Avviso al lettore.
La lotta fra il popolo cisalpino e l'esercito austriaco, nel marzo
del 1848, venne descritta da molti in Italia, in Germania e altrove;
ma ogni scrittore o si assunse di parlar solamente d'una o d'altra
delle provincie: o abbracciandole tutte, pose in luce solo quei
particolari che, secondo l'animo suo, gli tornavano a proposito.
Pago taluno di valersi delle fonti per sé medesimo, non
trascrisse i documenti; i quali pure, in altra mano, avrebbero
potuto essere strumento a nuove induzioni ed emende. Le date vennero
neglette e trasposte; onde molti fatti parvero cause d'altri fatti,
i quali si erano compiuti prima. Perlochè il concetto
generale di quegli avvenimenti riesci, anche nei più sinceri
scrittori, declinante in molte parti dal vero. Epperò ne
corrono false opinioni, fomentate inoltre da coloro non pochi che
scrissero con manifesto disegno di rimescolare e ottenebrare le
cose. - L'istoria, non essendo così testimone dei tempi, non
può essere maestra della vita.
Noi pertanto abbiamo preso a raccogliere e ordinare per tempo e per
luogo tutti i documenti dei municipi e dei comitati in tutte le
provincie, tutti gli scritti che incitarono il popolo alle armi, e
quelli assai più numerosi che lo esortarono alla pace, e
quanti potemmo rinvenire degli ordini e avvisi che si spargevano in
mezzo al combattimento. Abbiamo adunato dispacci di generali,
lettere di principi, capitolazioni di truppe, carteggi di consoli,
testimonianze d'officiali, di soldati, d'operai, di prigionieri, di
stranieri, di donne: nomi di morti e di feriti: nomi di edifici arsi
od espugnati: nomi di battaglioni, onde chiarire di quali nazioni e
di quali forze il popolo ebbe vittoria.
Ci vennero fornite molte narrazioni inedite di fatti particolari,
quali sono: la presa del palazzo di governo in Milano, la difesa del
palazzo municipale, i patimenti degli ostaggi in Castello: le cause
che necessitarono il nemico a notturna fuga e le terribili
circostanze che la seguirono: la vantata missione del conte Enrico
Martini: i casi poco noti di Verona e di Mantova. onde si palesa
come quelle due fortezze tenute in sì gran conto dai
militari, rimanessero per più giorni trastullo quasi del
popolo, e per fatto di chi ricadessero di nuovo in poter del nemico,
quasi che i cittadini s'avvedessero dell'irreparabile danno. E in
questo e in molti altri indicii, già vengono adombrandosi
quelle occulte influenze che avvolsero fin dal primo nascere la
rivoluzione, e la strinsero in mano ad uomini i quali altro volevano
in essa da ciò che le rivoluzioni danno e le rivoluzioni
sono.
Dai molti opuscoli che narrano i fatti delle singole città, e
principalmente quelli di Milano, di Como, di Brescia, e dalle
relazioni sparse nei giornali intorno ai fatti di Pavia, di Monza,
di Bergamo, di Crema, abbiamo tolto i brani veramente e seriamente
narrativi; e li porgiamo come estratti, benchè abbiano invero
tutto l'intrinseco valore di citazioni. Perocchè, in nessun
caso ne abbiamo fatto rimpasto; ma solo abbiamo omesso le parole
superflue. Vogliamo dire: tutto quel farcirne di gloriosi aggettivi
e d'avverbi, coi quali gli scrittori di questa rivoluzione ambirono
piuttosto mostrarsi contemporanei di Gioberti, che posteri di
Machiavello.
Di codesti estratti abbiamo però sempre additato le fonti,
affinchè chi diffidasse dell'opera nostra, potesse avervi il
rimedio in mano. Ma è giusto che il lettore benevolo sappia a
che veramente la fatica nostra intorno a ciò si ridusse: onde
ne allegheremo un esempio. Si narra a p. 263 che un lattivendolo
«tormentò il nemico, uccidendo alcuni cannonieri
nell'atto che stavano per dare il foco». Chi avesse trascritto
per intero l'originale, avrebbe aggiunto di più: che il
lattivendolo «va distinto tra i più valorosi
combattenti delle barricate, durante i cinque giorni». Il che
ben s'intende, e non aggiunge alcun particolare al fatto; e
perciò abbiamo espunto ogni siffatta prolissità
laudativa, come ingombro alla mole e al dispendio del volume. Sia
però detto che ci siamo presa codesta briga solo per le
narrazioni, e non mai per i documenti; i quali, comunque verbosi e
vacui, diamo sempre interi e genuini.
A risparmio di note, abbiamo segnato con diverso carattere quei
tratti sui quali ci parve che la mente del lettore non dovesse
lasciarsi trascorrere affatto inavvertita.
D'un medesimo fatto non abbiamo esitato a dare anco due e tre
versioni, o perchè descritto con altro corredo di
circostanze, o perchè le testimonianze e confessioni di
stranieri o nemici ne parvero opportuna conferma alla verità.
Alquanto rigidi siamo stati nel ripetere le lodi prodigate a quei
tempi a certuni, e negate ingiustamente ad altri. Chi fu già
lodato, ne sia contento.
Non tornerà forse gradito agli scrittori che la maggior parte
delle narrazioni vennero da noi, per quanto si poté, spezzate
a giorno a giorno. Ma è cosa di sommo momento istorico, per
determinare ciò che nei singoli giorni venne nei singoli
luoghi operato. Questa accurata e continua registratura dei fatti
nei luoghi e nei tempi, basta a rimovere molti falsi concetti: a
cagion d'esempio, quello che i popoli delle pianure furono
più lenti a insurgere che quelli dei monti. Ben al contrario,
si vedono i giovani della pianura perigliarsi in campo aperto sotto
le mura di Milano fin dal secondo giorno; e dopo il quinto, quando
il nemico era già espulso dalla città, si vedono le
squadre dei montanari pernottare ancora a mezza via dalla
città. La sola squadra di Lecco potè giungere alle
porte e penetrare in città prima che spuntassero a Porta
Comàsina le colonne nemiche in ritirata; e perciò
appunto lasciò loro, senza avvedersi, libera quella stretta;
che se fosse giunta qualche ora più tardi, vi avrebbe forse
fatto, nelle tenebre, decisivo ostacolo. Lo stesso dicasi del
passaggio di Benedek pel ponte di Pizzighettone; che gli sarebbe
stato impossibile s'ei fosse giunto il dì prima, quando i
municipali di Cremona non avevano ancora levato dalla fortezza le
artiglierie, le munizioni e i difensori, per farne difesa alla loro
città. Lo stesso dicasi dei quattro giorni che Brescia
indugiò a cominciare il combattimento; onde, conoscendo
l'indole di quel popolo, possiamo indurre a misura di tempo qual
potere esercitasse sopra di esso la fatale congrega nella quale pose
allora e poi l'ostinata sua fede. Tutti questi lumi si perdono, ove
la mente non si leghi strettamente alla successione dei fatti.
È questa la cronologia di cinque giorni e la geografia di
cento miglia di paese. Eppure, anche in sì piccola
proporzione, appare savio il detto di chi chiamò geografia e
cronologia le due faci d'ogni istoria. E le fatiche nostre sono
preparazione all'istoria.
Il ravvicinamento delle date viene inoltre a dimostrare che mentre
ardeva già la guerra a Milano, a Venezia, a Parma, a Modena,
e correvano alle armi Toscana e Roma, gli esuli più illustri
in Parigi, o appena ne avevano sentore, o mandavano ai popoli
consiglio d'indugi e di pace. Onde si prova erronea l'opinione dei
governanti, i quali allora, non meno che adesso, o sognavano o
mentivano che il moto naturale delle moltitudini provenisse da
secreto cenno di pochi e lontani: o ignari o avversi.
E la data certa aggiunge significato anche a certe menzogne, diffuse
allora da fogli formalmente stipendiati in Firenze, in Parigi e
altrove, in cui si attribuì risolutamente la vittoria d'un
popolo a chi stava inoperoso e torpido a contemplarla da lontano e
non senza farvi ogni possibile impedimento. Cominciavano allora a
frodarci la gloria quelle mani stesse che poi ci contaminarono
l'onore.
E qui non si chiude solo la materia d'una istoria, ma quasi un vasto
poema. Prove insigni di valore e pietà: prove nefande
d'immanità e perfidia: da un lato, l'urlo dell'allarme e
l'evviva della vittoria; dall'altro il gemito della prigionia e
della disperazione; gli uni, coll'armi in mano, pietosi al nemico
ferito; gli altri, fuggitivi dalla pugna, vaganti a trucidare fra
orti solitari le donne derelitte, o a trarle piangenti e sanguinanti
allo scellerato Castello: al Castello, antro di Polifemo, ove la
vendetta siede a codardo giudicio, e insulta ai cadaveri mutilati;
ove una stolida dissimulazione accumula un immenso rogo per
distruggervi le vestigia della sconfitta e delia crudeltà; il
battere di duecento campane, che risponde al fragore di sessanta
cannoni; la pioggia dirotta che spegne sulle piazze i fochi notturni
del soldato; la luna che spunta tra le nubi conturbando con tetra
eclisse le barbare fantasie; il terrore del veleno che rattiene i
famelici croati col pane in pugno; lunghe file di case incendiate,
fra cui densi battaglioni s'aprono furtivo scampo; il sole che sui
candidi pinnacoli del Duomo saluta il vittorioso tricolore; i
palloni volanti che spargono alle turbe campestri la parola dei
combattenti. V'è persino quella vena di scherno che accoppia
nei grandi poeti Ettore e Tersite, Farfarello e Ugolino, Hamleto e
Falstaff. - «Il barone Torresani è qui mezzo
morto», - scrive la contessa Spaur dal Castello. Il conte
Bolza, sopravvissuto a tante esecrazioni, vien salvato dalla
ridicola bruttezza della sua spaventata figura. Chi non
sorriderà del conte O' Donnell sul balcone di Monforte in
coccarda tricolore? Chi non sorriderà del regio messo
travestito da Giovannino? o del colloquio fra il commissario Bossi
in abito di spada e Kadetzky seduto sulle macerie del ponte di
Marignano?
E come in Dante e in Shakespeare qui tutti parlano quali li fece
natura; stizzosi arciduchi e generosi operai; marescialli e
podestà; soldati e donne; vigliacchi e valorosi. È un
poema fatto da tutti, e scritto da tutti. È la dottrina di
Vico controprovata da un esempio vivente e presente. E perciò
questo centone, che per noi fu solo opera di devota e quasi servile
pazienza, varrà facilmente più di qualunque opera
d'ingegno si potesse poscia stillarne.
Udiamo che, prima d'uscire, questo volume ha già gli onori
della proscrizione, anche in Piemonte. Pur troppo v'ha in certuni
irrefragabile fratellanza di odii e d'amori col nemico d'Italia; ma
li avremmo stimati astuti tanto da dissimularla.
31 maggio 1851.
I
Si fanno stupore l'Azeglio ed altri come l'Austria, in trent'anni e
più, non sia pervenuta a spegnere nei nostri popoli l'animo
italiano. Con che vengono quasi a significare che l'Austria non
volle o non seppe operare con quant'efficacia poteva, e che con
più diuturno proposito ben potrebbe sperare compimento
all'impresa.
Ben altra è la ragione vera delle cose. La coscienza
esplicita e solenne d'una vita comune e nazionale è fatto
nuovo e proprio del secolo; si svegliò, a memoria nostra, in
Germania tra le guerre francesi; e si svegliò in Italia
appunto sotto l'assidua doccia dell'austriaca importunità.
Dovrebbero i mali avvisati scrittori farsi piuttosto meraviglia che
il corso di tant'anni fosse necessario a dar vita a un affetto che
parrebbe dover surgere spontaneo dalla cuna stessa dei popoli.
Dovrebbero dire che ad una siffatta forza, continua, e crescente, e
già pervenuta a formidabile manifestazione nel 1848, oggimai
ben pochi stimoli si debbano aggiungere, sia dai nemici, sia dagli
amici, per renderla in breve termine vittoriosa.
Napoleone, dando nome e armi e vessillo al regno italico, e nel
natale di suo figlio porgendo speranza d'un re che ci unisse tutti
in Roma, aveva piuttosto assopito che desto lo spirito nazionale;
poichè siffatte onoranze e aspettazioni mitigavano la molesta
verità del dominio francese. Ma se militari e magistrati si
compiacevano del teatrale apparato, nelle sobrie menti del vulgo
quel tempo rimase sempre, come veramente era: «il tempo dei
francesi»; essendo poi vero altresì che quelle memorie
non gli riuscirono umilianti nè amare. Ciò che allora
cruciava veramente il popolo, non era la presenza dei francesi: la
coscienza nazionale non era popolarmente attuata. Ma era l'insolito
peso della milizia in lontane spedizioni; era la vessatrice finanza
e il divieto continentale che contrastava alle famiglie molti
oggetti di domestica consuetudine; era il sospetto, instillato ogni
dì dai frati e dai patrizii, che la religione fosse
insidiata, e che la dimora del pontefice in qualunque città
fuori di Roma fosse pel genere umano calamità maggiore della
guerra e della peste. Napoleone, non pago d'esser benedetto dalla
vittoria, aveva mendicato aspersioni e unzioni; e dopo aver rimessi
a galla gli ambiziosi prelati, voleva domarli: e non colla
libertà del pensiero, ma colla gretta forza. E non osò
rispondere alle loro scommuniche, spalancando loro in faccia il
testo degli evangelii, e sconsacrandoli nel giudicio dei popoli.
Venne la santa alleanza, tutta infiorata di lusinghe e di promesse;
e in breve si riscossero i popoli sovra letto di spine. Uscirono,
come stormo di gufi, a occupare i troni della penisola le incipriate
prosapie che si erano nascoste, durante la guerra, nei confessionali
di Sicilia e di Sardegna. E venne secoloro una mascherata di
cavalieri d'ogni croce, e di prelati e frati d'ogni tonaca; e
presero a tiranneggiare le genti, e ammaestrarle ad ogni impostura e
codardia. Il pontefice fu restituito; e tosto si vide nelle
improvide Romagne uno spettacolo di catene e di torture, e di sicari
e di carnefici, e uno strazio della giustizia e della ragione, al
quale rimase solo freno il coltello della vendetta.
Infatti sarebbe stato ben agevole agli oppressi scuotersi di dosso
quegli imbelli. Ma ogniqualvolta il tentarono, primachè
avessero spazio di ordinarsi a governo, e prima che potessero
svegliare a comune difesa gli smemorati popoli, si trovarono a
fronte gli eserciti imperiali. E tra la forza straniera e le
prelatizie insidie, i più generosi moti riuscirono solo al
disordine e alla fuga. Chi aveva anelato a un campo di gloria,
moriva sul patibolo; e il sangue versato senza battaglia,
anzichè rendere onore alla patria, metteva una macchia di
viltà sul nostro nome.
Intanto l'odio, che prima si divideva sopra i singoli tiranni, si
accentrò naturalmente contro quella potenza che tutti li
proteggeva. Milano e Palermo, la Romagna e la Calabria, non avevano
nei passati secoli avuto mai pensiero di tutela commune;
poichè il pontefice, invocatore perpetuo degli stranieri,
aveva sempre mandato a ciascun popolo un diverso dominatore da
combattere o da soffrire. Ma ora l'Austria, sola, pareva delegata
dall'Europa a far disonorata e infelice tutta la nazione. Adunque i
popoli d'Italia non riuscirono alla fratellanza dell'amore, se non
dopo essersi incontrati nella communanza dell'odio. Questo è
beneficio che devono al nemico. Fu allora che ricordarono con dolore
Napoleone, e le armi da lui date invano all'Italia e il glorioso
vessillo del suo regno. Anche i liguri e i subalpini e i toscani che
non avevano portato in guerra quei colori, li adottarono a segno di
unità; e persino i carbonari dell'estrema Calabria che li
avevano odiati e combattuti, li accettarono tramutando in bianco il
nero del mistico loro tricolore.
Perchè l'Austriaco non seguì l'esempio di Napoleone,
di conciliare alla sua potenza i naturali affetti dei sudditi
italiani? Perchè non volse a suo profitto la malvagità
dei prelati e dei principi; e al primo fremito di popolo non si
frappose, vindice del secolo e giudice degli oppressori? Non era
quello l'antico pretesto alle incursioni degli Ottoni e degli
Arrighi? Nè importava che inviasse le truci caterve della
Croazia, ma colle insegne del regno italico i fratelli italiani; i
quali senza sangue, potevano acquistargli le ambite Legazioni, e
quant'altro gli convenisse. Nè sarebbe mancato adulatore che
dicesse esser quello un voto consegnato da cinque secoli nella
Monarchia di Dante.
Ma quell'Austria federale che aveva potuto nello stesso tempo
governare le Fiandre col consiglio di vescovi intolleranti, e Milano
con quello di audaci pensatori, e regnare in Ungaria col libero voto
di genti armate, erasi estinta con Maria Teresa. Già con
Giuseppe di Lorena erano tese d'ogni parte le stringhe dell'aulica
centralità. E dalle Fiandre fino alla Transilvania,
cominciarono a riluttare con insoliti tumulti le popolazioni. Nelle
guerre napoleoniche, il governo austriaco si compose ognora
più a dittatoria rigidezza; mentre colla perdita delle
più remote appendici, e coll'usurpazione di Salisburgo, di
Trento, della Venezia e della Valtellina, erasi meglio spianato il
campo a materiale unità. Per farsi strettamente una,
l'Austria doveva preferire una lingua fra dieci: elevare a dominio
una minoranza: configgere sul letto di Procuste tutte l'altre
nazioni. Da quel momento, ella s'avvinse a una catena d'inique
necessità, che la trassero di grado in grado agli eccidi
della Galizia e ai patiboli dell'Ungaria. In cospetto ai quali,
è poco il dire ch'ella tolse alle provincie italiane le armi,
la bandiera, il pubblico onore e la privata sicurezza. Ogni passo
ch'ella faceva dietro il sogno dell'unità, addolorava e
inimicava un ordine di cittadini; destava in tutti il fremito del
sangue italiano. La coscienza nazionale è come l'io degli
ideologi, che si accorge di sè nell'urto col non io. Ella si
svolse prima in coloro che avevano più bisogno di
libertà negli studi, nei commerci, nei viaggi; e
perciò erano in più frequente penoso conflitto cogli
interessi dello straniero, coll'ignoranza sua, coll'arroganza,
coll'eterno e implacabile sospetto. Poi si destò mano mano,
anche nei magistrati, ch'erano pure accuratamente spiati e trascelti
a essere arnesi di obedienza: nei sacerdoti, benchè domati
dall'episcopale superbia a tradurre anche l'evangelio in dottrina di
servitù: nei contadini, benchè tenuti dagli avari e
gelosi padroni quanto più vicino si potesse alla natura di
bestiami: per ultimo nei cortigiani medesimi, a cui le dovizie e la
nobiltà non sembravano presidio alla dignità del
vivere, ma diritto ad andare inanzi a tutti nella viltà.
Questa mutazione degli animi era lenta, ma continua, universale;
irreparabile a qualsiasi scaltrimento di polizia. Che anzi, dopo
alcun tempo, cominciò ad accelerarsi, come certe
velocità, in ragioni geometriche, mentre le forze morali del
governo declinavano visibilmente, come le velocità dei
proiettili da guerra. Infine rimase spenta affatto ogni tradizione
d'amore e di rispetto; e allora gli eserciti, che dovevano difendere
lo stato dai nemici esterni, vennero ritorti contro la patria,
simili al pugnale del suicida. Intanto nel governo austriaco l'odio
contro la nazionalità italiana si faceva più aspro e
cavilloso. Gli spiaceva perfino il nome d'Italia; lo voleva
dissimulato nei libri, cancellato nelle carte. E al contrario lo
scolpiva viepiù nelle menti; lo chiamava sulle labbra; se lo
vedeva scritto da mani notturne sulle muraglie delle città.
Una indomita riluttanza serrava sempre più il fascio dei
popoli italiani; era come la polve di plàtino che s'incorpora
sotto il martello.
Nondimeno tanto mite era la natura dei lombardo-veneti, che in
trent'anni non si levarono nè una volta sola a tumulto. E
davano soldati e denari al sovrano, e guadagni sempre più
sfacciati a' suoi satelliti e banchieri; e pagavano quella brutta
servitù ben più caro che ai loro vicini non costasse
l'onore e la sicurtà. Eppur non valse. Come la vecchierella
d'Esopo sventrò la gallina perchè le faceva le ova
d'oro, così l'Austria si ridusse a manomettere colle sciabole
quel popolo i cui sudori più fruttavano alle sue finanze.
Quando in settembre del 1847 corse in Milano il primo sangue, egli
fu perchè il popolo si rallegrava di vedere ingrassata dei
beni della sua chiesa piuttosto una famiglia italiana che una
straniera. Nè il governo aveva aspettato finchè quella
incauta allegria si mostrasse; ma aveva fatto arrotare le sciabole
otto giorni prima. E per più mesi ancora, fin presso al
gennaio, si udirono quasi solo le voci dei magistrati, che
imploravano sommessamente le più temperate riforme. Ebbene,
fra i documenti si rileva come l'ordinanza che abbandonò le
vite dei cittadini ai capricci del giudicio improviso, fosse
già preparata in Vienna il 24 novembre, mentre solo all'8
dicembre il Nazari diede il primo cenno d'opposizione. Nè
propriamente sarebbe a dirsi oppositore quel magistrato che invoca
qualche provedimento, per adempiere al suo officio, e pel desiderio
che «il suo monarca sia da per tutto e da tutti adorato e
benedetto». In risposta a siffatte genuflessioni, era adunque
da due settimane già preordinato in Vienna il patibolo! Ed il
benigno vicerè, per prima accoglienza ai devoti preghi del
Nazari, comandava alla polizia di tendergli i suoi lacci. No, non
poteva l'Austria tollerare alcuna supplica; perchè non poteva
fare alcuna concessione, senza infrangere il fatto ch'erasi imposta
d'inesorabile unità.
Vacillavano intanto le finanze austriache sotto il peso assiduo
dell'esercito stanziale, ch'era oggimai l'unico vincolo tra le
ripugnanti membra dello stato. Anzi una necessità ogni di
più imperiosa ingiungeva che l'esercito d'Italia, da 36 mila
uomini che contava nell'agosto 1847, fosse recato a ben 73 mila al
1º febraio, e cresciuto poi, nel corso di quel mese e del
seguente, fin oltre 80 mila. Ed era ancor poco ai generali, a cui
pareva affogare tra le popolazioni, da loro stessi rese unanimi
nell'ira. Anelavano essi a invadere gli altri stati italiani, a
impedire che Roma armata divenisse caposaldo alla nazione, a
impedire che la sollevazione di Sicilia si propagasse in terraferma.
E avevano calcolato che per fare una spedizione anche con soli 26
mila soldati, erano costretti di lasciare alla custodia di Milano
soli 6 battaglioni: soli 4 all'immenso circuito di Venezia, che ha
70 punti fortificati: 1 solo nell'armigera provincia di Brescia: 1
in quella di Bergamo: 1 in quella di Como: tre battaglioni adunque
in tre montuose provincie che fanno più d'un milione
d'abitanti! - Di cavalleria avrebbero dovuto lasciare soli 4
squadroni in Milano: 1 nel resto delle provincie lombarde: mezzo
squadrone in tutta la Venezia! - E i cannoni da campo dovendosi
recare in buon numero nella spedizione, ne dovevano rimanere 6 pezzi
in Milano, e nessun altro in tutto quanto il regno. Ora, a domare la
sola Milano non valsero poi 60 cannoni e 16 battaglioni. I generali
ciò forse prevedendo, dimandavano dunque altri soldati; e
protestavano di averne bisogno almeno 150 mila. E chiedevano denari
in copia per cingere Milano di 16 fortezze, capaci di 500 a 600
uomini ciascuna. Aiuto singolare alle finanze!
E colla speranza della prossima spedizione, decretavano a se stessi
(altro singolare aiuto alle finanze), la mezza paga di guerra; e
rumoreggiavano sulle porte dello Stato romano e dei Ducati, e
minacciavano la Toscana. E nella gazzetta d'Augusta sfogavano il
loro furore, ciò che non potevasi fare nei fogli responsabili
e censurati dell'imperio; e perchè sapevano ch'era letta in
Italia, e volevano ad ogni modo provocare gli italiani per poterli
trucidare prima che fossero armati, li chiamavano razza comica,
ciarlatanesca, burlesca. E nei caffè si vantavano d'avere
scritto, di propria mano, quelle contumelie. E mettevano fuori
ordinanze altisonanti, che riducevano ogni ragione alla spada, come
in terra d'Asia; ordinanze che parvero allora strane e barbare,
nè in Italia solo, ma perfino alla parziale Inghilterra; e
parvero poi davvero comiche e burlesche, quando al primo ruggito del
popolo i fuggitivi eroi gli lasciarono in mano quella medesima
spada. E con tutto ciò non facevano paura a nessuno;
solamente destavano all'armi Roma e la pacifica Toscana; e rompevano
i gesuitici sonni perfino a C. Alberto. Di rimando, si facevano in
tutte le chiese d'Italia funebri espiazioni per gli inermi scannati
di Milano, e questue in ogni città pei feriti e per gli
orfanelli. E così ogni atto dell'Austria accendeva vie
più quell'animo italiano ch'ella intendeva di spegnere.
Certo se quella spedizione si fosse fatta, e gli austriaci si
fossero disseminati qua e là per l'Italia, lasciando i 6
cannoni nel Lombardo-Veneto, tanto meno, allo scoppiar
dell'insurrezione, avrebbero potuto raccogliersi e salvarsi. Ma
riparò alla loro furia l'astuzia dei cardinali, che si
opposero a tutta forza, fingendo anzi, i più dediti
all'Austria, di volersi fare capitani del popolo contro lo
straniero. E l'Inghilterra, amorosa tutrice dell'Austria delirante,
fece ogni opera per rattenerla sui confini; sicchè non si
oltrepassò Ferrara e Modena; e si lasciò cadere il
disegno che si aveva di eludere le apprensioni dei cardinali,
tragittando per mare un esercito nel regno di Napoli. E ancora i
generali che si lagnavano delle scarse forze, vedevano solo negli
eserciti la massa; e non intendevano quanto quella forza ancora
fosse scemata per effetto delle nazionalità. L'italianissimo
Durando, nel suo libro Della nazionalità, aveva ammonito
fraternamente gli austriaci a non fidarsi dei reggimenti italiani, e
a non appagarsi tampoco di relegarli sulle frontiere turche, ove
potevano disertare, e incorporarli per compagnie nelle guarnigioni
più lontane. Ma essi non avevano badato. Ora in quei loro 73
mila soldati, almeno 33 mila erano italiani del Lombardo-Veneto, del
Tirolo, della Gorizia e dell'Istria; e 11 mila almeno erano
ungaresi: tutta gente il cui animo già ripugnava alla
bandiera. I rimanenti (meno di 30 mila), o erano slavi del tutto, o
un misto discorde di teutoni e di slavi. Il paese interamente
tedesco, l'Austria arciducale, in cui nome si faceva la guerra,
aveva tra i 57 battaglioni di quell'esercito un solo battaglione con
un reggimento di cavalli. Due altri battaglioni erano pure tedeschi,
ma del Tirolo. E i savii di Francoforte si papparono poi la gloria
austriaca come gloria tedesca; e versarono sulle austriache
crudeltà assoluzioni indegne della scienza, e della patria e
del secolo. E parimenti l'Italia era ammaestrata a gridare: fuori il
tedesco! Anch'essa vedeva solo la guerra delle armi, contava solo le
baionette; e non intendeva in altrui quel principio che traeva lei
medesima alla guerra. Vedeva solo i tedeschi, che non v'erano; e non
vedeva le radici intestine della potenza straniera; non vedeva
coloro che, cacciati i tedeschi, avrebbero chiamati i francesi e gli
spagnuoli, e si vantavano d'aver duecento milioni di schiavi; e se
quei non bastassero, avrebbero chiamati i beduini e i turchi; e
infine avrebbero imprecato sulla loro patria le potenze
dell'inferno. E v'era, in Italia, chi non voleva ch'ella si
ricordasse che gli eserciti sono lame a due tagli, e che dagli
eserciti erano surti i moti del 1815, del 1820, del 1821. E
così l'Italia correva a premature ostilità, quasi
temesse d'aver tempo ad armarsi, quasi le dolesse lasciar agio alla
mole nemica di sconnettersi, e all'Ungaria di chiarirsi qual era.
Gli austriaci avevano speranza in quella fretta degl'italiani; e
abbiamo ansa a indurre che le uccisioni di Milano, di Bergamo, di
Padova e di Pavia non fossero se non modi di giustificare da un
lato, in faccia all'Inghilterra, le meditate invasioni, e
d'avvalorare dall'altro la dimanda di nuove truppe. Accadevano in un
medesimo giorno i fatti di Padova e di Pavia; e si era ordinato anzi
tempo che la gazzetta d'Augusta attribuisse immantinente quella
simultaneità alla mano delle società secrete.
Senonchè il corrispondente che inviava dallo stato-maggiore a
quella gazzetta le anticipate narrazioni, sbagliava le date: citava,
a Milano, sin dal giorno 9 febraio, la gazzetta di Venezia del
giorno 11; e così da istoriografo si palesava profeta. A
Padova dunque e a Pavia, come a Milano, a Ferrara, a Bergamo, a
Brescia, a Modena, vediamo costantemente gli austriaci, armati,
sollecitare a conflitto gli inermi; dare il segnale degli assalti;
far essi ciò che avrebbero dovuto fare i ribelli. A che pro
dunque andar cercando nelle società secrete l'unico fomite
che propagò l'odio ai tedeschi e lo spinse fino alla guerra?
Davvero che l'Austria bastava!
Noi dimandiamo se fossero più dannosi nemici alle austriache
finanze coloro che col demolire le imposte del tabacco e del lotto
sottraevano 15 milioni di reddito lordo, ma solo 6 milioni di
nitido: o coloro che la consigliavano a persistere nella ingiustizia
sua contro la nazione italiana, a costo anche di dover accrescere
l'esercito da 36 mila uomini a 150 mila. Quest'aggiunta di 114 mila
soldati per una sola nazione dell'imperio (nè l'altre nazioni
erano gran fatto più tranquille), quanti milioni doveva
divorare in un anno? e quanti in due, in tre anni? Centinaia senza
dubbio; ben altra cosa che i 6 milioni del lotto e del tabacco. Le
inconsulte spese dovevano render necessarii nuovi debiti e nuove
imposte; quindi altri impacci e altre molestie da infliggersi alle
nazioni già stanche: quindi inaspriti più gli odi: e
affrettato l'inevitabile divorzio, l'inevitabile partaggio della
monarchia. E perciò i due vicini, che potevano aver
più guadagno da quel disfacimento, tanto più
apertamente fomentavano le discordie: la Russia aizzando i
governanti: e la Sardegna, i governati. Il consiglio di farsi
moderata, e anche costituzionale, almeno nel Lombardo-Veneto, non
venne all'Austria da quei due alleati che avevano interesse a
vederla convulsa e smembrata; ma sì dall'Inghilterra che
voleva, a proprio commodo e servizio, averla tranquilla e forte.
Vigilava questa desiosamente ogni occasione che potesse ricondurre
gli ottimati ai loro antichi amori colla casa d'Austria; e
sperò che a questo giovasse almeno la nuova della repubblica
risurta in Francia. E infatti i milanesi, al dire della stessa
Opinione, furono commossi dalla mansuetudine dell'imperatrice, che,
riprovando le soldatesche sceleratezze, inviava al conte Borromeo
molto denaro in soccorso ai poveri. E finchè il vicerè
parve propizio ai cittadini, questi si rivolsero candidamente a lui.
E Borromeo, il quale poco fidava in Carlo Alberto, giunse persino a
suggerire al vicerè speranze di regno, che «il cupo
principe» udiva non senza commozione. Ma v'era a lato ai
principi chi gli spingeva al precipizio, chi voleva il sangue per
avere il denaro. E lo stesso general Willisen, adulatore di
Radetzky, accenna a questa sequela di cose, ma senza intenderle.
All'annuncio del sangue versato in Milano, l'Azeglio gettava la sua
maschera di moderatore e di paciero, e prorompeva in fanatico
tripudio: «Il fatto è compiuto», egli scriveva.
«Or io dico all'Italia: Rallégrati! L'Austria è
ridutta all'assassinio! L'Austria assassina!». Senonchè
la volpe aristocratica non intendeva tutto il terribile mistero di
quel sangue. Il quale, se stillava desiderato e dilettoso ai cupidi
marescialli e agli ambiziosi di Pietroburgo e di Torino, era pur
desiderato da altri a più alto proposito. «Quando si
mise l'Austria al punto di sguinzagliare i suoi croati, corse per
tutta Italia un grido, che ripiombò sul core de' principi,
complici dell'Austria». Ora qual politica strana è
questa dell'Austria, che rallegra tutti quanti i suoi nemici?
Si vede dai documenti della diplomazia britannica, che la famosa
fuga di Pio IX, la quale fu poi compiuta in novembre del 1848, erasi
già meditata e tentata a mezzo luglio del 1847, parecchie
settimane prima che i buoni milanesi si facessero ammazzare,
cantando per le vie il santissimo nome. Intanto che la curia
pontificia burlava la gente colle proteste di Ferrara, assoldava in
Roma i sicari di Faenza, e pregava di soppiatto Metternich a tenersi
pronto coll'esercito ad aiutarla nel momento del macello. Ma se la
fuga compiuta necessitò poscia il popolo romano a proclamar
la repubblica, la fuga tentata gli era stata il segnale
dell'armamento. Colla tracotante passeggiata di Ferrara, l'Austria
medesima aveva posto le armi in pugno ai Romani. E non appena si
sentirono armati, divennero, come sempre accade, più aperti e
imperiosi; e si stancarono in breve di cacciarsi inanzi cogli
applausi e colle adorazioni lo svogliato pontefice. Il terremoto
popolare di Roma si propagò alla sempre agitata Calabria;
scosse ancora più profondamente la Sicilia; di là
varcò da capo il mare, e atterrì così
fattamente il re di Napoli, ch'egli denunciò il patto che lo
legava ai tre despoti del settentrione e fremendo e piangendo
giurò inanzi al popolo e a Dio una costituzione. Questo
repentino trabalzo spinse fuori del cerchiello delle riforme gli
altri principi d'Italia, che stillando di tempo in tempo qualche
minuto beneficio, speravano regnare gloriosi e adorati per molti
anni ancora. E il Piemonte stesso si agitò sotto la cappa
gesuitica che il re gli teneva indosso. Onde Carlo Alberto, che
aveva punito con dodici anni di carcere un evviva all'Italia, e che
pochi mesi addietro derideva nel suo Cesare Balbo certe
velleità costituzionali, fu costretto, dopo vane riluttanze,
a cedere ai prudenti consigli britannici, e farsi dimandare in
fretta dal municipio di Torino quello statuto in cui gli adulatori
dell'Opinione e del Risorgimento raffigurarono poi le tracce di 18
anni di sapienza e di meditazione. E si preparava al doloroso passo
di sottoscrivere lo statuto, come altri si sarebbe preparato alla
morte.
In quel frattempo i malaccorti sussidi forniti dall'Austria, dalla
Francia e dal Piemonte ai segregati Svizzeri, invece d'infiammare
vie più la guerra civile, destarono finalmente a pudore gli
onesti animi degli alpigiani, che lasciarono cadere in breve le armi
e si riabbracciarono coi fratelli. La contorta e immorale politica
di Metternich, di Guizot e di Lamargarita andava dunque sbeffata,
non meno in Italia che fuori; si dissipava l'illusione di
quell'ammirata arte di stato; e dallo sdegno popolare sgorgava
improvviso in Parigi il grido di repubblica.
Ai mostruosi fatti di Parigi, come Metternich gli chiamava,
rispondevano in pochi giorni i più inaspettati eventi di
Vienna. Un governo che nelle provincie non riconosceva diritti e
nelle scole insegnava tutte le cose dei sudditi appartenere al
sovrano, ed essere solamente concesse a loro conforto dalla sovrana
clemenza, teneva ugualmente a vile anche il favorito popolo
austriaco in cui nome facevasi maledire dalle provincie. I privilegi
ingordamente accumulati nella capitale vi avevano adescato
un’infinita turba di proletari. Fra le illusioni degli imperanti e
la fattizia floridezza delle industrie, quella spensierata plebe si
moltiplicava, aggiungendo intorno alle anguste mura città a
città. Venne un giorno che uno stuolo di giovani spirò
nella incòndita mole l’alito della coscienza e dell’idea. La
republica teutonica era concetta! Arduo e doloroso è il suo
nascimento, ma inevitabile e fatale. Intanto l’Italia regia
trastullava i popoli colle costituzioni a beneplacito; e avviava di
soppiatto le soldatesche ai confini della Savoia, per intercettare
le correnti magnetiche dell’Hotel de Ville. Essa voleva far da
sè, cioè far astrazione dalla Francia nelle cose
d’Italia e del mondo. Ma nulla valse; poichè ciò che
non voleva di Francia, le giunse di rimbalzo col telegrafo di
Vienna, che apportò a Venezia e Milano, e via via di
città in città, la scintilla della ribellione. A
Venezia risurse dalla fida memoria del popolo la repubblica di San
Marco, deposta dai patrizi, cinquant’anni inanzi, senza ferite nella
tomba. Ma il popolo di Milano, accettava da incauti amici il
consiglio di serbare ad altri giorni il grido della libertà.
Poteva colla caduta di Metternich l'Austria tornar federale, torsi
di collo il capestro della centralità. Era l’unica via di
rifarsi moderna, e cessar d’essere il tormento delle nazioni; ma
essa mutò solo il nome alla vecchia catena. Una costituzione
unitaria che chiamava a una sola assemblea tutte le genti
dell’imperio, tornava assurda e impossibile. In quale mai lingua
doveva essere eloquente l’ungaro al tedesco, o il croato
all’italiano? O doveva ogni deputato condur seco nell’aula delle
dieci favelle il suo turcimanno, come le tribù della Nigrizia
al mercato di Tombuctou? Le nazioni, schierate a fronte in quel
babilonico conciliabolo, in un proposito solo potevano tutti
accordarsi, di ricusar tanto alla ministeriale arroganza.
Perlochè o ricadrebbe ogni cosa nel pristino arbitrio della
corte: o le nazioni, sciogliendo tosto la bizzarra adunanza,
andrebbero a fare meno insensata opera, ciascuna nella patria sua.
L’Austria non volle essere una federazione di popoli se-reggenti;
non volle essere una federazione commerciale, presieduta
splendidamente da una famiglia di dogi ereditari. Ebbene, che
divenne ora l’Austria? Divenne una federazione (sempre una
federazione) di satrapi militari, che tengono la mano sui tributi
delle provincie, e lasciano agli arciduchi una banca vuota, un
titolo svanito, e la responsabilità di quanto d’atroce si
commette in loro nome.
Gli eredi di Metternich furono più ostinati e ciechi di lui.
S’egli aveva infamato i suoi padroni col carcere duro, quelli
aggiunsero le fucilazioni, la mitraglia, l’acqua ragia; profanarono
il sesso col bastone. Se prima le vessazioni auliche avevano
alienato all’imperio i cittadini, ora le rapine e le crudeltà
vilissime gli resero avidi di vendetta, digrignanti, implacabili. Se
prima sarebbersi appagati a impetrare di quando in quando una regale
cortesia, un raddrizzo amministrativo, ora anelano a spezzare e
atterrare ogni reliquia dell’antica maestà.
Le avite libertà ungariche erano un nodo in cui si
intrecciavano con ineguali patti più stirpi fra loro non
amiche. Anche quel vincolo ora è troncato. I laceri brani non
debbono più essere Ungaria, e divenire Germania non possono.
Intanto nello scomposto imperio le innate affinità chiamano a
sè le genti slegate e oscillanti. Di qua l’Italia appella le
sue; e se ne riscuotono anche Trento e Trieste; di là chiama
le sue la Germania; d’altra parte l’Illiria, la Dacia, la Polonia,
l’indomita Ungaria. La Russia ride; e soffia nel foco; e batte
assidua il cuneo della centralità viennese, per dirompere e
sfaldare le male assortite agglomerazioni. Ad alcune tribù fa
sentire il congenito suono della sua lingua; ad altre aggiunge il
fàscino della religione; ad altre le lusinghe della corte, e
l’ammirazione dell’immane sua grandezza; a tutte inspira colla mano
degli aborriti marescialli il furore di nuovi destini. Essa fa di
più; pone la ferrea mano sul caposaldo di tutto l’intreccio.
Perocchè chi erano infine gli uomini che avevano abusato, in
odio alle nazioni, l’aulica onnipotenza? Metternich era uno
straniero; stranieri i Frimont e i Bellegarde. E Haynau, ribrezzo
del genere umano? E la vittima dell’ira popolare, Latour? E Zobel,
carnefice di prigionieri? E chi erano Ficquelmont, e Daspre, e
Nugent, e Wallmoden, e Schönhals, e Culoz, e Dahlerup? E tutti
quei principeschi venturieri di Hohenzollern, di Hohenlohe, di
Homburg, di Coburg, di Reuss, di Würtenberg, di Stollberg in
cui nome s’intitolano tanti reggimenti? E i venturieri della
finanza, i Bruck, i Sina, i Rothschild? Gente che non ha patria,
come i normanni del medio evo, come i filibustieri, gli algerini, i
cardinali, i gesuiti! Nè rappresentarono mai gli interessi
d’alcun popolo dell’imperio; ma erano il nucleo d’un governo
cosmopolitico, incorporeo, astratto. Che importa a costoro giovare
all’Austria o alla Russia? Servire il Merovingo immemore, o
l’ambizioso di Heristal? E così gli arciduchi ora sono in
faccia alla Russia ciò che i duchi e granduchi e re
dell’Italia erano in faccia all’Austria trent’anni fa; ciò
che il Gran Mogol e il Nizam divennero in faccia all’Inghilterra. La
gran predizione si compie; l’oceano è agitato e vorticoso; le
correnti vanno a due capi: - o l’Autocrata d’Europa - o gli Stati
Uniti d’Europa.
In mezzo a sì vaste e ineluttabili influenze, i difensori
dell’Austria si divagano ad accusare dei moti d’Italia ora le
società secrete, ora la volubilità del pontefice,
l’oro degli ottimati, le insidie del regale congiunto, le imaginarie
trame dell’Inghilterra.
Le società scerete, nel Lombardo-Veneto, ove, l’impeto
popolare riescì più unanime, avevano avuto minor voga
che nella rimanente Italia. D’altronde non tutte codeste
aggregazioni avevano un medesimo intento d’indipendenza e di guerra.
I muratori, fratellanza universale e umanitaria, appunto
perciò temperavano più che non infiammassero l’odio
agli stranieri. I carbonari operavano taciturni di città in
città, piuttosto correttori della domestica tirannide, che
incitatori a lontana guerra. La Giovine Italia, fratellanza non
muta, anzi eloquente, ornata di dottrine filosofiche e di bello
stile attinto al fonte biblico e agli esemplari di Giangiacomo e di
Ugo Foscolo, aspirava bensì a richiamar la religione dal
satellizio degli oppressori, e rifarla confortatrice evangelica
degli oppressi: ciò che significava col motto, Dio e Popolo.
Ma parlava una lingua ardua alle plebi, e a molti eziandìo
che non si stimano plebe. No, non era popolare; non penetrava
addentro nella carne del popolo, come la coscrizione, e il bastone
tedesco, e la legge del bollo, e l’esattore, e il circondario
confinante, e le sciabole di settembre e di gennaio. L’eco della
Giovine Italia era nella generosa e poetica gioventù delle
università, delle academie e delle aule teologiche. Essa,
cogli occhi confitti nell’esercito straniero, pareva riservare ad
altra generazione le dispute tribunizie e l’emancipazione del
popolo, per accingersi anzi tutto alla pugna. La sua fede era
dittatoria, cesarea, napoleonica. Anelava alla forza militare e
all’unità.
Nel 1831 Giuseppe Mazzini non rivolse le prime sue parole al popolo,
ma sì ad un giovine congiurato divenuto re. «V’è
una corona, gli diceva, più splendida della vostra. Liberate
l’Italia dai barbari; fatela tutta vostra e felice. Siate il
Napoleone della libertà italiana». A Mazzini non
bastava dunque un Cromwell nè un Washington: egli invocava un
Napoleone. Era dottrina questa esclusivamente e fanaticamente
republicana?
Pure ogni giorno udiamo gli impostori dell’Opinione e del
Risorgimento, lagnarsi che una scola intemperante posponesse le armi
alla toga, la vittoria alla libertà. Anzi chiamano mazziniano
chiunque loca inanzi a ogni cosa la forma republicana; vorrebbero
quasi far credere che questo modo di governo fosse senza esempio nel
mondo, uscito da una mente accesa, per riflettersi in quelle di
pochi incauti seguaci.
E perciò è necessario ricominciar l'istoria dai
documenti.
Senonchè, poco monta se codesta scola nascesse primamente e
deliberatamente republicana; poichè il suo voto
d'indipendenza trionfante e di libera unità non poteva mai,
mai, compiersi se non colla forma republicana. E per verità,
qual risposta fece il giovine re all'araldo della nazione e della
guerra?
Lo condannò, assente, a morte ignominiosa. L'ignominia ad un
uomo che dice al suo re: «hai un esercito; riscatta l'onore
della tua nazione!». E con Giuseppe Mazzini andò
fugitivo e condannato anche Vincenzo Gioberti! E anche Giuseppe
Garibaldi!
Ma se gli austriaci si appagavano, a quei tempi, d'uccidere in
effigie i profughi nemici, non fu pago il re italiano d'uccidere in
effigie gli scrittori, anzi i lettori, i lettori della Giovine
Italia. La morte è la parte meno disumana delle tragedie di
Genova, di Alessandria, di Chambéry. Francesco Miglio, che
col sangue delle sue vene scrive alla sua famiglia, sotto il dettato
d'un traditore, una lettera che sarà la sua sentenza di
morte: Andrea Vochieri, già in atto di morire, nè omai
più cosa di questa terra, profanato da un calcio di Galateri:
Jacopo Ruffini, che si trae di mano ai tentatori, scannandosi colle
ferree lamine del suo carcere: le tenebre spaventose: i sonni rotti
dagli inquisitori: le torture della fame: le firme falsate: abusate
perfino le lacrime delle madri: e tutte queste abominazioni avvolte
di formule nefandamente religiose: ci fanno quasi sognare
d'assistere tra le selve dei Druidi ai sacrifici umani. I sepolcri
dei vivi sullo Spielberg riescono quasi un asilo, un refrigerio alla
mente inorridita. Molti furono detti tiranni per aver messo a morte
chi sospettavano deliberato a rapir loro la corona. Carlo Alberto
uccise quei generosi giovani che avevano vaneggiato, non di torgli,
ma di dargli la corona: la corona di tutta Italia: «Fatela
tutta vostra e felice!».
«Da quel giorno», dice l'intrepido scrittore, dal quale
attingiamo quei fatti, «Carlo Alberto, in continuo sospetto di
congiure e di rivolte, collocò la sua maggior fiducia nella
polizia. Volle denuncie e denunciatori nel municipio, nella
magistratura, nella milizia, nell'episcopato, nell'aristocrazia;
fido sostenitore del potere della polizia, era il potere del
gesuitismo, entrambi tenebrosi, terribili entrambi, operanti di qui
coi frati, di là coi gendarmi, dappertutto coll'oro, col
ferro, colle spie».
Corsero sedici anni: e apparve, nuovo spettro di liberatore, il
pontefice Pio IX. E l'instancabile proscritto della Giovine Italia,
si rivolse a lui. E l'8 settembre del 1847, non sapendolo nemico
della patria, e implorante di nascosto le armi di Metternich, gli
scriveva da Londra: «Unificate l'Italia, la patria vostra.
