Idea d'una Psicologia delle scienze.
1. La Psicologia è lo studio delle facultà del
pensiero.
La più adulta e perfetta forma del nostro pensiero è
la contemplazione scientifica, - la contemplazione dell'ordine
universale, - dell'ordine nella natura e nell'umanità.
Or bene, molti sono gli uomini, molte anzi sono le nazioni, le cui
menti non toccarono mai queste sublimi altezze. Mentre il nome
d'alcuni popoli si trova scritto con note gloriose sul vestibolo
d'ogni scienza, innumerevoli nazioni si sono estinte senza lasciar
di loro al mondo una sola idea. Oggi ancora le selve dell'America,
le lande dell'Africa, e dell'Australia, ampie regioni dell'Asia,
alcune estremità dell'Europa, sono seminate di genti dal cui
sterile intelletto il corso dei secoli non vide mai spuntare
germoglio di scienza.
Mancò forse ad essi alcuna necessaria facultà? La loro
impotenza scientifica è forse una condanna fatalmente
inflitta dalla natura? - La nature de l'esprit humain est la
même chez tous les hommes, rispondono le scôle francesi.
Quando la psicologia annovera e descrive le facultà
dell'animo, le considera tutte come un retaggio commune degli
uomini, come un segno caratteristico del genere.
Come dunque si spiega codesto splendido privilegio del pensiero
scientifico? S'è un produtto spontaneo e immediato delle
facultà umane, perchè non si offre egualmente in tutti
i popoli? Quali sono le condizioni necessarie affinchè le
facultà che si affermano eguali in tutto il genere umano, si
esaltino fino a questo ápice della loro potenza? Come nascono
in seno ai popoli le scienze? V'è una Psicologia delle
scienze?
Tale è l'argumento ch'io propongo non tanto a me medesimo
quanto a chiunque ha fede che questi oscuri studii possano aspirare
con tutti li altri e come li altri ad un graduale progresso, per
potere esser poi ministri di pratico progresso ai popoli.
Signori, le ricerche della Psicologia non sono vano pascolo di menti
oziose. Il principio psicologico della sostituzione reciproca dei
sensi ha insegnato ai nostri padri un'arte ignota al mondo antico,
ha insegnato l'educazione ragionata dei ciechi nati e dei sordi
muti. Or v'è nelle nazioni un ordine, cento e cento volte
più numeroso, di ciechi nati ai quali la luce del vero non
è luce, - un ordine, cento e cento volte più numeroso,
di sordi muti ai quali la voce del vero percuote indarno li orecchi.
Ma mentre in altri tempi le scienze furono giurate al silenzio,
celate misticamente al vulgo profano, ora lo spirito del secolo
vuole che diventino libero patrimonio di tutti i popoli. I
propagatori delle scienze devono dunque investigare per quali modi
il massimo numero delle menti possa venire eccitato e sussidiato a
intraprendere tutto quell'ulteriore lavoro mentale che supera i
limiti dell'infimo senso commune.
2. Mi pare evidente anzi tutto che gli elementi della questione sono
a ricercarsi nella natura umana e non nelle esteriori e materiali
condizioni dei popoli.
Nel secolo scorso, per autorità principalmente di Montesquieu
e di Herder, si attribuì somma influenza ai climi nella
genesi della civiltà e perciò anche della dottrina. Ma
l'istoria delle scienze fa troppo contraria testimonianza. Se
l'India ci diede le cifre decimali, se li Arabi ci diedero il
concetto o almeno il nome dell'algebra, e della chimica; il
logaritmo fu ideato nell'estrema Scozia; Newton, l'interprete delle
leggi delli astri, visse nel più nebuloso dei climi; e
Linneo, che unificò nell'idea del fiore tutto il regno
vegetale, visse tra le nevi della Svezia. A parte dunque i climi!
Più accetta, ancora ai nostri giorni, è la dottrina
che reputa il genio scientifico un distintivo di certe stirpi.
È chiaro che, ciò pensando, ogni popolo tende ad
adular sè stesso. È una forma della boria delle
nazioni (Vico).
Questa naturale e antica ipotesi dei popoli eletti acquistò
nuova forza dalle due novelle scienze che sursero dall'applicazione
della botanica e della zoologia alla geografia. Come ad ogni regione
del globo fu data una propria flora e una propria fauna, come certe
specie, indigene ad una terra, rappresentano altre specie dello
stesso genere, negate a quella regione e concesse ad un'altra,
così pure, a complemento di tali varietà della
creazione, una più ardita ipotesi assegna in origine ad ogni
terra una diversa specie del genere umano. Certe varietà, o
certe miscele di più varietà, sarebbero riescite
più valide di corpo o d'intendimento e atte ad espandersi
più poderose sulla terra, distruggendo o confondendo seco o
in ambo i modi obliterando le altre stirpi primeve. E così si
sarebbero costituite quelle stirpi che sole si potrebbero designare
col nome di specie pensante: Homo sapiens.
Signori, non è del mio argomento d'accettar questa ipotesi o
d'impugnarla. Io non ho dunque a dire come si dovessero in tal caso
evitare quelle odiose illazioni che parrebbero dover quindi
scaturire a danno delle stirpi più deboli, e a conforto di
coscienza ad ogni sorta di conquistatori e d'oppressori. È
noto quali conseguenze traessero i fautori della schiavitù
dei Negri dalla scoperta d'una costante differenza nell'angolo
faciale tra i Negri e i Bianchi, onde aver argumento che quella
stirpe fosse inetta ad ogni alto pensiero e predestinata a vegetare
in perpetua puerizia e in tutela necessaria de' suoi nemici. Voi
vedete, Signori, che se l'ipotesi fosse dimostrata,
l'iniquità delle conseguenze non ci esimerebbe dal dovere
d'accettare una dura verità.
Vorrei piuttosto prescindere da questa ipotesi nel nostro argomento.
Piuttosto direi che se con essa si verrebbe assai facilmente a
sciogliere il quesito della primitiva disparità
d'intelligenza fra i popoli, ancora non si spiegherebbe come una
progenie gentile e sagace, una progenie per molti secoli gloriosa
nelle scienze, possa ad un tratto ricadere nella più profonda
impotenza mentale. Non si spiegherebbe come la stirpe greca,
già feconda d'ogni frutto scientifico, ombreggiasse poi per
mille anni, infecondo plàtano, la terra di Costantino. Non fu
la spada dei Turchi che troncò nel secolo XV in Grecia la
vita della scienza; essa era già da mille anni inaridita. Non
furono neppure, come alcuno pensò, le controversie teologiche
che preoccupando le menti le avessero chiuse ad ogni altro pensiero.
Perocchè voi sapete che tra le dispute pur teologiche della
Sorbona s'agitava negli stessi secoli la nuova vita del pensiero in
Occidente. Infine noi vediamo oggidì nell'Asia cinquecento
millioni d'uomini, metà del genere umano, appartenente a
nazioni ingegnose ed educate in una tradizione scientifica assai
più antica della nostra, giacer quasi mentalmente
petrificati, simili ai depositi fossili che fanno testimonio d'una
vita che non è più.
Pur troppo in forza di cause che stanno certamente nel dominio della
psicologia, un popolo, il cui pensiero rifulse sul mondo per una
serie di generazioni, perviene ad una generazione che cessa di
pensare, che depone quasi in sepolcro le facultà ch'erano
sì operose ne' suoi padri, che smarrisce perfino la coscienza
di possederle, ripudia come una colpa ogni novello pensamento, ogni
novella opera delle sue facultà. Fra le gare del progresso,
Signori, la scienza non deve obliar nemmeno la dolorosa teoria della
decadenza e del regresso, il quale è pure un fatto che si
avvera e apporta talora non solo una lunga degradazione dei popoli
ma la loro estinzione. Ma forseché tutta una posterità
nasce priva di quella dote d'ingegno che distinse i suoi padri? E se
ha le medesime attitudini naturali e non se ne vale, qual è
il principio che le venne subitamente mancando? Qual è
codesto principio che infonde lo spirito della vita nell'intelletto
delle nazioni, e poi di repente può abbandonarle ad un sopore
di morte?
E viceversa l'ipotesi della disparità delle stirpi non
può spiegare come le genìe sì lungamente
barbare degli Scandinavi, dei Germani, degli Slavi, dei Magiari,
quasi d'improviso, mentre l'Europa meridionale imbarbarita anch'essa
non poteva communicar loro un impulso scientifico ch'essa medesima
più non aveva, poterono determinarsi alla vita nuova del
pensiero, e per l'intermedio di lingue straniere e morte, iniziarsi
nelle scienze tanto spregiate dai loro padri. A risolvere il
problema dell'improviso trapasso dei primitivi selvaggi dall'errare
ferino alla vita agricola, Vico ricorse alla imaginaria ipotesi del
primo fulmine e dell'improviso culto di Giove Tonante. Ma
forseché quelle tante tribù che rimasero tuttavia
selvagge e che vivono nude e canibali ancora oggidì, non
hanno udito mai lo scoppio del tuono? Vico aveva ben avvisato, primo
fra tutti, che il mondo delle nazioni si doveva spiegare colle leggi
dell'intelletto; ma sul bel principio sottoponeva poi le leggi
dell'intelletto al caso delle meteore, e lasciava intentato
all'analisi il problema iniziale.
3. A me parve sempre che l'inefficacia dei nostri studii si debba al
metodo prediletto ai fondatori della Psicologia. Essi per conoscere
le umane facultà presero a scrutarle nel senso intimo, nella
coscienza, nell'io. Ma parve a me che per apprezzar l'artefice
convenisse studiar le opere, che per conoscere le facultà,
ossia le attitudini a fare convenisse studiare i fatti ch'esse
compiono veramente; che pertanto convenisse perlustrare tutto il
circuito delle scienze fino al punto più eccentrico delle
loro scoperte, e vedere di quali facultà si potesse
discernere in esse lo speciale intervento. Tracciata la
circonferenza, resta determinato il centro; ma non viceversa. Nel
centro psicologico tutto si unifica e si confonde in una vaga e
indeterminata capacità, mentre sull'ampio giro della
circonferenza scientifica si possono segnalare distintamente tutti i
fatti dell'intelletto e per essi irrefragabilmente le sue
facultà, essendo evidente che chi ha fatto poté fare.
Vi sono entro di noi certe forze alle quali noi non abbiamo
assegnato parte veruna nell'origine delle nostre idee, e le quali
anzi si considerano come estranie all'intelletto; e tuttavia, se
scrutiamo i fatti, troviamo essere state coefficienti potentissimi
d'ogni nostro lavoro scientifico.
Considerate l'istinto. L'istinto è la facultà di
compiere certi atti senza previa cognizione. L'istinto è
l'azione senza l'idea. È una facultà che per
ciò appunto può dirsi estrania all'intelletto. Eppure
molti degli istinti nostri non possono dirsi superflui ed
indifferenti alla complessiva elaborazione del nostro sapere.
Colui che trovò il primo teorema della geometria, avrebbe
potuto inventare anche il secondo e il terzo, avrebbe potuto
compiere tutta la scienza. Ma la vita dell'uomo ha un limite; il
breve suo lavoro vien troncato dalla morte. Bisognò dunque
che ad un geometra succedesse un altro e un altro, raccogliendo
ciascuno l'eredità del suo predecessore, sicché alla
fine tutta la catena delle verità ch'erano a dimostrarsi
rimanesse compiuta. Fu dunque necessario che la scienza divenisse
una tradizione in seno ad una stabile società.
Talete vide nell'acqua l'elemento per eccellenza. Noi vediamo
nell'aqua una combinazione; noi ne siamo certi, perché
possiamo disfarla e rifarla: il vero è il fatto, dice Vico.
Avrebbe potuto Talete ne' tempi suoi pervenire a tanto? Da Talete a
Lavoisier corsero ventiquattro secoli, seco portando tutto il lavoro
della scienza degli antichi Greci, delli Arabi e dei moderni. La
scoperta dei componenti dell'aqua era un ultimo gradino in una lunga
scala di pensieri, a edificar la quale avevano collaborato molte
generazioni. Essa non era l'opera delle facultà solitarie
d'un uomo, bensì quella delle facultà associate di
più individui e di più nazioni.
È dunque una necessità della costruzione scientifica
ch'essa surga nel seno d'una società, anzi di molte
società, dimodoché al mancar dell'una per qualche
avversità l'opera possa venir continuata da un'altra.
All'elaborazione della scienza non basterebbero dunque tutte le
facultà dell'intelletto, se l'uomo non fosse già per
istinto di natura un essere socievole, s'egli avesse, non l'istinto
del castoro, ma quello dell'aragno il quale abita solitario nel
centro della sua tela. Ecco dunque l'istinto entrare nell'opera
scientifica come un necessario coefficiente.
E v'entrano altri istinti. V'entra quel bisogno di communicare
altrui i proprii sentimenti e pensieri, che vediamo nella più
inculta feminetta. Quindi lo spontaneo sforzo d'imparar la parola e
di formarla; lavoro che noi andiamo proseguendo coll'imporre un
nuovo vocabolo ad ogni nuova scoperta, all'ossigene, al silicio,
alla locomotiva. E se analizziamo le nostre lingue, noi troviamo che
le voci scientifiche più astratte sono traslati o derivati
d'umili vocaboli d'ordine concreto e sensuale. E se spingiamo
l'analisi più avanti e riduciamo i derivati alle radici,
troviamo residuare al fondo d'ogni più dotta lingua un capo
morto di pochi monosillabi, di suono per lo più imitativo. E
qui ci si affaccia un altro degli istinti umani, quello
dell'imitazione; che se si eccettua qualche specie d'augelli e di
scimie, è uno dei più caratteristici della specie
umana; ed è di supremo momento non solo alla formazione della
parola, ma in tutte le arti. E questo medesimo istinto imitativo,
combinato ad altri, ci spiega il fatto della tradizione domestica e
della tradizione scientifica, onde proviene l'associazione delli avi
ai posteri, dei maestri agli allievi, e la perpetua successione
nell'immortale opera del sapere.
E vi sono altri istinti che possono svolgersi solamente in seno alla
società. E son quelli che la scôla scozzese chiama
istinti morali e che altre scôle preferiscono di chiamar
piuttosto col nome di sentimenti. Tale è la credulità,
l'adesione all'amicizia e all'autorità, l'amor della lode, il
terror dell'infamia.
Signori, io non vi leggo un trattato; io vi propongo l'idea d'uno
studio. La psicologia delle scienze come quella delle lingue, come
quella delle leggi e delle religioni e delle istituzioni tutte
è un ramo d'una psicologia delle menti associate, ch'io
vorrei non contraporre, ma bensì sovraporre alla psicologia
della mente individuale e solitaria. Tutti i pensatori sentirono che
dall'intelletto dell'individuo non si poteva salire alle alte
astrazioni e alle sublimi verità. Epperò furono
astretti a supplire con ipotesi più o meno infelici, come
l'anamnesi di Platone, che considerava l'idea come una fioca
reminiscenza d'una vita anteriore; - come le idee innate, - come la
visione di Malebranche, - come le categorie del pensiero anteriori
ad ogni pensiero, - come l'idea dell'essere anteriore ad ogni idea.
E con tutto ciò non davano ragione della differenza che stava
tra Polifemo e Archimede. Perocché la reminiscenza platonica,
e le idee innate, e la visione divina e le categorie e l'idea
dell'essere, com'erano in Archimede, scienziato, così erano
anche in Polifemo, idiota e canibale.
Signori, il lievito che fa fermentare le idee non si svolge in una
mente sola; il genio si tien per mano alla catena de' suoi
precursori. Perché si destino le idee, devono attuarsi i
più generosi istinti, devono infervorarsi gli animi. La
corrente del pensiero vuole una pila elettrica di più cuori e
di più intelletti.
