Henri De Man e la critica alla democrazia
da
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Questo articolo è frutto di una ricerca del marzo 2010 presso la Scuola
Normale Superiore di Pisa per il seminario di Storia della Filosofia
Moderna e Contemporanea, pubblicato poi sui siti Fra le rovine e
SinergieAlternative, e ripreso anche (in parte) da IlFronte e Fomento.
Henri De Man
La giovinezza
Henri de Man nacque il 17 novembre 1885 ad Antwerpen da genitori
borghesi – la madre è figlia del poeta fiammingo Jan van Beers – e in
questa città ebbe luogo la sua istruzione scolastica. Il padre sperava
in lui una carriera militare in un corpo d’élite e gli instillò un
severo senso del dovere e un forte sentimento patrio. Nonostante fosse
poliglotta – parlava da madrelingua il francese e l’olandese, e aveva
appreso molto bene l’inglese e il tedesco –, conservò sempre un forte
sentimento identitario fiammingo, in un contesto, come quello belga
d’inizio ‘900, in cui i valloni francofoni dominavano a livello
politico e culturale. Il contrasto tra la sua vita agiata e il mondo
esterno lo portò ad interessarsi del problema sociale e ad abbracciare
l’anarchismo filosofico. Il 1 maggio 1902, nel contesto di uno sciopero
generale, aderì alla Jeune Garde Socialiste di Antwerpen, movimento
giovanile del Parti Ouvrier Belge. Si distinse subito per la sua
dedizione e la sua intransigenza da borghese convertito al socialismo,
arrivando presto a ricoprire la posizione dirigente della Jeune Garde
di Antwerpen. I suoi studi di scienze naturali presso l’Università di
Bruxelles e poi l’Istituto Politecnico di Gand s’interruppero
bruscamente quando fu espulso da quest’ultima per aver partecipato alla
manifestazione contro la Domenica di Sangue della prima rivoluzione
russa, nel gennaio 1905.
A questo punto emigrò a Leipzig, in Germania, dove divenne redattore al
quotidiano marxista “Leipziger Volkszeitung”, partecipando al dibattito
che vedeva scontrarsi su queste pagine Rosa Luxemburg, Franz Mehring,
Karl Kautsky, Karl Liebknecht, Karl Radek, Anton Pannekoek, Lev
Trockij. Con Liebknecht e Ludwig Frank lavorò all’unificazione dei
movimenti socialisti giovanili in Germania e fondò, nel 1907, la
Federazione Internazionale della Gioventù Socialista, di cui fu il
primo segretario. In quell’anno pubblicò l’opuscolo “Het Tijdvak der
Demokratie” (“L’era della democrazia”), dove confermava la sua linea
marxista intransigente e radicale. Nel frattempo riprese a dedicarsi
agli studi universitari, presso l’Università di Leipzig, eccetto un
soggiorno di un semestre a Wien (1907-1908), dove s’interessò del
problema delle nazionalità. Seguì in particolare le lezioni di
psicologia con Wilhelm Wundt, di storia culturale con Karl Lamprecht,
di storia economica con Karl Bücher. Con quest’ultimo presentò nel 1909
una tesi, preparata con Henri Pirenne, dal titolo “Das Genter
Tuchgewerbe im Mittelalter”, che gli valse la laurea summa cum laude,
nonostante l’impostazione marxista, opposta a quella economica del
relatore. Passò poi quasi un anno in Inghilterra come traduttore e
corrispondente, conoscendo il socialismo inglese e appoggiando la
Social Democratic Federation di Henry Mayers Hyndman.
Nel 1910 si sposò con una compatriota e fu richiamato in Belgio da
Emile Vandervelde, come segretario della nuova Centrale d’Education
Ouvrière. Non solo svolse però un ruolo di selezione e addestramento
dei nuovi quadri del Partito, ma, collaborando con il vallone Louis de
Brouckère, ne animò fino al 1914 l’ala più radicale, rifiutando la
collaborazione con i liberali in chiave anticattolica. Nel suo articolo
Die Arbeiterbewegung in Belgien, comparso nel 1911 sul giornale
socialdemocratico tedesco “Die Neue Zeit”, De Man analizzò le mancanze
e i ritardi del movimento operaio belga, come nel caso della
cooperativa Vooruit di Gand, proclamando la necessità di una
riorganizzazione del partito. Anche a livello internazionale, quindi,
rimase molto attivo, anche grazie alla sua conoscenza delle lingue che
gli permetteva di svolgere spesso il ruolo d’interprete. Ai primi
d’agosto del 1914 fu lui ad accompagnare a Paris il socialdemocratico
tedesco Hermann Müller e Camille Huysmans, segretario fiammingo della
Seconda Internazionale, in occasione delle esequie di Jean Jaurés,
leader socialista francese assassinato da un giovane nazionalista
subito prima della Grande Guerra: fu un’ultimo tentativo d’accordo tra
i socialisti delle varie nazioni.
