«La Critica.
Rivista di Letteratura, Storia e Filosofia
diretta da B. Croce», 28, 1930.
Benedetto Croce
ANTISTORICISMO
[(*) Lettura tenuta al VII Congresso internazionale di filosofia in
Oxford il
giorno 3 settembre 1930).
© 2007 per l'edizione digitale: CSI Biblioteca di Filosofia.
Università di Roma "La Sapienza" Fondazione "Biblioteca
Benedetto Croce"]
Più o meno presso ogni popolo di Europa, nelle varie sfere
della vita intellettuale ed artistica, morale e politica, si nota
oggi una sorta di decadenza del sentimento storico, quando non ad-
dirittura uno spiccato atteggiamento antistorico. Questa decadenza e
questo risoluto antistoricismo si presentano in due modi diversi, e
anzi opposti, che hanno tuttavia comune l'origine, come del pari
mostrano la tendenza ad accostarsi, a mescolarsi e a scambiare le
loro parti.
Il primo modo, che ha dell'irruente e rivoluzionario nell'aspetto,
riceverebbe forse la sua designazione propria se al suo intero si
estendesse quel nome che è di una delle sue particolari
manifestazioni letterarie e artistiche, e che fu pronunziato anni
addietro per la prima volta in Italia: «futurismo».
Esso, infatti, idoleggia un futuro senza passato, un andare innanzi
che è un saltare, una volontà ch'è un arbitrio,
un ardimento che, per serbarsi impetuoso, si fa cieco; e adora la
forza per la forza, il fare per il fare, il nuovo per il nuovo, la
vita per la vita, alla quale non giova mantenere il legame col
passato e inserire la sua opera sul-l'opera del passato,
perchè non le importa di essere vita concreta e determinata,
ma vuol essere vita in astratto o mera vitalità, non il
contenuto ma la vuota forma del vivere, che si pone, essa, come se
fosse un contenuto.
Da ciò l'impazienza, l'antipatia, l'avversione, il dispregio,
l'irrisione verso la tradizione storica, che se nei futuristi
letterarii si effondevano rumorosamente con le allegre richieste di
abbattimento dei monumenti, distruzione delle pinacoteche e musei e
bruciamento delle biblioteche ed archivii, e con la professata e
consigliata ignoranza di qualsiasi storia, nei futuristi pratici e
politici danno parimente segno di sé con la scarsa
pietà, l'indifferenza e l'irriverenza non solo verso la
memoria di coloro che faticosamente nei secoli formarono quella che
ora si chiama l'umanità e che non è un fatto naturale
ma una creazione storica, ma anche verso i loro antenati prossimi, i
loro nonni e i loro padri; con la incoscienza del lavoro e del
valore che si racchiudono nei concetti, nei sentimenti, negli abiti,
nelle istituzioni esistenti; con la credenza che il passato sia il
morto, laddove, per chi ha occhi per vedere, esso è l'eterno
presente e vivente.
Diversamente da questo primo modo di estremo attivismo, il quale, se
rigetta la storia passata, sembra ammettere una storia fu- tura —
una storia, a dir vero, che non è storia ma una corsa a
rompicollo o una ridda da ebbri, — il secondo modo di antistoricismo
aborre nell'idea stessa della storia il regno del relativo e del
contingente, del mobile e diverso, del vario e individuale, e
sospira e aspira e si sforza all'assoluto, al fermo, all'uno, a
trarsi fuori della storia, a superare lo storicismo, per acquistare
sicurezza e pace.
Rispetto alla vita sociale, questo pone il suo ideale in ordinamenti
che sopprimano l'iniziativa individuale, e con ciò la
concorrenza, la gara, la lotta, e impongano la « regola
»; sia che la regola propugnata venga desunta da nuove
escogitazioni e si configuri in nuovi assetti economici, sociali e
statali, sia che la si ritagli da taluna delle età o delle
società della storia passata, compiendo una sorta di
restaurazione: che è poi la più flagrante negazione
della storia, la quale, per la stessa sua logica, esclude le
restaurazioni, né si acconcia a lasciar portar via dei pezzi
di sé medesima, staccati dal proprio organismo e dal proprio
e integro corso, e dichiarati soli validi e belli ed esemplari.
