Avviso al lettore.
    
    La lotta fra il popolo cisalpino e l'esercito austriaco, nel marzo
    del 1848, venne descritta da molti in Italia, in Germania e altrove;
    ma ogni scrittore o si assunse di parlar solamente d'una o d'altra
    delle provincie: o abbracciandole tutte, pose in luce solo quei
    particolari che, secondo l'animo suo, gli tornavano a proposito.
    Pago taluno di valersi delle fonti per sé medesimo, non
    trascrisse i documenti; i quali pure, in altra mano, avrebbero
    potuto essere strumento a nuove induzioni ed emende. Le date vennero
    neglette e trasposte; onde molti fatti parvero cause d'altri fatti,
    i quali si erano compiuti prima. Perlochè il concetto
    generale di quegli avvenimenti riesci, anche nei più sinceri
    scrittori, declinante in molte parti dal vero. Epperò ne
    corrono false opinioni, fomentate inoltre da coloro non pochi che
    scrissero con manifesto disegno di rimescolare e ottenebrare le
    cose. - L'istoria, non essendo così testimone dei tempi, non
    può essere maestra della vita.
    Noi pertanto abbiamo preso a raccogliere e ordinare per tempo e per
    luogo tutti i documenti dei municipi e dei comitati in tutte le
    provincie, tutti gli scritti che incitarono il popolo alle armi, e
    quelli assai più numerosi che lo esortarono alla pace, e
    quanti potemmo rinvenire degli ordini e avvisi che si spargevano in
    mezzo al combattimento. Abbiamo adunato dispacci di generali,
    lettere di principi, capitolazioni di truppe, carteggi di consoli,
    testimonianze d'officiali, di soldati, d'operai, di prigionieri, di
    stranieri, di donne: nomi di morti e di feriti: nomi di edifici arsi
    od espugnati: nomi di battaglioni, onde chiarire di quali nazioni e
    di quali forze il popolo ebbe vittoria.
    Ci vennero fornite molte narrazioni inedite di fatti particolari,
    quali sono: la presa del palazzo di governo in Milano, la difesa del
    palazzo municipale, i patimenti degli ostaggi in Castello: le cause
    che necessitarono il nemico a notturna fuga e le terribili
    circostanze che la seguirono: la vantata missione del conte Enrico
    Martini: i casi poco noti di Verona e di Mantova. onde si palesa
    come quelle due fortezze tenute in sì gran conto dai
    militari, rimanessero per più giorni trastullo quasi del
    popolo, e per fatto di chi ricadessero di nuovo in poter del nemico,
    quasi che i cittadini s'avvedessero dell'irreparabile danno. E in
    questo e in molti altri indicii, già vengono adombrandosi
    quelle occulte influenze che avvolsero fin dal primo nascere la
    rivoluzione, e la strinsero in mano ad uomini i quali altro volevano
    in essa da ciò che le rivoluzioni danno e le rivoluzioni
    sono.
    Dai molti opuscoli che narrano i fatti delle singole città, e
    principalmente quelli di Milano, di Como, di Brescia, e dalle
    relazioni sparse nei giornali intorno ai fatti di Pavia, di Monza,
    di Bergamo, di Crema, abbiamo tolto i brani veramente e seriamente
    narrativi; e li porgiamo come estratti, benchè abbiano invero
    tutto l'intrinseco valore di citazioni. Perocchè, in nessun
    caso ne abbiamo fatto rimpasto; ma solo abbiamo omesso le parole
    superflue. Vogliamo dire: tutto quel farcirne di gloriosi aggettivi
    e d'avverbi, coi quali gli scrittori di questa rivoluzione ambirono
    piuttosto mostrarsi contemporanei di Gioberti, che posteri di
    Machiavello.
    Di codesti estratti abbiamo però sempre additato le fonti,
    affinchè chi diffidasse dell'opera nostra, potesse avervi il
    rimedio in mano. Ma è giusto che il lettore benevolo sappia a
    che veramente la fatica nostra intorno a ciò si ridusse: onde
    ne allegheremo un esempio. Si narra a p. 263 che un lattivendolo
    «tormentò il nemico, uccidendo alcuni cannonieri
    nell'atto che stavano per dare il foco». Chi avesse trascritto
    per intero l'originale, avrebbe aggiunto di più: che il
    lattivendolo «va distinto tra i più valorosi
    combattenti delle barricate, durante i cinque giorni». Il che
    ben s'intende, e non aggiunge alcun particolare al fatto; e
    perciò abbiamo espunto ogni siffatta prolissità
    laudativa, come ingombro alla mole e al dispendio del volume. Sia
    però detto che ci siamo presa codesta briga solo per le
    narrazioni, e non mai per i documenti; i quali, comunque verbosi e
    vacui, diamo sempre interi e genuini.
    A risparmio di note, abbiamo segnato con diverso carattere quei
    tratti sui quali ci parve che la mente del lettore non dovesse
    lasciarsi trascorrere affatto inavvertita.
    D'un medesimo fatto non abbiamo esitato a dare anco due e tre
    versioni, o perchè descritto con altro corredo di
    circostanze, o perchè le testimonianze e confessioni di
    stranieri o nemici ne parvero opportuna conferma alla verità.
    Alquanto rigidi siamo stati nel ripetere le lodi prodigate a quei
    tempi a certuni, e negate ingiustamente ad altri. Chi fu già
    lodato, ne sia contento.
    Non tornerà forse gradito agli scrittori che la maggior parte
    delle narrazioni vennero da noi, per quanto si poté, spezzate
    a giorno a giorno. Ma è cosa di sommo momento istorico, per
    determinare ciò che nei singoli giorni venne nei singoli
    luoghi operato. Questa accurata e continua registratura dei fatti
    nei luoghi e nei tempi, basta a rimovere molti falsi concetti: a
    cagion d'esempio, quello che i popoli delle pianure furono
    più lenti a insurgere che quelli dei monti. Ben al contrario,
    si vedono i giovani della pianura perigliarsi in campo aperto sotto
    le mura di Milano fin dal secondo giorno; e dopo il quinto, quando
    il nemico era già espulso dalla città, si vedono le
    squadre dei montanari pernottare ancora a mezza via dalla
    città. La sola squadra di Lecco potè giungere alle
    porte e penetrare in città prima che spuntassero a Porta
    Comàsina le colonne nemiche in ritirata; e perciò
    appunto lasciò loro, senza avvedersi, libera quella stretta;
    che se fosse giunta qualche ora più tardi, vi avrebbe forse
    fatto, nelle tenebre, decisivo ostacolo. Lo stesso dicasi del
    passaggio di Benedek pel ponte di Pizzighettone; che gli sarebbe
    stato impossibile s'ei fosse giunto il dì prima, quando i
    municipali di Cremona non avevano ancora levato dalla fortezza le
    artiglierie, le munizioni e i difensori, per farne difesa alla loro
    città. Lo stesso dicasi dei quattro giorni che Brescia
    indugiò a cominciare il combattimento; onde, conoscendo
    l'indole di quel popolo, possiamo indurre a misura di tempo qual
    potere esercitasse sopra di esso la fatale congrega nella quale pose
    allora e poi l'ostinata sua fede. Tutti questi lumi si perdono, ove
    la mente non si leghi strettamente alla successione dei fatti.
    È questa la cronologia di cinque giorni e la geografia di
    cento miglia di paese. Eppure, anche in sì piccola
    proporzione, appare savio il detto di chi chiamò geografia e
    cronologia le due faci d'ogni istoria. E le fatiche nostre sono
    preparazione all'istoria.
    Il ravvicinamento delle date viene inoltre a dimostrare che mentre
    ardeva già la guerra a Milano, a Venezia, a Parma, a Modena,
    e correvano alle armi Toscana e Roma, gli esuli più illustri
    in Parigi, o appena ne avevano sentore, o mandavano ai popoli
    consiglio d'indugi e di pace. Onde si prova erronea l'opinione dei
    governanti, i quali allora, non meno che adesso, o sognavano o
    mentivano che il moto naturale delle moltitudini provenisse da
    secreto cenno di pochi e lontani: o ignari o avversi.
    E la data certa aggiunge significato anche a certe menzogne, diffuse
    allora da fogli formalmente stipendiati in Firenze, in Parigi e
    altrove, in cui si attribuì risolutamente la vittoria d'un
    popolo a chi stava inoperoso e torpido a contemplarla da lontano e
    non senza farvi ogni possibile impedimento. Cominciavano allora a
    frodarci la gloria quelle mani stesse che poi ci contaminarono
    l'onore.
    E qui non si chiude solo la materia d'una istoria, ma quasi un vasto
    poema. Prove insigni di valore e pietà: prove nefande
    d'immanità e perfidia: da un lato, l'urlo dell'allarme e
    l'evviva della vittoria; dall'altro il gemito della prigionia e
    della disperazione; gli uni, coll'armi in mano, pietosi al nemico
    ferito; gli altri, fuggitivi dalla pugna, vaganti a trucidare fra
    orti solitari le donne derelitte, o a trarle piangenti e sanguinanti
    allo scellerato Castello: al Castello, antro di Polifemo, ove la
    vendetta siede a codardo giudicio, e insulta ai cadaveri mutilati;
    ove una stolida dissimulazione accumula un immenso rogo per
    distruggervi le vestigia della sconfitta e delia crudeltà; il
    battere di duecento campane, che risponde al fragore di sessanta
    cannoni; la pioggia dirotta che spegne sulle piazze i fochi notturni
    del soldato; la luna che spunta tra le nubi conturbando con tetra
    eclisse le barbare fantasie; il terrore del veleno che rattiene i
    famelici croati col pane in pugno; lunghe file di case incendiate,
    fra cui densi battaglioni s'aprono furtivo scampo; il sole che sui
    candidi pinnacoli del Duomo saluta il vittorioso tricolore; i
    palloni volanti che spargono alle turbe campestri la parola dei
    combattenti. V'è persino quella vena di scherno che accoppia
    nei grandi poeti Ettore e Tersite, Farfarello e Ugolino, Hamleto e
    Falstaff. - «Il barone Torresani è qui mezzo
    morto», - scrive la contessa Spaur dal Castello. Il conte
    Bolza, sopravvissuto a tante esecrazioni, vien salvato dalla
    ridicola bruttezza della sua spaventata figura. Chi non
    sorriderà del conte O' Donnell sul balcone di Monforte in
    coccarda tricolore? Chi non sorriderà del regio messo
    travestito da Giovannino? o del colloquio fra il commissario Bossi
    in abito di spada e Kadetzky seduto sulle macerie del ponte di
    Marignano?
    E come in Dante e in Shakespeare qui tutti parlano quali li fece
    natura; stizzosi arciduchi e generosi operai; marescialli e
    podestà; soldati e donne; vigliacchi e valorosi. È un
    poema fatto da tutti, e scritto da tutti. È la dottrina di
    Vico controprovata da un esempio vivente e presente. E perciò
    questo centone, che per noi fu solo opera di devota e quasi servile
    pazienza, varrà facilmente più di qualunque opera
    d'ingegno si potesse poscia stillarne.
    Udiamo che, prima d'uscire, questo volume ha già gli onori
    della proscrizione, anche in Piemonte. Pur troppo v'ha in certuni
    irrefragabile fratellanza di odii e d'amori col nemico d'Italia; ma
    li avremmo stimati astuti tanto da dissimularla.
    31 maggio 1851.
    
    I
    Si fanno stupore l'Azeglio ed altri come l'Austria, in trent'anni e
    più, non sia pervenuta a spegnere nei nostri popoli l'animo
    italiano. Con che vengono quasi a significare che l'Austria non
    volle o non seppe operare con quant'efficacia poteva, e che con
    più diuturno proposito ben potrebbe sperare compimento
    all'impresa.
    Ben altra è la ragione vera delle cose. La coscienza
    esplicita e solenne d'una vita comune e nazionale è fatto
    nuovo e proprio del secolo; si svegliò, a memoria nostra, in
    Germania tra le guerre francesi; e si svegliò in Italia
    appunto sotto l'assidua doccia dell'austriaca importunità.
    Dovrebbero i mali avvisati scrittori farsi piuttosto meraviglia che
    il corso di tant'anni fosse necessario a dar vita a un affetto che
    parrebbe dover surgere spontaneo dalla cuna stessa dei popoli.
    Dovrebbero dire che ad una siffatta forza, continua, e crescente, e
    già pervenuta a formidabile manifestazione nel 1848, oggimai
    ben pochi stimoli si debbano aggiungere, sia dai nemici, sia dagli
    amici, per renderla in breve termine vittoriosa.
    Napoleone, dando nome e armi e vessillo al regno italico, e nel
    natale di suo figlio porgendo speranza d'un re che ci unisse tutti
    in Roma, aveva piuttosto assopito che desto lo spirito nazionale;
    poichè siffatte onoranze e aspettazioni mitigavano la molesta
    verità del dominio francese. Ma se militari e magistrati si
    compiacevano del teatrale apparato, nelle sobrie menti del vulgo
    quel tempo rimase sempre, come veramente era: «il tempo dei
    francesi»; essendo poi vero altresì che quelle memorie
    non gli riuscirono umilianti nè amare. Ciò che allora
    cruciava veramente il popolo, non era la presenza dei francesi: la
    coscienza nazionale non era popolarmente attuata. Ma era l'insolito
    peso della milizia in lontane spedizioni; era la vessatrice finanza
    e il divieto continentale che contrastava alle famiglie molti
    oggetti di domestica consuetudine; era il sospetto, instillato ogni
    dì dai frati e dai patrizii, che la religione fosse
    insidiata, e che la dimora del pontefice in qualunque città
    fuori di Roma fosse pel genere umano calamità maggiore della
    guerra e della peste. Napoleone, non pago d'esser benedetto dalla
    vittoria, aveva mendicato aspersioni e unzioni; e dopo aver rimessi
    a galla gli ambiziosi prelati, voleva domarli: e non colla
    libertà del pensiero, ma colla gretta forza. E non osò
    rispondere alle loro scommuniche, spalancando loro in faccia il
    testo degli evangelii, e sconsacrandoli nel giudicio dei popoli.
    Venne la santa alleanza, tutta infiorata di lusinghe e di promesse;
    e in breve si riscossero i popoli sovra letto di spine. Uscirono,
    come stormo di gufi, a occupare i troni della penisola le incipriate
    prosapie che si erano nascoste, durante la guerra, nei confessionali
    di Sicilia e di Sardegna. E venne secoloro una mascherata di
    cavalieri d'ogni croce, e di prelati e frati d'ogni tonaca; e
    presero a tiranneggiare le genti, e ammaestrarle ad ogni impostura e
    codardia. Il pontefice fu restituito; e tosto si vide nelle
    improvide Romagne uno spettacolo di catene e di torture, e di sicari
    e di carnefici, e uno strazio della giustizia e della ragione, al
    quale rimase solo freno il coltello della vendetta.
    Infatti sarebbe stato ben agevole agli oppressi scuotersi di dosso
    quegli imbelli. Ma ogniqualvolta il tentarono, primachè
    avessero spazio di ordinarsi a governo, e prima che potessero
    svegliare a comune difesa gli smemorati popoli, si trovarono a
    fronte gli eserciti imperiali. E tra la forza straniera e le
    prelatizie insidie, i più generosi moti riuscirono solo al
    disordine e alla fuga. Chi aveva anelato a un campo di gloria,
    moriva sul patibolo; e il sangue versato senza battaglia,
    anzichè rendere onore alla patria, metteva una macchia di
    viltà sul nostro nome.
    Intanto l'odio, che prima si divideva sopra i singoli tiranni, si
    accentrò naturalmente contro quella potenza che tutti li
    proteggeva. Milano e Palermo, la Romagna e la Calabria, non avevano
    nei passati secoli avuto mai pensiero di tutela commune;
    poichè il pontefice, invocatore perpetuo degli stranieri,
    aveva sempre mandato a ciascun popolo un diverso dominatore da
    combattere o da soffrire. Ma ora l'Austria, sola, pareva delegata
    dall'Europa a far disonorata e infelice tutta la nazione. Adunque i
    popoli d'Italia non riuscirono alla fratellanza dell'amore, se non
    dopo essersi incontrati nella communanza dell'odio. Questo è
    beneficio che devono al nemico. Fu allora che ricordarono con dolore
    Napoleone, e le armi da lui date invano all'Italia e il glorioso
    vessillo del suo regno. Anche i liguri e i subalpini e i toscani che
    non avevano portato in guerra quei colori, li adottarono a segno di
    unità; e persino i carbonari dell'estrema Calabria che li
    avevano odiati e combattuti, li accettarono tramutando in bianco il
    nero del mistico loro tricolore.
    Perchè l'Austriaco non seguì l'esempio di Napoleone,
    di conciliare alla sua potenza i naturali affetti dei sudditi
    italiani? Perchè non volse a suo profitto la malvagità
    dei prelati e dei principi; e al primo fremito di popolo non si
    frappose, vindice del secolo e giudice degli oppressori? Non era
    quello l'antico pretesto alle incursioni degli Ottoni e degli
    Arrighi? Nè importava che inviasse le truci caterve della
    Croazia, ma colle insegne del regno italico i fratelli italiani; i
    quali senza sangue, potevano acquistargli le ambite Legazioni, e
    quant'altro gli convenisse. Nè sarebbe mancato adulatore che
    dicesse esser quello un voto consegnato da cinque secoli nella
    Monarchia di Dante.
    Ma quell'Austria federale che aveva potuto nello stesso tempo
    governare le Fiandre col consiglio di vescovi intolleranti, e Milano
    con quello di audaci pensatori, e regnare in Ungaria col libero voto
    di genti armate, erasi estinta con Maria Teresa. Già con
    Giuseppe di Lorena erano tese d'ogni parte le stringhe dell'aulica
    centralità. E dalle Fiandre fino alla Transilvania,
    cominciarono a riluttare con insoliti tumulti le popolazioni. Nelle
    guerre napoleoniche, il governo austriaco si compose ognora
    più a dittatoria rigidezza; mentre colla perdita delle
    più remote appendici, e coll'usurpazione di Salisburgo, di
    Trento, della Venezia e della Valtellina, erasi meglio spianato il
    campo a materiale unità. Per farsi strettamente una,
    l'Austria doveva preferire una lingua fra dieci: elevare a dominio
    una minoranza: configgere sul letto di Procuste tutte l'altre
    nazioni. Da quel momento, ella s'avvinse a una catena d'inique
    necessità, che la trassero di grado in grado agli eccidi
    della Galizia e ai patiboli dell'Ungaria. In cospetto ai quali,
    è poco il dire ch'ella tolse alle provincie italiane le armi,
    la bandiera, il pubblico onore e la privata sicurezza. Ogni passo
    ch'ella faceva dietro il sogno dell'unità, addolorava e
    inimicava un ordine di cittadini; destava in tutti il fremito del
    sangue italiano. La coscienza nazionale è come l'io degli
    ideologi, che si accorge di sè nell'urto col non io. Ella si
    svolse prima in coloro che avevano più bisogno di
    libertà negli studi, nei commerci, nei viaggi; e
    perciò erano in più frequente penoso conflitto cogli
    interessi dello straniero, coll'ignoranza sua, coll'arroganza,
    coll'eterno e implacabile sospetto. Poi si destò mano mano,
    anche nei magistrati, ch'erano pure accuratamente spiati e trascelti
    a essere arnesi di obedienza: nei sacerdoti, benchè domati
    dall'episcopale superbia a tradurre anche l'evangelio in dottrina di
    servitù: nei contadini, benchè tenuti dagli avari e
    gelosi padroni quanto più vicino si potesse alla natura di
    bestiami: per ultimo nei cortigiani medesimi, a cui le dovizie e la
    nobiltà non sembravano presidio alla dignità del
    vivere, ma diritto ad andare inanzi a tutti nella viltà.
    Questa mutazione degli animi era lenta, ma continua, universale;
    irreparabile a qualsiasi scaltrimento di polizia. Che anzi, dopo
    alcun tempo, cominciò ad accelerarsi, come certe
    velocità, in ragioni geometriche, mentre le forze morali del
    governo declinavano visibilmente, come le velocità dei
    proiettili da guerra. Infine rimase spenta affatto ogni tradizione
    d'amore e di rispetto; e allora gli eserciti, che dovevano difendere
    lo stato dai nemici esterni, vennero ritorti contro la patria,
    simili al pugnale del suicida. Intanto nel governo austriaco l'odio
    contro la nazionalità italiana si faceva più aspro e
    cavilloso. Gli spiaceva perfino il nome d'Italia; lo voleva
    dissimulato nei libri, cancellato nelle carte. E al contrario lo
    scolpiva viepiù nelle menti; lo chiamava sulle labbra; se lo
    vedeva scritto da mani notturne sulle muraglie delle città.
    Una indomita riluttanza serrava sempre più il fascio dei
    popoli italiani; era come la polve di plàtino che s'incorpora
    sotto il martello.
    Nondimeno tanto mite era la natura dei lombardo-veneti, che in
    trent'anni non si levarono nè una volta sola a tumulto. E
    davano soldati e denari al sovrano, e guadagni sempre più
    sfacciati a' suoi satelliti e banchieri; e pagavano quella brutta
    servitù ben più caro che ai loro vicini non costasse
    l'onore e la sicurtà. Eppur non valse. Come la vecchierella
    d'Esopo sventrò la gallina perchè le faceva le ova
    d'oro, così l'Austria si ridusse a manomettere colle sciabole
    quel popolo i cui sudori più fruttavano alle sue finanze.
    Quando in settembre del 1847 corse in Milano il primo sangue, egli
    fu perchè il popolo si rallegrava di vedere ingrassata dei
    beni della sua chiesa piuttosto una famiglia italiana che una
    straniera. Nè il governo aveva aspettato finchè quella
    incauta allegria si mostrasse; ma aveva fatto arrotare le sciabole
    otto giorni prima. E per più mesi ancora, fin presso al
    gennaio, si udirono quasi solo le voci dei magistrati, che
    imploravano sommessamente le più temperate riforme. Ebbene,
    fra i documenti si rileva come l'ordinanza che abbandonò le
    vite dei cittadini ai capricci del giudicio improviso, fosse
    già preparata in Vienna il 24 novembre, mentre solo all'8
    dicembre il Nazari diede il primo cenno d'opposizione. Nè
    propriamente sarebbe a dirsi oppositore quel magistrato che invoca
    qualche provedimento, per adempiere al suo officio, e pel desiderio
    che «il suo monarca sia da per tutto e da tutti adorato e
    benedetto». In risposta a siffatte genuflessioni, era adunque
    da due settimane già preordinato in Vienna il patibolo! Ed il
    benigno vicerè, per prima accoglienza ai devoti preghi del
    Nazari, comandava alla polizia di tendergli i suoi lacci. No, non
    poteva l'Austria tollerare alcuna supplica; perchè non poteva
    fare alcuna concessione, senza infrangere il fatto ch'erasi imposta
    d'inesorabile unità.
    Vacillavano intanto le finanze austriache sotto il peso assiduo
    dell'esercito stanziale, ch'era oggimai l'unico vincolo tra le
    ripugnanti membra dello stato. Anzi una necessità ogni di
    più imperiosa ingiungeva che l'esercito d'Italia, da 36 mila
    uomini che contava nell'agosto 1847, fosse recato a ben 73 mila al
    1º febraio, e cresciuto poi, nel corso di quel mese e del
    seguente, fin oltre 80 mila. Ed era ancor poco ai generali, a cui
    pareva affogare tra le popolazioni, da loro stessi rese unanimi
    nell'ira. Anelavano essi a invadere gli altri stati italiani, a
    impedire che Roma armata divenisse caposaldo alla nazione, a
    impedire che la sollevazione di Sicilia si propagasse in terraferma.
    E avevano calcolato che per fare una spedizione anche con soli 26
    mila soldati, erano costretti di lasciare alla custodia di Milano
    soli 6 battaglioni: soli 4 all'immenso circuito di Venezia, che ha
    70 punti fortificati: 1 solo nell'armigera provincia di Brescia: 1
    in quella di Bergamo: 1 in quella di Como: tre battaglioni adunque
    in tre montuose provincie che fanno più d'un milione
    d'abitanti! - Di cavalleria avrebbero dovuto lasciare soli 4
    squadroni in Milano: 1 nel resto delle provincie lombarde: mezzo
    squadrone in tutta la Venezia! - E i cannoni da campo dovendosi
    recare in buon numero nella spedizione, ne dovevano rimanere 6 pezzi
    in Milano, e nessun altro in tutto quanto il regno. Ora, a domare la
    sola Milano non valsero poi 60 cannoni e 16 battaglioni. I generali
    ciò forse prevedendo, dimandavano dunque altri soldati; e
    protestavano di averne bisogno almeno 150 mila. E chiedevano denari
    in copia per cingere Milano di 16 fortezze, capaci di 500 a 600
    uomini ciascuna. Aiuto singolare alle finanze!
    E colla speranza della prossima spedizione, decretavano a se stessi
    (altro singolare aiuto alle finanze), la mezza paga di guerra; e
    rumoreggiavano sulle porte dello Stato romano e dei Ducati, e
    minacciavano la Toscana. E nella gazzetta d'Augusta sfogavano il
    loro furore, ciò che non potevasi fare nei fogli responsabili
    e censurati dell'imperio; e perchè sapevano ch'era letta in
    Italia, e volevano ad ogni modo provocare gli italiani per poterli
    trucidare prima che fossero armati, li chiamavano razza comica,
    ciarlatanesca, burlesca. E nei caffè si vantavano d'avere
    scritto, di propria mano, quelle contumelie. E mettevano fuori
    ordinanze altisonanti, che riducevano ogni ragione alla spada, come
    in terra d'Asia; ordinanze che parvero allora strane e barbare,
    nè in Italia solo, ma perfino alla parziale Inghilterra; e
    parvero poi davvero comiche e burlesche, quando al primo ruggito del
    popolo i fuggitivi eroi gli lasciarono in mano quella medesima
    spada. E con tutto ciò non facevano paura a nessuno;
    solamente destavano all'armi Roma e la pacifica Toscana; e rompevano
    i gesuitici sonni perfino a C. Alberto. Di rimando, si facevano in
    tutte le chiese d'Italia funebri espiazioni per gli inermi scannati
    di Milano, e questue in ogni città pei feriti e per gli
    orfanelli. E così ogni atto dell'Austria accendeva vie
    più quell'animo italiano ch'ella intendeva di spegnere.
    Certo se quella spedizione si fosse fatta, e gli austriaci si
    fossero disseminati qua e là per l'Italia, lasciando i 6
    cannoni nel Lombardo-Veneto, tanto meno, allo scoppiar
    dell'insurrezione, avrebbero potuto raccogliersi e salvarsi. Ma
    riparò alla loro furia l'astuzia dei cardinali, che si
    opposero a tutta forza, fingendo anzi, i più dediti
    all'Austria, di volersi fare capitani del popolo contro lo
    straniero. E l'Inghilterra, amorosa tutrice dell'Austria delirante,
    fece ogni opera per rattenerla sui confini; sicchè non si
    oltrepassò Ferrara e Modena; e si lasciò cadere il
    disegno che si aveva di eludere le apprensioni dei cardinali,
    tragittando per mare un esercito nel regno di Napoli. E ancora i
    generali che si lagnavano delle scarse forze, vedevano solo negli
    eserciti la massa; e non intendevano quanto quella forza ancora
    fosse scemata per effetto delle nazionalità. L'italianissimo
    Durando, nel suo libro Della nazionalità, aveva ammonito
    fraternamente gli austriaci a non fidarsi dei reggimenti italiani, e
    a non appagarsi tampoco di relegarli sulle frontiere turche, ove
    potevano disertare, e incorporarli per compagnie nelle guarnigioni
    più lontane. Ma essi non avevano badato. Ora in quei loro 73
    mila soldati, almeno 33 mila erano italiani del Lombardo-Veneto, del
    Tirolo, della Gorizia e dell'Istria; e 11 mila almeno erano
    ungaresi: tutta gente il cui animo già ripugnava alla
    bandiera. I rimanenti (meno di 30 mila), o erano slavi del tutto, o
    un misto discorde di teutoni e di slavi. Il paese interamente
    tedesco, l'Austria arciducale, in cui nome si faceva la guerra,
    aveva tra i 57 battaglioni di quell'esercito un solo battaglione con
    un reggimento di cavalli. Due altri battaglioni erano pure tedeschi,
    ma del Tirolo. E i savii di Francoforte si papparono poi la gloria
    austriaca come gloria tedesca; e versarono sulle austriache
    crudeltà assoluzioni indegne della scienza, e della patria e
    del secolo. E parimenti l'Italia era ammaestrata a gridare: fuori il
    tedesco! Anch'essa vedeva solo la guerra delle armi, contava solo le
    baionette; e non intendeva in altrui quel principio che traeva lei
    medesima alla guerra. Vedeva solo i tedeschi, che non v'erano; e non
    vedeva le radici intestine della potenza straniera; non vedeva
    coloro che, cacciati i tedeschi, avrebbero chiamati i francesi e gli
    spagnuoli, e si vantavano d'aver duecento milioni di schiavi; e se
    quei non bastassero, avrebbero chiamati i beduini e i turchi; e
    infine avrebbero imprecato sulla loro patria le potenze
    dell'inferno. E v'era, in Italia, chi non voleva ch'ella si
    ricordasse che gli eserciti sono lame a due tagli, e che dagli
    eserciti erano surti i moti del 1815, del 1820, del 1821. E
    così l'Italia correva a premature ostilità, quasi
    temesse d'aver tempo ad armarsi, quasi le dolesse lasciar agio alla
    mole nemica di sconnettersi, e all'Ungaria di chiarirsi qual era.
    Gli austriaci avevano speranza in quella fretta degl'italiani; e
    abbiamo ansa a indurre che le uccisioni di Milano, di Bergamo, di
    Padova e di Pavia non fossero se non modi di giustificare da un
    lato, in faccia all'Inghilterra, le meditate invasioni, e
    d'avvalorare dall'altro la dimanda di nuove truppe. Accadevano in un
    medesimo giorno i fatti di Padova e di Pavia; e si era ordinato anzi
    tempo che la gazzetta d'Augusta attribuisse immantinente quella
    simultaneità alla mano delle società secrete.
    Senonchè il corrispondente che inviava dallo stato-maggiore a
    quella gazzetta le anticipate narrazioni, sbagliava le date: citava,
    a Milano, sin dal giorno 9 febraio, la gazzetta di Venezia del
    giorno 11; e così da istoriografo si palesava profeta. A
    Padova dunque e a Pavia, come a Milano, a Ferrara, a Bergamo, a
    Brescia, a Modena, vediamo costantemente gli austriaci, armati,
    sollecitare a conflitto gli inermi; dare il segnale degli assalti;
    far essi ciò che avrebbero dovuto fare i ribelli. A che pro
    dunque andar cercando nelle società secrete l'unico fomite
    che propagò l'odio ai tedeschi e lo spinse fino alla guerra?
    Davvero che l'Austria bastava!
    Noi dimandiamo se fossero più dannosi nemici alle austriache
    finanze coloro che col demolire le imposte del tabacco e del lotto
    sottraevano 15 milioni di reddito lordo, ma solo 6 milioni di
    nitido: o coloro che la consigliavano a persistere nella ingiustizia
    sua contro la nazione italiana, a costo anche di dover accrescere
    l'esercito da 36 mila uomini a 150 mila. Quest'aggiunta di 114 mila
    soldati per una sola nazione dell'imperio (nè l'altre nazioni
    erano gran fatto più tranquille), quanti milioni doveva
    divorare in un anno? e quanti in due, in tre anni? Centinaia senza
    dubbio; ben altra cosa che i 6 milioni del lotto e del tabacco. Le
    inconsulte spese dovevano render necessarii nuovi debiti e nuove
    imposte; quindi altri impacci e altre molestie da infliggersi alle
    nazioni già stanche: quindi inaspriti più gli odi: e
    affrettato l'inevitabile divorzio, l'inevitabile partaggio della
    monarchia. E perciò i due vicini, che potevano aver
    più guadagno da quel disfacimento, tanto più
    apertamente fomentavano le discordie: la Russia aizzando i
    governanti: e la Sardegna, i governati. Il consiglio di farsi
    moderata, e anche costituzionale, almeno nel Lombardo-Veneto, non
    venne all'Austria da quei due alleati che avevano interesse a
    vederla convulsa e smembrata; ma sì dall'Inghilterra che
    voleva, a proprio commodo e servizio, averla tranquilla e forte.
    Vigilava questa desiosamente ogni occasione che potesse ricondurre
    gli ottimati ai loro antichi amori colla casa d'Austria; e
    sperò che a questo giovasse almeno la nuova della repubblica
    risurta in Francia. E infatti i milanesi, al dire della stessa
    Opinione, furono commossi dalla mansuetudine dell'imperatrice, che,
    riprovando le soldatesche sceleratezze, inviava al conte Borromeo
    molto denaro in soccorso ai poveri. E finchè il vicerè
    parve propizio ai cittadini, questi si rivolsero candidamente a lui.
    E Borromeo, il quale poco fidava in Carlo Alberto, giunse persino a
    suggerire al vicerè speranze di regno, che «il cupo
    principe» udiva non senza commozione. Ma v'era a lato ai
    principi chi gli spingeva al precipizio, chi voleva il sangue per
    avere il denaro. E lo stesso general Willisen, adulatore di
    Radetzky, accenna a questa sequela di cose, ma senza intenderle.
    All'annuncio del sangue versato in Milano, l'Azeglio gettava la sua
    maschera di moderatore e di paciero, e prorompeva in fanatico
    tripudio: «Il fatto è compiuto», egli scriveva.
    «Or io dico all'Italia: Rallégrati! L'Austria è
    ridutta all'assassinio! L'Austria assassina!». Senonchè
    la volpe aristocratica non intendeva tutto il terribile mistero di
    quel sangue. Il quale, se stillava desiderato e dilettoso ai cupidi
    marescialli e agli ambiziosi di Pietroburgo e di Torino, era pur
    desiderato da altri a più alto proposito. «Quando si
    mise l'Austria al punto di sguinzagliare i suoi croati, corse per
    tutta Italia un grido, che ripiombò sul core de' principi,
    complici dell'Austria». Ora qual politica strana è
    questa dell'Austria, che rallegra tutti quanti i suoi nemici?
    Si vede dai documenti della diplomazia britannica, che la famosa
    fuga di Pio IX, la quale fu poi compiuta in novembre del 1848, erasi
    già meditata e tentata a mezzo luglio del 1847, parecchie
    settimane prima che i buoni milanesi si facessero ammazzare,
    cantando per le vie il santissimo nome. Intanto che la curia
    pontificia burlava la gente colle proteste di Ferrara, assoldava in
    Roma i sicari di Faenza, e pregava di soppiatto Metternich a tenersi
    pronto coll'esercito ad aiutarla nel momento del macello. Ma se la
    fuga compiuta necessitò poscia il popolo romano a proclamar
    la repubblica, la fuga tentata gli era stata il segnale
    dell'armamento. Colla tracotante passeggiata di Ferrara, l'Austria
    medesima aveva posto le armi in pugno ai Romani. E non appena si
    sentirono armati, divennero, come sempre accade, più aperti e
    imperiosi; e si stancarono in breve di cacciarsi inanzi cogli
    applausi e colle adorazioni lo svogliato pontefice. Il terremoto
    popolare di Roma si propagò alla sempre agitata Calabria;
    scosse ancora più profondamente la Sicilia; di là
    varcò da capo il mare, e atterrì così
    fattamente il re di Napoli, ch'egli denunciò il patto che lo
    legava ai tre despoti del settentrione e fremendo e piangendo
    giurò inanzi al popolo e a Dio una costituzione. Questo
    repentino trabalzo spinse fuori del cerchiello delle riforme gli
    altri principi d'Italia, che stillando di tempo in tempo qualche
    minuto beneficio, speravano regnare gloriosi e adorati per molti
    anni ancora. E il Piemonte stesso si agitò sotto la cappa
    gesuitica che il re gli teneva indosso. Onde Carlo Alberto, che
    aveva punito con dodici anni di carcere un evviva all'Italia, e che
    pochi mesi addietro derideva nel suo Cesare Balbo certe
    velleità costituzionali, fu costretto, dopo vane riluttanze,
    a cedere ai prudenti consigli britannici, e farsi dimandare in
    fretta dal municipio di Torino quello statuto in cui gli adulatori
    dell'Opinione e del Risorgimento raffigurarono poi le tracce di 18
    anni di sapienza e di meditazione. E si preparava al doloroso passo
    di sottoscrivere lo statuto, come altri si sarebbe preparato alla
    morte.
    In quel frattempo i malaccorti sussidi forniti dall'Austria, dalla
    Francia e dal Piemonte ai segregati Svizzeri, invece d'infiammare
    vie più la guerra civile, destarono finalmente a pudore gli
    onesti animi degli alpigiani, che lasciarono cadere in breve le armi
    e si riabbracciarono coi fratelli. La contorta e immorale politica
    di Metternich, di Guizot e di Lamargarita andava dunque sbeffata,
    non meno in Italia che fuori; si dissipava l'illusione di
    quell'ammirata arte di stato; e dallo sdegno popolare sgorgava
    improvviso in Parigi il grido di repubblica.
    Ai mostruosi fatti di Parigi, come Metternich gli chiamava,
    rispondevano in pochi giorni i più inaspettati eventi di
    Vienna. Un governo che nelle provincie non riconosceva diritti e
    nelle scole insegnava tutte le cose dei sudditi appartenere al
    sovrano, ed essere solamente concesse a loro conforto dalla sovrana
    clemenza, teneva ugualmente a vile anche il favorito popolo
    austriaco in cui nome facevasi maledire dalle provincie. I privilegi
    ingordamente accumulati nella capitale vi avevano adescato
    un’infinita turba di proletari. Fra le illusioni degli imperanti e
    la fattizia floridezza delle industrie, quella spensierata plebe si
    moltiplicava, aggiungendo intorno alle anguste mura città a
    città. Venne un giorno che uno stuolo di giovani spirò
    nella incòndita mole l’alito della coscienza e dell’idea. La
    republica teutonica era concetta! Arduo e doloroso è il suo
    nascimento, ma inevitabile e fatale. Intanto l’Italia regia
    trastullava i popoli colle costituzioni a beneplacito; e avviava di
    soppiatto le soldatesche ai confini della Savoia, per intercettare
    le correnti magnetiche dell’Hotel de Ville. Essa voleva far da
    sè, cioè far astrazione dalla Francia nelle cose
    d’Italia e del mondo. Ma nulla valse; poichè ciò che
    non voleva di Francia, le giunse di rimbalzo col telegrafo di
    Vienna, che apportò a Venezia e Milano, e via via di
    città in città, la scintilla della ribellione. A
    Venezia risurse dalla fida memoria del popolo la repubblica di San
    Marco, deposta dai patrizi, cinquant’anni inanzi, senza ferite nella
    tomba. Ma il popolo di Milano, accettava da incauti amici il
    consiglio di serbare ad altri giorni il grido della libertà.
    Poteva colla caduta di Metternich l'Austria tornar federale, torsi
    di collo il capestro della centralità. Era l’unica via di
    rifarsi moderna, e cessar d’essere il tormento delle nazioni; ma
    essa mutò solo il nome alla vecchia catena. Una costituzione
    unitaria che chiamava a una sola assemblea tutte le genti
    dell’imperio, tornava assurda e impossibile. In quale mai lingua
    doveva essere eloquente l’ungaro al tedesco, o il croato
    all’italiano? O doveva ogni deputato condur seco nell’aula delle
    dieci favelle il suo turcimanno, come le tribù della Nigrizia
    al mercato di Tombuctou? Le nazioni, schierate a fronte in quel
    babilonico conciliabolo, in un proposito solo potevano tutti
    accordarsi, di ricusar tanto alla ministeriale arroganza.
    Perlochè o ricadrebbe ogni cosa nel pristino arbitrio della
    corte: o le nazioni, sciogliendo tosto la bizzarra adunanza,
    andrebbero a fare meno insensata opera, ciascuna nella patria sua.
    L’Austria non volle essere una federazione di popoli se-reggenti;
    non volle essere una federazione commerciale, presieduta
    splendidamente da una famiglia di dogi ereditari. Ebbene, che
    divenne ora l’Austria? Divenne una federazione (sempre una
    federazione) di satrapi militari, che tengono la mano sui tributi
    delle provincie, e lasciano agli arciduchi una banca vuota, un
    titolo svanito, e la responsabilità di quanto d’atroce si
    commette in loro nome.
    Gli eredi di Metternich furono più ostinati e ciechi di lui.
    S’egli aveva infamato i suoi padroni col carcere duro, quelli
    aggiunsero le fucilazioni, la mitraglia, l’acqua ragia; profanarono
    il sesso col bastone. Se prima le vessazioni auliche avevano
    alienato all’imperio i cittadini, ora le rapine e le crudeltà
    vilissime gli resero avidi di vendetta, digrignanti, implacabili. Se
    prima sarebbersi appagati a impetrare di quando in quando una regale
    cortesia, un raddrizzo amministrativo, ora anelano a spezzare e
    atterrare ogni reliquia dell’antica maestà.
    Le avite libertà ungariche erano un nodo in cui si
    intrecciavano con ineguali patti più stirpi fra loro non
    amiche. Anche quel vincolo ora è troncato. I laceri brani non
    debbono più essere Ungaria, e divenire Germania non possono.
    Intanto nello scomposto imperio le innate affinità chiamano a
    sè le genti slegate e oscillanti. Di qua l’Italia appella le
    sue; e se ne riscuotono anche Trento e Trieste; di là chiama
    le sue la Germania; d’altra parte l’Illiria, la Dacia, la Polonia,
    l’indomita Ungaria. La Russia ride; e soffia nel foco; e batte
    assidua il cuneo della centralità viennese, per dirompere e
    sfaldare le male assortite agglomerazioni. Ad alcune tribù fa
    sentire il congenito suono della sua lingua; ad altre aggiunge il
    fàscino della religione; ad altre le lusinghe della corte, e
    l’ammirazione dell’immane sua grandezza; a tutte inspira colla mano
    degli aborriti marescialli il furore di nuovi destini. Essa fa di
    più; pone la ferrea mano sul caposaldo di tutto l’intreccio.
    Perocchè chi erano infine gli uomini che avevano abusato, in
    odio alle nazioni, l’aulica onnipotenza? Metternich era uno
    straniero; stranieri i Frimont e i Bellegarde. E Haynau, ribrezzo
    del genere umano? E la vittima dell’ira popolare, Latour? E Zobel,
    carnefice di prigionieri? E chi erano Ficquelmont, e Daspre, e
    Nugent, e Wallmoden, e Schönhals, e Culoz, e Dahlerup? E tutti
    quei principeschi venturieri di Hohenzollern, di Hohenlohe, di
    Homburg, di Coburg, di Reuss, di Würtenberg, di Stollberg in
    cui nome s’intitolano tanti reggimenti? E i venturieri della
    finanza, i Bruck, i Sina, i Rothschild? Gente che non ha patria,
    come i normanni del medio evo, come i filibustieri, gli algerini, i
    cardinali, i gesuiti! Nè rappresentarono mai gli interessi
    d’alcun popolo dell’imperio; ma erano il nucleo d’un governo
    cosmopolitico, incorporeo, astratto. Che importa a costoro giovare
    all’Austria o alla Russia? Servire il Merovingo immemore, o
    l’ambizioso di Heristal? E così gli arciduchi ora sono in
    faccia alla Russia ciò che i duchi e granduchi e re
    dell’Italia erano in faccia all’Austria trent’anni fa; ciò
    che il Gran Mogol e il Nizam divennero in faccia all’Inghilterra. La
    gran predizione si compie; l’oceano è agitato e vorticoso; le
    correnti vanno a due capi: - o l’Autocrata d’Europa - o gli Stati
    Uniti d’Europa.
    In mezzo a sì vaste e ineluttabili influenze, i difensori
    dell’Austria si divagano ad accusare dei moti d’Italia ora le
    società secrete, ora la volubilità del pontefice,
    l’oro degli ottimati, le insidie del regale congiunto, le imaginarie
    trame dell’Inghilterra.
    Le società scerete, nel Lombardo-Veneto, ove, l’impeto
    popolare riescì più unanime, avevano avuto minor voga
    che nella rimanente Italia. D’altronde non tutte codeste
    aggregazioni avevano un medesimo intento d’indipendenza e di guerra.
    I muratori, fratellanza universale e umanitaria, appunto
    perciò temperavano più che non infiammassero l’odio
    agli stranieri. I carbonari operavano taciturni di città in
    città, piuttosto correttori della domestica tirannide, che
    incitatori a lontana guerra. La Giovine Italia, fratellanza non
    muta, anzi eloquente, ornata di dottrine filosofiche e di bello
    stile attinto al fonte biblico e agli esemplari di Giangiacomo e di
    Ugo Foscolo, aspirava bensì a richiamar la religione dal
    satellizio degli oppressori, e rifarla confortatrice evangelica
    degli oppressi: ciò che significava col motto, Dio e Popolo.
    Ma parlava una lingua ardua alle plebi, e a molti eziandìo
    che non si stimano plebe. No, non era popolare; non penetrava
    addentro nella carne del popolo, come la coscrizione, e il bastone
    tedesco, e la legge del bollo, e l’esattore, e il circondario
    confinante, e le sciabole di settembre e di gennaio. L’eco della
    Giovine Italia era nella generosa e poetica gioventù delle
    università, delle academie e delle aule teologiche. Essa,
    cogli occhi confitti nell’esercito straniero, pareva riservare ad
    altra generazione le dispute tribunizie e l’emancipazione del
    popolo, per accingersi anzi tutto alla pugna. La sua fede era
    dittatoria, cesarea, napoleonica. Anelava alla forza militare e
    all’unità.
    Nel 1831 Giuseppe Mazzini non rivolse le prime sue parole al popolo,
    ma sì ad un giovine congiurato divenuto re. «V’è
    una corona, gli diceva, più splendida della vostra. Liberate
    l’Italia dai barbari; fatela tutta vostra e felice. Siate il
    Napoleone della libertà italiana». A Mazzini non
    bastava dunque un Cromwell nè un Washington: egli invocava un
    Napoleone. Era dottrina questa esclusivamente e fanaticamente
    republicana?
    Pure ogni giorno udiamo gli impostori dell’Opinione e del
    Risorgimento, lagnarsi che una scola intemperante posponesse le armi
    alla toga, la vittoria alla libertà. Anzi chiamano mazziniano
    chiunque loca inanzi a ogni cosa la forma republicana; vorrebbero
    quasi far credere che questo modo di governo fosse senza esempio nel
    mondo, uscito da una mente accesa, per riflettersi in quelle di
    pochi incauti seguaci.
    E perciò è necessario ricominciar l'istoria dai
    documenti.
    Senonchè, poco monta se codesta scola nascesse primamente e
    deliberatamente republicana; poichè il suo voto
    d'indipendenza trionfante e di libera unità non poteva mai,
    mai, compiersi se non colla forma republicana. E per verità,
    qual risposta fece il giovine re all'araldo della nazione e della
    guerra?
    Lo condannò, assente, a morte ignominiosa. L'ignominia ad un
    uomo che dice al suo re: «hai un esercito; riscatta l'onore
    della tua nazione!». E con Giuseppe Mazzini andò
    fugitivo e condannato anche Vincenzo Gioberti! E anche Giuseppe
    Garibaldi!
    Ma se gli austriaci si appagavano, a quei tempi, d'uccidere in
    effigie i profughi nemici, non fu pago il re italiano d'uccidere in
    effigie gli scrittori, anzi i lettori, i lettori della Giovine
    Italia. La morte è la parte meno disumana delle tragedie di
    Genova, di Alessandria, di Chambéry. Francesco Miglio, che
    col sangue delle sue vene scrive alla sua famiglia, sotto il dettato
    d'un traditore, una lettera che sarà la sua sentenza di
    morte: Andrea Vochieri, già in atto di morire, nè omai
    più cosa di questa terra, profanato da un calcio di Galateri:
    Jacopo Ruffini, che si trae di mano ai tentatori, scannandosi colle
    ferree lamine del suo carcere: le tenebre spaventose: i sonni rotti
    dagli inquisitori: le torture della fame: le firme falsate: abusate
    perfino le lacrime delle madri: e tutte queste abominazioni avvolte
    di formule nefandamente religiose: ci fanno quasi sognare
    d'assistere tra le selve dei Druidi ai sacrifici umani. I sepolcri
    dei vivi sullo Spielberg riescono quasi un asilo, un refrigerio alla
    mente inorridita. Molti furono detti tiranni per aver messo a morte
    chi sospettavano deliberato a rapir loro la corona. Carlo Alberto
    uccise quei generosi giovani che avevano vaneggiato, non di torgli,
    ma di dargli la corona: la corona di tutta Italia: «Fatela
    tutta vostra e felice!».
    «Da quel giorno», dice l'intrepido scrittore, dal quale
    attingiamo quei fatti, «Carlo Alberto, in continuo sospetto di
    congiure e di rivolte, collocò la sua maggior fiducia nella
    polizia. Volle denuncie e denunciatori nel municipio, nella
    magistratura, nella milizia, nell'episcopato, nell'aristocrazia;
    fido sostenitore del potere della polizia, era il potere del
    gesuitismo, entrambi tenebrosi, terribili entrambi, operanti di qui
    coi frati, di là coi gendarmi, dappertutto coll'oro, col
    ferro, colle spie».
    Corsero sedici anni: e apparve, nuovo spettro di liberatore, il
    pontefice Pio IX. E l'instancabile proscritto della Giovine Italia,
    si rivolse a lui. E l'8 settembre del 1847, non sapendolo nemico
    della patria, e implorante di nascosto le armi di Metternich, gli
    scriveva da Londra: «Unificate l'Italia, la patria vostra.