Combattete colla parola del giusto il governo austriaco. Abbracciate
nel vostro amore ventiquattro milioni d'italiani, fratelli vostri.
L'unità italiana è cosa di Dio, parte di disegno
providenziale, voto di tutti. Il risorgimento d'Italia sotto l'egida
d'un'idea religiosa, sotto uno stendardo, non di diritti ma di
doveri, porrebbe l'Italia a capo del progresso europeo. Un altro
mondo debbe svolgersi dall'alto della città eterna ch'ebbe il
Capitolio ed ha il Vaticano». E anche queste erano parole di
vita dette a un cadavere. Il papa non aveva parole contro l'Austria,
o in difesa dei fratelli. E per nulla si dolse poi che in quel
medesimo giorno, 8 settembre, il popolo di Milano venisse scannato,
per aver cantate a coro le sue lodi, e sperato ingenuamente nel suo
nome.
I tempi si facevano terribili: l'Italia fremeva del sangue sciupato
in Milano, in Padova, in Pavia. Gli esuli volgevano dalle terre
trasmarine gli occhi all'Italia. Il proscritto Garibaldi scriveva il
27 dicembre da Montevideo al proscritto Antonini: «Io pure
cogli amici penso andare in Italia ad offrire i deboli servigi
nostri al pontefice, o al granduca di Toscana». E li offerse
poscia anche a quel re che lo aveva condannato a morte.
E ponevano in commune il peculio di poveri soldati, per tragittare
d'America in Italia quelli più poveri ancora che
«volevano far dono del braccio e delle vite in difesa della
patria». Nè ponevano al dono condizioni superbe,
nè tampoco un patto di costituzionali franchigie;
poichè «animati dal sempre crescente progresso che
andava facendo lo spirito nazionale in Italia, e dai segni non dubbi
dell'accordo fra principi e popoli, avevano sollevato l'animo a
quelle medesime speranze che vedevano fomentate ed accolte dai
governi del loro paese».
E parimenti in Europa si apprestavano gli esuli al medesimo
sacrificio delle più care loro memorie, per offrire il sangue
loro ai principi italiani, purchè collegati contro la
tracotanza straniera. Gioberti scriveva da Parigi, fin dal settembre
1847, con qual gioia vi fosse accolta dai proscritti la nuova che
Carlo Alberto fosse disposto a tutelare l'indipendenza italiana e
collegarsi col gran pontefice; e come a tale annuncio tutte le
discrepanze d'opinioni e d'affetti fossero scomparse. «Tanti
essere i sudditi spontanei e devoti a Pio IX e a Carlo Alberto
quanti i figli d'Italia». E scriveva a Montanelli che non
v'erano più radicali, e che tutti gli amatori
dell'indipendenza volevano conservare la monarchia, come necessaria,
anzi avvalorarla.
Senonchè, non appena erano trascorsi tre giorni, che
l'incauto lodatore aveva a dolersi d'essere già smentito da
Carlo Alberto, che faceva vietare dalla polizia i colori papali e
gli applausi a Pio IX. Nondimeno i facendieri incalzavano con
promesse i proscritti; e da Milano supplicavasi Mazzini a tacere, e
lasciare le orecchie della nazione agli adulatori di Carlo Alberto.
E in Parigi lo s'incalzava a cancellare financo il nome della
Giovine Italia, il quale veramente rammentava troppo le passate
crudeltà dei principi, ora penitenti e rigenerati. E lo
traevano a riunirsi secoloro in una nuova Associazione Italiana,
della quale scaltramente lo volevano preside, insieme però ad
uomini apertamente costituzionali e principeschi; ed esigevano in
nome della patria che «rinunciasse ad ogni iniziativa»,
e attendesse rassegnato che dal seno dell'Italia e dalla lega dei
principi riformati e riformatori avesse indirizzo ogni cosa. Vedeva
egli pur troppo «il retrocedere del papa e il pessimo maneggio
dei moderati. Io temo, scriveva a Filippo De Boni, le riforme di
Carlo Alberto, non perchè io mi sia republicano, ma
perchè sono unitario. Con tutta l'avversione che ho a Carlo
Alberto, carnefice de' miei migliori amici, con tutto il disprezzo
che sento per la sua fiacca e codarda natura, contutte le tendenze
popolari che mi fermentano dentro, s'io stimassi Carlo Alberto da
tanto, d'essere veramente ambizioso, e unificare l'Italia in suo
pro, direi veramente: amen. Ma ei sarà sempre un re della
lega; e l'attitudine militare ch'ei prenderà, se la
prenderà, non farà che impaurir l'Austria, e ritenerla
forse ne' suoi attuali confini, che i re della lega rispetteranno. E
questo è il peggio». Il peggio era dunque per il
Mazzini la pace coll'Austria: dacchè suprema sua fede era
sempre l'immediata e combattente unità di tutta l'Italia.
Ora vediamo di che tempra e di che fede si fosse codesta lega dei
principi italiani. Carlo Alberto era sempre infraddue, fosse in
politica, fosse anco solo in cose di letteratura. Egli chiamato
dagli imperiosi tempi ad essere un Napoleone, l'uomo dalla ferrea
volontà, non aveva mai volontà propria; pendeva sempre
fra opposti consigli; e talora gli seguiva a lungo entrambi,
rifacendo in secreto colla sinistra ciò che aveva
solennemente disfatto colla destra. V'erano intorno a lui due
conciliaboli di cortigiani, che operavano in contrario senso; poi
ognuno dei due portava come bracco la sua caccia appiè del
padrone. Carlo Alberto al chiaro giorno era re di Sardegna,
colonnello del 5º reggimento degli ussari austriaci, insieme
con Radetzky; cognato degli arciduchi; ricinto di gesuiti da messa e
da spada; ricinto da quelli che col suo denaro pagavano la guerra
civile in Friburgo e Lucerna; ricinto da quelli le cui mani
stillavano del sangue della Giovine Italia. E nella notte, egli dava
clandestina udienza alle società secrete di tutta la penisola
e della Sicilia; viveva in concubinato colla rivoluzione. Nè
i persecutori della Giovine Italia erano ben concordi fra loro:
poichè si dividevano seguendo le rivali ambizioni di
Villamarina e Lamargarita; sempre però concordi a regnare
colla censura, colle spie, col confessionale; e adoperare, secondo
l'opportunità, le tombe di Fenestrelle, la malaria di
Sardegna, il piombo, il capestro. Nell'altra congrega erano molti
che il re aveva condannati a morte e faceva stare inesorabilmente in
esilio, come re di Sardegna; ma, come re futuro d'Italia, gli
accarezzava, inviandoli qua in là in secrete missioni. Alcuni
di essi erano paghi di addentrarsi nel torbido delle cose italiane,
preparando al re, quando che fosse, l'acquisto d'un po' di paese,
foss'anco solamente Mentone e Roccabruna; erano menti meschine,
educate nella meschina istoria di quella monarchia. Altri coltivava
anche le ragioni ereditarie del re sovra Piacenza; altri voleva
scavalcare anche il duca di Modena; il quale per verità nel
1831 aveva cospirato coi gesuiti a scavalcare Carlo Alberto in
Piemonte. Altri s'aggirava fin per le carceri della Sicilia, a far
sacco degli odi inveterati contro il nome borbonico. Altri,
superando gli scrupoli della divotissima casa, spingeva le
artificiose mine fin sotto al trono del pontefice. Questa era la
provincia sopratutto del pittore e letterato Tapparelli, detto
volgarmente il marchese d'Azeglio; e fa meraviglia: poichè
era figlio e fratello di gesuiti. Qui diverrebbe troppo lunga
ripetizione l'andar esponendo quanto viene a chiarirsi, ove si
riducano a commune costrutto alcune lettere del Gioberti: le memorie
secrete degli emigrati: le dichiarazioni del triumviro Aurelio
Saffi, dell'inviato De Boni e d'altro membro dell'assemblea romana:
i cenni sulla propaganda di Modena e Milano: la publica protesta
fatta dal conte Michelini, che aveva spinto l'audacia fino a volere,
contro il comando del papa, spiegare in Roma lo stendardo di Carlo
Alberto: moltissime date di quei giornali toscani, ch'erano
strumenti alla propaganda di Carlo Alberto contro il duca di
Toscana, quando la stampa in Piemonte era ancora schiava; l'opera
del generale Giacomo Durando che voleva prendere lo Stato del papa
dandogli in cambio le isole d'Elba e di Sardegna: e rifacendo le tre
Italie, antico e infausto disegno concertato, venticinque anni
addietro, fra Carlo Alberto e Federico Confalonieri: infine le opere
degli aperti lodatori del re, Alfonso Andreozzi e Luigi Carlo
Farini. E questi fanno menzione anche della mistica medaglia, che
sta in fronte al nostro Volume e può facilmente vedersi in
metallo nelle raccolte numismatiche; barbaro accozzamento di cifre
gotiche e di baccelli palageschi, di mostri blasonici e di visi
umani, che il re inviava secretamente ai suoi devoti, come il
pontefice manda intorno le rose d'oro e i femori di santa Filomena.
Questi maneggi erano antichi. Fin da molti anni addietro ordinavasi
in Brusselle e in Parigi il comitato dei Veri Italiani; si
trasferiva poscia in Pisa e in Firenze; e di là si propagava
a Bologna e a Forlì, nonchè a Roma, a Napoli, a
Palermo. Pare che rimanesse obliata la sola Venezia, non sappiamo
per qual disegno; e per verità, anche quando la si ebbe, si
tentò di adoperarla a fare un baratto, rinnovando la vergogna
di Campoformio. Forse si temeva che, l'unione di Genova e di Venezia
insospettisse l'Inghilterra; forse Genova medesima, per triviale
gelosia mercantile, voleva trarre a sè sola il commercio
della valle cisalpina. Intanto si arrolavano alle congreghe
albertine gli scrittori ambiziosi; e i ricchi che avevano titoli o
li agognavano; e sopratutto parecchi capi dei carbonari e delle
altre sêtte. E ai repubblicani si predicava non essere maturi
ancora i tempi alla libertà; doversi consecrare i pensieri
prima all'indipendenza; al che necessitava fare un regno grande,
ossia farsi tutti sudditi di Carlo Alberto; il quale aveva pronto un
esercito. E l'esercito vi era; ma il re l'aveva ordinato a frenare
nelle guarnigioni i suoi sudditi, non a campeggiare contro gli
stranieri. L'esercito non aveva stato-maggiore addottrinato a
condurlo; perchè si era convenuto che, in caso di guerra
colla Francia, l'Austria reggerebbe. A quelli che dubitavano o
disperavano dell'animo di Carlo Alberto, si faceva intendere che ove
il re non si mettesse all'opera di buona voglia, l'avrebbero
costretto. A quelli che ad ogni patto non volevano aver padrone, si
diceva che, dopo la vittoria, lo strumento della vittoria ben si
poteva spezzare; e proclamare l'intera libertà. Così
la gesuitica congrega di Torino avviava quella versicolore ed
assurda ricucitura della fusione, che pretendeva accozzare le
opinioni inconciliabili e gli interessi nemici in una concordia
infida e caduca, purchè durasse quant'era necessario a
sventar l'impeto popolare, e furar l'occasione alla libertà.
Allora dovettero appartenere ad una stessa causa Guerrazzi e
Gioberti, Azeglio e Bianchi-Giovini, Settimo e Bozzelli, Balbo e
Sterbini, Valerio e Cavour; e arrabattarsi in carnevalesca miscela
Pinelli, Buffa, Zucchi, Salvagnoli, Gioia, Correnti, Minghetti,
Ridolfi, e altri senza fine; abbracciarsi principi e popoli,
poliziotti e carbonari, epuloni e martiri, gesuiti e antologisti,
ciambellani e republicani, per uscir poi di quell'orgia regale
disingannati e discordi più che mai.
Intanto il tempo scorreva; e alle parole non seguivano i fatti.
Nessun indicio si vedeva della guerra del re, e nemanco d'animo
veramente riformatore e liberatore in lui; chè anzi lo si
vedeva accosciato sul letamaio del gesuitismo e della polizia.
L'oppressione intanto nelle Romagne si faceva ogni giorno più
intollerabile, perchè la nazione sentiva ogni giorno
più la sua coscienza, e il suo diritto, e la sua vergogna.
Allora fremevano contro i loro capi le fratellanze; e gli gridavano
servili e sleali; e prorompevano a incomposti e tumultuari disegni.
Qual era dunque la mente dell'Azeglio e degli altri sollecitatori?
Volevano spingere, o volevan frenare? O solo preparar da lontano gli
animi, affinchè in ogni caso si volgessero al re, piuttosto
che a più risoluti e liberi consigli? Forse intendevano
solamente che il re, accaparrandosi quella furtiva
popolarità, potesse in ogni caso, nel naufragio degli
alleati, salvar se medesimo. Forse intendevano solo dividere dalla
moltitudine i capi: seminar fra quelle temute tenebre la discordia e
l'impotenza. Forse bramavano solo sapere: sapere quali affetti
ardessero nelle addolorate viscere dell'Italia. E perchè
poteva il re aver brama di saperlo? Per sua sicurezza soltanto? Ma
come obliare ch'egli nel 1821 e nel 1833, pur troppo, era stato
delatore dei nemici dello straniero allo straniero?
Ad ogni modo le amicizie republicane di Milano e le fratellanze dei
carbonari in Romagna, erano divenute, alcune deliberatamente, alcune
per inganno, una specie di fanteria dei cavalieri albertini. E
l'Azeglio e altri che avevano professato di ritrarre l'Italia da
quello ch'essi chiamavano il malvezzo delle società secrete,
se ne facevano essi i capi, e ordivano un secreto nel secreto. E per
lo stesso modo, dopo aver predicato che non volevasi governo in
piazza, mandavano dalla locanda di Porta Rossa il vessillo di Savoia
nelle vie di Firenze, come se fosse desiderato dal popolo fiorentino
che non lo conosceva, e non lo curava. E inviavano emissari a
portarlo per le piazze e pei teatri di Roma, per imporre al
pontefice, sotto i nomi di ministri secolari, i loro creati. E
imponevano generali piemontesi al granduca di Toscana, generali
piemontesi al papa; il quale, mal discernendo l'un Durando
dall'altro, diceva, non del tutto senza ragione, di non volere ad
ogni patto «quei signori Durando che lo volevano cacciar nelle
isole».
Si può dire a scusa di Carlo Alberto, ch'egli non era il solo
principe in Italia che intingolasse bassamente in casa degli alleati
e dei congiunti. A parte i satelliti di tutte le polizie, di tutte
le diplomazie, i centurioni, i sanfedisti, e tutte le radici
maschili e femminili della mala pianta di Sant'Ignazio, v'erano
altri conciliaboli che operavano pel duca di Modena nelle Legazioni
e in Piemonte; per i Beauharnais, e diremo pure per la Russia, nelle
Legazioni e in Milano; per i Borboni nelle Marche, per i Murat a
Napoli; per i Bonaparte a Milano e a Roma; per l'Austria in
Piemonte, nelle Legazioni e dappertutto.
Fra i padri lettori, i padri maestri, i padri inquisitori, fra gli
stessi monsignori e cardinali v'erano i venduti all'Austria, non
venduti per oro, che l'oro se lo tenevano volentieri gli austriaci
per sè, ma per la speranza di avere un giorno dall'imperial
favore, o il pallio arcivescovile di Milano, o benanco la santa
pantofola di Roma, da calpestare l'evangelio e la patria. E quando i
sicari del borgo di Faenza non ebbero più faccende nè
sicurtà in Roma e in Romagna, venivano secretamente arrolati
dai duchi di Modena e di Parma. Ciò facevano i conservatori
dell'ordine e della virtù!
Le occulte congreghe, mosse da tante contrarie e perverse ambizioni,
scontrandosi nelle tenebre si combattevano fra loro. Il poeta
Castagnoli, propagatore austriaco, fu punito dai cardinali; il
barone Baratelli, pur satellite austriaco, fu prima esiliato dai
cardinali: e questo è certo; poi fu ucciso: e non si seppe da
chi. E frattanto si scrisse in Inghilterra, accagionandone ad ogni
buon conto «il pugnale democratico». E anche a
Ciceruacchio fu vibrato un colpo indarno: non certo da mano
democratica. Nè certo era l'obolo della democrazia che poscia
pagava le insidie tese sotto i passi di Mazzini in Ginevra e
Losanna. In quelle inesplorate tenebre giace l'arcano della morte di
Rossi; e già, un anno prima ch'egli cadesse, veniva additato
all'odio del popolo romano come «publico nemico» da
quella fazione regia che alla sua morte salì al potere in
Roma. Questo è certo.
Adunque sul principio del 1848, quelle associazioni che non erano
gesuitiche o principesche, erano almeno sotto la sovrintendenza, e
direm pure sotto il morso e le briglie dei commissarii principeschi.
E perciò tutte le esitanze, le debolezze, le perfidie degli
schiavi di corte pesavano come un fato invisibile sugli uomini
giurati all'indipendenza e alla libertà. Quindi il moto
popolare, così unanime e poderoso nelle sue
profondità, era ondeggiante e rotto alla superficie, e
coperto di estranie spume. Dal Piemonte, ond'era venuto Azeglio
colle regie lusinghe, un solo fucile non si potè implorare
per l'imminente inevitabile conflitto, quando gli arsenali di Carlo
Alberto, quattro mesi inanzi, ne avevano prodigato migliaia ai
dissidenti svizzeri. E quindi appare una delle cause perchè
il moto, non venne già dalla frontiera, ove stava Benedek ad
aspettarlo; ma scoppiò prima nel Veneto, ch'era vergine
ancora dalle corruttrici influenze di Carlo Alberto; e di
città in città giunse a Milano. E come vedrassi nel
seguente volume, Pavia, le cui case toccavano il Piemonte, i cui
cittadini avevano in Piemonte i poderi, e perciò sapevano
troppo bene le piaghe del gesuitico governo, fu l'unica città
del Lombardo-Veneto che non si levò se non dopo la partenza
degli austriaci. Non si levò se non nella notte del quinto
giorno dacchè udiva muggire nella vicina Milano il cannone. E
non fu già indifferenza che quella illustre città
serbasse alla causa italiana; poichè nella opposizione legale
i suoi magistrati mostrarono singolare sollecitudine e
dignità.
Gli ottimati che, per piacere al Piemonte, venivano tollerati e
voluti a capo d'ogni cosa in Milano, non erano già, come i
generali austriaci ripetevano nella gazzetta d'Augusta, i prodighi
agitatori d'una plebe venale; ma tanta avarizia recarono in ogni
cosa, quando frivola non fosse, che per lo stento del denaro non si
poterono compiere i disegni; non si potè nemanco ordinare la
necessaria catena degli avvisi. E per manco d'avvisi, la nuova di
Milano insurta appena giungeva il 18 a Como e a Varese; e Vicenza
seppe solo al 28 che Milano era libera dopo il 22; e Milano seppe la
risurrezione di Venezia solo il 24. E Verona e Mantova, poste nel
mezzo, rimasero libere custodi delle ferree loro porte, fino al
lento ritorno del Daspre da Padova e del Wocher da Milano; evento
decisivo per tutta la guerra; poichè ben altra cosa sarebbe
stata, se il popolo avesse tenuto Mantova e Verona, come tenne
Venezia e Palmanova. E così appare ognora più
manifesto, che quel moto sgorgò spontaneo qua e là
dalle viscere della nazione; e che come il mal governo di Metternich
lo aveva preparato, così la sua caduta gli diede l'ultimo
impulso. No, nessun popolo si mostrò più noncurante
dell'oro e più prodigo del sangue. E ci fa quasi schifo
leggere come le ricche dame di Milano elemosinassero per vicoli e
botteghe, a far carità coi denari della plebe; e come i
giovani più operosi a promovere la rivoluzione, dopo aver
fatto il novero degli amici epuloni, fino a compiere cento milioni
di patrimonio, appena ne spremessero settemila franchi. Vergogna pur
troppo anche questa della patria, ma che pure torna d'altra parte a
sua gloria tanto maggiore. E così rispondiamo al general
Willisen, il quale intraprese a spiegare alla Germania la nostra
rivoluzione, intendendola così poco e così male, che
la giudicò un capriccio improviso, mosso dall'oro degli
ottimati.
La propaganda albertina coltivata ancora più durante la
guerra, lasciò due mali. L'uno ed il peggiore si fu, di
segregare nuovamente dalla nazione gli ordini più cospicui,
che sotto il livello straniero parevano essersi rifatti popolo; e
perciò erano dal popolo con devota gratitudine ammirati e
seguiti. E per l'ambizione d'allargarsi in tutta l'Italia, Carlo
Alberto diede ai maggiorenti per tal modo ordinati, un animo per
molti aspetti simile a quello degli antichi ghibellini; i quali
nascevano e morivano nella perenne aspettazione d'un esercito che
scendesse a render loro sugli eguali un predominio che di per
sè non valevano a conservare. L'altro danno, però
transitorio, si fu di sviare la nazione dal puro e immediato amore
della libertà; la quale, per essere l'Austria omai chiusa
entro i suoi confini, potevasi ottenere da tre quarti della nazione,
senza guerra e senza pericolo; ed erasi in certo grado ottenuta.
Poichè la Sicilia era veramente libera; e dappertutto ai
principi protetti dall'Austria s'era estorto un po' coi modi
gentili, un po' cogli aspri, la libera stampa e un abbozzo di
costituzione. Nè quando tre quarti della nazione avevano la
libertà d'intendersi e d'armarsi, poteva indugiare a lungo la
liberazione del rimanente; il quale per poco non bastò a se
medesimo, e solo per manco di buon consiglio. Ma ciò che
chiamossi la fusione, era noncuranza e quasi disprezzo della
libertà. E inoltre, sconvolgendo di prima giunta i confini
degli Stati, avanti di prevedere alla forza interna di ciascuno
d'essi, correva a cozzare contro il punto fermo dei trattati del
1815. E questi non si potevano sciogliere se non coll'assentimento
di molte potenze; anzi piuttosto con una innovazione di tutto
l'ordine europeo e colla commune caduta di tutti i governi, quello
compreso che colla fusione volevasi a spesa degli altri governi
ingrandire.
Ora che abbiamo accennato ciò che le società secrete
non fecero, resta a dire ciò ch'esse veramente operarono. A
ciò ne porgono lume i frammenti che abbiamo raccolti da un
manoscritto del Montanelli e da varie memorie di promotori del moto
milanese; e danno bastevole indirizzo anche intorno a ciò che
sarassi operato, da quelle moltissime altre fratellanze, delle quali
ancora non abbiamo i documenti. Qui vediamo anzitutto che molti dei
promotori erano già stati allievi della Giovine Italia; ma
sciolti da ogni vincolo di setta, operavano ognuno a suo luogo,
sugli amici; e così mano mano penetravano nelle moltitudini,
traendo in luce quei sentimenti che la straniera insolenza aveva
generati. La dottrina era dunque sopravissuta all'iniziazione; il
convincimento aveva avuto più vigore dei riti e dei
giuramenti; l'idea era più forte del patto. Ecco ciò
che l'Italia deve a Mazzini. Egli fu il precursore del risorgimento;
egli che nel 1831 aveva già concetta nella mente la santa
crociata del 1848, allora incredibile ai savi mondani; egli che
aveva visto sin d'allora il seno dell'Austria, come quello della
vipera, squarciato dalle nazioni entro racchiuse.
Codesti fedeli della Giovine Italia erano, i più, divenuti
republicani, quantunque avessero preso le mosse da una dottrina che
sperava in un re e voleva fondare un nuovo regno. E alcuni erano di
cospicuo casato. Ma questa è proprietà della nostra
nazione, che l'animo republicano vi s'incontra in tutti gli ordini:
che anzi la genuina fonte della vera nobiltà italiana, non
della ribattezzata di anticamera e polizia, sta nei consessi
decurionali delle antiche republiche municipali: e pare anzi che
fuori di codesto modo di governo la nostra nazione non sappia
operare cose grandi. E che fece mai di glorioso, o anche solo di non
vituperoso, il gran regno che incatena otto milioni d'anime nella
bassa d'Italia? Si paragoni l'istoria romana a quella di Torino;
l'istoria di Venezia a quella di Trieste! Ma codesti nuovi
republicani, pur troppo erano propensi sempre a sperare più
nell'esercito regio che nella guerra di popolo, perchè la
scola loro era scaturita primamente dall'idea napoleonica. Ora un
Napoleone non poteva surgere che di republica. Una monarchia che
dovesse trascinar seco al campo il guardinfante dell'etichetta, del
gesuitismo, della polizia, della diplomazia, non poteva trar di
sotto a quegli ingombri un Napoleone. E anch'egli, il primo console,
quando si ebbe messo intorno tutto l'imperiale viluppo, non
operò più le giovanili sue meraviglie. Pure, anche in
quella gabbia egli era rimasto sempre il leone, l'uomo della
indomita volontà: mentre Carlo Alberto, ora vacillando a
destra ora a sinistra, doveva appuntellare sempre il mutabile suo
volere al consiglio altrui; nè sapeva far passo inanzi se non
si udiva alle spalle il mormorìo delle genti o la lode.
L'Italia non ebbe il console; nè l'uomo.
Sciolti da ogni rito, i giovani e liberi propagatori si erano, per
così dire, approfondati nell'onda popolare. D'ogni cosa essi
fecero arme morale a confortare la moltitudine, conscia degli
affetti suoi, ma inconscia della sua forza. Essi tradussero in
vulgare alle smembrate provincie l'arcano dell'unità.
Adoperarono i fogli clandestini e i publici, i canti, gli evviva a
Pio IX, il sasso di Balilla, le catene di Pisa. Adoperarono i panni
funebri delle chiese e i panni gai delle veglie festive; assortirono
in tricolore le rose e le camellie, gli ombrelli e le lanterne;
trassero fuori il cappello calabrese e il giustacuore di velluto: il
vessillo della nazione e quello delle cento sue città. Era
quella una lingua nuova che parlava a tutte le genti d'Italia
più alto e chiaro che l'altra lingua in cinque secoli non
avesse parlato. Essi accesero di vetta in vetta lungo l'Apennino le
fiamme del dicembre: essi congregarono sulla fossa di Ferruccio i
montanari della Toscana: essi domarono coi fieri applausi dei
trasteverini le ritrose voglie del pontefice. Essi rivelarono il
popolo al popolo, l'Italia all'Italia; gettarono sul viso al barbaro
armato il guanto della nazione inerme e impavida; trassero la plebe
che aveva taciuto trent'anni, a dire d'una voce: l'ora è
venuta; a svellere coll'erculea mano i graniti delle vie; a spegnere
coi fucili strappati al nemico il foco de' sessanta suoi cannoni; a
togliere in poche ore ai vecchi generali ogni senno e ogni coraggio.
Il popolo poteva fare: voleva fare; ma senz'essi non aveva fatto.
Per essi ora è certo che l'Italia sa e l'Italia può.
Mazzini aveva scritto a Pio IX di aver più caro soccumbere
che mirar le vendette e gli eccessi maturati dalla lunga
servitù. Soverchio timore: l'oppressione non avea maturato i
vizi della prosperità, ma le virtù della sventura; la
nazione serva si scoperse più generosa delle nazioni
dominatrici e superbe: perocchè il dolore giova ai popoli
come all'uomo. Inebriati della poesia del proscritto, i suoi seguaci
furono alla docile moltitudine consiglieri d'umanità. Il
popolo seppe vincere senza eccessi e senza vendette. E ora non se ne
penta. Poichè se gli sfuggì poi di pugno la vittoria,
non fu perchè fosse stato più magnanimo del nemico, ma
perchè fu credulo e servile al falso amico. Che se gli
avversari ora non hanno il senno d'imitare il virtuoso esempio, e si
vanno contaminando d'inutili crudeltà, essi condannano
sè e gli sgraziati loro satelliti a soggiacere, quando che
sia, a rappresaglie che nessuno potrà condannare, nè
compiangere.
Per troppo ardore d'avventarsi contro i nemici stranieri, i quali
potevano fare ben breve ostacolo a una gran nazione, l'Italia non si
profittò dell'impotenza nella quale essi erano già
caduti, onde estirpare frattanto i loro intestini fautori, e
assicurarsi pel dì della battaglia il tergo dalle insidie.
Essa dimenticò che l'arte della libertà è
l'arte della diffidenza; che libertà è padronanza; e
padronanza non vuol padrone. Diede le redini a chi non voleva che il
carro andasse. Rinunciò ai principi l'iniziativa, appunto
quando, dopo tant'anni, stava per metter le mani sulla vittoria.
Le fratellanze di Romagna e le amicizie di Milano posero i
più gelosi secreti e la vita stessa dei fratelli a
discrezione d'un disertore; a discrezione d'un re ch'era stato per
diciott'anni di regno l'ostinato e sanguinario loro nemico; e che
poteva ogni mattino tradirle, non foss'altro, al gesuita il quale lo
assolveva del sangue versato. E fu parimenti consiglio fallace
quello di sospingere i pontefici e i re cogli applausi;
poichè, conosciuta la loro natura che cede solo al timore,
chi potè farli camminare di quel modo impunemente, avrebbe
potuto farli camminare anche d'altro modo. Ma l'Europa non
potè imaginarsi che tutto un popolo avesse così
unanimemente e lungamente affettato una gratitudine e un'ammirazione
che non doveva sentire. Credette adunque che Pio IX fosse un uomo
inviato da Dio, e non un segnacolo artificiale, che non aveva senso
se non da un accordo di congiurati. Laonde quando il tempo fu
consumato, e i teatrali applausi dovettero aver fine, parve al mondo
che l'Italia fosse ingrata! - Chi ha diritto, non ringrazia.
Mai la causa della verità non vuolsi difendere colle armi
della simulazione. Pur troppo abbiam gridato pontefice liberatore
chi vegliava solo l'istante di trafugarsi nelle file dei nostri
nemici, e frattanto stipendiava in Roma i sicari di Faenza. Abbiamo
gridato, già prima della guerra, capitano liberatore chi era
stato in campo una sola volta, e contro la libertà; nè
aveva mai comandato eserciti, nè aveva animo da capitano, ma
solo quella noncuranza del pericolo che ha ogni bifolco fatto
granatiere. Abbiamo gridato filosofo liberatore, e condutto in
trionfo per le città d'Italia, quel Gioberti ch'esule ancora
per decreto di Carlo Alberto voleva assoggettare per forza
all'ingiusto persecutore tutti i liberi uomini d'Italia; e
minacciava la guerra civile a chi intendesse la indipendenza in
altro modo: anzi in quel modo in che l'aveva già intesa egli
medesimo; e rallegravasi poi con satanico gaudio di veder Venezia
pericolante, e punita d'aver voluto riesser Venezia. E queste favole
nostre avevano almeno il pregio d'esser generose, e di fare ai
nostri avversari mal meritata cortesia; ma tali non furono poi
quelle che da essi vennero rese in ricambio. Nè potremo mai
perdonare l'accusa di sicari apposta a coloro che non furono
prodighi se non del proprio sangue; nè gli infami sospetti
seminati fra il popolo contro i cittadini più dimentichi di
sè e delle proprie fortune, per farli credere stipendiati
dall'oro di Ficquelmont, e far temere alla gente un'insidia
austriaca nel nome stesso della libertà. E così il
povero popolo, fra i nomi indegnamente levati a cielo, e i nomi
iniquamente tratti nel fango, non seppe più chi gli fosse
amico o nemico; e gridò più volte la ironica formula
del vecchio toscano: viva la mia morte e muoia la mia vita.
Ora qui voglionsi accennare almen di volo le profonde origini di
certi avvenimenti. Quando giunse fulmineo l'annuncio che il Borbone
vinto in Sicilia era vinto senza sangue anche a Napoli e giurava
patti al popolo, Carlo Alberto, consigliato anche dall'Inghilterra,
promise in fretta anch'egli il suo Statuto. Promise farsi re di
cittadini; ma voleva restarsi re di gesuiti; epperò gli
lasciava tranquilli nei loro nidi; e pasceva il popolo di parole e
di feste, schermendosi intanto d'armare la guardia civica.
Sopravenne più fulmineo l'annuncio della tempesta di Parigi;
il popolo di Genova, che sapeva ov'era il nodo della sua
servitù, proruppe contro i gesuiti; Torino seguì
l'esempio. «Quegli avvenimenti determinarono il governo a
istituire una guardia nazionale provisoria; ma fu prefisso il numero
a cinquecento». «L'orage gronde trop près de
nous», dettava il re al ministro San Marzano il 3 marzo; e
diceva che «en conséquence» aveva deliberato di
«compléter ses armements». En conséquence
del moto popolare egli faceva ciò che non aveva fatto en
conséquence dell'invasione di Ferrara, delle stragi di
Milano, dell'occupazione di Modena e di Parma. Partivano dal
Piemonte le poche centinaia dei gesuiti da messa; ma sotto l'ombra
di quegli armamenti, anzi di quegli stessi cinquecento privilegiati
alle armi civiche, si salvavano dall'ira popolare i gesuiti da spada
e da toga; e i genovesi si lagnavano nei giornali che il sacrilego
edificio rimanesse indistrutto. Rimasero i gesuiti in corte,
rimasero nel governo, rimasero nell'esercito; e venti giorni dopo,
seguivano il re al campo; gettavano la rete sulla guerra del popolo;
davano agio al nemico di riacquistare le perdute fortezze, di
rifornirle, di ricomporre in quella quiete imperturbata il disfatto
esercito. Facevano anco quei sacrifici di sangue ch'erano necessari
a conservar nei popoli l'illusione d'esser difesi; spingevano gli
infelici soldati «nell'imbuto di Santa Lucia» come lo
chiamò il general Bava; divagavano i popoli col cicaleccio
della fusione; richiamavano i volontari dal Tirolo; abbandonavano i
toscani a Curtatone; abbandonavano i romani a Vicenza; perdevano
mano mano tutte le provincie; infine, il 4 agosto, Lazari, il capo
della polizia sarda, andava al campo di Radetzky a patteggiare la
consegna di Porta Romana; la sedizione era finalmente compressa; le
acque torbide si raccoglievano nel pristino letto. L'opera dei
gesuiti fu assecondata dalla congrega diplomatica; la quale non
poteva, per così poca cosa, uscire dal patto del 1815,
ch'è la legge dell'Europa, finchè l'Europa medesima,
tutta rinnovata, non si stringa in altro patto.
E ora vogliamo far cenno di quella unità nazionale, a cui
molti generosi parvero quasi posporre la libertà. Certo, chi
miri a qual mole straniera si dovesse far fronte, non si farà
meraviglia che sembrasse necessario contraporvi tutta l'Italia, o
almeno quella maggior parte che si potesse, e quanto più si
potesse saldamente unita. E anche in ciò si vede, come nel
rimanente, l'effetto della nazional reazione contro l'artificiale
centralità straniera. Ma i più andarono errati,
giudicando che la forza militare si misurasse a numero di popolo, e
imaginandosi d'aver finito la guerra, quando fossero riesciti a
stivare sotto la predella d'un trono dodici o quindici milioni di
gente. Potevano ben vedere come il regno di Napoli fosse il doppio
quasi del Piemonte, e non fosse più forte. E il Piemonte
doppio della Svizzera, e non diviso, ma saldamente stretto in una
sola mano, e non però a lunga pezza sì forte. E dopo
la cabala che si compiè colla farsa dell'Urbino il 29 maggio,
il Piemonte che dettava la fusione col pretesto d'esser più
valido a spacciar la guerra, si trovò da quel momento
più debole, per timore ch'ebbe Torino di perdere i vantaggi
di regia sede e le briciole della regia mensa, e per timore ch'ebbe
la corte di non aver braccio a infrenare la improvisa folla dei
nuovi sudditi, non ancora ben maceri e fracidi nel gesuitico lezzo.
E quindi si lasciarono ir perdute, in giugno, le quattro provincie
venete prima d'averle acquistate; e in luglio, al primo infortunio,
si lasciarono andar perdute l'altre provincie e i ducati. E il 5
agosto ai generali di corte parve mala grazia nei milanesi che non
si sottomettessero subito e di buona voglia ai barbari, quando
così pareva e piaceva a Sua Maestà. Sembrava quasi che
l'abbandonare vilmente la guerra poco importasse. Chi doveva volere,
non voleva. Ora, il primo principio di forza nelle cose umane
è la volontà, e non il numero degli uomini che da
quella volontà dipende. E non fu il numero dei battaglioni,
che poi condusse, senza contrasto, gli austriaci in Mortara,
intercidendo l'esercito piemontese dal regno; e che poi gli condusse
con minor contrasto ancora in Alessandria, quando pareva bello agli
eroi di corte andar piuttosto a malmenar Genova, perchè
voleva continuata virilmente la guerra. Due volte cadde il regno che
aveva i milioni di sudditi, intanto che Venezia, sola, e povera, e
levatasi esangue dal sepolcro, durò combattendo, finch'ebbe
pane. E in altri tempi, Venezia stessa con angusto dominio aveva
durato contro tutta Italia e tutta Europa congiuratagli contro dal
pontefice; e aveva durato più secoli contro l'imperio
ottomano. Pur s'udirono fra noi molti deridere, con Gioberti, le
republichette. E pur troppo, per male cure di lui medesimo, Venezia
era rimasta sola e povera republichetta di centomila abitanti. Ma
aveva quell'animo che i satelliti regi non poterono infondere alla
Sicilia venti volte più popolosa. Un diminutivo non è
una ragione, direbbe il savio Bentham. E la Svizzera medesima non
è forse un fascio di ventidue republichette? anzi, diciam
pure, di venticinque? E se dimani il Vallese e Friburgo si
suddividessero come Appenzello e Basilea, forse verrebbe rimossa la
cagione di qualche discordia; e certamente non perderebbe la patria
un sol difensore. Le republichette svizzere bastano alla loro
difesa; e l'Italia che potrebbe avere dieci volte più armati,
con ben maggior riparo di lagune e di maremme, e di fiumi e d'isole
e di fortezze e di navi, l'Italia non basta. Convien dunque, come
facevano i nostri antichi, cercare altrove che nel numero il
principio della forza; riporlo sopratutto nella volontà;
cioè in questo che chi comanda abbia la medesima
volontà, o a parlar più mondano e più vero, i
medesimi interessi di chi obedisce. Non sono i soldati, nè le
armi, nè le navi, nè il buon volere del popolo, che
mancarono al re di Napoli per difender l'Italia; ma i suoi interessi
non erano quelli della nazione; nè tali erano quelli del
papa; e così dal più al meno, quelli d'ogni altro
potentato d'Italia. È vano e puerile il lagnarsi ch'essi
abbiano fatto ciò che avevano naturalmente a fare; come fu
vano e puerile lo sperare che avrebbero fatto fuor della loro
natura. E qui fu l'errore fondamentale «di quel ridicolo
amoreggiarsi fra principi e popoli», nel quale gli innamorati
erano solo da una parte. Qui fu l'errore dell'iniziativa permessa ai
principi, e del comando lasciato ai loro satelliti. Qui fu l'errore
dell'unità, da conseguirsi col persuadere un principe
«di codarda e fiacca natura» a divenir magnanimo e
deliberato. Chi è nato a far le grandi imprese, non aspetta
che altri lo consigli e lo incalzi.
Il numero delle parti non importa, purchè abbiano tutte egual
padronanza e libertà: e l'una non abbia titolo a far servire
a sè alcun'altra, tirandola a sè, e distraendola dal
nodo generale. Tra la padronanza municipale e la unità
nazionale non si deve frapporre alcuna sudditanza o colleganza
intermedia, alcun partaggio, alcun Sonderbund. I
«sonderbundi» dell'Italia sono quattro: il borbonico di
otto milioni e più; l'austriaco di sei, e se lo si considera
anche arbitro dei ducati, poco meno di nove; il sardo di cinque o
poco meno; il pontificio di tre. Queste segreganze sono tutte
nemiche tra loro: le prime perchè aspirano a ingrandirsi a
spesa delle altre: l'ultima, perchè sa d'essere insidiata da
tutte. E così hanno tutte interesse a guerreggiarsi, e godono
ampiamente dell'altrui sventura e dell'altrui disonore. Qual
più grato adulatore alla corte di Torino di colui che
maledice al bombardator di Messina? Qual più lieto suono al
re di Napoli che quello delle infamie del Lamarmora a Genova? E
così la Sicilia maledice a Napoli; e la Sardegna e la Liguria
maledicono a Torino; e i popoli sono maledetti dai popoli per colpa
dei loro padroni. Le discordie, che tanto si vantano delle
republiche del medio evo, erano della medesima natura; perchè
nessuno allora si era posto in mente di collegar le città in
nazione; e di più vi soffiava per entro il pontefice da una
parte, e vi aveva braccio l'imperatore dall'altra; perchè i
prelati e i baroni abitavano le republiche come forestieri, pronti a
sconnetterle e turbarle, non a obedirle e difenderle. Onde anche le
republiche erano costrette a fare come i tiranni; e vi procuravano
sicurtà e potenza, assoggettando a sè le città
vicine, e togliendo loro la sovranità. Pisa era nemica a
Genova, principalmente perchè ambedue volevano signoreggiar
la Sardegna. Nessuno pensava a que' tempi che i sardi pure erano
italiani e fratelli, e che dovevano unirsi alla madre Italia, non
coll'obedire a Genova e a Pisa, ma col seder seco loro, eguali e
padroni, nel congresso di Roma. Gli odi delle republiche provenivano
dalla conquista, dalla fusione, non dalla libertà.
E anche le republiche svizzere, nate a caso e a caso collegate come
le nostre, avevano allora sudditi svizzeri, e li opprimevano, e ne
facevano pretesto di ambizioni e di guerre. Ma questi sono errori
dei secoli andati; e ora elle son tutte eguali; nè alcuna
republica svizzera potrebbe mai trovar modo d'imporre i suoi
magistrati alla republica vicina; le altre tutte si opporrebbero;
non potrebbe il tutto consentire che alcuna parte si frapponesse fra
esso e un'altra parte; nè alcuna parte avrebbe forza o
speranza di riluttare al tutto. Con siffatto principio, e colla
nuova coscienza di fratellanza e di nazionalità che
l'esperienza dei secoli e la scola della sventura, e le ingiurie
degli stranieri infusero all'Italia, nulla sarebbe a temersi se
fossero le republiche pur minute come nella Svizzera. Tanto maggiore
sarebbe in loro la necessità di abbracciarsi, al fine di
proteggersi in terra e in mare contro le colossali potenze del
secolo, e di esercitare il commercio fraterno in più vasto
campo, e di deliberare leggi uniformi e strade e monete, e di
accomunarsi i diritti privati, salva sempre la intera padronanza
d'ogni popolo in casa sua. Insegnò Machiavelli che un popolo,
per conservare la libertà, deve tenervi sopra le mani. Ora,
per tenervi sopra le mani, ogni popolo deve tenersi in casa sua la
sua libertà. E poichè, grazie a Dio, la lingua nostra
non ha solo i diminutivi, diremo che quanto meno grandi e meno
ambiziose saranno di tal modo le republichette, tanto più
saldo e forte sarà il republicone, foss'egli pur vasto, non
solo quanto l'Italia, ma quanto l'immensa America.
Il lettore si sarà più d'una volta sentito correre al
pensiero questa dimanda: se Mazzini voleva dare al re la corona
d'Italia, s'egli aveva dettato nel 1831 il programma che il re
adottò nel 1848, perchè i servi del re lo predicavano
frenetico republicano? perchè lo perseguivano a morte?
Diremo. Il regno che Mazzini voleva, era un regno quale la Francia
aveva sperato da Napoleone, quale Roma antica aveva sperato da
Cesare; non regno di schiavi decorati, e di prelati oppressori, e di
gesuiti eredipeti, di giudici venali, di gendarmi, di censori, di
spie; ma regno di cittadini armati e deliberanti: il regno del
merito presieduto da un eroe. «Ponete i cittadini a custodia
delle città e delle campagne e delle vostre fortezze;
liberato in tal guisa l'esercito, dategli il moto; riunite intorno a
voi tutti coloro che il suffragio publico ha proclamato grandi
d'intelletto, forti di coraggio, incontaminati d'avarizia e di basse
ambizioni». - Ora questo non era il regno di Sardegna:
«il quale si vantava d'esser composto d'un re che comanda,
d'una nobiltà che governa, e d'un popolo che obedisce».
Tutti gli esseri malèfici che si pascevano delle corruttele
della vetusta monarchia, i gesuiti sopratutto, gridarono alle
orecchie del re ch'era un'insidia, un tradimento, una sceleraggine;
e vollero da lui pegno di sangue contro gli innovatori. E siccome
fitte erano le tenebre della publica opinione, e il nome di
republica, non ostante la vicinanza delle valli svizzere, erasi
artificiosamente associato ad ogni sorta di fatti atroci e luride
nefandità, così perchè nessuno volesse il nuovo
regno, bastò l'andar predicando ch'era la republica!
Questo codardo vezzo d'accumulare infamia sul nome republicano venne
coltivato dal Gioberti, che imaginò d'accoppiare nelle ignare
menti la republica e l'Austria; onde non si parlava mai di
republicani, che tosto non si accennasse all'oro di Ficquelmont che
li sfamava. E ogni qualvolta i regi lenoni incontrassero uomo che
disdegnasse prostituirsi, volendo punirlo e torgli ogni buona fama,
come nell'ignoranza loro speravano, facevano scrivere su per le
muraglie, o nei giornali del Bianchi-Giovini e dell'avvocato Papa,
ch'egli era un republicano! E molti v'erano che avevan sortito dalle
mani del creatore il dono d'un'anima republicana; pure, non lo
avevano mai scritto, e forse nemanco erano a ciò deliberati
in sè medesimi, e certo non ci erano giurati in fazione
republicana. Ma quando, per oneste ripulse date a importuni
incettatori, si vedevano additati alle genti come republicani, non
avevano poi la viltà di negarlo; anzi talora per magnanimo
sdegno se ne vantavano. E da quel dì riputavano debito
d'onore d'operar come tali. E così la mano di quegli stupidi
satelliti iniziava il ruolo dei repubblicani; poneva le fondamenta
della republica. E quanto più appariva chiaro che la vetusta
monarchia non poteva rigenerarsi, e voleva ad ogni modo, anche sotto
il belletto costituzionale, regnare coi gesuiti e coi censori e
colle spie, il numero dei conversi alla nuova fede cresceva.
Sì: come la casa d'Austria ha il destino di eccitare per
ripugnanza la nazionalità italiana, così la casa di
Savoia (amica o nemica dell'Austria, poco importa; e chi lo sa?), la
casa di Savoia, per quella perpetua e insanabile sua titubanza a
compiere i voti della nazione, ha il destino di promovere l'italiana
libertà.
Però se v'erano molti uomini d'animo republicano in Italia,
essi non avevano dottrina republicana. Avevano ben posto il loro
amore nel popolo, ma la loro speranza nel re. Avevano pugnato, se
non per lui, certo con lui. Ma quando ebbero vista la mal voluta
guerra, le intempestive cupidigie, l'abbandono di Curtatone e di
Vicenza, la consegna di Milano, svanirono le speranze; la coscienza
republicana si riscosse; un'altra idea balenò alle menti. E
il re, anzichè attendere a ristorare in tempo la guerra
all'austriaco già vinto in Ungaria, anzichè inviar
pane a Venezia, sognava l'imperio di Roma. E gli incauti suoi
partitanti insidiavano la Toscana; invadevano sul cadavere di Rossi
il ministerio romano; e quasi importasse sopra ogni cosa far vacante
il trono dei Cesari, favorivano la fuga del pontefice.
