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La battaglia di Caporetto, o dodicesima battaglia dell'Isonzo, (in
tedesco Schlacht von Karfreit, o zwölfte Isonzoschlacht) venne
combattuta durante la prima guerra mondiale tra il Regio Esercito
italiano e le forze austro-ungariche e tedesche.
Lo scontro, che iniziò alle ore 2:00 del 24 ottobre 1917,
rappresenta tuttora la più grave disfatta dell'esercito
italiano[7], tanto che, nella lingua italiana, ancora oggi il
termine Caporetto viene utilizzato come sinonimo di sconfitta.
Con la crisi della Russia dovuta alla rivoluzione, Austria-Ungheria
e Germania poterono trasportare truppe al fronte occidentale e
italiano. Forti di questi rinforzi, in questa battaglia gli
austro-ungarici, aiutati da reparti d'élite tedeschi,
sfondarono le linee delle truppe italiane che, impreparate ad una
guerra difensiva e duramente provate dalle precedenti undici
battaglie dell'Isonzo, non ressero l'urto e dovettero ritirarsi fino
al fiume Piave.
La sconfitta portò alla sostituzione del generale Luigi
Cadorna, che aveva imputato l'esito infausto della battaglia alla
viltà dei suoi soldati, con Armando Diaz. I soldati italiani
si riorganizzarono abbastanza velocemente e fermarono le truppe
austro-ungariche e tedesche nella successiva prima battaglia del
Piave permettendo così all'intero esercito di difendere ad
oltranza la nuova linea difensiva.
Nozioni geografiche riguardanti la grande guerra
I luoghi più significativi dove venne combattuta la battaglia
di Caporetto furono l'omonima conca, le valli del Natisone e il
massiccio del monte Colovrat.
La posizione di Caporetto (Kobarid in sloveno) è
particolarmente strategica dato che si trova all'incrocio tra il
corso dell'Isonzo e la valle che porta verso la pianura friulana.
Durante la Grande Guerra quindi la città funzionò da
collegamento tra l'interno del paese e la complessa organizzazione
del IV Corpo d'armata, la grande unità del Regio Esercito
dispiegata tra la vallata e le montagne sovrastanti. I paesi
centrali rispetto ai settori in cui era divisa l'ampia zona di
combattimento del corpo d'armata ospitavano i comandi di divisione
(Dresenza Picco, Smasti, Saga) con tutti i servizi aggregati
dell'artiglieria, del genio militare e della sanità, mentre
quelli a pochi chilometri dalla prima linea alloggiavano i comandi
di brigata, le riserve e le truppe a riposo.
Collocate nella parte più orientale della regione
Friuli-Venezia Giulia, le valli del Natisone collegano Cividale del
Friuli alla valle dell'Isonzo in Slovenia. Sono costituite dalla
valle del Natisone propriamente detta e da quelle percorse dai suoi
affluenti, l'Alberone, il Cosizza e l'Erbezzo. A nord sono dominate
dal monte Matajur, o monte Re, alto 1.641 m[.
La catena del Colovrat (Kolovrat in sloveno) è un lunga
catena montuosa caratterizzata da una serie di alture costituite dal
monte Podclabuz (Na Gradu-Klabuk) (1.114 m), dal monte Piatto (1.138
m) e dal monte Nagnoj a quota 1.192, coincidente con la linea di
confine attuale fra Italia e Slovenia. Tale sistema di monti si
eleva sopra la valle tra Caporetto e Tolmino (Tolmin in sloveno) e
nel maggio 1915 costituì uno dei punti di partenza delle
truppe italiane verso i territori dell'Impero austro-ungarico.
Premesse
Le prime quattro offensive scatenate da Luigi Cadorna, comandante
supremo del Regio Esercito italiano, sull'Isonzo durante la seconda
metà del 1915, non portarono nessun cambiamento sostanziale
del fronte, ma solo la morte di numerosi soldati di entrambi gli
schieramenti, con gli italiani respinti ad ogni tentativo di
sfondare le linee nemiche. Così come sul fronte occidentale,
quindi, anche in Italia si riconfermò la caratteristica
fondamentale della prima guerra mondiale: la guerra di trincea.
Nel 1916 il capo di Stato Maggiore austro-ungarico Franz Conrad von
Hötzendorf ritirò parte dei suoi uomini dal fronte
orientale, ritenuto solido e relativamente tranquillo, per
impiegarli il 15 maggio nella cosiddetta Strafexpedition (spedizione
punitiva) contro gli italiani, ma l'attacco non riuscì
completamente e quindi vi fu il ritorno ad una situazione di stallo.
Cadorna era deciso però a riprendersi i territori del
Trentino e così, nella seconda metà del 1916, il Regio
Esercito tentò di nuovo di sloggiare i nemici dalle zone
interessate, ma gli insuccessi portano il comandante italiano a
volgere nuovamente la sua attenzione all'Isonzo, dove i suoi uomini
riuscirono a prendere Gorizia costringendo gli austro-ungarici a
ripiegare nelle linee di difesa arretrate, da dove respinsero tutti
i successivi assalti degli avversari.
Nel maggio 1917 Cadorna riprese l'iniziativa ordinando il via della
decima battaglia dell'Isonzo, ma ancora una volta i risultati
ottenuti furono minimi in confronto alle vite umane perse per
conseguirli. Alla fine di luglio venne convocata a Parigi una
conferenza Alleata dove fu richiesto all'Italia di eseguire altre
due nuove offensive, il prima possibile, per alleggerire la
pressione sul fronte occidentale, ma Cadorna ne garantì solo
una[11] (undicesima battaglia dell'Isonzo), che finì in un
nulla di fatto.
