da

Dominique Grisoni, Robert Maggiori

Guida a Gramsci

BUR, Milano 1975


CESARISMO

«Si può dire che il "cesarismo" esprime una situazione in cui le forze in lotta si equilibrano in modo catastrofico, cioè si equilibrano in modo che la continuazione della lotta non può concludersi che con la distruzione reciproca» (Mach, EI p. 58, ER p. 83). La cristallizzazione agonica di tali forze (progressive e regressive) permette l'intervento di una «terza forza» che assume un ruolo arbitrale caratterizzato dalla presenza alla propria testa di una «grande personalità storica "eroica"1 che assoggetta a sé le altre forze indebolite dalla reciproca lotta e prende il potere.

Ma se, come dice Gramsci, «il cesarismo... esprime sempre la soluzione "arbitrale"... non ha sempre lo stesso significato storico» (Mach, EI p. 58, ER p. 84), né la stessa finalità. Può essere regressivo quanto progressivo. Si dirà che il cesarismo è progressivo quando il suo intervento «aiuta la forza progressiva a trionfare, sia pure con certi compromessi e temperamenti limitativi della vittoria» (Mach, EI p. 58, ER p. 84). La sua azione produrrà profonde trasformazioni nella struttura statale e per questo Gramsci ritiene che rivesta un carattere «quantitativo-qualitativo»2. Ci sarà al contrario cesarismo regressivo quando questo stipula l'alleanza con la forza regressiva. In questo caso, si tratta di un fenomeno meramente «quantitativo»3. Ma la duplice finalità del cesarismo permane anche quando la sua natura si trasforma. Gramsci constata che «nel mondo moderno, con le sue grandi coalizioni di carattere economico-sindacale e politico di partito, il meccanismo del fenomeno cesarista è molto diverso da quello che fu fino a Napoleone III» (Mach, EI p. 59, ER p. 85). Le grandi figure «eroiche» non sono più necessarie e possono essere sostituite da u-na organizzazione o da una coalizione.

Questa trasformazione della natura del fenomeno induce una parallela trasformazione del suo meccanismo di installazione: mentre il cesarismo della «grande personalità storica» per prendere il potere si fondava sui militari e quindi «su colpi di Stato ben precisi, azioni militari ecc.» (Mach, EI p. 59, ER p. 85) il cesarismo complesso dello Stato moderno non ha più bisogno di ricorrere a azioni militari perché si fonda su organizzazioni di «polizia in senso largo»4 che hanno funzioni di «investigazione» e di «prevenzione». Il cesarismo è dunque per Gramsci un concetto storico-politico il cui «significato esatto... in ultima analisi può essere ricostruito dalla storia concreta e non da uno schema sociologico» (Mach, EI p. 58, ER p. 84). Ma è anche una formula «polemico-ideologica» e deve quindi, per restare operativa, evitare errori di metodo, tener conto di tutti i fenomeni storici connessi, come i diversi rapporti «che intercorrono fra i gruppi principali (di vario genere, sociale-economico e tecnico-economico) delle classi fondamentali e le forze ausiliarie guidate o sottoposte all'influenza egemonica» (Mach, EI p. 61, ER p. 87). Quindi «lo schema generico delle forze A e B [progressiva e regressiva] in lotta con prospettiva catastrofica... per costituire (o ricostituire) un equilibrio organico da cui nasce (può nascere) il cesarismo è appunto un'ipotesi generica, uno schema sociologico (di comodo per l'arte politica)» (Mach, EI p. 59, ER p. 85), che sarà necessario rendere efficace legandolo più strettamente alla «realtà storica concreta».

Il cesarismo si inserisce dunque in una dialettica rivoluzione/restaurazione che, in una epoca storica determinata, fornisce uno schema di analisi e una metodologia, permettendo di determinare con precisione il punto di rottura dell'«equilibrio organico» e la fisionomia del «nuovo potere».

1 (La nozione gramsciana di cesarismo, con il richiamo alla «figura storica eroica» rinvia esplicitamente alla concezione weberiana di capo carismatico. Questo «tipo» di capo esercita sul suo ambiente (per esempio sul partito) un'influenza fortissima che sembra legittimarsi in vista della realizzazione di una «missione divina». Bisogna però anche che le masse si «riconoscano» in questo capo, come, nota Gramsci, fu il caso di Mussolini che è il «capo unico di un grande partito» e anche «il capo unico di un grande Stato» (Mach, EI p. 96, ER p. 130

2 Una forza o un movimento sono definiti da Gramsci «progressivi» quando rappresentano una rottura che permette il passaggio da un tipo di Stato a un altro. Tale fu il cesarismo di Cesare e di Napoleone I, che per questo è quantitativo-qualitativo.

3 Una forza è «regressiva» quando permette una evoluzione dello Stato secondo una linea ininterrotta. Tale fu il cesarismo di Napoleone III, un cesarismo meramente «quantitativo».

4 Con questo termine Gramsci non intende solo gli organismi ordinari di repressione degli atti criminosi, ma anche i partiti politici, le organizzazioni economiche ecc.

