Roberto Ardigò
La psicologia come scienza positiva
1870
Indice
Parte prima: La cognizione scientifica
Parte seconda: La materia e la forza nelle scienze naturali
Parte terza: Lo spirito e la coscienza in psicologia
Parte quarta: Il metodo positivo in psicologia
Parte quinta: La psicologia positiva e i problemi della filosofia
Parte prima: La cognizione scientifica
Gli antichi credevano, che la scienza dovesse condurre a conoscere
le cose fino nella essenza e nelle cause loro. Lo insegnava
espressamente anche il grande filosofo, che Dante ha chiamato "il
maestro di color che sanno" A noi non è più possibile
una tale illusione; poiché sappiamo, che lo sforzo di
risalire oltre i fenomeni è vano affatto; e che il compito
della scienza non può essere altro, che di rilevarne la
consistenza, la successione e le somiglianze.
L’errore degli antichi era naturalissimo, e dipendeva da ciò,
che l’uomo, senza punto accorgersene, pone negli oggetti le
impressioni sue proprie, come il movimento della terra nel sole; e
considera le idealità, formate dalla sua immaginazione, quali
rappresentazioni adeguate e perfette di ciò, che esiste
veramente ed opera nelle cose. Il lavoro analitico, onde la scienza
pervenne a scoprire l’inganno, fu oltremodo lungo, difficile e
faticoso. E la storia de’ suoi progressi, a questo riguardo, dai
Greci, che la iniziarono, a noi, è piena di insegnamenti e
merita di essere ricordata.
Nel primissimo e più informe rudimento del pensiero
filosofico, proprio dell’età mitologica, i fatti si
rappresentarono siccome altrettante manifestazioni vitali, analoghe
a quelle che l’uomo sperimenta in se stesso; e perciò si
riferirono all’arbitrio di virtù invisibili, intime alle
cose, fornite di pensiero e di volontà, e aventi il potere di
muoverle con un comando come l’uomo le sue membra. Lo stesso Talete
di Mileto, primo a filosofare in Grecia, riteneva ancora, che ogni
oggetto nella natura fosse avvivato dallo spirito di un qualche
demone o dio; e che il magnete avesse la proprietà di
attrarre il ferro dall’istinto particolare di quell’anima, che vi
doveva albergare
L’idea del comando si è allargata in quella di legge,
dopoché uno studio un po’ più avanzato
incominciò a far conoscere la concatenazione, l’ordine e la
stabile ricorrenza dei fatti; sicché dagli oggetti
particolari la considerazione si estese al complesso di essi, e lo
sviluppo totale degli eventi apparve, come la esecuzione
infallibile, non di un capriccio del momento, ma di un piano
sapiente, stabilito in precedenza. Dall’idea di un tutto naturale,
già abbozzata nelle dottrine dei filosofi della Jonia,
derivanti le cose da un solo elemento per ispontanea evoluzione,
come la pianta dal seme, ed espressa più tardi nel modo
più compiuto da Diogene di Apollonia, dai pitagorici si
passò, facendosi un primo passo nella via dell’astrazione,
all’idea del tutto numerico E da questa, facendosene un altro dagli
eleatici, a quella del tutto metafisico. Nella apprensione
complessiva e generale dei corpi, soprattutto in quella più
astratta dei matematici, scomparvero le particolarità
distintive di ciascheduno, e si fusero tutti nella idealità
pura ed infinita della materia, reale e mutabile, indistinta nella
sua unità e tuttavia divisibile. Parmenide e gli eleatici non
tennero conto della divisibilità e della mutabilità, e
si elevarono alla nozione dell’essere schietto, e all’infuori del
limite, della moltiplicità e della variazione Su queste
invece fermò l’attenzione Eraclito di Efeso, e ne creò
una astrazione, onde l’essere non è il persistere immutabile,
ma il divenir sempre, variando eternamente Anche il concetto del
momento attivo o causante nella natura si era di mano in mano
modificato, facendosi sempre più astratto. Di fronte ai
numeri dei pitagorici quel momento era apparso l’armonia che li
assomma e li dispone secondo un ordine; di fronte all’essere ed al
divenire dei metafisici, la mente che n’è conscia, e il fato,
dal cui volere irrevocabile è necessitato il corso
eternamente prestabilito degli avvenimenti Tuttavia non aveva
cessato di rimanere compenetrato nel momento passivo o materiale, e
di formare con esso una cosa sola, come la vitalità generante
ed animatrice dei Jonici (prima sparsa e divisa nei singoli esseri,
poi compendiata in una unica anima del mondo); onde l’aspetto
panteistico di tutti questi sistemi. Ma Anassagora di Clazomene, nel
suo ardito tentativo di comporre insieme in un pensiero più
grandioso e maturo i trovati della speculazione precedente, onde
ideò il cosmo come un tutto d’arte divina, gli diede maggior
risalto, lo staccò affatto dal composto inerte, e ne fece un
essere puro distinto, impersonandovi specialmente le astrazioni
della libera forza motrice e della cognizione dei fini, e glielo
contrappose, come l’artefice alla materia della sua opera; restando
così per lui disegnate le linee fondamentali della filosofia
dualistica, che si svolse poi nei grandi sistemi di Platone e di
Aristotele. Nel concetto, che si venne per tal modo formando, di una
vasta, anzi infinita, armonia di cose, rispondenti immancabilmente
alle disposizioni eterne di una mente sovrana, a ciascuna era
affidato un ufficio speciale, insieme col potere di eseguirlo. Tale
potere non aveva altra ragione di essere, che il beneplacito del
donatore. Dio, dice Platone nel Timeo, volendolo, rende immortale
ciò che per natura è corruttibile. E l’uso era
vincolato da una legge determinata dall’intento del tutto. Al sole,
dice Eraclito, è segnata la sua via; se ne uscisse, non
isfuggirebbe al castigo delle Erinni vendicatrici E poiché
l’esperienza aveva mostrato corrispondere ad una cosa particolare
varie categorie di fatti, si era pensato, che ogni essere fosse
investito di più facoltà, quasi di altrettante
prerogative, regolate però anch’esse nel loro esercizio da
apposite convenienti prescrizioni. Così, come si era dapprima
applicato alla natura, per ispiegarla, il concetto dell’individuo,
che ha in sua piena balia le diverse membra del corpo, aspettanti
per muoversi il comando dello spirito animatore, in seguito le si
applicò quello dell’ordine sociale, nell’ampia cerchia del
quale un legislatore fissa e dirige, a suo talento, ma con legge
stabile e generale, le sorti e le azioni dei sudditi, nei diversi
gradi della loro condizione.
Ma una osservazione più attenta scoprì, a poco a poco,
tali e tante relazioni tra l’azione esercitata dagli oggetti e la
loro intima costituzione, che la scienza andò sempre
più abbandonando l’idea delle proprietà gratuitamente
e capricciosamente affidate e delle leggi imposte arbitrariamente; e
finì col persuadersi, che le energie, proprie delle sostanze
e dei corpi naturali, non fossero altro, che la conseguenza e la
espressione necessaria ed inevitabile della loro essenza medesima.
Cum materies est parata
Cum locus est praesto, nec res, nec causa moratur
Ulla, geri debent, et confieri res.
diceva Lucrezio. Tale è la dottrina di Democrito di Abdera,
scolaro di Leucippo. Democrito compì il tentativo di
Empedocle di spiegare la varietà e il mutarsi incessante
delle cose, partendo da una primitiva moltiplicità caotica,
per via di un processo puramente meccanico Egli emendò la
teoria del filosofo Agrigentino; invece delle quattro sorta di
particelle primitive, dette i quattro elementi, e delle due forze
contrarie dell’amore e dell’odio, fatte intervenire per dare
spiegazione delle composizioni e scomposizioni, ammise degli atomi,
distinti, non per la sostanza, ma per la forma e la grandezza, e
dotati per natura di movimento E, ciò che costituisce il
carattere proprio di questa dottrina, ripudiò espressamente
l’intervento delle cause finali
In questo sistema i vari modi di operare riscontrati nelle cose,
ritornanti invariabilmente date le identiche circostanze, si
continuò a chiamarli leggi, come prima; ma con significato
molto diverso. Nella immaginazione, più poetica che
scientifica, degli antichi dualisti il pensiero di un ordine, nato
in una mente suprema, doveva averla condotta, per realizzarlo, a
divisare gli uffici relativi, ed a procacciarsi il soggetto, in cui
investirli, costringendo ad assumerne l’incarico una materia del
tutto inerte e passiva, e per sé indifferente a qualunque
genere di azione Nel concetto assai più filosofico, che si
oppose al precedente, è la stessa natura delle sostanze la
ragione, come della esistenza, così anche della energia loro,
e del modo di esercitarla; sicché l’ordine non è
più una causa, ma un risultato; e la legge non è
più un comando imposto tirannicamente ad esseri riluttanti,
ma la semplice manifestazione spontanea di quello che sono.
Anche qui però la legge si diversifica ancora dal fatto, e si
appoggia interamente alla sostanza, poiché ne rappresenta
l’essenza e le proprietà. Per cui, in questo sistema, il
fatto non può essere concepito da sé, ma si connette
necessariamente alla legge, come la legge alla proprietà e
alla forza, e questa alla sostanza. E il fatto, benché
costituire da solo la scienza, non vi tiene neanco il primo posto, e
vi figura soltanto come ultimo corollario delle idee sopraddette,
che lo precedono logicamente.
Ma una analisi più accorta del processo conoscitivo, onde si
distinse ciò, che si deve alla realtà appresa, da
ciò che è mero effetto di combinazione e di abitudine
mentale, ha dimostrato finalmente, che le idealità formate
dalla immaginazione, quali sono queste della sostanza e delle sue
misteriose proprietà, non sono punto, come si credeva quasi
invincibilmente adeguate e perfette di ciò, che esiste
veramente ed opera nelle cose; e che la scienza, per essere
veramente solida in tutte le sue parti e degna del suo nome, non
deve ammettere, siccome certo, se non ciò che è
accessibile alle umane facoltà, vale a dire il solo fatto
Questa verità, non estranea del tutto alla scienza antica
più matura, è propria soprattutto della moderna, i cui
risultati hanno giustificato definitivamente gli arditi concetti di
David Hume L’essenza e le proprietà della sostanza
trascendono assolutamente la sfera del nostro comprendimento, e
quindi non hanno diritto di entrare a far parte di un sistema di
cognizioni serie e positive. Chi ve le introduca, o lo fa per
dedurne i fatti, come si dedurrebbe la conseguenza dal suo
principio, e allora si ha l’assurdo, che il fenomeno si accerti, non
mediante l’osservazione, ma col ragionamento a priori; o lo fa per
completare, con una semplice aggiunta metafisica, un corpo di veri
in tutto empirici, e allora si ha nella scienza un principio
discordante ed ozioso, che non aggiunge nulla alla verità del
resto, e rimane come una parte viziosa, che minaccia sempre di
guastare la buona.
Quando diciamo, il fatto, non escludiamo la legge. Se lo facessimo,
toglieremmo anche la scienza, perché essa consiste appunto
nel dimostrare le leggi dei fatti. Ma che è infine la legge,
se non il fatto? La legge astronomica della gravitazione dei corpi
celesti, la legge fisica della rifrazione della luce, la legge
fisiologica della circolazione del sangue, sono altrettanti fatti;
niente altro che fatti; invincibilmente, rappresentazioni. La
gravitazione è il fatto del movimento delle grandi masse di
materia, isolate nella immensità dello spazio; la rifrazione
della luce è il fatto della deviazione del raggio luminoso,
nell’entrare in mezzi diafani di densità diversa; la
circolazione del sangue è il fatto del movimento del liquido,
onde si mantiene la vita, per le arterie e le vene degli animali, in
conseguenza delle contrazioni del cuore. E così dicasi di
tutte le altre leggi. Non se ne trova nessuna, che sia altro
più che un fatto.
La legge si distingue dal fatto, non come cosa da cosa, ma
solamente, come la cosa considerata in ciò che ha di comune
con altre, vale a dire il generale e l’astratto, dalla cosa
considerata in tutte le sue particolarità, ossia come
individuale e concreta. Dati più fatti dello stesso genere,
ciò in che si rassomigliano è la loro legge. Per dirlo
in una parola, la legge è la somiglianza dei fatti.
L’allungamento di una spranga di ferro, esposta al sole,
l’innalzamento della colonna di mercurio nel tubo di un termometro,
portato in un luogo caldo, il gonfiamento di una vescica chiusa,
contenente aria, messa sopra una stufa accesa, sono tre fatti
particolari. Essi hanno di comune, che sono una dilatazione di
corpi, diversi per la sostanza e lo stato di aggregazione
molecolare, in seguito a riscaldamento. In ciò si
rassomigliano; e quindi si dice, che questa è la loro legge.
Onde si vede, che, se la scienza oggi parla ancora di leggi, questo
vocabolo vi ha un significato affatto diverso dal vecchio; e che il
concetto da esso indicato non è, per nessuna ragione logica,
subordinato a quelli delle proprietà, della sostanza, e della
essenza, come presso gli antichi.
Non è però da dissimularsi, che, in quanto questa
parola, anche adesso, come prima, è usata soltanto nelle
scienze dinamiche, ossia di ciò che avviene o diventa, e non
nelle descrittive, ossia di ciò che è, conserva
tuttavia una qualche ricordanza, per quanto leggera, dell’antica
significazione. Se non vi rappresenta più la forza
particolare generatrice del fatto, vi indica però ancora una
certa ragione logica speciale. Mi spiego con un esempio. La legge, a
cui si subordina il fatto della caduta di un corpo sollevato in alto
e poi abbandonato a se stesso, è quella della gravità.
Questa gravità gli antichi la prendevano, come qualche cosa a
cui fossero soggetti i corpi; fosse poi essa o un comando superiore
onnipotente, che li spingesse irresistibilmente verso la terra, o la
stessa loro natura, che li sollecitasse a cadere. In qualunque modo,
sempre una vera forza particolare effettrice. Per noi invece la
gravità, come abbiamo detto, è lo stesso fatto di
cadere, che si rinnova ogni volta che i corpi non sono sostenuti. E
quindi non ci rivela punto la causa reale, che lo produce. Ma ci
serve a spiegarlo. Cioè veniamo per essa ad assegnargli un
posto in un ordine ed in una serie di fatti aventi tra loro dei
rapporti dinamici, ossia di successione.
Nelle scienze dinamiche si studiano i fatti, che si succedono nel
tempo. L’attinenza di successione nel tempo, considerata nei fatti,
fa che noi li apprendiamo, non come qualità o cose, ma come
atti e funzioni; e li colleghiamo fra loro pei rapporti della
causalità. È questa la ragione, per cui si conserva in
quelle scienze la parola legge, colla tinta di significato speciale
detta sopra. Nelle scienze descrittive, che, nei dati reali ed
ideali, cercano, non quello che fanno, come le dinamiche, ma quello
che sono (e ciò notando il rapporto di coesistenza dei fatti
che li costituiscono), per indicare le generalità, che ne
danno ragione, si preferiscono altre parole; come elemento, parte,
specie, classe, rapporto, idea e simili, che si possono comprendere
nell’unica di nozioni. Tutti questi vocaboli non indicano, che dei
fatti in astratto, come quello di legge; né più,
né meno. E non se ne differenziano, se non perché,
come questo ultimo ci fa ricordare, che in antico le scienze, in cui
entra, seguendo una illusione naturale e fortissima della nostra
mente, credevano di mostrarci la vera causa reale degli effetti
studiati; i primi appartengono a scienze, che una volta avevano, per
lo stesso motivo, la pretesa di rivelarci l’essenza stessa delle
cose. In una parola, la legge è il fatto stesso, ma concepito
come una azione, vale a dire, avente con altri fatti una relazione
di tempo; e la nozione è, essa pure, il fatto, e null’altro;
ma il fatto considerato, come cosa o qualità, vale a dire,
avente con altri fatti una relazione di spazio. Fuori di tali
allusioni, nessun’altra differenza tra quella e questa. Tutte e due,
allo stesso modo, sono generalità od astrazioni, formate sui
fatti particolari, o, che è lo stesso, ne sono le
somiglianze; e servono per classificarli Chi vi aggiunge di
più, come vedremo innanzi farsi oggi ancora da molti di
quelli, che parlano di forza e materia, di anima e di facoltà
dello spirito, s’inganna, e torna ai falsi sistemi, sopra ricordati,
della scienza immatura.
La scienza va in cerca dei fatti. Osservando e sperimentando, li
trova, li nota, li accerta. Poi li confronta, e li distribuisce
secondo le somiglianze, e ne forma dei gruppi distinti, sui quali
leva le prime generalità. In seguito paragona tra loro queste
generalità prime, e le distribuisce in categorie, e ne astrae
delle generalità superiori; e ripete il lavoro, di grado in
grado, fino a trovare, se vi riesce, quell’unica, che sta in cima a
tutte, e le collega in un solo sistema. Così si forma la
scienza; la quale, per tal modo, viene ad essere un grande quadro
sinottico, o una classificazione dei fatti. Classificazione che
giova a due scopi. Essa, in primo luogo, è un tutto proprio
della mente, è un’opera d’arte della facoltà logica,
è una idealità, onde l’umana contemplazione si pasce
con voluttà divina, come della idealità morale ed
estetica. Inoltre serve a spiegare le cose particolari, e quindi a
farle conoscere, nel modo più perfetto, che è a dire,
scientificamente.
Che è conoscere un oggetto particolare? Lo stesso che
spiegarlo. E spiegarlo? Una cosa semplicissima associare ad esso le
idee che vi hanno relazione. Il fabbro conosce un suo strumento,
perché alla sua vista si risveglia in lui l’idea dell’uso a
cui serve. Egli poi lo conosce solo praticamente, perché lo
fa mediante l’associazione di idee particolari ed inorganiche. Il
botanico, conosce una data pianta, perché, esaminandola,
ricorda la varietà, la specie, la famiglia, l’ordine, e via
discorrendo, a cui appartiene nel sistema dei vegetali. E la sua
cognizione è scientifica, perché le idee associate,
che la rendono tale, sono idee astratte, disposte secondo le diverse
gradazioni di generalità, ossia secondo il loro organismo
logico. Così il marinajo conosce praticamente un dato vento,
mentre egli vi annette, per l’esperienza avuta, certi pericoli della
navigazione. Il fisico ed il meteorologo conoscono invece quel vento
scientificamente, mentre sanno associargli le idee delle leggi
proprie dei movimenti dei corpi in genere, e quelle dei movimenti
dei fluidi aeriformi, dell’aria, dell’atmosfera, delle sue diverse
correnti, e via dicendo; e così viene ad indicare il posto,
che quel fenomeno tiene nel grande quadro dei fatti della natura.
Non sempre le generalità, che si associano a dati fatti
particolari, per ispiegarli, sono cavate, nel modo detto sopra, da
quei fatti medesimi; e quindi non sempre sono a loro posteriori nel
processo ideologico. Spessissimo vi si applicano delle
generalità già formate prima. Per conoscere gli avanzi
fossili di un animale di una specie perduta, il paleontologo ricorre
alle classificazioni già preparate dalla scienza, dietro lo
studio degli individui tuttora viventi. La scienza gli presta, o il
genere, o la classe, in cui collocare il nuovo animale; mentre i
suoi caratteri particolari lo conducono a delineare una famiglia,
una specie novella. La teoria, recentissimamente provata vera dal
professore Schiaparelli e da altri, sulle meteore cosmiche a cui
appartengono gli aeroliti, non è altro che una giusta e
felice applicazione ad un nuovo caso delle leggi astronomiche delle
comete. Qui l’ipotesi si è convertita in tesi; ossia la
somiglianza presunta è divenuta una somiglianza verificata.
In mancanza di somiglianze vere e proprie, si ricorre anche a
supposte e lontanissime, pur che si trovi una qualche spiegazione.
Tanto è forte siffatta tendenza della mente umana. Se cade
una goccia di un acido su un panno e ne altera il colore, si vuol
subito spiegare il fatto; e, in mancanza d’altro, si ricorre
all’idea del mangiare, che non ha con quello se non una lontanissima
analogia; e si dice, che l’acido ha mangiato il colore. E chi non
è istruito nella chimica se ne contenta, come se non gli
restasse altro da sapere in proposito. Tale procedere è
immensamente più comune, che non si creda. N’è frutto
la massima parte delle nostre cognizioni. Il linguaggio umano
n’è, si può dire, formato di pianta. E non è
straniero alla stessa scienza; che anzi il suo progresso consiste
appunto in ciò, di venire sostituendo a poco a poco delle
somiglianze vicine e giuste alle false e lontane.
L’anteriorità cronologica delle nozioni generali, adoperate
nelle così dette scienze a priori, per rendere ragione dei
fatti particolari, è tanta, che se ne sconosce perfino del
tutto la natura. Onde il debole di quelle scienze. Il debole dei
metafisici sta nel credere, che quelle nozioni universalissime, che
essi chiamano le idee, precedano la esperienza di qualunque fatto, e
ne siamo affatto indipendenti; e quindi siano atte a rappresentare
più che il mero fatto; a rappresentare cioè la stessa
sostanza ed attività della cosa, onde il fatto procede, e le
cagioni assolute di esso. Se il matematico non incorre nelle
assurdità dei metafisici, è perché prende le
sue linee e i suoi punti per quello che sono veramente, cioè
come astrazioni, e niente di più. Se egli, per esempio, per
calcolare il rapporto, che corre tra due forze date, le indica con
una lettera e le considera concentrate ciascheduna in un punto, con
ciò non vuol dire di conoscere il modo, onde nella natura si
sviluppano quelle forze, e non intende di sostenere contro i fisici,
che una energia sperimentabile non supponga una certa
quantità estesa di materia. Le sue conclusioni sono delle
relazioni puramente mentali, quali risultano dal confronto logico
dei dati astratti su cui lavora, ed egli non dà ad esse altro
valore E così non argomenta dalla divisibilità
all’infinito dello spazio matematico ad una uguale
divisibilità dei corpi concreti. Anzi non gli ripugna neanco
di concepire il corpo in sé come una cosa non estesa. Chi non
sa, che tale idea ebbe i principali suoi sostenitori fra i
matematici, quali erano certamente, per non citare che questi,
Leibniz e Boscowich? Le idee di tempo e di spazio, su cui lavorano i
matematici, quelle di essere, realtà, sostanza, causa e
simili, onde si occupano i metafisici, non sono, come essi credono,
nozioni precedenti l’esperienza dei fatti, o, come si dice, idee a
priori. Esse sono il frutto della nostra prima e più costante
esperienza, aiutata dallo strumento della parola, che rappresenta
l’esperienza delle generazioni passate. Il crederle non semplici
somiglianze di genere, fatti sperimentali, ma tipi universali,
necessari e trascendenti, e senza dipendenza da essi, proviene
unicamente dal modo inavvertito, onde si vennero disegnando nella
nostra intelligenza di mano in mano, che si andava formando.
Ad ogni modo, sia che si parta dal fatto particolare, per indurne la
nozione o la legge generale, sia che, ottenutala prima per tale via,
si parta da essa, o per chiarire nuovi fatti, associandovela per la
ragione della analogia e applicandovela come una ipotesi, o per
creare nuovi dati, servendosene come di proposizione maggiore di un
sillogismo, resta sempre, che nella scienza non si ha che il fatto e
la nozione o legge; vale a dire, il fatto considerato ora in
concreto ed ora in astratto; e che quindi essa non può
risalire oltre i fenomeni, e non può far altro che rilevarne
la consistenza, la successione e le somiglianze; e che al tutto vana
era la credenza degli antichi, che potesse condurre a conoscere le
cose fino nella essenza e nelle cause loro.
La nostra conclusione a molti parerà desolante.
Parerà, che, a questo modo, la scienza debba riuscire alla
negazione di se stessa. E si rimpiangeranno i tempi felici, in cui
l’uomo, pure illudendosi, poteva sentire la compiacenza, quasi
divina, di credersi in possesso dei segreti più nascosti
della natura, e di rifare, con una vera creazione della sua mente,
il mondo, per la cognizione delle cause medesime, onde è
l’effetto. Rimpianto irragionevole; come di chi, ridestandosi
improvvisamente, sentisse rincrescimento di un bel sogno svanito. Le
palpebre, chiuse pel sonno, si aprono al chiaro del giorno ed alla
verità delle esistenze concrete, se un raggio di sole le
offende e le irrita. Nello stesso modo la luce della scienza moderna
punge e molesta lo spirito addormentato nelle piacevoli fantasie
delle passate età, e lo sforza a risvegliarsi. Le false
immagini del sogno si dileguano, e sottentrano quelle della veglia.
Ma di quanto maggiore bellezza e valore!
La scienza in passato si occupava specialmente delle sostanze, e si
compiaceva di descriverne, con ingenua baldanza, la natura e la
proprietà. Era quello un sogno; ciò che essa credeva
la sostanza non era che una formazione al tutto chimerica di una
poetica fantasia. Che era la sostanza di Aristotele? Un
accoppiamento meramente mentale di due entità astratte, la
materia e la forma E per Platone? Egli ha invertito l’ordine dei
concetti. Per lui le vere sostanze sono le idee; ciò che
tocchiamo colle mani e vediamo cogli occhi non é la sostanza
nel giusto senso, ma solo un non so quale riflesso della vera, ossia
della idea E per gli atomisti? Una riunione di atomi, ossia di corpi
estremamente piccoli. Cioè hanno creduto che un corpo, una
montagna per esempio, fosse bello e spiegato, se, invece di pensarlo
grande come lo vediamo, fossimo riusciti, facendo uno sforzo di
immaginazione, a ridurlo a dimensioni di una estrema piccolezza,
come a dire parecchi milioni di volte minore della punta di un ago.
E per gli altri? L’abbiamo detto sopra; ora l’astrazione matematica
del numero, ora quella dell’essere metafisica; uno ed immutabile,
secondo gli eleatici; vario e sempre diverso da se stesso, secondo
Eraclito.
La scienza nuova ci ha fatto aprire gli occhi alla realtà, ed
ora ci accorgiamo essere ciò che si conosce il solo fenomeno;
ma un fenomeno vero ed effettivo, e non immaginario; un fenomeno di
cui siamo veramente in possesso, e che costituisce un dato di
cognizione solido, e non dipendente dalla nostra volontà; che
non può, come nella scienza passata, o ritenerlo o ripudiarlo
a piacimento, secondo che si accordi o meno con un sistema
prestabilito. E la realtà di questo semplice fenomeno, in
apparenza inconsistente e vuota, è in effetto piena di una
inesauribile ricchezza e fecondità; e nulla valgono, al suo
paragone, le astrazioni aride ed impotenti degli antichi.
Che era l’acqua per Empedocle, uno dei filosofi più positivi
dell’antichità? Era l’agglomerazione di piccole particelle,
non calde e rilucenti, come quelle del fuoco, ma fredde ed opache
Tale, e niente di più, era acqua per quel naturalista, che
riteneva di conoscerla, non nella sua povera esteriorità
fenomenica, ma proprio nella essenza costitutiva della sua sostanza
E tale, presso a poco, è rimasta, per una lunga serie di
secoli, fino a Watt, che, compiendo le osservazioni di Wartlire,
Cavendish, Lavoisier ed altri, ne annunciò il 26 Aprile 1783
la composizione. Secondo quelli che pensano, che a dire fenomeno non
si dica nulla, noi, che pretendiamo di andare fino in fondo della
essenza, e ci contentiamo di arrestarci a quelle, che si chiamano le
apparenze superficiali dei fatto, dovremmo avere dell’acqua un’idea
assai più meschina. Ma quanto si ingannano? Quante cose non
abbiamo noi, o scoperto, o intravveduto in una particella appena
visibile di acqua; in ciò che, per Empedocle e per i fisici
vecchi, non è altro, che un atomo freddo ed oscuro! Un mondo
addirittura.
Che cosa è per noi una gocciolina piccolissima d’acqua? Essa,
prima di tutto, è un cumulo formato da un numero
straordinariamente grande di particelle di una piccolezza, che
sorpassa ogni immaginazione, dette molecole. Una sola onda luminosa,
che, in media, ha la lunghezza di circa mezzo millesimo di
millimetro, ne può abbracciare molti milioni. Cosa che non
deve parere incredibile, perché possono essere nella stessa
gocciolina d’acqua degli animaletti microscopici più piccoli
di quell’onda, eppure forniti di tutti gli organi necessari alle
funzioni vitali. Ma queste molecole non vi giacciono, le une sulle
altre, come i granelli in un mucchio di sabbia. Degli spazi, in
proporzione notevoli, le dividono, che, malgrado la estrema loro
esiguità, non poterono sfuggire alle nostre indagini e ai
nostri calcoli. Scoprimmo come dipendano dal calore, che
intromettendosi li allarga, e dalla pressione esterna che li
restringe; e ne fissammo con certezza e precisione i rapporti di
grandezza, pei diversi stati di aggregazione. E ciascheduna
molecola, secondo la magnifica teoria seguita ed illustrata dal
Secchi, gira sopra se stessa rapidamente, insieme al vortice da essa
formato nell’etere; e nello stesso tempo, non avendo asse stabile di
rotazione, oscilla irregolarmente tra le vicine; onde l’incoerenza e
la fluidità della massa. Che se poi vien meno un poco il
calore, causa della divisione e del disordine, si manifesta, come
per incanto, in tutte le molecole, una tendenza comune; diventano
come i soldati, vaganti senz’ordine nel campo, quando il tamburo
suona a raccolta. Ciascuna conosce il suo posto e vi accorre; in un
momento le file sono composte e si formano delle stelle a sei raggi,
come dei fiori a sei petali, di una esattezza geometrica perfetta;
vale a dire si fa il ghiaccio. Egli è, che, diminuito colla
temperatura, il moto traslatorio delle molecole, e queste per
ciò ravvicinandosi tra loro, i vortici eterei delle une
entrano nella sfera d’azione di quelli delle altre, e sono tutti
travolti insieme, sicché gli assi di rotazione di tutte
prendono una orientazione regolare e si muovono, per così
dire, in cadenza. Nel solido, così formato, le particelle
componenti non possono più scorrere le une sulle altre; e
resistendo, senza spostarsi, all’urto delle onde luminose, non le
estinguono, ma ne permettono la propagazione normale per gli strati
sottili e rarefatti dell’etere interposto. Così, se si
oppongono alla trasmissione del calore e della elettricità,
che esigono facilità di movimento longitudinale, sono in
compenso permeabili alla luce e trasparenti. Ma tutto questo non
è ancor nulla. Delle innumerevoli molecole, che compongono
una gocciolina, appena percettibile, d’acqua, consideriamone una
sola. Essa non è l’atomo freddo ed oscuro di Empedocle. Ma la
compongono l’idrogeno, che ci serve così bene per vederci la
notte, e l’ossigeno, per cui si genera la fiamma, ed il calore. E
questo lo sappiamo così bene che ne abbiamo perfino misurato
i volumi ed i pesi rispettivi; onde ci è risultato, che il
volume dell’idrogeno sta all’altro, come due ad uno, quantunque i
tre, combinandosi, si condensino in due soli; ed il peso del primo
vi è l’ottava parte di quello del secondo. Per noi poi gli
atomi dell’ossigeno e dell’idrogeno sono essi stessi altrettanti
sistemi di altre particelle elementari, contornati ciascuno dalla
propria atmosfera eterea, avente un proprio movimento, che, da una
parte, mantiene la composizione particolare dell’atomo, come l’aria
tiene uniti fortemente tra loro due emisferi cavi, combacianti e
vuoti e, dall’altra, è subordinato al movimento della
atmosfera maggiore della molecola acquea intera. Sicché
potremmo a tutta ragione considerarla, siccome un vero congegno
meccanico, i cui vari organi, accortissimamente calcolati e disposti
e spinti di continuo per gli urti esterni, che ne mantengono
l’attività, servono a trasformare in diverse guise il
movimento ricevuto, e a trasmetterlo, così elaborato, intorno
a sé; potremmo anzi paragonarla ad un tutto naturale assai
più grande, qual è, per esempio, un intero sistema
planetario; poiché, per la natura, come è
piccolissima, sovrabbondandole sempre la forza infinitamente, la
distanza che separa pianeta da pianeta, né punto più
dello spazio dividente le parti di un granello d’arena, così
gli interstizi fra atomo e atomo, impermeabili ai sensi ed agli
strumenti più raffinati dell’uomo, sono campi larghissimi, in
cui essa trova sempre luogo a quante cose invisibili e minute le
piaccia di collocarvi. E la forza, che nella nostra molecola collega
in un solo gruppo l’idrogeno e l’ossigeno, la conosciamo. E, a
questo riguardo, siamo assai più potenti del fato di
Empedocle; poiché ci è possibile ciò, che a
quello non era dato; di disfare l’acqua e di rifarla, come ci piace;
quantunque la forza in giuoco sia meravigliosamente grande; mentre
giusta i calcoli di Dupré per separare violentemente
l’ossigeno e l’idrogeno, sopra una sezione di un millimetro
quadrato, occorre tanto quanto per ismuovere il peso di 1673
chilogrammi.
Insomma Empedocle ha voluto, secondo che richiedeva la scienza del
suo tempo, mostrarci la stessa sostanza dell’acqua, ma ci diede una
sostanza, che non esisteva, se non nella sua mente. Invece della
sussistenza, della concretezza, di una cosa reale, e del portento
della sua attività, l’esperienza non vi ha trovato, che la
vanità di una larva impalpabile e senza vita. L’acqua dei
nostri chimici ci è data, come un semplice fenomeno
poiché vi si prescinde affatto da una teoria qualunque circa
la intrinseca natura delle monadi materiali ed eteree; e le
affermazioni sono tutte l’espressione, immediata o mediata, di fatti
osservati. E tuttavia non è quella cosa inconsistente e
desolata, che altri avrebbe creduto; ciò che ne abbiamo
detto, per quanto sia pur qualche cosa, è di gran lunga assai
meno di quello, che se ne potrebbe dire ancora; ma contiene in
sé una ricchezza di dati ed una fecondità di aspetti e
di funzioni inesauribili. E ciò, perché quell’acqua
è un fenomeno sì, ma un fenomeno che esiste; non
è una apparenza vana, come quella di un sogno, sibbene la
percezione effettiva di ciò, che è realmente, fatta da
un uomo, che non dorme.
Il procedere di uno scienziato moderno è veramente tale da
far venire il capogiro agli ammiratori della scienza vecchia.
Lasciamo, che un oggetto cada per terra. Nessuno mostra di stupirsi
del fenomeno, che ha luogo. Tutti sono interamente soddisfatti di
ciò, che ne sanno; e dalla scienza si aspettano delle
spiegazioni, non su di esso, che credono non averne bisogno, ma
sulle altre cose più elevate; come sarebbe, per esempio, il
sistema dell’universo. E lo scienziato? Senza enfasi e senza pretesa
egli vi dirà, che il sistema dell’universo, lo conosce; e
tanto, che non gli reca oramai più nessuna meraviglia. Egli
vi dirà, che il mondo non è mica dentro a quelle
fodere o buccie più o meno dure, dette cieli, in cui gli
antichi l’avevano imprigionato, ma che i campi dello spazio sono da
ogni lato aperti, e interminati, e fecondi. E che si trovano da per
tutto dei mondi vecchi e in dissoluzione, e di quelli recenti e che
vanno formandosi; quali luminosi e quali opachi; quali compatti e
quali composti di minuzzoli disgregati o di tenuissimi vapori;
quali, infine, aggiogati ad un sistema particolare di astri e quali
indipendenti, o che si versano, come torrenti di materia cosmica,
ora nell’uno ed ora nell’altro. Egli vi dirà di sapere, di
che si alimenti la luce di un sole, e come, stando nel suo studio,
ne possa assaggiare i raggi e quindi conoscere la materia,
ond’è formato. E vi dirà anche, che egli sa, con tutta
precisione, quanto è grosso ogni pianeta, e quanto pesa, e
quanto corre e perché ha cominciato a correre, e corre
così tuttavia, e per quanto tempo potrà seguitare a
correre E se voi, sorpresi del tono semplice e niente esaltato del
suo parlare, gli domanderete, da che ha preso tanta sicurezza di
affermare, discorrendo di sì grandi cose, come se non dicesse
nulla di straordinario, egli vi richiamerà all’oggetto
caduto, e vi soggiungerà: Eh! tutto quello, che avete
sentito, che è mai, se non lo stesso fenomeno volgarissimo
della caduta di un corpo qualunque? Felice questo scienziato,
esclamerete voi allora, che par che non sappia nulla, e sa tutto.
No, dirà egli freddamente; anzi ignoro, che sia questo
volgarissimo movimento di un oggetto che cade Ammiratemi, se volete,
per le mie cognizioni sui corpi, che si aggirano in cielo; ma
ricordatevi, come io debba confessare di ignorare perfettamente
questo vil fatto, che non eccita la curiosità di nessuno.
Tale è il linguaggio dei cultori della moderna scienza
positiva. Essi non fanno come i metafisici, che sostengono di sapere
ciò che non sanno, e non si potrà mai sapere; e
tuttavia a quante cose verissime è pure arrivata la loro
induzione, che non si sarebbero mai nemmeno sognate, se si fosse
data retta a quei sapienti delle cause e delle essenze.
Ciò che fa credere ai molti, che il ridurre la scienza al
mero fatto la distrugga, è il pregiudizio volgare, rinforzato
dai placiti apparentemente scientifici dei metafisici, per cui in
ogni singola cosa si pone un’essenza e delle fenomenalità,
che l’accompagnano; e quindi l’esistenza ritenuta propria solo della
prima si distingue da quella delle seconde, in modo che, mentre
nella essenza si riconosce una realtà nel senso vero, vale a
dire fissa ed immutabile e basata sopra una ragione eterna ed
universale, al fenomeno non si concede che una realtà incerta
ed apparente, e tutta mobile e transitoria, e affatto fortuita, e di
importanza puramente particolare Con tale pregiudizio è
naturale, che il fatto per sé sia reputato insufficiente a
stabilire la scienza, che non può aver luogo senza una
perfetta stabilità nelle nozioni e nelle leggi delle cose
E si dice inoltre: La speculazione antica ha trovato ed ha
assicurato per sempre alla scienza i concetti sovrani della
unità e dell’ordine delle cose, della razionalità
delle leggi che le governano, e della loro perfetta corrispondenza
colla natura delle sostanze in cui si manifestano. E il principio
della stabilità delle nozioni e delle leggi, indispensabile
alla scienza, è appunto un corollario di quei concetti, e non
può stare senza di essi. E la scienza moderna non esita ad
ammetterli e ad appropriarseli; anzi è costretta a farlo, se
vuol essere scienza. E quindi si soggiunge: Or bene, quei concetti,
che, oltre essere verissimi e costituire un progresso reale ed
importantissimo della scienza, ne sono anche il principale
fondamento, non si trovarono già partendo dal principio della
sola conoscibilità ed ammissibilità del fatto, ma
sì tenendo al contrario lo sguardo rivolto alla essenza e
alle cause delle cose.
Non c’è punto di dubbio. I concetti accennati,
dell’unità e dell’ordine delle cose, della razionalità
delle leggi che le governano e della loro perfetta corrispondenza
colla natura delle sostanze in cui si manifestano, sono verissimi,
sono una conquista preziosa ed un vanto della scienza; e quella, che
non li adottasse, non ne meriterebbe neanco il nome; in ciò
siamo pienamente d’accordo. E conveniamo anche, che la speculazione
antica, come mostrammo al principio, li trovò, li
asserì, e li pose a fondamento del sistema della scienza. Ma
neghiamo assolutamente, che siano un portato proprio della scienza
delle essenze e delle cause; e che quindi siano inaccessibili alla
scienza dei soli fatti. Neghiamo, che questa, ammettendoli, come fa,
li prenda a prestito dall’altra e contraddica a’ propri principi.
Per provare il nostro asserto, dobbiamo prima passare in rivista
quei concetti, e vedere come erano intesi dagli antichi, e come lo
sono nella scienza positiva attuale.
Gli antichi avevano il concetto dell’unità della natura. Ma
tale concetto, nella forma che aveva preso nel loro pensiero, non
era vero che in arte. E mancava poi al tutto di certezza
scientifica. Era vero, in quanto era stato indovinato dietro una
osservazione più o meno estesa dei fatti; era erroneo e non
giustificato scientificamente, in quanto era spiegato, non pei fatti
stessi osservati, ma per delle astrazioni, dalle quali era
arbitrariamente derivato. Pei fisici della Jonia l’unità
dipendeva dalla generazione, da loro falsamente asserita, di tutte
le cose da un elemento, come l’acqua e l’aria Pei metafisici da un
rapporto da loro supposto di ciascun essere con una idea della loro
mente. L’idea, che i moderni hanno dell’unità della natura,
non è assoluta, come quella degli antichi. Non lo è,
perché non partono da un dato metafisico assoluto, ma
unicamente dai fatti; e l’unità l’affermano ogni volta che ne
può essere indotta e solo per quanto tale induzione lo esige
e lo permette. I moderni affermano l’unità, quanto alla legge
della genesi di tutti i corpi celesti, pel confronto delle loro
condizioni fisiche diverse e mutabili; per le trasformazioni in
successive condizioni analoghe, a cui, come ha mostrato la geologia,
andò soggetta la terra; e per la consonanza di tutto
ciò colle proprietà del calorico scoperte dalla
fisica. Affermano l’unità, quanto ad una scambievole
influenza effettiva degli astri fra loro, per l’attrazione che la
luna e anche il sole esercitano sul mare, e i pianeti tra loro e
sulle comete ; e le stelle e le grandi masse siderali fra loro; per
gli effetti della luce e del calore solare sulle condizioni
atmosferiche e sulla vita organica terrestre; e per la
corrispondenza tra il movimento e le condizioni del sole e il
magnetismo terrestre. Affermano l’unità nella legge della
attività della materia, dovunque si trovi, qualunque ne sia
il volume, la massa, l’intima costituzione, la forma, l’apparenza;
perché l’azione reciproca degli atomi materiali, onde si
attraggono e si respingono, è affatto somigliante a quella
onde si hanno i movimenti delle grandi masse cosmiche; non solo, ma
tutte le operazioni naturali, siano chimiche, o fisiche, o
fisiologiche, si riducono al medesimo genere di fenomeni. Affermano
in fine l’unità, quanto alla medesimezza e alla
continuità degli elementi componenti, per l’analisi chimica
delle pietre meteoriche e per quella spettroscopica delle luci
stellari, e per l’esistenza indotta di un fluido etereo, nel quale,
come in oceano infinito, a tutti comune, nuotino i mondi anche
più lontani, dal quale traggano la materia onde sono
composti, e pel quale si comunichino, come da lido a lido, la luce,
il calore ed ogni altro genere di influenza. Queste unità
conosce ed afferma la scienza moderna della natura. Invece della
unità assoluta, erronea ed immaginaria, che rimase alla
scienza degli antichi poiché, dimenticate le osservazioni
onde l’avevano sospettata, la derivarono da un dato metafisico, i
moderni, col solo appoggio dei fatti, riuscirono a scoprire diverse
unità proprie delle cose. Ma queste, che nella modestia della
loro relatività, sono senza confronto più grandiose e
sublimi della assoluta degli antichi, sono poi vere in tutto e
affatto certe, e nuove scoperte possono allargarne gli aspetti e la
sfera, non mai sbugiardarle.
