e si fermerebbe. Per ciò dell’ossigeno si può dire, come della materia in genere; è in esso una data forma, e quantità di forza, che costituisce la sua natura speciale. Questa forza l’ha ricevuta, e può perderla e quindi cessare di essere ossigeno.

Anzi non basta, per conservarsi tale, che l’abbia acquistata una volta; è pur necessario, che seguiti sempre a riceverne, e ad essere reintegrato di quel tanto, che continuamente va perdendo. Perché in ogni molecola corporea, nella quale la forza non è una semplice virtualità, ma una vera azione attualmente operante, succede, come sopra avvertii, ciò che ha luogo in un apparato meccanico, in cui, mentre ne dura l’attività, a un tanto di lavoro corrisponde un tanto di forza consumata; sicché, onde il lavoro continui, è d’uopo che essa venga, di mano in mano, rimessa. Dirò di più. Succede ciò che ha luogo nel sole, che consuma, irradiando luce e calore, il movimento ricevuto dai corpi, che, precipitandovi, ne alimentano la combustione. Che impedisce di paragonare l’irradiamento della forza, intorno ad una molecola di ossigeno, all’irradiamento del sole? Quello che nel sole succede in grande, succede qui in piccolo. Le proporzioni sono diverse, ma il fatto è identico. La natura è sempre e da per tutto simile a se stessa. Mirabile nelle cose maggiori, per la semplicità dei mezzi, che vi adopera, nelle minori mostra una potenza atta a cose infinitamente più grandi. E il segreto di spiegarla consiste appunto nel confrontare le cose grandi colle piccole.

Che se poi le attuali relazioni dinamiche, tra la molecola ossigenica e la materia, che la circonda, si alterassero, ne verrebbe certo una alterazione, o anche la cessazione della forza stessa. Dei metalli, come il sodio, il calcio ed il ferro (ed altri, che noi qui in terra, coll’uso del più grande calore, che siamo capaci di produrre, non riusciremmo a portare allo stato aeriforme) nell’atmosfera del sole la cui temperatura si valuta a dieci milioni di gradi, si trovano normalmente in istato gazoso, e così dissociati, che non si prestano a combinarsi chimicamente. Nel sole lo scambio della forza, tra le molecole costituenti, è maggiore, perché ve n’è accumulata una più grande quantità. L’acqua, limpida nei mari della terra e di Venere, è ghiacciata in Marte e nella nostra luna, e in Saturno, ancor troppo caldo, perché vi possa precipitare ad inondarne la superficie, forma allo stato di vapore, i suoi caratteristici anelli. Il regime chimico-fisico nei diversi pianeti varia, secondo la quantità di forza, che vi è restata. Ora, dietro l’analogia di questi fatti, che impedisce di supporre in un astro un raffreddamento tale, che l’ossigeno vi si debba indurire in cristalli; e in un altro invece un riscaldamento atto a ridurlo a quella rarefazione estrema della materia, che si suppone precedere il suo primo condensarsi nella leggerissima vaporosità di nebulosa incipiente? Secondo i calcoli di Guglielmo Thomson, se il pianeta Giove cadesse, dalla distanza in cui si trova, sul sole, vi produrrebbe in pochi istanti uno scoppio di luce e di calore equivalente a quanto attualmente ne dispensa in più che 30000 anni. E, secondo Brayley e Reuschle, se due masse della sua dimensione, o anche minori della metà si precipitassero l’una sull’altra, ne risulterebbe un effetto tale, che ogni coesione cesserebbe di esistere, e tutte le molecole ne sarebbero lanciate nella infinità dello spazio celeste, e disfatte nei loro eterei elementi.

Si vede adunque, che della forza dell’ossigeno, e quindi della materia in genere, bisogna formarsi un’idea molto diversa da quella indicata da Faraday nel passo citato. Quella forza non gli è essenziale. E, se la possiede, è perché gli è stata comunicata, e vi è sostituita continuamente. E può quindi alterarvici, e anche venir meno quando che sia.

Il Signor Bence Jones, in alcune sue recentissime letture al collegio dei medici di Londra, ritessendo la storia delle fasi dell’umano pensiero circa i concetti della materia e della forza, le riduce a tre principali "Quella della separazione assoluta fra le due idee;...... quella di una loro disgiunzione incompleta;...... e quella della unità o inseparabilità perfetta di esse" E, mostrata l’erroneità delle due prime, si sforza di provare essere solo quest’ultima conforme al vero.

Ma a questo proposito noi crediamo, che sia indispensabile avvertire, che l’espressione, inseparabilità della materia e della forza, contiene un equivoco. Vero, che la forza, non è distinta dalla materia, come nel concetto che gli antichi avevano d’una cosa operante, il corpo materiale dall’anima, che quelli credevano dovesse esservi dentro. Vero, che la forza, per sé, non è una sostanza imponderabile, che si infiltri nella materia, come si è creduto fino agli ultimi tempi. Vero, infine, che la forza è una cosa sola colla materia, in questo senso, che il moto non esiste, se non come modo di essere di ciò che si muove. Ma falso, che la forza, che si incontra in un corpo, vi sia per ragione della materia costituente, sicché non vi si possa diminuire, se non diminuendo la materia, né aumentare, se non aumentandola. Nel porre il principio della inseparabilità, nelle sopraddette letture, esclude il Jones questo senso non vero di essa? No, non l’esclude; poiché anzi insegna decisamente, che se "noi potessimo rappresentarci l’ultimo atomo di un corpo semplice qualunque, saremmo costretti a pensare, che la forza chimica, che ne costituisce e determina la natura, è assolutamente inseparabile dalla materia, onde il corpo è formato". La sua dottrina adunque contiene un equivoco e non è esatta.

Egli aveva tutto il diritto di asserire, che, nello stato attuale delle nostre cognizioni, la forza chimica non è separabile dal corpo, che la possiede. Ma non poteva parlare di inseparabilità assoluta, dal momento che non respinge, anzi mostra di ammettere, la teoria della conversione delle forze, o, che è lo stesso, della loro riduzione al movimento. Con questa teoria può stare bensì l’indestruttibilità della forza, considerata nella totalità dei corpi; ma non parlando di un solo. Il movimento non si può distruggere, ma si può bene trasmettere da un corpo ad un altro. Non viene egli a dirlo lo stesso Jones, scrivendo, che "l’energia attuale, che si può imprimere al proiettile di un cannone, è esattamente uguale all’energia latente o virtuale della polvere; e che la polvere perde ciò, che il proiettile guadagna?" Dunque la forza si trasloca dall’uno all’altro corpo. Dunque ne è separabile. Dunque è possibile, che ciò avvenga anche per le energie chimiche. Il Jones, non essendosi avveduto dell’equivoco contenuto nella parola inseparabilità, ha detto nella stessa pagina due cose contradditorie.

La prova della inseparabilità assoluta della forza e della materia, che egli prende dal peso dei corpi, prova secondo lui principalissima e bastante da sola a stabilirla, non ha nessun valore. Ciò che si dice, peso dei corpi, non è qualche cosa di essenziale ad essi; è un fenomeno che presentano, soltanto date certe circostanze. Abbiamo già notato la differenza tra peso e gravità. E nelle masse celesti ciò, che si direbbe il loro peso, si manifesta già sotto un aspetto diversissimo, poiché esse non si precipitano le une sulle altre, come vorrebbero i concetti precisi dei peso e della gravità; ma si muovono in giro, tenendosi sempre nei medesimi rapporti di distanza. Il peso e la gravità li immagineremmo e li nomineremmo, come facciamo adesso, se la nostra esperienza noi così si restringesse ai fatti dei movimenti dei corpi celesti? Inoltre qual’è il principio, o fisico o matematico, che ci impedisca di concepire l’etere, quale una congerie immensa di monadi materiali, libere affatto dalle leggi ordinarie del peso e della gravità? Il valore, che altri dà all’argomento preso da tali leggi, deriva tutto dal concetto falso, che l’attrazione sia una forza reale e non una forza esplicativa, come è veramente. Deriva dal non riflettere, che, se è permesso, per ragione di brevità, di chiamare col nome di attrazione reciproca la relazione effettiva esistente tra due atomi dati, dei quali l’uno tende a cadere sull’altro, si deve però in pari tempo non dimenticare, che tale relazione infine è la conseguenza di un movimento impresso dal di fuori, e che quindi non vi esisteva, prima che fosse comunicato; sicché, a tutto rigore, di proprio nella materia, anziché la gravità o una forza qualunque, non vi sarebbe veramente che la negazione della forza.

L’errore del Jones e di quelli, che sono del suo parere, di non accorgersi dell’equivoco sopra detto, e di credere all’inseparabilità assoluta della forza dalla materia, dipende da ciò, che ricadono, innocentemente in vero e senza avvedersene, nella metafisica; e sognano essenze e cause, dove non ha che fatti. Siamo un po’ positivi, e vedremo, che la forza e la materia non sono in fine, che astrazioni tutt’altro che inseparabili. Dicemmo sopra, che una serie continua di fenomeni, che stiano fra loro come i momenti successivi del tempo, è per noi una azione; mentre diamo il nome di cosa ad un certo numero di fenomeni, che stiano fra loro, come i punti contigui in uno spazio. E mostrammo, come le somiglianze tra le azioni diano le leggi, e le somiglianze tra le cose diano le nozioni generiche ad esse relative. Or bene, se noi prendiamo una di queste leggi, e la consideriamo come qualche cosa di reale, e che esista fuori della nostra mente, e nell’oggetto che è la sede dell’azione, che avremo allora? Avremo la forza. Ma questa dovrà aver cessato di essere una mera astrazione, perché, togliendola alla nostra mente, a cui appartiene, ci piacque incarnarla in un oggetto? Analoga a quella della forza è l’idea della materia; anch’essa è una semplice somiglianza mentale dei fenomeni particolari, sostantivata. Levate tutte le differenze, che distinguono i diversi gruppi di fenomeni, onde ci rappresentiamo le cose singole, ci resta ancora una nozione comune a tutti: La nozione di uno spazio pieno. Formiamo di questa nozione una sussistenza reale, ed ecco la materia.

Se poi nel medesimo oggetto si congiungano, concretizzandole insieme, le due astrazioni, l’accoppiamento, che si ha, non dipende mica da una ragione logica intrinseca, per cui il concetto e la presenza dell’una implichi o richieda quelli dell’altra. Niente affatto; il motivo dell’accoppiamento, quando si fa, è in tutto e per tutto empirico. Non si tratta che di una pura associazione di idee, occasionata dalla esperienza continuata di fatti, fisicamente congiunti, che produsse l’abitudine di pensarli insieme. L’esperienza dei fenomeni, concepiti come azioni, si accompagna alla esperienza di quelli, che compongono l’idea di una cosa; e quindi i primi non possono essere ricordati, se non si ricordano insieme ai secondi. L’abbiamo già detto sopra; l’idea, che noi abbiamo di una cosa, è costituita da un tenacissimo aggruppamento mentale di moltissimi fenomeni, di due ordini diversi, la cui attinenza è basata sulla continuità della loro esperienza. L’analisi rigorosa, che ne farò a suo tempo, non lascierà nessun dubbio sull’argomento. Per alcuni di questi fenomeni la continuità è di spazio, ossia di consistenza, e noi li ammettiamo siccome fissi e persistenti; e ci servono per cavarne l’idea astratta della materia. Per altri invece la continuità è di tempo, ossia di successione e ci sovvengono alla mente, siccome mobili ed incostanti; e ci servono per astrarne l’idea della forza. Per ciò la ragione unica della inseparabilità delle idee di materia e forza nel medesimo oggetto è il trovarsi, nell’idea della cosa, i primi ricordati sempre insieme ai secondi.

Ma non c’è nulla di assurdo nella supposizione di una esperienza di soli fenomeni coesistenti, che non si alterino nel succedersi del tempo. Il principio della filosofia eleatica, già menzionato, si può dire non essere altro che una supposizione di questo genere. E falsa, perché contraria al fatto della esperienza; ma non è assurda. E in tale caso avremmo l’idea di materia, senza l’idea della forza. E inversamente nulla impedisce di supporre una esperienza di sole azioni. L’ha fatto Eraclito, che, come dice Platone nel Cratilo, sosteneva, nulla durar mai nella stessa condizione due momenti successivi; e perciò, si rappresentava la natura, come la corrente di un fiume, la quale non può trovarsi, per due volte, nel medesimo punto. E l’hanno fatto, come tutti sanno, i filosofi del diventare; Hegel sopra tutti E Faraday, che era un fisico e non un filosofo trascendentale, ha osato anch’esso, consuonando perfettamente con queste idee, porre addirittura la forza in luogo della materia, e dichiarare, che l’atomo elementare non è altro che la forza.

Tanto è vero poi, che l’accoppiamento della materia e della forza nello stesso oggetto non è voluto da una ragione logica, ma è solo effetto di abitudine, che si vede, che la stessa abitudine, come si è fatta, si può anche disfare. I fisici vanno sostituendo, nella loro fantasia, alle varie forme della forza, corrispondenti alle diverse apparenze sensibili, l’unica del moto. Non solo essi non pongono più negli oggetti il suono, il colore, il sapore, il caldo ed il freddo, come l’uomo del volgo; ma nemmeno la luce, il calorico, l’elettricità, il magnetismo, la gravità, l’affinità chimica, e via discorrendo, come i vecchi scienziati. A forza di rendersi ragione di ogni maniera di fenomeni per mezzo di movimenti, finiscono col sostituire, nella loro associazione mentale, la forma unica del moto alle molteplici e diverse delle entità fisiche di un tempo. Lo spettro solare non si dipinge più, si può dire, nella immaginazione dei fisici meccanismi, come un chiarore fantastico, adorno di vaghissimi colori, digradanti insensibilmente dal rosso al violetto. L’abitudine scientifica vi ha cancellato sacrilegamente, a poco a poco, ciò che la mano artistica della ingenua natura vi aveva, con sommo studio, disegnato, per isfogo di genio e di amore; e vi ha sostituito, a regola di cronometro e di compasso i tratti rigidi e glaciali delle linee geometriche, e delle cifre numeriche, segnando, per esempio, là dove brillava un color d’oro rallegrante, un prosaico movimento di va e vieni, della durata di 509 bilionesimi di secondo e della lunghezza di 553 milionesimi di millimetro.

Che più? La stessa rappresentazione delle funzioni puramente meccaniche è capace di una forte trasformazione. Fino ad ora abbiamo detto: Il movimento si comunica da corpo a corpo mediante l’urto. Ed abbiamo sempre creduto, che chi dice, urto, debba anche dire, contatto. Ma ora si sa, che l’effetto diretto ed immediato dell’urto è propriamente il riscaldamento del corpo urtato, e che il movimento è la conseguenza della sua elasticità, per la quale il calore si trasforma, in parte, di nuovo in esso. E, quanto al contatto, dei fatti accuratissimamente studiati e delle esperienze recenti (perché vogliamo lasciare in disparte i ragionamenti astratti), hanno dimostrato, che le azioni tra corpo e corpo non richiedono punto, che si tocchino tra loro; e si esercitano anche a distanza; e si può benissimo pensare, che la forza minima di un atomo di materia, la cui potenza, diminuendo in ragione del quadrato delle distanze, per una lontananza come di qui al sole, deve ridursi ad una esiguità, che confonde a pensarla, non rimanga senza efficacia, perché in natura sono immancabili gli effetti anche delle forze infinitamente piccole. Insomma noi ora dobbiamo figurarci l’urto e le sue diverse forme, come sarebbe l’attrito, anche senza il contatto del corpo urtante col corpo urtato. Tanto è vero, che tutte codeste idee sono tra loro collegate, non per ragione logica, ma per associazione empirica; tanto, da un punto di vista positivo, è insostenibile l’assoluta indivisibilità della materia e della forza!

La quale indivisibilità, per conchiudere, a che si riduce adunque nello stato attuale delle nostre cognizioni? Si riduce a questo, che, in un dato movimento di un corpo, abbiamo un caso particolare della forza. Il fenomeno del corpo, che si muove, lo concepiamo connettendo i due concetti; immaginando cioè, che la forza si sia compenetrata nella materia. Ma, se vogliamo concepire il corpo in riposo, non abbiamo più bisogno del concetto della forza, e ci basta quello della materia da solo.

Tale è l’idea positiva della forza. Ma il concetto comune ed ordinario di essa non è, come generalmente si crede, un concetto positivo. Tutt’altro. L’atto del moto volontario delle membra è in noi accompagnato da una sensazione speciale, la sensazione della forza muscolare, la quale è appunto il prodotto psichico dello sforzo, e del lavoro fisiologico dei muscoli. Le fibre muscolari, raccorciandosi e tirandosi dietro le parti, a cui sono attaccate, producono, per mezzo dei filamenti nervosi, che vi mettono capo, la detta sensazione, allo stesso modo che, nell’udito, le vibrazioni del liquido delle cavità interne dell’orecchio, mediante i nervi auditivi, producono la sensazione del suono. Nel caso dell’udito, il suono è da noi, per naturale illusione, collocato nell’oggetto sonoro. Essendo tale oggetto alla portata degli altri nostri mezzi di cognizione, ci è possibile l’associazione della idea di esso con quella del suono. E concepiamo il fatto dell’udito, come se il suono partisse dall’oggetto sonoro, varcasse lo spazio, che lo separa dall’orecchio, e vi entrasse per farsi sentire da noi. E nel caso della sensazione della forza muscolare, nel moto volontario, che avviene? Questa dapprima si confonde e si compenetra coll’altra, in sé affatto diversa, del volere; e se ne fa una sola. E poi così commista, la si attribuisce e a ciò, che si dice la nostra anima, e alla massa dei muscoli operanti; con grossolana illusione per tutti e due i rispetti. È illusione attribuirla all’anima, e credere, che sia una schiettissima manifestazione dell’esser suo, e, come tale, causa elettrice dell’azione muscolare; perché, in quanto è volere, è una sensazione, come un’altra, una sensazione, succedente ad un atteggiamento organico particolare; e, in quanto al resto, segue e non presiede all’azione corporea attribuirla alla massa muscolare. È illusione anche a pur prescindendo dalla sensazione di volere, che contiene; e credere, che vi risieda, proprio nella sua forma di un atto psichico; perché, come nella campana non vi è il suono, ma solo l’elasticità atta ad imprimere nell’aria le vibrazioni, che, trasmesse all’organo dell’udito, lo fanno sorgere nella coscienza dell’audiente, così nei muscoli non vi hanno che le proprietà chimiche delle molecole componenti. Messe queste in attività, nasce altrove, cioè nella coscienza dell’operante, e in forma tutto diversa, cioè di mero stato psicologico, la sensazione della forza muscolare, la quale, per tal modo, anziché essere ciò stesso che muove, non ha luogo che come effetto di un movimento per altra causa prodotto. Da queste prime illusioni ne viene poi un’altra. L’uomo, per la tendenza che ha di porre inavvertitamente negli oggetti ciò che ha sentito in sé, vi trasporta, per ispiegarsene le azioni, tale idea, affatto psichica, della forza, e pensa, che in essi la materia, come tale, ne sia essenzialmente fornita, come ha creduto di sé, e del proprio corpo. E questo il concetto comune e volgare della forza; concetto ben altro che positivo, mentre inchiude il doppio errore di valere, quanto all’uomo, come una rivelazione della essenza di un principio immateriale, che abbia dei rapporti di causalità coi movimenti corporei, e di servire poi, così concepito, per impiegare le operazioni della materia incosciente. E la ragione, a cui propriamente si appoggia la teoria della inseparabilità assoluta della forza dalla materia, è costituita da siffatto concetto comune e volgare della forza, che abbiamo esposto; sicché deve dirsi, che essa, anziché appartenere all’ultimo grado di sviluppò della scienza, appartiene a’ suoi primordi. E i suoi patrocinatori, credendo di far avanzare la scienza, la portano indietro; oltreché poi, unendola alle dottrine nuove, ne formano un concetto confuso e contradditorio, come abbiamo visto aver fatto il signor Bence Jones.

Se il concetto da prima significato colla parola, forza, è quello erroneo, che abbiamo qui esposto, non vuole per ciò il positivista escluderla dalla scienza. No. La ritiene, come ha ritenuto la parola, legge, pur dopo modificata l’idea relativa. E l’adopera anche col suo significato oggettivo; ma ricordandosi, che il concetto da essa indicato non contiene altro di vero, che la pura somiglianza dei fenomeni di azione.

Da tutto ciò è facile raccogliere anche, quanto sia falso e più conforme al metodo metafisico degli antichi, che al positivo dei moderni, il concetto della virtualità, che molti, e lo stesso Jones, collocato nella materia, come un precedente reale della attività spiegata. Egli dice nelle sue letture sopra ricordate, che "qualunque sia la forma del movimento, non può venire, che da un’altra forma di movimento, o da una forma di tensione". Il movimento da una forma di tensione? Un linguaggio simile avrà senso in poesia, dove è buono tutto ciò che gira nell’immaginazione, come è il caso di questa, che si chiama tensione; ma non nella scienza. Forse il pericolo, che correva la teoria della inseparabilità assoluta della forza dalla materia, di fronte alla nuova dottrina del movimento, quale unica forma della forza, ha consigliato di adoperare una parola, che permettesse di stare a cavallo, e di tenere un piede da una parte e un piede dall’altra. Ma non fanno così quelli che intendono veramente, che sia scienza. Essi non si abbandonano senza difesa al colpo mortale della ironia del Mefistofele di Go5the, che loda la metafisica e la teologia, perché, quando manca loro l’idea, aggiustano tutto con una parola opportunamente trovata. Essi non si contentano di un vocabolo, che non esprima una cosa chiara e non vogliono saperne di virtualità, che non sia una vera forza in azione.

In una locomotiva, già scaldata per la partenza, ma ancora ferma, si dirà, che si contiene virtualmente il moto del convoglio, che ne sarà trascinato. Ma in che consiste cotesta virtualità, se non in un vero moto reale? Vale a dire nel moto vibratorio, che le molecole acquee ricevettero dalla combustione del carbone? Il movimento avanti e indietro dello stantuffo, quello girante delle ruote, e quello di traslazione del convoglio, che sono, se non tre successive trasformazioni del movimento, che già esisteva nelle molecole acquee, e che da esse passò nell’asta dello stantuffo motore? Ciò è tanto vero che, come il moto di traslazione esaurisce il rotatorio, e questo il moto di va e vieni, così l’ultimo esaurisce il moto vibratorio delle molecole del vapore, in modo che, di mano in mano che lo comunicano allo stantuffo, esse lo perdono o, che è lo stesso, si raffreddano. Ecco la virtualità nel senso vero. Non una qualità occulta, una certa cosa inconcepibile tra l’azione e l’inazione, ma una forza attualmente attiva, o, che è lo stesso, un fenomeno reale di movimento.

Resta dunque provato, che la materia e la forza, sotto qualunque riguardo si considerino, non sono, che gli stessi fenomeni, presi nelle loro ultime somiglianze. Come abbiamo detto sopra, la scienza naturale, progredendo, fu costretta di abbandonare la vecchia provvisione delle molteplici sostanze, diverse essenzialmente l’una dall’altra e fornite ciascuna di proprietà particolari. Continuò però di poi ancora a ritenere, siccome irrepugnabile, il principio della assoluta inconcepibilità di un fatto fuori di un qualche soggetto. Sostituito ai soggetti molti e disformi quello unico, della materia, si seguitò a dire: Impossibile all’uomo formarsi la rappresentazione del fatto fisico, senza appoggiarlo alla sostanza materiale. Or che diremo di siffatta pretesa impossibilità dal momento, che è manifesto, essere anche la materia un mero fatto; e che quindi chi attribuisce il fatto alla materia non l’attribuisce già ad una sostanza, ma ad un semplice fatto?

La cosa metafisica, che altri vuole sia intesa sotto il nome di materia, non che dimostrarla con perfetta certezza, ci sfugge assolutamente, se ci mettiamo a ricercarla; anzi ci apparisce del tutto assurda. Lo spazio, che, secondo il concetto comune di materia, dovrebbe, in un corpo, esserne, tutto o nella massima parte, ripieno, siamo necessitati, appena meditiamo un poco sui dati della esperienza, a considerarlo quasi affatto vuoto; tanto da pensare che una massa grandissima possa senza perdere punto della sua materia essere ridotta alle dimensioni di un piccolo granellino; e che gli atomi elementari, anche nei corpi più densi, siano, relativamente al loro volume, tanto lontani l’uno dall’altro quanto i corpi celesti tra loro, e non abbiano compattezza maggiore di quella di una costellazione. Ma pazienza; ci restasse almeno la corporeità degli atomi. Nemmeno quella. L’esteso non si spiega, impiccolendolo. Uno spazio estremamente piccolo è divisibile all’infinito al pari di uno spazio estremamente grande; né più, né meno. Ora, dire un atomo solido e pieno, per quanto piccolo, è dire delle parti realmente esistenti in numero infinito, ossia un’assurdità; poiché un numero effettivo non può essere che un numero determinato.

Quelli dunque che pretendono, essere necessaria la supposizione della sostanza materiale, metafisicamente intesa, per concepire il fatto fisico:

1. sono smentiti dall’analisi della idea della materia, onde risulta, che essa non è punto un dato metafisico, ma contiene soltanto dei dati fenomenici;

2. pongono, come necessità del pensiero, un dato assurdo;

3. introducendola nella scienza, come primo logico, stabiliscono l’astratto a base del concreto; ossia fanno venire il più dal meno.

A questo punto ci sarà chi vorrà interrompermi, e dire: Ho capito; voi siete un idealista, ossia uno di quelli, che non credono alla realtà del mondo esteriore. A chi pensasse di dovermi fare una simile osservazione risponderei: No; io non sono un idealista. Io ammetto la realtà del mondo esteriore, come voi, e come tutti gli altri uomini. Anzi la filosofia positiva, che professo, è la sola, come mostrerò a suo tempo, che sia in grado di confutare l’idealismo. E le cose, da me dette poc’anzi, non mi sforzano punto ad una conclusione idealistica. E potrei benissimo, senza ritirare nulla di quanto affermai, accettare, fatta riserva solamente per quanto ha di meno proprio qualche parola, ciò che in proposito insegna E. Helmholtz in una sua recentissima conferenza, dove dice: "Lo scopo della scienza è la ricerca delle leggi; ed è naturale, che le prime leggi, che si trovano incominciando, siano quelle che non abbracciano, che i più piccoli gruppi di fatti; si arriva solo a poco a poco a scoprire quelle che abbracciano i gruppi più importanti. Il termine finale, verso il quale si deve tendere, quantunque ancora lontanissimo da noi, è la scoperta della concatenazione delle leggi che presiedono a tutti i fenomeni naturali......... Le leggi, le idee generali, sotto le quali si classificano i fenomeni, portano il nome di cause, quando si riconosce, che sono l’espressione di una potenza reale oggettiva; esse portano il nome di forze, quando si riuscì a ridurre il risultato totale alle azioni particolari, che le diverse parti delle masse, concorrendo insieme, producono in questo o quel lavoro della natura. Causa, forza, tutto ciò infine non è altro che una espressione della legge considerata oggettivamente.

Nessuna difficoltà per me a chiamare forza la legge, materia la nozione, causa l’una congiunta all’altra; nessuna difficoltà a chiamarle così anche in un senso veramente oggettivo; poiché la realtà, non di pensiero soltanto, ma assoluta, che il filosofo positivista asserisce pei fenomeni, non può negarla per la consistenza, la successione e le somiglianze loro. Il positivista non nega neanco, che possa esservi una ragione della sperimentata coesistenza dei fenomeni in gruppi distinti, fissi ed inscindibili, onde il concetto di corpo e di materia; e della loro successione, in un ordine costante, onde il concetto di forza e di causa; come non la nega neppure delle somiglianze delle cose, onde le cosidette idee metafisiche; nemmeno per sogno. Solo egli non dice di conoscerla, né di essere vicino a conoscerla, né se arriverà mai a conoscerla. Vogliasi che tale ragione sia la cosidetta cosa in sé, o un’altra qualunque, egli non entra nella questione, che, per ora, gli sembra affatto prematura ed oziosa, essendo ben certo, che la via di scioglierla non è quella, spiccia sì ma falsa, tenuta dai metafisici. I quali, prima che se ne sappia nulla veramente, se la fabbricano colla immaginazione; e, quello che è peggio, senza accorgersi, che, per quanto si arrovellino al fine di trovare nella mente il contrapposto del fenomeno, il contenuto del pensiero è sempre la pura fenomenalità; e che, nel correre ansiosamente in cerca di quel concreto individuale, opposto al pensiero e diverso da esso, che chiamano la cosa in sé, mentre credono di seguire una ragione assoluta ed indeclinabile della stessa realtà oggettiva, in effetto non fanno che ubbidire ad una legge tutta interna della rappresentazione psichica, e subire gli effetti della associazione delle idee e della astrazione.

Nessuna difficoltà dunque, come diceva, a chiamare forza la legge, materia la nozione, causa l’una congiunta all’altra; ma a patto, che si ricordi, che tutto ciò non è, se non uno spediente logico affatto provvisorio; e che, se nominiamo, o forza, o materia, o causa, una astrazione presa dai fenomeni particolari, in quanto per avventura crediamo, che sia una manifestazione di ciò, che si dice la cosa in sé, come pare accennare il passo riferito dello Helmholtz, quella astrazione resta sempre una astrazione, che ha la sua ragione nei particolari, e ne dipende; e non potrà mai quindi convertirsi in un principio, onde discenderne per determinare i fatti. A patto insomma, che si ricordi, che il punto fisso della scienza restano sempre i fatti, i quali, una volta trovati, sono trovati per sempre; mentre ciò che si chiama il soggetto dei medesimi, colle sue proprietà, si va modificando col progresso della cognizione, cioè di mano in mano, che le nuove scoperte nel campo dei fenomeni lo esigono.

La precarietà delle concezioni astratte, assunte a comporre il sistema dei fatti, di fronte alla consistenza di questi, e quindi la verità di ciò, che abbiamo detto, apparisce evidentemente dalla storia delle scienze naturali. Qualche volta accadde, che si fosse indifferenti tra più ipotesi, tra loro diverse; servivano tutte bene a dar ragione di ciò che succede, e perciò avevano lo stesso valore, essendo tutte in grado di fare ciò, che premeva soprattutto, vale a dire di spiegare i fatti. Se le leggi della conducibilità del calore si potevano chiarire egualmente bene colla supposizione di un fluido particolare, o di forze attrattive e repulsive, insite alle molecole, o di un urto impresso dal di fuori, perché dare la preferenza all’una piuttosto che all’altra di queste tre ipotesi, ossia di questi tre espedienti logici provvisori? Che se poi nuovi fenomeni, prima non conosciuti, si trovarono incompatibili con una ipotesi, anche autorevolissima, non si esitò mai nella decisione. I diritti di un fatto sono assoluti. Non così quelli di un principio. E se io perciò dicessi, contrariamente a ciò che siamo soliti di udire, che i fatti sono divini, e che i principi sono umani, non temerei, che alcuno potesse convincermi di errore. Un piccolo fatto, ribelle al principio ricevuti di una scienza, ha la forza di metterla sottosopra, di distruggerne la disciplina delle parti e di condurla inesorabilmente alla detronizzazione delle astrazioni, che la governano. Ci basti ricordare, come nei tempi a noi vicini i fatti della interferenza, della polarizzazione, della doppia rifrazione e della diffrazione della luce scacciassero definitivamente dai confini della fisica quei fluidi, che prima si credevano essere la causa dei fenomeni naturali. Restò il campo all’etere, che fu trovato un ottimo spediente per darne ragione; ma che potrebbe alla sua volta, anch’esso, subire la sorte dei precedenti. E già il fatto della comunicazione del movimento a distanza, che si va sempre più provando come notammo sopra, incomincia a renderne meno necessaria la supposizione, o almeno a rappresentarne diversamente il modo d’azione.