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www.treccani.it

Enciclopedia delle scienze sociali (1991)

di Angelo Panebianco

Cesarismo

sommario: 1. Definizione. 2. La teoria del bonapartismo. 3. La teoria del carisma. 4. Cesarismo e democrazia: la democrazia plebiscitaria. 5. Cesarismo e politica internazionale. ? Bibliografia.

1. Definizione

Per cesarismo si intende, in prima approssimazione, un regime politico il cui fondamento è costituito da un rapporto diretto, veicolato da tecniche plebiscitarie di organizzazione del consenso, fra un leader e gli appartenenti a una comunità politica. Nonostante l'ispirazione provenga da due differenti epoche storiche e i termini evochino due figure diverse di leader (Giulio Cesare e Napoleone Bonaparte), nel lessico politico contemporaneo cesarismo e bonapartismo sono termini intercambiabili e come sinonimi verranno considerati anche in questo articolo. La definizione di cesarismo sopra esposta corrisponde, grosso modo, alla definizione che ne dà il senso comune.

A causa dell'eccessiva genericità, però, essa può servire solo per una prima delimitazione del campo, in quanto consente di escludere dall'ambito del fenomeno politico considerato tutti i casi in cui:

1) non esiste una leadership individuale, ossia al vertice del regime, o dell'organizzazione politica, non c'è un solo leader ma una élite e, pertanto, le funzioni di leadership sono esercitate collettivamente da un gruppo più o meno ristretto;

2) i rapporti di potere fra il leader e i seguaci non dipendono dall'impiego di tecniche plebiscitarie di organizzazione del consenso.

Se ci si ferma alla definizione proposta, il concetto di cesarismo risulta molto ricco sotto il profilo della denotazione (abbraccia moltissimi casi storici, fra loro diversissimi), ma povero sotto il profilo della connotazione. Per procedere oltre occorre però considerare una difficoltà che pesa su qualunque analisi dei fenomeni cesaristici e che consiste nel fatto che le scienze sociali contemporanee, anche la scienza politica, concentrano tradizionalmente la propria attenzione sulle dimensioni strutturali dei rapporti sociali e politici ed evitano normalmente di trattare le componenti personali, idiosincratiche, di quei rapporti. Qualunque altra cosa sia il cesarismo, esso comporta in primo luogo l'esistenza di un rapporto di potere fra un individuo (il leader) e i suoi seguaci. Il cesarismo infatti appartiene al campo dei regimi politici personalistici, ove ciò che conta sono, in primo luogo, le caratteristiche personali e le scelte di un singolo individuo. La svalutazione del ruolo degli individui che è tipica delle scienze sociali (quanto meno nelle versioni strutturalista e funzionalista-sistemica) ostacola quindi l'esame del fenomeno cesaristico. Non è casuale che lo strumento interpretativo più utile resti, come vedremo, la teoria weberiana del carisma; ma in Weber, a differenza di altri scienziati sociali, era forte la convinzione dell'importanza delle singole personalità nella storia, una convinzione ispirata dalla visione romantica e dal pensiero nietzschiano. Ciò spiega perché nella scienza politica contemporanea non sia possibile reperire analisi persuasive del cesarismo (anche se è possibile reperire indicazioni sulle condizioni politiche, economiche, ecc., che conducono a esso). Il cesarismo non compare con la statura e la dignità di un fenomeno politico autonomo in nessuno dei molti tentativi di classificazione dei regimi politici che la scienza politica ha fatto in questo secolo. Ad esempio, non appare nelle classificazioni delle forme di dominio di Lasswell e Kaplan (v., 1950): non in quella che, seguendo Aristotele, differenzia i regimi politici a seconda del numero dei governanti (autocrazie, oligarchie, repubbliche, nei termini di Lasswell e di Kaplan), né in quella, più originale, che li distingue a seconda delle modalità di esercizio del potere entro il corpo politico (burocrazia, aristocrazia, etocrazia, demosocrazia, virocrazia, plutocrazia, tecnocrazia, ideocrazia). Neppure la letteratura più recente offre indicazioni (v. Linz, 1975; v. Morlino, 1986). Anche gli studiosi che utilizzano la teoria marxiana del bonapartismo si limitano a segnalare quasi esclusivamente le dimensioni strutturali del fenomeno. Così, ad esempio, Rouquié, per il quale un regime bonapartista "è il regime sostenuto da una burocrazia civile e militare, relativamente indipendente dai gruppi sociali dominanti, che si sforza di risolvere i conflitti che paralizzano la classe dirigente depoliticizzando in modo non violento (o non terrorista) l'insieme delle classi della società" (v. Rouquié, 1975, p. 1098).

Poiché la letteratura corrente non aiuta a decifrare il fenomeno, il primo passo da fare è tentare di distinguere il cesarismo da altri tipi di rapporti politici con cui potrebbe essere confuso. Se la presenza della condizione leadership individuale è cruciale per identificarlo, non è però sufficiente: occorre infatti ancora distinguere il cesarismo da altri tipi di organizzazione politica (cacichismo, caudillismo, sultanismo) in cui compare il fattore leadership individuale e nei quali è anche presente la possibilità del ricorso a tecniche plebiscitarie di organizzazione del consenso.