Tutte queste battaglie, come già detto, costarono ad entrambi
gli avversari ingenti perdite umane, ma per gli austro-ungarici la
situazione era più grave, essendo i loro effettivi circa il
40% in meno di quelli italiani. Per loro fu quindi necessario
chiedere la collaborazione dei tedeschi, che risposero inviando al
fronte alcune unità di eccellenza e degli ottimi comandanti
come il generale Otto von Below ed il suo capo di Stato Maggiore
Konrad Krafft von Dellmensingen.
Situazione degli schieramenti
Le nuove tattiche del Deutsches Heer
L'andamento del conflitto per l'Impero tedesco spinse Erich
Ludendorff, abile generale del Deutsches Heer, consigliato anche dal
colonnello Fritz von Loßberg, a rivalutare le tattiche
difensive e offensive da insegnare ai soldati impiegati al fronte.
Riguardo alle seconde, che più interessano lo scenario della
disfatta di Caporetto, vennero istituite ed addestrate le cosiddette
Sturmpatrouilen, squadre d'assalto formate da 11 uomini (sette
fucilieri, due portamunizioni e due addetti alle mitragliatrici) che
dovevano muoversi con missione di contrattacco; così facendo
si affidava l'iniziativa al livello di comando più basso,
accollando alte responsabilità ai sottufficiali.
Già i francesi nel 1915 avevano sviluppato un concetto simile
prevedendo di impiegare groupes de tirailleurs, armati di bombe a
mano, mortai e fucili mitragliatori, contro postazioni di
mitragliatrici nemiche, avanzando in formazione allargata e
sfruttando ogni elemento del terreno a proprio vantaggio, ma non ci
furono prove pratiche e così i tedeschi, venuti a conoscenza
di queste idee, svilupparono le loro dottrine descritte sopra e le
introdussero nel 1917.
I vertici militari tedeschi capirono inoltre che la vita in trincea
era fisicamente e psicologicamente distruttiva per il soldato,
così si adoperarono per ridurre al minimo la permanenza in
prima linea delle truppe: un battaglione stava in linea mediamente 2
giorni su 12.
Di tutti questi studi e innovazioni la Germania tenne sempre al
corrente l'Impero austro-ungarico, che non tardò a metterli
efficacemente in pratica nella battaglia del Monte Ortigara e
nell'undicesima battaglia dell'Isonzo, avvalendosi soprattutto della
difesa elastica, altra novità dei loro alleati mutuata da
un'idea, rimasta tale, francese, consistente in tre linee di difesa:
la prima era occupata da poche forze, la seconda era invece ben
presidiata e fortificata, mentre la terza era destinata alle riserve
e alle truppe da lanciare in un eventuale rapido contrattacco.
L'impreparazione del Regio Esercito
Sotto il comando di Cadorna, dal maggio 1915 all'ottobre 1917, il
Regio Esercito si era notevolmente potenziato passando da un milione
a due milioni di uomini. Allo stesso tempo, era più che
triplicata l'artiglieria, il numero delle mitragliatrici era
aumentato e anche l'aviazione aveva beneficiato di un significativo
incremento
. Tutto questo però non fu seguito da un valido addestramento
o dall'elaborazione di nuove dottrine militari.
Alle innovazioni tedesche, l'Italia contrapponeva il classico schema
offensivo basato su una potente azione delle artiglierie seguita
dall'attacco dei fanti. Riguardo alla difesa invece, il Comando
Supremo aveva emanato poche direttive nel corso della guerra,
riguardanti più che altro l'uso dell'artiglieria. Anche il
Regio Esercito era disposto su tre linee di difesa ma, a differenza
dei loro nemici, i soldati erano ammassati in prima linea, mentre le
altre due erano scarsamente presidiate, dato che si riponevano le
speranze di spezzare l'attacco dell'avversario nell'artiglieria.
La differenza con la "difesa elastica" tedesca sta nel fatto che
questi accettavano il ripiegamento di qualche chilometro per
preparare meglio il contrattacco da lanciare nel momento in cui, non
più protetti dalle bocche da fuoco, i reparti nemici
entravano in crisi sotto il tiro avverso.
Un altro elemento caratteristico dell'esercito italiano era la sua
eccessiva burocratizzazione: mentre gli ordini tedeschi passavano
solo attraverso i comandi di divisione e di battaglione, in Italia
si doveva passare per il corpo d'armata, la divisione, la brigata,
il reggimento e, infine, per il battaglione.
Qualcosa comunque, anche se tardi e in misura limitata, venne fatta.
Il 29 luglio 1917 infatti furono creati a Manzano gli Arditi per
ordine del generale Capello, che pose il reparto alle dipendenze del
colonnello Giovanni Bassi. Questo provvedimento incise comunque in
misura minima nella battaglia di Caporetto, sia per il ridotto
numero di Arditi, sia perché il reparto era vocato
prevalentemente all'azione offensiva, con poca esperienza, come del
resto l'intero esercito, in ambito difensivo.