La svolta
Allo scoppio del primo conflitto mondiale, Henri de Man restava su
posizioni pacifiste, ma presto l’invasione tedesca del belga, lo spinse
a prendere le armi come volontario. Si conquistò sul campo i gradi di
tenente e arrivò a comandare una batteria di mortai. Questo evento lo
spinse a riconsiderare il suo pensiero politico, arrivando a sostenere
che fosse necessario per un socialista difendere la democrazia
parlamentare come sistema che avrebbe consentito al socialismo di
arrivare al potere. Per questo motivo fu favorevole a continuare la
guerra fino al crollo della Germania, in modo da poter creare in questo
Paese le condizioni per una rivoluzione. Per questo motivo, insieme con
Vandervelde e De Brouckére, si recò in Russia dopo la Rivoluzione di
Febbraio, per convincere il governo Kerenskij a proseguire la guerra.
Al tempo stesso, accolse con entusiasmo i Quattordici Punti di Wilson.
Subito dopo, nel 1918, fu inviato per sei mesi negli Stati Uniti, dove
fu colpito dal contrasto tra una compiuta realizzazione democratica e
l’assenza di un movimento socialista organizzato. Sulla base di queste
riflessioni e di una critica al modello americano, pubblicò al suo
ritorno “Au pays du taylorisme” (1919), cui fece seguito “The Remaking
of a mind: A soldier’s thoughts on war and reconstruction”, pubblicato
a New York e London.
Quest’ultimo libro spiegava come la guerra avesse influenzato il suo
pensiero politico, inducendolo ad assumere posizioni più moderate,
vicine a quelle dell’empirismo anglosassone, che vedevano il socialismo
muoversi all’interno di un regime democratico per ampliare la coscienza
di classe e la solidarietà sociale tra i lavoratori ed ottenere il
controllo dei mezzi di produzione. In reazione al Trattato di
Versailles, egli emigrò perciò negli Stati Uniti, dove, dopo aver
diretto una spedizione scientifica a Terranova e aver messo in piedi
una centrale d’educazione a Seattle, gli fu offerta la cattedra di
psicologia sociale presso l’Università dello Stato di Washington. Nel
frattempo, egli lavorò a fianco degli operai e collaborò con il Farmer
and Labor Party contro il “Lumber Trust”, e con gli Industrial Workers
of the World, il che gli valse la radiazione dall’ateneo, prima ancora
dell’inizio delle lezioni. Tornò quindi in Belgio nell’autunno 1920,
come direttore della École Ouvrière Supérieure, imprimendo questa volta
un differente indirizzo: non più un’istruzione dottrinale, ma volta
all’acquisizione di capacità politiche. Fu a questo fine che egli
organizzò nel 1921, a Morlanwelz in Svizzera, una settimana sindacale
sulla questione del controllo operaio.
Tuttavia, De Man entrò presto in contrasto con il Parti Ouvrier Belge
sulla politica estera, dal momento che questo era favore del
revanscismo francese, mentre invece egli sosteneva la necessità di una
pace non punitiva per la Germania. Alla Conferenza di Frankfurt nel
1922, la SPD adottò, infatti, delle risoluzioni a favore della fine
dell’occupazione militare, della riduzione delle riparazioni di guerra
e della ricostruzione del Paese. Egli tentò dunque di portare avanti
queste tesi, esponendole in un discorso a Köln, il che lo portò in
contrasto con la linea del suo partito. Per questo motivo, oltre ad una
grave crisi coniugale, si stabilì a Darmstadt nell’autunno del 1922 e
si dimise da ufficiale della riserva, allorché l’esercito belga
partecipò all’occupazione armata della Rühr. Egli insegnò quindi
psicologia dell’operaio industriale presso la Frankfurter Akademie der
Arbeit fino al 1926, per poi ritirarsi a vita privata nei Graubünden.