Né si deve credere, che la scienza, perciò, venga ad essere come la tela di Penelope; e che domani debba lavorare a distruggere il lavoro di oggi. Qui giova ricordare ciò che dicemmo; vale a dire, che il progresso della scienza consiste, nel sostituire a poco a poco e di mano in mano che l’osservazione e il confronto dei fatti lo permette, alle somiglianze false ed inadeguate le meno imperfette e le vere. Un fatto nuovo può smentire una ipotesi, ossia far apparire falsa la somiglianza, onde si spiegava una cosa; e allora il progresso sta nella eliminazione di una falsità. Ovvero un fatto nuovo può imporre una modificazione nella ipotesi o nella somiglianza assunta a spiegare, sia escludendone la parte erronea, sia completandola di ciò che manca, sia estendendone l’applicazione; e allora il progresso si ha nel miglioramento della generalità scientifica, ossia dell’organo logico dei sistema. O finalmente un fatto nuovo suggerisce una nuova ipotesi; e allora il progresso è nell’allargamento della scienza. Insomma è sempre il fatto il punto di partenza. E questo è al tutto certo ed irreformabile. Dove invece il principio è un punto di arrivo, che può anche essere abbandonato, corretto, oltrepassato. Ma ciò non esclude, né la stabilità, ne il progresso della scienza. Pare strano a prima vista, che lo scienziato, nello stesso tempo che crede assai più ad una legge data dall’osservazione e dal ragionamento che non ad un dogma imposto autoritativamente, non attribuisca tuttavia alla legge l’immutabilità di forma, propria del dogma. Ma non è difficile trovarne il perché. Per lui il dogma è un cadavere, in cui non si può mantenere la forma, se non sopprimendo interamente ogni processo attivo nella sostanza, che lo compone; mentre la legge è qualche cosa di vivo, in cui i processi evolutivi, anziché distruggerne le forme, le ingrandiscono, e danno loro una espressione più forte e perfetta. Ovvero, per parlare fuori di metafora, il dogma non istà per sé, e svanisce tutto, venendo meno l’autorità, su cui si fondava; la legge invece è un vero, che sta per virtù propria, e che, in quanto tale, rimarrà sempre; ma non vero in tutto e per tutto; un vero, che si può far più vero, per eliminazione del falso che per avventura contiene, per completamente, per generalizzazione, per nuovi rapporti logici con altri veri; insomma per tutti i mezzi, onde è dato alla scienza di progredire.

E che tale sia veramente il processo della scienza, ci è attestato chiaramente anche dalla storia del suo linguaggio. Come dice il Müller, nelle sue nuove lezioni, valendosi delle osservazioni di Liebig, "la chimica adottò la parola, acido, come denominazione tecnica di una classe di corpi, dei quali i primi stati riconosciuti dalla scienza erano caratterizzati da un sapore acre. Ma poi si scoprì, esservi dei composti perfettamente simili a tali corpi nei loro caratteri essenziali, ma di sapore non acre, e quindi essere l’acidità una qualità accidentale di alcuni di tali corpi, e non un carattere necessario ed universale, che li distingua tutti. Si pensò, che non si era più a tempo di cambiare la denominazione ricevuta, e così si applicò il vocabolo, acido, o il suo equivalente etimologico, al cristallo di rocca, al quarzo ed alla silice. Così pure, nella nomenclatura chimica, per effetto di un errore somigliante nella applicazione della voce, sale, i chimici mettono nel numero dei sali la sostanza, onde si fanno gli specchi e le lenti. D’altra parte, l’analisi aveva mostrato, che non si era compreso il carattere essenziale, non solo degli altri corpi, che si erano chiamati sali, ma neanche dello stesso sale di cucina, del sale per eccellenza, e che il sale non è sale; sicché si dovette escludere questa sostanza dalla classe dei corpi, a cui aveva dato il suo nome all’epoca, che era ritenuto quale loro più perfetto rappresentante".

E il processo di formazione del linguaggio scientifico è in tutto analogo a quello del linguaggio in generale, e, perciò, dell’umano pensiero, che vi si esprime naturalmente. Il punto di partenza del pensiero non sono già le idee astratte, ma bensì le sensazioni immediate; sicché le prime parole rappresentano, non l’individuo, che è una idea molto diversa, assai complicata e tardiva, ma questi dati sensibili fondamentali. Il significato di tali parole si estende, di mano mano che le qualità, da loro indicate, si vanno sperimentando in più oggetti. Ogni volta che si percepiscono delle somiglianze e delle analogie nuove si porta nella parola una significazione più generale. Si sa che il vocabolo, essere, corrispondente ad un concetto dei più astratti, ha cominciato dall’indicare il semplice fenomeno del respirare. Insomma il fatto è il capo saldo, la base stabile, il principio fisso, il punto di partenza. E seguono poi, di grado in grado, gli astratti, secondo che va innanzi il lavoro mentale. Così nell’aritmetica, incominciando dall’uno più uno, si può progredire, computando ed operando sui numeri, all’infinito. E così fa pure il positivista; anch’egli parte dal fatto, ossia dall’uno più uno; sa dove comincia, non sa dove finirà. Il metafisico è invece dominato dalla matta idea di partire dallo stesso punto di arrivo, dal numero infinito, per venire all’uno; e perciò è sempre da capo, non essendogli possibile di stabilire a questo modo con certezza il suo principio, che è un principio in realtà introvabile. Il tentativo di Dalgarn, Wilkins, Leibniz, Trede, Bellavitis e di altri, di fondare un linguaggio universale, contiene, pel modo da loro divisato, non conforme a quello della natura, una assurdità simile a questa dei metafisici. Secondo loro, la base di tale linguaggio dovevano essere le idee universali, e supreme, e quindi le parole corrispondenti. Tutti gli altri concetti, dal genere più elevato all’individuo, dovevano essere determinati In base a quelle, mediante una regola semplice. Ma si può domandare: Quali sono le idee supreme? E se l’uomo, come ogni secolo ha fatto, trovasse idee ancor più astratte che avverrà della nostra lingua universale? Demolirla, per ricostruirne un’altra, che alla sua volta dovrà di nuovo essere rifatta.

Nella fisica, come poc’anzi dicevamo, i fatti, di mano in mano che se ne allarga lo studio, conducono, giusta il nostro principio qui giustificato coll’esempio del linguaggio scientifico e naturale, a riformare le generalità, onde ce li spiegavamo; vale a dire, a sostituire somiglianze più vere e più estese alle apparenti, inesatte e ristrette. Un’ipotesi, che non serve più bene, cede, come vedemmo or ora, il posto ad un’altra, che serve meglio. E tale caducità scientifica è comune a tutte le generalità, e non si riscontra solo nei fluidi imponderabili, e nell’etere, che sono cose infine non mai direttamente sperimentate, e solo immaginate a sussidiare temporaneamente la scienza, ma si trova anche in ciò, che si crede universalmente la cosa più reale e salda, cioè nella materia, che pure dovrebbe costituire, secondo la comune opinione, la stessa sostanza dei corpi, e il soggetto indispensabile dei fatti.

La fisica, come tutti sanno, ha due parti. La prima tratta delle proprietà generali dei corpi, ed è molto vecchia. Meno ciò che si riferisce all’inerzia e alla gravità, era, si può dire, già fatta al tempo di Aristotele. La seconda si occupa dei fenomeni, ed è nuovissima, poiché data da Galileo. In passato la prima era ritenuta la principale e il fondamento necessario della seconda, e di tale natura da non essere quasi più suscettibile di notevoli alterazioni, versando sulle determinazioni ovvie, comunissime, universali del concetto della materia costitutiva dei corpi, che si credeva certissimo e definitivamente fissato, come quello di spazio in matematica. Anzi si stimava, che non fossero possibili fenomeni, che non si accordassero pienamente con quelle determinazioni; e un fatto, che si presentasse in disaccordo, doveva, a priori, essere attribuito, o ad errore di osservazione, o ad altro, che non gli permettesse di essere preso in considerazione dal fisico. E tuttavia che è succeduto? La parte, che si occupa dei fenomeni, prima tenuti in conto di cosa leggera e mutabile, come apparenza vuota ed inconsistente, è sottentrata all’altra nel posto d’onore. I fenomeni vi furono ammessi tutti, con assoluto diritto; anche se contrari a quelli, che si ritenevano gli attributi essenziali ed immancabili della materia. Anzi, se nella scienza è restato qualche cosa di poco sicuro, e destinato, o a perire del tutto, o a trasformarsi radicalmente, è appunto quella, un tempo solenne dottrina delle proprietà generali dei corpi. Le quali, a poco a poco, si poté capire, non essere quelle assolute ed indiscutibili verità, che prima si credevano.

Gli attributi essenziali della materia, nel concetto ordinario di essa, sono quelli della estensione e della impenetrabilità, della passività e dell’inerzia, del peso e della gravità. Le esperienze di Galileo e di Torricelli modificarono le vecchie idee circa la pesantezza dei corpi, dimostrando che tutti i corpi indistintamente sono pesanti, e che la caduta prodotta dal peso è nella ragione medesima per tutti. Ma il peso è esso oggi considerato, come un tempo, una qualità intrinseca della realtà materiale, ed inscindibile da essa? No certo, come anche sopra dicemmo. O già i fisici inclinano a considerarlo semplicemente quale effetto di un urto esterno, o di un movimento concepito. Alla materia affatto passiva è già aggiunto, secondo Aristotele, nel corpo reale un principio di attività, cioè la sua forma sostanziale. Alla quale il medesimo ascriveva quello che chiamava il moto naturale dei corpi. E ne distingueva il moto impresso dal di fuori ossia il violento. I moderni non ammisero che questo. Ma corressero l’errore antico di credere, che il medesimo durasse solo quanto l’azione della causa motrice. Ed insegnarono, che, come un corpo non ha in sé la virtù di mettersi in movimento, quando, come una pietra, giacente sul suolo, è in quiete, così urtato una volta e messo per ciò in movimento, come i corpi che si muovono in cielo, persevera in esso, senza bisogno che si rinnovi lo sforzo di muoverlo. Ma anche queste idee sono già modificate, dal momento che, da una parte, nel fatto, né ciò che apparisce in quiete, come un corpo solido giacente per terra, onde fu presa la stessa idea della passività della materia, è quella massa continua inattiva che sembra, mentre vi formicolano dentro con moti vari ed incessanti le particelle minutissime che lo compongono, né ciò che apparisce muoversi imperturbatamente, come una stella nel vuoto cielo, è in realtà immune da ogni contrasto che ne affatichi il corso, ché o l’etere interposto o l’attrazione delle masse lontane ne rallentano il movimento; e dall’altra, quanto allo stesso principio, non si vuole più ormai dalla maggior parte dei fisici scompagnare la forza dalla materia, la quale anzi da alcuni è fatta consistere, come accennammo già, nella stessa forza talché la quiete, quando ha luogo, non sarebbe più la mancanza o il riposo della forza, ma equilibrio di quelle che, operando colla medesima intensità, in senso contrario, si elidono vicendevolmente. E da ultimo, non solo dello spazio attribuito a un corpo oggi non si considera di più ripieno della sua sostanza, che una minima parte, e si ritiene esservi, per mezzo ad un oggetto materiale, ampie e comode vie di passaggio, come nel vetro per la luce, ma non si tien più conto ormai nemmeno dei punti pieni. Non si ha difficoltà a pensare all’azione di una forza anche attraverso ad essi, come se fossero vuoti, al pari del resto. Faraday, in una lezione sulla natura della materia, non solo asserisce addirittura, che la materia è penetrabile, rinnegando così formalmente il vecchio dogma; ma aggiunge, che ogni atomo si estende, per così dire, attraverso a tutto il sistema solare senza cessare di conservare il suo centro proprio di forze. Che più? C’è perfino, come sopra notammo, chi crede, che nemmeno questi atomi siano estesi.

Anche il concetto della materia adunque va a subire la sorte comune delle astrazioni; anch’esso è un dato provvisorio, che è presso a cedere il posto ad una generalità superiore. Cartesio aveva detto: Due sostanze, lo spirito pensante e la materia estesa. I metafisici dualisti anche oggi, ripetendolo, hanno l’aria di sfidare qualunque a muover dubbio sulla certezza, sulla irreduttibilità di quelle due idee, onde pendono i loro sistemi. E mostrano compassione dei positivisti, perché, a loro credere, essendo costretti a trascinarsi penosamente di fatto in fatto, devono essere impotenti a pervenire all’altezza e alla schietta idealità di esse. Eppure il filosofo dei fatti, anche senza neanco uscire dalla fisica materiale, vi è bene arrivato. Non solo; ma li ha oltrepassati, mostrando ai filosofi della speculazione intellettuale, che vi può essere ancora qualche cosa di più astratto e profondo delle idee comuni della materia e dello spirito, e che quindi i loro sistemi, per reggersi, hanno bisogno di una sottomurazione ai loro fondamenti, che hanno il vuoto sotto; e di prenderne i materiali a prestito dal positivismo; tanto è falso, che esso sia infecondo e micidiale delle idee e della scienza. L’induzione positiva, come diceva, ha superato i segni di Ercole della fisica antica, ed è entrata, piena di ardire e di speranza, in un mare nuovo; e già in fondo a quello si vanno disegnando, lontan lontano, come linee indistinte di lidi remoti, i primi incerti tratti di un concetto più elevato ed universale, come vedremo. Quantunque pochi ancora siano gli animosi, che vi si arrischiano. I più, anche se non di quelli deliberati a far guerra sempre alla ragione, che hanno colpito di anatema, anche se non di quelli, si impauriscono, per timidezza, delle troppo ardite verità; e, contro l’evidenza, si fanno scudo di ciò, che chiamano il senso comune, ed è puro pregiudizio volgare, pura abitudine di pensare in un dato modo. Ma, quei pochi eletti bastano soli. Il vero, che hanno nel cuore, dà loro la forza di persistere e di aspettare. Aspettano, che il tempo compia la persuasione delle menti ribelli e timorose. E questa è la vendetta avvenire, onde si rallegrano nelle presenti contrarietà dei diffidenti e dei protervi.

Pertanto il fatto del cambiamento avvenuto nell’ufficio logico e nel valore del concetto della materia nella fisica, è della più alta importanza, e merita che sia attentamente considerato dal filosofo. Esso è la più formale conferma di ciò che abbiamo detto fin qui; e, per lo scopo che ci siamo prefissi, se ne ingerisce specialmente:

1. che nelle scienze positive, se non sempre con piena coscienza, pure almeno istintivamente si è proceduto veramente secondo il metodo da noi indicato, siccome il solo razionale; vale a dire, di non dare un valore assoluto, se non ai fatti; e di considerarli il punto di partenza fisso ed irremovibile del discorso scientifico. E, quanto alle astrazioni, di ricordarsi, che sono pure espressioni di fatti; che è sempre possibile, precisando meglio le somiglianze od allargandole, trovarne una al di là, che riformi o sostituisca la precedente; sicché nessuna può mai essere presa come l’ultima definitivamente, e offerire alla scienza una base stabile a priori;

2. che è precisamente a tale indirizzo, che le scienze naturali devono il loro sviluppo e il loro valore scientifico;

3. che questo medesimo deve pure essere considerato il metodo vero per ogni scienza; sicché, se ne vediamo qualcheduno, come sarebbe la psicologia, che non sia a livello delle altre, dobbiamo esser sicuri, dipendere unicamente dal non averlo seguito. Ed è ciò, di cui adesso, per ultimo, dobbiamo ancora parlare.



Parte terza: Lo spirito e la coscienza in psicologia



Anche in riguardo ai fenomeni psicologici, come tutti sanno, è sostenuto il principio, che non sia possibile pensarli, se non in un soggetto. L’illustre Mamiani, per esempio, dice, su questo proposito, in un suo discorso del 1866 intorno a Kant; " Nella cognizione è certamente incluso un atto....... Ma l’atto è spiegamento di una facoltà agibile, e la facoltà agibile s’incorpora in una sostanza". Il Mamiani è talmente persuaso di ciò, che non dubita di soggiungere: "Egli bisogna volersi accecare apposta dell’occhio mentale, per non vedere e non confessare, che la intuizione dell’atto del nostro pensare e conoscere è la più antica e la più immediata e sincera di tutta l’anima; e che d’altro lato è impossibile di intuire la connessione e l’intimità sua profonda col subbietto onde emana. Niuno può dividere queste cose che fanno uno; e chi lo tenta, invece di spartirle, le dissolve e distrugge.

Per capir bene quanto valga un tale ragionamento, non è che analizzare il concetto di quest’anima, che si dà, come il soggetto metafisico logicamente indispensabile per pensare il fenomeno psichico. Come la materia non è altro, che una astrazione dei fenomeni fisici, così l’anima non è, se non una astrazione dei fenomeni morali. Quand’è che si è giunti a possedere questo concetto? Dopo una lunga esperienza dei fatti così detti interni. Non prima. E come si è formato? Chi viaggia in un paese montuoso vede prima davvicino, e ad una ad una, e in luoghi assai fra loro discosti, di mano in mano che loro si affacciano, le creste e le cime delle montagne. Dopo lungo cammino, se si guarda indietro, le vede poi tutte in una volta, e fuse, per, così dire, in una sola immagine lontana ed aerea, e disegnata sul medesimo piano. Nello stesso modo i pensieri e gli affetti, che occuparono un uomo lungo la sua vita, l’uno dopo l’altro, si fissano nella sua memoria, e vi formano, colle loro linee culminanti e come in un solo piano, un grande quadro, che si riflette di continuo nel fondo della sua coscienza. Il concetto dell’anima è tutto qui; la memoria confusa dei fatti psicologici sperimentati; una specie di compenetrazione mentale, in uno schema solo, delle qualità e dei generi loro. Insomma gli stessi fenomeni e null’altro. E in ciò è anche tutta la ragione della contrarietà, che si riscontra tra l’anima, concepita come spirito, e la materia. Questa è l’astratto dei fenomeni fisici, che implicano l’estensione; e quella è l’astratto dei fenomeni morali, che la escludono. Si possono sfidare tutti quanti i metafisici a trovare un solo elemento nel concetto dell’anima, che non sia, in tutto e per tutto, un mero fenomeno. Anzi di più si può dire, ciò essere indirettamente da loro conceduto, quando sono costretti a confessare, che l’essenza dell’anima è, non solo sconosciuta, ma affatto inconoscibile. L’argomento in contrario preso dalle cosidette idee metafisiche, o categorie della mente, come quelle dell’essere, della sostanza, della causa, e via discorrendo, che si pretende contengano di più di ciò che può essere dato dalla esperienza, svanisce affatto davanti alla loro analisi positiva, come mostrerò a suo tempo. Dov’è dunque la necessità logica di un soggetto metafisico per pensare il fenomeno, poiché in ultimo si prova, che noi effettivamente pensiamo solo dei fenomeni senza soggetto?

Io qui voglio limitarmi alla questione di fatto. Se ciò, che sorge nel nostro pensiero, quando diciamo l’anima, è uno schema composto interamente di rappresentazioni di fatti, a che perderci in discussioni metafisiche? Forse, per evitare di essere chiamati idealisti e scettici, ci incombe l’obbligo di spiegare il fatto psicologico della oggettivazione di tale astrazione. Ma noi non vogliamo fare se non una questione alla volta. E se, per avventura, la scienza ha ben chiaro un punto e non un altro, noi da buoni positivisti, incominciamo dall’affermare il primo; aspettando quanto al secondo, a pronunciarci, quando ne sapremo abbastanza. Il primo pensiero del positivista non è mica quello di fare un sistema completo, anche a costo del vero e del possibile, come nel metafisico. Il vero lo ammette, anche se non forma parte di una costruzione scientifica finita e completa, anche se isolato, e senza apparente legame cogli altri veri. E, quanto alla oggettivazione delle astrazioni levate dai fenomeni psicologici, ci limitiamo intanto ad affermare, come abbiamo fatto parlando della materia, queste due cose:

1. Che tale oggettivazione è un processo reale della mente, che non intendiamo menomamente di impugnare. E lasciamo che gli altri la facciano; e la facciamo anche noi. Anzi crediamo che la filosofia positiva possa spiegarla, mentre i metafisici non riuscirono a farlo.

2. Che però, essendo il contenuto del pensiero dell’oggetto una astrazione, vale a dire le mere somiglianze dei fenomeni abbracciate dal pensiero, esso oggetto non è una cosa stabile e fissa, dalla quale si possa partire per discenderne ai fenomeni relativi, come vogliono i metafisici. E quindi la base della scienza non si può trovare, che nel fatto. Come sopra dimostrammo, le induzioni fatte dalla mente sui dati empirici, si succedono indefinitamente, a misura che si procede nella osservazione e nello studio. Si sa donde si comincia, ma non dove si finirà. Ora, siccome ciò che si chiama l’oggetto è costituito da tali induzioni, è chiaro, che esso non è il capo saldo e d’origine, ma il punto d’arrivo, e sempre oltrepassabile, del processo scientifico.

Dopo ciò è facile vedere, che valore abbiano i ragionamenti di alcuni, che sono disposti a menar buono il metodo da noi indicato, pei fenomeni esterni; ma fanno delle grandi riserve, e lo dichiarano insufficiente e fallace nel caso, che si debba applicare agli interiori. Dice, per esempio, in proposito il Vacherot, in un suo recente articolo sulla psicologia contemporanea: "L’osservatore dei fenomeni fisici, non potendo cogliere, se non delle apparenze, non ha altro metodo, che l’induzione, per giungere a metterne in luce la realtà. Non essendogli dato di percepire direttamente le cause dei fenomeni, non può che ricercarne le leggi, le quali se gli rivelano solo mediante un’osservazione faticosa . . . . . L’osservatore dei fenomeni psichici è in una situazione affatto diversa. Se si limita, come fanno i psicologi della scuola sperimentale (i positivisti), a osservare questi fenomeni dal di fuori, sarà sempre tentato a giudicare della realtà dalla apparenza; ma se a tale genere di osservazione, che gli fa vedere le leggi dei fenomeni attraverso alla loro successione, egli aggiunge l’altro genere di osservazione, che si addentra nel foro interiore del soggetto osservato, egli comprenderà ben presto la necessità di modificare le conclusioni, alle quali da principio si era lasciato andare......... dunque la coscienza, che ha ragione contro la scienza, perché essa sola è competente in tali sorta di problemi (i problemi della necessità e universalità dei giudizi, della sensibilità e della attività volontaria). Ché essa sola vede il fondo delle cose, il fondo dell’essere umano, mentre la scienza della scuola sperimentale non ne avverte, se non le manifestazioni esteriori. Maine de Biran lo ha dimostrato con evidenza irresistibile; se l’esperienza ha in vista le leggi, la coscienza può avere in vista le cause . . . Egli e Jouffroy e molti altri psicologi della scuola spiritualista, dietro Platone, Aristotele, Leibnitz, hanno saputo fecondare coll’analisi queste rivelazioni spontanee, e farne sortire una scienza intima e profonda, ben altrimenti competente, ben altrimenti decisiva, che la scienza sperimentale della scuola in discorso".

Non c’è punto di dubbio; la grande idea della filosofia critica, che alla rappresentazione mentale attribuisce un valore puramente fenomenico, il Vacherot la ammette per le cose di fuori, e non per quelle di dentro. Viene a dire cioè, dell’esterno la nostra cognizione possiede soltanto la fenomenalità; ma dell’interno possiede assai più, poiché ne ha coscienza. L’aver coscienza di una cosa, pel nostro autore, è più che conoscerne la fenomenalità; mentre la coscienza, secondo lui, dà la stessa causa del fenomeno.

Ma questo come può sostenersi, se la coscienza è costituita dalle pure rappresentazioni dei fatti, e non vi si trova nient’altro, fuori di queste rappresentazioni? Forse perché la coscienza ha il privilegio di annunciarsi da sé, indipendentemente da altro mezzo, e di essere sostegno a se stessa, dove le cose esterne invece non sono qualche cosa, se non appoggiandosi ad essa? Ecco un altro esempio di quei ragionamenti fallaci, che si fondano, non sul fatto concreto, ma sopra una distinzione mentale. Il me e il fuori di me nella coscienza formano un tutto reale indivisibile. Come il diritto e il rovescio del panno si possono bensì distinguere mentalmente, ma non separare effettivamente senza distruggere il panno, così il me e il fuori di me nella coscienza. Essa è costituita nell’esser suo tanto dall’uno quanto dall’altro, che vi entrano collo stesso titolo e colla stessa forza. Cesserebbe di essere ciò che è, se mancasse o questo o quello. Da principio ciò che ora è conosciuto, come di fuori e di dentro, vi era senza essere considerato come tale; e la distinzione è un’abitudine mentale, che si andò formando a poco a poco. Per cui, se ciò che entra a costituire la coscienza ha diritto di essere ritenuto siccome realtà buona, queste diritto compete tanto al me, quanto al fuori di me; tanto per quello, che si dice lo spirito, quanto per quello, che si dice la materia. Perché ciò che chiamasi spirito è mia coscienza quanto ciò che chiamasi materia. Non si può essere realisti pel soggetto solo. O l’idealismo da per tutto, o da per tutto il realismo.

Ma come? Si dirà. La coscienza è una sola ed indivisibile. E voi affermate che la formano tanto lo spirito, quanto la materia; due cose, non solo distinte, ma affatto contrarie? Ecco proprio dove è l’inganno. Sempre così. L’uomo costruisce una astrazione, e poi l’oggettivizza; e in seguito ragiona su questo oggetto da lui fabbricato, senza ricordarsi più della sua provenienza. La coscienza dell’uomo, come dicevamo, è l’insieme delle sue rappresentazioni e presenti e passate. Ogni rappresentazione ha il suo lato della esteriorità, per così esprimermi, e il lato della interiorità. La cosa è una, gli aspetti due. Ora, se colla mente io raccolgo in una sola idea tutti i lati cosidetti interni delle mie rappresentazioni, ho il concetto dello spirito, se tutti gli esterni, ho la materia. Materia e spirito dunque, per quanto diversi e contrari, sono indivisi nella coscienza, come i due lati opposti nella rappresentazione, e il pensare diversamente è una illusione dipendente dall’essersi dimenticati dell’origine soggettiva dei due oggetti.

Bisogna distinguere tra fenomenalità ed apparenza. La fenomenalità è vera realtà; ma essa è propria, non solo di ciò che si riferisce al mondo dei corpi, ma anche di ciò che si riferisce al mondo dello spirito. Più di questa non ci è dato di conoscere; e vani sono gli sforzi di quelli, che reclamano il privilegio di una cognizione più profonda e più intima pel me. Come fanno il Vacherot e la scuola da lui rappresentata e altri moltissimi, tra i quali l’illustre Mamiani, che, anche in un recentissimo scritto, dice: "La notizia del proprio mio essere, non solo nell’ordine subbiettivo mi riesce anteriore a quella di ogni materia, ma eziandio mi porge il termine assiduo di paragone per giudicare le altre cose e la materia principalmente".

Ho detto, che da principio ciò che ora è conosciuto, come di fuori e di dentro, era nella coscienza, senza essere considerato come tale; e che la distinzione è un’abitudine mentale, che si andò formando a poco a poco. Tale affermazione io non l’ho fatta a caso e leggermente. Si tratta di uno dei punti più importanti della psicologia. Esso ha una portata scientifica immensa. E io credo, che, per ciò, venga subito dopo quello della relatività delle idee; e che debba costituire, insieme ad esso, il fondamento principale della psicologia nuova. Non dico poi, che sia ancora affatto ignorato: No. Ma inteso in tutta la sua estensione, in tutta la sua importanza, messo in tutta la sua luce, dimostrato perfettamente, e soprattutto applicato alla soluzione dei problemi scientifici capitali, che per esso solamente possono averla, non fu, ch’io mi sappia, ancora da nessuno. A me parrebbe che si potesse. E per mezzo di un ragionamento, né astruso, né trascendentale, ma semplice e chiaro per tutti. Se non che qui non è il luogo opportuno di occuparsene; e mi devo, per ora, contentare di averlo accennato; come mi occorreva per chiarir meglio e rincalzare le cose asserite nei due paragrafi superiori.

J. Tissot conviene con me nel ripudiare le idee espresse nelle parole sopra riportate del Mamiani e del Vacherot. Egli dice nel suo libro sulla conciliazione della materia e dello spirito: "Nella maniera volgare di concepire le qualità e il soggetto, il soggetto e le qualità, vi è un grave errore. Si suppone, che queste due cose abbiano una specie di realtà distinta, massime il soggetto, e che le qualità gli siano come esterne e sovrapposte. Supposizione affatto inesatta. Il vero si è, che vi ha una intimità talmente reciproca ed assoluta, che il soggetto non è che la qualità sostantivata, come la qualità non è che il soggetto qualificato. E ciò non è tutto; resta a vedere ancora che sia in se stessa la materia qualificata, ossia le qualità materiali sostantivate; se tutto è a noi noto, o se ci sfugge interamente. Ciò che noi, o percepiamo dei corpi, nel modo che è da noi percepito, non è se non uno stato del nostro spirito, stato risultante dall’armonia esistente fra i corpi e il nostro principio pensante; è un fenomeno, vale a dire una cosa che, presa in se stessa, non ha una realtà propria". E più innanzi dice ancora: "Distinzioni analoghe a quelle da noi fatte pei corpi e per la materia si presentano allo spirito, all’occasione dei fenomeni interni. Conviene dunque riconoscervi tre cose; i fenomeni stessi, la forma loro ossia la coscienza che se ne ha, il me che li collega insieme, il soggetto apparente che se ne riveste, e che è l’anima propriamente detta o la forza pensante. I fenomeni ossia i movimenti, gli atti e gli stati dell’anima, in quanto ci sono noti, non sono l’anima stessa; sono meri modi d’essere instabilissimi, che variano ogni istante e quanto alla natura e quanto all’intensità. La coscienza dunque non ha per materia propria, o per oggetto, che degli stati". E poi, parlando specialmente del me, soggiunge: "Noi non sappiamo del me, come forma dei nostri pensieri, che questa nozione stessa, e le nozioni che le si collegano. Questa nozione è essenzialmente diversa da quella di sostanza. E noi non abbiamo della nostra sostanza, come tale, un’idea diversa da quella che abbiamo di tutte in altre realtà. La nozione, me, come tale, non è nemmeno la nozione della forza. E non abbiamo della forza, che siamo noi, considerata come forza, un’idea diversa da quella di tutte le altre forze". J. Tissot adunque mi dà ragione contro il Mamiani e il Vacherot. E lo fa appellandosi a risultati riconosciuti dalla scienza, messa sulla buona via da Kant, che svelò il sofisma, onde si trasportano all’anima gli attributi del me.

Ma non mi concede, che tutti gli elementi, che formano il concetto dell’anima, nessuno eccettuato, siano empirici, ossia meri fenomeni appresi, o, che è lo stesso, mere sensazioni sperimentate. Ecco come egli ragiona: "Queste proposizioni: Io sono una sostanza, io sono una forza, esprimono dei giudizi sintetici. Anzi dei giudizi sintetici a priori, perché le nozioni di me, di sostanza, o di forza, non hanno nulla di empirico. È questo un punto di estrema importanza. Ed io lo provo così: Se la nozione, me, fosse empirica, sarebbe una percezione determinata, e corrisponderebbe ad uno stato o ad una maniera di essere determinata. E non avrebbe un valore (e tutto il suo senso, tutto il suo valore è qui) essenzialmente relativo, quello di contrario del non me. Il me è adunque tanto essenzialmente generale, per la sua opposizione, quanto lo stesso non me. La nozione di me non è adunque essa stessa che una maniera di concepirci in opposizione a tutto il resto, e non una maniera di percepirci. E dunque un concetto della ragione, una di quelle idee a priori che è della natura della nostra intelligenza di produrre in date condizioni, e non una percezione. Aggiungo, che questo prodotto è fatale, e che non dipende da noi di non avere questa idea". E ne trae poi delle conseguenze. "Siccome, egli dice, il concetto, me, è una vera qualità razionale . . deve avere un soggetto . . e questo soggetto è l’anima, opposta al me . . L’anima in sé non è percepita . . Ma quantunque sconosciuta in se stessa, noi siamo nella necessità di affermarla come soggetto degli stati che conosciamo, come forza o principio delle sue determinazioni conosciute e sconosciute. Quando sono conosciute, è il concetto, io, che le accompagna. Quando non lo sono, è perché mancano di questa forma".