Forze in campo
Germania e Impero austro-ungarico
Per quanto riguarda la 14ª Armata e le divisioni tedesche che
vi militavano, tre (la 1ª, la 50ª e la 55ª)
già si trovavano nella zona delle operazioni, mentre la
3ª Edelweiss e la 22ª Schützen vennero fatte arrivare
dal Trentino; queste unità, assieme all'Alpenkorps, erano
già avvezze alla guerra in montagna in quanto avevano
combattuto nei Vosgi, in Macedonia e nei Carpazi. La 12ª
slesiana e la 26ª dovettero invece essere addestrate a
combattere nel nuovo tipo di terreno, mentre la 4ª, la 5ª,
la 13ª, la 33ª, la 117ª e la 200ª provenivano
dal fronte orientale.
A guardare solo gli elementi che entrarono in azione il 24 ottobre
(escluse le riserve e la divisione Jäger, che per molti giorni
non partecipò ai combattimenti), la forza complessiva degli
austro-ungarici-tedeschi era di 353.000 uomini, 2.147 cannoni e 371
bombarde.
Italia
Sul fronte dell'Isonzo Cadorna aveva a sud (destra) la 3ª
Armata comandata dal duca d'Aosta costituita da quattro corpi
d'armata, e a nord (sinistra) la 2ª Armata, comandata dal
generale Luigi Capello e costituita da ben otto corpi d'armata. Lo
sfondamento avvenne sul fianco sinistro della 2ª Armata tra
Tolmino e Plezzo. Tale parte di fronte era presidiata a sud tra
Tolmino e l'alta valle dello Judrio, dalla 19ª Divisione del
maggior generale Giovanni Villani[, dalla brigata Puglie e dal X
Gruppo alpini del XXVII Corpo d'armata di Pietro Badoglio, mentre a
nord da Gabria fino a Plezzo dal IV Corpo d'armata del tenente
generale Alberto Cavaciocchi. Incuneato tra i due corpi d'armata ed
in posizione più arretrata era stato disposto molto
frettolosamente anche il debole VII Corpo d'armata comandato dal
maggior generale Luigi Bongiovanni.
Se si prendono in considerazione i soli reparti interessati
dall'offensiva di von Below e di Kosak, si trattava di 257.400
uomini appoggiati da 997 cannoni e 345 bombarde[31].
Storia
Le fasi preparatorie
Quando gli austro-ungarici chiesero aiuto, il capo di Stato Maggiore
tedesco, Paul von Hindenburg, e il suo vice Erich Ludendorff,
acconsentirono ad inviare al fronte italiano il generale Konrad
Krafft von Dellmensingen per un sopralluogo, che durò dal 2
al 6 settembre 1917. Terminate le varie verifiche e dopo aver
vagliato le probabilità di vittoria, Dellmensingen
tornò in Germania per approvare l'invio degli aiuti, sicuro
anche che la Francia, dopo il fallimento della seconda battaglia
dell'Aisne ad aprile, non avrebbe attaccato.
Già l'11 settembre Otto von Below fu posto a capo della nuova
14ª Armata e fu nominato suo capo di Stato Maggiore lo stesso
Dellmensingen. Venne chiarita con l'alleato austriaco la strategia
da adottare: un primo sfondamento sarebbe dovuto avvenire a Plezzo,
con direzione Saga e Caporetto, per conquistare monte Stol e puntare
verso l'alto Tagliamento; contemporaneamente da Tolmino si sarebbe
dovuto risalire l'Isonzo fino a Caporetto, per imboccare la valle
del Natisone fino a Cividale del Friuli; un altro attacco frontale
sarebbe partito invece contro il massiccio dello Iessa per
impossessarsi successivamente di tutta la catena del Colovrat, da
cui era possibile dominare la valle dello Judrio, accerchiando
l'altopiano della Bainsizza e spingendosi fino al monte Corada. Gli
spostamenti di truppa dovevano essere effettuati con la massima
segretezza e l'inizio delle operazioni era previsto per il 22
ottobre, ma alcuni ritardi di approvvigionamento posticiparono la
data alle 2:00 del 24.
Nel frattempo, il 18 settembre, Cadorna venne a sapere che il
generale russo Kornilov aveva fallito nel suo intento di ribaltare
il governo Kerenskij, favorevole ad un'uscita del suo paese dalla
guerra, e quindi, prevedendo uno spostamento di forze austriache e
tedesche verso altri fronti, ordinò tassativamente alla
2ª e alla 3ª Armata di stabilire posizioni difensive. Il
giorno dopo il duca d'Aosta (capo della 3ª Armata)
inoltrò l'ordine ai suoi uomini, ma specificò di
prepararsi al contrattacco se questo si fosse reso necessario per
prevenire le mosse del nemico, imitato in questo da Capello (al
vertice della 2ª Armata) il quale però, a differenza di
lui, non fece arretrare in misura ragionevole le artiglierie. Nel
frattempo la salute di quest'ultimo, precaria già da tempo,
peggiorò, e così il 4 ottobre il generale si
ritirò in convalescenza a Padova, lasciando al suo posto Luca
Montuori, senza emanare alcuna istruzione. Cadorna si rese conto
dell'errore di Capello solamente il 18 ottobre, e il giorno seguente
lo ricevette a Udine ribadendogli di eseguire il suo ordine con
più decisione e velocità, mentre nel frattempo
inviò due ufficiali presso Cavaciocchi e Badoglio per un
aggiornamento della situazione e per verificare la necessità
di inviare rinforzi, ma entrambi i comandanti risposero che non ve
ne era bisogno, data la loro fiducia di mantenere le posizioni.
