Centralismo organico e democratico

da

Dominique Grisoni, Robert Maggiori
Guida a Gramsci
BUR, Milano 1975

 CENTRALISMO

In Gramsci, il centralismo non riguarda solo il partito rivoluzionario, ma anche le sue manifestazioni «nella vita statale (unitarismo, federazione, unione di stati federati, federazione di stati o stato federale ecc.); nella vita interstatale (alleanze, forme varie di "costellazione" politica internazionale); nella vita delle associazioni politiche e culturali (massoneria, Rotary Club, Chiesa cattolica); sindacali, economiche (cartelli, trust), in uno stesso paese, in diversi paesi ecc.» (Mach, EI p. 75, ER p. 104). In linea generale, distingue tre forme di centralismo:

il centralismo democratico, il centralismo burocratico, il centralismo organico. Fra centralismo democratico e centralismo organico c'è una stretta interdipendenza, in quanto: «l'organicità non può realizzarsi che nel centralismo democratico, il quale è un "centralismo" in movimento, per così dire, cioè una continua adeguazione dell'organizzazione al movimento reale...» (Mach, EI p. 76, ER p. 105). Come Lenin aveva dimostrato a proposito del partito rivoluzionario il «movimento» del centralismo democratico non è solo il risultato di costanti rapporti bilaterali fra vertice e base, ma proviene anche dal costante adeguamento alla situazione storica concreta, grazie all'estrema elasticità della sua struttura, che è nello stesso tempo estremamente salda, e che è in grado, attraverso l'attività pratica del suo «stato maggiore», di trasformare le informazioni che vengono dalla base in linea politica coerente che sarà liberamente accettata e liberamente seguita da ciascuno. In questo senso dunque il centralismo democratico è un centralismo organico.

Ma nella concezione gramsciana, lo è anche perché, attraverso il centralismo, emerge il rapporto organico fra organizzazione e masse, cioè fra intellettuali e base. Attenendoci ancora all'esempio del partito rivoluzionario, il partito, secondo Gramsci, occupa la funzione e il posto dell'intellettuale (pensiamo alla formula di Togliatti: intellettuale collettivo). Con questa caratterizzazione, egli definisce un nuovo modo di azione in seno al partito stesso, un nuovo rapporto fra il partito come organizzazione e la classe che questo rappresenta, fra il partito e la classe ad esso alleata. Il centralismo democratico si fonda dunque su un processo di unificazione organica che conferisce al partito la possibilità di agire come forza intellettuale omogenea e di assicurarsi così una funzione egemonica. Altrove viene definito come una «capacità di equilibrare» (Gramsci dice esattamente «temperare») «le spinte di base con le direttive del vertice come una inserzione continua di elementi che sgorgano dalle masse e si aggregano nel solido quadro dell'apparato direttivo che assicura la continuità e la regolare accumulazione delle esperienze» (Mach, EI p. 76, ER p. 105); oppure come la realizzazione pratica dell'educazione delle masse. Il centralismo «organico perché tiene conto del movimento, che è il modo organico di rivelarsi della realtà storica» (Mach, EI p. 76, ER p. 105) da una parte dà al partito (o allo Stato o a qualsiasi altra organizzazione concepita secondo questo schema) efficacia egemonica, dall'altro lo mette al riparo dalla disgregazione che deriverebbe dall'eliminazione dello stato maggiore, preparando i suoi successori.

All'opposto, il centralismo burocratico ha perso l'elemento democratico organico dell'organizzazione. Consegue per esempio a un irrigidimento dei rapporti all'interno del partito; lo stato maggiore, non più collegato con la base, diventa allora una sfera autonoma, una «consorteria angusta che tende a perpetuare i suoi gretti privilegi» (Mach, EI p. 76, ER p. 105). Questa «manifestazione morbosa», resa possibile dalla scarsa maturità politica della base, si traduce in una rapida degenerazione delle organizzazioni contaminate la cui sfera dirigente rappresenta ormai solo se stessa e agisce solo in funzione dei propri interessi. Il centralismo burocratico si fonda su una visione statica, dogmatica e meccanica della realtà, che si presenta come un dato immutabile e obbiettivamente compiuto.

