Enciclopedia delle Scienze Sociali (1994)

Mercati finanziari

di Tommaso Padoa-Schioppa


Sommario: 1. Introduzione. 2. Aspetti istituzionali ed evoluzione storica. 3. La teoria dei mercati finanziari. a) L'efficienza. b) La formazione dei prezzi. 4. La tassazione dei mercati finanziari. 5. L'organizzazione dei mercati. a) Il mercato primario. b) Il mercato secondario. c) I sistemi di liquidazione. 6. La regolamentazione dei mercati finanziari. 7. L'internazionalizzazione dei mercati finanziari.

1. Introduzione

Il termine 'mercati finanziari' può definire, nella sua accezione più generale, l'insieme delle strutture (giuridiche, operative, tecniche, fisiche) attraverso cui avviene lo scambio delle attività finanziarie. Nell'uso comune, tuttavia, il termine è andato assumendo connotazioni più circoscritte, riferendosi allo scambio di attività finanziarie standardizzate e prontamente mobilizzabili attraverso la cessione 'sul mercato', cioè ad acquirenti non noti al venditore: in tale accezione, 'mercato finanziario' è così divenuto sinonimo di 'mercato mobiliare'. Nel mercato finanziario così definito rientrano, tipicamente, i mercati dei titoli obbligazionari e azionari, mentre non sono compresi i mercati di quei prodotti bancari o assicurativi che, come i depositi in conto corrente, traggono la loro liquidità dalla promessa di rimborso a vista o che, come le polizze assicurative, pur presentando caratteristiche standardizzate non sono mobilizzabili a richiesta. I mercati finanziari costituiscono quindi una soluzione, anche se non l'unica, a due ordini di problemi: il primo, costituito dal trasferimento del risparmio dai centri di formazione a quelli di utilizzo; il secondo, dalla diversificazione dei rischi. Soluzioni diverse agli stessi problemi sono offerte dagli intermediari bancari e da quelli assicurativi. Dall'interazione di queste tre diverse istituzioni deriva la conformazione del sistema finanziario complessivo.

I mercati finanziari possono essere classificati secondo una varietà di criteri. Vanno qui ricordati quello della collocazione temporale dello scambio, che porta a distinguere tra mercati 'a pronti' e 'a termine', a seconda che la consegna dei titoli sia contestuale o differita; il criterio della quotazione del titolo, che distingue tra mercati 'primario' e 'secondario' rispettivamente per i titoli di nuova quotazione o già presenti sul mercato; quello della durata del titolo, che individua un mercato dei titoli a breve o a lungo termine (rispettivamente money market e capital market nella dizione inglese); quello della regolamentazione, che distingue tra mercati ufficiali e non (over the counter); quello del meccanismo di formazione dei prezzi, che distingue i mercati ad asta da quelli con market maker, i mercati in cui la contrattazione è continua da quelli in cui è scandita nel tempo; infine il criterio che, sulla base dello strumento trattato, distingue i mercati dei titoli di proprietà, dei titoli di debito e dei titoli 'derivati'.

Il valore conoscitivo dei diversi criteri di classificazione emergerà dal seguito di questa esposizione, dove si darà conto delle principali connotazioni concettuali, istituzionali e storiche dei mercati finanziari. Nel cap. 2 saranno illustrati gli aspetti che contraddistinguono l'azione dei mercati nel più ampio contesto del sistema finanziario. Successivamente, l'attività dei mercati finanziari verrà considerata da tre diverse angolazioni: quella teorica, quella organizzativa e quella della regolamentazione. Nel cap. 3, sulla base delle indicazioni della teoria economica, verranno definite le principali funzioni dei mercati finanziari (§ 3a) e le determinanti dei prezzi che su di essi si formano (§ 3b). Le diverse forme di tassazione presenti sui mercati finanziari saranno descritte nel cap. 4. Il cap. 5 affronterà il tema dell'organizzazione dei mercati esaminando i meccanismi di formazione dei prezzi sui mercati primario (§ 5a) e secondario (§ 5b) e le procedure di liquidazione delle transazioni in titoli (§ 5c). Da ultimo, verranno indicate le principali aree e finalità della regolamentazione dei mercati finanziari (cap. 6) e le implicazioni derivanti dalla crescente integrazione internazionale dei mercati (cap. 7).

Le riflessioni teoriche, le analisi empiriche, le azioni normative che hanno avuto nei mercati finanziari il loro oggetto condividono con essi la duplice appartenenza al mondo concettualmente chiaro dei mercati e a quello più sfuggente dei sistemi finanziari. Cercheremo di dar conto di entrambe queste nature, senza, tuttavia, presumere di raccordare in un unico schema coerente un insieme di contributi tra i più vasti e i più eterogenei della riflessione economica.

2. Aspetti istituzionali ed evoluzione storica

Le connotazioni dei mercati finanziari, intesi in senso ampio e in senso stretto, derivano dalle caratteristiche del 'prodotto' che su di essi viene scambiato: le attività finanziarie. A differenza dei beni reali, queste non danno luogo alla prestazione diretta di servizi (produttivi o di consumo) ma conferiscono al loro detentore il diritto a prestazioni monetarie future a fronte di eventi quali la maturazione delle cedole, la scadenza del titolo, la sua alienazione o altro. La distribuzione nel tempo di tali flussi monetari conferisce ai mercati finanziari quella connotazione multiperiodale che ne costituisce il carattere fondamentale.

I prodotti scambiati sui mercati finanziari si possono distinguere per il grado e il tipo di incertezza connesso alle prestazioni monetarie future, stabilite dal contratto che li origina. I titoli di debito, quali le obbligazioni, sono generalmente contraddistinti da pagamenti di ammontare definito in termini assoluti o in relazione a specifici parametri. I titoli di proprietà, costituiti dalle azioni, conferiscono invece il diritto a flussi monetari variabili in funzione dei risultati dell'impresa emittente e comunque subordinati al soddisfacimento degli obblighi finanziari nei confronti dei detentori dei contratti di debito. Vi sono, tuttavia, titoli che, come le obbligazioni convertibili, condividono aspetti di entrambe le categorie.

A tali prodotti si aggiunge la categoria dei titoli 'derivati', quali le opzioni, i futures, gli swaps, il cui prezzo è derivato da quello di altri titoli, cui sono legati da specifici obblighi contrattuali. In particolare, le opzioni conferiscono al loro possessore la possibilità, ma non l'obbligo, di acquistare (opzione call) o di vendere (opzione put) il titolo di riferimento a un prezzo predeterminato (strike price): ciò fa sì che il valore di un'opzione dipenda positivamente o negativamente dal prezzo del titolo cui si riferisce, a seconda che si tratti di una call o di una put. I futures rappresentano, invece, un impegno allo scambio di beni o valori mobiliari da effettuare a una data futura e a un prezzo prefissato. Gli swaps costituiscono un analogo impegno, riferito però allo scambio di due serie di pagamenti, definiti sulla base di due diversi tassi di interesse (swap di interesse) o di differenti valute (swap di valute).

La molteplicità dei prodotti trattati sui mercati finanziari è strettamente legata all'offerta di una vasta gamma di servizi finanziari. Tra di essi vi sono i servizi rivolti alla gestione del rischio finanziario; i servizi di consulenza, intesi a facilitare l'incontro sul mercato dell'offerta e della domanda di fondi, ad esempio attraverso l'assistenza offerta agli emittenti nel collocamento di nuovi titoli; i servizi che migliorano la liquidità del mercato, come, ad esempio, l'impegno a effettuare quotazioni in modo continuativo. La prima categoria di servizi è offerta dagli investitori istituzionali, tradizionalmente rappresentati dai fondi comuni, dalle imprese di assicurazione, dai fondi pensione e dagli intermediari che offrono servizi di gestione fiduciaria di patrimoni mobiliari; le altre due categorie di servizi sono offerte dagli intermediari che svolgono, rispettivamente, attività di investment banking e di market making.

Storicamente, lo sviluppo dei mercati è stato condizionato dal grado di standardizzazione delle attività finanziarie. La natura fiduciaria di queste ultime tende infatti a conferire a ciascuna di esse connotazioni fortemente individualizzate che, valorizzando i rapporti bilaterali, privilegiano l'intermediazione creditizia. La standardizzazione, viceversa, indebolendo la connotazione bilaterale dei rapporti di finanziamento e garantendo la sostituibilità delle diverse attività, rende praticabili le forme di scambio multilaterali, tipiche dei mercati finanziari.

Nell'esperienza storica, lo scambio di attività finanziarie ha tardato ad affrancarsi dai vincoli bilaterali, generando un ritardo di alcuni secoli nello sviluppo dei mercati finanziari rispetto a quello delle prime istituzioni creditizie. I titoli che per primi hanno dato vita a mercati organizzati sono stati quelli emessi dal debitore pubblico, già scambiati correntemente in alcuni paesi europei nel XVII secolo. La nascita del mercato della carta pubblica in Inghilterra, Olanda, Francia affonda le sue radici nella riforma delle finanze dello Stato, realizzatasi nei principali paesi europei tra la metà del XVII e la fine del XVIII secolo, con il progressivo accentramento della funzione impositiva nelle mani dello Stato, e la conseguente regolarizzazione delle entrate fiscali e delle emissioni dei titoli del debito. Più tardivo è stato l'avvio di un mercato finanziario dei titoli privati, sviluppatosi solo dopo la rivoluzione industriale, quando l'avvio dei grandi lavori legati allo sviluppo della rete dei trasporti ha portato le iniziative industriali a dimensioni tali da richiedere risorse finanziarie amplissime, molto superiori a quelle fornite dalla ristretta cerchia di finanziatori che avevano dato vita alle prime manifatture. A tale esigenza ha risposto la modifica dell'ordinamento giuridico, che ha reso possibile la diffusione della società per azioni a responsabilità limitata.

Accanto alla definizione dell'assetto legale relativo alla forma societaria e alla natura dei contratti di debito e di proprietà, un ruolo determinante per lo sviluppo dei mercati finanziari è stato svolto dall'attività di regolamentazione e di controllo di questi ultimi, intesa a promuoverne la stabilità. Improvvise e accentuate riallocazioni dei portafogli verso le attività più liquide, generate da crisi di fiducia in particolari forme di investimento finanziario, hanno, infatti, costituito un severo ostacolo alla crescita dei mercati fin dal loro esordio, provocando a più riprese drastiche cadute dei corsi, note come crisi finanziarie. Tra le prime manifestazioni di tali crisi vanno ricordate quelle che all'inizio del XVIII secolo posero fine alle ondate speculative sul mercato inglese e sul mercato francese, note come bolle speculative dei Mari del Sud e del Mississippi.

Numerose sono state le crisi finanziarie che nell'Ottocento hanno colpito i diversi mercati finanziari estendendosi frequentemente oltre le frontiere nazionali (v. Kindleberger, 1989²). Gli effetti più devastanti, sia per l'intensità sia per l'ampiezza internazionale della sua propagazione, rimangono quelli provocati dalla crisi del mercato finanziario americano del 1929. Da allora, l'intento di circoscrivere gli effetti dell'instabilità dei corsi delle attività finanziarie ha assai rafforzato il processo di regolamentazione dei mercati. Ai progressi compiuti in tale campo può essere in parte ricondotta la mancata ripercussione sulla struttura produttiva della crisi della borsa di New York del 1987.

Il ruolo dei mercati finanziari nei diversi sistemi nazionali è stato generalmente crescente, ma anche molto differenziato da paese a paese. L'evoluzione non è avvenuta lungo una successione di fasi determinate; al contrario, essa è apparsa dipendere dalle particolari caratteristiche degli operatori che domandano o offrono risorse finanziarie nei diversi contesti nazionali. Si suole distinguere, con riferimento a tali caratteristiche, un modello di stampo anglosassone, impostato sulla distinzione tra l'attività creditizia e quella di intermediazione mobiliare e caratterizzato dalla rilevanza dei mercati nel finanziamento delle imprese, da un modello tipico dell'Europa continentale, imperniato sulla possibilità per le banche di svolgere entrambe le attività e sull'egemonia degli strumenti bancari rispetto a quelli di mercato.

Il mercato dei titoli azionari e quello del debito pubblico hanno generalmente rappresentato i segmenti di maggior rilievo del mercato finanziario. A essi si è affiancato, a partire dagli anni settanta, in un numero crescente di paesi, il mercato dei titoli 'derivati', il cui sviluppo è stato reso possibile dall'ampliamento delle conoscenze teoriche nel campo della formazione dei prezzi di tali attività e dai progressi nella elaborazione elettronica dei dati.In Italia, fin dalla costituzione dello Stato unitario, i mercati finanziari più rilevanti sono stati quello del debito pubblico, quello azionario e, in alcune fasi, quello delle obbligazioni private. Nel secondo dopoguerra il valore complessivo dei titoli obbligazionari pubblici e privati si è mantenuto inferiore a quello dei titoli azionari fino agli anni sessanta. Solo successivamente, il mancato ammodernamento del mercato di borsa, la stabilità degli assetti proprietari pubblici e privati e lo sviluppo abnorme del fabbisogno pubblico hanno progressivamente ridotto il rilievo dei titoli azionari quotati: misurati sulla base della capitalizzazione alla borsa valori di Milano, essi rappresentavano, alla fine del 1990, circa un sesto della consistenza dei titoli di Stato, mentre erano stati circa il doppio nel 1960.

3. La teoria dei mercati finanziari

a) L'efficienza

I mercati delle attività finanziarie, come quelli delle attività reali, hanno promosso nel tempo lo sviluppo del benessere: il mercato dei beni reali favorendo la specializzazione produttiva, quello dei prodotti finanziari attraverso il trasferimento di risparmio, altrimenti inutilizzato, dai centri di formazione a quelli di spesa e attraverso la sua allocazione efficiente tra progetti alternativi. La possibilità di mobilizzare la ricchezza finanziaria consente a ciascuno di commisurare l'entità dei propri flussi di spesa non alle risorse disponibili contestualmente, ma a quelle disponibili in una prospettiva più ampia, che può coincidere con la vita lavorativa o con i tempi di realizzazione di investimenti produttivi. Ciò amplia le opportunità di scelta in materia di consumo e di investimento e facilita il conseguimento di una più efficiente allocazione delle risorse.

La teoria economica ha cercato di conferire precisione concettuale alla nozione intuitiva di 'efficienza allocativa', riferendola al conseguimento di una distribuzione delle risorse tra i diversi soggetti tale da non poter essere modificata senza ridurre il benessere di qualcuno (efficienza paretiana). La moderna teoria dei mercati finanziari ha approfondito l'analisi delle condizioni necessarie perché tali mercati realizzino allocazioni delle risorse rispondenti a tale criterio. Tali condizioni, pur avendo una natura esplicitamente teorica ed essendo difficilmente riscontrabili nella realtà, costituiscono un importante punto di riferimento per individuare e valutare le diverse funzioni dei mercati delle attività finanziarie. In estrema sintesi, le condizioni individuate sono: a) il prevalere di un regime di concorrenza perfetta, segnalato dalla impossibilità per il singolo operatore di influire sui prezzi; b) la presenza di un numero di strumenti trattati sui mercati sufficiente a offrire una protezione da tutte le possibili fonti di rischio; c) la distribuzione più ampia e uniforme dell'informazione tra gli operatori. L'obiettivo di avvicinare la situazione di fatto dei mercati a tali condizioni teoriche ha motivato gran parte dell'attività di regolamentazione volta a favorire la concorrenza tra gli operatori, l'ampliamento del numero degli strumenti finanziari disponibili e la diffusione delle informazioni.