Per quale ragione il Tissot, che conviene con me in tutto il resto, mi dà torto in quest’ultima cosa, e ne cava la conseguenza ora enunciata? Ecco perché. Egli ha per certissima la relatività delle idee insegnata da Kant, ed accetta le applicazioni di tale principio. Ma non tien conto dell’altro principio da me accennato, pel quale il riferimento delle sensazioni al soggetto pensante e agli oggetti esteriori non ha luogo per una intuizione immediata come si è creduto fin qui, ma è puro effetto di esperienza, per la quale ne facciamo a poco a poco l’abitudine. Trovando il me e il fuori di me nella coscienza presente, e credendoli perciò suoi elementi primitivi, non prodotto di abitudine empirica, con Kant e con Hamilton, li considera quali forme pure ed innate della intelligenza, e condizioni a priori dell’esperienza. Ammesso il nostro secondo principio, e non è possibile non ammetterlo una volta che sia stato convenientemente esposto e chiarito, cade da sé anche quest’ultima ragione, che restava al Tissot, per ritenere ancora gli schemi a priori dell’intelligenza. E anche la base della sua dimostrazione del soggetto psichico nella idea ordinaria dell’anima. La quale l’inceppa malamente fin dal principio, perché non può più procedere oltre senza preoccuparsi e tener conto sempre di una supposizione basata sopra una ragione, che non tiene.

È dunque senza fondamento il credere, che dallo studio diretto della coscienza si possa trarre quella cognizione della causa, che si confessa inasseguibile pei fenomeni del mondo esteriore; ed è una vera ingenuità il dire, che "coll’analisi delle rivelazioni spontanee della coscienza si fa sortire una scienza vera dell’uomo, scienza intima e profonda, assai più competente, assai più decisiva della scienza sperimentale". Lo studio della coscienza non ha nessun vantaggio su quello dei fenomeni esterni. Anch’esso non può dare la essenza e la causa, ma solo il fenomeno.

Ma vi ha di più. Un tale studio diretto, nonché essere il solo atto a condurre alla soluzione dei supremi problemi psicologici, come pretende il Vacherot, è, al contrario, o altissimo a trarci in errore, o almeno affatto infecondo per la scienza.

La coscienza è un risultato. Alla osservazione diretta non si possono presentare le leggi e le forze, che la produssero, perché sono scomparsi gli atti anteriori, oltremodo vari e complicati, che prepararono lo stato attuale, e dai quali soltanto si potevano dedurre. Chi prende la coscienza, come è adesso, e non va a cercare altro, è simile all’uomo del volgo, che vede i colli e i piani, le fonti, le erbe, gli animali, e sperimenta i climi e le stagioni, e tutto quello che lo circonda, e crede, che il mondo sia sempre stato così; e quanto alle condizioni cosmiche anteriori diversissime, nelle quali, come la scienza ha scoperto, è la ragione di tali cose d’adesso, né le sa, né gli passa per la mente, neanco per sogno, che ce ne siano state mai.

L’uomo del volgo, che ha sempre visto la luna al suo posto, in su, non si è mai fatta la domanda, perché stia sempre là e non cada. Anzi gli pare, che una tale domanda non sia propria di un uomo di mente sana. La luna, egli direbbe, sta là, perché quello è il suo posto. E soggiungerebbe: È strano, che si cerchi la spiegazione di un fenomeno così naturale. Insomma per lui quel fenomeno è un fatto senza causa, ovvero un fatto, che è causa di se stesso; una specie di libero arbitrio lunare. Come doveva certo pensare quel pastore, che, secondo Leopardi, diceva alla luna:

Sorgi la sera, e vai

Contemplando i deserti;

. . . ancor sei vaga

Di mirar queste valli?

Fa lo stesso chi sta colla pura coscienza. Che vuol dire percepire la libertà del volere, come qualche cosa di totalmente estraneo alle leggi di causalità? Vuol dire, che i nostri atti volitivi li sentiamo, ma non ci accorgiamo del nesso, onde si attengono ad altri, come l’effetto alla causa. L’abitudine di sentirli così isolati ce li fa parere di una natura speciale. Se vediamo una pietra di pochi chilogrammi sulle spalle di un uomo, subito in noi si desta l’idea del suo peso; e si può dire, che un tal peso non affatica soltanto l’uomo che la porta, ma anche noi, che stiamo guardando. Una montagna invece, che pesa immensamente di più, la possiamo osservare, senza punto essere molestati dall’idea della gravità. Per noi è tanto leggiera quanto le nubi, che la incoronano. E perché tanta diversità di giudizio nei due casi? In forza di due diverse associazione di idee; ovvero, diciamola la parola, in forza di due diverse coscienze.

Per tornare poi alla luna, di cui parlavamo, dobbiamo dire, che ci volle un uomo, che avesse il mal vezzo di non prestare intera fede a quella specie di coscienza, che si chiama il senso comune, ossia un originale, o, se si vuole, un genio, che forse è la stessa cosa, per farsi la domanda, che ha un po’ del sacrilego: Perché sta là senza cadere? Questo originale, o genio, che dir si voglia, è stato Newton. Egli ha osato supporre, che il senso comune lo illudesse; e che vi potesse essere qualche somiglianza tra la luna e un pomo, che cade da un albero. Ha osato perfino applicare di pianta alla celeste luna le leggi umili e nostrane, che regolano la caduta di un pomo. Felice ardimento! La somiglianza era perfetta, l’applicazione giustissima; e il perché del girare della luna in su fu trovato, e il libero arbitrio lunare andò a spasso.

Lo stesso bisogna fare con l’anima. Altro che dire, come il Vacherot, che l’analisi delle rivelazioni spontanee della coscienza ha fatto venir fuori una scienza vera dell’uomo. Il vero è appunto il contrario. O uscire dalla coscienza, o essere condannati a subirne eternamente le illusioni.

E non solo per ischivare le illusioni bisogna uscire dalla coscienza. Riflettete pure sulla coscienza; sprofondatevi, se volete, nella contemplazione di essa. Non verrete mai a capo di capirne nulla. Quanti che si sono messi a guardare il lampo, e a osservarlo, e a riflettervi sopra; ma il guardare e l’osservare e il riflettere era indarno. Il fenomeno restava un mistero. La spiegazione è venuta d’onde meno si credeva. Un pezzo di ambra, o di ceralacca, o di vetro, sfregato, attrae dei corpi leggeri. Un disco grande di vetro girato rapidamente tra cuscini, che lo premono ai lati, molto più. Non solo, ma ne scappa qualche cosa su certi corpi intorno, e specialmente sui metalli. E questo non so che vi resta, se sono isolati. Accumulatovisi, si scarica sulla nocca del dito avvicinato, scintillando e scoppiettando. Sarebbe questo il lampo: Sì; lo è. Ecco donde venuta la spiegazione del lampo, che la sua contemplazione non avrebbe mai dato, neanco in migliaja d’anni: Dallo sfregamento di un pezzo d’ambra.

Così dicasi della coscienza. La materiale scoperta linguistica del tema etimologico di una parola; per esempio, di quello onde si è formato il nostro verbo, essere; l’invenzione dello stereoscopio; gli effetti fisiologico-psichici delle sostanze tossiche; la corrispondenza tra l’armonia dei suoni e il rapporto delle lunghezze delle vibrazioni, onde nascono, e via discorrendo, hanno avuto maggior importanza, per la conoscenza delle cose psichiche, che le più celebrate elucubrazioni dei filosofi spiritualisti, che, come dice il Vacherot, hanno lavorato, dopo Platone, Aristotele e Leibniz, sui dati immediati della coscienza. Tali elucubrazioni possono avere avuto una grandissima importanza, come ginnastica del pensiero, ma non come rivelazioni delle sue leggi. Esse non hanno fondato nulla di sicuro nella scienza psicologica. L’importanza decisiva, che il Vacherot ascrive ai prodotti delle loro indagini, è appunto ciò, che loro manca, e che invece compete a tutto diritto ai trovati, meno famosi, ma più veri, di oscuri e disprezzati sperimentalisti. A stabilire, per esempio, la natura dell’idea di spazio si sono adoperati, con isforzi d’ingegno maravigliosi, con Platone, Aristotele, Leibnitz, tutti i più grandi filosofi. E tuttavia gli ultimi hanno lasciato la questione così incerta, come l’avevano trovata i primi. E ciò perché? Non certamente per mancanza di penetrazione, di studio, di cognizioni. Ma solo perché il metodo da loro seguito, dell’osservazione diretta della coscienza, non poteva produrre nulla di decisivo. Un semplice fisico, Weathstone, costruisce uno stromento di ottica, lo stereoscopio; e mostra per qual via si generi, guardando, l’idea della terza dimensione dello spazio; e la sua dimostrazione è perentoria; nessuno più vi tornerà sopra; essa è decisiva, una volta per sempre.



Parte quarta: Il metodo positivo in psicologia



Si crede generalmente, che i psicologi abbiano fatto un grande passo, anzi una rivoluzione proprio radicale e definitiva, quando ai placiti così detti razionali, che componevano da soli l’antica scienza dell’anima, aggiunsero una appendice di dati empirici, in conferma e a complemento dei primi. Si crede che, con tale aggiunta, abbiano procacciato alla loro dottrina il diritto al titolo di positiva, e le abbiano assicurato i benefici, che derivano alle scienze naturali dalla applicazione del metodo della osservazione e dell’esperimento.

Non si può negare, che il passo in discorso non esigesse del coraggio, e molto. È facile arguirlo dall’accanimento, veramente pazzo, onde molti anche oggi (mirabile a dirsi) combattono contro qualunque sorta di empirismo psicologico; anche se ristretto agli accessori più insignificanti della scienza; anche se introdotto col proposito confessato e fedelmente mantenuto di ignorare e di negare qualunque fatto di cera un po’ sospetta, e atto a far nascere il menomo dubbio sui dogmi intangibili della loro decrepita metafisica. È certamente un merito grande l’aver osato di occuparsi in qualche modo di ciò, che si tocca colle mani e si vede cogli occhi, malgrado il divieto, tutt’altro che innocuo, di costoro, i quali pare abbiano paura di una sol cosa al mondo: Cioè dei fatti. Ma all’uopo di ravviare lo studio psicologico era di gran lunga insufficiente l’opera della semplice aggiunta della psicologia empirica in coda alla razionale.

Anche nei trattati così riformati la prima cosa, che si fa, è di porre addirittura il soggetto metafisico della attività psichica, ossia quella, che si chiama l’anima. Poi, giacché si ritiene di saperne, di quest’anima, assai, si procede a precisarne la natura nel modo il più dettagliato, con una buona serie di attributi, e con un lunghissimo corredo di facoltà le più svariate. Il Rosmini, nella sua psicologia, pubblicata l’anno 1848, ne dà quasi un centinaio. E tutto ciò sopra argomentazioni, come dicono, apodittiche, ossia traenti la loro forza dai principii e non dai fatti; poiché vivono nella illusione di ritenere, siccome intuizioni dirette di entità ideali sovrannaturali ed eterne quelle generalità mentali, che non sono se non le traccie o somiglianze più comuni dei fenomeni sperimentati. E ragionano a questo modo; se le nostre affermazioni fossero fondate su meri fatti, non ci arrischieremmo a darle per assolutamente vere, perché i fatti, essendo di loro natura particolari e mutabili, non contengono una ragione universale ed eterna, come a noi occorre. Se ammettiamo l’anima co’ suoi attributi e colle sue facoltà, e lo facciamo colla piena, certezza di ammettere il vero, ci siamo autorizzati da qualche cosa, che vale assai più dei fatti; cioè dalle idee. Non occorre aggiungere, che un tale ragionamento lo facevano colla massima serietà.

E i fatti perché dunque li aggiungono codesti empiristi tanto discreti? Oh! Così ad abundantiam. Una prova di più, anche meno forte delle altre, e specialmente se ad hominem, non nuoce. E giova, enumerate e descritte le molte e svariate facoltà, darne un’idea anche mediante dei fatti, che ne siano le manifestazioni. E poi che l’esposizione della materia riesce in certo modo più completa, collocando allato alla sincera realtà metafisica, come essi dicono, il suo incerto riverbero fenomenico.

Insomma sempre una dottrina, in cui vige, nella pienezza della sua forza, la vecchia illusione di aver trovato delle vere essenze e delle vere cause; e che spiega ancora i fatti nel modo infantile, da noi sopra descritto e riprovato, di attribuirle alle facoltà del soggetto; e che, per giunta, nel bisogno che ha di ricorrere ad un numero eccessivamente grande di esse, mostra, che nella classificazione loro, è ancora nel primissimo stadio. Per dirlo in una parola, una dottrina ancora il contrario della positiva, e tutt’altro che idonea a condurre a risultati analoghi a quelli delle scienze naturali.

Assai più utili per la scienza furono i tentativi arditi e fecondi di Locke e di Kant. Le loro dottrine in parte sono erronee, e diedero origine al materialismo e al trascendentalismo, che hanno già fatto le loro ultime prove e mostrano a chiari segni di aver finito il loro tempo. E in parte sono vere; e per questa rivivono nella filosofia positiva, destinata ad essere la filosofia dell’avvenire. Sono erronee dove seguono il metodo antico; sono vere dove si conformano al nuovo.

Il sistema di Locke è ancora, nel fondo, l’aristotelico delle vecchie scuole, che non ha smessa del tutto la ricerca delle essenze e delle cause. Egli non dubita punto, che l’uomo abbia una vera cognizione diretta del soggetto pensante e delle cose esteriori. Si sa, che non ammetteva la relatività per le cosiddette qualità prime. E per lui il soggetto è fornito di certe facoltà, destinate a rendere ragione degli atti suoi. Egli dice ingenuamente: Conosciamo le cose, perché le sentiamo; e come le sentiamo? Perché il soggetto è fornito della facoltà di sentire. Siffatta sensazione delle vecchie scuole, da lui mantenuta, che dà, quantunque incompletamente, l’oggetto in se stesso, e si accorda perciò benissimo con un’anima estesa, sensazione assunta a dar ragione di tutto il pensiero (quanto insufficientemente, lo ha dimostrato Reid e più ancora Kant), ha prodotto il materialismo sopra accennato, di cui sono saggi i libri di La Mettrie e di Büchner; materialismo che è una bella e buona metafisica, né più ne meno dello spiritualismo, a cui si contrappone.

Kant anch’esso stabilisce prima un sistema di astrazioni, che deve poi servire alla spiegazione dei fatti. Per la conoscenza, due facoltà fondamentali, il senso e l’intelletto. La cognizione, un composto di materia e di forma. La materia, dal senso e da’ suoi schemi. La forma, dall’intelletto e dalle sue categorie. Cosa strana veramente! Tali astrazioni egli le considera siccome realtà, poiché da esse fa dipendere l’esistenza e le determinazioni del pensiero; quelle determinazioni, che si era precisamente inteso di difendere dai colpi distruttivi di Hume. È tanto avaro di realtà, che non ne vuol riconoscere, se non la fenomenica; e poi l’ammette anche dove non c’è neanco questa. L’astrazione, come punto di partenza, invece del fatto, ecco ciò, che ha determinato lo svolgimento del trascendentalismo germanico. Il soggetto di Fichte, l’oggetto di Schelling, l’assoluto di Hegel sono sempre nel fondo lo stesso astratto psicologico di Kant.

La parte vera poi delle dottrine di Locke e Kant sta nella relatività in esse attribuita al pensiero. Tale relatività in Locke non è che parziale, e solo concernente le cosidette qualità secondarie. E non è tutto merito suo l’averla introdotta nella teorica della cognizione, poiché l’avevano insegnata prima di lui Hobbes e Cartesio; e prima ancora Galileo, col genio sovrano del quale ci incontriamo, come al principio della nuova scienza naturale, così a quello della psicologia positiva. Kant ha avuto il genio di estenderne assai più l’applicazione, che si potrebbe dire completa; se non avesse mantenuto nella rappresentazione la misteriosa materia fornita dal senso. Il principio della relatività, senza nessuna restrizione, è uno dei principii più certi dell’attuale filosofia positiva; onde, sotto questo rapporto, i nostri due filosofi hanno diritto ad un titolo di paternità verso di essa; e noi lo riconosciamo di buon grado. Ma nello stesso tempo vogliamo si ricordi, che la parte vera, e nuova, e positiva, su cui si fonda quel diritto, non è frutto dei vecchio metodo scientifico, da noi riprovato, ed è stata anzi imposta alla psicologia, suo malgrado, dai progressi delle scienze fisiche.

Non c’è che dire. La cosa oggi non è più dubbia, quantunque ancora non si possa dirlo apertamente senza eccitare le fiere suscettività degli amici del passato, e turbare la timida coscienza degli ingenui, che non hanno sufficiente pratica delle cose di scienza. Perché la psicologia cessi di essere una vana costruzione mentale di concetti, senza fondamento di realtà, simile ad una poesia, che non ha valore se non per l’immaginazione, che se ne può dilettare, e acquisti il diritto al titolo di scienza vera e certa, come le altre dottrine positive, e come quelle trovi modo di uscire dal cerchio fatale in cui e stata invincibilmente rinchiusa, e di scoprire le nuove terre e i nuovi cieli, che le appartengono, è necessario, che batta una via affatto opposta all’antica.

Non più ricerca di essenze e di cause, poiché alla scienza non è data in nessun modo di scoprirle. Unico studio i fenomeni. Osservarli, distinguerli, rilevarne la consistenza, la successione, le somiglianze. Assoluto il diritto scientifico del fatto, ed intrinseco ad esso, né punto dipendente da un astratto qualunque, si chiami pure o principio, o idea, o con quale altro nome si voglia. Pari il diritto per tutti i fatti; anche se emersi non per via della osservazione diretta della coscienza. La quale poi non può dare, se non delle fenomenalità; anzi, se si restringa ad essa l’osservazione, presenta un pericolo di illusione irrimediabile, e induce una assoluta impotenza alla indagine scientifica. Nessuna preoccupazione dei vecchi astratti a priori, si chiamino o soggetto dei fenomeni, o facoltà di produrli. Poiché non è vero, che il fenomeno sia inescogitabile senza il soggetto relativo. Il soggetto e la proprietà, anche oggettivamente considerati, sono concetti ai quali si può arrivare, ma non dati onde partire. Il dato immutabilmente fisso della scienza è il fenomeno accertato; l’astratto (e tale è il soggetto dei fenomeni psicologici, ossia ciò che si dice l’anima) è instabile, e segue le variazioni logiche, per le quali passa la induzione, che la mente va facendo dietro l’esame dei fatti.

Ci sono di quelli, che non comprendono come si possano trovare dottrine veramente filosofiche fuori dello studio diretto della mente. Credono costoro, che, se altri non vi ferma e circoscrive tutta l’attenzione, e la lascia vagare su altri oggetti, potrà fare bensì della fisica, della fisiologia, od altra cosa somigliante; ma non mai della psicologia propriamente detta. È questo un errore molto comune. Vi è chi sta col metodo vecchio solo per paura, che il nuovo gli faccia sfuggir l’anima; e molti, appunto per non aver più ad incontrarsi in essa, fanno buon viso al metodo positivo, seguendo il quale pensano, che non avranno più a fare, se non con fibre, cellule, fluidi, urti e movimenti. Giudizii tutti fondati sopra una idea molto imperfetta del fenomeno psichico, che è la materia propria della psicologia. Dice il positivista: Per avere delle indicazioni sul mio pensiero, mi volgo e ne domando ad ogni genere di cose. Interrogo i gesti, le voci, gli atti, i costumi dell’uomo incivilito e incolto e del bruto selvatico e addomesticato, nella gioventù e nella vecchiaia, nella calma e nella passione, nello stato normale e di sanità, nelle malattie e nelle alterazioni mentali, sotto l’influenza di agenti che eccitano e paralizzano i nervi, coll’uso intero o solo parziale degli organi; insomma in ogni suo stato e condizione, naturale ed artificiale. Né mi contento di osservarne i modi e le forme, ma ne enumero i casi e ne faccio la statistica. Mi giova un geroglifico, una cifra, un monumento, un disegno, un arnese, uno stromento, un idolo, un tempio; in una parola un’opera qualunque d’arte o d’industria. Dei mozziconi di pali piantati in fila in fondo ad un lago o ad una torbiera, degli avanzi di rozzi cocci o di pasti selvaggi, una sepoltura, una semplice selce tocca, migliaja d’anni fa, dalla mano dell’uomo, rintracciata fra le sabbie e le ghiaje, attraggono tutta la mia attenzione. Con sommo studio rilevo in un vocabolo, anche di una lingua già morta, le successive sovrapposizioni delle parti, le patite inflessioni e storpiature dei suoni componenti, che attestano il lavoro incessante di trasformazione e di ristauro subìto nel corso dei secoli, e cerco di cavarne fuori netta la base etimologica, testimonio e suo primo uso e valore. Esamino e confronto con grandissima cura certi organi animali, e nelle diverse forme esibite dalla scala zoologica, compresa la fossile, e nei gradi di sviluppo embrionale; soprattutto poi il sistema nervoso e gli apparati sensori, dove mi è di sommo interesse di scoprire e paragonare insieme tutto ciò che si riferisce alla struttura intima, alla rapidità dei moti, all’equivalente meccanico ed al processo della attività fisiologica, ed alla relazione di ciascun organo con tutti gli altri e cogli agenti esterni. Insomma nulla trascuro, dove io credo di poter trovare qualche cosa che mi faccia conoscere il mio pensiero. Il che non vuol dire però, che io confonda esso pensiero con queste cose. Il fenomeno psichico, propriamente detto, è talmente diverso da ogni altro genere di fenomeni, che non è possibile, chi stia sull’avviso, non distinguernelo sempre perfettissimamente.

Se si fa passare un fascio di luce solare attraverso ad un prisma di vetro, si hanno i colori dello spettro. Se il fascio attraversa un cristallo di spato d’Islanda, si ottengono due fasci polarizzati. Una bolla di sapone, gonfiandosi, presenta delle tinte iridescenti, dovute a fenomeni di interferenza. Ora si domanda: I colori dello spettro, i fasci polarizzati, le tinte iridescenti, cessano di essere la luce propria del sole, perché ottenuti mediante il prisma, lo spato islandico e la bolla di sapone? No certo. La luce è la stessa. I detti corpi non vi hanno messo nulla del proprio; essi non hanno fatto altro, che sceverarne gli elementi, o presentarli sotto un aspetto nuovo, o comporli diversamente. E con ciò, nello stesso tempo che, per loro mezzo, abbiamo sempre continuato a godere della luce solare nella sua schiettezza, abbiamo anche avuto l’opportunità di studiarne le leggi e la natura. Cosa questa impossibile colla sola osservazione diretta. Or bene, il caso della psicologia è del tutto analogo a questo dell’ottica. Un gesto di un animale, uno stromento d’arte, una parola, un organo sensibile e via discorrendo, non vi si prendono mica, come tanti atti psichici in sé, ma bensì come semplici prismi, per così esprimermi, onde rifrangere il pensiero e scomporne gli elementi, allo scopo di analizzarli.

Si dirà forse, che il paragone non regge, e non esser vero, che da questi oggetti materiali si possa indovinare la natura troppo diversa dei fenomeni della coscienza? Ma come sostenerlo? Ché le smentite si trovano da per tutto. Un cenno della mano, uno sguardo, una lagrima, un sorriso hanno il potere di muovere l’animo di chi li osserva, di deprimerlo, di esaltarlo; e l’hanno perché per essi ci rivelano i sentimenti di chi li fa. Poche cifre rozzamente scolpite sopra una pietra possono rappresentare un sistema intero e grandioso di pensieri; la dottrina di un filosofo, la sapienza di una istituzione, la storia di un popolo. I concetti della mente e i sensi dell’animo si esprimono nel modo più efficace, anche nelle forme immobili, fredde e scolorate di una pietra scolpita. A chi guarda la Niobe antica della Galleria Reale di Firenze, che si stringe al seno la figlioletta e rivolge in atto di preghiera gli occhi al cielo, l’atteggiamento quasi parlante del masso insensibile impietosisce il cuore, tanto al vivo rappresenta il dolore straziante di una madre infelice. Che più? Un rozzo palo, infisso nella melma di un bassofondo e sporgente un poco dall’acqua, confida il pensiero dell’uomo, che l’ha piantato, al navigante che passa; e lo avverte di non accostarsi al luogo pericoloso. Ma a che cercare di questi esempi? Poiché si può domandare, che mai sarebbe della mente dell’uomo, se non gli fosse dato di apprendere dei pensieri mediante degli atti fisici? Ciascun uomo sarebbe condannato a rimanere colle pure sue sensazioni. Non potrebbe fare suo pro della esperienza degli altri. Impossibile dare e ricevere una educazione, e vivere socialmente. La sua condizione resterebbe al dissotto di quella dei selvaggi, anzi degli stessi bruti.

E come i fenomeni esterni sono atti a rivelare gli interni nella loro forma più schietta e sincera, così è pur certo, che non c’è modo di sciogliere l’enigma della coscienza, senza valersi dell’ajuto che essi ci possono prestare, mettendoci sulle traccie de’ suoi segreti, e indicandocene gli elementi, le leggi, e il processo evolutivo nell’individuo e nella società.

Quale sia l’uomo internamente, ovvero quali siano i vari aspetti della sua attività psichica, noi non lo sappiamo distintamente, e quindi non possiamo dirlo a noi e agli altri, se non dietro ciò, che la detta attività produce al di fuori. Il pianto ed il riso, i lineamenti spianati o contratti, l’occhio scintillante o bieco, l’accento dolce, o vibrato, e via dicendo, ecco ciò che ci ammaestra circa i nostri affetti; e ce ne fa conoscere la specie e la natura. Onde i quadri plastici inarrivabili della Divina Commedia di Dante e dei drammi di Shakespeare giovane a condurci alla cognizione dei sentimenti propri dell’uomo immensamente più, che tutti i trattati filosofici sull’argomento. La stessa esagerazione dei rilievi, che si osserva in quei quadri, non nuoce, anzi giova all’effetto; poiché il fenomeno psichico da’ quei sommi interpreti del cuore umano vi è presentato ingrandito, ma non falsato, come per mezzo del microscopio, che allarga e rende facili a vedersi le cose troppo sottili e minute, senza svisarle. Credevano i metafisici, nell’affermare, che l’uomo è un essere logico, morale, sociale, amante del bello e religioso, di farlo per un ragionamento tutto a priori; dimenticandosi che non lo poterono, se non dopo averlo visto ad agire, e sentito a parlare, e dopo averne osservato i riti e le costruzioni religiose, e le opere d’arte e le esterne civili istituzioni. Ed è appunto solo dove si sono basati sul fatto esterno osservato, che le loro categorie psicologiche sono vere. Vogliamo noi completare quelle nozioni, dove sono difettose, e correggerle, dove false? Cerchiamo dovunque si trovino i fatti dell’uomo. Solo il novero esatto de’ suoi fatti può darci il novero esatto delle sue idee.

Importa poi moltissimo, per la cognizione perfetta di una produzione naturale, sapere quale ne sia il rudimento fondamentale, e per quali gradi successivi di sviluppo sia stata ottenuta. A cognizione siffatta non possono condurre, se non gli studi comparativi, che, in tutte le scienze positive, dall’astronomia alla linguistica, hanno già dati frutti inaspettati e maravigliosi. La fisiologia vegetale ha potuto scoprire il mistero dell’organismo di un grande albero dicotiledone, come a dire di una quercia annosa, dopo essere discesa colle sue indagini fino ai vegetali più umili quali le muffe e le conserve, ed aver quindi compreso, che, come nelle anzidette più imperfette produzioni, l’attività vegetativa si mostra in semplici vescichette più o meno allungate, così il segreto della vita di una pianta qualunque sta in quelle cellette e fibrille, onde sono compaginate le sue parti; e che tutte le formazioni speciali del legno, della corteccia, delle radici, dei rami, delle foglie, dei fiori, delle frutta, dei semi, non sono che diverse associazioni, con isvariatissime industrie architettate, delle dette particelle elementari. Così il grande albero del pensiero umano, colla meraviglia del suo fusto e delle sue fronde, non potrà essere inteso, prima che non sia stato convenientemente studiato l’informe germoglio di vita psichica del zoofito, e non se ne sia seguita la evoluzione graduata e progrediente per la scala degli animali, di classe in classe, di specie in specie.

E converrà poi anche, per intenderlo, quale si riscontra attualmente già bello e cresciuto, in un uomo adulto e civile, studiarne la genesi nell’individuo e nella umanità. Poiché in ciascheduno la esperienza delle passate generazioni si accompagna, per produrlo, alla propria. Sulla origine prima e sulla graduale esplicazione della coscienza individuale molta luce già hanno sparso le nuove cognizioni sulla fisiologia degli organi dei sensi. Sulle loro relazioni fisiche col mondo di fuori, le osservazioni delle anormalità mentali e le esperienze, onde coi reagenti anestetici ed iperestetici, che con diversi ingegnosissimi apparati fisico-meccanici spiarono i rapporti tra le funzioni organiche e i fenomeni psicologici. In quanto poi allo svolgimento progressivo del pensiero nella umanità, siccome non è un fatto che si rinnovi, così non ci può esser dato di assistervi e di osservarlo direttamente. Per averne notizia non c’è che tener conto di tutto ciò che ne serbi memoria, e massimamente dei dati preziosissimi della linguistica. E in ciò la psicologia è simile alle scienze geologiche, costretta ad arguire la storia della terra, non rinnovabile per l’uomo, dai segni che le rivoluzioni seguitevi lasciarono alla superficie.

Ma a togliere ogni illusione ed ogni dubbio sulla natura dei fenomeni morali è pure indispensabile la loro statistica. Hanno i fatti morali molta analogia coi meteorologici. Tanto gli uni quanto gli altri si presentano d’improvviso senza apparente connessione con una causa. Nel campo ristretto di un osservatore solo si succedono con tale irregolarità e sconnessione, che è impossibile intravvedervi la stabile e ricorrente ragione di una legge, che li governi. Onde l’idea volgare, vivissima tuttavia, che i fenomeni dell’atmosfera e quelli della coscienza non si comportano come tutti gli altri; cioè non si attengano tra di loro, e non formino una catena continua di cause e di effetti, e dipendano, uno per uno, direttamente dai cenni di potenze sovrannaturali, che si compiacciano, quando ne hanno voglia, di manifestarvisi. La nube, che, in tempo di siccità, dà la pioggia, è dono pietoso di dio. Quella che flagella di gragnuola, è opera perversa di uno spirito reo. Allo stesso modo al cielo si attribuiscono i buoni pensieri, e ad un angelo del male si addebitano i cattivi. La scienza moderna, che sa risiedere l’oggetto, per la scoperta del vero, nella osservazione adeguata dei fatti, ha trovato il modo di applicarla anche ai meteorologici ed ai morali, che superano di tanto, pel numero, per la varietà, pel campo estesissimo in cui si svolgono, la capacità di un osservatore individuale; ed è venuta a capo, per tale via, di far ragione delle chimere del volgo ignaro. Per l’osservazione dei fenomeni atmosferici ha coperto il globo di stazioni meteorologiche, che seguono, con attenzione scrupolosa, ogni variazione che succede nel magnetismo e nella elettricità, nella temperatura, nel peso, nella igrometria e nelle correnti dell’aria, e sì trasmettono reciprocamente e contemporaneamente le osservazioni mediante il telegrafo; e un uomo solo è in grado, coordinandole, di abbracciarne l’insieme, e di riscontrare, nella corrispondenza coi fenomeni lontani, la ragione dei presenti; un uomo solo, per esempio, nel fatto di una burrasca, che rumoreggia intorno al suo tetto, può vedere che, in un momento di grande turbamento atmosferico, sorto alle Antille in vortici immensi, in cui l’aria si aggira, soffiando più o meno impetuosa intorno ad un centro di minima altezza barometrica, attraversa l’atlantico e l’Europa e si getta sull’Asia; lo può vedere nei suoi passi di ogni giorno e di ogni ora, come se tutto quell’immenso turbine di vento e di pioggia si svolgesse in una storta del suo gabinetto. Similmente pei fatti morali va raccogliendo con incredibile pazienza e perseveranza dei dati statistici di ogni sorta. I quali, come per gli animali inferiori vanno sempre più distruggendo il pregiudizio, che ne faceva degli esseri a parte, ed incapaci di qualunque deliberazione cosciente, così per l’uomo mostrano che le sue azioni, comprese quelle fatte colla piena sua libertà, sono regolate da norme fisse, e quindi, che esso pure soggiace, anche per le sue azioni morali, alla legge della causalità universale.