    Combattete colla parola del giusto il governo austriaco. Abbracciate
    nel vostro amore ventiquattro milioni d'italiani, fratelli vostri.
    L'unità italiana è cosa di Dio, parte di disegno
    providenziale, voto di tutti. Il risorgimento d'Italia sotto l'egida
    d'un'idea religiosa, sotto uno stendardo, non di diritti ma di
    doveri, porrebbe l'Italia a capo del progresso europeo. Un altro
    mondo debbe svolgersi dall'alto della città eterna ch'ebbe il
    Capitolio ed ha il Vaticano». E anche queste erano parole di
    vita dette a un cadavere. Il papa non aveva parole contro l'Austria,
    o in difesa dei fratelli. E per nulla si dolse poi che in quel
    medesimo giorno, 8 settembre, il popolo di Milano venisse scannato,
    per aver cantate a coro le sue lodi, e sperato ingenuamente nel suo
    nome.
    I tempi si facevano terribili: l'Italia fremeva del sangue sciupato
    in Milano, in Padova, in Pavia. Gli esuli volgevano dalle terre
    trasmarine gli occhi all'Italia. Il proscritto Garibaldi scriveva il
    27 dicembre da Montevideo al proscritto Antonini: «Io pure
    cogli amici penso andare in Italia ad offrire i deboli servigi
    nostri al pontefice, o al granduca di Toscana». E li offerse
    poscia anche a quel re che lo aveva condannato a morte.
    E ponevano in commune il peculio di poveri soldati, per tragittare
    d'America in Italia quelli più poveri ancora che
    «volevano far dono del braccio e delle vite in difesa della
    patria». Nè ponevano al dono condizioni superbe,
    nè tampoco un patto di costituzionali franchigie;
    poichè «animati dal sempre crescente progresso che
    andava facendo lo spirito nazionale in Italia, e dai segni non dubbi
    dell'accordo fra principi e popoli, avevano sollevato l'animo a
    quelle medesime speranze che vedevano fomentate ed accolte dai
    governi del loro paese».
    E parimenti in Europa si apprestavano gli esuli al medesimo
    sacrificio delle più care loro memorie, per offrire il sangue
    loro ai principi italiani, purchè collegati contro la
    tracotanza straniera. Gioberti scriveva da Parigi, fin dal settembre
    1847, con qual gioia vi fosse accolta dai proscritti la nuova che
    Carlo Alberto fosse disposto a tutelare l'indipendenza italiana e
    collegarsi col gran pontefice; e come a tale annuncio tutte le
    discrepanze d'opinioni e d'affetti fossero scomparse. «Tanti
    essere i sudditi spontanei e devoti a Pio IX e a Carlo Alberto
    quanti i figli d'Italia». E scriveva a Montanelli che non
    v'erano più radicali, e che tutti gli amatori
    dell'indipendenza volevano conservare la monarchia, come necessaria,
    anzi avvalorarla.
    Senonchè, non appena erano trascorsi tre giorni, che
    l'incauto lodatore aveva a dolersi d'essere già smentito da
    Carlo Alberto, che faceva vietare dalla polizia i colori papali e
    gli applausi a Pio IX. Nondimeno i facendieri incalzavano con
    promesse i proscritti; e da Milano supplicavasi Mazzini a tacere, e
    lasciare le orecchie della nazione agli adulatori di Carlo Alberto.
    E in Parigi lo s'incalzava a cancellare financo il nome della
    Giovine Italia, il quale veramente rammentava troppo le passate
    crudeltà dei principi, ora penitenti e rigenerati. E lo
    traevano a riunirsi secoloro in una nuova Associazione Italiana,
    della quale scaltramente lo volevano preside, insieme però ad
    uomini apertamente costituzionali e principeschi; ed esigevano in
    nome della patria che «rinunciasse ad ogni iniziativa»,
    e attendesse rassegnato che dal seno dell'Italia e dalla lega dei
    principi riformati e riformatori avesse indirizzo ogni cosa. Vedeva
    egli pur troppo «il retrocedere del papa e il pessimo maneggio
    dei moderati. Io temo, scriveva a Filippo De Boni, le riforme di
    Carlo Alberto, non perchè io mi sia republicano, ma
    perchè sono unitario. Con tutta l'avversione che ho a Carlo
    Alberto, carnefice de' miei migliori amici, con tutto il disprezzo
    che sento per la sua fiacca e codarda natura, contutte le tendenze
    popolari che mi fermentano dentro, s'io stimassi Carlo Alberto da
    tanto, d'essere veramente ambizioso, e unificare l'Italia in suo
    pro, direi veramente: amen. Ma ei sarà sempre un re della
    lega; e l'attitudine militare ch'ei prenderà, se la
    prenderà, non farà che impaurir l'Austria, e ritenerla
    forse ne' suoi attuali confini, che i re della lega rispetteranno. E
    questo è il peggio». Il peggio era dunque per il
    Mazzini la pace coll'Austria: dacchè suprema sua fede era
    sempre l'immediata e combattente unità di tutta l'Italia.
    Ora vediamo di che tempra e di che fede si fosse codesta lega dei
    principi italiani. Carlo Alberto era sempre infraddue, fosse in
    politica, fosse anco solo in cose di letteratura. Egli chiamato
    dagli imperiosi tempi ad essere un Napoleone, l'uomo dalla ferrea
    volontà, non aveva mai volontà propria; pendeva sempre
    fra opposti consigli; e talora gli seguiva a lungo entrambi,
    rifacendo in secreto colla sinistra ciò che aveva
    solennemente disfatto colla destra. V'erano intorno a lui due
    conciliaboli di cortigiani, che operavano in contrario senso; poi
    ognuno dei due portava come bracco la sua caccia appiè del
    padrone. Carlo Alberto al chiaro giorno era re di Sardegna,
    colonnello del 5º reggimento degli ussari austriaci, insieme
    con Radetzky; cognato degli arciduchi; ricinto di gesuiti da messa e
    da spada; ricinto da quelli che col suo denaro pagavano la guerra
    civile in Friburgo e Lucerna; ricinto da quelli le cui mani
    stillavano del sangue della Giovine Italia. E nella notte, egli dava
    clandestina udienza alle società secrete di tutta la penisola
    e della Sicilia; viveva in concubinato colla rivoluzione. Nè
    i persecutori della Giovine Italia erano ben concordi fra loro:
    poichè si dividevano seguendo le rivali ambizioni di
    Villamarina e Lamargarita; sempre però concordi a regnare
    colla censura, colle spie, col confessionale; e adoperare, secondo
    l'opportunità, le tombe di Fenestrelle, la malaria di
    Sardegna, il piombo, il capestro. Nell'altra congrega erano molti
    che il re aveva condannati a morte e faceva stare inesorabilmente in
    esilio, come re di Sardegna; ma, come re futuro d'Italia, gli
    accarezzava, inviandoli qua in là in secrete missioni. Alcuni
    di essi erano paghi di addentrarsi nel torbido delle cose italiane,
    preparando al re, quando che fosse, l'acquisto d'un po' di paese,
    foss'anco solamente Mentone e Roccabruna; erano menti meschine,
    educate nella meschina istoria di quella monarchia. Altri coltivava
    anche le ragioni ereditarie del re sovra Piacenza; altri voleva
    scavalcare anche il duca di Modena; il quale per verità nel
    1831 aveva cospirato coi gesuiti a scavalcare Carlo Alberto in
    Piemonte. Altri s'aggirava fin per le carceri della Sicilia, a far
    sacco degli odi inveterati contro il nome borbonico. Altri,
    superando gli scrupoli della divotissima casa, spingeva le
    artificiose mine fin sotto al trono del pontefice. Questa era la
    provincia sopratutto del pittore e letterato Tapparelli, detto
    volgarmente il marchese d'Azeglio; e fa meraviglia: poichè
    era figlio e fratello di gesuiti. Qui diverrebbe troppo lunga
    ripetizione l'andar esponendo quanto viene a chiarirsi, ove si
    riducano a commune costrutto alcune lettere del Gioberti: le memorie
    secrete degli emigrati: le dichiarazioni del triumviro Aurelio
    Saffi, dell'inviato De Boni e d'altro membro dell'assemblea romana:
    i cenni sulla propaganda di Modena e Milano: la publica protesta
    fatta dal conte Michelini, che aveva spinto l'audacia fino a volere,
    contro il comando del papa, spiegare in Roma lo stendardo di Carlo
    Alberto: moltissime date di quei giornali toscani, ch'erano
    strumenti alla propaganda di Carlo Alberto contro il duca di
    Toscana, quando la stampa in Piemonte era ancora schiava; l'opera
    del generale Giacomo Durando che voleva prendere lo Stato del papa
    dandogli in cambio le isole d'Elba e di Sardegna: e rifacendo le tre
    Italie, antico e infausto disegno concertato, venticinque anni
    addietro, fra Carlo Alberto e Federico Confalonieri: infine le opere
    degli aperti lodatori del re, Alfonso Andreozzi e Luigi Carlo
    Farini. E questi fanno menzione anche della mistica medaglia, che
    sta in fronte al nostro Volume e può facilmente vedersi in
    metallo nelle raccolte numismatiche; barbaro accozzamento di cifre
    gotiche e di baccelli palageschi, di mostri blasonici e di visi
    umani, che il re inviava secretamente ai suoi devoti, come il
    pontefice manda intorno le rose d'oro e i femori di santa Filomena.
    Questi maneggi erano antichi. Fin da molti anni addietro ordinavasi
    in Brusselle e in Parigi il comitato dei Veri Italiani; si
    trasferiva poscia in Pisa e in Firenze; e di là si propagava
    a Bologna e a Forlì, nonchè a Roma, a Napoli, a
    Palermo. Pare che rimanesse obliata la sola Venezia, non sappiamo
    per qual disegno; e per verità, anche quando la si ebbe, si
    tentò di adoperarla a fare un baratto, rinnovando la vergogna
    di Campoformio. Forse si temeva che, l'unione di Genova e di Venezia
    insospettisse l'Inghilterra; forse Genova medesima, per triviale
    gelosia mercantile, voleva trarre a sè sola il commercio
    della valle cisalpina. Intanto si arrolavano alle congreghe
    albertine gli scrittori ambiziosi; e i ricchi che avevano titoli o
    li agognavano; e sopratutto parecchi capi dei carbonari e delle
    altre sêtte. E ai repubblicani si predicava non essere maturi
    ancora i tempi alla libertà; doversi consecrare i pensieri
    prima all'indipendenza; al che necessitava fare un regno grande,
    ossia farsi tutti sudditi di Carlo Alberto; il quale aveva pronto un
    esercito. E l'esercito vi era; ma il re l'aveva ordinato a frenare
    nelle guarnigioni i suoi sudditi, non a campeggiare contro gli
    stranieri. L'esercito non aveva stato-maggiore addottrinato a
    condurlo; perchè si era convenuto che, in caso di guerra
    colla Francia, l'Austria reggerebbe. A quelli che dubitavano o
    disperavano dell'animo di Carlo Alberto, si faceva intendere che ove
    il re non si mettesse all'opera di buona voglia, l'avrebbero
    costretto. A quelli che ad ogni patto non volevano aver padrone, si
    diceva che, dopo la vittoria, lo strumento della vittoria ben si
    poteva spezzare; e proclamare l'intera libertà. Così
    la gesuitica congrega di Torino avviava quella versicolore ed
    assurda ricucitura della fusione, che pretendeva accozzare le
    opinioni inconciliabili e gli interessi nemici in una concordia
    infida e caduca, purchè durasse quant'era necessario a
    sventar l'impeto popolare, e furar l'occasione alla libertà.
    Allora dovettero appartenere ad una stessa causa Guerrazzi e
    Gioberti, Azeglio e Bianchi-Giovini, Settimo e Bozzelli, Balbo e
    Sterbini, Valerio e Cavour; e arrabattarsi in carnevalesca miscela
    Pinelli, Buffa, Zucchi, Salvagnoli, Gioia, Correnti, Minghetti,
    Ridolfi, e altri senza fine; abbracciarsi principi e popoli,
    poliziotti e carbonari, epuloni e martiri, gesuiti e antologisti,
    ciambellani e republicani, per uscir poi di quell'orgia regale
    disingannati e discordi più che mai.
    Intanto il tempo scorreva; e alle parole non seguivano i fatti.
    Nessun indicio si vedeva della guerra del re, e nemanco d'animo
    veramente riformatore e liberatore in lui; chè anzi lo si
    vedeva accosciato sul letamaio del gesuitismo e della polizia.
    L'oppressione intanto nelle Romagne si faceva ogni giorno più
    intollerabile, perchè la nazione sentiva ogni giorno
    più la sua coscienza, e il suo diritto, e la sua vergogna.
    Allora fremevano contro i loro capi le fratellanze; e gli gridavano
    servili e sleali; e prorompevano a incomposti e tumultuari disegni.
    Qual era dunque la mente dell'Azeglio e degli altri sollecitatori?
    Volevano spingere, o volevan frenare? O solo preparar da lontano gli
    animi, affinchè in ogni caso si volgessero al re, piuttosto
    che a più risoluti e liberi consigli? Forse intendevano
    solamente che il re, accaparrandosi quella furtiva
    popolarità, potesse in ogni caso, nel naufragio degli
    alleati, salvar se medesimo. Forse intendevano solo dividere dalla
    moltitudine i capi: seminar fra quelle temute tenebre la discordia e
    l'impotenza. Forse bramavano solo sapere: sapere quali affetti
    ardessero nelle addolorate viscere dell'Italia. E perchè
    poteva il re aver brama di saperlo? Per sua sicurezza soltanto? Ma
    come obliare ch'egli nel 1821 e nel 1833, pur troppo, era stato
    delatore dei nemici dello straniero allo straniero?
    Ad ogni modo le amicizie republicane di Milano e le fratellanze dei
    carbonari in Romagna, erano divenute, alcune deliberatamente, alcune
    per inganno, una specie di fanteria dei cavalieri albertini. E
    l'Azeglio e altri che avevano professato di ritrarre l'Italia da
    quello ch'essi chiamavano il malvezzo delle società secrete,
    se ne facevano essi i capi, e ordivano un secreto nel secreto. E per
    lo stesso modo, dopo aver predicato che non volevasi governo in
    piazza, mandavano dalla locanda di Porta Rossa il vessillo di Savoia
    nelle vie di Firenze, come se fosse desiderato dal popolo fiorentino
    che non lo conosceva, e non lo curava. E inviavano emissari a
    portarlo per le piazze e pei teatri di Roma, per imporre al
    pontefice, sotto i nomi di ministri secolari, i loro creati. E
    imponevano generali piemontesi al granduca di Toscana, generali
    piemontesi al papa; il quale, mal discernendo l'un Durando
    dall'altro, diceva, non del tutto senza ragione, di non volere ad
    ogni patto «quei signori Durando che lo volevano cacciar nelle
    isole».
    Si può dire a scusa di Carlo Alberto, ch'egli non era il solo
    principe in Italia che intingolasse bassamente in casa degli alleati
    e dei congiunti. A parte i satelliti di tutte le polizie, di tutte
    le diplomazie, i centurioni, i sanfedisti, e tutte le radici
    maschili e femminili della mala pianta di Sant'Ignazio, v'erano
    altri conciliaboli che operavano pel duca di Modena nelle Legazioni
    e in Piemonte; per i Beauharnais, e diremo pure per la Russia, nelle
    Legazioni e in Milano; per i Borboni nelle Marche, per i Murat a
    Napoli; per i Bonaparte a Milano e a Roma; per l'Austria in
    Piemonte, nelle Legazioni e dappertutto.
    Fra i padri lettori, i padri maestri, i padri inquisitori, fra gli
    stessi monsignori e cardinali v'erano i venduti all'Austria, non
    venduti per oro, che l'oro se lo tenevano volentieri gli austriaci
    per sè, ma per la speranza di avere un giorno dall'imperial
    favore, o il pallio arcivescovile di Milano, o benanco la santa
    pantofola di Roma, da calpestare l'evangelio e la patria. E quando i
    sicari del borgo di Faenza non ebbero più faccende nè
    sicurtà in Roma e in Romagna, venivano secretamente arrolati
    dai duchi di Modena e di Parma. Ciò facevano i conservatori
    dell'ordine e della virtù!
    Le occulte congreghe, mosse da tante contrarie e perverse ambizioni,
    scontrandosi nelle tenebre si combattevano fra loro. Il poeta
    Castagnoli, propagatore austriaco, fu punito dai cardinali; il
    barone Baratelli, pur satellite austriaco, fu prima esiliato dai
    cardinali: e questo è certo; poi fu ucciso: e non si seppe da
    chi. E frattanto si scrisse in Inghilterra, accagionandone ad ogni
    buon conto «il pugnale democratico». E anche a
    Ciceruacchio fu vibrato un colpo indarno: non certo da mano
    democratica. Nè certo era l'obolo della democrazia che poscia
    pagava le insidie tese sotto i passi di Mazzini in Ginevra e
    Losanna. In quelle inesplorate tenebre giace l'arcano della morte di
    Rossi; e già, un anno prima ch'egli cadesse, veniva additato
    all'odio del popolo romano come «publico nemico» da
    quella fazione regia che alla sua morte salì al potere in
    Roma. Questo è certo.
    Adunque sul principio del 1848, quelle associazioni che non erano
    gesuitiche o principesche, erano almeno sotto la sovrintendenza, e
    direm pure sotto il morso e le briglie dei commissarii principeschi.
    E perciò tutte le esitanze, le debolezze, le perfidie degli
    schiavi di corte pesavano come un fato invisibile sugli uomini
    giurati all'indipendenza e alla libertà. Quindi il moto
    popolare, così unanime e poderoso nelle sue
    profondità, era ondeggiante e rotto alla superficie, e
    coperto di estranie spume. Dal Piemonte, ond'era venuto Azeglio
    colle regie lusinghe, un solo fucile non si potè implorare
    per l'imminente inevitabile conflitto, quando gli arsenali di Carlo
    Alberto, quattro mesi inanzi, ne avevano prodigato migliaia ai
    dissidenti svizzeri. E quindi appare una delle cause perchè
    il moto, non venne già dalla frontiera, ove stava Benedek ad
    aspettarlo; ma scoppiò prima nel Veneto, ch'era vergine
    ancora dalle corruttrici influenze di Carlo Alberto; e di
    città in città giunse a Milano. E come vedrassi nel
    seguente volume, Pavia, le cui case toccavano il Piemonte, i cui
    cittadini avevano in Piemonte i poderi, e perciò sapevano
    troppo bene le piaghe del gesuitico governo, fu l'unica città
    del Lombardo-Veneto che non si levò se non dopo la partenza
    degli austriaci. Non si levò se non nella notte del quinto
    giorno dacchè udiva muggire nella vicina Milano il cannone. E
    non fu già indifferenza che quella illustre città
    serbasse alla causa italiana; poichè nella opposizione legale
    i suoi magistrati mostrarono singolare sollecitudine e
    dignità.
    Gli ottimati che, per piacere al Piemonte, venivano tollerati e
    voluti a capo d'ogni cosa in Milano, non erano già, come i
    generali austriaci ripetevano nella gazzetta d'Augusta, i prodighi
    agitatori d'una plebe venale; ma tanta avarizia recarono in ogni
    cosa, quando frivola non fosse, che per lo stento del denaro non si
    poterono compiere i disegni; non si potè nemanco ordinare la
    necessaria catena degli avvisi. E per manco d'avvisi, la nuova di
    Milano insurta appena giungeva il 18 a Como e a Varese; e Vicenza
    seppe solo al 28 che Milano era libera dopo il 22; e Milano seppe la
    risurrezione di Venezia solo il 24. E Verona e Mantova, poste nel
    mezzo, rimasero libere custodi delle ferree loro porte, fino al
    lento ritorno del Daspre da Padova e del Wocher da Milano; evento
    decisivo per tutta la guerra; poichè ben altra cosa sarebbe
    stata, se il popolo avesse tenuto Mantova e Verona, come tenne
    Venezia e Palmanova. E così appare ognora più
    manifesto, che quel moto sgorgò spontaneo qua e là
    dalle viscere della nazione; e che come il mal governo di Metternich
    lo aveva preparato, così la sua caduta gli diede l'ultimo
    impulso. No, nessun popolo si mostrò più noncurante
    dell'oro e più prodigo del sangue. E ci fa quasi schifo
    leggere come le ricche dame di Milano elemosinassero per vicoli e
    botteghe, a far carità coi denari della plebe; e come i
    giovani più operosi a promovere la rivoluzione, dopo aver
    fatto il novero degli amici epuloni, fino a compiere cento milioni
    di patrimonio, appena ne spremessero settemila franchi. Vergogna pur
    troppo anche questa della patria, ma che pure torna d'altra parte a
    sua gloria tanto maggiore. E così rispondiamo al general
    Willisen, il quale intraprese a spiegare alla Germania la nostra
    rivoluzione, intendendola così poco e così male, che
    la giudicò un capriccio improviso, mosso dall'oro degli
    ottimati.
    La propaganda albertina coltivata ancora più durante la
    guerra, lasciò due mali. L'uno ed il peggiore si fu, di
    segregare nuovamente dalla nazione gli ordini più cospicui,
    che sotto il livello straniero parevano essersi rifatti popolo; e
    perciò erano dal popolo con devota gratitudine ammirati e
    seguiti. E per l'ambizione d'allargarsi in tutta l'Italia, Carlo
    Alberto diede ai maggiorenti per tal modo ordinati, un animo per
    molti aspetti simile a quello degli antichi ghibellini; i quali
    nascevano e morivano nella perenne aspettazione d'un esercito che
    scendesse a render loro sugli eguali un predominio che di per
    sè non valevano a conservare. L'altro danno, però
    transitorio, si fu di sviare la nazione dal puro e immediato amore
    della libertà; la quale, per essere l'Austria omai chiusa
    entro i suoi confini, potevasi ottenere da tre quarti della nazione,
    senza guerra e senza pericolo; ed erasi in certo grado ottenuta.
    Poichè la Sicilia era veramente libera; e dappertutto ai
    principi protetti dall'Austria s'era estorto un po' coi modi
    gentili, un po' cogli aspri, la libera stampa e un abbozzo di
    costituzione. Nè quando tre quarti della nazione avevano la
    libertà d'intendersi e d'armarsi, poteva indugiare a lungo la
    liberazione del rimanente; il quale per poco non bastò a se
    medesimo, e solo per manco di buon consiglio. Ma ciò che
    chiamossi la fusione, era noncuranza e quasi disprezzo della
    libertà. E inoltre, sconvolgendo di prima giunta i confini
    degli Stati, avanti di prevedere alla forza interna di ciascuno
    d'essi, correva a cozzare contro il punto fermo dei trattati del
    1815. E questi non si potevano sciogliere se non coll'assentimento
    di molte potenze; anzi piuttosto con una innovazione di tutto
    l'ordine europeo e colla commune caduta di tutti i governi, quello
    compreso che colla fusione volevasi a spesa degli altri governi
    ingrandire.
    Ora che abbiamo accennato ciò che le società secrete
    non fecero, resta a dire ciò ch'esse veramente operarono. A
    ciò ne porgono lume i frammenti che abbiamo raccolti da un
    manoscritto del Montanelli e da varie memorie di promotori del moto
    milanese; e danno bastevole indirizzo anche intorno a ciò che
    sarassi operato, da quelle moltissime altre fratellanze, delle quali
    ancora non abbiamo i documenti. Qui vediamo anzitutto che molti dei
    promotori erano già stati allievi della Giovine Italia; ma
    sciolti da ogni vincolo di setta, operavano ognuno a suo luogo,
    sugli amici; e così mano mano penetravano nelle moltitudini,
    traendo in luce quei sentimenti che la straniera insolenza aveva
    generati. La dottrina era dunque sopravissuta all'iniziazione; il
    convincimento aveva avuto più vigore dei riti e dei
    giuramenti; l'idea era più forte del patto. Ecco ciò
    che l'Italia deve a Mazzini. Egli fu il precursore del risorgimento;
    egli che nel 1831 aveva già concetta nella mente la santa
    crociata del 1848, allora incredibile ai savi mondani; egli che
    aveva visto sin d'allora il seno dell'Austria, come quello della
    vipera, squarciato dalle nazioni entro racchiuse.
    Codesti fedeli della Giovine Italia erano, i più, divenuti
    republicani, quantunque avessero preso le mosse da una dottrina che
    sperava in un re e voleva fondare un nuovo regno. E alcuni erano di
    cospicuo casato. Ma questa è proprietà della nostra
    nazione, che l'animo republicano vi s'incontra in tutti gli ordini:
    che anzi la genuina fonte della vera nobiltà italiana, non
    della ribattezzata di anticamera e polizia, sta nei consessi
    decurionali delle antiche republiche municipali: e pare anzi che
    fuori di codesto modo di governo la nostra nazione non sappia
    operare cose grandi. E che fece mai di glorioso, o anche solo di non
    vituperoso, il gran regno che incatena otto milioni d'anime nella
    bassa d'Italia? Si paragoni l'istoria romana a quella di Torino;
    l'istoria di Venezia a quella di Trieste! Ma codesti nuovi
    republicani, pur troppo erano propensi sempre a sperare più
    nell'esercito regio che nella guerra di popolo, perchè la
    scola loro era scaturita primamente dall'idea napoleonica. Ora un
    Napoleone non poteva surgere che di republica. Una monarchia che
    dovesse trascinar seco al campo il guardinfante dell'etichetta, del
    gesuitismo, della polizia, della diplomazia, non poteva trar di
    sotto a quegli ingombri un Napoleone. E anch'egli, il primo console,
    quando si ebbe messo intorno tutto l'imperiale viluppo, non
    operò più le giovanili sue meraviglie. Pure, anche in
    quella gabbia egli era rimasto sempre il leone, l'uomo della
    indomita volontà: mentre Carlo Alberto, ora vacillando a
    destra ora a sinistra, doveva appuntellare sempre il mutabile suo
    volere al consiglio altrui; nè sapeva far passo inanzi se non
    si udiva alle spalle il mormorìo delle genti o la lode.
    L'Italia non ebbe il console; nè l'uomo.
    Sciolti da ogni rito, i giovani e liberi propagatori si erano, per
    così dire, approfondati nell'onda popolare. D'ogni cosa essi
    fecero arme morale a confortare la moltitudine, conscia degli
    affetti suoi, ma inconscia della sua forza. Essi tradussero in
    vulgare alle smembrate provincie l'arcano dell'unità.
    Adoperarono i fogli clandestini e i publici, i canti, gli evviva a
    Pio IX, il sasso di Balilla, le catene di Pisa. Adoperarono i panni
    funebri delle chiese e i panni gai delle veglie festive; assortirono
    in tricolore le rose e le camellie, gli ombrelli e le lanterne;
    trassero fuori il cappello calabrese e il giustacuore di velluto: il
    vessillo della nazione e quello delle cento sue città. Era
    quella una lingua nuova che parlava a tutte le genti d'Italia
    più alto e chiaro che l'altra lingua in cinque secoli non
    avesse parlato. Essi accesero di vetta in vetta lungo l'Apennino le
    fiamme del dicembre: essi congregarono sulla fossa di Ferruccio i
    montanari della Toscana: essi domarono coi fieri applausi dei
    trasteverini le ritrose voglie del pontefice. Essi rivelarono il
    popolo al popolo, l'Italia all'Italia; gettarono sul viso al barbaro
    armato il guanto della nazione inerme e impavida; trassero la plebe
    che aveva taciuto trent'anni, a dire d'una voce: l'ora è
    venuta; a svellere coll'erculea mano i graniti delle vie; a spegnere
    coi fucili strappati al nemico il foco de' sessanta suoi cannoni; a
    togliere in poche ore ai vecchi generali ogni senno e ogni coraggio.
    Il popolo poteva fare: voleva fare; ma senz'essi non aveva fatto.
    Per essi ora è certo che l'Italia sa e l'Italia può.
    Mazzini aveva scritto a Pio IX di aver più caro soccumbere
    che mirar le vendette e gli eccessi maturati dalla lunga
    servitù. Soverchio timore: l'oppressione non avea maturato i
    vizi della prosperità, ma le virtù della sventura; la
    nazione serva si scoperse più generosa delle nazioni
    dominatrici e superbe: perocchè il dolore giova ai popoli
    come all'uomo. Inebriati della poesia del proscritto, i suoi seguaci
    furono alla docile moltitudine consiglieri d'umanità. Il
    popolo seppe vincere senza eccessi e senza vendette. E ora non se ne
    penta. Poichè se gli sfuggì poi di pugno la vittoria,
    non fu perchè fosse stato più magnanimo del nemico, ma
    perchè fu credulo e servile al falso amico. Che se gli
    avversari ora non hanno il senno d'imitare il virtuoso esempio, e si
    vanno contaminando d'inutili crudeltà, essi condannano
    sè e gli sgraziati loro satelliti a soggiacere, quando che
    sia, a rappresaglie che nessuno potrà condannare, nè
    compiangere.
    Per troppo ardore d'avventarsi contro i nemici stranieri, i quali
    potevano fare ben breve ostacolo a una gran nazione, l'Italia non si
    profittò dell'impotenza nella quale essi erano già
    caduti, onde estirpare frattanto i loro intestini fautori, e
    assicurarsi pel dì della battaglia il tergo dalle insidie.
    Essa dimenticò che l'arte della libertà è
    l'arte della diffidenza; che libertà è padronanza; e
    padronanza non vuol padrone. Diede le redini a chi non voleva che il
    carro andasse. Rinunciò ai principi l'iniziativa, appunto
    quando, dopo tant'anni, stava per metter le mani sulla vittoria.
    Le fratellanze di Romagna e le amicizie di Milano posero i
    più gelosi secreti e la vita stessa dei fratelli a
    discrezione d'un disertore; a discrezione d'un re ch'era stato per
    diciott'anni di regno l'ostinato e sanguinario loro nemico; e che
    poteva ogni mattino tradirle, non foss'altro, al gesuita il quale lo
    assolveva del sangue versato. E fu parimenti consiglio fallace
    quello di sospingere i pontefici e i re cogli applausi;
    poichè, conosciuta la loro natura che cede solo al timore,
    chi potè farli camminare di quel modo impunemente, avrebbe
    potuto farli camminare anche d'altro modo. Ma l'Europa non
    potè imaginarsi che tutto un popolo avesse così
    unanimemente e lungamente affettato una gratitudine e un'ammirazione
    che non doveva sentire. Credette adunque che Pio IX fosse un uomo
    inviato da Dio, e non un segnacolo artificiale, che non aveva senso
    se non da un accordo di congiurati. Laonde quando il tempo fu
    consumato, e i teatrali applausi dovettero aver fine, parve al mondo
    che l'Italia fosse ingrata! - Chi ha diritto, non ringrazia.
    Mai la causa della verità non vuolsi difendere colle armi
    della simulazione. Pur troppo abbiam gridato pontefice liberatore
    chi vegliava solo l'istante di trafugarsi nelle file dei nostri
    nemici, e frattanto stipendiava in Roma i sicari di Faenza. Abbiamo
    gridato, già prima della guerra, capitano liberatore chi era
    stato in campo una sola volta, e contro la libertà; nè
    aveva mai comandato eserciti, nè aveva animo da capitano, ma
    solo quella noncuranza del pericolo che ha ogni bifolco fatto
    granatiere. Abbiamo gridato filosofo liberatore, e condutto in
    trionfo per le città d'Italia, quel Gioberti ch'esule ancora
    per decreto di Carlo Alberto voleva assoggettare per forza
    all'ingiusto persecutore tutti i liberi uomini d'Italia; e
    minacciava la guerra civile a chi intendesse la indipendenza in
    altro modo: anzi in quel modo in che l'aveva già intesa egli
    medesimo; e rallegravasi poi con satanico gaudio di veder Venezia
    pericolante, e punita d'aver voluto riesser Venezia. E queste favole
    nostre avevano almeno il pregio d'esser generose, e di fare ai
    nostri avversari mal meritata cortesia; ma tali non furono poi
    quelle che da essi vennero rese in ricambio. Nè potremo mai
    perdonare l'accusa di sicari apposta a coloro che non furono
    prodighi se non del proprio sangue; nè gli infami sospetti
    seminati fra il popolo contro i cittadini più dimentichi di
    sè e delle proprie fortune, per farli credere stipendiati
    dall'oro di Ficquelmont, e far temere alla gente un'insidia
    austriaca nel nome stesso della libertà. E così il
    povero popolo, fra i nomi indegnamente levati a cielo, e i nomi
    iniquamente tratti nel fango, non seppe più chi gli fosse
    amico o nemico; e gridò più volte la ironica formula
    del vecchio toscano: viva la mia morte e muoia la mia vita.
    Ora qui voglionsi accennare almen di volo le profonde origini di
    certi avvenimenti. Quando giunse fulmineo l'annuncio che il Borbone
    vinto in Sicilia era vinto senza sangue anche a Napoli e giurava
    patti al popolo, Carlo Alberto, consigliato anche dall'Inghilterra,
    promise in fretta anch'egli il suo Statuto. Promise farsi re di
    cittadini; ma voleva restarsi re di gesuiti; epperò gli
    lasciava tranquilli nei loro nidi; e pasceva il popolo di parole e
    di feste, schermendosi intanto d'armare la guardia civica.
    Sopravenne più fulmineo l'annuncio della tempesta di Parigi;
    il popolo di Genova, che sapeva ov'era il nodo della sua
    servitù, proruppe contro i gesuiti; Torino seguì
    l'esempio. «Quegli avvenimenti determinarono il governo a
    istituire una guardia nazionale provisoria; ma fu prefisso il numero
    a cinquecento». «L'orage gronde trop près de
    nous», dettava il re al ministro San Marzano il 3 marzo; e
    diceva che «en conséquence» aveva deliberato di
    «compléter ses armements». En conséquence
    del moto popolare egli faceva ciò che non aveva fatto en
    conséquence dell'invasione di Ferrara, delle stragi di
    Milano, dell'occupazione di Modena e di Parma. Partivano dal
    Piemonte le poche centinaia dei gesuiti da messa; ma sotto l'ombra
    di quegli armamenti, anzi di quegli stessi cinquecento privilegiati
    alle armi civiche, si salvavano dall'ira popolare i gesuiti da spada
    e da toga; e i genovesi si lagnavano nei giornali che il sacrilego
    edificio rimanesse indistrutto. Rimasero i gesuiti in corte,
    rimasero nel governo, rimasero nell'esercito; e venti giorni dopo,
    seguivano il re al campo; gettavano la rete sulla guerra del popolo;
    davano agio al nemico di riacquistare le perdute fortezze, di
    rifornirle, di ricomporre in quella quiete imperturbata il disfatto
    esercito. Facevano anco quei sacrifici di sangue ch'erano necessari
    a conservar nei popoli l'illusione d'esser difesi; spingevano gli
    infelici soldati «nell'imbuto di Santa Lucia» come lo
    chiamò il general Bava; divagavano i popoli col cicaleccio
    della fusione; richiamavano i volontari dal Tirolo; abbandonavano i
    toscani a Curtatone; abbandonavano i romani a Vicenza; perdevano
    mano mano tutte le provincie; infine, il 4 agosto, Lazari, il capo
    della polizia sarda, andava al campo di Radetzky a patteggiare la
    consegna di Porta Romana; la sedizione era finalmente compressa; le
    acque torbide si raccoglievano nel pristino letto. L'opera dei
    gesuiti fu assecondata dalla congrega diplomatica; la quale non
    poteva, per così poca cosa, uscire dal patto del 1815,
    ch'è la legge dell'Europa, finchè l'Europa medesima,
    tutta rinnovata, non si stringa in altro patto.
    E ora vogliamo far cenno di quella unità nazionale, a cui
    molti generosi parvero quasi posporre la libertà. Certo, chi
    miri a qual mole straniera si dovesse far fronte, non si farà
    meraviglia che sembrasse necessario contraporvi tutta l'Italia, o
    almeno quella maggior parte che si potesse, e quanto più si
    potesse saldamente unita. E anche in ciò si vede, come nel
    rimanente, l'effetto della nazional reazione contro l'artificiale
    centralità straniera. Ma i più andarono errati,
    giudicando che la forza militare si misurasse a numero di popolo, e
    imaginandosi d'aver finito la guerra, quando fossero riesciti a
    stivare sotto la predella d'un trono dodici o quindici milioni di
    gente. Potevano ben vedere come il regno di Napoli fosse il doppio
    quasi del Piemonte, e non fosse più forte. E il Piemonte
    doppio della Svizzera, e non diviso, ma saldamente stretto in una
    sola mano, e non però a lunga pezza sì forte. E dopo
    la cabala che si compiè colla farsa dell'Urbino il 29 maggio,
    il Piemonte che dettava la fusione col pretesto d'esser più
    valido a spacciar la guerra, si trovò da quel momento
    più debole, per timore ch'ebbe Torino di perdere i vantaggi
    di regia sede e le briciole della regia mensa, e per timore ch'ebbe
    la corte di non aver braccio a infrenare la improvisa folla dei
    nuovi sudditi, non ancora ben maceri e fracidi nel gesuitico lezzo.
    E quindi si lasciarono ir perdute, in giugno, le quattro provincie
    venete prima d'averle acquistate; e in luglio, al primo infortunio,
    si lasciarono andar perdute l'altre provincie e i ducati. E il 5
    agosto ai generali di corte parve mala grazia nei milanesi che non
    si sottomettessero subito e di buona voglia ai barbari, quando
    così pareva e piaceva a Sua Maestà. Sembrava quasi che
    l'abbandonare vilmente la guerra poco importasse. Chi doveva volere,
    non voleva. Ora, il primo principio di forza nelle cose umane
    è la volontà, e non il numero degli uomini che da
    quella volontà dipende. E non fu il numero dei battaglioni,
    che poi condusse, senza contrasto, gli austriaci in Mortara,
    intercidendo l'esercito piemontese dal regno; e che poi gli condusse
    con minor contrasto ancora in Alessandria, quando pareva bello agli
    eroi di corte andar piuttosto a malmenar Genova, perchè
    voleva continuata virilmente la guerra. Due volte cadde il regno che
    aveva i milioni di sudditi, intanto che Venezia, sola, e povera, e
    levatasi esangue dal sepolcro, durò combattendo, finch'ebbe
    pane. E in altri tempi, Venezia stessa con angusto dominio aveva
    durato contro tutta Italia e tutta Europa congiuratagli contro dal
    pontefice; e aveva durato più secoli contro l'imperio
    ottomano. Pur s'udirono fra noi molti deridere, con Gioberti, le
    republichette. E pur troppo, per male cure di lui medesimo, Venezia
    era rimasta sola e povera republichetta di centomila abitanti. Ma
    aveva quell'animo che i satelliti regi non poterono infondere alla
    Sicilia venti volte più popolosa. Un diminutivo non è
    una ragione, direbbe il savio Bentham. E la Svizzera medesima non
    è forse un fascio di ventidue republichette? anzi, diciam
    pure, di venticinque? E se dimani il Vallese e Friburgo si
    suddividessero come Appenzello e Basilea, forse verrebbe rimossa la
    cagione di qualche discordia; e certamente non perderebbe la patria
    un sol difensore. Le republichette svizzere bastano alla loro
    difesa; e l'Italia che potrebbe avere dieci volte più armati,
    con ben maggior riparo di lagune e di maremme, e di fiumi e d'isole
    e di fortezze e di navi, l'Italia non basta. Convien dunque, come
    facevano i nostri antichi, cercare altrove che nel numero il
    principio della forza; riporlo sopratutto nella volontà;
    cioè in questo che chi comanda abbia la medesima
    volontà, o a parlar più mondano e più vero, i
    medesimi interessi di chi obedisce. Non sono i soldati, nè le
    armi, nè le navi, nè il buon volere del popolo, che
    mancarono al re di Napoli per difender l'Italia; ma i suoi interessi
    non erano quelli della nazione; nè tali erano quelli del
    papa; e così dal più al meno, quelli d'ogni altro
    potentato d'Italia. È vano e puerile il lagnarsi ch'essi
    abbiano fatto ciò che avevano naturalmente a fare; come fu
    vano e puerile lo sperare che avrebbero fatto fuor della loro
    natura. E qui fu l'errore fondamentale «di quel ridicolo
    amoreggiarsi fra principi e popoli», nel quale gli innamorati
    erano solo da una parte. Qui fu l'errore dell'iniziativa permessa ai
    principi, e del comando lasciato ai loro satelliti. Qui fu l'errore
    dell'unità, da conseguirsi col persuadere un principe
    «di codarda e fiacca natura» a divenir magnanimo e
    deliberato. Chi è nato a far le grandi imprese, non aspetta
    che altri lo consigli e lo incalzi.
    Il numero delle parti non importa, purchè abbiano tutte egual
    padronanza e libertà: e l'una non abbia titolo a far servire
    a sè alcun'altra, tirandola a sè, e distraendola dal
    nodo generale. Tra la padronanza municipale e la unità
    nazionale non si deve frapporre alcuna sudditanza o colleganza
    intermedia, alcun partaggio, alcun Sonderbund. I
    «sonderbundi» dell'Italia sono quattro: il borbonico di
    otto milioni e più; l'austriaco di sei, e se lo si considera
    anche arbitro dei ducati, poco meno di nove; il sardo di cinque o
    poco meno; il pontificio di tre. Queste segreganze sono tutte
    nemiche tra loro: le prime perchè aspirano a ingrandirsi a
    spesa delle altre: l'ultima, perchè sa d'essere insidiata da
    tutte. E così hanno tutte interesse a guerreggiarsi, e godono
    ampiamente dell'altrui sventura e dell'altrui disonore. Qual
    più grato adulatore alla corte di Torino di colui che
    maledice al bombardator di Messina? Qual più lieto suono al
    re di Napoli che quello delle infamie del Lamarmora a Genova? E
    così la Sicilia maledice a Napoli; e la Sardegna e la Liguria
    maledicono a Torino; e i popoli sono maledetti dai popoli per colpa
    dei loro padroni. Le discordie, che tanto si vantano delle
    republiche del medio evo, erano della medesima natura; perchè
    nessuno allora si era posto in mente di collegar le città in
    nazione; e di più vi soffiava per entro il pontefice da una
    parte, e vi aveva braccio l'imperatore dall'altra; perchè i
    prelati e i baroni abitavano le republiche come forestieri, pronti a
    sconnetterle e turbarle, non a obedirle e difenderle. Onde anche le
    republiche erano costrette a fare come i tiranni; e vi procuravano
    sicurtà e potenza, assoggettando a sè le città
    vicine, e togliendo loro la sovranità. Pisa era nemica a
    Genova, principalmente perchè ambedue volevano signoreggiar
    la Sardegna. Nessuno pensava a que' tempi che i sardi pure erano
    italiani e fratelli, e che dovevano unirsi alla madre Italia, non
    coll'obedire a Genova e a Pisa, ma col seder seco loro, eguali e
    padroni, nel congresso di Roma. Gli odi delle republiche provenivano
    dalla conquista, dalla fusione, non dalla libertà.
    E anche le republiche svizzere, nate a caso e a caso collegate come
    le nostre, avevano allora sudditi svizzeri, e li opprimevano, e ne
    facevano pretesto di ambizioni e di guerre. Ma questi sono errori
    dei secoli andati; e ora elle son tutte eguali; nè alcuna
    republica svizzera potrebbe mai trovar modo d'imporre i suoi
    magistrati alla republica vicina; le altre tutte si opporrebbero;
    non potrebbe il tutto consentire che alcuna parte si frapponesse fra
    esso e un'altra parte; nè alcuna parte avrebbe forza o
    speranza di riluttare al tutto. Con siffatto principio, e colla
    nuova coscienza di fratellanza e di nazionalità che
    l'esperienza dei secoli e la scola della sventura, e le ingiurie
    degli stranieri infusero all'Italia, nulla sarebbe a temersi se
    fossero le republiche pur minute come nella Svizzera. Tanto maggiore
    sarebbe in loro la necessità di abbracciarsi, al fine di
    proteggersi in terra e in mare contro le colossali potenze del
    secolo, e di esercitare il commercio fraterno in più vasto
    campo, e di deliberare leggi uniformi e strade e monete, e di
    accomunarsi i diritti privati, salva sempre la intera padronanza
    d'ogni popolo in casa sua. Insegnò Machiavelli che un popolo,
    per conservare la libertà, deve tenervi sopra le mani. Ora,
    per tenervi sopra le mani, ogni popolo deve tenersi in casa sua la
    sua libertà. E poichè, grazie a Dio, la lingua nostra
    non ha solo i diminutivi, diremo che quanto meno grandi e meno
    ambiziose saranno di tal modo le republichette, tanto più
    saldo e forte sarà il republicone, foss'egli pur vasto, non
    solo quanto l'Italia, ma quanto l'immensa America.
    Il lettore si sarà più d'una volta sentito correre al
    pensiero questa dimanda: se Mazzini voleva dare al re la corona
    d'Italia, s'egli aveva dettato nel 1831 il programma che il re
    adottò nel 1848, perchè i servi del re lo predicavano
    frenetico republicano? perchè lo perseguivano a morte?
    Diremo. Il regno che Mazzini voleva, era un regno quale la Francia
    aveva sperato da Napoleone, quale Roma antica aveva sperato da
    Cesare; non regno di schiavi decorati, e di prelati oppressori, e di
    gesuiti eredipeti, di giudici venali, di gendarmi, di censori, di
    spie; ma regno di cittadini armati e deliberanti: il regno del
    merito presieduto da un eroe. «Ponete i cittadini a custodia
    delle città e delle campagne e delle vostre fortezze;
    liberato in tal guisa l'esercito, dategli il moto; riunite intorno a
    voi tutti coloro che il suffragio publico ha proclamato grandi
    d'intelletto, forti di coraggio, incontaminati d'avarizia e di basse
    ambizioni». - Ora questo non era il regno di Sardegna:
    «il quale si vantava d'esser composto d'un re che comanda,
    d'una nobiltà che governa, e d'un popolo che obedisce».
    Tutti gli esseri malèfici che si pascevano delle corruttele
    della vetusta monarchia, i gesuiti sopratutto, gridarono alle
    orecchie del re ch'era un'insidia, un tradimento, una sceleraggine;
    e vollero da lui pegno di sangue contro gli innovatori. E siccome
    fitte erano le tenebre della publica opinione, e il nome di
    republica, non ostante la vicinanza delle valli svizzere, erasi
    artificiosamente associato ad ogni sorta di fatti atroci e luride
    nefandità, così perchè nessuno volesse il nuovo
    regno, bastò l'andar predicando ch'era la republica!
    Questo codardo vezzo d'accumulare infamia sul nome republicano venne
    coltivato dal Gioberti, che imaginò d'accoppiare nelle ignare
    menti la republica e l'Austria; onde non si parlava mai di
    republicani, che tosto non si accennasse all'oro di Ficquelmont che
    li sfamava. E ogni qualvolta i regi lenoni incontrassero uomo che
    disdegnasse prostituirsi, volendo punirlo e torgli ogni buona fama,
    come nell'ignoranza loro speravano, facevano scrivere su per le
    muraglie, o nei giornali del Bianchi-Giovini e dell'avvocato Papa,
    ch'egli era un republicano! E molti v'erano che avevan sortito dalle
    mani del creatore il dono d'un'anima republicana; pure, non lo
    avevano mai scritto, e forse nemanco erano a ciò deliberati
    in sè medesimi, e certo non ci erano giurati in fazione
    republicana. Ma quando, per oneste ripulse date a importuni
    incettatori, si vedevano additati alle genti come republicani, non
    avevano poi la viltà di negarlo; anzi talora per magnanimo
    sdegno se ne vantavano. E da quel dì riputavano debito
    d'onore d'operar come tali. E così la mano di quegli stupidi
    satelliti iniziava il ruolo dei repubblicani; poneva le fondamenta
    della republica. E quanto più appariva chiaro che la vetusta
    monarchia non poteva rigenerarsi, e voleva ad ogni modo, anche sotto
    il belletto costituzionale, regnare coi gesuiti e coi censori e
    colle spie, il numero dei conversi alla nuova fede cresceva.
    Sì: come la casa d'Austria ha il destino di eccitare per
    ripugnanza la nazionalità italiana, così la casa di
    Savoia (amica o nemica dell'Austria, poco importa; e chi lo sa?), la
    casa di Savoia, per quella perpetua e insanabile sua titubanza a
    compiere i voti della nazione, ha il destino di promovere l'italiana
    libertà.
    Però se v'erano molti uomini d'animo republicano in Italia,
    essi non avevano dottrina republicana. Avevano ben posto il loro
    amore nel popolo, ma la loro speranza nel re. Avevano pugnato, se
    non per lui, certo con lui. Ma quando ebbero vista la mal voluta
    guerra, le intempestive cupidigie, l'abbandono di Curtatone e di
    Vicenza, la consegna di Milano, svanirono le speranze; la coscienza
    republicana si riscosse; un'altra idea balenò alle menti. E
    il re, anzichè attendere a ristorare in tempo la guerra
    all'austriaco già vinto in Ungaria, anzichè inviar
    pane a Venezia, sognava l'imperio di Roma. E gli incauti suoi
    partitanti insidiavano la Toscana; invadevano sul cadavere di Rossi
    il ministerio romano; e quasi importasse sopra ogni cosa far vacante
    il trono dei Cesari, favorivano la fuga del pontefice.