Come l'estremo attivismo nel futurismo estetico, questa concezione
ha il suo riflesso in letteratura e in arte nei conati di ritorno al
classicismo dei generi fissi, dei modelli e dell'accademia,
cioè a una particolare età della storia letteraria e
artistica, che, a questo modo esaltata, è insieme
falsificata; ovvero nelle modernistiche ricette onde si
fabbricherebbero i capolavori di poesia e d'arte, a servigio della
società e dello stato, senza bisogno d'ispirazione e di genio
personale.
Alla germinazione sul terreno storico, al lento maturarsi e al
rapido prorompere del nuovo sull'antico,, del diverso sul simile, al
travaglio onde la fantasia e il pensiero e la volontà si
sanno tutt'insieme sciolte e legate, libere e necessitate, ci
s'illude di poter sostituire con vantaggio l'azione
dell'autorità, che, sopra un terreno sbarazzato
dall'ingombro, dall'incubo e dalle seduzioni del passato, disponga e
comandi quel che si deve fare conforme alla costante norma ideale, e
ne tracci il disegno dirigendone l'esecuzione.
E poiché entrambi i modi,
come si e detto, hanno
comune l'origine nel comune rigetto della storicità, e
si oppongono solo nel concepire diversamente (l'uno in forma
anarchica, l'altro in forma autoritariamente disciplinata) l'opera
che all'uomo tocca di adempiere, non è meraviglia che di
volta in volta gli anarchici, stracchi dell'anarchia, trapassino in
autoritarii, i futuristi in classicisti ed accademici, i negatori
della divina vita della storia in cattolici e segnatamente in
cattolici della Controriforma o del Sillabo, gli scapigliati e
scompigliati in restauratori, i demagoghi in gendarmi e poliziotti;
0 che, all'inverso, gli assertori dell'assoluto, del fermo,
dell'uno, stufi dell'immobilità a cui si erano costretti, si
ribellino a sé stessi e prendano a sgranchire le membra
irrigidite partecipando alla danza bacchica del futurismo
letterario, politico e morale.
Sono conversioni e riconversioni che osserviamo quotidianamente,
come è dato quotidianamente osservare gli uomini e i fatti
che rispondono di tutto punto ai tipi che abbiamo tracciati, o che
ad essi, dal più al meno, si riconducono, o ne portano
più o meno l'impronta o ne sono in qualche modo viziati o
turbati.
Non è il caso, dunque, di dare esempi a illustrazione e prove
a conferma di quel che si è detto, non solo perchè gli
esempi e le prove, con le censure e le satire che vi andrebbero
unite, sarebbero qui poco convenienti, ma anche perchè
crediamo che tornerebbero superflui, non sembrando probabile che da
alcuno, che si sia guardato attorno e domandato com'è fatto
il mondo in cui vive e quali ragioni ideali lo informino, si voglia
revocare in dubbio la realtà del misistorismo o
antistoricismo del quale si è discorso, e dei due diversi
modi nei quali esso si divide e si oppone e si unifica.
Ma l'antistoricismo, il distacco da tutto il passato e l'aborrimento
dal moto storico per sé stesso, il sentimento che la storia
vera cominci ora e che ora solo finalmente si esca dalle strettoie e
dal tumulto della storia, non è un'apparizione nuova; e, per
riferirci ai casi più importanti e più noti, si ebbe
già nell'atteggiamento dei cristiani verso il mondo antico e
in quello degli illuministi verso tutta la storia fino a loro,
quando la Raison era sopraggiunta a rischiarare gl'intelletti e a
fugare le illusioni e le superstizioni della storicità. Fu
esso, in questi casi, così nel cristianesimo come
nell'illuminismo, la ripercussione della nascita di un nuovo mondo,
di nuovi concetti, nuovo sentire e nuove configurazioni sociali e
nuove istituzioni: una ripercussione che era un impeto spinto oltre
il segno, ma che pure non potè non spingersi oltre il segno,
non potè non farsi a volte violenza, tanto forti erano gli
ostacoli che gli toccava affrontare e superare.
Onde all'occhio dello storico quelle stesse
esagerazioni, quelle crudezze, quelle violenze s'idealizzano e
tramandano qualche raggio di bellezza, perchè quell'occhio
scorge attraverso il negativo il positivo, attraverso i particolari
errori e storture e mali, che furono più tardi corretti o
eliminati, la nuova verità e il nuovo bene, che si andavano
organando e afforzando, e cercavano di estendere il loro campo
d'azione.