L'Ufficio I (il servizio di intelligence italiana del periodo)
intanto monitorava l'accrescersi degli eserciti avversari, e ne
teneva informato costantemente Cadorna, anche se non riuscì a
stabilire con certezza il luogo dell'offensiva, ipotizzando
però che sarebbe partita tra Plezzo e Tolmino, e così
effettivamente fu. Il 20 ottobre un tenente boemo si presentò
al comando del IV Corpo d'armata con informazioni dettagliate sul
piano d'attacco di von Below, che per lui sarebbe iniziato, forse,
sei giorni dopo. Il 21 ottobre due disertori rumeni informarono gli
italiani che i loro ex camerati avrebbero attaccato presto prima a
Caporetto e poi a Cividale del Friuli, specificando anche la
preparazione di artiglieria che avrebbe preceduto l'attacco[35], ma
i comandi italiani non gli credettero. Il giorno successivo
Cavaciocchi emanò disposizioni per demolire i ponti
sull'Isonzo facendo inoltre spostare il comando a Bergogna; venne
bombardato il comando della 2ª Armata a Cormons, che si
trasferì, dovendo ricollegare da zero tutte le linee
telefoniche, a Cividale del Friuli, e lo stesso fece Badoglio
stabilendosi a Cosi, da dove iniziò a trasmettere ordini alle
sue divisioni. Non è a conoscenza però che i tedeschi
hanno di nuovo individuato la sua posizione grazie alle
intercettazioni telefoniche, e hanno puntato, senza sparare, i
cannoni sulle nuove coordinate.
Il 23 ottobre Capello riprese il controllo della 2ª Armata
mentre continuarono ad essere avvistate truppe nemiche in
lontananza. Alle 13:00 venne intercettata una comunicazione tedesca
in cui si fissava l'avvio dell'offensiva per le ore 2:00 del giorno
dopo, così alle 14:00 Cadorna, Capello, Badoglio,
Bongiovanni, Cavaciocchi e Caviglia (XXIV Corpo d'armata) si
riunirono per chiarire la situazione, ma l'atmosfera fu positiva in
quanto il brutto tempo fece sperare in un rinvio dell'attacco
nemico.
Lo sfondamento delle linee italiane
Alle 2:00 in punto del 24 ottobre 1917 le artiglierie
austro-germaniche iniziarono a colpire le posizioni italiane dal
monte Rombon all'alta Bainsizza alternando lanci di gas a granate
convenzionali, colpendo in particolare tra Plezzo e l'Isonzo con un
gas sconosciuto che decimò i soldati dell'87º Reggimento
lì dislocati. Alle 6:00 il tiro cessò dopo aver
causato danni modesti, e riprese mezz'ora dopo stavolta contrastato
dai cannoni del IV Corpo d'armata, mentre quelli del XXVII, a causa
dell'interruzione dei collegamenti dovuta allo spezzarsi dei cavi
elettrici sotto il tiro delle granate (nessuna linea telefonica era
stata interrata o protetta in alcun modo, e alcune posizioni non
erano neanche collegate) risultò caotico, impreciso e
frammentario. Nel frattempo i fanti di von Below, protetti dalla
nebbia, si avvicinarono notevolmente alle posizioni italiane, e alle
8:00, senza neanche aspettare la fine dei bombardamenti, andarono
all'assalto delle trincee italiane, salvo sul Passo della Moistrocca
e sul monte Vrata dove, a causa della bufera di neve che vi
imperversava, l'attacco venne rimandato di un'ora e mezza.
Metà della 3ª Edelweiss si scontrò con gli alpini
del gruppo Rombon che la respinsero, mentre l'altra metà,
assieme alla 22ª Schützen, riuscì a superare gli
ostacoli nel punto dove era stato lanciato il gas sconosciuto, ma
vennero fermate dopo circa 5 km dall'estrema linea difensiva
italiana posta a protezione di Saga, dove stazionava la 50ª
Divisione del generale Giovanni Arrighi. Alle 18:00 questi, per non
vedersi tagliata la via della ritirata, evacuò Saga
ripiegando sulla linea monte Guarda - monte Prvi Hum - monte Stol,
lasciando sguarnito anche il ponte di Tarnova da dove avrebbero
potuto ritirarsi le truppe che verranno accerchiate sul monte Nero.
Di tutto questo Arrighi informerà Cavaciocchi solo alle
22:00. Nella mattina intanto non ebbero successo la 55ª e la
50ª Divisione austro-ungarica, arrestate fra l'Isonzo e il
monte Sleme.
Non riuscirono invece a tenere le posizioni la 46ª Divisione
italiana e la brigata Alessandria poste all'immediata sinistra della
50ª Divisione austro-ungarica, e ne approfittò un
battaglione bosniaco che subito diresse per Gabria. A San Daniele
del Carso cinque battaglioni della 12ª slesiana ebbero
facilmente la meglio sui reparti italiani in subbuglio per il
bombardamento e subito iniziò la loro progressione oltre le
linee: alle 10:30 si trovavano a Idresca d'Isonzo dove incontrarono
un'inaspettata ma flebile resistenza, cinque ore dopo fu raggiunta
Caporetto, alle 18:00 Staro Selo e alle 22:30 Robič e Creda[.
