BENEDETTO CROCE
TEORIA E STORIA
DELLA STORIOGRAFIA
TEORIA E STORIA
Seconda edizione riveduta
BARI
GIUS. LATERZA & FIGLI
1920
INDICE
Avvertenza
I. Teoria della storiografia.
I. Storia e cronaca
II Le pseudostorie
III. La storia come storia dell'universale. Critica
della «storia universale
IV, Genesi e dissoluzione ideale della «Filosofia
della storia
V, La positività della storia
VI. L'umanità della storia
VII, La scelta e il periodizzamento
VIII. La distinzione (le storie speciali) e la divisione
IX. La «storia della natura» e la storia
Appendice.
I. Le notizie attestate
II Analogia o anomalia delle storie speciali
III. Filosofìa e metodologia
II Intorno alla storia della storiografia
I. Questioni preliminari
II. La storiografìa greco-romana
III. La storiografìa medievale
IV. La storiografia del rinascimento
V. La storiografia dell' illuminismo
VI. La storiografia del romanticismo
VII. La storiografia dol positivismo
VIII. La nuova storiografìa.
Conclusione
[...]
AVVERTENZA
Quasi tutti gli scritti che compongono la presente trattazione
furono inseriti in atti accademici e riviste italiane tra il 1912
e il '13; e poiché rispondevano a un disegno, poterono senza
sforzo congiungersi in un libro, pubblicato in lingua tedesca col
titolo: Zur Theorie und
Geschichte der Historiographie (Tübingen, Mohr, 1915).
Nel dare ora lo stesso libro in italiano, vi ho fatto pochi
ritocchi e l'aggiunta di tre brevi saggi, collocati come appendice
alla prima parte. Qualche schiarimento richiede la designazione
che porta il volume come «quarto» della mia Filosofia dello
spirito; della quale, a dir vero, non forma una nuova parte
sistematica,, ed è da considerare piuttosto come approfondimento
ed ampliamento alla teoria della storiografia già delineata in
alcuni capitoli della seconda parte, ossia della Logica.
Ma il problema della comprensione storica è quello verso cui
tendevano tutte le indagini da me condotte intorno ai modi dello
spirito, alla loro distinzione ed unità, alla loro vita veramente
concreta che è svolgimento e storia, e al pensiero storico, che è
l'autocoscienza di questa vita.
In certo senso, dunque, il ripigliare di proposito, dopo il lungo
giro compiuto, il discorso sulla storiografia, traendolo fuori dai
limiti della prima trattazione, era la più naturale conclusione
che si potesse dare all'opera intera.
Il quale carattere di «conclusione» spiega anche e giustifica la
forma letteraria di quest'ultimo volume, più serrata e meno
didascalica di quella dei volumi precedenti.
Napoli, maggio 1916.
Alla prima edizione di questo libro, venuta in luce nell'estate
del 1917, segue dopo due anni la seconda, alla quale ho fatto solo
rare correzioni di parole e qualche piccola aggiunta.
luglio 1919.
B. C.
I
TEORIA DELLA STORIOGRAFIA
I
Storia e cronaca
«Storia contemporanea» si suol chiamare la storia di un tratto di
tempo, che si considera come un vicinissimo passato: dell'ultimo
cinquantennio o decennio o anno o mese o giorno, e magari
dell'ultima ora o dell'ultimo minuto. Ma, a voler pensare e
parlare con istretto rigore, «contemporanea» dovrebbe dirsi sola
quella storia che nasce immediatamente sull'atto che si viene
compiendo, come coscienza dell'atto: la storia, per esempio, che
io taccio di me in quanto prendo a comporre queste pagine, e che è
il pensiero del mio comporre, congiunto necessariamente all'opera
del comporre. E «contemporanea» sarebbe detta bene in questo caso,
appunto perché essa, come ogni atto spirituale, è fuori del tempo
(del prima e del poi) e si forma «nel tempo stesso» dell'atto a
cui si congiunge, e da cui si distingue mercé una distinzione non
cronologica ma ideale.
«Storia non contemporanea», «storia passata», sarebbe invece
quella che trova già innanzi a sé una storia formata, e che nasce
perciò come critica di essa storia, non importa se antica di
millenni o remota di un'ora appena. Senonché, considerando più da
vicino, anche questa storia già formata, che si dice o si vorrebbe
dire «storia non contemporanea» o «passata», se è davvero storia,
se cioè ha un senso e non suona come discorso a vuoto, è
contemporanea, e non differisce punto dall'altra. Come dell'altra,
condizione di essa è che il fatto del quale si tesse la storia,
vibri nell'animo dello storico; o (per adoperare le parole d'uso
nel mestiere storico) se ne abbiano innanzi, intelligibili, i
documenti. E che a quel fatto vada unito e commisto un racconto o
una serio di racconti del fatto, importa semplicemente che il
fatto si presenta più ricco, ma non già che
abbia perduto la sua efficacia di presenza: quelli che
furono innanzi racconti o giudizi, sono ora anch'essi fatti,
anch'essi «documenti», da doversi interpretare e giudicare: la
storia non si costruisce mai sulle narrazioni, ma sempre sui
documenti, o sulle narrazioni abbassate, a documenti e trattate
come tali.
E se la storia contemporanea balza direttamente dalla vita,
anche direttamente dalla vita sorge quella che si suol chiamare
non contemporanea, perché è evidente che solo un
interesse della vita presente ci può movere a indagare un fatto
passato; il quale, dunque, in quanto si unifica con un interesse
della vita presente, non risponde a un interesse passato, ma
presente. Il che anche è detto e ridetto in cento modi nello
formolo empiriche degli storici, e costituisce, se non il
contenuto profondo, la ragione della fortuna del motto assai
trito: che la storia sia magistra vitae.
Ho richiamato codeste formole della tecnica storica per togliere
aspetto di paradosso alla proposizione: che «ogni vera storia è
storia contemporanea». Ma la giustezza di questa proposizione
ottiene facile conferma e ricca e perspicua esemplificazione nella
realtà dell'opera storiografica, sempre che non si scivoli
nell'errore di prendere tutt'insieme i libri degli storici, o
alcuni gruppi di essi alla rinfusa, e, riferendoli a un astratto
uomo, o a noi stessi astrattamente considerati, domandare quale
interesse presente c'induca a scrivere o a leggere quelle storie:
quale l'interesse presente della storia che narra la guerra
peloponnesiaca o la mitridatica, le vicende dell'arte messicana o
della filosofia arabica? Per me, in questo momento, nessuno; e
quindi, per me, in questo momento, quelle storie non sono storie,
ma, tutt'al più, semplici titoli di libri storici : e sono state o
saranno storie in coloro che le hanno pensate o le penseranno, e
in me, quando le ho pensate o quando le penserò, rielaborandole
secondo il mio bisogno spirituale.—
Se, invece, ci atteniamo alla storia reale, alla storia che
realmente si pensa nell'atto che si pensa, sarà, agevole scorgere
che essa è perfettamente identica alla più personale e
contemporanea delle storie. Quando lo svolgimento della cultura
del mio momento storico (e sarebbe superfluo, e forse anche
inesatto, aggiungere: di me come individuo) apre innanzi a me il
problema della civiltà ellenica, della filosofia platonica, o di
un particolare atteggiamento del costume attico, quel problema è
cosi legato al mio essere come la storia di un negozio che sto
trattando, o di un amore che sto coltivando, o di un pericolo che
m'incombe: ed io lo indago con la medesima ansia, e sono
travagliato dalla medesima coscienza d'infelicità, finché non
riesco a risolverlo. La vita ellenica è, in quel caso, presente in
me; e mi sollecita e mi attrae e mi tormenta, come il sembiante
dell'avversario, della donna amata, o del figlio diletto pel quale
si trepida. E cosi accade o è accaduto o accadrà della guerra
mitridatica, dell'arte messicana, e delle altre cose tutte, che ho
menzionate di sopra in via di esempio.
Posto che la contemporaneità non è carattere di una classe di
storie (come si ritiene e si ha buone ragioni di
ritenere nel classificare empirico),
ma carattere intrinseco di ogni
storia, bisogna concepire il
rapporto della storia con la vita come rapporto di unità:
non certamente nel senso di un'astratta identità, ma in quello di
unità sintetica, che importa la distinzione e l'unità insieme dei
termini. Sicché parlare di una storia, della quale non si
posseggano i documenti, sembrerà tanto stravagante quanto parlare
dell'esistenza di una cosa qualsiasi, della quale si afferma
insieme che manca una delle condizioni essenziali alla sua
esistenza. Una storia senza relazione col documento sarebbe una
storia inverificabile; e poiché la realtà della storia è in questa
verificabilità, e la narrazione nella quale si viene concretando è
narrazione storica solo in quanto è esposizione critica del
documento (intuizione e riflessione, coscienza e autocoscienza
ecc.), una storia di quella sorta, priva di significato e di
verità, sarebbe inesistente in quanto storia.
Come mai si potrebbe comporre una storia della pittura da chi non
vedesse e godesse le opere delle quali si propone di dare
criticamente la genesi; o quale intelligibilità essa serberebbe
per chi non avesse l'esperienza artistica presupposta dal
narratore? Come mai una storia della filosofia, senza le opere. o
almeno i frammenti delle opere, dei filosofi? Come mai la storia
di un sentimento o di un costume, per esempio dell'umiltà
cristiana o dell'onore cavalleresco, senza la capacità di
rivivere, o meglio, senza un effettivo rivivere questi stati
d'animo particolari?
D'altro canto, fermato l'indissolubile nesso di vita e pensiero
nella storia, spariscono a un tratto e totalmente, e quasi non si
riesce più neppure a concepirli, i dubbi che si sono mossi intorno
alla certezza e all'utilità della storia. Come mai potrebbe essere
incerto ciò che è un presente produrre del nostro spirito? Come
potrebbe essere inutile una conoscenza, che risolve un problema
sorto dal seno della vita?
II
Ma si può rompere mai il nesso di documento e narrazione, di vita
e storia? La risposta affermativa è già contenuta nell'accenno che
si è fatto a storie delle quali siano perduti i documenti, o, per
enunciare il caso più generale e fondamentale, delle quali i
documenti non siano vivi nello spirito. E nel già detto è anche
implicito il riconoscimento, che in questa condizione ci troviamo
a volta a volta, ciascuno di noi, rispetto a questa o quella parte
della storia. La storia della pittura ellenica è generalmente per
noi, nella sua massima parte, una storia senza documenti: e storie
senza documenti sono tutte quelle che leggiamo di popoli dei quali
non conosciamo i luoghi precisi dove vissero, i pensieri e i
sentimenti che li agitarono, la fisionomia individuale delle opere
che compirono; o delle letterature e delle filosofie, di cui non
ci sono noti i testi, ovvero, avendoli per le mani e anche
percorrendoli con gli occhi, non ne penetriamo l'intimo spirito,
sia per difetto di conoscenze complementari, sia per ostinata
riluttanza nostra di temperamento, sia per nostra momentanea
distrazione.
Se, in questi casi, rotto quel nesso, ciò che resta non è più
storia (perché la storia era nient'altro che quel nesso), e si può
seguitare a chiamare storia solo a quel modo che si chiama ancora
«uomo» il cadavere di un uomo, non per ciò quel che resta è nulla
(neanche il cadavere ò propriamente nulla). Se fosse nulla, tanto
varrebbe dire che il nesso è indissolubile, perché il nulla non ò
mai effettuale. E, se non è nulla, se è qualcosa, che cosa è la
narrazione senza documento? Una storia della pittura ellenica,
secondo le narrazioni che ce ne sono state tramandate o che ne
sono state costruite da moderni eruditi, si
risolve, quando ben si osservi, in una serie di
nomi di pittori (Apollodoro, Polignoto, Zeusi, Apelle, ecc.),
contornati da aneddoti biografici; e in una serie di soggetti di
pitture (l'incendio di Troia, la pugna delle Amazzoni, la
battaglia di Maratona, Elena, Achille, la Calunnia, ecc.) alcuni
dei quali alquanto particolareggiati nelle descrizioni; e in una
serie di elogi o di biasimi, variamente graduati: nomi, aneddoti,
soggetti, giudizi, ordinati a un dipresso cronologicamente.
Ma i nomi dei pittori, scevri dalla conoscenza diretta delle loro
opere, sono nomi vuoti; e vuoti gli aneddoti, e vuote le
descrizioni dei soggetti, e vuoti i giudizi di approvazione o di
riprovazione, e vuoto l'ordinamento cronologico, perché pura
aritmetica che non sta ad esprimere uno svolgimento reale, del
quale, non si attua in noi il pensiero perché ce ne mancano gli
elementi costitutivi. Se qualcosa quelle formole verbali pur
dicono, si deve a quel poco che della pittura antica conosciamo in
frammenti, in opere secondarie, in copie o in opere analoghe dello
altre arti e della poesia; ma, prescindendo da quel poco, la
storia della pittura ellenica è, in quanto tale, un contento di
parole vacue. 0, se piace meglio, «vacue di contenuto determinato»
, perché qui non si nega che, pronunziando il nome di un pittore,
noi pensiamo a un qualche pittore, e magari a un pittore che sia
uomo ateniese, e, pronunziando il nome «battaglia» o quello di
«Elena», pensiamo a una battaglia, e magari a un combattimento di
opliti, o a una bella donna, magra: simile ad alcuna di quelle che
ci sono familiari nelle figure della plastica ellenica. Ma
possiamo pensare indifferentemente all'uno o all'altro degli
innumerevoli fatti, che quei nomi richiamano; e perciò il loro
contenuto è indeterminato, e questa indeterminatezza di contenuto
è la loro vacuità.
Tali, come in questo esempio, sono tutte le
storie distaccate dai loro vivi documenti, le vuote narrazioni; e,
perché vuote, prive di verità. È vero o no che esistette un
pittore a nomo Polignoto, e che egli dipinse nel Pecile la figura
di Milziade? Si dirà che è vero, perché qualcuno o parecchi, che
lo conobbero e videro quell'opera, attestano l'esistenza; ma
bisognerebbe dire invece che fu vero per quello o quei testimoni,
e per noi non è né vero né falso, o (che è il medesimo) è vero
soltanto sull'autorità di quei testimoni, cioè per una ragione
estrinseca, laddove la verità richiede sempre ragioni intrinseche.
E, come quella proposizione non è vera (né vera né falsa), non è
neppure utile, perché, dove non c'è nulla, il re perde i suoi
diritti, e dove mancano gli elementi di un problema, manca,
insieme con la possibilità, l'effettiva volontà e il bisogno
effettivo di risolverlo: sicché recitare quei ragguagli vuoti ò
cosa inutilissima all'attualità della nostra vita.
La vita è un presente; e quella storia, resa vuota narrazione, è
un passato: passato irrevocabile, se non assolutamente, xat'autò,
di certo nel momento presente. Rimangono le vuote parole, e le
vuote parole sono suoni, o segni grafici che li rappresentano, ed
esse si tengono insieme e si mantengono, non per un atto di
pensiero che le pensi (nel qual caso sarebbero tosto riempite), ma
per un atto di volontà, che stima opportuno a certi suoi fini
serbare quelle parole, per vuote o semivuote che siano. La mera
narrazione non è dunque altro che un complesso di vuote parole o
formolo, asserito per un atto di volontà. Ora con questa
definizione noi siamo pervenuti né più né meno che ad assegnare la
distinzione vera, cercata invano finora, tra la storia e la
cronaca. Ed è stata cercata invano, perché si e voluto di solito
riporla in una differenza nella qualità dei fatti, che ciascuna
prendeva a suo oggetto; e, per esempio, alla cronaca si è
attribuito il ricordo dei fatti individuali, e alla storia dei
fatti generali, alla prima quello dei l'atti privati, alla seconda
dei pubblici: come se il generale non fosse sempre individuale e
l'individuale generale, il pubblico non fosse insieme privato e il
privato pubblico.
Ovvero alla storia si è attribuito il ricordo dei fatti
importanti (memorandi), e alla cronaca quello dei non importanti:
come se l'importanza dei fatti non fosse relativa alla situazione
nella quale ci troviamo, e per un uomo infastidito da una zanzara
le evoluzioni di questo minuscolo essere non fossero qualcosa di
più importante della spedizione di Serse!
Certo, anche in queste fallaci distinzioni si avverte un
sentimento giusto, che è di riporre la differenza tra storia e
cronaca nel concetto di quel che interessa e di quel che non
interessa (il generale interessa e non il particolare, interessa
il grande e non il piccolo, ecc.). E un giusto sentimento si nota
anche in altre caratteristiche che si sogliono addurre, come
quella del saldo legame che è nella storia e della slegatura che
appare invece nella cronaca, dell'ordine logico che è nella prima
e dell'ordine puramente cronologico che è nella seconda, del
penetrare che la prima fa nell'intimo degli avvenimenti e del
tenersi la seconda alla superficie o all'esterno; e simili. Ma il
carattere differenziale è qui piuttosto metaforizzato che pensato,
e con le metafore (quando non si adoperino come semplici forme
espressive del pensiero) si perde, un istante dopo, ciò che si ora
acquistato un istante prima.
La verità è che cronaca e storia non sono distinguibili come due
forme di storia, che si compiano a vicenda o che siano l'una
subordinata all'altra, ma come due diversi atteggiamenti
spirituali. La storia è la storia viva, la cronaca la storia
morta; la storia, la storia contemporanea, e la cronaca, la storia
passata; la storia è precipuamente un atto di pensiero, la cronaca
un atto di volontà. Ogni storia diventa cronaca quando
non è più pensata, ma solamente ricordata nelle astratte parole,
che erano un tempo concrete e la esprimevano. Cronaca è persino la
storia della filosofia, scritta dai non intelligenti di filosofia
o letta da costoro: e storia persino quella, che noi saremmo ora
di solito disposti a leggere come cronaca, del monaco cassinese,
che, per esempio, segnava: «1001. Baatus Dominicus migravit ad
Christum. 1002. Hoc anno venerunt Saraceni super Capuam. 1004.
Terremotus ingens hunc montem exagitavit», ecc.; e aveva
presenti questi fatti, e lacrimava per la dipartita del beato
Domenico, e si atteneva pei flagelli umani e naturali che
percotevano la sua terra, e vedeva in quella successione di
accadimenti la mano protesa di Dio.
Il che non toglie che, per lo stesso monaco cassinese, quella
storia potè atteggiarsi a cronaca, quando ne trascriveva le fredde
formole, senza più rappresentarsene e pensarne il contenuto, con
in mente il solo proposito di non lasciar disperdere quelle
memorie e tramandarle a coloro che in avvenire avrebbero abitato,
dopo di lui, Montecassino.
Ma il ritrovamento della vera distinzione tra cronaca e storia,
che è distinzione formale (ossia veramente reale), non solo ci
libera dal faticoso e sterile anfanare dietro distinzioni
materiali (ossia fantastiche), sì anche ci mette in grado di
rigettare un comunissimo preconcetto, che è quello
dell'anteriorità della cronaca sulla storia. «Primo Annales (le
cronache) fuere, post Historiae factae sunt», secondo il
detto di un antico (il grammatico Mario Vittorino), ripetuto e
generalizzato e universalizzato. Ma dall'indagine sul carattere, e
perciò sulla genesi, delle due operazioni o dei due atteggiamenti,
consegue invece proprio l'opposto: prima la Storia, poi la
Cronaca. Prima il vivente, poi il cadavere; o far nascere la
storia dalla cronaca tanto varrebbe quanto far nascere il vivente
dal cadavere, che e invece il residuo della vita, come la cronaca
e il residuo della storia.
III
La storia, staccata dal documento vivo e resa cronaca, non e più
un atto spirituale, ma una cosa, un complesso di suoni o di altri
segni. Ma anche il documento, staccato dalla vita, è nient'altro
che una cosa, simile all'altra, un complesso di suoni o di altri
segni: per esempio, i suoni e le lettere nelle quali fu già
comunicata una legge, le linee intagliate nel marmo e che
manifestarono un sentimento religioso mercé la figura del dio, un
mucchio di ossa con le quali si attuò un tempo l'organismo di un
uomo o di un animale. Esistono queste cose, le narrazioni vuote e
i documenti morti? In certo senso no, perché le cose esterne,
fuori dello spirito, non esistono; e già sappiamo che la cronaca,
come narrazione vuota, in tanto esiste in quanto lo spirito la
produce e tien ferma per un atto di volontà (e può essere
opportuno avvertire ancora una volta che tale atto porta sempre
con sé un nuovo atto di coscienza e di pensiero): per un atto
volitivo che astrae il suono dal pensiero, nel quale il suono
aveva la sua certezza e concretezza.
Del pari, quei morti documenti in tanto esistono in quanto sono
manifestazioni di una nuova vita, come il corpo esanime è
effettivamente anch'esso un processo di creazione vitale, sebbene
sembri di decomposizione e qualcosa di morto rispetto a una forma
particolare di vita. Ma al modo stesso che i suoni vuoti, i quali
già racchiusero il pensiero di una storia, si seguita a chiamarli
«narrazioni» in ricordo del pensiero che racchiusero, cosi quelle
manifestazioni di nuova vita si seguita a considerarle come
strascichi della vita che le precesse, e che nel fatto è spenta.
Ed eccoci, mercé questa catena di deduzioni, in grado di renderci
conto della partizione, che s'incontra presso parecchi
metodologisti moderni, delle fonti storiche in narrazioni e
documenti, o, come anche si suole formolarla, in tradizioni, e
residui o avanzi (Ueberbleibsel, Ueberreste). Partizione,
che è irrazionale sotto l'aspetto empirico, e può valere come
esempio tipico della inopportuna introduzione di un pensiero
speculativo nell'empirismo. Tanto irrazionale che si urta subito
nella difficoltà di non poter distinguere ciò che si voleva
distinguere; e una «narrazione» vuota, considerata come cosa, si
adegua a ogni altra qualsiasi cosa, che si dica «documento».
E, d'altra parte, mantenendo la distinzione, si urta
nell'ulteriore difficoltà di dover costruire la storia col
fondarsi su due diversi ordini di dati (col tenere un piede, sulla
sponda e un altro nel fiume); vale a dire, col ricorrere a due
istanze parallele, l'una delle quali rinvia perpetuamente
all'altra. E quando, per uscire dall'incomodo parallelismo, si
cerca di determinare la relazione delle due specie di fonti,
accade che o questa relazione venga riposta nella superiorità di
una delle due sull'altra, e la distinzione svanisce, perché la
forma superiore risolve in sé e annulla l'inferiore; ovvero che si
postuli un terzo termine, nel quale le due forme si
unificherebbero distinguendosi: e codesto è un altro modo di
dichiararle inesistenti in quell'astrattezza.
Perciò non mi sembra senza significato che la partizione di
racconti e documenti non abbia trovato adito presso i più empirici
metodologisti, che non s'imbarazzano in tali sottigliezze e stanno
contenti a l'aggruppare le fonti storiche in fonti scritte e fonti
figurate, o in altri modi simili: laddove in Germania essa fa
fatta valere dal Droysen nei suoi pregevoli Elementi
d'Istorica (dal Droysen, che era una mente con forti
disposizioni alla filosofia), e ha avuto fortuna presso altri
metodologisti, i quali per effetto delle ricche tradizioni
filosofiche di quel paese sono empiristi ibridi, «sistematici » o
«pedanti», come si suole giudicarli nei nostri paesi latini. E la
pedanteria c'è, ed è per l'appunto in quella inopportuna
filosofia; ma oh come quella inopportunità, con le contradizioni
che si tira dietro, è salutare, e come sveglia le menti dal loro
sonno empirico, e fa loro intravvedere che, dove si supponevano
cose, sono invece atti spirituali; dove si credevano in contrasto
i termini di un dualismo inconciliabile, vige in effetto la
relazione e l'unità!
La partizione delle fonti in narrazioni e documenti, e la
superiorità attribuita ai documenti sulle narrazioni, e l'asserita
necessità delle narrazioni pur come elemento subordinato ma
ineliminabile, porgono quasi una mitologia o un'allegoria, che
rappresenta in modo immaginoso il rapporto di vita e pensiero nel
pensiero storico, di documento e critica. E il documento e la
critica, la vita e il pensiero, sono le vere fonti della storia,
cioè i due elementi della sintesi storica; e, come tali, non
stanno innanzi alla storia, ossia innanzi alla sintesi, al modo
che s'immaginano le fontane innanzi a colui o a colei che vi
attinga col secchio, ina entro la storia medesima, entro la
sintesi, costitutive di essa e costituite da essa.
Onde l'idea di una storia, che abbia le sue fonti fuori di sé, è
un'altra immaginazione da sfatare, insieme con quella della storia
che abbia innanzi a sé la cronaca: due fallaci immaginazioni, che,
in fondo, convergono in una sola. Le fonti, nel senso estrinseco
degli empirici, come cose, sono, al pari della cronaca che è una
classe di codeste cose, non anteriori ma posteriori alla storia.
Starebbe fresca la storia, se aspettasse di nascere da ciò che
viene dopo di lei; e se aspettasse di nascere da cose esterne! Da
cosa nasce cosa e non nasce pensiero: la storia, che procedesse
dalle cose, sarebbe una cosa, cioè quel tale inesistente di cui si
è poc'anzi parlato. Pure se, per la cronaca non meno che pei
documenti, si forma la parvenza che essi siano anteriori alla
storia, e sue fonti estrinseche, ci dev'essere una ragione.
Lo spirito umano serba le spoglie mortali della storia, le
narrazioni vuote, le cronache; e lo stesso spirito raccoglie le
tracce della vita passata, gli avanzi, i documenti, e procura di
serbarli quanto più è possibile inalterati o di restaurarli a
misura che si alterano. Qual è il fine di questi atti di volontà,
che si esplicano nel serbare il vacuo e il morto? Forse
l'illusione o la stoltezza, che sofferma il mortale, spento, al
limitar di Dite, mercé l'erezione delle case dei morti, dei
sepolcri? Ma neppure i sepolcri sono stoltezza e illusione,
sibbene un atto morale col quale si afferma, simboleggiando,
l'immortalità dell'opera compiuta dagl'individui, che, morti, pur
vivono nel ricordo nostro e vivranno in quello degli avvenire. E
un atto di vita, che serve alla vita, è quel trascrivere storie
vuote e raccogliere documenti morti. Verrà il momento che essi ci
agevoleranno a riprodurre, arricchita, nel nostro spirito la
storia passata, rifacendola presento.
Perché la storia morta rivive e la storia passata si rifà
presente, via via che lo svolgimento della vita cosi richiede.
Giacquero nei loro sepolcri i romani e i greci, finché la nuova
maturità dello spirito europeo, nel Rinascimento, non li
risvegliò; giacquero dimenticate o poco osservate o fraintese le
forme primitive, corpulente e barbariche, di civiltà, finché
quella nuova fase dello spirito europeo, che prese nome di
Romanticismo o di Restaurazione, non «simpatizzo» con esse, ossia
non le riconobbe come suo proprio interesse presente. Tanta parte
di storia, che ora per noi è cronaca, tanti documenti che ora per
noi sono muti, saranno, a volta a volta, percorsi da nuovi guizzi
di vita, e torneranno a parlare.
Questi ravvivamenti hanno motivi
affatto intcriori; e non c'è copia di documenti o di
narrazioni che possa effettuarli, anzi sono essi medesimi che
raccolgono in copia e recano innanzi a sé i documenti e le
narrazioni, che, senza di essi, rimarrebbero sparpagliati e
inerti. E sarà impossibile intendere mai nulla del processo
effettivo del pensare storico se non si muove dal principio che lo
spirito stesso è storia, e in ogni suo momento fattore di storia e
risultato insieme di tutta la storia anteriore; cosicché lo
spirito reca in sé tutta la sua storia, che coincide poi col sé
stesso. Dimenticare un aspetto della storia e ricordarne un altro
non è se non il ritmo stesso della vita dello spirito, il quale
opera determinandosi e individuandosi, e indetermina e
disindividua sempre le precedenti determinazioni e individuazioni
per crearne altre più ricche. Lo spirito rivivrebbe, per cosi
dire, la sua storia, anche senza quelle cose esterne che si dicono
narrazioni e documenti; ma quelle cose esterne sono strumenti
ch'egli si foggia, ed atti preparatori ch'egli compie, per attuare
quella vitale evocazione interiore, nel cui processo si risolvono.
E a tal uso lo spirito asserisce e gelosamente serba le «memorie
del passato».
Ciò che ciascuno di noi fa a ogni istante, prendendo nota nel
taccuino di date e di casi relativi alle proprie faccende
(cronaca), o chiudendo nel suo cassetto nastri e fiori secchi (mi
si consenta di ricorrere a queste immagini soavi, per offrire
esempi delle raccolte di «documenti») si esegue in più larga
scala, quasi per delegazione dell'intera società, da una classe di
lavoratori, che si chiamano filologi, e più particolarmente
eruditi, quando raccolgono testimonianze e narrazioni, e
archivisti e archeologi, quando raccolgono documenti e monumenti;
come i luoghi in cui si serbano quegli oggetti (le «bianche e
tacite case dei morti»), si chiamano biblioteche, archivi, musei.
Si può voler male agli eruditi, archivisti e archeologi, che
adempiono a un ufficio necessario, e perciò utile e importante?
Nondimeno, corre il vezzo d'irriderli o di guardarli
compassionevolmente. Vero è che all'irrisione o al sorriso essi
danno talvolta appicco con l'ingenua loro credenza di tener sotto
chiave la storia, e di disserrare a loro libito le «fonti» da cui
l'assetata umanità potrà attingerla: quella storia, che è invece
in noi tutti e le cui fonti sono nel nostro petto. E il nostro
petto, esso soltanto è il crogiuolo in cui il certo si converte
col vero, e la filologia, congiungendosi con la filosofia, produce
la storia.
II
Le pseudostorie
La storia, la cronaca, la filologia, delle quali si è veduta la
genesi, sono una serie di forme mentali, che, quantunque distinte
tra loro, debbono, considerarsi tutte fisiologiche, ossia vere e
razionali. Ma l'ordine logico mi conduce ora dalla fisiologia alla
patologia, alle forme che non sono forme ma difformazioni, non
vere ma erronee, non razionali ma irrazionali.
Invero l'ingenua credenza dei filologi di tener chiusa nelle loro
biblioteche, musei ed archivi la storia (fatta simile cosi a quel
genio delle Mille e una notte, che era stato chiuso come fumo
compresso in un vasetto), non rimane inattiva, e genera l'idea di
una storia che si costruisca con le cose, con le tradizioni e i
documenti (tradizioni vuote e documenti morti): che è il caso che
potrebbe chiamarsi della storia filologica. Dico l'idea e non la
realtà, perché costruire una storia con cose esterne è
semplicemente impossibile, per isforzi che si facciano e industrie
che si adoperino. Le cronache ripulite, tagliuzzate, ricombinate,
riordinate, restano pur sempre cronache, cioè narrazioni vuote: i
documenti restaurati, riprodotti, descritti, allineati, restano
documenti, cioè cose mute. La storia filologica si
riduce al travasamento di più libri o di più parti di
vari libri in un nuovo libro: operazione che reca anche nel
linguaggio corrente un nome appropriato, e si dice «compilazione».
Le quali compilazioni sono di frequente utili, perchérisparmiano
la fatica di maneggiare più libri insieme; ma non contengono alcun
pensiero storico. I moderni storici filologi guardano con
sentimento di superiorità ai cronisti medievali o ai vecchi
storici italiani (dal Machiavelli e dal Guicciardini giù giù fino
al Oiannonc;, che «trascrivevano», essi dicono, nelle parti
narrative ossia cronachistiche dei loro libri, le loro «fonti».
Pure essi medesimi non si comportano né possono comportarsi in
diverso modo, perché, componendo la storia con le «fonti» come con
cose esterne, non resta mai altro che trascrivere le fonti:
trascrivere compendiando o variando le parole, che è talvolta una
questione di buon gusto e tal'altra una lustra letteraria, e
mettendo le citazioni in regola, che è talvolta prova di lealtà e
di esattezza, e tal'altra un dare a credere e un darsi a credere
di poggiare i piedi sul sodo, sul terreno della verità, che
sarebbe la narrazione o il documento citato.
Quante e quante mai sono codeste storie filologiche ai tempi
nostri, specie da quando è stato esagerato, cioè fatto
unilateralmente valere, il cosi detto «metodo filologico»! Storie
di dignitosa e «scientifica» apparenza, ma alle quali fehlt leider! das geistige Band,
manca il nesso spirituale; e che consistono, nel loro fondo, in
nient'altro che dotte o dottissime «cronache»: libri di
consultazione all'occorrenza, ma non già parole che nutriscano e
riscaldino le menti e gli animi.
Senonché, mostrato che la storia filologica offre effettivamente
cronache e documenti e non istorie, si potrebbe domandare su che
cosa mai si fondi l'addebito che da noi le si fa d'irrazionalità e
di errore; posto, d'altro canto, che la formazione delle cronache,
la raccolta dei documenti e tutte le cure
che si spendono intorno a
essi sono state stimate da noi razionalissime,
ma l'errore non è mai nel fatto, sibbene soltanto nella «pretesa»
o nell'«idea», che accompagna il fatto; e l'idea o la pretesa è
quella, che è stata definita sopra come propria della storia
filologica: comporre la storia mercé racconti e documenti. Pretesa
che esercita anch'essa un ufficio razionale, in quanto pone,
sebbene non soddisfi, l'esigenza della storia che oltrepassi la
mera cronaca e il mero documento: ma che, in quanto poi, in
effetto, non li oltrepassa, si chiarisce contradittoria e perciò
assurda.
E poiché assurda è la pretesa, la storia filologica rimane priva
di verità, come quella che, al pari della cronaca, non ha la
verità dentro di sé, ma nell'autorità, alla quale rimanda. Si
vanterà che la storia filologica vaglia le autorità e sceglie le
più fededegne. Ma, senza dire che anche la cronaca, anche il più
rozzo e ignorante e credulo cronista teneva lo stesso procedimento
e vagliava le autorità e sceglieva quelle che erano per lui più
degne di fede, si tratta sempre di fede (cioè di pensiero altrui e
passato), e non di critica (cioè di pensiero nostro e in atto), di
verisimiglianza e non di quella certezza che è verità: onde la
storia filologica può essere bensì corretta, ma non già vera (richtig, e non wahr). E, come è priva di verità, cosi essa è
priva di vero interesse storico, ossia non reca luce intorno a un
ordine di fatti che risponda a un bisogno pratico ed etico; e può
abbracciare indifferentemente qualsiasi materia più lontana
dall'animo pratico ed etico del compilatore: talché io, in quanto
puro filologo, godo del libero arbitrio d'indifferenza, e tanto
vale per me la storia italiana dell'ultimo mezzo secolo quanto
quella della dinastia cinese dei Tsin; e mi volgerò all'una o
all'altra, mosso senza dubbio da un qualche interesse, ma da un
interesse extrastorico, di quelli che si formano nella cerchia
particolare del fllologismo.
Questo procedere senza verità e senza passione, che e proprio
della storia filologica, rende ragione del vivo contrasto che si
rinnova di continuo tra gli storici filologi e gli storici
propriamente detti; i quali ultimi, intenti alla soluzione di
problemi vitali, s'impazientiscono al vedersi offrire, come in
risposta, i frigidi prodotti della filologia o si sdegnano alla
insistente asserzione che tale è la storia, e che con tali metodi
e spirito dev'essere elaborata. La più bella esplosione che si
possa mai ammirare di codesto sentimento di. fastidio e di sdegno,
si trova forse nelle Letters on the study of hstory (1751) del Bolingbroke;
nelle quali l'erudizione ò definita né più né meno che «ignoranza
fastosa»; e le dotte disquisizioni sulla storia antica o primitiva
vengono ammesse tutt'al più come quei «preludi bizzarri», che
precedono i concerti e servono per accordare gl'istrumenti e che
solo un ottuso d'orecchio può scambiare per armonia, come solo un
ottuso di senso storico può scambiare quelle erudizioni per la
vera storia; e in antitesi a esse si propone come ideale una sorta
di «mappamondi politici», a vantaggio dell'intelletto e non della
memoria, e si additano come scritture che si avvicinano a questo
ideale il primo libro delle Storie fiorentine del Machiavelli e il
Trattato dei benefici di fra' Paolo; e, infine, si sostiene che
alla storia vera e viva non giova risalire più su del
cominciamento del secolo decimosesto, più su di Carlo V e di
Errico VIII, del tempo cioè in cui prese origine il sistema
politico e sociale di Europa ancora in atto ai principi del secolo
decimottavo; e di quei due secoli di storia si procura di dare un
quadro a uso non già dei curiosi e degli eruditi, ma dei politici.
— Non è, io credo, chi voglia negare il sentimento giusto della
storia che muove queste esigenze, cosi vivacemente affermate;
sebbene il Bolingbroke non s'innalzasse, né gli fosse
agevole innalzarsi, poste le condizioni di cultura del
suo tempo e del suo paese, al concetto del morire e del rinascere
di ogni storia (che e il concetto rigorosamente speculativo della
storia «attuale» e «contemporanea»), e non sospettasse che la
storia primitiva e barbarica, da lui gettata in un canto come
inutile ciarpame, sarebbe risorta freschissima mezzo secolo dopo,
per effetto della reazione all'intellettualismo e al giacobinismo,
reazione della quale doveva essere tra i principali promotori un
pubblicista del suo stesso paese, il Burke; e, anzi, che già
risorgeva al tempo suo stesso, in un angolo d'Italia, nell'animo e
nella mente di Giambattista Vico.
Non recherò altri esempi, dopo questo cospicuo del Bolingbroke,
del contrasto tra gli storici effettivi e gli storici filologi,
perché si tratta di cosa notissima, e di una lotta che ricomincia
a ogni istante sotto gli occhi nostri. E aggiungerò solamente che
è certo deplorevole (sebbene sia affatto naturale, perché nelle
lotte i colpi non si misurano) che la polemica contro i
«filologisti» trapassi in quella contro i filologi puri e
semplici: contro i poveri eruditi, archivisti e archeologi, veri
animaletti innocui e benefici, i quali se venissero distrutti,
come nella concitazione polemica talora si augura, la fertilità
dei campi dello spirito non solo ne sarebbe sminuita ma
addirittura rovinata, e bisognerebbe promuovere di urgenza la
reintroduzione e l'accrescimento di quei coefficienti di cultura:
prwss'a poco come dicono che sia accaduto di recente
nell'agricoltura francese, dopo l'improvvida caccia data per più
anni agli innocui e benefici rospi.
Anche dalla rivolta del senso storico schietto contro la storia
filologica proviene quanto di giustificato o giustificabile può
trovarsi nelle proposizioni circa l'incertezza e l'inutilità della
storia: come si desume dall'osservare, che anche i più radicali di
quei negatori (Fontenelle, Volney, Delfico, ecc.) finiscono con
l'ammettere o richiedere una qualche forma di storia come non
inutile né incerta, o non del tutto inutile e incerta; e che i
loro strali si appuntano tutti contro la storia filologica e
fondata sulle autorità, alla quale solamente può convenire la
satirica definizione del Rousseau (nell'Émile), come dell' «art de choisir, entre plusieurs mensonges, celui qui ressemble. mieux à la verité». Per tutto il
resto, cioè per la parte che proviene da pregiudizio sensistico e
naturalistico, quello scetticismo storico si contraddice come ogni
scetticismo, perché le stesse scienze naturali, esaltate al
paragone, si fondano sulle percezioni, sull'osservazione e
sull'esperimento, ossia su fatti storicamente accertati, e le
«sensazioni», nelle quali viene riposta tutta la verità del
conoscere, non sono neppur esse conoscenze se non in quanto
prendono forma di affermazioni, e però in quanto storia.
Ma, veramente, la storia filologica, come ogni altra sorta di
errore, non cade pei colpi degli avversari, sibbene solamente per
interna dissoluzione; e sono i suoi cultori medesimi che la
distruggono quando la concepiscono come priva di legame con la
vita, come mera dotta esercitazione (si vedano le tante storie che
sono trattazioni di temi scolastici per addestramento nella
ricerca, nella interpretazione e nell'esposizione, e le tante
altre che continuano questo avviamento anche fuori dalla scuola,
per impulso impresso), e quando ne mostrano essi medesimi
l'incertezza, circonfondendo di dubbi ogni loro affermazione. Ad
arrestare questo spontaneo dissolvimento della storia filologica
si è foggiata la distinzione tra critica e ipercritica, lodando e
concedendo quella, biasimando e inibendo questa; ma la distinzione
è delle solite onde il moderatismo inintelligente procura di
smussare (senza poi riuscire nel suo intento) le antitesi, che non
sa risolvere. L'ipercritica è la
prosecuzione naturale della critica, la
critica stessa: e scindere la critica in un meno e in un più, e
ammettere il meno e negare il più, è cosa cervellotica, per non
dir altro. Non vi sono autorità «certe» e altre «incerte»; ma
tutte sono incerte, graduate nella incertezza in modo affatto
estrinseco e congetturale: chi ci garantirà dal falso affermato
per distrazione o per momentaneo trasporto passionale dal
testimone di solito diligente e probo? Saggiamente una scritta
cinquecentesca, che si legge ancora in un'antica viuzza di Napoli,
prega Dio (e gli storici filologi dovrebbero pregarlo fervidamente
ogni mattina) di scansarci, ora e sempre, «da bugia d'homo da bene».
Cosicché quegli storici compiono ufficio filosoficamente assai
istruttivo quando spingono la critica fino alla cosiddetta
ipercritica, e vanificano tutto il loro lavoro, che potrebbe
perciò togliere il titolo dal libro del Sanchez: Quod nihil scitur.
E io ricordo che, giovinetto e lavorante in erudizione, rimasi
colpito dal motto di un mio poco letterario amico, cui avevo dato
a leggere un'assai critica e ipercritica storia di Roma antica, il
quale, al termine della lettura, nel restituirmi il libro mi disse
di aver acquistato la superba coscienza di essere «il più sapiente
dei filologi», perché costoro giungono alla conclusione di saper
nulla a forza d'improbe fatiche, ed egli sapeva nulla senz'alcuna
fatica, per dono generoso dì natura1.
1 Si veda nell'Appendice
II
Conseguenza di questo spontaneo dissolvimento della storia
filologica dovrebbe essere la negazione della storia che si
pretenda costruire con racconti e documenti, concepiti
come cose esterne, e il riabbassamento di questi a
meri aiuti del conoscere storico quale si viene determinando e
rideterminando nello svolgimento dello spirito. Ma, ripugnandosi a
simula conseguenza e perseverandosi, nonostante i ripetuti
rovesci, nel proposito di costruire la storia con quel metodo,
sorge l'ulteriore problema di come si possa sanare, senza cangiare
quei presupposti, la frigida indifferenza della storia filologica
e. la sua intrinseca incertezza. E il problema, fallace, non può
ricevere se non fallace soluzione, che. si esplica nel surrogare,
al mancante interesse del pensiero, l'interesse del sentimento, e
alla qui irraggiungibile coerenza logica la coerenza estetica
della rappresentazione. La nuova forma erronea di storia, che si
ottiene in tal guisa, è la storia poetica.
Esempi di tale storia forniscono in copia le biografie affettuose
che si tessono di persone care e venerate, e quelle satiriche
delle persone aborrite: le storie patriottiche, che innalzano le
glorie e piangono le sventure del popolo al quale si appartiene o
col quale si simpatizza, e quelle che spargono di bieca luce il
popolo nemico, l'avversario della propria gente; la storia
universale, rischiarata dagli ideali del liberalismo o
dell'umanitarismo, e quella, narrata da un socialista, che
ritragga le gesta (come il Marx diceva) del «cavaliere dalla
trista figura», del capitalista, o l'altra di un antisemita, che
mostri dappertutto nelle sventure e brutture umane il giudeo, e,
nelle felicità e splendori, la cacciata del giudeo. Né la storia
poetica si esaurisce in codeste tonalità fondamentali e, generiche
dell'amore e dell'odio, (dell'odio che è amore e dell'amore che è
odio), ma passa per tutte le più intricate forme e le più fini
gradazioni del sentimento; e cosi si ottengono storie poetiche,
che sono amorose, malinconiche, nostalgiche, pessimistiche,
rassegnate, fidenti, allegre, e quante altre si possano
immaginare.
Erodoto canta le romanze dell'invidia
degli dèi; Livio, l'epos
della romana virtù; Tacito compone tragedie
dell'orrendo, drammi elisabettiani in iscultoria prosa latina; e
per venire ai moderni e modernissimi, Droysen da forma alla sua
aspirazione lirica verso lo Stato forte e accentratore col narrare
la storia della Macedonia, Prussia dell'Ellade; e Grote a quella
verso gli istituti della democrazia, simboleggiata in Atene; e
Mommsen all'altra verso l'impero, simboleggiato in Cesare; e Balbo
effonde il suo ardore per l'indipendenza italiana, adoperando a
tal fine tutti i ricordi delle pugne italiche, a cominciare
nientemeno da quelle degli Itali ed Etruschi contro i Pelasgi; e
Thierry celebra la borghesia, raccontando la storia del terzo
stato, di Jacques Bonhomme; e i Goncourt descrivono romanzi
voluttuosi, ritraendo le figure della Pompadour o della Dubarry, e
della regina Antonietta, e careggiandole stoffe e le fogge di
vesti più che i pensieri; e De Barante vagheggia donne, cavalieri,
armi ed amori, nella sua storia dei duchi di Borgogna.
Può sembrare che a questo modo sia veramente vinta l'indifferenza
della storia filologica, e la materia storica venga dominata da un
principio e criterio di valore: che è la richiesta che si ode ai
giorni nostri muovere con insistenza alla storia da parte dei
metodologisti e dei filosofi. Ma io ho scansato finora questa
parola per l'equivoco che vi si annida e nel quale si suole assai
di frequente scivolare. Perché, essendo la storia storia dello
spirito e lo spirito essendo valore, e anzi il solo valore che sia
dato concepire, è chiaro che la storia è sempre storia di valori;
e, poiché nella coscienza storiografica lo spirito si fa
trasparente a sé medesimo come pensiero, il valore che regge la
storiografia è il valore del pensiero. Ma, appunto per questa
ragione, principio determinante di essa non può essere il valore
che si chiama «di sentimento», e che è vita e non pensiero, e
quando questa vita si esprime e rappresenta, non
ancora domata dal pensiero, è poesia e non
istoria.
Per convertire la biografìa poetica in biografia veramente
storica bisogna reprimere, come si suol inculcare ai biografi, i
nostri amori, le nostre lacrime, i nostri sdegni, e ricercare a
quale ufficio abbia adempiuto l'individuo, di cui si narra la
vita, nell'opera sociale o della civiltà: e il medesimo deve farsi
per la storia nazionale e per quella dell'umanità, e per qualunque
altro gruppo piccolo o grande di fatti e per qualunque ordine di
accadimenti: bisogna superare, ossia trasformare, i valori di
sentimento in valori di pensiero. Se non ci troviamo in condizione
d'innalzarci a questa «soggettività» del pensiero, produrremo
poesia e non già storia: il problema storico rimarrà intatto, o
meglio, non sarà nato ancora, e nascerà quando nascerà.
L'interesse, che in quel caso ci muove, non è l'interesse della
vita che si fa pensiero, ma della vita che si fa intuizione e
fantasia.
E, poiché si è entrati nel regno della poesia, mentre il problema
storico rimane un di là, la erudizione o filologia, dalla quale
sembrava si fossero prese le mosse, rimane un di qua, ossia è
affatto oltrepassata. Nella storia filologica, nonostante la
pretesa che vi si aggiungeva, le cronache e i documenti
persistevano, indigesti, crudi, verdi, quali erano naturalmente.
Ma nella storia poetica essi sono profondamente alterati, o, per
parlare più esattamente, sono disciolti senz'altro. Lasciamo il
caso (che in verità non è raro) dello storico il quale
intenzionalmente, per conseguire effetti artistici, mescoli sue
invenzioni e immaginazioni ai dati desunti dalle cronache e dai
documenti, e procuri di farle passare per istoria: cioè si renda
colpevole di menzogne e d'imbrogli. Ma l'alterazione continua e
intrinseca a quella storiografia consiste nello stesso scegliere e
connettere i particolari, che si traggono dalle «fonti», secondo
un motivo non di pensiero ma di sentimento: il che, se
ben si consideri, è sostanzialmente un inventare o immaginare i
fatti: la nuova connessione si concreta in un nuovo fatto
immaginato. E poiché i dati desunti dalle «fonti» non si prestano
sempre docili alla richiesta connessione, si stima lecito «solliciter doucement les textes»
(come diceva, se non isbaglio, uno di codesti storici-poeti, il
Renan), e, se non in modo assertorio, almeno in modo problematico,
ossia sotto forma di congettura, aggiungere ai dati di fatto
particolari fantasticati. II Vossio biasimava quegli storici greci
e di altri popoli che, narrando favole, «ad eff'igiendam vanitatis notam satis fore putant si addant sollemne suum 'aiunt , 'fertur', vel aliquid quod tantundem valeat».
Ma anche pei giorni nostri sarebbe divertente e istruttivo
catalogare le forme d'insinuazione onde storici, che passano per
gravissimi, si valgono per introdurre le loro personali
immaginazioni: «forse», «parrebbe», « si direbbe», «piace
pensare», «giova supporre», «è probabile», «è evidente», e simili;
e notare come talvolta essi vengano omettendo insensibilmente
codeste cautele e raccontino, quasi le avessero vedute, cose che
essi stessi hanno escogitate per finire il loro quadro, e per le
quali resterebbero assai imbarazzati se avvenisse che uno,
indiscreto al pari di un enfant
terrible, chiedesse loro: «Come le sapete? chi ve le ha
dette?». A beneficio di questa potestà che si cerca conferire agli
storici, se non quidquid, almeno, aliquid audendi, si è messa su la teoria
metodologica della «fantasia, indispensabile allo storico, che non
voglia essere mero cronista», della fantasia ricostruttiva e
integrativa; o, come anche si dice, della «necessità d'integrare
il dato storico con la nostra personale psicologia o conoscenza
psicologica»: teoria che, al pari di quella del valore nella
storia, racchiude anch'essa un equivoco. Perché, senza dubbio, la
fantasia è indispensabile allo storico: la critica vuota, la
narrazione vuota, il concetto senza intuizione o fantasia, sono
all'atto sterili; e ciò si è detto e ridetto in queste pagine col
richiedere la viva esperienza degli accadimenti di cui si prende a
narrare la storia, il che importa insieme l'elaborazione di essi
come intuizione o fantasia; senza questa ricostruzione o
integrazione fantastica, non è dato né .scrivere storia, né
leggerla ed intenderla.
Ma siffatta fantasia, veramente indispensabile allo storico, è la
fantasia inscindibile dalla sintesi storica, la fantasia nel
pensiero e pel pensiero, la concretezza del pensiero, che non è
mai un astratto concetto ma sempre una relazione e un giudizio,
non una indeterminatezza ma una determinatezza. Epperò essa è da
distinguere radicalmente dalla libera fantasia poetica, cara a
quegli storici che vedono e odono il viso e la voce di Gesù sul
lago di Tiberiade, o seguono Eraclito nelle sue quotidiane
passeggiate tra le colline di Efeso, o ridicono i segreti colloqui
tra Francesco d'Assisi e il dolce umbro paese.
Anche qui si domanderà di qual errore si possa, dunque,
accagionare la storia poetica, se essa è poesia (forma necessaria
dello spirito e una delle più dilette al cuore dell'uomo), e non
istoria; ma anche qui bisogna rispondere — analogamente alla
risposta data per la storia filologica, — che l'errore non è in
ciò che si fa, ma in ciò che si pretende fare; non già nel creare
poesie, ma ncll'asserire storie che siano poesie, storie poetiche,
contradizione in termini. Tanto è lungi da me il pensiero di
riprovare le poesie intessute sopra dati storici, che, anzi, io
affermo che molta parte di schietta ed alta poesia di tutti i
tempi, e in ispecie dei tempi moderni, sia da cercare in libri
cosi detti di storia. L'epos, per esempio, non è, come si crede,
morto nell'Italia del secolo decimonono; senonché non si trova nei
«poemi epici» del Botta, del Bagnoli, del
Bellini o della Bandettini, dove li cerca
la corta vista dei letterati classificatori, ma nei racconti della
storia del Risorgimento, dove si effondono e l'epos e il dramma e
la lirica e la satira e l'idillio e l'elegia, e quanti altri
«generi poetici» si desiderino: la storiografia del Risorgimento
è, per gran parte, una storiografia poetica, ricca di leggende,
che aspetta ancora gli storici o li ha scontrati solo talvolta e
per caso: per l'appunto, come l'epos antico o medioevale, che, se
intrinsecamente era poesia, veniva pur considerato storia dagli
uditori e sovente, forse, dai compositori medesimi. E rivendico
agli altri e a me stesso il diritto di sognare la storia nei modi
che il mio personale sentimento mi detta; e immaginare un'Italia,
bella come donna desiata o cara come madre tenerissima o austera
come avola veneranda, e spiarne le mosse nei secoli, e magari
profetarne l'avvenire, e crearmi nella storia idoli di amore e di
odio, e abbellire vieppiù a mia soddisfazione i personaggi belli e
rendere più brutti i brutti; e ricercare ogni ricordo e ogni
particolare, i tratti del volto, i gesti, i vestiti, le dimore,
ogni particolare insignificante (ad altri o per altri rispetti
insignificante, ma non a me in quell'atto), per ravvicinarmi quasi
fisicamente ai miei amici e alle mie amanti, dei quali e dello
quali posseggo un bel circolo o un harem — nella storia.
Ma resta ben pattuito che, quando io o altri dovremo fare storia,
storia vera e non poesia storica, sgombreremo miti e idoli, amici
e amanti, simpatie e antipatie, e c'indirizzeremo all'unico
problema della storia, che è lo Spirito o il Valore (o, se si
desiderano termini meno filosofici e più correnti, la Cultura, la
Civiltà, il Progresso), e lo guarderemo col duplice occhio e con
l'unica vista del pensiero; e quando alcuno, in quella sfera o a
quell'altezza, ci parlerà ancora dei sentimenti che poco prima ci
tumultuavano nel petto, Io ascolteremo come chi ci discorra di
cose ormai lontane e morte, e non parteciperemo più ad
essi, perché il solo sentimento, che ci riempie ora tutta l'anima,
e il sentimento della verità, la ricerca della verità storica.
III
Con la storia poetica, cioè con la ricaduta della storia in una
sfera idealmente anteriore, che è quella della poesia, il ciclo
delle forme erronee di storia (ossia delle forme erronee teoriche)
è completo. Ma forse non sarebbe completo il mio discorso, se
tacessi di una cosiddetta forma di storia, che ebbe grande
importanza nell'antichità, quando elaborò anche la propria teoria,
e che continua ad avere qualche importanza ai tempi nostri,
sebbene celi ora volentieri il suo volto e cangi vesti e maschere.
È la storia che, nell'antichità, si chiamava oratoria o rettorica,
e si proponeva, secondo le varie intenzioni dei retori, ora
d'insegnare la filosofia per esempi, ora di commuovere alla virtù,
ora d'istruire circa i migliori istituti politici o militari, ora,
semplicemente, di dilettare. E anche ai nostri giorni, non
solamente nelle scuole elementari (dove sembra inteso che convenga
propinare ai fanciulli l'amare della sapienza col dolce della
favoletta), ma tra uomini maturi, si domanda e si fornisce questo
tipo di storia, congiunto strettamente con la politica ove si
tratti di politica, o con la religione, la filosofia e la morale,
ove si tratti di queste e altrettali cose, o col divertimento,
come accade nei libri di aneddoti, di curiosità, di storie
scandalose e terrificanti.
Senonché, può essa considerarsi, non dico storia, ma forma
erronea (teorica) di storia? La struttura della storia oratoria
presuppone una storia bella e formata, o almeno una storia
poetica, la quale venga recitata per un fine pratico. Il fine sarà
d'indurre una commozione, preparatoria della virtù, un rimorso,
un pudore o un entusiasmo; ovvero di riposare col variare
spettacolo gli animi, come nei giuochi; ovvero d'introdurre nelle
menti una verità storica, filosofica o naturalistica (movere, delectare, docere, o
come altro si classifichino codesti fini); ma sarà sempre, un
fine, cioè un atto pratico, che si vale della recitazione della
storia come di un mezzo o di uno dei suoi mezzi. Onde la storia
oratoria (che più esattamente andrebbe denominata praticistica),
si compone di due elementi, la storia e il fine pratico,
convergenti in un solo che è l'atto pratico. E perciò non si può
polemizzare contro di essa, ma soltanto contro la teoria di essa:
contro l'accennata teoria, tanto celebre nell'antichità, della
storia come opus oratorium, come philosofhia ex
paradeigmaton come apodeiktike come vines
gumnasma (se guerresca), o gnomes paideuma (se politica), o come
richiedente l'edonè e
simili: dottrina affatto analoga alle dottrine edonistiche e
pedagogiche, che furono allora dominanti circa la poesia, e che
credevano di assegnare il fine di questa, quando invece le
assegnavano un fine estrinseco, e in tal modo le passavano sopra
senza toccarla.
Come atto pratico, la storia praticistica (che non è poi storia)
va esente da censure: ciascuno di noi non si sta pago a indagare
la storia, ma opera, e nell'operare può ben valersi del
rievocamento di questa o quella immagine come eccitamento al suo
operare o (che fa lo stesso) all'operare degli altri: può insomma
leggere o rileggere tutti i libri, che via via gli giovano, come
il minor Catone prese a leggere il Fedone per prepararsi al
suicidio, e alcuni vi si sono preparati con la lettura del
Werther, dell'Ortis o dei canti leopardiani; come tanti altri, dal
Rinascimento al secolo decimottavo, si prepararono alle
cospirazioni e ai tirannicidi, leggendo Plutarco; talché uno di
costoro, quel giovane Boscoli, condannato a morte per una congiura
contro i Medici, diceva nelle ultime sue ore a Luca della Robbia
(che ci narra il l'atto): « Cavatemi dalla testa Bruto!»: Bruto,
cioè non la storia che aveva letta e pensata, ma quella dalla
quale era rimasto affascinato e spinto al delitto. Per altro, la
storia vera e propria non è il Bruto che procrea i moderni Bruti
pugnalanti, ma il Bruto pensato e allogato nel mondo del pensiero.
Un posto a parte si potrebbe essere tratti a dare alla storia che
ora si dice di tendenza, perché, da un lato, sembra che essa,
avendo chiaro innanzi un fine da raggiungere, non sia semplice
storia di sentimento e poetica; e, dall'altro, che quel fine non
sia imposto dal di fuori, ma coincida con la concezione stessa
della storia: onde per lo meno converrebbe considerarla come una
storia media tra la poetica e la praticistica, mista delle due. Ma
forme medie e prodotti ibridi esistono solamente nelle finzioni
classificatorie degli empirici, e non mai nella realtà dello
spirito; e la storia di tendenza è, in verità, quando ben si
consideri, o storia poetica o storia praticistica; sempre,
beninteso, che si prescinda dai libri nei quali l'uno e l'altro
momento si trovano talvolta materialmente accostati, come del
resto vi si trovano di solito e la storia vera e la cronaca e il
documento e la storia filologica e quella poetica. Ciò che da
l'illusione di un miscuglio o di una speciale forma di storia e il
fatto che molti movono dall'ispirazione poetica (affetto di
patria, fede, di parte, entusiasmo per un grand'uomo, ecc.) e
finiscono nel calcolo praticistico, cominciano dalla poesia e
finiscono nell'allegazione avvocatesca; o anche talvolta (benché
più di rado) percorrono il cammino inverso. La quale duplice
vicenda è dato osservare nelle tante storie di partito; che si
sono composte da che mondo è mondo; né è difficile scorgere in
quali luoghi di esse si abbiano innanzi manifestazione di poesia e
in quali di calcolo; e il buon gusto e la critica fanno di
continuo questo sceveramento, come per la poesia e l'arte in
genere, cosi per la storia.
Vero è che il buon gusto ama e accetta la poesia, e prescinde
dalle intenzioni pratiche del poeta e dello storico-poeta; ma
quelle intenzioni pratiche sono accolte e approvate dalla
coscienza morale, sempre che siano buone intenzioni e, per
conseguenza, buone azioni; e quantunque sia vezzo dir male degli
avvocati in genere, è certo poi che dell'onesto avvocato e del
prudente oratore non si può far di meno nella vita sociale. Né si
è fatto mai di meno della cosi detta storia praticistica, sia
nella pratica greco-romana, che era di proporre come modelli agli
animi ritratti di uomini di stato e di capitani e di donne
eroiche; sia in quella medievale, che era di recitare per
edificazione vite di santi e di eremiti nel deserto, o di
cavalieri valenti di mano e incrollabili di fede; sia nella nostra
moderna, che è di far leggere per edificazione e per istimolo
biografìe e «leggende» d'inventori, d'industriali, di esploratori,
di miliardari. Storie educative, storie composte in modo da
promuovere determinate disposizioni pratiche o morali, esistono
veramente; e ogni italiano sa come nel periodo del Risorgimento
quegli effetti fossero prodotti dalle storie del Colletta, del
Balbo e simili, e ogni uomo conosce libri che gli hanno «ispirato»
o «inculcato» l'amore del proprio paese e della propria città o
campanile.
Questa efficacia morale, che è della morale e non della
storia, ha cosi forte preoccupato le menti che dura ancora
il pregiudizio di assegnare alla storia (come
altresì alla poesia), nel campo pedagogico, un ufficio
morale: pregiudizio, che anima finanche il saggio pedagogico del
Labriola j sull'Insegnamento
della storia. Ma se con la parola
«storia» s'intendono cosi la storia che è pensiero, come quelle
che sono invece poesia, filologia o volontà morale, e chiaro che
la «storia» entrerà nel processo educativo non sotto una
sola, ma sotto tutte
codeste forme: sebbene, come storia
propriamente detta, sotto una sola, che non è quella
dell'educazione morale, esclusivamente o astrattamente
considerata, ma della educazione o svolgimento del pensiero.
IV
Si parla tanto, ed ora più che prima, della necessita di una
riforma della storia»; e a me vuol parere che in questa materia
non vi sia niente da riformare. Niente da riformare nel senso che
si dà a tale richiesta, di plasmare cioè una nuova forma di storia
o di creare per la prima volta la vera storia. La storia è, è
stata e sarà sempre la medesima, quella che abbiamo chiamata
storia viva, storia (idealmente) contemporanea; e sono, sono state
e saranno sempre le medesime la cronaca, la storia filosofica,
quella poetica e quella (chiamiamola pure storia) praticistica.
Coloro che entrano nell'impegno di creare una nuova storia,
riescono sempre a riasserire, o contro la storia poetica la storia
filologica, o contro la storia filologica la storia poetica, o
contro l'una e l'altra la storia contemporanea, e via dicendo:
seppure non accade loro, come al Buckle e ai tanti fastidiosi
sociologi e positivisti degli ultimi decenni, che, con grande
sicumera, e con non meno grande inintelligenza di quel che la
storia sia, lamentano che alla storia manchi la virtù
dell'osservazione e dell'esperimento (ossia l'astrazione
naturalistica dell'osservazione e dell'esperimento), e vantano di
« ridurre la storia a scienza naturale», cioè, con circolo vizioso
e alquanto grottesco, a una forma mentale che è suo pallido
derivato.
In un altro senso, tutto è certamente da riformare nella storia;
e la storia, in ogni istante, si travaglia nel perfezionarsi ossia
nel proprio arricchimento e approfondimento, e non c'è
storia che pienamente ci contenti, perché ogni nostra costruzione
genera nuovi fatti e nuovi problemi, e sollecita nuove soluzioni.