Allora Mazzini, omai fastidito, dettava dal suo ritiro di Lugano nei
Ricordi ai giovani l'ultimo disinganno della guerra regia. E una
mano amica gli scriveva d'uscire dalla latebra del prescritto e
avviarsi a Roma, ove doveva svolgersi ben altramente il nodo
dell'italica unità. E infatti negli ultimi di dicembre, egli
rivarcava le Alpi con ben altro animo che non ne fosse calato; e per
la Elvezia e la Francia, con lenti e insidiati passi, giungeva al
Mediterraneo.
Intanto la necessità ineluttabile delle cose, la natura
romana e i consigli dei repubblicani nati, avevano fatto erumpere
improvisa la romana republica. Fu l'8 di febraio. E già, il
12, Roma porgeva una mano materna a Mazzini; lo chiamava suo
cittadino; il 25, lo deputava all'assemblea; e il 5 marzo accoglieva
ospitalmente la sua venuta. In quel giorno si compieva appunto
l'anno, dacchè, l'esule aveva stretto in Parigi cogli scaltri
e malaccorti facendieri del re il patto dell'Associazione italiana.
Qual mutamento di cose e d'uomini! Quanto veloce è il passo
del secolo, che arreca nuovi pensieri e nuove sorti al genere umano!
Intanto che il popolo di Vienna sanguinava per la libertà, i
cortigiani avevano continuato fra noi il grido: fuori i barbari:
l'Italia fa da sè. Ma i fatti di Messina, di Genova, di Roma,
mostravano che barbaro può suonare tanto tedesco, quanto
francese, quanto italiano; e che dei barbari ogni nazione ha i suoi.
La guerra d'Italia è parte della guerra civile d'Europa. La
servitù d'Italia è patto europeo; l'Italia non
può esser libera che in seno a una libera Europa. Allora
apparve manifesto doversi sancire, contro l'alleanza dei pochi
oppressori, l'onnipotente alleanza degli oppressi.
Allora Mazzini compiè l'ardua sua missione, dettando con
Ledru-Rollin e Daraz e Ruge, un nuovo patto che stringa Italia, non
solo alla Polonia e alla Francia, ma alla stessa Germania, serva
volente finora, e quasi sacerdotessa della servitù. E
così, dalle opposte parti e dalle più nemiche genti
giungono i peregrini al santuario commune della libertà!
Qual è ora l'ostacolo alla libertà? La soldatesca. Una
nazione che mette quattrocento mila gladiatori ad arbitrio d'uno o,
di pochi, sarà sempre serva degli altrui voleri. E le stesse
forme della libertà diverranno occasioni di corruttela. La
Francia, si chiami republica o regno, nulla monta, è composta
di 86 monarchie, che hanno un unico re a Parigi. Si chiami Luigi
Filippo o Cavaignac: regni quattro anni o venti: debba scadere per
decreto di legge o per tedio di popolo: poco importa: è
sempre l'uomo che ha il telegrafo e quattrocento mila schiavi
armati. La condizione suprema della libertà fu intesa solo
dagli svizzeri e dagli americani: militi tutti e soldato nessuno.
In Europa, quattro milioni di giovani vengono divelti dal seno delle
nazioni, e armati e ammaestrati contro le loro patrie. Robusti per
età e per salute, vivono, oziosi, delle miserie altrui;
divorano quattro mila milioni. È il frutto di cento mila
milioni di patrimonio. Quel giorno che l'Europa potesse, per
consenso repentino, farsi tutta simile alla Svizzera, tutta simile
all'America, quel giorno ch'ella si scrivesse in fronte Stati Uniti
d'Europa: non solo ella si trarrebbe da questa luttuosa
necessità delle battaglie, degli incendi e dei patiboli, ma
ella avrebbe lucrato cento mila milioni. Eppure gli avari cospirano
coi re!
Questi sono i pensieri che nel ricorrere i documenti, ci vennero di
volo raccolti. Ma troppo lunga opera sarebbe il dire tutto
ciò che ci sentiamo destar nella mente. Legati al duro
officio d'essere raccoglitori, cediamo ad altri la più libera
e grata impresa di connettere le sparse materie, e meditare
riposatamente, a più prossimo utile della patria e del genere
umano.
II.
Avviso al lettore.
A tenore del manifesto, stavamo per iniziare questa raccolta, col
volume concernente l'insurrezione di Milano, quando da operosi
amici, a compimento del nostro invito, ci pervennero alcune carte
che riescivano ad illustrazione degli antecedenti e delle cagioni di
quel fatto. Pongono esse in luce influenze e pratiche, le quali
giacquero finora inosservate, anzi affatto ignote; e collegano gli
eventi di Milano col moto generale d'Italia, dichiarando qual parte
vi avessero le secrete società, e in quali mani queste
fossero venute, e per quali aspettazioni e promesse si fossero
indutte a promovere la potenza di chi era stato lungamente loro
nemico.
Ne parve adunque opportuno, poiché tali interessanti materie
ci erano pervenute ancora in tempo, darle a preferenza nel primo
volume, come veramente l'ordine naturale delle cose consigliava. Ma
giudicammo altresì necessario raccogliervi intorno quegli
altri fatti e scritti che potevano rischiarare appieno i preliminari
della rivoluzione.
Di sommo momento a tal uopo ci parve una cinquantina di documenti
diplomatici, che abbiamo attinto agli atti del parlamento
britannico. E sono alcuni di Metternich, altri di Palmerston, di
Guizot, di Nesselrode e dei loro incaricati in Torino, Venezia,
Milano, Firenze, Roma, Napoli, Ancona, Ferrara, onde si palesa quali
governi stranieri avversassero ogni provvidenza e giustizia in
Italia, e quali più o meno tepidamente le favorissero.
Di eguale importanza all'uopo nostro ci parvero i documenti in parte
inediti delle rimostranze fatte in quel tempo dai magistrati e dai
corpi scientifici, nonché delle pertinaci negative date dalle
autorità straniere.
È poi a notarsi che i generali austriaci si valevano senza
secreto di qualche gazzetta estera, sì per inculcare alla
credula Europa la necessità delle violenze che commettevano,
sì per associare ai loro odii e alle loro cupidigie la
vanagloria germanica, sì, finalmente, per provocare la
gioventù italiana con parole quasi di sfida. Le quali, per
verità, non furono ultimo incentivo dei fatti che seguirono.
Insieme a questi scritti degli austriaci collochiamo alcune carte
smarrite poi nella loro fuga; le quali dimostrano vie più il
loro animo, mentre palesano lo stato del loro esercito, e i disegni
che fin d'allora avevano d'invadere la rimanente Italia.
Per egual modo si pubblicavano allora dall'opposta parte nei nuovi
giornali toscani, romani e piemontesi tanto gli appelli, gli inviti
e le proteste che si venivano facendo dai promotori della
rivoluzione, quanto le notizie delle dimostrazioni e degli altri
fatti con cui manifestava il popolo il nuovo ardore ond'era
compreso. Tali scritti si fornivano per lo più, e non senza
continuo pericolo, da coloro stessi che nei fatti avevano parte
principale; onde sono a considerarsi come veri atti
dell'insurrezione.
Dalle stesse fonti abbiamo raccolto varie date che dimostrano le
perpetue titubanze di chi voleva sciogliere l'arduo proposito
d'essere assoluto e retrogrado in casa sua, e liberalesco e
progressivo in casa de' suoi vicini.
Ciò chiarisce eziandio qual fondamento avesse la ostentata
lega dei principi italiani, onde s'illudevano a quel tempo i popoli,
desiderosi soprattutto di forza e d'unità.
Altri documenti palesano quali secrete intelligenze fossero sempre
tra il pontefice e l'Austria, e qual favore desse a questa anche
l'episcopato: onde appare propensa alla causa del diritto nazionale
e della giustizia solo quella parte di sacerdozio che, essendo
popolo e vivendo col popolo, non è in necessità
d'adulterare per ambizioni mondane il testo dell'evangelio.
Finalmente, per dimostrare da quali opinioni venissero animati
coloro che diedero maggior opera all'insurrezione, abbiamo posto da
una parte alcune scritture di Gioberti, dall'altra alcune di
Mazzini, anzi anche una lettera di Garibaldi. Fanno prova come
dapprincipio, essendo assorti gli animi nell'unico pensiero
dell'indipendenza e dell'unità militare, non s'imponesse ai
capi degli eserciti altra condizione che quella della vittoria. E le
opinioni repubblicane per verità si svolsero solo in
appresso, a misura che l'esperienza dimostrava come per la via
primamente eletta la nazione non potesse compiere il supremo suo
voto. Alcuni dei documenti qui raccolti sono inediti, altri sono
diligentemente estratti da giornali e libri di varie lingue, che
nessun privato può facilmente aver sotto mano, e che, anche
avendoli, non potrebbe senza lunga fatica trascrivere e ordinare. Il
complesso è tale che nessuno, ove lo percorra con attento
animo da capo a fondo, potrà esimersi dal mutare in
considerevol parte le opinioni sue intorno a molte delle cose e
molti degli uomini che le hanno operate. E noi pure, cammin facendo,
ci siamo avvenuti in cose che ci tornarono nuove e inaspettate.
Onde, solo a opera compiuta, abbiam potuto ritrarci in mente
l'intero concetto del volume che venivamo durante la stampa
compiendo. Ma crediamo fermamente che chi vi porga la medesima
attenzione, non possa in fine trovarsi co' suoi pensieri molto
lontano dai nostri. Pertanto desideriamo che il lettore, solo dopo
avere perlustrato tutti i documenti, si dia la briga di leggere le
nostre Considerazioni. E così non le abbiamo prefisse come
introduzione o prefazione al volume, prendendo quasi in anticipato
pegno la coscienza del lettore; ma le abbiamo relegate in fine.
Altri dirà tuttavia che scegliendo di questo modo documenti e
citazioni si potrebbero fare con altro intento altre raccolte, le
quali riescirebbero ad altro significato. Ebbene: noi invitiamo
l'osservatore a far ciò che dice: a raccogliere ciò
che noi avessimo intralasciato: a compiere ciò che avessimo
mutilato: a raddrizzare ciò che avessimo alterato: a mettere
in iscritto ciò che dalla sua fatica verrebbe a risultare in
opposto alla nostra. E qualora il suo libro contenesse tante cose
importanti, inedite o poco note, quante ne contiene il nostro, noi
ci offriamo a espiare il nostro errore pubblicando in seguito al
nostro volume il suo, affinchè possa il disinganno giungere
ovunque sarà giunto l'errore.
Noi offriamo ai nostri cittadini quanto con private forze ci venne
fatto di adunare. E ora sfidiamo i nostri avversari a osar di fare
dal canto loro altrettanto, e aprire agli scrittori i copiosi loro
archivi. Li sfidiamo anche solo a desistere dalle codarde
persecuzioni di cui fecero segno quei buoni cittadini, che,
somministrando carte inedite alla nostra raccolta, intesero di
rendere alla nazione ciò che alla nazione appartiene. E
siccome non temiamo le loro opere, anzi ne facciamo gran caso, e le
citiamo a generosi sorsi, così li invitiamo ad avere lo
stesso coraggio, e non sottrarsi con arti inquisitorie al pubblico
paragone.
18 settembre 1850.
II
Dopo il febraio del 1848, l'esercito austriaco in Italia aveva
ricevuto l'incremento d'una batteria, due squadroni e dieci
battaglioni; dei quali un solo italiano.
V'erano dunque allora in Italia 45 grossi battaglioni tutti
stranieri al Lombardo-Veneto, 38 dei quali interamente tedeschi,
slavi e, magiari, con cinque grossi reggimenti di cavalleria delle
medesime nazioni. Oltre alle artiglierie stanziali, v'erano 19
batterie da campo, tutte in mani tedesche e slave. Erano forestieri
lo stato-maggiore, le amministrazioni, il genio, il treno, i
pontonieri e tutte le altre armi accessorie. Erano codeste forze,
animate tutte allora da inveterato odio al nostro nome, eccetto tre
battaglioni del Tirolo e quattro dell'Illirio, in parte italiani. I
45 battaglioni erano completi; in generale contavano poco meno di
1200 uomini, alcuni anche di più; solo i tirolesi 900;
potevano contare in tutto 52 mila uomini: la cavalleria 5700:
l'artiglieria 3000; comprese le altre armi, il complesso di tutti
quei soldati stranieri al nostro regno potevasi stimare a più
di sessantamila. Nessun'altra potenza erasi vista imporre, a uno
Stato di sì poca ampiezza, tanta mole straniera.
Oltreciò, dei battaglioni lombardo-veneti erano in patria non
meno di 22, con officiali la più parte d'altra lingua.
V'erano ancora i cannonieri marini: il battaglione di marina: un
reggimento di gendarmi: un battaglione di polizia, in qualche parte
straniero, e tutto nemico. Davano mano alla custodia dei confini e
delle città, oltre ai gabellieri, alcune migliaia di guardie
militari di finanza: la sola provincia di Como ne aveva 900. E
intrecciate ai presidii austriaci sulla destra del Po, aiutavano a
reprimere il popolo le milizie ducali di Modena e quelle di Parma,
già in recenti tumulti messe a prova di sangue. Tutti questi
italiani potevano valutarsi a più di quarantamila; e
sinchè stavano ferme le armi straniere, erano necessitati da
disciplina, interesse e timore a eguale obbedienza.
Fatto ogni computo, v'erano il 18 marzo ai cenni di Radetzky in
Italia, tra stranieri e italiani, più di centomila soldati.
Ed egli, colla consueta ostentazione, lo scriveva quella sera
medesima ai municipali di Milano: «Avendo a mia disposizione
un esercito agguerrito di 100 mila uomini e 200 pezzi di
cannone». Possedeva codesto esercito le tre grandi piazze
d'armi di Mantova, Verona e Venezia, intorno alla quale solamente si
numeravano 72 punti muniti d'artiglierie e di navi. Possedeva, a
destra del Po, i forti di Comacchio, Ferrara, Brescello e Piacenza;
a sinistra, Pizzighettone, Anfo, Peschiera, Legnago, Càorle,
Osopo e Palmanova; e inoltre i castelli, atti pure contro il popolo
a qualche difesa, di Milano, Pavia, Bergamo, Brescia, Reggio,
Modena, Rubiera e altri assai.
L'esercito non era assopito e illuso da pensieri di pace, ma
sospettoso, vigile, tracotante: acceso dalle declamazioni dei
generali, che solo dal sangue speravano onnipotenza e tesori: acceso
dall'ira palese dei popoli, che ardevano di vendicare le sanguinose
soverchierie di Milano, di Parma, di Padova, di Pavia.
Tutto questo formidabile apparato si vide, entro un centinaio d'ore,
conquiso come in pugna campale. Che anzi, delle fortezze medesime,
rimasero intatte solo Peschiera, Legnago e Ferrara; la custodia di
Mantova e di Verona si ebbe a dividere con guardie civiche e con
soldati ribelli; Venezia, Palmanova e le altre, nonchè le
artiglierie, le polveriere, le armerie, gli arsenali e le navi,
furono perdute. Al termine di cinque giorni, rimase di quei
centomila schiavi armati, all'obbedienza dell'Austria, poco
più d'un terzo. E questo era strappato dalle sue sedi:
disperso, senza tende e senza viveri, sopra trecento miglia di
strade guaste e interrotte: senza avvisi, e in parte, senza comando:
trascinando seco feriti e donne; contaminato e funestato di rapine e
di crudeltà; non osando più riposarsi nelle case, ma
di fuori, nel fango e tra i fossati, fracido dalla pioggia le
vestimenta e i calzari, rotto dalla fame, dalle veglie, dal freddo,
dalle ferite, dai notturni terrori: avvilito dalla repentina
impotenza de' suoi generali e del suo sovrano, e dall'improviso e
quasi superstizioso terrore del popolo, che lo incalzava col suono
delle campane e col nome di Dio. Pareva in quei giorni che, per
esser uomo e poter combattere, fosse quasi necessario ripudiar
l'abito e le ordinanze di soldato. Dopo le antiche sconfitte delle
armi persiane, e la fuga di Barbarossa, non s'era mai forse mostrata
così nuda al mondo la vanità della forza brutale.
È vero che la vittoria del popolo non ebbe durevoli effetti;
ma ciò non toglie che sia stata una vittoria, ciò non
toglie che sia un fatto. E la forza che lo produsse, la forza che
conquassò in poche ore quella faticosa compagine d'uomini e
d'armi, fu cosa vera e viva. Ed è prezzo dell'opera
esplorarla e descriverla; e chiarire d'onde fosse venuta: e
congetturare se debba credersi interamente sfogata e spenta come le
forze sotterranee che progettarono i basalti e le trachiti: o se
giaccia inesausta nei recessi delle anime, donde a tempo e luogo
prorompere a nuove evoluzioni. Per poco che si consideri, questo
è fuori d'ogni dubio, che le forze belliche del nostro popolo
non vennero, nemmeno in quei prodigiosi giorni, attuate se non nella
minor loro parte. È certo anzi, che vennero raffrenate da
quelle medesime influenze che parevano fomentarle. Quella
successione d'eventi fu diversa nel suo complesso anche da
ciò che parve a coloro stessi che vi ebbero maggior mano, i
quali, assorti da quanto compievasi intorno a loro, non seppero
ciò che a breve distanza accadeva.
Si è narrato nell'altro volume, come in Milano i più
autorevoli sommovitori mirassero quasi solo a far dimostrazioni.
Agitavano Milano, per agitare col pericolo e collo strazio di Milano
la Liguria e il Piemonte, onde col fremito popolare suscitar le
ambizioni ad un tempo e i timori del re, volendo essi trascinarlo a
regnare in Milano e stabilire, a loro potenza e gloria, una corte in
Milano, poco importa se di voglia sua e de' suoi, o di
necessità. Ma l'agitazione, che in mano a siffatti uomini
sarebbe stata teatrale e vana, divenne verace e potente per opera di
Radetzky. Il quale, colla nuova arroganza da lui permessa
all'esercito, e colle sanguinose provocazioni, aveva esaltato nei
popoli il senso della nazionalità, unica forza rivoluzionaria
che fosse allora in Lombardia. Solo da pochi mesi aveva cominciato
il popolo a presentire tutta la santità de' suoi diritti. Il
nome di Pio IX aveva congiunto in uno la coscienza del fedele e
quella del cittadino, le quali una dottrina sacrilega e vile aveva
da tanti anni messe a contrasto. L'amor della patria non parve
più delitto al cospetto di Dio. Si videro, in quella
improvisa fede, piangere di gaudio vecchi onorati, che fin dalla
gioventù avevano deposto appiè delli altari i
più generosi affetti, e inclinata la fronte al decreto di Dio
che li aveva voluti al mondo senza diritti. Epperò nel
popolo, sciolto da quelli artificiosi lacci e conciliato colla sua
ragione, ribolliva il sangue di quelli antichi suoi padri, che
avevano affrontato i romani e i goti e i due Federici, e spezzato le
corazze francesi a Parabiago, e le alabarde svizzere alla Bicocca.
In mezzo a questi fieri sentimenti, cadde come scintilla sulla
polvere la novella della fuga di Metternich e della libertà
di Vienna. Ma quel riverbero di libertà non nostra parve ad
alcuni più esoso della passata servitù; pensarono che
potesse abbagliar gli animi: sedurli a qualche nuovo impasto
d'italiano e di tedesco, il cui solo pensiero pareva un abominio.
Non capirono che il sentimento nazionale era già più
forte d'ogni paura o d'ogni lusinga; non pensarono qual poderoso
soccorso sarebbe alla mente publica, dopo tant'anni, un raggio di
libera stampa; non videro che la rimanente Italia abbisognava, se
non d'anni, almeno di mesi, per ordinarsi nell'armi e nei pensieri,
ed esser pronta sulla frontiera il dì supremo; non intesero
che la guerra ci avrebbe infeudati immantinente a chi aveva
bensì gli eserciti, ma non li aveva intesi a strumenti di
libertà, e nemanco di guerra. I più precipitosi e
improvidi si raccolsero a notturno consiglio; deliberarono di gettar
fra il popolo, nell'indimani stesso, il segno della battaglia, certi
che l'avrebbe accettata. Ma non considerarono che in siffatto caso
era poi mestieri essere audaci; non perdere momento: nella notte
stessa sorprendere i generali: arrestar tutti i corrieri: dar di
tocco a tutte le campane: barricare i battaglioni entro le caserme,
isolarli, affamarli: dare con una folla incessante d'avvisi
l'allarme ad ogni provincia, affinchè, oppressi a furia di
cittadini e contadini i suoi presidii, riversasse tosto la sua
gioventù sulle vie militari e sulle piazze d'armi. Ora,
ciò non si poteva fare, perchè nulla erasi preparato:
non accordi: non armi: non denaro: sole e perpetue e gratuite
dimostrazioni, e suono lontano di società secrete, delle
quali il popolo nulla sapeva. Parve adunque assai, porgere occasione
che la battaglia nascesse da sè. La rimisero alla dimane, a
ora tarda. Volevano adunare il popolo intorno ai municipali, in cui
ben sapevano non esservi alcun bellicoso elemento; pur tuttavia
volevano battezzarli capi di guerra; aggiungervi anzi altra simile
zavorra, e costruirne un governo autorevole; e confidavano poi di
poterlo essi governare, e col bagliore di quei nomi allucinare la
città, e con essa il regno e l'Italia.
L'adunanza del popolo non doveva essere armata «almeno d'armi
palesi; incalzata per avventura dalla soldatesca, si sarebbe
disciolta e dispersa, ma per trovarsi armata alle 5 sulla piazza del
Teatro». Così dovevano i cittadini cominciar la
battaglia solamente se la soldatesca era in ordine per incalzarli e
disperderli, dovevano cominciarla coll'abbandono della casa
municipale e colla fuga, per ricominciarla in altro luogo cento
volte men popolare e meno adatto, tra il Comando militare e la
Polizia, ove la soldatesca vittoriosa avrebbe loro impedito
d'arrivare.
Il preside del municipio, Gabrio Casati, «fu l'ultimo al quale
fu annunciato quanto doveva avvenire». Alle otto di quella
stessa mattina lo s'informò officialmente, e quasi gli
s'impose di recarsi al palazzo municipale. Egli scongiurava si
sospendesse: si risparmiasse il sangue: il Piemonte, entro due
settimane, avrebbe fatto la guerra all'Austria: promessa a lui fatta
dallo stesso re.
Casati, per evitare il pericolo, si avviò, prima dell'ora a
lui prefissa, verso altra ed estrema parte della città,
ov'era il palazzo del governo: «al governo, per conciliare,
anzichè al municipio a promulgarne il decadimento». Si
tentò d'impedire quell'improvisa passeggiata; ma fu
impossibile sviare la folla. Colà giunto, il Casati si
trovò inanzi a O' Donnell: si guatarono atterriti. Un
granatiere alla porta aveva fatto foco: un colpo di pistola nel
petto l'aveva steso a terra. L'onda del popolo aveva travolta e
disarmata tutta la guardia. «Mentre il sangue suggellava la
rivoluzione, Casati implorava qualche concessione. O' Donnell si
scusava. Infine gli astanti lo costrinsero a sottoscrivere ed
avviarsi prigioniero al Broletto. E quasi prigioniero era il Casati
in mezzo alla turba; la quale, acclamando la rivoluzione, univa a'
suoi gridi anche il nome di colui che contro animo, pallido,
esterrefatto la seguiva».
Scrive Carlo Clerici, giovane assai popolare in tutta la
città: «Ci avviammo, e mi si disse da chi era stretto
all'alta lega di nascondere, pel mio bene, la sciabola, il tutto
potendo terminare ancora in una semplice dimostrazione. Ma un popolo
non si move invano. E il nostro aveva deciso terminarla per sempre
coll'Austria. Ad un prete che mi domandò se doveva far sonare
le campane a martello, titubando altri, risposi di sì. E fra
gli applausi, che alcuni ci facevano sin dai tetti colle tegole in
mano, marciammo, sotto una pioggia di coccarde, ridenti e
ardimentosi».
Giunti a mezza via tra il Governo ed il Broletto, scontrarono una
pattuglia, che al veder tanta gente la salutò ad ogni buon
conto con polvere e piombo. Casati e O' Donnell si rifugiarono nella
vicina casa Vidiserti. Così fu stabilito dal caso il quartier
generale dei cittadini. Nei decreti dettati a O' Donnell erasi
attribuita al municipio la polizia; e gli si concedeva di dare le
armi della guardia di polizia alla guardia cittadina. Ora che le
armi erano concesse, rimaneva d'andare a torle a chi le aveva. Fu
inviato a tal uopo al direttore Torresani il delegato provinciale
Bellati, e nulla ottenne.
Era invasa di pattuglie tutta la città, tuonava il cannone,
allorchè alle tre apparve sulle pareti un appello al popolo,
per opera di quei medesimi che nella notte avevano decretato il
combattimento. Invitavano i cittadini a proclamare «unanimi e
pacifici, offrendo pace e fratellanza, ma non temendo la
guerra», l'abolizione della polizia e delle leggi statarie, lo
scioglimento dei prigionieri, la libera stampa, la guardia civica,
una reggenza (erano memorie pertinaci del 1814), e infine, «la
neutralità colle truppe austriache». Volevano dunque la
guerra? o non la volevano? Se la volevano, perchè far
inciampo alla furia del popolo con codeste menzogne di pace e di
neutralità? Che se volevano veramente colla fratellanza delli
oppressi soprafare gli oppressori, non bastava più rivolgersi
al popolo: era mestieri appellarsi nelle loro favelle ai soldati:
era mestieri sventolar subito in faccia alle attonite pattuglie i
tricolori delle nazioni, o quell'unico colore che parla a tutte di
libertà: gridare all'ungaro ch'egli era ungaro, al croato che
i suoi figli erano in Croazia: dir loro che Metternich era fugito:
che l'imperio non era più: che Radetzky non aveva più
ordini, che non aveva più comando: che l'imperatore chiamava
a far le leggi altra gente (ed era affisso ai canti delle vie): che
ogni soldato ora tornerebbe in pace alla sua patria nel nome di Pio
IX e della libertà: sommergere nel vino e nell'aquavite,
nelli evviva a tutti, e nell'abbraccio ai fratelli, la coscienza
militare e la paura del bastone: isolar gli officiali, o attrarli
nel vortice, poichè v'erano pure in quelle file gli Aulich, i
Meszaros, i Klapkanota: gettare nell'impotenza e nel disprezzo i
vecchi i quali avevano decantato quelle spade invincibili che non
potevano più sfoderare. Era pur grande il ridicolo di veder
trionfante la rivoluzione a Vienna, a tergo di quei reggimenti che
venivano a marce forzate a soffocarla in Italia. Era maggior ferita
all'Austria sedurle un battaglione, che trucidarne quaranta. Ma per
codesta guerra di fratellanza era mestieri che i Balbo, i Gioberti,
gli Azeglio e gli altri non avessero insultato all'Europa, gridando
in nostro nome guerra ai barbari, e che gli esuli, inspiratori dei
secreti pensieri all'Italia, le avessero fin d'allora additato la
formula fraterna dell'universale libertà.
E che faceva intanto il consiglio dei generali, adunato nella
cancelleria militare presso il Castello? Se l'animo loro fosse stato
di conservar fedelmente al principe il più forte de' suoi
regni, avrebbero dovuto lasciare che il governo civile e i
magistrati urbani ventilassero fra loro le questioni d'ordine e di
polizia: incasermare i militari, o meglio, accamparli in massa:
domandare i viveri al municipio: evitare ogni conflitto, o avvenuto
dissimularlo: non combattere se non per necessità, e da
uomini onorati e umani: bellum iustum, pium. Poichè avevano
gettato ai popoli tante minacce e tante sfide, qualcuno poteva
spendere infine una parola di pace. Che se a questo passo ripugnava
la superbia militare, dovevano farne interprete il governo civile, o
quelle stesse congregazioni centrali che il sovrano allora aveva
promesso di chiamare a consiglio.
Nulla di tutto ciò. L'interesse dello stato non era quello
dei marescialli avidi d'oro e d'arbitrio. Passò tutto quel
giorno, senza che una parola onesta uscisse ad ammansar le ire che
fremevano in tutti i cuori. Le novelle di Vienna furono gettate
villanamente ai popoli, aride e nude quali il telegrafo le aveva
sillabate. - «La presidenza dell'imperiale regio governo si fa
un dovere di portare a publica notizia il contenuto d'un dispaccio
telegrafico, in data di Vienna 15 corrente». - Le
congregazioni centrali dovevano adunarsi pel 3 luglio. Perchè
non prima? Perchè non subito? A un popolo, da tant'anni
deluso in ogni suo voto, quell'appuntamento, dato il 15 marzo pel 3
di luglio, parve una derisione. Parve l'ultima goccia dell'odioso
calice.
Le novelle di Vienna tornavano più contrarie ai governanti
militari che ai civili. A questi presagivano solo nuovi riti
amministrativi: più di ciance e meno d'inchiostro: e a chi di
loro avesse ingegno promettevano più onorata fortuna. Ma ai
marescialli, che si erano giurati alli insegnamenti russi e li
avevano già ripetuti nel sangue, l'èra parlamentare
dissipava quelle crudeli speranze. Per poco che l'Austria dovesse
cedere alla necessità de' tempi, essa doveva richiamar tosto
dall'Italia coloro che l'avevano tratta a quelle opere di sangue,
dalle quali ella aveva sempre saputo astenersi. E ciò era
anche necessità di finanze, poichè Radetzky dilatava
ogni giorno la voragine; e avendo già 80 mila soldati da
pascere, ne domandava almeno altri 70 mila. «L'esercito attivo
in Italia non dovrà essere minore di 150 mila uomini».
«Già da anni il maresciallo domandava 150 mila uomini,
come forza assolutamente necessaria». Dimandava inoltre di
cinger Milano di sedici fortezze, che il generale Hess voleva
«con moltissime feritoie rivolte verso il Duomo». Ma,
come scrive il general Willisen, «Vienna si ritraeva per
economia». Epperò i militari fremevano contro i
governanti civili; e Hess li appellava «miserabili
faiseurs». Ora, non potendo aver altre armi per sè,
Radetzky aveva dimandato licenza di disarmare i popoli. Il che
mostra come la dimanda ch'ei faceva di nuovi soldati non fosse solo,
come altri scrisse, «nell'ambizioso generale la smania di
vedersi capo d'un esercito più numeroso». Doveva
piuttosto essere sagace estimazione della natura dei popoli,
ciò ch'è il contrario di quanto ne sentenziò
l'arrogante scrittore di Custoza. Il disarmo in quei momenti era
sembrato al governatore Spaur pericoloso, e quasi impossibile;
epperò i generali l'avevano fatto richiamare a Vienna, ove
l'avevano falsamente fatto credere odiato dai popoli. Tuttavia il
governo esitava ancora, consigliato a ciò da quelli che lo
avevano servito con buon esito in altri tempi e con altra politica.
E gli eventi di Vienna diedero autorità ai consigli civili.
Laonde Radetzky scrisse dal Castello la notte del 18 marzo:
«Si credeva che le notizie telegrafiche avrebbero calmato il
popolo milanese; e il signor governatore conte O' Donnell
m'indirizzò richiesta (Ansuchen) ch'io non ponessi in moto le
forze militari, se non nel caso che venissi a ciò
dall'autorità civile addimandato (aufgefordert)». E
perciò fu costretto il maresciallo, in quella stessa mattina
del 18, a dare ai soldati quell'ordine del giorno che parve strano,
ingiungendo loro che stessero testimoni tranquilli delle
dimostrazioni del popolo; ordine che non proveniva già da
«cecità» del generale, essendo la sua
cecità di contraria natura; ma da dura forza che lo legava ai
voleri dell'autorità civile, e da nuova responsabilità
verso gli ignoti governanti di Vienna. E questa disdetta era per
Radetzky un primo passo sul pendio del discredito e della
destituzione, se i capi del moto nazionale avessero avuto mente da
intendere ciò ch'era a fare. Infine, a chi voleva combattere
non era mai superfluo pigliarsi il tempo necessario per armarsi e
ordinarsi, dacchè fra tante vane agitazioni non vi si era
menomamente pensato. E a ciò mirava il programma del giornale
il Cisalpino, scritto nella notte del 17, e compendiato in quella
formula: «guai alli inermi!».
Appena giunse ai generali l'avviso che il popolo verso
mezzodì tumultuava intorno al palazzo di governo, essi
cominciarono a tendere le reti sulla città, e scatenare
contro i cittadini la soldatesca. Si depose da un testimonio:
«Alle ore dodici e mezzo circa, le truppe austriache
cominciavano a disporsi sulla Piazza Castello, in drappelli
separati; ma niuno sospettava quale fosse il loro divisamento. Ad
un'ora e mezzo circa, la Piazza Castello non prometteva niente di
sinistro; quand'ecco uscendo tre carrozze, e attraversando la piazza
per recarsi al Dazio, staccarsi un drappello di ussari; si presenta
alla portiera, scaricandovi diversi colpi di carabina; nè
contento di questo, adopera la sciabola». E ciò non
avveniva solo sotto le batterie del Castello, ma in tutte le vie
della città, ove le pattuglie erranti erano inviate ad
accattar briga. Si cacciarono perfino sui tetti delle chiese a far
piovere fucilate entro le pacifiche case. Si depose da un altro
cittadino: «Alle ore una e mezzo circa, si presentano i
cacciatori (tirolesi), e col mezzo dei loro zappatori, a colpi di
scure sfondarono il portello dell'Arcivescovato. In seguito
atterrarono la porta che mette alla via sotterranea; e di porta in
porta, tutte sforzandole, entrarono in Duomo; e di là
salirono sullo spianato superiore». Un altro cittadino, il
quale abitava tra la caserma di S. Francesco e la casa di Radetzky,
anzi nell'isola medesima con questa: «Alle tre circa, due
palle ruppero i vetri della mia stanza; vidi granatieri ungaresi,
difilati lungo la parete opposta, collo schioppo appuntato alla
guancia; repentissimi, frequenti colpi di scure alla porta: grida
feroci: un alto lamento nell'interno delle case; gli abitatori
innocenti, disarmati, ravvolti fra donne e figli correnti,
lacrimanti, stridenti: non altro scampo che attraverso ai tetti: i
granatieri sul tetto dietro le nostre pedate. - Corsero ai piani
d'abitazione: con baionette e spade forarono i ritratti: sfondarono
armadi, ponendo mano a denari, orologi, argenterie. - Nei seguenti
giorni, nascosti dietro le griglie dell'appartamento di Radetzky,
giorno e notte facevano foco su chiunque passasse per la via, fosse
donna, vecchio o fanciullo».
Scrissero i prezzolati austriaci, che il maresciallo fece tosto
udire il cannone d'allarme. Ma quando si udì il cannone, la
città era già da più d'un'ora in preda alla
rapina e all'uccisione. «Già cominciava a tuonare il
cannone; erano le tre, quando s'udiva il primo colpo, seguito a
brevi intervalli da altri due; ciò che volessero dire quei
colpi e dove fossero diretti noi ignoravamo». Chi aveva
ammonito il popolo del significato di quei segnali? Ha forse diverso
rimbombo il cannone d'allarme dal cannone a mitraglia? A Brescia, il
principe Carlo Schwarzenberg, a cui premeva di tener quel popolo
tranquillo e inoperoso, lo invitò in persona propria alla
pace e alla reciproca indulgenza; e fece inoltre publicare dal
municipio che il «movimento ostile delle truppe sarebbe prima
prudenzialmente annunciato dal castello con tre spari di cannone,
caricati a sola polvere, acciò ognuno potesse ripararsi alle
proprie case». Ma altro conveniva fare in Brescia, altro in
Milano: bisognava punire le turbolenti città ad una ad una! -
Se udiamo gli austriaci, ogni passo dell'esercito fu impetuosa
vittoria; la brigata Wohlgemuth, di tirolesi, boemi, moravi, ogulini
e artiglieri, espugnò d'assalto tutte le barricate al palazzo
di governo. Ma il fatto è che nei cento passi d'intervallo
tra i bastioni e il palazzo v'era una barricata sola, e non difesa,
perchè il popolo era già partito con O' Donnell, e i
soldati v'arrivarono anche dalla parte opposta. «In poco
più di mezz'ora furono allestite cinque barricate; una,
cioè, verso i bastioni, una subito dopo il palazzo verso il
ponte, una al ponte e due nella contrada della Passione; a costruire
le quali si adoperarono le carrozze, carrette e tavole trovate nel
palazzo». «Intanto che mi ristoravo, comparve truppa al
palazzo e al ponte: io diedi un occhio ai giardini per cavarmela;
erano già pieni di soldati: avanzava un picchetto con un
officiale; passò per le barricate lentissimo e disordinato;
non sapeva atterrarle nè saltarle; pochi uomini che fossero
rimasti a difenderle potevano ricacciarli tutti; andavano i soldati
a tre, a quattro, tementi, incerti; ad ogni momento battevano a
raccolta». Al dir di Radetzky e de' suoi, anche la brigata
Rath penetrò vittoriosa, sforzando tutte le barricate,
«fino al centro della città, a lato al Duomo». Ma
sul Duomo, a un'ora e mezzo, erano già pervenuti «per
l'Arcivescovato e la via sotterranea» i tirolesi, rompendo le
interne porte, e non prendendo d'assalto le barricate. E si erano
nascosti a bersagliare i cittadini anco in una buca dietro il Duomo.
«Appena passata la cavalleria, vedemmo i tirolesi uscire dallo
sportello dell'Arcivescovato, e andare a mettersi nella buca, ove si
demoliscono le fondamenta di quella casa, alla quale avevano posto
il nome Casa d'Austria, per essere isolata e cadente; e di là
tiravano su di noi». A quell'ora, e più tardi ancora,
cavalcavano intorno al Duomo ussari e gendarmi; e se qua e là
frapponevasi qualche inciampo di banchi e di tavole, codeste
barricate erano tali ancora che gli ussari potevano sbizzarrirsi a
saltarle, e i cittadini sbizzarrirsi a colpir gli ussari al volo.
Che anzi, quando la strage era già cominciata, le carrozze
s'aggiravano ancora per città; la quale non era dunque ancor
barricata. Un soldato del Geppert, vide in Castello «un
carrozzino aperto senza cavalli, e dentro una signora morta e un
signore che tratto tratto dava ancora qualche sospiro; avevano
ambedue la faccia tutta spaccata dalle sciabolate per dritto e per
traverso, che sarebbe stato impossibile di riconoscerli». Chi
segue il racconto d'una compagnia d'operai, la quale si
aggirò per la città fino a sera, può farsi un
concetto del modo con che le barricate si andavano qua e là
con mano inesperta tentando. In nessun luogo vi era densa adunanza
di popolo; la chiamata al palazzo municipale erasi dispersa in una
lontana processione, la quale nel ritorno aveva smarrito i suoi
capi. La grande occasione, d'operare di primo impeto e con poderosa
mole, era trascorsa senza frutto; tutti i varchi erano aperti al
nemico sino al cuore della città; i capi non avevano nemmen
pensato a dar l'avviso di barricare almeno quanti più si
poteva dei quindici ponti del Naviglio interno; chiusi i quali, i
cittadini avrebbero avuto a far fronte solo tra ponente e
settentrione. Non si pensò nemmanco a chiamare alle armi il
quartiere ove il popolo abita più numeroso e solo. «Al
dopopranzo, invano alcuni pochi giovani in Porta Ticinese tentarono
di far le barricate: nessuno voleva credere che nelle altre parti
della città fosse scoppiata la rivoluzione; epperò,
nel timore d'ingannarsi, i più tentavano d'attraversare le
ardenti disposizioni d'alcuni».
Altri stupirà che invece di raccogliere qua e là gli
elementi di pomposa narrazione, noi sembriamo quasi ridurre a minor
momento i fatti di quel giorno. Ma giace tra le macerie qui
accumulate una verità che importa ad ogni modo dissepellire;
e si è, che il grande edificio militare, la cui caduta siamo
per descrivere, non venne scosso dal popolo con tutto il nervo del
suo braccio. E nessuno vorrà dire che non sia prezzo
dell'opera trarre in luce una tal verità.
Mentre di tal modo i generali provocavano a ineguale battaglia il
popolo, essi pensavano ad assicurarsi la vendetta, attorniandolo
d'ogni parte, occupando con fanti e cavalli e cannoni tutto il
circuito delle mura. Per l'ampiezza del giro, 12 chilometri,
l'operazione richiedeva qualche ora. Il tempo era piovoso; scendeva
la notte; Radetzky uscì finalmente dal suo ricetto per
ripararsi nel vicino Castello. «Alle cinque e mezzo, esce dal
Castello mezzo battaglione di granatieri con due cannoni e dodici
cannonieri; e appena ha fatto il risvolto della contrada S.
Marcellino, si sente una scarica generale di fucili, indi venti e
più colpi di cannone. Rispondono dalle finestre gli abitanti
con vigoroso foco di fucilate. Fatta notte, si ritirano i detti
granatieri e cannonieri entro il Castello, essendo stato loro scopo
di sgombrare le case vicine alla casa Cagnola, ov'era il
maresciallo. Diversi feriti e morti vengono portati nel Castello con
barelle e lettighe».
Non era ancora messo in salvo il maresciallo, che già
incominciavano gli alti fatti della giustizia militare. «Sul
far della sera, una pattuglia di croati conduceva in Castello un
giovane: e siccome si opponeva resistendo coi pugni, lo
strangolarono; e lo appiccarono sopra una lampada: i generali ed
officiali ridevano». E un antico officiale austriaco confessa
che qualora si trattasse di violenze e rapine: «chi per
rendersi più beneviso alla truppa, chi per sfogare il suo
odio e dispetto contro la canaglia latina, faceva mostra di non
vedere, quando non incoraggiava». Ed era a sì basso
fine ch'erasi instillato alla soldatesca il sospetto che ogni cibo
che provenisse dai cittadini fosse avvelenato; e affettavasi
perciò di far pregustare a' fornai il pane che si toglieva
pei soldati; e già da molti mesi prima eransi fatti
incatenare in varie caserme i manubri delle trombe dell'aqua, come
se fosse avvelenata.
Ma il sommo atto della militare vendetta doveva cadere sulli
agitatori del popolo, che il maresciallo imaginava già
costituiti in governo provisorio nel palazzo municipale; anzi
imaginò e scrisse quel dì d'aver visto i loro
proclami: «Allora mi furono spediti proclami di un governo
provisorio, la cui sede era stabilita nel palazzo municipale».
Benchè il Broletto fosse nell'isola attigua alla Cancelleria
Militare, e lontano di là nemmeno duecento passi, narrano gli
scrittori austriaci, che: «le truppe del general Wohlgemuth
consumarono quattro ore a sgombrar le vie: assaltarono il palazzo
alcune compagnie del Baumgartten, del Reisinger e delli Ogulini;
indarno si sforzarono i zappatori di quei reggimenti d'abbattere le
porte; ed erano quasi tutti morti o feriti, quando i pochi
superstiti, aprendo una bottega di rimpetto, v'introdussero un pezzo
da 12, i cui colpi sfondarono il portone».
Come avvenne che i municipali, all'avvicinarsi del nemico da ambo le
parti del palazzo, non pensassero a chiamare il popolo, o ad
assicurarsi almeno una ritirata? Per tenerli a bada, sicchè
non si sottraessero, Radetzky aveva simulato di tenersi secoloro in
officiale carteggio. Stavano essi aspettando che, in virtù
della firma di O' Donnell, la polizia cedesse le armi della sua
guardia, intendendo cominciare con quelle l'armamento della civica;
e frattanto il popolo ne aveva tolte quante ve ne aveva nella vicina
bottega del Sassi, e le aveva portate in palazzo. «Impiegati
continuavano a far la lista della guardia civica, quando un
assessore venne a portar notizia ch'erano traditi: poco dopo giunse
la seguente lettera di Radetzky datata dal Castello; la fece
accompagnare da mezza divisione di granatieri». Nella lettera
si leggeva: «Intimo a codesta congregazione municipale di dare
immediatamente gli ordini pel disarmamento dei cittadini; altrimenti
dimani mi troverò nella necessità di far bombardare la
città. Mi riservo poi di far uso del saccheggio e di tutti
gli altri mezzi che stanno in mio potere. Aspetto al momento un
riscontro».
La condizione del municipio era iniqua. Di qual forza doveva egli
valersi per togliere le armi ai cittadini? Come potevano gli avvisi
esser letti nelle tenebre della notte? Come si poteva annunciarli a
suon di tromba nella vasta città, quando ad ogni passo
v'erano soldati che ferivano quanti incontrassero, «fosse
donna, vecchio, o fanciullo»? Il preside del municipio erasi
dovuto fermare a mezza via. E lo stesso maresciallo, poche ore dopo,
scriveva a Ficquelmont: «Pur troppo l'efficacia della polizia
è affatto elisa, è assolutamente impossibile far
conoscere i proclami da me diretti al popolo». Quali fossero
codesti suoi proclami non sappiamo; poichè nessuno li vide; e
non crediamo che siano stati mai scritti: ma Radetzky nella sua
lettera alla municipalità non l'accusò d'essersi
costituita in governo provisorio; la considerò come
autorità legitima e consueta. Con qual titolo dunque ei la
faceva in quel momento medesimo assalire a tradimento nel palazzo?
Essa era al suo posto.
Non bastava ch'egli scrivesse in quella sera a Ficquelmont:
«Milano è dichiarata in istato d'assedio».
Dichiarata? Quando? Con qual atto? e da chi? Fatti di così
tremenda natura, che annientano d'un colpo tutti i diritti delle
leggi e dell'umanità, devono esser publici e non occulti;
devono annunciarsi alla luce del sole, e non di notte, nel
nascondiglio d'una caserma. «Il nemico s'avvicinava: ecco
giungere a fretta vari del popolo che avvertivano invaso il vicino
Ponte Vetro: nel cortile del palazzo sopragiungeva portato a braccia
un ferito: il popolo l'aveva levato dal luogo del conflitto e lo
portava a morire tra' suoi».
Intanto il municipio rispondeva a Radetzky: «Lo pregava
cessasse il foco, perchè, durante la notte, l'autorità
potesse indurre nelli animi colla persuasione la
tranquillità; prometteva avrebbe adoperato ogni via. Pregava
di pronta risposta: la congregazione sarebbe rimasta in permanenza
sino al mattino, ad attendere le sue partecipazioni. Un capitano di
pompieri fu incaricato di trasmettere il foglio a Radetzky».
Ad un tratto il Broletto si trovò investito; entrò a
furia uno stuolo di granatieri ungaresi. Furono tosto loro incontro
pochi giovani, armati di fucili da caccia e di qualche vecchia
alabarda; e i granatieri furono costretti a dare indietro.
«Molti non sapevano spiegarsi il perchè Radetzky, in
cambio di rispondere alla lettera, mandasse que' suoi granatieri; i
più animosi fecero sentire che coloro i quali volessero
andarsene, approfittassero di quelli istanti».
Pochi erano quelli che là erano, ma deliberati: non
più che cinquanta fucili; poca polvere; i soldati erano
già padroni delle case vicine; sfondarono due botteghe, vi
fecero entrare a coperto due cannoni. Pareva che l'edificio ruinasse
dalle fondamenta; una breccia venne aperta. «Il Broletto
sonava la sua campana a stormo: inutilmente: era impossibile al
popolo, per quella via angusta, affollata di nemici, avvicinarsi al
luogo del combattimento. Le munizioni mancavano; ci aiutavamo colle
tegole. A caso ivi trovavasi il generale Teodoro Lechi; proponeva
una capitolazione: nessuno accettò. La resistenza tornava
inutile; ma la capitolazione pareva troppa vergogna; prevalse
l'opinione dei più, quella di restare immobili. Entrava
furiosamente la truppa; erano incirca due mila fra boemi e croati;
avevano modi feroci; percotevano gli inermi. I più dei nostri
s'erano rifugiati nell'appartamento del delegato regio, che venne
pure invaso e sfrenatamente saccheggiato. A frenare quelle turbe
indisciplinate non valeva la presenza d'un maggiore de' croati
Ottochan; nè meglio valeva la presenza del delegato;
nè quella di sua moglie circondata dai figliuoletti. Il
maggiore dichiarava tutti prigionieri di guerra; domandava
l'immediata consegna delle armi; e non è a dirsi la sua
meraviglia, allorchè vide colli occhi suoi tutte le armi
trovate non oltrepassare il numero di quaranta fucili».