Nel frattempo, più a sud, l'Alpenkorps diventò padrone
alle 17:30 del monte Podclabuz/Na Gradu-Klabuk, mentre del massiccio
dello Iessa si occupò la 200ª Divisione, che
conquistò la vetta alle 18:00 dopo feroci scontri con gli
italiani, terminati del tutto solo a mezzanotte. I tre battaglioni
del X Gruppo alpini, aiutati anche dal tiro efficace
dell'artiglieria italiana, resistettero fino alle 16:00 agli undici
battaglioni della 1ª Divisione austro-ungarica, ma alla fine
dovettero arrendersi e cedere il monte Grad. Nell'alta Bainsizza,
dove fu combattuta una guerra con i metodi "antiquati" (cioè
non applicando le novità tattiche introdotte dai tedeschi),
il Gruppo Kosak non ottenne alcun risultato, e la situazione
andò quasi subito in stallo.
Durante il primo giorno di battaglia gli italiani persero
all'incirca, tra morti e feriti, 40.000 soldati e altrettanti si
ritrovarono intrappolati sul monte Nero, mentre i loro avversari
6.000 o 7.000.
Nella mattina del 25 ottobre Alfred Krauß lanciò
l'attacco contro la 50ª Divisione ritiratasi il giorno
precedente attorno al monte Stol. Esauste e con poche munizioni, le
truppe italiane iniziarono a cedere alle 12:30 asserragliandosi
sullo Stol, e qui il generale Arrighi ordinò loro di
ritirarsi, ma improvvisamente giunse la notizia dalla 34ª
Divisione di Luigi Basso che il comando del IV Corpo d'armata aveva
vietato ogni forma di ripiegamento da lui non espressamente
autorizzato. I fanti della 50ª ritornarono quindi sui loro
passi ma nel frattempo la 22ª Schützen aveva preso
possesso della cima dello Stol, da dove respinsero ogni attacco dei
fanti italiani, che ricevettero l'ordine definitivo di ritirata da
Cavaciocchi alle ore 21:00.
Tra Caporetto e Tolmino nel frattempo la brigata "Arno", arrivata in
zona tre giorni prima, stava difendendo il monte Colovrat e le
creste circostanti quando contro di loro mosse un battaglione della
26ª Divisione di fanteria tedesca, in cui militava anche il
tenente Erwin Rommel, a capo di uno dei tre distaccamenti in cui fu
diviso il suo battaglione. Insieme a 500 uomini, il futuro
feldmaresciallo iniziò a scalare le pendici del Colovrat
catturando in silenzio centinaia di italiani presi alla sprovvista,
mentre per errore la Arno, anziché contro il monte Piatto,
venne lanciata verso il Na Gradu-Klabuk, già dal giorno prima
saldamente in mano all'Alpenkorps che dovette sostenere gli assalti
italiani fino a sera. Tornando a Rommel, i suoi uomini conquistarono
senza troppe fatiche il monte Nagnoj, dove presero posizione i
cannoni tedeschi che inizieranno a prendere di mira il monte Cucco
di Luico, aggirato da Rommel per non perdere tempo e preso nel
pomeriggio da truppe dell'Alpenkorps congiunte ad elementi della
26ª Divisione tedesca.
Una volta distrutta la brigata Arno, Rommel puntò contro il
Matajur dove stazionava la brigata "Salerno" del generale Zoppi,
inquadrata nella 62ª Divisione del generale Giuseppe Viora,
rimasto ferito e quindi sostituito proprio da Zoppi, che
lasciò il suo posto al colonnello Antonicelli. All'alba del
26 ottobre ad Antonicelli giunse l'ordine da un tenente di
abbandonare la posizione entro la mattina del 27. Sorpreso per una
ritirata ordinata ben un giorno prima, il nuovo capo della Salerno
chiese informazioni al portaordini il quale disse che probabilmente
si trattava di un errore del comando di divisione, ma Antonicelli
volle essere sicuro e obbligò il tenente a ritornare con
l'ordine corretto, ma quando questo arrivò a destinazione
Rommel nel frattempo aveva circondato il Matajur[42]. Dopo duri
scontri, la Salerno si arrese e Rommel chiuse la giornata dopo aver
avuto solo sei morti e trenta feriti a fronte dei 9.150 soldati e 81
cannoni italiani catturati[.
Dall'Isonzo al Tagliamento
A questo punto Otto von Below, anziché arrestare la sua
offensiva, la prolungò in direzione del fiume Torre, Cividale
del Friuli, Udine e la Carnia. Contrariamente alle previsioni del
generale tedesco però, l'esercito italiano, anche se in preda
al caos, non era in completo sfacelo, e oppose in alcuni punti una
valida resistenza; inoltre la situazione delle artiglierie si era
parzialmente livellata tra i due schieramenti, in quanto gli
italiani le avevano perse nei primi giorni dell'offensiva, e gli
austro-tedeschi non riuscirono a farle stare al passo della rapida
avanzata delle loro fanterie. A detta del Generale Caviglia, alla
guida del XXIV Corpo d'armata, il successo di quel disordinato ma
cruciale ripiegamento oltre l'Isonzo era nelle mani di alcune
unità chiamate dalla riserva ad arginare la caduta.