Necessario dunque, nonché legittimo, è il ricorso, che fa la psicologia positiva, ad ogni maniera di fatti esteriori, per averne indicazioni sugli atti psichici. I quali, per la circostanza di essere illustrati mediante la considerazione di cose fisiche, non cessano di essere, in sé, perfettamente diversi da queste; e di costituire, per ciò, una scienza a sé, distinta affatto da qualunque altra. La fisiologia si occupa anch’essa del fatto della vita umana, come la psicologia. Ma sotto un altro aspetto; cioè sotto quello della sua manifestazione organica, o materiale, che dir si voglia. Sicché, quantunque sia di grandissimo ajuto alla psicologia, anzi si possa dire, che in molte parti combaci con essa, non la può però sostituire.

Il pensare, come fanno molti, che la scienza della vita del pensiero, o morale, debba ormai lasciare il campo assolutamente a quella della vita degli organi, o fisica, è un errore, che non merita neanco di essere combattuto bene. L’esserne pregiudicati, è puro effetto di non saper che si danno in natura dei fenomeni psichici, vale a dire dei fenomeni, che, considerati nella loro specialità, non sono, né fibre, né fluidi, né movimenti, né altra forma qualunque, o condizione della materia, presa come tale. Perché tra le scienze si conta anche l’astronomia? Non per altro se non perché in natura ci sono degli astri. Quantunque l’astronomia tutta intera ragioni a forza di matematica e di fisica, tuttavia chi crede alla esistenza degli astri, oltre la matematica e la fisica, ammette anche una scienza di essi; e la distingue perfettamente da quelle delle quantità astratte e delle forze naturali. Or dunque, se oltre agli atti puramente fisiologici, che si vedono cogli occhi e si palpano colle mani, si danno in natura anche degli atti psichici, non osservabili altrove che nell’interno della coscienza, si dovrà per questi ultimi avere una scienza speciale e distinta, che se ne occupi exprofesso. E ciò anche nell’ipotesi, che tutto quanto si conosce scientificamente del pensiero sia ottenuto direttamente ed unicamente col mezzo della fisiologia. Ma siamo ben lontani da ciò; mentre abbiamo appena mostrato, che molte sono le discipline, oltre la fisiologia, che prestano il loro ajuto alla psicologia. Che dire poi, se si può aggiungere; primo, che la fisiologia, anche dove è utile, non può condurre, se non ad un certo punto, oltre il quale non serve, che l’osservazione diretta del pensiero, quale si presenta nella coscienza; secondo, che la fisiologia stessa per progredire (e lo rinfaccio sul serio agli abolizionisti) ha bisogno dell’ajuto della psicologia?

Dico in primo luogo, che la fisiologia, anche dove è utile, non può condurre, se non ad un certo punto, oltre il quale non serve che l’osservazione diretta del pensiero, quale si presenta nella coscienza. Prendiamo, per esempio, una questione capitalissima della psicologia; la questione, se gli atti intellettivi e i sensitivi siano essenzialmente diversi, o essenzialmente identici. La potremo noi sciogliere fisiologicamente? E colla semplice anatomia degli organi cerebrali? E senza ricorrere, in ultima analisi, al confronto diretto delle sensazioni e delle idee apprese e contemplate in se stesse dalla coscienza di chi le ha? Tale confronto diretto può essere infecondo e fallace senza gli ajuti estrinseci, di cui sopra abbiamo parlato; questo sì. Ma, se è vero che la coscienza ha bisogno di tali aiuti perché arrivi ad avvertire e a distinguere bene ciò che dapprima o non vedeva, o vedeva solo confusamente, ciò non toglie, che non sia poi essa infine, che, osservando la sensazione e l’idea, come le ha in sé, ne rilevi le somiglianze e le dissomiglianze. Le stelle più piccole non appariscono alla vista senza il telescopio; i colori fusi nella luce bianca del sole non si discernono senza il prisma. Ma non diremo mica per ciò, che sia il telescopio che vede le stelle, e il prisma che avverte i colori dello spettro. Tutt’al più adunque, come diceva, l’esame degli organi cerebrali può prestare degli indizi. Ma quanto grossolani poi anche questi. Se non si sapesse, per altra via, chi avrebbe mai potuto sospettare, che gli insetti, che sono forniti di un apparato nervoso tanto imperfetto, in paragone dei vertebrati, nei quali il sistema cerebrale è affatto distinto dal ganglionare, ed è molto più sviluppato, avessero quegli istinti mirabilissimi, che in essi miriamo? Perfino l’enorme divario, che corre tra un uomo di genio ed un idiota, anzi l’abisso fra la stirpe umana e quella dei piteci, chi presumerebbe dedurlo con sicurezza dalla quantità o qualità della sostanza cerebrale propria dei diversi individui e delle diverse specie? I fisiologi che negano ogni valore scientifico a ciò, che non è fibra visibile e movimento organico misurabile, siano dunque conseguenti; e, poiché il divario tra l’uomo di genio e l’idiota, l’abisso fra la stirpe umana e quella dei piteci, non si può dedurlo dalla quantità e qualità della sostanza cerebrale, dicano addirittura di non ammettere la reale esistenza di quelle differenze di natura affatto morale, e quindi, secondo loro, non verificabile direttamente. Ma fino a questo punto non vanno. E se li interrogassimo ancora; quali dei due fatti, di vedere una pietra che cade e di sentire in sé un dolore, si presenti con maggior certezza a chi li osserva, non c’è dubbio che risponderebbero, la certezza essere intera e uguale per tutti e due, quantunque il secondo sia l’oggetto di una osservazione interna. Ma dunque, nel principio almeno, l’osservazione interna vale quanto l’esterna. E la diffidenza dei naturalisti verso l’osservazione psicologica non è giustificata. Tale diffidenza, io credo, è tutta fondata nella mancanza di abitudine della riflessione psicologica, e nell’immaginarsi, che altri non possa far ciò, che non si sente di poter fare chi non ha quella abitudine. Chi conosce l’arte delle analisi chimiche può, in una massa impalpabile ed invisibile di gas, constatare l’esistenza di più sostanze diverse, e separarle ad una ad una, fossero anche moltissime. A chi è ignaro della chimica invece pare affatto impossibile, che altri distingua e cavi molte cose e differenti, dove egli non vede nulla. L’analisi gli sembrerà piuttosto una pura illusione del chimico. Ed avviene lo stesso nel caso dell’analisi delle idee: Chi non sa farla, non si persuade che altri lo sappia e lo possa. Se si dicesse, che il confronto tra la chimica e la psicologia non regge, perché, mentre una sostanza analizzata da due chimici dà i medesimi elementi, un pensiero, analizzato da due psicologi, li dà sempre diversi, onde apparisce la loro impotenza a distinguerli con certezza, risponderei, ciò non dipendere dalla natura della materia della osservazione psicologica, che non comporti una osservazione certa e scientifica, ma solo, al più, dal non avere la psicologia trovato ancora il suo Lavoisier, che le dia l’avviamento opportuno.

Dico poi in secondo luogo, che, piuttosto che soppiantarla, la fisiologia ha essa stessa per sé bisogno della psicologia. Quanto ad alcuni fisiologi insigni, fra i quali potrei nominare E. Helmholtz, ha giovato, per lo studio degli organi dei sensi, una soda cultura filosofica. E quanto invece per altri, che potrei citare, la mancanza di tale cultura fu causa, che osservassero a lungo invano! Chi vuol capir bene uno stromento, o un apparato meccanico, deve prima aver cognizione dell’uso a cui serve. Chi ne dubita? Noi rideremmo di uno, che, senza saper nulla, né dei suoni, né della musica, volesse, col semplice esame delle parti componenti un cembalo od un organo, intenderne la ragione e gli effetti, e darne conto agli altri. Non è un’assurdità simile quella di un fisiologo, che, senza saper nulla di quella musica, che si fa udire nell’interno della coscienza di ciascheduno, vale a dire dell’umano pensiero, pretende ragionare sul come e sul perché degli organi, onde si produce? Chi non sapesse, che un accordo musicale è una combinazione di più suoni semplici, nello stromento suonante, invece di cercare, per rendersene ragione, le parti che producono i suoni semplici e i modi di produrli, il che lo condurrebbe facilmente a farne la scoperta, cercherebbe quelle da lui falsamente supposte, produttrici degli accordi; con inutile fatica; o coll’effetto di prendere una cosa per un’altra. Il fisiologo digiuno di filosofia fa un’opera non dissomigliante. Egli crede col volgo, che gli atti, che si attribuiscono alle cosidette facoltà, siano affatto semplici, e quelli dell’una diversi in tutto da quelli dell’altra; e va in cerca degli organi corrispondenti. Ed è lontano le mille miglia dal pensare, che, come nel cembalo, coi medesimi tasti e colle medesime corde, si possono far sentire due, anzi infinite, sonate differenti, così nel cervello gli atti classificati sotto facoltà distinte possono essere relativi ad organi identici. Insomma non c’è che dire; le ricerche utili intorno agli organi del senso e del pensiero sono impossibili senza i dati propri della psicologia. La coscienza della visione unica seguente l’uso di tutti e due gli occhi, della percezione dei differenti colori, dei giudizii accompagnanti la visione, fu il punto di partenza dei grandi lavori già eseguiti sulla struttura e sulle funzioni dell’occhio. Così per ciò che resta da fare. La coscienza, per esempio, attesta il fatto psicologico della associazione delle idee; e con ciò dice al fisiologo: Eccoti un tema di studio; cerca in che modo l’organismo si presti alla produzione di questo fatto. Potrebbe il fisiologo applicarsi a tale ricerca, se non conoscesse prima psicologicamente il fatto dell’associazione? Dirò una cosa ancor più forte. La psicologia volgare fa del sentire e del ricordarsi due facoltà diverse. Una psicologia più scientifica, come mostrerò a suo tempo, potrebbe ritenere che l’azione di ricordarsi fosse identica a quella del sentire, cioè fosse la semplice ripetizione dell’atto precedente; e che la differenza tra il sentire e il ricordare fosse costituita unicamente da un giudizio dipendente da un esperimento, che facciamo, senza accorgercene, dietro le esperienze passate, per solo effetto di abitudine. Ora questa ipotesi può dalla nostra psicologia essere imprestata al fisiologo, perché istituisca delle indagini, e veda se l’organo, onde si hanno le sensazioni, quando è eccitato dal di fuori, sia quello stesso, che, eccitato dal di dentro, faccia che la sensazione, una volta ricevuta dall’esterno e rimasta poi, per così dire, in istato di latenza, si riproduca. Il fisiologo riuscendovi (posto che l’ipotesi non fosse falsa, e che alla fisiologia fosse dato di fare l’osservazione in discorso) renderebbe un immenso servigio alla psicologia. Poiché offrirebbe una base positiva a ciò che altrimenti sarebbe sempre rimasto una pura ipotesi. Allo stesso modo che la misura del grado del meridiano terrestre, rifatta da Picard, offerse una base positiva all’ipotesi astronomica di Newton. Ma la scoperta della fisiologia sarebbe pur sempre dovuta alla idea prestatale dalla psicologia.

Come sopra dicemmo, il dato immutabilmente fisso, il punto di partenza della scienza, e quindi anche della psicologia, è il fenomeno accertato. E come si trovi e si accerti il fenomeno psichico, l’abbiamo or ora dimostrato. Quanto all’astratto poi (e tale è il soggetto colle sue facoltà; tanto quello dei fenomeni fisici, ossia la materia, quanto quello dei morali, ossia l’anima o lo spirito) abbiamo detto essere esso instabile, e seguire le variazioni logiche, per le quali passa la induzione, che la mente va facendo, dietro l’esame dei fatti. Dal che deducemmo, che quelli, che ora si chiamano il soggetto e le sue facoltà, sono concetti che si possono trovare, anzi pur anche oltrepassare, ma non dati, onde partire.

La classificazione dei fatti psichici adunque non deve essere determinata a priori, secondo un numero prestabilito di facoltà; ma sibbene, unicamente, dal confronto diretto dei fatti stessi. Anche volendo dare un valore oggettivo alle categorie indotte dalla osservazione diretta ed esclusiva dei fatti e chiamarle col nome di facoltà, è d’uopo non dimenticarsi, che tali categorie sono il frutto di una comparazione dei fenomeni particolari, sono una mera astrazione mentale, ossia la somiglianza tra molte rappresentazioni concrete, e che quindi non sono fissate, se non provvisoriamente. Poiché è sempre possibile di trovare nuove analogie, oltre quelle già osservate, che portino a stabilire delle categorie più generali, che ne riassumano parecchie particolari.

Il concetto delle facoltà, come le intendono i metafisici, oltre che falso nel suo principio, svisa poi irrimediabilmente l’aspetto vero dei fatti psicologici, e impedisce assolutamente di rintracciarne le leggi e la natura. Il sentimento di un atto volontario, per esempio, è universalmente ritenuto, siccome una manifestazione diretta della essenza stessa dell’anima, e costituisce pei più la prova principale, e, a loro credere, inconcussa, della sua esistenza. Ciò apparisce anche dal passo sopra riportato del Vacherot. Schopenhauer e Maine de Biran, per citare solo dei nomi insigni, pure ammettendo la dottrina kantiana dell’impossibilità di apprendere la cosa e lo spirito in sé dietro le fenomenalità loro, facevano, mirabile a dirsi, eccezione al principio per la volontà, nella quale sostenevano, che si rivelasse la realtà e la essenza stessa dell’anima. Eppure tutto ciò non è, che una illusione volgare; illusione, che il metodo da noi riprovato, col darle l’apparenza di una deduzione scientifica rigorosa, rafforzò tanto da renderla pressoché invincibile.

Perché i cosidetti atti volontari, che infine non sono che sensazioni, si riferiscono all’anima, e non, come ha luogo per le altre sensazioni, ad un qualche organo del corpo, o ad una cosa di fuori? Per due ragioni. Primo, perché, somigliandosi moltissimo tra loro i diversi atti, o per meglio dire, i diversi sentimenti di volere, e non avendo noi modo di distinguerli, stante l’impossibilità in cui siamo di vedere i movimenti degli organi cerebrali, ai quali conseguono, li confondiamo insieme, e li concepiamo quali produzioni di una attività unica. Succederebbe lo stesso per le sensazioni tattili delle dita della mano. Non le distingueremmo tra loro, e le attribuiremmo tutte al medesimo organo, se non avessimo una cognizione chiara e sicura di ciascun dito. Nelle dita minori dei piedi, che ci sono meno famigliari di quelle delle mani, le diverse sensazioni sono già meno distinte; e siamo costretti, per accertarci, che il dito toccato è l’uno piuttosto che l’altro, di portarvi la mano. La seconda cagione poi è quella che abbiamo accennato sopra, parlando della forza. Quando l’uomo ha una sensazione, ha la tendenza di riferirla a qualche cosa. Nel caso di un suono, la riferisce all’oggetto sonoro; nel caso di un dolore per alterazione patologica di una parte del corpo, la riferisce a quella parte. Ma trattandosi della sensazione del volere, con cui non si può associare, né l’idea di un oggetto esteriore, né quella di un organo corporeo conosciuto ed apparente, come dicemmo, non c’è che riferirla a qualche cosa, che non conosciamo, ma che supponiamo esistere dentro di noi, e chiamiamo l’anima. Ecco come avviene, che gli atti volontari, a differenza di altre sensazioni, si riferiscono ad essa. Per la doppia illusione indicata, che la scienza dei metafisici, anziché distruggere, risuggella col marchio fallace di una dimostrazione sistematica.

Coi quali mi piace, a tale proposito, di fare questo ragionamento. Io sento di volere per un atteggiamento particolare dell’organo, che ha la proprietà di produrre questo sentimento. Così per un atteggiamento particolare dell’organo acustico io posso sentire un suono; per esempio, un suono in do. I due fatti sono del tutto analoghi; e ciò che si conchiude per l’uno si deve conchiudere anche per l’altro. Sicché chi dice, come fate voi, che, nel caso del volere, si sente l’anima, deve dirlo anche pel caso del suono; e chi afferma con voi che nel primo caso si sente l’anima, come una cosa che vuole, deve pure affermare, che nel secondo si sente l’anima, come una cosa che rende un suono, e precisamente un suono in do. La conseguenza sarebbe un po’ ridicola, ma, poste le vostre premesse, irrepugnabile.

Ma di ciò basti per ora. A suo tempo mi studierò di mettere in maggiore e piena evidenza le cose, che qui accenno soltanto; e di smascherare interamente le illusioni volgari e gli errori filosofici, non solo sul volere, ma anche sulle altre cosidette facoltà. Intanto mi limiterò a dire, che, coll’avere stabilito una serie di facoltà distinte, e coll’avere alle singole attribuito molti fatti psichici, aventi delle evidentissime dissomiglianze tra di loro, mentre si perdettero le redazioni e le tinte reali svariatissime dei fatti particolari, si indussero poi per altra parte delle differenze che non esistono; rompendosi così irreparabilmente l’unità che regna nel mondo del pensiero. Poiché quelle, che i metafisici chiamano facoltà attive e passive, interne ed esterne, animali e razionali, rappresentative affettive e volitive, e così via, non sono infine che combinazioni variate dei medesimi elementi, come altrettante parole, di suono e di significato diverso, formate colle medesime lettere dello stesso alfabeto.

Da ultimo è, come dicevamo, di una importanza capitalissima, che non si dimentichi, dovere lo studio dei fatti psicologici essere assolutamente condotto, senza nessun riguardo ad idee preconcette circa il loro soggetto metafisico. Sopra abbiamo mostrato, che i fatti si possono pensare benissimo, senza bisogno di una sostanza a cui riferirli. E che anzi la stessa non è poi altro, che una astrazione, formata di mere fenomenalità. L’abbiamo mostrato, e per la sostanza fisica, ossia materia, e per la sostanza psichica, ossia spirito, o anima. Ed abbiamo detto anche, perché nulla impedisca, che, ottenuta tale astrazione, questa, se si vuole, si chiami sostanza o soggetto; ma a condizione, che se ne rammenti la natura vera; e si ricordi, che quel titolo non può essere che provvisorio, cioè avente un valore, non assoluto, come nella vecchia dottrina dell’anima, ma relativo, e durabile solo fino a che nuove induzioni non vengano per avventura a modificare il concetto astratto, che lo costituisce, e a formarne di più elevati. E tutto ciò non l’abbiamo affermato leggermente. Poiché lo deducemmo, con logica rigorosa, dall’analisi della cognizione scientifica in genere, e lo confermammo colla storia del linguaggio e delle modificazioni subite nella fisica dall’idea della materia. E non accennammo soltanto alla possibilità di oltrepassare, studiando meglio i fatti, rilevando in essi nuovi aspetti e nuove somiglianze, e facendo ulteriori astrazioni, i concetti ordinari di materia e di spirito, ma facemmo anche presentire, che la scienza positiva è già in caso di guidare l’attenzione del filosofo ad un’idea superiore alle volgari, del corpo e dell’anima; e che le riassume entrambe in uno schema solo assai più grandioso e vero.

Le induzioni poi conducenti a tale idea, che chiameremo psicofisica, non sono soltanto le fisico-matematiche, da noi sopra in parte accennate. Vi conducono anche, e soprattutto, le psico-fisiologiche. L’opinione in antico comunissima, che certi atti mentali e morali più elevati siano affatto indipendenti dalle condizioni organiche, opinione che ha contro di sé l’esperienza di tutti gli uomini, in ogni momento della loro esistenza, fra la gente colta ormai non è seguita, se non da certuni, ai quali preme soprattutto di non pregiudicare scientificamente ciò che insegnano circa di una comunicazione misteriosa e tutta spirituale della mente con un altro mondo. Da un pezzo le persone ragionevoli, tutte, riconoscono la corrispondenza perfetta, continua, immancabile, che esiste tra il pensiero e l’organismo. Ora, tale corrispondenza, come si spiega; forse colla ordinaria sostantivazione distinta dei due termini opposti? Ma allora avremmo, o le cause occasionali di Geulinx e dei cartesiani, col miracolo a fondamento della scienza, o l’armonia prestabilita di Leibniz, colla negazione esplicita della causalità; o l’influenza misteriosa tra l’anima, e il corpo, colla discontinuità degli atti organici, contraddetta chiarissimamente dalla osservazione e dall’esperienza. Forse concedendo la realtà ad un termine, e negandola all’altro. Concedendola soltanto al termine psichico, ce lo rappresenteremo come una sostanza nel vecchio senso metafisico al modo di Berkeley? Ma Kant ha dimostrato inappellabilmente, che del me si conosce il fenomeno, e non il noumeno. O lo considereremo dal punto di vista kantiano? Ma allora commetteremmo l’errore di prendere il me come un dato intuitivo ed immediato, mentre non è se non una formazione empirica e tardiva della coscienza. Nella quale, al punto in cui si afferma il soggetto come tale, per lo stesso titolo, anche l’oggetto ha diritto di essere affermato nella sua piena qualità di oggetto. Concedendo invece esclusivamente la realtà al termine fisico, al modo dei materialisti, come rispondere alla osservazione, che gli atti psichici sono anch’essi delle realtà innegabili, che entrano e si intrecciano effettivamente nell’insieme dei fatti umani; e che una dottrina, che li nega, o non ne tiene il debito conto, non si può dire, che spieghi veramente il fatto di essi atti? La corrispondenza perfetta, continua, immancabile, che esiste fra il pensiero e l’organismo, non si spiega, se non considerando lo spirito e la materia, l’anima e il corpo, insomma gli atti psichici e i fisiologici, come due espressioni, diverse di una medesima sostanza psicofisica. O, per usare un linguaggio più scientifico, sintetizzando, o comprendendo in una astrazione sola le due sorta di concezioni, per mezzo di quei dati comuni, onde esse, generalizzandosi viemaggiormente, si identificano; ed oggettivando poi la detta astrazione; a quello stesso modo, che si oggettiva la materia, cioè il concetto astratto costituito dai dati comuni a tutte le percezioni esterne. Basta, come dicevamo, alle induzioni fisico-matematiche, da noi sopra in parte accennate, aggiungere le psico-fisiologiche, per rilevare la serietà della nostra affermazione.

Il veder rosso dipende dalla conformazione particolare della estremità retinica di certe fibre del nervo ottico, e dall’organo centrale del cervello, a cui mettono capo. È cosa provata. L’estremità retinica delle fibre ottiche è di tre specie. Alcune son fatte in modo da percepire specialmente il rosso, altre il verde, altre il violetto. Tutte le gradazioni di colori veduti risultano dalle diverse proporzioni dei tre colori suddetti. Una conformazione diversa, non c’è punto di dubbio, darebbe luogo ad un’altra sensazione restando lo stesso lo stimolo esterno potrebbe rendere osservabili delle gradazioni in esso stimolo, che ora sfuggono al senso. Lo stesso dicasi di tutte quante le sensazioni. L’organo e la sua azione fanno la sensazione; come la lunghezza, la tensione, la grossezza, la sostanza della corda del cembalo ne fanno il suono. E ciò vale tanto per le sensazioni propriamente dette, quanto per la ricordanza loro. Ora tutti gli atti psichici, tanto quelli compresi nella categoria delle cognizioni, quanto quelli che si designano coi nomi di affetti e di voleri, tanto i particolari quanto gli astratti, o sensazioni tutti, nessuno eccettuato, sono, o sensazioni, o ricordanze di sensazioni. E perciò dipendono totalmente tutti dalla qualità, dalla forma, dall’atteggiamento di un qualche organo. Sicché nell’ipotesi di un altro organismo, il pensiero dell’uomo sarebbe affatto diverso. Con un altro organismo le cose al nostro pensiero si presenterebbero diversamente; come all’occhio, se gli mettiamo davanti un vetro colorato, si colorano diversamente gli oggetti, che osserva. Dirò una cosa che parerà assurda, o almeno stranissima, ma che è pur vera. Coll’organismo diversamente disposto potremmo chiamare esterne quelle che adesso chiamiamo sensazioni interne, e viceversa; come dimostrerò a suo tempo.

L’attività psichica poi è soggetta, né più né meno della fisica, alle leggi del tempo. Come è necessario un certo tempo ad un corpo per muoversi, così al pensiero per formarsi. Né si creda, che questo si vantaggi su quello almeno per la rapidità. No. Il pensiero anzi, per quanto rapido, è ancora una cosa pigra, se si confronta, per esempio, coll’azione elettrica. Nel tempo, che occorre perché si formi il pensiero più fugace, l’elettricità scorre comodamente per tutta la lunghezza di un filo di rame, che giri intorno a tutta quanta la terra.

Ed è soggetta pure l’attività psichica, né più, né meno che l’attività fisica, alla legge della equivalenza delle forze. In un pensiero qualunque si consuma una certa quantità di forza materiale, o impressa da uno stimolo esterno mediante un organo sensibile, o depositata in forma di sostanza nervosa, in seguito ai processi della nutrizione e della respirazione. Un pensiero piccolo è il consumo di poca forza; un pensiero forte di molta. Impossibile, che si trovi in un pensiero una quantità minima di forza non somministrata dall’organo, alla cui azione corrisponde; come è impossibile, che in una fiamma si trovi della luce e del calore, che non provenga dalla azione chimica, onde è l’effetto.

E gli istinti e le abitudini, che hanno tanta parte nelle operazioni psicologiche, in che si fondano, se non in condizioni e disposizioni organiche, naturali o artificiali? E le proprietà psichiche, varianti colle razze, coi climi, coi temperamenti, colle complessioni, col sesso, coll’età, colle condizioni e colle abitudini materiali, colla professione, col regime alimentario, collo stato igienico, e che si alterano, a vista d’occhio, anzi subitamente, ogni volta che si vuole, sotto l’azione dei reagenti fisiologici, è possibile ascriverle ad altro, che alle ragioni materiali degli organismi, in cui si riscontrano? Gli istinti, e in parte anche le abitudini e le stesse qualità morali si trasmettono, si propagano, si perpetuano, si contemperano insieme mediante la generazione; le metamorfosi organiche, o nel medesimo individuo, come si vede negli insetti, o nelle generazioni successive, come si vede nelle bifore, inducono, anche se ottenute artificialmente, una piena sorprendentissima trasformazione psichica corrispettiva, nel polipo, nel lombrico, una particella di corpo staccata dall’animale, non muore, ma mantiene le proprietà fisiologiche e psicologiche, e si rifà in un nuovo individuo completo, nel quale diventa coscienza separata e individuale quella, che prima era parte di un’altra coscienza; mentre al contrario, nel caso degli innesti animali si vedono siffatte proprietà, appartenenti prima ad un individuo, fondersi in quelle di un altro, e formare con esse una sola cosa i sentimenti, le passioni, lo stato dell’animo dipendono da un moto o da una disposizione organica, tanto che si possono produrre artificialmente per mezzi fisici; la vita psichica tanto diversa nella veglia e nel sogno, nello stato normale ed in quello di sonnambulismo e di pazzia, la quale può essere cagionata anche da lesioni di parti lontanissime dal cervello, ha la sua ragione unica in condizioni fisiologiche speciali, onde dipende la energia anormale o la fiacchezza impotente della volontà, la materia, la forma e il concatenamento dei giudizi e dei ragionamenti. Nelle quali condizioni fisiologiche poi può anche aver luogo una tale vicenda di alterazioni da conseguirne delle alternative fra la soppressione (anche per lunghe istagioni, come negli animali soggetti alla letargia, e più ancora nei cosidetti risuscitanti) e la riapparizione della coscienza. La vita psichica incomincia colla organica, e ingrandisce, metamorfizzandosi con essa, a poco a poco, e a poco a poco vien meno; e il corpo muore, anche psicologicamente, non d’un tratto, come se partisse da esso qualche cosa repentinamente, ma a grado a grado, a parte a parte; a certe mostruosità organiche degli animali corrispondono delle mostruosità nelle loro manifestazioni psichiche; e queste manifestazioni si diversificano nelle varie specie in ragione delle diversità materiali, massime della parte nervosa; anzi lo sviluppo materiale dell’organo e la sua attività psichica, promossa, indirizzata, mantenuta dagli agenti esterni, si suppongono a vicenda; e, demolendo a pezzo a pezzo il cervello di un animale vivo, se ne demolisce a pezzo a pezzo anche il pensiero. Infine, per non dire altro, come le funzioni di ciascheduna delle due metà simmetriche del cervello, anzi di ciascheduno de’ suoi diversi elementi, o gruppi di elementi, il più spesso si sovrappongono e si immedesimano in un solo me o in una sola coscienza di maggiore intensità, così qualche volta si contrappongono in più me o in più coscienze distinte e contrarie. Che occorre di più per indurne la corrispondenza perfetta, continua, immancabile tra la vita del pensiero e quella dell’organismo, come se fossero manifestazioni disformi di un medesimo principio?

Che se a tutto questo si aggiunga, che la distinzione tra ciò che dicesi mondo interiore o me, o spirito, e ciò che dicesi mondo esterno, o non me, o materia, è, come già notammo, una distinzione, non anteriore e trovata primitivamente in sé dalla coscienza, ma posteriore ed artificiale (quantunque per artificio naturale), e costruita a poco a poco nella medesima, per via dello stesso processo conoscitivo, che può mancare ancora alla piena certezza della nostra induzione? Per la quale è anche possibile di stabilire la continuità, una delle maggiori leggi della natura (natura non facit saltum), da una parte, dall’uomo per tutta la grande famiglia degli animali fino all’infimo di essi, dall’altra, dalle esistenze coscienti alle incoscienti organiche ed inorganiche.

Non solo dunque le induzioni fisico-matematiche, le quali mostrano al di là del concetto ordinario dell’oggetto, ossia della materia, un quid inesteso, ma anche, e soprattutto le psico-fisiologiche, le quali nello spirito, ossia nel soggetto, rilevano, allato ad una distinzione puramente mentale dei fenomeni psichici dai fisici, la effettiva loro inscindibilità, ci portano ad un’idea superiore alle volgari del corpo e dell’anima; e che le riassume entrambe in uno schema solo assai più grandioso e vasto; all’idea della realtà psicofisica.