Radetzky nel suo rapporto a Ficquelmont tosto li moltiplicò
in «un rilevante deposito d'armi» (ein bedeutendes
Waffendépot).
Andati sui tetti, e trovati quivi alcuni ragazzi, i soldati li
precipitarono nella via; li usci cadevano sfondati sotto le scuri.
Uno dei nostri, nelle strette della morte, dava qualche gemito: lo
ferirono di baionetta. I prigionieri furono condutti in Castello, in
fila, a due a due, preceduti e seguiti da cannoni e fra triplici
file di soldati. Si minacciava loro la forca; i feriti che mal
potevano camminare erano mandati inanzi, a calciate di fucili, o a
pugni sul volto. Il Broletto rimase occupato dai croati. «Non
è a dirsi qual mostra facessero di sè quei ceffi
bruni, lordi di sangue, ebri di vino e di furore».
L'istitutore Antonio Boselli non aveva voluto lasciarsi chiudere
entro il palazzo: uscì coraggioso sulla via; ferito di
baionetta, cercò riparo dietro una barricata; e poco stante
due colpi di moschetto gli aprirono altre ferite: pure ebbe animo e
lena di strascinarsi a casa: spirò con accanto la moglie e le
due bambine.
Tale fu la prima vittoria. Due ore di combattimento di duemila
contro cinquanta. Nondimeno Radetzky affettò di credere
già conquiso il popolo: «reciso il nervo capitale della
rivolta» (den Hauptnerf der Revolte). E immantinente ne
spediva pomposo nuncio a Vienna il capitano di stato-maggiore conte
e ciambellano Huyn. E alle liete novelle, il giovine arciduca
Ranieri scrisse, poche ore dopo, da Verona, ad altro dei figli del
vicerè: «Ora è cosa fatta; la conservazione
della città di Milano alla monarchia si deve solo al senno
del maresciallo e al valore delle truppe. Il capitano Huyn
passò di qui andando corriere a Vienna. Nel partire, alle 11
della sera, vide tutto lo spettacolo fatto in città. Al
Broletto i cannoni da 12 devono aver fatto buchi magnifici. Il
maresciallo lo spedì, quando, certo della vittoria, faceva
far cucina ai soldati sulle piazze. Huyn disse esser morti circa 40
soldati, e molti feriti. Tutti i prigionieri, non escluso Casati e
il duca Litta, che si dicono pure del numero, si dovevano fucilare.
La legge marziale fu già spedita, ieri, a Milano con un
officiale e due bersaglieri borodiani; ed oggi (20 marzo), alle due,
può essere già pubblicata e messa in opera. Questo
è ben ora l'unico mezzo; purchè solamente ne vengano
ammazzati parecchi».
Così non fu. Il giorno 20, alle due, il vittorioso
maresciallo aveva già implorato dai cittadini un armistizio,
per bocca di quello stesso maggiore delli Ottochan che gli aveva
condutto i prigionieri da inviare al supplicio.
Il giorno 20, il tenente colonnello d'artiglieria Carlo Kugler,
dello stato-maggiore dell'artiglieria stanziale nel Distretto Veneto
(Garnisons-Artillerie-District), venne arrestato dal popolo
d'Inzago. È superfluo il dire ch'ebbe salva la vita,
benchè a scemarsi d'importanza si fosse mentito semplice
tenente di fanteria. Non passò un mese che il colonnello
Tomaso Zobel fece uccidere nelle fosse di Trento il giovane Blondel
e altri sedici giovani, presi sul campo. Stanno ancora scritti nel
sangue i nomi di Ludovico Batthyany, d'Ugo Bassi e d'altri e
d'altri. Così è: il nostro popolo serbò nella
vittoria l'avita sua natura: parcere subiectis. In Germania, sin dai
tempi d'Arminio, la vittoria s'intese in altro modo: supplicia
captivis (Tacito, Ann., I).
La vera vittoria del maresciallo era contro il governo civile; era
quella d'aver colto il destro di fondare in Italia la sua militare
onnipotenza. Accesa la guerra, qual ministerio l'avrebbe potuto
richiamare dal suo comando? Ma quanto alla vittoria contro il
popolo, pur troppo egli stesso ne dubitava, quando alle due dopo
mezzanotte dettava queste parole: «Non posso peranco indicare
la mia perdita in morti e feriti; ma non può essere stata
lieve. Per il momento si ha quiete; ma può darsi che al levar
del sole incominci il conflitto. Io sono deliberato di restare, a
qualunque costo, padrone di Milano. Se non si desiste dalla pugna,
bombarderò la città».
Se il maresciallo aveva voluto appiccar battaglia, il popolo l'aveva
accettata. Già prima di sera, numerose pattuglie dovettero
ceder le strade ai cittadini, e ridursi a far foco dalle finestre
delli edifici. Quella che incontrò la comitiva di Casati,
abbandonò due moribondi; una fu respinta da tre fucili;
un'altra, da quindici. Il generale Rath si fece strada fino al
Duomo, prima «con dolci parole», poi camminando
più che di passo, «e perdendo fucili e berretti».
Ussari e Reisinger furono cacciati da Camposanto; i granatieri,
dall'atrio della Scala; i croati, dal ponte di Porta Romana. A sera,
il lavoro delle barricate era immenso; dovunque si udiva un picchio
di sassi e di ferri. Ma fra i vari rioni era interrotto il passo. La
sventura del municipio rimase ignota in casa Vidiserti; nessuno
recava novelle a capi che non sapeva ove fossero, o chi fossero, o
se vi fossero. «I più ardenti», confessa uno di
loro, «invece di rannodarsi, di recarsi serrati in mezzo del
popolo, si dispersero a dar minuti provedimenti». Uno
spirò sotto le prime fucilate; altri era fuori di
città; altri alle barricate; altri, per commozione delirava.
Ma rimase la fatale preoccupazione che i combattenti dovessero
attinger valore e consiglio nella mansueta congrega del municipio. E
anco il municipio era prigione o disperso.
Ov'erano quelle arcane società intorno al numero, alla
potenza, alla onnipresenza delle quali avevano tanto per tant'anni
favoleggiato le emigrazioni e le polizie? D'onde attendevano ancora
l'iniziativa? Un giovine «che non aveva appartenuto a
società secrete, nè alla nobile consorteria delle
dimostrazioni», Enrico Cernuschi, era uscito senza progetti,
ma era corso a mettersi accanto a Casati e compagni:
«combattere i tedeschi», egli scrive, «era il
pensiero generale; vegliare, spingere i nobili era il mio,
dappoichè si era voluto, ad ogni costo, metterli in
cima». Già fin dal mattino aveva presagito che la
processione finirebbe nel sangue; e ancora in Broletto, aveva tratto
fuori una sciabola, gridando guerra; ma Borromeo l'aveva rattenuto.
Era tra quelli che avevano dettato i decreti a O' Donnell, che lo
avevano scortato, che ora lo vegliavano in casa Vidiserti; era con
lui l'amico suo Luciano Manara, e ordinava i 63 armati che quivi
erano. Cattaneo li sollecitava a non attendere il nemico in quel
posto, fra due strade, a pochi passi dall'ultima barricata; era
infatti come il Broletto. Rispondevano che avrebbero venduto cara la
vita; ma egli replicava che non importava perdere e morire, ma
vincere e vivere. Alcuni temevano che, la traslocazione fosse un
raggiro per toglier loro Casati e O' Donnell. Era già presso
il mattino, quando Cernuschi li trasse in una delle case dei
Taverna, nella angusta via de' Bigli, in isola più vasta, ove
potè ordinar tosto più linee di difesa, e uscite varie
e sicure. Si deliberò di farne certo qual secreto; volevasi
anzi tutto sottrarre il capo al ferro del nemico. Nei monumenti
greci vedonsi spesso figure di combattenti nudi, ma coll'elmo in
capo. All'alba era fatto; si diede il tocco alle campane e il grido
d'allarme.
Quale era stato, in quel primo dì, l'aspetto delle altre
provincie? Alle gravi novelle di Vienna, Venezia liberò a
forza Manin e Tomaseo; in Brescia, tra il fremito del popolo, fu
ucciso, gridando viva l'Italia, uno di quei granatieri italiani che
il sospetto di Radetzky aveva allontanati da Milano. Ma nessuna
stilla di sangue in alcun'altra città. Trieste fu paga di
vituperare l'imagine di Metternich; Vicenza dimandava la civica;
Verona accoglieva il vicerè col grido, viva la costituzione,
morte ai tedeschi; i Mantovani facevano festa in chiesa e in teatro;
stringevano la mano alli officiali. Le novelle di Milano non
giunsero oltre Varese, Como e Bergamo; nella notte giunsero a
Cremona, portate dal caso, coi viaggiatori. Scrive Carlo Clerici:
«Mi restò fisso in mente che Cernuschi propose spedire
dovunque nostri incaricati che facessero le nostre parti anche
all'estero; il che bisognava far subito, prima che la città
fosse circondata dalle truppe». Nessuno fra tanti facultosi
ebbe mente e cuore d'immolare un cavallo o un pugno di scudi, per
lanciare un rapido appello alle altre città. Arese
partì, ma per Torino, ov'era già una colonia di
sollecitatori. In quel giorno 18, il re aveva finalmente perdonato a
quelli che gli avevano offerto la corona d'Italia; ma il nuovo
ministerio di Cesare Balbo, ricusò ai lomellini la licenza di
armarsi; privilegiò in Torino 500 guardie civiche, per
difendere dalla gioventù i ricoveri dei gesuiti. Arese ebbe
una ripulsa: non l'avrebbe avuta, s'egli o altri si fosse rivolto a
Brescia, inviando di là messi e stampe a Verona, a Mantova, a
Bologna, gettando ovunque la scintilla che i popoli aspettavano
bramosamente, sorprendendo, senz'ordini e senza consiglio, fra lo
stupore delle repentine novelle, i comandanti militari e civili. A
Varese, copia dei decreti di O' Donnell venne affissa quella sera in
teatro, ov'erano forse trenta officiali; ebbero agio d'uscire, e
recarne avviso al colonnello, ch'erasi già coricato; e tosto
fece svegliare all'armi tutto il battaglione. Bergamo inviò
staffette, ma solo nella sua provincia. Como non potè operare
quel giorno, e dispose cautamente di preoccupare pel mattino i
campanili, i forni militari e la polveriera. Fu questa dunque una
levata d'armi quale poteva attendersi dopo tante dimostrazioni?
Raccogliamo in breve il concetto istorico di quel giorno memorabile.
Alcuni giovani costrinsero i municipali di Milano a prestare
all'irritato popolo un'occasione di tumulto: Radetzky se ne
giovò, per afferrar tosto l'ambito governo militare; ma nel
farlo, sebbene la rivoluzione non avesse armi, nè capitani,
nè consiglio, nè tampoco notizia di sè,
evocò dalle viscere del popolo una forza, che i suoi
centomila armati non valsero più a prostrare.
Surse, dopo dirotte pioggie, sereno e fausto il secondo giorno.
Rivaira, comandante dei gendarmi, visto il decreto che affidava al
municipio la publica sicurezza, fece significare a Casati ch'ei si
rassegnava alli ordini suoi. Ciò avrebbe tolto al nemico
ausiliari efficaci e mediatori pericolosi. Casati non osò
accettare; scrisse a Bellati (ei nol sapeva già prigioniero)
di recarsi a convenire di ciò con Torresani, intendendo che i
gendarmi, fatti duci delle pattuglie civiche, sarebbero «il
miglior mezzo termine, per tranquillare la città». La
lettera fu sdegnosamente lacerata dalli astanti; intanto s'inoltrava
il giorno; e il cannone toglieva l'adito alla casa di Rivaira.
Radetzky nella notte aveva fatto fare il ruolo de' suoi prigionieri.
«Pur troppo, il capo de' ribelli, il podestà conte
Casati non era tra quelli che furono presi ieri nel palazzo
municipale, epperò il comitato direttore fu presto
riordinato; pare che la sede del governo improvisato sia nel palazzo
del conte Borromeo». Era anzi nell'opposta parte della
città! Che valeva all'Austria l'essersi fatta esecrabile al
mondo per le sue polizie, quando, al momento supremo, dovevano i
suoi generali versare in sì palpabili tenebre? Chi non ha
partigiani, non ha polizia.
Nella strategia del secondo giorno, le truppe, non potendo,
nè osando più vagare fra le barricate, intercettarono
stabilmente le vie, presidiando 52 edifici. Cingevano inoltre per
dodici chilometri i bastioni. Dalle porte, ove stavano con
artiglierie, ora s'inoltravano pei corsi entro la città, ora
escivano lungo la circonvallazione e le vie postali. Spezzate per
tal modo, e legate a punti fissi, esse offersero prima l'aspetto
dell'esitanza, poi quello dell'impotenza e del timore. Al palazzo di
Giustizia, non si vergognarono d'aggrappar dalla porta con una lunga
pertica uncinata, un compagno caduto. Due giovani sul ponte di
Monforte affrontarono colle carabine un cannone, lo tennero indietro
per un'ora; i soldati stavano nascosi fra le colonne del palazzo, o
sdraiati a terra; un capitano che volle trarli sin oltre il ponte,
cadde ucciso; la truppa si ricacciò nel palazzo, appostandosi
dietro i comignoli del tetto e le finestre abbarrate. Fu quivi
ucciso d'una cannonata Giuseppe Broggi, ammirato per l'infallibile
sua carabina. Spirò d'un colpo di cannone, in mezzo al corso
di Porta Romana, il calzolaio Valentini. Fu trafitto da una palla in
fronte, sulli archi antichi del ponte di Porta Nuova, il salumiere
Volonteri; ma quel monumento rimase un forte inespugnabile, difeso
da Augusto Anfossi, Manara, Enrico Dandolo, Luigi Della Porta ed
altri, che tosto o tardi diedero tutti per la patria la vita. Dal
Broletto, un officiale minacciava codardamente ai cittadini la
forca. «La forca sarà per te», gli rispose il
droghiere Puricelli; e sebbene ferito, non si ritrasse finchè
nol vide rintanarsi nel Broletto co' suoi. A Piazza Mercanti,
artiglieri, uccisi o fugitivi, abbandonarono un cannone. Alla Corte,
come deposero poi due delli ungaresi che quivi erano:
«investiti d'ogni parte dai cittadini, che sdegnando di
starsene dietro le barricate, uscivano ad assalirci all'aperta, e
dalle donne che dalle finestre sparavano colpi di pistola, inviammo
al Castello a dimandar soccorso; ma delle due o tre compagnie del
Gyulai che ci furono spedite, pochi arrivarono, e sì
malconci, che si risolse di ritirarsi. Fin d'allora si tentava
l'affratellamento colli ungaresi. Un uomo pieno di coccarde
nazionali, che sono delli stessi colori per gli ungaresi e gli
italiani, si presentava loro, invitandoli alla diserzione.
Consigliato da essi a ritirarsi, troppo tenace nel suo proposito,
non volle rimoversi; onde preso dai cacciatori tirolesi, fu tosto
fucilato. Più di 36 ore dovettero i granatieri ungaresi star
sotto le armi, esposti alle intemperie, e ciò che più
importa, privi di cibo». Anche i carcerati nel palazzo di
Giustizia rimasero senza cibo per ben 48 ore; senza viveri per 40
ore quelli della polizia generale; Radetzky ebbe ad avvertire i
consoli «che i carcerati nella Casa di Correzione mancavano di
viveri». E fu anche per questa imprevidenza che le
soldatesche, erranti nei rioni più remoti, si mutarono in
orde fameliche e rapaci, a strazio delle derelitte innocue famiglie.
Non era solo effetto di barbarie; poichè i boemi del
Reisinger incrudelirono peggio assai de' croati. Non era effetto
d'esaltazione bellicosa del soldato, che «prendendo d'assalto
le case, trucidasse chi lo aveva combattuto (seine Angreifer
niederstach)», come vennero imaginando poscia gli escusatori
di Radetzky. No! nessuna di quelle infelici case era stata difesa o
assalita, essendo tutte in quell'estremo lembo della città
che stava affatto in potere del nemico. Era per i vili sospetti
instillati dai generali; era per la insensata dispersione delle
truppe, onde non fu possibile far loro pervenire i viveri. Nè
parimenti era possibile che da 52 punti si raccogliessero i feriti,
e si traessero per le due o tre vie che rimanevano tuttora aperte
nell'interna città. Solo a notte oscura, si osò
trasportarli «con carrette e lettighe, che lasciavano sui
marciapiedi larghe strisce di sangue». E quella vista
funestava le soldatesche, accampate sui vasti spazi della Piazza
Castello, intorno a luridi fochi, su cui gettavano carrozze e
suppellettili, cantando e urlando ferocemente, quasi per dissimulare
a se medesimi la loro disfatta. E altro terrore infondeva in quelle
rozze anime la vista della eclissata luna, in forma di globo
cupamente arroventato. Al contrario i cittadini, nella coscienza del
loro diritto e del favore di Pio IX e di Dio, ne traevano baldanza e
ilarità.
Giunse nella sera in casa Taverna un primo dono alla patria di lire
tremila dall'ingegnere Filippo Alfieri; e rese esuberante servigio
in que' giorni, quando ogni venalità nei poveri pareva
spenta. Altri apportò carte intercette al nemico; ma Casati e
i suoi, sempre oscillanti fra la guerra e la pace, negavano si
aprissero. Una di esse avvertiva come, con ordini anteriori alle
novelle di Vienna, il maresciallo, provido nel male, avesse
distribuito più di 500 cariche d'artiglieria in Padova,
Vicenza, Mantova e Verona.
Mentre si tentava dar qualche forma alla fortuita difesa, Casati
«si sottrasse alla vigilanza delli armati che facevano
sentinella al suo onore». Immantinente Cernuschi, accompagnato
dal figlio medesimo di Casati, ne andò in traccia; e
«gli venne fatto di scoprirlo rannicchiato nella soffitta
d'una casa vicina, d'onde usciva polveroso, coperto di ragnateli. Il
figlio n'ebbe a versar lacrime». La generazione che surge
è migliore di quella che tramonta.
A fronte di poche centinaia di fucili, Radetzky, benchè,
avesse fin dal primo scoppio entro le mura circa 15 mila uomini,
s'era già indutto a chiamare due battaglioni tirolesi da
Cremona, uno del Gyulai da Pavia, una parte del Geppert da Monza, e
aggiungeva nella notte del 19: - «Chiamo a me cinque
battaglioni, coi quali dimani all'alba comincerò di nuovo il
combattimento contro Milano e lo condurrò, come spero, a buon
fine». Se nel primo giorno colle sue squadre mobili, aveva
provocato i cittadini al combattimento, nel secondo giorno colle
immobili sue posizioni aveva inspirato loro la fiducia nella
vittoria.
Al di fuori accorreva già la gioventù delle pianure,
affrontando impavida la cavalleria. Giuseppe Guy, milanese, venuto
co' suoi contadini da un podere presso il Po, bersagliava
dall'aperta campagna gli austriaci accovacciati sul bastione, quando
la carabina d'un ussaro lo colpì a morte. I condottieri delle
due strade ferrate, sprezzando la nuova minaccia di morte,
condussero notte e giorno convogli d'armati. Il passo del Lambro a
Marignano venne chiuso. Il nemico non ebbe più corrieri.
«Non fu possibile spedire il mio dispaccio (del 19)»,
scriveva Radetzky, «perchè ogni communicazione al di
fuori è talmente interrotta, che solo con grosse scorte
può giungere a me o partire alcuna notizia». Non era
dunque reciso il nervo capitale della rivolta, com'egli aveva
sognato; ma bensì, essendo recisi i nervi che ponevano in
moto le inanimi membra dell'esercito, i corpi isolati ricadevano
nella dubiezza e nell'inerzia. A un esercito di servi manca, col
bastone del comando, la volontà e la vita.
Como sorprese in quella matina la polveriera di Geno, armò i
cittadini, spiegò la bandiera tricolore; ebbe soccorso di
quattrocento uomini, approdati colle vaporiere del lago. Ma dalla
Svizzera non le giunse in quel giorno più che uno stuolo di
14 esuli; mentre il presidio nemico s'ingrossò di 800 soldati
del Prohaska che stanziavano in Mariano e Cantù. - Bergamo,
che dal suo colle poteva contare ogni colpo che straziava Milano, si
armò; e quando, a notte tarda, corse voce che contro la
parola data dall'arciduca Sigismondo partiva un battaglione chiamato
da Radetzky a Milano, il popolo di Borgo Palazzo gli precluse
intrepidamente la via; gli uccise il comandante. - A Brescia,
presidiata in gran parte d'italiani, i maggiorenti, indettati da
Torino, e resi imbecilli da quella speranza, raffrenarono l'impeto
del popolo; lo persuasero (cosa quasi incredibile) ad aspettare
rassegnato le sue sorti da quelle della combattente Milano;
appellarono «colpa e danno crudele e irreparabile» ogni
atto ostile; patteggiarono il privilegio delle armi a 200 agiati
cittadini. Il generale Carlo Schwarzenberg potè illeso
percorrere a cavallo la città, intanto che le sue robe si
ponevano in salvo entro una caserma: e scorgendo «la
più perfetta calma e tranquillità e buono spirito che
ovunque regnava, potè provarne le più dolci
commozioni, ed esprimerne i più cordiali e sentiti
ringraziamenti». Quelli improvidi ozi, quando Milano
combatteva, vennero poi scontati nel foco e nel sangue, quando
Milano fu disarmata e derelitta: dum singuli pugnant, universi
vincuntur. - Intanto la vicina Crema, perchè aveva poco
popolo e angusto contado, sebbene si mostrasse quel giorno piuttosto
in festa che in tumulto, venne ferocemente insanguinata da
cacciatori tirolesi e dragoni austriaci. V'ebbero quasi 80 feriti
dei cittadini, e 2 soli dei soldati; all'arrivo poi di due cannoni e
di 400 soldati italiani del presidio di Lodi, la città fu
interamente disarmata. Il qual caso ebbe gravi effetti;
poichè quivi era il convegno ove lo smembrato esercito
potè accozzarsi.
A Cremona, presidiata pure d'italiani, il popolo, non provocato
dall'arroganza straniera, «fu pago di ottener la liberazione
d'un cittadino arrestato in forza della legge stataria; invano
accorsero migliaia d'armati dalle campagne». - In Mantova, ove
pure italiano era il presidio, il comandante Gorczkowsky potè
acquistar tempo, concedendo il «privilegio» delle armi a
qualche centinaio di cittadini, che presero in custodia innocente le
porte della fortissima città. Un numeroso comitato
predicò «l'ordine e la tranquillità»,
vestendo a mansueta insegna la «sciarpa bianca». - La
coccarda bianca soppiantò nell'agitata Verona la tricolore.
Il cauto arciduca, che non aveva interesse, com'altri, a sconvolgere
e insanguinare il regno, concesse la custodia di quella pur
fortissima città a 400 privilegiati; costrinse la soldatesca
«a sfilar taciturna e sparire fra il tripudio del
popolo». - La custodia delle porte fu concessa anche ai
cittadini di Vicenza. Così, tranne la pianura milanese e il
suburbio di Bergamo, nessun soccorso diedero, nemmeno in quel
secondo giorno, i popoli indarno commossi alla città
combattente.
In Piemonte intanto, il nuovo ministro Ricci chiedeva in iscritto
che Genova «lo coadiuvasse colla tranquillità
più profonda», quando, a rompere il nuovo letargo
costituzionale, giunse, alle otto del mattino, la nuova che la
guerra era cominciata. E a prima giunta Cesare Balbo, l'uomo della
guerra ai barbari, obliò tosto l'unum porro necessarium; e
rispose alle grida della gioventù, che voleva aver armi,
chiudendole in faccia le porte dell'arsenale. Parve gran cosa a quei
decrepiti adulatori dell'Italia, di prometterle tre campi
d'osservazione a Chivasso, Novi e Casale, dietro la Sesia e il Po.
Era già strana cosa che in Milano amici e nemici riputassero
capo del popolo un uomo ch'era mestieri tenere quasi a forza. Ma per
poca notizia che si avesse di quanto accadeva nelle più
interne parti della città, palesavasi il fatto più
strano ancora, che il popolo dapertutto combatteva, e in nessun
luogo aveva capi. Si pugnava a caso «senza alcun disegno,
sforzandosi ciascuno presso le sue case d'acquistar terreno,
d'abbarrarsi, di scoprire armi e munizioni e toglierne al
nemico». Nella notte, qualche cittadino, sdegnoso che
l'occulto comitato dei patrizi non mostrasse la faccia, propose si
gridasse republica, si ricorresse alla Svizzera testè armata,
alla libera Francia. Se parlate di republica, rispose Cattaneo,
tutti i signori saranno per domatina in Castello con Radetzky. - I
soccorsi francesi e svizzeri erano lontani e incerti; la republica
non avrebbe nemmeno i soccorsi dell'Italia, tutta infervorata allora
de' suoi principi. Era forza mietere ciò che si era seminato.
Il popolo, per verità, non intendeva la commissione alla
Savoia; avrebbe mille volte preferito l'alleanza del popolo
francese; avrebbe preferito mille volte una federazione republicana,
col nome di Pio IX. Carlo Clerici, ch'era «uno dei primi
anelli tra il popolo e l'alto ceto», scrive: «la
republica era ben addentro nel sentire del nostro popolo: chiamata,
sarebbe surta». E nel primo giorno quel grido si era qua e
là udito fra il popolo, «drappelli di cittadini
percorrono la città, gridando viva Pio IX, viva l'Italia,
viva la republica». Ma erano voci che uscivano solitarie dal
cuore; non esprimevano patti di parte. E anche a Brescia, in
febraio, alle novelle di Parigi tale era stato lo spontaneo
sentimento del popolo: «la prima notte si passò tutta
in riunioni, ai caffè, sotto ai portici, nelli alberghi,
nelle taverne: sembrava la celebrazione d'un trionfo nazionale. E
quanto al Piemonte, dicevasi, la viva aspettazione che se ne aveva
va sbollendo, perchè nessun fatto si vede mai. I giudiziosi
pensano che sia l'Austria autrice di tali rumori, che destano
sospetto e diffidenza, ma il popolo non ragiona».
Sventuratamente altri ragionava per lui; e lo sviava dalla madre
idea della libertà, chiamandola «il trionfo
predeterminato d'una forma governativa». E ammoniva i
siciliani contro «l'egoismo di libertà».
Non sapendosi che un governo in Milano era già secretamente
pattuito prima che il combattimento cominciasse, proposero alcuni si
procedesse ad eleggerlo immantinente. Ma il nome di governo
involgeva necessità di personaggi autorevoli. Se codesti
signori ne fanno parte, rispondeva Cattaneo, vi saranno d'impaccio;
se non ne fan parte, impediranno che sia obbedito. Epperò
propose un consiglio meramente di guerra, e di pochi e deliberati,
solo per dare ordine alla difesa; anzi proponeva si chiamasse
«comitato di necessità». Si scrissero i nomi
delli astanti, onde interrogarne il suffragio. Ma molti ad ogni
momento, in cerca d'armi e d'indirizzo, entravano, uscivano; nulla
si raccapezzava. Alla fine parve più pronto ripiego prendere
i primi quattro nomi, scritti in capo alla lista delli astanti. E
così la rivoluzione andava a caso d'una in altra mano. Ove
stavano, sia detto un'altra volta, le secrete associazioni?
Perchè i capitani della arcana milizia non si ponevano
inanzi, se v'erano?
Quel fortuito consiglio di guerra fu poscia trasfigurato dai
romanzieri torinesi, in una prima elaborazione dell'Italia
republicana, in un primo pegno delle venture discordie. Non è
così. Di quattro soli, ch'erano i membri, non si conoscevano
tutti, nemmeno di saluto. Giulio Terzaghi e Carlo Cattaneo si
conoscevano solo dacchè dimoravano quivi allato colle loro
famiglie nella casa Gavazzi. Giulio Terzaghi e Giorgio Clerici erano
patrizi; e questi fu sempre sì poco in voce di republicano,
che la fazione regia gli commise poscia il comando della guardia
nazionale. Enrico Cernuschi si vantava scevro d'ogni legame, avverso
persino a quei notissimi che dettavano le dimostrazioni. Cattaneo
aveva pensato a giovare la patria senza metter mai verbo in
politica. E nel primo giorno, quando gli amici vennero matutini ad
annunciargli la processione municipale, e dimandargli consiglio per
l'evento d'un conflitto, egli aveva risposto che il correre
immantinenti alla forza, quando nulla si era fatto per possederla,
gli pareva troppo favorevole al nemico, il quale era presto e
bramoso. «Il podestà farà mitragliare i
cittadini; egli va da cieco ove lo spingono. Questi 40 mila fucili,
li avete visti? Siete poi certi che questo comitato vi sia? Hanno
fede cieca in Carlo Alberto; e saranno corrisposti come al solito.
Bisogna pigliar tempo per armarci; e perchè tutta Italia si
metta in grado».
È debito e diritto di giustizia porre in luce questi fatti,
per dissipare le menzogne, onde certuni vennero pascendo poi l'anime
sciocche. E vuolsi considerare questo irresistibile effetto delle
rivoluzioni: ch'esse ingrossano come le vallanghe, travolgendo nei
più temerari propositi i più cauti animi, mentre il
fiocco di neve che fu motore primo e nucleo della immane mole, vi
resta per lo più confuso e smarrito. E perciò, ad ogni
ritorno, la rivoluzione sempre più ingrossa; sinchè le
minorità primitive, che valevano solo per la loro leggerezza,
prevalgono col numero e col peso morto, e ponno invocar senza tema
il suffragio universale.
Radetzky non potè il terzo giorno tener la parola, colla
quale erasi, la sera inanzi, addormentato: - «Chiamo a me
cinque battaglioni: domani comincerò di nuovo il
combattimento». Anzichè cominciare il combattimento,
gli fu forza precipitare la ritirata dalle parti più interne
della città. Quelle sconnesse posizioni non si collegavano
più al Castello, se non per due o tre varchi tortuosi, verso
i quali si cominciò presso l'alba a dirigere i cittadini che
venivano a offrire le braccia e prendere indirizzo. Tosto il mezzo
della città offerse uno spettacolo di militare confusione e
ignominia. I tirolesi scesero precipitosi le scale marmoree del
Duomo, e per i sotterranei dell'Arcivescovato si raccolsero alla
Corte; si posero dietro al generale Rath, che «precedeva il
convoglio a gran carriera, per salvarsi dalle pietre e dalle palle
che i cittadini, svegliati all'improviso rumore, tempestavano sulle
truppe». Il popolo armato invade gli atri della Corte, le
stanze dei principi. Ma rispetta a tutti, ma perdona a tutti: alle
famiglie tedesche rifugiate in chiesa: ai poliziotti nascosi nelle
cantine: ai feriti ungaresi, che porta sulle vittoriose spalle
all'ospitale. Anche gli offici della polizia generale rimangono
avvolti nel turbine. Quel Torresani, il quale andava spiando da
tanti anni, e vessando e umiliando una gioventù che fra tante
molestie intendeva solo la necessità d'esser libera, si
traveste da gendarme; si mischia alla cavalleria; giunge semivivo di
paura in Castello, lasciando cumuli di carte semiarse, abbandonando
alla vendetta la moglie, la figlia, la vedova del figlio coll'unica
bambina. All'irrompere del popolo impetuoso, «in elegante
gabinetto, una giovane signora, vestita di seta nera, stringendosi
al seno una bambina, con a lato una cameriera, entrambe pallide,
tremanti, stavano ginocchioni. Mandò questa uno straziante
gemito all'entrar del primo, credendosi vicina ad essere
sacrificata. Ma l'entrato, confortandola, e dato ordine che con
modesto sciallo si coprisse la testa e la faccia lacrimosa, presala
sotto braccio, e chiamato un altro cittadino, guidarono quel
derelitto convoglio alla casa paterna dei conti Giovio; e, trovatala
chiusa, la ripararono presso la famiglia Morandi». E dove era
il conte, lo spauracchio della città? Due delle sue spie lo
palesano nascoso in una soffitta entro il fieno: pallido,
contrafatto, coi capelli irti, chiedente pietà e
misericordia, cavato di là, vien cercato sulla persona se
avesse armi, onde non potesse uccidersi nè tradire.
«Figurati, lettor cittadino, la scommunicata figura di quel
laido vecchio, quella persona tremante, coperta di pagliuzze, che
colle braccia aperte si lascia frugare nelle tasche; e ne cavano,
invece di stili e pistole, ne cavano, pane e formaggio. L'ira dei
più accaniti si volse in riso».
Conveniva tenere il popolo in questi alti e gloriosi propositi.
«Prodi cittadini», gli diceva un appello del consiglio
di guerra, «conserviamo pura la nostra vittoria; non
discendiamo a vendicarci nel sangue dei miserabili satelliti che il
potere fugitivo lasciò nelle nostre mani». Di quella
mal locata clemenza si duole ora il popolo amaramente. Ma furono
forse quei pochi spregevoli perdonati che gli balzarono poi le armi
di mano, quando venne tempo di difendere una seconda volta la sua
città? Furono forse quelli abietti che gli insegnarono a
riporre una stolta fede nei traditori, e ad abbeverare di dispetti e
d'oblio i provati amici? Che gli gioverebbe nella sventura il
sentirsi chiamar barbaro come i suoi nemici? Le crudeltà
presenti parrebbero giuste rappresaglie. E la vendetta dei nemici e
il loro perdono avvilirebbero del pari la sua coscienza; la quale,
ora, può contemplar impavida e indomita quell'avvenire che
porrà un'altra volta a' suoi piedi i vigliacchi insanguinati.
E parecchi officiali in quella confusione non ebbero tempo a
salvarsi: e, tratti inanzi al consiglio di guerra, tentarono
sostenere l'usata arroganza, pretendendo di non essere prigionieri,
ma parlamentari. «È meglio che diciate d'esser
prigionieri», rispose loro Cattaneo. «Come?
parlamentari? Il vostro esercito deve già esser a ben tristi
termini, se s'adatta sì presto a spedire parlamentare a
poveri ribelli». E frattanto l'arciduchino Ranieri in Verona
si consolava pensando che la legge marziale poteva già esser
messa in opera, e fucilati tutti i cittadini prigionieri! E v'era
fra gli officiali captivi un conte Thun, che un mese inanzi aveva
insultato a man salva, presso il corpo di guardia del conte
Ficquelmont, il cittadino Borgazzi, e che, disarmato da lui, lo
aveva fatto vilmente carcerare; poi lo aveva divulgato per tutta la
Germania come sicario. Ed ora stava, umile, e senza spada, inanzi ai
cittadini. E in quell'istante, pochi passi lontano, i suoi
commilitoni stavano trucidando nelle sue stanze il predicatore
Lazzarini; poi si ritiravano all'appressarsi del popolo; e per
disviare i suoi colpi si facevano precedere da cinque preti a croce
alzata. Tali sono i conquistatori. E v'è chi scrive che ogni
popolo merita il suo destino!
Il consiglio di guerra incalzava i combattenti: «Il generale
austriaco persiste; ma il suo esercito è in piena
dissoluzione. Molti officiali si dànno prigioni; interi corpi
atterrano le armi avanti il tricolore italico. Cittadini!
perseverate; questa è la via che conduce alla gloria e alla
libertà».
Le truppe, smarrite fra gli andirivieni delle barricate, fecero
simulate offerte di arrese o di pace, al Ponte Vetero, al Genio, al
Comando Militare, a S. Simone. Un maggiore dei croati Ottochan venne
a dimandare in nome di Radetzky qual fosse la mente dei magistrati.
Reduce Casati dalla fuga, e pressato sempre a costituire con
municipale autorità un governo provisorio, si era solamente
piegato ad annunciare che aggregavasi al municipio alcuni
collaboratori; ma vi affastellava presenti e assenti, e anche
Teodoro Lechi, ch'era prigioniero in Castello; e attribuiva a
Bellati, pur prigioniero, la polizia. Udito il messaggio di
Radetzky, egli propose, per la città sola, un armistizio di
giorni quindici, affinchè il maresciallo potesse invocare da
Vienna nuove concessioni. E intendendo che i soldati si
consegnassero nelle caserme, e i cittadini desistessero dal
combattimento, invitò in presenza dell'inviato il consiglio
di guerra a dire se vi volesse dar mano.
Rispose il consiglio: non potersi oramai staccare dalle barricate i
cittadini; la consegna nelle caserme non offrire veruna
sicurtà; il combattimento sospeso potrebbe ad ogni momento
riaccendersi. La campana e il cannone, già da tre giorni,
avevano desti i popoli all'armi; i soccorsi erano in via;
un'armistizio circoscritto alla città lasciava libere le
truppe d'esterminarli; o dovere il combattimento cessar dovunque, o
dovunque proseguirsi. Se il maresciallo veramente era mosso da
umanità, se voleva arrestare il combattimento in tutto il
regno, i soldati italiani gli basterebbero a conservar l'ordine,
finchè arrivassero le nuove istruzioni da Vienna;
allontanasse immantinente i soldati stranieri. - Come? rispose il
maggiore sdegnosamente; un maresciallo ritirarsi inanzi a cittadini?
- Voi parlate d'umanità, gli si replicò, e non
d'operazioni di guerra; i ministri che diedero al maresciallo
facoltà di mitragliare e bombardare, sono caduti; i loro
ordini non hanno più vigore, fino a che i loro successori non
abbian parlato. Si valga di ciò il maresciallo, prima che il
suono d'allarme giunga di campana in campana sino ai passi delle
Alpi. Separando i due elementi irreconciliabili, potrà dire
d'essere entrato nel nuovo ordine europeo; e intanto veramente
avrà salvato l'esercito.
Invano Casati riluttava. La gioventù, non volendo soffrire
indugio alla pugna, o dar ansa a una perfidia, stette col consiglio
di guerra. Casati congedò il messo, pregandolo a riferire da
un lato i sentimenti dei municipali, e dall'altro quelli dei
combattenti. Egli volle separata nell'animo di Radetzky la sua causa
da quella del popolo. E il consiglio di guerra tacque, e non se ne
fece vantaggio. Importava salvar la città. Ed era forza
mietere ciò che si era seminato.
Altri dirà che ricusar l'armistizio fu temerità. Ma
valga il vero. Fin dalla sera inanzi, i consoli di Francia e
Svizzera avevano promesso ai municipali di protestare, in un colli
altri consoli, contro il minacciato bombardamento; e nella matina
del 20, ne avevano scritto a Radetzky, chiedendo in ogni modo il
tempo di porre in salvo i loro clienti. Rispose il maresciallo, alle
11 del mattino stesso, lagnandosi che si fossero assalite le sue
truppe contro il diritto delle genti; e pregando i consoli d'indurre
i capi ad astenersi da ogni atto ostile; altrimenti ei si
difenderebbe col coraggio che gli inspirava il sentimento
dell'odiosa sorpresa che si era fatta a' suoi soldati. Promise
sospendere per un giorno le misure severe, a patto che i cittadini
cessassero ogni ostilità. I consoli, gli chiesero tosto un
abboccamento per ragguagliarlo delle edificanti disposizioni del
municipio. Lasciamo che, dopo le insidie e le stragi di Milano, di
Padova, di Pavia, era sacrilegio allegare il diritto delle genti; ed
era troppo ridicolo che parlasse di coraggio in faccia a un pugno di
cittadini, chi, poche ore prima, millantava i suoi centomila
soldati, e l'animo deliberato all'incendio e al saccheggio. Diremo
solo che Radetzky, partecipando ciò a Ficquelmont, scrisse il
dì seguente: «Coi consoli si è trattato oggi di
un armistizio di tre giorni; le mie truppe hanno necessità di
riposo, per i più che umani loro sforzi; ed io con questo mi
troverò in grado di circondare più compiutamente la
città». E perchè la voleva il maresciallo
circondare, investire (zernieren)? Fu preso in quel medesimo giorno,
a Inzago, l'apportatore della legge di sangue, la quale concedeva al
maresciallo la licenza di fucilare tutti i ribelli; e a quell'ora,
gli arciduchi in Verona si consolavano pensando ch'era già in
opera. Era dunque Radetzky che abusava dell'intervento dei consoli;
che oltraggiava il diritto delle genti. Sarebbe vano accusar di
perfidia un tal nemico; ma sarebbe ingiusto accusar di
temerità chi sottrasse all'atroce inganno i cittadini.
Libera l'interna città, apparivano ad uno ad uno, e cauti e
taciturni si schieravano intorno al cupo Casati, i membri del futuro
governo. Favoriti per secreto patto dai più accesi promotori
dell'insurrezione, i quali non ebbero tampoco la lealtà di
aprirsene col consiglio di guerra, essi, anzichè adoperarsi a
dare indirizzo al combattimento, attendevano solo a recarsi in mano
col minimo pericolo la massima potenza. In data di un'ora dopo
mezzodì, comparve verso sera un loro avviso, in cui si
leggeva: «Le terribili circostanze di fatto, per le quali la
nostra città è abbandonata dalle diverse
autorità, fanno sì che la congregazione municipale
debba assumere in via interinale la direzione d'ogni potere, allo
scopo della publica sicurezza». La publica difesa era dunque
un fatto: non era un diritto. La città non era ribelle: era
abbandonata; abbandonata anche da Radetzky! Il municipio non voleva:
ma doveva; era costretto. E solo con mano dubiosa, e in via
interinale, e per imperio di circostanze terribili, s'induceva ad
assumere ogni potere. Gli infausti nomi di Guicciardi, di Durini, di
Giulini, di Strigelli, di Borromeo, ricordavano i conciliaboli e i
parentadi che nel 1814 avevano posto in mano all'Austria l'esercito
e il regno. Per quali arti erano mai pervenuti coloro a patteggiarsi
il voto della magnanima gioventù? Come potevano i cittadini
dimenticare d'aver deriso, non era ancora dieci anni, quei
maggiorenti della città e dignitari del regno, quando,
radianti di felicità, fregiavano dei loro ciondoli e delle
loro livree le pompe dell'incoronazione? L'uomo ha un cuor solo; e
il cuor di costoro non era stato mai per l'Italia. Nel 1841,
essendosi fatto appello ai cittadini in favore della via ferrata di
Milano a Venezia, essi erano usciti da inveterata inerzia per
impadronirsi di quella splendida impresa. E l'avevano fatta
trastullo d'avara e inetta vanità, millantandosi in faccia a
Metternich di voler fare essi ogni cosa coi loro denari. E
così, non solo per la loro pusillanimità l'impresa
cadde in mano alli stranieri ch'ebbero cuore di locarvi veramente i
necessari tesori. Ma per insensati avvisamenti le opere rimasero
disgregate ai due opposti capi e involte in disperati indugi. Infine
il governo n'ebbe ammonizione a revocare gli ampli privilegi, che,
contro ogni consuetudine, aveva largiti all'impresa. I quali, con
accorgimento esercitati, avrebbero messo in pugno ai cittadini tutte
le communicazioni civili e militari e la chiave di tutte le
fortezze. Se gli sconnessi tronchi di Treviglio e di Vicenza furono
di tanto sussidio nei cinque giorni, non è a dirsi quanto le
veloci communicazioni con Peschiera, con Verona, con Venezia
avrebbero giovato; essendochè dal lato suo il nemico,
timoroso d'insidie, non osava avventurare su quei precipizi i suoi
battaglioni.
Ordinata nel 1841 quella congrega, e raccomandata dalla veste d'un
publico interesse, e dal conflitto in che s'era posta col governo,
ricomparve in mezzo all'agitazione del 1847. E seguita dall'antica
caterva di satelliti bassamente adulatori e bassamente
malèdici, e dall'altra nuova di generosi inesperti, vantando
d'avere quando che sia a pronta disposizione tutte le forze del
Piemonte, e penetrando col numeroso servidorame nella plebe,
s'impadronì di questa più ardua e sublime impresa; e
la condusse per infinite astuzie a funesto fine. Ma intanto era
impossibile disfare d'improviso la vasta rete con ch'ella
avviluppava da anni la cittadinanza. Era necessario che calamitosi
fatti dimostrassero ai cittadini la sua morale e mentale impotenza.
Tuttociò che rimaneva, fra quell'improvisa frana delli
eventi, era di vigilare, affinchè quelli insensati, per
credulità o per paura, non traessero seco il popolo in
balìa del nemico. Epperò i membri del consiglio di
guerra non dismessero il loro assedio a Casati, e si accamparono
nella camera attigua a quella ov'egli era co' suoi. E con pretesto
d'assicurare la custodia delli officiali prigionieri ch'erano di
sopra, e di separarli da certi soldati prigionieri ch'erano di
sotto, intercettarono ogni altro adito; e con consegne di porte, e
con duplici parole d'ordine, difficultarono l'accesso. E si
studiavano di dar essi pronto e diretto spaccio a tutte le inchieste
dei cittadini accorrenti, allegando che il municipio fosse a secreta
consulta e non potesse ascoltarli. Fra queste misere angosce,
dovevasi dar opera ad animare ed indirizzare i combattenti.
Già udivasi, dopo due giorni di silenzio, il grave rombo dei
bronzi del Duomo; già in mano al colosso della Vergine
sventolava il tricolore. Rispondevano con campane e con grida le
pianure; le due strade ferrate apportavano a' piè de'
bastioni squadre continue d'armati. Le soldatesche sulli sfrondati
bastioni udivano e vedevano appressarsi da ambo le parti le onde del
popolo, quando, a nuovo stupore scorsero veleggiare al vento uno
stuolo di palloni, e sorvolar le mura e le porte indarno irte di
baionette. Nei fogli che i palloni spargevano, il consiglio di
guerra si appellava «a tutte le città e tutti i comuni
del Lombardo-Veneto: Milano vincitrice in due giorni, e tuttavia
quasi inerme, è circondata da un ammasso di soldatesche
avvilite ma pur formidabili: noi gettiamo dalle mura questo foglio
per chiamare tutte le città e tutti i communi ad
armarsi». Era così ripudiato il pusillanime consiglio
di patteggiare una solitaria tregua per la città,
dissociandola dalle provincie.
E infatti Como, in quella matina, inviava già in soccorso una
squadra di giovani; purtroppo anzi tempo. Perocchè il
comandante Braumüller, che in quella città di 16 mila
abitanti aveva 1500 soldati tutti stranieri, si accingeva ad
assalirla, tostochè gli giungessero da Saronno l'artiglieria
e la cavalleria che aveva richieste a Strassoldo. La presa d'una
staffetta scoperse il suo proposito; scoppiò tosto nel
sobborgo il combattimento; la squadra fu appena in tempo a
retrocedere. Accorsero dall'interna città i croati; ma,
ripulsi prima di giungere alla Porta Torre, abbandonarono sulla via
ferito a morte il maggiore Milutinovich. La gran guardia col tenente
Knesich, uscì per altra porta; ma fu dispersa; e dopo aver
vagato la notte appiè dei monti, si arrese per fame. Le
truppe ch'erano nelle due caserme suburbane tentarono invano
sforzare la Porta Torre per unirsi di dentro ai croati; respinte
nelle caserme, offersero nuovi accordi; ma il popolo, savio, voleva
cedessero le armi. Dopo tre ore si riprese il foco, con vantaggio
minore, poichè i soldati avevano avuto agio d'adattare a
difesa i tetti e le finestre. I cittadini s'impadronirono della
conserva del pane; apersero feritoie nelle mura della città e
delli orti; fecero fossi e tagliate; tesero catene; pattuirono
segnali d'avviso e parole d'ordine; appuntarono alle porte delle
caserme vari cannoncini, raccolti nelle ville del lago ed in quella
medesima del vicerè al Pizzo; e vegliarono in armi la notte,
intorno ad ampi fochi accesi intorno alle mura e sui colli. Le donne
apprestavano bende e filacce, cartucce e palle; gli alunni del
seminario apportavano i loro peltri; giungevano amici dal lago e
dalle valli; e Francesco Scalini adduceva una squadra di 60
carabinieri ticinesi. La giornata valse ai cittadini una ventina di
feriti o morti; ma un centinaio a' nemici, i quali restarono
rinchiusi, senza notizie e senza viveri. A Bergamo, l'arciduca
Sigismondo, vedendo surgere d'ogni intorno le barricate, ingrossare
il popolo e ridutti i croati a difendersi bruttamente dalle finestre
delle caserme, fece chiedere a sera un abboccamento col comitato; e
per gli operosi offici del conte Lochis, ottenne pur troppo che i
cittadini sospendessero le offese, promettendo che i soldati non
andrebbero a combatter Milano, e ch'ei medesimo non uscirebbe dalla
sua dimora, se non accompagnato da guardie cittadine. Poi nella
notte fuggì.