Riconobbero pure gli antichi un ordine ed una razionalità
delle cose. Un piccolo ordine e povero, del quale era centro la
terra e confine, vicino e chiuso, la curva apparente del cielo; un
ordine ristretto alla sola vicenda monotona del rinnovamento
periodico degli esseri attuali. Anche qui l’idea preconcetta della
ragione finale dell’ordine, sostituita all’osservazione dei fatti,
che l’attestano, ne aveva poi reso falso e bizzarro il concetto. I
pitagorici al cielo delle stelle fisse, ai cinque pianeti che soli
conoscevano, al sole, alla luna, e alla terra credettero di dover
aggiungere un altro corpo, cioè l’antiterra, per la sola
ragione, che mancava uno a far dieci, numero secondo loro perfetto.
E gli altri che credettero di trovare la ragione e lo scopo
dell’ordinamento delle cose in una idea presa dalle facoltà
estetiche e morali dell’uomo, crearono dei sistemi, in cui le
contraddizioni, le bizzarrie, le lacune mal riempite si prestano,
come è noto, troppo facilmente alle critiche ed ai dileggi di
chi li voglia combattere. Or che pensano i moderni quanto all’ordine
ed alla razionalità delle cose? Per loro non è
più la terra il centro dell’universo; e neanche il sole, o
parte altra qualunque del cielo. Il centro è da per tutto e
la circonferenza in nessun sito, per adoperare l’espressione sublime
di Giordano Bruno. Una molecola corporea, presa in qualunque punto
della realtà estesa, è, come diceva Laplace, un mondo
per sé; un atomo di materia, secondo Faraday, è un
punto da cui irraggia la forza, intorno intorno, indefinitamente,
per mezzo al resto delle cose. L’intelligenza dell’uomo, questo
piccolo ed effimero fenomeno proprio di un angolo ristrettissimo
dell’universo, e di un istante brevissimo della sua esistenza,
è capace, riferendo tutto a sé, come a centro delle
cose, di abbracciarne, in qualche modo, le parti, che ne dividono la
estensione, e gli avvenimenti, che ne misurano la durata. Oltre la
cosa più grande sensibile si estendono grandezze maggiori
all’infinito; cose sempre più piccole, all’infinito, si
rinchiudono nelle cose più piccole sensibili. L’ordine
attuale, colla varietà sterminata delle sue forme, non
è che un semplice momento di un ordine senza confronto
più grande, che si esprime in una serie interminata di
momenti. La condizione attuale di un astro dista immensamente, e per
la durata e per la forma, dalla sua prima formazione e dalla sua
dissoluzione finale, secondo le idee di W. Herschell e di Laplace;
lo stato presente della terra è l’aspetto momentaneo di una
evoluzione prodigiosamente lunga, insensibilmente lenta, ma
incessante, come ha mostrato Lyell; la vegetazione e
l’animalità viventi, una fase fuggevolissima di uno
svolgimento progressivo ed indefinito degli organismi, come ritiene
Darwin. La costituzione e la storia di una semplice fogliolina, di
un insettuccio, anche per quella sola ristrettissima parte, che se
ne conosco, è cosa prodigiosamente grande ed ammirabile; e
non ne capirebbe la descrizione un grosso volume. E tuttavia per la
natura, che tante ne produce e ne distrugge, quella fogliolina e
quell’insetto sono meno che nulla. Ma anche un uomo, che vive molti
anni, ed ha un impero sul mondo; anzi, anche un intero corpo
celeste, che ha un diametro di molte migliaia di chilometri, ed una
esistenza di molti milioni di secoli, verso la durata e la
immensità delle cose, contano, come una foglia, che dura una
stagione, ed un insetto che dura un giorno. Ma la maggior maraviglia
dell’ordine della natura, quale oggi si conosce, sta in ciò,
che la diversità prodigiosa delle cose che lo compongono, e
la variabilità inesauribile delle forme, che vi si vanno
continuamente sostituendo, è il risultato di un semplice
lavoro meccanico, cioè di null’altro che urti e movimenti; e
che, essendo ogni più piccola parte di ogni più
piccola cosa già un grande tutto per sé, che lavora,
si può dire, in disparte e per suo conto, e inconscio di
tutto il resto e così meccanicamente e a caso, per urti dati
e ricevuti, e solo secondo che esige la forza cieca, che lo move, e
le circostanze accidentalissime nelle quali si dà, che si
incontri, come un pugno di dadi, che si agitano e si gettano,
finisca poi per accordarsi perfettamente col piccolo tutto di cui fa
parte, e questo con tutti gli altri; e non una volta sola, ma sempre
e in ogni momento; non solo, ma un ordine inappuntabile, una
razionalità dell’insieme sapientissima riesca ad esserci
sempre, anche quando si direbbe, che c’è disordine nelle
parti, e che queste mancano al loro scopo. Chi vede le celle delle
api non può non pensare ad un’arte di farle così belle
e regolari. Newton, studiando l’occhio umano, non ha potuto
trattenersi dall’esclamare, che chi l’aveva fatto doveva conoscere
le leggi dell’ottica. Ma d’altra parte, è pur vero che la
forma esagona delle cellette delle api, come Darwin acutamente
osserva, si deve, più che ad altro, alla fortuita pressione
delle pareti delle cellette, tirate cilindriche dalle api, ma troppo
vicine le une alle altre, perché possano trovar luogo per
tale forma. Il che, chi bene osserva, vale anche per l’occhio; il
quale, se riesce così formato, in seguito al precedente
lavorio embrionale, come risultato finale di esso è pur
sempre dovuto ad una felice combinazione di una lunghissima serie di
casi fortuiti analoghi a quello, onde finiscono ad essere esagone le
celle delle api. Dal che si vede, che, se l’uomo è costretto,
per rendersi un po’ ragione di ciò che succede davanti a lui,
di servirsi, in mancanza di altra idea più adequata, della
nozione dell’arte, ossia di quel genere di causalità, in cui
entra principalmente il fenomeno della intelligenza umana, questa
però è ancora affatto insufficiente a spiegare la
totalità del fatto, anche solo per quanto può essere
conosciuto; e quelli che vollero, che alla proposizione -
all’augello furono fatte le ali perché volasse - si
sostituisse l’altra - l’augello vola perché si trova di
averle - hanno una parte di ragione, almeno in quanto con tale
sostituzione mostrano quanto sia difettosa ed inadeguata la
spiegazione dei primi. Insomma i fatti, che, unicamente, furono
consultati dalla scienza moderna, non hanno potuto darci l’ordine
assoluto, e la ragione finale delle cose, come troppo leggermente
credeva di poter fare la scienza antica; questo è certo. Anzi
è certo eziandio che, per quanto si allarghi la conoscenza
dei fatti, l’ordine assoluto e la ragione finale resteranno sempre
al di là e al dissopra di ogni umana comprensione. Ma
è pur fuori d’ogni dubbio, che la cognizione empirica nostra
per quanto imperfetta, è ciò nulla ostante
immensamente più bella e grandiosa e soprattutto più
certa della vecchia metafisica.
Come sopra notammo, il progresso della scienza antica è
arrivato fino al punto di affermare, che le proprietà e gli
effetti delle cose sono la espressione della stessa loro natura.
Questo fu veramente un progresso. Ma si inganna chi crede, che la
sentenza - il fatto è l’espressione della natura della cosa
che lo produce - non contenga tuttavia un errore, o almeno un
equivoco. E in vero, che s’intende per natura di una cosa? Forse
quella essenza affatto misteriosa, che si confessa di non conoscere?
Ma, se non si conosce, come si fa a sostenere, che i fenomeni
apparenti vi corrispondono e la rappresentano? Non avrebbero lo
stesso diritto di asserire il contrario quelli che credono, che gli
esseri posseggano le proprietà, che li distinguono, per una
specie di concessione gratuita, da parte di una potenza superiore? O
si intende per natura di una cosa ciò che ne sappiamo? E
allora noi soggiungeremo: Ciò che ne sappiamo è il
puro fenomeno, e nient’altro. Gli antichi ritenevano che le
qualità sensibili di una cosa le appartenessero veramente,
anzi ne rivelassero proprio la natura intima. Secondo tale modo di
vedere, giacché una fiamma si manifesta mediante la luce onde
risplende, e il calore onde riscalda, essa deve essere formata di
essa luce e di esso calore; e tutte le fiamme devono essere
identiche nella sostanza costitutiva, poiché tutte riscaldano
e risplendono. Anzi la stessa sostanza speciale del fuoco, mobile,
sottile, leggerissima, onde consta ogni fiamma, deve pure trovarsi
nascosta anche in que’ corpi, che hanno proprietà analoghe a
quelle delle fiamme; come di produrre chiarore, riscaldamento,
bruciore, essiccazione. Ma tale illusione non esiste più per
noi. Ora si sa da tutti, che le qualità apparenti non valgono
per sé a distinguere le sostanze tra loro. Due fiamme, anche
somigliantissime, possono essere due sostanze affatto diverse. Il
carbone, la grafite, il diamante, tanto all’aspetto differenti,
constano dello stesso carbonio. L’ossigeno e l’idrogeno, coi quali e
si illumina e si riscalda, compongono l’acqua, che serve a spegnere
e a raffreddare. E si sa, che le qualità sensibili, dalle
quali un tempo si voleva arguire la essenza delle cose, non sono
neanco una loro appartenenza, e dipendono totalmente dal senso
impressionato. Ciò che si chiama luce, pel soggetto
senziente, nel corpo luminoso non è più luce, ma una
semplice vibrazione delle sue molecole. E la stessa vibrazione,
senza cambiarsi menomamente, dove, trasmettendosi alla retina
dell’occhio, si traduce in effetto luminoso, trasmettendosi ai nervi
tattili, si traduce in effetto calorifico. Quando si dice, la tale
sostanza, che cosa si viene realmente ad indicare? Non altro che un
gruppo, più o meno stabilmente connesso, di dati fenomenali,
al quale questi dati ora si aggiungono, ora si levano.
Aggiungendone, la sostanza si specializza; levandone, si
generalizza. Aggiungendo ai dati componenti l’idea della materia
certi dati empirici, come del peso specifico, della durezza, della
affinità, della forma cristallina, della conducibilità
elettrica e calorifica, del sapore e così via, si formano le
idee delle diverse sostanze elementari, e anche di quelle composte,
sia sotto l’aspetto chimico, che mineralogico e fisico. E
ritogliendoli, si risale all’idea della sostanza più
generica, ossia della materia; la quale poi, anch’essa, come
dimostreremo a suo luogo, è composta, in tutto e per tutto,
di dati affatto sperimentali e fenomenici. Or dunque, tornando al
nostro argomento, che resta di veramente esatto nella dottrina, a
cui arrivarono gli antichi, e che lodammo, della perfetta
corrispondenza della proprietà e della attività della
cosa colla sua natura? Sol questo: Che certi fenomeni si collegano
costantemente con certi altri. Matematicamente, se si cerca
l’effetto di una palla, lanciata contro un ostacolo, si parte dai
dati della forma, del volume, della densità, della
velocità, della direzione di essa, e non della sua essenza
materiale. E il calcolo astratto è applicabile con
infallibile precisione a tutte le palle, in cui, per avventura, si
incontrino i medesimi estremi di fatto, qualunque sia la sostanza
onde constano. Fisicamente, due fiamme, anche diverse quanto alla
sostanza dei corpi che ardendo la formano, possono produrre i
medesimi effetti di illuminare, di essiccare, di riscaldare e via
discorrendo. Ciò è tanto vero, che gli antichi,
precisamente per tale ragione, hanno creduto, che tutte le fiamme,
fossero identiche nella sostanza costitutiva. E che gli effetti
naturali dipendano per noi dai fenomeni, e non dalla essenza di
ciò intorno a cui si presentano, che apparisce, come per le
fiamme ora dette, in tutte le altre condizioni ed operazioni
naturali dei corpi studiate dalla fisica. La quale, come si sa, in
ciò si distingue, o almeno si distingueva, dalla chimica e
dalla fisiologia, che considera i fenomeni in sé e per
sé, prescindendo affatto dalla essenza particolare del corpo
in cui si osservano. Siffattamente, che per lo passato, come a tutti
è noto, le forze fisiche erano credute altrettanti fluidi,
che, invadendo i corpi, vi operassero (essi fluidi, e non la materia
o forza stessa dei corpi) gli effetti relativi. Ma in chimica, non
conduce a un tale ordine di idee la legge di Dulong e Petit, estesa
ai corpi composti da Avogadro e Neumann, per cui il prodotto del
peso di ogni atomo pel calorico specifico corrispondente è un
numero costante; il che vorrebbe dire, che gli atomi dei corpi
semplici, senza differenza di specie, hanno esattamente la medesima
capacità pel calore? È la legge di Prout, sulle
relazioni che si manifestano tra le cifre indicanti gli equivalenti
dei corpi semplici, la quale farebbe supporre, che i corpi semplici
attuali non siano, se non la condensazione, in grado diverso, della
stessa materia, e che basti variare la condensazione per avere
differenza di proprietà? E l’isomeria, per cui sostanze
composte dei medesimi elementi, nelle medesime proporzioni, offrono
proprietà chimiche differenti; onde si deve credere che
esista una disposizione diversa negli atomi componenti la molecola,
e ciò basti a produrre le variazioni? E l’isomorfismo, in
forza del quale, per la sola analogia del tipo chimico di
combinazione, delle sostanze tra loro diverse sono sensibilmente
equivalenti sotto il punto di vista fisico e della
cristallizzazione, e si possono adoperare indifferentemente le une
per le altre, per produrre gli stessi effetti, malgrado la loro
diversità di natura chimica? E in generale la tendenza a
riferire le diversità delle sostanze, anziché ad una
natura tutta propria di ognuna, da un lato alle disposizioni delle
parti componenti secondo pochi tipi fondati sopra rapporti numerici
semplici e costanti, e in cui atomi equivalenti si possono
sostituire, e dall’altro alle deviazioni da questi tipi radicali,
coordinate secondo una ragione numerica ordinata e fissa? Tutte le
accennate dottrine chimiche, e le altre somiglianti, non conducono
ad una teoria, circa la proprietà della materia opposta a
quella di Berzelins, che voleva che l’attività specifica di
un elemento corporeo corrispondesse ad una singolare ed
incomunicabile natura di esso? Ma, per provare meglio il mio
assunto, invece di moltiplicare gli esempi, come si potrebbe fare
assai facilmente, amo piuttosto di aggiungere una osservazione. Un
tempo si riteneva universalmente, che il lavoro fisiologico, che ha
luogo negli organismi degli animali e delle piante, fosse dovuto ad
una forza particolare, detta forza vitale, che vi si immaginava
funzionare; oggi invece si va sempre più estendendo
l’opinione, che basti a tutto la forza chimica comune. Gli stessi
fenomeni chimici poi, anch’essi, si vuol riportarli alle forze
fisiche generali, e queste alle meccaniche. Che è quanto
dire, a quel concetto della causalità, in cui non si tiene
verun conto della essenza dei corpi e si considerano unicamente le
fenomenalità dell’urto e del movimento, della figura, del
volume, del peso, della velocità e della direzione. Il
principio adunque della correlatività dei fenomeni e delle
leggi delle cose colla natura di esse, che non esitammo a
riconoscere per vero, qualora sia inteso a dovere, cioè
secondo lo spirito della scienza positiva attuale, non si oppone al
nostro della sola ammissibilità del fatto nella scienza; anzi
ne costituisce la prova più convincente e decisiva, tanto
esso è irrepugnabile. E possiamo conchiudere, non potersi
dire, che la scienza moderna debba, in tutto e per tutto, il
principio dell’unità, dell’ordine, della razionalità
delle cose, e della corrispondenza dei fatti colla loro natura,
all’antica; che li tenga da essa quasi a prestito, e con una certa
incertezza e ripugnanza, come se lo facesse in onta al suo metodo,
al suo spirito, alle sue massime. Quei principi la scienza moderna
se li è appropriati, dopo che li ebbe, per così dire,
trovati di nuovo; sicché per essa si sono trasformati,
ingranditi, e sopra tutto resi veramente scientifici, certi e
positivi. Ai quali poi essa ne aggiunse un altro, tutto nuovo e
tutto suo, e che si può dire essere la conseguenza, il
compendio e la prova loro; il principio cioè, che la forza
non si crea e non si perde, e che nella natura si conserva
inalterabilmente la totalità della sua energia, malgrado le
continue infinite variazioni della sua azione nelle singole cose.
Come si sa, l’osservazione, che l’elettricità si svolge a
danno di una quantità proporzionata di affinità, che
il lavoro meccanico del vapore è in ragione del diminuirsi
del suo calorico, che una forza qualunque, quando sembra venir meno
e scomparire, è surrogata immancabilmente da un’altra, che le
equivale, e che c’è ogni ragione di credere, che questo
principio valga anche per lo stesso pensiero, ha finito di
distruggere l’opinione, universale un tempo, che la forza, che in un
dato momento produce un dato effetto, si crei nell’atto di operare,
a quel modo che, nell’atto del volere e per esso, nasce
apparentemente nell’uomo la forza di muoversi e di agire.
Possiamo anche conchiudere, che a quel principio gli antichi stessi
sono arrivati, per quel tanto che rettamente ne intesero, non
già tenendo lo sguardo rivolto alle essenze e alle cause
delle cose, ma mediante l’osservazione dei fatti. Quella chimera,
che essi chiamavano la essenza e la causa delle cose, non solo non
li condusse a scoprire nessuno dei veri, che conobbero; e nemmeno ad
illustrarli, dopo averli conosciuti empiricamente, di un qualche
lume di certezza, ma nocque alla scienza immensamente, come abbiamo
veduto. Chi vorrà dunque negare, che il principio dei
moderni, di non dar peso se non ai fatti, è il solo giusto?
Chi vorrà credere oggi, che la Cosmologia di Cristiano Wolff,
dedotta con metodo irreprensibile, sia riuscita a ritrarre una
immagine del mondo reale più bella, più grande,
più vera, più certa di quella, che Alessandro
Humboldt, nel suo Cosmos, ricava dalla semplice osservazione dei
fenomeni?
Possiamo conchiudere infine, che il fatto, da sé, può
offrire, ed offre effettivamente, delle nozioni e delle leggi
veramente fisse e stabili; anzi di più, che non si dà
per l’uomo altra stabilità di principio scientifici fuori
della empirica, che risulta unicamente dalla ripetizione costante ed
uniforme degli stessi fatti. La pretesa stabilità metafisica
delle idee, che si vuole eterna, universale, assoluta, non
può essere retaggio dell’uomo; ed è una illusione
quella dei metafisici di credere di possederla, e di avere a loro
disposizione le essenze, onde attingerla. La distinzione tra la
realtà ferma e certa della sostanza e quella mobile ed
incerta del fenomeno è una pura finzione della loro mente.
Dicendo essenza, o non dicono nulla, o dicono solamente dei
fenomeni, o delle astrazioni di fenomeni. Le loro idee non sono
fornite di altra evidenza, se non della fisica; ed anche di questa
in grado assai minore, che le cognizioni positive corrispondenti
alle immediate apprensioni del senso. Minore di tanto, di quanto il
concreto ed il reale hanno più consistenza dell’astratto e
dell’immaginario. Per ciò e non per altro fu in ogni tempo
facilissima cosa, creata per astratti ragionamenti una dottrina,
contrapporgliene un’altra diametralmente opposta. Per ciò e
non per altro i sistemi metafisici di fronte ad un vero dedotto
dalla pura esperienza hanno dovuto cedere sempre ed
inappellabilmente. Colla stessa facilità, colla quale gli
eleatici avevano affermato, che l’essenza dell’essere è
l’immobilità, Eraclito asserì il contrario. Dopo le
esperienze di Torricelli e di Pascal, non solo non si è
più parlato di orrore della natura pel vuoto, ma si
considererebbe, siccome destituito di senso comune, chi volesse
ancora mettere in dubbio il peso dell’aria, che fu per quelle
dimostrato.
Vana dunque, ed insostenibile, e basata unicamente sopra un
pregiudizio è la opinione, che, per fondare la scienza, non
si possa prescindere dalla supposizione delle essenze e delle cause.
La legge, e ogni altra forma di nozione generale delle cose,
quantunque non sia altro, che il mero fenomeno, come dimostrammo,
può tuttavia godere, e gode, in tutto e per tutto, del
carattere della stabilità, e per esso, costituisce un dato
conoscitivo perfettamente costante, certo, scientifico.
Parte seconda: La materia e la forza nelle scienze naturali
Alla dottrina, da noi fin qui esposta, che la scienza, per essere
vera e capace di dare buoni frutti, non deve ammettere che il fatto;
e che la sostanza, nel senso metafisico, entrandovi, o vi è
al tutto oziosa, o la guasta, si fa una gravissima obiezione. Si
dice: Siamo costretti a concedere, essere la legge lo stesso che il
fatto; e lo concediamo. È però anche vero ed
innegabile, che la mente, arrivata ad astrarre la legge dai fenomeni
particolari, si trova poi irresistibilmente condotta alla idea delle
proprietà e della sostanza, a cui e legge e fenomeno
appartengono. Per ciò, non apprendersi il fatto nudamente in
sé, e separato da quelle; e la sua percezione implicarle
necessariamente. È, in effetto, appunto quella scienza
moderna e positiva, della quale io affermo, che non vuol riconoscere
se non i fatti, a smentirmi espressamente, poiché suppone,
siccome postulati affatto indispensabili alla loro intelligenza, i
dati metafisici della materia e della forza. Come rispondiamo noi a
tale difficoltà?
Un tempo, come accennammo sopra, formate delle categorie di fatti
fisici, dietro un primo imperfettissimo rilievo delle somiglianze
loro, si crearono altrettante proprietà corrispondenti; e
l’uomo, al suo spirito, curioso di sapere il perché di un
fenomeno, rispondeva, che la cosa, onde emergeva, era stata fornita
della proprietà di produrlo. La spiegazione non ispiegava
nulla; pur gli bastava. Ma una osservazione più accorta ed
una riflessione più matura lo costrinsero in seguito a fare
il sacrificio delle sue prime creazioni. Si scoprirono delle
somiglianze anche fra le diverse categorie speciali; si poterono
avere, oltre le specie, anche i generi dei fatti; e le moltissime
proprietà, relative alle prime, rimaste così fuori
d’uso, dovettero essere sostituite da un minor numero di generiche.
Ma per poco. Ché tra gli stessi pochi generi molto estesi
restati, si trovarono analogie; e tali da poterne formare un solo
genere comune a tutti. E allora convenne pensare ad una unica
proprietà della materia; e la si chiamò la forza.
Colla quale parola, come si indicò il complesso delle
proprietà, che agiscono in un soggetto qualunque, e il
concetto, che il fenomeno e la legge sono l’espressione della stessa
natura intima della materia, e non l’effetto di un arbitrio che la
muova dal di fuori, ossia che la proprietà non è data,
ma naturale alla cosa, secondo il progresso scientifico spiegato
sopra, certo si volle anche significare, quantunque un po’
vagamente, l’identità, presentata o riconosciuta, del
processo operativo della natura, per tutte le svariatissime sue
produzioni.
Ma anche a chi aveva creduto, di potersi finalmente acquietare in
siffatta teoria, dovevano toccare delle amare delusioni. Secondo
questa, la forza sarebbe una appartenenza della materia, anzi una
sol cosa con essa; e vi si immedesimerebbe, come la proprietà
colla sostanza. In questo senso parla Faraday, nelle sue ricerche
sulla chimica: "Un atomo di ossigeno, egli dice, è sempre un
atomo di ossigeno. Nulla può consumarlo. Può entrare
in una combinazione, e non apparir più come ossigeno;
può passare per mille combinazioni animali, vegetali e
minerali; può rimanere nascosto per la durata di mille anni;
ma, sviluppandosi, l’ossigeno con tutte le qualità, che aveva
prima; né più, né meno. Tutta la sua forza
primitiva, e questa forza soltanto".
Le idee, sulle quali sono basate queste parole di Faraday, hanno
già subito una notevole, anzi radicale modificazione, per le
osservazioni recenti di alcuni fatti e per l’applicazione, sempre
più sicura ed estesa, delle nuove teorie della scienza. Prima
di tutto, la molecola dell’ossigeno non può più essere
considerata come un tutto semplice ed indivisibile; oggi è
fuori di dubbio, che essa è composta di atomi. Nulla osta che
di questi atomi, in una molecola, se ne faccia concorrere un numero
grandissimo; ma è provato, che ne deve contenere almeno due.
Unendosi una molecola di ossigeno ad una molecola di azoto, si
formano due molecole di ossido di azoto; ciascuna delle quali
contiene e ossigeno e azoto; onde è evidente, che la molecola
ossigenica, per dar luogo alla combinazione, ha dovuto dividersi in
due parti. Inoltre si è trovato, che in una massa di ossigeno
le molecole componenti non hanno sempre la medesima costituzione
atomica. Anzi di più si è dovuto stabilire, che la
stessa attività intrinseca all’atomo ossigenico è
soggetta ad alterazioni. Soret, dopo altri, ha dimostrato, che
l’ozono, scoperto da Scho5nbein, non è altro che ossigeno
condensato, e che la diversa densità dei due corpi non
è spiegabile, se non ammettendo, che le molecole
dell’ossigeno sono costituite di due atomi ossigenici, e quelle
dell’ozono di tre. Tali atomi poi, secondo Brodie, si combinano tra
di loro per effetto di una polarità, onde gli uni sono in
istato positivo, di fronte agli altri, che sono in istato negativo.
L’argento non si combina direttamente coll’ossigeno, mentre il
cloruro d’argento e l’ossigeno non hanno acquistato la
polarità necessaria alla loro unione, se non mediante
l’anteriore loro combinazione col cloro e col potassio. Se un atomo
di ossigeno quindi può subire un cambiamento di
polarità, in seguito ad una combinazione con un corpo, questo
vuol dire, che può essere influenzato nella sua intima
costituzione dinamica da un’altra sostanza a cui si accosti.
L’atomo ossigenico non si è ancora riusciti a scomporlo e a
risolverlo in elementi forniti di proprietà diverse da quelle
del composto. Ma ciò può dipendere unicamente dalla
mancanza dei mezzi atti all’effetto. "È possibile, dice
Hoffmann nella sua introduzione alla chimica moderna, che il
progresso della scienza abbia a svelare alle generazioni future
questi mezzi, e che molti dei corpi, che noi riteniamo elementi,
cessino di essere tali pei nostri successori. Discendendo dall’epoca
dei classici elementi, i quali tutti hanno per noi cessato di essere
tali, fino ad un tempo relativamente recente, noi troviamo nella
storia della scienza esempi innumerevoli di una tale semplificazione
progressiva, e sarebbe una pretesa di voler dubitare della
possibilità della loro ripetizione.
Intanto, che anche l’atomo ossigenico sia un composto dissolvibile,
si può desumerlo dalla considerazione, che fra un atomo di
ossigeno ed uno d’idrogeno è assai diverso il peso, ma
identica la gravità; la quale deve essere relativa a delle
monadi costituenti, eguali nell’uno e nell’altro. Sicché
è molto probabile, che il detto atomo sia un sistema
particolare di monadi primitive, trattenute in certa reciproca
posizione da speciali movimenti, che le animino. Poiché oggi,
come si sa, si inclina ad estendere ad ogni parte del mondo fisico,
e quindi anche a spiegare l’energia specifica propria dell’ossigeno,
il principio, che la forza non sia altro che moto e che i diversi
stati, i diversi fenomeni, che si osservano in un corpo, non siano,
che diversi movimenti delle particelle componenti.
Ora, dietro questo principio, non si può più concepire
la forza come una appartenenza essenziale della materia e una sol
cosa con essa, al modo della proprietà colla sostanza, come
dice Faraday dell’ossigeno. Che si sa del moto? Si sa, che un corpo,
avendolo, lo comunica ad un altro mediante un urto; e che quel
tanto, che, in seguito all’urto, è passato nel secondo,
è precisamente la quantità perduta dal primo. Di
movimento ne resta sempre la medesima somma; ma gli è
però indifferente essere in un sito, o in un altro. La
materia poi, per sé, il moto non l’ha, prima di averlo
ricevuto. Avendolo, lo mantiene, finché non urta; non
avendolo, non lo genera; e non può averlo, se non è,
per così dire, versato in essa dal di fuori. Una palla non si
muove sul bigliardo, se prima non riceve la spinta dalla stecca. Il
moto, onde la palla è, per tal modo, investita, è
dovuto interamente alla spinta ricevuta. E, fatta astrazione
dall’attrito del piano, su cui scorre, vi dura inalterato,
finché non si imbatte nell’altra e la colpisce, e quindi le
comunica il suo movimento. E tanto gliene comunica, quanto ne perde.
Se lo comunicasse tutto, se ne priverebbe affatto e si fermerebbe.
Per ciò dell’ossigeno si può dire, come della materia
in genere; è in esso una data forma, e quantità di
forza, che costituisce la sua natura speciale. Questa forza l’ha
ricevuta, e può perderla e quindi cessare di essere ossigeno.
Anzi non basta, per conservarsi tale, che l’abbia acquistata una
volta; è pur necessario, che seguiti sempre a riceverne, e ad
essere reintegrato di quel tanto, che continuamente va perdendo.
Perché in ogni molecola corporea, nella quale la forza non
è una semplice virtualità, ma una vera azione
attualmente operante, succede, come sopra avvertii, ciò che
ha luogo in un apparato meccanico, in cui, mentre ne dura
l’attività, a un tanto di lavoro corrisponde un tanto di
forza consumata; sicché, onde il lavoro continui, è
d’uopo che essa venga, di mano in mano, rimessa. Dirò di
più. Succede ciò che ha luogo nel sole, che consuma,
irradiando luce e calore, il movimento ricevuto dai corpi, che,
precipitandovi, ne alimentano la combustione. Che impedisce di
paragonare l’irradiamento della forza, intorno ad una molecola di
ossigeno, all’irradiamento del sole? Quello che nel sole succede in
grande, succede qui in piccolo. Le proporzioni sono diverse, ma il
fatto è identico. La natura è sempre e da per tutto
simile a se stessa. Mirabile nelle cose maggiori, per la
semplicità dei mezzi, che vi adopera, nelle minori mostra una
potenza atta a cose infinitamente più grandi. E il segreto di
spiegarla consiste appunto nel confrontare le cose grandi colle
piccole.
Che se poi le attuali relazioni dinamiche, tra la molecola
ossigenica e la materia, che la circonda, si alterassero, ne
verrebbe certo una alterazione, o anche la cessazione della forza
stessa. Dei metalli, come il sodio, il calcio ed il ferro (ed altri,
che noi qui in terra, coll’uso del più grande calore, che
siamo capaci di produrre, non riusciremmo a portare allo stato
aeriforme) nell’atmosfera del sole la cui temperatura si valuta a
dieci milioni di gradi, si trovano normalmente in istato gazoso, e
così dissociati, che non si prestano a combinarsi
chimicamente. Nel sole lo scambio della forza, tra le molecole
costituenti, è maggiore, perché ve n’è
accumulata una più grande quantità. L’acqua, limpida
nei mari della terra e di Venere, è ghiacciata in Marte e
nella nostra luna, e in Saturno, ancor troppo caldo, perché
vi possa precipitare ad inondarne la superficie, forma allo stato di
vapore, i suoi caratteristici anelli. Il regime chimico-fisico nei
diversi pianeti varia, secondo la quantità di forza, che vi
è restata. Ora, dietro l’analogia di questi fatti, che
impedisce di supporre in un astro un raffreddamento tale, che
l’ossigeno vi si debba indurire in cristalli; e in un altro invece
un riscaldamento atto a ridurlo a quella rarefazione estrema della
materia, che si suppone precedere il suo primo condensarsi nella
leggerissima vaporosità di nebulosa incipiente? Secondo i
calcoli di Guglielmo Thomson, se il pianeta Giove cadesse, dalla
distanza in cui si trova, sul sole, vi produrrebbe in pochi istanti
uno scoppio di luce e di calore equivalente a quanto attualmente ne
dispensa in più che 30000 anni. E, secondo Brayley e
Reuschle, se due masse della sua dimensione, o anche minori della
metà si precipitassero l’una sull’altra, ne risulterebbe un
effetto tale, che ogni coesione cesserebbe di esistere, e tutte le
molecole ne sarebbero lanciate nella infinità dello spazio
celeste, e disfatte nei loro eterei elementi.
Si vede adunque, che della forza dell’ossigeno, e quindi della
materia in genere, bisogna formarsi un’idea molto diversa da quella
indicata da Faraday nel passo citato. Quella forza non gli è
essenziale. E, se la possiede, è perché gli è
stata comunicata, e vi è sostituita continuamente. E
può quindi alterarvici, e anche venir meno quando che sia.
Il Signor Bence Jones, in alcune sue recentissime letture al
collegio dei medici di Londra, ritessendo la storia delle fasi
dell’umano pensiero circa i concetti della materia e della forza, le
riduce a tre principali "Quella della separazione assoluta fra le
due idee;...... quella di una loro disgiunzione incompleta;...... e
quella della unità o inseparabilità perfetta di esse"
E, mostrata l’erroneità delle due prime, si sforza di provare
essere solo quest’ultima conforme al vero.
Ma a questo proposito noi crediamo, che sia indispensabile
avvertire, che l’espressione, inseparabilità della materia e
della forza, contiene un equivoco. Vero, che la forza, non è
distinta dalla materia, come nel concetto che gli antichi avevano
d’una cosa operante, il corpo materiale dall’anima, che quelli
credevano dovesse esservi dentro. Vero, che la forza, per sé,
non è una sostanza imponderabile, che si infiltri nella
materia, come si è creduto fino agli ultimi tempi. Vero,
infine, che la forza è una cosa sola colla materia, in questo
senso, che il moto non esiste, se non come modo di essere di
ciò che si muove. Ma falso, che la forza, che si incontra in
un corpo, vi sia per ragione della materia costituente,
sicché non vi si possa diminuire, se non diminuendo la
materia, né aumentare, se non aumentandola. Nel porre il
principio della inseparabilità, nelle sopraddette letture,
esclude il Jones questo senso non vero di essa? No, non l’esclude;
poiché anzi insegna decisamente, che se "noi potessimo
rappresentarci l’ultimo atomo di un corpo semplice qualunque,
saremmo costretti a pensare, che la forza chimica, che ne
costituisce e determina la natura, è assolutamente
inseparabile dalla materia, onde il corpo è formato". La sua
dottrina adunque contiene un equivoco e non è esatta.
Egli aveva tutto il diritto di asserire, che, nello stato attuale
delle nostre cognizioni, la forza chimica non è separabile
dal corpo, che la possiede. Ma non poteva parlare di
inseparabilità assoluta, dal momento che non respinge, anzi
mostra di ammettere, la teoria della conversione delle forze, o, che
è lo stesso, della loro riduzione al movimento. Con questa
teoria può stare bensì l’indestruttibilità
della forza, considerata nella totalità dei corpi; ma non
parlando di un solo. Il movimento non si può distruggere, ma
si può bene trasmettere da un corpo ad un altro. Non viene
egli a dirlo lo stesso Jones, scrivendo, che "l’energia attuale, che
si può imprimere al proiettile di un cannone, è
esattamente uguale all’energia latente o virtuale della polvere; e
che la polvere perde ciò, che il proiettile guadagna?" Dunque
la forza si trasloca dall’uno all’altro corpo. Dunque ne è
separabile. Dunque è possibile, che ciò avvenga anche
per le energie chimiche. Il Jones, non essendosi avveduto
dell’equivoco contenuto nella parola inseparabilità, ha detto
nella stessa pagina due cose contradditorie.
La prova della inseparabilità assoluta della forza e della
materia, che egli prende dal peso dei corpi, prova secondo lui
principalissima e bastante da sola a stabilirla, non ha nessun
valore. Ciò che si dice, peso dei corpi, non è qualche
cosa di essenziale ad essi; è un fenomeno che presentano,
soltanto date certe circostanze. Abbiamo già notato la
differenza tra peso e gravità. E nelle masse celesti
ciò, che si direbbe il loro peso, si manifesta già
sotto un aspetto diversissimo, poiché esse non si precipitano
le une sulle altre, come vorrebbero i concetti precisi dei peso e
della gravità; ma si muovono in giro, tenendosi sempre nei
medesimi rapporti di distanza. Il peso e la gravità li
immagineremmo e li nomineremmo, come facciamo adesso, se la nostra
esperienza noi così si restringesse ai fatti dei movimenti
dei corpi celesti? Inoltre qual’è il principio, o fisico o
matematico, che ci impedisca di concepire l’etere, quale una
congerie immensa di monadi materiali, libere affatto dalle leggi
ordinarie del peso e della gravità? Il valore, che altri
dà all’argomento preso da tali leggi, deriva tutto dal
concetto falso, che l’attrazione sia una forza reale e non una forza
esplicativa, come è veramente. Deriva dal non riflettere,
che, se è permesso, per ragione di brevità, di
chiamare col nome di attrazione reciproca la relazione effettiva
esistente tra due atomi dati, dei quali l’uno tende a cadere
sull’altro, si deve però in pari tempo non dimenticare, che
tale relazione infine è la conseguenza di un movimento
impresso dal di fuori, e che quindi non vi esisteva, prima che fosse
comunicato; sicché, a tutto rigore, di proprio nella materia,
anziché la gravità o una forza qualunque, non vi
sarebbe veramente che la negazione della forza.
L’errore del Jones e di quelli, che sono del suo parere, di non
accorgersi dell’equivoco sopra detto, e di credere
all’inseparabilità assoluta della forza dalla materia,
dipende da ciò, che ricadono, innocentemente in vero e senza
avvedersene, nella metafisica; e sognano essenze e cause, dove non
ha che fatti. Siamo un po’ positivi, e vedremo, che la forza e la
materia non sono in fine, che astrazioni tutt’altro che
inseparabili. Dicemmo sopra, che una serie continua di fenomeni, che
stiano fra loro come i momenti successivi del tempo, è per
noi una azione; mentre diamo il nome di cosa ad un certo numero di
fenomeni, che stiano fra loro, come i punti contigui in uno spazio.
E mostrammo, come le somiglianze tra le azioni diano le leggi, e le
somiglianze tra le cose diano le nozioni generiche ad esse relative.
Or bene, se noi prendiamo una di queste leggi, e la consideriamo
come qualche cosa di reale, e che esista fuori della nostra mente, e
nell’oggetto che è la sede dell’azione, che avremo allora?
Avremo la forza. Ma questa dovrà aver cessato di essere una
mera astrazione, perché, togliendola alla nostra mente, a cui
appartiene, ci piacque incarnarla in un oggetto? Analoga a quella
della forza è l’idea della materia; anch’essa è una
semplice somiglianza mentale dei fenomeni particolari, sostantivata.
Levate tutte le differenze, che distinguono i diversi gruppi di
fenomeni, onde ci rappresentiamo le cose singole, ci resta ancora
una nozione comune a tutti: La nozione di uno spazio pieno. Formiamo
di questa nozione una sussistenza reale, ed ecco la materia.
Se poi nel medesimo oggetto si congiungano, concretizzandole
insieme, le due astrazioni, l’accoppiamento, che si ha, non dipende
mica da una ragione logica intrinseca, per cui il concetto e la
presenza dell’una implichi o richieda quelli dell’altra. Niente
affatto; il motivo dell’accoppiamento, quando si fa, è in
tutto e per tutto empirico. Non si tratta che di una pura
associazione di idee, occasionata dalla esperienza continuata di
fatti, fisicamente congiunti, che produsse l’abitudine di pensarli
insieme. L’esperienza dei fenomeni, concepiti come azioni, si
accompagna alla esperienza di quelli, che compongono l’idea di una
cosa; e quindi i primi non possono essere ricordati, se non si
ricordano insieme ai secondi. L’abbiamo già detto sopra;
l’idea, che noi abbiamo di una cosa, è costituita da un
tenacissimo aggruppamento mentale di moltissimi fenomeni, di due
ordini diversi, la cui attinenza è basata sulla
continuità della loro esperienza. L’analisi rigorosa, che ne
farò a suo tempo, non lascierà nessun dubbio
sull’argomento. Per alcuni di questi fenomeni la continuità
è di spazio, ossia di consistenza, e noi li ammettiamo
siccome fissi e persistenti; e ci servono per cavarne l’idea
astratta della materia. Per altri invece la continuità
è di tempo, ossia di successione e ci sovvengono alla mente,
siccome mobili ed incostanti; e ci servono per astrarne l’idea della
forza. Per ciò la ragione unica della inseparabilità
delle idee di materia e forza nel medesimo oggetto è il
trovarsi, nell’idea della cosa, i primi ricordati sempre insieme ai
secondi.