Così nelle sue memorie del 26 e del 27 ottobre:
« La situazione più pericolosa
è quella della destra del XXIV Corpo (Brigata Venezia) a
cavallo dell'Isonzo: dalla sua resistenza dipende la sicurezza di
tutti i Corpi d'armata, più a Sud. La sera del 27, ritirai
dalla sinistra dell'Isonzo sul Planina, tutta la Brigata Venezia,
perché già il II corpo, che essa proteggeva, era tutto
passato sulla destra dell'Isonzo. In presenza dei due reggimenti
abbracciai il loro Comandante […]»
Cadorna, sin dalla mattina del 25 ottobre, passò al vaglio
l'idea di ordinare una ritirata generale, e ne discusse nel
pomeriggio stesso con Montuori, succeduto definitivamente a Capello
a causa dei continui malori di quest'ultimo. Avendo constatato
l'impossibilità di riprendere l'iniziativa, i due alti
ufficiali diramarono l'ordine di ritirata nella serata, ma dopo poco
tempo Cadorna ebbe un ripensamento e propose a Montuori di tentare
una resistenza sulla linea monte Kuk - monte Vodice - Sella di Dol -
monte Santo - Salcano. Il nuovo capo della 2ª Armata fu in
totale disaccordo con il suo superiore ma Cadorna pochi minuti dopo
la mezzanotte fece sapere alle truppe di disporsi sulla difensiva
nelle posizioni da lui indicate. La maggioranza delle postazioni
comunque non tennero e già il 27 ottobre il comandante
supremo del Regio Esercito diede disposizioni alla 2ª e 3ª
Armata di riparare dietro il Tagliamento, mentre alla 4ª
Armata, in linea sul Cadore, disse di spostarsi sulla linea di
difesa ad oltranza del Piave. Senza troppi ostacoli davanti, i
tedeschi occuparono Cividale del Friuli il 27 ottobre e Udine il
giorno dopo (abbandonata in favore di Treviso da Cadorna) marciando
su un ponte che non era stato fatto saltare dai genieri
italiani[46], e misero in serio pericolo da nord-ovest la 3ª
Armata, che era rimasta troppo a Oriente. I tedeschi comunque si
accorsero qualche ora troppo tardi della possibilità di
accerchiamento, e così, grazie anche all'inaspettata
resistenza di alcune unità italiane, il duca d'Aosta e le sue
truppe riuscirono a mettersi in salvo.
In generale la ritirata avvenne in una situazione caotica,
caratterizzata da diserzioni e fughe che sfoceranno in alcune
fucilazioni, mista ad episodi di valore e disciplina durante i quali
molti ufficiali inferiori, rimasti isolati dai comandi, acquisirono
notevole esperienza di un nuovo modo di fare la guerra, ora
più rapida. Un episodio tragico per i soldati italiani si
verificò nei ponti vicino a Casarsa della Delizia il 30
ottobre, quando soldati tedeschi della 200ª Divisione
piombarono sulle colonne di mezzi e uomini che intasavano le strade
facendo 60.000 prigionieri e catturando 300 cannoni. Più
difficile fu invece infrangere le posizioni italiane, sempre il 30
ottobre, a Mortegliano, Pozzuolo del Friuli, Basiliano e alla
frazione di Galleriano (in quest'ultima località per
l'inaspettata resistenza durata un giorno e mezzo della Brigata
Venezia del colonnello Raffaello Reghini), che consentirono il
ripiegamento in corso.
L'ultimo episodio di resistenza italiana sul Tagliamento
iniziò, anch'esso, il 30 ottobre presso il comune di Ragogna:
gli austro-ungarici, temporaneamente bloccati dal fuoco avversario,
non riuscirono ad impadronirsi dell'importante ponte di Pinzano al
Tagliamento, ma si riscattarono il 3 novembre quando attraversarono
il ponte di Cornino (una frazione di Forgaria nel Friuli) poco
più a nord, rimasto solamente danneggiato, e non distrutto
del tutto, dalle cariche esplosive dei genieri italiani.
La situazione politica italiana
Mentre avveniva tutto questo, a Roma il 30 ottobre si formò
il Governo Orlando (dal nome del nuovo Presidente del consiglio dei
ministri, nonché Ministro dell'interno, Vittorio Emanuele
Orlando) per ordine del re Vittorio Emanuele III. Lasciato al suo
posto Sidney Sonnino (Ministro degli Esteri), Orlando
sostituì invece il Ministro della Guerra Gaetano Giardino con
Vittorio Alfieri. La sera stessa il nuovo Primo ministro
telegrafò a Cadorna per esprimergli il suo appoggio, ma in
realtà, fin dal 28 ottobre, egli aveva discusso con il Re e
con Giardino di una sua possibile rimozione dall'incarico a favore
di Armando Diaz, allora capo del XXIII Corpo d'armata della 3ª
Armata.
All'oscuro di tutto questo, Cadorna nella mattina del 30 ottobre
ricevette a Treviso il generale francese Ferdinand Foch per metterlo
al corrente degli avvenimenti, e lo stesso fece il giorno seguente
con il capo di Stato Maggiore Imperiale inglese William Robertson. I
due generali Alleati partirono qualche giorno dopo per partecipare
alla conferenza di Rapallo insieme al premier inglese David Lloyd
George, il Primo ministro francese Paul Painlevé, Sonnino,
Orlando e il sottocapo di Stato Maggiore italiano Carlo Porro (al
posto di Cadorna). L'argomento di discussione era l'invio di
consistenti aiuti al Regio Esercito per far fronte alla minaccia
austro-tedesca, ma i capi Alleati furono prudenti e concessero solo
sei divisioni.