Delle tre condizioni considerate, le ultime due pongono in luce due aspetti, quello assicurativo e quello informativo, cui è stata frequentemente associata la nozione di efficienza dei mercati finanziari.

Una ormai classica illustrazione della nozione di efficienza assicurativa è offerta dal modello di equilibrio generale di Arrow e Debreu. Esso mostra che, quando il numero dei mercati è uguale a quello degli eventi (stati di natura) che influenzano il prezzo dei titoli, è possibile combinare le attività finanziarie in un portafoglio che dia un rendimento certo in qualsiasi possibile situazione: i titoli costituiscono, in questo caso, lo strumento per immunizzare perfettamente la ricchezza finanziaria dagli shocks esterni. I mercati che realizzino tale condizione sono definiti 'completi', ed 'efficienti in senso assicurativo'. L'effettiva capacità dei mercati di esplicare compiutamente tale funzione assicurativa è stata posta in dubbio, tenuto conto che gli eventi futuri suscettibili di influire sulle attività finanziarie degli operatori sono di gran lunga più numerosi dei mercati esistenti. È stato tuttavia dimostrato (v. Ross, Options..., 1976) che la presenza di un mercato delle opzioni equivale all'ampliamento del numero dei titoli esistenti e quindi consente di ridurre, a parità di eventi rilevanti, il numero dei mercati necessari al conseguimento dell'efficienza assicurativa.

L'efficienza informativa consiste, invece, nella capacità del mercato di aggregare tutte le informazioni disperse sul mercato e di incorporarle nel processo di formazione dei prezzi. Tale funzione (v. Hayek, 1945) trae origine dal fatto che non tutti gli operatori dispongono dello stesso insieme di informazioni e che ciascuno di essi, attraverso la propria domanda, contribuisce a determinare il prezzo coerente con tali informazioni. In altri termini, il mercato aggrega l'informazione dispersa tra tutti i partecipanti e consente di raggiungere prezzi di equilibrio, corrispondenti a quelli che avrebbero prevalso in presenza di una informazione comune a tutti gli operatori.

L'efficienza informativa dei mercati è stata oggetto di un esteso lavoro di analisi volto a indagarne la rilevanza empirica e le implicazioni teoriche. Parte delle verifiche empiriche dell'ipotesi di efficienza informativa dei mercati si sono basate sulla osservazione che, se i prezzi incorporano tutte le informazioni di rilievo presenti sul mercato, la migliore previsione di un prezzo è costituita dal suo valore presente; ciò consente di rappresentare l'evoluzione nel tempo dei corsi delle attività finanziarie come un sentiero aleatorio (random walk). Questa nozione è alla base della costruzione dei test statistici sull'efficienza informativa dei mercati. Sulla base di una definizione di Roberts, ripresa da Fama (v., 1970), l'efficienza informativa dei mercati è stata distinta in debole, semiforte e forte a seconda che i prezzi incorporino solo l'informazione più facilmente disponibile, rappresentata dall'evoluzione passata dei prezzi, o incorporino tutta l'informazione disponibile pubblicamente, o, infine, rispecchino anche l'informazione privata. I lavori empirici hanno in genere confermato l'ipotesi di efficienza in senso debole dei mercati. Una seconda categoria di test empirici dell'ipotesi di efficienza informativa si basa sulla volatilità dei prezzi delle attività finanziarie (v. Shiller, 1989, p. 105): se infatti il valore di un titolo è dato dal valore scontato dei suoi dividendi futuri, la sua variabilità non dovrebbe eccedere, come invece accade, i limiti insiti nella variabilità dei dividendi; l'evidenza empirica a sostegno di tale ipotesi non può, tuttavia, essere considerata conclusiva (v. Kupiec, 1993).

Sotto il profilo teorico l'ostacolo principale all'esistenza di mercati efficienti dal punto di vista informativo è costituito dalla constatazione che, se un mercato è pienamente efficiente quando trasmette tutta l'informazione disponibile, può non esservi una remunerazione per chi ha reperito tale informazione e quindi può mancare l'incentivo alla produzione stessa dell'informazione. In altri termini, un mercato efficiente sotto il profilo informativo potrebbe negare le premesse per la sua esistenza. Solo la persistenza di una componente aleatoria nei prezzi (noise) che renda imperfetta la percezione dell'informazione rilevante e consenta la remunerazione dell'attività di produzione dell'informazione può, paradossalmente, rendere possibile l'esistenza del mercato stesso.

L'esplicito riconoscimento della diffusa presenza di situazioni in cui l'informazione è distribuita in modo disomogeneo tra gli operatori (asimmetrie informative) ha consentito di riconsiderare i temi dell'efficienza allocativa da angolazioni assai diverse da quelle del modello di concorrenza perfetta, rendendo possibile, in particolare, il confronto dell'efficienza relativa di sistemi finanziari tra loro differenti, come quelli basati sui mercati finanziari o sull'intermediazione bancaria. Il diverso sistema di incentivi e di vincoli presenti nei contratti di prestito bancari e in quelli obbligazionari e azionari implica, infatti, differenti modalità di selezione dei progetti di investimento e di controllo dell'efficiente uso dei fondi erogati, facendo dipendere la configurazione ottimale del sistema finanziario dalla natura dei problemi informativi di ciascun contesto nazionale.

b) La formazione dei prezzi

Il prezzo delle attività scambiate sui mercati finanziari dipende dall'importo dei pagamenti futuri che tali attività comportano, dalla loro distribuzione nel tempo, dalle condizioni sotto le quali tali pagamenti vengono effettuati. Per alcune attività finanziarie, come i titoli di Stato, ciascuno di tali aspetti è definito fin dall'emissione e la definizione del prezzo consiste nella semplice attualizzazione dei pagamenti prestabiliti al tasso di interesse rilevante. Per altre, come i titoli azionari, la presenza di elementi di incertezza rende più complessa la definizione del valore presente dei flussi monetari futuri, che dovranno essere stimati sulla base dell'evoluzione attesa di variabili relative all'impresa, al settore industriale, all'economia nel suo complesso.

Le opinioni soggettive degli operatori relative all'entità dei flussi di reddito futuri e al tasso di interesse con cui attualizzare i pagamenti futuri danno luogo all'emergere di valutazioni soggettive dei prezzi. Attraverso l'incontro di tali valutazioni sul mercato, in domanda e in offerta, avviene la formazione dei corsi e dei rendimenti di equilibrio. Questi ultimi possono pertanto essere scomposti concettualmente in due componenti riferite, rispettivamente, al tempo e al rischio. La prima componente, non influenzata da fattori di incertezza, è data dalla remunerazione richiesta dai sottoscrittori per posporre nel tempo i propri consumi (time value of money) ed è indipendente dal rischio insito nell'investimento finanziario considerato. In mancanza di tassi reali di interesse indenni da rischio in senso stretto, tale componente viene comunemente approssimata sulla base dei tassi reali sui titoli di Stato o sui depositi. La seconda componente è data dalla remunerazione per il rischio richiesta dagli operatori per sottoscrivere titoli i cui pagamenti futuri possono differire dai valori attesi.

La teoria finanziaria ha individuato due principali modi attraverso cui i mercati possono portare alla valutazione della componente di rischio e alla formazione del prezzo (rendimento) di ciascuna attività. Il primo si rifà allo schema concettuale dei mercati 'completi' (v. § 3a) e si basa sull'esistenza di un numero di attività finanziarie (e di relativi mercati) almeno uguale a quello delle possibili cause di variazione dei prezzi (stati di natura). Arrow e Debreu hanno mostrato come a ogni pagamento futuro incerto possa essere assegnato un prezzo pari a una frazione di quello di un uguale pagamento futuro certo, e come tale frazione sia legata inversamente al rischio associato a ciascun pagamento. La somma del valore attualizzato dei diversi pagamenti futuri di un titolo definisce il prezzo del titolo stesso: quanto maggiore il rischio, tanto minore sarà il prezzo e più elevato il rendimento.

Nella realtà, troppo ampio risulta il quadro dei possibili avvenimenti futuri che possono influire sui prezzi delle attività finanziarie perché possa essere conveniente, in presenza di costi di transazione e di informazione, creare un adeguato numero di mercati. Ma l'assenza di mercati completi non impedisce la valutazione delle attività finanziarie da parte degli operatori e la determinazione dei prezzi e dei rendimenti di equilibrio. Il processo di valutazione del rischio di ciascuna attività finanziaria deve pertanto poter seguire anche criteri diversi. La teoria finanziaria moderna ha individuato diverse forme di valutazione del rischio da parte degli operatori.
La nozione di rischio come variabilità del rendimento di un'attività finanziaria è stata introdotta da Markowitz nell'ambito della teoria della selezione efficiente del portafoglio. In tale approccio il rischio rilevante ai fini della formazione dei prezzi delle attività finanziarie non è misurato dalla variabilità totale del rendimento, ma da quella componente di essa che non può essere eliminata per mezzo della diversificazione del portafoglio. Solo tale componente, nota come 'rischio sistematico', richiede un premio per l'assunzione del rischio.

Nel Capital Asset Pricing Model (CAPM), elaborato da Sharpe, Lintner e Mossin, il rischio non diversificabile è individuato nella volatilità del rendimento del portafoglio rappresentativo della composizione complessiva della ricchezza dell'economia (portafoglio di mercato); la remunerazione di tale unico fattore di rischio è fatta dipendere dall'equilibrio della domanda e dell'offerta sul mercato. La verifica empirica della dipendenza del rendimento atteso di ciascuna attività finanziaria dal rendimento del portafoglio di mercato è, tuttavia, resa difficile dalla non osservabilità di quest'ultimo, dovuta all'impossibilità di censire accuratamente l'evoluzione della ricchezza finanziaria e reale degli individui (v. Roll, 1977). Merton e Breeden hanno formulato versioni del CAPM che considerano più di una fonte di rischio.

L'Arbitrage Pricing Theory (APT) di Ross (v., The arbitrage..., 1976) non deriva i prezzi delle attività finanziarie dalle condizioni di equilibrio tra domanda e offerta ma esclusivamente da considerazioni di arbitraggio, ovvero della condizione per cui due attività finanziarie che danno diritto a identici flussi finanziari hanno lo stesso prezzo. Il numero e la natura dei fattori che possono influenzare il prezzo delle attività finanziarie non è specificato dalla teoria e deve essere desunto sulla base dell'analisi econometrica.L'assenza di arbitraggio costituisce una condizione di assoluta centralità nella determinazione del prezzo dei titoli sui mercati finanziari. Essa è alla base della determinazione del prezzo di quelle attività finanziarie note come 'titoli derivati', il cui valore è legato da precise relazioni a quello di altri titoli scambiati sul mercato e non risente pertanto dell'apprezzamento del rischio da parte degli investitori. Sull'assenza di arbitraggio è basata anche la costruzione della formula di valutazione delle opzioni, derivata per la prima volta da Black e Scholes (v., 1973), nonché la moderna derivazione delle relazioni fra i prezzi di titoli obbligazionari con diverse scadenze che è alla base della struttura per scadenza dei tassi di interesse (v. Cox e altri, 1985).

I diversi modelli di determinazione dei prezzi fin qui considerati pongono in relazione il valore delle attività finanziarie con un numero di fattori in grado di influenzarne i flussi di pagamento futuri. Linee alternative di analisi sono state motivate dall'osservazione dell'accentuata variabilità dei corsi dei titoli, di cui le crisi finanziarie e le bolle speculative (v. cap. 2) costituiscono una manifestazione estrema. La presenza di bolle speculative suggerisce che i prezzi possano essere influenzati non solo da determinanti 'fondamentali', suscettibili di influire sui pagamenti futuri, ma anche da quei fattori di diversa natura, legati ad esempio a componenti emotive o a consuetudini degli operatori, sinteticamente definiti con il termine di 'mode' (fads) (v. Shiller, 1989, p. 7).
Le implicazioni normative derivanti dalla teoria della formazione dei prezzi sui mercati finanziari sono molteplici. Tra di esse, hanno particolare rilevanza quelle relative alla misurazione della rischiosità dei portafogli degli intermediari finanziari; in particolare, la relazione tra la rischiosità del singolo titolo e quella del portafoglio nel suo complesso concorre a definire l'entità dei coefficienti patrimoniali previsti dalle normative di vigilanza sui diversi mercati. Sempre nell'ambito della misurazione del rischio, l'individuazione, sulla base di precise relazioni di arbitraggio, del legame tra il prezzo dei titoli 'derivati' e quello dei titoli 'sottostanti' consente di ricondurre per intero a questi ultimi la rischiosità insita in contratti finanziari quali le opzioni, i futures, gli swaps.

4. La tassazione dei mercati finanziari

La tassazione esercita un'importante influenza sulla vita dei mercati finanziari e sulla determinazione dei prezzi di equilibrio. Essa interviene in duplice modo: attraverso le imposte indirette, gravanti sugli scambi di attività finanziarie, e attraverso le imposte dirette, gravanti sul reddito degli emittenti e dei sottoscrittori dei titoli.

Le imposte indirette, tra le quali ricade in Italia l'imposta sui contratti di borsa, sono commisurate al valore delle contrattazioni. Comportando un maggior onere relativo sulle operazioni di durata più breve, esse costituiscono un freno alle operazioni di arbitraggio. In alcuni casi ciò può essere desiderabile, ad esempio, per scoraggiare alcune operazioni a brevissimo termine che possono esercitare impulsi destabilizzanti sulle quotazioni. In altri casi l'elevatezza delle aliquote può avere effetti negativi, ostacolando le operazioni di arbitraggio necessarie a dare spessore e liquidità al mercato. La presenza di aliquote differenziate per tipo di strumento trattato e per categoria di contraente esercita, inoltre, indesiderati effetti discriminanti. Negli ultimi anni, in diversi paesi, tra cui l'Italia, la differenziazione delle aliquote è stata ridotta ed è stato abbassato il loro livello medio.

Le imposte dirette, nella forma personale o societaria, gravano con aliquote diverse sui rendimenti tratti dalle attività finanziarie (interessi, dividendi e plusvalenze). Per i soggetti che emettono titoli, il costo del finanziamento è deducibile, in varia misura, dall'imposta (tipicamente, quella sulle società). Dal momento che le scelte di chi offre fondi e di chi li domanda sono determinate, rispettivamente, dai rendimenti e dai costi unitari al netto delle imposte, è evidente l'importanza dell'imposizione diretta nella formazione dei prezzi di equilibrio. L'esistenza di regimi di tassazione differenziati tra categorie di soggetti (persone fisiche, società, intermediari specializzati) e/o tra categorie di strumenti può, inoltre, ostacolare il raggiungimento di prezzi di equilibrio per tutti i soggetti e tutti gli strumenti.

In genere le persone fisiche sono tassate in base all'imposta personale sul reddito: quasi tutti gli ordinamenti fiscali prevedono, almeno in linea di principio, l'inclusione dei dividendi e degli interessi nell'imponibile. Per questi ultimi, tuttavia, sono frequenti le eccezioni, con ritenute 'alla fonte' (cioè, trattenute dall'emittente e da questi versate al fisco per conto del contribuente) che possono divenire, a scelta del contribuente, d'acconto o definitive; in alcuni paesi le ritenute alla fonte sono definitive. Le plusvalenze su titoli azionari sono assoggettate a una pluralità di regimi, che variano dalla completa esenzione alla tassazione delle plusvalenze su tutte le operazioni effettuate. Se tassate, le plusvalenze sono talvolta incluse (usualmente con correttivi) nell'imponibile dell'imposta personale, talaltra sono soggette a imposta separata. Infine, la diversa efficacia degli accertamenti effettuati dal fisco da Stato a Stato fa sì che la tassazione effettiva, a causa dell'elusione e dell'evasione, possa essere molto diversa da quella prevista dalle norme fiscali.