Ma non c’è nulla di assurdo nella supposizione di una
esperienza di soli fenomeni coesistenti, che non si alterino nel
succedersi del tempo. Il principio della filosofia eleatica,
già menzionato, si può dire non essere altro che una
supposizione di questo genere. E falsa, perché contraria al
fatto della esperienza; ma non è assurda. E in tale caso
avremmo l’idea di materia, senza l’idea della forza. E inversamente
nulla impedisce di supporre una esperienza di sole azioni. L’ha
fatto Eraclito, che, come dice Platone nel Cratilo, sosteneva, nulla
durar mai nella stessa condizione due momenti successivi; e
perciò, si rappresentava la natura, come la corrente di un
fiume, la quale non può trovarsi, per due volte, nel medesimo
punto. E l’hanno fatto, come tutti sanno, i filosofi del diventare;
Hegel sopra tutti E Faraday, che era un fisico e non un filosofo
trascendentale, ha osato anch’esso, consuonando perfettamente con
queste idee, porre addirittura la forza in luogo della materia, e
dichiarare, che l’atomo elementare non è altro che la forza.
Tanto è vero poi, che l’accoppiamento della materia e della
forza nello stesso oggetto non è voluto da una ragione
logica, ma è solo effetto di abitudine, che si vede, che la
stessa abitudine, come si è fatta, si può anche
disfare. I fisici vanno sostituendo, nella loro fantasia, alle varie
forme della forza, corrispondenti alle diverse apparenze sensibili,
l’unica del moto. Non solo essi non pongono più negli oggetti
il suono, il colore, il sapore, il caldo ed il freddo, come l’uomo
del volgo; ma nemmeno la luce, il calorico, l’elettricità, il
magnetismo, la gravità, l’affinità chimica, e via
discorrendo, come i vecchi scienziati. A forza di rendersi ragione
di ogni maniera di fenomeni per mezzo di movimenti, finiscono col
sostituire, nella loro associazione mentale, la forma unica del moto
alle molteplici e diverse delle entità fisiche di un tempo.
Lo spettro solare non si dipinge più, si può dire,
nella immaginazione dei fisici meccanismi, come un chiarore
fantastico, adorno di vaghissimi colori, digradanti insensibilmente
dal rosso al violetto. L’abitudine scientifica vi ha cancellato
sacrilegamente, a poco a poco, ciò che la mano artistica
della ingenua natura vi aveva, con sommo studio, disegnato, per
isfogo di genio e di amore; e vi ha sostituito, a regola di
cronometro e di compasso i tratti rigidi e glaciali delle linee
geometriche, e delle cifre numeriche, segnando, per esempio,
là dove brillava un color d’oro rallegrante, un prosaico
movimento di va e vieni, della durata di 509 bilionesimi di secondo
e della lunghezza di 553 milionesimi di millimetro.
Che più? La stessa rappresentazione delle funzioni puramente
meccaniche è capace di una forte trasformazione. Fino ad ora
abbiamo detto: Il movimento si comunica da corpo a corpo mediante
l’urto. Ed abbiamo sempre creduto, che chi dice, urto, debba anche
dire, contatto. Ma ora si sa, che l’effetto diretto ed immediato
dell’urto è propriamente il riscaldamento del corpo urtato, e
che il movimento è la conseguenza della sua
elasticità, per la quale il calore si trasforma, in parte, di
nuovo in esso. E, quanto al contatto, dei fatti accuratissimamente
studiati e delle esperienze recenti (perché vogliamo lasciare
in disparte i ragionamenti astratti), hanno dimostrato, che le
azioni tra corpo e corpo non richiedono punto, che si tocchino tra
loro; e si esercitano anche a distanza; e si può benissimo
pensare, che la forza minima di un atomo di materia, la cui potenza,
diminuendo in ragione del quadrato delle distanze, per una
lontananza come di qui al sole, deve ridursi ad una esiguità,
che confonde a pensarla, non rimanga senza efficacia, perché
in natura sono immancabili gli effetti anche delle forze
infinitamente piccole. Insomma noi ora dobbiamo figurarci l’urto e
le sue diverse forme, come sarebbe l’attrito, anche senza il
contatto del corpo urtante col corpo urtato. Tanto è vero,
che tutte codeste idee sono tra loro collegate, non per ragione
logica, ma per associazione empirica; tanto, da un punto di vista
positivo, è insostenibile l’assoluta indivisibilità
della materia e della forza!
La quale indivisibilità, per conchiudere, a che si riduce
adunque nello stato attuale delle nostre cognizioni? Si riduce a
questo, che, in un dato movimento di un corpo, abbiamo un caso
particolare della forza. Il fenomeno del corpo, che si muove, lo
concepiamo connettendo i due concetti; immaginando cioè, che
la forza si sia compenetrata nella materia. Ma, se vogliamo
concepire il corpo in riposo, non abbiamo più bisogno del
concetto della forza, e ci basta quello della materia da solo.
Tale è l’idea positiva della forza. Ma il concetto comune ed
ordinario di essa non è, come generalmente si crede, un
concetto positivo. Tutt’altro. L’atto del moto volontario delle
membra è in noi accompagnato da una sensazione speciale, la
sensazione della forza muscolare, la quale è appunto il
prodotto psichico dello sforzo, e del lavoro fisiologico dei
muscoli. Le fibre muscolari, raccorciandosi e tirandosi dietro le
parti, a cui sono attaccate, producono, per mezzo dei filamenti
nervosi, che vi mettono capo, la detta sensazione, allo stesso modo
che, nell’udito, le vibrazioni del liquido delle cavità
interne dell’orecchio, mediante i nervi auditivi, producono la
sensazione del suono. Nel caso dell’udito, il suono è da noi,
per naturale illusione, collocato nell’oggetto sonoro. Essendo tale
oggetto alla portata degli altri nostri mezzi di cognizione, ci
è possibile l’associazione della idea di esso con quella del
suono. E concepiamo il fatto dell’udito, come se il suono partisse
dall’oggetto sonoro, varcasse lo spazio, che lo separa
dall’orecchio, e vi entrasse per farsi sentire da noi. E nel caso
della sensazione della forza muscolare, nel moto volontario, che
avviene? Questa dapprima si confonde e si compenetra coll’altra, in
sé affatto diversa, del volere; e se ne fa una sola. E poi
così commista, la si attribuisce e a ciò, che si dice
la nostra anima, e alla massa dei muscoli operanti; con grossolana
illusione per tutti e due i rispetti. È illusione attribuirla
all’anima, e credere, che sia una schiettissima manifestazione
dell’esser suo, e, come tale, causa elettrice dell’azione muscolare;
perché, in quanto è volere, è una sensazione,
come un’altra, una sensazione, succedente ad un atteggiamento
organico particolare; e, in quanto al resto, segue e non presiede
all’azione corporea attribuirla alla massa muscolare. È
illusione anche a pur prescindendo dalla sensazione di volere, che
contiene; e credere, che vi risieda, proprio nella sua forma di un
atto psichico; perché, come nella campana non vi è il
suono, ma solo l’elasticità atta ad imprimere nell’aria le
vibrazioni, che, trasmesse all’organo dell’udito, lo fanno sorgere
nella coscienza dell’audiente, così nei muscoli non vi hanno
che le proprietà chimiche delle molecole componenti. Messe
queste in attività, nasce altrove, cioè nella
coscienza dell’operante, e in forma tutto diversa, cioè di
mero stato psicologico, la sensazione della forza muscolare, la
quale, per tal modo, anziché essere ciò stesso che
muove, non ha luogo che come effetto di un movimento per altra causa
prodotto. Da queste prime illusioni ne viene poi un’altra. L’uomo,
per la tendenza che ha di porre inavvertitamente negli oggetti
ciò che ha sentito in sé, vi trasporta, per
ispiegarsene le azioni, tale idea, affatto psichica, della forza, e
pensa, che in essi la materia, come tale, ne sia essenzialmente
fornita, come ha creduto di sé, e del proprio corpo. E questo
il concetto comune e volgare della forza; concetto ben altro che
positivo, mentre inchiude il doppio errore di valere, quanto
all’uomo, come una rivelazione della essenza di un principio
immateriale, che abbia dei rapporti di causalità coi
movimenti corporei, e di servire poi, così concepito, per
impiegare le operazioni della materia incosciente. E la ragione, a
cui propriamente si appoggia la teoria della inseparabilità
assoluta della forza dalla materia, è costituita da siffatto
concetto comune e volgare della forza, che abbiamo esposto;
sicché deve dirsi, che essa, anziché appartenere
all’ultimo grado di sviluppò della scienza, appartiene a’
suoi primordi. E i suoi patrocinatori, credendo di far avanzare la
scienza, la portano indietro; oltreché poi, unendola alle
dottrine nuove, ne formano un concetto confuso e contradditorio,
come abbiamo visto aver fatto il signor Bence Jones.
Se il concetto da prima significato colla parola, forza, è
quello erroneo, che abbiamo qui esposto, non vuole per ciò il
positivista escluderla dalla scienza. No. La ritiene, come ha
ritenuto la parola, legge, pur dopo modificata l’idea relativa. E
l’adopera anche col suo significato oggettivo; ma ricordandosi, che
il concetto da essa indicato non contiene altro di vero, che la pura
somiglianza dei fenomeni di azione.
Da tutto ciò è facile raccogliere anche, quanto sia
falso e più conforme al metodo metafisico degli antichi, che
al positivo dei moderni, il concetto della virtualità, che
molti, e lo stesso Jones, collocato nella materia, come un
precedente reale della attività spiegata. Egli dice nelle sue
letture sopra ricordate, che "qualunque sia la forma del movimento,
non può venire, che da un’altra forma di movimento, o da una
forma di tensione". Il movimento da una forma di tensione? Un
linguaggio simile avrà senso in poesia, dove è buono
tutto ciò che gira nell’immaginazione, come è il caso
di questa, che si chiama tensione; ma non nella scienza. Forse il
pericolo, che correva la teoria della inseparabilità assoluta
della forza dalla materia, di fronte alla nuova dottrina del
movimento, quale unica forma della forza, ha consigliato di
adoperare una parola, che permettesse di stare a cavallo, e di
tenere un piede da una parte e un piede dall’altra. Ma non fanno
così quelli che intendono veramente, che sia scienza. Essi
non si abbandonano senza difesa al colpo mortale della ironia del
Mefistofele di Go5the, che loda la metafisica e la teologia,
perché, quando manca loro l’idea, aggiustano tutto con una
parola opportunamente trovata. Essi non si contentano di un
vocabolo, che non esprima una cosa chiara e non vogliono saperne di
virtualità, che non sia una vera forza in azione.
In una locomotiva, già scaldata per la partenza, ma ancora
ferma, si dirà, che si contiene virtualmente il moto del
convoglio, che ne sarà trascinato. Ma in che consiste cotesta
virtualità, se non in un vero moto reale? Vale a dire nel
moto vibratorio, che le molecole acquee ricevettero dalla
combustione del carbone? Il movimento avanti e indietro dello
stantuffo, quello girante delle ruote, e quello di traslazione del
convoglio, che sono, se non tre successive trasformazioni del
movimento, che già esisteva nelle molecole acquee, e che da
esse passò nell’asta dello stantuffo motore? Ciò
è tanto vero che, come il moto di traslazione esaurisce il
rotatorio, e questo il moto di va e vieni, così l’ultimo
esaurisce il moto vibratorio delle molecole del vapore, in modo che,
di mano in mano che lo comunicano allo stantuffo, esse lo perdono o,
che è lo stesso, si raffreddano. Ecco la virtualità
nel senso vero. Non una qualità occulta, una certa cosa
inconcepibile tra l’azione e l’inazione, ma una forza attualmente
attiva, o, che è lo stesso, un fenomeno reale di movimento.
Resta dunque provato, che la materia e la forza, sotto qualunque
riguardo si considerino, non sono, che gli stessi fenomeni, presi
nelle loro ultime somiglianze. Come abbiamo detto sopra, la scienza
naturale, progredendo, fu costretta di abbandonare la vecchia
provvisione delle molteplici sostanze, diverse essenzialmente l’una
dall’altra e fornite ciascuna di proprietà particolari.
Continuò però di poi ancora a ritenere, siccome
irrepugnabile, il principio della assoluta inconcepibilità di
un fatto fuori di un qualche soggetto. Sostituito ai soggetti molti
e disformi quello unico, della materia, si seguitò a dire:
Impossibile all’uomo formarsi la rappresentazione del fatto fisico,
senza appoggiarlo alla sostanza materiale. Or che diremo di siffatta
pretesa impossibilità dal momento, che è manifesto,
essere anche la materia un mero fatto; e che quindi chi attribuisce
il fatto alla materia non l’attribuisce già ad una sostanza,
ma ad un semplice fatto?
La cosa metafisica, che altri vuole sia intesa sotto il nome di
materia, non che dimostrarla con perfetta certezza, ci sfugge
assolutamente, se ci mettiamo a ricercarla; anzi ci apparisce del
tutto assurda. Lo spazio, che, secondo il concetto comune di
materia, dovrebbe, in un corpo, esserne, tutto o nella massima
parte, ripieno, siamo necessitati, appena meditiamo un poco sui dati
della esperienza, a considerarlo quasi affatto vuoto; tanto da
pensare che una massa grandissima possa senza perdere punto della
sua materia essere ridotta alle dimensioni di un piccolo granellino;
e che gli atomi elementari, anche nei corpi più densi, siano,
relativamente al loro volume, tanto lontani l’uno dall’altro quanto
i corpi celesti tra loro, e non abbiano compattezza maggiore di
quella di una costellazione. Ma pazienza; ci restasse almeno la
corporeità degli atomi. Nemmeno quella. L’esteso non si
spiega, impiccolendolo. Uno spazio estremamente piccolo è
divisibile all’infinito al pari di uno spazio estremamente grande;
né più, né meno. Ora, dire un atomo solido e
pieno, per quanto piccolo, è dire delle parti realmente
esistenti in numero infinito, ossia un’assurdità;
poiché un numero effettivo non può essere che un
numero determinato.
Quelli dunque che pretendono, essere necessaria la supposizione
della sostanza materiale, metafisicamente intesa, per concepire il
fatto fisico:
1. sono smentiti dall’analisi della idea della materia, onde
risulta, che essa non è punto un dato metafisico, ma contiene
soltanto dei dati fenomenici;
2. pongono, come necessità del pensiero, un dato assurdo;
3. introducendola nella scienza, come primo logico, stabiliscono
l’astratto a base del concreto; ossia fanno venire il più dal
meno.
A questo punto ci sarà chi vorrà interrompermi, e
dire: Ho capito; voi siete un idealista, ossia uno di quelli, che
non credono alla realtà del mondo esteriore. A chi pensasse
di dovermi fare una simile osservazione risponderei: No; io non sono
un idealista. Io ammetto la realtà del mondo esteriore, come
voi, e come tutti gli altri uomini. Anzi la filosofia positiva, che
professo, è la sola, come mostrerò a suo tempo, che
sia in grado di confutare l’idealismo. E le cose, da me dette
poc’anzi, non mi sforzano punto ad una conclusione idealistica. E
potrei benissimo, senza ritirare nulla di quanto affermai,
accettare, fatta riserva solamente per quanto ha di meno proprio
qualche parola, ciò che in proposito insegna E. Helmholtz in
una sua recentissima conferenza, dove dice: "Lo scopo della scienza
è la ricerca delle leggi; ed è naturale, che le prime
leggi, che si trovano incominciando, siano quelle che non
abbracciano, che i più piccoli gruppi di fatti; si arriva
solo a poco a poco a scoprire quelle che abbracciano i gruppi
più importanti. Il termine finale, verso il quale si deve
tendere, quantunque ancora lontanissimo da noi, è la scoperta
della concatenazione delle leggi che presiedono a tutti i fenomeni
naturali......... Le leggi, le idee generali, sotto le quali si
classificano i fenomeni, portano il nome di cause, quando si
riconosce, che sono l’espressione di una potenza reale oggettiva;
esse portano il nome di forze, quando si riuscì a ridurre il
risultato totale alle azioni particolari, che le diverse parti delle
masse, concorrendo insieme, producono in questo o quel lavoro della
natura. Causa, forza, tutto ciò infine non è altro che
una espressione della legge considerata oggettivamente.
Nessuna difficoltà per me a chiamare forza la legge, materia
la nozione, causa l’una congiunta all’altra; nessuna
difficoltà a chiamarle così anche in un senso
veramente oggettivo; poiché la realtà, non di pensiero
soltanto, ma assoluta, che il filosofo positivista asserisce pei
fenomeni, non può negarla per la consistenza, la successione
e le somiglianze loro. Il positivista non nega neanco, che possa
esservi una ragione della sperimentata coesistenza dei fenomeni in
gruppi distinti, fissi ed inscindibili, onde il concetto di corpo e
di materia; e della loro successione, in un ordine costante, onde il
concetto di forza e di causa; come non la nega neppure delle
somiglianze delle cose, onde le cosidette idee metafisiche; nemmeno
per sogno. Solo egli non dice di conoscerla, né di essere
vicino a conoscerla, né se arriverà mai a conoscerla.
Vogliasi che tale ragione sia la cosidetta cosa in sé, o
un’altra qualunque, egli non entra nella questione, che, per ora,
gli sembra affatto prematura ed oziosa, essendo ben certo, che la
via di scioglierla non è quella, spiccia sì ma falsa,
tenuta dai metafisici. I quali, prima che se ne sappia nulla
veramente, se la fabbricano colla immaginazione; e, quello che
è peggio, senza accorgersi, che, per quanto si arrovellino al
fine di trovare nella mente il contrapposto del fenomeno, il
contenuto del pensiero è sempre la pura fenomenalità;
e che, nel correre ansiosamente in cerca di quel concreto
individuale, opposto al pensiero e diverso da esso, che chiamano la
cosa in sé, mentre credono di seguire una ragione assoluta ed
indeclinabile della stessa realtà oggettiva, in effetto non
fanno che ubbidire ad una legge tutta interna della rappresentazione
psichica, e subire gli effetti della associazione delle idee e della
astrazione.
Nessuna difficoltà dunque, come diceva, a chiamare forza la
legge, materia la nozione, causa l’una congiunta all’altra; ma a
patto, che si ricordi, che tutto ciò non è, se non uno
spediente logico affatto provvisorio; e che, se nominiamo, o forza,
o materia, o causa, una astrazione presa dai fenomeni particolari,
in quanto per avventura crediamo, che sia una manifestazione di
ciò, che si dice la cosa in sé, come pare accennare il
passo riferito dello Helmholtz, quella astrazione resta sempre una
astrazione, che ha la sua ragione nei particolari, e ne dipende; e
non potrà mai quindi convertirsi in un principio, onde
discenderne per determinare i fatti. A patto insomma, che si
ricordi, che il punto fisso della scienza restano sempre i fatti, i
quali, una volta trovati, sono trovati per sempre; mentre ciò
che si chiama il soggetto dei medesimi, colle sue proprietà,
si va modificando col progresso della cognizione, cioè di
mano in mano, che le nuove scoperte nel campo dei fenomeni lo
esigono.
La precarietà delle concezioni astratte, assunte a comporre
il sistema dei fatti, di fronte alla consistenza di questi, e quindi
la verità di ciò, che abbiamo detto, apparisce
evidentemente dalla storia delle scienze naturali. Qualche volta
accadde, che si fosse indifferenti tra più ipotesi, tra loro
diverse; servivano tutte bene a dar ragione di ciò che
succede, e perciò avevano lo stesso valore, essendo tutte in
grado di fare ciò, che premeva soprattutto, vale a dire di
spiegare i fatti. Se le leggi della conducibilità del calore
si potevano chiarire egualmente bene colla supposizione di un fluido
particolare, o di forze attrattive e repulsive, insite alle
molecole, o di un urto impresso dal di fuori, perché dare la
preferenza all’una piuttosto che all’altra di queste tre ipotesi,
ossia di questi tre espedienti logici provvisori? Che se poi nuovi
fenomeni, prima non conosciuti, si trovarono incompatibili con una
ipotesi, anche autorevolissima, non si esitò mai nella
decisione. I diritti di un fatto sono assoluti. Non così
quelli di un principio. E se io perciò dicessi,
contrariamente a ciò che siamo soliti di udire, che i fatti
sono divini, e che i principi sono umani, non temerei, che alcuno
potesse convincermi di errore. Un piccolo fatto, ribelle al
principio ricevuti di una scienza, ha la forza di metterla
sottosopra, di distruggerne la disciplina delle parti e di condurla
inesorabilmente alla detronizzazione delle astrazioni, che la
governano. Ci basti ricordare, come nei tempi a noi vicini i fatti
della interferenza, della polarizzazione, della doppia rifrazione e
della diffrazione della luce scacciassero definitivamente dai
confini della fisica quei fluidi, che prima si credevano essere la
causa dei fenomeni naturali. Restò il campo all’etere, che fu
trovato un ottimo spediente per darne ragione; ma che potrebbe alla
sua volta, anch’esso, subire la sorte dei precedenti. E già
il fatto della comunicazione del movimento a distanza, che si va
sempre più provando come notammo sopra, incomincia a renderne
meno necessaria la supposizione, o almeno a rappresentarne
diversamente il modo d’azione.
Né si deve credere, che la scienza, perciò, venga ad
essere come la tela di Penelope; e che domani debba lavorare a
distruggere il lavoro di oggi. Qui giova ricordare ciò che
dicemmo; vale a dire, che il progresso della scienza consiste, nel
sostituire a poco a poco e di mano in mano che l’osservazione e il
confronto dei fatti lo permette, alle somiglianze false ed
inadeguate le meno imperfette e le vere. Un fatto nuovo può
smentire una ipotesi, ossia far apparire falsa la somiglianza, onde
si spiegava una cosa; e allora il progresso sta nella eliminazione
di una falsità. Ovvero un fatto nuovo può imporre una
modificazione nella ipotesi o nella somiglianza assunta a spiegare,
sia escludendone la parte erronea, sia completandola di ciò
che manca, sia estendendone l’applicazione; e allora il progresso si
ha nel miglioramento della generalità scientifica, ossia
dell’organo logico dei sistema. O finalmente un fatto nuovo
suggerisce una nuova ipotesi; e allora il progresso è
nell’allargamento della scienza. Insomma è sempre il fatto il
punto di partenza. E questo è al tutto certo ed
irreformabile. Dove invece il principio è un punto di arrivo,
che può anche essere abbandonato, corretto, oltrepassato. Ma
ciò non esclude, né la stabilità, ne il
progresso della scienza. Pare strano a prima vista, che lo
scienziato, nello stesso tempo che crede assai più ad una
legge data dall’osservazione e dal ragionamento che non ad un dogma
imposto autoritativamente, non attribuisca tuttavia alla legge
l’immutabilità di forma, propria del dogma. Ma non è
difficile trovarne il perché. Per lui il dogma è un
cadavere, in cui non si può mantenere la forma, se non
sopprimendo interamente ogni processo attivo nella sostanza, che lo
compone; mentre la legge è qualche cosa di vivo, in cui i
processi evolutivi, anziché distruggerne le forme, le
ingrandiscono, e danno loro una espressione più forte e
perfetta. Ovvero, per parlare fuori di metafora, il dogma non
istà per sé, e svanisce tutto, venendo meno
l’autorità, su cui si fondava; la legge invece è un
vero, che sta per virtù propria, e che, in quanto tale,
rimarrà sempre; ma non vero in tutto e per tutto; un vero,
che si può far più vero, per eliminazione del falso
che per avventura contiene, per completamente, per generalizzazione,
per nuovi rapporti logici con altri veri; insomma per tutti i mezzi,
onde è dato alla scienza di progredire.
E che tale sia veramente il processo della scienza, ci è
attestato chiaramente anche dalla storia del suo linguaggio. Come
dice il Müller, nelle sue nuove lezioni, valendosi delle
osservazioni di Liebig, "la chimica adottò la parola, acido,
come denominazione tecnica di una classe di corpi, dei quali i primi
stati riconosciuti dalla scienza erano caratterizzati da un sapore
acre. Ma poi si scoprì, esservi dei composti perfettamente
simili a tali corpi nei loro caratteri essenziali, ma di sapore non
acre, e quindi essere l’acidità una qualità
accidentale di alcuni di tali corpi, e non un carattere necessario
ed universale, che li distingua tutti. Si pensò, che non si
era più a tempo di cambiare la denominazione ricevuta, e
così si applicò il vocabolo, acido, o il suo
equivalente etimologico, al cristallo di rocca, al quarzo ed alla
silice. Così pure, nella nomenclatura chimica, per effetto di
un errore somigliante nella applicazione della voce, sale, i chimici
mettono nel numero dei sali la sostanza, onde si fanno gli specchi e
le lenti. D’altra parte, l’analisi aveva mostrato, che non si era
compreso il carattere essenziale, non solo degli altri corpi, che si
erano chiamati sali, ma neanche dello stesso sale di cucina, del
sale per eccellenza, e che il sale non è sale; sicché
si dovette escludere questa sostanza dalla classe dei corpi, a cui
aveva dato il suo nome all’epoca, che era ritenuto quale loro
più perfetto rappresentante".
E il processo di formazione del linguaggio scientifico è in
tutto analogo a quello del linguaggio in generale, e, perciò,
dell’umano pensiero, che vi si esprime naturalmente. Il punto di
partenza del pensiero non sono già le idee astratte, ma
bensì le sensazioni immediate; sicché le prime parole
rappresentano, non l’individuo, che è una idea molto diversa,
assai complicata e tardiva, ma questi dati sensibili fondamentali.
Il significato di tali parole si estende, di mano mano che le
qualità, da loro indicate, si vanno sperimentando in
più oggetti. Ogni volta che si percepiscono delle somiglianze
e delle analogie nuove si porta nella parola una significazione
più generale. Si sa che il vocabolo, essere, corrispondente
ad un concetto dei più astratti, ha cominciato dall’indicare
il semplice fenomeno del respirare. Insomma il fatto è il
capo saldo, la base stabile, il principio fisso, il punto di
partenza. E seguono poi, di grado in grado, gli astratti, secondo
che va innanzi il lavoro mentale. Così nell’aritmetica,
incominciando dall’uno più uno, si può progredire,
computando ed operando sui numeri, all’infinito. E così fa
pure il positivista; anch’egli parte dal fatto, ossia dall’uno
più uno; sa dove comincia, non sa dove finirà. Il
metafisico è invece dominato dalla matta idea di partire
dallo stesso punto di arrivo, dal numero infinito, per venire
all’uno; e perciò è sempre da capo, non essendogli
possibile di stabilire a questo modo con certezza il suo principio,
che è un principio in realtà introvabile. Il tentativo
di Dalgarn, Wilkins, Leibniz, Trede, Bellavitis e di altri, di
fondare un linguaggio universale, contiene, pel modo da loro
divisato, non conforme a quello della natura, una assurdità
simile a questa dei metafisici. Secondo loro, la base di tale
linguaggio dovevano essere le idee universali, e supreme, e quindi
le parole corrispondenti. Tutti gli altri concetti, dal genere
più elevato all’individuo, dovevano essere determinati In
base a quelle, mediante una regola semplice. Ma si può
domandare: Quali sono le idee supreme? E se l’uomo, come ogni secolo
ha fatto, trovasse idee ancor più astratte che avverrà
della nostra lingua universale? Demolirla, per ricostruirne
un’altra, che alla sua volta dovrà di nuovo essere rifatta.
Nella fisica, come poc’anzi dicevamo, i fatti, di mano in mano che
se ne allarga lo studio, conducono, giusta il nostro principio qui
giustificato coll’esempio del linguaggio scientifico e naturale, a
riformare le generalità, onde ce li spiegavamo; vale a dire,
a sostituire somiglianze più vere e più estese alle
apparenti, inesatte e ristrette. Un’ipotesi, che non serve
più bene, cede, come vedemmo or ora, il posto ad un’altra,
che serve meglio. E tale caducità scientifica è comune
a tutte le generalità, e non si riscontra solo nei fluidi
imponderabili, e nell’etere, che sono cose infine non mai
direttamente sperimentate, e solo immaginate a sussidiare
temporaneamente la scienza, ma si trova anche in ciò, che si
crede universalmente la cosa più reale e salda, cioè
nella materia, che pure dovrebbe costituire, secondo la comune
opinione, la stessa sostanza dei corpi, e il soggetto indispensabile
dei fatti.
La fisica, come tutti sanno, ha due parti. La prima tratta delle
proprietà generali dei corpi, ed è molto vecchia. Meno
ciò che si riferisce all’inerzia e alla gravità, era,
si può dire, già fatta al tempo di Aristotele. La
seconda si occupa dei fenomeni, ed è nuovissima,
poiché data da Galileo. In passato la prima era ritenuta la
principale e il fondamento necessario della seconda, e di tale
natura da non essere quasi più suscettibile di notevoli
alterazioni, versando sulle determinazioni ovvie, comunissime,
universali del concetto della materia costitutiva dei corpi, che si
credeva certissimo e definitivamente fissato, come quello di spazio
in matematica. Anzi si stimava, che non fossero possibili fenomeni,
che non si accordassero pienamente con quelle determinazioni; e un
fatto, che si presentasse in disaccordo, doveva, a priori, essere
attribuito, o ad errore di osservazione, o ad altro, che non gli
permettesse di essere preso in considerazione dal fisico. E tuttavia
che è succeduto? La parte, che si occupa dei fenomeni, prima
tenuti in conto di cosa leggera e mutabile, come apparenza vuota ed
inconsistente, è sottentrata all’altra nel posto d’onore. I
fenomeni vi furono ammessi tutti, con assoluto diritto; anche se
contrari a quelli, che si ritenevano gli attributi essenziali ed
immancabili della materia. Anzi, se nella scienza è restato
qualche cosa di poco sicuro, e destinato, o a perire del tutto, o a
trasformarsi radicalmente, è appunto quella, un tempo solenne
dottrina delle proprietà generali dei corpi. Le quali, a poco
a poco, si poté capire, non essere quelle assolute ed
indiscutibili verità, che prima si credevano.
Gli attributi essenziali della materia, nel concetto ordinario di
essa, sono quelli della estensione e della impenetrabilità,
della passività e dell’inerzia, del peso e della
gravità. Le esperienze di Galileo e di Torricelli
modificarono le vecchie idee circa la pesantezza dei corpi,
dimostrando che tutti i corpi indistintamente sono pesanti, e che la
caduta prodotta dal peso è nella ragione medesima per tutti.
Ma il peso è esso oggi considerato, come un tempo, una
qualità intrinseca della realtà materiale, ed
inscindibile da essa? No certo, come anche sopra dicemmo. O
già i fisici inclinano a considerarlo semplicemente quale
effetto di un urto esterno, o di un movimento concepito. Alla
materia affatto passiva è già aggiunto, secondo
Aristotele, nel corpo reale un principio di attività,
cioè la sua forma sostanziale. Alla quale il medesimo
ascriveva quello che chiamava il moto naturale dei corpi. E ne
distingueva il moto impresso dal di fuori ossia il violento. I
moderni non ammisero che questo. Ma corressero l’errore antico di
credere, che il medesimo durasse solo quanto l’azione della causa
motrice. Ed insegnarono, che, come un corpo non ha in sé la
virtù di mettersi in movimento, quando, come una pietra,
giacente sul suolo, è in quiete, così urtato una volta
e messo per ciò in movimento, come i corpi che si muovono in
cielo, persevera in esso, senza bisogno che si rinnovi lo sforzo di
muoverlo. Ma anche queste idee sono già modificate, dal
momento che, da una parte, nel fatto, né ciò che
apparisce in quiete, come un corpo solido giacente per terra, onde
fu presa la stessa idea della passività della materia,
è quella massa continua inattiva che sembra, mentre vi
formicolano dentro con moti vari ed incessanti le particelle
minutissime che lo compongono, né ciò che apparisce
muoversi imperturbatamente, come una stella nel vuoto cielo,
è in realtà immune da ogni contrasto che ne affatichi
il corso, ché o l’etere interposto o l’attrazione delle masse
lontane ne rallentano il movimento; e dall’altra, quanto allo stesso
principio, non si vuole più ormai dalla maggior parte dei
fisici scompagnare la forza dalla materia, la quale anzi da alcuni
è fatta consistere, come accennammo già, nella stessa
forza talché la quiete, quando ha luogo, non sarebbe
più la mancanza o il riposo della forza, ma equilibrio di
quelle che, operando colla medesima intensità, in senso
contrario, si elidono vicendevolmente. E da ultimo, non solo dello
spazio attribuito a un corpo oggi non si considera di più
ripieno della sua sostanza, che una minima parte, e si ritiene
esservi, per mezzo ad un oggetto materiale, ampie e comode vie di
passaggio, come nel vetro per la luce, ma non si tien più
conto ormai nemmeno dei punti pieni. Non si ha difficoltà a
pensare all’azione di una forza anche attraverso ad essi, come se
fossero vuoti, al pari del resto. Faraday, in una lezione sulla
natura della materia, non solo asserisce addirittura, che la materia
è penetrabile, rinnegando così formalmente il vecchio
dogma; ma aggiunge, che ogni atomo si estende, per così dire,
attraverso a tutto il sistema solare senza cessare di conservare il
suo centro proprio di forze. Che più? C’è perfino,
come sopra notammo, chi crede, che nemmeno questi atomi siano
estesi.
Anche il concetto della materia adunque va a subire la sorte comune
delle astrazioni; anch’esso è un dato provvisorio, che
è presso a cedere il posto ad una generalità
superiore. Cartesio aveva detto: Due sostanze, lo spirito pensante e
la materia estesa. I metafisici dualisti anche oggi, ripetendolo,
hanno l’aria di sfidare qualunque a muover dubbio sulla certezza,
sulla irreduttibilità di quelle due idee, onde pendono i loro
sistemi. E mostrano compassione dei positivisti, perché, a
loro credere, essendo costretti a trascinarsi penosamente di fatto
in fatto, devono essere impotenti a pervenire all’altezza e alla
schietta idealità di esse. Eppure il filosofo dei fatti,
anche senza neanco uscire dalla fisica materiale, vi è bene
arrivato. Non solo; ma li ha oltrepassati, mostrando ai filosofi
della speculazione intellettuale, che vi può essere ancora
qualche cosa di più astratto e profondo delle idee comuni
della materia e dello spirito, e che quindi i loro sistemi, per
reggersi, hanno bisogno di una sottomurazione ai loro fondamenti,
che hanno il vuoto sotto; e di prenderne i materiali a prestito dal
positivismo; tanto è falso, che esso sia infecondo e
micidiale delle idee e della scienza. L’induzione positiva, come
diceva, ha superato i segni di Ercole della fisica antica, ed
è entrata, piena di ardire e di speranza, in un mare nuovo; e
già in fondo a quello si vanno disegnando, lontan lontano,
come linee indistinte di lidi remoti, i primi incerti tratti di un
concetto più elevato ed universale, come vedremo. Quantunque
pochi ancora siano gli animosi, che vi si arrischiano. I più,
anche se non di quelli deliberati a far guerra sempre alla ragione,
che hanno colpito di anatema, anche se non di quelli, si
impauriscono, per timidezza, delle troppo ardite verità; e,
contro l’evidenza, si fanno scudo di ciò, che chiamano il
senso comune, ed è puro pregiudizio volgare, pura abitudine
di pensare in un dato modo. Ma, quei pochi eletti bastano soli. Il
vero, che hanno nel cuore, dà loro la forza di persistere e
di aspettare. Aspettano, che il tempo compia la persuasione delle
menti ribelli e timorose. E questa è la vendetta avvenire,
onde si rallegrano nelle presenti contrarietà dei diffidenti
e dei protervi.
Pertanto il fatto del cambiamento avvenuto nell’ufficio logico e nel
valore del concetto della materia nella fisica, è della
più alta importanza, e merita che sia attentamente
considerato dal filosofo. Esso è la più formale
conferma di ciò che abbiamo detto fin qui; e, per lo scopo
che ci siamo prefissi, se ne ingerisce specialmente:
1. che nelle scienze positive, se non sempre con piena coscienza,
pure almeno istintivamente si è proceduto veramente secondo
il metodo da noi indicato, siccome il solo razionale; vale a dire,
di non dare un valore assoluto, se non ai fatti; e di considerarli
il punto di partenza fisso ed irremovibile del discorso scientifico.
E, quanto alle astrazioni, di ricordarsi, che sono pure espressioni
di fatti; che è sempre possibile, precisando meglio le
somiglianze od allargandole, trovarne una al di là, che
riformi o sostituisca la precedente; sicché nessuna
può mai essere presa come l’ultima definitivamente, e
offerire alla scienza una base stabile a priori;
2. che è precisamente a tale indirizzo, che le scienze
naturali devono il loro sviluppo e il loro valore scientifico;
3. che questo medesimo deve pure essere considerato il metodo vero
per ogni scienza; sicché, se ne vediamo qualcheduno, come
sarebbe la psicologia, che non sia a livello delle altre, dobbiamo
esser sicuri, dipendere unicamente dal non averlo seguito. Ed
è ciò, di cui adesso, per ultimo, dobbiamo ancora
parlare.
Parte terza: Lo spirito e la coscienza in psicologia
Anche in riguardo ai fenomeni psicologici, come tutti sanno,
è sostenuto il principio, che non sia possibile pensarli, se
non in un soggetto. L’illustre Mamiani, per esempio, dice, su questo
proposito, in un suo discorso del 1866 intorno a Kant; " Nella
cognizione è certamente incluso un atto....... Ma l’atto
è spiegamento di una facoltà agibile, e la
facoltà agibile s’incorpora in una sostanza". Il Mamiani
è talmente persuaso di ciò, che non dubita di
soggiungere: "Egli bisogna volersi accecare apposta dell’occhio
mentale, per non vedere e non confessare, che la intuizione
dell’atto del nostro pensare e conoscere è la più
antica e la più immediata e sincera di tutta l’anima; e che
d’altro lato è impossibile di intuire la connessione e
l’intimità sua profonda col subbietto onde emana. Niuno
può dividere queste cose che fanno uno; e chi lo tenta,
invece di spartirle, le dissolve e distrugge.
Per capir bene quanto valga un tale ragionamento, non è che
analizzare il concetto di quest’anima, che si dà, come il
soggetto metafisico logicamente indispensabile per pensare il
fenomeno psichico. Come la materia non è altro, che una
astrazione dei fenomeni fisici, così l’anima non è, se
non una astrazione dei fenomeni morali. Quand’è che si
è giunti a possedere questo concetto? Dopo una lunga
esperienza dei fatti così detti interni. Non prima. E come si
è formato? Chi viaggia in un paese montuoso vede prima
davvicino, e ad una ad una, e in luoghi assai fra loro discosti, di
mano in mano che loro si affacciano, le creste e le cime delle
montagne. Dopo lungo cammino, se si guarda indietro, le vede poi
tutte in una volta, e fuse, per, così dire, in una sola
immagine lontana ed aerea, e disegnata sul medesimo piano. Nello
stesso modo i pensieri e gli affetti, che occuparono un uomo lungo
la sua vita, l’uno dopo l’altro, si fissano nella sua memoria, e vi
formano, colle loro linee culminanti e come in un solo piano, un
grande quadro, che si riflette di continuo nel fondo della sua
coscienza. Il concetto dell’anima è tutto qui; la memoria
confusa dei fatti psicologici sperimentati; una specie di
compenetrazione mentale, in uno schema solo, delle qualità e
dei generi loro. Insomma gli stessi fenomeni e null’altro. E in
ciò è anche tutta la ragione della contrarietà,
che si riscontra tra l’anima, concepita come spirito, e la materia.
Questa è l’astratto dei fenomeni fisici, che implicano
l’estensione; e quella è l’astratto dei fenomeni morali, che
la escludono. Si possono sfidare tutti quanti i metafisici a trovare
un solo elemento nel concetto dell’anima, che non sia, in tutto e
per tutto, un mero fenomeno. Anzi di più si può dire,
ciò essere indirettamente da loro conceduto, quando sono
costretti a confessare, che l’essenza dell’anima è, non solo
sconosciuta, ma affatto inconoscibile. L’argomento in contrario
preso dalle cosidette idee metafisiche, o categorie della mente,
come quelle dell’essere, della sostanza, della causa, e via
discorrendo, che si pretende contengano di più di ciò
che può essere dato dalla esperienza, svanisce affatto
davanti alla loro analisi positiva, come mostrerò a suo
tempo. Dov’è dunque la necessità logica di un soggetto
metafisico per pensare il fenomeno, poiché in ultimo si
prova, che noi effettivamente pensiamo solo dei fenomeni senza
soggetto?
Io qui voglio limitarmi alla questione di fatto. Se ciò, che
sorge nel nostro pensiero, quando diciamo l’anima, è uno
schema composto interamente di rappresentazioni di fatti, a che
perderci in discussioni metafisiche? Forse, per evitare di essere
chiamati idealisti e scettici, ci incombe l’obbligo di spiegare il
fatto psicologico della oggettivazione di tale astrazione. Ma noi
non vogliamo fare se non una questione alla volta. E se, per
avventura, la scienza ha ben chiaro un punto e non un altro, noi da
buoni positivisti, incominciamo dall’affermare il primo; aspettando
quanto al secondo, a pronunciarci, quando ne sapremo abbastanza. Il
primo pensiero del positivista non è mica quello di fare un
sistema completo, anche a costo del vero e del possibile, come nel
metafisico. Il vero lo ammette, anche se non forma parte di una
costruzione scientifica finita e completa, anche se isolato, e senza
apparente legame cogli altri veri. E, quanto alla oggettivazione
delle astrazioni levate dai fenomeni psicologici, ci limitiamo
intanto ad affermare, come abbiamo fatto parlando della materia,
queste due cose:
1. Che tale oggettivazione è un processo reale della mente,
che non intendiamo menomamente di impugnare. E lasciamo che gli
altri la facciano; e la facciamo anche noi. Anzi crediamo che la
filosofia positiva possa spiegarla, mentre i metafisici non
riuscirono a farlo.
