Enciclopedia delle Scienze Sociali (1994)
Mercati finanziari
di Tommaso Padoa-Schioppa
Sommario: 1. Introduzione. 2. Aspetti istituzionali
ed evoluzione storica. 3. La teoria dei mercati finanziari. a) L'efficienza.
b) La formazione dei prezzi. 4. La tassazione dei mercati
finanziari. 5. L'organizzazione dei mercati. a) Il mercato
primario. b) Il mercato secondario. c) I
sistemi di liquidazione. 6. La regolamentazione dei mercati
finanziari. 7. L'internazionalizzazione dei mercati finanziari.
1. Introduzione
Il termine 'mercati finanziari' può definire, nella sua
accezione più generale, l'insieme delle strutture
(giuridiche, operative, tecniche, fisiche) attraverso cui
avviene lo scambio delle attività finanziarie. Nell'uso
comune, tuttavia, il termine è andato assumendo
connotazioni più circoscritte, riferendosi allo scambio
di attività finanziarie standardizzate e prontamente
mobilizzabili attraverso la cessione 'sul mercato', cioè
ad acquirenti non noti al venditore: in tale accezione, 'mercato
finanziario' è così divenuto sinonimo di 'mercato
mobiliare'. Nel mercato finanziario così definito
rientrano, tipicamente, i mercati dei titoli obbligazionari e
azionari, mentre non sono compresi i mercati di quei prodotti
bancari o assicurativi che, come i depositi in conto corrente,
traggono la loro liquidità dalla promessa di rimborso a
vista o che, come le polizze assicurative, pur presentando
caratteristiche standardizzate non sono mobilizzabili a
richiesta. I mercati finanziari costituiscono quindi una
soluzione, anche se non l'unica, a due ordini di problemi: il
primo, costituito dal trasferimento del risparmio dai centri di
formazione a quelli di utilizzo; il secondo, dalla
diversificazione dei rischi. Soluzioni diverse agli stessi
problemi sono offerte dagli intermediari bancari e da quelli
assicurativi. Dall'interazione di queste tre diverse istituzioni
deriva la conformazione del sistema finanziario complessivo.
I mercati finanziari possono essere classificati secondo una
varietà di criteri. Vanno qui ricordati quello della
collocazione temporale dello scambio, che porta a distinguere
tra mercati 'a pronti' e 'a termine', a seconda che la consegna
dei titoli sia contestuale o differita; il criterio della
quotazione del titolo, che distingue tra mercati 'primario' e
'secondario' rispettivamente per i titoli di nuova quotazione o
già presenti sul mercato; quello della durata del titolo,
che individua un mercato dei titoli a breve o a lungo termine
(rispettivamente money market e capital market nella dizione
inglese); quello della regolamentazione, che distingue tra
mercati ufficiali e non (over the counter); quello del
meccanismo di formazione dei prezzi, che distingue i mercati ad
asta da quelli con market maker, i mercati in cui la
contrattazione è continua da quelli in cui è
scandita nel tempo; infine il criterio che, sulla base dello
strumento trattato, distingue i mercati dei titoli di
proprietà, dei titoli di debito e dei titoli 'derivati'.
Il valore conoscitivo dei diversi criteri di classificazione
emergerà dal seguito di questa esposizione, dove si
darà conto delle principali connotazioni concettuali,
istituzionali e storiche dei mercati finanziari. Nel cap. 2
saranno illustrati gli aspetti che contraddistinguono l'azione
dei mercati nel più ampio contesto del sistema
finanziario. Successivamente, l'attività dei mercati
finanziari verrà considerata da tre diverse angolazioni:
quella teorica, quella organizzativa e quella della
regolamentazione. Nel cap. 3, sulla base delle indicazioni della
teoria economica, verranno definite le principali funzioni dei
mercati finanziari (§ 3a) e le determinanti dei prezzi che
su di essi si formano (§ 3b). Le diverse forme di
tassazione presenti sui mercati finanziari saranno descritte nel
cap. 4. Il cap. 5 affronterà il tema dell'organizzazione
dei mercati esaminando i meccanismi di formazione dei prezzi sui
mercati primario (§ 5a) e secondario (§ 5b) e le
procedure di liquidazione delle transazioni in titoli (§
5c). Da ultimo, verranno indicate le principali aree e
finalità della regolamentazione dei mercati finanziari
(cap. 6) e le implicazioni derivanti dalla crescente
integrazione internazionale dei mercati (cap. 7).
Le riflessioni teoriche, le analisi empiriche, le azioni
normative che hanno avuto nei mercati finanziari il loro oggetto
condividono con essi la duplice appartenenza al mondo
concettualmente chiaro dei mercati e a quello più
sfuggente dei sistemi finanziari. Cercheremo di dar conto di
entrambe queste nature, senza, tuttavia, presumere di raccordare
in un unico schema coerente un insieme di contributi tra i
più vasti e i più eterogenei della riflessione
economica.
2. Aspetti istituzionali ed evoluzione storica
Le connotazioni dei mercati finanziari, intesi in senso ampio
e in senso stretto, derivano dalle caratteristiche del
'prodotto' che su di essi viene scambiato: le attività
finanziarie. A differenza dei beni reali, queste non danno
luogo alla prestazione diretta di servizi (produttivi o di
consumo) ma conferiscono al loro detentore il diritto a
prestazioni monetarie future a fronte di eventi quali la
maturazione delle cedole, la scadenza del titolo, la sua
alienazione o altro. La distribuzione nel tempo di tali flussi
monetari conferisce ai mercati finanziari quella connotazione
multiperiodale che ne costituisce il carattere fondamentale.
I prodotti scambiati sui mercati finanziari si possono
distinguere per il grado e il tipo di incertezza connesso alle
prestazioni monetarie future, stabilite dal contratto che li
origina. I titoli di debito, quali le obbligazioni, sono
generalmente contraddistinti da pagamenti di ammontare
definito in termini assoluti o in relazione a specifici
parametri. I titoli di proprietà, costituiti dalle
azioni, conferiscono invece il diritto a flussi monetari
variabili in funzione dei risultati dell'impresa emittente e
comunque subordinati al soddisfacimento degli obblighi
finanziari nei confronti dei detentori dei contratti di
debito. Vi sono, tuttavia, titoli che, come le obbligazioni
convertibili, condividono aspetti di entrambe le categorie.
A tali prodotti si aggiunge la categoria dei titoli
'derivati', quali le opzioni, i futures, gli swaps, il cui
prezzo è derivato da quello di altri titoli, cui sono
legati da specifici obblighi contrattuali. In particolare, le
opzioni conferiscono al loro possessore la possibilità,
ma non l'obbligo, di acquistare (opzione call) o di vendere
(opzione put) il titolo di riferimento a un prezzo
predeterminato (strike price): ciò fa sì che il
valore di un'opzione dipenda positivamente o negativamente dal
prezzo del titolo cui si riferisce, a seconda che si tratti di
una call o di una put. I futures rappresentano, invece, un
impegno allo scambio di beni o valori mobiliari da effettuare
a una data futura e a un prezzo prefissato. Gli swaps
costituiscono un analogo impegno, riferito però allo
scambio di due serie di pagamenti, definiti sulla base di due
diversi tassi di interesse (swap di interesse) o di differenti
valute (swap di valute).
La molteplicità dei prodotti trattati sui mercati
finanziari è strettamente legata all'offerta di una
vasta gamma di servizi finanziari. Tra di essi vi sono i
servizi rivolti alla gestione del rischio finanziario; i
servizi di consulenza, intesi a facilitare l'incontro sul
mercato dell'offerta e della domanda di fondi, ad esempio
attraverso l'assistenza offerta agli emittenti nel
collocamento di nuovi titoli; i servizi che migliorano la
liquidità del mercato, come, ad esempio, l'impegno a
effettuare quotazioni in modo continuativo. La prima categoria
di servizi è offerta dagli investitori istituzionali,
tradizionalmente rappresentati dai fondi comuni, dalle imprese
di assicurazione, dai fondi pensione e dagli intermediari che
offrono servizi di gestione fiduciaria di patrimoni mobiliari;
le altre due categorie di servizi sono offerte dagli
intermediari che svolgono, rispettivamente, attività di
investment banking e di market making.
Storicamente, lo sviluppo dei mercati è stato
condizionato dal grado di standardizzazione delle
attività finanziarie. La natura fiduciaria di queste
ultime tende infatti a conferire a ciascuna di esse
connotazioni fortemente individualizzate che, valorizzando i
rapporti bilaterali, privilegiano l'intermediazione
creditizia. La standardizzazione, viceversa, indebolendo la
connotazione bilaterale dei rapporti di finanziamento e
garantendo la sostituibilità delle diverse
attività, rende praticabili le forme di scambio
multilaterali, tipiche dei mercati finanziari.
Nell'esperienza storica, lo scambio di attività
finanziarie ha tardato ad affrancarsi dai vincoli bilaterali,
generando un ritardo di alcuni secoli nello sviluppo dei
mercati finanziari rispetto a quello delle prime istituzioni
creditizie. I titoli che per primi hanno dato vita a mercati
organizzati sono stati quelli emessi dal debitore pubblico,
già scambiati correntemente in alcuni paesi europei nel
XVII secolo. La nascita del mercato della carta pubblica in
Inghilterra, Olanda, Francia affonda le sue radici nella
riforma delle finanze dello Stato, realizzatasi nei principali
paesi europei tra la metà del XVII e la fine del XVIII
secolo, con il progressivo accentramento della funzione
impositiva nelle mani dello Stato, e la conseguente
regolarizzazione delle entrate fiscali e delle emissioni dei
titoli del debito. Più tardivo è stato l'avvio
di un mercato finanziario dei titoli privati, sviluppatosi
solo dopo la rivoluzione industriale, quando l'avvio dei
grandi lavori legati allo sviluppo della rete dei trasporti ha
portato le iniziative industriali a dimensioni tali da
richiedere risorse finanziarie amplissime, molto superiori a
quelle fornite dalla ristretta cerchia di finanziatori che
avevano dato vita alle prime manifatture. A tale esigenza ha
risposto la modifica dell'ordinamento giuridico, che ha reso
possibile la diffusione della società per azioni a
responsabilità limitata.
Accanto alla definizione dell'assetto legale relativo alla
forma societaria e alla natura dei contratti di debito e di
proprietà, un ruolo determinante per lo sviluppo dei
mercati finanziari è stato svolto dall'attività
di regolamentazione e di controllo di questi ultimi, intesa a
promuoverne la stabilità. Improvvise e accentuate
riallocazioni dei portafogli verso le attività
più liquide, generate da crisi di fiducia in
particolari forme di investimento finanziario, hanno, infatti,
costituito un severo ostacolo alla crescita dei mercati fin
dal loro esordio, provocando a più riprese drastiche
cadute dei corsi, note come crisi finanziarie. Tra le prime
manifestazioni di tali crisi vanno ricordate quelle che
all'inizio del XVIII secolo posero fine alle ondate
speculative sul mercato inglese e sul mercato francese, note
come bolle speculative dei Mari del Sud e del Mississippi.
Numerose sono state le crisi finanziarie che nell'Ottocento
hanno colpito i diversi mercati finanziari estendendosi
frequentemente oltre le frontiere nazionali (v. Kindleberger,
1989²). Gli effetti più devastanti, sia per
l'intensità sia per l'ampiezza internazionale della sua
propagazione, rimangono quelli provocati dalla crisi del
mercato finanziario americano del 1929. Da allora, l'intento
di circoscrivere gli effetti dell'instabilità dei corsi
delle attività finanziarie ha assai rafforzato il
processo di regolamentazione dei mercati. Ai progressi
compiuti in tale campo può essere in parte ricondotta
la mancata ripercussione sulla struttura produttiva della
crisi della borsa di New York del 1987.
Il ruolo dei mercati finanziari nei diversi sistemi nazionali
è stato generalmente crescente, ma anche molto
differenziato da paese a paese. L'evoluzione non è
avvenuta lungo una successione di fasi determinate; al
contrario, essa è apparsa dipendere dalle particolari
caratteristiche degli operatori che domandano o offrono
risorse finanziarie nei diversi contesti nazionali. Si suole
distinguere, con riferimento a tali caratteristiche, un
modello di stampo anglosassone, impostato sulla distinzione
tra l'attività creditizia e quella di intermediazione
mobiliare e caratterizzato dalla rilevanza dei mercati nel
finanziamento delle imprese, da un modello tipico dell'Europa
continentale, imperniato sulla possibilità per le
banche di svolgere entrambe le attività e sull'egemonia
degli strumenti bancari rispetto a quelli di mercato.
Il mercato dei titoli azionari e quello del debito pubblico
hanno generalmente rappresentato i segmenti di maggior rilievo
del mercato finanziario. A essi si è affiancato, a
partire dagli anni settanta, in un numero crescente di paesi,
il mercato dei titoli 'derivati', il cui sviluppo è
stato reso possibile dall'ampliamento delle conoscenze
teoriche nel campo della formazione dei prezzi di tali
attività e dai progressi nella elaborazione elettronica
dei dati.In Italia, fin dalla costituzione dello Stato
unitario, i mercati finanziari più rilevanti sono stati
quello del debito pubblico, quello azionario e, in alcune
fasi, quello delle obbligazioni private. Nel secondo
dopoguerra il valore complessivo dei titoli obbligazionari
pubblici e privati si è mantenuto inferiore a quello
dei titoli azionari fino agli anni sessanta. Solo
successivamente, il mancato ammodernamento del mercato di
borsa, la stabilità degli assetti proprietari pubblici
e privati e lo sviluppo abnorme del fabbisogno pubblico hanno
progressivamente ridotto il rilievo dei titoli azionari
quotati: misurati sulla base della capitalizzazione alla borsa
valori di Milano, essi rappresentavano, alla fine del 1990,
circa un sesto della consistenza dei titoli di Stato, mentre
erano stati circa il doppio nel 1960.
3. La teoria dei mercati finanziari
a) L'efficienza
I mercati delle attività finanziarie, come quelli
delle attività reali, hanno promosso nel tempo lo
sviluppo del benessere: il mercato dei beni reali favorendo
la specializzazione produttiva, quello dei prodotti
finanziari attraverso il trasferimento di risparmio,
altrimenti inutilizzato, dai centri di formazione a quelli
di spesa e attraverso la sua allocazione efficiente tra
progetti alternativi. La possibilità di mobilizzare
la ricchezza finanziaria consente a ciascuno di commisurare
l'entità dei propri flussi di spesa non alle risorse
disponibili contestualmente, ma a quelle disponibili in una
prospettiva più ampia, che può coincidere con
la vita lavorativa o con i tempi di realizzazione di
investimenti produttivi. Ciò amplia le
opportunità di scelta in materia di consumo e di
investimento e facilita il conseguimento di una più
efficiente allocazione delle risorse.
La teoria economica ha cercato di conferire precisione
concettuale alla nozione intuitiva di 'efficienza
allocativa', riferendola al conseguimento di una
distribuzione delle risorse tra i diversi soggetti tale da
non poter essere modificata senza ridurre il benessere di
qualcuno (efficienza paretiana). La moderna teoria dei
mercati finanziari ha approfondito l'analisi delle
condizioni necessarie perché tali mercati realizzino
allocazioni delle risorse rispondenti a tale criterio. Tali
condizioni, pur avendo una natura esplicitamente teorica ed
essendo difficilmente riscontrabili nella realtà,
costituiscono un importante punto di riferimento per
individuare e valutare le diverse funzioni dei mercati delle
attività finanziarie. In estrema sintesi, le
condizioni individuate sono: a) il prevalere di un regime di
concorrenza perfetta, segnalato dalla impossibilità
per il singolo operatore di influire sui prezzi; b) la
presenza di un numero di strumenti trattati sui mercati
sufficiente a offrire una protezione da tutte le possibili
fonti di rischio; c) la distribuzione più ampia e
uniforme dell'informazione tra gli operatori. L'obiettivo di
avvicinare la situazione di fatto dei mercati a tali
condizioni teoriche ha motivato gran parte
dell'attività di regolamentazione volta a favorire la
concorrenza tra gli operatori, l'ampliamento del numero
degli strumenti finanziari disponibili e la diffusione delle
informazioni.
Delle tre condizioni considerate, le ultime due pongono in
luce due aspetti, quello assicurativo e quello informativo,
cui è stata frequentemente associata la nozione di
efficienza dei mercati finanziari.