Per delimitare davvero il fenomeno occorre introdurre due specificazioni:

a) il legame emozionale leader/seguaci è, nel cesarismo, preminente rispetto ad altri tipi di legami (clientelari, ecc.).

Ciò consente di differenziare il cesarismo da altre forme di organizzazione del potere (ad esempio il cacichismo) in cui il legame leader/seguaci è fondato, prevalentemente, su una transazione fra beni materiali e consenso;

b) l'organizzazione politica del cesarismo si afferma sempre a seguito di un processo di deistituzionalizzazione (v. Huntington, 1968) delle organizzazioni e delle procedure politiche preesistenti.

In altri termini, parleremo di cesarismo se, e solo se, la leadership individuale nasce sulle ceneri di un'organizzazione politica istituzionalizzata che è stata colpita da un processo di decadenza e di disorganizzazione.

Il cesarismo sorge in risposta alla crisi di un'organizzazione politica, in virtù di una decomposizione del precedente ordine politico. Ciò consente di differenziare questa forma politica da altre, come ad esempio il caudillismo, in cui sono presenti tanto la leadership personale quanto, talvolta, le tecniche plebiscitarie, ma la cui genesi non è la risposta diretta e immediata a una crisi politico-organizzativa. Quest'ultima specificazione aiuta a cogliere un importante elemento distintivo del cesarismo nella sua forma pura: la provvisorietà. Il cesarismo è un regime di transizione, intrinsecamente instabile. Sorge per fronteggiare uno stato di disorganizzazione e di crisi acute della comunità politica ed è destinato a lasciare il posto a forme diverse e più stabili di organizzazione del potere. I regimi di transizione fra una forma stabile e l'altra possono assumere diverse fisionomie (v. Morlino, 1986; v. Linz e Stepan, 1978), e nell'interpretazione qui adottata il cesarismo è una di esse. La definizione che proponiamo è allora la seguente: un regime politico di transizione, che sorge in risposta alla decadenza di istituzioni politiche preesistenti ed è fondato su un rapporto diretto - ove la componente emozionale (così come è descritta, ad esempio, da Freud) è preminente - fra un leader e gli appartenenti alla comunità politica, veicolato da tecniche plebiscitarie di organizzazione del consenso.

Due precisazioni sono necessarie. In primo luogo, non è ritenuto essenziale, ai fini della definizione, che il leader sia in origine un capo militare. In molti casi il cesare è effettivamente un militare (e proprio questo ci ricordano i termini cesarismo e bonapartismo): ciò accade perché spesso un capo militare di successo è, al momento della crisi, nella posizione migliore per convertire le risorse accumulate nella sua qualità di comandante (per esempio il prestigio guadagnato sui campi di battaglia) nelle risorse politiche necessarie a fondare l'organizzazione cesaristica. Tuttavia questa caratteristica non è essenziale. Spesso l'origine militare del leader è alla base della formazione di regimi militari privi di componenti cesaristiche. E, simmetricamente, accade che il leader che crea il regime cesaristico non sia un militare (è il caso di Napoleone III).

La seconda precisazione è che la definizione che abbiamo adottata non basta, normalmente, a definire compiutamente nessun regime politico (neanche quelli che sono stati così catalogati nel corso del tempo), per la ragione che nessun regime politico può basarsi solo su legami emozionali diretti fra un leader e il suo seguito. Anche in un regime cesaristico saranno sempre presenti gruppi elitari di diversa estrazione (politica, economica, religiosa, ecc.) e l'organizzazione cesaristica avrà connotati molto diversi a seconda delle caratteristiche di queste élites e dei rapporti che esse instaurano con il leader. Inoltre, sono possibili variazioni forti fra un caso e l'altro a seconda dei rapporti che esistono fra il capo e il 'cerchio interno' dei seguaci, il che dipende dalle caratteristiche dell'organizzazione (militare, partitica, ecc.) che il leader controlla. La definizione adottata lascia quindi del tutto indeterminata (varierà da caso storico a caso storico) l'organizzazione del regime cesaristico: la distinzione fra i diversi tipi di cesarismo deve essere lasciata all'indagine empirica.

Il cesarismo, inteso nel senso stretto della definizione, deve essere inoltre distinto dai regimi politici in cui sono presenti, ma non in posizione predominante, componenti cesaristiche (sono di questo genere, come vedremo, le democrazie plebiscitarie esaminate da Weber): in questi regimi manca l'elemento della provvisorietà. A istituzioni politiche stabili si associano tecniche e procedure di organizzazione del consenso che danno periodicamente luogo a fenomeni, sia pure attenuati e diluiti, di cesarismo. Per spiegare ciò che qui si intende ricorreremo a due esempi, entrambi tratti dalla storia francese. Il primo esempio è per così dire obbligato: riguarda il caso del regime di Napoleone Bonaparte, che è il punto di riferimento inevitabile di tutte le analisi del cesarismo.

