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CARLO CATTANEO


CONSIDERAZIONI SUL 1848


DALL'AVVENIMENTO DI PIO IX ALL'ABBANDONO DI VENEZIA

ARCHIVIO TRIMESTRALE DELLE COSE D'ITALIA

AMI BOOKS

2003

Avviso al lettore.

La lotta fra il popolo cisalpino e l'esercito austriaco, nel marzo del 1848, venne descritta da molti in Italia, in Germania e altrove; ma ogni scrittore o si assunse di parlar solamente d'una o d'altra delle provincie: o abbracciandole tutte, pose in luce solo quei particolari che, secondo l'animo suo, gli tornavano a proposito. Pago taluno di valersi delle fonti per sé medesimo, non trascrisse i documenti; i quali pure, in altra mano, avrebbero potuto essere strumento a nuove induzioni ed emende. Le date vennero neglette e trasposte; onde molti fatti parvero cause d'altri fatti, i quali si erano compiuti prima. Perlochè il concetto generale di quegli avvenimenti riesci, anche nei più sinceri scrittori, declinante in molte parti dal vero. Epperò ne corrono false opinioni, fomentate inoltre da coloro non pochi che scrissero con manifesto disegno di rimescolare e ottenebrare le cose. - L'istoria, non essendo così testimone dei tempi, non può essere maestra della vita.

Noi pertanto abbiamo preso a raccogliere e ordinare per tempo e per luogo tutti i documenti dei municipi e dei comitati in tutte le provincie, tutti gli scritti che incitarono il popolo alle armi, e quelli assai più numerosi che lo esortarono alla pace, e quanti potemmo rinvenire degli ordini e avvisi che si spargevano in mezzo al combattimento. Abbiamo adunato dispacci di generali, lettere di principi, capitolazioni di truppe, carteggi di consoli, testimonianze d'officiali, di soldati, d'operai, di prigionieri, di stranieri, di donne: nomi di morti e di feriti: nomi di edifici arsi od espugnati: nomi di battaglioni, onde chiarire di quali nazioni e di quali forze il popolo ebbe vittoria.

Ci vennero fornite molte narrazioni inedite di fatti particolari, quali sono: la presa del palazzo di governo in Milano, la difesa del palazzo municipale, i patimenti degli ostaggi in Castello: le cause che necessitarono il nemico a notturna fuga e le terribili circostanze che la seguirono: la vantata missione del conte Enrico Martini: i casi poco noti di Verona e di Mantova. onde si palesa come quelle due fortezze tenute in sì gran conto dai militari, rimanessero per più giorni trastullo quasi del popolo, e per fatto di chi ricadessero di nuovo in poter del nemico, quasi che i cittadini s'avvedessero dell'irreparabile danno. E in questo e in molti altri indicii, già vengono adombrandosi quelle occulte influenze che avvolsero fin dal primo nascere la rivoluzione, e la strinsero in mano ad uomini i quali altro volevano in essa da ciò che le rivoluzioni danno e le rivoluzioni sono.

Dai molti opuscoli che narrano i fatti delle singole città, e principalmente quelli di Milano, di Como, di Brescia, e dalle relazioni sparse nei giornali intorno ai fatti di Pavia, di Monza, di Bergamo, di Crema, abbiamo tolto i brani veramente e seriamente narrativi; e li porgiamo come estratti, benchè abbiano invero tutto l'intrinseco valore di citazioni. Perocchè, in nessun caso ne abbiamo fatto rimpasto; ma solo abbiamo omesso le parole superflue. Vogliamo dire: tutto quel farcirne di gloriosi aggettivi e d'avverbi, coi quali gli scrittori di questa rivoluzione ambirono piuttosto mostrarsi contemporanei di Gioberti, che posteri di Machiavello.

Di codesti estratti abbiamo però sempre additato le fonti, affinchè chi diffidasse dell'opera nostra, potesse avervi il rimedio in mano. Ma è giusto che il lettore benevolo sappia a che veramente la fatica nostra intorno a ciò si ridusse: onde ne allegheremo un esempio. Si narra a p. 263 che un lattivendolo «tormentò il nemico, uccidendo alcuni cannonieri nell'atto che stavano per dare il foco». Chi avesse trascritto per intero l'originale, avrebbe aggiunto di più: che il lattivendolo «va distinto tra i più valorosi combattenti delle barricate, durante i cinque giorni». Il che ben s'intende, e non aggiunge alcun particolare al fatto; e perciò abbiamo espunto ogni siffatta prolissità laudativa, come ingombro alla mole e al dispendio del volume. Sia però detto che ci siamo presa codesta briga solo per le narrazioni, e non mai per i documenti; i quali, comunque verbosi e vacui, diamo sempre interi e genuini.

A risparmio di note, abbiamo segnato con diverso carattere quei tratti sui quali ci parve che la mente del lettore non dovesse lasciarsi trascorrere affatto inavvertita.

D'un medesimo fatto non abbiamo esitato a dare anco due e tre versioni, o perchè descritto con altro corredo di circostanze, o perchè le testimonianze e confessioni di stranieri o nemici ne parvero opportuna conferma alla verità. Alquanto rigidi siamo stati nel ripetere le lodi prodigate a quei tempi a certuni, e negate ingiustamente ad altri. Chi fu già lodato, ne sia contento.

Non tornerà forse gradito agli scrittori che la maggior parte delle narrazioni vennero da noi, per quanto si poté, spezzate a giorno a giorno. Ma è cosa di sommo momento istorico, per determinare ciò che nei singoli giorni venne nei singoli luoghi operato. Questa accurata e continua registratura dei fatti nei luoghi e nei tempi, basta a rimovere molti falsi concetti: a cagion d'esempio, quello che i popoli delle pianure furono più lenti a insurgere che quelli dei monti. Ben al contrario, si vedono i giovani della pianura perigliarsi in campo aperto sotto le mura di Milano fin dal secondo giorno; e dopo il quinto, quando il nemico era già espulso dalla città, si vedono le squadre dei montanari pernottare ancora a mezza via dalla città. La sola squadra di Lecco potè giungere alle porte e penetrare in città prima che spuntassero a Porta Comàsina le colonne nemiche in ritirata; e perciò appunto lasciò loro, senza avvedersi, libera quella stretta; che se fosse giunta qualche ora più tardi, vi avrebbe forse fatto, nelle tenebre, decisivo ostacolo. Lo stesso dicasi del passaggio di Benedek pel ponte di Pizzighettone; che gli sarebbe stato impossibile s'ei fosse giunto il dì prima, quando i municipali di Cremona non avevano ancora levato dalla fortezza le artiglierie, le munizioni e i difensori, per farne difesa alla loro città. Lo stesso dicasi dei quattro giorni che Brescia indugiò a cominciare il combattimento; onde, conoscendo l'indole di quel popolo, possiamo indurre a misura di tempo qual potere esercitasse sopra di esso la fatale congrega nella quale pose allora e poi l'ostinata sua fede. Tutti questi lumi si perdono, ove la mente non si leghi strettamente alla successione dei fatti. È questa la cronologia di cinque giorni e la geografia di cento miglia di paese. Eppure, anche in sì piccola proporzione, appare savio il detto di chi chiamò geografia e cronologia le due faci d'ogni istoria. E le fatiche nostre sono preparazione all'istoria.

Il ravvicinamento delle date viene inoltre a dimostrare che mentre ardeva già la guerra a Milano, a Venezia, a Parma, a Modena, e correvano alle armi Toscana e Roma, gli esuli più illustri in Parigi, o appena ne avevano sentore, o mandavano ai popoli consiglio d'indugi e di pace. Onde si prova erronea l'opinione dei governanti, i quali allora, non meno che adesso, o sognavano o mentivano che il moto naturale delle moltitudini provenisse da secreto cenno di pochi e lontani: o ignari o avversi.

E la data certa aggiunge significato anche a certe menzogne, diffuse allora da fogli formalmente stipendiati in Firenze, in Parigi e altrove, in cui si attribuì risolutamente la vittoria d'un popolo a chi stava inoperoso e torpido a contemplarla da lontano e non senza farvi ogni possibile impedimento. Cominciavano allora a frodarci la gloria quelle mani stesse che poi ci contaminarono l'onore.

E qui non si chiude solo la materia d'una istoria, ma quasi un vasto poema. Prove insigni di valore e pietà: prove nefande d'immanità e perfidia: da un lato, l'urlo dell'allarme e l'evviva della vittoria; dall'altro il gemito della prigionia e della disperazione; gli uni, coll'armi in mano, pietosi al nemico ferito; gli altri, fuggitivi dalla pugna, vaganti a trucidare fra orti solitari le donne derelitte, o a trarle piangenti e sanguinanti allo scellerato Castello: al Castello, antro di Polifemo, ove la vendetta siede a codardo giudicio, e insulta ai cadaveri mutilati; ove una stolida dissimulazione accumula un immenso rogo per distruggervi le vestigia della sconfitta e delia crudeltà; il battere di duecento campane, che risponde al fragore di sessanta cannoni; la pioggia dirotta che spegne sulle piazze i fochi notturni del soldato; la luna che spunta tra le nubi conturbando con tetra eclisse le barbare fantasie; il terrore del veleno che rattiene i famelici croati col pane in pugno; lunghe file di case incendiate, fra cui densi battaglioni s'aprono furtivo scampo; il sole che sui candidi pinnacoli del Duomo saluta il vittorioso tricolore; i palloni volanti che spargono alle turbe campestri la parola dei combattenti. V'è persino quella vena di scherno che accoppia nei grandi poeti Ettore e Tersite, Farfarello e Ugolino, Hamleto e Falstaff. - «Il barone Torresani è qui mezzo morto», - scrive la contessa Spaur dal Castello. Il conte Bolza, sopravvissuto a tante esecrazioni, vien salvato dalla ridicola bruttezza della sua spaventata figura. Chi non sorriderà del conte O' Donnell sul balcone di Monforte in coccarda tricolore? Chi non sorriderà del regio messo travestito da Giovannino? o del colloquio fra il commissario Bossi in abito di spada e Kadetzky seduto sulle macerie del ponte di Marignano?

E come in Dante e in Shakespeare qui tutti parlano quali li fece natura; stizzosi arciduchi e generosi operai; marescialli e podestà; soldati e donne; vigliacchi e valorosi. È un poema fatto da tutti, e scritto da tutti. È la dottrina di Vico controprovata da un esempio vivente e presente. E perciò questo centone, che per noi fu solo opera di devota e quasi servile pazienza, varrà facilmente più di qualunque opera d'ingegno si potesse poscia stillarne.

Udiamo che, prima d'uscire, questo volume ha già gli onori della proscrizione, anche in Piemonte. Pur troppo v'ha in certuni irrefragabile fratellanza di odii e d'amori col nemico d'Italia; ma li avremmo stimati astuti tanto da dissimularla.

31 maggio 1851.


I

Si fanno stupore l'Azeglio ed altri come l'Austria, in trent'anni e più, non sia pervenuta a spegnere nei nostri popoli l'animo italiano. Con che vengono quasi a significare che l'Austria non volle o non seppe operare con quant'efficacia poteva, e che con più diuturno proposito ben potrebbe sperare compimento all'impresa.

Ben altra è la ragione vera delle cose. La coscienza esplicita e solenne d'una vita comune e nazionale è fatto nuovo e proprio del secolo; si svegliò, a memoria nostra, in Germania tra le guerre francesi; e si svegliò in Italia appunto sotto l'assidua doccia dell'austriaca importunità.

Dovrebbero i mali avvisati scrittori farsi piuttosto meraviglia che il corso di tant'anni fosse necessario a dar vita a un affetto che parrebbe dover surgere spontaneo dalla cuna stessa dei popoli. Dovrebbero dire che ad una siffatta forza, continua, e crescente, e già pervenuta a formidabile manifestazione nel 1848, oggimai ben pochi stimoli si debbano aggiungere, sia dai nemici, sia dagli amici, per renderla in breve termine vittoriosa.

Napoleone, dando nome e armi e vessillo al regno italico, e nel natale di suo figlio porgendo speranza d'un re che ci unisse tutti in Roma, aveva piuttosto assopito che desto lo spirito nazionale; poichè siffatte onoranze e aspettazioni mitigavano la molesta verità del dominio francese. Ma se militari e magistrati si compiacevano del teatrale apparato, nelle sobrie menti del vulgo quel tempo rimase sempre, come veramente era: «il tempo dei francesi»; essendo poi vero altresì che quelle memorie non gli riuscirono umilianti nè amare. Ciò che allora cruciava veramente il popolo, non era la presenza dei francesi: la coscienza nazionale non era popolarmente attuata. Ma era l'insolito peso della milizia in lontane spedizioni; era la vessatrice finanza e il divieto continentale che contrastava alle famiglie molti oggetti di domestica consuetudine; era il sospetto, instillato ogni dì dai frati e dai patrizii, che la religione fosse insidiata, e che la dimora del pontefice in qualunque città fuori di Roma fosse pel genere umano calamità maggiore della guerra e della peste. Napoleone, non pago d'esser benedetto dalla vittoria, aveva mendicato aspersioni e unzioni; e dopo aver rimessi a galla gli ambiziosi prelati, voleva domarli: e non colla libertà del pensiero, ma colla gretta forza. E non osò rispondere alle loro scommuniche, spalancando loro in faccia il testo degli evangelii, e sconsacrandoli nel giudicio dei popoli.

Venne la santa alleanza, tutta infiorata di lusinghe e di promesse; e in breve si riscossero i popoli sovra letto di spine. Uscirono, come stormo di gufi, a occupare i troni della penisola le incipriate prosapie che si erano nascoste, durante la guerra, nei confessionali di Sicilia e di Sardegna. E venne secoloro una mascherata di cavalieri d'ogni croce, e di prelati e frati d'ogni tonaca; e presero a tiranneggiare le genti, e ammaestrarle ad ogni impostura e codardia. Il pontefice fu restituito; e tosto si vide nelle improvide Romagne uno spettacolo di catene e di torture, e di sicari e di carnefici, e uno strazio della giustizia e della ragione, al quale rimase solo freno il coltello della vendetta.

Infatti sarebbe stato ben agevole agli oppressi scuotersi di dosso quegli imbelli. Ma ogniqualvolta il tentarono, primachè avessero spazio di ordinarsi a governo, e prima che potessero svegliare a comune difesa gli smemorati popoli, si trovarono a fronte gli eserciti imperiali. E tra la forza straniera e le prelatizie insidie, i più generosi moti riuscirono solo al disordine e alla fuga. Chi aveva anelato a un campo di gloria, moriva sul patibolo; e il sangue versato senza battaglia, anzichè rendere onore alla patria, metteva una macchia di viltà sul nostro nome.

Intanto l'odio, che prima si divideva sopra i singoli tiranni, si accentrò naturalmente contro quella potenza che tutti li proteggeva. Milano e Palermo, la Romagna e la Calabria, non avevano nei passati secoli avuto mai pensiero di tutela commune; poichè il pontefice, invocatore perpetuo degli stranieri, aveva sempre mandato a ciascun popolo un diverso dominatore da combattere o da soffrire. Ma ora l'Austria, sola, pareva delegata dall'Europa a far disonorata e infelice tutta la nazione. Adunque i popoli d'Italia non riuscirono alla fratellanza dell'amore, se non dopo essersi incontrati nella communanza dell'odio. Questo è beneficio che devono al nemico. Fu allora che ricordarono con dolore Napoleone, e le armi da lui date invano all'Italia e il glorioso vessillo del suo regno. Anche i liguri e i subalpini e i toscani che non avevano portato in guerra quei colori, li adottarono a segno di unità; e persino i carbonari dell'estrema Calabria che li avevano odiati e combattuti, li accettarono tramutando in bianco il nero del mistico loro tricolore.

Perchè l'Austriaco non seguì l'esempio di Napoleone, di conciliare alla sua potenza i naturali affetti dei sudditi italiani? Perchè non volse a suo profitto la malvagità dei prelati e dei principi; e al primo fremito di popolo non si frappose, vindice del secolo e giudice degli oppressori? Non era quello l'antico pretesto alle incursioni degli Ottoni e degli Arrighi? Nè importava che inviasse le truci caterve della Croazia, ma colle insegne del regno italico i fratelli italiani; i quali senza sangue, potevano acquistargli le ambite Legazioni, e quant'altro gli convenisse. Nè sarebbe mancato adulatore che dicesse esser quello un voto consegnato da cinque secoli nella Monarchia di Dante.

Ma quell'Austria federale che aveva potuto nello stesso tempo governare le Fiandre col consiglio di vescovi intolleranti, e Milano con quello di audaci pensatori, e regnare in Ungaria col libero voto di genti armate, erasi estinta con Maria Teresa. Già con Giuseppe di Lorena erano tese d'ogni parte le stringhe dell'aulica centralità. E dalle Fiandre fino alla Transilvania, cominciarono a riluttare con insoliti tumulti le popolazioni. Nelle guerre napoleoniche, il governo austriaco si compose ognora più a dittatoria rigidezza; mentre colla perdita delle più remote appendici, e coll'usurpazione di Salisburgo, di Trento, della Venezia e della Valtellina, erasi meglio spianato il campo a materiale unità. Per farsi strettamente una, l'Austria doveva preferire una lingua fra dieci: elevare a dominio una minoranza: configgere sul letto di Procuste tutte l'altre nazioni. Da quel momento, ella s'avvinse a una catena d'inique necessità, che la trassero di grado in grado agli eccidi della Galizia e ai patiboli dell'Ungaria. In cospetto ai quali, è poco il dire ch'ella tolse alle provincie italiane le armi, la bandiera, il pubblico onore e la privata sicurezza. Ogni passo ch'ella faceva dietro il sogno dell'unità, addolorava e inimicava un ordine di cittadini; destava in tutti il fremito del sangue italiano. La coscienza nazionale è come l'io degli ideologi, che si accorge di sè nell'urto col non io. Ella si svolse prima in coloro che avevano più bisogno di libertà negli studi, nei commerci, nei viaggi; e perciò erano in più frequente penoso conflitto cogli interessi dello straniero, coll'ignoranza sua, coll'arroganza, coll'eterno e implacabile sospetto. Poi si destò mano mano, anche nei magistrati, ch'erano pure accuratamente spiati e trascelti a essere arnesi di obedienza: nei sacerdoti, benchè domati dall'episcopale superbia a tradurre anche l'evangelio in dottrina di servitù: nei contadini, benchè tenuti dagli avari e gelosi padroni quanto più vicino si potesse alla natura di bestiami: per ultimo nei cortigiani medesimi, a cui le dovizie e la nobiltà non sembravano presidio alla dignità del vivere, ma diritto ad andare inanzi a tutti nella viltà. Questa mutazione degli animi era lenta, ma continua, universale; irreparabile a qualsiasi scaltrimento di polizia. Che anzi, dopo alcun tempo, cominciò ad accelerarsi, come certe velocità, in ragioni geometriche, mentre le forze morali del governo declinavano visibilmente, come le velocità dei proiettili da guerra. Infine rimase spenta affatto ogni tradizione d'amore e di rispetto; e allora gli eserciti, che dovevano difendere lo stato dai nemici esterni, vennero ritorti contro la patria, simili al pugnale del suicida. Intanto nel governo austriaco l'odio contro la nazionalità italiana si faceva più aspro e cavilloso. Gli spiaceva perfino il nome d'Italia; lo voleva dissimulato nei libri, cancellato nelle carte. E al contrario lo scolpiva viepiù nelle menti; lo chiamava sulle labbra; se lo vedeva scritto da mani notturne sulle muraglie delle città. Una indomita riluttanza serrava sempre più il fascio dei popoli italiani; era come la polve di plàtino che s'incorpora sotto il martello.

Nondimeno tanto mite era la natura dei lombardo-veneti, che in trent'anni non si levarono nè una volta sola a tumulto. E davano soldati e denari al sovrano, e guadagni sempre più sfacciati a' suoi satelliti e banchieri; e pagavano quella brutta servitù ben più caro che ai loro vicini non costasse l'onore e la sicurtà. Eppur non valse. Come la vecchierella d'Esopo sventrò la gallina perchè le faceva le ova d'oro, così l'Austria si ridusse a manomettere colle sciabole quel popolo i cui sudori più fruttavano alle sue finanze. Quando in settembre del 1847 corse in Milano il primo sangue, egli fu perchè il popolo si rallegrava di vedere ingrassata dei beni della sua chiesa piuttosto una famiglia italiana che una straniera. Nè il governo aveva aspettato finchè quella incauta allegria si mostrasse; ma aveva fatto arrotare le sciabole otto giorni prima. E per più mesi ancora, fin presso al gennaio, si udirono quasi solo le voci dei magistrati, che imploravano sommessamente le più temperate riforme. Ebbene, fra i documenti si rileva come l'ordinanza che abbandonò le vite dei cittadini ai capricci del giudicio improviso, fosse già preparata in Vienna il 24 novembre, mentre solo all'8 dicembre il Nazari diede il primo cenno d'opposizione. Nè propriamente sarebbe a dirsi oppositore quel magistrato che invoca qualche provedimento, per adempiere al suo officio, e pel desiderio che «il suo monarca sia da per tutto e da tutti adorato e benedetto». In risposta a siffatte genuflessioni, era adunque da due settimane già preordinato in Vienna il patibolo! Ed il benigno vicerè, per prima accoglienza ai devoti preghi del Nazari, comandava alla polizia di tendergli i suoi lacci. No, non poteva l'Austria tollerare alcuna supplica; perchè non poteva fare alcuna concessione, senza infrangere il fatto ch'erasi imposta d'inesorabile unità.

Vacillavano intanto le finanze austriache sotto il peso assiduo dell'esercito stanziale, ch'era oggimai l'unico vincolo tra le ripugnanti membra dello stato. Anzi una necessità ogni di più imperiosa ingiungeva che l'esercito d'Italia, da 36 mila uomini che contava nell'agosto 1847, fosse recato a ben 73 mila al 1º febraio, e cresciuto poi, nel corso di quel mese e del seguente, fin oltre 80 mila. Ed era ancor poco ai generali, a cui pareva affogare tra le popolazioni, da loro stessi rese unanimi nell'ira. Anelavano essi a invadere gli altri stati italiani, a impedire che Roma armata divenisse caposaldo alla nazione, a impedire che la sollevazione di Sicilia si propagasse in terraferma. E avevano calcolato che per fare una spedizione anche con soli 26 mila soldati, erano costretti di lasciare alla custodia di Milano soli 6 battaglioni: soli 4 all'immenso circuito di Venezia, che ha 70 punti fortificati: 1 solo nell'armigera provincia di Brescia: 1 in quella di Bergamo: 1 in quella di Como: tre battaglioni adunque in tre montuose provincie che fanno più d'un milione d'abitanti! - Di cavalleria avrebbero dovuto lasciare soli 4 squadroni in Milano: 1 nel resto delle provincie lombarde: mezzo squadrone in tutta la Venezia! - E i cannoni da campo dovendosi recare in buon numero nella spedizione, ne dovevano rimanere 6 pezzi in Milano, e nessun altro in tutto quanto il regno. Ora, a domare la sola Milano non valsero poi 60 cannoni e 16 battaglioni. I generali ciò forse prevedendo, dimandavano dunque altri soldati; e protestavano di averne bisogno almeno 150 mila. E chiedevano denari in copia per cingere Milano di 16 fortezze, capaci di 500 a 600 uomini ciascuna. Aiuto singolare alle finanze!

E colla speranza della prossima spedizione, decretavano a se stessi (altro singolare aiuto alle finanze), la mezza paga di guerra; e rumoreggiavano sulle porte dello Stato romano e dei Ducati, e minacciavano la Toscana. E nella gazzetta d'Augusta sfogavano il loro furore, ciò che non potevasi fare nei fogli responsabili e censurati dell'imperio; e perchè sapevano ch'era letta in Italia, e volevano ad ogni modo provocare gli italiani per poterli trucidare prima che fossero armati, li chiamavano razza comica, ciarlatanesca, burlesca. E nei caffè si vantavano d'avere scritto, di propria mano, quelle contumelie. E mettevano fuori ordinanze altisonanti, che riducevano ogni ragione alla spada, come in terra d'Asia; ordinanze che parvero allora strane e barbare, nè in Italia solo, ma perfino alla parziale Inghilterra; e parvero poi davvero comiche e burlesche, quando al primo ruggito del popolo i fuggitivi eroi gli lasciarono in mano quella medesima spada. E con tutto ciò non facevano paura a nessuno; solamente destavano all'armi Roma e la pacifica Toscana; e rompevano i gesuitici sonni perfino a C. Alberto. Di rimando, si facevano in tutte le chiese d'Italia funebri espiazioni per gli inermi scannati di Milano, e questue in ogni città pei feriti e per gli orfanelli. E così ogni atto dell'Austria accendeva vie più quell'animo italiano ch'ella intendeva di spegnere.

Certo se quella spedizione si fosse fatta, e gli austriaci si fossero disseminati qua e là per l'Italia, lasciando i 6 cannoni nel Lombardo-Veneto, tanto meno, allo scoppiar dell'insurrezione, avrebbero potuto raccogliersi e salvarsi. Ma riparò alla loro furia l'astuzia dei cardinali, che si opposero a tutta forza, fingendo anzi, i più dediti all'Austria, di volersi fare capitani del popolo contro lo straniero. E l'Inghilterra, amorosa tutrice dell'Austria delirante, fece ogni opera per rattenerla sui confini; sicchè non si oltrepassò Ferrara e Modena; e si lasciò cadere il disegno che si aveva di eludere le apprensioni dei cardinali, tragittando per mare un esercito nel regno di Napoli. E ancora i generali che si lagnavano delle scarse forze, vedevano solo negli eserciti la massa; e non intendevano quanto quella forza ancora fosse scemata per effetto delle nazionalità. L'italianissimo Durando, nel suo libro Della nazionalità, aveva ammonito fraternamente gli austriaci a non fidarsi dei reggimenti italiani, e a non appagarsi tampoco di relegarli sulle frontiere turche, ove potevano disertare, e incorporarli per compagnie nelle guarnigioni più lontane. Ma essi non avevano badato. Ora in quei loro 73 mila soldati, almeno 33 mila erano italiani del Lombardo-Veneto, del Tirolo, della Gorizia e dell'Istria; e 11 mila almeno erano ungaresi: tutta gente il cui animo già ripugnava alla bandiera. I rimanenti (meno di 30 mila), o erano slavi del tutto, o un misto discorde di teutoni e di slavi. Il paese interamente tedesco, l'Austria arciducale, in cui nome si faceva la guerra, aveva tra i 57 battaglioni di quell'esercito un solo battaglione con un reggimento di cavalli. Due altri battaglioni erano pure tedeschi, ma del Tirolo. E i savii di Francoforte si papparono poi la gloria austriaca come gloria tedesca; e versarono sulle austriache crudeltà assoluzioni indegne della scienza, e della patria e del secolo. E parimenti l'Italia era ammaestrata a gridare: fuori il tedesco! Anch'essa vedeva solo la guerra delle armi, contava solo le baionette; e non intendeva in altrui quel principio che traeva lei medesima alla guerra. Vedeva solo i tedeschi, che non v'erano; e non vedeva le radici intestine della potenza straniera; non vedeva coloro che, cacciati i tedeschi, avrebbero chiamati i francesi e gli spagnuoli, e si vantavano d'aver duecento milioni di schiavi; e se quei non bastassero, avrebbero chiamati i beduini e i turchi; e infine avrebbero imprecato sulla loro patria le potenze dell'inferno. E v'era, in Italia, chi non voleva ch'ella si ricordasse che gli eserciti sono lame a due tagli, e che dagli eserciti erano surti i moti del 1815, del 1820, del 1821. E così l'Italia correva a premature ostilità, quasi temesse d'aver tempo ad armarsi, quasi le dolesse lasciar agio alla mole nemica di sconnettersi, e all'Ungaria di chiarirsi qual era.

Gli austriaci avevano speranza in quella fretta degl'italiani; e abbiamo ansa a indurre che le uccisioni di Milano, di Bergamo, di Padova e di Pavia non fossero se non modi di giustificare da un lato, in faccia all'Inghilterra, le meditate invasioni, e d'avvalorare dall'altro la dimanda di nuove truppe. Accadevano in un medesimo giorno i fatti di Padova e di Pavia; e si era ordinato anzi tempo che la gazzetta d'Augusta attribuisse immantinente quella simultaneità alla mano delle società secrete. Senonchè il corrispondente che inviava dallo stato-maggiore a quella gazzetta le anticipate narrazioni, sbagliava le date: citava, a Milano, sin dal giorno 9 febraio, la gazzetta di Venezia del giorno 11; e così da istoriografo si palesava profeta. A Padova dunque e a Pavia, come a Milano, a Ferrara, a Bergamo, a Brescia, a Modena, vediamo costantemente gli austriaci, armati, sollecitare a conflitto gli inermi; dare il segnale degli assalti; far essi ciò che avrebbero dovuto fare i ribelli. A che pro dunque andar cercando nelle società secrete l'unico fomite che propagò l'odio ai tedeschi e lo spinse fino alla guerra? Davvero che l'Austria bastava!

Noi dimandiamo se fossero più dannosi nemici alle austriache finanze coloro che col demolire le imposte del tabacco e del lotto sottraevano 15 milioni di reddito lordo, ma solo 6 milioni di nitido: o coloro che la consigliavano a persistere nella ingiustizia sua contro la nazione italiana, a costo anche di dover accrescere l'esercito da 36 mila uomini a 150 mila. Quest'aggiunta di 114 mila soldati per una sola nazione dell'imperio (nè l'altre nazioni erano gran fatto più tranquille), quanti milioni doveva divorare in un anno? e quanti in due, in tre anni? Centinaia senza dubbio; ben altra cosa che i 6 milioni del lotto e del tabacco. Le inconsulte spese dovevano render necessarii nuovi debiti e nuove imposte; quindi altri impacci e altre molestie da infliggersi alle nazioni già stanche: quindi inaspriti più gli odi: e affrettato l'inevitabile divorzio, l'inevitabile partaggio della monarchia. E perciò i due vicini, che potevano aver più guadagno da quel disfacimento, tanto più apertamente fomentavano le discordie: la Russia aizzando i governanti: e la Sardegna, i governati. Il consiglio di farsi moderata, e anche costituzionale, almeno nel Lombardo-Veneto, non venne all'Austria da quei due alleati che avevano interesse a vederla convulsa e smembrata; ma sì dall'Inghilterra che voleva, a proprio commodo e servizio, averla tranquilla e forte.

Vigilava questa desiosamente ogni occasione che potesse ricondurre gli ottimati ai loro antichi amori colla casa d'Austria; e sperò che a questo giovasse almeno la nuova della repubblica risurta in Francia. E infatti i milanesi, al dire della stessa Opinione, furono commossi dalla mansuetudine dell'imperatrice, che, riprovando le soldatesche sceleratezze, inviava al conte Borromeo molto denaro in soccorso ai poveri. E finchè il vicerè parve propizio ai cittadini, questi si rivolsero candidamente a lui. E Borromeo, il quale poco fidava in Carlo Alberto, giunse persino a suggerire al vicerè speranze di regno, che «il cupo principe» udiva non senza commozione. Ma v'era a lato ai principi chi gli spingeva al precipizio, chi voleva il sangue per avere il denaro. E lo stesso general Willisen, adulatore di Radetzky, accenna a questa sequela di cose, ma senza intenderle.

All'annuncio del sangue versato in Milano, l'Azeglio gettava la sua maschera di moderatore e di paciero, e prorompeva in fanatico tripudio: «Il fatto è compiuto», egli scriveva. «Or io dico all'Italia: Rallégrati! L'Austria è ridutta all'assassinio! L'Austria assassina!». Senonchè la volpe aristocratica non intendeva tutto il terribile mistero di quel sangue. Il quale, se stillava desiderato e dilettoso ai cupidi marescialli e agli ambiziosi di Pietroburgo e di Torino, era pur desiderato da altri a più alto proposito. «Quando si mise l'Austria al punto di sguinzagliare i suoi croati, corse per tutta Italia un grido, che ripiombò sul core de' principi, complici dell'Austria». Ora qual politica strana è questa dell'Austria, che rallegra tutti quanti i suoi nemici?

Si vede dai documenti della diplomazia britannica, che la famosa fuga di Pio IX, la quale fu poi compiuta in novembre del 1848, erasi già meditata e tentata a mezzo luglio del 1847, parecchie settimane prima che i buoni milanesi si facessero ammazzare, cantando per le vie il santissimo nome. Intanto che la curia pontificia burlava la gente colle proteste di Ferrara, assoldava in Roma i sicari di Faenza, e pregava di soppiatto Metternich a tenersi pronto coll'esercito ad aiutarla nel momento del macello. Ma se la fuga compiuta necessitò poscia il popolo romano a proclamar la repubblica, la fuga tentata gli era stata il segnale dell'armamento. Colla tracotante passeggiata di Ferrara, l'Austria medesima aveva posto le armi in pugno ai Romani. E non appena si sentirono armati, divennero, come sempre accade, più aperti e imperiosi; e si stancarono in breve di cacciarsi inanzi cogli applausi e colle adorazioni lo svogliato pontefice. Il terremoto popolare di Roma si propagò alla sempre agitata Calabria; scosse ancora più profondamente la Sicilia; di là varcò da capo il mare, e atterrì così fattamente il re di Napoli, ch'egli denunciò il patto che lo legava ai tre despoti del settentrione e fremendo e piangendo giurò inanzi al popolo e a Dio una costituzione. Questo repentino trabalzo spinse fuori del cerchiello delle riforme gli altri principi d'Italia, che stillando di tempo in tempo qualche minuto beneficio, speravano regnare gloriosi e adorati per molti anni ancora. E il Piemonte stesso si agitò sotto la cappa gesuitica che il re gli teneva indosso. Onde Carlo Alberto, che aveva punito con dodici anni di carcere un evviva all'Italia, e che pochi mesi addietro derideva nel suo Cesare Balbo certe velleità costituzionali, fu costretto, dopo vane riluttanze, a cedere ai prudenti consigli britannici, e farsi dimandare in fretta dal municipio di Torino quello statuto in cui gli adulatori dell'Opinione e del Risorgimento raffigurarono poi le tracce di 18 anni di sapienza e di meditazione. E si preparava al doloroso passo di sottoscrivere lo statuto, come altri si sarebbe preparato alla morte.

In quel frattempo i malaccorti sussidi forniti dall'Austria, dalla Francia e dal Piemonte ai segregati Svizzeri, invece d'infiammare vie più la guerra civile, destarono finalmente a pudore gli onesti animi degli alpigiani, che lasciarono cadere in breve le armi e si riabbracciarono coi fratelli. La contorta e immorale politica di Metternich, di Guizot e di Lamargarita andava dunque sbeffata, non meno in Italia che fuori; si dissipava l'illusione di quell'ammirata arte di stato; e dallo sdegno popolare sgorgava improvviso in Parigi il grido di repubblica.

Ai mostruosi fatti di Parigi, come Metternich gli chiamava, rispondevano in pochi giorni i più inaspettati eventi di Vienna. Un governo che nelle provincie non riconosceva diritti e nelle scole insegnava tutte le cose dei sudditi appartenere al sovrano, ed essere solamente concesse a loro conforto dalla sovrana clemenza, teneva ugualmente a vile anche il favorito popolo austriaco in cui nome facevasi maledire dalle provincie. I privilegi ingordamente accumulati nella capitale vi avevano adescato un’infinita turba di proletari. Fra le illusioni degli imperanti e la fattizia floridezza delle industrie, quella spensierata plebe si moltiplicava, aggiungendo intorno alle anguste mura città a città. Venne un giorno che uno stuolo di giovani spirò nella incòndita mole l’alito della coscienza e dell’idea. La republica teutonica era concetta! Arduo e doloroso è il suo nascimento, ma inevitabile e fatale. Intanto l’Italia regia trastullava i popoli colle costituzioni a beneplacito; e avviava di soppiatto le soldatesche ai confini della Savoia, per intercettare le correnti magnetiche dell’Hotel de Ville. Essa voleva far da sè, cioè far astrazione dalla Francia nelle cose d’Italia e del mondo. Ma nulla valse; poichè ciò che non voleva di Francia, le giunse di rimbalzo col telegrafo di Vienna, che apportò a Venezia e Milano, e via via di città in città, la scintilla della ribellione. A Venezia risurse dalla fida memoria del popolo la repubblica di San Marco, deposta dai patrizi, cinquant’anni inanzi, senza ferite nella tomba. Ma il popolo di Milano, accettava da incauti amici il consiglio di serbare ad altri giorni il grido della libertà.

Poteva colla caduta di Metternich l'Austria tornar federale, torsi di collo il capestro della centralità. Era l’unica via di rifarsi moderna, e cessar d’essere il tormento delle nazioni; ma essa mutò solo il nome alla vecchia catena. Una costituzione unitaria che chiamava a una sola assemblea tutte le genti dell’imperio, tornava assurda e impossibile. In quale mai lingua doveva essere eloquente l’ungaro al tedesco, o il croato all’italiano? O doveva ogni deputato condur seco nell’aula delle dieci favelle il suo turcimanno, come le tribù della Nigrizia al mercato di Tombuctou? Le nazioni, schierate a fronte in quel babilonico conciliabolo, in un proposito solo potevano tutti accordarsi, di ricusar tanto alla ministeriale arroganza. Perlochè o ricadrebbe ogni cosa nel pristino arbitrio della corte: o le nazioni, sciogliendo tosto la bizzarra adunanza, andrebbero a fare meno insensata opera, ciascuna nella patria sua.

L’Austria non volle essere una federazione di popoli se-reggenti; non volle essere una federazione commerciale, presieduta splendidamente da una famiglia di dogi ereditari. Ebbene, che divenne ora l’Austria? Divenne una federazione (sempre una federazione) di satrapi militari, che tengono la mano sui tributi delle provincie, e lasciano agli arciduchi una banca vuota, un titolo svanito, e la responsabilità di quanto d’atroce si commette in loro nome.

Gli eredi di Metternich furono più ostinati e ciechi di lui. S’egli aveva infamato i suoi padroni col carcere duro, quelli aggiunsero le fucilazioni, la mitraglia, l’acqua ragia; profanarono il sesso col bastone. Se prima le vessazioni auliche avevano alienato all’imperio i cittadini, ora le rapine e le crudeltà vilissime gli resero avidi di vendetta, digrignanti, implacabili. Se prima sarebbersi appagati a impetrare di quando in quando una regale cortesia, un raddrizzo amministrativo, ora anelano a spezzare e atterrare ogni reliquia dell’antica maestà.

Le avite libertà ungariche erano un nodo in cui si intrecciavano con ineguali patti più stirpi fra loro non amiche. Anche quel vincolo ora è troncato. I laceri brani non debbono più essere Ungaria, e divenire Germania non possono. Intanto nello scomposto imperio le innate affinità chiamano a sè le genti slegate e oscillanti. Di qua l’Italia appella le sue; e se ne riscuotono anche Trento e Trieste; di là chiama le sue la Germania; d’altra parte l’Illiria, la Dacia, la Polonia, l’indomita Ungaria. La Russia ride; e soffia nel foco; e batte assidua il cuneo della centralità viennese, per dirompere e sfaldare le male assortite agglomerazioni. Ad alcune tribù fa sentire il congenito suono della sua lingua; ad altre aggiunge il fàscino della religione; ad altre le lusinghe della corte, e l’ammirazione dell’immane sua grandezza; a tutte inspira colla mano degli aborriti marescialli il furore di nuovi destini. Essa fa di più; pone la ferrea mano sul caposaldo di tutto l’intreccio. Perocchè chi erano infine gli uomini che avevano abusato, in odio alle nazioni, l’aulica onnipotenza? Metternich era uno straniero; stranieri i Frimont e i Bellegarde. E Haynau, ribrezzo del genere umano? E la vittima dell’ira popolare, Latour? E Zobel, carnefice di prigionieri? E chi erano Ficquelmont, e Daspre, e Nugent, e Wallmoden, e Schönhals, e Culoz, e Dahlerup? E tutti quei principeschi venturieri di Hohenzollern, di Hohenlohe, di Homburg, di Coburg, di Reuss, di Würtenberg, di Stollberg in cui nome s’intitolano tanti reggimenti? E i venturieri della finanza, i Bruck, i Sina, i Rothschild? Gente che non ha patria, come i normanni del medio evo, come i filibustieri, gli algerini, i cardinali, i gesuiti! Nè rappresentarono mai gli interessi d’alcun popolo dell’imperio; ma erano il nucleo d’un governo cosmopolitico, incorporeo, astratto. Che importa a costoro giovare all’Austria o alla Russia? Servire il Merovingo immemore, o l’ambizioso di Heristal? E così gli arciduchi ora sono in faccia alla Russia ciò che i duchi e granduchi e re dell’Italia erano in faccia all’Austria trent’anni fa; ciò che il Gran Mogol e il Nizam divennero in faccia all’Inghilterra. La gran predizione si compie; l’oceano è agitato e vorticoso; le correnti vanno a due capi: - o l’Autocrata d’Europa - o gli Stati Uniti d’Europa.

In mezzo a sì vaste e ineluttabili influenze, i difensori dell’Austria si divagano ad accusare dei moti d’Italia ora le società secrete, ora la volubilità del pontefice, l’oro degli ottimati, le insidie del regale congiunto, le imaginarie trame dell’Inghilterra.

Le società scerete, nel Lombardo-Veneto, ove, l’impeto popolare riescì più unanime, avevano avuto minor voga che nella rimanente Italia. D’altronde non tutte codeste aggregazioni avevano un medesimo intento d’indipendenza e di guerra. I muratori, fratellanza universale e umanitaria, appunto perciò temperavano più che non infiammassero l’odio agli stranieri. I carbonari operavano taciturni di città in città, piuttosto correttori della domestica tirannide, che incitatori a lontana guerra. La Giovine Italia, fratellanza non muta, anzi eloquente, ornata di dottrine filosofiche e di bello stile attinto al fonte biblico e agli esemplari di Giangiacomo e di Ugo Foscolo, aspirava bensì a richiamar la religione dal satellizio degli oppressori, e rifarla confortatrice evangelica degli oppressi: ciò che significava col motto, Dio e Popolo. Ma parlava una lingua ardua alle plebi, e a molti eziandìo che non si stimano plebe. No, non era popolare; non penetrava addentro nella carne del popolo, come la coscrizione, e il bastone tedesco, e la legge del bollo, e l’esattore, e il circondario confinante, e le sciabole di settembre e di gennaio. L’eco della Giovine Italia era nella generosa e poetica gioventù delle università, delle academie e delle aule teologiche. Essa, cogli occhi confitti nell’esercito straniero, pareva riservare ad altra generazione le dispute tribunizie e l’emancipazione del popolo, per accingersi anzi tutto alla pugna. La sua fede era dittatoria, cesarea, napoleonica. Anelava alla forza militare e all’unità.

Nel 1831 Giuseppe Mazzini non rivolse le prime sue parole al popolo, ma sì ad un giovine congiurato divenuto re. «V’è una corona, gli diceva, più splendida della vostra. Liberate l’Italia dai barbari; fatela tutta vostra e felice. Siate il Napoleone della libertà italiana». A Mazzini non bastava dunque un Cromwell nè un Washington: egli invocava un Napoleone. Era dottrina questa esclusivamente e fanaticamente republicana?

Pure ogni giorno udiamo gli impostori dell’Opinione e del Risorgimento, lagnarsi che una scola intemperante posponesse le armi alla toga, la vittoria alla libertà. Anzi chiamano mazziniano chiunque loca inanzi a ogni cosa la forma republicana; vorrebbero quasi far credere che questo modo di governo fosse senza esempio nel mondo, uscito da una mente accesa, per riflettersi in quelle di pochi incauti seguaci.

E perciò è necessario ricominciar l'istoria dai documenti.

Senonchè, poco monta se codesta scola nascesse primamente e deliberatamente republicana; poichè il suo voto d'indipendenza trionfante e di libera unità non poteva mai, mai, compiersi se non colla forma republicana. E per verità, qual risposta fece il giovine re all'araldo della nazione e della guerra?

Lo condannò, assente, a morte ignominiosa. L'ignominia ad un uomo che dice al suo re: «hai un esercito; riscatta l'onore della tua nazione!». E con Giuseppe Mazzini andò fugitivo e condannato anche Vincenzo Gioberti! E anche Giuseppe Garibaldi!

Ma se gli austriaci si appagavano, a quei tempi, d'uccidere in effigie i profughi nemici, non fu pago il re italiano d'uccidere in effigie gli scrittori, anzi i lettori, i lettori della Giovine Italia. La morte è la parte meno disumana delle tragedie di Genova, di Alessandria, di Chambéry. Francesco Miglio, che col sangue delle sue vene scrive alla sua famiglia, sotto il dettato d'un traditore, una lettera che sarà la sua sentenza di morte: Andrea Vochieri, già in atto di morire, nè omai più cosa di questa terra, profanato da un calcio di Galateri: Jacopo Ruffini, che si trae di mano ai tentatori, scannandosi colle ferree lamine del suo carcere: le tenebre spaventose: i sonni rotti dagli inquisitori: le torture della fame: le firme falsate: abusate perfino le lacrime delle madri: e tutte queste abominazioni avvolte di formule nefandamente religiose: ci fanno quasi sognare d'assistere tra le selve dei Druidi ai sacrifici umani. I sepolcri dei vivi sullo Spielberg riescono quasi un asilo, un refrigerio alla mente inorridita. Molti furono detti tiranni per aver messo a morte chi sospettavano deliberato a rapir loro la corona. Carlo Alberto uccise quei generosi giovani che avevano vaneggiato, non di torgli, ma di dargli la corona: la corona di tutta Italia: «Fatela tutta vostra e felice!».

«Da quel giorno», dice l'intrepido scrittore, dal quale attingiamo quei fatti, «Carlo Alberto, in continuo sospetto di congiure e di rivolte, collocò la sua maggior fiducia nella polizia. Volle denuncie e denunciatori nel municipio, nella magistratura, nella milizia, nell'episcopato, nell'aristocrazia; fido sostenitore del potere della polizia, era il potere del gesuitismo, entrambi tenebrosi, terribili entrambi, operanti di qui coi frati, di là coi gendarmi, dappertutto coll'oro, col ferro, colle spie».