Una ormai classica illustrazione della nozione di efficienza
assicurativa è offerta dal modello di equilibrio
generale di Arrow e Debreu. Esso mostra che, quando il
numero dei mercati è uguale a quello degli eventi
(stati di natura) che influenzano il prezzo dei titoli,
è possibile combinare le attività finanziarie
in un portafoglio che dia un rendimento certo in qualsiasi
possibile situazione: i titoli costituiscono, in questo
caso, lo strumento per immunizzare perfettamente la
ricchezza finanziaria dagli shocks esterni. I mercati che
realizzino tale condizione sono definiti 'completi', ed
'efficienti in senso assicurativo'. L'effettiva
capacità dei mercati di esplicare compiutamente tale
funzione assicurativa è stata posta in dubbio, tenuto
conto che gli eventi futuri suscettibili di influire sulle
attività finanziarie degli operatori sono di gran
lunga più numerosi dei mercati esistenti. È
stato tuttavia dimostrato (v. Ross, Options..., 1976) che la
presenza di un mercato delle opzioni equivale
all'ampliamento del numero dei titoli esistenti e quindi
consente di ridurre, a parità di eventi rilevanti, il
numero dei mercati necessari al conseguimento
dell'efficienza assicurativa.
L'efficienza informativa consiste, invece, nella
capacità del mercato di aggregare tutte le
informazioni disperse sul mercato e di incorporarle nel
processo di formazione dei prezzi. Tale funzione (v. Hayek,
1945) trae origine dal fatto che non tutti gli operatori
dispongono dello stesso insieme di informazioni e che
ciascuno di essi, attraverso la propria domanda,
contribuisce a determinare il prezzo coerente con tali
informazioni. In altri termini, il mercato aggrega
l'informazione dispersa tra tutti i partecipanti e consente
di raggiungere prezzi di equilibrio, corrispondenti a quelli
che avrebbero prevalso in presenza di una informazione
comune a tutti gli operatori.
L'efficienza informativa dei mercati è stata oggetto
di un esteso lavoro di analisi volto a indagarne la
rilevanza empirica e le implicazioni teoriche. Parte delle
verifiche empiriche dell'ipotesi di efficienza informativa
dei mercati si sono basate sulla osservazione che, se i
prezzi incorporano tutte le informazioni di rilievo presenti
sul mercato, la migliore previsione di un prezzo è
costituita dal suo valore presente; ciò consente di
rappresentare l'evoluzione nel tempo dei corsi delle
attività finanziarie come un sentiero aleatorio
(random walk). Questa nozione è alla base della
costruzione dei test statistici sull'efficienza informativa
dei mercati. Sulla base di una definizione di Roberts,
ripresa da Fama (v., 1970), l'efficienza informativa dei
mercati è stata distinta in debole, semiforte e forte
a seconda che i prezzi incorporino solo l'informazione
più facilmente disponibile, rappresentata
dall'evoluzione passata dei prezzi, o incorporino tutta
l'informazione disponibile pubblicamente, o, infine,
rispecchino anche l'informazione privata. I lavori empirici
hanno in genere confermato l'ipotesi di efficienza in senso
debole dei mercati. Una seconda categoria di test empirici
dell'ipotesi di efficienza informativa si basa sulla
volatilità dei prezzi delle attività
finanziarie (v. Shiller, 1989, p. 105): se infatti il valore
di un titolo è dato dal valore scontato dei suoi
dividendi futuri, la sua variabilità non dovrebbe
eccedere, come invece accade, i limiti insiti nella
variabilità dei dividendi; l'evidenza empirica a
sostegno di tale ipotesi non può, tuttavia, essere
considerata conclusiva (v. Kupiec, 1993).
Sotto il profilo teorico l'ostacolo principale all'esistenza
di mercati efficienti dal punto di vista informativo
è costituito dalla constatazione che, se un mercato
è pienamente efficiente quando trasmette tutta
l'informazione disponibile, può non esservi una
remunerazione per chi ha reperito tale informazione e quindi
può mancare l'incentivo alla produzione stessa
dell'informazione. In altri termini, un mercato efficiente
sotto il profilo informativo potrebbe negare le premesse per
la sua esistenza. Solo la persistenza di una componente
aleatoria nei prezzi (noise) che renda imperfetta la
percezione dell'informazione rilevante e consenta la
remunerazione dell'attività di produzione
dell'informazione può, paradossalmente, rendere
possibile l'esistenza del mercato stesso.
L'esplicito riconoscimento della diffusa presenza di
situazioni in cui l'informazione è distribuita in
modo disomogeneo tra gli operatori (asimmetrie informative)
ha consentito di riconsiderare i temi dell'efficienza
allocativa da angolazioni assai diverse da quelle del
modello di concorrenza perfetta, rendendo possibile, in
particolare, il confronto dell'efficienza relativa di
sistemi finanziari tra loro differenti, come quelli basati
sui mercati finanziari o sull'intermediazione bancaria. Il
diverso sistema di incentivi e di vincoli presenti nei
contratti di prestito bancari e in quelli obbligazionari e
azionari implica, infatti, differenti modalità di
selezione dei progetti di investimento e di controllo
dell'efficiente uso dei fondi erogati, facendo dipendere la
configurazione ottimale del sistema finanziario dalla natura
dei problemi informativi di ciascun contesto nazionale.
b) La formazione dei prezzi
Il prezzo delle attività scambiate sui mercati
finanziari dipende dall'importo dei pagamenti futuri che
tali attività comportano, dalla loro distribuzione
nel tempo, dalle condizioni sotto le quali tali pagamenti
vengono effettuati. Per alcune attività finanziarie,
come i titoli di Stato, ciascuno di tali aspetti è
definito fin dall'emissione e la definizione del prezzo
consiste nella semplice attualizzazione dei pagamenti
prestabiliti al tasso di interesse rilevante. Per altre,
come i titoli azionari, la presenza di elementi di
incertezza rende più complessa la definizione del
valore presente dei flussi monetari futuri, che dovranno
essere stimati sulla base dell'evoluzione attesa di
variabili relative all'impresa, al settore industriale,
all'economia nel suo complesso.
Le opinioni soggettive degli operatori relative
all'entità dei flussi di reddito futuri e al tasso di
interesse con cui attualizzare i pagamenti futuri danno
luogo all'emergere di valutazioni soggettive dei prezzi.
Attraverso l'incontro di tali valutazioni sul mercato, in
domanda e in offerta, avviene la formazione dei corsi e dei
rendimenti di equilibrio. Questi ultimi possono pertanto
essere scomposti concettualmente in due componenti riferite,
rispettivamente, al tempo e al rischio. La prima componente,
non influenzata da fattori di incertezza, è data
dalla remunerazione richiesta dai sottoscrittori per
posporre nel tempo i propri consumi (time value of money) ed
è indipendente dal rischio insito nell'investimento
finanziario considerato. In mancanza di tassi reali di
interesse indenni da rischio in senso stretto, tale
componente viene comunemente approssimata sulla base dei
tassi reali sui titoli di Stato o sui depositi. La seconda
componente è data dalla remunerazione per il rischio
richiesta dagli operatori per sottoscrivere titoli i cui
pagamenti futuri possono differire dai valori attesi.
La teoria finanziaria ha individuato due principali modi
attraverso cui i mercati possono portare alla valutazione
della componente di rischio e alla formazione del prezzo
(rendimento) di ciascuna attività. Il primo si
rifà allo schema concettuale dei mercati 'completi'
(v. § 3a) e si basa sull'esistenza di un numero di
attività finanziarie (e di relativi mercati) almeno
uguale a quello delle possibili cause di variazione dei
prezzi (stati di natura). Arrow e Debreu hanno mostrato come
a ogni pagamento futuro incerto possa essere assegnato un
prezzo pari a una frazione di quello di un uguale pagamento
futuro certo, e come tale frazione sia legata inversamente
al rischio associato a ciascun pagamento. La somma del
valore attualizzato dei diversi pagamenti futuri di un
titolo definisce il prezzo del titolo stesso: quanto
maggiore il rischio, tanto minore sarà il prezzo e
più elevato il rendimento.
Nella realtà, troppo ampio risulta il quadro dei
possibili avvenimenti futuri che possono influire sui prezzi
delle attività finanziarie perché possa essere
conveniente, in presenza di costi di transazione e di
informazione, creare un adeguato numero di mercati. Ma
l'assenza di mercati completi non impedisce la valutazione
delle attività finanziarie da parte degli operatori e
la determinazione dei prezzi e dei rendimenti di equilibrio.
Il processo di valutazione del rischio di ciascuna
attività finanziaria deve pertanto poter seguire
anche criteri diversi. La teoria finanziaria moderna ha
individuato diverse forme di valutazione del rischio da
parte degli operatori.
La nozione di rischio come variabilità del rendimento
di un'attività finanziaria è stata introdotta
da Markowitz nell'ambito della teoria della selezione
efficiente del portafoglio. In tale approccio il rischio
rilevante ai fini della formazione dei prezzi delle
attività finanziarie non è misurato dalla
variabilità totale del rendimento, ma da quella
componente di essa che non può essere eliminata per
mezzo della diversificazione del portafoglio. Solo tale
componente, nota come 'rischio sistematico', richiede un
premio per l'assunzione del rischio.
Nel Capital Asset Pricing Model (CAPM), elaborato da Sharpe,
Lintner e Mossin, il rischio non diversificabile è
individuato nella volatilità del rendimento del
portafoglio rappresentativo della composizione complessiva
della ricchezza dell'economia (portafoglio di mercato); la
remunerazione di tale unico fattore di rischio è
fatta dipendere dall'equilibrio della domanda e dell'offerta
sul mercato. La verifica empirica della dipendenza del
rendimento atteso di ciascuna attività finanziaria
dal rendimento del portafoglio di mercato è,
tuttavia, resa difficile dalla non osservabilità di
quest'ultimo, dovuta all'impossibilità di censire
accuratamente l'evoluzione della ricchezza finanziaria e
reale degli individui (v. Roll, 1977). Merton e Breeden
hanno formulato versioni del CAPM che considerano più
di una fonte di rischio.
L'Arbitrage Pricing Theory (APT) di Ross (v., The
arbitrage..., 1976) non deriva i prezzi delle
attività finanziarie dalle condizioni di equilibrio
tra domanda e offerta ma esclusivamente da considerazioni di
arbitraggio, ovvero della condizione per cui due
attività finanziarie che danno diritto a identici
flussi finanziari hanno lo stesso prezzo. Il numero e la
natura dei fattori che possono influenzare il prezzo delle
attività finanziarie non è specificato dalla
teoria e deve essere desunto sulla base dell'analisi
econometrica.L'assenza di arbitraggio costituisce una
condizione di assoluta centralità nella
determinazione del prezzo dei titoli sui mercati finanziari.
Essa è alla base della determinazione del prezzo di
quelle attività finanziarie note come 'titoli
derivati', il cui valore è legato da precise
relazioni a quello di altri titoli scambiati sul mercato e
non risente pertanto dell'apprezzamento del rischio da parte
degli investitori. Sull'assenza di arbitraggio è
basata anche la costruzione della formula di valutazione
delle opzioni, derivata per la prima volta da Black e
Scholes (v., 1973), nonché la moderna derivazione
delle relazioni fra i prezzi di titoli obbligazionari con
diverse scadenze che è alla base della struttura per
scadenza dei tassi di interesse (v. Cox e altri, 1985).
I diversi modelli di determinazione dei prezzi fin qui
considerati pongono in relazione il valore delle
attività finanziarie con un numero di fattori in
grado di influenzarne i flussi di pagamento futuri. Linee
alternative di analisi sono state motivate dall'osservazione
dell'accentuata variabilità dei corsi dei titoli, di
cui le crisi finanziarie e le bolle speculative (v. cap. 2)
costituiscono una manifestazione estrema. La presenza di
bolle speculative suggerisce che i prezzi possano essere
influenzati non solo da determinanti 'fondamentali',
suscettibili di influire sui pagamenti futuri, ma anche da
quei fattori di diversa natura, legati ad esempio a
componenti emotive o a consuetudini degli operatori,
sinteticamente definiti con il termine di 'mode' (fads) (v.
Shiller, 1989, p. 7).
Le implicazioni normative derivanti dalla teoria della
formazione dei prezzi sui mercati finanziari sono
molteplici. Tra di esse, hanno particolare rilevanza quelle
relative alla misurazione della rischiosità dei
portafogli degli intermediari finanziari; in particolare, la
relazione tra la rischiosità del singolo titolo e
quella del portafoglio nel suo complesso concorre a definire
l'entità dei coefficienti patrimoniali previsti dalle
normative di vigilanza sui diversi mercati. Sempre
nell'ambito della misurazione del rischio, l'individuazione,
sulla base di precise relazioni di arbitraggio, del legame
tra il prezzo dei titoli 'derivati' e quello dei titoli
'sottostanti' consente di ricondurre per intero a questi
ultimi la rischiosità insita in contratti finanziari
quali le opzioni, i futures, gli swaps.
4. La tassazione dei mercati finanziari
La tassazione esercita un'importante influenza sulla vita
dei mercati finanziari e sulla determinazione dei prezzi
di equilibrio. Essa interviene in duplice modo: attraverso
le imposte indirette, gravanti sugli scambi di
attività finanziarie, e attraverso le imposte
dirette, gravanti sul reddito degli emittenti e dei
sottoscrittori dei titoli.
Le imposte indirette, tra le quali ricade in Italia
l'imposta sui contratti di borsa, sono commisurate al
valore delle contrattazioni. Comportando un maggior onere
relativo sulle operazioni di durata più breve, esse
costituiscono un freno alle operazioni di arbitraggio. In
alcuni casi ciò può essere desiderabile, ad
esempio, per scoraggiare alcune operazioni a brevissimo
termine che possono esercitare impulsi destabilizzanti
sulle quotazioni. In altri casi l'elevatezza delle
aliquote può avere effetti negativi, ostacolando le
operazioni di arbitraggio necessarie a dare spessore e
liquidità al mercato. La presenza di aliquote
differenziate per tipo di strumento trattato e per
categoria di contraente esercita, inoltre, indesiderati
effetti discriminanti. Negli ultimi anni, in diversi
paesi, tra cui l'Italia, la differenziazione delle
aliquote è stata ridotta ed è stato
abbassato il loro livello medio.
Le imposte dirette, nella forma personale o societaria,
gravano con aliquote diverse sui rendimenti tratti dalle
attività finanziarie (interessi, dividendi e
plusvalenze). Per i soggetti che emettono titoli, il costo
del finanziamento è deducibile, in varia misura,
dall'imposta (tipicamente, quella sulle società).
Dal momento che le scelte di chi offre fondi e di chi li
domanda sono determinate, rispettivamente, dai rendimenti
e dai costi unitari al netto delle imposte, è
evidente l'importanza dell'imposizione diretta nella
formazione dei prezzi di equilibrio. L'esistenza di regimi
di tassazione differenziati tra categorie di soggetti
(persone fisiche, società, intermediari
specializzati) e/o tra categorie di strumenti può,
inoltre, ostacolare il raggiungimento di prezzi di
equilibrio per tutti i soggetti e tutti gli strumenti.
In genere le persone fisiche sono tassate in base
all'imposta personale sul reddito: quasi tutti gli
ordinamenti fiscali prevedono, almeno in linea di
principio, l'inclusione dei dividendi e degli interessi
nell'imponibile. Per questi ultimi, tuttavia, sono
frequenti le eccezioni, con ritenute 'alla fonte'
(cioè, trattenute dall'emittente e da questi
versate al fisco per conto del contribuente) che possono
divenire, a scelta del contribuente, d'acconto o
definitive; in alcuni paesi le ritenute alla fonte sono
definitive. Le plusvalenze su titoli azionari sono
assoggettate a una pluralità di regimi, che variano
dalla completa esenzione alla tassazione delle plusvalenze
su tutte le operazioni effettuate. Se tassate, le
plusvalenze sono talvolta incluse (usualmente con
correttivi) nell'imponibile dell'imposta personale,
talaltra sono soggette a imposta separata. Infine, la
diversa efficacia degli accertamenti effettuati dal fisco
da Stato a Stato fa sì che la tassazione effettiva,
a causa dell'elusione e dell'evasione, possa essere molto
diversa da quella prevista dalle norme fiscali.
