Charles Robert Darwin (Shrewsbury, 12 febbraio 1809 – Londra, 19 aprile 1882)
I pilastri della teoria darwiniana
Quando Darwin si imbarca sul Beagle non ha alcuna idea precisa sul suo futuro. Nel corso del viaggio egli prende una quantità enorme di appunti corredati da schizzi.
Uno dei fenomeni più sorprendenti che annota riguarda i fringuelli delle isole Galàpagos. Visitando queste isole, Darwin scopre che esse ospitano ben quattordici varietà di fringuelli, diversi per taglia, colore e morfologia del becco, che non si trovano in altri luoghi del mondo. Egli intuisce che i diversi becchi rappresentano adattamenti rispetto all’alimentazione. Così il fringuello terrestre dal becco grande (magnirostris) si alimenta di semi grandi e duri; il fringuello arboreo grande (psittacula) mangia insetti grandi; il fringuello canterino (olivacea) si nutre di piccoli insetti; il fringuello terrestre piccolo (fuligginosa) mangia semi piccoli e duri. Per quanto sorpreso dalla varietà delle razze, l’evidente somiglianza tra i fringuelli impedisce a Darwin di prendere atto di quattordici specie diverse, isolate riproduttivamente. Solo al ritorno in Inghilterra, con l’aiuto di un ornitologo, egli se ne rende pienamente conto e comincia a riflettere sullo strano fenomeno.
Perché tante specie di fringuelli nelle Galàpagos? Per spiegare scientificamente un fatto del genere, basta ammettere che una specie originaria sia giunta su di un’isola in epoca remota riuscendo ad adattarsi alle condizioni insulari. La specie poi si diffonde nelle varie isole, trovando nuovi ambienti e sviluppando nuovi adattamenti. L’isolamento dei vari gruppi dà luogo, infine, alla definizione di nuove specie che sono isolate riproduttivamente. La varietà individuale, dunque, ha promosso l’adattamento ad ambienti diversi producendo cambiamenti morfologici che si sono trasmessi ai figli e determinando, infine, l’isolamento riproduttivo, vale a dire una speciazione.
La speciazione, cioè la comparsa di una nuova specie rispetto a quelle precedenti, come attesta il titolo della sua opera maggiore (On the Origin of Species by Means of Natural Selection), è il nodo centrale della teoria darwiniana. L’analisi dei becchi dei fringuelli è una conferma della teoria della selezione naturale.
Dall’analisi dei dati raccolti nel corso del viaggio, Darwin ricava tre principi che sono stati considerati i pilastri della sua teoria:
* Il principio di variabilità: tutti gli organismi di una specie sono diversi l’uno dall’altro.
* Il principio di ereditarietà: i “figli” somigliano ai “genitori”. Le variazioni sono almeno in parte ereditate.
* Il principio di prolificità: tutti gli organismi producono più prole di quella che può sopravvivere fino al momento della riproduzione.
Si tratta di principi sostanzialmente semplici ed evidenti. Solo il terzo, però, sembra immediatamente spiegabile. Gli organismi che non sopravvivono sono i più deboli o i più “sfortunati”. In realtà, solo dopo avere letto l’opera di Malthus, Darwin ha l’illuminazione: se gli organismi variano e non tutti possono sopravvivere, coloro che lo faranno saranno quelli che possiedono le variazioni ereditarie che aumentano il loro adattamento all’ambiente locale. Questo è il principio della selezione naturale ovvero della sopravvivenza del più adatto. Cosa c’è di straordinario nell’ipotesi della selezione naturale darwiniana? Anche i creazionisti pre-darwiniani, in fondo, la ammettono. Essi, però, la interpretano come meccanismo la cui finalità è la “purificazione del tipo”, cioè l’eliminazione degli individui devianti che si scostano eccessivamente dal modello ideale e immutabile, presente nella mente di Dio all’atto della creazione. È evidente che se un animale viene al mondo con una grave malformazione, e quindi con uno scostamento rilevante da quel modello, esso ha scarse probabilità di sopravvivere.
Per Darwin – questa è la novità – il tipo ideale non esiste. La selezione naturale non scarta ciò che si allontana dalla volontà divina. Essa funziona come un artigiano creativo o un “bricoleur”: presiede, cioè, al processo di modificazione organica accumulando le variazioni favorevoli poco a poco e generazione dopo generazione. Le variazioni sono favorevoli, peraltro, non perché avvicinano l’organismo individuale ad un’astratta perfezione, ma semplicemente perché, in quel determinato contesto ambientale, consentono ad esso di sopravvivere e di riprodursi. Non è, insomma, necessariamente il “migliore” che viene selezionato, ma il più “fortunato”, quello cioè il cui corredo genetico risponde meglio, casualmente, ai cambiamenti ambientali. Se questo è vero, Dio semplicemente non serve più: è morto. Darwin non osa esplicitare quest’affermazione, come farà alcuni decenni dopo Nietzsche. Essa è però implicita nell’ipotesi della selezione naturale. Il suo radicalismo permette di comprendere le esitazioni per cui Darwin ha rimandato di venti anni la pubblicazione dell’esito delle sue ricerche.
Le teorie darwiniane hanno preso anche delle derive piuttosto aspre. Una è il darwinismo sociale. Dall’epoca della sua comparsa, il darwinismo sociale ha giustificato, sostanzialmente, il razzismo, il colonialismo e la disuguaglianza sociale, giungendo ad affermare che ogni tentativo da parte dello Stato o della cultura di contrastare o inibire la selezione naturale – attraverso l’assistenza ai più deboli o agli individui ereditariamente “inferiori” – comporterebbe una degenerazione della popolazione. È superfluo rilevare la pesante incidenza di questa ideologia sulla cultura e sulla politica del Novecento. Il nazismo ne ha rappresentato l’espressione più estrema e tragica. Il darwinismo sociale, di fatto, allargava la darwiniana lotta per l’esistenza a un più ampio programma eugenico, che considerava necessario e giustificava il declino dei soggetti meno capaci, socialmente inadatti.