Per le imprese, i proventi conseguiti tramite l'impiego di capitali in attività finanziarie rientrano nella base imponibile dell'imposta (societaria o personale, a seconda della forma giuridica dell'impresa). Gli interessi passivi sui titoli obbligazionari emessi e sui debiti verso gli intermediari creditizi sono deducibili dalla base imponibile. Poiché gli utili distribuiti sono, invece, tassati come reddito d'impresa, vi è un incentivo per le imprese a ricorrere a finanziamenti sotto forma di debito piuttosto che sotto forma di capitale azionario. Questa tendenza è accentuata se i dividendi vengono nuovamente tassati in capo al percettore. Per evitare questa doppia imposizione, diversi Stati hanno introdotto correttivi: aliquote dell'imposta societaria più basse sugli utili distribuiti, oppure credito d'imposta a favore dell'azionista per compensare l'imposta già pagata dalla società partecipata. In Italia i dividendi sono normalmente assoggettati a ritenuta d'acconto e inclusi nell'imponibile IRPEF o IRPEG a seconda che il percettore sia una persona fisica o una persona giuridica. Il percettore detrae la ritenuta dall'imposta dovuta e gode di un credito d'imposta che compensa pienamente l'IRPEG pagata dalla società partecipata.

Gli interessi percepiti dalle persone fisiche sono tassati con ritenute definitive trattenute alla fonte; per le persone giuridiche, la ritenuta subita sugli interessi attivi è a titolo d'acconto e i proventi sono tassati in IRPEG. Le plusvalenze di tutti i tipi sono tassate per le imprese; per le persone fisiche, quelle sui titoli azionari e sulle quote di partecipazione al capitale sono soggette, dal 1990, a un'imposta speciale (sospesa nel corso del 1992 relativamente alle azioni quotate).In tutti gli ordinamenti gli intermediari finanziari sono soggetti a regimi fiscali che differiscono, in misura più o meno ampia, da quelli applicati alla generalità delle imprese. Ciò è dovuto alla necessità di tener conto di alcune peculiarità dell'attività che essi svolgono, di equiparare il loro trattamento a quello delle persone fisiche o di favorire la loro attività. Alcuni intermediari finanziari sono soggetti all'imposta sui redditi sui proventi della loro attività, altri sono invece esenti o subiscono regimi particolari. Gli intermediari creditizi, che usualmente assumono la forma giuridica di società di capitali, sono tassati in base all'imposta sulle società; usualmente, e l'Italia non è un'eccezione, sono previste norme particolari, soprattutto in materia di accantonamenti esenti a fronte dei rischi, che differenziano il loro trattamento rispetto al regime normale che riguarda la generalità delle società. Anche per le imprese di assicurazione valgono considerazioni analoghe. I fondi comuni e gli altri organismi di investimento collettivo subiscono generalmente una tassazione che si ispira al criterio della 'trasparenza'; tende, cioè, a equiparare il carico fiscale a quello subito dalla persona fisica che investe direttamente in valori mobiliari. Anche il regime italiano si ispira a questo criterio: il fondo non è soggetto a imposte dirette e subisce a titolo definitivo le stesse ritenute subite dalle persone fisiche; non subisce l'imposta sulle plusvalenze, ma è soggetto a una imposta patrimoniale sul valore dei titoli detenuti. Anche i fondi pensione sono generalmente esenti da imposte dirette: i contributi versati dai lavoratori e dalle imprese godono anch'essi di agevolazioni (in taluni casi sono esenti), mentre generalmente i trattamenti erogati sono soggetti all'imposta personale, eventualmente con abbattimenti.

5. L'organizzazione dei mercati

a) Il mercato primario

Il mercato primario è definito dall'insieme dei potenziali sottoscrittori e dei meccanismi che consentono il collocamento dei titoli sia azionari che obbligazionari. Esso può essere riferito in senso lato al collocamento dei titoli di nuova emissione presso gli investitori o, alternativamente, al collocamento iniziale sui mercati ufficiali di titoli nuovi o di titoli già esistenti, ma non ancora quotati. Nell'ambito di questa seconda accezione, il mercato primario rappresenta quel segmento su cui si verifica la prima valutazione di titoli. La struttura del mercato primario è importante per la determinazione del costo di finanziamento per l'emittente, poiché da essa può dipendere l'accuratezza della valutazione dei titoli di nuova emissione.

Il collocamento di capitale di rischio in borsa può riguardare sia titoli azionari non ancora quotati, noti nella letteratura anglosassone come Initial Public Offering (IPO), sia aumenti di capitale di titoli già quotati in borsa; i collocamenti possono riferirsi a una vasta gamma di strumenti finanziari rappresentativi del capitale di una società, quali azioni ordinarie, di risparmio, obbligazioni convertibili in azioni, warrant. Anche le offerte pubbliche di vendita di azioni che abbiano come fine la quotazione in borsa ricadono nell'ambito del mercato primario, in quanto, pur non facendo affluire all'impresa risorse finanziarie aggiuntive, danno luogo alla prima valutazione del titolo considerato da parte del mercato.Il collocamento di titoli sul mercato primario può avvenire attraverso una procedura d'asta o a fermo, cioè con offerta pubblica di sottoscrizione a un prezzo prefissato. La prima procedura viene normalmente seguita per i titoli di Stato; il collocamento a fermo riguarda la maggioranza delle sottoscrizioni di titoli azionari.

I meccanismi adoperati più comunemente nel collocamento di titoli di Stato in Italia e all'estero sono noti come asta marginale (uniform price auction) e asta competitiva (discriminatory price auction). La prima prevede che tutte le domande accolte vengano aggiudicate a un unico prezzo pari al più basso fra quelli risultati aggiudicatari (prezzo marginale). La seconda prevede che a ogni domanda aggiudicataria sia applicato il prezzo al quale essa è stata formulata.

I sistemi di asta possono prevedere meccanismi di difesa per l'emittente, volti a contenere forme di collusione fra i partecipanti o speculazioni derivanti dalla debolezza della domanda. Uno dei meccanismi più comuni è costituito dall'esistenza di un 'prezzo base' esplicito (noto nella letteratura economica come reservation price) al di sotto del quale l'emittente dichiara di non accettare domande. Una versione meno rigida di tale meccanismo prevede l'esclusione delle domande che in termini statistici divergano eccessivamente dalla media dei prezzi offerti. Un'altra forma di difesa prevede il diritto per l'emittente di non soddisfare richieste risultate aggiudicatarie a prezzi considerati troppo bassi pur senza la preventiva indicazione del prezzo di riserva.

Oltre che con asta, i titoli possono venire collocati a fermo, cioè con offerte pubbliche di sottoscrizione a prezzo prefissato e per quantità predeterminate. Tale meccanismo, adottato in passato per la maggioranza dei titoli emessi dallo Stato italiano, è oggi utilizzato in prevalenza per il collocamento dei titoli azionari. Le quotazioni iniziali in borsa di titoli azionari avvengono tramite aumenti di capitale riservati ai nuovi soci o con offerte pubbliche di vendita di azioni di vecchi soci. In entrambi i casi viene abitualmente costituito un consorzio per il collocamento. Alcuni intermediari specializzati, banche e, soprattutto negli Stati Uniti, security houses, stabiliscono le condizioni di offerta e l'impegno nell'attività di collocamento. Se gli intermediari si impegnano a sottoscrivere i titoli non collocati presso il pubblico, si parla di firm commitment; qualora invece l'intermediario si impegni a collocarli al meglio delle proprie possibilità, non assicurando l'intera sottoscrizione, si parla di best effort. Nel caso italiano gli aumenti di capitale possono essere sottoscritti, a un prezzo prefissato, dagli azionisti che hanno un diritto di prelazione (o di opzione) nell'acquisto delle nuove azioni; tale diritto è proporzionale al numero delle azioni già possedute e può essere rivenduto dall'azionista o, qualora nessuno lo eserciti, dalla società.

Ciò configura una tecnica di collocamento a prezzo predeterminato per gli azionisti e invece variabile, in funzione della valutazione attribuita in borsa al diritto d'opzione, per gli altri sottoscrittori.Il meccanismo che consente di evitare il rischio del razionamento, dovuto alla presenza di eccessi di domanda, è il cosiddetto collocamento 'a rubinetto', con il quale i titoli vengono offerti a prezzo prefissato ma in quantità variabile. Esso si pone in una situazione intermedia fra l'asta e l'offerta a fermo e viene utilizzato da alcuni emittenti esteri per il collocamento di titoli di Stato.Un fenomeno comune a tutti i meccanismi citati è l'underpricing, cioè la possibile sottovalutazione dei nuovi titoli da parte dei sottoscrittori. Nel caso delle aste, tale fenomeno è stato posto in relazione alla diversità delle informazioni dei partecipanti. Chi risulta aggiudicatario in asta, perché sulla base delle proprie informazioni ha attribuito ai titoli un valore più elevato di quello di altri partecipanti, corre il rischio di avere acquistato a un prezzo troppo elevato (cosiddetto fenomeno del winner's curse). Da questo rischio i partecipanti si cautelano formulando richieste a prezzi inferiori al valore da loro atteso, con il risultato di spingere il prezzo d'asta sotto il vero valore dei titoli in emissione. Considerazioni analoghe si applicano anche ai collocamenti a fermo dove l'emittente dovrà in generale offrire un prezzo di sottoscrizione inferiore al valore atteso dai sottoscrittori. Il fenomeno è tanto meno rilevante quanto maggiore è il grado di efficienza informativa dei mercati: segnali precisi sui titoli in emissione danno luogo infatti a una contenuta dispersione delle valutazioni. In asta, inoltre, l'underpricing può derivare da comportamenti speculativi, legati a imperfezioni del mercato primario e connessi a carenza di domanda oltre che a comportamenti collusivi da parte dei partecipanti. In presenza di tali fenomeni si attivano i meccanismi di difesa adottati dall'emittente: nel caso del collocamento a fermo la difesa è massima, mentre il sistema più esposto è quello ad asta marginale.

La scelta fra i diversi meccanismi non è quindi indipendente dalle condizioni della domanda e dall'efficienza informativa dei mercati. Il collocamento a fermo può risultare la soluzione preferibile qualora vi sia una forte dispersione delle valutazioni; viceversa, in presenza di un mercato secondario che aggreghi efficientemente le informazioni, il collocamento con asta risulta preferibile: anche le piccole differenze fra il prezzo offerto e quello di equilibrio potrebbero infatti portare a notevoli eccessi di domanda o di offerta.

Nell'esperienza italiana, caratterizzata dall'elevato livello del debito pubblico, il Tesoro ha introdotto una serie di innovazioni nelle tecniche di emissione per le diverse tipologie di titoli: per i BOT, con il passaggio dall'asta marginale a quella competitiva, avviato nel 1983, e con l'abolizione del prezzo base nel biennio 1988-1989; per i titoli a medio e a lungo termine, con l'introduzione dell'asta marginale, dal 1988, e con l'abolizione del prezzo base nel 1992. In generale, il Tesoro ha privilegiato il collocamento con asta dei titoli per i quali vi fosse un sufficiente grado di diffusione delle informazioni fra gli operatori. Per i titoli a medio e a lungo termine, i cui corsi sono naturalmente più volatili, il passaggio all'asta marginale è pertanto avvenuto solo quando, a seguito della cresciuta efficienza del mercato secondario telematico, si è ridotta la dispersione delle informazioni fra gli operatori.

b) Il mercato secondario

Con il termine mercato secondario ci si riferisce a quelle strutture (regole, operatori, procedure) che consentono lo scambio di titoli già quotati, rendendo possibile la liquidazione di un investimento finanziario, indipendentemente dalla data di scadenza del titolo. Le caratteristiche di costo e di rapidità di una compravendita di titoli definiscono la liquidità di un mercato. Essa condiziona in misura rilevante la capacità dei mercati finanziari di assolvere alla propria funzione di trasferimento dei fondi tra le unità che presentano un eccesso e quelle che presentano una carenza di risparmio. Dal conseguimento di buone condizioni di liquidità dipende infatti l'incontro tra una domanda di fondi (offerta di titoli), spesso a lungo termine, e un'offerta frequentemente caratterizzata da orizzonti temporali più circoscritti.

La nozione di liquidità è la risultante di un insieme di caratteristiche relative alle transazioni che si svolgono su di un mercato, tra cui rientrano la rapidità di esecuzione degli ordini di vendita o di acquisto di un volume dato di titoli (immediatezza), il numero di titoli che possono essere scambiati senza influire sui costi di esecuzione (spessore), la velocità con cui i prezzi assorbono le oscillazioni causate da scambi di elevato ammontare (elasticità). Le componenti del costo complessivo degli scambi includono le commissioni, i bolli e le spese di esecuzione dei contratti, tra cui lo scarto tra le quotazioni in lettera (ask) e in denaro (bid).

Le procedure di scambio adottate per favorire la liquidità del mercato sono differenziate e consentono di distinguere i mercati in quelli a contrattazione continua e quelli a contrattazione periodica. In questi ultimi gli scambi si concentrano in uno o più momenti predeterminati e la formazione dei prezzi è generalmente affidata a meccanismi d'asta. Nei mercati a contrattazione continua gli scambi si distribuiscono nell'arco dell'intera giornata e la formazione dei prezzi è generalmente assicurata da meccanismi d'asta (order driven markets) o dalla presenza di market makers (quote driven markets), anche se combinazioni dei due sistemi sono presenti in diversi mercati.
Sui mercati quote driven le quotazioni sono effettuate da intermediari, i market makers, che si impegnano a esporre con continuità prezzi in denaro e in lettera e ad acquistare o vendere i titoli ai prezzi esposti, per importi massimi predeterminati. La possibilità di effettuare a ogni istante scambi a prezzi certi conferisce a tale sistema un elevato grado di immediatezza, il cui costo è misurato dall'ampiezza dello scarto lettera-denaro.

I mercati ad asta continua non richiedono la quotazione da parte di operatori specializzati e l'incontro tra la domanda e l'offerta di titoli avviene direttamente, attraverso la semplice chiamata di un banditore o l'azione di un sistema elettronico. Tale sistema può ridurre lo scarto denaro-lettera dal momento che nessun intermediario si frappone tra i due lati del mercato. In questo caso la liquidità del mercato proviene dall'ampiezza e dalla regolarità del flusso di ordini di acquisto o di vendita forniti a ciascun prezzo dagli investitori (ordini con limite di prezzo).
Il mercato italiano vede la presenza di tutti i diversi meccanismi di contrattazione menzionati: l'asta a chiamata contraddistingue, nel mercato di borsa, le contrattazioni di titoli di Stato, di titoli obbligazionari privati e di parte di quelli azionari. Sempre nell'ambito del mercato di borsa è stato introdotto dal 1991, e via via esteso a un numero crescente di titoli azionari, un sistema di contrattazione ad asta continua. La contrattazione continua con un sistema di market makers caratterizza il mercato telematico dei titoli di Stato.

Nell'asta a chiamata, una volta al giorno e partendo dalla quotazione del giorno precedente, gli operatori ammessi alle negoziazioni dichiarano 'alle grida' gli ordini della clientela per un dato livello di prezzo, consentendo al banditore di modificare la quotazione fino al conseguimento di un equilibrio tra la domanda e l'offerta.Nel sistema telematico di contrattazione continua per i titoli azionari gli ordini con limite di prezzo, relativi a ciascun titolo, vengono ordinati secondo il prezzo richiesto od offerto e le proposte per le quali vi sia un incrocio dei prezzi in acquisto e vendita vengono eseguite automaticamente. Gli ordini senza limite di prezzo vengono eseguiti alle migliori quotazioni presenti nel sistema.