Corsero sedici anni: e apparve, nuovo spettro di liberatore, il pontefice Pio IX. E l'instancabile proscritto della Giovine Italia, si rivolse a lui. E l'8 settembre del 1847, non sapendolo nemico della patria, e implorante di nascosto le armi di Metternich, gli scriveva da Londra: «Unificate l'Italia, la patria vostra. Combattete colla parola del giusto il governo austriaco. Abbracciate nel vostro amore ventiquattro milioni d'italiani, fratelli vostri. L'unità italiana è cosa di Dio, parte di disegno providenziale, voto di tutti. Il risorgimento d'Italia sotto l'egida d'un'idea religiosa, sotto uno stendardo, non di diritti ma di doveri, porrebbe l'Italia a capo del progresso europeo. Un altro mondo debbe svolgersi dall'alto della città eterna ch'ebbe il Capitolio ed ha il Vaticano». E anche queste erano parole di vita dette a un cadavere. Il papa non aveva parole contro l'Austria, o in difesa dei fratelli. E per nulla si dolse poi che in quel medesimo giorno, 8 settembre, il popolo di Milano venisse scannato, per aver cantate a coro le sue lodi, e sperato ingenuamente nel suo nome.

I tempi si facevano terribili: l'Italia fremeva del sangue sciupato in Milano, in Padova, in Pavia. Gli esuli volgevano dalle terre trasmarine gli occhi all'Italia. Il proscritto Garibaldi scriveva il 27 dicembre da Montevideo al proscritto Antonini: «Io pure cogli amici penso andare in Italia ad offrire i deboli servigi nostri al pontefice, o al granduca di Toscana». E li offerse poscia anche a quel re che lo aveva condannato a morte.

E ponevano in commune il peculio di poveri soldati, per tragittare d'America in Italia quelli più poveri ancora che «volevano far dono del braccio e delle vite in difesa della patria». Nè ponevano al dono condizioni superbe, nè tampoco un patto di costituzionali franchigie; poichè «animati dal sempre crescente progresso che andava facendo lo spirito nazionale in Italia, e dai segni non dubbi dell'accordo fra principi e popoli, avevano sollevato l'animo a quelle medesime speranze che vedevano fomentate ed accolte dai governi del loro paese».

E parimenti in Europa si apprestavano gli esuli al medesimo sacrificio delle più care loro memorie, per offrire il sangue loro ai principi italiani, purchè collegati contro la tracotanza straniera. Gioberti scriveva da Parigi, fin dal settembre 1847, con qual gioia vi fosse accolta dai proscritti la nuova che Carlo Alberto fosse disposto a tutelare l'indipendenza italiana e collegarsi col gran pontefice; e come a tale annuncio tutte le discrepanze d'opinioni e d'affetti fossero scomparse. «Tanti essere i sudditi spontanei e devoti a Pio IX e a Carlo Alberto quanti i figli d'Italia». E scriveva a Montanelli che non v'erano più radicali, e che tutti gli amatori dell'indipendenza volevano conservare la monarchia, come necessaria, anzi avvalorarla.

Senonchè, non appena erano trascorsi tre giorni, che l'incauto lodatore aveva a dolersi d'essere già smentito da Carlo Alberto, che faceva vietare dalla polizia i colori papali e gli applausi a Pio IX. Nondimeno i facendieri incalzavano con promesse i proscritti; e da Milano supplicavasi Mazzini a tacere, e lasciare le orecchie della nazione agli adulatori di Carlo Alberto. E in Parigi lo s'incalzava a cancellare financo il nome della Giovine Italia, il quale veramente rammentava troppo le passate crudeltà dei principi, ora penitenti e rigenerati. E lo traevano a riunirsi secoloro in una nuova Associazione Italiana, della quale scaltramente lo volevano preside, insieme però ad uomini apertamente costituzionali e principeschi; ed esigevano in nome della patria che «rinunciasse ad ogni iniziativa», e attendesse rassegnato che dal seno dell'Italia e dalla lega dei principi riformati e riformatori avesse indirizzo ogni cosa. Vedeva egli pur troppo «il retrocedere del papa e il pessimo maneggio dei moderati. Io temo, scriveva a Filippo De Boni, le riforme di Carlo Alberto, non perchè io mi sia republicano, ma perchè sono unitario. Con tutta l'avversione che ho a Carlo Alberto, carnefice de' miei migliori amici, con tutto il disprezzo che sento per la sua fiacca e codarda natura, contutte le tendenze popolari che mi fermentano dentro, s'io stimassi Carlo Alberto da tanto, d'essere veramente ambizioso, e unificare l'Italia in suo pro, direi veramente: amen. Ma ei sarà sempre un re della lega; e l'attitudine militare ch'ei prenderà, se la prenderà, non farà che impaurir l'Austria, e ritenerla forse ne' suoi attuali confini, che i re della lega rispetteranno. E questo è il peggio». Il peggio era dunque per il Mazzini la pace coll'Austria: dacchè suprema sua fede era sempre l'immediata e combattente unità di tutta l'Italia.

Ora vediamo di che tempra e di che fede si fosse codesta lega dei principi italiani. Carlo Alberto era sempre infraddue, fosse in politica, fosse anco solo in cose di letteratura. Egli chiamato dagli imperiosi tempi ad essere un Napoleone, l'uomo dalla ferrea volontà, non aveva mai volontà propria; pendeva sempre fra opposti consigli; e talora gli seguiva a lungo entrambi, rifacendo in secreto colla sinistra ciò che aveva solennemente disfatto colla destra. V'erano intorno a lui due conciliaboli di cortigiani, che operavano in contrario senso; poi ognuno dei due portava come bracco la sua caccia appiè del padrone. Carlo Alberto al chiaro giorno era re di Sardegna, colonnello del 5º reggimento degli ussari austriaci, insieme con Radetzky; cognato degli arciduchi; ricinto di gesuiti da messa e da spada; ricinto da quelli che col suo denaro pagavano la guerra civile in Friburgo e Lucerna; ricinto da quelli le cui mani stillavano del sangue della Giovine Italia. E nella notte, egli dava clandestina udienza alle società secrete di tutta la penisola e della Sicilia; viveva in concubinato colla rivoluzione. Nè i persecutori della Giovine Italia erano ben concordi fra loro: poichè si dividevano seguendo le rivali ambizioni di Villamarina e Lamargarita; sempre però concordi a regnare colla censura, colle spie, col confessionale; e adoperare, secondo l'opportunità, le tombe di Fenestrelle, la malaria di Sardegna, il piombo, il capestro. Nell'altra congrega erano molti che il re aveva condannati a morte e faceva stare inesorabilmente in esilio, come re di Sardegna; ma, come re futuro d'Italia, gli accarezzava, inviandoli qua in là in secrete missioni. Alcuni di essi erano paghi di addentrarsi nel torbido delle cose italiane, preparando al re, quando che fosse, l'acquisto d'un po' di paese, foss'anco solamente Mentone e Roccabruna; erano menti meschine, educate nella meschina istoria di quella monarchia. Altri coltivava anche le ragioni ereditarie del re sovra Piacenza; altri voleva scavalcare anche il duca di Modena; il quale per verità nel 1831 aveva cospirato coi gesuiti a scavalcare Carlo Alberto in Piemonte. Altri s'aggirava fin per le carceri della Sicilia, a far sacco degli odi inveterati contro il nome borbonico. Altri, superando gli scrupoli della divotissima casa, spingeva le artificiose mine fin sotto al trono del pontefice. Questa era la provincia sopratutto del pittore e letterato Tapparelli, detto volgarmente il marchese d'Azeglio; e fa meraviglia: poichè era figlio e fratello di gesuiti. Qui diverrebbe troppo lunga ripetizione l'andar esponendo quanto viene a chiarirsi, ove si riducano a commune costrutto alcune lettere del Gioberti: le memorie secrete degli emigrati: le dichiarazioni del triumviro Aurelio Saffi, dell'inviato De Boni e d'altro membro dell'assemblea romana: i cenni sulla propaganda di Modena e Milano: la publica protesta fatta dal conte Michelini, che aveva spinto l'audacia fino a volere, contro il comando del papa, spiegare in Roma lo stendardo di Carlo Alberto: moltissime date di quei giornali toscani, ch'erano strumenti alla propaganda di Carlo Alberto contro il duca di Toscana, quando la stampa in Piemonte era ancora schiava; l'opera del generale Giacomo Durando che voleva prendere lo Stato del papa dandogli in cambio le isole d'Elba e di Sardegna: e rifacendo le tre Italie, antico e infausto disegno concertato, venticinque anni addietro, fra Carlo Alberto e Federico Confalonieri: infine le opere degli aperti lodatori del re, Alfonso Andreozzi e Luigi Carlo Farini. E questi fanno menzione anche della mistica medaglia, che sta in fronte al nostro Volume e può facilmente vedersi in metallo nelle raccolte numismatiche; barbaro accozzamento di cifre gotiche e di baccelli palageschi, di mostri blasonici e di visi umani, che il re inviava secretamente ai suoi devoti, come il pontefice manda intorno le rose d'oro e i femori di santa Filomena.

Questi maneggi erano antichi. Fin da molti anni addietro ordinavasi in Brusselle e in Parigi il comitato dei Veri Italiani; si trasferiva poscia in Pisa e in Firenze; e di là si propagava a Bologna e a Forlì, nonchè a Roma, a Napoli, a Palermo. Pare che rimanesse obliata la sola Venezia, non sappiamo per qual disegno; e per verità, anche quando la si ebbe, si tentò di adoperarla a fare un baratto, rinnovando la vergogna di Campoformio. Forse si temeva che, l'unione di Genova e di Venezia insospettisse l'Inghilterra; forse Genova medesima, per triviale gelosia mercantile, voleva trarre a sè sola il commercio della valle cisalpina. Intanto si arrolavano alle congreghe albertine gli scrittori ambiziosi; e i ricchi che avevano titoli o li agognavano; e sopratutto parecchi capi dei carbonari e delle altre sêtte. E ai repubblicani si predicava non essere maturi ancora i tempi alla libertà; doversi consecrare i pensieri prima all'indipendenza; al che necessitava fare un regno grande, ossia farsi tutti sudditi di Carlo Alberto; il quale aveva pronto un esercito. E l'esercito vi era; ma il re l'aveva ordinato a frenare nelle guarnigioni i suoi sudditi, non a campeggiare contro gli stranieri. L'esercito non aveva stato-maggiore addottrinato a condurlo; perchè si era convenuto che, in caso di guerra colla Francia, l'Austria reggerebbe. A quelli che dubitavano o disperavano dell'animo di Carlo Alberto, si faceva intendere che ove il re non si mettesse all'opera di buona voglia, l'avrebbero costretto. A quelli che ad ogni patto non volevano aver padrone, si diceva che, dopo la vittoria, lo strumento della vittoria ben si poteva spezzare; e proclamare l'intera libertà. Così la gesuitica congrega di Torino avviava quella versicolore ed assurda ricucitura della fusione, che pretendeva accozzare le opinioni inconciliabili e gli interessi nemici in una concordia infida e caduca, purchè durasse quant'era necessario a sventar l'impeto popolare, e furar l'occasione alla libertà. Allora dovettero appartenere ad una stessa causa Guerrazzi e Gioberti, Azeglio e Bianchi-Giovini, Settimo e Bozzelli, Balbo e Sterbini, Valerio e Cavour; e arrabattarsi in carnevalesca miscela Pinelli, Buffa, Zucchi, Salvagnoli, Gioia, Correnti, Minghetti, Ridolfi, e altri senza fine; abbracciarsi principi e popoli, poliziotti e carbonari, epuloni e martiri, gesuiti e antologisti, ciambellani e republicani, per uscir poi di quell'orgia regale disingannati e discordi più che mai.

Intanto il tempo scorreva; e alle parole non seguivano i fatti. Nessun indicio si vedeva della guerra del re, e nemanco d'animo veramente riformatore e liberatore in lui; chè anzi lo si vedeva accosciato sul letamaio del gesuitismo e della polizia. L'oppressione intanto nelle Romagne si faceva ogni giorno più intollerabile, perchè la nazione sentiva ogni giorno più la sua coscienza, e il suo diritto, e la sua vergogna. Allora fremevano contro i loro capi le fratellanze; e gli gridavano servili e sleali; e prorompevano a incomposti e tumultuari disegni.

Qual era dunque la mente dell'Azeglio e degli altri sollecitatori? Volevano spingere, o volevan frenare? O solo preparar da lontano gli animi, affinchè in ogni caso si volgessero al re, piuttosto che a più risoluti e liberi consigli? Forse intendevano solamente che il re, accaparrandosi quella furtiva popolarità, potesse in ogni caso, nel naufragio degli alleati, salvar se medesimo. Forse intendevano solo dividere dalla moltitudine i capi: seminar fra quelle temute tenebre la discordia e l'impotenza. Forse bramavano solo sapere: sapere quali affetti ardessero nelle addolorate viscere dell'Italia. E perchè poteva il re aver brama di saperlo? Per sua sicurezza soltanto? Ma come obliare ch'egli nel 1821 e nel 1833, pur troppo, era stato delatore dei nemici dello straniero allo straniero?

Ad ogni modo le amicizie republicane di Milano e le fratellanze dei carbonari in Romagna, erano divenute, alcune deliberatamente, alcune per inganno, una specie di fanteria dei cavalieri albertini. E l'Azeglio e altri che avevano professato di ritrarre l'Italia da quello ch'essi chiamavano il malvezzo delle società secrete, se ne facevano essi i capi, e ordivano un secreto nel secreto. E per lo stesso modo, dopo aver predicato che non volevasi governo in piazza, mandavano dalla locanda di Porta Rossa il vessillo di Savoia nelle vie di Firenze, come se fosse desiderato dal popolo fiorentino che non lo conosceva, e non lo curava. E inviavano emissari a portarlo per le piazze e pei teatri di Roma, per imporre al pontefice, sotto i nomi di ministri secolari, i loro creati. E imponevano generali piemontesi al granduca di Toscana, generali piemontesi al papa; il quale, mal discernendo l'un Durando dall'altro, diceva, non del tutto senza ragione, di non volere ad ogni patto «quei signori Durando che lo volevano cacciar nelle isole».

Si può dire a scusa di Carlo Alberto, ch'egli non era il solo principe in Italia che intingolasse bassamente in casa degli alleati e dei congiunti. A parte i satelliti di tutte le polizie, di tutte le diplomazie, i centurioni, i sanfedisti, e tutte le radici maschili e femminili della mala pianta di Sant'Ignazio, v'erano altri conciliaboli che operavano pel duca di Modena nelle Legazioni e in Piemonte; per i Beauharnais, e diremo pure per la Russia, nelle Legazioni e in Milano; per i Borboni nelle Marche, per i Murat a Napoli; per i Bonaparte a Milano e a Roma; per l'Austria in Piemonte, nelle Legazioni e dappertutto.

Fra i padri lettori, i padri maestri, i padri inquisitori, fra gli stessi monsignori e cardinali v'erano i venduti all'Austria, non venduti per oro, che l'oro se lo tenevano volentieri gli austriaci per sè, ma per la speranza di avere un giorno dall'imperial favore, o il pallio arcivescovile di Milano, o benanco la santa pantofola di Roma, da calpestare l'evangelio e la patria. E quando i sicari del borgo di Faenza non ebbero più faccende nè sicurtà in Roma e in Romagna, venivano secretamente arrolati dai duchi di Modena e di Parma. Ciò facevano i conservatori dell'ordine e della virtù!

Le occulte congreghe, mosse da tante contrarie e perverse ambizioni, scontrandosi nelle tenebre si combattevano fra loro. Il poeta Castagnoli, propagatore austriaco, fu punito dai cardinali; il barone Baratelli, pur satellite austriaco, fu prima esiliato dai cardinali: e questo è certo; poi fu ucciso: e non si seppe da chi. E frattanto si scrisse in Inghilterra, accagionandone ad ogni buon conto «il pugnale democratico». E anche a Ciceruacchio fu vibrato un colpo indarno: non certo da mano democratica. Nè certo era l'obolo della democrazia che poscia pagava le insidie tese sotto i passi di Mazzini in Ginevra e Losanna. In quelle inesplorate tenebre giace l'arcano della morte di Rossi; e già, un anno prima ch'egli cadesse, veniva additato all'odio del popolo romano come «publico nemico» da quella fazione regia che alla sua morte salì al potere in Roma. Questo è certo.

Adunque sul principio del 1848, quelle associazioni che non erano gesuitiche o principesche, erano almeno sotto la sovrintendenza, e direm pure sotto il morso e le briglie dei commissarii principeschi. E perciò tutte le esitanze, le debolezze, le perfidie degli schiavi di corte pesavano come un fato invisibile sugli uomini giurati all'indipendenza e alla libertà. Quindi il moto popolare, così unanime e poderoso nelle sue profondità, era ondeggiante e rotto alla superficie, e coperto di estranie spume. Dal Piemonte, ond'era venuto Azeglio colle regie lusinghe, un solo fucile non si potè implorare per l'imminente inevitabile conflitto, quando gli arsenali di Carlo Alberto, quattro mesi inanzi, ne avevano prodigato migliaia ai dissidenti svizzeri. E quindi appare una delle cause perchè il moto, non venne già dalla frontiera, ove stava Benedek ad aspettarlo; ma scoppiò prima nel Veneto, ch'era vergine ancora dalle corruttrici influenze di Carlo Alberto; e di città in città giunse a Milano. E come vedrassi nel seguente volume, Pavia, le cui case toccavano il Piemonte, i cui cittadini avevano in Piemonte i poderi, e perciò sapevano troppo bene le piaghe del gesuitico governo, fu l'unica città del Lombardo-Veneto che non si levò se non dopo la partenza degli austriaci. Non si levò se non nella notte del quinto giorno dacchè udiva muggire nella vicina Milano il cannone. E non fu già indifferenza che quella illustre città serbasse alla causa italiana; poichè nella opposizione legale i suoi magistrati mostrarono singolare sollecitudine e dignità.

Gli ottimati che, per piacere al Piemonte, venivano tollerati e voluti a capo d'ogni cosa in Milano, non erano già, come i generali austriaci ripetevano nella gazzetta d'Augusta, i prodighi agitatori d'una plebe venale; ma tanta avarizia recarono in ogni cosa, quando frivola non fosse, che per lo stento del denaro non si poterono compiere i disegni; non si potè nemanco ordinare la necessaria catena degli avvisi. E per manco d'avvisi, la nuova di Milano insurta appena giungeva il 18 a Como e a Varese; e Vicenza seppe solo al 28 che Milano era libera dopo il 22; e Milano seppe la risurrezione di Venezia solo il 24. E Verona e Mantova, poste nel mezzo, rimasero libere custodi delle ferree loro porte, fino al lento ritorno del Daspre da Padova e del Wocher da Milano; evento decisivo per tutta la guerra; poichè ben altra cosa sarebbe stata, se il popolo avesse tenuto Mantova e Verona, come tenne Venezia e Palmanova. E così appare ognora più manifesto, che quel moto sgorgò spontaneo qua e là dalle viscere della nazione; e che come il mal governo di Metternich lo aveva preparato, così la sua caduta gli diede l'ultimo impulso. No, nessun popolo si mostrò più noncurante dell'oro e più prodigo del sangue. E ci fa quasi schifo leggere come le ricche dame di Milano elemosinassero per vicoli e botteghe, a far carità coi denari della plebe; e come i giovani più operosi a promovere la rivoluzione, dopo aver fatto il novero degli amici epuloni, fino a compiere cento milioni di patrimonio, appena ne spremessero settemila franchi. Vergogna pur troppo anche questa della patria, ma che pure torna d'altra parte a sua gloria tanto maggiore. E così rispondiamo al general Willisen, il quale intraprese a spiegare alla Germania la nostra rivoluzione, intendendola così poco e così male, che la giudicò un capriccio improviso, mosso dall'oro degli ottimati.

La propaganda albertina coltivata ancora più durante la guerra, lasciò due mali. L'uno ed il peggiore si fu, di segregare nuovamente dalla nazione gli ordini più cospicui, che sotto il livello straniero parevano essersi rifatti popolo; e perciò erano dal popolo con devota gratitudine ammirati e seguiti. E per l'ambizione d'allargarsi in tutta l'Italia, Carlo Alberto diede ai maggiorenti per tal modo ordinati, un animo per molti aspetti simile a quello degli antichi ghibellini; i quali nascevano e morivano nella perenne aspettazione d'un esercito che scendesse a render loro sugli eguali un predominio che di per sè non valevano a conservare. L'altro danno, però transitorio, si fu di sviare la nazione dal puro e immediato amore della libertà; la quale, per essere l'Austria omai chiusa entro i suoi confini, potevasi ottenere da tre quarti della nazione, senza guerra e senza pericolo; ed erasi in certo grado ottenuta. Poichè la Sicilia era veramente libera; e dappertutto ai principi protetti dall'Austria s'era estorto un po' coi modi gentili, un po' cogli aspri, la libera stampa e un abbozzo di costituzione. Nè quando tre quarti della nazione avevano la libertà d'intendersi e d'armarsi, poteva indugiare a lungo la liberazione del rimanente; il quale per poco non bastò a se medesimo, e solo per manco di buon consiglio. Ma ciò che chiamossi la fusione, era noncuranza e quasi disprezzo della libertà. E inoltre, sconvolgendo di prima giunta i confini degli Stati, avanti di prevedere alla forza interna di ciascuno d'essi, correva a cozzare contro il punto fermo dei trattati del 1815. E questi non si potevano sciogliere se non coll'assentimento di molte potenze; anzi piuttosto con una innovazione di tutto l'ordine europeo e colla commune caduta di tutti i governi, quello compreso che colla fusione volevasi a spesa degli altri governi ingrandire.

Ora che abbiamo accennato ciò che le società secrete non fecero, resta a dire ciò ch'esse veramente operarono. A ciò ne porgono lume i frammenti che abbiamo raccolti da un manoscritto del Montanelli e da varie memorie di promotori del moto milanese; e danno bastevole indirizzo anche intorno a ciò che sarassi operato, da quelle moltissime altre fratellanze, delle quali ancora non abbiamo i documenti. Qui vediamo anzitutto che molti dei promotori erano già stati allievi della Giovine Italia; ma sciolti da ogni vincolo di setta, operavano ognuno a suo luogo, sugli amici; e così mano mano penetravano nelle moltitudini, traendo in luce quei sentimenti che la straniera insolenza aveva generati. La dottrina era dunque sopravissuta all'iniziazione; il convincimento aveva avuto più vigore dei riti e dei giuramenti; l'idea era più forte del patto. Ecco ciò che l'Italia deve a Mazzini. Egli fu il precursore del risorgimento; egli che nel 1831 aveva già concetta nella mente la santa crociata del 1848, allora incredibile ai savi mondani; egli che aveva visto sin d'allora il seno dell'Austria, come quello della vipera, squarciato dalle nazioni entro racchiuse.

Codesti fedeli della Giovine Italia erano, i più, divenuti republicani, quantunque avessero preso le mosse da una dottrina che sperava in un re e voleva fondare un nuovo regno. E alcuni erano di cospicuo casato. Ma questa è proprietà della nostra nazione, che l'animo republicano vi s'incontra in tutti gli ordini: che anzi la genuina fonte della vera nobiltà italiana, non della ribattezzata di anticamera e polizia, sta nei consessi decurionali delle antiche republiche municipali: e pare anzi che fuori di codesto modo di governo la nostra nazione non sappia operare cose grandi. E che fece mai di glorioso, o anche solo di non vituperoso, il gran regno che incatena otto milioni d'anime nella bassa d'Italia? Si paragoni l'istoria romana a quella di Torino; l'istoria di Venezia a quella di Trieste! Ma codesti nuovi republicani, pur troppo erano propensi sempre a sperare più nell'esercito regio che nella guerra di popolo, perchè la scola loro era scaturita primamente dall'idea napoleonica. Ora un Napoleone non poteva surgere che di republica. Una monarchia che dovesse trascinar seco al campo il guardinfante dell'etichetta, del gesuitismo, della polizia, della diplomazia, non poteva trar di sotto a quegli ingombri un Napoleone. E anch'egli, il primo console, quando si ebbe messo intorno tutto l'imperiale viluppo, non operò più le giovanili sue meraviglie. Pure, anche in quella gabbia egli era rimasto sempre il leone, l'uomo della indomita volontà: mentre Carlo Alberto, ora vacillando a destra ora a sinistra, doveva appuntellare sempre il mutabile suo volere al consiglio altrui; nè sapeva far passo inanzi se non si udiva alle spalle il mormorìo delle genti o la lode. L'Italia non ebbe il console; nè l'uomo.

Sciolti da ogni rito, i giovani e liberi propagatori si erano, per così dire, approfondati nell'onda popolare. D'ogni cosa essi fecero arme morale a confortare la moltitudine, conscia degli affetti suoi, ma inconscia della sua forza. Essi tradussero in vulgare alle smembrate provincie l'arcano dell'unità. Adoperarono i fogli clandestini e i publici, i canti, gli evviva a Pio IX, il sasso di Balilla, le catene di Pisa. Adoperarono i panni funebri delle chiese e i panni gai delle veglie festive; assortirono in tricolore le rose e le camellie, gli ombrelli e le lanterne; trassero fuori il cappello calabrese e il giustacuore di velluto: il vessillo della nazione e quello delle cento sue città. Era quella una lingua nuova che parlava a tutte le genti d'Italia più alto e chiaro che l'altra lingua in cinque secoli non avesse parlato. Essi accesero di vetta in vetta lungo l'Apennino le fiamme del dicembre: essi congregarono sulla fossa di Ferruccio i montanari della Toscana: essi domarono coi fieri applausi dei trasteverini le ritrose voglie del pontefice. Essi rivelarono il popolo al popolo, l'Italia all'Italia; gettarono sul viso al barbaro armato il guanto della nazione inerme e impavida; trassero la plebe che aveva taciuto trent'anni, a dire d'una voce: l'ora è venuta; a svellere coll'erculea mano i graniti delle vie; a spegnere coi fucili strappati al nemico il foco de' sessanta suoi cannoni; a togliere in poche ore ai vecchi generali ogni senno e ogni coraggio. Il popolo poteva fare: voleva fare; ma senz'essi non aveva fatto. Per essi ora è certo che l'Italia sa e l'Italia può.

Mazzini aveva scritto a Pio IX di aver più caro soccumbere che mirar le vendette e gli eccessi maturati dalla lunga servitù. Soverchio timore: l'oppressione non avea maturato i vizi della prosperità, ma le virtù della sventura; la nazione serva si scoperse più generosa delle nazioni dominatrici e superbe: perocchè il dolore giova ai popoli come all'uomo. Inebriati della poesia del proscritto, i suoi seguaci furono alla docile moltitudine consiglieri d'umanità. Il popolo seppe vincere senza eccessi e senza vendette. E ora non se ne penta. Poichè se gli sfuggì poi di pugno la vittoria, non fu perchè fosse stato più magnanimo del nemico, ma perchè fu credulo e servile al falso amico. Che se gli avversari ora non hanno il senno d'imitare il virtuoso esempio, e si vanno contaminando d'inutili crudeltà, essi condannano sè e gli sgraziati loro satelliti a soggiacere, quando che sia, a rappresaglie che nessuno potrà condannare, nè compiangere.

Per troppo ardore d'avventarsi contro i nemici stranieri, i quali potevano fare ben breve ostacolo a una gran nazione, l'Italia non si profittò dell'impotenza nella quale essi erano già caduti, onde estirpare frattanto i loro intestini fautori, e assicurarsi pel dì della battaglia il tergo dalle insidie. Essa dimenticò che l'arte della libertà è l'arte della diffidenza; che libertà è padronanza; e padronanza non vuol padrone. Diede le redini a chi non voleva che il carro andasse. Rinunciò ai principi l'iniziativa, appunto quando, dopo tant'anni, stava per metter le mani sulla vittoria.

Le fratellanze di Romagna e le amicizie di Milano posero i più gelosi secreti e la vita stessa dei fratelli a discrezione d'un disertore; a discrezione d'un re ch'era stato per diciott'anni di regno l'ostinato e sanguinario loro nemico; e che poteva ogni mattino tradirle, non foss'altro, al gesuita il quale lo assolveva del sangue versato. E fu parimenti consiglio fallace quello di sospingere i pontefici e i re cogli applausi; poichè, conosciuta la loro natura che cede solo al timore, chi potè farli camminare di quel modo impunemente, avrebbe potuto farli camminare anche d'altro modo. Ma l'Europa non potè imaginarsi che tutto un popolo avesse così unanimemente e lungamente affettato una gratitudine e un'ammirazione che non doveva sentire. Credette adunque che Pio IX fosse un uomo inviato da Dio, e non un segnacolo artificiale, che non aveva senso se non da un accordo di congiurati. Laonde quando il tempo fu consumato, e i teatrali applausi dovettero aver fine, parve al mondo che l'Italia fosse ingrata! - Chi ha diritto, non ringrazia.

Mai la causa della verità non vuolsi difendere colle armi della simulazione. Pur troppo abbiam gridato pontefice liberatore chi vegliava solo l'istante di trafugarsi nelle file dei nostri nemici, e frattanto stipendiava in Roma i sicari di Faenza. Abbiamo gridato, già prima della guerra, capitano liberatore chi era stato in campo una sola volta, e contro la libertà; nè aveva mai comandato eserciti, nè aveva animo da capitano, ma solo quella noncuranza del pericolo che ha ogni bifolco fatto granatiere. Abbiamo gridato filosofo liberatore, e condutto in trionfo per le città d'Italia, quel Gioberti ch'esule ancora per decreto di Carlo Alberto voleva assoggettare per forza all'ingiusto persecutore tutti i liberi uomini d'Italia; e minacciava la guerra civile a chi intendesse la indipendenza in altro modo: anzi in quel modo in che l'aveva già intesa egli medesimo; e rallegravasi poi con satanico gaudio di veder Venezia pericolante, e punita d'aver voluto riesser Venezia. E queste favole nostre avevano almeno il pregio d'esser generose, e di fare ai nostri avversari mal meritata cortesia; ma tali non furono poi quelle che da essi vennero rese in ricambio. Nè potremo mai perdonare l'accusa di sicari apposta a coloro che non furono prodighi se non del proprio sangue; nè gli infami sospetti seminati fra il popolo contro i cittadini più dimentichi di sè e delle proprie fortune, per farli credere stipendiati dall'oro di Ficquelmont, e far temere alla gente un'insidia austriaca nel nome stesso della libertà. E così il povero popolo, fra i nomi indegnamente levati a cielo, e i nomi iniquamente tratti nel fango, non seppe più chi gli fosse amico o nemico; e gridò più volte la ironica formula del vecchio toscano: viva la mia morte e muoia la mia vita.

Ora qui voglionsi accennare almen di volo le profonde origini di certi avvenimenti. Quando giunse fulmineo l'annuncio che il Borbone vinto in Sicilia era vinto senza sangue anche a Napoli e giurava patti al popolo, Carlo Alberto, consigliato anche dall'Inghilterra, promise in fretta anch'egli il suo Statuto. Promise farsi re di cittadini; ma voleva restarsi re di gesuiti; epperò gli lasciava tranquilli nei loro nidi; e pasceva il popolo di parole e di feste, schermendosi intanto d'armare la guardia civica. Sopravenne più fulmineo l'annuncio della tempesta di Parigi; il popolo di Genova, che sapeva ov'era il nodo della sua servitù, proruppe contro i gesuiti; Torino seguì l'esempio. «Quegli avvenimenti determinarono il governo a istituire una guardia nazionale provisoria; ma fu prefisso il numero a cinquecento». «L'orage gronde trop près de nous», dettava il re al ministro San Marzano il 3 marzo; e diceva che «en conséquence» aveva deliberato di «compléter ses armements». En conséquence del moto popolare egli faceva ciò che non aveva fatto en conséquence dell'invasione di Ferrara, delle stragi di Milano, dell'occupazione di Modena e di Parma. Partivano dal Piemonte le poche centinaia dei gesuiti da messa; ma sotto l'ombra di quegli armamenti, anzi di quegli stessi cinquecento privilegiati alle armi civiche, si salvavano dall'ira popolare i gesuiti da spada e da toga; e i genovesi si lagnavano nei giornali che il sacrilego edificio rimanesse indistrutto. Rimasero i gesuiti in corte, rimasero nel governo, rimasero nell'esercito; e venti giorni dopo, seguivano il re al campo; gettavano la rete sulla guerra del popolo; davano agio al nemico di riacquistare le perdute fortezze, di rifornirle, di ricomporre in quella quiete imperturbata il disfatto esercito. Facevano anco quei sacrifici di sangue ch'erano necessari a conservar nei popoli l'illusione d'esser difesi; spingevano gli infelici soldati «nell'imbuto di Santa Lucia» come lo chiamò il general Bava; divagavano i popoli col cicaleccio della fusione; richiamavano i volontari dal Tirolo; abbandonavano i toscani a Curtatone; abbandonavano i romani a Vicenza; perdevano mano mano tutte le provincie; infine, il 4 agosto, Lazari, il capo della polizia sarda, andava al campo di Radetzky a patteggiare la consegna di Porta Romana; la sedizione era finalmente compressa; le acque torbide si raccoglievano nel pristino letto. L'opera dei gesuiti fu assecondata dalla congrega diplomatica; la quale non poteva, per così poca cosa, uscire dal patto del 1815, ch'è la legge dell'Europa, finchè l'Europa medesima, tutta rinnovata, non si stringa in altro patto.

E ora vogliamo far cenno di quella unità nazionale, a cui molti generosi parvero quasi posporre la libertà. Certo, chi miri a qual mole straniera si dovesse far fronte, non si farà meraviglia che sembrasse necessario contraporvi tutta l'Italia, o almeno quella maggior parte che si potesse, e quanto più si potesse saldamente unita. E anche in ciò si vede, come nel rimanente, l'effetto della nazional reazione contro l'artificiale centralità straniera. Ma i più andarono errati, giudicando che la forza militare si misurasse a numero di popolo, e imaginandosi d'aver finito la guerra, quando fossero riesciti a stivare sotto la predella d'un trono dodici o quindici milioni di gente. Potevano ben vedere come il regno di Napoli fosse il doppio quasi del Piemonte, e non fosse più forte. E il Piemonte doppio della Svizzera, e non diviso, ma saldamente stretto in una sola mano, e non però a lunga pezza sì forte. E dopo la cabala che si compiè colla farsa dell'Urbino il 29 maggio, il Piemonte che dettava la fusione col pretesto d'esser più valido a spacciar la guerra, si trovò da quel momento più debole, per timore ch'ebbe Torino di perdere i vantaggi di regia sede e le briciole della regia mensa, e per timore ch'ebbe la corte di non aver braccio a infrenare la improvisa folla dei nuovi sudditi, non ancora ben maceri e fracidi nel gesuitico lezzo. E quindi si lasciarono ir perdute, in giugno, le quattro provincie venete prima d'averle acquistate; e in luglio, al primo infortunio, si lasciarono andar perdute l'altre provincie e i ducati. E il 5 agosto ai generali di corte parve mala grazia nei milanesi che non si sottomettessero subito e di buona voglia ai barbari, quando così pareva e piaceva a Sua Maestà. Sembrava quasi che l'abbandonare vilmente la guerra poco importasse. Chi doveva volere, non voleva. Ora, il primo principio di forza nelle cose umane è la volontà, e non il numero degli uomini che da quella volontà dipende. E non fu il numero dei battaglioni, che poi condusse, senza contrasto, gli austriaci in Mortara, intercidendo l'esercito piemontese dal regno; e che poi gli condusse con minor contrasto ancora in Alessandria, quando pareva bello agli eroi di corte andar piuttosto a malmenar Genova, perchè voleva continuata virilmente la guerra. Due volte cadde il regno che aveva i milioni di sudditi, intanto che Venezia, sola, e povera, e levatasi esangue dal sepolcro, durò combattendo, finch'ebbe pane. E in altri tempi, Venezia stessa con angusto dominio aveva durato contro tutta Italia e tutta Europa congiuratagli contro dal pontefice; e aveva durato più secoli contro l'imperio ottomano. Pur s'udirono fra noi molti deridere, con Gioberti, le republichette. E pur troppo, per male cure di lui medesimo, Venezia era rimasta sola e povera republichetta di centomila abitanti. Ma aveva quell'animo che i satelliti regi non poterono infondere alla Sicilia venti volte più popolosa. Un diminutivo non è una ragione, direbbe il savio Bentham. E la Svizzera medesima non è forse un fascio di ventidue republichette? anzi, diciam pure, di venticinque? E se dimani il Vallese e Friburgo si suddividessero come Appenzello e Basilea, forse verrebbe rimossa la cagione di qualche discordia; e certamente non perderebbe la patria un sol difensore. Le republichette svizzere bastano alla loro difesa; e l'Italia che potrebbe avere dieci volte più armati, con ben maggior riparo di lagune e di maremme, e di fiumi e d'isole e di fortezze e di navi, l'Italia non basta. Convien dunque, come facevano i nostri antichi, cercare altrove che nel numero il principio della forza; riporlo sopratutto nella volontà; cioè in questo che chi comanda abbia la medesima volontà, o a parlar più mondano e più vero, i medesimi interessi di chi obedisce. Non sono i soldati, nè le armi, nè le navi, nè il buon volere del popolo, che mancarono al re di Napoli per difender l'Italia; ma i suoi interessi non erano quelli della nazione; nè tali erano quelli del papa; e così dal più al meno, quelli d'ogni altro potentato d'Italia. È vano e puerile il lagnarsi ch'essi abbiano fatto ciò che avevano naturalmente a fare; come fu vano e puerile lo sperare che avrebbero fatto fuor della loro natura. E qui fu l'errore fondamentale «di quel ridicolo amoreggiarsi fra principi e popoli», nel quale gli innamorati erano solo da una parte. Qui fu l'errore dell'iniziativa permessa ai principi, e del comando lasciato ai loro satelliti. Qui fu l'errore dell'unità, da conseguirsi col persuadere un principe «di codarda e fiacca natura» a divenir magnanimo e deliberato. Chi è nato a far le grandi imprese, non aspetta che altri lo consigli e lo incalzi.

Il numero delle parti non importa, purchè abbiano tutte egual padronanza e libertà: e l'una non abbia titolo a far servire a sè alcun'altra, tirandola a sè, e distraendola dal nodo generale. Tra la padronanza municipale e la unità nazionale non si deve frapporre alcuna sudditanza o colleganza intermedia, alcun partaggio, alcun Sonderbund. I «sonderbundi» dell'Italia sono quattro: il borbonico di otto milioni e più; l'austriaco di sei, e se lo si considera anche arbitro dei ducati, poco meno di nove; il sardo di cinque o poco meno; il pontificio di tre. Queste segreganze sono tutte nemiche tra loro: le prime perchè aspirano a ingrandirsi a spesa delle altre: l'ultima, perchè sa d'essere insidiata da tutte. E così hanno tutte interesse a guerreggiarsi, e godono ampiamente dell'altrui sventura e dell'altrui disonore. Qual più grato adulatore alla corte di Torino di colui che maledice al bombardator di Messina? Qual più lieto suono al re di Napoli che quello delle infamie del Lamarmora a Genova? E così la Sicilia maledice a Napoli; e la Sardegna e la Liguria maledicono a Torino; e i popoli sono maledetti dai popoli per colpa dei loro padroni. Le discordie, che tanto si vantano delle republiche del medio evo, erano della medesima natura; perchè nessuno allora si era posto in mente di collegar le città in nazione; e di più vi soffiava per entro il pontefice da una parte, e vi aveva braccio l'imperatore dall'altra; perchè i prelati e i baroni abitavano le republiche come forestieri, pronti a sconnetterle e turbarle, non a obedirle e difenderle. Onde anche le republiche erano costrette a fare come i tiranni; e vi procuravano sicurtà e potenza, assoggettando a sè le città vicine, e togliendo loro la sovranità. Pisa era nemica a Genova, principalmente perchè ambedue volevano signoreggiar la Sardegna. Nessuno pensava a que' tempi che i sardi pure erano italiani e fratelli, e che dovevano unirsi alla madre Italia, non coll'obedire a Genova e a Pisa, ma col seder seco loro, eguali e padroni, nel congresso di Roma. Gli odi delle republiche provenivano dalla conquista, dalla fusione, non dalla libertà.

E anche le republiche svizzere, nate a caso e a caso collegate come le nostre, avevano allora sudditi svizzeri, e li opprimevano, e ne facevano pretesto di ambizioni e di guerre. Ma questi sono errori dei secoli andati; e ora elle son tutte eguali; nè alcuna republica svizzera potrebbe mai trovar modo d'imporre i suoi magistrati alla republica vicina; le altre tutte si opporrebbero; non potrebbe il tutto consentire che alcuna parte si frapponesse fra esso e un'altra parte; nè alcuna parte avrebbe forza o speranza di riluttare al tutto. Con siffatto principio, e colla nuova coscienza di fratellanza e di nazionalità che l'esperienza dei secoli e la scola della sventura, e le ingiurie degli stranieri infusero all'Italia, nulla sarebbe a temersi se fossero le republiche pur minute come nella Svizzera. Tanto maggiore sarebbe in loro la necessità di abbracciarsi, al fine di proteggersi in terra e in mare contro le colossali potenze del secolo, e di esercitare il commercio fraterno in più vasto campo, e di deliberare leggi uniformi e strade e monete, e di accomunarsi i diritti privati, salva sempre la intera padronanza d'ogni popolo in casa sua. Insegnò Machiavelli che un popolo, per conservare la libertà, deve tenervi sopra le mani. Ora, per tenervi sopra le mani, ogni popolo deve tenersi in casa sua la sua libertà. E poichè, grazie a Dio, la lingua nostra non ha solo i diminutivi, diremo che quanto meno grandi e meno ambiziose saranno di tal modo le republichette, tanto più saldo e forte sarà il republicone, foss'egli pur vasto, non solo quanto l'Italia, ma quanto l'immensa America.

Il lettore si sarà più d'una volta sentito correre al pensiero questa dimanda: se Mazzini voleva dare al re la corona d'Italia, s'egli aveva dettato nel 1831 il programma che il re adottò nel 1848, perchè i servi del re lo predicavano frenetico republicano? perchè lo perseguivano a morte?

Diremo. Il regno che Mazzini voleva, era un regno quale la Francia aveva sperato da Napoleone, quale Roma antica aveva sperato da Cesare; non regno di schiavi decorati, e di prelati oppressori, e di gesuiti eredipeti, di giudici venali, di gendarmi, di censori, di spie; ma regno di cittadini armati e deliberanti: il regno del merito presieduto da un eroe. «Ponete i cittadini a custodia delle città e delle campagne e delle vostre fortezze; liberato in tal guisa l'esercito, dategli il moto; riunite intorno a voi tutti coloro che il suffragio publico ha proclamato grandi d'intelletto, forti di coraggio, incontaminati d'avarizia e di basse ambizioni». - Ora questo non era il regno di Sardegna: «il quale si vantava d'esser composto d'un re che comanda, d'una nobiltà che governa, e d'un popolo che obedisce». Tutti gli esseri malèfici che si pascevano delle corruttele della vetusta monarchia, i gesuiti sopratutto, gridarono alle orecchie del re ch'era un'insidia, un tradimento, una sceleraggine; e vollero da lui pegno di sangue contro gli innovatori. E siccome fitte erano le tenebre della publica opinione, e il nome di republica, non ostante la vicinanza delle valli svizzere, erasi artificiosamente associato ad ogni sorta di fatti atroci e luride nefandità, così perchè nessuno volesse il nuovo regno, bastò l'andar predicando ch'era la republica!

Questo codardo vezzo d'accumulare infamia sul nome republicano venne coltivato dal Gioberti, che imaginò d'accoppiare nelle ignare menti la republica e l'Austria; onde non si parlava mai di republicani, che tosto non si accennasse all'oro di Ficquelmont che li sfamava. E ogni qualvolta i regi lenoni incontrassero uomo che disdegnasse prostituirsi, volendo punirlo e torgli ogni buona fama, come nell'ignoranza loro speravano, facevano scrivere su per le muraglie, o nei giornali del Bianchi-Giovini e dell'avvocato Papa, ch'egli era un republicano! E molti v'erano che avevan sortito dalle mani del creatore il dono d'un'anima republicana; pure, non lo avevano mai scritto, e forse nemanco erano a ciò deliberati in sè medesimi, e certo non ci erano giurati in fazione republicana. Ma quando, per oneste ripulse date a importuni incettatori, si vedevano additati alle genti come republicani, non avevano poi la viltà di negarlo; anzi talora per magnanimo sdegno se ne vantavano. E da quel dì riputavano debito d'onore d'operar come tali. E così la mano di quegli stupidi satelliti iniziava il ruolo dei repubblicani; poneva le fondamenta della republica. E quanto più appariva chiaro che la vetusta monarchia non poteva rigenerarsi, e voleva ad ogni modo, anche sotto il belletto costituzionale, regnare coi gesuiti e coi censori e colle spie, il numero dei conversi alla nuova fede cresceva. Sì: come la casa d'Austria ha il destino di eccitare per ripugnanza la nazionalità italiana, così la casa di Savoia (amica o nemica dell'Austria, poco importa; e chi lo sa?), la casa di Savoia, per quella perpetua e insanabile sua titubanza a compiere i voti della nazione, ha il destino di promovere l'italiana libertà.

Però se v'erano molti uomini d'animo republicano in Italia, essi non avevano dottrina republicana. Avevano ben posto il loro amore nel popolo, ma la loro speranza nel re. Avevano pugnato, se non per lui, certo con lui. Ma quando ebbero vista la mal voluta guerra, le intempestive cupidigie, l'abbandono di Curtatone e di Vicenza, la consegna di Milano, svanirono le speranze; la coscienza republicana si riscosse; un'altra idea balenò alle menti. E il re, anzichè attendere a ristorare in tempo la guerra all'austriaco già vinto in Ungaria, anzichè inviar pane a Venezia, sognava l'imperio di Roma. E gli incauti suoi partitanti insidiavano la Toscana; invadevano sul cadavere di Rossi il ministerio romano; e quasi importasse sopra ogni cosa far vacante il trono dei Cesari, favorivano la fuga del pontefice.