Cosi si narra sempre di nuovo, lumeggiandola sempre diversamente,
la storia di Roma e di Grecia e del Cristianesimo e della Riforma
e della Rivoluzione francese e della filosofia e della
letteratura, e di qualsiasi altra materia. Ma la storia riforma sé
medesima, rimanendo sempre sé medesima; e la vigoria del suo
svolgimento è appunto in questa sua costanza. L'esigenza di una
riforma radicale o astratta non può nemmeno ricevere l'altro
significato di una riforma dell'«idea» della storia, della
scoperta che si debba compiere, o si sia finalmente compiuta, del
vero concetto della storia. In tutti i tempi si è, in qualche
modo, pensata la distinzione tra le storie che sono storie, e
quelle altro che sono fantasie o cronache: come si potrebbe
mostrare con le avvertenze che s'incontrano in tutti i tempi,
presso storici e metodologisti, e con le confessioni che
involontariamente sfuggono persino ai più confusionari tra essi; e
come, del resto, è da indurre con sicurezza dalla natura medesima
dello spirito umano, ancorché non fossero state scritte o non
fossero state serbate le parole nelle quali quelle distinzioni si
esprimono. E anche tale concetto e tali distinzioni si riformano,
con la storia stessa, a ogni istante, e si arricchiscono e
approfondiscono: com'è da tenere per certo, e come mostra del
resto la storia della Istorica, che qualche progresso ha ben
compiuto da Dionigi di Alicarnasso o da Cicerone a Hegel e a
Humboldt. E nuovi problemi si sono formati nel tempo nostro, ad
alcuni dei quali per l'appunto io procuro di rispondere con questo
mio libro: che è perfettamente consapevole di rispondere solo ad
alcuni dei tanti, e specialmente poi di non rispondere (perché,
proprio, non può) a quelli che non
si sono ancora formati, e che pure,
infallantemente, si formeranno in avvenire.
Per altro, si penserà che per lo meno la chiarezza acquistata
dalla coscienza storica circa la natura della propria opera varrà
a distruggere le forme erronee della storia, e che, dimostrato che
la storia filologica è cronaca o documento e non già storia, o che
la storia poetica è poesia e non già storia, i «fatti» che vi
corrispondono dovranno dileguare, o andarsi via via restringendo
in estensione fino a sparire del tutto in un tempo prossimo o
lontano, come sono sparite le balestre innanzi ai fucili o vanno
sparendo sotto gli occhi nostri i cocchi innanzi alle automobili.
E ciò sarebbe veramente possibile se quelle forme erronee si
concretassero in «fatti», e se non fossero invece, come ho detto
di sopra, mere «pretese». Se l'errore, se il male fosse un fatto,
da assai gran tempo l'umanità l'avrebbe disfatto, ossia l'avrebbe
sorpassato, al modo stesso che ha sorpassato la schiavitù e la
servitù della gleba e l'economia del semplice baratto, e tante
altre cose, che erano «fatti», cioè forme sue transitorie, ila
l'errore (e il male, che fa tutt'uno con esso) non è un fatto, non
ha esistenza empirica, è nient'altro che il momento negativo o
dialettico dello spirito, necessario alla concretezza del momento
positivo, alla realtà dello spirito; epperò è indistruttibile ed
eterno, e il distruggerlo con l'astrazione (poiché col pensiero
non si può) equivale a immaginare la morte dello spirito, come è
confermato dal detto, che l'astrazione è morte.
E, senza estendermi nell'esporre una dottrina che darebbe luogo
qui a troppo ampia digressione, noterò che uno sguardo che si
getti sulla storia della storia comprova l'efficacia salutare
dell'errore, il quale non è un Calibano, ma piuttosto un Ariele,
che soffia da per tutto, e chiama ed eccita, e che non si riesce
mai ad afferrare come cosa salda. E, per togliere esempi solamente
dallo forme generali che ho finora investigate, errore è da dire
certamente la storiografia polemica e di tendenza, che prevalse
nel periodo illuministico e che ridusse la storia a un apologo
contro i preti e i tiranni; ma chi sarebbe voluto tornare da essa,
semplicemente, alla storia erudita e apatica dei benedettini e
degli altri dotti autori d'in-folio? La polemica e tendenza
esprimeva, sebbene non soddisfacesse del tutto, il bisogno di una
storia viva; e questo bisogno fu seguito dalla creazione di una
nuova storiografìa nel periodo del romanticismo. E fu, senza
dubbio, errore il tipo della storia meramente filologica, promosso
dalla Germania dopo il 1820 e diffuso poi in tutto il mondo; ma fu
anche uno strumento di liberazione dalle storie più o meno
fantastiche e arbitrarie, improvvisate da filosofi; e chi dà esse
vorrebbe semplicemente tornare alle «filosofie della storia»?
E fu errore, cioè ci fece perdere la calma storica, il tipo di
storia ora tendenziosa, ora più di frequente poetica, che il già
più volte ricordato movimento nazionale italiano trasse seco; ma
quella coscienza poetica, che oltrepassava sé medesima ponendo la
pretesa della verità storica, doveva presto o tardi generare "come
in più vasto campo era avvenuto nel secolo decimottavo) una storia
che fosse affiatata con gl'interessi della vita senza rendersi a
essi servile o lasciarsi deviare dai fantasmi di amore e di odio
che quelli suggeriscono.
Gli esempì si potrebbero accrescere; ma l'esempio degli esempi è
ciò che accade in ciascuno di noi, quando elaboriamo una materia
storica; e vediamo sorgere a volta a volta, nel corso
dell'elaborazione, le nostre simpatie o antipatie (la nostra
storia poetica), e le nostre intenzioni di uomini pratici (la
nostra storia oratoria), e le nostre memorie cronachistiche (la
nostra storia filologica), e tutte queste forme a volta a volta
mentalmente superiamo e, nel superarle, ei troviamo di volta in
volta in possesso di una nuova e più profonda verità storica. Così
si attenua la storia, distinguendosi dalle non-storie e vincendo i
momenti dialettici che nascono da queste. Epperò io dicevo che non
c'è mai nulla di nulla da riformare in astratto, e c'è sempre
tutto di tutto da riformare in concreto.
III
La storia come storia dell'universale. Critica della
«storia universale»
Ritornati, dopo questo giro dialettico, al concetto della storia
come «storia contemporanea», un nuovo dubbio ci assale e tormenta.
Perché, se la dimostrazione fatta ha liberato quel concetto da una
delle forme più insistenti di scetticismo storico (lo scetticismo
che nasce dalla malsicurezza delle «testimonianze»), non sembra
che esso sia stato liberato o possa liberarsi mai da quell'altra
forma di scetticismo, che si chiama più propriamente
«agnosticismo», e che non nega assolutamente alla storia la
verità, ma le nega la verità piena: che è poi, in ultima analisi,
negarle l'effettivo conoscere, perché un conoscere infermo, un
conoscere a mezzo toglie vigore anche alla metà che si asserisce
conosciuta. Comunque, è comune sentenza che della storia solo una
parte, una piccolissima parte, ci è nota: fioco lumicino, che
rende più sensibile il vasto tenebrore che circonda il nostro
sapere.
Invero, che cosa conosciamo noi, nonostante tutte le industrie
degli eruditi, dello origini di Roma o degli Stati greci, e dei
popoli che precessero le civiltà greca e romana noi rispettivi
paesi? E se qualche brandello della vita di quei popoli ci rimane,
come ne è incerta l'interpretazione; e se qualche tradizione ce
n'è pervenuta, conio è povera, contusa e contradittoria! E meno
ancora sappiamo dei popoli che furono innanzi quei popoli, delle
immigrazioni dall'Asia e dall'Africa in Europa o all'inverso, e
dei rapporti con le terre oltre oceano, e magari con l'Atlantide
dei miti. E la monogenesi o poligenesi delle specie umane è un
disperato rompicapo, aperto a tutte le congetture: e aperto alle
vane congetture e l'apparire sulla terra del genus homo, e la sua affinità o parentela con le specie
animali: e la storia della terra, del sistema solare, del cosmo
tutto, si perde nel cosiddetto buio delle origini. Ma il buio non
è solo nelle«origini»: tutta la storia, anche la più prossima a
noi, la stessa moderna di Europa, è buia; e chi potrà dir mai
quali furono veramente i motivi che determinarono gli atti di un
Danton o di un Robespierre, di un Napoleone o di un Alessandro di
Russia? e sugli atti stessi, cioè sulla esteriorità degli atti,
quante oscurezze e lacune! Si sono scritti cumuli di volumi sulle
giornate di settembre o sul diciotto brumaio o sull'incendio di
Mosca; e chi sa come andarono propriamente quei fatti? Come
fossero andati, non sapevano ridire neppur coloro che ne furono
testimoni diretti, e che ce li tramandarono nelle versioni più
varie e contradittorie.
Ma lasciamo la grande storia: ci sarà almeno possibile conoscere
intera la piccola storia, e non diciamo già quella del nostro
paese, della nostra città, della nostra famiglia, ma ciascuno la
piccolissima storia di sé medesimo: che cosa egli veramente volle
quando (tanti anni fa o ieri) si abbandonò a questo o quel moto di
passione e pronunziò questa e quella parola: e come giunse a una
certa conclusione di pensiero o a una particolare deliberazione
pratica; e se i motivi che lo spinsero a operare in un senso o
nell'altro furono alti o bassi, morali o egoistici, di dovere o di
vanità, puri o impuri? C'è da perdere la testa, come sanno le
persone scrupolose che, quanto più tentano di perfezionare il loro
esame di coscienza, più vedono confuso, e alle quali non si sa
porgere altro rimedio che di raccomandar loro di esaminarsi, si,
ma non troppo, di guardare innanzi e non indietro, o guardare
indietro quel tanto che è strettamente indispensabile allo stesso
guardare innanzi. Conosciamo, di certo, la storia di noi medesimi
e del mondo che ci circonda: ma quanto poco, quanto poveramente, a
paragone della brama nostra infinita di sapere!
Per uscire da siffatto tormento, la via più corta è appunto
questa che ho tenuta, di spingerlo all'estremo; e poi immaginare,
per un istante, che tutte le interrogazioni accennate, e le altre
infinite che si potrebbero muovere, vengano soddisfatte:
soddisfatte, come si possono soddisfare le interrogazioni che
procedono all'infinito, cioè dando loro pronte risposte l'una
sull'altra e facendo entrare lo spirito nella via di un
vertiginoso processo di soddisfazioni sempre ottenute
all'infinito. Or bene: se tutte quelle interrogazioni fossero
soddisfatte, se noi fossimo in possesso di tutte le relative
risposte, che cosa ne faremmo? che cosa, giunti che fossimo a
quella agevolezza e ricchezza strabocchevole di conoscenze, ci
converrebbe fare? La via del processo all'infinito è larghissima
al pari della via dell'inferno, e, se non conduce all'inferno,
conduce di certo al manicomio. E a noi, in quanto ospiti che siamo
del mondo e non del manicomio, non giova, anzi fa paura,
quell'infinito che si amplia sempre appena lo tocchiamo, ma solo
ci giova il povero finito, il determinato, il concreto, che si
coglie col pensiero e che si presta come base del nostro esistere
e punto di partenza del nostro operare.
Sicché quand'anche alla nostra brama fossero offerti tutti i
particolari infiniti della storia infinita, a noi non resterebbe
altro che sgombrarli dalla nostra mente, dimenticarli, e fissarci
su quel particolare solamente che risponde u un problema e
costituisce la storia viva e attiva, la storia contemporanea. E
codesto per l'appunto esegue lo spirito nel suo svolgimento,
perché non v'è fatto che non sia conosciuto nell'atto che viene
compiuto, mercé la coscienza che nell'unità dello spirito germina
di continuo sull'azione; e non v'è tatto che, prima o poi, presto
o tardi, non venga dimenticato, salvo ad essere richiamato, come
si e detto parlando della storia morta che si ravviva per opera
della vita, del passato che per mezzo del contemporaneo si rifa
contemporaneo. Il Tolstoi s'era fisso in questo pensiero che, non
solamente nessuno, nemmeno un Napoleone, possa predeterminare
l'andamento di una battaglia, ma che nessuno possa conoscere come
davvero essa si è svolta; perché, la sera stessa che pone termine
alla battaglia, sorge e si diffonde una storia artificiosa e
leggendaria, che solo uno spirito credulo può scambiare per
istoria reale, e sulla quale nondimeno lavorano gli storici di
mestiere, integrando o temperando fantasia con fantasia. Ma la
battaglia e conosciuta via via che si svolge; e poi. col tumulto
di essa, si dissipa anche il tumulto di quella conoscenza, solo
importando la nuova situazione di fatto e la nuova disposizione
d'animo che si e prodotta, e che si esprime nelle poetiche
leggende o si aiuta con le artificiose finzioni.
E ciascuno di noi conosce ed oblia a ogni istante i più dei suoi
pensieri e atti (e guai se cosi non facesse, perché vivrebbe
compitando faticosamente ogni suo minimo moto!); ma non dimentica,
e serba più o meno a lungo, quei pensieri e quei sentimenti, che
rappresentano crisi memorabili e problemi aperti pel suo avvenire:
e talvolta, non senza alto stupore, noi assistiamo al risorgere in
noi di sentimenti e pensieri, che credevamo irrevocabili. Onde è
da dire che noi, a ogni istante, conosciamo tutta la storia
che c'importa conoscere; e della restante,
poiché non e' importa, non possediamo le condizioni del
conoscerla, o le possederemo quando e' importerà. Quella storia
«restante» è l'eterno fantasma della «cosa in sé», che non è né
«cosa» né «in sé», ma nient'altro che la proiezione fantastica
della infinità del nostro operare e del nostro conoscere. La
proiezione fantastica della cosa in sé, col conseguente
agnosticismo, è occasionata, nella filosofia, dalle scienze
fisiche, che porgono una realtà, resa estrinseca e materiale e
perciò inintelligibile; e l'agnosticismo storico è analogamente
occasionato dal momento naturalistico della storia, dal
cronachismo, che porge una storia morta e inintelligibile: chi si
lascia sedurre a questo giuoco e smarrisce la via della concreta
verità, sente subito l'animo riempirglisi d'infinite, vanissime e
disperate domande. Del pari, colui che smarrisce o non ha ancora
imbroccata la via feconda della vita operosa, sente l'animo pieno
riboccante d'infiniti desideri, di azioni ineseguibili e di
godimenti inconseguibili, e soffre pene tantaliche. Ma la saggezza
della vita ammonisce a non perdersi in desideri assurdi, come la
saggezza del pensiero a non avvolgersi in problemi oziosi.
II
Ma se noi non possiamo conoscere altro che il finito e il
particolare, anzi sempre questo finito e questo particolare,
bisognerà rinunziare (dolorosa rinunzia) alla conoscenza della
storia universale? — Senza dubbio; ma con la duplice postilla: che
si rinunzia a cosa, che non si è mai posseduta perché non si
poteva possedere: e che perciò tale rinunzia non è punto
dolorosa.
Anche la «storia universale» non è già un atto concreto o un
fatto, ma una «pretesa»; e una pretesa nascente dal
cronachismo e dalla sua «cosa in sé», e dallo strano proposito di
chiudere, mercé il processo all'infinito, il processo
all'infinito, che si era malamente aperto. Invero, la storia
universale assume di ridurre in un quadro tutti i fatti del genere
umano, dalle origini di esso sulla terra al momento presente;
anzi, poiché a questo modo non sarebbe veramente universale, dalle
origini delle cose dalla creazione sino alla fine del mondo; donde
la sua tendenza a colmare l'abisso della preistoria e delle
origini con romanzi teologici o con romanzi naturalistici, e a
delineare in qualche modo l'avvenire, o con rivelazioni e
profezie, come nella storia universale cristiana (che giungeva
fino all'Anticristo e al giudizio universale), o con previsioni,
come nelle storie universali del positivismo, democratismo e
socialismo. Tale la pretesa; ma il fatto riesce diverso
dall'intenzione, e si ottiene quel che si può ottenere: cioè,
sempre, o una cronaca più o meno farraginosa, o una storia poetica
esprimente qualche aspirazione del cuore umano, o anche una storia
vera e propria, che non è universale ma particolare, sebbene
abbracci la vita di molti popoli e di molti tempi; e, più spesso,
in un medesimo corpo letterario si discernono questi elementi
diversi, accostati tra loro.
E lasciando in disparte le cronache più o meno larghe (ma sempre
strette), e le storie poetiche, e le contaminazioni di più forme
diverse, non solo in forza di logica necessità ma col semplice
sguardo che si rivolga a una qualsiasi delle «storie universali»,
si scorge subito in modo evidente che le «storie universali «, in
quanto veramente storie o in quella parte in cui tali sono, si
risolvono in nient'altro che in «storie particolari», ossia
suscitate da un particolare interesse e incentrate in un
particolare problema, e comprendenti quei fatti soli che entrano
in quell'interesse e rispondono a quel problema. E potrebbe
bastare per tutte l'opera di colui che, nell'antichità, ebbe ad
insistere in modo singolarmente energico sul bisogno di una
«storia universale» (katolikè
istoria, e ton katolou pragmaton syntakys), l'opera di
Polibio;.e, pel periodo cristiano, la Civitas Dei
di Agostino; e, pei tempi moderni, la Filosofìa della storia (o
storia universale, «philosophische Weltgeschichte», com'egli la chiama)
dello Hegel.
Giacché la storia universale, invocata e attuata da Polibio, era
quella storia più larga, più complessa, più politica e grave, che
l'egemonia romana e la formazione dell'orbe romano richiedevano, e
perciò abbracciava quei popoli soli che vennero in relazione e
conflitto con Roma, e, conformemente alle disposizioni spirituali
dell'autore, si restringeva quasi del tutto nella storia
degl'istituti politici e degli ordinamenti militari. Agostino, a
sua volta, tentava di rendere intelligibile l'inserirsi del
cristianesimo nella storia pagana, al qual uopo adoperava i
concetti delle due città nemiche, la terrena e la celeste, la
prima ora avversaria ed ora preparazione della seconda. E lo
Hegel, finalmente, trattava nella sua storia universale il
problema medesimo della sua particolare storia della filosofia,
cioè del modo in cui lo spirito da una filosofìa di asservimento
alla natura o al Dio trascendente si è innalzato alla coscienza
della libertà; e, del pari che dalla storia della filosofia,
tagliava fuori anche dalla filosofia della storia la preistoria e
considerava assai sommariamente la storia orientale, che, posto il
suo intento, non offriva molto interesse.
Romanzi naturalistici o cosmologici se ne comporranno sempre da
chi ne avverta in sé l'ispirazione, e sempre troveranno avidi
lettori e.plaudenti, specie tra la gente pigra che è contenta di
possedere in poche parole o in poche pagine il «segreto del
mondo». E sempre si comporranno compilazioni più o meno vaste di
storie dell'Oriente e dell'Occidente, e dello Americhe e
dell'Africa e dell'Oceania; alle quali, non bastando più le forze,
sia pure compilatorie, di un solo individuo, si dedicano ormai
(quasi per mostrare aperta l'assenza di ogni intimo nesso) accolte
di dotti o di compilatori; e perfino si sono vedute di recente
tentativi di storie universali con ordinamento geografico, come
tante storie giustapposite, europee, asiatiche, africane e via
dicendo; il che le avvicina insensibilmente alla forma del
dizionario storico.
E sempre, poi, questa o quella storia particolare potrà utilmente
prendere il nome di «storia universale», nel vecchio senso di
Polibio, cioè come contrapposto a libri meno attuali e meno seri e
meno soddisfacenti, ai libri dogli «scrittori di cose particolari»
(oi tas epi meorus graphontes
praxeis), che sono portati a fare grandi le cose piccole
(ta micra megala poiein)
e a spendere lunghi discorsi in aneddoti non degni di ricordo (peri ton mede mnemes axion), e ciò per difetto di criterio (diacrisian). In questo senso,
sarà buona raccomandazione, pei tempi e pei popoli le cui vicende
politico-sociali hanno prodotto come un restringimento della
cerchia storica, quella di rompere le angustie e guardare, oltre
le storie particolari, alla «storia universale», ossia a una
storia più larga.
E buona raccomandazione, in ispecie, per la nostra Italia, che
nel periodo del Rinascimento, come ebbe ufficio universalistico,
ebbe sguardo universalistico e narrò a suo modo la storia di tutti
i popoli, e poi si restrinse alla storia regionale, e poi si
risollevò a quella nazionale, e ora dovrebbe, più che non faccia
di giù, spaziare pei vasti campi della storia di tutti i tempi e
paesi.
Ma la parola «universale», efficace ai fini di questa
raccomandazione, non designerà mai il possesso di una « storia
universale», nel senso che si è rigettato. Questa «storia» sfuma
nel mondo delle illusioni insieme con utopie analoghe, quali
erano, tra le altre, l'arte esemplare per tutti i tempi, o il
diritto universale e valido per tutti i tempi.
III
Ma, al modo stesso che, dissipandosi l'illusione dell'arte
universale e del diritto universale, non sì cancella il carattere
intrinsecamente universale dell'arte particolare e del diritto
particolare (dell'Iliade o della costituzione
familiare romana), negare la storia universale non significa
negare la conoscenza dell'universale nella storia. Anche qui è da
ripetere, come per il Dio cercato invano correndo per la serie
infinita dei finiti e ritrovato in ogni punto di essa: Und Du bist ganz vor mir! Quel particolare e quel finito è
determinato, nella sua particolarità e finitezza, dal pensiero, e
perciò conosciuto insieme come universale: l'universale in quella
sua forma particolare. Il mero finito e particolare non esiste
altro che nell'astrazione: nella poesia e nell'arte medesima, che
è il regno dell'individuale, non c'è già l'astratto finito, ma il
finito ingenuo, che è l'unità indistinta d'infinito e finito, la
quale nella sfera del pensiero sarà distinto e raggiungerà por tal
modo una forma più alta di unità. E la storia è pensiero, e, come
tale, pensiero dell'universale, dell'universale nella sua
concretezza, e perciò sempre particolarmente determinato. Non c'è
fatto, per piccolo che si dica, che si possa altrimenti concepire
(realizzare e qualificare), se non come universale. Nella sua
forma più semplice, il che vuol dir nella sua forma essenziale, la
storia si esprime per giudizi, sintesi inscindibili di individuale
e di universale. E l'individuale, per vecchia tradizione
terminologica delle scuole che forse converrà serbare, si dice il
soggetto del giudizio e l'universale il predicato.
Ma, per chiunque domini le parole col pensiero, il vero soggetto
della storia è per l'appunto il predicato, e predicato vero
il soggetto; ossia, nel giudizio si determina l'universale con
individuarlo. Il che ove sembri troppo astruso, e sottigliezza da
filosolì, può essere reso ovvio, e apparire cosa tutt'altro che di
pertinenza privata dei cosiddetti filosofi, con la semplice
osservazione, che ogni persona riflessiva, alla domanda quale sia
il soggetto della storia della poesia, non risponderà certamente
Dante o Shakespeare, o la poesia italiana o l'inglese o la serie
delle poesie a noi note, ma la Poesia, e cioè un universale; e
alla domanda quale sia il soggetto della storia sociale e
politica, non risponderà né Grecia, né Roma, né Francia, ne
Germania, e nemmeno il complesso di queste e di altre cose
siffatte, ma la Cultura, la Civiltà, il Progresso, la Libertà, o
qualche altra parola simile, cioè un universale.
E qui è dato rimovere una grossa pietra d'inciampo, che si oppone
al riconoscimento della identità della filosofia con la storia:
dottrina che ho procurato di rinnovare, modificare e stabilire con
molteplici analisi ed argomentazioni in altro volume di questa mia
opera1. Pure, essa riesce sovente assai dura, e piuttosto oggetto
di convincimento raziocinativo irresistibile che non di piena
persuasione e adesione; e, ricercando le varie cause di questa
durezza, una ne ho trovata, che mi sembra la principale e
fondamentale: ed è appunto la concezione della storia, non come
storia viva e contemporanea, ma come storia morta e passata, come
cronaca (o storia filologica,, che si riduce, come sappiamo, alla
cronaca). Ed è incontrastabile che, posta la storia come cronaca,
la identità della filosofia con essa non può ravvisarsi, perché
non sussiste. Ma, abbassata la cronaca al suo ufficio pratico e
mnemonico e sollevata la storia alla conoscenza dell'eterno
presente, essa si svela tutt'uno con la filosofia, la quale, da
parte sua, non è altro mai che il pensiero dell'eterno presente.
Ciò, beninteso, sempre che sia stato sorpassato il dualismo d'idee
e di fatti, di vérités de raison
e vérités de fait, e il concetto della
filosofia come contemplazione delle idee o delle vérités de raison, e quello
della storia come raccattamene di fatti bruti, di grezze vérités de fait: dualismo tenace, che pur
di recente abbiamo visto rinnovare, larvato nell'assioma che «le propre de l'histoire est de
savoir, le propre de la philosophie de
comprendre», ossia nell'assurda distinzione di un sapere
senza comprendere e di un comprendere senza sapere, che sarebbero
la duplice e sconsolata sorte teoretica dell'uomo.
Ma tale dualismo, e la concezione che vi si congiunse, nonché
filosofia vera, è la fonte perpetua da cui deriva quell'imperfetto
conato al filosofare, che si chiama religione, quando si è dentro
al suo cerchio magico, e mitologia, quando se ne è venuti fuori. E
gioverà polemizzare ancora contro la trascendenza, e rivendicare
il carattere d'immanenza alla realtà e alla filosofia? Gioverà
certamente; ma io, almeno ora e qui, non ne provo il bisogno. E,
come la storia, rettamente intesa, abolisce l'idea di una storia
universale, cosi la filosofia, immanente e identica con la storia,
abolisce l'idea di una filosofia universale, ossia del sistema
chiuso: le due negazioni si corrispondono e, in fondo, fanno
tutt'uno (perché i sistemi chiusi, come le storie universali, sono
romanzi cosmologici), ed entrambe ricevono conferma empirica nella
tendenza dei migliori ingegni dei tempi nostri ad astenersi da
«.storie universali» e da «sistemi definitivi», lasciando le une e
gli altri o ai compilatori o ai credenti e creduli d'ogni sorta.
Questa tendenza era implicita nell'ultima grande filosofia, la
hegeliana, ma contrastata nel seno suo stesso da vecchiumi e
adatto tradita nell'esecuzione, per modo che quella filosofia si
convertì anch'essa in un romanzo cosmologico; onde si può dire che
ciò che, ai principi del secolo decimonono, fu un semplice
presentimento, solo ai principi del ventesimo si viene mutando in
ferma coscienza: la quale sfida le paure dei timidi che per tal
modo si comprometta la conoscenza dell'universale, sostenendo,
che, anzi, solo per tal modo questa conoscenza si ottiene davvero
e in perpetuo, perché in modo dinamico. E la storia, facendosi
storia attuale, come la filosofìa facendosi filosofia storica, si
sono liberate l'una dall'ansia di non poter conoscere ciò che non
si conosce solo perché fu o sarà conosciuto, e l'altra dalla
disperazione di non raggiungere mai la verità definitiva: cioè
entrambe si sono liberate dal fantasma della «cosa in sé».
1 Logica, specialmente nella parte II
Capitolo IV
GENESI E DISSOLUZIONE IDEALE DELLA
"FILOSOFIA DELLA STORIA"
I
La concezione
della così detta "Filosofia della storia" è perpetuamente
fronteggiata e contrastata dalla concezione deterministica della
storia. Il che non solo si vede chiaro nel fatto, ma riluce anche
di logica evidenza, perché la "filosofia della storia" rappresenta
la concezione trascendente del reale, e il determinismo quella
immanente. Ma non meno certo è, nella considerazione di fatto, che
il determinismo storico genera esso, perpetuamente, la "filosofia
della storia"; né questo fatto è poi meno evidentemente logico del
precedente, perché il determinismo è naturalismo, e perciò
immanente, sì, ma d'insufficiente e falsa immanenza: onde si deve
dire piuttosto che esso vuol essere, ma non è, immanente, e, quali
che siano i suoi sforzi nella direzione opposta, si converte in
trascendenza. Tutto ciò non incontra difficoltà. per chiunque
abbia chiari in mente i concetti del trascendente e
dell'immanente, e della filosofia della storia come trascendenza,
e della concezione deterministica e naturalistica della storia
come falsa immanenza. Ma giova vedere più in particolare come
questo processo di accordi e di contrasti si svolga e si risolva
con riverenza al problema della storia.
"Prima raccogliere
i fatti, poi connetterli causalmente": questo è il modo nel quale
la concezione deterministica si raffigura il lavoro della storia.
"Après la collection des faits, la recherche des causes", per
ripetere la comunissima formola nelle parole testuali di uno dei
più immaginosi ed eloquenti teorici di quella scuola, del Taine. I
fatti sono bruti, opachi, reali bensì, ma non rischiarati dal lume
della scienza, non intellettualizzati; e questo carattere
intelligibile deve essere loro conferito mercé la ricerca delle
cause. Ma è anche notissimo che cosa accada nel legare un fatto a
un altro come a causa di quello, componendo una catena di cause ed
effetti: che si entra, cioè, in un regresso all'infinito, e non si
riesce mai a trovare la causa o le cause, alle quali si possa in
ultimo sospendere la catena che si è venuta industriosamente
componendo.
Veramente, da
codesta difficoltà taluni o molti deterministi della storia si
cavano in maniera assai semplice: a un punto qualsiasi, spezzano o
lasciano cadere la loro catena, che è già spezzata dall'altro capo
in un altro punto (l'effetto preso a considerare); e operano col
loro troncone di catena come con qualcosa di compiuto e chiuso in
sé, quasi che una retta tagliata in due punti includa spazio e sia
una figura. Donde altresì la dottrina che s'incontra presso i
metodologisti della storia: che alla storia spetti ricercare
solamente le cause "prossime": dottrina, che vorrebbe dare un
fondamento logico a quel procedere. Ma chi dirà mai che cosa sono
le "cause prossime"? Il pensiero, posto che sia costretto per sua
sventura a pensare seguendo la catena delle cause, non vorrà
sapere mai altro che di cause "vere", vicine o lontane che siano
nello spazio e nel tempo (lo spazio, come il tempo, ne fait rien à l'affaire). In realtà, quella teoria è una foglia di fico,
messa a coprire un procedimento, di cui lo storico, che è uomo di
pensiero e di critica, si vergogna: l'arbitrio, un arbitrio che
torna comodo, ma che appunto perciò è arbitrio. E la foglia di
fico è pur indizio di pudore, e come tale ha il suo pregio; ché,
se quel pudore si perde, c'è caso che si finisca col dichiarare
che le "cause", alle quali arbitrariamente si è fatta fermata,
sono le cause "ultime" e le cause "vere", innalzando così il
proprio individuale arbitrio ad atto creativo del mondo e
atteggiandolo a Dio, al Dio di certi teologi, il cui arbitrio è
verità. Non vorrei, dopo aver detto questo, citare di nuovo
proprio il Taine (scrittore assai rispettabile, non certo per la
sua forma mentale, ma per la sua fede entusiastica nella scienza);
e nondimeno mi conviene citarlo. Il Taine, giunto nella sua
ricerca di cause a una causa, che egli chiama a volte la "razza",
a volte il "secolo", - per esempio, nella sua storia della
letteratura inglese, al concetto di "uomo del Nord" o "Germano",
col carattere e l'ingegno che a questo sarebbero propri, la
frigidezza dei sensi, l'amore per le idee astratte, la rozzezza
del gusto e il disdegno per l'ordine e la regolarità, - afferma
gravemente: "Là s'arrête la recherche: on est tombé sur quelque
disposition primitive, sur quelque trait propre à toutes les
sensations, à toutes les conceptions d'un siècle ou d'une race,
sur quelque particularité inséparable de toutes les démarches de
son esprit et de son coeur. Ce sont là les grandes causes, les
causes universelles et permanentes...". Che cosa di primitivo e
d'insormontabile sia in ciò, sapeva l'immaginazione del Taine, ma
la critica ignora; perché la critica chiede che si dia la genesi
dei fatti o dei gruppi di fatti che si designano coi nomi di
"secolo" e di "razza", e, nel richiedere tale genesi, li dichiara
insieme né "universali" né "permanenti ", perché "fatti universali
e permanenti ", che si sappia, non ve ne sono, e non sono tali,
nonché le Germain e l'Homme du Nord, nemmeno, direi, le mummie, che durano alcuni
millenni ma non in perpetuo, e si alterano lentamente, ma si
alterano.
Cosicché, chiunque
pensi secondo la concezione deterministica della storia, sempre
che voglia astenersi dal troncare con l'arbitrio e con
l'immaginazione la ricerca iniziata, è condotto di necessità a
riconoscere che il metodo adottato non raggiunge il fine che si
persegue; e poiché, d'altra parte, si è cominciato, sia pure con
metodo insufficiente, a pensare la storia, non ci sono altri
partiti che: o rifarsi da capo, cangiando strada, o andare
innanzi, cangiando direzione. Il presupposto naturalistico, che
rimane ancora saldo ("prima raccogliere i fatti, poi cercarne le
cause": quale cosa più evidente e più ineluttabile di questa?),
spinge di necessità al secondo partito. Ma appigliarsi al secondo
partito è oltrepassare il determinismo, è trascendere la natura e
le sue cause, è proporre un metodo opposto al precedente, ossia
rinunziare alla categoria di causa per un'altra, che non può
essere se non quella di fine; e di fine estrinseco e trascendente,
che è l'analogo opposto che corrisponde alla causa. Ora, la
ricerca del fine trascendente è la "filosofia della storia".
A questa ricerca
il naturalista conseguente (e chiamo tale colui che "seguita a
pensare", o, come si dice comunemente, trae le conseguenze) non si
può sottrarre, e non si sottrae in effetto giammai, comunque
concepisca la sua nuova ricerca; nemmeno quando prova a
sottrarvisi, dichiarando inconoscibile il fine o la "causa
ultima", perché (come altresì è noto) un inconoscibile affermato è
un inconoscibile in qualche modo conosciuto. Il naturalismo si
corona sempre di una filosofia della storia, quale che sia la
forma delle sue sistemazioni: o che l'universo venga da esso
spiegato con gli atomi che si accozzano e col loro vario
accozzarsi e danzare producono il corso storico, al quale possono
altresì mettere termine col tornarsene alla primitiva dispersione;
o che chiami il Dio ascoso Materia o Incosciente o in altro modo;
o, infine, che lo concepisca come una Intelligenza che si vale,
per mettere in atto i suoi consigli, della catena delle cause. E,
per converso, ogni filosofo della storia è un naturalista, e tale
è perché è dualista, e concepisce un Dio e un mondo, un'Idea e un
fatto oltre o sotto l'Idea, un Regno dei fini e un Regno o
sottoregno delle cause, una città celeste e un'altra più o meno
diabolica o terrena. Si prenda qualsiasi costruzione di
determinismo storico, e si troverà o scoprirà in essa, esplicita o
sottintesa, la trascendenza (nel Taine, per esempio, reca il nome
di "Race" o di "Siècle", vere e proprie deità); e si prenda
qualsiasi costruzione di "filosofia della storia", e vi si
scopriranno il dualismo e il naturalismo (nello Hegel, per
esempio, in quel suo ammettere fatti ribelli e impotenti, che
resistono o non sono degni del dominio dell'Idea). E si vedrà
sempre più chiaramente come dalle viscere del naturalismo venga
fuori, incoercibile, la "filosofia della storia".
II
Ma la "filosofia
della storia" è altrettanto contradittoria quanto la concezione
deterministica da cui sorge e a cui si oppone. Perché essa, avendo
accettato e oltrepassato insieme il metodo del congiungere tra
loro i fatti bruti, non trova più innanzi a sé fatti da
congiungere (che sono stati già congiunti, come si poteva, mercé
la categoria di causa), sibbene fatti bruti, ai quali deve
conferire, non più un legamento ma un "significato", e
rappresentarli come aspetti di un processo trascendente, di una
teofania. Ora quei fatti in quanto bruti sono mutoli, e la
trascendenza del processo richiede, per essere concepita e
rappresentata, un organo che non sia quello del pensiero che
pensa, ossia produce i fatti, ma un organo extralogico (per
esempio, un pensiero che proceda astrattamente a priori: Fichte), il quale non si trova nello spirito se
non come momento negativo, come il vuoto del pensiero logico
effettivo. E il vuoto del pensiero logico è occupato
immediatamente dallapraxis, o, come si dice,
dal sentimento, che poi, rifrangendosi teoricamente, si atteggia a
poesia. Carattere poetico, che è evidente in tutte le "filosofie
della storia": sia in quelle antiche, che rappresentavano gli
accadimenti storici come lotte tra gli dèi di singoli popoli o di
singole genti o protettori di singoli individui, o del Dio della
luce e della verità contro le potenze della tenebra e della
menzogna; ed esprimevano così le aspirazioni di popoli, di gruppi
o d'individui verso l'egemonia, o dell'uomo verso il bene e la
verità: sia in quelle moderne e modernissime, che s'ispirano ai
vari nazionalismi ed etnicismi (l'italico, il germanico, lo slavo,
ecc.), o che rappresentano il corso storico come la corsa verso il
regno della Libertà, o come il passaggio dall'Eden del comunismo
primitivo, attraverso il Medioevo della schiavitù, della servitù e
del salariato, verso il comunismo restaurato, non più
inconsapevole ma consapevole, non più edenico ma umano. Nella
poesia, i fatti non sono più fatti ma parole, non realtà ma
immagini; e perciò non ci sarebbe luogo a censura, se qui si
rimanesse nella pura poesia. Ma non vi si rimane, perché quelle
immagini e parole sono ora poste come idee e fatti, e cioè come
miti: miti il Progresso, la Libertà, l'Economia, la Tecnica, la
Scienza, sempre che siano concepiti come motori esterni ai fatti;
miti non meno di Dio e il Diavolo, Marte e Venere, Geova e Baal, o
di altre più rozze figurazioni di divinità. Ed ecco perché la
concezione deterministica, dopo avere prodotto la "filosofia della
storia" che le fa contrasto, è costretta a contrastare a sua volta
la propria figliuola, e ad appellarsi dal regno dei fini a quello
delle connessioni causali, dall'immaginazione all'osservazione,
dai miti ai fatti.
La confutazione
reciproca del determinismo storico e della filosofia della storia,
che fa dell'una e dell'altro due vuoti o due niente, cioè un unico
vuoto e niente, sembra invece, come suole, agli eclettici il
compiersi reciproco di due entità, che stringono o dovrebbero
stringere tra loro un'alleanza per sorreggersi a vicenda. E poiché
l'eclettismo, mutato nomine, infierisce nella filosofia contemporanea, non è
meraviglia che si trovi di frequente assegnato alla storia, oltre
l'ufficio d'investigare le cause, quello del "significato" o del
"piano generale" del corso storico (si vedano i lavori sulla
"filosofia della storia" del Labriola, del Simmel, del Rickert); e
poiché gli scrittori di metodiche sogliono essere empirici, e
perciò eclettici, anche tra es'si è vulgata la partizione della
storia in istoria che si fa col radunare e criticare i documenti e
ricostruire gli accadimenti, e in "filosofia della storia" (si
veda per tutti il manuale del Bernheim); e, infine, poiché
eclettico è il pensiero ordinario, niente è più facile che
raccogliere consenso intorno alla tesi: che la semplice storia, la
quale offre la serie dei fatti, non basta, e che si richiede che
il pensiero torni sopra la costituita catena dei fatti per
iscoprirvi il disegno riposto e per rispondere alle domande del
donde veniamo e del dove andiamo; cioè che, accanto alla storia,
debba porsi una "filosofia della storia". Questo eclettismo, che
sostanzializza due opposte vacuità e fa che l'una dia la mano
all'altra, tenta perfino talvolta di superare sé stesso e di
fondere quelle due finte scienze o parti di scienza. E allora si
ode difendere la "filosofia della storia", ma con la cautela, che
essa debba essere condotta con metodo "scientifico" e "positivo",
mercé la ricerca causale, e svelare per tal modo l'azione della
ragione o della Provvidenza divina: - programma nel quale altresì
il pensiero volgare tosto consente, ma che poi non si riesce a
eseguire. Niente di nuovo, neanche qui, per gl'intendenti: la
"filosofia della storia", da costruire coi "metodi positivi", la
trascendenza da dimostrare coi metodi della falsa immanenza, è,
nel campo degli studi storici, l'esatto equivalente
di quella
"metafisica da costruire con metodo sperimentale", che i
neocritici (Zeller e altri) raccomandavano, e che anch' essa
pretendeva, non già superare due vacuità che reciprocamente si
confutano, ma accordarle tra loro, e, dopo averle
sostanzializzate, combinarle in unica sostanza. Cose che, per
significarne l'impossibilità, io non chiamerei prodigi da
alchimista (la metafora mi sembrerebbe troppo alta), ma sì,
piuttosto, intrugli da cattivi cuochi.
III
Tutt'altro è il
rimedio efficace alle contradizioni del determinismo storico e
della "filosofia della storia"; e, per ottenerlo, bisogna
accettare il risultamento della reciproca confutazione, che li
vanifica entrambi, e rifiutare, perché privi di pensiero, così i
"disegni" della filosofia della storia, come le "catene causali"
del determinismo. E, dissipate queste due ombre, ci ritroviamo al
punto di partenza: siamo innanzi di nuovo ai fatti bruti e
slegati, ai fatti assodati ma non intesi, pei quali il
determinismo aveva procurato di adoprare il cemento della
causalità, e la "filosofia della storia", la bacchetta magica
della finalità. - Che cosa faremo di questi fatti? Come li
renderemo da opachi traslucidi? da disorganici, organici? da
inintelligibili, intelligibili? Veramente, sembra difficile fame
qualcosa, e, soprattutto, eseguire di essi la trasformazione
invocata. Lo spirito è impotente innanzi a ciò che gli è, ossia si
suppone che gli sia, estraneo. E, concepiti i fatti a quel modo,
si è tentati a ripigliare l'atteggiamento di disprezzo dei
filosofi verso la storia, mantenutosi quasi costante
dall'antichità (per Aristotele la storia era "meno filosofica" e
"meno grave" della poesia, e per Sesto Empirico "materia
ametodica"), fin quasi alla fine del secolo decimottavo (Kant non
intese né sentì la storia): ai filosofi le idee, agli storici i
fatti bruti: contentiamoci delle cose serie e lasciamo ai bambini
i loro balocchi.
Ma, prima di
cedere a siffatta tentazione, sarà prudente chiedere consiglio al
dubbio metodico (che riesce sempre assai utile), e volgere
l'attenzione appunto su quei fatti bruti e sconnessi, dai quali la
ricerca causale asserisce di prendere le mosse, e innanzi ai quali
noi, abbandonati ormai da essa e dal suo complemento, la filosofia
della storia, sembra che siamo tornati. E il dubbio metodico ci
suggerirà innanzi tutto il pensiero: che quei fatti sono un
presupposto non provato: e ci indurrà quindi a esaminare se la
prova si possa fare; e, mettendoli al cimento della prova, ci
porterà, in fine, alla conclusione, che quei fatti, realmente, non
esistono.
Chi, infatti,
afferma la loro esistenza? Per l'appunto, lo spirito nell'atto che
si accinge alla ricerca delle cause. Ma lo spirito, in quell'atto,
non possiede prima i fatti bruti ("d'abord, la collection des
faits"), e poi ne cerca le cause ("après, la recherche des
causes"); sibbene, con quell'atto stesso, rende bruti i fatti,
cioè li pone lui così, perché gli giova così porli. La ricerca
delle cause, che si esegue nella storia, non è niente di diverso
dal procedere, più volte illustrato, del naturalismo, che analizza
astrattamente e classifica la realtà. E analizzare astrattamente e
classificare importa insieme astrattamente giudicare
classificando; cioè trattare i fatti, non come atti dello spirito,
consapevoli nel pensiero che li pensa, ma come fatti esterni o
bruti. La Divina Commedia è
quel poema che noi, leggendo, rifacciamo nella nostra fantasia in
tutte le sue particolarità, e che criticamente intendiamo come una
particolare determinazione dello spirito, e che perciò collochiamo
mentalmente al suo posto nella storia con tutte le sue circostanze
e in tutte le sue relazioni. Ma quando questa attualità della
nostra fantasia e del nostro pensiero è trapassata, ossia quel
processo mentale si è compiuto, siamo in grado, con un nuovo atto
spirituale, di analizzarne astrattamente gli elementi; e
costruendo,
per esempio, i
concetti classifica tori i di "civiltà fiorentina" o di "poesia
politica ), diremo che la Divina Commedia fu
un effetto della civiltà fiorentina, e questa, a sua volta, delle
lotte politiche dei Comuni, e simili. E ci saremo così, in pari
tempo, aperta la strada a quei problemi assurdi, che tanto
infastidivano il De Sanctis a proposito dell'opera di Dante, e
ch'egli benissimo qualificava dicendo che sorgono solamente quando
la viva impressione estetica si è raffreddata, e 1'opera poetica
cade in balìa dei cervelli ottusi, vaghi di sciarade. Ma se ci
arrestiamo a tempo e non entriamo nella strada aperta di quelle
assurdità, se ci atteniamo al momento naturalistico puro e
semplice, alla classificazione e al giudizio classificatorio (che
è insieme connessione causale), in guisa affatto pratica, senza
tirarlo a conseguenza, non faremo niente di men che legittimo,
anzi eserciteremo un nostro diritto e ci piegheremo a una
razionale necessità, che è quella del naturalizzare quando il
naturalizzare giova e nei limiti entro cui esso giova. Talché,
come puro naturalismo, il materializzamento dei fatti, e il loro
legamento estrinseco o causale, è del tutto giustificato; e
giustificata si dimostrerà perfino la massima di fermarsi alle
cause "prossime" ossia di non spingere tant'oltre la
classificazione, che essa perda qualsiasi utilità pratica. Porre
in relazione la Divina Commedia col
concetto di classe "civiltà fiorentina"potrà giovare; ma non
gioverà punto, o infinitamente meno, porla in relazione col
concetto di classe "civiltà indoeuropea", o "civiltà dell'uomo
bianco".
IV
Torniamo, dunque,
con maggiore fiducia al punto di partenza, al vero punto di
partenza, cioè non a quello dei fatti già disorganizzati e
naturalizzati, ma a quello della mente che pensa e costruisce il
fatto; risolleviamo i volti avviliti dei calunniati "fatti bruti",
e vedremo risplendere sulle loro fronti la luce del pensiero. E
quel vero punto di partenza ci si mostrerà, non semplice punto di
partenza, ma e di partenza e di arrivo; non il primo passo nella
costruzione della storia, ma tutta la storia nella sua
costruzione, che è poi il suo costruirsi. Il determinismo storico,
e a più forte ragione la "filosofia della storia", si lasciano
dietro le spalle la realtà della storia, verso la quale pur
indirizzavano il loro viaggio, riuscito aberrante e viziosamente
circolare.
Che questo che
diciamo sia la verità, ce lo faremo confessare dall'ingenuo Taine,
domandandogli che cosa intenda per "collection des faits", e
apprendendo da lui in risposta che quella raccolta si compie in
due stadi o momenti, nel primo dei quali i documenti vengono
ravvivati per raggiungere, "à travers la distance des temps,
1'homme vivant, agissant, doué de passions, muni d'habitudes, avec
sa voix et sa physionomie, avec ses gestes et ses habits, distinct
et complet comme celui qui tout à 1'heure nous avons quitté dans
la rue"; e nel secondo si cerca e scopre "sous l'homme extérieur
l'homme intérieur", "l'homme invisible", "le centre", "le groupe
des facultés et des sentiments qui produit le reste", "le drame
intérieur", "la psychologie". - Altro, dunque, che "collections
des faits"! Se le cose, che il nostro autore dice, si adempiono
per davvero, se davvero si rivivono in fantasia gli individui e
gli accadimenti, e se degli uni e degli altri si pensa
l'interiorità, cioè se si esegue la sintesi d'intuizione e
concetto che è il pensiero nella sua concretezza, la storia è
bella e attuata: che cosa si desidera di più? non c'è da cercar
altro. "C'è da cercar le cause!" aggiunge il Taine. Ossia, c'è da
ammazzare il "fatto" vivo, pensato dal pensiero, e c'è da
separarne gli astratti elementi, cosa utile senza dubbio, ma alla
memoria e alla pratica; o ancora (come esso Taine adopera)
fraintendere e sopravalutare questo ufficio dell'analisi astratta,
andandosi a perdere nella mitologia delle Razze e dei Secoli, o in
altra diversa e nondimeno simile. Guardiamoci dall'ammazzare i
poveri fatti, se vogliamo pensare da storici; e, in quanto tali,
in quanto effettivamente pensiamo, non sentiremo bisogno di
ricorrere né al legame estrinseco delle cause (determinismo
storico), né a quello parimente estrinseco dei fini trascendenti
(filosofia della storia). Il fatto concretamente pensato non ha né
causa né fine fuori di sé, ma solamente in sé stesso, coincidente
con la sua reale qualità o con la sua qualitativa realtà. Perché
(sarà opportuno notare di passata) la determinazione dei fatti
come fatti reali bensì, ma d'ignota natura, asseriti e non
compresi, è anch'essa un'illusione del naturalismo (che
preannunzia così l'altra sua illusione, quella della "filosofia
della storia"): nel pensiero, realtà e qualità, esistenza ed
essenza, sono tutt'uno, e non si può affermare reale un fatto
senza insieme conoscere qual fatto esso sia, cioè senza
qualificarlo.
Tornando e
restando, ossia movendoci nel fatto concreto, o, meglio, facendoci
pensiero che pensa concretamente il fatto, noi sperimentiamo il
continuo formarsi e il continuo progredire del nostro pensiero
storico, e ci rendiamo anche chiara la storia della storiografia,
che progredisce allo stesso modo. E vediamo come (mi restringo a
un esempio per non lasciar vagare troppo lo sguardo) dai greci a
noi l'intelligenza storica si sia fatta sempre più ricca e
profonda, non già perché si siano mai rinvenute le cause astratte
e i fini trascendenti delle cose umane, ma sol perché si è
acquistata via via di esse una coscienza sempre più ricca; e
politica e morale e religione e filosofia e arte e scienza e
cultura ed economia sono diventate concetti più complessi, e
insieme meglio determinati e unificati in sé medesimi e col tutto;
e correlativamente, le storie di quelle forme di attività sono
diventate sempre più complesse e più saldamente une. Le "cause"
della civiltà le conosciamo così poco noi come i greci; e così
poco noi come i greci conosciamo il Dio o gli dèi, che guidano le
umane fortune. Ma noi conosciamo meglio dei greci la teoria della
civiltà, e, tra l'altro, sappiamo (com'essi non sapevano, o non
sapevano con altrettanta chiarezza e sicurezza) che la poesia è
una forma eterna dello spirito teoretico; che il regresso o
decadenza è un concetto relativo; che il mondo non è diviso in
idee e ombre delle idee, o in potenze ed atti; che la schiavitù
non è una categoria del reale, ma una forma storica
dell'economia; e via discorrendo. E perciò non ci accade più
(salvo che ai sopravvissuti o ai fossili, che pur sono tra noi) di
tessere la storia della poesia passando a rassegna i fini
pedagogici che si sarebbero proposti i poeti; ma intendiamo a
determinare invece le forme espressive dei loro sentimenti: né
restiamo smarriti innanzi alle così dette "decadenze", ma
ricerchiamo che cosa di nuovo e di superiore si andò, attraverso
la dialettica di esse, elaborando; - né consideriamo misera e
illusoria l'opera dell'uomo e solo degni di ammirazione e
d'imitazione il sospiro al cielo e la congiunta ascesi, avversa
alla terra: ma nell'atto riconosciamo la realtà della potenza e
nelle ombre la saldezza delle idee, e nella terra il cielo; - né,
infine, ci sentiamo mancare la possibilità della vita sociale per
effetto della sparizione dell' economia a schiavi: sparizione che
sarebbe stata la catastrofe della realtà, se nella realtà fossero
schiavi per natura; e via discorrendo.
Questo concetto
della storia e la considerazione del lavoro storiografico nel suo
intrinseco ci mettono in grado altresì di usare giustizia verso il
determinismo storico e la "filosofia della storia", che, col loro
continuo risorgere, hanno continuamente additato le lacune del
nostro sapere così storico come filosofico, e con le loro
soluzioni immaginose hanno precorso le soluzioni dialettiche e
storiche dei nuovi problemi che si sono andati ponendo; né è detto
che smetteranno da ora in poi di esercitare tale ufficio (che è
l'ufficio benefico delle utopie di ogni sorta). E quantunque, come
meramente astratti e negativi, il determinismo storico e la
"filosofia della storia" non abbiano storia perché non si
svolgono, dalla relazione in cui essi sono con la storia ricevono
un contenuto che si svolge, cioè la storia si svolge in essi,
nonostante il loro involucro, estrinseco al contenuto,
costringendo a pensare anche chi si propone di schematizzare e
d'immaginare senza pensare. Ché, in verità, è da porre gran
divario tra il determinismo che può risorgere ora, dopo Cartesio e
Vico e Kant e Hegel, e quello che sorse dopo Aristotele; tra la
filosofia della storia di Hegel o di Marx, e quella dello
gnosticismo o del cristianesimo. Trascendenza e falsa immanenza
travagliano, rispettivamente, tutte queste concezioni; ma le forme
astratte e le mitologie, nate in più matura epoca del pensiero,
racchiudono in sé questa nuova maturità; e, per soffermarci
solamente (lasciando da parte i vari naturalismi) sul caso delle
"filosofie della storia", si avverte già una bella differenza
dalla filosofia della storia, che domina nel mondo omerico, a
quella di Erodoto, il cui concetto dell'invidia degli dèi è quasi
un'idea di legge morale, che risparmia gli umili e calca i
superbi; e da questa al fato degli stoici, che è una legge alla
quale gli stessi dèi sono sottoposti; e poi al concetto della
Provvidenza, che spunta nella tarda antichità, della sapienza che
regge il mondo; e ancora da questa provvidenza pagana alla
cristiana, che è giustizia divina, preparazione evangelica e cura
educativa del genere umano; e via via alla provvidenza affinata
dai teologi, che esclude d'ordinario l'intervento miracoloso e
opera per cause seconde, e a quella del Vico, che opera come
dialettica dello spirito, e alla Idea dello Hegel, che è graduale
conquista, che la libertà, attraverso la storia, fa della propria
coscienza; o, infine, alla mitologia ancora persistente del
Progresso e della Civiltà, che tenderebbero al definitivo
sgombramento dei pregiudizi e delle superstizioni da conseguire
mercé la crescente forza e divulgazione della scienza positiva.
Per tal modo, la
"filosofia della storia" e il determinismo storico raggiungono a
volte la sottigliezza e la trasparenza di un velo, che copre e
scopre insieme la concretezza del reale nel pensiero; e le
meccaniche "cause" appaiono idealizzate, e le trascendenti "deità"
umanate, e i fatti svestono gran parte del loro aspetto brutale.
Ma, per sottile che sia il velo, è velo, e per ischietta che
sembri la verità, non è del tutto schietta, perché permane pur
sempre nel fondo la falsa persuasione che la storia si costruisca
col "materiale" dei fatti bruti, col "cemento" delle cause e con
la "magia" dei fini, come con tre successivi o concorrenti metodi.
È il caso medesimo della religione, la quale, nelle menti alte, si
libera quasi del tutto dalle volgari credenze, come negli animi
alti la sua etica si affranca quasi del tutto dall'eteronomismo
del comando divino e dall'utilitarismo del premio e della pena.
Quasi del tutto, ma non del tutto; e perciò la religione non sarà
mai filosofia, se non negandosi; e così la "filosofia della
storia" e il determinismo storico, solo negandosi, diventeranno
storia. Sempre che in qualche misura essi persistano in modo
positivo, persisterà insieme il dualismo, e il conseguente
angoscioso scetticismo o agnosticismo.
La negazione della
filosofia della storia nella storia concretamente intesa è la sua
ideale dissoluzione; e, poiché quella cosiddetta "filosofia" non è
altro che un momento astratto e negativo, è chiaro per quale
ragione da noi si affermi che la filosofia della storia è morta:
morta nella sua positività, morta come corpo di dottrine; morta, a
questo modo, con tutte le altre concezioni e forme del
trascendente. E io non vorrei appiccare alla mia breve (ma, a mio
credere, bastevole) trattazione di tale argomento, la giunta di
una dilucidazione che sembrerà ad alcuni (come sembra a me stesso)
poco filosofica e persino alquanto triviale. Nondimeno, preferendo
al rischio dell'equivoco quello della semitrivialità, aggiungerò
che, come la critica dei "concetti" di causa e di finalità
trascendente non vieta di adoperare queste "parole" quando siano
semplici parole (e, per esempio, di parlare immaginosamente della
Libertà come di una dea, o di dire, nell'accingersi a uno studio
su Dante, che s'intende "ricercare la causa" o "le cause" di
questa o quell'azione e opera di lui), - così niente vieta di
seguitare a parlare di "filosofia della storia", e di un
"filosofare sulla storia", per significare l'esigenza di una
elaborazione o di una migliore elaborazione di questo o di quel
problema storico. E neanche è vietato chiamare "filosofia della
storia" le ricerche di gnoseologia storica, sebbene in questo caso
si elabori la filosofia, non propriamente della storia, ma della
storiografia: due cose che sogliono essere designate in italiano,
come in altre lingue, da un medesimo vocabolo. E nemmeno, infine,
si vuole impedire di affermare (come fece, anni addietro, un
professore tedesco) che la "filosofia della storia" debba
trattarsi come "sociologia", cioè d'insignire di quel vecchio
titolo la cosiddetta Sociologia, scienza empirica dello Stato,
della società e della cultura.
Queste
denominazioni sono tutte permesse, in virtù del medesimo diritto
che l'avventuriere Casanova invocava innanzi al magistrato per
giustificarsi di aver cangiato nome: "il diritto che ogni uomo ha
sulle lettere dell'alfabeto". Ma la questione, trattata di sopra,
non è stata di lettere dell'alfabeto; e la "filosofia della
storia", della quale abbiamo sommariamente mostrato la genesi e la
dissoluzione, non è già un nome, che variamente si adoperi, ma una
determinatissima concezione della storia: la concezione
trascendente.
V
La positività della storia
Al noto motto di Fustel de Coulanges, che vi siano bensì «la storia
e la filosofia, ma non la filosofìa della storia», noi
contrapponiamo, dunque, l'altro: che non v'è né la filosofia né la
storia né la filosofia della storia, ma la storia che è filosofia e
la filosofia che è storia, intrinseca alla storia. Perciò tutte le
controversie — e prima di tutto quelle circa il progresso — che
filosofi e metodologisti della storia e sociologi reputano di loro
particolare pertinenza e agitano al capo o alla coda dei loro
trattati, si riconducono per noi a semplici problemi, storicamente
motivati, di filosofia, connessi con tutti gli altri che la
filosofia viene trattando.
Nelle controversie circa il progresso si domanda; se l'opera
dell'uomo sia feconda o sterile, si conservi o si perda; se la
storia abbia un fine, e quale; se questo fine sia conseguibile
temporalmente o solo all'infinito; se la storia sia progresso o
regresso, o vicenda di progressi e regressi, di grandezze e
decadenze; se in essa prevalga il male o il bene; e simili. Domande
che, considerate con un po' di attenzione, si vedranno
sostanzialmente aggirarsi intorno a tre punti: il concetto di
svolgimento, quello di fine, e quello di valore; cioè intorno a
concetti che investono la realtà tutta, e la storia solo in quanto
è, per l'appunto, tutta la realtà: epperò non appartengono a
presunte scienze particolari, alla filosofia della storia, alla
empirica metodica storica o alla sociologia, ma alla filosofia, e
alla storia in quanto filosofia.
Tradotte le formole volgari o correnti in termini filosofici, esse
richiamano subito le tesi, antitesi e sintesi onde quei problemi
sono stati pensati e risoluti nel corso della storia della
filosofia, alla quale qui bisogna rinviare il lettore, desideroso
d'istruirsi. E solamente per via di accenni si può ricordare che la
concezione della realta come svolgimento è nient'altro che la
sintesi delle due opposte unilateralità, di una costanza senza
cangiamento e di un cangiamento senza costanza, di un'identità senza
diversità e di una diversità senza identità, perché lo svolgimento è
il perpetuo superare che è insieme un perpetuo conservare. Sotto
questo aspetto, una delle concezioni che più hanno avuto corso nei
libri degli storici, quella dei circoli storici, si discopre come un
equivoco tentativo di uscire dalla duplice unilateralità e un
ricadervi in forza dell'equivoco; perché o la serie dei circoli è
concepita come d'identici, e si ha la mera costanza, o come di
diversi, e si ha il mero cangiamento. Che se invece si concepisce
come circolarità che è perpetuamente identica e perpetuamente
diversa insieme, in questo significato essa coincide col concetto
stesso dello svolgimento.
Similmente, le opposte tesi, che sono state sostenute, della
conseguibilità o inconseguibilità del fine nella storia, scoprono il
loro comune difetto di porre il fine come estrinseco alla storia:
sia concependolo come tale che si possa toccare nel tempo (progressus ad finitum), sia
come tal altro che non si possa mai toccare, ma soltanto
infinitamente approssimarvisi (progressus
ad ìnfinitum). Ma ove il fine si concepisca rettamente,
come finalità interna, e perciò tutt'uno con lo svolgimento
stesso, si deve coneludere che esso è, a ogni istante, conseguito e
insieme non conseguito, perché ogni conseguimento è formazione di
una nuova prospettiva, onde in ogni istante si ha la soddisfazione
del possesso e, sorgente da questo, l'insoddisfazione, che spinge
alla ricerca del nuovo possesso1.
Infine, dal medesimo errore di entiticare e rendere estrinseci il
bene e il male, la gioia e il dolore (che sono la costituzione
stessa dialettica del reale), prendono origini le concezioni della
storia come percorso del male al bene (progresso) o dal bene al male
(decadenza, regresso), malamente unificate in quella eclettica, che
combina le due tesi nella forma di un alternarsi di beni e di mali,
di progressi e di regressi. La soluzione giusta è quella del
progresso inteso non come passaggio dal male al bene, quasi da uno
stato all'altro, ma come passaggio dal bene al meglio, in cui il
male e il bene stesso, visto alla luce del meglio.
Tutte codeste sono soluzioni filosofiche che, quanto discordano
dallo superficiali tesi dei controversisti (dettate loro da motivi
sentimentali o da combinazioni dell'immaginazione, e in fondo
mitologiche o riuscenti in mitologie), altrettanto si accordano con
le profonde convinzioni umane e con l'instancabile laboriosità, la
fiducia, il coraggio, che ne formano le manifestazioni etiche.
Qualcosa di più prossimamente efficace, nei rispetti della pratica e
della critica della storiografia, si può per altro dire col trarre
le conseguenze dal concetto dialettico di progresso. Perché in quel
concetto si ritrova il fondamento di una massima storiografica, che
corre sulla bocca di tutti, ma è poi di frequente fraintesa e di
frequente violata: cioè, che alla storia spetti non giudicare
ma spiegare, e che essa debba essere non soggettiva ma oggettiva.
Fraintesa: perché il giudicare, di cui qui si parla, è tolto di
frequente nel senso del giudizio logico, di quel giudicare che è il
pensare, stesso, e la soggettività, che per tal modo si verrebbe a
escludere, sarebbe né più né meno che la soggettività del pensiero.
In conseguenza di questo fraintendimento si ode raccomandare agli
storici di purgarsi delle teorie, mettere a tacere le dispute in
proposito e attenersi ai fatti, raccogliendoli e ordinandoli e
spremendone il succo (magari, col metodo statistico).
Raccomandazioni che poi, com'è agevole discernere, non si è in grado
di seguire; onde quel «preservarsi dal pensiero» si concreta
effettivamente in un preservamento dalla «serietà del pensiero», in
un far valere surrettiziamente tutti i più volgari e contradittori
pensieri, trasmessi per tradizione, vaganti nelle menti per ozio o
balzanti da momentanei capricci.
Intesa o fraintesa a quel modo, la massima è affatto falsa, e
bisognerebbe surrogarla con l'opposta: che la storia deve sempre e
rigorosamente giudicare, e dev'essere sempre ed energicamente
soggettiva; senza poi confondersi pei contrasti in cui il pensiero
si dibatte e pei rischi che corre, perché il pensiero stesso (ed
esso solo) supera le proprie difficoltà e pericoli; e senza cadere,
neppur qui, nella frivolezza dell'eclettismo, che si argomenta di
trovare un mezzo termine tra giudizio nostro e giudizio degli altri,
e variamente propone forme neutre e insipide di giudizi.
Ma il motivo originario di quella massima, il significato vero e
legittimo del «giudicare» e della «soggettività» che essa condanna,
è che la storia non deve applicare ai fatti e personaggi, che sono
sua materia, le qualifiche del bene e del male, quasi si dessero
realmente al mondo fatti buoni e fatti cattivi,
personaggi buoni e personaggi cattivi. E certo non si può
disconoscere che innumerevoli storiografi o pretendenti a
storiografi si sono effettivamente affaticati, e ancora si
affaticano, in quest'opera presuntuosa o vana di dar premio ai buoni
e castigo ai malvagi, di qualificare le epoche storiche come
progressi o decadenze, di far insomma le parti del male e del bene,
come se si trattasse di separare chimicamente un elemento dall'altro
del composto, l'idrogeno dall'ossigeno.