Mentre il centralismo democratico richiede «una organica unità tra teoria e pratica, tra ceti intellettuali e masse popolari, tra governanti e governati» (Mach, EI p. 77, ER p. 107) il centralismo burocratico finisce per dimenticare l'autentica unità concependola come un «sacco di patate», cioè una «giustapposizione meccanica di singole "unità" senza nesso fra loro» (Mach, EI p. 77, ER p. 107).

 da

Gramsci
le sue idee nel nostro tempo
Editrice l'Unità, Roma 1987

Franco Ferri

 Centralismo

La disputa sui cosiddetti «centralismo organico» e «centralismo democratico» ha un riferimento oggettivo, oltre che intrinseco e concettuale, alle posizioni che al Congresso di Lione del partito comunista contrapposero Gramsci a Bordiga. Nella commissione politica nominata per elaborare i documenti di quel Congresso, Bordiga sostenne apertamente che in determinate condizioni la Centrale può guidare il partito anche contro la volontà della maggioranza. «Quindi alla formula 'centralismo democratico' sareb­be meglio sostituire quella di 'centralismo organico'».

Nel riprendere il tema nei Quaderni del carcere, Gramsci sottolinea che il 'centralismo organico' immagina di poter fabbricare un organismo una volta per sempre, già perfetto obbiettivamente; il centralismo organico come tendenza al comando caporalesco e astrattamente Concepito, come tendenza a separare il 'comando' da ogni altro elemento e a farne un 'toccasana' di nuovo genere, è legato a una concezione meccanica della storia e del movimento.

Per precisare ulteriormente il suo pensiero, Gramsci riporta una citazione da uno scritto apparso nel 1930 in Revue des deux mondes: «Comandare è niente. Ciò che è necessario è comprendere coloro con i quali si ha a che fare e farsi comprendere da essi. Comprendere è il segreto della vita».

Il 'centralismo democratico' è connotato dall'essere un 'centrali­smo in movimento', cioè «una continua adeguazione dell'organizza­zione al movimento reale, un contemperare le spinte dal basso con il comando dall'alto, un inserimento continuo degli elementi che sbocciano dal profondo della massa nella cornice solida dell'apparato di direzione che assicura la continuità e l'accumularsi delle esperien­ze».

Il «centralismo organico» (o burocratico), si fonda invece sul presupposto «che il rapporto tra governanti e governati sia dato dal fatto che i governanti fanno gli interessi dei governati e pertanto 'devono' averne il consenso, cioè deve verificarsi l'identificazione del singolo col tutto, il tutto (qualunque organismo esso sia) essendo rappresentato dai dirigenti».

Questo concetto può essere utile e necessario in organismi il cui elemento costitutivo è posto in un sistema dottrinario rigidamente e rigorosamente formulato e che esercita quindi un tipo di direzione castale e sacerdotale, come è per la Chiesa cattolica, per la quale ogni forma di intervento dal basso sarebbe elemento disgregatore. Ma per altri organismi «è quistione di vita non il consenso passivo e indiretto, ma quello attivo e diretto, la partecipazione quindi dei singoli anche se ciò provoca un'apparenza di disgregazione e di tumulto. Una coscienza collettiva non si forma se non dopo che la molteplicità si è manifestata attraverso l'attrito dei singoli».

Appare qui esplicita la critica alle tesi del II congresso (Roma) del partito comunista e alla concezione bordighiana, settaria, del partito. In quelle tesi si affermava che «coscienza e volontà» non si possono pretendere dai singoli militanti; esse risiedono nell'«organi- smo collettivo unitario»: in altre parole, come ebbe a scrivere Gramsci nel 1925 ricordando quelle tesi, «la centralizzazione e l'unità erano concepite in modo troppo meccanico: il comitato centrale, anzi il comitato esecutivo era tutto il partito, invece di rappresentarlo e dirigerlo».

Una concezione che non può avere altra conseguenza se non l'isterilirsi di ogni attività dei singoli, la passività delle masse del partito e «la ebete sicurezza» che tanto c'è chi a tutto pensa e a tutto provvede (lettera a Togliatti e Terracini del 9-11-1924). «Non si è concepito il partito come il risultato di un processo dialettico in cui convergono il movimento spontaneo delle masse rivoluzionarie e la volontà organizzativa e direttiva del centro, ma solo come un qualcosa di campato in aria, che si sviluppa in sé e per sé e che le masse raggiungeranno quando la situazione sia propizia e la cresta dell'ondata rivoluzionaria giunga fino alla sua altezza, oppure quan­do il centro del partito ritenga di dover iniziare una offensiva e si abbassi alla massa per stimolarla e portarla all'azione».

Le annotazioni di Gramsci si inquadrano in un orizzonte più ampio: non solo la concezione della democrazia in un partito, ma la concezione stessa del partito in rapporto alla società, il problema del rapporto tra partito e Stato, della dittatura del proletariato, del consenso, della egemonia. Una riflessione che investe la natura dei regimi autoritari da un lato, ma anche il rapporto tra partito e Stato in Urss, e in questo quadro anche un giudizio sull'azione di Stalin nei confronti delle minoranze (azione criticata già in una lettera a Togliatti del 1926).