Per le imprese, i proventi conseguiti tramite l'impiego di
capitali in attività finanziarie rientrano nella
base imponibile dell'imposta (societaria o personale, a
seconda della forma giuridica dell'impresa). Gli interessi
passivi sui titoli obbligazionari emessi e sui debiti
verso gli intermediari creditizi sono deducibili dalla
base imponibile. Poiché gli utili distribuiti sono,
invece, tassati come reddito d'impresa, vi è un
incentivo per le imprese a ricorrere a finanziamenti sotto
forma di debito piuttosto che sotto forma di capitale
azionario. Questa tendenza è accentuata se i
dividendi vengono nuovamente tassati in capo al
percettore. Per evitare questa doppia imposizione, diversi
Stati hanno introdotto correttivi: aliquote dell'imposta
societaria più basse sugli utili distribuiti,
oppure credito d'imposta a favore dell'azionista per
compensare l'imposta già pagata dalla
società partecipata. In Italia i dividendi sono
normalmente assoggettati a ritenuta d'acconto e inclusi
nell'imponibile IRPEF o IRPEG a seconda che il percettore
sia una persona fisica o una persona giuridica. Il
percettore detrae la ritenuta dall'imposta dovuta e gode
di un credito d'imposta che compensa pienamente l'IRPEG
pagata dalla società partecipata.
Gli interessi percepiti dalle persone fisiche sono tassati
con ritenute definitive trattenute alla fonte; per le
persone giuridiche, la ritenuta subita sugli interessi
attivi è a titolo d'acconto e i proventi sono
tassati in IRPEG. Le plusvalenze di tutti i tipi sono
tassate per le imprese; per le persone fisiche, quelle sui
titoli azionari e sulle quote di partecipazione al
capitale sono soggette, dal 1990, a un'imposta speciale
(sospesa nel corso del 1992 relativamente alle azioni
quotate).In tutti gli ordinamenti gli intermediari
finanziari sono soggetti a regimi fiscali che
differiscono, in misura più o meno ampia, da quelli
applicati alla generalità delle imprese. Ciò
è dovuto alla necessità di tener conto di
alcune peculiarità dell'attività che essi
svolgono, di equiparare il loro trattamento a quello delle
persone fisiche o di favorire la loro attività.
Alcuni intermediari finanziari sono soggetti all'imposta
sui redditi sui proventi della loro attività, altri
sono invece esenti o subiscono regimi particolari. Gli
intermediari creditizi, che usualmente assumono la forma
giuridica di società di capitali, sono tassati in
base all'imposta sulle società; usualmente, e
l'Italia non è un'eccezione, sono previste norme
particolari, soprattutto in materia di accantonamenti
esenti a fronte dei rischi, che differenziano il loro
trattamento rispetto al regime normale che riguarda la
generalità delle società. Anche per le
imprese di assicurazione valgono considerazioni analoghe.
I fondi comuni e gli altri organismi di investimento
collettivo subiscono generalmente una tassazione che si
ispira al criterio della 'trasparenza'; tende,
cioè, a equiparare il carico fiscale a quello
subito dalla persona fisica che investe direttamente in
valori mobiliari. Anche il regime italiano si ispira a
questo criterio: il fondo non è soggetto a imposte
dirette e subisce a titolo definitivo le stesse ritenute
subite dalle persone fisiche; non subisce l'imposta sulle
plusvalenze, ma è soggetto a una imposta
patrimoniale sul valore dei titoli detenuti. Anche i fondi
pensione sono generalmente esenti da imposte dirette: i
contributi versati dai lavoratori e dalle imprese godono
anch'essi di agevolazioni (in taluni casi sono esenti),
mentre generalmente i trattamenti erogati sono soggetti
all'imposta personale, eventualmente con abbattimenti.
5. L'organizzazione dei mercati
a) Il mercato primario
Il mercato primario è definito dall'insieme dei
potenziali sottoscrittori e dei meccanismi che
consentono il collocamento dei titoli sia azionari che
obbligazionari. Esso può essere riferito in senso
lato al collocamento dei titoli di nuova emissione
presso gli investitori o, alternativamente, al
collocamento iniziale sui mercati ufficiali di titoli
nuovi o di titoli già esistenti, ma non ancora
quotati. Nell'ambito di questa seconda accezione, il
mercato primario rappresenta quel segmento su cui si
verifica la prima valutazione di titoli. La struttura
del mercato primario è importante per la
determinazione del costo di finanziamento per
l'emittente, poiché da essa può dipendere
l'accuratezza della valutazione dei titoli di nuova
emissione.
Il collocamento di capitale di rischio in borsa
può riguardare sia titoli azionari non ancora
quotati, noti nella letteratura anglosassone come
Initial Public Offering (IPO), sia aumenti di capitale
di titoli già quotati in borsa; i collocamenti
possono riferirsi a una vasta gamma di strumenti
finanziari rappresentativi del capitale di una
società, quali azioni ordinarie, di risparmio,
obbligazioni convertibili in azioni, warrant. Anche le
offerte pubbliche di vendita di azioni che abbiano come
fine la quotazione in borsa ricadono nell'ambito del
mercato primario, in quanto, pur non facendo affluire
all'impresa risorse finanziarie aggiuntive, danno luogo
alla prima valutazione del titolo considerato da parte
del mercato.Il collocamento di titoli sul mercato
primario può avvenire attraverso una procedura
d'asta o a fermo, cioè con offerta pubblica di
sottoscrizione a un prezzo prefissato. La prima
procedura viene normalmente seguita per i titoli di
Stato; il collocamento a fermo riguarda la maggioranza
delle sottoscrizioni di titoli azionari.
I meccanismi adoperati più comunemente nel
collocamento di titoli di Stato in Italia e all'estero
sono noti come asta marginale (uniform price auction) e
asta competitiva (discriminatory price auction). La
prima prevede che tutte le domande accolte vengano
aggiudicate a un unico prezzo pari al più basso
fra quelli risultati aggiudicatari (prezzo marginale).
La seconda prevede che a ogni domanda aggiudicataria sia
applicato il prezzo al quale essa è stata
formulata.
I sistemi di asta possono prevedere meccanismi di difesa
per l'emittente, volti a contenere forme di collusione
fra i partecipanti o speculazioni derivanti dalla
debolezza della domanda. Uno dei meccanismi più
comuni è costituito dall'esistenza di un 'prezzo
base' esplicito (noto nella letteratura economica come
reservation price) al di sotto del quale l'emittente
dichiara di non accettare domande. Una versione meno
rigida di tale meccanismo prevede l'esclusione delle
domande che in termini statistici divergano
eccessivamente dalla media dei prezzi offerti. Un'altra
forma di difesa prevede il diritto per l'emittente di
non soddisfare richieste risultate aggiudicatarie a
prezzi considerati troppo bassi pur senza la preventiva
indicazione del prezzo di riserva.
Oltre che con asta, i titoli possono venire collocati a
fermo, cioè con offerte pubbliche di
sottoscrizione a prezzo prefissato e per quantità
predeterminate. Tale meccanismo, adottato in passato per
la maggioranza dei titoli emessi dallo Stato italiano,
è oggi utilizzato in prevalenza per il
collocamento dei titoli azionari. Le quotazioni iniziali
in borsa di titoli azionari avvengono tramite aumenti di
capitale riservati ai nuovi soci o con offerte pubbliche
di vendita di azioni di vecchi soci. In entrambi i casi
viene abitualmente costituito un consorzio per il
collocamento. Alcuni intermediari specializzati, banche
e, soprattutto negli Stati Uniti, security houses,
stabiliscono le condizioni di offerta e l'impegno
nell'attività di collocamento. Se gli
intermediari si impegnano a sottoscrivere i titoli non
collocati presso il pubblico, si parla di firm
commitment; qualora invece l'intermediario si impegni a
collocarli al meglio delle proprie possibilità,
non assicurando l'intera sottoscrizione, si parla di
best effort. Nel caso italiano gli aumenti di capitale
possono essere sottoscritti, a un prezzo prefissato,
dagli azionisti che hanno un diritto di prelazione (o di
opzione) nell'acquisto delle nuove azioni; tale diritto
è proporzionale al numero delle azioni già
possedute e può essere rivenduto dall'azionista
o, qualora nessuno lo eserciti, dalla società.
Ciò configura una tecnica di collocamento a
prezzo predeterminato per gli azionisti e invece
variabile, in funzione della valutazione attribuita in
borsa al diritto d'opzione, per gli altri
sottoscrittori.Il meccanismo che consente di evitare il
rischio del razionamento, dovuto alla presenza di
eccessi di domanda, è il cosiddetto collocamento
'a rubinetto', con il quale i titoli vengono offerti a
prezzo prefissato ma in quantità variabile. Esso
si pone in una situazione intermedia fra l'asta e
l'offerta a fermo e viene utilizzato da alcuni emittenti
esteri per il collocamento di titoli di Stato.Un
fenomeno comune a tutti i meccanismi citati è
l'underpricing, cioè la possibile
sottovalutazione dei nuovi titoli da parte dei
sottoscrittori. Nel caso delle aste, tale fenomeno
è stato posto in relazione alla diversità
delle informazioni dei partecipanti. Chi risulta
aggiudicatario in asta, perché sulla base delle
proprie informazioni ha attribuito ai titoli un valore
più elevato di quello di altri partecipanti,
corre il rischio di avere acquistato a un prezzo troppo
elevato (cosiddetto fenomeno del winner's curse). Da
questo rischio i partecipanti si cautelano formulando
richieste a prezzi inferiori al valore da loro atteso,
con il risultato di spingere il prezzo d'asta sotto il
vero valore dei titoli in emissione. Considerazioni
analoghe si applicano anche ai collocamenti a fermo dove
l'emittente dovrà in generale offrire un prezzo
di sottoscrizione inferiore al valore atteso dai
sottoscrittori. Il fenomeno è tanto meno
rilevante quanto maggiore è il grado di
efficienza informativa dei mercati: segnali precisi sui
titoli in emissione danno luogo infatti a una contenuta
dispersione delle valutazioni. In asta, inoltre,
l'underpricing può derivare da comportamenti
speculativi, legati a imperfezioni del mercato primario
e connessi a carenza di domanda oltre che a
comportamenti collusivi da parte dei partecipanti. In
presenza di tali fenomeni si attivano i meccanismi di
difesa adottati dall'emittente: nel caso del
collocamento a fermo la difesa è massima, mentre
il sistema più esposto è quello ad asta
marginale.
La scelta fra i diversi meccanismi non è quindi
indipendente dalle condizioni della domanda e
dall'efficienza informativa dei mercati. Il collocamento
a fermo può risultare la soluzione preferibile
qualora vi sia una forte dispersione delle valutazioni;
viceversa, in presenza di un mercato secondario che
aggreghi efficientemente le informazioni, il
collocamento con asta risulta preferibile: anche le
piccole differenze fra il prezzo offerto e quello di
equilibrio potrebbero infatti portare a notevoli eccessi
di domanda o di offerta.
Nell'esperienza italiana, caratterizzata dall'elevato
livello del debito pubblico, il Tesoro ha introdotto una
serie di innovazioni nelle tecniche di emissione per le
diverse tipologie di titoli: per i BOT, con il passaggio
dall'asta marginale a quella competitiva, avviato nel
1983, e con l'abolizione del prezzo base nel biennio
1988-1989; per i titoli a medio e a lungo termine, con
l'introduzione dell'asta marginale, dal 1988, e con
l'abolizione del prezzo base nel 1992. In generale, il
Tesoro ha privilegiato il collocamento con asta dei
titoli per i quali vi fosse un sufficiente grado di
diffusione delle informazioni fra gli operatori. Per i
titoli a medio e a lungo termine, i cui corsi sono
naturalmente più volatili, il passaggio all'asta
marginale è pertanto avvenuto solo quando, a
seguito della cresciuta efficienza del mercato
secondario telematico, si è ridotta la
dispersione delle informazioni fra gli operatori.
b) Il mercato secondario
Con il termine mercato secondario ci si riferisce a
quelle strutture (regole, operatori, procedure) che
consentono lo scambio di titoli già quotati,
rendendo possibile la liquidazione di un investimento
finanziario, indipendentemente dalla data di scadenza
del titolo. Le caratteristiche di costo e di
rapidità di una compravendita di titoli
definiscono la liquidità di un mercato. Essa
condiziona in misura rilevante la capacità dei
mercati finanziari di assolvere alla propria funzione di
trasferimento dei fondi tra le unità che
presentano un eccesso e quelle che presentano una
carenza di risparmio. Dal conseguimento di buone
condizioni di liquidità dipende infatti
l'incontro tra una domanda di fondi (offerta di titoli),
spesso a lungo termine, e un'offerta frequentemente
caratterizzata da orizzonti temporali più
circoscritti.
La nozione di liquidità è la risultante di
un insieme di caratteristiche relative alle transazioni
che si svolgono su di un mercato, tra cui rientrano la
rapidità di esecuzione degli ordini di vendita o
di acquisto di un volume dato di titoli (immediatezza),
il numero di titoli che possono essere scambiati senza
influire sui costi di esecuzione (spessore), la
velocità con cui i prezzi assorbono le
oscillazioni causate da scambi di elevato ammontare
(elasticità). Le componenti del costo complessivo
degli scambi includono le commissioni, i bolli e le
spese di esecuzione dei contratti, tra cui lo scarto tra
le quotazioni in lettera (ask) e in denaro (bid).
Le procedure di scambio adottate per favorire la
liquidità del mercato sono differenziate e
consentono di distinguere i mercati in quelli a
contrattazione continua e quelli a contrattazione
periodica. In questi ultimi gli scambi si concentrano in
uno o più momenti predeterminati e la formazione
dei prezzi è generalmente affidata a meccanismi
d'asta. Nei mercati a contrattazione continua gli scambi
si distribuiscono nell'arco dell'intera giornata e la
formazione dei prezzi è generalmente assicurata
da meccanismi d'asta (order driven markets) o dalla
presenza di market makers (quote driven markets), anche
se combinazioni dei due sistemi sono presenti in diversi
mercati.
Sui mercati quote driven le quotazioni sono effettuate
da intermediari, i market makers, che si impegnano a
esporre con continuità prezzi in denaro e in
lettera e ad acquistare o vendere i titoli ai prezzi
esposti, per importi massimi predeterminati. La
possibilità di effettuare a ogni istante scambi a
prezzi certi conferisce a tale sistema un elevato grado
di immediatezza, il cui costo è misurato
dall'ampiezza dello scarto lettera-denaro.
I mercati ad asta continua non richiedono la quotazione
da parte di operatori specializzati e l'incontro tra la
domanda e l'offerta di titoli avviene direttamente,
attraverso la semplice chiamata di un banditore o
l'azione di un sistema elettronico. Tale sistema
può ridurre lo scarto denaro-lettera dal momento
che nessun intermediario si frappone tra i due lati del
mercato. In questo caso la liquidità del mercato
proviene dall'ampiezza e dalla regolarità del
flusso di ordini di acquisto o di vendita forniti a
ciascun prezzo dagli investitori (ordini con limite di
prezzo).
Il mercato italiano vede la presenza di tutti i diversi
meccanismi di contrattazione menzionati: l'asta a
chiamata contraddistingue, nel mercato di borsa, le
contrattazioni di titoli di Stato, di titoli
obbligazionari privati e di parte di quelli azionari.
Sempre nell'ambito del mercato di borsa è stato
introdotto dal 1991, e via via esteso a un numero
crescente di titoli azionari, un sistema di
contrattazione ad asta continua. La contrattazione
continua con un sistema di market makers caratterizza il
mercato telematico dei titoli di Stato.
Nell'asta a chiamata, una volta al giorno e partendo
dalla quotazione del giorno precedente, gli operatori
ammessi alle negoziazioni dichiarano 'alle grida' gli
ordini della clientela per un dato livello di prezzo,
consentendo al banditore di modificare la quotazione
fino al conseguimento di un equilibrio tra la domanda e
l'offerta.Nel sistema telematico di contrattazione
continua per i titoli azionari gli ordini con limite di
prezzo, relativi a ciascun titolo, vengono ordinati
secondo il prezzo richiesto od offerto e le proposte per
le quali vi sia un incrocio dei prezzi in acquisto e
vendita vengono eseguite automaticamente. Gli ordini
senza limite di prezzo vengono eseguiti alle migliori
quotazioni presenti nel sistema.