Allo stesso tempo, egli pubblicò a Jena le due importanti opere “Zur
Psychologie der Sozialismus” (1926) – che ebbe un notevole successo e
gli valse il premio del Concorso quinquennale delle scienze sociali – e
“Der Kampf um die Arbeitsfreude” (1927). Nel 1929, in seguito a una
nuova crisi coniugale, egli si stabilì a Frankfurt-am-Main, dove gli
era stata offerta la cattedra di psicologia sociale. Le maggiori opere
di questo periodo furono “Sozialismus aus dem Glauben” (1928),
“Upbouwend socialisme” (1931), l’opera teatrale “Wir” (1932) e “Die
sozialistiche Idee”, che uscì nel 1933 e fu subito sequestrato dalla
censura del Terzo Reich.
La maturità
Già nel 1930, però, egli era tornato a collaborare con il Parti Ouvrier
Belge, dirigendo l’ufficio di studi sociali e lavorando a un progetto
d’università operaia internazionale che rimarrà senza seguito. Con la
Machtergreifung da parte di Hitler e dei nazionalsocialisti, egli
ritornò in Belgio, diventando vicepresidente del Partito. Influenzato
dal New Deal e dall’enciclica sociale “Quadragesimo Anno”, egli
preparerà “Le Plan du Travail” per il 48° Congresso del Parti Ouvrier
Belge (Natale 1933), come programma del Partito. Il cosiddetto
“planismo” si diffuse anche all’estero e ispirò ben tre conferenze
planiste internazionali tra il 1934 e il 1937, ma senza particolari
successi. Nondimeno con la partecipazione al governo d’unione nazionale
di Paul van Zeeland, divenne Ministro dei lavori pubblici nel 1935, e
poi Ministro delle finanze sotto il secondo governo van Zeeland fino
all’ottobre 1937 e sotto il governo di Paul-Émile Janson fino alle sue
dimissioni il 12 marzo 1938. De Man era ormai sostenitore di un
socialismo di tipo nazionale, con un esecutivo forte che potesse
esautorare il Parlamento, organo rappresentativo borghese, e compiere
le riforme previste dal Plan. Da membro del Comitato di Sicurezza
Nazionale, egli assistette inoltre al riarmo della Germania hitleriana
e preconizzò un esercito difensivo, tentando al tempo stesso, dopo la
Conferenza di München, di lavorare per la pace.
Nel 1939, morì Vandervelde e gli succedette come presidente del Parti
Ouvrier Belge, entrando a far parte del governo d’unione nazionale di
Hubert Pierlot come vicepremier nel settembre di quell’anno. Quattro
mesi più tardi, ne uscì in polemica rispetto ad anglofili e francofili
che criticavano la sua linea neutralista. Egli riteneva, infatti, che
in un’ottica socialista una piccola nazione come il Belgio dovesse
rimanere fuori da una guerra imperialista e preservare la propria
neutralità. A gennaio 1940 fu in missione diplomatica in Italia, e
durante la guerra si arruolò nuovamente nelle forze armate. In quel
contesto, fu l’unico importante politico belga ad appoggiare la scelta
del sovrano Leopoldo III di rimanere in Belgio e trattare con i
Tedeschi vincitori. Egli redasse dunque il Manifesto del 28 giugno 1940
d’appoggio alla Germania e al fascismo come essenzialmente
antiplutocratici, e dunque positivi per la causa socialista, e
partecipò alla Union des Travailleurs Manuels et Intellectuels. Durante
l’occupazione tedesca, egli tentò dunque di ritagliare uno spazio
autonomo di manovra per il socialismo belga, con la sua rivista “Le
travail” e il progetto, poi non autorizzato, di un Nationale Bond
Vlaanderen nell’estate del 1941. Ciononostante, a Pasqua di quell’anno
gli era stato proibito parlare, e di lì a poco l’invasione tedesca
dell’URSS l’avrebbe ulteriormente deluso.
Ormai isolato, nel novembre 1941 si ritirò in una baita a La Clusaz in
Alta Savoia. In questo periodo, scrisse “Réflexions sur la paix”
(pubblicato nel 1942), “Cahiers de ma montagne” (1944) e “Jacques Cœur,
der königliche Kaufmann” (1950). Nell’agosto 1944, egli sfuggì alla
liberazione della Francia, chiedendo asilo politico in Svizzera. Qui
redasse a propria autodifesa “De la capitulation à l'exil” (1945) e
“Pétition au Sénat” (1947), ma fu comunque condannato in contumacia il
12 dicembre del 1946 a vent’anni di carcere e dieci milioni di franchi
di risarcimento per collaborazionismo. Risposatosi, visse gli ultimi
anni della sua vita a Bern, continuando a scrivere. Le sue ultime opere
furono “Au delà du nationalisme” (1946), in cui evocava un governo
mondiale per salvare l’umanità dalla catastrofe nucleare, gli
autobiografici “Cavalier seul” (1948) e “Gegen den Strom” (1953) e
l’opera di filosofia della storia “Vermassung und Kulturverfall : eine
Diagnose unserer Zeit” (1951). Il 20 giugno 1953, egli morì con la
moglie in un incidente d’automobile.