Io devo scorrere a volo su queste idee. Lascio l'istinto; e tocco
per un istante la sensazione.
4. La sensazione pare a primo aspetto il dominio nel quale è
grande e forte la vita selvaggia. Quante volte non si leggono
meraviglie della vista acuta del selvaggio che discerne nella sabbia
le pedate della tribù nemica! Come paragonarle la fioca vista
nutante che si logorò alla lampada notturna e che Galileo
spense nei cristalli del telescopio? Signori, questa è
un'illusione. Confrontiamo la somma intera delle sensazioni che si
schierano innanzi alla mente del selvaggio e alla mente dello
scienziato.
È vero che il selvaggio vive assorto nei sensi; è vero
che l'esercizio assiduo e la dura necessità glieli rendono
vigili e acuti. Ma s'egli avesse pure la vista dell'aquila e
l'odorato del cane, sempre è vero che le sue sensazioni non
hanno varietà. Sono le sensazioni che si possono raccogliere
entro quell'orizzonte di selve in cui si chiudono le sue
consuetudini, i suoi timori. Poche specie di piante, la più
parte neglette e inosservate a lui perché inutili a' pochi
suoi bisogni; pochi animali; una riva di fiume, o di lago; gli antri
e i tugurii che ricettano la nuda tribù; le vestigia dei
nemici o il loro terribil grido. Quando noi pensiamo alle selve
primeve, la nostra imaginazione può affollar quasi in un
punto tutte le più varie e molteplici apparenze. Ma non
è così. Ogni terra ha un aspetto suo; climi piovosi o
aridi; le vaste arene dell'Australia o le vaste paludi dell'Orenoco;
òasi sparse di palmizii; o alpi uniformemente annegrite dagli
abeti; praterie su cui regna tale o tal famiglia d'erbe, con aspetto
nuovo e grato a chi arriva, uniforme e tedioso a chi rimane. Nella
nostra patria, più di cinquecento specie vegetanti, un quinto
incirca delle piante fiorifere, appartengono alle due sole famiglie
delle graminee e delle composite, le più delle quali si
possono appena fra loro con attentissimo studio discernere.
Ma il regno della sensazione scientifica abbraccia tutte le terre e
tutti i mari; i vulcani e i ghiacciai, le pianure e i monti, gli
arcipelaghi dispersi nell'Oceano e il deserto senz'aque. Li animali
delle varie zone e dei singoli continenti, il camelo e il renne,
l'elefante e il cangaroo passano a rassegna inanzi a lui, vivono
nelle sue stalle o nei suoi serragli; stanno ordinati ne' suoi
musei, disegnati e coloriti sulle pareti delle sue case. Qual
Samoiedo vide mai le piante o li animali o li uomini della Nigrizia?
Il selvaggio può veder solo le cose della sua patria; la
sensazione scientifica abbraccia tutta la terra. L'uomo civile non
solamente riceve le sensazioni; ma le fa. Egli si àncora
inanzi alle isole dell'Oceano e assorda i selvaggi col tuono e col
lampo delle sue armi. La luce delle sue notti festive eclissa il
chiarore delle stelle. I colori di tutti i metalli, il fulgore di
tutte le gemme; i fiori e i frutti raccolti d'ogni parte e
modificati dall'arte in varietà infinite che la natura non
conosce; le innumerevoli combinazioni dei suoni e dei tempi, tutta
la creazione della musica di cui nel seno della natura troviamo
appena la prima intonazione, sono tutti nuovi fenomeni che la
facultà motoria attuata da altre più sublimi
facultà fornisce alla facultà sensitiva. Anche le
sensazioni più connesse all'appetito animale, si vanno
variando e moltiplicando colla civiltà. Noi non badiamo, ma
pure sono oggetti ignoti alla vita selvaggia il vino, il pane, e
tutte le mille combinazioni dei sapori e di profumi.
V'è un mondo invisibile all'occhio nudo, rivelato alla
scienza dal telescopio e dal microscopio. Noi possiamo discernere i
monti della luna, le fasi di Venere, le agitazioni della superficie
solare, i punti lucenti della via lattea e delle nebulose. Noi
discerniamo li infinitamente piccoli che vissero in un grano di
tripolo, che vivono in una goccia d'aqua, che nuotano nelli umori
della nostra pupilla. Tutta la chimica è una rivelazione di
fenomeni naturalmente inaccessibili ai sensi. Qual selvaggio
potrebbe veder sollevarsi dalle feccie d'una fonte salmastra i
vapori verdastri del cloro o i vapori violacei dell'iodio? È
questo un ordine nuovo di sensazioni che la scienza crea a sè
stessa.
E li apparati elettrici sono come nuovi sensi; poiché con
essi possiamo apprender fenomeni che sfuggono a quei sensi che
abbiamo da natura; possiamo entrare in commercio con poteri della
cui presenza nell'universo il selvaggio non ha percezione. È
lecito imaginare che come da natura ebbimo un senso che avverte le
vibrazioni luminose e un senso che avverte le ondulazioni sonore,
così avremmo potuto nascer muniti d'altro organo che
indicasse come fa la bussola le oscillazioni magnetiche. Forse
è qualche interno sensorio di tal fatta che dirige certe
specie di rosicanti nelle loro migrazioni dal levante al ponente
della Siberia. Ebbene chi ci diede a scorta l'ago calamitato tra le
nebbie dei mari, tra il polverio del deserto, tra i labirinti delle
miniere, chi tese un telegrafo elettrico dall'uno all'altro declivio
d'una montagna, dall'uno all'altro lido d'un mare ci fornì
dunque un equivalente ad un nuovo senso, utile e reale quanto i
sensi della vista e dell'udito. Nulla poi rileva all'effetto se sia
un organo corporalmente inserto nel nostro encefalo, o se i nuovi
fenomeni rappresentandosi nello spazio colle vibrazioni d'un ago o
d'un manubrio si traducano nel senso della vista. Per esso la mente
nostra venne iniziata a un ordine d'idee che la vista per sè
non poteva donarci, e che più delli altri s'interna negli
arcani dell'universo.
Le poche sensazioni del selvaggio sono sterili all'intelligenza,
perché vaghe, incerte, incommensurabili. Il selvaggio non
può paragonare il calor di due estati, il gelo di due
inverni. Noi sì, col mezzo degli strumenti, precisiamo quanto
varia il freddo da neve a neve, quanto varia l'ardore da fornace a
fornace. Noi sappiamo a quale calore precisamente si liquefà
il piombo, a quale il ferro, quante calorie devonsi accumulare in
una stagione per addurre a maturanza un grappolo d'uva. L'apparato
di Melloni accusa l'aggiunta infinitesima di calore che ci apporta
una persona che si affaccia all'opposta estremità d'una
camera. Fin qui vediamo moltiplicarsi sotto la mano della scienza i
fenomeni della sensazione; ma tuttavia ciascuno di essi rimane
oggetto d'una percezione individuale. Or bene, vi sono fenomeni che
un individuo solo non potrebbe mai percepire nella loro pienezza,
nemmeno col ministerio degli strumenti, se non vi si associano i
sensi di molti. Li uomini che videro il ritorno della cometa di
Halley non sono più quelli che ne osservarono, settantacinque
anni prima, l'altro arrivo. Per determinare lo spazio su cui vibra
un terremoto, bisogna che più uomini si avvertano fra loro
d'averne percepito la scossa ai limiti estremi. Li osservatori che
sparsi in diverse stazioni esplorano la tensione magnetica del globo
sono come le parti d'un commune sensorio delle nazioni pensanti.
Signori, lo splendido imperio della sensazione non è nei
sensi dei selvaggi; esso è nella scienza esperimentale, cinta
di tutti i suoi mirabili strumenti, accampata sulle mobili cupole
degli osservatorii. E il poter della scienza si svolge nel giro di
tutte le facultà e tocca il sommo nello sviluppo delle
facultà riflessive.
A questo chiamerò l'attenzione vostra in altra lettura.
Della formazione dei sistemi.
Lo studio che mi pregio di parteciparvi è la continuazione
d'un lavoro del quale vi diedi già ragguaglio altra volta. Ma
per non riescirvi troppo indiscreto lettore, trapasso molti capitoli
intermedii, sperando poter nondimeno esporvi colla desiderata
evidenza il mio pensiero.
Mi basta ricordarvi che il generale mio proposito è quello
d'investigare fino a qual ordine d'idee possano pervenire le
facultà mentali considerate puramente e strettamente
nell'individuo solitario, al che da Cartesio fino a noi si
circoscrisse per due secoli la psicologia; e prendendo le mosse da
questo punto investigare, come, per ascendere a ulteriori ordini
d'idee, sia necessaria la reciproca azione di più menti
associate; il che verrebbe ad essere oggetto d'un altro ramo di
psicologia.
Oggi intendo additarvi brevemente questo distinto lavoro della mente
solitaria e delle menti associate nella successiva formazione dei
sistemi. Il quale studio non vorrete riputare inutile, quando
vogliate considerare che codesta successione di sistemi costituisce
il progresso continuo e indefinito, nella fede al quale il nostro
secolo si distingue da tutti i secoli antecedenti. Perocché i
nostri padri, anche quando di tutto proposito abbracciavano le
più remote utopie, sempre credevano che almeno colà
fosse il punto nel quale la natura umana potesse perpetuamente
acquietarsi. Ma pur troppo quella quiete, anche trasferita a
qualsiasi più lontano termine, sarebbe sempre l'assopimento
delle nostre facultà più attive, e la mutilazione
della nostra vita intellettuale e morale.
È superfluo premettere che per sistema intendo una serie
d'idee fra loro intimamente connesse per mezzo d'un'idea principale
o principio, cosicché la mente, partendo da questa, perviene
per forza d'associazione e di deduzione a tutte le altre; e dalle
altre tutte ritorna spontaneamente e abitualmente ad essa, provando
in tale atto un intimo senso di sodisfazione e di riposo.
La tendenza a coordinare le idee intorno ad un principio è
connaturale al nostro intelletto.
In primo luogo, tutti li objetti delle nostre percezioni fanno
già parte d'un medesimo universo; e perciò queste sono
già per origine loro collegate in sistema. L'idea d'unire in
mazzo più fiori vien destata dalla naturale similitudine che
vi è tra fiore e fiore; con ciò la mente solitaria
è giunta solamente all'idea del genere; ma questa a distanza
comunque immensa accennava già a quel principio intorno al
quale, nella maturità dei tempi, Linneo doveva ordinare tutto
il sistema delle piante. Tutti li oggetti che destano in noi le
idee, facendo parte d'un ordine naturale, tendono a far sistema in
noi, perché fanno già sistema fuori di noi. Ciò
non dipende dalla nostra mente, ma dal mondo esteriore.
In secondo luogo, siccome l'uomo, per la limitata natura della sua
mente, non può rappresentarsi in un tratto molte cose
distinte, è costretto a compendiare molte idee in un solo
concetto; e perciò tende necessariamente a stringere le cose
in generi, i fatti in leggi, e i generi e le leggi in ordini e
sistemi sempre più comprensivi, aspirando sempre
all'unità pur quando non ha la forza d'afferrarla.
In terzo luogo, le singole facultà mentali, la sensazione, la
memoria, l'attenzione, la riflessione non sono esseri separati, ma
un unico essere pensante ch'esercita diversi atti. Di tutti questi
atti esso ha un'unica coscienza, nella quale anche le idee
più disparate vengono a darsi ricapito, e ad associarsi in
varj modi sia per simiglianza intrinseca sia per diretta
opposizione, sia per circostanze estrinseche di luogo e di tempo,
sicché la presenza dell'una apporta inevitabilmente nello
spirito la presenza dell'altra.
In quarto luogo le idee universali come lo spazio, il tempo, il
numero, l'essere, la sostanza, l'azione, ripetendosi per tutti i
generi servono a collegarli sotto un aspetto commune. Dagli
universali si passa per deduzione ad altri universali; e questi
rimangono legati con quelli; e con essi si collegano tutti gli
oggetti in cui li ravvisiamo.
In quinto luogo, molte operazioni riflessive, come la sintesi, la
classificazione, la deduzione, consistono già nel ravvicinare
le idee e nell'ordinarle e nel connetterle in diversi modi; il che
prepara, per così dire, i fili da tessere poscia in sistemi.
L'uomo dunque e perché vive in presenza ad un unico universo:
e per la limitata natura del suo intelletto: e per l'unità
della sua coscienza: e per l'identità degli universali: e pel
complessivo effetto di tutte le operazioni riflessive, tende a far
sistema delle sue nozioni anche se lo imaginiamo onninamente
isolato, a guisa della statua pensante di Condillac e di Bonnet.
Ma consideriamo l'uomo al sito vero, che gli spetta nella catena dei
viventi, consideriamolo come un genere naturalmente e spontaneamente
gregario come l'antilope, sociale come il castoro, famiglievole come
il colombo. Anche nella vita spontanea e primitiva, l'intelletto,
quantunque appena galleggiante sopra gli istinti della natura
animale, già tende al sistema. Il selvaggio conosce appena il
clima del suo cielo, le selve e le sabbie della sua terra; è
rinchiuso in un'isola in mezzo all'interminato oceano; eppure egli
sospinto da quelle interne potenze che sono indivisibili dal suo
essere, fa già sistema di quanto gli sta intorno. Egli ha
già qualche cosa da aggiungere a ciò che i suoi sensi
gli dicono del sole e della luna, del vento e della pioggia, delle
erbe e degli animali.
E dove rinviene il selvaggio l'idea-principio intorno alla quale
unificare tutte le altre? Il selvaggio, flagellato assiduamente
dalle necessità della vita, non si cura se non di ciò
ch'è necessario alla vita. Tutto ciò che non è
cibo e bevanda, tutto ciò che non è caccia o
battaglia, tutto ciò che non può nuocere al suo
nemico, né giovare a quel gruppo di viventi col quale egli
è immedesimato, è nulla per esso; esso non lo vede e
non l'ode. Tutti i viaggiatori hanno notato codesta incuria del
selvaggio per tutto ciò che non entra nel rigido circolo de'
suoi pensieri. La fame, la sete, la stanchezza, come lo spavento,
l'amore, la vendetta lo richiamano sempre a sè e a' suoi.
V'è una voce che suona unica e assidua nella sua coscienza,
la voce dell'egoismo, ciò che la scienza chiama l'io; intorno
al qual io si avvolge la famiglia; e insieme ad essa ed alla
tribù amica, si avviticchia come fascio di spine la
tribù nemica. La passione predomina all'intelletto; l'idea
non germina se non in quanto la passione la cova. Il primo sistema,
nel punto medesimo in cui scaturisce dall'io, è già un
sistema sociale.
Con questo principio, di sentimento e non di ragione, di mera
associazione d'idee e non di lavoro riflessivo, l'uomo spiega a
sè stesso, tutti i fenomeni dei quali si cura e dei quali si
accorge; tutti li altri restano ripulsi dal suo sistema. Io lo
chiamo un sistema chiuso. Un sistema, non turbato da estrania
influenza, potrebbe restar chiuso in eterno. E vaglia il vero; dopo
migliaja d'anni dacché cominciò sul globo l'epoca
dell'uomo, vi sono ancora oggidì tribù dell'Australia
e dell'America equinoziale, che non hanno ancora trovato i numeri
per contar le dita d'una mano. Molti popoli sono periti senza uscire
dalla prima barbarie.