Chi voglia osservare nel suo intrinseco quella massima, e, cosi
facendo, mettersi d'accordo col concetto dialettico del progresso,
deve, in verità, considerare come segno d'imperfezione ogni traccia
o residuo che s'incontri, nelle trattazioni degli storici, di
proposizioni affermanti il male, il regresso o la decadenza come
fatti reali; e, in una parola, ogni residuo o traccia di giudizi
negativi. Se il corso storico non è trapasso dal male al bene né
vicenda di beni e di mali, ma trapasso dal bene al meglio; se la
storia deve spiegare e non condannare; essa pronuncierà soltanto
giudizi positivi, e comporrà catene di beni, salde e strette cosi da
riuscire impossibile introdurvi nn piccolo anello di male o
interponi spazi vuoti, che, in quanto vuoti, non rappresenterebbero
beni ina mali. Un fatto che sembri meramente cattivo, un'epoca che
sembri di mera decadenza, non può essere altro che un fatto non
isterico, vale a dire non ancora storicamente elaborato, non
penetrato dal pensiero, e rimasto preda del sentimento e
dell'immaginazione.
Dove nasce, in effetti, la fenomenologia del male e del bene, del
peccare e del riparare, del decadere e del risorgere, se non nella
coscienza dell'operante, nell'atto che si travaglia a produrre una
nuova forma di vita?2. E, in quell'atto, l'avversario, che ci sta di
fronte, ha torto; la condizione dalla quale
vogliamo uscire e stiamo uscendo, è infelice; quella nuova, che
tendiamo a raggiungere, si simboleggia come una felicita sognata da
attuare, o come una condizione passata da restaurare, e perciò
bellissima nel ricordo (che qui non è ricordo, ina fantasia): le
quali parvenze ognuno sa come si siano presentate e si presentino
nel corso della storia, e si siano manifestate in poesie, utopie,
racconti tendenziosi, detrazioni, apologie, miti dell'amore e
dell'odio, e via discorrendo. Bellissima e santissima apparve la
condizione dei primi cristiani, e pessima e reproba quella dei
cristiani papali, agli eretici medievali e ai riformatori
protestanti; ammirevole ai giacobini la Sparta di Licurgo e la Roma
di Cincinnato e di Unito, ed orrenda la Francia dei Carolingi e dei
Capetingi; luminosa la vita degli antichi savi e poeti, e fìtto
tenebrore il medioevo, agli umanisti; e ancora in tempi a noi vicini
si è assistito alla glorificazione dei comuni lombardi e alla
depressione del Sacro Romano Impero, e alla depressione di quelli e
glorificazione di questo, secondo che i medesimi fatti storici si
riflettevano nella coscienza di un italiano anelante
all'indipendenza d'Italia o di un tedesco promovente il sacro
tedesco impero di egemonia prussiana.
E ciò accadrà sempre, perché tale è la fenomenologia della coscienza
pratica; e in qualche misura queste valutazioni pratiche
s'introdurranno sempre nei libri composti dagli storici: che. come
libri, non sono e non possono esser mai pura storia, storia
quintessenziale, e accoglieranno, se non in altro, nel modo del loro
fraseggiare e metaforeggiare, le ripercussioni dei bisogni pratici
presenti e degli sforzi verso l'avvenire.
Ma la coscienza storica, in quanto tale, è coscienza logica e non
già pratica, e anzi fa suo proprio oggetto l'altra: la storia, che
fu già vissuta, è ora in lei pensata, e nel pensiero non Inumo più
luogo le antitesi che si fronteggiavano nella volontà o nel
sentimento. Per essa non ci sono fatti buoni e fatti cattivi,
ma fatti sempre buoni quando siano intesi nel loro intimo e nella
loro concretezza; non ci sono partiti avversi, ma quel partito più
ampio che abbraccia gli avversi, e che, per avventura, è appunto la
considerazione storica. La quale perciò riconosce come di pari
diritto la chiesa delle catacombe e quella di Gregorio VII, i
tribuni del popolo romano e i baroni feudali, la lega lombarda e
l'imperatore Barbarossa. La storia non è mai giustiziera, ma sempre
giustificatrice; e giustiziera non potrebbe farsi se non facendosi
ingiusta, ossia confondendo il pensiero con la vita, e assumendo
come giudizio del pensiero le attrazioni e le repulsioni del
sentimento.
Nell'espressione del sentimento si soddisfa la poesia; ed è degno di
nota che un insigne storico, lo Schlosser, il quale volle serbare a
sé il diritto e il dovere del giudicare, con kantiana austerità ed
astrattezza, i fatti storici, tenne fisi gli occhi, come a suo
ideale metodico, alla Divina commedia, cioè a un'opera di poesia. E,
poiché elementi poetici sono in tutti i miti, s'intende per quale
ragione il concetto che si chiama dualistico della storia (cioè
della storia come composta di due correnti che mescolano e non
fondono mai le loro acque, del bene e del male, della verità e
dell'errore, della razionalità e dell'irrazionalità) abbia formato
parte cospicua, non solo della religione cristiana, ma anche delle
mitologie e teologie (che tali veramente sono) dell'umanesimo e
dell'illuminismo. Ma l'avere avvertito questo problema del dualismo
dei valori, e l'averlo risoluto nella superiore unità del concetto
di svolgimento, è opera del secolo decimonono, che per essa e per le
altre che lo si congiungono (e non eerto per la sua ricchezza
filologica e archeologica, relativamente comune ai quattro secoli
precedenti), e stato ben denominato il «secolo della storicità».
La storia, dunque, non solo non può discriminare i fatti in buoni e
cattivi e le epoche in epoche progressive e regressive, ma essa non
comincia se non quando le condizioni psicologiche, che rendevano
possibili codeste antitesi, sono state sorpassate e sostituite
dall'atto dello spirito, che indaga a quale ufficio abbia adempiuto
nello svolgimento il fatto o l'epoca che prima si condannava: ossia
che cosa ossa abbia arrecato di proprio in quel corso, e perciò che
cosa abbia prodotto; e, in quanto tutti i fatti e tutte le epoche
sono a lor modo produttivi, non solo nessuno di essi è al lume della
storia condannabile, ma tutti sono laudabili e venerabili. Un fatto
condannato, un fatto al quale si ripugna, non è ancora una
proposizione storica, ma, a mala pena, la premessa di un problema
storico da formolarc. Una storia negativa è una non-storia, sempre
che quel suo procedere negativo si sostituisca al pensiero che è
affermativo, e non si mantenga nei suoi confini pratici e morali, e
nelle espressioni poetiche e nei modi empirici di rappresentazione,
per le quali cose tutte si può certamente parlare (parlare, e non
già pensare), come a ogni istante parliamo, di uomini cattivi e di
epoche di decadenza e di regresso.
Se il vizio della storia negativa proviene dal separare e
solidificare e contrapporre le antitesi dialettiche del bene e del
male, e trasformare in entità i momenti ideali dello svolgimento,
dal fraintendere un'altra esigenza di questo concetto, cioè la
perpetua costanza, il perpetuo serbarsi dell'acquistato, si origina
quell'altra deviazione della storia, che si può denominare la storia
elegiaca: falsa anch'essa per definizione. Perché ciò che si serba
ed arricchisce nel corso della storia è la storia stessa, la
spiritualità; e il passato non vive altro che nel presente, come
forza del presente, risoluto e trasfignrato nel presente. Ogni forma
particolare, individuo, azione, istituzione, opera, pensiero, è
destinata a perire: perisce perfino l'arte, che si dice eterna (e
tale e, in certo senso), ma che non vive se non in quanto si
riproduce, e perciò insieme trasfigurata e avvolta di nuova luco,
nello spirito dei posteri; perisce perfino la verità, la verità
determinata e particolare, perché non e ripensabile so non inclusa
nel sistema di una più vasta verità, e perciò insieme trasformata.
Ma coloro che non giungono a innalzarsi alla schietta considerazione
storica, coloro che si attaccano con tutta l'anima loro a un
individuo, a un'opera, a una credenza, a un'istituzione, e vi si
attaccano cosi fortemente da non potersene distaccare per
oggettivarli innanzi a sé e pensarli, trasferiscono facilmente
l'immortalità, che è dello spirito in universale, allo spirito in
una sua forma determinata e particolare; e poiché quella forma,
nonostante i loro sforzi, muore, e muore tra le loro stesse braccia,
al loro sguardo l'universo si ottenebra, e la sola storia, che essi
sappiano narrare, è la storia triste dell'agonia e della morte delle
cose belle. Poesia anche questa, e poesia altissima: chi, nel
perdere un essere caro, nel distaccarsi da una cosa cara, può altro
che piangere, e, come Dante alla novella della morte della sua donna
«ch'era si bella», vedere spegnere il sole e tremare la terra e gli
uccelli sospendere il volo e cadere per l'aere?
Ma la storia non è mai storia della morte, sibbene storia della
vita; o ciascuno sa poi che la degna commemorazione dei morti è la
conoscenza di ciò che essi operarono in vita, di quel che essi
produssero e che opera in noi, la storia della loro vita e non della
loro morte, che e da animo gentile velare, e da animo rozzo e
sconvolto atteggiare in orrida nudità e contemplare con malsana
insistenza. Perciò sonò da ritenere false (o, ripetiamo, semplici
poesie nei casi in cui attingono il pregio della poesia) tutte
quelle storie che narrano la morte e non la vita dei
popoli, degli Stati, dello istituzioni, dei
costumi, degli ideali letterari e artistici, delle concezioni
religiose; e si contristano e si angosciano e lamentano che quel che
fu non è più: il che si risolverebbe in una mera tautologia (perché,
se fu, e evidente che non e), se poi non andasse congiunto alla
trascuranza del riconoscere ciò che di quel passato non è perito,
ossia quel passato in quanto non è passato ina presente, la vita
eterna del passato; e in questa trascuranza, e nella prospettiva
sbagliata che ne sorge, è la falsità di tali storie.
Accade talvolta che gli storici, intenti a narrare lugubrementc
quelle scene di agonie e a celebrare funerali, ai quali lor piace
dare il nome di storie, restino tra stupiti e scandolezzati se, dai
documenti che vanno frugando, giunga al loro udito uno squillo di
riso, un grido di gioia, un respiro di soddisfazione, un impeto di
entusiasmo. E come mai (si domandano) gli uomini potevano vivere,
fare all'amore, prolificare, cantare, dipingere, dissertare, mentre
dall'oriente e dall'occidente sonavano le tube del finimondo? Ma
essi non si avvedono che quel finimondo è soltanto nella loro
immaginazione, ricca di motivi elegiaci e povera d'intelligenza; e
che nella realtà non c'è stato mai, come attestano per l'appunto
quei clamori importuni: opportunissimi, per altro, a rammentare a
chi se n'era dimenticato, che la storia prosegue sempre la sua opera
infaticabile, e che le sue apparenti agonie sono travagli di
partoriente, e i creduti suoi estremi sospiri, vagiti, ai quali
bisogna intendere l'orecchio, annunziatovi di un nuovo mondo.
Diversamente dall'individuo, che muore perché (come diceva AIcmeonc
di Crotone) non può ten arken to
telei prosapsai, ricongiungere alla sua fine il suo
principio, là storia non muore mai, perché sempre ricongiunge la
fine col principio.
1 Per l'ampio svolgimento di questi concetti si veda il mio saggio
sul Concetto del divenire, nel vol.: Saggio sullo Hegel seguito da altri
scritti di storia della filosofia (Bari, 1913), pp.
149-175.
2 Pur questa parte si veda il mio saggio sui Giudizi di valore nel vol.
sopra citato, pp. 407-21.
VI
L'umanità della storia
Affrancandosi dalla servitù verso l'arbitrio estramondano e verso la
cieca necessita naturale, liberandosi dalla trascendenza e dalla
falsa immanenza (che è a sua volta trascendenza), il pensiero
concepisce la storia come opera dell'uomo, come prodotto
dell'intelletto e del volere umani; e si entra cosi nella forma di
storia che chiameremo umanistica. Questo umanismo si atteggia,
dapprima, come semplice contrapposto alla natura o alle potenze
estrainondane, e pone un dualismo. Da un lato, è l'uomo con le sue
forze, l'intelligenza, la ragione, la prudenza, la volontà del bene;
dall'altro, è qualcosa che a lui resiste, che lo contrasta,
l'osteggia, gli confonde i più bei disegni, gli rompe la tela che
tesse e lo costringe a ritesserla da capo. La storia si svolge
nondimeno, in questa concezione, tutta nel primo lato, perché
l'altro non offre già un elemento dialettico che venga di continuo
accolto e superato dal primo e dia luogo a una sorta d'interiore
collaborazione, ma rappresenta l'assolutamentc estraneo, il
capriccioso, l'accidentale, il guastamestiere, il guastafeste. Solo
nel primo c'è, con l'opera umana, la razionalità, e perciò la
possibilità di una spiegazione razionale della storia. Ciò che
proviene dall'altro lato, si enuncia, ma
non si spiega: non è materia di storia, ma,
tutt'al più, di cronaca.
Questa prima forma della storia umanistica è conosciuta sotto i vari
nomi di storia razionalistica, intellettualistica, astrattistica,
individualistica, psicologica, e specialmente con quello (lasciamo
andare per quali metafore e metabasi adottato) di storia prammatica.
Ed è una forma generalmente condannata dalla coscienza dei nostri
tempi, che di quei nomi, e specialmente del razionalismo e della
prammatica, ha fatto via via le designazioni di una particolare
insufficienza e inferiorità storiografica, e le più caratteristiche
spiegazioni prammatiche delle istituzioni e degli avvenimenti ha
messe in proverbio come tipi di storture, nelle quali bisogna
guardarsi dal cadere, se si voglia pensare seriamente la storia.
Ma, come suole nei progressi della cultura e della scienza, se la
condanna e concordemente accettata e non si dubita di trarne le
conseguenze pratiche facendola valere nel campo dei fatti, non si ha
del pari chiara coscienza delle ragioni che la mossero, del processo
cogitativo attraverso cui vi si è pervenuti. Tale processo, in
questo caso, si può descrivere in breve nel modo che segue. La
prammatica ritrova le ragioni dei fatti storici nell'uomo, ma
nell'uomo in quanto individuo reso astratto, e contrapposto, in
quanto tale, non solo all'universo, ma anche agli altri uomini,
parimenti resi astratti; sicché la storia appare, in questa figura,
un'azione e reazione meccanica di entità, chiuse ciascuna in sé
medesima. Ora, con siffatto schema meccanico nessun processo storico
è intelligibile: la somma riesce sempre superiore alle poste
dell'addizione; tanto che, non sapendo a qual altro partito
appigliarsi per far che il conto torni, si deve finire con
l'escogitare la dottrina delle «piccole eause», che produrrebbero
«grandi effetti». Dottrina assurda, perché è
chiaro (se pur si vuole attenersi qui ai concetti illegittimi di
piccolo e grande, e di causa ed effetto) che grandi effetti non
potrebbero avere se non grandi cause; e che. dunque, quella formola,
anziché affermare la legge dei fatti storici, esprime
inconsapevolmente il difetto della dottrina, inadeguata al proprio
assunto. E poiché la spiegazione razionale, che si era cercata, vien
meno, sorgono anche qui in folla le immaginazioni, a tenerne il
luogo: le immaginazioni, che s'intessono tutte sul motivo
fondamentale dell'individuo astratto. Caratteristica al pari che
celebre è la spiegazione prammatica delle religioni come favole che
sarebbero state prodotte e mantenute al mondo dal calcolo economico
dei preti, profittanti dell'ignoranza e credulità delle turbe.
Ma la storia prammatica non presenta sempre nelle sue immaginazioni
codesto colorito egoistico e codesta ispirazione pessimistica; ed a
torto è stata accusata d'intrinseco egoismo, e utilitarismo, in
luogo dell'accusa vera, che è la già detta, l'astratto
individualismo. Questo individualismo astratto poteva essere, ed
era, talvolta concepito persino come altamente morale; e, in verità,
nella prammatica abbondano le figure dei saggi legislatori, dei
buoni monarchi, dei grandi uomini che beneficano l'umanità mercé la
scienza, le invenzioni e le ben ideate istituzioni. E se il cupido
sacerdote operava l'inganno delle religioni, e se il crudo despota
opprimeva i popoli deboli e innocenti, e se l'errore prolificava
ingenerando le più strane e stolte costumanze, la bontà
dell'illuminato monarca e legislatore creava le epoche felici,
faceva fiorire le arti, proteggeva i poeti, promoveva le scoperte,
incoraggiava le industrie; della quale concezione prammatica restano
ancora le abitudini verbali onde si parla del «secolo di Pericle», o
«di Augusto», o «di Leon X», o « di Luigi XIV».
E poiché le spiegazioni immaginose non si restringono solo ad
adoperare individui fisicamente esistenti, ma adoperano altresì
fatti o fatterelli, anch'essi resi astratti e chiusi in sé, e
anch'essi diventati, come diceva il Vico, «universali fantastici»,
derivano dalla prammatica tutti quei modi di spiegazione, che si
sogliono chiamare «catastrofici», per cui a un singolo fatto si
attribuisce la virtù di sovvertire in bene o in male la società. Ed
esempi, passati anch'essi in proverbio perché si riferiscono a
concetti insistentemente criticati dagli storici dei nostri tempi,
sono, in questo campo, la caduta dell'impero romano, spiegata come
effetto delle invasioni barbariche; la civiltà europea del duodecimo
e tredicesimo secolo, come effetto delle Crociate; il rinascimento
delle letterature classiche, come effetto della conquista turca di
Costantinopoli e dell'immigrazione dei dotti bizantini in Italia; e
simili. E al modo stesso che il concetto del singolo individuo non
forniva bastevole spiegazione e si ricorreva perciò alla
molteplicità degli individui e alla loro cooperante o contrastante
azione, cosi dimostrandosi facilmente troppo angusta l'unica causa
addotta, si procurava di sanare l'insufficienza del metodo con la
ricerca e l'enumerazione di molteplici cause storiche: enumerazione
che rischiava di procedere all'infinito, ma che, infinita o finita
che fosse, non spiegava mai il processo da spiegare per la nota
ragione che col discontinuo (si moltiplichi e si addensi quanto si
voglia) non si fabbrica mai il continuo.
La cosiddetta teoria delle cause o dei fattori storici, che, insieme
con parecchie altre abitudini mentali della prammatica, sopravvive
nella coscienza moderna pur generalmente avversa a quell'indirizzo,
è, piirttosto che una teoria, la confessione dell'impotenza a
dominare la storia mercé le cause individuali o individualmente
concepite; e, nonché soluzione, è riapertura del problema. Nello
stesso lato umano, dunque, al quale la prammatica si afferra e nel
quale vuole mantenersi e che contrappone al naturale o
estranaturale, essa, come si vede, non riesce a serbarsi umana, cioè
a svolgersi come razionalità; e, avendo già resi irrazionali e
disumani gl'individui col renderli astratti, ricorrendo via via ad
altri fattori storici, giunge in ultimo alle cause naturali, che,
nella loro astrattezza, non differiscono in nulla dalle altre
individuali. Il che vuol dire che la prammatica, che si era dapprima
asserita come umanismo, ricasca nel naturalismo, dal quale si era
recisamente staccata. E tanto più vi ricasca in quanto, come si è
notato, gli individui umani sono stati resi astratti non solo tra
loro medesimi, ma verso il restante universo, che rimane loro di
fronte quale nemico. Chi è che veramente governa la storia in questa
concezione? l'uomo, o lo forze estraumane, naturali o divine che
siano?
La pretesa che la storia stia solamente dalla parte degli individui,
non è sostenibile; e nella concezione prammatica si suppone sempre
un altro attore della storia, estraumano, che, secondo i vari tempi
e i vari pensatori, si chiama il Fato, il Caso, la Fortuna, la
Natura, Dio, o in altra guisa. Nel tempo, per l'appunto, in cui
dominava la storiografia prammatica, e più si parlava di ragione e
di saggezza, fiorì sulle labbra di un re e di un filosofo suo amico
l'espressione di colore monarchico o cortigiano, che rendeva omaggio
a Sa Majestè le Hasard! E
anche in questo rispetto si è portati a tentare transazioni e
soluzioni eclettiche; e la prammatica afferma volentieri, per trarsi
d'impaccio, che le cose umane sono per metà condotte dalla prudenza
e per metà dalla fortuna, che l'intelligenza contribuisce per una
parte e la fortuna per un'altra, e simili. Ma chi assegnerà la
porzione giusta all'uno e all'altro dei due concorrenti? E colui che
l'assegnerà non sarà egli poi il vero e solo facitore), della
storia? E, poiché quegli che l'assegna non può essere l'uomo, si
vede ancora una volta come la prammatica, attraverso il suo
naturalismo, riconduca per diritta via alla trascendenza e
all'irrazionalità. All'irrazionalità, con tutta la sequela dei suoi
inconvenienti, con tutti gli altri dualismi che mena seco e che sono
suoi aspetti particolari: l'impossibilità dello svolgimento, i
regressi, i trionfi del male. L'individuo, alle prese con la forza
estranea comunque concepita, se vince talvolta, perde altre volte, e
il suo vincere stesso è precario, e il sempre vittorioso è il
nemico, che infligge le perdite e rende precarie le vittorie. Gli
individui sono formiche, che il masso schiaccia; e se dal masso che
cade loro addosso qualche formica si salva e riproduce la specie e
questa ripiglia da capo il lavoro, il masso ricadrà o potrà sempre
ricadere sulla nuova generazione, e potrà schiacciarla tutta, ed
esso insomma è l'arbitro della vita delle industri formiche, alle
quali reca dunque molto male e nessun bene. Veduta, se altra mai,
pessimistica.
Codeste difficoltà e codesti vani conati della storiografia
prammatica l'hanno fatta riprovare e sostituire con altro migliore
pensiero, che, salvando l'iniziale motivo umanistico e togliendogli
l'astrattezza dell'individualità atomizzata, lo assicura contro ogni
ridiscesa nel naturalismo e ogni ricaduta nell'agnosticismo della
trascendenza e nelle disperazioni del pessimismo. Il concetto, che
ha compiuto la critica della prammatica e la redenzione
dell'umanismo, è stato variamente, o più o meno bene, nel corso
della storia del pensiero, formolato come la Mente o la Ragione che
costruisce la storia, e come la «provvidenza» della Mente o l
«astuzia» della Ragione. L'alto valore di questo concetto sta nel
cangiare l'umanismo da astratto in concreto, da monadistico o
atomistico in idealistico, da grettamente umano in cosmico, da
umanismo disumano com'è quello dell'uomo chiuso e contrapposto verso
l'uomo in umanismo veramente umano, che è l'umanità comune agli
uomini, anzi all'universo tutto, che tutto, nelle sue più riposte
libre, è umanità, cioè spiritualità. E la storia, in questa
concezione, come non e più l'opera della natura o del Dio
estramondano, così non è nemmeno l'opera impotente, e ad ogni
istante interrotta, dell'empirico e irreale individuo, ma l'opera di
quell'individuo veramente reale, che è lo spirito eternamente
individuantesi. Perciò essa non ha di contro avversario alcuno, ma
ogni avversario è insieme suo suddito, vale a dire è uno degli
aspetti di quel dialettismo, che costituisce il suo intimo essere;
perciò essa non cerca il suo principio di spiegazione in un
particolare atto di pensiero o di volontà, o in un singolo individuo
o in una molteplicità d'individui, o in un avvenimento che si
collochi come causa sopra altri avvenimenti, o in una collezione di
avvenimenti che formi la causa di un singolo avvenimento, ma lo
cerca e ripone nel processo stesso, che nasce dal pensiero e al
pensiero ritorna, ed è intelligibile dell'autointelligibilità del
pensiero, il quale non ha mai uopo di appellarsi a cosa a lui
estranea per intendere sé medesimo.
La spiegazione della storia diventa tale veramente, perché coincide
col suo esplicamento; laddove le spiegazioni per via di cause
astratte sono un rompere il processo e uno sforzarsi, ucciso il
vivente, a riottenere la vita con l'accostare spazialmente il capo
reciso al tronco decapitato. Quando gli storici dei giorni nostri, e
tante altre persone di buon senso che non fanno professione di
filosofia, ripetono che la storia del mondo non dipende dalla
volontà dei singoli individui, da incidenti come la lunghezza del
naso di Cleopatra, e da aneddoti; — che nessun avvenimento storico è
stato mai effetto d'inganni o di equivoci, ma tutti di persuasione e
di necessità; — che ci è qualcuno che ha più spirito di qualsiasi
individuo di spirito, ed è il mondo; — che la spiegazione di un
fatto è da ricercare sempre nell'organismo intero e non in una parte
avulsa dalle altre; — che la storia non poteva svolgersi
diversamente da come si e svolta, e che essa obbedisce alla sua
propria ferrea logica; — che ogni fatto ha la sua ragione, e che
nessun individuo ha completamente torto: — e infinite altre
proposizioni come queste, che io ho ricordate alla rinfusa; — essi
forse non sanno che, con queste ormai ovvie sentenze, ribadiscono la
critica della storia prammatica (e implicitamente della
naturalistica e teologica), e affermano la verità della storia
idealistica.
Che, se ciò sapessero, non accadrebbe loro di mescolare, come pur
usano, a quelle proposizioni altre, che ne sono la diretta
contradizione, sulle cause, sugli accidenti, sulle decadenze, sui
climi, sulle razze e via discorrendo, e che rappresentano i detriti
della concezione oltrepassata. Del resto trascinare, misti al
concetto nuovo, abbondanti detriti di concetti vecchi e morti, è il
fato della coscienza che si dice comune o volgare; ma ciò non iscema
l'importanza del riconoscimento che essa e astretta a fare del
concetto nuovo, secondo il quale poi sostanzialmente si conduce nei
suoi giudizi.
Per la già notata risoluzione di tutte le questioni dì filosofia
storiografica nella filosofia in genere, non sarebbe possibile
illustrare largamente il nuovo concetto della storia, che il secolo
decimonono ha fatto valere contro il concetto prammatico, senza dare
una larga esposizione di dottrine filosofiche, la quale, oltre i
particolari inconvenienti che avrebbe qui. porterebbe a ripetere
cose già chiarite altrove. E io intendo piuttosto, considerando quel
concetto come ammesso (come ammesso, cioè, che la storia sia
l'opera, non dell'astratto individuo, ma della Ragione o della
Provvidenza), correggere un vizio, che mi par di notare nella forma
alla quale si è per ora arrestata quella dottrina: la forma di Vico
e di Hegel, secondo cui la Provvidenza o la Eagione si serve dei
fini particolari e delle passioni degli uomini per condurli
inconsapevoli a più alte condizioni spirituali, e adopera, nel
cosi fare, una sorta di benevola astuzia. Se questa forma fosse
esatta, o se si dovesse prenderla alla lettera (e non piuttosto
semplicemente come espressione immaginosa e provvisoria del vero),
temo forte che nel seno stesso del concetto idealistico si
ripresenterebbe un'ombra di dualismo e di trascendenza.
Perché in questa loro posizione rispetto all'Idea o alla Provvidenza
gli individui sarebbero da considerare, se non più ormai delusi (e
anzi soddisfatti oltre i loro propositi e le loro speranze),
certamente illusi, sia pure beneficamente illusi. Individui e
Provvidenza, o individui e Ragione, non farebbero uno, ma due; e
l'individuo sarebbe inferiore e l'Idea superiore, cioè persisterebbe
il dualismo e la reciproca trascendenza di Dio e del mondo: il che,
d'altra parte, e sotto l'aspetto storico, non discorderebbe da quel
che è stato più volte osservato circa il residuo teologico che era
in fondo al pensiero dello Hegel e, più ancora, del Vico.
Ora l'esigenza del concetto idealistico è che individuo e Idea
facciano uno e non due, ossia coincidano perfettamente e
s'identifichino: epperò non è da parlare (fuorché per metafora) di
saggezza dell'Idea, e di follia o illusione degli individui.
Nondimeno sembra indubitabile in linea di fatto che l'individuo
operi attraverso infinite illusioni, proponendosi fini che non
raggiunge e raggiungendo quelli che non si propone.
Lo Schopenhauer (imitando lo Hegel) ha reso popolare la teoria delle
illusioni dell'amore attraverso le quali la Volontà conduce
l'individuo a perpetuare la specie; e ciascuno sa poi che le
illusioni non sono solo quelle esercitate dai maschi e dalle femmine
le une verso gli altri (les
tromperies rèciproques), ma entrano in
ogni nostro atto, che è sempre accompagnato da speranze e da miraggi
non seguiti da realtà. E l'illusione delle illusioni par che sia
proprio questa: che l'individuo crede di affaticarsi per vivere e
intensificare sempre più la sua vita, laddove in realtà lavora a
morire; e vuol vedere compiuta l'opera sua come affermazione della
sua vita, e quel compimento è il trapassare dell'opera; e si
travaglia per ottenere la pace della vita, e la pace è invece la
morte, che sola è pace. Come negare, dunque, questo dualismo tra
l'illusione dell'individuo e la realtà dell'opera, tra l'individuo e
l'Idea? e come rifiutare la sola spiegazione, che in qualche modo
sembra sanare il dissidio, cioè che l'Idea volga ai suoi fini le
illusioni dell'individuo: sia pure che codesta dottrina meni ad
ammettere inevitabilmente una sorta di trascendenza dell' Idea ?
Senonché, in verità, quel che risulta dalle esposte osservazioni e
obiezioni non è l'illusione dell'individuo, che ama, che tende al
compimento dell'opera, che anela alla pace, sibbene l'illusione di
colui che crede che l'individuo s'illuda: l'illusorio è l'illusione
stessa. E nasce questa illusione, nella fenomenologia del pensiero,
dall'assai noto procedere astrattivo che rompe arbitrariamente
l'unità e, in questo caso, scinde il risultato dal processo o l'atto
dall'agire in cui solamente il primo è reale, l'accompagnamento
dall'accompagnato, che e tutt'uno con l'accompagnamento (perché non
c'è lo spirito e il corteo dello spirito, ma soltanto l'unico
spirito nel suo svolgersi), i singoli momenti del processo, dalla
continuità, che è la loro anima; o via discorrendo. E nasce
quell'illusione nell'individuo stesso, quando si fa a riflettere su
sé stesso, e negli inizi di quella riflessione, che è a sua volta un
processo dialettico. Ma nella concreta riflessione, o meglio, nella
concreta coscienza, si scorge che non c'è fine che non si sia
attuato, come poteva, nel processo, nel quale esso non era mai fine
assoluto, cioè astratto, ma fine e mezzo insieme; e, per tornare
alla popolare teoria dello Schopenhauer, solo chi consideri gli
nomini come animali, o peggio che animali, può credere
che l'amore sia un processo che meni alla sola propagazione
biologica della specie, quando ogni uomo sa che nell'amore si
feconda anzitutto la propria anima, prima che il talamo, e si creano
immagini e pensieri e propositi e azioni, prima che figliuoli e
oltre dei figliuoli.
Certamente, nel corso di un'azione, noi siamo consapevoli dei
momenti di questa, ossia del decorso di questa, e non gih della
totalità di essa, vista alla, luce di una nuova situazione
spirituale, come ci sforziamo di ottenere quando, come si dice,
usciti dal tumulto, ci poniamo a fare la storia di noi stessi. Ma
l'illusione non c'è, né allora né ora; e né ora né allora c'è
l'astratto individuo di fronte a una Provvidenza che s'industri e
riesca a ingannarlo a fin di bene, operando da medico pietoso
piuttosto che da serio educatore, e trattando il genere umano al
modo di animali da addestrare e condurre, e non di uomini da
educare, cioè da lasciare svolgere. Dopo avere fermato la mente
sopra un concetto di Vico e di Hegel, e mai possibile acconciarsi ad
esaminare gli altri che danno materia alle controversie degli
storici e metodologisti della storia dei nostri tempi, e che sono la
forma volgare, in termini naturalistici e perciò insolubile, dei
problemi circa la relazione tra l'individuo e l'idea, tra la storia
prammatica e la storia idealistica?
Forse questa pazienza dello scendere in basso loco è meritoria e
doverosa, e forse qualcosa di utile c'è da trarre anche dall'esame
di quelle comuni controversie: ma io mi scuso dal prendere
l'impegno, e mi restringo al solo accenno: che la questione, che da
un pezzo si agita, se la storia sia storia delle «masse» o degli
«individui», sarebbe risibile nella sua stessa enunciazione, se per
«massa» s'intendesse, come suona la parola, un complesso
d'individui. E poiché non è buon metodo attribuire agli avversari
idee risibili, sarà da credere che per «massa» s'intenda, questa
volta, qualcos'altro: per esempio, lo «spirito», che muove la massa
degli individui; nel qual caso non e chi non veda che il problema è
il medesimo di quello finora esaminato.
Il contrasto tra una storiografia «collettivistica» e una
storiografìa « individualistica» non si comporrà mai, fintanto che
gli uni assegneranno alla collettività il potere creatore delle idee
e delle istituzioni, e gli altri all'individuo geniale, essendo
entrambe le affermazioni vere in ciò che includono e false in ciò
che escludono, e cioò non solo nell'esclusione espressa dell'opposto
enunciato, ma anche in quella tacita, che entrambe esse fanno, della
totalità come idea. Meglio opportuna può riuscire un'avvertenza
circa una tendenza storiografica, tanto simile nell'apparenza a
quella che ho difesa, da confondersi con lei: la tendenza, che
variamente si chiama sociologica, istituzionale, dei valori, e che,
tra le varietà del suo contenuto e le disuguaglianze di levatura
mentale dei suoi propugnatori, serba il tratto generale e eostante
di considerare come vera storia la storia delle società, delle
istituzioni, dei valori umani, e non già quella degli individui.
La storia degli individui resta, secondo questo modo di vedere,
esclusa come una storia parallela o come una storia inferiore, sia
che l'inferiorità le provenga dallo scarso interesse che suscita,
sia che dalla scarsa intelligibilità onde è capace: e in questo caso
(capovolgendosi nella nuova vicenda l'atteggiamento di disprezzo,
che era proprio della storia prammatica) è rimandata alla cronaca o
al romanzo. Ma in tale dualismo, e nel dissidio che per esso
persiste, è la profonda diversità tra la empirica e naturalistica
concezione dei valori, delle istituzioni e delle società, e la
concezione idealistica. Per la quale non si tratta già d'instaurare,
accanto od oltre l'astratta storiografia individualistica e
prammatica, un'astratta storia dello spirito, dell'astratto
universale; ma vi d'intendere che individuo e idea, separatamente
presi, sono due astrazioni equivalenti e inadatte l'una e l'altra a
fornire il soggetto alla storia, e che la vera storia è storia
dell'individuo in quanto universale e dell'universale in quanto
individuo.
Non si tratta di abolire Pericle a vantaggio della Politica, o
Platone a vantaggio della filosofia, o Sofocle a vantaggio della
Tragedia; ma di pensare e rappresentare la Politica, la Filosofia e
la Tragedia come Pericle, Platone e Sofocle, e questi come ciascuna
di quelle -in uno dei loro particolari momenti. Perché, sefuori
della relazione con lo spirito l'individuo è ombra di un sogno,
ombra di sogno è anche lo spirito fuori delle sue individuazioni; e
raggiungere nella concezione storica l'universalità è ottenere
insieme l'individualità, e renderle entrambe salde delia saldezza
che l'una conferisce all'altra. Se l'esistenza di Pericle, di
Sofocle e di Platone fosse indifferente, non sarebbe per ciò stesso
pronunziata indifferente anche l'esistenza dell'Idea? E chi taglia
fuori dalla storia gl'individui, osservi bene, e si aeeorgerà che o
non li ha tagliati putito via, come immaginava, o ha tagliato fuori,
con essi, la storia stessa.
VII
La scelta e il periodizzamento
Poiché un fatto è storico in quanto è pensato, e poiché nulla esiste
fuori del pensiero, non può avere senso alcuno la domanda: quali
siano i fatti storici e quali i fatti non istorici.
Fatto non istorico varrebbe fatto non pensato, e perciò inesistente;
e nei fatti inesistenti non accade mai, che si sappia, d'
imbattersi. A un pensiero storico si congiunge e segue un altro
pensiero, e poi un altro, e un altro ancora; e, quanto lungi
navighiamo nel gran mare dell'essere, non usciamo mai dal ben
definito mare del pensiero.
Ma resta tuttavia da spiegare in qual modo si formi l'illusione che
si diano due diversi ordini di fatti, storici e non istorici. E la
spiegazione è agevole, quando si rammenti quel che si è avvertito
circa il cronachizzarsi della storia, che muore come storia
lasciando dietro di sé le mute tracce della sua vita; e circa
l'ufficio della erudizione o filologia, che serba per fini di
cultura queste tracce, e mette insieme sparse notizie, documenti,
monumenti. Notizie, documenti e monumenti sono innumerevoli, e
raccoglierli tutti tornerebbe, nonché impossibile, contrario ai fini
stessi della cultura, che, promossa dalla moderata e anche larga
conservazione di quelle cose, verrebbe impacciata e soffocata
dall'esuberanza, per non dire dall'infinita, di esse. Perciò vediamo
che l'annotatore di notizie ne trascrive alcune e lascia cadere le
altre; il raccoglitore di carte ne ordina e mette in fascio un certo
numero, e straccia o brucia o manda al rivendugliolo altre
moltissime, che sono le più; il collezionista di anticaglie colloca
in vetrina alcuni oggetti e altri nei depositi provvisori, e altri
ancora risolutamente distrugge o lascia distruggere: se fa
diversamente, non è collezionista intelligente, ma raccattatore
maniaco, buono a fornire (come ha fornito) il tipo comico
dell'antiquario alla novella o alla commedia. Perciò nei pubblici
archivi non solo si raccolgono e si serbano gelosamente le carte,
formandone gì'inventari, ma anche si lavora a eseguirne lo scarto;
perciò nelle recensioni dei filologi si ode sempre il ritornello di
lode per l'erudito, che è stato «sobrio», e quello di biasimo per
l'altro, che, diversamente procedendo, ha messo, nei suoi volumi di
annali, di spogli archivistici e di collezioni documentarie, il
troppo e il vano.
Tutti, insomma, gli eruditi e i filologi scelgono, e a tutti si
raccomanda la scelta. E con quale criterio logico si compie la
scelta? Con nessuno: non v'ha criterio logico che possa assegnarsi
per determinare quali notizie o documenti siano o no utili e
importanti, appunto perché qui ci aggiriamo nella cerchia pratica e
non già nella cerchia scientifica. Anzi, questa mancanza di criterio
logico è il fondamento del sofisma che tiranneggia i raccattatori
maniaci, i quali, affermando ragionevolmente che tutto può essere
utile, tutto vorrebbero irragionevolmente conservare, e si
affaticano ad accumulare ciarpami e spazzature e stanno a
contemplarli e a vigilarli con gelosa tenerezza. Il
criterio è la scelta stessa, condizionata, come
ogni atto economico, dalla conoscenza della situazione in cui ci si
trova, e in questo caso dai bisogni pratici e scientifici di un
determinato momento o epoca: la scelta, che è perciò
condotta bensì con intelligenza, ma non già con
l'applicare un filosofico criterio, e si giustifica solo in sé e da
sé medesima; onde si parla del tatto, del fiuto, dell'istinto del
collezionista e dell'erudito. Questa scelta può bene aiutarsi con
apparenti distinzioni logiche, tra fatti pubblici e privati,
documenti capitali e secondari, monumenti belli e brutti,
significanti e insignificanti: ma, in ultima analisi, la decisione è
data sempre da motivi pratici, e si assomma nel conservare o
trascurare.
Che del trascurare o conservare, in cui si esplica la nostra azione,
si faccia poi una qualità oggettiva dei fatti, e che perciò si
discorra di «fatti degni» e di fatti «non degni di storia», di fatti
«storici» e «non istorici». è questione d'immaginazione, di
vocabolario e di rettoriea, che nulla cangia alla sostanza della
cosa. Confondendo la storia con l'erudizione, e indebitamente
trasferendo a quella i metodi di questa e prendendo in senso proprio
la metaforica distinzione che or ora si e ricordata, accade che si
venga a domandare come si debba fare per non ismarrirsi nella
infinità dei fatti, e con quale criterio si sceverino i «fatti
storici» dai « non degni di storia». Ma nella storia non c'è paura
mai di smarrirsi, perché, come si è visto, a volta a volta il
problema di essa è preparato dalla vita, e a volta a volta i!
pensiero lo risolve passando dalla torbidezza della vita alla
distinzione della coscienza. Problema determinato nella soluzione
determinata, problema che genera altri problemi; ma che non è mai
problema di scelta tra due o più fatti, anzi è creazione, a volta a
volta, dell'unico fatto, del fatto pensato. La scelta non ha luogo
in lei, come non l'ha nell'arte, che dall'oscurità del sentimento
passa alla chiarezza della rappresentazione, e non è mai in
imbarazzo tra le immagini da scegliere, perché crea essa l'immagine,
l'unità dell' immagine. Né solamente con quella confusione si foggia
un problema insolubile, ma si snatura e rende vuota la stessa
distinzione tra fatti trascurabili e fatti non trascurabili, che è
piena di senso nell'erudizione.
I fatti trascurabili sono pur fatti, cioè tracce, di fatti, notizie,
documenti e monumenti; epperòs'intende come si possa considerarli al
modo di una classe, che si collochi accanto all'altra classe dei
fatti non trascurabili, ma i fatti non istorici, ossia non pensati,
sarebbero il nulla, e, collocati accanto ai fatti storici, ossia
pensati come specie dello stesso genere, comunicherebbero a quelli
la loro nullità, e dissolverebbero, insieme col concetto della
storia, la loro stessa distinzione.
Dopo di che, non sembra il caso di esaminare i caratteri, che sono
stati proposti per questa partizione dei fatti in storici e non
istorici: essendo falso l'assunto, il modo in cui esso viene
trattato nei particolari è indifferente e senza importanza nel
rispetto della critica fondamentale della partizione stessa. Potrà
darsi (e cosi è di solito) che i caratteri e le dilferenze che si
enunciano abbiano la loro verità, o almeno presentino qualche
problema alla ricerca: per esempio, allorché per fatti storici
s'intendono i fatti generali e per non istorici gl'individuali; e si
pone in tal guisa la domanda intorno al rapporto di universale e
individuale: o per fatti storici, quelli di cui tratta la storia
propriamente detta, e per non istorici le sconnesse notizie della
cronaca; e si pone l'altra domanda del rapporto tra storia e
cronaca. Ma, considerato come tentativo di discernere logicamente
quali fatti debba la storia elaborare e quali trasandare, e di
assegnare le qualità proprie dei primi o dei secondi, quelle
partizioni sono tutte errate del pari. Alla medesima vicenda va
soggetto il periodizzamento della storia.
Pensare la storia è certamente periodizzarla, perché il
pensiero è organismo, dialettica, dramma, e, come tale, ha i suoi
periodi, il suo principio, il suo mezzo e la sua fine, e tutte le
altre pause ideali che un dramma comporta e richiede. Ma quelle
pause sono ideali, e perciò inseparabili dal pensiero, col quale
fanno tutt'uno come l'ombra col corpo, il silenzio col suono:
identiche con quello, mutevoli con quello. I pensatori cristiani
dividevano la storia in istoria precedente e seguente alla
Redenzione; e questo periodizzamento non era un'appendice al
pensiero cristiano, ma era il pensiero cristiano. Noi, europei
moderni, la dividiamo in antichità, medioevo ed epoca moderna; e
contro questo periodizzamento si è assai sottilizzato da parte dei
critici, dicendolo introdotto non si sa come, di furto, senza
autorità di grandi nomi, senza che si sia chiesto sul proposito
l'avviso dei filosofi e metodologisti: ma esso si mantiene e si
manterrà fino a quando la nostra coscienza persisterà nella fase
nella quale ancora si trova; e l'essersi formato insensibilmente
torna piuttosto a suo merito che a demerito, perché vuol dire che
non fu escogitato da arbitrio individuale, ma ha accompagnato lo
svolgimento stesso della coscienza moderna.
Quando l'antichità non sarà più efficace com'è per noi, che ancora
sentiamo il bisogno di studiare il greco e il latino e la filosofia
ellenica e il diritto romano; quando il medioevo sarà affatto
tramontato (e non è tramontato ancora); quando una nuova forma
sociale, diversa da quella sorta sulle rovine del medioevo, avrà
soppiantato la nostra; anche il problema, e la conseguente
prospettiva storica, sarà mutato, e, forse, antichità e medioevo ed
epoca moderna si contrarranno in un'unica epoca, e le pause saranno
diversamente distribuite. E ciò che si dice di questi grandi periodi
s'intenda degli altri tutti, vari secondo le varie materie storiche
e il vario modo di appercepirle.
È stato talvolta avvertito che ogni periodizzamento ha vaIore
«relativo»; ma bisogna postillare: «relativo e assoluto insieme»,
come ogni pensiero, posto che il periodizzamento sia intrinseco al
pensiero e determinato con la determinazione di questo.
Senonché i bisogni pratici del cronachismo e dell'erudizione
interferiscono anche in questa parte; e come il ritmo interno di una
poesia è, nei trattati di metrica, reso ritmo esterno e staccato in
sillabe e in piedi, in vocali lunghe e brevi, in accenti tonici e
ritmici, in strofe e serie strofiche e via discorrendo, così il
tempo interno del pensiero storico (quel tempo, che è il pensiero
stesso) viene dal cronachismo convertito in tempo esterno, in serie
temporale, i cui elementi stanno spazialmente staccati l'uno
dall'altro. Schema e fatti non sono più uno ma due; e i fatti sono
disposti nello schema, e secondo lo schema divisi in cicli maggiori
e minori (per esempio, secondo ore, giorni, mesi, anni, secoli e
millenni, ove il calcolo si faccia mettendo a base le rotazioni e
rivoluzioni della Terra su sé stessa e intorno al Sole). Tale è la
cronologia, per la quale sappiamo che le storie di Sparta e di Atene
e di Roma si svolsero nel millennio avanti Cristo, e quelle dei
longobardi e dei visigoti e dei franchi nel primo millennio dopo
Cristo, e che noi stiamo ancora percorrendo il secondo millennio; e,
via via con lo stesso metodo particolareggiando, che l'impero
d'Occidente fini (sebbene veramente non finisse allora o fosse già
finito prima) il 476 d. C.; che il franco Carlo fu incoronato in
Roma imperatore da papa Leone III nell'800; che nel 1492 fu scoperta
l'America, e nel 1648 terminata la guerra dei Trent'anni.
E ci è utilissimo sapere codesto cose, ossia (poiché in realtà a
questo modo non si sa nulla) acquistare la capacità di così
contrassegnare le notizie dei fatti per ritrovarle all'uopo
comodamente e prontamente; e nessuno pensa già di dir male delle
cronologie e cronografie e tabelle e quadri sinottici della storia,
sebbene in essi si corra il rischio (ma in quale cosa, che l'uomo
faccia, non si corre qualche rischio?) di vedere la buona gente
immaginare che il numero produca l'avvenimento, come il raggio
dell'oriuolo, incontrando il segno dell'ora, fa scattare la soneria;
o (come diceva un mio vecchio professore) che nell'anno 476 cali il
sipario sulla recita della storia antica, per rialzarsi subito dopo
a dar principio a quella della storia medievale. Purtroppo, queste
immaginazioni non passano soltanto pel capo degli ingenui e dei
distratti, ma costituiscono il fondamento dell'errore pel quale si
vagheggia e si ricerca una distinzione di periodi, come si dice,
oggettiva e naturale.
E già i cronografi cristiani introdussero questo significato
ontologico nella cronologia, e fecero corrispondere i millenni della
storia del mondo alle giornate della creazione o alle età della
vita; e perfino nel secolo decimonono il Ferrari in Italia e il
Lorenz (costui ignaro del suo predecessore italiano) in Germania
concepirono una teoria dei periodi storici secondo le generazioni,
calcolate a trentun anno e frazioni, o a trentatré anni e frazioni
ciascuna, e raggruppate per tetradi o per triadi in periodi di
centoventicinque anni o di un secolo.
Ma, pur senza appoggiarsi agli schemi numerici e cronografici,
derivano dal medesimo errore, del rendere esteriore e naturale il
periodizzamento, tutte le dottrine che rappresentano la storia dei
popoli come procedente secondo gli stadi dello sviluppo individuale,
o dello sviluppo psicologico, o delle categorie dello spirito, o di
altro che sia. E tutte, come naturalistiche, sono insieme
mitologiche; salvo che quelle designazioni non si adoperino in modo
empirico, cioè non si torni anche per esse all'uso legittimo che
della cronologia si fa nel cronachismo e nell'erudizione; e salvo la
cautela (che anche qui bisogna ripetere)
circa i problemi importanti, che talvolta attraverso quelle
indagini errate sono stati proposti o suscitati, e sulle verità che
sono state, a quel modo, viste o intraviste. Il che esime altresì
(come di sopra si è detto pei criteri della .scelta) dall'esaminare
quelle dottrine nella particolarità delle loro varie determinazioni,
perché per questo rispetto, se il loro assunto e apertamente
fantastico, il loro valore è di conseguenza nullo. Nullo, come nullo
è il valore dei metodi pseudocritici, che, movendo dalle astrazioni
onde per fini pratici si riduce in pezzi l'organismo dell'opera
d'arte, pretendono spiegare la natura dell'arte, e dare il giudizio
e la storia delle creazioni dell'umana fantasia.
VIII
La distinzione (le storie speciali) e la divisione
Il concetto, al quale siamo pervenuti della storia — che non ha
fuori di sé i suoi documenti ma in sé, che non ha fuori di sé la sua
spiegazione causale e finale ma in sé. che non ha fuori di sé la
filosofia ma con la filosofia coincide, che non ha fuori di sé ma in
sé la ragione del suo detcrminato configurarsi e il suo ritmo —
identifica la storia con l'atto stesso del pensiero, che è sempre
filosofia e storia insieme. E con ciò la sbarazza dagli apparati ed
empiastri, che, come a inferma che abbia bisogno di aiuti
dall'esterno, le erano stati applicati, e che, a furia d'immaginare
e di curare una infermità inesistente, ne cagionavano un'altra
effettiva. Gran vantaggio, senza dubbio, questa conseguita
autonomia; ma che non va esente, nel primo incontro, da una grave
obiezione. Cancellate tutte le fallaci distinzioni alle quali si
suole volgarmente prestar fede, sembra che non rimanga alla storia,
in quanto atto del pensiero, se non la immediata coscienza
dell'individuale-universale, in cui tutte le distinzioni si
sommergono e si perdono. E codesto è misticismo, ottimo al sentirsi
in unità con Dio, ma disadatto al pensare il mondo e all'operare nel
mondo.
Né sembra che giovi soggiungere, che l'unità con Dio non esclude la
coscienza della diversità, del cangiamento, del divenire. Perché si
può rincalzare l'obiezione notando che quella coscienza della
diversità o proviene dall'elemento individuale e intuitivo, e in
questo caso non s'intende come tale elemento possa sussistere, con
la sua propria forma d'intuizione, nel pensiero che sempre
universalizza; o si pone come prodotta dall'atto stesso del
pensiero, e in questo caso la distinzione, che si credeva di avere
abolita, esce raffermata e l'asserita semplicità indistinta del
pensiero rimane scossa. Un misticismo, che faccia valere la
particolarità e diversità, un misticismo storico, sarebbe
contraddizione in termini, perché il misticismo è astorico e
antistorico di sua propria natura. Ma codeste obiezioni ritengono la
loro validità appunto quando l'atto del pensiero sia concepito in
modo mistico; cioè, non veramente come atto di pensiero, ma come
qualcosa di negativo, semplice risultato della negazione che la
ragione fa delle distinzioni empiriche, e che lascia il pensiero
vuoto bensi d'illusioni, ma non ancora veramente pieno di sé
medesimo. Insomma, il misticismo, che è violenta reazione al
naturalismo e alla trascendenza, pur serba le tracce di ciò che ha
negato, perché non riesce a sostituirgli nulla, e così ne mantiene
viva la presenza, sia pure negativa.
Ma la negazione realmente efficace dell'empirismo e della
trascendenza, la negazione positiva, si compie, non già nel
misticismo, sibbene nell'idealismo; non nella coscienza immediata,
ma nella mediata; non nella unità indistinta, ma nell'unità che è
distinzione, e, come tale, veramente pensiero.
L'atto del pensiero è la coscienza dello spirito che è coscienza; e
perciò quell'atto è autocoscienza. E l'autocoscienza importa
distinzione nell'unità, distinzione di soggetto ed
oggetto, di teoria e pratica,
di pensiero e volontà, di universale e
particolare, di fantasia e intelletto, di utilità, e moralità, o
come altrimenti codeste distinzioni dell'unità e nell'unità si
vengano formolando, e quali che siano le configurazioni e
denominazioni storiche che viene assumendo l'eterno sistema delle
distinzioni, la perennis philosophia. Pensare è giudicare, e
giudicare è un distinguere unificando, nel quale il distinguere non
è meno reale dell'unificare e l'unificare del distinguere; ossia
sono reali, non come due diverse realtà, ma come l'unica realtà, che
e unità dialettica (unità o distinzione che si dica).
Da questo concetto dello spirito e del pensiero si trae per prima
conseguenza che la storia, abbattute le empiriche distinzioni, non
cade nell'indistinto; spenti i fuochi fatui, non rimane al buio,
perché ha in sé medesima la luce della distinzione. La storia si
pensa giudicandola, con quel giudizio che non è, come si è visto, il
valorizzare del sentimento, ma l'intrinseca conoscenza dei fatti. E
qui la sua unità con la filosofia si scorge in modo sempre più
concreto, perché, quanto meglio la filosofia approfondisce e affina
le sue distinzioni, tanto meglio approfondisce e affina il
particolare; e quanto più fortemente abbraccia questo, tanto più
fortemente possiede i suoi propri concetti. Progresso di filosofia e
progresso di storiografia vanno insieme, indissolubilmente
congiunti.
Un'altra conseguenza, che anche si trae e che potrà sembrare più
prossima alla pratica della storiografia, è il rifiuto della fallace
idea di una storia generale, che stia di sopra alle storie speciali:
di una Storia sulle storie, come è stata detta, e, per esempio, di
una storia, che sarebbe la vera e propria storia e avrebbe sotto di
sé la storia politica o economica o delle istituzioni, la storia
morale o dei sentimenti e degli ideali etici, la storia della poesia
e dell'arte, la storia del pensiero e della filosofia. Ma, se ciò
fosse, sorgerebbe un dualismo, con la solita conseguenza di ogni
dualismo, che, a volta a volta, ciascuno dei due termini mal
distinti si discopre vuoto; e, in questo caso, vuota si mostra
infatti o la storia generale, alla quale nulla resta da fare dopo
che le storie speciali hanno compiuto il loro lavoro, o le storie
particolari, che non riescono a raccattare nemmeno le briciole
dell'imbandigione, voracemente consumata dall'altra. Ovvero, con
fragile espediente, alla storia generale si dà il contenuto di una
delle storie speciali, e le altre vengono raggruppate in disparte da
quella: un raggruppamento del quale il meglio che si possa dire è
che sia puramente verbale e non designi una distinzione e
contrapposizione logica; e il peggio, che possa accadere, consiste
nell'attribuirgli un valore reale, perché, in questo caso,
s'istituisce cervelloticamente una gerarchia, che rende impossibile
intendere lo svolgimento genuino dei fatti.
E quasi non c'è storia speciale che non sia stata innalzata a storia
generale, ora determinando questa come storia politica o sociale,
della quale formino appendice le trattazioni della letteratura,
dell'arte, della filosofia, della religione e delle altre parti
minori della vita: ora come storia delle idee o del progresso della
mente, facendo scendere al grado di subordinate la storia sociale e
le altre tutte; ora come storia economica, e tutte le altre sono
apparse storie o cronache di «soprastrutture», e, in fondo, di
parvenze ed illusioni dello svolgimento economico, che poi si
svolgeva non si sa in qual modo e con quali forze, senza pensiero e
senza volontà, e producendo pensieri e volontà, o piuttosto
immaginazioni e velleità, come bollicine alla superficie del suo
corso. Contro la storia generale, bisogna mantenere che non esiste
altro di reale che le storie speciali, perche il pensiero in tanto
pensa i fatti in quanto ne discerne un aspetto speciale, e
costruisce sempre e soltanto storie d'idee, di fantasie, di azioni
politiche, di apostolati, e simili.
Ma altrettanto giusto e benefico e mantenere la proposizione
inversa: che non esiste altro che la storia generale; opponendosi
per tal modo alla fallace concezione della specialità delle storie,
intesa come una giustapposizione di specialità: fallacia che a buon
diritto i critici notano in tutte le storie che espongono i vari
ordini di fatti l'uno dopo l'altro, come tanti strati, e (per
adoperare le parole d'uso nella critica) a palchetti o a cassettini:
storia politica, storia industriale e commerciale, storia del
costume, storia religiosa, storia della filosofia e della scienza,
storia della letteratura e dell'arte, e via dicendo, in tante parti
o capitoli separati. Divisioni moramente letterarie, che, come tali,
possono di certo avere uso e utilità, ma che, nel caso che ora
consideriamo, adempiendo ufficio non semplicemente letterario, sì
invece di storica intelligenza, mostrano il loro difetto in quel
presentarsi senza relazione logica tra loro, non dialettizzate ma
aggregate. Dopo quelle storie, così frazionate, rimane ancora da
fare (è ben chiaro) la storia. L'astratta distinzione e l'unità
astratta sono entrambe, del pari, misconoscimento della distinzione
e dell'unità concreta, che è relazione.
E quando non si spezza la relazione e si pensa in concreto la
storia, si avverto che pensarne un aspetto è pensare insieme tutti
gli altri. Sicché non è possibile intendere a pieno, poniamo, la
dottrina di un filosofo senza riferirsi in qualche modo alla
personalità di lui e distinguere il filosofo dall'uomo, e perciò
insieme qualificare non solo il filosofo ma l'uomo, e queste due
distinte caratteristiche unificare come relazione di vita e
filosofia. E si dica il medesimo della distinzione tra il filosofo
in quanto filosofo e in quanto oratore o artista, in quanto
soggiacente alle sue passioni private o elevantesi all'esercizio del
dovere; e via discorrendo. Il che importa
che noi non possiamo pensare la storia della
tilosolìa se non come insieme storia sociale e politica e letteraria
e religiosa ed etica, e via discorrendo; onde si spiega come sia
sorta l'illusione che una qualsiasi di queste storie sia il tutto,
cioè che quella, da cui empiricamente si prendono le mosse o che
risponde alla predilezione e alla competenza dello scrittore, sia il
fondamento delle altre tutte; e si spiega anche perché si sia detto
talvolta che la «storia della filosofia» e insieme «filosofia della
storia», o che la «storia sociale» e la vera «storia della
filosofia», e simili.
In verità, una storia della filosofia, pensata a fondo, e tutta la
storia (e parimenti una storia della letteratura e di altro
qualsiasi aspetto dello spirito), non perché annulli in sé le altre,
ma perché tutte sono presenti in quella; e viene da ciò l'esigenza
che si pone agli storici di farsi menti universali e di dottrina in
qualche modo universale, e l'aborrimento per gli storici
specialisti, puri filosofi, puri lettorati, puri politici o puri
economisti, i quali, appunto per codesta loro unilateralità, non
comprendono nemmeno la specialità che si danno a credere di
conoscere nella sua purezza, ma che posseggono solamente
ischeletrita, nella sua astrattezza. Anche ci diventa ora chiara una
distinzione, della quale è impossibile far di meno nel pensare la
storia: la distinzione di forma e materia, in forza di cui
intendiamo, per esempio, l'arte col riportarla alla materia
(commozioni, sentimenti, passioni, ecc.) che l'artista ha formata; e
intendiamo la filosofia col riportarla ai fatti onde s'ingenerano i
problemi che il pensatore formolò e risolse; e intendiamo l'azione
del politico col riportarla alle aspirazioni e idee, che egli si
trovò innanzi e che gli porsero la materia da lui genialmente
foggiata come artista della vita pratica: cioè, intendiamo queste
cose sempre, col distinguere una storia esterna e una storia
interna, o una storia esterna che si fa interna.
Distinzione di materia e forma, di esterno ed interno, che
riprodurrebbe il peggior dualismo, e farebbe tornare
all'immaginazione prammatica dell'uomo che lotta contro la nemica
Natura, se nel suo vero concetto non prendesse significato affatto
interiore e dialettico. Perché da quel che si è detto si desume
agevolmente che esterno e interno non sono già due realtà o due
forme di realtà, ma che esterne e interne, materia e forma, appaiono
a volta a volta tutte le forme, l'una rispetto all'altra; e questo
materializzarsi di ciascuna per idealizzarsi nell'altra è il
perpetuo moto dello spirito come relazione e circolo: circolo che è
progresso appunto perché nessuna di queste forme ha il privilegio di
fungere solamente come forma, e nessuna la condanna di fungere
solamente come materia.
Quale è la materia della storia artistica e filosofica? La storia
sociale e morale che si dica. E quale è la materia di questa storia?
La storia artistica e filosofica. E dalla chiarita relazione di
materia e forma resta insieme confutato quel falso modo di storia,
che pone da un lato i fatti e dall'altro le idee, come due elementi
rivali, e perciò non è in grado mai di assolvere il debito suo, e
mostrare come dai fatti si generino le idee e dalle, idee i fatti,
perché quel generarsi deve, nella sua verità, essere concepito come
il perpetuo sciogliersi di uno degli clementi nell'unità dell'altro.
Se la storia poggia sulla distinzione (unità) e coincide con la
filosofia, è ben comprensibile l'alta importanza che ottengono nello
svolgimento storiografico le indagini sull'autonomia di una o altra
storia speciale, e che sono nient'altro che il riflesso, spesso
torbido o impreciso, delle indagini dei filosofi. E tutti sanno
quanto incremento e quale rinnovamento portasse nella concezione
della storia il nuovo concetto della fantasia e dell'arte, e perciò
insieme della mitologia e della religione, che si venne elaborando
dapprima con lentezza e difficoltà nel
secolo decimottavo, e trionfò ai principi del dccimonono: il
che si suol designare come la creazione della storia della poesia e
dei miti per opera del Vico e poi dello Herder e di altri, della
storia delle arti figurative per opera del Winckclmann e di altri. E
al più chiaro concetto della filosofia, del diritto e del costume e
del linguaggio, si deve il rinnovamento nei rispettivi campi
storiografici, onde si celebrano Hegel e Savigny e Humboldt, e altri
creatori e perfezionatori di storie speciali. Parimenti è dato
intendere perché tanto si sia disputato sul punto se la storia debba
configurarsi come storia dello Stato o come storia della Cultura, e
se la storia della cultura rappresenti un aspetto originale oltre
quello dello Stato o più largo di quello, o se il progresso, di cui
si narra la storia, sia solo intellettuale o anche pratico e morale,
e simili : che sono dibattiti da riportare all'indagine filosofica
fondamentale sulle forme dello spirito, e sulla loro distinzione e
relazione, e sul preciso modo della relazione di ciascuna verso le
altre1.
Ma, benché lo storico distingua e unifichi, non divide, e cioè non
separa, mai; e le divisioni, che si son fatte e si sogliono fare
della storia, non si originano altrimenti che in forza del medesimo
processo pratico e astrattivo che abbiamo visto rompere l'attualità
della storia viva e raccogliere ed ordinarne gli inerti materiali
nello schema temporale, reso estrinseco. In tal modo le storie già
prodotte e, come tali, passate, ricevono un titolo (ogni pensiero
storico, nella sua attualità, è «senza titolo», ossia ha per titolo
solamente sé medesimo), e ciascuna è separata dall'altra, e tutte
esse, così separate, sono classificate sotto concetti empirici più o
meno generali, mercé classificazioni variamente incrociantisi.