La critica alla democrazia
La democrazia come forma di dominio borghese
Il giovane De Man è ancora fedele al marxismo ortodosso, in linea con
la Seconda Internazionale, ma già si delineano alcuni temi che saranno
centrali nel suo pensiero. In particolare, in “L’era della democrazia”
(1907) emergono tre punti fondamentali. In primo luogo, il suo
socialismo ha una base volontaristica, secondo cui lotta di classe e
istinto di sopravvivenza – “volontà di potenza” per usare un termine
nietzscheano” – coincidono. In secondo luogo – e qui viene ribadita la
sua linea radicale e non riformista –, il proletariato dovrà essere
attento a non cedere agli inganni della borghesia, bensì mantenersi
puro e intransigente per conquistare il potere. Egli, infatti,
riconosce il carattere precedentemente rivoluzionario della borghesia,
ma ammonisce a non confondere la rivoluzione borghese con quella
proletaria.
1. La crescita parallela dei movimenti socialisti dei lavoratori e del
movimento democratico di parte della borghesia, come abbiamo visto
negli ultimi anni, in particolare da noi in Francia, Inghilterra,
Olanda e Belgio, ha portato molti membri del nostro partito alla
conclusione che, siccome entrambi i fenomeni sono portati avanti dalla
medesima causa e per lo stesso scopo (la “democrazia” che infine
diverrà “socialista”), così il progresso della democrazia e quello del
movimento dei lavoratori sarà simile, combinato, inseparabile. Bene,
questa conclusione è erronea, questa conclusione è falsa, questa
conclusione è pericolosa.
In terzo luogo, però, il proletariato, man mano che acquisterà
coscienza di classe, sarà in grado di vincere la borghesia con le
proprie forze, sfruttando le stesse condizioni della democrazia
borghese.
2. Sarebbe il peggior tipo di pessimismo concludere che non dobbiamo
aspettarci immediati miglioramenti politici, che dobbiamo fermarci e
riporre tutta la nostra speranza nel sovvertimento rivoluzionario della
società capitalista. No; la democrazia politica – cioè, un minimo di
diritti politici e legalità – è la condizione assolutamente
indispensabile per il successo della rivoluzione sociale […]. Ma il
proletariato sarà sempre più l’unica forza a sostenere tutte le
battaglie per la democrazia e dovrà dipendere sulle sue risorse per la
realizzazione della democrazia. Man mano che la democrazia diventa più
indispensabile per il proletariato, diviene più pericolosa per la
borghesia, e man mano che la lotta per ogni frammento di libertà e
legalità diventa più difficile, sempre più s’avvicina a quella lotta
finale in cui non ci sarà quartiere, dove la posta sarà il controllo
del potere politico, la stessa esistenza dello sfruttamento
capitalistico e della democrazia a uno e a un medesimo tempo.
Fin dall’inizio, quindi, il rapporto con la democrazia borghese, in
quanto sistema politico reale e quotidiano in cui ci si trova ad
operare e che occorre affrontare, risulta fondamentale nell’opera di De
Man, il quale però ammonisce che la democrazia può spianare la strada
al proletariato ma non è in sé una condizione sufficiente, tale da
condurre automaticamente al socialismo.
3. Dunque, nella nostra lotta, non lasciamo che illusioni sulla
misericordia della borghesia, né fiducia nella sincerità delle loro
convinzioni democratiche, confondano la consapevolezza di classe del
proletariato. La posta della battaglia è ben maggiore che un po’ di
legalità o solo una riforma, ben più grande di quanto una rivoluzione
borghese abbia mai tentato. E il proletariato ha un’arma molto più
forte e formidabile di quanto la borghesia ne abbia mai usate. Non l’ha
forgiata a partire dall’idea democratica – e dal fraseggio di un
impotente classe in declino. Come il giovane eroe nel Sigfrido di
Wagner, vede ciò con distacco […]. E forgerà la sua spada per salvare
il mondo a partire dalla forte organizzazione di classe e con eroica
coscienza di classe.