Allora Mazzini, omai fastidito, dettava dal suo ritiro di Lugano nei Ricordi ai giovani l'ultimo disinganno della guerra regia. E una mano amica gli scriveva d'uscire dalla latebra del prescritto e avviarsi a Roma, ove doveva svolgersi ben altramente il nodo dell'italica unità. E infatti negli ultimi di dicembre, egli rivarcava le Alpi con ben altro animo che non ne fosse calato; e per la Elvezia e la Francia, con lenti e insidiati passi, giungeva al Mediterraneo.

Intanto la necessità ineluttabile delle cose, la natura romana e i consigli dei repubblicani nati, avevano fatto erumpere improvisa la romana republica. Fu l'8 di febraio. E già, il 12, Roma porgeva una mano materna a Mazzini; lo chiamava suo cittadino; il 25, lo deputava all'assemblea; e il 5 marzo accoglieva ospitalmente la sua venuta. In quel giorno si compieva appunto l'anno, dacchè, l'esule aveva stretto in Parigi cogli scaltri e malaccorti facendieri del re il patto dell'Associazione italiana. Qual mutamento di cose e d'uomini! Quanto veloce è il passo del secolo, che arreca nuovi pensieri e nuove sorti al genere umano!

Intanto che il popolo di Vienna sanguinava per la libertà, i cortigiani avevano continuato fra noi il grido: fuori i barbari: l'Italia fa da sè. Ma i fatti di Messina, di Genova, di Roma, mostravano che barbaro può suonare tanto tedesco, quanto francese, quanto italiano; e che dei barbari ogni nazione ha i suoi. La guerra d'Italia è parte della guerra civile d'Europa. La servitù d'Italia è patto europeo; l'Italia non può esser libera che in seno a una libera Europa. Allora apparve manifesto doversi sancire, contro l'alleanza dei pochi oppressori, l'onnipotente alleanza degli oppressi.

Allora Mazzini compiè l'ardua sua missione, dettando con Ledru-Rollin e Daraz e Ruge, un nuovo patto che stringa Italia, non solo alla Polonia e alla Francia, ma alla stessa Germania, serva volente finora, e quasi sacerdotessa della servitù. E così, dalle opposte parti e dalle più nemiche genti giungono i peregrini al santuario commune della libertà!

Qual è ora l'ostacolo alla libertà? La soldatesca. Una nazione che mette quattrocento mila gladiatori ad arbitrio d'uno o, di pochi, sarà sempre serva degli altrui voleri. E le stesse forme della libertà diverranno occasioni di corruttela. La Francia, si chiami republica o regno, nulla monta, è composta di 86 monarchie, che hanno un unico re a Parigi. Si chiami Luigi Filippo o Cavaignac: regni quattro anni o venti: debba scadere per decreto di legge o per tedio di popolo: poco importa: è sempre l'uomo che ha il telegrafo e quattrocento mila schiavi armati. La condizione suprema della libertà fu intesa solo dagli svizzeri e dagli americani: militi tutti e soldato nessuno.

In Europa, quattro milioni di giovani vengono divelti dal seno delle nazioni, e armati e ammaestrati contro le loro patrie. Robusti per età e per salute, vivono, oziosi, delle miserie altrui; divorano quattro mila milioni. È il frutto di cento mila milioni di patrimonio. Quel giorno che l'Europa potesse, per consenso repentino, farsi tutta simile alla Svizzera, tutta simile all'America, quel giorno ch'ella si scrivesse in fronte Stati Uniti d'Europa: non solo ella si trarrebbe da questa luttuosa necessità delle battaglie, degli incendi e dei patiboli, ma ella avrebbe lucrato cento mila milioni. Eppure gli avari cospirano coi re!



Questi sono i pensieri che nel ricorrere i documenti, ci vennero di volo raccolti. Ma troppo lunga opera sarebbe il dire tutto ciò che ci sentiamo destar nella mente. Legati al duro officio d'essere raccoglitori, cediamo ad altri la più libera e grata impresa di connettere le sparse materie, e meditare riposatamente, a più prossimo utile della patria e del genere umano.

II.

Avviso al lettore.

A tenore del manifesto, stavamo per iniziare questa raccolta, col volume concernente l'insurrezione di Milano, quando da operosi amici, a compimento del nostro invito, ci pervennero alcune carte che riescivano ad illustrazione degli antecedenti e delle cagioni di quel fatto. Pongono esse in luce influenze e pratiche, le quali giacquero finora inosservate, anzi affatto ignote; e collegano gli eventi di Milano col moto generale d'Italia, dichiarando qual parte vi avessero le secrete società, e in quali mani queste fossero venute, e per quali aspettazioni e promesse si fossero indutte a promovere la potenza di chi era stato lungamente loro nemico.

Ne parve adunque opportuno, poiché tali interessanti materie ci erano pervenute ancora in tempo, darle a preferenza nel primo volume, come veramente l'ordine naturale delle cose consigliava. Ma giudicammo altresì necessario raccogliervi intorno quegli altri fatti e scritti che potevano rischiarare appieno i preliminari della rivoluzione.

Di sommo momento a tal uopo ci parve una cinquantina di documenti diplomatici, che abbiamo attinto agli atti del parlamento britannico. E sono alcuni di Metternich, altri di Palmerston, di Guizot, di Nesselrode e dei loro incaricati in Torino, Venezia, Milano, Firenze, Roma, Napoli, Ancona, Ferrara, onde si palesa quali governi stranieri avversassero ogni provvidenza e giustizia in Italia, e quali più o meno tepidamente le favorissero.

Di eguale importanza all'uopo nostro ci parvero i documenti in parte inediti delle rimostranze fatte in quel tempo dai magistrati e dai corpi scientifici, nonché delle pertinaci negative date dalle autorità straniere.

È poi a notarsi che i generali austriaci si valevano senza secreto di qualche gazzetta estera, sì per inculcare alla credula Europa la necessità delle violenze che commettevano, sì per associare ai loro odii e alle loro cupidigie la vanagloria germanica, sì, finalmente, per provocare la gioventù italiana con parole quasi di sfida. Le quali, per verità, non furono ultimo incentivo dei fatti che seguirono. Insieme a questi scritti degli austriaci collochiamo alcune carte smarrite poi nella loro fuga; le quali dimostrano vie più il loro animo, mentre palesano lo stato del loro esercito, e i disegni che fin d'allora avevano d'invadere la rimanente Italia.

Per egual modo si pubblicavano allora dall'opposta parte nei nuovi giornali toscani, romani e piemontesi tanto gli appelli, gli inviti e le proteste che si venivano facendo dai promotori della rivoluzione, quanto le notizie delle dimostrazioni e degli altri fatti con cui manifestava il popolo il nuovo ardore ond'era compreso. Tali scritti si fornivano per lo più, e non senza continuo pericolo, da coloro stessi che nei fatti avevano parte principale; onde sono a considerarsi come veri atti dell'insurrezione.

Dalle stesse fonti abbiamo raccolto varie date che dimostrano le perpetue titubanze di chi voleva sciogliere l'arduo proposito d'essere assoluto e retrogrado in casa sua, e liberalesco e progressivo in casa de' suoi vicini.

Ciò chiarisce eziandio qual fondamento avesse la ostentata lega dei principi italiani, onde s'illudevano a quel tempo i popoli, desiderosi soprattutto di forza e d'unità.

Altri documenti palesano quali secrete intelligenze fossero sempre tra il pontefice e l'Austria, e qual favore desse a questa anche l'episcopato: onde appare propensa alla causa del diritto nazionale e della giustizia solo quella parte di sacerdozio che, essendo popolo e vivendo col popolo, non è in necessità d'adulterare per ambizioni mondane il testo dell'evangelio.

Finalmente, per dimostrare da quali opinioni venissero animati coloro che diedero maggior opera all'insurrezione, abbiamo posto da una parte alcune scritture di Gioberti, dall'altra alcune di Mazzini, anzi anche una lettera di Garibaldi. Fanno prova come dapprincipio, essendo assorti gli animi nell'unico pensiero dell'indipendenza e dell'unità militare, non s'imponesse ai capi degli eserciti altra condizione che quella della vittoria. E le opinioni repubblicane per verità si svolsero solo in appresso, a misura che l'esperienza dimostrava come per la via primamente eletta la nazione non potesse compiere il supremo suo voto. Alcuni dei documenti qui raccolti sono inediti, altri sono diligentemente estratti da giornali e libri di varie lingue, che nessun privato può facilmente aver sotto mano, e che, anche avendoli, non potrebbe senza lunga fatica trascrivere e ordinare. Il complesso è tale che nessuno, ove lo percorra con attento animo da capo a fondo, potrà esimersi dal mutare in considerevol parte le opinioni sue intorno a molte delle cose e molti degli uomini che le hanno operate. E noi pure, cammin facendo, ci siamo avvenuti in cose che ci tornarono nuove e inaspettate. Onde, solo a opera compiuta, abbiam potuto ritrarci in mente l'intero concetto del volume che venivamo durante la stampa compiendo. Ma crediamo fermamente che chi vi porga la medesima attenzione, non possa in fine trovarsi co' suoi pensieri molto lontano dai nostri. Pertanto desideriamo che il lettore, solo dopo avere perlustrato tutti i documenti, si dia la briga di leggere le nostre Considerazioni. E così non le abbiamo prefisse come introduzione o prefazione al volume, prendendo quasi in anticipato pegno la coscienza del lettore; ma le abbiamo relegate in fine.

Altri dirà tuttavia che scegliendo di questo modo documenti e citazioni si potrebbero fare con altro intento altre raccolte, le quali riescirebbero ad altro significato. Ebbene: noi invitiamo l'osservatore a far ciò che dice: a raccogliere ciò che noi avessimo intralasciato: a compiere ciò che avessimo mutilato: a raddrizzare ciò che avessimo alterato: a mettere in iscritto ciò che dalla sua fatica verrebbe a risultare in opposto alla nostra. E qualora il suo libro contenesse tante cose importanti, inedite o poco note, quante ne contiene il nostro, noi ci offriamo a espiare il nostro errore pubblicando in seguito al nostro volume il suo, affinchè possa il disinganno giungere ovunque sarà giunto l'errore.

Noi offriamo ai nostri cittadini quanto con private forze ci venne fatto di adunare. E ora sfidiamo i nostri avversari a osar di fare dal canto loro altrettanto, e aprire agli scrittori i copiosi loro archivi. Li sfidiamo anche solo a desistere dalle codarde persecuzioni di cui fecero segno quei buoni cittadini, che, somministrando carte inedite alla nostra raccolta, intesero di rendere alla nazione ciò che alla nazione appartiene. E siccome non temiamo le loro opere, anzi ne facciamo gran caso, e le citiamo a generosi sorsi, così li invitiamo ad avere lo stesso coraggio, e non sottrarsi con arti inquisitorie al pubblico paragone.

18 settembre 1850.


II

Dopo il febraio del 1848, l'esercito austriaco in Italia aveva ricevuto l'incremento d'una batteria, due squadroni e dieci battaglioni; dei quali un solo italiano.

V'erano dunque allora in Italia 45 grossi battaglioni tutti stranieri al Lombardo-Veneto, 38 dei quali interamente tedeschi, slavi e, magiari, con cinque grossi reggimenti di cavalleria delle medesime nazioni. Oltre alle artiglierie stanziali, v'erano 19 batterie da campo, tutte in mani tedesche e slave. Erano forestieri lo stato-maggiore, le amministrazioni, il genio, il treno, i pontonieri e tutte le altre armi accessorie. Erano codeste forze, animate tutte allora da inveterato odio al nostro nome, eccetto tre battaglioni del Tirolo e quattro dell'Illirio, in parte italiani. I 45 battaglioni erano completi; in generale contavano poco meno di 1200 uomini, alcuni anche di più; solo i tirolesi 900; potevano contare in tutto 52 mila uomini: la cavalleria 5700: l'artiglieria 3000; comprese le altre armi, il complesso di tutti quei soldati stranieri al nostro regno potevasi stimare a più di sessantamila. Nessun'altra potenza erasi vista imporre, a uno Stato di sì poca ampiezza, tanta mole straniera.

Oltreciò, dei battaglioni lombardo-veneti erano in patria non meno di 22, con officiali la più parte d'altra lingua. V'erano ancora i cannonieri marini: il battaglione di marina: un reggimento di gendarmi: un battaglione di polizia, in qualche parte straniero, e tutto nemico. Davano mano alla custodia dei confini e delle città, oltre ai gabellieri, alcune migliaia di guardie militari di finanza: la sola provincia di Como ne aveva 900. E intrecciate ai presidii austriaci sulla destra del Po, aiutavano a reprimere il popolo le milizie ducali di Modena e quelle di Parma, già in recenti tumulti messe a prova di sangue. Tutti questi italiani potevano valutarsi a più di quarantamila; e sinchè stavano ferme le armi straniere, erano necessitati da disciplina, interesse e timore a eguale obbedienza.

Fatto ogni computo, v'erano il 18 marzo ai cenni di Radetzky in Italia, tra stranieri e italiani, più di centomila soldati. Ed egli, colla consueta ostentazione, lo scriveva quella sera medesima ai municipali di Milano: «Avendo a mia disposizione un esercito agguerrito di 100 mila uomini e 200 pezzi di cannone». Possedeva codesto esercito le tre grandi piazze d'armi di Mantova, Verona e Venezia, intorno alla quale solamente si numeravano 72 punti muniti d'artiglierie e di navi. Possedeva, a destra del Po, i forti di Comacchio, Ferrara, Brescello e Piacenza; a sinistra, Pizzighettone, Anfo, Peschiera, Legnago, Càorle, Osopo e Palmanova; e inoltre i castelli, atti pure contro il popolo a qualche difesa, di Milano, Pavia, Bergamo, Brescia, Reggio, Modena, Rubiera e altri assai.

L'esercito non era assopito e illuso da pensieri di pace, ma sospettoso, vigile, tracotante: acceso dalle declamazioni dei generali, che solo dal sangue speravano onnipotenza e tesori: acceso dall'ira palese dei popoli, che ardevano di vendicare le sanguinose soverchierie di Milano, di Parma, di Padova, di Pavia.

Tutto questo formidabile apparato si vide, entro un centinaio d'ore, conquiso come in pugna campale. Che anzi, delle fortezze medesime, rimasero intatte solo Peschiera, Legnago e Ferrara; la custodia di Mantova e di Verona si ebbe a dividere con guardie civiche e con soldati ribelli; Venezia, Palmanova e le altre, nonchè le artiglierie, le polveriere, le armerie, gli arsenali e le navi, furono perdute. Al termine di cinque giorni, rimase di quei centomila schiavi armati, all'obbedienza dell'Austria, poco più d'un terzo. E questo era strappato dalle sue sedi: disperso, senza tende e senza viveri, sopra trecento miglia di strade guaste e interrotte: senza avvisi, e in parte, senza comando: trascinando seco feriti e donne; contaminato e funestato di rapine e di crudeltà; non osando più riposarsi nelle case, ma di fuori, nel fango e tra i fossati, fracido dalla pioggia le vestimenta e i calzari, rotto dalla fame, dalle veglie, dal freddo, dalle ferite, dai notturni terrori: avvilito dalla repentina impotenza de' suoi generali e del suo sovrano, e dall'improviso e quasi superstizioso terrore del popolo, che lo incalzava col suono delle campane e col nome di Dio. Pareva in quei giorni che, per esser uomo e poter combattere, fosse quasi necessario ripudiar l'abito e le ordinanze di soldato. Dopo le antiche sconfitte delle armi persiane, e la fuga di Barbarossa, non s'era mai forse mostrata così nuda al mondo la vanità della forza brutale.

È vero che la vittoria del popolo non ebbe durevoli effetti; ma ciò non toglie che sia stata una vittoria, ciò non toglie che sia un fatto. E la forza che lo produsse, la forza che conquassò in poche ore quella faticosa compagine d'uomini e d'armi, fu cosa vera e viva. Ed è prezzo dell'opera esplorarla e descriverla; e chiarire d'onde fosse venuta: e congetturare se debba credersi interamente sfogata e spenta come le forze sotterranee che progettarono i basalti e le trachiti: o se giaccia inesausta nei recessi delle anime, donde a tempo e luogo prorompere a nuove evoluzioni. Per poco che si consideri, questo è fuori d'ogni dubio, che le forze belliche del nostro popolo non vennero, nemmeno in quei prodigiosi giorni, attuate se non nella minor loro parte. È certo anzi, che vennero raffrenate da quelle medesime influenze che parevano fomentarle. Quella successione d'eventi fu diversa nel suo complesso anche da ciò che parve a coloro stessi che vi ebbero maggior mano, i quali, assorti da quanto compievasi intorno a loro, non seppero ciò che a breve distanza accadeva.

Si è narrato nell'altro volume, come in Milano i più autorevoli sommovitori mirassero quasi solo a far dimostrazioni. Agitavano Milano, per agitare col pericolo e collo strazio di Milano la Liguria e il Piemonte, onde col fremito popolare suscitar le ambizioni ad un tempo e i timori del re, volendo essi trascinarlo a regnare in Milano e stabilire, a loro potenza e gloria, una corte in Milano, poco importa se di voglia sua e de' suoi, o di necessità. Ma l'agitazione, che in mano a siffatti uomini sarebbe stata teatrale e vana, divenne verace e potente per opera di Radetzky. Il quale, colla nuova arroganza da lui permessa all'esercito, e colle sanguinose provocazioni, aveva esaltato nei popoli il senso della nazionalità, unica forza rivoluzionaria che fosse allora in Lombardia. Solo da pochi mesi aveva cominciato il popolo a presentire tutta la santità de' suoi diritti. Il nome di Pio IX aveva congiunto in uno la coscienza del fedele e quella del cittadino, le quali una dottrina sacrilega e vile aveva da tanti anni messe a contrasto. L'amor della patria non parve più delitto al cospetto di Dio. Si videro, in quella improvisa fede, piangere di gaudio vecchi onorati, che fin dalla gioventù avevano deposto appiè delli altari i più generosi affetti, e inclinata la fronte al decreto di Dio che li aveva voluti al mondo senza diritti. Epperò nel popolo, sciolto da quelli artificiosi lacci e conciliato colla sua ragione, ribolliva il sangue di quelli antichi suoi padri, che avevano affrontato i romani e i goti e i due Federici, e spezzato le corazze francesi a Parabiago, e le alabarde svizzere alla Bicocca.

In mezzo a questi fieri sentimenti, cadde come scintilla sulla polvere la novella della fuga di Metternich e della libertà di Vienna. Ma quel riverbero di libertà non nostra parve ad alcuni più esoso della passata servitù; pensarono che potesse abbagliar gli animi: sedurli a qualche nuovo impasto d'italiano e di tedesco, il cui solo pensiero pareva un abominio. Non capirono che il sentimento nazionale era già più forte d'ogni paura o d'ogni lusinga; non pensarono qual poderoso soccorso sarebbe alla mente publica, dopo tant'anni, un raggio di libera stampa; non videro che la rimanente Italia abbisognava, se non d'anni, almeno di mesi, per ordinarsi nell'armi e nei pensieri, ed esser pronta sulla frontiera il dì supremo; non intesero che la guerra ci avrebbe infeudati immantinente a chi aveva bensì gli eserciti, ma non li aveva intesi a strumenti di libertà, e nemanco di guerra. I più precipitosi e improvidi si raccolsero a notturno consiglio; deliberarono di gettar fra il popolo, nell'indimani stesso, il segno della battaglia, certi che l'avrebbe accettata. Ma non considerarono che in siffatto caso era poi mestieri essere audaci; non perdere momento: nella notte stessa sorprendere i generali: arrestar tutti i corrieri: dar di tocco a tutte le campane: barricare i battaglioni entro le caserme, isolarli, affamarli: dare con una folla incessante d'avvisi l'allarme ad ogni provincia, affinchè, oppressi a furia di cittadini e contadini i suoi presidii, riversasse tosto la sua gioventù sulle vie militari e sulle piazze d'armi. Ora, ciò non si poteva fare, perchè nulla erasi preparato: non accordi: non armi: non denaro: sole e perpetue e gratuite dimostrazioni, e suono lontano di società secrete, delle quali il popolo nulla sapeva. Parve adunque assai, porgere occasione che la battaglia nascesse da sè. La rimisero alla dimane, a ora tarda. Volevano adunare il popolo intorno ai municipali, in cui ben sapevano non esservi alcun bellicoso elemento; pur tuttavia volevano battezzarli capi di guerra; aggiungervi anzi altra simile zavorra, e costruirne un governo autorevole; e confidavano poi di poterlo essi governare, e col bagliore di quei nomi allucinare la città, e con essa il regno e l'Italia.

L'adunanza del popolo non doveva essere armata «almeno d'armi palesi; incalzata per avventura dalla soldatesca, si sarebbe disciolta e dispersa, ma per trovarsi armata alle 5 sulla piazza del Teatro». Così dovevano i cittadini cominciar la battaglia solamente se la soldatesca era in ordine per incalzarli e disperderli, dovevano cominciarla coll'abbandono della casa municipale e colla fuga, per ricominciarla in altro luogo cento volte men popolare e meno adatto, tra il Comando militare e la Polizia, ove la soldatesca vittoriosa avrebbe loro impedito d'arrivare.

Il preside del municipio, Gabrio Casati, «fu l'ultimo al quale fu annunciato quanto doveva avvenire». Alle otto di quella stessa mattina lo s'informò officialmente, e quasi gli s'impose di recarsi al palazzo municipale. Egli scongiurava si sospendesse: si risparmiasse il sangue: il Piemonte, entro due settimane, avrebbe fatto la guerra all'Austria: promessa a lui fatta dallo stesso re.

Casati, per evitare il pericolo, si avviò, prima dell'ora a lui prefissa, verso altra ed estrema parte della città, ov'era il palazzo del governo: «al governo, per conciliare, anzichè al municipio a promulgarne il decadimento». Si tentò d'impedire quell'improvisa passeggiata; ma fu impossibile sviare la folla. Colà giunto, il Casati si trovò inanzi a O' Donnell: si guatarono atterriti. Un granatiere alla porta aveva fatto foco: un colpo di pistola nel petto l'aveva steso a terra. L'onda del popolo aveva travolta e disarmata tutta la guardia. «Mentre il sangue suggellava la rivoluzione, Casati implorava qualche concessione. O' Donnell si scusava. Infine gli astanti lo costrinsero a sottoscrivere ed avviarsi prigioniero al Broletto. E quasi prigioniero era il Casati in mezzo alla turba; la quale, acclamando la rivoluzione, univa a' suoi gridi anche il nome di colui che contro animo, pallido, esterrefatto la seguiva».

Scrive Carlo Clerici, giovane assai popolare in tutta la città: «Ci avviammo, e mi si disse da chi era stretto all'alta lega di nascondere, pel mio bene, la sciabola, il tutto potendo terminare ancora in una semplice dimostrazione. Ma un popolo non si move invano. E il nostro aveva deciso terminarla per sempre coll'Austria. Ad un prete che mi domandò se doveva far sonare le campane a martello, titubando altri, risposi di sì. E fra gli applausi, che alcuni ci facevano sin dai tetti colle tegole in mano, marciammo, sotto una pioggia di coccarde, ridenti e ardimentosi».

Giunti a mezza via tra il Governo ed il Broletto, scontrarono una pattuglia, che al veder tanta gente la salutò ad ogni buon conto con polvere e piombo. Casati e O' Donnell si rifugiarono nella vicina casa Vidiserti. Così fu stabilito dal caso il quartier generale dei cittadini. Nei decreti dettati a O' Donnell erasi attribuita al municipio la polizia; e gli si concedeva di dare le armi della guardia di polizia alla guardia cittadina. Ora che le armi erano concesse, rimaneva d'andare a torle a chi le aveva. Fu inviato a tal uopo al direttore Torresani il delegato provinciale Bellati, e nulla ottenne.

Era invasa di pattuglie tutta la città, tuonava il cannone, allorchè alle tre apparve sulle pareti un appello al popolo, per opera di quei medesimi che nella notte avevano decretato il combattimento. Invitavano i cittadini a proclamare «unanimi e pacifici, offrendo pace e fratellanza, ma non temendo la guerra», l'abolizione della polizia e delle leggi statarie, lo scioglimento dei prigionieri, la libera stampa, la guardia civica, una reggenza (erano memorie pertinaci del 1814), e infine, «la neutralità colle truppe austriache». Volevano dunque la guerra? o non la volevano? Se la volevano, perchè far inciampo alla furia del popolo con codeste menzogne di pace e di neutralità? Che se volevano veramente colla fratellanza delli oppressi soprafare gli oppressori, non bastava più rivolgersi al popolo: era mestieri appellarsi nelle loro favelle ai soldati: era mestieri sventolar subito in faccia alle attonite pattuglie i tricolori delle nazioni, o quell'unico colore che parla a tutte di libertà: gridare all'ungaro ch'egli era ungaro, al croato che i suoi figli erano in Croazia: dir loro che Metternich era fugito: che l'imperio non era più: che Radetzky non aveva più ordini, che non aveva più comando: che l'imperatore chiamava a far le leggi altra gente (ed era affisso ai canti delle vie): che ogni soldato ora tornerebbe in pace alla sua patria nel nome di Pio IX e della libertà: sommergere nel vino e nell'aquavite, nelli evviva a tutti, e nell'abbraccio ai fratelli, la coscienza militare e la paura del bastone: isolar gli officiali, o attrarli nel vortice, poichè v'erano pure in quelle file gli Aulich, i Meszaros, i Klapkanota: gettare nell'impotenza e nel disprezzo i vecchi i quali avevano decantato quelle spade invincibili che non potevano più sfoderare. Era pur grande il ridicolo di veder trionfante la rivoluzione a Vienna, a tergo di quei reggimenti che venivano a marce forzate a soffocarla in Italia. Era maggior ferita all'Austria sedurle un battaglione, che trucidarne quaranta. Ma per codesta guerra di fratellanza era mestieri che i Balbo, i Gioberti, gli Azeglio e gli altri non avessero insultato all'Europa, gridando in nostro nome guerra ai barbari, e che gli esuli, inspiratori dei secreti pensieri all'Italia, le avessero fin d'allora additato la formula fraterna dell'universale libertà.

E che faceva intanto il consiglio dei generali, adunato nella cancelleria militare presso il Castello? Se l'animo loro fosse stato di conservar fedelmente al principe il più forte de' suoi regni, avrebbero dovuto lasciare che il governo civile e i magistrati urbani ventilassero fra loro le questioni d'ordine e di polizia: incasermare i militari, o meglio, accamparli in massa: domandare i viveri al municipio: evitare ogni conflitto, o avvenuto dissimularlo: non combattere se non per necessità, e da uomini onorati e umani: bellum iustum, pium. Poichè avevano gettato ai popoli tante minacce e tante sfide, qualcuno poteva spendere infine una parola di pace. Che se a questo passo ripugnava la superbia militare, dovevano farne interprete il governo civile, o quelle stesse congregazioni centrali che il sovrano allora aveva promesso di chiamare a consiglio.

Nulla di tutto ciò. L'interesse dello stato non era quello dei marescialli avidi d'oro e d'arbitrio. Passò tutto quel giorno, senza che una parola onesta uscisse ad ammansar le ire che fremevano in tutti i cuori. Le novelle di Vienna furono gettate villanamente ai popoli, aride e nude quali il telegrafo le aveva sillabate. - «La presidenza dell'imperiale regio governo si fa un dovere di portare a publica notizia il contenuto d'un dispaccio telegrafico, in data di Vienna 15 corrente». - Le congregazioni centrali dovevano adunarsi pel 3 luglio. Perchè non prima? Perchè non subito? A un popolo, da tant'anni deluso in ogni suo voto, quell'appuntamento, dato il 15 marzo pel 3 di luglio, parve una derisione. Parve l'ultima goccia dell'odioso calice.

Le novelle di Vienna tornavano più contrarie ai governanti militari che ai civili. A questi presagivano solo nuovi riti amministrativi: più di ciance e meno d'inchiostro: e a chi di loro avesse ingegno promettevano più onorata fortuna. Ma ai marescialli, che si erano giurati alli insegnamenti russi e li avevano già ripetuti nel sangue, l'èra parlamentare dissipava quelle crudeli speranze. Per poco che l'Austria dovesse cedere alla necessità de' tempi, essa doveva richiamar tosto dall'Italia coloro che l'avevano tratta a quelle opere di sangue, dalle quali ella aveva sempre saputo astenersi. E ciò era anche necessità di finanze, poichè Radetzky dilatava ogni giorno la voragine; e avendo già 80 mila soldati da pascere, ne domandava almeno altri 70 mila. «L'esercito attivo in Italia non dovrà essere minore di 150 mila uomini». «Già da anni il maresciallo domandava 150 mila uomini, come forza assolutamente necessaria». Dimandava inoltre di cinger Milano di sedici fortezze, che il generale Hess voleva «con moltissime feritoie rivolte verso il Duomo». Ma, come scrive il general Willisen, «Vienna si ritraeva per economia». Epperò i militari fremevano contro i governanti civili; e Hess li appellava «miserabili faiseurs». Ora, non potendo aver altre armi per sè, Radetzky aveva dimandato licenza di disarmare i popoli. Il che mostra come la dimanda ch'ei faceva di nuovi soldati non fosse solo, come altri scrisse, «nell'ambizioso generale la smania di vedersi capo d'un esercito più numeroso». Doveva piuttosto essere sagace estimazione della natura dei popoli, ciò ch'è il contrario di quanto ne sentenziò l'arrogante scrittore di Custoza. Il disarmo in quei momenti era sembrato al governatore Spaur pericoloso, e quasi impossibile; epperò i generali l'avevano fatto richiamare a Vienna, ove l'avevano falsamente fatto credere odiato dai popoli. Tuttavia il governo esitava ancora, consigliato a ciò da quelli che lo avevano servito con buon esito in altri tempi e con altra politica.

E gli eventi di Vienna diedero autorità ai consigli civili. Laonde Radetzky scrisse dal Castello la notte del 18 marzo: «Si credeva che le notizie telegrafiche avrebbero calmato il popolo milanese; e il signor governatore conte O' Donnell m'indirizzò richiesta (Ansuchen) ch'io non ponessi in moto le forze militari, se non nel caso che venissi a ciò dall'autorità civile addimandato (aufgefordert)». E perciò fu costretto il maresciallo, in quella stessa mattina del 18, a dare ai soldati quell'ordine del giorno che parve strano, ingiungendo loro che stessero testimoni tranquilli delle dimostrazioni del popolo; ordine che non proveniva già da «cecità» del generale, essendo la sua cecità di contraria natura; ma da dura forza che lo legava ai voleri dell'autorità civile, e da nuova responsabilità verso gli ignoti governanti di Vienna. E questa disdetta era per Radetzky un primo passo sul pendio del discredito e della destituzione, se i capi del moto nazionale avessero avuto mente da intendere ciò ch'era a fare. Infine, a chi voleva combattere non era mai superfluo pigliarsi il tempo necessario per armarsi e ordinarsi, dacchè fra tante vane agitazioni non vi si era menomamente pensato. E a ciò mirava il programma del giornale il Cisalpino, scritto nella notte del 17, e compendiato in quella formula: «guai alli inermi!».

Appena giunse ai generali l'avviso che il popolo verso mezzodì tumultuava intorno al palazzo di governo, essi cominciarono a tendere le reti sulla città, e scatenare contro i cittadini la soldatesca. Si depose da un testimonio: «Alle ore dodici e mezzo circa, le truppe austriache cominciavano a disporsi sulla Piazza Castello, in drappelli separati; ma niuno sospettava quale fosse il loro divisamento. Ad un'ora e mezzo circa, la Piazza Castello non prometteva niente di sinistro; quand'ecco uscendo tre carrozze, e attraversando la piazza per recarsi al Dazio, staccarsi un drappello di ussari; si presenta alla portiera, scaricandovi diversi colpi di carabina; nè contento di questo, adopera la sciabola». E ciò non avveniva solo sotto le batterie del Castello, ma in tutte le vie della città, ove le pattuglie erranti erano inviate ad accattar briga. Si cacciarono perfino sui tetti delle chiese a far piovere fucilate entro le pacifiche case. Si depose da un altro cittadino: «Alle ore una e mezzo circa, si presentano i cacciatori (tirolesi), e col mezzo dei loro zappatori, a colpi di scure sfondarono il portello dell'Arcivescovato. In seguito atterrarono la porta che mette alla via sotterranea; e di porta in porta, tutte sforzandole, entrarono in Duomo; e di là salirono sullo spianato superiore». Un altro cittadino, il quale abitava tra la caserma di S. Francesco e la casa di Radetzky, anzi nell'isola medesima con questa: «Alle tre circa, due palle ruppero i vetri della mia stanza; vidi granatieri ungaresi, difilati lungo la parete opposta, collo schioppo appuntato alla guancia; repentissimi, frequenti colpi di scure alla porta: grida feroci: un alto lamento nell'interno delle case; gli abitatori innocenti, disarmati, ravvolti fra donne e figli correnti, lacrimanti, stridenti: non altro scampo che attraverso ai tetti: i granatieri sul tetto dietro le nostre pedate. - Corsero ai piani d'abitazione: con baionette e spade forarono i ritratti: sfondarono armadi, ponendo mano a denari, orologi, argenterie. - Nei seguenti giorni, nascosti dietro le griglie dell'appartamento di Radetzky, giorno e notte facevano foco su chiunque passasse per la via, fosse donna, vecchio o fanciullo».

Scrissero i prezzolati austriaci, che il maresciallo fece tosto udire il cannone d'allarme. Ma quando si udì il cannone, la città era già da più d'un'ora in preda alla rapina e all'uccisione. «Già cominciava a tuonare il cannone; erano le tre, quando s'udiva il primo colpo, seguito a brevi intervalli da altri due; ciò che volessero dire quei colpi e dove fossero diretti noi ignoravamo». Chi aveva ammonito il popolo del significato di quei segnali? Ha forse diverso rimbombo il cannone d'allarme dal cannone a mitraglia? A Brescia, il principe Carlo Schwarzenberg, a cui premeva di tener quel popolo tranquillo e inoperoso, lo invitò in persona propria alla pace e alla reciproca indulgenza; e fece inoltre publicare dal municipio che il «movimento ostile delle truppe sarebbe prima prudenzialmente annunciato dal castello con tre spari di cannone, caricati a sola polvere, acciò ognuno potesse ripararsi alle proprie case». Ma altro conveniva fare in Brescia, altro in Milano: bisognava punire le turbolenti città ad una ad una! - Se udiamo gli austriaci, ogni passo dell'esercito fu impetuosa vittoria; la brigata Wohlgemuth, di tirolesi, boemi, moravi, ogulini e artiglieri, espugnò d'assalto tutte le barricate al palazzo di governo. Ma il fatto è che nei cento passi d'intervallo tra i bastioni e il palazzo v'era una barricata sola, e non difesa, perchè il popolo era già partito con O' Donnell, e i soldati v'arrivarono anche dalla parte opposta. «In poco più di mezz'ora furono allestite cinque barricate; una, cioè, verso i bastioni, una subito dopo il palazzo verso il ponte, una al ponte e due nella contrada della Passione; a costruire le quali si adoperarono le carrozze, carrette e tavole trovate nel palazzo». «Intanto che mi ristoravo, comparve truppa al palazzo e al ponte: io diedi un occhio ai giardini per cavarmela; erano già pieni di soldati: avanzava un picchetto con un officiale; passò per le barricate lentissimo e disordinato; non sapeva atterrarle nè saltarle; pochi uomini che fossero rimasti a difenderle potevano ricacciarli tutti; andavano i soldati a tre, a quattro, tementi, incerti; ad ogni momento battevano a raccolta». Al dir di Radetzky e de' suoi, anche la brigata Rath penetrò vittoriosa, sforzando tutte le barricate, «fino al centro della città, a lato al Duomo». Ma sul Duomo, a un'ora e mezzo, erano già pervenuti «per l'Arcivescovato e la via sotterranea» i tirolesi, rompendo le interne porte, e non prendendo d'assalto le barricate. E si erano nascosti a bersagliare i cittadini anco in una buca dietro il Duomo. «Appena passata la cavalleria, vedemmo i tirolesi uscire dallo sportello dell'Arcivescovato, e andare a mettersi nella buca, ove si demoliscono le fondamenta di quella casa, alla quale avevano posto il nome Casa d'Austria, per essere isolata e cadente; e di là tiravano su di noi». A quell'ora, e più tardi ancora, cavalcavano intorno al Duomo ussari e gendarmi; e se qua e là frapponevasi qualche inciampo di banchi e di tavole, codeste barricate erano tali ancora che gli ussari potevano sbizzarrirsi a saltarle, e i cittadini sbizzarrirsi a colpir gli ussari al volo. Che anzi, quando la strage era già cominciata, le carrozze s'aggiravano ancora per città; la quale non era dunque ancor barricata. Un soldato del Geppert, vide in Castello «un carrozzino aperto senza cavalli, e dentro una signora morta e un signore che tratto tratto dava ancora qualche sospiro; avevano ambedue la faccia tutta spaccata dalle sciabolate per dritto e per traverso, che sarebbe stato impossibile di riconoscerli». Chi segue il racconto d'una compagnia d'operai, la quale si aggirò per la città fino a sera, può farsi un concetto del modo con che le barricate si andavano qua e là con mano inesperta tentando. In nessun luogo vi era densa adunanza di popolo; la chiamata al palazzo municipale erasi dispersa in una lontana processione, la quale nel ritorno aveva smarrito i suoi capi. La grande occasione, d'operare di primo impeto e con poderosa mole, era trascorsa senza frutto; tutti i varchi erano aperti al nemico sino al cuore della città; i capi non avevano nemmen pensato a dar l'avviso di barricare almeno quanti più si poteva dei quindici ponti del Naviglio interno; chiusi i quali, i cittadini avrebbero avuto a far fronte solo tra ponente e settentrione. Non si pensò nemmanco a chiamare alle armi il quartiere ove il popolo abita più numeroso e solo. «Al dopopranzo, invano alcuni pochi giovani in Porta Ticinese tentarono di far le barricate: nessuno voleva credere che nelle altre parti della città fosse scoppiata la rivoluzione; epperò, nel timore d'ingannarsi, i più tentavano d'attraversare le ardenti disposizioni d'alcuni».

Altri stupirà che invece di raccogliere qua e là gli elementi di pomposa narrazione, noi sembriamo quasi ridurre a minor momento i fatti di quel giorno. Ma giace tra le macerie qui accumulate una verità che importa ad ogni modo dissepellire; e si è, che il grande edificio militare, la cui caduta siamo per descrivere, non venne scosso dal popolo con tutto il nervo del suo braccio. E nessuno vorrà dire che non sia prezzo dell'opera trarre in luce una tal verità.

Mentre di tal modo i generali provocavano a ineguale battaglia il popolo, essi pensavano ad assicurarsi la vendetta, attorniandolo d'ogni parte, occupando con fanti e cavalli e cannoni tutto il circuito delle mura. Per l'ampiezza del giro, 12 chilometri, l'operazione richiedeva qualche ora. Il tempo era piovoso; scendeva la notte; Radetzky uscì finalmente dal suo ricetto per ripararsi nel vicino Castello. «Alle cinque e mezzo, esce dal Castello mezzo battaglione di granatieri con due cannoni e dodici cannonieri; e appena ha fatto il risvolto della contrada S. Marcellino, si sente una scarica generale di fucili, indi venti e più colpi di cannone. Rispondono dalle finestre gli abitanti con vigoroso foco di fucilate. Fatta notte, si ritirano i detti granatieri e cannonieri entro il Castello, essendo stato loro scopo di sgombrare le case vicine alla casa Cagnola, ov'era il maresciallo. Diversi feriti e morti vengono portati nel Castello con barelle e lettighe».

Non era ancora messo in salvo il maresciallo, che già incominciavano gli alti fatti della giustizia militare. «Sul far della sera, una pattuglia di croati conduceva in Castello un giovane: e siccome si opponeva resistendo coi pugni, lo strangolarono; e lo appiccarono sopra una lampada: i generali ed officiali ridevano». E un antico officiale austriaco confessa che qualora si trattasse di violenze e rapine: «chi per rendersi più beneviso alla truppa, chi per sfogare il suo odio e dispetto contro la canaglia latina, faceva mostra di non vedere, quando non incoraggiava». Ed era a sì basso fine ch'erasi instillato alla soldatesca il sospetto che ogni cibo che provenisse dai cittadini fosse avvelenato; e affettavasi perciò di far pregustare a' fornai il pane che si toglieva pei soldati; e già da molti mesi prima eransi fatti incatenare in varie caserme i manubri delle trombe dell'aqua, come se fosse avvelenata.

Ma il sommo atto della militare vendetta doveva cadere sulli agitatori del popolo, che il maresciallo imaginava già costituiti in governo provisorio nel palazzo municipale; anzi imaginò e scrisse quel dì d'aver visto i loro proclami: «Allora mi furono spediti proclami di un governo provisorio, la cui sede era stabilita nel palazzo municipale». Benchè il Broletto fosse nell'isola attigua alla Cancelleria Militare, e lontano di là nemmeno duecento passi, narrano gli scrittori austriaci, che: «le truppe del general Wohlgemuth consumarono quattro ore a sgombrar le vie: assaltarono il palazzo alcune compagnie del Baumgartten, del Reisinger e delli Ogulini; indarno si sforzarono i zappatori di quei reggimenti d'abbattere le porte; ed erano quasi tutti morti o feriti, quando i pochi superstiti, aprendo una bottega di rimpetto, v'introdussero un pezzo da 12, i cui colpi sfondarono il portone».

Come avvenne che i municipali, all'avvicinarsi del nemico da ambo le parti del palazzo, non pensassero a chiamare il popolo, o ad assicurarsi almeno una ritirata? Per tenerli a bada, sicchè non si sottraessero, Radetzky aveva simulato di tenersi secoloro in officiale carteggio. Stavano essi aspettando che, in virtù della firma di O' Donnell, la polizia cedesse le armi della sua guardia, intendendo cominciare con quelle l'armamento della civica; e frattanto il popolo ne aveva tolte quante ve ne aveva nella vicina bottega del Sassi, e le aveva portate in palazzo. «Impiegati continuavano a far la lista della guardia civica, quando un assessore venne a portar notizia ch'erano traditi: poco dopo giunse la seguente lettera di Radetzky datata dal Castello; la fece accompagnare da mezza divisione di granatieri». Nella lettera si leggeva: «Intimo a codesta congregazione municipale di dare immediatamente gli ordini pel disarmamento dei cittadini; altrimenti dimani mi troverò nella necessità di far bombardare la città. Mi riservo poi di far uso del saccheggio e di tutti gli altri mezzi che stanno in mio potere. Aspetto al momento un riscontro».

La condizione del municipio era iniqua. Di qual forza doveva egli valersi per togliere le armi ai cittadini? Come potevano gli avvisi esser letti nelle tenebre della notte? Come si poteva annunciarli a suon di tromba nella vasta città, quando ad ogni passo v'erano soldati che ferivano quanti incontrassero, «fosse donna, vecchio, o fanciullo»? Il preside del municipio erasi dovuto fermare a mezza via. E lo stesso maresciallo, poche ore dopo, scriveva a Ficquelmont: «Pur troppo l'efficacia della polizia è affatto elisa, è assolutamente impossibile far conoscere i proclami da me diretti al popolo». Quali fossero codesti suoi proclami non sappiamo; poichè nessuno li vide; e non crediamo che siano stati mai scritti: ma Radetzky nella sua lettera alla municipalità non l'accusò d'essersi costituita in governo provisorio; la considerò come autorità legitima e consueta. Con qual titolo dunque ei la faceva in quel momento medesimo assalire a tradimento nel palazzo? Essa era al suo posto.

Non bastava ch'egli scrivesse in quella sera a Ficquelmont: «Milano è dichiarata in istato d'assedio». Dichiarata? Quando? Con qual atto? e da chi? Fatti di così tremenda natura, che annientano d'un colpo tutti i diritti delle leggi e dell'umanità, devono esser publici e non occulti; devono annunciarsi alla luce del sole, e non di notte, nel nascondiglio d'una caserma. «Il nemico s'avvicinava: ecco giungere a fretta vari del popolo che avvertivano invaso il vicino Ponte Vetro: nel cortile del palazzo sopragiungeva portato a braccia un ferito: il popolo l'aveva levato dal luogo del conflitto e lo portava a morire tra' suoi».

Intanto il municipio rispondeva a Radetzky: «Lo pregava cessasse il foco, perchè, durante la notte, l'autorità potesse indurre nelli animi colla persuasione la tranquillità; prometteva avrebbe adoperato ogni via. Pregava di pronta risposta: la congregazione sarebbe rimasta in permanenza sino al mattino, ad attendere le sue partecipazioni. Un capitano di pompieri fu incaricato di trasmettere il foglio a Radetzky». Ad un tratto il Broletto si trovò investito; entrò a furia uno stuolo di granatieri ungaresi. Furono tosto loro incontro pochi giovani, armati di fucili da caccia e di qualche vecchia alabarda; e i granatieri furono costretti a dare indietro. «Molti non sapevano spiegarsi il perchè Radetzky, in cambio di rispondere alla lettera, mandasse que' suoi granatieri; i più animosi fecero sentire che coloro i quali volessero andarsene, approfittassero di quelli istanti».