Nel sistema telematico dei titoli di Stato, invece,
alcuni intermediari (operatori principali) quotano, per
i titoli da loro prescelti, i prezzi a cui si impegnano
ad acquistare o a vendere lotti di entità
prestabilita, facendo uso delle proprie scorte di titoli
per fronteggiare i possibili squilibri tra i flussi di
domanda e di offerta.In alcuni casi gli investitori
desiderano scambiare pacchetti consistenti di titoli
(blocchi) in un intervallo di tempo limitato. In tal
caso la ricerca della controparte assume una maggiore
complessità non solo per l'entità delle
negoziazioni ma anche perché esse possono essere
motivate da informazioni privilegiate disponibili solo a
cerchie ristrette di operatori (insiders): ciò
richiede quindi procedure di scambio specifiche e
distinte da quelle fin qui indicate. Sui principali
mercati azionari internazionali la negoziazione di
'blocchi' si è sviluppata a partire dagli anni
cinquanta seguendo la crescita degli investitori
istituzionali, che per natura e dimensioni hanno
necessità di operare transazioni unitarie di
elevate dimensioni.
Sia il sistema di asta a chiamata che quello di asta
continua, pur permettendo di contenere il costo delle
singole transazioni in presenza di un numero elevato di
scambi di dimensioni contenute, non garantiscono
sufficiente liquidità ai 'blocchi', il cui arrivo
sul mercato può determinare temporanei squilibri
tra domanda e offerta e sensibili variazioni dei prezzi.
Tali motivi hanno indotto a consentire gli scambi di
'blocchi' al di fuori dei meccanismi d'asta. Il
collegamento tra le quotazioni d'asta e quelle relative
ai 'blocchi' è stato ricercato attraverso
obblighi di pubblicità per le condizioni relative
allo scambio di questi ultimi o garantendo
priorità di esecuzione per gli ordini sottomessi
in asta, che presentino condizioni migliori rispetto a
quelle relative allo scambio di 'blocchi'.In Italia le
transazioni di entità rilevanti di azioni possono
avvenire fuori borsa, ma vi è l'obbligo di una
comunicazione tempestiva delle condizioni agli organi di
controllo, che ne informano il mercato; l'entità
dei 'blocchi' è definita per ciascun titolo in
base allo spessore del mercato sottostante.
c) I sistemi di liquidazione
Il 'ciclo vitale' delle transazioni in titoli
effettuate sui mercati finanziari (primario e
secondario) si articola nei due momenti della
negoziazione, nel cui ambito avviene la determinazione
degli aspetti qualificanti dello scambio (prezzo,
quantità, scadenza), e della esecuzione o
regolamento del contratto stesso, in cui si verifica
l'effettivo scambio dei titoli contro mezzi di
pagamento. Questa seconda fase, in particolare, è
quella esposta al rischio che una delle parti non sia in
grado di adempiere agli impegni contrattualmente
assunti, a causa dell'emergere di situazioni di
insolvenza o di illiquidità (rischio di
controparte). Nei casi più gravi si può
verificare che l'insolvenza di un operatore si estenda
alle sue controparti, generando un pericoloso effetto di
trascinamento (rischio sistemico).
Le procedure di liquidazione dei contratti di
compravendita di attività finanziarie prevedono
normalmente meccanismi di prevenzione e di contenimento
di tali rischi, quali la riduzione dell'intervallo di
tempo che separa la negoziazione dal regolamento e la
contestualità del trasferimento dei titoli e dei
mezzi monetari (Delivery Versus Payment: DVP). La prima
delle due misure mira a contenere la durata
dell'esposizione della controparte e i costi necessari
per sostituire il contratto qualora una delle parti si
renda insolvente e i prezzi si siano modificati (rischio
di mercato). Il fine della seconda è quello di
contenere il rischio che gli operatori possano
consegnare titoli senza ricevere il corrispettivo
monetario o che possano effettuare il pagamento senza
ottenere la consegna dei titoli (rischio di capitale).
Considerata la rilevanza e la pericolosità di
quest'ultima tipologia di rischio, la generalità
dei sistemi di liquidazione prevede, o ha programmato di
introdurre, meccanismi del tipo DVP.
La liquidazione di un contratto finanziario si articola
in due fasi principali: il riscontro e il regolamento.
Nel riscontro si procede alla definizione delle
posizioni creditorie e debitorie sia in titoli sia in
contante. Nel regolamento si dà luogo
all'effettivo scambio del denaro e dei titoli. Sotto
quest'ultimo profilo occorre sottolineare che nei
principali paesi industrializzati i titoli sono in
prevalenza custoditi presso istituzioni di deposito
centralizzato (Sicovam in Francia, Kassenverein in
Germania, Monte titoli e gestione centralizzata dei
titoli di Stato, in Italia) che consentono il
trasferimento dei titoli stessi attraverso semplici
scritturazioni contabili, evitando le onerose e
inefficienti movimentazioni materiali di certificati
cartacei.I sistemi di liquidazione possono essere
fondati sul regolamento bilaterale delle transazioni
(gross settlement), in cui lo scambio dei titoli e del
controvalore fra gli operatori avviene operazione per
operazione, ovvero sulla compensazione multilaterale
delle operazioni (netting); tale modalità,
seguita nel sistema italiano delle 'stanze di
compensazione', si applica a più operazioni
condotte in uno stesso periodo e determina la consegna
da parte di ciascun operatore degli importi netti di
titoli e di denaro, che risultano dalla somma algebrica
dell'insieme di compravendite effettuate. La maggiore
complessità di tale procedura è compensata
dal risparmio di titoli e mezzi monetari che essa
consente.
La compensazione multilaterale può avvenire
quotidianamente, con un regolamento giornaliero dei
saldi (rolling settlement), come nella procedura di
liquidazione giornaliera utilizzata per il regolamento
delle operazioni su titoli di Stato; ovvero
periodicamente, al termine di un intervallo temporale
più esteso (account settlement), come per le
liquidazioni mensili dei titoli azionari. Quest'ultima
modalità consente di ridurre l'entità dei
trasferimenti finali di titoli e di mezzi di pagamento,
ma amplifica il rischio di mercato; la consapevolezza di
tale aspetto ha spinto al suo progressivo abbandono sul
piano internazionale, a favore del regolamento
giornaliero.
Un'importante innovazione nell'ambito delle procedure di
liquidazione è costituita dall'introduzione,
limitatamente ai mercati dei contratti derivati
standardizzati (opzioni e futures), di una controparte
centrale che in ogni transazione si interpone tra i
contraenti originari; nel mercato italiano questa
entità è rappresentata dalla Cassa di
compensazione e garanzia, costituita nel marzo del 1992.
L'affidabilità di tale istituzione e il costante
controllo della sua esposizione complessiva, attraverso
la quotidiana chiusura di tutte le posizioni di rischio,
consentono il sostanziale annullamento del rischio di
controparte. Le complesse procedure necessarie alla
valutazione delle singole posizioni di rischio ne
limitano, tuttavia, l'applicazione allo scambio di
strumenti altamente standardizzati.
6. La regolamentazione dei mercati
finanziari
La struttura di norme che regola il funzionamento dei
mercati finanziari mira a garantire la tutela
dell'interesse pubblico, costituito, in termini
generalissimi, dal pieno sviluppo e dall'ordinato
svolgimento degli scambi di attività
finanziarie e, più specificamente, dalla
stabilità del sistema finanziario e dalla
tutela dei risparmiatori. La necessità
dell'intervento pubblico deriva dall'incapacità
dei mercati di conseguire spontaneamente tali
obiettivi, propedeutici al conseguimento di una
efficiente allocazione delle risorse.
Oggetto della regolamentazione dei mercati finanziari
sono gli strumenti finanziari (titoli), le tecniche di
contrattazione, le strutture che rendono possibile
l'attività di negoziazione e di scambio (borse
valori e circuiti telematici), gli intermediari
presenti sul mercato mobiliare.
Le norme che regolano la tipologia dei contratti
finanziari tendono soprattutto a promuoverne la
standardizzazione, al fine di facilitare la
valutazione dei titoli e l'esercizio degli impegni e
dei diritti da loro derivanti. In aggiunta alle norme
di legge che stabiliscono, in via generale, le
caratteristiche delle diverse forme dei titoli di
proprietà e di debito, vi sono regole volte a
selezionare, all'interno di queste due categorie,
titoli dotati di requisiti comuni. A ciò
tendono le regole per l'ammissione alla quotazione in
borsa, che certificano l'esistenza di alcune
caratteristiche comuni a tutti i titoli quotati sul
mercato. In tale ambito possono ricadere anche le
norme relative al taglio minimo, che per taluni
contratti definiscono livelli minimi non frazionabili
di investimento in relazione alla natura al
'dettaglio' o all''ingrosso' del mercato su cui
vengono scambiati.
La regolamentazione dei meccanismi di contrattazione e
scambio sui mercati finanziari abbraccia una
molteplicità di aspetti attinenti alla
negoziazione dei titoli, tra cui le modalità di
formulazione delle proposte di scambio, le regole di
priorità nell'esecuzione degli ordini, la
definizione degli impegni relativi alla fase di
liquidazione, gli obblighi di informazione nei
confronti del mercato. Tali norme, differenziate tra
mercati all'ingrosso e al dettaglio, a pronti e a
termine, primari e secondari, perseguono il comune
obiettivo di rafforzare la liquidità del
mercato attraverso il contenimento dei costi di
transazione, la riduzione dei rischi associati allo
scambio, la diffusione delle notizie sulla formazione
dei prezzi. In questo ambito ricadono non solo le
regole di contrattazione e liquidazione (v. cap. 5),
ma anche norme quali l'obbligo di concentrazione degli
scambi sui mercati ufficiali o la definizione di
limiti alle commissioni di intermediazione. Al
contenimento dei rischi sono rivolti i divieti
relativi a particolari categorie di operazioni
suscettibili di amplificare l'instabilità dei
corsi; finalità analoga perseguono le regole
che governano l'interruzione degli scambi in
condizioni di mercato eccezionali (circuit breakers).
Nell'ambito delle regole per la diffusione delle
informazioni rientrano quelle volte a contrastare
l'insider trading e a impedire che gli operatori
coinvolti nel processo di formazione dei prezzi
utilizzino la propria posizione privilegiata in
contrasto con gli interessi della loro clientela e,
più in generale, degli altri partecipanti al
mercato.
Una rilevanza particolare rivestono sotto il profilo
concettuale le regole che governano la creazione dei
mercati, nella forma di borse valori o di reti
telematiche, e ne stabiliscono le modalità di
sorveglianza da parte delle autorità
competenti. La normativa su tali argomenti appare
ispirata a due diverse impostazioni: nei paesi
dell'Europa continentale i mercati sono considerati
come istituzioni di natura pubblicistica; nei paesi
anglosassoni sono visti piuttosto come imprese e la
loro funzione ricade preminentemente nella sfera
privata. Per i primi le borse valori, e più in
generale i mercati ufficiali, non possiedono
personalità giuridica e vengono istituiti da
norme di legge o emanate da una autorità
pubblica; per i secondi i mercati assumono la forma di
società per azioni e ricadono sotto la
normativa societaria. Anche l'attività di
supervisione appare improntata a differenti soluzioni
organizzative nell'ambito delle due impostazioni
considerate. In particolare, nei paesi dell'Europa
continentale l'attività di vigilanza sui
mercati è accentrata nelle mani
dell'autorità pubblica. In Italia e in Francia,
ad esempio, tale funzione è affidata
rispettivamente alla Commissione Nazionale per le
Società e la Borsa (CONSOB), istituita nel
1974, e alla Commission des Opérations de
Bourse (COB), istituita nel 1967. Nei paesi
anglosassoni vi è invece maggiore tendenza al
decentramento dei controlli, che sono in parte
delegati a organizzazioni costituite dagli stessi
partecipanti al mercato (Self Regulatory Organizations
o SROs nella dizione inglese). Negli Stati Uniti
l'agenzia pubblica di controllo, costituita nel 1934,
è la Securities and Exchange Commission (SEC)
che, pur svolgendo una vigilanza capillare sul
mercato, delega parte dell'attività normativa e
di vigilanza alle singole borse valori. In Inghilterra
l'agenzia centrale di sorveglianza del mercato, la
Security and Investment Board (SIB) costituita nel
1986 e composta da esperti di varia estrazione,
nominati dal governo e dalla Banca d'Inghilterra, si
avvale per il controllo dei diversi segmenti del
mercato di alcune SROs dotate di specifiche
competenze.
Vi è infine la regolamentazione degli
intermediari che operano sul mercato mobiliare. Essa
ha il fine di garantire condizioni di trasparenza e di
prevenire l'insorgere di situazioni di insolvenza. In
tale ambito ricadono le norme intese a promuovere
l'affidabilità degli intermediari, quali
l'adozione della forma societaria e i requisiti di
professionalità e onorabilità del
management, nonché le norme di prevenzione dei
conflitti di interesse tra l'intermediario e la
clientela, quali gli obblighi di separatezza
organizzativa e contabile tra le diverse
attività di intermediazione finanziaria svolte
dallo stesso operatore (chinese walls nella dizione
inglese). In particolare, la protezione degli
investitori dal rischio di insolvenza degli
intermediari è affidata a norme che consentano
di prevenire l'insorgere di situazioni di
illiquidità, come quelle relative ai
coefficienti patrimoniali e di liquidità, o
che, in caso di crisi, facilitino l'ordinata
liquidazione dell'intermediario: a quest'ultimo fine
risponde, in Italia, l'istituzione del Fondo di
garanzia, oltre alle norme sanzionatorie quale la
gestione commissariale o fallimentare. Nei paesi in
cui le banche possono svolgere l'attività di
intermediazione mobiliare, la supervisione su di esse
è di norma affidata all'autorità di
vigilanza bancaria. In Italia, per prevenire la
frammentazione dei controlli tra intermediari bancari
e non, la legge n. 1 del 1991 ha adottato una
distinzione per obiettivi delle competenze, affidando
alla Banca d'Italia la vigilanza sui vincoli di
capitalizzazione e alla CONSOB quella sugli obblighi
di trasparenza relativi a tutti gli intermediari
operanti sul mercato.
7. L'internazionalizzazione dei
mercati finanziari
L'integrazione tra i mercati finanziari nazionali,
nota come internazionalizzazione o globalizzazione
dei mercati, si è venuta realizzando con la
caduta delle barriere tecniche o amministrative che
hanno ostacolato in passato lo scambio di strumenti
e servizi finanziari tra operatori di paesi diversi.
Essa ha prodotto un allineamento delle condizioni
sui diversi mercati finanziari nazionali, una
crescita degli investimenti esteri sui mercati
domestici, uno sviluppo delle emissioni estere da
parte di soggetti residenti. Il processo di
internazionalizzazione è stato accompagnato
da una crescita senza precedenti dei flussi
finanziari tra diversi paesi: la consistenza dei
prestiti bancari internazionali si è ampliata
di oltre venti volte tra il 1973 e il 1992, passando
da 175 a 3.690 miliardi di dollari; le transazioni
valutarie giornaliere si sono portate nel 1992 in
prossimità di 900 miliardi di dollari, valore
pari al 15% del prodotto interno lordo degli Stati
Uniti nello stesso anno (v. Group of Ten, 1993).
Nel recente passato i tre fattori che più
hanno spinto verso l'internazionalizzazione della
finanza sono stati la liberalizzazione dei mercati
dei capitali, lo sviluppo dei sistemi di
telecomunicazione e di elaborazione dati e
l''istituzionalizzazione' dei mercati, cioè
il progressivo trasferimento delle decisioni di
investimento dal piccolo risparmiatore agli
investitori istituzionali (fondi comuni, fondi
pensione). Tali sviluppi hanno favorito la crescente
competizione tra i diversi mercati nazionali e una
forte crescita delle piazze che, come Londra e New
York, hanno saputo offrire migliori condizioni nella
prestazione dei servizi finanziari.