Infatti, approfondendo la sua preparazione teoretica e la sua
conoscenza della democrazia liberale, De Man sarà sempre più cauto e
guardingo relativamente all’attrazione del liberalismo e del riformismo
sul proletariato. Particolarmente interessanti sono le sue lettere da
London, pubblicate nel 1910 sul “Leipziger Vokszeitung” come “Lettere
di viaggio socialiste”, laddove egli descrive come il partito laburista
sia del tutto integrato in quello liberale e, perciò, funzionale agli
stessi interessi borghesi, mentre invece quelli dei proletari sono
ignorati o calpestati.
4. È del tutto ovvio che la natura della competizione elettorale tra i
due grandi partiti borghesi, che almeno a Londra monopolizza quasi il
campo di battaglia, è una competizione per catturare i voti del
lavoratore attraverso trucchi pubblicitari da poco, così che il partito
che ha meno scrupoli e più denaro vincerà. Perché alla fine, l’essenza
del senso politico nel sistema elettorale inglese è questo: trasformare
il potere finanziario delle classi proprietarie in potere politico in
modo che il diritto di voto dei lavoratori sia reso un modo di
preservare la loro dipendenza intellettuale e politica dai partiti
borghesi.
L’analisi e la critica del sistema democratico inglese prosegue
toccando altri punti fondamentali, quali la legge elettorale in sé, la
quale esclude il voto femminile, riduce l’elettorato ai soli possidenti
o affittuari benestanti, garantisce il voto plurale a laureati e
proprietari terrieri, ed è basata su un sistema maggioritario, per cui
in ogni collegio è eletto solo il singolo candidato che ottiene la
maggioranza relativa. Inoltre, egli descrive la conduzione della
campagna elettorale presso i lavoratori con distribuzione gratuita di
alcoolici, propaganda di massa e addirittura l’organizzazione delle
masse stesse al voto. Il termine che meglio descrive l’atteggiamento
delle classi dominanti verso la classe operaia è “condiscendenza”.
5. Il movimento socialista operaio è trattato dalla classe dominante in
Inghilterra in completo contrasto con il socialismo e con il movimento
operaio. Mi esprimerò più chiaramente: il socialismo come teoria
sociale e filosofica non appare come minaccioso per il corpo della
borghesia, finché esso non trova sostenitori nei circoli intellettuali
borghesi […]. In breve, il socialismo qui è ancora socialmente
accettabile, come non lo è stato per lungo tempo in Germania. La
borghesia inglese molto tempo fa ha fatto pace con il movimento dei
lavoratori a patto che non fosse socialista, cioè, con il movimento
sindacale di vecchio stampo.
Tuttavia, come fa notare De Man, alla “carota” viene affiancato il
“bastone”: i metodi repressivi non sono meno assenti nella democrazia
liberale, semplicemente essi sono usati con maggiore parsimonia e
oculatezza. Questo è particolarmente evidente nel modus operandi della
polizia inglese, in realtà non molto dissimile da quella prussiana,
nonostante la differenza di regime, in linea teorica.
6. Alla fine il parallelo tra i “bobbies” e i “Bleus” riflette
fondamentalmente quello tra le due forme di governo, il borghese
liberale e lo Junker reazionario, in generale. Queste sono le due forme
democratiche di oppressione politica del proletariato nell’era
capitalista; la prima è la più ragionevole, la seconda la più brutale.
Questo non significa che la polizia di Londra non possa e non si sia
comportata in modo brutale. Ma questo ha luogo non regolarmente ma solo
in circostanze straordinarie, cioè, quando è considerato davvero
indispensabile.
In sintesi, il giovane De Man prende una posizione molto dura verso la
democrazia borghese, liberale o autoritaria che sia. Se da una parte,
infatti, riconosce che all’interno di essa è possibile trovare gli
strumenti per portare avanti la lotta di classe, pure è consapevole che
a un certo punto sarebbe risultata inevitabile la rivoluzione.