Delle quali si possono ammirare copiose
tabelle nei libri dei metodologisti, sempre costituite, com'è
inevitabile, secondo l'uno o l'altro di questi due criteri generali:
il criterio della qualità degli oggetti (storie della religione, del
costume, delle idee, delle istituzioni, ecc. ecc.), e quello
dell'ordinamento temporale-spaziale (storie europee, asiatiche,
americane, dell'antichità, del medioevo, dei tempi moderni, della
Grecia antica, dell'antica Roma, della Grecia moderna, di Roma nel
medioevo, ecc.); in conformità del procedere astrattivo, che, nel
dividere il concetto, è condotto a porre da un lato astratte forme
dello spirito (oggetti), e dall'altro astratte intuizioni (spazio e
tempo). E io non dirò inutili, non solamente quelle divisioni e quei
titoli, ma neppure quelle tabelle; e mi restringerò a notare che
anche la storia della filosofia o dell'arte o qualsiasi altra
idealmente distinta, intese che siano come un libro o un discorso
determinato, diventano cose empiriche, per la ragione già assegnata
che la vera distinzione è ideale, e un discorso o un libro nella
loro concretezza contengono non solo la distinzione ma la unità e
totalità, e considerarli come se incorporassero un aspetto solo del
reale è arbitrario.
E noterò anche che, come ci sono storie della filosofia o dell'arte
in senso empirico, così niente vieta che nel medesimo senso si parli
di una storia generale, divisa dalle storie speciali, anzi, perfino,
di una storia di progressi e di un'altra di decadenze, di beni e di
mali, di verità e di errori. La confusione tra divisione e
distinzione, ossia tra la considerazione empirica, che frantuma la
storia in istorie speciali, e la considerazione filosofica, che
sempre unifica e solo nell'unificare distingue, ingenera errori
analoghi a quelli che abbiamo già veduti uscire da siffatto
processo. E ne vengono, anzitutto, le tante disquisizioni sul
«problema» e sui «limiti» di questa o quella storia o
gruppi di storie speciali, empiricamente costituite: problema
insussistente, limiti logicamente inassegnabili perdio
convenzionali, come si finisco col riconoscere dopo lungo
agitamento, e come si potrebbe vedere, con assai più breve
agitamento, se si movesse, non già dalla periferia ma dal centro,
ossia dall'analisi gnoseologica.
Più grave errore è la creazione di un'infinità di entia imaginationis, scambiati
per enti metafìsici e por forme spirituali; e la conseguente pretesa
di svolgere la storia delle astrazioni come se fossero altrettante
parti per sé viventi dello spirito, che è unico: donde
gl'innumerevoli problemi oziosi e soluzioni fantastiche che
s'incontrano nei libri degli storici, e che ora non accade
ricordare. Ciascuno è ormai in grado di trarre da sé queste
conseguenze ovvie e farvi intorno le opportune considerazioni. E
ovvio è altresì che gli entia imaginationis, del pari che le «scelte» di
fatti e lo schematizzamento cronologico o datazione di essi, entrano
come elementi sussidiari in qualsiasi concreta esposizione di
pensiero storico, perché anche la distinzione tra il pensare e
l'astrarre e distinzione ideale, che opera solo nell'unità
spirituale.
1 Si veda Appendice, II, e ivi, nota ultima.
IX
LA « STORIA DELLA NATURA»
E LA STORIA
Bisogna far capo al processo ora accennato del classificare e alla
congiunta illusione del naturalismo onde si cangiano gli enti
immaginari dell'astrazione in fatti storici e gli schemi
classificatori in istoria, se si vuole intendere negli ultimi motivi
la differenza tra la storia che, è storia, e quella sorgente dal
campo delle cosiddette scienze naturali, e che si suole bensì
chiamare anch'essa storia, — «storia della natura», — ma che tal'è
solo nel nome. A ragione fu, pochi anni or sono, levata una vivace
protesta1 contro la confusione di codeste due forme di lavoro
mentale, l'una delle quali porge una storia genuina, come potrebbe
essere, per esempio, quella della guerra peloponnesiaca o delle
guerre annibaliche o dell'antica civiltà egiziana, e l'altra, una
storia spuria, come la cosiddetta storia degli organismi animali,
della struttura della terra o Geologia, della formazione del
sistema solare o Cosmogonia.
A ragione si venne notando la mala appiccicatura che in parecchie
trattazioni si suol fare dell'una all'altra, cioè della storia della
civiltà alla storia della natura, quasi che quella prosegua
storicamente questa; e si additò l'abisso incolmabile, che si apre
tra le due, e che tutti confusamente avvertono, e meglio di tutti
gli storici di schietto temperamento, i quali se ne tengono lontani
e guardinghi per istintiva repugnanza. A ragione si rammentò che la
storia degli storici ha sempre a suo oggetto l'individualmente
determinato e procede per interna ricostruzione, laddove quella dei
naturalisti si regge su tipi od astrazioni, e procede per analogie.
E con molta giustezza, finalmente, venne definita codesta pretesa
storia, o quasi-storia, come un ordinamento apparentemente
cronologico di cose spazialmente distinto, e si propose perciò di
contrassegnarla con un nome nuovo e proprio, quello di Metastoria.
Infatti, le costruzioni di questa sorta si compongono
sostanzialmente di nient'altro che prospetti classificatori dal più
semplice al più complesso, i cui termini sono ricavati per astratta
analisi e per generalizzazione, e la cui serie si atteggia poi nell'
immaginazione come una storia del successivo svolgersi del più
complesso dal più semplice. In quanto prospetti classificatori, il
loro diritto all'esistenza è incontestabile, ossia è incontestabile
la loro utilità, perché esse si giovano dell'immaginazione ad
agevolare l'apprendimento e aiutare la memoria.
Contestabile diviene soltanto quando si straniano da sé medesime, si
snaturano, si arrogano uffici illegittimi, e prendono sul serio la
loro storicità d'immaginazione. E ciò accade nella metafisica del
naturalismo, e segnatamente nell'evoluzionismo, che ne e stato la
forma più recente; e accade per opera non tanto degli scienziati
(che sono di solito cauti, avendo coscienza più o meno chiara dei
limiti di quegli schemi e serie), quanto dei dilettanti-scienziati e
dilettanti-filosofi, ai quali si debbono i tanti libri che prendono
a narrare l'origine del mondo, e che, favoriti dall'acrisia dei loro
autori, senza incontrare mai alcun intoppo, corrono difilati dalla
cellula, anzi dalla nebulosa, fino alla rivoluzione francese, anzi
ai movimenti socialistici del secolo decimonono. «Storie
universali», e perciò romanzi cosmologici (come si è già avvertito a
proposito delle storie universali), composte non dallo schietto
pensiero, che è critica, ma dal pensiero misto d'immaginazione, che
si effonde nei miti. E che gli odierni evoluzionisti siano creatori
di miti, e che si affatichino a riscrivere in istile moderno i primi
capitoli del Genesi (con descrizione più elaborata, ma scambiando,
con semplicità non inferiore a quella dei sacerdoti babilonesi od
israeliti, essa descrizione per la storia), non mette conto di
dimostrare nei particolari, perché è di quelle cose che si svelano
da sé, non appena siano collocate al loro posto e l'additata origine
logica ne rischiari la caratteristica fisonoinia.
Ma, lasciando stare codeste mostruosità scientifiche, già condannate
dall'atteggiamento costante verso di esse di ritenutezza e di scepsi
da parte di tutte le menti scientificamente coltivate, — e
condannate pel fatto stesso che hanno dovuto cercare e hanno trovato
la loro fortuna presso il volgo o «gran pubblico», e sono disceso a
strumenti di propaganda popolare, — bisogna qui, per le ulteriori
conseguenze, determinare in modo più particolare come si formino e
operino quei prospetti classificatori di apparenza storiografica. E
a tal effetto giova osservare che prospetti classificatori e storie
apparenti non sorgono solo nel campo delle cosiddette scienze
naturali o del mondo subumano, ma altresì in quello delle scienze
morali o scienze del mondo umano. E, per addurre esempì semplici e
perspicui, nell'analizzare astrattamente il linguaggio e porre i
tipi delle parti del discorso, nome, verbo, aggettivo, pronome e via
dicendo, o nell'analizzare la parola in sillabe e suoni, o lo stile
in parole proprie e metaforiche e in classi varie di metafore,
accade sovente di costruire serie che vanno dal semplice al
complesso: il che dà luogo poi all'illusione di una storia del
linguaggio, consistente nel successivo acquisto che si venga
attuando delle varie parti del discorso, o come il passaggio dal
suono singolo alla sillaba (lingue monosillabiche), dalla sillaba
agli aggregati di sillabe (lingue plurisillabiche), dalle parole
alle proposizfoni, ai metri, ai ritmi, e via discorrendo. Storie
immaginarie, che non si sono svolte mai in altro luogo che nei
gabinetti degli scienziati.
Similmente, i generi letterari, astrattamente distinti e disposti in
serie di crescente complessità (per es., lirica, epos, dramma),
hanno fatto e fanno pensare a una storia schematica della poesia,
che, per esempio, in una prima epoca si presenterebbe come lirica,
in una seconda come epos, e in una terza come dramma. E il medesimo
è accaduto per le classificazioni delle astratte forme politiche,
economiche, filosofiche e via discorrendo, tutte seguite dalle loro
proiezioni di storia fantastica. La ripugnanza che gli storici
provano a riattaccare i loro racconti ai prologhi
naturalistico-mitologici, ossia a stringere in connubio un vivo con
un cadavere, è provata da essi parimenti innanzi alla tentata
introduzione nella storia concreta di quei pezzi di storia astratta,
che già nel loro aspetto medesimo si mostrano eterogenei rispetto
all'altra.
Più volte e da più parti è stato mosso rimprovero al De Sanctis per
non aver dato principio alla sua Storia
della letteratura italiana con un ragguaglio sulle origini
della lingua italiana e sui rapporti di essa col latino, e magari
con la famiglia linguistica indoeuropea, o sulle razze che
popolarono le varie parti d'Italia; e c'è stato chi con ottusità di
senso storico e scientifico si è fatto a correggere il disegno di
quel classico libro, introducendovi le mal richieste aggiunzioni. Ma
il De Sanctis, che assai si tormentò nel cercare il migliore punto
di partenza per narrare la storia della letteratura italiana, e
finalmente si risolse a iniziare il racconto con un rapido schizzo
della cultura alla corte sveva e della scuola poetica siciliana, non
esitò pur un momento a mettere da banda le astrazioni delle lingue e
delle razze, che al suo retto istinto storico apparvero subito non
congiungibili con la tenzone di Ciullo, coi ritmi di fra Iacopone o
con le ballatene di Guido Cavalcanti, che sono cose ben concrete.
Anche è da tenere presente che i prospetti classificatori, e gli
ordinamenti pseudostorici ossia analogici di essi, si formano non
solamente sulle storie vive o attualmente riproducibili e
ripensabili, ma altresì su quelle morte, cioè sulle notizie, i
documenti e i monumenti: osservazione che vale a rendere meglio
compiuta l'identificazione delle finte storio provenienti dalle
scienze naturali con le fìnte storie pi'ovenienti dalle scienze
morali. A fondamento delle une e delle altre c'è, dunque, assai
spesso, non l'intelligenza, anzi per contrario l'inintelligenza
storica; e fine delle une e delle altre non è soltanto quello
immediato di aiutare a tener viva la storia viva, ma anche quello
mediato di aiutare a maneggiare prontamente gli avanzi e le ceneri
di un mondo spento, gli inerti residui della storia.
L'efficacia di questo allargamento del concetto della storia
astratta, analogica o naturalizzante al campo che empiricamente si
designa come «spirituale» (e si divide per tal modo da quello che
empiricamente si designa come «naturale»), non può essere dubbia per
chi conosca e ricordi le grandi conseguenze che la filosofia trae
dalla risoluzione del concetto realistico di
«natura» in quello idealistico di «costruzione», che lo
spirito umano fa della realtà atteggiandola come «natura»; alla
quale risoluzione si è indefessamente e sottilmente lavorato dal
Kant, che diede l'avviata, fino ai giorni nostri. E la conseguenza
che ne ricaviamo noi, pel problema che ora ci occupa, è che si è
errato quando, movendo dalla legittima esigenza di distinguere la
storia astratta dalla storia concreta, la storia naturalizzante
dalla storia pensante, la fìnta storia dalla storia genuina, si è
pervenuti, nella conclusione finale, a una sorta di agnosticismo,
col restringere la storia al campo umano, che sarebbe conoscibile, e
dichiarare tutto il resto oggetto di metastoria e limite della
conoscenza umana: conclusione che riprodurrebbe ancora una volta,
quantunque in una sfera più alta, una sorta di dualismo.
Ma se la metastoria, come si è visto, sorge altresì nel campo umano,
e chiaro che la distinzione, così come è stata formolata,
richiede correzione; e l'agnosticismo, che sopra essa fu fondato,
vacilla e cade. Non c'è, innanzi al pensiero, un duplice oggetto,
l'uomo e la natura, il primo trattabile con un metodo e l'altro con
un altro, il primo conoscibile e il secondo inconoscibile e soltanto
astrattamente costruibile; ma il pensiero pensa sempre la storia, la
storia della realtà che è una, e di là dal pensiero non c'è nulla,
perché l'oggetto naturale diventa un mito quando sia affermato come
oggetto, e, nella sua realtà vera, si svela come nient'altro che lo
stesso spirito umano, che schematizza la storia già vissuta e
pensata, o i materiali della storia già vissuta e pensata. La
sentenza, che la natura non abbia storia, è da intendere nel
significato che la natura, come ente di ragione ed escogitazione
astratta, non ha storia, perché non è, o, diciamo, non è nulla di
reale; e l'opposta sentenza, che la natura anch'essa sia formazione
o vita storica, va presa nell'altro significato che la realtà,
l'unica realtà (comprendente in su uomo e natura,
solo empiricamente e
astrattamente separati), è tutta svolgimento e vita.
Quale sostanziale differenza si può mai scorgere tra le
stratificazioni geologiche o gli avanzi vegetali e animali, di cui
ci è dato compiere un ordinamento prospettico e magari seriale, ma
che non ci riesce di attualmente ripensare nella dialettica vivente
della loro genesi; e, dall'altra parte, gli avanzi della cosiddetta
storia umana, e non solo quelli che si chiamano preistorici, ma
perfino i documenti storici, della nostra storia di ieri, che
abbiamo dimenticata e non più intendiamo, e che possiamo bensì
classificare o disporre in serie, e almanaccarvi e fantasticarvi
intorno, se così ci piace, ma che non ci è possibile di attualmente
ripensare? L'un caso e l'altro, arbitrariamente distinti, si fondono
logicamente in un caso solo. Anche nella cosiddetta «storia umana»
si ha una «storia naturale», e anche la cosiddetta «storia
naturale». fu una volta «storia umana», cioè spirituale, sebbene ora
a noi, che l'abbiamo di così gran tratto distanziata, sembri, a
riguardarla sommariamente e dall'esterno e con occhio quasi di
stranieri, mummificata e meccanica. Volete intendere la storia vera
di un neolitico ligure o siculo? Cercate anzitutto, se vi è
possibile, di rifarvi mentalmente neolitico ligure o siculo; e se
non vi è possibile, o non v'importa, contentatevi di descrivere e
classificare e disporre in serie i crani, gli utensili e i graffiti
che si sono rinvenuti, appartenenti a quei neolitici. Volete
intendere la storia vera di un filo d'erba? Cercate anzitutto di
rifarvi filo d'erba; e, se non vi riesce, contentatevi di
analizzarne le parti, e magari di disporle in una sorta di storia
ideale o immaginosa. — Il che riconduce al concetto, dal quale ho
preso le mosse in queste considerazioni storiografiche, della storia
come storia contemporanea e della cronaca come storia passata; e si
giova della verità di esso concetto, e riconferma insieme quella
verità, col risolvere al suo lume l'antitesi tra una storia che è
«la storia», e una « storia della natura», la quale, pur essendo
storia, ubbidirebbe stranamente a leggi diverse da quelle dell'unica
storia. Risolve questa antitesi col far discendere la seconda al
grado di pseudostoria.
1 Dall'economista prof. Gottl, nel VII Congresso degli storici
tedeschi, tenuto in Heidelberg. La conferenza si legge a stampa col
titolo poco chiaro e poco esatto: Die
Grenzen der Geschichte (Leipzig, Duncker u. Humblot, 1904).
APPENDICE
I
Le notizie attestate
Se la storia vera è quella della quale è possibile una verificazione
interiore, e perciò è la storia idealmente contemporanea e presente,
e se la storia per testimonianze manca di verità e non è nemmeno
falsa ma addirittura né falsa né vera (non è un hoc est, ma un
fertur), sorge legittima la domanda circa l'origine e ì'ufiìcio di
quelle innumerevoli proposizioni che, desunte da testimonianze
criticamente escusse, sono «tenute come vere», e, sebbene non
inverate né forse mai più inverabili, entrano in qualsiasi più gravo
trattazione storica.
Quando noi facciamo la storia di quella dottrina che si chiama la coincidentia oppositorum o di
quel carme che si chiama I
sepolcri, il latino del cardinal di Cusa e il verso del
Foscolo ci sono trasparenti come cose nostre, come pensieri e parole
nostre in atto,, pronunziate da noi a noi stessi, e il certo di quei
fatti storici è insieme logica verità. Ma che il De docta ignorantia fosse scritto tra la fine del
1489 e i primi del 1440, e il carme del Foscolo al ritorno del poeta
in Italia dopo la sua lunga milizia in Francia, sono notizie fondate
su testimonianze, delle quali non possiamo dir altro se non che sono
da considerare accertate perché in qualche modo
attestate, ma che non potremmo affermare
vero; e non v'ha accuratezza d'indagine mentale intorno ad esse che
possa impedire a un nuovo documento o alla miglior lettura di un
vecchio documento di distruggerle. Nondimeno nessuno tratterà delle
opere del Cusano o del Foscolo senza valersi dei dati biografici che
ci sono serbati circa i loro autori.
Un lodato metodologista dei giorni nostri ha avuto come la
tentazione di fondare, in ultima analisi, lafede che si dà a
quest'ordine di notizie sopra una sorta di telepatia del passato e
di reviviscenza quasi spiritica, ma niente vi ha di tanto misterioso
nella genesi di quella fede da richiedere e legittimare una
spiegazione arrischiata e fantastica, alla quale non crederebbe
nemmeno il giudeo oraziano. Si tratta, per contrario, di cosa che
quotidianamente, nella nostra vita privata e ordinaria, possiamo
osservare come si formi. Eccoci a segnare nel nostro diario alcuni
atti da noi compiuti, o nel nostro libro di conti i nostri crediti e
debiti: li notiamo, e qualche tempo dopo quei fatti, in parte o in
tutto, ci cascano via dalla memoria, e solo argomento per affermare
a noi stessi che siano accaduti e si debbano tenere, per veri è la
testimonianza della nota che segnammo: carta canta; il libro fa
fede.
E similmente ci comportiamo rispetto alle affermazioni che altri
segnano nei loro diari o libri di conti: presumendo che, se la cosa
si trova scritta, risponda a verità. Senza dubbio tale presunzione,
come ogni presunzione, può essere fallace nel fatto, perché
l'annotazione sarà stata scritta in un momento di distrazione o di
allucinazione, o troppo tardi, quando già la memoria della cosa era
imprecisa e malsicura, o addirittura introdotta a capriccio e per
ingannare altrui, ma appunto perciò non si suole accettare a chiusi
occhi l'attestazione scritta, e se ne esamina la verisimiglianza, e
si confronta con altri scritti, e s'investiga la probità e
l'accuratezza dello scrittore o testimone; appunto perciò il codice
penale commina pene agli alteratovi e falsari di documenti. E
sebbene queste e altre sottili e rigorose cautele non impediscano in
singoli casi la frode, l'inganno e l'errore (al modo stesso che i
tribunali istituiti per condannare i colpevoli, non di rado mandano
impuniti i colpevoli e talvolta condannano innocenti), tuttavia la
pratica dei documenti e delle testimonianze riesce nel suo complesso
conforme alla verità, e, poiché i danni che eventualmente reca sono
di gran lunga inferiori al giovamento, è stimata utile, ed è serbata
e promossa.
Ora ciò che gli uomini fanno per le loro private faccende nella vita
quotidiana, si può dire che faccia in grande il genere umano con lo
sgravare la memoria d'innumerevoli notizie e fissarle nell'esterno,
dove si ritrovano affievolite perché notizie documentate e non più
verificabili, e nondimeno tali che, nel loro complesso, è legittimo
ed utile tenero e trattare come vere. La fede storica non è dunque
prodotto di telepatia o di spiritismo, ma di una saggia opera
economica, che lo spirito viene esercitando. E s'intende così il
lavorio della critica storica contro le alterazioni e deformazioni,
e il suo fermare le testimonianze certe, «ciò che si deve tenere per
vero allo stato della scienza», e il suo graduare le altre come
incerte, probabili e probabilissime, da adoperare anche talvolta in
attesa dei frutti di ulteriori indagini; e, infine, si spiega
altresì il malumore contro l'«ipercritica», quando, non paga di
affinare sempre meglio la critica, contesta il valore di qualsiasi
più ingenua e autorevole testimonianza: perché in questo caso essa
rompe, per così dire, le regole del giuoco che si sta facendo sub
veglila, e giova tutt'al più, come si è detto, a rammentare a chi se
ne dimentica che la storia per testimonianze è in fondo una storia
tutta estrinseca, e non è mai la fondamentale e vera storia, la
contemporanea e presente. La quale genesi o natura delle notizie
«attentate» contiene già la risposta all'altra domanda circa il loro
ufficio: che, com'è chiaro, non può essere già di porgere la storia
vera o di surrogarla, ma di somministrare ad essa quei particolari
secondari pei quali non gioverebbe compiere lo sforzo di tenerli a
monte in modo compiuto e vivo, sforzo che andrebbe a scapito di ciò
che più a noi preme.
In fine, che il De docta
ignorantia sia
stato scritto qualche tempo prima o qualche tempo dopo, è cosa che
può bensi determinare diversa interpretazione di questo o quel
particolare del pensiero del Cusano, ma non tocca l'ufficio che la
dottrina della coincidenza degli opposti esercita nella formazione
della scienza logica; e se i Sepolcri
fossero stati già concepiti e abbozzati prima dell'andata del
Foscolo in Francia, ciò cangerebbe senza dubbio in qualche parte la
rappresentazione che ci siamo formata del graduale svolgimento
dell'animo e dell'ingegno del poeta, ma di poco o nulla
l'interpretazione del gran carme. Coloro che per mancanza di
certezza verificabile in siffatti particolari, o per l'incertezza e
dubbiosità che vi cadono sopra, disperano della verità storica, sono
simili a chi per aver dimenticato la cronaca della sua vita in
questo o quell'anno stimasse di non conoscere più sé stesso nel suo
presente, che è insieme la ricapitolazione del suo passato e porta
seco il passato in tutto ciò che davvero interessa conoscere.
Ma, d'altro canto, quelle notizie attestate e tenute per vere sono
uno stimolo a meglio frugare in noi stessi, e un arricchimento di
ciò che abbiamo trovato con l'interna analisi e con la meditazione,
e un riscontro o riprova non trascurabile dei nostri pensieri,
specie quando spontaneamente le notizie vere o le notizie attestate
concordino tra loro. Rifiutare le agevolezze e gli aiuti che ci
offrono le notizie attestate per il timore che alcune di esse
possono essere false o per il fatto che tutte esse serbano carattere
estrinseco e alquanto generico e vago, sarebbe rifiutare
(ricommettendo il peccato di Cartesio e del Malebranche) l'autorità
del genere umano. E al sano intendimento storico non importa né
giova questo gran rifiuto, ma solamente e giova e importa che
l'autorità, — anche l'autorità del genere umano, — non venga mai
sostituita al pensiero dell'umanità, al quale, in ogni caso, spetta
il primato.
II
Analogia e anomalia delle storie speciali
Nel corso delle precedenti dilucidazioni teoriche, abbiamo negato
così l'idea di una storia universale (nel tempo e nello spazio)1,
come quella di una storia generale (dello spirito nella sua
indiscriminata generalità o unità)2, e fatto in cambio valere
l'opposta duplice sentenza: che la storia è sempre particolare, ed è
sempre speciale; e che queste due determinazioni costituiscono per
l'appunto l'effettiva e concreta universalità, e la effettiva e
concreta unità. Ciò che si è dichiarato impossibile non rappresenta,
dunque, perdita alcuna, perché è, da una parte, la finta
universalità o universalità d'immaginazione, e, dall'altra, l'unità
astratta o, se piace meglio, confusa. Le cosiddette storie
universali ci si sono perciò dimostrate o storie particolari, che
prendono quel nome per enfasi letteraria, o collezioni, prospetti e
compilazioni cronachistiche di storie particolari, o, in terzo
luogo, romanzi; e parimenti le storie complessive e generali, o sono
tali solo di nome, o accostano estrinsecamente storie diverse, o
sono giochetti metafisici e metaforici.
In conseguenza di questa duplice ma convergente negazione ci
conviene rifiutare altresì un pregiudizio assai comune e radicato
(al quale noi stessi altra volta siamo parzialmente soggiaciuti 3),
pel quale si verrebbe senz'avvedersene a reintrodurre l'universalità
d'immaginazione: ossia che tra le storie speciali, costituite
secondo le varie forme dello spirito (e generali e unitarie solo in
quanto ogni forma dello spirito è tutto lo spirito in quella forma),
alcune ve ne siano che comportino una trattazione universale, e
altre solo una trattazione monografica. Il caso tipico che si suole
recare è la differenza tra la storia della filosofia e la storia
della poesia o dell'arte, della prima delle quali il subietto
sarebbe il grande ed unico problema filosofico degli uomini tutti, e
della seconda i problemi sentimentali-fantastici dei singoli
momenti, o tutt'al più dei singoli artisti; e perciò la prima
sarebbe coutinua, la seconda discontinua, la prima capace di una
visione complessiva e universale, la seconda solo di una sequela di
visioni particolari, ma un più «realistico» concetto della filosofia
toglie a lei questo privilegio di fronte alla storia dell'arte e
della poesia o ad ogni altra storia speciale; giacché, nonostante le
apparenze, non è punto vero che gli uomini si siano travagliati
sopra un unico problema filosofico, le cui soluzioni successive, e
sempre meno inadeguate, formerebbero un'unica linea di progresso, e
darebbero la storia universale dello spirito umano, sostegno e
unificazione delle altre storie tutte.
Vero è l'opposto: che i problemi filosofici, che gli uomini hanno
trattato o tratteranno, sono infiniti, e ciascuno sempre
particolarmente e individualmente determinato; e l'illusione del
problema unico e nata da uno scambio logico,
aiutato da contingenze storiche, onde un
1 Si veda sopra, pp. 47.-48.
2 Si veda sopra, pp. 105-108.
3 Nell'Estetica, I, e. XVII (quarta ediz., p. 150).
4 Si veda in questa Appendice, III.
problema, che per motivi religiosi sembrava supremo, è stato
considerato unico o fondamentale, e gli aggruppamenti e
generalizzamenti, che si fanno per fini pratici, sono stati creduti
identità ed unità reali4.
Anche le storie «universali» della filosofia, al pari delle altre
tutte, esaminate con buona lente, si dimostrano o storie particolari
del problema che occupa il singolo filosofo-storiografo, o
costruzioni sforzate ecl arbitrarie, o prospetti e raccolte di
molteplici e diverse serie storiche, a ino' di manuale ed
enciclopedia di storia filosofica. Che certamente non si vieta, anzi
si domanda come cosa assai utile, comporre prospetti di storie
filosofiche, classificando i problemi particolari e presentando i
principali pensatori di tutti i popoli e di tutte le età come
occupati nell'una o nell'altra classe di problemi. Ma codesta è pur
sempre trattazione cronachistica o naturalistica della storia della
filosofia; la quale si muove veramente come tale solo quando un
nuovo pensatore connette col determinato problema che lo occupa
quelli dei problemi già nel passato proposti, che ne sono
antecedenti intrinseci; ed allontana provvisoriamente gli altri di
diversa connessione, pur senza con ciò sopprimerli anzi per
richiamarli esplicitamente quando un altro problema ne renderà via
via necessario il richiamo.
Il che spiega come persino nei prospetti che sembrano più compiuti e
più oggettivi» (cioè più «materiali») abbia luogo una certa scelta,
dovuta all'interesse teorico del compilatore, il quale, per quanto
s'industri, non cessa mai del tutto di essere storiografo-filosofo.
Insomma, la cosa procede né più né meno come nella storia della
poesia e dell'arte, nella quale ciò che è veramente trattazione
storica viva e piena è la critica o pensamento delle singole
personalità poetiche; e il resto, la collezione delle
critiche, è prospetto formato per contiguità di tempi e di luoghi o
per affinità di materia o per somiglianze di temperamenti o per
gradi di eccellenza artistica.
Né è a dire che ogni problema filosofico si congiunga con tutti gli
altri e sia sempre problema di filosofia totale, diversamente da
quel che accade per la poesia e per l'arte; giacché la diversità,
per questa parte non c'è, e anche in ogni singola opera d'arte è
immanente tutta la storia e l'universo intero. Donde si vede quanto
sia contrario a ogni nozione e intelligenza delle condizioni
presenti della filosofia e della storiografia la richiesta o la
pretesa, affacciata da taluni, che alla storia della poesia e
dell'arte venga esteso il metodo universalistico e unitario della
storia della filosofia. Il problema metodologico dei nostri tempi è,
invece, di dare alle storie della poesia e dell'arte struttura
sempre più snodata ed elastica e libera da tirannie
intellettualistiche, sociologiche o concettuali, e avvicinare poi le
storie della filosofia alla forma, così perfezionata, delle storie
della poesia e dell'arte.
Ricondotte anche le storie della filosofia a storie particolari, è
appena necessario dimostrare priva di fondamento l'altra richiesta,
che anche oggi si viene movendo da più parti, di una storia
«universale» e «generale» della scienza; perché una siffatta storia
sarebbe ineseguibile ancorché la storia della scienza si potesse
identificare o pareggiare con quella della filosofia; ma è
doppiamente ineseguibile, e perché sotto il nome di «scienza» si
accolgono formazioni tanto diverse quanto lo scienze di osservazione
e le scienze matematiche, e perché, in ciascuna di queste classi
medesime, le singole discipline restano disgregate a cagione della
irriducibile varietà dei dati e postulati dai quali prendono lo
mosse. Se ogni particolare problema filosofico, come si è avvertito,
si congiunge e mette in armonia con tutti gli altri problemi
filosofici, ogni problema scientifico invece tende a chiudersi in so
stesso, e non v'ha più distruttiva tendenza per la scienza di quella
a «spiegare» tutti i fatti con un «principio unico», ossia, come per
tanti esempi è noto, a sostituire alla fruttifera scienza una
infeconda metafisica, nella quale una vuota parola opera da
bacchetta magica e, «spiegando tutto», non «spiega» più nulla.
L'unità, che la storia delle scienze consente, non è quella che
connette una teoria con l'altra e una scienza con l'altra nella
fantastica storia generale della Scienza, ma quella che connette
ciascuna scienza e ciascuna teoria col complesso intellettuale e
sociale del momento in cui sorse.
Del resto, anche qui è da sottintendere la cautela: che con le
offerte dilucidazioni non s'intende contestare il diritto dei
prospetti e delle enciclopedie di storia delle scienze, e molto meno
gettare scredito sull'odierno moto di studi, pel quale, invocando la
costruzione della Storia della scienza, si eccita a compiere
ricerche utili, per lungo tempo trascurate. Né contro codeste storie
della scienza prospettiche ed enciclopediche vale l'obiezione della
impossibilita che un medesimo studioso sia versato ed equabilmente
competente nell'intelligenza di problemi d'indole disparatissima,
come sono quelli delle varie scienze; perché non è nemmeno da
credere che esista filosofo al mondo che abbia pari disposizione e
intelligenza per ogni e qualsiasi problema filosofico (anzi, di
solito, chi meglio ne approfondisce alcuni, è più chiuso ad altri);
o che esista critico e storico della poesia e dell'arte, che, per
versatile che sia, gusti e intenda egualmente tutte le forme della
poesia e dell'arte. Ciascuno ha la sua sfera più o meno strettamente
segnata, e ciascuno è universale solo mercé quella sua
particolarità.
Infine, non ripeteremo la medesima dimostrazione per la storia
politica ed etica, nella quale la pretesa di rappresentare la storia
tutta secondo un'unica linea di svolgimento ha avuto minore
occasione di manifestarsi, e più agevolmente vi si suole ammettere
che ogni storia è particolare, cioè determinata dal problema o dai
problemi politici ed etici nei quali, secondo tempi e luoghi, si
travaglia lo storico, e perciò che ogni storia si ripensa da capo di
volta in volta.
L'analogia, dunque, tra le varie storie speciali è da dire perfetta,
e l'anomalia dell'una rispetto all'altra rimane esclusa: tutte esse
(checché possa sembrare in contrario) obbediscono al principio della
particolarità (universalità particolare). Ma se, in quanto storie,
tutte procedono secondo la natura che abbiamo chiarita della
storiografìa, in quanto speciali poi, ciascuna di esse si conforma
al concetto della sua specialità; e in questo senso, e solo in
questo senso, ciascuna è anomala rispetto alle altre, ossia serba la
propria indole peculiare. La pretesa, della quale si è fatto cenno,
di trattare la storia della poesia e dell'arte al modo della storia
della filosofia, non solo è erronea perché misconosce il concetto
vero della storia, ma anche perché snatura l'arte, concependola come
filosofia e dissipandola in una dialettica di concetti; ossia
perché, nella storia dell'arte, lascia fuori proprio ciò per cui
l'arte è arte, o lo considera come cosa secondaria, o, alla men
peggio, lo include col porlo accanto all'elemento sociale o
concettuale. Il quale errore trova esatta corrispondenza nell'errore
di coloro, che di tanto in tanto propongono la riforma, come dicono,
«psicologica» della storia della filosofia, cioè di riportarla alla
psicologia degli uomini filosofi e agli ambienti sociali,
adeguandola per tal modo ora alla storia dei sentimenti ora a quella
delle fantasie e utopie, ossia a ciò che non è storia del
filosofare. A costoro manca nient'altro che il concetto di quel che
sia filosofia; e a quegli altri, il concetto della poesia e
dell'arte.
Chi voglia persuadersi in breve della differenza tra storia della
filosofia e storia della poesia osservi come l'una, dalla natura del
proprio oggetto, sia portata a indagare le teorie in quanto opere
della mente pura, e a svolgere perciò una storia in cui i pensieri
rappresentino le dramatis personae; laddove l'altra è dalla
natura dell'oggetto suo portata a indagare le opere d'arte in quanto
opere della fantasia che da espressione ai moti del sentimento, e a
svolgere perciò una storia di atteggiamenti sentimentali-fantastici:
onde la prima, pur non trascurando azioni, accadimenti e fantasie,
li considera come l'humus
del pensiero puro e si configura in istoria di concetti senza
persone né reali né fantastiche, e la seconda, pur non trascurando
azioni e accadimenti e pensieri, li considera a sua volta come l'humus delle creazioni
fantastiche e si configura in una storia di personalità ideali o
fantastiche, che hanno scosso via da sé la zavorra degli interessi
pratici e il freno dei concetti. Anche gli schemi che esse si
foggiano e dei quali, come qualsiasi discorso umano, non possono far
di meno, rispondono a questa diversa tendenza; e sono, nell'una,
schemi ossia tipi generali di modi di pensare; nell'altra, schemi di
personalità ideali.
Se la storia della filosofia ha più volte fatto la prova di divorare
la storia della poesia e dell'arte, il medesimo tentativo essa ha
rinnovato altresì più volte verso la storia della pratica, verso la
storia politica ed etica, o «storia sociale -, come ai giorni nostri
si preferisce chiamarla. Ed è stato asserito che perché questa
storia si traesse fuori del cronachismo in cui restava impigliata e
assumesse forma scientifica e rigorosa, occorreva ridurla a storia
d'«idee», che sono i veri ed essenziali atti pratici perché li
generano: cioè si è ripetuto l'errore notato di sopra per la storia
della poesia e dell'arte, lasciando cadere quel che di peculiare e
negli atti pratici e ritenendo solo le «idee», che sono il loro
antecedente e il loro conseguente.
Ma altre volte le «idee», alle quali si asseriva di ridurre gli atti
pratici, non erano veramente idee ossia formazioni intellettive, ma
ben atti pratici, sentimenti, disposizioni, costumi, istituti: con
che si veniva, senz'avvedersene, a riconfermare l'originalità della
storia politica ed etica. L'oggetto della quale è appunto quel che
con unico vocabolo si potrebbe designare come istituti; intendendo
questa parola in senso latissimo, ossia comprendendovi tutti gli
atteggiamenti pratici degli individui e delle società umane, dai più
nascosti sentimenti ai più appariscenti modi di vita (che son
anch'essi, sempre, volontà in atto): tutti del pari produzioni
storiche, e le sole effettive produzioni storiche appercepibili
secondo la forma pratica dello spirito. Se il patrimonio di giudizi,
che è come il capitale col quale e sul quale lavora il nostro
pensiero odierno, è il risultamento di lunga storia, di cui a volta
a volta, sotto la sollecitazione di nuovi bisogni, ci rendiamo
consapevoli e ne rischiariamo or l'uno or l'altro aspetto
particolare; anche ciò che noi ora praticamente possiamo, tutti i
nostri sentimenti di uomini così detti inciviliti, — il coraggio,
l'onore, la dignità, l'amore, il pudore, e via dicendo, — e tutte le
nostre istituzioni in senso stretto (che anch'esse' si riportano ad
atteggiamenti sia utilitari sia morali dello spirito), — la
famiglia, lo Stato, il commercio, l'industria, la milizia, e via
dicendo, — hanno lunga storia; e secondo che l'uno o l'altro di quei
sentimenti ed istituzioni, per effetto dei nuovi
bisogni, entra in crisi, noi procuriamo d'intenderne la
vera «natura», cioè la genesi storica.
Chi abbia seguito con attenta cura i saggi, le tendenze, le dispute
e le vicende della storiografìa sociale moderna, ha potuto scorgere
chiaramente che essa mira per l'appunto a risolvere il caos
cronachistico delle disgregate notizie di fatto in ordinate serie di
storie di valori sociali, e che il suo campo di ricerche è ia
storia della psiche umana sotto l'aspetto pratico; sia che
esegua storie complessive (ma pur sempre particolarmente motivate e
delimitate) della civiltà, sia che porga storie di classi, di
popoli, di correnti sociali, di sentimenti, d'istituzioni, e via
enumerando.
Anche la biografia (quando, beninteso, non si restringa a una mera
raccolta cronachistica dei casi di un individuo o non sia un poetico
ritratto, impropriamente considerato lavoro storico) è storia di un
«istituto», nell'accezione filosofica di questa parola, e rientra
nella storia della pratica: perché un individuo, al pari di un
popolo o di una classe sociale, è la formazione di un carattere,
ossia di un complesso di attitudini specificate e di conseguenti
azioni; e di ciò, e non dell'individuo estrinseco o privato o fisico
che si dica, si tesse la storia, quando si compone una biografia.
Resterebbe, per fare in certo modo compiuta questa rapida rassegna
circa la peculiarità delle storie speciali nelle quali a volta a
volta si attua la storia generale (che non vive mai fuori di esse),
indicare quale sia il posto ossia l'ufficio della storia della
scienza e di quella della religione. Ma se la scienza, nella sua
differenza dalla filosofia, è produzione fra teoretica e pratica, e
la religione è un tentativo di spiegare la realtà mercé il mito e
d'indirizzare praticamente l'opera dell'uomo secondo un ideale, è
evidente che la storia della scienza rientra per una parte nella
storia del pensiero filosofico e per un'altra in quella dei bisogni
ed istituti, anzi, poiché il momento che dà il carattere proprio
alla scienza è quello convenzionale o pratico, sostanzialmente essa
appartiene alla storia degl'istituti, nel larghissimo significato
anzidetto; e la storia della religione rientra per una parie nella
storia degl'istituti e per una parte in quella della filosofia,
anzi, poiché il momento dominante e qui la concezione mitica ossia
un conato filosofico, la storia della religione sostanzialmente è
storia della filosofia.
Altre più particolari disquisizioni intorno a questi argomenti
sarebbero fuori luogo nella presente nostra trattazione, che non
concerne di proposito la teoria e metodologia delle singole storie
speciali (coincidenti con la trattazione delle varie sfere della
filosofia, Estetica, Logica, ecc.), e vuole solo avere accennato le
vie nelle quali essa necessariamente si svolge1.
1 Gioverà per altro richiamare qui in nota l'attenzione sulla
accennata distinzione (p. 182) della storia della pratica in
politica ed etica, perché in questa distinzione solamente può
trovare pace il dissidio che percorre la storiografia, specie dal
secolo decimottavo in poi, tra Storia politica o degli Stati, e
Storia della umanità o della Civiltà. In Germania, esso è uno degli
elementi dell'intricato dibattito tra Geschichte e Kulturgeschichte;
e talvolta è stato atteggiato come contrasto tra la storiografia
francese (Voltaire e seguaci), che era histoire de la civilisation, e quella germanica
(Möser e seguaci), che era storia dello Stato. L'una parte vuole
sottomettere e assorbire la storia della cultura o storia sociale in
quella dello Stato, e l'altra al contrario; e gli eclettici, al
solito, senza troppo capire, collocano l'una a fianco dell'altra,
inerti, storia della politica e storia della civiltà, spezzando
l'unità della storia.
Il vero è che la storia politica e quella della civiltà hanno tra
loro, nel campo pratico, lo stesso rapporto della storia della
poesia o dell'arte e della storia della filosofia o del pensiero, in
quello teoretico; e corrispondono a due eterni momenti dello
spirito, il momento della volontà pura o economica e quello della
volontà etica. Donde si vede anche per quale ragione vi saranno
sempre animi tratti piuttosto all'una che all'altra storia, e
disposti finanche a deprimere l'una per l'altra: secondo cioè che
siano mossi da interessi prevalentemente politici o prevalentemente
morali.
III
Filosofia e metodologia
Stabilita l'unità di filosofia e storiografia, e mostrato cbe la
partizione tra le due non ha altro valore che letterario e
didascalico, perché si fonda sulla possibilità di collocare in primo
piano nell'esposizione verbale ora l'uno ora l'altro dei due
elementi dialettici di quell'unità, giova mettere bene in chiaro
quale sia propriamente l'oggetto delle trattazioni designate col
nome tradizionale di «teoria» o di «sistema» filosofico: a che cosa
(per dirla in breve) si riduca la Filosofia.
La Filosofia, in conseguenza della nuova relazione in cui è stata
posta, non può essere necessariamente altro che il momento
metodologico della Storiografia: dilucidazione delle categorie
costitutive dei giudizi storici ossia dei concetti direttivi
dell'interpretazione storica. E poiché la storiografia ha per
contenuto la vita concreta dello spirito, e questa vita è vita di
fantasia e di pensiero, di azione e di moralità (o di altro, se
altro si riesca ad escogitare), e in questa varietà delle sue forme
è pur una, la dilucidazione si muove nelle distinzioni dell'Estetica
e della Logica, dell'Economia e dell'Etica, e tutte le congiunge e
risolve nella Filosofia dello spirito.
Se un problema filosofico si dimostra affatto sterile pel giudizio
storico, si ha in ciò la prova che quel problema è ozioso, malamente
posto, e in realta non sussiste. Se la soluzione di un problema,
cioè una proposizione filosofica, invece di rendere meglio
intelligibile la storia, la lascia oscura o la confonde o vi salta
sopra e la condanna e la nega, si ha in ciò la prova che quella
proposizione, e la filosofia con la quale si lega, è arbitraria, se
anche possa serbare interesse per altri rispetti, come
manifestazione del sentimento e della fantasia.
La definizione della Filosofia come «metodologia» non va sulle prime
esente da dubbi, anche per parte di chi è disposto ad accettare in
genere la tendenza ch'essa designa; perché filosofia e metodologia
sono due termini di frequente messi in contrasto, e una filosofia
che versi nella metodologia suole ricevere taccia di empirismo. Sia
certamente la metodologia, della quale qui s'intende discorrere, non
è niente di empirico, anzi viene appunto a correggere e sostituire
l'empirica metodologia degli storici di mestiere o di altrettali
specialisti in tutta quella sua maggior parte nella quale essa è un
vero e proprio, sebbene manchevole, conato verso la soluzione
filosofica dei problemi teorici suscitati dallo studio della storia,
ossia verso la metodologia filosofica e la filosofia come
metodologia.
Per altro, se l'anzidetto contrasto si risolve tosto che si accenna,
non accade il medesimo di un'altra opposizione nella quale il
concetto da noi sostenuto si trova col concetto assai antico e
largamente divulgato della filosofia come risolutrice del mistero
dell'universo, conoscenza della realta ultima, rivelazione del mondo
noumenico, che sarebbe di là dal fenomenico nel quale ci aggireremmo
nella vita ordinaria e si aggirerebbe la considerazione storica.
Non è il caso di delineare qui la storia di tale concetto; ma questo
almeno bisogna dire, che la sua origine è religiosa o mitologica, e
che esso persistette persino nei filosofi che più validamente
avviarono il pensiero verso l'umano e il terreno come unica realta,
e iniziarono la nuova filosofia come metodologia del giudizio ossia
della conoscenza storica. Persistette nel Kant, che l'ammise come
limite della sua critica; persistette nello Hegel, che inquadrò le
sue squisite ricerche di logica e di filosofia dello spirito in una
sorta di mitologia dell'Idea. Tuttavia la diversità tra i due
concetti fu avvertita in modo sempre più vivace, e si espresse nelle
varie formole che, nel corso del secolo decimonono, opposero alla
Metafisica la Psicologia, alla filosofia aprioristica e trascendente
una filosofia dell'esperienza e immanente, all'idealismo il
positivismo; e sebbene di solito la polemica fosse infelicemente
condotta e, andando oltre il segno, finisse col riabbracciare
inconsapevolmente quella metafisica, quel trascendente e
aprioristico, quell'idealismo astratto che si proponeva di
combattere, l'esigenza che vi si disegnava era legittima.
E la filosofia come Metodologia l'ha fatta sua, e ha combattuto con
migliori armi il medesimo avversario, e ha propugnato una concezione
psicologica bensì ma di psicologia speculativa, immanente alla
storia ma dialetticamente immanente, e diversa in ciò dal
positivismo che, laddove questo rendeva contingente il necessario,
essa rende necessario il contingente, affermando il diritto
egemonico del pensiero. Una tale filosofia è appunto la filosofia
come storia (e perciò la storia come filosofia), e la determinazione
del momento filosofico nel momento puramente categorico e
metodologico.
Il maggior vigore di questa concezione verso l'opposta, la
superiorità della filosofia come Metodologia sulla filosofia come
Metafisica, è dimostrata dalla capacità della prima a risolvere,
criticandoli e assegnandone la genesi, i problemi della seconda;
laddove la Metafisica non è capace di risolvere, non solo quelli
della Metodologia, ma nemmeno i propri problemi
senza dare nel fantastico e
nell'arbitrario. Cosi le questioni sulla realtà del mondo esterno,
sull'anima-sostanza, sull'inconoscibile, sui dualismi e sulle
antitesi, e via dicendo, si sono disciolte nelle dottrine
gnoseologiche che hanno sostituito migliori concetti a quelli che
prima si possedevano intorno alla logica delle scienze, e spiegato
quelle questioni come aspetti eternamente rinascenti ed eternamente
superabili della dialettica o fenomenologia della conoscenza.
Senonché il concetto della filosofia come metafisica è così
inveterato e così tenace, che non è maraviglia se esso dia ancora
qualche guizzo di vita nelle menti di coloro che se ne sono bensì
liberati in genere, ma non l'hanno attentamente perseguitato in
tutti i particolari, né hanno chiuso tutte le porte per le quali può
rintrodursi più o meno inavvertito. E se ora di rado lo s'incontra
nella sua diretta e scoperta presenza, è dato discernerlo o
sospettarlo in alcuni suoi aspetti ed atteggiamenti, che rimangono
quasi pieghe prese dagl'intelletti o come preconcetti inconsapevoli,
e offrono il pericolo di risospingere la Filosofia come metodologia
in vie fallaci, e di preparare la restaurazione, sia anche efimera,
della sorpassata Metafisica.
E di alcuni di questi preconcetti e tendenze ed abiti mi sembra
opportuno dare chiaro enunciato, additando l'errore che essi
contengono o che traggono seco.
Prima ci si presenta, tra le sopravvivenze del passato,
l'ammissione, ancora assai comune, di un problema fondamentale della
filosofia. Ora il concetto di un problema fondameutale è
intrinsecamente contrastante a quello della filosofia come storia e
della trattazione della filosofia come metodologia della storia, il
quale pone, e non può non porre, l'infinità dei problemi filosofici,
tutti bensì connessi organicamente tra loro, ma dei quali nessuno
può dirsi fondamentale, per l'appunto come in un organismo
nessuna singola parte è il fondamento
delle altre tutte, ma ciascuna e, a volta a volta,
fondamento e fondata.
Se, infatti, la metodologia toglie la materia dei suoi problemi
dalla storia, la storia, nella sua modesta una concretissima forma
di storia di noi medesimi, di ciascuno di noi come individuo, ci
mostra che noi trascorriamo di problema in problema filosofico
particolare sotto la sollecitazione della nostra vita vissuta, e,
secondo le epoche di questa, uno o altro gruppo o classe di problemi
tiene il campo o ha per noi interesse preponderante. E se guardiamo
al più largo ma meno determinato spettacolo che offre la cosiddetta
storia generale della filosofia, osserviamo il medesimo: che cioè,
secondo i tempi e i popoli, ora i problemi filosofici della morale
ora quelli della politica ora della religione ora delle scienze
naturali e delle matematiche hanno avuto le prime parti; e che
sempre, certamente, ogni particolare problema filosofico è stato, in
modo espresso o sottinteso, problema di filosofia totale, ma non mai
s'incontra, per la contradizione che noi consente, un problema
generale, per sé stante, della filosofia.
E se uno pare che ce ne sia (e pare certamente così), si tratta, in
verità, di una parvenza, generata da ciò che la filosofia moderna,
uscita dalla filosofia del medio evo ed elaborata attraverso le
lotte religiose della Rinascenza, ha serbato, nella sua forma
didascalica non meno che nella disposizione psicologica della
maggior parte dei suoi cultori, forte impronta di teologia: onde
l'importanza fondamentale e quasi unica che usurpava il problema
della relazione tra Pensiero ed Essere, che era poi nient'altro che
la forma critica e gnoseologica dell'antico problema del mondo e
dell'altro mondo, della terra e del cielo.
Ma coloro che distrussero o iniziarono la distruzione del cielo e
dell'altro mondo, e della filosofia trascendente per la filosofia
immanente, nello stesso atto distrussero e cominciarono a corrodere
il concetto di un problema fondamentale, sebbene di ciò non si
avvedessero a pieno (epperò si è detto di sopra che restarono
impigliati nella filosofia della Cosa in sé o nella mitologia
dell'Idea). Quel problema era a buon diritto fondamentale per gli
spiriti religiosi, che tenevano esser nulla tutto il dominio
intellettuale e pratico del mondo se non avessero salvato in un
altro mondo, nella conoscenza del mondo noumenico e veramente reale,
l'anima propria o il proprio pensiero; ma tale non doveva più
rimanere pei filosofi, ormai ristretti solo al mondo o alla natura,
che non ha nocciolo né corteccia ed e tutto di un gotto.
Riammettendo la concezione di un problema fondamentale, primeggiante
sugli altri tutti, che cosa accadrebbe? Gli altri problemi o
sarebbero da considerare tutti come dipendenze del primo, e perciò
risoluti col primo; o come problemi non più filosofici, ma empirici.
Cioè tutti i problemi, che ogni giorno ci sorgono sempre nuovi dalla
scienza e dalla vita, sarebbero svalutati, e o diventerebbero una
tautologia della soluzione fondamentale o resterebbero commessi alla
trattazione empirica: riproducendosi così la distinzione tra
filosofia e metodologia, tra metafisica e filosofia dello spirito,
trascendente la prima rispetto alla seconda e la seconda afilosofica
rispetto alla prima.
Un'altra tendenza, proveniente dalla vecchia concezione metafisica
dell' ufficio della filosofia, porta a svalutare la distinzione per
l'unità, conformandosi anch'essa al concetto teologico, che tutte le
distinzioni si unificano sommergendosi in Dio, e all'atteggiamento
religioso, che nella visione di Dio dimentica il mondo e le sue
necessità. Nasce da ciò una disposizione tra indiffereute,
accomodante e molle rispetto ai problemi particolari, e quasi si
ripristina tacitamente la perniciosa dottrina della doppia facoltà,
della intuizione intellettuale o altra superiore facoltà conoscitiva
che sarebbe propria del filosofo e condurrebbe alla visione della
vera realtà, e della critica o pensiero che indugerebbe
nel contingente e serberebbe una dignità di gran lunga minore e
potrebbe procedere con una mancanza di rigore speculativo, che
all'altra non sarebbe consentita.
Tale disposizione ingenerò pessime conseguenze nelle trattazioni
filosofiche della scuola hegeliana, nelle quali di solito quegli
scolari (diversamente dal maestro) mostrarono di avere poco o punto
ricercato e meditato nei problemi delle varie forme spirituali,
accogliendo volentieri intorna ad essi le opinioni volgari o
entrandovi in mezzo con noncuranza di uomini sicuri dell'essenziale,
e perciò tagliandoli e mutilandoli senza pietà per ridurli in fretta
e furia nei loro schemi prestabiliti e spacciarsene con
quell'illusorio collocamento: donde la vacuità e la noia delle loro
filosofìe, dalle quali lo storico, ossia colui che si volgeva a
intendere la realtà particolare e concreta, non riusciva ad
apprender nulla: nulla che gli fosse di aiuto a meglio indirizzare
le sue. indagini e a formare in modo più perspicuo i suoi giudizi. E
poiché la mitologia dell'Idea ricomparve come mitologia
dell'Evoluzione nel positivismo, anche in questo i problemi
particolari (che sono poi i soli problemi filosofici) ricevettero
schematico e vacuo trattamento e non progredirono di un passo.
La filosofia come storia e metodologia della storia rimette in onore
la virtù dell'acume ossia del discernimento, che l'unitarismo
teologico della metafisica tendeva a spregiare: il discernimento,
che è prosaico ma severo, che è duro e penoso ma proficuo, che
prende talvolta non simpatico aspetto di scolasticismo e pedanteria,
ma anche in questo aspetto è giovevole, come ogni disciplina; e
stima che la trascuranza della distinzione per l'unità sia anch'essa
in intimo contrasto con la concezione della filosofia come storia.
Una terza tendenza (e mi sia permesso qui per ragioni di comodo e dì
perspicuità andare distaccando con enumerazione i vari
lati di un medesimo atteggiamento mentale), una
terza tendenza va ancora in cerca della filosofia definitiva: non
ammaestrata dalla storica esperienza, che prova come nessuna
filosofia sia stata mai definitiva ossia abbia posto termine al
pensare, né ben compenetrata dalla persuasione che il perpetuo
cangiare della filosofia col mondo che cangia in perpetuo non è già
un difetto, ma è la natura stessa del pensiero e del reale. O,
piuttosto, quell'ammaestramento e questa proposizione non rimangono
al tutto senz'ascolto; e si è portati a riconoscere che lo spirito,
crescendo in eterno sopra sé medesimo, produce pensieri e
sistemazioni sempre nuove. Ma poiché si è mantenuto il preconcetto
del problema fondamentale, il quale (come si è detto) è
sostanzialmente l'antico e unico problema religioso o della
rivelazione, e ciascun problema ben determinato comporta un'unica
soluzione, la soluzione che si dà del «problema fondamentale» ha
necessariamente pretesa di soluzione definitiva della filosofia
stessa. Una nuova soluzione non potrebbe sorgere se non con un nuovo
problema (in forza della logica unità di problema e soluzione): e
quel problema, superiore agli altri tutti, è invece unico. Sicché la
filosofia definitiva, contenuta come esigenza nella concezione del
problema fondamentale, contrasta con l'esperienza storica, e più
insanabilmente, perché in modo più logicamente evidente, con la
filosofia come storia, la quale, come ammette infiniti problemi,
così toglie la pretesa e l'aspettazione di una filosofia definitiva.
Ogni filosofia è definitiva bensì pel problema presente che risolve,
ma non già per quello che nasce subito dopo, a piede del primo, e
per gli altri che nasceranno da questo. Chiudere la serie varrebbe
tornare dalla filosofia alla religione e riposarsi in Dio.
Infatti, il quarto preconcetto, che passiamo a enunciare, e che si
congiunge ai precedenti e, insieme coi precedenti tutti, alla
natura teologica della vecchia
metafisica, concerne appunto la
figura del filosofo, quasi
Buddho o «risvegliato», che si pone superiore agli altri (e a sé
stesso, nei momenti nei quali non è filosofo), perché,
mercé la filosofia, si tiene ormai liberato dalle umane illusioni,
passioni e agitazioni. La qual cosa è propria del credente, che,
affisandosi in Dio, scuote da sé le terrene cure; al
modo stesso dell'amante, che nel
possesso della creatura amata si sente
beato e sfida il
mondo intero: quantunque poi sopra il credente come
sopra l'innamorato il mondo non tardi a vendicarsi e a
far valere i suoi diritti, ma quella illusione è
impossibile al filosofo storico che, diverso
dall'altro, si sente ineluttabilmente preso nel corso della
storia, soggetto e oggetto insieme di storia, e
che perciò è tratto a
negare la felicità o beatitudine come ogni altra
astrattezza (perché, com'è stato ben detto, le bonheur est le contraire de la
sensation de vivre), e ad accettare la vita
qual'è, come gioia che supera il dolore e produce
in perpetuo nuovi dolori
per nuove instabili gioie. E la storia, che
esso pensa come sola verità, è opera del pensiero
infaticabile, che condiziona l'opera pratica, come
l'opera pratica condiziona la nuova opera del pensiero;
cosicché il primato, che fu già attribuito alla vita
contemplativa, viene ora trasferito non già alla vita attiva, una
alla vita nella sua integralità, che è ad una pensiero ed
azione.
E filosofo è (nella sua cerchia, angusta o larga che sembri) ogni
uomo, e ogni filosofa è uomo, indissolubilmente legato
alle condizioni della vita umana, che non e dato a niun modo
trascendere.
Il filosofo mistico o apolitico della decadenza greco-romana poteva
bene distaccarsi dal mondo: i grandi
pensatori, che inaugurarono la filosofia
moderna, potevano, come Hegel, pur
negando con l'effettivo loro pensiero il primato
dell'astratta vita contemplativa, ricadere
nell'errore di questo primato e concepire una sfera dello spirito
assoluto e, per giungere ad essa, un processo di liberazione mercé
l'arte, la religione o la filosofia: ma la figura, già, sublime, del
filosofo beato nell'Assoluto, quando si cerchi
di rinnovarla nel nostro mondo
moderno, si tinge di comico. Vero è che la satira trova ormai poca
materia sopra cui esercitarsi, ed è ridotta ad avventare i suoi
strali contro i «professori di filosofia» (secondo il tipo che
del filosofo hanno elaborato le
università moderne, e che è in più parti erede del «maestro di
teologia» delle università medievali): contro i professori in
quanto, ripetendo meccanicamente astratte proposizioni
generiche, sembrano incommossi dalle
passioni e problemi che urgono loro intorno e che invano loro
chiedono proposizioni più concrete ed attuali. Ma l'ufficio e la
figura sociale del filosofo sono ora profondamente cangiati; e non è
detto che a poco a poco
non cangeranno a lor guisa anche i «professori di
filosofia», cioè che il modo di considerare e
insegnare la filosofia nelle
università e nelle altre scuole non sia per entrare in crisi,
fino ad eliminare da sé gli ultimi formalistici residui del modo
medievale di filosofare.
Un forte avanzamento della cultura filosofica dovrebbe
tendere a questo effetto: che tutti gli
studiosi delle cose umane, giuristi, economisti,
moralisti, letterati, ossia tutti
gli studiosi di cose storiche,
diventino consapevoli e disciplinati filosofi; e
il filosofo in generale, il purus
philosophus, non trovi
più luogo tra le specificazioni
professionali del sapere. Con
la sparizione del filosofo «in
generale», sparirebbe l'ultimo vestigio sociale
del teologo o metafìsico,
e del Buddho o
risvegliato.
Un preconcetto turba altresì il modo di cultura che gli studiosi di
filosofia si sogliono dare, e che consiste nel frugare quasi
esclusivamente i libri dei filosofi, anzi dei filosofi «in
generale», dei sistematori della metafisica: così come il dotto
in teologia si formava sui sacri
testi.
Questo modo di cultura,
affatto conseguente quando si
muova dal presupposto di
un problema fondamentale o unico del quale
importi conoscere le diverse e divergenti o progressive
soluzioni che sono state
tentate, e affatto inconseguente e inadeguato in
una filosofia immanente e storica, che trae
materia da tutte le più varie impressioni della vita e da tutte le
intuizioni e le riflessioni sulla vita. Quella forma di cultura è
cagione di aridità nella trattazione dei
problemi particolari, pei
quali si richiede un continuo
ricambio con l'esperienza dei fatti particolari (dell'arte e della
critica d'arte per l'Estetica, della
politica,, dell'economia, delle contese giuridiche per la Filosofia
del diritto, delle scienze positive e matematiche per la Gnoseologia
delle scienze, evia d-icendo); e di aridità nella trattazione di
quelle parti stesse di filosofia che sono tradizionalmente
considerate come costituenti la «filosofia generale»: perché
anch'esse sorsero giù dalla vita e alla vita conviene riportarle per
bene interpetrarne le proposizioni, e nella vita rituffarle per
isvolgcrle e trovarne nuovi aspetti.
Fondamento della filosofia come storia è tutta la storia, e
circoscrivere il suo fondamento alla sola storia della
filosofia, e della filosofia «generale» o
«metafisica», non si può se non per una inconsapevole adesione alla
vecchia idea della filosofia non metodologica ma
metafisica: che è il quinto dei preconcetti che veniamo
enumerando. La quale enumerazione si
potrà allungare e insieme terminare con un
sesto preconcetto, circa l'esposizione
filosofica, onde si continua
a desiderare e a chiedere per la filosofia,
ora la forma architettonica,
quasi di un tempio consacrato all'Eterno, ora quella
calorosa e poetica, quasi di un inno o salmo
cantato all'Eterno, ma codeste forme erano congiunte al
vecchio contenuto; e, ora che il contenuto è cangiato e la filosofia
si esplica come una dilucidazione delle categorie dell'
interpetrazione storica, non la grandiosa architettura da tempio, e
non la lirica dell'inno sacro le si confà per istituto, ma la
discussione, la polemica, la severa esposizione didascalica, che si
colora bensì dei sentimenti dello scrittore come ogni altra forma
letteraria, e può talvolta prendere anche toni alti (o altresì, nel
caso, tenui e giocosi), ma non è astretta ad osservare le regole che
sembravano proprie del contenuto teologico o religioso.
La filosofia trattata come metodologia ha fatto, per così
esprimerci, discendere l'esposizione filosofica dalla poesia alla
prosa. Tutti i preconcetti, le pieghe o tendenze, gli abiti, che ho
in breve descritti, debbono, a mio parere, essere accuratamente
ricercati e sradicati, perché sono essi che impediscono alla
filosofia di configurarsi e procedere in modo conforme e adeguato
alla coscienza alla quale essa è pervenuta dalla sua unità con la
storia. Se solo si guardi l'enorme materiale che nel corso del
secolo decimonono la poesia, il romanzo e il dramma, voci della
nostra società, hanno accumulato di osservazioni psicologiche e di
dubbi morali, e si consideri che in gran parte rimane senza
elaborazione critica, si può formarsi una qualche idea del molto
lavoro che ad essa tocca compiere.
E se d'altra parte si osservi, a non dir altro, la moltitudine di
ansiose domande, che ha suscitato da ogni parte la grande guerra
europea — sullo Stato, la storia, il diritto, l'ufficio dei diversi
popoli, la civiltà, la cultura, la barbarie, la scienza, l'arte, la
religiosità, il fine e l'ideale della vita, e via dicendo, — si
acquista chiarezza sul dovere che spetta ai filosofi di uscire dalla
cerchia teologico-metafisica; nella quale essi continuano a stare
rinchiusi anche quando non vogliono più udire a parlare di teologia
e di metafisica, giacché, nonostante quell'aborrimento, nonostante
il nuovo concetto accolto e professato, il loro intelletto e il loro
animo sono ancora orientati secondo le idee antiche.