La barbarie o l'imbarbarimento, — che essenzialmente è
antistoricismo, — è stata, per tale considerazione, redenta,
non perchè essa non sia barbarie e in quanto tale sempre
repugnante, ma perchè viene guardata in relazione alla nuova
e più alta civiltà che si forma e giudicata quasi il
malanno inevitabile di una crisi di crescenza.
Ora il problema che si pone a chi si sforza di comprendere quel
recente passato che si chiama il presente, è: se
l'antistoricismo, che è stato di sopra descritto, abbia o no
un contenuto positivo, se nel suo involucro di stravaganze e di
assurdità si annidi un frutto di vero e di bene, se nel suo
abbattere e distruggere operi insieme un costruire, e una nuova
spiritualità si prepari o ci stia già innanzi senza
che noi ce ne siamo accorti o senza che ce ne siamo resi ben conto.
Certo, niente accade che non abbia il suo buon motivo, e il reale,
come diceva il filosofo, è sempre razionale; ma richiamare
questo universale principio, e appagarsi di esso, varrebbe restare
nel generico e non veramente rispondere al problema proposto.
Il quale non chiede già il generico riconoscimento che
la rivolta antistorica di questo o quell'individuo, di
questo o quel gruppo sociale, di una più o meno larga parte
della società odierna, e magari della sua maggioranza, sia un
percorso necessario per l'educazione di certi individui e gruppi e
società, per quella faticosa e complicata educazione del
genere umano, di cui altresì parlano i filosofi; ma domanda,
invece, se essa dia a vedere o lasci intravedere una nuova vita
spirituale, una humanitas nova, retta da più vigorosi e
fecondi e comprensivi concetti.
Per un esempio, il Secondo Impero fu, senza dubbio, una
necessità, e una necessità razionale, per la Francia,
posta l'incapacità di cui la classe politica francese aveva
dato prova nel reggere e adattare alle nuove esigenze la liberale
monarchia di luglio, e la sua peggiore incapacità e lo
smarrimento nell' impiantare, in luogo di essa, la repubblica, e il
disordine, lo scontento e le paure che suscitò o non
frenò; e, in quanto necessità razionale, il Secondo
Impero fu anche cosa benefica, non solo per quel che produsse di
bene, come si suol dire, materiale, promovendo la produzione
economica e accrescendo la ricchezza del popolo francese, ma anche,
e sopratutto, perchè si dovè a quella esperienza se la
Francia si strinse di poi forte alle istituzioni liberali, e, nella
terza Repubblica, impedì fermamente che avessero più
effetto i tentati ritorni, che si affacciarono più volte,
d'imperi e di monarchie legittimistiche e di clericalismo, e,
insomma, fece un gran passo nella sua educazione politica.
Ma non per questo si giudicherà mai il Secondo Impero forma
politicamente progressiva e capace di svolgimento dall'interno: la
qual cosa non credette neppure l'imperatore, Luigi Napoleone, che
eccitò e sostenne con la sua azione di politica estera
indipendenze e liberta di popoli e finì col riformare il suo
impero autoritario in impero liberale, sostituendo o scotendo le
basi su cui era dapprima fondato.
C'è — ripetiamo la domanda dopo averla così
detcrminata e schiarita, — nell'odierno antistoricismo, la
delineazione, sia pure ancor vaga e indeterminata, di una nuova e
più alta vita spirituale? Questo, per l'appunto, è
ciò che non si arriva a scernere, per quanto si aguzzi la
vista; ciò di cui non si sente la presenza e la vicinanza nei
modi in cui sempre si avvertono la presenza e la vicinanza del nuovo
e geniale e creativo, e che sono la trepidazione, la commozione,
l'attrazione, e, in una parola, l'amore. Quanto poco amore, ai
giorni nostri, nel mondo! e quanto poca gioia, e quanto pigro
entusiasmo !