La democrazia come tappa intermedia
Nel 1914, con l’invasione del Belgio da parte tedesca, questa visione
secondo cui non c’era differenza tra i vari regimi borghesi e
imperialisti doveva cambiare radicalmente. Le democrazie occidentali
parevano, infatti, garantire maggiori possibilità ai movimenti operai
rispetto agli imperi centrali. Altrettanto importanti furono le sue
esperienze di viaggio in Unione Sovietica e negli Stati Uniti, che lo
convinsero della necessità di un ordinamento democratico come tappa
intermedia tra il capitalismo e il socialismo. In quest’ottica egli
arrivò a contrapporre all’URSS, che egli accusava di eccessiva furia
nel tentare d’imporre le conquiste del socialismo a un proletariato
ancora impreparato, gli Stati Uniti, dove invece vedeva quasi compiute
le basi democratiche del socialismo.
Henri De Man, ne traccia una sintesi nell’articolo “La lezione della
guerra”, comparso su “Le Peuple” nel 1919. Egli è però attento a
sottolineare come la sua posizione non fosse stata immediatamente
interventista come molti altri socialdemocratici e socialisti europei,
bensì meditata alla luce degli eventi da lui vissuti tra il 1915 e il
1918, e frutto di una coscienza tormentata dalla consapevolezza delle
contraddizioni.
7. Al fine di evitare ogni incomprensione, devo dichiarare che, anche
se io ero un ufficiale associato all’azione del governo durante la
guerra con due missioni ufficiali all’estero – in Russia nel 1917 e
negli Stati Uniti nel 1918 – non sono mai stato tra quelli che hanno
perso la loro autonomia morale per l’intossicazione del patriottismo
ufficiale e dello sciovinismo militarista. Io ero un socialista
antimilitarista e internazionalista prima della guerra. Credo di
esserlo ancora di più ora. Forse lo sono in modo differente, ma
certamente non in misura meno profonda o meno sentita. È precisamente
perché io considero il socialismo una realtà urgente e ancora più
ineluttabile che mai che esso mi appare da una prospettiva differente
dalle mie opinioni del 1914. La revisione delle mie idee è dovuta
soprattutto al fatto che per tre anni sono state letteralmente
sottoposte alla prova del fuoco.
De Man propone in queste pagine però una svolta di entità non
indifferente, anzi una vera e propria revisione del marxismo, dovuta ad
esperienze che traspaiono come traumatiche. Egli trasvaluta tutti i
valori, alla ricerca di una dottrina politica che gli consenta di
comprendere davvero gli eventi.
8. Non penso più che possiamo capire i nuovi fatti della vita sociale
con l’aiuto di una dottrina stabilita sulla base di fatti precedenti e
differenti. Non penso più che la toeria che vede le guerre
contemporanee unicamente come il risultato di conflitti economici tra
governi imperialisti sia giusta. Non penso più che i soli fenomeni
economici possano fornirci la trama di tutta l’evoluzione storica. Non
penso più che il socialismo possa essere realizzato indipendentemente
dallo sviluppo della democrazia politica. Non penso più che al
socialismo basti fare appello agli interessi di classe del proletariato
industriale, disdegnando il supporto che certi interessi e ideali
comuni all’intera nazione o a tutta l’umanità possono darci. Non penso
più che la lotta di classe proletaria, che rimane il mezzo principale
per la realizzazione del socialismo, possa condurre ad esso senza
ammettere certe forme di collaborazione di classe e di partito. Non
credo più che il socialismo possa consistere semplicemente
nell’esproprio dei mezzi di produzione di base da parte dello Stato,
senza una profonda trasformazione dei processi amministrativi per
portare allo sviluppo illimitato della produttività sociale. Non penso
più che una società socialista possa essere sostenuta domani se
rinuncia allo stimolante che oggi è fornito dalla competizione
d’imprese private e di un ineguale frutto del lavoro, proporzionato
alla sua produttività sociale. Credo in un socialismo più a portata di
mano, più pragmatico, più organico – in una parola, più umano.
Egli spiega poi le sue motivazioni di contro al marxismo
internazionalista, adducendo come tappa necessaria sul cammino verso il
socialismo l’autonomia nazionale e la democrazia politica, entrambe
ancora da raggiungere nelle due grandi nazioni europee dove era stata
tentata la rivoluzione bolscevica, ovvero Russia e Germania, in quanto
nazioni ancora rette da una monarchia di diritto divino. In
quest’ottica, la guerra delle potenze dell’Intesa era giustificata
anche da un punto di vista socialista proprio perché portava a termine
quella rivoluzione borghese di cui parlava Marx. De Man continua a fare
riferimento al filosofo di Treviri, anche se ne critica l’economicismo.
9. Il metodo del materialismo storico fondato da Marx ci ha abituati
troppo a vedere solo il lato economico dei fatti della vita sociale.