    Allora Mazzini, omai fastidito, dettava dal suo ritiro di Lugano nei
    Ricordi ai giovani l'ultimo disinganno della guerra regia. E una
    mano amica gli scriveva d'uscire dalla latebra del prescritto e
    avviarsi a Roma, ove doveva svolgersi ben altramente il nodo
    dell'italica unità. E infatti negli ultimi di dicembre, egli
    rivarcava le Alpi con ben altro animo che non ne fosse calato; e per
    la Elvezia e la Francia, con lenti e insidiati passi, giungeva al
    Mediterraneo.
    Intanto la necessità ineluttabile delle cose, la natura
    romana e i consigli dei repubblicani nati, avevano fatto erumpere
    improvisa la romana republica. Fu l'8 di febraio. E già, il
    12, Roma porgeva una mano materna a Mazzini; lo chiamava suo
    cittadino; il 25, lo deputava all'assemblea; e il 5 marzo accoglieva
    ospitalmente la sua venuta. In quel giorno si compieva appunto
    l'anno, dacchè, l'esule aveva stretto in Parigi cogli scaltri
    e malaccorti facendieri del re il patto dell'Associazione italiana.
    Qual mutamento di cose e d'uomini! Quanto veloce è il passo
    del secolo, che arreca nuovi pensieri e nuove sorti al genere umano!
    Intanto che il popolo di Vienna sanguinava per la libertà, i
    cortigiani avevano continuato fra noi il grido: fuori i barbari:
    l'Italia fa da sè. Ma i fatti di Messina, di Genova, di Roma,
    mostravano che barbaro può suonare tanto tedesco, quanto
    francese, quanto italiano; e che dei barbari ogni nazione ha i suoi.
    La guerra d'Italia è parte della guerra civile d'Europa. La
    servitù d'Italia è patto europeo; l'Italia non
    può esser libera che in seno a una libera Europa. Allora
    apparve manifesto doversi sancire, contro l'alleanza dei pochi
    oppressori, l'onnipotente alleanza degli oppressi.
    Allora Mazzini compiè l'ardua sua missione, dettando con
    Ledru-Rollin e Daraz e Ruge, un nuovo patto che stringa Italia, non
    solo alla Polonia e alla Francia, ma alla stessa Germania, serva
    volente finora, e quasi sacerdotessa della servitù. E
    così, dalle opposte parti e dalle più nemiche genti
    giungono i peregrini al santuario commune della libertà!
    Qual è ora l'ostacolo alla libertà? La soldatesca. Una
    nazione che mette quattrocento mila gladiatori ad arbitrio d'uno o,
    di pochi, sarà sempre serva degli altrui voleri. E le stesse
    forme della libertà diverranno occasioni di corruttela. La
    Francia, si chiami republica o regno, nulla monta, è composta
    di 86 monarchie, che hanno un unico re a Parigi. Si chiami Luigi
    Filippo o Cavaignac: regni quattro anni o venti: debba scadere per
    decreto di legge o per tedio di popolo: poco importa: è
    sempre l'uomo che ha il telegrafo e quattrocento mila schiavi
    armati. La condizione suprema della libertà fu intesa solo
    dagli svizzeri e dagli americani: militi tutti e soldato nessuno.
    In Europa, quattro milioni di giovani vengono divelti dal seno delle
    nazioni, e armati e ammaestrati contro le loro patrie. Robusti per
    età e per salute, vivono, oziosi, delle miserie altrui;
    divorano quattro mila milioni. È il frutto di cento mila
    milioni di patrimonio. Quel giorno che l'Europa potesse, per
    consenso repentino, farsi tutta simile alla Svizzera, tutta simile
    all'America, quel giorno ch'ella si scrivesse in fronte Stati Uniti
    d'Europa: non solo ella si trarrebbe da questa luttuosa
    necessità delle battaglie, degli incendi e dei patiboli, ma
    ella avrebbe lucrato cento mila milioni. Eppure gli avari cospirano
    coi re!
    
    Questi sono i pensieri che nel ricorrere i documenti, ci vennero di
    volo raccolti. Ma troppo lunga opera sarebbe il dire tutto
    ciò che ci sentiamo destar nella mente. Legati al duro
    officio d'essere raccoglitori, cediamo ad altri la più libera
    e grata impresa di connettere le sparse materie, e meditare
    riposatamente, a più prossimo utile della patria e del genere
    umano.
    II.
    Avviso al lettore.
    A tenore del manifesto, stavamo per iniziare questa raccolta, col
    volume concernente l'insurrezione di Milano, quando da operosi
    amici, a compimento del nostro invito, ci pervennero alcune carte
    che riescivano ad illustrazione degli antecedenti e delle cagioni di
    quel fatto. Pongono esse in luce influenze e pratiche, le quali
    giacquero finora inosservate, anzi affatto ignote; e collegano gli
    eventi di Milano col moto generale d'Italia, dichiarando qual parte
    vi avessero le secrete società, e in quali mani queste
    fossero venute, e per quali aspettazioni e promesse si fossero
    indutte a promovere la potenza di chi era stato lungamente loro
    nemico.
    Ne parve adunque opportuno, poiché tali interessanti materie
    ci erano pervenute ancora in tempo, darle a preferenza nel primo
    volume, come veramente l'ordine naturale delle cose consigliava. Ma
    giudicammo altresì necessario raccogliervi intorno quegli
    altri fatti e scritti che potevano rischiarare appieno i preliminari
    della rivoluzione.
    Di sommo momento a tal uopo ci parve una cinquantina di documenti
    diplomatici, che abbiamo attinto agli atti del parlamento
    britannico. E sono alcuni di Metternich, altri di Palmerston, di
    Guizot, di Nesselrode e dei loro incaricati in Torino, Venezia,
    Milano, Firenze, Roma, Napoli, Ancona, Ferrara, onde si palesa quali
    governi stranieri avversassero ogni provvidenza e giustizia in
    Italia, e quali più o meno tepidamente le favorissero.
    Di eguale importanza all'uopo nostro ci parvero i documenti in parte
    inediti delle rimostranze fatte in quel tempo dai magistrati e dai
    corpi scientifici, nonché delle pertinaci negative date dalle
    autorità straniere.
    È poi a notarsi che i generali austriaci si valevano senza
    secreto di qualche gazzetta estera, sì per inculcare alla
    credula Europa la necessità delle violenze che commettevano,
    sì per associare ai loro odii e alle loro cupidigie la
    vanagloria germanica, sì, finalmente, per provocare la
    gioventù italiana con parole quasi di sfida. Le quali, per
    verità, non furono ultimo incentivo dei fatti che seguirono.
    Insieme a questi scritti degli austriaci collochiamo alcune carte
    smarrite poi nella loro fuga; le quali dimostrano vie più il
    loro animo, mentre palesano lo stato del loro esercito, e i disegni
    che fin d'allora avevano d'invadere la rimanente Italia.
    Per egual modo si pubblicavano allora dall'opposta parte nei nuovi
    giornali toscani, romani e piemontesi tanto gli appelli, gli inviti
    e le proteste che si venivano facendo dai promotori della
    rivoluzione, quanto le notizie delle dimostrazioni e degli altri
    fatti con cui manifestava il popolo il nuovo ardore ond'era
    compreso. Tali scritti si fornivano per lo più, e non senza
    continuo pericolo, da coloro stessi che nei fatti avevano parte
    principale; onde sono a considerarsi come veri atti
    dell'insurrezione.
    Dalle stesse fonti abbiamo raccolto varie date che dimostrano le
    perpetue titubanze di chi voleva sciogliere l'arduo proposito
    d'essere assoluto e retrogrado in casa sua, e liberalesco e
    progressivo in casa de' suoi vicini.
    Ciò chiarisce eziandio qual fondamento avesse la ostentata
    lega dei principi italiani, onde s'illudevano a quel tempo i popoli,
    desiderosi soprattutto di forza e d'unità.
    Altri documenti palesano quali secrete intelligenze fossero sempre
    tra il pontefice e l'Austria, e qual favore desse a questa anche
    l'episcopato: onde appare propensa alla causa del diritto nazionale
    e della giustizia solo quella parte di sacerdozio che, essendo
    popolo e vivendo col popolo, non è in necessità
    d'adulterare per ambizioni mondane il testo dell'evangelio.
    Finalmente, per dimostrare da quali opinioni venissero animati
    coloro che diedero maggior opera all'insurrezione, abbiamo posto da
    una parte alcune scritture di Gioberti, dall'altra alcune di
    Mazzini, anzi anche una lettera di Garibaldi. Fanno prova come
    dapprincipio, essendo assorti gli animi nell'unico pensiero
    dell'indipendenza e dell'unità militare, non s'imponesse ai
    capi degli eserciti altra condizione che quella della vittoria. E le
    opinioni repubblicane per verità si svolsero solo in
    appresso, a misura che l'esperienza dimostrava come per la via
    primamente eletta la nazione non potesse compiere il supremo suo
    voto. Alcuni dei documenti qui raccolti sono inediti, altri sono
    diligentemente estratti da giornali e libri di varie lingue, che
    nessun privato può facilmente aver sotto mano, e che, anche
    avendoli, non potrebbe senza lunga fatica trascrivere e ordinare. Il
    complesso è tale che nessuno, ove lo percorra con attento
    animo da capo a fondo, potrà esimersi dal mutare in
    considerevol parte le opinioni sue intorno a molte delle cose e
    molti degli uomini che le hanno operate. E noi pure, cammin facendo,
    ci siamo avvenuti in cose che ci tornarono nuove e inaspettate.
    Onde, solo a opera compiuta, abbiam potuto ritrarci in mente
    l'intero concetto del volume che venivamo durante la stampa
    compiendo. Ma crediamo fermamente che chi vi porga la medesima
    attenzione, non possa in fine trovarsi co' suoi pensieri molto
    lontano dai nostri. Pertanto desideriamo che il lettore, solo dopo
    avere perlustrato tutti i documenti, si dia la briga di leggere le
    nostre Considerazioni. E così non le abbiamo prefisse come
    introduzione o prefazione al volume, prendendo quasi in anticipato
    pegno la coscienza del lettore; ma le abbiamo relegate in fine.
    Altri dirà tuttavia che scegliendo di questo modo documenti e
    citazioni si potrebbero fare con altro intento altre raccolte, le
    quali riescirebbero ad altro significato. Ebbene: noi invitiamo
    l'osservatore a far ciò che dice: a raccogliere ciò
    che noi avessimo intralasciato: a compiere ciò che avessimo
    mutilato: a raddrizzare ciò che avessimo alterato: a mettere
    in iscritto ciò che dalla sua fatica verrebbe a risultare in
    opposto alla nostra. E qualora il suo libro contenesse tante cose
    importanti, inedite o poco note, quante ne contiene il nostro, noi
    ci offriamo a espiare il nostro errore pubblicando in seguito al
    nostro volume il suo, affinchè possa il disinganno giungere
    ovunque sarà giunto l'errore.
    Noi offriamo ai nostri cittadini quanto con private forze ci venne
    fatto di adunare. E ora sfidiamo i nostri avversari a osar di fare
    dal canto loro altrettanto, e aprire agli scrittori i copiosi loro
    archivi. Li sfidiamo anche solo a desistere dalle codarde
    persecuzioni di cui fecero segno quei buoni cittadini, che,
    somministrando carte inedite alla nostra raccolta, intesero di
    rendere alla nazione ciò che alla nazione appartiene. E
    siccome non temiamo le loro opere, anzi ne facciamo gran caso, e le
    citiamo a generosi sorsi, così li invitiamo ad avere lo
    stesso coraggio, e non sottrarsi con arti inquisitorie al pubblico
    paragone.
    18 settembre 1850.
    
    II
    Dopo il febraio del 1848, l'esercito austriaco in Italia aveva
    ricevuto l'incremento d'una batteria, due squadroni e dieci
    battaglioni; dei quali un solo italiano.
    V'erano dunque allora in Italia 45 grossi battaglioni tutti
    stranieri al Lombardo-Veneto, 38 dei quali interamente tedeschi,
    slavi e, magiari, con cinque grossi reggimenti di cavalleria delle
    medesime nazioni. Oltre alle artiglierie stanziali, v'erano 19
    batterie da campo, tutte in mani tedesche e slave. Erano forestieri
    lo stato-maggiore, le amministrazioni, il genio, il treno, i
    pontonieri e tutte le altre armi accessorie. Erano codeste forze,
    animate tutte allora da inveterato odio al nostro nome, eccetto tre
    battaglioni del Tirolo e quattro dell'Illirio, in parte italiani. I
    45 battaglioni erano completi; in generale contavano poco meno di
    1200 uomini, alcuni anche di più; solo i tirolesi 900;
    potevano contare in tutto 52 mila uomini: la cavalleria 5700:
    l'artiglieria 3000; comprese le altre armi, il complesso di tutti
    quei soldati stranieri al nostro regno potevasi stimare a più
    di sessantamila. Nessun'altra potenza erasi vista imporre, a uno
    Stato di sì poca ampiezza, tanta mole straniera.
    Oltreciò, dei battaglioni lombardo-veneti erano in patria non
    meno di 22, con officiali la più parte d'altra lingua.
    V'erano ancora i cannonieri marini: il battaglione di marina: un
    reggimento di gendarmi: un battaglione di polizia, in qualche parte
    straniero, e tutto nemico. Davano mano alla custodia dei confini e
    delle città, oltre ai gabellieri, alcune migliaia di guardie
    militari di finanza: la sola provincia di Como ne aveva 900. E
    intrecciate ai presidii austriaci sulla destra del Po, aiutavano a
    reprimere il popolo le milizie ducali di Modena e quelle di Parma,
    già in recenti tumulti messe a prova di sangue. Tutti questi
    italiani potevano valutarsi a più di quarantamila; e
    sinchè stavano ferme le armi straniere, erano necessitati da
    disciplina, interesse e timore a eguale obbedienza.
    Fatto ogni computo, v'erano il 18 marzo ai cenni di Radetzky in
    Italia, tra stranieri e italiani, più di centomila soldati.
    Ed egli, colla consueta ostentazione, lo scriveva quella sera
    medesima ai municipali di Milano: «Avendo a mia disposizione
    un esercito agguerrito di 100 mila uomini e 200 pezzi di
    cannone». Possedeva codesto esercito le tre grandi piazze
    d'armi di Mantova, Verona e Venezia, intorno alla quale solamente si
    numeravano 72 punti muniti d'artiglierie e di navi. Possedeva, a
    destra del Po, i forti di Comacchio, Ferrara, Brescello e Piacenza;
    a sinistra, Pizzighettone, Anfo, Peschiera, Legnago, Càorle,
    Osopo e Palmanova; e inoltre i castelli, atti pure contro il popolo
    a qualche difesa, di Milano, Pavia, Bergamo, Brescia, Reggio,
    Modena, Rubiera e altri assai.
    L'esercito non era assopito e illuso da pensieri di pace, ma
    sospettoso, vigile, tracotante: acceso dalle declamazioni dei
    generali, che solo dal sangue speravano onnipotenza e tesori: acceso
    dall'ira palese dei popoli, che ardevano di vendicare le sanguinose
    soverchierie di Milano, di Parma, di Padova, di Pavia.
    Tutto questo formidabile apparato si vide, entro un centinaio d'ore,
    conquiso come in pugna campale. Che anzi, delle fortezze medesime,
    rimasero intatte solo Peschiera, Legnago e Ferrara; la custodia di
    Mantova e di Verona si ebbe a dividere con guardie civiche e con
    soldati ribelli; Venezia, Palmanova e le altre, nonchè le
    artiglierie, le polveriere, le armerie, gli arsenali e le navi,
    furono perdute. Al termine di cinque giorni, rimase di quei
    centomila schiavi armati, all'obbedienza dell'Austria, poco
    più d'un terzo. E questo era strappato dalle sue sedi:
    disperso, senza tende e senza viveri, sopra trecento miglia di
    strade guaste e interrotte: senza avvisi, e in parte, senza comando:
    trascinando seco feriti e donne; contaminato e funestato di rapine e
    di crudeltà; non osando più riposarsi nelle case, ma
    di fuori, nel fango e tra i fossati, fracido dalla pioggia le
    vestimenta e i calzari, rotto dalla fame, dalle veglie, dal freddo,
    dalle ferite, dai notturni terrori: avvilito dalla repentina
    impotenza de' suoi generali e del suo sovrano, e dall'improviso e
    quasi superstizioso terrore del popolo, che lo incalzava col suono
    delle campane e col nome di Dio. Pareva in quei giorni che, per
    esser uomo e poter combattere, fosse quasi necessario ripudiar
    l'abito e le ordinanze di soldato. Dopo le antiche sconfitte delle
    armi persiane, e la fuga di Barbarossa, non s'era mai forse mostrata
    così nuda al mondo la vanità della forza brutale.
    È vero che la vittoria del popolo non ebbe durevoli effetti;
    ma ciò non toglie che sia stata una vittoria, ciò non
    toglie che sia un fatto. E la forza che lo produsse, la forza che
    conquassò in poche ore quella faticosa compagine d'uomini e
    d'armi, fu cosa vera e viva. Ed è prezzo dell'opera
    esplorarla e descriverla; e chiarire d'onde fosse venuta: e
    congetturare se debba credersi interamente sfogata e spenta come le
    forze sotterranee che progettarono i basalti e le trachiti: o se
    giaccia inesausta nei recessi delle anime, donde a tempo e luogo
    prorompere a nuove evoluzioni. Per poco che si consideri, questo
    è fuori d'ogni dubio, che le forze belliche del nostro popolo
    non vennero, nemmeno in quei prodigiosi giorni, attuate se non nella
    minor loro parte. È certo anzi, che vennero raffrenate da
    quelle medesime influenze che parevano fomentarle. Quella
    successione d'eventi fu diversa nel suo complesso anche da
    ciò che parve a coloro stessi che vi ebbero maggior mano, i
    quali, assorti da quanto compievasi intorno a loro, non seppero
    ciò che a breve distanza accadeva.
    Si è narrato nell'altro volume, come in Milano i più
    autorevoli sommovitori mirassero quasi solo a far dimostrazioni.
    Agitavano Milano, per agitare col pericolo e collo strazio di Milano
    la Liguria e il Piemonte, onde col fremito popolare suscitar le
    ambizioni ad un tempo e i timori del re, volendo essi trascinarlo a
    regnare in Milano e stabilire, a loro potenza e gloria, una corte in
    Milano, poco importa se di voglia sua e de' suoi, o di
    necessità. Ma l'agitazione, che in mano a siffatti uomini
    sarebbe stata teatrale e vana, divenne verace e potente per opera di
    Radetzky. Il quale, colla nuova arroganza da lui permessa
    all'esercito, e colle sanguinose provocazioni, aveva esaltato nei
    popoli il senso della nazionalità, unica forza rivoluzionaria
    che fosse allora in Lombardia. Solo da pochi mesi aveva cominciato
    il popolo a presentire tutta la santità de' suoi diritti. Il
    nome di Pio IX aveva congiunto in uno la coscienza del fedele e
    quella del cittadino, le quali una dottrina sacrilega e vile aveva
    da tanti anni messe a contrasto. L'amor della patria non parve
    più delitto al cospetto di Dio. Si videro, in quella
    improvisa fede, piangere di gaudio vecchi onorati, che fin dalla
    gioventù avevano deposto appiè delli altari i
    più generosi affetti, e inclinata la fronte al decreto di Dio
    che li aveva voluti al mondo senza diritti. Epperò nel
    popolo, sciolto da quelli artificiosi lacci e conciliato colla sua
    ragione, ribolliva il sangue di quelli antichi suoi padri, che
    avevano affrontato i romani e i goti e i due Federici, e spezzato le
    corazze francesi a Parabiago, e le alabarde svizzere alla Bicocca.
    In mezzo a questi fieri sentimenti, cadde come scintilla sulla
    polvere la novella della fuga di Metternich e della libertà
    di Vienna. Ma quel riverbero di libertà non nostra parve ad
    alcuni più esoso della passata servitù; pensarono che
    potesse abbagliar gli animi: sedurli a qualche nuovo impasto
    d'italiano e di tedesco, il cui solo pensiero pareva un abominio.
    Non capirono che il sentimento nazionale era già più
    forte d'ogni paura o d'ogni lusinga; non pensarono qual poderoso
    soccorso sarebbe alla mente publica, dopo tant'anni, un raggio di
    libera stampa; non videro che la rimanente Italia abbisognava, se
    non d'anni, almeno di mesi, per ordinarsi nell'armi e nei pensieri,
    ed esser pronta sulla frontiera il dì supremo; non intesero
    che la guerra ci avrebbe infeudati immantinente a chi aveva
    bensì gli eserciti, ma non li aveva intesi a strumenti di
    libertà, e nemanco di guerra. I più precipitosi e
    improvidi si raccolsero a notturno consiglio; deliberarono di gettar
    fra il popolo, nell'indimani stesso, il segno della battaglia, certi
    che l'avrebbe accettata. Ma non considerarono che in siffatto caso
    era poi mestieri essere audaci; non perdere momento: nella notte
    stessa sorprendere i generali: arrestar tutti i corrieri: dar di
    tocco a tutte le campane: barricare i battaglioni entro le caserme,
    isolarli, affamarli: dare con una folla incessante d'avvisi
    l'allarme ad ogni provincia, affinchè, oppressi a furia di
    cittadini e contadini i suoi presidii, riversasse tosto la sua
    gioventù sulle vie militari e sulle piazze d'armi. Ora,
    ciò non si poteva fare, perchè nulla erasi preparato:
    non accordi: non armi: non denaro: sole e perpetue e gratuite
    dimostrazioni, e suono lontano di società secrete, delle
    quali il popolo nulla sapeva. Parve adunque assai, porgere occasione
    che la battaglia nascesse da sè. La rimisero alla dimane, a
    ora tarda. Volevano adunare il popolo intorno ai municipali, in cui
    ben sapevano non esservi alcun bellicoso elemento; pur tuttavia
    volevano battezzarli capi di guerra; aggiungervi anzi altra simile
    zavorra, e costruirne un governo autorevole; e confidavano poi di
    poterlo essi governare, e col bagliore di quei nomi allucinare la
    città, e con essa il regno e l'Italia.
    L'adunanza del popolo non doveva essere armata «almeno d'armi
    palesi; incalzata per avventura dalla soldatesca, si sarebbe
    disciolta e dispersa, ma per trovarsi armata alle 5 sulla piazza del
    Teatro». Così dovevano i cittadini cominciar la
    battaglia solamente se la soldatesca era in ordine per incalzarli e
    disperderli, dovevano cominciarla coll'abbandono della casa
    municipale e colla fuga, per ricominciarla in altro luogo cento
    volte men popolare e meno adatto, tra il Comando militare e la
    Polizia, ove la soldatesca vittoriosa avrebbe loro impedito
    d'arrivare.
    Il preside del municipio, Gabrio Casati, «fu l'ultimo al quale
    fu annunciato quanto doveva avvenire». Alle otto di quella
    stessa mattina lo s'informò officialmente, e quasi gli
    s'impose di recarsi al palazzo municipale. Egli scongiurava si
    sospendesse: si risparmiasse il sangue: il Piemonte, entro due
    settimane, avrebbe fatto la guerra all'Austria: promessa a lui fatta
    dallo stesso re.
    Casati, per evitare il pericolo, si avviò, prima dell'ora a
    lui prefissa, verso altra ed estrema parte della città,
    ov'era il palazzo del governo: «al governo, per conciliare,
    anzichè al municipio a promulgarne il decadimento». Si
    tentò d'impedire quell'improvisa passeggiata; ma fu
    impossibile sviare la folla. Colà giunto, il Casati si
    trovò inanzi a O' Donnell: si guatarono atterriti. Un
    granatiere alla porta aveva fatto foco: un colpo di pistola nel
    petto l'aveva steso a terra. L'onda del popolo aveva travolta e
    disarmata tutta la guardia. «Mentre il sangue suggellava la
    rivoluzione, Casati implorava qualche concessione. O' Donnell si
    scusava. Infine gli astanti lo costrinsero a sottoscrivere ed
    avviarsi prigioniero al Broletto. E quasi prigioniero era il Casati
    in mezzo alla turba; la quale, acclamando la rivoluzione, univa a'
    suoi gridi anche il nome di colui che contro animo, pallido,
    esterrefatto la seguiva».
    Scrive Carlo Clerici, giovane assai popolare in tutta la
    città: «Ci avviammo, e mi si disse da chi era stretto
    all'alta lega di nascondere, pel mio bene, la sciabola, il tutto
    potendo terminare ancora in una semplice dimostrazione. Ma un popolo
    non si move invano. E il nostro aveva deciso terminarla per sempre
    coll'Austria. Ad un prete che mi domandò se doveva far sonare
    le campane a martello, titubando altri, risposi di sì. E fra
    gli applausi, che alcuni ci facevano sin dai tetti colle tegole in
    mano, marciammo, sotto una pioggia di coccarde, ridenti e
    ardimentosi».
    Giunti a mezza via tra il Governo ed il Broletto, scontrarono una
    pattuglia, che al veder tanta gente la salutò ad ogni buon
    conto con polvere e piombo. Casati e O' Donnell si rifugiarono nella
    vicina casa Vidiserti. Così fu stabilito dal caso il quartier
    generale dei cittadini. Nei decreti dettati a O' Donnell erasi
    attribuita al municipio la polizia; e gli si concedeva di dare le
    armi della guardia di polizia alla guardia cittadina. Ora che le
    armi erano concesse, rimaneva d'andare a torle a chi le aveva. Fu
    inviato a tal uopo al direttore Torresani il delegato provinciale
    Bellati, e nulla ottenne.
    Era invasa di pattuglie tutta la città, tuonava il cannone,
    allorchè alle tre apparve sulle pareti un appello al popolo,
    per opera di quei medesimi che nella notte avevano decretato il
    combattimento. Invitavano i cittadini a proclamare «unanimi e
    pacifici, offrendo pace e fratellanza, ma non temendo la
    guerra», l'abolizione della polizia e delle leggi statarie, lo
    scioglimento dei prigionieri, la libera stampa, la guardia civica,
    una reggenza (erano memorie pertinaci del 1814), e infine, «la
    neutralità colle truppe austriache». Volevano dunque la
    guerra? o non la volevano? Se la volevano, perchè far
    inciampo alla furia del popolo con codeste menzogne di pace e di
    neutralità? Che se volevano veramente colla fratellanza delli
    oppressi soprafare gli oppressori, non bastava più rivolgersi
    al popolo: era mestieri appellarsi nelle loro favelle ai soldati:
    era mestieri sventolar subito in faccia alle attonite pattuglie i
    tricolori delle nazioni, o quell'unico colore che parla a tutte di
    libertà: gridare all'ungaro ch'egli era ungaro, al croato che
    i suoi figli erano in Croazia: dir loro che Metternich era fugito:
    che l'imperio non era più: che Radetzky non aveva più
    ordini, che non aveva più comando: che l'imperatore chiamava
    a far le leggi altra gente (ed era affisso ai canti delle vie): che
    ogni soldato ora tornerebbe in pace alla sua patria nel nome di Pio
    IX e della libertà: sommergere nel vino e nell'aquavite,
    nelli evviva a tutti, e nell'abbraccio ai fratelli, la coscienza
    militare e la paura del bastone: isolar gli officiali, o attrarli
    nel vortice, poichè v'erano pure in quelle file gli Aulich, i
    Meszaros, i Klapkanota: gettare nell'impotenza e nel disprezzo i
    vecchi i quali avevano decantato quelle spade invincibili che non
    potevano più sfoderare. Era pur grande il ridicolo di veder
    trionfante la rivoluzione a Vienna, a tergo di quei reggimenti che
    venivano a marce forzate a soffocarla in Italia. Era maggior ferita
    all'Austria sedurle un battaglione, che trucidarne quaranta. Ma per
    codesta guerra di fratellanza era mestieri che i Balbo, i Gioberti,
    gli Azeglio e gli altri non avessero insultato all'Europa, gridando
    in nostro nome guerra ai barbari, e che gli esuli, inspiratori dei
    secreti pensieri all'Italia, le avessero fin d'allora additato la
    formula fraterna dell'universale libertà.
    E che faceva intanto il consiglio dei generali, adunato nella
    cancelleria militare presso il Castello? Se l'animo loro fosse stato
    di conservar fedelmente al principe il più forte de' suoi
    regni, avrebbero dovuto lasciare che il governo civile e i
    magistrati urbani ventilassero fra loro le questioni d'ordine e di
    polizia: incasermare i militari, o meglio, accamparli in massa:
    domandare i viveri al municipio: evitare ogni conflitto, o avvenuto
    dissimularlo: non combattere se non per necessità, e da
    uomini onorati e umani: bellum iustum, pium. Poichè avevano
    gettato ai popoli tante minacce e tante sfide, qualcuno poteva
    spendere infine una parola di pace. Che se a questo passo ripugnava
    la superbia militare, dovevano farne interprete il governo civile, o
    quelle stesse congregazioni centrali che il sovrano allora aveva
    promesso di chiamare a consiglio.
    Nulla di tutto ciò. L'interesse dello stato non era quello
    dei marescialli avidi d'oro e d'arbitrio. Passò tutto quel
    giorno, senza che una parola onesta uscisse ad ammansar le ire che
    fremevano in tutti i cuori. Le novelle di Vienna furono gettate
    villanamente ai popoli, aride e nude quali il telegrafo le aveva
    sillabate. - «La presidenza dell'imperiale regio governo si fa
    un dovere di portare a publica notizia il contenuto d'un dispaccio
    telegrafico, in data di Vienna 15 corrente». - Le
    congregazioni centrali dovevano adunarsi pel 3 luglio. Perchè
    non prima? Perchè non subito? A un popolo, da tant'anni
    deluso in ogni suo voto, quell'appuntamento, dato il 15 marzo pel 3
    di luglio, parve una derisione. Parve l'ultima goccia dell'odioso
    calice.
    Le novelle di Vienna tornavano più contrarie ai governanti
    militari che ai civili. A questi presagivano solo nuovi riti
    amministrativi: più di ciance e meno d'inchiostro: e a chi di
    loro avesse ingegno promettevano più onorata fortuna. Ma ai
    marescialli, che si erano giurati alli insegnamenti russi e li
    avevano già ripetuti nel sangue, l'èra parlamentare
    dissipava quelle crudeli speranze. Per poco che l'Austria dovesse
    cedere alla necessità de' tempi, essa doveva richiamar tosto
    dall'Italia coloro che l'avevano tratta a quelle opere di sangue,
    dalle quali ella aveva sempre saputo astenersi. E ciò era
    anche necessità di finanze, poichè Radetzky dilatava
    ogni giorno la voragine; e avendo già 80 mila soldati da
    pascere, ne domandava almeno altri 70 mila. «L'esercito attivo
    in Italia non dovrà essere minore di 150 mila uomini».
    «Già da anni il maresciallo domandava 150 mila uomini,
    come forza assolutamente necessaria». Dimandava inoltre di
    cinger Milano di sedici fortezze, che il generale Hess voleva
    «con moltissime feritoie rivolte verso il Duomo». Ma,
    come scrive il general Willisen, «Vienna si ritraeva per
    economia». Epperò i militari fremevano contro i
    governanti civili; e Hess li appellava «miserabili
    faiseurs». Ora, non potendo aver altre armi per sè,
    Radetzky aveva dimandato licenza di disarmare i popoli. Il che
    mostra come la dimanda ch'ei faceva di nuovi soldati non fosse solo,
    come altri scrisse, «nell'ambizioso generale la smania di
    vedersi capo d'un esercito più numeroso». Doveva
    piuttosto essere sagace estimazione della natura dei popoli,
    ciò ch'è il contrario di quanto ne sentenziò
    l'arrogante scrittore di Custoza. Il disarmo in quei momenti era
    sembrato al governatore Spaur pericoloso, e quasi impossibile;
    epperò i generali l'avevano fatto richiamare a Vienna, ove
    l'avevano falsamente fatto credere odiato dai popoli. Tuttavia il
    governo esitava ancora, consigliato a ciò da quelli che lo
    avevano servito con buon esito in altri tempi e con altra politica.
    E gli eventi di Vienna diedero autorità ai consigli civili.
    Laonde Radetzky scrisse dal Castello la notte del 18 marzo:
    «Si credeva che le notizie telegrafiche avrebbero calmato il
    popolo milanese; e il signor governatore conte O' Donnell
    m'indirizzò richiesta (Ansuchen) ch'io non ponessi in moto le
    forze militari, se non nel caso che venissi a ciò
    dall'autorità civile addimandato (aufgefordert)». E
    perciò fu costretto il maresciallo, in quella stessa mattina
    del 18, a dare ai soldati quell'ordine del giorno che parve strano,
    ingiungendo loro che stessero testimoni tranquilli delle
    dimostrazioni del popolo; ordine che non proveniva già da
    «cecità» del generale, essendo la sua
    cecità di contraria natura; ma da dura forza che lo legava ai
    voleri dell'autorità civile, e da nuova responsabilità
    verso gli ignoti governanti di Vienna. E questa disdetta era per
    Radetzky un primo passo sul pendio del discredito e della
    destituzione, se i capi del moto nazionale avessero avuto mente da
    intendere ciò ch'era a fare. Infine, a chi voleva combattere
    non era mai superfluo pigliarsi il tempo necessario per armarsi e
    ordinarsi, dacchè fra tante vane agitazioni non vi si era
    menomamente pensato. E a ciò mirava il programma del giornale
    il Cisalpino, scritto nella notte del 17, e compendiato in quella
    formula: «guai alli inermi!».
    Appena giunse ai generali l'avviso che il popolo verso
    mezzodì tumultuava intorno al palazzo di governo, essi
    cominciarono a tendere le reti sulla città, e scatenare
    contro i cittadini la soldatesca. Si depose da un testimonio:
    «Alle ore dodici e mezzo circa, le truppe austriache
    cominciavano a disporsi sulla Piazza Castello, in drappelli
    separati; ma niuno sospettava quale fosse il loro divisamento. Ad
    un'ora e mezzo circa, la Piazza Castello non prometteva niente di
    sinistro; quand'ecco uscendo tre carrozze, e attraversando la piazza
    per recarsi al Dazio, staccarsi un drappello di ussari; si presenta
    alla portiera, scaricandovi diversi colpi di carabina; nè
    contento di questo, adopera la sciabola». E ciò non
    avveniva solo sotto le batterie del Castello, ma in tutte le vie
    della città, ove le pattuglie erranti erano inviate ad
    accattar briga. Si cacciarono perfino sui tetti delle chiese a far
    piovere fucilate entro le pacifiche case. Si depose da un altro
    cittadino: «Alle ore una e mezzo circa, si presentano i
    cacciatori (tirolesi), e col mezzo dei loro zappatori, a colpi di
    scure sfondarono il portello dell'Arcivescovato. In seguito
    atterrarono la porta che mette alla via sotterranea; e di porta in
    porta, tutte sforzandole, entrarono in Duomo; e di là
    salirono sullo spianato superiore». Un altro cittadino, il
    quale abitava tra la caserma di S. Francesco e la casa di Radetzky,
    anzi nell'isola medesima con questa: «Alle tre circa, due
    palle ruppero i vetri della mia stanza; vidi granatieri ungaresi,
    difilati lungo la parete opposta, collo schioppo appuntato alla
    guancia; repentissimi, frequenti colpi di scure alla porta: grida
    feroci: un alto lamento nell'interno delle case; gli abitatori
    innocenti, disarmati, ravvolti fra donne e figli correnti,
    lacrimanti, stridenti: non altro scampo che attraverso ai tetti: i
    granatieri sul tetto dietro le nostre pedate. - Corsero ai piani
    d'abitazione: con baionette e spade forarono i ritratti: sfondarono
    armadi, ponendo mano a denari, orologi, argenterie. - Nei seguenti
    giorni, nascosti dietro le griglie dell'appartamento di Radetzky,
    giorno e notte facevano foco su chiunque passasse per la via, fosse
    donna, vecchio o fanciullo».
    Scrissero i prezzolati austriaci, che il maresciallo fece tosto
    udire il cannone d'allarme. Ma quando si udì il cannone, la
    città era già da più d'un'ora in preda alla
    rapina e all'uccisione. «Già cominciava a tuonare il
    cannone; erano le tre, quando s'udiva il primo colpo, seguito a
    brevi intervalli da altri due; ciò che volessero dire quei
    colpi e dove fossero diretti noi ignoravamo». Chi aveva
    ammonito il popolo del significato di quei segnali? Ha forse diverso
    rimbombo il cannone d'allarme dal cannone a mitraglia? A Brescia, il
    principe Carlo Schwarzenberg, a cui premeva di tener quel popolo
    tranquillo e inoperoso, lo invitò in persona propria alla
    pace e alla reciproca indulgenza; e fece inoltre publicare dal
    municipio che il «movimento ostile delle truppe sarebbe prima
    prudenzialmente annunciato dal castello con tre spari di cannone,
    caricati a sola polvere, acciò ognuno potesse ripararsi alle
    proprie case». Ma altro conveniva fare in Brescia, altro in
    Milano: bisognava punire le turbolenti città ad una ad una! -
    Se udiamo gli austriaci, ogni passo dell'esercito fu impetuosa
    vittoria; la brigata Wohlgemuth, di tirolesi, boemi, moravi, ogulini
    e artiglieri, espugnò d'assalto tutte le barricate al palazzo
    di governo. Ma il fatto è che nei cento passi d'intervallo
    tra i bastioni e il palazzo v'era una barricata sola, e non difesa,
    perchè il popolo era già partito con O' Donnell, e i
    soldati v'arrivarono anche dalla parte opposta. «In poco
    più di mezz'ora furono allestite cinque barricate; una,
    cioè, verso i bastioni, una subito dopo il palazzo verso il
    ponte, una al ponte e due nella contrada della Passione; a costruire
    le quali si adoperarono le carrozze, carrette e tavole trovate nel
    palazzo». «Intanto che mi ristoravo, comparve truppa al
    palazzo e al ponte: io diedi un occhio ai giardini per cavarmela;
    erano già pieni di soldati: avanzava un picchetto con un
    officiale; passò per le barricate lentissimo e disordinato;
    non sapeva atterrarle nè saltarle; pochi uomini che fossero
    rimasti a difenderle potevano ricacciarli tutti; andavano i soldati
    a tre, a quattro, tementi, incerti; ad ogni momento battevano a
    raccolta». Al dir di Radetzky e de' suoi, anche la brigata
    Rath penetrò vittoriosa, sforzando tutte le barricate,
    «fino al centro della città, a lato al Duomo». Ma
    sul Duomo, a un'ora e mezzo, erano già pervenuti «per
    l'Arcivescovato e la via sotterranea» i tirolesi, rompendo le
    interne porte, e non prendendo d'assalto le barricate. E si erano
    nascosti a bersagliare i cittadini anco in una buca dietro il Duomo.
    «Appena passata la cavalleria, vedemmo i tirolesi uscire dallo
    sportello dell'Arcivescovato, e andare a mettersi nella buca, ove si
    demoliscono le fondamenta di quella casa, alla quale avevano posto
    il nome Casa d'Austria, per essere isolata e cadente; e di là
    tiravano su di noi». A quell'ora, e più tardi ancora,
    cavalcavano intorno al Duomo ussari e gendarmi; e se qua e là
    frapponevasi qualche inciampo di banchi e di tavole, codeste
    barricate erano tali ancora che gli ussari potevano sbizzarrirsi a
    saltarle, e i cittadini sbizzarrirsi a colpir gli ussari al volo.
    Che anzi, quando la strage era già cominciata, le carrozze
    s'aggiravano ancora per città; la quale non era dunque ancor
    barricata. Un soldato del Geppert, vide in Castello «un
    carrozzino aperto senza cavalli, e dentro una signora morta e un
    signore che tratto tratto dava ancora qualche sospiro; avevano
    ambedue la faccia tutta spaccata dalle sciabolate per dritto e per
    traverso, che sarebbe stato impossibile di riconoscerli». Chi
    segue il racconto d'una compagnia d'operai, la quale si
    aggirò per la città fino a sera, può farsi un
    concetto del modo con che le barricate si andavano qua e là
    con mano inesperta tentando. In nessun luogo vi era densa adunanza
    di popolo; la chiamata al palazzo municipale erasi dispersa in una
    lontana processione, la quale nel ritorno aveva smarrito i suoi
    capi. La grande occasione, d'operare di primo impeto e con poderosa
    mole, era trascorsa senza frutto; tutti i varchi erano aperti al
    nemico sino al cuore della città; i capi non avevano nemmen
    pensato a dar l'avviso di barricare almeno quanti più si
    poteva dei quindici ponti del Naviglio interno; chiusi i quali, i
    cittadini avrebbero avuto a far fronte solo tra ponente e
    settentrione. Non si pensò nemmanco a chiamare alle armi il
    quartiere ove il popolo abita più numeroso e solo. «Al
    dopopranzo, invano alcuni pochi giovani in Porta Ticinese tentarono
    di far le barricate: nessuno voleva credere che nelle altre parti
    della città fosse scoppiata la rivoluzione; epperò,
    nel timore d'ingannarsi, i più tentavano d'attraversare le
    ardenti disposizioni d'alcuni».
    Altri stupirà che invece di raccogliere qua e là gli
    elementi di pomposa narrazione, noi sembriamo quasi ridurre a minor
    momento i fatti di quel giorno. Ma giace tra le macerie qui
    accumulate una verità che importa ad ogni modo dissepellire;
    e si è, che il grande edificio militare, la cui caduta siamo
    per descrivere, non venne scosso dal popolo con tutto il nervo del
    suo braccio. E nessuno vorrà dire che non sia prezzo
    dell'opera trarre in luce una tal verità.
    Mentre di tal modo i generali provocavano a ineguale battaglia il
    popolo, essi pensavano ad assicurarsi la vendetta, attorniandolo
    d'ogni parte, occupando con fanti e cavalli e cannoni tutto il
    circuito delle mura. Per l'ampiezza del giro, 12 chilometri,
    l'operazione richiedeva qualche ora. Il tempo era piovoso; scendeva
    la notte; Radetzky uscì finalmente dal suo ricetto per
    ripararsi nel vicino Castello. «Alle cinque e mezzo, esce dal
    Castello mezzo battaglione di granatieri con due cannoni e dodici
    cannonieri; e appena ha fatto il risvolto della contrada S.
    Marcellino, si sente una scarica generale di fucili, indi venti e
    più colpi di cannone. Rispondono dalle finestre gli abitanti
    con vigoroso foco di fucilate. Fatta notte, si ritirano i detti
    granatieri e cannonieri entro il Castello, essendo stato loro scopo
    di sgombrare le case vicine alla casa Cagnola, ov'era il
    maresciallo. Diversi feriti e morti vengono portati nel Castello con
    barelle e lettighe».
    Non era ancora messo in salvo il maresciallo, che già
    incominciavano gli alti fatti della giustizia militare. «Sul
    far della sera, una pattuglia di croati conduceva in Castello un
    giovane: e siccome si opponeva resistendo coi pugni, lo
    strangolarono; e lo appiccarono sopra una lampada: i generali ed
    officiali ridevano». E un antico officiale austriaco confessa
    che qualora si trattasse di violenze e rapine: «chi per
    rendersi più beneviso alla truppa, chi per sfogare il suo
    odio e dispetto contro la canaglia latina, faceva mostra di non
    vedere, quando non incoraggiava». Ed era a sì basso
    fine ch'erasi instillato alla soldatesca il sospetto che ogni cibo
    che provenisse dai cittadini fosse avvelenato; e affettavasi
    perciò di far pregustare a' fornai il pane che si toglieva
    pei soldati; e già da molti mesi prima eransi fatti
    incatenare in varie caserme i manubri delle trombe dell'aqua, come
    se fosse avvelenata.
    Ma il sommo atto della militare vendetta doveva cadere sulli
    agitatori del popolo, che il maresciallo imaginava già
    costituiti in governo provisorio nel palazzo municipale; anzi
    imaginò e scrisse quel dì d'aver visto i loro
    proclami: «Allora mi furono spediti proclami di un governo
    provisorio, la cui sede era stabilita nel palazzo municipale».
    Benchè il Broletto fosse nell'isola attigua alla Cancelleria
    Militare, e lontano di là nemmeno duecento passi, narrano gli
    scrittori austriaci, che: «le truppe del general Wohlgemuth
    consumarono quattro ore a sgombrar le vie: assaltarono il palazzo
    alcune compagnie del Baumgartten, del Reisinger e delli Ogulini;
    indarno si sforzarono i zappatori di quei reggimenti d'abbattere le
    porte; ed erano quasi tutti morti o feriti, quando i pochi
    superstiti, aprendo una bottega di rimpetto, v'introdussero un pezzo
    da 12, i cui colpi sfondarono il portone».
    Come avvenne che i municipali, all'avvicinarsi del nemico da ambo le
    parti del palazzo, non pensassero a chiamare il popolo, o ad
    assicurarsi almeno una ritirata? Per tenerli a bada, sicchè
    non si sottraessero, Radetzky aveva simulato di tenersi secoloro in
    officiale carteggio. Stavano essi aspettando che, in virtù
    della firma di O' Donnell, la polizia cedesse le armi della sua
    guardia, intendendo cominciare con quelle l'armamento della civica;
    e frattanto il popolo ne aveva tolte quante ve ne aveva nella vicina
    bottega del Sassi, e le aveva portate in palazzo. «Impiegati
    continuavano a far la lista della guardia civica, quando un
    assessore venne a portar notizia ch'erano traditi: poco dopo giunse
    la seguente lettera di Radetzky datata dal Castello; la fece
    accompagnare da mezza divisione di granatieri». Nella lettera
    si leggeva: «Intimo a codesta congregazione municipale di dare
    immediatamente gli ordini pel disarmamento dei cittadini; altrimenti
    dimani mi troverò nella necessità di far bombardare la
    città. Mi riservo poi di far uso del saccheggio e di tutti
    gli altri mezzi che stanno in mio potere. Aspetto al momento un
    riscontro».
    La condizione del municipio era iniqua. Di qual forza doveva egli
    valersi per togliere le armi ai cittadini? Come potevano gli avvisi
    esser letti nelle tenebre della notte? Come si poteva annunciarli a
    suon di tromba nella vasta città, quando ad ogni passo
    v'erano soldati che ferivano quanti incontrassero, «fosse
    donna, vecchio, o fanciullo»? Il preside del municipio erasi
    dovuto fermare a mezza via. E lo stesso maresciallo, poche ore dopo,
    scriveva a Ficquelmont: «Pur troppo l'efficacia della polizia
    è affatto elisa, è assolutamente impossibile far
    conoscere i proclami da me diretti al popolo». Quali fossero
    codesti suoi proclami non sappiamo; poichè nessuno li vide; e
    non crediamo che siano stati mai scritti: ma Radetzky nella sua
    lettera alla municipalità non l'accusò d'essersi
    costituita in governo provisorio; la considerò come
    autorità legitima e consueta. Con qual titolo dunque ei la
    faceva in quel momento medesimo assalire a tradimento nel palazzo?
    Essa era al suo posto.
    Non bastava ch'egli scrivesse in quella sera a Ficquelmont:
    «Milano è dichiarata in istato d'assedio».
    Dichiarata? Quando? Con qual atto? e da chi? Fatti di così
    tremenda natura, che annientano d'un colpo tutti i diritti delle
    leggi e dell'umanità, devono esser publici e non occulti;
    devono annunciarsi alla luce del sole, e non di notte, nel
    nascondiglio d'una caserma. «Il nemico s'avvicinava: ecco
    giungere a fretta vari del popolo che avvertivano invaso il vicino
    Ponte Vetro: nel cortile del palazzo sopragiungeva portato a braccia
    un ferito: il popolo l'aveva levato dal luogo del conflitto e lo
    portava a morire tra' suoi».
    Intanto il municipio rispondeva a Radetzky: «Lo pregava
    cessasse il foco, perchè, durante la notte, l'autorità
    potesse indurre nelli animi colla persuasione la
    tranquillità; prometteva avrebbe adoperato ogni via. Pregava
    di pronta risposta: la congregazione sarebbe rimasta in permanenza
    sino al mattino, ad attendere le sue partecipazioni. Un capitano di
    pompieri fu incaricato di trasmettere il foglio a Radetzky».
    Ad un tratto il Broletto si trovò investito; entrò a
    furia uno stuolo di granatieri ungaresi. Furono tosto loro incontro
    pochi giovani, armati di fucili da caccia e di qualche vecchia
    alabarda; e i granatieri furono costretti a dare indietro.
    «Molti non sapevano spiegarsi il perchè Radetzky, in
    cambio di rispondere alla lettera, mandasse que' suoi granatieri; i
    più animosi fecero sentire che coloro i quali volessero
    andarsene, approfittassero di quelli istanti».
    Pochi erano quelli che là erano, ma deliberati: non
    più che cinquanta fucili; poca polvere; i soldati erano
    già padroni delle case vicine; sfondarono due botteghe, vi
    fecero entrare a coperto due cannoni. Pareva che l'edificio ruinasse
    dalle fondamenta; una breccia venne aperta. «Il Broletto
    sonava la sua campana a stormo: inutilmente: era impossibile al
    popolo, per quella via angusta, affollata di nemici, avvicinarsi al
    luogo del combattimento. Le munizioni mancavano; ci aiutavamo colle
    tegole. A caso ivi trovavasi il generale Teodoro Lechi; proponeva
    una capitolazione: nessuno accettò. La resistenza tornava
    inutile; ma la capitolazione pareva troppa vergogna; prevalse
    l'opinione dei più, quella di restare immobili. Entrava
    furiosamente la truppa; erano incirca due mila fra boemi e croati;
    avevano modi feroci; percotevano gli inermi. I più dei nostri
    s'erano rifugiati nell'appartamento del delegato regio, che venne
    pure invaso e sfrenatamente saccheggiato. A frenare quelle turbe
    indisciplinate non valeva la presenza d'un maggiore de' croati
    Ottochan; nè meglio valeva la presenza del delegato;
    nè quella di sua moglie circondata dai figliuoletti. Il
    maggiore dichiarava tutti prigionieri di guerra; domandava
    l'immediata consegna delle armi; e non è a dirsi la sua
    meraviglia, allorchè vide colli occhi suoi tutte le armi
    trovate non oltrepassare il numero di quaranta fucili».