Nel sistema telematico dei titoli di Stato, invece, alcuni intermediari (operatori principali) quotano, per i titoli da loro prescelti, i prezzi a cui si impegnano ad acquistare o a vendere lotti di entità prestabilita, facendo uso delle proprie scorte di titoli per fronteggiare i possibili squilibri tra i flussi di domanda e di offerta.In alcuni casi gli investitori desiderano scambiare pacchetti consistenti di titoli (blocchi) in un intervallo di tempo limitato. In tal caso la ricerca della controparte assume una maggiore complessità non solo per l'entità delle negoziazioni ma anche perché esse possono essere motivate da informazioni privilegiate disponibili solo a cerchie ristrette di operatori (insiders): ciò richiede quindi procedure di scambio specifiche e distinte da quelle fin qui indicate. Sui principali mercati azionari internazionali la negoziazione di 'blocchi' si è sviluppata a partire dagli anni cinquanta seguendo la crescita degli investitori istituzionali, che per natura e dimensioni hanno necessità di operare transazioni unitarie di elevate dimensioni.

Sia il sistema di asta a chiamata che quello di asta continua, pur permettendo di contenere il costo delle singole transazioni in presenza di un numero elevato di scambi di dimensioni contenute, non garantiscono sufficiente liquidità ai 'blocchi', il cui arrivo sul mercato può determinare temporanei squilibri tra domanda e offerta e sensibili variazioni dei prezzi. Tali motivi hanno indotto a consentire gli scambi di 'blocchi' al di fuori dei meccanismi d'asta. Il collegamento tra le quotazioni d'asta e quelle relative ai 'blocchi' è stato ricercato attraverso obblighi di pubblicità per le condizioni relative allo scambio di questi ultimi o garantendo priorità di esecuzione per gli ordini sottomessi in asta, che presentino condizioni migliori rispetto a quelle relative allo scambio di 'blocchi'.In Italia le transazioni di entità rilevanti di azioni possono avvenire fuori borsa, ma vi è l'obbligo di una comunicazione tempestiva delle condizioni agli organi di controllo, che ne informano il mercato; l'entità dei 'blocchi' è definita per ciascun titolo in base allo spessore del mercato sottostante.

c) I sistemi di liquidazione

Il 'ciclo vitale' delle transazioni in titoli effettuate sui mercati finanziari (primario e secondario) si articola nei due momenti della negoziazione, nel cui ambito avviene la determinazione degli aspetti qualificanti dello scambio (prezzo, quantità, scadenza), e della esecuzione o regolamento del contratto stesso, in cui si verifica l'effettivo scambio dei titoli contro mezzi di pagamento. Questa seconda fase, in particolare, è quella esposta al rischio che una delle parti non sia in grado di adempiere agli impegni contrattualmente assunti, a causa dell'emergere di situazioni di insolvenza o di illiquidità (rischio di controparte). Nei casi più gravi si può verificare che l'insolvenza di un operatore si estenda alle sue controparti, generando un pericoloso effetto di trascinamento (rischio sistemico).

Le procedure di liquidazione dei contratti di compravendita di attività finanziarie prevedono normalmente meccanismi di prevenzione e di contenimento di tali rischi, quali la riduzione dell'intervallo di tempo che separa la negoziazione dal regolamento e la contestualità del trasferimento dei titoli e dei mezzi monetari (Delivery Versus Payment: DVP). La prima delle due misure mira a contenere la durata dell'esposizione della controparte e i costi necessari per sostituire il contratto qualora una delle parti si renda insolvente e i prezzi si siano modificati (rischio di mercato). Il fine della seconda è quello di contenere il rischio che gli operatori possano consegnare titoli senza ricevere il corrispettivo monetario o che possano effettuare il pagamento senza ottenere la consegna dei titoli (rischio di capitale). Considerata la rilevanza e la pericolosità di quest'ultima tipologia di rischio, la generalità dei sistemi di liquidazione prevede, o ha programmato di introdurre, meccanismi del tipo DVP.

La liquidazione di un contratto finanziario si articola in due fasi principali: il riscontro e il regolamento. Nel riscontro si procede alla definizione delle posizioni creditorie e debitorie sia in titoli sia in contante. Nel regolamento si dà luogo all'effettivo scambio del denaro e dei titoli. Sotto quest'ultimo profilo occorre sottolineare che nei principali paesi industrializzati i titoli sono in prevalenza custoditi presso istituzioni di deposito centralizzato (Sicovam in Francia, Kassenverein in Germania, Monte titoli e gestione centralizzata dei titoli di Stato, in Italia) che consentono il trasferimento dei titoli stessi attraverso semplici scritturazioni contabili, evitando le onerose e inefficienti movimentazioni materiali di certificati cartacei.I sistemi di liquidazione possono essere fondati sul regolamento bilaterale delle transazioni (gross settlement), in cui lo scambio dei titoli e del controvalore fra gli operatori avviene operazione per operazione, ovvero sulla compensazione multilaterale delle operazioni (netting); tale modalità, seguita nel sistema italiano delle 'stanze di compensazione', si applica a più operazioni condotte in uno stesso periodo e determina la consegna da parte di ciascun operatore degli importi netti di titoli e di denaro, che risultano dalla somma algebrica dell'insieme di compravendite effettuate. La maggiore complessità di tale procedura è compensata dal risparmio di titoli e mezzi monetari che essa consente.

La compensazione multilaterale può avvenire quotidianamente, con un regolamento giornaliero dei saldi (rolling settlement), come nella procedura di liquidazione giornaliera utilizzata per il regolamento delle operazioni su titoli di Stato; ovvero periodicamente, al termine di un intervallo temporale più esteso (account settlement), come per le liquidazioni mensili dei titoli azionari. Quest'ultima modalità consente di ridurre l'entità dei trasferimenti finali di titoli e di mezzi di pagamento, ma amplifica il rischio di mercato; la consapevolezza di tale aspetto ha spinto al suo progressivo abbandono sul piano internazionale, a favore del regolamento giornaliero.

Un'importante innovazione nell'ambito delle procedure di liquidazione è costituita dall'introduzione, limitatamente ai mercati dei contratti derivati standardizzati (opzioni e futures), di una controparte centrale che in ogni transazione si interpone tra i contraenti originari; nel mercato italiano questa entità è rappresentata dalla Cassa di compensazione e garanzia, costituita nel marzo del 1992. L'affidabilità di tale istituzione e il costante controllo della sua esposizione complessiva, attraverso la quotidiana chiusura di tutte le posizioni di rischio, consentono il sostanziale annullamento del rischio di controparte. Le complesse procedure necessarie alla valutazione delle singole posizioni di rischio ne limitano, tuttavia, l'applicazione allo scambio di strumenti altamente standardizzati.

6. La regolamentazione dei mercati finanziari

La struttura di norme che regola il funzionamento dei mercati finanziari mira a garantire la tutela dell'interesse pubblico, costituito, in termini generalissimi, dal pieno sviluppo e dall'ordinato svolgimento degli scambi di attività finanziarie e, più specificamente, dalla stabilità del sistema finanziario e dalla tutela dei risparmiatori. La necessità dell'intervento pubblico deriva dall'incapacità dei mercati di conseguire spontaneamente tali obiettivi, propedeutici al conseguimento di una efficiente allocazione delle risorse.

Oggetto della regolamentazione dei mercati finanziari sono gli strumenti finanziari (titoli), le tecniche di contrattazione, le strutture che rendono possibile l'attività di negoziazione e di scambio (borse valori e circuiti telematici), gli intermediari presenti sul mercato mobiliare.

Le norme che regolano la tipologia dei contratti finanziari tendono soprattutto a promuoverne la standardizzazione, al fine di facilitare la valutazione dei titoli e l'esercizio degli impegni e dei diritti da loro derivanti. In aggiunta alle norme di legge che stabiliscono, in via generale, le caratteristiche delle diverse forme dei titoli di proprietà e di debito, vi sono regole volte a selezionare, all'interno di queste due categorie, titoli dotati di requisiti comuni. A ciò tendono le regole per l'ammissione alla quotazione in borsa, che certificano l'esistenza di alcune caratteristiche comuni a tutti i titoli quotati sul mercato. In tale ambito possono ricadere anche le norme relative al taglio minimo, che per taluni contratti definiscono livelli minimi non frazionabili di investimento in relazione alla natura al 'dettaglio' o all''ingrosso' del mercato su cui vengono scambiati.

La regolamentazione dei meccanismi di contrattazione e scambio sui mercati finanziari abbraccia una molteplicità di aspetti attinenti alla negoziazione dei titoli, tra cui le modalità di formulazione delle proposte di scambio, le regole di priorità nell'esecuzione degli ordini, la definizione degli impegni relativi alla fase di liquidazione, gli obblighi di informazione nei confronti del mercato. Tali norme, differenziate tra mercati all'ingrosso e al dettaglio, a pronti e a termine, primari e secondari, perseguono il comune obiettivo di rafforzare la liquidità del mercato attraverso il contenimento dei costi di transazione, la riduzione dei rischi associati allo scambio, la diffusione delle notizie sulla formazione dei prezzi. In questo ambito ricadono non solo le regole di contrattazione e liquidazione (v. cap. 5), ma anche norme quali l'obbligo di concentrazione degli scambi sui mercati ufficiali o la definizione di limiti alle commissioni di intermediazione. Al contenimento dei rischi sono rivolti i divieti relativi a particolari categorie di operazioni suscettibili di amplificare l'instabilità dei corsi; finalità analoga perseguono le regole che governano l'interruzione degli scambi in condizioni di mercato eccezionali (circuit breakers). Nell'ambito delle regole per la diffusione delle informazioni rientrano quelle volte a contrastare l'insider trading e a impedire che gli operatori coinvolti nel processo di formazione dei prezzi utilizzino la propria posizione privilegiata in contrasto con gli interessi della loro clientela e, più in generale, degli altri partecipanti al mercato.

Una rilevanza particolare rivestono sotto il profilo concettuale le regole che governano la creazione dei mercati, nella forma di borse valori o di reti telematiche, e ne stabiliscono le modalità di sorveglianza da parte delle autorità competenti. La normativa su tali argomenti appare ispirata a due diverse impostazioni: nei paesi dell'Europa continentale i mercati sono considerati come istituzioni di natura pubblicistica; nei paesi anglosassoni sono visti piuttosto come imprese e la loro funzione ricade preminentemente nella sfera privata. Per i primi le borse valori, e più in generale i mercati ufficiali, non possiedono personalità giuridica e vengono istituiti da norme di legge o emanate da una autorità pubblica; per i secondi i mercati assumono la forma di società per azioni e ricadono sotto la normativa societaria. Anche l'attività di supervisione appare improntata a differenti soluzioni organizzative nell'ambito delle due impostazioni considerate. In particolare, nei paesi dell'Europa continentale l'attività di vigilanza sui mercati è accentrata nelle mani dell'autorità pubblica. In Italia e in Francia, ad esempio, tale funzione è affidata rispettivamente alla Commissione Nazionale per le Società e la Borsa (CONSOB), istituita nel 1974, e alla Commission des Opérations de Bourse (COB), istituita nel 1967. Nei paesi anglosassoni vi è invece maggiore tendenza al decentramento dei controlli, che sono in parte delegati a organizzazioni costituite dagli stessi partecipanti al mercato (Self Regulatory Organizations o SROs nella dizione inglese). Negli Stati Uniti l'agenzia pubblica di controllo, costituita nel 1934, è la Securities and Exchange Commission (SEC) che, pur svolgendo una vigilanza capillare sul mercato, delega parte dell'attività normativa e di vigilanza alle singole borse valori. In Inghilterra l'agenzia centrale di sorveglianza del mercato, la Security and Investment Board (SIB) costituita nel 1986 e composta da esperti di varia estrazione, nominati dal governo e dalla Banca d'Inghilterra, si avvale per il controllo dei diversi segmenti del mercato di alcune SROs dotate di specifiche competenze.

Vi è infine la regolamentazione degli intermediari che operano sul mercato mobiliare. Essa ha il fine di garantire condizioni di trasparenza e di prevenire l'insorgere di situazioni di insolvenza. In tale ambito ricadono le norme intese a promuovere l'affidabilità degli intermediari, quali l'adozione della forma societaria e i requisiti di professionalità e onorabilità del management, nonché le norme di prevenzione dei conflitti di interesse tra l'intermediario e la clientela, quali gli obblighi di separatezza organizzativa e contabile tra le diverse attività di intermediazione finanziaria svolte dallo stesso operatore (chinese walls nella dizione inglese). In particolare, la protezione degli investitori dal rischio di insolvenza degli intermediari è affidata a norme che consentano di prevenire l'insorgere di situazioni di illiquidità, come quelle relative ai coefficienti patrimoniali e di liquidità, o che, in caso di crisi, facilitino l'ordinata liquidazione dell'intermediario: a quest'ultimo fine risponde, in Italia, l'istituzione del Fondo di garanzia, oltre alle norme sanzionatorie quale la gestione commissariale o fallimentare. Nei paesi in cui le banche possono svolgere l'attività di intermediazione mobiliare, la supervisione su di esse è di norma affidata all'autorità di vigilanza bancaria. In Italia, per prevenire la frammentazione dei controlli tra intermediari bancari e non, la legge n. 1 del 1991 ha adottato una distinzione per obiettivi delle competenze, affidando alla Banca d'Italia la vigilanza sui vincoli di capitalizzazione e alla CONSOB quella sugli obblighi di trasparenza relativi a tutti gli intermediari operanti sul mercato.

7. L'internazionalizzazione dei mercati finanziari

L'integrazione tra i mercati finanziari nazionali, nota come internazionalizzazione o globalizzazione dei mercati, si è venuta realizzando con la caduta delle barriere tecniche o amministrative che hanno ostacolato in passato lo scambio di strumenti e servizi finanziari tra operatori di paesi diversi. Essa ha prodotto un allineamento delle condizioni sui diversi mercati finanziari nazionali, una crescita degli investimenti esteri sui mercati domestici, uno sviluppo delle emissioni estere da parte di soggetti residenti. Il processo di internazionalizzazione è stato accompagnato da una crescita senza precedenti dei flussi finanziari tra diversi paesi: la consistenza dei prestiti bancari internazionali si è ampliata di oltre venti volte tra il 1973 e il 1992, passando da 175 a 3.690 miliardi di dollari; le transazioni valutarie giornaliere si sono portate nel 1992 in prossimità di 900 miliardi di dollari, valore pari al 15% del prodotto interno lordo degli Stati Uniti nello stesso anno (v. Group of Ten, 1993).

Nel recente passato i tre fattori che più hanno spinto verso l'internazionalizzazione della finanza sono stati la liberalizzazione dei mercati dei capitali, lo sviluppo dei sistemi di telecomunicazione e di elaborazione dati e l''istituzionalizzazione' dei mercati, cioè il progressivo trasferimento delle decisioni di investimento dal piccolo risparmiatore agli investitori istituzionali (fondi comuni, fondi pensione). Tali sviluppi hanno favorito la crescente competizione tra i diversi mercati nazionali e una forte crescita delle piazze che, come Londra e New York, hanno saputo offrire migliori condizioni nella prestazione dei servizi finanziari.