Il 6 novembre si tenne una nuova riunione durante la quale venne
chiesto al generale Porro quante divisioni avessero impiegato i
tedeschi nelle operazioni, e questo rispose, attenendosi a quanto
impartito da Cadorna, indicando in circa una ventina il loro numero.
Vista l'incredula reazione dei capi Alleati (i cui servizi
d'informazione stimavano correttamente che i tedeschi avevano
impiegato solo sette divisioni, e sfruttando la decisione di
riunirsi nuovamente a Versailles, Orlando capì che era venuto
il momento di sostituire Cadorna, e lo fece in maniera
"diplomaticamente" abile: mentre Diaz lo avrebbe sostituito, lui
sarebbe dovuto andare a presiedere tale conferenza, cosicché
non sarebbe uscito del tutto dalla scena politico-militare del suo
Paese.
La ritirata del Regio Esercito fino al fiume Piave
Cadorna, venuto a sapere della caduta di Cornino il 2 novembre e di
Codroipo il 4, ordinò all'intero esercito di ripiegare sul
fiume Piave, sul quale nel frattempo si erano fatti significativi
passi avanti nell'impostazione di una linea difensiva proprio grazie
agli episodi di resistenza sul Tagliamento.
A questo punto von Below aveva fretta, sia per il timore di
ritornare ad una guerra di posizione, sia perché era
cosciente che i francesi e gli inglesi avrebbero inviato aiuti
militari. I suoi generali sfruttarono tutte le occasioni possibili
per accerchiare le truppe italiane in ritirata: a Longarone il 9
novembre furono catturati 10.000 uomini e 94 cannoni appartenenti
alla 4ª Armata del generale Mario Nicolis di Robilant, e in
un'altra occasione la 33ª e 63ª Divisione italiana
consegnarono, dopo aver tentato di uscire dall'accerchiamento,
20.000 uomini.
In pianura però gli austro-tedeschi non ebbero analogo
successo e molte unità italiane si riorganizzarono per
raggiungere il Piave, l'ultima delle quali vi si posizionò il
12 novembre. Dall'inizio delle operazioni il 24 ottobre all'8
novembre i bollettini di guerra tedeschi avevano contato un bottino
di 250.000 prigionieri e 2.300 cannoni[.
Le cause della sconfitta italiana
Le cause della disfatta italiana a Caporetto sono già
desumibili dal testo, ma in questo paragrafo si fa un breve
riassunto, integrato da un altrettanto sommario accenno ai fatti,
con l'intento di focalizzare l'attenzione sui due motivi principali
che portarono il Regio Esercito a ritirarsi fino al Piave:
l'inettitudine dei vertici militari e il mancato uso
dell'artiglieria.
Gli errori degli alti ufficiali
Al di là delle responsabilità di singole piccole e
medie unità, le colpe maggiori di ordine strategico e tattico
non possono che essere attribuite in ordine al comando supremo
(Cadorna), al comando d'armata interessato (Capello), ed ai tre
comandanti dei corpi d'armata coinvolti (Cavaciocchi, Badoglio e
Bongiovanni).
Sul piano generale, Cadorna ha la colpa di non aver sviluppato una
dottrina militare meglio aderente alle necessità della guerra
di posizione, con una propensione all'evitare le riunioni congiunte
con i comandi d'armata[55]. Sul piano riguardante la battaglia di
Caporetto invece, egli aveva disposto con un ordine del 18
settembre, a seguito di informazioni più o meno attendibili
sulle intenzioni nemiche e sul fallito colpo di stato in Russia di
Kornilov, che le sue armate sull'Isonzo si apprestassero in una
disposizione difensiva nelle migliori condizioni possibili.
Luigi Capello, avendo una visione più offensiva, credeva che
in caso d'attacco occorresse lanciare subito un'energica
controffensiva, non solo a fini tattici, come raccomandava Cadorna,
ma anche a fini strategici. Eseguì quindi solo parzialmente
ed in ritardo gli arretramenti del grosso delle truppe e delle
artiglierie pesanti sulla destra dell'Isonzo, richiesti dal suo
superiore[32]. Bisogna però osservare che tutte le
disposizioni date da Capello furono trasmesse, per conoscenza, anche
al comando supremo e che Cadorna non ebbe nulla da obiettare. A
questo si aggiunge il fatto che Capello, già costretto a
letto da una nefrite agli inizi di ottobre, nei giorni antecedenti
l'attacco nemico dovette ricoverarsi in ospedale, lasciando il
comando interinale della 2ª Armata al generale Luca Montuori,
riprendendolo solo alle 22:30 del 22 ottobre. Il cambio al comando
generò confusione in particolare lungo la linea di
congiunzione tra il XXVII ed il IV Corpo d'armata, i cui reparti
furono continuamente spostati. Lo stesso Cadorna si allontanò
per 15 giorni, poco convinto che il nemico avrebbe effettivamente
sviluppato un'offensiva di vasta portata, rientrando al comando
generale di Udine solo il 19 ottobre, dove si trovava ancora nella
sera del 24, convinto che l'azione nemica a Tolmino fosse solo un
diversivo per sviare l'attenzione dalla vera offensiva che sarebbe
partita più a sud, complice anche il caos e la mancanza di
collegamenti che regnava al fronte[56].