Come suonano fiacche e false le corde dell'amore se la rettorica
degli energicisti e degli autoritarii si prova, come fa talvolta, a
toccarle! e come risuonano invece, aspre e forti, quelle della
prepotenza, dello scherno, del sarcasmo, dello stolido e cupo
fanatismo! Come frequente si ode il vanto della
«barbarie» e del modellarsi sui barbari, diversamente da
quel che accadeva presso i barbari veri, i barbari ingenui, che
dell'esser loro erano inconsapevoli e forse, se qualcuno ne li
avesse resi consapevoli, se ne sarebbero adontati!
L'antistorico cristianesimo apportava la virtù della charitas,
l'antistorico illuminismo si ammorbidiva di umanitarismo e di sensiblerie;
ma l'odierno antistoricismo è tutto sfrenatezza di egoismo o
durezza di comando, e par che celebri un'orgia o un culto satanico.
Che se da questa prima impressione si passi a esaminare il concetto
sul quale consimile antistoricismo si regge, più chiara e
determinata si fa la percezione del vuoto che è nel suo
fondo. Come si è già mostrato, invece di un concetto
unitario, si ritrova in esso la divisione in due e opposti concetti,
che non stanno fermi ciascuno al posto suo, ma l'uno entra
nell'altro ed esce fuori dall'altro, deponendo e ripigliando la sua
sembianza; la qual cosa è sempre grave indizio di
nullità logica.
Che cosa, infatti, è il primo dei due concetti, quello dei
formalisti dell'energia, dei zelatori della vita per la vita, del
futuro senza passato, del fare senza ideale, se non la posizione
nota e condannata in filosofia, nella fenomenologia dell'errore, col
nome d'irrazionalismo, negazione dei valori spi rituali? E che cosa
è il secondo, quello onde si predica la costruzione o
ricostruzione della vita umana scissa dalla vita stessa che è
la storia, l'imposizione dall'alto del ritmo della vita, la regola
che, invece di essere creata dall'uomo come suo strumento, debba
essa creare l'uomo; che cos'altro se non la posizione, nota
altresì e condannata in filosofia, del razionalismo astratto,
che non nega direttamente i valori spirituali ma li materializza e
li rende inerti facendoli trascendenti?
Sono due posizioni tante volte in varia veste riasscrite, e tante
volte criticate fin dall'antichità, che, proprio, non possono
prometterci niente di nuovo.
Per questo risultato negativo dell'indagine che si è
sommariamente accennata, il problema dapprima proposto cede il luogo
all'altro che tien dietro a quel risultato: non più di
cercare un contenuto o un valore dove non c'è, ma di cercare
per quali ragioni quelle viete posizioni erronee siano riemerse e
occupino tanto campo ai nostri giorni.
La risposta a quest'ultima domanda non potrebbe aversi piena se non
col ripercorrere il corso della storia, e particolarmente di quella
del secolo decimonono, e più particolarmente di quella che
dall'ultimo terzo di esso va fino ai giorni nostri: donde si
vedrebbe come nessun nuovo ideale di vita spirituale e umana si sia
levato dopo quello che culminò per l'opera congiunta della
rivoluzione francese e della filosofia idealistica e storica, ma che
quell'ideale, nel suo svolgimento, ha incontrato molteplici e gravi
difficoltà nello stato degli spiriti e nei nuovi spiriti
suscitati dal moto economico e sociale, da dar luogo ad arresti e
sviamenti, i quali, per importanti che si stimino, arresti e
sviamenti sono e non punto ideali, e se, nelle convulsioni che ne
conseguono, a ideali pretendono atteggiarsi, si traducono nelle
sopra definite asserzioni d'irrazionalismo o di astratto
razionalismo.
Sono codeste, senza dubbio, e debbono essere, formule filosofiche,
ma sotto di esse stanno fatti ben concreti e corpulenti, si muovono
le dramatis personae della più moderna lotta politica, quali
l'imperialismo e nazionalismo, il socialismo marxistico, lo
statalismo che si decora del nome di «etico», la ripresa
cattolica e clericale, e via enumerando. Fatti che preesistevano
all'ultima grande guerra e in parte la produssero; ma che la guerra
ha esasperati, perchè ha prov visoriamente indebolite
le forze di opposizione e di freno, che li
fonteggiavano.