    Radetzky nel suo rapporto a Ficquelmont tosto li moltiplicò
    in «un rilevante deposito d'armi» (ein bedeutendes
    Waffendépot).
    Andati sui tetti, e trovati quivi alcuni ragazzi, i soldati li
    precipitarono nella via; li usci cadevano sfondati sotto le scuri.
    Uno dei nostri, nelle strette della morte, dava qualche gemito: lo
    ferirono di baionetta. I prigionieri furono condutti in Castello, in
    fila, a due a due, preceduti e seguiti da cannoni e fra triplici
    file di soldati. Si minacciava loro la forca; i feriti che mal
    potevano camminare erano mandati inanzi, a calciate di fucili, o a
    pugni sul volto. Il Broletto rimase occupato dai croati. «Non
    è a dirsi qual mostra facessero di sè quei ceffi
    bruni, lordi di sangue, ebri di vino e di furore».
    L'istitutore Antonio Boselli non aveva voluto lasciarsi chiudere
    entro il palazzo: uscì coraggioso sulla via; ferito di
    baionetta, cercò riparo dietro una barricata; e poco stante
    due colpi di moschetto gli aprirono altre ferite: pure ebbe animo e
    lena di strascinarsi a casa: spirò con accanto la moglie e le
    due bambine.
    Tale fu la prima vittoria. Due ore di combattimento di duemila
    contro cinquanta. Nondimeno Radetzky affettò di credere
    già conquiso il popolo: «reciso il nervo capitale della
    rivolta» (den Hauptnerf der Revolte). E immantinente ne
    spediva pomposo nuncio a Vienna il capitano di stato-maggiore conte
    e ciambellano Huyn. E alle liete novelle, il giovine arciduca
    Ranieri scrisse, poche ore dopo, da Verona, ad altro dei figli del
    vicerè: «Ora è cosa fatta; la conservazione
    della città di Milano alla monarchia si deve solo al senno
    del maresciallo e al valore delle truppe. Il capitano Huyn
    passò di qui andando corriere a Vienna. Nel partire, alle 11
    della sera, vide tutto lo spettacolo fatto in città. Al
    Broletto i cannoni da 12 devono aver fatto buchi magnifici. Il
    maresciallo lo spedì, quando, certo della vittoria, faceva
    far cucina ai soldati sulle piazze. Huyn disse esser morti circa 40
    soldati, e molti feriti. Tutti i prigionieri, non escluso Casati e
    il duca Litta, che si dicono pure del numero, si dovevano fucilare.
    La legge marziale fu già spedita, ieri, a Milano con un
    officiale e due bersaglieri borodiani; ed oggi (20 marzo), alle due,
    può essere già pubblicata e messa in opera. Questo
    è ben ora l'unico mezzo; purchè solamente ne vengano
    ammazzati parecchi».
    Così non fu. Il giorno 20, alle due, il vittorioso
    maresciallo aveva già implorato dai cittadini un armistizio,
    per bocca di quello stesso maggiore delli Ottochan che gli aveva
    condutto i prigionieri da inviare al supplicio.
    Il giorno 20, il tenente colonnello d'artiglieria Carlo Kugler,
    dello stato-maggiore dell'artiglieria stanziale nel Distretto Veneto
    (Garnisons-Artillerie-District), venne arrestato dal popolo
    d'Inzago. È superfluo il dire ch'ebbe salva la vita,
    benchè a scemarsi d'importanza si fosse mentito semplice
    tenente di fanteria. Non passò un mese che il colonnello
    Tomaso Zobel fece uccidere nelle fosse di Trento il giovane Blondel
    e altri sedici giovani, presi sul campo. Stanno ancora scritti nel
    sangue i nomi di Ludovico Batthyany, d'Ugo Bassi e d'altri e
    d'altri. Così è: il nostro popolo serbò nella
    vittoria l'avita sua natura: parcere subiectis. In Germania, sin dai
    tempi d'Arminio, la vittoria s'intese in altro modo: supplicia
    captivis (Tacito, Ann., I).
    La vera vittoria del maresciallo era contro il governo civile; era
    quella d'aver colto il destro di fondare in Italia la sua militare
    onnipotenza. Accesa la guerra, qual ministerio l'avrebbe potuto
    richiamare dal suo comando? Ma quanto alla vittoria contro il
    popolo, pur troppo egli stesso ne dubitava, quando alle due dopo
    mezzanotte dettava queste parole: «Non posso peranco indicare
    la mia perdita in morti e feriti; ma non può essere stata
    lieve. Per il momento si ha quiete; ma può darsi che al levar
    del sole incominci il conflitto. Io sono deliberato di restare, a
    qualunque costo, padrone di Milano. Se non si desiste dalla pugna,
    bombarderò la città».
    Se il maresciallo aveva voluto appiccar battaglia, il popolo l'aveva
    accettata. Già prima di sera, numerose pattuglie dovettero
    ceder le strade ai cittadini, e ridursi a far foco dalle finestre
    delli edifici. Quella che incontrò la comitiva di Casati,
    abbandonò due moribondi; una fu respinta da tre fucili;
    un'altra, da quindici. Il generale Rath si fece strada fino al
    Duomo, prima «con dolci parole», poi camminando
    più che di passo, «e perdendo fucili e berretti».
    Ussari e Reisinger furono cacciati da Camposanto; i granatieri,
    dall'atrio della Scala; i croati, dal ponte di Porta Romana. A sera,
    il lavoro delle barricate era immenso; dovunque si udiva un picchio
    di sassi e di ferri. Ma fra i vari rioni era interrotto il passo. La
    sventura del municipio rimase ignota in casa Vidiserti; nessuno
    recava novelle a capi che non sapeva ove fossero, o chi fossero, o
    se vi fossero. «I più ardenti», confessa uno di
    loro, «invece di rannodarsi, di recarsi serrati in mezzo del
    popolo, si dispersero a dar minuti provedimenti». Uno
    spirò sotto le prime fucilate; altri era fuori di
    città; altri alle barricate; altri, per commozione delirava.
    Ma rimase la fatale preoccupazione che i combattenti dovessero
    attinger valore e consiglio nella mansueta congrega del municipio. E
    anco il municipio era prigione o disperso.
    Ov'erano quelle arcane società intorno al numero, alla
    potenza, alla onnipresenza delle quali avevano tanto per tant'anni
    favoleggiato le emigrazioni e le polizie? D'onde attendevano ancora
    l'iniziativa? Un giovine «che non aveva appartenuto a
    società secrete, nè alla nobile consorteria delle
    dimostrazioni», Enrico Cernuschi, era uscito senza progetti,
    ma era corso a mettersi accanto a Casati e compagni:
    «combattere i tedeschi», egli scrive, «era il
    pensiero generale; vegliare, spingere i nobili era il mio,
    dappoichè si era voluto, ad ogni costo, metterli in
    cima». Già fin dal mattino aveva presagito che la
    processione finirebbe nel sangue; e ancora in Broletto, aveva tratto
    fuori una sciabola, gridando guerra; ma Borromeo l'aveva rattenuto.
    Era tra quelli che avevano dettato i decreti a O' Donnell, che lo
    avevano scortato, che ora lo vegliavano in casa Vidiserti; era con
    lui l'amico suo Luciano Manara, e ordinava i 63 armati che quivi
    erano. Cattaneo li sollecitava a non attendere il nemico in quel
    posto, fra due strade, a pochi passi dall'ultima barricata; era
    infatti come il Broletto. Rispondevano che avrebbero venduto cara la
    vita; ma egli replicava che non importava perdere e morire, ma
    vincere e vivere. Alcuni temevano che, la traslocazione fosse un
    raggiro per toglier loro Casati e O' Donnell. Era già presso
    il mattino, quando Cernuschi li trasse in una delle case dei
    Taverna, nella angusta via de' Bigli, in isola più vasta, ove
    potè ordinar tosto più linee di difesa, e uscite varie
    e sicure. Si deliberò di farne certo qual secreto; volevasi
    anzi tutto sottrarre il capo al ferro del nemico. Nei monumenti
    greci vedonsi spesso figure di combattenti nudi, ma coll'elmo in
    capo. All'alba era fatto; si diede il tocco alle campane e il grido
    d'allarme.
    Quale era stato, in quel primo dì, l'aspetto delle altre
    provincie? Alle gravi novelle di Vienna, Venezia liberò a
    forza Manin e Tomaseo; in Brescia, tra il fremito del popolo, fu
    ucciso, gridando viva l'Italia, uno di quei granatieri italiani che
    il sospetto di Radetzky aveva allontanati da Milano. Ma nessuna
    stilla di sangue in alcun'altra città. Trieste fu paga di
    vituperare l'imagine di Metternich; Vicenza dimandava la civica;
    Verona accoglieva il vicerè col grido, viva la costituzione,
    morte ai tedeschi; i Mantovani facevano festa in chiesa e in teatro;
    stringevano la mano alli officiali. Le novelle di Milano non
    giunsero oltre Varese, Como e Bergamo; nella notte giunsero a
    Cremona, portate dal caso, coi viaggiatori. Scrive Carlo Clerici:
    «Mi restò fisso in mente che Cernuschi propose spedire
    dovunque nostri incaricati che facessero le nostre parti anche
    all'estero; il che bisognava far subito, prima che la città
    fosse circondata dalle truppe». Nessuno fra tanti facultosi
    ebbe mente e cuore d'immolare un cavallo o un pugno di scudi, per
    lanciare un rapido appello alle altre città. Arese
    partì, ma per Torino, ov'era già una colonia di
    sollecitatori. In quel giorno 18, il re aveva finalmente perdonato a
    quelli che gli avevano offerto la corona d'Italia; ma il nuovo
    ministerio di Cesare Balbo, ricusò ai lomellini la licenza di
    armarsi; privilegiò in Torino 500 guardie civiche, per
    difendere dalla gioventù i ricoveri dei gesuiti. Arese ebbe
    una ripulsa: non l'avrebbe avuta, s'egli o altri si fosse rivolto a
    Brescia, inviando di là messi e stampe a Verona, a Mantova, a
    Bologna, gettando ovunque la scintilla che i popoli aspettavano
    bramosamente, sorprendendo, senz'ordini e senza consiglio, fra lo
    stupore delle repentine novelle, i comandanti militari e civili. A
    Varese, copia dei decreti di O' Donnell venne affissa quella sera in
    teatro, ov'erano forse trenta officiali; ebbero agio d'uscire, e
    recarne avviso al colonnello, ch'erasi già coricato; e tosto
    fece svegliare all'armi tutto il battaglione. Bergamo inviò
    staffette, ma solo nella sua provincia. Como non potè operare
    quel giorno, e dispose cautamente di preoccupare pel mattino i
    campanili, i forni militari e la polveriera. Fu questa dunque una
    levata d'armi quale poteva attendersi dopo tante dimostrazioni?
    Raccogliamo in breve il concetto istorico di quel giorno memorabile.
    Alcuni giovani costrinsero i municipali di Milano a prestare
    all'irritato popolo un'occasione di tumulto: Radetzky se ne
    giovò, per afferrar tosto l'ambito governo militare; ma nel
    farlo, sebbene la rivoluzione non avesse armi, nè capitani,
    nè consiglio, nè tampoco notizia di sè,
    evocò dalle viscere del popolo una forza, che i suoi
    centomila armati non valsero più a prostrare.
    Surse, dopo dirotte pioggie, sereno e fausto il secondo giorno.
    Rivaira, comandante dei gendarmi, visto il decreto che affidava al
    municipio la publica sicurezza, fece significare a Casati ch'ei si
    rassegnava alli ordini suoi. Ciò avrebbe tolto al nemico
    ausiliari efficaci e mediatori pericolosi. Casati non osò
    accettare; scrisse a Bellati (ei nol sapeva già prigioniero)
    di recarsi a convenire di ciò con Torresani, intendendo che i
    gendarmi, fatti duci delle pattuglie civiche, sarebbero «il
    miglior mezzo termine, per tranquillare la città». La
    lettera fu sdegnosamente lacerata dalli astanti; intanto s'inoltrava
    il giorno; e il cannone toglieva l'adito alla casa di Rivaira.
    Radetzky nella notte aveva fatto fare il ruolo de' suoi prigionieri.
    «Pur troppo, il capo de' ribelli, il podestà conte
    Casati non era tra quelli che furono presi ieri nel palazzo
    municipale, epperò il comitato direttore fu presto
    riordinato; pare che la sede del governo improvisato sia nel palazzo
    del conte Borromeo». Era anzi nell'opposta parte della
    città! Che valeva all'Austria l'essersi fatta esecrabile al
    mondo per le sue polizie, quando, al momento supremo, dovevano i
    suoi generali versare in sì palpabili tenebre? Chi non ha
    partigiani, non ha polizia.
    Nella strategia del secondo giorno, le truppe, non potendo,
    nè osando più vagare fra le barricate, intercettarono
    stabilmente le vie, presidiando 52 edifici. Cingevano inoltre per
    dodici chilometri i bastioni. Dalle porte, ove stavano con
    artiglierie, ora s'inoltravano pei corsi entro la città, ora
    escivano lungo la circonvallazione e le vie postali. Spezzate per
    tal modo, e legate a punti fissi, esse offersero prima l'aspetto
    dell'esitanza, poi quello dell'impotenza e del timore. Al palazzo di
    Giustizia, non si vergognarono d'aggrappar dalla porta con una lunga
    pertica uncinata, un compagno caduto. Due giovani sul ponte di
    Monforte affrontarono colle carabine un cannone, lo tennero indietro
    per un'ora; i soldati stavano nascosi fra le colonne del palazzo, o
    sdraiati a terra; un capitano che volle trarli sin oltre il ponte,
    cadde ucciso; la truppa si ricacciò nel palazzo, appostandosi
    dietro i comignoli del tetto e le finestre abbarrate. Fu quivi
    ucciso d'una cannonata Giuseppe Broggi, ammirato per l'infallibile
    sua carabina. Spirò d'un colpo di cannone, in mezzo al corso
    di Porta Romana, il calzolaio Valentini. Fu trafitto da una palla in
    fronte, sulli archi antichi del ponte di Porta Nuova, il salumiere
    Volonteri; ma quel monumento rimase un forte inespugnabile, difeso
    da Augusto Anfossi, Manara, Enrico Dandolo, Luigi Della Porta ed
    altri, che tosto o tardi diedero tutti per la patria la vita. Dal
    Broletto, un officiale minacciava codardamente ai cittadini la
    forca. «La forca sarà per te», gli rispose il
    droghiere Puricelli; e sebbene ferito, non si ritrasse finchè
    nol vide rintanarsi nel Broletto co' suoi. A Piazza Mercanti,
    artiglieri, uccisi o fugitivi, abbandonarono un cannone. Alla Corte,
    come deposero poi due delli ungaresi che quivi erano:
    «investiti d'ogni parte dai cittadini, che sdegnando di
    starsene dietro le barricate, uscivano ad assalirci all'aperta, e
    dalle donne che dalle finestre sparavano colpi di pistola, inviammo
    al Castello a dimandar soccorso; ma delle due o tre compagnie del
    Gyulai che ci furono spedite, pochi arrivarono, e sì
    malconci, che si risolse di ritirarsi. Fin d'allora si tentava
    l'affratellamento colli ungaresi. Un uomo pieno di coccarde
    nazionali, che sono delli stessi colori per gli ungaresi e gli
    italiani, si presentava loro, invitandoli alla diserzione.
    Consigliato da essi a ritirarsi, troppo tenace nel suo proposito,
    non volle rimoversi; onde preso dai cacciatori tirolesi, fu tosto
    fucilato. Più di 36 ore dovettero i granatieri ungaresi star
    sotto le armi, esposti alle intemperie, e ciò che più
    importa, privi di cibo». Anche i carcerati nel palazzo di
    Giustizia rimasero senza cibo per ben 48 ore; senza viveri per 40
    ore quelli della polizia generale; Radetzky ebbe ad avvertire i
    consoli «che i carcerati nella Casa di Correzione mancavano di
    viveri». E fu anche per questa imprevidenza che le
    soldatesche, erranti nei rioni più remoti, si mutarono in
    orde fameliche e rapaci, a strazio delle derelitte innocue famiglie.
    Non era solo effetto di barbarie; poichè i boemi del
    Reisinger incrudelirono peggio assai de' croati. Non era effetto
    d'esaltazione bellicosa del soldato, che «prendendo d'assalto
    le case, trucidasse chi lo aveva combattuto (seine Angreifer
    niederstach)», come vennero imaginando poscia gli escusatori
    di Radetzky. No! nessuna di quelle infelici case era stata difesa o
    assalita, essendo tutte in quell'estremo lembo della città
    che stava affatto in potere del nemico. Era per i vili sospetti
    instillati dai generali; era per la insensata dispersione delle
    truppe, onde non fu possibile far loro pervenire i viveri. Nè
    parimenti era possibile che da 52 punti si raccogliessero i feriti,
    e si traessero per le due o tre vie che rimanevano tuttora aperte
    nell'interna città. Solo a notte oscura, si osò
    trasportarli «con carrette e lettighe, che lasciavano sui
    marciapiedi larghe strisce di sangue». E quella vista
    funestava le soldatesche, accampate sui vasti spazi della Piazza
    Castello, intorno a luridi fochi, su cui gettavano carrozze e
    suppellettili, cantando e urlando ferocemente, quasi per dissimulare
    a se medesimi la loro disfatta. E altro terrore infondeva in quelle
    rozze anime la vista della eclissata luna, in forma di globo
    cupamente arroventato. Al contrario i cittadini, nella coscienza del
    loro diritto e del favore di Pio IX e di Dio, ne traevano baldanza e
    ilarità.
    Giunse nella sera in casa Taverna un primo dono alla patria di lire
    tremila dall'ingegnere Filippo Alfieri; e rese esuberante servigio
    in que' giorni, quando ogni venalità nei poveri pareva
    spenta. Altri apportò carte intercette al nemico; ma Casati e
    i suoi, sempre oscillanti fra la guerra e la pace, negavano si
    aprissero. Una di esse avvertiva come, con ordini anteriori alle
    novelle di Vienna, il maresciallo, provido nel male, avesse
    distribuito più di 500 cariche d'artiglieria in Padova,
    Vicenza, Mantova e Verona.
    Mentre si tentava dar qualche forma alla fortuita difesa, Casati
    «si sottrasse alla vigilanza delli armati che facevano
    sentinella al suo onore». Immantinente Cernuschi, accompagnato
    dal figlio medesimo di Casati, ne andò in traccia; e
    «gli venne fatto di scoprirlo rannicchiato nella soffitta
    d'una casa vicina, d'onde usciva polveroso, coperto di ragnateli. Il
    figlio n'ebbe a versar lacrime». La generazione che surge
    è migliore di quella che tramonta.
    A fronte di poche centinaia di fucili, Radetzky, benchè,
    avesse fin dal primo scoppio entro le mura circa 15 mila uomini,
    s'era già indutto a chiamare due battaglioni tirolesi da
    Cremona, uno del Gyulai da Pavia, una parte del Geppert da Monza, e
    aggiungeva nella notte del 19: - «Chiamo a me cinque
    battaglioni, coi quali dimani all'alba comincerò di nuovo il
    combattimento contro Milano e lo condurrò, come spero, a buon
    fine». Se nel primo giorno colle sue squadre mobili, aveva
    provocato i cittadini al combattimento, nel secondo giorno colle
    immobili sue posizioni aveva inspirato loro la fiducia nella
    vittoria.
    Al di fuori accorreva già la gioventù delle pianure,
    affrontando impavida la cavalleria. Giuseppe Guy, milanese, venuto
    co' suoi contadini da un podere presso il Po, bersagliava
    dall'aperta campagna gli austriaci accovacciati sul bastione, quando
    la carabina d'un ussaro lo colpì a morte. I condottieri delle
    due strade ferrate, sprezzando la nuova minaccia di morte,
    condussero notte e giorno convogli d'armati. Il passo del Lambro a
    Marignano venne chiuso. Il nemico non ebbe più corrieri.
    «Non fu possibile spedire il mio dispaccio (del 19)»,
    scriveva Radetzky, «perchè ogni communicazione al di
    fuori è talmente interrotta, che solo con grosse scorte
    può giungere a me o partire alcuna notizia». Non era
    dunque reciso il nervo capitale della rivolta, com'egli aveva
    sognato; ma bensì, essendo recisi i nervi che ponevano in
    moto le inanimi membra dell'esercito, i corpi isolati ricadevano
    nella dubiezza e nell'inerzia. A un esercito di servi manca, col
    bastone del comando, la volontà e la vita.
    Como sorprese in quella matina la polveriera di Geno, armò i
    cittadini, spiegò la bandiera tricolore; ebbe soccorso di
    quattrocento uomini, approdati colle vaporiere del lago. Ma dalla
    Svizzera non le giunse in quel giorno più che uno stuolo di
    14 esuli; mentre il presidio nemico s'ingrossò di 800 soldati
    del Prohaska che stanziavano in Mariano e Cantù. - Bergamo,
    che dal suo colle poteva contare ogni colpo che straziava Milano, si
    armò; e quando, a notte tarda, corse voce che contro la
    parola data dall'arciduca Sigismondo partiva un battaglione chiamato
    da Radetzky a Milano, il popolo di Borgo Palazzo gli precluse
    intrepidamente la via; gli uccise il comandante. - A Brescia,
    presidiata in gran parte d'italiani, i maggiorenti, indettati da
    Torino, e resi imbecilli da quella speranza, raffrenarono l'impeto
    del popolo; lo persuasero (cosa quasi incredibile) ad aspettare
    rassegnato le sue sorti da quelle della combattente Milano;
    appellarono «colpa e danno crudele e irreparabile» ogni
    atto ostile; patteggiarono il privilegio delle armi a 200 agiati
    cittadini. Il generale Carlo Schwarzenberg potè illeso
    percorrere a cavallo la città, intanto che le sue robe si
    ponevano in salvo entro una caserma: e scorgendo «la
    più perfetta calma e tranquillità e buono spirito che
    ovunque regnava, potè provarne le più dolci
    commozioni, ed esprimerne i più cordiali e sentiti
    ringraziamenti». Quelli improvidi ozi, quando Milano
    combatteva, vennero poi scontati nel foco e nel sangue, quando
    Milano fu disarmata e derelitta: dum singuli pugnant, universi
    vincuntur. - Intanto la vicina Crema, perchè aveva poco
    popolo e angusto contado, sebbene si mostrasse quel giorno piuttosto
    in festa che in tumulto, venne ferocemente insanguinata da
    cacciatori tirolesi e dragoni austriaci. V'ebbero quasi 80 feriti
    dei cittadini, e 2 soli dei soldati; all'arrivo poi di due cannoni e
    di 400 soldati italiani del presidio di Lodi, la città fu
    interamente disarmata. Il qual caso ebbe gravi effetti;
    poichè quivi era il convegno ove lo smembrato esercito
    potè accozzarsi.
    A Cremona, presidiata pure d'italiani, il popolo, non provocato
    dall'arroganza straniera, «fu pago di ottener la liberazione
    d'un cittadino arrestato in forza della legge stataria; invano
    accorsero migliaia d'armati dalle campagne». - In Mantova, ove
    pure italiano era il presidio, il comandante Gorczkowsky potè
    acquistar tempo, concedendo il «privilegio» delle armi a
    qualche centinaio di cittadini, che presero in custodia innocente le
    porte della fortissima città. Un numeroso comitato
    predicò «l'ordine e la tranquillità»,
    vestendo a mansueta insegna la «sciarpa bianca». - La
    coccarda bianca soppiantò nell'agitata Verona la tricolore.
    Il cauto arciduca, che non aveva interesse, com'altri, a sconvolgere
    e insanguinare il regno, concesse la custodia di quella pur
    fortissima città a 400 privilegiati; costrinse la soldatesca
    «a sfilar taciturna e sparire fra il tripudio del
    popolo». - La custodia delle porte fu concessa anche ai
    cittadini di Vicenza. Così, tranne la pianura milanese e il
    suburbio di Bergamo, nessun soccorso diedero, nemmeno in quel
    secondo giorno, i popoli indarno commossi alla città
    combattente.
    In Piemonte intanto, il nuovo ministro Ricci chiedeva in iscritto
    che Genova «lo coadiuvasse colla tranquillità
    più profonda», quando, a rompere il nuovo letargo
    costituzionale, giunse, alle otto del mattino, la nuova che la
    guerra era cominciata. E a prima giunta Cesare Balbo, l'uomo della
    guerra ai barbari, obliò tosto l'unum porro necessarium; e
    rispose alle grida della gioventù, che voleva aver armi,
    chiudendole in faccia le porte dell'arsenale. Parve gran cosa a quei
    decrepiti adulatori dell'Italia, di prometterle tre campi
    d'osservazione a Chivasso, Novi e Casale, dietro la Sesia e il Po.
    Era già strana cosa che in Milano amici e nemici riputassero
    capo del popolo un uomo ch'era mestieri tenere quasi a forza. Ma per
    poca notizia che si avesse di quanto accadeva nelle più
    interne parti della città, palesavasi il fatto più
    strano ancora, che il popolo dapertutto combatteva, e in nessun
    luogo aveva capi. Si pugnava a caso «senza alcun disegno,
    sforzandosi ciascuno presso le sue case d'acquistar terreno,
    d'abbarrarsi, di scoprire armi e munizioni e toglierne al
    nemico». Nella notte, qualche cittadino, sdegnoso che
    l'occulto comitato dei patrizi non mostrasse la faccia, propose si
    gridasse republica, si ricorresse alla Svizzera testè armata,
    alla libera Francia. Se parlate di republica, rispose Cattaneo,
    tutti i signori saranno per domatina in Castello con Radetzky. - I
    soccorsi francesi e svizzeri erano lontani e incerti; la republica
    non avrebbe nemmeno i soccorsi dell'Italia, tutta infervorata allora
    de' suoi principi. Era forza mietere ciò che si era seminato.
    Il popolo, per verità, non intendeva la commissione alla
    Savoia; avrebbe mille volte preferito l'alleanza del popolo
    francese; avrebbe preferito mille volte una federazione republicana,
    col nome di Pio IX. Carlo Clerici, ch'era «uno dei primi
    anelli tra il popolo e l'alto ceto», scrive: «la
    republica era ben addentro nel sentire del nostro popolo: chiamata,
    sarebbe surta». E nel primo giorno quel grido si era qua e
    là udito fra il popolo, «drappelli di cittadini
    percorrono la città, gridando viva Pio IX, viva l'Italia,
    viva la republica». Ma erano voci che uscivano solitarie dal
    cuore; non esprimevano patti di parte. E anche a Brescia, in
    febraio, alle novelle di Parigi tale era stato lo spontaneo
    sentimento del popolo: «la prima notte si passò tutta
    in riunioni, ai caffè, sotto ai portici, nelli alberghi,
    nelle taverne: sembrava la celebrazione d'un trionfo nazionale. E
    quanto al Piemonte, dicevasi, la viva aspettazione che se ne aveva
    va sbollendo, perchè nessun fatto si vede mai. I giudiziosi
    pensano che sia l'Austria autrice di tali rumori, che destano
    sospetto e diffidenza, ma il popolo non ragiona».
    Sventuratamente altri ragionava per lui; e lo sviava dalla madre
    idea della libertà, chiamandola «il trionfo
    predeterminato d'una forma governativa». E ammoniva i
    siciliani contro «l'egoismo di libertà».
    Non sapendosi che un governo in Milano era già secretamente
    pattuito prima che il combattimento cominciasse, proposero alcuni si
    procedesse ad eleggerlo immantinente. Ma il nome di governo
    involgeva necessità di personaggi autorevoli. Se codesti
    signori ne fanno parte, rispondeva Cattaneo, vi saranno d'impaccio;
    se non ne fan parte, impediranno che sia obbedito. Epperò
    propose un consiglio meramente di guerra, e di pochi e deliberati,
    solo per dare ordine alla difesa; anzi proponeva si chiamasse
    «comitato di necessità». Si scrissero i nomi
    delli astanti, onde interrogarne il suffragio. Ma molti ad ogni
    momento, in cerca d'armi e d'indirizzo, entravano, uscivano; nulla
    si raccapezzava. Alla fine parve più pronto ripiego prendere
    i primi quattro nomi, scritti in capo alla lista delli astanti. E
    così la rivoluzione andava a caso d'una in altra mano. Ove
    stavano, sia detto un'altra volta, le secrete associazioni?
    Perchè i capitani della arcana milizia non si ponevano
    inanzi, se v'erano?
    Quel fortuito consiglio di guerra fu poscia trasfigurato dai
    romanzieri torinesi, in una prima elaborazione dell'Italia
    republicana, in un primo pegno delle venture discordie. Non è
    così. Di quattro soli, ch'erano i membri, non si conoscevano
    tutti, nemmeno di saluto. Giulio Terzaghi e Carlo Cattaneo si
    conoscevano solo dacchè dimoravano quivi allato colle loro
    famiglie nella casa Gavazzi. Giulio Terzaghi e Giorgio Clerici erano
    patrizi; e questi fu sempre sì poco in voce di republicano,
    che la fazione regia gli commise poscia il comando della guardia
    nazionale. Enrico Cernuschi si vantava scevro d'ogni legame, avverso
    persino a quei notissimi che dettavano le dimostrazioni. Cattaneo
    aveva pensato a giovare la patria senza metter mai verbo in
    politica. E nel primo giorno, quando gli amici vennero matutini ad
    annunciargli la processione municipale, e dimandargli consiglio per
    l'evento d'un conflitto, egli aveva risposto che il correre
    immantinenti alla forza, quando nulla si era fatto per possederla,
    gli pareva troppo favorevole al nemico, il quale era presto e
    bramoso. «Il podestà farà mitragliare i
    cittadini; egli va da cieco ove lo spingono. Questi 40 mila fucili,
    li avete visti? Siete poi certi che questo comitato vi sia? Hanno
    fede cieca in Carlo Alberto; e saranno corrisposti come al solito.
    Bisogna pigliar tempo per armarci; e perchè tutta Italia si
    metta in grado».
    È debito e diritto di giustizia porre in luce questi fatti,
    per dissipare le menzogne, onde certuni vennero pascendo poi l'anime
    sciocche. E vuolsi considerare questo irresistibile effetto delle
    rivoluzioni: ch'esse ingrossano come le vallanghe, travolgendo nei
    più temerari propositi i più cauti animi, mentre il
    fiocco di neve che fu motore primo e nucleo della immane mole, vi
    resta per lo più confuso e smarrito. E perciò, ad ogni
    ritorno, la rivoluzione sempre più ingrossa; sinchè le
    minorità primitive, che valevano solo per la loro leggerezza,
    prevalgono col numero e col peso morto, e ponno invocar senza tema
    il suffragio universale.
    Radetzky non potè il terzo giorno tener la parola, colla
    quale erasi, la sera inanzi, addormentato: - «Chiamo a me
    cinque battaglioni: domani comincerò di nuovo il
    combattimento». Anzichè cominciare il combattimento,
    gli fu forza precipitare la ritirata dalle parti più interne
    della città. Quelle sconnesse posizioni non si collegavano
    più al Castello, se non per due o tre varchi tortuosi, verso
    i quali si cominciò presso l'alba a dirigere i cittadini che
    venivano a offrire le braccia e prendere indirizzo. Tosto il mezzo
    della città offerse uno spettacolo di militare confusione e
    ignominia. I tirolesi scesero precipitosi le scale marmoree del
    Duomo, e per i sotterranei dell'Arcivescovato si raccolsero alla
    Corte; si posero dietro al generale Rath, che «precedeva il
    convoglio a gran carriera, per salvarsi dalle pietre e dalle palle
    che i cittadini, svegliati all'improviso rumore, tempestavano sulle
    truppe». Il popolo armato invade gli atri della Corte, le
    stanze dei principi. Ma rispetta a tutti, ma perdona a tutti: alle
    famiglie tedesche rifugiate in chiesa: ai poliziotti nascosi nelle
    cantine: ai feriti ungaresi, che porta sulle vittoriose spalle
    all'ospitale. Anche gli offici della polizia generale rimangono
    avvolti nel turbine. Quel Torresani, il quale andava spiando da
    tanti anni, e vessando e umiliando una gioventù che fra tante
    molestie intendeva solo la necessità d'esser libera, si
    traveste da gendarme; si mischia alla cavalleria; giunge semivivo di
    paura in Castello, lasciando cumuli di carte semiarse, abbandonando
    alla vendetta la moglie, la figlia, la vedova del figlio coll'unica
    bambina. All'irrompere del popolo impetuoso, «in elegante
    gabinetto, una giovane signora, vestita di seta nera, stringendosi
    al seno una bambina, con a lato una cameriera, entrambe pallide,
    tremanti, stavano ginocchioni. Mandò questa uno straziante
    gemito all'entrar del primo, credendosi vicina ad essere
    sacrificata. Ma l'entrato, confortandola, e dato ordine che con
    modesto sciallo si coprisse la testa e la faccia lacrimosa, presala
    sotto braccio, e chiamato un altro cittadino, guidarono quel
    derelitto convoglio alla casa paterna dei conti Giovio; e, trovatala
    chiusa, la ripararono presso la famiglia Morandi». E dove era
    il conte, lo spauracchio della città? Due delle sue spie lo
    palesano nascoso in una soffitta entro il fieno: pallido,
    contrafatto, coi capelli irti, chiedente pietà e
    misericordia, cavato di là, vien cercato sulla persona se
    avesse armi, onde non potesse uccidersi nè tradire.
    «Figurati, lettor cittadino, la scommunicata figura di quel
    laido vecchio, quella persona tremante, coperta di pagliuzze, che
    colle braccia aperte si lascia frugare nelle tasche; e ne cavano,
    invece di stili e pistole, ne cavano, pane e formaggio. L'ira dei
    più accaniti si volse in riso».
    Conveniva tenere il popolo in questi alti e gloriosi propositi.
    «Prodi cittadini», gli diceva un appello del consiglio
    di guerra, «conserviamo pura la nostra vittoria; non
    discendiamo a vendicarci nel sangue dei miserabili satelliti che il
    potere fugitivo lasciò nelle nostre mani». Di quella
    mal locata clemenza si duole ora il popolo amaramente. Ma furono
    forse quei pochi spregevoli perdonati che gli balzarono poi le armi
    di mano, quando venne tempo di difendere una seconda volta la sua
    città? Furono forse quelli abietti che gli insegnarono a
    riporre una stolta fede nei traditori, e ad abbeverare di dispetti e
    d'oblio i provati amici? Che gli gioverebbe nella sventura il
    sentirsi chiamar barbaro come i suoi nemici? Le crudeltà
    presenti parrebbero giuste rappresaglie. E la vendetta dei nemici e
    il loro perdono avvilirebbero del pari la sua coscienza; la quale,
    ora, può contemplar impavida e indomita quell'avvenire che
    porrà un'altra volta a' suoi piedi i vigliacchi insanguinati.
    E parecchi officiali in quella confusione non ebbero tempo a
    salvarsi: e, tratti inanzi al consiglio di guerra, tentarono
    sostenere l'usata arroganza, pretendendo di non essere prigionieri,
    ma parlamentari. «È meglio che diciate d'esser
    prigionieri», rispose loro Cattaneo. «Come?
    parlamentari? Il vostro esercito deve già esser a ben tristi
    termini, se s'adatta sì presto a spedire parlamentare a
    poveri ribelli». E frattanto l'arciduchino Ranieri in Verona
    si consolava pensando che la legge marziale poteva già esser
    messa in opera, e fucilati tutti i cittadini prigionieri! E v'era
    fra gli officiali captivi un conte Thun, che un mese inanzi aveva
    insultato a man salva, presso il corpo di guardia del conte
    Ficquelmont, il cittadino Borgazzi, e che, disarmato da lui, lo
    aveva fatto vilmente carcerare; poi lo aveva divulgato per tutta la
    Germania come sicario. Ed ora stava, umile, e senza spada, inanzi ai
    cittadini. E in quell'istante, pochi passi lontano, i suoi
    commilitoni stavano trucidando nelle sue stanze il predicatore
    Lazzarini; poi si ritiravano all'appressarsi del popolo; e per
    disviare i suoi colpi si facevano precedere da cinque preti a croce
    alzata. Tali sono i conquistatori. E v'è chi scrive che ogni
    popolo merita il suo destino!
    Il consiglio di guerra incalzava i combattenti: «Il generale
    austriaco persiste; ma il suo esercito è in piena
    dissoluzione. Molti officiali si dànno prigioni; interi corpi
    atterrano le armi avanti il tricolore italico. Cittadini!
    perseverate; questa è la via che conduce alla gloria e alla
    libertà».
    Le truppe, smarrite fra gli andirivieni delle barricate, fecero
    simulate offerte di arrese o di pace, al Ponte Vetero, al Genio, al
    Comando Militare, a S. Simone. Un maggiore dei croati Ottochan venne
    a dimandare in nome di Radetzky qual fosse la mente dei magistrati.
    Reduce Casati dalla fuga, e pressato sempre a costituire con
    municipale autorità un governo provisorio, si era solamente
    piegato ad annunciare che aggregavasi al municipio alcuni
    collaboratori; ma vi affastellava presenti e assenti, e anche
    Teodoro Lechi, ch'era prigioniero in Castello; e attribuiva a
    Bellati, pur prigioniero, la polizia. Udito il messaggio di
    Radetzky, egli propose, per la città sola, un armistizio di
    giorni quindici, affinchè il maresciallo potesse invocare da
    Vienna nuove concessioni. E intendendo che i soldati si
    consegnassero nelle caserme, e i cittadini desistessero dal
    combattimento, invitò in presenza dell'inviato il consiglio
    di guerra a dire se vi volesse dar mano.
    Rispose il consiglio: non potersi oramai staccare dalle barricate i
    cittadini; la consegna nelle caserme non offrire veruna
    sicurtà; il combattimento sospeso potrebbe ad ogni momento
    riaccendersi. La campana e il cannone, già da tre giorni,
    avevano desti i popoli all'armi; i soccorsi erano in via;
    un'armistizio circoscritto alla città lasciava libere le
    truppe d'esterminarli; o dovere il combattimento cessar dovunque, o
    dovunque proseguirsi. Se il maresciallo veramente era mosso da
    umanità, se voleva arrestare il combattimento in tutto il
    regno, i soldati italiani gli basterebbero a conservar l'ordine,
    finchè arrivassero le nuove istruzioni da Vienna;
    allontanasse immantinente i soldati stranieri. - Come? rispose il
    maggiore sdegnosamente; un maresciallo ritirarsi inanzi a cittadini?
    - Voi parlate d'umanità, gli si replicò, e non
    d'operazioni di guerra; i ministri che diedero al maresciallo
    facoltà di mitragliare e bombardare, sono caduti; i loro
    ordini non hanno più vigore, fino a che i loro successori non
    abbian parlato. Si valga di ciò il maresciallo, prima che il
    suono d'allarme giunga di campana in campana sino ai passi delle
    Alpi. Separando i due elementi irreconciliabili, potrà dire
    d'essere entrato nel nuovo ordine europeo; e intanto veramente
    avrà salvato l'esercito.
    Invano Casati riluttava. La gioventù, non volendo soffrire
    indugio alla pugna, o dar ansa a una perfidia, stette col consiglio
    di guerra. Casati congedò il messo, pregandolo a riferire da
    un lato i sentimenti dei municipali, e dall'altro quelli dei
    combattenti. Egli volle separata nell'animo di Radetzky la sua causa
    da quella del popolo. E il consiglio di guerra tacque, e non se ne
    fece vantaggio. Importava salvar la città. Ed era forza
    mietere ciò che si era seminato.
    Altri dirà che ricusar l'armistizio fu temerità. Ma
    valga il vero. Fin dalla sera inanzi, i consoli di Francia e
    Svizzera avevano promesso ai municipali di protestare, in un colli
    altri consoli, contro il minacciato bombardamento; e nella matina
    del 20, ne avevano scritto a Radetzky, chiedendo in ogni modo il
    tempo di porre in salvo i loro clienti. Rispose il maresciallo, alle
    11 del mattino stesso, lagnandosi che si fossero assalite le sue
    truppe contro il diritto delle genti; e pregando i consoli d'indurre
    i capi ad astenersi da ogni atto ostile; altrimenti ei si
    difenderebbe col coraggio che gli inspirava il sentimento
    dell'odiosa sorpresa che si era fatta a' suoi soldati. Promise
    sospendere per un giorno le misure severe, a patto che i cittadini
    cessassero ogni ostilità. I consoli, gli chiesero tosto un
    abboccamento per ragguagliarlo delle edificanti disposizioni del
    municipio. Lasciamo che, dopo le insidie e le stragi di Milano, di
    Padova, di Pavia, era sacrilegio allegare il diritto delle genti; ed
    era troppo ridicolo che parlasse di coraggio in faccia a un pugno di
    cittadini, chi, poche ore prima, millantava i suoi centomila
    soldati, e l'animo deliberato all'incendio e al saccheggio. Diremo
    solo che Radetzky, partecipando ciò a Ficquelmont, scrisse il
    dì seguente: «Coi consoli si è trattato oggi di
    un armistizio di tre giorni; le mie truppe hanno necessità di
    riposo, per i più che umani loro sforzi; ed io con questo mi
    troverò in grado di circondare più compiutamente la
    città». E perchè la voleva il maresciallo
    circondare, investire (zernieren)? Fu preso in quel medesimo giorno,
    a Inzago, l'apportatore della legge di sangue, la quale concedeva al
    maresciallo la licenza di fucilare tutti i ribelli; e a quell'ora,
    gli arciduchi in Verona si consolavano pensando ch'era già in
    opera. Era dunque Radetzky che abusava dell'intervento dei consoli;
    che oltraggiava il diritto delle genti. Sarebbe vano accusar di
    perfidia un tal nemico; ma sarebbe ingiusto accusar di
    temerità chi sottrasse all'atroce inganno i cittadini.
    Libera l'interna città, apparivano ad uno ad uno, e cauti e
    taciturni si schieravano intorno al cupo Casati, i membri del futuro
    governo. Favoriti per secreto patto dai più accesi promotori
    dell'insurrezione, i quali non ebbero tampoco la lealtà di
    aprirsene col consiglio di guerra, essi, anzichè adoperarsi a
    dare indirizzo al combattimento, attendevano solo a recarsi in mano
    col minimo pericolo la massima potenza. In data di un'ora dopo
    mezzodì, comparve verso sera un loro avviso, in cui si
    leggeva: «Le terribili circostanze di fatto, per le quali la
    nostra città è abbandonata dalle diverse
    autorità, fanno sì che la congregazione municipale
    debba assumere in via interinale la direzione d'ogni potere, allo
    scopo della publica sicurezza». La publica difesa era dunque
    un fatto: non era un diritto. La città non era ribelle: era
    abbandonata; abbandonata anche da Radetzky! Il municipio non voleva:
    ma doveva; era costretto. E solo con mano dubiosa, e in via
    interinale, e per imperio di circostanze terribili, s'induceva ad
    assumere ogni potere. Gli infausti nomi di Guicciardi, di Durini, di
    Giulini, di Strigelli, di Borromeo, ricordavano i conciliaboli e i
    parentadi che nel 1814 avevano posto in mano all'Austria l'esercito
    e il regno. Per quali arti erano mai pervenuti coloro a patteggiarsi
    il voto della magnanima gioventù? Come potevano i cittadini
    dimenticare d'aver deriso, non era ancora dieci anni, quei
    maggiorenti della città e dignitari del regno, quando,
    radianti di felicità, fregiavano dei loro ciondoli e delle
    loro livree le pompe dell'incoronazione? L'uomo ha un cuor solo; e
    il cuor di costoro non era stato mai per l'Italia. Nel 1841,
    essendosi fatto appello ai cittadini in favore della via ferrata di
    Milano a Venezia, essi erano usciti da inveterata inerzia per
    impadronirsi di quella splendida impresa. E l'avevano fatta
    trastullo d'avara e inetta vanità, millantandosi in faccia a
    Metternich di voler fare essi ogni cosa coi loro denari. E
    così, non solo per la loro pusillanimità l'impresa
    cadde in mano alli stranieri ch'ebbero cuore di locarvi veramente i
    necessari tesori. Ma per insensati avvisamenti le opere rimasero
    disgregate ai due opposti capi e involte in disperati indugi. Infine
    il governo n'ebbe ammonizione a revocare gli ampli privilegi, che,
    contro ogni consuetudine, aveva largiti all'impresa. I quali, con
    accorgimento esercitati, avrebbero messo in pugno ai cittadini tutte
    le communicazioni civili e militari e la chiave di tutte le
    fortezze. Se gli sconnessi tronchi di Treviglio e di Vicenza furono
    di tanto sussidio nei cinque giorni, non è a dirsi quanto le
    veloci communicazioni con Peschiera, con Verona, con Venezia
    avrebbero giovato; essendochè dal lato suo il nemico,
    timoroso d'insidie, non osava avventurare su quei precipizi i suoi
    battaglioni.
    Ordinata nel 1841 quella congrega, e raccomandata dalla veste d'un
    publico interesse, e dal conflitto in che s'era posta col governo,
    ricomparve in mezzo all'agitazione del 1847. E seguita dall'antica
    caterva di satelliti bassamente adulatori e bassamente
    malèdici, e dall'altra nuova di generosi inesperti, vantando
    d'avere quando che sia a pronta disposizione tutte le forze del
    Piemonte, e penetrando col numeroso servidorame nella plebe,
    s'impadronì di questa più ardua e sublime impresa; e
    la condusse per infinite astuzie a funesto fine. Ma intanto era
    impossibile disfare d'improviso la vasta rete con ch'ella
    avviluppava da anni la cittadinanza. Era necessario che calamitosi
    fatti dimostrassero ai cittadini la sua morale e mentale impotenza.
    Tuttociò che rimaneva, fra quell'improvisa frana delli
    eventi, era di vigilare, affinchè quelli insensati, per
    credulità o per paura, non traessero seco il popolo in
    balìa del nemico. Epperò i membri del consiglio di
    guerra non dismessero il loro assedio a Casati, e si accamparono
    nella camera attigua a quella ov'egli era co' suoi. E con pretesto
    d'assicurare la custodia delli officiali prigionieri ch'erano di
    sopra, e di separarli da certi soldati prigionieri ch'erano di
    sotto, intercettarono ogni altro adito; e con consegne di porte, e
    con duplici parole d'ordine, difficultarono l'accesso. E si
    studiavano di dar essi pronto e diretto spaccio a tutte le inchieste
    dei cittadini accorrenti, allegando che il municipio fosse a secreta
    consulta e non potesse ascoltarli. Fra queste misere angosce,
    dovevasi dar opera ad animare ed indirizzare i combattenti.
    Già udivasi, dopo due giorni di silenzio, il grave rombo dei
    bronzi del Duomo; già in mano al colosso della Vergine
    sventolava il tricolore. Rispondevano con campane e con grida le
    pianure; le due strade ferrate apportavano a' piè de'
    bastioni squadre continue d'armati. Le soldatesche sulli sfrondati
    bastioni udivano e vedevano appressarsi da ambo le parti le onde del
    popolo, quando, a nuovo stupore scorsero veleggiare al vento uno
    stuolo di palloni, e sorvolar le mura e le porte indarno irte di
    baionette. Nei fogli che i palloni spargevano, il consiglio di
    guerra si appellava «a tutte le città e tutti i comuni
    del Lombardo-Veneto: Milano vincitrice in due giorni, e tuttavia
    quasi inerme, è circondata da un ammasso di soldatesche
    avvilite ma pur formidabili: noi gettiamo dalle mura questo foglio
    per chiamare tutte le città e tutti i communi ad
    armarsi». Era così ripudiato il pusillanime consiglio
    di patteggiare una solitaria tregua per la città,
    dissociandola dalle provincie.
    E infatti Como, in quella matina, inviava già in soccorso una
    squadra di giovani; purtroppo anzi tempo. Perocchè il
    comandante Braumüller, che in quella città di 16 mila
    abitanti aveva 1500 soldati tutti stranieri, si accingeva ad
    assalirla, tostochè gli giungessero da Saronno l'artiglieria
    e la cavalleria che aveva richieste a Strassoldo. La presa d'una
    staffetta scoperse il suo proposito; scoppiò tosto nel
    sobborgo il combattimento; la squadra fu appena in tempo a
    retrocedere. Accorsero dall'interna città i croati; ma,
    ripulsi prima di giungere alla Porta Torre, abbandonarono sulla via
    ferito a morte il maggiore Milutinovich. La gran guardia col tenente
    Knesich, uscì per altra porta; ma fu dispersa; e dopo aver
    vagato la notte appiè dei monti, si arrese per fame. Le
    truppe ch'erano nelle due caserme suburbane tentarono invano
    sforzare la Porta Torre per unirsi di dentro ai croati; respinte
    nelle caserme, offersero nuovi accordi; ma il popolo, savio, voleva
    cedessero le armi. Dopo tre ore si riprese il foco, con vantaggio
    minore, poichè i soldati avevano avuto agio d'adattare a
    difesa i tetti e le finestre. I cittadini s'impadronirono della
    conserva del pane; apersero feritoie nelle mura della città e
    delli orti; fecero fossi e tagliate; tesero catene; pattuirono
    segnali d'avviso e parole d'ordine; appuntarono alle porte delle
    caserme vari cannoncini, raccolti nelle ville del lago ed in quella
    medesima del vicerè al Pizzo; e vegliarono in armi la notte,
    intorno ad ampi fochi accesi intorno alle mura e sui colli. Le donne
    apprestavano bende e filacce, cartucce e palle; gli alunni del
    seminario apportavano i loro peltri; giungevano amici dal lago e
    dalle valli; e Francesco Scalini adduceva una squadra di 60
    carabinieri ticinesi. La giornata valse ai cittadini una ventina di
    feriti o morti; ma un centinaio a' nemici, i quali restarono
    rinchiusi, senza notizie e senza viveri. A Bergamo, l'arciduca
    Sigismondo, vedendo surgere d'ogni intorno le barricate, ingrossare
    il popolo e ridutti i croati a difendersi bruttamente dalle finestre
    delle caserme, fece chiedere a sera un abboccamento col comitato; e
    per gli operosi offici del conte Lochis, ottenne pur troppo che i
    cittadini sospendessero le offese, promettendo che i soldati non
    andrebbero a combatter Milano, e ch'ei medesimo non uscirebbe dalla
    sua dimora, se non accompagnato da guardie cittadine. Poi nella
    notte fuggì.