La crescente integrazione dei mercati ha sollevato la duplice questione dell'adeguatezza delle politiche macroeconomiche e di quelle di vigilanza dei mercati e degli intermediari. Le prime trovano crescenti ostacoli nel mantenimento di cambi stabili anche in presenza di un'ordinata evoluzione degli andamenti economici di fondo. L'efficacia delle seconde appare ridotta a causa della mancanza di un coordinamento delle diverse normative nazionali.La convergenza dei diversi sistemi nazionali di regolamentazione non può, tuttavia, essere lasciata a una 'competizione tra sistemi regolamentari' che porterebbe a favorire i mercati con minore ma non necessariamente migliore regolamentazione. Il processo di creazione di un mercato unico dei servizi finanziari nella Comunità Europea rappresenta l'esempio più avanzato dello sforzo di elaborare una legislazione internazionale della finanza con piena efficacia giuridica. La legislazione comunitaria prevede il conseguimento di un'armonizzazione minima, che renda possibile il mutuo riconoscimento delle norme nazionali e la supervisione degli intermediari da parte del paese di origine. La cooperazione che si sviluppa nell'ambito del Gruppo dei Dieci ha invece carattere volontario.

Un impulso all'armonizzazione normativa internazionale può provenire dall'adozione di norme che, come i requisiti patrimoniali, siano basate su criteri automatici, legati alla composizione del portafoglio, piuttosto che su vincoli di tipo autorizzativo e presentino, pertanto, caratteristiche di maggiore trasparenza e di più facile confronto internazionale.


Enciclopedia del Novecento III Supplemento (2004)

di Marcello de Cecco

Mercati finanziari

Sommario: 1. I termini essenziali. a) Origine e contenuto dei mercati finanziari. b) I soggetti coinvolti nei mercati finanziari. c) La liquidità. 2. I mercati finanziari in prospettiva storica. a) Il sistema di Bretton Woods. b) La crisi del sistema di Bretton Woods. c) Il sistema finanziario internazionale dopo Bretton Woods. 3. Tendenze recenti. a) I mercati azionari. b) I mercati obbligazionari. c) Contratti finanziari a termine e prodotti derivati. □ Bibliografia.

1. I termini essenziali

a) Origine e contenuto dei mercati finanziari

Quando si pensa a un mercato si immagina un luogo fisicamente determinato, ad esempio una piazza, o una fiera, nel quale convengono, in un tempo stabilito, compratori e venditori di una merce specifica o di molte merci allo scopo di realizzare scambi in condizione di massima informazione. La compresenza di una pluralità di venditori e compratori, delle loro merci o di campioni di esse, contribuisce infatti alla diffusione di informazioni. Si danno vari casi nei quali i mercati sono organizzati per la vendita di una sola merce o tipo di merce: mercati di bestiame, mercati di derrate alimentari, mercati di prodotti tessili, ecc. Anche nei mercati più complessi tendono a formarsi isole merceologiche. Quanto più intenso è il radicamento dell'attività mercantile in un luogo, tanto più è probabile che intorno a esso si collochino stabilmente botteghe dove mercanti fissi sono pronti a fornire determinate merci, e quindi anche a comprarle, entro e fuori le ore e i giorni di mercato. Già Platone, nella Repubblica, rileva questi fenomeni.

Il passaggio dal mercato al negozio fornisce un elemento di continuità temporale all'attività mercantile, agevolandone lo sviluppo, così come agevola l'emergere della specializzazione fra commercianti all'ingrosso e al dettaglio.

I mercati hanno in effetti funzionato a lungo senza che nessuna merce particolare fungesse da intermediario degli scambi, e cioè da moneta. Ma da lunghissimo tempo le contrattazioni che fanno uso di un mezzo di scambio e pagamento universalmente accettabile (entro un universo comunque definito) hanno rimpiazzato gli scambi in forma di baratto.

La moneta, al pari delle botteghe e della divisione tra ingrosso e dettaglio, costituisce un espediente per agevolare gli scambi. Quando si scambiano merci contro merci o merci contro moneta, l'atto dello scambio - tra merci ritenute di valore uguale o tra una merce e una quantità di moneta ritenuta congrua da entrambe le parti - segna la conclusione della transazione.

Diverso è il caso nel quale i mercati e i mercanti riescono a superare gli ambiti sia territoriali che temporali per allargare l'universo degli scambi. Al controvalore di una merce in altra merce o in moneta si sostituisce una promessa di pagamento. Il contratto è stipulato all'istante, ma l'effettiva consegna del controvalore pattuito in merce o denaro può essere differita nel tempo rispetto a quella della merce. Nascono in questo modo obbligazioni in forma cartolare, che rappresentano l'impegno formale di una parte a consegnare alla controparte una data quantità di merce standard o qualitativamente definita oppure una determinata quantità di una ben definita moneta nazionale a una data certa e in un luogo definito.

È la moltitudine di tali impegni scritti che ha fatto sorgere la possibilità di organizzare per essi dei veri e propri mercati, uguali quasi in tutto a quelli delle merci, e che prendono il nome collettivo di mercati finanziari. Come i mercati delle merci, anche quelli finanziari si sono per secoli e addirittura millenni stabiliti in luoghi definiti, spesso contigui ai mercati delle merci, in particolare a quelli delle merci all'ingrosso.
Il progresso delle tecnologie dei trasporti e delle comunicazioni ha contribuito, nel corso del Novecento, a una massiccia trasformazione delle modalità con le quali tali mercati sono organizzati. Di tale trasformazione ci occuperemo nelle pagine che seguono, esaminando anche come essa abbia influito sul funzionamento degli stessi mercati.

Dato che le obbligazioni a consegnare merci o somme nel futuro incorporano una forte componente di rischio e di incertezza, è bene anche ricordare che il modo di trattare questi fenomeni fa necessariamente parte integrante dei problemi organizzativi dei mercati finanziari, delle discipline analitiche che ne studiano i comportamenti e delle norme giuridiche che li regolano.

Sui mercati finanziari si contrattano - attraverso modalità di cui diremo brevemente - strumenti di debito, cioè impegni a ripagare in una o più soluzioni somme prese a prestito. Ma, con il diffondersi del metodo della proprietà collettiva - suddivisa in quote - di beni capitali, anche tali quote, espresse in appropriate certificazioni scritte, sono divenute una parte sempre più importante dei mercati finanziari. Generalmente tali strumenti vanno sotto il nome di azioni. Dunque, il mercato finanziario è venuto a costituirsi come l'insieme delle contrattazioni che hanno per oggetto azioni e obbligazioni.

Ogni strumento finanziario comporta una serie di obblighi da parte di chi lo emette. L'adempimento preciso di tali obblighi costituisce elemento essenziale per il buon funzionamento dei mercati finanziari. Gli obblighi associati a ogni strumento finanziario riguardano individui nei loro rapporti con altri individui, ed è interessante vedere in quanti modi, nel corso della storia, sia stato organizzato il meccanismo sociale che garantisce il rispetto delle obbligazioni. Talvolta esso è stato affidato a categorie coese di individui, come le corporazioni mercantili o la city di Londra fino al 1986, ma più spesso è stato demandato a giudici e ad altre autorità statali. Ciò ha posto e pone delicati problemi giuridico-politici, se si pensa che una parte assai grande delle obbligazioni finanziarie esistenti in ogni momento è costituita da strumenti del debito pubblico.

b) I soggetti coinvolti nei mercati finanziari

L'intero edificio dei mercati finanziari è stato eretto e si regge essenzialmente perché, nell'articolazione sempre maggiore delle società organizzate, la funzione del risparmio viene a essere sempre più separata da quella dell'impiego del risparmio stesso. Vi sono, in altre parole, sempre più individui che dispongono in ogni momento di maggiori risorse di quante possano o vogliano spendere immediatamente e che sono dunque pronti a metterle a disposizione di altri. Allo stesso tempo, vi sono individui, imprese o enti pubblici che hanno la capacità istituzionale di investire maggiori risorse rispetto a quelle che affluiscono loro in ogni momento. Da questa differenziazione nascono i mercati finanziari, esattamente come dalla divisione del lavoro nasce lo scambio di merci e servizi. È importante comprendere come, senza la compresenza di entrambe le necessità, non si diano scambi finanziari, e dunque non possano esistere mercati finanziari. Se non ci sono debitori non possono esserci nemmeno creditori, e viceversa. Se non ci sono persone fisiche o giuridiche disposte a consumare o investire più del loro reddito, non possono esserci nemmeno risparmiatori, se non entro gli ambiti ristretti dell'autoconsumo differito e viceversa.

Da questa considerazione nasce la tendenza teorica a considerare il valore di una somma per consegna differita rispetto al valore di una somma per consegna a pronti, cioè il tasso di sconto, come dipendente dall'abbondanza o scarsità relativa dei debitori rispetto ai creditori in un dato momento. L'abbondanza o scarsità relativa di risparmio eserciterà dunque, a parità di altre condizioni, una pressione sullo sconto stesso, il quale è più comunemente visto come il tasso di interesse che il destinatario di un prestito per un determinato periodo deve versare annualmente per poter fruire della somma prestata per tale periodo. I debitori saranno avvantaggiati da una situazione simile, così come lo saranno coloro che vogliono costituire società per esercitare imprese di vario genere e ne dividono la proprietà, vendendone titoli rappresentativi di quote sul mercato azionario.

Ma è bene ricordare che nelle società organizzate vi è in genere una forte presenza dello Stato o di altre istituzioni pubbliche dotate di bilanci propri e capaci di spendere somme cospicue, le quali derivano dall'esazione di imposte e tasse, o dall'emissione di debiti, o dalla gestione del sistema monetario, il che facilita grandemente gli scambi permettendo transazioni multilaterali. Ed è anche necessario menzionare la presenza delle banche, che gestiscono scorte monetarie affidate loro dai cittadini e ne rendono maggiore la velocità di circolazione mediante l'emissione di 'pagherò a vista' chiamati assegni o, in epoche precedenti a quella attuale, mediante banconote che sono ora privilegio di una sola banca, la banca centrale di ciascun paese, o addirittura di una sola banca centrale per una molteplicità di paesi, come è il caso attuale dell'Unione monetaria europea.

c) La liquidità

Se chi emette la moneta - nelle società moderne, lo Stato tramite la banca centrale - non lo fa in maniera esagerata, la moneta non si deprezza nei confronti delle merci e dunque viene accettata senza che il prenditore richieda uno sconto sul suo valore facciale. La moneta può essere spesa dovunque e in qualsiasi momento, entro i confini dello Stato che la emette, senza che nasca incertezza sul suo potere di acquisto. Chi ha moneta può allora essere certo di quanto possiede e non deve prendere quelle misure atte a diminuire il rischio e l'incertezza che affliggono gli altri strumenti finanziari.

Da questa condizione nasce il concetto di liquidità, fondamentale per lo studio dei mercati finanziari. La liquidità è la capacità di un'attività finanziaria di restituire al suo proprietario, all'atto dell'eventuale rivendita, lo stesso ammontare di denaro per il quale è stata acquistata. Tale capacità non è conferita dalla durata temporale del titolo - nel senso che un titolo a breve è necessariamente più liquido di uno a lunga scadenza - ma dall'esistenza, in ogni momento della vita del titolo stesso, di un mercato capace di assorbirlo senza perdite per il venditore. Questo tipo di mercato è detto secondario. Il mercato primario è invece quello sul quale viene collocato (cioè, venduto) un titolo alla sua emissione.

Lo strumento per eccellenza liquido è la moneta emessa dallo Stato direttamente o tramite la banca centrale, perché essa sola può fungere come mezzo ultimo di pagamento. Tutti gli altri strumenti finanziari - e i mercati sui quali essi sono negoziati - possono essere idealmente ordinati in un ordine decrescente a seconda della liquidità che offrono a chi li possiede. La moneta si scambia contro altra moneta senza perdite di valore capitale, ma gli altri strumenti, per i quali non esiste l'assoluta certezza del ripagamento, sono soggetti a uno sconto quando vengono scambiati contro moneta. Lo sconto normalmente cresce con l'allungarsi dell'impegno temporale. Gli strumenti finanziari che rappresentano debiti a breve sono dunque normalmente scambiati a sconto nei confronti della moneta e a premio nei confronti di strumenti finanziari a più lunga scadenza. È bene sottolineare che possono darsi, e frequentemente si danno, casi nei quali questo non vale: lo sconto sugli impegni a breve può essere maggiore di quello sugli impegni a più lungo termine.

Le attività delle banche centrali e delle banche commerciali influenzano il funzionamento dei mercati finanziari, perché da esse dipende - oltre che dall'incontro tra domanda e offerta di risparmio - il livello e l'andamento del saggio dello sconto, ossia del prezzo al quale si scambiano strumenti finanziari di varia durata. Nel tempo, si sono scontrate teorie che assegnano maggiore o minore importanza a tale influenza, e che quindi vedono in modo diverso la gerarchia che si stabilisce tra moneta statale e bancaria, da un lato, e mercati finanziari, dall'altro. Alcune teorie, infatti, considerano lo sconto tra presente e futuro un puro fenomeno di mercato, dipendente da situazioni strutturali come quella della dinamica della popolazione, che può essere solo temporaneamente disturbato dalle azioni della banca centrale e delle banche di deposito.

2. I mercati finanziari in prospettiva storica

Mercati finanziari, banche centrali, banche commerciali, banche di investimento e altri intermediari finanziari costituiscono un insieme che va sotto il nome di sistema finanziario. Ciascuna realtà finanziaria nazionale può considerarsi come un sistema finanziario a sé, e si potrebbe dire che la somma di tutti i sistemi finanziari nazionali costituisce il sistema finanziario mondiale. Molti, tuttavia, criticano questo modo di vedere le cose. Secondo questa visione alternativa, esiste un sistema finanziario internazionale, storicamente distinto da quelli nazionali, all'interno del quale si intrecciano rapporti finanziari che stanno a fronte di scambi commerciali internazionali e che mantiene, con le varie realtà nazionali, rapporti più o meno intensi e duraturi. In epoche come gli ultimi cinquant'anni - o come nel periodo che va dal 1870 al 1914 - la distinzione tra sistemi nazionali e sistema internazionale ha gradualmente perso di importanza, mano a mano che l'intreccio tra finanza nazionale e internazionale si è fatto più fitto e intenso.

Ma queste due epoche sono separate da un periodo abbastanza lungo nel quale la distinzione tra sistemi finanziari nazionali è stata netta. Si tratta del periodo caratterizzato dalle due guerre mondiali e quindi dalla necessità, per tutti i paesi belligeranti, di organizzare una 'finanza di guerra'. In tali condizioni, quasi tutti gli Stati hanno fatto ricorso a sistemi autoritari di pianificazione economica, e i sistemi finanziari sono stati modificati per consentire di mobilitare risorse là dove lo Stato riteneva che ve ne fosse bisogno. La mobilitazione delle risorse si è espressa sotto forma di ciò che viene comunemente indicato con il termine 'repressione finanziaria', vale a dire l'impossibilità da parte del proprietario di determinate risorse di disporne in piena libertà destinandole agli usi che meglio desidera, nei modi e con gli strumenti che preferisce, entro e fuori i confini dello Stato nel quale risiede.

a) Il sistema di Bretton Woods

Con l'intervallo degli anni venti del secolo appena trascorso - nel quale si consumò un breve e spasmodico tentativo di ritornare alla realtà dei decenni immediatamente precedenti la prima guerra mondiale - il periodo che va dal 1914 al 1960 ha visto, nella gran parte dei paesi sviluppati, il permanere di stati di repressione finanziaria più o meno severa, che si sono gradualmente attenuati nel decennio successivo. L'accordo detto di Bretton Woods - raggiunto tra i paesi vincitori della seconda guerra mondiale sotto l'egida e per impulso degli Stati Uniti, ed esteso man mano a moltissimi altri paesi - cercò di favorire la riduzione delle barriere agli scambi internazionali che erano state erette negli anni trenta e durante la guerra, instaurando un sistema di rapporti monetari internazionali a cambi essenzialmente fissi (anche se modificabili) sulla cui tenuta venne posto a vegliare il Fondo Monetario Internazionale (FMI), un'istituzione specializzata delle Nazioni Unite. L'FMI poteva prestare riserve valutarie a paesi membri che si fossero trovati in temporaneo squilibrio delle loro bilance dei pagamenti, allo scopo di permettere loro di mantenere aperti gli scambi internazionali su base multilaterale. Scopo finale era l'abolizione graduale del sistema di rigido collegamento degli scambi ai pagamenti bilaterali instaurato in molti paesi a partire dagli anni trenta per far fronte alle conseguenze della depressione mondiale e della caduta del commercio internazionale che ne derivò.