D’altra parte, il marxismo è stato represso troppo fortemente dal
socialismo di Germania e Russia, due Paesi dove la mancanza
d’istituzioni democratiche e, quel che è peggio, di tradizioni
democratiche ha necessariamente avuto ripercussioni sul punto di vista
dei lavoratori.
Egli ha ben presente che non è stata una guerra rivoluzionaria
socialista, ma nondimeno è stata una guerra rivoluzionaria democratica.
Passando poi a confrontare Stati Uniti e Russia, sottolinea le migliori
condizioni del primo Paese, in confronto al secondo dove il
proletariato, mancando di un’educazione democratica, non è stato in
grado di gestire il potere conquistato.
10. In Russia, ho visto socialismo senza democrazia. In America, ho
visto democrazia senza socialismo. La mia conclusione è che, per parte
mia, preferirei, se dovessi scegliere, vivere in una democrazia senza
socialismo che in un regime socialista senza democrazia. Questo non
significa che io sia più democratico che socialista. Molto
semplicemente significa che la democrazia senza socialismo è pur sempre
democrazia, mentre il socialismo senza democrazia non è nemmeno
socialismo. La democrazia, essendo il governo della maggioranza, può
condurre al socialismo, se la maggioranza è a favore di esso; il
socialismo, se non è basato sul governo della maggioranza, è un regime
dispotico, il che significa o guerra civile o stagnazione.
Per risolvere questo problema, il proletariato dovrebbe includere non
solamente gli operai, ma anche i tecnici e gli intellettuali, i quali
vendono anch’essi la loro forza lavoro, sia pure più specializzata, il
che fa di loro dei proletari.
11. Non sarei un socialista se non credessi che questa capacità si può
trovare in nuce nel proletariato – a condizione che l’espressione
includa oltre ai lavoratori manuali coloro, come i tecnici, i colletti
bianchi, gli ingegneri, gli studiosi e gli artisti, che oggi vendono la
loro forza lavoro intellettuale sul mercato del mondo capitalista. Ma
poiché questo nucleo possa svilupparsi e rendere più che non solo
vantaggi temporanei, un lungo periodo di adattamento della classe
lavoratrice ai nuovi compiti di gestione sociale deve aver luogo.
Questa collaborazione tra le classi inferiori, sostiene De Man, ha già
in realtà visto in parte la luce nelle trincee, laddove la maggioranza
dei combattenti erano appunto proletari (in questo senso allargato).
Qui sono state poste le basi sociali per un socialismo democratico, del
tutto differente dal socialismo dittatoriale del bolscevismo sovietico.
Riguardo agli Stati Uniti, troviamo interesse nella “Lettera d’America”
comparsa, sempre su “Le Peuple”, l’anno successivo. Ciò che l’autore
sottolinea, sono le ottime condizioni materiali dei lavoratori
americani, in particolare i contadini, rispetto a quelli europei. E a
queste si accompagna una superiore istruzione e dunque una vera e
propria coscienza di classe, che porrebbe le basi per un movimento
socialista di successo.
12. Questo è un Paese che dimostra che non è la povertà che crea la più
vigorosa coscienza di classe, e che un regime di sfruttamento
capitalistico è più minacciato dove la gente comune ha acquisito il più
alto grado di benessere materiale ed istruzione, come nel Far West
americano. Tutto questo Paese è proprio ora lo sfondo di una grande
rinascita della coscienza di classe, sia tra la popolazione rurale, sia
tra i lavoratori urbani. È un fenomeno sorprendente, specialmente per
un periodo immediatamente successivo a una guerra. La sua espressione
più caratteristica è l’alleanza dei sindacati e delle organizzazioni
agrarie per sostenere un programma esplicitamente collettivista.
La democrazia nel planismo
Il successivo percorso di studio di De Man lo portò a toccare e ad
approfondire ben altri argomenti, in particolare relativamente alla
critica e al superamento del marxismo da un punto di vista psicologico,
come espresso in “Psicologia del socialismo” (1926). La sua critica del
marxismo è funzionale però a una radicalizzazione del movimento
socialista. Secondo l’autore, infatti, è nella dottrina di Marx che
devono essere rintracciati quei tratti filosofici positivisti come il
meccanicismo, il razionalismo, l’edonismo materialista, che favoriscono
l’imborghesimento dei movimenti marxisti. Un altro problema è la
tendenza alla divisione, specie nei partiti di stampo bolscevico, tra
dirigenti attivi e masse passive (“Masse e capi”, 1932). Il lato più
propriamente psicologico è poi approfondito in “La lotta per la gioia
del lavoro” (1927), laddove esamina i moventi psicologici che
influenzano positivamente il lavoratore, ovvero principalmente
l’utilità sociale, l’interesse personale, e il senso dell’obbligazione
sociale; e quelli che lo influenzano negativamente, come l’insicurezza
e la precarietà delle condizioni di vita e di lavoro o l’impossibilità
di promozione sociale.