Un regime cesaristico 'puro' è quello che Napoleone instaura con il colpo di Stato del 9 novembre 1799, ponendo fine al regime del Direttorio. Questa fase, a cui appartengono alcune delle riforme (in particolare quella amministrativa) mediante le quali Bonaparte pone le basi per l'istituzionalizzazione del suo regime, termina con il plebiscito del 1802, in virtù del quale Bonaparte consolida definitivamente il suo potere diventando console a vita. Nella fase successiva le caratteristiche plebiscitarie del regime non vengono meno (ancora un plebiscito trasforma Bonaparte da console a imperatore dei Francesi nel 1804), ma la dittatura napoleonica è ormai consolidata.

Il secondo esempio riguarda il caso del gollismo, e anche qui è possibile distinguere due diverse fasi. È un regime cesaristico puro il regime di transizione che si afferma nella primavera del 1958, quando il generale de Gaulle assume i pieni poteri, e termina con il referendum dell'ottobre 1962 sulla modifica costituzionale che sancisce l'elezione diretta del presidente della repubblica.

Da quella data il regime cesaristico puro lascia il posto a un regime semipresidenziale, che contiene forti elementi cesaristici ma non è più (o è sempre meno) cesaristico nel senso della definizione adottata. Le elezioni presidenziali del 1965, ove de Gaulle deve subire l''umiliazione' del ballottaggio con il candidato socialista Mitterrand, segnano l'avvenuto consolidamento delle nuove istituzioni (in termini weberiani, l'istituzionalizzazione del carisma).

Analogamente, il regime fascista italiano (per il quale, soprattutto da parte di studiosi marxisti, è stato usato il termine bonapartismo) non è, alla luce della definizione adottata, un regime cesaristico. È invece, esaurita la fase del consolidamento, un regime autocratico con elementi cesaristici.

Per usare termini schmittiani potremmo dire che il cesarismo è il regime dello "stato d'eccezione" in cui però l'assunzione di pieni poteri da parte del leader si sposa con un consenso plebiscitario, o semiplebiscitario, della comunità politica (delle sue componenti maggioritarie). In questa prospettiva si può spiegare facilmente anche la scarsa attenzione che la scienza politica presta ai fenomeni cesaristici. Trattandosi di regimi di transizione, i regimi cesaristici hanno una vita effimera. Essi sorgono in risposta a una crisi e si trasformano più o meno rapidamente in regimi diversi. A parte la difficoltà di trattare il caso dei regimi personalistici, anche la tipica provvisorietà e instabilità del fenomeno spiega la disattenzione della letteratura. Ma si tratta di una disattenzione ingiustificata, soprattutto perché i fenomeni cesaristici sono spesso all'origine dei più duraturi regimi politici che li seguono. E, in molti casi, sono proprio le decisioni del leader nella fase cesaristica pura a forgiare il campo su cui si edificheranno le istituzioni della fase successiva.

La disattenzione per il fenomeno fa sì che i principali punti di riferimento restino tutt'ora le teorie di Marx e di Weber.

2. La teoria del bonapartismo

Fra gli strumenti concettuali dell'analisi marxista la categoria 'bonapartismo' occupa una posizione particolare perché le è affidato il compito di riassorbire una vistosa anomalia che la teoria si trova a fronteggiare. L'anomalia consiste nell'esistenza di situazioni politiche manifestamente caratterizzate dall'azione autonoma dello Stato (rispetto alle classi sociali) e dalla presenza di leaders i cui comportamenti non sono facilmente riconducibili entro la categoria 'rappresentanza di interessi di classe'. Sotto il profilo logico la teoria del bonapartismo assume, nel più vasto corpo della teoria politica marxista, il ruolo di un'ipotesi ad hoc introdotta per spiegare fatti altrimenti inspiegabili, la cui esistenza rischia di falsificare il 'nucleo centrale' della teoria. Nella versione originaria, formulata da Marx nel 18 Brumaio di Luigi Bonaparte (e ripresa da Engels per il caso della Germania), la teoria è caratterizzata dai punti seguenti.

1. Il bonapartismo si afferma in presenza di una situazione di stallo nel conflitto fra le due principali classi sociali, la borghesia e il proletariato.

2. Lo stallo fra le classi principali apre lo spazio a un'influenza politica delle classi tradizionali, in particolare dei contadini.

3. I contadini però, a differenza della borghesia e del proletariato, sono dispersi sul territorio e privi di legami organizzativi che li rendano capaci di agire continuativamente e con coerenza sulla scena politica. Incapaci di risolvere il problema del free rider, sono impossibilitati a trasformarsi in soggetto collettivo.

4. Sfruttando la forza rappresentata dagli apparati dello Stato (burocrazia, forze armate, corpi di polizia, ecc.), il capo del regime, il leader, è in condizioni di operare come forza autonoma.

Il regime bonapartista è intrinsecamente instabile. Nato da una condizione di stallo fra le classi, è destinato a perire quando l'una o l'altra delle classi in lotta riprenderà il sopravvento.