Pochi erano quelli che là erano, ma deliberati: non più che cinquanta fucili; poca polvere; i soldati erano già padroni delle case vicine; sfondarono due botteghe, vi fecero entrare a coperto due cannoni. Pareva che l'edificio ruinasse dalle fondamenta; una breccia venne aperta. «Il Broletto sonava la sua campana a stormo: inutilmente: era impossibile al popolo, per quella via angusta, affollata di nemici, avvicinarsi al luogo del combattimento. Le munizioni mancavano; ci aiutavamo colle tegole. A caso ivi trovavasi il generale Teodoro Lechi; proponeva una capitolazione: nessuno accettò. La resistenza tornava inutile; ma la capitolazione pareva troppa vergogna; prevalse l'opinione dei più, quella di restare immobili. Entrava furiosamente la truppa; erano incirca due mila fra boemi e croati; avevano modi feroci; percotevano gli inermi. I più dei nostri s'erano rifugiati nell'appartamento del delegato regio, che venne pure invaso e sfrenatamente saccheggiato. A frenare quelle turbe indisciplinate non valeva la presenza d'un maggiore de' croati Ottochan; nè meglio valeva la presenza del delegato; nè quella di sua moglie circondata dai figliuoletti. Il maggiore dichiarava tutti prigionieri di guerra; domandava l'immediata consegna delle armi; e non è a dirsi la sua meraviglia, allorchè vide colli occhi suoi tutte le armi trovate non oltrepassare il numero di quaranta fucili». Radetzky nel suo rapporto a Ficquelmont tosto li moltiplicò in «un rilevante deposito d'armi» (ein bedeutendes Waffendépot).

Andati sui tetti, e trovati quivi alcuni ragazzi, i soldati li precipitarono nella via; li usci cadevano sfondati sotto le scuri. Uno dei nostri, nelle strette della morte, dava qualche gemito: lo ferirono di baionetta. I prigionieri furono condutti in Castello, in fila, a due a due, preceduti e seguiti da cannoni e fra triplici file di soldati. Si minacciava loro la forca; i feriti che mal potevano camminare erano mandati inanzi, a calciate di fucili, o a pugni sul volto. Il Broletto rimase occupato dai croati. «Non è a dirsi qual mostra facessero di sè quei ceffi bruni, lordi di sangue, ebri di vino e di furore».

L'istitutore Antonio Boselli non aveva voluto lasciarsi chiudere entro il palazzo: uscì coraggioso sulla via; ferito di baionetta, cercò riparo dietro una barricata; e poco stante due colpi di moschetto gli aprirono altre ferite: pure ebbe animo e lena di strascinarsi a casa: spirò con accanto la moglie e le due bambine.

Tale fu la prima vittoria. Due ore di combattimento di duemila contro cinquanta. Nondimeno Radetzky affettò di credere già conquiso il popolo: «reciso il nervo capitale della rivolta» (den Hauptnerf der Revolte). E immantinente ne spediva pomposo nuncio a Vienna il capitano di stato-maggiore conte e ciambellano Huyn. E alle liete novelle, il giovine arciduca Ranieri scrisse, poche ore dopo, da Verona, ad altro dei figli del vicerè: «Ora è cosa fatta; la conservazione della città di Milano alla monarchia si deve solo al senno del maresciallo e al valore delle truppe. Il capitano Huyn passò di qui andando corriere a Vienna. Nel partire, alle 11 della sera, vide tutto lo spettacolo fatto in città. Al Broletto i cannoni da 12 devono aver fatto buchi magnifici. Il maresciallo lo spedì, quando, certo della vittoria, faceva far cucina ai soldati sulle piazze. Huyn disse esser morti circa 40 soldati, e molti feriti. Tutti i prigionieri, non escluso Casati e il duca Litta, che si dicono pure del numero, si dovevano fucilare. La legge marziale fu già spedita, ieri, a Milano con un officiale e due bersaglieri borodiani; ed oggi (20 marzo), alle due, può essere già pubblicata e messa in opera. Questo è ben ora l'unico mezzo; purchè solamente ne vengano ammazzati parecchi».

Così non fu. Il giorno 20, alle due, il vittorioso maresciallo aveva già implorato dai cittadini un armistizio, per bocca di quello stesso maggiore delli Ottochan che gli aveva condutto i prigionieri da inviare al supplicio.

Il giorno 20, il tenente colonnello d'artiglieria Carlo Kugler, dello stato-maggiore dell'artiglieria stanziale nel Distretto Veneto (Garnisons-Artillerie-District), venne arrestato dal popolo d'Inzago. È superfluo il dire ch'ebbe salva la vita, benchè a scemarsi d'importanza si fosse mentito semplice tenente di fanteria. Non passò un mese che il colonnello Tomaso Zobel fece uccidere nelle fosse di Trento il giovane Blondel e altri sedici giovani, presi sul campo. Stanno ancora scritti nel sangue i nomi di Ludovico Batthyany, d'Ugo Bassi e d'altri e d'altri. Così è: il nostro popolo serbò nella vittoria l'avita sua natura: parcere subiectis. In Germania, sin dai tempi d'Arminio, la vittoria s'intese in altro modo: supplicia captivis (Tacito, Ann., I).

La vera vittoria del maresciallo era contro il governo civile; era quella d'aver colto il destro di fondare in Italia la sua militare onnipotenza. Accesa la guerra, qual ministerio l'avrebbe potuto richiamare dal suo comando? Ma quanto alla vittoria contro il popolo, pur troppo egli stesso ne dubitava, quando alle due dopo mezzanotte dettava queste parole: «Non posso peranco indicare la mia perdita in morti e feriti; ma non può essere stata lieve. Per il momento si ha quiete; ma può darsi che al levar del sole incominci il conflitto. Io sono deliberato di restare, a qualunque costo, padrone di Milano. Se non si desiste dalla pugna, bombarderò la città».

Se il maresciallo aveva voluto appiccar battaglia, il popolo l'aveva accettata. Già prima di sera, numerose pattuglie dovettero ceder le strade ai cittadini, e ridursi a far foco dalle finestre delli edifici. Quella che incontrò la comitiva di Casati, abbandonò due moribondi; una fu respinta da tre fucili; un'altra, da quindici. Il generale Rath si fece strada fino al Duomo, prima «con dolci parole», poi camminando più che di passo, «e perdendo fucili e berretti». Ussari e Reisinger furono cacciati da Camposanto; i granatieri, dall'atrio della Scala; i croati, dal ponte di Porta Romana. A sera, il lavoro delle barricate era immenso; dovunque si udiva un picchio di sassi e di ferri. Ma fra i vari rioni era interrotto il passo. La sventura del municipio rimase ignota in casa Vidiserti; nessuno recava novelle a capi che non sapeva ove fossero, o chi fossero, o se vi fossero. «I più ardenti», confessa uno di loro, «invece di rannodarsi, di recarsi serrati in mezzo del popolo, si dispersero a dar minuti provedimenti». Uno spirò sotto le prime fucilate; altri era fuori di città; altri alle barricate; altri, per commozione delirava. Ma rimase la fatale preoccupazione che i combattenti dovessero attinger valore e consiglio nella mansueta congrega del municipio. E anco il municipio era prigione o disperso.

Ov'erano quelle arcane società intorno al numero, alla potenza, alla onnipresenza delle quali avevano tanto per tant'anni favoleggiato le emigrazioni e le polizie? D'onde attendevano ancora l'iniziativa? Un giovine «che non aveva appartenuto a società secrete, nè alla nobile consorteria delle dimostrazioni», Enrico Cernuschi, era uscito senza progetti, ma era corso a mettersi accanto a Casati e compagni: «combattere i tedeschi», egli scrive, «era il pensiero generale; vegliare, spingere i nobili era il mio, dappoichè si era voluto, ad ogni costo, metterli in cima». Già fin dal mattino aveva presagito che la processione finirebbe nel sangue; e ancora in Broletto, aveva tratto fuori una sciabola, gridando guerra; ma Borromeo l'aveva rattenuto. Era tra quelli che avevano dettato i decreti a O' Donnell, che lo avevano scortato, che ora lo vegliavano in casa Vidiserti; era con lui l'amico suo Luciano Manara, e ordinava i 63 armati che quivi erano. Cattaneo li sollecitava a non attendere il nemico in quel posto, fra due strade, a pochi passi dall'ultima barricata; era infatti come il Broletto. Rispondevano che avrebbero venduto cara la vita; ma egli replicava che non importava perdere e morire, ma vincere e vivere. Alcuni temevano che, la traslocazione fosse un raggiro per toglier loro Casati e O' Donnell. Era già presso il mattino, quando Cernuschi li trasse in una delle case dei Taverna, nella angusta via de' Bigli, in isola più vasta, ove potè ordinar tosto più linee di difesa, e uscite varie e sicure. Si deliberò di farne certo qual secreto; volevasi anzi tutto sottrarre il capo al ferro del nemico. Nei monumenti greci vedonsi spesso figure di combattenti nudi, ma coll'elmo in capo. All'alba era fatto; si diede il tocco alle campane e il grido d'allarme.

Quale era stato, in quel primo dì, l'aspetto delle altre provincie? Alle gravi novelle di Vienna, Venezia liberò a forza Manin e Tomaseo; in Brescia, tra il fremito del popolo, fu ucciso, gridando viva l'Italia, uno di quei granatieri italiani che il sospetto di Radetzky aveva allontanati da Milano. Ma nessuna stilla di sangue in alcun'altra città. Trieste fu paga di vituperare l'imagine di Metternich; Vicenza dimandava la civica; Verona accoglieva il vicerè col grido, viva la costituzione, morte ai tedeschi; i Mantovani facevano festa in chiesa e in teatro; stringevano la mano alli officiali. Le novelle di Milano non giunsero oltre Varese, Como e Bergamo; nella notte giunsero a Cremona, portate dal caso, coi viaggiatori. Scrive Carlo Clerici: «Mi restò fisso in mente che Cernuschi propose spedire dovunque nostri incaricati che facessero le nostre parti anche all'estero; il che bisognava far subito, prima che la città fosse circondata dalle truppe». Nessuno fra tanti facultosi ebbe mente e cuore d'immolare un cavallo o un pugno di scudi, per lanciare un rapido appello alle altre città. Arese partì, ma per Torino, ov'era già una colonia di sollecitatori. In quel giorno 18, il re aveva finalmente perdonato a quelli che gli avevano offerto la corona d'Italia; ma il nuovo ministerio di Cesare Balbo, ricusò ai lomellini la licenza di armarsi; privilegiò in Torino 500 guardie civiche, per difendere dalla gioventù i ricoveri dei gesuiti. Arese ebbe una ripulsa: non l'avrebbe avuta, s'egli o altri si fosse rivolto a Brescia, inviando di là messi e stampe a Verona, a Mantova, a Bologna, gettando ovunque la scintilla che i popoli aspettavano bramosamente, sorprendendo, senz'ordini e senza consiglio, fra lo stupore delle repentine novelle, i comandanti militari e civili. A Varese, copia dei decreti di O' Donnell venne affissa quella sera in teatro, ov'erano forse trenta officiali; ebbero agio d'uscire, e recarne avviso al colonnello, ch'erasi già coricato; e tosto fece svegliare all'armi tutto il battaglione. Bergamo inviò staffette, ma solo nella sua provincia. Como non potè operare quel giorno, e dispose cautamente di preoccupare pel mattino i campanili, i forni militari e la polveriera. Fu questa dunque una levata d'armi quale poteva attendersi dopo tante dimostrazioni?

Raccogliamo in breve il concetto istorico di quel giorno memorabile. Alcuni giovani costrinsero i municipali di Milano a prestare all'irritato popolo un'occasione di tumulto: Radetzky se ne giovò, per afferrar tosto l'ambito governo militare; ma nel farlo, sebbene la rivoluzione non avesse armi, nè capitani, nè consiglio, nè tampoco notizia di sè, evocò dalle viscere del popolo una forza, che i suoi centomila armati non valsero più a prostrare.

Surse, dopo dirotte pioggie, sereno e fausto il secondo giorno. Rivaira, comandante dei gendarmi, visto il decreto che affidava al municipio la publica sicurezza, fece significare a Casati ch'ei si rassegnava alli ordini suoi. Ciò avrebbe tolto al nemico ausiliari efficaci e mediatori pericolosi. Casati non osò accettare; scrisse a Bellati (ei nol sapeva già prigioniero) di recarsi a convenire di ciò con Torresani, intendendo che i gendarmi, fatti duci delle pattuglie civiche, sarebbero «il miglior mezzo termine, per tranquillare la città». La lettera fu sdegnosamente lacerata dalli astanti; intanto s'inoltrava il giorno; e il cannone toglieva l'adito alla casa di Rivaira.

Radetzky nella notte aveva fatto fare il ruolo de' suoi prigionieri. «Pur troppo, il capo de' ribelli, il podestà conte Casati non era tra quelli che furono presi ieri nel palazzo municipale, epperò il comitato direttore fu presto riordinato; pare che la sede del governo improvisato sia nel palazzo del conte Borromeo». Era anzi nell'opposta parte della città! Che valeva all'Austria l'essersi fatta esecrabile al mondo per le sue polizie, quando, al momento supremo, dovevano i suoi generali versare in sì palpabili tenebre? Chi non ha partigiani, non ha polizia.

Nella strategia del secondo giorno, le truppe, non potendo, nè osando più vagare fra le barricate, intercettarono stabilmente le vie, presidiando 52 edifici. Cingevano inoltre per dodici chilometri i bastioni. Dalle porte, ove stavano con artiglierie, ora s'inoltravano pei corsi entro la città, ora escivano lungo la circonvallazione e le vie postali. Spezzate per tal modo, e legate a punti fissi, esse offersero prima l'aspetto dell'esitanza, poi quello dell'impotenza e del timore. Al palazzo di Giustizia, non si vergognarono d'aggrappar dalla porta con una lunga pertica uncinata, un compagno caduto. Due giovani sul ponte di Monforte affrontarono colle carabine un cannone, lo tennero indietro per un'ora; i soldati stavano nascosi fra le colonne del palazzo, o sdraiati a terra; un capitano che volle trarli sin oltre il ponte, cadde ucciso; la truppa si ricacciò nel palazzo, appostandosi dietro i comignoli del tetto e le finestre abbarrate. Fu quivi ucciso d'una cannonata Giuseppe Broggi, ammirato per l'infallibile sua carabina. Spirò d'un colpo di cannone, in mezzo al corso di Porta Romana, il calzolaio Valentini. Fu trafitto da una palla in fronte, sulli archi antichi del ponte di Porta Nuova, il salumiere Volonteri; ma quel monumento rimase un forte inespugnabile, difeso da Augusto Anfossi, Manara, Enrico Dandolo, Luigi Della Porta ed altri, che tosto o tardi diedero tutti per la patria la vita. Dal Broletto, un officiale minacciava codardamente ai cittadini la forca. «La forca sarà per te», gli rispose il droghiere Puricelli; e sebbene ferito, non si ritrasse finchè nol vide rintanarsi nel Broletto co' suoi. A Piazza Mercanti, artiglieri, uccisi o fugitivi, abbandonarono un cannone. Alla Corte, come deposero poi due delli ungaresi che quivi erano: «investiti d'ogni parte dai cittadini, che sdegnando di starsene dietro le barricate, uscivano ad assalirci all'aperta, e dalle donne che dalle finestre sparavano colpi di pistola, inviammo al Castello a dimandar soccorso; ma delle due o tre compagnie del Gyulai che ci furono spedite, pochi arrivarono, e sì malconci, che si risolse di ritirarsi. Fin d'allora si tentava l'affratellamento colli ungaresi. Un uomo pieno di coccarde nazionali, che sono delli stessi colori per gli ungaresi e gli italiani, si presentava loro, invitandoli alla diserzione. Consigliato da essi a ritirarsi, troppo tenace nel suo proposito, non volle rimoversi; onde preso dai cacciatori tirolesi, fu tosto fucilato. Più di 36 ore dovettero i granatieri ungaresi star sotto le armi, esposti alle intemperie, e ciò che più importa, privi di cibo». Anche i carcerati nel palazzo di Giustizia rimasero senza cibo per ben 48 ore; senza viveri per 40 ore quelli della polizia generale; Radetzky ebbe ad avvertire i consoli «che i carcerati nella Casa di Correzione mancavano di viveri». E fu anche per questa imprevidenza che le soldatesche, erranti nei rioni più remoti, si mutarono in orde fameliche e rapaci, a strazio delle derelitte innocue famiglie. Non era solo effetto di barbarie; poichè i boemi del Reisinger incrudelirono peggio assai de' croati. Non era effetto d'esaltazione bellicosa del soldato, che «prendendo d'assalto le case, trucidasse chi lo aveva combattuto (seine Angreifer niederstach)», come vennero imaginando poscia gli escusatori di Radetzky. No! nessuna di quelle infelici case era stata difesa o assalita, essendo tutte in quell'estremo lembo della città che stava affatto in potere del nemico. Era per i vili sospetti instillati dai generali; era per la insensata dispersione delle truppe, onde non fu possibile far loro pervenire i viveri. Nè parimenti era possibile che da 52 punti si raccogliessero i feriti, e si traessero per le due o tre vie che rimanevano tuttora aperte nell'interna città. Solo a notte oscura, si osò trasportarli «con carrette e lettighe, che lasciavano sui marciapiedi larghe strisce di sangue». E quella vista funestava le soldatesche, accampate sui vasti spazi della Piazza Castello, intorno a luridi fochi, su cui gettavano carrozze e suppellettili, cantando e urlando ferocemente, quasi per dissimulare a se medesimi la loro disfatta. E altro terrore infondeva in quelle rozze anime la vista della eclissata luna, in forma di globo cupamente arroventato. Al contrario i cittadini, nella coscienza del loro diritto e del favore di Pio IX e di Dio, ne traevano baldanza e ilarità.

Giunse nella sera in casa Taverna un primo dono alla patria di lire tremila dall'ingegnere Filippo Alfieri; e rese esuberante servigio in que' giorni, quando ogni venalità nei poveri pareva spenta. Altri apportò carte intercette al nemico; ma Casati e i suoi, sempre oscillanti fra la guerra e la pace, negavano si aprissero. Una di esse avvertiva come, con ordini anteriori alle novelle di Vienna, il maresciallo, provido nel male, avesse distribuito più di 500 cariche d'artiglieria in Padova, Vicenza, Mantova e Verona.

Mentre si tentava dar qualche forma alla fortuita difesa, Casati «si sottrasse alla vigilanza delli armati che facevano sentinella al suo onore». Immantinente Cernuschi, accompagnato dal figlio medesimo di Casati, ne andò in traccia; e «gli venne fatto di scoprirlo rannicchiato nella soffitta d'una casa vicina, d'onde usciva polveroso, coperto di ragnateli. Il figlio n'ebbe a versar lacrime». La generazione che surge è migliore di quella che tramonta.

A fronte di poche centinaia di fucili, Radetzky, benchè, avesse fin dal primo scoppio entro le mura circa 15 mila uomini, s'era già indutto a chiamare due battaglioni tirolesi da Cremona, uno del Gyulai da Pavia, una parte del Geppert da Monza, e aggiungeva nella notte del 19: - «Chiamo a me cinque battaglioni, coi quali dimani all'alba comincerò di nuovo il combattimento contro Milano e lo condurrò, come spero, a buon fine». Se nel primo giorno colle sue squadre mobili, aveva provocato i cittadini al combattimento, nel secondo giorno colle immobili sue posizioni aveva inspirato loro la fiducia nella vittoria.

Al di fuori accorreva già la gioventù delle pianure, affrontando impavida la cavalleria. Giuseppe Guy, milanese, venuto co' suoi contadini da un podere presso il Po, bersagliava dall'aperta campagna gli austriaci accovacciati sul bastione, quando la carabina d'un ussaro lo colpì a morte. I condottieri delle due strade ferrate, sprezzando la nuova minaccia di morte, condussero notte e giorno convogli d'armati. Il passo del Lambro a Marignano venne chiuso. Il nemico non ebbe più corrieri. «Non fu possibile spedire il mio dispaccio (del 19)», scriveva Radetzky, «perchè ogni communicazione al di fuori è talmente interrotta, che solo con grosse scorte può giungere a me o partire alcuna notizia». Non era dunque reciso il nervo capitale della rivolta, com'egli aveva sognato; ma bensì, essendo recisi i nervi che ponevano in moto le inanimi membra dell'esercito, i corpi isolati ricadevano nella dubiezza e nell'inerzia. A un esercito di servi manca, col bastone del comando, la volontà e la vita.

Como sorprese in quella matina la polveriera di Geno, armò i cittadini, spiegò la bandiera tricolore; ebbe soccorso di quattrocento uomini, approdati colle vaporiere del lago. Ma dalla Svizzera non le giunse in quel giorno più che uno stuolo di 14 esuli; mentre il presidio nemico s'ingrossò di 800 soldati del Prohaska che stanziavano in Mariano e Cantù. - Bergamo, che dal suo colle poteva contare ogni colpo che straziava Milano, si armò; e quando, a notte tarda, corse voce che contro la parola data dall'arciduca Sigismondo partiva un battaglione chiamato da Radetzky a Milano, il popolo di Borgo Palazzo gli precluse intrepidamente la via; gli uccise il comandante. - A Brescia, presidiata in gran parte d'italiani, i maggiorenti, indettati da Torino, e resi imbecilli da quella speranza, raffrenarono l'impeto del popolo; lo persuasero (cosa quasi incredibile) ad aspettare rassegnato le sue sorti da quelle della combattente Milano; appellarono «colpa e danno crudele e irreparabile» ogni atto ostile; patteggiarono il privilegio delle armi a 200 agiati cittadini. Il generale Carlo Schwarzenberg potè illeso percorrere a cavallo la città, intanto che le sue robe si ponevano in salvo entro una caserma: e scorgendo «la più perfetta calma e tranquillità e buono spirito che ovunque regnava, potè provarne le più dolci commozioni, ed esprimerne i più cordiali e sentiti ringraziamenti». Quelli improvidi ozi, quando Milano combatteva, vennero poi scontati nel foco e nel sangue, quando Milano fu disarmata e derelitta: dum singuli pugnant, universi vincuntur. - Intanto la vicina Crema, perchè aveva poco popolo e angusto contado, sebbene si mostrasse quel giorno piuttosto in festa che in tumulto, venne ferocemente insanguinata da cacciatori tirolesi e dragoni austriaci. V'ebbero quasi 80 feriti dei cittadini, e 2 soli dei soldati; all'arrivo poi di due cannoni e di 400 soldati italiani del presidio di Lodi, la città fu interamente disarmata. Il qual caso ebbe gravi effetti; poichè quivi era il convegno ove lo smembrato esercito potè accozzarsi.

A Cremona, presidiata pure d'italiani, il popolo, non provocato dall'arroganza straniera, «fu pago di ottener la liberazione d'un cittadino arrestato in forza della legge stataria; invano accorsero migliaia d'armati dalle campagne». - In Mantova, ove pure italiano era il presidio, il comandante Gorczkowsky potè acquistar tempo, concedendo il «privilegio» delle armi a qualche centinaio di cittadini, che presero in custodia innocente le porte della fortissima città. Un numeroso comitato predicò «l'ordine e la tranquillità», vestendo a mansueta insegna la «sciarpa bianca». - La coccarda bianca soppiantò nell'agitata Verona la tricolore. Il cauto arciduca, che non aveva interesse, com'altri, a sconvolgere e insanguinare il regno, concesse la custodia di quella pur fortissima città a 400 privilegiati; costrinse la soldatesca «a sfilar taciturna e sparire fra il tripudio del popolo». - La custodia delle porte fu concessa anche ai cittadini di Vicenza. Così, tranne la pianura milanese e il suburbio di Bergamo, nessun soccorso diedero, nemmeno in quel secondo giorno, i popoli indarno commossi alla città combattente.

In Piemonte intanto, il nuovo ministro Ricci chiedeva in iscritto che Genova «lo coadiuvasse colla tranquillità più profonda», quando, a rompere il nuovo letargo costituzionale, giunse, alle otto del mattino, la nuova che la guerra era cominciata. E a prima giunta Cesare Balbo, l'uomo della guerra ai barbari, obliò tosto l'unum porro necessarium; e rispose alle grida della gioventù, che voleva aver armi, chiudendole in faccia le porte dell'arsenale. Parve gran cosa a quei decrepiti adulatori dell'Italia, di prometterle tre campi d'osservazione a Chivasso, Novi e Casale, dietro la Sesia e il Po.

Era già strana cosa che in Milano amici e nemici riputassero capo del popolo un uomo ch'era mestieri tenere quasi a forza. Ma per poca notizia che si avesse di quanto accadeva nelle più interne parti della città, palesavasi il fatto più strano ancora, che il popolo dapertutto combatteva, e in nessun luogo aveva capi. Si pugnava a caso «senza alcun disegno, sforzandosi ciascuno presso le sue case d'acquistar terreno, d'abbarrarsi, di scoprire armi e munizioni e toglierne al nemico». Nella notte, qualche cittadino, sdegnoso che l'occulto comitato dei patrizi non mostrasse la faccia, propose si gridasse republica, si ricorresse alla Svizzera testè armata, alla libera Francia. Se parlate di republica, rispose Cattaneo, tutti i signori saranno per domatina in Castello con Radetzky. - I soccorsi francesi e svizzeri erano lontani e incerti; la republica non avrebbe nemmeno i soccorsi dell'Italia, tutta infervorata allora de' suoi principi. Era forza mietere ciò che si era seminato. Il popolo, per verità, non intendeva la commissione alla Savoia; avrebbe mille volte preferito l'alleanza del popolo francese; avrebbe preferito mille volte una federazione republicana, col nome di Pio IX. Carlo Clerici, ch'era «uno dei primi anelli tra il popolo e l'alto ceto», scrive: «la republica era ben addentro nel sentire del nostro popolo: chiamata, sarebbe surta». E nel primo giorno quel grido si era qua e là udito fra il popolo, «drappelli di cittadini percorrono la città, gridando viva Pio IX, viva l'Italia, viva la republica». Ma erano voci che uscivano solitarie dal cuore; non esprimevano patti di parte. E anche a Brescia, in febraio, alle novelle di Parigi tale era stato lo spontaneo sentimento del popolo: «la prima notte si passò tutta in riunioni, ai caffè, sotto ai portici, nelli alberghi, nelle taverne: sembrava la celebrazione d'un trionfo nazionale. E quanto al Piemonte, dicevasi, la viva aspettazione che se ne aveva va sbollendo, perchè nessun fatto si vede mai. I giudiziosi pensano che sia l'Austria autrice di tali rumori, che destano sospetto e diffidenza, ma il popolo non ragiona». Sventuratamente altri ragionava per lui; e lo sviava dalla madre idea della libertà, chiamandola «il trionfo predeterminato d'una forma governativa». E ammoniva i siciliani contro «l'egoismo di libertà».

Non sapendosi che un governo in Milano era già secretamente pattuito prima che il combattimento cominciasse, proposero alcuni si procedesse ad eleggerlo immantinente. Ma il nome di governo involgeva necessità di personaggi autorevoli. Se codesti signori ne fanno parte, rispondeva Cattaneo, vi saranno d'impaccio; se non ne fan parte, impediranno che sia obbedito. Epperò propose un consiglio meramente di guerra, e di pochi e deliberati, solo per dare ordine alla difesa; anzi proponeva si chiamasse «comitato di necessità». Si scrissero i nomi delli astanti, onde interrogarne il suffragio. Ma molti ad ogni momento, in cerca d'armi e d'indirizzo, entravano, uscivano; nulla si raccapezzava. Alla fine parve più pronto ripiego prendere i primi quattro nomi, scritti in capo alla lista delli astanti. E così la rivoluzione andava a caso d'una in altra mano. Ove stavano, sia detto un'altra volta, le secrete associazioni? Perchè i capitani della arcana milizia non si ponevano inanzi, se v'erano?

Quel fortuito consiglio di guerra fu poscia trasfigurato dai romanzieri torinesi, in una prima elaborazione dell'Italia republicana, in un primo pegno delle venture discordie. Non è così. Di quattro soli, ch'erano i membri, non si conoscevano tutti, nemmeno di saluto. Giulio Terzaghi e Carlo Cattaneo si conoscevano solo dacchè dimoravano quivi allato colle loro famiglie nella casa Gavazzi. Giulio Terzaghi e Giorgio Clerici erano patrizi; e questi fu sempre sì poco in voce di republicano, che la fazione regia gli commise poscia il comando della guardia nazionale. Enrico Cernuschi si vantava scevro d'ogni legame, avverso persino a quei notissimi che dettavano le dimostrazioni. Cattaneo aveva pensato a giovare la patria senza metter mai verbo in politica. E nel primo giorno, quando gli amici vennero matutini ad annunciargli la processione municipale, e dimandargli consiglio per l'evento d'un conflitto, egli aveva risposto che il correre immantinenti alla forza, quando nulla si era fatto per possederla, gli pareva troppo favorevole al nemico, il quale era presto e bramoso. «Il podestà farà mitragliare i cittadini; egli va da cieco ove lo spingono. Questi 40 mila fucili, li avete visti? Siete poi certi che questo comitato vi sia? Hanno fede cieca in Carlo Alberto; e saranno corrisposti come al solito. Bisogna pigliar tempo per armarci; e perchè tutta Italia si metta in grado».

È debito e diritto di giustizia porre in luce questi fatti, per dissipare le menzogne, onde certuni vennero pascendo poi l'anime sciocche. E vuolsi considerare questo irresistibile effetto delle rivoluzioni: ch'esse ingrossano come le vallanghe, travolgendo nei più temerari propositi i più cauti animi, mentre il fiocco di neve che fu motore primo e nucleo della immane mole, vi resta per lo più confuso e smarrito. E perciò, ad ogni ritorno, la rivoluzione sempre più ingrossa; sinchè le minorità primitive, che valevano solo per la loro leggerezza, prevalgono col numero e col peso morto, e ponno invocar senza tema il suffragio universale.

Radetzky non potè il terzo giorno tener la parola, colla quale erasi, la sera inanzi, addormentato: - «Chiamo a me cinque battaglioni: domani comincerò di nuovo il combattimento». Anzichè cominciare il combattimento, gli fu forza precipitare la ritirata dalle parti più interne della città. Quelle sconnesse posizioni non si collegavano più al Castello, se non per due o tre varchi tortuosi, verso i quali si cominciò presso l'alba a dirigere i cittadini che venivano a offrire le braccia e prendere indirizzo. Tosto il mezzo della città offerse uno spettacolo di militare confusione e ignominia. I tirolesi scesero precipitosi le scale marmoree del Duomo, e per i sotterranei dell'Arcivescovato si raccolsero alla Corte; si posero dietro al generale Rath, che «precedeva il convoglio a gran carriera, per salvarsi dalle pietre e dalle palle che i cittadini, svegliati all'improviso rumore, tempestavano sulle truppe». Il popolo armato invade gli atri della Corte, le stanze dei principi. Ma rispetta a tutti, ma perdona a tutti: alle famiglie tedesche rifugiate in chiesa: ai poliziotti nascosi nelle cantine: ai feriti ungaresi, che porta sulle vittoriose spalle all'ospitale. Anche gli offici della polizia generale rimangono avvolti nel turbine. Quel Torresani, il quale andava spiando da tanti anni, e vessando e umiliando una gioventù che fra tante molestie intendeva solo la necessità d'esser libera, si traveste da gendarme; si mischia alla cavalleria; giunge semivivo di paura in Castello, lasciando cumuli di carte semiarse, abbandonando alla vendetta la moglie, la figlia, la vedova del figlio coll'unica bambina. All'irrompere del popolo impetuoso, «in elegante gabinetto, una giovane signora, vestita di seta nera, stringendosi al seno una bambina, con a lato una cameriera, entrambe pallide, tremanti, stavano ginocchioni. Mandò questa uno straziante gemito all'entrar del primo, credendosi vicina ad essere sacrificata. Ma l'entrato, confortandola, e dato ordine che con modesto sciallo si coprisse la testa e la faccia lacrimosa, presala sotto braccio, e chiamato un altro cittadino, guidarono quel derelitto convoglio alla casa paterna dei conti Giovio; e, trovatala chiusa, la ripararono presso la famiglia Morandi». E dove era il conte, lo spauracchio della città? Due delle sue spie lo palesano nascoso in una soffitta entro il fieno: pallido, contrafatto, coi capelli irti, chiedente pietà e misericordia, cavato di là, vien cercato sulla persona se avesse armi, onde non potesse uccidersi nè tradire. «Figurati, lettor cittadino, la scommunicata figura di quel laido vecchio, quella persona tremante, coperta di pagliuzze, che colle braccia aperte si lascia frugare nelle tasche; e ne cavano, invece di stili e pistole, ne cavano, pane e formaggio. L'ira dei più accaniti si volse in riso».

Conveniva tenere il popolo in questi alti e gloriosi propositi. «Prodi cittadini», gli diceva un appello del consiglio di guerra, «conserviamo pura la nostra vittoria; non discendiamo a vendicarci nel sangue dei miserabili satelliti che il potere fugitivo lasciò nelle nostre mani». Di quella mal locata clemenza si duole ora il popolo amaramente. Ma furono forse quei pochi spregevoli perdonati che gli balzarono poi le armi di mano, quando venne tempo di difendere una seconda volta la sua città? Furono forse quelli abietti che gli insegnarono a riporre una stolta fede nei traditori, e ad abbeverare di dispetti e d'oblio i provati amici? Che gli gioverebbe nella sventura il sentirsi chiamar barbaro come i suoi nemici? Le crudeltà presenti parrebbero giuste rappresaglie. E la vendetta dei nemici e il loro perdono avvilirebbero del pari la sua coscienza; la quale, ora, può contemplar impavida e indomita quell'avvenire che porrà un'altra volta a' suoi piedi i vigliacchi insanguinati.

E parecchi officiali in quella confusione non ebbero tempo a salvarsi: e, tratti inanzi al consiglio di guerra, tentarono sostenere l'usata arroganza, pretendendo di non essere prigionieri, ma parlamentari. «È meglio che diciate d'esser prigionieri», rispose loro Cattaneo. «Come? parlamentari? Il vostro esercito deve già esser a ben tristi termini, se s'adatta sì presto a spedire parlamentare a poveri ribelli». E frattanto l'arciduchino Ranieri in Verona si consolava pensando che la legge marziale poteva già esser messa in opera, e fucilati tutti i cittadini prigionieri! E v'era fra gli officiali captivi un conte Thun, che un mese inanzi aveva insultato a man salva, presso il corpo di guardia del conte Ficquelmont, il cittadino Borgazzi, e che, disarmato da lui, lo aveva fatto vilmente carcerare; poi lo aveva divulgato per tutta la Germania come sicario. Ed ora stava, umile, e senza spada, inanzi ai cittadini. E in quell'istante, pochi passi lontano, i suoi commilitoni stavano trucidando nelle sue stanze il predicatore Lazzarini; poi si ritiravano all'appressarsi del popolo; e per disviare i suoi colpi si facevano precedere da cinque preti a croce alzata. Tali sono i conquistatori. E v'è chi scrive che ogni popolo merita il suo destino!

Il consiglio di guerra incalzava i combattenti: «Il generale austriaco persiste; ma il suo esercito è in piena dissoluzione. Molti officiali si dànno prigioni; interi corpi atterrano le armi avanti il tricolore italico. Cittadini! perseverate; questa è la via che conduce alla gloria e alla libertà».

Le truppe, smarrite fra gli andirivieni delle barricate, fecero simulate offerte di arrese o di pace, al Ponte Vetero, al Genio, al Comando Militare, a S. Simone. Un maggiore dei croati Ottochan venne a dimandare in nome di Radetzky qual fosse la mente dei magistrati. Reduce Casati dalla fuga, e pressato sempre a costituire con municipale autorità un governo provisorio, si era solamente piegato ad annunciare che aggregavasi al municipio alcuni collaboratori; ma vi affastellava presenti e assenti, e anche Teodoro Lechi, ch'era prigioniero in Castello; e attribuiva a Bellati, pur prigioniero, la polizia. Udito il messaggio di Radetzky, egli propose, per la città sola, un armistizio di giorni quindici, affinchè il maresciallo potesse invocare da Vienna nuove concessioni. E intendendo che i soldati si consegnassero nelle caserme, e i cittadini desistessero dal combattimento, invitò in presenza dell'inviato il consiglio di guerra a dire se vi volesse dar mano.

Rispose il consiglio: non potersi oramai staccare dalle barricate i cittadini; la consegna nelle caserme non offrire veruna sicurtà; il combattimento sospeso potrebbe ad ogni momento riaccendersi. La campana e il cannone, già da tre giorni, avevano desti i popoli all'armi; i soccorsi erano in via; un'armistizio circoscritto alla città lasciava libere le truppe d'esterminarli; o dovere il combattimento cessar dovunque, o dovunque proseguirsi. Se il maresciallo veramente era mosso da umanità, se voleva arrestare il combattimento in tutto il regno, i soldati italiani gli basterebbero a conservar l'ordine, finchè arrivassero le nuove istruzioni da Vienna; allontanasse immantinente i soldati stranieri. - Come? rispose il maggiore sdegnosamente; un maresciallo ritirarsi inanzi a cittadini? - Voi parlate d'umanità, gli si replicò, e non d'operazioni di guerra; i ministri che diedero al maresciallo facoltà di mitragliare e bombardare, sono caduti; i loro ordini non hanno più vigore, fino a che i loro successori non abbian parlato. Si valga di ciò il maresciallo, prima che il suono d'allarme giunga di campana in campana sino ai passi delle Alpi. Separando i due elementi irreconciliabili, potrà dire d'essere entrato nel nuovo ordine europeo; e intanto veramente avrà salvato l'esercito.

Invano Casati riluttava. La gioventù, non volendo soffrire indugio alla pugna, o dar ansa a una perfidia, stette col consiglio di guerra. Casati congedò il messo, pregandolo a riferire da un lato i sentimenti dei municipali, e dall'altro quelli dei combattenti. Egli volle separata nell'animo di Radetzky la sua causa da quella del popolo. E il consiglio di guerra tacque, e non se ne fece vantaggio. Importava salvar la città. Ed era forza mietere ciò che si era seminato.

Altri dirà che ricusar l'armistizio fu temerità. Ma valga il vero. Fin dalla sera inanzi, i consoli di Francia e Svizzera avevano promesso ai municipali di protestare, in un colli altri consoli, contro il minacciato bombardamento; e nella matina del 20, ne avevano scritto a Radetzky, chiedendo in ogni modo il tempo di porre in salvo i loro clienti. Rispose il maresciallo, alle 11 del mattino stesso, lagnandosi che si fossero assalite le sue truppe contro il diritto delle genti; e pregando i consoli d'indurre i capi ad astenersi da ogni atto ostile; altrimenti ei si difenderebbe col coraggio che gli inspirava il sentimento dell'odiosa sorpresa che si era fatta a' suoi soldati. Promise sospendere per un giorno le misure severe, a patto che i cittadini cessassero ogni ostilità. I consoli, gli chiesero tosto un abboccamento per ragguagliarlo delle edificanti disposizioni del municipio. Lasciamo che, dopo le insidie e le stragi di Milano, di Padova, di Pavia, era sacrilegio allegare il diritto delle genti; ed era troppo ridicolo che parlasse di coraggio in faccia a un pugno di cittadini, chi, poche ore prima, millantava i suoi centomila soldati, e l'animo deliberato all'incendio e al saccheggio. Diremo solo che Radetzky, partecipando ciò a Ficquelmont, scrisse il dì seguente: «Coi consoli si è trattato oggi di un armistizio di tre giorni; le mie truppe hanno necessità di riposo, per i più che umani loro sforzi; ed io con questo mi troverò in grado di circondare più compiutamente la città». E perchè la voleva il maresciallo circondare, investire (zernieren)? Fu preso in quel medesimo giorno, a Inzago, l'apportatore della legge di sangue, la quale concedeva al maresciallo la licenza di fucilare tutti i ribelli; e a quell'ora, gli arciduchi in Verona si consolavano pensando ch'era già in opera. Era dunque Radetzky che abusava dell'intervento dei consoli; che oltraggiava il diritto delle genti. Sarebbe vano accusar di perfidia un tal nemico; ma sarebbe ingiusto accusar di temerità chi sottrasse all'atroce inganno i cittadini.

Libera l'interna città, apparivano ad uno ad uno, e cauti e taciturni si schieravano intorno al cupo Casati, i membri del futuro governo. Favoriti per secreto patto dai più accesi promotori dell'insurrezione, i quali non ebbero tampoco la lealtà di aprirsene col consiglio di guerra, essi, anzichè adoperarsi a dare indirizzo al combattimento, attendevano solo a recarsi in mano col minimo pericolo la massima potenza. In data di un'ora dopo mezzodì, comparve verso sera un loro avviso, in cui si leggeva: «Le terribili circostanze di fatto, per le quali la nostra città è abbandonata dalle diverse autorità, fanno sì che la congregazione municipale debba assumere in via interinale la direzione d'ogni potere, allo scopo della publica sicurezza». La publica difesa era dunque un fatto: non era un diritto. La città non era ribelle: era abbandonata; abbandonata anche da Radetzky! Il municipio non voleva: ma doveva; era costretto. E solo con mano dubiosa, e in via interinale, e per imperio di circostanze terribili, s'induceva ad assumere ogni potere. Gli infausti nomi di Guicciardi, di Durini, di Giulini, di Strigelli, di Borromeo, ricordavano i conciliaboli e i parentadi che nel 1814 avevano posto in mano all'Austria l'esercito e il regno. Per quali arti erano mai pervenuti coloro a patteggiarsi il voto della magnanima gioventù? Come potevano i cittadini dimenticare d'aver deriso, non era ancora dieci anni, quei maggiorenti della città e dignitari del regno, quando, radianti di felicità, fregiavano dei loro ciondoli e delle loro livree le pompe dell'incoronazione? L'uomo ha un cuor solo; e il cuor di costoro non era stato mai per l'Italia. Nel 1841, essendosi fatto appello ai cittadini in favore della via ferrata di Milano a Venezia, essi erano usciti da inveterata inerzia per impadronirsi di quella splendida impresa. E l'avevano fatta trastullo d'avara e inetta vanità, millantandosi in faccia a Metternich di voler fare essi ogni cosa coi loro denari. E così, non solo per la loro pusillanimità l'impresa cadde in mano alli stranieri ch'ebbero cuore di locarvi veramente i necessari tesori. Ma per insensati avvisamenti le opere rimasero disgregate ai due opposti capi e involte in disperati indugi. Infine il governo n'ebbe ammonizione a revocare gli ampli privilegi, che, contro ogni consuetudine, aveva largiti all'impresa. I quali, con accorgimento esercitati, avrebbero messo in pugno ai cittadini tutte le communicazioni civili e militari e la chiave di tutte le fortezze. Se gli sconnessi tronchi di Treviglio e di Vicenza furono di tanto sussidio nei cinque giorni, non è a dirsi quanto le veloci communicazioni con Peschiera, con Verona, con Venezia avrebbero giovato; essendochè dal lato suo il nemico, timoroso d'insidie, non osava avventurare su quei precipizi i suoi battaglioni.

Ordinata nel 1841 quella congrega, e raccomandata dalla veste d'un publico interesse, e dal conflitto in che s'era posta col governo, ricomparve in mezzo all'agitazione del 1847. E seguita dall'antica caterva di satelliti bassamente adulatori e bassamente malèdici, e dall'altra nuova di generosi inesperti, vantando d'avere quando che sia a pronta disposizione tutte le forze del Piemonte, e penetrando col numeroso servidorame nella plebe, s'impadronì di questa più ardua e sublime impresa; e la condusse per infinite astuzie a funesto fine. Ma intanto era impossibile disfare d'improviso la vasta rete con ch'ella avviluppava da anni la cittadinanza. Era necessario che calamitosi fatti dimostrassero ai cittadini la sua morale e mentale impotenza. Tuttociò che rimaneva, fra quell'improvisa frana delli eventi, era di vigilare, affinchè quelli insensati, per credulità o per paura, non traessero seco il popolo in balìa del nemico. Epperò i membri del consiglio di guerra non dismessero il loro assedio a Casati, e si accamparono nella camera attigua a quella ov'egli era co' suoi. E con pretesto d'assicurare la custodia delli officiali prigionieri ch'erano di sopra, e di separarli da certi soldati prigionieri ch'erano di sotto, intercettarono ogni altro adito; e con consegne di porte, e con duplici parole d'ordine, difficultarono l'accesso. E si studiavano di dar essi pronto e diretto spaccio a tutte le inchieste dei cittadini accorrenti, allegando che il municipio fosse a secreta consulta e non potesse ascoltarli. Fra queste misere angosce, dovevasi dar opera ad animare ed indirizzare i combattenti.

Già udivasi, dopo due giorni di silenzio, il grave rombo dei bronzi del Duomo; già in mano al colosso della Vergine sventolava il tricolore. Rispondevano con campane e con grida le pianure; le due strade ferrate apportavano a' piè de' bastioni squadre continue d'armati. Le soldatesche sulli sfrondati bastioni udivano e vedevano appressarsi da ambo le parti le onde del popolo, quando, a nuovo stupore scorsero veleggiare al vento uno stuolo di palloni, e sorvolar le mura e le porte indarno irte di baionette. Nei fogli che i palloni spargevano, il consiglio di guerra si appellava «a tutte le città e tutti i comuni del Lombardo-Veneto: Milano vincitrice in due giorni, e tuttavia quasi inerme, è circondata da un ammasso di soldatesche avvilite ma pur formidabili: noi gettiamo dalle mura questo foglio per chiamare tutte le città e tutti i communi ad armarsi». Era così ripudiato il pusillanime consiglio di patteggiare una solitaria tregua per la città, dissociandola dalle provincie.