Questa filosofia del selvaggio interpreta la natura per mezzo della
volontà; perché la volontà è un
principio affine all'istinto e del quale anche la vita selvaggia
è conscia a sè. Ogni cosa che si move appar cosa viva;
l'animale, la pianta stessa appajono trasformazioni dell'uomo. Nella
morale d'Esopo li animali sentono e pensano come li uomini. E dove
la favola d'Esopo può valer di morale; la metempsicosi
può divenire la teologia.
Dico può divenire; ma quando? E come? Qual è
l'occasione che può svolgere nell'intelletto barbaro questo o
qualsiasi altro nuovo corso di pensieri? Qual è il principio
intorno a cui può costituirsi un nuovo sistema?
Il principio è ancora il sentimento. Presso le più
misere tribù, vi è sempre negli individui o nelle
famiglie qualche grado maggiore di forza o di coraggio o di sagacia,
o anche solo d'ambizione e di ferocità. V'è dunque
alcuno che guida quando li altri camminano, che riposa quando li
altri vegliano, che giudica quando li altri contendono, che riceve
una più larga parte della caccia e della preda. La sua vita
meno aspra può adagiarsi alquanto, può comprendere
anche ciò che non interessa solo la fame e la sete. Il suo
io, conscio di quei barbari onori e di quei barbari poteri,
concepisce già l'idea d'un ordine di cui sente d'esser
principio in seno alla sua tribù; ed attribuisce un simile
ordine anche alle volontà che crede regnanti in seno alla
natura.
In questo nuovo uomo che si sovrapone alla società, i sensi
meno assediati dal bisogno lasciano un più largo respiro alla
imaginazione. L'imaginazione riempie tutti li spazii che la
sensazione non preoccupa. La fantasia compie sempre i sistemi; anche
nelle età più tarde essa fornisce le ipotesi che
spesso fanno funzione di principio. Il disco del sole e della luna
eccitò nella mente una vaga idea di volto umano; la pittrice
fantasia lo compì; tracciò vagamente due corpi, l'uno
virile, l'altro femineo; ecco il sole e la luna fratello e sorella;
tutti i casi della barbara tribù si tradussero negli astri;
l'eclissi parve una lutta mortale con qualche mostro invisibile;
quando la luna non risplendeva, fu creduta discendere in terra,
costretta da voce potente o da furtivo amore. Le società
umane, nelle ubertose valli lungo i grandi fiumi e i laghi si
vennero associando e moltiplicando, si sparsero in altre regioni,
trovarono altri frutti, scopersero i grani, domarono il cavallo e il
toro, inventarono il carro; e la fantasia prosegue mano mano il suo
lavoro; donò i cavalli e il carro anche al sole, alla luna,
all'aurora, alla notte.
Così colle conquiste del senso e della ragione crebbe anche
l'eredità dei sogni. La scoperta non poteva luttare colla
tradizione dell'errore nel cui seno veniva insensibilmente e quasi
secretamente nascendo. Sempre la fantasia tenne la più larga
parte del sistema sociale in tutto ciò che non cade
rettamente sotto il criterio del senso; è la verità
che apparve alle moltitudini come un sogno. Non è vero che
anche oggidì la chiamiamo spesso utopia? Il padre Caccino
poté deridere Galileo in faccia a' suoi cittadini: Viri
Galilei quid statis adspicientes in cælum? E Democrito, l'uomo
di genio che primo vide nella Via Lattea una miriade d'astri
lontani, parve l'uomo che parlasse solo per deridere chi
l'ascoltava. Verità pareva alle moltitudini che la Via Lattea
fosse traccia di latte sparso dalla Dea dell'aere; ovvero che fosse
un solco della campagna celeste riarso dal carro vagabondo del
figlio del sole; e ai sagaci e gravi Romani, Ovidio poté
ripetere ancora ch'era la gran via che conduce i celesti alla reggia
di Giove
Hac iter est superis ad magni tecta Tonantis.
E noi pure, noi, nel ripetere questi eleganti sogni sentiamo nella
mente non so quale voluttà.
I varj sistemi primitivi che i popoli si andarono foggiando,
consuonano sempre fra loro in alcune parti. Ciò avviene
perché la natura anche nelle più diverse contrade
offre molte leggi identiche e molte circostanze simili; e
perché il genere umano, anche fra le stirpi più
inegualmente dotate dalla natura, ha simili facultà
percettive e riflessive. È ciò che Vico chiamò
la commune natura delle nazioni; in virtù della quale si
riscontrano le medesime idee fra i popoli che non hanno potuto
farsene communicazione.
Ognuno di codesti sistemi sociali contiene qualche parte di vero,
contiene la cognizione di qualche fatto naturale utile all'uomo. Un
popolo avrà trovato il frumento; un altro avrà trovato
il ferro. Uno avrà osservato li astri per guidarsi sul mare,
l'altro per nutrire le sue superstizioni o farsi animo nelle
sventure. Se due popoli vengono a communicare per effetto di
conquiste, di schiavitù, di commercii, di parentele, di
studii, le scoperte fatte dall'uno si aggiungono alle verità
scoperte dall'altro. Le nuove parti di vero scacciano quelle idee
posticcie e imaginarie che tenevano il loro luogo nelle menti. Le
altre fantasie rimangono. Le parti conciliabili dei due sistemi,
vere o imaginarie, vanno a poco a poco raccozzandosi in nuovo
sistema. Questo trapassa nella tradizione; e se altra innovazione
tosto non sopraviene, il sistema si compie e si chiude, e la ragione
publica vi si acquieta. Il nuovo sistema è progressivo;
cioè corrisponde più fedelmente all'ordine della
natura e della morale, se il nuovo elemento è una
verità. Ma se il nuovo elemento è un nuovo sogno,
s'è la fantastica asserzione d'un Maometto, s'è il
despotismo che si pone in luogo della libertà, s'è
l'autorità che si pone in luogo della ragione, il sistema
è regressivo. Vi è nelle nazioni il progresso, ma
v'è anche il regresso e il decadimento; non si può
negare che molte terre fiorenti or sono desolate; e molti popoli
sono periti. Ma se i nostri padri non credevano al progresso, noi
non crediamo quasi più al decadimento. Il progresso prevale
perché col corso del tempo cresce naturalmente il numero
delle verità. In generale un sistema posteriore ad un altro
abbraccia maggior copia di scoperte. Talora anche per la via di
grandi calamità un popolo viene spinto quasi per forza sotto
i raggi di nuove verità. Concepisce quindi un principio di
maggior potenza, poiché l'uomo tanto può quanto sa.
Roma ne' suoi primordii trovossi al confine di tre lingue, la
latina, la sabina, l'etrusca, ciascuna delle quali rappresentava un
proprio sistema d'idee. Roma adunque riunendo nel suo recinto
famiglie di quei tre popoli, riunì tre sistemi che divennero
un solo; poté valersi delle idee di tre popoli; a queste
aggiunse poi le idee d'altri popoli più lontani, come dei
Cartaginesi e dei Greci. A senno e valore eguale, i suoi consigli
dovevano preponderare; questo costante vantaggio doveva condurla
infine a soggiogare e assorbire le forze rivali.
Costituita così da origine, Roma rimase sempre accessibile
alle idee degli altri popoli; essa le accoglieva, non le rifiutava
come fece la China o l'India, che erano costituite fin da origine
con sistemi esclusivi. La China impose le sue tradizioni anche a'
suoi conquistatori.
Poche miglia lontano da Roma, erano sparse su tutti i lidi d'Italia
le città greche; ed ecco la missione attribuita ai Decemviri,
d'aprire le leggi romane all'esperienza greca. Alle foci del Tevere
s'arena una nave punica; e Roma se ne fa immantinente un modello.
Perché i Chinesi oggidì non fanno altretanto,
perché affrontano colle inette loro giunche le navi animate
dal vapore?
Più tardi la filosofia stoica si versò a rivi nella
giurisprudenza romana. Un sistema perpetuamente aperto poté
continuare per più secoli ad accumulare presso di sè
tutti quei vantaggi che presso le altre nazioni rimanevano disgiunti
e incompleti. Infine quanto v'era nelle armi, nella politica,
nell'agricultura, nel commercio, nella filosofia, nella città
degli Etruschi, nei collegii dei Druidi, nelli arsenali dei
Cartaginesi, nelle sette della Grecia, tutto divenne eredità
d'un popolo che fu più grande di tutti, perché
abbracciò in sè quanto faceva grandi li altri popoli.
Ma qualunque sia la copia d'idee che una nazione venga a combinare
nel suo sistema, quando essa ha compiuto l'opera e ha potuto
conciliare e coordinare tutte le sue idee, allora tende a fermarsi e
riposarsi in quella pace mentale. E può rimanervi inoperosa
per molte generazioni, finché qualche nuovo principio non la
provochi a sconnettere e riformare l'antico sistema.
Intanto, al luogo di chi muore della generazione esercitata e
operosa, sopravengono mano mano altre generazioni, che raccolgono
per eredità e per passiva imitazione le idee già
elaborate. Le facultà mentali e morali dei posteri non hanno
occasione di fermento e di travaglio; sono come piante nella
stagione invernale; non hanno fronde, non fiori, non frutti;
né poesia, né sapienza, né valore, né
virtù. Eccovi la grande unità bizantina; ecco
ciò che in China divenne la scôla di Confucio
ventiquattro secoli dopo Confucio. Tutte le questioni appaiono
già sciolte dalla sapienza dei maggiori; miseri i figli che
temono d'esser migliori dei loro padri; le dottrine più
audaci sono ridutte dal tempo ad aride regole, a formule viete, a
consuetudini stupide e servili. Epperò un medesimo ordine
d'idee che dapprima fu progresso divien poscia decadimento. Hanno
bisogno i popoli di sempre nuovo lavoro per tenere vivaci e sveglie
le loro facultà. I sistemi devono tenersi sempre aperti, un
sistema compiuto e chiuso diviene il sepolcro dell'intelligenza e
della virtù che lo ha tessuto. In tale torpore sono caduti li
Asiatici per effetto di quella stessa precoce sapienza che si ammira
nei loro antichi sistemi. In tale stato giacque per mille anni la
Grecia, dopoché all'instancabile agitazione delle rivali
republiche si sovrapose la conquista macedonica e l'unità
imperiale. Il sommo pregio della scienza esperimentale non è
solamente nei prodigii della fisica, della chimica, in quanto sono
benèfici veri alla parte materiale del nostro vivere, ma
è in quanto agitando e rinnovando i sistemi tengono in
assidua tensione le nostre facultà e pongono le nazioni
barbare o stazionarie nella dura alternativa o d'associarsi al
progresso o di soccumbere; e ancora in codesta loro apparente ruina
d'associarsi a noi e al nostro avvenire.
Laonde un popolo ch'esca appena dalla barbarie ed abbia scarso
apparato d'idee; ma si volga con generosa fede alle idee nuove e
adoperi ed esalti intorno ad esse tutte le sue facultà,
può in breve prevalere ad altro popolo più antico e
più addottrinato, le facultà del quale siano compresse
dall'autorità del passato. Un sistema aperto può
assimigliarsi a una gioventù perpetua, come appunto è
ogni scienza esperimentale. Pertanto i popoli antichi nelle colonie
ringiovaniscono, in ragione appunto dei sistemi in parte nuovi che
sono costretti ad effettuare. Nell'istoria greca i Dori, ch'erano
quasi barbari nell'alpestre loro patria, svolsero un alto genio
politico nella colonia di Sparta; e non giunsero a piena vita
mentale se non nelle colonie transmarine d'Alicarnasso, di Rodi, di
Taranto, di Siracusa.
In certe combinazioni d'idee, portate dalle mescolanze politiche e
commerciali delle nazioni, vengono sovente a involgersi principj fra
loro contrarii. Allora divien perpetuamente vano lo sforzo di
conciliarli in sistemi stabili e tranquilli.
Nel patrimonio ideale che l'Europa moderna ereditò da tutti i
popoli dell'antichità e del medio evo e vie più
accrebbe colle sue scoperte, vi sono molti di tali principii
più o meno fra loro discordi. Tali sono la giurisprudenza
romana e la feudale; le filosofie dei Greci e la teocrazia degli
Ebrei; la matematica e la poesia; la fisica e la metafisica; le
necessità dello stato e l'infallibilità della chiesa;
il disprezzo delle cose mondane e il culto della ricchezza. Inoltre,
il processo esperimentale, fecondo di scoperte, e la rivalità
politica, avida di profittarne, spronano continuamente anche le
nazioni più torpide e i governi più ritrosi ad
abbracciar una serie d'innovazioni sempre rinascente e inesauribile;
la quale penetra ed apre i sistemi più compatti.
Fin dal risurgimento delle scienze, le menti costrette a combinare
tanti discordanti pensieri, si resero in questo continuo sforzo
sottili, audaci, libere. Acquistarono potenza d'emanciparsi da ogni
sistema chiuso e di scuotere ogni giogo d'autorità, seguendo
risolutamente e impavidamente l'unico lume dell'esperienza e della
ragione. Dall'esperienza e dalla ragione sempre nuove scoperte;
continua mobilità e incertezza di sistemi, se non in quanto
per la loro verace utilità possano giustificarsi; quindi
continua necessità di nuove elaborazioni e scoperte.
E perciò nell'Europa una forza espansiva preme e incalza i
sistemi tradizionali, tanto delle nazioni barbare le cui
facultà non furono peranco esercitate, quanto delle nazioni
vetuste le cui facultà erano già ricadute nel sonno.
L'opposizione inconciliabile dei principii confusamente in Europa
abbracciati, l'inesauribilità del processo esperimentale, e
la ragione dei popoli, sciolta omai da ogni vincolo di tradizione,
preparano al genere umano un'indefinita carriera e gli promettono
una perpetua gioventù.
Il progresso nella proporzione medesima con cui fornisce nuove idee,
fornisce anche nuova occupazione all'intelletto, tiene in esercizio
forzoso le nostre facultà morali e le spinge a continuo
perfezionamento.
In questa fausta prospettiva sospendo la omai troppo prolissa
deduzione de' miei pensieri.
Dell'antitesi come metodo di psicologia sociale.
Proseguo a leggere un lavoro del quale ho già sottoposti
altri frammenti all'attenzione dei benevoli colleghi. Ma è
necessario ch'io perciò richiami alla memoria loro il mio
fondamentale pensiero.
Tre campi ha la filosofia esperimentale: la natura, l'individuo, la
società.
La filosofia della natura era stata per gli antichi solamente un
preludio d'imaginazione. Il nuovo metodo esperimentale, con una tale
felicità e continuità di scoperte che già
costituì una famiglia di scienze tutte nuove, apre un campo
di filosofiche generalità sempre più vasto e sicuro.
Altra gloria dei tempi è la filosofia della società,
dacché le lingue, le legislazioni, le religioni, le scienze,
le poesie, le arti, divennero nuovo campo d'osservazione morale e
mentale.
Non così la filosofia dell'individuo. Anche in questa il
principio esperimentale, che aveva già fondato colla
reciproca sostituzione dei sensi l'educazione dei sordomuti e dei
ciechi, ora tenta nuovi modi d'indagine nelle carceri, nei
manicomii, nello studio comparato delle stirpi umane; ma sembra ad
alcuni che per questa via si scruti l'uomo piuttosto nelle eccezioni
che non nel suo essere normale e generico. Pare ad essi che un
profondo pensatore non debba ingerirsi di siffatte varietà;
che debba relegarle tra i fenomeni fortuiti e irrazionali; che debba
contemplare nella propria coscienza l'individuo tipo; anzi, in un
individuo qualsiasi anche selvaggio, debba additare tutte le libere
e solitarie fonti dell'umanità e della scienza.