    Un altro arciduca, Ernesto, correva simil pericolo quella medesima
    sera in Lodi; ma la fanteria del presidio era italiana, inciampo al
    furore del popolo. S'intimò ai cittadini di consegnare al
    municipio le armi. I più deliberati, anzichè cederle,
    uscirono recandosi al soccorso di Milano; e così quel passo
    dell'Adda rimase sicuro al nemico, che per assicurarsi prese in
    ostaggio onorevoli cittadini.
    Qui hanno fine, e non parrà vero, i fatti d'arme della terza
    giornata in tutto il Lombardo- Veneto.
    Al di fuori, Parma ebbe tre ore di combattimento, in cui cadde un
    colonnello d'ungaresi con alcuni officiali e parecchi soldati
    italiani; il duca, accerchiato nel suo palazzo, offerse ai cittadini
    la consueta esca d'una costituzione; e tornando alla vita errante
    della sua stirpe, lasciò lo stato a una reggenza. Vi
    s'ascrissero un Gioia, un Maestri e altri, che si chiarirono poi
    clienti di Carlo Alberto; e attesero tosto a sventare ogni impeto di
    popolo. - A Modena, i dragoni ducali ferirono qualche cittadino; ma
    il duca, che pochi mesi prima aveva detto al popolo, «ho
    trecentomila uomini, non ho paura», spaventato, piangente,
    dichiarò «che si occuperebbe subito delle risoluzioni
    più confacenti al benessere delli amatissimi sudditi».
    Ma invero la maggior sua sollecitudine fu di aprirsi un varco alla
    fuga. E non era agevole, poichè in tutte le città
    circostanti, a destra, a sinistra, a fronte, alle spalle, ruggiva il
    terremoto popolare. - Il popolo di Bologna, a dispetto dei
    maggiorenti già secretamente accaparrati da Azeglio, mise in
    armi quella sera 500 tra popolani, studenti e finanzieri, che al
    chiaror delle faci fra gli applausi partirono, guidati dai
    republicani Livio Zambeccari e Angelo Masina, avendo «proclami
    già stampati, coll'intenzione di proclamar Pio IX a Modena e
    a Parma». Poco stante li seguì un battaglione di
    guardie civiche; ma inviluppato da superstizioni di giobertiana
    opportunità, non osò poi varcare il confine. Quando si
    pensa ai battaglioni bene armati di Parma, Modena e Bologna,
    ch'erano quella notte a poche miglia da Mantova, presidiata da
    tremila baionette tutte italiane, è forza confessare che se
    l'Italia non fu libera, egli è che ancora nol volle.
    Mantova, infatti, oltre all'aver avuto dal vicerè licenza
    d'armare 300 cittadini, animata dalle novelle di Milano, di Parma,
    di Modena, li aveva posti quella notte a guardia delle porte con
    autorità «d'arrestare i corrieri e aprire i
    dispacci». Ma in contradizione a ciò, il municipio
    vietò per editto «di munirsi d'armi a chiunque non
    fosse abilitato dal commune». E per disviare il popolo,
    raccolse denaro da gettargli sotto pretesto di lavoro,
    affinchè serbasse «calma, tranquillità e
    obbedienza a chi lo dirigeva».
    E v'erano, nel giro di poche miglia da Mantova, altre possenti
    città che avrebbero potuto, con qualche audace fatto,
    decidere delle sue sorti. V'era quella Brescia che, cinquant'anni
    addietro, aveva potuto improvisare per Bonaparte ottomila soldati e
    che nel seguente anno fece stupir l'Europa del suo disperato
    coraggio. V'era, pur nel raggio di 40 miglia, Cremona; v'erano
    Parma, Reggio, Modena, e già vicini alle sue porte i
    battaglioni bolognesi; e nel Veneto, Vicenza e Verona, e questa
    poteva trar soccorsi anche da Trento. E non sono città
    isolate, come Trieste o Ginevra; ma ciascuna d'esse è capo di
    popoloso territorio. Brescia oltre ai 40 mila abitanti della
    città, ne aveva 300 mila nella provincia e 50 mila in Val
    Camonica; Cremona ne aveva 250 mila; 190 mila Mantova; 300 mila
    Trento; 500 mila Modena con Reggio. E se si prosegue il novero delle
    altre città anzidette, si viene a sommar poco meno di tre
    milioni di popolo, munito a dovizia di denaro, di viveri, di
    veicoli. Ciascuna di quelle città poteva in uno, o due, o tre
    giorni al sommo, gettare sulle indifese porte di Mantova e di Verona
    tanta gioventù animosa e armata, quanta bastasse non solo a
    soprafare i deboli e incerti presidii, e gli avviliti principi e
    generali; ma ben anco a difenderle poscia contro gli eserciti. I
    quali, senza artiglierie d'assedio, senza cannonieri, senza
    munizioni, senza viveri, con lungo traino di feriti e di donne,
    cacciati dalle città cisalpine e venete, giunsero poi sotto
    quelle mura. Le forze di tanti popoli rimasero nel fatale istante
    inoperose. Nessuna voce tampoco si udì che le chiamasse sul
    campo; anzi da ogni parte proruppero voci autorevoli a predicar
    prudenza e pace.
    Brescia, per effetto dei molti esuli, era la città più
    allacciata dalle influenze azegliane. Benchè l'albero della
    libertà fosse già piantato in Isèo, e la Val
    Camonica in armi chiedesse solo ove marciare, il podestà, co'
    suoi collaboratori Mompiani, Lonao, Lechi e altri tali, chiedeva
    alli austriaci la concessione di armare 200 privilegiati. Dovevano
    «esser muniti d'un biglietto a stampa»; e chiunque altro
    «non sarebbe autorizzato a portar armi». - Doveva il
    signorile registro limitarsi «alle persone appartenenti alla
    possidenza e al commercio; se si trovasse opportuno si aprirebbe
    anche altro registro per gli appartenenti ai corpi d'arte».
    Non si dovevano confondere poveri e ricchi in un registro solo.
    «Tenetevi in perfetta calma»; predicavano quei campioni
    dell'indipendenza. E per invilire la plebe, ch'era pronta a dare il
    suo sangue, le buttavano un tozzo di pane. - «I possidenti
    schiusero i loro granai; i negozianti aprirono i loro forzieri;
    procurarono al municipio i mezzi di sfamare le migliaia, che tutto
    il giorno in attitudine minacciosa, stavano nella Piazza Vecchia,
    domandando armi e battaglie». Noi chiediamo alla «Croce
    di Savoia» di spiegare questi fatti. I partigiani della Savoia
    hanno impedito l'insurrezione di Brescia, o no?
    A Cremona, Schönhals aveva voluto accamparsi minaccioso in
    Piazza d'Armi con tutto il presidio; ma un battaglione del
    Ceccopieri restò in città col popolo; il quale
    alzò forti barricate, e ingrossato da contadini in armi
    percorse a grosse squadre le vie, e prese saviamente ostaggi alcuni
    capi nemici. Nella notte, anche il battaglione milanese dell'Alberto
    si diede al popolo. Ma i maggiorenti, anzichè incalzare il
    nemico, ch'era ridutto a qualche squadrone d'ulani e una batteria
    pedestre, furono lieti di publicare come le loro pratiche presso il
    comando della milizia fossero valse ad ottener la promessa che si
    sarebbero astenute da ogni atto che fosse per ingenerar diffidenza!
    Non pensavano che quando in siffatti casi l'austriaco s'astiene,
    egli è che non può. Decretarono: «Le armi non
    sono affidate che alla civica, unita sempre alle truppe di linea; il
    rimanente dei cittadini rientri tranquillo nell'esercizio delle
    proprie funzioni».
    E parimenti a Verona, benchè vi si fosse già spedita
    la favola che 50 mila piemontesi avessero assaltato il castello di
    Milano e preso Radetzky, i 400 dal vicerè privilegiati
    facevano pattuglie coi soldati per conservar la quiete. Intendevano
    solo a frenare il popolo; il quale, vedendo fornirsi di cannoni il
    Castel Vecchio, mettersi compagnie di cannonieri nel forte
    Sanfelice, raddoppiarsi i cannoni alla Gran-Guardia, due batterie
    campali appuntarsi alla piazza del Pallone, volle che si mandasse
    almeno a chieder conto al vicerè. Rispose questi, non esservi
    nulla a temere; potersi riposare sulla sua parola (la legge di
    sangue era già spedita da lui medesimo; e speravasi messa in
    opera). Egli intanto si mostrò mansuetamente pago che la
    porta del suo albergo fosse guardata dai civici, con due sole
    sentinelle croate; e per trastullare la plebe, fece levare il dazio
    dei commestibili. I manuali che a migliaia lavoravano sulla via
    ferrata di Vicenza, erano accorsi a Verona, pensando vi fosse da
    combattere. Ma le guardie privilegiate chiusero loro sul viso la
    porta; e perchè quei gagliardi si accingevano a sforzarla, vi
    fu chi li acquietò, narrando come il vicerè avesse
    concesso le armi alla cittadinanza, e promettendo che se bisogno vi
    fosse si spedirebbe a chiamarli. Aveva ben ragione il giovine
    arciduca di beffarsi di quella civica e «delli schizzetti
    rugginosi coi quali andava pattugliando», senza avvedersi che
    servivano di zimbello al nemico, e che ben tosto glieli avrebbe
    ritolti. Il comandante Gerhardi temeva veramente «ad ogni
    minuto lo scoppio della ribellione», e negava a Radetzky il
    rinforzo del reggimento Ernesto, essendochè Zichy alla sua
    volta gli negava da Venezia il reggimento Fürstenwerther.
    Bastava la sorda paura del popolo a scemar le forze al nemico. A
    crescer pericolo, giungeva allora da Milano quel battaglione Danthon
    di granatieri comaschi, bresciani e veronesi, che il sospettoso
    Radetzky aveva allontanato da Milano; e lo si faceva accampare, come
    appestato, al di là dell'Adige, in Campagnola, fuor delle
    mura.
    Anche Trento, l'antica republica episcopale, aggiogata contro animo
    all'Austria, sentiva il nuovo alito della nazionalità; i suoi
    municipali scrissero, il 20, a Mantova, offrendo fratellanza; ma la
    fratellanza di quei gloriosi giorni volevasi stringere d'altro modo.
    I trentini avevano presidio di poche centinaia d'uomini: potevano
    disarmarlo; scendere a sopracapo di Verona; dare a quei cittadini e
    granatieri l'elettrica scossa che travolge gli oscillanti.
    In quel terzo giorno, se consideriamo in generale, vediamo rotto
    l'equilibrio tra l'esercito ed il popolo, tra l'autorità e
    l'insurrezione. L'esercito cede materialmente e moralmente. Cede
    materialmente il possesso delle vie e de' publici edifici; abbandona
    in Milano e in Como la Gran-Guardia, che è il contrasegno del
    comando di piazza e del dominio militare d'una città; perde
    il possesso delle porte in Como e in Bergamo; divide per patto la
    custodia delle porte e la perlustrazione delle vie in Verona, in
    Mantova, in Vicenza, in Brescia, in Cremona; lascia alla
    balìa dei popoli le persone dei principi in Verona, in
    Bergamo, in Modena, in Parma e li riduce a trarsi d'impaccio con
    basse simulazioni. Cede moralmente, perchè discende dal punto
    fermo del diritto militare, il quale considera la resistenza come un
    delitto, e il combattente come un malfattore, e intavola colle
    rappresentanze civiche, più o meno incorporate coll'elemento
    ribelle, trattative regolari, che vengono sancite anche da
    intervento consolare, e riconoscono più o meno, e consacrano
    in massima, il diritto dell'insurrezione. «Con ribelli non si
    tratta»: questo è il principio della legge militare;
    dunque: con chi si tratta non è ribelle; la sedizione si
    trasforma in guerra; e la bilancia della guerra pende in favore del
    popolo, in una misura rappresentata dal terreno che il soldato gli
    cede. Sarebbe stato più provido e anche più onorevole
    per l'esercito l'aver lasciato volontariamente quello spazio prima
    del conflitto; e aver ricusato la battaglia per alte ragioni di
    stato e d'umanità, piuttosto che perderla per manifesta
    impotenza. Il popolo non oblierà mai d'aver vinto.
    Nel quarto giorno, i milanesi si fanno alla lor volta assalitori;
    espugnano a punta di baionetta il Genio Militare, dopochè un
    povero e storpio, Pasquale Sottocorno, ha posto il foco alla porta,
    e che Augusto Anfossi cadde sull'entrata, trafitto da una palla in
    fronte. Cacciano i granatieri e le artiglierie che difendono la casa
    di Radetzky; prendono le sue carte, portano per le piazze il suo
    uniforme di maresciallo, la sua sciabola d'onore, e la depongono
    sulla tavola del consiglio di guerra. Compagnie di giovani, armati
    in gran parte coi fucili che hanno strappato di mano al nemico,
    scegliendosi capi quei che si mostrano degni a prova di ferro e di
    foco, oltrepassano i ponti; s'inoltrano verso le porte e i bastioni,
    per interrompere quell'alta ed ampia cerchia, sulla quale il nemico
    fa scorrere liberamente le sue forze. Borgazzi, dopo aver condutti
    per la via ferrata migliaia d'armati appiè delle mura,
    penetra in città, concerta col consiglio di guerra un attacco
    di dentro e di fuori; poi torna a raggiungere le sue squadre, alla
    testa delle quali, il dì seguente, cade ucciso. Borgocarati
    ordina una comitiva di zappatori; si apprestano barricate mobili, si
    appuntano verso la Porta Tosa piccole artiglierie. Il consiglio di
    guerra anima i cittadini a uscir dalle barricate. «Prodi,
    avanti! La città è nostra; il nemico si raccoglie sui
    bastioni per avvicinarsi alla ritirata. Fategli premura;
    tormentatelo senza riposo; questa notte tutte le porte devon essere
    sbloccate. Ottomila uomini raccolti dalla campagna stanno per darvi
    la mano; le truppe straniere dimandano tregua: non lasciate tempo a
    discorsi. Coraggio! Finiamola per sempre. - L'Europa parlerà
    di voi; la vergogna di trent'anni è lavata. Viva l'Italia!
    viva Pio IX!» E i palloni volanti chiamavano gli amici,
    ch'erano fuori le mura: - «Fratelli! la vittoria è
    nostra; il nemico in ritirata limita il suo terreno al Castello e ai
    bastioni; stringiamo una porta tra due fochi e abbracciamoci».
    Intorno a Milano, «sopra una fascia di dodici miglia,
    l'insurrezione era oltre ogni credere spettacolosa. Carri con su
    armati avviati a rifocillarsi o a combattere, volavano su e
    giù per gli stradali; bande di contadini dovunque
    s'incontravano; ed era uno stringersi la mano, un incoraggiarsi l'un
    l'altro, gridando viva Milano, viva l'Italia, che ci rapiva l'animo
    di meraviglia e di giubilo». Il presidio di Monza, chiamato a
    Milano, s'indugiò, perchè gli si negarono i cavalli di
    trasporto; sopragiunsero gli insurti di Lecco; si venne alle mani;
    un maggiore cadde ferito e prigioniero; i soldati deposero le armi.
    Il colonnello Kopal, ch'era a Varese coi cacciatori austriaci,
    partì a furia per Milano, ardendo parte de' suoi bagagli,
    abbandonando i distaccamenti sparsi lungo le frontiere, facendosi
    far promessa che si lascerebbe loro libero il passo. In quel mentre,
    una squadra di 250 croati che, assalita dai contadini presso
    Appiano, fuggiva per campi e selve, evitando ogni terra abitata,
    arriva anelante nella città di Varese, per deporre le armi,
    «tanto da non finire in mano a contadini». Giunge
    d'altro lato uno dei distaccamenti dei cacciatori; sono 200;
    invocano la fatta promessa; dimandano il passo. Si concede; ma uno
    dei loro officiali invita i croati a partir seco lui. Cesare
    Paravicini gli rinfaccia ch'è un mancar all'onore; si getta
    fra le due colonne; intima ai tedeschi di partire, ai croati di
    deporre le armi. Tosto si promulga un appello: «Milano
    combatte. Chi ha un'arme, si accinga a partire». Sopravengono
    altre turbe dai monti e dai laghi; la notte si vigila fra concenti
    militari.
    A Como, nel corso di quel giorno, s'arresero tre caserme con forse
    800 croati, e alcuni ussari e cacciatori. In una delle capitolazioni
    si legge: «La truppa, tutta chiusa da infinite barricate,
    senza pane da oltre due giorni, e senza speranza umana di poterne
    avere, minacciata da immediato incendio e cannonamento, dopo aver
    tentato invano due sortite, fu costretta a venire alla seguente
    capitolazione»... Il barone Diesbach prigioniero scrive a sua
    madre: «Se siamo profondamente addolorati del nostro caso,
    abbiamo il conforto d'esser trattati nel modo più delicato e
    amichevole». Rimaneva ormai la sola caserma fuori di Porta
    Torre, da ogni parte assediata, sotto una tempesta di palle, a lato
    a due fenili che il popolo aveva posti in fiamme; la notte
    interruppe il combattimento. Era tra gli uccisi Luigi Nessi; tra i
    feriti Arcioni, capitano dei ticinesi. In quel giorno il popolo di
    Valle Intelvi e Valle Solda disarmò croati e tedeschi. Quasi
    tutte le 900 guardie di finanza del confine comasco offersero le
    loro braccia. Francesco Dolzino di Chiavenna disarmò il
    presidio di Morbegno.
    A Bergamo, risaputa la fuga dell'arciduca, il popolo furibondo
    abbattè le aquile imperiali, prese la polveriera,
    assediò i croati, che si esibirono a sgombrare, purchè
    scortati dalle guardie civiche e dai sacerdoti col crocifisso. Ma il
    popolo non volle lasciarli andare armati; ed essi, per costringerlo
    a desistere, ritennero ostaggi i parlamentari Frizzoni e Zuccala. A
    tarda notte, i croati delle quattro caserme tentarono far massa in
    una; ne nacque accanita pugna. I municipali la interruppero con
    parole di pace, esortando il popolo «ad esser indulgente, e
    lasciar partire incolumi alla volta di Verona i vinti nemici».
    A Cremona, nella notte, si erano barricate le vie, armate le case;
    «al mattino ognuno presagiva vicina la lutta; regnava la
    quiete del sepolcro». Tre ulani, che tentarono una
    esplorazione, caddero uccisi. Schönhals, chiuso in Piazza
    d'Armi, senza viveri, senza ritirata, capitolò; lasciò
    liberi i battaglioni italiani; consegnò sei cannoni con
    munizione e cavalli, ma ottenne dalla municipale debolezza di
    partire, conducendo seco la cassa di guerra, 400 ulani con armi e
    cavalli, e gli altri officiali e soldati stranieri, sotto la vana
    promessa di non combattere contro l'Italia. A Pizzighettone i
    cittadini arrestarono il comandante; e rimasero padroni della
    fortezza, con tutte le artiglierie e 700 casse di munizione. Non
    così a Mantova, ove il comitato municipale, vietando le armi
    ai cittadini, vietando le armi ad ognuno che fosse
    «illegalmente armato», elemosinava poi 500 fucili, prima
    al comandante nemico, poi per deputazione del vescovo al
    vicerè in Verona, al quale faceva anche domandare che
    ordinasse a Gorczkowski di consegnare la fortezza ai cittadini.
    Intanto lasciava libero il corso ai dispacci di Radetzky, e aperto
    il passo al duca di Modena, che sotto il mentito nome di conte
    Molin, sebbene da tutti conosciuto, potè recare in salvo la
    persona e il tesoro. Che anzi, condutto al palazzo municipale, vi
    riceve i saluti dei municipali e di tutte le autorità
    militari e civili. «Un uomo ardito propose di chiudere
    entrambe le porte del palazzo, e di ritenere ostaggi tutti quei
    signori, insino a tanto che si fosse dato ordine alle cose della
    città»; ma i membri della commissione si opposero.
    Fugitivo da Bergamo giunse a Brescia l'arciduca Sigismondo; il
    popolo savio voleva arrestarlo; i municipali insensati non vollero.
    Il popolo «da sè, senza consigli, intercettava i
    corrieri»; fermava per le strade i soldati del Haugwitz, li
    pregava a non partire; ed essi lo giuravano. Ad una voce d'allarme,
    nata per una escursione di dragoni tedeschi, si videro donne e
    fanciulli accorrere a disselciare le strade. Ma il municipio,
    com'esso diceva, «intento sempre a schivare l'effusione del
    sangue», sempre negando le armi al popolo, accettò
    piuttosto nella civica i gendarmi e le guardie di polizia; le diede
    a segnale di pace una sciarpa bianca, una piuma bianca al cappello
    delli officiali; le predicò che suo immediato oggetto era il
    publico ordine; subordinazione rigorosa; nessuna fazione, se non per
    ordine del comandante; e autorizzato questi e un consiglio a
    infliggere punizioni. E perchè i civici non potessero nuocere
    nemmeno volendo, Schwarzenberg, che aveva promesso armarli, diede
    loro pochi fucili e inetti all'uso, o perchè il fondo delle
    canne era ostrutto con piombo o legno, o perchè mancava il
    percussore. Da Val Trumpia, da Val Sabbia, dalla Francia Curta,
    dalla Riviera di Salò, venivano intanto i messaggieri di quei
    popoli chiedendo ordini alla patrizia prudenza. Così fu
    tenuta Brescia anche il quarto giorno.
    No, l'impedimento all'intera vittoria del popolo non fu nelle armi
    de' suoi nemici, ma nelle anime irresolute de' suoi maggiorenti,
    tanto corrivi a provocare il pericolo, quanto ritrosi ad
    affrontarlo. E in ciò Radetzky medesimo locava omai le
    maggiori sue speranze. Aveva egli, nella notte precedente, risposto
    ai consoli, che si terrebbe onorato di vederli in Castello alle 7
    del mattino; e in quella conferenza egli, egli stesso, propose che
    per tre giorni cessasse da ambo le parti ogni ostilità:
    «propose de cesser toute hostilité des deux
    cotés». È atto solenne, firmato da cinque
    consoli, e registrato nelle carte del parlamento britannico. E non
    importa se il Willisen ebbe a spacciare che Radetzky diede una secca
    e aspra ripulsa ai consoli stranieri, e fece significar loro ch'ei
    ben saprebbe ridurre al dovere i ribelli: «man werde wissen
    die Rebellen zu Paaren treiben». Nè importa con quale
    insolenza i generali affettino ora di parlare dei consoli che furono
    testimoni dell'avvilimento loro: «anche i consoli stranieri si
    mescolarono al combattimento; poichè debbono pur cacciare il
    naso, ovunque siavi da far qualche imboglio: da sie überall die
    Nase haben müssen wo es etwas zu verwirren gibt». Ah! in
    quell'istante era pure la sola àncora di salvamento. E con
    quale ansietà Radetzky l'attendesse, ben si palesa nella
    chiusa del suo dispaccio a Ficquelmont: «Le mie notizie delle
    provincie sono poche e tristi; tutto il paese è sollevato; e
    anche il popolo delle campagne è in armi; a due ore dopo
    mezzodì, l'armistizio non è ancora conchiuso,
    poichè, sino a quest'ora, nessuno della città mi si
    è presentato». La minuta della conferenza consolare del
    21 marzo conferma come Radetzky mirasse solo a ingannare i consoli e
    i cittadini. Si assicurava, infatti, il passaggio dei viveri
    (l'entrée et la sortie des personnes portant des vivres): il
    passaggio dei corrieri (laisser passer les postes et les couriers):
    il diritto di tagliare a pezzi i soccorsi delle provincie (se
    réservant d'empêcher l'entrée en ville de la
    population des campagnes, et plus particulièrement des
    personnes armées), e si preparava un'anticipata scusa a
    improvise ostilità, ammettendo quelques coups de fusil
    isolés qui pourraient étre tirés.
    I municipali ingoiavano l'esca avidamente. Parevano in perpetua
    congiura contro se stessi e la patria; non avevano il minimo
    presentimento che il principe potesse averli già consegnati
    al braccio militare. Miravano con obliquo sguardo gli onesti
    oppositori che si adoperavano a ritrarli dalla prigionia e dal
    supplicio. La lettera del giovine arciduca era chiara e precisa:
    «tutti i prigionieri si dovevano fucilare»: «alle
    Gefangenen sollte man füsilieren». Perocchè non si
    interponevano allora a favor dei ribelli secrete stipulazioni di
    regio alleato, che potesse in faccia alli austriaci vantarsi d'aver
    cooperato a rimettere in forza loro il paese; e che dovesse per
    necessità d'onore, e anche con autorità di maggiori
    potenze, patteggiar la salvezza de' suoi seguaci. Epperò il
    nefando diritto del piombo e del capestro avrebbe avuto in Italia il
    campo atrocemente libero, come l'ebbe colà dove soggiacquero
    Batthyany e Blum. Sarebbe dunque stato pietoso nel sangue delli
    aborriti italiani, chi fu così spietato nel sangue de' suoi?
    In aspettazione che la legge marziale desse arbitrio di metter mano
    sulla vita de' grandi, s'infieriva tra le latebre del Castello
    contro i plebei. «Incominciavano le esecuzioni militari: il
    giorno 20, ne scorgevamo passare un dodici per il cortiletto, ove
    pare vi fosse una specie di consiglio. In un'ora furono giudicati;
    uscirono in mezzo ad una turba di soldati furiosi e imprecanti; e
    per la porta grande tratti nella terza corte. Scorsi pochi minuti,
    ne giunse all'orecchio un funesto scoppio. Cadevano sul margine
    della fossa del terzo cortile. Il 21, altri colpi, nel terzo
    cortile, ci avvertirono che altre vittime cadevano».
    La sola necessità dell'esempio può scusare, s'è
    possibile, l'uomo che trae l'uomo al patibolo. Ma un supplicio
    clandestino è un vile omicidio. Ora dicano i fautori
    dell'Austria a cui fossero d'esempio quelle morti, inflitte in
    secreto, per ignote colpe, a uomini che sparvero dal consorzio dei
    viventi senza che alcuno sapesse se per crudele giudicio o per caso
    di guerra. E un'altra dimanda facciamo. Entro, e intorno, a quelle
    orride fosse in cui colavano le latrine del Castello, si raccolsero
    fra i molti cadaveri alcune reliquie di membra feminili. Chi aveva
    ucciso quelle donne? Chi sa i nomi dei cavallereschi officiali che
    sedevano a giudicarle, e a darle da trucidare e mutilare ai soldati,
    e da gettare insepolte in luogo immondo?
    E ancora, fra le luttuose memorie, ci conforta che il nostro popolo
    ha le mani pure di siffatte viltà.
    I più infervorati nell'armistizio erano Durini e Borromeo; il
    primo per certi suoi cavilli che altri non saprebbe facilmente
    ritessere; il secondo perchè s'era fitto in mente che entro
    24 ore la città sarebbe, senza viveri e senza munizioni. Gli
    rispondeva Carlo Cattaneo che l'armistizio avrebbe rotto l'impeto
    del popolo, e dato agio al nemico di far macello dei soccorritori;
    l'esempio apporterebbe contagio; uscirebbero nel primo giorno i
    forestieri e i timidi; nel secondo i prudenti; nel terzo i valorosi.
    Il nemico, che aveva fornito fin allora le munizioni, le fornirebbe
    ancora; se non bastassero 24 ore di viveri, basterebbero 24 ore di
    digiuno: il nemico non poteva reggere più a lungo sulla linea
    dei bastioni: e già v'erano concerti di forzarla in quella
    medesima notte. Infine dovesse pur mancare il pane, meglio morir di
    fame che di forca.
    La gioventù intanto fremeva; giunsero in solenne comitiva i
    consoli. Ed ebbero dal Casati il rifiuto dell'armistizio, «in
    nome dei cittadini che attualmente si adoperavano alla difesa della
    città, avendo il municipio un'autorità limitata dalla
    forza delle circostanze». Così fu risposto. I consoli
    scrissero a Radetzky che la sospensione d'ostilità, ch'egli
    li aveva incaricati di proporre al municipio, non era accettata:
    «n'a pas été acceptée». Lo
    pregavano di nuovo che consentisse un salvacondutto ai loro clienti,
    in caso che dovessero correre più gravi pericoli. Gli
    scrissero poi la dimane, a nome delle famiglie e dei prigionieri in
    Castello, i quali si credevano assai maltrattati (fort mal
    traités); attestando che i cittadini trattavano i loro
    prigionieri benissimo (parfaitement bien), come poteva dire per
    prova l'officiale austriaco apportator della lettera. Rispose
    Wallmoden scusando le circostanze, la penuria, le molte truppe
    addensate in angusto spazio. Ma poteva ciò scusare le
    contumelie e le percosse e le furtive uccisioni?
    Pare che Radetzky, tostochè, nel pomeriggio del quarto
    giorno, ebbe ricevuto quella ripulsa, non pensasse se non a
    raccoglier d'ogni parte le sue forze e accingersi alla ritirata.
    «Nella giornata del 21», scrive un officiale austriaco,
    «vista la seria piega che prendevano le cose in Milano,
    spedì il maresciallo uomini in tutte le direzioni con ordini
    espressi alle piccole guarnigioni delle vicinanze e alle brigate che
    custodivano i confini, di recarsi immediatamente sulla capitale.
    Forse sperava, rinforzato di nuove truppe, di domare ancora il
    movimento; forse volgeva già allora nell'animo la ritirata e
    ne preparava i mezzi. Il corriere di Magenta, vi giungeva difatti la
    notte del 21 al 22». Un medico che fu prigioniero scrive:
    «Era chiaro che il popolo acquistava ad ogni istante terreno;
    vedevamo uscire i soldati a compagnie e ritornare a drappelli;
    uscivano furibondi e tornavano col pallore sul volto, sozzi di
    sangue e feriti. Sdraiati nel fango sanguinoso de' cortili, facevano
    orrido spettacolo. Radetzky doveva pensare alla ritirata; le
    soldatesche affamate non avevano più fede nei loro capi;
    s'egli avesse tardato ancora un giorno, avrebbero tumultuato. La
    fucilata si udiva sempre più vicina; le palle ribattevano per
    le mura del Castello; alcune per la loro grossezza parevano lanciate
    da piccoli cannoni. Il popolo, dunque, si avvicinava; spesso ci
    pareva udirne il minaccioso ruggito. Il dì 20 e il 21, si
    vedevano già i cortili del Castello pieni di carri e di
    carrozze. L'ordine della partenza era dato, poi rivocato».
    Narra un soldato italiano del Geppert: «Dopo quarantotto ore,
    siamo tornati in Castello, il martedì; maggior confusione;
    molti carri e carrozze; mucchi di bauli ed altri preparativi di
    partenza; si condussero dentro buoi e vitelli, si ammazzavano, si
    facevano in pezzi, si mettevano a bollire mangiandosi mezzo crudi.
    Entrarono, urlando come bestie, alcuni croati; due o tre avevano
    infilzato sulle baionette poveri bambini; alcuni dei nostri
    abbassarono le armi per andare a punire i barbari. Eravamo tutti
    pallidi di rabbia. Si sentivano dappresso le fucilate; un tirolese
    fa ucciso da una grossa palla di spingarda nel cortile
    medesimo».
    La linea nemica era già quasi interrotta presso la Porta
    Tosa, ove si combattè caldamente tutto quel giorno. Al di
    dentro, il popolo s'era stabilito nel Conservatorio; di fuori,
    presso la stazione della Via Ferrata; in quell'intervallo di 300
    metri i due fochi s'incrociavano, radendo il dorso del bastione,
    ch'era selciato di cadaveri. Inanzi mezzanotte, era fatto concerto
    di salir d'ambo le parti sul bastione e trincerarsi. «Io con
    un lumicino», depone un testimonio, «accompagnai
    l'ingegnere Cardani e diversi altri, tutti armati di fucile e
    carabine. Alcuni zappatori, diretti da Borgocarati, entrarono nel
    giardino; procurai loro una leva di ferro per aprire una breccia nel
    muro di cinta. Cardani li condusse per gli orti sui bastioni. Ivi
    furono da noi calate le scale al di fuori, lungo le mura, onde
    avessero ad ascendere quelli che si trovassero esternamente;
    sfortunatamente non si vide nessuno». Gerolamo Borgazzi,
    avendo raccolti, fuori le mura, duemila armati, era penetrato, solo,
    in città per fare quell'accordo col consiglio di guerra; ma
    pare che il nemico, avvistosi di tanta adunata di gente, occupasse
    con forze esuberanti la stazione e le case vicine, ponendo a ferro e
    foco ogni cosa. Borgazzi dovè trasferir l'assalto ad altra
    parte, ove, la dimane, alla testa de' suoi, cadde ferito a morte. Ad
    alcuni altri venne fatto di uscire della città, guadando un
    aquedutto sotterraneo; ed anzi il consiglio di guerra faceva sviare
    un altro corso d'acqua per fare una mina sotto la batteria che il
    nemico aveva collocato inanzi alla Porta Tosa; ma non si ebbe animo
    di prodigare, in un sol colpo incerto, tutta la polve ch'era
    necessaria. Intanto che i fonditori apprestavano qualche cannone, se
    ne trovarono tre piccoli e due spingarde, che i cittadini portarono
    sulle spalle a Porta Tosa. Il professor Carnevali e il pittore
    Borgocarati apprestavano barricate mobili di fascine pesanti, colle
    quali affrontar da presso la mitraglia. Ad ogni modo la linea si
    sarebbe in qualche punto sforzata; e con ciò tolti i viveri,
    intercetti gli ordini, sconnessa la mole nemica. A tale erano le
    cose, sulla fine del quarto giorno; la vittoria del popolo era
    certa.
    E v'era chi aveva già pensato a usufruttarla. Finora non si
    pose mente, ma col procedimento nostro di registrare per loco e
    tempo ogni fatto, non poteva rimanerci inosservato come, nel
    proclamare la guerra d'Italia, precorresse a ogni altro principe il
    granduca di Toscana: - «Firenze, 22: è mezzogiorno; il
    popolo assembrato dinanzi al palazzo del commune, dimanda armi,
    perchè vuol correre ad unirsi ai bolognesi, per salvar Modena
    e passare in aiuto a Milano; il gonfaloniere invita i civici ad
    inscriversi presso il rispettivo capitano; gli gridano: questo non
    è altro che un perditempo. Il popolo s'adira; corre in piazza
    gridando: abbasso il ministero. Il ministro parla al popolo: fra due
    ore partirà la truppa». Ed esce tosto un bellicoso
    manifesto del granduca: - «Toscani! l'ora del completo
    risorgimento d'Italia è giunta improvisa. Io vi promisi
    l'altra volta di secondare a tutta possa lo slancio de' vostri cuori
    in circostanze opportune; ed eccomi a tener parola. Ho dato gli
    ordini necessari perchè le truppe regolari marcino senza
    indugi alla frontiera. I volontari che desiderano seguire le
    regolari milizie, riceveranno un'organizzazione istantanea. Duolci
    che l'egregio Collegno, a cui una improvvisa infermità tolse
    di spinger più inanzi l'ordinamento dei volontari non possa
    oggi esser con loro. Affretto colle mie premure la conclusione d'una
    potente lega italiana, che ho sempre vagheggiata, e della quale
    pendono le trattative». Queste parole dell'arciduca
    austro-italico sono piene d'ambagi. L'inviato britannico scrisse da
    Firenze a lord Palmerston: «Qui l'aggregazione dell'intero
    Stato di Modena e Parma alla Toscana si allega come un diritto
    incontestabile». - Diritto? È ignoto ancora al mondo il
    titolo sul quale un tal diritto poteva fondarsi. Il granduca, che
    aveva già conquistato Lucca, doveva dunque stendere le sue
    conquiste sino al Po? Era forse un mezzo termine, per accaparrare,
    nel nuovo ordine di cose, alla progenie austriaca il godimento di
    Modena e di Parma? Era in accordo con Carlo Alberto? O era in
    conflitto con lui? E qual era l'improvisa infermità che tolse
    all'egregio Collegno di ordinare i volontari toscani, ma che non gli
    tolse di correre, poco stante, a Milano a ordinarvi l'esercito del
    governo provisorio? Ludovico Frapolli, il quale potè veder
    molte delle cose che allora si maneggiavano alle spalle del popolo
    combattente, parla d'un regno d'Etruria, d'una lega di sei Stati
    italiani, d'un appoggio chiesto alla Francia contro il futuro regno
    dell'Alta Italia. E l'ammiraglio Baudin or ora rivelò come la
    casa di Toscana, parimenti col favore della Francia, contendesse
    alla casa di Savoia anche il trono di Sicilia. Ma questa essendo
    indagine che appartiene ad altro luogo, aggiungeremo solo che il
    granduca, non appena ebbe annunciato, il 21, d'adoperarsi «pel
    risorgimento d'Italia» e per secondare «lo slancio dei
    cuori», trivialmente dichiarò, il 22, d'occupare i
    territori estensi «provisoriamente e in linea di semplice
    presidio», considerando che la quiete e la sicurezza de' suoi
    domini potrebbe essere compromessa dai disordini che quivi si
    manifestassero. Questa bilingue politica del ministerio di Cosimo
    Ridolfi venne, indi a pochi giorni, seguita dal ministerio di Cesare
    Balbo. Dicevano i fiorentini antichi: tanto vale altri quant'altri.
    Che faceva tra sì repentine risoluzioni il comitato albertino
    di Firenze? Favoleggiava che il regio suo patrono fosse già
    coll'esercito oltre Ticino. La Patria con imperterrita audacia
    asseriva: «Il Piemonte si rovescia sulla Lombardia; spedisce
    un corriere alla republica francese per avvisare ad entrare di
    concerto; tenete per certo che Carlo Alberto è entrato in
    Pavia; una lettera di Genova, giunta questa matina, porta a notizia
    che quattordici battaglioni piemontesi e quaranta pezzi di cannone
    sono entrati in Lombardia». E in data di Stradella del 22, a
    ore otto di sera: «La truppa piemontese ha fatto il primo
    ingresso in Milano, verso le due dopo mezzodì; e fu il corpo
    dei bersaglieri che vi entrò dalle mura».
    E il grande agitatore, Massimo Azeglio, che faceva intanto a Roma?
    Il 21, alla prima novella della eruzione di Milano, migliaia di
    volontari «diedero il nome»: era come al tempo dei
    consoli antichi: nomina dederunt. Un testimonio di vista scrive:
    «Invano i moderati di qualunque paese, compreso l'Azeglio,
    tentarono di frenare quell'impeto».
    Nè gli Azegliani di Bologna operarono altrimenti. «Al
    mezzogiorno (del 21), l'antiguardo dei finanzieri condutto da Tanari
    passò il confine estense; il rimanente con Zambeccari
    marciò indi a poco; e la compagnia di Medicina, dopo una
    tappa di 40 miglia senza prender riposo, ne formò il
    retroguardo. Alla sera, la colonna entrò in Modena. Gli altri
    rimanevano, per ordine del Bignami; Zanetti chiamò gli
    officiali all'ordine; e diede consegna di non lasciar uscire alcuno
    dalla cinta del forte (Forte Urbano). Intanto si spedivano da
    Bologna dispacci e corrieri al duca. Il Bignami ordinò pel
    mattino del 22 la contromarcia su Bologna». Ed anche la
    colonna di Zambeccari venne tosto richiamata.
    Il governo ducale era ovunque in rotta; insurgevano Guastalla,
    Pontremoli, Avenza; ma rimase sventata la decisiva impresa che,
    prima del ritorno di Radetzky e Daspre, potevasi in poche ore
    facilmente compiere dai battaglioni di Modena e Bologna:
    l'occupazione di Mantova. Fu detto, che se erano certi d'entrare
    nella città, non erano certi d'entrare in Cittadella e in
    Pietole. Nessuno lo può dire; e ad ogni modo Cittadella e
    Pietole, senza la città, erano due forti, e non una piazza
    d'armi e di rifugio per un esercito disfatto. Quell'inazione degli
    albertini che abbiamo notata in Brescia e in Bologna, fu manifesta
    anche in Reggio e Piacenza. Tutte queste città seguirono
    debolmente i moti di Milano, di Roma, di Modena, di Parma,
    perchè già era posta una delle secrete norme dei
    fusionari: alienare le provincie dalle capitali: sedur quelle per
    costringer queste.
    E anche in Parigi, mentre col patto dell'Associazione Italiana erasi
    accaparrata al Piemonte l'iniziativa, Gioberti scriveva per disviare
    da quell'iniziativa il Piemonte, predicando «pacatezza,
    sedatezza, per amore del cielo»; e all'uso gesuitico, infamava
    chi dicesse altrimenti: «ho buono in mano per credere che
    l'Austria ha la sua parte in tali rumori; certe cose non si possono
    sapere in Italia come a Parigi». Certo, a suo dire, quei
    valorosi che si facevano uccidere sotto ai bastioni di Milano, erano
    pagati dall'Austria! Senonchè il Piemonte aveva ben
    più autorevoli consiglieri. Abercromby inculcava «la
    più stretta neutralità»; e dichiarava
    «funestissimo errore il lasciarsi in alcun modo
    compromettere».
    Per le quali cose tutte, era ben da aspettarsi che nessun adunamento
    di truppe vi fosse al confine. I reggimenti, se badiamo alla
    Gazzetta Piemontese, si ebbero poscia a chiamare fin da Nizza, da
    Torino, da Genova. Il presidio di Novara era di 1500 uomini; e
    ciò mentre gli Austriaci avevano tra il Ticino e l'Adda, in
    un intervallo di due marce, sette brigate. Un reggimento di cavalli
    ch'era a Vigevano inviò distaccamenti verso il Gravellone; i
    quali insieme a qualche compagnia di fanti «tenevano indietro
    la gente animosa», non volendosi «intervento
    legale»; e respingevano anche una sessantina di lombardi che
    il maggior Peroni condusse da Genova. A Francesco Simonetta fu
    intimato in Arona di consegnare le armi che aveva seco sopra un
    battello a vapore; e si trovò modo che tornassero alle case
    loro certi contadini novaresi che volevano accorrere a Milano a
    difendere i loro padroni. Si avevano nella Lomellina solo
    «armi raccogliticce, grame, quasi inutili». I volontari
    genovesi ebbero «a scappare colle armi della civica, che il
    governatore aveva loro duramente negate». Il ministro Ricci
    ricusò un centinaio di fucili al valoroso Torres; un
    assembramento che chiedeva armi in Torino fu fatto disperdere dalla
    civica; solo pel Sonderbund si erano, senza scrupoli internazionali,
    donate a migliaia le buone armi. I magistrati tenevano a bada i
    popoli colla tarda amnistia, colla legge elettorale, con passeggiate
    militari da Mondovì a Nizza, con arrolamenti di battaglioni
    futuri, coi quali si legava la gioventù più fervida, e
    anco gli israeliti e i forestieri. E si predicava che i genovesi non
    dovevano lasciar «senza forze» la loro città; e
    che gli «ammogliati» dovevano restare alle case loro; e
    che le navi inglesi avrebbero bombardato Genova, s'ella osava dar
    soccorso ai ribelli di Milano. Infine si prometteva di fare, a
    giorni, un campo d'osservazione; il quale, se non dava alcun aiuto
    ai combattenti, avrebbe, al dir d'Abercromby, «il vantaggio di
    calmare il publico ardore».
    Senonchè l'efficacia del campo calmante di Cesare Balbo non
    poteva giungere oltre il confine. E turbava i sonni costituzionali
    del ministerio quella nuda alternativa che si era spedita, pochi
    giorni inanzi, da Milano, sopra mezzo pollice di carta: o passate, o
    republica. E a questo motivo si riducevano le infinite variazioni
    che i promotori della guerra facevano risonare alli orecchi del re.
    «Se l'insurrezione vince, prima che la bandiera di Carlo
    Alberto sventoli sui bastioni di Milano, questa costituirassi in
    republica, collegherassi a Svizzera e Francia; e Milano non
    vorrà certamente sottomettersi a chi non accorreva pronto
    quando l'ora dell'agonia pareva sonata. Se la Francia anticipa i
    principi della penisola nel combattimento della nazionalità,
    la gratitudine farà republicani i milanesi, che il dolore e
    la speranza faceva costituzionali». Se adunque importava al re
    di conformarsi umilmente alli imperiosi consigli britannici,
    importava eziandio confortare i milanesi nella costituzionale
    speranza. Alla politica della mano destra era mestieri fare la
    consueta altalena colla politica della mano mancina. «Il conte
    Arese di Milano arrivò qui l'altra notte, (19), a dimandar
    soccorso al Piemonte per gli insurti lombardi; egli vide i ministri
    ieri matina, (20), e ripartì la sera per Milano, assai deluso
    del nessun esito della sua missione; mi si afferma positivamente
    ch'egli non vide sua maestà sarda». Così
    scriveva sir Ralph Abercromby a lord Palmerston. Altri crede che
    Arese avesse veramente colloquio col re nelle stanze del conte di
    Castagnetto; ma ciò non monta; poichè ad ogni modo,
    finchè le sorti di Milano rimasero dubie, i soccorsi non
    vennero; e Arese ebbe sì fiacche speranze, che non
    credè prezzo dell'opera recarle ai combattenti; e si rivolse
    altrove.
    Senonchè, già prima ch'egli fosse arrivato a Torino,
    pare fosse di là partito il conte Enrico Martini, che,
    passato il confine presso Magenta la notte del 19, e giunto la
    matina del 20 presso Milano, vi si aggirò sino al dì
    seguente, quando trovò modo di farvisi introdurre travestito
    con quelli che apportavano in città il sale pei soldati.
    «Io sono inviato di Carlo Alberto», egli asseriva;
    «trentamila piemontesi stanno al Ticino, e attendono solo
    l'invito del governo di Milano per passarlo». A chi era fra
    quelle angoscie, il desiderio faceva parere i soccorsi del Piemonte
    sì certi e pronti, che, in quel dì 21, alcuno corse a
    riferire al consiglio di guerra di averli veduti colli occhi suoi
    dall'alto dei campanili; e il consiglio lo partecipò tosto al
    popolo: «La città è attorniata di numerose bande
    venute da ogni parte, fra cui si vedono uniformi di bersaglieri
    svizzeri, e piemontesi che hanno precorso i loro corpi che passano
    il Ticino». Ma fuori le mura, il popolo, avendo ben altre
    notizie e pur troppo certe, del Piemonte, fremeva; onde scrisse
    taluno alla Concordia, il 21: «Scrivo al rimbombo del cannone;
    mi sento cascar l'anima pensando a quei poveri infelici che si
    trovano in Milano; qui nel borgo bestemmiano contro i piemontesi,
    perchè non portano soccorso; mi tocca parlar milanese,
    perchè da ieri che aspettano i piemontesi, sarebbe imprudenza
    farsi conoscere».
    Martini dimandò ai municipali che facessero invito al re, in
    forma di dedizione. I municipali chiesero l'assenso del consiglio di
    guerra. Rispose questo: non potersi donare il paese senza il voto
    del popolo: nè quelli esser momenti di ritrarlo dalla
    battaglia a controversie politiche. A guerra vinta, si vedrebbe.
    Darsi al Piemonte era porre in sospetto tutti gli altri principi. E
    inoltre, come fidare di chi li aveva già traditi nel 1821? di
    chi li lasciava, in quell'istante medesimo, sotto la mitraglia?
    Erano dunque contenti d'essersi affidati nel 1814 alla casa
    d'Austria? Se l'Austria era straniera, tutte le famiglie regnanti
    erano straniere, pronte tutte a cospirare colli stranieri. Era
    necessario far guerra di nazione, chiamar tutta Italia. Se poi un
    solo principe recasse soccorso, avrebbe egli solo la gratitudine dei
    popoli. Dargli il paese era inutile; poichè sarebbe suo, s'ei
    vinceva; e se non vinceva, non sarebbe suo, nemmeno se glielo
    dessero cento volte. E tosto il consiglio presentò ai
    municipali, con molte firme di cittadini, una dichiarazione che la
    città di Milano domandava il soccorso di tutti i popoli e
    principi d'Italia; e la sparse anche al di fuori coi palloni
    volanti. E scrisse altro appello a tutte le città,
    perchè costituissero consigli di guerra, i quali lasciando ai
    municipi gli altri affari, attendessero a questo unico; e
    dimandò a ogni terra d'Italia una deputazione di baionette.