Nel sistema di Bretton Woods, l'obiettivo principale era la ricostituzione di un sistema di scambi multilaterali in condizioni di piena occupazione per tutti i paesi partecipanti, al cui raggiungimento fu sacrificato l'obiettivo della libertà delle transazioni finanziarie internazionali, in particolare di quelle a breve termine. Si pensò allora che la restaurazione della libertà dei movimenti di merci valesse bene l'eventuale permanere, anche in paesi importanti, della repressione finanziaria. Questo perché era invalsa l'abitudine, in quei decenni, di addebitare ai movimenti di capitale a breve l'impossibilità, per le autorità nazionali di politica economica, di raggiungere e mantenere nel tempo l'obiettivo della piena occupazione, senza sacrificare la libertà degli scambi.

b) La crisi del sistema di Bretton Woods

I vari mercati finanziari nazionali restarono dunque a lungo fortemente segmentati al loro interno e virtualmente non comunicanti tra loro. Tuttavia, negli Stati Uniti, nuovo centro dell'economia mondiale, cominciò a delinearsi un movimento teso a riportare la libertà degli scambi interni e internazionali e a porre fine alla repressione finanziaria. Tale movimento, sviluppatosi gradualmente per tutto il dopoguerra, ricevette un impulso particolare a partire dal 1973 - quando la prima crisi del petrolio mise i paesi sviluppati di fronte alla nuova realtà di un deficit strutturale dei pagamenti esteri - e trionfò definitivamente dopo la seconda crisi petrolifera, nel 1979. Il movimento in questione coinvolgeva quegli ambienti finanziari che avevano sofferto maggiormente delle conseguenze delle riforme imposte dal presidente Roosevelt ai mercati finanziari nei primi anni trenta, in particolare le grandi banche di credito ordinario di New York. Tali banche, cui era stato vietato di negoziare azioni e obbligazioni, si vedevano spesso costrette a sacrificare le proprie attività di prestito, le quali erano di entità assai superiore rispetto alla capacità di raccolta, che, a sua volta, veniva frenata dal divieto di creare filiali in Stati diversi da quello d'origine, a causa della mancanza di fondi sufficienti, irreperibili perfino sul mercato interbancario.

Questo stato del mercato interbancario era dovuto all'enorme diffusione, nei bilanci delle banche provinciali, dei titoli del debito pubblico, con i quali il governo statunitense aveva finanziato le spese belliche del secondo conflitto mondiale. La politica di sostegno ai corsi di tale debito, praticata dalla Banca Centrale e dal Tesoro degli Stati Uniti, continuò anche dopo la fine del conflitto, rendendo nullo il rischio relativo al valore capitale dei titoli di Stato. In queste condizioni, le grandi banche di New York avevano imparato a procurarsi fondi sul mercato finanziario internazionale, offerti soprattutto da quei risparmiatori che guardavano agli Stati Uniti come all'unico paese politicamente e strategicamente sicuro in una fase ancora molto perturbata dalla prospettiva di espansione del comunismo. Non deve dunque meravigliare se le grandi banche americane si opposero energicamente e vittoriosamente al suggerimento - proveniente dai due architetti degli Accordi di Bretton Woods, John Maynard Keynes e Harry Dexter White - di sottoporre a stretto controllo i movimenti di capitale a breve termine, inserendo nello Statuto dell'FMI una clausola in virtù della quale le perdite di riserve causate dalle fughe di capitali a breve dovevano essere automaticamente risarcite dai paesi destinatari. Tale clausola, già auspicata da Luigi Luzzatti dopo la crisi finanziaria internazionale del 1907, fu riproposta da Keynes e White, ma non venne accolta per la decisa opposizione delle grandi banche newyorchesi. Dagli stessi ambienti, inoltre, fu avviata una lunga campagna per la liberalizzazione del mercato finanziario interno negli Stati Uniti che riuscì, prima gradualmente e poi, a partire dal 1980, sempre più rapidamente, a demolire uno dopo l'altro i fondamenti della segmentazione del sistema finanziario organizzata molto prima della stessa età di Roosevelt.

Come già accennato, il movimento di liberalizzazione finanziaria interna e internazionale ricevette un impulso fondamentale dopo le due crisi petrolifere degli anni settanta. Tutti i principali paesi importatori di petrolio si trovarono a pagare somme elevate, di solito in dollari, in cambio del petrolio che importavano. A vendere petrolio, peraltro, erano paesi incapaci di importare beni e servizi per l'intero ammontare che ricevevano in pagamento. Tra i paesi importatori si vennero a creare due gruppi: quelli dotati di sistemi finanziari più capaci di intermediare grandi quantità di fondi liquidi decisero di chiudere i propri conti con l'estero, prendendo a prestito il denaro che pagavano ai paesi produttori di petrolio e riprestandolo ai paesi che non avevano intermediari e mercati capaci di svolgere tale funzione; viceversa, quelli nei quali la repressione finanziaria era ancora molto forte - come Germania, Giappone e Italia - cercarono di pagare la bolletta petrolifera esportando merci.

c) Il sistema finanziario internazionale dopo Bretton Woods

Motivi storico-politici e istituzionali hanno fatto sì che in paesi diversi prevalessero forme organizzative differenti per i sistemi finanziari. Questo fu notato sin dalla fine dell'Ottocento, ma è soltanto nei primi decenni del Novecento che si cominciò a riflettere sistematicamente su queste differenze. Le analisi elaborate allora furono poi riprese negli anni cinquanta e nei successivi decenni e condussero a conferire un rinnovato rilievo alla distinzione tra sistemi finanziari basati su banche 'tuttofare' o universali - che esplicano le funzioni finanziarie nei confronti di privati e imprese e dominano anche le borse-valori, dando luogo a sistemi banco-centrici - e sistemi finanziari nei quali col passare del tempo e per determinate vicissitudini storiche si sono evoluti intermediari finanziari specializzati ciascuno nell'esplicazione di una precipua funzione, operanti su mercati anch'essi specializzati come i mercati dei titoli di Stato, delle obbligazioni private, delle azioni, ecc., dando luogo a sistemi mercato-centrici.

Riprendendo il concetto di liquidità prima enunciato, è bene chiarire che i sistemi banco-centrici si sono evoluti là dove prevalevano titoli di debito scarsamente liquidi, cioè in realtà sfornite di mercati secondari funzionali e attivi. In questi contesti il ruolo delle banche si ingrandisce fino al protagonismo assoluto: esse si sostituiscono a mercati secondari poco efficienti - o addirittura inesistenti - nell'assorbire titoli che sono per forza di cose poco liquidi. L'attivo di tali banche diviene di conseguenza anch'esso poco liquido. È allora essenziale, nei sistemi banco-centrici, che al cuore del sistema esista una banca centrale fornita della possibilità di venire in ogni momento in soccorso di un sistema bancario carente di liquidità a causa delle attività assorbite. La banca centrale deve avere la facoltà di creare liquidità primaria in misura sufficiente e senza indugi, per fornirla alle banche contro le attività divenute illiquide. Se la banca centrale, come accadde nella seconda metà degli anni venti in molti paesi europei, riceve statutariamente una limitazione alla sua capacità di creare moneta, può non essere in grado di restituire fluidità al sistema bancario.

Nella riflessione più recente sulle differenze tra sistemi finanziari si è giunti addirittura a teorizzare che i sistemi banco-centrici rappresentino una fase meno avanzata di sviluppo finanziario rispetto a quelli mercato-centrici, e che dunque sia auspicabile e quasi inevitabile che dalla prima si passi alla seconda fase. Tale passaggio è divenuto un obiettivo della politica economica internazionale di paesi quali gli Stati Uniti e la Gran Bretagna, tradizionalmente forniti di mercati finanziari tra i più sviluppati e liberi a livello mondiale. Sia gli Stati Uniti che il Regno Unito si ritenevano svantaggiati nella competizione sui mercati internazionali dei prodotti manufatti contro paesi come Germania, Giappone e Italia, i cui sistemi finanziari, banco-centrici e fortemente regolamentati, sembravano in grado di fornire alle imprese un vantaggio competitivo in termini di disponibilità di risorse finanziarie a basso costo. Si ritenne allora che la liberalizzazione finanziaria potesse permettere ai massimi centri finanziari mondiali, Londra e New York, di acquistare un ruolo di leadership settoriale nella nuova divisione internazionale del lavoro. Abolendo le barriere finanziarie interne ai vari paesi e quelle internazionali, flussi crescenti di fondi sarebbero affluiti ai centri finanziari di Londra e New York, riducendo la possibilità - per le imprese tedesche, giapponesi e italiane - di ottenere fondi investibili a condizioni particolarmente vantaggiose. Nella gestione politica di questo obiettivo, tuttavia, l'accento viene sempre maggiormente posto sulla configurazione atomistica di tali mercati e sull'anonimità delle transazioni: in una parola, si tende a rappresentare tali mercati come perfetti, luoghi d'incontro di una domanda e di un'offerta espresse da operatori di piccole dimensioni, incapaci di influenzare con le proprie decisioni strategiche le quantità e quindi i prezzi. Ma la realtà è assai diversa, perché sin dall'inizio, e via via per tutti i decenni successivi, i mercati finanziari interni, e a maggior ragione quelli internazionali, si sono caratterizzati proprio per la presenza di intermediari di grandi dimensioni, per i quali passano quote cospicue delle transazioni totali.

Negli anni a noi più vicini, inoltre, tendono a perdere gradualmente importanza i mercati centralmente organizzati, sul modello delle borse-valori dell'Europa continentale, ispirate allo stesso archetipo napoleonico e basate sul metodo dell'asta competitiva, mentre si affermano i cosiddetti mercati over the counter. All'interno di questi ultimi, intermediari specializzati (dealers) sono pronti a fornire, a un prezzo da loro quotato, quantità determinate di un titolo, di cui dispongono direttamente o che sono in grado di procurarsi a condizioni più vantaggiose, e a comprare - a un prezzo generalmente inferiore a quello di vendita - quantità determinate dello stesso titolo. Questo sistema decentrato, favorito dalla prassi inglese e statunitense, si estende ad altre piazze finanziarie man mano che la globalizzazione dei mercati finanziari aumenta. Tale metodo di contrattazione è anche favorito dalle innovazioni tecnologiche nel campo della comunicazione, che rendono possibile stipulare contratti in maniera decentrata e senza perdita d'informazione, laddove, con le vecchie tecnologie, un'informazione adeguata richiedeva l'accentramento delle contrattazioni.

Nonostante ciò, nei decenni più recenti, si sono affermate ulteriormente le maggiori piazze finanziarie mondiali, quelle tradizionali, Londra e New York, e quelle emergenti, Francoforte e Tokyo. Come spiegare questa concentrazione, che a prima vista sembra in contraddizione con gli effetti dell'elettronica decentrata? La verità è che - a tutt'oggi, e presumibilmente ancora per parecchio tempo - non tutto si può fare per via virtuale. In particolare, l'acquisizione di informazioni riservate, così importanti per la dinamica dei mercati finanziari, richiede ancora contatti diretti tra gli operatori, il che rende fondamentali le distanze ravvicinate. Più in generale, tutte le argomentazioni a favore delle economie da agglomerazione contribuiscono a spiegare la collocazione dei mercati finanziari in poche grandi piazze, che concentrano e ridistribuiscono le contrattazioni. È anche vero che, nell'organizzazione dei grandi affari finanziari internazionali, vi sono fasi di preparazione (anche logistica) che richiedono la concentrazione in un solo luogo di grandi risorse umane e tecniche. Inoltre, specie a Londra e a New York, sono presenti i grandi studi legali internazionali specializzati in transazioni finanziarie, la cui consulenza costituisce un elemento essenziale nell'organizzazione di ogni grande operazione finanziaria. Negli stessi centri, infine, sono presenti le case-madri delle più grandi banche commerciali del mondo e delle massime banche di investimento, oltre che i maggiori intermediari non bancari. Tutti questi elementi contribuiscono a costituire, all'interno delle grandi piazze finanziarie mondiali, una massa di economie esterne veramente considerevole, perpetuando in tal modo una caratteristica dei mercati che li contraddistingue sin dai tempi più antichi, ossia la localizzazione in un sito geografico preciso. La fisicità dei mercati, certamente attenuata dalle innovazioni nelle comunicazioni e nei trasporti, risulta in tal modo per altri versi ulteriormente accentuata proprio dalle stesse innovazioni, che provvedono allo stesso tempo a decentrare e a riaccentrare.

Il 15 agosto del 1971 Richard Nixon, presidente degli Stati Uniti, decretò l'abolizione del legame tra il dollaro e una quantità fissa di oro. La parità fissa tra oro e dollaro, 35 dollari per oncia, resisteva da più di trent'anni ed era stata reiterata dagli accordi di Bretton Woods. Ma, per la persistenza di un deficit strutturale nella bilancia dei pagamenti degli Stati Uniti, la quantità di dollari offerta sui mercati internazionali non trovava una domanda equivalente, dati i tassi di cambio stabiliti a Bretton Woods. Le parità venivano dunque mantenute a fatica, grazie all'intervento continuo delle banche centrali, e coloro i quali speculavano sui cambi potevano realizzare vistosi guadagni scommettendo contro il dollaro nella certezza del supporto ufficiale delle parità. I cambi fissi hanno il grande vantaggio di eliminare l'incertezza sul corso futuro dei cambi dai calcoli di chi deve effettuare transazioni che implicano l'uso di monete diverse dalla propria. L'onere di sostenere le parità ricade sulle banche centrali dei vari paesi e le transazioni private internazionali avvengono in condizioni di certezza relativamente al corso futuro dei cambi.

A partire dal 15 agosto 1971, questo non è stato più possibile. Gli Stati Uniti hanno reiteratamente dichiarato, nel corso del trentennio successivo, che il cambio del dollaro non faceva parte delle proprie responsabilità di governo, e che quindi poteva essere lasciato alle forze di mercato. Chiunque avesse a che fare con gli scambi internazionali, magari come semplice importatore o esportatore di scarpe, si è così trovato nella necessità di assicurarsi in qualche modo contro il rischio di cambio, a meno di non volere speculare apertamente. In questo tipo di scambi le possibili perdite o guadagni in cambi entrano necessariamente a far parte del calcolo economico, a meno che non si scelga di proteggersi dal rischio di cambio attraverso una transazione valutaria d'importo uguale e segno contrario rispetto a quella effettuata per motivi commerciali. È venuta pertanto in essere, nel corso degli ultimi trent'anni, una gigantesca massa di transazioni valutarie effettuate unicamente allo scopo di proteggersi da rischi in cambi connessi a transazioni reali o finanziarie che nulla hanno a che fare con la speculazione. Le transazioni in cambi totali assommano a molte volte il valore del commercio internazionale mondiale.