Persino la storia stessa della filosofia è stata finora solo
in piccola parte rinnovata in conformità del nuovo concetto della
filosofia. Il quale nuovo concetto invita a rivolgere l'attenzione a
pensieri e a pensatori, che sono stati a lungo trascurati o tenuti
in grado secondario e considerati non propriamente filosofi, perché
non trattarono direttamente del «problema fondamentale» della
filosofia o del gran peut-être,
e si occuparono nei «problemi particolari»: in quei problemi
particolari, che pur dovevano produrre alfine un rivolgimento nel
cosiddetto «problema generale», che ne usci ridotto anch'esso a
«particolare».
È semplice effetto di pregiudizio stimare un Machiavelli, che pone
il concetto dello Stato moderno, o un Baltasar Gracian che investiga
quello della pratica avvedutezza, o un Pascal, che critica il
legalismo gesuitico, o un Vico, che rinnova tutte le scienze dello
spirito, o un Hamann, che ha così forte sentimento del valore della
tradizione, per filosofi minori, non dico di un qualsiasi poco
originale metafisico, ma sia anche di un Cartesio o di uno Spinoza,
che si proposero altri problemi, ma non superiori ai problemi di
quelli.
Alla filosofia del «problema fondamentale» corrispondeva, insomma,
una storia della filosofia, schematica e scheletrica: alla filosofia
come metodologia deve corrispondere una storia della filosofia assai
più ricca, varia e pieghevole, che consideri come filosofia non solo
ciò che si attiene al problema della immanenza e della trascendenza,
del mondo e dell'altro mondo, ma tutto ciò che e valso ad accrescere
il patrimonio dei concetti direttivi e l'intelligenza della storia
effettiva, e a formare la realtà di pensiero nella quale viviamo.
II
INTORNO ALLA STORIA DELLA STORIOGRAFIA
I
Questioni preliminari
Sulla storia della storiografia si hanno molti lavori così speciali
circa singoli autori, come più o meno generali intorno a gruppi di
essi (storie della storiografia presso un popolo o in un'epoca
determinata o addirittura storie «universali»): e non solamente
lavori di bibliografia e di erudizione, ma di critica, e taluni
eccellenti, segnatamente nella letteratura scientifica tedesca,
sempre la più vigile fra tutte a non lasciare inesplorata nessuna
parte è nessun cantuccio nel dominio del sapere. Prendere a
ritrattare, dunque, dalle fondamenta il tema, non può essere nel mio
disegno; ma io mi propongo di fare come una sorta di appendice o di
annotazione critica al complesso dei libri e saggi sull'argomento
che mi è occorso leggere, e che non dirò siano tutti, e nemmeno
tutti quelli di qualche importanza, ma certamente sono parecchi. E,
in questa annotazione, procurerò da una parte di stabilire in modo
esatto, in conformità dei principi innanzi chiariti, il metodo di
siffatta storia, intorno al quale vedo che persistono anche presso i
migliori talune confusioni e perplessità, che ingenerano poi errori
di giudizio o almeno di prospettiva; e, dall'altra, di delinearne
sommariamente i periodi principali, così per esemplificare il metodo
stabilito, come per illustrare storicamente i concetti esposti
nelle precedenti pagine teoriche, le quali altrimenti riterrebbero
qua e là un'apparente astrattezza.
E, per cominciare dalle delimitazioni metodiche, ricorderò, in primo
luogo, che in una storia della storiografia in quanto tale le
scritture storiche non possono venir considerate sotto l'aspetto che
è proprio di una storia della letteratura, cioè come espressioni di
sentimento individuale, come forme d'arte. Senza dubbio, esse sono
anche codesto e a buon diritto entrano nelle storie letterarie, come
vi entrano i trattati e i sistemi dei filosofi, le scritture di
Platone e di Aristotele e di Bruno e di Leibniz e di Hegel; ma
vengono le une e le altre riguardate, in questo caso, non come opere
di storia o di filosofia, sibbene di letteratura e poesia; e diversa
suol essere la scala empirica di valori che dei medesimi autori
costruiscono i due diversi modi di storie, perché, in una storia
della letteratura, il posto di un Platone sarà sempre più ampio di
quello di un Aristotele, e il posto di un Bruno di quello di un
Leibniz, per la più energica personalità passionale e la maggiore
ricchezza di problemi artistici che i primi presentano rispetto ai
secondi.
Che poi, in molti volumi di storie letterarie, tale diversità, di
trattazione non sia osservata, e vi si parli storiograficamente e
non letterariamente degli storici, e filosoficamente e non
letterariamente dei filosofi, ciò dipende dal sostituirsi in quei
volumi al lavoro propriamente critico e scientifico il lavoro di
compilazione incoerente; ma la distinzione dei due diversi aspetti e
importante anche per questo, che, accadendo talvolta di trasferire
sbadatamente la scala di valori dell'una storia all'altra, ne
nascono errati giudizi, e censure ed encomi parimenti
ingiustificati; come si vede dalla scarsa stima che toccò
nell'antichità, e per un pezzo dipoi, a Polibio, «che non scriveva
bene», di fronte allo splendido Livio o al commosso Tacito, e dalla
sopravalutazione che in Italia hanno goduto storici, che erano poco
più che corretti ed eleganti prosatori, di fronte ad altri
negligenti o rozzi nella forma, ma seri indagatori.
Nei suo libro giovanile, ma ancora, nonostante la pesantezza e la
verbosità dell'esposizione, assai pregevole, sulla storia della
storiografia antica, l'Ulrici1, dopo avere discorso del «valore
scientifico» di quella storiografia, discorre anche distesamente del
«valore artistico»; ma, lasciando ciò che di arbitrario, conforme
alle idee estetiche del suo tempo, può trovarsi in taluna delle
misure che egli applica alla storiografia come arte, è evidente che
la seconda trattazione non si fonde con la prima e solamente vi è
messa accanto: come non connesse e semplicemente aggregate sono
quelle sezioni dei libri di metodica storica, che, dopo aver seguito
a modo loro la formazione del pensiero storico, dalla raccolta dei
materiali o «euristica» fino su su alla «comprensione», prendono a
discorrere della forma dell' «esposizione», e, nel ciò fare,
continuano senza sapere il metodo dei trattati rettorici di arte
storica, composti nel Rinascimento, che hanno la loro più nota
espressione nell'opera del Vossio (1623).
Certamente, né è dato astenersi dall'accennare talvolta alla forma
letteraria dei libri degli storici, né dallo sfrondare, nei riguardi
storiografici, gli allori di opere letterariamente insigni, notando
i non buoni indirizzi storiografici che esse favorirono; ma toccare
per accenni, o discutere e caratterizzare per eliminare, è una
necessità derivata e non già l'ufficio proprio della storia della
storiografia, il cui oggetto è lo svolgimento del pensiero
storiografico.
Meno agevole, ma non meno indubitabile, è la distinzione tra questa
storia e quella della filologia o erudizione; sempre, beninteso, nel
senso che si e spiegato di una distinzione e non già di una
separazione. E quest'avvertenza conviene sottintendere per le altre
esclusioni che andremo facendo, senza che convenga più ormai
ripeterla a ogni passo: che, infatti, la connessione tra storia e
filologia è innegabile, non meno di quella tra storia ed arte, o
storia e vita pratica. Ma ciò non toglie che la filologia,
considerata per sé stessa, sia raccolta, riordinamento, ripulitura
di materiali, e non già storia. Per questa sua qualità, essa rientra
piuttosto nella storia della cultura che non in quella del pensiero;
né infatti si potrebbe disgiungerla dalla storia delle biblioteche,
degli archivi, dei musei, delle università, dei seminari, delle écoles de chartes, delle
imprese accademiche ed editoriali, e di altre istituzioni e
procedimenti di spiccante carattere pratico.
A ragione, dunque, il Fueter, nella sua recente storia della
storiografia moderna', ha escluso dal suo tema «la storia della
ricerca e della critica meramente filologica»: il che non gli ha
impedito di tener conto, dove cadeva in proposito, della scuola del
Biondo, o di quella dei Maurini, o del perfezionamento apportato
nella metodica delle fonti dalla scuola tedesca del secolo
decimonono. E dal non aver fatto questa distinzione proviene forse
l'ingombro e il mancato sviluppo che si osservano nella vecchia e
solida opera del Wachler2 (alla quale altresì si può ancora
ricorrere con vantaggio), che, intitolata e concepita come «storia
della ricerca e dell'arte storica dalla rinascenza delle lettere in
Europa in poi», fini col prendere, nella sua maggior parte, aspetto
di repertorio e di catalogo bibliografico.
Più intricati ostacoli incontra la distinzione tra la storia della
storiografia e quella delle tendenze
pratiche o dello spirito sociale e politico, che s'incorporano
o almeno lasciano impronte nei libri degli storici; ma, appunto
perché la linea di confine si scorge con difficoltà, è
indispensabile segnarla con nettezza. Quelle tendenze, quello
spirito sociale e politico appartengono alla materia e non alla
forma teorica della storia; sono non già storiografia, ma storia in
atto e nel suo fieri. Il Machiavelli è storico in quanto si sforza
d'intendere il corso degli avvenimenti; è uomo politico, o per lo
meno pubblicista, quando pone e vagheggia il suo ideale di un
principe fondatore di un forte Stato nazionale, e lo fa riflettere
nella storia che narra, la quale, in quanto riflette quell'immagine
e la congiunta ispirazione ed insegnamento, si cangia qua e là in
favola (fabula docet): il
Machiavelli appartiene, dunque, per un verso alla storia del
pensiero del Rinascimento e, per un altro, alla storia della pratica
del Rinascimento.
Né ciò accade solamente nella storiografia politica e sociale, ma
altresì in quella letteraria ed artistica, perche non c'è forse
critico al mondo, spregiudicato e largo che sia nel gusto e nelle
idee, il quale non manifesti, insieme con le sue obiettive
ricostruzioni e giudizi, tendenze di rinnovatore letterario
dell'epoca sua: e ciò facendo, sia anche nello stesso libro o nella
stessa pagina o periodo, egli non è più critico, ma pratico
riformatore dell'arte.
In una sola regione della storia è impossibile questo pacifico
accompagnarsi d'interpetrazioni e di aspirazioni: nella storia della
filosofia, perché, quando qui c'è diversità tra l'interpetrazione
storica e la tendenza del filosofo, la diversità accusa
l'insufficienza dell'interpetrazionc stessa; e se, per dirla con
altre parole, la teoria dello storico della filosofia è in guerra
con le teorie delle quali egli prende ad esporre la storia, la
teoria dev'esser fallace appunto perché non vale a giustificare la
storia delle teorie. Ma quest'eccezione non iscrolla la
distinzione negli altri campi, anzi la rafferma, e non
è, come sembra, eccezione, nel senso empirico : il pensiero
distingue e si distingue dal sentimento e dal volere, ma non
si distingue da sé stesso, perché appunto esso e il principio di
distinzione.
Corollario metodologico di questa distinzione tra storia della
storiografia e storia delle tendenze pratiche è che sia da tenere
erronea l'introduzione, nella prima, delle considerazioni pertinenti
alla seconda; nel che mi sembra che abbia peccato alquanto il Fueter
nel libro al quale ho già fatto riferenza, allorché e venuto
ripartendo la sua materia in istoriografia umanistica, politica, di
partiti, imperiale, particolaristica, protestante, cattolica,
gesuitica, dell'illuminismo, del romanticismo, erudita,
lirico-soggettiva, nazionale, statolatra, e simili: che sono
partizioni delle quali solo alcune appartengono o si riducono a
concetti propriamente storiografici, laddove le più rimandano alla
vita sociale e politica. Donde la mancanza che si avverte di saldo
organismo, in quel libro pur così ingegnoso e vivace, le cui
partizioni si seguono senza sufficiente logicità, continuità e
necessità, e non nascono da un unico concetto che le ponga e
attraverso di esse si svolga. Che se poi si eliminassero le
partizioni genuinamente storiografiche, che vi sono mescolate, le
restanti riuscirebbero certamente ad organarsi, ma come storia
sociale e politica e non più della storiografia, perché i libri
degli storici vi sarebbero interrogati solamente come documenti
delle tendenze dei tempi in cui furono scritti; e il Machiavelli
(per ripigliare l'esempio) vi figurerebbe come patriota italiano e
propugnatore del principato assoluto, e il Vico (storico tanto
maggiore del Machiavelli) non vi potrebbe figurare punto o quasi,
perché remoto e generico e il suo rapporto con la vita politica del
tempo suo.
Ciò che sono venuto esponendo, si può
compendiare col dire, che la storia della storiografia non è
né storia letteraria né storia di opere culturali, sociali,
politiche, morali, e, insomma, di natura pratica. Ossia, che è bensì
anche tutte queste cose in forza dell'unità inscindibile della
storia, ma che in essa l'accento non cade sui fatti pratici, sibbene
sul pensiero storiografico, che è il suo proprio snbietto.
Segnate o ribadite queste distinzioni, che, come si è visto, vengono
talvolta, con conseguenze non buone, trascurate, bisogna ora mettere
in guardia contro altre distinzioni, che sono in uso ma mancano di
fondamento razionale e, invece di conferire luce e sicurezza alla
storia della storiografia, la annebbiano e turbano.
Il Fueter (e mi attacco a lui, quantunque questo errore non sia suo
particolare) dichiara di avere, nel suo libro, toccato delle teorie
storiografiche e della metodica storica solo per quella parte in cui
sembrano avere avuto efficacia sulla storiografia effettiva. La
storia della Istorica (ecco la ragione che egli adduce del suo
procedere) è tanto poco storia della storiografia, quanto una storia
delle teorie drammatiche è storia del dramma: il che sarebbe
comprovato dal fatto che, non poche volte, teoria e pratica tennero
vie diverse, per l'appunto come in Lope de Vega. per esempio, la
professione teorica e l'opera drammatica effettiva, sicché il
drammaturgo spagnuolo, secondo un suo detto famoso, sebbene
riverisse l'arte poetica, nell'accingersi al comporre «chiudeva le
buone regole sotto sette chiavi». — Ragione speciosa, senza dubbio,
e da cui anch'io un tempo mi sono lasciato sedurre; ma ragione
fallace, come poi mi apparve ripensandoci sopra, e come ora affermo
col convincimento e l'autorità di chi critica un errore, che fu per
qualche tempo anche il suo. Perché quella ragione si fonda sopra una
fallace analogia tra il produrre dell'arte e quello della storia.
L'arte, che è opera di fantasia,
ben si distingue dalla teoria
dell'arte, che è opera di riflessione: il genio artistico produce la
prima, l'intelletto speculativo la seconda, e accade assai spesso
che l'intelletto speculativo sia, presso gli artisti, impari al loro
genio, onde fanno una cosa e ne dicono un'altra, o dicono una cosa e
ne fanno una diversa, senza che si possa in questo caso tacciarli
d'incoerenza logica, perché l'incoerenza è tra due pensieri
discordi, non mai tra un pensiero e una fantasia. Ma la storia e la
teoria della storia sono entrambe opere di pensiero, così legate tra
loro come è legato in sé il pensiero, che è uno; e non v'ha storico
che non possegga in modo più o meno riflesso una sua teoria della
storia, perché, per non dir altro, ogni storico polemizza
esplicitamente o implicitamente contro altri storici (contro le
altre «versioni» e «giudizi» di un fatto); e come mai potrebbe
polemizzare, e come criticarli, se non si riferisse a un concetto di
quel che sia e debba essere la storia, a una teoria della storia?
L'artista, lui, in quanto artista, non polemizza e non critica, ma
forma. E può ben darsi che si esponga una errata teoria
storiogratica, laddove poi si costruisce bene la storia che si
narra; e in ciò si e davvero incoerenti, ma incoerenti né più né
meno di come accade quando si attua un progresso in un ramo della
storiografia, mentre in un altro si rimane indietro. O, all'inverso,
che si abbia un'ottima teoria della storia, e una cattiva storia; ma
al modo stesso che in un campo della storiografìa si mostra il
presentimento e il conato di un migliore avviamento, mentre in tutti
gli altri si sta fermi ai metodi vecchi. La storia della
storiografia è storia del pensiero storico; e in questo torna
impossibile distinguere teoria della storia e storia.
Un'altra esclusione, che il Fueter annunzia di aver fatto, è quella
della filosofia della storia, e di ciò non dice la ragione sebbene
la lasci intendere, perché evidentemente egli tiene che le filosofie
della storia non abbiano schietto carattere scientifico e manchino
di verità. Ma concezioni errate di storia sono non solo le
cosiddette «filosofie della storia», sì anche le concezioni
naturalistiche o deterministiche, che a quelle si contrappongono, e
tutte le varie forme di pseudostoria, che sono state di sopra
descritte, la storia filologica, la storia poetica, la storia
oratoria; e non vedo che egli le abbia escluse dal suo racconto,
come nel fatto non ha escluso, anzi ha richiamato di continuo, la
concezione teologica e trascendente (filosofia della storia).
Giustizia e logica vorrebbero che si escludessero o tutte o nessuna,
e tutte poi nel fatto e non solo nelle parole. Ma escluderle tutte
sarebbe pensiero poco accorto, perché come mai, in siffatto vuoto,
si narrerebbe la storia della storia? Che cosa è questa storia se
non la lotta della storiografia scientifica contro le forme
scientificamente inadeguate: protagonista certamente la prima, e le
altre semplicemente antagoniste; ma quale dramma sarebbe
configurabilo con un protagonista senza antagonisti? E sia pure che
si possa non considerare direttamente la storia filologica,
rimandandola alla filologia; quella poetica, rimandandola alla
letteratura; quella oratoria o praticistica, rimandandola alla
storia sociale e politica: bisognerebbe, nondimeno, tener sempre
conto della conversione che accade sovente di quelle varie
costruzioni mentali in asserzioni di realtà, tolte in iscambio e
fatte valere come vere e proprie storie; e, come tali. esse
diventano a volta a volta concezioni deterministiche o concezioni
trascendenti della storia; e queste due, rappresentanti logiche o
illogiche delle altre tutte, queste due che poi dialetticamente
finiscono con l'adeguarsi, si offrono sempre alla vista dello
storico, perché, nel loro moto, sono la perpetua condizione e il
perpetuo segno di progresso del
pensiero storico, che
passa dalla trascendenza o dalla falsa
immanenza all'immanenza schietta, per ritornare a quelle ed entrare
in una concezione più profonda d'immanenza.
Escludere le filosofìe della storia da una storia della storiografia
mi sembra, dunque, non giustificabile, per la ragione medesima onde
è ingiustificabile escluderne le teorie storiografiche, che sono la
coscienza che la storia acquista di sé medesima: dico, per
l'omogeneità, anzi per l'identità di esse con la storia, di cui non
formano ingredienti accidentali o elementi materiali, ma
costituiscono l'essere proprio. Del che si potrebbe addurre come
riprova la Historical Philosophy in France del Flint, movente forse da un
pregiudizio opposto a quello del Fueter, cioè di trattare la
filosofia della storia e non la storia, e nella quale riesce al suo
autore impossibile mantenere le dighe interposte tra le due; sicché
la sua trattazione, travolti gli ostacoli artificiali, scorre come
un sol fiume e spiega al nostro sguardo tutta la storia del pensiero
storico francese, cui appartengono del pari Bossuet e Rollin,
Condorcet e Voltaire, Augusto Comte e Michelet o Tocqueville.
A questo punto si obietterà probabilmente (e, sebbene il Fueter non
proponga questa obiezione, è probabile che sia anche nel fondo del
suo pensiero) che ciò che si desidera in una storia della
storiografìa non è già una storia del pensiero storico, sibbene una
storia della storia in concreto: delle Istorie fiorentine del Machiavelli, del Siècle de Louis XIV del
Voltaire, o della Römische
Geschicht del Niebuhr: quella sarebbe una storia generica,
e ciò che si desidera e invece una storia specifica. Ma conviene
stare bene attenti al significato di tale richiesta e alla
possibilità di quel che si richiede. Se io mi metto a fare la storia
delle Istorie fiorentine
del Machiavelli, nella particolare materia da esse trattata, rifarò
la storia di Firenze, criticando e compiendo il
Machiavelli, e sarò, per esempio, il Villari o il Davidsohn o il
Salvemini. Se mi metto a fare la storia della materia dell'opera del
Voltaire, criticherò il Voltaire e delineerò un nuovo Secolo di
Luigi XIV, come, per esempio, ha fatto il Philippson. E così, se mi
metterò a esaminare e ripensare l'opera del Niebuhr nella sua
particolare materia, sarò un nuovo storico di Roma, un Mommsen o
(per venire ai recentissimi) un Ettore Pais o un Gaetano de Sanctis.
Ma è questo che si chiede? Certamente no.
E, se non si chiede questo, se si vuol prescindere dalle particolari
materie di quelle storie, che cos'altro rimane se non il «modo» in
cui sono state concepite, la «forma mentale» onde il Machiavelli, il
Voltaire e il Niebuhr costruirono le loro narrazioni, e perciò la
loro «teoria» e il loro «pensiero» storico?
Ora, se si tiene per assodata questa verità (né vedo come si
potrebbe contestarla), non è dato rifiutare un'ulteriore
conseguenza, che, sebbene soglia suscitare in alcuni impressione di
paradosso, tale non sembrerà a noi che la ritroviamo del tutto
d'accordo col concetto che abbiamo difeso della storia come identica
con la filosofia. È concepibile un pensiero che non sia il pensiero?
è lecito distinguere tra pensiero di storico e pensiero di filosofo?
Ci sono forse due diversi Pensieri al mondo? Persistere
nell'asserire che il pensiero dello storico pensi il fatto e non la
teoria, è impedito, se non altro, dall'ammissione precedente: che lo
storico pensa sempre, insieme col fatto storico, per lo meno la
teoria della storia. Ma questa ammissione trae con sé che egli
pensi, insieme con la teoria della storia, la teoria di tutte le
cose che narra; e, veramente, narrarle non potrebbe senza
intenderle, ossia senza teorizzarle.
Il Fueter celebra il merito del Winckelmann, che pel primo ideò una
storia non degli artisti, ma dell'arte, di una pura attività
spirituale, o quello del Giannone, che pel primo tentò una storia
della vita giuridica. Ma costoro compierono siffatti progressi
appunto perché ebbero un nuovo e più preciso concetto dell'arte e
del diritto; e, se poi errarono in taluni punti, delle loro
costruzioni storiche, ciò accadde perché non pensarono sempre con la
medesima esattezza quei concetti, e, per esempio, il Winckelmann
materializzò l'attività spirituale dell'artista, ponendo un ideale
astratto e fisso della bellezza e perseguendo una storia astratta
degli stili artistici fuori dei temperamenti, delle circostanze
storiche e delle individualità degli artisti medesimi; e il Giannone
non vinse il dualismo di Stato e Chiesa.
Senza indugiare in altri esempì troppo particolari, riesce a primo
sguardo evidente che la storiografìa antica concorda con la
concezione antica della religione, dello Stato, dell'etica, della
realtà tutta; e quella medievale con la teologia e l'etica
cristiana; e quella della prima metà del secolo decimonono con la
filosofia idealistica e romantica, e quella della seconda metà con
la filosofia naturalistica e positivistica. Sicché ex parte historicorum non c'è modo di distinguere pensiero storico e
pensiero filosofico, che nelle loro narrazioni si fondono
perfettamente. Ma non c'è modo di mantenere tale distinzione neppure
ex parte philosophorum, perché, come tutti sanno o almeno dicono,
ogni tempo ha la filosofia che gli è propria e che è la coscienza di
quel tempo, e, in quanto tale, è la sua storia, almeno in germe; o,
come abbiamo detto noi, filosofia e storia coincidono. E, se esse
coincidono, coincidono altresì la storia della filosofia e la storia
della storiografia: questa non solo non distinguibile da quella, ma
nemmeno a lei semplicemente subordinabile, perché tutt'una con lei.
La storiografia della filosofia ha già cominciato ad aprire le sue
braccia, invitando e accogliendo le opere degli storici; e viene
sempre meglio intendendo che una storia del pensiero
greco non è compiuta senza che si tenga conto di
Erodoto, di Tucidide e di Polibio, né del pensiero romano senza
Livio e Tacito, né di quello della Rinascenza senza Machiavelli e
Guicciardini. E dovrà allargarle anche di più e abbracciare nel suo
seno perfino gli umili storiografi medievali, che notavano Gesta episcoporum o Historiolae
translationum o Vitae
sanctorum, e che attestano il pensiero cristiano certamente
secondo le loro forze e a modo loro, ma non meno di come lo attesta,
a suo modo, il grande Agostino; e dovrà accogliere, nonché quei
candidi agiografi, perfino gli ottusi storici filologi o sociologi,
che ci hanno allietato negli ultimi decenni e che attestano il credo
positivistico non diversamente che Spencer o Hieckel nei loro
sistemi.
Mercé questi ampliamenti di concetti e arricchimenti di materie, la
storiografia della filosofia si porrà in grado di mostrare la
filosofia come forza diffusa nella vita tutta e non come particolare
invenzione e culto di alcuni uomini filosofi, e si procurerà gli
intermedi che ora le mancano per attuare l'intimo suo congiungimento
col moto storico complessivo. A sua volta, la storia della
storiografia si avvantaggerà della fusione, perché nella filosofia
troverà i propri principi direttivi, e per essa le sarà dato
intendere così i problemi della storia in genere come quelli dei
suoi vari aspetti in quanto storia dell'arte e della filosofia e
della vita economica e morale. Cercare altrove il criterio di
spiegazione è vana ricerca.
Il Fueter, nel dare, presso al termine del suo libro, uno sguardo
alla storiografia recentissima, posteriore al 1870, discerne in essa
la nuova coscienza che pone in alto la forza politica e militare,
segnando la fine del vecchio liberalismo, il rafforzamento di tale
coscienza mercé le teorie darviniane sulla lotta per l'esistenza,
l'efficacia della più intensa vita economica e industriale e della
politica mondiale, la ripercussione delle scoperte
egittologiche e orientalistiche che hanno aiutato a
sfatare l'illusione europeo-centrica, l'attrattiva che esercita la
teoria delle razze, e via discorrendo. Osservazioni giuste, ma che
girano sul corpo e non giungono al cuore e al cervello della più
recente storiografia; e il cuore o il cervello è, come ho già.
ricordato, il naturalismo, il coltivato ideale della storia
affiatata e da affiatare con le scienze naturali: tanto vero che il
Fueter stesso brucia qualche granello d'incenso a quest'idolo e
sospira verso una forma di storia, bella della bellezza di una ben
congegnata macchina, gareggiante con un libro di fisica, qualela Teoria dei toni dello
Helmholtz.
Veramente, l'ideale delle scienze naturali, anziché essere la
perfezione, è una delle tante crisi che ha attraversato e
attraverserà il pensiero storico, il quale è dialettica dello
svolgimento e non già deterministica spiegazione per cause, che non
ispiega nulla perché non svolge nulla, ma, comunque si pensi di ciò,
certo è che il naturalismo ossia la critica del naturalismo può solo
fornire il bandolo per dipanare la storia della storiografìa degli
ultimi decenni; giacché gli stessi avvenimenti e moti storici,
enumerati di sopra, hanno operato nella guisa particolare in cui
hanno operato per essersi inquadrati costantemente nel pensiero
naturalistico. Del resto, niente vieta, e può anche giovare, che
storia della Slosofia e storia della storiografia si trattino
letterariamente in libri diversi, per ragioni affatto pratiche,
quali sarebbero l'abbondanza dei materiali e le diverse competenze e
preparazioni che richiede l'una e l'altra classe di materiali, ma
quel che la pratica disgiunge apparentemente, il pensiero unifica
realmente; e questa reale unificazione io ho inteso inculcare, senza
che punto mi sia passata per la niente la pedantesca idea di dettare
regole per la composizione dei libri, circa la quale conviene
lasciare agli scrittori ogni libertà d'inclusioni ed esclusioni in
conformità dei vari disegni che si propongono.
1 Charakteristik des antiken Historiographie (Berlin, 1633).
2 Geschicthe der neueren
Historiographie (München u. Berlin, Oldenbourg, 1911).
3 Geschichte der
historischen Forschung nnd Kunst seit der Wiederherslellung der
litterarischen Cultur in Europa (Gottingen, 1812-20).
II
La storiografia greco-romana
Dopo quanto si è avvertito intorno alla natura del periodizzamento1,
la consuetudine comune, alla quale anch'io qui mi attengo, di
cominciare la storia della storiografia dai greci, e dai greci del
quinto o sesto secolo avanti Cristo, sarà considerata per quel che è
e vale, e non si penserà che s'intenda a questo modo annunziare
l'inizio della storiografia, l'apparizione di essa nel mondo, quando
invece si vuole semplicemente dire che si fa più vivo, in quel
punto, il nostro interesse nell'investigarne il corso. La storia,
come la filosofia, non ha inizio storico, ma solamente ideale o
metafisico, in quanto attività del pensiero che è fuori del tempo;
e, storicamente parlando, è ben ehiaro che prima di Erodoto, prima
dei logografi, anzi prima di Esiodo e di Omero, la storia già c'era,
perché non è dato concepire uomini che non pensino e non narrino in
qualche modo le cose loro. Schiarimento che potrebbe stimarsi
superfluo, se poi lo scambio tra inizio storico e inizio ideale non
avesse condotto a fantasticare di un «primo passo filosofico»,
compiuto da Talete o da Zenone o da chi altri piaccia, di un «primo
concetto filosofico , col pensare il quale si sarebbe posta la prima
pietra, come col pensarne un altro e ultimo si sarebbe
elevato, o si eleverebbe quando che sia, il fastigio dell'cdifizio
della filosofia. Ma Talete ed Erodoto, a dir vero, sarebbero da
chiamare, piuttosto che «padri» della filosofia e della storia,
«figli» del nostro interessamento per lo svolgimento attuale di
queste discipline; e siamo noi che quei nostri figliuoli salutiamo
«padri». Di ciò che è accaduto prima di quelli o presso popoli più
lontani dal nostro spirito, ci disinteressiamo di solito, non solo
perché ne avanzano scarsi e frammentari documenti, ma soprattutto
perché sono forme di pensiero che si legano poco strettamente coi
nostri problemi attuali.
Dal suo canto poi, l'altra distinzione da noi posta tra storia e
filologia sconsiglia dal cercare, come si e usato finora, i
precedenti della storiografia greco-romana nella pratica di comporre
liste di magistrati e di aggiungervi brevi ragguagli di guerre,
trattati, invìi di colonie, festività religiose, terremoti,
inondazioni e simili, negli oroi e negli annales pontifìcum, e negli archivi e nei
musei costituiti nei templi, o magari nei cronologici chiodi,
conficcati nelle pareti, dei quali dissertò il Perizonio. Queste
cose sono, rispetto alla storiografia, estrinseche, e formano il
precedente non di essa, ma della cronaca e della filologia: la quale
non è nata per la prima volta nel secolo decimonono o decimosettimo
o, per degnazione, nel periodo alessandrino, ma è di tutti i tempi,
perché in ogni tempo gli uomini segnano i loro ricordi e procurano
di mantenere intatti, restaurare ed accrescere quei segni.
Il precedente storico della storia non può essere una cosa diversa
dalla storia, ma è la storia stessa, come della filosofia la
filosofia e del vivo il vivo; epperò il pensiero di Erodoto e dei
logografi si congiunge veramente alle religioni, ai miti, alle
teogonie e cosmogonie e genealogie e ai racconti leggendari ed
epici, che non furono giù poesie, o non furono solo
poesie, ma -altresì pensieri, vale a dire metafisiche e storie. Da
essi tutti si svolse, per dialettico processo, la storiografia
ulteriore, alla quale essi fornirono i presupposti, cioè concetti,
proposizioni di latto e commiste immaginazioni, e con ciò lo stimolo
a meglio ricercare la verità e a dissipare le immaginazioni. Questo
dissipamento si fece più rapido nel tempo in cui si suol porre, per
convenzione, l'inizio della storiografia greca. In quel tempo, il
pensiero esce dalla storia mitologica e dalla forma più rozza di
questa, che è la storia prodigiosa o miracolosa, ed entra nella
storia terrena o umana: cioè nella generale concezione che è ancora
la nostra: in modo che è stato possibile persino che un illustre
storico vivente proponesse come esemplare e modello agli storici dei
tempi nostri l'opera di Tucidide.
Certamente, quell'uscita e quell'entrata non fu pei greci una netta
rottura col passato; e come nel passato non potè mancare del tutto
la storia terrena, così non e da credere che i greci, dal sesto o
quinto secolo in poi, deponessero ogni fede nella mitologia e nei
prodigi. Queste cose persistettero non solo nelle credenze del volgo
e presso minori o volgari storiografi, ma lasciarono tracce anche in
alcuni dei più grandi. Pure, guardando al complesso e, come si deve,
alle cime, si avverte che l'ambiente è affatto mutato da quel che
era. Persino le tante favole che si leggono in Erodoto e si
leggevano nei logografi, di rado (come e stato giustamente notato)
sono offerte ingenuamente, ma vengono di solito riferite come da
persona che raccoglie quel che altri crede, e non però accetta
quelle credenze, se anche non le oppugna apertamente; o le raccoglie
perché non sa che cosa sostituirvi, e quasi come materiale proposto
alla rillessione e all'indagine: «quae
nec confirmare argumentis neque refallere in animo est», ripeteva poi Tacito riferendo le
favole dei Germani: «plura
transcribo quam credo», dichiarava Quinto Curzio.
Erodoto non è di certo Voltaire, anzi non è nemmeno Tucidide
(Tucidide, l'«ateo»); ma certamente non è più Omero o Esiodo. Come
si originarono e si svolsero le guerre tra greci e persi; come la
guerra peloponnesiaca; come la spedizione di Ciro contro Artasersc;
come si formò la potenza romana nel Lazio e si estese poi all'Italia
tutta e al mondo; come quella riusci a strappare l'egemonia del
Mediterraneo ai cartaginesi; con quali istituti politici e Atene e
Sparta e Roma si vennero organando, e quali contrasti sociali ebbero
a durare; che cosa vollero il demo ateniese e la plebs romana, gli
eupatridi e i patres; quali le virtù, le disposizioni, le attitudini
dei vari popoli che entrarono tra loro in conflitto, ateniesi e
lacedemoni e persi e macedoni e romani e galli e germani; quali i
caratteri degli uomini grandi che guidarono le sorti dei popoli, di
Temistocle e di Pericle, di Alessandro, di Annibale e di Scipione; —
questi sono, in via di esempio e presi per sommi capi, taluni dei
problemi che si proposero gli storici antichi e che erano loro
dettati dalle condizioni e vicende della vita greca e romana, e
venivano trattati con una forma di mente che non più scorgeva in
quei fatti gli episodi della rivalità di Afrodite e di Piera (come
già nella guerra d'Ilio), ma varie e complesse lotte umane, mosse da
umani interessi, esplicantisi in umane azioni.
E questi problemi sciolsero in una serie di opere classiche (le
storie di Erodoto, di Tucidide, di Senofonte, di Polibio, di Livio,
di Tacito, ecc.), alle quali non si vorrà certamente far carico che
non esauriscano i loro temi, ossia che non descrivano fondo
all'universo, perché all'universo non si dà fondo mai; e che quei
problemi risolvano solo nei termini in cui se li erano proposti, né
più né meno di come noi ci proponiamo e risolviamo i problemi nostri
nei termini nostri.
Né è da trascurare che, come la
storiografia moderna è ancora in gran parte quale la formarono
i greci, così la maggior parte di quegli avvenimenti sono da noi
pensati come li pensarono gli antichi, e sebbene qualcosa vi sia
stato aggiunto e diversa luce rischiari il tutto, il lavoro degli
storici antichi si serba nel nostro: vero «acquisto in perpetuo», come Tucidide intendeva che
fosse l'opera sua.
E poiché il pensiero storico, passando dall'età mitologica alla
umana, si era invigorito, parallelamente s'invigorirono e crebbero
l'indagine e la filologia; e già Erodoto viaggiava, ascoltava,
interrogava e distingueva tra le cose vedute coi propri occhi e le
udite dire e le opinioni o congetture; e Tucidide sottometteva a
critica le diverse tradizioni di un fatto, e nel suo racconto
inseriva perfino documenti. Più tardi, si formarono addirittura
legioni di dotti e di critici, che compilarono «Antichità» e
«Biblioteche», e curarono la lezione dei testi e la cronologia o la
geografia, e apportarono molteplici sussidi agli studi storici. E si
venne a tal fervore di lavorio filologico che si riconobbe
necessario far chiara differenza tra «storie di antiquari» (delle
quali non poche ancora ci avanzano intere o in frammenti) e «storie
di storici»; e Polibio disse più volte, che comporre la storia sui
libri è cosa agevole, perché basta fermar dimora in una città dove
siano ben provviste biblioteche, ma che la vera storia richiede
pratica degli affari politici e militari, e diretta conoscenza dei
luoghi e dei popoli; e Luciano ripeteva che allo storico è
indispensabile il fiuto politico, adidakton
phuseos doron, dono di natura che non si apprende (massime
e pratiche non nuove, dunque, quelle che sono state poi lodate come
nuovissime nei Möser e nel Niebuhr).
Gli è che a una storiografia più vigorosa corrispondeva una più
profonda coscienza teorica: tanto la teoria della storia è
inseparabile dalla storia e procede con questa. E si sapeva anche
che la storia non si deve abbassarla a semplice strumento pralieo,
di partito politico o di divertimento, e che suo ufficio è anzitutto
mirare alla verità: «ne quid falsi
dicere audetit, ne quid veri non audeat»; e si condannava
in conseguenza il parteggiare perfino per la propria patria (benché
si riconoscesse che per lei fosse lecito mostrare simpatia e
sollecitudine); e si biasimava «quidquid
Graecia mendax audet in historia». Si sapeva che la
storia non è la cronaca (annales), la quale si aggira in cose
estrinseche, ricordando (secondo la definizione del vecchio storico
romano Asellione) «quod factum,
quoque anno gestum sit», laddove l'altra
procura d'intendere «quo consilio,
quaque ratione gesta sint». E si sapeva
altresì che la storia non può prefiggersi il fine della poesia: e
Tucidide accennava con disdegno alle storie che si scrivono per
riportare la palma nelle gare di recitazione, o a quelle che si
distendono in tavole per gradire al volgo; e Polibio era fiorissimo
contro coloro che badano a dare rilievo a particolari commoventi, e
dipingono donne scapigliate e in lacrime e scene atroci, quasi
componessero tragedie e loro spettasse conseguire la maraviglia e il
diletto, e non la verità e l'istruzione.
Che se la storiografia rettorica (peggioramento di quella fantasiosa
e poetica) abbondò nell'antichità e introdusse il suo oro falso
anche in alcuni capilavori, la tendenza generale dei migliori si
volgeva a liberarsi dagli ornati retorici e dall'eloquenza a buon
mercato. Ma non per questo gli storici antichi smarrirono mai
(nemmeno il «prosaico» Polibio, che talvolta dipinge quadri
efficacissimi) la forza e l'elevazione poetica, propria dell'alta
narrazione storica; e Cicerone e Quintiliano e Dionigi e Luciano,
tutti riconoscono che la storia deve adoperare «verba ferme poetarum», che essa è «proxima poetis et qnodammodo carmen
solutum», che «scribitur
ad narrandum, non ad demostrandum», che "ekei ti poietikon», e simili.
Quel che i migliori storici e teorici allora chiedevano, non era già
l'aridità e la secchezza della trattazione matematica o fisica
(conforme al desiderio che si è udito manifestare sovente ai giorni
nostri), ma la gravità, la severità, l'astensione dai racconti
piacevoli e favolosi, o se non favolosi frivoli, il formare
contrasto insomma ai retori e ai facitori, che non mancavano, di
storie che erano romanzi, anzi romanzacci. E soprattutto volevano
che la storia si tenesse bene stretta alla vita reale, strumento
della vita, conoscenza utile all'uomo di Stato e all'amatore della
patria, e non già docile alle capricciose richieste degli
sfaccendati in cerca di svaghi.
Questa teoria storiografica, che si può leggere sparsa in parecchi
trattati speciali o in quelli generali sull'arte del dire, in nessun
luogo si trova così pienamente e consapevolmente dichiarata come
nelle frequenti intramesse polemiche delle Storie di Polibio, dove
la polemica stessa le conferisce precisione, concretezza e sapore.
Polibio è l'Aristotele dell'antica storiografia: un Aristotele
storico e teorico insieme, che compie quello di Stagira, il quale
nell'enciclopedico giro dell'opera sua aveva preso scarso interesse
alla storia propriamente detta. E come delle narrazioni degli
antichi tanta parte vive nelle nostre, così non c'è alcuna delle
proposizioni che ho ricordate, la quale non sia stata inclusa, o non
sia degna di essere inclusa, nei nostri trattati; e se la massima,
per esempio, che la storia dev'essere narrata da uomini esperti
della vita e non da semplici filologi ed eruditi, e nascere dalla
pratica e giovare alla pratica, è sovente negletta, il torto sta
dalla parte di chi la neglige; e torto di costoro è altresì l'avere
messo in completa dimenticanza il ti poietikon, e malamente
amoreggiato con un ideale di storia configurata a guisa di atlante
anatomico o di trattato di meccanica.
Il difetto che la storiografia antica mostra ai nostri occhi è
d'altra sorte; e gli antichi non l'avvertivano
come ditetto, o solo talvolta e in modo vago e fuggevole e senza
darvi peso, che altrimenti, nell'atto stesso, vi avrebbero posto
qualche riparo. Lo spirito moderno indaga come si siano via via formati
i sentimenti e i concetti che sono ora il nostro patrimonio ideale,
e le istituzioni nelle quali essi si attuano, e vuol rendersi conto
delle rivoluzioni e dei trapassi onde si pervenne dalle culture
primitive e dalle orientali alla greca e romana, dall'etica antica
alla moderna, dallo Stato antico allo Stato moderno, dalla forma
antica della produzione economica alla grande industria e al
commercio mondiale, dai miti degli ari alle nostre filosofie,
dall'arte micenea alla francese o svedese o italiana del secolo
ventesimo: donde storie speciali della cultura, della filosofia,
della poesia, delle scienze, della tecnica, dell'economia, della
morale, delle religioni e via discorrendo, che primeggiano sulle
storie degli individui o degli Stati stessi in quanto astratte
individualità, e sono da cima a fondo rischiarate e avvivate dalle
idee di civiltà, di libertà, di umanità, di progresso. Tutto ciò non
si trova nella storiografia antica, sebbene non possa dirsi che vi
manchi totalmente e radicalmente: perché, di che cos'altro può
essersi mai intrattenuta la mente dell'uomo se non degli ideali o
dei «valori» umani?
Né, d'altra parte, si vorrà cadere nell'errore di considerare le
«epoche» come qualcosa di compatto e di statico, laddove sono varie
e in moto, e rendere naturali ed estrinseche quelle divisioni che,
come si è mostrato, sono nient'altro che il respiro del nostro
pensiero nel pensare la storia: fallacia che si congiunge con
l'altra dell'inizio storico assoluto e del temporizzare le forme
dello spirito. Chi adoperi, come è stata adoperata, pazienza di
raccoglitore, incontra qua e là accenni e spunti di quei concetti
storiografici di cui, parlando in genere, abbiamo negato l'esistenza
nelle scritture degli antichi: e chi si compiace nell'ammodernare
l'antico può travestire, come sono stati travestiti, i pensieri
degli antichi in modo da renderli quasi del tutto simili a quelli
dei moderni. E nel primo della Metafisica
aristotelica è dato ammirare uno schizzo dello svolgimento della
filosofia greca, dalle varie interpretazioni naturalistiche a volta
a volta proposte per ispiegarc il cosmo, via via fino al nuovo
orientamento onde la mente, «costretta dalla stessa verità», si
volse a un diverso ordine di principi, cioè fino ad Anassagora, «che
parve uomo digiuno tra gli ebbri», e poi, così continuando, a
Socrate, che fondò l'etica e ritrovò l'universale e la definizione.
E uno schizzo di storia dell'incivilimento si vedrà a capo della Storia di Tucidide; e si vedrà
Polibio discorrere dei progressi compiuti in tutte le arti, e
Cicerone e Quintiliano e altri parecchi tracciare quelli del diritto
e della letteratura. E accenni di valori umani in contrasto tra di
loro baleneranno nei racconti delle lotte tra greci e barbari, tra
la vita virilmente civile e attiva dei primi e il costume fastoso e
pigro degli altri; e altrettali concetti di valori umani si
scorgeranno in molti paralleli di popoli, e soprattutto nel modo in
cui Tacito deserive i Germani, quasi nuova possanza morale che si
leva contro quella della vecchia Roma, e fors'anche nella repugnanza
che lo stesso storico dà a vedere innanzi agli ebrei, che seguono
riti «contrarios ceteris mortalibus»: e Roma infine, Roma signora
dell'orbe, prenderà talvolta al nostro sguardo l'aspetto di un
simbolo trasparente dell'ideale umano, analogo al diritto romano,
che si venne via via idealizzando nel diritto naturale.
Ma si tratta qui di simboli piuttosto che di concetti, di nostre
riduzioni intellettive piuttosto che di pensieri propri degli
antichi: e, osservando con maggiore freddezza, la storia della
filosofia, delineata da Aristotele, si trova consistere più che in
altro in una rapida rassegna critica da servire di propedeutica al
suo sistema; e le storie letterarie e artistiche e della civiltà
appaiono indebolite spesso dal pregiudizio che queste forme siano
non già necessità mentali, ma lussi o raffinamenti. Nel miglior
caso, si può parlare di eccezioni, d'incidenti, di tentativi; la
qual cosa non cangia nulla all'impressione complessiva e alla
conclusione generale: che gli antichi non possedettero mai
esplicitamente storie né della civiltà, né della filosofia, né delle
religioni, né della letteratura, né delle arti, né del diritto;
nessuna, insomma, delle tante che possediamo noi. E non ebbero la
«biografia», quale noi abbiamo, come storia dell'ufficio ideale che
un individuo adempia nel proprio tempo e nella vita dell'umanità; e
non ebbero il senso dello svolgimento, e, quando parlano dei tempi
primitivi, non sentono se non di rado il primitivo, e piuttosto lo
trasfigurano poeticamente, al modo stesso che Dante faceva, per
bocca di Cacciaguida, della Fiorenza che, dentro della cerchia
antica, «si stava in pace sobria e pudica».
Fu una delle «aspre fatiche» del nostro Vico ritrovare sotto codesti
idilli poetici la cruda realtà storica; al che dovè aintarsi non con
gli storiografi antichi, ma coi documenti e, massime, coi linguaggi.
La descritta flsonomia delle storie degli antichi rispecchia assai
bene il carattere della loro filosofia, la quale non giunse
mai al concetto dello spirito, e perciò neanche a quelli della
umanità, della libertà e del progresso, ehe sono aspetti o sinonimi
del primo. Passò bensi dalla fisiologia o cosmologia all'etica e
alla logica e alla rcttorica; ma queste discipline spirituali furono
da essa schematizzate e materializzate, perché trattate
empiricamente; cosicché né l'etica s'innalzò sopra il costume greco
o romano, né la logica sopra le astratte forme del ragionare e
disputare, né la poetica sopra i generi letterari; e tutte, di
conseguenza, si configurarono solamente come precettistiche.
«Filosofia antistorica» è stata universalmente riconosciuta e
denominata; ma antistorica perché antispirituale, antistorica perché
naturalistica. Anche codesta deficienza per altro, avvertita da noi,
gli antichi filosofi non avvertivano, tutto presi, com'erano, al
pari degli storiografi, nello sforzo e nella gioia di passare dal
mito alla scienza, e perciò alla raccolta e classificazione dei
fatti della realtà; cioè, nel risolvere il problema che unicamente
si proposero, e che tanto bene risolsero da fornire al naturalismo
gli strumenti dei quali ancora si vale: la logica formalistica, la
grammatica, la dottrina delle virtù, la dottrina dei generi
letterari, le categorie del diritto civile, e altrettali: tutte
creazioni greco-romane.
Ma che gli storici e filosofi antichi non avvertissero nei suoi
propri termini, o per meglio dire nei termini nostri moderni, questo
difetto, non vuol dire che non ne fossero in certo modo travagliati.
Vi ha, in ogni periodo storico, problemi teoricamente formolati e
per ciò stesso risoluti; e problemi che si possono considerare non
giunti a maturità teorica, vissuti, intuiti e non ancora
adeguatamente pensati: e se i primi sono l'opera positiva di quel
tempo nella catena dello spirito umano, i secondi rappresentano
un'esigenza non soddisfatta, che lega in altra guisa quel tempo
all'avvenire. La grande attenzione, data all'aspetto negativo di
ciascun'epoca, induce perfino a dimenticare l'altro aspetto, e a
immaginare di conseguenza un'umanità che passi non da soddisfazione
a soddisfazione attraverso l'insoddisfazione, ma da insoddisfazione
a insoddisfazione, e da errore ad errore. Ma le oscurità e le
sconcordanze in tanto sono possibili in quanto prima si sono
ottenute e luce e concordia; e perciò formano, a lor modo,
avanzamenti, come si vede dalla storia che andiamo rammentando,
nella quale esse si addensarono appunto perché si era usciti
dall'età delle mitologie e dei prodigi.
Se la Grecia, se Roma non fossero state, insieme, più che Grecia e
più che Roma, se esse non fossero lo spirito umano che è
infinitamente più grande di ogni Grecia e di ogni Roma, — sue
individuazioni transitorie —, si sarebbero appagate dello umane
pitture dei loro storici, e non avrebbero cercato oltre. Ma più
oltre cercarono esse, ossia quegli stessi storici e filosofi; e
poiché ebbero innanzi, ricostruiti dal loro pensiero, tanti episodi
e drammi della vita umana, si domandarono quale fosse la «cagione»
di quegli avvenimenti. E, ragionevolmente, non parve loro che tale
cagione potesse essere un fatto come un altro, un fatto particolare;
e perciò presero a distinguere tra fatti e cause, e, nell'ordine
stesso delle cause, tra causa e occasione, come fa Tucidide, o tra
inizio, causa e occasione (arché,
aitia, prophasis), come Polibio. S'intrigarono così nelle
dispute sulla causa vera di questo o quell'avvenimento; e fin
dall'antichità si tentò l'indovinello sulla «causa» della
«grandezza» di Roma, passato poi ai tempi moderni come solenne
experimentum del pensiero storico e divenuto orinai balocco in mano
agli storici ritardatari. La domanda fu sovente generalizzata
nell'altra circa il principio motore della storia tutta; e qui anche
si affacciarono dottrine, trascinatesi poi a lungo, come quella che
la forma della costituzione politica fosse causa di tutto il resto,
o le altre sul clima e sui temperamenti dei popoli. Segnatamente fu
proposta ed accolta la legge naturale del circolo delle cose umane,
come perpetua vicenda di mali e di beni, o come percorso di forme
politiche che torna sempre alla forma da cui ha tolto le mosse, o
come crescenza dall'infanzia alla virilità che decade nella
vecchiezza e nella decrepitezza e si spegne nella morte, ma una
legge di tal sorta, che soddisfece e soddisfa ancora la mentalità
orientale, non soddisfaceva quella classica, che sentiva forte il
valore dell'operosità umana, e il pungolo degli ostacoli che essa
incontra e dei contrasti che dura; e
di qui le ulteriori
domande: se un fato o necessità
immutabile prema l'uomo, o non piuttosto lo palleggi una capricciosa
fortuna, o lo governi una mente sagace e provvida; e se gli dèi
curino o no le cose umane. Alle quali domande seguivano risposte,
ora pie, di sommissione alla volontà e saggezza degli dèi; ora
eclettiche, ammettenti del pari l'efficacia della avvedutezza umana
e l'intervento della Fortuna; ora condotte sopra una distinzione,
che assegnava agli dèi non la cura delle cose umane, ma la sola
vendetta e punizione. Concetti tutti poco fermi e, per lo più,
parole impacciate, prevalendo in genere l'incertezza e la
confessione d'ignoranza: «in
incerto iudicium est», disse Tacito, quasi assommando in
questo motto il pensiero antico su tali argomenti, o, piuttosto,
ritrovando, come somma, il non-pensiero, il non-compreso.
Quel che non si comprende non si domina, e invece domina noi o
almeno ci minaccia, e prende sembiante di male; onde la disposiziono
psicologica degli antichi verso la storia è da dire, in generale,
pessimistica. Essi videro cadere molte grandezze, ma non iscorsero
mai la grandezza che non cade o che risorge più grande dalle cadute;
e un'onda amara invade le loro storie. La felicità, la bellezza
della vita umana parve sempre qualcosa che c'era stata e non c'era
più; e che, se c'era, sarebbe stata presto perduta. Era essa di
solito, pei romani o romaneggianti, la Roma primitiva, austera e
vittoriosa; e tutti gli storici romani, i maggiori e i minori,
Livio, Sallustio e Tacito come Patercolo e Floro, guardano a
quell'alta immagine per lamentare la posteriore corruttela. Era,
altra volta, la Roma che calcava coi piedi il mondo; ma essi
sapevano che, presto o tardi, sarebbe diventata, la trionfante, da
regina serva: pensiero che si manifesta nelle più varie forme, dalle
malinconiche meditazioni di Scipione Emiliano sulle rovine di
Cartagine alla paurosa aspettazione della signoria che — come Persia
a Babilonia e Macedonia a Persia — doveva succedere a quella dei
Romani (la teoria delle «quattromonarchie» ha origine nel
mondo greco-romano, donde s'infiltrò in Palestina e nel libro di
Daniele); e, ora repressa ora spiccata, si sente circolare la
domanda: Chi sarà il successore e il seppellitore? saranno i Parti
minaccianti? saranno i Germani, così ricchi di nuove e misteriose
energie? — sebbene, altre volte, una più superba coscienza ponesse
il concetto di Roma come urbs oeterna.
Certo, quel generale pessimismo non è del tutto coerente, né tale
può esser mai alcun pessimismo; e in qualche caso, come si è detto,
balenano fuggevoli percezioni dell'umano progresso in questa o
quella parte della vita; e tal'altra si osserva, persino da un
amarissimo uomo come Tacito, che «nec
omnia apud priores meliora, sed nostra quoque aetas multa laudis
et artium imitanda tulit», e un interlocutore del De oratoribus nota che le forme
letterarie mutano coi tempi e che si deve «vitio malignitatis humanae» la
perpetua lode delle cose antiche e il dispregio perpetuo delle
nuove; e un altro interlocutore dello stesso dialogo mette in
risalto il rapporto dialettico tra la turbolenza della vita e la
grandezza dell'arte, onde Roma «donec
erravit, donec se partibus et dissensionibus confecit»,
proprio allora «tulit valentiorem
eloquentiam»: nesso del bene col male che, come non isfuggi
del tutto all'antica filosofia, così si afferma qua e la nell'antica
storiografia; e Sallustio, per esempio, giudica che Roma si mantenne
in buona salute e virtù finché ebbe a fronte Cartagine, che la
travagliava.
Anche l'idea dell'umanità, per l'influsso dello stoicismo, si fa
sempre più larga strada negli ultimi tempi della Repubblica e nei
primi dell' Impero, come sa chi legge Cicerone e Seneca; e la
Provvidenza divina è corteggiata come prima non si soleva ; e
Diodoro siculo promette di trattare tutte le storie dei vari popoli
come quella di una sola città (kataper
mias poleos). Ma sono pensieri ancora deboli e vaghi e
inerti (il promissor
Diodoro, per esempio, non faceva seguire nulla al suo gran prologo),
e che, a ogni modo, preannunziano il dissolversi del mondo classico.
Durante il quale il problema circa il significato della storia
rimane insoluto; perché non ne erano punto soluzione né i
contradittori concetti di sopra mentovati della Fortuna o degli Dèi,
né la persuasione del peggiorare universale, della caduta o del
regresso, che già si era espressa in molti antichi miti. E poiché
non si raggiunse la consapevolezza del valore spirituale come forza
immanente e progressiva della storia, anche i più alti storici
antichi non seppero tener salda e pura l'autonomia dell'opera
storiografica, che per altri rispetti avevano scorta e asserita.
Sebbene si fosse a loro svelato l'inganno di quelle storie che sono
in effetto poesie, o menzogne e partigianerie, o raccolte di
materiali e ammassi inintelligenti di crudizioni, o strumenti di
diletto e maraviglia per la buona gente, — non poterono, per un
altro verso, liberarsi mai dal preconcetto che la storia debba
essere rivolta a un fine di edificazione e, massime, d'insegnamento:
effettiva eteronomia, che allora sembrava autonomia.
In ciò consentivano essi tutti: Tucidide, che si proponeva di
narrare gli avvenimenti passati per augurarne i futuri, identici o
simili nel perpetuo ricorso delle umane vicende; Polibio, che
ricercava le cause dei fatti perché se ne facesse l'applicazione ai
casi analoghi, e giudicava di minor dignità quei casi inopinati che
per la loro irregolarità non si sommettono a regole; Tacito, che,
conforme al suo interessamento, piuttosto che sociale e politico,
moralistico, stimava suo fine precipuo raccogliere i fatti insigni
per virtù o per vizio «ne virtutes
sileantur utque pravis dictis factisque ex posteritate et infamia
metus sit»; e, dietro loro, tutti i
minori, tutti gli ipocriti che, per imitazione o per eco
involontaria o per falsa unzione, ripetevano in modo superficiale
quel che nei maggiori sorgeva da cagioni profonde: tutti i Sallusti,
i Dionigi, i Diodori, i Plutarchi; e poi tutti gli estrattori di
quintessenze storiche, di detti e fatti memorabili degli uomini di
stato e dei capitani e dei filosofi, e finanche delle donne (le ginakikon aretai).
La storiografia antica è stata chiamata «prammatica», e tale è nel
duplice significato, antico e moderno, della parola: in quanto si
attiene al Iato terreno o umano dei fatti e specialmente ai negozi
politici (la ■?■ prammatica» di Polibio), e in quanto lo adorna di
rillessioni e di ammonimenti (l'«apodittica» dello stesso
storico-teorico). Né codesta teoria eteronomica della storia rimane
sempre mera teoria o prologo o cornice, ma opera talvolta e induce a
mescolare nella storia elementi non istoriografici; com'è il caso
dei «discorsi o «concioni». non pronunziati o non riferiti quali
furono pronunziati dai personaggi storici, ma inventati o accomodati
dallo storico e posti in bocca a quelli. Il che a torto, per quel
che mi sembra, è stato considerato sopravvivenza dello «spirito
epico» nella storiografìa antica, o semplice prova di bravura
retorica dei narratori; perché, se la prima cosa può affermarsi per
qualche scrittore popolareggiante e la seconda per parecchi retori,
nei maggiori storici l'origine di quelle falsificazioni era
nient'altro che l'adempimento dell'obbligo, da essi in forza della
teoria accettato, d'insegnare e consigliare. Ma, assegnati alla
storia codesti fini, non potevano non vacillare alquanto
l'intrinseca virtù sua di verità e la discriminazione, che per un
altro verso pur faceva, tra reale e immaginato; giacché l'immaginato
anch'esso serviva a volte assai bene, e perfino meglio del reale, a
quei fini.
E, senza parlare di Platone che spregiava ogni conoscenza che non
fosse delle idee trascendenti, Aristotele medesimo non si era forse
domandato se maggiore verità spetti alla storia o alla poesia, e,
anzi, non aveva detto addirittura che la storia è «meno filosofica»
della poesia? E perché, in tal caso, la storia non si sarebbe dovuta
aiutare con la poesia e con l'immaginazione? A ogni modo, a codesto
ulteriore pervertimento si poteva fare resistenza, indagando con
vigile occhio critico la verità, o anche abolendo e riducendo al
minimo la parte degli immaginari discorsi e degli altri parerga; ma
alla credenza e al proposito del fine insegnativo non era dato
sottrarsi, perché un fine era tuttavia necessario prefiggere alla
storia, e quello vero non si era ancora rinvenuto, e il fine
insegnativo fungeva quasi da metafora del vero, essendo in qualche
modo prossimo al vero.
In Polibio la vigilanza critica, l'austerità scientifica, l'anelito
verso l'ampia e severa storia, giungono a si alto segno che si
sarebbe inclini a trattare lo storico di Megalopoli come uno di quei
grandi pagani che l'immaginazione medievale ammise nel Paradiso, o
almeno nel Purgatorio: degni di aver conosciuto per vie
straordinarie, e in premio della intensa loro coscienza morale, il
vero Dio. Ma, considerando con maggiore calma, bisogna rassegnarsi,
pur sentendo il cuore preso da «gran duolo», a collocare anche lui
nel Limbo, dove si accolgono coloro che «furono dinanzi al
cristianesimo» e «non adorar debitamente Dio: gente di «molto
valore», di così gran valore che pervennero presso al limite, e
persino lo toccarono, ma non lo passarono mai.
1 Si veda sopra, pp. 98-102.
III
La storiografia medievale
Per la medesima ragione onde non si deve considerare l'inizio di
qualsiasi racconto storico come inizio assoluto, né concepire le
epoche in modo semplicistico, quasi si attengano strettamente alle
determinazioni segnate nella loro caratteristica generale, bisogna
stare guardinghi a non identificare il concetto umanistico della
storia con l'epoca antica della storiografìa, che esso caratterizza
o simboleggia, e, insomma, a non rendere storiche le categorie
ideali, che sono eterne. La storiografìa greco-romana fu, senza
dubbio, umanistica, ma di umanismo greco-romano, cioè non solo con
tutte le determinazioni che siamo venuti accennando, ma anche con la
speciale fisonomia che quell'umanismo prende negli storici e
pensatori antichi, più o meno varia in ciascuno; né poi essa sola fu
umanistica, ma altre formazioni, che meritano lo stesso nome,
probabilmente la precessero, come certamente la seguirono nei
secoli.
È attraente forse, ma altresì artificioso (e contrario al concetto
vero del progresso) configurare la storia della filosofia e della
storiografia come una serie di fasi ideali che si percorrano
ciascuna una volta sola, e trasformare gli uomini filosofi in
categorie e le categorie in uomini filosofi, e rendere sinonimi
Democrito e l'atomo, Platone e l'idea trascendente, Cartesio e il
dualismo, Spinoza e il panteismo, Leibniz e il monadismo,
assottigliando la storia a una «Dynastengeschichte»,
come ha detto satiricamente un critico tedesco, o trattandola con
una sorta di «line of buckets
theory» (la teoria dei secchielli da pompieri, che si
passano di mano in mano), come ha detto umoristicamente un inglese.
Donde anche la parvenza che la storia vera non sia ancora apparsa al
mondo, e che appaia per la prima volta, e a lampi, nell'invocazione
che se ne fa adesso dallo storico e dal critico. Ma ogni pensamento
storico, come sappiamo, è sempre adeguato al momento in cui sorge e
sempre inadeguato al momento successivo.
L'opportunità, di tale avvertenza è comprovata dallo smarrimento in
cui per solito si cade quando si prende a considerare il trapasso
dall'antica storiografia alla cristiana e medievale; perché quale
trapasso sarebbe mai codesto in cui ci si ritrova innanzi di bel
nuovo un mondo mitologico e miracoloso, identico, a quanto sembra,
nella sua caratteristica generale, a quello già dagli storici
antichi dissipato? Non certo un procedere progressivo, ma piuttosto
la caduta in un fosso, nel quale precipitano insieme tutte le più
care illusioni intorno al perpetuo avanzamento dell'umanità. E un
fosso o una bassura parve, in effetto, il medioevo, talvolta durante
quell'età medesima, e chiaramente nella Rinascenza: e ancora con
quell'immagine è figurato nell'opinione comune. E per attenerci alla
sola storiografia, seguendo l'impressione di smarrimento che
dapprima s'ingenera, si finisce col rappresentarne le sorti
all'inizio del medioevo nel modo che tenne, per esempio, il nostro
Adolfo Bartoli, nel volume introduttivo alla sua Storia della letteratura italiana,
tutto rotto da gridi di orrore e dal gesto di coprirsi il volto per
non vedere tanta bruttura. «Siamo (scrive il Bartoli nel parlare di
Gregorio turonese), in un mondo dove il pensiero è disceso così in
basso da muovere a pietà, in un mondo in cui non esiste più un
concetto della storia», e la storia diventa anche lei «un'umile
ancella della teologia, cioè un'aberrazione dello spirito». E dopo
Gregorio di Tours (continua il Bartoli), si precipita ancora: «ecco
Fredegario, nel quale la credulità, la confusione, l'ignoranza
oltrepassano ogni limite..... in lui non avanza più nulla d'una
civiltà anteriore». Dopo Fredegario — parrebbe cosa impossibile — si
muove un altro passo in là, verso il nulla, con la cronaca
monastica; dove «vediamo quasi lo scarno monaco che, ogni cinque,
undici anni, caccia fuori dall'angusta finestra della sua cella la
testa paurosa per assicurarsi che gli uomini non sjeno ancora tutti
morti, e si rinserra poi subito nel suo carcere, in cui non vive che
per aspettare la morte».