Sul solco di Marx molti studiosi hanno tentato di approfondire il tema del bonapartismo, principalmente allo scopo, in questo secolo, di spiegare il fascismo. Nelle Note sul Machiavelli Gramsci utilizza il termine cesarismo per una breve analisi del fenomeno che arricchisce su alcuni punti l'analisi di Marx. Il cesarismo, per Gramsci, sorge in condizioni di "equilibrio catastrofico" fra le classi e rappresenta una soluzione "arbitrale", volta a impedire che le classi in lotta si distruggano a vicenda. Possono darsi due tipi di cesarismo, l'uno progressivo (Cesare, Napoleone I), l'altro regressivo (Napoleone III, Bismarck): "È progressivo il cesarismo, quando il suo intervento aiuta la forza progressiva a trionfare sia pure con certi compromessi e temperamenti limitativi della vittoria, è regressivo quando il suo intervento aiuta a trionfare la forza regressiva, anche in questo caso con certi compromessi e limitazioni, che però hanno un valore, una portata e un significato diversi che non nel caso precedente" (v. Gramsci, 1966?, p. 58). Inoltre, per Gramsci, va considerata un'importante differenza fra i cesarismi del passato e quelli dell'età contemporanea (ad esempio il fascismo italiano). Nel passato il cesarismo era sempre associato all'elemento militare, mentre i mutamenti delle tecniche e dell'organizzazione politica rendono il cesarismo contemporaneo meno legato al ruolo della forza militare. Nei termini di Gramsci, esso è meno militare e più "poliziesco".

Una posizione a sé stante ha, fra le teorie marxiste del bonapartismo, quella di Lev Trockij. Il problema di Trockij, infatti, non è spiegare il fascismo ma lo stalinismo, l'evoluzione politica russa postrivoluzionaria. Qui il punto di partenza non è più lo stallo fra due classi sociali in lotta, bensì l'oppressione esercitata dalla burocrazia ai danni del proletariato. Lo stalinismo è un fenomeno collegato alla lotta fra burocrazia e proletariato ed è, per Trockij, un regime cesaristico sui generis. È anch'esso temporaneo, al pari dei cesarismi in ambito capitalistico-borghese, ma la sua affermazione dipende dalle esigenze di predominio della burocrazia ai danni della "classe generale".

Un altro autore marxista, Nicos Poulantzas, in quello che resta il più articolato tentativo di elaborare una teoria marxista dello Stato, Potere politico e classi sociali, prende le distanze dalla tesi dello stallo o equilibrio catastrofico. Per Poulantzas il bonapartismo è solo una manifestazione particolare di una più generale autonomia dello Stato capitalista dalla classe dominante. Egli polemizza con la tendenza di Engels ad accomunare fenomeni così diversi come il bonapartismo, lo Stato assolutista e il bismarckismo. Per Poulantzas è propria del capitalismo questa circostanza: "lo Stato capitalistico fa suo l'interesse politico della borghesia e realizza per suo conto la funzione egemonica politica che quest'ultima non può assolvere. A tale scopo lo Stato capitalistico è costretto ad assumere un'autonomia relativa nei confronti della borghesia: sta qui il significato profondo delle analisi di Marx sul bonapartismo come tipo capitalistico di Stato" (v. Poulantzas, 1968; tr. it., p. 365). Questa impostazione apre la strada a una classificazione delle forme politiche dello Stato capitalistico. Il bonapartismo perde i caratteri di eccezionalità che aveva nella teoria marxista tradizionale e diventa uno fra i molti possibili modi di manifestarsi dell'autonomia relativa dello Stato.

La valutazione della teoria del bonapartismo, nelle sue diverse versioni, dipende ovviamente dal giudizio che si dà sull'utilità degli strumenti di analisi offerti dalla più generale teoria politica marxista. Lasciando da parte il caso di Poulantzas, il quale, utilizzando uno schema di spiegazione funzionalistico, tenta di gettare le basi di una teoria generale dello Stato ma al prezzo di diluire le specificità del fenomeno bonapartista, l'utilità delle categorie marxiste, per l'esame del fenomeno in questione, non appare elevata. Il tentativo è viziato dal bisogno di evadere, lasciando però intatto il nucleo della teoria, dalle insufficienze proprie di una concezione che tratta le forze politiche come 'nomenclature' delle classi sociali, dalla necessità di affermare, per difendere la teoria a fronte di evidenti anomalie empiriche, il carattere eccezionale del fenomeno, la sua condizione di eccezione che confermerebbe la regola. Resta tuttavia a suo merito il fatto che quello marxista è uno dei pochissimi tentativi relativamente sistematici di spiegare il cesarismo.

3. La teoria del carisma

La teoria weberiana del carisma è stata più volte ricostruita nei suoi diversi aspetti (v., da ultimo, Cavalli, 1981) e quindi non è il caso qui di rivisitarla compiutamente. Al fine dell'esame del cesarismo la teoria del carisma ha il pregio, rispetto a qualsiasi altra teoria delle scienze sociali, di spiegare le cause di quell'ascendente personale in virtù del quale un individuo, al di fuori della tradizione e senza la sanzione di norme legali, arriva a essere acclamato come leader da una moltitudine dando vita a regimi cesaristici.