La crescente integrazione dei mercati ha sollevato
la duplice questione dell'adeguatezza delle
politiche macroeconomiche e di quelle di vigilanza
dei mercati e degli intermediari. Le prime trovano
crescenti ostacoli nel mantenimento di cambi stabili
anche in presenza di un'ordinata evoluzione degli
andamenti economici di fondo. L'efficacia delle
seconde appare ridotta a causa della mancanza di un
coordinamento delle diverse normative nazionali.La
convergenza dei diversi sistemi nazionali di
regolamentazione non può, tuttavia, essere
lasciata a una 'competizione tra sistemi
regolamentari' che porterebbe a favorire i mercati
con minore ma non necessariamente migliore
regolamentazione. Il processo di creazione di un
mercato unico dei servizi finanziari nella
Comunità Europea rappresenta l'esempio
più avanzato dello sforzo di elaborare una
legislazione internazionale della finanza con piena
efficacia giuridica. La legislazione comunitaria
prevede il conseguimento di un'armonizzazione
minima, che renda possibile il mutuo riconoscimento
delle norme nazionali e la supervisione degli
intermediari da parte del paese di origine. La
cooperazione che si sviluppa nell'ambito del Gruppo
dei Dieci ha invece carattere volontario.
Un impulso all'armonizzazione normativa
internazionale può provenire dall'adozione di
norme che, come i requisiti patrimoniali, siano
basate su criteri automatici, legati alla
composizione del portafoglio, piuttosto che su
vincoli di tipo autorizzativo e presentino,
pertanto, caratteristiche di maggiore trasparenza e
di più facile confronto internazionale.
Enciclopedia del Novecento III Supplemento (2004)
di Marcello de
Cecco
Mercati finanziari
Sommario: 1. I termini essenziali.
a) Origine e contenuto dei mercati
finanziari. b) I soggetti coinvolti
nei mercati finanziari. c) La
liquidità. 2. I mercati finanziari
in prospettiva storica. a) Il sistema di
Bretton Woods. b) La crisi del sistema
di Bretton Woods. c) Il sistema
finanziario internazionale dopo Bretton Woods.
3. Tendenze recenti. a) I mercati azionari.
b) I mercati obbligazionari. c) Contratti
finanziari a termine e prodotti derivati. □
Bibliografia.
1. I termini essenziali
a) Origine e contenuto dei mercati
finanziari
Quando si pensa a un mercato si immagina un
luogo fisicamente determinato, ad esempio una
piazza, o una fiera, nel quale convengono, in un
tempo stabilito, compratori e venditori di una
merce specifica o di molte merci allo scopo di
realizzare scambi in condizione di massima
informazione. La compresenza di una
pluralità di venditori e compratori,
delle loro merci o di campioni di esse,
contribuisce infatti alla diffusione di
informazioni. Si danno vari casi nei quali i
mercati sono organizzati per la vendita di una
sola merce o tipo di merce: mercati di bestiame,
mercati di derrate alimentari, mercati di
prodotti tessili, ecc. Anche nei mercati
più complessi tendono a formarsi isole
merceologiche. Quanto più intenso
è il radicamento dell'attività
mercantile in un luogo, tanto più
è probabile che intorno a esso si
collochino stabilmente botteghe dove mercanti
fissi sono pronti a fornire determinate merci, e
quindi anche a comprarle, entro e fuori le ore e
i giorni di mercato. Già Platone, nella Repubblica,
rileva questi fenomeni.
Il passaggio dal mercato al negozio fornisce un
elemento di continuità temporale
all'attività mercantile, agevolandone lo
sviluppo, così come agevola l'emergere
della specializzazione fra commercianti
all'ingrosso e al dettaglio.
I mercati hanno in effetti funzionato a lungo
senza che nessuna merce particolare fungesse da
intermediario degli scambi, e cioè da
moneta. Ma da lunghissimo tempo le
contrattazioni che fanno uso di un mezzo di
scambio e pagamento universalmente accettabile
(entro un universo comunque definito) hanno
rimpiazzato gli scambi in forma di baratto.
La moneta, al pari delle botteghe e della
divisione tra ingrosso e dettaglio, costituisce
un espediente per agevolare gli scambi. Quando
si scambiano merci contro merci o merci contro
moneta, l'atto dello scambio - tra merci
ritenute di valore uguale o tra una merce e una
quantità di moneta ritenuta congrua da
entrambe le parti - segna la conclusione della
transazione.
Diverso è il caso nel quale i mercati e i
mercanti riescono a superare gli ambiti sia
territoriali che temporali per allargare
l'universo degli scambi. Al controvalore di una
merce in altra merce o in moneta si sostituisce
una promessa di pagamento. Il contratto è
stipulato all'istante, ma l'effettiva consegna
del controvalore pattuito in merce o denaro
può essere differita nel tempo rispetto a
quella della merce. Nascono in questo modo
obbligazioni in forma cartolare, che
rappresentano l'impegno formale di una parte a
consegnare alla controparte una data
quantità di merce standard o
qualitativamente definita oppure una determinata
quantità di una ben definita moneta
nazionale a una data certa e in un luogo
definito.
È la moltitudine di tali impegni scritti
che ha fatto sorgere la possibilità di
organizzare per essi dei veri e propri mercati,
uguali quasi in tutto a quelli delle merci, e
che prendono il nome collettivo di mercati
finanziari. Come i mercati delle merci, anche
quelli finanziari si sono per secoli e
addirittura millenni stabiliti in luoghi
definiti, spesso contigui ai mercati delle
merci, in particolare a quelli delle merci
all'ingrosso.
Il progresso delle tecnologie dei trasporti e
delle comunicazioni ha contribuito, nel corso
del Novecento, a una massiccia trasformazione
delle modalità con le quali tali mercati
sono organizzati. Di tale trasformazione ci
occuperemo nelle pagine che seguono, esaminando
anche come essa abbia influito sul funzionamento
degli stessi mercati.
Dato che le obbligazioni a consegnare merci o
somme nel futuro incorporano una forte
componente di rischio e di incertezza, è
bene anche ricordare che il modo di trattare
questi fenomeni fa necessariamente parte
integrante dei problemi organizzativi dei
mercati finanziari, delle discipline analitiche
che ne studiano i comportamenti e delle norme
giuridiche che li regolano.
Sui mercati finanziari si contrattano -
attraverso modalità di cui diremo
brevemente - strumenti di debito, cioè
impegni a ripagare in una o più soluzioni
somme prese a prestito. Ma, con il diffondersi
del metodo della proprietà collettiva -
suddivisa in quote - di beni capitali, anche
tali quote, espresse in appropriate
certificazioni scritte, sono divenute una parte
sempre più importante dei mercati
finanziari. Generalmente tali strumenti vanno
sotto il nome di azioni. Dunque, il mercato
finanziario è venuto a costituirsi come
l'insieme delle contrattazioni che hanno per
oggetto azioni e obbligazioni.
Ogni strumento finanziario comporta una serie di
obblighi da parte di chi lo emette.
L'adempimento preciso di tali obblighi
costituisce elemento essenziale per il buon
funzionamento dei mercati finanziari. Gli
obblighi associati a ogni strumento finanziario
riguardano individui nei loro rapporti con altri
individui, ed è interessante vedere in
quanti modi, nel corso della storia, sia stato
organizzato il meccanismo sociale che garantisce
il rispetto delle obbligazioni. Talvolta esso
è stato affidato a categorie coese di
individui, come le corporazioni mercantili o la
city di Londra fino al 1986, ma
più spesso è stato demandato a
giudici e ad altre autorità statali.
Ciò ha posto e pone delicati problemi
giuridico-politici, se si pensa che una parte
assai grande delle obbligazioni finanziarie
esistenti in ogni momento è costituita da
strumenti del debito pubblico.
b) I soggetti coinvolti nei mercati
finanziari
L'intero edificio dei mercati finanziari
è stato eretto e si regge essenzialmente
perché, nell'articolazione sempre
maggiore delle società organizzate, la
funzione del risparmio viene a essere sempre
più separata da quella dell'impiego del
risparmio stesso. Vi sono, in altre parole,
sempre più individui che dispongono in
ogni momento di maggiori risorse di quante
possano o vogliano spendere immediatamente e che
sono dunque pronti a metterle a disposizione di
altri. Allo stesso tempo, vi sono individui,
imprese o enti pubblici che hanno la
capacità istituzionale di investire
maggiori risorse rispetto a quelle che
affluiscono loro in ogni momento. Da questa
differenziazione nascono i mercati finanziari,
esattamente come dalla divisione del lavoro
nasce lo scambio di merci e servizi. È
importante comprendere come, senza la
compresenza di entrambe le necessità, non
si diano scambi finanziari, e dunque non possano
esistere mercati finanziari. Se non ci sono
debitori non possono esserci nemmeno creditori,
e viceversa. Se non ci sono persone fisiche o
giuridiche disposte a consumare o investire
più del loro reddito, non possono esserci
nemmeno risparmiatori, se non entro gli ambiti
ristretti dell'autoconsumo differito e
viceversa.
Da questa considerazione nasce la tendenza
teorica a considerare il valore di una somma per
consegna differita rispetto al valore di una
somma per consegna a pronti, cioè il
tasso di sconto, come dipendente dall'abbondanza
o scarsità relativa dei debitori rispetto
ai creditori in un dato momento. L'abbondanza o
scarsità relativa di risparmio
eserciterà dunque, a parità di
altre condizioni, una pressione sullo sconto
stesso, il quale è più comunemente
visto come il tasso di interesse che il
destinatario di un prestito per un determinato
periodo deve versare annualmente per poter
fruire della somma prestata per tale periodo. I
debitori saranno avvantaggiati da una situazione
simile, così come lo saranno coloro che
vogliono costituire società per
esercitare imprese di vario genere e ne dividono
la proprietà, vendendone titoli
rappresentativi di quote sul mercato azionario.
Ma è bene ricordare che nelle
società organizzate vi è in genere
una forte presenza dello Stato o di altre
istituzioni pubbliche dotate di bilanci propri e
capaci di spendere somme cospicue, le quali
derivano dall'esazione di imposte e tasse, o
dall'emissione di debiti, o dalla gestione del
sistema monetario, il che facilita grandemente
gli scambi permettendo transazioni
multilaterali. Ed è anche necessario
menzionare la presenza delle banche, che
gestiscono scorte monetarie affidate loro dai
cittadini e ne rendono maggiore la
velocità di circolazione mediante
l'emissione di 'pagherò a vista' chiamati
assegni o, in epoche precedenti a quella
attuale, mediante banconote che sono ora
privilegio di una sola banca, la banca centrale
di ciascun paese, o addirittura di una sola
banca centrale per una molteplicità di
paesi, come è il caso attuale dell'Unione
monetaria europea.
c) La liquidità
Se chi emette la moneta - nelle società
moderne, lo Stato tramite la banca centrale -
non lo fa in maniera esagerata, la moneta non si
deprezza nei confronti delle merci e dunque
viene accettata senza che il prenditore richieda
uno sconto sul suo valore facciale. La moneta
può essere spesa dovunque e in qualsiasi
momento, entro i confini dello Stato che la
emette, senza che nasca incertezza sul suo
potere di acquisto. Chi ha moneta può
allora essere certo di quanto possiede e non
deve prendere quelle misure atte a diminuire il
rischio e l'incertezza che affliggono gli altri
strumenti finanziari.
Da questa condizione nasce il concetto di
liquidità, fondamentale per lo studio dei
mercati finanziari. La liquidità è
la capacità di un'attività
finanziaria di restituire al suo proprietario,
all'atto dell'eventuale rivendita, lo stesso
ammontare di denaro per il quale è stata
acquistata. Tale capacità non è
conferita dalla durata temporale del titolo -
nel senso che un titolo a breve è
necessariamente più liquido di uno a
lunga scadenza - ma dall'esistenza, in ogni
momento della vita del titolo stesso, di un
mercato capace di assorbirlo senza perdite per
il venditore. Questo tipo di mercato è
detto secondario. Il mercato primario è
invece quello sul quale viene collocato
(cioè, venduto) un titolo alla sua
emissione.
Lo strumento per eccellenza liquido è la
moneta emessa dallo Stato direttamente o tramite
la banca centrale, perché essa sola
può fungere come mezzo ultimo di
pagamento. Tutti gli altri strumenti finanziari
- e i mercati sui quali essi sono negoziati -
possono essere idealmente ordinati in un ordine
decrescente a seconda della liquidità che
offrono a chi li possiede. La moneta si scambia
contro altra moneta senza perdite di valore
capitale, ma gli altri strumenti, per i quali
non esiste l'assoluta certezza del ripagamento,
sono soggetti a uno sconto quando vengono
scambiati contro moneta. Lo sconto normalmente
cresce con l'allungarsi dell'impegno temporale.
Gli strumenti finanziari che rappresentano
debiti a breve sono dunque normalmente scambiati
a sconto nei confronti della moneta e a premio
nei confronti di strumenti finanziari a
più lunga scadenza. È bene
sottolineare che possono darsi, e frequentemente
si danno, casi nei quali questo non vale: lo
sconto sugli impegni a breve può essere
maggiore di quello sugli impegni a più
lungo termine.
Le attività delle banche centrali e delle
banche commerciali influenzano il funzionamento
dei mercati finanziari, perché da esse
dipende - oltre che dall'incontro tra domanda e
offerta di risparmio - il livello e l'andamento
del saggio dello sconto, ossia del prezzo al
quale si scambiano strumenti finanziari di varia
durata. Nel tempo, si sono scontrate teorie che
assegnano maggiore o minore importanza a tale
influenza, e che quindi vedono in modo diverso
la gerarchia che si stabilisce tra moneta
statale e bancaria, da un lato, e mercati
finanziari, dall'altro. Alcune teorie, infatti,
considerano lo sconto tra presente e futuro un
puro fenomeno di mercato, dipendente da
situazioni strutturali come quella della
dinamica della popolazione, che può
essere solo temporaneamente disturbato dalle
azioni della banca centrale e delle banche di
deposito.
2. I mercati finanziari in
prospettiva storica
Mercati finanziari, banche centrali, banche
commerciali, banche di investimento e altri
intermediari finanziari costituiscono un
insieme che va sotto il nome di sistema
finanziario. Ciascuna realtà
finanziaria nazionale può considerarsi
come un sistema finanziario a sé, e si
potrebbe dire che la somma di tutti i sistemi
finanziari nazionali costituisce il sistema
finanziario mondiale. Molti, tuttavia,
criticano questo modo di vedere le cose.
Secondo questa visione alternativa, esiste un
sistema finanziario internazionale,
storicamente distinto da quelli nazionali,
all'interno del quale si intrecciano rapporti
finanziari che stanno a fronte di scambi
commerciali internazionali e che mantiene, con
le varie realtà nazionali, rapporti
più o meno intensi e duraturi. In
epoche come gli ultimi cinquant'anni - o come
nel periodo che va dal 1870 al 1914 - la
distinzione tra sistemi nazionali e sistema
internazionale ha gradualmente perso di
importanza, mano a mano che l'intreccio tra
finanza nazionale e internazionale si è
fatto più fitto e intenso.
Ma queste due epoche sono separate da un
periodo abbastanza lungo nel quale la
distinzione tra sistemi finanziari nazionali
è stata netta. Si tratta del periodo
caratterizzato dalle due guerre mondiali e
quindi dalla necessità, per tutti i
paesi belligeranti, di organizzare una
'finanza di guerra'. In tali condizioni, quasi
tutti gli Stati hanno fatto ricorso a sistemi
autoritari di pianificazione economica, e i
sistemi finanziari sono stati modificati per
consentire di mobilitare risorse là
dove lo Stato riteneva che ve ne fosse
bisogno. La mobilitazione delle risorse si
è espressa sotto forma di ciò
che viene comunemente indicato con il termine
'repressione finanziaria', vale a dire
l'impossibilità da parte del
proprietario di determinate risorse di
disporne in piena libertà destinandole
agli usi che meglio desidera, nei modi e con
gli strumenti che preferisce, entro e fuori i
confini dello Stato nel quale risiede.
a) Il sistema di Bretton Woods
Con l'intervallo degli anni venti del secolo
appena trascorso - nel quale si consumò
un breve e spasmodico tentativo di ritornare
alla realtà dei decenni immediatamente
precedenti la prima guerra mondiale - il
periodo che va dal 1914 al 1960 ha visto,
nella gran parte dei paesi sviluppati, il
permanere di stati di repressione finanziaria
più o meno severa, che si sono
gradualmente attenuati nel decennio
successivo. L'accordo detto di Bretton Woods -
raggiunto tra i paesi vincitori della seconda
guerra mondiale sotto l'egida e per impulso
degli Stati Uniti, ed esteso man mano a
moltissimi altri paesi - cercò di
favorire la riduzione delle barriere agli
scambi internazionali che erano state erette
negli anni trenta e durante la guerra,
instaurando un sistema di rapporti monetari
internazionali a cambi essenzialmente fissi
(anche se modificabili) sulla cui tenuta venne
posto a vegliare il Fondo Monetario
Internazionale (FMI), un'istituzione
specializzata delle Nazioni Unite. L'FMI
poteva prestare riserve valutarie a paesi
membri che si fossero trovati in temporaneo
squilibrio delle loro bilance dei pagamenti,
allo scopo di permettere loro di mantenere
aperti gli scambi internazionali su base
multilaterale. Scopo finale era l'abolizione
graduale del sistema di rigido collegamento
degli scambi ai pagamenti bilaterali
instaurato in molti paesi a partire dagli anni
trenta per far fronte alle conseguenze della
depressione mondiale e della caduta del
commercio internazionale che ne derivò.