E infatti Como, in quella matina, inviava già in soccorso una squadra di giovani; purtroppo anzi tempo. Perocchè il comandante Braumüller, che in quella città di 16 mila abitanti aveva 1500 soldati tutti stranieri, si accingeva ad assalirla, tostochè gli giungessero da Saronno l'artiglieria e la cavalleria che aveva richieste a Strassoldo. La presa d'una staffetta scoperse il suo proposito; scoppiò tosto nel sobborgo il combattimento; la squadra fu appena in tempo a retrocedere. Accorsero dall'interna città i croati; ma, ripulsi prima di giungere alla Porta Torre, abbandonarono sulla via ferito a morte il maggiore Milutinovich. La gran guardia col tenente Knesich, uscì per altra porta; ma fu dispersa; e dopo aver vagato la notte appiè dei monti, si arrese per fame. Le truppe ch'erano nelle due caserme suburbane tentarono invano sforzare la Porta Torre per unirsi di dentro ai croati; respinte nelle caserme, offersero nuovi accordi; ma il popolo, savio, voleva cedessero le armi. Dopo tre ore si riprese il foco, con vantaggio minore, poichè i soldati avevano avuto agio d'adattare a difesa i tetti e le finestre. I cittadini s'impadronirono della conserva del pane; apersero feritoie nelle mura della città e delli orti; fecero fossi e tagliate; tesero catene; pattuirono segnali d'avviso e parole d'ordine; appuntarono alle porte delle caserme vari cannoncini, raccolti nelle ville del lago ed in quella medesima del vicerè al Pizzo; e vegliarono in armi la notte, intorno ad ampi fochi accesi intorno alle mura e sui colli. Le donne apprestavano bende e filacce, cartucce e palle; gli alunni del seminario apportavano i loro peltri; giungevano amici dal lago e dalle valli; e Francesco Scalini adduceva una squadra di 60 carabinieri ticinesi. La giornata valse ai cittadini una ventina di feriti o morti; ma un centinaio a' nemici, i quali restarono rinchiusi, senza notizie e senza viveri. A Bergamo, l'arciduca Sigismondo, vedendo surgere d'ogni intorno le barricate, ingrossare il popolo e ridutti i croati a difendersi bruttamente dalle finestre delle caserme, fece chiedere a sera un abboccamento col comitato; e per gli operosi offici del conte Lochis, ottenne pur troppo che i cittadini sospendessero le offese, promettendo che i soldati non andrebbero a combatter Milano, e ch'ei medesimo non uscirebbe dalla sua dimora, se non accompagnato da guardie cittadine. Poi nella notte fuggì.

Un altro arciduca, Ernesto, correva simil pericolo quella medesima sera in Lodi; ma la fanteria del presidio era italiana, inciampo al furore del popolo. S'intimò ai cittadini di consegnare al municipio le armi. I più deliberati, anzichè cederle, uscirono recandosi al soccorso di Milano; e così quel passo dell'Adda rimase sicuro al nemico, che per assicurarsi prese in ostaggio onorevoli cittadini.

Qui hanno fine, e non parrà vero, i fatti d'arme della terza giornata in tutto il Lombardo- Veneto.

Al di fuori, Parma ebbe tre ore di combattimento, in cui cadde un colonnello d'ungaresi con alcuni officiali e parecchi soldati italiani; il duca, accerchiato nel suo palazzo, offerse ai cittadini la consueta esca d'una costituzione; e tornando alla vita errante della sua stirpe, lasciò lo stato a una reggenza. Vi s'ascrissero un Gioia, un Maestri e altri, che si chiarirono poi clienti di Carlo Alberto; e attesero tosto a sventare ogni impeto di popolo. - A Modena, i dragoni ducali ferirono qualche cittadino; ma il duca, che pochi mesi prima aveva detto al popolo, «ho trecentomila uomini, non ho paura», spaventato, piangente, dichiarò «che si occuperebbe subito delle risoluzioni più confacenti al benessere delli amatissimi sudditi». Ma invero la maggior sua sollecitudine fu di aprirsi un varco alla fuga. E non era agevole, poichè in tutte le città circostanti, a destra, a sinistra, a fronte, alle spalle, ruggiva il terremoto popolare. - Il popolo di Bologna, a dispetto dei maggiorenti già secretamente accaparrati da Azeglio, mise in armi quella sera 500 tra popolani, studenti e finanzieri, che al chiaror delle faci fra gli applausi partirono, guidati dai republicani Livio Zambeccari e Angelo Masina, avendo «proclami già stampati, coll'intenzione di proclamar Pio IX a Modena e a Parma». Poco stante li seguì un battaglione di guardie civiche; ma inviluppato da superstizioni di giobertiana opportunità, non osò poi varcare il confine. Quando si pensa ai battaglioni bene armati di Parma, Modena e Bologna, ch'erano quella notte a poche miglia da Mantova, presidiata da tremila baionette tutte italiane, è forza confessare che se l'Italia non fu libera, egli è che ancora nol volle.

Mantova, infatti, oltre all'aver avuto dal vicerè licenza d'armare 300 cittadini, animata dalle novelle di Milano, di Parma, di Modena, li aveva posti quella notte a guardia delle porte con autorità «d'arrestare i corrieri e aprire i dispacci». Ma in contradizione a ciò, il municipio vietò per editto «di munirsi d'armi a chiunque non fosse abilitato dal commune». E per disviare il popolo, raccolse denaro da gettargli sotto pretesto di lavoro, affinchè serbasse «calma, tranquillità e obbedienza a chi lo dirigeva».

E v'erano, nel giro di poche miglia da Mantova, altre possenti città che avrebbero potuto, con qualche audace fatto, decidere delle sue sorti. V'era quella Brescia che, cinquant'anni addietro, aveva potuto improvisare per Bonaparte ottomila soldati e che nel seguente anno fece stupir l'Europa del suo disperato coraggio. V'era, pur nel raggio di 40 miglia, Cremona; v'erano Parma, Reggio, Modena, e già vicini alle sue porte i battaglioni bolognesi; e nel Veneto, Vicenza e Verona, e questa poteva trar soccorsi anche da Trento. E non sono città isolate, come Trieste o Ginevra; ma ciascuna d'esse è capo di popoloso territorio. Brescia oltre ai 40 mila abitanti della città, ne aveva 300 mila nella provincia e 50 mila in Val Camonica; Cremona ne aveva 250 mila; 190 mila Mantova; 300 mila Trento; 500 mila Modena con Reggio. E se si prosegue il novero delle altre città anzidette, si viene a sommar poco meno di tre milioni di popolo, munito a dovizia di denaro, di viveri, di veicoli. Ciascuna di quelle città poteva in uno, o due, o tre giorni al sommo, gettare sulle indifese porte di Mantova e di Verona tanta gioventù animosa e armata, quanta bastasse non solo a soprafare i deboli e incerti presidii, e gli avviliti principi e generali; ma ben anco a difenderle poscia contro gli eserciti. I quali, senza artiglierie d'assedio, senza cannonieri, senza munizioni, senza viveri, con lungo traino di feriti e di donne, cacciati dalle città cisalpine e venete, giunsero poi sotto quelle mura. Le forze di tanti popoli rimasero nel fatale istante inoperose. Nessuna voce tampoco si udì che le chiamasse sul campo; anzi da ogni parte proruppero voci autorevoli a predicar prudenza e pace.

Brescia, per effetto dei molti esuli, era la città più allacciata dalle influenze azegliane. Benchè l'albero della libertà fosse già piantato in Isèo, e la Val Camonica in armi chiedesse solo ove marciare, il podestà, co' suoi collaboratori Mompiani, Lonao, Lechi e altri tali, chiedeva alli austriaci la concessione di armare 200 privilegiati. Dovevano «esser muniti d'un biglietto a stampa»; e chiunque altro «non sarebbe autorizzato a portar armi». - Doveva il signorile registro limitarsi «alle persone appartenenti alla possidenza e al commercio; se si trovasse opportuno si aprirebbe anche altro registro per gli appartenenti ai corpi d'arte». Non si dovevano confondere poveri e ricchi in un registro solo. «Tenetevi in perfetta calma»; predicavano quei campioni dell'indipendenza. E per invilire la plebe, ch'era pronta a dare il suo sangue, le buttavano un tozzo di pane. - «I possidenti schiusero i loro granai; i negozianti aprirono i loro forzieri; procurarono al municipio i mezzi di sfamare le migliaia, che tutto il giorno in attitudine minacciosa, stavano nella Piazza Vecchia, domandando armi e battaglie». Noi chiediamo alla «Croce di Savoia» di spiegare questi fatti. I partigiani della Savoia hanno impedito l'insurrezione di Brescia, o no?

A Cremona, Schönhals aveva voluto accamparsi minaccioso in Piazza d'Armi con tutto il presidio; ma un battaglione del Ceccopieri restò in città col popolo; il quale alzò forti barricate, e ingrossato da contadini in armi percorse a grosse squadre le vie, e prese saviamente ostaggi alcuni capi nemici. Nella notte, anche il battaglione milanese dell'Alberto si diede al popolo. Ma i maggiorenti, anzichè incalzare il nemico, ch'era ridutto a qualche squadrone d'ulani e una batteria pedestre, furono lieti di publicare come le loro pratiche presso il comando della milizia fossero valse ad ottener la promessa che si sarebbero astenute da ogni atto che fosse per ingenerar diffidenza! Non pensavano che quando in siffatti casi l'austriaco s'astiene, egli è che non può. Decretarono: «Le armi non sono affidate che alla civica, unita sempre alle truppe di linea; il rimanente dei cittadini rientri tranquillo nell'esercizio delle proprie funzioni».

E parimenti a Verona, benchè vi si fosse già spedita la favola che 50 mila piemontesi avessero assaltato il castello di Milano e preso Radetzky, i 400 dal vicerè privilegiati facevano pattuglie coi soldati per conservar la quiete. Intendevano solo a frenare il popolo; il quale, vedendo fornirsi di cannoni il Castel Vecchio, mettersi compagnie di cannonieri nel forte Sanfelice, raddoppiarsi i cannoni alla Gran-Guardia, due batterie campali appuntarsi alla piazza del Pallone, volle che si mandasse almeno a chieder conto al vicerè. Rispose questi, non esservi nulla a temere; potersi riposare sulla sua parola (la legge di sangue era già spedita da lui medesimo; e speravasi messa in opera). Egli intanto si mostrò mansuetamente pago che la porta del suo albergo fosse guardata dai civici, con due sole sentinelle croate; e per trastullare la plebe, fece levare il dazio dei commestibili. I manuali che a migliaia lavoravano sulla via ferrata di Vicenza, erano accorsi a Verona, pensando vi fosse da combattere. Ma le guardie privilegiate chiusero loro sul viso la porta; e perchè quei gagliardi si accingevano a sforzarla, vi fu chi li acquietò, narrando come il vicerè avesse concesso le armi alla cittadinanza, e promettendo che se bisogno vi fosse si spedirebbe a chiamarli. Aveva ben ragione il giovine arciduca di beffarsi di quella civica e «delli schizzetti rugginosi coi quali andava pattugliando», senza avvedersi che servivano di zimbello al nemico, e che ben tosto glieli avrebbe ritolti. Il comandante Gerhardi temeva veramente «ad ogni minuto lo scoppio della ribellione», e negava a Radetzky il rinforzo del reggimento Ernesto, essendochè Zichy alla sua volta gli negava da Venezia il reggimento Fürstenwerther. Bastava la sorda paura del popolo a scemar le forze al nemico. A crescer pericolo, giungeva allora da Milano quel battaglione Danthon di granatieri comaschi, bresciani e veronesi, che il sospettoso Radetzky aveva allontanato da Milano; e lo si faceva accampare, come appestato, al di là dell'Adige, in Campagnola, fuor delle mura.

Anche Trento, l'antica republica episcopale, aggiogata contro animo all'Austria, sentiva il nuovo alito della nazionalità; i suoi municipali scrissero, il 20, a Mantova, offrendo fratellanza; ma la fratellanza di quei gloriosi giorni volevasi stringere d'altro modo. I trentini avevano presidio di poche centinaia d'uomini: potevano disarmarlo; scendere a sopracapo di Verona; dare a quei cittadini e granatieri l'elettrica scossa che travolge gli oscillanti.

In quel terzo giorno, se consideriamo in generale, vediamo rotto l'equilibrio tra l'esercito ed il popolo, tra l'autorità e l'insurrezione. L'esercito cede materialmente e moralmente. Cede materialmente il possesso delle vie e de' publici edifici; abbandona in Milano e in Como la Gran-Guardia, che è il contrasegno del comando di piazza e del dominio militare d'una città; perde il possesso delle porte in Como e in Bergamo; divide per patto la custodia delle porte e la perlustrazione delle vie in Verona, in Mantova, in Vicenza, in Brescia, in Cremona; lascia alla balìa dei popoli le persone dei principi in Verona, in Bergamo, in Modena, in Parma e li riduce a trarsi d'impaccio con basse simulazioni. Cede moralmente, perchè discende dal punto fermo del diritto militare, il quale considera la resistenza come un delitto, e il combattente come un malfattore, e intavola colle rappresentanze civiche, più o meno incorporate coll'elemento ribelle, trattative regolari, che vengono sancite anche da intervento consolare, e riconoscono più o meno, e consacrano in massima, il diritto dell'insurrezione. «Con ribelli non si tratta»: questo è il principio della legge militare; dunque: con chi si tratta non è ribelle; la sedizione si trasforma in guerra; e la bilancia della guerra pende in favore del popolo, in una misura rappresentata dal terreno che il soldato gli cede. Sarebbe stato più provido e anche più onorevole per l'esercito l'aver lasciato volontariamente quello spazio prima del conflitto; e aver ricusato la battaglia per alte ragioni di stato e d'umanità, piuttosto che perderla per manifesta impotenza. Il popolo non oblierà mai d'aver vinto.

Nel quarto giorno, i milanesi si fanno alla lor volta assalitori; espugnano a punta di baionetta il Genio Militare, dopochè un povero e storpio, Pasquale Sottocorno, ha posto il foco alla porta, e che Augusto Anfossi cadde sull'entrata, trafitto da una palla in fronte. Cacciano i granatieri e le artiglierie che difendono la casa di Radetzky; prendono le sue carte, portano per le piazze il suo uniforme di maresciallo, la sua sciabola d'onore, e la depongono sulla tavola del consiglio di guerra. Compagnie di giovani, armati in gran parte coi fucili che hanno strappato di mano al nemico, scegliendosi capi quei che si mostrano degni a prova di ferro e di foco, oltrepassano i ponti; s'inoltrano verso le porte e i bastioni, per interrompere quell'alta ed ampia cerchia, sulla quale il nemico fa scorrere liberamente le sue forze. Borgazzi, dopo aver condutti per la via ferrata migliaia d'armati appiè delle mura, penetra in città, concerta col consiglio di guerra un attacco di dentro e di fuori; poi torna a raggiungere le sue squadre, alla testa delle quali, il dì seguente, cade ucciso. Borgocarati ordina una comitiva di zappatori; si apprestano barricate mobili, si appuntano verso la Porta Tosa piccole artiglierie. Il consiglio di guerra anima i cittadini a uscir dalle barricate. «Prodi, avanti! La città è nostra; il nemico si raccoglie sui bastioni per avvicinarsi alla ritirata. Fategli premura; tormentatelo senza riposo; questa notte tutte le porte devon essere sbloccate. Ottomila uomini raccolti dalla campagna stanno per darvi la mano; le truppe straniere dimandano tregua: non lasciate tempo a discorsi. Coraggio! Finiamola per sempre. - L'Europa parlerà di voi; la vergogna di trent'anni è lavata. Viva l'Italia! viva Pio IX!» E i palloni volanti chiamavano gli amici, ch'erano fuori le mura: - «Fratelli! la vittoria è nostra; il nemico in ritirata limita il suo terreno al Castello e ai bastioni; stringiamo una porta tra due fochi e abbracciamoci».

Intorno a Milano, «sopra una fascia di dodici miglia, l'insurrezione era oltre ogni credere spettacolosa. Carri con su armati avviati a rifocillarsi o a combattere, volavano su e giù per gli stradali; bande di contadini dovunque s'incontravano; ed era uno stringersi la mano, un incoraggiarsi l'un l'altro, gridando viva Milano, viva l'Italia, che ci rapiva l'animo di meraviglia e di giubilo». Il presidio di Monza, chiamato a Milano, s'indugiò, perchè gli si negarono i cavalli di trasporto; sopragiunsero gli insurti di Lecco; si venne alle mani; un maggiore cadde ferito e prigioniero; i soldati deposero le armi. Il colonnello Kopal, ch'era a Varese coi cacciatori austriaci, partì a furia per Milano, ardendo parte de' suoi bagagli, abbandonando i distaccamenti sparsi lungo le frontiere, facendosi far promessa che si lascerebbe loro libero il passo. In quel mentre, una squadra di 250 croati che, assalita dai contadini presso Appiano, fuggiva per campi e selve, evitando ogni terra abitata, arriva anelante nella città di Varese, per deporre le armi, «tanto da non finire in mano a contadini». Giunge d'altro lato uno dei distaccamenti dei cacciatori; sono 200; invocano la fatta promessa; dimandano il passo. Si concede; ma uno dei loro officiali invita i croati a partir seco lui. Cesare Paravicini gli rinfaccia ch'è un mancar all'onore; si getta fra le due colonne; intima ai tedeschi di partire, ai croati di deporre le armi. Tosto si promulga un appello: «Milano combatte. Chi ha un'arme, si accinga a partire». Sopravengono altre turbe dai monti e dai laghi; la notte si vigila fra concenti militari.

A Como, nel corso di quel giorno, s'arresero tre caserme con forse 800 croati, e alcuni ussari e cacciatori. In una delle capitolazioni si legge: «La truppa, tutta chiusa da infinite barricate, senza pane da oltre due giorni, e senza speranza umana di poterne avere, minacciata da immediato incendio e cannonamento, dopo aver tentato invano due sortite, fu costretta a venire alla seguente capitolazione»... Il barone Diesbach prigioniero scrive a sua madre: «Se siamo profondamente addolorati del nostro caso, abbiamo il conforto d'esser trattati nel modo più delicato e amichevole». Rimaneva ormai la sola caserma fuori di Porta Torre, da ogni parte assediata, sotto una tempesta di palle, a lato a due fenili che il popolo aveva posti in fiamme; la notte interruppe il combattimento. Era tra gli uccisi Luigi Nessi; tra i feriti Arcioni, capitano dei ticinesi. In quel giorno il popolo di Valle Intelvi e Valle Solda disarmò croati e tedeschi. Quasi tutte le 900 guardie di finanza del confine comasco offersero le loro braccia. Francesco Dolzino di Chiavenna disarmò il presidio di Morbegno.

A Bergamo, risaputa la fuga dell'arciduca, il popolo furibondo abbattè le aquile imperiali, prese la polveriera, assediò i croati, che si esibirono a sgombrare, purchè scortati dalle guardie civiche e dai sacerdoti col crocifisso. Ma il popolo non volle lasciarli andare armati; ed essi, per costringerlo a desistere, ritennero ostaggi i parlamentari Frizzoni e Zuccala. A tarda notte, i croati delle quattro caserme tentarono far massa in una; ne nacque accanita pugna. I municipali la interruppero con parole di pace, esortando il popolo «ad esser indulgente, e lasciar partire incolumi alla volta di Verona i vinti nemici».

A Cremona, nella notte, si erano barricate le vie, armate le case; «al mattino ognuno presagiva vicina la lutta; regnava la quiete del sepolcro». Tre ulani, che tentarono una esplorazione, caddero uccisi. Schönhals, chiuso in Piazza d'Armi, senza viveri, senza ritirata, capitolò; lasciò liberi i battaglioni italiani; consegnò sei cannoni con munizione e cavalli, ma ottenne dalla municipale debolezza di partire, conducendo seco la cassa di guerra, 400 ulani con armi e cavalli, e gli altri officiali e soldati stranieri, sotto la vana promessa di non combattere contro l'Italia. A Pizzighettone i cittadini arrestarono il comandante; e rimasero padroni della fortezza, con tutte le artiglierie e 700 casse di munizione. Non così a Mantova, ove il comitato municipale, vietando le armi ai cittadini, vietando le armi ad ognuno che fosse «illegalmente armato», elemosinava poi 500 fucili, prima al comandante nemico, poi per deputazione del vescovo al vicerè in Verona, al quale faceva anche domandare che ordinasse a Gorczkowski di consegnare la fortezza ai cittadini. Intanto lasciava libero il corso ai dispacci di Radetzky, e aperto il passo al duca di Modena, che sotto il mentito nome di conte Molin, sebbene da tutti conosciuto, potè recare in salvo la persona e il tesoro. Che anzi, condutto al palazzo municipale, vi riceve i saluti dei municipali e di tutte le autorità militari e civili. «Un uomo ardito propose di chiudere entrambe le porte del palazzo, e di ritenere ostaggi tutti quei signori, insino a tanto che si fosse dato ordine alle cose della città»; ma i membri della commissione si opposero.

Fugitivo da Bergamo giunse a Brescia l'arciduca Sigismondo; il popolo savio voleva arrestarlo; i municipali insensati non vollero. Il popolo «da sè, senza consigli, intercettava i corrieri»; fermava per le strade i soldati del Haugwitz, li pregava a non partire; ed essi lo giuravano. Ad una voce d'allarme, nata per una escursione di dragoni tedeschi, si videro donne e fanciulli accorrere a disselciare le strade. Ma il municipio, com'esso diceva, «intento sempre a schivare l'effusione del sangue», sempre negando le armi al popolo, accettò piuttosto nella civica i gendarmi e le guardie di polizia; le diede a segnale di pace una sciarpa bianca, una piuma bianca al cappello delli officiali; le predicò che suo immediato oggetto era il publico ordine; subordinazione rigorosa; nessuna fazione, se non per ordine del comandante; e autorizzato questi e un consiglio a infliggere punizioni. E perchè i civici non potessero nuocere nemmeno volendo, Schwarzenberg, che aveva promesso armarli, diede loro pochi fucili e inetti all'uso, o perchè il fondo delle canne era ostrutto con piombo o legno, o perchè mancava il percussore. Da Val Trumpia, da Val Sabbia, dalla Francia Curta, dalla Riviera di Salò, venivano intanto i messaggieri di quei popoli chiedendo ordini alla patrizia prudenza. Così fu tenuta Brescia anche il quarto giorno.

No, l'impedimento all'intera vittoria del popolo non fu nelle armi de' suoi nemici, ma nelle anime irresolute de' suoi maggiorenti, tanto corrivi a provocare il pericolo, quanto ritrosi ad affrontarlo. E in ciò Radetzky medesimo locava omai le maggiori sue speranze. Aveva egli, nella notte precedente, risposto ai consoli, che si terrebbe onorato di vederli in Castello alle 7 del mattino; e in quella conferenza egli, egli stesso, propose che per tre giorni cessasse da ambo le parti ogni ostilità: «propose de cesser toute hostilité des deux cotés». È atto solenne, firmato da cinque consoli, e registrato nelle carte del parlamento britannico. E non importa se il Willisen ebbe a spacciare che Radetzky diede una secca e aspra ripulsa ai consoli stranieri, e fece significar loro ch'ei ben saprebbe ridurre al dovere i ribelli: «man werde wissen die Rebellen zu Paaren treiben». Nè importa con quale insolenza i generali affettino ora di parlare dei consoli che furono testimoni dell'avvilimento loro: «anche i consoli stranieri si mescolarono al combattimento; poichè debbono pur cacciare il naso, ovunque siavi da far qualche imboglio: da sie überall die Nase haben müssen wo es etwas zu verwirren gibt». Ah! in quell'istante era pure la sola àncora di salvamento. E con quale ansietà Radetzky l'attendesse, ben si palesa nella chiusa del suo dispaccio a Ficquelmont: «Le mie notizie delle provincie sono poche e tristi; tutto il paese è sollevato; e anche il popolo delle campagne è in armi; a due ore dopo mezzodì, l'armistizio non è ancora conchiuso, poichè, sino a quest'ora, nessuno della città mi si è presentato». La minuta della conferenza consolare del 21 marzo conferma come Radetzky mirasse solo a ingannare i consoli e i cittadini. Si assicurava, infatti, il passaggio dei viveri (l'entrée et la sortie des personnes portant des vivres): il passaggio dei corrieri (laisser passer les postes et les couriers): il diritto di tagliare a pezzi i soccorsi delle provincie (se réservant d'empêcher l'entrée en ville de la population des campagnes, et plus particulièrement des personnes armées), e si preparava un'anticipata scusa a improvise ostilità, ammettendo quelques coups de fusil isolés qui pourraient étre tirés.

I municipali ingoiavano l'esca avidamente. Parevano in perpetua congiura contro se stessi e la patria; non avevano il minimo presentimento che il principe potesse averli già consegnati al braccio militare. Miravano con obliquo sguardo gli onesti oppositori che si adoperavano a ritrarli dalla prigionia e dal supplicio. La lettera del giovine arciduca era chiara e precisa: «tutti i prigionieri si dovevano fucilare»: «alle Gefangenen sollte man füsilieren». Perocchè non si interponevano allora a favor dei ribelli secrete stipulazioni di regio alleato, che potesse in faccia alli austriaci vantarsi d'aver cooperato a rimettere in forza loro il paese; e che dovesse per necessità d'onore, e anche con autorità di maggiori potenze, patteggiar la salvezza de' suoi seguaci. Epperò il nefando diritto del piombo e del capestro avrebbe avuto in Italia il campo atrocemente libero, come l'ebbe colà dove soggiacquero Batthyany e Blum. Sarebbe dunque stato pietoso nel sangue delli aborriti italiani, chi fu così spietato nel sangue de' suoi?

In aspettazione che la legge marziale desse arbitrio di metter mano sulla vita de' grandi, s'infieriva tra le latebre del Castello contro i plebei. «Incominciavano le esecuzioni militari: il giorno 20, ne scorgevamo passare un dodici per il cortiletto, ove pare vi fosse una specie di consiglio. In un'ora furono giudicati; uscirono in mezzo ad una turba di soldati furiosi e imprecanti; e per la porta grande tratti nella terza corte. Scorsi pochi minuti, ne giunse all'orecchio un funesto scoppio. Cadevano sul margine della fossa del terzo cortile. Il 21, altri colpi, nel terzo cortile, ci avvertirono che altre vittime cadevano».

La sola necessità dell'esempio può scusare, s'è possibile, l'uomo che trae l'uomo al patibolo. Ma un supplicio clandestino è un vile omicidio. Ora dicano i fautori dell'Austria a cui fossero d'esempio quelle morti, inflitte in secreto, per ignote colpe, a uomini che sparvero dal consorzio dei viventi senza che alcuno sapesse se per crudele giudicio o per caso di guerra. E un'altra dimanda facciamo. Entro, e intorno, a quelle orride fosse in cui colavano le latrine del Castello, si raccolsero fra i molti cadaveri alcune reliquie di membra feminili. Chi aveva ucciso quelle donne? Chi sa i nomi dei cavallereschi officiali che sedevano a giudicarle, e a darle da trucidare e mutilare ai soldati, e da gettare insepolte in luogo immondo?

E ancora, fra le luttuose memorie, ci conforta che il nostro popolo ha le mani pure di siffatte viltà.

I più infervorati nell'armistizio erano Durini e Borromeo; il primo per certi suoi cavilli che altri non saprebbe facilmente ritessere; il secondo perchè s'era fitto in mente che entro 24 ore la città sarebbe, senza viveri e senza munizioni. Gli rispondeva Carlo Cattaneo che l'armistizio avrebbe rotto l'impeto del popolo, e dato agio al nemico di far macello dei soccorritori; l'esempio apporterebbe contagio; uscirebbero nel primo giorno i forestieri e i timidi; nel secondo i prudenti; nel terzo i valorosi. Il nemico, che aveva fornito fin allora le munizioni, le fornirebbe ancora; se non bastassero 24 ore di viveri, basterebbero 24 ore di digiuno: il nemico non poteva reggere più a lungo sulla linea dei bastioni: e già v'erano concerti di forzarla in quella medesima notte. Infine dovesse pur mancare il pane, meglio morir di fame che di forca.

La gioventù intanto fremeva; giunsero in solenne comitiva i consoli. Ed ebbero dal Casati il rifiuto dell'armistizio, «in nome dei cittadini che attualmente si adoperavano alla difesa della città, avendo il municipio un'autorità limitata dalla forza delle circostanze». Così fu risposto. I consoli scrissero a Radetzky che la sospensione d'ostilità, ch'egli li aveva incaricati di proporre al municipio, non era accettata: «n'a pas été acceptée». Lo pregavano di nuovo che consentisse un salvacondutto ai loro clienti, in caso che dovessero correre più gravi pericoli. Gli scrissero poi la dimane, a nome delle famiglie e dei prigionieri in Castello, i quali si credevano assai maltrattati (fort mal traités); attestando che i cittadini trattavano i loro prigionieri benissimo (parfaitement bien), come poteva dire per prova l'officiale austriaco apportator della lettera. Rispose Wallmoden scusando le circostanze, la penuria, le molte truppe addensate in angusto spazio. Ma poteva ciò scusare le contumelie e le percosse e le furtive uccisioni?

Pare che Radetzky, tostochè, nel pomeriggio del quarto giorno, ebbe ricevuto quella ripulsa, non pensasse se non a raccoglier d'ogni parte le sue forze e accingersi alla ritirata. «Nella giornata del 21», scrive un officiale austriaco, «vista la seria piega che prendevano le cose in Milano, spedì il maresciallo uomini in tutte le direzioni con ordini espressi alle piccole guarnigioni delle vicinanze e alle brigate che custodivano i confini, di recarsi immediatamente sulla capitale. Forse sperava, rinforzato di nuove truppe, di domare ancora il movimento; forse volgeva già allora nell'animo la ritirata e ne preparava i mezzi. Il corriere di Magenta, vi giungeva difatti la notte del 21 al 22». Un medico che fu prigioniero scrive: «Era chiaro che il popolo acquistava ad ogni istante terreno; vedevamo uscire i soldati a compagnie e ritornare a drappelli; uscivano furibondi e tornavano col pallore sul volto, sozzi di sangue e feriti. Sdraiati nel fango sanguinoso de' cortili, facevano orrido spettacolo. Radetzky doveva pensare alla ritirata; le soldatesche affamate non avevano più fede nei loro capi; s'egli avesse tardato ancora un giorno, avrebbero tumultuato. La fucilata si udiva sempre più vicina; le palle ribattevano per le mura del Castello; alcune per la loro grossezza parevano lanciate da piccoli cannoni. Il popolo, dunque, si avvicinava; spesso ci pareva udirne il minaccioso ruggito. Il dì 20 e il 21, si vedevano già i cortili del Castello pieni di carri e di carrozze. L'ordine della partenza era dato, poi rivocato». Narra un soldato italiano del Geppert: «Dopo quarantotto ore, siamo tornati in Castello, il martedì; maggior confusione; molti carri e carrozze; mucchi di bauli ed altri preparativi di partenza; si condussero dentro buoi e vitelli, si ammazzavano, si facevano in pezzi, si mettevano a bollire mangiandosi mezzo crudi. Entrarono, urlando come bestie, alcuni croati; due o tre avevano infilzato sulle baionette poveri bambini; alcuni dei nostri abbassarono le armi per andare a punire i barbari. Eravamo tutti pallidi di rabbia. Si sentivano dappresso le fucilate; un tirolese fa ucciso da una grossa palla di spingarda nel cortile medesimo».

La linea nemica era già quasi interrotta presso la Porta Tosa, ove si combattè caldamente tutto quel giorno. Al di dentro, il popolo s'era stabilito nel Conservatorio; di fuori, presso la stazione della Via Ferrata; in quell'intervallo di 300 metri i due fochi s'incrociavano, radendo il dorso del bastione, ch'era selciato di cadaveri. Inanzi mezzanotte, era fatto concerto di salir d'ambo le parti sul bastione e trincerarsi. «Io con un lumicino», depone un testimonio, «accompagnai l'ingegnere Cardani e diversi altri, tutti armati di fucile e carabine. Alcuni zappatori, diretti da Borgocarati, entrarono nel giardino; procurai loro una leva di ferro per aprire una breccia nel muro di cinta. Cardani li condusse per gli orti sui bastioni. Ivi furono da noi calate le scale al di fuori, lungo le mura, onde avessero ad ascendere quelli che si trovassero esternamente; sfortunatamente non si vide nessuno». Gerolamo Borgazzi, avendo raccolti, fuori le mura, duemila armati, era penetrato, solo, in città per fare quell'accordo col consiglio di guerra; ma pare che il nemico, avvistosi di tanta adunata di gente, occupasse con forze esuberanti la stazione e le case vicine, ponendo a ferro e foco ogni cosa. Borgazzi dovè trasferir l'assalto ad altra parte, ove, la dimane, alla testa de' suoi, cadde ferito a morte. Ad alcuni altri venne fatto di uscire della città, guadando un aquedutto sotterraneo; ed anzi il consiglio di guerra faceva sviare un altro corso d'acqua per fare una mina sotto la batteria che il nemico aveva collocato inanzi alla Porta Tosa; ma non si ebbe animo di prodigare, in un sol colpo incerto, tutta la polve ch'era necessaria. Intanto che i fonditori apprestavano qualche cannone, se ne trovarono tre piccoli e due spingarde, che i cittadini portarono sulle spalle a Porta Tosa. Il professor Carnevali e il pittore Borgocarati apprestavano barricate mobili di fascine pesanti, colle quali affrontar da presso la mitraglia. Ad ogni modo la linea si sarebbe in qualche punto sforzata; e con ciò tolti i viveri, intercetti gli ordini, sconnessa la mole nemica. A tale erano le cose, sulla fine del quarto giorno; la vittoria del popolo era certa.

E v'era chi aveva già pensato a usufruttarla. Finora non si pose mente, ma col procedimento nostro di registrare per loco e tempo ogni fatto, non poteva rimanerci inosservato come, nel proclamare la guerra d'Italia, precorresse a ogni altro principe il granduca di Toscana: - «Firenze, 22: è mezzogiorno; il popolo assembrato dinanzi al palazzo del commune, dimanda armi, perchè vuol correre ad unirsi ai bolognesi, per salvar Modena e passare in aiuto a Milano; il gonfaloniere invita i civici ad inscriversi presso il rispettivo capitano; gli gridano: questo non è altro che un perditempo. Il popolo s'adira; corre in piazza gridando: abbasso il ministero. Il ministro parla al popolo: fra due ore partirà la truppa». Ed esce tosto un bellicoso manifesto del granduca: - «Toscani! l'ora del completo risorgimento d'Italia è giunta improvisa. Io vi promisi l'altra volta di secondare a tutta possa lo slancio de' vostri cuori in circostanze opportune; ed eccomi a tener parola. Ho dato gli ordini necessari perchè le truppe regolari marcino senza indugi alla frontiera. I volontari che desiderano seguire le regolari milizie, riceveranno un'organizzazione istantanea. Duolci che l'egregio Collegno, a cui una improvvisa infermità tolse di spinger più inanzi l'ordinamento dei volontari non possa oggi esser con loro. Affretto colle mie premure la conclusione d'una potente lega italiana, che ho sempre vagheggiata, e della quale pendono le trattative». Queste parole dell'arciduca austro-italico sono piene d'ambagi. L'inviato britannico scrisse da Firenze a lord Palmerston: «Qui l'aggregazione dell'intero Stato di Modena e Parma alla Toscana si allega come un diritto incontestabile». - Diritto? È ignoto ancora al mondo il titolo sul quale un tal diritto poteva fondarsi. Il granduca, che aveva già conquistato Lucca, doveva dunque stendere le sue conquiste sino al Po? Era forse un mezzo termine, per accaparrare, nel nuovo ordine di cose, alla progenie austriaca il godimento di Modena e di Parma? Era in accordo con Carlo Alberto? O era in conflitto con lui? E qual era l'improvisa infermità che tolse all'egregio Collegno di ordinare i volontari toscani, ma che non gli tolse di correre, poco stante, a Milano a ordinarvi l'esercito del governo provisorio? Ludovico Frapolli, il quale potè veder molte delle cose che allora si maneggiavano alle spalle del popolo combattente, parla d'un regno d'Etruria, d'una lega di sei Stati italiani, d'un appoggio chiesto alla Francia contro il futuro regno dell'Alta Italia. E l'ammiraglio Baudin or ora rivelò come la casa di Toscana, parimenti col favore della Francia, contendesse alla casa di Savoia anche il trono di Sicilia. Ma questa essendo indagine che appartiene ad altro luogo, aggiungeremo solo che il granduca, non appena ebbe annunciato, il 21, d'adoperarsi «pel risorgimento d'Italia» e per secondare «lo slancio dei cuori», trivialmente dichiarò, il 22, d'occupare i territori estensi «provisoriamente e in linea di semplice presidio», considerando che la quiete e la sicurezza de' suoi domini potrebbe essere compromessa dai disordini che quivi si manifestassero. Questa bilingue politica del ministerio di Cosimo Ridolfi venne, indi a pochi giorni, seguita dal ministerio di Cesare Balbo. Dicevano i fiorentini antichi: tanto vale altri quant'altri.

Che faceva tra sì repentine risoluzioni il comitato albertino di Firenze? Favoleggiava che il regio suo patrono fosse già coll'esercito oltre Ticino. La Patria con imperterrita audacia asseriva: «Il Piemonte si rovescia sulla Lombardia; spedisce un corriere alla republica francese per avvisare ad entrare di concerto; tenete per certo che Carlo Alberto è entrato in Pavia; una lettera di Genova, giunta questa matina, porta a notizia che quattordici battaglioni piemontesi e quaranta pezzi di cannone sono entrati in Lombardia». E in data di Stradella del 22, a ore otto di sera: «La truppa piemontese ha fatto il primo ingresso in Milano, verso le due dopo mezzodì; e fu il corpo dei bersaglieri che vi entrò dalle mura».

E il grande agitatore, Massimo Azeglio, che faceva intanto a Roma? Il 21, alla prima novella della eruzione di Milano, migliaia di volontari «diedero il nome»: era come al tempo dei consoli antichi: nomina dederunt. Un testimonio di vista scrive: «Invano i moderati di qualunque paese, compreso l'Azeglio, tentarono di frenare quell'impeto».

Nè gli Azegliani di Bologna operarono altrimenti. «Al mezzogiorno (del 21), l'antiguardo dei finanzieri condutto da Tanari passò il confine estense; il rimanente con Zambeccari marciò indi a poco; e la compagnia di Medicina, dopo una tappa di 40 miglia senza prender riposo, ne formò il retroguardo. Alla sera, la colonna entrò in Modena. Gli altri rimanevano, per ordine del Bignami; Zanetti chiamò gli officiali all'ordine; e diede consegna di non lasciar uscire alcuno dalla cinta del forte (Forte Urbano). Intanto si spedivano da Bologna dispacci e corrieri al duca. Il Bignami ordinò pel mattino del 22 la contromarcia su Bologna». Ed anche la colonna di Zambeccari venne tosto richiamata.

Il governo ducale era ovunque in rotta; insurgevano Guastalla, Pontremoli, Avenza; ma rimase sventata la decisiva impresa che, prima del ritorno di Radetzky e Daspre, potevasi in poche ore facilmente compiere dai battaglioni di Modena e Bologna: l'occupazione di Mantova. Fu detto, che se erano certi d'entrare nella città, non erano certi d'entrare in Cittadella e in Pietole. Nessuno lo può dire; e ad ogni modo Cittadella e Pietole, senza la città, erano due forti, e non una piazza d'armi e di rifugio per un esercito disfatto. Quell'inazione degli albertini che abbiamo notata in Brescia e in Bologna, fu manifesta anche in Reggio e Piacenza. Tutte queste città seguirono debolmente i moti di Milano, di Roma, di Modena, di Parma, perchè già era posta una delle secrete norme dei fusionari: alienare le provincie dalle capitali: sedur quelle per costringer queste.

E anche in Parigi, mentre col patto dell'Associazione Italiana erasi accaparrata al Piemonte l'iniziativa, Gioberti scriveva per disviare da quell'iniziativa il Piemonte, predicando «pacatezza, sedatezza, per amore del cielo»; e all'uso gesuitico, infamava chi dicesse altrimenti: «ho buono in mano per credere che l'Austria ha la sua parte in tali rumori; certe cose non si possono sapere in Italia come a Parigi». Certo, a suo dire, quei valorosi che si facevano uccidere sotto ai bastioni di Milano, erano pagati dall'Austria! Senonchè il Piemonte aveva ben più autorevoli consiglieri. Abercromby inculcava «la più stretta neutralità»; e dichiarava «funestissimo errore il lasciarsi in alcun modo compromettere».

Per le quali cose tutte, era ben da aspettarsi che nessun adunamento di truppe vi fosse al confine. I reggimenti, se badiamo alla Gazzetta Piemontese, si ebbero poscia a chiamare fin da Nizza, da Torino, da Genova. Il presidio di Novara era di 1500 uomini; e ciò mentre gli Austriaci avevano tra il Ticino e l'Adda, in un intervallo di due marce, sette brigate. Un reggimento di cavalli ch'era a Vigevano inviò distaccamenti verso il Gravellone; i quali insieme a qualche compagnia di fanti «tenevano indietro la gente animosa», non volendosi «intervento legale»; e respingevano anche una sessantina di lombardi che il maggior Peroni condusse da Genova. A Francesco Simonetta fu intimato in Arona di consegnare le armi che aveva seco sopra un battello a vapore; e si trovò modo che tornassero alle case loro certi contadini novaresi che volevano accorrere a Milano a difendere i loro padroni. Si avevano nella Lomellina solo «armi raccogliticce, grame, quasi inutili». I volontari genovesi ebbero «a scappare colle armi della civica, che il governatore aveva loro duramente negate». Il ministro Ricci ricusò un centinaio di fucili al valoroso Torres; un assembramento che chiedeva armi in Torino fu fatto disperdere dalla civica; solo pel Sonderbund si erano, senza scrupoli internazionali, donate a migliaia le buone armi. I magistrati tenevano a bada i popoli colla tarda amnistia, colla legge elettorale, con passeggiate militari da Mondovì a Nizza, con arrolamenti di battaglioni futuri, coi quali si legava la gioventù più fervida, e anco gli israeliti e i forestieri. E si predicava che i genovesi non dovevano lasciar «senza forze» la loro città; e che gli «ammogliati» dovevano restare alle case loro; e che le navi inglesi avrebbero bombardato Genova, s'ella osava dar soccorso ai ribelli di Milano. Infine si prometteva di fare, a giorni, un campo d'osservazione; il quale, se non dava alcun aiuto ai combattenti, avrebbe, al dir d'Abercromby, «il vantaggio di calmare il publico ardore».

Senonchè l'efficacia del campo calmante di Cesare Balbo non poteva giungere oltre il confine. E turbava i sonni costituzionali del ministerio quella nuda alternativa che si era spedita, pochi giorni inanzi, da Milano, sopra mezzo pollice di carta: o passate, o republica. E a questo motivo si riducevano le infinite variazioni che i promotori della guerra facevano risonare alli orecchi del re. «Se l'insurrezione vince, prima che la bandiera di Carlo Alberto sventoli sui bastioni di Milano, questa costituirassi in republica, collegherassi a Svizzera e Francia; e Milano non vorrà certamente sottomettersi a chi non accorreva pronto quando l'ora dell'agonia pareva sonata. Se la Francia anticipa i principi della penisola nel combattimento della nazionalità, la gratitudine farà republicani i milanesi, che il dolore e la speranza faceva costituzionali». Se adunque importava al re di conformarsi umilmente alli imperiosi consigli britannici, importava eziandio confortare i milanesi nella costituzionale speranza. Alla politica della mano destra era mestieri fare la consueta altalena colla politica della mano mancina. «Il conte Arese di Milano arrivò qui l'altra notte, (19), a dimandar soccorso al Piemonte per gli insurti lombardi; egli vide i ministri ieri matina, (20), e ripartì la sera per Milano, assai deluso del nessun esito della sua missione; mi si afferma positivamente ch'egli non vide sua maestà sarda». Così scriveva sir Ralph Abercromby a lord Palmerston. Altri crede che Arese avesse veramente colloquio col re nelle stanze del conte di Castagnetto; ma ciò non monta; poichè ad ogni modo, finchè le sorti di Milano rimasero dubie, i soccorsi non vennero; e Arese ebbe sì fiacche speranze, che non credè prezzo dell'opera recarle ai combattenti; e si rivolse altrove.

Senonchè, già prima ch'egli fosse arrivato a Torino, pare fosse di là partito il conte Enrico Martini, che, passato il confine presso Magenta la notte del 19, e giunto la matina del 20 presso Milano, vi si aggirò sino al dì seguente, quando trovò modo di farvisi introdurre travestito con quelli che apportavano in città il sale pei soldati. «Io sono inviato di Carlo Alberto», egli asseriva; «trentamila piemontesi stanno al Ticino, e attendono solo l'invito del governo di Milano per passarlo». A chi era fra quelle angoscie, il desiderio faceva parere i soccorsi del Piemonte sì certi e pronti, che, in quel dì 21, alcuno corse a riferire al consiglio di guerra di averli veduti colli occhi suoi dall'alto dei campanili; e il consiglio lo partecipò tosto al popolo: «La città è attorniata di numerose bande venute da ogni parte, fra cui si vedono uniformi di bersaglieri svizzeri, e piemontesi che hanno precorso i loro corpi che passano il Ticino». Ma fuori le mura, il popolo, avendo ben altre notizie e pur troppo certe, del Piemonte, fremeva; onde scrisse taluno alla Concordia, il 21: «Scrivo al rimbombo del cannone; mi sento cascar l'anima pensando a quei poveri infelici che si trovano in Milano; qui nel borgo bestemmiano contro i piemontesi, perchè non portano soccorso; mi tocca parlar milanese, perchè da ieri che aspettano i piemontesi, sarebbe imprudenza farsi conoscere».

Martini dimandò ai municipali che facessero invito al re, in forma di dedizione. I municipali chiesero l'assenso del consiglio di guerra. Rispose questo: non potersi donare il paese senza il voto del popolo: nè quelli esser momenti di ritrarlo dalla battaglia a controversie politiche. A guerra vinta, si vedrebbe. Darsi al Piemonte era porre in sospetto tutti gli altri principi. E inoltre, come fidare di chi li aveva già traditi nel 1821? di chi li lasciava, in quell'istante medesimo, sotto la mitraglia? Erano dunque contenti d'essersi affidati nel 1814 alla casa d'Austria? Se l'Austria era straniera, tutte le famiglie regnanti erano straniere, pronte tutte a cospirare colli stranieri. Era necessario far guerra di nazione, chiamar tutta Italia. Se poi un solo principe recasse soccorso, avrebbe egli solo la gratitudine dei popoli. Dargli il paese era inutile; poichè sarebbe suo, s'ei vinceva; e se non vinceva, non sarebbe suo, nemmeno se glielo dessero cento volte. E tosto il consiglio presentò ai municipali, con molte firme di cittadini, una dichiarazione che la città di Milano domandava il soccorso di tutti i popoli e principi d'Italia; e la sparse anche al di fuori coi palloni volanti. E scrisse altro appello a tutte le città, perchè costituissero consigli di guerra, i quali lasciando ai municipi gli altri affari, attendessero a questo unico; e dimandò a ogni terra d'Italia una deputazione di baionette. Le ambizioni e le fusioni perdettero la guerra; una semplice federazione militare l'avrebbe vinta.