Contro siffatti inorridimenti (che conferiscono ai critici odierni
l'aspetto medesimo dello «scarno monaco», del quale ci hanno fatto
balzare innanzi l'ipotiposi), bisogna asserire che la mitologia e il
miracolo e la trascendenza tornarono di certo nel medioevo, ossia
che codeste categorie ideali rioperarono quasi con l'antica forza e
ripigliando l'antica corpulenza, ma non tornarono storicamente
identiche a quelle del mondo preellenico; e bisogna insistere nel
ricercare, nel seno delle loro nuove manifestazioni, il progresso
effettivo che pur si compie e in Gregorio di Tours e in Fredegario,
e perfino negli autori di cronache monastiche.
La divinità ridiscende a mescolarsi, antropomorficamente, alle
faccende degli uomini, come personaggio prepotente o strapotente tra
i meno potenti; e gli dei sono ora i santi, e san Pietro e san Paolo
intervengono a favore di questo o quel popolo; e san Marco, san
Giorgio, sant'Andrea o santo Ianuario guidano le schiere dei
combattenti, l'uno a gara con l'altro, e talvolta l'uno contro
l'altro, giocandosi tiri maliziosi; e nell'adempimento o
nell'inadempimento di un atto di culto si ripone di nuovo la cagione
del guadagno o della perdita di una battaglia: i poemi e le cronache
medievali sono pieni di siffatti racconti. Concezioni analoghe alle
antiche, e che anzi proseguono storicamente le antiche; e non
solamente (come è stato tante volte mostrato) col riattacco di
questo o quel particolare alla religione popolare e col
travestimento degli dèi in santi o in demoni, ma anche, e
soprattutto, in cosa più sostanziale. II pensiero antico aveva
lasciato all'orlo del suo umanismo la Fortuna, la Divinità,
l'Imperscrutabile, dal che derivava la non mai completa rimozione
del prodigioso anche presso i più severi storici, o almeno hi porta
lasciata aperta, per la quale si sarebbe reintrodotto. E tutti sanno
di quante «superstizioni» si riempirono filosofia, scienza, storia e
costumo della tarda antichità, che per questa parte non fu
intellettualmente superiore, ma anzi inferiore alla nuova religione
cristiana. Nella quale le favole che si vennero formando, e i
miracoli nei quali si credette, si spiritualizzarono, cessarono di
essere «superstizioni», ossia qualcosa di estraneo o discordante
dalla generale concezione umanistica, e si misero in armonia con la
nuova concezione soprannaturalistica e trascendente, di cui erano
l'accompagnamento.
Così il mito od il miracolo, intensificandosi nel cristianesimo, si
facevano insieme diversi dai miti e dai miracoli antichi. Diversi e
più alti, perché racchiudevano un pensiero più alto: il pensiero di
un pregio spirituale, non più particolare a questo o quel popolo, ma
comune all'umanità tutta: a quella umanità, il cui concetto gli
antichi avevano talvolta sfiorato ma non mai posseduto, e i loro
filosofi cercato invano o raggiunto solo in astratte escogitazioni,
non atte a investire tutta l'anima, com'è invece dei pensieri
profondamente pensati e come fu nel cristianesimo. Paolo
Orosio Io esprime, nelle sue Historiæ adversus paganos,
con accenti quali nessun filosofo greco-romano aveva potuto
pronunziare: «Ubique patria,
ubique lex et religio mea est..... Latititudo orientis,
septentrionis copiositas, meridiana diffusio, magnarum insularum
largissimæ tutissimæque sedes mei iuris et nominis sunt, quia ad
Christianos et Romanos Romanus et Christianus accedo».
Alla virtù del cittadino sottentra quella dell'uomo, dell'uomo
spirituale, che si adegua alla verità con la fede religiosa e con
l'opera umanamente buona; alle schiere degli uomini illustri del
paganesimo si contrappongono quelle degli uomini del cristianesimo,
meglio che illustri, santi; e il nuovo Plutarco è dato dalle Vitæ patrum o eremitarum, dalle
vite dei confessori di Cristo, dei martiri, dei propagatori della
vera fede ; e le nuove epopee sono di fedeli contro infedeli, di
cristiani contro eretici e islamiti. Di tale contrasto si ha
consapevolezza maggiore di quella che i greci avessero del contrasto
tra greci e barbari o liberi e schiavi, concepiti di solito
piuttosto come differenze di natura che non di valori spirituali. E
sorge la storia ecclesiastica, che, per l'appunto, non è più storia
di Atene o di Roma, ma della religione e della Chiesa che la
rappresentava, e delle sue lotte e dei suoi trionfi, cioè delle
lotte e dei trionfi della Verità. Cosa senza precedente nel mondo
antico, le cui storie della cultura o dell'arte o della filosofia
non oltrepassarono, come si è visto, lo stadio empirico, laddove la
storia ecclesiastica ha per soggetto un valore spirituale, mercé cui
rischiara e giudica i fatti. E censurare la storia ecclesiastica,
perché soverchia e opprime la profana, sarà forse giustificato per
certi aspetti e in certo senso, come si vedrà; ma giustificabile non
è come critica generale dell'idea di quella storia, e, anzi,
formolandosi così la censura, si pronunzia inconsapevolmente un
grande elogio di quella: la historia
spiritalis (come
anche si può chiamare, adottando il titolo del poema di Avito), non
poteva, e non doveva, in verità, aceonciarsi a essere semplice
parte, né soffrire accanto a sé rivali, ma dominare come regina e
affermarsi come il tutto.
E poiché col cristianesimo la storia diviene storia della verità,
esce insieme dal fortuito o dal caso, cui l'avevano assai di sovente
abbandonata gli antichi, e riconosco la sua propria legge, che non è
piùuna legge naturale, un cieco fato o magari l'influsso degli astri
(sant'Agostino confuta codeste dottrine dei pagani), ma razionalità,
intelligenza, provvidenza: concetto anche questo non estraneo
all'antica filosofia, ma che ora si discioglie dal gelo
dell'intellettualismo e dell'astrattismo, e si fa caldo e fecondo.
La Provvidenza guida e dispone il corso degli avvenimenti
dirizzandoli a un fine, e permette i mali come punizioni e strumenti
educativi, e determina le grandezze e le catastrofi degl'imperi per
preparare il regno di Dio. E questo vuol dire che, per la prima
volta, è rotta davvero l'idea del circolo, del ritorno perpetuo
delle cose umane al loro punto d'inizio, del vano lavoro delle
Danaidi (sant'Agostino combatto anche il circuitus); e che per la prima volta la storia è
intesa come progresso: progresso che gli storici antichi non
riuscivano a scorgere se non in rari baleni, epperò cadevano nel
pessimismo sconsolato, laddove il pessimismo cristiano è irraggiato
di speranza.
Di qui l'importanza da attribuire, nei rispetti della scienza, alle
dispute sulla successione degli imperi e sull'ufficio da ciascuno di
essi adempiuto, e in ispecie sull'impero romano, il quale unificò
politicamenteil mondo che Cristo doveva unificare
spiritualmente, e sulla posizione del giudaismo di fronte al
cristianesimo, e simili. Questioni variamente risolute, ma sul
comune presupposto che l'intelligenza divina aveva voluto quegli
avvenimenti, quelle grandezze e decadenze, quei gaudi ed afflizioni,
e perciò che tutti essi erano stati mezzi necessari dell'opera
divina, e tutti avevano concorso e concorrevano allo scopo finale
della storia, connettendosi l'uno all'altro, non come effetti
consecutivi di una cieca causa, ma come gradi di un processo.
Di qui anche la storia intesa come storia universale, non più nel
senso di Polibio che narri i fatti di quegli Stati che entrano in
relazione tra loro, ma nel senso più profondo di una storia
dell'universale, dell'universale per eccellenza che è la storia nel
suo travaglio con Dio e verso Dio. Persino le cronache più dimesse
vengono, per questo spirito che le investe, circonfuse di un alone,
che manca alle classiche storie greche e romane, e che, distanti
quanto si voglia dalle nostre nei particolari, pur le fa, nel loro
aspetto generale, assai vicine alla nostra mente e al nostro cuore.
Tali sono i nuovi problemi e le nuove soluzioni che il cristianesimo
apportò al pensiero storico; e di essi, come del pensiero politico e
umanistico degli antichi, conviene affermare che costituiscono un
saldo possesso dello spirito umano, di perpetua efficacia.
Eusebio da Cesarea è da dire, al pari di Erodoto, «padre» della
storiografia moderna, per poco disposta che questa sia a riconoscere
i suoi padri in quel barbarico autore e negli altri che furono detti
«padri della chiesa», ai quali, e segnatamente a sant'Agostino, pur
deve così gran parte di sé stessa. Che cosa sono le nostre storie
della cultura, della civiltà, del progresso, dell'umanità, della
verità, se non la forma, consentanea ai nostri tempi, della storia
ecclesiastica, ossia del trionfo e del propagarsi della fede, della
lotta contro le potenze delle tenebre, della successiva preparazione
che, nelle sue varie epoche, si viene facendo dell'evangelo ossia
della buona novella? e le storie moderne, che narrano l'ufficio
adempiuto o la preminenza assunta da questa o quella nazione
nell'opera della civiltà, non corrispondono ai gesta Dei per Francos e ad
altrettali formole della storiografia medievale? E le nostre
storie universali sono tali non solo nel senso di Polibio, ma anche
nel senso cristiano, sebbene purificato ed elevato, dell'universale
come idea; donde il sentimento religioso dal quale siamo compresi nell'appressarci
alla solennità della storia.
Si osserverà che, col presentarla a questo modo, s'idealizza
alquanto la concezione cristiana; il che è vero, ma nella guisa e
misura stessa in cui si può dire che è stato da noi idealizzato
l'umanesimo antico, che non era solo umanesimo, ma anche
trascendenza e mistero. Come l'antica, la storiografia cristiana
rispose ai problemi che si propose, ma non rispose, perché non se li
propose, ad altri problemi, formati solo dipoi; e prova di ciò sono
anche per essa gli arbitri e i miti che ne accompagnarono il
concetto fondamentale. Il prodigioso e miracoloso che, come già si è
notato, avvolgeva la storiografìa cristiana, attestava appunto
l'incompleta idealità del nuovo e più alto Dio, il cui concetto si
convertiva in mito e l'azione in aneddoti favolosi. E pur quando non
si discorreva di miracoli, o questi erano ridotti a poca cosa,
attenuati e taciuti se non rifiutati, rimaneva nondimeno il miracolo
della divinità e della verità, concepite come trascendenti,
distaccate e contrapposte ai fatti mondani: attestazione anche
questa dello spirito cristiano in quanto superava l'antico non già
con la sicurezza e la calma del pensiero, ma con la violenza del
sentimento e con l'empito della fantasia.
La trascendenza portava a considerare le cose mondane come estranee
e ribelli alle divine: onde il dualismo di Dio e mondo, di una civitas cælestis e di un'altra
terrena, di una civitas Dei
e di una civitas diaboli,
che ripigliava antichissime concezioni orientali (parsismo), ed era
temperata ma non intrinsecamente corretta mercé l'idea del corso
storico provvidenziale, il quale da quell'indomito dualismo veniva
intrinsecamente compromesso. La città di Dio distruggeva la terrena
e le si soprapponeva, ma non la giustificava.
sebbene qua e la a ciò si sforzasse, seguendo la logica del suo
principio provvidenziale e progressivo.
Sant'Agostino, costretto a spiegare le ragioni della fortuna di
Roma, se la cava col sofisma che Dio concesse quella grandezza ai
romani come premio delle loro virtù, terrene bensì e non atto a
conseguire la gloria celeste, ma pur meritevoli del premio fugace
della gloria terrena. Così i romani rimanevano sempre reprobi,
sebbene meno vituperevoli degli altri reprobi: vera virtù non poteva
esservi stata dove non era stata la vera religione. I contrasti
delle idee non apparivano già forme contrastanti del vero nel suo
divenire, ma semplici suggestioni diaboliche, che turbavano la
verità, bella e compiuta e posseduta; e come opera del diavolo
Eusebio da Cesarea trattava le eresie, perché fu il diavolo che
suscitò Simon Mago, e poi Menandro, e le due direzioni della gnosi,
impersonate in Saturnino e Basilide.
Ottone da Frisinga contempla il regno romano succedere al babilonese
come il figlio al padre, e, quasi suoi tutori e pedagoghi, i regni
dei Persi e dei Greci; e nella unità politica romana scorge un
preludio della cristiana, affinché le menti degli uomini si
formassero «ad maiora intelligenda promptiores et capaciores» e,
disciplinate al culto di un unico uomo, dell'imperatore, e al
terrore di un'unica citta dominante, imparassero «unam quoque fidem tenendam». Ma
lo stesso Ottone si raffigura poi il mondo tutto «a primo homine ad Christum... exceptis
de Israelitico populo paucis, errore deceptus, vanis superstitionibus deditus, dæmonum ludicris captus, mundi illecebris
irretitus», militante «sub
principe mundi diabolo», finché «venit plenitudo temporis», e Dio mandò il suo
figliuolo sulla terra.
La dottrina della salvazione come grazia concessa a beneplacito di
Dio, «indebita Dei gratia»,
non è già un'escrescenza accidentale di questa concezione, ma il suo
fondamento o complemento logico.
L'umanità cristiana era deslinata a farsi disumana; e sant'Agostino
quanto ci desta reverenza per l'energia del suo temperamento, pel
suo sguardo fiso costantemente all'alto, altrettanto ci offende con
la sua mancanza di umana simpatia, con la sua durezza e crudeltà; e
la «grazia» di cui egli parla, prende ai nostri occhi sembiante di
odiosa preferenza e prepotenza. Nondimeno giova non dimenticare che,
attraverso queste oscillazioni e deviazioni del sentimento e della
fantasia, la storiografia cristiana preparava il problema del
superamento del dualismo. Che se il ricercare la cristianità dei non
cristiani, la grazia dovuta a tutti gli uomini per il loro carattere
stesso di uomini, la verità delle eresie, la bontà della virtù
pagana, fu compito storico maturatosi con lentezza nell'età moderna,
a questo compito era necessario fondamento la divisione e
opposizione che il cristianesimo introdusse delle due città e delle
due storie, come era. buon avviamento l'unità di esse pensata nella
provvidenziale Unità divina.
Altro ben noto aspetto di questo dualismo è il dommatismo,
l'incapacità a intendere il concreto particolarizzarsi dello spirito
nelle sue varie attività e forme; il che spiega l'accusa mossa alla
storia ecclesiastica di soverchiare e tirannicamente opprimere tutta
la restante storia. Questo soverchiamento accadeva in effetto,
perché la storia ecclesiastica o spirituale, invece di svolgersi
nell'universale concreto dello spirito, si fissava in una
determinazione particolare di esso. Tutti i valori umani erano
stremati a un solo, alla fermezza cioè nella fede cristiana o nel
servigio della Chiesa: il qual valore, così astrattamente concepito,
perdeva la sua intima virtù e decadeva a fatto materiale e immobile;
e invero la vivida e fluida coscienza cristiana, dopo qualche secolo
di svolgimento, si solidificò nei dommi. Quel domma materializzato e
immobile valeva di necessità come misura
universale; gli uomini di ogni tempo
venivano giudicati secondo che erano stati o no tocchi dalla grazia
divina, pii o empii, e le vite dei santi padri e degli uomini della
fede furono un Plutarco, che escluse o depresse ogni altro e profano
Plutarco.
Dommatismo della trascendenza, che si determina perciò come
ascetismo, in nome del quale tutta la storia effettiva degli uomini
è coperta di disprezzo, di orrore e di pianto: come in ispecial modo
ed eminente si nota in Agostino, in Orosio e in Ottone di Frisinga,
ma come può vedersi, se non altro in vestigio di tendenza, in tutti
gli storici o cronisti dell'alto medioevo. Quali pensieri suggerisce
la battaglia delle Termopili a Ottone di Frisinga? «Tædet hic inextricabilem malorum
texere cratem; tamen ad ostendendam mortalium miseriam, summatim ea attingere volo». E quali l'opera di
Alessandro? «Regni Macedonum
monarchia, quæ ab ipso empit, ipso mortuo cum ipso finitur...
Civitas autem Christi firmata supra firmam petram...».
All'ascetismo si lega la tante volte notata e irrisa credulità degli
storici medievali (da non confondere con la credenza nei miracoli,
originante dalla religione): credulità che e riportata di solito al
prevalere della fantasia, o alle condizioni sociali le quali
rendevano rari i libri e difficile il riscontro critico, cioè a coso
che aspettano a lor volta di essere spiegate. E invero una delle
principali fonti della credulità è l'indifferenza, perché nessuno è
mai credulo nelle faccende che gli stanno a cuore e negli affari che
tratta, e tutti d'altro canto (come prova la vita quotidiana)
prestano facile orecchio alle dicerie più o meno indifferenti; e
l'ascetismo, scemando l'interesse per le cose mondane e per la
storia, aiutò la trascuranza e la dispersione dei libri e documenti,
promosse la credulità verso ogni cosa che si udisse o leggesse,
disfrenò l'immaginazione, vaga del mirabile e del curioso, a scapito
del discernimento; e ciò fece non solo nella storia propriamente
detta, ma anche nella scienza della natura o storia naturale,
indifferente anch'essa per elii possedeva la verità ultima della
religione.
All'ascetismo si deve ricondurre il debole individualizzare della
storiografìa medievale, la quale si appaga di solilo del tipico
della bontà o della malvagità (rarissimo è il «ritratto», in essa
come nelle arti figurative della stessa età), e meno ancora ha
coscienza delle differenze storiche dei luoghi e dei tempi, e
traveste personaggi e avvenimenti nel costume a lei contemporaneo. E
si spinge perfino a comporre storie finte e falsi documenti, che
ritraggano il tipo presupposto: da Agnello ravennate, che dichiarava
di scrivere le vite anche di quei vescovi di Ravenna sui quali non
possedeva notizie, «et credo
(diceva) non mentitum esse»,
perché, se tennero quell'alto grado, dovettero di necessità essere
buoni, caritatevoli, zelanti, e via; fino alle false decretali
pseudoisidorine.
All'ascetismo come a cagione intrinseca si deve altresì la fortuna
nel medioevo della forma cronachistica, perché, trascurata
l'intelligenza dei fatti particolari, non restava che annotarli così
come venivano osservati o riferiti, senza nesso ideologico e col
solo nesso cronologico; talché nello scritture degli storici
medievali si ha di frequente l'unione (strana a prima vista, eppure
non senza logica coerenza) di una storia grandiosa cominciante dalla
creazione del mondo e dalla dispersione delle genti, e di un'arida
cronaca, che teneva dietro a quell'alto principio, e che via via che
si avvicinava ai tempi e ai luoghi degli autori si faceva sempre più
particolare e contingente.
Concepite le due città, la celeste e la terrena, e ferma, d'altro
canto, la trascendenza del principio di spiegazione, la composizione
del dualismo non poteva cercarsi nella intelligenza ma nel mito, che
poneva termine alla lotta col trionfo di uno dei due avversari: il
mito della caduta, della redenzione,
dell'aspettato regno di Cristo,
del gindizio finale e della finale separazione delle due
citta, l'una saliente al paradiso come di eletti, l'altra ricacciata
nell'inferno come di reprobi. Mitologia, che aveva il suo precedente
nelle aspettazioni messianiche del giudaismo e anche, per qualche
aspetto, neil'orfismo, e si venne elaborando attraverso la gnosi, il
millenarismo e altri tentativi ed eresie, finché non prese una forma
che rimase definitiva o quasi in sant'Agostino.
È stato detto che in questa concezione s'identificava la metafisica
con la storia, con pensiero affatto nuovo, anzi opposto a quello
greco, e che è un contributo filosofico tutto proprio del
cristianesimo; ma qui bisogna aggiungere che, come mitologia, non
unificava e bensì confondeva metafisica e storia, e rendeva finito
l'infinito, e, scansando la fallacia del circolo come ritorno
perpetuo delle cose, cadeva nell'altra di un progresso, che cominci
e finisca nel tempo. La storia era dunque organata in epoche o fasi
spirituali attraverso cui nasceva, cresceva e si compieva l'umanità:
sei, sette od otto epoche, secondo il vario modo di dividere e di
calcolare, ora rispondenti alle età della vita umana, ora alle
giornate della creazione, ora a entrambi questi schemi combinati;
ovvero, con l'accettare l'ermeneutica di san Girolamo intorno al
libro di Daniele, la successione degli avvenimenti era distribuita
nelle quattro monarchie, ultima quella di Roma, non solo nell'ordine
del tempo ma nell'idea, perché, dopo l'impero romano (il medioevo
visse, come si sa, nella lunga illusione che quell'impero
persistesse intatto come Sacro Romano Impero), non ce ne sarebbe
stato altro, e sarebbe senz'altro succeduto il regno di Cristo o
della Chiesa, e poi l'Anticristo e il giudizio universale.
Il termine, che la storia non aveva ancora cronologicamente
raggiunto, essendo per altro intrinseco al sistema, era idealmente
costruibile, come già l'avevano costruito le Apocalissi, che si
trasfusero nei libri di teologia e perfino nelle storie, le quali
nella loro ultima sezione (si veda per tutte l'opera di Ottone da
Frisinga) descrivevano l'avvento dell'Anticristo e la fine del
mondo: donde l'idea di una storia delle cose future, che il
paradossale Francesco Patrizzi continuava a teorizzare nel secolo
decimosesto nei suoi dialoghi Della
historia (1560).
Questo quadro storico generale poteva essere qua e là variato nei
particolari, ma non mai spezzato e sconvolto; e variò
nell'ortodossia fino a sant'Agostino, e dipoi presso i dissidenti ed
eretici. La più notevole di codeste variazioni fu l'Evangelo eterno
dei Gioachimiti, che dividevano la storia in tre epoche,
corrispondenti alle tre persone della Trinità: la prima o del
vecchio Testamento al Padre, la seconda o del nuovo al Figlio, e la
terza e ultima allo Spirito. Artificiose combinazioni e transazioni,
con le quali sempre la vita cerca di farsi largo tra gli schemi
preconcetti, che la stringono e minacciano di soffocarla.
Ma le transazioni non valevano a vincere la discordia che in ogni
parte si mostrava tra realtà e schema; onde la necessità
dell'interpetrazione allegorica, tanto cara al medioevo, e che
consisteva in sostanza nell'interporre tra lo schema e la realtà
storica, quasi ponte di passaggio, una figurazione immaginosa, mista
dell'uno e dell'altra, e perciò ponte sul quale non si passava altro
che in immaginazione. Furono così allegorizzati personaggi e
avvenimenti della storia sacra e della profana, e condotti sottili
calcoli numerici, di continuo rifatti con nuovi contributi
dell'immaginazione, per trovare le corrispondenze e i parallelismi;
e non solo le età della vita o le giornate della creazione furono
messe in parallelo con le epoche storiche, ma anche le virtù e altri
concetti: le quali escogitazioni si trascinano anche oggi nei libri
di devozione e nelle prediche dei meno ammaliziati e ammodernati
oratori saeri.
Nell'interpetrazione allegorica venne compreso anche il «regno
della natura»; e come la storia e la metafisica erano state
accozzate tra loro e confuse, così, con entrambe esse, la scienza
naturale; e tutte insieme comparvero allegorizzate nelle
enciclopedie medievali, nei Pantheon e negli Specchi del inondo.
Nonostante codesti inevitabili traviamenti, la nuova idea della
storia come dramma spirituale dell'umanità, sebbene pendesse verso
il mito, operava con tanta energia da indebolire il concetto antico
ed eteronomo della storia come indirizzata a somministrare astratti
insegnamenti, utili alla pratica delle cose. Adesso, l'insegnamento
era la storia stessa, la conoscenza della vita dell'uman genere
dalla sua creazione sulla terra, attraverso le sue lotte, fino allo
stato finale, che si disegnava sul prossimo o lontano orizzonte: la
storia, la quale è opera di Dio ed ammaestra per la diretta presenza
e parola di Dio, che si vede e ode in ogni sua parte. Certamente,
non mancano, anzi abbondano dichiarazioni, che la lettura delle
storie sia utile come ammonimento, e, in modo precipuo, per
inculcare il ben fare e distogliere dal male; e si tratta talvolta
di dichiarazioni tradizionali e convenzionali, e tal'altra di
particolari intenti: ma, nel suo intrinseco, la storiografia medioevale
non era, perché non poteva più essere, eteronomicamente concepita.
Se l'ascetismo mortificava le menti e se il miracoloso le
annebbiava, non bisogna credere per altro che l'uno e l'altro
avessero forza di deprimere totalmente e per lungo tempo la realtà:
ed anzi, appunto perché l'ascetismo era arbitrario e la mitologia
fantastica, essi rimanevano più o meno astratti, al pari della
interpetrazione allegorica, impotente a sopprimere le reali
determinazioni dei fatti. La città terrena si poteva bene spregiarla
e condannarla a parole, ma essa sforzava l'attenzione e, se non agli
intelletti, parlava agli animi e alle passioni. Anche nella sua età
di vigore giovanile il cristianesimo fu astretto a tollerare,
accanto alla sua storia sacra, una storia profana, dettata da
interessi economici, politici e militari. E nel corso del medioevo,
come oltre la poesia religiosa dei poemi e degli inni sacri si ebbe
un'epica delle conquiste territoriali, degli urti dei popoli e delle
lotte feudali, così prosegui una storiografìa mondana, più o meno
commista e temperata con la religiosa; e anche fervidi cristiani e
pii sacerdoti cedettero al desiderio di raccogliere e tramandare le
memorie delle genti cui appartenevano, e Gregorio di Tours narrò dei
franchi, Paolo Diacono dei langobardi, Beda degli angli, Widekindo
dei sassoni. Sotto la professione del credente e il freno delle
sentenze religiose, il loro cuore di gentili o di partigiani
politici non cessa di battere; e non solo sulla miseria e nequizia
umana in genere si piange, ma su quelle che toccano la particolarità
dei sentimenti, come si osserva, per esempio, nel monaco
Erchemperto, il quale «ex intinto
corde ducent alta suspiria» ripiglia il filo
della storia di Paolo per narrare dei suoi già gloriosi langobardi
(ricacciati ormai nella sola parte meridionale d'Italia e da ogni
banda assaliti e insidiati) «non
regnum sed excidium, non felicitatem sed miseriam, non triumphum
sed perniciem».
E Liutprando da Cremona fa bensi intervenire Dio in ogni
accadimento, reggitore e punitore, e perfino i santi in persona
nelle battaglie; ma non manca, per dirne una, di notare come,
avanzatosi Berengario a prender possesso del regno dopo la morte di
Guido, i seguaci di costui chiamarono re Lamberto, «quia semper Itali geminis uti dominis
volunt, quatinus alterum alterius terrore
coherceant»: che è poi la definizione delia società
feudale.
Credulissimi si era in molte cose, lontane dall' interesse profondo
e abbandonate all'immaginazione, ma non creduli, anzi
chiaroveggenti, accorti, diffidenti, in ciò che toccava i
possedimenti e i privilegi delle chiese e dei cenobi, e delle
famiglie e del gruppo feudale e dell'ordine cittadino, a cui
ciascuno apparteneva; e a questi interessi si devono le formazioni
di archivi, di regesti, di cronologie, e l'esercizio della critica
circa l'autenticità e la genuinità dei documenti. Il concetto della
nuova virtù cristiana opprimeva ma non ispegneva l'ammirazione
(reputata peccaminosa dai più rigidi) verso il gran nome di Roma
antica, e verso molte opere della civiltà pagana, l'eloquenza, la
poesia, la prudenza civile; e non vietò poi l'ammirazione verso la
sapienza araba o giudaico-arabica, della quale, nonostante il
contrasto religioso, vennero ben accolte le opere. Onde è da dire
che, al modo stesso che l'umanesimo grecoromano non escludeva del
tutto il soprannaturale, il soprannaturale cristiano non toglieva la
considerazione umana delle mondane passioni e dei terreni negozi.
Ciò si fa via via più evidente nel passare dall'alto al basso
medioevo, quando la storiografia profana progredisce, per effetto,
come si suol dire, delle lotte tra Chiesa e Stato, del moto
comunale, dei commerci resi più frequenti tra le varie parti
dell'Europa e con l'Oriente, e simili; che sono a lor volta effetti
dello svolgersi e maturarsi e ammodernarsi del pensiero, il quale
cresce con la vita e fa crescere la vita. E né vita né pensiero
rimasero fermi alle concezioni dei padri della Chiesa, di Agostino,
di Orosio, ai quali la storia offriva soltanto le prove degli
infiniti mali che affliggono l'umanità, e delle punizioni incessanti
di Dio e delle «morti dei persecutori». Nello stesso Ottone di
Frisinga, che più strettamente di altri si attiene ancora alle idee
agostiniane, si vede temperata l'asprezza della dottrina della
grazia; e, nel narrare egli poi la lotta tra Chiesa e Impero, se non
si può dire che prenda partito per l'Impero, nemmeno parteggia
risolutamente per la Chiesa; come, in genere, le visioni
escatologiche, che formano tanta parte della sua opera, non gli
fanno smarrire il senso pratico e il giudizio politico.
Il partito della fede contro gì'infedeli rimane pur sempre il «gran
partito», la grande «lotta di classi» (eletti e reprobi) e di
«Stati» (città celeste e città terrena); ma dentro quel largo quadro
si disegnano più particolari figure, altri partiti, altri interessi,
che iccupano via via i primi e i secondi e i terzi piani, sicché la
lotta tra Dio e il Diavolo viene sempre più cacciata nel fondo e si
perde alquanto nel vago, in qualcosa che si presuppone sempre ma non
si sente attivo e urgente nell'animo, in qualcosa di cui si seguita
a parlare ma che non si pensa fortemente o, per lo meno, non si
pensa con l'energia che le parole vorrebbero lasciar credere, e le
parole stesse suonano sovente come un ritornello quanto pio
altrettanto convenzionale. Il miracoloso tiene via via minor posto e
appare più di rado: Dio opera più volentieri per cause seconde,
rispettando le leggi naturali, che non per diretto e rivoluzionario
intervento. E anche si fa meno scucita e arida la forma del
cronachismo, e si chiede qua e là dai migliori un «ordine» diverso,
cioè, in fondo, una migliore intelligenza, e si contrappone
(segnatamente dal secolo duodecimo in poi) l'ordo artificialis, o interno, all'ordo naturalis, esterno o cronachistico; e c'è chi
distingue tra il «sub singulis
annis describere» e il «sub
stilo historico conglutinare», raggruppare secondo gli
oggetti.
L'aspetto generale della storiografia cangia non poco: e, per
fermare ora l'occhio solamente su quella italiana, non più libelli
sui miracoli e le traslazioni dei corpi santi e storie di episcopi,
ma cronache di comuni, tutte agitate dall'affetto pei feudatari o
per l'arcivescovo, per la parte imperiale o per l'antiiuperiale, per
Milano o per Bergamo o per Lodi. La tragedia, che straziava
Erchemperto, ritorna con accenti più forti nella narrazione delle
gesta del Barbarossa a Milano, che fu intitolata: «Libellus tristitiæ et doloris,
angustiæ et iribulationis, passionum et tormentorum».
L'amore per la propria città usurpa molto campo all'amore per le
cose celesti: e lodi di Milano, di Bergamo, di Venezia, di Amalfi,
di Napoli risuonano nelle pagine dei loro cronisti. E si giungerà a
poco a poco alle vasto cronache, che movono bensì ancora dalla torre
di Babele, ma mettono capo alla storia di quella città o di
quell'avvenimento che più caldo parla agli affetti e stimola la
migliore industria dello scrittore; e con lo scrittore si avvolgono
tra le persone e le cose della vita prossima o presente.
Giovanni Villani, pellegrino a Roma pel giubileo, non è da quel
solenne sacro spettacolo infervorato di spirito ascetico e sollevato
al cielo, con dispregio della terra; ma, per contrario, «trovandosi
in quello benedetto pellegrinaggio nella santa città di Eoma,
veggendo le grandi e antiche cose di quella, e leggendo le storie e'
grandi fatti de' Romani», ne è ispirato a comporre la storia della
sua Fiorenza, «figliuola e fattura di Roma» (di Roma antica, e non
della cristiana), la quale «era nel suo montare e a seguire grandi
cose, siccome Roma nel suo calare»: il «santo» e il «benedetto» non
lo menano, dunque, a pensieri santi e benedetti, ma a quelli di
grandezza mondana.
E alla storiografia dei comuni risponde, più seriamente mondana, più
formalmente e storicamente elaborata, l'altra del regno normanno e
svevo di Sicilia (nelle cui Constitutiones, nel proemio, i sovrani sono dichiarati
istituiti ipsa rerum necessitate
cogente, nec minus divinæ provisionis instinctu); coi suoi Romualdo Guarna, e
abbate Telesino, e Malaterra, e Ugone Falcando, e Pietro da Eboli, e
Riccardo da San Germano, e il pseudo Iamsilla, e Saba Malaspina; ed
hanno tutti costoro i loro eroi, Ruggiero o Guglielmo normanni,
Federico e Manfredo svevi, e ciò che lodano di essi è il saldo
istituto politico, che seppero fondare e con mano ferma reggere. «Eo tempore (dice il Falcando di
Ruggiero) Regnum
Siciliæ, strenui et prcæclaris viris abundans, cum terra marique
plurimum posset, vicinis circumquoque gentibus terrorem incusserat, summaque pace ac tranquillitate maxima
fruebatur». E di Federico II il cosiddetto Iamsilla: «Vir fuit magni cordis, sed
magnanimitatem suam multa, quæ in eo fuit, sapientia superavit ut
nequaquam impetus eum ad aliquid facieudum impelleret, sed ad
omnia cum rationis maturitate procederet;..... utpote qui
philosophiæ studiosus erat quam et ipse in se voluit, et in regno
suo propagare ordinavit. Tunc quidem ipsius felici tempore in
regno Sicilia erant literati pauci vel nulli; ipse
vero imperator liberalium artium et omnis approbatæ
scientiæ scholas in regno ipso coustituit..... ut omnis
conditionis et fortuna homines nulliuss occasione indigentiæ a
philosophiæ studio retraherentur».
Lo stato, la cultura profana, la «filosofia», impersonati
nell'eresiarca Federico, ottengono per tal modo un risalto potente.
E mentre, per un verso, a codeste correnti politiche e di cultura si
congiungono teorie sempre più laiche dello Stato (da Dante, anzi da
Tommaso d'Aquino, a Marsilio da Padova), e primi lineamenti di
storia letteraria (vite di poeti e di uomini famosi per sapere, e
del sorgere delle letterature volgari) e di storie dei costumi (come
in alcuni brani di Ricobaldo da Ferrara), per un altro verso la
scolastica, mercé i libri aristotelici, si procurò problemi e
concetti, che furono come una prima e sommaria ripresa del sapere
antico. Il monumento di questa condizione di spirito, nella quale le
idee medievali sono mantenute, ma gli affetti politici e poetici e
filosofici e l'amor della fama e della gloria provano il loro
vigore, sebbene subordinati a quelle idee o da esse, per quanto era
possibile, infrenati, è (non occorre dirlo) il poema di Dante. Ma
quelle idee sono pur mantenute, persino negli imperialisti e
avversari della Chiesa, e solo in rari spiriti se ne accenna una
negazione tra scettica e beffarda. La trascendenza, la prescienza di
Dio che tutto ordina, dispone e guida a sua volontà, e il suo
premiare e castigare e altresì il suo intervenire miracoloso,
persistono sempre nel fondo lontano, in Dante come in Giovanni
Villani, come in tutti gli storici e cronisti.
Sul cadere del secolo decimoquinto, la concezione teologica fa
curiosa mostra di sé nel francese Comines, a braccetto della più
accorta e spregiudicata politica del felice successo. Mancava alla
mondanità, ricca, varia, complessa, il suo centro ideale di
riferimento; e perciò essa era piuttosto vissuta che pensata, e si
mostrava piuttosto nella ricchezza dei particolari che nel sistema.
Gli antichi elementi di cultura, passati dall'aristotelismo nella
scolastica, non operarono con forza, perché dell'aristotelismo fu
fatto valere segnatamente ciò che si accordava col pensiero
cristiano, già piatonizzato e dommatizzato in forma trascendente dai
padri della Chiesa: onde si è potuto notare persino un arresto
dell'interessamento storiografico dove la scolastica prevaleva, e il
contentarsi di compendi sul tipo di quello, che divenne
divulgatissimo, di Martino polono, da servire per citazioni a fini
dimostrativi o giuridici.
Ciò che occorreva per entrare in una nuova epoca di progresso (si
progredisce sempre, ma «epoche di progresso» si chiamano quelle
nelle quali par che il moto degli spiriti si acceleri e che si
colgano rapidamente i frutti lentamente maturati nei secoli) era una
negazione consapevole, diretta, vissuta e pensata insieme, della
trascendenza e del miracoloso cristiano, dell'ascesi e
dell'escatologia: negazione i cui termini (vita celeste e vita
mondana) la storiografìa del tardo medioevo aveva bensì accentuati,
ma lasciandoli in genere sussistere e procedere l'uno accanto
all'altro, senza vero e proprio contatto e conflitto tra loro.
IV
La storiografia del rinascimento
La negazione della trascendenza cristiana fu opera dell'età del
Rinascimento, quando, per valerci dell'espressione che il Fueter
adopera, la storiografia «si secolarizzò». Nelle storie di Leonardo
Bruni e del Bracciolini, che dettero i primi esempì cospicui del
nuovo atteggiarsi del pensiero storiografico, e in tutte le altre
della medesima forma che tennero loro dietro, — tra le quali
splendono quelle del .Machiavelli e del Guicciardini, — non si
osserva quasi più traccia alcuna di «miracoli», che vengono
ricordati solamente per deriderli o per ispiegarli in guisa affatto
umana; alla credenza dell'intervento provvidenziale divino si
sostituisce l'acuta analisi dei caratteri e degli interessi degli
individui; e le azioni dei papi e le lotte religiose medesime
s'interpretano volentieri secondo passioni utilitarie e
riguardandole sotto l'unico aspetto politico. Lo schema delle
quattro monarchie, con l'annesso avvento dell'Anticristo, è di fatto
lasciato cadere: le storie si narrano ora ab inclinatione imperii, e
persino le storie universali, come le Enneadi del Sabellico, non si attengono più
all'ordine tradizionale chiesastico.
Le cronache del mondo, le storie universali miracolose, teologiche,
apocalittiche, passano tra i libri di lettura della gente poco colta
e del popolo, o persistono nei paesi di cultura arretrata, com'era
allora la Germania, o, infine, sono confinate nella cerchia della
storiografia, confessionale, cattolica o protestante, le quali
entrambe conservavano tanta parte di
medioevo, e la protestante forse
più ancora (almeno a guardarla nel suo primo
aspetto) della cattolica, che pur seppe qua e la temperarsi e
accomodarsi ai tempi. Tutto ciò mostra assai bene, con copia di
particolari, il Fueter, dal cui libro andrò ora
attingendo talune osservazioni e
notizie, riordinandole e compiendole con
altre mie.
Nella storiografia politica del
tardo medioevo, la concezione
teologica era stata, come abbiamo detto, rigettata nel
fondo: ma, oramai, neppure nel fondo c'è più, e, so talvolta
se ne riodono le formole, somigliano per l'appunto alle invocazioni
della crociata contro i Turchi per liberare il sepolcro di Cristo,
che predicatori e verseggiatori e retori continuavano a intonare (e
continuarono per tre secoli), ma che non trovavano più rispondenza
alcuna nella realtà politica e nelle coscienze, e perciò suonavano a
vuoto. Né la negazione del teologismo, la secolarizzazione della
storia, fu compiuta solamente nella pratica, scompagnata da piena
consapevolezza; perché, sebbene, come accade, molti
intelletti veramente si volgessero dove il fato ossia la nuova
necessità mentale traeva, e sebbene la polemica non fosse
sempre esplicita e anzi sovente si circondasse di molteplici
cautele, abbondano le testimonianze che mostrano l'accordo della
pratica con la teoria storiografica.
Contro lo schema delle quattro monarchie sta la critica di un così
grave teorico della storia come il Bodin, il quale prende a
combattere di proposito l'inveteratum
errovem de quattuor imperiis,
provando che a capriccio quello schema ora stato desunto dal sogno
di Daniele, e che non corrispondeva in alcun modo al corso reale dei
fatti.
E sarebbe superfluo raccogliere qui i motti celebri del Machiavelli
e del Guicciardini, che satireggiano teologia e miracoli: il
Guicciardini (basti questo solo) notava che dei miracoli tutte le
religioni si sono vantate, e perciò essi non sono prova di nessuna,
e forse non son altro che «secreti della natura»; e
raccomandava di non dir mai che Dio ha aiutato il tale perché buono
e fatto capitar male il tal altro perché cattivo, giacché
«spesso si vede il contrario», e i consigli della giustizia divina
sono, insomma, abissi.
Paolo Sarpi ammette bensì, che è «pio e religioso pensiero
l'attribuire alla divina provvidenza la disposizione d'ogni
evenimento», ma gli sembra « presunzione» determinare «a che
fine siano da quella somma sapienza gli eventi inviati»;
perché gli uomini, stretti da affetto alle loro opinioni, «si
persuadono quello esser tanto amate e favorite da Dio come da loro»:
onde, per esempio, argomentavano che Dio avesse fatto morire quasi a
un tempo Zuinglio ed Ecolampadio per
punire e toglier di mezzo i
ministri della discordia,
laddove è certo che, «dopo la
morte di questi due, li cantoni evangelici hanno fatto maggior
progresso nella dottrina da loro ricevuta».
Siffatta disposizione degli spiriti religiosi e cauti è anche
più significante di quella apertamente irriverente degli spiriti
radicali e impetuosi; come significanti sono le
conseguenze della nuova importanza
data alla storia, nell'accrescimento che si nota allora
dappertutto del lavoro storiografico, e nella formazione di una vera
e propria scuola filologica non solo per l'antichità ma pel medioevo
(il Valla, Flavio Biondo, il Calchi, il Sigonio,
Beato Renano ecc.), la quale pubblica e restituisce
testi, critica l'autenticità e il valore delle fonti, viene
foggiando una tecnica dell'esame delle testimonianze e compone
storie erudite.
Niente di più naturale che la nuova forma della storiografìa dovesse
sembrare ritorno all'antichità greco-romana, come il cristianesimo
era sembrato ripresa della storia dell'Eden (chiuso, mercé la
redenzione, l'intermezzo del paganesimo), o il medioevo sembra oggi
ancora a taluni una ricaduta nei tempi barbari preellenici.
L'illusione del ritorno si espresse nel culto dell'antichità
classica, e in tutte le altre manifestazioni letterarie, artistiche,
morali e di costume, che sono familiari ai conoscitori del
Rinascimento: e, nel campo speciale nel quale ora ci aggiriamo, si
può vederne un curioso documenio nella difficoltà che i filologi e
critici incontravano a persuadersi che gli scrittori greci e romani
avessero potuto ingannarsi, mentire, falsare, essere trascinati
dalle passioni o accecati dall'ignoranza, al pari di quelli del
medioevo; sicché laddove a questi si applicava una critica più
severa, quelli venivano riveriti e, accettati, e ci volle gran
fatica e tempo per giungere di fronte ad essi alla medesima libertà
mentale, e la critica dei testi e delle fonti si svolse assai prima
in attinenza con la storia medievale che non con l'antica.
Ma il documento e il monumento maggiore di quella illusione del
ritorno fu la formazione del tipo umanistico della storiografia,
opposto al tipo medievale. Questo era stato prevalentemente
cronachistico; e la storiografia umanistica, pur accettando
l'ordinamento per anni e per stagioni secondo gli esempì greci e
romani, cancellò quante più poteva d'indicazioni numeriche, e si
sforzò di scorrere ben unita, senza tagli e frastagli cronologici.
Nel medioevo, il latino si era fatto barbarico e aveva accolto i
vocaboli delle lingue volgari o designanti in modi nuovi le cose
nuove; e gli storiografi umanistici tradussero e camuffarono ogni
pensiero e ogni descrizione e racconto nel latino ciceroniano o, a
ogni modo, dell'età aurea. Nelle cronache medievali si leggono di
frequente aneddoti pittoreschi; e l'umanismo, restituendo dignità
alla storia, la privò di quel pittoresco o la attenuò e levigò nella
stessa guisa adoperata per le cose e costumi dei secoli barbarici.
Codesto tipo umanistico della storiografia, come la nuova erudizione
e critica filologica e come tutto il moto del Rinascimento, fu opera
italiana; e in Italia presto si modellarono sopra di esso anche lo
storie in lingua volgare, che trovavano nella prosa latineggiante
boccaccesca l'istrumento di cigevole adattazione al loro fiue. E
dall'Italia si diffuse negli altri paesi; e, come accade sempre che
si trasporta un'industria in un paese vergine, che i primi operai o
capi tecnici vengono chiamati dal paese d'origine, così i primi
storici umanisti delle altre parti di Europa furono italiani; e sono
noti il veronese Paolo Emilio, che «Gallis condidit historias», donò ai francesi la
storia umanistica di Francia col suo De rebus gestis Francorum, e Polidoro
Virgilio, che fece il simile per l'Inghilterra, e Lucio Marineo per
la Spagna, e altri e altri ancora per altri paesi, finché non
suscitarono cultori indigeni del genere, che resero superflui gli
operai italiani.
In seguito fu necessario liberarsi da quel paludamento troppo largo
o troppo stretto, e insomma, non tagliato sul corpo del pensiero
moderno; e si censurò quanto era in esso di artificioso, di gonfio,
di falso: vizi che, del resto, sono già tutti chiari nel principio
stesso costruttivo di quella forma letteraria, che era l'imitazione.
Ma chi sente la pietà del passato, gusterà quella prosa storica
umanistica come espressione dell'amore per l'antichità e del
desiderio d'innalzarsi a lei: amore e desiderio così ansiosi che non
dubitavano di riprodurre, oltre il meglio e talvolta in mancanza del
meglio, le cose esterne e indifferenti.
Ancora circa tre secoli dopo la creazione della storiografia
umanistica, Giambattista Vico, che ha di codeste puerilità sublimi,
lamentava che «della famosa guerra fatta per la successione di
Spagna, di cui dopo la seconda Cartaginese, nonché quella di Cesare
con Pompeo e di Alessandro con Dario, non s'è fatta maggiore nel
mondo,... non si è ritrovato alcun sovrano a cui cadesse in niente
di farla conservare all'eternità da penna eccellente latina». Che
dico? Anche di recente, ai giorni della guerra di Tripoli, dal fondo
di una delle provincie meridionali d'Italia, da uno di quei paeselli
nei quali persiste ancora l'ombra di qualche umanista, giunse la
proposta, che di quella guerra si componesse un latino comentario De bello libico: proposta che fu accolta da grandi risa e
fece sorridere anche me, ma insieme mi mosse in petto non so quale
intenerimento, col richiamarmi alla memoria il lungo e devoto
affetto onde i nostri padri e avoli proseguirono l'ideale della
bella antichità e della decorosa storiografia. Nondimeno, la
credenza nella effettività o possibilità di quel ritorno era, come
si è detto, un'illusione: niente torna di ciò che è stato, come
niente di ciò che ò stato si può abolire; anche quando si ripiglia
un antico pensiero, l'avversario nuovo rende nuova la difesa e nuovo
quel pensiero stesso.
Leggevo, tempo addietro, l'opuscolo di un dotto cattolico francese,
che, purgando il medioevo da talune sciocche accuse e confutando
errori che volgarmente intorno a esso si ripetono, sosteneva che il
medioevo è il tempo veramente moderno, della modernità eterna del
vero, e però non merita quel nome, e «medioevo» dovrebbe piuttosto
denominarsi l'epoca che è scorsa dal secolo decimoquinto ai giorni
nostri, dalla Riforma al positivismo; — e io pensavo che questa
teoria è bene il degno riscontro dell'altra che abbassava o abbassa
il medioevo sotto l'antichità; e che entrambe si sono dimostrate
false da un pezzo al pensiero storico, che non conosce ritorni e sa
che il medioevo serbò nel suo profondo cuore l'antichità e il
Rinascimento il medioevo.
E che cosa è «umanismo» se non una rinnovata formola di quella
«umanità», che il mondo antico aveva ignorata o quasi, e il
cristianesimo e il medioevo profondamente sentita ? Che cosa è
l'altra parola di «rinascimento» o «rinnovamento», se non una
metafora attinta al linguaggio della religione? E, mettendo da banda
le parole, non è forse il concetto di umanismo
l'affermazione di un valore spirituale e universale, e, in quanto
tale, cosa affatto estranea, come sappiamo, alla mente antica, e
intrinseca continuazione della storia «ecclesiastica» e
«spirituale», che nacque col cristianesimo? Il concetto del valore
spirituale si era, senza dubbio, cangiato o arricchito, e conteneva
in sé oltre un millennio di esperienze mentali, di pensieri e di
azioni; ma in questo arricchimento serbava il tratto originario, e
costituiva la religione dei nuovi tempi, che aveva i suoi sacerdoti
e i suoi martiri, la sua polemica e la sua apologetica, la sua
intolleranza (distruggeva o lasciava perire i monumenti del medioevo
e ne condannava all'oblio gli scrittori), e imitava talvolta persino
le forme del culto (il Navagero bruciava ogni anno una copia di
Marziale, in olocausto alla pura latinità!).
E poiché l'umanità, la filosofia, la scienza, la letteratura e
l'arte segnatamente, la politica, l'operosità in tutte le sue forme,
riempiono ormai, con le loro molteplici determinazioni, quel
concetto di valore che il medioevo aveva riposto nella sola fede
religiosa cristiana, vanno comparendo, di queste determinazioni e
specificazioni, storie o lineamenti di storie, che certamente erano
cose nuove rispetto alla letteratura medievale, ma non meno erano
nuove rispetto a quella greco-romana, nella quale o nulla loro
corrispondeva o solamente, semai, trattazioni condotte in.guisa
empirica ed estrinseca. Le nuove storie di valori si affacciavano
timide, imitavano in alcune parti i rari esempì antichi, ma davano a
vedere un fervore, un'intelligenza, un affiato, che promettevano di
esse queir incremento e svolgimento, che falli alle antiche, le
quali, invece di svolgersi, si erano venute superficializzando e
alfine svanirono, tornando nell'indistinto.
Basti ricordare, per tutte, le Vita
dei pittori del Vasari, che si legano alle meditazioni e
ricerche sull'arte esposte in tanti trattati e dialoghi e lettere
dagli italiani, e sono solcate da lampi quali non rifulsero
gianiinai nell'antichità. E lo stesso si può dire dei trattati di
poetica e di rettorica e dei giudizi che vi si mescolavano intorno
alle opere di poesia, e della nuova storia della poesia, che allora
si tentava con riuscita più o meno felice. Anche lo «Stato», che
forma oggetto delle meditazioni del Machiavelli, non è il semplice
Stato dell'antichità, la città o l'impero, ma è quasi lo stato
nazionale ed è sentito come alcunché di divino, al quale si deve
sacrificare perfino la salute dell'anima, cioè come l'istituzione
nella quale si trova la vera salute dell'anima; anche la virtù
pagana, ch'esso ed altri opponevano alla cristiana, è ben diversa
dalla schietta disposizione d'animo greco-romana. E, in quel tempo,
pur tra le imitazioni degli antichi, si diede l'avviamento alle
indagini sulla storia del diritto, delle forme politiche, dei miti e
delle credenze, dei sistemi filosofici: indagini che sono oggi in
pieno fiore.
E poiché quella stessa coscienza, che aveva prodotto l'umanismo,
aveva dilatato i confini del mondo conosciuto, e aveva cercato e
trovato popoli di cui la Bibbia non faceva ricordo, e nulla sapevano
gli scrittori greco-romani, si ebbe, in quel tempo, una letteratura
sui selvaggi e sulle civiltà indigene di America (e altresì sulla
lontana Asia, meglio esplorata), dalla quale sorsero le prime
nozioni sulle forme primitive della vita umana; sicché a questo
modo, insieme coi confini materiali, vennero ampliati i confini
spirituali dell'umanità.
L'illusorio del «ritorno all'antico» non vediamo soltanto ora noi,
ma videro o non tardarono a vedere gli stessi uomini del
Rinascimento; e già al descritto tipo letterario umanistico non
tutti si acconciarono, e vi furono di quelli, come il Machiavelli,
che gettarono via il paludamento troppo ricco di pieghe e di
strascichi, e preferirono veste succinta e moderna. Risuonarono anzi
frequenti, nel corso del secolo, le proteste contro le
imitazioni e le pedanterie; e i filosofi si ribellarono
ad Aristotele (all'Aristotele medievale dapprima, e poi anche
all'antico), e si appellarono alla verità che è superiore a Platone
e ad Aristotele; e i letterati propugnarono il diritto dei nuovi
«generi», e gli artisti ripetevano che le grandi maestre erano la
«natura» e l'«idea». Si sente nell'aria che non è lontano il tempo,
in cui alla domanda: — Chi sono i veri antichi? ossia, gli uomini
intellettualmente esperti e maturi? — si risponderà: — Noi —; e il
simbolo dell'antichità sarà infranto per ritrovarvi dentro la realtà
che è il pensiero umano sempre nuovo nei suoi atteggiamenti. Per
quanto tale risposta possa tardare a farsi chiara e sicura, e a
diventare oggetto di comune convincimento, essa, che sta per
sopraggiungere, basta a rischiarare sulla vera qualità di quel
ritorno all'antico, impedendo lo scambio del simbolo con la cosa
simboleggiata.
Questo involucro simbolico, cagione di pregiudizi ed equivoci, che
avvolgeva l'intera concezione dell'umanismo, non era il solo vizio,
di cui la storiografia del Rinascimento patisse. Non parliamo qui,
beninteso, del parteggiare ond'erano turbate le storie secondo che
ne fossero autori letterati cortigiani sostenenti gl'interessi del
loro signore, o storici ufficiali di repubbliche aristocratiche e
conservatrici come Venezia, o nomini dell'una e l'altra parte,
contrastante nel medesimo Stato, come degli ottimati e popolani in
Firenze, o magari propugnatori di opposte confessioni religiose,
come i centuriatori di Magdeburgo e il Baronio. E non parliamo
neppure degli storici che davano nel novelliere (e i novellieri
davano talvolta nello storico, come il Bandello), o di coloro che
ammannivano notizie per solleticare la curiosità e suscitare
scandali. Questo son cose di tutti i tempi e non valgono a
qualificare una particolare età storiografica. Ma, esaminando solo
ciò che è o vuol essere pensiero storico, la storiografia del
Rinascimento soffriva di altre due. sorta di vizi, che aveva
ereditate ciascuna dall'uno dei suoi progenitori, l'antichità e il
medioevo.
E, anzitutto, dall'antichità le proveniva la concezione
umanistico-astratta o prammatica che si dica, tendente a spiegare i
fatti mercé gl'individui presi nella loro singolarità e atomismo, o
mercé le astratte forme politiche, e simili. II principe è, per il
Machiavelli, non solo l'ideale, ma il criterio che egli adopera per
intendere gli avvenimenti: e non appare solamente nei trattati ed
opuscoli politici di lui, ma nelle
Istorie fiorentine, dove
ci s'imbatte sin dal bel principio, — dopo la terribile e fantastica
descrizione rielle condizioni d'Italia al quinto secolo, — nella
grande figura di Teodorico, per la cui «virtù» e «bontà» non
solamente Roma e Italia, ma tutte le altre parti dell'occidentale
imperio, «libere dalle continue battiture, che per tanti anni da
tante inondazioni avevano sopportate, si sollevarono, e in buon
ordine ed assai felice stato si ridussero»; e la stessa figura
ritorna in molteplici e varie incarnazioni nel corso di secoli
narrato da quelle storie. Perfino al termine della descrizione delle
lotte sociali di Firenze, si legge che questa città «a quel grado è
pervenuta che facilmente da un savio dator di leggi potrebbe essere
in qualunque forma di governo riordinata». Similmente la Storia d'Italia del
Guicciardini si apre con la descrizione della felicità d'Italia sul
cadere del secolo decimoquinto, «acquistata con varie occasioni o
conservata da molte cagioni, ma, tra le altre, non piccola, dall'
«industria e virtù di Lorenzo de'Medici», il quale «procurava con
ogni studio che le cose d'Italia in modo bilanciate si mantenessero,
che più in una che in un'altra parte non pendessero»; e aveva,
concorrenti nelle medesime sue intenzioni, Ferdinando d'Aragona e
Ludovico il Moro, «parte per i medesimi, parte per diversi
rispetti», e, di fronte ad essi tre, tenuti in freno, i Veneziani:
perfetto sistema meccanico di equilibrio, che si squilibra per la
morte di Lorenzo, di Ferdinando e del papa.
Il medesimo stile tengono allora tutti gli storici; e, sebbene si
andasse formando, come si è visto, vivace coscienza dei valori
spirituali dell'umanità, si continuava a trattarli come se
dipendessero dalla volontà e ingegno degl'individui, questi padroni
di quelli e non all'inverso: nella storia della pittura, il
«principe». pel Vasari, ad esempio, si chiama Giotto, il quale «egli
solo, ancora che nato tra artefici inetti, per dono di Dio, la
pittura che era per mala via, risuscitò ed a tale forma ridusse, che
si potette chiamar buona». Individualistiche sono altresì
costantemente le biografie, che non giungono mai a fondere in modo
perfetto l'individuo e l'opera che egli fa, e che a sua volta fa
lui. Con la concezione prammatica persisteva il suo antico
complemento, l'idea del caso o della Fortuna.
Il Machiavelli assegna il corso degli avvenimenti per metà alla
Fortuna e per metà alla prudenza umana; e, quantunque l'accento cada
qui sulla prudenza, la rivendicazione dell'una non abolisce la forza
dell'altra, ch'è misteriosa e trascendente. Il Guicciardini
polemizza contro coloro che, tutto attribuendo alla prudenza e
virtù, escludono «la potestà della fortuna», perché si vede che le
cose umane «a ogn'ora ricevono grandissimi moti di accidenti
fortuiti, e che non è in potestà degli uomini né a prevedergli né a
schivargli; e, benché lo accorgimento e sollecitudine degli uomini
possa moderare molte cose, nondimeno sola non basta, ma gli bisogna
ancora la buona fortuna».
Certamente nel Machiavelli sembra delinearsi qua e là un altro
concetto, la forza o logica delle cose, ma è appena un'ombra
fuggente; e un'ombra è anche nel Guicciardini, quando soggiunge che,
se anche si vuol dare il tutto alla prudenza o virtù, «bisogna
almanco confessare che importa assai
abbattersi o nascere in tempi che le virtù o qualità, per cui tu ti
stimi, siano in prezzo». Solo in un punto il Guicciardini rimane
cogitabondo, come se avesse intravisto qualcosa che non è più né
l'arbitrio dell'individuo né la contingenza della fortuna: «Quando
io considero a quanti accidenti e pericoli di infermità, di caso, di
violenza, e in modi infiniti, è sottoposta la vita, dell'uomo;
quante cose bisogna concorrino nell'anno a volere che la ricolta sia
buona; non è cosa di che io mi maravigli più, che vedere un uomo
vccchio, un anno fertile». Ma neppur qui si va oltre l'incertezza,
che in questo caso trova la sua manifestazione nello stupore.
Col ripristinamento, sia pure parziale, dell'idea di Fortuna, con la
restituzione del culto di questa divinità pagana, sparisce non solo
il Dio del cristianesimo, ma insieme con lui l'idea di razionalità,
di finalità, di svolgimento, che in forma difettiva e mitologica pur
si affermava nei concetti medievali. E torna l'idea antica, anzi
orientale, del circolo delle cose umane, che domina in tutti gli
storici del Rinascimento, e nel Machiavelli a capo di tutti: la
storia è una vicenda di vite e morti, di beni e mali, di felicità e
miserie, di splendori e decadenze. Anche il Vasari non intende
altrimenti la storia della pittura, simile a quella di tutte le
arti, le quali, «come i corpi umani, hanno il nascere, il crescere,
lo invecchiare ed il morire»; ed è sollecito a conservare nel suo
libro le memorie della felicità artistica dei suoi tempi, pel caso
che l'arte della pittura, «o per la trascuranza degli uomini o per
la malignità de' secoli oppure per ordine de' cicli (i quali non
pare che voglino lo cose di quaggiù mantenersi molto in un essere),
incorresse net medesimo disordine di rovina», in cui incorse
nell'evo medio.
Il Bodin, nel criticare e rigettare lo schema delle quattro
monarchie, e nel mostrare fallace l'asserita decadenza dall'oro al
rame, anzi all'argilla, e nel celebrare lo splendore delle lettere,
dei commerci, delle scoperte geografiche nell'età sua, non conclude
già pel progresso, ma pel circolo, dando torto a coloro che tutto
biasimano interiore negli antichi, «cum, æterna quadam lege naturæ, conversio rerum omnium
velut in orbem redire videaturv, ut æque vitia virtutibus,
ignoratio scientiæ, turpe honesto consequens sit, ac tenebra luci». Il tono triste, amaro,
pessimistico, che si avverte negli storici antichi e che a volte
prorompe nel tragico, si risente assai spesso negli storici del
Rinascimento, che molte cose carissime al loro cuore vedevano esser
perite, e per quelle di cui allora godevano erano costretti a
trepidare o, per lo meno, a tormentarsi nell'immaginazione, che
esse, in tempo più o meno prossimo, cederebbero il luogo alle loro
contrarie. E poiché la storia, in questo concetto, non è progresso
ma circolo, e non è retta dalla legge storica dello svolgimento ma
da quella naturale del circolo che le dà regolarità e uniformità,
segue che la storiografìa del Rinascimento, al pari della
greco-romana, ha il suo fine fuori di sé stessa, e per sé stessa non
porge altro che un materiale bruto, da valersene per le esortazioni
all'utile e al bene e pel vario diletto o per l'ornamento di
astratte verità.
In codesta parte storici e teorici della storia sono tutti concordi,
fatta eccezione di qualche spirito bizzarro, come il Patrizzi, che
moveva dubbi circa l'utilità del conoscere l'accaduto e circa la
verità stessa delle narrazioni, ma poi finiva col contradirsi e
porre anche lui un fine estrinseco. «Dalla cognizione di questi casi
tanto vari e tanto gravi (scrive il Guicciardini nel proemio alla Storia d'Italia) potrà ciascuno e per sé proprio e per bene
pubblico prendere molti salutiferi documenti, onde per innumerabili
esempi evidentemente apparirà a quanta instabilità siano sottoposte
le cose umane, quanto siano perniciosi il più delle volte a sé
stessi, ma sempre a' popoli, i consigli male misurati di
coloro che dominano, quando, avendo solamente innanzi agli occhi o
errori vani o le cupidità presenti, non si ricordando delle spesse
variazioni della fortuna, e convertendo in detrimento altrui la
potestà conceduta loro per la salute comune, si fanno, o per poca
prudenza o per troppa ambizione, autori di nuove perturbazioni».
E il Bodin reputa che dalle narrazioni storiche «non solum præsentia commode
explicantnr, sed ctiam futura colliguntur, certissimaque rerum
expetendarum ac fugiendarum præcapta constantur»; il
Campanella pensa che la storia debba comporsi «ut sit scientiarum fundamentam
sufficiens»; il
Vossio formola la definizione, destinata per più secoli a correre
nei trattati: «cognitio
singularium, quorum memoriam conservari utile sit ad bene beateque
vivendum».
Il sapere storico sembrava dunque in quel tempo (e tale giudizio si
è continuato fino ai giorni nostri) la forma più bassa e facile del
conoscere; talché il Bodin, oltre l'utilitas e l'oblectatio, riconosceva altresì alla storia la
facilitas, facilità così
grande «ut, sine ullius artis
adiumento, ipsa per sese ab omnibus intelligatur».
— Collocata la verità fuori del racconto storico, tutti gli storici
del Rinascimento, come i loro predecessori greci e romani,
praticarono, e tutti i teorici (dal Fontano nell'Actius al Vossio nell'Ars historica) difesero, l'uso
delle orazioni o concioni più o meno immaginarie; e non già per un
semplice piegarsi alla forza dell'esempio antico, ma per forza di
lor proprio convincimento. Finanche il signor De la Popelinière, nel
suo libro l'Histoire des
histoires, avec l'idée de l'Histoire accomplie
(1590), dove inculca a volte con così candida eloquenza i doveri
della esattezza e sincerità storica, salta su a difendere le fìnte «harangues et concions», per
questa bella ragione che ciò che importa è la «verità», e non le
«parole» in cui la si esprime!