Quando si consideri non solo che nella guerra distruttiva è
caduto il fiore della gioventù europea, della più
coraggiosa, della più generosa, della più intelligente
(e ciascuno di noi nella cerchia delle sue relazioni personali
novera tristamente queste forze perdute, queste speranze troncate),
ma anche che si è coltivata di necessità, per lunghi
anni, la disposizione alla violenza, e col comando e con la
disciplina soldatesca la desuetudine dalla lotta civile che richiede
l'industria e l'inventività individuale; e, di
necessità, — e anche oltre la necessità, — si è
disfatto o depresso l'aureo abito critico, con tanta severità
e delicatezza di cure educato negli anni di pace, e si è dato
largamente l'esempio di praticizzare il vero presentandolo a seconda
degli interessi come falso, e il falso presentando come vero; e si
è promossa la credulità verso tutte le fandonie che si
credeva utile mettere in giro, e si è favorita l'aspettazione
dello straordinario, dell'improvviso, del prodigioso e
dell'impossibile; — quando si considerino queste e altrettali cose,
la meraviglia non è già che le condizioni mentali e
morali del mondo siano quelle che sono, ma che non siano assai
peggiori; e si prende a contemplare con gratitudine le tenaci forze
di resistenza, che pure sono avanzate dappertutto e che hanno
impedito e impediscono il peggio, affidando dell'avvenire.
L'antistoricismo odierno, dunque, par che sia non già un
rovescio e un simbolo negativo di nuova sanità, ma
impoverimento mentale, debolezza morale, eretismo, disperazione,
nevrosi, e, insomma, un'infermità, da superare con la
pazienza e con la costanza, come tutte le infermità.
Di questo suo carattere d'infermità può recare
conferma l'altro fatto che, insieme con l'antistoricismo, accade di
osservare, e che intrinsecamente forma tutt'uno con esso: la
decadenza dell'ideale liberale, la quale in alcuni paesi ha avuto
anche per effetto la formazione di regimi antiliberali, ma che si
nota un po' dappertutto nelle parole e negli atti, nei libri e nei
metodi politici, e più ancora negli irrequieti desiderii.
Sentimento storico e sentimento liberale sono, in verità,
inscindibili, tanto che della storia non si è potuta dare
altra migliore definizione che di «storia della
libertà», perchè solo da questa essa ottiene un
senso e solo per essa si fa intelligibile.
Senza dubbio, nella storia si vedono altresì regimi
teocratici e regimi autoritarii, regimi di violenza e reazioni e
controriforme e dittature e tirannie; ma quel che solo e sempre
risorge e si svolge e cresce è la libertà, la quale,
ora in quelle varie forme si foggia i suoi mezzi, ora le piega a
suoi strumenti, ora delle apparenti sue sconfitte si vale a stimoli
della sua stessa vita. E, senza dubbio, anche nel passato la parola
« libertà » è stata talvolta sbeffeggiata
o maledetta come accadeva da parte di uomini e gruppi sociali che si
vedevano minacciati nei loro privilegi e scomodati nelle loro
abitudini, o da parte di rozze plebi, istigate dai loro preti; e
quel che è singolare, invece, dei giorni nostri è che
questo avvenga non da parte di privilegiati né di plebi, o
non solo da questa parte, ma da quella d'intellettuali, procreati
dalla libertà, e che non si accorgono di negare con essa
sé medesimi: segno aperto, quant'altro mai, di. processo
morboso.
E ancora un'altra conferma si può trarre dal giudizio che si
è dato, volgendo per un momento l'attenzione a uno stato
d'animo d'importanza minore e aneddotica ma tuttavia significante,
che è quello che, altresì in Italia, ha ricevuto il
suo battesimo e si è denominato «Antieuropa».
È evidente che il sentimento storico coincide col sentimento
europeo in quanto nell'Europa si concentra la più ricca e
nobile storia umana, l'Europa ha prodotto l'ideale liberale e ha
tolto su di sé la missione della civiltà nel mondo
tutto, e non v'ha in Europa storia di singoli popoli e stati che
possa intendersi separatamente, fuori della vita generale
dell'organismo di cui sono membra. La guerra stessa, invece di
accentuare le differenze, ha fatto spiccare questa comune
umanità europea, con comuni virtù e comuni difetti,
con comuni problemi. Sradicarsi dall'Europa dopo essersi sradicati
dalla storia è, di certo, proposito affatto coerente; ma di
quella coerenza che si ammira anche nei pazzi che ragionano.