Martini, vedendo la incertezza dei municipali, sollecitava lo stesso consiglio di guerra a costituirsi in governo provisorio per fare la dedizione a Carlo Alberto. «Sa ella», diceva a Cattaneo, «che non accade ogni giorno di prestar servigi di questa fatta a un re?» L'altro gli rispondeva e a voce e in iscritto, che l'amore dell'indipendenza avrebbe fatto dimenticare la libertà, che la parola gratitudine avrebbe fatto tacere la parola republica, ma che il re non poteva esigere anzi tempo il prezzo d'un servigio che non aveva reso. Doveva il Martini recar in Piemonte la risposta dei municipali quella medesima notte; fu fatto condurre due volte al bastione di Porta Tosa ov'erano appoggiate le scale; ma non volle uscire. Intanto verso l'alba del 22, il municipio deliberò finalmente di dichiararsi, non sappiamo per mandato di chi, governo provisorio. E nella successiva sera scrisse al ministro Pareto accreditando presso di lui il conte Martini. Era strano quell'accreditarlo presso coloro che lo avevano inviato. S'era inviato del re, doveva riportargli in tal sua qualità la risposta dei municipali: non poteva svestire la sublime livrea di suo messaggiere per ricomparirgli inanzi incaricato dei municipali e «d'alcuni abitanti notabili», che invocavano l'aiuto delle armi della sacra sua maestà.

Al mattino del quinto giorno, in un avviso dei municipali si lesse: «L'armistizio offerto dal nemico fu da noi rifiutato, ad istanza del popolo, che vuol combattere». E più inanzi: «Questo annuncio vi vien fatto dai sottoscritti, costituiti in governo provisorio, che reso necessario da circostanze imperiose e dal voto dei combattenti, vien così proclamato». Il voto dei combattenti era una millanteria; i combattenti non avevano votato. E pochi momenti dopo, in altro avviso, si aggiungeva una perfidia: «I buoni cittadini di null'altro debbono adesso occuparsi che di combattere. A causa vinta, i nostri destini verranno discussi e fissati dalla nazione».

Il governo era un'assurda compagine di due elementi, l'uno giovanile e ideale, l'altro triviale e senile; il primo era in pugno al secretario Cesare Correnti, il secondo al conte Giuseppe Durini. La mutua loro ripugnanza venne espressa nel così detto Libro del Re, ove un capitolo, scortesemente intitolato Umori del governo provvisorio, deplora che, togliendo pochi, «i restanti membri del governo appartenessero alla fazione republicana». E venne espressa dal Correnti medesimo con quelle veementi parole: «Orribile supplicio è il mio, che dalla sfera del divino ideale sono trascinato nella realtà dura e spesso schifosa». Così è; devoto a domestiche aspettazioni, il governo, ove si eccettui il conte Borromeo, non aveva nemmeno in sè l'elemento dell'opulenza; e quindi rappresentava gli interessi piuttosto come servo, che come padrone. Ma esso era una necessità; dacchè il patto che gli soggiogava l'incauta gioventù, e ch'era parte d'altra più vasta transazione la quale involgeva gli esuli e l'Italia, non si poteva in quei fatali istanti infrangere, senza porre a repentaglio la commune salvezza. Era forza mietere ciò che si era seminato.

Attratti dall'autorità del nome municipale, altri cittadini gli si erano ordinati intorno, il terzo, e il quarto dì, in vari comitati per provvedere ai feriti, ai poveri, ai prigionieri e ad ogni altro presente bisogno. E si era contraposto al consiglio di guerra un comitato di difesa, composto d'altri elementi. Ma non ne nacque conflitto; anzi nel mattino del quinto giorno, si congiunsero in un unico comitato di guerra. Si convenne che ne fosse preside Pompeo Litta, l'unico dei membri del governo dal quale si potesse, senza ripugnanza, dipendere. Tanta è in Italia la potenza delle tradizioni municipali, che una congregazione nominata dall'imperatore e affatto estrania ad ogni suffragio di popolo, parve il più opportuno e fido presidio del popolo contro l'imperatore. E così avvenne in tutte le altre città. Non si disse, a cose nuove uomini nuovi; ma, a cose nuove uomini vecchi.

Nel quinto giorno, Radetzky si accingeva alla ritirata: le truppe richiamate dai confini si addensavano intorno alla città, incalzate al di fuori dalle turbe campestri, affrontate al di dentro dai baldanzosi cittadini. Ogni moto del nemico era esplorato dall'alto dei campanili, e riferito al comitato di guerra con pronti avvisi, che si calavano dall'alto rapidamente, avvolti ad anelli scorrenti sopra filoferro; e si apportavano da garzoni che Cernuschi aveva ordinati a guisa di posta. In una di quelle carte scritte colla matita, leggiamo: «Ore 12: molte truppe da Porta Vercellina si portano al Castello: interi battaglioni». Era la brigata Maurer che giungeva dalla frontiera piemontese. Nel corso del giorno tutte le caserme furono accerchiate dal popolo e occupate; dappertutto si scoprivano armi e munizioni. I volontari dei dintorni (cioè della pianura milanese) congiunti con altri che venivano da Crema, da Soncino, dal Bresciano e dal Bergamasco «attaccarono la Porta Vigentina, portando seco scale; alcuni salirono fin sul parapetto; ma l'ardito tentativo di penetrare in città da quella parte non riescì». Il sommo sforzo de' cittadini s'era rivolto verso la Porta Tosa, ove il nemico alla volta sua rinovò forse cinque volte con truppe fresche il combattimento. Fu quella una vera battaglia, sostenuta dall'alba a sera con indefesso ardore. E non era posizione propizia ai cittadini, perchè, quartiere poco abitato e senza esterno sobborgo, non porgeva ai combattenti colà venuti aumento di forze. Era anzi opportuna alle truppe; le quali avevano inanzi alle bocche dei cannoni una strada rettilinea, lunga mille passi e larga forse cinquanta; e potevano attelarsi in doppia fronte sul bastione e sulla circonvallazione, sulla via ferrata e sulla via di Crema, riparandosi nella porta stessa, e in alcuni edifici dentro e fuori la città. Dicevano gli avvisi: «Ore dodici: a Porta Tosa, fuori, molti de' nostri battono fortemente, e i militari fugono precipitosi; aiutate i nostri e vinceremo. - Ore dodici e un quarto: il nemico riparato nel Dazio e nelle case a mezzodì del corso; due cannoni arrivati in sussidio al nemico obbligheranno i nostri a ritirarsi dalla posizione vantaggiosa che occupavano. - Ore dodici e mezzo: molta truppa e sei pezzi di cannone sono arrivati da Porta Orientale a Porta Tosa; abbisogna su quel punto molto rinforzo». Verso mezzogiorno «le barricate mobili eransi avanzate a tale che dall'ultima finestra delli edifici dell'ala sinistra sventolava la bandiera tricolore; la cavalleria e la fanteria cominciavano a ritirarsi, quando una batteria appuntossi verso l'orfanotrofio e il Corso, vomitando incessantemente mitraglia e granate, che appiccarono il foco; i nostri per un istante parvero cedere, già ardeva la prima barricata; due morti, e quindici più o meno gravemente feriti». Luciano Manara scriveva al comitato: «Siamo all'ultima casa, la nostra bandiera vi sta già sventolata. Avremmo già vinto, se un poderoso rinforzo di linea e di cannoni non fosse in questo punto arrivato; mi si dice che scarseggiano molto le munizioni da fucile; mandatene; vinceremo o moriremo».

Le difficoltà per tal modo, a Porta Tosa, crescevano d'ora in ora. Ciò nondimeno i pochi che potevano allegare esperienza militare, si ostinavano a continuar l'assalto in quel punto, e pei preparativi già fatti, e perch'era il più vicino al cuore della città. A parer loro non conveniva far punte, ma allargarsi equabilmente in tutto il circuito. Assai più agevole sarebbe stato far forza nei quartieri più popolosi, quantunque più remoti, ponendo la mira alli intervalli tra porta e porta, ove il nemico non aveva spazio da accumular forze, nè strade molteplici da pervenirvi. E perciò, senza distaccare, un solo combattente dalle altre posizioni, Cattaneo potè, verso mezzodì, interrompere al nemico la linea tra la Porta Ticinese e la Vercellina. «Gli spazi erano affatto deserti; un denso fumo velava ogni cosa; era presso il meriggio, e pareva sera. Non appena ebbimo fatto intendere che dovevano solo spingere attraverso alla via carri e carrozze, che quasi per incanto balzarono fuori d'ogni parte giovani armati; e ancor prima di chiuder bene que' ripari, bersagliavano audacemente i nemici accosciati sul bastione. Qualche ora dopo, il bastione veniva raggiunto alquanto più a tramontana, dalla compagnia del cittadino Colombo». V'è qualche indicio che ciò sia bastato a mutar tutto l'ordine della ritirata, essendochè un officiale scrive: «Gli imperiali erano già limitati alle sole porte e a parte della linea di circonvallazione; dico parte, dacchè quella, per esempio, da Porta Vercellina a Porta Ticinese e vari altri pezzi erano già in mano delli insurti». E l'opera publicata a Zurigo, e ricavata dalle carte dello stato-maggiore, descrive in modo incerto la ritirata, non come si operò, ma come si era disegnato operarla, se non vi fosse stato l'ostacolo anzidetto. «L'esercito si mosse in cinque colonne; probabilmente due dalla parte di mezzodì, e tre dalla parte di settentrione, seguendo una colonna il bastione meridionale, e due il settentrionale o Corso; e tanto qui come là, una colonna il viale di circonvallazione».

Cadeva già la sera, quando i cittadini fecero l'ultimo sforzo a Porta Tosa. «Chi ci comandava», narra l'operaio Biraghi, «era Manara: io banderale: e Cernuschi rappresentante il governo provisorio; dietro a noi trenta uomini, tra i quali i due fratelli Mangiagalli, Lochis, Vernay ed altri; dietro a questi, trenta barricate mobili che già erano in moto. Arrivavano ai nemici sette pezzi da sei, oltre quelli che già avevano; ma non arrivarono a puntarli. L'artiglieria loro scarica; e noi, si va avanti. Arrivano le barricate mobili; più di mille dei nostri fanno un foco terribile; restano dietro ogni pianta tre o quattro soldati morti. Io allora mi volto, e colla punta dell'alabarda apro lo sportello del Dazio, ch'era semichiuso: e fuori. Con Manara ed altri siamo arrivati presso il Camposanto. Non avendo trovato nessuno, siamo tornati. Tutte le case d'ambo le parti fuori della porta erano in fiamme». Alla porta stessa appiccò il foco Manara di sua mano, quasi per impedire che il nemico potesse chiuderla un'altra volta. E poi lieti della vittoria, egli e i suoi, pensarono poter tornare in città; e dietro loro, a onde, le turbe armate, che già da più giorni combattevano fuori le mura. Era un impeto di curiosa ansietà, che nessuno colà pensò con provido consiglio a raffrenare. Intanto quell'angusto passo rimase aperto, dentro e fuori la città; e il nemico, verso mezzanotte, potè farvi sfilare in doppia colonna, fra le ruine delle ardenti case, i suoi battaglioni.

Nella quinta giornata tutta la Cisalpina era in armi. Dal lago Maggiore giunse, quella sera, a Varese la colonna di Luvino e Macagno; a Gallarate giunse da Angera la colonna Simonetta. Ve ne giunse altra da Varese, di 800 uomini, armata in parte coi fucili dei croati, e preceduta dai carabinieri ticinesi di Ramella. Ancora 450 si accingevano a partir di Varese il dì appresso; e il vecchio preposto d'Arcisate vi arrivò alla testa de' suoi, «a cavallo, cinto di spada, inalberando fra le turbe giulive un immenso crocifisso. Il giorno si chiuse fra gli inni a Pio IX e alla libertà».

A Como, duemila armati, coi ticinesi d'Arcioni, assediavano presso Porta Torre 600 Varasdini e Prohaska; i quali bersagliati di fronte e di fianco, e minacciati d'incendio e di mine, e privi di cibo da 36 ore, si arresero, con un colonnello, tre capitani e la bandiera d'un battaglione. «Uscirono inermi i soldati, comandati dai loro officiali, e schierati nella piazza attendevano gli ordini dei rappresentanti del popolo. Si dispose che a ciascun soldato si somministrasse pane e vino!». Il municipio, senza attender tempo, esortò gli armati al soccorso di Milano: «Noi abbiamo oggi raggiunto i nostri voti, e li avremo compiti, quando sarà cessato l'assedio dei fratelli di Milano; l'accorrere in loro sussidio è dovere, non restando altro a raccomandarsi fuorchè di non frapporre ritardo».

A Sondrio, il 22, le truppe consegnarono al podestà il castello, con tutte le armi; la Val Tellina rimase tutta libera, sino al confine del Tirolo. La strada militare era già intercetta sulle dirupate rive del Lario; quivi si ordinarono tosto a custodia «800 armati di fucile, e 18 cannoncini di montagna coi loro artiglieri; e su tutte le alture vennero ammucchiati sassi, e assegnati i posti a quelli che non avevano fucili, e furono ordinati in corpi di lapidatori». Una colonna di Lecco era già oltre Monza; e congiunta a quei cittadini, e ai drappelli di Merate e d'altre terre della Brianza, «la sera affrontò le palle del nemico lungo la linea dei bastioni; si vide cadere a lato il valoroso Borgazzi; e per mezzo a incessante moschetteria, entrò in città per Porta Comasina».

A Bergamo, anzi l'alba, tra il favor delle tenebre il nemico aveva sgombrato una caserma, «scalando muri per di dietro», e abbandonando morti e feriti, che il popolo irrompente portò all'ospitale. Nel corso del giorno, la guardia della Polveriera si disperse per la campagna; e vennero derelitte tre caserme, raccogliendosi i superstiti 1200 uomini in una sola; d'onde, qualche ora dopo mezzanotte, scesero nella valle a settentrione della città, che come contraria alla direzione del nemico, i cittadini non custodivano. E di là, con lungo giro, varcato il Serio, poterono mettersi in cammino verso il convegno generale delle truppe presso Crema, sebbene perdendo uomini e robe «ad ogni passo, per molestia di chi li inseguiva e delle popolazioni che alzavansi in ogni dove». Accorrevano a Bergamo armati delle valli Brembana e Seriana.

Occupato il passo del Tonale, abbandonata Rocca d'Anfo, restarono libere sino al Tirolo anche le valli sopra i laghi d'Isèo e d'Idro. Ma il popolo di Brescia non sapeva sferrarsi dalle pastoie de' facendieri azegliani. Il nemico attendeva intanto da Verona un convoglio d'artiglieria; presso Rezzato, gli abitanti di quelle terre, alle 10 del mattino, lo accerchiarono e lo presero, con tutta la scorta di 180 soldati e officiali. In quel momento gli usciva incontro uno stuolo di dragoni; altri dragoni scorrevano la città; una batteria, fuori Porta Torrelunga, gettava palle e granate; la fanteria stava pronta inanzi a' suoi quartieri. Ma in pochi minuti «tutte le vie furono barricate; si trassero dalle chiese tutti i banchi; le donne e i fanciulli disselciarono le strade; al tocco delle campane accorreva gente dai villaggi. Una compagnia d'italiani, mentre veniva condutta a chiudersi fra i battaglioni del reggimento Hohenlohe, corse tutta armata a porsi dinanzi al palazzo municipale sotto la bandiera della città. Un combattimento a foco vivissimo durò quasi un'ora; molte perdite si fecero d'ambo le parti, esposti com'erano i bresciani a mitraglia incessante». Il popolo s'impadronì dell'arsenale e di due caserme, condusse molti prigioni al municipio; Michele Busoni e Carlo Scrittore arrestarono alla testa d'un battaglione il maggiore Wimpffen. «Schwarzenberg e l'arciduca Sigismondo furono veduti fuggire scompigliati, e il secondo senza cappello in testa, attraverso gli orti, scavalcando le siepi». V'ebbero più di 45 cittadini feriti o uccisi; tra i quali, crudelmente trucidati in una caserma, i due prigionieri Bertolini e Segalini «si trovarono inchiodati colle baionette sul tavolato, con un rosario al collo».

Ma Longo e Mompiani, che s'erano fitti in capo di proteggere dall'impeto del popolo il nemico, publicarono verso sera una convenzione da loro conchiusa. Dicevano: «che ad oggetto di risparmiare il sangue cittadino e quello dell'austriaca guarnigione, essi, colla mediazione del cavalier Breinl, avevano convenuto col principe Schwarzenberg che la guarnigione uscirebbe dalla città e dal castello con tutti gli onori militari. Le porte della città rimarrebbero chiuse fino all'alba». Temevano forse che il popolo desse ai nemici troppo affettuoso saluto? Intanto dichiaravano «cessata l'austriaca dominazione e proclamato il governo provisorio. Cittadini! ora non avete altro debito che quello di rispettare la guarnigione austriaca». E in una circolare alle communi, anzichè dar loro alcun bellicoso impulso, dicevano: «proclamato il governo provisorio, mantenete la quiete; attendete gli ordini del capoluogo cui appartenete». Il conte Tartarino Caprioli spinse il delirio della quiete sino a sfoderare la spada contro il popolo in difesa d'un officiale.

Dacchè volevano risparmiare il sangue, dovevano patteggiare che il presidio si avviasse al Tirolo, seppure era a riporsi fede in siffatte promesse. Ma quando chiudevano le porte al popolo della città, e ingiungevano la quiete al popolo delle campagne, potevano concedere al nemico di mettersi impunemente per la via di Crema? concedergli di marciare al soccorso di Radetzky? allo sterminio di Milano? Se, in luogo di servire alla causa italiana, avessero voluto servire all'Austria, avrebbero potuto operare altrimenti?

«La matina del 22, si trovò Cremona libera affatto dalli armati stranieri». Avevano i cittadini una batteria campale, avevano due battaglioni di fanti, e tutte le forze della città e del contado, e quelle che potevano trarre dalla riva piacentina del Po; avevano il forte di Pizzighettone con artiglierie e munizioni; potevano tener quel passo dell'Adda. Potevano, rimontando immantinente per la sinistra il fiume, tentar di raggiungere il ponte di Lodi; era solo trenta miglia lontano di Cremona; e il ponte di Lodi era fuori della città; e, questa aveva presidio d'un solo battaglione italiano e poca cavalleria. Che fecero i moderatori azegliani di Cremona? Altro non curando che di assicurare le loro persone, fecero trasferire da Pizzighettone a Cremona 200 soldati italiani, 700 casse di munizione e le artiglierie; lasciarono quelli abitanti in arbitrio del nemico. E così Benedek, uscito di Pavia verso mezzanotte del 22, ebbe agio di giungere a Pizzighettone il 24, ristorarsi a spese delli abitanti, passare agiatamente quel ponte dell'Adda, con una batteria, e congiungersi sull'Ollio a' suoi commilitoni, quivi pervenuti felicemente da Brescia.

Ora facciamo il caso, che al primo lampo dell'insurrezione non fossero mancati gli avvisi dall'improvida Milano; che in ogni città un comitato di giovani avesse chiamato con audace appello alle armi il popolo di tutto il territorio; che avesse sorpresi in subitaneo ostaggio i capi civili e militari: amicati francamente i battaglioni italiani: affamato immantinente nelle caserme quell'uno, o quei due battaglioni di soldati stranieri, che stava in ogni provincia, con quanto v'era qua e là di cavalli e di cannoni. Facciamo il caso che per tal modo i cremonesi, anzichè trovarsi liberi il quinto giorno alla matina, e i bergamaschi e bresciani la sera, avessero sollecitato d'uno o due o tre giorni; e che coi battaglioni italiani di Sigismondo, dell'Alberto, del Ceccopieri, del Haugwitz, e le batterie di Cremona e Brescia, e il popolo delle città e del contado, si fossero precipitati con ogni maniera di veicoli e d'armi verso i ponti dell'Adda, dai quali Bergamo e Cremona erano lontane 10 miglia, e Brescia poco più di 30. È certo che, al settimo giorno, Benedek non avrebbe trovato aperto il ponte di Pizzighettone, nè Radetzky quello di Lodi, o gli altri delli infiniti corsi d'acqua che frastagliano tutto il paese tra Milano e Mantova. Oltre ai quattro o cinquemila italiani, che l'applauso dei popoli avrebbe inebriati di coraggio, oltre ai 25 cannoni, si potevano portare ai ponti dell'Adda, o almeno a quello del Serio dietro Crema, tutti gli armati dei territori di Bergamo, Brescia, Crema e Cremona. Quelle popolazioni sommano a più di 900 mila anime; a un uomo per cento, sarebbero stati 9 mila i combattenti; a due per cento, 18 mila. Aggiungi i soccorsi di Piacenza, che, lontana da Pizzighettone solo dieci miglia, fu libera sin dal giorno 20; e riparata dietro il Po, non aveva a temere per se medesima. E vi sarà chi dica che il popolo, per aver vittoria di Radetzk, vi adoperò tutte le sue forze?

Scese la quinta notte. Era «una terribile risoluzione» (ein furchtbarer Entschluss); ma era necessità lasciar Milano. Le brigate Maurer e Strassoldo si erano riunite. «I generali Clam e Wohlgemuth, che avevano diroccato ogni casa presso i bastioni, proteggevano la marcia; presso la Porta Tosa e Romana tutto era in fiamme. Alle 9, tutti (gli altri) corpi furono al loro posto; erano 14 battaglioni, sei squadroni e tre batterie, con una sterminata quantità di carriaggi; quivi le truppe aspettarono per due ore in perfetto silenzio; molti e molti soldati cadevano per terra spossati dalla fame e dalla stanchezza». Al dir d'un prigioniero, «è impossibile descrivere al vero la confusione di quella notte; i soldati erano affollati nel cortile; si udiva il crepito delle fiamme che ardevano mucchi di cadaveri, lo scàlpito dei cavalli, il rumore delle rote; udivamo gridar l'ordine della marcia. Intanto a coprire quella ritirata, il cannone andava sempre più infuriando. Il cannone a poco a poco si fece lontano; cessò il trambusto nei cortili». Al dir d'un officiale: «Le truppe, spiegate in colonna, furono messe in marcia alle undici; tennero la linea dei bastioni sino a Porta Tosa (una parte solo sino a Porta Orientale). Il maresciallo Radetzky escì dal Castello in una carrozza tra un battaglione e l'altro. Alli sbocchi delle vie erano collocati altri cannoni, che tiravano continuamente entro la città; i soldati, distesi in catena per tutto lo spazio, scaricavano anch'essi i loro fucili. Il continuo fragore, le grida che si udivano dall'interno, le campane che sonavano a stormo, le tenebre illuminate qua e là da un incendio, formavano un terribile spettacolo, che non potrà mai essere cancellato dalla memoria». «Molti dei cittadini accorrevano a tribolare il nemico. Al di fuori, i montanari si aggrappavano sulli alberi e sui tetti delle case per trar di piano sul bastione; gli assidui colpi cingevano la città d'un semicerchio scintillante. Col mutare del vento, udivasi, ora più da una, ora più da altra parte, il battere a stormo dei sessanta campanili oramai tutti liberi. Alla fine il nemico fugiva; quei cinque giorni gli erano costati quattromila uomini; di quattrocento cannonieri erano avanzati cinque; l'artiglieria era data da condurre ai cacciatori tirolesi». «La carrozza di Radetzkv era imbottita di paglia e altro, in modo che da lungi paresse un forgone». E si lesse nell'Allgemeine Zeitung la confessione d'un officiale, che «nessuno potè recar seco se non ciò che aveva sulla persona; Radetzky salvò a stento le sue decorazioni; e dovette marciar via con quattro lire (mit vier Zwanzigen abmarschieren). I più delli officiali avevano i loro cavalli in casa, nonchè i loro uniformi; perdettero tutto, e partirono senza mantelli».

Il capo dello stato-maggiore Carlo Schönhals, uscendo dal castello ad un'ora dopo mezzanotte, commise per iscritto a un capitano delle guardie di polizia, in nome del maresciallo, la cura dei feriti, delli infermi e delle famiglie tedesche derelitte in Castello; si lusingava avrebbe il suffragio del nuovo governo, il quale «a questo modo inizierà», egli scriveva, «il suo potere con atto di sublime e magnanima e santa filantropia». Senonchè, sotto la penna di codesto notorio instigatore delle soldatesche, pareva più che altro una derisione.

Dei cittadini prigionieri, alcuni furono trascinati a piedi coll'esercito; alcuni lasciati addietro. «Da prigionieri, ci trovammo padroni del Castello e dei nostri nemici. I feriti, al vederci, si mostravano atterriti, temendo di essere scannati. Venne il mattino; un animoso popolano scalava il muro del Castello, la cui porta era ancora chiusa; e salito sul torrione vi piantava la bandiera tricolore. Entravano i liberatori, incerti della nostra sorte, e lieti di trovarci vivi. Ma non tutti. Alle grida di gaudio si mescevano gemiti dolorosi; le fosse rosseggiavano di sangue; nei cortili, luridi di fango e di ceneri, giacevano ossa abbrustolate, membra tronche sporgevano dal terreno smosso. In un orto, sette cadaveri d'uomini, mezzo spogliati, e barbaramente insultati e mutilati; due gambe di diversa dimensione, e che dalle forme apparivano feminili; in un'aqua corrente attigua, molte membra. Tanto apparvero sformati i visi e le membra delle vittime, che fu impossibil cosa il ravvisarle. Non era occhio che rimanesse asciutto».

La ritirata del nemico era difficile. «Piante abbattute, sparsi materiali di barricate, cadaveri di borghesi e di militari impedivano a ogni tratto il libero passo. Il cedere dinanzi alla borghesia armata era d'insopporlabile avvilimento ad officiali e soldati: si abbandonavano ad ogni eccesso, guastando ed incendiando quanto loro veniva per le mani. Il sentimento dell'odio non faceva tacere quello della paura. Un cavallo d'un gendarme preso da spavento, essendosi cacciato in mezzo a due battaglioni che marciavano in colonna serrata, assaliti da pànico timore, si gettarono in disordinata fuga per la campagna. Di tale scompiglio, seppero approfittare molti italiani per disertare. La strada era frequentemente tagliata da fossati di formidabili proporzioni. Nel villaggio di San Giuliano si fece foco sulla truppa da più case, e ripetutamente. Quasi tutte le abitazioni vicine al passaggio delle truppe erano abbandonate; ed i corpi che le perlustravano facevano bottino di quanto potevano portar seco; in particolare i croati; ben pochi di questi che non avessero il loro fardello, quandanche non fosse che di cenci. Ad un'ora dopo mezzogiorno giungeva finalmente l'avanguardia a poca distanza da Marignano, dopo aver percorso, in quattordici ore di cammino, soltanto dieci miglia communi di terreno».

«Con poco lavoro sarebbe stato facile impedire affatto l'accesso delle truppe a Marignano, senonchè nessuno poteva imaginare che Radetzky scegliesse per la ritirata una strada ch'è la meno diretta, e che per la perdita di Pizzighettone e Cremona era da due giorni già quasi intercetta; e inoltre, era lontana solo una posta da Pavia, confine piemontese già tutto pieno di corpi franchi». L'ala destra si diresse per Landriano, cioè per quella medesima via che poi Radetzky tenne, nell'anno seguente, per recarsi a Mortara. Se l'esercito piemontese fosse accorso in aiuto di Milano, e fosse sboccato in doppia colonna da Pavia, vi si sarebbe incontrato. Ciò dimostra che Radetzky, forse per notizia avuta dal confine col mezzo di Benedek, si riputava, da questa parte, sicuro.

Gli abitanti di Marignano non potevano credere d'avere inanzi a loro l'avanguardia dell'intero esercito; la credettero un'orda di famelici predatori: dissero che non avrebbero dato loro i viveri, se non consegnavano le armi; arrestarono i due officiali ch'erano venuti a farne richiesta; ma non fecero altra ostilità. Tutti gli armati del paese erano accorsi sotto le mura di Milano; gli altri erano inermi. Ma il maresciallo ne prese pretesto a esercitare un'atroce vendetta, mettendo a ruba, a foco e a sangue tutto il paese. Poi si vantò d'aver dato un esempio. E l'autor di Custoza per poco non gliene fa plauso. Esempio? di che, se non d'inutile ferocia? E l'esercito era omai senza disciplina. «Si giunse dopo mezzodì a Marignano; alcune case bruciavano, tutte le botteghe spalancate, saccheggiate e guaste; pieno di carriaggi e carri da per tutto; sdraiati per terra tedeschi ubbriachi. Nessuno più comandava, nè obbediva». - «I soldati, che per la fame si resero più presto ubbriachi, si uccidevano anche tra loro nelle cantine e nelle strade; ammazzarono anche una delle loro donne. Stava Radetzky seduto sull'unico avanzo di parapetto che rimaneva del ponte; e si era posto colà per far animo ai soldati, i quali vedendo il ponte sconvolto, si erano messi in capo che fosse minato; e tra indisciplinati e ubbriachi ricusavano d'andare inanzi. Fatta notte, tutte le strade erano ingombre di soldati che giacevano alla rinfusa, quando si destò un improviso allarme. Lo sgomento fu tale, che certi officiali pagatori che si erano messi nell'osteria di San Giorgio, fugirono a rompicollo, lasciando aperto sulla tavola un sacco di napoleoni d'oro. Tutto quello scompiglio provenne da una squadra di poliziotti, ch'erano rimasi all'estrema retroguardia, e che incalzati dai fucili dei cittadini, arrivarono colà, correndo a tutta lena».

Tale fu l'aspetto vergognoso del disfatto esercito per tutti quei sedici giorni che spese a percorrere faticosamente le cento miglia che sono tra Milano e Verona. «Gli avamposti erano continuamente allarmati dalli spari delle vedette, cui pareva d'essere ad ogni momento attaccate dal nemico». Così un officiale; e un altro, nell'Allgemeine Zeitung: «Non si poteva veder cosa più desolante che il passaggio per Crema. Carri pieni di feriti; qua un dragone con un berrettone di fanteria; là un cannoniere coll'elmo d'un dragone, o con abito cittadino; là un altro senz'abito. Tutti, per la disastrosa pioggia e il pernottare all'aperto, pieni di fango e di sangue. Non si conosce quasi più il colore d'alcun uniforme. I nostri cavalli da molti giorni non videro avena. Radetzky e molti veterani dicono che in nessuna guerra si vide mai cosa simile». Ma la guerra di popolo era già finita all'Adda. Vegliava a salvamento dell'informe orda straniera il governo fusionario di Brescia, che aveva predicato ai popoli la quiete e il rispetto alli austriaci. Solamente, tratto tratto, gli indocili volontari infrangevano il santo precetto. «Una colonna volante di volontari», dice il succitato officiale, «avevano attaccato una divisione del reggimento ulani Imperatore, ed un mezzo battaglione di croati; del quali avendo uccisi parecchi, costrinsero il resto a ripassare il Chiese. Continuavasi a' fianchi dell'esercito il servizio di grosse pattuglie e ricognizioni; e nel giorno 2 aprile, mentre eseguivasi dai nostri questo servizio, incontratisi in un distaccamento nemico, furono fatti prigionieri due lancieri piemontesi. Fu allora che si ebbe certezza di avere a fronte truppe regolari; il che faceva dire ai croati che colli insurgenti eranvi anche soldati francesi, mentre non chiamavano italiani che i soli corpi franchi. Il maresciallo, il 5, recossi a Verona, mentre le sue truppe non vi giunsero che parte il 6, parte il giorno successivo. Incendii, saccheggi, uccisioni d'inermi contadini furono commessi a Chievo, Croce Bianca, San Massimo, Santa Lucia».

Ignaro il maresciallo degli aggiramenti politici dell'Italia, attribuiva la quiete dei popoli, oltre Adda, all'esempio di Marignano. «Il terrore che la sorte di Marignano diffuse sui passi del maresciallo ebbe il più salutare effetto; non gli si parò più inanzi alcun altro ostacolo». Ma è tempo oramai che si sappia quali sono le persone e le cose che furono salutari al nemico, e rimossero ogni ostacolo alla sua fuga.

«E disegno del maresciallo», dice il succitato documento inserito nella Gazzetta Viennese, «era di stabilirsi dietro l'Adda; chiamare a sè tutte le truppe disponibili; riaprire le communicazioni colle fortezze, e poscia assalir nuovamente Milano. Ma colà riseppe il precipizio delle cose di Venezia, lo sgombramento di Brescia, e la defezione del presidio di Cremona. Il suindicato disegno perciò non era più praticabile; e fu necessità rinunciare all'Adda (und die Adda musste aufgegeben werden)». In altra scrittura, pur d'origine officiale, si aggiunge: «Se siam bene informati, non era mente del maresciallo di ritirarsi se non all'Adda; solo gli inesplicabili eventi di Venezia (die unbegreiflichen Ereignisse in Venedig) lo costrinsero a mutar consiglio. Da una lettera intercetta egli riseppe che Mantova non era ancor soggiaciuta interamente alla rivoluzione; e rapidamente egli gettò una divisione dell'esercito in quella importante fortezza». Questa rapidità era però quale le circostanze la consentivano; poichè solo il decimoquarto giorno della rivoluzione, l'undecimo della ritirata, quelle truppe ebbero percorso le 80 miglia che sono tra Milano e Mantova. «Il 31 marzo, finalmente, entrarono in Mantova da ottomila soldati, in uno stato orribile: rotti, curvi dalle fatiche, laceri, mezzo disarmati; i gregari abbattuti e trasognati; gli officiali col veleno nell'animo e la rabbia nel volto». - Lo stato della fortezza e quello dell'esercito erano tali, che per lungo tempo parve non si pensasse intraprenderne tampoco la difesa. Asserisce un officiale che, coll'unione dei due corpi d'esercito in Verona e Mantova, fossero 36 mila uomini tutt'al più. «Ora», come nota Giovanni Arrivabene, «il presidio di Mantova in caso d'assedio non può esser minore di 18 in 20 mila soldati; un eguale presdio occorre per Verona, ed altri 6 mila soldati occorrevano per Peschiera e Legnago. - Aggiungasi la mancanza totale d'affusti pei cannoni grossi, la mancanza di munizioni da bocca; l'assoluto e letterale esaurimento della cassa di guerra e di quella di finanza; la penuria del sale, di cui alcuno del comitato aveva fatto arrestare sul Po le barche di trasporto procedenti dal Veneto; il bisogno di restauri alle fortificazioni, e la spianata attorno alle mura non eseguita ed ineseguibile. - Ed era ridicolo il veder cannoni grossi, collocati a semplice ed innocente dimostrazione sui bastioni, addossati a' cavalletti rigidi di rozzi tronchi inchiodati». Senonchè, quell'invisibile potenza che aveva raffrenato l'impeto del popolo a Brescia e a Bologna, e aperto a Benedek il ponte di Pizzighettone, e tenute in deposito fedele le porte di Mantova e di Verona, seppe procacciare al nemico il supremo rimedio del tempo, e con esso il riposo, e i viveri, e il denaro, e i rinforzi, e le occasioni, e il coraggio, e le capitolazioni; e dall'altra parte, seppe toglier lena ai volontari prima, poscia ai soldati, versare nelle anime lo sdegno, l'odio, il sospetto, il torpore, da ultimo, l'avvilimento e la disperazione. I nemici del popolo avevano naturalmente più caro trarlo alla sconfitta e alla sommissione, che non guidarlo a potenza e libertà. Il primo artificio fu quello di negare la sua vittoria.

Non fu senza un accordo calcolato che i giornalisti d'Italia e quelli d'Oltralpe anticiparono univoci la guerra del re, inventarono numero e nome dei battaglioni, e li descrissero, alla tal ora e al tal giorno, in atto d'entrare per le mura, a salvare un popolo temerario, che si era posto in un pericolo superiore alle sue forze, e che da quel momento fu condannato nell'opinione dell'Europa a infinita gratitudine verso i suoi redentori, a cieca fiducia, ad abietta rassegnazione. Gli adulatori magnificarono immensamente tuttociò che il popolo non aveva fatto; e vilipesero tanto l'opera sua, ch'ei quasi ormai sorrideva di quel suo sogno d'aver vinto, anzi d'aver combattuto. Campione delle barricate divenne sopranome faceto. Si commise alli scribi regii di renderlo odioso. «I professori di barricate, visi incancreniti dai vizi e dalla lussuria», scriveva l'ignobile Ciro D'Arco. E domandava: «debbo io ripetere che lo stesso movimento di ritirata di Radetzky - non fu determinato che dal movimento delle truppe piemontesi?». Il nemico non si era ritirato avanti a chi lo incalzava colle carabine e colle barricate mobili: a chi gli aveva tolto i forni da cuocere il pane: a chi aveva atterrati, ad uno ad uno, i suoi cannonieri e spento il foco de' suoi cannoni: e tratti i Varasdini e i Prohaska a sfilare senz'armi al cospetto dei rappresentanti del popolo: e strappata dalla lettiera del maresciallo la sua sciabola: e costretto l'italivoro Schönhals a raccomandare le donne tedesche alla santa filantropia della canaglia latina. Ma si era dileguato inanzi allo spettro militare che torreggiava immoto e ginocchione sull'ossario di Superga.

Dopo gli stipendiati della Presse, della Patria e del Risurgimento, vennero i Xenofonti, vindici dell'arte bellica e dell'onor del mestiere; e ve n'ebbe di tedeschi e d'italiani e d'altre razze; ma non si scorge fra loro altro divario. Il popolo cisalpino, a detta loro, non era degno di vincere, poich'egli era politicamente nullo; e se mostrò d'aver sangue nelle vene, ciò torna a lode de' suoi padroni, la cui clemenza non lo aveva perfettamente evirato: «toute insurrection triomphante est comme une espèce de témoignage en faveur de l'oppresseur» (Custoza, p. 16).

Dunque se Radetzky fu vinto dal popolo, non dite viva il popolo, ma viva Radetzky! Anche sulla tomba di Marco Bòtzari non si dica viva la Grecia, ma viva la Turchia. E così si stampò che Radetzky era sempre stato uomo assai popolare: «ein sehr populärer Mann»; e che si minacciò d'ucciderlo a tradimento: «mit Meuchelmord»; ma egli, egli, aveva «vietato ai soldati di far foco». Fu il popolo che gli fece una «odieuse surprise», camminando in processione dalla casa municipale fino al bastione di Monforte; ma egli fece trarre il cannone d'allarme solamente due ore dopo che le carabine tirolesi, dalle aguglie del Duomo, colpivano nelle interne case fanciulli e femine, e la cantante tedesca Maria Moll. Anch'egli, come Oudinot il 30 aprile, non fu vinto da un popolo nostrale, ma da un esercito di stranieri, che il barone Torresani aveva lasciato impunemente accampare in Milano: «una turba di bersaglieri, parte dalla Valtellina, parte dalla Svizzera, parte dal Piemonte e dalla Francia, che a poco a poco si erano fatti venire in città, furono quasi i soli che col loro foco danneggiarono la guarnigione; il resto della gente tirava solo di nascosto dalli spiragli delle finestre». Broggi non potè cadere al ponte di Monforte, nè Borgazzi in aperta campagna, in faccia al bastione; ma dovevano esser tutti a casa loro, a far capolino dalle finestre. Non è vero che il popolo portasse i feriti nemici all'ospitale, o confortasse con «brodo» e con «pane e vino» i prigionieri. «Furono con vergognosa crudeltà scannati dalla plebe, sotto gli occhi dei loro compagni, dopo che erano caduti da cavallo». Il barone Diesbach s'ingannò quando scrisse a sua madre che il popolo lo trattava bene; e il conte Bolza va errato assai, s'egli crede d'aver avuto salva la vita. Il conte Pachta fu perfettamente spogliato: vollkommen ausgeplündert; e la contessa Spaur fece un aureo sogno quando s'imaginò che Oldofredi e Busi le avessero recato la cassetta delle gioie: die kleine Cassette. Se il croato e il boemo recisero i piedi alle donne e si posero in tasca le tronche mani colle annella sulle dita, s'entravano trionfanti in Castello, alla vista dei loro generali, coi bambini confitti sulle baionette, non era barbara vendetta dei loro disastri, ma un poco d'alacrità e di slancio «per essere stati vittoriosi dovunque, e aver preso d'assalto una casa dopo l'altra». È falso che il maresciallo avesse necessità d'armistizio, per dar fiato alle sue truppe, e avviluppar meglio i cittadini, e applicar poi loro la polvere e il piombo della legge marziale; è falso che avesse perciò mandato al municipio il maggiore delli Ottochani, e che nella conferenza coi consoli avesse egli proposto di cessare dalle ostilità; erano i consoli che al loro uso volevano ingerirsi d'ogni cosa; e il maresciallo aveva dato loro una secca ripulsa, e nemanco di persona, ma per mezzo d'un subalterno: durch General Schönhals. Se in procinto di ritirarsi, faceva incendiare le case a dozzine, e ne faceva sterminare gli abitatori, era opera pia, «per salvare una comitiva di donne e fanciulli e impiegati, che fugivano il furore del popolo italiano».

Anzi vi fu in Coira chi scrisse che, nella notte dal 22 al 23, «si tirò dal Castello sulla città con un sol cannone, e solamente a polvere; che una divisione, partendo, attraversò, per mezzo, tutta la città, senza ostacolo». E non furono i soldati che pel solo scorrere «d'un cavallo si gettarono in disordinata fuga per la campagna»; ma il popolo fu messo in rotta, dice l'autor di Custoza, «par un simulacre d'attaque générale, au moyen d'un feu terrible d'artilleire, qui répandit quelque temps l'épouvante».

Il numero delli austriaci in Milano fu solo di dieci mila; «une douzaine de mille hommes», scrive alquanto più generoso il Custoza; quattordici mila «soltanto», scrive ancor più generoso il così detto Ciro d'Arco. Come mai Radetzky nel suo rapporto potè imaginarsi che fin dal quarto giorno fossero 16 battaglioni (mit den hier konzentrierten 16 Bataillons und 6 Eskadrons mit 30 Geschützen)? Come mai, in procinto di ritirarsi, potè adunarne 14 dietro il Castello (hinter dem Kastell), senza annoverare le due brigate (probabilmente altri 8 battaglioni e 12 cannoni) che occupavano frattanto i bastioni e il Castello? Se i battaglioni erano veramente 16 più 8, cioè ventiquattro, dovevano ben fare, tra vivi e morti, a 1140 uomini per battaglione, assai più di 20 mila uomini, e aggiungete le altre armi; aggiungete che, a detta dell'anonimo di Zurigo, «sembra che i generali dimenticassero i posti della guardia di polizia, forse perchè non era incorporata nell'esercito; e queste truppe italiane rimasero fedeli alla consegna, finchè non dovettero cedere alla forza prevalente che le stringeva». Tuttavia, «si quelque chose doit surprendre, c'est que cette armée n'ait pas été entièrement écrasée»; lo dice l'autor di Custoza, il quale deve avere una portentosa stima della forza del popolo. E come salvarsi i soldati, quando «ovunque si mostrassero», scrive l'anonimo di Zurigo, «pioveva acqua bollente e perfino olio bollente (siedendes Wasser, selbst siedendes Oel)?». Che valeva la mitraglia dei 42 cannoni da campo e delli altri che stanziavano in Castello e sulle piazze, contro l'acqua bollente? Oh quanto olio ci volle per friggere ventiquattro battaglioni e sei squadroni, mit Geschützen - Siffatte scempiaggini potè dettar l'odio del popolo e il disprezzo della verità!

E infine, ch'era mai codesto popolo, se non lo strumento venale d'una nobiltà capricciosa? Così stampò il general Willisen, notorio nemico d'ogni venalità. E di tal modo, alle imposture della casta militare, che in Prussia, e anco in Italia, si reputava mallevadrice alla gloria dei confratelli austriaci, si collegarono le millanterie dei signori e le adulazioni dei loro guàtteri. E si posero a credito delle loro eccellenze tutti i pericoli e i consigli del combattimento, il quale «non fu capitanato (was not headed) dai Ledru-Rollin, e dai Louis Blanc, ma dai magnati del paese (the greatest in the land). E il conte Pompeo Litta Biumi, il solo tra i membri del provisorio che i combattenti andarono a invitare e prendere in casa sua, non era un letterato di modeste fortune; ma Creso di Lidia, il duca di Devonshire della Lombardia». Queste favole si facevano stampare in lettera a lord Palmerston. Il quale lord Palmerston, sapendo che il duca di Devonshire ha un patrimonio di cento milioni di franchi, concepiva così un'idea molto adeguata delle cose nostre.