Cartesio, infatti, esimendosi, in nome del puro e nudo spirito,
dalla tradizione e dalla società diceva: - «Ma non
sapete voi dunque che parlate ad uno spirito talmente sciolto dalle
cose corporee che non sa nemmeno se vi fu altro uomo prima di
lui?» - Cartesio stimava poco i sensi, né molto stimava
l'attività dell'intelletto; attribuiva loro solamente le
nozioni infime; tutte le idee più sublimi erano agli occhi
suoi gratuite e secrete doti dell'anima nascente. Dio dava le idee;
Dio poteva mutarle, come poteva mutare l'universo. Se la vita era
una creazione continua, il pensiero era una continua ispirazione. La
solitudine di Cartesio era il vestibolo d'una teologia.
Trent'anni dopo la morte di lui, Locke rivendicò i diritti
della filosofia sulla filosofia. Negò le idee innate;
tentò supplirvi dimostrando come la riflessione bastasse
all'individuo per ascendere dai sensi a qualunque più eccelso
ordine d'idee. Fece ancor più: - dimostrò come la
riflessione ne' suoi più alti sforzi ricevesse sussidio dal
linguaggio.
Or voi mi concederete, signori, che il linguaggio è la
società.
Adunque Locke, avrebbe veramente attinto la sua dottrina a tre
fonti: il senso, la riflessione, il linguaggio, cioè la
natura, l'individuo, la società.
Ma la società poi coopera al pensiero dell'individuo in molti
altri modi, oltre il linguaggio.
A ciò Locke non aveva mirato; in questo campo non
entrò; né vi entrarono quelli che sono detti suoi
successori: né quelli che sono detti oppositori suoi.
Condillac e Tracy si circoscrissero alla sensazione e al linguaggio.
Per amore di semplicità, si sforzarono di far senza la
riflessione; senonché introdussero un equivalente: o in
quella interna facoltà che, secondo Condillac, trasforma le
sensazioni; o nel giudizio che, secondo Tracy, percepisce i
rapporti. Per converso, Kant e Fichte si circoscrissero alla
riflessione e rigidamente isolandola anche dal senso intimo, la
contemplarono sotto il concetto di ragione pura; ma poi l'uno colle
forme a priori e colle categorie, e l'altro colle rivelazioni
continue, ritornarono verso Cartesio.
Il pensiero sociale non venne contraposto in tutta la sua pienezza
al pensiero individuale se non da Vico, contemporaneo della
vecchiaja di Locke. Egli studiò l'uomo nelle nazioni;
ciascuna di esse gli sembrò ripetere nei diversi luoghi e
tempi un medesimo corso d'idee. A distanza d'un secolo, Hegel
ripigliò l'ideologia dell'uomo popolo; sciogliendo il circolo
di Vico, vi sostituì la moderna idea del progresso; e di
più, s'inoltrò coll'analisi a distinguere le singole
nazioni, tentando assegnare a ciascuna la speciale attuazione d'una
di quelle idee, la cui serie costituisse il progresso perpetuo.
Per opera di questi due pensatori, si manifestò come
l'umanità fosse fonte a sè medesima di quei più
alti ordini d'idee che indarno i popoli e le scuole avevano
dimandato alle muse, alle sibille, ai genii domestici, all'estasi
socratica, alla intuizione, all'anamnesi, alla gnosi, alle idee
innate, alle armonie prestabilite. Signori, tutte le più alte
prove della scienza e della virtù si svolgono negli accordi e
disaccordi degli uomini posti fra loro in intima relazione.
L'umanità è come la pila elettrica, in cui la corrente
non move dall'elemento positivo né dal negativo, ma da certi
modi del loro contatto. L'umanità è la sfera nativa di
tutto ciò che nel pensiero delle nazioni appare sovrumano.
Codesto concetto si vede con tutta semplicità simboleggiato
in un detto evangelico: «Poiché ove sono due o tre
congregati nel mio nome, ivi in mezzo di loro son io».
Vico ed Hegel intrapresero l'istoria delle idee nei popoli,
intrapresero l'Ideologia della società. Ma non risalirono a
descrivere i nuovi modi d'azione in cui la società poneva le
facoltà dell'individuo; lasciarono intatta la Psicologia
della società. Rimase ad indagarsi per quali altri modi,
oltre al linguaggio, le menti associate nelle famiglie, nelle
classi, nei popoli, nel genere umano, potessero collaborare alla
commune intelligenza, ovvero contrariarla; e come venissero ad
operare con metodi ed effetti che sarebbero impossibili alle menti
solitarie.
Questa Psicologia delle menti associate è un necessario
anello tra l'Ideologia dell'individuo e l'Ideologia della
società. A questa nuova carriera di ricerche, a questa
scienza negletta, che può fornire nuovi sussidii alla cultura
delle nazioni, io invito gli studiosi. E anticipo intanto altra
porzione del mio tributo.
Ed ora, dall'argomento generale venendo ad uno dei suoi capitoli,
traccerò in breve la reciproca azione che hanno più
menti, poste fra loro in antitesi, attuate cioè da contrarie
idee.
Fichte vide l'antitesi nell'individuo, quando, raccogliendosi
nell'intimo della coscienza, viene a discernere l'io dal non io. Ma,
nel suo punto di mira, non ebbe a rilevare che in quel non io
stavano confuse la bruta natura e la società umana; non
osservò che in quel non io poteva opporsi al pensiero nostro
il pensiero altrui.
Ciò ch'egli chiamò antitesi, era solamente la
distinzione: era un atto di analisi nella coscienza; era solamente
la presenza, non era l'opposizione. E siccome la prima intuizione
era una, l'antitesi, scoperta in essa per forza d'analisi, poteva
congiungersi di nuovo alla tesi; e riescire con questa ad una
sintesi: cioè, ad una seconda intuizione, nella quale la
coscienza del complesso abbracciasse anche la coscienza delle parti.
Antitesi delle menti associate è, a mente mia, quell'atto col
quale uno o più individui, nello sforzarsi a negare un'idea,
vengono a percepire una nuova idea; - ovvero quell'atto col quale
uno o più individui, nel percepire una nuova idea, vengono,
anche inconsciamente, a negare un'altra idea.
Nel primo caso, ciò che distingue la nuova idea si è
ch'ella nasce dal conflitto di più menti, e che fra le menti
concordi, o in una mente solitaria, non sarebbe nata. Per esempio,
in un giudizio criminale, il conflitto dell'accusa colla difesa
può condurre alla scoperta d'un colpevole ignoto. Nessuno
può prevedere qual sarà l'ultima conseguenza a cui
potrà pervenire la negazione d'una idea filosofica, teologica
o politica. Senza la negazione di Locke, senza la negazione di Vico,
l'idea di Cartesio non avrebbe avuto anche la gloria d'essere il
momento vitale da cui partirono due filosofie nuove, poste fuori dei
termini ch'egli si era prefisso. Nessuno avrebbe antiveduto nella
negazione di Lutero la guerra dei trent'anni, né lo
stabilimento in Germania di quella perenne dualità, che le
aperse tre secoli di agitazione scientifica, dopo tanti secoli di
mentale sterilità.
Nel secondo caso, la nuova idea non nasce in forma d'opposizione;
essa può vivere lungo tempo senza palesare la sua forza
negativa. In chimica, la scoperta dell'ossigene doveva
inevitabilmente togliere all'aria, all'aqua, alla terra il nome
d'elementi. Ma nel pensiero di Cavendish o di Priestley o di
Lavoisier questo proposito non v'era. Anche dopo quella scoperta,
Priestley, che vi ebbe tanta parte, non poté mai darsi pace
che l'ossigene fosse la dura negazione di quell'imaginario flogisto
nella fede al quale egli era vissuto. E parimenti quando Lavoisier
introdusse nell'armamentario chimico la bilancia e accoppiò
all'analisi qualitativa la quantitativa, egli predestinò
sè stesso e tutti a porre in luce sempre più evidente
che la natura procede per proporzioni numeriche assolute. Dimostrato
che la chimica è un ordine perenne nel vortice perenne delle
trasformazioni, doveva a maturo tempo apparir contradittoria e
irrazionale l'idea d'una materia caos.
Epperò fin da quell'istante era data vittoria finale ai
numeri dei Pitagorici, contro le metafisiche degli Eleati, dei
Platonici, dei Manichei, dei Bramisti, dei Buddisti, pei quali in
tutto ciò che soggiace ai sensi, nulla vi è di
durevole, di fisso, di certo, di vero; tutto è illusione e
delirio. - E oggidì vediamo la dottrina dinamica del calore,
quasi ignota ancora nelle scuole, ignota certamente in quelle ove
crebbimo noi, svelare la reciproca commutabilità del calore e
del moto; escludere l'ipotesi del calorico latente, l'ipotesi d'un
fluido calorico e di qualunque sostanza calorica: dissolvere tutta
la fisica dei fluidi imponderabili; stringere in un nodo supremo le
idee del moto, dell'elasticità, della coesione,
dell'affinità, dell'elettricità, del magnetismo, del
calore, della luce, dello stimolo, della vita; sostituire al
principio dell'emanazione il principio della vibrazione; sostituire
alla metafisica della materia, tormento antico delle scuole e
terrore dei teologi, la metafisica delle forze: Elohim!
Talora l'antitesi è solo apparente; le idee rivali
sopravivono; dividono tra loro un dominio ch'entrambe aspiravano a
conquistare, spargono una luce commune sopra altre verità. -
In medicina, la opposizione dello stimolo e del contro-stimolo
condusse a misurare dalla tolleranza dei rimedi la forza dei mali,
ad accertare mutuamente le opposte diatesi, a discernere le
varietà specifiche d'entrambe. In geologia, il nettunismo e
il plutonismo sono talmente conciliati, che nelle rocce trasformate,
nei massi erratici, nelle inclinazioni e direzioni degli strati,
nelle grandi montagne divise fra loro dal Baltico e dal
Mediterraneo, pur nondimeno correlative in tutta la loro direzione e
costruzione, nessuno più nega l'opera simultanea dei due
poteri.
Talvolta l'antitesi cancella interamente l'idea opposta. In fisica
la scoperta della pressione atmosferica cancella la poetica idea
dell'orrore del vacuo. In questo caso non v'è conciliazione;
la sintesi di Fichte non è possibile. Anzi per lo più
l'antitesi vittoriosa varca il confine della tesi; trapassa, come
incendio, d'errore in errore; distrugge interi sistemi.
Poi talvolta un'antitesi affatto imprevista assale l'antitesi
vittoriosa. In astronomia, l'idea del moto della terra toglie il
sole dal novero dei pianeti. Ma la recente idea che il sole, con
tutta la sua famiglia, tenda esso medesimo verso un punto del
firmamento, modifica l'asserzione dell'assoluta immobilità
del sole; nega l'idea del ritorno della terra per un'orbita
identica; desta l'idea d'un'orbita spirale, che simile, direi quasi,
all'idea del progresso, percorra spazi perpetuamente nuovi; allude
all'idea sublime che tutte le forze fisiche e morali dell'universo
siano in eterna evoluzione.
L'immobilità del sole relativamente alla terra era dunque un
primordio di verità; ma traeva seco una nuova forma d'errore.
Questa forma transitoria d'un'idea viene da alcuni chiamata
verità relativa; Fichte chiama verità istoriche quelle
idee che in altri tempi dovevano necessariamente apparir vere. Ma
siccome questi nomi destano l'insidioso concetto d'una verità
volubile, d'una verità che può non essere, così
conviene attenersi al più austero concetto di verità
parziale e incompleta. E per questa prudenza la chimica si astenne
dal chiamare elementi i corpi indecomposti; poiché rimane
sempre possibile un ulteriore passo d'analisi, ovvero l'ipotesi che
la diversità dei corpi sia solo una varietà di tessuto
o di densità.
Talvolta ciò che un'antitesi acquista per sempre alla scienza
non è una verità, ma un metodo, un'arte, un abito che
conduce a scoprirla. Cartesio s'illudeva allorché disse che
l'evidenza è criterio di verità. No, pur troppo;
l'evidenza inganna il genere umano quando gli dice che la terra
è ferma. Ma questa è solo una evidenza prima. Il
criterio sta nel complesso delle evidenze. Cartesio intanto, col
metodo dell'evidenza geometrica sostituito alle insidie della
dialettica, mutò tutto l'abito della scienza; l'aperse a
tutti; restituì a tutti il diritto d'intendere e di
giudicare, come ai tempi della libera Grecia. E così pure
Condillac esagerò, quando disse che la scienza è una
lingua ben fatta. No, pur troppo; la chimica, prima d'essere una
lingua, aveva dovuto condurre un lavoro ciclopico fra le tenebre e i
sogni, alla cerca dell'oro e della lunga vita. Ma parecchi anni dopo
la morte di Condillac, per la viva influenza della sua filosofia,
sola presente allora all'intelletto francese, la rivoluzione impose
alla chimica nascente quella nomenclatura in cui le scoperte future
della scienza tralucevano già nei nomi delle cose.
Poiché chi primamente chiamò solfuri le composizioni
binarie del zolfo, aveva già predestinato che, scoperto e
denominato il cloro o l'iodio, i loro binarii dovessero chiamarsi
ioduri e cloruri; dati i quali nomi è già data in
parte l'idea. E così avessimo saputo, e sapessimo, volgere a
profitto d'altre scienze quelle due sublimi esagerazioni di Cartesio
e di Condillac.
A fecondare validamente l'antitesi è necessaria la deliberata
opera di più menti. Un individuo solo può ben
oscillare debolmente nel dubio fra due idee non ancora ben certe; ma
perciò appunto il conflitto vitale non può esser mai
così risoluto e potente come quando si scontrano due
individui, due sette, due popoli, mossi da contrarie persuasioni, da
vanaglorie, da offese, da odii che un uomo non può mai
concepire contro sè stesso. Poiché le antitesi entrano
spesso nell'intelletto quasi di furto, ispirate dalli interessi e
dalle passioni. Ah, pur troppo, in ogni consiglio di legislatori
v'è quasi sempre una generale e ostinata antitesi che precede
tutti i ragionamenti, anzi tutte le quistioni, dettate piuttosto
dagli interessi che dalle coscienze. Nei conflitti della vita, il
ragionamento è l'arte reciproca di tutte le passioni; la
ragione pura è un atto d'analisi, è un'astrazione.
Un piacevole esempio leggiamo in un notissimo coetaneo di
Macchiavello, di due avversarj che sedevano in consiglio a Firenze:
«L'uno d'essi, il quale era di casa Altoviti, dormiva; e
quello che gli sedeva vicino, per ridere, benché il suo
avversario, che era di casa Alamanni, non parlasse, né avesse
parlato, toccandolo col cubito lo risvegliò e disse: Non odi
tu ciò che il tale dice? rispondi, che i signori domandano
del parer tuo. - Allor l'Altoviti tutto sonnacchioso, e senza pensar
altro, si levò in piedi, e disse: Signori, io dico tutto il
contrario di quello che ha detto l'Alamanni. - Rispose l'Alamanni:
Oh io non ho detto nulla. - Subito disse l'Altoviti: Di quello che
tu dirai».
Ecco un uomo determinato dalla mera presenza di un avversario a
impugnare una idea già prima d'averla percepita. Una setta ha
già negato in suo proposito tutto ciò che il partito
avverso sta per produrre. Ma non può dare alla sua negativa
una forma razionale senza trar fuori tutte le sue forze dormenti e
svolgere un pensiero al quale altrimenti non sarebbe giunta; e
questi, viceversa, diviene il primo motore d'un successivo sforzo
dell'avversario. Ogni obiezione comanda una risposta; ogni
ragionamento comanda un ragionamento logicamente correlativo, che
stringe in amplesso inseparabile le opposte idee. I ragionatori, al
cospetto della passione, sono combattenti; al cospetto dell'idea,
sono fabbri che martellano uno stesso ferro; sono ciechi strumenti
d'un'opera commune. Ogni nuovo sforzo aggiunge un anello alla catena
che trascina ambe parti nel vortice della verità.