Un altro arciduca, Ernesto, correva simil pericolo quella medesima
sera in Lodi; ma la fanteria del presidio era italiana, inciampo al
furore del popolo. S'intimò ai cittadini di consegnare al
municipio le armi. I più deliberati, anzichè cederle,
uscirono recandosi al soccorso di Milano; e così quel passo
dell'Adda rimase sicuro al nemico, che per assicurarsi prese in
ostaggio onorevoli cittadini.
Qui hanno fine, e non parrà vero, i fatti d'arme della terza
giornata in tutto il Lombardo- Veneto.
Al di fuori, Parma ebbe tre ore di combattimento, in cui cadde un
colonnello d'ungaresi con alcuni officiali e parecchi soldati
italiani; il duca, accerchiato nel suo palazzo, offerse ai cittadini
la consueta esca d'una costituzione; e tornando alla vita errante
della sua stirpe, lasciò lo stato a una reggenza. Vi
s'ascrissero un Gioia, un Maestri e altri, che si chiarirono poi
clienti di Carlo Alberto; e attesero tosto a sventare ogni impeto di
popolo. - A Modena, i dragoni ducali ferirono qualche cittadino; ma
il duca, che pochi mesi prima aveva detto al popolo, «ho
trecentomila uomini, non ho paura», spaventato, piangente,
dichiarò «che si occuperebbe subito delle risoluzioni
più confacenti al benessere delli amatissimi sudditi».
Ma invero la maggior sua sollecitudine fu di aprirsi un varco alla
fuga. E non era agevole, poichè in tutte le città
circostanti, a destra, a sinistra, a fronte, alle spalle, ruggiva il
terremoto popolare. - Il popolo di Bologna, a dispetto dei
maggiorenti già secretamente accaparrati da Azeglio, mise in
armi quella sera 500 tra popolani, studenti e finanzieri, che al
chiaror delle faci fra gli applausi partirono, guidati dai
republicani Livio Zambeccari e Angelo Masina, avendo «proclami
già stampati, coll'intenzione di proclamar Pio IX a Modena e
a Parma». Poco stante li seguì un battaglione di
guardie civiche; ma inviluppato da superstizioni di giobertiana
opportunità, non osò poi varcare il confine. Quando si
pensa ai battaglioni bene armati di Parma, Modena e Bologna,
ch'erano quella notte a poche miglia da Mantova, presidiata da
tremila baionette tutte italiane, è forza confessare che se
l'Italia non fu libera, egli è che ancora nol volle.
Mantova, infatti, oltre all'aver avuto dal vicerè licenza
d'armare 300 cittadini, animata dalle novelle di Milano, di Parma,
di Modena, li aveva posti quella notte a guardia delle porte con
autorità «d'arrestare i corrieri e aprire i
dispacci». Ma in contradizione a ciò, il municipio
vietò per editto «di munirsi d'armi a chiunque non
fosse abilitato dal commune». E per disviare il popolo,
raccolse denaro da gettargli sotto pretesto di lavoro,
affinchè serbasse «calma, tranquillità e
obbedienza a chi lo dirigeva».
E v'erano, nel giro di poche miglia da Mantova, altre possenti
città che avrebbero potuto, con qualche audace fatto,
decidere delle sue sorti. V'era quella Brescia che, cinquant'anni
addietro, aveva potuto improvisare per Bonaparte ottomila soldati e
che nel seguente anno fece stupir l'Europa del suo disperato
coraggio. V'era, pur nel raggio di 40 miglia, Cremona; v'erano
Parma, Reggio, Modena, e già vicini alle sue porte i
battaglioni bolognesi; e nel Veneto, Vicenza e Verona, e questa
poteva trar soccorsi anche da Trento. E non sono città
isolate, come Trieste o Ginevra; ma ciascuna d'esse è capo di
popoloso territorio. Brescia oltre ai 40 mila abitanti della
città, ne aveva 300 mila nella provincia e 50 mila in Val
Camonica; Cremona ne aveva 250 mila; 190 mila Mantova; 300 mila
Trento; 500 mila Modena con Reggio. E se si prosegue il novero delle
altre città anzidette, si viene a sommar poco meno di tre
milioni di popolo, munito a dovizia di denaro, di viveri, di
veicoli. Ciascuna di quelle città poteva in uno, o due, o tre
giorni al sommo, gettare sulle indifese porte di Mantova e di Verona
tanta gioventù animosa e armata, quanta bastasse non solo a
soprafare i deboli e incerti presidii, e gli avviliti principi e
generali; ma ben anco a difenderle poscia contro gli eserciti. I
quali, senza artiglierie d'assedio, senza cannonieri, senza
munizioni, senza viveri, con lungo traino di feriti e di donne,
cacciati dalle città cisalpine e venete, giunsero poi sotto
quelle mura. Le forze di tanti popoli rimasero nel fatale istante
inoperose. Nessuna voce tampoco si udì che le chiamasse sul
campo; anzi da ogni parte proruppero voci autorevoli a predicar
prudenza e pace.
Brescia, per effetto dei molti esuli, era la città più
allacciata dalle influenze azegliane. Benchè l'albero della
libertà fosse già piantato in Isèo, e la Val
Camonica in armi chiedesse solo ove marciare, il podestà, co'
suoi collaboratori Mompiani, Lonao, Lechi e altri tali, chiedeva
alli austriaci la concessione di armare 200 privilegiati. Dovevano
«esser muniti d'un biglietto a stampa»; e chiunque altro
«non sarebbe autorizzato a portar armi». - Doveva il
signorile registro limitarsi «alle persone appartenenti alla
possidenza e al commercio; se si trovasse opportuno si aprirebbe
anche altro registro per gli appartenenti ai corpi d'arte».
Non si dovevano confondere poveri e ricchi in un registro solo.
«Tenetevi in perfetta calma»; predicavano quei campioni
dell'indipendenza. E per invilire la plebe, ch'era pronta a dare il
suo sangue, le buttavano un tozzo di pane. - «I possidenti
schiusero i loro granai; i negozianti aprirono i loro forzieri;
procurarono al municipio i mezzi di sfamare le migliaia, che tutto
il giorno in attitudine minacciosa, stavano nella Piazza Vecchia,
domandando armi e battaglie». Noi chiediamo alla «Croce
di Savoia» di spiegare questi fatti. I partigiani della Savoia
hanno impedito l'insurrezione di Brescia, o no?
A Cremona, Schönhals aveva voluto accamparsi minaccioso in
Piazza d'Armi con tutto il presidio; ma un battaglione del
Ceccopieri restò in città col popolo; il quale
alzò forti barricate, e ingrossato da contadini in armi
percorse a grosse squadre le vie, e prese saviamente ostaggi alcuni
capi nemici. Nella notte, anche il battaglione milanese dell'Alberto
si diede al popolo. Ma i maggiorenti, anzichè incalzare il
nemico, ch'era ridutto a qualche squadrone d'ulani e una batteria
pedestre, furono lieti di publicare come le loro pratiche presso il
comando della milizia fossero valse ad ottener la promessa che si
sarebbero astenute da ogni atto che fosse per ingenerar diffidenza!
Non pensavano che quando in siffatti casi l'austriaco s'astiene,
egli è che non può. Decretarono: «Le armi non
sono affidate che alla civica, unita sempre alle truppe di linea; il
rimanente dei cittadini rientri tranquillo nell'esercizio delle
proprie funzioni».
E parimenti a Verona, benchè vi si fosse già spedita
la favola che 50 mila piemontesi avessero assaltato il castello di
Milano e preso Radetzky, i 400 dal vicerè privilegiati
facevano pattuglie coi soldati per conservar la quiete. Intendevano
solo a frenare il popolo; il quale, vedendo fornirsi di cannoni il
Castel Vecchio, mettersi compagnie di cannonieri nel forte
Sanfelice, raddoppiarsi i cannoni alla Gran-Guardia, due batterie
campali appuntarsi alla piazza del Pallone, volle che si mandasse
almeno a chieder conto al vicerè. Rispose questi, non esservi
nulla a temere; potersi riposare sulla sua parola (la legge di
sangue era già spedita da lui medesimo; e speravasi messa in
opera). Egli intanto si mostrò mansuetamente pago che la
porta del suo albergo fosse guardata dai civici, con due sole
sentinelle croate; e per trastullare la plebe, fece levare il dazio
dei commestibili. I manuali che a migliaia lavoravano sulla via
ferrata di Vicenza, erano accorsi a Verona, pensando vi fosse da
combattere. Ma le guardie privilegiate chiusero loro sul viso la
porta; e perchè quei gagliardi si accingevano a sforzarla, vi
fu chi li acquietò, narrando come il vicerè avesse
concesso le armi alla cittadinanza, e promettendo che se bisogno vi
fosse si spedirebbe a chiamarli. Aveva ben ragione il giovine
arciduca di beffarsi di quella civica e «delli schizzetti
rugginosi coi quali andava pattugliando», senza avvedersi che
servivano di zimbello al nemico, e che ben tosto glieli avrebbe
ritolti. Il comandante Gerhardi temeva veramente «ad ogni
minuto lo scoppio della ribellione», e negava a Radetzky il
rinforzo del reggimento Ernesto, essendochè Zichy alla sua
volta gli negava da Venezia il reggimento Fürstenwerther.
Bastava la sorda paura del popolo a scemar le forze al nemico. A
crescer pericolo, giungeva allora da Milano quel battaglione Danthon
di granatieri comaschi, bresciani e veronesi, che il sospettoso
Radetzky aveva allontanato da Milano; e lo si faceva accampare, come
appestato, al di là dell'Adige, in Campagnola, fuor delle
mura.
Anche Trento, l'antica republica episcopale, aggiogata contro animo
all'Austria, sentiva il nuovo alito della nazionalità; i suoi
municipali scrissero, il 20, a Mantova, offrendo fratellanza; ma la
fratellanza di quei gloriosi giorni volevasi stringere d'altro modo.
I trentini avevano presidio di poche centinaia d'uomini: potevano
disarmarlo; scendere a sopracapo di Verona; dare a quei cittadini e
granatieri l'elettrica scossa che travolge gli oscillanti.
In quel terzo giorno, se consideriamo in generale, vediamo rotto
l'equilibrio tra l'esercito ed il popolo, tra l'autorità e
l'insurrezione. L'esercito cede materialmente e moralmente. Cede
materialmente il possesso delle vie e de' publici edifici; abbandona
in Milano e in Como la Gran-Guardia, che è il contrasegno del
comando di piazza e del dominio militare d'una città; perde
il possesso delle porte in Como e in Bergamo; divide per patto la
custodia delle porte e la perlustrazione delle vie in Verona, in
Mantova, in Vicenza, in Brescia, in Cremona; lascia alla
balìa dei popoli le persone dei principi in Verona, in
Bergamo, in Modena, in Parma e li riduce a trarsi d'impaccio con
basse simulazioni. Cede moralmente, perchè discende dal punto
fermo del diritto militare, il quale considera la resistenza come un
delitto, e il combattente come un malfattore, e intavola colle
rappresentanze civiche, più o meno incorporate coll'elemento
ribelle, trattative regolari, che vengono sancite anche da
intervento consolare, e riconoscono più o meno, e consacrano
in massima, il diritto dell'insurrezione. «Con ribelli non si
tratta»: questo è il principio della legge militare;
dunque: con chi si tratta non è ribelle; la sedizione si
trasforma in guerra; e la bilancia della guerra pende in favore del
popolo, in una misura rappresentata dal terreno che il soldato gli
cede. Sarebbe stato più provido e anche più onorevole
per l'esercito l'aver lasciato volontariamente quello spazio prima
del conflitto; e aver ricusato la battaglia per alte ragioni di
stato e d'umanità, piuttosto che perderla per manifesta
impotenza. Il popolo non oblierà mai d'aver vinto.
Nel quarto giorno, i milanesi si fanno alla lor volta assalitori;
espugnano a punta di baionetta il Genio Militare, dopochè un
povero e storpio, Pasquale Sottocorno, ha posto il foco alla porta,
e che Augusto Anfossi cadde sull'entrata, trafitto da una palla in
fronte. Cacciano i granatieri e le artiglierie che difendono la casa
di Radetzky; prendono le sue carte, portano per le piazze il suo
uniforme di maresciallo, la sua sciabola d'onore, e la depongono
sulla tavola del consiglio di guerra. Compagnie di giovani, armati
in gran parte coi fucili che hanno strappato di mano al nemico,
scegliendosi capi quei che si mostrano degni a prova di ferro e di
foco, oltrepassano i ponti; s'inoltrano verso le porte e i bastioni,
per interrompere quell'alta ed ampia cerchia, sulla quale il nemico
fa scorrere liberamente le sue forze. Borgazzi, dopo aver condutti
per la via ferrata migliaia d'armati appiè delle mura,
penetra in città, concerta col consiglio di guerra un attacco
di dentro e di fuori; poi torna a raggiungere le sue squadre, alla
testa delle quali, il dì seguente, cade ucciso. Borgocarati
ordina una comitiva di zappatori; si apprestano barricate mobili, si
appuntano verso la Porta Tosa piccole artiglierie. Il consiglio di
guerra anima i cittadini a uscir dalle barricate. «Prodi,
avanti! La città è nostra; il nemico si raccoglie sui
bastioni per avvicinarsi alla ritirata. Fategli premura;
tormentatelo senza riposo; questa notte tutte le porte devon essere
sbloccate. Ottomila uomini raccolti dalla campagna stanno per darvi
la mano; le truppe straniere dimandano tregua: non lasciate tempo a
discorsi. Coraggio! Finiamola per sempre. - L'Europa parlerà
di voi; la vergogna di trent'anni è lavata. Viva l'Italia!
viva Pio IX!» E i palloni volanti chiamavano gli amici,
ch'erano fuori le mura: - «Fratelli! la vittoria è
nostra; il nemico in ritirata limita il suo terreno al Castello e ai
bastioni; stringiamo una porta tra due fochi e abbracciamoci».
Intorno a Milano, «sopra una fascia di dodici miglia,
l'insurrezione era oltre ogni credere spettacolosa. Carri con su
armati avviati a rifocillarsi o a combattere, volavano su e
giù per gli stradali; bande di contadini dovunque
s'incontravano; ed era uno stringersi la mano, un incoraggiarsi l'un
l'altro, gridando viva Milano, viva l'Italia, che ci rapiva l'animo
di meraviglia e di giubilo». Il presidio di Monza, chiamato a
Milano, s'indugiò, perchè gli si negarono i cavalli di
trasporto; sopragiunsero gli insurti di Lecco; si venne alle mani;
un maggiore cadde ferito e prigioniero; i soldati deposero le armi.
Il colonnello Kopal, ch'era a Varese coi cacciatori austriaci,
partì a furia per Milano, ardendo parte de' suoi bagagli,
abbandonando i distaccamenti sparsi lungo le frontiere, facendosi
far promessa che si lascerebbe loro libero il passo. In quel mentre,
una squadra di 250 croati che, assalita dai contadini presso
Appiano, fuggiva per campi e selve, evitando ogni terra abitata,
arriva anelante nella città di Varese, per deporre le armi,
«tanto da non finire in mano a contadini». Giunge
d'altro lato uno dei distaccamenti dei cacciatori; sono 200;
invocano la fatta promessa; dimandano il passo. Si concede; ma uno
dei loro officiali invita i croati a partir seco lui. Cesare
Paravicini gli rinfaccia ch'è un mancar all'onore; si getta
fra le due colonne; intima ai tedeschi di partire, ai croati di
deporre le armi. Tosto si promulga un appello: «Milano
combatte. Chi ha un'arme, si accinga a partire». Sopravengono
altre turbe dai monti e dai laghi; la notte si vigila fra concenti
militari.
A Como, nel corso di quel giorno, s'arresero tre caserme con forse
800 croati, e alcuni ussari e cacciatori. In una delle capitolazioni
si legge: «La truppa, tutta chiusa da infinite barricate,
senza pane da oltre due giorni, e senza speranza umana di poterne
avere, minacciata da immediato incendio e cannonamento, dopo aver
tentato invano due sortite, fu costretta a venire alla seguente
capitolazione»... Il barone Diesbach prigioniero scrive a sua
madre: «Se siamo profondamente addolorati del nostro caso,
abbiamo il conforto d'esser trattati nel modo più delicato e
amichevole». Rimaneva ormai la sola caserma fuori di Porta
Torre, da ogni parte assediata, sotto una tempesta di palle, a lato
a due fenili che il popolo aveva posti in fiamme; la notte
interruppe il combattimento. Era tra gli uccisi Luigi Nessi; tra i
feriti Arcioni, capitano dei ticinesi. In quel giorno il popolo di
Valle Intelvi e Valle Solda disarmò croati e tedeschi. Quasi
tutte le 900 guardie di finanza del confine comasco offersero le
loro braccia. Francesco Dolzino di Chiavenna disarmò il
presidio di Morbegno.
A Bergamo, risaputa la fuga dell'arciduca, il popolo furibondo
abbattè le aquile imperiali, prese la polveriera,
assediò i croati, che si esibirono a sgombrare, purchè
scortati dalle guardie civiche e dai sacerdoti col crocifisso. Ma il
popolo non volle lasciarli andare armati; ed essi, per costringerlo
a desistere, ritennero ostaggi i parlamentari Frizzoni e Zuccala. A
tarda notte, i croati delle quattro caserme tentarono far massa in
una; ne nacque accanita pugna. I municipali la interruppero con
parole di pace, esortando il popolo «ad esser indulgente, e
lasciar partire incolumi alla volta di Verona i vinti nemici».
A Cremona, nella notte, si erano barricate le vie, armate le case;
«al mattino ognuno presagiva vicina la lutta; regnava la
quiete del sepolcro». Tre ulani, che tentarono una
esplorazione, caddero uccisi. Schönhals, chiuso in Piazza
d'Armi, senza viveri, senza ritirata, capitolò; lasciò
liberi i battaglioni italiani; consegnò sei cannoni con
munizione e cavalli, ma ottenne dalla municipale debolezza di
partire, conducendo seco la cassa di guerra, 400 ulani con armi e
cavalli, e gli altri officiali e soldati stranieri, sotto la vana
promessa di non combattere contro l'Italia. A Pizzighettone i
cittadini arrestarono il comandante; e rimasero padroni della
fortezza, con tutte le artiglierie e 700 casse di munizione. Non
così a Mantova, ove il comitato municipale, vietando le armi
ai cittadini, vietando le armi ad ognuno che fosse
«illegalmente armato», elemosinava poi 500 fucili, prima
al comandante nemico, poi per deputazione del vescovo al
vicerè in Verona, al quale faceva anche domandare che
ordinasse a Gorczkowski di consegnare la fortezza ai cittadini.
Intanto lasciava libero il corso ai dispacci di Radetzky, e aperto
il passo al duca di Modena, che sotto il mentito nome di conte
Molin, sebbene da tutti conosciuto, potè recare in salvo la
persona e il tesoro. Che anzi, condutto al palazzo municipale, vi
riceve i saluti dei municipali e di tutte le autorità
militari e civili. «Un uomo ardito propose di chiudere
entrambe le porte del palazzo, e di ritenere ostaggi tutti quei
signori, insino a tanto che si fosse dato ordine alle cose della
città»; ma i membri della commissione si opposero.
Fugitivo da Bergamo giunse a Brescia l'arciduca Sigismondo; il
popolo savio voleva arrestarlo; i municipali insensati non vollero.
Il popolo «da sè, senza consigli, intercettava i
corrieri»; fermava per le strade i soldati del Haugwitz, li
pregava a non partire; ed essi lo giuravano. Ad una voce d'allarme,
nata per una escursione di dragoni tedeschi, si videro donne e
fanciulli accorrere a disselciare le strade. Ma il municipio,
com'esso diceva, «intento sempre a schivare l'effusione del
sangue», sempre negando le armi al popolo, accettò
piuttosto nella civica i gendarmi e le guardie di polizia; le diede
a segnale di pace una sciarpa bianca, una piuma bianca al cappello
delli officiali; le predicò che suo immediato oggetto era il
publico ordine; subordinazione rigorosa; nessuna fazione, se non per
ordine del comandante; e autorizzato questi e un consiglio a
infliggere punizioni. E perchè i civici non potessero nuocere
nemmeno volendo, Schwarzenberg, che aveva promesso armarli, diede
loro pochi fucili e inetti all'uso, o perchè il fondo delle
canne era ostrutto con piombo o legno, o perchè mancava il
percussore. Da Val Trumpia, da Val Sabbia, dalla Francia Curta,
dalla Riviera di Salò, venivano intanto i messaggieri di quei
popoli chiedendo ordini alla patrizia prudenza. Così fu
tenuta Brescia anche il quarto giorno.
No, l'impedimento all'intera vittoria del popolo non fu nelle armi
de' suoi nemici, ma nelle anime irresolute de' suoi maggiorenti,
tanto corrivi a provocare il pericolo, quanto ritrosi ad
affrontarlo. E in ciò Radetzky medesimo locava omai le
maggiori sue speranze. Aveva egli, nella notte precedente, risposto
ai consoli, che si terrebbe onorato di vederli in Castello alle 7
del mattino; e in quella conferenza egli, egli stesso, propose che
per tre giorni cessasse da ambo le parti ogni ostilità:
«propose de cesser toute hostilité des deux
cotés». È atto solenne, firmato da cinque
consoli, e registrato nelle carte del parlamento britannico. E non
importa se il Willisen ebbe a spacciare che Radetzky diede una secca
e aspra ripulsa ai consoli stranieri, e fece significar loro ch'ei
ben saprebbe ridurre al dovere i ribelli: «man werde wissen
die Rebellen zu Paaren treiben». Nè importa con quale
insolenza i generali affettino ora di parlare dei consoli che furono
testimoni dell'avvilimento loro: «anche i consoli stranieri si
mescolarono al combattimento; poichè debbono pur cacciare il
naso, ovunque siavi da far qualche imboglio: da sie überall die
Nase haben müssen wo es etwas zu verwirren gibt». Ah! in
quell'istante era pure la sola àncora di salvamento. E con
quale ansietà Radetzky l'attendesse, ben si palesa nella
chiusa del suo dispaccio a Ficquelmont: «Le mie notizie delle
provincie sono poche e tristi; tutto il paese è sollevato; e
anche il popolo delle campagne è in armi; a due ore dopo
mezzodì, l'armistizio non è ancora conchiuso,
poichè, sino a quest'ora, nessuno della città mi si
è presentato». La minuta della conferenza consolare del
21 marzo conferma come Radetzky mirasse solo a ingannare i consoli e
i cittadini. Si assicurava, infatti, il passaggio dei viveri
(l'entrée et la sortie des personnes portant des vivres): il
passaggio dei corrieri (laisser passer les postes et les couriers):
il diritto di tagliare a pezzi i soccorsi delle provincie (se
réservant d'empêcher l'entrée en ville de la
population des campagnes, et plus particulièrement des
personnes armées), e si preparava un'anticipata scusa a
improvise ostilità, ammettendo quelques coups de fusil
isolés qui pourraient étre tirés.
I municipali ingoiavano l'esca avidamente. Parevano in perpetua
congiura contro se stessi e la patria; non avevano il minimo
presentimento che il principe potesse averli già consegnati
al braccio militare. Miravano con obliquo sguardo gli onesti
oppositori che si adoperavano a ritrarli dalla prigionia e dal
supplicio. La lettera del giovine arciduca era chiara e precisa:
«tutti i prigionieri si dovevano fucilare»: «alle
Gefangenen sollte man füsilieren». Perocchè non si
interponevano allora a favor dei ribelli secrete stipulazioni di
regio alleato, che potesse in faccia alli austriaci vantarsi d'aver
cooperato a rimettere in forza loro il paese; e che dovesse per
necessità d'onore, e anche con autorità di maggiori
potenze, patteggiar la salvezza de' suoi seguaci. Epperò il
nefando diritto del piombo e del capestro avrebbe avuto in Italia il
campo atrocemente libero, come l'ebbe colà dove soggiacquero
Batthyany e Blum. Sarebbe dunque stato pietoso nel sangue delli
aborriti italiani, chi fu così spietato nel sangue de' suoi?
In aspettazione che la legge marziale desse arbitrio di metter mano
sulla vita de' grandi, s'infieriva tra le latebre del Castello
contro i plebei. «Incominciavano le esecuzioni militari: il
giorno 20, ne scorgevamo passare un dodici per il cortiletto, ove
pare vi fosse una specie di consiglio. In un'ora furono giudicati;
uscirono in mezzo ad una turba di soldati furiosi e imprecanti; e
per la porta grande tratti nella terza corte. Scorsi pochi minuti,
ne giunse all'orecchio un funesto scoppio. Cadevano sul margine
della fossa del terzo cortile. Il 21, altri colpi, nel terzo
cortile, ci avvertirono che altre vittime cadevano».
La sola necessità dell'esempio può scusare, s'è
possibile, l'uomo che trae l'uomo al patibolo. Ma un supplicio
clandestino è un vile omicidio. Ora dicano i fautori
dell'Austria a cui fossero d'esempio quelle morti, inflitte in
secreto, per ignote colpe, a uomini che sparvero dal consorzio dei
viventi senza che alcuno sapesse se per crudele giudicio o per caso
di guerra. E un'altra dimanda facciamo. Entro, e intorno, a quelle
orride fosse in cui colavano le latrine del Castello, si raccolsero
fra i molti cadaveri alcune reliquie di membra feminili. Chi aveva
ucciso quelle donne? Chi sa i nomi dei cavallereschi officiali che
sedevano a giudicarle, e a darle da trucidare e mutilare ai soldati,
e da gettare insepolte in luogo immondo?
E ancora, fra le luttuose memorie, ci conforta che il nostro popolo
ha le mani pure di siffatte viltà.
I più infervorati nell'armistizio erano Durini e Borromeo; il
primo per certi suoi cavilli che altri non saprebbe facilmente
ritessere; il secondo perchè s'era fitto in mente che entro
24 ore la città sarebbe, senza viveri e senza munizioni. Gli
rispondeva Carlo Cattaneo che l'armistizio avrebbe rotto l'impeto
del popolo, e dato agio al nemico di far macello dei soccorritori;
l'esempio apporterebbe contagio; uscirebbero nel primo giorno i
forestieri e i timidi; nel secondo i prudenti; nel terzo i valorosi.
Il nemico, che aveva fornito fin allora le munizioni, le fornirebbe
ancora; se non bastassero 24 ore di viveri, basterebbero 24 ore di
digiuno: il nemico non poteva reggere più a lungo sulla linea
dei bastioni: e già v'erano concerti di forzarla in quella
medesima notte. Infine dovesse pur mancare il pane, meglio morir di
fame che di forca.
La gioventù intanto fremeva; giunsero in solenne comitiva i
consoli. Ed ebbero dal Casati il rifiuto dell'armistizio, «in
nome dei cittadini che attualmente si adoperavano alla difesa della
città, avendo il municipio un'autorità limitata dalla
forza delle circostanze». Così fu risposto. I consoli
scrissero a Radetzky che la sospensione d'ostilità, ch'egli
li aveva incaricati di proporre al municipio, non era accettata:
«n'a pas été acceptée». Lo
pregavano di nuovo che consentisse un salvacondutto ai loro clienti,
in caso che dovessero correre più gravi pericoli. Gli
scrissero poi la dimane, a nome delle famiglie e dei prigionieri in
Castello, i quali si credevano assai maltrattati (fort mal
traités); attestando che i cittadini trattavano i loro
prigionieri benissimo (parfaitement bien), come poteva dire per
prova l'officiale austriaco apportator della lettera. Rispose
Wallmoden scusando le circostanze, la penuria, le molte truppe
addensate in angusto spazio. Ma poteva ciò scusare le
contumelie e le percosse e le furtive uccisioni?
Pare che Radetzky, tostochè, nel pomeriggio del quarto
giorno, ebbe ricevuto quella ripulsa, non pensasse se non a
raccoglier d'ogni parte le sue forze e accingersi alla ritirata.
«Nella giornata del 21», scrive un officiale austriaco,
«vista la seria piega che prendevano le cose in Milano,
spedì il maresciallo uomini in tutte le direzioni con ordini
espressi alle piccole guarnigioni delle vicinanze e alle brigate che
custodivano i confini, di recarsi immediatamente sulla capitale.
Forse sperava, rinforzato di nuove truppe, di domare ancora il
movimento; forse volgeva già allora nell'animo la ritirata e
ne preparava i mezzi. Il corriere di Magenta, vi giungeva difatti la
notte del 21 al 22». Un medico che fu prigioniero scrive:
«Era chiaro che il popolo acquistava ad ogni istante terreno;
vedevamo uscire i soldati a compagnie e ritornare a drappelli;
uscivano furibondi e tornavano col pallore sul volto, sozzi di
sangue e feriti. Sdraiati nel fango sanguinoso de' cortili, facevano
orrido spettacolo. Radetzky doveva pensare alla ritirata; le
soldatesche affamate non avevano più fede nei loro capi;
s'egli avesse tardato ancora un giorno, avrebbero tumultuato. La
fucilata si udiva sempre più vicina; le palle ribattevano per
le mura del Castello; alcune per la loro grossezza parevano lanciate
da piccoli cannoni. Il popolo, dunque, si avvicinava; spesso ci
pareva udirne il minaccioso ruggito. Il dì 20 e il 21, si
vedevano già i cortili del Castello pieni di carri e di
carrozze. L'ordine della partenza era dato, poi rivocato».
Narra un soldato italiano del Geppert: «Dopo quarantotto ore,
siamo tornati in Castello, il martedì; maggior confusione;
molti carri e carrozze; mucchi di bauli ed altri preparativi di
partenza; si condussero dentro buoi e vitelli, si ammazzavano, si
facevano in pezzi, si mettevano a bollire mangiandosi mezzo crudi.
Entrarono, urlando come bestie, alcuni croati; due o tre avevano
infilzato sulle baionette poveri bambini; alcuni dei nostri
abbassarono le armi per andare a punire i barbari. Eravamo tutti
pallidi di rabbia. Si sentivano dappresso le fucilate; un tirolese
fa ucciso da una grossa palla di spingarda nel cortile
medesimo».
La linea nemica era già quasi interrotta presso la Porta
Tosa, ove si combattè caldamente tutto quel giorno. Al di
dentro, il popolo s'era stabilito nel Conservatorio; di fuori,
presso la stazione della Via Ferrata; in quell'intervallo di 300
metri i due fochi s'incrociavano, radendo il dorso del bastione,
ch'era selciato di cadaveri. Inanzi mezzanotte, era fatto concerto
di salir d'ambo le parti sul bastione e trincerarsi. «Io con
un lumicino», depone un testimonio, «accompagnai
l'ingegnere Cardani e diversi altri, tutti armati di fucile e
carabine. Alcuni zappatori, diretti da Borgocarati, entrarono nel
giardino; procurai loro una leva di ferro per aprire una breccia nel
muro di cinta. Cardani li condusse per gli orti sui bastioni. Ivi
furono da noi calate le scale al di fuori, lungo le mura, onde
avessero ad ascendere quelli che si trovassero esternamente;
sfortunatamente non si vide nessuno». Gerolamo Borgazzi,
avendo raccolti, fuori le mura, duemila armati, era penetrato, solo,
in città per fare quell'accordo col consiglio di guerra; ma
pare che il nemico, avvistosi di tanta adunata di gente, occupasse
con forze esuberanti la stazione e le case vicine, ponendo a ferro e
foco ogni cosa. Borgazzi dovè trasferir l'assalto ad altra
parte, ove, la dimane, alla testa de' suoi, cadde ferito a morte. Ad
alcuni altri venne fatto di uscire della città, guadando un
aquedutto sotterraneo; ed anzi il consiglio di guerra faceva sviare
un altro corso d'acqua per fare una mina sotto la batteria che il
nemico aveva collocato inanzi alla Porta Tosa; ma non si ebbe animo
di prodigare, in un sol colpo incerto, tutta la polve ch'era
necessaria. Intanto che i fonditori apprestavano qualche cannone, se
ne trovarono tre piccoli e due spingarde, che i cittadini portarono
sulle spalle a Porta Tosa. Il professor Carnevali e il pittore
Borgocarati apprestavano barricate mobili di fascine pesanti, colle
quali affrontar da presso la mitraglia. Ad ogni modo la linea si
sarebbe in qualche punto sforzata; e con ciò tolti i viveri,
intercetti gli ordini, sconnessa la mole nemica. A tale erano le
cose, sulla fine del quarto giorno; la vittoria del popolo era
certa.
E v'era chi aveva già pensato a usufruttarla. Finora non si
pose mente, ma col procedimento nostro di registrare per loco e
tempo ogni fatto, non poteva rimanerci inosservato come, nel
proclamare la guerra d'Italia, precorresse a ogni altro principe il
granduca di Toscana: - «Firenze, 22: è mezzogiorno; il
popolo assembrato dinanzi al palazzo del commune, dimanda armi,
perchè vuol correre ad unirsi ai bolognesi, per salvar Modena
e passare in aiuto a Milano; il gonfaloniere invita i civici ad
inscriversi presso il rispettivo capitano; gli gridano: questo non
è altro che un perditempo. Il popolo s'adira; corre in piazza
gridando: abbasso il ministero. Il ministro parla al popolo: fra due
ore partirà la truppa». Ed esce tosto un bellicoso
manifesto del granduca: - «Toscani! l'ora del completo
risorgimento d'Italia è giunta improvisa. Io vi promisi
l'altra volta di secondare a tutta possa lo slancio de' vostri cuori
in circostanze opportune; ed eccomi a tener parola. Ho dato gli
ordini necessari perchè le truppe regolari marcino senza
indugi alla frontiera. I volontari che desiderano seguire le
regolari milizie, riceveranno un'organizzazione istantanea. Duolci
che l'egregio Collegno, a cui una improvvisa infermità tolse
di spinger più inanzi l'ordinamento dei volontari non possa
oggi esser con loro. Affretto colle mie premure la conclusione d'una
potente lega italiana, che ho sempre vagheggiata, e della quale
pendono le trattative». Queste parole dell'arciduca
austro-italico sono piene d'ambagi. L'inviato britannico scrisse da
Firenze a lord Palmerston: «Qui l'aggregazione dell'intero
Stato di Modena e Parma alla Toscana si allega come un diritto
incontestabile». - Diritto? È ignoto ancora al mondo il
titolo sul quale un tal diritto poteva fondarsi. Il granduca, che
aveva già conquistato Lucca, doveva dunque stendere le sue
conquiste sino al Po? Era forse un mezzo termine, per accaparrare,
nel nuovo ordine di cose, alla progenie austriaca il godimento di
Modena e di Parma? Era in accordo con Carlo Alberto? O era in
conflitto con lui? E qual era l'improvisa infermità che tolse
all'egregio Collegno di ordinare i volontari toscani, ma che non gli
tolse di correre, poco stante, a Milano a ordinarvi l'esercito del
governo provisorio? Ludovico Frapolli, il quale potè veder
molte delle cose che allora si maneggiavano alle spalle del popolo
combattente, parla d'un regno d'Etruria, d'una lega di sei Stati
italiani, d'un appoggio chiesto alla Francia contro il futuro regno
dell'Alta Italia. E l'ammiraglio Baudin or ora rivelò come la
casa di Toscana, parimenti col favore della Francia, contendesse
alla casa di Savoia anche il trono di Sicilia. Ma questa essendo
indagine che appartiene ad altro luogo, aggiungeremo solo che il
granduca, non appena ebbe annunciato, il 21, d'adoperarsi «pel
risorgimento d'Italia» e per secondare «lo slancio dei
cuori», trivialmente dichiarò, il 22, d'occupare i
territori estensi «provisoriamente e in linea di semplice
presidio», considerando che la quiete e la sicurezza de' suoi
domini potrebbe essere compromessa dai disordini che quivi si
manifestassero. Questa bilingue politica del ministerio di Cosimo
Ridolfi venne, indi a pochi giorni, seguita dal ministerio di Cesare
Balbo. Dicevano i fiorentini antichi: tanto vale altri quant'altri.
Che faceva tra sì repentine risoluzioni il comitato albertino
di Firenze? Favoleggiava che il regio suo patrono fosse già
coll'esercito oltre Ticino. La Patria con imperterrita audacia
asseriva: «Il Piemonte si rovescia sulla Lombardia; spedisce
un corriere alla republica francese per avvisare ad entrare di
concerto; tenete per certo che Carlo Alberto è entrato in
Pavia; una lettera di Genova, giunta questa matina, porta a notizia
che quattordici battaglioni piemontesi e quaranta pezzi di cannone
sono entrati in Lombardia». E in data di Stradella del 22, a
ore otto di sera: «La truppa piemontese ha fatto il primo
ingresso in Milano, verso le due dopo mezzodì; e fu il corpo
dei bersaglieri che vi entrò dalle mura».
E il grande agitatore, Massimo Azeglio, che faceva intanto a Roma?
Il 21, alla prima novella della eruzione di Milano, migliaia di
volontari «diedero il nome»: era come al tempo dei
consoli antichi: nomina dederunt. Un testimonio di vista scrive:
«Invano i moderati di qualunque paese, compreso l'Azeglio,
tentarono di frenare quell'impeto».
Nè gli Azegliani di Bologna operarono altrimenti. «Al
mezzogiorno (del 21), l'antiguardo dei finanzieri condutto da Tanari
passò il confine estense; il rimanente con Zambeccari
marciò indi a poco; e la compagnia di Medicina, dopo una
tappa di 40 miglia senza prender riposo, ne formò il
retroguardo. Alla sera, la colonna entrò in Modena. Gli altri
rimanevano, per ordine del Bignami; Zanetti chiamò gli
officiali all'ordine; e diede consegna di non lasciar uscire alcuno
dalla cinta del forte (Forte Urbano). Intanto si spedivano da
Bologna dispacci e corrieri al duca. Il Bignami ordinò pel
mattino del 22 la contromarcia su Bologna». Ed anche la
colonna di Zambeccari venne tosto richiamata.
Il governo ducale era ovunque in rotta; insurgevano Guastalla,
Pontremoli, Avenza; ma rimase sventata la decisiva impresa che,
prima del ritorno di Radetzky e Daspre, potevasi in poche ore
facilmente compiere dai battaglioni di Modena e Bologna:
l'occupazione di Mantova. Fu detto, che se erano certi d'entrare
nella città, non erano certi d'entrare in Cittadella e in
Pietole. Nessuno lo può dire; e ad ogni modo Cittadella e
Pietole, senza la città, erano due forti, e non una piazza
d'armi e di rifugio per un esercito disfatto. Quell'inazione degli
albertini che abbiamo notata in Brescia e in Bologna, fu manifesta
anche in Reggio e Piacenza. Tutte queste città seguirono
debolmente i moti di Milano, di Roma, di Modena, di Parma,
perchè già era posta una delle secrete norme dei
fusionari: alienare le provincie dalle capitali: sedur quelle per
costringer queste.
E anche in Parigi, mentre col patto dell'Associazione Italiana erasi
accaparrata al Piemonte l'iniziativa, Gioberti scriveva per disviare
da quell'iniziativa il Piemonte, predicando «pacatezza,
sedatezza, per amore del cielo»; e all'uso gesuitico, infamava
chi dicesse altrimenti: «ho buono in mano per credere che
l'Austria ha la sua parte in tali rumori; certe cose non si possono
sapere in Italia come a Parigi». Certo, a suo dire, quei
valorosi che si facevano uccidere sotto ai bastioni di Milano, erano
pagati dall'Austria! Senonchè il Piemonte aveva ben
più autorevoli consiglieri. Abercromby inculcava «la
più stretta neutralità»; e dichiarava
«funestissimo errore il lasciarsi in alcun modo
compromettere».
Per le quali cose tutte, era ben da aspettarsi che nessun adunamento
di truppe vi fosse al confine. I reggimenti, se badiamo alla
Gazzetta Piemontese, si ebbero poscia a chiamare fin da Nizza, da
Torino, da Genova. Il presidio di Novara era di 1500 uomini; e
ciò mentre gli Austriaci avevano tra il Ticino e l'Adda, in
un intervallo di due marce, sette brigate. Un reggimento di cavalli
ch'era a Vigevano inviò distaccamenti verso il Gravellone; i
quali insieme a qualche compagnia di fanti «tenevano indietro
la gente animosa», non volendosi «intervento
legale»; e respingevano anche una sessantina di lombardi che
il maggior Peroni condusse da Genova. A Francesco Simonetta fu
intimato in Arona di consegnare le armi che aveva seco sopra un
battello a vapore; e si trovò modo che tornassero alle case
loro certi contadini novaresi che volevano accorrere a Milano a
difendere i loro padroni. Si avevano nella Lomellina solo
«armi raccogliticce, grame, quasi inutili». I volontari
genovesi ebbero «a scappare colle armi della civica, che il
governatore aveva loro duramente negate». Il ministro Ricci
ricusò un centinaio di fucili al valoroso Torres; un
assembramento che chiedeva armi in Torino fu fatto disperdere dalla
civica; solo pel Sonderbund si erano, senza scrupoli internazionali,
donate a migliaia le buone armi. I magistrati tenevano a bada i
popoli colla tarda amnistia, colla legge elettorale, con passeggiate
militari da Mondovì a Nizza, con arrolamenti di battaglioni
futuri, coi quali si legava la gioventù più fervida, e
anco gli israeliti e i forestieri. E si predicava che i genovesi non
dovevano lasciar «senza forze» la loro città; e
che gli «ammogliati» dovevano restare alle case loro; e
che le navi inglesi avrebbero bombardato Genova, s'ella osava dar
soccorso ai ribelli di Milano. Infine si prometteva di fare, a
giorni, un campo d'osservazione; il quale, se non dava alcun aiuto
ai combattenti, avrebbe, al dir d'Abercromby, «il vantaggio di
calmare il publico ardore».
Senonchè l'efficacia del campo calmante di Cesare Balbo non
poteva giungere oltre il confine. E turbava i sonni costituzionali
del ministerio quella nuda alternativa che si era spedita, pochi
giorni inanzi, da Milano, sopra mezzo pollice di carta: o passate, o
republica. E a questo motivo si riducevano le infinite variazioni
che i promotori della guerra facevano risonare alli orecchi del re.
«Se l'insurrezione vince, prima che la bandiera di Carlo
Alberto sventoli sui bastioni di Milano, questa costituirassi in
republica, collegherassi a Svizzera e Francia; e Milano non
vorrà certamente sottomettersi a chi non accorreva pronto
quando l'ora dell'agonia pareva sonata. Se la Francia anticipa i
principi della penisola nel combattimento della nazionalità,
la gratitudine farà republicani i milanesi, che il dolore e
la speranza faceva costituzionali». Se adunque importava al re
di conformarsi umilmente alli imperiosi consigli britannici,
importava eziandio confortare i milanesi nella costituzionale
speranza. Alla politica della mano destra era mestieri fare la
consueta altalena colla politica della mano mancina. «Il conte
Arese di Milano arrivò qui l'altra notte, (19), a dimandar
soccorso al Piemonte per gli insurti lombardi; egli vide i ministri
ieri matina, (20), e ripartì la sera per Milano, assai deluso
del nessun esito della sua missione; mi si afferma positivamente
ch'egli non vide sua maestà sarda». Così
scriveva sir Ralph Abercromby a lord Palmerston. Altri crede che
Arese avesse veramente colloquio col re nelle stanze del conte di
Castagnetto; ma ciò non monta; poichè ad ogni modo,
finchè le sorti di Milano rimasero dubie, i soccorsi non
vennero; e Arese ebbe sì fiacche speranze, che non
credè prezzo dell'opera recarle ai combattenti; e si rivolse
altrove.
Senonchè, già prima ch'egli fosse arrivato a Torino,
pare fosse di là partito il conte Enrico Martini, che,
passato il confine presso Magenta la notte del 19, e giunto la
matina del 20 presso Milano, vi si aggirò sino al dì
seguente, quando trovò modo di farvisi introdurre travestito
con quelli che apportavano in città il sale pei soldati.
«Io sono inviato di Carlo Alberto», egli asseriva;
«trentamila piemontesi stanno al Ticino, e attendono solo
l'invito del governo di Milano per passarlo». A chi era fra
quelle angoscie, il desiderio faceva parere i soccorsi del Piemonte
sì certi e pronti, che, in quel dì 21, alcuno corse a
riferire al consiglio di guerra di averli veduti colli occhi suoi
dall'alto dei campanili; e il consiglio lo partecipò tosto al
popolo: «La città è attorniata di numerose bande
venute da ogni parte, fra cui si vedono uniformi di bersaglieri
svizzeri, e piemontesi che hanno precorso i loro corpi che passano
il Ticino». Ma fuori le mura, il popolo, avendo ben altre
notizie e pur troppo certe, del Piemonte, fremeva; onde scrisse
taluno alla Concordia, il 21: «Scrivo al rimbombo del cannone;
mi sento cascar l'anima pensando a quei poveri infelici che si
trovano in Milano; qui nel borgo bestemmiano contro i piemontesi,
perchè non portano soccorso; mi tocca parlar milanese,
perchè da ieri che aspettano i piemontesi, sarebbe imprudenza
farsi conoscere».
Martini dimandò ai municipali che facessero invito al re, in
forma di dedizione. I municipali chiesero l'assenso del consiglio di
guerra. Rispose questo: non potersi donare il paese senza il voto
del popolo: nè quelli esser momenti di ritrarlo dalla
battaglia a controversie politiche. A guerra vinta, si vedrebbe.
Darsi al Piemonte era porre in sospetto tutti gli altri principi. E
inoltre, come fidare di chi li aveva già traditi nel 1821? di
chi li lasciava, in quell'istante medesimo, sotto la mitraglia?
Erano dunque contenti d'essersi affidati nel 1814 alla casa
d'Austria? Se l'Austria era straniera, tutte le famiglie regnanti
erano straniere, pronte tutte a cospirare colli stranieri. Era
necessario far guerra di nazione, chiamar tutta Italia. Se poi un
solo principe recasse soccorso, avrebbe egli solo la gratitudine dei
popoli. Dargli il paese era inutile; poichè sarebbe suo, s'ei
vinceva; e se non vinceva, non sarebbe suo, nemmeno se glielo
dessero cento volte. E tosto il consiglio presentò ai
municipali, con molte firme di cittadini, una dichiarazione che la
città di Milano domandava il soccorso di tutti i popoli e
principi d'Italia; e la sparse anche al di fuori coi palloni
volanti. E scrisse altro appello a tutte le città,
perchè costituissero consigli di guerra, i quali lasciando ai
municipi gli altri affari, attendessero a questo unico; e
dimandò a ogni terra d'Italia una deputazione di baionette.