2. Che però, essendo il contenuto del pensiero dell’oggetto
una astrazione, vale a dire le mere somiglianze dei fenomeni
abbracciate dal pensiero, esso oggetto non è una cosa stabile
e fissa, dalla quale si possa partire per discenderne ai fenomeni
relativi, come vogliono i metafisici. E quindi la base della scienza
non si può trovare, che nel fatto. Come sopra dimostrammo, le
induzioni fatte dalla mente sui dati empirici, si succedono
indefinitamente, a misura che si procede nella osservazione e nello
studio. Si sa donde si comincia, ma non dove si finirà. Ora,
siccome ciò che si chiama l’oggetto è costituito da
tali induzioni, è chiaro, che esso non è il capo saldo
e d’origine, ma il punto d’arrivo, e sempre oltrepassabile, del
processo scientifico.
Dopo ciò è facile vedere, che valore abbiano i
ragionamenti di alcuni, che sono disposti a menar buono il metodo da
noi indicato, pei fenomeni esterni; ma fanno delle grandi riserve, e
lo dichiarano insufficiente e fallace nel caso, che si debba
applicare agli interiori. Dice, per esempio, in proposito il
Vacherot, in un suo recente articolo sulla psicologia contemporanea:
"L’osservatore dei fenomeni fisici, non potendo cogliere, se non
delle apparenze, non ha altro metodo, che l’induzione, per giungere
a metterne in luce la realtà. Non essendogli dato di
percepire direttamente le cause dei fenomeni, non può che
ricercarne le leggi, le quali se gli rivelano solo mediante
un’osservazione faticosa . . . . . L’osservatore dei fenomeni
psichici è in una situazione affatto diversa. Se si limita,
come fanno i psicologi della scuola sperimentale (i positivisti), a
osservare questi fenomeni dal di fuori, sarà sempre tentato a
giudicare della realtà dalla apparenza; ma se a tale genere
di osservazione, che gli fa vedere le leggi dei fenomeni attraverso
alla loro successione, egli aggiunge l’altro genere di osservazione,
che si addentra nel foro interiore del soggetto osservato, egli
comprenderà ben presto la necessità di modificare le
conclusioni, alle quali da principio si era lasciato andare.........
dunque la coscienza, che ha ragione contro la scienza, perché
essa sola è competente in tali sorta di problemi (i problemi
della necessità e universalità dei giudizi, della
sensibilità e della attività volontaria). Ché
essa sola vede il fondo delle cose, il fondo dell’essere umano,
mentre la scienza della scuola sperimentale non ne avverte, se non
le manifestazioni esteriori. Maine de Biran lo ha dimostrato con
evidenza irresistibile; se l’esperienza ha in vista le leggi, la
coscienza può avere in vista le cause . . . Egli e Jouffroy e
molti altri psicologi della scuola spiritualista, dietro Platone,
Aristotele, Leibnitz, hanno saputo fecondare coll’analisi queste
rivelazioni spontanee, e farne sortire una scienza intima e
profonda, ben altrimenti competente, ben altrimenti decisiva, che la
scienza sperimentale della scuola in discorso".
Non c’è punto di dubbio; la grande idea della filosofia
critica, che alla rappresentazione mentale attribuisce un valore
puramente fenomenico, il Vacherot la ammette per le cose di fuori, e
non per quelle di dentro. Viene a dire cioè, dell’esterno la
nostra cognizione possiede soltanto la fenomenalità; ma
dell’interno possiede assai più, poiché ne ha
coscienza. L’aver coscienza di una cosa, pel nostro autore, è
più che conoscerne la fenomenalità; mentre la
coscienza, secondo lui, dà la stessa causa del fenomeno.
Ma questo come può sostenersi, se la coscienza è
costituita dalle pure rappresentazioni dei fatti, e non vi si trova
nient’altro, fuori di queste rappresentazioni? Forse perché
la coscienza ha il privilegio di annunciarsi da sé,
indipendentemente da altro mezzo, e di essere sostegno a se stessa,
dove le cose esterne invece non sono qualche cosa, se non
appoggiandosi ad essa? Ecco un altro esempio di quei ragionamenti
fallaci, che si fondano, non sul fatto concreto, ma sopra una
distinzione mentale. Il me e il fuori di me nella coscienza formano
un tutto reale indivisibile. Come il diritto e il rovescio del panno
si possono bensì distinguere mentalmente, ma non separare
effettivamente senza distruggere il panno, così il me e il
fuori di me nella coscienza. Essa è costituita nell’esser suo
tanto dall’uno quanto dall’altro, che vi entrano collo stesso titolo
e colla stessa forza. Cesserebbe di essere ciò che è,
se mancasse o questo o quello. Da principio ciò che ora
è conosciuto, come di fuori e di dentro, vi era senza essere
considerato come tale; e la distinzione è un’abitudine
mentale, che si andò formando a poco a poco. Per cui, se
ciò che entra a costituire la coscienza ha diritto di essere
ritenuto siccome realtà buona, queste diritto compete tanto
al me, quanto al fuori di me; tanto per quello, che si dice lo
spirito, quanto per quello, che si dice la materia. Perché
ciò che chiamasi spirito è mia coscienza quanto
ciò che chiamasi materia. Non si può essere realisti
pel soggetto solo. O l’idealismo da per tutto, o da per tutto il
realismo.
Ma come? Si dirà. La coscienza è una sola ed
indivisibile. E voi affermate che la formano tanto lo spirito,
quanto la materia; due cose, non solo distinte, ma affatto
contrarie? Ecco proprio dove è l’inganno. Sempre così.
L’uomo costruisce una astrazione, e poi l’oggettivizza; e in seguito
ragiona su questo oggetto da lui fabbricato, senza ricordarsi
più della sua provenienza. La coscienza dell’uomo, come
dicevamo, è l’insieme delle sue rappresentazioni e presenti e
passate. Ogni rappresentazione ha il suo lato della
esteriorità, per così esprimermi, e il lato della
interiorità. La cosa è una, gli aspetti due. Ora, se
colla mente io raccolgo in una sola idea tutti i lati cosidetti
interni delle mie rappresentazioni, ho il concetto dello spirito, se
tutti gli esterni, ho la materia. Materia e spirito dunque, per
quanto diversi e contrari, sono indivisi nella coscienza, come i due
lati opposti nella rappresentazione, e il pensare diversamente
è una illusione dipendente dall’essersi dimenticati
dell’origine soggettiva dei due oggetti.
Bisogna distinguere tra fenomenalità ed apparenza. La
fenomenalità è vera realtà; ma essa è
propria, non solo di ciò che si riferisce al mondo dei corpi,
ma anche di ciò che si riferisce al mondo dello spirito.
Più di questa non ci è dato di conoscere; e vani sono
gli sforzi di quelli, che reclamano il privilegio di una cognizione
più profonda e più intima pel me. Come fanno il
Vacherot e la scuola da lui rappresentata e altri moltissimi, tra i
quali l’illustre Mamiani, che, anche in un recentissimo scritto,
dice: "La notizia del proprio mio essere, non solo nell’ordine
subbiettivo mi riesce anteriore a quella di ogni materia, ma
eziandio mi porge il termine assiduo di paragone per giudicare le
altre cose e la materia principalmente".
Ho detto, che da principio ciò che ora è conosciuto,
come di fuori e di dentro, era nella coscienza, senza essere
considerato come tale; e che la distinzione è un’abitudine
mentale, che si andò formando a poco a poco. Tale
affermazione io non l’ho fatta a caso e leggermente. Si tratta di
uno dei punti più importanti della psicologia. Esso ha una
portata scientifica immensa. E io credo, che, per ciò, venga
subito dopo quello della relatività delle idee; e che debba
costituire, insieme ad esso, il fondamento principale della
psicologia nuova. Non dico poi, che sia ancora affatto ignorato: No.
Ma inteso in tutta la sua estensione, in tutta la sua importanza,
messo in tutta la sua luce, dimostrato perfettamente, e soprattutto
applicato alla soluzione dei problemi scientifici capitali, che per
esso solamente possono averla, non fu, ch’io mi sappia, ancora da
nessuno. A me parrebbe che si potesse. E per mezzo di un
ragionamento, né astruso, né trascendentale, ma
semplice e chiaro per tutti. Se non che qui non è il luogo
opportuno di occuparsene; e mi devo, per ora, contentare di averlo
accennato; come mi occorreva per chiarir meglio e rincalzare le cose
asserite nei due paragrafi superiori.
J. Tissot conviene con me nel ripudiare le idee espresse nelle
parole sopra riportate del Mamiani e del Vacherot. Egli dice nel suo
libro sulla conciliazione della materia e dello spirito: "Nella
maniera volgare di concepire le qualità e il soggetto, il
soggetto e le qualità, vi è un grave errore. Si
suppone, che queste due cose abbiano una specie di realtà
distinta, massime il soggetto, e che le qualità gli siano
come esterne e sovrapposte. Supposizione affatto inesatta. Il vero
si è, che vi ha una intimità talmente reciproca ed
assoluta, che il soggetto non è che la qualità
sostantivata, come la qualità non è che il soggetto
qualificato. E ciò non è tutto; resta a vedere ancora
che sia in se stessa la materia qualificata, ossia le qualità
materiali sostantivate; se tutto è a noi noto, o se ci sfugge
interamente. Ciò che noi, o percepiamo dei corpi, nel modo
che è da noi percepito, non è se non uno stato del
nostro spirito, stato risultante dall’armonia esistente fra i corpi
e il nostro principio pensante; è un fenomeno, vale a dire
una cosa che, presa in se stessa, non ha una realtà propria".
E più innanzi dice ancora: "Distinzioni analoghe a quelle da
noi fatte pei corpi e per la materia si presentano allo spirito,
all’occasione dei fenomeni interni. Conviene dunque riconoscervi tre
cose; i fenomeni stessi, la forma loro ossia la coscienza che se ne
ha, il me che li collega insieme, il soggetto apparente che se ne
riveste, e che è l’anima propriamente detta o la forza
pensante. I fenomeni ossia i movimenti, gli atti e gli stati
dell’anima, in quanto ci sono noti, non sono l’anima stessa; sono
meri modi d’essere instabilissimi, che variano ogni istante e quanto
alla natura e quanto all’intensità. La coscienza dunque non
ha per materia propria, o per oggetto, che degli stati". E poi,
parlando specialmente del me, soggiunge: "Noi non sappiamo del me,
come forma dei nostri pensieri, che questa nozione stessa, e le
nozioni che le si collegano. Questa nozione è essenzialmente
diversa da quella di sostanza. E noi non abbiamo della nostra
sostanza, come tale, un’idea diversa da quella che abbiamo di tutte
in altre realtà. La nozione, me, come tale, non è
nemmeno la nozione della forza. E non abbiamo della forza, che siamo
noi, considerata come forza, un’idea diversa da quella di tutte le
altre forze". J. Tissot adunque mi dà ragione contro il
Mamiani e il Vacherot. E lo fa appellandosi a risultati riconosciuti
dalla scienza, messa sulla buona via da Kant, che svelò il
sofisma, onde si trasportano all’anima gli attributi del me.
Ma non mi concede, che tutti gli elementi, che formano il concetto
dell’anima, nessuno eccettuato, siano empirici, ossia meri fenomeni
appresi, o, che è lo stesso, mere sensazioni sperimentate.
Ecco come egli ragiona: "Queste proposizioni: Io sono una sostanza,
io sono una forza, esprimono dei giudizi sintetici. Anzi dei giudizi
sintetici a priori, perché le nozioni di me, di sostanza, o
di forza, non hanno nulla di empirico. È questo un punto di
estrema importanza. Ed io lo provo così: Se la nozione, me,
fosse empirica, sarebbe una percezione determinata, e
corrisponderebbe ad uno stato o ad una maniera di essere
determinata. E non avrebbe un valore (e tutto il suo senso, tutto il
suo valore è qui) essenzialmente relativo, quello di
contrario del non me. Il me è adunque tanto essenzialmente
generale, per la sua opposizione, quanto lo stesso non me. La
nozione di me non è adunque essa stessa che una maniera di
concepirci in opposizione a tutto il resto, e non una maniera di
percepirci. E dunque un concetto della ragione, una di quelle idee a
priori che è della natura della nostra intelligenza di
produrre in date condizioni, e non una percezione. Aggiungo, che
questo prodotto è fatale, e che non dipende da noi di non
avere questa idea". E ne trae poi delle conseguenze. "Siccome, egli
dice, il concetto, me, è una vera qualità razionale .
. deve avere un soggetto . . e questo soggetto è l’anima,
opposta al me . . L’anima in sé non è percepita . . Ma
quantunque sconosciuta in se stessa, noi siamo nella
necessità di affermarla come soggetto degli stati che
conosciamo, come forza o principio delle sue determinazioni
conosciute e sconosciute. Quando sono conosciute, è il
concetto, io, che le accompagna. Quando non lo sono, è
perché mancano di questa forma".
Per quale ragione il Tissot, che conviene con me in tutto il resto,
mi dà torto in quest’ultima cosa, e ne cava la conseguenza
ora enunciata? Ecco perché. Egli ha per certissima la
relatività delle idee insegnata da Kant, ed accetta le
applicazioni di tale principio. Ma non tien conto dell’altro
principio da me accennato, pel quale il riferimento delle sensazioni
al soggetto pensante e agli oggetti esteriori non ha luogo per una
intuizione immediata come si è creduto fin qui, ma è
puro effetto di esperienza, per la quale ne facciamo a poco a poco
l’abitudine. Trovando il me e il fuori di me nella coscienza
presente, e credendoli perciò suoi elementi primitivi, non
prodotto di abitudine empirica, con Kant e con Hamilton, li
considera quali forme pure ed innate della intelligenza, e
condizioni a priori dell’esperienza. Ammesso il nostro secondo
principio, e non è possibile non ammetterlo una volta che sia
stato convenientemente esposto e chiarito, cade da sé anche
quest’ultima ragione, che restava al Tissot, per ritenere ancora gli
schemi a priori dell’intelligenza. E anche la base della sua
dimostrazione del soggetto psichico nella idea ordinaria dell’anima.
La quale l’inceppa malamente fin dal principio, perché non
può più procedere oltre senza preoccuparsi e tener
conto sempre di una supposizione basata sopra una ragione, che non
tiene.
È dunque senza fondamento il credere, che dallo studio
diretto della coscienza si possa trarre quella cognizione della
causa, che si confessa inasseguibile pei fenomeni del mondo
esteriore; ed è una vera ingenuità il dire, che
"coll’analisi delle rivelazioni spontanee della coscienza si fa
sortire una scienza vera dell’uomo, scienza intima e profonda, assai
più competente, assai più decisiva della scienza
sperimentale". Lo studio della coscienza non ha nessun vantaggio su
quello dei fenomeni esterni. Anch’esso non può dare la
essenza e la causa, ma solo il fenomeno.
Ma vi ha di più. Un tale studio diretto, nonché essere
il solo atto a condurre alla soluzione dei supremi problemi
psicologici, come pretende il Vacherot, è, al contrario, o
altissimo a trarci in errore, o almeno affatto infecondo per la
scienza.
La coscienza è un risultato. Alla osservazione diretta non si
possono presentare le leggi e le forze, che la produssero,
perché sono scomparsi gli atti anteriori, oltremodo vari e
complicati, che prepararono lo stato attuale, e dai quali soltanto
si potevano dedurre. Chi prende la coscienza, come è adesso,
e non va a cercare altro, è simile all’uomo del volgo, che
vede i colli e i piani, le fonti, le erbe, gli animali, e sperimenta
i climi e le stagioni, e tutto quello che lo circonda, e crede, che
il mondo sia sempre stato così; e quanto alle condizioni
cosmiche anteriori diversissime, nelle quali, come la scienza ha
scoperto, è la ragione di tali cose d’adesso, né le
sa, né gli passa per la mente, neanco per sogno, che ce ne
siano state mai.
L’uomo del volgo, che ha sempre visto la luna al suo posto, in su,
non si è mai fatta la domanda, perché stia sempre
là e non cada. Anzi gli pare, che una tale domanda non sia
propria di un uomo di mente sana. La luna, egli direbbe, sta
là, perché quello è il suo posto. E
soggiungerebbe: È strano, che si cerchi la spiegazione di un
fenomeno così naturale. Insomma per lui quel fenomeno
è un fatto senza causa, ovvero un fatto, che è causa
di se stesso; una specie di libero arbitrio lunare. Come doveva
certo pensare quel pastore, che, secondo Leopardi, diceva alla luna:
Sorgi la sera, e vai
Contemplando i deserti;
. . . ancor sei vaga
Di mirar queste valli?
Fa lo stesso chi sta colla pura coscienza. Che vuol dire percepire
la libertà del volere, come qualche cosa di totalmente
estraneo alle leggi di causalità? Vuol dire, che i nostri
atti volitivi li sentiamo, ma non ci accorgiamo del nesso, onde si
attengono ad altri, come l’effetto alla causa. L’abitudine di
sentirli così isolati ce li fa parere di una natura speciale.
Se vediamo una pietra di pochi chilogrammi sulle spalle di un uomo,
subito in noi si desta l’idea del suo peso; e si può dire,
che un tal peso non affatica soltanto l’uomo che la porta, ma anche
noi, che stiamo guardando. Una montagna invece, che pesa
immensamente di più, la possiamo osservare, senza punto
essere molestati dall’idea della gravità. Per noi è
tanto leggiera quanto le nubi, che la incoronano. E perché
tanta diversità di giudizio nei due casi? In forza di due
diverse associazione di idee; ovvero, diciamola la parola, in forza
di due diverse coscienze.
Per tornare poi alla luna, di cui parlavamo, dobbiamo dire, che ci
volle un uomo, che avesse il mal vezzo di non prestare intera fede a
quella specie di coscienza, che si chiama il senso comune, ossia un
originale, o, se si vuole, un genio, che forse è la stessa
cosa, per farsi la domanda, che ha un po’ del sacrilego:
Perché sta là senza cadere? Questo originale, o genio,
che dir si voglia, è stato Newton. Egli ha osato supporre,
che il senso comune lo illudesse; e che vi potesse essere qualche
somiglianza tra la luna e un pomo, che cade da un albero. Ha osato
perfino applicare di pianta alla celeste luna le leggi umili e
nostrane, che regolano la caduta di un pomo. Felice ardimento! La
somiglianza era perfetta, l’applicazione giustissima; e il
perché del girare della luna in su fu trovato, e il libero
arbitrio lunare andò a spasso.
Lo stesso bisogna fare con l’anima. Altro che dire, come il
Vacherot, che l’analisi delle rivelazioni spontanee della coscienza
ha fatto venir fuori una scienza vera dell’uomo. Il vero è
appunto il contrario. O uscire dalla coscienza, o essere condannati
a subirne eternamente le illusioni.
E non solo per ischivare le illusioni bisogna uscire dalla
coscienza. Riflettete pure sulla coscienza; sprofondatevi, se
volete, nella contemplazione di essa. Non verrete mai a capo di
capirne nulla. Quanti che si sono messi a guardare il lampo, e a
osservarlo, e a riflettervi sopra; ma il guardare e l’osservare e il
riflettere era indarno. Il fenomeno restava un mistero. La
spiegazione è venuta d’onde meno si credeva. Un pezzo di
ambra, o di ceralacca, o di vetro, sfregato, attrae dei corpi
leggeri. Un disco grande di vetro girato rapidamente tra cuscini,
che lo premono ai lati, molto più. Non solo, ma ne scappa
qualche cosa su certi corpi intorno, e specialmente sui metalli. E
questo non so che vi resta, se sono isolati. Accumulatovisi, si
scarica sulla nocca del dito avvicinato, scintillando e
scoppiettando. Sarebbe questo il lampo: Sì; lo è. Ecco
donde venuta la spiegazione del lampo, che la sua contemplazione non
avrebbe mai dato, neanco in migliaja d’anni: Dallo sfregamento di un
pezzo d’ambra.
Così dicasi della coscienza. La materiale scoperta
linguistica del tema etimologico di una parola; per esempio, di
quello onde si è formato il nostro verbo, essere;
l’invenzione dello stereoscopio; gli effetti fisiologico-psichici
delle sostanze tossiche; la corrispondenza tra l’armonia dei suoni e
il rapporto delle lunghezze delle vibrazioni, onde nascono, e via
discorrendo, hanno avuto maggior importanza, per la conoscenza delle
cose psichiche, che le più celebrate elucubrazioni dei
filosofi spiritualisti, che, come dice il Vacherot, hanno lavorato,
dopo Platone, Aristotele e Leibniz, sui dati immediati della
coscienza. Tali elucubrazioni possono avere avuto una grandissima
importanza, come ginnastica del pensiero, ma non come rivelazioni
delle sue leggi. Esse non hanno fondato nulla di sicuro nella
scienza psicologica. L’importanza decisiva, che il Vacherot ascrive
ai prodotti delle loro indagini, è appunto ciò, che
loro manca, e che invece compete a tutto diritto ai trovati, meno
famosi, ma più veri, di oscuri e disprezzati sperimentalisti.
A stabilire, per esempio, la natura dell’idea di spazio si sono
adoperati, con isforzi d’ingegno maravigliosi, con Platone,
Aristotele, Leibnitz, tutti i più grandi filosofi. E tuttavia
gli ultimi hanno lasciato la questione così incerta, come
l’avevano trovata i primi. E ciò perché? Non
certamente per mancanza di penetrazione, di studio, di cognizioni.
Ma solo perché il metodo da loro seguito, dell’osservazione
diretta della coscienza, non poteva produrre nulla di decisivo. Un
semplice fisico, Weathstone, costruisce uno stromento di ottica, lo
stereoscopio; e mostra per qual via si generi, guardando, l’idea
della terza dimensione dello spazio; e la sua dimostrazione è
perentoria; nessuno più vi tornerà sopra; essa
è decisiva, una volta per sempre.
Parte quarta: Il metodo positivo in psicologia
Si crede generalmente, che i psicologi abbiano fatto un grande
passo, anzi una rivoluzione proprio radicale e definitiva, quando ai
placiti così detti razionali, che componevano da soli
l’antica scienza dell’anima, aggiunsero una appendice di dati
empirici, in conferma e a complemento dei primi. Si crede che, con
tale aggiunta, abbiano procacciato alla loro dottrina il diritto al
titolo di positiva, e le abbiano assicurato i benefici, che derivano
alle scienze naturali dalla applicazione del metodo della
osservazione e dell’esperimento.
Non si può negare, che il passo in discorso non esigesse del
coraggio, e molto. È facile arguirlo dall’accanimento,
veramente pazzo, onde molti anche oggi (mirabile a dirsi) combattono
contro qualunque sorta di empirismo psicologico; anche se ristretto
agli accessori più insignificanti della scienza; anche se
introdotto col proposito confessato e fedelmente mantenuto di
ignorare e di negare qualunque fatto di cera un po’ sospetta, e atto
a far nascere il menomo dubbio sui dogmi intangibili della loro
decrepita metafisica. È certamente un merito grande l’aver
osato di occuparsi in qualche modo di ciò, che si tocca colle
mani e si vede cogli occhi, malgrado il divieto, tutt’altro che
innocuo, di costoro, i quali pare abbiano paura di una sol cosa al
mondo: Cioè dei fatti. Ma all’uopo di ravviare lo studio
psicologico era di gran lunga insufficiente l’opera della semplice
aggiunta della psicologia empirica in coda alla razionale.
Anche nei trattati così riformati la prima cosa, che si fa,
è di porre addirittura il soggetto metafisico della
attività psichica, ossia quella, che si chiama l’anima. Poi,
giacché si ritiene di saperne, di quest’anima, assai, si
procede a precisarne la natura nel modo il più dettagliato,
con una buona serie di attributi, e con un lunghissimo corredo di
facoltà le più svariate. Il Rosmini, nella sua
psicologia, pubblicata l’anno 1848, ne dà quasi un centinaio.
E tutto ciò sopra argomentazioni, come dicono, apodittiche,
ossia traenti la loro forza dai principii e non dai fatti;
poiché vivono nella illusione di ritenere, siccome intuizioni
dirette di entità ideali sovrannaturali ed eterne quelle
generalità mentali, che non sono se non le traccie o
somiglianze più comuni dei fenomeni sperimentati. E ragionano
a questo modo; se le nostre affermazioni fossero fondate su meri
fatti, non ci arrischieremmo a darle per assolutamente vere,
perché i fatti, essendo di loro natura particolari e
mutabili, non contengono una ragione universale ed eterna, come a
noi occorre. Se ammettiamo l’anima co’ suoi attributi e colle sue
facoltà, e lo facciamo colla piena, certezza di ammettere il
vero, ci siamo autorizzati da qualche cosa, che vale assai
più dei fatti; cioè dalle idee. Non occorre
aggiungere, che un tale ragionamento lo facevano colla massima
serietà.
E i fatti perché dunque li aggiungono codesti empiristi tanto
discreti? Oh! Così ad abundantiam. Una prova di più,
anche meno forte delle altre, e specialmente se ad hominem, non
nuoce. E giova, enumerate e descritte le molte e svariate
facoltà, darne un’idea anche mediante dei fatti, che ne siano
le manifestazioni. E poi che l’esposizione della materia riesce in
certo modo più completa, collocando allato alla sincera
realtà metafisica, come essi dicono, il suo incerto riverbero
fenomenico.
Insomma sempre una dottrina, in cui vige, nella pienezza della sua
forza, la vecchia illusione di aver trovato delle vere essenze e
delle vere cause; e che spiega ancora i fatti nel modo infantile, da
noi sopra descritto e riprovato, di attribuirle alle facoltà
del soggetto; e che, per giunta, nel bisogno che ha di ricorrere ad
un numero eccessivamente grande di esse, mostra, che nella
classificazione loro, è ancora nel primissimo stadio. Per
dirlo in una parola, una dottrina ancora il contrario della
positiva, e tutt’altro che idonea a condurre a risultati analoghi a
quelli delle scienze naturali.
Assai più utili per la scienza furono i tentativi arditi e
fecondi di Locke e di Kant. Le loro dottrine in parte sono erronee,
e diedero origine al materialismo e al trascendentalismo, che hanno
già fatto le loro ultime prove e mostrano a chiari segni di
aver finito il loro tempo. E in parte sono vere; e per questa
rivivono nella filosofia positiva, destinata ad essere la filosofia
dell’avvenire. Sono erronee dove seguono il metodo antico; sono vere
dove si conformano al nuovo.
Il sistema di Locke è ancora, nel fondo, l’aristotelico delle
vecchie scuole, che non ha smessa del tutto la ricerca delle essenze
e delle cause. Egli non dubita punto, che l’uomo abbia una vera
cognizione diretta del soggetto pensante e delle cose esteriori. Si
sa, che non ammetteva la relatività per le cosiddette
qualità prime. E per lui il soggetto è fornito di
certe facoltà, destinate a rendere ragione degli atti suoi.
Egli dice ingenuamente: Conosciamo le cose, perché le
sentiamo; e come le sentiamo? Perché il soggetto è
fornito della facoltà di sentire. Siffatta sensazione delle
vecchie scuole, da lui mantenuta, che dà, quantunque
incompletamente, l’oggetto in se stesso, e si accorda perciò
benissimo con un’anima estesa, sensazione assunta a dar ragione di
tutto il pensiero (quanto insufficientemente, lo ha dimostrato Reid
e più ancora Kant), ha prodotto il materialismo sopra
accennato, di cui sono saggi i libri di La Mettrie e di
Büchner; materialismo che è una bella e buona
metafisica, né più ne meno dello spiritualismo, a cui
si contrappone.
Kant anch’esso stabilisce prima un sistema di astrazioni, che deve
poi servire alla spiegazione dei fatti. Per la conoscenza, due
facoltà fondamentali, il senso e l’intelletto. La cognizione,
un composto di materia e di forma. La materia, dal senso e da’ suoi
schemi. La forma, dall’intelletto e dalle sue categorie. Cosa strana
veramente! Tali astrazioni egli le considera siccome realtà,
poiché da esse fa dipendere l’esistenza e le determinazioni
del pensiero; quelle determinazioni, che si era precisamente inteso
di difendere dai colpi distruttivi di Hume. È tanto avaro di
realtà, che non ne vuol riconoscere, se non la fenomenica; e
poi l’ammette anche dove non c’è neanco questa. L’astrazione,
come punto di partenza, invece del fatto, ecco ciò, che ha
determinato lo svolgimento del trascendentalismo germanico. Il
soggetto di Fichte, l’oggetto di Schelling, l’assoluto di Hegel sono
sempre nel fondo lo stesso astratto psicologico di Kant.
La parte vera poi delle dottrine di Locke e Kant sta nella
relatività in esse attribuita al pensiero. Tale
relatività in Locke non è che parziale, e solo
concernente le cosidette qualità secondarie. E non è
tutto merito suo l’averla introdotta nella teorica della cognizione,
poiché l’avevano insegnata prima di lui Hobbes e Cartesio; e
prima ancora Galileo, col genio sovrano del quale ci incontriamo,
come al principio della nuova scienza naturale, così a quello
della psicologia positiva. Kant ha avuto il genio di estenderne
assai più l’applicazione, che si potrebbe dire completa; se
non avesse mantenuto nella rappresentazione la misteriosa materia
fornita dal senso. Il principio della relatività, senza
nessuna restrizione, è uno dei principii più certi
dell’attuale filosofia positiva; onde, sotto questo rapporto, i
nostri due filosofi hanno diritto ad un titolo di paternità
verso di essa; e noi lo riconosciamo di buon grado. Ma nello stesso
tempo vogliamo si ricordi, che la parte vera, e nuova, e positiva,
su cui si fonda quel diritto, non è frutto dei vecchio metodo
scientifico, da noi riprovato, ed è stata anzi imposta alla
psicologia, suo malgrado, dai progressi delle scienze fisiche.
Non c’è che dire. La cosa oggi non è più
dubbia, quantunque ancora non si possa dirlo apertamente senza
eccitare le fiere suscettività degli amici del passato, e
turbare la timida coscienza degli ingenui, che non hanno sufficiente
pratica delle cose di scienza. Perché la psicologia cessi di
essere una vana costruzione mentale di concetti, senza fondamento di
realtà, simile ad una poesia, che non ha valore se non per
l’immaginazione, che se ne può dilettare, e acquisti il
diritto al titolo di scienza vera e certa, come le altre dottrine
positive, e come quelle trovi modo di uscire dal cerchio fatale in
cui e stata invincibilmente rinchiusa, e di scoprire le nuove terre
e i nuovi cieli, che le appartengono, è necessario, che batta
una via affatto opposta all’antica.
Non più ricerca di essenze e di cause, poiché alla
scienza non è data in nessun modo di scoprirle. Unico studio
i fenomeni. Osservarli, distinguerli, rilevarne la consistenza, la
successione, le somiglianze. Assoluto il diritto scientifico del
fatto, ed intrinseco ad esso, né punto dipendente da un
astratto qualunque, si chiami pure o principio, o idea, o con quale
altro nome si voglia. Pari il diritto per tutti i fatti; anche se
emersi non per via della osservazione diretta della coscienza. La
quale poi non può dare, se non delle fenomenalità;
anzi, se si restringa ad essa l’osservazione, presenta un pericolo
di illusione irrimediabile, e induce una assoluta impotenza alla
indagine scientifica. Nessuna preoccupazione dei vecchi astratti a
priori, si chiamino o soggetto dei fenomeni, o facoltà di
produrli. Poiché non è vero, che il fenomeno sia
inescogitabile senza il soggetto relativo. Il soggetto e la
proprietà, anche oggettivamente considerati, sono concetti ai
quali si può arrivare, ma non dati onde partire. Il dato
immutabilmente fisso della scienza è il fenomeno accertato;
l’astratto (e tale è il soggetto dei fenomeni psicologici,
ossia ciò che si dice l’anima) è instabile, e segue le
variazioni logiche, per le quali passa la induzione, che la mente va
facendo dietro l’esame dei fatti.
Ci sono di quelli, che non comprendono come si possano trovare
dottrine veramente filosofiche fuori dello studio diretto della
mente. Credono costoro, che, se altri non vi ferma e circoscrive
tutta l’attenzione, e la lascia vagare su altri oggetti,
potrà fare bensì della fisica, della fisiologia, od
altra cosa somigliante; ma non mai della psicologia propriamente
detta. È questo un errore molto comune. Vi è chi sta
col metodo vecchio solo per paura, che il nuovo gli faccia sfuggir
l’anima; e molti, appunto per non aver più ad incontrarsi in
essa, fanno buon viso al metodo positivo, seguendo il quale pensano,
che non avranno più a fare, se non con fibre, cellule,
fluidi, urti e movimenti. Giudizii tutti fondati sopra una idea
molto imperfetta del fenomeno psichico, che è la materia
propria della psicologia. Dice il positivista: Per avere delle
indicazioni sul mio pensiero, mi volgo e ne domando ad ogni genere
di cose. Interrogo i gesti, le voci, gli atti, i costumi dell’uomo
incivilito e incolto e del bruto selvatico e addomesticato, nella
gioventù e nella vecchiaia, nella calma e nella passione,
nello stato normale e di sanità, nelle malattie e nelle
alterazioni mentali, sotto l’influenza di agenti che eccitano e
paralizzano i nervi, coll’uso intero o solo parziale degli organi;
insomma in ogni suo stato e condizione, naturale ed artificiale.
Né mi contento di osservarne i modi e le forme, ma ne enumero
i casi e ne faccio la statistica. Mi giova un geroglifico, una
cifra, un monumento, un disegno, un arnese, uno stromento, un idolo,
un tempio; in una parola un’opera qualunque d’arte o d’industria.
Dei mozziconi di pali piantati in fila in fondo ad un lago o ad una
torbiera, degli avanzi di rozzi cocci o di pasti selvaggi, una
sepoltura, una semplice selce tocca, migliaja d’anni fa, dalla mano
dell’uomo, rintracciata fra le sabbie e le ghiaje, attraggono tutta
la mia attenzione. Con sommo studio rilevo in un vocabolo, anche di
una lingua già morta, le successive sovrapposizioni delle
parti, le patite inflessioni e storpiature dei suoni componenti, che
attestano il lavoro incessante di trasformazione e di ristauro
subìto nel corso dei secoli, e cerco di cavarne fuori netta
la base etimologica, testimonio e suo primo uso e valore. Esamino e
confronto con grandissima cura certi organi animali, e nelle diverse
forme esibite dalla scala zoologica, compresa la fossile, e nei
gradi di sviluppo embrionale; soprattutto poi il sistema nervoso e
gli apparati sensori, dove mi è di sommo interesse di
scoprire e paragonare insieme tutto ciò che si riferisce alla
struttura intima, alla rapidità dei moti, all’equivalente
meccanico ed al processo della attività fisiologica, ed alla
relazione di ciascun organo con tutti gli altri e cogli agenti
esterni. Insomma nulla trascuro, dove io credo di poter trovare
qualche cosa che mi faccia conoscere il mio pensiero. Il che non
vuol dire però, che io confonda esso pensiero con queste
cose. Il fenomeno psichico, propriamente detto, è talmente
diverso da ogni altro genere di fenomeni, che non è
possibile, chi stia sull’avviso, non distinguernelo sempre
perfettissimamente.
Se si fa passare un fascio di luce solare attraverso ad un prisma di
vetro, si hanno i colori dello spettro. Se il fascio attraversa un
cristallo di spato d’Islanda, si ottengono due fasci polarizzati.
Una bolla di sapone, gonfiandosi, presenta delle tinte iridescenti,
dovute a fenomeni di interferenza. Ora si domanda: I colori dello
spettro, i fasci polarizzati, le tinte iridescenti, cessano di
essere la luce propria del sole, perché ottenuti mediante il
prisma, lo spato islandico e la bolla di sapone? No certo. La luce
è la stessa. I detti corpi non vi hanno messo nulla del
proprio; essi non hanno fatto altro, che sceverarne gli elementi, o
presentarli sotto un aspetto nuovo, o comporli diversamente. E con
ciò, nello stesso tempo che, per loro mezzo, abbiamo sempre
continuato a godere della luce solare nella sua schiettezza, abbiamo
anche avuto l’opportunità di studiarne le leggi e la natura.
Cosa questa impossibile colla sola osservazione diretta. Or bene, il
caso della psicologia è del tutto analogo a questo
dell’ottica. Un gesto di un animale, uno stromento d’arte, una
parola, un organo sensibile e via discorrendo, non vi si prendono
mica, come tanti atti psichici in sé, ma bensì come
semplici prismi, per così esprimermi, onde rifrangere il
pensiero e scomporne gli elementi, allo scopo di analizzarli.
Si dirà forse, che il paragone non regge, e non esser vero,
che da questi oggetti materiali si possa indovinare la natura troppo
diversa dei fenomeni della coscienza? Ma come sostenerlo? Ché
le smentite si trovano da per tutto. Un cenno della mano, uno
sguardo, una lagrima, un sorriso hanno il potere di muovere l’animo
di chi li osserva, di deprimerlo, di esaltarlo; e l’hanno
perché per essi ci rivelano i sentimenti di chi li fa. Poche
cifre rozzamente scolpite sopra una pietra possono rappresentare un
sistema intero e grandioso di pensieri; la dottrina di un filosofo,
la sapienza di una istituzione, la storia di un popolo. I concetti
della mente e i sensi dell’animo si esprimono nel modo più
efficace, anche nelle forme immobili, fredde e scolorate di una
pietra scolpita. A chi guarda la Niobe antica della Galleria Reale
di Firenze, che si stringe al seno la figlioletta e rivolge in atto
di preghiera gli occhi al cielo, l’atteggiamento quasi parlante del
masso insensibile impietosisce il cuore, tanto al vivo rappresenta
il dolore straziante di una madre infelice. Che più? Un rozzo
palo, infisso nella melma di un bassofondo e sporgente un poco
dall’acqua, confida il pensiero dell’uomo, che l’ha piantato, al
navigante che passa; e lo avverte di non accostarsi al luogo
pericoloso. Ma a che cercare di questi esempi? Poiché si
può domandare, che mai sarebbe della mente dell’uomo, se non
gli fosse dato di apprendere dei pensieri mediante degli atti
fisici? Ciascun uomo sarebbe condannato a rimanere colle pure sue
sensazioni. Non potrebbe fare suo pro della esperienza degli altri.
Impossibile dare e ricevere una educazione, e vivere socialmente. La
sua condizione resterebbe al dissotto di quella dei selvaggi, anzi
degli stessi bruti.
E come i fenomeni esterni sono atti a rivelare gli interni nella
loro forma più schietta e sincera, così è pur
certo, che non c’è modo di sciogliere l’enigma della
coscienza, senza valersi dell’ajuto che essi ci possono prestare,
mettendoci sulle traccie de’ suoi segreti, e indicandocene gli
elementi, le leggi, e il processo evolutivo nell’individuo e nella
società.
Quale sia l’uomo internamente, ovvero quali siano i vari aspetti
della sua attività psichica, noi non lo sappiamo
distintamente, e quindi non possiamo dirlo a noi e agli altri, se
non dietro ciò, che la detta attività produce al di
fuori. Il pianto ed il riso, i lineamenti spianati o contratti,
l’occhio scintillante o bieco, l’accento dolce, o vibrato, e via
dicendo, ecco ciò che ci ammaestra circa i nostri affetti; e
ce ne fa conoscere la specie e la natura. Onde i quadri plastici
inarrivabili della Divina Commedia di Dante e dei drammi di
Shakespeare giovane a condurci alla cognizione dei sentimenti propri
dell’uomo immensamente più, che tutti i trattati filosofici
sull’argomento. La stessa esagerazione dei rilievi, che si osserva
in quei quadri, non nuoce, anzi giova all’effetto; poiché il
fenomeno psichico da’ quei sommi interpreti del cuore umano vi
è presentato ingrandito, ma non falsato, come per mezzo del
microscopio, che allarga e rende facili a vedersi le cose troppo
sottili e minute, senza svisarle. Credevano i metafisici,
nell’affermare, che l’uomo è un essere logico, morale,
sociale, amante del bello e religioso, di farlo per un ragionamento
tutto a priori; dimenticandosi che non lo poterono, se non dopo
averlo visto ad agire, e sentito a parlare, e dopo averne osservato
i riti e le costruzioni religiose, e le opere d’arte e le esterne
civili istituzioni. Ed è appunto solo dove si sono basati sul
fatto esterno osservato, che le loro categorie psicologiche sono
vere. Vogliamo noi completare quelle nozioni, dove sono difettose, e
correggerle, dove false? Cerchiamo dovunque si trovino i fatti
dell’uomo. Solo il novero esatto de’ suoi fatti può darci il
novero esatto delle sue idee.
Importa poi moltissimo, per la cognizione perfetta di una produzione
naturale, sapere quale ne sia il rudimento fondamentale, e per quali
gradi successivi di sviluppo sia stata ottenuta. A cognizione
siffatta non possono condurre, se non gli studi comparativi, che, in
tutte le scienze positive, dall’astronomia alla linguistica, hanno
già dati frutti inaspettati e maravigliosi. La fisiologia
vegetale ha potuto scoprire il mistero dell’organismo di un grande
albero dicotiledone, come a dire di una quercia annosa, dopo essere
discesa colle sue indagini fino ai vegetali più umili quali
le muffe e le conserve, ed aver quindi compreso, che, come nelle
anzidette più imperfette produzioni, l’attività
vegetativa si mostra in semplici vescichette più o meno
allungate, così il segreto della vita di una pianta qualunque
sta in quelle cellette e fibrille, onde sono compaginate le sue
parti; e che tutte le formazioni speciali del legno, della
corteccia, delle radici, dei rami, delle foglie, dei fiori, delle
frutta, dei semi, non sono che diverse associazioni, con
isvariatissime industrie architettate, delle dette particelle
elementari. Così il grande albero del pensiero umano, colla
meraviglia del suo fusto e delle sue fronde, non potrà essere
inteso, prima che non sia stato convenientemente studiato l’informe
germoglio di vita psichica del zoofito, e non se ne sia seguita la
evoluzione graduata e progrediente per la scala degli animali, di
classe in classe, di specie in specie.
E converrà poi anche, per intenderlo, quale si riscontra
attualmente già bello e cresciuto, in un uomo adulto e
civile, studiarne la genesi nell’individuo e nella umanità.