Con “L’idea socialistica” (1933) viene finalmente approfondito un altro
tema cruciale, quello dell’imborghesimento del proletario. De Man
ricostruisce prima storicamente il passaggio da una borghesia
lavoratrice a una borghesia proprietaria e sfruttatrice e poi osserva
il processo analogo nel proletariato contemporaneo. Secondo lui,
indubbiamente, ha un forte peso il miglioramento delle condizioni di
vita, ma il fattore cruciale, che mina a suo parere il marxismo alla
base, è il materialismo: la classe operaia lotta non per il bene
dell’umanità, ma egoisticamente per il proprio benessere, mirando
essenzialmente a rovesciare il dominio borghese e sostituirvisi. In
questo senso, riprendendo il pensiero di Spengler e Sombart, il
marxismo non è tanto un movimento opposto al capitalismo, quanto
interno ad esso. Il socialismo invece doveva prescindere dagli
interessi specifici della classe operaia, che a suo parere avrebbero
potuto anche essere soddisfatti dal capitalismo, come negli Stati Uniti.
È proprio su queste premesse, che De Man scriverà il “Piano del lavoro”
nel 1933, come programma pragmatico di riforma dello Stato dal punto di
vista tanto sociale quanto economico.
13. L’obiettivo di questo piano è una trasformazione economica e
politica del Paese, consistente in: 1) L’istituzione di un sistema
economico misto che includa, oltre a un settore privato, un settore
nazionalizzato che comprenda il controllo del credito e delle
principali industrie che sono già monopolizzate di fatto; 2) La
sottomissione dell’economia nazionale così riorganizzata a lle
direttive del benessere comune mirante all’allargamento del mercato
interno così da ridurre la disoccupazione e da creare condizioni che
portino a un’accresciuta prosperità economica; 3) La realizzazione
all’interno della sfera politica di una riforma dello Stato e del
sistema parlamentare tale da creare le basi per una vera democrazia
sociale ed economica.
Scendendo in maggiori dettagli riguardanti quest’ultimo punto, che
delineino come sia mutata la concezione della democrazia propugnata da
De Man, occorre consultare la settima e ultima parte del piano.
14. Per rinforzare le basi della democrazia e per preparare istituzioni
parlamentari per la realizzazione delle trasformazioni economiche che
sono delineate, la riforma dello Stato e del sistema parlamentare deve
soddisfare le seguenti condizioni: 1) Tutti i poteri derivano dal
suffragio universale non adulterato; 2) L’esercizio delle libertà
costituzionali è pienamente garantito a tutti i cittadini; 3) Il
sistema politico ed economico assicurerà l’indipendenza e l’autorità
dello Stato e del potere pubblico rispetto al potere finanziario; 4) il
potere legislativo sarà esercitato da una singola camera, di cui tutti
i membri siano eletti con suffragio universale; 5) questa camera, i cui
metodi di lavoro saranno semplificati e adattati alle necessità della
moderna organizzazione sociale, saranno assistiti nell’elaborare leggi
da consigli consultativi, i cui membri saranno scelti in parte fuori
dal Parlamento, sulla base della loro riconosciuta competenza; 6) per
evitare i pericoli dello statalismo, il Parlamento darà alle agenzie
responsabili per legge della gestione dell’economia quei poteri
d’implementazione indispensabili alla rapidità d’azione e alla
focalizzazione delle responsabilità.
Nelle successive tesi di Pontigny del 1934, stabilirà il ruolo del
partito all’interno della pianificazione qui delineata, ovvero la piena
partecipazione, all’interno del sistema legale e politico democratico
alla riforma dello Stato. Questo interventismo, unito alla delusione
per l’inerzia del regime borghese e democratico sarà alla base della
sua scelta, nel 1940, di appoggiare il fascismo, sperando che potesse
compiere quella riorganizzazione dello Stato che né il socialismo né la
democrazia erano stati in grado di intraprendere.