Ad un pensatore, che sudò primamente a raccogliere la scienza
de' suoi padri, poscia a disvilupparsi da quella, basta appena la
vita a poter poi trar dalla sua mente una favilla di suo pensiero; e
con fedele amore e con oblio della fortuna alimentarla; e
raccomandare a quella luce il suo nome e morire. La vita publica di
Cartesio dura solamente tredici anni; Locke e Kant erano già
quasi sessagenarj quando posero in luce il loro immortale pensiero.
E se ognuno di essi fosse vissuto qualche anno ancora, avrebb'egli
potuto porsi in guerra contro sè stesso? condannar come un
sogno l'idea che aveva per tanti anni contemplata? spezzar la lapide
del suo sepolcro? No: a quell'opera di nemico era necessario un
altro intelletto, un'altra volontà, un'altra vita. È
perciò che i grandi pensatori, i quali ruppero il circolo
della tradizione e fecero fare all'idea un gran viaggio, si mostrano
quasi sempre accinti con tutte le forze loro come ad un'impresa di
guerra.
Solamente dopo il corso di più generazioni scientifiche, i
posteri s'avvedono come ognuno di quei pensatori avesse studiato da
un nuovo aspetto un medesimo problema; che quella catena d'antitesi
era una serie di analisi parziali; che le diverse scuole, senza
volerlo e senza saperlo, si erano divise le parti dell'analisi
commune tutte aspirando a conquistare d'un primo abbraccio tutto il
circuito della sintesi universale.
L'antitesi non è solamente un metodo di progresso
scientifico; essa diviene un principio sociale nelle leggi, nei
governi, nelle religioni. Ognuno sa oggidì che il diritto
civile, il quale governa le nostre famiglie, è una moderna
forma del diritto romano; il quale fu la lunga opera d'un'ereditaria
opposizione. Il pretore, che aspirava ad esser console, adescava il
voto della maggioranza, facendosi riformatore, e sottomettendo
nell'editto pretorio il suo privilegio di patrizio al suo diritto di
cittadino.
La politica riverbera le sue antitesi sulla filosofia. Rousseau,
generoso e povero e inonorato, non lodò la vita selvaggia se
non per fare onta ad una società diseguale e inumana. De
Maistre e quanti altri s'imaginarono di conquidere la filosofia,
combattevano il codice civile che aboliva le due servitù
della gleba.
L'antitesi penetra nelle nazioni coll'arte della guerra,
perché le costringe mutuamente a proporzionare le difese alle
offese: e le incalza ad una serie infinita di sforzi mentali e
morali. Chi foggiò la prima spada, costrinse il nemico a
darsi un'altra spada e ad apprendere la scherma; chi foggiò
il primo cannone, comandò agli architetti di trasformare le
eccelse mura in bastioni obliqui e affondati, comandò ai
geometri ed ai fisici tutti i calcoli della balistica. Ogni scoperta
dell'artiglieria sconvolge l'architettura navale; ogni progresso
nella costruzione delle navi costringe a nuovi prodigj
l'artiglieria.
Né ancora è ciò che più importa
nell'ordine delle idee. La guerra comanda all'Asia antiquata lo
studio della nuova milizia. Questa trae seco tutta una legione di
scienze nuove, che con intimi nodi s'intrecciano ad altri ordini
d'idee, più potenti ancora nelle future sorti dei popoli.
Mentre un barbaro istinto di vanagloria e d'avarizia spinge diverse
nazioni ad abusare le armi della civiltà contro gli imbelli,
dall'antitesi di quelle cupidigie rivali esce un nuovo diritto delle
genti. All'ombra di cui quelle moltitudini, vissute sempre serve, si
troveranno involontariamente a noi consociate nella libera vita del
commercio e del pensiero.
Ora ancella, ora maestra, ora nemica, la filosofia s'intesse in modo
inestricabile a tutte le deduzioni della teologia. L'istoria del
cristianesimo è una continua disputa fra le innumerevoli
sette, le quali derivano dalle antiche filosofie dell'Oriente e
della Grecia. Patriarchae haeresiarum philosophi; lo troviamo
già scritto, appena si chiudeva il secondo secolo. E
così la filosofia dettava i programmi dei concilii; additava
colle sue antitesi dove la teologia dovesse porre i termini delle
singole sue dottrine.
Nel seno delle sette odierne, molti studj di lingue orientali,
d'istorie, di monumenti non sarebbero mai nati, se le chiese rivali
non avessero sperato di poter con esse confondere li avversarj.
Quanto maggiore fu in Roma la cura di riservare e limitare la
lettura dei testi sacri, tanto maggiore doveva essere altrove lo
zelo di propagarla. E così, per effetto di quei divieti e di
quella opposizione, non v'è libro al mondo che sia diffuso in
tal numero di lingue viventi. In molte barbare favelle è
ancora il primo ed unico libro. Viceversa il Corano, perché
non interdetto al popolo, si legge docilmente in una sola lingua.
Una nazione, dal momento che la letteratura le dà la
coscienza di sè stessa, si pone in antitesi con tutti i
poteri che aspirano a dominarla. Questi allora si armano di qualche
altra idea; tentano darle un'altra coscienza. Allora l'austriaco
dice all'Italia ch'essa è un'idea geografica; che è
una forma impressa ad una striscia di terra dai monti e dai mari: un
lusus naturae. Allora il francese le dice ch'essa è una gente
latina, la quale deve tenersi saggiamente abbracciata al grande
imperio, che afferrando i due istmi, salverà il globo
terraqueo dall'ambizione degli Angli e degli Slavi. Allora il papa
le dice ch'è una prebenda del genere umano. I singoli
interessi si traducono in altrettante dottrine; le quali sono
discordi, fuorché in questo che si risponde a tutte quante
con una sola verità. Posta adunque a fronte di tutte codeste
antitesi, ecco la combattuta nazione, dover dopo i vani indugj,
ricorrere come ad arme di guerra a quell'unica verità.
Voi vedete, signori, l'ampiezza dell'argomento: io non posso
esaurirlo qui; ad altri potrebbe dettare un'opera; a me detta
solamente un breve capitolo; io mi ristringo a indicare un
principio.
L'antitesi sarà dunque uno dei più necessari argomenti
di una Psicologia delle menti associate, la quale dovrebbe precedere
all'Ideologia della società.
Della sensazione nelle menti associate.
1. Tutte le scôle che contemplano la sensazione nell'individuo
solitario, fanno un atto d'analisi. Esse prescindono dal fatto
integrale; ripetono nell'individuo, e pel complesso delle sue
sensazioni, uno studio non meno astratto e non meno ipotetico di
quello che venne tentato pei singoli sensi nella statua di
Condillac.
2. Per fatto di natura, l'uomo nascente viene raccolto al seno d'una
madre. Già nei primi albori della vita, l'istinto materno
s'associa agli istinti dell'infante, s'insinua fra quella confusa
agitazione di tutti i sensi, la quale non può divenire d'un
sol tratto una sensazione chiara e distinta, perché questa ne
suppone altre da cui debba distinguersi. Fra queste deve a grado a
grado farsi chiara e distinta primamente quella che più
assiduamente ritorna. Fra gli insoliti contatti dell'aria e dei
corpi, la presenza materna è forse l'unica sensazione che non
sia molesta; e forse per questa opposizione costante a tutte le
sensazioni moleste, è la prima che fra tutte le altre
chiaramente si discerna e si affermi.
3. Né le altre sensazioni sono del tutto fortuite, quando vi
è già un intelletto e un amore che veglia a sviare le
più dolorose e raccogliere le più gradevoli. Il
complesso delle sensazioni d'un infante decide già de' suoi
conforti e de' suoi dolori, sovente della sua vita e della sua
morte.
La statistica e la medicina dicono quanto sia maggiore nei parti
della madre selvaggia e della madre indigente la probabilità
del dolore, del pianto e della morte.
4. Il complesso delle prime sensazioni è già l'opera
di più esseri associati. Oltre agli istinti dell'infante e
della madre, v'entrano le affezioni e consuetudini della famiglia, e
pertanto le istituzioni della società. V'entra sopratutto la
voce umana la quale accompagnando assiduamente le singole
sensazioni, le associa ad un suono che diviene un segno
indelebilmente distintivo, ultimo compimento della chiara e distinta
percezione.
La sensazione nell'essere umano non è dunque un nudo scontro
del soggetto cogli oggetti, non è un fatto puro; fin da' suoi
primordii è un fatto sociale. Nel cieco nato che legge la
parola colle dita, nel sordomuto che legge la parola sui moti delle
labbra, una sensazione artificiale, ch'è già una tarda
invenzione della società, supplisce all'incompleta sensazione
naturale. Anche la statua di Condillac si suppone ricca d'una
sensazione sociale.
5. Sovente l'individuo non vede né ascolta ciò che un
altro individuo nel medesimo luogo ascolta e vede. L'età, il
esso, gli istinti, le attitudini, le abitudini sono i coefficienti
senza i quali la sola presenza degli oggetti non compie la
sensazione. E se questa precede all'idea, l'idea acquisita determina
poi nuovi ordini di sensazione.
6. Supponiamo che un selvaggio pervenisse ad avere una distinta
percezione di tutti gli oggetti che lo circondano. Sempre le sue
sensazioni sarebbero limitate dall'orizonte del suo paese nativo:
poche specie di piante alimentari, o medicinali, o venefiche; pochi
animali; una riva di fiume o di solitario mare; i tugurii che
ricettano la nuda tribù. Quando pensiamo alle parti
più remote della terra, la nostra imaginazione affolla, quasi
in un orto botanico e zoologico, tutto ciò ch'è
straniero e insolito per noi. Ma ogni regione ha un aspetto suo
proprio: l'una ha un clima arido; l'altra ha un clima piovoso; ha le
basse paludi o le alpi nevose; poche famiglie di piante coprono
centinaia di miglia con aspetto mirabile a chi primamente vi arriva,
uniforme e tedioso a chi vi rimane. Nella regione in cui viviamo, la
quale è pure una delle più amene e adorne, un buon
quinto delle piante fiorifere, più di cinquecento specie,
appartengono alle due sole famiglie delle composite e delle
graminacee; molte di esse si possono appena con attento studio
discernere fra loro. Ben quaranta specie di trifoglio daranno al
botanico quaranta sensazioni distinte; ma per l'ignaro figlio della
natura, tutto ciò lascia appena un'unica sensazione. Innanzi
al figlio della società civile s'aprono tutte le terre e
tutti i mari, i deserti, i vulcani, i ghiacciai. Gli animali degli
opposti emisferii stanno disegnati e coloriti ne' suoi libri,
conservati ne' suoi musei, viventi e semoventi ne' suoi serragli.
Questo tesoro di sensazioni è un dono che la natura ci porge
per mano della società.
7. E la società non solo vede le cose, ma essa le fa. Essa
estrae dalle terre i metalli, colora le lane e le sete, prepara il
pane e il vino; crea colle sue cure innumerevoli varietà di
fiori, di frutti, di animali domestici; muta le selve in campi, erge
sublimi architetture. E fra gli strumenti musicali e le infinite
combinazioni dei suoni e dei tempi e le forti e soavi emozioni, il
genio della società può ben superbire al paragone
delle rare e povere armonie della selvaggia natura.
8. V'è un mondo invisibile rivelato a noi dal telescopio e
dal microscopio. Tutta la chimica è una rivelazione di
fenomeni invisibili. Nessuno avrebbe imaginato che dall'aqua si
potesse trarre una sostanza invisibile che abbrucia il ferro e il
diamante. Gli apparati elettrici sono per noi come nuovi sensi, coi
quali possiamo percepire sensazioni inaccessibili all'uomo con
quegli apparati che ci diede la natura. È ben lecito
imaginare che come da natura abbiamo un senso che avverte le
vibrazioni della luce, e un senso che avverte le oscillazioni
sonore, così avremmo potuto nascere muniti d'altro apparato
che indicasse, come fa la bussola, le influenze magnetiche. Quella
società che ci diede a scorta l'ago calamitato nella
vastità dei mari e nei labirinti delle miniere e che conversa
col telegrafo, ci diede l'equivalente di nuovi sensi.
9. Le poche sensazioni del selvaggio sono vaghe, incerte,
incommensurabili. Solo col mezzo degli istrumenti possiamo
paragonare il calore di due estati, il freddo di due inverni;
determinare a quale ardore precisamente si liquefà il piombo,
a quale il ferro; quante calorie devonsi accumulare nel corso d'una
stagione per addurre a maturanza un grappolo d'uva.
10. Fin qui ognuno di questi fenomeni può essere ancora
oggetto d'una percezione individuale. Ma vi sono fenomeni che un
individuo solo non potrebbe mai percepire nella loro pienezza,
nemmeno col ministero degli strumenti, ma è duopo associare i
sensi di molti. Gli osservatori che sparsi in diverse stazioni
esplorano il corso dei venti e delle piogge, la varietà delle
temperature, la tensione magnetica del globo, i fenomeni dei
terremoti e delle eruzioni vulcaniche, sono come le parti d'un
commune sensorio delle genti incivilite.
11. Così dalla vaga, incerta, spesso contradittoria
sensazione individuale, sorge a poco a poco la sensazione sociale e
scientifica che rappresenta l'ordine dell'universo.
Dell'analisi come operazione di più menti associate.
1.
Per analisi delle menti associate, intendo dire quelle grandi
analisi le quali si vennero continuando per collaborazione, talora
mutuamente ignota, di più pensatori, in diversi luoghi e
tempi e modi e con diversi fini e diverse condizioni e preparazioni.
- Valga un esempio.
Fin da' selvaggi suoi primordii l'uomo non poteva non avvedersi del
sole, della luna, delle stelle. Egli aveva dunque fatto per
inconscia necessità di natura un primo passo
nell'osservazione del cielo. Un altro facil passo era quello
d'avvertire le continue variazioni dell'astro ch'era notturna sua
guida. Ebbene, ancora oggidì, fra li orgogli della
civiltà e le assidue scoperte della scienza, l'individuo, per
sua propria forza d'analisi, ben poco oltrepassa nell'osservazione
del cielo quei primi rudimenti. Egli vive e muore, senza curarsi di
saper oltre; e se ode parlare dell'immensità dell'universo,
ammira; e più sovente sorride, quasi udisse d'una favola; - e
in breve oblìa. Tali sono i termini dell'attività
mentale nell'individuo, poco importa se civile o selvaggio.
Or quando nei libri d'astronomia vediamo pervenuta oggi la scienza
fino a distinguere in una romita stella uno stuolo di fulgidi soli,
dobbiamo tuttavia riconoscere che chi verifica col telescopio
siffatta meraviglia, compie un semplice atto d'analisi, come quando
colla pupilla nuda li mirava confusi in un'unica luce. Sia la
pupilla armata o non sia, l'atto proprio dell'intelletto è in
quell'istante il medesimo, benché il senso, in tali nuove
condizioni, gli annunci in quell'astro la presenza di più
punti luminosi, anziché d'uno solo. L'analisi è sempre
analisi; è sempre un atto con cui la mente distingue le parti
d'un tutto. Ma l'occhio non poteva trovarsi armato e guidato, se non
in virtù d'una lenta preparazione della vita sociale.
Quell'atto è l'ultima risultanza del lavoro degli avi e dei
posteri; esso è l'opera di più generazioni associate.