Questo schema è una induzione al tutto scientifica, e, come tale, positiva e nuova. Esso non confonde e non sopprime nulla dei termini, sui quali si eleva. Non li confonde, come quegli assoluti in forma di indovinello, nei quali, colla logica dell’assurdo, si mescolarono insieme le stesse determinazioni opposte e contradditorie delle specie distinte, onde si cerca il nesso. Non sopprime né le qualifiche caratteristiche della materia, come l’idealistico, né quelle dello spirito, come il materialistico. I concetti della materia e dello spirito, quali generi speciali, in sé l’uno e l’altro perfettamente determinati, di fatti, restano nella loro interezza; poiché lo schema onde parliamo, come generalità, che si eleva sopra ambedue, signoreggiandoli ed abbracciandoli, non è veramente altro, che ciò che hanno di comune; ossia la somiglianza loro. La somiglianza che li spiega. Il fisico rileva il carattere di una massa metallica compatta e pesante, e quelli di una ondata di vapore, che si innalza espandendosi e scomparendo nell’aria. Egli chiama tanto la prima quanto la seconda, malgrado le differenze loro grandissime, collo stesso nome di materia. In questo nome egli non ha confuso le qualità distintive delle due cose, ma ha segnalato quelle, che sono loro comuni, e che, sceverate dalle altre, formano un solo concetto separato. E così facendo le ha classificate, ossia le ha spiegate. Così fa il botanico, quando, confrontando insieme un filo microscopico di muffa ed un pino annoso, dice: Vegetali. Così in ogni scienza positiva. Così noi, quando, considerati i fatti materiali e i morali, li sintetizziamo nello schema in discorso.

Il quale inoltre, essendo semplicemente un passo in avanti di un ragionamento strettamente induttivo, non comprende in sé altre determinazioni fuori di quelle, che sono portate dalla induzione, a cui segue. È questa una avvertenza essenzialissima. Per esso non si pronuncia l’ultima parola della scienza. Ben altro. Non si fa, per così esprimermi, che aggiungere una semplice unità ad un numero noto, al quale nulla vieta che si aggiungano in seguito altre unità all’infinito. E in effetto, dicendo noi generalità, o idea, o principio, o anche se si vuole (per la ragione sopra indicata), sostanza, o soggetto psicofisico, - con ciò non determiniamo nulla circa la natura ed il modo della esistenza e della causalità sua. L’astronomo dice - attrazione universale. - Con queste parole egli esprime un principio vero; un principio onde spiega positivamente i movimenti dei corpi celesti. E ciò anche senza sapere niente intorno alla essenza o alla maniera di operare di essa attrazione. Il fisico dice - materia. - Ma non aggiunge, se tale materia sia tutta omogenea ne’ suoi elementi primi, o meno; se sia in sé estesa o inestesa; se, nell’ipotesi della inestensione, consista in una infinità di punti separati, o costituisca una realtà unica ed indivisibile; e da che provenga e come si eserciti l’attività, che vi si manifesta. Nulla egli sa di tutto questo. Che importa? Egli non ne ha bisogno per le sue applicazioni, e neanco per ritenerla e chiamarla, non solo il semplice astratto mentale dei fenomeni fisici, ma proprio una cosa concreta, una sostanza. Così noi, dicendo, principio o soggetto psicofisico, facciamo come l’astronomo, che dice attrazione; anzi piuttosto, come il fisico, che dice materia.

Possiamo farlo, e lo facciamo senza pregiudicare punto le questioni circa la natura ed il modo della sua esistenza e causalità, e tutte le altre, se ve ne sono. Le quali restano insolute, e si lasciano alle induzioni avvenire; che saranno esse pure legittime e positive, se, come abbiamo fatto noi per la nostra, saranno basate, non sopra intuizioni metafisiche immaginarie di essenze e di causalità trascendenti l’apprensione del senso, ma unicamente sulla consistenza, sulla successione e sulle somiglianze dei fenomeni.

Ecco perché affermiamo, che il nostro schema è una induzione al tutto scientifica, e, come tale, positiva e nuova. E quindi differentissima da quei concetti che potrebbero somigliarle. Come, per dirne uno, lo spinoziano; ché non è qui luogo, e non occorre, di considerare gli altri o affini ad esso o diversi, come il leibniziano e simili. Il pensiero e l’esteso, onde Cartesio aveva costituito le due sostanze dello spirito e della materia, furono da Benedetto Spinoza sintetizzati nel concetto di una sostanza unica, avente per attributi il pensiero e la estensione. Or tale concetto, lasciando in disparte ogni altra critica, che non fa all’uopo, egli lo pone come il fondamento, da cui dipende tutta la costruzione scientifica; la quale crollerebbe da capo a fondo se lo si toccasse menomamente. Ponendolo come fondamento o principio, vi inchiude, per necessità, tutto quanto gli occorre per le deduzioni seguenti; e ciò arbitrariamente, senza e malgrado la osservazione della realtà. Cioè ha sciolto preventivamente, come gli è piaciuto, tutte le questioni. Noi al contrario, il nostro principio, lo diamo come esito finale di un lavoro, che è stato fatto, e sta indipendentemente da esso; esito, che si potrebbe riformare, o anche ritrattare, quando lo esigesse una ulteriore e più esatta e completa ricerca, senza inconvenienti, senza danno di ciò che precede; e nel quale non è definita che una sola questione; oltre la quale ne restano altre, molte, anzi infinite. Insomma Spinoza, avendo dinnanzi a sé il nodo indistricabile delle cose, l’ha disfatto, tagliandolo addirittura, distruggendo così la realtà, invece di spiegarla; mentre noi, da buoni positivisti, non potendo altro per ora, ci siamo accontentati di un’opera assai più umile, ma molto più ragionevole e vantaggiosa, cioè di districare, pazientissimamente per non romperlo, uno solo dei fili infiniti, che vi sono avviluppati.

Ben a ragione dunque dicevamo, che la scienza positiva è in grado di guidare l’attenzione del filosofo ad un’idea superiore alle volgari del corpo e dell’anima; che le trascende, senza cessare di essere scientifica e positiva. Ma a che affrettarci? Le conclusioni verranno bene da sé, senza che le sforziamo. E più chiare, e più precise, e più grandi, e più vere. Il positivista non ha fretta di conchiudere. Non ha fretta, perché il suo lavoro scientifico non dipende dalle conclusioni finali. Non ha fretta, perché anzi diffida sempre delle sue deduzioni ed aspetta, per assicurarsene, la conferma di nuovi esperimenti, di nuove verifiche. Non ha fretta, perché non cerca un’idea, che gli serva, come insegna di partito; ma il vero per se stesso, qualunque sia; anche se inopinato, o contrario alle sue prime presunzioni. Non ha fretta, perché sa che il vero si fa ragione da sé. Si annuncia con un chiarore incerto, a guisa di crepuscolo si fa a poco a poco più risplendente e si scopre all’orizzonte, come il sole che nasce poi sale, al pari di quello, in cima al cielo, e lo illumina tutto colla pienezza della sua luce. Non ha fretta; ma davanti al vero, che gli si è manifestato, non indietreggia mai. A chi colle argomentazioni cavillose, colle citazioni dotte ed autorevoli, colle dolci insinuazioni, colle rampogne e colle minaccie, glielo contrasta, tranquillamente, senza scomporsi, con un sorriso pieno di indomabile fierezza, risponde: Eppure è così!

Quando la scienza naturale credeva di doversi occupare solo dei soggetti più elevati e curiosi, come le essenze, le cause, e gli avvenimenti più sorprendenti ed insoliti, e sdegnava di rivolgere la sua attenzione alle semplici fenomenalità, massime se ordinarie e comuni, non era riuscita a formarsi delle cose, se non dei concetti falsi, meschini, sterilissimi. L’acqua, in una goccia della quale oggi, come dimostrammo, si possono additare tante meraviglie, riteneva che fosse una congerie morta di atomi freddi ed oscuri, e non sapeva dirne altro. E l’universo se l’era figurato, non esteso d’ogni lato infinitamente, oltre il vedere e l’immaginare, e fecondo per ogni dove, oltre ogni credere, di sistemi mondiali diversi fra loro per apparenza, per grandezza e per movimenti, ma composto miseramente di un piccolo numero di involucri animati, che ravvolgessero a più doppi la terra e seco la facessero girare. Le idee scientifiche vere, sublimi, oltremodo feconde, che oggi possediamo, ce le potemmo procacciare solo dopo che, smessa la ignara baldanza dei tempi passati, ci siamo indotti a confessare, che non si può saper nulla al di là dei fatti; e ci siamo avvezzati ad osservarli e ad apprezzarli debitamente, malgrado il bagliore fallace delle speculazioni astratte e la fede bugiarda dei sillogismi fatti colle regole.

Pari la sorte della psicologia. In essa non avremo mai nulla di vero, di sublime, di fecondo, finché al metodo speculativo dei metafisici non avremo sostituito l’empirico dei positivisti. Le cose fin qui esposte ci assicurano pienamente della verità di questo principio.

A quelli, ai quali preme, che la scienza non escluda le loro idee più o meno spiritualistiche dell’anima, diremo: Guardatevi dunque dall’asserire, che col metodo positivo non si può giungere a stabilirle. Ché un’idea, che non può essere stabilita col metodo positivo, è un’idea che non può restare nella scienza. Sono vere le vostre idee spiritualistiche? La scienza positiva dovrà pur trovarle e improntarle del suggello della sua certezza. Sono false. È inutile appassionarvici ed impuntigliarvisi. O tosto o tardi ne saranno escluse inesorabilmente e per sempre.

A quelli che pensano, che, abbandonate le vie della speculazione metafisica, e procedendo lenti e pedestri di fatto in fatto, si impicciolisca e si renda inspiegabile il mondo dello spirito, domanderemo: A che infine si riduce la scienza, che tanto altamente rimpiangete?

Comincia che par che sappia tutto, poiché ci dà addirittura l’anima e ce la definisce Ma la definizione, che dovrebbe contenere la ragione di tutto, non mi dice poi nulla e non è feconda, che di questioni aride, oziose, puerili ed assurde. Quante ne ha delle anime un uomo? Tre, due, una sola? E non potrebbe una sola anima bastare per tutti gli uomini? È essa una sostanza o una semplice forma? E di che è fatta? E dov’è prima di entrare nell’uomo? E qual’è, l’ora precisa che vi entra? E in qual parte di esso alloggia? O forse è tutta intera in ogni sua parte, o soltanto tutta intera nel tutto? E in che consiste, e in qual modo si stabilisce e si rompe la sua comunicazione cogli organi corporei? E questa unione è essenziale, o no, alla vita corporea, ed alla esistenza dell’anima? E che farà quando se ne sarà svincolata? E potrà anche allora conoscere le cose, sentire, volere? E come si concilia l’assoluta sua semplicità ed autonomia colle molteplici facoltà, colla formazione graduale e successiva delle abitudini, colla continua e perfetta dipendenza de’ suoi atti dagli organi corporei? E in che si differenzia l’anima dell’uomo da quella dei bruti? - E cento altri problemi simili a questi, sui quali si sono scritti volumi a migliaia, coll’unico risultato, che apparisca con tutta evidenza, come, parlando di una cosa, che non ha altro fondamento che l’immaginazione, si possa colla medesima facilità e affermarla e negarla. La definizione metafisica dell’anima, come diceva, non contiene nulla, che abbia importanza per la scienza, che pure, secondo il metodo deduttivo degli aprioristi deve tutta essere cavata dalla definizione. E in vero, quando siamo per impiegare i fatti psichici, la definizione non ci serve più, ed è necessario ricorrere ad altri ajuti, cioè alle facoltà. Povero ajuto anche questo. Poiché chi, per rendere ragione di un fatto, inventa una facoltà, viene giusto a confessare con ciò, che non si sente in grado di farlo. Abbiamo dunque nella scienza un’anima, che, logicamente, vi è affatto oziosa; abbiamo delle facoltà, che le furono appiccicate capricciosamente, e che non servono, se non a tener vieppiù nascoste le ragioni, che si cercano. Resta il sistema dei fatti. Ma che sistema! Non solo non può, in alcun modo, connettersi col resto del mondo, né punto s’accorda coi fenomeni innegabilmente analoghi dei bruti, né colle leggi di svolgimento degli stessi atti umani, sicché è da respingersi, come assolutamente falso, ma è in sé affatto fanciullesco e meschino. Gli antichi dicevano: Il mondo esterno è costituito di due generi di elementi; gli uni tengono della natura della terra, crassa, pesante, volgente al basso e tenebrosa; gli altri tengono della natura del fuoco, sottile, leggero, volgente all’insù e risplendente. E tutti i suoi fenomeni sono l’effetto della lotta tra questi due contrari. Così qui, due generi di principio. Altri tengono del senso e sono vili, ristretti alle particolarità, e al momento, che passa e non torna ed altri tengono dell’intelletto, e sono nobilissimi e attinenti a tutti i luoghi e a tutti i tempi. E tutti i fenomeni psichici sono l’effetto di una lotta continua tra loro. Ecco il sistema. Magnifica invero e sapiente è la diversità, su cui è fondato, ma non esiste. Ed ha, per giunta, l’inconveniente di dare origine a questioni insolubili, e quindi di condurre allo scetticismo. La forza del materialismo sta tutta nel valore metafisico assoluto dato dagli spiritualisti alla generalità mentale, in cui si riassumono i fenomeni psichici; l’immoralismo si trova soprattutto legittimato dalla assurdità del concetto di una attività morale affatto sottratta alla legge di causalità; in fine, per non andar troppo in lungo, l’idealismo, padre immediato dello scetticismo, si fonda incrollabilmente sulla distinzione reale della percezione esterna dalla interna.

Scienza veramente codesta degna di rimpianto; un soggetto e delle facoltà del tutto inutili; un sistema di fatti immaginario ed assurdo; un congegno logico, che fa conchiudere allo scetticismo. Pareva alla prima proposizione, che avesse già in suo potere la ragione di tutto si trova alla fine, dopo infiniti ragionamenti, che non ha spiegato nulla.

E quella del positivista? A vedere, come egli incominci, si direbbe, che non arriverà mai a saper nulla. Egli si ferma subito ad un fenomeno; al primo che incontra; al più comune; alla sensazione. Vi applica l’osservazione più attenta, l’analisi più rigorosa. Se ne fa un’idea assai più profonda e vera di quella del metafisico, il quale non vi distingue il dato iniziale ed elementare dall’abituale e complesso, come mostrerò a suo tempo, e si contenta, per rendersene ragione, di una metafora volgare; chiamandola l’immagine o l’impronta comunicata dalle cose al senso; non avvertendo, che non v’ha somiglianza di sorta tra la cosa e la sensazione corrispondente. Egli si è accertato, che questa è il prodotto immancabile, naturale, equivalente dell’azione fisica dell’organo materiale, e che quindi entra nell’ordine universale della natura, in cui gli effetti, sotto qualunque forma si presentino, costituiscono una serie continua, nella quale il seguente è una semplice trasformazione del precedente. Ma, distinta bene la rappresentazione sensitiva in ciò, che la caratterizza, e paragonatala al fatto fisiologico, a cui consegue, riconosce, che l’oscillazione di una fibra, per esempio, o lo scorrere di un fluido, non hanno in sé nulla di somigliante con un pensiero; e non si ostina a voler dedurre la natura di questo dalla natura di quelli; e si contenta di ammettere la sensazione, come un fatto di cui è certissimo, anche non sapendone altro. Sicché sembra come diceva, che il suo studio non sia per approdare a nulla mai, essendoché gli è pur forza prendere le mosse dal fatto della sensazione, e questa è, per sua stessa confessione, un fatto primordiale, che si apprende, ma di cui si ignora l’essenza e la causa nel senso proprio della parola.

Eh! Anche Newton, come vedemmo, è partito d’un fatto, che non poteva spiegare; il fatto della caduta dei corpi. Ma quel fatto, quantunque misterioso in se stesso, gli servì benissimo per isciogliere l’enigma dei cieli, e indovinarne il meccanismo. Identico è il caso del psicologo positivista. La sensazione è inspiegabile in se stessa, ma egli ne ha conoscenza, come di una realtà indubitabile, ben distinta da ogni altra, e di cui gli sono note le leggi; e in essa ha trovato la chiave, che lo abilita a districare la cifra, prima illegibile, dell’umano pensiero. Sicché, quantunque paresse al primo aspetto, che non sapesse proprio nulla, mostra poi in realtà di sapere già qualchecosa; non le cause e le essenze, no; ma pur qualchecosa, che i metafisici non sanno; e più assai è certo, che scoprirà in avvenire.

Egli sa quali siano gli elementi veri ed iniziali del pensiero, e quale la legge, secondo cui si combinano a formare i vari e mirabili suoi prodotti. Il fisico dice: Datemi la materia ed il movimento, ed io vi spiego tutti i fenomeni della natura. E il psicologo positivo alla sua volta: Datemi le sensazioni e l’associabilità loro, ed io vi spiego tutti i fenomeni della vita psichica. E come, per tal modo, al filosofo della natura è riuscito di togliere dalla scienza l’ingombro dei fluidi imponderabili e delle altre forze materiali, così il filosofo dello spirito ha potuto dimostrare, che ciò, che si dice attivo e passivo, conoscere sentire volere, senso ed intelletto, interno ed esterno, percepire ricordare immaginare astrarre, attenzione riflessione coscienza, giudizio raziocinio, e così via per tutte le cento facoltà degli aprioristi, non è infine, come sopra avvertimmo, che un processo diverso ottenuto coi medesimi dati elementari diversamente disposti. E il dato elementare non è ciò che si designa col nome di percezione, come i metafisici credono. Il positivista ha analizzato anche questo dato primo, questo atomo oscuro della vecchia psicologia. Ha fatto, relativamente ad essa, ciò che la scienza naturale relativamente all’atomo acqueo di Empedocle. Ha scoperto, come non sia semplice, ma prodigiosamente complessa.

La percezione ha luogo in seguito ad una sensazione, d’ordinario di più sensi in una volta. Ma essa non è dovuta soltanto alla sensazione presente di uno o più sensi, che rimane sempre di gran lunga il meno di ciò, che la costituisce. Ché, a formarla, concorrono variissime e numerosissime sensazioni già prima sperimentate, le quali, ridestandosi d’accordo più o meno intere, più o meno fuse tra di loro, di improvviso, per la eccitazione prodotta dallo stimolo esterno, si associano d’un tratto, con un ordine sorprendente, alla sensazione attuale, corredandola, per ogni sua parte, di mille particolarità, che la completano, intessendovi attorno una serie lunghissima di giudizi e di raziocinio, che non sono avvertiti da chi li fa, ma che danno alla percezione il valore che ha, e che furono rintracciati e messi in evidenza, massime riguardo alle percezioni visive, dalla sagacia della osservazione scientifica. La percezione dunque è già un tutto, non semplice, come si credeva; ma molto e molto complesso, pur considerando le dette innumerevoli sensazioni componenti, come dati elementari della rappresentazione psichica. Ma cresce la complessità straordinariamente, se si analizza la sensazione. Quella che si dice comunemente la sensazione di un senso è l’insieme delle tenuissime sensazioni distinte delle fibre nervose, che vi sono eccitate, le quali sono tante, che nel solo nervo ottico sommano, come si crede, a cinquecentomila. Arriviamo, come si vede, a delle piccolezze, a dei numeri, che confondono. E pure si può dire di più ancora. La chimica, come dicemmo sopra, non soffre ormai più di arrestarsi, all’atomo del cosidetto elemento, e cerca al di là di esso, nella omogeneità delle monadi eteree, il suo infinitamente piccolo. Anche la psicologia può osare qualche cosa di somigliante e cercare il suo infinitamente piccolo al di là di questi minutissimi elementi degli elementi delle percezioni. Ardirò io esporre qui una mia troppo temeraria idea? La scoperta di Newton relativa ai colori coma elementari, quella di Young della triplice natura dei bastoncini della retina, e l’altra di Helmholtz sui timbri dei corpi sonori fanno sospettare, che le differenze specifiche tra le diverse sensazioni elementari, come a dire la differenza tra un suono ed un colore, dipendano unicamente dalle combinazioni variate e, per così esprimermi, raddoppiate di un sol genere di sensazioni elementarissime.

L’associazione delle idee poi, nella quale, come diciamo, si riassume tutto il magistero degli atti psichici, non è mica una legge particolare del pensiero, onde questo si differenzi per essa dal resto delle cose. No. Fra le cose e il pensiero c’è una perfetta continuità anche per questo riguardo. L’associazione delle idee è una semplice applicazione, delle due maggiori leggi, che determinano la produzione dei fenomeni nell’universa natura; voglio dire la legge della latenza delle forze e quella della divisione del lavoro.

Se un fascio di luce solare cade sopra una foglia verde di un vegetale, la forza, che vi apporta, non vi si trasforma tutta in un modo. Una parte dei raggi ne è riflettuta, o vi passa attraverso; e può ancor illuminare a o riscaldare i corpi, a cui pervenga. Ma un’altra parte vi si arresta a dar nuova forma alle sostanze, che hanno da costituire la materia e i tessuti vegetali; nella quale forma dai raggi solari operata si può dire per ciò, che essi si trasmutino e si nascondano. Dico, si nascondono, e non, si distruggono; perché basta mettere ad ardere il vegetale per riavere di nuovo, in forma di luce e di calore, quella forza emanata dal sole, che vi si era celata. Analogo è il processo delle operazioni mentali. La forza, onde l’organo del senso è stimolato dal di fuori, e quella che corrisponde al consumo della materia nervosa messa in azione dallo stimolo, non si esaurisce nella sensazione cosciente, che ne consegue; una parte si fa, per così dire, latente, e si fissa in forma di tendenza od abitudine; ed è quella, per la quale diciamo, che una sensazione avuta si può ricordare, ossia riprodurre, senza che si rinnovi l’azione dell’oggetto sensibile esterno. Un pensiero, che si ricordi, non è una creazione dal nulla di una facoltà taumaturga, chiamata memoria, come volgarmente si crede; non è altro che una forza dissimulata, che riapparisce, come la fiamma ed il calore di un pezzo di legno, che si accenda.

Come poi la forza greggia, o ricevuta dal di fuori, o ammassata al di dentro, mediante i processi fisiologici, o messa in serbo ed impressa nella forma latente della memoria, della inclinazione, della abitudine, si metamorfizzi nelle svariatissime, maravigliose, infinite forme del pensiero, questo ci è spiegato per la legge della divisione del lavoro. Una massa d’acqua, che cada dall’alto perpendicolarmente sul fondo di un canale, dà una quantità di forza. Se nella caduta nulla si frappone, quella forza si converte, nella massima parte, in una maggiore velocità di corso dell’acqua del canale. Ma se c’è di mezzo un qualche ordigno atto a trasformarla, ne possono venire effetti assai più variati ed importanti. Mettiamovi, ad esempio, una ruota idraulica, a cui sia applicato un telajo alla Jacquard. L’acqua, cadendo, urta nelle pale della ruota, e questa gira. Il movimento di caduta si converte per tal modo in rotatorio. L’asse della ruota porta poi questo movimento fino al telaio, cioè a’ suoi diversi organi, nei quali prende modo e forma secondo la disposizione e la configurazione loro. Ogni organo del telajo ne piglia una parte e lo trasforma diversamente. Il subbio ed il carretto si muovono sopra se stessi con passo lento ed interrotto e ad intervalli misurati, svolgendo l’ordito e ravvolgendo il tessuto. I cartoni si presentano opportunamente ai licei, e questi sollevano i fili voluti dal disegno. E i battenti alternativamente fanno scattare la spola, che porta la trama avanti e indietro attraverso ai fili incrociati dell’orditura, per formare il tessuto; cioè un bel drappo a figure e fiorami disegnati, disposti e colorati artisticamente. Quale metamorfosi! Il semplice peso dell’acqua è diventato l’intreccio dei fili, la consistenza del tessuto, la bellezza del disegno, la vaghezza dei colori di un drappo prezioso. E il prodigio a che è dovuto? Non ad altro che alle forme e alle disposizioni convenienti degli organi molteplici e diversi del telajo, che si divisero tra loro la forza prestata dall’acqua cadente, e appropriandosela la convertirono in tanti diversi lavori sapientemente coordinati. Lo stesso avviene da per tutto nella natura. Ed io perciò la definirei una forza immensa spartita ed elaborata per organi infiniti. E ciò tanto per la natura inanimata, quanto per l’animata. Quella forza, che nel zoofito, stante l’imperfezione degli ordigni in cui si incontra, non si trasmuta, che in una sensazione ottusissima, nell’uomo, che presenta una organizzazione assai più complicata e finita, può tradursi nella meditazione del filosofo, nell’estro dell’artista, nella virtù eroica di chi dà la sua vita per un’idea. Grandissima è la differenza, che corre tra un drappo sortito da un telajo Jacquard e la tela esilissima tesa silenziosamente per aria da un piccolissimo ragno; assai più grande, anzi infinita, se si vuole, tra questa e un’opera dell’umano pensiero, come sarebbe l’Iliade d’Omero, il Furioso dell’Ariosto, i Dialoghi di Platone e la Critica della ragion pura di Kant; ma l’analogia è perfetta e la legge dirigente i processi di formazione è la medesima.



Parte quinta: La psicologia positiva e i problemi della filosofia



E pare adunque veramente, che il positivista, del quale, vedendo che incomincia da un semplice e volgare fenomeno in sé inspiegabile, ciascuno avrebbe detto, che non sarebbe mai venuto a capo di saper nulla, sia poi invece arrivato a conoscere, e positivamente, qualche cosa. Non le essenze e le cause: No; ma pur qualche cosa. Vale a dire, che siano e come si formino la percezione e tutte quelle altre, che un tempo si chiamavano le finzioni speciali delle diverse facoltà dello spirito, e che in realtà non sono, se non le combinazioni svariate di un solo genere di elementi, gli elementi della sensazione; e come il numero di tali elementi sia oltremodo grande, e bastino essi soli, allargato opportunamente e variato il piano degli intrecci, a generare tutte le produzioni dell’umano pensiero, anche le più elevate e caratteristiche.

Tali cognizioni del positivista, non lo neghiamo, sono molto umili e da poco verso le teorie grandiose e seducenti, onde i metafisici si vantarono di avere chiarito i punti più sublimi e trascendenti della filosofia. Ma, dove queste scientificamente non hanno valore, perché contraddette dai fatti e non vere, quelle, e sono certe per se stesse, e contengono nel loro seno fecondo l’avvenire della scienza; come l’avvenire delle discipline naturali era contenuto negli insegnamenti modestissimi di Galileo sulla caduta dei corpi. I sistemi dei psicologi aprioristi, quantunque magnifici e finiti in ogni parte, non hanno in effetto spiegato nulla, come vedemmo; nemmeno gli elementi e il meccanismo del pensiero, e le sue gradazioni e varietà negli animali in genere e nell’uomo in particolare. E servirono soltanto a creare delle questioni insolubili; veri lacci tesi, senza speranza di scampo, a se stessi; come quelle che dividono gli spiritualisti dai materialisti, i moralisti dagli immoralisti. E, condotta la scienza a perdersi nell’idealismo, la resero irrimediabilmente scettica. Invece i poveri dati empirici del filosofo della osservazione gli hanno già indicato qualche cosa del magistero divinamente semplice ed immenso della operazione psichica e, in esso, la ragione de’ suoi aspetti infinitamente vari, dei suoi sviluppi infinitamente graduati; come apparisce dalle cose dette sopra. Non solo; ma quei dati stessi possono già anche fargli intravvedere la soluzione dei grandi problemi suaccennati; e, tolta l’illusione idealistica, salvarlo dallo scetticismo; come apparirà da ciò, che sono per dire in questo paragrafo. E più ancora, come dimostrerò poi nell’ultimo, che segue, possono quei medesimi dati, mediante i concetti semplici che riassumono le somiglianze, le coesistenze e le successioni dei fenomeni, fargli abbracciare la totalità della varia e molteplice natura, come unità di essere, come ordine di cose, e come armonia di forze.

Come dico, il positivista (e nessun altro fuori di lui) può già avere la speranza di sciogliere le questioni materialistica, morale, idealistica e dello scetticismo. Perché non si creda l’affermazione o vana o temeraria, ne dirò qualche cosa, cominciando dalla prima. Non si può negare, che gli spiritualisti d’oggi non si siano vantaggiati d’assai sopra gli antichi, nella lotta contro i materialisti; quantunque della presente loro più favorevole posizione siano debitori, non agli ajuti della speculazione metafisica, ma a quelli della osservazione positiva, dalla quale presero a prestito molto opportunamente la dottrina della relatività delle idee. Il materialismo, quale era in passato, noti ha potuto tenere contro l’idea relativistica della sensazione, e fu costretto a riformarsi, e ad ammettere che l’atto psichico, come tale, non è, né una estensione, né un movimento; cioè nessuna di quelle determinazioni, che compongono il concetto della materia, come tale; in una parola, che il pensiero non ha nulla di materiale. Ma non fu vinto per questo; esso, benché trasformato, si sostiene oggi, intero e formidabile, come prima, e atto a vincere gli avversari in tutti i loro trinceramenti.

Professano essi, da veri spiritualisti compiti, l’intellettualismo? Il materialista dimostra, che le idee non richiedono una facoltà speciale e diversa da quella della sensibilità, perché non sono, se non le stesse sensazioni associate. Cedono un poco e si contentano di essere sensisti? Egli accampa l’analogia perfetta fra la vita psichica dell’uomo e quella di qualunque altro essere animato, e quindi la necessità di togliere ogni assoluta distinzione di natura fra l’anima del primo e quella di tutti gli altri. Si contentano, facendo un altro passo indietro, di porre nella medesima categoria lo spirito divino dell’uomo e l’anima di fango del lombrico e della monade microscopica? Egli nota la corrispondenza costante, perfetta, immancabile delle condizioni fisiche colle morali, e quindi l’impossibilità assoluta di considerare l’anima, come una esistenza indipendente dalla materia. Fanno ancora una concessione, ammettendo che una sostanza a sé, opposta al corpo e assai più nobile di esso e destinata ad avere una propria vita immortale e celeste, quale vogliono che sia l’anima, per un ordine stranissimo ed inconcepibile di cose, gli debba interamente (dico interamente) la determinazione, la forma, la energia delle sue proprie manifestazioni? Egli enumera i fatti, che sforzano di estendere alla vita psichica la legge della conversione delle forze, e quelli, che conducono a riferire le forme psichiche, non alla natura particolare di uno spirito di cui siano proprie, ma alla disposizione degli organi, nella quale è tutta la ragione di esse; e conchiude, con logica rigorosa, essere la realtà psichica il puro equivalente della fisica degli stessi organi; enumera ancora, e soprattutto, quei fatti, che attestano essere l’unità della coscienza una unità di composizione; e conchiude, con logica irreprensibile, essere inammissibile il concetto, che fa dell’anima una entità individua ed inscindibile. E così è tolta allo spiritualismo anche l’ultima ragione di affermarsi.

Ma anche il materialismo è una teoria incompleta ed unilaterale; e chi vuol tener conto del lato mancante, ricade per necessità nello spiritualismo. Sicché la scienza, con isforzo sterile e vano, senza posa si dibatte, con un giro che torna eternamente sopra se stesso, fra i due estremi; ciascuno dei quali, impotente a sciogliere da sé il problema, vale solo a combattere l’opposto. Impossibile liberare il ragionamento scientifico dal laccio, che lo inceppa; impossibile trovare la soluzione definitiva del gravissimo problema, se non elevandosi al dissopra dei due concetti deficienti ed esclusivi; e, per mezzo dell’idea psicofisica, far convergere, secondo il processo da noi divisato, i due veri in una sintesi sola, nella quale e si completino e si accordino a vicenda.

Insolubile del pari era nella passata filosofia il problema morale. Per gli uni l’atto morale è il prodotto della concorrenza di tre fattori distinti, diversi e nel loro essere separati; la volontà libera, l’idealità regolatrice e l’affetto movente. Per gli altri resta la trinità dei termini, e se ne muta soltanto, più o meno radicalmente, la natura, l’importanza, l’ufficio. Col sistema dei primi l’atto morale vien fuori benissimo; coi sistemi degli altri riesce, o travisato, o tolto. Ma, dove presso quelli i concetti dei termini integranti non hanno altro fondamento, che la falsa apparenza volgare dell’essere, presso gli ultimi corrispondono in generale assai più alla recondita verità, rivelantesi soltanto alle indagini laboriose della scienza.