Le ambizioni e le fusioni perdettero la guerra; una semplice
federazione militare l'avrebbe vinta.
Martini, vedendo la incertezza dei municipali, sollecitava lo stesso
consiglio di guerra a costituirsi in governo provisorio per fare la
dedizione a Carlo Alberto. «Sa ella», diceva a Cattaneo,
«che non accade ogni giorno di prestar servigi di questa fatta
a un re?» L'altro gli rispondeva e a voce e in iscritto, che
l'amore dell'indipendenza avrebbe fatto dimenticare la
libertà, che la parola gratitudine avrebbe fatto tacere la
parola republica, ma che il re non poteva esigere anzi tempo il
prezzo d'un servigio che non aveva reso. Doveva il Martini recar in
Piemonte la risposta dei municipali quella medesima notte; fu fatto
condurre due volte al bastione di Porta Tosa ov'erano appoggiate le
scale; ma non volle uscire. Intanto verso l'alba del 22, il
municipio deliberò finalmente di dichiararsi, non sappiamo
per mandato di chi, governo provisorio. E nella successiva sera
scrisse al ministro Pareto accreditando presso di lui il conte
Martini. Era strano quell'accreditarlo presso coloro che lo avevano
inviato. S'era inviato del re, doveva riportargli in tal sua
qualità la risposta dei municipali: non poteva svestire la
sublime livrea di suo messaggiere per ricomparirgli inanzi
incaricato dei municipali e «d'alcuni abitanti
notabili», che invocavano l'aiuto delle armi della sacra sua
maestà.
Al mattino del quinto giorno, in un avviso dei municipali si lesse:
«L'armistizio offerto dal nemico fu da noi rifiutato, ad
istanza del popolo, che vuol combattere». E più inanzi:
«Questo annuncio vi vien fatto dai sottoscritti, costituiti in
governo provisorio, che reso necessario da circostanze imperiose e
dal voto dei combattenti, vien così proclamato». Il
voto dei combattenti era una millanteria; i combattenti non avevano
votato. E pochi momenti dopo, in altro avviso, si aggiungeva una
perfidia: «I buoni cittadini di null'altro debbono adesso
occuparsi che di combattere. A causa vinta, i nostri destini
verranno discussi e fissati dalla nazione».
Il governo era un'assurda compagine di due elementi, l'uno giovanile
e ideale, l'altro triviale e senile; il primo era in pugno al
secretario Cesare Correnti, il secondo al conte Giuseppe Durini. La
mutua loro ripugnanza venne espressa nel così detto Libro del
Re, ove un capitolo, scortesemente intitolato Umori del governo
provvisorio, deplora che, togliendo pochi, «i restanti membri
del governo appartenessero alla fazione republicana». E venne
espressa dal Correnti medesimo con quelle veementi parole:
«Orribile supplicio è il mio, che dalla sfera del
divino ideale sono trascinato nella realtà dura e spesso
schifosa». Così è; devoto a domestiche
aspettazioni, il governo, ove si eccettui il conte Borromeo, non
aveva nemmeno in sè l'elemento dell'opulenza; e quindi
rappresentava gli interessi piuttosto come servo, che come padrone.
Ma esso era una necessità; dacchè il patto che gli
soggiogava l'incauta gioventù, e ch'era parte d'altra
più vasta transazione la quale involgeva gli esuli e
l'Italia, non si poteva in quei fatali istanti infrangere, senza
porre a repentaglio la commune salvezza. Era forza mietere
ciò che si era seminato.
Attratti dall'autorità del nome municipale, altri cittadini
gli si erano ordinati intorno, il terzo, e il quarto dì, in
vari comitati per provvedere ai feriti, ai poveri, ai prigionieri e
ad ogni altro presente bisogno. E si era contraposto al consiglio di
guerra un comitato di difesa, composto d'altri elementi. Ma non ne
nacque conflitto; anzi nel mattino del quinto giorno, si congiunsero
in un unico comitato di guerra. Si convenne che ne fosse preside
Pompeo Litta, l'unico dei membri del governo dal quale si potesse,
senza ripugnanza, dipendere. Tanta è in Italia la potenza
delle tradizioni municipali, che una congregazione nominata
dall'imperatore e affatto estrania ad ogni suffragio di popolo,
parve il più opportuno e fido presidio del popolo contro
l'imperatore. E così avvenne in tutte le altre città.
Non si disse, a cose nuove uomini nuovi; ma, a cose nuove uomini
vecchi.
Nel quinto giorno, Radetzky si accingeva alla ritirata: le truppe
richiamate dai confini si addensavano intorno alla città,
incalzate al di fuori dalle turbe campestri, affrontate al di dentro
dai baldanzosi cittadini. Ogni moto del nemico era esplorato
dall'alto dei campanili, e riferito al comitato di guerra con pronti
avvisi, che si calavano dall'alto rapidamente, avvolti ad anelli
scorrenti sopra filoferro; e si apportavano da garzoni che Cernuschi
aveva ordinati a guisa di posta. In una di quelle carte scritte
colla matita, leggiamo: «Ore 12: molte truppe da Porta
Vercellina si portano al Castello: interi battaglioni». Era la
brigata Maurer che giungeva dalla frontiera piemontese. Nel corso
del giorno tutte le caserme furono accerchiate dal popolo e
occupate; dappertutto si scoprivano armi e munizioni. I volontari
dei dintorni (cioè della pianura milanese) congiunti con
altri che venivano da Crema, da Soncino, dal Bresciano e dal
Bergamasco «attaccarono la Porta Vigentina, portando seco
scale; alcuni salirono fin sul parapetto; ma l'ardito tentativo di
penetrare in città da quella parte non riescì».
Il sommo sforzo de' cittadini s'era rivolto verso la Porta Tosa, ove
il nemico alla volta sua rinovò forse cinque volte con truppe
fresche il combattimento. Fu quella una vera battaglia, sostenuta
dall'alba a sera con indefesso ardore. E non era posizione propizia
ai cittadini, perchè, quartiere poco abitato e senza esterno
sobborgo, non porgeva ai combattenti colà venuti aumento di
forze. Era anzi opportuna alle truppe; le quali avevano inanzi alle
bocche dei cannoni una strada rettilinea, lunga mille passi e larga
forse cinquanta; e potevano attelarsi in doppia fronte sul bastione
e sulla circonvallazione, sulla via ferrata e sulla via di Crema,
riparandosi nella porta stessa, e in alcuni edifici dentro e fuori
la città. Dicevano gli avvisi: «Ore dodici: a Porta
Tosa, fuori, molti de' nostri battono fortemente, e i militari
fugono precipitosi; aiutate i nostri e vinceremo. - Ore dodici e un
quarto: il nemico riparato nel Dazio e nelle case a mezzodì
del corso; due cannoni arrivati in sussidio al nemico obbligheranno
i nostri a ritirarsi dalla posizione vantaggiosa che occupavano. -
Ore dodici e mezzo: molta truppa e sei pezzi di cannone sono
arrivati da Porta Orientale a Porta Tosa; abbisogna su quel punto
molto rinforzo». Verso mezzogiorno «le barricate mobili
eransi avanzate a tale che dall'ultima finestra delli edifici
dell'ala sinistra sventolava la bandiera tricolore; la cavalleria e
la fanteria cominciavano a ritirarsi, quando una batteria appuntossi
verso l'orfanotrofio e il Corso, vomitando incessantemente mitraglia
e granate, che appiccarono il foco; i nostri per un istante parvero
cedere, già ardeva la prima barricata; due morti, e quindici
più o meno gravemente feriti». Luciano Manara scriveva
al comitato: «Siamo all'ultima casa, la nostra bandiera vi sta
già sventolata. Avremmo già vinto, se un poderoso
rinforzo di linea e di cannoni non fosse in questo punto arrivato;
mi si dice che scarseggiano molto le munizioni da fucile; mandatene;
vinceremo o moriremo».
Le difficoltà per tal modo, a Porta Tosa, crescevano d'ora in
ora. Ciò nondimeno i pochi che potevano allegare esperienza
militare, si ostinavano a continuar l'assalto in quel punto, e pei
preparativi già fatti, e perch'era il più vicino al
cuore della città. A parer loro non conveniva far punte, ma
allargarsi equabilmente in tutto il circuito. Assai più
agevole sarebbe stato far forza nei quartieri più popolosi,
quantunque più remoti, ponendo la mira alli intervalli tra
porta e porta, ove il nemico non aveva spazio da accumular forze,
nè strade molteplici da pervenirvi. E perciò, senza
distaccare, un solo combattente dalle altre posizioni, Cattaneo
potè, verso mezzodì, interrompere al nemico la linea
tra la Porta Ticinese e la Vercellina. «Gli spazi erano
affatto deserti; un denso fumo velava ogni cosa; era presso il
meriggio, e pareva sera. Non appena ebbimo fatto intendere che
dovevano solo spingere attraverso alla via carri e carrozze, che
quasi per incanto balzarono fuori d'ogni parte giovani armati; e
ancor prima di chiuder bene que' ripari, bersagliavano audacemente i
nemici accosciati sul bastione. Qualche ora dopo, il bastione veniva
raggiunto alquanto più a tramontana, dalla compagnia del
cittadino Colombo». V'è qualche indicio che ciò
sia bastato a mutar tutto l'ordine della ritirata, essendochè
un officiale scrive: «Gli imperiali erano già limitati
alle sole porte e a parte della linea di circonvallazione; dico
parte, dacchè quella, per esempio, da Porta Vercellina a
Porta Ticinese e vari altri pezzi erano già in mano delli
insurti». E l'opera publicata a Zurigo, e ricavata dalle carte
dello stato-maggiore, descrive in modo incerto la ritirata, non come
si operò, ma come si era disegnato operarla, se non vi fosse
stato l'ostacolo anzidetto. «L'esercito si mosse in cinque
colonne; probabilmente due dalla parte di mezzodì, e tre
dalla parte di settentrione, seguendo una colonna il bastione
meridionale, e due il settentrionale o Corso; e tanto qui come
là, una colonna il viale di circonvallazione».
Cadeva già la sera, quando i cittadini fecero l'ultimo sforzo
a Porta Tosa. «Chi ci comandava», narra l'operaio
Biraghi, «era Manara: io banderale: e Cernuschi rappresentante
il governo provisorio; dietro a noi trenta uomini, tra i quali i due
fratelli Mangiagalli, Lochis, Vernay ed altri; dietro a questi,
trenta barricate mobili che già erano in moto. Arrivavano ai
nemici sette pezzi da sei, oltre quelli che già avevano; ma
non arrivarono a puntarli. L'artiglieria loro scarica; e noi, si va
avanti. Arrivano le barricate mobili; più di mille dei nostri
fanno un foco terribile; restano dietro ogni pianta tre o quattro
soldati morti. Io allora mi volto, e colla punta dell'alabarda apro
lo sportello del Dazio, ch'era semichiuso: e fuori. Con Manara ed
altri siamo arrivati presso il Camposanto. Non avendo trovato
nessuno, siamo tornati. Tutte le case d'ambo le parti fuori della
porta erano in fiamme». Alla porta stessa appiccò il
foco Manara di sua mano, quasi per impedire che il nemico potesse
chiuderla un'altra volta. E poi lieti della vittoria, egli e i suoi,
pensarono poter tornare in città; e dietro loro, a onde, le
turbe armate, che già da più giorni combattevano fuori
le mura. Era un impeto di curiosa ansietà, che nessuno
colà pensò con provido consiglio a raffrenare. Intanto
quell'angusto passo rimase aperto, dentro e fuori la città; e
il nemico, verso mezzanotte, potè farvi sfilare in doppia
colonna, fra le ruine delle ardenti case, i suoi battaglioni.
Nella quinta giornata tutta la Cisalpina era in armi. Dal lago
Maggiore giunse, quella sera, a Varese la colonna di Luvino e
Macagno; a Gallarate giunse da Angera la colonna Simonetta. Ve ne
giunse altra da Varese, di 800 uomini, armata in parte coi fucili
dei croati, e preceduta dai carabinieri ticinesi di Ramella. Ancora
450 si accingevano a partir di Varese il dì appresso; e il
vecchio preposto d'Arcisate vi arrivò alla testa de' suoi,
«a cavallo, cinto di spada, inalberando fra le turbe giulive
un immenso crocifisso. Il giorno si chiuse fra gli inni a Pio IX e
alla libertà».
A Como, duemila armati, coi ticinesi d'Arcioni, assediavano presso
Porta Torre 600 Varasdini e Prohaska; i quali bersagliati di fronte
e di fianco, e minacciati d'incendio e di mine, e privi di cibo da
36 ore, si arresero, con un colonnello, tre capitani e la bandiera
d'un battaglione. «Uscirono inermi i soldati, comandati dai
loro officiali, e schierati nella piazza attendevano gli ordini dei
rappresentanti del popolo. Si dispose che a ciascun soldato si
somministrasse pane e vino!». Il municipio, senza attender
tempo, esortò gli armati al soccorso di Milano: «Noi
abbiamo oggi raggiunto i nostri voti, e li avremo compiti, quando
sarà cessato l'assedio dei fratelli di Milano; l'accorrere in
loro sussidio è dovere, non restando altro a raccomandarsi
fuorchè di non frapporre ritardo».
A Sondrio, il 22, le truppe consegnarono al podestà il
castello, con tutte le armi; la Val Tellina rimase tutta libera,
sino al confine del Tirolo. La strada militare era già
intercetta sulle dirupate rive del Lario; quivi si ordinarono tosto
a custodia «800 armati di fucile, e 18 cannoncini di montagna
coi loro artiglieri; e su tutte le alture vennero ammucchiati sassi,
e assegnati i posti a quelli che non avevano fucili, e furono
ordinati in corpi di lapidatori». Una colonna di Lecco era
già oltre Monza; e congiunta a quei cittadini, e ai drappelli
di Merate e d'altre terre della Brianza, «la sera
affrontò le palle del nemico lungo la linea dei bastioni; si
vide cadere a lato il valoroso Borgazzi; e per mezzo a incessante
moschetteria, entrò in città per Porta
Comasina».
A Bergamo, anzi l'alba, tra il favor delle tenebre il nemico aveva
sgombrato una caserma, «scalando muri per di dietro», e
abbandonando morti e feriti, che il popolo irrompente portò
all'ospitale. Nel corso del giorno, la guardia della Polveriera si
disperse per la campagna; e vennero derelitte tre caserme,
raccogliendosi i superstiti 1200 uomini in una sola; d'onde, qualche
ora dopo mezzanotte, scesero nella valle a settentrione della
città, che come contraria alla direzione del nemico, i
cittadini non custodivano. E di là, con lungo giro, varcato
il Serio, poterono mettersi in cammino verso il convegno generale
delle truppe presso Crema, sebbene perdendo uomini e robe «ad
ogni passo, per molestia di chi li inseguiva e delle popolazioni che
alzavansi in ogni dove». Accorrevano a Bergamo armati delle
valli Brembana e Seriana.
Occupato il passo del Tonale, abbandonata Rocca d'Anfo, restarono
libere sino al Tirolo anche le valli sopra i laghi d'Isèo e
d'Idro. Ma il popolo di Brescia non sapeva sferrarsi dalle pastoie
de' facendieri azegliani. Il nemico attendeva intanto da Verona un
convoglio d'artiglieria; presso Rezzato, gli abitanti di quelle
terre, alle 10 del mattino, lo accerchiarono e lo presero, con tutta
la scorta di 180 soldati e officiali. In quel momento gli usciva
incontro uno stuolo di dragoni; altri dragoni scorrevano la
città; una batteria, fuori Porta Torrelunga, gettava palle e
granate; la fanteria stava pronta inanzi a' suoi quartieri. Ma in
pochi minuti «tutte le vie furono barricate; si trassero dalle
chiese tutti i banchi; le donne e i fanciulli disselciarono le
strade; al tocco delle campane accorreva gente dai villaggi. Una
compagnia d'italiani, mentre veniva condutta a chiudersi fra i
battaglioni del reggimento Hohenlohe, corse tutta armata a porsi
dinanzi al palazzo municipale sotto la bandiera della città.
Un combattimento a foco vivissimo durò quasi un'ora; molte
perdite si fecero d'ambo le parti, esposti com'erano i bresciani a
mitraglia incessante». Il popolo s'impadronì
dell'arsenale e di due caserme, condusse molti prigioni al
municipio; Michele Busoni e Carlo Scrittore arrestarono alla testa
d'un battaglione il maggiore Wimpffen. «Schwarzenberg e
l'arciduca Sigismondo furono veduti fuggire scompigliati, e il
secondo senza cappello in testa, attraverso gli orti, scavalcando le
siepi». V'ebbero più di 45 cittadini feriti o uccisi;
tra i quali, crudelmente trucidati in una caserma, i due prigionieri
Bertolini e Segalini «si trovarono inchiodati colle baionette
sul tavolato, con un rosario al collo».
Ma Longo e Mompiani, che s'erano fitti in capo di proteggere
dall'impeto del popolo il nemico, publicarono verso sera una
convenzione da loro conchiusa. Dicevano: «che ad oggetto di
risparmiare il sangue cittadino e quello dell'austriaca guarnigione,
essi, colla mediazione del cavalier Breinl, avevano convenuto col
principe Schwarzenberg che la guarnigione uscirebbe dalla
città e dal castello con tutti gli onori militari. Le porte
della città rimarrebbero chiuse fino all'alba».
Temevano forse che il popolo desse ai nemici troppo affettuoso
saluto? Intanto dichiaravano «cessata l'austriaca dominazione
e proclamato il governo provisorio. Cittadini! ora non avete altro
debito che quello di rispettare la guarnigione austriaca». E
in una circolare alle communi, anzichè dar loro alcun
bellicoso impulso, dicevano: «proclamato il governo
provisorio, mantenete la quiete; attendete gli ordini del capoluogo
cui appartenete». Il conte Tartarino Caprioli spinse il
delirio della quiete sino a sfoderare la spada contro il popolo in
difesa d'un officiale.
Dacchè volevano risparmiare il sangue, dovevano patteggiare
che il presidio si avviasse al Tirolo, seppure era a riporsi fede in
siffatte promesse. Ma quando chiudevano le porte al popolo della
città, e ingiungevano la quiete al popolo delle campagne,
potevano concedere al nemico di mettersi impunemente per la via di
Crema? concedergli di marciare al soccorso di Radetzky? allo
sterminio di Milano? Se, in luogo di servire alla causa italiana,
avessero voluto servire all'Austria, avrebbero potuto operare
altrimenti?
«La matina del 22, si trovò Cremona libera affatto
dalli armati stranieri». Avevano i cittadini una batteria
campale, avevano due battaglioni di fanti, e tutte le forze della
città e del contado, e quelle che potevano trarre dalla riva
piacentina del Po; avevano il forte di Pizzighettone con artiglierie
e munizioni; potevano tener quel passo dell'Adda. Potevano,
rimontando immantinente per la sinistra il fiume, tentar di
raggiungere il ponte di Lodi; era solo trenta miglia lontano di
Cremona; e il ponte di Lodi era fuori della città; e, questa
aveva presidio d'un solo battaglione italiano e poca cavalleria. Che
fecero i moderatori azegliani di Cremona? Altro non curando che di
assicurare le loro persone, fecero trasferire da Pizzighettone a
Cremona 200 soldati italiani, 700 casse di munizione e le
artiglierie; lasciarono quelli abitanti in arbitrio del nemico. E
così Benedek, uscito di Pavia verso mezzanotte del 22, ebbe
agio di giungere a Pizzighettone il 24, ristorarsi a spese delli
abitanti, passare agiatamente quel ponte dell'Adda, con una
batteria, e congiungersi sull'Ollio a' suoi commilitoni, quivi
pervenuti felicemente da Brescia.
Ora facciamo il caso, che al primo lampo dell'insurrezione non
fossero mancati gli avvisi dall'improvida Milano; che in ogni
città un comitato di giovani avesse chiamato con audace
appello alle armi il popolo di tutto il territorio; che avesse
sorpresi in subitaneo ostaggio i capi civili e militari: amicati
francamente i battaglioni italiani: affamato immantinente nelle
caserme quell'uno, o quei due battaglioni di soldati stranieri, che
stava in ogni provincia, con quanto v'era qua e là di cavalli
e di cannoni. Facciamo il caso che per tal modo i cremonesi,
anzichè trovarsi liberi il quinto giorno alla matina, e i
bergamaschi e bresciani la sera, avessero sollecitato d'uno o due o
tre giorni; e che coi battaglioni italiani di Sigismondo,
dell'Alberto, del Ceccopieri, del Haugwitz, e le batterie di Cremona
e Brescia, e il popolo delle città e del contado, si fossero
precipitati con ogni maniera di veicoli e d'armi verso i ponti
dell'Adda, dai quali Bergamo e Cremona erano lontane 10 miglia, e
Brescia poco più di 30. È certo che, al settimo
giorno, Benedek non avrebbe trovato aperto il ponte di
Pizzighettone, nè Radetzky quello di Lodi, o gli altri delli
infiniti corsi d'acqua che frastagliano tutto il paese tra Milano e
Mantova. Oltre ai quattro o cinquemila italiani, che l'applauso dei
popoli avrebbe inebriati di coraggio, oltre ai 25 cannoni, si
potevano portare ai ponti dell'Adda, o almeno a quello del Serio
dietro Crema, tutti gli armati dei territori di Bergamo, Brescia,
Crema e Cremona. Quelle popolazioni sommano a più di 900 mila
anime; a un uomo per cento, sarebbero stati 9 mila i combattenti; a
due per cento, 18 mila. Aggiungi i soccorsi di Piacenza, che,
lontana da Pizzighettone solo dieci miglia, fu libera sin dal giorno
20; e riparata dietro il Po, non aveva a temere per se medesima. E
vi sarà chi dica che il popolo, per aver vittoria di Radetzk,
vi adoperò tutte le sue forze?
Scese la quinta notte. Era «una terribile risoluzione»
(ein furchtbarer Entschluss); ma era necessità lasciar
Milano. Le brigate Maurer e Strassoldo si erano riunite. «I
generali Clam e Wohlgemuth, che avevano diroccato ogni casa presso i
bastioni, proteggevano la marcia; presso la Porta Tosa e Romana
tutto era in fiamme. Alle 9, tutti (gli altri) corpi furono al loro
posto; erano 14 battaglioni, sei squadroni e tre batterie, con una
sterminata quantità di carriaggi; quivi le truppe aspettarono
per due ore in perfetto silenzio; molti e molti soldati cadevano per
terra spossati dalla fame e dalla stanchezza». Al dir d'un
prigioniero, «è impossibile descrivere al vero la
confusione di quella notte; i soldati erano affollati nel cortile;
si udiva il crepito delle fiamme che ardevano mucchi di cadaveri, lo
scàlpito dei cavalli, il rumore delle rote; udivamo gridar
l'ordine della marcia. Intanto a coprire quella ritirata, il cannone
andava sempre più infuriando. Il cannone a poco a poco si
fece lontano; cessò il trambusto nei cortili». Al dir
d'un officiale: «Le truppe, spiegate in colonna, furono messe
in marcia alle undici; tennero la linea dei bastioni sino a Porta
Tosa (una parte solo sino a Porta Orientale). Il maresciallo
Radetzky escì dal Castello in una carrozza tra un battaglione
e l'altro. Alli sbocchi delle vie erano collocati altri cannoni, che
tiravano continuamente entro la città; i soldati, distesi in
catena per tutto lo spazio, scaricavano anch'essi i loro fucili. Il
continuo fragore, le grida che si udivano dall'interno, le campane
che sonavano a stormo, le tenebre illuminate qua e là da un
incendio, formavano un terribile spettacolo, che non potrà
mai essere cancellato dalla memoria». «Molti dei
cittadini accorrevano a tribolare il nemico. Al di fuori, i
montanari si aggrappavano sulli alberi e sui tetti delle case per
trar di piano sul bastione; gli assidui colpi cingevano la
città d'un semicerchio scintillante. Col mutare del vento,
udivasi, ora più da una, ora più da altra parte, il
battere a stormo dei sessanta campanili oramai tutti liberi. Alla
fine il nemico fugiva; quei cinque giorni gli erano costati
quattromila uomini; di quattrocento cannonieri erano avanzati
cinque; l'artiglieria era data da condurre ai cacciatori
tirolesi». «La carrozza di Radetzkv era imbottita di
paglia e altro, in modo che da lungi paresse un forgone». E si
lesse nell'Allgemeine Zeitung la confessione d'un officiale, che
«nessuno potè recar seco se non ciò che aveva
sulla persona; Radetzky salvò a stento le sue decorazioni; e
dovette marciar via con quattro lire (mit vier Zwanzigen
abmarschieren). I più delli officiali avevano i loro cavalli
in casa, nonchè i loro uniformi; perdettero tutto, e
partirono senza mantelli».
Il capo dello stato-maggiore Carlo Schönhals, uscendo dal
castello ad un'ora dopo mezzanotte, commise per iscritto a un
capitano delle guardie di polizia, in nome del maresciallo, la cura
dei feriti, delli infermi e delle famiglie tedesche derelitte in
Castello; si lusingava avrebbe il suffragio del nuovo governo, il
quale «a questo modo inizierà», egli scriveva,
«il suo potere con atto di sublime e magnanima e santa
filantropia». Senonchè, sotto la penna di codesto
notorio instigatore delle soldatesche, pareva più che altro
una derisione.
Dei cittadini prigionieri, alcuni furono trascinati a piedi
coll'esercito; alcuni lasciati addietro. «Da prigionieri, ci
trovammo padroni del Castello e dei nostri nemici. I feriti, al
vederci, si mostravano atterriti, temendo di essere scannati. Venne
il mattino; un animoso popolano scalava il muro del Castello, la cui
porta era ancora chiusa; e salito sul torrione vi piantava la
bandiera tricolore. Entravano i liberatori, incerti della nostra
sorte, e lieti di trovarci vivi. Ma non tutti. Alle grida di gaudio
si mescevano gemiti dolorosi; le fosse rosseggiavano di sangue; nei
cortili, luridi di fango e di ceneri, giacevano ossa abbrustolate,
membra tronche sporgevano dal terreno smosso. In un orto, sette
cadaveri d'uomini, mezzo spogliati, e barbaramente insultati e
mutilati; due gambe di diversa dimensione, e che dalle forme
apparivano feminili; in un'aqua corrente attigua, molte membra.
Tanto apparvero sformati i visi e le membra delle vittime, che fu
impossibil cosa il ravvisarle. Non era occhio che rimanesse
asciutto».
La ritirata del nemico era difficile. «Piante abbattute,
sparsi materiali di barricate, cadaveri di borghesi e di militari
impedivano a ogni tratto il libero passo. Il cedere dinanzi alla
borghesia armata era d'insopporlabile avvilimento ad officiali e
soldati: si abbandonavano ad ogni eccesso, guastando ed incendiando
quanto loro veniva per le mani. Il sentimento dell'odio non faceva
tacere quello della paura. Un cavallo d'un gendarme preso da
spavento, essendosi cacciato in mezzo a due battaglioni che
marciavano in colonna serrata, assaliti da pànico timore, si
gettarono in disordinata fuga per la campagna. Di tale scompiglio,
seppero approfittare molti italiani per disertare. La strada era
frequentemente tagliata da fossati di formidabili proporzioni. Nel
villaggio di San Giuliano si fece foco sulla truppa da più
case, e ripetutamente. Quasi tutte le abitazioni vicine al passaggio
delle truppe erano abbandonate; ed i corpi che le perlustravano
facevano bottino di quanto potevano portar seco; in particolare i
croati; ben pochi di questi che non avessero il loro fardello,
quandanche non fosse che di cenci. Ad un'ora dopo mezzogiorno
giungeva finalmente l'avanguardia a poca distanza da Marignano, dopo
aver percorso, in quattordici ore di cammino, soltanto dieci miglia
communi di terreno».
«Con poco lavoro sarebbe stato facile impedire affatto
l'accesso delle truppe a Marignano, senonchè nessuno poteva
imaginare che Radetzky scegliesse per la ritirata una strada
ch'è la meno diretta, e che per la perdita di Pizzighettone e
Cremona era da due giorni già quasi intercetta; e inoltre,
era lontana solo una posta da Pavia, confine piemontese già
tutto pieno di corpi franchi». L'ala destra si diresse per
Landriano, cioè per quella medesima via che poi Radetzky
tenne, nell'anno seguente, per recarsi a Mortara. Se l'esercito
piemontese fosse accorso in aiuto di Milano, e fosse sboccato in
doppia colonna da Pavia, vi si sarebbe incontrato. Ciò
dimostra che Radetzky, forse per notizia avuta dal confine col mezzo
di Benedek, si riputava, da questa parte, sicuro.
Gli abitanti di Marignano non potevano credere d'avere inanzi a loro
l'avanguardia dell'intero esercito; la credettero un'orda di
famelici predatori: dissero che non avrebbero dato loro i viveri, se
non consegnavano le armi; arrestarono i due officiali ch'erano
venuti a farne richiesta; ma non fecero altra ostilità. Tutti
gli armati del paese erano accorsi sotto le mura di Milano; gli
altri erano inermi. Ma il maresciallo ne prese pretesto a esercitare
un'atroce vendetta, mettendo a ruba, a foco e a sangue tutto il
paese. Poi si vantò d'aver dato un esempio. E l'autor di
Custoza per poco non gliene fa plauso. Esempio? di che, se non
d'inutile ferocia? E l'esercito era omai senza disciplina. «Si
giunse dopo mezzodì a Marignano; alcune case bruciavano,
tutte le botteghe spalancate, saccheggiate e guaste; pieno di
carriaggi e carri da per tutto; sdraiati per terra tedeschi
ubbriachi. Nessuno più comandava, nè obbediva».
- «I soldati, che per la fame si resero più presto
ubbriachi, si uccidevano anche tra loro nelle cantine e nelle
strade; ammazzarono anche una delle loro donne. Stava Radetzky
seduto sull'unico avanzo di parapetto che rimaneva del ponte; e si
era posto colà per far animo ai soldati, i quali vedendo il
ponte sconvolto, si erano messi in capo che fosse minato; e tra
indisciplinati e ubbriachi ricusavano d'andare inanzi. Fatta notte,
tutte le strade erano ingombre di soldati che giacevano alla
rinfusa, quando si destò un improviso allarme. Lo sgomento fu
tale, che certi officiali pagatori che si erano messi nell'osteria
di San Giorgio, fugirono a rompicollo, lasciando aperto sulla tavola
un sacco di napoleoni d'oro. Tutto quello scompiglio provenne da una
squadra di poliziotti, ch'erano rimasi all'estrema retroguardia, e
che incalzati dai fucili dei cittadini, arrivarono colà,
correndo a tutta lena».
Tale fu l'aspetto vergognoso del disfatto esercito per tutti quei
sedici giorni che spese a percorrere faticosamente le cento miglia
che sono tra Milano e Verona. «Gli avamposti erano
continuamente allarmati dalli spari delle vedette, cui pareva
d'essere ad ogni momento attaccate dal nemico». Così un
officiale; e un altro, nell'Allgemeine Zeitung: «Non si poteva
veder cosa più desolante che il passaggio per Crema. Carri
pieni di feriti; qua un dragone con un berrettone di fanteria;
là un cannoniere coll'elmo d'un dragone, o con abito
cittadino; là un altro senz'abito. Tutti, per la disastrosa
pioggia e il pernottare all'aperto, pieni di fango e di sangue. Non
si conosce quasi più il colore d'alcun uniforme. I nostri
cavalli da molti giorni non videro avena. Radetzky e molti veterani
dicono che in nessuna guerra si vide mai cosa simile». Ma la
guerra di popolo era già finita all'Adda. Vegliava a
salvamento dell'informe orda straniera il governo fusionario di
Brescia, che aveva predicato ai popoli la quiete e il rispetto alli
austriaci. Solamente, tratto tratto, gli indocili volontari
infrangevano il santo precetto. «Una colonna volante di
volontari», dice il succitato officiale, «avevano
attaccato una divisione del reggimento ulani Imperatore, ed un mezzo
battaglione di croati; del quali avendo uccisi parecchi, costrinsero
il resto a ripassare il Chiese. Continuavasi a' fianchi
dell'esercito il servizio di grosse pattuglie e ricognizioni; e nel
giorno 2 aprile, mentre eseguivasi dai nostri questo servizio,
incontratisi in un distaccamento nemico, furono fatti prigionieri
due lancieri piemontesi. Fu allora che si ebbe certezza di avere a
fronte truppe regolari; il che faceva dire ai croati che colli
insurgenti eranvi anche soldati francesi, mentre non chiamavano
italiani che i soli corpi franchi. Il maresciallo, il 5, recossi a
Verona, mentre le sue truppe non vi giunsero che parte il 6, parte
il giorno successivo. Incendii, saccheggi, uccisioni d'inermi
contadini furono commessi a Chievo, Croce Bianca, San Massimo, Santa
Lucia».
Ignaro il maresciallo degli aggiramenti politici dell'Italia,
attribuiva la quiete dei popoli, oltre Adda, all'esempio di
Marignano. «Il terrore che la sorte di Marignano diffuse sui
passi del maresciallo ebbe il più salutare effetto; non gli
si parò più inanzi alcun altro ostacolo». Ma
è tempo oramai che si sappia quali sono le persone e le cose
che furono salutari al nemico, e rimossero ogni ostacolo alla sua
fuga.
«E disegno del maresciallo», dice il succitato documento
inserito nella Gazzetta Viennese, «era di stabilirsi dietro
l'Adda; chiamare a sè tutte le truppe disponibili; riaprire
le communicazioni colle fortezze, e poscia assalir nuovamente
Milano. Ma colà riseppe il precipizio delle cose di Venezia,
lo sgombramento di Brescia, e la defezione del presidio di Cremona.
Il suindicato disegno perciò non era più praticabile;
e fu necessità rinunciare all'Adda (und die Adda musste
aufgegeben werden)». In altra scrittura, pur d'origine
officiale, si aggiunge: «Se siam bene informati, non era mente
del maresciallo di ritirarsi se non all'Adda; solo gli inesplicabili
eventi di Venezia (die unbegreiflichen Ereignisse in Venedig) lo
costrinsero a mutar consiglio. Da una lettera intercetta egli
riseppe che Mantova non era ancor soggiaciuta interamente alla
rivoluzione; e rapidamente egli gettò una divisione
dell'esercito in quella importante fortezza». Questa
rapidità era però quale le circostanze la
consentivano; poichè solo il decimoquarto giorno della
rivoluzione, l'undecimo della ritirata, quelle truppe ebbero
percorso le 80 miglia che sono tra Milano e Mantova. «Il 31
marzo, finalmente, entrarono in Mantova da ottomila soldati, in uno
stato orribile: rotti, curvi dalle fatiche, laceri, mezzo disarmati;
i gregari abbattuti e trasognati; gli officiali col veleno
nell'animo e la rabbia nel volto». - Lo stato della fortezza e
quello dell'esercito erano tali, che per lungo tempo parve non si
pensasse intraprenderne tampoco la difesa. Asserisce un officiale
che, coll'unione dei due corpi d'esercito in Verona e Mantova,
fossero 36 mila uomini tutt'al più. «Ora», come
nota Giovanni Arrivabene, «il presidio di Mantova in caso
d'assedio non può esser minore di 18 in 20 mila soldati; un
eguale presdio occorre per Verona, ed altri 6 mila soldati
occorrevano per Peschiera e Legnago. - Aggiungasi la mancanza totale
d'affusti pei cannoni grossi, la mancanza di munizioni da bocca;
l'assoluto e letterale esaurimento della cassa di guerra e di quella
di finanza; la penuria del sale, di cui alcuno del comitato aveva
fatto arrestare sul Po le barche di trasporto procedenti dal Veneto;
il bisogno di restauri alle fortificazioni, e la spianata attorno
alle mura non eseguita ed ineseguibile. - Ed era ridicolo il veder
cannoni grossi, collocati a semplice ed innocente dimostrazione sui
bastioni, addossati a' cavalletti rigidi di rozzi tronchi
inchiodati». Senonchè, quell'invisibile potenza che
aveva raffrenato l'impeto del popolo a Brescia e a Bologna, e aperto
a Benedek il ponte di Pizzighettone, e tenute in deposito fedele le
porte di Mantova e di Verona, seppe procacciare al nemico il supremo
rimedio del tempo, e con esso il riposo, e i viveri, e il denaro, e
i rinforzi, e le occasioni, e il coraggio, e le capitolazioni; e
dall'altra parte, seppe toglier lena ai volontari prima, poscia ai
soldati, versare nelle anime lo sdegno, l'odio, il sospetto, il
torpore, da ultimo, l'avvilimento e la disperazione. I nemici del
popolo avevano naturalmente più caro trarlo alla sconfitta e
alla sommissione, che non guidarlo a potenza e libertà. Il
primo artificio fu quello di negare la sua vittoria.
Non fu senza un accordo calcolato che i giornalisti d'Italia e
quelli d'Oltralpe anticiparono univoci la guerra del re, inventarono
numero e nome dei battaglioni, e li descrissero, alla tal ora e al
tal giorno, in atto d'entrare per le mura, a salvare un popolo
temerario, che si era posto in un pericolo superiore alle sue forze,
e che da quel momento fu condannato nell'opinione dell'Europa a
infinita gratitudine verso i suoi redentori, a cieca fiducia, ad
abietta rassegnazione. Gli adulatori magnificarono immensamente
tuttociò che il popolo non aveva fatto; e vilipesero tanto
l'opera sua, ch'ei quasi ormai sorrideva di quel suo sogno d'aver
vinto, anzi d'aver combattuto. Campione delle barricate divenne
sopranome faceto. Si commise alli scribi regii di renderlo odioso.
«I professori di barricate, visi incancreniti dai vizi e dalla
lussuria», scriveva l'ignobile Ciro D'Arco. E domandava:
«debbo io ripetere che lo stesso movimento di ritirata di
Radetzky - non fu determinato che dal movimento delle truppe
piemontesi?». Il nemico non si era ritirato avanti a chi lo
incalzava colle carabine e colle barricate mobili: a chi gli aveva
tolto i forni da cuocere il pane: a chi aveva atterrati, ad uno ad
uno, i suoi cannonieri e spento il foco de' suoi cannoni: e tratti i
Varasdini e i Prohaska a sfilare senz'armi al cospetto dei
rappresentanti del popolo: e strappata dalla lettiera del
maresciallo la sua sciabola: e costretto l'italivoro Schönhals
a raccomandare le donne tedesche alla santa filantropia della
canaglia latina. Ma si era dileguato inanzi allo spettro militare
che torreggiava immoto e ginocchione sull'ossario di Superga.
Dopo gli stipendiati della Presse, della Patria e del Risurgimento,
vennero i Xenofonti, vindici dell'arte bellica e dell'onor del
mestiere; e ve n'ebbe di tedeschi e d'italiani e d'altre razze; ma
non si scorge fra loro altro divario. Il popolo cisalpino, a detta
loro, non era degno di vincere, poich'egli era politicamente nullo;
e se mostrò d'aver sangue nelle vene, ciò torna a lode
de' suoi padroni, la cui clemenza non lo aveva perfettamente
evirato: «toute insurrection triomphante est comme une
espèce de témoignage en faveur de l'oppresseur»
(Custoza, p. 16).
Dunque se Radetzky fu vinto dal popolo, non dite viva il popolo, ma
viva Radetzky! Anche sulla tomba di Marco Bòtzari non si dica
viva la Grecia, ma viva la Turchia. E così si stampò
che Radetzky era sempre stato uomo assai popolare: «ein sehr
populärer Mann»; e che si minacciò d'ucciderlo a
tradimento: «mit Meuchelmord»; ma egli, egli, aveva
«vietato ai soldati di far foco». Fu il popolo che gli
fece una «odieuse surprise», camminando in processione
dalla casa municipale fino al bastione di Monforte; ma egli fece
trarre il cannone d'allarme solamente due ore dopo che le carabine
tirolesi, dalle aguglie del Duomo, colpivano nelle interne case
fanciulli e femine, e la cantante tedesca Maria Moll. Anch'egli,
come Oudinot il 30 aprile, non fu vinto da un popolo nostrale, ma da
un esercito di stranieri, che il barone Torresani aveva lasciato
impunemente accampare in Milano: «una turba di bersaglieri,
parte dalla Valtellina, parte dalla Svizzera, parte dal Piemonte e
dalla Francia, che a poco a poco si erano fatti venire in
città, furono quasi i soli che col loro foco danneggiarono la
guarnigione; il resto della gente tirava solo di nascosto dalli
spiragli delle finestre». Broggi non potè cadere al
ponte di Monforte, nè Borgazzi in aperta campagna, in faccia
al bastione; ma dovevano esser tutti a casa loro, a far capolino
dalle finestre. Non è vero che il popolo portasse i feriti
nemici all'ospitale, o confortasse con «brodo» e con
«pane e vino» i prigionieri. «Furono con
vergognosa crudeltà scannati dalla plebe, sotto gli occhi dei
loro compagni, dopo che erano caduti da cavallo». Il barone
Diesbach s'ingannò quando scrisse a sua madre che il popolo
lo trattava bene; e il conte Bolza va errato assai, s'egli crede
d'aver avuto salva la vita. Il conte Pachta fu perfettamente
spogliato: vollkommen ausgeplündert; e la contessa Spaur fece
un aureo sogno quando s'imaginò che Oldofredi e Busi le
avessero recato la cassetta delle gioie: die kleine Cassette. Se il
croato e il boemo recisero i piedi alle donne e si posero in tasca
le tronche mani colle annella sulle dita, s'entravano trionfanti in
Castello, alla vista dei loro generali, coi bambini confitti sulle
baionette, non era barbara vendetta dei loro disastri, ma un poco
d'alacrità e di slancio «per essere stati vittoriosi
dovunque, e aver preso d'assalto una casa dopo l'altra».
È falso che il maresciallo avesse necessità
d'armistizio, per dar fiato alle sue truppe, e avviluppar meglio i
cittadini, e applicar poi loro la polvere e il piombo della legge
marziale; è falso che avesse perciò mandato al
municipio il maggiore delli Ottochani, e che nella conferenza coi
consoli avesse egli proposto di cessare dalle ostilità; erano
i consoli che al loro uso volevano ingerirsi d'ogni cosa; e il
maresciallo aveva dato loro una secca ripulsa, e nemanco di persona,
ma per mezzo d'un subalterno: durch General Schönhals. Se in
procinto di ritirarsi, faceva incendiare le case a dozzine, e ne
faceva sterminare gli abitatori, era opera pia, «per salvare
una comitiva di donne e fanciulli e impiegati, che fugivano il
furore del popolo italiano».
Anzi vi fu in Coira chi scrisse che, nella notte dal 22 al 23,
«si tirò dal Castello sulla città con un sol
cannone, e solamente a polvere; che una divisione, partendo,
attraversò, per mezzo, tutta la città, senza
ostacolo». E non furono i soldati che pel solo scorrere
«d'un cavallo si gettarono in disordinata fuga per la
campagna»; ma il popolo fu messo in rotta, dice l'autor di
Custoza, «par un simulacre d'attaque générale,
au moyen d'un feu terrible d'artilleire, qui répandit quelque
temps l'épouvante».
Il numero delli austriaci in Milano fu solo di dieci mila;
«une douzaine de mille hommes», scrive alquanto
più generoso il Custoza; quattordici mila
«soltanto», scrive ancor più generoso il
così detto Ciro d'Arco. Come mai Radetzky nel suo rapporto
potè imaginarsi che fin dal quarto giorno fossero 16
battaglioni (mit den hier konzentrierten 16 Bataillons und 6
Eskadrons mit 30 Geschützen)? Come mai, in procinto di
ritirarsi, potè adunarne 14 dietro il Castello (hinter dem
Kastell), senza annoverare le due brigate (probabilmente altri 8
battaglioni e 12 cannoni) che occupavano frattanto i bastioni e il
Castello? Se i battaglioni erano veramente 16 più 8,
cioè ventiquattro, dovevano ben fare, tra vivi e morti, a
1140 uomini per battaglione, assai più di 20 mila uomini, e
aggiungete le altre armi; aggiungete che, a detta dell'anonimo di
Zurigo, «sembra che i generali dimenticassero i posti della
guardia di polizia, forse perchè non era incorporata
nell'esercito; e queste truppe italiane rimasero fedeli alla
consegna, finchè non dovettero cedere alla forza prevalente
che le stringeva». Tuttavia, «si quelque chose doit
surprendre, c'est que cette armée n'ait pas été
entièrement écrasée»; lo dice l'autor di
Custoza, il quale deve avere una portentosa stima della forza del
popolo. E come salvarsi i soldati, quando «ovunque si
mostrassero», scrive l'anonimo di Zurigo, «pioveva acqua
bollente e perfino olio bollente (siedendes Wasser, selbst siedendes
Oel)?». Che valeva la mitraglia dei 42 cannoni da campo e
delli altri che stanziavano in Castello e sulle piazze, contro
l'acqua bollente? Oh quanto olio ci volle per friggere ventiquattro
battaglioni e sei squadroni, mit Geschützen - Siffatte
scempiaggini potè dettar l'odio del popolo e il disprezzo
della verità!
E infine, ch'era mai codesto popolo, se non lo strumento venale
d'una nobiltà capricciosa? Così stampò il
general Willisen, notorio nemico d'ogni venalità. E di tal
modo, alle imposture della casta militare, che in Prussia, e anco in
Italia, si reputava mallevadrice alla gloria dei confratelli
austriaci, si collegarono le millanterie dei signori e le adulazioni
dei loro guàtteri. E si posero a credito delle loro
eccellenze tutti i pericoli e i consigli del combattimento, il quale
«non fu capitanato (was not headed) dai Ledru-Rollin, e dai
Louis Blanc, ma dai magnati del paese (the greatest in the land). E
il conte Pompeo Litta Biumi, il solo tra i membri del provisorio che
i combattenti andarono a invitare e prendere in casa sua, non era un
letterato di modeste fortune; ma Creso di Lidia, il duca di
Devonshire della Lombardia». Queste favole si facevano
stampare in lettera a lord Palmerston. Il quale lord Palmerston,
sapendo che il duca di Devonshire ha un patrimonio di cento milioni
di franchi, concepiva così un'idea molto adeguata delle cose
nostre.
Noi dimandiamo alla Croce di Savoia a qual ordine di cittadini
appartenessero, e di quale opinione poi si manifestassero, coloro
che consegnarono entro «la cinta» di Forte Urbano il
battaglione civico di Bologna, e con minacce richiamarono da Modena
i finanzieri e i dragoni; coloro, che in Cremona, in Brescia, in
Mantova, in Verona, vietarono ai cittadini di mostrarsi
«illegalmente armati»; e alla plebe che voleva
«armi e battaglie» gettavano pane e denaro; e
«convenivano coll'autorità militare che si levassero le
barricate»; e alla nuova dei tremendi pericoli di Milano,
predicavano a' cittadini d'aspettare, in coccarda bianca e piuma
bianca e sciarpa bianca, la vita o la morte dei fratelli. «O
Milano è vittoriosa: e allora insurgeremo con più
baldanza e più frutto; o Milano soccumbe: e saremmo allora in
mal punto insurti». Prima del conflitto, si poteva dubitare,
deliberare; il ricusar battaglia poteva essere buon consiglio; ma
quando la battaglia ruggiva, e le sorti di tutti si agitavano nel
sangue, ritrar dal campo le riserve che dovevano assicurar la
vittoria, era ben aiutare il nemico. E peggio era frapporsi, sin
colla spada alla mano, perchè il nemico conseguisse con una
capitolazione la sicura uscita dalla città:
«sfoderò la spada: si pose avanti all'officiale,
sclamando: non potrete offenderlo, se prima non mi offendete».