    Le ambizioni e le fusioni perdettero la guerra; una semplice
    federazione militare l'avrebbe vinta.
    Martini, vedendo la incertezza dei municipali, sollecitava lo stesso
    consiglio di guerra a costituirsi in governo provisorio per fare la
    dedizione a Carlo Alberto. «Sa ella», diceva a Cattaneo,
    «che non accade ogni giorno di prestar servigi di questa fatta
    a un re?» L'altro gli rispondeva e a voce e in iscritto, che
    l'amore dell'indipendenza avrebbe fatto dimenticare la
    libertà, che la parola gratitudine avrebbe fatto tacere la
    parola republica, ma che il re non poteva esigere anzi tempo il
    prezzo d'un servigio che non aveva reso. Doveva il Martini recar in
    Piemonte la risposta dei municipali quella medesima notte; fu fatto
    condurre due volte al bastione di Porta Tosa ov'erano appoggiate le
    scale; ma non volle uscire. Intanto verso l'alba del 22, il
    municipio deliberò finalmente di dichiararsi, non sappiamo
    per mandato di chi, governo provisorio. E nella successiva sera
    scrisse al ministro Pareto accreditando presso di lui il conte
    Martini. Era strano quell'accreditarlo presso coloro che lo avevano
    inviato. S'era inviato del re, doveva riportargli in tal sua
    qualità la risposta dei municipali: non poteva svestire la
    sublime livrea di suo messaggiere per ricomparirgli inanzi
    incaricato dei municipali e «d'alcuni abitanti
    notabili», che invocavano l'aiuto delle armi della sacra sua
    maestà.
    Al mattino del quinto giorno, in un avviso dei municipali si lesse:
    «L'armistizio offerto dal nemico fu da noi rifiutato, ad
    istanza del popolo, che vuol combattere». E più inanzi:
    «Questo annuncio vi vien fatto dai sottoscritti, costituiti in
    governo provisorio, che reso necessario da circostanze imperiose e
    dal voto dei combattenti, vien così proclamato». Il
    voto dei combattenti era una millanteria; i combattenti non avevano
    votato. E pochi momenti dopo, in altro avviso, si aggiungeva una
    perfidia: «I buoni cittadini di null'altro debbono adesso
    occuparsi che di combattere. A causa vinta, i nostri destini
    verranno discussi e fissati dalla nazione».
    Il governo era un'assurda compagine di due elementi, l'uno giovanile
    e ideale, l'altro triviale e senile; il primo era in pugno al
    secretario Cesare Correnti, il secondo al conte Giuseppe Durini. La
    mutua loro ripugnanza venne espressa nel così detto Libro del
    Re, ove un capitolo, scortesemente intitolato Umori del governo
    provvisorio, deplora che, togliendo pochi, «i restanti membri
    del governo appartenessero alla fazione republicana». E venne
    espressa dal Correnti medesimo con quelle veementi parole:
    «Orribile supplicio è il mio, che dalla sfera del
    divino ideale sono trascinato nella realtà dura e spesso
    schifosa». Così è; devoto a domestiche
    aspettazioni, il governo, ove si eccettui il conte Borromeo, non
    aveva nemmeno in sè l'elemento dell'opulenza; e quindi
    rappresentava gli interessi piuttosto come servo, che come padrone.
    Ma esso era una necessità; dacchè il patto che gli
    soggiogava l'incauta gioventù, e ch'era parte d'altra
    più vasta transazione la quale involgeva gli esuli e
    l'Italia, non si poteva in quei fatali istanti infrangere, senza
    porre a repentaglio la commune salvezza. Era forza mietere
    ciò che si era seminato.
    Attratti dall'autorità del nome municipale, altri cittadini
    gli si erano ordinati intorno, il terzo, e il quarto dì, in
    vari comitati per provvedere ai feriti, ai poveri, ai prigionieri e
    ad ogni altro presente bisogno. E si era contraposto al consiglio di
    guerra un comitato di difesa, composto d'altri elementi. Ma non ne
    nacque conflitto; anzi nel mattino del quinto giorno, si congiunsero
    in un unico comitato di guerra. Si convenne che ne fosse preside
    Pompeo Litta, l'unico dei membri del governo dal quale si potesse,
    senza ripugnanza, dipendere. Tanta è in Italia la potenza
    delle tradizioni municipali, che una congregazione nominata
    dall'imperatore e affatto estrania ad ogni suffragio di popolo,
    parve il più opportuno e fido presidio del popolo contro
    l'imperatore. E così avvenne in tutte le altre città.
    Non si disse, a cose nuove uomini nuovi; ma, a cose nuove uomini
    vecchi.
    Nel quinto giorno, Radetzky si accingeva alla ritirata: le truppe
    richiamate dai confini si addensavano intorno alla città,
    incalzate al di fuori dalle turbe campestri, affrontate al di dentro
    dai baldanzosi cittadini. Ogni moto del nemico era esplorato
    dall'alto dei campanili, e riferito al comitato di guerra con pronti
    avvisi, che si calavano dall'alto rapidamente, avvolti ad anelli
    scorrenti sopra filoferro; e si apportavano da garzoni che Cernuschi
    aveva ordinati a guisa di posta. In una di quelle carte scritte
    colla matita, leggiamo: «Ore 12: molte truppe da Porta
    Vercellina si portano al Castello: interi battaglioni». Era la
    brigata Maurer che giungeva dalla frontiera piemontese. Nel corso
    del giorno tutte le caserme furono accerchiate dal popolo e
    occupate; dappertutto si scoprivano armi e munizioni. I volontari
    dei dintorni (cioè della pianura milanese) congiunti con
    altri che venivano da Crema, da Soncino, dal Bresciano e dal
    Bergamasco «attaccarono la Porta Vigentina, portando seco
    scale; alcuni salirono fin sul parapetto; ma l'ardito tentativo di
    penetrare in città da quella parte non riescì».
    Il sommo sforzo de' cittadini s'era rivolto verso la Porta Tosa, ove
    il nemico alla volta sua rinovò forse cinque volte con truppe
    fresche il combattimento. Fu quella una vera battaglia, sostenuta
    dall'alba a sera con indefesso ardore. E non era posizione propizia
    ai cittadini, perchè, quartiere poco abitato e senza esterno
    sobborgo, non porgeva ai combattenti colà venuti aumento di
    forze. Era anzi opportuna alle truppe; le quali avevano inanzi alle
    bocche dei cannoni una strada rettilinea, lunga mille passi e larga
    forse cinquanta; e potevano attelarsi in doppia fronte sul bastione
    e sulla circonvallazione, sulla via ferrata e sulla via di Crema,
    riparandosi nella porta stessa, e in alcuni edifici dentro e fuori
    la città. Dicevano gli avvisi: «Ore dodici: a Porta
    Tosa, fuori, molti de' nostri battono fortemente, e i militari
    fugono precipitosi; aiutate i nostri e vinceremo. - Ore dodici e un
    quarto: il nemico riparato nel Dazio e nelle case a mezzodì
    del corso; due cannoni arrivati in sussidio al nemico obbligheranno
    i nostri a ritirarsi dalla posizione vantaggiosa che occupavano. -
    Ore dodici e mezzo: molta truppa e sei pezzi di cannone sono
    arrivati da Porta Orientale a Porta Tosa; abbisogna su quel punto
    molto rinforzo». Verso mezzogiorno «le barricate mobili
    eransi avanzate a tale che dall'ultima finestra delli edifici
    dell'ala sinistra sventolava la bandiera tricolore; la cavalleria e
    la fanteria cominciavano a ritirarsi, quando una batteria appuntossi
    verso l'orfanotrofio e il Corso, vomitando incessantemente mitraglia
    e granate, che appiccarono il foco; i nostri per un istante parvero
    cedere, già ardeva la prima barricata; due morti, e quindici
    più o meno gravemente feriti». Luciano Manara scriveva
    al comitato: «Siamo all'ultima casa, la nostra bandiera vi sta
    già sventolata. Avremmo già vinto, se un poderoso
    rinforzo di linea e di cannoni non fosse in questo punto arrivato;
    mi si dice che scarseggiano molto le munizioni da fucile; mandatene;
    vinceremo o moriremo».
    Le difficoltà per tal modo, a Porta Tosa, crescevano d'ora in
    ora. Ciò nondimeno i pochi che potevano allegare esperienza
    militare, si ostinavano a continuar l'assalto in quel punto, e pei
    preparativi già fatti, e perch'era il più vicino al
    cuore della città. A parer loro non conveniva far punte, ma
    allargarsi equabilmente in tutto il circuito. Assai più
    agevole sarebbe stato far forza nei quartieri più popolosi,
    quantunque più remoti, ponendo la mira alli intervalli tra
    porta e porta, ove il nemico non aveva spazio da accumular forze,
    nè strade molteplici da pervenirvi. E perciò, senza
    distaccare, un solo combattente dalle altre posizioni, Cattaneo
    potè, verso mezzodì, interrompere al nemico la linea
    tra la Porta Ticinese e la Vercellina. «Gli spazi erano
    affatto deserti; un denso fumo velava ogni cosa; era presso il
    meriggio, e pareva sera. Non appena ebbimo fatto intendere che
    dovevano solo spingere attraverso alla via carri e carrozze, che
    quasi per incanto balzarono fuori d'ogni parte giovani armati; e
    ancor prima di chiuder bene que' ripari, bersagliavano audacemente i
    nemici accosciati sul bastione. Qualche ora dopo, il bastione veniva
    raggiunto alquanto più a tramontana, dalla compagnia del
    cittadino Colombo». V'è qualche indicio che ciò
    sia bastato a mutar tutto l'ordine della ritirata, essendochè
    un officiale scrive: «Gli imperiali erano già limitati
    alle sole porte e a parte della linea di circonvallazione; dico
    parte, dacchè quella, per esempio, da Porta Vercellina a
    Porta Ticinese e vari altri pezzi erano già in mano delli
    insurti». E l'opera publicata a Zurigo, e ricavata dalle carte
    dello stato-maggiore, descrive in modo incerto la ritirata, non come
    si operò, ma come si era disegnato operarla, se non vi fosse
    stato l'ostacolo anzidetto. «L'esercito si mosse in cinque
    colonne; probabilmente due dalla parte di mezzodì, e tre
    dalla parte di settentrione, seguendo una colonna il bastione
    meridionale, e due il settentrionale o Corso; e tanto qui come
    là, una colonna il viale di circonvallazione».
    Cadeva già la sera, quando i cittadini fecero l'ultimo sforzo
    a Porta Tosa. «Chi ci comandava», narra l'operaio
    Biraghi, «era Manara: io banderale: e Cernuschi rappresentante
    il governo provisorio; dietro a noi trenta uomini, tra i quali i due
    fratelli Mangiagalli, Lochis, Vernay ed altri; dietro a questi,
    trenta barricate mobili che già erano in moto. Arrivavano ai
    nemici sette pezzi da sei, oltre quelli che già avevano; ma
    non arrivarono a puntarli. L'artiglieria loro scarica; e noi, si va
    avanti. Arrivano le barricate mobili; più di mille dei nostri
    fanno un foco terribile; restano dietro ogni pianta tre o quattro
    soldati morti. Io allora mi volto, e colla punta dell'alabarda apro
    lo sportello del Dazio, ch'era semichiuso: e fuori. Con Manara ed
    altri siamo arrivati presso il Camposanto. Non avendo trovato
    nessuno, siamo tornati. Tutte le case d'ambo le parti fuori della
    porta erano in fiamme». Alla porta stessa appiccò il
    foco Manara di sua mano, quasi per impedire che il nemico potesse
    chiuderla un'altra volta. E poi lieti della vittoria, egli e i suoi,
    pensarono poter tornare in città; e dietro loro, a onde, le
    turbe armate, che già da più giorni combattevano fuori
    le mura. Era un impeto di curiosa ansietà, che nessuno
    colà pensò con provido consiglio a raffrenare. Intanto
    quell'angusto passo rimase aperto, dentro e fuori la città; e
    il nemico, verso mezzanotte, potè farvi sfilare in doppia
    colonna, fra le ruine delle ardenti case, i suoi battaglioni.
    Nella quinta giornata tutta la Cisalpina era in armi. Dal lago
    Maggiore giunse, quella sera, a Varese la colonna di Luvino e
    Macagno; a Gallarate giunse da Angera la colonna Simonetta. Ve ne
    giunse altra da Varese, di 800 uomini, armata in parte coi fucili
    dei croati, e preceduta dai carabinieri ticinesi di Ramella. Ancora
    450 si accingevano a partir di Varese il dì appresso; e il
    vecchio preposto d'Arcisate vi arrivò alla testa de' suoi,
    «a cavallo, cinto di spada, inalberando fra le turbe giulive
    un immenso crocifisso. Il giorno si chiuse fra gli inni a Pio IX e
    alla libertà».
    A Como, duemila armati, coi ticinesi d'Arcioni, assediavano presso
    Porta Torre 600 Varasdini e Prohaska; i quali bersagliati di fronte
    e di fianco, e minacciati d'incendio e di mine, e privi di cibo da
    36 ore, si arresero, con un colonnello, tre capitani e la bandiera
    d'un battaglione. «Uscirono inermi i soldati, comandati dai
    loro officiali, e schierati nella piazza attendevano gli ordini dei
    rappresentanti del popolo. Si dispose che a ciascun soldato si
    somministrasse pane e vino!». Il municipio, senza attender
    tempo, esortò gli armati al soccorso di Milano: «Noi
    abbiamo oggi raggiunto i nostri voti, e li avremo compiti, quando
    sarà cessato l'assedio dei fratelli di Milano; l'accorrere in
    loro sussidio è dovere, non restando altro a raccomandarsi
    fuorchè di non frapporre ritardo».
    A Sondrio, il 22, le truppe consegnarono al podestà il
    castello, con tutte le armi; la Val Tellina rimase tutta libera,
    sino al confine del Tirolo. La strada militare era già
    intercetta sulle dirupate rive del Lario; quivi si ordinarono tosto
    a custodia «800 armati di fucile, e 18 cannoncini di montagna
    coi loro artiglieri; e su tutte le alture vennero ammucchiati sassi,
    e assegnati i posti a quelli che non avevano fucili, e furono
    ordinati in corpi di lapidatori». Una colonna di Lecco era
    già oltre Monza; e congiunta a quei cittadini, e ai drappelli
    di Merate e d'altre terre della Brianza, «la sera
    affrontò le palle del nemico lungo la linea dei bastioni; si
    vide cadere a lato il valoroso Borgazzi; e per mezzo a incessante
    moschetteria, entrò in città per Porta
    Comasina».
    A Bergamo, anzi l'alba, tra il favor delle tenebre il nemico aveva
    sgombrato una caserma, «scalando muri per di dietro», e
    abbandonando morti e feriti, che il popolo irrompente portò
    all'ospitale. Nel corso del giorno, la guardia della Polveriera si
    disperse per la campagna; e vennero derelitte tre caserme,
    raccogliendosi i superstiti 1200 uomini in una sola; d'onde, qualche
    ora dopo mezzanotte, scesero nella valle a settentrione della
    città, che come contraria alla direzione del nemico, i
    cittadini non custodivano. E di là, con lungo giro, varcato
    il Serio, poterono mettersi in cammino verso il convegno generale
    delle truppe presso Crema, sebbene perdendo uomini e robe «ad
    ogni passo, per molestia di chi li inseguiva e delle popolazioni che
    alzavansi in ogni dove». Accorrevano a Bergamo armati delle
    valli Brembana e Seriana.
    Occupato il passo del Tonale, abbandonata Rocca d'Anfo, restarono
    libere sino al Tirolo anche le valli sopra i laghi d'Isèo e
    d'Idro. Ma il popolo di Brescia non sapeva sferrarsi dalle pastoie
    de' facendieri azegliani. Il nemico attendeva intanto da Verona un
    convoglio d'artiglieria; presso Rezzato, gli abitanti di quelle
    terre, alle 10 del mattino, lo accerchiarono e lo presero, con tutta
    la scorta di 180 soldati e officiali. In quel momento gli usciva
    incontro uno stuolo di dragoni; altri dragoni scorrevano la
    città; una batteria, fuori Porta Torrelunga, gettava palle e
    granate; la fanteria stava pronta inanzi a' suoi quartieri. Ma in
    pochi minuti «tutte le vie furono barricate; si trassero dalle
    chiese tutti i banchi; le donne e i fanciulli disselciarono le
    strade; al tocco delle campane accorreva gente dai villaggi. Una
    compagnia d'italiani, mentre veniva condutta a chiudersi fra i
    battaglioni del reggimento Hohenlohe, corse tutta armata a porsi
    dinanzi al palazzo municipale sotto la bandiera della città.
    Un combattimento a foco vivissimo durò quasi un'ora; molte
    perdite si fecero d'ambo le parti, esposti com'erano i bresciani a
    mitraglia incessante». Il popolo s'impadronì
    dell'arsenale e di due caserme, condusse molti prigioni al
    municipio; Michele Busoni e Carlo Scrittore arrestarono alla testa
    d'un battaglione il maggiore Wimpffen. «Schwarzenberg e
    l'arciduca Sigismondo furono veduti fuggire scompigliati, e il
    secondo senza cappello in testa, attraverso gli orti, scavalcando le
    siepi». V'ebbero più di 45 cittadini feriti o uccisi;
    tra i quali, crudelmente trucidati in una caserma, i due prigionieri
    Bertolini e Segalini «si trovarono inchiodati colle baionette
    sul tavolato, con un rosario al collo».
    Ma Longo e Mompiani, che s'erano fitti in capo di proteggere
    dall'impeto del popolo il nemico, publicarono verso sera una
    convenzione da loro conchiusa. Dicevano: «che ad oggetto di
    risparmiare il sangue cittadino e quello dell'austriaca guarnigione,
    essi, colla mediazione del cavalier Breinl, avevano convenuto col
    principe Schwarzenberg che la guarnigione uscirebbe dalla
    città e dal castello con tutti gli onori militari. Le porte
    della città rimarrebbero chiuse fino all'alba».
    Temevano forse che il popolo desse ai nemici troppo affettuoso
    saluto? Intanto dichiaravano «cessata l'austriaca dominazione
    e proclamato il governo provisorio. Cittadini! ora non avete altro
    debito che quello di rispettare la guarnigione austriaca». E
    in una circolare alle communi, anzichè dar loro alcun
    bellicoso impulso, dicevano: «proclamato il governo
    provisorio, mantenete la quiete; attendete gli ordini del capoluogo
    cui appartenete». Il conte Tartarino Caprioli spinse il
    delirio della quiete sino a sfoderare la spada contro il popolo in
    difesa d'un officiale.
    Dacchè volevano risparmiare il sangue, dovevano patteggiare
    che il presidio si avviasse al Tirolo, seppure era a riporsi fede in
    siffatte promesse. Ma quando chiudevano le porte al popolo della
    città, e ingiungevano la quiete al popolo delle campagne,
    potevano concedere al nemico di mettersi impunemente per la via di
    Crema? concedergli di marciare al soccorso di Radetzky? allo
    sterminio di Milano? Se, in luogo di servire alla causa italiana,
    avessero voluto servire all'Austria, avrebbero potuto operare
    altrimenti?
    «La matina del 22, si trovò Cremona libera affatto
    dalli armati stranieri». Avevano i cittadini una batteria
    campale, avevano due battaglioni di fanti, e tutte le forze della
    città e del contado, e quelle che potevano trarre dalla riva
    piacentina del Po; avevano il forte di Pizzighettone con artiglierie
    e munizioni; potevano tener quel passo dell'Adda. Potevano,
    rimontando immantinente per la sinistra il fiume, tentar di
    raggiungere il ponte di Lodi; era solo trenta miglia lontano di
    Cremona; e il ponte di Lodi era fuori della città; e, questa
    aveva presidio d'un solo battaglione italiano e poca cavalleria. Che
    fecero i moderatori azegliani di Cremona? Altro non curando che di
    assicurare le loro persone, fecero trasferire da Pizzighettone a
    Cremona 200 soldati italiani, 700 casse di munizione e le
    artiglierie; lasciarono quelli abitanti in arbitrio del nemico. E
    così Benedek, uscito di Pavia verso mezzanotte del 22, ebbe
    agio di giungere a Pizzighettone il 24, ristorarsi a spese delli
    abitanti, passare agiatamente quel ponte dell'Adda, con una
    batteria, e congiungersi sull'Ollio a' suoi commilitoni, quivi
    pervenuti felicemente da Brescia.
    Ora facciamo il caso, che al primo lampo dell'insurrezione non
    fossero mancati gli avvisi dall'improvida Milano; che in ogni
    città un comitato di giovani avesse chiamato con audace
    appello alle armi il popolo di tutto il territorio; che avesse
    sorpresi in subitaneo ostaggio i capi civili e militari: amicati
    francamente i battaglioni italiani: affamato immantinente nelle
    caserme quell'uno, o quei due battaglioni di soldati stranieri, che
    stava in ogni provincia, con quanto v'era qua e là di cavalli
    e di cannoni. Facciamo il caso che per tal modo i cremonesi,
    anzichè trovarsi liberi il quinto giorno alla matina, e i
    bergamaschi e bresciani la sera, avessero sollecitato d'uno o due o
    tre giorni; e che coi battaglioni italiani di Sigismondo,
    dell'Alberto, del Ceccopieri, del Haugwitz, e le batterie di Cremona
    e Brescia, e il popolo delle città e del contado, si fossero
    precipitati con ogni maniera di veicoli e d'armi verso i ponti
    dell'Adda, dai quali Bergamo e Cremona erano lontane 10 miglia, e
    Brescia poco più di 30. È certo che, al settimo
    giorno, Benedek non avrebbe trovato aperto il ponte di
    Pizzighettone, nè Radetzky quello di Lodi, o gli altri delli
    infiniti corsi d'acqua che frastagliano tutto il paese tra Milano e
    Mantova. Oltre ai quattro o cinquemila italiani, che l'applauso dei
    popoli avrebbe inebriati di coraggio, oltre ai 25 cannoni, si
    potevano portare ai ponti dell'Adda, o almeno a quello del Serio
    dietro Crema, tutti gli armati dei territori di Bergamo, Brescia,
    Crema e Cremona. Quelle popolazioni sommano a più di 900 mila
    anime; a un uomo per cento, sarebbero stati 9 mila i combattenti; a
    due per cento, 18 mila. Aggiungi i soccorsi di Piacenza, che,
    lontana da Pizzighettone solo dieci miglia, fu libera sin dal giorno
    20; e riparata dietro il Po, non aveva a temere per se medesima. E
    vi sarà chi dica che il popolo, per aver vittoria di Radetzk,
    vi adoperò tutte le sue forze?
    Scese la quinta notte. Era «una terribile risoluzione»
    (ein furchtbarer Entschluss); ma era necessità lasciar
    Milano. Le brigate Maurer e Strassoldo si erano riunite. «I
    generali Clam e Wohlgemuth, che avevano diroccato ogni casa presso i
    bastioni, proteggevano la marcia; presso la Porta Tosa e Romana
    tutto era in fiamme. Alle 9, tutti (gli altri) corpi furono al loro
    posto; erano 14 battaglioni, sei squadroni e tre batterie, con una
    sterminata quantità di carriaggi; quivi le truppe aspettarono
    per due ore in perfetto silenzio; molti e molti soldati cadevano per
    terra spossati dalla fame e dalla stanchezza». Al dir d'un
    prigioniero, «è impossibile descrivere al vero la
    confusione di quella notte; i soldati erano affollati nel cortile;
    si udiva il crepito delle fiamme che ardevano mucchi di cadaveri, lo
    scàlpito dei cavalli, il rumore delle rote; udivamo gridar
    l'ordine della marcia. Intanto a coprire quella ritirata, il cannone
    andava sempre più infuriando. Il cannone a poco a poco si
    fece lontano; cessò il trambusto nei cortili». Al dir
    d'un officiale: «Le truppe, spiegate in colonna, furono messe
    in marcia alle undici; tennero la linea dei bastioni sino a Porta
    Tosa (una parte solo sino a Porta Orientale). Il maresciallo
    Radetzky escì dal Castello in una carrozza tra un battaglione
    e l'altro. Alli sbocchi delle vie erano collocati altri cannoni, che
    tiravano continuamente entro la città; i soldati, distesi in
    catena per tutto lo spazio, scaricavano anch'essi i loro fucili. Il
    continuo fragore, le grida che si udivano dall'interno, le campane
    che sonavano a stormo, le tenebre illuminate qua e là da un
    incendio, formavano un terribile spettacolo, che non potrà
    mai essere cancellato dalla memoria». «Molti dei
    cittadini accorrevano a tribolare il nemico. Al di fuori, i
    montanari si aggrappavano sulli alberi e sui tetti delle case per
    trar di piano sul bastione; gli assidui colpi cingevano la
    città d'un semicerchio scintillante. Col mutare del vento,
    udivasi, ora più da una, ora più da altra parte, il
    battere a stormo dei sessanta campanili oramai tutti liberi. Alla
    fine il nemico fugiva; quei cinque giorni gli erano costati
    quattromila uomini; di quattrocento cannonieri erano avanzati
    cinque; l'artiglieria era data da condurre ai cacciatori
    tirolesi». «La carrozza di Radetzkv era imbottita di
    paglia e altro, in modo che da lungi paresse un forgone». E si
    lesse nell'Allgemeine Zeitung la confessione d'un officiale, che
    «nessuno potè recar seco se non ciò che aveva
    sulla persona; Radetzky salvò a stento le sue decorazioni; e
    dovette marciar via con quattro lire (mit vier Zwanzigen
    abmarschieren). I più delli officiali avevano i loro cavalli
    in casa, nonchè i loro uniformi; perdettero tutto, e
    partirono senza mantelli».
    Il capo dello stato-maggiore Carlo Schönhals, uscendo dal
    castello ad un'ora dopo mezzanotte, commise per iscritto a un
    capitano delle guardie di polizia, in nome del maresciallo, la cura
    dei feriti, delli infermi e delle famiglie tedesche derelitte in
    Castello; si lusingava avrebbe il suffragio del nuovo governo, il
    quale «a questo modo inizierà», egli scriveva,
    «il suo potere con atto di sublime e magnanima e santa
    filantropia». Senonchè, sotto la penna di codesto
    notorio instigatore delle soldatesche, pareva più che altro
    una derisione.
    Dei cittadini prigionieri, alcuni furono trascinati a piedi
    coll'esercito; alcuni lasciati addietro. «Da prigionieri, ci
    trovammo padroni del Castello e dei nostri nemici. I feriti, al
    vederci, si mostravano atterriti, temendo di essere scannati. Venne
    il mattino; un animoso popolano scalava il muro del Castello, la cui
    porta era ancora chiusa; e salito sul torrione vi piantava la
    bandiera tricolore. Entravano i liberatori, incerti della nostra
    sorte, e lieti di trovarci vivi. Ma non tutti. Alle grida di gaudio
    si mescevano gemiti dolorosi; le fosse rosseggiavano di sangue; nei
    cortili, luridi di fango e di ceneri, giacevano ossa abbrustolate,
    membra tronche sporgevano dal terreno smosso. In un orto, sette
    cadaveri d'uomini, mezzo spogliati, e barbaramente insultati e
    mutilati; due gambe di diversa dimensione, e che dalle forme
    apparivano feminili; in un'aqua corrente attigua, molte membra.
    Tanto apparvero sformati i visi e le membra delle vittime, che fu
    impossibil cosa il ravvisarle. Non era occhio che rimanesse
    asciutto».
    La ritirata del nemico era difficile. «Piante abbattute,
    sparsi materiali di barricate, cadaveri di borghesi e di militari
    impedivano a ogni tratto il libero passo. Il cedere dinanzi alla
    borghesia armata era d'insopporlabile avvilimento ad officiali e
    soldati: si abbandonavano ad ogni eccesso, guastando ed incendiando
    quanto loro veniva per le mani. Il sentimento dell'odio non faceva
    tacere quello della paura. Un cavallo d'un gendarme preso da
    spavento, essendosi cacciato in mezzo a due battaglioni che
    marciavano in colonna serrata, assaliti da pànico timore, si
    gettarono in disordinata fuga per la campagna. Di tale scompiglio,
    seppero approfittare molti italiani per disertare. La strada era
    frequentemente tagliata da fossati di formidabili proporzioni. Nel
    villaggio di San Giuliano si fece foco sulla truppa da più
    case, e ripetutamente. Quasi tutte le abitazioni vicine al passaggio
    delle truppe erano abbandonate; ed i corpi che le perlustravano
    facevano bottino di quanto potevano portar seco; in particolare i
    croati; ben pochi di questi che non avessero il loro fardello,
    quandanche non fosse che di cenci. Ad un'ora dopo mezzogiorno
    giungeva finalmente l'avanguardia a poca distanza da Marignano, dopo
    aver percorso, in quattordici ore di cammino, soltanto dieci miglia
    communi di terreno».
    «Con poco lavoro sarebbe stato facile impedire affatto
    l'accesso delle truppe a Marignano, senonchè nessuno poteva
    imaginare che Radetzky scegliesse per la ritirata una strada
    ch'è la meno diretta, e che per la perdita di Pizzighettone e
    Cremona era da due giorni già quasi intercetta; e inoltre,
    era lontana solo una posta da Pavia, confine piemontese già
    tutto pieno di corpi franchi». L'ala destra si diresse per
    Landriano, cioè per quella medesima via che poi Radetzky
    tenne, nell'anno seguente, per recarsi a Mortara. Se l'esercito
    piemontese fosse accorso in aiuto di Milano, e fosse sboccato in
    doppia colonna da Pavia, vi si sarebbe incontrato. Ciò
    dimostra che Radetzky, forse per notizia avuta dal confine col mezzo
    di Benedek, si riputava, da questa parte, sicuro.
    Gli abitanti di Marignano non potevano credere d'avere inanzi a loro
    l'avanguardia dell'intero esercito; la credettero un'orda di
    famelici predatori: dissero che non avrebbero dato loro i viveri, se
    non consegnavano le armi; arrestarono i due officiali ch'erano
    venuti a farne richiesta; ma non fecero altra ostilità. Tutti
    gli armati del paese erano accorsi sotto le mura di Milano; gli
    altri erano inermi. Ma il maresciallo ne prese pretesto a esercitare
    un'atroce vendetta, mettendo a ruba, a foco e a sangue tutto il
    paese. Poi si vantò d'aver dato un esempio. E l'autor di
    Custoza per poco non gliene fa plauso. Esempio? di che, se non
    d'inutile ferocia? E l'esercito era omai senza disciplina. «Si
    giunse dopo mezzodì a Marignano; alcune case bruciavano,
    tutte le botteghe spalancate, saccheggiate e guaste; pieno di
    carriaggi e carri da per tutto; sdraiati per terra tedeschi
    ubbriachi. Nessuno più comandava, nè obbediva».
    - «I soldati, che per la fame si resero più presto
    ubbriachi, si uccidevano anche tra loro nelle cantine e nelle
    strade; ammazzarono anche una delle loro donne. Stava Radetzky
    seduto sull'unico avanzo di parapetto che rimaneva del ponte; e si
    era posto colà per far animo ai soldati, i quali vedendo il
    ponte sconvolto, si erano messi in capo che fosse minato; e tra
    indisciplinati e ubbriachi ricusavano d'andare inanzi. Fatta notte,
    tutte le strade erano ingombre di soldati che giacevano alla
    rinfusa, quando si destò un improviso allarme. Lo sgomento fu
    tale, che certi officiali pagatori che si erano messi nell'osteria
    di San Giorgio, fugirono a rompicollo, lasciando aperto sulla tavola
    un sacco di napoleoni d'oro. Tutto quello scompiglio provenne da una
    squadra di poliziotti, ch'erano rimasi all'estrema retroguardia, e
    che incalzati dai fucili dei cittadini, arrivarono colà,
    correndo a tutta lena».
    Tale fu l'aspetto vergognoso del disfatto esercito per tutti quei
    sedici giorni che spese a percorrere faticosamente le cento miglia
    che sono tra Milano e Verona. «Gli avamposti erano
    continuamente allarmati dalli spari delle vedette, cui pareva
    d'essere ad ogni momento attaccate dal nemico». Così un
    officiale; e un altro, nell'Allgemeine Zeitung: «Non si poteva
    veder cosa più desolante che il passaggio per Crema. Carri
    pieni di feriti; qua un dragone con un berrettone di fanteria;
    là un cannoniere coll'elmo d'un dragone, o con abito
    cittadino; là un altro senz'abito. Tutti, per la disastrosa
    pioggia e il pernottare all'aperto, pieni di fango e di sangue. Non
    si conosce quasi più il colore d'alcun uniforme. I nostri
    cavalli da molti giorni non videro avena. Radetzky e molti veterani
    dicono che in nessuna guerra si vide mai cosa simile». Ma la
    guerra di popolo era già finita all'Adda. Vegliava a
    salvamento dell'informe orda straniera il governo fusionario di
    Brescia, che aveva predicato ai popoli la quiete e il rispetto alli
    austriaci. Solamente, tratto tratto, gli indocili volontari
    infrangevano il santo precetto. «Una colonna volante di
    volontari», dice il succitato officiale, «avevano
    attaccato una divisione del reggimento ulani Imperatore, ed un mezzo
    battaglione di croati; del quali avendo uccisi parecchi, costrinsero
    il resto a ripassare il Chiese. Continuavasi a' fianchi
    dell'esercito il servizio di grosse pattuglie e ricognizioni; e nel
    giorno 2 aprile, mentre eseguivasi dai nostri questo servizio,
    incontratisi in un distaccamento nemico, furono fatti prigionieri
    due lancieri piemontesi. Fu allora che si ebbe certezza di avere a
    fronte truppe regolari; il che faceva dire ai croati che colli
    insurgenti eranvi anche soldati francesi, mentre non chiamavano
    italiani che i soli corpi franchi. Il maresciallo, il 5, recossi a
    Verona, mentre le sue truppe non vi giunsero che parte il 6, parte
    il giorno successivo. Incendii, saccheggi, uccisioni d'inermi
    contadini furono commessi a Chievo, Croce Bianca, San Massimo, Santa
    Lucia».
    Ignaro il maresciallo degli aggiramenti politici dell'Italia,
    attribuiva la quiete dei popoli, oltre Adda, all'esempio di
    Marignano. «Il terrore che la sorte di Marignano diffuse sui
    passi del maresciallo ebbe il più salutare effetto; non gli
    si parò più inanzi alcun altro ostacolo». Ma
    è tempo oramai che si sappia quali sono le persone e le cose
    che furono salutari al nemico, e rimossero ogni ostacolo alla sua
    fuga.
    «E disegno del maresciallo», dice il succitato documento
    inserito nella Gazzetta Viennese, «era di stabilirsi dietro
    l'Adda; chiamare a sè tutte le truppe disponibili; riaprire
    le communicazioni colle fortezze, e poscia assalir nuovamente
    Milano. Ma colà riseppe il precipizio delle cose di Venezia,
    lo sgombramento di Brescia, e la defezione del presidio di Cremona.
    Il suindicato disegno perciò non era più praticabile;
    e fu necessità rinunciare all'Adda (und die Adda musste
    aufgegeben werden)». In altra scrittura, pur d'origine
    officiale, si aggiunge: «Se siam bene informati, non era mente
    del maresciallo di ritirarsi se non all'Adda; solo gli inesplicabili
    eventi di Venezia (die unbegreiflichen Ereignisse in Venedig) lo
    costrinsero a mutar consiglio. Da una lettera intercetta egli
    riseppe che Mantova non era ancor soggiaciuta interamente alla
    rivoluzione; e rapidamente egli gettò una divisione
    dell'esercito in quella importante fortezza». Questa
    rapidità era però quale le circostanze la
    consentivano; poichè solo il decimoquarto giorno della
    rivoluzione, l'undecimo della ritirata, quelle truppe ebbero
    percorso le 80 miglia che sono tra Milano e Mantova. «Il 31
    marzo, finalmente, entrarono in Mantova da ottomila soldati, in uno
    stato orribile: rotti, curvi dalle fatiche, laceri, mezzo disarmati;
    i gregari abbattuti e trasognati; gli officiali col veleno
    nell'animo e la rabbia nel volto». - Lo stato della fortezza e
    quello dell'esercito erano tali, che per lungo tempo parve non si
    pensasse intraprenderne tampoco la difesa. Asserisce un officiale
    che, coll'unione dei due corpi d'esercito in Verona e Mantova,
    fossero 36 mila uomini tutt'al più. «Ora», come
    nota Giovanni Arrivabene, «il presidio di Mantova in caso
    d'assedio non può esser minore di 18 in 20 mila soldati; un
    eguale presdio occorre per Verona, ed altri 6 mila soldati
    occorrevano per Peschiera e Legnago. - Aggiungasi la mancanza totale
    d'affusti pei cannoni grossi, la mancanza di munizioni da bocca;
    l'assoluto e letterale esaurimento della cassa di guerra e di quella
    di finanza; la penuria del sale, di cui alcuno del comitato aveva
    fatto arrestare sul Po le barche di trasporto procedenti dal Veneto;
    il bisogno di restauri alle fortificazioni, e la spianata attorno
    alle mura non eseguita ed ineseguibile. - Ed era ridicolo il veder
    cannoni grossi, collocati a semplice ed innocente dimostrazione sui
    bastioni, addossati a' cavalletti rigidi di rozzi tronchi
    inchiodati». Senonchè, quell'invisibile potenza che
    aveva raffrenato l'impeto del popolo a Brescia e a Bologna, e aperto
    a Benedek il ponte di Pizzighettone, e tenute in deposito fedele le
    porte di Mantova e di Verona, seppe procacciare al nemico il supremo
    rimedio del tempo, e con esso il riposo, e i viveri, e il denaro, e
    i rinforzi, e le occasioni, e il coraggio, e le capitolazioni; e
    dall'altra parte, seppe toglier lena ai volontari prima, poscia ai
    soldati, versare nelle anime lo sdegno, l'odio, il sospetto, il
    torpore, da ultimo, l'avvilimento e la disperazione. I nemici del
    popolo avevano naturalmente più caro trarlo alla sconfitta e
    alla sommissione, che non guidarlo a potenza e libertà. Il
    primo artificio fu quello di negare la sua vittoria.
    Non fu senza un accordo calcolato che i giornalisti d'Italia e
    quelli d'Oltralpe anticiparono univoci la guerra del re, inventarono
    numero e nome dei battaglioni, e li descrissero, alla tal ora e al
    tal giorno, in atto d'entrare per le mura, a salvare un popolo
    temerario, che si era posto in un pericolo superiore alle sue forze,
    e che da quel momento fu condannato nell'opinione dell'Europa a
    infinita gratitudine verso i suoi redentori, a cieca fiducia, ad
    abietta rassegnazione. Gli adulatori magnificarono immensamente
    tuttociò che il popolo non aveva fatto; e vilipesero tanto
    l'opera sua, ch'ei quasi ormai sorrideva di quel suo sogno d'aver
    vinto, anzi d'aver combattuto. Campione delle barricate divenne
    sopranome faceto. Si commise alli scribi regii di renderlo odioso.
    «I professori di barricate, visi incancreniti dai vizi e dalla
    lussuria», scriveva l'ignobile Ciro D'Arco. E domandava:
    «debbo io ripetere che lo stesso movimento di ritirata di
    Radetzky - non fu determinato che dal movimento delle truppe
    piemontesi?». Il nemico non si era ritirato avanti a chi lo
    incalzava colle carabine e colle barricate mobili: a chi gli aveva
    tolto i forni da cuocere il pane: a chi aveva atterrati, ad uno ad
    uno, i suoi cannonieri e spento il foco de' suoi cannoni: e tratti i
    Varasdini e i Prohaska a sfilare senz'armi al cospetto dei
    rappresentanti del popolo: e strappata dalla lettiera del
    maresciallo la sua sciabola: e costretto l'italivoro Schönhals
    a raccomandare le donne tedesche alla santa filantropia della
    canaglia latina. Ma si era dileguato inanzi allo spettro militare
    che torreggiava immoto e ginocchione sull'ossario di Superga.
    Dopo gli stipendiati della Presse, della Patria e del Risurgimento,
    vennero i Xenofonti, vindici dell'arte bellica e dell'onor del
    mestiere; e ve n'ebbe di tedeschi e d'italiani e d'altre razze; ma
    non si scorge fra loro altro divario. Il popolo cisalpino, a detta
    loro, non era degno di vincere, poich'egli era politicamente nullo;
    e se mostrò d'aver sangue nelle vene, ciò torna a lode
    de' suoi padroni, la cui clemenza non lo aveva perfettamente
    evirato: «toute insurrection triomphante est comme une
    espèce de témoignage en faveur de l'oppresseur»
    (Custoza, p. 16).
    Dunque se Radetzky fu vinto dal popolo, non dite viva il popolo, ma
    viva Radetzky! Anche sulla tomba di Marco Bòtzari non si dica
    viva la Grecia, ma viva la Turchia. E così si stampò
    che Radetzky era sempre stato uomo assai popolare: «ein sehr
    populärer Mann»; e che si minacciò d'ucciderlo a
    tradimento: «mit Meuchelmord»; ma egli, egli, aveva
    «vietato ai soldati di far foco». Fu il popolo che gli
    fece una «odieuse surprise», camminando in processione
    dalla casa municipale fino al bastione di Monforte; ma egli fece
    trarre il cannone d'allarme solamente due ore dopo che le carabine
    tirolesi, dalle aguglie del Duomo, colpivano nelle interne case
    fanciulli e femine, e la cantante tedesca Maria Moll. Anch'egli,
    come Oudinot il 30 aprile, non fu vinto da un popolo nostrale, ma da
    un esercito di stranieri, che il barone Torresani aveva lasciato
    impunemente accampare in Milano: «una turba di bersaglieri,
    parte dalla Valtellina, parte dalla Svizzera, parte dal Piemonte e
    dalla Francia, che a poco a poco si erano fatti venire in
    città, furono quasi i soli che col loro foco danneggiarono la
    guarnigione; il resto della gente tirava solo di nascosto dalli
    spiragli delle finestre». Broggi non potè cadere al
    ponte di Monforte, nè Borgazzi in aperta campagna, in faccia
    al bastione; ma dovevano esser tutti a casa loro, a far capolino
    dalle finestre. Non è vero che il popolo portasse i feriti
    nemici all'ospitale, o confortasse con «brodo» e con
    «pane e vino» i prigionieri. «Furono con
    vergognosa crudeltà scannati dalla plebe, sotto gli occhi dei
    loro compagni, dopo che erano caduti da cavallo». Il barone
    Diesbach s'ingannò quando scrisse a sua madre che il popolo
    lo trattava bene; e il conte Bolza va errato assai, s'egli crede
    d'aver avuto salva la vita. Il conte Pachta fu perfettamente
    spogliato: vollkommen ausgeplündert; e la contessa Spaur fece
    un aureo sogno quando s'imaginò che Oldofredi e Busi le
    avessero recato la cassetta delle gioie: die kleine Cassette. Se il
    croato e il boemo recisero i piedi alle donne e si posero in tasca
    le tronche mani colle annella sulle dita, s'entravano trionfanti in
    Castello, alla vista dei loro generali, coi bambini confitti sulle
    baionette, non era barbara vendetta dei loro disastri, ma un poco
    d'alacrità e di slancio «per essere stati vittoriosi
    dovunque, e aver preso d'assalto una casa dopo l'altra».
    È falso che il maresciallo avesse necessità
    d'armistizio, per dar fiato alle sue truppe, e avviluppar meglio i
    cittadini, e applicar poi loro la polvere e il piombo della legge
    marziale; è falso che avesse perciò mandato al
    municipio il maggiore delli Ottochani, e che nella conferenza coi
    consoli avesse egli proposto di cessare dalle ostilità; erano
    i consoli che al loro uso volevano ingerirsi d'ogni cosa; e il
    maresciallo aveva dato loro una secca ripulsa, e nemanco di persona,
    ma per mezzo d'un subalterno: durch General Schönhals. Se in
    procinto di ritirarsi, faceva incendiare le case a dozzine, e ne
    faceva sterminare gli abitatori, era opera pia, «per salvare
    una comitiva di donne e fanciulli e impiegati, che fugivano il
    furore del popolo italiano».
    Anzi vi fu in Coira chi scrisse che, nella notte dal 22 al 23,
    «si tirò dal Castello sulla città con un sol
    cannone, e solamente a polvere; che una divisione, partendo,
    attraversò, per mezzo, tutta la città, senza
    ostacolo». E non furono i soldati che pel solo scorrere
    «d'un cavallo si gettarono in disordinata fuga per la
    campagna»; ma il popolo fu messo in rotta, dice l'autor di
    Custoza, «par un simulacre d'attaque générale,
    au moyen d'un feu terrible d'artilleire, qui répandit quelque
    temps l'épouvante».
    Il numero delli austriaci in Milano fu solo di dieci mila;
    «une douzaine de mille hommes», scrive alquanto
    più generoso il Custoza; quattordici mila
    «soltanto», scrive ancor più generoso il
    così detto Ciro d'Arco. Come mai Radetzky nel suo rapporto
    potè imaginarsi che fin dal quarto giorno fossero 16
    battaglioni (mit den hier konzentrierten 16 Bataillons und 6
    Eskadrons mit 30 Geschützen)? Come mai, in procinto di
    ritirarsi, potè adunarne 14 dietro il Castello (hinter dem
    Kastell), senza annoverare le due brigate (probabilmente altri 8
    battaglioni e 12 cannoni) che occupavano frattanto i bastioni e il
    Castello? Se i battaglioni erano veramente 16 più 8,
    cioè ventiquattro, dovevano ben fare, tra vivi e morti, a
    1140 uomini per battaglione, assai più di 20 mila uomini, e
    aggiungete le altre armi; aggiungete che, a detta dell'anonimo di
    Zurigo, «sembra che i generali dimenticassero i posti della
    guardia di polizia, forse perchè non era incorporata
    nell'esercito; e queste truppe italiane rimasero fedeli alla
    consegna, finchè non dovettero cedere alla forza prevalente
    che le stringeva». Tuttavia, «si quelque chose doit
    surprendre, c'est que cette armée n'ait pas été
    entièrement écrasée»; lo dice l'autor di
    Custoza, il quale deve avere una portentosa stima della forza del
    popolo. E come salvarsi i soldati, quando «ovunque si
    mostrassero», scrive l'anonimo di Zurigo, «pioveva acqua
    bollente e perfino olio bollente (siedendes Wasser, selbst siedendes
    Oel)?». Che valeva la mitraglia dei 42 cannoni da campo e
    delli altri che stanziavano in Castello e sulle piazze, contro
    l'acqua bollente? Oh quanto olio ci volle per friggere ventiquattro
    battaglioni e sei squadroni, mit Geschützen - Siffatte
    scempiaggini potè dettar l'odio del popolo e il disprezzo
    della verità!
    E infine, ch'era mai codesto popolo, se non lo strumento venale
    d'una nobiltà capricciosa? Così stampò il
    general Willisen, notorio nemico d'ogni venalità. E di tal
    modo, alle imposture della casta militare, che in Prussia, e anco in
    Italia, si reputava mallevadrice alla gloria dei confratelli
    austriaci, si collegarono le millanterie dei signori e le adulazioni
    dei loro guàtteri. E si posero a credito delle loro
    eccellenze tutti i pericoli e i consigli del combattimento, il quale
    «non fu capitanato (was not headed) dai Ledru-Rollin, e dai
    Louis Blanc, ma dai magnati del paese (the greatest in the land). E
    il conte Pompeo Litta Biumi, il solo tra i membri del provisorio che
    i combattenti andarono a invitare e prendere in casa sua, non era un
    letterato di modeste fortune; ma Creso di Lidia, il duca di
    Devonshire della Lombardia». Queste favole si facevano
    stampare in lettera a lord Palmerston. Il quale lord Palmerston,
    sapendo che il duca di Devonshire ha un patrimonio di cento milioni
    di franchi, concepiva così un'idea molto adeguata delle cose
    nostre.
    Noi dimandiamo alla Croce di Savoia a qual ordine di cittadini
    appartenessero, e di quale opinione poi si manifestassero, coloro
    che consegnarono entro «la cinta» di Forte Urbano il
    battaglione civico di Bologna, e con minacce richiamarono da Modena
    i finanzieri e i dragoni; coloro, che in Cremona, in Brescia, in
    Mantova, in Verona, vietarono ai cittadini di mostrarsi
    «illegalmente armati»; e alla plebe che voleva
    «armi e battaglie» gettavano pane e denaro; e
    «convenivano coll'autorità militare che si levassero le
    barricate»; e alla nuova dei tremendi pericoli di Milano,
    predicavano a' cittadini d'aspettare, in coccarda bianca e piuma
    bianca e sciarpa bianca, la vita o la morte dei fratelli. «O
    Milano è vittoriosa: e allora insurgeremo con più
    baldanza e più frutto; o Milano soccumbe: e saremmo allora in
    mal punto insurti». Prima del conflitto, si poteva dubitare,
    deliberare; il ricusar battaglia poteva essere buon consiglio; ma
    quando la battaglia ruggiva, e le sorti di tutti si agitavano nel
    sangue, ritrar dal campo le riserve che dovevano assicurar la
    vittoria, era ben aiutare il nemico. E peggio era frapporsi, sin
    colla spada alla mano, perchè il nemico conseguisse con una
    capitolazione la sicura uscita dalla città:
    «sfoderò la spada: si pose avanti all'officiale,
    sclamando: non potrete offenderlo, se prima non mi offendete».