Noi dimandiamo alla Croce di Savoia a qual ordine di cittadini appartenessero, e di quale opinione poi si manifestassero, coloro che consegnarono entro «la cinta» di Forte Urbano il battaglione civico di Bologna, e con minacce richiamarono da Modena i finanzieri e i dragoni; coloro, che in Cremona, in Brescia, in Mantova, in Verona, vietarono ai cittadini di mostrarsi «illegalmente armati»; e alla plebe che voleva «armi e battaglie» gettavano pane e denaro; e «convenivano coll'autorità militare che si levassero le barricate»; e alla nuova dei tremendi pericoli di Milano, predicavano a' cittadini d'aspettare, in coccarda bianca e piuma bianca e sciarpa bianca, la vita o la morte dei fratelli. «O Milano è vittoriosa: e allora insurgeremo con più baldanza e più frutto; o Milano soccumbe: e saremmo allora in mal punto insurti». Prima del conflitto, si poteva dubitare, deliberare; il ricusar battaglia poteva essere buon consiglio; ma quando la battaglia ruggiva, e le sorti di tutti si agitavano nel sangue, ritrar dal campo le riserve che dovevano assicurar la vittoria, era ben aiutare il nemico. E peggio era frapporsi, sin colla spada alla mano, perchè il nemico conseguisse con una capitolazione la sicura uscita dalla città: «sfoderò la spada: si pose avanti all'officiale, sclamando: non potrete offenderlo, se prima non mi offendete». E quella capitolazione non pattuì tampoco che le soldatesche partissero alla volta dei loro paesi; ma le lasciò libere, liberissime di seguire l'appello che le convocava d'ogni parte ad opprimere Milano. «Il maresciallo aveva deliberato di chiamare a sè tutti i presidii delle varie città, e così assalir Milano da tutte le parti (und Mailand so von allen Seiten anzugreifen)». Il capo dei ribelli (das Haupt der Rebellen) vietò «a titolo di delicatezza, l'aprimento dei dispacci del nemico»; i dispacci del nemico trovarono più facile attraversar Mantova che Inzago; i paeselli furono di maggiore impedimento al nemico che non le possenti città. «Le ordinanze isolate venivano uccise o prese; i distaccamenti più considerevoli incontravano insuperabili ostacoli nelle strade ch'erano barricate, e nei paesi; a trovar messaggieri non era tampoco da pensare; con siffatto interrompimento delli avvisi, ogni combinazione fu rotta (scheiterte iede Combination)». Il «capo dei ribelli», a Monforte, scambiava atti compassionevoli con O' Donnell; in via del Monte si rifugiava nella prima casa aperta; in via de' Bigli tentava carteggi con Torresani, proponendogli «il miglior mezzo termine per condurre a pacifica soluzione»; e lagnavasi di «non potersi movere dal luogo ov'era». E riesciva a fugire, la notte; e si faceva scoprire «in una soffitta, polveroso, coperto di ragnateli»; e non appena uscito, chiamavasi intorno collaboratori che lo aiutavano a snervare l'animo dei combattenti con pratiche d'armistizio, pertinacemente promosse per due giorni, e sollecitate da Borromeo col timor della fame aggiunto a quello della mitraglia. Ma tutti questi, pel Ciro d'Arco, sono sintomi di fermezza (p.2). E al municipio fiorentino parvero sintomi d'eroismo; sicchè fece scrivere sui marmi della veneranda Loggia i nomi di quelli immortali. Intanto «il popolo pensava solo a combattere». Epperò, fra i trecento che caddero in quei giorni, e i settecento che a poco a poco vennero poi morendo delle ferite, non si rinvenne quasi nome che non fosse della plebe, o in poco più lieta fortuna. E mentre taluni, in mezzo alle morti e alli incendi, raccoglievano in mano propria «ogni potere, il popolo, una volta adempiuto il suo voto, ricadeva in una tranquilla obbedienza ai dettami dell'ordine e delle leggi, nulla più domandando» (Lettera a Lord Palmerston, di Bozzi-Granville).

Intanto, per questi indugi frapposti in Milano e in tutte le città da svogliati e frivoli capi, il moto dei popoli rimase in massima parte, impedito. Nella prima notte, consigli incerti di subire il pericolo, non d'affrontarlo e dominarlo; nel mattino, s'indirizza il primo impeto della adunata moltitudine, non sopra alcuno delli uomini che tengono in mano le armi, ma sopra un togato, i cui vani decreti non fanno cadere una baionetta. Il popolo sciupa il giorno, aspettando prima i quarantamila fucili, perfidamente vantati dai signori, poi i tre o quattrocento della polizia, assicurati dal decreto di O' Donnell; e rimane a mani vuote, a legger sulli angoli delle vie gli affissi che lo invitano ancora «a pace e fratellanza», e origliando i dubbi rumori delle altre parti della città, e indovinando onde provenga il sordo muggito del cannone che intanto sfonda le porte della casa municipale. - I popoli entrano nella battaglia a giorno a giorno, a squadra a squadra; nel primo dì, Milano e Venezia; nel secondo, la pianura milanese, il borgo Palazzo di Bergamo, e con infelice esito Crema; nel terzo, Como, Modena e Parma vittoriosamente; nel quarto, Varese, Monza, Pizzighettone, Cremona; nel quinto, finalmente, Brescia, dopo aver morso per quattro giorni il freno degli azegliani; ma già in quel giorno il freno azegliano ritrae dal combattimento Bologna, rende immobili Modena e Parma. Verona e Mantova stanno tra la sedizione e l'ossequio; Lodi fa un cenno appena di sollevazione; Pavia e Piacenza, meno illuse delle altre città intorno ai soccorsi del re, non si commovono affatto. E tosto Cremona disarma Pizzighettone, apre il passo dell'Adda ai presidii di Piacenza e Pavia; e insieme a Bergamo e Brescia tollera che i corpi smembrati possano raccapezzarsi sull'Ollio, per poi recarsi all'incontro dell'esercito che retrocede disfatto dalla battaglia di Milano. La sola Como fece quanto umanamente si poteva; di 1500 nemici ella non lasciò fugire uno solo; e tosto si mosse al soccorso della vicina città. Se tutte le altre avessero ugualmente operato, traendo seco attraverso ai passi del nemico tutte le loro forze, come avrebbe mai potuto la sbattuta e famelica masnada aprirsi fra tante aque e piantagioni e difese muraglie la via? Già prima di prender le mosse, le soldatesche, che avevano vegliato tante notti, «cadevano per terra spossate di fame e di stanchezza»; già nel primo sfilare, sotto una tempesta di palle, e in un angusto passo fra due file di case incendiate, bastò un cavallo spaventato a disperdere due battaglioni stranieri, e dar ansa a un battaglione italiano di raggiungere i fratelli; le strade intercise da fossati di formidabili proporzioni, gli arbori rovesciati sul terreno, le fucilate di San Giuliano fecero che quattordici ore appena bastarono a dieci miglia di viaggio, essendo la colonna distesa sopra cinque ore di cammino. E l'esercito era talmente pronto a ingrandire colla paura gli ostacoli veri, che s'imaginò d'aver vinto una battaglia per entrare in Marignano, d'onde non era uscito un sol colpo di foco; e trapassò vergognosamente la notte fra l'ubbriachezza e lo spavento, col quartier generale ingombro di valigie e invaso da fanciulli e donne.

Noi crediamo che questo volume offra le prove di due fatti. Il primo si è, che il nemico, il quale, veramente aveva al suo comando centomila uomini, perdette nei cinque giorni due terzi della sua gente e pressochè tutte le sue fortezze, e solo per effetto dell'indolenza altrui vi riebbe ricovero e salvamento.

Il secondo fatto si è, che, per conseguire questa splendida vittoria, non si posero in atto, nemmeno per una quinta parte le forze dei sette milioni di popolo che abitano il Lombardo- Veneto, e le provincie italiane del Tirolo e dell'Illirio, e i ducati di Modena e Parma; essendochè l'insurrezione non fu veramente generale e impetuosa se non nelle due provincie di Milano e Como, le quali non sommano a più di 900 mila abitanti. E quivi pure mancarono affatto al popolo tre grandi elementi di siffatte imprese, cioè gli avvisi, gli eccitamenti e i capi. Anzi, e quivi e per tutto, coloro che il popolo era indettato a considerare come capi, fecero quant'era in poter loro, e con trattative e con ordinanze e con publiche esortazioni, per moderare e contrariare l'impeto dei giovani, e tenerli disarmati e inoperosi, e per aiutare il nemico, sia a star dentro le città, sia ad uscirne senza disastro e per le vie più opportune a' suoi disegni, sia a raccapezzare le smembrate sue forze e raccoglierle nelle fortezze, le cui porte essi gli tennero aperte, tenendole chiuse agli insurti. Egli è un fatto, che gli indirizzi e gli editti dei municipi, dei ministeri, e perfino dei comitati, parlano quasi tutti d'ordine, di quiete, di tranquillità, non diversamente da quelli dell'imperator Ferdinando, del vicerè Ranieri, e del duca di Modena o di Parma. Questa è l'istoria vera, che parrà strana a molti, e parve quasi incredibile a noi, mano mano che l'andavamo raggranellando da codesti frammenti di repertori officiali e di gazzette. E perciò sfidiamo i redattori della Croce di Savoia e altri simili ingannati o ingannatori, a comporre di siffatta materia un altro volume, e trarne, se possono, un altro costrutto.

Vantarono gli scrittori militari il gran numero dei soldati italiani ch'era nell'esercito d'Italia; e noi proviamo che nessun paese d'Europa fu tenuto mai con maggior proporzione di soldati stranieri, poichè i battaglioni stranieri al regno Lombardo-Veneto erano 45; e 38 di essi erano interamente slavi o tedeschi o magiari. Onde, se questo fatto è strano, come giudica l'autor di Custoza, fu strano in senso contrario a ciò ch'ei s'intese; e non è vero che avesse des graves conséquences. Coi battaglioni tutti italiani non si perdè Mantova; e coi battaglioni croati e stiriani si perdè Venezia. E in nessun luogo l'esercito ebbe più trista sorte che a Como, ove non v'era un solo soldato italiano, ma erano tutti croati, carinti e ungaresi; e rimasero tutti, fino ad uno, feriti o morti o prigionieri, coi loro colonnelli, l'uno dei quali tedesco e l'altro croato. E in Milano v'erano fin dal primo giorno settemila boemi e moravi, e inoltre croati e tirolesi e ungari a piedi e a cavallo: e d'italiani un sol battaglione di linea e alcune compagnie di poliziotti; e combatterono pur troppo al Genio e a San Bernardino, e non si fecero disertori se non dopo ch'erano usciti di città. E croati erano quelli che fugirono da Appiano per deporre le armi a Varese; croati quelli che si ridussero a bersagliare dalle finestre delle caserme il popolo di Bergamo; e lancieri polacchi e dragoni tedeschi erano quelli che si lasciarono prendere dai contadini nelle basse di Brescia; e ungaresi gli 800 che patteggiarono coi parmigiani a Colorno. Al contrario, italiani erano quelli che decisero il disarmo di Crema, e italiano il battaglione che salvò contro ogni aspettazione all'esercito il passo di Lodi. È vero che a Pizzighettone e Cremona gli italiani non vollero pugnare col popolo; ma così non pugnò nemmeno il popolo, e la sottrazione delle due quantità non alterò l'equazione. Ma diremo di più. Ben poterono gli azegliani di Brescia tener frenato per quattro giorni quel popolo predicandogli la fratellanza, perchè i soldati bresciani del Haugwitz e, in parte i goriziani e istriani del Hohenlohe erano del suo sangue e della sua lingua. Come poteva il popolo concepir furore contro quelli infelici sforzati, che in procinto di partire la pregavano a impedir loro la partenza, e protestavano di voler vivere e morire coi loro fratelli? Ma se il popolo avesse avuto a fronte la barbarie croata o l'arroganza teutonica, l'avrebbero le senili ciancie dei moderatori rattenuto per quattro giorni? Il popolo bresciano nè poteva trucidare gli italiani, nè trarli seco; perchè, oltre alla malia della disciplina e del giuramento, essi dovevano temere assai più i loro capi stranieri e feroci, che i loro avversari e fratelli. Al contrario, se fossero stati tedeschi o slavi, avrebbero avuto maggior paura del popolo furibondo, che non del bastone de' caporali. Sì, se fossero stati due o tremila tutti stranieri, in quella fiera provincia di 340 mila anime, ove, l'anno appresso, si vide il popolo leone avventarsi sotto la mitraglia col coltello in pugno, noi diciamo che i soldati avrebbero fatto in Brescia ciò che i loro compagni fecero in Varese, in Como e in Venezia. Gli italiani in Brescia furono quasi mediatori, da un lato stando col popolo, dall'altro coi generali. E così trascorsero quell'ore fatali; e i maggiorenti poterono adempiere i comandi dei bellicosi pacieri di Torino e di Parigi. Se adunque i generali austriaci, persuasi a torto o a ragione d'aver commesso un errore lasciando in Italia 22 battaglioni italiani, si avvisassero di fare in altra occasione altrimenti, ciò non farebbe gran divario. Sarebbe un equivoco di meno, un inciampo di meno all'impeto delle offese. E nessuno negherà poi che la passata guerra non abbia mutato grandemente le cose, onde se d'ora in poi altri giudicasse più sicuro il soldato ungarese che l'italiano, andrebbe errato; poichè gli italiani possono aver avuto ripugnanza a mettere a sangue e a foco il loro paese, ma essi non giunsero mai a volgere le armi contro i loro generali ed uccidere i loro colonnelli, come fecero nell'autunno del 1850 al campo di Somma gli ungaresi.

E possiamo aggiungere che, se nel 1848 non si posero in atto tutte le forze rivoluzionarie del popolo, non si chiamarono fuori nemmeno tutte le forze rivoluzionarie che giacevano nell'esercito austriaco. Ognuna di quelle nazioni, s'era nemica al nostro nome e alla nostra bandiera, non era nemica alla bandiera sua e al nome suo, caro a tutte, della libertà. Ma nessuno si curò allora se vi fosse arte di sconnettere quelle moltitudini incatenate dalla forza al vessillo imperiale, e tutte fra loro straniere e nemiche, e ripugnanti a quella oppressiva unità. Gli agitatori dell'Italia non vollero, nè allora nè poi, giovarsi delli stranieri contro gli stranieri, rivolgere a danno dell'Austria l'arte sua antica di por gente contro gente. Mentre essi inveivano contro gli stranieri che potevano essere amici, non volevano riconoscere quei nemici che pur troppo non erano stranieri.

Non così l'Austria. Essa ritorse contro l'unità italiana lo stesso sforzo che altri faceva per raccogliere sotto un sol principe diverse parti d'Italia; essa ritorse contro l'unità ungarica quello stesso moto delle nazioni che tendeva a smembrare l'imperio; adoperò il nome slavo per infiammare i croati e i sirmiani, e dividere fra loro i boemi; contrapose ruteni e polóni, sàssoni e romeni; adoperò il tricolore teutonico per trascinare la gioventù viennese contro la gioventù italiana, stornando due pericoli in un colpo, e distruggendo in un sol combattimento due nemici. E pur troppo codesti tricolori che trassero i popoli a infliggersi tanto reciproco danno, e a rifare coi loro odi e colle loro borie la potenza delli oppressori, annunciano solo una tradizione di barbara nemicizia, madre d'ogni conquista e d'ogni servitù; annunciano un voto di guerra perpetua; poichè dovrebbe durare finchè durerebbero le nazioni. Uno solo è il vessillo del quale non potranno mai giovarsi gli oppressori; è il vessillo di tutti; il vessillo dell'eguaglianza, ossia della giustizia; il vessillo della libertà e della umanità. Esso non apparirebbe straniero al soldato italiano, nè al francese, nè al tedesco, nè all'ungaro, nè al polacco. Esso annuncierebbe come ogni popolo che combatte per l'altrui libertà, combatte per la sua; essendochè ogni popolo servo è un'arme in pugno ai nemici della libertà; è un pericolo perpetuo, una perpetua minaccia al genere umano.

La forza espansiva della rivoluzione fu dunque tanto minore, in quanto l'idea della libertà universale non venne posta inanzi, ma quella più angusta d'una solitaria indipendenza. E quando si considera che, di lì a pochi mesi, gli ungari pugnavano contro l'Austria, non si può non deplorare quella giovanile impazienza che spinse a vibrare i primi colpi appunto contro i granatieri ungaresi a Monforte e contro gli ussari ungaresi in Camposanto, inspirando loro nella vendetta dei compagni uccisi un sentimento più forte ancora dell'odio loro contro i tedeschi. E quando si considera che colonnello di quelli ussari, nominalmente intitolati da Carlo Alberto e da Radetzky, era quel Meszaros che fu poi campione della libertà in Ungaria, fa ribrezzo il pensare quale fanatica letizia sarebbe stata quella dei combattenti, se lo avessero mirato, alla fronte de' suoi squadroni, cader moribondo sotto un colpo delle loro carabine. Il tempo ha svelato questi arcani nazionali, celati allora dalla stranezza delle lingue, e dalli odiati uniformi, e dalla scambievole ignoranza, e dall'orgoglio. No, se pesa sull'Europa una mole di tre o quattro milioni di soldati, non è che la causa dei popoli abbia tre o quattro milioni di nemici. Nell'esercito austriaco non sono i quattrocento o cinquecentomila soldati che hanno interesse ad opprimere se medesimi nel popolo; essi sono costretti; sono servi due volte infelici, sui cui s'aggrava la duplice catena del suddito e del soldato. La volontà loro è soppressa; l'anima loro è fusa in quella di quindici o sedicimila officiali; e questi pure chi sono? se non i figli di dieci nazioni, necessitati ad apparire stranieri e nemici alle loro patrie, e portare la maschera d'un'unità, ch'è il loro commune supplicio? Chi mira quei folti battaglioni di forte gioventù, splendidamente armati colle spoglie delle loro nazioni, sulla fronte ai quali traluce un raggio di mal repressa intelligenza, non si lasci abbagliare. No, il color d'una bandiera, una novella improvisa, una parola, la sola intonazione d'un cantico, basta a squassare tutta quella scenica ordinanza, e trasmutarla in una mischia sanguinosa, ove all'unica voce dell'odioso comando risponda in dieci lingue il grido della nazionale vendetta. Non è nemmen necessario l'urto di un altro esercito; questo ha in sè tutti gli elementi della sua distruzione.

E perciò è vano l'argomentare se in altra congiuntura potrebbe rinovarsi il prodigio dei cinque giorni, se i cento battaglioni che ora ha l'Austria in Italia, farebbero miglior prova che non fecero i settanta battaglioni che aveva allora. Intorno a ciò diremo anzi tutto che, se crebbe il numero delle truppe, crebbe in ragione maggiore lo spazio sul quale sono disseminate; allora non si stendevano oltre Parma e Modena; ora fino nelle Maremme, nell'Umbria e nelle Marche, ch'è due o trecento miglia più lontano. Perlochè non potrebbero avere tra il Ticino e il Serio più delle sette brigate che ebbero allora, nè più di due brigate fra il Serio e l'Adige. Allora erano in maggior proporzione i soldati italiani; ma questo è ben certo che i soldati d'altre nazioni, che allora miravano con animo ostile l'Italia, ora sono ridutti a sperare nella sua vittoria e nella sua libertà. Certamente, il popolo non sarebbe costretto a mendicar, da un re, capitani senza sapere e senza volontà, quando venissero a consigliarlo e precorrerlo sul campo i superstiti difensori della libertà ungarese, i cui nomi l'esercito austriaco ha imparato a conoscere e paventare. Inoltre, noi crediamo aver dimostrato che in quella insurrezione prese veramente parte repentina ed efficace all'incirca un millione di popolo, e che gli altri sei milioni vennero da varie influenze rattenuti; e vuolsi notare che le regioni ora presidiate dall'Austria ne hanno poco meno di dodici milioni. E se i popoli hanno fatto infelici esperienze, e hanno ragione d'esser più cauti, hanno anche maggiore l'odio; e se hanno la pratica della paura, hanno anche quella delle armi e dei pericoli, e la coscienza di ciò che potevano fare e non hanno fatto. E anche il nemico ha fatto le sue esperienze; e non vi sarà più chi «vanti apertamente, nei circoli del maresciallo, che la prima palla dei cannoni del Castello contro le aguglie del Duomo avrebbe domato qualunque movimento in Milano». E Milano, e Venezia, e Brescia, e Vicenza, e Bologna sono nomi che nei computi militari hanno preso ben altro valore. Il nemico ha provato il coraggio dei popoli, e sa di avere stoltamente abusato della vittoria; e teme la rappresaglia delle rapine, delli omicidi, del bastone. È vero che ora contro molte città stanno pronte le bombe; ma è vero altresì che l'incendio di qualche centinaio di case non varrebbe gran fatto a spaventare un popolo, che ha posto il foco a molte case colle proprie mani. E forse, a tempo e luogo, non vi sarebbe chi avesse il coraggio d'accendere quelle bombe e di avventarle, perchè il popolo avrebbe esso pure in mano qualche pegno; e quando il torrente dell'insurrezione fremesse intorno alli isolati baluardi, non tutti i capitani vorrebbero con siffatte inutili sceleratezze chiamar sul loro capo inesorabili vendette. Diremo, infine, che gli eserciti nemici non saranno mai meglio armati, nè meglio comandati che allora non fossero; nè crediamo che l'arte militare si sarà di molto mutata; ma i popoli certamente avranno più risoluti condottieri; e non soffriranno capi di ribellione che avessero la stoltezza o l'audacia d'impor loro le coccarde bianche, e di far levare le armi a chi non fosse tra i duecento «della possidenza e del commercio». La ferocia del nemico e lo spavento ch'egli si sforza di spargere, ratterranno dalle puerili dimostrazioni e dai piccoli e vani tentativi; ma gioveranno a dar gravità e impeto alle grandi e irrevocabili deliberazioni.

Ma un elemento mancherà ad ogni futura insurrezione. Le mancherà quel nome che fu l'istantaneo e caduco nodo della nazionale unanimità: il nome di Pio IX. Scelto allora da pochi ad astuzia di guerra, fu adottato dal popolo, con tutta la semplicità ed il fervore della fede antica, ad esprimere l'implicito e confuso senso della santità de' suoi diritti. «Convinto, come io era», scrisse Montanelli nel primo volume di questo Archivio, che l'unità nazionale si potesse conseguire soltanto col gravitare verso un centro commune, e che l'idea unitaria tanto più sarebbe stata facilmente eseguibile, quanto meno per incarnarsi avesse avuto bisogno d'eliminazione, mi applicai a fare di Pio IX l'insegna della fratellanza italiana».

Pio IX fu fatto da altri: e si disfece da sè. Pio IX era una favola immaginata per insegnare al popolo una verità; Pio IX era una poesia. E anche l'antica republica inglese, dalla quale provenne tutto ciò che v'è di salutare nella presente costituzione, o le republiche bàtave, e le americane, e la republica pensante di Ginevra, erano fiorite sovra l'orrido spinaio delle controversie scritturali. E taluno reputò cosa possibile che Pio IX fosse un Giunio Bruto, il quale avesse deluso con diuturna mansuetudine gli sospettosi Tarquini del concistoro. Ed eziandio chi vedeva in esso il pontefice, non della sola gente italica, ma d'un numero di fedeli otto volte maggiore, potè bene reputar giustizia, non già ch'ei dovesse farsi capitano di una contro altra nazione, ma bensì ch'ei potesse ingiungere ad ogni nazione di star contenta ai termini della terra a lei sortita. Poichè l'Italia, nel diritto evangelico, non era già terra d'infedeli Cananei, che dovesse esser data a stranieri figli di Dio; ma era la terra d'una delle tribù elette; nè altra di quelle tribù poteva allegar diritto divino di venire a depredarla e farla misera e vituperata. Ed era misera e vituperata senza frutto delle genti medesime in cui nome veniva oppressa, dacchè queste parimenti erano infelici e ribelli. Sarebbe stata ben maggior gloria al pontefice, s'egli fosse surto nel nome di Dio a giudicare quella iniqua sapienza di stato ch'era una calamità commune di tanti popoli, e se avesse rivendicato i loro diritti dalle mani degli oppressori, piuttosto che assidersi, ultimo e fiacchissimo dei regnanti, sovra un soglio insanguinato.

Ma il risurgimento dell'Italia era inaugurato in questo nome; non era il diritto, non era l'idea; era un uomo, anzi il mero nome d'un uomo, e d'ora in ora poteva essere solennemente negato. E così fu quasi aratro che passando lasciò profondamente sovverso il suolo; non era intonazione d'un'èra novella, ma preparazione e preludio. Era un nome di guerra; e la guerra fu fatta. E v'è tra il nome di Pio IX e quello di Carlo Alberto questo divario, che al suono del primo nome il popolo corse all'armi; e al suono del secondo le depose. Coll'uno si inaugurò l'unanime oblio delle opinioni, la lega improvisa, l'improvisa vittoria; coll'altro, le gelosie dei principi, le fazioni dei popoli, la mirabile impotenza. Ora ambo i nomi son parole morte.

E così trapassano le apparenze e le finzioni, e sopravive la verità. Non fu solo nel nome dei novatori, che fu iniziata l'èra della libertà in Inghilterra, in Olanda, in America; ma nel testo medesimo dell'evangelio. Epperò la riforma non avrebbe potuto naufragare per fallibilità e volubilità dei novatori. Essi non si erano imposti alle nazioni come maestri e padri, accaparrandosi in perpetuo le menti e le volontà; ma avevano chiamati gli uomini alla parola del Libro, qual ch'ella fosse. Essi avevano posto in mano a tutti il volume in cui si legge: «nè vogliate chiamare alcuno in terra vostro padre, poichè il solo padre vostro è quegli che sta ne' cieli; nè siate chiamati maestri, perchè l'unico vostro maestro è il Cristo» (Mat., 123). Or dunque, come osava alcuno in terra nomarsi padre santo, santissimo, e infallibile maestro?

E così molti insegnamenti di libertà stanno nell'evangelio; ma il popolo li ha sempre ignorati; perchè quello è tesoro del quale i nemici della libertà tengono la chiave. E inoltre vi stanno anche molti precetti di servitù. E questi vengono ripetuti; e delli altri si tace.

Senonchè, la scienza della libertà e della giustizia sarà dunque privilegio dei popoli che leggono l'evangelio? Sarà essa negata alli israeliti, che vivono in mezzo a noi co' nostri costumi, e co' nostri pensieri? E l'ignaro e corrotto bizantino, perchè aveva udito vanamente l'evangelio, sarà stato un essere più sublime di Leonida e di Socrate? E nell'imperio indobritannico, ora e sempre, avrà diritti solo il cristiano? E i cento milioni d'uomini che serbano nella penisola braminica le tradizioni d'una civiltà dalla quale nacque la nostra, non avranno speranza alcuna d'esser partecipi del nostro avvenire? E le centinaia di milioni dell'imperio chinese e delle finitime regioni non hanno forse intelletto? non sono fatte ad imagine di Dio? non hanno natura d'uomo, sicchè, non debbano avere i diritti dell'uomo? Poichè i catolici sono un quarto forse dei viventi oggidì sulla terra, dovrà la maggioranza del genere umano rimanere esclusa dal contratto sociale? E nell'Asia musulmana diverrà il turco e l'arabo e il druso il servo dell'armeno e del nestoriano? E sarà men degno della libertà il circasso che la difende eroicamente, che non lo slavo, la cui vita, il cui nome stesso, è servitù?

No, quando le nazioni tendono d'ogni parte verso la communanza dei viaggi, dei commerci, delle scienze, delle leggi, delle umanità; quando il vapore trae sulle terre e sui mari le moltitudini peregrinanti nel nome della pace e della fratellanza; quando la parola vibra veloce nei fili elettrici da un capo all'altro dei continenti, non è più tempo d'architettare una giustizia e una libertà che sia privilegio d'americani o d'europei, di papisti o di protestanti. È tempo che le discordi tradizioni delle genti si costringano ad un patto di mutua tolleranza e di rispetto e d'amistà, si sottomettano tutte al codice d'un'unica giustizia, e alla luce d'una dottrina veramente universale. È tempo che le arbitrarie e anguste divinazioni dei pensatori primitivi, perpetuate nei libri di sacerdozii rivali e nemici, cedano alle costanti rivelazioni della scienza viva, esploratrice dell'idea divina nell'illimitato universo. Verità, libertà e giustizia: libertà per tutti, giustizia per tutti: questa è prosa sincera e durevole; vera oggi e vera dimani. Ed è anco più alta poesia che non la favola di Pio IX.


III

Perseveriamo nell'arida fatica di radunare d'ogni parte le memorie che rimasero del 1848, a raddrizzo degli scrittori presenti, a sussidio di quanti vogliano far ragione dai fatti.

Or che tutti gli aventi causa ebbero agio di tessere le loro narrazioni oratorie, è tempo che il conflitto delle testimonianze ponga a cimento la verità.

Comprende questo terzo volume, distinti per giorno e per luogo, e raccapezzati con un indice anche per materie e persone, 1700 e più frammenti editi e inediti, notizie di guerra, ordinanze, dispacci, indirizzi, proclami, citazioni; lungo e vario dialogo nel quale ogni interlocutore, amico o nemico, re o pontefice, caporione di combattenti o priore di confraternita secrete, vien lasciato dire colle proprie sue parole. Il che in istoria non si può fare, e in romanzo istorico si fa solo con modi posticci e mentiti.

Tolte lievi eccezioni, il volume si riferisce tutto ai sedici giorni d'irreparabili indugii che corsero tra la fuga di Radetzky, la notte del 22 marzo, e il primo conflitto dell'estrema sua retroguardia coll'avanguardia piemontese al ponte di Goito, la matina dell'8 aprile. Ma se ben si mira per entro a questo volume, tutta quella politica e quella guerra appaiono nel breve preludio adombrate, e quasi diremmo predestinate.

Alcune centinaia di codesti frammenti furono a stento racolti tra i dispersi scartafacci del comitato di guerra di Milano. Sono ordini, avvisi e annunci d'ogni sorta, di ben minimo momento ciascuno per sè, ma pur segnati tutti della splendida impronta d'un tempo che gli eroi delle battaglie indarno affettano sprezzare, fintantochè l'arte loro e la virtù non trovino tanta fortuna almeno quanta n'ebbero gli uomini delle barricate.

E invero, quasi favolose oggi appaiono le capitolazioni austriache, registrate già in buon numero nel secondo volume, e anzitutto quella del presidio di Como: 20000 soldati, tutti stranieri, che rimasero fino all'ultimo uomo prigioni o morti. Al che qui si aggiunge la capitolazione del battaglione Poschacher in Rovigo, quella dei 900 ungaresi, fanti e cavalieri, che per sedicimila lire vendettero le armi loro ai parmigiani in Colorno, la incruenta prigionia d'uno dei generali Schönhals con 60 officiali in Rezzato, l'incruenta consegna dei forti di Comacchio, Magnavacca e Volano muniti di 42 cannoni, la presa di sei cannoni da campo in Cremona, di 17 pezzi in Pizzighettone, di 48 in Piacenza, e l'abbandono che fece Radetzky di 300 feriti in Lodi, senza annoverare quelle centinaia che aveva lasciate in Milano. Il che compie il quadro, già recato nel secondo volume, della confusione di quella ritirata, e del terror pànico delle due notti che quell'esercito passò tra Milano e Lodi: pur troppo impunemente, benchè una sola marcia lontano dal confine piemontese. Onde il disastro di Zichy e la perdita di tutti i forti di Venezia (la quale sola, e non Mantova nè Verona, era veramente la grande piazza e il centro strategico e la sede del tesoro e degli arsenali e degli armamenti terrestri e maritimi) appare come un fatto che unicamente per le lentezze del re, non avvolse tutto l'esercito austriaco e tutte le minori fortezze. Ciò si chiarisce da quanto qui traduciamo dall'opera dell'altro Schönhals, intorno allo stato interamente inerme in cui, non si sa come, fra tante millanterie di guerra, eransi tenute Verona e Mantova con le fosse ingombre d'arbori, e i magazzini vuoti, e le artiglierie senza cannonieri e senza affusti.

In aggiunta a quanto si espose nel secondo volume intorno al disastro di Marignano, qui si conferma che fu solamente l'ultimo di quella serie d'incendii che gli austriaci confessano di proposito intrapresa lungo i bastioni di Milano nel 22, per farsi adito ad uscir di città. E si palesa che la quiete trovata poi nel rimanente loro cammino non fu già l'effetto di ciò che i loro inumani scrittori chiamano un terror salutare. Poichè, al contrario, qui da una memoria inedita si rileva, che lo spettacolo del vicino incendio di Marignano per poco non commosse Lodi a disperata sollevazione. Da qual pericolo l'esercito fu salvo per merito dell'illustre ungarese il colonnello Meszaros; il quale a ciò valse colla benevolenza e popolarità che da molti anni, per una rara eccezione, egli erasi cattivata in Lodi.

Da confessione di Schönhals appare poi chiaro che se Radetzky si ritrasse all'Adda, vi fu veramente costretto dalla rotta di Milano; e se dall'Adda si ritrasse all'Adige lo fu per la inaspettata perdita di Venezia e il grave pericolo di Mantova e di Verona. E qui d'altra parte vien dimostrato che se potè riposarsi tre giorni in Lodi e Crema, e ripigliarvi lena, ordine e coraggio per la ritirata ulteriore, fu perchè i patrizii bresciani avevano con insano consiglio protetto il ritorno di Schwarzenberg ai ponti dell'Ollio, e rattenuto con ogni arte in Brescia quel popolo vittorioso.

Il lettore saprà dar pregio a parecchi diarii e moltissime lettere che abbiamo raccolto dalle squadre de' volontari, che in quei sedici giorni riempivano l'intervallo fra i due eserciti, preoccupavano le pianure di Treviglio e di Chiari e perfino le vaporiere del lago di Garda, precorrevano d'un giorno al di là del Mincio l'avanguardia del re, e con impedire ai nemici di vettovagliar Peschiera gli assicuravano quell'unica sua conquista. Fra le lettere inedite additeremo a certi scrittori di poca fede, quelle, per esempio, di Luciano Manara che si chiudono con un evviva alla republica, con un evviva alla democrazia in tutto il mondo. I quali gridi non si udirono mai di que' giorni nelle piazze delle città, come pretesero poi molti in Piemonte, ma solo a quell'estrema avanguardia, fra le sentinelle perdute. Anche delle lettere non inedite riusciranno tuttavia nuove a molti, quelle, per esempio, del Torres, che il 3 aprile scriveva da Leno a Radetzky in Monte Chiaro, invitandolo a sgombrare per la seguente matina: «Deciso come sono, egli diceva, d'entrare ad ogni costo in Monte Chiaro la giornata di dimani, mi reco a dovere di rinovarvi l'istanza già fattavi con successo in Crema». Nè parrà meno nuovo a molti, che, in quei giorni di basse aque, il tenente maresciallo Gyulai si desse la briga di rispondergli quella sera medesima, senza nemmeno dirsi offeso della baldanzosa dimanda. Radetzki era già in Verona.

Da codeste date quotidiane si dimostra falso che, come fu ripetuto dalli austriaci, turbe di montanari e di stranieri fossero discese in soccorso a Milano fin dai primordii del combattimento. Qui si vede che i soli uomini di Lecco giunsero la notte del quinto giorno; che i genovesi vi giunsero il giorno dopo la ritirata di Radetzky; che i comaschi e ticinesi giunsero ancora un altro giorno più tardi, cioè la sera del 24; e che i valtellini furono rimandati dal governo provisorio quand'erano ancora a mezza via. D'onde conseguita esser parimenti falso quanto molti spacciarono intorno all'inerzia e al malvolere delli abitanti della pianura. Poichè, anche per mancanza d'avvisi, furono essi i soli che poterono accorrere, e con somma audacia veramente accorsero d'ogni parte sotto le mura della città fin dal giorno 19, quand'era stretta dal nemico ancora intero e minaccioso. Ciò tronca dalla radice molti vaniloquii e calcoli falsi tanto di politica quanto di guerra.

Del protocollo segreto del governo provisorio di Milano abbiamo preso tutte le lettere di quei giorni; sono forse un centinaio, tutte inedite. Primeggiano quelle del conte Enrico Martini, che, incredibile a dirsi, vi si mostra il genio inspiratore di tutti i clandestini accordi tra quei signori e il quartier generale del re. I milanesi pur troppo dolorosamente espiarono poi l'immane colpa di avere in tanto pericolo lasciata la patria in braccio a tali uomini, di cui, per lo meno, non avevano alcuna aspettazione.

Alle carte secrete abbiamo aggiunto di giorno in giorno non solo tutti gli atti pubblici del governo di Milano, ma quelli pur numerosi, benchè poco noti, dei governi e comitati di Brescia e Cremona; in buon numero quelli di Como e Pavia; alquanto scarsi quelli di Bergamo; ma parecchi pure d'altre minori città. Sono all'incirca 400; e, vi si discerne già il secreto contrasto che doveva ben nascere (e che sfortunatamente non fu maggiore) tra l'impetuoso buon senso dei popoli e l'insensata astuzia dei maggiorenti, i quali, per la seconda volta in mezzo secolo, conducevano in precipizio la patria. Volevano tenere inerme ed umile il popolo, affinchè sentisse tosto imperiosa la necessità, e scendesse prontamente a tali patti che assicurassero certe grandezze che l'Austria aveva loro vanamente fatto sognare nel 1814 e nel 1838; e che senza l'Austria o senza la Savoia, non avrebbero mai potuto operare, in paese ove i doni dell'opinione e della fortuna erano già troppo largamente disseminati.

E perciò, fra tanti atti loro, non un solo che tendesse veramente ad infiammare le turbe e incalzare il nemico. E vediamo talun di loro riputar quasi malagrazia che non si volesse lasciare al re qualche avanzo di nemici da vincere. Onde non appena il mattino della domenica, 26, fu vista spuntar da lungi sulla pianura la brigata Bes (non destinata altronde per allora ad assalire gli austriaci, ma solo a patrocinare il governo in Milano), essi affiggevano incontamente per le vie: «Le truppe piemontesi giungono oggi stesso per unirsi a noi. Per conseguenza, il governo provisorio invita tutti i cittadini a riprendere al più presto, e possibilmente entro la giornata del 27 (lunedì), le ordinarie loro occupazioni, aprendo botteghe e lavoratoi, e tornando all'operosa loro vita». E un altro editto di quel giorno richiamava perfino pochi pompieri dilungatisi coi volontari a tribolare il nemico; che per verità in quella matina aveva ancora la sua retroguardia in Lodi. E i cittadini, non potendo ben sapere quanto efficacemente fosse conquiso e avvilito, e imaginandosi che fosse uscito di Milano solo per adunar viveri e gente, lo attendevano ad un nuovo assalto, vegliando in armi nelle insanguinate loro vie e, lungo i bastioni, sui ruderi delle case incendiate; cure tutte che parevano ai governanti superflue e quasi importune.

Si dovrebbe credere che il governo avesse almeno esso quella fiducia nel re che si studiava infondere altrui; ma non è così. In quel giorno medesimo in cui voleva che i cittadini tornassero dall'armi «all'operosa lor vita», scriveva al Martini: «Si desidera che le operazioni militari siano spinte colla massima energia». Il 28 rispondeva Martini d'averne tosto parlato al re in Voghera: «Parlai diffusamente dell'assoluto molteplice bisogno di maggior rapidità nelle mosse militari». Replicava tosto il governo (30 marzo): «Non puossi dissimulare che le mosse delle truppe piemontesi non rispondono finora alla nostra fiducia ed alla publica aspettazione». E domandava che il Martini proponesse «quelli espedienti a cui si potesse ricorrere, per ottenere che l'alleanza sarda produca effettivamente i frutti che la nostra lealtà aspetta da quella dei nostri ausiliarii».

Il governo provisorio, pur con false mostre, deluse la dimanda, che allora venne fatta, d'un'assemblea, la quale «costituisse un supremo governo centrale, incaricato di conservare possibilmente l'unità di stato colla Venezia, il Tirolo, Trieste e la Dalmazia» (29 marzo). Intanto si diede tutto a cospirare con le municipalità e le congregazioni provinciali (reliquie austriache ribattezzate in governi provisorii), per accaparrarsi su tutte le provincie, in nome del popolo, un'autorità senza voto di popolo. E ciò conseguito, ingiunse ai comitati provinciali di non pensare all'armamento, assumendosi esso l'incarico. Così represse nel nascere quell'espansiva emulazione federale, che sola poteva trarre immantinente, dal cuore d'ogni provincia denari e battaglioni. Per tal ragione, respingeva gli armati valtellini; sovvertiva ogni principio di disciplina tra i volontari in Crema, mandando il conte Sanseverino a onorare e promovere chi ricalcitrava al comitato di guerra; ratteneva gli altri volontari che da Treviglio, ov'erano giunti il 24 e il 25 colla via ferrata, dovevano precorrere sotto Mantova il nemico, il quale solo il 28 potè lasciar Crema; richiamava da Cremona fino a Milano i sei cannoni e i tremila soldati eh'eransi quivi sottratti al nemico fin dal 21, e che di là potevano per dieci e più giorni scendere in soccorso a Mantova, lontana solo trenta miglia, giovandosi anche delle vaporiere e altre navi del Po; perocchè il disarmo dei mantovani fu comandato solo il 2 d'aprile. Ma il maggior danno si fu, che fin dal 26 marzo, i governanti impegnarono per le vittovaglie dell'esercito del re quanto poteva entrare nello scomposto erario; tantochè furono poi costretti a sovvenire il re con un millione dato loro a prestito da lui medesimo! Operazione di finanza senza esempio nel mondo, che ci vien rivelata da lettera d'uno dei membri del governo. Intanto fu reso impossibile l'armamento del paese da essi «assunto»; poichè non volendo essi tassar sè medesimi e i loro consorti e patroni, e non potendo senza assemblea tassare efficacemente il popolo, si ridussero alla inadeguata e precaria fonte degli imprestiti senza interesse e delle offerte volontarie.

A queste offerte, di cui leggonsi lunghe liste nei giornali, non abbiamo potuto far luogo in volume già grosso d'ottocento e più pagine. Abbiamo piuttosto raccolti di giorno in giorno gli atti della diplomazia concernenti le cose nostre, ricavandoli in massima parte dai volumi rassegnati al Parlamento britannico, traducendo però solo gli inglesi e dando in originale i francesi. Vi si vede l'autocrazia russa maledire, almen sinceramente, al progresso della libertà e della nazionalità come ad un delitto; i Ficquelmont, i Buol, i Dietrichstein al contrario dolersi ipocritamente che l'Italia si fosse stancata dell'Austria proprio quando all'Austria era venuto in cuore di colmarla di cortesie; e la teatrale liberalità britannica rinegare in secreto tutto ciò che colle ostentazioni di lord Minto aveva provocato in palese.

Come avvenne dunque che i servitori del re promettessero a sè medesimi e ai popoli l'ingrandimento improviso del Piemonte? Essi bene sapevano che i confini delli Stati e le convenzioni che li accertano erano di ragione europea. Sapevano che nessuna corte poteva nel bel mezzo d'Europa farsi la porzione colle proprie mani, e turbare quella relativa potenza, la quale si chiama l'equilibrio. Conoscevano i tristi interessi che legano gli Inglesi all'Austria. E perciò in faccia alla diplomazia non osavano nemmeno alludere all'ambito acquisto; ma scendevano a fare dell'occupazione di Milano un atto di polizia.

Il re, incalzato quasi da odiosa necessità alla gloria e alla grandezza, era rimasto inerme inanzi all'occupazione di Ferrara, alle stragi di Milano, di Padova, di Pavia, all'invasione dei Ducati, al raddoppiamento dell'esercito nemico, infine alla inaspettata rivoluzione di Vienna, all'inaspettata resistenza di Milano, quantunque la consuetudine di tutti i governi e l'esempio dell'Austria legittimassero in Piemonte l'adunamento d'un esercito sul confine di paesi agitati e invasi. Che se all'adunamento dell'esercito il re avesse aggiunto qualche generoso manifesto, che a titolo della vicinanza e della nazionalità e della ragione commune delli Stati ammonisse il governo austriaco a temperarsi dal sangue e frenare gli eccessi de' suoi proconsoli; almeno l'Austria non avrebbe potuto poi gettare un'accusa di perfidia al congiunto, che fino all'ultimo istante le aveva mandato parole di amicizia e non un verbo di disapprovazione.

Non si mosse dunque il re, se non quando ebbe a temere che nella libera Milano si gridasse altro principe o altra forma di Stato. Non potè dunque giungere coll'esercito al ponte di Pavia se non sette giorni dopochè lo avevano varcato i suoi poveri volontari genovesi e lomellini. Ma giunto al confine, poteva almeno correre la via più breve, sia lungo la sinistra del Po, sia lungo la destra, avendo aperti i ponti di Pavia, di Piacenza, di Pizzighettone; e potendo farsi in Cremona una testa di ponte già bastionata e anche già notabilmente munita. Così se non poteva più precludere al nemico il riacquisto delle fortezze, poteva stringerlo subito e sottrargli le vittovaglie. I suoi lodatori scrissero che la sua «linea d'operazioni procedeva da Piacenza a Cremona». È falso; al contrario egli seguì una linea serpeggiante, che raddoppiava le distanze, con inutile stanchezza dei soldati, anzi accresceva ad ogni marcia quell'intervallo di sole dieci miglia, che la notte del 23 divideva dal ponte di Pavia l'ala destra del nemico in Landriano. I generali, o che dettassero quella politica e quella strategia, o che la subissero, affettavano di temere non sappiamo qual ritorno offensivo del nemico, il quale aveva altro a fare. Pareva che col far pompa di timori e lentezze volessero dire ai popoli: Voi v'imaginate d'aver vinto, solo perchè non sapete nulla di guerra. Cominciarono a darsi un assurdo allarme il giorno 23, quand'erano ancora nei quartieri loro in Novara e Mortara. Ebbero per molti giorni l'ordine «di non comprometter l'esercito nemmeno con una fucilata». Non appena giunti in Brescia, e avuto nuovo allarme, ritornavano in città senza assalire il nemico; lasciavano manomettere gli insurti di Monte Chiaro; e a chi ne richiedeva il perchè, rispondeva il general Bes: «Io non ho ordine d'attaccare».

E standosi in Brescia, e richiesto d'impedire le rapine della retroguardia austriaca nel prossimo Calvisano, trasmetteva la preghiera al Torres, il quale non aveva cavalleria e aveva quattro o cinque cartucce per uomo: «Je suis trop éloigné de Calvisano pour empêcher cette exaction qui doit avoir lieu demain. Il n'y a pas de doute que si vous étièz a méme de faire une simple démonstration vers Calvisano, vous rendriez un service très important aux habitants». Per quanto noi possiamo congetturare di siffatti arcani, la deliberazione d'assalire, e di mutar l'occupazione in guerra, fu presa solamente il 4 aprile in consiglio di guerra a Cremona, quando la ritirata dell'Austriaco era compiuta, e riparati gli effetti della sua rotta. Ancora in quel dì, il general Bava «fu d'avviso che le truppe dovessero tener la strada di Piadena, Bozzolo e Marcaria, sia per evitare le pianure di Ghedi e Monte Chiaro, sia per appoggiare l'insurrezione di Mantova». È da ridere; perchè il 4, Monte Chiaro era già occupato da Torres; Arcioni e Manara fugavano il nemico in Salò e prendevano le pentole della sua cena; Radetzky stava già da due giorni in Verona; e Mantova era già da due giorni disarmata. Così sfumano al duro confronto delle date di giorni e di luogo, le istorie di Schönhals e di Bava e altri simili libri di partito e non d'arte militare. Vediamo confermato in parecchie lettere del Martini come l'esercito sardo fosse guidato da officiali che non avevano carte geografiche.