Nel sistema di Bretton Woods, l'obiettivo
principale era la ricostituzione di un sistema
di scambi multilaterali in condizioni di piena
occupazione per tutti i paesi partecipanti, al
cui raggiungimento fu sacrificato l'obiettivo
della libertà delle transazioni
finanziarie internazionali, in particolare di
quelle a breve termine. Si pensò allora
che la restaurazione della libertà dei
movimenti di merci valesse bene l'eventuale
permanere, anche in paesi importanti, della
repressione finanziaria. Questo perché
era invalsa l'abitudine, in quei decenni, di
addebitare ai movimenti di capitale a breve
l'impossibilità, per le autorità
nazionali di politica economica, di
raggiungere e mantenere nel tempo l'obiettivo
della piena occupazione, senza sacrificare la
libertà degli scambi.
b) La crisi del sistema di Bretton Woods
I vari mercati finanziari nazionali restarono
dunque a lungo fortemente segmentati al loro
interno e virtualmente non comunicanti tra
loro. Tuttavia, negli Stati Uniti, nuovo
centro dell'economia mondiale, cominciò
a delinearsi un movimento teso a riportare la
libertà degli scambi interni e
internazionali e a porre fine alla repressione
finanziaria. Tale movimento, sviluppatosi
gradualmente per tutto il dopoguerra,
ricevette un impulso particolare a partire dal
1973 - quando la prima crisi del petrolio mise
i paesi sviluppati di fronte alla nuova
realtà di un deficit
strutturale dei pagamenti esteri - e
trionfò definitivamente dopo la seconda
crisi petrolifera, nel 1979. Il movimento in
questione coinvolgeva quegli ambienti
finanziari che avevano sofferto maggiormente
delle conseguenze delle riforme imposte dal
presidente Roosevelt ai mercati finanziari nei
primi anni trenta, in particolare le grandi
banche di credito ordinario di New York. Tali
banche, cui era stato vietato di negoziare
azioni e obbligazioni, si vedevano spesso
costrette a sacrificare le proprie
attività di prestito, le quali erano di
entità assai superiore rispetto alla
capacità di raccolta, che, a sua volta,
veniva frenata dal divieto di creare filiali
in Stati diversi da quello d'origine, a causa
della mancanza di fondi sufficienti,
irreperibili perfino sul mercato
interbancario.
Questo stato del mercato interbancario era
dovuto all'enorme diffusione, nei bilanci
delle banche provinciali, dei titoli del
debito pubblico, con i quali il governo
statunitense aveva finanziato le spese
belliche del secondo conflitto mondiale. La
politica di sostegno ai corsi di tale debito,
praticata dalla Banca Centrale e dal Tesoro
degli Stati Uniti, continuò anche dopo
la fine del conflitto, rendendo nullo il
rischio relativo al valore capitale dei titoli
di Stato. In queste condizioni, le grandi
banche di New York avevano imparato a
procurarsi fondi sul mercato finanziario
internazionale, offerti soprattutto da quei
risparmiatori che guardavano agli Stati Uniti
come all'unico paese politicamente e
strategicamente sicuro in una fase ancora
molto perturbata dalla prospettiva di
espansione del comunismo. Non deve dunque
meravigliare se le grandi banche americane si
opposero energicamente e vittoriosamente al
suggerimento - proveniente dai due architetti
degli Accordi di Bretton Woods, John Maynard Keynes
e Harry Dexter White - di sottoporre a stretto
controllo i movimenti di capitale a breve
termine, inserendo nello Statuto dell'FMI una
clausola in virtù della quale le
perdite di riserve causate dalle fughe di
capitali a breve dovevano essere
automaticamente risarcite dai paesi
destinatari. Tale clausola, già
auspicata da Luigi Luzzatti dopo la crisi
finanziaria internazionale del 1907, fu
riproposta da Keynes e White, ma non venne
accolta per la decisa opposizione delle grandi
banche newyorchesi. Dagli stessi ambienti,
inoltre, fu avviata una lunga campagna per la
liberalizzazione del mercato finanziario
interno negli Stati Uniti che riuscì,
prima gradualmente e poi, a partire dal 1980,
sempre più rapidamente, a demolire uno
dopo l'altro i fondamenti della segmentazione
del sistema finanziario organizzata molto
prima della stessa età di Roosevelt.
Come già accennato, il movimento di
liberalizzazione finanziaria interna e
internazionale ricevette un impulso
fondamentale dopo le due crisi petrolifere
degli anni settanta. Tutti i principali paesi
importatori di petrolio si trovarono a pagare
somme elevate, di solito in dollari, in cambio
del petrolio che importavano. A vendere
petrolio, peraltro, erano paesi incapaci di
importare beni e servizi per l'intero
ammontare che ricevevano in pagamento. Tra i
paesi importatori si vennero a creare due
gruppi: quelli dotati di sistemi finanziari
più capaci di intermediare grandi
quantità di fondi liquidi decisero di
chiudere i propri conti con l'estero,
prendendo a prestito il denaro che pagavano ai
paesi produttori di petrolio e riprestandolo
ai paesi che non avevano intermediari e
mercati capaci di svolgere tale funzione;
viceversa, quelli nei quali la repressione
finanziaria era ancora molto forte - come
Germania, Giappone e Italia - cercarono di
pagare la bolletta petrolifera esportando
merci.
c) Il sistema finanziario internazionale
dopo Bretton Woods
Motivi storico-politici e istituzionali hanno
fatto sì che in paesi diversi
prevalessero forme organizzative differenti
per i sistemi finanziari. Questo fu notato sin
dalla fine dell'Ottocento, ma è
soltanto nei primi decenni del Novecento che
si cominciò a riflettere
sistematicamente su queste differenze. Le
analisi elaborate allora furono poi riprese
negli anni cinquanta e nei successivi decenni
e condussero a conferire un rinnovato rilievo
alla distinzione tra sistemi finanziari basati
su banche 'tuttofare' o universali - che
esplicano le funzioni finanziarie nei
confronti di privati e imprese e dominano
anche le borse-valori, dando luogo a sistemi
banco-centrici - e sistemi finanziari nei
quali col passare del tempo e per determinate
vicissitudini storiche si sono evoluti
intermediari finanziari specializzati ciascuno
nell'esplicazione di una precipua funzione,
operanti su mercati anch'essi specializzati
come i mercati dei titoli di Stato, delle
obbligazioni private, delle azioni, ecc.,
dando luogo a sistemi mercato-centrici.
Riprendendo il concetto di liquidità
prima enunciato, è bene chiarire che i
sistemi banco-centrici si sono evoluti
là dove prevalevano titoli di debito
scarsamente liquidi, cioè in
realtà sfornite di mercati secondari
funzionali e attivi. In questi contesti il
ruolo delle banche si ingrandisce fino al
protagonismo assoluto: esse si sostituiscono a
mercati secondari poco efficienti - o
addirittura inesistenti - nell'assorbire
titoli che sono per forza di cose poco
liquidi. L'attivo di tali banche diviene di
conseguenza anch'esso poco liquido. È
allora essenziale, nei sistemi banco-centrici,
che al cuore del sistema esista una banca
centrale fornita della possibilità di
venire in ogni momento in soccorso di un
sistema bancario carente di liquidità a
causa delle attività assorbite. La
banca centrale deve avere la facoltà di
creare liquidità primaria in misura
sufficiente e senza indugi, per fornirla alle
banche contro le attività divenute
illiquide. Se la banca centrale, come accadde
nella seconda metà degli anni venti in
molti paesi europei, riceve statutariamente
una limitazione alla sua capacità di
creare moneta, può non essere in grado
di restituire fluidità al sistema
bancario.
Nella riflessione più recente sulle
differenze tra sistemi finanziari si è
giunti addirittura a teorizzare che i sistemi
banco-centrici rappresentino una fase meno
avanzata di sviluppo finanziario rispetto a
quelli mercato-centrici, e che dunque sia
auspicabile e quasi inevitabile che dalla
prima si passi alla seconda fase. Tale
passaggio è divenuto un obiettivo della
politica economica internazionale di paesi
quali gli Stati Uniti e la Gran Bretagna,
tradizionalmente forniti di mercati finanziari
tra i più sviluppati e liberi a livello
mondiale. Sia gli Stati Uniti che il Regno
Unito si ritenevano svantaggiati nella
competizione sui mercati internazionali dei
prodotti manufatti contro paesi come Germania,
Giappone e Italia, i cui sistemi finanziari,
banco-centrici e fortemente regolamentati,
sembravano in grado di fornire alle imprese un
vantaggio competitivo in termini di
disponibilità di risorse finanziarie a
basso costo. Si ritenne allora che la
liberalizzazione finanziaria potesse
permettere ai massimi centri finanziari
mondiali, Londra e New York, di acquistare un
ruolo di leadership settoriale nella
nuova divisione internazionale del lavoro.
Abolendo le barriere finanziarie interne ai
vari paesi e quelle internazionali, flussi
crescenti di fondi sarebbero affluiti ai
centri finanziari di Londra e New York,
riducendo la possibilità - per le
imprese tedesche, giapponesi e italiane - di
ottenere fondi investibili a condizioni
particolarmente vantaggiose. Nella gestione
politica di questo obiettivo, tuttavia,
l'accento viene sempre maggiormente posto
sulla configurazione atomistica di tali
mercati e sull'anonimità delle
transazioni: in una parola, si tende a
rappresentare tali mercati come perfetti,
luoghi d'incontro di una domanda e di
un'offerta espresse da operatori di piccole
dimensioni, incapaci di influenzare con le
proprie decisioni strategiche le
quantità e quindi i prezzi. Ma la
realtà è assai diversa,
perché sin dall'inizio, e via via per
tutti i decenni successivi, i mercati
finanziari interni, e a maggior ragione quelli
internazionali, si sono caratterizzati proprio
per la presenza di intermediari di grandi
dimensioni, per i quali passano quote cospicue
delle transazioni totali.
Negli anni a noi più vicini, inoltre,
tendono a perdere gradualmente importanza i
mercati centralmente organizzati, sul modello
delle borse-valori dell'Europa continentale,
ispirate allo stesso archetipo napoleonico e
basate sul metodo dell'asta competitiva,
mentre si affermano i cosiddetti mercati over
the counter. All'interno di questi
ultimi, intermediari specializzati (dealers)
sono pronti a fornire, a un prezzo da loro
quotato, quantità determinate di un
titolo, di cui dispongono direttamente o che
sono in grado di procurarsi a condizioni
più vantaggiose, e a comprare - a un
prezzo generalmente inferiore a quello di
vendita - quantità determinate dello
stesso titolo. Questo sistema decentrato,
favorito dalla prassi inglese e statunitense,
si estende ad altre piazze finanziarie man
mano che la globalizzazione dei mercati
finanziari aumenta. Tale metodo di
contrattazione è anche favorito dalle
innovazioni tecnologiche nel campo della
comunicazione, che rendono possibile stipulare
contratti in maniera decentrata e senza
perdita d'informazione, laddove, con le
vecchie tecnologie, un'informazione adeguata
richiedeva l'accentramento delle
contrattazioni.
Nonostante ciò, nei decenni più
recenti, si sono affermate ulteriormente le
maggiori piazze finanziarie mondiali, quelle
tradizionali, Londra e New York, e quelle
emergenti, Francoforte e Tokyo. Come spiegare
questa concentrazione, che a prima vista
sembra in contraddizione con gli effetti
dell'elettronica decentrata? La verità
è che - a tutt'oggi, e presumibilmente
ancora per parecchio tempo - non tutto si
può fare per via virtuale. In
particolare, l'acquisizione di informazioni
riservate, così importanti per la
dinamica dei mercati finanziari, richiede
ancora contatti diretti tra gli operatori, il
che rende fondamentali le distanze
ravvicinate. Più in generale, tutte le
argomentazioni a favore delle economie da
agglomerazione contribuiscono a spiegare la
collocazione dei mercati finanziari in poche
grandi piazze, che concentrano e
ridistribuiscono le contrattazioni. È
anche vero che, nell'organizzazione dei grandi
affari finanziari internazionali, vi sono fasi
di preparazione (anche logistica) che
richiedono la concentrazione in un solo luogo
di grandi risorse umane e tecniche. Inoltre,
specie a Londra e a New York, sono presenti i
grandi studi legali internazionali
specializzati in transazioni finanziarie, la
cui consulenza costituisce un elemento
essenziale nell'organizzazione di ogni grande
operazione finanziaria. Negli stessi centri,
infine, sono presenti le case-madri delle
più grandi banche commerciali del mondo
e delle massime banche di investimento, oltre
che i maggiori intermediari non bancari. Tutti
questi elementi contribuiscono a costituire,
all'interno delle grandi piazze finanziarie
mondiali, una massa di economie esterne
veramente considerevole, perpetuando in tal
modo una caratteristica dei mercati che li
contraddistingue sin dai tempi più
antichi, ossia la localizzazione in un sito
geografico preciso. La fisicità dei
mercati, certamente attenuata dalle
innovazioni nelle comunicazioni e nei
trasporti, risulta in tal modo per altri versi
ulteriormente accentuata proprio dalle stesse
innovazioni, che provvedono allo stesso tempo
a decentrare e a riaccentrare.
Il 15 agosto del 1971 Richard Nixon,
presidente degli Stati Uniti, decretò
l'abolizione del legame tra il dollaro e una
quantità fissa di oro. La parità
fissa tra oro e dollaro, 35 dollari per oncia,
resisteva da più di trent'anni ed era
stata reiterata dagli accordi di Bretton
Woods. Ma, per la persistenza di un deficit
strutturale nella bilancia dei pagamenti degli
Stati Uniti, la quantità di dollari
offerta sui mercati internazionali non trovava
una domanda equivalente, dati i tassi di
cambio stabiliti a Bretton Woods. Le
parità venivano dunque mantenute a
fatica, grazie all'intervento continuo delle
banche centrali, e coloro i quali speculavano
sui cambi potevano realizzare vistosi guadagni
scommettendo contro il dollaro nella certezza
del supporto ufficiale delle parità. I
cambi fissi hanno il grande vantaggio di
eliminare l'incertezza sul corso futuro dei
cambi dai calcoli di chi deve effettuare
transazioni che implicano l'uso di monete
diverse dalla propria. L'onere di sostenere le
parità ricade sulle banche centrali dei
vari paesi e le transazioni private
internazionali avvengono in condizioni di
certezza relativamente al corso futuro dei
cambi.
A partire dal 15 agosto 1971, questo non
è stato più possibile. Gli Stati
Uniti hanno reiteratamente dichiarato, nel
corso del trentennio successivo, che il cambio
del dollaro non faceva parte delle proprie
responsabilità di governo, e che quindi
poteva essere lasciato alle forze di mercato.
Chiunque avesse a che fare con gli scambi
internazionali, magari come semplice
importatore o esportatore di scarpe, si
è così trovato nella
necessità di assicurarsi in qualche
modo contro il rischio di cambio, a meno di
non volere speculare apertamente. In questo
tipo di scambi le possibili perdite o guadagni
in cambi entrano necessariamente a far parte
del calcolo economico, a meno che non si
scelga di proteggersi dal rischio di cambio
attraverso una transazione valutaria d'importo
uguale e segno contrario rispetto a quella
effettuata per motivi commerciali. È
venuta pertanto in essere, nel corso degli
ultimi trent'anni, una gigantesca massa di
transazioni valutarie effettuate unicamente
allo scopo di proteggersi da rischi in cambi
connessi a transazioni reali o finanziarie che
nulla hanno a che fare con la speculazione. Le
transazioni in cambi totali assommano a molte
volte il valore del commercio internazionale
mondiale.