    E quella capitolazione non pattuì tampoco che le soldatesche
    partissero alla volta dei loro paesi; ma le lasciò libere,
    liberissime di seguire l'appello che le convocava d'ogni parte ad
    opprimere Milano. «Il maresciallo aveva deliberato di chiamare
    a sè tutti i presidii delle varie città, e così
    assalir Milano da tutte le parti (und Mailand so von allen Seiten
    anzugreifen)». Il capo dei ribelli (das Haupt der Rebellen)
    vietò «a titolo di delicatezza, l'aprimento dei
    dispacci del nemico»; i dispacci del nemico trovarono
    più facile attraversar Mantova che Inzago; i paeselli furono
    di maggiore impedimento al nemico che non le possenti città.
    «Le ordinanze isolate venivano uccise o prese; i distaccamenti
    più considerevoli incontravano insuperabili ostacoli nelle
    strade ch'erano barricate, e nei paesi; a trovar messaggieri non era
    tampoco da pensare; con siffatto interrompimento delli avvisi, ogni
    combinazione fu rotta (scheiterte iede Combination)». Il
    «capo dei ribelli», a Monforte, scambiava atti
    compassionevoli con O' Donnell; in via del Monte si rifugiava nella
    prima casa aperta; in via de' Bigli tentava carteggi con Torresani,
    proponendogli «il miglior mezzo termine per condurre a
    pacifica soluzione»; e lagnavasi di «non potersi movere
    dal luogo ov'era». E riesciva a fugire, la notte; e si faceva
    scoprire «in una soffitta, polveroso, coperto di
    ragnateli»; e non appena uscito, chiamavasi intorno
    collaboratori che lo aiutavano a snervare l'animo dei combattenti
    con pratiche d'armistizio, pertinacemente promosse per due giorni, e
    sollecitate da Borromeo col timor della fame aggiunto a quello della
    mitraglia. Ma tutti questi, pel Ciro d'Arco, sono sintomi di
    fermezza (p.2). E al municipio fiorentino parvero sintomi d'eroismo;
    sicchè fece scrivere sui marmi della veneranda Loggia i nomi
    di quelli immortali. Intanto «il popolo pensava solo a
    combattere». Epperò, fra i trecento che caddero in quei
    giorni, e i settecento che a poco a poco vennero poi morendo delle
    ferite, non si rinvenne quasi nome che non fosse della plebe, o in
    poco più lieta fortuna. E mentre taluni, in mezzo alle morti
    e alli incendi, raccoglievano in mano propria «ogni potere, il
    popolo, una volta adempiuto il suo voto, ricadeva in una tranquilla
    obbedienza ai dettami dell'ordine e delle leggi, nulla più
    domandando» (Lettera a Lord Palmerston, di Bozzi-Granville).
    Intanto, per questi indugi frapposti in Milano e in tutte le
    città da svogliati e frivoli capi, il moto dei popoli rimase
    in massima parte, impedito. Nella prima notte, consigli incerti di
    subire il pericolo, non d'affrontarlo e dominarlo; nel mattino,
    s'indirizza il primo impeto della adunata moltitudine, non sopra
    alcuno delli uomini che tengono in mano le armi, ma sopra un togato,
    i cui vani decreti non fanno cadere una baionetta. Il popolo sciupa
    il giorno, aspettando prima i quarantamila fucili, perfidamente
    vantati dai signori, poi i tre o quattrocento della polizia,
    assicurati dal decreto di O' Donnell; e rimane a mani vuote, a
    legger sulli angoli delle vie gli affissi che lo invitano ancora
    «a pace e fratellanza», e origliando i dubbi rumori
    delle altre parti della città, e indovinando onde provenga il
    sordo muggito del cannone che intanto sfonda le porte della casa
    municipale. - I popoli entrano nella battaglia a giorno a giorno, a
    squadra a squadra; nel primo dì, Milano e Venezia; nel
    secondo, la pianura milanese, il borgo Palazzo di Bergamo, e con
    infelice esito Crema; nel terzo, Como, Modena e Parma
    vittoriosamente; nel quarto, Varese, Monza, Pizzighettone, Cremona;
    nel quinto, finalmente, Brescia, dopo aver morso per quattro giorni
    il freno degli azegliani; ma già in quel giorno il freno
    azegliano ritrae dal combattimento Bologna, rende immobili Modena e
    Parma. Verona e Mantova stanno tra la sedizione e l'ossequio; Lodi
    fa un cenno appena di sollevazione; Pavia e Piacenza, meno illuse
    delle altre città intorno ai soccorsi del re, non si
    commovono affatto. E tosto Cremona disarma Pizzighettone, apre il
    passo dell'Adda ai presidii di Piacenza e Pavia; e insieme a Bergamo
    e Brescia tollera che i corpi smembrati possano raccapezzarsi
    sull'Ollio, per poi recarsi all'incontro dell'esercito che retrocede
    disfatto dalla battaglia di Milano. La sola Como fece quanto
    umanamente si poteva; di 1500 nemici ella non lasciò fugire
    uno solo; e tosto si mosse al soccorso della vicina città. Se
    tutte le altre avessero ugualmente operato, traendo seco attraverso
    ai passi del nemico tutte le loro forze, come avrebbe mai potuto la
    sbattuta e famelica masnada aprirsi fra tante aque e piantagioni e
    difese muraglie la via? Già prima di prender le mosse, le
    soldatesche, che avevano vegliato tante notti, «cadevano per
    terra spossate di fame e di stanchezza»; già nel primo
    sfilare, sotto una tempesta di palle, e in un angusto passo fra due
    file di case incendiate, bastò un cavallo spaventato a
    disperdere due battaglioni stranieri, e dar ansa a un battaglione
    italiano di raggiungere i fratelli; le strade intercise da fossati
    di formidabili proporzioni, gli arbori rovesciati sul terreno, le
    fucilate di San Giuliano fecero che quattordici ore appena bastarono
    a dieci miglia di viaggio, essendo la colonna distesa sopra cinque
    ore di cammino. E l'esercito era talmente pronto a ingrandire colla
    paura gli ostacoli veri, che s'imaginò d'aver vinto una
    battaglia per entrare in Marignano, d'onde non era uscito un sol
    colpo di foco; e trapassò vergognosamente la notte fra
    l'ubbriachezza e lo spavento, col quartier generale ingombro di
    valigie e invaso da fanciulli e donne.
    Noi crediamo che questo volume offra le prove di due fatti. Il primo
    si è, che il nemico, il quale, veramente aveva al suo comando
    centomila uomini, perdette nei cinque giorni due terzi della sua
    gente e pressochè tutte le sue fortezze, e solo per effetto
    dell'indolenza altrui vi riebbe ricovero e salvamento.
    Il secondo fatto si è, che, per conseguire questa splendida
    vittoria, non si posero in atto, nemmeno per una quinta parte le
    forze dei sette milioni di popolo che abitano il Lombardo- Veneto, e
    le provincie italiane del Tirolo e dell'Illirio, e i ducati di
    Modena e Parma; essendochè l'insurrezione non fu veramente
    generale e impetuosa se non nelle due provincie di Milano e Como, le
    quali non sommano a più di 900 mila abitanti. E quivi pure
    mancarono affatto al popolo tre grandi elementi di siffatte imprese,
    cioè gli avvisi, gli eccitamenti e i capi. Anzi, e quivi e
    per tutto, coloro che il popolo era indettato a considerare come
    capi, fecero quant'era in poter loro, e con trattative e con
    ordinanze e con publiche esortazioni, per moderare e contrariare
    l'impeto dei giovani, e tenerli disarmati e inoperosi, e per aiutare
    il nemico, sia a star dentro le città, sia ad uscirne senza
    disastro e per le vie più opportune a' suoi disegni, sia a
    raccapezzare le smembrate sue forze e raccoglierle nelle fortezze,
    le cui porte essi gli tennero aperte, tenendole chiuse agli insurti.
    Egli è un fatto, che gli indirizzi e gli editti dei municipi,
    dei ministeri, e perfino dei comitati, parlano quasi tutti d'ordine,
    di quiete, di tranquillità, non diversamente da quelli
    dell'imperator Ferdinando, del vicerè Ranieri, e del duca di
    Modena o di Parma. Questa è l'istoria vera, che parrà
    strana a molti, e parve quasi incredibile a noi, mano mano che
    l'andavamo raggranellando da codesti frammenti di repertori
    officiali e di gazzette. E perciò sfidiamo i redattori della
    Croce di Savoia e altri simili ingannati o ingannatori, a comporre
    di siffatta materia un altro volume, e trarne, se possono, un altro
    costrutto.
    Vantarono gli scrittori militari il gran numero dei soldati italiani
    ch'era nell'esercito d'Italia; e noi proviamo che nessun paese
    d'Europa fu tenuto mai con maggior proporzione di soldati stranieri,
    poichè i battaglioni stranieri al regno Lombardo-Veneto erano
    45; e 38 di essi erano interamente slavi o tedeschi o magiari. Onde,
    se questo fatto è strano, come giudica l'autor di Custoza, fu
    strano in senso contrario a ciò ch'ei s'intese; e non
    è vero che avesse des graves conséquences. Coi
    battaglioni tutti italiani non si perdè Mantova; e coi
    battaglioni croati e stiriani si perdè Venezia. E in nessun
    luogo l'esercito ebbe più trista sorte che a Como, ove non
    v'era un solo soldato italiano, ma erano tutti croati, carinti e
    ungaresi; e rimasero tutti, fino ad uno, feriti o morti o
    prigionieri, coi loro colonnelli, l'uno dei quali tedesco e l'altro
    croato. E in Milano v'erano fin dal primo giorno settemila boemi e
    moravi, e inoltre croati e tirolesi e ungari a piedi e a cavallo: e
    d'italiani un sol battaglione di linea e alcune compagnie di
    poliziotti; e combatterono pur troppo al Genio e a San Bernardino, e
    non si fecero disertori se non dopo ch'erano usciti di città.
    E croati erano quelli che fugirono da Appiano per deporre le armi a
    Varese; croati quelli che si ridussero a bersagliare dalle finestre
    delle caserme il popolo di Bergamo; e lancieri polacchi e dragoni
    tedeschi erano quelli che si lasciarono prendere dai contadini nelle
    basse di Brescia; e ungaresi gli 800 che patteggiarono coi
    parmigiani a Colorno. Al contrario, italiani erano quelli che
    decisero il disarmo di Crema, e italiano il battaglione che
    salvò contro ogni aspettazione all'esercito il passo di Lodi.
    È vero che a Pizzighettone e Cremona gli italiani non vollero
    pugnare col popolo; ma così non pugnò nemmeno il
    popolo, e la sottrazione delle due quantità non alterò
    l'equazione. Ma diremo di più. Ben poterono gli azegliani di
    Brescia tener frenato per quattro giorni quel popolo predicandogli
    la fratellanza, perchè i soldati bresciani del Haugwitz e, in
    parte i goriziani e istriani del Hohenlohe erano del suo sangue e
    della sua lingua. Come poteva il popolo concepir furore contro
    quelli infelici sforzati, che in procinto di partire la pregavano a
    impedir loro la partenza, e protestavano di voler vivere e morire
    coi loro fratelli? Ma se il popolo avesse avuto a fronte la barbarie
    croata o l'arroganza teutonica, l'avrebbero le senili ciancie dei
    moderatori rattenuto per quattro giorni? Il popolo bresciano
    nè poteva trucidare gli italiani, nè trarli seco;
    perchè, oltre alla malia della disciplina e del giuramento,
    essi dovevano temere assai più i loro capi stranieri e
    feroci, che i loro avversari e fratelli. Al contrario, se fossero
    stati tedeschi o slavi, avrebbero avuto maggior paura del popolo
    furibondo, che non del bastone de' caporali. Sì, se fossero
    stati due o tremila tutti stranieri, in quella fiera provincia di
    340 mila anime, ove, l'anno appresso, si vide il popolo leone
    avventarsi sotto la mitraglia col coltello in pugno, noi diciamo che
    i soldati avrebbero fatto in Brescia ciò che i loro compagni
    fecero in Varese, in Como e in Venezia. Gli italiani in Brescia
    furono quasi mediatori, da un lato stando col popolo, dall'altro coi
    generali. E così trascorsero quell'ore fatali; e i
    maggiorenti poterono adempiere i comandi dei bellicosi pacieri di
    Torino e di Parigi. Se adunque i generali austriaci, persuasi a
    torto o a ragione d'aver commesso un errore lasciando in Italia 22
    battaglioni italiani, si avvisassero di fare in altra occasione
    altrimenti, ciò non farebbe gran divario. Sarebbe un equivoco
    di meno, un inciampo di meno all'impeto delle offese. E nessuno
    negherà poi che la passata guerra non abbia mutato
    grandemente le cose, onde se d'ora in poi altri giudicasse
    più sicuro il soldato ungarese che l'italiano, andrebbe
    errato; poichè gli italiani possono aver avuto ripugnanza a
    mettere a sangue e a foco il loro paese, ma essi non giunsero mai a
    volgere le armi contro i loro generali ed uccidere i loro
    colonnelli, come fecero nell'autunno del 1850 al campo di Somma gli
    ungaresi.
    E possiamo aggiungere che, se nel 1848 non si posero in atto tutte
    le forze rivoluzionarie del popolo, non si chiamarono fuori nemmeno
    tutte le forze rivoluzionarie che giacevano nell'esercito austriaco.
    Ognuna di quelle nazioni, s'era nemica al nostro nome e alla nostra
    bandiera, non era nemica alla bandiera sua e al nome suo, caro a
    tutte, della libertà. Ma nessuno si curò allora se vi
    fosse arte di sconnettere quelle moltitudini incatenate dalla forza
    al vessillo imperiale, e tutte fra loro straniere e nemiche, e
    ripugnanti a quella oppressiva unità. Gli agitatori
    dell'Italia non vollero, nè allora nè poi, giovarsi
    delli stranieri contro gli stranieri, rivolgere a danno dell'Austria
    l'arte sua antica di por gente contro gente. Mentre essi inveivano
    contro gli stranieri che potevano essere amici, non volevano
    riconoscere quei nemici che pur troppo non erano stranieri.
    Non così l'Austria. Essa ritorse contro l'unità
    italiana lo stesso sforzo che altri faceva per raccogliere sotto un
    sol principe diverse parti d'Italia; essa ritorse contro
    l'unità ungarica quello stesso moto delle nazioni che tendeva
    a smembrare l'imperio; adoperò il nome slavo per infiammare i
    croati e i sirmiani, e dividere fra loro i boemi; contrapose ruteni
    e polóni, sàssoni e romeni; adoperò il
    tricolore teutonico per trascinare la gioventù viennese
    contro la gioventù italiana, stornando due pericoli in un
    colpo, e distruggendo in un sol combattimento due nemici. E pur
    troppo codesti tricolori che trassero i popoli a infliggersi tanto
    reciproco danno, e a rifare coi loro odi e colle loro borie la
    potenza delli oppressori, annunciano solo una tradizione di barbara
    nemicizia, madre d'ogni conquista e d'ogni servitù;
    annunciano un voto di guerra perpetua; poichè dovrebbe durare
    finchè durerebbero le nazioni. Uno solo è il vessillo
    del quale non potranno mai giovarsi gli oppressori; è il
    vessillo di tutti; il vessillo dell'eguaglianza, ossia della
    giustizia; il vessillo della libertà e della umanità.
    Esso non apparirebbe straniero al soldato italiano, nè al
    francese, nè al tedesco, nè all'ungaro, nè al
    polacco. Esso annuncierebbe come ogni popolo che combatte per
    l'altrui libertà, combatte per la sua; essendochè ogni
    popolo servo è un'arme in pugno ai nemici della
    libertà; è un pericolo perpetuo, una perpetua minaccia
    al genere umano.
    La forza espansiva della rivoluzione fu dunque tanto minore, in
    quanto l'idea della libertà universale non venne posta
    inanzi, ma quella più angusta d'una solitaria indipendenza. E
    quando si considera che, di lì a pochi mesi, gli ungari
    pugnavano contro l'Austria, non si può non deplorare quella
    giovanile impazienza che spinse a vibrare i primi colpi appunto
    contro i granatieri ungaresi a Monforte e contro gli ussari ungaresi
    in Camposanto, inspirando loro nella vendetta dei compagni uccisi un
    sentimento più forte ancora dell'odio loro contro i tedeschi.
    E quando si considera che colonnello di quelli ussari, nominalmente
    intitolati da Carlo Alberto e da Radetzky, era quel Meszaros che fu
    poi campione della libertà in Ungaria, fa ribrezzo il pensare
    quale fanatica letizia sarebbe stata quella dei combattenti, se lo
    avessero mirato, alla fronte de' suoi squadroni, cader moribondo
    sotto un colpo delle loro carabine. Il tempo ha svelato questi
    arcani nazionali, celati allora dalla stranezza delle lingue, e
    dalli odiati uniformi, e dalla scambievole ignoranza, e
    dall'orgoglio. No, se pesa sull'Europa una mole di tre o quattro
    milioni di soldati, non è che la causa dei popoli abbia tre o
    quattro milioni di nemici. Nell'esercito austriaco non sono i
    quattrocento o cinquecentomila soldati che hanno interesse ad
    opprimere se medesimi nel popolo; essi sono costretti; sono servi
    due volte infelici, sui cui s'aggrava la duplice catena del suddito
    e del soldato. La volontà loro è soppressa; l'anima
    loro è fusa in quella di quindici o sedicimila officiali; e
    questi pure chi sono? se non i figli di dieci nazioni, necessitati
    ad apparire stranieri e nemici alle loro patrie, e portare la
    maschera d'un'unità, ch'è il loro commune supplicio?
    Chi mira quei folti battaglioni di forte gioventù,
    splendidamente armati colle spoglie delle loro nazioni, sulla fronte
    ai quali traluce un raggio di mal repressa intelligenza, non si
    lasci abbagliare. No, il color d'una bandiera, una novella
    improvisa, una parola, la sola intonazione d'un cantico, basta a
    squassare tutta quella scenica ordinanza, e trasmutarla in una
    mischia sanguinosa, ove all'unica voce dell'odioso comando risponda
    in dieci lingue il grido della nazionale vendetta. Non è
    nemmen necessario l'urto di un altro esercito; questo ha in
    sè tutti gli elementi della sua distruzione.
    E perciò è vano l'argomentare se in altra congiuntura
    potrebbe rinovarsi il prodigio dei cinque giorni, se i cento
    battaglioni che ora ha l'Austria in Italia, farebbero miglior prova
    che non fecero i settanta battaglioni che aveva allora. Intorno a
    ciò diremo anzi tutto che, se crebbe il numero delle truppe,
    crebbe in ragione maggiore lo spazio sul quale sono disseminate;
    allora non si stendevano oltre Parma e Modena; ora fino nelle
    Maremme, nell'Umbria e nelle Marche, ch'è due o trecento
    miglia più lontano. Perlochè non potrebbero avere tra
    il Ticino e il Serio più delle sette brigate che ebbero
    allora, nè più di due brigate fra il Serio e l'Adige.
    Allora erano in maggior proporzione i soldati italiani; ma questo
    è ben certo che i soldati d'altre nazioni, che allora
    miravano con animo ostile l'Italia, ora sono ridutti a sperare nella
    sua vittoria e nella sua libertà. Certamente, il popolo non
    sarebbe costretto a mendicar, da un re, capitani senza sapere e
    senza volontà, quando venissero a consigliarlo e precorrerlo
    sul campo i superstiti difensori della libertà ungarese, i
    cui nomi l'esercito austriaco ha imparato a conoscere e paventare.
    Inoltre, noi crediamo aver dimostrato che in quella insurrezione
    prese veramente parte repentina ed efficace all'incirca un millione
    di popolo, e che gli altri sei milioni vennero da varie influenze
    rattenuti; e vuolsi notare che le regioni ora presidiate
    dall'Austria ne hanno poco meno di dodici milioni. E se i popoli
    hanno fatto infelici esperienze, e hanno ragione d'esser più
    cauti, hanno anche maggiore l'odio; e se hanno la pratica della
    paura, hanno anche quella delle armi e dei pericoli, e la coscienza
    di ciò che potevano fare e non hanno fatto. E anche il nemico
    ha fatto le sue esperienze; e non vi sarà più chi
    «vanti apertamente, nei circoli del maresciallo, che la prima
    palla dei cannoni del Castello contro le aguglie del Duomo avrebbe
    domato qualunque movimento in Milano». E Milano, e Venezia, e
    Brescia, e Vicenza, e Bologna sono nomi che nei computi militari
    hanno preso ben altro valore. Il nemico ha provato il coraggio dei
    popoli, e sa di avere stoltamente abusato della vittoria; e teme la
    rappresaglia delle rapine, delli omicidi, del bastone. È vero
    che ora contro molte città stanno pronte le bombe; ma
    è vero altresì che l'incendio di qualche centinaio di
    case non varrebbe gran fatto a spaventare un popolo, che ha posto il
    foco a molte case colle proprie mani. E forse, a tempo e luogo, non
    vi sarebbe chi avesse il coraggio d'accendere quelle bombe e di
    avventarle, perchè il popolo avrebbe esso pure in mano
    qualche pegno; e quando il torrente dell'insurrezione fremesse
    intorno alli isolati baluardi, non tutti i capitani vorrebbero con
    siffatte inutili sceleratezze chiamar sul loro capo inesorabili
    vendette. Diremo, infine, che gli eserciti nemici non saranno mai
    meglio armati, nè meglio comandati che allora non fossero;
    nè crediamo che l'arte militare si sarà di molto
    mutata; ma i popoli certamente avranno più risoluti
    condottieri; e non soffriranno capi di ribellione che avessero la
    stoltezza o l'audacia d'impor loro le coccarde bianche, e di far
    levare le armi a chi non fosse tra i duecento «della
    possidenza e del commercio». La ferocia del nemico e lo
    spavento ch'egli si sforza di spargere, ratterranno dalle puerili
    dimostrazioni e dai piccoli e vani tentativi; ma gioveranno a dar
    gravità e impeto alle grandi e irrevocabili deliberazioni.
    Ma un elemento mancherà ad ogni futura insurrezione. Le
    mancherà quel nome che fu l'istantaneo e caduco nodo della
    nazionale unanimità: il nome di Pio IX. Scelto allora da
    pochi ad astuzia di guerra, fu adottato dal popolo, con tutta la
    semplicità ed il fervore della fede antica, ad esprimere
    l'implicito e confuso senso della santità de' suoi diritti.
    «Convinto, come io era», scrisse Montanelli nel primo
    volume di questo Archivio, che l'unità nazionale si potesse
    conseguire soltanto col gravitare verso un centro commune, e che
    l'idea unitaria tanto più sarebbe stata facilmente
    eseguibile, quanto meno per incarnarsi avesse avuto bisogno
    d'eliminazione, mi applicai a fare di Pio IX l'insegna della
    fratellanza italiana».
    Pio IX fu fatto da altri: e si disfece da sè. Pio IX era una
    favola immaginata per insegnare al popolo una verità; Pio IX
    era una poesia. E anche l'antica republica inglese, dalla quale
    provenne tutto ciò che v'è di salutare nella presente
    costituzione, o le republiche bàtave, e le americane, e la
    republica pensante di Ginevra, erano fiorite sovra l'orrido spinaio
    delle controversie scritturali. E taluno reputò cosa
    possibile che Pio IX fosse un Giunio Bruto, il quale avesse deluso
    con diuturna mansuetudine gli sospettosi Tarquini del concistoro. Ed
    eziandio chi vedeva in esso il pontefice, non della sola gente
    italica, ma d'un numero di fedeli otto volte maggiore, potè
    bene reputar giustizia, non già ch'ei dovesse farsi capitano
    di una contro altra nazione, ma bensì ch'ei potesse
    ingiungere ad ogni nazione di star contenta ai termini della terra a
    lei sortita. Poichè l'Italia, nel diritto evangelico, non era
    già terra d'infedeli Cananei, che dovesse esser data a
    stranieri figli di Dio; ma era la terra d'una delle tribù
    elette; nè altra di quelle tribù poteva allegar
    diritto divino di venire a depredarla e farla misera e vituperata.
    Ed era misera e vituperata senza frutto delle genti medesime in cui
    nome veniva oppressa, dacchè queste parimenti erano infelici
    e ribelli. Sarebbe stata ben maggior gloria al pontefice, s'egli
    fosse surto nel nome di Dio a giudicare quella iniqua sapienza di
    stato ch'era una calamità commune di tanti popoli, e se
    avesse rivendicato i loro diritti dalle mani degli oppressori,
    piuttosto che assidersi, ultimo e fiacchissimo dei regnanti, sovra
    un soglio insanguinato.
    Ma il risurgimento dell'Italia era inaugurato in questo nome; non
    era il diritto, non era l'idea; era un uomo, anzi il mero nome d'un
    uomo, e d'ora in ora poteva essere solennemente negato. E
    così fu quasi aratro che passando lasciò profondamente
    sovverso il suolo; non era intonazione d'un'èra novella, ma
    preparazione e preludio. Era un nome di guerra; e la guerra fu
    fatta. E v'è tra il nome di Pio IX e quello di Carlo Alberto
    questo divario, che al suono del primo nome il popolo corse
    all'armi; e al suono del secondo le depose. Coll'uno si
    inaugurò l'unanime oblio delle opinioni, la lega improvisa,
    l'improvisa vittoria; coll'altro, le gelosie dei principi, le
    fazioni dei popoli, la mirabile impotenza. Ora ambo i nomi son
    parole morte.
    E così trapassano le apparenze e le finzioni, e sopravive la
    verità. Non fu solo nel nome dei novatori, che fu iniziata
    l'èra della libertà in Inghilterra, in Olanda, in
    America; ma nel testo medesimo dell'evangelio. Epperò la
    riforma non avrebbe potuto naufragare per fallibilità e
    volubilità dei novatori. Essi non si erano imposti alle
    nazioni come maestri e padri, accaparrandosi in perpetuo le menti e
    le volontà; ma avevano chiamati gli uomini alla parola del
    Libro, qual ch'ella fosse. Essi avevano posto in mano a tutti il
    volume in cui si legge: «nè vogliate chiamare alcuno in
    terra vostro padre, poichè il solo padre vostro è
    quegli che sta ne' cieli; nè siate chiamati maestri,
    perchè l'unico vostro maestro è il Cristo»
    (Mat., 123). Or dunque, come osava alcuno in terra nomarsi padre
    santo, santissimo, e infallibile maestro?
    E così molti insegnamenti di libertà stanno
    nell'evangelio; ma il popolo li ha sempre ignorati; perchè
    quello è tesoro del quale i nemici della libertà
    tengono la chiave. E inoltre vi stanno anche molti precetti di
    servitù. E questi vengono ripetuti; e delli altri si tace.
    Senonchè, la scienza della libertà e della giustizia
    sarà dunque privilegio dei popoli che leggono l'evangelio?
    Sarà essa negata alli israeliti, che vivono in mezzo a noi
    co' nostri costumi, e co' nostri pensieri? E l'ignaro e corrotto
    bizantino, perchè aveva udito vanamente l'evangelio,
    sarà stato un essere più sublime di Leonida e di
    Socrate? E nell'imperio indobritannico, ora e sempre, avrà
    diritti solo il cristiano? E i cento milioni d'uomini che serbano
    nella penisola braminica le tradizioni d'una civiltà dalla
    quale nacque la nostra, non avranno speranza alcuna d'esser
    partecipi del nostro avvenire? E le centinaia di milioni
    dell'imperio chinese e delle finitime regioni non hanno forse
    intelletto? non sono fatte ad imagine di Dio? non hanno natura
    d'uomo, sicchè, non debbano avere i diritti dell'uomo?
    Poichè i catolici sono un quarto forse dei viventi
    oggidì sulla terra, dovrà la maggioranza del genere
    umano rimanere esclusa dal contratto sociale? E nell'Asia musulmana
    diverrà il turco e l'arabo e il druso il servo dell'armeno e
    del nestoriano? E sarà men degno della libertà il
    circasso che la difende eroicamente, che non lo slavo, la cui vita,
    il cui nome stesso, è servitù?
    No, quando le nazioni tendono d'ogni parte verso la communanza dei
    viaggi, dei commerci, delle scienze, delle leggi, delle
    umanità; quando il vapore trae sulle terre e sui mari le
    moltitudini peregrinanti nel nome della pace e della fratellanza;
    quando la parola vibra veloce nei fili elettrici da un capo
    all'altro dei continenti, non è più tempo
    d'architettare una giustizia e una libertà che sia privilegio
    d'americani o d'europei, di papisti o di protestanti. È tempo
    che le discordi tradizioni delle genti si costringano ad un patto di
    mutua tolleranza e di rispetto e d'amistà, si sottomettano
    tutte al codice d'un'unica giustizia, e alla luce d'una dottrina
    veramente universale. È tempo che le arbitrarie e anguste
    divinazioni dei pensatori primitivi, perpetuate nei libri di
    sacerdozii rivali e nemici, cedano alle costanti rivelazioni della
    scienza viva, esploratrice dell'idea divina nell'illimitato
    universo. Verità, libertà e giustizia: libertà
    per tutti, giustizia per tutti: questa è prosa sincera e
    durevole; vera oggi e vera dimani. Ed è anco più alta
    poesia che non la favola di Pio IX.
    
    III
    Perseveriamo nell'arida fatica di radunare d'ogni parte le memorie
    che rimasero del 1848, a raddrizzo degli scrittori presenti, a
    sussidio di quanti vogliano far ragione dai fatti.
    Or che tutti gli aventi causa ebbero agio di tessere le loro
    narrazioni oratorie, è tempo che il conflitto delle
    testimonianze ponga a cimento la verità.
    Comprende questo terzo volume, distinti per giorno e per luogo, e
    raccapezzati con un indice anche per materie e persone, 1700 e
    più frammenti editi e inediti, notizie di guerra, ordinanze,
    dispacci, indirizzi, proclami, citazioni; lungo e vario dialogo nel
    quale ogni interlocutore, amico o nemico, re o pontefice, caporione
    di combattenti o priore di confraternita secrete, vien lasciato dire
    colle proprie sue parole. Il che in istoria non si può fare,
    e in romanzo istorico si fa solo con modi posticci e mentiti.
    Tolte lievi eccezioni, il volume si riferisce tutto ai sedici giorni
    d'irreparabili indugii che corsero tra la fuga di Radetzky, la notte
    del 22 marzo, e il primo conflitto dell'estrema sua retroguardia
    coll'avanguardia piemontese al ponte di Goito, la matina dell'8
    aprile. Ma se ben si mira per entro a questo volume, tutta quella
    politica e quella guerra appaiono nel breve preludio adombrate, e
    quasi diremmo predestinate.
    Alcune centinaia di codesti frammenti furono a stento racolti tra i
    dispersi scartafacci del comitato di guerra di Milano. Sono ordini,
    avvisi e annunci d'ogni sorta, di ben minimo momento ciascuno per
    sè, ma pur segnati tutti della splendida impronta d'un tempo
    che gli eroi delle battaglie indarno affettano sprezzare,
    fintantochè l'arte loro e la virtù non trovino tanta
    fortuna almeno quanta n'ebbero gli uomini delle barricate.
    E invero, quasi favolose oggi appaiono le capitolazioni austriache,
    registrate già in buon numero nel secondo volume, e anzitutto
    quella del presidio di Como: 20000 soldati, tutti stranieri, che
    rimasero fino all'ultimo uomo prigioni o morti. Al che qui si
    aggiunge la capitolazione del battaglione Poschacher in Rovigo,
    quella dei 900 ungaresi, fanti e cavalieri, che per sedicimila lire
    vendettero le armi loro ai parmigiani in Colorno, la incruenta
    prigionia d'uno dei generali Schönhals con 60 officiali in
    Rezzato, l'incruenta consegna dei forti di Comacchio, Magnavacca e
    Volano muniti di 42 cannoni, la presa di sei cannoni da campo in
    Cremona, di 17 pezzi in Pizzighettone, di 48 in Piacenza, e
    l'abbandono che fece Radetzky di 300 feriti in Lodi, senza
    annoverare quelle centinaia che aveva lasciate in Milano. Il che
    compie il quadro, già recato nel secondo volume, della
    confusione di quella ritirata, e del terror pànico delle due
    notti che quell'esercito passò tra Milano e Lodi: pur troppo
    impunemente, benchè una sola marcia lontano dal confine
    piemontese. Onde il disastro di Zichy e la perdita di tutti i forti
    di Venezia (la quale sola, e non Mantova nè Verona, era
    veramente la grande piazza e il centro strategico e la sede del
    tesoro e degli arsenali e degli armamenti terrestri e maritimi)
    appare come un fatto che unicamente per le lentezze del re, non
    avvolse tutto l'esercito austriaco e tutte le minori fortezze.
    Ciò si chiarisce da quanto qui traduciamo dall'opera
    dell'altro Schönhals, intorno allo stato interamente inerme in
    cui, non si sa come, fra tante millanterie di guerra, eransi tenute
    Verona e Mantova con le fosse ingombre d'arbori, e i magazzini
    vuoti, e le artiglierie senza cannonieri e senza affusti.
    In aggiunta a quanto si espose nel secondo volume intorno al
    disastro di Marignano, qui si conferma che fu solamente l'ultimo di
    quella serie d'incendii che gli austriaci confessano di proposito
    intrapresa lungo i bastioni di Milano nel 22, per farsi adito ad
    uscir di città. E si palesa che la quiete trovata poi nel
    rimanente loro cammino non fu già l'effetto di ciò che
    i loro inumani scrittori chiamano un terror salutare. Poichè,
    al contrario, qui da una memoria inedita si rileva, che lo
    spettacolo del vicino incendio di Marignano per poco non commosse
    Lodi a disperata sollevazione. Da qual pericolo l'esercito fu salvo
    per merito dell'illustre ungarese il colonnello Meszaros; il quale a
    ciò valse colla benevolenza e popolarità che da molti
    anni, per una rara eccezione, egli erasi cattivata in Lodi.
    Da confessione di Schönhals appare poi chiaro che se Radetzky
    si ritrasse all'Adda, vi fu veramente costretto dalla rotta di
    Milano; e se dall'Adda si ritrasse all'Adige lo fu per la
    inaspettata perdita di Venezia e il grave pericolo di Mantova e di
    Verona. E qui d'altra parte vien dimostrato che se potè
    riposarsi tre giorni in Lodi e Crema, e ripigliarvi lena, ordine e
    coraggio per la ritirata ulteriore, fu perchè i patrizii
    bresciani avevano con insano consiglio protetto il ritorno di
    Schwarzenberg ai ponti dell'Ollio, e rattenuto con ogni arte in
    Brescia quel popolo vittorioso.
    Il lettore saprà dar pregio a parecchi diarii e moltissime
    lettere che abbiamo raccolto dalle squadre de' volontari, che in
    quei sedici giorni riempivano l'intervallo fra i due eserciti,
    preoccupavano le pianure di Treviglio e di Chiari e perfino le
    vaporiere del lago di Garda, precorrevano d'un giorno al di
    là del Mincio l'avanguardia del re, e con impedire ai nemici
    di vettovagliar Peschiera gli assicuravano quell'unica sua
    conquista. Fra le lettere inedite additeremo a certi scrittori di
    poca fede, quelle, per esempio, di Luciano Manara che si chiudono
    con un evviva alla republica, con un evviva alla democrazia in tutto
    il mondo. I quali gridi non si udirono mai di que' giorni nelle
    piazze delle città, come pretesero poi molti in Piemonte, ma
    solo a quell'estrema avanguardia, fra le sentinelle perdute. Anche
    delle lettere non inedite riusciranno tuttavia nuove a molti,
    quelle, per esempio, del Torres, che il 3 aprile scriveva da Leno a
    Radetzky in Monte Chiaro, invitandolo a sgombrare per la seguente
    matina: «Deciso come sono, egli diceva, d'entrare ad ogni
    costo in Monte Chiaro la giornata di dimani, mi reco a dovere di
    rinovarvi l'istanza già fattavi con successo in Crema».
    Nè parrà meno nuovo a molti, che, in quei giorni di
    basse aque, il tenente maresciallo Gyulai si desse la briga di
    rispondergli quella sera medesima, senza nemmeno dirsi offeso della
    baldanzosa dimanda. Radetzki era già in Verona.
    Da codeste date quotidiane si dimostra falso che, come fu ripetuto
    dalli austriaci, turbe di montanari e di stranieri fossero discese
    in soccorso a Milano fin dai primordii del combattimento. Qui si
    vede che i soli uomini di Lecco giunsero la notte del quinto giorno;
    che i genovesi vi giunsero il giorno dopo la ritirata di Radetzky;
    che i comaschi e ticinesi giunsero ancora un altro giorno più
    tardi, cioè la sera del 24; e che i valtellini furono
    rimandati dal governo provisorio quand'erano ancora a mezza via.
    D'onde conseguita esser parimenti falso quanto molti spacciarono
    intorno all'inerzia e al malvolere delli abitanti della pianura.
    Poichè, anche per mancanza d'avvisi, furono essi i soli che
    poterono accorrere, e con somma audacia veramente accorsero d'ogni
    parte sotto le mura della città fin dal giorno 19, quand'era
    stretta dal nemico ancora intero e minaccioso. Ciò tronca
    dalla radice molti vaniloquii e calcoli falsi tanto di politica
    quanto di guerra.
    Del protocollo segreto del governo provisorio di Milano abbiamo
    preso tutte le lettere di quei giorni; sono forse un centinaio,
    tutte inedite. Primeggiano quelle del conte Enrico Martini, che,
    incredibile a dirsi, vi si mostra il genio inspiratore di tutti i
    clandestini accordi tra quei signori e il quartier generale del re.
    I milanesi pur troppo dolorosamente espiarono poi l'immane colpa di
    avere in tanto pericolo lasciata la patria in braccio a tali uomini,
    di cui, per lo meno, non avevano alcuna aspettazione.
    Alle carte secrete abbiamo aggiunto di giorno in giorno non solo
    tutti gli atti pubblici del governo di Milano, ma quelli pur
    numerosi, benchè poco noti, dei governi e comitati di Brescia
    e Cremona; in buon numero quelli di Como e Pavia; alquanto scarsi
    quelli di Bergamo; ma parecchi pure d'altre minori città.
    Sono all'incirca 400; e, vi si discerne già il secreto
    contrasto che doveva ben nascere (e che sfortunatamente non fu
    maggiore) tra l'impetuoso buon senso dei popoli e l'insensata
    astuzia dei maggiorenti, i quali, per la seconda volta in mezzo
    secolo, conducevano in precipizio la patria. Volevano tenere inerme
    ed umile il popolo, affinchè sentisse tosto imperiosa la
    necessità, e scendesse prontamente a tali patti che
    assicurassero certe grandezze che l'Austria aveva loro vanamente
    fatto sognare nel 1814 e nel 1838; e che senza l'Austria o senza la
    Savoia, non avrebbero mai potuto operare, in paese ove i doni
    dell'opinione e della fortuna erano già troppo largamente
    disseminati.
    E perciò, fra tanti atti loro, non un solo che tendesse
    veramente ad infiammare le turbe e incalzare il nemico. E vediamo
    talun di loro riputar quasi malagrazia che non si volesse lasciare
    al re qualche avanzo di nemici da vincere. Onde non appena il
    mattino della domenica, 26, fu vista spuntar da lungi sulla pianura
    la brigata Bes (non destinata altronde per allora ad assalire gli
    austriaci, ma solo a patrocinare il governo in Milano), essi
    affiggevano incontamente per le vie: «Le truppe piemontesi
    giungono oggi stesso per unirsi a noi. Per conseguenza, il governo
    provisorio invita tutti i cittadini a riprendere al più
    presto, e possibilmente entro la giornata del 27 (lunedì), le
    ordinarie loro occupazioni, aprendo botteghe e lavoratoi, e tornando
    all'operosa loro vita». E un altro editto di quel giorno
    richiamava perfino pochi pompieri dilungatisi coi volontari a
    tribolare il nemico; che per verità in quella matina aveva
    ancora la sua retroguardia in Lodi. E i cittadini, non potendo ben
    sapere quanto efficacemente fosse conquiso e avvilito, e
    imaginandosi che fosse uscito di Milano solo per adunar viveri e
    gente, lo attendevano ad un nuovo assalto, vegliando in armi nelle
    insanguinate loro vie e, lungo i bastioni, sui ruderi delle case
    incendiate; cure tutte che parevano ai governanti superflue e quasi
    importune.
    Si dovrebbe credere che il governo avesse almeno esso quella fiducia
    nel re che si studiava infondere altrui; ma non è
    così. In quel giorno medesimo in cui voleva che i cittadini
    tornassero dall'armi «all'operosa lor vita», scriveva al
    Martini: «Si desidera che le operazioni militari siano spinte
    colla massima energia». Il 28 rispondeva Martini d'averne
    tosto parlato al re in Voghera: «Parlai diffusamente
    dell'assoluto molteplice bisogno di maggior rapidità nelle
    mosse militari». Replicava tosto il governo (30 marzo):
    «Non puossi dissimulare che le mosse delle truppe piemontesi
    non rispondono finora alla nostra fiducia ed alla publica
    aspettazione». E domandava che il Martini proponesse
    «quelli espedienti a cui si potesse ricorrere, per ottenere
    che l'alleanza sarda produca effettivamente i frutti che la nostra
    lealtà aspetta da quella dei nostri ausiliarii».
    Il governo provisorio, pur con false mostre, deluse la dimanda, che
    allora venne fatta, d'un'assemblea, la quale «costituisse un
    supremo governo centrale, incaricato di conservare possibilmente
    l'unità di stato colla Venezia, il Tirolo, Trieste e la
    Dalmazia» (29 marzo). Intanto si diede tutto a cospirare con
    le municipalità e le congregazioni provinciali (reliquie
    austriache ribattezzate in governi provisorii), per accaparrarsi su
    tutte le provincie, in nome del popolo, un'autorità senza
    voto di popolo. E ciò conseguito, ingiunse ai comitati
    provinciali di non pensare all'armamento, assumendosi esso
    l'incarico. Così represse nel nascere quell'espansiva
    emulazione federale, che sola poteva trarre immantinente, dal cuore
    d'ogni provincia denari e battaglioni. Per tal ragione, respingeva
    gli armati valtellini; sovvertiva ogni principio di disciplina tra i
    volontari in Crema, mandando il conte Sanseverino a onorare e
    promovere chi ricalcitrava al comitato di guerra; ratteneva gli
    altri volontari che da Treviglio, ov'erano giunti il 24 e il 25
    colla via ferrata, dovevano precorrere sotto Mantova il nemico, il
    quale solo il 28 potè lasciar Crema; richiamava da Cremona
    fino a Milano i sei cannoni e i tremila soldati eh'eransi quivi
    sottratti al nemico fin dal 21, e che di là potevano per
    dieci e più giorni scendere in soccorso a Mantova, lontana
    solo trenta miglia, giovandosi anche delle vaporiere e altre navi
    del Po; perocchè il disarmo dei mantovani fu comandato solo
    il 2 d'aprile. Ma il maggior danno si fu, che fin dal 26 marzo, i
    governanti impegnarono per le vittovaglie dell'esercito del re
    quanto poteva entrare nello scomposto erario; tantochè furono
    poi costretti a sovvenire il re con un millione dato loro a prestito
    da lui medesimo! Operazione di finanza senza esempio nel mondo, che
    ci vien rivelata da lettera d'uno dei membri del governo. Intanto fu
    reso impossibile l'armamento del paese da essi
    «assunto»; poichè non volendo essi tassar
    sè medesimi e i loro consorti e patroni, e non potendo senza
    assemblea tassare efficacemente il popolo, si ridussero alla
    inadeguata e precaria fonte degli imprestiti senza interesse e delle
    offerte volontarie.
    A queste offerte, di cui leggonsi lunghe liste nei giornali, non
    abbiamo potuto far luogo in volume già grosso d'ottocento e
    più pagine. Abbiamo piuttosto raccolti di giorno in giorno
    gli atti della diplomazia concernenti le cose nostre, ricavandoli in
    massima parte dai volumi rassegnati al Parlamento britannico,
    traducendo però solo gli inglesi e dando in originale i
    francesi. Vi si vede l'autocrazia russa maledire, almen
    sinceramente, al progresso della libertà e della
    nazionalità come ad un delitto; i Ficquelmont, i Buol, i
    Dietrichstein al contrario dolersi ipocritamente che l'Italia si
    fosse stancata dell'Austria proprio quando all'Austria era venuto in
    cuore di colmarla di cortesie; e la teatrale liberalità
    britannica rinegare in secreto tutto ciò che colle
    ostentazioni di lord Minto aveva provocato in palese.
    Come avvenne dunque che i servitori del re promettessero a sè
    medesimi e ai popoli l'ingrandimento improviso del Piemonte? Essi
    bene sapevano che i confini delli Stati e le convenzioni che li
    accertano erano di ragione europea. Sapevano che nessuna corte
    poteva nel bel mezzo d'Europa farsi la porzione colle proprie mani,
    e turbare quella relativa potenza, la quale si chiama l'equilibrio.
    Conoscevano i tristi interessi che legano gli Inglesi all'Austria. E
    perciò in faccia alla diplomazia non osavano nemmeno alludere
    all'ambito acquisto; ma scendevano a fare dell'occupazione di Milano
    un atto di polizia.
    Il re, incalzato quasi da odiosa necessità alla gloria e alla
    grandezza, era rimasto inerme inanzi all'occupazione di Ferrara,
    alle stragi di Milano, di Padova, di Pavia, all'invasione dei
    Ducati, al raddoppiamento dell'esercito nemico, infine alla
    inaspettata rivoluzione di Vienna, all'inaspettata resistenza di
    Milano, quantunque la consuetudine di tutti i governi e l'esempio
    dell'Austria legittimassero in Piemonte l'adunamento d'un esercito
    sul confine di paesi agitati e invasi. Che se all'adunamento
    dell'esercito il re avesse aggiunto qualche generoso manifesto, che
    a titolo della vicinanza e della nazionalità e della ragione
    commune delli Stati ammonisse il governo austriaco a temperarsi dal
    sangue e frenare gli eccessi de' suoi proconsoli; almeno l'Austria
    non avrebbe potuto poi gettare un'accusa di perfidia al congiunto,
    che fino all'ultimo istante le aveva mandato parole di amicizia e
    non un verbo di disapprovazione.
    Non si mosse dunque il re, se non quando ebbe a temere che nella
    libera Milano si gridasse altro principe o altra forma di Stato. Non
    potè dunque giungere coll'esercito al ponte di Pavia se non
    sette giorni dopochè lo avevano varcato i suoi poveri
    volontari genovesi e lomellini. Ma giunto al confine, poteva almeno
    correre la via più breve, sia lungo la sinistra del Po, sia
    lungo la destra, avendo aperti i ponti di Pavia, di Piacenza, di
    Pizzighettone; e potendo farsi in Cremona una testa di ponte
    già bastionata e anche già notabilmente munita.
    Così se non poteva più precludere al nemico il
    riacquisto delle fortezze, poteva stringerlo subito e sottrargli le
    vittovaglie. I suoi lodatori scrissero che la sua «linea
    d'operazioni procedeva da Piacenza a Cremona». È falso;
    al contrario egli seguì una linea serpeggiante, che
    raddoppiava le distanze, con inutile stanchezza dei soldati, anzi
    accresceva ad ogni marcia quell'intervallo di sole dieci miglia, che
    la notte del 23 divideva dal ponte di Pavia l'ala destra del nemico
    in Landriano. I generali, o che dettassero quella politica e quella
    strategia, o che la subissero, affettavano di temere non sappiamo
    qual ritorno offensivo del nemico, il quale aveva altro a fare.
    Pareva che col far pompa di timori e lentezze volessero dire ai
    popoli: Voi v'imaginate d'aver vinto, solo perchè non sapete
    nulla di guerra. Cominciarono a darsi un assurdo allarme il giorno
    23, quand'erano ancora nei quartieri loro in Novara e Mortara.
    Ebbero per molti giorni l'ordine «di non comprometter
    l'esercito nemmeno con una fucilata». Non appena giunti in
    Brescia, e avuto nuovo allarme, ritornavano in città senza
    assalire il nemico; lasciavano manomettere gli insurti di Monte
    Chiaro; e a chi ne richiedeva il perchè, rispondeva il
    general Bes: «Io non ho ordine d'attaccare».
    E standosi in Brescia, e richiesto d'impedire le rapine della
    retroguardia austriaca nel prossimo Calvisano, trasmetteva la
    preghiera al Torres, il quale non aveva cavalleria e aveva quattro o
    cinque cartucce per uomo: «Je suis trop éloigné
    de Calvisano pour empêcher cette exaction qui doit avoir lieu
    demain. Il n'y a pas de doute que si vous étièz a
    méme de faire une simple démonstration vers Calvisano,
    vous rendriez un service très important aux habitants».
    Per quanto noi possiamo congetturare di siffatti arcani, la
    deliberazione d'assalire, e di mutar l'occupazione in guerra, fu
    presa solamente il 4 aprile in consiglio di guerra a Cremona, quando
    la ritirata dell'Austriaco era compiuta, e riparati gli effetti
    della sua rotta. Ancora in quel dì, il general Bava «fu
    d'avviso che le truppe dovessero tener la strada di Piadena, Bozzolo
    e Marcaria, sia per evitare le pianure di Ghedi e Monte Chiaro, sia
    per appoggiare l'insurrezione di Mantova». È da ridere;
    perchè il 4, Monte Chiaro era già occupato da Torres;
    Arcioni e Manara fugavano il nemico in Salò e prendevano le
    pentole della sua cena; Radetzky stava già da due giorni in
    Verona; e Mantova era già da due giorni disarmata.