E quella capitolazione non pattuì tampoco che le soldatesche
partissero alla volta dei loro paesi; ma le lasciò libere,
liberissime di seguire l'appello che le convocava d'ogni parte ad
opprimere Milano. «Il maresciallo aveva deliberato di chiamare
a sè tutti i presidii delle varie città, e così
assalir Milano da tutte le parti (und Mailand so von allen Seiten
anzugreifen)». Il capo dei ribelli (das Haupt der Rebellen)
vietò «a titolo di delicatezza, l'aprimento dei
dispacci del nemico»; i dispacci del nemico trovarono
più facile attraversar Mantova che Inzago; i paeselli furono
di maggiore impedimento al nemico che non le possenti città.
«Le ordinanze isolate venivano uccise o prese; i distaccamenti
più considerevoli incontravano insuperabili ostacoli nelle
strade ch'erano barricate, e nei paesi; a trovar messaggieri non era
tampoco da pensare; con siffatto interrompimento delli avvisi, ogni
combinazione fu rotta (scheiterte iede Combination)». Il
«capo dei ribelli», a Monforte, scambiava atti
compassionevoli con O' Donnell; in via del Monte si rifugiava nella
prima casa aperta; in via de' Bigli tentava carteggi con Torresani,
proponendogli «il miglior mezzo termine per condurre a
pacifica soluzione»; e lagnavasi di «non potersi movere
dal luogo ov'era». E riesciva a fugire, la notte; e si faceva
scoprire «in una soffitta, polveroso, coperto di
ragnateli»; e non appena uscito, chiamavasi intorno
collaboratori che lo aiutavano a snervare l'animo dei combattenti
con pratiche d'armistizio, pertinacemente promosse per due giorni, e
sollecitate da Borromeo col timor della fame aggiunto a quello della
mitraglia. Ma tutti questi, pel Ciro d'Arco, sono sintomi di
fermezza (p.2). E al municipio fiorentino parvero sintomi d'eroismo;
sicchè fece scrivere sui marmi della veneranda Loggia i nomi
di quelli immortali. Intanto «il popolo pensava solo a
combattere». Epperò, fra i trecento che caddero in quei
giorni, e i settecento che a poco a poco vennero poi morendo delle
ferite, non si rinvenne quasi nome che non fosse della plebe, o in
poco più lieta fortuna. E mentre taluni, in mezzo alle morti
e alli incendi, raccoglievano in mano propria «ogni potere, il
popolo, una volta adempiuto il suo voto, ricadeva in una tranquilla
obbedienza ai dettami dell'ordine e delle leggi, nulla più
domandando» (Lettera a Lord Palmerston, di Bozzi-Granville).
Intanto, per questi indugi frapposti in Milano e in tutte le
città da svogliati e frivoli capi, il moto dei popoli rimase
in massima parte, impedito. Nella prima notte, consigli incerti di
subire il pericolo, non d'affrontarlo e dominarlo; nel mattino,
s'indirizza il primo impeto della adunata moltitudine, non sopra
alcuno delli uomini che tengono in mano le armi, ma sopra un togato,
i cui vani decreti non fanno cadere una baionetta. Il popolo sciupa
il giorno, aspettando prima i quarantamila fucili, perfidamente
vantati dai signori, poi i tre o quattrocento della polizia,
assicurati dal decreto di O' Donnell; e rimane a mani vuote, a
legger sulli angoli delle vie gli affissi che lo invitano ancora
«a pace e fratellanza», e origliando i dubbi rumori
delle altre parti della città, e indovinando onde provenga il
sordo muggito del cannone che intanto sfonda le porte della casa
municipale. - I popoli entrano nella battaglia a giorno a giorno, a
squadra a squadra; nel primo dì, Milano e Venezia; nel
secondo, la pianura milanese, il borgo Palazzo di Bergamo, e con
infelice esito Crema; nel terzo, Como, Modena e Parma
vittoriosamente; nel quarto, Varese, Monza, Pizzighettone, Cremona;
nel quinto, finalmente, Brescia, dopo aver morso per quattro giorni
il freno degli azegliani; ma già in quel giorno il freno
azegliano ritrae dal combattimento Bologna, rende immobili Modena e
Parma. Verona e Mantova stanno tra la sedizione e l'ossequio; Lodi
fa un cenno appena di sollevazione; Pavia e Piacenza, meno illuse
delle altre città intorno ai soccorsi del re, non si
commovono affatto. E tosto Cremona disarma Pizzighettone, apre il
passo dell'Adda ai presidii di Piacenza e Pavia; e insieme a Bergamo
e Brescia tollera che i corpi smembrati possano raccapezzarsi
sull'Ollio, per poi recarsi all'incontro dell'esercito che retrocede
disfatto dalla battaglia di Milano. La sola Como fece quanto
umanamente si poteva; di 1500 nemici ella non lasciò fugire
uno solo; e tosto si mosse al soccorso della vicina città. Se
tutte le altre avessero ugualmente operato, traendo seco attraverso
ai passi del nemico tutte le loro forze, come avrebbe mai potuto la
sbattuta e famelica masnada aprirsi fra tante aque e piantagioni e
difese muraglie la via? Già prima di prender le mosse, le
soldatesche, che avevano vegliato tante notti, «cadevano per
terra spossate di fame e di stanchezza»; già nel primo
sfilare, sotto una tempesta di palle, e in un angusto passo fra due
file di case incendiate, bastò un cavallo spaventato a
disperdere due battaglioni stranieri, e dar ansa a un battaglione
italiano di raggiungere i fratelli; le strade intercise da fossati
di formidabili proporzioni, gli arbori rovesciati sul terreno, le
fucilate di San Giuliano fecero che quattordici ore appena bastarono
a dieci miglia di viaggio, essendo la colonna distesa sopra cinque
ore di cammino. E l'esercito era talmente pronto a ingrandire colla
paura gli ostacoli veri, che s'imaginò d'aver vinto una
battaglia per entrare in Marignano, d'onde non era uscito un sol
colpo di foco; e trapassò vergognosamente la notte fra
l'ubbriachezza e lo spavento, col quartier generale ingombro di
valigie e invaso da fanciulli e donne.
Noi crediamo che questo volume offra le prove di due fatti. Il primo
si è, che il nemico, il quale, veramente aveva al suo comando
centomila uomini, perdette nei cinque giorni due terzi della sua
gente e pressochè tutte le sue fortezze, e solo per effetto
dell'indolenza altrui vi riebbe ricovero e salvamento.
Il secondo fatto si è, che, per conseguire questa splendida
vittoria, non si posero in atto, nemmeno per una quinta parte le
forze dei sette milioni di popolo che abitano il Lombardo- Veneto, e
le provincie italiane del Tirolo e dell'Illirio, e i ducati di
Modena e Parma; essendochè l'insurrezione non fu veramente
generale e impetuosa se non nelle due provincie di Milano e Como, le
quali non sommano a più di 900 mila abitanti. E quivi pure
mancarono affatto al popolo tre grandi elementi di siffatte imprese,
cioè gli avvisi, gli eccitamenti e i capi. Anzi, e quivi e
per tutto, coloro che il popolo era indettato a considerare come
capi, fecero quant'era in poter loro, e con trattative e con
ordinanze e con publiche esortazioni, per moderare e contrariare
l'impeto dei giovani, e tenerli disarmati e inoperosi, e per aiutare
il nemico, sia a star dentro le città, sia ad uscirne senza
disastro e per le vie più opportune a' suoi disegni, sia a
raccapezzare le smembrate sue forze e raccoglierle nelle fortezze,
le cui porte essi gli tennero aperte, tenendole chiuse agli insurti.
Egli è un fatto, che gli indirizzi e gli editti dei municipi,
dei ministeri, e perfino dei comitati, parlano quasi tutti d'ordine,
di quiete, di tranquillità, non diversamente da quelli
dell'imperator Ferdinando, del vicerè Ranieri, e del duca di
Modena o di Parma. Questa è l'istoria vera, che parrà
strana a molti, e parve quasi incredibile a noi, mano mano che
l'andavamo raggranellando da codesti frammenti di repertori
officiali e di gazzette. E perciò sfidiamo i redattori della
Croce di Savoia e altri simili ingannati o ingannatori, a comporre
di siffatta materia un altro volume, e trarne, se possono, un altro
costrutto.
Vantarono gli scrittori militari il gran numero dei soldati italiani
ch'era nell'esercito d'Italia; e noi proviamo che nessun paese
d'Europa fu tenuto mai con maggior proporzione di soldati stranieri,
poichè i battaglioni stranieri al regno Lombardo-Veneto erano
45; e 38 di essi erano interamente slavi o tedeschi o magiari. Onde,
se questo fatto è strano, come giudica l'autor di Custoza, fu
strano in senso contrario a ciò ch'ei s'intese; e non
è vero che avesse des graves conséquences. Coi
battaglioni tutti italiani non si perdè Mantova; e coi
battaglioni croati e stiriani si perdè Venezia. E in nessun
luogo l'esercito ebbe più trista sorte che a Como, ove non
v'era un solo soldato italiano, ma erano tutti croati, carinti e
ungaresi; e rimasero tutti, fino ad uno, feriti o morti o
prigionieri, coi loro colonnelli, l'uno dei quali tedesco e l'altro
croato. E in Milano v'erano fin dal primo giorno settemila boemi e
moravi, e inoltre croati e tirolesi e ungari a piedi e a cavallo: e
d'italiani un sol battaglione di linea e alcune compagnie di
poliziotti; e combatterono pur troppo al Genio e a San Bernardino, e
non si fecero disertori se non dopo ch'erano usciti di città.
E croati erano quelli che fugirono da Appiano per deporre le armi a
Varese; croati quelli che si ridussero a bersagliare dalle finestre
delle caserme il popolo di Bergamo; e lancieri polacchi e dragoni
tedeschi erano quelli che si lasciarono prendere dai contadini nelle
basse di Brescia; e ungaresi gli 800 che patteggiarono coi
parmigiani a Colorno. Al contrario, italiani erano quelli che
decisero il disarmo di Crema, e italiano il battaglione che
salvò contro ogni aspettazione all'esercito il passo di Lodi.
È vero che a Pizzighettone e Cremona gli italiani non vollero
pugnare col popolo; ma così non pugnò nemmeno il
popolo, e la sottrazione delle due quantità non alterò
l'equazione. Ma diremo di più. Ben poterono gli azegliani di
Brescia tener frenato per quattro giorni quel popolo predicandogli
la fratellanza, perchè i soldati bresciani del Haugwitz e, in
parte i goriziani e istriani del Hohenlohe erano del suo sangue e
della sua lingua. Come poteva il popolo concepir furore contro
quelli infelici sforzati, che in procinto di partire la pregavano a
impedir loro la partenza, e protestavano di voler vivere e morire
coi loro fratelli? Ma se il popolo avesse avuto a fronte la barbarie
croata o l'arroganza teutonica, l'avrebbero le senili ciancie dei
moderatori rattenuto per quattro giorni? Il popolo bresciano
nè poteva trucidare gli italiani, nè trarli seco;
perchè, oltre alla malia della disciplina e del giuramento,
essi dovevano temere assai più i loro capi stranieri e
feroci, che i loro avversari e fratelli. Al contrario, se fossero
stati tedeschi o slavi, avrebbero avuto maggior paura del popolo
furibondo, che non del bastone de' caporali. Sì, se fossero
stati due o tremila tutti stranieri, in quella fiera provincia di
340 mila anime, ove, l'anno appresso, si vide il popolo leone
avventarsi sotto la mitraglia col coltello in pugno, noi diciamo che
i soldati avrebbero fatto in Brescia ciò che i loro compagni
fecero in Varese, in Como e in Venezia. Gli italiani in Brescia
furono quasi mediatori, da un lato stando col popolo, dall'altro coi
generali. E così trascorsero quell'ore fatali; e i
maggiorenti poterono adempiere i comandi dei bellicosi pacieri di
Torino e di Parigi. Se adunque i generali austriaci, persuasi a
torto o a ragione d'aver commesso un errore lasciando in Italia 22
battaglioni italiani, si avvisassero di fare in altra occasione
altrimenti, ciò non farebbe gran divario. Sarebbe un equivoco
di meno, un inciampo di meno all'impeto delle offese. E nessuno
negherà poi che la passata guerra non abbia mutato
grandemente le cose, onde se d'ora in poi altri giudicasse
più sicuro il soldato ungarese che l'italiano, andrebbe
errato; poichè gli italiani possono aver avuto ripugnanza a
mettere a sangue e a foco il loro paese, ma essi non giunsero mai a
volgere le armi contro i loro generali ed uccidere i loro
colonnelli, come fecero nell'autunno del 1850 al campo di Somma gli
ungaresi.
E possiamo aggiungere che, se nel 1848 non si posero in atto tutte
le forze rivoluzionarie del popolo, non si chiamarono fuori nemmeno
tutte le forze rivoluzionarie che giacevano nell'esercito austriaco.
Ognuna di quelle nazioni, s'era nemica al nostro nome e alla nostra
bandiera, non era nemica alla bandiera sua e al nome suo, caro a
tutte, della libertà. Ma nessuno si curò allora se vi
fosse arte di sconnettere quelle moltitudini incatenate dalla forza
al vessillo imperiale, e tutte fra loro straniere e nemiche, e
ripugnanti a quella oppressiva unità. Gli agitatori
dell'Italia non vollero, nè allora nè poi, giovarsi
delli stranieri contro gli stranieri, rivolgere a danno dell'Austria
l'arte sua antica di por gente contro gente. Mentre essi inveivano
contro gli stranieri che potevano essere amici, non volevano
riconoscere quei nemici che pur troppo non erano stranieri.
Non così l'Austria. Essa ritorse contro l'unità
italiana lo stesso sforzo che altri faceva per raccogliere sotto un
sol principe diverse parti d'Italia; essa ritorse contro
l'unità ungarica quello stesso moto delle nazioni che tendeva
a smembrare l'imperio; adoperò il nome slavo per infiammare i
croati e i sirmiani, e dividere fra loro i boemi; contrapose ruteni
e polóni, sàssoni e romeni; adoperò il
tricolore teutonico per trascinare la gioventù viennese
contro la gioventù italiana, stornando due pericoli in un
colpo, e distruggendo in un sol combattimento due nemici. E pur
troppo codesti tricolori che trassero i popoli a infliggersi tanto
reciproco danno, e a rifare coi loro odi e colle loro borie la
potenza delli oppressori, annunciano solo una tradizione di barbara
nemicizia, madre d'ogni conquista e d'ogni servitù;
annunciano un voto di guerra perpetua; poichè dovrebbe durare
finchè durerebbero le nazioni. Uno solo è il vessillo
del quale non potranno mai giovarsi gli oppressori; è il
vessillo di tutti; il vessillo dell'eguaglianza, ossia della
giustizia; il vessillo della libertà e della umanità.
Esso non apparirebbe straniero al soldato italiano, nè al
francese, nè al tedesco, nè all'ungaro, nè al
polacco. Esso annuncierebbe come ogni popolo che combatte per
l'altrui libertà, combatte per la sua; essendochè ogni
popolo servo è un'arme in pugno ai nemici della
libertà; è un pericolo perpetuo, una perpetua minaccia
al genere umano.
La forza espansiva della rivoluzione fu dunque tanto minore, in
quanto l'idea della libertà universale non venne posta
inanzi, ma quella più angusta d'una solitaria indipendenza. E
quando si considera che, di lì a pochi mesi, gli ungari
pugnavano contro l'Austria, non si può non deplorare quella
giovanile impazienza che spinse a vibrare i primi colpi appunto
contro i granatieri ungaresi a Monforte e contro gli ussari ungaresi
in Camposanto, inspirando loro nella vendetta dei compagni uccisi un
sentimento più forte ancora dell'odio loro contro i tedeschi.
E quando si considera che colonnello di quelli ussari, nominalmente
intitolati da Carlo Alberto e da Radetzky, era quel Meszaros che fu
poi campione della libertà in Ungaria, fa ribrezzo il pensare
quale fanatica letizia sarebbe stata quella dei combattenti, se lo
avessero mirato, alla fronte de' suoi squadroni, cader moribondo
sotto un colpo delle loro carabine. Il tempo ha svelato questi
arcani nazionali, celati allora dalla stranezza delle lingue, e
dalli odiati uniformi, e dalla scambievole ignoranza, e
dall'orgoglio. No, se pesa sull'Europa una mole di tre o quattro
milioni di soldati, non è che la causa dei popoli abbia tre o
quattro milioni di nemici. Nell'esercito austriaco non sono i
quattrocento o cinquecentomila soldati che hanno interesse ad
opprimere se medesimi nel popolo; essi sono costretti; sono servi
due volte infelici, sui cui s'aggrava la duplice catena del suddito
e del soldato. La volontà loro è soppressa; l'anima
loro è fusa in quella di quindici o sedicimila officiali; e
questi pure chi sono? se non i figli di dieci nazioni, necessitati
ad apparire stranieri e nemici alle loro patrie, e portare la
maschera d'un'unità, ch'è il loro commune supplicio?
Chi mira quei folti battaglioni di forte gioventù,
splendidamente armati colle spoglie delle loro nazioni, sulla fronte
ai quali traluce un raggio di mal repressa intelligenza, non si
lasci abbagliare. No, il color d'una bandiera, una novella
improvisa, una parola, la sola intonazione d'un cantico, basta a
squassare tutta quella scenica ordinanza, e trasmutarla in una
mischia sanguinosa, ove all'unica voce dell'odioso comando risponda
in dieci lingue il grido della nazionale vendetta. Non è
nemmen necessario l'urto di un altro esercito; questo ha in
sè tutti gli elementi della sua distruzione.
E perciò è vano l'argomentare se in altra congiuntura
potrebbe rinovarsi il prodigio dei cinque giorni, se i cento
battaglioni che ora ha l'Austria in Italia, farebbero miglior prova
che non fecero i settanta battaglioni che aveva allora. Intorno a
ciò diremo anzi tutto che, se crebbe il numero delle truppe,
crebbe in ragione maggiore lo spazio sul quale sono disseminate;
allora non si stendevano oltre Parma e Modena; ora fino nelle
Maremme, nell'Umbria e nelle Marche, ch'è due o trecento
miglia più lontano. Perlochè non potrebbero avere tra
il Ticino e il Serio più delle sette brigate che ebbero
allora, nè più di due brigate fra il Serio e l'Adige.
Allora erano in maggior proporzione i soldati italiani; ma questo
è ben certo che i soldati d'altre nazioni, che allora
miravano con animo ostile l'Italia, ora sono ridutti a sperare nella
sua vittoria e nella sua libertà. Certamente, il popolo non
sarebbe costretto a mendicar, da un re, capitani senza sapere e
senza volontà, quando venissero a consigliarlo e precorrerlo
sul campo i superstiti difensori della libertà ungarese, i
cui nomi l'esercito austriaco ha imparato a conoscere e paventare.
Inoltre, noi crediamo aver dimostrato che in quella insurrezione
prese veramente parte repentina ed efficace all'incirca un millione
di popolo, e che gli altri sei milioni vennero da varie influenze
rattenuti; e vuolsi notare che le regioni ora presidiate
dall'Austria ne hanno poco meno di dodici milioni. E se i popoli
hanno fatto infelici esperienze, e hanno ragione d'esser più
cauti, hanno anche maggiore l'odio; e se hanno la pratica della
paura, hanno anche quella delle armi e dei pericoli, e la coscienza
di ciò che potevano fare e non hanno fatto. E anche il nemico
ha fatto le sue esperienze; e non vi sarà più chi
«vanti apertamente, nei circoli del maresciallo, che la prima
palla dei cannoni del Castello contro le aguglie del Duomo avrebbe
domato qualunque movimento in Milano». E Milano, e Venezia, e
Brescia, e Vicenza, e Bologna sono nomi che nei computi militari
hanno preso ben altro valore. Il nemico ha provato il coraggio dei
popoli, e sa di avere stoltamente abusato della vittoria; e teme la
rappresaglia delle rapine, delli omicidi, del bastone. È vero
che ora contro molte città stanno pronte le bombe; ma
è vero altresì che l'incendio di qualche centinaio di
case non varrebbe gran fatto a spaventare un popolo, che ha posto il
foco a molte case colle proprie mani. E forse, a tempo e luogo, non
vi sarebbe chi avesse il coraggio d'accendere quelle bombe e di
avventarle, perchè il popolo avrebbe esso pure in mano
qualche pegno; e quando il torrente dell'insurrezione fremesse
intorno alli isolati baluardi, non tutti i capitani vorrebbero con
siffatte inutili sceleratezze chiamar sul loro capo inesorabili
vendette. Diremo, infine, che gli eserciti nemici non saranno mai
meglio armati, nè meglio comandati che allora non fossero;
nè crediamo che l'arte militare si sarà di molto
mutata; ma i popoli certamente avranno più risoluti
condottieri; e non soffriranno capi di ribellione che avessero la
stoltezza o l'audacia d'impor loro le coccarde bianche, e di far
levare le armi a chi non fosse tra i duecento «della
possidenza e del commercio». La ferocia del nemico e lo
spavento ch'egli si sforza di spargere, ratterranno dalle puerili
dimostrazioni e dai piccoli e vani tentativi; ma gioveranno a dar
gravità e impeto alle grandi e irrevocabili deliberazioni.
Ma un elemento mancherà ad ogni futura insurrezione. Le
mancherà quel nome che fu l'istantaneo e caduco nodo della
nazionale unanimità: il nome di Pio IX. Scelto allora da
pochi ad astuzia di guerra, fu adottato dal popolo, con tutta la
semplicità ed il fervore della fede antica, ad esprimere
l'implicito e confuso senso della santità de' suoi diritti.
«Convinto, come io era», scrisse Montanelli nel primo
volume di questo Archivio, che l'unità nazionale si potesse
conseguire soltanto col gravitare verso un centro commune, e che
l'idea unitaria tanto più sarebbe stata facilmente
eseguibile, quanto meno per incarnarsi avesse avuto bisogno
d'eliminazione, mi applicai a fare di Pio IX l'insegna della
fratellanza italiana».
Pio IX fu fatto da altri: e si disfece da sè. Pio IX era una
favola immaginata per insegnare al popolo una verità; Pio IX
era una poesia. E anche l'antica republica inglese, dalla quale
provenne tutto ciò che v'è di salutare nella presente
costituzione, o le republiche bàtave, e le americane, e la
republica pensante di Ginevra, erano fiorite sovra l'orrido spinaio
delle controversie scritturali. E taluno reputò cosa
possibile che Pio IX fosse un Giunio Bruto, il quale avesse deluso
con diuturna mansuetudine gli sospettosi Tarquini del concistoro. Ed
eziandio chi vedeva in esso il pontefice, non della sola gente
italica, ma d'un numero di fedeli otto volte maggiore, potè
bene reputar giustizia, non già ch'ei dovesse farsi capitano
di una contro altra nazione, ma bensì ch'ei potesse
ingiungere ad ogni nazione di star contenta ai termini della terra a
lei sortita. Poichè l'Italia, nel diritto evangelico, non era
già terra d'infedeli Cananei, che dovesse esser data a
stranieri figli di Dio; ma era la terra d'una delle tribù
elette; nè altra di quelle tribù poteva allegar
diritto divino di venire a depredarla e farla misera e vituperata.
Ed era misera e vituperata senza frutto delle genti medesime in cui
nome veniva oppressa, dacchè queste parimenti erano infelici
e ribelli. Sarebbe stata ben maggior gloria al pontefice, s'egli
fosse surto nel nome di Dio a giudicare quella iniqua sapienza di
stato ch'era una calamità commune di tanti popoli, e se
avesse rivendicato i loro diritti dalle mani degli oppressori,
piuttosto che assidersi, ultimo e fiacchissimo dei regnanti, sovra
un soglio insanguinato.
Ma il risurgimento dell'Italia era inaugurato in questo nome; non
era il diritto, non era l'idea; era un uomo, anzi il mero nome d'un
uomo, e d'ora in ora poteva essere solennemente negato. E
così fu quasi aratro che passando lasciò profondamente
sovverso il suolo; non era intonazione d'un'èra novella, ma
preparazione e preludio. Era un nome di guerra; e la guerra fu
fatta. E v'è tra il nome di Pio IX e quello di Carlo Alberto
questo divario, che al suono del primo nome il popolo corse
all'armi; e al suono del secondo le depose. Coll'uno si
inaugurò l'unanime oblio delle opinioni, la lega improvisa,
l'improvisa vittoria; coll'altro, le gelosie dei principi, le
fazioni dei popoli, la mirabile impotenza. Ora ambo i nomi son
parole morte.
E così trapassano le apparenze e le finzioni, e sopravive la
verità. Non fu solo nel nome dei novatori, che fu iniziata
l'èra della libertà in Inghilterra, in Olanda, in
America; ma nel testo medesimo dell'evangelio. Epperò la
riforma non avrebbe potuto naufragare per fallibilità e
volubilità dei novatori. Essi non si erano imposti alle
nazioni come maestri e padri, accaparrandosi in perpetuo le menti e
le volontà; ma avevano chiamati gli uomini alla parola del
Libro, qual ch'ella fosse. Essi avevano posto in mano a tutti il
volume in cui si legge: «nè vogliate chiamare alcuno in
terra vostro padre, poichè il solo padre vostro è
quegli che sta ne' cieli; nè siate chiamati maestri,
perchè l'unico vostro maestro è il Cristo»
(Mat., 123). Or dunque, come osava alcuno in terra nomarsi padre
santo, santissimo, e infallibile maestro?
E così molti insegnamenti di libertà stanno
nell'evangelio; ma il popolo li ha sempre ignorati; perchè
quello è tesoro del quale i nemici della libertà
tengono la chiave. E inoltre vi stanno anche molti precetti di
servitù. E questi vengono ripetuti; e delli altri si tace.
Senonchè, la scienza della libertà e della giustizia
sarà dunque privilegio dei popoli che leggono l'evangelio?
Sarà essa negata alli israeliti, che vivono in mezzo a noi
co' nostri costumi, e co' nostri pensieri? E l'ignaro e corrotto
bizantino, perchè aveva udito vanamente l'evangelio,
sarà stato un essere più sublime di Leonida e di
Socrate? E nell'imperio indobritannico, ora e sempre, avrà
diritti solo il cristiano? E i cento milioni d'uomini che serbano
nella penisola braminica le tradizioni d'una civiltà dalla
quale nacque la nostra, non avranno speranza alcuna d'esser
partecipi del nostro avvenire? E le centinaia di milioni
dell'imperio chinese e delle finitime regioni non hanno forse
intelletto? non sono fatte ad imagine di Dio? non hanno natura
d'uomo, sicchè, non debbano avere i diritti dell'uomo?
Poichè i catolici sono un quarto forse dei viventi
oggidì sulla terra, dovrà la maggioranza del genere
umano rimanere esclusa dal contratto sociale? E nell'Asia musulmana
diverrà il turco e l'arabo e il druso il servo dell'armeno e
del nestoriano? E sarà men degno della libertà il
circasso che la difende eroicamente, che non lo slavo, la cui vita,
il cui nome stesso, è servitù?
No, quando le nazioni tendono d'ogni parte verso la communanza dei
viaggi, dei commerci, delle scienze, delle leggi, delle
umanità; quando il vapore trae sulle terre e sui mari le
moltitudini peregrinanti nel nome della pace e della fratellanza;
quando la parola vibra veloce nei fili elettrici da un capo
all'altro dei continenti, non è più tempo
d'architettare una giustizia e una libertà che sia privilegio
d'americani o d'europei, di papisti o di protestanti. È tempo
che le discordi tradizioni delle genti si costringano ad un patto di
mutua tolleranza e di rispetto e d'amistà, si sottomettano
tutte al codice d'un'unica giustizia, e alla luce d'una dottrina
veramente universale. È tempo che le arbitrarie e anguste
divinazioni dei pensatori primitivi, perpetuate nei libri di
sacerdozii rivali e nemici, cedano alle costanti rivelazioni della
scienza viva, esploratrice dell'idea divina nell'illimitato
universo. Verità, libertà e giustizia: libertà
per tutti, giustizia per tutti: questa è prosa sincera e
durevole; vera oggi e vera dimani. Ed è anco più alta
poesia che non la favola di Pio IX.
III
Perseveriamo nell'arida fatica di radunare d'ogni parte le memorie
che rimasero del 1848, a raddrizzo degli scrittori presenti, a
sussidio di quanti vogliano far ragione dai fatti.
Or che tutti gli aventi causa ebbero agio di tessere le loro
narrazioni oratorie, è tempo che il conflitto delle
testimonianze ponga a cimento la verità.
Comprende questo terzo volume, distinti per giorno e per luogo, e
raccapezzati con un indice anche per materie e persone, 1700 e
più frammenti editi e inediti, notizie di guerra, ordinanze,
dispacci, indirizzi, proclami, citazioni; lungo e vario dialogo nel
quale ogni interlocutore, amico o nemico, re o pontefice, caporione
di combattenti o priore di confraternita secrete, vien lasciato dire
colle proprie sue parole. Il che in istoria non si può fare,
e in romanzo istorico si fa solo con modi posticci e mentiti.
Tolte lievi eccezioni, il volume si riferisce tutto ai sedici giorni
d'irreparabili indugii che corsero tra la fuga di Radetzky, la notte
del 22 marzo, e il primo conflitto dell'estrema sua retroguardia
coll'avanguardia piemontese al ponte di Goito, la matina dell'8
aprile. Ma se ben si mira per entro a questo volume, tutta quella
politica e quella guerra appaiono nel breve preludio adombrate, e
quasi diremmo predestinate.
Alcune centinaia di codesti frammenti furono a stento racolti tra i
dispersi scartafacci del comitato di guerra di Milano. Sono ordini,
avvisi e annunci d'ogni sorta, di ben minimo momento ciascuno per
sè, ma pur segnati tutti della splendida impronta d'un tempo
che gli eroi delle battaglie indarno affettano sprezzare,
fintantochè l'arte loro e la virtù non trovino tanta
fortuna almeno quanta n'ebbero gli uomini delle barricate.
E invero, quasi favolose oggi appaiono le capitolazioni austriache,
registrate già in buon numero nel secondo volume, e anzitutto
quella del presidio di Como: 20000 soldati, tutti stranieri, che
rimasero fino all'ultimo uomo prigioni o morti. Al che qui si
aggiunge la capitolazione del battaglione Poschacher in Rovigo,
quella dei 900 ungaresi, fanti e cavalieri, che per sedicimila lire
vendettero le armi loro ai parmigiani in Colorno, la incruenta
prigionia d'uno dei generali Schönhals con 60 officiali in
Rezzato, l'incruenta consegna dei forti di Comacchio, Magnavacca e
Volano muniti di 42 cannoni, la presa di sei cannoni da campo in
Cremona, di 17 pezzi in Pizzighettone, di 48 in Piacenza, e
l'abbandono che fece Radetzky di 300 feriti in Lodi, senza
annoverare quelle centinaia che aveva lasciate in Milano. Il che
compie il quadro, già recato nel secondo volume, della
confusione di quella ritirata, e del terror pànico delle due
notti che quell'esercito passò tra Milano e Lodi: pur troppo
impunemente, benchè una sola marcia lontano dal confine
piemontese. Onde il disastro di Zichy e la perdita di tutti i forti
di Venezia (la quale sola, e non Mantova nè Verona, era
veramente la grande piazza e il centro strategico e la sede del
tesoro e degli arsenali e degli armamenti terrestri e maritimi)
appare come un fatto che unicamente per le lentezze del re, non
avvolse tutto l'esercito austriaco e tutte le minori fortezze.
Ciò si chiarisce da quanto qui traduciamo dall'opera
dell'altro Schönhals, intorno allo stato interamente inerme in
cui, non si sa come, fra tante millanterie di guerra, eransi tenute
Verona e Mantova con le fosse ingombre d'arbori, e i magazzini
vuoti, e le artiglierie senza cannonieri e senza affusti.
In aggiunta a quanto si espose nel secondo volume intorno al
disastro di Marignano, qui si conferma che fu solamente l'ultimo di
quella serie d'incendii che gli austriaci confessano di proposito
intrapresa lungo i bastioni di Milano nel 22, per farsi adito ad
uscir di città. E si palesa che la quiete trovata poi nel
rimanente loro cammino non fu già l'effetto di ciò che
i loro inumani scrittori chiamano un terror salutare. Poichè,
al contrario, qui da una memoria inedita si rileva, che lo
spettacolo del vicino incendio di Marignano per poco non commosse
Lodi a disperata sollevazione. Da qual pericolo l'esercito fu salvo
per merito dell'illustre ungarese il colonnello Meszaros; il quale a
ciò valse colla benevolenza e popolarità che da molti
anni, per una rara eccezione, egli erasi cattivata in Lodi.
Da confessione di Schönhals appare poi chiaro che se Radetzky
si ritrasse all'Adda, vi fu veramente costretto dalla rotta di
Milano; e se dall'Adda si ritrasse all'Adige lo fu per la
inaspettata perdita di Venezia e il grave pericolo di Mantova e di
Verona. E qui d'altra parte vien dimostrato che se potè
riposarsi tre giorni in Lodi e Crema, e ripigliarvi lena, ordine e
coraggio per la ritirata ulteriore, fu perchè i patrizii
bresciani avevano con insano consiglio protetto il ritorno di
Schwarzenberg ai ponti dell'Ollio, e rattenuto con ogni arte in
Brescia quel popolo vittorioso.
Il lettore saprà dar pregio a parecchi diarii e moltissime
lettere che abbiamo raccolto dalle squadre de' volontari, che in
quei sedici giorni riempivano l'intervallo fra i due eserciti,
preoccupavano le pianure di Treviglio e di Chiari e perfino le
vaporiere del lago di Garda, precorrevano d'un giorno al di
là del Mincio l'avanguardia del re, e con impedire ai nemici
di vettovagliar Peschiera gli assicuravano quell'unica sua
conquista. Fra le lettere inedite additeremo a certi scrittori di
poca fede, quelle, per esempio, di Luciano Manara che si chiudono
con un evviva alla republica, con un evviva alla democrazia in tutto
il mondo. I quali gridi non si udirono mai di que' giorni nelle
piazze delle città, come pretesero poi molti in Piemonte, ma
solo a quell'estrema avanguardia, fra le sentinelle perdute. Anche
delle lettere non inedite riusciranno tuttavia nuove a molti,
quelle, per esempio, del Torres, che il 3 aprile scriveva da Leno a
Radetzky in Monte Chiaro, invitandolo a sgombrare per la seguente
matina: «Deciso come sono, egli diceva, d'entrare ad ogni
costo in Monte Chiaro la giornata di dimani, mi reco a dovere di
rinovarvi l'istanza già fattavi con successo in Crema».
Nè parrà meno nuovo a molti, che, in quei giorni di
basse aque, il tenente maresciallo Gyulai si desse la briga di
rispondergli quella sera medesima, senza nemmeno dirsi offeso della
baldanzosa dimanda. Radetzki era già in Verona.
Da codeste date quotidiane si dimostra falso che, come fu ripetuto
dalli austriaci, turbe di montanari e di stranieri fossero discese
in soccorso a Milano fin dai primordii del combattimento. Qui si
vede che i soli uomini di Lecco giunsero la notte del quinto giorno;
che i genovesi vi giunsero il giorno dopo la ritirata di Radetzky;
che i comaschi e ticinesi giunsero ancora un altro giorno più
tardi, cioè la sera del 24; e che i valtellini furono
rimandati dal governo provisorio quand'erano ancora a mezza via.
D'onde conseguita esser parimenti falso quanto molti spacciarono
intorno all'inerzia e al malvolere delli abitanti della pianura.
Poichè, anche per mancanza d'avvisi, furono essi i soli che
poterono accorrere, e con somma audacia veramente accorsero d'ogni
parte sotto le mura della città fin dal giorno 19, quand'era
stretta dal nemico ancora intero e minaccioso. Ciò tronca
dalla radice molti vaniloquii e calcoli falsi tanto di politica
quanto di guerra.
Del protocollo segreto del governo provisorio di Milano abbiamo
preso tutte le lettere di quei giorni; sono forse un centinaio,
tutte inedite. Primeggiano quelle del conte Enrico Martini, che,
incredibile a dirsi, vi si mostra il genio inspiratore di tutti i
clandestini accordi tra quei signori e il quartier generale del re.
I milanesi pur troppo dolorosamente espiarono poi l'immane colpa di
avere in tanto pericolo lasciata la patria in braccio a tali uomini,
di cui, per lo meno, non avevano alcuna aspettazione.
Alle carte secrete abbiamo aggiunto di giorno in giorno non solo
tutti gli atti pubblici del governo di Milano, ma quelli pur
numerosi, benchè poco noti, dei governi e comitati di Brescia
e Cremona; in buon numero quelli di Como e Pavia; alquanto scarsi
quelli di Bergamo; ma parecchi pure d'altre minori città.
Sono all'incirca 400; e, vi si discerne già il secreto
contrasto che doveva ben nascere (e che sfortunatamente non fu
maggiore) tra l'impetuoso buon senso dei popoli e l'insensata
astuzia dei maggiorenti, i quali, per la seconda volta in mezzo
secolo, conducevano in precipizio la patria. Volevano tenere inerme
ed umile il popolo, affinchè sentisse tosto imperiosa la
necessità, e scendesse prontamente a tali patti che
assicurassero certe grandezze che l'Austria aveva loro vanamente
fatto sognare nel 1814 e nel 1838; e che senza l'Austria o senza la
Savoia, non avrebbero mai potuto operare, in paese ove i doni
dell'opinione e della fortuna erano già troppo largamente
disseminati.
E perciò, fra tanti atti loro, non un solo che tendesse
veramente ad infiammare le turbe e incalzare il nemico. E vediamo
talun di loro riputar quasi malagrazia che non si volesse lasciare
al re qualche avanzo di nemici da vincere. Onde non appena il
mattino della domenica, 26, fu vista spuntar da lungi sulla pianura
la brigata Bes (non destinata altronde per allora ad assalire gli
austriaci, ma solo a patrocinare il governo in Milano), essi
affiggevano incontamente per le vie: «Le truppe piemontesi
giungono oggi stesso per unirsi a noi. Per conseguenza, il governo
provisorio invita tutti i cittadini a riprendere al più
presto, e possibilmente entro la giornata del 27 (lunedì), le
ordinarie loro occupazioni, aprendo botteghe e lavoratoi, e tornando
all'operosa loro vita». E un altro editto di quel giorno
richiamava perfino pochi pompieri dilungatisi coi volontari a
tribolare il nemico; che per verità in quella matina aveva
ancora la sua retroguardia in Lodi. E i cittadini, non potendo ben
sapere quanto efficacemente fosse conquiso e avvilito, e
imaginandosi che fosse uscito di Milano solo per adunar viveri e
gente, lo attendevano ad un nuovo assalto, vegliando in armi nelle
insanguinate loro vie e, lungo i bastioni, sui ruderi delle case
incendiate; cure tutte che parevano ai governanti superflue e quasi
importune.
Si dovrebbe credere che il governo avesse almeno esso quella fiducia
nel re che si studiava infondere altrui; ma non è
così. In quel giorno medesimo in cui voleva che i cittadini
tornassero dall'armi «all'operosa lor vita», scriveva al
Martini: «Si desidera che le operazioni militari siano spinte
colla massima energia». Il 28 rispondeva Martini d'averne
tosto parlato al re in Voghera: «Parlai diffusamente
dell'assoluto molteplice bisogno di maggior rapidità nelle
mosse militari». Replicava tosto il governo (30 marzo):
«Non puossi dissimulare che le mosse delle truppe piemontesi
non rispondono finora alla nostra fiducia ed alla publica
aspettazione». E domandava che il Martini proponesse
«quelli espedienti a cui si potesse ricorrere, per ottenere
che l'alleanza sarda produca effettivamente i frutti che la nostra
lealtà aspetta da quella dei nostri ausiliarii».
Il governo provisorio, pur con false mostre, deluse la dimanda, che
allora venne fatta, d'un'assemblea, la quale «costituisse un
supremo governo centrale, incaricato di conservare possibilmente
l'unità di stato colla Venezia, il Tirolo, Trieste e la
Dalmazia» (29 marzo). Intanto si diede tutto a cospirare con
le municipalità e le congregazioni provinciali (reliquie
austriache ribattezzate in governi provisorii), per accaparrarsi su
tutte le provincie, in nome del popolo, un'autorità senza
voto di popolo. E ciò conseguito, ingiunse ai comitati
provinciali di non pensare all'armamento, assumendosi esso
l'incarico. Così represse nel nascere quell'espansiva
emulazione federale, che sola poteva trarre immantinente, dal cuore
d'ogni provincia denari e battaglioni. Per tal ragione, respingeva
gli armati valtellini; sovvertiva ogni principio di disciplina tra i
volontari in Crema, mandando il conte Sanseverino a onorare e
promovere chi ricalcitrava al comitato di guerra; ratteneva gli
altri volontari che da Treviglio, ov'erano giunti il 24 e il 25
colla via ferrata, dovevano precorrere sotto Mantova il nemico, il
quale solo il 28 potè lasciar Crema; richiamava da Cremona
fino a Milano i sei cannoni e i tremila soldati eh'eransi quivi
sottratti al nemico fin dal 21, e che di là potevano per
dieci e più giorni scendere in soccorso a Mantova, lontana
solo trenta miglia, giovandosi anche delle vaporiere e altre navi
del Po; perocchè il disarmo dei mantovani fu comandato solo
il 2 d'aprile. Ma il maggior danno si fu, che fin dal 26 marzo, i
governanti impegnarono per le vittovaglie dell'esercito del re
quanto poteva entrare nello scomposto erario; tantochè furono
poi costretti a sovvenire il re con un millione dato loro a prestito
da lui medesimo! Operazione di finanza senza esempio nel mondo, che
ci vien rivelata da lettera d'uno dei membri del governo. Intanto fu
reso impossibile l'armamento del paese da essi
«assunto»; poichè non volendo essi tassar
sè medesimi e i loro consorti e patroni, e non potendo senza
assemblea tassare efficacemente il popolo, si ridussero alla
inadeguata e precaria fonte degli imprestiti senza interesse e delle
offerte volontarie.
A queste offerte, di cui leggonsi lunghe liste nei giornali, non
abbiamo potuto far luogo in volume già grosso d'ottocento e
più pagine. Abbiamo piuttosto raccolti di giorno in giorno
gli atti della diplomazia concernenti le cose nostre, ricavandoli in
massima parte dai volumi rassegnati al Parlamento britannico,
traducendo però solo gli inglesi e dando in originale i
francesi. Vi si vede l'autocrazia russa maledire, almen
sinceramente, al progresso della libertà e della
nazionalità come ad un delitto; i Ficquelmont, i Buol, i
Dietrichstein al contrario dolersi ipocritamente che l'Italia si
fosse stancata dell'Austria proprio quando all'Austria era venuto in
cuore di colmarla di cortesie; e la teatrale liberalità
britannica rinegare in secreto tutto ciò che colle
ostentazioni di lord Minto aveva provocato in palese.
Come avvenne dunque che i servitori del re promettessero a sè
medesimi e ai popoli l'ingrandimento improviso del Piemonte? Essi
bene sapevano che i confini delli Stati e le convenzioni che li
accertano erano di ragione europea. Sapevano che nessuna corte
poteva nel bel mezzo d'Europa farsi la porzione colle proprie mani,
e turbare quella relativa potenza, la quale si chiama l'equilibrio.
Conoscevano i tristi interessi che legano gli Inglesi all'Austria. E
perciò in faccia alla diplomazia non osavano nemmeno alludere
all'ambito acquisto; ma scendevano a fare dell'occupazione di Milano
un atto di polizia.
Il re, incalzato quasi da odiosa necessità alla gloria e alla
grandezza, era rimasto inerme inanzi all'occupazione di Ferrara,
alle stragi di Milano, di Padova, di Pavia, all'invasione dei
Ducati, al raddoppiamento dell'esercito nemico, infine alla
inaspettata rivoluzione di Vienna, all'inaspettata resistenza di
Milano, quantunque la consuetudine di tutti i governi e l'esempio
dell'Austria legittimassero in Piemonte l'adunamento d'un esercito
sul confine di paesi agitati e invasi. Che se all'adunamento
dell'esercito il re avesse aggiunto qualche generoso manifesto, che
a titolo della vicinanza e della nazionalità e della ragione
commune delli Stati ammonisse il governo austriaco a temperarsi dal
sangue e frenare gli eccessi de' suoi proconsoli; almeno l'Austria
non avrebbe potuto poi gettare un'accusa di perfidia al congiunto,
che fino all'ultimo istante le aveva mandato parole di amicizia e
non un verbo di disapprovazione.
Non si mosse dunque il re, se non quando ebbe a temere che nella
libera Milano si gridasse altro principe o altra forma di Stato. Non
potè dunque giungere coll'esercito al ponte di Pavia se non
sette giorni dopochè lo avevano varcato i suoi poveri
volontari genovesi e lomellini. Ma giunto al confine, poteva almeno
correre la via più breve, sia lungo la sinistra del Po, sia
lungo la destra, avendo aperti i ponti di Pavia, di Piacenza, di
Pizzighettone; e potendo farsi in Cremona una testa di ponte
già bastionata e anche già notabilmente munita.
Così se non poteva più precludere al nemico il
riacquisto delle fortezze, poteva stringerlo subito e sottrargli le
vittovaglie. I suoi lodatori scrissero che la sua «linea
d'operazioni procedeva da Piacenza a Cremona». È falso;
al contrario egli seguì una linea serpeggiante, che
raddoppiava le distanze, con inutile stanchezza dei soldati, anzi
accresceva ad ogni marcia quell'intervallo di sole dieci miglia, che
la notte del 23 divideva dal ponte di Pavia l'ala destra del nemico
in Landriano. I generali, o che dettassero quella politica e quella
strategia, o che la subissero, affettavano di temere non sappiamo
qual ritorno offensivo del nemico, il quale aveva altro a fare.
Pareva che col far pompa di timori e lentezze volessero dire ai
popoli: Voi v'imaginate d'aver vinto, solo perchè non sapete
nulla di guerra. Cominciarono a darsi un assurdo allarme il giorno
23, quand'erano ancora nei quartieri loro in Novara e Mortara.
Ebbero per molti giorni l'ordine «di non comprometter
l'esercito nemmeno con una fucilata». Non appena giunti in
Brescia, e avuto nuovo allarme, ritornavano in città senza
assalire il nemico; lasciavano manomettere gli insurti di Monte
Chiaro; e a chi ne richiedeva il perchè, rispondeva il
general Bes: «Io non ho ordine d'attaccare».
E standosi in Brescia, e richiesto d'impedire le rapine della
retroguardia austriaca nel prossimo Calvisano, trasmetteva la
preghiera al Torres, il quale non aveva cavalleria e aveva quattro o
cinque cartucce per uomo: «Je suis trop éloigné
de Calvisano pour empêcher cette exaction qui doit avoir lieu
demain. Il n'y a pas de doute que si vous étièz a
méme de faire une simple démonstration vers Calvisano,
vous rendriez un service très important aux habitants».
Per quanto noi possiamo congetturare di siffatti arcani, la
deliberazione d'assalire, e di mutar l'occupazione in guerra, fu
presa solamente il 4 aprile in consiglio di guerra a Cremona, quando
la ritirata dell'Austriaco era compiuta, e riparati gli effetti
della sua rotta. Ancora in quel dì, il general Bava «fu
d'avviso che le truppe dovessero tener la strada di Piadena, Bozzolo
e Marcaria, sia per evitare le pianure di Ghedi e Monte Chiaro, sia
per appoggiare l'insurrezione di Mantova». È da ridere;
perchè il 4, Monte Chiaro era già occupato da Torres;
Arcioni e Manara fugavano il nemico in Salò e prendevano le
pentole della sua cena; Radetzky stava già da due giorni in
Verona; e Mantova era già da due giorni disarmata.