Questa profonda trasformazione del mercato dei
cambi ha avuto ripercussioni altrettanto
profonde sui mercati finanziari. A essa si
deve aggiungere la crescita vorticosa e
contemporanea dei debiti pubblici nei
principali paesi, nonché quella del
commercio internazionale, sviluppatosi secondo
tassi d'incremento abbondantemente superiori
ai tassi di crescita del Prodotto Interno
Lordo (PIL) dei medesimi paesi a partire dal
1971. Parallelamente, si è verificata
una crescita impetuosa della capitalizzazione
totale delle borse valori, per l'aumento
enorme delle nuove emissioni e delle
negoziazioni di titoli esistenti e per la
crescita incessante dei corsi, che si è
arrestata e in parte invertita solo a partire
dal marzo 2000. Tutti insieme, questi elementi
hanno contribuito a costituire una struttura
dei mercati finanziari nazionali e
internazionali profondamente diversa da quella
del trentennio precedente. Di tale struttura
ci occuperemo nelle pagine seguenti,
mettendone in luce i caratteri principali.
Prima di passare a descrivere tali caratteri,
è bene tuttavia ricordare come a
tutt'oggi - nonostante la crescita vertiginosa
delle transazioni finanziarie, in termini di
volumi e di complessità - permanga nei
principali paesi un fenomeno che va sotto il
nome di paradosso di Orioka-Feldstein. Tale
paradosso consiste nel fatto che, malgrado la
globalizzazione dei mercati finanziari e la
gran mole di investimenti esteri che ogni anno
vengono effettuati, si nota una forte
correlazione tra risparmi e investimenti in
ciascun paese. È come se ovunque fosse
disponibile, per finanziare gli investimenti,
solo il risparmio interno. Paesi a basso tasso
di risparmio si caratterizzano pertanto per un
basso tasso di investimento, e viceversa. Si
danno, è vero, anche notevoli eccezioni
a questa regola rozza; ma essa persiste ed
è confermata da tutte le stime
sull'argomento fatte nel corso del tempo.
Analogamente, persiste una regola altrettanto
rozza, secondo la quale i risparmiatori
tendono a investire prevalentemente negli
strumenti finanziari e nelle azioni emesse da
società ed enti a loro spazialmente
vicini. L'orizzonte dei risparmiatori e degli
investitori resta così ancora
notevolmente limitato, circoscritto da
conoscenze e frequentazioni dirette.
Quantitativamente ciò è fuori di
dubbio, nonostante tutte le storie, peraltro
vere, che si leggono e si ascoltano a
proposito di avventurosi investimenti fatti in
capo al mondo da tranquilli borghesi, i quali
non hanno alcuna idea dei luoghi e delle
istituzioni private e pubbliche nelle quali
hanno investito il proprio denaro.
Caratteristica comune nella dinamica di tutti
i sistemi finanziari, e in particolare dei
mercati finanziari, negli ultimi tre decenni,
è la diminuzione dell'importanza
relativa degli investitori individuali diretti
e il contemporaneo affermarsi degli
investitori 'istituzionali'. Nella letteratura
specializzata tale fenomeno viene attribuito
alla forte incentivazione fiscale offerta alle
famiglie per collocare parte dei propri
risparmi in fondi d'investimento sia azionari
che obbligazionari, allestiti e gestiti da
istituzioni finanziarie indipendenti o
derivanti direttamente da intermediari
tradizionali come banche e società di
assicurazione.
Nella letteratura specialistica si dà
inoltre ampio spazio alle economie di scala di
cui godrebbero i gestori istituzionali di
fondi nei confronti degli individui. Tale
vantaggio dovrebbe dipendere dalla superiore
capacità dei gestori di dedicare
risorse per ottenere informazioni, ma anche
dalla capacità di diversificare il
proprio portafoglio in virtù della
maggiore potenza contrattuale di cui godono
sul mercato. Tali caratteristiche sono
tuttavia messe in dubbio da una parte non
trascurabile e crescente degli studiosi, in
particolare per quel che riguarda la pretesa
superiorità nell'ottenere informazioni.
Si rileva, infatti, che raramente accade che i
gestori istituzionali di fondi riescano a
ottenere risultati superiori all'andamento
degli indici dei mercati organizzati.
La crescita dell'investimento istituzionale
è stata drasticamente favorita, negli
ultimi decenni, dal forte aumento dei fondi
destinati alle pensioni private, che coincide
con la crisi crescente della previdenza
obbligatoria nei paesi sviluppati. Anche in
questo settore, leggi di deregolamentazione e
incentivi fiscali hanno nettamente favorito i
fondi-pensione rispetto al risparmio
individuale.
3. Tendenze recenti
a) I mercati azionari
Nel panorama finanziario mondiale, è
impossibile non rendersi conto del peso del
mercato azionario statunitense. Esso
rappresenta attualmente, per
capitalizzazione, circa il 50° del
totale mondiale. È evidente quindi
che quel che accade a Wall Street influenza
fortemente ciò che accade sui mercati
azionari del resto del mondo, a maggior
ragione in seguito al formarsi di una massa
crescente dei capitali in movimento tra i
diversi mercati nazionali. Se quindi si
ritiene che il mutamento delle condizioni
della politica monetaria o della politica
economica più in generale influisca
sulle quotazioni azionarie, bisognerà
riconoscere che le decisioni delle
autorità statunitensi in materia di
politica economica devono avere uno speciale
influsso sui mercati borsistici di tutto il
mondo. Lo stesso vale per qualsiasi forza
influisca sulla dinamica delle nuove
emissioni di azioni, così come sul
volume di scambi nei mercati secondari. Il
rilievo di tali considerazioni è
accresciuto dal fatto che la gran parte
degli investitori istituzionali adotta il
cosiddetto metodo del 'portafoglio globale',
distribuendo i propri investimenti secondo
il peso della capitalizzazione delle varie
borse sul totale. Essi 'sovrappesano' o
'sottopesano' un certo mercato, ma entro
limiti abbastanza stretti. È facile
dunque comprendere in quale misura annunci e
previsioni relative all'andamento di
variabili cruciali della vita economica
statunitense influiscano sugli indici di
tutte le borse del mondo.
Se si tiene presente tutto ciò,
è più facile rendersi conto
dell'importanza di fenomeni di matrice
statunitense - come il boom delle
azioni delle imprese della cosiddetta new
economy o la grande crescita delle
operazioni di fusione e acquisizione tra
imprese - per l'intero mercato finanziario
mondiale. Le emissioni di nuove azioni sono
enormemente aumentate, infatti, a partire
dal 1980. Secondo alcuni osservatori la
crescita dei fondi gestiti da investitori
istituzionali ha indotto, anziché la
diminuzione, l'aumento marcato del fenomeno
della 'volatilità' degli indici
azionari. Questo è spiegato con la
necessità dei gestori professionisti
di ottenere guadagni cospicui sui loro
portafogli in tempi brevi, che sono divenuti
anche più brevi nell'ultimo decennio.
I privati che investono nel risparmio
gestito, infatti, sono liberi ormai di
passare da un fondo all'altro e lo fanno
seguendo i risultati di breve periodo
enunciati dai gestori. Anche la grande
mobilità internazionale dei capitali
ha contribuito ad aumentare la
volatilità, propagando rialzi e
ribassi da un mercato all'altro. Lo sviluppo
del risparmio gestito in paesi privi di ampi
mercati di borsa ha anche avuto la
conseguenza, nell'ultimo quindicennio, di
concentrare gli investimenti dei gestori
europei e asiatici sulle azioni statunitensi
in misura persino maggiore del loro peso sul
totale mondiale.
Seguendo il principio della cosiddetta
diversificazione del rischio, tali gestori
hanno trovato un numero di azioni
sufficientemente non correlate tra loro solo
nella borsa americana. L'intensificarsi dei
flussi di acquisti e vendite di azioni
denominate in valute diverse da quelle
nazionali degli investitori ha poi
fortemente aumentato la domanda di strumenti
finanziari capaci di immunizzare i
portafogli stessi contro i rischi di cambio.
Questo ha contribuito a far letteralmente
esplodere la domanda di cosiddetti 'prodotti
derivati', dei quali ci occuperemo
più avanti.
Molti osservatori sostengono che in
generale, nel corso degli ultimi due
decenni, sia diminuita l'attenzione degli
investitori per i rendimenti di lungo
periodo delle azioni - basati sull'andamento
di costi e profitti delle imprese di cui
tali azioni rappresentano la
proprietà -, attenzione che si
concentrerebbe invece sui rendimenti di
breve periodo, maggiormente soggetti ai
flussi speculativi e alle mutevoli
condizioni di liquidità dei mercati,
vale a dire della quantità di denaro
disponibile per l'acquisto di azioni.
Molto importante è stato, infine, il
passaggio - avvenuto quasi ovunque
nell'ultimo ventennio, ma anch'esso di
matrice statunitense - dal sistema delle
commissioni fisse a quello delle commissioni
variabili nella negoziazione di azioni per
conto terzi da parte delle istituzioni
finanziarie, nonché il passaggio
dallo stato di compratore o venditore in
conto terzi ad attore in conto proprio da
parte degli agenti di borsa e degli altri
intermediari che operano nel mercato
finanziario.
Le trasformazioni che abbiamo elencato
riguardano tutti i mercati finanziari e non
solo quelli azionari. Esse hanno avuto il
merito di ridurre, almeno a breve termine,
il costo dell'investimento finanziario per
gli investitori finali e per i gestori
professionisti di patrimoni, aumentando il
livello di concorrenza. Nei tempi medi,
però, la possibilità di
ridurre i costi di intermediazione
favorirebbe gli intermediari maggiori,
facendo aumentare la concentrazione dei
mercati e riducendo il numero dei
concorrenti. Sebbene una parte degli
economisti teorici sostenga non esservi
alcuna relazione tra numero di concorrenti e
intensità della concorrenza, tale
ipotesi, accettata da molte autorità
di tutela della concorrenza, è
tutt'altro che definitivamente provata.
b) I mercati obbligazionari
A partire dalla fine della seconda guerra
mondiale i mercati dei certificati di debito
di emittenti pubblici e privati hanno
conosciuto due fasi: la prima, dagli anni
cinquanta alla crisi petrolifera del 1973,
ha visto quasi ovunque la netta riduzione
del peso dei titoli pubblici emessi, tanto
in rapporto al PIL, quanto rispetto al
totale dei titoli obbligazionari emessi dai
vari paesi. Nel corso della seconda fase,
iniziata nel 1973, questa tendenza si
è invertita e il debito pubblico ha
ricominciato a crescere in termini assoluti
e rispetto al PIL in molti paesi importanti,
a cominciare dagli Stati Uniti. Tale
fenomeno non ha avuto luogo in maniera
sincrona nei principali paesi, ma negli
ultimi tre decenni tutti ne sono stati
interessati, sia pure in tempi diversi. Il
fenomeno si è altresì esteso
ai cosiddetti paesi 'emergenti'.
L'indebitamento pubblico a livello mondiale
ha dunque nuovamente raggiunto livelli
cospicui. Alcuni osservatori ritengono che
le notevoli oscillazioni che i tassi di
interesse hanno avuto nel corso degli stessi
decenni siano state determinate da quelle
del rapporto debito pubblico/PIL, cresciuto
a partire dal 1973, specialmente negli Stati
Uniti (soprattutto dopo il 1980), e
ridottosi intorno agli anni novanta.
Più ragionevolmente, si osserva come
la lievitazione del rapporto debito
pubblico/PIL sia da attribuirsi alla
decisione della Banca Centrale degli Stati
Uniti di non assecondare più, a
partire dal 1982, la politica fiscale
espansiva del governo federale con una
politica monetaria altrettanto espansiva, in
virtù della quale tassi di interesse
molto bassi tendono a minimizzare il costo
della gestione del debito pubblico. Si
riteneva che tale politica fosse stata
responsabile della forte inflazione
registratasi negli Stati Uniti tra la fine
degli anni settanta e i primi anni ottanta e
che, come tale, si dovesse operare una
correzione di rotta onde tornare alla
stabilità dei prezzi.
Alla fine della politica monetaria
espansiva, però, non seguì
affatto la riduzione della spesa pubblica
federale. Il governo si limitò
piuttosto a prendere a prestito dal pubblico
statunitense e dalle autorità
monetarie di alcuni grandi paesi che
registravano eccedenze nella bilancia dei
pagamenti, facendo così esplodere il
rapporto debito pubblico/PIL, senza
preoccuparsi della enorme lievitazione dei
tassi di interesse da pagare sullo stesso
debito.
L'alto costo del denaro, così
generato, si estese a tutti i mercati
finanziari mondiali dei titoli pubblici come
dei certificati di debito privati e dei
prestiti bancari. La carenza di
liquidità, volutamente indotta dalle
autorità monetarie statunitensi,
produsse inoltre condizioni recessive,
riducendo drasticamente le
possibilità per le imprese di
finanziarsi emettendo azioni. Anche i paesi
emergenti furono colpiti dall'alto costo del
denaro sui mercati internazionali, dovendo
affrontare considerevoli aumenti nel
servizio del proprio debito internazionale,
fortemente aumentato per le occasioni
offerte dal riciclaggio dei petrodollari
iniziato dopo il 1973.
Questa fase si concluse nel 1985, quando le
autorità monetarie statunitensi (che
con la loro politica avevano indotto anche
un forte rialzo del corso del dollaro nei
confronti del marco e dello yen, e la
conseguente invasione del mercato nazionale
da parte di merci europee e giapponesi)
decisero di attenuare la stretta monetaria,
favorendo il ribasso dei tassi di interesse
e un boom di borsa, conclusosi
nell'ottobre 1987 con una crisi a Wall
Street. Sulle cause di tale crisi, risolta
solo dal deciso intervento della Federal
Reserve, non c'è ancora
unanimità di opinioni. A partire dal
1985, dunque, la fase più acuta del
costo del denaro si concluse. Il ribasso dei
tassi di interesse statunitensi, tuttavia,
non condusse immediatamente a una riduzione
del rapporto debito/PIL, che anzi continuava
ad aumentare.
A partire dal 1992, e per tutti gli anni
novanta, una politica monetaria di segno
generalmente espansivo (con brevi eccezioni
nel 1994 e nel 2000) ha generato tassi di
interesse molto più bassi rispetto al
decennio precedente, e una notevole
riduzione del rapporto debito/PIL. Tale
riduzione si spiega soprattutto con la forte
accelerazione che il tasso di crescita del
PIL ha registrato negli Stati Uniti negli
anni novanta: le entrate fiscali sono
infatti aumentate in maniera tale da
ridurre, fino ad azzerarlo, il deficit
pubblico. Ma nei primi anni del nuovo secolo
assistiamo a una nuova inversione di
tendenza. La politica monetaria statunitense
diviene nuovamente restrittiva nel 2001 e il
boom dell'economia si trasforma in
profonda recessione, peggiorata della
tragedia dell'11 settembre 2001. Il deficit
pubblico torna a crescere e il rapporto
debito/PIL ad aumentare, anche se questa
volta la Banca Centrale si impegna in una
decisa politica monetaria espansiva. Ma
è il livello delle entrate fiscali,
ridottosi per effetto della recessione e
degli sgravi fiscali, a determinare il
ritorno del governo federale sul mercato del
debito con nuove emissioni destinate a
chiudere il deficit nei conti
pubblici.
A partire dal 1980, dunque, si può
affermare che le autorità
statunitensi abbiano determinato, con il
loro comportamento, la gran parte delle
turbolenze registratesi sul mercato dei
titoli pubblici, aumentandone la
variabilità. Anche altri importanti
governi nazionali - come quello tedesco, a
partire dalla riunificazione, e quello
giapponese, molto più tardi nel corso
del decennio - hanno fortemente aumentato le
emissioni dei propri titoli a reddito fisso.
La Germania ha così raggiunto un
rapporto debito/PIL del 60° e il
Giappone superiore al 140°. Altri paesi
- come l'Italia, il Belgio e la Grecia -
hanno lasciato lievitare i propri debiti
pubblici fino a superare il 100° del
PIL. Anche i paesi emergenti hanno
incrementato fortemente il loro debito
estero, fidando in un flusso costante di
capitale straniero, che spesso è in
realtà capitale nazionale travestito
da straniero per motivi fiscali. A partire
dall'inizio del nuovo secolo, però,
questo flusso si è arrestato,
causando seri problemi sia agli emittenti
che agli investitori e facendo lievitare
ulteriormente i deficit delle
bilance dei pagamenti dei paesi stessi. Il
persistere di una direzione espansiva nella
politica monetaria statunitense a partire
dal settembre 2001, tuttavia, ha ridotto i
pericoli di insolvenza per i governi e i
debitori privati dei paesi emergenti.