Un regime cesaristico comporta invariabilmente la presenza del capo carismatico nell'accezione weberiana. Il carisma è riconosciuto come tale e si afferma in presenza di uno stato di crisi, di acuto stress sociale. Comporta una 'chiamata' che, per essere efficace, necessita di uno stato di disorganizzazione sociale, una situazione che si ripercuote sugli individui incrinandone credenze, identità e abiti mentali, e rendendoli disponibili alla mobilitazione carismatica. Nella visione weberiana il carisma è il veicolo del cambiamento sociale e istituzionale, l'energia che crea nuove istituzioni e/o determina trasformazioni nelle istituzioni preesistenti. Perché l'innovazione introdotta sia duratura occorre però che intervenga l'istituzionalizzazione o 'routinizzazione' del carisma. La routinizzazione comporta la transizione da un regime personale, centrato sull'autorità carismatica del leader, a un regime istituzionale, come esito di un processo che Weber definisce di "legalizzazione".

Alla luce di questa teoria i fenomeni cesaristici possono essere distinti a seconda dei loro differenti esiti storici. La differenza principale corre fra i (pochi) regimi cesaristici che superano la soglia della routinizzazione del carisma e quindi sopravvivono al loro fondatore e quelli, storicamente assai più numerosi, che non la superano. In questo caso la fine del regime cesaristico apre una nuova fase di disorganizzazione sociale e politica simile a quella che ne aveva favorito l'affermazione.

4. Cesarismo e democrazia: la democrazia plebiscitaria

La grande concentrazione di potere nelle mani di un solo individuo, che è propria del cesarismo, nonché il carattere plebiscitario del conferimento della delega (nella forma pura l'acclamazione sostituisce l'elezione del rappresentante) rendono apparentemente inconciliabili cesarismo e democrazia. È certamente vero, peraltro, che nella maggioranza dei casi storici (il gollismo è un'importante eccezione) il cesarismo è all'origine di regimi autocratici. Occorre però notare che, a dispetto del suo nome, il cesarismo è un fenomeno squisitamente moderno, legato alla "democratizzazione fondamentale" (Mannheim), all'ingresso delle masse nelle arene politiche. Come la democrazia liberale e, sul versante opposto, il totalitarismo, il cesarismo presuppone la 'società di massa'.

Seguendo una recente rilettura delle pagine weberiane (v. Cavalli, 1981, 1982 e 1987) è possibile distinguere due diversi tipi di regime politico con componenti cesaristiche: le tirannie carismatiche (la versione autocratica del cesarismo) e le democrazie plebiscitarie. La democrazia plebiscitaria, o democrazia con un leader, viene distinta, da Weber, dalle democrazie acefale. Essa si fonda su istituti e procedure che favoriscono la periodica apparizione di fenomeni, sia pure attenuati, di cesarismo.

Anche se gli arrangiamenti istituzionali possono essere i più diversi, si può dire che la formazione di democrazie plebiscitarie è favorita da sistemi elettorali maggioritari e/o dall'istituto dell'elezione diretta del capo del governo, mentre le democrazie acefale sono più facilmente associate a sistemi elettorali proporzionali e/o a forme di elezione indiretta (parlamentare) del capo del governo. Nell'analisi weberiana della democrazia plebiscitaria erano presenti due componenti. In primo luogo, l'influenza del classico studio di Mosei Ostrogorski (v., 1902) sui partiti politici moderni: Ostrogorski aveva mostrato come e perché le moderne macchine di partito favorissero l'affermazione di tendenze cesaristiche nelle democrazie. In secondo luogo, e indipendentemente dall'opera di Ostrogorski, l'attenzione per la Gran Bretagna di Gladstone e di Disraeli - termine di riferimento anche politico nella polemica weberiana contro l'"eredità negativa" del bismarckismo - e per gli Stati Uniti. Nella più pura tradizione del realismo politico, Weber vedeva nel moderno capo di partito del mondo anglosassone un dittatore carismatico, e nelle elezioni il momento del 'riconoscimento' e dell'acclamazione del capo anziché della scelta.

La democrazia plebiscitaria ha una collocazione ambigua nella più generale teoria politica weberiana (v. Beetham, 1985²): descrizione e prescrizione si compenetrano. Per un verso la democrazia plebiscitaria è per Weber la sola forma di democrazia congruente con le esigenze della società occidentale contemporanea; per un altro verso è anche l'unica strada per mantenere aperta la porta alla periodica irruzione del carisma, inteso come la forza capace di contrastare o controbilanciare, almeno in parte, gli effetti negativi (la "gabbia d'acciaio") della razionalizzazione.

Dopo Weber molti autori hanno messo in luce l'esistenza, nelle democrazie contemporanee, delle tendenze da lui indicate (v. AA.VV., 1987). Essenzialmente due fenomeni, fra loro intrecciati, sembrano favorire l'affermazione di tendenze plebiscitarie, e quindi cesaristiche, nelle democrazie contemporanee. Il primo è rappresentato dal ruolo dei mass media e, in particolare, della televisione nella competizione politica; il secondo dalla 'crisi degli intermediari', ossia la crisi delle strutture-ponte, o cuscinetto, fra gli individui e il potere politico (un tema classico della letteratura sulla società di massa). Quella che, sia pure con una certa dose di esagerazione, è stata chiamata la "democrazia elettronica" (v. Saldich, 1979) svolge un ruolo potentissimo nel guidare in direzione cesaristica i processi politici poliarchici. La 'crisi degli intermediari' è in parte un effetto del ruolo assunto dai media, ma in parte, e forse si tratta della parte preponderante, deriva anche da modificazioni più profonde delle società occidentali: dai mutamenti della struttura di classe, dall'innalzamento dei livelli di istruzione, dai cambiamenti nel ritmo della mobilità sociale, ecc.