Poiché in ciascheduno la esperienza delle passate generazioni
si accompagna, per produrlo, alla propria. Sulla origine prima e
sulla graduale esplicazione della coscienza individuale molta luce
già hanno sparso le nuove cognizioni sulla fisiologia degli
organi dei sensi. Sulle loro relazioni fisiche col mondo di fuori,
le osservazioni delle anormalità mentali e le esperienze,
onde coi reagenti anestetici ed iperestetici, che con diversi
ingegnosissimi apparati fisico-meccanici spiarono i rapporti tra le
funzioni organiche e i fenomeni psicologici. In quanto poi allo
svolgimento progressivo del pensiero nella umanità, siccome
non è un fatto che si rinnovi, così non ci può
esser dato di assistervi e di osservarlo direttamente. Per averne
notizia non c’è che tener conto di tutto ciò che ne
serbi memoria, e massimamente dei dati preziosissimi della
linguistica. E in ciò la psicologia è simile alle
scienze geologiche, costretta ad arguire la storia della terra, non
rinnovabile per l’uomo, dai segni che le rivoluzioni seguitevi
lasciarono alla superficie.
Ma a togliere ogni illusione ed ogni dubbio sulla natura dei
fenomeni morali è pure indispensabile la loro statistica.
Hanno i fatti morali molta analogia coi meteorologici. Tanto gli uni
quanto gli altri si presentano d’improvviso senza apparente
connessione con una causa. Nel campo ristretto di un osservatore
solo si succedono con tale irregolarità e sconnessione, che
è impossibile intravvedervi la stabile e ricorrente ragione
di una legge, che li governi. Onde l’idea volgare, vivissima
tuttavia, che i fenomeni dell’atmosfera e quelli della coscienza non
si comportano come tutti gli altri; cioè non si attengano tra
di loro, e non formino una catena continua di cause e di effetti, e
dipendano, uno per uno, direttamente dai cenni di potenze
sovrannaturali, che si compiacciano, quando ne hanno voglia, di
manifestarvisi. La nube, che, in tempo di siccità, dà
la pioggia, è dono pietoso di dio. Quella che flagella di
gragnuola, è opera perversa di uno spirito reo. Allo stesso
modo al cielo si attribuiscono i buoni pensieri, e ad un angelo del
male si addebitano i cattivi. La scienza moderna, che sa risiedere
l’oggetto, per la scoperta del vero, nella osservazione adeguata dei
fatti, ha trovato il modo di applicarla anche ai meteorologici ed ai
morali, che superano di tanto, pel numero, per la varietà,
pel campo estesissimo in cui si svolgono, la capacità di un
osservatore individuale; ed è venuta a capo, per tale via, di
far ragione delle chimere del volgo ignaro. Per l’osservazione dei
fenomeni atmosferici ha coperto il globo di stazioni meteorologiche,
che seguono, con attenzione scrupolosa, ogni variazione che succede
nel magnetismo e nella elettricità, nella temperatura, nel
peso, nella igrometria e nelle correnti dell’aria, e sì
trasmettono reciprocamente e contemporaneamente le osservazioni
mediante il telegrafo; e un uomo solo è in grado,
coordinandole, di abbracciarne l’insieme, e di riscontrare, nella
corrispondenza coi fenomeni lontani, la ragione dei presenti; un
uomo solo, per esempio, nel fatto di una burrasca, che rumoreggia
intorno al suo tetto, può vedere che, in un momento di grande
turbamento atmosferico, sorto alle Antille in vortici immensi, in
cui l’aria si aggira, soffiando più o meno impetuosa intorno
ad un centro di minima altezza barometrica, attraversa l’atlantico e
l’Europa e si getta sull’Asia; lo può vedere nei suoi passi
di ogni giorno e di ogni ora, come se tutto quell’immenso turbine di
vento e di pioggia si svolgesse in una storta del suo gabinetto.
Similmente pei fatti morali va raccogliendo con incredibile pazienza
e perseveranza dei dati statistici di ogni sorta. I quali, come per
gli animali inferiori vanno sempre più distruggendo il
pregiudizio, che ne faceva degli esseri a parte, ed incapaci di
qualunque deliberazione cosciente, così per l’uomo mostrano
che le sue azioni, comprese quelle fatte colla piena sua
libertà, sono regolate da norme fisse, e quindi, che esso
pure soggiace, anche per le sue azioni morali, alla legge della
causalità universale.
Necessario dunque, nonché legittimo, è il ricorso, che
fa la psicologia positiva, ad ogni maniera di fatti esteriori, per
averne indicazioni sugli atti psichici. I quali, per la circostanza
di essere illustrati mediante la considerazione di cose fisiche, non
cessano di essere, in sé, perfettamente diversi da queste; e
di costituire, per ciò, una scienza a sé, distinta
affatto da qualunque altra. La fisiologia si occupa anch’essa del
fatto della vita umana, come la psicologia. Ma sotto un altro
aspetto; cioè sotto quello della sua manifestazione organica,
o materiale, che dir si voglia. Sicché, quantunque sia di
grandissimo ajuto alla psicologia, anzi si possa dire, che in molte
parti combaci con essa, non la può però sostituire.
Il pensare, come fanno molti, che la scienza della vita del
pensiero, o morale, debba ormai lasciare il campo assolutamente a
quella della vita degli organi, o fisica, è un errore, che
non merita neanco di essere combattuto bene. L’esserne pregiudicati,
è puro effetto di non saper che si danno in natura dei
fenomeni psichici, vale a dire dei fenomeni, che, considerati nella
loro specialità, non sono, né fibre, né fluidi,
né movimenti, né altra forma qualunque, o condizione
della materia, presa come tale. Perché tra le scienze si
conta anche l’astronomia? Non per altro se non perché in
natura ci sono degli astri. Quantunque l’astronomia tutta intera
ragioni a forza di matematica e di fisica, tuttavia chi crede alla
esistenza degli astri, oltre la matematica e la fisica, ammette
anche una scienza di essi; e la distingue perfettamente da quelle
delle quantità astratte e delle forze naturali. Or dunque, se
oltre agli atti puramente fisiologici, che si vedono cogli occhi e
si palpano colle mani, si danno in natura anche degli atti psichici,
non osservabili altrove che nell’interno della coscienza, si
dovrà per questi ultimi avere una scienza speciale e
distinta, che se ne occupi exprofesso. E ciò anche
nell’ipotesi, che tutto quanto si conosce scientificamente del
pensiero sia ottenuto direttamente ed unicamente col mezzo della
fisiologia. Ma siamo ben lontani da ciò; mentre abbiamo
appena mostrato, che molte sono le discipline, oltre la fisiologia,
che prestano il loro ajuto alla psicologia. Che dire poi, se si
può aggiungere; primo, che la fisiologia, anche dove è
utile, non può condurre, se non ad un certo punto, oltre il
quale non serve, che l’osservazione diretta del pensiero, quale si
presenta nella coscienza; secondo, che la fisiologia stessa per
progredire (e lo rinfaccio sul serio agli abolizionisti) ha bisogno
dell’ajuto della psicologia?
Dico in primo luogo, che la fisiologia, anche dove è utile,
non può condurre, se non ad un certo punto, oltre il quale
non serve che l’osservazione diretta del pensiero, quale si presenta
nella coscienza. Prendiamo, per esempio, una questione capitalissima
della psicologia; la questione, se gli atti intellettivi e i
sensitivi siano essenzialmente diversi, o essenzialmente identici.
La potremo noi sciogliere fisiologicamente? E colla semplice
anatomia degli organi cerebrali? E senza ricorrere, in ultima
analisi, al confronto diretto delle sensazioni e delle idee apprese
e contemplate in se stesse dalla coscienza di chi le ha? Tale
confronto diretto può essere infecondo e fallace senza gli
ajuti estrinseci, di cui sopra abbiamo parlato; questo sì.
Ma, se è vero che la coscienza ha bisogno di tali aiuti
perché arrivi ad avvertire e a distinguere bene ciò
che dapprima o non vedeva, o vedeva solo confusamente, ciò
non toglie, che non sia poi essa infine, che, osservando la
sensazione e l’idea, come le ha in sé, ne rilevi le
somiglianze e le dissomiglianze. Le stelle più piccole non
appariscono alla vista senza il telescopio; i colori fusi nella luce
bianca del sole non si discernono senza il prisma. Ma non diremo
mica per ciò, che sia il telescopio che vede le stelle, e il
prisma che avverte i colori dello spettro. Tutt’al più
adunque, come diceva, l’esame degli organi cerebrali può
prestare degli indizi. Ma quanto grossolani poi anche questi. Se non
si sapesse, per altra via, chi avrebbe mai potuto sospettare, che
gli insetti, che sono forniti di un apparato nervoso tanto
imperfetto, in paragone dei vertebrati, nei quali il sistema
cerebrale è affatto distinto dal ganglionare, ed è
molto più sviluppato, avessero quegli istinti mirabilissimi,
che in essi miriamo? Perfino l’enorme divario, che corre tra un uomo
di genio ed un idiota, anzi l’abisso fra la stirpe umana e quella
dei piteci, chi presumerebbe dedurlo con sicurezza dalla
quantità o qualità della sostanza cerebrale propria
dei diversi individui e delle diverse specie? I fisiologi che negano
ogni valore scientifico a ciò, che non è fibra
visibile e movimento organico misurabile, siano dunque conseguenti;
e, poiché il divario tra l’uomo di genio e l’idiota, l’abisso
fra la stirpe umana e quella dei piteci, non si può dedurlo
dalla quantità e qualità della sostanza cerebrale,
dicano addirittura di non ammettere la reale esistenza di quelle
differenze di natura affatto morale, e quindi, secondo loro, non
verificabile direttamente. Ma fino a questo punto non vanno. E se li
interrogassimo ancora; quali dei due fatti, di vedere una pietra che
cade e di sentire in sé un dolore, si presenti con maggior
certezza a chi li osserva, non c’è dubbio che
risponderebbero, la certezza essere intera e uguale per tutti e due,
quantunque il secondo sia l’oggetto di una osservazione interna. Ma
dunque, nel principio almeno, l’osservazione interna vale quanto
l’esterna. E la diffidenza dei naturalisti verso l’osservazione
psicologica non è giustificata. Tale diffidenza, io credo,
è tutta fondata nella mancanza di abitudine della riflessione
psicologica, e nell’immaginarsi, che altri non possa far ciò,
che non si sente di poter fare chi non ha quella abitudine. Chi
conosce l’arte delle analisi chimiche può, in una massa
impalpabile ed invisibile di gas, constatare l’esistenza di
più sostanze diverse, e separarle ad una ad una, fossero
anche moltissime. A chi è ignaro della chimica invece pare
affatto impossibile, che altri distingua e cavi molte cose e
differenti, dove egli non vede nulla. L’analisi gli sembrerà
piuttosto una pura illusione del chimico. Ed avviene lo stesso nel
caso dell’analisi delle idee: Chi non sa farla, non si persuade che
altri lo sappia e lo possa. Se si dicesse, che il confronto tra la
chimica e la psicologia non regge, perché, mentre una
sostanza analizzata da due chimici dà i medesimi elementi, un
pensiero, analizzato da due psicologi, li dà sempre diversi,
onde apparisce la loro impotenza a distinguerli con certezza,
risponderei, ciò non dipendere dalla natura della materia
della osservazione psicologica, che non comporti una osservazione
certa e scientifica, ma solo, al più, dal non avere la
psicologia trovato ancora il suo Lavoisier, che le dia l’avviamento
opportuno.
Dico poi in secondo luogo, che, piuttosto che soppiantarla, la
fisiologia ha essa stessa per sé bisogno della psicologia.
Quanto ad alcuni fisiologi insigni, fra i quali potrei nominare E.
Helmholtz, ha giovato, per lo studio degli organi dei sensi, una
soda cultura filosofica. E quanto invece per altri, che potrei
citare, la mancanza di tale cultura fu causa, che osservassero a
lungo invano! Chi vuol capir bene uno stromento, o un apparato
meccanico, deve prima aver cognizione dell’uso a cui serve. Chi ne
dubita? Noi rideremmo di uno, che, senza saper nulla, né dei
suoni, né della musica, volesse, col semplice esame delle
parti componenti un cembalo od un organo, intenderne la ragione e
gli effetti, e darne conto agli altri. Non è
un’assurdità simile quella di un fisiologo, che, senza saper
nulla di quella musica, che si fa udire nell’interno della coscienza
di ciascheduno, vale a dire dell’umano pensiero, pretende ragionare
sul come e sul perché degli organi, onde si produce? Chi non
sapesse, che un accordo musicale è una combinazione di
più suoni semplici, nello stromento suonante, invece di
cercare, per rendersene ragione, le parti che producono i suoni
semplici e i modi di produrli, il che lo condurrebbe facilmente a
farne la scoperta, cercherebbe quelle da lui falsamente supposte,
produttrici degli accordi; con inutile fatica; o coll’effetto di
prendere una cosa per un’altra. Il fisiologo digiuno di filosofia fa
un’opera non dissomigliante. Egli crede col volgo, che gli atti, che
si attribuiscono alle cosidette facoltà, siano affatto
semplici, e quelli dell’una diversi in tutto da quelli dell’altra; e
va in cerca degli organi corrispondenti. Ed è lontano le
mille miglia dal pensare, che, come nel cembalo, coi medesimi tasti
e colle medesime corde, si possono far sentire due, anzi infinite,
sonate differenti, così nel cervello gli atti classificati
sotto facoltà distinte possono essere relativi ad organi
identici. Insomma non c’è che dire; le ricerche utili intorno
agli organi del senso e del pensiero sono impossibili senza i dati
propri della psicologia. La coscienza della visione unica seguente
l’uso di tutti e due gli occhi, della percezione dei differenti
colori, dei giudizii accompagnanti la visione, fu il punto di
partenza dei grandi lavori già eseguiti sulla struttura e
sulle funzioni dell’occhio. Così per ciò che resta da
fare. La coscienza, per esempio, attesta il fatto psicologico della
associazione delle idee; e con ciò dice al fisiologo: Eccoti
un tema di studio; cerca in che modo l’organismo si presti alla
produzione di questo fatto. Potrebbe il fisiologo applicarsi a tale
ricerca, se non conoscesse prima psicologicamente il fatto
dell’associazione? Dirò una cosa ancor più forte. La
psicologia volgare fa del sentire e del ricordarsi due
facoltà diverse. Una psicologia più scientifica, come
mostrerò a suo tempo, potrebbe ritenere che l’azione di
ricordarsi fosse identica a quella del sentire, cioè fosse la
semplice ripetizione dell’atto precedente; e che la differenza tra
il sentire e il ricordare fosse costituita unicamente da un giudizio
dipendente da un esperimento, che facciamo, senza accorgercene,
dietro le esperienze passate, per solo effetto di abitudine. Ora
questa ipotesi può dalla nostra psicologia essere imprestata
al fisiologo, perché istituisca delle indagini, e veda se
l’organo, onde si hanno le sensazioni, quando è eccitato dal
di fuori, sia quello stesso, che, eccitato dal di dentro, faccia che
la sensazione, una volta ricevuta dall’esterno e rimasta poi, per
così dire, in istato di latenza, si riproduca. Il fisiologo
riuscendovi (posto che l’ipotesi non fosse falsa, e che alla
fisiologia fosse dato di fare l’osservazione in discorso) renderebbe
un immenso servigio alla psicologia. Poiché offrirebbe una
base positiva a ciò che altrimenti sarebbe sempre rimasto una
pura ipotesi. Allo stesso modo che la misura del grado del meridiano
terrestre, rifatta da Picard, offerse una base positiva all’ipotesi
astronomica di Newton. Ma la scoperta della fisiologia sarebbe pur
sempre dovuta alla idea prestatale dalla psicologia.
Come sopra dicemmo, il dato immutabilmente fisso, il punto di
partenza della scienza, e quindi anche della psicologia, è il
fenomeno accertato. E come si trovi e si accerti il fenomeno
psichico, l’abbiamo or ora dimostrato. Quanto all’astratto poi (e
tale è il soggetto colle sue facoltà; tanto quello dei
fenomeni fisici, ossia la materia, quanto quello dei morali, ossia
l’anima o lo spirito) abbiamo detto essere esso instabile, e seguire
le variazioni logiche, per le quali passa la induzione, che la mente
va facendo, dietro l’esame dei fatti. Dal che deducemmo, che quelli,
che ora si chiamano il soggetto e le sue facoltà, sono
concetti che si possono trovare, anzi pur anche oltrepassare, ma non
dati, onde partire.
La classificazione dei fatti psichici adunque non deve essere
determinata a priori, secondo un numero prestabilito di
facoltà; ma sibbene, unicamente, dal confronto diretto dei
fatti stessi. Anche volendo dare un valore oggettivo alle categorie
indotte dalla osservazione diretta ed esclusiva dei fatti e
chiamarle col nome di facoltà, è d’uopo non
dimenticarsi, che tali categorie sono il frutto di una comparazione
dei fenomeni particolari, sono una mera astrazione mentale, ossia la
somiglianza tra molte rappresentazioni concrete, e che quindi non
sono fissate, se non provvisoriamente. Poiché è sempre
possibile di trovare nuove analogie, oltre quelle già
osservate, che portino a stabilire delle categorie più
generali, che ne riassumano parecchie particolari.
Il concetto delle facoltà, come le intendono i metafisici,
oltre che falso nel suo principio, svisa poi irrimediabilmente
l’aspetto vero dei fatti psicologici, e impedisce assolutamente di
rintracciarne le leggi e la natura. Il sentimento di un atto
volontario, per esempio, è universalmente ritenuto, siccome
una manifestazione diretta della essenza stessa dell’anima, e
costituisce pei più la prova principale, e, a loro credere,
inconcussa, della sua esistenza. Ciò apparisce anche dal
passo sopra riportato del Vacherot. Schopenhauer e Maine de Biran,
per citare solo dei nomi insigni, pure ammettendo la dottrina
kantiana dell’impossibilità di apprendere la cosa e lo
spirito in sé dietro le fenomenalità loro, facevano,
mirabile a dirsi, eccezione al principio per la volontà,
nella quale sostenevano, che si rivelasse la realtà e la
essenza stessa dell’anima. Eppure tutto ciò non è, che
una illusione volgare; illusione, che il metodo da noi riprovato,
col darle l’apparenza di una deduzione scientifica rigorosa,
rafforzò tanto da renderla pressoché invincibile.
Perché i cosidetti atti volontari, che infine non sono che
sensazioni, si riferiscono all’anima, e non, come ha luogo per le
altre sensazioni, ad un qualche organo del corpo, o ad una cosa di
fuori? Per due ragioni. Primo, perché, somigliandosi
moltissimo tra loro i diversi atti, o per meglio dire, i diversi
sentimenti di volere, e non avendo noi modo di distinguerli, stante
l’impossibilità in cui siamo di vedere i movimenti degli
organi cerebrali, ai quali conseguono, li confondiamo insieme, e li
concepiamo quali produzioni di una attività unica.
Succederebbe lo stesso per le sensazioni tattili delle dita della
mano. Non le distingueremmo tra loro, e le attribuiremmo tutte al
medesimo organo, se non avessimo una cognizione chiara e sicura di
ciascun dito. Nelle dita minori dei piedi, che ci sono meno
famigliari di quelle delle mani, le diverse sensazioni sono
già meno distinte; e siamo costretti, per accertarci, che il
dito toccato è l’uno piuttosto che l’altro, di portarvi la
mano. La seconda cagione poi è quella che abbiamo accennato
sopra, parlando della forza. Quando l’uomo ha una sensazione, ha la
tendenza di riferirla a qualche cosa. Nel caso di un suono, la
riferisce all’oggetto sonoro; nel caso di un dolore per alterazione
patologica di una parte del corpo, la riferisce a quella parte. Ma
trattandosi della sensazione del volere, con cui non si può
associare, né l’idea di un oggetto esteriore, né
quella di un organo corporeo conosciuto ed apparente, come dicemmo,
non c’è che riferirla a qualche cosa, che non conosciamo, ma
che supponiamo esistere dentro di noi, e chiamiamo l’anima. Ecco
come avviene, che gli atti volontari, a differenza di altre
sensazioni, si riferiscono ad essa. Per la doppia illusione
indicata, che la scienza dei metafisici, anziché distruggere,
risuggella col marchio fallace di una dimostrazione sistematica.
Coi quali mi piace, a tale proposito, di fare questo ragionamento.
Io sento di volere per un atteggiamento particolare dell’organo, che
ha la proprietà di produrre questo sentimento. Così
per un atteggiamento particolare dell’organo acustico io posso
sentire un suono; per esempio, un suono in do. I due fatti sono del
tutto analoghi; e ciò che si conchiude per l’uno si deve
conchiudere anche per l’altro. Sicché chi dice, come fate
voi, che, nel caso del volere, si sente l’anima, deve dirlo anche
pel caso del suono; e chi afferma con voi che nel primo caso si
sente l’anima, come una cosa che vuole, deve pure affermare, che nel
secondo si sente l’anima, come una cosa che rende un suono, e
precisamente un suono in do. La conseguenza sarebbe un po’ ridicola,
ma, poste le vostre premesse, irrepugnabile.
Ma di ciò basti per ora. A suo tempo mi studierò di
mettere in maggiore e piena evidenza le cose, che qui accenno
soltanto; e di smascherare interamente le illusioni volgari e gli
errori filosofici, non solo sul volere, ma anche sulle altre
cosidette facoltà. Intanto mi limiterò a dire, che,
coll’avere stabilito una serie di facoltà distinte, e
coll’avere alle singole attribuito molti fatti psichici, aventi
delle evidentissime dissomiglianze tra di loro, mentre si perdettero
le redazioni e le tinte reali svariatissime dei fatti particolari,
si indussero poi per altra parte delle differenze che non esistono;
rompendosi così irreparabilmente l’unità che regna nel
mondo del pensiero. Poiché quelle, che i metafisici chiamano
facoltà attive e passive, interne ed esterne, animali e
razionali, rappresentative affettive e volitive, e così via,
non sono infine che combinazioni variate dei medesimi elementi, come
altrettante parole, di suono e di significato diverso, formate colle
medesime lettere dello stesso alfabeto.
Da ultimo è, come dicevamo, di una importanza capitalissima,
che non si dimentichi, dovere lo studio dei fatti psicologici essere
assolutamente condotto, senza nessun riguardo ad idee preconcette
circa il loro soggetto metafisico. Sopra abbiamo mostrato, che i
fatti si possono pensare benissimo, senza bisogno di una sostanza a
cui riferirli. E che anzi la stessa non è poi altro, che una
astrazione, formata di mere fenomenalità. L’abbiamo mostrato,
e per la sostanza fisica, ossia materia, e per la sostanza psichica,
ossia spirito, o anima. Ed abbiamo detto anche, perché nulla
impedisca, che, ottenuta tale astrazione, questa, se si vuole, si
chiami sostanza o soggetto; ma a condizione, che se ne rammenti la
natura vera; e si ricordi, che quel titolo non può essere che
provvisorio, cioè avente un valore, non assoluto, come nella
vecchia dottrina dell’anima, ma relativo, e durabile solo fino a che
nuove induzioni non vengano per avventura a modificare il concetto
astratto, che lo costituisce, e a formarne di più elevati. E
tutto ciò non l’abbiamo affermato leggermente. Poiché
lo deducemmo, con logica rigorosa, dall’analisi della cognizione
scientifica in genere, e lo confermammo colla storia del linguaggio
e delle modificazioni subite nella fisica dall’idea della materia. E
non accennammo soltanto alla possibilità di oltrepassare,
studiando meglio i fatti, rilevando in essi nuovi aspetti e nuove
somiglianze, e facendo ulteriori astrazioni, i concetti ordinari di
materia e di spirito, ma facemmo anche presentire, che la scienza
positiva è già in caso di guidare l’attenzione del
filosofo ad un’idea superiore alle volgari, del corpo e dell’anima;
e che le riassume entrambe in uno schema solo assai più
grandioso e vero.
Le induzioni poi conducenti a tale idea, che chiameremo psicofisica,
non sono soltanto le fisico-matematiche, da noi sopra in parte
accennate. Vi conducono anche, e soprattutto, le psico-fisiologiche.
L’opinione in antico comunissima, che certi atti mentali e morali
più elevati siano affatto indipendenti dalle condizioni
organiche, opinione che ha contro di sé l’esperienza di tutti
gli uomini, in ogni momento della loro esistenza, fra la gente colta
ormai non è seguita, se non da certuni, ai quali preme
soprattutto di non pregiudicare scientificamente ciò che
insegnano circa di una comunicazione misteriosa e tutta spirituale
della mente con un altro mondo. Da un pezzo le persone ragionevoli,
tutte, riconoscono la corrispondenza perfetta, continua,
immancabile, che esiste tra il pensiero e l’organismo. Ora, tale
corrispondenza, come si spiega; forse colla ordinaria
sostantivazione distinta dei due termini opposti? Ma allora avremmo,
o le cause occasionali di Geulinx e dei cartesiani, col miracolo a
fondamento della scienza, o l’armonia prestabilita di Leibniz, colla
negazione esplicita della causalità; o l’influenza misteriosa
tra l’anima, e il corpo, colla discontinuità degli atti
organici, contraddetta chiarissimamente dalla osservazione e
dall’esperienza. Forse concedendo la realtà ad un termine, e
negandola all’altro. Concedendola soltanto al termine psichico, ce
lo rappresenteremo come una sostanza nel vecchio senso metafisico al
modo di Berkeley? Ma Kant ha dimostrato inappellabilmente, che del
me si conosce il fenomeno, e non il noumeno. O lo considereremo dal
punto di vista kantiano? Ma allora commetteremmo l’errore di
prendere il me come un dato intuitivo ed immediato, mentre non
è se non una formazione empirica e tardiva della coscienza.
Nella quale, al punto in cui si afferma il soggetto come tale, per
lo stesso titolo, anche l’oggetto ha diritto di essere affermato
nella sua piena qualità di oggetto. Concedendo invece
esclusivamente la realtà al termine fisico, al modo dei
materialisti, come rispondere alla osservazione, che gli atti
psichici sono anch’essi delle realtà innegabili, che entrano
e si intrecciano effettivamente nell’insieme dei fatti umani; e che
una dottrina, che li nega, o non ne tiene il debito conto, non si
può dire, che spieghi veramente il fatto di essi atti? La
corrispondenza perfetta, continua, immancabile, che esiste fra il
pensiero e l’organismo, non si spiega, se non considerando lo
spirito e la materia, l’anima e il corpo, insomma gli atti psichici
e i fisiologici, come due espressioni, diverse di una medesima
sostanza psicofisica. O, per usare un linguaggio più
scientifico, sintetizzando, o comprendendo in una astrazione sola le
due sorta di concezioni, per mezzo di quei dati comuni, onde esse,
generalizzandosi viemaggiormente, si identificano; ed oggettivando
poi la detta astrazione; a quello stesso modo, che si oggettiva la
materia, cioè il concetto astratto costituito dai dati comuni
a tutte le percezioni esterne. Basta, come dicevamo, alle induzioni
fisico-matematiche, da noi sopra in parte accennate, aggiungere le
psico-fisiologiche, per rilevare la serietà della nostra
affermazione.
Il veder rosso dipende dalla conformazione particolare della
estremità retinica di certe fibre del nervo ottico, e
dall’organo centrale del cervello, a cui mettono capo. È cosa
provata. L’estremità retinica delle fibre ottiche è di
tre specie. Alcune son fatte in modo da percepire specialmente il
rosso, altre il verde, altre il violetto. Tutte le gradazioni di
colori veduti risultano dalle diverse proporzioni dei tre colori
suddetti. Una conformazione diversa, non c’è punto di dubbio,
darebbe luogo ad un’altra sensazione restando lo stesso lo stimolo
esterno potrebbe rendere osservabili delle gradazioni in esso
stimolo, che ora sfuggono al senso. Lo stesso dicasi di tutte quante
le sensazioni. L’organo e la sua azione fanno la sensazione; come la
lunghezza, la tensione, la grossezza, la sostanza della corda del
cembalo ne fanno il suono. E ciò vale tanto per le sensazioni
propriamente dette, quanto per la ricordanza loro. Ora tutti gli
atti psichici, tanto quelli compresi nella categoria delle
cognizioni, quanto quelli che si designano coi nomi di affetti e di
voleri, tanto i particolari quanto gli astratti, o sensazioni tutti,
nessuno eccettuato, sono, o sensazioni, o ricordanze di sensazioni.
E perciò dipendono totalmente tutti dalla qualità,
dalla forma, dall’atteggiamento di un qualche organo. Sicché
nell’ipotesi di un altro organismo, il pensiero dell’uomo sarebbe
affatto diverso. Con un altro organismo le cose al nostro pensiero
si presenterebbero diversamente; come all’occhio, se gli mettiamo
davanti un vetro colorato, si colorano diversamente gli oggetti, che
osserva. Dirò una cosa che parerà assurda, o almeno
stranissima, ma che è pur vera. Coll’organismo diversamente
disposto potremmo chiamare esterne quelle che adesso chiamiamo
sensazioni interne, e viceversa; come dimostrerò a suo tempo.
L’attività psichica poi è soggetta, né
più né meno della fisica, alle leggi del tempo. Come
è necessario un certo tempo ad un corpo per muoversi,
così al pensiero per formarsi. Né si creda, che questo
si vantaggi su quello almeno per la rapidità. No. Il pensiero
anzi, per quanto rapido, è ancora una cosa pigra, se si
confronta, per esempio, coll’azione elettrica. Nel tempo, che
occorre perché si formi il pensiero più fugace,
l’elettricità scorre comodamente per tutta la lunghezza di un
filo di rame, che giri intorno a tutta quanta la terra.
Ed è soggetta pure l’attività psichica, né
più, né meno che l’attività fisica, alla legge
della equivalenza delle forze. In un pensiero qualunque si consuma
una certa quantità di forza materiale, o impressa da uno
stimolo esterno mediante un organo sensibile, o depositata in forma
di sostanza nervosa, in seguito ai processi della nutrizione e della
respirazione. Un pensiero piccolo è il consumo di poca forza;
un pensiero forte di molta. Impossibile, che si trovi in un pensiero
una quantità minima di forza non somministrata dall’organo,
alla cui azione corrisponde; come è impossibile, che in una
fiamma si trovi della luce e del calore, che non provenga dalla
azione chimica, onde è l’effetto.
E gli istinti e le abitudini, che hanno tanta parte nelle operazioni
psicologiche, in che si fondano, se non in condizioni e disposizioni
organiche, naturali o artificiali? E le proprietà psichiche,
varianti colle razze, coi climi, coi temperamenti, colle
complessioni, col sesso, coll’età, colle condizioni e colle
abitudini materiali, colla professione, col regime alimentario,
collo stato igienico, e che si alterano, a vista d’occhio, anzi
subitamente, ogni volta che si vuole, sotto l’azione dei reagenti
fisiologici, è possibile ascriverle ad altro, che alle
ragioni materiali degli organismi, in cui si riscontrano? Gli
istinti, e in parte anche le abitudini e le stesse qualità
morali si trasmettono, si propagano, si perpetuano, si contemperano
insieme mediante la generazione; le metamorfosi organiche, o nel
medesimo individuo, come si vede negli insetti, o nelle generazioni
successive, come si vede nelle bifore, inducono, anche se ottenute
artificialmente, una piena sorprendentissima trasformazione psichica
corrispettiva, nel polipo, nel lombrico, una particella di corpo
staccata dall’animale, non muore, ma mantiene le proprietà
fisiologiche e psicologiche, e si rifà in un nuovo individuo
completo, nel quale diventa coscienza separata e individuale quella,
che prima era parte di un’altra coscienza; mentre al contrario, nel
caso degli innesti animali si vedono siffatte proprietà,
appartenenti prima ad un individuo, fondersi in quelle di un altro,
e formare con esse una sola cosa i sentimenti, le passioni, lo stato
dell’animo dipendono da un moto o da una disposizione organica,
tanto che si possono produrre artificialmente per mezzi fisici; la
vita psichica tanto diversa nella veglia e nel sogno, nello stato
normale ed in quello di sonnambulismo e di pazzia, la quale
può essere cagionata anche da lesioni di parti lontanissime
dal cervello, ha la sua ragione unica in condizioni fisiologiche
speciali, onde dipende la energia anormale o la fiacchezza impotente
della volontà, la materia, la forma e il concatenamento dei
giudizi e dei ragionamenti. Nelle quali condizioni fisiologiche poi
può anche aver luogo una tale vicenda di alterazioni da
conseguirne delle alternative fra la soppressione (anche per lunghe
istagioni, come negli animali soggetti alla letargia, e più
ancora nei cosidetti risuscitanti) e la riapparizione della
coscienza. La vita psichica incomincia colla organica, e
ingrandisce, metamorfizzandosi con essa, a poco a poco, e a poco a
poco vien meno; e il corpo muore, anche psicologicamente, non d’un
tratto, come se partisse da esso qualche cosa repentinamente, ma a
grado a grado, a parte a parte; a certe mostruosità organiche
degli animali corrispondono delle mostruosità nelle loro
manifestazioni psichiche; e queste manifestazioni si diversificano
nelle varie specie in ragione delle diversità materiali,
massime della parte nervosa; anzi lo sviluppo materiale dell’organo
e la sua attività psichica, promossa, indirizzata, mantenuta
dagli agenti esterni, si suppongono a vicenda; e, demolendo a pezzo
a pezzo il cervello di un animale vivo, se ne demolisce a pezzo a
pezzo anche il pensiero. Infine, per non dire altro, come le
funzioni di ciascheduna delle due metà simmetriche del
cervello, anzi di ciascheduno de’ suoi diversi elementi, o gruppi di
elementi, il più spesso si sovrappongono e si immedesimano in
un solo me o in una sola coscienza di maggiore intensità,
così qualche volta si contrappongono in più me o in
più coscienze distinte e contrarie. Che occorre di più
per indurne la corrispondenza perfetta, continua, immancabile tra la
vita del pensiero e quella dell’organismo, come se fossero
manifestazioni disformi di un medesimo principio?
Che se a tutto questo si aggiunga, che la distinzione tra ciò
che dicesi mondo interiore o me, o spirito, e ciò che dicesi
mondo esterno, o non me, o materia, è, come già
notammo, una distinzione, non anteriore e trovata primitivamente in
sé dalla coscienza, ma posteriore ed artificiale (quantunque
per artificio naturale), e costruita a poco a poco nella medesima,
per via dello stesso processo conoscitivo, che può mancare
ancora alla piena certezza della nostra induzione? Per la quale
è anche possibile di stabilire la continuità, una
delle maggiori leggi della natura (natura non facit saltum), da una
parte, dall’uomo per tutta la grande famiglia degli animali fino
all’infimo di essi, dall’altra, dalle esistenze coscienti alle
incoscienti organiche ed inorganiche.
Non solo dunque le induzioni fisico-matematiche, le quali mostrano
al di là del concetto ordinario dell’oggetto, ossia della
materia, un quid inesteso, ma anche, e soprattutto le
psico-fisiologiche, le quali nello spirito, ossia nel soggetto,
rilevano, allato ad una distinzione puramente mentale dei fenomeni
psichici dai fisici, la effettiva loro inscindibilità, ci
portano ad un’idea superiore alle volgari del corpo e dell’anima; e
che le riassume entrambe in uno schema solo assai più
grandioso e vasto; all’idea della realtà psicofisica.
Questo schema è una induzione al tutto scientifica, e, come
tale, positiva e nuova. Esso non confonde e non sopprime nulla dei
termini, sui quali si eleva. Non li confonde, come quegli assoluti
in forma di indovinello, nei quali, colla logica dell’assurdo, si
mescolarono insieme le stesse determinazioni opposte e
contradditorie delle specie distinte, onde si cerca il nesso. Non
sopprime né le qualifiche caratteristiche della materia, come
l’idealistico, né quelle dello spirito, come il
materialistico. I concetti della materia e dello spirito, quali
generi speciali, in sé l’uno e l’altro perfettamente
determinati, di fatti, restano nella loro interezza; poiché
lo schema onde parliamo, come generalità, che si eleva sopra
ambedue, signoreggiandoli ed abbracciandoli, non è veramente
altro, che ciò che hanno di comune; ossia la somiglianza
loro. La somiglianza che li spiega. Il fisico rileva il carattere di
una massa metallica compatta e pesante, e quelli di una ondata di
vapore, che si innalza espandendosi e scomparendo nell’aria. Egli
chiama tanto la prima quanto la seconda, malgrado le differenze loro
grandissime, collo stesso nome di materia. In questo nome egli non
ha confuso le qualità distintive delle due cose, ma ha
segnalato quelle, che sono loro comuni, e che, sceverate dalle
altre, formano un solo concetto separato. E così facendo le
ha classificate, ossia le ha spiegate. Così fa il botanico,
quando, confrontando insieme un filo microscopico di muffa ed un
pino annoso, dice: Vegetali. Così in ogni scienza positiva.
Così noi, quando, considerati i fatti materiali e i morali,
li sintetizziamo nello schema in discorso.
Il quale inoltre, essendo semplicemente un passo in avanti di un
ragionamento strettamente induttivo, non comprende in sé
altre determinazioni fuori di quelle, che sono portate dalla
induzione, a cui segue. È questa una avvertenza
essenzialissima. Per esso non si pronuncia l’ultima parola della
scienza. Ben altro. Non si fa, per così esprimermi, che
aggiungere una semplice unità ad un numero noto, al quale
nulla vieta che si aggiungano in seguito altre unità
all’infinito. E in effetto, dicendo noi generalità, o idea, o
principio, o anche se si vuole (per la ragione sopra indicata),
sostanza, o soggetto psicofisico, - con ciò non determiniamo
nulla circa la natura ed il modo della esistenza e della
causalità sua. L’astronomo dice - attrazione universale. -
Con queste parole egli esprime un principio vero; un principio onde
spiega positivamente i movimenti dei corpi celesti. E ciò
anche senza sapere niente intorno alla essenza o alla maniera di
operare di essa attrazione. Il fisico dice - materia. - Ma non
aggiunge, se tale materia sia tutta omogenea ne’ suoi elementi
primi, o meno; se sia in sé estesa o inestesa; se,
nell’ipotesi della inestensione, consista in una infinità di
punti separati, o costituisca una realtà unica ed
indivisibile; e da che provenga e come si eserciti
l’attività, che vi si manifesta. Nulla egli sa di tutto
questo. Che importa? Egli non ne ha bisogno per le sue applicazioni,
e neanco per ritenerla e chiamarla, non solo il semplice astratto
mentale dei fenomeni fisici, ma proprio una cosa concreta, una
sostanza. Così noi, dicendo, principio o soggetto
psicofisico, facciamo come l’astronomo, che dice attrazione; anzi
piuttosto, come il fisico, che dice materia.
Possiamo farlo, e lo facciamo senza pregiudicare punto le questioni
circa la natura ed il modo della sua esistenza e causalità, e
tutte le altre, se ve ne sono. Le quali restano insolute, e si
lasciano alle induzioni avvenire; che saranno esse pure legittime e
positive, se, come abbiamo fatto noi per la nostra, saranno basate,
non sopra intuizioni metafisiche immaginarie di essenze e di
causalità trascendenti l’apprensione del senso, ma unicamente
sulla consistenza, sulla successione e sulle somiglianze dei
fenomeni.
Ecco perché affermiamo, che il nostro schema è una
induzione al tutto scientifica, e, come tale, positiva e nuova. E
quindi differentissima da quei concetti che potrebbero somigliarle.
Come, per dirne uno, lo spinoziano; ché non è qui
luogo, e non occorre, di considerare gli altri o affini ad esso o
diversi, come il leibniziano e simili. Il pensiero e l’esteso, onde
Cartesio aveva costituito le due sostanze dello spirito e della
materia, furono da Benedetto Spinoza sintetizzati nel concetto di
una sostanza unica, avente per attributi il pensiero e la
estensione. Or tale concetto, lasciando in disparte ogni altra
critica, che non fa all’uopo, egli lo pone come il fondamento, da
cui dipende tutta la costruzione scientifica; la quale crollerebbe
da capo a fondo se lo si toccasse menomamente. Ponendolo come
fondamento o principio, vi inchiude, per necessità, tutto
quanto gli occorre per le deduzioni seguenti; e ciò
arbitrariamente, senza e malgrado la osservazione della
realtà. Cioè ha sciolto preventivamente, come gli
è piaciuto, tutte le questioni. Noi al contrario, il nostro
principio, lo diamo come esito finale di un lavoro, che è
stato fatto, e sta indipendentemente da esso; esito, che si potrebbe
riformare, o anche ritrattare, quando lo esigesse una ulteriore e
più esatta e completa ricerca, senza inconvenienti, senza
danno di ciò che precede; e nel quale non è definita
che una sola questione; oltre la quale ne restano altre, molte, anzi
infinite. Insomma Spinoza, avendo dinnanzi a sé il nodo
indistricabile delle cose, l’ha disfatto, tagliandolo addirittura,
distruggendo così la realtà, invece di spiegarla;
mentre noi, da buoni positivisti, non potendo altro per ora, ci
siamo accontentati di un’opera assai più umile, ma molto
più ragionevole e vantaggiosa, cioè di districare,
pazientissimamente per non romperlo, uno solo dei fili infiniti, che
vi sono avviluppati.