La filosofia positiva ha distrutto la trinità fittizia dei termini suaccennati; e quindi la discussione scientifica ha potuto uscire una volta dal vecchio circolo, nel quale prima era imprigionata, senza speranza di uscita. La rappresentazione mentale regolatrice si riduce all’effetto dell’impressione delle cose esterne sui sensi; l’atto esecutore, alla traduzione di una disposizione organica centrale in un movimento periferico; la relazione tra quella e questo, ad una continuità di azione fisiologica, per cui l’un movimento si converte nell’altro, come nel telegrafo elettrico l’atto di scrivere di una stazione, pel filo, diventa alla stazione opposta l’atto di essere scritto.

E con ciò quante difficoltà insuperabili eliminate! Come le seguenti. È egli possibile un atto libero, cioè determinato, non da un atto precedente, ma da se stesso; ossia un effetto senza causa? Qual’è il vincolo misterioso, che lega insieme la legge, il motivo e la volontà, sicché nessuno dei termini mai manchi all’occorrenza, e uno abbia presa sull’altro? E come si accordano le due proposizioni, perché la volontà si determini occorre il motivo, e, la moralità, consiste propriamente nell’eseguire la legge per la legge e non pei motivi? E tutte quelle altre circa la natura dell’idea obbligante e dell’affetto impellente; e soprattutto, circa il fatto stesso della manifestazione morale. Della quale si sa, che non è un fenomeno che apparisca bruscamente, senza analogia altrove; solo nell’uomo, e che in esso non si riscontra sempre nella specialità propria di lui; il che dovrebbe pur essere nella ipotesi, che sia l’effetto di facoltà esclusivamente umane. Si sa, cioè, esservi una gradazione insensibilmente crescente; da una parte, dall’infimo degli animali all’uomo, la cui attività libera riesce come una ultima e più piena espressione di ciò, che negli animali inferiori esiste solo quale inizio ed abbozzo; e dall’altra, nell’uomo stesso, sia per le diverse età, nelle quali lo sviluppo morale, dallo stato meramente potenziale del bambino, cresce e di nuovo si diminuisce di conserva colle forze fisiche, sia per diverse condizioni accidentali dell’organismo, per le quali può lentamente ecclissarsi e riapparire e divenire subitamente or più or meno. Tutte siffatte questioni, che si attraversavano senza rimedio alle filosofie morali degli antichi, restano eliminate per la teorica positiva della operazione psichica.

Inoltre la nostra filosofia sperimentale, senza uscire da’ suoi dati semplicissimi, - le sensazioni e l’associazione loro, ingrandita e variata colla divisione del lavoro fisiologico -, dati sui quali non può cadere discussione, tanto sono certi, senza uscire a essi, trova a spiegazione del fatto morale. Lo ripeto: I vecchi moralisti lo spiegano, ma i loro dati sono insussistenti; gli avversari di quelli tengono a sostituire dati meno infondati, ma non lo spiegano; noi, e partiamo da dati positivi, e lo spieghiamo. E come?

Ogni rappresentazione psichica ha una propria impulsività Volontaria. Assolutamente parlando, data una rappresentazione, non è necessario ricorrere ad un motivo che la renda efficace, ed una volontà che aggiunga la spinta della sua causalità, per avere lo sforzo, dal di dentro al di fuori, che la segue. Il fatto, che in un caso speciale una data determinazione volontaria non può aver luogo, se non accedendo ad una data rappresentazione, uno di quelli che si chiamano motivi determinanti, non distrugge il nostro asserto, ma lo conferma. Nel caso addotto si ha una rappresentazione la cui impulsività è, dinamicamente parlando, impari alla determinazione seguita. Aggiungendo il motivo, che non è poi altro, se non una seconda rappresentazione, si hanno due impulsività, invece di una; le quali, sommate assieme, valgono appunto l’atto della determinazione, che ne emerge. Ho detto, che ogni rappresentazione psichica ha una sua impulsività volontaria. Non può restare dubbio intorno a tale principio se si osserva, che ogni sensazione, la quale è un movimento sorto per la spinta dal di fuori e, durato e cresciuto a spese della sostanza dell’organo relativo, per legge fisiologica si trasforma, in modo analogo a ciò che avviene nel resto della natura, propagandosi in movimenti degli organi collaterali e dei muscoli; e che quanto si dice della sensazione ricevuta vale anche per la sensazione ricordata, o sola o associata; e che le idee non sono, se non associazioni di sensazioni. Per cui, data un’idea, se uno si determina per essa, non c’è bisogno di ricorrere ad altro per dar ragione dell’atto volontario; la ragione dell’atto è la stessa impulsività dell’idea; ossia una forza che si converte. Non dico con ciò, che l’uomo d’ordinario sia mosso nelle sue azioni puramente e semplicemente dalle idee propriamente dette, massime se oggettive e disinteressate. Tutt’altro. L’impulsività dell’idea propriamente detta, cioè dell’astratto, è d’ordinario debolissima. La più forte impulsività è quella della sensazione attualmente impressa, per la semplice ragione, che essa consiste in un movimento più vibrato e intenso. Diminuisce l’intensità e quindi l’impulsività nelle sensazioni integralmente riprodotte; ed è minima in quella riproduzione leggerissima, parziale ed imperfettissima di molte sensazioni, che si chiama idea. Ed in ciò è la spiegazione di quel fatto per gli antichi misteriosissimo, per cui il cosidetto appetito sensitivo, malgrado la sua viltà, come la qualificavano, esercita sulla volontà un impero immensamente maggiore che non quell’appetito, che gli contrapponevano, cioè l’intellettivo, malgrado la quasi divina natura, che vi attribuivano. Ma è possibile un tale rafforzamento della impulsività delle idee da renderle, e anche con molta violenza, operative per sé, ed indipendentemente da qualsiasi altro ajuto morale. L’esperienza individuale, l’esempio degli altri e la storia ci mostrano quanto, per l’educazione, per l’abitudine e per altre circostanze, si possa rendere viva in un uomo la rappresentazione di una idea astratta, e quindi la coscienza della sua verità, bellezza e bontà (tutte parole che indicano dei rispetti e degli effetti psichici diversi di una cosa medesima), ed eliminare ogni impedimento della sua azione motrice, e farle acquistare una efficacia determinante (onde è detta obbligare) pari e anche superiore a quella dei concreti sentiti o ricordati i più imperiosi ed energici, coll’effetto di lasciare dietro a sé un sentimento di soddisfazione pura e nobilitante di particolare natura, che viene ad esserne la conseguenza ovvero la sanzione soggettiva. È questo ciò che volevano dire Pietro Pomponazzi e Benedetto Spinoza, e i pochi altri, che, come loro, con santo e sublime insegnamento sostennero, avere la virtù abbastanza in se stessa, senza ricorrere ad altro, per ottenere l’ossequio e l’ubbidienza dell’arbitrio dell’uomo. L’impulsività psico-fisiologica delle idee; ecco il concetto nuovo e positivo atto a sciogliere il grande problema. Secondo il quale concetto la moralità si potrebbe definire un indirizzo psichico tale, che l’impulsività dell’idea prevalga nel contrasto colle altre rappresentazioni, tanto da riescire a dare più o meno completamente il proprio indirizzo all’azione.

Tale definizione non solo corrisponde al concetto comune della moralità, ma soddisfa pienamente a tutte le esigenze della psicologia comparata, dei veri parziali contenuti nelle differenti teorie etiche, e della coscienza universale. Essa corrisponde al concetto comune della moralità, secondo il quale vi si richiede e l’idea e la lotta per effettuarla. Essa soddisfa poi anche alle esigenze della psicologia comparata. La moralità propriamente detta si riscontra solo nell’uomo, e precisamente nell’uomo sano di mente, adulto e civile. Ma nello stesso tempo non si può non ammettere una certa semimoralità nelle azioni degli animali più vicini all’uomo. Il contegno di ogni uomo, massime se non pregiudicato da sistemi preconcetti, coi detti animali, lo esige assolutamente. Ora, siccome la moralità nel suo senso più ristretto non si può avere, secondo la definizione data, se non dove sono le idealità più elevate, e queste sono proprie massimamente dell’uomo adulto e civile; e inoltre la moralità stessa non è se non dove è possibile il contrasto e la prevalenza loro, vale a dire dove non è turbato o impedito il processo normale, onde possono ed essere richiamate alla memoria e rinforzate coll’attenzione, e produrre il loro naturale effetto, e ciò accade nell’uomo sano e valido mente, così si giustifica per tal modo la prima parte del fatto segnalato. E per contrario, siccome gli animali non parlanti, se non possono arrivare alle associazioni superiori e perfette delle idee umane, e a delle abitudini mentali che le rinforzino di fronte alla violenza degli affetti brutali che tendono a precipitare e ad imporre la deliberazione, si formano però indubbiamente anch’essi, e tanto più quanto si avvicinano maggiormente all’uomo, delle generalità regolatrici, che nella loro immaginativa, con giuoco analogo a quello che ha luogo nell’uomo, si presentano in contesto con altre rappresentazioni, sia contrastandole, sia nella relazione di mezzo e di fine, così si giustifica pure la seconda parte del fatto stesso sopra enunciato. Sempre si verifica, che la moralità va di pari passo coll’idealità. Dove è idealità completa, la moralità è perfetta; è imperfetta, dove è incompleta. Perciò, se paragoniamo col tipo perfetto dell’essere morale (la persona responsabile), cioè coll’uomo adulto, sano, civile e bene educato, il selvaggio, il barbaro, il bambino, troviamo che a questi mancano, per esserlo del pari, le idee che non hanno ancora acquistato; e se col medesimo paragoniamo il bruto, troviamo che esso, mentre gli mancano per esserlo allo stesso modo le idee umane che non può acquistare, non è pur privo di idee sue, meno elevate, per le quali la sua azione ha, non metaforicamente, ma in senso esatto, il carattere di una moralità imperfetta, e quindi la sua individualità una semiresponsabilità.

Ancora, la nostra definizione soddisfa alle esigenze dei veri parziali contenuti nelle diverse teorie etiche. L’impellenza in una azione data non viene, si può dire, mai da una rappresentazione unica. Ancor meno si verifica, che, in una serie di azioni, queste siano tutte l’equivalente delle medesime rappresentazioni. L’azione è sempre l’equivalente di un gruppo più o meno complesso di atti rappresentativi della coscienza, quali più e quali meno vivaci e sentiti. Concorrono a formarlo (succedendosi e avvicendandosi variissimamente tra loro da una azione all’altra) e sensazioni attuali, e ricordanze di sensazioni passate e associazioni fisse, e astratti di più sorta. Non solo gli astratti più elevati e nobili, rappresentanti le cose nel loro aspetto oggettivo, cioè le idee nel senso più rigoroso (ciò che i moralisti nel rispetto qui considerato direbbero, il bene), ma anche gli egoistici e meno nobili, vale a dire quelli che riassumono le relazioni e gli stati puramente soggettivi (indicati nella parola utile). Il modo dell’aggruppamento, e il predominio dell’uno o dell’altro dei componenti, dipendono dalle circostanze del momento e dalle abitudini. Ecco la ragione dei molti e diversi imperativi stabiliti dai moralisti. Si potrebbe dire, che tutti sono veri, in quanto il movente morale assegnato da ciascheduno è dato veramente dalla osservazione del fatto reale; ma che tutti hanno il gravissimo difetto di essere esclusivi, in quanto ne negano altri pur veri e soprattutto se non tengono il conto dovuto della idealità schietta e disinteressata, che conferisce il vero suo carattere distintivo all’azione umana e morale, come tale; che sempre, se anche il più delle volte debolissimamente (anche se come semplice protesta contro la deliberazione antiideale), concorre alla produzione dell’atto.

Dico, che è certo, che vi concorre sempre l’idealità disinteressata ossia oggettiva, come è certo, che l’apprensione cogitativa, umana è (formata che sia) essenzialmente ed inevitabilmente bilaterale; rinchiudente cioè l’interno e l’esterno; e che, tanto l’uno quanto l’altro, ha la sua parte di equivalenza, che non può essere distrutta o dissimulata, come nella bilancia non si può dissimulare nessuno dei pesi, che vi sono messi sopra. Se, come avviene però qualche volta incontrastabilmente, l’impulsività dell’idea ingenua e pura da sentimenti egoistici non è assai forte e palese, e non agisce sola senza e malgrado l’impulso voluttuoso, ma è invece quasi sempre debolissima e nascosta, ciò non autorizza a negarne la presenza e la recondita efficacia sulla volontà, bastante per dare all’azione il suo carattere speciale di atto morale, ossia ideale. Il concorso di altre e più forti rappresentazioni, nel disegno della natura, non elide, nella totalità di esso, l’idealità, ma le è di ajuto. Così nella pianta, per ispiegare meglio il mio pensiero con un esempio preso a caso, la forza specifica direttiva dello sviluppo, a cui si deve la sua forma ritraente il tipo della specie, forza specifica consistente nella predisposizione organica delle parti componenti, quantunque impotente da sé, senza il calore e la luce, senza l’acqua e l’aria, e via dicendo, a produrre lo svolgimento vegetale, anzi quantunque minore intensivamente di ognuna delle dette forze concorrenti, basta però a dar loro la direzione e ad ottenerne un lavoro, che non ha l’impronta di esse, ma la propria.

Anche nel dire idealità, il filosofo positivo esprime un concetto armonizzante i veri imperfetti di diverse scuole. La scuola psicologica dà l’idea, come una mera forma del tutto soggettiva, accidentale e variabile del pensiero. La scuola ontologica le assegna un valore oggettivo, immutabile ed assoluto. La scuola storica ricorre per ispiegarla alle relazioni dell’uomo colle condizioni esterne in cui vive; per cui le attribuisce una semioggettività, e la considera, da una parte contro i psicologi, non una creazione facile ed effimera dell’individuo, ma una produzione faticosa, lenta e durevole della società, e dall’altra contro gli ontologi, non una intuizione che la riveli d’un tratto nella sua interezza ed in una forma unica sempre e per tutti, ma una formazione progressiva e varia, che incomincia dall’abbozzo per venire al lavoro sempre più finito; e che riesce con aspetti diversi, secondo le circostanze differenti dalle quali dipende. Or bene anche pel filosofo positivo l’idea è una formazione lenta, progressiva, durevole, non dell’individuo, ma della società, e dipendente dalle esterne condizioni di essa, ma solo in quanto queste condizioni esterne e l’opera sociale giovano a dare eccitamento e rinforzo al pensiero individuale, il quale è il vero fattore dell’idea, secondo che dicono giustamente i psicologisti. Ma l’individuo e la società, producendo l’idea, non fanno opera capricciosa, ed avente solo valore momentaneo e soggettivo. No: Tale lavoro ha la sua ragione nella stessa natura per la quale agiscono, come la forma che assume il seme germogliando. E come la forma assunta dal seme per la germogliazione, più che se stessa, rappresenta quell’ordine di cose, che ha determinato la formazione della specie vegetale a cui appartiene, così l’idea di un uomo, più che l’operazione accidentale, soggettiva, variabilissima di esso, rappresenta, secondo che dicono giustamente gli ontologisti, quell’ordine assoluto e immutabile, almeno quanto la natura, nel quale è la ragione oggettiva del fatto particolare, che consideriamo.

Finalmente la nostra definizione soddisfa alle esigenze vere della coscienza universale. Per la quale, da prima, l’azione morale è una azione libera. Ma che ci dice effettivamente siffatta coscienza, chiamando libera l’azione morale? In primo luogo ci dice, che la deliberazione precedente il movimento volontario è un atto più o meno distante da quel primo fatto mentale, che le ha dato occasione; e che tra la deliberazione stessa e quel fatto mentale può intercedere una successione anche lunga di pensieri, il cui corso non è determinato impreteribilmente dal primo, ma si può svolgere in serie oltremodo variate; sicché la connessione dell’un pensiero coll’altro, in un dato giro di essi precedente una deliberazione, è fortuita, cioè rappresenta uno solo dei moltissimi e pressoché infiniti casi possibili di associazione. Il che dà all’azione umana (massimamente se la si considera nell’uomo adulto, civile, sano e nello stato ordinario della vita) un carattere speciale, che la differenzia immensamente dalle azioni puramente fisiche e anche da quelle dei bruti. Dalle azioni puramente fisiche, nelle quali si riscontra un ordine di causalità consistente in moti materiali e predeterminato indeclinabilmente dalle leggi conosciute della natura; e dalle azioni dei bruti, nei quali il minore sviluppo delle associazioni mentali e degli abiti relativi lascia troppa preponderanza alla impulsività sensitiva ed affettiva, d’altronde fortissima in essi, e quindi assai minor campo alle possibilità delle associazioni e delle variazioni di esse.

Ecco ciò che ci dice la coscienza universale relativamente all’azione morale. In ciò essa ci attesta con autorità irrefragabile un fatto verissimo che noi non possiamo, se non riconoscere. Ma questo fatto come lo spiega la scienza? La scienza insegna, che la connessione tra un pensiero che viene e un altro che gli succede è governata, come in tutti gli altri fenomeni della natura, dalla legge inviolabile della causalità; ma che l’organismo psichico, essendo complicatissimo e mobilissimo nelle sue parti, si presta con una facilità estrema ad una infinità di combinazioni; e che quindi la più piccola variazione delle circostanze può indurre un movimento complessivo dissomigliantissimo. E da ciò provenire, che anche nell’uomo ciò, che si dice la sua libertà, si osserva specialmente, non nel bambino, nel selvaggio o nel barbaro, in cui il poco sviluppo mentale lascia sussistere uno stato analogo a quello del bruto, e neanche nell’alienato, e in quello che è in preda ad una passione, nei quali un vizio organico o una eccitazione anormale impedisce il libero giuoco delle rappresentazioni, ma nell’uomo adulto e civile e sano e calmo. In esso la moltiplicità straordinaria degli elementi mentali permette un numero di combinazioni infinitamente maggiore; cosa resa più facile dallo stato e dalla disposizione degli organi, per cui le impressioni o le rimembranze, né sono troppo deboli, né troppo forti e durevoli, e le comunicazioni sono facili e spedite, e gli abiti contratti hanno dato alle idealità la forza di competere in energia motrice colle intense vibrazioni del senso e dell’affetto. Si vede anche quanto ragionevolmente si dica, che la libertà e quindi la moralità negli uomini e nelle nazioni cresce in ragione, non solo delle nuove idee che vanno acquistando, ma anche dell’agiatezza; perché questa procura una maggiore validità organica e quindi anche psichica e rende più rari i casi di quegli stati di tristezza o di passioni feroci, che turbano le funzioni normali dell’intelligenza.

Così, secondo la verità, spiega la scienza il fatto, attestato dalla coscienza comune, della successione apparentemente fortuita e capricciosa, dei pensieri, percorrenti la deliberazione. Ma anche la coscienza vuole spiegarlo quel fatto. Ed è nella sua spiegazione che si inganna. Si inganna, perché tale sua spiegazione è basata su ciò che non le apparisce realmente, e intorno a cui fa arbitrariamente delle supposizioni non vere. La coscienza non si avvede dei movimenti fisiologici, che danno origine ai diversi pensieri ed alle loro diverse associazioni. E per ciò per essa non esiste il nesso causale tra pensiero e pensiero, e tra le serie di essi e la deliberazione, a cui riescono, è irregolare e disordinato il seguito dei pensieri? È il cieco caso che l’ha prodotto. Sorge nella mente un pensiero buono a dominare gli altri? È un genio buono che l’ha inspirato. Sorge invece un pensiero malvagio? L’inspirazione viene da un genio cattivo. Si accompagna all’idea di un fine l’idea del mezzo che vi conduce? Ciò, non si attribuisce, come si dovrebbe, alla semplice legge dell’associazione delle idee, e agli effetti dell’attenzione, ossia del rinforzamento di un atto mentale, ma all’intervento della volontà che si compiaccia di fare, senza che nulla la costringa a quella distribuzione. Tali sbagli la coscienza non li commette solo a proposito del pensiero. Essa li commette sempre, quando si trova a fronte di serie di fenomeni, dei quali la causa non è manifesta, come avviene nei meteorologici. Identico nei due casi è il motivo dell’errore; e sopra abbiamo dimostrato come somigliante sia anche il rimedio, onde la scienza l’ha corretto nell’uno e nell’altro.

Chiamando libera l’azione morale, la coscienza ci dice poi anche in secondo luogo, che l’atto volontario, che eseguisce la deliberazione presa e muove, è sentito, non come un fatto prodotto da un fatto precedente, ma solo in sé e da sé. Dice altro su ciò la coscienza? No. Ora si può domandare, se la circostanza, che i fatti produttori di tale atto volontario non son sentiti, basti per escluderli, e per istabilire la sua indipendenza da ogni causa efficiente estrinseca? No certamente. La finzione fisiologica, in virtù della quale alla rappresentazione segue il suo atto riflesso corrispondente, non l’avvertiamo, e quindi non possiamo apprenderla, come causa di esso atto; allo stesso modo, che, per la identica ragione, non possiamo apprendere, come cause immediate della nostra sensazione del suono le vibrazioni dell’aria, che non vediamo. Se non che, nel caso del suono, commettendo lo sbaglio di riferirlo all’oggetto sonoro e a ciò che opera su di esso, evitiamo l’errore di supporlo non prodotto da una causa; mentre nel caso del volere, riferendone l’atto, per la illusione sopra chiarita, all’anima, e immaginando o come erompente dal seno di essa, restiamo coll’idea falsa, che sia essa anima, che, senza esservi costretta, lo produca per propria virtù, come e quando le piaccia di farlo. Del resto però la stessa coscienza universale corregge in parte per altra via l’orrore. Ché, se non concepisce un ordine di causalità in un dato atto particolare, lo concepisce tuttavia nella generalità degli atti, relativamente alla quale, non c’è nessuno, che non si sia avvezzato a pensare, che, poste certe circostanze, l’uomo agisce in un certo modo. Abitudine questa di pensare che ebbe una luminosa conferma nei risultati della statistica.

Per la coscienza universale poi all’atto morale si collegano anche i concetti della imputabilità e della sanzione. Il primo importa una certa speciale eccellenza o spregevolezza della persona attrice. Il secondo un rapporto dell’atto morale con un vantaggio o un danno che ridonda, che si è disposti a recare, o che si desidera che tocchi o sia apportato alla persona medesima. Ora egli è ben naturale, che all’atto umano, quale l’abbiamo designato, consegua una ragione di lode o di biasimo. Si loda o si dispetta l’atto, secondo che è morale o immorale, come si loda in generale o si dispetta una cosa che ha una qualche ragione di eccellenza o di deformità. E ciò tanto più quanto maggiore è la relazione del pregio o del difetto della cosa, coll’utilità o col piacere proprio. La specialità del pregio o del difetto proprio dell’atto umano dipende dalla specialità di esso atto; specialità, che non vien meno, come abbiamo veduto, anche intendendo la libertà nel modo detto sopra. Più si diverge da tale specialità di azione, come andando dall’atto umano per gli atti degli animali e dei vegetali fino all’atto puramente fisico, e più l’apprezzamento si fa diverso. Più invece ci avviciniamo ad esso, come venendo dall’atto fisico all’umano, e più l’apprezzamento si fa somigliante. Se la specialità dell’apprezzamento morale dipende dal riconoscervici la libertà nel senso ordinario, libertà che apparterrebbe esclusivamente all’uomo, come si spiega allora il fatto dell’apprezzamento morale applicato agli altri animali e sempre più acquistante per gradi insensibili il carattere di quello che si applica all’uomo, secondo che cresce la somiglianza loro con lui? Poiché chi negherà, che l’uomo non pregiudicato da una dottrina, che gli prema di far valere, ma giudicante spassionatamente secondo il dettame naturale, trattando cogli altri animali, specialmente se più vicini a lui e domestici, fa uso ne’ suoi giudizi delle azioni loro di un criterio analogo a quello, onde fa stima delle umane? Che se l’apprezzamento dell’atto morale non è un apprezzamento freddo e di puro raziocinio, ma vi entra e fortemente e in guisa speciale l’affetto, ciò proviene dalle relazioni sue speciali di utilità, e dalla facilità somma onde alla vista di quello che fanno gli altri si ridestano in noi, con moti di simpatia o di antipatia, pensieri ed affetti consuonanti. Il che poi, se ha luogo più fortemente in occasione delle azioni umane, si osserva però anche per le azioni dei bruti. Chi non sa, che un uomo, e tanto più quanto ha migliore la cultura e l’educazione, può appassionarsi e prender partito anche per essi? Che più? Egli lo fa anche per le cose inanimate. I poeti ne offrono esempi senza numero; il fanciullo, la donnicciuola, perfino l’uomo serio hanno ad ogni momento delle tenerezze e degli sdegni, non solo per l’uomo e pel bruto, ma anche per l’oggetto inanimato, col quale si imbattono.

E ciò va ricordato anche parlando della sanzione. La quale o è la semplice difesa, come si verifica nell’azione punitrice della legge pubblica, che, essendo impersonale, è solamente logica e niente affettiva, o, se è personale, è accompagnata dal sentimento dell’ira, col quale la punizione anziché difesa, è vendetta, o dal sentimento dell’amore col quale il premio, anziché incoraggiamento, è ricompensa. Ma l’ira e l’amore nell’uomo, come dicevamo or ora, non si sviluppano soltanto in occasione dei cosidetti atti liberi dell’uomo, ma pur anco per quelli dei bruti, e perfino per le cose inanimate. Il fiore, che rallegra la vista e mena un odore gradito, lo si difende, con un vero senso di pietà, dall’arsura e dal gelo; uno stromento, che non serve bene in un’opera, per isdegno lo si spezza. Il bruto, seguendo un istinto non diverso, fa altrettanto; egli premia e si vendica, né più né meno dell’uomo. Si vendica contro di lui, contro un altro bruto, contro la pietra che gli è scagliata contro. Ma basti per ora di questo argomento, che è troppo vasto per poter essere trattato convenientemente in questo luogo. Basti averne toccato quel tanto che occorreva per dimostrare, che, mentre i vecchi sistemi dell’etica, anziché scioglierne il problema, l’avevano inceppato in difficoltà insormontabili, la filosofia induttiva, può e rispondere a tutte le vecchie obiezioni e chiarire la questione capitale della scienza, mediante un concetto positivo della moralità, quello fondato sulla impulsività fisiologica dell’idealità mentale, che corrisponde perfettamente al concetto comune di essa, e soddisfa pienamente a tutte le esigenze della psicologia comparata, dei veri parziali contenuti nelle differenti teorie etiche, e della coscienza universale.

Ora poi, da ultimo, dell’idealismo e dello scetticismo. Come dicemmo poc’anzi, la scoperta della relatività delle idee ajutò i psicologi spiritualisti a difendersi un poco dal materialismo. Ma nello stesso tempo indusse un inconveniente gravissimo, l’idealismo. Dal punto di vista dei psicologi metafisici l’idealismo è la conseguenza diretta, affatto logica, inevitabile ed invincibile della relatività delle idee. La relatività insegnata da Locke produsse l’idealismo di Berkeley, quella insegnata da Kant, produsse l’idealismo di Fichte. Ma l’idealismo conduce poi irreparabilmente allo scetticismo. Lo dimostra col fatto la storia della filosofia e il discorso logico con un ragionamento il più semplice ed evidente. Se, come insegna la psicologia dei metafisici, la rappresentazione è essenzialmente rappresentazione in un soggetto, e, per la dottrina della relatività, la stessa rappresentazione è altra cosa e in tutto dissimile dalla cosa rappresentata, essa non può darmi l’oggetto; e neanco lo stesso soggetto, come cosa in sé, cioè avente un valore oggettivo; or bene, una effigie mentale, che si riferisce essenzialmente ad un oggetto, del quale deve essere la rappresentazione, e cui nello stesso tempo è incapace di rappresentare; che è ciò, se non precisamente lo scetticismo?

Mirabile a dirsi! La deduzione del metafisico, mercé le sue pretese idee assolute, necessarie, universali, eterne, doveva, essa sola, poter salvare la scienza dal dubbio; e procacciarle la consolazione ineffabile della luce sovrumana della evidenza apodittica, unica guida, a suo dire, sincera, certa e costante tra le fallacie le contraddizioni, e la vicenda instabilissima delle fenomenalità; e invece si trova, che conduce direttamente e immancabilmente allo scetticismo. E come dunque ne scamperà? L’unico scampo è nella induzione positiva. Il fenomeno osservato, esso solo, può dare ciò, che invano si va a cercare nelle idealità ontologiche; la certezza scientifica e la confutazione dello scetticismo. Ciò che soprá con lungo discorso, affermammo, qui, con un nuovo argomento, confermiamo. La dottrina della relatività evita l’idealismo solo in mano al positivista. Pel quale, essendo l’idea del soggetto, non un dato primitivo, ma una mera abitudine di considerare certi pensieri in una certa relazione fra loro e cogli altri, ciò che si chiama rappresentazione non è, primitivamente ed essenzialmente, una appartenenza di un soggetto. Ma è una realtà per se stessa, e che, per essere concepita come tale, non ha bisogno di essere riferita né ad un soggetto di cui sia il modo di esistere, né ad un oggetto di cui sia l’immagine. E quindi il suo valore, come cognizione, non dipende dalla somiglianza con un oggetto, ma è assoluto. La cognizione è vera per se stessa. La sua verità non consiste in una supposta corrispondenza con un termine opposto; corrispondenza, che, essendo indimostrabile, induce necessariamente lo scetticismo. Consiste invece nel semplice fatto di essere data. Le cose che sono per dire nel paragrafo seguente, ultimo del libro, lo chiariranno ancora meglio.

David Hume, come accennammo nel principio del libro, fece opera di escludere dalla filosofia ogni ricerca relativa alle essenze e alle cause. E con ciò fu assai benemerito della scienza. Ma la sua opera fu, più che altro, negativa. Egli era riuscito a recare un colpo mortale alle false dottrine del passato, ma non aveva ancora trovato le nuove. Sicché la cognizione per lui è rimasta, non quale è realmente e doveva essere riconosciuta, l’intuizione diretta e propria del vero, come tale, ma una cognizione semiscettica, in cui la corrispondenza coll’oggetto è indimostrata e indimostrabile; cioè soltanto una specie di fede, per la quale, mezzo persuasi e mezzo no, con uno sforzo della volontà, o per istinto naturale, ci decidiamo ad affermare ciò, che non si potrebbe dire veramente, perché si affermi. Ma se, come risulta dalle cose dette sopra, il positivismo non istà solo nell’escludere dalle ricerche scientifiche le cose non conoscibili, come ha insegnato Hume, ma anche, e principalmente, nel procacciarsi una notizia razionale della materia studiata, si deve dire, che per esso gli Italiani, nell’epoca della loro filosofia nazionale, cioè positiva, hanno fatto più che l’Inglese. E ne facciamo qui, dove cade in acconcio e si può meglio intendere, l’osservazione, per completare la storia della cognizione scientifica, lasciata con Hume imperfetta. Gli Italiani, non solo hanno pronunciato la sentenza negativa: Non credasi a nulla, che non sia un fatto; ma aggiunsero anche la positiva: Provando e riprovando si acquista la certezza dei fatti e delle leggi loro. E, mettendo in pratica, primi di tutti, la regola insegnata, provando cioè e riprovando, vennero a delle scoperte insperate e maravigliose, e a delle conclusioni scientifiche verissime, che ammisero, non per fede e per istinto, ma perché fornite della più schietta e certa razionalità, a delle conclusioni, dalle quali, per le nuove vedute a cui dettero luogo nella scienza moderna, si può ricavare quella dimostrazione della certezza dello stesso pensiero, di cui abbiamo pur ora parlato.