La prima e fondamentale crisi, imputabile alla secolarizzazione, è il declino dell'associazionismo religioso (anche la comparsa di 'minoranze intense' religiose è spiegabile alla luce dell'ipotesi della secolarizzazione).

A quel declino si affianca la crisi dei vecchi partiti di massa, dotati di solidi apparati burocratici, collocati al centro di ramificate subculture politiche, forti del consenso di ampi settori dell'elettorato di appartenenza. Questi partiti vanno progressivamente trasformandosi in partiti 'pigliatutto' (v. Kirchheimer, 1966), dotati di strutture tecnico-professionali (esperti in mass media, tecnici dei sondaggi, pubblicitari, ecc.), alla perenne caccia del consenso, volubile e aleatorio, dell'elettorato di opinione. Questi fenomeni favoriscono la cosiddetta 'personalizzazione del potere', lo spostamento della lealtà dai partiti ai candidati e il conseguente rafforzamento del ruolo pubblico del leader. Là dove, come negli Stati Uniti, l'assetto istituzionale di per sé già premia la democrazia plebiscitaria, le tendenze cesaristiche ne vengono esaltate. Ma il fenomeno, sia pure in forma più attenuata, si manifesta anche in quelle poliarchie dell'Europa continentale che, per il loro assetto istituzionale, Weber definirebbe democrazie acefale.

5. Cesarismo e politica internazionale

È una regola riconosciuta quella secondo cui, all'interno di qualsiasi organizzazione, il potere decisionale si concentra al vertice in presenza di sfide di origine esterna che minacciano la sopravvivenza dell'organizzazione. In tutti gli ambiti organizzati il potere è normalmente disperso: molti individui e molti gruppi, ai diversi livelli gerarchici, detengono risorse utilizzabili per accumulare potere e/o per esercitarlo. Quando interviene una crisi organizzativa per effetto di una sfida esterna, il potere rifluisce al vertice: emergono capi carismatici che prendono decisioni 'strategiche', di ristrutturazione dell'organizzazione, necessarie per fronteggiare la sfida esterna e far uscire l'organizzazione dal suo stato di crisi (v. Crozier, 1964).

La storia delle organizzazioni è spesso segnata da sequenze alternate di improvvisi 'drammi sociali', dovuti, per lo più, a sfide provenienti dall'ambiente esterno, e di lunghe fasi di routine. Alle due fasi corrispondono metodi decisionali diversi: nei periodi di routine (potere diffuso e frazionato) prevale il metodo incrementale, il mutuo aggiustamento degli interessi (v. Lindblom, 1959); nei periodi di crisi (potere concentrato) prevalgono le decisioni strategiche di riorganizzazione (del tipo mixed scanning, nella terminologia di Etzioni, 1967). Il punto cruciale, comunque, è che le crisi che scuotono le organizzazioni minacciandone la sopravvivenza, e il cui effetto è quello di trasferire il potere decisionale nelle mani di capi carismatici, sono normalmente originate da mutamenti nell'ambiente esterno delle organizzazioni: cambiamenti ambientali provocano sfide, pressioni che si scaricano sulle organizzazioni determinando una ridistribuzione del potere interno. Se dai contributi della teoria dell'organizzazione passiamo a considerare le indicazioni della teoria delle relazioni internazionali, scopriamo all'opera la stessa regola.

I conflitti internazionali hanno sempre l'effetto di determinare una forte concentrazione del potere entro gli Stati (v. Wright, 1970³). Le guerre rappresentano, per i sistemi politici, quelle sfide esterne che favoriscono la concentrazione del potere. In tutte le epoche storiche il grado di centralizzazione del potere entro gli ordinamenti politici è stato influenzato dall'intensità delle sfide militari (v. Andreski, 1971²). Uno degli effetti delle guerre sulle democrazie rappresentative, in questo secolo, è stato quello di rafforzare (temporaneamente, per la durata del conflitto) il potere personale dei leaders (primo ministro, presidente) a fronte dei membri del governo e del parlamento. In caso di guerra la normale dialettica fra maggioranza e opposizione (nonché all'interno dei partiti di governo) viene meno, e i capi di governo acquistano una libertà d'azione che non possiedono in tempo di pace (v. Stein, 1980).

Ciò ha attinenza con il fenomeno del cesarismo. Si è detto che il cesarismo si afferma in condizioni di crisi dell'ordinamento politico preesistente. La crisi che apre la strada al regime cesaristico è spesso conseguenza di una sfida internazionale (di carattere militare, per lo più) che la classe politica non riesce a fronteggiare. La disorganizzazione che la sfida provoca apre la strada a una soluzione cesaristica, all'affermazione di una 'tirannia' carismatica. Che la sfida assuma sovente le sembianze dello stato di guerra contribuisce a spiegare perché il fondatore del regime cesaristico sia spesso (anche se non sempre) un capo militare.