Questa profonda trasformazione del mercato dei cambi ha avuto ripercussioni altrettanto profonde sui mercati finanziari. A essa si deve aggiungere la crescita vorticosa e contemporanea dei debiti pubblici nei principali paesi, nonché quella del commercio internazionale, sviluppatosi secondo tassi d'incremento abbondantemente superiori ai tassi di crescita del Prodotto Interno Lordo (PIL) dei medesimi paesi a partire dal 1971. Parallelamente, si è verificata una crescita impetuosa della capitalizzazione totale delle borse valori, per l'aumento enorme delle nuove emissioni e delle negoziazioni di titoli esistenti e per la crescita incessante dei corsi, che si è arrestata e in parte invertita solo a partire dal marzo 2000. Tutti insieme, questi elementi hanno contribuito a costituire una struttura dei mercati finanziari nazionali e internazionali profondamente diversa da quella del trentennio precedente. Di tale struttura ci occuperemo nelle pagine seguenti, mettendone in luce i caratteri principali.

Prima di passare a descrivere tali caratteri, è bene tuttavia ricordare come a tutt'oggi - nonostante la crescita vertiginosa delle transazioni finanziarie, in termini di volumi e di complessità - permanga nei principali paesi un fenomeno che va sotto il nome di paradosso di Orioka-Feldstein. Tale paradosso consiste nel fatto che, malgrado la globalizzazione dei mercati finanziari e la gran mole di investimenti esteri che ogni anno vengono effettuati, si nota una forte correlazione tra risparmi e investimenti in ciascun paese. È come se ovunque fosse disponibile, per finanziare gli investimenti, solo il risparmio interno. Paesi a basso tasso di risparmio si caratterizzano pertanto per un basso tasso di investimento, e viceversa. Si danno, è vero, anche notevoli eccezioni a questa regola rozza; ma essa persiste ed è confermata da tutte le stime sull'argomento fatte nel corso del tempo. Analogamente, persiste una regola altrettanto rozza, secondo la quale i risparmiatori tendono a investire prevalentemente negli strumenti finanziari e nelle azioni emesse da società ed enti a loro spazialmente vicini. L'orizzonte dei risparmiatori e degli investitori resta così ancora notevolmente limitato, circoscritto da conoscenze e frequentazioni dirette. Quantitativamente ciò è fuori di dubbio, nonostante tutte le storie, peraltro vere, che si leggono e si ascoltano a proposito di avventurosi investimenti fatti in capo al mondo da tranquilli borghesi, i quali non hanno alcuna idea dei luoghi e delle istituzioni private e pubbliche nelle quali hanno investito il proprio denaro.

Caratteristica comune nella dinamica di tutti i sistemi finanziari, e in particolare dei mercati finanziari, negli ultimi tre decenni, è la diminuzione dell'importanza relativa degli investitori individuali diretti e il contemporaneo affermarsi degli investitori 'istituzionali'. Nella letteratura specializzata tale fenomeno viene attribuito alla forte incentivazione fiscale offerta alle famiglie per collocare parte dei propri risparmi in fondi d'investimento sia azionari che obbligazionari, allestiti e gestiti da istituzioni finanziarie indipendenti o derivanti direttamente da intermediari tradizionali come banche e società di assicurazione.

Nella letteratura specialistica si dà inoltre ampio spazio alle economie di scala di cui godrebbero i gestori istituzionali di fondi nei confronti degli individui. Tale vantaggio dovrebbe dipendere dalla superiore capacità dei gestori di dedicare risorse per ottenere informazioni, ma anche dalla capacità di diversificare il proprio portafoglio in virtù della maggiore potenza contrattuale di cui godono sul mercato. Tali caratteristiche sono tuttavia messe in dubbio da una parte non trascurabile e crescente degli studiosi, in particolare per quel che riguarda la pretesa superiorità nell'ottenere informazioni. Si rileva, infatti, che raramente accade che i gestori istituzionali di fondi riescano a ottenere risultati superiori all'andamento degli indici dei mercati organizzati.

La crescita dell'investimento istituzionale è stata drasticamente favorita, negli ultimi decenni, dal forte aumento dei fondi destinati alle pensioni private, che coincide con la crisi crescente della previdenza obbligatoria nei paesi sviluppati. Anche in questo settore, leggi di deregolamentazione e incentivi fiscali hanno nettamente favorito i fondi-pensione rispetto al risparmio individuale.

3. Tendenze recenti

a) I mercati azionari

Nel panorama finanziario mondiale, è impossibile non rendersi conto del peso del mercato azionario statunitense. Esso rappresenta attualmente, per capitalizzazione, circa il 50° del totale mondiale. È evidente quindi che quel che accade a Wall Street influenza fortemente ciò che accade sui mercati azionari del resto del mondo, a maggior ragione in seguito al formarsi di una massa crescente dei capitali in movimento tra i diversi mercati nazionali. Se quindi si ritiene che il mutamento delle condizioni della politica monetaria o della politica economica più in generale influisca sulle quotazioni azionarie, bisognerà riconoscere che le decisioni delle autorità statunitensi in materia di politica economica devono avere uno speciale influsso sui mercati borsistici di tutto il mondo. Lo stesso vale per qualsiasi forza influisca sulla dinamica delle nuove emissioni di azioni, così come sul volume di scambi nei mercati secondari. Il rilievo di tali considerazioni è accresciuto dal fatto che la gran parte degli investitori istituzionali adotta il cosiddetto metodo del 'portafoglio globale', distribuendo i propri investimenti secondo il peso della capitalizzazione delle varie borse sul totale. Essi 'sovrappesano' o 'sottopesano' un certo mercato, ma entro limiti abbastanza stretti. È facile dunque comprendere in quale misura annunci e previsioni relative all'andamento di variabili cruciali della vita economica statunitense influiscano sugli indici di tutte le borse del mondo.

Se si tiene presente tutto ciò, è più facile rendersi conto dell'importanza di fenomeni di matrice statunitense - come il boom delle azioni delle imprese della cosiddetta new economy o la grande crescita delle operazioni di fusione e acquisizione tra imprese - per l'intero mercato finanziario mondiale. Le emissioni di nuove azioni sono enormemente aumentate, infatti, a partire dal 1980. Secondo alcuni osservatori la crescita dei fondi gestiti da investitori istituzionali ha indotto, anziché la diminuzione, l'aumento marcato del fenomeno della 'volatilità' degli indici azionari. Questo è spiegato con la necessità dei gestori professionisti di ottenere guadagni cospicui sui loro portafogli in tempi brevi, che sono divenuti anche più brevi nell'ultimo decennio. I privati che investono nel risparmio gestito, infatti, sono liberi ormai di passare da un fondo all'altro e lo fanno seguendo i risultati di breve periodo enunciati dai gestori. Anche la grande mobilità internazionale dei capitali ha contribuito ad aumentare la volatilità, propagando rialzi e ribassi da un mercato all'altro. Lo sviluppo del risparmio gestito in paesi privi di ampi mercati di borsa ha anche avuto la conseguenza, nell'ultimo quindicennio, di concentrare gli investimenti dei gestori europei e asiatici sulle azioni statunitensi in misura persino maggiore del loro peso sul totale mondiale.

Seguendo il principio della cosiddetta diversificazione del rischio, tali gestori hanno trovato un numero di azioni sufficientemente non correlate tra loro solo nella borsa americana. L'intensificarsi dei flussi di acquisti e vendite di azioni denominate in valute diverse da quelle nazionali degli investitori ha poi fortemente aumentato la domanda di strumenti finanziari capaci di immunizzare i portafogli stessi contro i rischi di cambio. Questo ha contribuito a far letteralmente esplodere la domanda di cosiddetti 'prodotti derivati', dei quali ci occuperemo più avanti.
Molti osservatori sostengono che in generale, nel corso degli ultimi due decenni, sia diminuita l'attenzione degli investitori per i rendimenti di lungo periodo delle azioni - basati sull'andamento di costi e profitti delle imprese di cui tali azioni rappresentano la proprietà -, attenzione che si concentrerebbe invece sui rendimenti di breve periodo, maggiormente soggetti ai flussi speculativi e alle mutevoli condizioni di liquidità dei mercati, vale a dire della quantità di denaro disponibile per l'acquisto di azioni.

Molto importante è stato, infine, il passaggio - avvenuto quasi ovunque nell'ultimo ventennio, ma anch'esso di matrice statunitense - dal sistema delle commissioni fisse a quello delle commissioni variabili nella negoziazione di azioni per conto terzi da parte delle istituzioni finanziarie, nonché il passaggio dallo stato di compratore o venditore in conto terzi ad attore in conto proprio da parte degli agenti di borsa e degli altri intermediari che operano nel mercato finanziario.

Le trasformazioni che abbiamo elencato riguardano tutti i mercati finanziari e non solo quelli azionari. Esse hanno avuto il merito di ridurre, almeno a breve termine, il costo dell'investimento finanziario per gli investitori finali e per i gestori professionisti di patrimoni, aumentando il livello di concorrenza. Nei tempi medi, però, la possibilità di ridurre i costi di intermediazione favorirebbe gli intermediari maggiori, facendo aumentare la concentrazione dei mercati e riducendo il numero dei concorrenti. Sebbene una parte degli economisti teorici sostenga non esservi alcuna relazione tra numero di concorrenti e intensità della concorrenza, tale ipotesi, accettata da molte autorità di tutela della concorrenza, è tutt'altro che definitivamente provata.

b) I mercati obbligazionari

A partire dalla fine della seconda guerra mondiale i mercati dei certificati di debito di emittenti pubblici e privati hanno conosciuto due fasi: la prima, dagli anni cinquanta alla crisi petrolifera del 1973, ha visto quasi ovunque la netta riduzione del peso dei titoli pubblici emessi, tanto in rapporto al PIL, quanto rispetto al totale dei titoli obbligazionari emessi dai vari paesi. Nel corso della seconda fase, iniziata nel 1973, questa tendenza si è invertita e il debito pubblico ha ricominciato a crescere in termini assoluti e rispetto al PIL in molti paesi importanti, a cominciare dagli Stati Uniti. Tale fenomeno non ha avuto luogo in maniera sincrona nei principali paesi, ma negli ultimi tre decenni tutti ne sono stati interessati, sia pure in tempi diversi. Il fenomeno si è altresì esteso ai cosiddetti paesi 'emergenti'. L'indebitamento pubblico a livello mondiale ha dunque nuovamente raggiunto livelli cospicui. Alcuni osservatori ritengono che le notevoli oscillazioni che i tassi di interesse hanno avuto nel corso degli stessi decenni siano state determinate da quelle del rapporto debito pubblico/PIL, cresciuto a partire dal 1973, specialmente negli Stati Uniti (soprattutto dopo il 1980), e ridottosi intorno agli anni novanta. Più ragionevolmente, si osserva come la lievitazione del rapporto debito pubblico/PIL sia da attribuirsi alla decisione della Banca Centrale degli Stati Uniti di non assecondare più, a partire dal 1982, la politica fiscale espansiva del governo federale con una politica monetaria altrettanto espansiva, in virtù della quale tassi di interesse molto bassi tendono a minimizzare il costo della gestione del debito pubblico. Si riteneva che tale politica fosse stata responsabile della forte inflazione registratasi negli Stati Uniti tra la fine degli anni settanta e i primi anni ottanta e che, come tale, si dovesse operare una correzione di rotta onde tornare alla stabilità dei prezzi.

Alla fine della politica monetaria espansiva, però, non seguì affatto la riduzione della spesa pubblica federale. Il governo si limitò piuttosto a prendere a prestito dal pubblico statunitense e dalle autorità monetarie di alcuni grandi paesi che registravano eccedenze nella bilancia dei pagamenti, facendo così esplodere il rapporto debito pubblico/PIL, senza preoccuparsi della enorme lievitazione dei tassi di interesse da pagare sullo stesso debito.
L'alto costo del denaro, così generato, si estese a tutti i mercati finanziari mondiali dei titoli pubblici come dei certificati di debito privati e dei prestiti bancari. La carenza di liquidità, volutamente indotta dalle autorità monetarie statunitensi, produsse inoltre condizioni recessive, riducendo drasticamente le possibilità per le imprese di finanziarsi emettendo azioni. Anche i paesi emergenti furono colpiti dall'alto costo del denaro sui mercati internazionali, dovendo affrontare considerevoli aumenti nel servizio del proprio debito internazionale, fortemente aumentato per le occasioni offerte dal riciclaggio dei petrodollari iniziato dopo il 1973.

Questa fase si concluse nel 1985, quando le autorità monetarie statunitensi (che con la loro politica avevano indotto anche un forte rialzo del corso del dollaro nei confronti del marco e dello yen, e la conseguente invasione del mercato nazionale da parte di merci europee e giapponesi) decisero di attenuare la stretta monetaria, favorendo il ribasso dei tassi di interesse e un boom di borsa, conclusosi nell'ottobre 1987 con una crisi a Wall Street. Sulle cause di tale crisi, risolta solo dal deciso intervento della Federal Reserve, non c'è ancora unanimità di opinioni. A partire dal 1985, dunque, la fase più acuta del costo del denaro si concluse. Il ribasso dei tassi di interesse statunitensi, tuttavia, non condusse immediatamente a una riduzione del rapporto debito/PIL, che anzi continuava ad aumentare.

A partire dal 1992, e per tutti gli anni novanta, una politica monetaria di segno generalmente espansivo (con brevi eccezioni nel 1994 e nel 2000) ha generato tassi di interesse molto più bassi rispetto al decennio precedente, e una notevole riduzione del rapporto debito/PIL. Tale riduzione si spiega soprattutto con la forte accelerazione che il tasso di crescita del PIL ha registrato negli Stati Uniti negli anni novanta: le entrate fiscali sono infatti aumentate in maniera tale da ridurre, fino ad azzerarlo, il deficit pubblico. Ma nei primi anni del nuovo secolo assistiamo a una nuova inversione di tendenza. La politica monetaria statunitense diviene nuovamente restrittiva nel 2001 e il boom dell'economia si trasforma in profonda recessione, peggiorata della tragedia dell'11 settembre 2001. Il deficit pubblico torna a crescere e il rapporto debito/PIL ad aumentare, anche se questa volta la Banca Centrale si impegna in una decisa politica monetaria espansiva. Ma è il livello delle entrate fiscali, ridottosi per effetto della recessione e degli sgravi fiscali, a determinare il ritorno del governo federale sul mercato del debito con nuove emissioni destinate a chiudere il deficit nei conti pubblici.

A partire dal 1980, dunque, si può affermare che le autorità statunitensi abbiano determinato, con il loro comportamento, la gran parte delle turbolenze registratesi sul mercato dei titoli pubblici, aumentandone la variabilità. Anche altri importanti governi nazionali - come quello tedesco, a partire dalla riunificazione, e quello giapponese, molto più tardi nel corso del decennio - hanno fortemente aumentato le emissioni dei propri titoli a reddito fisso. La Germania ha così raggiunto un rapporto debito/PIL del 60° e il Giappone superiore al 140°. Altri paesi - come l'Italia, il Belgio e la Grecia - hanno lasciato lievitare i propri debiti pubblici fino a superare il 100° del PIL. Anche i paesi emergenti hanno incrementato fortemente il loro debito estero, fidando in un flusso costante di capitale straniero, che spesso è in realtà capitale nazionale travestito da straniero per motivi fiscali. A partire dall'inizio del nuovo secolo, però, questo flusso si è arrestato, causando seri problemi sia agli emittenti che agli investitori e facendo lievitare ulteriormente i deficit delle bilance dei pagamenti dei paesi stessi. Il persistere di una direzione espansiva nella politica monetaria statunitense a partire dal settembre 2001, tuttavia, ha ridotto i pericoli di insolvenza per i governi e i debitori privati dei paesi emergenti.