E da tutto ciò prendo poi anche un augurio per l’avvenire. Io sono persuasissimo, che la scienza positiva filosofica sostituirà, come ha fatto ormai da un pezzo la scienza positiva naturale, da per tutto, i vecchi sistemi a priori. E quindi anche in Italia; scacciando dalle sue scuole quelle dottrine, o del medio evo ecclesiastico, o meno antiche d’Inghilterra, Francia e Germania, che vi si intrusero col venir meno della vita nazionale, o col prevalervi a suo danno delle influenze papali e straniere. E facendo rivivere in esse un indirizzo, che in passato fruttò tanta scienza e tanta gloria, e che si può dire veramente proprio e caratteristico del senno italiano. E sono persuaso, che ciò debba tornare di grande vantaggio, non solo all’Italia, ma alla scienza stessa. Poiché nessuno, se la storia non mente, ha mostrato di possedere, come l’Italiano, il senso giusto di quella scienza, il cui pregio principale deve essere il possesso sicuro della certezza scientifica e l’assenza di ogni dubbio, di quella scienza, in cui la ragione deve trovarsi autorizzata da se stessa, proprio come ragione, ad ammettere ciò che ammette senza bisogno di ricorrere a qualche cosa di puramente autorevole, o di cieco e fatale, come sarebbe la natura e l’istinto.

Non ho finito di additare i punti scientifici, che si possono, già a quest’ora, illustrare mediante i pochi dati empirici, che servono di base alla psicologia positiva. Come ho promesso, ho da parlare ancora di una veduta filosofica importantissima, per la quale la varietà e la moltiplicità infinita dei fenomeni naturali si può ridurre ad un concetto semplice, che ne rappresenta l’unità sotto i vari aspetti della consistenza, della successione e della somiglianza. Veduta nella quale, come si avrà uno svolgimento ulteriore ed insperato dei nostri principi, troveremo anche una nuova conferma ed una nuova delucidazione di essi. E insieme un’altra prova della fecondità di quelle modestissime nozioni di fatto, dalle quali partiamo; un’altra prova, che il metodo, che si fonda su di esse, come molte volte abbiamo affermato, non riduce la filosofia ad un meschino empirismo, ristretto alla semplice fisica della sensazione, e chiuso interamente alle concezioni divine del vero, del bene, dell’essere. Nel paragrafo precedente, uscendo dai limiti strettamente psicologici, ed entrando coi detti nostri pochi dati empirici proprio nel cuore della logica e dell’etica, mostrammo quanto siano atti a spargere luce anche in quelle materie. Nel presente non dubiteremo di metterli alla prova nel campo stesso della ontologia, la disciplina metafisica per eccellenza. E speriamo non senza risultato. E, allora, a quelli che, parlando di positivismo, lo fanno con una grande compassione, e sentenziano, che al più gli si può, per grazia, concedere una qualche piccola parte secondaria della psicologia empirica, e che, quanto alla filosofia propriamente detta, non vi si potrà fare strada mai in nessun modo, per confutarli, daremo una sola risposta. Una risposta semplicissima; la risposta del fatto.

Quale, in generale, si crede, che sia l’ultima parola della filosofia positiva, circa la natura del pensiero e la sua relazione colla realtà materiale? Quella, che è espressa nelle seguenti parole di J. Lyndall e di W. Griesinger. Il Tyndall, in una sua lezione, sulle forze fisiche e il pensiero, discorre così sull’argomento indicato: "Ogni atto di coscienza, sia poi una sensazione, o un pensiero astratto o un affetto, corrisponde ad un certo determinato stato molecolare del cervello. Sempre ha luogo questa relazione tra la fisica e la coscienza; in modo che, dato lo stato del cervello, se ne potrebbe dedurre il pensiero e il sentimento; e viceversa, dato il pensiero o il sentimento, se ne potrebbe dedurre lo stato del cervello. Ma come fare questa deduzione? Poiché l’aggruppamento delle molecole, onde i materialisti vogliono spiegare tutto, in realtà non ispiega niente". E il Griesinger, nel suo trattato delle malattie mentali, scrive: "Oscillazioni, vibrazioni, elettricità, forza meccanica, tutte codeste cose non sono uno stato dell’anima, o un pensiero. Ma come questi fatti possono trasformarsi in atti spirituali? Questo problema resterà sempre insolubile per l’uomo sino alla fine dei tempi; e io credo, che, se un angelo discendesse dal cielo per ispiegarci questo mistero, il nostro spirito non sarebbe capace neanco di comprenderlo".

Ma io dico, che è un errore il credere, che la filosofia positiva non possa giungere a vedere oltre il punto indicato nei passi citati. Io dico, che il mistero della relazione, tra ciò che si chiama stato molecolare o condizione materiale in genere e pensiero o sentimento corrispondente ed equivalente, noi siamo capacissimi di comprenderlo; che possiamo farlo da noi, senza che venga nessun angelo a spiegarcelo; e oggi stesso, assai prima della fine dei tempi. E in che modo? Col dimostrare che il problema stesso, che si considera affatto insolubile umanamente, non può essere posto nei termini enunciati, mentre il farlo è già per sé un’assurdità. La relatività (per adoperare la solita parola convenzionale della scienza) non è mica propria di alcune idee soltanto; è di tutte. Non è propria soltanto di quelle, che si pensano corrispondere alle cosidette qualità secondarie, ma anche di quelle, che si riferiscono alle primarie. Non ha luogo soltanto, quando parlo di colori, di suoni, di temperatura, e simili; ma anche quando parlo di estensione, di solidità, di divisibilità, di mobilità, di tempo, e via discorrendo. Se il suono, per modo d’esempio, è, come tale, essenzialmente un pensiero, e non una realtà distinta da esso, è pure essenzialmente un pensiero l’esteso e tutto ciò, che facciamo entrare nell’idea della materia. Per cui chi confronta il suono percepito psichicamente colla materialità, sia del corpo sonoro, sia dell’organo auditivo, sia del cervello, non confronta infine che due pensieri. E il domandare, in che modo tali materialità, che si concepiscono come produttrici del suono, si possano trasformare in esso, cioè in un pensiero, o, come si dice, in un fatto spirituale, non ha più senso, perché sono già esse, le dette materialità, dei fatti spirituali, per adoperare la frase solita. Certo che le note della materialità sono atti psichici speciali diversi da quelle altre che si concepiscono come pensieri puri; ma sono tuttavia sempre atti in tutto e per tutto psichici anch’esse. E quindi, come comprendiamo in un solo genere, cioè nel genere degli atti psichici, tutte quelle altre, malgrado le specialità e varietà loro, così possiamo, anzi dobbiamo, comprendervi anche queste. E così dove trovare più un termine opposto da contrapporre e paragonare col psicologico, o spirituale, che dir si voglia? Fu dunque una semplice illusione quella, che ha fatto porre il problema sopra enunciato, e che l’ha fatto considerare siccome insolubile, anzi siccome un vero mistero sovrintelligibile. Fu l’illusione, della quale abbiamo parlato molte volte, di credere primitiva ed essenziale la distinzione fra l’interiorità e l’esteriorità della coscienza. L’opposizione, in cui stanno per noi le note della materialità con quelle del pensiero in genere, dipende, non già dall’essere le prime per sé oggettive, e le altre soggettive, ma da una nostra abitudine solamente. Cioè, creato, nel modo più volte accennato e che spiegherò più compiutamente e più chiaramente a suo tempo, il mondo di dentro e quello di fuori, ci siamo avvezzati a riferire le une a quello e le altre a questo.

Il fatto adunque della relazione tra ciò, che si chiama stato molecolare o condizione materiale in genere, e pensiero o sentimento corrispondente ed equivalente, non può essere il soggetto di un problema speciale. Se si dà un problema per la detta relazione, esso non può essere, che quello generico, e che si pone da per tutto, anche fuori della psicologia; cioè il problema della causalità universalmente presa. Vale a dire, non di cercare, come un essere appartenente ad un mondo speciale possa influire sopra un essere di natura affatto diversa, ed appartenente ad un mondo esterno al primo e quindi, in certa guisa, soprannaturale ad esso; ma semplicemente, come dei fenomeni riducibili, per le comuni somiglianze, alla stessa generalità mentale, o natura, se si vuol dire così, possano e debbano coesistere e succedersi tra loro. Pel fisico tutti i fenomeni, sui quali è diretto il suo studio, appartengono al medesimo mondo, cioè a quello della materia; che è quanto dire, che in tutti si riscontrano le note della materialità. Così nel caso nostro, avendo trovata la natura psicofisica comune ai fenomeni distinti coi nomi di pensieri e di stati fisiologici, quando confrontiamo gli uni cogli altri, non passiamo da un mondo ad un altro, ma restiamo sempre nello stesso. Si insisterà dicendo, che il caso è diverso, perché, dove nel mondo fisico si capisce la relazione tra le condizioni coesistenti di una cosa e tra la causa e il suo effetto, qui invece la relazione tra lo stato fisiologico e il pensiero resta sempre misteriosa? Inutile e vana insistenza; ché la differenza, che si crede di notare fra i due casi, è un puro inganno. Sì; è vero che è impossibile di intendere, come da un movimento meccanico, per esempio, nasca un pensiero. Anzi il positivista una simile ricerca non la fa neanche. È una ricerca di essenze e di cause, che egli lascia interamente e senza nessuna invidia al metafisico, e colla certezza che perde nulla a cederla tutta a lui. Ma la impossibilità in discorso non è speciale al caso del mondo psicofisico; è una impossibilità, che si incontra, tale e quale, in tutta la natura. Sopra ne abbiamo detto abbastanza, perché non resti su ciò alcun Dubbio. Da per tutto le correlazioni di coesistenza e di successione dei fenomeni sono per noi correlazioni a posteriori; non si affermano in virtù di essenze o cause efficienti, onde si sappiano dipendere necessariamente; ma solo in virtù della osservazione empirica, che ce la dà sempre in un dato modo, piuttosto che in un altro.

Né si dica, che, nell’esempio citato delle palle da bigliardo, avendosi un movimento, tanto nella impellente, quanto in quella che riceve l’impulso, si può capire, come il fenomeno effetto nasca dal fenomeno causa per la ragione, che non occorre per ciò, se non immaginare un travasamento del movimento dall’una nell’altra, un travasamento richiedente solo delle modificazioni nella sua direzione o celerità. Lascio da parte le considerazioni fatte sopra, per le quali apparisce che il fenomeno in discorso non è così semplice, come si supporrebbe qui. E che l’urto, mediante il quale propriamente nella comune apprezziazione si crede di dar ragione del travaso del movimento da corpo a corpo, potrebbe non essere ciò che volgarmente si crede, un vero contatto del corpo urtante coll’urtato. Soltanto ripeterò le parole soprariportate di Laplace, che dice, parlando delle leggi dell’inerzia e della forza proporzionale alla velocità: "Ecco due leggi del movimento date dalla osservazione. Esse sono le più naturali e le più semplici che si possano immaginare, e senza dubbio derivano dalla natura della materia, ma, questa natura essendo affatto sconosciuta, tali leggi per noi non sono che dei fatti osservati". E farò notare, che ciò che dice Laplace delle due leggi accennate si può dire anche del fatto del travaso del movimento dall’un corpo all’altro; che si sa che avviene, solo perché si è sempre osservato avvenire, e non perché si sappia dalla natura stessa del corpo, che debba necessariamente avvenire. E ricorderò da ultimo quello che ho detto altrove, parlando delle forze fisiche, e dimostrando che esse si riducono tutte alle meccaniche, cioè precisamente a quel concetto della causalità, in cui non si tiene nessun conto della essenza dei corpi, e secondo il quale si sa soltanto, che certi fenomeni (senza sapere perché) si collegano costantemente con certi altri. E quindi conchiuderò all’impossibilità di intendere anche il fenomeno della trasmissione del movimento nell’esempio addotto, e alla parità, sotto l’aspetto qui considerato, tra esso e il fatto della conversione del movimento in pensiero.

Ma, si domanderà ancora: E non si dice dunque una cosa giusta, quando si afferma, che, coll’applicare tanto al fenomeno causa quanto al fenomeno effetto la stessa idea, le stesse leggi del movimento, la relazione dei due fenomeni tra loro si spiega meglio, che quando, per esempio, nel fenomeno causa si avesse del movimento e nel fenomeno effetto del calore, nel senso fisico vecchio, ossia una cosa che non è movimento? E che, quindi, se la fisica dimostra che il calore prodotto da un movimento è esso stesso un movimento, fa, con ciò, un vero progresso, perché arriva per tal modo a spiegare la produzione del detto calore? Verissimo, rispondiamo. Quando due o più cose, due o più fatti si possono ridurre sotto la medesima nozione o legge, con ciò si spiegano. Sì; è appunto quanto abbiamo stabilito sopra, parlando della cognizione scientifica. Ma che è poi una tale spiegazione? Forse la scoperta del come la causa, in quanto se ne conosce la essenza e si conoscono le ragioni assolute della sua attività, produce il suo effetto? No certo. Ciò che si dice essere la spiegazione del fatto non è altro infine, se non la somiglianza loro, data, non da un ragionamento a priori, ma unicamente dalla osservazione, in modo che, se si ritiene, lo si fa solamente in forza della osservazione, che l’ha data. Né si creda, che una tale spiegazione non si abbia anche per le relazioni tra il movimento fisiologico e il pensiero conseguente. Poiché e l’uno e l’altro, come abbiamo detto poco fa, cadono sotto la medesima nozione generale degli atti psichici. Come apparirà con tutta la evidenza, quando, in un altro lavoro esporremmo la genesi psicologica dell’idea del movimento.

Anzi si può oramai dire di più ancora. Si può dire, che il movimento fisiologico e il pensiero conseguente convengono fra loro, non solo per una idea di genere, cioè in quanto l’uno e l’altro sono atti psichici, che sarebbe una spiegazione analoga all’altra, che il movimento del martello battente e il riscaldamento dell’incudine battuta sono due atti fisici; ma anche per una vera idea di specie, cioè in quanto l’uno e l’altro si riducono ad una unica specie di tali atti; con che si darebbe una spiegazione, che equivale perfettamente a quella, che presenta il movimento del martello battente, e il riscaldamento dell’incudine battuta, non come due fenomeni fisici diversi, ma come due movimenti. Ciò si può già desumere da quanto abbiamo accennato sopra, parlando circa gli elementi degli elementi della sensazione. Ma apparirà assai più chiaramente da quanto siamo per esporre sulla fine del libro.

Il grande problema adunque, che si dava per insolubile assolutamente, resta per tal modo sciolto; anzi per dir più giusto, tolto di mezzo. Ma il principio, onde siamo riusciti a farlo, cresce poi ancor più di importanza, se si guarda ai corollari, che se ne possono trarre. La fallace dottrina della diversità assoluta del senso dall’intelletto, che tanto e indarno affaticò, sia per sostenerla, sia per combatterla, tutti si può dire i filosofi, è fondata, non tanto, come si crede universalmente, sui caratteri di universalità e di necessità attribuiti all’astratto ideale, quanto sulla illusione, che ha condotto a porre il problema suenunciato, e contro la quale fin qui abbiamo ragionato. Quella illusione, per cui ciò, che si chiama la materia, o il di fuori, o l’oggetto, apparisce l’opposto del pensiero; sicché si pensa, che la cognizione non possa aver luogo, se non quando, presentato dal senso l’oggetto, per sé inconoscibile per non essere ritenuto una mentalità, l’intelletto lo rivesta, lo compenetri, lo illumini della sua idealità. Un modo di vedere siffatto lo troviamo nello stesso Kant; cosa, che per me fa più meraviglia assai, che incontrarla in un filosofo dei nostri giorni, come il Rosmini. Ma, se l’esteso è, come dicemmo, una mentalità, né più né meno di ciò che si chiama pensiero puro, quale bisogno più di avere, da una parte il senso che dia l’oggetto esteso, e dall’altra l’intelletto che lo rischiari e lo renda conoscibile colla sua luce ideale? E quante questioni insolubili restano così eliminate con una semplice riflessione, che ci guarisce dalla illusione che le faceva nascere!

Se non che qui è da avvertire, che, colla mentalità così concepita, il processo discorsivo del pensiero, onde esso va procreando le varie cognizioni e ne fa risaltare la intrinseca evidenza certificante, non è più dalla generalità al fatto singolo, dal soggetto alle sue proprietà e condizioni, ma precisamente il contrario. Il metafisico fa dipendere la realtà e la verità del fatto dalla realtà e dalla verità dell’idea; la realtà e la verità della qualità sensibile dalla realtà e dalla verità della sostanza, a cui si riferisce. Ecco il mondo dei filosofi; ma è il mondo a rovescio. La realtà e la verità è la sensazione considerata ne’ suoi elementi. E nient’altro fuori della sensazione. E la sensazione non è una generalità ideale, ma un fatto singolo; non è una sostanza, ma una qualità. Dico, che la realtà e la verità è la sensazione, in quanto essa è un fatto reale, e del quale noi siamo consapevoli a noi stessi; sicché l’atto, col quale la sensazione ha l’esistenza o si afferma nella nostra coscienza, è l’atto pel quale in essa si pone il reale ed il vero. L’affermazione, onde la sensazione si pone nella nostra coscienza, è per noi una affermazione assoluta; e ci è affatto impossibile negarne o dissimularcene in nessun modo l’esistenza, il valore, la portata. Nel mondo dello spirito la sensazione, come dato reale e vero, ha la stessa assoluta indestruttibilità, come l’atomo materiale nel mondo fisico. Dico ancora, che la realtà e la verità è la sensazione, e nient’altro fuori della sensazione, in quanto fuori di essa null’altro è nella nostra coscienza, ossia nella nostra cognizione. E ciò che vi incontriamo, che, al primo aspetto, pare altra cosa (una generalità, una sostanza), nel fondo non è che una associazione di sensazioni; e il suo valore, come realtà e verità, è determinato, non dalla sua forma, come associazione o costruzione mentale (per somiglianza, per consistenza, per successione), ma dalla realtà e verità delle singole sensazioni componenti; come il peso di una costruzione in pietra o in ferro non dipende dalla forma, data alla pietra ed al ferro dall’arte, ma dal peso, che hanno in sé, per natura, le singole pietre, i singoli pezzi di ferro.

La qualità, secondo i metafisici, non solo non è una realtà per sé, ma non si può neanco concepire esistente senza un soggetto, a cui si riferisca; e nel quale, perché possa aderirvi, è necessario, che sia richiesto, o almeno consentito, dalla misteriosa essenza di esso. Ora vero è, come dicevamo, il contrario; e all’uomo è possibile di parlare di soggetto, di sostanza, di essenza, solo mercé quelle, che si chiamano le qualità; che sono poi le stesse sensazioni. Avendo queste, se ne può comporre anche quel tutto, che si nomina, il soggetto. Non avendole, non si avrà mai neanco il soggetto. Perché il soggetto non è altro infine, che l’insieme delle cosidette qualità sensibili; e la realtà e verità di esso non è altro propriamente, che la realtà e verità delle singole qualità sentite. Le quali perciò, come abbiamo dimostrato nel corso del libro, quali elementi dati dalla natura e imposti con indeclinabile necessità alla coscienza, sono assolutamente fisse ed immutabili, mentre il soggetto, quale prodotto dell’associazione mentale, è instabile, e segue il processo e le fasi del lavoro soggettivo. E tale verità, da noi tante volte ripetuta, qui viene a brillare di nuova luce e a ricevere una nuova conferma, per la ragione più elevata, alla quale possiamo oramai riferirla.

Lo stesso dicasi del rapporto tra l’idea generale e il fatto, o la cosa particolare. L’idea, come idea, cioè come pura mentalità, astratta e divulsa dal fatto, come tale, oltreché instabile e oscillante eternamente tra una generalità superiore ed una inferiore e senza contorni precisi mai, per le varietà che vi portano i particolari, che ora si aggiungono ed ora si tolgono nell’associazione comparatrice, non è poi per sé, né reale, né vera. È quella rappresentazione, che non si riferisce, né all’oggetto attualmente sentito, né all’oggetto, che si ricordi come sentito altra volta, che gli scozzesi chiamavano, semplice apprensione. E quindi, se la mente dice reale e vera un’idea, è solo perché nella sua operazione astrattiva non ha ancora fatto gettito della realtà, onde è partita; non l’ha dimenticata e l’ha serbata come nota integrante del concetto generale che ha formato. In modo che la realtà, che per avventura si afferma dell’idea, è pur sempre la stessa realtà del particolare, non perduta di vista nel processo della generalizzazione.

Del Vero noi discorriamo così perché siamo positivi. Noi cioè discorriamo del Vero in quanto è un fatto umano. I metafisici invece pretendono di fare assai più; essi pretendono di parlare di un altro Vero; di un Vero che trascende l’uomo e le cose. Vana pretesa; di quest’altro Vero essi non hanno mai potuto vedere né orma, né traccia; mentre, che si sappia, sono sempre restati uomini. E quello che essi chiamano il Vero trascendente ed assoluto è ancora inesorabilmente lo stesso Vero dell’uomo; solo che, per ingrandirlo e portarlo al di fuori e al dissopra di esso, ne hanno fatto una caricatura, o una assurdità. Per convincersene basta esaminare la dottrina dei teologi sulla verità, come la pongono in dio. San Tommaso d’Aquino, per citarne uno de’ più insigni ed autorevoli, insegna che dio è un essere sommamente intelligente; che quindi egli conosce, anzi comprende perfettamente, se stesso e tutte le cose; e che ha le idee necessarie a tale conoscenza; non particolari, ma universali; non molte, ma una sola, cioè quella, onde intende se stesso. E che poi siffatta idea divina, unica e generalissima, è in dio lo stesso intendere suo; e l’intendere, la sostanza di esso; e che tale sostanza è reale, anzi la realtà per eccellenza. In una parola, che in dio il maggior grado possibile di universalità ideale coincide col maggior grado possibile di concretezza reale. Ossia un assurdo perfetto. Chi parla di conoscere e di idee, di astratto e di concreto, di mentale, e di reale, parla in sostanza non d’altro, che di quei fatti umani, onde ciascuno di noi ha esperienza. Di quei fatti, onde il psicologo conosce le leggi e le proprietà. Dovunque e comunque si applichino quei fatti, perché l’applicazione ne sia ragionevole ed abbia senso, è necessario farla, salve le leggi e le proprietà loro già conosciute. Così, in un altro ordine di cose, può benissimo l’astronomo applicare i fatti della gravità, sperimentati vicino a lui in terra, anche molto lontano, in cielo. E nulla vieta, che, trattandosi di distanze, di grandezze, di velocità infinitamente maggiori, ingrandisca infinitamente anche le proporzioni dei fatti stessi. Ma senza alterarne le leggi. Il far ciò sarebbe la più grande stoltezza, che potesse commettere uno scienziato. Secondo ciò che abbiamo dimostrato, le due parole, realtà ed idealità, significano nel fondo la stessa cosa; cioè il fatto del sentire. Significano questo fatto, e null’altro. Ma sotto un aspetto diverso. Quando si dice, realtà, si intende il fatto in se stesso, ossia come oggetto. Cioè il fatto, come è dato nella sensazione, nella quale, sia che si consideri isolato, sia che si consideri unito ad altri coesistenti o succedenti, apparisce nella sua particolarità e singolarità. Sicché la realtà va colla particolarità. Più è la particolarità e più è la realtà. Quando invece si dice, idealità, si intende il sentito, non in quanto è un fatto in se stesso, ma in quanto è concepito, come lo stato o l’affezione del soggetto. E il sentito tanto più è concepito come uno stato o una affezione meramente soggettiva, quanto più perde della sua oggettività, ossia quanto più diventa e indeterminato e generico. Onde l’idealità cresce col crescere della astrattezza della rappresentazione. Ne viene quindi, che, nel senso che si dà nel nostro discorso delle due parole realtà e idealità, esse stanno fra loro in senso inverso, e che quindi il dire, che, dove è somma la idealità è pur somma la realtà, è una contraddizione nei termini. Contraddizione, che, come dicevamo, brilla nella dottrina enunciata di S. Tommaso e dei teologi sulla verità, come la pongono in dio. Altrettanto e più potrei dire delle dottrine filosofiche analoghe dei metafisici. Dell’Ente, contrapposto all’Esistente, Gioberti e i dualisti, dell’Essere in genere i panteisti, come Hegel, dicono presso a poco ciò che dice S. Tommaso di dio. Cioè vi hanno portato una verità, che ebbero l’illusione di credere più vera del Vero mentre non è che quella presa dall’uomo, messa per giunta in caricatura. E hanno detto, che ivi la massima possibile universalità ideale conviene colla massima possibile determinatezza reale. Cioè il più solenne degli assurdi. Meglio dunque restar positivi, e contentarsi di un Vero più umile, vale a dire di quello che non è, se non un semplice fatto umano.

Qui, prima di perdere di vista le idee enunciate, cade in acconcio di fare una osservazione, che spiegherà e giustificherà un detto da noi più volte ripetuto, e sarà un’altra prova della eccellenza del nostro metodo, e della verità delle nostre induzioni. Parlando della materia, e anche dello spirito, abbiamo asserito, che sono meri astratti mentali, che noi oggettiviamo, ossia consideriamo, come delle realtà per sé, e indipendentemente dal nostro pensiero, e di tale oggettivazione non abbiamo detto se non, che è un processo reale della nostra mente. In seguito, ottenuto per le vie induttive l’astratto superiore dello schema psicofisico, abbiamo soggiunto, che lo ritenevamo come una realtà vera, come avevamo fatto per gli altri due astratti. Or bene; se allora, per legittimare le oggettivazioni in discorso, ci siamo rimessi al fatto psicologico, che ce lo attestava, adesso possiamo giustificare il detto fatto, spiegandolo e dimostrando in che modo debba essere inteso, è per un arbitrio ingiustificabile, è per una illusione, vincibile, o è per una ragione logica solida, che si dà, per esempio, all’astratto, materia, una realtà oggettiva? È evidente darsi per una ragione logica solidissima. I dati particolari, sui quali è fondata l’astrazione, sono reali. Se nel processo astrattivo si mantiene sempre la determinazione ossia la nota della realtà, questa, può e deve essere ancora affermata, insieme alle altre note serbate, a quel qualunque grado di astrazione, a cui facciamo sosta. Per cui c’è dell’improprietà nella espressione: La mente oggettivizza l’astratto, materia. Sarebbe più giusto dire: La mente non desiste dal considerare come reale l’oggetto del suo lavoro astrattivo.

Spiegando così il fatto della oggettivazione, lo giustifichiamo; non solo, ma ne diamo il valore vero. C’è una grandissima differenza tra la realtà, che si ha nel fatto, e quella, che si riconosce nell’astratto. Ciascun fatto è un reale per sé; la sua realtà è individua; non si può, né allargarla, né restringerla, senza distruggerla. L’astratto è reale per partecipazione, ossia in grazia del puro fatto particolare. La sua realtà la possiede, perché sia quel dato astratto. Non verrebbe meno perdendo della sua astrattezza, cioè facendosi più speciale, o aumentandola, cioè facendosi più generale. Ecco perché, affermata la realtà delle diverse qualità dei corpi, la realtà stessa rimane, anche facendo scomparire i corpi molti e vari per averne la unica materia, che li assorbisce tutti nell’essere suo più generico; ecco perché, affermata la realtà della materia, come tale, dello spirito, come tale, noi abbiamo potuto, senza perdere la realtà, fondere i due concetti in quello psicofisico. Nel quale, se scompaiono le specialità distinte della materia e dello spirito, a quello stesso modo che, nell’idea della materia, si offuscano le differenze del corpo solido, del liquido e dell’aeriforme, resta però sempre la nota della realtà; sicché possiamo a tutto diritto parlare, non solo di concetto psicofisico, ma anche di sostanza psicofisica.

Ed ecco anche una luminosissima conferma dei nostri principi. Il fatto ha una propria realtà per sé. Una realtà inalterabile, una realtà che siamo costretti ad affermare tale quale è data e la troviamo; coll’assoluta impossibilità di toglierne o di aggiungervi nulla. Dunque il fatto è divino; come sentenziammo sopra una volta, Vincendo ogni timore ed ogni esitazione di farlo, quantunque ai più suoni la sentenza verissima, come una bestemmia. E l’astratto invece lo formiamo noi; possiamo formarlo più speciale o più generale, di una varietà o di un’altra, come vogliamo. Dunque, come soggiungevamo, l’astratto, l’ideale, il principio, è umano. E quindi, come il fatto è nella cognizione e nella scienza il termine fisso e da cui si deve partire, così l’astratto (e quindi anche il cosidetto soggetto dei fatti) è un termine a cui si può arrivare; ma un termine instabilissimo che può essere riformato ed oltrepassato.

Ma qui io devo, prima di passare all’ultima conclusione del libro, rendere ragione di una apparente contraddizione, che si trova tra questa parte di esso, nella quale affermo, che anche le note della materialità vanno comprese nella generalità degli atti psichici, ossia sono nostri pensieri, e che quindi l’essere tutto quanto, per ciò che ne sappiamo, si riduce al dato psichico della sensazione, e quell’altra, in cui abbiamo considerato, come distinto, il genere dei fenomeni psichici o interni, sintetizzati nell’idea dello spirito, dal genere dei fenomeni non psichici o esterni, sintetizzati nell’idea della materia; e tanto, che, invece di far entrare questi ultimi nel genere di quegli altri, come sarebbe convenuto, stando alle cose dette in quest’ultimo paragrafo, abbiamo cercato la sintesi loro in un terzo concetto; cioè nel concetto della sostanza psicofisica, che non è propriamente, né lo spirito né la materia; e quindi, l’essere, lo facemmo consistere in essa, terza sostanza.

Le due parti non si contraddicono; ma si illustrano e si completano l’una per l’altra. In fondo il risultato ottenuto per la seconda delle due vie differenti è identico al primo. Qui abbiamo un esempio di ciò che avviene sempre nella ricerca induttiva. Si può partire da analisi diverse della realtà, ed arrivare alla conclusione medesima. Ed è un argomento fortissimo della bontà di esso metodo, e della verità delle conclusioni, a cui conduce. Salendo alla sostanza psicofisica, non siamo usciti menomamente dal genere dei dati psichici della sensazione, poiché questa sostanza psicofisica non è, che la sintesi dei fatti interni ed esterni, che tutti, come mostrammo, sono dati della sensazione. Soltanto, ponendo la sostanza psicofisica, abbiamo trasceso l’idealismo; cioè abbiamo indicato, che, se il contenuto della nostra cognizione in fine dei conti è il solo dato psicofisico della sensazione, questo dato però non è essenzialmente soggettivo, come dicono gli idealisti, e come potrebbe parere, stando semplicemente a quanto ci è occorso di dirne nel paragrafo presente; ma è indifferentemente soggettivo ed oggettivo; è anteriore a ciò che si chiama io, e non io; ossia diventa o l’uno o l’altro per quel meccanismo del processo conoscitivo, a cui molte volte abbiamo fatto allusione, e pel quale il sensibile ora ci appare interno ed ora esterno.

Così, come dicevamo, la sintesi superiore dei fatti dei due ordini, fisico e morale, induttivamente ottenuta, ci dà un concetto dell’essere, che coincide sostanzialmente (ma senza lo svantaggio della illusione idealistica) con quello che si trae dall’analisi degli atti della coscienza. Che se tale coincidenza di risultato dei due differenti processi induttivi ci arreca, nell’avvertirla, una forte compiacenza mista di sorpresa, ciò poi, che non si può senza immensa maraviglia considerare, si è che, per la via dell’induzione, cioè di un metodo, che va senz’ala si arrivi a quella unità dell’essere trascendente ed abbracciante il me e il fuori di me, a quell’assoluto, se così piace chiamarlo, veramente positivo e reale, a quell’EN KAI PAN al quale indarno aspirarono, malgrado l’ingegno divino e gli sforzi maravigliosi, i più grandi filosofi aprioristi.