    Così sfumano al duro confronto delle date di giorni e di
    luogo, le istorie di Schönhals e di Bava e altri simili libri
    di partito e non d'arte militare. Vediamo confermato in parecchie
    lettere del Martini come l'esercito sardo fosse guidato da officiali
    che non avevano carte geografiche.
    Nè si trattava d'imprevista e strana spedizione in Africa o
    in Asia, nè solo in paese vicino e nazionale, ma in quello
    che dai tempi d'Annibale, di Barbarossa, di Carlo quinto, di
    Napoleone fu sempre il campo classico delle battaglie. Non aver le
    carte di tal sacro terreno, non saperle a mente, era come dirsi
    affatto alieno e ignaro d'ogni studio di guerra. Forse quei frati in
    cui governo il re aveva lasciato per tant'anni le academie militari,
    e che ammaestravano i futuri capitani a recitare ogni matina e ogni
    sera l'officio della Beata Vergine, avevano anche vietato loro il
    leggere le campagne di Bonaparte. Così ponno delirare i
    principi. Ma poscia, nei giorni di guerra, non trovano se non
    ciò che nei giorni di pace han delirato.
    Apriamo il Thiers; vediamo come su quel terreno, e con quel nemico,
    ma meno stanco, e non incalzato dai popoli, nè spoglio
    già di cannonieri, si fosse combattuta un'altra guerra. -
    «Bonaparte prende 3500 granatieri, la cavalleria e 24 cannoni,
    scende lungo il Po. La matina dell'8, con una marcia di 16 leghe
    (quaranta miglia) in 36 ore, è a Piacenza... Colla barca del
    porto tragitta l'avanguardia comandata dal colonnello Lannes.
    Questi, appena sull'altra sponda, piomba sui distaccamenti che la
    percorrono e li disperde. Gli altri granatieri passano mano mano. Si
    comincia a fare un ponte... La divisione Liptai era accorsa a
    Fombio; Bonaparte l'assale con quante forze ha in mano. Trincerata,
    la scaccia. La stessa sera, giunge Beaulieu... intoppa nelli
    avamposti francesi... è respinto a furia... In Pizzighettone,
    ov'è il passo dell'Adda, si erano gettati gli avanzi della
    divisione Liptai. Bonaparte rimonta il fiume sino al ponte di
    Lodi... Dodicimila fanti e quattromila cavalli erano sull'altra
    riva; venti cannoni raschiavano il ponte... Egli pone in colonna
    tutti i granatieri; li fa erompere per la porta che dà sul
    ponte, a passo di corsa...».
    Se ora mettiamo a paragone il diario d'un officiale della brigata
    Savoia, la vediamo il 29 marzo in Pavia; il 30, il 31 marzo e il
    1º aprile in marcia per Lodi; il 2 in contromarcia per Codogno,
    ove sta immobile il 3 e il 4. La via diretta da Pavia a Codogno
    è 22 miglia. Non sono 40 miglia superate in un giorno e
    mezzo; ma 22 miglia in sette giorni!
    Chi avesse avuto nell'animo i grandi esempi, avrebbe abbandonate al
    più militare de' suoi generali le brigate Bes e Trotti,
    ch'erano le più vicine alla frontiera; non avrebbe dato tempo
    al nemico di posare una sola notte; l'avrebbe còlto ancora
    sui bastioni di Milano, o alla stretta tra Porta Romana e il Lambro,
    o ai ponti di Landriano e Marignano; o per Pizzighettone, ch'era
    aperto, lo avrebbe sopragiunto al di là dell'Adda, colle
    paludi di Crema alle spalle; o fra i canali e le leve in massa di
    Brescia e di Cremona. Valevano più due brigate e il rimbombo
    notturno di due batterie in quell'istante e su quel terreno, che non
    dieci brigate e dieci batterie sotto le mura di Verona in maggio o
    in giugno. Con qual impeto non dovevano precipitarsi sul fianco
    della carovana nemica giovani squadroni intatti e freschi di poche
    ore dalla caserma, liberi d'ogni ingombro, inebriati dal plauso
    delle donne e dalla vista di uomini vittoriosi! Noi li abbiamo uditi
    il 26, alle porte di Milano, quando il popolo in armi li accoglieva
    gridando: Viva i piemontesi! rispondere con coscienza vera di
    soldati: No, no; viva voi!
    I nemici, già tanto inviliti in faccia ai popoli, avrebbero
    riputato ventura poter deporre le bandiere ai piedi almeno di
    soldati. Gettavano le armi per far sacco; le vendevano ai contadini
    da sotterrare, per rivenderle poscia o dividerle coi volontari;
    avrebbero di quei giorni venduto il generale, se avessero potuto
    trovar denari. Ma ignorarono sempre l'arrivo d'un esercito sulle
    loro tracce; non udirono mai il tuono d'un cannone; videro solo
    turbe improvise e fucili da caccia. E quando una dozzina d'uomini di
    Genova Cavalleria, sorpresi sull'alba del 6, con quei continui
    spaventi addosso che instillavano loro le dubiezze dei comandanti,
    si lasciarono condurre prigionieri in Mantova, i croati,
    all'uniforme o all'insolito accento, li credettero soldati francesi
    come caduti dalle nuvole. Pur troppo la tradizione dei secoli appena
    ricordava fra i nemici dell'Austria la casa di Savoia.
    Lasciato fugire invano il fatale momento, potevasi ancora far pro
    dei grandi esempi. Dacchè il nemico aveva ad assicurarsi
    contro i cittadini di Verona e di Mantova, e fornir di cibo, di
    polveri e di cannonieri le spolpate fortezze, nè aveva
    superfluo di gente da poterne con effetto uscire a notevole
    distanza, era mestieri serrarlo dappresso per levargli subito
    d'intorno quanto si poteva di vittovaglie; interrompere ogni strada
    con trincere, empiendole di volontari; prodigare armi e denari ai
    trentini ancora incerti; sostenere virilmente i montanari già
    in armi dei Sette Communi, del Cadore, dell'Alpago, della Carnia; e
    più tardi coll'esercito mobile togliere ad ogni costo il
    passo alla divisione Nugent, che aveva già alle spalle Osopo
    e Palmanova e ai fianchi Venezia e il Cadore, e non fu poi nemmen da
    tanto da forzar Vicenza. Accampato l'esercito dietro le fortezze,
    colla base al Po e alle inespugnabili Lagune, la marineria di tutta
    Italia poteva torturare in Trieste il commercio di Vienna, che
    già gridava alla pace e imponeva agli arciduchi la missione
    di Hartig, intesa piuttosto a consolar Vienna che non a sedurre
    Milano. Ogni provincia avrebbe di giorno in giorno mandati al campo
    i suoi battaglioni; e già prima che la neve chiudesse per sei
    mesi le Alpi, eruppe la guerra civile nel Sirmio e in Vienna, e la
    defezione dell'Ungaria. Qual serie costante di prospere fortune per
    chi ne fosse degno! Ma era mestieri non rinunciare solennemente sul
    bel principio alla guerra marittima; e per tenere alcun tempo la
    lega marittima e terrestre, bisognava anzitutto non offendere
    nè insidiare i collegati. Dovevasi poi sollecitare in tutti
    gli Stati la convocazione delle assemblee, le quali da un lato
    potessero metter uomini fidati nei ministeri e al comando delle
    armi, dall'altro rifare, fra loro nuova e più sincera lega.
    Infine, in Roma, all'ombra dell'idolo popolare, potevano molte cose
    tentarsi in vero congresso federale; e prima d'ogni cosa la pace di
    Sicilia, e la marcia dei reggimenti svizzeri da via Toledo al Po.
    Sarebbe almeno rimaso ai posteri l'esempio d'un comizio di tutta
    l'Italia. E la dimanda d'un congresso era già fatta
    solennemente in Roma il 23 marzo. Ma la rivoluzione, traviata dagli
    esuli, si aggirava in un labirinto. Perchè ai principi
    italiani mancava il primo elemento delle imprese, la volontà;
    si era pensato spingerli su quella via con arti mutuate ai gesuiti:
    l'uno con vani applausi, l'altro con false minacce, o collo spavento
    d'una irruzione francese, o colla invidia d'una egemonia piemontese,
    o coll'esca d'un subito acquisto. Pertanto parve opportuno ai
    rimurchiatori apportar tosto al re, ancora titubante in Alessandria,
    un assaggio di preda bellica. Leggiamo in data di Piacenza:
    «Tre ore dopo partiti gli austriaci, il popolo, il dì
    26, sebben piovesse, si assembrò in piazza, gettò
    abbasso le armi vecchie ducali... Giunse il Gioia... Il 27, alle ore
    9 del mattino, giunse qua il capitano del genio piemontese,
    Menabrea, con lettera del ministro Pareto, nella quale, sviluppando
    il principio della politica del re... offriva l'aiuto suo... Fu
    accettato per acclamazione; e subito si nominarono deputati al re il
    marchese Landi, figlio, e l'avvocato Gioia... L'inviato piemontese,
    udito che la deputazione aveva mandato di offerire la città,
    fece osservare che il re non si sarebbe contentato di un atto del
    municipio. Subito furono aperti registri, dove i notabili e chiunque
    cittadino scriverebbe il suo pensiero. E la sera, illuminate a gioia
    tutte le case, nelle vie più remote fu portata in processione
    fra torchietti la bandiera di Savoia». Notiamo bene: l'antica
    bandiera di Savoia, non quella d'Italia. Erano quelle le torce di
    discordia; infatti tosto leggiamo estratto di dispaccio del
    Menabrea: «Votre excellence aura déià appris
    qu'à Parme il y a eu contre-révolution en faveur de la
    famille des Bourbons». E tosto si palesa altro contrario
    disegno d'ingrandimento nei Borboni: «La noblesse de Parme,
    à ce qu'il parait, aurait envie de former un État
    ayant Parme pour capitale, et qui serait composé des
    duchès de Parme, Modène, Reggio et Guastalla... Aussi
    à l'annonce de la contre-révolution de Parme,
    Plaisance s'est déclarée indépendante».
    Ma sulle spoglie dei vicini e parenti di Parma e Modena aveva
    già posto gli occhi un terzo conquistatore, il granduca di
    Toscana. Partito il governatore di Carrara nella notte del 22,
    «Carrara subito si sollevò, e mostrò l'espresso
    desiderio di darsi alla Toscana. In Massa gli animi furono meno
    risoluti... Ma non mancarono i buoni... Le cose si mettevano bene; e
    già i soldati, affratellati col popolo, correvano per le
    strade di Massa, gridando: Viva Leopoldo II... Ma il famoso
    Guerra... fece affiggere in Carrara un proclama stampato e firmato
    Francesco V, che più non ha regno. I Carraresi si credono
    traditi, prendono le armi, e in numero di circa 500 vengono a Massa,
    disposti a combattere per determinare la riunione alla Toscana... E
    già la moltitudine consentiva con loro, quando il professor
    Montanelli, che, in luogo di fermarsi co' suoi militi del
    battaglione universitario a Pietrasanta... venne diritto a Massa,
    arringò il popolo; e dissuadendolo dal congiungersi alla
    famiglia toscana, lo consigliò a mantenersi libero e
    indipendente, finchè in un congresso europeo, presieduto da
    Pio IX, non si decidesse delle sorti delle provincie italiane.
    Alcune voci lo interruppero dicendo: - Noi vogliamo esser toscani. -
    E perchè? egli dimanda. Rispondono: - Per avere un appoggio -
    Replica il professore: - Se volete un appoggio, dovevate darvi a
    Carlo Alberto - Quindi entra nella sala ove era raccolto il
    municipio, già disposto a stender l'atto d'unione colla
    Toscana, e lo esorta a costituirsi governo provisorio ed aspettare
    gli eventi. Il professor Matteucci mostrava all'opposto
    calorosamente la convenienza di unirsi alla Toscana. Il Municipio
    esitava... il giorno 23 giunse il professor Giorgini colla sua
    compagnia... Pare che dentro la giornata sia per esser pubblicato il
    proclama dell'unione di Massa e Carrara alla Toscana. Il professor
    Montanelli, perduta la speranza di far qui prevalere la sua
    proposta, montò in vettura, dirigendosi per la via di Sarzana
    verso Milano, per fare, come disse un altro tentativo più
    fortunato in quella provincia».
    Il granduca, fin dal 22 marzo, aveva annunciato l'occupazione degli
    Stati estensi: ma Modena attese invano per dieciotto giorni i
    battaglioni toscani, tenuti immobili fra gli Apennini. Intanto quei
    pochi toscani ch'erano precorsi, riputarono dover «dichiarare
    la causa del ritardo. Pochi malevoli, al loro dire, spargevano che
    l'oggetto della spedizione toscana, anzichè esser quello
    generoso e italiano della cacciata dello straniero, fosse l'altro
    d'una meschina occupazione di territorio. Un riguardo adunque di
    lodevole delicatezza ha trattenuto il movimento toscano, e i nostri
    fratelli sono rimasti fremendo quasi una settimana (furon poi
    più di due) fra le nevi dell'Apennino, in mezzo a mille
    disagi, per attendere che si dileguassero questi ingiuriosi
    sospetti». Nè del tutto i sospetti erano vani,
    poichè, giusta i dispacci inglesi, il granduca, oltre
    all'aver tolto le dogane fra Toscana e Modena, non fra Toscana e
    altri Stati italiani, faceva vantare non sappiamo quali suoi diritti
    su Modena e Parma; e per affacciarsi anch'egli ai popoli con qualche
    sembiante di maggior potenza, facevasi salutare Re d'Etruria in
    teatro. Carlo Alberto, mal pago già di Parma e di Modena,
    disdegnò nominarle nel proclama che indirizzò il 30
    marzo da Lodi: «Agli Italiani della Lombardia e della Venezia,
    di Piacenza e di Reggio». E allora e sempre mirò con
    animo geloso i battaglioni toscani. I quali poi rimasero crudelmente
    derelitti sul campo di Curtatone.
    Tutto questo volume è seminato di tali cieche contese, che
    sviavano i popoli dall'amicizia e i soldati dalla guerra. Invano il
    buon senso publico le ripudiava. Troviamo scritto fin da quei
    giorni: «Tutti son sicuri che le sorti di questo paese sono
    assicurate come quelle d'Italia; quindi essere inutile anche il
    dichiararsi, ora, per un principe anzichè per un altro.
    È curioso, che mentre in Lombardia vi sono ancora i tedeschi,
    da alcuni si pensi già a passare i confini fra Stato e Stato;
    e che alcuni toscani e piemontesi si vadano girando per questi
    paesi, invitando le popolazioni a pronunciarsi per un governo o per
    l'altro. Sono assicurato che all'Avenza alcuni sarzanesi abbiano
    fatto abbassare la bandiera italiana per sostituire la sarda».
    Queste savie cose si scrivevano in Pontremoli il 25 marzo. Ancora vi
    s'ignorava la combinazione delle due bandiere: primo trionfo
    conseguito dal genio diplomatico di Enrico Martini la notte del 23,
    com'egli attesta: «Ed in primo luogo ottenni che l'armata,
    passando il Ticino, adotterebbe la bandiera tricolore in luogo del
    vessillo di Savoia; solo, nel campo bianco le starebbe la croce
    azzurra». Il tricolore ebbe così anche un colore di
    più.
    Il ricapito principale dei propagatori di discordie fu in breve
    Milano. «Là, la santa causa, scriveva Salvagnoli,
    chiama tutti a combattere con tutte le armi in tutte le guerre tutti
    i nemici; là, corre il gran lombardo Berchet; là, noi
    lo seguiamo; or non v'è che una Italia». E pigliando
    congedo dai lettori della Patria, aggiungeva: «La Patria non
    muore, ma si raddoppia; noi andiamo a portare la sua bandiera anco
    in Lombardia; là continueremo la nostra battaglia a tutta
    oltranza». Minacciando battaglia a tutti i nemici, il
    Salvagnoli la minacciava anche ai cittadini d'altro parere; e
    promettendo valersi d'ogni arme, comprendeva anche quelle che non
    erano oneste. E già ne aveva fatto largo uso, quando rubava a
    Milano anche quella ben pagata gloria dei giorni di marzo:
    «Giunge una staffetta da Milano e porta che la colonna delle
    truppe e dei volontari di Novara penetrò in Milano il giorno
    20; i primi a scalare le mura furono i bravi bersaglieri piemontesi.
    Sì, sì la grande spada d'Italia è snudata: gli
    Italiani di Piemonte hanno liberato gli Italiani di
    Lombardia». In queste basse arti aveva compagno il governo
    provisorio; il quale, la matina del 24, prima ancora d'aver notizia
    che il re si fosse deliberato alla guerra, affiggeva agli angoli:
    «Cittadini, buone notizie! l'armata piemontese ha passato il
    Ticino; questa brava armata ch'è venuta puramente in nostro
    soccorso». E noi dovremmo arrossirne per la nostra nazione, se
    per ventura le menzogne più sfacciate non fossero ancor
    quelle che mandava intorno l'Allgemeine Zeitung, la vessillifera
    dell'onore teutonico: «Milano tornò all'obedienza...
    Como fu ripresa dall'arciduca Sigismondo... I corpi franchi
    piemontesi furono sconfitti... Anche i generali Wallmoden e
    Wratislaw devono aver riportato vittorie... Qui si giudica finita la
    rivoluzione italiana».
    Ben alieni dall'accettare il combattimento a tutte armi e a tutta
    oltranza, gli uomini di Dio e del Popolo, incatenati al laccio
    dell'Associazione Italiana di Parigi, si vedono in questo volume
    seguire colla corda dei penitenti al collo gli odiati cortigiani
    alla fondazione del regno fortissimo. Il 28 marzo, quando già
    v'era l'annuncio in Parigi che Milano ardeva e combatteva, essi,
    anzichè chiedere a quella nazione, allora ancor signora di
    sè, un aiuto d'uomini agguerriti, o almeno un largo prestito
    d'armi, osarono dire, di propria autorità, in nome di tutti,
    ai ministri della Republica: «L'Italia, così speriamo,
    saprà bastare a se stessa». Le quali parole sarebbero
    state arbitrarie e tracotanti, anco se chi le proferiva fosse stato
    egli sotto la mitraglia e non cinquecento miglia lontano. E almeno
    ciò fosse stato nella buona coscienza d'aver preparato anzi
    tempo qualche soccorso al popolo nel duro cimento! Ma ben al
    contrario, gli uomini dell'azione perpetua, logorati da lunga pezza
    nelle misere e false prove, si confessavano ignari e attoniti di
    tutto quel poderoso e spontaneo moto. Scriveva Mazzini: «Noi
    parlavamo il 5 marzo una parola di fede, non di speranza immediata;
    pochi giorni dopo, voi vi levate soli a operare e vincere per
    tutti». Avviluppati fra le contradizioni d'una falsa idea, non
    osavano più nemmeno dare agli armati fratelli un consiglio; e
    se ne rimanevano lontani e quasi nascosi: «Fedele al programma
    adottato, l'Associazione Nazionale non s'arroga facultà di
    consiglio per ciò che riguarda le forme d'ordinamento
    politico più consentanee alle nostre tradizioni e alle
    tendenze europee». Ecco quali sono, nel dì vero delle
    opere, gli ultimi aneliti d'una impotente agitazione! Agendo nihil
    agit. Deserti perfin di consiglio, gli adolescenti della Voce del
    popolo, facevano il 26 marzo il primo atto di stampa libera,
    ripetendo colli oracoli di Parigi: «Noi uomini di fede non
    abbiamo in pronto a spacciare principio assoluti di questioni
    sociali e politiche». E altra non ne avendo, ripetevano la
    parola d'ordine della monarchia futura, dicendo che «le forti
    popolazioni della zona settentrionale erano chiamate a difender
    l'Italia»; come se gli uomini di Romagna e di Roma e delle
    Calabrie e della Sicilia non avessero polso al braccio e non
    dovessero dividere ogni pericolo nostro. Con umiltà borghese
    inanzi ai personaggi del governo provisorio, predestinati ad essere
    i grandi del regno futuro, si dicevano «paghi d'essere
    avvocati del popolo presso al governo, se la sua carità
    avesse bisogno di consigli». Dicevano: «Il nostro motto
    politico è, per ora, aiuto, concorso, obedienza al governo
    provisorio; egli è surto dal popolo». Il che non era
    vero; e inoltre contribuiva a dar falsa popolarità agli
    armistizianti e agli intrusi, e autorità d'avviare ogni cosa
    al peggio. E intanto un oscuro giornale che osò rivocare in
    dubio l'origine di quel potere, potè venire impunemente
    minacciato ed assalito; e la libera stampa si vide manomessa quasi
    prima d'esser nata.
    Mossi dal medesimo eccesso d'abnegazione, ossia dalla stessa
    impotenza del loro principio, gli uomini di più libero animo
    venivano dall'esilio a recare in tributo ai cortigiani le persone
    loro e quelle dei loro compagni. «Io la prego, scriveva
    Filippo De Boni al conte Casati, di offrire il mio ingegno qualunque
    si sia e la mia vita al primo governo creato dal popolo nostro. E
    questo che io le dichiaro in mio nome, è pure la voce, il
    sentimento de' miei fratelli d'esilio annunciatori dell'Italia del
    popolo; i quali di Svizzera, di Francia e d'Inghilterra ora muovono
    verso la Lombardia per affrettare con la spada sabauda la nostra
    indipendenza; nè altro dimandiamo che avere la nostra parte
    nei pericoli e nelle fatiche, salutare la libera e Una Italia e
    morire». Queste eloquenti parole ci mostrano come i fratelli
    d'esilio avessero deliberato in commune che Carlo Alberto avesse,
    non solo la zona settentrionale, come volevano il Bianchi-Giovini ed
    altri, già da più lungo tempo disertori della
    republica, ma l'Italia Una; ch'è quanto dire l'Italia Tutta.
    Era un antico loro sogno del 1831; pure quei più larghi
    donatori furono gridati (e lo sono ancora) odiatori del re, folli ed
    atroci. Ma è certo che chi più temeva una tanto
    improvisa grandezza del re fu sempre, e a ragione, la sua Torino; la
    quale già nella zona settentrionale, si vedeva troppo remota
    dal centro dello spazio e degli interessi, e nell'Italia Una doveva
    aspettarsi, non meno del governo provisorio di Milano,
    un'irreparabile sommersione.
    Era quella (e non già la forma di governo) la più
    grave controversia che fosse allora tra gli uomini dell'Italia Alta,
    servilmente principeschi, e gli uomini dell'Italia Una, principeschi
    solo per ripiego e per disperazione di raggiungere per altra via la
    contemplata unità, posta da loro inanzi ad ogni
    libertà. A ciò alludeva il loro capo, quando, la sera
    stessa del suo arrivo in Milano, dapprima al balcone della sua
    locanda, poi all'opposto balcone del palazzo Marino, in mezzo ai
    membri del governo provisorio, diceva a coloro che i sergenti del
    governo avevano a lume di torce chiamati a udirlo, quanto
    «egli desiderasse di mettere d'accordo le sue idee sull'Italia
    coi membri del governo provisorio». Al che seguivano gli
    applausi del satellizio e delle turbe, or dal lato della piazza ove
    siedeva il governo, or da quello ove era la locanda dell'oratore, or
    da quello ove erano le case della signora d'Azeglio, or finalmente
    dal vicino palazzo Poldi, dimora del conte Casati e della
    principessa Belgioioso. Era quello un politico panteismo, nel quale,
    per virtù metafisica dell'unità, persone e cose
    venivano in un sol vortice tramestate e assorte.
    Ogni sforzo di metafisica era vano. I provisorii, non pensando in
    verun modo alla guerra, ma solo alla loro politica, protestavano
    sempre di serbare ogni controversia politica al termine della
    guerra. Spacciavano tali ciance perfino al papa, che pure doveva per
    tante strade sapere i secreti pensieri di loro e del re. Scrivevano:
    «Alla Santità di Pio IX: Finchè ferve la guerra,
    noi provederemo che dissidii non surgano sulle forme politiche a cui
    debba comporsi questa nobil parte della gran patria italiana; a
    causa vinta la nazione deciderà». Lo ripetevano ogni
    istante al popolo: «A causa vinta, i nostri destini saranno
    discussi e fissati dalla nazione». «Attendete che ogni
    terra italiana sia libera; liberi tutti, parleranno tutti».
    «Non si discute intanto che si combatte». E il re
    medesimo aggiungeva in suo proclama ai popoli, dato in Lodi il 31
    marzo: «Le mie armi, abbreviando la lotta, ricondurranno fra
    voi quella sicurezza che vi permetterà d'attendere con animo
    sereno e tranquillo a riordinare il vostro interno reggimento; il
    voto della nazione potrà esprimersi veramente e liberamente;
    in quest'ora solenne vi movano sopratutto la carità della
    patria, l'aborrimento delle antiche divisioni, delle antiche
    discordie, le quali apersero la porta d'Italia allo
    straniero». E come se parola di re fosse poco, usciva a farne
    fede anche il dottor Angelo Fava, promettendo enfaticamente che la
    nazione deciderebbe «a guerra finita, quando l'idra austriaca
    sarà abbattuta dalla clava italiana... allora!».
    Senonchè, a smentire la metafora del Fava, compare in quel
    medesimo giorno, 5 d'aprile, un manifesto del marchese Doria, altro
    dei compari, il quale, ammirando la concordia di tutti gli Italiani
    alla cacciata delli Austriaci, e tuttavia non contento, diceva:
    «Noi abbisognamo d'un'altra concordia... Abbiamo bisogno d'una
    concordia che ci dia la unione... Fratelli lombardi e veneti, alla
    gloria d'aver cacciato il nemico commune, unite quella di munire la
    patria commune con uno Stato forte». E già cinque
    giorni prima erasi pubblicato in Brescia altro indirizzo d'un A. L.
    Bargnani, emigrato reduce, il quale, dopo molte circollocuzioni,
    conchiudeva: «Proporrei che tutti i municipii del contado e
    della città di Brescia, e lo stesso direi delle altre
    provincie lombarde e tirolesi, incaricassero i magistrati proprii di
    trasmettere a questo governo provisorio i loro voti, onde le
    provincie medesime vengano aggregate alli Stati sardi... I quali
    voti poi il nostro governo provisorio invierebbe a quello di Milano,
    e questo presenterebbe solennemente a Sua Maestà sarda, con o
    senza quelli delle altre provincie». Il lettore vedrà
    quante cose giacciano sottintese in quelle tristi parole: «con
    o senza quelli delle altre provincie». Pareva essersi
    già deliberato il disegno di scindere Piacenza da Parma,
    Reggio da Modena, Brescia da Milano. Leggiamo altrove: «Ho
    parlato con un signore che viene di Lombardia, il quale dice che le
    provincie siano più disposte ad acclamare Carlo Alberto a
    loro sovrano che non lo sia Milano». Ma nella medesima pagina
    leggiamo: «Il partito republicano pare che si svegli». E
    questo era un effetto ben naturale, non ostante il patto di Parigi e
    la comparsa di Mazzini sui balconi di piazza San Fedele. Le lentezze
    della guerra, le slealtà della politica, le violenze del
    governo che faceva minacciare d'incendio la stamperia del Lombardo,
    da cui erasi onestamente rivocata in dubio la legitimità del
    suo potere, facevano sì che il 7 aprile venisse deliberato da
    alcuni giovani, presieduti, crediamo, da Giuseppe Sirtori, un
    manifesto d'associazione republicana. Venne però publicato
    nei giornali solo il 15 aprile, due settimane dopo la provocazione
    del Bargnani. E non ebbe la publica adesione del Mazzini se non dopo
    il decreto del 12 maggio.
     Mazzini pose intanto a servigio dei patrizi i suoi uomini
    d'azione, come fa fede la proferta d'impiego da lui fatta in nome
    del governo al general Fanti, e controsegnata sul foglio stesso dal
    secretario Correnti. A nome pur del governo, Filippo De Boni
    s'indirizzò ad un comitato in Losanna, il quale doveva
    fornire un corpo d'ausiliarii che il governo simulava di volere
    accettare a' suoi stipendi, e di poterlo; e che poi naturalmente non
    potè e non volle. Inesperto del paese, l'illustre esule
    prestava inoltre involontaria mano a una petizione promossa dal
    governo contro i membri del consiglio di guerra che avevano impedito
    l'armistizio. Abbiamo già veduto con quali aspirazioni il
    Montanelli corresse da Massa a Milano; il prete Francesco
    Dall'Ongaro, pratico di Venezia, fu quivi spedito dal governo
    provisorio principalmente per aiutare l'inviato «a entrare in
    rapporto colle persone più influenti del governo
    veneto». Alle armi straniere si aggiungevano contro Venezia le
    domestiche insidie.
    Fatto si è che, intorno all'idea vaga dell'unità, si
    propagavano e si attemperavano alli animi generosi le mezze idee
    dell'unione e della fusione, le quali involgevano i più
    triviali calcoli d'ingrandimento a favore dei principi, e di
    protezione armata a favore dei patrizi; erano come quei frutti che
    gli antichi dicevano nascere intorno al Mar Morto, rugiadosi e
    morbidi al di fuori, e dentro pieni di cenere. E per ineluttabile
    forza logica del falso principio, riuscivano a ultimi calamitosi
    effetti; quali erano il sospetto vicendevole dei principi, la loro
    diserzione alla guerra d'Italia, il ritorno loro all'alleanza
    austriaca e ad ogni altra ingerenza straniera; insomma, il fatale
    ricorso della istoria italiana, la quale è veramente un
    eterno litigio di preminenze e di confini.
    I padri nostri videro bene nella religione del Dio Termine la
    sicurtà e santità dei beni domestici e della
    società municipale; ma non seppero valersene alla sicurezza e
    santità d'altri beni più sublimi e d'altra pur
    necessaria e più vasta società. Che importerebbe mai
    la ineguale ampiezza delle giurisdizioni, in seno ad un'Italia tutta
    libera e tutta armata? Siffatte distribuzioni non sarebbero mai di
    maggiore inciampo che non siano in seno alla Chiesa i vescovati e
    gli arcivescovati. In cinquecento e più anni dacchè fu
    proferito il giuramento del Grütli, mai Svitto non pensò
    a dolersi che Untervaldo e Uri volessero essere, al pari di lui,
    padroni in casa loro. Mai la vasta Virginia e la Pensilvania non
    insidiarono per amore di maggior concordia gli Stati, venti o trenta
    o cinquanta volte men vasti, di Rhode Island e di Delaware. I
    confini delle giurisdizioni, quali gli fece la lunga serie delli
    eventi, rappresentano da lungi una diversità d'origini
    felicemente obliterate dalla lingua commune; e rappresentano
    dappresso la varietà delle legislazioni, dei costumi, dei
    dialetti, e la abitudine di moversi intorno a certi nodi naturali di
    commercio. Il turbare d'improviso e senza necessità
    quest'ordine di movimenti e di funzioni, a cui tutti i calcoli delle
    famiglie sono coordinati, è più grave danno che non si
    creda; rende amare ai popoli le primizie della libertà; e in
    procinto di guerra, dissipa le loro forze e i loro pensieri. Nel
    volume si vede, come gli abitanti della Lunigiana, staccati poco
    prima dalla Toscana e aggiunti a Parma, si lagnassero delle insolite
    leggi: «Corre il sesto mese dacchè siamo in una
    posizione sommamente deplorabile». Le varietà quasi
    familiari delli Stati nulla tolgono alla coscienza nazionale,
    rivelata a se stessa e ogni giorno vieppiù stimolata; e se
    anche alcuna cosa le togliessero, converrebbe pure, rimosso ogni
    ostacolo ai confini, lasciare al commercio, al tempo, alle idee, e
    alle innovazioni deliberate in commune, l'officio di cancellar tali
    tradizioni senza danno e senza dolore.
    Ma nel 1848 non si trattava già della lenta opera delle
    legislazioni, bensì dell'urgente e ardente guerra straniera,
    alla quale importava recar subito da tutte le parti d'Italia la
    maggior somma di gente e di denaro. Nella recente guerra svizzera,
    quando il cantone di Vaud pose in armi il dieci per cento della sua
    popolazione, gli altri cantoni che non fecero altretanto, non
    poterono però averne timore o sospetto; anzi applausero con
    tutto l'animo al generoso esempio che accresceva le forze communi.
    Tale è l'effetto del principio federale e fraterno. A quella
    prima campagna il Piemonte apportò da 40 a 50 mila uomini,
    ossia l'uno per cento del suo popolo, ch'è quasi un quinto
    della nazione. Se la sacra potenza d'un Patto avesse mosso tutta
    Italia a rispondere al primo invito di Milano combattente e fare
    altretanto (e non era gran prodigio, era la decima parte di quanto
    potè fare la republichetta di Vaud), avremmo avuto in breve
    termine di tempo 250 mila uomini, e fra essi un qualsiasi numero di
    veterani stranieri, che d'ogni parte si offrivano. Inoltre in guerra
    non è tanta la difficoltà di far gente e armarla e
    addestrarla, quanto di traslocarla e provederla. Perlochè i
    popoli che sono più vicini al campo di battaglia possono
    facilmente opporre al nemico masse maggiori. Così potè
    Como, colle forze d'una parte sola della provincia e di pochi
    Ticinesi, conquidere un presidio di duemila soldati. E Brescia, nel
    1797, aveva potuto dare cinquemila fanti, seicento cavalieri e i
    cannonieri d'una batteria che Bonaparte le aveva donata; il che
    faceva allora circa il due per cento di quella provincia. E non solo
    la vicinanza e la commodità, ma il più vicino e
    più fiero pericolo doveva chiamar più gente all'armi
    nella ribelle Brescia e nella ribelle Milano che non nel Piemonte;
    il quale era chiamato a combattere per comando di principe e per
    onor commune e dover di nazione, e per assicurare dall'oppositore
    straniero la riforma delle sue istituzioni e il suo progresso; ma
    non aveva a temere confische e supplicii e altre barbare vendette.
    Or bene, se per federale accordo si fosse mossa tutta Italia a fare
    quanto il Piemonte, se il Lombardo-Veneto e i Ducati avessero fatto
    più ancora, la parte di forze che il Piemonte avrebbe
    mostrata in campo sarebbe stata appena un quinto, un sesto del
    tutto. Ma la sua preminenza militare sarebbe allora svanita; allora
    la spada d'Italia non sarebbe stata una sola; allora ad un solo
    principe non si sarebbero potute aggiudicare le spoglie dello
    straniero e quelle dei congiunti di Parma e di Sicilia. Dal
    principio dell'egemonia veniva per logica conseguenza che al
    Piemonte dovesse tornar molesta ogni maggioranza di soldati e di
    generali che non fosse de' suoi, epperò ch'esso dovesse
    escluder dal campo tre quarti delle forze nazionali. Tale è
    la differenza pratica tra il principio della federazione e quello
    dell'egemonia, tra quello dell'eguaglianza e quello della
    preminenza, tra quello dell'emulazione e quello della gelosia!
    Ognuno vede che questa fallace politica veniva fomentata nel governo
    piemontese dal proposito suo inopportuno d'acquistar a primo tratto
    nuove provincie; e che questo proposito non avrebbe potuto
    giustificarsi nè tampoco prodursi alla luce dell'opinion
    publica, se l'Unione non fosse parsa a molti, non usurpazione,
    nè insidia, nè pomo della discordia, come
    sembrò ai parmigiani, ma un pratico avviamento
    all'unità; insomma, se l'idea dell'Unità non avesse di
    lunga mano preoccupate le menti. A questa dunque si deve riferire e
    imputare tutta quella tenace catena d'errore, di disordine e di
    meravigliosa impotenza. E già prima che l'insurrezione avesse
    principio, un profetico scritto, benchè con inutile e ingrata
    veracità, ne aveva ammonito l'Italia:
    «L'hypothèse de l'unité s'attacherait
    nécessairement à un prince, à une famille
    royale; elle inspirerait à tous les princes menacés
    l'alliance de l'Autriche; elle envelopperait l'oeuvre de
    l'indépendance dans le mystère d'une cour; la discorde
    serait dans le camp avant le combat».
    Che se il Piemonte solo o quasi solo, ma con deliberata e audace
    strategia, e col favore immenso dei popoli, avesse saputo ripetere
    intorno a Mantova i prodigi del gran capitano, e vincere con
    cinquantamila soldati, vincere con una sola spada, e a profitto d'un
    solo, e trapassare dall'unione d'una o d'altra provincia ad
    un'improvisa e gloriosa unità; non credano gli esuli che
    avrebbero perciò fondata la libertà. Pur troppo lo
    dimostra l'esempio della Francia e della Spagna, a cui la
    libertà sanguinosamente conquistata sfugge eternamente di
    mano, per effetto delle immani forze accumulate in mano ai governi,
    mentre viceversa nella Svizzera e nell'America, ove ogni singolo
    popolo tenne ferma in pugno la sua padronanza, la libertà,
    dopo un primo acquisto, non andò più perduta. Tale
    è la virtù dei principii, fuor dei quali ogni sforzo
    di valore e di sacrificio è vano.
    Nè giova illudersi col dire che questi non siano principii:
    son principii anch'essi di diritto; sono per lo meno principii di
    politica; e la politica è la necessaria tutrice del diritto;
    e principio è tutto ciò che genera inevitabil serie di
    conseguenze. Nè giova illudersi col dire che, per poco che si
    aggiunga, e per poco che si tolga, la federazione viene bel bello a
    confondersi coll'unità; poichè in tutte le faccende
    del mondo il passaggio da cosa a cosa si fa per gradi; e talmente
    per gradi si procede dalla pianta all'animale e dalla foglia al
    fiore e al frutto, che la scienza non può additare il punto
    ove il passaggio avvenga. Non per questo alcuno cambierà mai
    il fico colla foglia o la pecora coll'erba che la pasce o la paterna
    presidenza di Washington colla truce dittatura di Cavaignac.
    È l'antico sofisma del cumulo.
    Sempre in preda a precipitose astrazioni, vedono nel mondo gli
    individui; poi le famiglie, ed è gran ventura; poi vedono
    anche commune, ossia l'azienda unita d'un centinaio forse di
    famiglie, e nel più de' casi, combinazione pressochè
    domestica e privata. Poi chiudono gli occhi per tutti gli altri
    internodii e ricapiti dell'umana società; balzano d'un tratto
    alla nazione, ch'è quanto dire, alla lingua. Ignorano lo
    Stato e le sue necessità. Dunque se una medesima lingua
    domina le Isole Britanniche, la Pensilvania, la California, l'alto
    Canadà, la Giamaica, l'Australia, per essi v'è
    solamente a far somma d'un maggior numero di famiglie e di communi.
    Dunque il Parlamento britannico non ha da far leggi; il Congresso
    americano sogna d'aver leggi da fare; tanto è più
    superflua una legislazione provinciale per i fratelli della
    Pensilvania e i venturieri della California; l'algido Canadà,
    la torrida Giamaica non debbono aver leggi proprie, che rispondano
    ai luoghi e alle tradizioni e alle varie mescolanze degli uomini e
    alla varia loro coscienza; l'Australia debbe aspettare in eterno
    ogni provedimento da' suoi antipodi, perchè parla la stessa
    lingua, e fa secoloro una sola nazione!
    No, qualunque sia la comunanza dei pensieri e dei sentimenti che una
    lingua propaga tra le famiglie e le communi, un parlamento adunato
    in Londra non farà mai contenta l'America; un parlamento
    adunato in Parigi non farà mai contenta Ginevra; le leggi,
    discusse in Napoli non risusciteranno mai la giacente Sicilia,
    nè una maggioranza piemontese si crederà in debito mai
    di pensar notte e giorno a trasformar la Sardegna, o potrà
    rendere tolerabili tutti i suoi provedimenti in Venezia o in Milano.
    Ogni popolo può avere molti interessi da trattare in commune
    con altri popoli; ma vi sono interessi che può trattare egli
    solo, perchè egli solo gli sente, perchè egli solo gli
    intende. E v'è inoltre in ogni popolo anche la coscienza del
    suo essere, anche la superbia del suo nome, anche la gelosia
    dell'avita sua terra. Di là il diritto federale, ossia il
    diritto dei popoli; il quale debbe avere il suo luogo, accanto al
    diritto della nazione, accanto al diritto dell'umanità.
    Uomini frivoli, dimentichi della piccolezza degli interessi che gli
    fanno parlare, credono valga per tutta confutazione del principio
    federale andar ripetendo che è il sistema delle vecchie
    republichette. Risponderemo ridendo, e additando loro al di
    là d'un Oceano l'immensa America, e al di là d'altro
    Oceano il vessillo stellato sventolante nei porti del Giappone.
    Ma non giova più dilungarci. A esporre quanti ragionamenti ci
    suggerì la lettura di queste centinaia di frammenti si
    vorrebbe altra egual mole di volume. Epperò abbiam giudicato
    miglior consiglio che questo Avviso al Lettore tenga luogo anche
    delle Considerazioni che abbiamo aggiunte ai nostri due primi
    volumi. Ci basta di far animo al lettore a superare la prima fatica,
    a metter per entro alla congerie dei documenti uno sguardo
    indagatore. Si tratta della nostra istoria recente e viva; alla
    quale poco dissimile tornerà pur troppo la istoria futura e
    imminente; poichè i fatti dei popoli camminano coi loro
    pensieri; e il pensiero publico, benchè ritratto dalle
    plateali dimostrazioni a qualche maggior gravità, si move
    però ancora sui principii che lo traviarono allora. A chi ci
    apponesse d'aver con falso animo allegata in questi frammenti tal
    cosa o pretermessa tal altra, ripetiamo l'invito di por mano
    all'opera, e metter fuori altro volume da collocarsi a lato al
    nostro per supplire al nostro difetto. E pur troppo qualche mancanza
    nostra è veramente involontaria; e noi, al pari forse de'
    nostri lettori, restiamo col desiderio di sapere, a cagion
    d'esempio, quale arcano caso condusse prima a Chambéry, poi a
    Milano tanto l'emissario Urbino quanto il generale Olivieri, eletto
    fra tutti a difendere Milano quattro mesi dopo aver avuto una
    publica nota di disonore dalla guardia di Chambéry. A chi ci
    accusasse di aver coltivato odio di principi, rancori di provincie,
    rivalità di opinioni, additeremo in questo medesimo volume
    qual divario, a cagion d'esempio, passa tra le sobrie nostre
    illazioni intorno alla morte di Pellegrino Rossi desiderata ad un
    tempo medesimo dai prelati, dai regi e dagli unitarii, e la furiosa
    invettiva del Gioberti contro i ministri piemontesi, che nelle
    persone loro erano affatto innocenti di quella morte. Additeremo
    anche le tristi confessioni prese dai libri del conte della
    Margarita e del marchese Gualterio. Additeremo quello sulla Campagna
    d'Italia d'un officiale di stato maggiore e le Memorie e
    Osservazioni d'un familiare del re; l'uno dei quali allude a molte
    cose, che noi ben vorremmo meglio chiarite, ove scrive che «la
    fazione assolutista fu la sola che riescì allora a' suoi
    disegni e si governò con astuzia e intendimento». E
    l'altro dice ancor più che noi osammo dire, ove attribuisce
    le sventure dell'esercito a ben altro che ad errori d'arte militare:
    «Ciò che gli spiriti leggieri e superficiali tacciano
    d'ignoranza (esso dice) non era forse che il risultato del calcolo:
    e del calcolo più profondo».
    Ma se il calcolo fu profondo, o per vero dire fu profondamente falso
    da una parte, non fu men profondo e meno falso presso l'altra delle
    due congreghe secrete, fra le quali ondeggiava a quei tempi, per
    vecchio suo vizio, quella corte. Se nefando era il consiglio che
    mirava a ricondurre per la via d'un sanguinoso disastro la casa di
    Savoia a uno stato di monastica inerzia e nullità, delirio
    era il consiglio che la spingeva, ad un tratto e sola, contro
    l'Austria e contro tutti i principi d'Italia.
    Ben le fu dato, o veramente gettato inanzi e non venduto, un altro
    consiglio, un consiglio affatto semplice e militare, qual poteva
    venire in mente a chi era sotto il rombo della mitraglia:
    Combattere; mirar solo alla vittoria; valersi alla vittoria di
    quante forze prorompevano allora spontanee da tutti gli Stati
    d'Italia. La vera e non insidiosa e non odiosa egemonia doveva
    consistere nell'avventarsi al primo e più vicino posto sul
    campo; e questa egemonia da nessuno poteva preoccuparsi al Piemonte,
    quando il campo sul quale errava un nemico già stanco e
    snervato era ad una mezza marcia dalle sue frontiere.
    Il consiglio fu inviato in tempo, al primo lampo della vittoria del
    popolo, nel terzo giorno del combattimento; fu inviato per di sopra
    alla cerchia ancora intera di ventimila nemici: «Milano, per
    compiere la sua vittoria, dimanda il soccorso di tutti i popoli e
    principi d'Italia; e specialmente del vicino e bellicoso
    Piemonte!»
    E compiuta la vittoria, ancor non era da pensare a far sacco;
    nè a risuscitare in Italia contese di terra e di confini.
    Era bastevole profitto per il Piemonte, da mero brano d'una nazione
    impotente e oppressa, divenire con uno splendido fatto di guerra
    membro d'un corpo vivente, forte, e libero; potente a' suoi confini
    quant'altra qualsiasi nazione, dieci volte più popoloso della
    Svizzera, e in commercio sicuro e vicino con essa: epperò
    certo della sua alleanza, ogni qualvolta il volesse, a fronte di
    qualsiasi turbatore, seppur poteva sorgere nuovo turbatore contro
    chi non avesse ingelosito chicchessia con atteggiamenti da
    conquistatore, ma contenute le armi vittoriose entro il sacro limite
    della commune difesa. A chi giaceva così basso, come da tanti
    anni l'Italia, doveva parer bastevole profitto porsi tutta alla
    condizione medesima che fu paga di prefiggere a sè nel 1814
    la Germania vincitrice!
    Il Piemonte avrebbe avuto a men doloroso prezzo tutto ciò che
    adesso ha: più la vittoria: più la fama militare:
    più l'intimo e libero commercio con tutta Italia e la
    compagnia di tutti i popoli italiani a svolgere nella vasta patria
    gli assopiti elementi d'ogni forza e d'ogni prosperità. Il
    Piemonte non avrebbe avuto sempre vigile e torva al ponte del Ticino
    la faccia d'un nemico che vede con dolore ogni suo bene e, con
    tripudio ogni sua sventura.
    Quando tutti gli Stati d'Italia dovevano essere governati da
    adunanze elettive (e quante più erano, tanto meglio per la
    satisfazione dei popoli e la concordia universale), poco importava
    che in Parma si deliberasse a nome d'un duca, e a Roma a nome d'un
    pontefice sotto l'altiera presidenza d'un Rossi; e a Venezia, come
    in Francoforte e in Amburgo, sotto quella d'altro semplice
    cittadino. Nulla avrebbe levato alla prosperità dei
    piemontesi e dei genovesi, se a Milano i facendieri avessero data la
    vacua corona al duca di Genova, come era ben facile; o se per
    offendere meno le assurde osservanze della diplomazia, le quali
    trattano ogni stato come un patrimonio, si fosse raccolto nel solo
    nome del granduca di Toscana tutto ciò che dai trattati erasi
    qua e là assegnato al suo parentado in Italia; o se si fosse
    voluto avere un regno con due teste, potevano pur congiungere sotto
    Carlo Alberto Torino e Milano; ma così come la Svezia e la
    Norvegia; così come Berna e Zurigo; non già come il
    Belgio e l'Olanda, per darsi mutuo impaccio, e concepirsi odio, e in
    breve ripudiarsi per sempre.
    Quanto alla paura che publicamente si affettava dei republicani,
    pare non fosse altro che polve alli occhi della diplomazia:
    poichè il patto che si era stretto da Azeglio colle
    società secrete di Romagna e Toscana, e si era imposto
    all'Associazione Italiana di Parigi da uomini che anzi tutto
    professavano rancore alla Francia, non solo assicurava il re da ogni
    prova di republica in Milano, ma gli dava per fautori e propagatori
    e i Berchet e i Mazzini, e quanti mai avevano bensì maledetto
    alla perversa sua politica, ma gli avevano già offerto
    vittorie e regni fin dal 1821 e dal 1832. L'unica difficoltà
    si era che, gli Unitarii volevano dargli più ch'ei non avesse
    il coraggio di prendere in una volta. Qualche voce di republica si
    udì solo agli avamposti dei volontari a fianco della croce
    svizzera che aveva preso il campo prima della croce di Savoia, e
    quando le lettere stesse dei governi provisorii spiravano aperta
    diffidenza per l'irresoluto contegno del re. E il primo mormorio di
    dottrine republicane si ode solo nelle ultime pagine di questo
    volume, inspirato parimenti da quelle inesplicabili lentezze, e
    più ancora dalle prime violenze fatte dal governo provisorio
    alla libera stampa. La gioventù non intendeva più
    altro che guerra, nè pensava ad altro che alla cacciata dello
    straniero; pareva ottusa e inetta ad ogni altra idea.
    Intanto la casa di Savoia, in preda a consiglieri senza consiglio,
    si lasciò sfuggire di pugno un momento di gloria e di
    fortuna, che forse non tornerà mai!
    Potrà ben essa nei futuri rimpasti delle cose europee
    acquistar forse una od altra provincia, ma non senza perderne altre
    e più saldo possesso; e in ogni modo le sue sorti poi
    rimarranno sempre in arbitrio straniero, non meno della rimanente
    Italia. Il Piemonte diverrà forse uno stato più
    italiano; ma i suoi destini saranno sempre combattuti, perchè
    il problema dell'Italia non sarà sciolto ancora.
    Fuori del diritto federale saremo sempre gelosi, discordi e
    infelici.