Nè si trattava d'imprevista e strana spedizione in Africa o in Asia, nè solo in paese vicino e nazionale, ma in quello che dai tempi d'Annibale, di Barbarossa, di Carlo quinto, di Napoleone fu sempre il campo classico delle battaglie. Non aver le carte di tal sacro terreno, non saperle a mente, era come dirsi affatto alieno e ignaro d'ogni studio di guerra. Forse quei frati in cui governo il re aveva lasciato per tant'anni le academie militari, e che ammaestravano i futuri capitani a recitare ogni matina e ogni sera l'officio della Beata Vergine, avevano anche vietato loro il leggere le campagne di Bonaparte. Così ponno delirare i principi. Ma poscia, nei giorni di guerra, non trovano se non ciò che nei giorni di pace han delirato.

Apriamo il Thiers; vediamo come su quel terreno, e con quel nemico, ma meno stanco, e non incalzato dai popoli, nè spoglio già di cannonieri, si fosse combattuta un'altra guerra. - «Bonaparte prende 3500 granatieri, la cavalleria e 24 cannoni, scende lungo il Po. La matina dell'8, con una marcia di 16 leghe (quaranta miglia) in 36 ore, è a Piacenza... Colla barca del porto tragitta l'avanguardia comandata dal colonnello Lannes. Questi, appena sull'altra sponda, piomba sui distaccamenti che la percorrono e li disperde. Gli altri granatieri passano mano mano. Si comincia a fare un ponte... La divisione Liptai era accorsa a Fombio; Bonaparte l'assale con quante forze ha in mano. Trincerata, la scaccia. La stessa sera, giunge Beaulieu... intoppa nelli avamposti francesi... è respinto a furia... In Pizzighettone, ov'è il passo dell'Adda, si erano gettati gli avanzi della divisione Liptai. Bonaparte rimonta il fiume sino al ponte di Lodi... Dodicimila fanti e quattromila cavalli erano sull'altra riva; venti cannoni raschiavano il ponte... Egli pone in colonna tutti i granatieri; li fa erompere per la porta che dà sul ponte, a passo di corsa...».

Se ora mettiamo a paragone il diario d'un officiale della brigata Savoia, la vediamo il 29 marzo in Pavia; il 30, il 31 marzo e il 1º aprile in marcia per Lodi; il 2 in contromarcia per Codogno, ove sta immobile il 3 e il 4. La via diretta da Pavia a Codogno è 22 miglia. Non sono 40 miglia superate in un giorno e mezzo; ma 22 miglia in sette giorni!

Chi avesse avuto nell'animo i grandi esempi, avrebbe abbandonate al più militare de' suoi generali le brigate Bes e Trotti, ch'erano le più vicine alla frontiera; non avrebbe dato tempo al nemico di posare una sola notte; l'avrebbe còlto ancora sui bastioni di Milano, o alla stretta tra Porta Romana e il Lambro, o ai ponti di Landriano e Marignano; o per Pizzighettone, ch'era aperto, lo avrebbe sopragiunto al di là dell'Adda, colle paludi di Crema alle spalle; o fra i canali e le leve in massa di Brescia e di Cremona. Valevano più due brigate e il rimbombo notturno di due batterie in quell'istante e su quel terreno, che non dieci brigate e dieci batterie sotto le mura di Verona in maggio o in giugno. Con qual impeto non dovevano precipitarsi sul fianco della carovana nemica giovani squadroni intatti e freschi di poche ore dalla caserma, liberi d'ogni ingombro, inebriati dal plauso delle donne e dalla vista di uomini vittoriosi! Noi li abbiamo uditi il 26, alle porte di Milano, quando il popolo in armi li accoglieva gridando: Viva i piemontesi! rispondere con coscienza vera di soldati: No, no; viva voi!

I nemici, già tanto inviliti in faccia ai popoli, avrebbero riputato ventura poter deporre le bandiere ai piedi almeno di soldati. Gettavano le armi per far sacco; le vendevano ai contadini da sotterrare, per rivenderle poscia o dividerle coi volontari; avrebbero di quei giorni venduto il generale, se avessero potuto trovar denari. Ma ignorarono sempre l'arrivo d'un esercito sulle loro tracce; non udirono mai il tuono d'un cannone; videro solo turbe improvise e fucili da caccia. E quando una dozzina d'uomini di Genova Cavalleria, sorpresi sull'alba del 6, con quei continui spaventi addosso che instillavano loro le dubiezze dei comandanti, si lasciarono condurre prigionieri in Mantova, i croati, all'uniforme o all'insolito accento, li credettero soldati francesi come caduti dalle nuvole. Pur troppo la tradizione dei secoli appena ricordava fra i nemici dell'Austria la casa di Savoia.

Lasciato fugire invano il fatale momento, potevasi ancora far pro dei grandi esempi. Dacchè il nemico aveva ad assicurarsi contro i cittadini di Verona e di Mantova, e fornir di cibo, di polveri e di cannonieri le spolpate fortezze, nè aveva superfluo di gente da poterne con effetto uscire a notevole distanza, era mestieri serrarlo dappresso per levargli subito d'intorno quanto si poteva di vittovaglie; interrompere ogni strada con trincere, empiendole di volontari; prodigare armi e denari ai trentini ancora incerti; sostenere virilmente i montanari già in armi dei Sette Communi, del Cadore, dell'Alpago, della Carnia; e più tardi coll'esercito mobile togliere ad ogni costo il passo alla divisione Nugent, che aveva già alle spalle Osopo e Palmanova e ai fianchi Venezia e il Cadore, e non fu poi nemmen da tanto da forzar Vicenza. Accampato l'esercito dietro le fortezze, colla base al Po e alle inespugnabili Lagune, la marineria di tutta Italia poteva torturare in Trieste il commercio di Vienna, che già gridava alla pace e imponeva agli arciduchi la missione di Hartig, intesa piuttosto a consolar Vienna che non a sedurre Milano. Ogni provincia avrebbe di giorno in giorno mandati al campo i suoi battaglioni; e già prima che la neve chiudesse per sei mesi le Alpi, eruppe la guerra civile nel Sirmio e in Vienna, e la defezione dell'Ungaria. Qual serie costante di prospere fortune per chi ne fosse degno! Ma era mestieri non rinunciare solennemente sul bel principio alla guerra marittima; e per tenere alcun tempo la lega marittima e terrestre, bisognava anzitutto non offendere nè insidiare i collegati. Dovevasi poi sollecitare in tutti gli Stati la convocazione delle assemblee, le quali da un lato potessero metter uomini fidati nei ministeri e al comando delle armi, dall'altro rifare, fra loro nuova e più sincera lega. Infine, in Roma, all'ombra dell'idolo popolare, potevano molte cose tentarsi in vero congresso federale; e prima d'ogni cosa la pace di Sicilia, e la marcia dei reggimenti svizzeri da via Toledo al Po. Sarebbe almeno rimaso ai posteri l'esempio d'un comizio di tutta l'Italia. E la dimanda d'un congresso era già fatta solennemente in Roma il 23 marzo. Ma la rivoluzione, traviata dagli esuli, si aggirava in un labirinto. Perchè ai principi italiani mancava il primo elemento delle imprese, la volontà; si era pensato spingerli su quella via con arti mutuate ai gesuiti: l'uno con vani applausi, l'altro con false minacce, o collo spavento d'una irruzione francese, o colla invidia d'una egemonia piemontese, o coll'esca d'un subito acquisto. Pertanto parve opportuno ai rimurchiatori apportar tosto al re, ancora titubante in Alessandria, un assaggio di preda bellica. Leggiamo in data di Piacenza: «Tre ore dopo partiti gli austriaci, il popolo, il dì 26, sebben piovesse, si assembrò in piazza, gettò abbasso le armi vecchie ducali... Giunse il Gioia... Il 27, alle ore 9 del mattino, giunse qua il capitano del genio piemontese, Menabrea, con lettera del ministro Pareto, nella quale, sviluppando il principio della politica del re... offriva l'aiuto suo... Fu accettato per acclamazione; e subito si nominarono deputati al re il marchese Landi, figlio, e l'avvocato Gioia... L'inviato piemontese, udito che la deputazione aveva mandato di offerire la città, fece osservare che il re non si sarebbe contentato di un atto del municipio. Subito furono aperti registri, dove i notabili e chiunque cittadino scriverebbe il suo pensiero. E la sera, illuminate a gioia tutte le case, nelle vie più remote fu portata in processione fra torchietti la bandiera di Savoia». Notiamo bene: l'antica bandiera di Savoia, non quella d'Italia. Erano quelle le torce di discordia; infatti tosto leggiamo estratto di dispaccio del Menabrea: «Votre excellence aura déià appris qu'à Parme il y a eu contre-révolution en faveur de la famille des Bourbons». E tosto si palesa altro contrario disegno d'ingrandimento nei Borboni: «La noblesse de Parme, à ce qu'il parait, aurait envie de former un État ayant Parme pour capitale, et qui serait composé des duchès de Parme, Modène, Reggio et Guastalla... Aussi à l'annonce de la contre-révolution de Parme, Plaisance s'est déclarée indépendante». Ma sulle spoglie dei vicini e parenti di Parma e Modena aveva già posto gli occhi un terzo conquistatore, il granduca di Toscana. Partito il governatore di Carrara nella notte del 22, «Carrara subito si sollevò, e mostrò l'espresso desiderio di darsi alla Toscana. In Massa gli animi furono meno risoluti... Ma non mancarono i buoni... Le cose si mettevano bene; e già i soldati, affratellati col popolo, correvano per le strade di Massa, gridando: Viva Leopoldo II... Ma il famoso Guerra... fece affiggere in Carrara un proclama stampato e firmato Francesco V, che più non ha regno. I Carraresi si credono traditi, prendono le armi, e in numero di circa 500 vengono a Massa, disposti a combattere per determinare la riunione alla Toscana... E già la moltitudine consentiva con loro, quando il professor Montanelli, che, in luogo di fermarsi co' suoi militi del battaglione universitario a Pietrasanta... venne diritto a Massa, arringò il popolo; e dissuadendolo dal congiungersi alla famiglia toscana, lo consigliò a mantenersi libero e indipendente, finchè in un congresso europeo, presieduto da Pio IX, non si decidesse delle sorti delle provincie italiane. Alcune voci lo interruppero dicendo: - Noi vogliamo esser toscani. - E perchè? egli dimanda. Rispondono: - Per avere un appoggio - Replica il professore: - Se volete un appoggio, dovevate darvi a Carlo Alberto - Quindi entra nella sala ove era raccolto il municipio, già disposto a stender l'atto d'unione colla Toscana, e lo esorta a costituirsi governo provisorio ed aspettare gli eventi. Il professor Matteucci mostrava all'opposto calorosamente la convenienza di unirsi alla Toscana. Il Municipio esitava... il giorno 23 giunse il professor Giorgini colla sua compagnia... Pare che dentro la giornata sia per esser pubblicato il proclama dell'unione di Massa e Carrara alla Toscana. Il professor Montanelli, perduta la speranza di far qui prevalere la sua proposta, montò in vettura, dirigendosi per la via di Sarzana verso Milano, per fare, come disse un altro tentativo più fortunato in quella provincia».

Il granduca, fin dal 22 marzo, aveva annunciato l'occupazione degli Stati estensi: ma Modena attese invano per dieciotto giorni i battaglioni toscani, tenuti immobili fra gli Apennini. Intanto quei pochi toscani ch'erano precorsi, riputarono dover «dichiarare la causa del ritardo. Pochi malevoli, al loro dire, spargevano che l'oggetto della spedizione toscana, anzichè esser quello generoso e italiano della cacciata dello straniero, fosse l'altro d'una meschina occupazione di territorio. Un riguardo adunque di lodevole delicatezza ha trattenuto il movimento toscano, e i nostri fratelli sono rimasti fremendo quasi una settimana (furon poi più di due) fra le nevi dell'Apennino, in mezzo a mille disagi, per attendere che si dileguassero questi ingiuriosi sospetti». Nè del tutto i sospetti erano vani, poichè, giusta i dispacci inglesi, il granduca, oltre all'aver tolto le dogane fra Toscana e Modena, non fra Toscana e altri Stati italiani, faceva vantare non sappiamo quali suoi diritti su Modena e Parma; e per affacciarsi anch'egli ai popoli con qualche sembiante di maggior potenza, facevasi salutare Re d'Etruria in teatro. Carlo Alberto, mal pago già di Parma e di Modena, disdegnò nominarle nel proclama che indirizzò il 30 marzo da Lodi: «Agli Italiani della Lombardia e della Venezia, di Piacenza e di Reggio». E allora e sempre mirò con animo geloso i battaglioni toscani. I quali poi rimasero crudelmente derelitti sul campo di Curtatone.

Tutto questo volume è seminato di tali cieche contese, che sviavano i popoli dall'amicizia e i soldati dalla guerra. Invano il buon senso publico le ripudiava. Troviamo scritto fin da quei giorni: «Tutti son sicuri che le sorti di questo paese sono assicurate come quelle d'Italia; quindi essere inutile anche il dichiararsi, ora, per un principe anzichè per un altro. È curioso, che mentre in Lombardia vi sono ancora i tedeschi, da alcuni si pensi già a passare i confini fra Stato e Stato; e che alcuni toscani e piemontesi si vadano girando per questi paesi, invitando le popolazioni a pronunciarsi per un governo o per l'altro. Sono assicurato che all'Avenza alcuni sarzanesi abbiano fatto abbassare la bandiera italiana per sostituire la sarda». Queste savie cose si scrivevano in Pontremoli il 25 marzo. Ancora vi s'ignorava la combinazione delle due bandiere: primo trionfo conseguito dal genio diplomatico di Enrico Martini la notte del 23, com'egli attesta: «Ed in primo luogo ottenni che l'armata, passando il Ticino, adotterebbe la bandiera tricolore in luogo del vessillo di Savoia; solo, nel campo bianco le starebbe la croce azzurra». Il tricolore ebbe così anche un colore di più.

Il ricapito principale dei propagatori di discordie fu in breve Milano. «Là, la santa causa, scriveva Salvagnoli, chiama tutti a combattere con tutte le armi in tutte le guerre tutti i nemici; là, corre il gran lombardo Berchet; là, noi lo seguiamo; or non v'è che una Italia». E pigliando congedo dai lettori della Patria, aggiungeva: «La Patria non muore, ma si raddoppia; noi andiamo a portare la sua bandiera anco in Lombardia; là continueremo la nostra battaglia a tutta oltranza». Minacciando battaglia a tutti i nemici, il Salvagnoli la minacciava anche ai cittadini d'altro parere; e promettendo valersi d'ogni arme, comprendeva anche quelle che non erano oneste. E già ne aveva fatto largo uso, quando rubava a Milano anche quella ben pagata gloria dei giorni di marzo: «Giunge una staffetta da Milano e porta che la colonna delle truppe e dei volontari di Novara penetrò in Milano il giorno 20; i primi a scalare le mura furono i bravi bersaglieri piemontesi. Sì, sì la grande spada d'Italia è snudata: gli Italiani di Piemonte hanno liberato gli Italiani di Lombardia». In queste basse arti aveva compagno il governo provisorio; il quale, la matina del 24, prima ancora d'aver notizia che il re si fosse deliberato alla guerra, affiggeva agli angoli: «Cittadini, buone notizie! l'armata piemontese ha passato il Ticino; questa brava armata ch'è venuta puramente in nostro soccorso». E noi dovremmo arrossirne per la nostra nazione, se per ventura le menzogne più sfacciate non fossero ancor quelle che mandava intorno l'Allgemeine Zeitung, la vessillifera dell'onore teutonico: «Milano tornò all'obedienza... Como fu ripresa dall'arciduca Sigismondo... I corpi franchi piemontesi furono sconfitti... Anche i generali Wallmoden e Wratislaw devono aver riportato vittorie... Qui si giudica finita la rivoluzione italiana».

Ben alieni dall'accettare il combattimento a tutte armi e a tutta oltranza, gli uomini di Dio e del Popolo, incatenati al laccio dell'Associazione Italiana di Parigi, si vedono in questo volume seguire colla corda dei penitenti al collo gli odiati cortigiani alla fondazione del regno fortissimo. Il 28 marzo, quando già v'era l'annuncio in Parigi che Milano ardeva e combatteva, essi, anzichè chiedere a quella nazione, allora ancor signora di sè, un aiuto d'uomini agguerriti, o almeno un largo prestito d'armi, osarono dire, di propria autorità, in nome di tutti, ai ministri della Republica: «L'Italia, così speriamo, saprà bastare a se stessa». Le quali parole sarebbero state arbitrarie e tracotanti, anco se chi le proferiva fosse stato egli sotto la mitraglia e non cinquecento miglia lontano. E almeno ciò fosse stato nella buona coscienza d'aver preparato anzi tempo qualche soccorso al popolo nel duro cimento! Ma ben al contrario, gli uomini dell'azione perpetua, logorati da lunga pezza nelle misere e false prove, si confessavano ignari e attoniti di tutto quel poderoso e spontaneo moto. Scriveva Mazzini: «Noi parlavamo il 5 marzo una parola di fede, non di speranza immediata; pochi giorni dopo, voi vi levate soli a operare e vincere per tutti». Avviluppati fra le contradizioni d'una falsa idea, non osavano più nemmeno dare agli armati fratelli un consiglio; e se ne rimanevano lontani e quasi nascosi: «Fedele al programma adottato, l'Associazione Nazionale non s'arroga facultà di consiglio per ciò che riguarda le forme d'ordinamento politico più consentanee alle nostre tradizioni e alle tendenze europee». Ecco quali sono, nel dì vero delle opere, gli ultimi aneliti d'una impotente agitazione! Agendo nihil agit. Deserti perfin di consiglio, gli adolescenti della Voce del popolo, facevano il 26 marzo il primo atto di stampa libera, ripetendo colli oracoli di Parigi: «Noi uomini di fede non abbiamo in pronto a spacciare principio assoluti di questioni sociali e politiche». E altra non ne avendo, ripetevano la parola d'ordine della monarchia futura, dicendo che «le forti popolazioni della zona settentrionale erano chiamate a difender l'Italia»; come se gli uomini di Romagna e di Roma e delle Calabrie e della Sicilia non avessero polso al braccio e non dovessero dividere ogni pericolo nostro. Con umiltà borghese inanzi ai personaggi del governo provisorio, predestinati ad essere i grandi del regno futuro, si dicevano «paghi d'essere avvocati del popolo presso al governo, se la sua carità avesse bisogno di consigli». Dicevano: «Il nostro motto politico è, per ora, aiuto, concorso, obedienza al governo provisorio; egli è surto dal popolo». Il che non era vero; e inoltre contribuiva a dar falsa popolarità agli armistizianti e agli intrusi, e autorità d'avviare ogni cosa al peggio. E intanto un oscuro giornale che osò rivocare in dubio l'origine di quel potere, potè venire impunemente minacciato ed assalito; e la libera stampa si vide manomessa quasi prima d'esser nata.

Mossi dal medesimo eccesso d'abnegazione, ossia dalla stessa impotenza del loro principio, gli uomini di più libero animo venivano dall'esilio a recare in tributo ai cortigiani le persone loro e quelle dei loro compagni. «Io la prego, scriveva Filippo De Boni al conte Casati, di offrire il mio ingegno qualunque si sia e la mia vita al primo governo creato dal popolo nostro. E questo che io le dichiaro in mio nome, è pure la voce, il sentimento de' miei fratelli d'esilio annunciatori dell'Italia del popolo; i quali di Svizzera, di Francia e d'Inghilterra ora muovono verso la Lombardia per affrettare con la spada sabauda la nostra indipendenza; nè altro dimandiamo che avere la nostra parte nei pericoli e nelle fatiche, salutare la libera e Una Italia e morire». Queste eloquenti parole ci mostrano come i fratelli d'esilio avessero deliberato in commune che Carlo Alberto avesse, non solo la zona settentrionale, come volevano il Bianchi-Giovini ed altri, già da più lungo tempo disertori della republica, ma l'Italia Una; ch'è quanto dire l'Italia Tutta. Era un antico loro sogno del 1831; pure quei più larghi donatori furono gridati (e lo sono ancora) odiatori del re, folli ed atroci. Ma è certo che chi più temeva una tanto improvisa grandezza del re fu sempre, e a ragione, la sua Torino; la quale già nella zona settentrionale, si vedeva troppo remota dal centro dello spazio e degli interessi, e nell'Italia Una doveva aspettarsi, non meno del governo provisorio di Milano, un'irreparabile sommersione.

Era quella (e non già la forma di governo) la più grave controversia che fosse allora tra gli uomini dell'Italia Alta, servilmente principeschi, e gli uomini dell'Italia Una, principeschi solo per ripiego e per disperazione di raggiungere per altra via la contemplata unità, posta da loro inanzi ad ogni libertà. A ciò alludeva il loro capo, quando, la sera stessa del suo arrivo in Milano, dapprima al balcone della sua locanda, poi all'opposto balcone del palazzo Marino, in mezzo ai membri del governo provisorio, diceva a coloro che i sergenti del governo avevano a lume di torce chiamati a udirlo, quanto «egli desiderasse di mettere d'accordo le sue idee sull'Italia coi membri del governo provisorio». Al che seguivano gli applausi del satellizio e delle turbe, or dal lato della piazza ove siedeva il governo, or da quello ove era la locanda dell'oratore, or da quello ove erano le case della signora d'Azeglio, or finalmente dal vicino palazzo Poldi, dimora del conte Casati e della principessa Belgioioso. Era quello un politico panteismo, nel quale, per virtù metafisica dell'unità, persone e cose venivano in un sol vortice tramestate e assorte.

Ogni sforzo di metafisica era vano. I provisorii, non pensando in verun modo alla guerra, ma solo alla loro politica, protestavano sempre di serbare ogni controversia politica al termine della guerra. Spacciavano tali ciance perfino al papa, che pure doveva per tante strade sapere i secreti pensieri di loro e del re. Scrivevano: «Alla Santità di Pio IX: Finchè ferve la guerra, noi provederemo che dissidii non surgano sulle forme politiche a cui debba comporsi questa nobil parte della gran patria italiana; a causa vinta la nazione deciderà». Lo ripetevano ogni istante al popolo: «A causa vinta, i nostri destini saranno discussi e fissati dalla nazione». «Attendete che ogni terra italiana sia libera; liberi tutti, parleranno tutti». «Non si discute intanto che si combatte». E il re medesimo aggiungeva in suo proclama ai popoli, dato in Lodi il 31 marzo: «Le mie armi, abbreviando la lotta, ricondurranno fra voi quella sicurezza che vi permetterà d'attendere con animo sereno e tranquillo a riordinare il vostro interno reggimento; il voto della nazione potrà esprimersi veramente e liberamente; in quest'ora solenne vi movano sopratutto la carità della patria, l'aborrimento delle antiche divisioni, delle antiche discordie, le quali apersero la porta d'Italia allo straniero». E come se parola di re fosse poco, usciva a farne fede anche il dottor Angelo Fava, promettendo enfaticamente che la nazione deciderebbe «a guerra finita, quando l'idra austriaca sarà abbattuta dalla clava italiana... allora!».

Senonchè, a smentire la metafora del Fava, compare in quel medesimo giorno, 5 d'aprile, un manifesto del marchese Doria, altro dei compari, il quale, ammirando la concordia di tutti gli Italiani alla cacciata delli Austriaci, e tuttavia non contento, diceva: «Noi abbisognamo d'un'altra concordia... Abbiamo bisogno d'una concordia che ci dia la unione... Fratelli lombardi e veneti, alla gloria d'aver cacciato il nemico commune, unite quella di munire la patria commune con uno Stato forte». E già cinque giorni prima erasi pubblicato in Brescia altro indirizzo d'un A. L. Bargnani, emigrato reduce, il quale, dopo molte circollocuzioni, conchiudeva: «Proporrei che tutti i municipii del contado e della città di Brescia, e lo stesso direi delle altre provincie lombarde e tirolesi, incaricassero i magistrati proprii di trasmettere a questo governo provisorio i loro voti, onde le provincie medesime vengano aggregate alli Stati sardi... I quali voti poi il nostro governo provisorio invierebbe a quello di Milano, e questo presenterebbe solennemente a Sua Maestà sarda, con o senza quelli delle altre provincie». Il lettore vedrà quante cose giacciano sottintese in quelle tristi parole: «con o senza quelli delle altre provincie». Pareva essersi già deliberato il disegno di scindere Piacenza da Parma, Reggio da Modena, Brescia da Milano. Leggiamo altrove: «Ho parlato con un signore che viene di Lombardia, il quale dice che le provincie siano più disposte ad acclamare Carlo Alberto a loro sovrano che non lo sia Milano». Ma nella medesima pagina leggiamo: «Il partito republicano pare che si svegli». E questo era un effetto ben naturale, non ostante il patto di Parigi e la comparsa di Mazzini sui balconi di piazza San Fedele. Le lentezze della guerra, le slealtà della politica, le violenze del governo che faceva minacciare d'incendio la stamperia del Lombardo, da cui erasi onestamente rivocata in dubio la legitimità del suo potere, facevano sì che il 7 aprile venisse deliberato da alcuni giovani, presieduti, crediamo, da Giuseppe Sirtori, un manifesto d'associazione republicana. Venne però publicato nei giornali solo il 15 aprile, due settimane dopo la provocazione del Bargnani. E non ebbe la publica adesione del Mazzini se non dopo il decreto del 12 maggio.

 Mazzini pose intanto a servigio dei patrizi i suoi uomini d'azione, come fa fede la proferta d'impiego da lui fatta in nome del governo al general Fanti, e controsegnata sul foglio stesso dal secretario Correnti. A nome pur del governo, Filippo De Boni s'indirizzò ad un comitato in Losanna, il quale doveva fornire un corpo d'ausiliarii che il governo simulava di volere accettare a' suoi stipendi, e di poterlo; e che poi naturalmente non potè e non volle. Inesperto del paese, l'illustre esule prestava inoltre involontaria mano a una petizione promossa dal governo contro i membri del consiglio di guerra che avevano impedito l'armistizio. Abbiamo già veduto con quali aspirazioni il Montanelli corresse da Massa a Milano; il prete Francesco Dall'Ongaro, pratico di Venezia, fu quivi spedito dal governo provisorio principalmente per aiutare l'inviato «a entrare in rapporto colle persone più influenti del governo veneto». Alle armi straniere si aggiungevano contro Venezia le domestiche insidie.

Fatto si è che, intorno all'idea vaga dell'unità, si propagavano e si attemperavano alli animi generosi le mezze idee dell'unione e della fusione, le quali involgevano i più triviali calcoli d'ingrandimento a favore dei principi, e di protezione armata a favore dei patrizi; erano come quei frutti che gli antichi dicevano nascere intorno al Mar Morto, rugiadosi e morbidi al di fuori, e dentro pieni di cenere. E per ineluttabile forza logica del falso principio, riuscivano a ultimi calamitosi effetti; quali erano il sospetto vicendevole dei principi, la loro diserzione alla guerra d'Italia, il ritorno loro all'alleanza austriaca e ad ogni altra ingerenza straniera; insomma, il fatale ricorso della istoria italiana, la quale è veramente un eterno litigio di preminenze e di confini.

I padri nostri videro bene nella religione del Dio Termine la sicurtà e santità dei beni domestici e della società municipale; ma non seppero valersene alla sicurezza e santità d'altri beni più sublimi e d'altra pur necessaria e più vasta società. Che importerebbe mai la ineguale ampiezza delle giurisdizioni, in seno ad un'Italia tutta libera e tutta armata? Siffatte distribuzioni non sarebbero mai di maggiore inciampo che non siano in seno alla Chiesa i vescovati e gli arcivescovati. In cinquecento e più anni dacchè fu proferito il giuramento del Grütli, mai Svitto non pensò a dolersi che Untervaldo e Uri volessero essere, al pari di lui, padroni in casa loro. Mai la vasta Virginia e la Pensilvania non insidiarono per amore di maggior concordia gli Stati, venti o trenta o cinquanta volte men vasti, di Rhode Island e di Delaware. I confini delle giurisdizioni, quali gli fece la lunga serie delli eventi, rappresentano da lungi una diversità d'origini felicemente obliterate dalla lingua commune; e rappresentano dappresso la varietà delle legislazioni, dei costumi, dei dialetti, e la abitudine di moversi intorno a certi nodi naturali di commercio. Il turbare d'improviso e senza necessità quest'ordine di movimenti e di funzioni, a cui tutti i calcoli delle famiglie sono coordinati, è più grave danno che non si creda; rende amare ai popoli le primizie della libertà; e in procinto di guerra, dissipa le loro forze e i loro pensieri. Nel volume si vede, come gli abitanti della Lunigiana, staccati poco prima dalla Toscana e aggiunti a Parma, si lagnassero delle insolite leggi: «Corre il sesto mese dacchè siamo in una posizione sommamente deplorabile». Le varietà quasi familiari delli Stati nulla tolgono alla coscienza nazionale, rivelata a se stessa e ogni giorno vieppiù stimolata; e se anche alcuna cosa le togliessero, converrebbe pure, rimosso ogni ostacolo ai confini, lasciare al commercio, al tempo, alle idee, e alle innovazioni deliberate in commune, l'officio di cancellar tali tradizioni senza danno e senza dolore.

Ma nel 1848 non si trattava già della lenta opera delle legislazioni, bensì dell'urgente e ardente guerra straniera, alla quale importava recar subito da tutte le parti d'Italia la maggior somma di gente e di denaro. Nella recente guerra svizzera, quando il cantone di Vaud pose in armi il dieci per cento della sua popolazione, gli altri cantoni che non fecero altretanto, non poterono però averne timore o sospetto; anzi applausero con tutto l'animo al generoso esempio che accresceva le forze communi. Tale è l'effetto del principio federale e fraterno. A quella prima campagna il Piemonte apportò da 40 a 50 mila uomini, ossia l'uno per cento del suo popolo, ch'è quasi un quinto della nazione. Se la sacra potenza d'un Patto avesse mosso tutta Italia a rispondere al primo invito di Milano combattente e fare altretanto (e non era gran prodigio, era la decima parte di quanto potè fare la republichetta di Vaud), avremmo avuto in breve termine di tempo 250 mila uomini, e fra essi un qualsiasi numero di veterani stranieri, che d'ogni parte si offrivano. Inoltre in guerra non è tanta la difficoltà di far gente e armarla e addestrarla, quanto di traslocarla e provederla. Perlochè i popoli che sono più vicini al campo di battaglia possono facilmente opporre al nemico masse maggiori. Così potè Como, colle forze d'una parte sola della provincia e di pochi Ticinesi, conquidere un presidio di duemila soldati. E Brescia, nel 1797, aveva potuto dare cinquemila fanti, seicento cavalieri e i cannonieri d'una batteria che Bonaparte le aveva donata; il che faceva allora circa il due per cento di quella provincia. E non solo la vicinanza e la commodità, ma il più vicino e più fiero pericolo doveva chiamar più gente all'armi nella ribelle Brescia e nella ribelle Milano che non nel Piemonte; il quale era chiamato a combattere per comando di principe e per onor commune e dover di nazione, e per assicurare dall'oppositore straniero la riforma delle sue istituzioni e il suo progresso; ma non aveva a temere confische e supplicii e altre barbare vendette. Or bene, se per federale accordo si fosse mossa tutta Italia a fare quanto il Piemonte, se il Lombardo-Veneto e i Ducati avessero fatto più ancora, la parte di forze che il Piemonte avrebbe mostrata in campo sarebbe stata appena un quinto, un sesto del tutto. Ma la sua preminenza militare sarebbe allora svanita; allora la spada d'Italia non sarebbe stata una sola; allora ad un solo principe non si sarebbero potute aggiudicare le spoglie dello straniero e quelle dei congiunti di Parma e di Sicilia. Dal principio dell'egemonia veniva per logica conseguenza che al Piemonte dovesse tornar molesta ogni maggioranza di soldati e di generali che non fosse de' suoi, epperò ch'esso dovesse escluder dal campo tre quarti delle forze nazionali. Tale è la differenza pratica tra il principio della federazione e quello dell'egemonia, tra quello dell'eguaglianza e quello della preminenza, tra quello dell'emulazione e quello della gelosia! Ognuno vede che questa fallace politica veniva fomentata nel governo piemontese dal proposito suo inopportuno d'acquistar a primo tratto nuove provincie; e che questo proposito non avrebbe potuto giustificarsi nè tampoco prodursi alla luce dell'opinion publica, se l'Unione non fosse parsa a molti, non usurpazione, nè insidia, nè pomo della discordia, come sembrò ai parmigiani, ma un pratico avviamento all'unità; insomma, se l'idea dell'Unità non avesse di lunga mano preoccupate le menti. A questa dunque si deve riferire e imputare tutta quella tenace catena d'errore, di disordine e di meravigliosa impotenza. E già prima che l'insurrezione avesse principio, un profetico scritto, benchè con inutile e ingrata veracità, ne aveva ammonito l'Italia: «L'hypothèse de l'unité s'attacherait nécessairement à un prince, à une famille royale; elle inspirerait à tous les princes menacés l'alliance de l'Autriche; elle envelopperait l'oeuvre de l'indépendance dans le mystère d'une cour; la discorde serait dans le camp avant le combat».

Che se il Piemonte solo o quasi solo, ma con deliberata e audace strategia, e col favore immenso dei popoli, avesse saputo ripetere intorno a Mantova i prodigi del gran capitano, e vincere con cinquantamila soldati, vincere con una sola spada, e a profitto d'un solo, e trapassare dall'unione d'una o d'altra provincia ad un'improvisa e gloriosa unità; non credano gli esuli che avrebbero perciò fondata la libertà. Pur troppo lo dimostra l'esempio della Francia e della Spagna, a cui la libertà sanguinosamente conquistata sfugge eternamente di mano, per effetto delle immani forze accumulate in mano ai governi, mentre viceversa nella Svizzera e nell'America, ove ogni singolo popolo tenne ferma in pugno la sua padronanza, la libertà, dopo un primo acquisto, non andò più perduta. Tale è la virtù dei principii, fuor dei quali ogni sforzo di valore e di sacrificio è vano.

Nè giova illudersi col dire che questi non siano principii: son principii anch'essi di diritto; sono per lo meno principii di politica; e la politica è la necessaria tutrice del diritto; e principio è tutto ciò che genera inevitabil serie di conseguenze. Nè giova illudersi col dire che, per poco che si aggiunga, e per poco che si tolga, la federazione viene bel bello a confondersi coll'unità; poichè in tutte le faccende del mondo il passaggio da cosa a cosa si fa per gradi; e talmente per gradi si procede dalla pianta all'animale e dalla foglia al fiore e al frutto, che la scienza non può additare il punto ove il passaggio avvenga. Non per questo alcuno cambierà mai il fico colla foglia o la pecora coll'erba che la pasce o la paterna presidenza di Washington colla truce dittatura di Cavaignac. È l'antico sofisma del cumulo.

Sempre in preda a precipitose astrazioni, vedono nel mondo gli individui; poi le famiglie, ed è gran ventura; poi vedono anche commune, ossia l'azienda unita d'un centinaio forse di famiglie, e nel più de' casi, combinazione pressochè domestica e privata. Poi chiudono gli occhi per tutti gli altri internodii e ricapiti dell'umana società; balzano d'un tratto alla nazione, ch'è quanto dire, alla lingua. Ignorano lo Stato e le sue necessità. Dunque se una medesima lingua domina le Isole Britanniche, la Pensilvania, la California, l'alto Canadà, la Giamaica, l'Australia, per essi v'è solamente a far somma d'un maggior numero di famiglie e di communi. Dunque il Parlamento britannico non ha da far leggi; il Congresso americano sogna d'aver leggi da fare; tanto è più superflua una legislazione provinciale per i fratelli della Pensilvania e i venturieri della California; l'algido Canadà, la torrida Giamaica non debbono aver leggi proprie, che rispondano ai luoghi e alle tradizioni e alle varie mescolanze degli uomini e alla varia loro coscienza; l'Australia debbe aspettare in eterno ogni provedimento da' suoi antipodi, perchè parla la stessa lingua, e fa secoloro una sola nazione!

No, qualunque sia la comunanza dei pensieri e dei sentimenti che una lingua propaga tra le famiglie e le communi, un parlamento adunato in Londra non farà mai contenta l'America; un parlamento adunato in Parigi non farà mai contenta Ginevra; le leggi, discusse in Napoli non risusciteranno mai la giacente Sicilia, nè una maggioranza piemontese si crederà in debito mai di pensar notte e giorno a trasformar la Sardegna, o potrà rendere tolerabili tutti i suoi provedimenti in Venezia o in Milano. Ogni popolo può avere molti interessi da trattare in commune con altri popoli; ma vi sono interessi che può trattare egli solo, perchè egli solo gli sente, perchè egli solo gli intende. E v'è inoltre in ogni popolo anche la coscienza del suo essere, anche la superbia del suo nome, anche la gelosia dell'avita sua terra. Di là il diritto federale, ossia il diritto dei popoli; il quale debbe avere il suo luogo, accanto al diritto della nazione, accanto al diritto dell'umanità.

Uomini frivoli, dimentichi della piccolezza degli interessi che gli fanno parlare, credono valga per tutta confutazione del principio federale andar ripetendo che è il sistema delle vecchie republichette. Risponderemo ridendo, e additando loro al di là d'un Oceano l'immensa America, e al di là d'altro Oceano il vessillo stellato sventolante nei porti del Giappone.

Ma non giova più dilungarci. A esporre quanti ragionamenti ci suggerì la lettura di queste centinaia di frammenti si vorrebbe altra egual mole di volume. Epperò abbiam giudicato miglior consiglio che questo Avviso al Lettore tenga luogo anche delle Considerazioni che abbiamo aggiunte ai nostri due primi volumi. Ci basta di far animo al lettore a superare la prima fatica, a metter per entro alla congerie dei documenti uno sguardo indagatore. Si tratta della nostra istoria recente e viva; alla quale poco dissimile tornerà pur troppo la istoria futura e imminente; poichè i fatti dei popoli camminano coi loro pensieri; e il pensiero publico, benchè ritratto dalle plateali dimostrazioni a qualche maggior gravità, si move però ancora sui principii che lo traviarono allora. A chi ci apponesse d'aver con falso animo allegata in questi frammenti tal cosa o pretermessa tal altra, ripetiamo l'invito di por mano all'opera, e metter fuori altro volume da collocarsi a lato al nostro per supplire al nostro difetto. E pur troppo qualche mancanza nostra è veramente involontaria; e noi, al pari forse de' nostri lettori, restiamo col desiderio di sapere, a cagion d'esempio, quale arcano caso condusse prima a Chambéry, poi a Milano tanto l'emissario Urbino quanto il generale Olivieri, eletto fra tutti a difendere Milano quattro mesi dopo aver avuto una publica nota di disonore dalla guardia di Chambéry. A chi ci accusasse di aver coltivato odio di principi, rancori di provincie, rivalità di opinioni, additeremo in questo medesimo volume qual divario, a cagion d'esempio, passa tra le sobrie nostre illazioni intorno alla morte di Pellegrino Rossi desiderata ad un tempo medesimo dai prelati, dai regi e dagli unitarii, e la furiosa invettiva del Gioberti contro i ministri piemontesi, che nelle persone loro erano affatto innocenti di quella morte. Additeremo anche le tristi confessioni prese dai libri del conte della Margarita e del marchese Gualterio. Additeremo quello sulla Campagna d'Italia d'un officiale di stato maggiore e le Memorie e Osservazioni d'un familiare del re; l'uno dei quali allude a molte cose, che noi ben vorremmo meglio chiarite, ove scrive che «la fazione assolutista fu la sola che riescì allora a' suoi disegni e si governò con astuzia e intendimento». E l'altro dice ancor più che noi osammo dire, ove attribuisce le sventure dell'esercito a ben altro che ad errori d'arte militare: «Ciò che gli spiriti leggieri e superficiali tacciano d'ignoranza (esso dice) non era forse che il risultato del calcolo: e del calcolo più profondo».

Ma se il calcolo fu profondo, o per vero dire fu profondamente falso da una parte, non fu men profondo e meno falso presso l'altra delle due congreghe secrete, fra le quali ondeggiava a quei tempi, per vecchio suo vizio, quella corte. Se nefando era il consiglio che mirava a ricondurre per la via d'un sanguinoso disastro la casa di Savoia a uno stato di monastica inerzia e nullità, delirio era il consiglio che la spingeva, ad un tratto e sola, contro l'Austria e contro tutti i principi d'Italia.

Ben le fu dato, o veramente gettato inanzi e non venduto, un altro consiglio, un consiglio affatto semplice e militare, qual poteva venire in mente a chi era sotto il rombo della mitraglia: Combattere; mirar solo alla vittoria; valersi alla vittoria di quante forze prorompevano allora spontanee da tutti gli Stati d'Italia. La vera e non insidiosa e non odiosa egemonia doveva consistere nell'avventarsi al primo e più vicino posto sul campo; e questa egemonia da nessuno poteva preoccuparsi al Piemonte, quando il campo sul quale errava un nemico già stanco e snervato era ad una mezza marcia dalle sue frontiere.

Il consiglio fu inviato in tempo, al primo lampo della vittoria del popolo, nel terzo giorno del combattimento; fu inviato per di sopra alla cerchia ancora intera di ventimila nemici: «Milano, per compiere la sua vittoria, dimanda il soccorso di tutti i popoli e principi d'Italia; e specialmente del vicino e bellicoso Piemonte!»

E compiuta la vittoria, ancor non era da pensare a far sacco; nè a risuscitare in Italia contese di terra e di confini.

Era bastevole profitto per il Piemonte, da mero brano d'una nazione impotente e oppressa, divenire con uno splendido fatto di guerra membro d'un corpo vivente, forte, e libero; potente a' suoi confini quant'altra qualsiasi nazione, dieci volte più popoloso della Svizzera, e in commercio sicuro e vicino con essa: epperò certo della sua alleanza, ogni qualvolta il volesse, a fronte di qualsiasi turbatore, seppur poteva sorgere nuovo turbatore contro chi non avesse ingelosito chicchessia con atteggiamenti da conquistatore, ma contenute le armi vittoriose entro il sacro limite della commune difesa. A chi giaceva così basso, come da tanti anni l'Italia, doveva parer bastevole profitto porsi tutta alla condizione medesima che fu paga di prefiggere a sè nel 1814 la Germania vincitrice!

Il Piemonte avrebbe avuto a men doloroso prezzo tutto ciò che adesso ha: più la vittoria: più la fama militare: più l'intimo e libero commercio con tutta Italia e la compagnia di tutti i popoli italiani a svolgere nella vasta patria gli assopiti elementi d'ogni forza e d'ogni prosperità. Il Piemonte non avrebbe avuto sempre vigile e torva al ponte del Ticino la faccia d'un nemico che vede con dolore ogni suo bene e, con tripudio ogni sua sventura.

Quando tutti gli Stati d'Italia dovevano essere governati da adunanze elettive (e quante più erano, tanto meglio per la satisfazione dei popoli e la concordia universale), poco importava che in Parma si deliberasse a nome d'un duca, e a Roma a nome d'un pontefice sotto l'altiera presidenza d'un Rossi; e a Venezia, come in Francoforte e in Amburgo, sotto quella d'altro semplice cittadino. Nulla avrebbe levato alla prosperità dei piemontesi e dei genovesi, se a Milano i facendieri avessero data la vacua corona al duca di Genova, come era ben facile; o se per offendere meno le assurde osservanze della diplomazia, le quali trattano ogni stato come un patrimonio, si fosse raccolto nel solo nome del granduca di Toscana tutto ciò che dai trattati erasi qua e là assegnato al suo parentado in Italia; o se si fosse voluto avere un regno con due teste, potevano pur congiungere sotto Carlo Alberto Torino e Milano; ma così come la Svezia e la Norvegia; così come Berna e Zurigo; non già come il Belgio e l'Olanda, per darsi mutuo impaccio, e concepirsi odio, e in breve ripudiarsi per sempre.

Quanto alla paura che publicamente si affettava dei republicani, pare non fosse altro che polve alli occhi della diplomazia: poichè il patto che si era stretto da Azeglio colle società secrete di Romagna e Toscana, e si era imposto all'Associazione Italiana di Parigi da uomini che anzi tutto professavano rancore alla Francia, non solo assicurava il re da ogni prova di republica in Milano, ma gli dava per fautori e propagatori e i Berchet e i Mazzini, e quanti mai avevano bensì maledetto alla perversa sua politica, ma gli avevano già offerto vittorie e regni fin dal 1821 e dal 1832. L'unica difficoltà si era che, gli Unitarii volevano dargli più ch'ei non avesse il coraggio di prendere in una volta. Qualche voce di republica si udì solo agli avamposti dei volontari a fianco della croce svizzera che aveva preso il campo prima della croce di Savoia, e quando le lettere stesse dei governi provisorii spiravano aperta diffidenza per l'irresoluto contegno del re. E il primo mormorio di dottrine republicane si ode solo nelle ultime pagine di questo volume, inspirato parimenti da quelle inesplicabili lentezze, e più ancora dalle prime violenze fatte dal governo provisorio alla libera stampa. La gioventù non intendeva più altro che guerra, nè pensava ad altro che alla cacciata dello straniero; pareva ottusa e inetta ad ogni altra idea.

Intanto la casa di Savoia, in preda a consiglieri senza consiglio, si lasciò sfuggire di pugno un momento di gloria e di fortuna, che forse non tornerà mai!

Potrà ben essa nei futuri rimpasti delle cose europee acquistar forse una od altra provincia, ma non senza perderne altre e più saldo possesso; e in ogni modo le sue sorti poi rimarranno sempre in arbitrio straniero, non meno della rimanente Italia. Il Piemonte diverrà forse uno stato più italiano; ma i suoi destini saranno sempre combattuti, perchè il problema dell'Italia non sarà sciolto ancora.

Fuori del diritto federale saremo sempre gelosi, discordi e infelici.