Sui mercati delle obbligazioni non si
negoziano solo titoli di Stato, ma anche
titoli emessi da enti locali, agenzie
para-governative, imprese e banche. Nei
decenni recenti, inoltre, si sono affermate
le cosiddette 'eurobbligazioni', titoli
sottoscritti da consorzi internazionali di
banche e offerti simultaneamente in
più paesi. Loro caratteristica
principale è di essere emessi fuori
dalla giurisdizione dei singoli paesi.
Le emissioni di titoli non governativi hanno
rappresentato dapprima una proporzione
decrescente del totale dei titoli emessi,
specie in alcune importanti realtà
nazionali, come conseguenza della menzionata
rapida crescita dello stock di
debito pubblico, soprattutto negli Stati
Uniti, in Germania, in Italia e in Giappone.
A partire dai primi anni novanta, questa
tendenza si è invertita là
dove la crescita del debito pubblico era
stata più rapida (Stati Uniti,
Italia), mentre il debito pubblico
giapponese ha cominciato a crescere
rapidamente proprio a metà degli anni
novanta. Negli Stati Uniti, il fenomeno
più rilevante sul mercato
obbligazionario è stato il forte
aumento nelle emissioni di titoli da parte
delle agenzie para-governative per il
finanziamento dell'edilizia (Fannie Mae,
Freddie Mac). Ben diverse, però, sono
le conseguenze di una crescita del debito
pubblico, e in generale delle emissioni
obbligazionarie, in Europa o negli Stati
Uniti rispetto al Giappone. I titoli
pubblici europei e statunitensi sono infatti
assorbiti in grande percentuale da
investitori esteri, mentre quelli giapponesi
sono acquistati quasi esclusivamente da
investitori locali. In generale la
volatilità dei titoli tenuti in
portafoglio da investitori stranieri tende a
essere maggiore, in relazione a un possesso
che si considera meno stabile rispetto a
quello dei titoli nazionali.
Se si pensa che ben il 51° sul totale
delle obbligazioni presenti sui mercati
proviene da emittenti statunitensi, si
comprende ancora meglio quanto già
affermato a proposito dell'importanza della
politica monetaria statunitense rispetto
all'andamento dei corsi delle obbligazioni
in tutto il mondo.
L'aumento delle oscillazioni nei tassi di
interesse - indotto dalla decisione delle
autorità monetarie statunitensi di
controllare il tasso di inflazione
servendosi quasi esclusivamente della leva
monetaria - ha reso più rischioso il
possesso di obbligazioni per tutti gli
investitori tranne per quelli che detengono
i titoli dall'emissione alla scadenza (i
quali sono una minoranza rispetto al
totale). Sono dunque enormemente aumentati,
anche in questa sezione dei mercati
finanziari, i rischi derivanti dalle
oscillazioni dei corsi, le
possibilità di guadagno e la
necessità di immunizzarsi contro tali
rischi. Una necessità del genere
è stata sentita, in maniera
particolare, da parte di tutti quegli
investitori che per un verso sono attirati
dalla certezza relativa dei flussi di cassa
provenienti dagli interessi maturati sui
titoli stessi, ma che per l'altro temono i
rischi in conto capitale, insiti nel
possesso di obbligazioni comprate dopo
l'emissione e da vendersi prima della
scadenza. Ne è seguita una domanda
forte e crescente di prodotti derivati da
utilizzarsi per immunizzazione finanziaria,
che si è aggiunta a quella indotta
dall'oscillazione dei cambi.
Il valore di tutte le obbligazioni presenti
sui mercati mondiali si è
quintuplicato tra il 1975 e il 1987 e si
è quadruplicato tra il 1987 e il
2001. Gran parte della dinamica del primo
periodo si deve ai titoli di Stato, mentre
nel secondo periodo anche gli altri
emittenti hanno mostrato maggiore attivismo.
Dal punto di vista tecnico, il mercato delle
obbligazioni ha registrato sviluppi molto
importanti e complessi nei decenni di cui ci
stiamo occupando. L'arrivo in massa degli
investitori istituzionali, unito al forte
aumento dei rischi derivanti dalle
oscillazioni dei tassi di interesse, ha
fatto sì che enormi risorse fossero
dedicate allo studio di tecniche di
emissione e gestione sempre più
complesse. Si è diffusa, ad esempio,
la tecnica di separare le cedole di un
titolo a reddito fisso dal capitale del
medesimo, negoziando poi tali cedole come se
si trattasse di obbligazioni senza cedola (zero
coupon bonds) e vendendole a
operatori interessati a ricevere la somma
corrispondente alla cedola nel momento in
cui essa giunge a maturazione. In questo
modo, il mercato cosiddetto 'a termine',
fiorito da molti decenni intorno ai titoli
azionari, si è potuto sviluppare
anche per i titoli a reddito fisso, usando
appunto le tecniche approntate per i mercati
azionari e inventandone di nuove.
Il mercato delle obbligazioni ha visto
aumentare le sue dimensioni non solo a causa
dell'enorme crescita dei debiti pubblici in
molti paesi del mondo, ma anche per
l'introduzione di tecniche che permettono di
emettere obbligazioni basate su crediti
'cartolarizzati'. La 'cartolarizzazione'
consiste nella trasformazione di un debito
in un titolo negoziabile sul mercato:
l'esempio più rilevante è
costituito dai mutui ipotecari,
tradizionalmente forniti da banche o
intermediari specializzati a persone fisiche
o giuridiche per l'acquisto di immobili,
mediante accensione di ipoteche sugli stessi
a garanzia dei mutui. Negli ultimi decenni
si è realizzata la
possibilità, per i creditori di tali
mutui, di venderli ad altri investitori
prima della scadenza. Onde evitare
l'eccessiva rischiosità di tali
operazioni, si è pensato di
'consolidare' molti contratti di mutuo in
'pacchetti' rappresentati da obbligazioni,
salvaguardando le garanzie e la
titolarità giuridica dei crediti
ceduti attraverso complesse procedure.
L'attività di emissione e
negoziazione delle mortgage backed
securities, titoli rappresentativi di
attività immobiliari, si è
quindi estesa ad altri crediti, come i mutui
concessi per l'acquisto di automezzi e altri
beni di consumo durevole, e persino ai
crediti accesi da titolari di carte di
credito con le istituzioni finanziarie che
tali carte emettono.
Per quanto riguarda il settore immobiliare,
lo sviluppo della cartolarizzazione negli
Stati Uniti, che anche in questo caso hanno
fatto da battistrada (se si eccettua la
cospicua esperienza, precedente di molti
lustri, dei Pfandbriefe tedeschi),
è stato ampiamente favorito dalla
creazione, da parte del Congresso, di alcune
società parastatali, come le
ricordate Fannie Mae e Freddie Mac, che
forniscono il credito agli acquirenti di
case unifamiliari mediante fondi reperiti
attraverso l'emissione di obbligazioni. La
garanzia del governo federale statunitense
su tali obbligazioni non è certa, ma
probabile, tanto da avere indotto numerose
banche centrali straniere ad acquistarne,
negli anni a cavallo del 2000, quantitativi
ingenti da usare come riserve valutarie a
causa del temporaneo rarefarsi delle
emissioni di titoli di Stato statunitensi,
normalmente usati per questo scopo dalle
banche centrali di tutto il mondo.
c) Contratti finanziari a termine e
prodotti derivati
I contratti nei quali si fissa un prezzo di
vendita per un bene da consegnarsi a una
data futura sono, per quanto riguarda le
merci - in particolare le merci
standardizzate come alcuni prodotti agricoli
e materie prime - di origine relativamente
antica. Il loro scopo originario è
abbastanza chiaro: i contraenti possono
essere interessati a estendere il campo
della loro contrattazione a merci non ancora
prodotte, fissando in anticipo le condizioni
di prezzo e quantità alle quali tali
scambi avranno luogo. L'interesse verso
operazioni del genere tende a svilupparsi
solo quando i prezzi delle merci
(naturalmente di merci standard) sono
soggetti a oscillazioni. Se, ad esempio, un
individuo deve vendere a un altro una
tonnellata di grano tra sei mesi e pensa che
il prezzo del grano possa oscillare, egli
potrà cautelarsi contro tali
oscillazioni (che potrebbero essere per lui
favorevoli o sfavorevoli) fissando il prezzo
e magari addirittura facendoselo versare
dalla controparte. Ma se l'acquirente non
è interessato a questo tipo di
operazione - in altre parole, se vuole
speculare sul prezzo futuro della merce -
egli potrà ottenere il risultato che
si prefigge se riuscirà a trovare sul
mercato qualcuno disposto a vendergli oggi
la stessa merce per consegna a sei mesi, ma
a un prezzo oggi stesso definito. In questo
modo, l'acquirente s'immunizza contro le
oscillazioni possibili del prezzo della
merce in questione.
Il mercato a termine può assumere una
forma organizzata, simile a quella della
borsa valori, per cui anche nel caso in cui
si trattino solamente merci vere e proprie
esso diviene quasi naturalmente un mercato
nel quale una cospicua parte dei
partecipanti è interessata solo al
lato finanziario delle transazioni. Il
produttore di grano ha un genuino interesse
a non rischiare e può trovare sul
mercato, con l'aiuto di un mediatore
professionista, un utilizzatore finale di
grano che voglia fare un'operazione opposta
alla sua. Molto più spesso, tuttavia,
egli trova sul mercato un operatore
interessato esclusivamente alla speculazione
finanziaria, cioè a scommettere che
il prezzo che s'impegna a pagare al
venditore per la merce in questione
oscillerà nella direzione a lui
favorevole. Avendo ad esempio fissato un
prezzo pari a dieci euro per una tonnellata
di grano per consegna a sei mesi, egli
scommette sul fatto che al momento della
consegna possa rivendere lo stesso grano a
un prezzo superiore. Il guadagno
dell'operazione scaturisce dalla differenza
fra i due prezzi, al netto dei costi
connessi a partire dagli interessi di sei
mesi sulla somma in questione.
La maggiore volatilità dei tassi di
interesse, verificatasi a partire dalla fine
del sistema di cambi fissi di Bretton Woods,
ha avuto riflessi sui mercati a termine. Gli
operatori hanno cominciato a dichiararsi
disponibili a fornire contratti a termine
sullo scambio di valute estere o sui tassi
di interesse. Col passare degli anni - viste
le notevolissime oscillazioni dei cambi e
dei tassi di interesse, oscillazioni che
continuano a verificarsi tuttora - questi
mercati hanno acquisito dimensioni sempre
maggiori. Poiché molti di coloro che
si rivolgono a essi per ottenere
un'immunizzazione dal rischio di cambio o di
interesse trovano come controparte solo
speculatori puri, l'instabilità
strutturale di tali mercati è
notevolmente cresciuta.
L'instabilità è vieppiù
aumentata nel momento in cui buona parte
delle transazioni a termine, aventi per
oggetto i cosiddetti 'prodotti derivati', si
è trasferita dalle borse organizzate,
regolamentate dalle autorità, alle
sedi di alcune grandi banche. Qui i prodotti
derivati, così chiamati in quanto il
loro valore deriva da quello di
un'obbligazione sottostante, sono
confezionati seguendo le necessità
dei singoli richiedenti che hanno come
controparti le stesse banche (v. anche finanza dei derivati, vol.
XII). Queste transazioni si definiscono over
the counter, cioè 'allo
sportello'. Le banche confezionano
prodotti derivati che ritengono
interessanti per loro clientela e poi ne
affiggono le caratteristiche e i prezzi ai
loro 'sportelli', che in realtà
sono degli schermi di computer collegati a
una rete accessibile alle banche e a
coloro che vogliono negoziare con loro.
Tra i prodotti derivati - oltre ai
contratti futuri (standardizzati,
scambiati nei mercati organizzati e
approvati dalle autorità di
vigilanza su tali mercati) e quelli a
termine (negoziati 'allo sportello' tra
grandi banche e singoli clienti) - vale la
pena di ricordare, per la loro crescente
importanza, i contratti cosiddetti di
'opzione'. Essi si originano nei mercati
azionari e danno al contraente la
facoltà ma non l'obbligo di
comprare o vendere da chi fornisce
l'opzione (solitamente una grande banca o
un operatore professionista che opera su
un mercato organizzato) un certo prodotto
finanziario. La facoltà di
esercitare tale opzione ha una scadenza
fissa (opzioni europee) o una scadenza
ultima, entro la quale il diritto di
esercizio può essere fatto valere
(opzioni statunitensi). Scaduta la data
ultima o fissa, l'opzione si intende
abbandonata. Il prezzo al quale tale
facoltà di acquistare o vendere un
prodotto finanziario può essere
esercitata è fissato secondo regole
matematiche abbastanza complesse, che sono
state banalizzate in algoritmi calcolabili
automaticamente, fornendo alcuni semplici
parametri, su calcolatrici elettroniche di
costo modesto. Da quando tali calcolatrici
sono divenute disponibili, il mercato
delle opzioni ha ricevuto un impulso
straordinario. Come avviene quasi sempre
nel caso dei prodotti derivati, ciò
comporta notevoli pericoli. La
possibilità di calcolare i prezzi
dei prodotti stessi fornendo alle macchine
calcolatrici solo pochi parametri non
significa che chi le utilizza si renda
veramente conto di come sono ottenuti tali
algoritmi e delle implicazioni derivanti
dal mutamento di qualche parametro o delle
altre condizioni di mercato o delle
variabili esogene. Come spesso accade nei
casi in cui i partecipanti ai mercati non
siano perfettamente in grado di
comprendere a fondo tutte le
caratteristiche di funzionamento dei
mercati stessi e degli strumenti in essi
negoziati, il cambiamento improvviso e
inatteso dei parametri o delle variabili
esogene può determinare conseguenze
impreviste e indurre il subitaneo ritiro
dai mercati di molti partecipanti, che
solo in questi momenti si rendono conto di
non avere un grado di informazione tecnica
sufficiente. In tal caso, il ritiro dal
mercato viene visto come la politica meno
pericolosa, ma induce la repentina
scomparsa di una parte notevole del
mercato stesso, con pesanti conseguenze in
termini di volatilità dei prezzi e
instabilità.
La disponibilità di un'ampia gamma
di prodotti derivati, sempre più
complessi e tagliati su misura per le
esigenze dei singoli operatori, ha offerto
notevoli possibilità, specie a
banche e società di assicurazioni,
di eludere le regole che le
autorità di vigilanza, isolatamente
o riunite in consorzi come i Comitati di
Basilea, hanno stabilito per ridurre la
volatilità e l'instabilità
dei mercati (fissando ad esempio
coefficienti obbligatori di capitale su
vari tipi di operazioni di banca). Sembra
dunque che, in tutti questi modi, sia
venuta a determinarsi una situazione nella
quale le autorità fissano regole
per ridurre la volatilità e
l'instabilità dei mercati
finanziari, e i partecipanti a tali
mercati - nel tentativo di eluderle
proprio utilizzando gli strumenti offerti
dagli stessi mercati - contribuiscono ad
aumentare volatilità e
instabilità. Si può dunque
dire che, in un certo senso, è
proprio l'attività di
regolamentazione, condotta in un contesto
nel quale gli organizzatori dei mercati
possono eludere tale attività, a
far aumentare i fenomeni negativi dei
quali si vuol ridurre la frequenza e la
portata.
Qualche dato servirà a dar conto
dello sviluppo raggiunto attualmente dai
mercati delle opzioni e degli altri
prodotti derivati. Al dicembre 2002, il
valore nozionale di tutti i contratti
derivati esistenti è stato
calcolato dalla Banca dei Regolamenti
Internazionali in oltre 141 miliardi di
dollari, mentre al dicembre 2000 tale
valore era ancora a 95 miliardi di
dollari. Si tratta in massima parte di
contratti relativi a movimenti dei tassi
di interesse, mentre i contratti sui cambi
riguardano il 12° del totale. I
mercati dei prodotti derivati, nonostante
o forse a causa delle numerose crisi
finanziarie internazionali che si sono
verificate, continuano dunque a crescere a
tassi estremamente elevati.