L'alternare del sole e della luna deve destare a tutta prima
nell'imaginativa l'illusione che siano due corpi di grandezza e
lontananza poco diseguale, lucenti ciascuno di sua propria luce, a
servigio dell'immobile piano della terra, fra una moltitudine di
minute stelle, sparse in una volta azzurra, poggiata sui più
eccelsi monti. Ma nella perenne continuazione dell'analisi sociale,
quella volta azzurra diviene uno spazio senza limite: quelle minute
scintille divengono un popolo innumerevole di soli; intorno al
più vicino dei quali si move l'umile globo della terra,
traendo seco, per forza di più vicina attrazione, il globo
ancor più esiguo della luna, che riverbera una luce non sua.
Qui l'analisi primitiva, sempre accessibile ad ogni individuo,
sembra in conflitto colle analisi successive, compiute nel corso dei
secoli or presso certe nazioni or presso altre, per lavoro sociale,
rallentato sovente presso quelle nazioni medesime e talora
derelitto.
Le leggi della forza analitica non sono dunque a cercarsi solo nelle
leggi dell'intelletto. La percezione del vero è una parte del
destino delle nazioni.
Pur troppo, nel seno delle genti, l'esercizio dell'analisi è
preordinato e fatale. Esse, ancora oggidì, vivono in cospetto
ad innumerevoli fenomeni della natura e della società, senza
aver mai potuto determinare l'attenzione loro ad osservarli e quasi
senza vederli: anzi sovente senza volerli vedere.
Non è ancora tre secoli dacché al lume dell'analisi
anatomica, l'uomo finalmente s'accorse che il sangue circola nelle
sue vene. Non è ancora un secolo, dacché al lume
dell'analisi chimica, primamente seppe qual fosse l'elemento vitale
dell'aria ch'egli respira. Solo ai nostri giorni, nell'analisi delle
lingue, egli distinse le obliate mescolanze delle nazioni; e
nell'analisi delle reliquie fossili, finalmente intravide le
indelebili cronologie della terra e dell'uomo.
Altro è spiegare come non si fossero fatte, molti secoli
prima, quelle scoperte; altro è spiegare come non si fossero
fatte, molti secoli prima, quelle ricerche. Esse non erano libere;
l'intelletto nulla vi poteva. Molte cose erano inaccessibili; molte
parvero lungamente inutili a sapersi; molte parvero funeste ed
empie; furono interdette dai potenti ed anche dai sapienti. Nelle
più sublimi evoluzioni dell'intelletto, la volontà
esercita maggior dominio che non lo stesso intelletto.
Il modo d'operare dell'analisi, negletto e quasi ignoto alla
filosofia antica, venne studiato di proposito dalla moderna
psicologia; ma solo nell'ipotesi cartesiana dell'individuo. Or
questa non considera che il genere umano è, per sua primitiva
e spontanea necessità, gregario e sociale, e che l'atto
più sociale degli uomini è il pensiero, poiché
congiunge sovente in un'idea molte genti eziandio fra loro ignote e
molte generazioni. Né considera come e d'onde, in seno a
quella istintiva e spontanea associazione delle menti, possa
l'analisi attingere una più eccelsa iniziativa, - né
come ora espanda, ora costringa, la sua libera attività. Ma
dacché questa facultà deve considerarsi come
essenziale all'intelletto, giova studiare come, ciò non
ostante, la libera analisi non abbia potuto ancora attuarsi in tutto
il genere umano. Giova studiare come, presso molti popoli, le forze
analitiche, dopo una rapida emancipazione, abbiano potuto ricadere
in lunga servitù; - come nessuna nazione abbia saputo sinora
serbar continuamente vivo e libero il corso de' suoi pensieri; -
come molte nazioni siano sparite, quasi meteore, senza lasciare
l'eredità d'un'idea; - come ogni società, senza
avvedersi, prefigga a sè stessa i limiti della sua sfera
d'analisi; - come noi medesimi, che qui ci aduniamo in nome della
scienza viva, non tutti ancora possiamo, sciolti da ogni precedente
nostro od altrui, stendere egualmente la mano a tutti i rami
dell'arbore scientifico. La libera analisi è uno dei
più grandi interessi morali e materiali del genere umano.
La filosofia deve proporsi uno studio fondamentale: - l'analisi
della libera analisi.
Consideriamo brevemente l'analisi per sè, come essa procede
tanto nell'individuo quanto nelle menti associate.
Li antichi Messicani, all'arrivo di Fernando Cortez, soprafatti e
atterrati dalla cavalleria, tra il tumulto e lo stupore e lo
spavento confusero in un solo essere l'uomo e il cavallo. È
l'antica favola dei centauri; è la sensazione repentina e
indistinta, esagerata dall'imaginazione. E a primo tratto, anche la
tranquilla vista d'una selva o d'un ciel sereno arreca la percezione
quasi d'un unico oggetto, - un'ampia verdura, - un azzurro
scintillante. Ma chi poi fermi l'attenzione in alcuna delle piante e
delle stelle, acquista altre evidenze che chiariscono via via quel
primo concetto.
L'analisi continuata tende adunque a perlustrare, anche a più
ritorni, il tutto d'ogni cosa; e non a disunire, né a
dissolvere o «risolvere», come la voce d'analisi indusse
molti pensatori a supporre. «Armé de l'analyse, il
désunira» disse Pierre Leroux. Ma il numerare le dita
della mano o le parti distintive d'un fiore, non è disunirle;
bensì unirle per sempre nel concetto del numero. Coll'analisi
numerica di Linneo, la botanica divenne primamente una scienza.
L'anatomia, pur separando (per materiale necessità di vedere)
le ossa, le articolazioni, i muscoli, i nervi, le arterie, le vene,
le contempla quali cose fra loro congiunte e in quanto e come stanno
fra loro congiunte; anzi mette in luce gli ignoti loro legami.
Quando osserva che le quattro dita minori s'inflettono ponendosi
alla base del pollice, discerne per qual modo la mano abbia la
capacità di prendere e stringere. L'inattesa scoperta della
tromba d'Eustachio, ossia d'un passaggio tra l'intima cavità
della bocca e la cavità dell'orecchio, rivela in qual modo
chi ascolta a bocca aperta, aumenti senza saperlo l'efficacia
dell'udito.
Lo stesso avviene quando l'analisi ha quella veste astratta e
universale che le danno le formule algebriche. Poiché quella
veste commune rende comparabili fra loro e commutabili anche quei
concetti che a prima vista potevano apparir privi d'ogni intima
relazione. E così nella confusione del superficiale e del
vario, la mente può discernere l'identico, il costante,
l'essenziale, il certo.
Un'analisi ordinata procede dalle cose più ovvie ed evidenti
alle più astruse; nel che sta il principio d'ogni
dimostrazione e d'ogni insegnamento.
Un'analisi può dirsi intera, quando con certa equabile
profondità si estende a tutto un certo campo d'osservazione;
cioè ad un dato essere o fenomeno o complesso di esseri o
fenomeni e a tutte le loro parti, qualità e relazioni, entro
quella misura e secondo quel fine che l'osservatore si prefigge.
Un'analisi di terre che basta ad un fabricatore di tegole, non basta
ad un fabricatore di porcellane. E l'analisi può tornare
all'opera; può raccogliere nello stesso campo altra serie di
percezioni. Essa non ha limiti assegnabili in modo assoluto e
universale. Ma eziandio nel più augusto cerchio, in quanto
l'analisi tutto non lo abbracci con eguale profondità, le
parti osservate restano confuse colle neglette o inaccesse. A
supplir questa interviene allora coi mille suoi spettri
l'imaginazione. Da quel momento in tutte le successive elaborazioni
dell'intelletto il vero s'intesse col falso, finché l'opera
d'un'analisi interna e fedele non venga ripresa dalla
posterità. È per tal modo che nella scienza primitiva
li audaci voli dell'imaginazione soverchiano il lento passo
dell'osservazione.
Or bene, un'analisi evidente, distinta nelle sue parti, ordinata,
intera, adempie le quattro regole del metodo di Cartesio. Il qual
metodo adunque è null'altro che l'analisi. Pure i nuovi
cartesiani si sforzano d'immedesimarlo piuttosto colla sintesi. E B.
Saint-Hilaire si dispensò al tutto di parlar della sintesi, e
rimandò i lettori al metodo. Ma sintesi o analisi che si
voglia, l'osservanza delle quattro regole non poteva dare
l'indiscutable certitude. Poiché quando Cartesio (nel 1637),
pochi anni prima della morte di Galileo, publicò il Discorso
del Metodo, era stato già per tutta la vita testimonio come
nella fallace evidenza dell'immobilità della terra tutti
provassero l'indiscutable certitude e la prodigieuse clarté.
Ma quell'immobilità era un'illusione; e causa dell'universale
illusione era appunto quell'evidenza! L'analisi chimica non tende
solo a distinguere per le loro attive proprietà le sostanze
che si manifestano spontanee; né tende solo a riconoscere nei
corpi le sostanze cognite che vi si celano; ma perviene fino a
scoprire l'ignota esistenza di quelle che la natura non pone mai a
scoperto, come l'ossigene, il calcio, il cloro e altri principii
largamente profusi in aria, in terra, in mare.
Non diremo tuttavia con Leroux che l'uomo «armato d'analisi,
disunirà». La chimica compie con somma evidenza la
dimostrazione di molte analisi eziandio per atti di composizione o
di ricomposizione, scevri affatto d'ogni scomposizione. Un filo di
magnesio, posto sulla bilancia in contatto colla viva fiamma, arde,
indicando col rapido aumento del peso l'invisibile ossigene che
assorbe dall'atmosfera. Qui la ricomposizione dei due principii,
è la dimostrazione inversa e la controprova di ciò che
il genio analitico scoperse in via diretta; è un mezzo e non
è un fine; non v'è nuova scoperta; non v'è
nuova idea. In senso operativo si può chiamar sintesi; ma in
senso logico è la distinzione; è l'ultimo complemento
della distinzione.
Per lo più le sostanze chimiche non escono da una
combinazione se non entrando in un'altra; i più complicati
procedimenti si riducono ad una serie di siffatte trasposizioni e
sostituzioni. - Le sostanze mutano proprietà, pur solamente
variando proporzione; il mercurio dolce, mite medicina infantile,
con l'apposizione d'altro equivalente di cloro si muta in sublimato
corrosivo. - Innumerevoli combinazioni organiche di carbonio e
d'aqua, variano proprietà solamente col disporsi in diversa
ordinanza, - come l'essenza di rose e l'essenza di terebintina,
costituite appunto entrambe di carbonio e d'aqua in proporzioni
identiche, - eppure dotate di sì diverse apparenze e
proprietà. - Certe sostanze latenti si manifestano anche solo
coll'essere esposte a certe variazioni di temperatura,
d'umidità, d'elettricità; il colore accusa i vapori
dell'iodio; l'odore accusa i vapori dell'arsenico. - Ma in qualunque
siffatto procedimento di scomposizione o composizione o
ricomposizione o trasposizione o sostituzione o apposizione o
disposizione o esposizione, rimane sempre intatto l'officio supremo
dell'analisi, che è la distinzione!
Pensatori di mente imaginosa e fervida odiano le lentezze
dell'analisi e i suoi rigori e i suoi freni; la dicono
facoltà pedestre e materiale: ingenium in dorso. È
l'antica condanna braminica, buddistica, eleatica, platonica; sempre
un cieco disdegno; talvolta la maledizione. Ma vero è che
ogni più sottile astrazione è sempre opera d'analisi.
Dalle astrazioni dei numeri senza oggetto, delle linee senza
superficie, delle superficie senza profondità, delle forme
senza corpo, delle forze senza sostanza, surge la matematica. Dalle
astrazioni del pieno e del vuoto, dell'identico e del diverso,
dell'io e del non io, dell'essere e del non essere, dell'infinito e
dell'assoluto, surgono la logica, l'ontologia, la metafisica.
Tuttociò che v'ha di più sublime nell'intelletto
comincia dall'atto analitico dell'astrazione. L'astrazione diviene
il vincolo commune di tutti i fenomeni della scienza e della
coscienza. L'analisi è la piramide di cui la sintesi è
la sommità.
2.
Quando Cartesio, con un atto d'analisi libera e pura, distinse nella
coscienza del pensiero la coscienza dell'essere, egli volle con
quella affermazione dell'io, disciogliersi dalla natura e dalla
società. Ma la natura era già passata d'innanzi al suo
intelletto; ma la società gli aveva dato la tradizione
scientifica. Quella voce che gli pareva surgere solitaria dalla sua
coscienza, era la prima parola d'un problema già maturato nel
corso dei secoli e nella successione delle filosofie: - problema che
l'io solitario non avrebbe nemmen potuto proporsi.
Così è. Alle evoluzioni della potenza analitica hanno
parte la natura e la società. E come sono esse le cause che
la destano, così sono parimenti le cause che possono renderla
perpetuamente inerte. Dissi perpetuamente inerte; poiché, a
prossima nostra memoria, alcune genti si estinsero o si confusero
con altre e si sommersero in esse, prima d'avere, in migliaia
d'anni, superato colla propria mente quell'infinito limite il quale
è concesso anche al discernimento istintivo degli animali.
La natura aveva già stabilito fra una gente e l'altra una
disparità di condizioni, secondo la disparità delle
cose utili o nocive e dei luoghi e dei climi. Le singole genti nelle
singole loro patrie non potevano avvedersi se non di ciò
ch'ella vi avesse posto.
La presenza di certi frutti ovviamente alimentari e di certi animali
o più mansueti o più feroci, il complesso d'una terra
e d'un clima, d'una flora e d'una fauna, dettavano adunque agli
aborigeni una serie d'atti d'attenzione, coordinata alla serie delle
più immediate necessità; e tanto quivi inevitabile
quanto impossibile altrove.
E così li aborigeni dovevano costituire nelle singole regioni
native le singole parti d'una superficiale analisi, dispersa a
frammenti su tutta la terra abitata. La rimanente natura giacque
inosservata e indistinta. Era pel genere umano come s'ella non
fosse.
Quanto alla società, comunque isolata e misera, questi
singoli frammenti d'osservazione dovevano nel suo seno sopravivere
all'individuo. Ciò che l'infante, per necessità di
convivenza e per cieca imitazione, apprendeva, dovevagli apparire
come l'ordine necessario, ed unico possibile, della vita.
Così nasceva la tradizione, - involontaria, spontanea,
irriflessiva, - ma imperiosa già fin d'allora com'essa
è tuttavia per noi. - L'analisi non era libera.
Ogni individuo non era più costretto a cominciar da sè
tutta la serie di quelle scoperte. Ma ogni mente entrava nella
carriera del pensiero già improntata dal pensiero altrui.
L'analisi, nata serva della natura, crebbe serva della
società.
La tradizione era un filo tenace che associava le menti, non da
gente a gente, ma da generazione a generazione. Era la
società perpetua dei posteri cogli antenati. Anche
nell'intimo recesso delle menti, ogni generazione era figlia non
solo della sua terra ma de' suoi padri. Era un indirizzo dato, e un
vincolo imposto, all'intelletto dei nascituri, in distanza di
secoli. Erano già determinate nelle viscere della famiglia
selvaggia certe nozioni che dovevano sopravivere in seno ad una
tarda civiltà. Molte osservanze e molte avversioni nei cibi e
in altri usi della famiglia, che durano tuttavia qua e là fra
i popoli, sono tradizioni di tempo immemorabile; forse furono in
origine mere ammissioni od omissioni di quelle analisi primitive.