Ben a ragione dunque dicevamo, che la scienza positiva è in
grado di guidare l’attenzione del filosofo ad un’idea superiore alle
volgari del corpo e dell’anima; che le trascende, senza cessare di
essere scientifica e positiva. Ma a che affrettarci? Le conclusioni
verranno bene da sé, senza che le sforziamo. E più
chiare, e più precise, e più grandi, e più
vere. Il positivista non ha fretta di conchiudere. Non ha fretta,
perché il suo lavoro scientifico non dipende dalle
conclusioni finali. Non ha fretta, perché anzi diffida sempre
delle sue deduzioni ed aspetta, per assicurarsene, la conferma di
nuovi esperimenti, di nuove verifiche. Non ha fretta, perché
non cerca un’idea, che gli serva, come insegna di partito; ma il
vero per se stesso, qualunque sia; anche se inopinato, o contrario
alle sue prime presunzioni. Non ha fretta, perché sa che il
vero si fa ragione da sé. Si annuncia con un chiarore
incerto, a guisa di crepuscolo si fa a poco a poco più
risplendente e si scopre all’orizzonte, come il sole che nasce poi
sale, al pari di quello, in cima al cielo, e lo illumina tutto colla
pienezza della sua luce. Non ha fretta; ma davanti al vero, che gli
si è manifestato, non indietreggia mai. A chi colle
argomentazioni cavillose, colle citazioni dotte ed autorevoli, colle
dolci insinuazioni, colle rampogne e colle minaccie, glielo
contrasta, tranquillamente, senza scomporsi, con un sorriso pieno di
indomabile fierezza, risponde: Eppure è così!
Quando la scienza naturale credeva di doversi occupare solo dei
soggetti più elevati e curiosi, come le essenze, le cause, e
gli avvenimenti più sorprendenti ed insoliti, e sdegnava di
rivolgere la sua attenzione alle semplici fenomenalità,
massime se ordinarie e comuni, non era riuscita a formarsi delle
cose, se non dei concetti falsi, meschini, sterilissimi. L’acqua, in
una goccia della quale oggi, come dimostrammo, si possono additare
tante meraviglie, riteneva che fosse una congerie morta di atomi
freddi ed oscuri, e non sapeva dirne altro. E l’universo se l’era
figurato, non esteso d’ogni lato infinitamente, oltre il vedere e
l’immaginare, e fecondo per ogni dove, oltre ogni credere, di
sistemi mondiali diversi fra loro per apparenza, per grandezza e per
movimenti, ma composto miseramente di un piccolo numero di involucri
animati, che ravvolgessero a più doppi la terra e seco la
facessero girare. Le idee scientifiche vere, sublimi, oltremodo
feconde, che oggi possediamo, ce le potemmo procacciare solo dopo
che, smessa la ignara baldanza dei tempi passati, ci siamo indotti a
confessare, che non si può saper nulla al di là dei
fatti; e ci siamo avvezzati ad osservarli e ad apprezzarli
debitamente, malgrado il bagliore fallace delle speculazioni
astratte e la fede bugiarda dei sillogismi fatti colle regole.
Pari la sorte della psicologia. In essa non avremo mai nulla di
vero, di sublime, di fecondo, finché al metodo speculativo
dei metafisici non avremo sostituito l’empirico dei positivisti. Le
cose fin qui esposte ci assicurano pienamente della verità di
questo principio.
A quelli, ai quali preme, che la scienza non escluda le loro idee
più o meno spiritualistiche dell’anima, diremo: Guardatevi
dunque dall’asserire, che col metodo positivo non si può
giungere a stabilirle. Ché un’idea, che non può essere
stabilita col metodo positivo, è un’idea che non può
restare nella scienza. Sono vere le vostre idee spiritualistiche? La
scienza positiva dovrà pur trovarle e improntarle del
suggello della sua certezza. Sono false. È inutile
appassionarvici ed impuntigliarvisi. O tosto o tardi ne saranno
escluse inesorabilmente e per sempre.
A quelli che pensano, che, abbandonate le vie della speculazione
metafisica, e procedendo lenti e pedestri di fatto in fatto, si
impicciolisca e si renda inspiegabile il mondo dello spirito,
domanderemo: A che infine si riduce la scienza, che tanto altamente
rimpiangete?
Comincia che par che sappia tutto, poiché ci dà
addirittura l’anima e ce la definisce Ma la definizione, che
dovrebbe contenere la ragione di tutto, non mi dice poi nulla e non
è feconda, che di questioni aride, oziose, puerili ed
assurde. Quante ne ha delle anime un uomo? Tre, due, una sola? E non
potrebbe una sola anima bastare per tutti gli uomini? È essa
una sostanza o una semplice forma? E di che è fatta? E
dov’è prima di entrare nell’uomo? E qual’è, l’ora
precisa che vi entra? E in qual parte di esso alloggia? O forse
è tutta intera in ogni sua parte, o soltanto tutta intera nel
tutto? E in che consiste, e in qual modo si stabilisce e si rompe la
sua comunicazione cogli organi corporei? E questa unione è
essenziale, o no, alla vita corporea, ed alla esistenza dell’anima?
E che farà quando se ne sarà svincolata? E
potrà anche allora conoscere le cose, sentire, volere? E come
si concilia l’assoluta sua semplicità ed autonomia colle
molteplici facoltà, colla formazione graduale e successiva
delle abitudini, colla continua e perfetta dipendenza de’ suoi atti
dagli organi corporei? E in che si differenzia l’anima dell’uomo da
quella dei bruti? - E cento altri problemi simili a questi, sui
quali si sono scritti volumi a migliaia, coll’unico risultato, che
apparisca con tutta evidenza, come, parlando di una cosa, che non ha
altro fondamento che l’immaginazione, si possa colla medesima
facilità e affermarla e negarla. La definizione metafisica
dell’anima, come diceva, non contiene nulla, che abbia importanza
per la scienza, che pure, secondo il metodo deduttivo degli
aprioristi deve tutta essere cavata dalla definizione. E in vero,
quando siamo per impiegare i fatti psichici, la definizione non ci
serve più, ed è necessario ricorrere ad altri ajuti,
cioè alle facoltà. Povero ajuto anche questo.
Poiché chi, per rendere ragione di un fatto, inventa una
facoltà, viene giusto a confessare con ciò, che non si
sente in grado di farlo. Abbiamo dunque nella scienza un’anima, che,
logicamente, vi è affatto oziosa; abbiamo delle
facoltà, che le furono appiccicate capricciosamente, e che
non servono, se non a tener vieppiù nascoste le ragioni, che
si cercano. Resta il sistema dei fatti. Ma che sistema! Non solo non
può, in alcun modo, connettersi col resto del mondo,
né punto s’accorda coi fenomeni innegabilmente analoghi dei
bruti, né colle leggi di svolgimento degli stessi atti umani,
sicché è da respingersi, come assolutamente falso, ma
è in sé affatto fanciullesco e meschino. Gli antichi
dicevano: Il mondo esterno è costituito di due generi di
elementi; gli uni tengono della natura della terra, crassa, pesante,
volgente al basso e tenebrosa; gli altri tengono della natura del
fuoco, sottile, leggero, volgente all’insù e risplendente. E
tutti i suoi fenomeni sono l’effetto della lotta tra questi due
contrari. Così qui, due generi di principio. Altri tengono
del senso e sono vili, ristretti alle particolarità, e al
momento, che passa e non torna ed altri tengono dell’intelletto, e
sono nobilissimi e attinenti a tutti i luoghi e a tutti i tempi. E
tutti i fenomeni psichici sono l’effetto di una lotta continua tra
loro. Ecco il sistema. Magnifica invero e sapiente è la
diversità, su cui è fondato, ma non esiste. Ed ha, per
giunta, l’inconveniente di dare origine a questioni insolubili, e
quindi di condurre allo scetticismo. La forza del materialismo sta
tutta nel valore metafisico assoluto dato dagli spiritualisti alla
generalità mentale, in cui si riassumono i fenomeni psichici;
l’immoralismo si trova soprattutto legittimato dalla
assurdità del concetto di una attività morale affatto
sottratta alla legge di causalità; in fine, per non andar
troppo in lungo, l’idealismo, padre immediato dello scetticismo, si
fonda incrollabilmente sulla distinzione reale della percezione
esterna dalla interna.
Scienza veramente codesta degna di rimpianto; un soggetto e delle
facoltà del tutto inutili; un sistema di fatti immaginario ed
assurdo; un congegno logico, che fa conchiudere allo scetticismo.
Pareva alla prima proposizione, che avesse già in suo potere
la ragione di tutto si trova alla fine, dopo infiniti ragionamenti,
che non ha spiegato nulla.
E quella del positivista? A vedere, come egli incominci, si direbbe,
che non arriverà mai a saper nulla. Egli si ferma subito ad
un fenomeno; al primo che incontra; al più comune; alla
sensazione. Vi applica l’osservazione più attenta, l’analisi
più rigorosa. Se ne fa un’idea assai più profonda e
vera di quella del metafisico, il quale non vi distingue il dato
iniziale ed elementare dall’abituale e complesso, come
mostrerò a suo tempo, e si contenta, per rendersene ragione,
di una metafora volgare; chiamandola l’immagine o l’impronta
comunicata dalle cose al senso; non avvertendo, che non v’ha
somiglianza di sorta tra la cosa e la sensazione corrispondente.
Egli si è accertato, che questa è il prodotto
immancabile, naturale, equivalente dell’azione fisica dell’organo
materiale, e che quindi entra nell’ordine universale della natura,
in cui gli effetti, sotto qualunque forma si presentino,
costituiscono una serie continua, nella quale il seguente è
una semplice trasformazione del precedente. Ma, distinta bene la
rappresentazione sensitiva in ciò, che la caratterizza, e
paragonatala al fatto fisiologico, a cui consegue, riconosce, che
l’oscillazione di una fibra, per esempio, o lo scorrere di un
fluido, non hanno in sé nulla di somigliante con un pensiero;
e non si ostina a voler dedurre la natura di questo dalla natura di
quelli; e si contenta di ammettere la sensazione, come un fatto di
cui è certissimo, anche non sapendone altro. Sicché
sembra come diceva, che il suo studio non sia per approdare a nulla
mai, essendoché gli è pur forza prendere le mosse dal
fatto della sensazione, e questa è, per sua stessa
confessione, un fatto primordiale, che si apprende, ma di cui si
ignora l’essenza e la causa nel senso proprio della parola.
Eh! Anche Newton, come vedemmo, è partito d’un fatto, che non
poteva spiegare; il fatto della caduta dei corpi. Ma quel fatto,
quantunque misterioso in se stesso, gli servì benissimo per
isciogliere l’enigma dei cieli, e indovinarne il meccanismo.
Identico è il caso del psicologo positivista. La sensazione
è inspiegabile in se stessa, ma egli ne ha conoscenza, come
di una realtà indubitabile, ben distinta da ogni altra, e di
cui gli sono note le leggi; e in essa ha trovato la chiave, che lo
abilita a districare la cifra, prima illegibile, dell’umano
pensiero. Sicché, quantunque paresse al primo aspetto, che
non sapesse proprio nulla, mostra poi in realtà di sapere
già qualchecosa; non le cause e le essenze, no; ma pur
qualchecosa, che i metafisici non sanno; e più assai è
certo, che scoprirà in avvenire.
Egli sa quali siano gli elementi veri ed iniziali del pensiero, e
quale la legge, secondo cui si combinano a formare i vari e mirabili
suoi prodotti. Il fisico dice: Datemi la materia ed il movimento, ed
io vi spiego tutti i fenomeni della natura. E il psicologo positivo
alla sua volta: Datemi le sensazioni e l’associabilità loro,
ed io vi spiego tutti i fenomeni della vita psichica. E come, per
tal modo, al filosofo della natura è riuscito di togliere
dalla scienza l’ingombro dei fluidi imponderabili e delle altre
forze materiali, così il filosofo dello spirito ha potuto
dimostrare, che ciò, che si dice attivo e passivo, conoscere
sentire volere, senso ed intelletto, interno ed esterno, percepire
ricordare immaginare astrarre, attenzione riflessione coscienza,
giudizio raziocinio, e così via per tutte le cento
facoltà degli aprioristi, non è infine, come sopra
avvertimmo, che un processo diverso ottenuto coi medesimi dati
elementari diversamente disposti. E il dato elementare non è
ciò che si designa col nome di percezione, come i metafisici
credono. Il positivista ha analizzato anche questo dato primo,
questo atomo oscuro della vecchia psicologia. Ha fatto,
relativamente ad essa, ciò che la scienza naturale
relativamente all’atomo acqueo di Empedocle. Ha scoperto, come non
sia semplice, ma prodigiosamente complessa.
La percezione ha luogo in seguito ad una sensazione, d’ordinario di
più sensi in una volta. Ma essa non è dovuta soltanto
alla sensazione presente di uno o più sensi, che rimane
sempre di gran lunga il meno di ciò, che la costituisce.
Ché, a formarla, concorrono variissime e numerosissime
sensazioni già prima sperimentate, le quali, ridestandosi
d’accordo più o meno intere, più o meno fuse tra di
loro, di improvviso, per la eccitazione prodotta dallo stimolo
esterno, si associano d’un tratto, con un ordine sorprendente, alla
sensazione attuale, corredandola, per ogni sua parte, di mille
particolarità, che la completano, intessendovi attorno una
serie lunghissima di giudizi e di raziocinio, che non sono avvertiti
da chi li fa, ma che danno alla percezione il valore che ha, e che
furono rintracciati e messi in evidenza, massime riguardo alle
percezioni visive, dalla sagacia della osservazione scientifica. La
percezione dunque è già un tutto, non semplice, come
si credeva; ma molto e molto complesso, pur considerando le dette
innumerevoli sensazioni componenti, come dati elementari della
rappresentazione psichica. Ma cresce la complessità
straordinariamente, se si analizza la sensazione. Quella che si dice
comunemente la sensazione di un senso è l’insieme delle
tenuissime sensazioni distinte delle fibre nervose, che vi sono
eccitate, le quali sono tante, che nel solo nervo ottico sommano,
come si crede, a cinquecentomila. Arriviamo, come si vede, a delle
piccolezze, a dei numeri, che confondono. E pure si può dire
di più ancora. La chimica, come dicemmo sopra, non soffre
ormai più di arrestarsi, all’atomo del cosidetto elemento, e
cerca al di là di esso, nella omogeneità delle monadi
eteree, il suo infinitamente piccolo. Anche la psicologia può
osare qualche cosa di somigliante e cercare il suo infinitamente
piccolo al di là di questi minutissimi elementi degli
elementi delle percezioni. Ardirò io esporre qui una mia
troppo temeraria idea? La scoperta di Newton relativa ai colori coma
elementari, quella di Young della triplice natura dei bastoncini
della retina, e l’altra di Helmholtz sui timbri dei corpi sonori
fanno sospettare, che le differenze specifiche tra le diverse
sensazioni elementari, come a dire la differenza tra un suono ed un
colore, dipendano unicamente dalle combinazioni variate e, per
così esprimermi, raddoppiate di un sol genere di sensazioni
elementarissime.
L’associazione delle idee poi, nella quale, come diciamo, si
riassume tutto il magistero degli atti psichici, non è mica
una legge particolare del pensiero, onde questo si differenzi per
essa dal resto delle cose. No. Fra le cose e il pensiero c’è
una perfetta continuità anche per questo riguardo.
L’associazione delle idee è una semplice applicazione, delle
due maggiori leggi, che determinano la produzione dei fenomeni
nell’universa natura; voglio dire la legge della latenza delle forze
e quella della divisione del lavoro.
Se un fascio di luce solare cade sopra una foglia verde di un
vegetale, la forza, che vi apporta, non vi si trasforma tutta in un
modo. Una parte dei raggi ne è riflettuta, o vi passa
attraverso; e può ancor illuminare a o riscaldare i corpi, a
cui pervenga. Ma un’altra parte vi si arresta a dar nuova forma alle
sostanze, che hanno da costituire la materia e i tessuti vegetali;
nella quale forma dai raggi solari operata si può dire per
ciò, che essi si trasmutino e si nascondano. Dico, si
nascondono, e non, si distruggono; perché basta mettere ad
ardere il vegetale per riavere di nuovo, in forma di luce e di
calore, quella forza emanata dal sole, che vi si era celata. Analogo
è il processo delle operazioni mentali. La forza, onde
l’organo del senso è stimolato dal di fuori, e quella che
corrisponde al consumo della materia nervosa messa in azione dallo
stimolo, non si esaurisce nella sensazione cosciente, che ne
consegue; una parte si fa, per così dire, latente, e si fissa
in forma di tendenza od abitudine; ed è quella, per la quale
diciamo, che una sensazione avuta si può ricordare, ossia
riprodurre, senza che si rinnovi l’azione dell’oggetto sensibile
esterno. Un pensiero, che si ricordi, non è una creazione dal
nulla di una facoltà taumaturga, chiamata memoria, come
volgarmente si crede; non è altro che una forza dissimulata,
che riapparisce, come la fiamma ed il calore di un pezzo di legno,
che si accenda.
Come poi la forza greggia, o ricevuta dal di fuori, o ammassata al
di dentro, mediante i processi fisiologici, o messa in serbo ed
impressa nella forma latente della memoria, della inclinazione,
della abitudine, si metamorfizzi nelle svariatissime, maravigliose,
infinite forme del pensiero, questo ci è spiegato per la
legge della divisione del lavoro. Una massa d’acqua, che cada
dall’alto perpendicolarmente sul fondo di un canale, dà una
quantità di forza. Se nella caduta nulla si frappone, quella
forza si converte, nella massima parte, in una maggiore
velocità di corso dell’acqua del canale. Ma se c’è di
mezzo un qualche ordigno atto a trasformarla, ne possono venire
effetti assai più variati ed importanti. Mettiamovi, ad
esempio, una ruota idraulica, a cui sia applicato un telajo alla
Jacquard. L’acqua, cadendo, urta nelle pale della ruota, e questa
gira. Il movimento di caduta si converte per tal modo in rotatorio.
L’asse della ruota porta poi questo movimento fino al telaio,
cioè a’ suoi diversi organi, nei quali prende modo e forma
secondo la disposizione e la configurazione loro. Ogni organo del
telajo ne piglia una parte e lo trasforma diversamente. Il subbio ed
il carretto si muovono sopra se stessi con passo lento ed interrotto
e ad intervalli misurati, svolgendo l’ordito e ravvolgendo il
tessuto. I cartoni si presentano opportunamente ai licei, e questi
sollevano i fili voluti dal disegno. E i battenti alternativamente
fanno scattare la spola, che porta la trama avanti e indietro
attraverso ai fili incrociati dell’orditura, per formare il tessuto;
cioè un bel drappo a figure e fiorami disegnati, disposti e
colorati artisticamente. Quale metamorfosi! Il semplice peso
dell’acqua è diventato l’intreccio dei fili, la consistenza
del tessuto, la bellezza del disegno, la vaghezza dei colori di un
drappo prezioso. E il prodigio a che è dovuto? Non ad altro
che alle forme e alle disposizioni convenienti degli organi
molteplici e diversi del telajo, che si divisero tra loro la forza
prestata dall’acqua cadente, e appropriandosela la convertirono in
tanti diversi lavori sapientemente coordinati. Lo stesso avviene da
per tutto nella natura. Ed io perciò la definirei una forza
immensa spartita ed elaborata per organi infiniti. E ciò
tanto per la natura inanimata, quanto per l’animata. Quella forza,
che nel zoofito, stante l’imperfezione degli ordigni in cui si
incontra, non si trasmuta, che in una sensazione ottusissima,
nell’uomo, che presenta una organizzazione assai più
complicata e finita, può tradursi nella meditazione del
filosofo, nell’estro dell’artista, nella virtù eroica di chi
dà la sua vita per un’idea. Grandissima è la
differenza, che corre tra un drappo sortito da un telajo Jacquard e
la tela esilissima tesa silenziosamente per aria da un piccolissimo
ragno; assai più grande, anzi infinita, se si vuole, tra
questa e un’opera dell’umano pensiero, come sarebbe l’Iliade
d’Omero, il Furioso dell’Ariosto, i Dialoghi di Platone e la Critica
della ragion pura di Kant; ma l’analogia è perfetta e la
legge dirigente i processi di formazione è la medesima.
Parte quinta: La psicologia positiva e i problemi della filosofia
E pare adunque veramente, che il positivista, del quale, vedendo che
incomincia da un semplice e volgare fenomeno in sé
inspiegabile, ciascuno avrebbe detto, che non sarebbe mai venuto a
capo di saper nulla, sia poi invece arrivato a conoscere, e
positivamente, qualche cosa. Non le essenze e le cause: No; ma pur
qualche cosa. Vale a dire, che siano e come si formino la percezione
e tutte quelle altre, che un tempo si chiamavano le finzioni
speciali delle diverse facoltà dello spirito, e che in
realtà non sono, se non le combinazioni svariate di un solo
genere di elementi, gli elementi della sensazione; e come il numero
di tali elementi sia oltremodo grande, e bastino essi soli,
allargato opportunamente e variato il piano degli intrecci, a
generare tutte le produzioni dell’umano pensiero, anche le
più elevate e caratteristiche.
Tali cognizioni del positivista, non lo neghiamo, sono molto umili e
da poco verso le teorie grandiose e seducenti, onde i metafisici si
vantarono di avere chiarito i punti più sublimi e
trascendenti della filosofia. Ma, dove queste scientificamente non
hanno valore, perché contraddette dai fatti e non vere,
quelle, e sono certe per se stesse, e contengono nel loro seno
fecondo l’avvenire della scienza; come l’avvenire delle discipline
naturali era contenuto negli insegnamenti modestissimi di Galileo
sulla caduta dei corpi. I sistemi dei psicologi aprioristi,
quantunque magnifici e finiti in ogni parte, non hanno in effetto
spiegato nulla, come vedemmo; nemmeno gli elementi e il meccanismo
del pensiero, e le sue gradazioni e varietà negli animali in
genere e nell’uomo in particolare. E servirono soltanto a creare
delle questioni insolubili; veri lacci tesi, senza speranza di
scampo, a se stessi; come quelle che dividono gli spiritualisti dai
materialisti, i moralisti dagli immoralisti. E, condotta la scienza
a perdersi nell’idealismo, la resero irrimediabilmente scettica.
Invece i poveri dati empirici del filosofo della osservazione gli
hanno già indicato qualche cosa del magistero divinamente
semplice ed immenso della operazione psichica e, in esso, la ragione
de’ suoi aspetti infinitamente vari, dei suoi sviluppi infinitamente
graduati; come apparisce dalle cose dette sopra. Non solo; ma quei
dati stessi possono già anche fargli intravvedere la
soluzione dei grandi problemi suaccennati; e, tolta l’illusione
idealistica, salvarlo dallo scetticismo; come apparirà da
ciò, che sono per dire in questo paragrafo. E più
ancora, come dimostrerò poi nell’ultimo, che segue, possono
quei medesimi dati, mediante i concetti semplici che riassumono le
somiglianze, le coesistenze e le successioni dei fenomeni, fargli
abbracciare la totalità della varia e molteplice natura, come
unità di essere, come ordine di cose, e come armonia di
forze.
Come dico, il positivista (e nessun altro fuori di lui) può
già avere la speranza di sciogliere le questioni
materialistica, morale, idealistica e dello scetticismo.
Perché non si creda l’affermazione o vana o temeraria, ne
dirò qualche cosa, cominciando dalla prima. Non si può
negare, che gli spiritualisti d’oggi non si siano vantaggiati
d’assai sopra gli antichi, nella lotta contro i materialisti;
quantunque della presente loro più favorevole posizione siano
debitori, non agli ajuti della speculazione metafisica, ma a quelli
della osservazione positiva, dalla quale presero a prestito molto
opportunamente la dottrina della relatività delle idee. Il
materialismo, quale era in passato, noti ha potuto tenere contro
l’idea relativistica della sensazione, e fu costretto a riformarsi,
e ad ammettere che l’atto psichico, come tale, non è,
né una estensione, né un movimento; cioè
nessuna di quelle determinazioni, che compongono il concetto della
materia, come tale; in una parola, che il pensiero non ha nulla di
materiale. Ma non fu vinto per questo; esso, benché
trasformato, si sostiene oggi, intero e formidabile, come prima, e
atto a vincere gli avversari in tutti i loro trinceramenti.
Professano essi, da veri spiritualisti compiti, l’intellettualismo?
Il materialista dimostra, che le idee non richiedono una
facoltà speciale e diversa da quella della
sensibilità, perché non sono, se non le stesse
sensazioni associate. Cedono un poco e si contentano di essere
sensisti? Egli accampa l’analogia perfetta fra la vita psichica
dell’uomo e quella di qualunque altro essere animato, e quindi la
necessità di togliere ogni assoluta distinzione di natura fra
l’anima del primo e quella di tutti gli altri. Si contentano,
facendo un altro passo indietro, di porre nella medesima categoria
lo spirito divino dell’uomo e l’anima di fango del lombrico e della
monade microscopica? Egli nota la corrispondenza costante, perfetta,
immancabile delle condizioni fisiche colle morali, e quindi
l’impossibilità assoluta di considerare l’anima, come una
esistenza indipendente dalla materia. Fanno ancora una concessione,
ammettendo che una sostanza a sé, opposta al corpo e assai
più nobile di esso e destinata ad avere una propria vita
immortale e celeste, quale vogliono che sia l’anima, per un ordine
stranissimo ed inconcepibile di cose, gli debba interamente (dico
interamente) la determinazione, la forma, la energia delle sue
proprie manifestazioni? Egli enumera i fatti, che sforzano di
estendere alla vita psichica la legge della conversione delle forze,
e quelli, che conducono a riferire le forme psichiche, non alla
natura particolare di uno spirito di cui siano proprie, ma alla
disposizione degli organi, nella quale è tutta la ragione di
esse; e conchiude, con logica rigorosa, essere la realtà
psichica il puro equivalente della fisica degli stessi organi;
enumera ancora, e soprattutto, quei fatti, che attestano essere
l’unità della coscienza una unità di composizione; e
conchiude, con logica irreprensibile, essere inammissibile il
concetto, che fa dell’anima una entità individua ed
inscindibile. E così è tolta allo spiritualismo anche
l’ultima ragione di affermarsi.
Ma anche il materialismo è una teoria incompleta ed
unilaterale; e chi vuol tener conto del lato mancante, ricade per
necessità nello spiritualismo. Sicché la scienza, con
isforzo sterile e vano, senza posa si dibatte, con un giro che torna
eternamente sopra se stesso, fra i due estremi; ciascuno dei quali,
impotente a sciogliere da sé il problema, vale solo a
combattere l’opposto. Impossibile liberare il ragionamento
scientifico dal laccio, che lo inceppa; impossibile trovare la
soluzione definitiva del gravissimo problema, se non elevandosi al
dissopra dei due concetti deficienti ed esclusivi; e, per mezzo
dell’idea psicofisica, far convergere, secondo il processo da noi
divisato, i due veri in una sintesi sola, nella quale e si
completino e si accordino a vicenda.
Insolubile del pari era nella passata filosofia il problema morale.
Per gli uni l’atto morale è il prodotto della concorrenza di
tre fattori distinti, diversi e nel loro essere separati; la
volontà libera, l’idealità regolatrice e l’affetto
movente. Per gli altri resta la trinità dei termini, e se ne
muta soltanto, più o meno radicalmente, la natura,
l’importanza, l’ufficio. Col sistema dei primi l’atto morale vien
fuori benissimo; coi sistemi degli altri riesce, o travisato, o
tolto. Ma, dove presso quelli i concetti dei termini integranti non
hanno altro fondamento, che la falsa apparenza volgare dell’essere,
presso gli ultimi corrispondono in generale assai più alla
recondita verità, rivelantesi soltanto alle indagini
laboriose della scienza.
La filosofia positiva ha distrutto la trinità fittizia dei
termini suaccennati; e quindi la discussione scientifica ha potuto
uscire una volta dal vecchio circolo, nel quale prima era
imprigionata, senza speranza di uscita. La rappresentazione mentale
regolatrice si riduce all’effetto dell’impressione delle cose
esterne sui sensi; l’atto esecutore, alla traduzione di una
disposizione organica centrale in un movimento periferico; la
relazione tra quella e questo, ad una continuità di azione
fisiologica, per cui l’un movimento si converte nell’altro, come nel
telegrafo elettrico l’atto di scrivere di una stazione, pel filo,
diventa alla stazione opposta l’atto di essere scritto.
E con ciò quante difficoltà insuperabili eliminate!
Come le seguenti. È egli possibile un atto libero,
cioè determinato, non da un atto precedente, ma da se stesso;
ossia un effetto senza causa? Qual’è il vincolo misterioso,
che lega insieme la legge, il motivo e la volontà,
sicché nessuno dei termini mai manchi all’occorrenza, e uno
abbia presa sull’altro? E come si accordano le due proposizioni,
perché la volontà si determini occorre il motivo, e,
la moralità, consiste propriamente nell’eseguire la legge per
la legge e non pei motivi? E tutte quelle altre circa la natura
dell’idea obbligante e dell’affetto impellente; e soprattutto, circa
il fatto stesso della manifestazione morale. Della quale si sa, che
non è un fenomeno che apparisca bruscamente, senza analogia
altrove; solo nell’uomo, e che in esso non si riscontra sempre nella
specialità propria di lui; il che dovrebbe pur essere nella
ipotesi, che sia l’effetto di facoltà esclusivamente umane.
Si sa, cioè, esservi una gradazione insensibilmente
crescente; da una parte, dall’infimo degli animali all’uomo, la cui
attività libera riesce come una ultima e più piena
espressione di ciò, che negli animali inferiori esiste solo
quale inizio ed abbozzo; e dall’altra, nell’uomo stesso, sia per le
diverse età, nelle quali lo sviluppo morale, dallo stato
meramente potenziale del bambino, cresce e di nuovo si diminuisce di
conserva colle forze fisiche, sia per diverse condizioni accidentali
dell’organismo, per le quali può lentamente ecclissarsi e
riapparire e divenire subitamente or più or meno. Tutte
siffatte questioni, che si attraversavano senza rimedio alle
filosofie morali degli antichi, restano eliminate per la teorica
positiva della operazione psichica.
Inoltre la nostra filosofia sperimentale, senza uscire da’ suoi dati
semplicissimi, - le sensazioni e l’associazione loro, ingrandita e
variata colla divisione del lavoro fisiologico -, dati sui quali non
può cadere discussione, tanto sono certi, senza uscire a
essi, trova a spiegazione del fatto morale. Lo ripeto: I vecchi
moralisti lo spiegano, ma i loro dati sono insussistenti; gli
avversari di quelli tengono a sostituire dati meno infondati, ma non
lo spiegano; noi, e partiamo da dati positivi, e lo spieghiamo. E
come?
Ogni rappresentazione psichica ha una propria impulsività
Volontaria. Assolutamente parlando, data una rappresentazione, non
è necessario ricorrere ad un motivo che la renda efficace, ed
una volontà che aggiunga la spinta della sua
causalità, per avere lo sforzo, dal di dentro al di fuori,
che la segue. Il fatto, che in un caso speciale una data
determinazione volontaria non può aver luogo, se non
accedendo ad una data rappresentazione, uno di quelli che si
chiamano motivi determinanti, non distrugge il nostro asserto, ma lo
conferma. Nel caso addotto si ha una rappresentazione la cui
impulsività è, dinamicamente parlando, impari alla
determinazione seguita. Aggiungendo il motivo, che non è poi
altro, se non una seconda rappresentazione, si hanno due
impulsività, invece di una; le quali, sommate assieme,
valgono appunto l’atto della determinazione, che ne emerge. Ho
detto, che ogni rappresentazione psichica ha una sua
impulsività volontaria. Non può restare dubbio intorno
a tale principio se si osserva, che ogni sensazione, la quale
è un movimento sorto per la spinta dal di fuori e, durato e
cresciuto a spese della sostanza dell’organo relativo, per legge
fisiologica si trasforma, in modo analogo a ciò che avviene
nel resto della natura, propagandosi in movimenti degli organi
collaterali e dei muscoli; e che quanto si dice della sensazione
ricevuta vale anche per la sensazione ricordata, o sola o associata;
e che le idee non sono, se non associazioni di sensazioni. Per cui,
data un’idea, se uno si determina per essa, non c’è bisogno
di ricorrere ad altro per dar ragione dell’atto volontario; la
ragione dell’atto è la stessa impulsività dell’idea;
ossia una forza che si converte. Non dico con ciò, che l’uomo
d’ordinario sia mosso nelle sue azioni puramente e semplicemente
dalle idee propriamente dette, massime se oggettive e
disinteressate. Tutt’altro. L’impulsività dell’idea
propriamente detta, cioè dell’astratto, è d’ordinario
debolissima. La più forte impulsività è quella
della sensazione attualmente impressa, per la semplice ragione, che
essa consiste in un movimento più vibrato e intenso.
Diminuisce l’intensità e quindi l’impulsività nelle
sensazioni integralmente riprodotte; ed è minima in quella
riproduzione leggerissima, parziale ed imperfettissima di molte
sensazioni, che si chiama idea. Ed in ciò è la
spiegazione di quel fatto per gli antichi misteriosissimo, per cui
il cosidetto appetito sensitivo, malgrado la sua viltà, come
la qualificavano, esercita sulla volontà un impero
immensamente maggiore che non quell’appetito, che gli
contrapponevano, cioè l’intellettivo, malgrado la quasi
divina natura, che vi attribuivano. Ma è possibile un tale
rafforzamento della impulsività delle idee da renderle, e
anche con molta violenza, operative per sé, ed
indipendentemente da qualsiasi altro ajuto morale. L’esperienza
individuale, l’esempio degli altri e la storia ci mostrano quanto,
per l’educazione, per l’abitudine e per altre circostanze, si possa
rendere viva in un uomo la rappresentazione di una idea astratta, e
quindi la coscienza della sua verità, bellezza e bontà
(tutte parole che indicano dei rispetti e degli effetti psichici
diversi di una cosa medesima), ed eliminare ogni impedimento della
sua azione motrice, e farle acquistare una efficacia determinante
(onde è detta obbligare) pari e anche superiore a quella dei
concreti sentiti o ricordati i più imperiosi ed energici,
coll’effetto di lasciare dietro a sé un sentimento di
soddisfazione pura e nobilitante di particolare natura, che viene ad
esserne la conseguenza ovvero la sanzione soggettiva. È
questo ciò che volevano dire Pietro Pomponazzi e Benedetto
Spinoza, e i pochi altri, che, come loro, con santo e sublime
insegnamento sostennero, avere la virtù abbastanza in se
stessa, senza ricorrere ad altro, per ottenere l’ossequio e
l’ubbidienza dell’arbitrio dell’uomo. L’impulsività
psico-fisiologica delle idee; ecco il concetto nuovo e positivo atto
a sciogliere il grande problema. Secondo il quale concetto la
moralità si potrebbe definire un indirizzo psichico tale, che
l’impulsività dell’idea prevalga nel contrasto colle altre
rappresentazioni, tanto da riescire a dare più o meno
completamente il proprio indirizzo all’azione.
Tale definizione non solo corrisponde al concetto comune della
moralità, ma soddisfa pienamente a tutte le esigenze della
psicologia comparata, dei veri parziali contenuti nelle differenti
teorie etiche, e della coscienza universale. Essa corrisponde al
concetto comune della moralità, secondo il quale vi si
richiede e l’idea e la lotta per effettuarla. Essa soddisfa poi
anche alle esigenze della psicologia comparata. La moralità
propriamente detta si riscontra solo nell’uomo, e precisamente
nell’uomo sano di mente, adulto e civile. Ma nello stesso tempo non
si può non ammettere una certa semimoralità nelle
azioni degli animali più vicini all’uomo. Il contegno di ogni
uomo, massime se non pregiudicato da sistemi preconcetti, coi detti
animali, lo esige assolutamente. Ora, siccome la moralità nel
suo senso più ristretto non si può avere, secondo la
definizione data, se non dove sono le idealità più
elevate, e queste sono proprie massimamente dell’uomo adulto e
civile; e inoltre la moralità stessa non è se non dove
è possibile il contrasto e la prevalenza loro, vale a dire
dove non è turbato o impedito il processo normale, onde
possono ed essere richiamate alla memoria e rinforzate
coll’attenzione, e produrre il loro naturale effetto, e ciò
accade nell’uomo sano e valido mente, così si giustifica per
tal modo la prima parte del fatto segnalato. E per contrario,
siccome gli animali non parlanti, se non possono arrivare alle
associazioni superiori e perfette delle idee umane, e a delle
abitudini mentali che le rinforzino di fronte alla violenza degli
affetti brutali che tendono a precipitare e ad imporre la
deliberazione, si formano però indubbiamente anch’essi, e
tanto più quanto si avvicinano maggiormente all’uomo, delle
generalità regolatrici, che nella loro immaginativa, con
giuoco analogo a quello che ha luogo nell’uomo, si presentano in
contesto con altre rappresentazioni, sia contrastandole, sia nella
relazione di mezzo e di fine, così si giustifica pure la
seconda parte del fatto stesso sopra enunciato. Sempre si verifica,
che la moralità va di pari passo coll’idealità. Dove
è idealità completa, la moralità è
perfetta; è imperfetta, dove è incompleta.
Perciò, se paragoniamo col tipo perfetto dell’essere morale
(la persona responsabile), cioè coll’uomo adulto, sano,
civile e bene educato, il selvaggio, il barbaro, il bambino,
troviamo che a questi mancano, per esserlo del pari, le idee che non
hanno ancora acquistato; e se col medesimo paragoniamo il bruto,
troviamo che esso, mentre gli mancano per esserlo allo stesso modo
le idee umane che non può acquistare, non è pur privo
di idee sue, meno elevate, per le quali la sua azione ha, non
metaforicamente, ma in senso esatto, il carattere di una
moralità imperfetta, e quindi la sua individualità una
semiresponsabilità.
Ancora, la nostra definizione soddisfa alle esigenze dei veri
parziali contenuti nelle diverse teorie etiche. L’impellenza in una
azione data non viene, si può dire, mai da una
rappresentazione unica. Ancor meno si verifica, che, in una serie di
azioni, queste siano tutte l’equivalente delle medesime
rappresentazioni. L’azione è sempre l’equivalente di un
gruppo più o meno complesso di atti rappresentativi della
coscienza, quali più e quali meno vivaci e sentiti.
Concorrono a formarlo (succedendosi e avvicendandosi variissimamente
tra loro da una azione all’altra) e sensazioni attuali, e ricordanze
di sensazioni passate e associazioni fisse, e astratti di più
sorta. Non solo gli astratti più elevati e nobili,
rappresentanti le cose nel loro aspetto oggettivo, cioè le
idee nel senso più rigoroso (ciò che i moralisti nel
rispetto qui considerato direbbero, il bene), ma anche gli egoistici
e meno nobili, vale a dire quelli che riassumono le relazioni e gli
stati puramente soggettivi (indicati nella parola utile). Il modo
dell’aggruppamento, e il predominio dell’uno o dell’altro dei
componenti, dipendono dalle circostanze del momento e dalle
abitudini. Ecco la ragione dei molti e diversi imperativi stabiliti
dai moralisti. Si potrebbe dire, che tutti sono veri, in quanto il
movente morale assegnato da ciascheduno è dato veramente
dalla osservazione del fatto reale; ma che tutti hanno il gravissimo
difetto di essere esclusivi, in quanto ne negano altri pur veri e
soprattutto se non tengono il conto dovuto della idealità
schietta e disinteressata, che conferisce il vero suo carattere
distintivo all’azione umana e morale, come tale; che sempre, se
anche il più delle volte debolissimamente (anche se come
semplice protesta contro la deliberazione antiideale), concorre alla
produzione dell’atto.
Dico, che è certo, che vi concorre sempre l’idealità
disinteressata ossia oggettiva, come è certo, che
l’apprensione cogitativa, umana è (formata che sia)
essenzialmente ed inevitabilmente bilaterale; rinchiudente
cioè l’interno e l’esterno; e che, tanto l’uno quanto
l’altro, ha la sua parte di equivalenza, che non può essere
distrutta o dissimulata, come nella bilancia non si può
dissimulare nessuno dei pesi, che vi sono messi sopra. Se, come
avviene però qualche volta incontrastabilmente,
l’impulsività dell’idea ingenua e pura da sentimenti
egoistici non è assai forte e palese, e non agisce sola senza
e malgrado l’impulso voluttuoso, ma è invece quasi sempre
debolissima e nascosta, ciò non autorizza a negarne la
presenza e la recondita efficacia sulla volontà, bastante per
dare all’azione il suo carattere speciale di atto morale, ossia
ideale. Il concorso di altre e più forti rappresentazioni,
nel disegno della natura, non elide, nella totalità di esso,
l’idealità, ma le è di ajuto. Così nella
pianta, per ispiegare meglio il mio pensiero con un esempio preso a
caso, la forza specifica direttiva dello sviluppo, a cui si deve la
sua forma ritraente il tipo della specie, forza specifica
consistente nella predisposizione organica delle parti componenti,
quantunque impotente da sé, senza il calore e la luce, senza
l’acqua e l’aria, e via dicendo, a produrre lo svolgimento vegetale,
anzi quantunque minore intensivamente di ognuna delle dette forze
concorrenti, basta però a dar loro la direzione e ad
ottenerne un lavoro, che non ha l’impronta di esse, ma la propria.
Anche nel dire idealità, il filosofo positivo esprime un
concetto armonizzante i veri imperfetti di diverse scuole. La scuola
psicologica dà l’idea, come una mera forma del tutto
soggettiva, accidentale e variabile del pensiero. La scuola
ontologica le assegna un valore oggettivo, immutabile ed assoluto.
La scuola storica ricorre per ispiegarla alle relazioni dell’uomo
colle condizioni esterne in cui vive; per cui le attribuisce una
semioggettività, e la considera, da una parte contro i
psicologi, non una creazione facile ed effimera dell’individuo, ma
una produzione faticosa, lenta e durevole della società, e
dall’altra contro gli ontologi, non una intuizione che la riveli
d’un tratto nella sua interezza ed in una forma unica sempre e per
tutti, ma una formazione progressiva e varia, che incomincia
dall’abbozzo per venire al lavoro sempre più finito; e che
riesce con aspetti diversi, secondo le circostanze differenti dalle
quali dipende. Or bene anche pel filosofo positivo l’idea è
una formazione lenta, progressiva, durevole, non dell’individuo, ma
della società, e dipendente dalle esterne condizioni di essa,
ma solo in quanto queste condizioni esterne e l’opera sociale
giovano a dare eccitamento e rinforzo al pensiero individuale, il
quale è il vero fattore dell’idea, secondo che dicono
giustamente i psicologisti. Ma l’individuo e la società,
producendo l’idea, non fanno opera capricciosa, ed avente solo
valore momentaneo e soggettivo. No: Tale lavoro ha la sua ragione
nella stessa natura per la quale agiscono, come la forma che assume
il seme germogliando. E come la forma assunta dal seme per la
germogliazione, più che se stessa, rappresenta quell’ordine
di cose, che ha determinato la formazione della specie vegetale a
cui appartiene, così l’idea di un uomo, più che
l’operazione accidentale, soggettiva, variabilissima di esso,
rappresenta, secondo che dicono giustamente gli ontologisti,
quell’ordine assoluto e immutabile, almeno quanto la natura, nel
quale è la ragione oggettiva del fatto particolare, che
consideriamo.