La verità della storia era, insomma, non la storia, ma l'oratoria e
la scienza politica; e se gli storici del Rinascimento non poterono
quasi mai esercitare l'oratoria (alla quale le costituzioni
politiche di allora lasciavano poco campo), tutti o quasi furono
autori di trattati di scienza politica, diversamente ispirati
rispetto a quelli medievali che avevano concetto religioso ed etico,
e ripigliarono e fecero avanzare le speculazioni di Aristotele e
degli scrittori politici antichi. Del pari i trattati di arte
storica, ignoti al medioevo e che nel Rinascimento si moltiplicarono
rapidamente (se ne veda un gran numero nel Penus arts histnricæ, raccolto nel 1570),
ripigliarono e fecondarono le ricerche dei teorici greco-romani.
Che la storiografia ripresentasse allora in altra forma taluni
difetti della storiografia medievale, è da aspettare, pel già detto
suo carattere di reazione, e per quel che si è notato della nuova
divinità che innalzava sugli altari al posto dell'antica: l'umanità.
Il Rinascimento mostra dappertutto questo suo sforzo di contrapporre
l'un termine all'altro; e, poiché la scolastica aveva cercato le
cose di Dio e dell'anima, esso volle attenersi alle cose della
natura: e il Guicciardini, nel coro d'infiniti altri, chiamava
«pazzie» le indagazioni dei filosofi e dei teologi e di tutti coloro
«che scrivono le cose sopra natura o che non si veggono»; e, poiché
la scolastica aveva definito, aristotelicamente, «Scientia est de universalibus», il Campanella le contrapponeva il suo «Scientia est de singularibus».
Così parimenti i suoi letterati sconobbero dapprima a favore del
latino il diritto delle lingue nuove, formatesi nel medioevo, e la
letteratura e poesia medievale; e i giuristi, il diritto feudale pel
romano; e i politici le forme rappresentative per la signoria e la
monarchia assoluta. Fu allora che si foggiò il concetto dell'età
medievale come un tutto, contrapposto a un altro tutto, formato
dall'antico e dall'antico-moderno, anzi come un cuneo fastidioso e
doloroso conficcato tra queste due età. Certamente, la parola «
medicevo» divenne assai tardi vocabolo ufficiale, adoperato nelle
partizioni e titoli dei libri di storia (sulla fine del secolo
decimosettimo, per quel che sembra, e nei manuali del Cellario), e
prima era appena spuntata qua e là; ma il concetto che designava era
da un pezzo nell'aria, ossia negli animi di tutti, e si aiutava con
altre parole, come quelle di «secoli barbarici» o «gotici», e il
Vasari lo espresse con la distinzione di «antico» e di «vecchio»,
chiamando «antiche» le cose che furono innanzi a Costantino, di
Corinto, d'Atene e di Roma e d'altre famosissime città, fatte fino a
sotto Nerone, ai Vespasiani, Traiano. Adriano ed Antonino, e
«vecchio» quelle «che da San Silvestro in qua furono posto in
opera».
Comunque, la distinzione era chiara: dall'una parte, luce
fulgidissima, dall'altra fitto tenebrore; dopo Costantino (scrive lo
stesso Vasari), si smarrì «ogni sorta di virtù», e i «belli» animi e
gli «alti» ingegni si corruppero in «bruttissimi» e «bassissimi», e
il fervente zelo della «nuova religione cristiana» recò danno
infinito alle arti. Il che significa, né più né meno, che della
concezione medievale si ritenne uno dei tratti capitali, il
dualismo, sebbene diversamente lo si determinasse: perché adesso il
Dio era (quantunque non si dicesse aperto) l'antichità, l'arte, la
scienza, la vita greca e romana, e il suo avversario, il ribelle e
reprobo, era per converso il medioevo, i «gotici» templi, l'ispida
teologia e filosofia, le goffe e crudeli costumanze di quell'età.
Ma, appunto perché gli uffici rispettivi dei due termini erano
solamente invertiti, rimaneva la loro contrapposizione; e, se il
cristianesimo non riusci a intendere il paganesimo e a riconoscersi
suo figliuolo, il Rinascimento non si conobbe figliuolo del
medioevo, né intese il valore positivo e duraturo del periodo che si
chiudeva; e perciò, come si è già notato, l'una e l'altra età
distrussero o trascurarono e lasciarono disperdere i
monumenti di quella che l'aveva preceduta.
Assai meno, certamente, il Rinascimento, che ebbe modi meno violenti
di manifestazione, ed era travagliato nel fondo del suo pensiero, e
per effetto dell'idea dell'umanità, da un qualche oscuro sentimento
dell'importanza dell'età precedente; tanto che in quel tempo si
formò la già mentovata scuola di eruditi e filologi, che intese a
indagare le antichità medievali. Ma gli eruditi sono eruditi, cioè
non prendono viva parte alle lotte dei tempi di cui pur vanno
raccogliendo gli avanzi e riordinando le cronache, e spesso le
giudicano secondo l'opinione volgare dei propri tempi, sicché è cosa
ordinaria vedere gli eruditi spregiare la materia dei loro lavori, e
affermare che il poeta che essi studiano non val nulla, o che
l'epoca, alla cui storia consacrano l'intera vita, è inamena e
brutta.
Assai ci volle perché dalle cataste di anticaglie medievali, che gli
eruditi accumularono per secoli, si sprigionasse la fiamma
dell'intelligenza; e, nel Rinascimento, il medioevo, anche quando fu
investigato, fu aborrito. Il dramma dell'odio e dell'amore era non
dissimile nelle forme, non meno aspramente dualistico, sebbene di
gran lunga più interessante, di quello che allora si svolse tra
cattolici e protestanti: questi chiamanti il papa Anticristo, e il
primato della chiesa romana mysterium
iniquitatis, e compilanti un
catalogo testium veritatis,
di uomini pii che, pur durante il prevalere di quella iniquità,
l'avevano contrastata; e quelli rigettanti le medesime qualifiche
sopra Lutero e la sua riforma, e compilanti cataloghi di eretici,
testi di Satana. Ma questa lotta era uno strascico del passato, e
sarebbe via via finita per attenuazione e dispersione; laddove
l'altra era una premessa dell'avvenire, e poteva venir superata solo
con lunghi sforzi e mercé un nuovo ed altissimo concetto.
V
La storiografia dell'illuminismo
Intanto la storiografia, che immediatamente seguì, spinse
all'estremo la duplice aporia dell'antichità e del medioevo; e da
questo procedere spregiudicato e radicale le viene la spiccata
fisonomia e il diritto a essere considerata come un particolare
periodo storiografico. La veste simbolica, intessuta di ricordi del
mondo greco-romano, della quale lo spirito moderno si era dapprima
coperto, è ora stracciata e gettata via. A poco a poco si è fatto
strada e diventato generale negli animi il pensiero che gli antichi
erano stati non già i più vecchi e savi tra i popoli ma i più
giovani e inesperti, e che veri antichi, cioè esperti e maturi di
mente, dovevano tenersi gli uomini moderni. All'esempio e
all'autorità dei greco-romani, che di fronte alla cultura e ai
costumi dell'età barbarica stavano a rappresentare la ragione, segue
la Ragione nella sua nudità, salutata ormai col suo nome proprio; e
all'umanismo, con le sue unilaterali ammirazioni per certi popoli e
per certe l'orme di vita, succede l'umanitarismo, il culto
dell'umanità, idoleggiata anche sotto nome di «natura», cioè ingenua
e generale natura umana.
Le storie scritte in latino si diradano o restano confinate tra gli
eruditi, e si moltiplicano quelle nelle lingue nazionali; la critica
si esercita, non soltanto sulle falsificazioni e favole medievali,
sulle scritture composto nei chiostri da frati creduli e ignoranti,
ma sulle pagine degli storici antichi, e si affacciano i primi dubbi
sulla verità della tradizione storica romana: sebbene persista
tuttavia verso gli antichi una disposizione simpatica, laddove verso
il medioevo s'accresceva ognora più la repugnanza e l'aborrimento.
Tutti sentono, e dicono, che si è usciti non solo dalle tenebre ma
dai chiarori antelucani, e il sole della Ragione è alto
sull'orizzonte e rischiara gl'intelletti, e li irradia di luce
vivissima.
Luce , «rischiaramento». e simili, sono le parole che si pronunziano
ad ogni tratto e con sempre maggiore persuasione ed energia; onde il
nome di «età dei lumi», del «rischiaramento» o dell' «illuminismo»,
che si dà al periodo che va da Cartesio a Kant. E con quelle parole
un'altra, che prima si udiva di rado e solo in significato assai
ristretto, cominciava a circolare: «progresso»; e anch'essa si fa
sempre più insistente e familiare, finché si perviene a
designare il criterio per giudicarci fatti, per condurre la vita,
per costruire la storia, e l'oggetto di speciali indagini, e una
nuova sorta di storia: la storia dei progressi dello spirito umano.
Ma qui si osserva la persistenza e il potenziamento del pensiero
cristiano e teologico. Quel progresso, di cui tanto si parlava, era,
per dir così, un progresso senza svolgimento, e si manifestava
soprattutto con un respiro di soddisfazione e di sicurezza, pari a
quello di chi, dopo molte traversie, favorito dalla fortuna, guarda
con serenità il presente, confida nell'avvenire e storna la mente
dal passato, o vi ritorna appena qualche istante, per lamentarne la
bruttezza, per isprcgiarlo e per sorriderne. Si veda per tutti il
più intelligente e insieme il meglio rappresentativo degli storici
dell'illuminismo, il signor di Voltaire, il quale scrisse
il suo Essai sur le
mœurs per aiutare la sua amica marchesa clu Chàtelet
a «surmonter le dégoût» che le cagionava «l'histoire moderne depuis la décadence de l'Empire romain», e trattò quella storia con
tono di satira. 0 si veda il libro nel quale il secolo si compendia
e che appare alla sua fine quasi testamento (e testamento altresì
dell'uomo che lo scrisse) l'Esquisse
d'un tableau historique des progrès de l'esprit humain del
Condorcet: quanto lieto del presente anche in mezzo alle stragi
della Rivoluzione e roseo nelle viste sull'avvenire, altrettanto
pieno di disprezzo e di sarcasmo pel passato, che pure aveva
generato quel presente. La felicità dell'era in cui ormai si entrava
veniva affermata in modo reciso: in questo tempo (dice il Voltaire)
«les hommes ont acquis plus de
lumières d'un bout de l'Europa à l'autre que dans tous les àges
précédents». Ormai
l'uomo brandisce l'arma, alla quale niun'altra resiste: «la seule arme contro le monstre, c'est
la liaison: la seule manière d'empécher les hommes d'etre absurdes
et mèchants, c'est de les éclairer; pour rendre le fanatisme
exécrable, il ne faut que le peindre».
Certamente non si disconveniva che del bello e del buono fosse stato
anche nel passato: se la superstizione e la violenza lo avevano
oppresso, dunque c'era stato. «On
voit dans l'histoire les erreurs et les préjugés se succèder tour
à tour, et chasser la verité et la raison: on voit les habiles et
les heureux enchainer les imbécilles et écraser les infortunés; et
encore ces habiles et ces heureux sont cux-mèmes les jouets de la fortune, ainsi que les esclaves qu'ils goucernent».
E non solo il buono era esistito quantunque oppresso, ma aveva
operato altresì in certa misura: «au
milieu de ces saccagements et de ces destructions... nous voyons
un amour de l'ordre qui anime en secret le genre humain et qui a
prévenu sa ruine totale: c'est un des ressorts de la nature, qui reprend toujours sa force...».
E poi non bisognava dimenticare le «grandi epoche», i «secoli» in
cui per l'opera di sapienti uomini e
monarchi fiorirono le arti: «les quatre âges heureux» della storia.
Ma tra questo buono sporadico, fiacco od operante copertamente, o
comparso solo per qualche tempo e poi sparito, e quello dell'era
nuova, la differenza quantitativa ed energetica è tale che si cangia
in differenza qualitativa: viene un momento che gli uomini imparano
a pensare, rettificano le loro idee, e la storia passata appare ai
loro occhi come il mare tempestoso a chi è sbarcato sulla terra
ferma. Certamente, nei nuovi tempi non tutto è da lodare, anzi e
assai da biasimare: «les abus
servent de lois dans presque tonte la terre; et si les plus sages
des hommes s'assemblaient pour faire des lois, où est l'État dont
la forme subsistàt entière?»:
la distanza dall'ideale della ragione era ancora grande, e il nuovo
secolo doveva considerarsi ancora come una semplice tappa verso la
compiuta razionalità e felicità: la quale immaginazione di una forma
sociale limite si trova ancora nel Kant, che tanta filosofia
vecchia, intellettualistica e scolastica, si trascinò dietro.
Ovvero, la forma ultima non si scorgeva, e invece di essa si
presentiva un vertiginoso succedersi di forme sempre più radianti,
ma la serie di queste forme radianti o il progredire verso la forma
ultima e la distruzione degli abusi cominciava veramente, dopo
qualche conato ed episodio nei secoli anteriori, nel secolo dei
lumi, che solo aveva imbroccato la via giusta, larga e sicura, la
via rischiarata dalla Raison.
Accadde perfino nel corso di quel periodo, che una dottrina,
mettente capo al Rousseau, invertisse l'immagine comunemente
accolta, e ponesse la Raison, non nei tempi moderni o nel prossimo o
lontano avvenire, ma nel passato, e non già nel passato medievale o
greco-romano od orientale, ma nel passato preistorico, nello «stato
di natura», di cui la storia rappresentava la deviazione. Ma questa
teoria, diversa per le immagini in cui si
esplicava, era nella sua sostanza affatto identica con
la teoria generalmente ammessa, perché quello «stato di natura»,
preistorico, non ebbe mai esistenza nella realtà che è storia, ed
esprimeva uu ideale da raggiungere nel prossimo o lontano avvenire,
e del quale nell'epoca moderna si era per la prima volta ottenuta la
rivelazione, e poteva perciò cominciare il pratico avviamento,
attuazione o ritorno che fosse. A nessuno può rimanere celato il
carattere religioso di tutta codesta nuova concezione del mondo, che
ripete in terminologia laica i concetti cristiani di Dio, che è
verità e giustizia (il Dio laico), di paradiso terrestre, di
redenzione, di millennio, e via discorrendo; e che, al pari del
cristianesimo, oppone a sé stessa l'intera storia precedente, e la
condanna, e appena qua e là vi ammira qualche consolante barlume di
sé stessa. Che cosa importa che la religione, e il cristianesimo in
ispecie, fossero allora diventati bersaglio di colpi serissimi e di
onte e di beffe, e che si abbandonasse ogni ritegno, non più
appagandosi del discreto sorriso fiorito un tempo sulle labbra degli
umanisti italiani, e si prorompesse in aperta e fanatica guerra?
Anche il fanatismo laico è effetto di dommatismo.
E che cosa importa che la gente pia inorridisse e vedesse nel Dio
laico il vecchio Satana, come gl'illuministi scorgevano nel vecchio
Dio, impersonato nel sacerdote, il nume capriccioso, prepotente e
crudele? La possibilità delle reciproche accuse conferma il
dualismo, che travagliava la nuova concezione al pari della vecchia,
e la rendeva disadatta a comprendere lo svolgimento e la storia.
Parimenti si venne potenziando l'aporia storiografica
dell'antichità, l'individualismo astratto o concezione «prammatica»;
tanto che, proprio in quel tempo, si prese a riadoperare questa
formola, opponendo la prammatica, come storia delle idee, dei
sentimenti, dei calcoli e delle azioni umane, alla storia teologica
del medioevo, e, come racconto adorno di riflessioni, alle vecchie
ingenue cronache o alle raccolte erudite di notizie e documenti. Il
Voltaire, che in tutti i suoi scritti, storici e non istorici,
combatte e beffeggia la credenza nei disegni e punizioni divine e
nel primato della piccola popolazione barbarica chiamata a fungere
da popolo eletto e da asse della storia universale (salvo a
sostituirvi la teologia laica che si è descritta), è il medesimo che
loda nel Guicciardini e nel Machiavelli la prima apparizione o
riapparizione di una «histoire
bien faite».
La considerazione prammatica fu estesa perfino al racconto delle
vicende della religione e della chiesa, e in Germania la applicarono
il Mosheim e altri; e, per questo penetrare del razionalismo nella
storiografia ecclesiastica e nella filosofia protestante, parve
dipoi che la Riforma avesse fatto avanzare il pensiero, laddove
essa, per questa parte, accolse semplicemente, nella nuova forma, il
pensiero umanistico, al quale era stata dapprima contraria; e se, in
altro rispetto, aiutò in modo originale
l'avanzamento della concezione storica, ciò
accadde per l'efficacia di un diverso elemento, che in
lei ferveva, del misticismo, come vedremo. Ma, per intanto, dalla
prammatica non rimase immune nemmeno il cattolicesimo; e le tracce
se ne vedono nello stesso Discours
del Bossuet, che ripresenta la concezione agostiniana, ma sfrondata
e temperata e ammodernata, senza il dualismo irriconciliabile delle
due città e senza l'impero romano come ultimo e duraturo impero, e
lascia accanto all'intervento divino operare le cause naturali
predisposte da Dio e regolate da leggi, e concede larga parte alle
condizioni sociali e politiche dei vari popoli: senza parlare
dell'ulteriore passo che lo stesso autore compie nella Histoire des variations des Églises
a concepire oggettivamente e nei suoi motivi interni la storia della
Riforma, presentandola come moto di ribellione all'autorità.
Il suo stesso avversario Voltaire riconosceva che il Bossuet,
oltre la volontà, divina a favore del popolo eletto, non aveva
omesso «d'autres causes», perché aveva tenuto conto più volte «de l'esprit des nations». Tanta
era la forza dell' «esprit du siècle».
Le concezioni prammatiche di quel tempo sono ancora così note, così
prossime a noi, così persistenti in tanti dei nostri racconti e
manuali di storia, che non gioverebbe andarle rassegnando. Volgendo
il pensiero ai libri del secolo decimottavo, subito risorge nella
memoria il profilo generale di una storia in cui i sacerdoti
ingannano, i cortigiani intrigano, i saggi monarchi escogitano ed
attuano buone istituzioni, combattute o rese presto vane dalla
malignità altrui e dalla plebea ignoranza, e nondimeno perpetuo
oggetto di ammirazione e di gratitudine per gli spiriti rischiarati.
E risorge insieme, in quella evocazione, l'immagine del Caso o del
Capriccio, che si mescola alle storie di queste lotte, e le complica
vieppiù e ne rende più strane e stupefacenti lo risultanze. E
qua!'era l'utilità, ossia il fine, dei racconti storici per quegli
storici?
Basta anche qui rileggere qualche rigo del Voltaire: «Cet avantage consiste surtout dans la
comparaison qi'un homme d'état, un citoiyen peut faire des lois et
des mœurs etrangères avec celles de son pays: c'est ce qui excite
l'émulation des nations modernes dans les arts, dans
l'agriculture, dans le commerce. Les grandes fautes passées
servent beaucoup à tout genre. On ne saurait trop remettre devant
les yeux les crirnes et les malheurs: on puut, quoi qu'on en disc,
prévenir les uns et les autres».
Il qual concetto è ripetuto in molte varianti verbali e si ritrova
in quasi tutti i libri di teoria storiografica di allora, che, con
esposizione più spigliata e popolare, continuavano i trattati
italiani del Rinascimento.
La parola «filosofia della storia», che ebbe poi tanto varia
fortuna, servì dapprima a designare il sussidio che dalla storia si
poteva trarre di moniti e di benefici precetti, quando
la si investigasse spregiudicatamente, cioè con l'unico
«pregiudizio» della Raison.
Il fine estrinseco, segnato alla storia, portò alle stesse
conseguenze che nell'antichità, quando la storia si oratorizzò e
furono composti perfino romanzi storico-pedagogici, e nel
Rinascimento, quando si serbarono le «concioni» e si trattò la
storia come materiale più o meno adatto per certi fini, onde nacque
una certa tal quale indifferenza verso la sua verità, sicché il
Machiavelli, per esempio, desumeva leggi e precetti dalle deche
liviane, non solo presupponendo la verità di queste, ma adoperandole
in quelle parti che a lui stesso dovevano mostrarsi chiaramente
favolose. Le concioni andarono sparendo, ma la sparizione fu
effetto, più che d'altro, di buon gusto letterario, che avvertiva la
discordanza di quegli espedienti col nuovo tono popolare, prosaico,
polemico, dato nel secolo decimottavo alle narrazioni.
In cambio, si ebbe di peggio: invalse la disistima per la verità
storica, che fu considerata come realtà inferiore, indegna del
filosofo, il quale cerca le leggi, il costante, l'uniforme, il
generale, e può trovarlo in sé e nell'osservazione diretta della
natura esterna e interna, naturale e umana, senza compiere quel
lungo, inutile e pericoloso giro attraverso i fatti narrati nelle
storie. Cartesio e il Malebranche, e la lunga tratta dei loro
seguaci, non hanno qui bisogno di particolare ricordo, essendo ben
noto come, allora, matematica e naturalismo primeggiassero sopra la
storia e la deprimessero. Ma la verità storica era, per lo meno, una
verità inferiore? Neanche codesto parve da concedere, dopo migliore
riflessione. In istoria, diceva il Voltaire, la parola «certo», che
vale a designare conoscenze come «due e due fanno quattro», «io
penso», «io soffro», «io esisto», deve usarsi assai di rado, e nel
solo significato di «molto probabile»: che era già troppo dire, al
giudizio di altri, i quali negarono affatto la verità della storia e
la dichiararono una raccolta di favole, d'invenzioni e di equivoci,
o di affermazioni indimostrabili: donde lo scetticismo o pirronismo
storico, che si manifestò a più riprese nel secolo decimottavo e ci
ha lasciato a documento di sé una serie di curiosi libercoli. Tale,
difatti, la conseguenza irreparabile, sempre che la conoscenza
storica venga concepita come un ammasso di testimonianze
individuali, dettate o alterate dalle passioni o fraintese
dall'ignoranza, e buone tutt'al più a fornire esempi edificanti e
terrificanti in conferma delle verità eterne della ragione, le
quali, del resto, rifulgono di luce propria.
Sarebbe nondimeno affatto erroneo, fondandosi, come si suole, sulla
esagerazione alla quale nella storiografia illuministica pervennero
le tendenze teologiche e prammatiche, vedere in essa una decadenza o
regresso a paragone della storiografia del Rinascimento e delle
anteriori in genere. In quel tempo non si svolsero solo germi di
errori, ossia non solo si fecero più acute le difficoltà, apparse
nel periodo precedente, ma si svolse altresì e s'innalzò ad alto
grado quella storiografia dei valori spirituali che il cristianesimo
aveva intensificata, e quasi creata, e il Rinascimento cominciato a
trasferire dal ciclo alla terra. Il Voltaire storiografo meritava di
essere difeso (come hanno fatto di recente parecchi ed ottimamente
il Fueter nel suo libro), perché egli avverte in modo vivo il
bisogno di riportare la storia dall'esterno all'interno e si sforza
di soddisfarlo; onde i libri, che davano ragguagli di guerre,
trattati, cerimonie e solennità, gli sembravano nient'altro che
«archivi» o «dizionari storici», buoni a consultare in certe
occorrenze, ma la storia, la storia vera, tutt'altra cosa. Uflicio
di questa non poteva essere di aggravare la memoria di fatti
estrinseci o bruti, o, come egli diceva, di accadimenti
(événements), ma di
scoprire quale fosse stata, nel passato, «la société des hominee, comment on
vivait dans l'intérieur des familles, quels arts étaient cultivés», e di dipingere, insomma, i «costumi» (les mœurs); non di perdersi
nella moltitudine dei particolari insignificanti (petits faits), ma di recare
solo quelli ragguardevoli (les
seuls considérables) e spiegare lo spirito (l'esprit), che li aveva
prodotti.
Attraverso la preferenza accordata ai costumi sulle battaglie spunta
nel Voltaire anche il concetto (sebbene rimanga poi senza adeguata
esecuzione o vada smarrito nell'ardore polemico) che alla storia non
spetti tracciare il quadro dello miserie e cattiverie umane (les détails de la fureur et de la
misère humaine), ma appunto dei costumi
e delle arti, ossia dell'opera positiva: nel suo Siècle de Louis
XIV dice di voler lumeggiare il governo di quel monarca non
in quanto «il a fait du bien aux français», ma in quanto «il a fait du bien aux hommes».
Quello che il Voltaire si propose, e in non piccola parte recò in
atto, forma l'oggetto precipuo dei lavori di tutti gli storici di
quel periodo; e chi ne ha vaghezza, può vedere nel libro del Fueter
come i grandi quadri volteriani dell'Essai sur le moeurs e del Siècle
trovassero rispondenza nelle pagine di scrittori e francesi e di
altri paesi d'Europa, per esempio nella celebre introduzione del
Robertson alla sua storia di Carlo V. Si noterà anche il
moltiplicarsi e perfezionarsi delle speciali storie di questo o
quell'aspetto della cultura, come se si adempiessero via via
parecchi dei desiderata, che il Bacone aveva manifestati nella sua
classificazione della storia. La storia della filosofia abbandona
sempre più il tipo delle raccolte di aneddoti e sentenze di
filosofi, per diventare storia dei sistemi, dal Brucker al Buhle e
al Tiedemann. La storia dell'arte si configura a speciale problema
nell'opera del Winckelmann e dei suoi seguaci; quella della
letteratura, nei libri stessi del Voltaire e della sua scuola;
quella del diritto e delle istituzioni ha in
Francia rappresentanti come il Dubos e il Montesquieu, e in Germania
matura un'opera così originale e realistica come le storie di
Osnabrück del Möser; quella dell'industria e del commercio si
distacca dalle sezioni o digressioni storiche dei trattati di
economia e fa corpo a sé nel libro speciale dello Heeren; quella
delle costumanze sociali investe (come nel libro del Sainte-Palaye
sull'Ancienne chevalerie) fino i più minuti aspetti della
vita sociale e morale: non aveva detto il Voltaire, a proposito dei
tornei, che «il se fait des
révolutions dans les plaisirs comme dans tout le
reste»?
E, per restringerci all'Italia, la quale anche allora fu iniziatrice
e poco dipoi si trasse indietro e ricevette l'impulso dagli altri
paesi d'Europa, giova rammentare che nel secolo decimottavo Pietro
Giannone, raccogliendo i desideri e i tentativi di una moltitudine
di pubblicisti e investigatori connazionali e contemporanei, tracciò
la storia civile del regno di Napoli, svolgendo ampiamente i
rapporti tra Chiesa e Stato e le vicende della legislazione, nel che
fu seguito da molti in Italia e fuori (e tra i molti furono il
Montesquieu e il Gibbon); che Ludovico Antonio Muratori illustrò
sotto tutti gli aspetti la vita medievale nelle Antiquitates Italiæ; che il Tiraboschi compose
una vasta storia della letteratura italiana (intesa come quella
dell'intera cultura italiana), insigne non meno per l'erudizione che
per la nettezza del disegno, ed altri minori, come il Napoli
Signorelli, nelle Vicende della
cultura delle due Sicilie, la particolareggiarono per
singole regioni, cospargendola della filosofia dei nuovi tempi; che
il gesuita Bettinelli imitò i libri storici del Voltaire per la
storia delle lettere, arti e costumi in Italia, e il Buonafede
quelli del Brucker per la storia della filosofia, e, in modo assai
migliore di costoro, il Lanzi prosegui l'indirizzo del Winekelmann
nella sua Storia della pittura.
Né solamente la storiografia dell'illuminismo rese più
«interiore» la storia e la svolse in questa sua interiorità, ma
anche l'ampliò assai nello spazio e nel tempo. Anche qui il Voltaire
rappresenta in modo eminente i bisogni dell'età sua con la continua
accusa ch'egli muove di angustia e meschinità alla tradizionale
immagine della storia universale, composta di storia ebraica o sacra
e di storia greco-romana o profana, o (come dice) alle «histoires prétendues universelles,
fabriquées dans notre Occident».
Si cominciava a mettere in opera il materiale scoperto, trasportato,
accumulalo dagli esploratori e viaggiatori dal Rinascimento in poi,
e in non piccola parte dai gesuiti e missionari; e l'India e la Cina
attraevano l'attenzione così per l'antichità loro come per l'alto
grado a cui le loro civiltà erano pervenute. Presto sopraggiunsero
traduzioni di testi religiosi e letterari orientali e. si poto
discorrere di quelle civiltà non solo di seconda ninno ossia per
relazioni di viaggiatori. Al quale ampliamento verso l'Oriente fa
riscontro l'accrescimento del sapere non solo circa l'antichità (i
cui studi non furono mai intermessi, ma spostarono il loro centro
dapprima dall'Italia alla Francia e all'Olanda, e poi
all'Inghilterra, e poi alla Germania), ma circa il medioevo, coi
lavori dei maurini, del Leibniz e del Muratori e di moltissimi
altri, che anche qui specializzarono le ricerche per oggetti e per
regioni e città, come il De Meo negli Annali critici del Regno di Napoli.
Con l'accresciuta erudizione, con l'accresciuta varietà dei
documenti e delle notizie di cui si disponeva, andò di pari passo
l'affinata critica circa l'autenticità degli uni e il valore di
testimonianza delle altre; e il Fueter bene nota il progresso
metodico che si compì dai maurini e dal Leibniz, (il quale, per
filosofo che fosse, non sorpassò il livello di quei bravi e dotti
monaci) fino al Muratori, che non si restrinse alla genuinità della
tradizione, ma iniziò la critica delle tendenze dei
singoli testimoni, degli iuteressi e delle passioni che colorano e
configurano i racconti.
E un'altra critica promovevano gl'illuministi, e a capo di essi il
Voltaire, una critica più intrinseca, che si volge alle cose e in
forza della cognizione delle cose (della esperienza letteraria,
morale, politica, militare) riconosce impossibile che questi e quei
fatti siano andati al modo che li raccontano gli storici
superficiali o creduli o interessati, e si prova a ricostruirli come
solo poterono logicamente accadere. Nel Voltaire si ammirerà
(segnatamente nel Siècle) la diffidenza verso tutte le dicerie di
cortigiani e servitori, adusati a foggiare calunnie e a interpetrare
malignamente e aneddoticamente le oggettive azioni dei sovrani e
degli uomini di Stato. Questo avveniva perché la storiografia
dell'illuminismo, pure serbando e anzi esagerando il prammatismo,
per un altro verso lo assottigliava e spiritualizzava: come già si
sarà notato nelle espressioni che il Voltaire predilige e di cui
nota l'uso perfino nel teologizzante Bossuet: «l'esprit des nations», «l'esprit
da temps».
Che cosa fosse codesto esprit, rimaneva, beninteso, noi vago, perche
a riportarlo alle determinazioni ideali dello spirito nel suo
svolgimento e a concepire le varie epoche o le varie nazioni come
sostenenti ciascuna la propria parte nel dramma spirituale, mancava
il necessario appoggio nella filosofia del tempo, nella quale quelle
nuove parole, quei nuovi abbozzi di concetti introducevano un poco
avvertito elemento di contrasto. E accadeva spesso che l'esprit si
pervertisse in una qualità fissa, nella razza, se si parlava di
nazioni, e in una corrente o moda, se si parlava di tempi, e venisse
per tal modo naturalizzato e prammatizzato. «Trois choses (scriveva il
Voltaire) influent sans cesse sur
l'esprit des hommes, le climat, le gouvernement et la religion:
c'est la seule manière d'expliquer l'enigma da monde»: dove lo « spirito» è abbassato a
prodotto di circostanze naturali e sociali.
Tuttavia, la suggestiva parola era dotta, e da essa sarebbe a poco a
poco sorta la chiara coscienza dei termini stessi della lotta
sociale e politica e culturale che si combatteva; e, per intanto,
clima, governo, religione, genio dei popoli, genio dei tempi erano
tutti tentativi più o meno felici per andar oltre il prammatismo e
riporre la causalità in un ordine universale. Codesto sforzo e
insieme il suo limite, ossia la ricaduta nella forma astratta e
prammatica di spiegazione, è mostrato anche dalla dottrina del
«singolo avvenimento», che. determinerebbe a un tratto la nuova
epoca di civiltà o di barbarie; sicché allora si prese ad assegnare
potere straordinario allo Crociate o alla occupazione turca di
Costantinopoli, come ricorda il Fueter con particolare allusione
alla storia del Robertson.
Conseguenza del medesimo impaccio era la forma poco fusa delle
storie che allora si composero della cultura, dei costumi e delle
arti, le quali porgevano l'uua dopo l'altra lo varie manifestazioni
della vita senza riuscire, e neppure provarsi, a svolgerle
organicamente.
Senza dubbio, oltre che in questa prammatica e naturalismo, le nuove
e gagliarde tendenze della storiografia dell'illuminismo urtavano
nelle altre barriere, che le venivano opposte dal già descritto
dualismo tcologico-laico, il quale fluiva col negare il principio
stesso dello svolgimento, perché il giudizio del passato come
tenebra ed errore precludeva ogni seria coscienza della religione,
della poesia, della filosofia, delle istituzioni primitive o
sorpassate. Che cosa era, pel Voltaire, un istituto di tanta
importanza nel processo formativo dell'osservazione e induzione
scientifica quale la pratica della «divinazione» nelle civiltà
primitive? L'invenzione «du
premier fripon qui rencontra un imbecille». Che cosa
gli oracoli, altresì di tanta efficacia nella vita antica? «Des fourberies». A che si riducevano le lotte teologiche del
secolo decimosesto tra cattolici, luterani e calvinisti intorno
all'eucaristia? Allo spettacolo ridicolo che i papisti «mangeaient Dieu pour pain, Ics luthériens du pain et Dieu, les calvinistes
mangèrent le pain et ne mangèrent point Dieu». Quale
l'unico fine che il tentativo giansenistico poteva conseguire? La
seccatura: una sequela di noiose «querelles
thèologiques» e di pettegole «querelles de plume»; talché degli scritti di
coloro che vi parteciparono non è rimasto altro che la geometria, la
grammatica ragionata, la logica, ossia ciò solo «qui appartient à la raison»: le «querelles thèologiques» furono «une maladie de plus dans l'esprit
humain». Né meglio è trattata la filosofia delle età
anteriori: quella di Platone era nient'altro che «une mauvaise métaphisique», un tessuto di cattivi ragionamenti ehe
sembra impossibile fossero ammirati, e accresciuti di altri più,
stravaganti, per secoli e secoli, finché non venne Locke: «Locke, qui seul a développé
l'entendement humain dans un livre ou il n'y a que des vérités,
et, ce qui rend l'ouvrage parfait, toutes les vérités sont claires».
In poesia, le cose moderne erano messe più su delle antiche,
la Gerusalemme sopra l'Iliade, l'Orlando sopra l'Odissea, Dante
sembrava oscuro e goffo, Shakespeare un barbaro non privo d'ingegno:
di letteratura medievale non si voleva udir nulla: «On a recueilli quelques malheureuses
compositions de ce temps: e'est faire un amas de cailloux tirés
d'antiques masures quand on est entourè de palais»; e
Federico di Prussia, in ciò volteriano conscguente, non mostrava
buon viso all'edizione del Niebelungenlied e degli altri monumenti dell'epica
germanica.
Insomma, tutto il passato perdeva valore o conservava solamente il
valore negativo del male: «Que les
citoyens d'une ville immense, ou les arts, les plaisirs et la paix
règnent aujourd' hui, ou la raison mème commence à s'introduire,
compareut les temps, e qu'ils se plaignent, s'ils l'osent. C'est
une réflexion qu'il faut faire presqne à chaque page de cette
histoire».
La mancanza del concetto di svolgimento rendeva sterili gli stessi
grandi acquisti di cognizioni su cose e popoli lontani; e per
meritorio che fosse introdurre l'India o la Cina nella storia
universale, e giustificata por certi rispetti la critica e la satira
delle «quattro monarchie» e della storia «sacra», giova non
dimenticare che nella concezione sbeffeggiata si soddisfaceva il
legittimo bisogno di intendere la storia nel suo legame con la vita
spirituale cristiana ed europea; e che se non si fosse venuto a capo
(e allora non si venne) di formare un più ricco nesso nel quale si
comprendessero l'Arabia e l'India e la Cina e le civiltà americane e
tutte le altre cose nuovamente scoperte, queste aggiunte cognizioni
sarebbero rimaste mero oggetto di curiosità o di immaginazioni.
L'India, la Cina e l'Oriente in genere servirono perciò, nel
Settecento, a poco più che a manifestare l'affetto per la
tolleranza, anzi per l'indifferentismo religioso; e quei lontani
paesi, nei quali non era furore di proselitismo, e che non inviavano
missionari a infastidire l'Europa che pur ne mandava a loro, non
furono trattati come realtà storiche né ottennero il loro posto
nello svolgimento dello spirito, ma diventarono ideali vagheggiati,
paesi di sogno.
Coloro che ai nostri giorni rinnovano gli encomi della tolleranza
asiatica, contrapponendola all'intolleranza europea, e vanno in
solluchero per tanta saggezza e mansuetudine, ignorano di solito che
con ciò rifanno inutilmente e inopportunamente il già fatto dal
Voltaire, il quale, se in questo caso non giovava alla migliore
intelligenza storica, almeno adempiva un ufficio pratico e morale,
necessario nelle condizioni dei tempi suoi.
Il difettivo concetto di svolgimento, e non già circostanze
accidentali come le tendenze pubblicistiche, giornalistiche e
letterarie dei principali di quegli storici, è anche la ragione
profonda del mancato contatto e congiungimento tra l'immensa
erudizione accumulata dai filologi settecenteschi, e la storiografìa
dell'illuminismo. In qual modo tener conto di quei documenti e
ragguagli per ricostruire il faticoso e lento svolgersi dello
spirito, se, secondo la nuova concezione, lo spirito non si svolgeva
ma saltava, ed aveva appunto allora spiccato un gran salto,
distanziando infinitamente il passato? Bastava, tutt'al più, frugare
dentro di essi, di tanto in tanto, per cavarne qualche particolare
curioso, che calzasse alle polemiche attuali. «C'est un vaste magazin, où vous prendrez ce qui est à votre usage»,
diceva il Voltaire. Così eruditi e illuministi, figli del medesimo
tempo, restavano tra loro divisi, i primi incapaci d'innalzarsi alla
storia vera per poca vivacità di spirito, gli altri oltrepassandola
per troppa vivacità e riducendola a una l'orma di pubblicistica.
Tutti codesti limiti, appunto perché limiti, segnano l'ambito
proprio della storiografìa dell'illuminismo, ma non dicono già che
essa non avesse e camminato e progredito.
Quella storiografia, profondata ne! lavoro che allora urgeva,
avvolta nello splendore delle verità che andava suscitando intorno a
sé, non si avvide, o di rado e appena, di quei limiti e di quelle
aporie; e senti solo che progrediva, ed assai rapidamente, né in
questo suo sentire s'ingannava. E non s'ingannano quei critici (tra
cui il Fueter), i quali ora la difendono dalla cattiva fama che si è
acquistata, e ne celebrano le molteplici virtù, che anche nella
nostra esposizione sono state messe in lnce, e accresciute, e
mostrate nel loro legame ed unità. Pare non è lecito lasciare senza
spiegazione quella cattiva fama, la quale suona ben diversa dalla
semplice e consueta svalutazione che ogni periodo storico compie del
periodo precedente col renderlo a sé inferiore; ed è invece un
particolare giudizio di svalutazione, pronunziato perfino sul
confronto delle epoche che precessero l'illuminismo, talché questo,
e non già, per esempio, il Rinascimento, ha
ricevuto per eminenza l'epiteto di «antistorico»
(«l'antistorico secolo decimottavo»).
E la spiegazione si ottiene ripensando al dissipamento accaduto
allora di ogni velo simbolico, desunto dalla veneranda antichità, e
al crudo dualismo e contrasto, che si venne stabilendo tra Storia e
Ragione. Il Rinascimento era anch'esso affermazione della ragione
umana, ma, nell'atto che rompeva con la tradizione medievale, si
sentiva tuttavia legato a quella classica, e ciò gli dette come
un'apparenza di coscienza storica (apparenza, non realtà). Ai
filosofi antichi, a Platone contro Aristotele o all'Aristotele greco
contro quello dei comentatori, si richiamarono sovente i filosofi
del Rinascimento, e sotto la loro protezione si collocarono. Coi
precetti dell'antichità, sia pure sottilizzando e sofisticando,
corcarono i letterati di giustificare le nuove opere d'arte e i
nuovi giudizi; e filosofi e critici e artisti volsero le spalle
all'antichità solo quando e dove non era proprio possibile
conciliazione alcuna, e anche in questo caso ciò osarono solamente i
più ardimentosi. Le repubbliche antiche erano tolte in esempio dai
politici, e Livio fu il loro testo, come pei cristiani la Bibbia: e
la religione, spenta o spegnentesi negli animi degli uomini colti,
era serbata come necessità pel popolo, strumento di governo, forma
volgare di filosofia: nel che più o meno concordano tutti, dal
Machiavelli al Bruno.
Il savio legislatore o il «principe» del Machiavelli e il despota
illuminato del Voltaire, idealizzamenti entrambi delle monarchie
assolute che per quattro secoli plasmarono politicamente l'Europa,
sostanzialmente sono affini; ma il politico cinquecentista, esperto
delle debolezze umane e carico di tutta l'esperienza della ricca
storia di Grecia e di Roma, studiava astuzie e transazioni, dove
l'illuminista settecentista, imbaldanzito dalle sempre nuove
vittorie della Raison,
levava la bandiera di questa, e per questa impugnava la spada, e non
provava alcun bisogno di coprirsi il volto di maschera. Il re Numa
foggiava una religione per ingannare la plebe, e ne era lodato dal
Machiavelli; ma il Voltaire l'avrebbe vituperato, come odiava e
vituperava tutti gl'inventori di domini e promotori di fanatismi.
Che più? II razionalismo del Rinascimento fu opera precipua
dell'ingegno italiano, equilibrato, schivante gli eccessi,
accomodante, artistico; l'illuminismo, opera precipua dell'ingegno
francese, radicale, consequenziario, corrente agli estremi,
logicista. Messi al paragone i due ingegni e le due epoche,
l'illuminismo doveva sembrare antistorico rispetto al Rinascimento,
che, per virtù del confronto in tal modo e per tal fine istituito,
veniva dotato di una intelligenza storica, di un senso dello
svolgimento, che in effetto non ebbe, essendo stato intrinsecamente
razionalista e antistorico come l'altro, e, in certo senso, più
dell'altro. E dico più dell'altro, non solo perché l'altro, come si
è mostrato, accrebbe assai le cognizioni e le idee storiche, ma
anche appunto perché fece scoppiare tutte le contradizioni latenti
nel Rinascimento: e questo fa un apparente regresso della coscienza
storica, ma un effettivo incremento nella vita, e perciò nella
coscienza storica stessa, come si vide chiaro subito dopo.
Il trionfo e la catastrofe dell'illuminismo fu la Rivoluzione
francese; e questa fu insieme la catastrofe e la catarsi della sua
storiografia.
VI
La storiografia del romanticismo
La reazione si manifestò col ritorno sentimentale al passato, e con
la difesa che i politici impresero delle vecchie istituzioni, degne
di essere serbate o rimesse in vita. Di qui due forme di
rappresentazione storica, che sono bensì in qualche misura di tutti
i tempi, ma che nel periodo romantico ebbero gran vigore: la
storiografia nostalgica, e la storiografia restauratrice. E poiché
il passato al quale i cuori si volgevano e che formava materia di
raccomandazioni pratiche, era precipuamente quello che l'illuminismo
e la rivoluziono avevano avversato e abbattuto, — il medioevo, e
tutto ciò che al medioevo somigliava o pareva somigliare, — l'una e
l'altra storiografia furono, per così dire, medievalizzate. Come un
corso d'acqua, stornato a forza dal suo letto naturale, vi rientra
fragorosamente non appena rimossi gli ostacoli, un gran sospiro di
soddisfazione e di giubilo, un caldo palpito di tenerezza dilatò e
avvivò i petti, nel riabbracciare, dopo così lunga ascesi
razionalistica, la vecchia religione, le vecchie costumanze
nazionali, regionali e locali, o rientrare nelle vecchie case e
castelli e cattedrali, e ricantare le vecchie canzoni, e risognare
le vecchie leggende; e, in questo tumulto di sentimenti, non si
avverti alla prima la profonda irremediabile mutazione accaduta
negli animi, e attcstata dall'ansia stossa, dallo spasimo, dal
pathos di quell'apparente ritorno.
Sarebbe un rimpicciolire la storiografia nostalgica del romanticismo
se la si facesse consistere in alcune particolari opere letterarie;
perché veramente essa penetrò in tutte o quasi le scritture di quel
tempo come una corrente irresistibile, e si avverte non solo nei
minori e meno ricchi ingegni, come nel De Barante, non solo nei
temperamenti più poeticamente disposti come lo Chateaubriand, ma
negli storici che presentano pensieri più importanti o schiettamente
scientifici, per esempio nel Niebuhr. Divennero allora oggetto di
universale o nazionale simpatia la vita cavalleresca, e la vita
claustrale, le crociate, gli Hohenstaufen, i comuni lombardi e
fiamminghi, i regni cristiani di Spagna lottanti con gli arabi, gli
arabi slessi, e l'Inghilterra divisa tra sassoni e normanni, e la
Svizzera di Guglielmo Tell, e le Chansons
de geste e i canti dei trovatori e
l'architettura gotica (caratteristica vicenda di un nome, escogitato
già dal disprezzo e diventato allora nome di affetto), e la poesia,
la letteratura e l'arte, rozze, ingenue e popolari: si ristamparono
perfino tradotte o ridotte le cronache medievali, a godimento di
larga e bramosa cerchia di lettori; si raccolsero i primi musei
medievali, e si procurò di restaurare e compiere nello stile antico
chiese e castelli e palazzi di città.
La storiografia entrò in istretta relazione e scambio col nuovo
genere letterario, il romanzo storico, che originariamente nello
Scott, e poi nei suoi innumerevoli seguaci in tutti i paesi,
esprimeva la medesima nostalgia (e si distingueva perciò
profondamente dal romanzo storico del Manzoni, che è sgombro di
questo sentimento e la cui storicità è critica morale). Nostalgia,
come si è detto, assai più moderna nel suo contenuto che non si
credesse dapprima; tantoché ciascuno vi fu portato dal suo
particolare motivo, religioso o politico, vecchio cattolicismo,
misticismo, monarchia costituzionale, repubblica comunale,
indipendenza nazionale e libertà democratica o aristocratica.
Nondimeno, adoperando il passato come immagine poetica, si correva
il rischio di mettere in contrasto la tendenza idealizzatricc delle
immagini con la riflessione critica; onde il ridicolo nel quale il
culto pel medioevo, divenuto superstizione, doveva risolversi.
Il Fueter riferisce un arguto motto del Ranke a proposito di uno
degli ultimi ragguardevoli rappresentanti della scuola romantica,
del Giesebrecht, autore della Storia
dell' impero tedesco, e ammiratore ed esaltatore delle
«virtù cristiano-germaniche», della prestanza e possanza volitiva
propria degli eroi medievali: il che il Ranke ebbe a definire
«troppo virile e insieme puerile». Ma la puerilità, che è dato
avvertire alle scaturigini di quella corrente ideale, prima del suo
urto nel comico, è piuttosto la sublime puerizia del sogno poetico.
I motivi moderni e attuali, che nella storiografia nostalgica si
presentano come sentimenti, acquistavano forma riflessa, presso i
medesimi o altri scrittori, come tendenze al cui servigio si
piegavano i racconti; e anche qui sarebbe superfluo passare in
rassegna tutte le varie forme e specificazioni di esse tendenze
(cosa, d'altronde, già. ottimamente fatta dal Fueter): dal
persistente rousseauianismo di Giovanni Müller e del Sismondi, o
dall'ideale del libero contadiname del Niebuhr, o da quello
oltramontano del Leo, o imperialistico-mcdievale del già ricordato
Giesebrecht e del Ficker, o vecchio-liberale del Ranner, o
neo-liberale del Rotteck e del Gervinus, all'anglicizzante del
Guizot e del Dahlmann, al democratico del Michelet, al neoguelfo del
Troya e del Balbo e del padre Tosti, all'egemonico prussiano del
Droysen e del Triitschke, e via discorrendo.
Ma tutti questi e altri storici di tendenza (salvo qualche rara
eccezione) si appoggiano al passalo, e nel passato, nella tradizione
o nella dialettica della tradizione, trovano la giustificazione
della loro tendenza. A nessuno piaceva più costruire con elementi di
astratta ragione. Il caso estremo e tipico è offerto dalla scuola
socialistica, che prese forma romantica nel suo maggiore
rappresentante, in colui che le conferì valore di storiografia e di
scienza, nel Marx: in piena opposizione agli ideali socialistici che
erano apparsi nel secolo decimottavo, e vantando perciò di esser
passata dall'utopia alla scienza-, e la scienza era nient'altro che
la necessità storica attribuita alla nuova era vaticinata, e il
materialismo stesso non voleva essere più quello naturalistico dei
D'Holbach e degli Helvètius, ma si atteggiava a «materialismo
storico».
Se la storiografìa nostalgica è poesia e quella di tendenza è opera
pratica e politica, in nessuna delle due si può riporre la
storiografia, la vera storiografia, del romanticismo, considerato in
quanto epoca della storia del pensiero. Certamente, poesia e pratica
nascevano da un pensiero e a un pensiero mettevano capo come a
materia o problema di esso: la rivoluzione francese non fu già la
causa o l'effetto di una filosofia, ma causa ed effetto ad una,
filosofia in atto, genita e genitrice della vita che allora si
svolse. Ma il pensiero nella forma del pensiero, e non già nella
forma di sentimentale amore al passato o di sforzo per riattuare un
falso passato, è ciò che determina il carattere scientifico, che a
noi importa mettere in luce, di quella storiografia. E, nella forma
di pensiero, essa reagì al pensiero dell'illuminismo, crudamente
dualistico, col contrapporgli il concetto di svolgimento. Non già
che quel concetto fosse alcunché d'interamente nuovo, spuntato
allora per la prima volta: nessun concetto speculativo, che sia
veramente tale, può mancare in un tempo e venir fuori in un altro; e
la differenza sta solo in ciò che in un tempo i problemi scientifici
sembrano riferirsi a un aspetto più che a un altro del pensiero,
sempre onnipresente nella sua totalità.
Sicché, quando si dice che all'antichità o al secolo decimottavo
mancò il concetto di svolgimento, si fa un'iperbole: iperbole che ha
le sue buone ragioni, ma che tale rimane e non deve essere presa
alla lettera ed intesa materialmente. E nemmeno poi è da credere che
dell'importanza scientifica del concetto di svolgimento non si
avesse alcun sentore o anticipazione prima del tempo romantico. Si
potrebbero andare investigando le tracce di esso nel panteismo dei
grandi filosofi della Rinaseenza, e particolarmente del Bruno, e
nello stesso misticismo, in quanto includeva il panteismo; e, più
distintamente ancora, nelle rielaborazioni che si vennero facendo
della ischeletrita concezione teologica col concepire il corso
storico come graduale educazione del genere umano, in cui le
successive rivelazioni sarebbero state comunicazioni di libri via
via meno elementari, dai primi libri sacri ebraici al Vangelo e alle
revisioni del Vangelo: di che porge esempio il Lessing.
Né i teorici dell'illuminismo, furono sempre così terribilmente
dualistici come quelli che ho ricordati, ma qualcuno, come il
Turgot, pur senza smettere del tutto il preconcetto circa le epoche
di decadenza, riconobbe il progresso del cristianesimo
sull'antichità e dei tempi moderni sul cristianesimo, e s'industriò
perfino di tracciare una linea di svolgimento, passante attraverso
le tre età, la mitologica, la metafisica e la scientifica. E altri
pensatori, come il Montesquieu, scorsero la relatività delle
istituzioni ai costumi e ai tempi; e altri, come il Rousseau, fecero
larga parte alla forza del sentimento. E l'illuminismo ebbe al tempo
suo stesso avversari, non solamente sul punto dell'astrattismo
politico e del fatuo ottimismo (tale, per es., il Galiani), ma anche
in cose più sostanziali, che dovevano formare precipuo oggetto di
critica più tardi, come il dispregio per la tradizione, per la
religione e per la poesia, e l'arido naturalismo. Onde lo Hamann
sorrideva della cieca fede dei Voltaire e degli Hume nelle dottrine
astronomiche newtoniane e della loro acrisia circa le dottrine
morali, e stimava necessario un ravvivamento della poesia e un
raffiatamento tra essa e la storia, e considerava la storia (proprio
all'opposto del Bodinj non il più facile, si anzi il più difficile
fra tutti i lavori mentali.
Ma una ricchissima ed organica anticipazione del pensiero romantico
si era avuta (come ormai dovrebbe tenersi assodato e universalmente
noto) nella Scienza nuova
del Vico (1725;, il quale criticò l'illuminismo solo ai suoi inizi
(quando era ancora semplice giusnaturalismo e cartesianismo), e
nondimeno penetrò meglio che altri dipoi nei suoi riposti motivi e
meglio ne misurò le conseguenze logiche e pratiche. Onde contrappose
al superficiale scherno esercitato verso il passato in nome
dell'astratta ragione lo spiegarsi della mente umana nella storia,
come senso, fantasia e intelletto, come età divina o bestiale, età
eroica ed età umana; e sostenne che nessun'età del genere umano fu
nel torto, perché ciascuna ebbe la sua forza e la sua bellezza, e
ciascuna fu necessario effetto della precedente e necessaria
preparazione della seguente, l'aristocrazia della democrazia o la
democrazia della monarchia, ciascuna giungente al momento giusto e
come giustizia di quel momento.
Senonché nel periodo romantico il concetto di svolgimento non rimase
più il pensiero di un filosofo solitario e inascoltato, ma si ampliò
a convincimento generale; non apparve più timidamente adombrato o
contradittoriamente affermato, ma prese corpo e coerenza e vigore e
predominio. È esso il concetto informatore della filosofia
idealistica, culminante nel sistema hegeliano; e alla sua forza solo
pochi, ancora involti nel dommatismo prekantiano, resistono, come è
il caso dello Herbart, o si provano a resistervi e ne sono più o
meno investiti, come è il caso dello Schopenhauer, e
ancor più del Comte, e poi del positivismo evoluzionistico. E dà
esso l'ossatura intellettuale a tutta la storiografia (salvo, anche
qui, il caso dei ritardatari e retrivi); e per esso quella
storiografia corregge, in misura maggiore o minore, le stesse
tendenze unilaterali che le venivano dal descritto moto sentimentale
e politico, la tenerezza pel prossimo passato o «buon vecchio
tempo», e pel medioevo.
Tutta la storia è ora concepita come svolgimento necessario, e
perciò tutta implicitamente, e più o meno anche esplicitamente,
redenta; tutta appresa con sentimento sacro, quale già nel medioevo
si riserbava a quelle sole parti di essa, che rappresentavano
l'opera di Dio contro la potenza diabolica. Talché il concetto di
svolgimento fu esteso all'antichità classica, e poi, col crescere
delle cognizioni e dell'attenzione, alle civiltà orientali; e i
Romani e i Joni e i Dori e gli Egizi e gli Indi riebbero la loro
vita e la loro giustificazione, e furono a volta a volta amati quasi
come si amò il mondo cavalleresco e cristiano, ma l'estensione
logica del concetto non trovò impedimento, presso i filosofi e gli
storici, nemmeno nella ripugnanza che si sentiva pei tempi ai quali
i nuovi tempi si contrapponevano, per il secolo decimottavo; e si
assistette alla consacrazione del giacobinismo e della rivoluzione
francese nei libri stessi dei loro avversari, e lo Hegel scorse in
quegli avvenimenti il trionfo e la morte, ma l'uno non meno che
l'altra, la «morte trionfale», dell'astratta soggettività moderna,
inaugurata da Cartesio.
Né solo gii avversari, ma i carnefici e le vittime si rappaciarono;
e Socrate, martire del libero pensiero e vittima dell'intolleranza,
quale lo consideravano gl'intellettualisti del secolo decimottavo e
lo considerano i loro superstiti ripetitori dei giorni nostri, fu
ricondannato alla morte da lui ben meritata, in nome della Storia,
che non ammette rivoluzioni spirituali senza
tragedie.
Anche per questa parte l'estensore del Manifesto dei comunisti, che
nell'affrettare coi voti e con l'opera la fine della borghesia
usciva in un caloroso e grandioso elogio dell'opera compiuta dalla
borghesia, si dimostrava legittimo figliuolo del pensiero romantico;
perché a colui che si fosse attenuto all'ideologia del secolo
decimottavo, il capitalismo e la borghesia sarebbero dovuti apparire
nient'altro che storture, prodotti dell'ignoranza, della stoltezza e
dell'egoismo, non meritevoli di alcun elogio, neppure funebre. Le
passioni della maggior parte di quegli storici erano accesissime,
non meno di quelle degli illuministi; e nonpertanto la satira, il
sarcasmo, l'invettiva, almeno presso i migliori ingegni, giravano
vivaci intorno all'intelligenza storica e non la opprimevano o
negavano.
L'impressione complessiva, che sorge da quelle narrazioni, è di un
serio sforzo di rendere giustizia a tutti; e si deve alla disciplina
data per questa parte alle menti e agli animi dai pensatori e
storici del romanticismo, se a maledire Voltaire e il secolo
decimottavo come opere del diavolo non restano ormai che i meno
colti o i più fanatici fra preti e cattolici in genere, e a trattare
con la medesima grossezza la reazione e la restaurazione e il
medioevo, non restano che i volgari democratici e anticlericali,
simili questi a quelli nell'anacronismo e nel resto: l'illuminismo,
con l'annesso giacobinismo, fu, come si è mostrato, una religione,
e, venuto a morte, ha lasciato le sue sopravvivenze o superstizioni.
Concepire la storia come svolgimento è concepirla come storia di
valori ideali, i soli che si svolgano; e perciò nel periodo
romantico si moltiplicarono e specificarono vieppiù quelle storie di
valori, che già avevano avuto tanto accrescimento nel periodo che
precesse. Ma la novità di esse non consisteva semplicemente
nell'esteriore moltiplicarsi, sibbene nel loro maturarsi interiore,
correggendo quelle che si solevano comporre innanzi e che erano o
raccolte erudite di notizie sconnesse o giudizio bensi, ma giudizio
condotto sopra un modello imposto dall'esterno, che si pretendeva
costruito dalla pura ragione ed era in realtà foggiato
dall'astrazione e dall'immaginazione, arbitrario e capriccioso. Ed
ecco che la storia della poesia e della letteratura non si commisura
ormai all'ideale romano-umanistico, o a quello classicistico del
secolo di Luigi XIV, o al raziocinativo o prosastico del Settecento,
ma ritrova via via in sé stessa la propria misura e, dai primi
tentativi degli Herder e degli Schlegel e poi dei Villemain e dei
SainteBeuve e dei Gervinus, e, per l'antichità, dei Wolf e dei
Müller, tocca in ultimo l'alto grado rappresentato dalla Storia della
letteratura italiana del De Sanctis.
Ecco che la storia dell'arte si sente inceppata dal troppo angusto
ideale lessinghiano-winckelmanniano, e si viene movendo verso il
colore, verso il paesaggio, verso l'arto preellenica e postellenica,
verso il romanico e il gotico e il rinascimento e il barocco, con un
processo che va dal Meyer e dallo Hirth al Rumohr, al Kluger, allo
Schnaase, fino al Burckhardt e al Ruskin; e tenta anch'essa qua e là
di rompere le barriere delle scuole ed attingere la personalità,
veramente artistica, degli artisti.
La storia della filosofia compie la sua grande crisi con lo Hegel,
il quale la fa passare dal soggettivismo astratto dei seguaci del
Kant all'oggettività, e nella storia del pensiero, considerata nella
sua interezza, senza trascuranza di nessuna sua forma, riconosce la
sola esistenza reale della filosofia; e dopo lo Hegel continuano in
siffatta ricerca oggettiva, con più o meno di genialità, lo Zeller e
il Fischer e l'Erdmann in Germania, il Cousin e la sua scuola in
Francia, lo Spaventa in Italia.
Il simile accade nella storia delle religioni, la quale, dopo gli
Spittler e i Planck, ultimi rappresentanti della scuola
razionalistica, cerea di adottare criteri intrinseci di giudizio coi
Marheinecke, i Neander, gli Hase, e si configura in cospicua forma
scientifica con lo Strauss, il Bauer e la scuola di Tubinga; e,
nella storia del diritto, dallo Eichhorn al Savigny, al Gans, al
Lassalle.
Anche nella storia che si chiama politica, il concetto di Stato cede
sempre più il primato a quello di nazione, e la «nazionalità»
sostituisce l'«umanità» e la «libertà» e l'«eguaglianza» e tutte le
altre idee, già radiose ed ora smorte, dell'età precedente; e questo
nazionalismo è stato a torto creduto regresso rispetto a
quell'universalismo e cosmopolitismo, perché (nonostante le sue già
notate esagerazioni sentimentali) dà effettivo avviamento alla
concezione concreta dell'universale, il quale vive solo nelle sue creazioni
storiche, tra cui sono appunto le nazioni, prodotti e fattori
insieme dello svolgimento.
E per effetto dell'acquistata coscienza del valore delle nazioni si
ravviva il valore dell'europeismo, troppo conculcato ai tempi
dell'illuminismo a causa dello spirito naturalistico che allora
dominava e della reazione che si compieva contro gli schemi storici
dell'antichità e del cristianesimo: quando pur dovrebbe essere
evidente che la storia, concepita da europei, non può non essere
«europeocentrica», e che solo in relazione col corso della civiltà
greco-romana, cristiana ed occidentale, si fanno in noi attuali e
comprensibili le civiltà svoltesi sopra diverse linee, sempre che
non si voglia cangiare la storia in una sala di esposizione dei
diversi tipi di civiltà, col premio al più saggio! Anche si fa
chiara, per la stessa ragione, la differenza tra storia e
preistoria, e storia dell'uomo e storia della natura, che il
naturalismo e il materialismo avevano illegittimamente connesse, al
modo che ancora si osserva persino nell'opera dello Herder, il
quale, in mezzo ai motivi nuovi, serbava non pochi del secolo in cui
era nato e si era educato.
Ma, soprattutto, nella storiografìa romantica si nota la ricerca, e
assai spesso la felice attuazione, di un organico congiungimento di
tutte le singole storie di valori spirituali, col mettere in
relazione tra loro, per ciascun popolo e per ciascuna epoca, i fatti
religiosi, filosofici, poetici, artistici, giuridici, morali, in
funzione di un unico moto di svolgimento. Diventa allora detto
comune che non si può intendere la letteratura senza conoscere le
idee e i costumi, o la politica senza la filosofia, o (come un po'
più tardi si avverti) il diritto e i costumi e le idee senza
l'economia.
E giova ricordare di passata che non c'è quasi alcuna di queste
storie di valori che, insieme con la coscienza della loro intrinseca
unità, non sia già presentita e abbozzata nel Vico: storie della
poesia, dei miti, del diritto, dei linguaggi, delle costruzioni,
della ragione spiegata o filosofica, e via dicendo, sebbene in lui
restino alquanto involute nell'epoca storica o sociologica, a cui
ciascuna di esse andava particolarmente congiunta.
Perfino la biografia moderna (che lumeggia ciò che l'individuo fa e
patisce in rapporto alla missione che adempie e all'aspetto
dell'Idea che in lui si attua) ha uno dei primi, e forse il primo
monumento insigne, nell'autobiografia che il Vico compose, ossia
nella storia dell'opera che la Provvidenza gli comandò e lo guidò a
compiere «per varie e diverse che sembravano traversie ed erano
opportunità».
Questa trasformazione della biografia non importa sconoscimento,
anzi, per contrario, elevamento dell'individualità, che ritrova il
suo vero significato nella relazione con l'universale, come questo
la sua concretezza nell'altra. E, invero, nella storiografia
romantica la forza individualizzatrice, la percezione delle
fisonomie, degli stati d'animo, della forma varia delle idee, il
senso delle differenze dei tempi e dei luoghi, si mostrano, si può
dire, per la prima volta: cioè, non già sparsamente e come per
accidente, e non più nella forma sommaria e negativa
dell'opposizione tra nuovo e vecchio, civile e barbaro, patrio ed
estraneo.