I Latini, per chiarire i fatti delle istorie, solevano risalire a
ciò ch'essi chiamavano le origini, benché allora
intessute già di poetiche fantasie. E parimenti solo dalle
origini si possono spiegare alcuni fatti del mondo moderno. Valga un
esempio: - ancora nel secolo decimosesto, nella splendida
città del Messico, edificata con arte idraulica fra due
laghi, con grandi vie rettilinee e rettangole, si praticava tuttavia
sulla sommità d'eccelse piramidi una continuazione rituale
della vita canibale, oramai probabilmente, a solo terrore delle
genti suddite e ad arte di stato. Ma le origini di questa atroce
idea, in una nazione ricca già di molte arti e addottrinata
in collegi sacerdotali, erano le tradizioni, non interrotte mai,
della vita selvaggia.
Il vincolo intimo e commune di tutte queste analisi primitive
è la lingua. Il discorso è una continua analisi.
È d'uopo analizzare il pensiero per tradurlo in parola;
è d'uopo analizzare viceversa la parola per estrarre il
pensiero. Costretto l'uomo sin dall'infanzia a percorrere l'assiduo
andirivieni in quella trafila analitica che modula nella prescritta
forma sociale ogni suo ed ogni altrui concetto, non può
cancellar poi del tutto le vestigia di quella perenne disciplina,
sicché non sopravivano indelebili, nei successivi incrementi
delle lingue e nelle loro miscele e trasformazioni.
Per un esempio: - nella numerazione, la lingua dei succitati Aztechi
del Messico, procede, non per decine, ma per quintine. È
manifesto ch'ella deve aver preso le mosse dalla primitiva analisi
d'una sola mano. E sopravivono pur troppo in questo secolo altre
genti oceaniche e americane e africane, le quali non giunsero a
compire i loro numerali, nemmeno per potersi contare tutte le dita
d'una mano. Esse, fin dall'infanzia, si avvezzano a far senza dei
numeri, come fecero i loro avi per migliaia d'anni. Perciò
tutti i loro concetti, non solo di numero, ma di spazio, di tempo,
di misure, di distanze, di altezze, di valori, di forze, sono
indeterminati; sono irreparabilmente vaghi e vani. Tutta la loro
potenza mentale e materiale ne rimane snervata. Io credo ch'essi,
nella pratica del commercio, dovranno inevitabilmente completare la
loro numerazione. Ma credo che non potrebbero più dedurre i
nuovi numeri dal medesimo principio dal quale dedussero anticamente
i primi; ma bensì dovranno appropriarsi a dirittura i numeri
europei, tali e quali sogliono udirli al mercato. Così fecero
li Europei medesimi quando presero a prestito il nome di millione
dalla nostra lingua; nella quale era organicamente nato, in forma di
mero accrescitivo, forma inflessiva ch'essi nelle loro lingue non
avevano.
Quando le singole genti nelle singole regioni ebbero costituito
colle varie analisi iniziali altretante tradizioni iniziali,
espresse con altretanti rudimenti di lingue, potevano aumentare in
varii modi quel primo patrimonio. - Potevano intorno a sé
avvertire altre cose utili o dannose, dapprima inosservate. -
Potevano, sia per attenzione ripetuta, sia per associazione d'idee,
sia per lampo di genio individuale, discernere negli oggetti
già noti nuove proprietà e nuove corrispondenze ai
communi bisogni. Avvenne, per esempio, che fra quei barbari alcuno
più sagace, trovandosi armato già istintivamente d'un
pezzo di legno, così come poteva fare eziandio l'orangotango
o il gorrilla, potesse, per forza propria dell'intelletto umano,
oltrepassare quel limite istintivo, intravedere in una selce
tagliente o in una resta di pesce di che farne un coltello, una
scure, una lancia, una saetta. - Avvenne che alcuno, nella terribile
esperienza d'un veleno, intravedesse il modo d'inasprire vie
più quelle povere armi e avventare una morte certa contro le
fiere e i nemici. - Avvenne che alcuno, cadendo in un fiume, si
salvasse afferrandosi per mero istinto ad un tronco galleggiante; e
che continuando e rinovando quell'atto, vi percepisse l'idea madre
dell'arte nautica. In questi nuovi avvedimenti, comincia l'azione
analitica dell'individuo oltre la tradizione e contro la tradizione.
Questi furono i primi conati di libera analisi. Codesta potenza
dell'individuo che vede nelle cose ciò che li altri non
videro, quando si esalti a sommo grado e trovi un'idea madre,
cioè il caposaldo d'una nuova serie d'idee, costituisce il
genio; perché si considera come opera d'un'intelligenza
superiore alla natura umana e quasi come d'uno spirito tutelare. Gli
antichi considerarono veramente tutte codeste idee madri d'un'arte o
d'una scienza come doni fatti all'umanità dalli dei o
semidei.
Ma in queste nuove analisi ebbe parte grande il caso. - Si narra che
i Fenici, abbruciando una congerie d'erbe marine sulle arene silicee
del lido, vedessero scorrere per la prima volta il vetro liquefatto.
Si narra che gli Spagnuoli scopersero per simil modo un copioso
letto di cloruro d'argento.
Quando interviene l'azione individuale o quella del caso fortuito,
facilmente si spiega come le nazioni abbiano potuto raggiungere
un'idea forse più astrusa, senza averne potuto percepire
un'altra forse più ovvia. Così vediamo li eroi
dell'Iliade combattere sui carri e non ancora sul dorso dei cavalli.
Così appare già diffuso nel Perù l'uso del
guano, in un tempo quando colà l'agricultura si esercitava
con istrumenti di legno. Così nell'Australia, nessuno per
migliaia d'anni concepì la più rozza forma di casa o
di nave; eppure vi fu chi divisò d'ostruire con pietre e
legni le aque nei passi più angusti per imprigionarvi il
pesce.
Qui mi sia permesso di notare come molti credono oramai dimostrato
che nella cronologia delle nazioni primitive si seguano in ordine
fisso le successive età del legno, della pietra, del rame,
del ferro. La tradizione classica faceva precedere l'età
dell'oro; e ciò forse poteva rappresentare la credenza ad una
legge piuttosto di decadimento che non di progresso. È certo
però che in America, al tempo della conquista, unicamente
diffuso e antico era l'uso dell'oro, mentre colà il rame e il
ferro erano affatto ignoti. E fu l'oro che a memoria nostra attrasse
il torrente dell'emigrazione in California e in Australia, dove li
aborigeni non avevano scoperto alcun altro metallo. La scienza deve
tener conto di queste varietà e non essere troppo sollecita
di chiudete il ruolo dei fatti, affinché le ulteriori analisi
rimangano più libere e le scoperte compiute e annunciate con
unanimi testimonianze non sembrino contradette dalle scoperte
successive.
Fin qui mi sono rinchiuso nell'ipotesi delle tradizioni
universalmente isolate. Ma già dai primordii, le scoperte
possono propagarsi da tribù a tribù, almeno a brevi
distanze.
Fu osservato che intorno alle palafitte lacustri sulle quali posero
dimora i selvaggi della prisca Europa, si raccolgono in alcuni
luoghi certe pietre taglienti delle quali essi formavano coltelli e
lance, quando era ignoto l'uso dei metalli. Ma siccome i geologi
rilevarono che quelle pietre non si trovano naturalmente sparse in
quelle vicinanze, fecero induzione che fossero colà recate
per un primordio di communicazione vicinale con altri selvaggi amici
o nemici che avessero potuto rinvenirle altrove o averle da altri.
Perloché queste umili pietruzze sarebbero il più
antico documento non solo d'un commercio da gente a gente, ma della
prima propagazione d'un'idea. Le menti associate già
solamente nelle tradizioni del passato avevano adunque già
incominciato a communicarsi fra loro da tribù a tribù
le idee del presente. Alla tradizione ereditaria si aggiungeva
già la propaganda vicinale.
Parimenti quando in quelle terre sepolcrali si dissotterrano le
ceneri e i carboni di quei focolari selvaggi, si ha un documento
antichissimo della propagazione contemporanea del fuoco; - altra
idea-madre, più feconda di tutte, e più varia nelle
sue applicazioni alla scoperta d'altre idee-madri. Quella nuova
fonte di calore e di luce fu anche in età successive
trasmessa come cosa sacra. Nel Zendavesta la fondazione delle
città e delle colonie è chiamata la propagazione dei
fuochi. Anche in più lontani secoli, i re persiani solevano
mandare inanzi al loro esercito fochi sacri, accesi sopra altari
d'argento, come se volessero con quel dono allettare i popoli ad
accettare i beni della loro signoria: - Ignis, quem ipsi sacrum et
aeternum vocabant, argenteis altaribus praeferebatur (Curt. 3.3.
Forc. Ignis).
Il foco sacro era custodito nei templi; spento veniva riacceso con
mistiche solennità, la cui tradizione vive tuttavia fra le
mutate nostre credenze. La partecipazione del foco rimase per sempre
un diritto della famiglia, un diritto delle genti; l'esclusione era
un'ingiuria, una pena, un esilio, una guerra, una maledizione: -
Hostes judicemur; aquâ et igni nobis interdicatur (D. Br.
Forc. Interdicere).
Signori, l'umanità è ben giovine. L'invenzione del
foco appena ha compiuto il giro del globo. Ho letto ne' miei primi
anni, se ben mi ricordo nella collezione del Laharpe o nei viaggi di
Cook, che in qualche isola del grande Oceano, quando li aborigeni
videro ardere per la prima volta il foco, lo stimarono una cosa
viva, e avendo osato toccarlo, si credettero morsi da un animal
feroce. Qui la propaganda vicinale si dilata in propaganda delle
nazioni. Le osservazioni d'una tribù divengono cognizioni del
genere umano.
Ogni arte nuova diviene un nuovo campo d'analisi. Chi ha scoperto
l'uso del fuoco ha fatto strada alla scoperta dei metalli. Chi ha
intraveduto in un tronco natante una nave, ha preordinato per
sè e suoi come per gli stranieri, per i viventi come per i
posteri, una serie di successive scoperte, che senza limite di
materia e di forma, sempre crescendo, giunse fino a noi e
crescerà fin che duri il genere umano. Ma queste successive
analisi che svolgono dal seno d'un'idea madre le nuove arti
consistono nell'osservare le leggi della natura, per conformarsi ad
essa: - «Natura parendo vincitur», - disse Bacone. E
riescono più facili o difficili, secondo che corrispondono
alle tradizioni e disposizioni delle società. Le menti
associate in questa analisi ereditaria e progressiva oscillano
dunque perpetuamente tra un ordine ideale che rappresenta le leggi
invariabili della natura - e un altro ordine ideale che rappresenta,
in dati tempi e luoghi e popoli, le condizioni della società.
Tutto questo progresso delle idee rimane posto fuori dall'ipotesi
dell'individuo pensante; oltrepassa tanto la solitudine metafisica
di Cartesio quanto la statua sensitiva di Condillac, la solitudine
poetica di Rousseau e la commune natura delle nazioni di Vico. A
compimento della dottrina di Vico resta di chiarire come, la natura
delle genti essendo commune, le colonie delle nazioni progressive
debbano in molte parti della terra trovarsi a fronte di tutte le
gradazioni d'una barbara inerzia. Questo è il più
grande problema dell'umanità. Perché venga studiato
è d'uopo che venga proposto.
Ricorrendo tutta quella serie d'idee che fin qui abbiamo percorso,
non si offerse alla nostra mente dove collocare l'idea poetica del
selvaggio solitario, felice co' suoi pensieri nel seno della madre
natura, quale Rousseau lo dipinse a sè medesimo e ai nostri
padri: - «Je le vois se rassaisiant sous un chêne, se
désalterant au premier ruisseau, trouvant son lit au pied du
même arbre qui lui a fourni son repas».
Ma questo placido regno del pensiero è impossibile nel
perenne bisogno e nella perenne agitazione della vita selvaggia.
Rousseau aveva accolto la tradizione, verisimile purtroppo, che li
aborigeni in Italia avessero vissuto di ghiande; e infatti l'analisi
della nostra flora nativa non disdice molto notevolmente questa poco
allettevole tradizione. Anzi la tradizione stessa popolava le selve
dell'Italia e della Grecia colle truci sembianze dei Lestrigoni, dei
Ciclopi, di Caco, di Licaone, di Tieste. Erano le memorie confuse
del passato che abbracciavano i fantasmi della vita canibale. E
questa era inevitabile fintantoché l'aborigene nudo, nelle
deserte selve di roveri e d'elci, con un vivere senza casa e una
pesca senza reti e una caccia senz'armi, doveva avere di che
sfamarsi regolarmente ogni dì dell'anno, senza saper
preservare dalle ingiurie degli elementi e dalle insidie degli
animali diurni e notturni le incerte prede e i caduchi frutti. Oggi
satollo e oppresso di cibo, per rodere dimani i fetidi avanzi - o
cader di fame, - o tenersi in vita divorando il cadavere del suo
simile. È perciò che in alcuni paesi dell'Africa
meridionale, quando alcuno atterra un grosso animale, tutta la
tribù accorre per prisca tradizione a dividerlo secolui; e
chi alla sua volta tradisce il ricambio, vien maledetto con formule
sacre, alla cui giustizia si attribuisce ogni seguente
calamità.
Laonde se l'uomo selvaggio da Hobbes fu detto puer robustus,
più giustamente potrebbe dirsi puer famelicus; perché
s'indicherebbe nel tempo stesso come quell'ansietà perpetua
del vivere sia causa di quella perpetua puerizia della mente.
Vi parrà forse, Signori, ch'io mi sia troppo divagato
ricercando in seno all'estrema barbarie i più intimi secreti
della vita scientifica. Ma questa analisi della vita del pensiero
nella sua iniziale semplicità torna utile, perché
chiarite una volta le sue leggi si può seguirle poi nelle sue
più difficili evoluzioni.
Le tradizioni delle singole tribù ingrossando inegualmente
nel corso dei secoli le loro correnti, dovevano ad ogni modo
incontrarsi fra loro e confluire. Le tribù vicine, o
perché amiche o tanto più perché nemiche,
dovevano ammaestrarsi coll'esempio e colla forza prevalente delle
offese. L'arco e la fionda furono a quei tempi ciò
ch'è in questi giorni il fucile prussiano. O perire o
imitare; o perire o accettare un'idea!
Siffatte communicazioni primitive dovevano essere più agevoli
e immediate lungo le convalli dei grandi fiumi nelle regioni
più temperate; poiché offrono una lunga sequela di
luoghi ubertosi ove piante e animali trovano alimento nella terra e
nelle aque; epperò le tribù possono trovare vita meno
incerta e faticosa; moltiplicarsi ed assicurarsi col numero;
coordinare i frammenti delle tradizioni iniziali nel seno di
prevalenti lingue mediatrici; appropriarle con nuove inflessioni e
composizioni e con traslati ad esprimere ordini d'analisi sempre
più elevati; a tentare le prime astrazioni del numero, del
tempo, dello spazio, delle forme. I poteri dell'osservazione non
sono più angustiati dalle inesorabili necessità d'una
perpetua carestia. Sono ognor più liberi li atti
dell'attenzione; ognor più largo il suo campo. Le genti,
potendo anche più facilmente moversi da luogo a luogo,
possono raccogliere maggior numero di scoperte locali. Ciò
accresce vie più la facilità del vivere, l'addensarsi
delle società. Ricomincia il lavoro sociale; ma non è
più quello della tribù solitaria; è la
tradizione d'un popolo nel seno d'un vivere migliore. Si comincia ad
aver tempo. È ciò che i Latini chiamano ozio; l'ozio
per lo studio; otium studio, come scrive Cicerone; cioè
riposo e pensiero. Ozio in greco si dice scholê, ed è
una delle voci più sapienti di quella lingua sapiente. La
scola ossia l'ozio d'Atene è il portico, è l'orto,
è la selva d'Academo. È il libero e amabile corso
della mente alla ricerca del vero:
atque inter silvas Academi quaerere verum. Hor.