Finalmente la nostra definizione soddisfa alle esigenze vere della
coscienza universale. Per la quale, da prima, l’azione morale
è una azione libera. Ma che ci dice effettivamente siffatta
coscienza, chiamando libera l’azione morale? In primo luogo ci dice,
che la deliberazione precedente il movimento volontario è un
atto più o meno distante da quel primo fatto mentale, che le
ha dato occasione; e che tra la deliberazione stessa e quel fatto
mentale può intercedere una successione anche lunga di
pensieri, il cui corso non è determinato impreteribilmente
dal primo, ma si può svolgere in serie oltremodo variate;
sicché la connessione dell’un pensiero coll’altro, in un dato
giro di essi precedente una deliberazione, è fortuita,
cioè rappresenta uno solo dei moltissimi e pressoché
infiniti casi possibili di associazione. Il che dà all’azione
umana (massimamente se la si considera nell’uomo adulto, civile,
sano e nello stato ordinario della vita) un carattere speciale, che
la differenzia immensamente dalle azioni puramente fisiche e anche
da quelle dei bruti. Dalle azioni puramente fisiche, nelle quali si
riscontra un ordine di causalità consistente in moti
materiali e predeterminato indeclinabilmente dalle leggi conosciute
della natura; e dalle azioni dei bruti, nei quali il minore sviluppo
delle associazioni mentali e degli abiti relativi lascia troppa
preponderanza alla impulsività sensitiva ed affettiva,
d’altronde fortissima in essi, e quindi assai minor campo alle
possibilità delle associazioni e delle variazioni di esse.
Ecco ciò che ci dice la coscienza universale relativamente
all’azione morale. In ciò essa ci attesta con autorità
irrefragabile un fatto verissimo che noi non possiamo, se non
riconoscere. Ma questo fatto come lo spiega la scienza? La scienza
insegna, che la connessione tra un pensiero che viene e un altro che
gli succede è governata, come in tutti gli altri fenomeni
della natura, dalla legge inviolabile della causalità; ma che
l’organismo psichico, essendo complicatissimo e mobilissimo nelle
sue parti, si presta con una facilità estrema ad una
infinità di combinazioni; e che quindi la più piccola
variazione delle circostanze può indurre un movimento
complessivo dissomigliantissimo. E da ciò provenire, che
anche nell’uomo ciò, che si dice la sua libertà, si
osserva specialmente, non nel bambino, nel selvaggio o nel barbaro,
in cui il poco sviluppo mentale lascia sussistere uno stato analogo
a quello del bruto, e neanche nell’alienato, e in quello che
è in preda ad una passione, nei quali un vizio organico o una
eccitazione anormale impedisce il libero giuoco delle
rappresentazioni, ma nell’uomo adulto e civile e sano e calmo. In
esso la moltiplicità straordinaria degli elementi mentali
permette un numero di combinazioni infinitamente maggiore; cosa resa
più facile dallo stato e dalla disposizione degli organi, per
cui le impressioni o le rimembranze, né sono troppo deboli,
né troppo forti e durevoli, e le comunicazioni sono facili e
spedite, e gli abiti contratti hanno dato alle idealità la
forza di competere in energia motrice colle intense vibrazioni del
senso e dell’affetto. Si vede anche quanto ragionevolmente si dica,
che la libertà e quindi la moralità negli uomini e
nelle nazioni cresce in ragione, non solo delle nuove idee che vanno
acquistando, ma anche dell’agiatezza; perché questa procura
una maggiore validità organica e quindi anche psichica e
rende più rari i casi di quegli stati di tristezza o di
passioni feroci, che turbano le funzioni normali dell’intelligenza.
Così, secondo la verità, spiega la scienza il fatto,
attestato dalla coscienza comune, della successione apparentemente
fortuita e capricciosa, dei pensieri, percorrenti la deliberazione.
Ma anche la coscienza vuole spiegarlo quel fatto. Ed è nella
sua spiegazione che si inganna. Si inganna, perché tale sua
spiegazione è basata su ciò che non le apparisce
realmente, e intorno a cui fa arbitrariamente delle supposizioni non
vere. La coscienza non si avvede dei movimenti fisiologici, che
danno origine ai diversi pensieri ed alle loro diverse associazioni.
E per ciò per essa non esiste il nesso causale tra pensiero e
pensiero, e tra le serie di essi e la deliberazione, a cui riescono,
è irregolare e disordinato il seguito dei pensieri? È
il cieco caso che l’ha prodotto. Sorge nella mente un pensiero buono
a dominare gli altri? È un genio buono che l’ha inspirato.
Sorge invece un pensiero malvagio? L’inspirazione viene da un genio
cattivo. Si accompagna all’idea di un fine l’idea del mezzo che vi
conduce? Ciò, non si attribuisce, come si dovrebbe, alla
semplice legge dell’associazione delle idee, e agli effetti
dell’attenzione, ossia del rinforzamento di un atto mentale, ma
all’intervento della volontà che si compiaccia di fare, senza
che nulla la costringa a quella distribuzione. Tali sbagli la
coscienza non li commette solo a proposito del pensiero. Essa li
commette sempre, quando si trova a fronte di serie di fenomeni, dei
quali la causa non è manifesta, come avviene nei
meteorologici. Identico nei due casi è il motivo dell’errore;
e sopra abbiamo dimostrato come somigliante sia anche il rimedio,
onde la scienza l’ha corretto nell’uno e nell’altro.
Chiamando libera l’azione morale, la coscienza ci dice poi anche in
secondo luogo, che l’atto volontario, che eseguisce la deliberazione
presa e muove, è sentito, non come un fatto prodotto da un
fatto precedente, ma solo in sé e da sé. Dice altro su
ciò la coscienza? No. Ora si può domandare, se la
circostanza, che i fatti produttori di tale atto volontario non son
sentiti, basti per escluderli, e per istabilire la sua indipendenza
da ogni causa efficiente estrinseca? No certamente. La finzione
fisiologica, in virtù della quale alla rappresentazione segue
il suo atto riflesso corrispondente, non l’avvertiamo, e quindi non
possiamo apprenderla, come causa di esso atto; allo stesso modo,
che, per la identica ragione, non possiamo apprendere, come cause
immediate della nostra sensazione del suono le vibrazioni dell’aria,
che non vediamo. Se non che, nel caso del suono, commettendo lo
sbaglio di riferirlo all’oggetto sonoro e a ciò che opera su
di esso, evitiamo l’errore di supporlo non prodotto da una causa;
mentre nel caso del volere, riferendone l’atto, per la illusione
sopra chiarita, all’anima, e immaginando o come erompente dal seno
di essa, restiamo coll’idea falsa, che sia essa anima, che, senza
esservi costretta, lo produca per propria virtù, come e
quando le piaccia di farlo. Del resto però la stessa
coscienza universale corregge in parte per altra via l’orrore.
Ché, se non concepisce un ordine di causalità in un
dato atto particolare, lo concepisce tuttavia nella
generalità degli atti, relativamente alla quale, non
c’è nessuno, che non si sia avvezzato a pensare, che, poste
certe circostanze, l’uomo agisce in un certo modo. Abitudine questa
di pensare che ebbe una luminosa conferma nei risultati della
statistica.
Per la coscienza universale poi all’atto morale si collegano anche i
concetti della imputabilità e della sanzione. Il primo
importa una certa speciale eccellenza o spregevolezza della persona
attrice. Il secondo un rapporto dell’atto morale con un vantaggio o
un danno che ridonda, che si è disposti a recare, o che si
desidera che tocchi o sia apportato alla persona medesima. Ora egli
è ben naturale, che all’atto umano, quale l’abbiamo
designato, consegua una ragione di lode o di biasimo. Si loda o si
dispetta l’atto, secondo che è morale o immorale, come si
loda in generale o si dispetta una cosa che ha una qualche ragione
di eccellenza o di deformità. E ciò tanto più
quanto maggiore è la relazione del pregio o del difetto della
cosa, coll’utilità o col piacere proprio. La
specialità del pregio o del difetto proprio dell’atto umano
dipende dalla specialità di esso atto; specialità, che
non vien meno, come abbiamo veduto, anche intendendo la
libertà nel modo detto sopra. Più si diverge da tale
specialità di azione, come andando dall’atto umano per gli
atti degli animali e dei vegetali fino all’atto puramente fisico, e
più l’apprezzamento si fa diverso. Più invece ci
avviciniamo ad esso, come venendo dall’atto fisico all’umano, e
più l’apprezzamento si fa somigliante. Se la
specialità dell’apprezzamento morale dipende dal
riconoscervici la libertà nel senso ordinario, libertà
che apparterrebbe esclusivamente all’uomo, come si spiega allora il
fatto dell’apprezzamento morale applicato agli altri animali e
sempre più acquistante per gradi insensibili il carattere di
quello che si applica all’uomo, secondo che cresce la somiglianza
loro con lui? Poiché chi negherà, che l’uomo non
pregiudicato da una dottrina, che gli prema di far valere, ma
giudicante spassionatamente secondo il dettame naturale, trattando
cogli altri animali, specialmente se più vicini a lui e
domestici, fa uso ne’ suoi giudizi delle azioni loro di un criterio
analogo a quello, onde fa stima delle umane? Che se l’apprezzamento
dell’atto morale non è un apprezzamento freddo e di puro
raziocinio, ma vi entra e fortemente e in guisa speciale l’affetto,
ciò proviene dalle relazioni sue speciali di utilità,
e dalla facilità somma onde alla vista di quello che fanno
gli altri si ridestano in noi, con moti di simpatia o di antipatia,
pensieri ed affetti consuonanti. Il che poi, se ha luogo più
fortemente in occasione delle azioni umane, si osserva però
anche per le azioni dei bruti. Chi non sa, che un uomo, e tanto
più quanto ha migliore la cultura e l’educazione, può
appassionarsi e prender partito anche per essi? Che più? Egli
lo fa anche per le cose inanimate. I poeti ne offrono esempi senza
numero; il fanciullo, la donnicciuola, perfino l’uomo serio hanno ad
ogni momento delle tenerezze e degli sdegni, non solo per l’uomo e
pel bruto, ma anche per l’oggetto inanimato, col quale si imbattono.
E ciò va ricordato anche parlando della sanzione. La quale o
è la semplice difesa, come si verifica nell’azione punitrice
della legge pubblica, che, essendo impersonale, è solamente
logica e niente affettiva, o, se è personale, è
accompagnata dal sentimento dell’ira, col quale la punizione
anziché difesa, è vendetta, o dal sentimento
dell’amore col quale il premio, anziché incoraggiamento,
è ricompensa. Ma l’ira e l’amore nell’uomo, come dicevamo or
ora, non si sviluppano soltanto in occasione dei cosidetti atti
liberi dell’uomo, ma pur anco per quelli dei bruti, e perfino per le
cose inanimate. Il fiore, che rallegra la vista e mena un odore
gradito, lo si difende, con un vero senso di pietà,
dall’arsura e dal gelo; uno stromento, che non serve bene in
un’opera, per isdegno lo si spezza. Il bruto, seguendo un istinto
non diverso, fa altrettanto; egli premia e si vendica, né
più né meno dell’uomo. Si vendica contro di lui,
contro un altro bruto, contro la pietra che gli è scagliata
contro. Ma basti per ora di questo argomento, che è troppo
vasto per poter essere trattato convenientemente in questo luogo.
Basti averne toccato quel tanto che occorreva per dimostrare, che,
mentre i vecchi sistemi dell’etica, anziché scioglierne il
problema, l’avevano inceppato in difficoltà insormontabili,
la filosofia induttiva, può e rispondere a tutte le vecchie
obiezioni e chiarire la questione capitale della scienza, mediante
un concetto positivo della moralità, quello fondato sulla
impulsività fisiologica dell’idealità mentale, che
corrisponde perfettamente al concetto comune di essa, e soddisfa
pienamente a tutte le esigenze della psicologia comparata, dei veri
parziali contenuti nelle differenti teorie etiche, e della coscienza
universale.
Ora poi, da ultimo, dell’idealismo e dello scetticismo. Come dicemmo
poc’anzi, la scoperta della relatività delle idee
ajutò i psicologi spiritualisti a difendersi un poco dal
materialismo. Ma nello stesso tempo indusse un inconveniente
gravissimo, l’idealismo. Dal punto di vista dei psicologi metafisici
l’idealismo è la conseguenza diretta, affatto logica,
inevitabile ed invincibile della relatività delle idee. La
relatività insegnata da Locke produsse l’idealismo di
Berkeley, quella insegnata da Kant, produsse l’idealismo di Fichte.
Ma l’idealismo conduce poi irreparabilmente allo scetticismo. Lo
dimostra col fatto la storia della filosofia e il discorso logico
con un ragionamento il più semplice ed evidente. Se, come
insegna la psicologia dei metafisici, la rappresentazione è
essenzialmente rappresentazione in un soggetto, e, per la dottrina
della relatività, la stessa rappresentazione è altra
cosa e in tutto dissimile dalla cosa rappresentata, essa non
può darmi l’oggetto; e neanco lo stesso soggetto, come cosa
in sé, cioè avente un valore oggettivo; or bene, una
effigie mentale, che si riferisce essenzialmente ad un oggetto, del
quale deve essere la rappresentazione, e cui nello stesso tempo
è incapace di rappresentare; che è ciò, se non
precisamente lo scetticismo?
Mirabile a dirsi! La deduzione del metafisico, mercé le sue
pretese idee assolute, necessarie, universali, eterne, doveva, essa
sola, poter salvare la scienza dal dubbio; e procacciarle la
consolazione ineffabile della luce sovrumana della evidenza
apodittica, unica guida, a suo dire, sincera, certa e costante tra
le fallacie le contraddizioni, e la vicenda instabilissima delle
fenomenalità; e invece si trova, che conduce direttamente e
immancabilmente allo scetticismo. E come dunque ne scamperà?
L’unico scampo è nella induzione positiva. Il fenomeno
osservato, esso solo, può dare ciò, che invano si va a
cercare nelle idealità ontologiche; la certezza scientifica e
la confutazione dello scetticismo. Ciò che soprá con
lungo discorso, affermammo, qui, con un nuovo argomento,
confermiamo. La dottrina della relatività evita l’idealismo
solo in mano al positivista. Pel quale, essendo l’idea del soggetto,
non un dato primitivo, ma una mera abitudine di considerare certi
pensieri in una certa relazione fra loro e cogli altri, ciò
che si chiama rappresentazione non è, primitivamente ed
essenzialmente, una appartenenza di un soggetto. Ma è una
realtà per se stessa, e che, per essere concepita come tale,
non ha bisogno di essere riferita né ad un soggetto di cui
sia il modo di esistere, né ad un oggetto di cui sia
l’immagine. E quindi il suo valore, come cognizione, non dipende
dalla somiglianza con un oggetto, ma è assoluto. La
cognizione è vera per se stessa. La sua verità non
consiste in una supposta corrispondenza con un termine opposto;
corrispondenza, che, essendo indimostrabile, induce necessariamente
lo scetticismo. Consiste invece nel semplice fatto di essere data.
Le cose che sono per dire nel paragrafo seguente, ultimo del libro,
lo chiariranno ancora meglio.
David Hume, come accennammo nel principio del libro, fece opera di
escludere dalla filosofia ogni ricerca relativa alle essenze e alle
cause. E con ciò fu assai benemerito della scienza. Ma la sua
opera fu, più che altro, negativa. Egli era riuscito a recare
un colpo mortale alle false dottrine del passato, ma non aveva
ancora trovato le nuove. Sicché la cognizione per lui
è rimasta, non quale è realmente e doveva essere
riconosciuta, l’intuizione diretta e propria del vero, come tale, ma
una cognizione semiscettica, in cui la corrispondenza coll’oggetto
è indimostrata e indimostrabile; cioè soltanto una
specie di fede, per la quale, mezzo persuasi e mezzo no, con uno
sforzo della volontà, o per istinto naturale, ci decidiamo ad
affermare ciò, che non si potrebbe dire veramente,
perché si affermi. Ma se, come risulta dalle cose dette
sopra, il positivismo non istà solo nell’escludere dalle
ricerche scientifiche le cose non conoscibili, come ha insegnato
Hume, ma anche, e principalmente, nel procacciarsi una notizia
razionale della materia studiata, si deve dire, che per esso gli
Italiani, nell’epoca della loro filosofia nazionale, cioè
positiva, hanno fatto più che l’Inglese. E ne facciamo qui,
dove cade in acconcio e si può meglio intendere,
l’osservazione, per completare la storia della cognizione
scientifica, lasciata con Hume imperfetta. Gli Italiani, non solo
hanno pronunciato la sentenza negativa: Non credasi a nulla, che non
sia un fatto; ma aggiunsero anche la positiva: Provando e riprovando
si acquista la certezza dei fatti e delle leggi loro. E, mettendo in
pratica, primi di tutti, la regola insegnata, provando cioè e
riprovando, vennero a delle scoperte insperate e maravigliose, e a
delle conclusioni scientifiche verissime, che ammisero, non per fede
e per istinto, ma perché fornite della più schietta e
certa razionalità, a delle conclusioni, dalle quali, per le
nuove vedute a cui dettero luogo nella scienza moderna, si
può ricavare quella dimostrazione della certezza dello stesso
pensiero, di cui abbiamo pur ora parlato.
E da tutto ciò prendo poi anche un augurio per l’avvenire. Io
sono persuasissimo, che la scienza positiva filosofica
sostituirà, come ha fatto ormai da un pezzo la scienza
positiva naturale, da per tutto, i vecchi sistemi a priori. E quindi
anche in Italia; scacciando dalle sue scuole quelle dottrine, o del
medio evo ecclesiastico, o meno antiche d’Inghilterra, Francia e
Germania, che vi si intrusero col venir meno della vita nazionale, o
col prevalervi a suo danno delle influenze papali e straniere. E
facendo rivivere in esse un indirizzo, che in passato fruttò
tanta scienza e tanta gloria, e che si può dire veramente
proprio e caratteristico del senno italiano. E sono persuaso, che
ciò debba tornare di grande vantaggio, non solo all’Italia,
ma alla scienza stessa. Poiché nessuno, se la storia non
mente, ha mostrato di possedere, come l’Italiano, il senso giusto di
quella scienza, il cui pregio principale deve essere il possesso
sicuro della certezza scientifica e l’assenza di ogni dubbio, di
quella scienza, in cui la ragione deve trovarsi autorizzata da se
stessa, proprio come ragione, ad ammettere ciò che ammette
senza bisogno di ricorrere a qualche cosa di puramente autorevole, o
di cieco e fatale, come sarebbe la natura e l’istinto.
Non ho finito di additare i punti scientifici, che si possono,
già a quest’ora, illustrare mediante i pochi dati empirici,
che servono di base alla psicologia positiva. Come ho promesso, ho
da parlare ancora di una veduta filosofica importantissima, per la
quale la varietà e la moltiplicità infinita dei
fenomeni naturali si può ridurre ad un concetto semplice, che
ne rappresenta l’unità sotto i vari aspetti della
consistenza, della successione e della somiglianza. Veduta nella
quale, come si avrà uno svolgimento ulteriore ed insperato
dei nostri principi, troveremo anche una nuova conferma ed una nuova
delucidazione di essi. E insieme un’altra prova della
fecondità di quelle modestissime nozioni di fatto, dalle
quali partiamo; un’altra prova, che il metodo, che si fonda su di
esse, come molte volte abbiamo affermato, non riduce la filosofia ad
un meschino empirismo, ristretto alla semplice fisica della
sensazione, e chiuso interamente alle concezioni divine del vero,
del bene, dell’essere. Nel paragrafo precedente, uscendo dai limiti
strettamente psicologici, ed entrando coi detti nostri pochi dati
empirici proprio nel cuore della logica e dell’etica, mostrammo
quanto siano atti a spargere luce anche in quelle materie. Nel
presente non dubiteremo di metterli alla prova nel campo stesso
della ontologia, la disciplina metafisica per eccellenza. E speriamo
non senza risultato. E, allora, a quelli che, parlando di
positivismo, lo fanno con una grande compassione, e sentenziano, che
al più gli si può, per grazia, concedere una qualche
piccola parte secondaria della psicologia empirica, e che, quanto
alla filosofia propriamente detta, non vi si potrà fare
strada mai in nessun modo, per confutarli, daremo una sola risposta.
Una risposta semplicissima; la risposta del fatto.
Quale, in generale, si crede, che sia l’ultima parola della
filosofia positiva, circa la natura del pensiero e la sua relazione
colla realtà materiale? Quella, che è espressa nelle
seguenti parole di J. Lyndall e di W. Griesinger. Il Tyndall, in una
sua lezione, sulle forze fisiche e il pensiero, discorre così
sull’argomento indicato: "Ogni atto di coscienza, sia poi una
sensazione, o un pensiero astratto o un affetto, corrisponde ad un
certo determinato stato molecolare del cervello. Sempre ha luogo
questa relazione tra la fisica e la coscienza; in modo che, dato lo
stato del cervello, se ne potrebbe dedurre il pensiero e il
sentimento; e viceversa, dato il pensiero o il sentimento, se ne
potrebbe dedurre lo stato del cervello. Ma come fare questa
deduzione? Poiché l’aggruppamento delle molecole, onde i
materialisti vogliono spiegare tutto, in realtà non ispiega
niente". E il Griesinger, nel suo trattato delle malattie mentali,
scrive: "Oscillazioni, vibrazioni, elettricità, forza
meccanica, tutte codeste cose non sono uno stato dell’anima, o un
pensiero. Ma come questi fatti possono trasformarsi in atti
spirituali? Questo problema resterà sempre insolubile per
l’uomo sino alla fine dei tempi; e io credo, che, se un angelo
discendesse dal cielo per ispiegarci questo mistero, il nostro
spirito non sarebbe capace neanco di comprenderlo".
Ma io dico, che è un errore il credere, che la filosofia
positiva non possa giungere a vedere oltre il punto indicato nei
passi citati. Io dico, che il mistero della relazione, tra
ciò che si chiama stato molecolare o condizione materiale in
genere e pensiero o sentimento corrispondente ed equivalente, noi
siamo capacissimi di comprenderlo; che possiamo farlo da noi, senza
che venga nessun angelo a spiegarcelo; e oggi stesso, assai prima
della fine dei tempi. E in che modo? Col dimostrare che il problema
stesso, che si considera affatto insolubile umanamente, non
può essere posto nei termini enunciati, mentre il farlo
è già per sé un’assurdità. La
relatività (per adoperare la solita parola convenzionale
della scienza) non è mica propria di alcune idee soltanto;
è di tutte. Non è propria soltanto di quelle, che si
pensano corrispondere alle cosidette qualità secondarie, ma
anche di quelle, che si riferiscono alle primarie. Non ha luogo
soltanto, quando parlo di colori, di suoni, di temperatura, e
simili; ma anche quando parlo di estensione, di solidità, di
divisibilità, di mobilità, di tempo, e via
discorrendo. Se il suono, per modo d’esempio, è, come tale,
essenzialmente un pensiero, e non una realtà distinta da
esso, è pure essenzialmente un pensiero l’esteso e tutto
ciò, che facciamo entrare nell’idea della materia. Per cui
chi confronta il suono percepito psichicamente colla
materialità, sia del corpo sonoro, sia dell’organo auditivo,
sia del cervello, non confronta infine che due pensieri. E il
domandare, in che modo tali materialità, che si concepiscono
come produttrici del suono, si possano trasformare in esso,
cioè in un pensiero, o, come si dice, in un fatto spirituale,
non ha più senso, perché sono già esse, le
dette materialità, dei fatti spirituali, per adoperare la
frase solita. Certo che le note della materialità sono atti
psichici speciali diversi da quelle altre che si concepiscono come
pensieri puri; ma sono tuttavia sempre atti in tutto e per tutto
psichici anch’esse. E quindi, come comprendiamo in un solo genere,
cioè nel genere degli atti psichici, tutte quelle altre,
malgrado le specialità e varietà loro, così
possiamo, anzi dobbiamo, comprendervi anche queste. E così
dove trovare più un termine opposto da contrapporre e
paragonare col psicologico, o spirituale, che dir si voglia? Fu
dunque una semplice illusione quella, che ha fatto porre il problema
sopra enunciato, e che l’ha fatto considerare siccome insolubile,
anzi siccome un vero mistero sovrintelligibile. Fu l’illusione,
della quale abbiamo parlato molte volte, di credere primitiva ed
essenziale la distinzione fra l’interiorità e
l’esteriorità della coscienza. L’opposizione, in cui stanno
per noi le note della materialità con quelle del pensiero in
genere, dipende, non già dall’essere le prime per sé
oggettive, e le altre soggettive, ma da una nostra abitudine
solamente. Cioè, creato, nel modo più volte accennato
e che spiegherò più compiutamente e più
chiaramente a suo tempo, il mondo di dentro e quello di fuori, ci
siamo avvezzati a riferire le une a quello e le altre a questo.
Il fatto adunque della relazione tra ciò, che si chiama stato
molecolare o condizione materiale in genere, e pensiero o sentimento
corrispondente ed equivalente, non può essere il soggetto di
un problema speciale. Se si dà un problema per la detta
relazione, esso non può essere, che quello generico, e che si
pone da per tutto, anche fuori della psicologia; cioè il
problema della causalità universalmente presa. Vale a dire,
non di cercare, come un essere appartenente ad un mondo speciale
possa influire sopra un essere di natura affatto diversa, ed
appartenente ad un mondo esterno al primo e quindi, in certa guisa,
soprannaturale ad esso; ma semplicemente, come dei fenomeni
riducibili, per le comuni somiglianze, alla stessa generalità
mentale, o natura, se si vuol dire così, possano e debbano
coesistere e succedersi tra loro. Pel fisico tutti i fenomeni, sui
quali è diretto il suo studio, appartengono al medesimo
mondo, cioè a quello della materia; che è quanto dire,
che in tutti si riscontrano le note della materialità.
Così nel caso nostro, avendo trovata la natura psicofisica
comune ai fenomeni distinti coi nomi di pensieri e di stati
fisiologici, quando confrontiamo gli uni cogli altri, non passiamo
da un mondo ad un altro, ma restiamo sempre nello stesso. Si
insisterà dicendo, che il caso è diverso,
perché, dove nel mondo fisico si capisce la relazione tra le
condizioni coesistenti di una cosa e tra la causa e il suo effetto,
qui invece la relazione tra lo stato fisiologico e il pensiero resta
sempre misteriosa? Inutile e vana insistenza; ché la
differenza, che si crede di notare fra i due casi, è un puro
inganno. Sì; è vero che è impossibile di
intendere, come da un movimento meccanico, per esempio, nasca un
pensiero. Anzi il positivista una simile ricerca non la fa neanche.
È una ricerca di essenze e di cause, che egli lascia
interamente e senza nessuna invidia al metafisico, e colla certezza
che perde nulla a cederla tutta a lui. Ma la impossibilità in
discorso non è speciale al caso del mondo psicofisico;
è una impossibilità, che si incontra, tale e quale, in
tutta la natura. Sopra ne abbiamo detto abbastanza, perché
non resti su ciò alcun Dubbio. Da per tutto le correlazioni
di coesistenza e di successione dei fenomeni sono per noi
correlazioni a posteriori; non si affermano in virtù di
essenze o cause efficienti, onde si sappiano dipendere
necessariamente; ma solo in virtù della osservazione
empirica, che ce la dà sempre in un dato modo, piuttosto che
in un altro.
Né si dica, che, nell’esempio citato delle palle da
bigliardo, avendosi un movimento, tanto nella impellente, quanto in
quella che riceve l’impulso, si può capire, come il fenomeno
effetto nasca dal fenomeno causa per la ragione, che non occorre per
ciò, se non immaginare un travasamento del movimento dall’una
nell’altra, un travasamento richiedente solo delle modificazioni
nella sua direzione o celerità. Lascio da parte le
considerazioni fatte sopra, per le quali apparisce che il fenomeno
in discorso non è così semplice, come si supporrebbe
qui. E che l’urto, mediante il quale propriamente nella comune
apprezziazione si crede di dar ragione del travaso del movimento da
corpo a corpo, potrebbe non essere ciò che volgarmente si
crede, un vero contatto del corpo urtante coll’urtato. Soltanto
ripeterò le parole soprariportate di Laplace, che dice,
parlando delle leggi dell’inerzia e della forza proporzionale alla
velocità: "Ecco due leggi del movimento date dalla
osservazione. Esse sono le più naturali e le più
semplici che si possano immaginare, e senza dubbio derivano dalla
natura della materia, ma, questa natura essendo affatto sconosciuta,
tali leggi per noi non sono che dei fatti osservati". E farò
notare, che ciò che dice Laplace delle due leggi accennate si
può dire anche del fatto del travaso del movimento dall’un
corpo all’altro; che si sa che avviene, solo perché si
è sempre osservato avvenire, e non perché si sappia
dalla natura stessa del corpo, che debba necessariamente avvenire. E
ricorderò da ultimo quello che ho detto altrove, parlando
delle forze fisiche, e dimostrando che esse si riducono tutte alle
meccaniche, cioè precisamente a quel concetto della
causalità, in cui non si tiene nessun conto della essenza dei
corpi, e secondo il quale si sa soltanto, che certi fenomeni (senza
sapere perché) si collegano costantemente con certi altri. E
quindi conchiuderò all’impossibilità di intendere
anche il fenomeno della trasmissione del movimento nell’esempio
addotto, e alla parità, sotto l’aspetto qui considerato, tra
esso e il fatto della conversione del movimento in pensiero.
Ma, si domanderà ancora: E non si dice dunque una cosa
giusta, quando si afferma, che, coll’applicare tanto al fenomeno
causa quanto al fenomeno effetto la stessa idea, le stesse leggi del
movimento, la relazione dei due fenomeni tra loro si spiega meglio,
che quando, per esempio, nel fenomeno causa si avesse del movimento
e nel fenomeno effetto del calore, nel senso fisico vecchio, ossia
una cosa che non è movimento? E che, quindi, se la fisica
dimostra che il calore prodotto da un movimento è esso stesso
un movimento, fa, con ciò, un vero progresso, perché
arriva per tal modo a spiegare la produzione del detto calore?
Verissimo, rispondiamo. Quando due o più cose, due o
più fatti si possono ridurre sotto la medesima nozione o
legge, con ciò si spiegano. Sì; è appunto
quanto abbiamo stabilito sopra, parlando della cognizione
scientifica. Ma che è poi una tale spiegazione? Forse la
scoperta del come la causa, in quanto se ne conosce la essenza e si
conoscono le ragioni assolute della sua attività, produce il
suo effetto? No certo. Ciò che si dice essere la spiegazione
del fatto non è altro infine, se non la somiglianza loro,
data, non da un ragionamento a priori, ma unicamente dalla
osservazione, in modo che, se si ritiene, lo si fa solamente in
forza della osservazione, che l’ha data. Né si creda, che una
tale spiegazione non si abbia anche per le relazioni tra il
movimento fisiologico e il pensiero conseguente. Poiché e
l’uno e l’altro, come abbiamo detto poco fa, cadono sotto la
medesima nozione generale degli atti psichici. Come apparirà
con tutta la evidenza, quando, in un altro lavoro esporremmo la
genesi psicologica dell’idea del movimento.
Anzi si può oramai dire di più ancora. Si può
dire, che il movimento fisiologico e il pensiero conseguente
convengono fra loro, non solo per una idea di genere, cioè in
quanto l’uno e l’altro sono atti psichici, che sarebbe una
spiegazione analoga all’altra, che il movimento del martello
battente e il riscaldamento dell’incudine battuta sono due atti
fisici; ma anche per una vera idea di specie, cioè in quanto
l’uno e l’altro si riducono ad una unica specie di tali atti; con
che si darebbe una spiegazione, che equivale perfettamente a quella,
che presenta il movimento del martello battente, e il riscaldamento
dell’incudine battuta, non come due fenomeni fisici diversi, ma come
due movimenti. Ciò si può già desumere da
quanto abbiamo accennato sopra, parlando circa gli elementi degli
elementi della sensazione. Ma apparirà assai più
chiaramente da quanto siamo per esporre sulla fine del libro.
Il grande problema adunque, che si dava per insolubile
assolutamente, resta per tal modo sciolto; anzi per dir più
giusto, tolto di mezzo. Ma il principio, onde siamo riusciti a
farlo, cresce poi ancor più di importanza, se si guarda ai
corollari, che se ne possono trarre. La fallace dottrina della
diversità assoluta del senso dall’intelletto, che tanto e
indarno affaticò, sia per sostenerla, sia per combatterla,
tutti si può dire i filosofi, è fondata, non tanto,
come si crede universalmente, sui caratteri di universalità e
di necessità attribuiti all’astratto ideale, quanto sulla
illusione, che ha condotto a porre il problema suenunciato, e contro
la quale fin qui abbiamo ragionato. Quella illusione, per cui
ciò, che si chiama la materia, o il di fuori, o l’oggetto,
apparisce l’opposto del pensiero; sicché si pensa, che la
cognizione non possa aver luogo, se non quando, presentato dal senso
l’oggetto, per sé inconoscibile per non essere ritenuto una
mentalità, l’intelletto lo rivesta, lo compenetri, lo
illumini della sua idealità. Un modo di vedere siffatto lo
troviamo nello stesso Kant; cosa, che per me fa più
meraviglia assai, che incontrarla in un filosofo dei nostri giorni,
come il Rosmini. Ma, se l’esteso è, come dicemmo, una
mentalità, né più né meno di ciò
che si chiama pensiero puro, quale bisogno più di avere, da
una parte il senso che dia l’oggetto esteso, e dall’altra
l’intelletto che lo rischiari e lo renda conoscibile colla sua luce
ideale? E quante questioni insolubili restano così eliminate
con una semplice riflessione, che ci guarisce dalla illusione che le
faceva nascere!
Se non che qui è da avvertire, che, colla mentalità
così concepita, il processo discorsivo del pensiero, onde
esso va procreando le varie cognizioni e ne fa risaltare la
intrinseca evidenza certificante, non è più dalla
generalità al fatto singolo, dal soggetto alle sue
proprietà e condizioni, ma precisamente il contrario. Il
metafisico fa dipendere la realtà e la verità del
fatto dalla realtà e dalla verità dell’idea; la
realtà e la verità della qualità sensibile
dalla realtà e dalla verità della sostanza, a cui si
riferisce. Ecco il mondo dei filosofi; ma è il mondo a
rovescio. La realtà e la verità è la sensazione
considerata ne’ suoi elementi. E nient’altro fuori della sensazione.
E la sensazione non è una generalità ideale, ma un
fatto singolo; non è una sostanza, ma una qualità.
Dico, che la realtà e la verità è la
sensazione, in quanto essa è un fatto reale, e del quale noi
siamo consapevoli a noi stessi; sicché l’atto, col quale la
sensazione ha l’esistenza o si afferma nella nostra coscienza,
è l’atto pel quale in essa si pone il reale ed il vero.
L’affermazione, onde la sensazione si pone nella nostra coscienza,
è per noi una affermazione assoluta; e ci è affatto
impossibile negarne o dissimularcene in nessun modo l’esistenza, il
valore, la portata. Nel mondo dello spirito la sensazione, come dato
reale e vero, ha la stessa assoluta indestruttibilità, come
l’atomo materiale nel mondo fisico. Dico ancora, che la
realtà e la verità è la sensazione, e
nient’altro fuori della sensazione, in quanto fuori di essa
null’altro è nella nostra coscienza, ossia nella nostra
cognizione. E ciò che vi incontriamo, che, al primo aspetto,
pare altra cosa (una generalità, una sostanza), nel fondo non
è che una associazione di sensazioni; e il suo valore, come
realtà e verità, è determinato, non dalla sua
forma, come associazione o costruzione mentale (per somiglianza, per
consistenza, per successione), ma dalla realtà e
verità delle singole sensazioni componenti; come il peso di
una costruzione in pietra o in ferro non dipende dalla forma, data
alla pietra ed al ferro dall’arte, ma dal peso, che hanno in
sé, per natura, le singole pietre, i singoli pezzi di ferro.
La qualità, secondo i metafisici, non solo non è una
realtà per sé, ma non si può neanco concepire
esistente senza un soggetto, a cui si riferisca; e nel quale,
perché possa aderirvi, è necessario, che sia
richiesto, o almeno consentito, dalla misteriosa essenza di esso.
Ora vero è, come dicevamo, il contrario; e all’uomo è
possibile di parlare di soggetto, di sostanza, di essenza, solo
mercé quelle, che si chiamano le qualità; che sono poi
le stesse sensazioni. Avendo queste, se ne può comporre anche
quel tutto, che si nomina, il soggetto. Non avendole, non si
avrà mai neanco il soggetto. Perché il soggetto non
è altro infine, che l’insieme delle cosidette qualità
sensibili; e la realtà e verità di esso non è
altro propriamente, che la realtà e verità delle
singole qualità sentite. Le quali perciò, come abbiamo
dimostrato nel corso del libro, quali elementi dati dalla natura e
imposti con indeclinabile necessità alla coscienza, sono
assolutamente fisse ed immutabili, mentre il soggetto, quale
prodotto dell’associazione mentale, è instabile, e segue il
processo e le fasi del lavoro soggettivo. E tale verità, da
noi tante volte ripetuta, qui viene a brillare di nuova luce e a
ricevere una nuova conferma, per la ragione più elevata, alla
quale possiamo oramai riferirla.
Lo stesso dicasi del rapporto tra l’idea generale e il fatto, o la
cosa particolare. L’idea, come idea, cioè come pura
mentalità, astratta e divulsa dal fatto, come tale,
oltreché instabile e oscillante eternamente tra una
generalità superiore ed una inferiore e senza contorni
precisi mai, per le varietà che vi portano i particolari, che
ora si aggiungono ed ora si tolgono nell’associazione comparatrice,
non è poi per sé, né reale, né vera.
È quella rappresentazione, che non si riferisce, né
all’oggetto attualmente sentito, né all’oggetto, che si
ricordi come sentito altra volta, che gli scozzesi chiamavano,
semplice apprensione. E quindi, se la mente dice reale e vera
un’idea, è solo perché nella sua operazione astrattiva
non ha ancora fatto gettito della realtà, onde è
partita; non l’ha dimenticata e l’ha serbata come nota integrante
del concetto generale che ha formato. In modo che la realtà,
che per avventura si afferma dell’idea, è pur sempre la
stessa realtà del particolare, non perduta di vista nel
processo della generalizzazione.
Del Vero noi discorriamo così perché siamo positivi.
Noi cioè discorriamo del Vero in quanto è un fatto
umano. I metafisici invece pretendono di fare assai più; essi
pretendono di parlare di un altro Vero; di un Vero che trascende
l’uomo e le cose. Vana pretesa; di quest’altro Vero essi non hanno
mai potuto vedere né orma, né traccia; mentre, che si
sappia, sono sempre restati uomini. E quello che essi chiamano il
Vero trascendente ed assoluto è ancora inesorabilmente lo
stesso Vero dell’uomo; solo che, per ingrandirlo e portarlo al di
fuori e al dissopra di esso, ne hanno fatto una caricatura, o una
assurdità. Per convincersene basta esaminare la dottrina dei
teologi sulla verità, come la pongono in dio. San Tommaso
d’Aquino, per citarne uno de’ più insigni ed autorevoli,
insegna che dio è un essere sommamente intelligente; che
quindi egli conosce, anzi comprende perfettamente, se stesso e tutte
le cose; e che ha le idee necessarie a tale conoscenza; non
particolari, ma universali; non molte, ma una sola, cioè
quella, onde intende se stesso. E che poi siffatta idea divina,
unica e generalissima, è in dio lo stesso intendere suo; e
l’intendere, la sostanza di esso; e che tale sostanza è
reale, anzi la realtà per eccellenza. In una parola, che in
dio il maggior grado possibile di universalità ideale
coincide col maggior grado possibile di concretezza reale. Ossia un
assurdo perfetto. Chi parla di conoscere e di idee, di astratto e di
concreto, di mentale, e di reale, parla in sostanza non d’altro, che
di quei fatti umani, onde ciascuno di noi ha esperienza. Di quei
fatti, onde il psicologo conosce le leggi e le proprietà.
Dovunque e comunque si applichino quei fatti, perché
l’applicazione ne sia ragionevole ed abbia senso, è
necessario farla, salve le leggi e le proprietà loro
già conosciute. Così, in un altro ordine di cose,
può benissimo l’astronomo applicare i fatti della
gravità, sperimentati vicino a lui in terra, anche molto
lontano, in cielo. E nulla vieta, che, trattandosi di distanze, di
grandezze, di velocità infinitamente maggiori, ingrandisca
infinitamente anche le proporzioni dei fatti stessi. Ma senza
alterarne le leggi. Il far ciò sarebbe la più grande
stoltezza, che potesse commettere uno scienziato. Secondo ciò
che abbiamo dimostrato, le due parole, realtà ed
idealità, significano nel fondo la stessa cosa; cioè
il fatto del sentire. Significano questo fatto, e null’altro. Ma
sotto un aspetto diverso. Quando si dice, realtà, si intende
il fatto in se stesso, ossia come oggetto. Cioè il fatto,
come è dato nella sensazione, nella quale, sia che si
consideri isolato, sia che si consideri unito ad altri coesistenti o
succedenti, apparisce nella sua particolarità e
singolarità. Sicché la realtà va colla
particolarità. Più è la particolarità e
più è la realtà. Quando invece si dice,
idealità, si intende il sentito, non in quanto è un
fatto in se stesso, ma in quanto è concepito, come lo stato o
l’affezione del soggetto. E il sentito tanto più è
concepito come uno stato o una affezione meramente soggettiva,
quanto più perde della sua oggettività, ossia quanto
più diventa e indeterminato e generico. Onde
l’idealità cresce col crescere della astrattezza della
rappresentazione. Ne viene quindi, che, nel senso che si dà
nel nostro discorso delle due parole realtà e
idealità, esse stanno fra loro in senso inverso, e che quindi
il dire, che, dove è somma la idealità è pur
somma la realtà, è una contraddizione nei termini.