Così sfumano al duro confronto delle date di giorni e di
luogo, le istorie di Schönhals e di Bava e altri simili libri
di partito e non d'arte militare. Vediamo confermato in parecchie
lettere del Martini come l'esercito sardo fosse guidato da officiali
che non avevano carte geografiche.
Nè si trattava d'imprevista e strana spedizione in Africa o
in Asia, nè solo in paese vicino e nazionale, ma in quello
che dai tempi d'Annibale, di Barbarossa, di Carlo quinto, di
Napoleone fu sempre il campo classico delle battaglie. Non aver le
carte di tal sacro terreno, non saperle a mente, era come dirsi
affatto alieno e ignaro d'ogni studio di guerra. Forse quei frati in
cui governo il re aveva lasciato per tant'anni le academie militari,
e che ammaestravano i futuri capitani a recitare ogni matina e ogni
sera l'officio della Beata Vergine, avevano anche vietato loro il
leggere le campagne di Bonaparte. Così ponno delirare i
principi. Ma poscia, nei giorni di guerra, non trovano se non
ciò che nei giorni di pace han delirato.
Apriamo il Thiers; vediamo come su quel terreno, e con quel nemico,
ma meno stanco, e non incalzato dai popoli, nè spoglio
già di cannonieri, si fosse combattuta un'altra guerra. -
«Bonaparte prende 3500 granatieri, la cavalleria e 24 cannoni,
scende lungo il Po. La matina dell'8, con una marcia di 16 leghe
(quaranta miglia) in 36 ore, è a Piacenza... Colla barca del
porto tragitta l'avanguardia comandata dal colonnello Lannes.
Questi, appena sull'altra sponda, piomba sui distaccamenti che la
percorrono e li disperde. Gli altri granatieri passano mano mano. Si
comincia a fare un ponte... La divisione Liptai era accorsa a
Fombio; Bonaparte l'assale con quante forze ha in mano. Trincerata,
la scaccia. La stessa sera, giunge Beaulieu... intoppa nelli
avamposti francesi... è respinto a furia... In Pizzighettone,
ov'è il passo dell'Adda, si erano gettati gli avanzi della
divisione Liptai. Bonaparte rimonta il fiume sino al ponte di
Lodi... Dodicimila fanti e quattromila cavalli erano sull'altra
riva; venti cannoni raschiavano il ponte... Egli pone in colonna
tutti i granatieri; li fa erompere per la porta che dà sul
ponte, a passo di corsa...».
Se ora mettiamo a paragone il diario d'un officiale della brigata
Savoia, la vediamo il 29 marzo in Pavia; il 30, il 31 marzo e il
1º aprile in marcia per Lodi; il 2 in contromarcia per Codogno,
ove sta immobile il 3 e il 4. La via diretta da Pavia a Codogno
è 22 miglia. Non sono 40 miglia superate in un giorno e
mezzo; ma 22 miglia in sette giorni!
Chi avesse avuto nell'animo i grandi esempi, avrebbe abbandonate al
più militare de' suoi generali le brigate Bes e Trotti,
ch'erano le più vicine alla frontiera; non avrebbe dato tempo
al nemico di posare una sola notte; l'avrebbe còlto ancora
sui bastioni di Milano, o alla stretta tra Porta Romana e il Lambro,
o ai ponti di Landriano e Marignano; o per Pizzighettone, ch'era
aperto, lo avrebbe sopragiunto al di là dell'Adda, colle
paludi di Crema alle spalle; o fra i canali e le leve in massa di
Brescia e di Cremona. Valevano più due brigate e il rimbombo
notturno di due batterie in quell'istante e su quel terreno, che non
dieci brigate e dieci batterie sotto le mura di Verona in maggio o
in giugno. Con qual impeto non dovevano precipitarsi sul fianco
della carovana nemica giovani squadroni intatti e freschi di poche
ore dalla caserma, liberi d'ogni ingombro, inebriati dal plauso
delle donne e dalla vista di uomini vittoriosi! Noi li abbiamo uditi
il 26, alle porte di Milano, quando il popolo in armi li accoglieva
gridando: Viva i piemontesi! rispondere con coscienza vera di
soldati: No, no; viva voi!
I nemici, già tanto inviliti in faccia ai popoli, avrebbero
riputato ventura poter deporre le bandiere ai piedi almeno di
soldati. Gettavano le armi per far sacco; le vendevano ai contadini
da sotterrare, per rivenderle poscia o dividerle coi volontari;
avrebbero di quei giorni venduto il generale, se avessero potuto
trovar denari. Ma ignorarono sempre l'arrivo d'un esercito sulle
loro tracce; non udirono mai il tuono d'un cannone; videro solo
turbe improvise e fucili da caccia. E quando una dozzina d'uomini di
Genova Cavalleria, sorpresi sull'alba del 6, con quei continui
spaventi addosso che instillavano loro le dubiezze dei comandanti,
si lasciarono condurre prigionieri in Mantova, i croati,
all'uniforme o all'insolito accento, li credettero soldati francesi
come caduti dalle nuvole. Pur troppo la tradizione dei secoli appena
ricordava fra i nemici dell'Austria la casa di Savoia.
Lasciato fugire invano il fatale momento, potevasi ancora far pro
dei grandi esempi. Dacchè il nemico aveva ad assicurarsi
contro i cittadini di Verona e di Mantova, e fornir di cibo, di
polveri e di cannonieri le spolpate fortezze, nè aveva
superfluo di gente da poterne con effetto uscire a notevole
distanza, era mestieri serrarlo dappresso per levargli subito
d'intorno quanto si poteva di vittovaglie; interrompere ogni strada
con trincere, empiendole di volontari; prodigare armi e denari ai
trentini ancora incerti; sostenere virilmente i montanari già
in armi dei Sette Communi, del Cadore, dell'Alpago, della Carnia; e
più tardi coll'esercito mobile togliere ad ogni costo il
passo alla divisione Nugent, che aveva già alle spalle Osopo
e Palmanova e ai fianchi Venezia e il Cadore, e non fu poi nemmen da
tanto da forzar Vicenza. Accampato l'esercito dietro le fortezze,
colla base al Po e alle inespugnabili Lagune, la marineria di tutta
Italia poteva torturare in Trieste il commercio di Vienna, che
già gridava alla pace e imponeva agli arciduchi la missione
di Hartig, intesa piuttosto a consolar Vienna che non a sedurre
Milano. Ogni provincia avrebbe di giorno in giorno mandati al campo
i suoi battaglioni; e già prima che la neve chiudesse per sei
mesi le Alpi, eruppe la guerra civile nel Sirmio e in Vienna, e la
defezione dell'Ungaria. Qual serie costante di prospere fortune per
chi ne fosse degno! Ma era mestieri non rinunciare solennemente sul
bel principio alla guerra marittima; e per tenere alcun tempo la
lega marittima e terrestre, bisognava anzitutto non offendere
nè insidiare i collegati. Dovevasi poi sollecitare in tutti
gli Stati la convocazione delle assemblee, le quali da un lato
potessero metter uomini fidati nei ministeri e al comando delle
armi, dall'altro rifare, fra loro nuova e più sincera lega.
Infine, in Roma, all'ombra dell'idolo popolare, potevano molte cose
tentarsi in vero congresso federale; e prima d'ogni cosa la pace di
Sicilia, e la marcia dei reggimenti svizzeri da via Toledo al Po.
Sarebbe almeno rimaso ai posteri l'esempio d'un comizio di tutta
l'Italia. E la dimanda d'un congresso era già fatta
solennemente in Roma il 23 marzo. Ma la rivoluzione, traviata dagli
esuli, si aggirava in un labirinto. Perchè ai principi
italiani mancava il primo elemento delle imprese, la volontà;
si era pensato spingerli su quella via con arti mutuate ai gesuiti:
l'uno con vani applausi, l'altro con false minacce, o collo spavento
d'una irruzione francese, o colla invidia d'una egemonia piemontese,
o coll'esca d'un subito acquisto. Pertanto parve opportuno ai
rimurchiatori apportar tosto al re, ancora titubante in Alessandria,
un assaggio di preda bellica. Leggiamo in data di Piacenza:
«Tre ore dopo partiti gli austriaci, il popolo, il dì
26, sebben piovesse, si assembrò in piazza, gettò
abbasso le armi vecchie ducali... Giunse il Gioia... Il 27, alle ore
9 del mattino, giunse qua il capitano del genio piemontese,
Menabrea, con lettera del ministro Pareto, nella quale, sviluppando
il principio della politica del re... offriva l'aiuto suo... Fu
accettato per acclamazione; e subito si nominarono deputati al re il
marchese Landi, figlio, e l'avvocato Gioia... L'inviato piemontese,
udito che la deputazione aveva mandato di offerire la città,
fece osservare che il re non si sarebbe contentato di un atto del
municipio. Subito furono aperti registri, dove i notabili e chiunque
cittadino scriverebbe il suo pensiero. E la sera, illuminate a gioia
tutte le case, nelle vie più remote fu portata in processione
fra torchietti la bandiera di Savoia». Notiamo bene: l'antica
bandiera di Savoia, non quella d'Italia. Erano quelle le torce di
discordia; infatti tosto leggiamo estratto di dispaccio del
Menabrea: «Votre excellence aura déià appris
qu'à Parme il y a eu contre-révolution en faveur de la
famille des Bourbons». E tosto si palesa altro contrario
disegno d'ingrandimento nei Borboni: «La noblesse de Parme,
à ce qu'il parait, aurait envie de former un État
ayant Parme pour capitale, et qui serait composé des
duchès de Parme, Modène, Reggio et Guastalla... Aussi
à l'annonce de la contre-révolution de Parme,
Plaisance s'est déclarée indépendante».
Ma sulle spoglie dei vicini e parenti di Parma e Modena aveva
già posto gli occhi un terzo conquistatore, il granduca di
Toscana. Partito il governatore di Carrara nella notte del 22,
«Carrara subito si sollevò, e mostrò l'espresso
desiderio di darsi alla Toscana. In Massa gli animi furono meno
risoluti... Ma non mancarono i buoni... Le cose si mettevano bene; e
già i soldati, affratellati col popolo, correvano per le
strade di Massa, gridando: Viva Leopoldo II... Ma il famoso
Guerra... fece affiggere in Carrara un proclama stampato e firmato
Francesco V, che più non ha regno. I Carraresi si credono
traditi, prendono le armi, e in numero di circa 500 vengono a Massa,
disposti a combattere per determinare la riunione alla Toscana... E
già la moltitudine consentiva con loro, quando il professor
Montanelli, che, in luogo di fermarsi co' suoi militi del
battaglione universitario a Pietrasanta... venne diritto a Massa,
arringò il popolo; e dissuadendolo dal congiungersi alla
famiglia toscana, lo consigliò a mantenersi libero e
indipendente, finchè in un congresso europeo, presieduto da
Pio IX, non si decidesse delle sorti delle provincie italiane.
Alcune voci lo interruppero dicendo: - Noi vogliamo esser toscani. -
E perchè? egli dimanda. Rispondono: - Per avere un appoggio -
Replica il professore: - Se volete un appoggio, dovevate darvi a
Carlo Alberto - Quindi entra nella sala ove era raccolto il
municipio, già disposto a stender l'atto d'unione colla
Toscana, e lo esorta a costituirsi governo provisorio ed aspettare
gli eventi. Il professor Matteucci mostrava all'opposto
calorosamente la convenienza di unirsi alla Toscana. Il Municipio
esitava... il giorno 23 giunse il professor Giorgini colla sua
compagnia... Pare che dentro la giornata sia per esser pubblicato il
proclama dell'unione di Massa e Carrara alla Toscana. Il professor
Montanelli, perduta la speranza di far qui prevalere la sua
proposta, montò in vettura, dirigendosi per la via di Sarzana
verso Milano, per fare, come disse un altro tentativo più
fortunato in quella provincia».
Il granduca, fin dal 22 marzo, aveva annunciato l'occupazione degli
Stati estensi: ma Modena attese invano per dieciotto giorni i
battaglioni toscani, tenuti immobili fra gli Apennini. Intanto quei
pochi toscani ch'erano precorsi, riputarono dover «dichiarare
la causa del ritardo. Pochi malevoli, al loro dire, spargevano che
l'oggetto della spedizione toscana, anzichè esser quello
generoso e italiano della cacciata dello straniero, fosse l'altro
d'una meschina occupazione di territorio. Un riguardo adunque di
lodevole delicatezza ha trattenuto il movimento toscano, e i nostri
fratelli sono rimasti fremendo quasi una settimana (furon poi
più di due) fra le nevi dell'Apennino, in mezzo a mille
disagi, per attendere che si dileguassero questi ingiuriosi
sospetti». Nè del tutto i sospetti erano vani,
poichè, giusta i dispacci inglesi, il granduca, oltre
all'aver tolto le dogane fra Toscana e Modena, non fra Toscana e
altri Stati italiani, faceva vantare non sappiamo quali suoi diritti
su Modena e Parma; e per affacciarsi anch'egli ai popoli con qualche
sembiante di maggior potenza, facevasi salutare Re d'Etruria in
teatro. Carlo Alberto, mal pago già di Parma e di Modena,
disdegnò nominarle nel proclama che indirizzò il 30
marzo da Lodi: «Agli Italiani della Lombardia e della Venezia,
di Piacenza e di Reggio». E allora e sempre mirò con
animo geloso i battaglioni toscani. I quali poi rimasero crudelmente
derelitti sul campo di Curtatone.
Tutto questo volume è seminato di tali cieche contese, che
sviavano i popoli dall'amicizia e i soldati dalla guerra. Invano il
buon senso publico le ripudiava. Troviamo scritto fin da quei
giorni: «Tutti son sicuri che le sorti di questo paese sono
assicurate come quelle d'Italia; quindi essere inutile anche il
dichiararsi, ora, per un principe anzichè per un altro.
È curioso, che mentre in Lombardia vi sono ancora i tedeschi,
da alcuni si pensi già a passare i confini fra Stato e Stato;
e che alcuni toscani e piemontesi si vadano girando per questi
paesi, invitando le popolazioni a pronunciarsi per un governo o per
l'altro. Sono assicurato che all'Avenza alcuni sarzanesi abbiano
fatto abbassare la bandiera italiana per sostituire la sarda».
Queste savie cose si scrivevano in Pontremoli il 25 marzo. Ancora vi
s'ignorava la combinazione delle due bandiere: primo trionfo
conseguito dal genio diplomatico di Enrico Martini la notte del 23,
com'egli attesta: «Ed in primo luogo ottenni che l'armata,
passando il Ticino, adotterebbe la bandiera tricolore in luogo del
vessillo di Savoia; solo, nel campo bianco le starebbe la croce
azzurra». Il tricolore ebbe così anche un colore di
più.
Il ricapito principale dei propagatori di discordie fu in breve
Milano. «Là, la santa causa, scriveva Salvagnoli,
chiama tutti a combattere con tutte le armi in tutte le guerre tutti
i nemici; là, corre il gran lombardo Berchet; là, noi
lo seguiamo; or non v'è che una Italia». E pigliando
congedo dai lettori della Patria, aggiungeva: «La Patria non
muore, ma si raddoppia; noi andiamo a portare la sua bandiera anco
in Lombardia; là continueremo la nostra battaglia a tutta
oltranza». Minacciando battaglia a tutti i nemici, il
Salvagnoli la minacciava anche ai cittadini d'altro parere; e
promettendo valersi d'ogni arme, comprendeva anche quelle che non
erano oneste. E già ne aveva fatto largo uso, quando rubava a
Milano anche quella ben pagata gloria dei giorni di marzo:
«Giunge una staffetta da Milano e porta che la colonna delle
truppe e dei volontari di Novara penetrò in Milano il giorno
20; i primi a scalare le mura furono i bravi bersaglieri piemontesi.
Sì, sì la grande spada d'Italia è snudata: gli
Italiani di Piemonte hanno liberato gli Italiani di
Lombardia». In queste basse arti aveva compagno il governo
provisorio; il quale, la matina del 24, prima ancora d'aver notizia
che il re si fosse deliberato alla guerra, affiggeva agli angoli:
«Cittadini, buone notizie! l'armata piemontese ha passato il
Ticino; questa brava armata ch'è venuta puramente in nostro
soccorso». E noi dovremmo arrossirne per la nostra nazione, se
per ventura le menzogne più sfacciate non fossero ancor
quelle che mandava intorno l'Allgemeine Zeitung, la vessillifera
dell'onore teutonico: «Milano tornò all'obedienza...
Como fu ripresa dall'arciduca Sigismondo... I corpi franchi
piemontesi furono sconfitti... Anche i generali Wallmoden e
Wratislaw devono aver riportato vittorie... Qui si giudica finita la
rivoluzione italiana».
Ben alieni dall'accettare il combattimento a tutte armi e a tutta
oltranza, gli uomini di Dio e del Popolo, incatenati al laccio
dell'Associazione Italiana di Parigi, si vedono in questo volume
seguire colla corda dei penitenti al collo gli odiati cortigiani
alla fondazione del regno fortissimo. Il 28 marzo, quando già
v'era l'annuncio in Parigi che Milano ardeva e combatteva, essi,
anzichè chiedere a quella nazione, allora ancor signora di
sè, un aiuto d'uomini agguerriti, o almeno un largo prestito
d'armi, osarono dire, di propria autorità, in nome di tutti,
ai ministri della Republica: «L'Italia, così speriamo,
saprà bastare a se stessa». Le quali parole sarebbero
state arbitrarie e tracotanti, anco se chi le proferiva fosse stato
egli sotto la mitraglia e non cinquecento miglia lontano. E almeno
ciò fosse stato nella buona coscienza d'aver preparato anzi
tempo qualche soccorso al popolo nel duro cimento! Ma ben al
contrario, gli uomini dell'azione perpetua, logorati da lunga pezza
nelle misere e false prove, si confessavano ignari e attoniti di
tutto quel poderoso e spontaneo moto. Scriveva Mazzini: «Noi
parlavamo il 5 marzo una parola di fede, non di speranza immediata;
pochi giorni dopo, voi vi levate soli a operare e vincere per
tutti». Avviluppati fra le contradizioni d'una falsa idea, non
osavano più nemmeno dare agli armati fratelli un consiglio; e
se ne rimanevano lontani e quasi nascosi: «Fedele al programma
adottato, l'Associazione Nazionale non s'arroga facultà di
consiglio per ciò che riguarda le forme d'ordinamento
politico più consentanee alle nostre tradizioni e alle
tendenze europee». Ecco quali sono, nel dì vero delle
opere, gli ultimi aneliti d'una impotente agitazione! Agendo nihil
agit. Deserti perfin di consiglio, gli adolescenti della Voce del
popolo, facevano il 26 marzo il primo atto di stampa libera,
ripetendo colli oracoli di Parigi: «Noi uomini di fede non
abbiamo in pronto a spacciare principio assoluti di questioni
sociali e politiche». E altra non ne avendo, ripetevano la
parola d'ordine della monarchia futura, dicendo che «le forti
popolazioni della zona settentrionale erano chiamate a difender
l'Italia»; come se gli uomini di Romagna e di Roma e delle
Calabrie e della Sicilia non avessero polso al braccio e non
dovessero dividere ogni pericolo nostro. Con umiltà borghese
inanzi ai personaggi del governo provisorio, predestinati ad essere
i grandi del regno futuro, si dicevano «paghi d'essere
avvocati del popolo presso al governo, se la sua carità
avesse bisogno di consigli». Dicevano: «Il nostro motto
politico è, per ora, aiuto, concorso, obedienza al governo
provisorio; egli è surto dal popolo». Il che non era
vero; e inoltre contribuiva a dar falsa popolarità agli
armistizianti e agli intrusi, e autorità d'avviare ogni cosa
al peggio. E intanto un oscuro giornale che osò rivocare in
dubio l'origine di quel potere, potè venire impunemente
minacciato ed assalito; e la libera stampa si vide manomessa quasi
prima d'esser nata.
Mossi dal medesimo eccesso d'abnegazione, ossia dalla stessa
impotenza del loro principio, gli uomini di più libero animo
venivano dall'esilio a recare in tributo ai cortigiani le persone
loro e quelle dei loro compagni. «Io la prego, scriveva
Filippo De Boni al conte Casati, di offrire il mio ingegno qualunque
si sia e la mia vita al primo governo creato dal popolo nostro. E
questo che io le dichiaro in mio nome, è pure la voce, il
sentimento de' miei fratelli d'esilio annunciatori dell'Italia del
popolo; i quali di Svizzera, di Francia e d'Inghilterra ora muovono
verso la Lombardia per affrettare con la spada sabauda la nostra
indipendenza; nè altro dimandiamo che avere la nostra parte
nei pericoli e nelle fatiche, salutare la libera e Una Italia e
morire». Queste eloquenti parole ci mostrano come i fratelli
d'esilio avessero deliberato in commune che Carlo Alberto avesse,
non solo la zona settentrionale, come volevano il Bianchi-Giovini ed
altri, già da più lungo tempo disertori della
republica, ma l'Italia Una; ch'è quanto dire l'Italia Tutta.
Era un antico loro sogno del 1831; pure quei più larghi
donatori furono gridati (e lo sono ancora) odiatori del re, folli ed
atroci. Ma è certo che chi più temeva una tanto
improvisa grandezza del re fu sempre, e a ragione, la sua Torino; la
quale già nella zona settentrionale, si vedeva troppo remota
dal centro dello spazio e degli interessi, e nell'Italia Una doveva
aspettarsi, non meno del governo provisorio di Milano,
un'irreparabile sommersione.
Era quella (e non già la forma di governo) la più
grave controversia che fosse allora tra gli uomini dell'Italia Alta,
servilmente principeschi, e gli uomini dell'Italia Una, principeschi
solo per ripiego e per disperazione di raggiungere per altra via la
contemplata unità, posta da loro inanzi ad ogni
libertà. A ciò alludeva il loro capo, quando, la sera
stessa del suo arrivo in Milano, dapprima al balcone della sua
locanda, poi all'opposto balcone del palazzo Marino, in mezzo ai
membri del governo provisorio, diceva a coloro che i sergenti del
governo avevano a lume di torce chiamati a udirlo, quanto
«egli desiderasse di mettere d'accordo le sue idee sull'Italia
coi membri del governo provisorio». Al che seguivano gli
applausi del satellizio e delle turbe, or dal lato della piazza ove
siedeva il governo, or da quello ove era la locanda dell'oratore, or
da quello ove erano le case della signora d'Azeglio, or finalmente
dal vicino palazzo Poldi, dimora del conte Casati e della
principessa Belgioioso. Era quello un politico panteismo, nel quale,
per virtù metafisica dell'unità, persone e cose
venivano in un sol vortice tramestate e assorte.
Ogni sforzo di metafisica era vano. I provisorii, non pensando in
verun modo alla guerra, ma solo alla loro politica, protestavano
sempre di serbare ogni controversia politica al termine della
guerra. Spacciavano tali ciance perfino al papa, che pure doveva per
tante strade sapere i secreti pensieri di loro e del re. Scrivevano:
«Alla Santità di Pio IX: Finchè ferve la guerra,
noi provederemo che dissidii non surgano sulle forme politiche a cui
debba comporsi questa nobil parte della gran patria italiana; a
causa vinta la nazione deciderà». Lo ripetevano ogni
istante al popolo: «A causa vinta, i nostri destini saranno
discussi e fissati dalla nazione». «Attendete che ogni
terra italiana sia libera; liberi tutti, parleranno tutti».
«Non si discute intanto che si combatte». E il re
medesimo aggiungeva in suo proclama ai popoli, dato in Lodi il 31
marzo: «Le mie armi, abbreviando la lotta, ricondurranno fra
voi quella sicurezza che vi permetterà d'attendere con animo
sereno e tranquillo a riordinare il vostro interno reggimento; il
voto della nazione potrà esprimersi veramente e liberamente;
in quest'ora solenne vi movano sopratutto la carità della
patria, l'aborrimento delle antiche divisioni, delle antiche
discordie, le quali apersero la porta d'Italia allo
straniero». E come se parola di re fosse poco, usciva a farne
fede anche il dottor Angelo Fava, promettendo enfaticamente che la
nazione deciderebbe «a guerra finita, quando l'idra austriaca
sarà abbattuta dalla clava italiana... allora!».
Senonchè, a smentire la metafora del Fava, compare in quel
medesimo giorno, 5 d'aprile, un manifesto del marchese Doria, altro
dei compari, il quale, ammirando la concordia di tutti gli Italiani
alla cacciata delli Austriaci, e tuttavia non contento, diceva:
«Noi abbisognamo d'un'altra concordia... Abbiamo bisogno d'una
concordia che ci dia la unione... Fratelli lombardi e veneti, alla
gloria d'aver cacciato il nemico commune, unite quella di munire la
patria commune con uno Stato forte». E già cinque
giorni prima erasi pubblicato in Brescia altro indirizzo d'un A. L.
Bargnani, emigrato reduce, il quale, dopo molte circollocuzioni,
conchiudeva: «Proporrei che tutti i municipii del contado e
della città di Brescia, e lo stesso direi delle altre
provincie lombarde e tirolesi, incaricassero i magistrati proprii di
trasmettere a questo governo provisorio i loro voti, onde le
provincie medesime vengano aggregate alli Stati sardi... I quali
voti poi il nostro governo provisorio invierebbe a quello di Milano,
e questo presenterebbe solennemente a Sua Maestà sarda, con o
senza quelli delle altre provincie». Il lettore vedrà
quante cose giacciano sottintese in quelle tristi parole: «con
o senza quelli delle altre provincie». Pareva essersi
già deliberato il disegno di scindere Piacenza da Parma,
Reggio da Modena, Brescia da Milano. Leggiamo altrove: «Ho
parlato con un signore che viene di Lombardia, il quale dice che le
provincie siano più disposte ad acclamare Carlo Alberto a
loro sovrano che non lo sia Milano». Ma nella medesima pagina
leggiamo: «Il partito republicano pare che si svegli». E
questo era un effetto ben naturale, non ostante il patto di Parigi e
la comparsa di Mazzini sui balconi di piazza San Fedele. Le lentezze
della guerra, le slealtà della politica, le violenze del
governo che faceva minacciare d'incendio la stamperia del Lombardo,
da cui erasi onestamente rivocata in dubio la legitimità del
suo potere, facevano sì che il 7 aprile venisse deliberato da
alcuni giovani, presieduti, crediamo, da Giuseppe Sirtori, un
manifesto d'associazione republicana. Venne però publicato
nei giornali solo il 15 aprile, due settimane dopo la provocazione
del Bargnani. E non ebbe la publica adesione del Mazzini se non dopo
il decreto del 12 maggio.
Mazzini pose intanto a servigio dei patrizi i suoi uomini
d'azione, come fa fede la proferta d'impiego da lui fatta in nome
del governo al general Fanti, e controsegnata sul foglio stesso dal
secretario Correnti. A nome pur del governo, Filippo De Boni
s'indirizzò ad un comitato in Losanna, il quale doveva
fornire un corpo d'ausiliarii che il governo simulava di volere
accettare a' suoi stipendi, e di poterlo; e che poi naturalmente non
potè e non volle. Inesperto del paese, l'illustre esule
prestava inoltre involontaria mano a una petizione promossa dal
governo contro i membri del consiglio di guerra che avevano impedito
l'armistizio. Abbiamo già veduto con quali aspirazioni il
Montanelli corresse da Massa a Milano; il prete Francesco
Dall'Ongaro, pratico di Venezia, fu quivi spedito dal governo
provisorio principalmente per aiutare l'inviato «a entrare in
rapporto colle persone più influenti del governo
veneto». Alle armi straniere si aggiungevano contro Venezia le
domestiche insidie.
Fatto si è che, intorno all'idea vaga dell'unità, si
propagavano e si attemperavano alli animi generosi le mezze idee
dell'unione e della fusione, le quali involgevano i più
triviali calcoli d'ingrandimento a favore dei principi, e di
protezione armata a favore dei patrizi; erano come quei frutti che
gli antichi dicevano nascere intorno al Mar Morto, rugiadosi e
morbidi al di fuori, e dentro pieni di cenere. E per ineluttabile
forza logica del falso principio, riuscivano a ultimi calamitosi
effetti; quali erano il sospetto vicendevole dei principi, la loro
diserzione alla guerra d'Italia, il ritorno loro all'alleanza
austriaca e ad ogni altra ingerenza straniera; insomma, il fatale
ricorso della istoria italiana, la quale è veramente un
eterno litigio di preminenze e di confini.
I padri nostri videro bene nella religione del Dio Termine la
sicurtà e santità dei beni domestici e della
società municipale; ma non seppero valersene alla sicurezza e
santità d'altri beni più sublimi e d'altra pur
necessaria e più vasta società. Che importerebbe mai
la ineguale ampiezza delle giurisdizioni, in seno ad un'Italia tutta
libera e tutta armata? Siffatte distribuzioni non sarebbero mai di
maggiore inciampo che non siano in seno alla Chiesa i vescovati e
gli arcivescovati. In cinquecento e più anni dacchè fu
proferito il giuramento del Grütli, mai Svitto non pensò
a dolersi che Untervaldo e Uri volessero essere, al pari di lui,
padroni in casa loro. Mai la vasta Virginia e la Pensilvania non
insidiarono per amore di maggior concordia gli Stati, venti o trenta
o cinquanta volte men vasti, di Rhode Island e di Delaware. I
confini delle giurisdizioni, quali gli fece la lunga serie delli
eventi, rappresentano da lungi una diversità d'origini
felicemente obliterate dalla lingua commune; e rappresentano
dappresso la varietà delle legislazioni, dei costumi, dei
dialetti, e la abitudine di moversi intorno a certi nodi naturali di
commercio. Il turbare d'improviso e senza necessità
quest'ordine di movimenti e di funzioni, a cui tutti i calcoli delle
famiglie sono coordinati, è più grave danno che non si
creda; rende amare ai popoli le primizie della libertà; e in
procinto di guerra, dissipa le loro forze e i loro pensieri. Nel
volume si vede, come gli abitanti della Lunigiana, staccati poco
prima dalla Toscana e aggiunti a Parma, si lagnassero delle insolite
leggi: «Corre il sesto mese dacchè siamo in una
posizione sommamente deplorabile». Le varietà quasi
familiari delli Stati nulla tolgono alla coscienza nazionale,
rivelata a se stessa e ogni giorno vieppiù stimolata; e se
anche alcuna cosa le togliessero, converrebbe pure, rimosso ogni
ostacolo ai confini, lasciare al commercio, al tempo, alle idee, e
alle innovazioni deliberate in commune, l'officio di cancellar tali
tradizioni senza danno e senza dolore.
Ma nel 1848 non si trattava già della lenta opera delle
legislazioni, bensì dell'urgente e ardente guerra straniera,
alla quale importava recar subito da tutte le parti d'Italia la
maggior somma di gente e di denaro. Nella recente guerra svizzera,
quando il cantone di Vaud pose in armi il dieci per cento della sua
popolazione, gli altri cantoni che non fecero altretanto, non
poterono però averne timore o sospetto; anzi applausero con
tutto l'animo al generoso esempio che accresceva le forze communi.
Tale è l'effetto del principio federale e fraterno. A quella
prima campagna il Piemonte apportò da 40 a 50 mila uomini,
ossia l'uno per cento del suo popolo, ch'è quasi un quinto
della nazione. Se la sacra potenza d'un Patto avesse mosso tutta
Italia a rispondere al primo invito di Milano combattente e fare
altretanto (e non era gran prodigio, era la decima parte di quanto
potè fare la republichetta di Vaud), avremmo avuto in breve
termine di tempo 250 mila uomini, e fra essi un qualsiasi numero di
veterani stranieri, che d'ogni parte si offrivano. Inoltre in guerra
non è tanta la difficoltà di far gente e armarla e
addestrarla, quanto di traslocarla e provederla. Perlochè i
popoli che sono più vicini al campo di battaglia possono
facilmente opporre al nemico masse maggiori. Così potè
Como, colle forze d'una parte sola della provincia e di pochi
Ticinesi, conquidere un presidio di duemila soldati. E Brescia, nel
1797, aveva potuto dare cinquemila fanti, seicento cavalieri e i
cannonieri d'una batteria che Bonaparte le aveva donata; il che
faceva allora circa il due per cento di quella provincia. E non solo
la vicinanza e la commodità, ma il più vicino e
più fiero pericolo doveva chiamar più gente all'armi
nella ribelle Brescia e nella ribelle Milano che non nel Piemonte;
il quale era chiamato a combattere per comando di principe e per
onor commune e dover di nazione, e per assicurare dall'oppositore
straniero la riforma delle sue istituzioni e il suo progresso; ma
non aveva a temere confische e supplicii e altre barbare vendette.
Or bene, se per federale accordo si fosse mossa tutta Italia a fare
quanto il Piemonte, se il Lombardo-Veneto e i Ducati avessero fatto
più ancora, la parte di forze che il Piemonte avrebbe
mostrata in campo sarebbe stata appena un quinto, un sesto del
tutto. Ma la sua preminenza militare sarebbe allora svanita; allora
la spada d'Italia non sarebbe stata una sola; allora ad un solo
principe non si sarebbero potute aggiudicare le spoglie dello
straniero e quelle dei congiunti di Parma e di Sicilia. Dal
principio dell'egemonia veniva per logica conseguenza che al
Piemonte dovesse tornar molesta ogni maggioranza di soldati e di
generali che non fosse de' suoi, epperò ch'esso dovesse
escluder dal campo tre quarti delle forze nazionali. Tale è
la differenza pratica tra il principio della federazione e quello
dell'egemonia, tra quello dell'eguaglianza e quello della
preminenza, tra quello dell'emulazione e quello della gelosia!
Ognuno vede che questa fallace politica veniva fomentata nel governo
piemontese dal proposito suo inopportuno d'acquistar a primo tratto
nuove provincie; e che questo proposito non avrebbe potuto
giustificarsi nè tampoco prodursi alla luce dell'opinion
publica, se l'Unione non fosse parsa a molti, non usurpazione,
nè insidia, nè pomo della discordia, come
sembrò ai parmigiani, ma un pratico avviamento
all'unità; insomma, se l'idea dell'Unità non avesse di
lunga mano preoccupate le menti. A questa dunque si deve riferire e
imputare tutta quella tenace catena d'errore, di disordine e di
meravigliosa impotenza. E già prima che l'insurrezione avesse
principio, un profetico scritto, benchè con inutile e ingrata
veracità, ne aveva ammonito l'Italia:
«L'hypothèse de l'unité s'attacherait
nécessairement à un prince, à une famille
royale; elle inspirerait à tous les princes menacés
l'alliance de l'Autriche; elle envelopperait l'oeuvre de
l'indépendance dans le mystère d'une cour; la discorde
serait dans le camp avant le combat».
Che se il Piemonte solo o quasi solo, ma con deliberata e audace
strategia, e col favore immenso dei popoli, avesse saputo ripetere
intorno a Mantova i prodigi del gran capitano, e vincere con
cinquantamila soldati, vincere con una sola spada, e a profitto d'un
solo, e trapassare dall'unione d'una o d'altra provincia ad
un'improvisa e gloriosa unità; non credano gli esuli che
avrebbero perciò fondata la libertà. Pur troppo lo
dimostra l'esempio della Francia e della Spagna, a cui la
libertà sanguinosamente conquistata sfugge eternamente di
mano, per effetto delle immani forze accumulate in mano ai governi,
mentre viceversa nella Svizzera e nell'America, ove ogni singolo
popolo tenne ferma in pugno la sua padronanza, la libertà,
dopo un primo acquisto, non andò più perduta. Tale
è la virtù dei principii, fuor dei quali ogni sforzo
di valore e di sacrificio è vano.
Nè giova illudersi col dire che questi non siano principii:
son principii anch'essi di diritto; sono per lo meno principii di
politica; e la politica è la necessaria tutrice del diritto;
e principio è tutto ciò che genera inevitabil serie di
conseguenze. Nè giova illudersi col dire che, per poco che si
aggiunga, e per poco che si tolga, la federazione viene bel bello a
confondersi coll'unità; poichè in tutte le faccende
del mondo il passaggio da cosa a cosa si fa per gradi; e talmente
per gradi si procede dalla pianta all'animale e dalla foglia al
fiore e al frutto, che la scienza non può additare il punto
ove il passaggio avvenga. Non per questo alcuno cambierà mai
il fico colla foglia o la pecora coll'erba che la pasce o la paterna
presidenza di Washington colla truce dittatura di Cavaignac.
È l'antico sofisma del cumulo.
Sempre in preda a precipitose astrazioni, vedono nel mondo gli
individui; poi le famiglie, ed è gran ventura; poi vedono
anche commune, ossia l'azienda unita d'un centinaio forse di
famiglie, e nel più de' casi, combinazione pressochè
domestica e privata. Poi chiudono gli occhi per tutti gli altri
internodii e ricapiti dell'umana società; balzano d'un tratto
alla nazione, ch'è quanto dire, alla lingua. Ignorano lo
Stato e le sue necessità. Dunque se una medesima lingua
domina le Isole Britanniche, la Pensilvania, la California, l'alto
Canadà, la Giamaica, l'Australia, per essi v'è
solamente a far somma d'un maggior numero di famiglie e di communi.
Dunque il Parlamento britannico non ha da far leggi; il Congresso
americano sogna d'aver leggi da fare; tanto è più
superflua una legislazione provinciale per i fratelli della
Pensilvania e i venturieri della California; l'algido Canadà,
la torrida Giamaica non debbono aver leggi proprie, che rispondano
ai luoghi e alle tradizioni e alle varie mescolanze degli uomini e
alla varia loro coscienza; l'Australia debbe aspettare in eterno
ogni provedimento da' suoi antipodi, perchè parla la stessa
lingua, e fa secoloro una sola nazione!
No, qualunque sia la comunanza dei pensieri e dei sentimenti che una
lingua propaga tra le famiglie e le communi, un parlamento adunato
in Londra non farà mai contenta l'America; un parlamento
adunato in Parigi non farà mai contenta Ginevra; le leggi,
discusse in Napoli non risusciteranno mai la giacente Sicilia,
nè una maggioranza piemontese si crederà in debito mai
di pensar notte e giorno a trasformar la Sardegna, o potrà
rendere tolerabili tutti i suoi provedimenti in Venezia o in Milano.
Ogni popolo può avere molti interessi da trattare in commune
con altri popoli; ma vi sono interessi che può trattare egli
solo, perchè egli solo gli sente, perchè egli solo gli
intende. E v'è inoltre in ogni popolo anche la coscienza del
suo essere, anche la superbia del suo nome, anche la gelosia
dell'avita sua terra. Di là il diritto federale, ossia il
diritto dei popoli; il quale debbe avere il suo luogo, accanto al
diritto della nazione, accanto al diritto dell'umanità.
Uomini frivoli, dimentichi della piccolezza degli interessi che gli
fanno parlare, credono valga per tutta confutazione del principio
federale andar ripetendo che è il sistema delle vecchie
republichette. Risponderemo ridendo, e additando loro al di
là d'un Oceano l'immensa America, e al di là d'altro
Oceano il vessillo stellato sventolante nei porti del Giappone.
Ma non giova più dilungarci. A esporre quanti ragionamenti ci
suggerì la lettura di queste centinaia di frammenti si
vorrebbe altra egual mole di volume. Epperò abbiam giudicato
miglior consiglio che questo Avviso al Lettore tenga luogo anche
delle Considerazioni che abbiamo aggiunte ai nostri due primi
volumi. Ci basta di far animo al lettore a superare la prima fatica,
a metter per entro alla congerie dei documenti uno sguardo
indagatore. Si tratta della nostra istoria recente e viva; alla
quale poco dissimile tornerà pur troppo la istoria futura e
imminente; poichè i fatti dei popoli camminano coi loro
pensieri; e il pensiero publico, benchè ritratto dalle
plateali dimostrazioni a qualche maggior gravità, si move
però ancora sui principii che lo traviarono allora. A chi ci
apponesse d'aver con falso animo allegata in questi frammenti tal
cosa o pretermessa tal altra, ripetiamo l'invito di por mano
all'opera, e metter fuori altro volume da collocarsi a lato al
nostro per supplire al nostro difetto. E pur troppo qualche mancanza
nostra è veramente involontaria; e noi, al pari forse de'
nostri lettori, restiamo col desiderio di sapere, a cagion
d'esempio, quale arcano caso condusse prima a Chambéry, poi a
Milano tanto l'emissario Urbino quanto il generale Olivieri, eletto
fra tutti a difendere Milano quattro mesi dopo aver avuto una
publica nota di disonore dalla guardia di Chambéry. A chi ci
accusasse di aver coltivato odio di principi, rancori di provincie,
rivalità di opinioni, additeremo in questo medesimo volume
qual divario, a cagion d'esempio, passa tra le sobrie nostre
illazioni intorno alla morte di Pellegrino Rossi desiderata ad un
tempo medesimo dai prelati, dai regi e dagli unitarii, e la furiosa
invettiva del Gioberti contro i ministri piemontesi, che nelle
persone loro erano affatto innocenti di quella morte. Additeremo
anche le tristi confessioni prese dai libri del conte della
Margarita e del marchese Gualterio. Additeremo quello sulla Campagna
d'Italia d'un officiale di stato maggiore e le Memorie e
Osservazioni d'un familiare del re; l'uno dei quali allude a molte
cose, che noi ben vorremmo meglio chiarite, ove scrive che «la
fazione assolutista fu la sola che riescì allora a' suoi
disegni e si governò con astuzia e intendimento». E
l'altro dice ancor più che noi osammo dire, ove attribuisce
le sventure dell'esercito a ben altro che ad errori d'arte militare:
«Ciò che gli spiriti leggieri e superficiali tacciano
d'ignoranza (esso dice) non era forse che il risultato del calcolo:
e del calcolo più profondo».
Ma se il calcolo fu profondo, o per vero dire fu profondamente falso
da una parte, non fu men profondo e meno falso presso l'altra delle
due congreghe secrete, fra le quali ondeggiava a quei tempi, per
vecchio suo vizio, quella corte. Se nefando era il consiglio che
mirava a ricondurre per la via d'un sanguinoso disastro la casa di
Savoia a uno stato di monastica inerzia e nullità, delirio
era il consiglio che la spingeva, ad un tratto e sola, contro
l'Austria e contro tutti i principi d'Italia.
Ben le fu dato, o veramente gettato inanzi e non venduto, un altro
consiglio, un consiglio affatto semplice e militare, qual poteva
venire in mente a chi era sotto il rombo della mitraglia:
Combattere; mirar solo alla vittoria; valersi alla vittoria di
quante forze prorompevano allora spontanee da tutti gli Stati
d'Italia. La vera e non insidiosa e non odiosa egemonia doveva
consistere nell'avventarsi al primo e più vicino posto sul
campo; e questa egemonia da nessuno poteva preoccuparsi al Piemonte,
quando il campo sul quale errava un nemico già stanco e
snervato era ad una mezza marcia dalle sue frontiere.
Il consiglio fu inviato in tempo, al primo lampo della vittoria del
popolo, nel terzo giorno del combattimento; fu inviato per di sopra
alla cerchia ancora intera di ventimila nemici: «Milano, per
compiere la sua vittoria, dimanda il soccorso di tutti i popoli e
principi d'Italia; e specialmente del vicino e bellicoso
Piemonte!»
E compiuta la vittoria, ancor non era da pensare a far sacco;
nè a risuscitare in Italia contese di terra e di confini.
Era bastevole profitto per il Piemonte, da mero brano d'una nazione
impotente e oppressa, divenire con uno splendido fatto di guerra
membro d'un corpo vivente, forte, e libero; potente a' suoi confini
quant'altra qualsiasi nazione, dieci volte più popoloso della
Svizzera, e in commercio sicuro e vicino con essa: epperò
certo della sua alleanza, ogni qualvolta il volesse, a fronte di
qualsiasi turbatore, seppur poteva sorgere nuovo turbatore contro
chi non avesse ingelosito chicchessia con atteggiamenti da
conquistatore, ma contenute le armi vittoriose entro il sacro limite
della commune difesa. A chi giaceva così basso, come da tanti
anni l'Italia, doveva parer bastevole profitto porsi tutta alla
condizione medesima che fu paga di prefiggere a sè nel 1814
la Germania vincitrice!
Il Piemonte avrebbe avuto a men doloroso prezzo tutto ciò che
adesso ha: più la vittoria: più la fama militare:
più l'intimo e libero commercio con tutta Italia e la
compagnia di tutti i popoli italiani a svolgere nella vasta patria
gli assopiti elementi d'ogni forza e d'ogni prosperità. Il
Piemonte non avrebbe avuto sempre vigile e torva al ponte del Ticino
la faccia d'un nemico che vede con dolore ogni suo bene e, con
tripudio ogni sua sventura.
Quando tutti gli Stati d'Italia dovevano essere governati da
adunanze elettive (e quante più erano, tanto meglio per la
satisfazione dei popoli e la concordia universale), poco importava
che in Parma si deliberasse a nome d'un duca, e a Roma a nome d'un
pontefice sotto l'altiera presidenza d'un Rossi; e a Venezia, come
in Francoforte e in Amburgo, sotto quella d'altro semplice
cittadino. Nulla avrebbe levato alla prosperità dei
piemontesi e dei genovesi, se a Milano i facendieri avessero data la
vacua corona al duca di Genova, come era ben facile; o se per
offendere meno le assurde osservanze della diplomazia, le quali
trattano ogni stato come un patrimonio, si fosse raccolto nel solo
nome del granduca di Toscana tutto ciò che dai trattati erasi
qua e là assegnato al suo parentado in Italia; o se si fosse
voluto avere un regno con due teste, potevano pur congiungere sotto
Carlo Alberto Torino e Milano; ma così come la Svezia e la
Norvegia; così come Berna e Zurigo; non già come il
Belgio e l'Olanda, per darsi mutuo impaccio, e concepirsi odio, e in
breve ripudiarsi per sempre.
Quanto alla paura che publicamente si affettava dei republicani,
pare non fosse altro che polve alli occhi della diplomazia:
poichè il patto che si era stretto da Azeglio colle
società secrete di Romagna e Toscana, e si era imposto
all'Associazione Italiana di Parigi da uomini che anzi tutto
professavano rancore alla Francia, non solo assicurava il re da ogni
prova di republica in Milano, ma gli dava per fautori e propagatori
e i Berchet e i Mazzini, e quanti mai avevano bensì maledetto
alla perversa sua politica, ma gli avevano già offerto
vittorie e regni fin dal 1821 e dal 1832. L'unica difficoltà
si era che, gli Unitarii volevano dargli più ch'ei non avesse
il coraggio di prendere in una volta. Qualche voce di republica si
udì solo agli avamposti dei volontari a fianco della croce
svizzera che aveva preso il campo prima della croce di Savoia, e
quando le lettere stesse dei governi provisorii spiravano aperta
diffidenza per l'irresoluto contegno del re. E il primo mormorio di
dottrine republicane si ode solo nelle ultime pagine di questo
volume, inspirato parimenti da quelle inesplicabili lentezze, e
più ancora dalle prime violenze fatte dal governo provisorio
alla libera stampa. La gioventù non intendeva più
altro che guerra, nè pensava ad altro che alla cacciata dello
straniero; pareva ottusa e inetta ad ogni altra idea.
Intanto la casa di Savoia, in preda a consiglieri senza consiglio,
si lasciò sfuggire di pugno un momento di gloria e di
fortuna, che forse non tornerà mai!
Potrà ben essa nei futuri rimpasti delle cose europee
acquistar forse una od altra provincia, ma non senza perderne altre
e più saldo possesso; e in ogni modo le sue sorti poi
rimarranno sempre in arbitrio straniero, non meno della rimanente
Italia. Il Piemonte diverrà forse uno stato più
italiano; ma i suoi destini saranno sempre combattuti, perchè
il problema dell'Italia non sarà sciolto ancora.
Fuori del diritto federale saremo sempre gelosi, discordi e
infelici.