Le più grandi aggregazioni di popoli avvennero in Oriente
lungo i grandi fiumi ove le flore e le faune native comprendevano
fin da principio alcuno dei principali elementi dell'agricultura e
della pastorizia. Tale era la bassa valle inondata così
regolarmente dal Nilo; tali erano i due fiumi della Mesopotamia; i
due fiumi della Battria; i due fiumi dell'India; i due fiumi della
China. Sotto la zona torrida le grandi associazioni dei popoli si
svolsero sui vasti altipiani dell'Etiopia, del Perù, del
Messico, perché quivi l'altitudine fra nevosi monti mitigava
i calori della latitudine. La terra meno propizia fu l'Australia,
perché la natura le negò i grandi fiumi, i fecondi
altipiani, e vi sparse una flora e una fauna egualmente ingrate.
Mancando l'opera della natura, mancò anche l'opera della
società. La vita del pensiero fu impossibile. E così
avvenne che ammessa pure anche per quei miseri abbozzi d'uomo
l'ipotesi della commune natura delle nazioni e il principio
incontestabile della commune natura dell'intelletto, resta
facilmente spiegato come quella gente non sia mai giunta ad
afferrare l'idea madre né dell'agricultura, né della
pastorizia, né della navigazione, né della
metallurgia, e non mostri tampoco l'istinto costruttivo del castoro,
e sia molto probabilmente destinata a perire in questa cadaverica
inerzia d'un intelletto nato morto.
Signori, ho tentato dimostrare come l'origine delle idee non sia
così semplice come la natura dell'intelletto, né si
possa spiegare colla sola natura dell'intelletto. Essa mi pare come
un arbore che vive bensì di vita sua propria, ma che per
vivere deve tenere le radici nella terra e stendere i rami sovra un
consorzio sociale.
Non mi sembra probabile l'idea generalmente diffusa che l'idea madre
della pastorizia dovesse regolarmente precedere l'idea madre
dell'agricultura; il che implica che dovessero nascere distinte e
separate. Una tribù poteva tanto trovare nella sua patria la
palma o il frumento o il riso, se la natura gliene aveva fatto il
dono, come poteva trovarvi la pecora o il bove. Una sola di codeste
utili specie animali o vegetabili bastava per inaugurarvi la vita
pastorale o l'agricola o entrambe. L'uomo che avesse incontrato in
qualche romita valle un gregge vagante nella primitiva
libertà, aveva solo a pensare: quel gregge è mio;
difenderlo dalle fiere e dai nemici, soccorso dal vigile cane che lo
seguiva per godere le reliquie del macello. Ma ciò non
impediva di continuare a raccogliere come prima i frutti selvaggi o
alcun grano o legume. E ad iniziare con alcuno di questi la vita
agricola, bastava che nella secolare esperienza della sua
tribù fosse giunto a discernere in quella pianta il seme, che
caduto nel fango risurgeva in novella pianta.
Ma l'elemento pastorale era più efficace alla propagazione
delle scoperte perché più mobile. I mansueti e
gregarii animali erano disposti da natura a seguir l'uomo da luogo a
luogo e anche a trasportarlo.
Ecco quindi le genti dell'Asia predestinate a moversi vastamente
sulla terra e raccogliere ogni dove gli sparsi frammenti
dell'analisi selvaggia. Il gran deserto dell'Africa rimase
impraticabile finché il camelo dell'Arabia e della Battria
non approdò alle isole palmifere del mare d'arena.
Oramai nella certezza e continuità del vivere, il pensiero
poté levarsi finalmente al cielo; distinguere non più
solamente il sole e la luna; ma suddividere le stelle fisse in
costellazioni, e distinguere i pianeti che s'accompagnano or all'una
or all'altra costellazione. Oramai la natura e la società
schierano inanzi al pensiero i tesori di molte regioni e le
tradizioni di molti popoli. Ma pur troppo il pensiero dai faticosi e
lenti passi dell'analisi trapassa ai rapidi voli della sintesi.
L'imaginazione si sveglia; anticipa e presume ciò che non sa;
precorre alla cognizione, esagera un'idea per compirla; scambia
l'astronomia con l'astrologia, la medicina con la magia, la
contemplazione con la visione e con l'estasi. Non appena la
misurazione dei campi ha dato occasione alla prima geometria; e
già la scienza del matematico si confonde coll'arte
dell'indovino: «Mathematici... genus hominum... sperantibus
fallax». Tacito.
Mentre per tal modo le caste dotte mutano la dura e fedele
osservazione in vaga poesia, le moltitudini passano dalla miseria
del selvaggio alla miseria dello schiavo. Il commercio inizia lo
scambio delle cose; e perciò ciascuno si raccoglie in un'arte
sola, fugge dagli oppressori della patria in cerca di
libertà; fugge ad esercitarla presso altre genti; ogni arte
diviene un secreto e una nuova casta; ecco nascere ciò che li
economisti chiamano la divisione del lavoro; ma che al cospetto
della psicologia è solamente un nuovo ordine d'analisi il
quale penetra sempre più profondamente negli arcani della
natura. Intento solamente all'arte sua, il plebeo riceve
passivamente tutte le idee generali che gli vengono imposte dalle
classi dotte. Quindi fomentato quell'ordine d'idee che s'accorda ai
voleri del potente, e repressa e maledetta ogni ricerca che
può rivocare in dubbio le credenze ch'egli ha dettato.
L'analisi si estende e fra i signori e fra i servi; ma non è
libera; i potenti segnano un limite agli altri; segnano un limite a
sè stessi; l'analisi diviene nuovamente preordinata e fatale.
La potenza dunque, senza avvedersi, segna un limite alla potenza.
È il fatto odierno della Russia, dell'Austria, della Francia
stessa e dell'Italia.
V'è un momento in cui l'analisi officiale rompe le sue catene
nelle libere città della Grecia; ma sopraviene l'unità
macedonica e l'enciclopedia d'Aristotele, poi la conquista romana e
l'unità bizantina; il pensiero greco si sommerge nella
memoria del passato; in tutto il medio evo l'analisi è
preordinata e fatale.
Io non mi trattengo a descrivervi il fatto del quale molti di voi
sono più intimi testimonii ch'io non sia.
Io non mi trattengo a rammentarvi come avvenne che nella moderna
Europa e nelle sue colonie, in rapporto sempre alle tradizioni
più o meno libere e audaci ch'esse avevano recato seco dalla
madre patria, la potenza dell'analisi si esaltò ad un grado
che non ha esempio nel corso de' secoli.
Voi sapete come l'analisi universale cominciasse ad armare sè
stessa coll'opera d'innumerevoli ordini d'analisi speciali. Altro
che non sapersi numerare le dita d'una mano! - altro che numerare
per quintine! - altro che dire due paja ed uno per significar
cinque, tre paja per significar sei, tre paja ed uno per significar
sette e poi non saper più andare avanti, e per disperazione
afferrarsi con ambe le mani i capelli e gridar cuma! ciò che
vuol dire molti! - nella povera lingua delle tribù visitate
dal nostro commune amico Osculati, nelle selve appiè
dell'eccelso altipiano del Perù! L'analisi universale si
armò coll'analisi matematica; si armò di tutti li
strumenti della fisica, misurò tutte le variazioni del
calore, dissipò la favola di Dedalo; trasmutò gli
ardori della sfera del foco in una sfera di gelo, invano penetrata
dai raggi della fotosfera solare; pesò l'aria; calcolò
le cadute dei gravi; alzò in faccia a Giove Tonante il
parafulmine, tese sui gioghi delle Alpi e negli abissi dell'Oceano i
fili parlanti. Si armò di tutti li artificii della chimica;
trovò i numeri degli equivalenti, il gran gioco di carte
della natura, le poche carte che fanno una serie infinita di giochi;
disfece e rifece tutte le combinazioni di quel caleidoscopio e
calcolò altre combinazioni a cui forse la madre natura non
aveva peranco avuto occasione; scoperse che tutte le potenze letali
e vitali del mondo vegetabile non piovevano sulla terra per magico
influsso degli astri, ma erano poco più che numeriche
proporzioni d'aqua e di carbonio. La medicina si armò
dell'analisi anatomica, oppose veleni a veleni, cogli strumenti
della morte salvò la vita; era il senso della sapiente parola
di farmaco che la sapienza anticipata dell'Oriente aveva consegnato
alla Grecia.
Volgendosi al mondo delle tradizioni l'analisi universale
interrogò tutte le lingue, dissepellì le loro radici,
le radici delle loro radici; narrò ad esse colle loro proprie
parole com'erano nate e come da lingue di canibali più
brutali dell'orangotango e del gorrilla fossero giunte a dare un
nome ordinatore a tutte le piante e a tutti li animali dell'orbe
terraqueo, - a tutte le pietre e a tutte le creazioni petrificate
che avevano vissuto in quelle pietre nei secoli dei secoli dei
secoli. Trasse dall'umile basalto di Rosetta i misterii dell'antico
Egitto; lesse diecimila anni di date sepolte sulle pareti dei templi
e nelle viscere delle piramidi. Penetrò il senso del sapiente
aggettivo dato alla volta celeste da Virgilio, l'allievo dei Druidi,
il maestro di Dante:
Terrasque, tractusque maris coelumque profundum!
L'analisi antica, libera tratto tratto, ma sempre inerme, divenne
libera e armata; divenne irresistibile; essa è ancora
preordinata e fatale, ma il suo ordine è l'ordine di Dio; il
suo fato è la verità.
Libertà e verità! Signori, scrivete queste parole
sulle porte di tutte le università.
Intanto sugli immani regni dell'Asia si aggreva l'ineluttabile
dominio delle tradizioni, la scienza delle sintesi premature e
anticipate.
Oggi nell'Europa e nelle colonie, oramai propagate alle
estremità della terra, ma non pervenute ancora a penetrarne
tutte le parti, non pervenute ancora a riconoscere in tutto il suo
circuito il patrimonio del genere umano si commisura alla
libertà dell'analisi la ricchezza e la potenza delle nazioni:
- Scienza è forza!
Non si considera fra noi più nemmeno come scienziato chi vive
parasita delle tradizioni, chi non abbia dato alla scienza un'idea
la quale egli possa chiamar sua. L'arte di fare le scoperte prevista
e descritta anzi tempo dal profeta Bacone è divulgata a
tutti. Vi sono società d'uomini la cui vita consiste
nell'attendere a fare scoperte; e d'altri uomini la cui vita
consiste nell'attendere ad annunciarle. È l'analisi per
l'analisi!
Noi fummo testimoni degli eventi che sottomisero all'Europa e alle
sue colonie le sorti dell'Asia e dell'Africa. Ora si affaccia a noi
la più grande di tutte le rivoluzioni che sottomette tutte le
discordi sintesi d'una scienza fantastica all'urto dell'analisi
libera e armata delle opere sue; che inaugura finalmente la concorde
libertà del pensiero per tutto il genere umano.
Oramai non dobbiamo curarci di rinvenire tra le reliquie del mondo
fossile l'unità primordiale del genere umano. Da dovunque
egli sia venuto il genere umano procede alla libera unità del
pensiero.
Signori, questo è per me un breve capitolo; ma potrebbe
essere ad altri un'opera di lunga lena.
Io aveva già presenti alla mente queste idee, quando (in
gennaio 1862) risposi publicamente nel Politecnico ad una cortese
inchiesta che l'onorevole Matteucci, allora ministro, mi faceva
sulla riforma da lui proposta per gli studi scientifici in Italia.
Io gli proposi allora per sommo principio da seguirsi nel complesso
delle università la divisione del lavoro, ossia la libera
analisi, in quanto che non si riproducesse mai in una
università l'identico programma d'un'altra; ma le sole
scienze generali e necessarie, le sole scienze preliminari e
accompagnatorie fossero uniformi in più facultà; ma
gli altri studii costituissero corsi affatto speciali, proprii
ciascuno di ciascuna università. E così per esempio,
supposto che avessimo in Italia dieci uniformi facultà per
gli ingegneri, ciascuna delle quali avesse dieci catedre, io
intendeva che si ponesse la mira a disporre a poco a poco le cose in
modo che una metà incirca di quelle catedre avesse un
programma uniforme di scienze generali egualmente necessarie per
tutte le varietà dell'insegnamento; ma l'altra metà
delle catedre fosse intesa ad un insegnamento speciale, proprio di
quella sola università. Una delle dieci facultà
d'ingegneri dovrebbe fornire un insegnamento speciale d'alta
matematica, destinato a preparare forti professori di questa
famiglia di scienze, anche per le altre facultà, per i licei
e le scuole tecniche e militari. Questa facultà matematica,
per conservare una certa tradizione locale si potrebbe istituire in
Modena. Un corso speciale d'ingegneri agronomi sarebbe da istituirsi
in Pavia. E così sarebbe ad assegnarsi ad altra opportuna
città un corso d'ingegneri idraulici, censuarii, maremmani,
navali, ferroviarii, meccanici senza obliare un ramo di bella
architettura. E ora aggiungerei un ramo di buona e provida
architettura campestre e urbana nelle sue più modeste e utili
e salubri forme.
Dato che in ogni università questi corsi avessero cinque
catedre generali, epperò uniformi, e cinque catedre speciali,
epperò diverse in ogni università, si avrebbero con
una equivalente spesa nelle dieci università cinque rami
d'insegnamento uniformi in tutte e cinquanta rami speciali e tutti
variati. Perloché codesto studio degli ingegneri che ora
nelle dieci università colla spesa di cento catedre darebbe
soli dieci rami d'insegnamento, allora, pur con cento catedre,
darebbe cinquantacinque rami, dei quali cinque soli sarebbero
uniformi da per tutto.
Applicato il medesimo principio alla facultà medica, alla
legale, all'amministrativa, all'industriale, si avrebbero più
centinaja di rami speciali d'insegnamento; e dal complesso di tutte
le facultà così sviluppate, surgerebbe una sola e
grande e vera universitas studiorum, come s'intese quando le
università furono primamente instituite coi poveri materiali
che il medio evo poteva offrire. E in luogo d'una misera e servile e
sterile uniformità, l'Italia darebbe l'esempio d'una
splendida enciclopedia nazionale.
Per aumentare vie più la divisione del lavoro e la
intensità dell'insegnamento, si dovrebbero ammettere in
ciascuna università corsi liberi e occasionali da chi potesse
apportarvi qualche ordine nuovo d'idee. Con questi corsi liberi e
originali li aspiranti alle catedre si farebbero conoscere in ben
altro modo che colla usanza delle terne, consegnate ai favori di
amministratori non sempre competenti.
Parimenti i veterani delle facultà che attendessero
notoriamente a studii di scoperta e ne dessero annuo saggio,
potrebbero cedere una parte della quotidiana fatica ed esporre poi
le loro dottrine in lezioni volontarie aperte a tutti.
Anzi io proposi che una facultà di Scienze Nuove si aprisse
in Roma; e che a questi giochi olimpici dell'Italia pensante,
fossero invitati con alta ospitalità i più gloriosi
campioni della scienza straniera. Sarebbe una festa del genere
umano, la festa del libero pensiero: Libertà e Verità.
Io conchiudeva allora dicendo: «che ad ogni ramo speciale di
scienza si potrebbe aggiungere una relativa appendice militare;
perché ad ogni più alto pensiero la gioventù
deve sempre intessere un pensiero di guerra, come il popolo che
rialzando dalle ruine la sacra sua città: unâ manu
faciebat opus et alterâ tenebat gladium (Esdra, XI, 4)».