Pure, giacché si dice che l'uomo di studio, il filosofo e lo
scienziato, deve avere l'esprit douteux, — ed io per mio conto
procuro di non rendermi indegno di quel nome che onora, —
farò l'ipotesi che l'interpretazione storica che ho offerta
dell'odierno antistoricismo non colga nel segno, e che io, per poco
acume o per aver gli occhi velati dalle dolci immagini del passato e
la mente radicata in vecchi convincimenti, non riesca a scorgere il
quid maius che si viene preparando tra la rozzezza e barbarie di
quel movimento, e scambii per depressione quella che è
elevazione, per in fermità un fruttifero travaglio
spirituale, per terrena pazzia la sacra follia della croce.
Data questa ipotesi, posto il caso che una nuova civiltà sia
in elaborazione, quale dovere spetterebbe a noi, filosofi e storici,
che vediamo per intanto buttar via con disprezzo quanto ha per noi
supremo pregio, i nostri concetti sulle vie necessarie del vero e
del bene, e sul carattere sacro del lavoro compiuto dalle umane
generazioni? Dovremmo, per un quid maius presunto e che ben
merita questa volta di essere accompagnato dal nescio,
aiutare all'opera di distruzione e abbandonare il nostro posto di
combattimento per seguire le turbe nemiche verso un segno che non
conosciamo ?.
— Formulerò questo quesito in un esempio e con immagini
storiche, che forse ne renderanno più facile la comprensione
e la so luzione, e domanderò: — se, concesso che il nuovo
popolo, la nuova storia e la nuova civiltà italiana
nascessero dalle invasioni barbariche, vivendo uno di noi, cultori
del vero, nel quinto o nel sesto secolo, al tempo dei goti o dei
longobardi, avrebbe scelto il suo posto accanto a un Totila e a un
Alboino, o non piuttosto a un Boezio e a un Gregorio? — A questi
ultimi, che continuarono la tradizione romana, e non a coloro che
rapinarono e scannarono coi goti e coi fedissimi longobardi, si deve
se questi barbari cessarono a poco a poco di esser barbari e, dando
e ricevendo, concorsero a generare gl'italiani dei Comuni e quelli
del Rinascimento.
Per noi, filosofi e storici, lo storicismo — che vuol dire
civiltà e cultura — è il valore che ci è stato
confidato e che abbiamo il dovere di difendere, tener forte ed
ampliare: lo storicismo, nodo del passato con l'avvenire, garanzia
di serietà del nuovo che sorge, blasfemato come la
libertà, ma che, come la libertà, ha sempre ragione di
chi gli si rivolge contro.
Federico Hebbel diceva, a proposito della sua poesia non accolta dai
suoi contemporanei, che, quand'anche gli uomini non volessero
più vestire abiti di seta, il povero filugello continuerebbe
a tirare ed avvolgere il suo filo. E noi, filosofi e storici,
potremmo, in ogni caso, dir lo stesso.
Senonchè, come l'umanità non può far di meno
della poesia, così neppure della storia e delle sue
tradizioni, e della libertà che le anima e accende gli animi.
E questa l'ultima religione che resti all'uomo, l'ultima non nel
senso che sia un ultimo avanzo, ma nell'altro senso che è la
più alta che si possa attingere, la sola che stia salda e non
tema i contrarii venti e anzi li riceva in sé e se ne
invigorisca: non sfugge e anzi ricerca la critica ed è essa
stessa, tutt'insieme, critica e costruzione, pensiero.
Coloro che la ignorano o la sconfessano sono, nel mondo moderno, i
veri atei, gl'irreligiosi: irreligione e ateismo che non è
quel che meno offenda nelle parole e negli atti degli
antistoricisti, energumeni del nuovo o vacui re stauratori
dell'antico. Chi apre il suo cuore al sentimento storico non
è più solo, ma unito alla vita dell'universo, fratello
e figlio e compagno degli spiriti che già operarono sulla
terra e vivono nell'opera che compierono, apostoli e martiri, genii
creatori di bellezza e di verità, umile gente buona che
sparsero balsamo di bontà e serbarono l'umana gentilezza;
adessi tutti mentalmente s'indirizza a invocare, e da essi gli
viene, sostegno nei suoi lavori e travagli, e nel loro grembo aspira
a riposarsi, versando l'opera sua nell'opera loro.