Sui mercati delle obbligazioni non si negoziano solo titoli di Stato, ma anche titoli emessi da enti locali, agenzie para-governative, imprese e banche. Nei decenni recenti, inoltre, si sono affermate le cosiddette 'eurobbligazioni', titoli sottoscritti da consorzi internazionali di banche e offerti simultaneamente in più paesi. Loro caratteristica principale è di essere emessi fuori dalla giurisdizione dei singoli paesi.

Le emissioni di titoli non governativi hanno rappresentato dapprima una proporzione decrescente del totale dei titoli emessi, specie in alcune importanti realtà nazionali, come conseguenza della menzionata rapida crescita dello stock di debito pubblico, soprattutto negli Stati Uniti, in Germania, in Italia e in Giappone. A partire dai primi anni novanta, questa tendenza si è invertita là dove la crescita del debito pubblico era stata più rapida (Stati Uniti, Italia), mentre il debito pubblico giapponese ha cominciato a crescere rapidamente proprio a metà degli anni novanta. Negli Stati Uniti, il fenomeno più rilevante sul mercato obbligazionario è stato il forte aumento nelle emissioni di titoli da parte delle agenzie para-governative per il finanziamento dell'edilizia (Fannie Mae, Freddie Mac). Ben diverse, però, sono le conseguenze di una crescita del debito pubblico, e in generale delle emissioni obbligazionarie, in Europa o negli Stati Uniti rispetto al Giappone. I titoli pubblici europei e statunitensi sono infatti assorbiti in grande percentuale da investitori esteri, mentre quelli giapponesi sono acquistati quasi esclusivamente da investitori locali. In generale la volatilità dei titoli tenuti in portafoglio da investitori stranieri tende a essere maggiore, in relazione a un possesso che si considera meno stabile rispetto a quello dei titoli nazionali.

Se si pensa che ben il 51° sul totale delle obbligazioni presenti sui mercati proviene da emittenti statunitensi, si comprende ancora meglio quanto già affermato a proposito dell'importanza della politica monetaria statunitense rispetto all'andamento dei corsi delle obbligazioni in tutto il mondo.

L'aumento delle oscillazioni nei tassi di interesse - indotto dalla decisione delle autorità monetarie statunitensi di controllare il tasso di inflazione servendosi quasi esclusivamente della leva monetaria - ha reso più rischioso il possesso di obbligazioni per tutti gli investitori tranne per quelli che detengono i titoli dall'emissione alla scadenza (i quali sono una minoranza rispetto al totale). Sono dunque enormemente aumentati, anche in questa sezione dei mercati finanziari, i rischi derivanti dalle oscillazioni dei corsi, le possibilità di guadagno e la necessità di immunizzarsi contro tali rischi. Una necessità del genere è stata sentita, in maniera particolare, da parte di tutti quegli investitori che per un verso sono attirati dalla certezza relativa dei flussi di cassa provenienti dagli interessi maturati sui titoli stessi, ma che per l'altro temono i rischi in conto capitale, insiti nel possesso di obbligazioni comprate dopo l'emissione e da vendersi prima della scadenza. Ne è seguita una domanda forte e crescente di prodotti derivati da utilizzarsi per immunizzazione finanziaria, che si è aggiunta a quella indotta dall'oscillazione dei cambi.

Il valore di tutte le obbligazioni presenti sui mercati mondiali si è quintuplicato tra il 1975 e il 1987 e si è quadruplicato tra il 1987 e il 2001. Gran parte della dinamica del primo periodo si deve ai titoli di Stato, mentre nel secondo periodo anche gli altri emittenti hanno mostrato maggiore attivismo.

Dal punto di vista tecnico, il mercato delle obbligazioni ha registrato sviluppi molto importanti e complessi nei decenni di cui ci stiamo occupando. L'arrivo in massa degli investitori istituzionali, unito al forte aumento dei rischi derivanti dalle oscillazioni dei tassi di interesse, ha fatto sì che enormi risorse fossero dedicate allo studio di tecniche di emissione e gestione sempre più complesse. Si è diffusa, ad esempio, la tecnica di separare le cedole di un titolo a reddito fisso dal capitale del medesimo, negoziando poi tali cedole come se si trattasse di obbligazioni senza cedola (zero coupon bonds) e vendendole a operatori interessati a ricevere la somma corrispondente alla cedola nel momento in cui essa giunge a maturazione. In questo modo, il mercato cosiddetto 'a termine', fiorito da molti decenni intorno ai titoli azionari, si è potuto sviluppare anche per i titoli a reddito fisso, usando appunto le tecniche approntate per i mercati azionari e inventandone di nuove.

Il mercato delle obbligazioni ha visto aumentare le sue dimensioni non solo a causa dell'enorme crescita dei debiti pubblici in molti paesi del mondo, ma anche per l'introduzione di tecniche che permettono di emettere obbligazioni basate su crediti 'cartolarizzati'. La 'cartolarizzazione' consiste nella trasformazione di un debito in un titolo negoziabile sul mercato: l'esempio più rilevante è costituito dai mutui ipotecari, tradizionalmente forniti da banche o intermediari specializzati a persone fisiche o giuridiche per l'acquisto di immobili, mediante accensione di ipoteche sugli stessi a garanzia dei mutui. Negli ultimi decenni si è realizzata la possibilità, per i creditori di tali mutui, di venderli ad altri investitori prima della scadenza. Onde evitare l'eccessiva rischiosità di tali operazioni, si è pensato di 'consolidare' molti contratti di mutuo in 'pacchetti' rappresentati da obbligazioni, salvaguardando le garanzie e la titolarità giuridica dei crediti ceduti attraverso complesse procedure. L'attività di emissione e negoziazione delle mortgage backed securities, titoli rappresentativi di attività immobiliari, si è quindi estesa ad altri crediti, come i mutui concessi per l'acquisto di automezzi e altri beni di consumo durevole, e persino ai crediti accesi da titolari di carte di credito con le istituzioni finanziarie che tali carte emettono.

Per quanto riguarda il settore immobiliare, lo sviluppo della cartolarizzazione negli Stati Uniti, che anche in questo caso hanno fatto da battistrada (se si eccettua la cospicua esperienza, precedente di molti lustri, dei Pfandbriefe tedeschi), è stato ampiamente favorito dalla creazione, da parte del Congresso, di alcune società parastatali, come le ricordate Fannie Mae e Freddie Mac, che forniscono il credito agli acquirenti di case unifamiliari mediante fondi reperiti attraverso l'emissione di obbligazioni. La garanzia del governo federale statunitense su tali obbligazioni non è certa, ma probabile, tanto da avere indotto numerose banche centrali straniere ad acquistarne, negli anni a cavallo del 2000, quantitativi ingenti da usare come riserve valutarie a causa del temporaneo rarefarsi delle emissioni di titoli di Stato statunitensi, normalmente usati per questo scopo dalle banche centrali di tutto il mondo.

c) Contratti finanziari a termine e prodotti derivati

I contratti nei quali si fissa un prezzo di vendita per un bene da consegnarsi a una data futura sono, per quanto riguarda le merci - in particolare le merci standardizzate come alcuni prodotti agricoli e materie prime - di origine relativamente antica. Il loro scopo originario è abbastanza chiaro: i contraenti possono essere interessati a estendere il campo della loro contrattazione a merci non ancora prodotte, fissando in anticipo le condizioni di prezzo e quantità alle quali tali scambi avranno luogo. L'interesse verso operazioni del genere tende a svilupparsi solo quando i prezzi delle merci (naturalmente di merci standard) sono soggetti a oscillazioni. Se, ad esempio, un individuo deve vendere a un altro una tonnellata di grano tra sei mesi e pensa che il prezzo del grano possa oscillare, egli potrà cautelarsi contro tali oscillazioni (che potrebbero essere per lui favorevoli o sfavorevoli) fissando il prezzo e magari addirittura facendoselo versare dalla controparte. Ma se l'acquirente non è interessato a questo tipo di operazione - in altre parole, se vuole speculare sul prezzo futuro della merce - egli potrà ottenere il risultato che si prefigge se riuscirà a trovare sul mercato qualcuno disposto a vendergli oggi la stessa merce per consegna a sei mesi, ma a un prezzo oggi stesso definito. In questo modo, l'acquirente s'immunizza contro le oscillazioni possibili del prezzo della merce in questione.

Il mercato a termine può assumere una forma organizzata, simile a quella della borsa valori, per cui anche nel caso in cui si trattino solamente merci vere e proprie esso diviene quasi naturalmente un mercato nel quale una cospicua parte dei partecipanti è interessata solo al lato finanziario delle transazioni. Il produttore di grano ha un genuino interesse a non rischiare e può trovare sul mercato, con l'aiuto di un mediatore professionista, un utilizzatore finale di grano che voglia fare un'operazione opposta alla sua. Molto più spesso, tuttavia, egli trova sul mercato un operatore interessato esclusivamente alla speculazione finanziaria, cioè a scommettere che il prezzo che s'impegna a pagare al venditore per la merce in questione oscillerà nella direzione a lui favorevole. Avendo ad esempio fissato un prezzo pari a dieci euro per una tonnellata di grano per consegna a sei mesi, egli scommette sul fatto che al momento della consegna possa rivendere lo stesso grano a un prezzo superiore. Il guadagno dell'operazione scaturisce dalla differenza fra i due prezzi, al netto dei costi connessi a partire dagli interessi di sei mesi sulla somma in questione.

La maggiore volatilità dei tassi di interesse, verificatasi a partire dalla fine del sistema di cambi fissi di Bretton Woods, ha avuto riflessi sui mercati a termine. Gli operatori hanno cominciato a dichiararsi disponibili a fornire contratti a termine sullo scambio di valute estere o sui tassi di interesse. Col passare degli anni - viste le notevolissime oscillazioni dei cambi e dei tassi di interesse, oscillazioni che continuano a verificarsi tuttora - questi mercati hanno acquisito dimensioni sempre maggiori. Poiché molti di coloro che si rivolgono a essi per ottenere un'immunizzazione dal rischio di cambio o di interesse trovano come controparte solo speculatori puri, l'instabilità strutturale di tali mercati è notevolmente cresciuta.

L'instabilità è vieppiù aumentata nel momento in cui buona parte delle transazioni a termine, aventi per oggetto i cosiddetti 'prodotti derivati', si è trasferita dalle borse organizzate, regolamentate dalle autorità, alle sedi di alcune grandi banche. Qui i prodotti derivati, così chiamati in quanto il loro valore deriva da quello di un'obbligazione sottostante, sono confezionati seguendo le necessità dei singoli richiedenti che hanno come controparti le stesse banche (v. anche finanza dei derivati, vol. XII). Queste transazioni si definiscono over the counter, cioè 'allo sportello'. Le banche confezionano prodotti derivati che ritengono interessanti per loro clientela e poi ne affiggono le caratteristiche e i prezzi ai loro 'sportelli', che in realtà sono degli schermi di computer collegati a una rete accessibile alle banche e a coloro che vogliono negoziare con loro.

Tra i prodotti derivati - oltre ai contratti futuri (standardizzati, scambiati nei mercati organizzati e approvati dalle autorità di vigilanza su tali mercati) e quelli a termine (negoziati 'allo sportello' tra grandi banche e singoli clienti) - vale la pena di ricordare, per la loro crescente importanza, i contratti cosiddetti di 'opzione'. Essi si originano nei mercati azionari e danno al contraente la facoltà ma non l'obbligo di comprare o vendere da chi fornisce l'opzione (solitamente una grande banca o un operatore professionista che opera su un mercato organizzato) un certo prodotto finanziario. La facoltà di esercitare tale opzione ha una scadenza fissa (opzioni europee) o una scadenza ultima, entro la quale il diritto di esercizio può essere fatto valere (opzioni statunitensi). Scaduta la data ultima o fissa, l'opzione si intende abbandonata. Il prezzo al quale tale facoltà di acquistare o vendere un prodotto finanziario può essere esercitata è fissato secondo regole matematiche abbastanza complesse, che sono state banalizzate in algoritmi calcolabili automaticamente, fornendo alcuni semplici parametri, su calcolatrici elettroniche di costo modesto. Da quando tali calcolatrici sono divenute disponibili, il mercato delle opzioni ha ricevuto un impulso straordinario. Come avviene quasi sempre nel caso dei prodotti derivati, ciò comporta notevoli pericoli. La possibilità di calcolare i prezzi dei prodotti stessi fornendo alle macchine calcolatrici solo pochi parametri non significa che chi le utilizza si renda veramente conto di come sono ottenuti tali algoritmi e delle implicazioni derivanti dal mutamento di qualche parametro o delle altre condizioni di mercato o delle variabili esogene. Come spesso accade nei casi in cui i partecipanti ai mercati non siano perfettamente in grado di comprendere a fondo tutte le caratteristiche di funzionamento dei mercati stessi e degli strumenti in essi negoziati, il cambiamento improvviso e inatteso dei parametri o delle variabili esogene può determinare conseguenze impreviste e indurre il subitaneo ritiro dai mercati di molti partecipanti, che solo in questi momenti si rendono conto di non avere un grado di informazione tecnica sufficiente. In tal caso, il ritiro dal mercato viene visto come la politica meno pericolosa, ma induce la repentina scomparsa di una parte notevole del mercato stesso, con pesanti conseguenze in termini di volatilità dei prezzi e instabilità.

La disponibilità di un'ampia gamma di prodotti derivati, sempre più complessi e tagliati su misura per le esigenze dei singoli operatori, ha offerto notevoli possibilità, specie a banche e società di assicurazioni, di eludere le regole che le autorità di vigilanza, isolatamente o riunite in consorzi come i Comitati di Basilea, hanno stabilito per ridurre la volatilità e l'instabilità dei mercati (fissando ad esempio coefficienti obbligatori di capitale su vari tipi di operazioni di banca). Sembra dunque che, in tutti questi modi, sia venuta a determinarsi una situazione nella quale le autorità fissano regole per ridurre la volatilità e l'instabilità dei mercati finanziari, e i partecipanti a tali mercati - nel tentativo di eluderle proprio utilizzando gli strumenti offerti dagli stessi mercati - contribuiscono ad aumentare volatilità e instabilità. Si può dunque dire che, in un certo senso, è proprio l'attività di regolamentazione, condotta in un contesto nel quale gli organizzatori dei mercati possono eludere tale attività, a far aumentare i fenomeni negativi dei quali si vuol ridurre la frequenza e la portata.

Qualche dato servirà a dar conto dello sviluppo raggiunto attualmente dai mercati delle opzioni e degli altri prodotti derivati. Al dicembre 2002, il valore nozionale di tutti i contratti derivati esistenti è stato calcolato dalla Banca dei Regolamenti Internazionali in oltre 141 miliardi di dollari, mentre al dicembre 2000 tale valore era ancora a 95 miliardi di dollari. Si tratta in massima parte di contratti relativi a movimenti dei tassi di interesse, mentre i contratti sui cambi riguardano il 12° del totale. I mercati dei prodotti derivati, nonostante o forse a causa delle numerose crisi finanziarie internazionali che si sono verificate, continuano dunque a crescere a tassi estremamente elevati.