Contraddizione, che, come dicevamo, brilla nella dottrina enunciata
di S. Tommaso e dei teologi sulla verità, come la pongono in
dio. Altrettanto e più potrei dire delle dottrine filosofiche
analoghe dei metafisici. Dell’Ente, contrapposto all’Esistente,
Gioberti e i dualisti, dell’Essere in genere i panteisti, come
Hegel, dicono presso a poco ciò che dice S. Tommaso di dio.
Cioè vi hanno portato una verità, che ebbero
l’illusione di credere più vera del Vero mentre non è
che quella presa dall’uomo, messa per giunta in caricatura. E hanno
detto, che ivi la massima possibile universalità ideale
conviene colla massima possibile determinatezza reale. Cioè
il più solenne degli assurdi. Meglio dunque restar positivi,
e contentarsi di un Vero più umile, vale a dire di quello che
non è, se non un semplice fatto umano.
Qui, prima di perdere di vista le idee enunciate, cade in acconcio
di fare una osservazione, che spiegherà e
giustificherà un detto da noi più volte ripetuto, e
sarà un’altra prova della eccellenza del nostro metodo, e
della verità delle nostre induzioni. Parlando della materia,
e anche dello spirito, abbiamo asserito, che sono meri astratti
mentali, che noi oggettiviamo, ossia consideriamo, come delle
realtà per sé, e indipendentemente dal nostro
pensiero, e di tale oggettivazione non abbiamo detto se non, che
è un processo reale della nostra mente. In seguito, ottenuto
per le vie induttive l’astratto superiore dello schema psicofisico,
abbiamo soggiunto, che lo ritenevamo come una realtà vera,
come avevamo fatto per gli altri due astratti. Or bene; se allora,
per legittimare le oggettivazioni in discorso, ci siamo rimessi al
fatto psicologico, che ce lo attestava, adesso possiamo giustificare
il detto fatto, spiegandolo e dimostrando in che modo debba essere
inteso, è per un arbitrio ingiustificabile, è per una
illusione, vincibile, o è per una ragione logica solida, che
si dà, per esempio, all’astratto, materia, una realtà
oggettiva? È evidente darsi per una ragione logica
solidissima. I dati particolari, sui quali è fondata
l’astrazione, sono reali. Se nel processo astrattivo si mantiene
sempre la determinazione ossia la nota della realtà, questa,
può e deve essere ancora affermata, insieme alle altre note
serbate, a quel qualunque grado di astrazione, a cui facciamo sosta.
Per cui c’è dell’improprietà nella espressione: La
mente oggettivizza l’astratto, materia. Sarebbe più giusto
dire: La mente non desiste dal considerare come reale l’oggetto del
suo lavoro astrattivo.
Spiegando così il fatto della oggettivazione, lo
giustifichiamo; non solo, ma ne diamo il valore vero. C’è una
grandissima differenza tra la realtà, che si ha nel fatto, e
quella, che si riconosce nell’astratto. Ciascun fatto è un
reale per sé; la sua realtà è individua; non si
può, né allargarla, né restringerla, senza
distruggerla. L’astratto è reale per partecipazione, ossia in
grazia del puro fatto particolare. La sua realtà la possiede,
perché sia quel dato astratto. Non verrebbe meno perdendo
della sua astrattezza, cioè facendosi più speciale, o
aumentandola, cioè facendosi più generale. Ecco
perché, affermata la realtà delle diverse
qualità dei corpi, la realtà stessa rimane, anche
facendo scomparire i corpi molti e vari per averne la unica materia,
che li assorbisce tutti nell’essere suo più generico; ecco
perché, affermata la realtà della materia, come tale,
dello spirito, come tale, noi abbiamo potuto, senza perdere la
realtà, fondere i due concetti in quello psicofisico. Nel
quale, se scompaiono le specialità distinte della materia e
dello spirito, a quello stesso modo che, nell’idea della materia, si
offuscano le differenze del corpo solido, del liquido e
dell’aeriforme, resta però sempre la nota della
realtà; sicché possiamo a tutto diritto parlare, non
solo di concetto psicofisico, ma anche di sostanza psicofisica.
Ed ecco anche una luminosissima conferma dei nostri principi. Il
fatto ha una propria realtà per sé. Una realtà
inalterabile, una realtà che siamo costretti ad affermare
tale quale è data e la troviamo; coll’assoluta
impossibilità di toglierne o di aggiungervi nulla. Dunque il
fatto è divino; come sentenziammo sopra una volta, Vincendo
ogni timore ed ogni esitazione di farlo, quantunque ai più
suoni la sentenza verissima, come una bestemmia. E l’astratto invece
lo formiamo noi; possiamo formarlo più speciale o più
generale, di una varietà o di un’altra, come vogliamo.
Dunque, come soggiungevamo, l’astratto, l’ideale, il principio,
è umano. E quindi, come il fatto è nella cognizione e
nella scienza il termine fisso e da cui si deve partire, così
l’astratto (e quindi anche il cosidetto soggetto dei fatti) è
un termine a cui si può arrivare; ma un termine
instabilissimo che può essere riformato ed oltrepassato.
Ma qui io devo, prima di passare all’ultima conclusione del libro,
rendere ragione di una apparente contraddizione, che si trova tra
questa parte di esso, nella quale affermo, che anche le note della
materialità vanno comprese nella generalità degli atti
psichici, ossia sono nostri pensieri, e che quindi l’essere tutto
quanto, per ciò che ne sappiamo, si riduce al dato psichico
della sensazione, e quell’altra, in cui abbiamo considerato, come
distinto, il genere dei fenomeni psichici o interni, sintetizzati
nell’idea dello spirito, dal genere dei fenomeni non psichici o
esterni, sintetizzati nell’idea della materia; e tanto, che, invece
di far entrare questi ultimi nel genere di quegli altri, come
sarebbe convenuto, stando alle cose dette in quest’ultimo paragrafo,
abbiamo cercato la sintesi loro in un terzo concetto; cioè
nel concetto della sostanza psicofisica, che non è
propriamente, né lo spirito né la materia; e quindi,
l’essere, lo facemmo consistere in essa, terza sostanza.
Le due parti non si contraddicono; ma si illustrano e si completano
l’una per l’altra. In fondo il risultato ottenuto per la seconda
delle due vie differenti è identico al primo. Qui abbiamo un
esempio di ciò che avviene sempre nella ricerca induttiva. Si
può partire da analisi diverse della realtà, ed
arrivare alla conclusione medesima. Ed è un argomento
fortissimo della bontà di esso metodo, e della verità
delle conclusioni, a cui conduce. Salendo alla sostanza psicofisica,
non siamo usciti menomamente dal genere dei dati psichici della
sensazione, poiché questa sostanza psicofisica non è,
che la sintesi dei fatti interni ed esterni, che tutti, come
mostrammo, sono dati della sensazione. Soltanto, ponendo la sostanza
psicofisica, abbiamo trasceso l’idealismo; cioè abbiamo
indicato, che, se il contenuto della nostra cognizione in fine dei
conti è il solo dato psicofisico della sensazione, questo
dato però non è essenzialmente soggettivo, come dicono
gli idealisti, e come potrebbe parere, stando semplicemente a quanto
ci è occorso di dirne nel paragrafo presente; ma è
indifferentemente soggettivo ed oggettivo; è anteriore a
ciò che si chiama io, e non io; ossia diventa o l’uno o
l’altro per quel meccanismo del processo conoscitivo, a cui molte
volte abbiamo fatto allusione, e pel quale il sensibile ora ci
appare interno ed ora esterno.
Così, come dicevamo, la sintesi superiore dei fatti dei due
ordini, fisico e morale, induttivamente ottenuta, ci dà un
concetto dell’essere, che coincide sostanzialmente (ma senza lo
svantaggio della illusione idealistica) con quello che si trae
dall’analisi degli atti della coscienza. Che se tale coincidenza di
risultato dei due differenti processi induttivi ci arreca,
nell’avvertirla, una forte compiacenza mista di sorpresa, ciò
poi, che non si può senza immensa maraviglia considerare, si
è che, per la via dell’induzione, cioè di un metodo,
che va senz’ala si arrivi a quella unità dell’essere
trascendente ed abbracciante il me e il fuori di me, a
quell’assoluto, se così piace chiamarlo, veramente positivo e
reale, a quell’EN KAI PAN al quale indarno aspirarono, malgrado
l’ingegno divino e gli sforzi maravigliosi, i più grandi
filosofi aprioristi.
Alessandro di Humboldt finisce, come tutti sanno, il suo grande
quadro del Cosmos, arrestandosi, come egli dice, al limite ove
incomincia la sfera dell’intelligenza, e donde allo sguardo si
presenta un mondo diverso; limite che egli segnala, ma non ardisce
varcare. E ciò perché non gli venne fatto di uscire da
quell’ordine ristretto di idee, in cui vedemmo sopra aggirarsi, con
tutti si può dire i psicologi, anche empirici, fino ad ora,
Griesinger e Tyndall. Ma allo sguardo, audace insieme e sicuro, del
filosofo positivo, che abbia trovato il modo di trascenderlo, e di
mettersi ad osservare le cose da un punto di vista assai più
elevato, scompaiono, come per incanto, le barriere, che pareva
dividessero insuperabilmente la natura dall’intelligenza. E le due
sfere, credute fino ad oggi, come a dire, soprannaturali l’una
all’altra, non ne fanno più che una sola, e l’intelligenza
apparisce anch’essa, al pari di tutte le altre cose, vera e pretta
natura.
Diciamo, che il filosofo positivo può già essere in
grado di abbracciare in un solo concetto il mondo fisico e quello
del pensiero. Ma non per una delle solite illusioni dei metafisici,
che più volte credettero, sognata qualche vuota e strana
astruseria, di esser giunti, per essa, a disvelare l’arcano della
essenza e della causa delle cose. Il concetto sintetizzante del
positivista non riguarda menomamente tale arcano, che egli sa e
dichiara altamente essere affatto impenetrabile. Egli l’ha ottenuto
applicando allo studio del pensiero quel metodo medesimo, che i
naturalisti, ed Humboldt stesso seguirono nello studio della natura
materiale. Quel metodo, che indicammo fino dal principio del libro,
e che consiste nell’osservare i fenomeni e nel rilevarne la
somiglianza, la consistenza e la successione. Le forme dei fenomeni,
studiate nelle loro somiglianze, hanno lasciato vedere, al disotto
di sé, una forma fondamentale unica, che le genera tutte, per
quanto varie all’infinito, colla semplice sua reduplicazione. Dallo
studio dei fenomeni coesistenti risultò, che gli esseri in
apparenza più diversi ed opposti costituiscono un ordine
unico di cose. Ed un congegno unico di forze, malgrado la
difformità e contrarietà apparente, si
manifestò pure dallo studio delle successioni dei fenomeni
dovunque e comunque osservate. Di qui, e solo di qui, il filosofo
positivo trasse la sua conclusione, che tanto il mondo della materia
quanto quello del pensiero si comprendono nello stesso concetto
della natura, sia che vi si consideri la forma dell’essere, o
l’ordine delle cose, o il congegno delle forze.
Ho detto in primo luogo, che le forme dei fenomeni studiate nelle
loro somiglianze hanno lasciato vedere al disotto di sé una
forma fondamentale unica che le genera tutte, per quanto varie
all’infinito, colla semplice sua reduplicazione. E in vero, tutto
ciò che si conosce del mondo fisico si riduce a delle pure
fenomenalità, come dimostrammo nella seconda parte del libro.
E a pure fenomenalità si riduce del pari tutto ciò che
si conosce del mondo del pensiero, come dimostrammo nella terza. E,
siccome ciò che si dice la percezione del fenomeno esterno,
è per sé un atto in tutto e per tutto soggettivo o
psichico, e non contiene nulla che sia altro da ciò, come fu
insieme più volte spiegato, così la
fenomenalità esterna, ossia il mondo fisico, in quanto
è da noi conosciuto (e non è ragionevole parlarne se
non in quanto è conosciuto), viene ad essere un semplice atto
psichico, ovvero un nostro pensiero, ne più ne meno della
fenomenalità della coscienza. E così resta stabilito,
che, per la cognizione, non esiste, che un solo grande genere di
oggetti conosciuti e conoscibili; il genere degli atti psichici.
Genere però diviso nelle due grandi specie, degli atti
relativi al mondo esterno, e di quelli relativi al mondo interno. Se
non che una osservazione più inoltrata e profonda, come
accennammo, ripetutamente, ci rende accorti, che tale divisione non
è assoluta, e non rappresenta punto una differenza
fondamentale nella natura dei e dei secondi. Ci rende accorti, che
la differenza è fatta e non nata; e che è un puro
effetto del lavoro e dell’esercizio cogitativo, onde si ingenera
l’abitudine di associarti e quindi di riferirli diversamente. Tanto
che quelle, che nella coscienza adulta appariscono due specie
distinte di atti, in sé e nella coscienza primitiva, ossia
prima che vi siano formate le idee del me e del fuori di me, e
l’abitudine di associare le sensazioni, quali a questo, quali a
quello, in realtà costituiscono una specie unica di atti. Una
specie unica di atti, che, precedendo, in quanto unica, quello stato
della cognizione nel quale il mondo dell’intelligenza è
distinto dal materiale, e costituendo quella realtà, che
è atta ad atteggiarsi, ora come realtà fisica, ora
come realtà psichica, abbiamo designato col nome di specie o
di realtà psicofisica. Ora, siccome gli atti in discorso, dai
quali emergono tutte le rappresentazioni, per quanto molteplici e
varie, relative al me e al fuori di me, sono quelli che si chiamano
le percezioni dei diversi sensi, così queste percezioni, ed
esse solamente, sono gli elementi psichici, o più
propriamente psicofisici, comuni, che costituiscono gli oggetti
conosciuti dal pensiero, vale a dire tutte le fenomenalità,
tanto le fisiche quanto le mentali.
A questo punto l’analisi psicologica positiva riesce, per la
realtà psicofisica, ad una conclusione analoga affatto a
quella, a cui è riuscita l’analisi chimica, per la cerchia
più ristretta della realtà materiale. Gli antichi
ammettevano quattro diverse nature materiali: la terrosa
assolutamente pesante, la ignea assolutamente leggera, e le altre
due intermedie, l’acquea e l’aerea. Oggi la chimica, in terra ed in
cielo, nei minerali solidi e gazosi e nei corpi vivi vegetali ed
animali, non riconosce più che una specie sola di materia,
cioè la materia pesante. Solo che, invece di quattro sole
forme elementari, ve ne riscontra oltre sessanta. Così la
psicologia. Non più due mondi diversi, il mondo della
coscienza e quello della natura; e in ciascuno più specie di
cose tra loro opposte, come nella natura la materia e la forza, e
nella coscienza il senso, l’intelletto, il volere, e via
discorrendo; ma un mondo solo, il psicofisico, formato di una specie
unica di elementi, cioè delle sensazioni, senz’altro. Le
sensazioni però, non cinque sole, come si diceva una volta,
ma un numero assai più grande, come dimostrerò a suo
tempo. Ma la chimica, come sappiamo, non si arresta ormai più
ai detti moltiformi elementi; e si sente da molte ragioni condotta a
supporre, che quegli stessi numerosi elementi che ha trovato
nell’analizzare i corpi naturali, non siano poi altro che
altrettante combinazioni variate di monadi materiali primitive,
tutte uguali fra loro. Tanto che le varietà infinite dei
corpi, e le proprietà sempre diverse delle sostanze,
sarebbero ottenute nella natura dalla semplice reduplicazione di un
genere solo di materialità. Ora io dico, che non dissimile,
anche in ciò, è la posizione della psicologia
sperimentale. Anch’essa è in grado ormai di supporre, molto
ragionevolmente, che al disotto delle forme sensitive elementari
dissomiglianti, si nasconda una forma fondamentale unica, che le
generi tutte, colla semplice sua REDUPLICAZIONE.
Dirò qui più chiaramente ciò, che ho già
appena accennato in un luogo del presente libro, e che
dimostrerò più a lungo un’altra volta. Anche nella
psicologia si incontra un fatto comunissimo nella chimica. Due o
più cose unite insieme, ne formano un’altra, che ha apparenze
e proprietà differentissime, da quelle delle componenti. La
cosa pare incredibile, ma è vera. Lo stesso Go5the non poteva
persuadersi di quanto aveva annunciato Newton; vale a dire, che dei
colori carichi e foschi, come il rosso, il verde e il violetto,
sovrapponendosi, producessero un colore leggero e chiaro, come il
bianco. Ma è come maravigliarsi che, combinando l’idrogeno,
atto ad essere bruciato, e l’ossigeno atto a bruciare, si
fornì l’acqua, che né brucia né lascia
bruciare. Maravigliarsene è permesso, dubitarne no. Il fatto
enunciato non si verifica soltanto per le sensazioni visive. Si
verifica anche per tutte le altre sensazioni. Basti in prova
ricordare le esperienze, colle quali Helmholtz ha dimostrato, essere
i vari timbri dei suoni null’altro che la fusione variata, per
così esprimermi, di diversi suoni elementari. Insomma quel
fatto è una vera legge delle sensazioni. Anzi dirò di
più; dirò addirittura, che è una legge
dell’umano pensiero. A chi non ne fosse convinto, farei solo
riflettere, quanto ha dovuto faticare l’analisi psicologica per fare
la scoperta, che le idee molto astratte, come, per esempio, quelle
della materia e della forza, e perfino gli schemi del tutto puri,
per usare la parola che uso, come quelli dello spazio e del tempo,
non sono altro nel fondo, che mere associazioni di colori, di suoni,
di toccamenti, di piaceri, di atti volontari, e via dicendo. La
difficoltà della scoperta era prodotta dall’aspetto
differentissimo assunto dagli elementi costituenti in ciascuna
specialità di composizione.
Né si creda che nella sensazione complessa, per ciò
che essa è affatto disforme dalle componenti, queste non
sussistano tuttavia nella loro propria specialità e
coscienza; e siano scomparse, e sia entrata di pianta nel luogo loro
la detta sensazione differente. La quale, però, non debba
già essere considerata un complesso e un risultato delle
prime, ma sibbene una sensazione nuova, ed in sé una ed
indivisibile. No. Essa è veramente una sensazione, complessa,
un risultato della reduplicazione delle sensazioni costitutive; un
tutto composto e non una nuova ed indivisibile unità.
Precisamente come una combinazione chimica nella quale l’apparenza e
la proprietà speciale del tutto, come tale, sta colla
conservazione perfetta, nel loro essere, delle sostanze componenti.
Su di ciò non cade più dubbio. Se si guarda e si vede
un oggetto bianco (e ciò che siamo per dire, vale anche per
ogni altro colore composto), la minima alterazione o nella forza
sensitiva dei coni della retina, relativa ad uno dei colori semplici
componenti, o nella dose di questi, produce immancabilmente una
variazione nel bianco stesso. Non resta più il bianco di
prima. E ciò per infinite gradazioni; per tante quante sono
le combinazioni possibili in più o in meno della
sensibilità, della partecipazione, della eccitazione delle
parti dell’organo visivo. Cioè il bianco stesso non è
mica una sensazione speciale ed unica, che, o si abbia tale quale, o
non si abbia punto. È essenzialmente un composto, che,
qualunque alterazione avvenga nei singoli componenti, ne rappresenta
sempre matematicamente la somma. E di ciò quante prove. Per
tutti i sensi è già in grado di fornirci la scienza
mercé le scoperte già fatte sulla natura e sulla
disposizione delle parti più minute degli organi percipienti,
sulle variazioni molecolari corrispondenti alle qualità
sensibili delle diverse sostanze, e sulle vibrazioni dei mezzi
elastici, che danno luogo alle sensazioni.
Ora questa legge, dominante nella produzione delle sensazioni
composte, che vieta di estenderla anche a dar ragione della
produzione di quelle fin qui chiamate elementari? Che vieta di
considerare queste ultime, non più elementari, ma composte
pur esse, e risultanti da una reduplicazione di un medesimo genere
di sensazioni elementarissime. In modo che ogni differenza dipenda,
non dalla dissimile natura di diversi componenti, ma solo dal modo
variato, onde un medesimo componente si reduplica nella
composizione. Non c’è nulla che lo vieti. Nulla; come al
chimico niente impedisce di supporre, che le sue sostanze elementari
siano altrettante combinazioni variate di monadi materiali
primitive, tutte eguali fra loro. Non si hanno, è vero,
ancora della detta teoria psicologica, prove abbastanza numerose e
sicure; no certo. Ma nulla osta che si accetti come una buona
ipotesi; e tutto induce a farlo. Negli organi della sensazione, e
negli stimoli, che li eccitano, la scienza non trova più le
differenze di natura, che loro si attribuivano una volta. Il vero
organo del senso è sempre costituito da fibre della stessa
materia nervosa e della stessa forma, le quali (parlando più
specialmente di quelli che più comunemente si chiamano organi
dei sensi, il che basta pel nostro intento presente) agiscono tutte
per iscotimento impresso alla loro estremità periferica.
Poiché lo stimolo è infine sempre un movimento, e
nient’altro. Un movimento etereo, come nelle sensazioni della vista
e della temperatura; un movimento nell’aria, come nei suoni; un
movimento molecolare chimico, come nel gusto e nell’olfatto; un
movimento meccanico, come nelle varie sensazioni tattili della
resistenza della materia. Ragione per cui nelle dette fibre l’unica
differenza che si incontra, cioè quella della conformazione
della loro estremità, è determinata dal genere di
movimento che sono destinate a ricevere. Ora, se la sensazione, come
è certissimo, è l’equivalente, tanto rispetto alla
quantità, quanto alla qualità, delle funzioni
fisico-chimico-psicologiche a cui consegue, e queste sono in tutte
le sensazioni le medesime, e variano, non nel quale, ma nel quanto,
sicché dovrebbero tutte le sensazioni essere uguali nella
forma, e solo diverse nella intensità, per togliere la
contraddizione tra due fatti certi, quello delle differenze
specifiche delle varie sensazioni e quello dell’identità dei
loro coefficienti, non ricorreremo alla legge in questionar che,
d’altronde, è una legge generale del pensiero umano, dandole
una maggiore estensione e immaginando, che le cosidette sensazioni
elementari siano in effetto sensazioni composte; e composte
variamente di un certo numero di sensazioni primitive identiche; e
che si debba alla varia reduplicazione di queste l’aspetto diverso
di ciascheduna di esse?
Fino a tale altissima idea può sollevarsi, come dicevamo,
progredendo induttivamente, il filosofo positivo. Tutte quante le
fenomenalità conosciute e conoscibili, che sono infinite per
numero e per forma si riducono a poche specie di sensazioni; e
ciascuna di queste specie è una combinazione disforme di una
qualità sola di elementi primitivi. Ovvero, per dirlo in una
parola, l’uno è il tutto. Cioè nella natura, per una
divisione di lavoro sempre crescente, crescente sino all’infinito,
la perfetta omogeneità del reale si trasmuta in una
varietà sterminata di apparenze, in modo che il massimo della
diversità vi coincida col massimo della medesimezza.
Tesoro immenso di medesimi, onde emergono i diversi
inesauribilmente; arte ammirabile di farli emergere! Chi saprebbe
dire quanto piccola parte sia, dell’essere tutto quanto, la vita di
un uomo solo? E quanto piccola parte di tutte le sensazioni e di
tutti i pensieri della vita di un uomo sia poi un suo sguardo nel
cielo di un qualche centesimo di secondo? Eppure chi potrebbe
computare il numero dei fatti elementari, che nascono e si succedono
in quello sguardo fugacissimo, che pure è, una parte
infinitamente piccola della vita di un essere infinitamente piccolo?
Non si tenga conto delle idee che si associano nell’adulto alla
visione. Si avrebbe da fare con troppe cose. Si tenga conto
unicamente della quasi inapprezzabile sensazione presente. Si noti
soltanto, che in quello sguardo sono eccitati si può dir
tutti i cinquecentomila bastoncini delle retine; cioè che non
vi si ha una sensazione sola, ma bensì cinquecentomila. E che
ciascuna di tali cinquecentomila piccolissime sensazioncine, che non
possono esser semplici, come dimostrammo, devono di nuovo essere il
complesso di chi sa quante ancor più piccole sensazioni
primitive fondamentali. E che poi nello spazio, di qualche centesimo
di secondo le impressioni, ricevute in un solo bastoncino dall’etere
vibrante, ascendono a più bilioni. Tanti e di sì
estrema piccolezza sono i primissimi elementi, che la natura
diversissimamente compone, per costruirne le differenti sensazioni;
e quindi poi, con reduplicazione sempre più raddoppiata,
tutti quanti i pensieri immensamente molti e disformi dell’uomo.
La natura poi non effettua il lavoro di composizione degli elementi
primissimi del pensiero in tutti gli esseri animati ugualmente, e
del pari che nell’uomo. Come in questo presenta il maggior prodigio
della sua arte combinatrice, così nella scala degli esseri
animati ci offre a contemplare la sapienza del processo, onde
ottenne il suo ultimo e più grande risultato, l’intelligenza
umana. La varietà psichica, che appare in una specie di
esseri animati, se è più perfetta di un’altra,
è il punto a cui è giunto, progredendo a poco a poco,
il lavoro componente della natura; se è solo parallela ad
un’altra, un modo diverso nel quale ha mostrato, quasi provando,
come si possa condurlo in altro modo, partendo da un punto dato.
Onde si vede in che rapporto stia il pensiero umano
coll’attività psichica di tutti gli altri esseri animati.
Nella celletta microscopica, che vegeta da sé, l’elemento
vegetativo è anche l’individuo vegetante. Nelle specie
vegetali più elevate gli individui constano di un numero di
cellule sempre maggiore. Chi sa dire quante ve ne siano in una
quercia annosa e gigantesca? Quante siano le cellette vegetative,
che servirono a comporre la quercia, non si saprà dire, a
motivo del numero troppo grande delle stesse. Si sa però che
si fu solo con tali cellette, e senz’altro di più, che la
natura la edificò. Lo stesso si può dire delle specie
più perfette, e nella scala delle produzioni chimiche, e
nella scala delle produzioni zoologiche. Lo stesso in somma da per
tutto, nelle opere più progredite della natura. Lo stesso nel
pensiero dell’uomo. In esso il numero degli elementi psichici
primitivi è tale che non si potrebbe neanco immaginare; ma
tuttavia esso pensiero non contiene altro in sé fuori di
siffatti elementi, che egli, malgrado la superbissima sua
condizione, possiede in comune colla vilissima monade, vivente,
invisibile all’occhio, nei gorghi, per essa vasti e profondi, di una
gocciolina di acqua. Per cui la natura speciale e la perfezione
propria dell’essere psichico umano non consiste già nella
massima sua semplicità, come universalmente si crede e dagli
spiritualisti trionfalmente si dice, ma bensì nella massima
sua complessità.
La semplicità massima si avrà piuttosto nel protozoo
microscopico, in cui non è supponibile, che siano sensazioni,
se non di quelle primitive oltremodo tenui, che dicemmo. Le quali in
esso possono benissimo essere avvertite, per la ragione che la
coscienza non ne è occupata da altre raddoppiate più
intense. Il mondo perciò sarà per tali esseri
estremamente silenzioso, distinguendovisi delle voci eccessivamente
tenui; ed estremamente monotono, perché appreso sotto la
forma di una sensazione sola; ed estremamente angusto, cioè
ristretto al punto unico, che sente attualmente. Negli esseri
animati poi, che stanno più in su, in serie progressive, fra
il detto protozoo e l’uomo, le sensazioni si vanno sempre più
raddoppiando e variando e oggettivando; e quindi il mondo si fa
dall’uno all’altro, più romoroso, vario ed esteso. E
nell’uomo lo è al massimo grado. Egli non s’accorge delle
voci più ingenue e più vere della natura, che si fanno
ascoltare soltanto nelle solitarie e mute coscienze degli esseri
inferiori. Il frastuono delle cortissime sensazioni glielo
impedisce. A lui la natura si presenta colle seduzioni affascinanti
di forme, quasi direi con magica arte simulate, ond’egli vive in un
incanto, che lo toglie a se stesso. Incanto sublime, pel quale il
mondo monotono e desolante dei freddi atomi, che lo costituiscono,
si colora, si ravviva, si moltiplica in mille e mille modi diversi;
e si allarga d’ogni intorno infinitamente lontano; e si presenta
all’uomo, come un campo di cui egli è il padrone, e che egli
sente di possedere, nel presente colla sensazione attuale o
percezione, nel passato colla sensazione riproducentesi o memoria,
nell’avvenire colla sensazione abituale o scienza.
Tale l’unità dei due mondi, della natura e dell’intelligenza,
risultante dallo studio delle somiglianze dei fenomeni. Or poche
parole ancora della unità, che apparisce nello studio della
loro consistenza e successione. La cosmologia, prendendo la parola
nel senso, che ha nell’opera citata di Alessandro di Humboldt,
trova, che le esistenze e le attività effettive, che si
offrono alla osservazione in terra e in cielo, distribuite secondo
la condizione propria di ciascheduna, costituiscono una serie
graduata e continua, che ritorna al suo principio; vale a dire un
circolo di realtà nello spazio e nel tempo. E questa legge
universale del circolo cronotopico del cosmo vige, variamente
applicata, in ogni sfera subordinata di esso; e quindi anche nella
biologica.
Indistinti e senza forma, sono diffusi nella massa leggiera,
instabilissima ed uniforme dell’aria i principio, onde, coll’ajuto
di alcune sostanze inorganiche del suolo, quali il ferro, la soda,
la potassa, la silice, la calce, la magnesia, il fosforo, lo zolfo,
si formano le piante e gli animali. Questi principi sono l’azoto, il
carbonio, l’idrogeno e l’ossigeno; o liberi, o combinati in acido
carbonico, acqua, ammoniaca. Tratti dall’aria, col mezzo di processi
d’assorbimento semplicissimi ed entrati nel circolo della vita,
negli stadj successivi di essa passano per combinazioni chimiche
più e più variate e complesse; e con ciò vanno
anche assumendo forme e proprietà sempre nuove e più
importanti; finché da ultimo, consumate per l’esercizio di
quelle stesse prerogative, che avevano acquistato perfezionandosi,
si disfanno, e tornano di nuovo nell’aria. E da essa poi, in
seguito, ancora con vece assidua al circolo di prima.
L’acido carbonico, l’acqua e l’ammoniaca si trasformano, pel
processo disossidante della vegetazione, in amido ed albumina. E
queste sostanze, nelle operazioni digestive ed assimilative
dell’organismo animale, si trasmutano, per la combinazione via via
crescente dell’ossigeno respirato, in adipe, in fibrina, e in quelle
altre, che si trovano nel sangue e che, variamente modificate per la
presenza dei principi inorganici commisti, ne compongono i tessuti
molli moltiformi e le ossa. Per l’ulteriore combustione poi,
importata dalla stessa attività degli organi, gli elementi
istologici non azotati si risolvono in acido carbonico, e gli
azotati in urea ed ammoniaca. E così, nella progressione
delle formazioni organico-vitali, si ha una serie graduata e
continua di sostanze e di funzioni prima, ascendendo, dall’aria ai
corpi vivi; poi, discendendo, da questi all’aria medesima.
La serie è graduata. E ciò tanto se si considera come
una progressione di sostanze, quanto se si considera come una
progressione di funzioni. Chi dice materia dice anche forza; e
viceversa. E così chi dice sostanza, ossia una data
specificazione della materia, dice, anche funzione, ossia una data
specificazione della forza. E viceversa. Ché ciascuno dei due
termini suppone l’altro. Onde, sé da un lato la molecola
elementare plastica dei tessuti animali, tanto complessa e
trasformabile, si collega agli elementi semplici ed inalterabili
dell’idrogeno, dell’azoto, del carbonio e dell’ossigeno per via
della cellulosa e dell’ammoniaca e delle formazioni di mezzo; e
l’individuo vivente alla molecola organica per gli organi, i
tessuti, le fibre e le cellule; e la specie umana all’infima
vegetale per le intermedie; dall’altro, fra la estrema
instabilità di equilibrio atomico della molecola azotata
proteiforme e la rigidezza chimica dei principi dell’aria, troviamo
dei gradi tramezzanti di plasticità, come nella cellulosa,
base della economia vegetale e, tra la vita dell’individuo e la mera
attività molecolare della materia, organizzata, le
proprietà dei tessuti e le funzioni degli organi; e, tra il
pensiero dell’uomo e la semplice endosmosi della monade vegetale, le
gradazioni infinite delle funzioni vitali degli esseri organizzati,
e delle sensitive degli animali.
Ela serie è poi anche continua. Vale a dire, ogni suo
elemento è collegato necessariamente col precedente e col
seguente. Ogni elemento, come dicevamo, è, nello stesso
tempo, una sostanza ed una funzione. E, come sostanza, è il
prodotto della funzione del precedente; come funzione, è il
processo, che ingenera il seguente. L’elemento quindi, come
sostanza, si collega necessariamente col precedente; come funzione,
col seguente; perché è impossibile l’esistenza di una
sostanza senza il processo della sua formazione, cioè senza
la funzione della sostanza precedente; ed è impossibile la
funzione di una sostanza senza che se ne modifichi la costituzione,
ossia senza la produzione della sostanza consecutiva. La serie delle
sostanze componenti il circolo biologico è quindi la
rappresentazione simultanea nello spazio della serie degli atti
successivi, pei quali è passata, o deve passare, una sola di
esse; ossia i due circoli, della consistenza o dello spazio e della
successione o del tempo, si corrispondono e si immedesimano.
E da ciò apparisce, con piena evidenza, l’assurdità di
separare la natura dalla intelligenza, e di farne due mondi diversi
ed opposti, anziché due elementi connaturali e cointegranti
di un mondo medesimo; per non dire due forme correlative di una
stessa realtà. L’intelligenza è la funzione
dell’organismo umano. Separarnela è distruggerlo; come
è distruggere la sostanza separarne l’attività, che le
appartiene. L’intelligenza è il processo, onde si consumano,
o si riducono, per adoperare il termine chimico, i materiali degli
organi, pei quali si attua il pensiero. Si può affermarlo,
quantunque la scienza non sia ancora in grado di determinare con
precisione la differenza tra la riduzione della materia muscolare,
in seguito ad atti di movimento e quella della materia nervosa, in
seguito ad atti di coscienza. Togliere di mezzo l’intelligenza tra
la sostanza nervosa integra e la sua riduzione, è togliere un
anello nella catena delle cause e degli effetti; è rompere il
circolo naturale della vita; è negare, per questa parte, la
legge universale del circolo cronotopico del cosmo. Tra la sostanza
integra e la sua riduzione, sta di mezzo l’intelligenza, colla
stessa necessità naturale, con cui, tra il ramoscello
disseccato e le sue ceneri, sta di mezzo la fiamma, ond’esso,
avvampando, si consuma.
J. Moleschott, nel suo libro della circolazione della vita, scrive:
"Non facciamo noi opera pietosa quando esclamiamo al povero colono,
che col sudore della fronte appena soddisfa ai primi bisogni della
vita: Consolati; in quell’asciutto e povero pane tu possiedi
già tutti i materiali, che occorrono per produrre e porre in
opera le azioni più sublimi di cui sia capace una creatura
terrestre? Forse è prosaico questo nostro trasformare ogni
pasto in una cena eucaristica, per la quale la materia, priva di
ogni pensiero, si trasforma, si transostanzia in un uomo che pensa;
in cui adunque noi ci appropriamo veramente la carne e il sangue
dello spirito, per trasmetterlo in tutte le parti del mondo, coi
figli dei nostri figli?" Il concetto qui espresso consuona
perfettamente, col nostro, ed è verissimo. È, come
dimostrammo, il risultato positivo dello studio dei fatti,
considerati nella loro consistenza e successione. Ma è un
concetto incompleto; perché non è subordinato
all’altro più elevato, che emerge dallo studio delle
somiglianze, voglio dire, al concetto della realtà
psicofisica. Senza del quale non trova la sua spiegazione; e quindi
rimane in quella luce imperfetta, in quell’antagonismo con altre
idee pur vere, in cui l’abbiamo visto sopra presentato da Tyndall e
Griesinger; e di cui profittano poi, con molto vantaggio, gli
spiritualisti per combatterlo. Affatto al sicuro dagli argomenti di
costoro non è il concetto medesimo, se non presso di noi, che
enunciandolo, non solo lo presentiamo, come un fatto realmente
osservato, ma anche, come un fatto, di cui possiamo dare una
spiegazione rigorosamente scientifica.
L’uomo pensa. Posto che sia il suo organismo, è d’uopo che
sia anche il suo pensiero; precisamente come, posto, che esista un
corpo, è d’uopo che pesi. L’osservazione costante della
consistenza dei due fatti della coesistenza del corpo e del suo
pesare, (e nient’altro fuori di tale osservazione) ci costringe a
connettere in un solo concetto le idee del peso e del corpo. La
medesima osservazione della consistenza dei due fatti ci costringe
pure a connettere in un solo concetto le idee dell’organismo umano e
del suo pensiero. Se v’ha errore in questo giudizio, v’ha anche nel
primo. Se è necessario mettere di mezzo qualche cosa tra il
pensiero e l’organismo è pur necessario metterne tra il peso
ed il corpo. Identità di premesse non può soffrire
diversità di illazione.
Perfetta è l’analogia tra il fenomeno naturale del pensiero
dell’uomo e l’altro del peso di un corpo. In ambedue i casi troviamo
una forma speciale della forza, che si manifesta in una forma
speciale della sostanza concreta. Se v’ha differenza, questa
è tutta relativa alla legge della divisione del lavoro.
Consiste cioè in un grado diverso di specializzazione della
funzione dello stesso concreto, corrispondente alla
specialità della sua costituzione. Poiché la natura,
come più volte osservammo, si comporta come l’artefice; il
quale riesce a condurre lavori, via via più perfetti, di mano
in mano che impara a prepararsi stromenti migliori. Anche nella
natura la forza che effettua le combinazioni, ognor più
complesse e sapienti, degli elementi materiali, è da queste
stesse combinazioni, quasi da stromenti dell’arte sua meravigliosa,
trasformata in funzioni di indole sempre più speciale e
squisita, che ne moltiplicano e ne maturano la potenza. E in vero,
chi pensa alla forza nella sua indistinta totalità, pensa ad
una forza di una grandezza sterminata, ma che non fa nulla. E il
segreto della prodigiosa attività della natura, che tutto
muove e tutto effinge, con efficacia irresistibile ed immensa, sta
tutto in quelle energie, estremamente molte e varie, nelle quali la
sua forza si suddivide e si specializza, distribuendosi nei concreti
innumerevoli e prendendovi l’atteggiamento e l’indirizzo voluto da
ciascheduno.
Né tra il pensiero e l’organismo v’ha, come si crede
universalmente, quella essenziale contrarietà di natura, che
ne impedisca assolutamente la composizione in una vera unità
naturale di realtà. No; perché l’uno e l’altro
convengono nella stessa natura di realtà psicofisiche. La
realtà psicofisica, nelle abitudini mentali, si sdoppia nelle
due, del mondo interno e del mondo esterno. E quest’ultima del mondo
esterno, di nuovo, nelle due altre della materia e della forza. E la
materia e la forza sempre unite e pur sempre distinte, di conserva,
si concretizzano nella infinità dei punti dello spazio e dei
momenti del tempo, si svolgono nelle serie graduate e continue della
circolazione dell’essere; si specializzano e manifestano gli aspetti
prodigiosamente variati della realtà e virtù loro
proteiforme nei generi delle cose. Per gradi; fino al punto
culminante dell’esistenza, all’uomo; dove ciò, che, negli
stadj inferiori dell’essere, chiamavasi la materia, diventa la
persona o lo spirito. La persona o lo spirito, che è lo
stromento più nobile della attività della natura. Lo
stromento, pel quale tale attività si converte in
intelligenza, ossia in facoltà creatrice.
Per gradi, come dico, la forza si converte in intelligenza, ossia in
facoltà creatrice. La forza nel rozzo ed informe minerale si
manifesta nella sua forma più semplice. Il minerale si muove.
Nell’organismo vegetante i movimenti della materia ricevono una
direzione determinatissima, e collimano alla produzione di un’opera,
della quale esiste già il piano sapiente nella specie stessa
della pianta, improntata nel suo germe. Il vegetale fa.
Nell’organismo animale, oltre la direzione stabile delle
attività, onde si mantiene e si sviluppa l’individuo secondo
la sua specie, altre ne sorgono che si aggiungono alla prima, e che
sono l’effetto delle impressioni sensibili, causate dagli oggetti
esteriori. In esso cioè l’impulso ad agire non nasce soltanto
dalla forma intrinseca sua propria, ma anche dalle altrui, onde pei
sensi è fatto partecipe. L’animale imita. Anche l’uomo
ricetta nella sua immaginativa le parvenze delle cose, che lo
circondano. Ma in lui, per la somma capacità di trasformarle,
componendole e fondendole insieme nei modi più diversi, la
immagine allettatrice non è più la stessa incolta
effigie di ciò che è, quale si impronta primamente nel
senso dal difuori, ma un tipo vago e geniale di ciò che non
è ancora, quale lo pinge, con arte misteriosa e sublime, la
mente al di dentro. L’uomo, in quella specialità di atti che
lo caratterizza, segue l’ispirazione di una idealità; tende
cioè ad incarnare una forma che non esiste, e a trarla, in
certo modo, dal nulla. Che è quanto dire, che è la sua
opera una creazione.