Anche l'affermazione di tendenze plebiscitarie nelle democrazie occidentali può essere ricondotta, almeno in parte, a sfide che hanno nelle pressioni esterne, di carattere internazionale, la loro origine. È questo il caso francese: il regime cesaristico di de Gaulle e la nascita della Quinta Repubblica furono l'effetto della mancata soluzione del conflitto algerino da parte della classe politica della Quarta Repubblica.

Ma è anche, secondo diversi studiosi, il caso degli Stati Uniti dove, nel corso del XX secolo, l'istituto della presidenza si è rafforzato a spese degli altri poteri istituzionali. Le cause sono molte (l'ampliamento dei compiti del governo federale, la formazione di una burocrazia professionale che ha lentamente sostituito, a partire dagli ultimi decenni del secolo scorso, la precedente amministrazione basata sul sistema delle spoglie: v. Wilson, 1978), ma l'elemento decisivo è stato il mutamento di collocazione internazionale degli Stati Uniti. La "presidenza imperiale" (v. Schlesinger, 1973) è, soprattutto, il prodotto di un cambiamento radicale della posizione statunitense: da paese periferico a superpotenza. Il rapporto fra sfide esterne, affermazione di un'egemonia politica internazionale e rafforzamento del potere esecutivo è così descritto da Franz Schurmann: "C'è un legame fra guerra, impero e potere esecutivo.

Lo stesso tipo di legame può essere osservato tra crisi, politica mondiale e potere presidenziale per i decenni successivi alla seconda guerra mondiale. Essi si alimentano reciprocamente. La crisi porta a una nuova politica mondiale dell'America, la quale a sua volta aumenta il potere presidenziale e la centralizzazione. Ma funzionano anche altre varianti di questa equazione. Una volta aumentato il potere presidenziale, vengono annunciate nuove linee politiche mondiali che a loro volta invariabilmente producono crisi. Gli uni erano e sono reciprocamente causa ed effetto degli altri. La decisione americana di svolgere un ruolo imperiale nel mondo ha reso inevitabile un contesto di crisi continue, un maggiore coinvolgimento in lontane parti del mondo, e una concentrazione del potere senza precedenti alla Casa Bianca" (v. Schurmann, 1974; tr. it., pp. 36-37).

Se fu la crisi economica degli anni trenta a dare la spinta iniziale portando Roosevelt alla presidenza, furono però tre eventi, tutti e tre attinenti ai rapporti internazionali, a consolidare definitivamente il potere presidenziale. Il primo fu lo scoppio della seconda guerra mondiale che, in accordo con una sequenza ricorrente, rafforzò la posizione del presidente. Questo effetto è, in genere, temporaneo: dura quanto durano le ostilità. Nel caso statunitense non fu così perché la fine del conflitto coincise con l'assunzione in via permanente, da parte degli Stati Uniti, del ruolo di nazione-guida del mondo occidentale (il secondo evento). Il terzo fu l'avvento dell'era nucleare. "Nessun'altra esigenza della politica postbellica giustificò altrettanto il mantenimento di un immenso potere statale esercitato da un vertice esecutivo forte, come il bisogno di controllare l'energia atomica e le sue armi. Nulla incoraggiò altrettanto il crescente potere di quel governo come la richiesta universale di sicurezza dalla terribile possibilità di un annientamento atomico" (ibid., p. 137). Leadership mondiale e politica della deterrenza nucleare esaltarono il ruolo del presidente entro il sistema politico; soprattutto, resero definitivo il primato presidenziale. Senza questa evoluzione, difficilmente il ruolo dei mass media, la crisi dei partiti politici, ecc. sarebbero stati condizioni sufficienti per alimentare la democrazia plebiscitaria.

Gli esempi della Francia e degli Stati Uniti suggeriscono che il rapporto fra concentrazione del potere, tendenze cesaristico-plebiscitarie e sfide internazionali è assai stretto anche nel caso delle democrazie rappresentative. Per restare alla terminologia weberiana, è possibile ipotizzare che le democrazie acefale, ove il potere è diffuso e frazionato e ove è assente la componente cesaristica, possono sopravvivere solo in condizioni di sicurezza esterna. È il caso di alcune democrazie acefale europeo-continentali dopo la seconda guerra mondiale, la cui stabilità è dipesa soprattutto, probabilmente, dall'esistenza dell''ombrello' politico-militare statunitense. È quindi lecito ipotizzare che mutamenti delle condizioni internazionali e, in particolare, un aumento della vulnerabilità di questi paesi a fronte di sfide esterne, ne favorirebbero la transizione al 'tipo' della democrazia plebiscitaria.

Il potere monocratico, o monocrazia (v. Miglio, 1988), è la forma assunta da tutti gli ordinamenti politici del passato in presenza di sfide militari. Il cesarismo è potere monocratico nelle condizioni politiche proprie della società di massa. La democrazia plebiscitaria, involucro di un cesarismo diluito, vincolato da norme costituzionali, potrebbe essere, a sua volta, la versione occidentale contemporanea, democratico-rappresentativa, di un fenomeno antico e ricorrente.