Alessandro di Humboldt finisce, come tutti sanno, il suo grande quadro del Cosmos, arrestandosi, come egli dice, al limite ove incomincia la sfera dell’intelligenza, e donde allo sguardo si presenta un mondo diverso; limite che egli segnala, ma non ardisce varcare. E ciò perché non gli venne fatto di uscire da quell’ordine ristretto di idee, in cui vedemmo sopra aggirarsi, con tutti si può dire i psicologi, anche empirici, fino ad ora, Griesinger e Tyndall. Ma allo sguardo, audace insieme e sicuro, del filosofo positivo, che abbia trovato il modo di trascenderlo, e di mettersi ad osservare le cose da un punto di vista assai più elevato, scompaiono, come per incanto, le barriere, che pareva dividessero insuperabilmente la natura dall’intelligenza. E le due sfere, credute fino ad oggi, come a dire, soprannaturali l’una all’altra, non ne fanno più che una sola, e l’intelligenza apparisce anch’essa, al pari di tutte le altre cose, vera e pretta natura.

Diciamo, che il filosofo positivo può già essere in grado di abbracciare in un solo concetto il mondo fisico e quello del pensiero. Ma non per una delle solite illusioni dei metafisici, che più volte credettero, sognata qualche vuota e strana astruseria, di esser giunti, per essa, a disvelare l’arcano della essenza e della causa delle cose. Il concetto sintetizzante del positivista non riguarda menomamente tale arcano, che egli sa e dichiara altamente essere affatto impenetrabile. Egli l’ha ottenuto applicando allo studio del pensiero quel metodo medesimo, che i naturalisti, ed Humboldt stesso seguirono nello studio della natura materiale. Quel metodo, che indicammo fino dal principio del libro, e che consiste nell’osservare i fenomeni e nel rilevarne la somiglianza, la consistenza e la successione. Le forme dei fenomeni, studiate nelle loro somiglianze, hanno lasciato vedere, al disotto di sé, una forma fondamentale unica, che le genera tutte, per quanto varie all’infinito, colla semplice sua reduplicazione. Dallo studio dei fenomeni coesistenti risultò, che gli esseri in apparenza più diversi ed opposti costituiscono un ordine unico di cose. Ed un congegno unico di forze, malgrado la difformità e contrarietà apparente, si manifestò pure dallo studio delle successioni dei fenomeni dovunque e comunque osservate. Di qui, e solo di qui, il filosofo positivo trasse la sua conclusione, che tanto il mondo della materia quanto quello del pensiero si comprendono nello stesso concetto della natura, sia che vi si consideri la forma dell’essere, o l’ordine delle cose, o il congegno delle forze.

Ho detto in primo luogo, che le forme dei fenomeni studiate nelle loro somiglianze hanno lasciato vedere al disotto di sé una forma fondamentale unica che le genera tutte, per quanto varie all’infinito, colla semplice sua reduplicazione. E in vero, tutto ciò che si conosce del mondo fisico si riduce a delle pure fenomenalità, come dimostrammo nella seconda parte del libro. E a pure fenomenalità si riduce del pari tutto ciò che si conosce del mondo del pensiero, come dimostrammo nella terza. E, siccome ciò che si dice la percezione del fenomeno esterno, è per sé un atto in tutto e per tutto soggettivo o psichico, e non contiene nulla che sia altro da ciò, come fu insieme più volte spiegato, così la fenomenalità esterna, ossia il mondo fisico, in quanto è da noi conosciuto (e non è ragionevole parlarne se non in quanto è conosciuto), viene ad essere un semplice atto psichico, ovvero un nostro pensiero, ne più ne meno della fenomenalità della coscienza. E così resta stabilito, che, per la cognizione, non esiste, che un solo grande genere di oggetti conosciuti e conoscibili; il genere degli atti psichici. Genere però diviso nelle due grandi specie, degli atti relativi al mondo esterno, e di quelli relativi al mondo interno. Se non che una osservazione più inoltrata e profonda, come accennammo, ripetutamente, ci rende accorti, che tale divisione non è assoluta, e non rappresenta punto una differenza fondamentale nella natura dei e dei secondi. Ci rende accorti, che la differenza è fatta e non nata; e che è un puro effetto del lavoro e dell’esercizio cogitativo, onde si ingenera l’abitudine di associarti e quindi di riferirli diversamente. Tanto che quelle, che nella coscienza adulta appariscono due specie distinte di atti, in sé e nella coscienza primitiva, ossia prima che vi siano formate le idee del me e del fuori di me, e l’abitudine di associare le sensazioni, quali a questo, quali a quello, in realtà costituiscono una specie unica di atti. Una specie unica di atti, che, precedendo, in quanto unica, quello stato della cognizione nel quale il mondo dell’intelligenza è distinto dal materiale, e costituendo quella realtà, che è atta ad atteggiarsi, ora come realtà fisica, ora come realtà psichica, abbiamo designato col nome di specie o di realtà psicofisica. Ora, siccome gli atti in discorso, dai quali emergono tutte le rappresentazioni, per quanto molteplici e varie, relative al me e al fuori di me, sono quelli che si chiamano le percezioni dei diversi sensi, così queste percezioni, ed esse solamente, sono gli elementi psichici, o più propriamente psicofisici, comuni, che costituiscono gli oggetti conosciuti dal pensiero, vale a dire tutte le fenomenalità, tanto le fisiche quanto le mentali.

A questo punto l’analisi psicologica positiva riesce, per la realtà psicofisica, ad una conclusione analoga affatto a quella, a cui è riuscita l’analisi chimica, per la cerchia più ristretta della realtà materiale. Gli antichi ammettevano quattro diverse nature materiali: la terrosa assolutamente pesante, la ignea assolutamente leggera, e le altre due intermedie, l’acquea e l’aerea. Oggi la chimica, in terra ed in cielo, nei minerali solidi e gazosi e nei corpi vivi vegetali ed animali, non riconosce più che una specie sola di materia, cioè la materia pesante. Solo che, invece di quattro sole forme elementari, ve ne riscontra oltre sessanta. Così la psicologia. Non più due mondi diversi, il mondo della coscienza e quello della natura; e in ciascuno più specie di cose tra loro opposte, come nella natura la materia e la forza, e nella coscienza il senso, l’intelletto, il volere, e via discorrendo; ma un mondo solo, il psicofisico, formato di una specie unica di elementi, cioè delle sensazioni, senz’altro. Le sensazioni però, non cinque sole, come si diceva una volta, ma un numero assai più grande, come dimostrerò a suo tempo. Ma la chimica, come sappiamo, non si arresta ormai più ai detti moltiformi elementi; e si sente da molte ragioni condotta a supporre, che quegli stessi numerosi elementi che ha trovato nell’analizzare i corpi naturali, non siano poi altro che altrettante combinazioni variate di monadi materiali primitive, tutte uguali fra loro. Tanto che le varietà infinite dei corpi, e le proprietà sempre diverse delle sostanze, sarebbero ottenute nella natura dalla semplice reduplicazione di un genere solo di materialità. Ora io dico, che non dissimile, anche in ciò, è la posizione della psicologia sperimentale. Anch’essa è in grado ormai di supporre, molto ragionevolmente, che al disotto delle forme sensitive elementari dissomiglianti, si nasconda una forma fondamentale unica, che le generi tutte, colla semplice sua REDUPLICAZIONE.

Dirò qui più chiaramente ciò, che ho già appena accennato in un luogo del presente libro, e che dimostrerò più a lungo un’altra volta. Anche nella psicologia si incontra un fatto comunissimo nella chimica. Due o più cose unite insieme, ne formano un’altra, che ha apparenze e proprietà differentissime, da quelle delle componenti. La cosa pare incredibile, ma è vera. Lo stesso Go5the non poteva persuadersi di quanto aveva annunciato Newton; vale a dire, che dei colori carichi e foschi, come il rosso, il verde e il violetto, sovrapponendosi, producessero un colore leggero e chiaro, come il bianco. Ma è come maravigliarsi che, combinando l’idrogeno, atto ad essere bruciato, e l’ossigeno atto a bruciare, si fornì l’acqua, che né brucia né lascia bruciare. Maravigliarsene è permesso, dubitarne no. Il fatto enunciato non si verifica soltanto per le sensazioni visive. Si verifica anche per tutte le altre sensazioni. Basti in prova ricordare le esperienze, colle quali Helmholtz ha dimostrato, essere i vari timbri dei suoni null’altro che la fusione variata, per così esprimermi, di diversi suoni elementari. Insomma quel fatto è una vera legge delle sensazioni. Anzi dirò di più; dirò addirittura, che è una legge dell’umano pensiero. A chi non ne fosse convinto, farei solo riflettere, quanto ha dovuto faticare l’analisi psicologica per fare la scoperta, che le idee molto astratte, come, per esempio, quelle della materia e della forza, e perfino gli schemi del tutto puri, per usare la parola che uso, come quelli dello spazio e del tempo, non sono altro nel fondo, che mere associazioni di colori, di suoni, di toccamenti, di piaceri, di atti volontari, e via dicendo. La difficoltà della scoperta era prodotta dall’aspetto differentissimo assunto dagli elementi costituenti in ciascuna specialità di composizione.

Né si creda che nella sensazione complessa, per ciò che essa è affatto disforme dalle componenti, queste non sussistano tuttavia nella loro propria specialità e coscienza; e siano scomparse, e sia entrata di pianta nel luogo loro la detta sensazione differente. La quale, però, non debba già essere considerata un complesso e un risultato delle prime, ma sibbene una sensazione nuova, ed in sé una ed indivisibile. No. Essa è veramente una sensazione, complessa, un risultato della reduplicazione delle sensazioni costitutive; un tutto composto e non una nuova ed indivisibile unità. Precisamente come una combinazione chimica nella quale l’apparenza e la proprietà speciale del tutto, come tale, sta colla conservazione perfetta, nel loro essere, delle sostanze componenti. Su di ciò non cade più dubbio. Se si guarda e si vede un oggetto bianco (e ciò che siamo per dire, vale anche per ogni altro colore composto), la minima alterazione o nella forza sensitiva dei coni della retina, relativa ad uno dei colori semplici componenti, o nella dose di questi, produce immancabilmente una variazione nel bianco stesso. Non resta più il bianco di prima. E ciò per infinite gradazioni; per tante quante sono le combinazioni possibili in più o in meno della sensibilità, della partecipazione, della eccitazione delle parti dell’organo visivo. Cioè il bianco stesso non è mica una sensazione speciale ed unica, che, o si abbia tale quale, o non si abbia punto. È essenzialmente un composto, che, qualunque alterazione avvenga nei singoli componenti, ne rappresenta sempre matematicamente la somma. E di ciò quante prove. Per tutti i sensi è già in grado di fornirci la scienza mercé le scoperte già fatte sulla natura e sulla disposizione delle parti più minute degli organi percipienti, sulle variazioni molecolari corrispondenti alle qualità sensibili delle diverse sostanze, e sulle vibrazioni dei mezzi elastici, che danno luogo alle sensazioni.

Ora questa legge, dominante nella produzione delle sensazioni composte, che vieta di estenderla anche a dar ragione della produzione di quelle fin qui chiamate elementari? Che vieta di considerare queste ultime, non più elementari, ma composte pur esse, e risultanti da una reduplicazione di un medesimo genere di sensazioni elementarissime. In modo che ogni differenza dipenda, non dalla dissimile natura di diversi componenti, ma solo dal modo variato, onde un medesimo componente si reduplica nella composizione. Non c’è nulla che lo vieti. Nulla; come al chimico niente impedisce di supporre, che le sue sostanze elementari siano altrettante combinazioni variate di monadi materiali primitive, tutte eguali fra loro. Non si hanno, è vero, ancora della detta teoria psicologica, prove abbastanza numerose e sicure; no certo. Ma nulla osta che si accetti come una buona ipotesi; e tutto induce a farlo. Negli organi della sensazione, e negli stimoli, che li eccitano, la scienza non trova più le differenze di natura, che loro si attribuivano una volta. Il vero organo del senso è sempre costituito da fibre della stessa materia nervosa e della stessa forma, le quali (parlando più specialmente di quelli che più comunemente si chiamano organi dei sensi, il che basta pel nostro intento presente) agiscono tutte per iscotimento impresso alla loro estremità periferica. Poiché lo stimolo è infine sempre un movimento, e nient’altro. Un movimento etereo, come nelle sensazioni della vista e della temperatura; un movimento nell’aria, come nei suoni; un movimento molecolare chimico, come nel gusto e nell’olfatto; un movimento meccanico, come nelle varie sensazioni tattili della resistenza della materia. Ragione per cui nelle dette fibre l’unica differenza che si incontra, cioè quella della conformazione della loro estremità, è determinata dal genere di movimento che sono destinate a ricevere. Ora, se la sensazione, come è certissimo, è l’equivalente, tanto rispetto alla quantità, quanto alla qualità, delle funzioni fisico-chimico-psicologiche a cui consegue, e queste sono in tutte le sensazioni le medesime, e variano, non nel quale, ma nel quanto, sicché dovrebbero tutte le sensazioni essere uguali nella forma, e solo diverse nella intensità, per togliere la contraddizione tra due fatti certi, quello delle differenze specifiche delle varie sensazioni e quello dell’identità dei loro coefficienti, non ricorreremo alla legge in questionar che, d’altronde, è una legge generale del pensiero umano, dandole una maggiore estensione e immaginando, che le cosidette sensazioni elementari siano in effetto sensazioni composte; e composte variamente di un certo numero di sensazioni primitive identiche; e che si debba alla varia reduplicazione di queste l’aspetto diverso di ciascheduna di esse?

Fino a tale altissima idea può sollevarsi, come dicevamo, progredendo induttivamente, il filosofo positivo. Tutte quante le fenomenalità conosciute e conoscibili, che sono infinite per numero e per forma si riducono a poche specie di sensazioni; e ciascuna di queste specie è una combinazione disforme di una qualità sola di elementi primitivi. Ovvero, per dirlo in una parola, l’uno è il tutto. Cioè nella natura, per una divisione di lavoro sempre crescente, crescente sino all’infinito, la perfetta omogeneità del reale si trasmuta in una varietà sterminata di apparenze, in modo che il massimo della diversità vi coincida col massimo della medesimezza.

Tesoro immenso di medesimi, onde emergono i diversi inesauribilmente; arte ammirabile di farli emergere! Chi saprebbe dire quanto piccola parte sia, dell’essere tutto quanto, la vita di un uomo solo? E quanto piccola parte di tutte le sensazioni e di tutti i pensieri della vita di un uomo sia poi un suo sguardo nel cielo di un qualche centesimo di secondo? Eppure chi potrebbe computare il numero dei fatti elementari, che nascono e si succedono in quello sguardo fugacissimo, che pure è, una parte infinitamente piccola della vita di un essere infinitamente piccolo? Non si tenga conto delle idee che si associano nell’adulto alla visione. Si avrebbe da fare con troppe cose. Si tenga conto unicamente della quasi inapprezzabile sensazione presente. Si noti soltanto, che in quello sguardo sono eccitati si può dir tutti i cinquecentomila bastoncini delle retine; cioè che non vi si ha una sensazione sola, ma bensì cinquecentomila. E che ciascuna di tali cinquecentomila piccolissime sensazioncine, che non possono esser semplici, come dimostrammo, devono di nuovo essere il complesso di chi sa quante ancor più piccole sensazioni primitive fondamentali. E che poi nello spazio, di qualche centesimo di secondo le impressioni, ricevute in un solo bastoncino dall’etere vibrante, ascendono a più bilioni. Tanti e di sì estrema piccolezza sono i primissimi elementi, che la natura diversissimamente compone, per costruirne le differenti sensazioni; e quindi poi, con reduplicazione sempre più raddoppiata, tutti quanti i pensieri immensamente molti e disformi dell’uomo.

La natura poi non effettua il lavoro di composizione degli elementi primissimi del pensiero in tutti gli esseri animati ugualmente, e del pari che nell’uomo. Come in questo presenta il maggior prodigio della sua arte combinatrice, così nella scala degli esseri animati ci offre a contemplare la sapienza del processo, onde ottenne il suo ultimo e più grande risultato, l’intelligenza umana. La varietà psichica, che appare in una specie di esseri animati, se è più perfetta di un’altra, è il punto a cui è giunto, progredendo a poco a poco, il lavoro componente della natura; se è solo parallela ad un’altra, un modo diverso nel quale ha mostrato, quasi provando, come si possa condurlo in altro modo, partendo da un punto dato. Onde si vede in che rapporto stia il pensiero umano coll’attività psichica di tutti gli altri esseri animati. Nella celletta microscopica, che vegeta da sé, l’elemento vegetativo è anche l’individuo vegetante. Nelle specie vegetali più elevate gli individui constano di un numero di cellule sempre maggiore. Chi sa dire quante ve ne siano in una quercia annosa e gigantesca? Quante siano le cellette vegetative, che servirono a comporre la quercia, non si saprà dire, a motivo del numero troppo grande delle stesse. Si sa però che si fu solo con tali cellette, e senz’altro di più, che la natura la edificò. Lo stesso si può dire delle specie più perfette, e nella scala delle produzioni chimiche, e nella scala delle produzioni zoologiche. Lo stesso in somma da per tutto, nelle opere più progredite della natura. Lo stesso nel pensiero dell’uomo. In esso il numero degli elementi psichici primitivi è tale che non si potrebbe neanco immaginare; ma tuttavia esso pensiero non contiene altro in sé fuori di siffatti elementi, che egli, malgrado la superbissima sua condizione, possiede in comune colla vilissima monade, vivente, invisibile all’occhio, nei gorghi, per essa vasti e profondi, di una gocciolina di acqua. Per cui la natura speciale e la perfezione propria dell’essere psichico umano non consiste già nella massima sua semplicità, come universalmente si crede e dagli spiritualisti trionfalmente si dice, ma bensì nella massima sua complessità.

La semplicità massima si avrà piuttosto nel protozoo microscopico, in cui non è supponibile, che siano sensazioni, se non di quelle primitive oltremodo tenui, che dicemmo. Le quali in esso possono benissimo essere avvertite, per la ragione che la coscienza non ne è occupata da altre raddoppiate più intense. Il mondo perciò sarà per tali esseri estremamente silenzioso, distinguendovisi delle voci eccessivamente tenui; ed estremamente monotono, perché appreso sotto la forma di una sensazione sola; ed estremamente angusto, cioè ristretto al punto unico, che sente attualmente. Negli esseri animati poi, che stanno più in su, in serie progressive, fra il detto protozoo e l’uomo, le sensazioni si vanno sempre più raddoppiando e variando e oggettivando; e quindi il mondo si fa dall’uno all’altro, più romoroso, vario ed esteso. E nell’uomo lo è al massimo grado. Egli non s’accorge delle voci più ingenue e più vere della natura, che si fanno ascoltare soltanto nelle solitarie e mute coscienze degli esseri inferiori. Il frastuono delle cortissime sensazioni glielo impedisce. A lui la natura si presenta colle seduzioni affascinanti di forme, quasi direi con magica arte simulate, ond’egli vive in un incanto, che lo toglie a se stesso. Incanto sublime, pel quale il mondo monotono e desolante dei freddi atomi, che lo costituiscono, si colora, si ravviva, si moltiplica in mille e mille modi diversi; e si allarga d’ogni intorno infinitamente lontano; e si presenta all’uomo, come un campo di cui egli è il padrone, e che egli sente di possedere, nel presente colla sensazione attuale o percezione, nel passato colla sensazione riproducentesi o memoria, nell’avvenire colla sensazione abituale o scienza.

Tale l’unità dei due mondi, della natura e dell’intelligenza, risultante dallo studio delle somiglianze dei fenomeni. Or poche parole ancora della unità, che apparisce nello studio della loro consistenza e successione. La cosmologia, prendendo la parola nel senso, che ha nell’opera citata di Alessandro di Humboldt, trova, che le esistenze e le attività effettive, che si offrono alla osservazione in terra e in cielo, distribuite secondo la condizione propria di ciascheduna, costituiscono una serie graduata e continua, che ritorna al suo principio; vale a dire un circolo di realtà nello spazio e nel tempo. E questa legge universale del circolo cronotopico del cosmo vige, variamente applicata, in ogni sfera subordinata di esso; e quindi anche nella biologica.

Indistinti e senza forma, sono diffusi nella massa leggiera, instabilissima ed uniforme dell’aria i principio, onde, coll’ajuto di alcune sostanze inorganiche del suolo, quali il ferro, la soda, la potassa, la silice, la calce, la magnesia, il fosforo, lo zolfo, si formano le piante e gli animali. Questi principi sono l’azoto, il carbonio, l’idrogeno e l’ossigeno; o liberi, o combinati in acido carbonico, acqua, ammoniaca. Tratti dall’aria, col mezzo di processi d’assorbimento semplicissimi ed entrati nel circolo della vita, negli stadj successivi di essa passano per combinazioni chimiche più e più variate e complesse; e con ciò vanno anche assumendo forme e proprietà sempre nuove e più importanti; finché da ultimo, consumate per l’esercizio di quelle stesse prerogative, che avevano acquistato perfezionandosi, si disfanno, e tornano di nuovo nell’aria. E da essa poi, in seguito, ancora con vece assidua al circolo di prima.

L’acido carbonico, l’acqua e l’ammoniaca si trasformano, pel processo disossidante della vegetazione, in amido ed albumina. E queste sostanze, nelle operazioni digestive ed assimilative dell’organismo animale, si trasmutano, per la combinazione via via crescente dell’ossigeno respirato, in adipe, in fibrina, e in quelle altre, che si trovano nel sangue e che, variamente modificate per la presenza dei principi inorganici commisti, ne compongono i tessuti molli moltiformi e le ossa. Per l’ulteriore combustione poi, importata dalla stessa attività degli organi, gli elementi istologici non azotati si risolvono in acido carbonico, e gli azotati in urea ed ammoniaca. E così, nella progressione delle formazioni organico-vitali, si ha una serie graduata e continua di sostanze e di funzioni prima, ascendendo, dall’aria ai corpi vivi; poi, discendendo, da questi all’aria medesima.

La serie è graduata. E ciò tanto se si considera come una progressione di sostanze, quanto se si considera come una progressione di funzioni. Chi dice materia dice anche forza; e viceversa. E così chi dice sostanza, ossia una data specificazione della materia, dice, anche funzione, ossia una data specificazione della forza. E viceversa. Ché ciascuno dei due termini suppone l’altro. Onde, sé da un lato la molecola elementare plastica dei tessuti animali, tanto complessa e trasformabile, si collega agli elementi semplici ed inalterabili dell’idrogeno, dell’azoto, del carbonio e dell’ossigeno per via della cellulosa e dell’ammoniaca e delle formazioni di mezzo; e l’individuo vivente alla molecola organica per gli organi, i tessuti, le fibre e le cellule; e la specie umana all’infima vegetale per le intermedie; dall’altro, fra la estrema instabilità di equilibrio atomico della molecola azotata proteiforme e la rigidezza chimica dei principi dell’aria, troviamo dei gradi tramezzanti di plasticità, come nella cellulosa, base della economia vegetale e, tra la vita dell’individuo e la mera attività molecolare della materia, organizzata, le proprietà dei tessuti e le funzioni degli organi; e, tra il pensiero dell’uomo e la semplice endosmosi della monade vegetale, le gradazioni infinite delle funzioni vitali degli esseri organizzati, e delle sensitive degli animali.

Ela serie è poi anche continua. Vale a dire, ogni suo elemento è collegato necessariamente col precedente e col seguente. Ogni elemento, come dicevamo, è, nello stesso tempo, una sostanza ed una funzione. E, come sostanza, è il prodotto della funzione del precedente; come funzione, è il processo, che ingenera il seguente. L’elemento quindi, come sostanza, si collega necessariamente col precedente; come funzione, col seguente; perché è impossibile l’esistenza di una sostanza senza il processo della sua formazione, cioè senza la funzione della sostanza precedente; ed è impossibile la funzione di una sostanza senza che se ne modifichi la costituzione, ossia senza la produzione della sostanza consecutiva. La serie delle sostanze componenti il circolo biologico è quindi la rappresentazione simultanea nello spazio della serie degli atti successivi, pei quali è passata, o deve passare, una sola di esse; ossia i due circoli, della consistenza o dello spazio e della successione o del tempo, si corrispondono e si immedesimano.

E da ciò apparisce, con piena evidenza, l’assurdità di separare la natura dalla intelligenza, e di farne due mondi diversi ed opposti, anziché due elementi connaturali e cointegranti di un mondo medesimo; per non dire due forme correlative di una stessa realtà. L’intelligenza è la funzione dell’organismo umano. Separarnela è distruggerlo; come è distruggere la sostanza separarne l’attività, che le appartiene. L’intelligenza è il processo, onde si consumano, o si riducono, per adoperare il termine chimico, i materiali degli organi, pei quali si attua il pensiero. Si può affermarlo, quantunque la scienza non sia ancora in grado di determinare con precisione la differenza tra la riduzione della materia muscolare, in seguito ad atti di movimento e quella della materia nervosa, in seguito ad atti di coscienza. Togliere di mezzo l’intelligenza tra la sostanza nervosa integra e la sua riduzione, è togliere un anello nella catena delle cause e degli effetti; è rompere il circolo naturale della vita; è negare, per questa parte, la legge universale del circolo cronotopico del cosmo. Tra la sostanza integra e la sua riduzione, sta di mezzo l’intelligenza, colla stessa necessità naturale, con cui, tra il ramoscello disseccato e le sue ceneri, sta di mezzo la fiamma, ond’esso, avvampando, si consuma.

J. Moleschott, nel suo libro della circolazione della vita, scrive: "Non facciamo noi opera pietosa quando esclamiamo al povero colono, che col sudore della fronte appena soddisfa ai primi bisogni della vita: Consolati; in quell’asciutto e povero pane tu possiedi già tutti i materiali, che occorrono per produrre e porre in opera le azioni più sublimi di cui sia capace una creatura terrestre? Forse è prosaico questo nostro trasformare ogni pasto in una cena eucaristica, per la quale la materia, priva di ogni pensiero, si trasforma, si transostanzia in un uomo che pensa; in cui adunque noi ci appropriamo veramente la carne e il sangue dello spirito, per trasmetterlo in tutte le parti del mondo, coi figli dei nostri figli?" Il concetto qui espresso consuona perfettamente, col nostro, ed è verissimo. È, come dimostrammo, il risultato positivo dello studio dei fatti, considerati nella loro consistenza e successione. Ma è un concetto incompleto; perché non è subordinato all’altro più elevato, che emerge dallo studio delle somiglianze, voglio dire, al concetto della realtà psicofisica. Senza del quale non trova la sua spiegazione; e quindi rimane in quella luce imperfetta, in quell’antagonismo con altre idee pur vere, in cui l’abbiamo visto sopra presentato da Tyndall e Griesinger; e di cui profittano poi, con molto vantaggio, gli spiritualisti per combatterlo. Affatto al sicuro dagli argomenti di costoro non è il concetto medesimo, se non presso di noi, che enunciandolo, non solo lo presentiamo, come un fatto realmente osservato, ma anche, come un fatto, di cui possiamo dare una spiegazione rigorosamente scientifica.

L’uomo pensa. Posto che sia il suo organismo, è d’uopo che sia anche il suo pensiero; precisamente come, posto, che esista un corpo, è d’uopo che pesi. L’osservazione costante della consistenza dei due fatti della coesistenza del corpo e del suo pesare, (e nient’altro fuori di tale osservazione) ci costringe a connettere in un solo concetto le idee del peso e del corpo. La medesima osservazione della consistenza dei due fatti ci costringe pure a connettere in un solo concetto le idee dell’organismo umano e del suo pensiero. Se v’ha errore in questo giudizio, v’ha anche nel primo. Se è necessario mettere di mezzo qualche cosa tra il pensiero e l’organismo è pur necessario metterne tra il peso ed il corpo. Identità di premesse non può soffrire diversità di illazione.

Perfetta è l’analogia tra il fenomeno naturale del pensiero dell’uomo e l’altro del peso di un corpo. In ambedue i casi troviamo una forma speciale della forza, che si manifesta in una forma speciale della sostanza concreta. Se v’ha differenza, questa è tutta relativa alla legge della divisione del lavoro. Consiste cioè in un grado diverso di specializzazione della funzione dello stesso concreto, corrispondente alla specialità della sua costituzione. Poiché la natura, come più volte osservammo, si comporta come l’artefice; il quale riesce a condurre lavori, via via più perfetti, di mano in mano che impara a prepararsi stromenti migliori. Anche nella natura la forza che effettua le combinazioni, ognor più complesse e sapienti, degli elementi materiali, è da queste stesse combinazioni, quasi da stromenti dell’arte sua meravigliosa, trasformata in funzioni di indole sempre più speciale e squisita, che ne moltiplicano e ne maturano la potenza. E in vero, chi pensa alla forza nella sua indistinta totalità, pensa ad una forza di una grandezza sterminata, ma che non fa nulla. E il segreto della prodigiosa attività della natura, che tutto muove e tutto effinge, con efficacia irresistibile ed immensa, sta tutto in quelle energie, estremamente molte e varie, nelle quali la sua forza si suddivide e si specializza, distribuendosi nei concreti innumerevoli e prendendovi l’atteggiamento e l’indirizzo voluto da ciascheduno.

Né tra il pensiero e l’organismo v’ha, come si crede universalmente, quella essenziale contrarietà di natura, che ne impedisca assolutamente la composizione in una vera unità naturale di realtà. No; perché l’uno e l’altro convengono nella stessa natura di realtà psicofisiche. La realtà psicofisica, nelle abitudini mentali, si sdoppia nelle due, del mondo interno e del mondo esterno. E quest’ultima del mondo esterno, di nuovo, nelle due altre della materia e della forza. E la materia e la forza sempre unite e pur sempre distinte, di conserva, si concretizzano nella infinità dei punti dello spazio e dei momenti del tempo, si svolgono nelle serie graduate e continue della circolazione dell’essere; si specializzano e manifestano gli aspetti prodigiosamente variati della realtà e virtù loro proteiforme nei generi delle cose. Per gradi; fino al punto culminante dell’esistenza, all’uomo; dove ciò, che, negli stadj inferiori dell’essere, chiamavasi la materia, diventa la persona o lo spirito. La persona o lo spirito, che è lo stromento più nobile della attività della natura. Lo stromento, pel quale tale attività si converte in intelligenza, ossia in facoltà creatrice.

Per gradi, come dico, la forza si converte in intelligenza, ossia in facoltà creatrice. La forza nel rozzo ed informe minerale si manifesta nella sua forma più semplice. Il minerale si muove. Nell’organismo vegetante i movimenti della materia ricevono una direzione determinatissima, e collimano alla produzione di un’opera, della quale esiste già il piano sapiente nella specie stessa della pianta, improntata nel suo germe. Il vegetale fa. Nell’organismo animale, oltre la direzione stabile delle attività, onde si mantiene e si sviluppa l’individuo secondo la sua specie, altre ne sorgono che si aggiungono alla prima, e che sono l’effetto delle impressioni sensibili, causate dagli oggetti esteriori. In esso cioè l’impulso ad agire non nasce soltanto dalla forma intrinseca sua propria, ma anche dalle altrui, onde pei sensi è fatto partecipe. L’animale imita. Anche l’uomo ricetta nella sua immaginativa le parvenze delle cose, che lo circondano. Ma in lui, per la somma capacità di trasformarle, componendole e fondendole insieme nei modi più diversi, la immagine allettatrice non è più la stessa incolta effigie di ciò che è, quale si impronta primamente nel senso dal difuori, ma un tipo vago e geniale di ciò che non è ancora, quale lo pinge, con arte misteriosa e sublime, la mente al di dentro. L’uomo, in quella specialità di atti che lo caratterizza, segue l’ispirazione di una idealità; tende cioè ad incarnare una forma che non esiste, e a trarla, in certo modo, dal nulla. Che è quanto dire, che è la sua opera una creazione.