Che taluni di quegli storici si perdessero (sebbene di rado) in
un'astratta dialettica d'idee, e che altri più di frequente
sommergessero le idee nel pittoresco estrinseco dei costumi e degli
aneddoti, non vuol dir nulla, perche esagerazioni, unilateralità e
squilibri si notano in ogni tempo e in ogni progresso di pensiero. E
neppure ha gran peso l'accusa che il colore dei luoghi e dei tempi,
che gli storici romantici talora predilessero, fosse falso, perché
ciò che importa, anzitutto, è questo tentativo di colorire, felice o
infelice che riuscisse nell'effetto (se infelice, il quadro dovrebbe
essere ricolorilo, ma pur sempre colorito); e, poi, perché si è già
ammesso che, oltre la storiografia vera e propria, operarono nel
romanticismo immaginazioni e tendenze, le quali davano ai tempi e ai
luoghi quel colorito immaginario ed esagerato, che i vari sentimenti
e interessi suggerivano.
La storia, che è pensiero, fu allora talvolta vagheggiata come una
reviviscenza fantastica del passato, e si chiese a lei di venire
ritrasportati, a godimento, nei vecchi castelli o nelle piazze delle
città medievali, e di vedere i personaggi nelle vesti e nello
movenze loro proprie, e udirli favellare nella lingua e nell'accento
del tempo, e rifarsi contemporanei dei fatti, e apprenderli con lo
spirito ingenuo di un contemporaneo: reviviscenza che, nonché al
pensiero, nemmeno all'arte è dato ottenere, perché anche l'arte
supera la vita, e sarebbe cosa inutile, come non è desiderata,
perché ciò che l'uomo veramente brama è riprodurre in fantasia e
ripensare il passato dal presente, non già di radicarsi dal presente
per ricadere all'indietro nel morto passato. Certamente,
quest'ultima fu un'illusione che appartenne a parecchi romantici (i
quali del resto hanno, anche in ciò, i loro successori ai giorni
nostri), e, in quanto illusione, o rimase uno sterile sforzo o si
effuse in sospiro lirico; ma siffatta illusione fu uno dei tanti
aspetti, e non già il carattere essenziale della storiografia
romantica.
Anche al romanticismo si deve se per la prima volta si stabili la
relazione e s'iniziò la fusione degli eruditi con gli storici, dei
ricercatori di materiali con gli uomini di pensiero; la qual cosa,
come si è detto, non era accaduta nel secolo decimottavo, e neppure,
a dir vero, per l'innanzi, nelle grandi epoche di erudizione
dell'umanesimo italiano o dell'alessandrinismo, quando antiquari e
politici tennero gli uni e gli altri la propria via, reciprocamente
indifferenti, e solo ideale politico, che a volte traluceva dalle
schede dell'antiquario (come il Fueter bene nota di Flavio Biondo),
era quello di un governo che, procurando la calma, permettesse ai
dotti le loro pacifiche occupazioni! Ma il motto d'ordine della
storiografìa romantica fu anche, per questa parte, anticipato dal
Vico nella formola della riunione di filosofia e filologia, della
reciproca conversione del vero col certo, dell'idea col fatto: la
qualeformola (e sia qui avvertito di volo) prova che non era al
tutto storicamente esatta la sentenza del Manzoni, che convenisse
riunire Vico e Muratori, cioè la filosofia e l'erudizione: due cose
già unite dal Vico e la cui unione costituisce il valore precipuo
dell'opera sua.
Comunque, anche la sentenza manzoniana, nonostante la sua
inesattezza, comprovava come la storiografia romantica avvertisse
l'intimo rapporto tra erudizione e pensiero nella storia, che è
ravvivamento e pensamento del documento serbato o restaurato
dall'erudizione, e che anzi sollecita l'erudizione perché glielo
ricerchi e prepari. Né il romanticismo si restrinse a proporre
questa esigenza in astratto, ma esso creò veramente il tipo del
filologo-pensatore (e talvolta altresì poeta), dal Niebuhr al
Mommsen, dal Thierry al Fustel de Coulanges, dal Troya al Balbo o al
Tosti. E allora per la prima volta si misero in valore le grandi
raccolte e repertori dell'erudizione dei secoli decimosettimo e
decimottavo; e allora si promossero nuove raccolte,
supplementi o rifacimenti
di quelle secondo i criteri sempre più rigorosi che si
formavano in materia e secondo le maggiori cognizioni e mezzi di cui
si disponeva: e sorsero così l'opera dei Monumenta Germaniæ historica o la scuola
filologica tedesca (che era già da sezzo e divenne prima), modello
l'una a siffatte imprese e maestra l'altra nelle correlative
discipline ai dotti della restante Europa.
L'esigenza filologica della nuova storiografia, coadiuvata dal
sentimento di nazionalità, dié vita anche nella nostra Italia a
quelle società storiche, a quelle raccolte di cronache, di leggi, di
diplomi, a quelle riviste o «archivi storici» che sono le
istituzioni in cui ancora si muove il lavoro storiografico ai giorni
nostri. Esempio spiccato dell'efficacia dei bisogni schiettamente
storici a promuoverò la più paziente filologia può essere, tra gli
altri, il Corpus inscriptionum
latinarum, ideato e diretto da uno storico dell'energia
passionale e della mente sintetica di un Mommsen. Nel secolo
deeiniottavo (salvo qualche rarissima e parziale eccezione) gli
storici disdegnavano le cartapecore e gli in-folio, o li aprivano
impazienti, bibentes et fugientes; ma. nel decimonono, nessun serio spirito osò
più affermare che si possa comporre storia senza lo studio,
accurato, scrupoloso, meticoloso, dei documenti sui quali deve
fondarsi.
Dileguarono di conseguenza, e piuttosto che per diretta ed aperta
critica e polemica, al semplice tocco di questi nuovi convincimenti
storiografici, le storie prammatiche degli ultimi secoli; e la
parola «prammatica», già qualificazione di onore, si cominciò a
pronunziare con tinta di dispregio, per designare una forma
inadeguata del pensiero storico, e gli storiografi dell'illuminismo
caddero in discredito: né solo il Voltaire e i francesi, ma gli
Hume, i Robertson e gli altri inglesi, che parvero tutti scoloriti,
scarsi di senso storico, rivolti unicamente all'aspetto politico
delle cose, superficiali, tentanti invano di
spiegare i grandi avvenimenti con le intenzioni degli
individui e con le piccole cause o con le cause singole. E disparve
anche la teoria della storia come oratrice e insegnatrice di virtù,
e di massime prudenziali, quella teoria che aveva goduto vita così
lunga e tenace nell'antichità greco-romana e di nuovo dal
Rinascimento in poi (e dicendo che tutte queste cose disparvero, è
sempre sottintesa l'eccezione dei fossili, che pur persistevano
allora, e persistono, con aria di viventi, ai nostri giorni); e si
riprese verso la storia l'atteggiamento dello spirito cristiano, che
la contempla come processo unico e senza ripetizioni, opera di Dio,
la quale insegna direttamente con la sua stessa presenza, e non già
in quanto materiale esemplificativo di un insegnamento astratto, a
lei estraneo.
Come la parola «prammatica», si pronunziarono d'allora in poi,
accompagnate da sorriso, le formole della historia magistra vitæ o indirizzata ad bene beateque vivendum:
formole alle quali crede chi crede, cioè chi riecheggia senza
rimeditare e si appaga di concetti tradizionali e volgari. A che
serve la storia? Alla storia stessa (si rispose), e veramente non è
piccola cosa.
Per tutti questi suoi progressi, nascenti o convergenti in un solo,
il nuovo secolo si gloriò del nome di «secolo della Storia», della
storia che esso aveva deificata e al contempo umanizzata, come non
mai per l'addietro, e fatta centro della realtà e del pensiero. E
quel titolo d'onore conviene confermare, se non al secolo decimonono
per intero, al periodo suo romantico o idealistico; ma la riconferma
non deve impedire di scorgere, con pari chiarezza, il limite di
quella storicità, senza cui non sarebbe possibile intendere il
posteriore e ulteriore moto di avanzamento. La storia fu allora
deificata insieme e umanizzata; senonché la divinità e l'umanità
confluirono veramente in una, o non rimase, nel fondo, un qualche
dislacco tra le due? fu sanato veramente il
dissidio del pensiero antico mondano e
di quello cristiano oltramondano, o non si ri presentò in nuova
forma, sebbene attenuata e mentalmente più critica? e, nel dissidio,
quale dei due elementi prevalse nella sua astrattezza, l'umano, o
non piuttosto il divino?
Codeste interrogazioni accennano già la risposta; la quale è poi
suggerita da un ricordo, che è notizia comune, cioè che il periodo
romantico non fu solo l'età splendida delle grandi storie evolutive,
ma quella nefasta delle filosofie della storia, delle storie
trascendenti. E in verità, quantunque il pensiero dell'immanenza si
fosse fatto via via più profondo e ricco nel Rinascimento e
nell'illuminismo, e quello della trascendenza sempre più
evanescente, non perciò il primo aveva risoluto in sé il secondo, ma
solamente lo aveva purificato e razionalizzato, come a lor modo,
rispetto ai propri tempi, avevano procurato e la filosofia ellenica
e la teologia cristiana. Nell'età romantica, continuarono
purificazione e razionalizzamento; e qui fu il suo merito e insieme
il suo difetto, perché quel vecchio concetto non era ormai più da
raddrizzare, ma da invertire e rifare radicalmente.
La concezione trascendente della storia si chiamò allora non più
rivelazione e apocalissi, ma filosofia della storia, con
denominazione tolta agli illuministi (al Voltaire principalmente),
sebbene non più col significato che costoro le attribuivano, di una
storia esaminata con. ispirito spregiudicato o filosofico e adorna
di riflessioni morali e politiche, ma con l'altro, affatto diverso,
di una ricerca filosofica del piano soprastante o sottostante alla
storia, di una ricerca, insomma, di teologia, che, per laica o
speculativa che fosse, teologia rimaneva. E poiché siffatta ricerca
riesce sempre a una razionalizzata mitologia, non c'è ostacolo a
estendere il nome di «mitologia» alla filosofia della storia, o il
nome di «filosofia della storia» alla mitologia, come io ho fatto,
chiamando «filosofia della storia» tutte le concezioni trascendenti
della storia, che tutte distaccano fatto e idea, avvenimento e
spiegazione, azione e fine, mondo e Dio. E poiché trascendente è
nella sua interna struttura la filosofia della storia, non reca
meraviglia che tale si manifesti sempre in tutte le forme
svariatissime che assunse nel periodo romantico, perfino presso
filosofi avidi d'immanenza, come lo Hegel, gran distruttore del
platonismo, che nel platonismo pure rimane in più parti impigliato:
tanto è tenace quel nemico, che ogni pensatore porta in sé medesimo,
e non può fronteggiare, ma deve strappare dal suo proprio cuore.
Ma, senza addentrarci in un particolare esame degli assunti che
romantici e idealisti si proposero nel costruire le loro «filosofie
della storia», basterà, a dimostrazione dell'indirizzo trascendente
delle loro costruzioni, guardare alle conseguenze; le quali erano
tali da compromettere nel metodo e danneggiare nell'esecuzione le
storie romantiche, così vigorosamente ideate dapprima come unità di
filosofia e filologia. Una delle conseguenze fu, per l'appunto, il
riaccennarsi del disprezzo verso l'erudizione presso quegli stessi
che la adoperavano e promovevano; e, altre volte, un raccomandarla a
parole e spregiarla nel fatto: atteggiamento contradittorio, turbato
da cattiva coscienza, tantoché le raccomandazioni suonano poco
sincere, e il dispregio è pauroso, e ora si scopre, ma più spesso si
cela.
Pure, tra codesti avvolgimenti e infingimenti, si colgono a volo
parole rivelatrici, come quelle di una storia a priori (Fichte,
Schelling, Krause, e, in parte almeno, Hegel), che sarebbe la storia
vera, dedotta da puri concetti, o letta nel caos dei fatti con
l'aiuto dei puri concetti, o divinata in non si sa quale rapimento
da veggente di Patmo: una storia più o meno diversa dall'imbroglio
degli avvenimenti e fatti umani, e, come storia filosofica,
lasciante fuori di sé, quasi rifiuto, una storia meramente
narrativa, che poteva a volta a volta servire da
grezza materia ai romanzi o da testo alle prediche e ai
precetti dei moralisti i! politici. E dal seno di una filosofia, che
aveva cercato di farsi storia rendendo insieme la storia filosofia,
si vide risorgere (prova che il disegno non era stato veramente
tradotto in atto) la distinzione di filosofia e storia, di modo
storico e modo filosofico di pensare, e l'antipatia vicendevole e,
la vicendevole inimicizia dei due ordini di ricercatori.
Gli storici «di mestiere» furono costretti a difendersi contro i
loro genitori (i filosofi), e finirono col perdere ogni pietà verso
le debolezze dei genitori, anzi col rinnegarli per tali e trattarli
da intrusi e ciarlatani. Il dissapore e il malanimo erano tanto più
inevitabili in quanto i «filosofi della storia», cioè gli storici
travagliati da trascendenza, non sempre si tennero contenti (né a
rigore potevano) della distinzione tra storia filosofica e storia
narrativa, e, com'era naturale, procacciarono di mettere in armonia
le due storie, e far corrispondere i fatti agli schemi da essi
immaginati o dedotti: nel che furono portati a usare, come si dice,
violenza ai fatti in favore del sistema, onde si videro tagliate
fuori della storia parti importantissime, con procedimenti
procustei, e quelle che vi erano accolte tirate a un senso, che non
era genuino ma imposto: perfino le partizioni cronologiche, semplice
sussidio pratico delle narrazioni, vennero torturate (come si usava
nel medioevo) per innalzarle al grado di partizioni ideali. E, in
codesti arbitri, non solo la luce della verità si spense, non solo
s'introdussero simpatie e antipatie individuali (si ricordi per
tutto l'idealizzazione dell'Eliade e di questa o quella delle stirpi
elleniche), ma accadde cosa anche più personalmente offensiva a chi
ne era colpito; perché penetrarono nella storia, sotto colore di alta
filosofia, i personali amori e odi dello storico in quanto uomo di
parte, di chiesa, di tale e tale popolo, stato o razza.
E allora fu inventato il germanesimo, coronamento e perfezione del
genere umano, un gcrmanesimo che sarebbe stato la più pura
espressione dell'arianesimo, ed avrebbe restaurato l'idea del popolo
eletto, e rifatto un giorno il viaggio verso l'Oriente; e furono
celebrati a volta a volta la monarchia semiassoluta, come forma
assoluta degli Stati, e il luteranesimo speculativo, come forma
assoluta delle religioni, e foggiate altre siffatte vanterie, con le
quali la boria germanica pesò sui popoli europei, anzi sul mondo
tutto, e fece in qualche modo pagare il beneficio della nuova
filosofia, che la Germania aveva data al mondo. Ma non è da credere
che la boria germanica non fosse combattuta con le sue stesse armi;
e, se gl'inglesi poco specularono e i francesi erano troppo, anche
per recenti esperienze, fermi nella loro fede dei gesta Dei per Francos (divenute
gesta della Ragione e della Civiltà), i popoli che si trovavano in
condizioni meno felici e risentivano più aspra l'inflitta censura
d'inferiorità o di senilità, reagirono: e il Gioberti scrisse un Primato d'Italia, e il
Ciezkowski un Paternostro,
che era il primato futuro del popolo slavo e più particolarmente
polacco.
Ancora una conseguenza delle «filosofie della storia» fu il
rifiorire delle «storie universali», nel fallace significato di
storie globali dell'umanità, anzi del cosmo, che il medioevo aveva
narrate nelle sue cronache ab
origine mundi, e de
duabus civitatibus e de
quattuor imperiis,
e il Rinascimento e l'illuminismo ridotte a mere compilazioni
volgari, ponendo altrove il proprio interesse. Con le filosofie
della storia, tornarono le «imagines
mundi»; e tali erano esse medesime, trascendenti storie
universali, con la congiunta «filosofia della natura». La
successione delle nazioni vi prese il posto della serie degli
imperi; e a ciascuna nazione, come già agli imperi, fu assegnato uno
speciale ufficio, adempiuto il quale essa spariva o si traeva in
disparte, avendo trasmessa la lampada della vita, che non più di una
volta doveva passare per le mani della medesima nazione; e la
nazione germanica vi fece le parti dell'impero romano, che non
sarebbe morto mai, in perpetuo o fino alla consumazione dei secoli e
al regno di Dio.
Svolgere le forme varie della filosofia della storia gioverebbe a
chiarire le interne contradizioni della dottrina e a rendere ragione
delle correzioni che vi s'introdussero per sanare alcune di quelle,
producendone nell'atto stesso altre. E si dovrebbe in tale esame
assegnare un posto a parte al Vico, che offre una «filosofia della
storia» assai complessa, la quale per un verso non nega, sebbene
passi sotto silenzio, la concezione cristiana e medievale (come non
nega la distinzione agostiniana delle due città, o del popolo eletto
e del gentile, ma indaga solo l'effettiva storia del secondo); e,
per un altro verso, ripiglia il motivo orientale e antico dei
circoli (corsi e ricorsi), ma il corso intende come svolgimento e
crescenza, e il ricorso come un dialettico ritorno, che per altro
non sembra che dia luogo a progresso, sebbene non lo escluda, e
sebbene non escluda l'iniziativa della libertà o l'eccezione della
contingenza. Medioevo e antichità fermentano in questa concezione,
producendo il pensiero romantico e moderno1.
Ma, nell'età romantica, l'idea del circolo (che pure conteneva una
grande esigenza mentale da appagare) cedette innanzi all'idea del
corso lineare, desunta dal cristianesimo, e del progresso a termine,
che si conclude con uno stato limite o con l'entrata in un paradiso
di progresso indefinito, d'incessante gioia senza dolore. E in
siffatta concezione ora si mescolano teologia e illuminismo, come
nello Herder: ora si tenta una storia secondo le età della
vita e le forme dello spirito, come nel Fichte e nella sua scuola;
ora l'idea attua temporalmente la sua logica ideale, come nello
Hegel; ora ricompare l'ombra di un Dio, come nel deismo del Laurent
e di parecchi altri; ora il Dio è quello della vecchia religione, ma
ammodernato, nobile, giudizioso, liberale, come nel temperato
cattolicesimo e protestantesimo. E poiché in tutti questi schemi il
corso ha necessariamente un termine, enunciato e descritto e perciò
già vissuto e passato, non mancarono conati a prolungare o prorogare
o variare quel termine, e risorsero gli abati Gioacchini, che si
chiamavano ora «apocalittici slavi» o in altro modo, e che
aggiunsero nuove ère a quelle descritte. Ma ciò non cangiava nulla
alla concezione generale.
E nulla immutavano in essa le filosofie della storia, che si suole
denominare irrazionalistiche, del secondo Schelling, per esempio, o
dei pessimisti, perché è chiaro che la decadenza da costoro
descritta è un progresso all'inverso, un progresso nel male e nel
dolore e ha un termine nell'acme del male e del dolore; ovvero mette
capo a una redenzione ed è allora, sotto metafore pessimistiche, un
progresso verso il bene. Ma se l'idea dei circoli, che si ripetano
identici, opprime la coscienza storica, che è coscienza
dell'individualità e diversità perenne, questa del progresso a
termine la opprime in altra guisa, perché dichiara imperfette tutte
le creazioni della storia, salvo l'ultima, nella quale la storia si
arresta e che perciò sola ha valore assoluto; e, insomma, toglie
pregio alla realtà in favore di una astrazione, all'esistenza in
favore dell'inesistente. Ed entrambe poi, vale a dire tutte le
filosofie della storia, comunque determinate, insidiavano il
concetto di svolgimento, e l'incremento storiografico ottenuto,
mercé di esso, dal romanticismo; e, quando questo danno non accadeva
(come in parecchi storici egregi, i quali narravano ottimamente la
storia pure professando il loro ossequio all'astratta filosolia
della storia, che salutavano da lunge o da vicino ma si guardavano
dall'introdurre nelle loro narrazioni), era segno che il contrasto
non veniva avvertito, o almeno non avvertito, come l'avvertiamo ora
noi, nel suo profondo stridore; era segno che anche il romanticismo
ebbe problemi sui quali molto lavorò e che assai approfondi, e altri
sui quali lavorò punto o poco e tenne a bada, contentandoli alla
meglio.
Anche la storia, come l'individuo che lavora, fa «una cosa alla
volta»; e trascura o lascia correre con piccoli ritocchi provvisori
quelle alle quali non può attendere di presente, e a cui si volgerà
poi, quando avrà le mani libere.
1 L: esposizione e la critica della dottrina vichiana sono date
largamente nel vol. II dei miei Saggi filosofici: La filosofia di
Giambattista Vico Bari, 1911.
VII
La storiografia del positivismo
Le filosofie della storia offendevano la coscienza storica in tre
punti, nei quali ella è a buon diritto assai gelosa: l'integrità
degli avvenimenti storici, l'unità della narrazione col documento, e
l'immanenza dello svolgimento. E da questi tre punti insorse, recisa
e spesso violenta, l'opposizione contro la «filosofia della storia»
o contro la storiografia del romanticismo in genere: opposizione che
aveva a fondamento un comune, motivo, come è comprovato dal
frequente affiatarsi e affratellarsi, pur tra particolari dissensi,
di coloro che lo rappresentarono: ma che giova, per ragioni di
chiarezza, considerare nella sua triplicità e designare come quella
degli storici, dei filologi e dei filosofi.
Gli storici, e intendiamo coloro che avevano mente meglio disposta
alla investigazione dei fatti particolari che non alle teorie, e
maggiore cultura e pratica della letteratura storica che non della
speculativa, foggiarono il motto: che la storia debba essere storia
e non già filosofia. Non che essi si arrischiassero a negare la
filosofia: che anzi protestarono riverenza a lei e perfino alla
religione e teologia, e condiscesero anche a fare qualche rapida e
cauta escursione in quelle acque; ma volevano di solito dirigere il
timone pei placidi golfi della verità storica, evitando i tempestosi
oceani dell'altra: la filosofia doveva restare all'orizzonte
dell'opera loro. E neppure contestarono, almeno nel suo principio,
il diritto delle grandiose costruzioni di «storia universale»; ma
raccomandarono e praticamente preferirono le storie nazionali o
altrimenti monografiche, che si possono studiare con sufficiente
sicurezza nei loro particolari; e alle storie universali
sostituirono collezioni di storie degli Stati e dei popoli.
E poiché in quelle storie universali, e nelle stesse storie
nazionali, il romanticismo aveva introdotto le sue varie tendenze
pratiche (che le filosofie della storia avevano poi dommatizzate).
gii storici misero nel loro programma, e talvolta anche nell'opera
loro, l'astensione dalle tendenze nazionali e di parte; pure
rivendicando il diritto di far sentire il loro animo di patrioti e
di politici, ma, come dicevano, senza alterare con ciò il racconto
dei fatti, che si sarebbe dovuto movere indipendente da quelle loro
opinioni, o confortarle spontaneamente col suo medesimo decorso.
E poiché nel romanticismo passione e giudizio filosofico si erano
confasi e a vicenda contaminati, l'astensione fu estesa altresì al
giudizio concernente la qualità dei fatti che si narravano; e fu
reputata di spettanza dello storico la realtà e non il valore del
fatto, rimandandosi volentieri, per una più profonda qualifica di
esso, a ciò che ne avrebbero pensato teorici e filosofi.
La storia non doveva essere né tedesca né francese, né cattolica né
protestante; ma nemmeno pretendere di risolvere queste e altrettali
antitesi in una concezione più ampia, come era stato tentato dai
filosofi della storia, sibbene neutralizzarle tutte in un saggio
scetticismo o agnosticismo, e attenuarle in una forma di esposizione
condotta col tono di un riassunto presidenziale, attento alle voci
delle opposte parti e cortese verso tutte.
V'era in ciò della diplomazia; e non è maraviglia che molti
diplomatici o alunni in diplomazia collaborassero a
questo tipo di storia, e che per le fonti diplomatiche nutrisse
speciale predilezione il maggiore di tutti gli storici di questa
scuola, Leopoldo Ranke, nel quale si ritrovano tutti i tratti che
abbiamo segnati. Egli, per l'appunto, combatté sempre, e assai
conferì a discreditare tra gli storici, la filosofia, e in
particolare quella hegeliana; ma decorosamente, guardandosi da ogni
parola rude o troppo forte, e professando la ferma convinzione che
nella storia ci sia la mano di Dio, una mano che non si può
afferrare con le nostre mani, ma che ci sfiora il volto e ci avverte
della sua azione. Egli svolse il suo lungo e fecondissimo lavoro di
storico per monografie, evitando le costruzioni universali; e,
quando negli ultimi anni della sua vita si accinse a comporre una Weltgeschichte, la staccò accuratamente
dall'universo, e dichiarò che essa si sarebbe «perduta in fantasmi e
filosofemi», se avesse abbandonato il saldo terreno delle storie
nazionali, e avesse cercato altra universalità che non sia quella
delle nazioni che, «operando l'una sull'altra, appaiono l'una dopo
l'altra e costituiscono le une con le altre una totalità vivente».
Egli, nel suo primo lavoro, protestò, con fine ironia, che non
avrebbe potuto mettersi sulla coscienza il grave carico, assegnato
alla storia, di giudicare il passato o d'istruire il presente per
l'avvenire, ma che soltanto si sentiva in grado di venir mostrando
«come le cose propriamente fossero andate» (wie es eigentlich gewesen); e a questo
metodo procurò attenersi in tutta la sua opera, e colse allori
irraggiungibili ad altri, fino al punto di scrivere, egli luterano e
tale rimasto tutta la sua vita, una storia dei papi del periodo
della Controriforma, accolta con favore in tutti i paesi cattolici;
fino al maggior punto, egli tedesco, di scrivere di storia francese
senza dispiacere ai francesi. E, ingegno elegantissimo, seppe
destreggiarsi tra gli scogli, senza mai lasciare intravvedere
le sue proprie convinzioni religiose o filosofiche, e
senza trovarsi mai costretto a nettamento risolversi, e in ogni caso
non stringendo mai dappresso gli stessi concetti a cui ricorreva, le
«idee storielle», la perpetua lotta di Stato e Chiesa, il concetto
dello Stato.
Il Rankc fu ideale e maestro a molti storici del suo paese e a
parecchi di fuori; ma, anche senza la sua diretta efficacia, il tipo
di storila da lui rappresentato germinò dappertutto, dove un po'
prima, dove un po' dopo, a misura del calmarsi un po' prima o un po'
dopo delle grandi passioni politiche e del fervore filosofico nei
vari paesi: in Francia, per esempio, prima che in Italia, dove la
filosofia idealistica e il movimento nazionale fecero sentire la
loro forza nella storiografia oltre il 1818, e fin intorno al 1860.
Ma il tipo di storia, che quasi quasi battezzerei col nome di
«diplomatico», adoperando sul serio la designazione che dapprima ho
data per ischerzo. ha ancora fortuna presso i ben pensanti, che
amano la cultura, ma non vogliono guastarsi il sangue con le
passioni di parte né rompersi la testa con le speculazioni
filosofiche: benché, come si può immaginare, non sempre venga
trattato con l'intelligenza, l'equilibrio e la finezza di un
Leopoldo Ranke.
L'ardimento di respingere addirittura l'intromissione del pensiero
nella storia, che era mancato agli storici diplomatici (perché
mancava loro la necessaria innocenza a tale ardimento), l'ebbero
invece i filologi, innocentissimi. E l'ebbero tanto più facilmente
in quanto l'opinione di sé medesimi, anteriormente modesta, si era
assai accresciuta e aveva gonfiato i loro petti pel grado di
perfezione a cui era pervenuta l'indagine delle cronache e dei
documenti e per l'accaduta fondazione (che non fu, a dir vero,
creazione ex nihilo) del
metodo critico o storico, che si esplicava nella sottile e accurata
genealogia e riduzione delle fonti, e nella
critica interna dei testi. E tanto più
facilmente codesto orgoglio di filologi prevalse, in quanto il
perfezionamento del metodo accadeva in un paese come la Germania,
dove la mutria pedantesca fiorisce meglio che altrove, e dove, per
effetto dello stesso abito ammirevolissimo della serietà
scientifica, la «scientificità» è assai idoleggiata, e questa parola
viene ambiziosamente adoperata anche per ogni cosa che concerna i
contorni e gli istrumenti della scienza vera e propria, come è il
caso della raccolta e critica delle narrazioni e documenti.
I vecchi eruditi italiani e francesi, che al loro tempo fecero
compiere al «metodo» avanzamenti non minori di quelli che si ebbero
poi nel secolo decimonono in Germania, non sognavano di produrre
così «scienza», e molto meno di gareggiare con la filosofia e la
teologia, e di poterle scacciare e surrogare col loro metodo
documentario. Ma, in Germania, ogni meschino copiatore di testi e
collettore di varianti e scrutatore di dipendenze tra i testi e
congetturista del testo genuino, si eresse a uomo di scienza e di
critica, e osò non solo guardare a faccia a faccia, ma con
superiorità e dispregio, come uomini «antimetodici», uno Schelling o
un Hegel, un Herder o uno Schlegel.
Dalla Germania si diffuse questa mutria pseudoscientilica negli
altri paesi di Europa, e ora anche in America: sebbene in altri
paesi incontrasse con più frequenza spiriti irreverenti, che ne
risero. E allora per la prima volta si manifestò in grado insigne
quel modo di storiografia che ho denominato «storia filologica» o
«erudita»: cioè si presentarono camuffate come storie, e come sole
degne e scientifiche storie, le più o meno giudiziose compilazioni
di fonti, che pel passato si dicevano Antiquitates, Annales, Penus,
Thesauri, e simili. La fede di quegli storici era riposta in un
racconto, del quale ogni parola potesse appoggiarsi a un testo, e
nient'altro ci fosse che quanto era nei testi, sceverati e ripetuti,
ma non pensati dal filologo narratore: la
loro speranza, nel poter assurgere a poco a poco,
movendo da compilazioni circa singoli tempi, regioni ed avvenimenti,
a compilazioni comprensive, riassumenti di grado in grado le meno
comprensive, sino a ordinare l'intero sapere storico in grandi
enciclopedie, delle quali forniscono saggi quelle, ora sistematiche
ora lessicali, che sono state messe insieme da gruppi di
specialisti, guidati da un direttore specialista, per la filologia
classica, romanza, germanica, indoeuropea e semitica.
A togliere aridità ai loro lavori, i filologi s'inducevano talvolta
a mettervi qualche ornamento di commozioni affettive e di sguardi
ideali; e attingevano le une e gli altri ai loro ricordi ginnasiali,
alle frasi della filosofia di moda e alle comuni disposizioni
sentimentali verso la politica, l'arte e la morale. Ma tutto ciò
facevano con molta moderatezza, per non perdere la reputazione di
gravità scientifica e per non fallire al rispetto dovuto alla
scientifica storia filologica, che disdegna i vani ornamenti onde si
compiacciono filosofi, dilettanti e ciarlatani. Giungevano essi a
tollerare gli storici del tipo di sopra descritto, ma come minor
male, e più spesso inclinavano a perdonare loro i peccatuzzi del
commercio che intrattenevano con le «idee», in grazia dei «
documenti nuovi», che quelli avevano scoperti o adoperati, e che si
potevano sempre cavar fuori dai loro libri come residuo utile,
purificandoli dai miscugli «soggettivi», dalla elaborazione cioè che
se n'era tentata.
La filosofia era nota ad essi solo come «filosofia della storia»,
ma, anche in quanto tale, piuttosto per fama orrenda che per diretta
apprensione; e sapevano a memoria, e ridicevano a ogni istante,
cinque o dieci aneddoti di errori circa nomi e date, nei quali erano
incorsi in fatto di storia celebri filosofi: facilmente dimentichi
degli innumerevoli nei quali incappano (come più a tal peccato) gli
eruditi; e quasi quasi immaginavano che la filosofia fosse stata
inventata apposta per alterare i nomi e turbare le date confidale
alle loro cure amorose, e fosse come l'abisso aperto dal demonio per
trarvi a perdizione la seria storia «documentata».
La terza schiera di oppositori contro la filosofia della storia si
componeva di filosofi o di storici-filosofi, ma tali che rigettavano
questo nome, scegliendone altro meno sospetto, o lo temperavano con
qualche aggettivo, o lo accettavano bensì, ma con opportuni
schiarimenti: filosofi positivisti, naturalisti, sociologi,
empiristi, criticisti, o come altrimenti loro piacque dirsi. E loro
proposito era di far l'opposto di ciò che avevano fatto le filosofie
della storia; e poiché queste avevano operato col concetto di fine,
essi tutti giuravano di operare con quello di causa, e di cercare di
ogni fatto la causa, e, via via generalizzando, le cause o la causa
dell'intero corso storico: quelli avevano tentato una dinamica della
storia, ed essi lavoravano a una meccanica storica, a una fisica
sociale. Contro la filosofia della storia si rizzò una scienza
speciale, in cui quel moto naturalistico e positivistico esaltava sé
stesso: la Sociologia.
La sociologia classificava i fatti umani e ne determinava le leggi
di mutua dipendenza, e con queste leggi forniva ai racconti degli
storici i principi di spiegazione. D'altra parte, gli storici
raccoglievano diligentemente i fatti e li offrivano alla sociologia,
perché ne spremesse il succo, cioè li classificasse e ne astraesse
le leggi. Storia e sociologia stavano, dunque, come fisiologia e
zoologia, fisica e mineralogia, o in altra consimile relazione; e
diversificavano dalle scienze fisiche e naturali solo per la loro
maggioro complessità. Come per tutte le scienze fisiche e naturali,
anche per la storia condizione di progresso sembrava l'introduzione
del calcolo matematico, e a ciò veniva incontro, insperato aiuto,
una nuova «scienza», sorta dall'umile pratica amministrativa,
geniale creazione della burocrazia, la Statistica. E poiché tutta la
scienza si veniva modellando sull'idea di un'officina di
condensazione, anche per la storia s'invocavano e si abbozzavano
«sintesi», cioè quadri storici, nei quali si riassumessero le leggi
e i fatti dominanti dello singole storie, come in una sorta di
tabella o di atlante, che mostrasse a colpo d'occhio le cause, e i
fatti che ne discendevano.
E necessario rammentare i nomi dei fondatori e fautori di questa
scuola? del Comte, del Buckle, del Taine fino via via a quelli dei
recenti storici che ancora la seguono, il Lamprecht o il Broysig? È
necessario richiamare i programmi più conseguenti e più paradossali
della scuola, come per l'appunto l'introduzione del Bucklc alla sua
storia della civiltà o il libro del Bourdeau sull'Histoire et les istoriens?
Queste e altrettali dottrine positivistiche sono presenti nel
ricordo, o perché cronologicamente a noi prossime o perché non è
spenta l'eco del rumore che suscitarono; e dappertutto si osservano
le tracce della loro efficacia. Dappertutto, e anzitutto nel
pregiudizio che hanno rassodato (e che converrà pazientemente
corrodere e dissolvere) che la storia, la vera storia, si costruisca
col metodo naturalistico, e adoperi l'induzione causale; e poi nei
molteplici concetti naturalistici dei quali hanno imbevuto il
pensiero moderno: razza, eredità, degenerazione, imitazione,
influsso, clima, fattori storici, e via discorrendo.
E anche qui, come per le filosofìe della storia, bastando a noi
qualificare il fatto in ciò che gli è essenziale, non indugeremo
sulle varie forme particolari di esso, cioè sul vario modo in cui
furono enunciate ed enumerate le cause storiche, e sulle varie
proposte di questa o quella come causa suprema: ora la razza, ora il
clima, ora l'economia, ora la tecnica, e via discorrendo. Anche qui
lo studio delle forme particolari sarebbe giovevole a chi volesse
svolgere in particolare la dialettica e la dissoluzione interna di
quella scuola, e mostrare nei vari suoi
modi l'intrinseca tendenza a superare sé medesima, senza,
per quella via, riuscirvi.
Che le tre schiere di oppositori alle «filosofie della storia», e i
tre prodotti con cui si argomentavano di surrogarle — la storia
diplomatica, la storia filologica e la storia positivistica, — si
mostrassero tra loro discordi, si è accennato; e può ora confermarsi
col rammentare che gli storici diplomatici disprezzavano la gretta
erudizione e si tenevano diffidenti verso le costruzioni del
positivismo, e gli eruditi, a lor volta, temevano maltrattamenti di
nomi e di date, e scotevano la testa innanzi agli storici
diplomatici e al loro procedere disinvolto da uomini di mondo; e,
infine, i positivisti consideravano questi come gente che non
penetrava nel fondo delle cose, sino alle cause naturali o generali,
o rimproveravano agli eruditi la loro incapacità a sollevarsi alle
leggi e a stabilire la verità dei fatti in conformità di codeste
leggi, sociologiche, fisiologiche o patologiche. Ma altresì può
confermarsi ciò che si è notato intorno al comune concetto che tutti
li animava e alla loro sostanziale affinità, perché gli eruditi,
quando dovevano ammantarsi di una qualche filosofia, si
pavoneggiavano volentieri di alcun brandello di pensiero o di
fraseologia positivistica, e, innanzi ai problemi speculativi,
partecipavano al riserbo e all'agnosticismo dei positivisti e degli
storici diplomatici; e, del pari, ai positivisti non era possibile
sconoscere la giustezza della richiesta, che gli eruditi facevano,
delle testimonianze sicure e dei documenti autentici; e gli storici
diplomatici concordavano con essi nella formola che la storia non
debba essere filosofia e che la ricerca debba prescindere dalla
finalità e seguire la linea della causalità.
Con varie gradazioni, con vari intenti particolari, con varia
preparazione e con mezzi vari, tutte le tre specie di oppositori
negavano insomma, ad una con la trascendenza della filosofia della
storia, l'unità della storia con la filosofia. E, concordi come
erano queste scuole in ciò che negavano, tutte e tre diventano por
noi oggetto di una critica, che le accomuna nella medesima
negazione. Perocché a dar vigore al moderatismo e a mantener saldo
l'eclettismo della storia diplomatica non valgono neppure l'ingegno
e l'abilità di un Ranke; e la transazione si rompe per la mancanza,
da parte di tutti i contraenti, all'impegno che si era assunto
contro le proprie forze e contro l'intrinseca possibilità. Fallisce
l'idea di una storia agnostica, non filosofica ma non negatrice
della filosofia, non teologica ma non antiteologica, e
restringentesi alle nazioni e ai reciproci influssi delle nazioni,
perché il Ranke stesso era costretto a riconoscere potenze o Idee
che superano le nazioni, e che, in quanto tali, richiedono di essere
giustificate speculativamente in una filosofia o in una teologia; e
a questo modo egli si porgeva, segno alle accuse dei positivisti,
che screditavano quelle sue idee come «mistiche».
Per la stessa ragiono altri le veniva a poco a poco riducendo da
idee o moti spirituali a prodotti naturali e fisiologici, come tentò
un ardente seguace del Ranke, il Lorenz, con la sua dottrina delle
generazioni e dell'eredità, cadendo in quel fìsiologismo e
naturalismo dal quale il maestro si era preservato. E, compiuto
questo passaggio dalla spiritualità alla natura, non si teneva ritto
neppure il muro divisorio tra storia e preistoria, tra storia della
civiltà e storia della natura. D'altra parte, interpetrando le idee
come trascendenti o come rispondenti al disegno della volontà divina
che governa il mondo secondo una legge e lo conduce secondo un piano
di viaggio, si tornava alle «filosofie della storia».
Illusoria non meno era la vantata imparzialità e obbiettività, che
poggiava sopra un'astuzia letteraria di mezze parole, di sottintesi,
di prudenti silenzi; e contro il Ranke e la sua storia dei papi
otterrà sempre ragione, sotto il rigoroso aspetto critico, queli
gesuita che obiettava: — Il papato o è in tutto e per tutto ciò che
afferma di essere, istituzione del figlio di Dio fatto uomo, o è una
menzogna. Rispetto e cautele qui non hanno luogo. Tertium non datur.
— Per quella via, in effetti, non si usciva dalle tendenze dei
partiti, ma tutt'al più si costituiva un terzo partito, degli
aspettanti, dei tolleranti, dei tepidi, degli indifferenti. La
debole coerenza dei concetti direttivi del Ranke si può scorgere in
quel luogo della sua Storia
universale, nel quale, toccando, a proposito di Tacito,
delle vicende della propria disciplina, dichiara che «non si può
parlare né presso gli antichi né presso i moderni di un tranquillo e
uniforme svolgimento progressivo della storiografia, perché
l'oggetto stesso si forma nel corso del tempo ed e sempre diverso, e
le concezioni dipendono sempre dalle circostanze tra le quali
l'autore vive e scrive»; e viene a fare a questo modo atto di
rassegnazione al cieco contingentismo: il che quanto sia ingiusto
mostra il presente schizzo storico, che, senza sforzi di artificio,
ha tracciato lo svolgimento organico e progressivo del pensiero
storico dai greci ai tempi moderni. E come, d'altro canto, quella
debole coerenza d'idee, ossia quella trama d'idee che per proposito
egli lasciava nel vago, gli rendesse difficile imprimere vita a un
vasto racconto storico, tutta la Storia universale ne è prova, così
slegata e pesante e uscente portino in riflessioni estrinseche, —
com'è, per esempio, nelle prime pagine del primo volume, il
ravvicinamento di Saul e Samuele agli imperatori in lotta coi papi,
e della politica di Reoboamo e Geroboamo alle politiche avversarie
degli stati centralizzanti e delle regioni centrifughe nei tempi
moderni; — e, in genere, in non pochi degli scritti del Ranke si
osserva qua e là un ricadere (come era inevitabile) nel metodo
prammatico.
E quel che si è detto del Ranke e da ripetere, con più forte
accento, dei suoi discepoli e di coloro che coltivarono lo stesso
tipo conciliatoristico di storia.
Quanto alla storia filologica, il ricordo che si è fatto del suo
programma ne chiarisce la nullità, perché esso mette capo, per
direttissima via, a un duplice assurdo. Applicando invero il più
rigoroso metodo delle testimonianze, non c'è testimonianza che non
possa essere messa in sospetto e infirmata, e la storia filologica
conduce a negare la verità di quella storia, che voleva costruire. E
se arbitrariamente e per segni estrinseci si attribuisce valore a
certi testimoni, non c'è stravaganza che non debba essere accettata,
perché non c'è stravaganza che non possa avere dalla sua parte
autorità di uomini probi, candidi e intelligenti: col metodo
filologico non v'ha modo di rigettare nemmeno i miracoli, riposanti
sulle medesime attestazioni onde si tiene accertata una guerra o un
trattato di pace, come dimostrò l'ora citato Lorenz, esaminando i
miracoli di san Bernardo al lume della più stretta critica
filologica.
Per salvarsi dall'ammissione dell'inconcepibile e dalla
nullificazione della storia che segue alla nullifìcazione delle
testimonianze, non rimane se non l'appello al pensiero, che
ricostruisce la storia dell'interno, ed è testimone a sé stesso, e
nega ciò che è impensabile per ciò stesso che non lo pensa; ma
quest'appello è dichiarazione di fallimento per la storia
filologica. La quale effettivamente in tanto si sorregge più o meno
come storia, in quanto ricorre a tutti i sussidi della storia
propriamente detta, e contradice sé medesima; o contradice sé
medesima, e pur non si sorregge se non in apparenza e per poco, col
ripigliare i motivi della prammatica, della trascendenza e del
positivismo.
E quest'ultimo, a sua volta, percorre, con diverso ordine, le
medesime vicende: perché il suo principio di una storia che spieghi
causalmente i fatti, presuppone i fatti, che, in quanto fatti, sono
pensati, e perciò, in certo modo, belli e spiegati. Donde un circolo
vizioso, evidente nel rapporto di storia e sociologia, ciascuna
dello quali dovrebbe essere fondata e insieme fondare l'altra: come
a dire, una colonna che deve sostenere il capitello e sorgere
insieme sul capitello. Che se, a rompere il circolo, si pone base la
storia e coronamento la sociologia, questa non sarà più la
spiegazione di quella, e quella troverà la spiegazione in altro. E
l'altro sarà, secondo meglio piaccia, un principio ignoto, ovvero
un'escogitazione qualsiasi che operi da Dio, e, in ambo i casi, un
principio trascendente; onde il metter capo del positivismo nelle
filosofie della storia, esemplificato dalle Apocalissi e dai Vangeli
del Comte, del Buckle e di tutti quanti: tutti teologi
reverentissimi, sebbene caotici e ricadenti in quei fallaci concetti
che la storiografìa romantica aveva confutali.
In verità, innanzi a questa sorta di storie, superficiali o
inintelligenti o rozze o fantastiche, il romanticismo, consapevole
dell'altezza alla quale aveva levato lo studio dello svolgimento
delle cose umane, avrebbe potuto gridare (e gridava di fatto pei'
bocca dei suoi epigoni) agli avversari e successori, imitando il
tono di Bonaparte nel 18 brumaio: «Che cosa avete voi fatto della
Storia, che io vi avevo lasciata si brillante? Erano codesti i nuovi
metodi, onde promettevate di risolvere i problemi che io non avevo
saputo risolvere? Io non vedo intorno che revers et misère.1».
Ma noi, che, durante lo svolgimento secolare della storiografia, non
abbiamo mai incontrato regressi assoluti, non ci lasceremo
trasportare dall'impelo polemico contro la scuola positivistica e
naturalistica, che è la nostra presente o recente avversaria, fino a
perdere d'occhio ciò che essa aveva di proprio e sostanziale, e pel
quale, effettivamente, formò progresso; e ci rifiuteremo a istituire
paragoni tra il romanticismo e il positivismo, misurando i meriti di
questo e di quello, e fermando la superiorità del primo sul
secondo, perché ci è
ben noto che codeste graduazioni
da professori ed esaminatori non sono lecite in istoria, dove quel
che viene idealmente dopo è virtualmente superiore, nonostante le
contrarie apparenze, a ciò da cui è provenuto.
E, in primo luogo, e parlando con rigore, sarebbe erroneo credere
che gli acquisti del romanticismo andassero perduti nel positivismo,
perché, guardando per altri aspetti e più attentamente le storie di
questo periodo, si vede come essi fossero tutti serbati. Il
romanticismo l'aveva l'atta finita col dualismo storico, pel quale
c'erano nella realtà fatti positivi e fatti negativi, eletti e
reprobi; e il positivismo ripeteva che tutti i fatti sono fatti e
tutti hanno pari diritto a entrare nella storia. Il romanticismo,
agli abissi e ai salti che la storiografia anteriore introduceva nel
corso degli avvenimenti, aveva sostituito il concetto dello
svolgimento; e il positivismo ripeteva quel concetto, chiamandolo
evoluzione. Il romanticismo aveva periodizzato lo svolgimento, sia
per circolo di fasi, come il Vico, sia per fasi senza circolo o in
ordine lineare, come i romantici tedeschi, ed esemplate le varie
fasi sulla serie delle forme dello spirito o delle forme
psicologiche; e il positivismo rinnovava queste concezioni (sebbene
per la incoltura consueta nei suoi cultori credesse sovente di
compiere scoperte non mai fatte innanzi), come si può provare con
una lunga serie di esempì: dalle tre età dello svolgimento mentale,
secondo il Comte, alle otto fasi dello svolgimento sociale o ai
quattro periodi politici, che sono rispettivamente le «novità» dei
contemporanei Lamprecht e Breysig.
Il romanticismo, giudicando leggiere le spiegazioni degli
avvenimenti mercé i capricci e i calcoli e i disegni degli individui
atomisticamente presi, assumeva a soggetto della storia gli
universali, l'Idea, le Idee, lo spirito, le nazioni, la libertà; e
il positivismo anch'esso rifiutava l'atomismo individualistico, e
parlava di masse, razze, società, tecnica,
economia, scienza, tendenze sociali; di ogni cosa insomma, ma
non più dell'arbitrio di Tizio e di Caio.
Il romanticismo aveva non solo rafforzato le storie dei valori
ideali, ma concepitele in organica connessione; e il positivismo
insisteva sulla interdipendenza dei fattori sociali e sulla unità
del reale, e si provava a colmare gl'interstizi delle varie storie
speciali mercé la storia della civiltà e della cultura, e la
cosiddetta storia sociale, risolvente in sé politica, letteratura,
filosofia, religione e ogni altra classe di fatti.
Il romanticismo aveva abbattuto la storia eteronoma, insegnativa,
moralizzatrice, servizievole; e il positivismo vantava la sua storia
come scienza, fine a sé stessa al pari di ogni scienza, sebbene come
ogni scienza fondamento della pratica e perciò applicabile.
Il romanticismo aveva innalzato il pregio dell'erudizione e avvivato
il ricambio tra essa e la storia; e donde venne all'erudizione o
filologia, nel periodo positivistico, quell'orgoglio che le faceva
credere perfino di essere essa la storia, se non per l'appunto dalla
coscienza che il romanticismo le aveva data, e che essa serbava ed
esagerava? donde le venne la sostanza del suo metodo se non (come
bene nota il Fueter) dalla romautica ricerca del primitivo, del
genuino, dell'ingenuo, che si manifesta nel Wolf, fondatore del
metodo, il quale (giova rammentarlo) ora un preromantico, amatore di
Ossian e della poesia popolare?
E, infine, che cosa sono gli sforzi del positivismo a cercare le
cause della storia, la serie dei fatti storici, l'unità dei fattori
e la loro dipendenza da una causa suprema, se non le speculazioni
stesse dei romantici sul modo, il fine e il valore dello
svolgimento? Chi ponga mente a tutte queste e ad altrettali
somiglianze che si potrebbero venire mostrando, deve concludere che
il positivismo sta al romanticismo come l'illuminismo alla
Rinascenza, e cioè non è tanto l'antitesi di quello quanto piuttosto
la prosecuzione logica e l'esagerazione dei suoi
presupposti. Anche la sua finale conversione in teologia risponde a
quella del romanticismo: cosa ovvia, del resto, perché la
trascendenza è sempre trascendenza, o che si pensi come quella di un
Dio e di una Ragione, o come quella di una Natura e di una Materia.
Ma, nel pensarla come Materia e come Natura, in questo travestimento
naturalistico e materialistico, che sembra dapprima odioso o
ridicolo, dei problemi e dei concetti romantici, dell'Idea in Causa,
dello svolgimento in evoluzione, dello spirito in massa e simili, e
nel quale si sarebbe tratti dapprima a riporre l'inferiorità della
storiografia positivistica, è invece, chi ben guardi, il suo
progresso sul romanticismo.
Quel travestimento contiene l'energica negazione, giusta nel suo
motivo e nella sua tendenza generale, della storia come mossa da
forze estramondane, da finalità esterna, da legge trascendente: e la
correlativa affermazione che la sua legge deve ricercarsi nella
realtà, che è una e si denomina «natura». Il positivismo, che non
voleva sapere per niun conto di «metafisica», aveva di mira in
questo suo disdegno la metafisica dommatica e trascendente,
inoltratasi nel pensiero del Kant e dei suoi successori: e il suo
bersaglio era buono, sebbene poi confondesse la metafisica con la
filosofia in genere, o la metafisica dommatica con quella critica,
la metafisica dell'ente con quella della mente, ed esso stesso non
fosse al tutto libero da ciò che prendeva a combattere. Il che non
toglie che la sua ripugnanza alla «metafisica», e, per attenerci al
caso che più davvicino c'interessa, alla «filosofia della storia»,
abbia prodotto beneficio durevole.
I libri di storia divennero, per virtù del positivismo, meno
semplicistici e più ricchi di fatti, specialmente di quelle classi
di fatti che il romanticismo aveva trascurate, come le disposizioni
che si dicono naturali, i processi che si dicono degenerativi
o patologici, le complicazioni spirituali che si dicono illusioni
psicologiche, gl'interessi che si dicono materiali, la produzione e
distribuzione della ricchezza, ossia l'operosità economica, i fatti
della forza e della violenza, ossia della potenza politica e
rivoluzionaria. Tutto intento a negare la trascendenza e ad
osservare le cose che lo attraevano, il positivismo si sentiva, od
era per questa parte, nel vero; e chiunque di noi presta la dovuta
attenzione a quegli ordini di cose e rinnova quella negazione,
raccoglie il frutto del positivismo, e per tal rispetto è
positivista.
E anche le sue contradizioni ebbero il merito di rendere più intense
le contradizioni, latenti nella storiografia romantica: merito da
assegnare perfino alle più stravaganti dottrine del positivismo,
come a quella del Taine che la conoscenza sia un'allucinazione vera
e che la saggezza umana sia un accidente (une rencontre), il che presupponeva come caso
normale l'irragionevolezza, e magari a quella del Lombroso, che il
genio sia follia; o a! proposito di cercare in qual modo mai, posto
l'omogeneo, nasca l'eterogeneo e la diversità storica; o al canone
metodico, che la storia debba spiegare tutto causalmente, ma
arrestarsi innanzi alla genialità e verità, che sono fuori di lei,
perché rifiutano la spiegazione causale; o al pauroso Inconoscibile,
messo a capo delle storie e del reale, dopo tanto fracasso di
titanica scienza che si era accinta alla scalata del cielo.
Ma, poiché il romanticismo aveva lasciato senza vera fusione spirito
e natura, l'uno di fronte all'altra, era giusto che, se prima lo
spirito trangugiava la natura senza poterla digerire (perché,
com'era stata posta, era indigeribile), ora la natura facesse il
medesimo, e col medesimo effetto, verso lo spirito: era giusto e
logico, tanto vero che non pochi furono gli antichi idealisti che
passarono al più crasso materialismo e positivismo, ed era insieme
assai istruttivo e suggestivo quel confessato non sapersi
raccapezzare nell'imbroglio, e quello smarrimento, decorato col nome
di «agnosticismo». E come la recisa affermazione della positività
della storia formava avanzamento del pensiero, l'antitesi spinta
all'estremo del materialismo era avanzamento nella preparazione del
nuovo problema e del nuovo modo di risolvere il rapporto di spirito
e natura.
Oportet ut scandalo eveniant;
e questo vuol dire che anche lo scandalo, lo scandalo dello
sproposito e della bestemmia offensiva della coscienza umana, è
avanzamento.
VIII
La nuova storiografia. Conclusione
Durante il dominio del positivismo, la corrente romantica non solo
si mantenne nei suoi eccessi e, come si è mostrato, s'insinuò nella
sua stessa antitesi naturalistica, ma persistette altresì nella sua
forma genuina. E, sebbene non abbiamo parlato degli imitatori e
conservatori pedanteschi, — il cui significato è piccolo nella
storia del pensiero, cioè pari a quel pochissimo che pure sono
costretti si innovare, — abbiamo nondimeno ricordato il serbarsi del
romanticismo nell'eclettismo del Ranke, il quale filosoficamente si
appoggiava alle teorie dello Humboldt (un altro «diplomatico»). Nei
filosofi, dallo Humboldt al Lotze, allo Hartmann o al Wundt, e alle
corrispondenti figure degli altri paesi, i motivi idealistici e
romantici, in ciò che avevano di meglio, continuarono a rischiarare
ancora gl'intelletti e gli animi. Il simile accadde nella
storiografia propriamente detta, e non poteva non accadere, perché,
se si fossero prese e seguite alla lettera le formole del
positivismo e dell'agnosticismo, ogni lume di pensiero si sarebbe
spento nel cieco meccanismo ossia nel nulla, e nessuna
rappresentazione storica si sarebbe potuta formare.
Sicché la storia politica, sociale, filosofica, letteraria,
artistica continuò a fare acquisti, se non così importanti come
quelli del periodo romantico (l'ambiente era assai più favorevole
alle scienze naturali e matematiche che non alla storia), pur
nondimeno ragguardevoli. Il che in un'ampia storia della
storiografia (e rimando per questa parte al più volte citato libro
del Fueter) va messo in luce ; e colà, si potrà rendere onore alla
grande opera compiuta dal Ranke, che la rapidità della mia
esposizione mi ha indotto a lumeggiare più specialmente nei suoi
aspetti negativi, facendomi accennare, per esempio, alle sole
contradizioni della Storia dei
papi, che è, ciò nonostante, un capolavoro.
Quanto il migliore spirito romantico fosse sempre efficace, si
scorge, come in caso tipico, nel Taine, così ingenuamente
naturalistico nei suoi propositi e nei concetti direttivi dei suoi
libri, e così irrefrenabilmente romantico nelle singole parti, per
esempio nelle caratteristiche dei poeti francesi o dei pittori
italiani e olandesi, e che doveva terminare nell'esagerato
romanticismo antigiacobino con le sue Origines de la France contemperaine: alla stessa
guisa che lo Zola e gli altri veristi, nemici a parole del lirismo
romantico, furono lirici in tutti i loro romanzi, e il caposcuola
doveva chiudere la sua opera col lirismo astratto dei Quatre évangiles. E quel che si avverte del
Taine, s'intenda del Buckle e di altri naturalisti e. positivisti,
costretti a storicizzare a loro dispetto, e dei positivisti,
diventati segnaci del materialismo storico, i quali si trovarono la
dialettica in casa senza sapere che cosa fosse e donde venisse.
Dei teorici della storiografia non tutti si dimostrarono
risolutamente e pazzescamente naturalisti al pari del Bourdeau e di
qualche altro; anzi pochi e di efimera nomea furono costoro, e nei
più prevalse l'eclettismo, la combinazione di necessità e libertà,
di masse e individui, di causa e fine, di natura e spirito: anche la
filosofia della storia fu ammessa, se non altro conio un
desideratum o un problema da aprire a tempo opportuno (e sia
pure alle calende greche). E l'eclettismo presentò le più ricche
varietà, dalle bassure di un triviale accoomodantismo fino alle
altezze di un travaglio interiore, dal quale pareva stesse per
uscire ad ora ad ora una parola nuova, non più eclettica.
Quest'ultima forma dell'eclettismo, e gli aperti tentativi di
ripristinare più o meno integralmente l'idealismo romantico, e i
modi romantici di storiografia, si sono fatti più frequenti da
quando la coscienza moderna si è distaccata dal positivismo,
dichiarandone il fallimento. Ma tutto ciò ha importanza piuttosto di
sintomo che di reale avanzamento del pensiero.
E sintomi e non progressi di pensiero (dico nel generale e non nei
particolari concetti e teorie, che formano spesso un reale
accrescimento) debbono considerarsi le filosofie moderne di reazione
al positivismo, delle quali le più osservabili sono l'intuizionismo
e la filosofia dei valori. Senonché la prima, bene criticando la
scienza come costruzione economica impotente al vero conoscere, si
chiude poi nella coscienza immediata, in una sorta di misticismo,
dove la dialettica storica viene sommersa e affogata; e l'altra,
collocando di fronte ai concetti della scienza il concetto del
valore a presidio dello spirito come (avrebbe detto il nostro
imaginifico Tari) come «un filosofico cave canem», lascia aperto un dualismo, che
impedisce l'unità della storia e del pensiero come storia. A
guardare intorno a noi, non ci vien fatto dunque scorgere quella
nuova filosofia, che, risolvendo le antitesi del romanticismo
fantasticante e del materializzante positivismo, dia il fondamento e
insieme la giustificazione della nuova storiografia.
Ed è chiaro che di siffatta filosofia non possiamo nemmeno
discorrere, secondo si usa, come di un'esigenza, perché l'esigenza
di una determinata filosofia è essa stessa il pensamento di quella
determinata filosofia, e perciò non è un'esigenza, ma un'attualità.
Onde il dilemma o di tacere di essa, e in questo caso di non
parlare nemmeno del positivismo come di un periodo chiuso e
superato, o di parlare della nuova filosofia come di qualcosa che
vive ed esiste, e appunto perché vive ed esiste; e poiché la
rinunzia a parlare ci è resa impossibile dalla critica stessa che
abbiamo svolta, non rimane se non riconoscere quella filosofia non
come un'invocazione, ma come un'esistenza. Sol che, per vedere dove
essa sia, non dobbiamo guardare intorno a noi, ma rientrare in noi;
e ripiegarci sul concetto che ha animato questo schizzo storico
della storiografia e tutti gli schiarimenti teorici che vi abbiamo
premessi.
Nella filosofia che abbiamo delineata, la Realtà è affermata come
Spirito, ma non già tale che stia sopra il mondo o corra attraverso
il mondo, sibbene che coincide col mondo; e la natura è mostrata
come momento e prodotto dello spirito stesso, e perciò il dualismo
(quello almeno che ha travagliato il pensiero da Talete a Spencer) è
sorpassato, ed è sorpassata con esso la trascendenza materialistica
o teologica che sia. Lo Spirito, che è il Mondo, è lo spirito che si
svolge, e perciò uno e diverso insieme, eterna soluzione ed eterno
problema, e la sua autocoscienza è la filosofia che è la sua storia,
o la sua storia che è la sua filosofia, sostanzialmente identiche; e
identica e la coscienza con l'autocoscienza, cioè distinta e una
insieme, come la vita e il pensiero. Questa filosofia, che è in noi
ed e la nostra, ci abilita a riconoscerla, ossia a riconoscere sé
stessa, fuori di noi, nel pensiero degli altri uomini, che è anche
nostro; e a ritrovarla più o meno chiara e perfetta nelle altre
forme della filosofia contemporanea, e più o meno chiara e perfetta
nella storiografia contemporanea. E tale riconoscimento, che reca
gran conforto spirituale, ci è dato compiere di frequente; e proprio
in questi giorni, mentre, scrivevo queste pagine, mi è venuto a mano
il libro di storia di uno storico (scelgo un caso tra i parecchi),
di un puro storico, e vi ho letto nel bel principio queste parole,
che mi suonano come le mie stesse: «Il mio libro si fonda sul
convincimento che l'indagine storiografica tedesca, senza rinunciare
alla preziosa tradizione del suo procedere metodico, si deve
innalzare a più libero moto e contatto con lo grandi forze della
vita politica e della cultura, e, senza ricevere danni nella sua
essenza e fine, deve tuffarsi nella filosofia e nella politica, e
così solo potrà svolgere la sua intima essenza ed essere insieme
universale e nazionale»1.
Questa è la filosofia del nostro tempo, iniziatrice di un nuovo
periodo filosofico e storiografico. Ma di questa filosofia e di
questa storiografia, che è soggetto e non oggetto, non si può fare
la storia; né già per la ragione comunemente addotta, e da noi
trovata falsa, che stacca il fatto dalla coscienza del fatto, ma per
l'altra ragione che la storia che andiamo costruendo è una storia di
«epoche» o di «grandi periodi», e il nuovo periodo è nuovo appunto
perché non è ancora un periodo, ossia qualcosa di chiuso. Noi non
solo non possiamo configurarlo cronologicamente o geograficamente,
perché ignoriamo quale misura di tempo riempirà (si svolgerà
rapidamente in pochi decenni, o sarà impedito e soffocato e
ripiglierà il suo corso tra secoli?), e quale estensione di paesi
abbraccerà (rimarrà per lungo tempo italiano o tedesco, e di alcuni
circoli italiani o tedeschi, ovvero si diffonderà presto in ogni
paese, e nella comune cultura e nel pubblico insegnamento?); ma,
quel che vale di più, non possiamo logicamente delimitarlo. Perché,
per così delimitarlo, sarebbe necessario che
esso avesse svolto le sue antitesi, ossia i nuovi
problemi che infallantemente nasceranno dalle sue soluzioni, e ciò
non è ancora accaduto: siamo tra le onde e non abbiamo ammainato le
vele nel porto per prepararci a nuovo viaggio. — «Bis hierher ist das Bewusstsein gekommen»: fin qui è giunta la
coscienza nel suo svolgimento: — diceva lo Hegel, al termine delle
sue lezioni sulla Filosofia della
storia; e non aveva diritto di dirlo, perché il suo
svolgimento, che dalla incoscienza della libertà andava alla piena
coscienza di essa nel mondo germanico e nel sistema dell'idealismo
assoluto, non ammetteva prosecuzione. Ma possiamo ben dirlo noi, che
abbiamo, ormai, vinto l'astrattezza dell'hegelismo.
1 Friedrich Meinecke, Weltbürgerthum und Nationalstaat, Studiali zur
Genesis des deutschen Nationalstaates, Müchen u. Berlin, Oldenburg,
1911, seconda ediz., pref., p. VII.