Cavaciocchi, comandante del IV Corpo d'armata, non godeva della
stima di Cadorna per le sue scarse qualità di comandante, e
non era molto presente tra i suoi uomini; giudicò le sue
linee forti e migliorate, ma sarebbero state sfondate in tre ore,
complice anche il fatto che durante la notte i soldati di von Below
strisciarono vicino alle sue posizioni senza essere visti[57]. Egli
ammassò le sue truppe attorno al monte Nero anche a battaglia
in corso, trovandosi all'improvviso senza riserve. Cavaciocchi cadde
in questo errore anche "grazie" ai comandanti delle sue divisioni:
Farisoglio (43ª Divisione) credette di essere attaccato da un
numero di forze enormemente superiore a quello reale[58]; Amadei (a
capo della 46ª Divisione), nonostante disponesse di truppe
sufficienti, alle 10:00 chiese rinforzi che intasarono i ponti di
Caporetto e Idresca d'Isonzo, per poi ordinare la ritirata quattro
ore dopo; anche il generale al comando della 50ª Divisione,
Arrighi, fece richiesta per ricevere rinforzi, ma poco dopo fece
"dietrofront" giudicando di riuscire a gestire la situazione con le
truppe disponibili. In seguito, raggiunto da voci riguardanti uno
sfondamento austriaco vicino alle sue posizioni, per evitare di
essere accerchiato fece ritirare i suoi uomini dietro la stretta di
Saga, perdendo gran parte delle artiglierie e abbandonando anche
Tarnova.
Il XXVII Corpo d'armata era invece guidato da Badoglio, anche lui
sicurissimo della preparazione delle sue truppe. Fu proprio da lui
che partì l'errore tattico più sconcertante compiuto
sul suo fianco sinistro, ovvero sulla riva destra dell'Isonzo, tra
la testa di ponte austriaca davanti a Tolmino e Caporetto: questa
linea, lunga pochi chilometri, costituiva il confine tra la zona di
competenza del suo reparto e quello di Cavaciocchi (riva sinistra)
e, nonostante tutte le informazioni indicassero proprio in questa
linea la direttrice dell'attacco nemico, la riva destra fu lasciata
praticamente sguarnita con piccoli reparti a presidiarla mentre il
grosso della 19ª Divisione e della brigata "Napoli" era
arroccato sui monti sovrastanti. Probabilmente in una giornata di
tempo sereno (con buona visibilità) la posizione in quota
avrebbe consentito alla 19ª Divisione di dominare tutta la riva
destra rendendo il corridoio impercorribile ma, al contrario, il 24
in presenza di nebbia fitta e pioggia, le truppe italiane non si
accorsero minimamente del passaggio dei tedeschi a fondovalle che
catturarono senza combattere le scarsissime unità italiane
lì presenti[59]. In quota comunque, la 19ª Divisione
resistette tenacemente per un giorno bloccando varie volte gli
attacchi delle truppe nemiche, ma alla fine fu costretta ad
arrendersi, e il suo comandante, generale Villani, si
suicidò.
Bongiovanni, capo del VII Corpo d'armata posto alle spalle del IV e
del XXVII e anche lui fiducioso di tener testa al nemico, avrebbe
dovuto sorreggere le difese avanzate, presidiare in seconda linea il
Colovrat e il Matajur, e condurre controffensive al momento
più opportuno[61]. Nei fatti però lo sfondamento a
nord del IV Corpo d'armata, e l'arrivo da sud dei tedeschi a
Caporetto, rese nulla la sua efficacia.
Uso improprio dell'artiglieria
L'artiglieria italiana, sebbene numerosa e ben rifornita, non aveva
ricevuto un addestramento sufficiente, e nessuna differenza si
faceva sul suo uso offensivo e difensivo, infatti si chiedeva
semplicemente di disporre i cannoni il più avanti possibile
per aumentarne la gittata utile. Cadorna comunque, quando il 18
settembre 1917 ordinò ai suoi generali di predisporre le
linee di difesa, disse anche di arretrare in posizioni sicure le
artiglierie, ma il 10 ottobre cambiò idea e ordinò a
Capello di lasciare i piccoli calibri nelle trincee e i medi sulla
Bainsizza, alterando di fatto in misura irrilevante lo schieramento
complessivo. È da aggiungere anche che molti artiglieri non
erano provvisti di fucili, e non si era pensato a delle fanterie da
porre a protezione delle batterie di cannoni.
L'attacco delle formazioni nemiche cominciò intorno alle ore
8:00 con uno sfondamento immediato sull'ala sinistra del XXVII Corpo
d'armata, occupato dalla 19ª Divisione, e sull'ala destra del
IV Corpo d'armata tra Tolmino e Caporetto. Le artiglierie italiane
del XXVII Corpo d'armata non risposero, per ordine esplicito, al
tiro di preparazione nemico. Poi, alle 6:00, quando iniziò il
tiro di distruzione, la risposta fu del tutto inefficace. La debole
e intempestiva risposta delle artiglierie italiane sul fronte del
XXVII Corpo d'armata è una delle ragioni accertate dello
sfondamento, ma il motivo per cui ciò avvenne è
tutt'oggi fonte di disquisizioni. Tra le cause ipotizzate, vi sono:
Ignoranza dei comandi italiani sull'uso difensivo
delle artiglierie, in particolare nella fase di risposta al fuoco
nemico. L'avere ordinato più o meno esplicitamente di non
rispondere al tiro avversario (ore 2:00 - 6:00 del 24 ottobre) fu un
grave errore anche se a parziale discapito dei protagonisti è
utile osservare che fino ad allora questa era la regola di utilizzo
delle artiglierie nell'esercito italiano. Secondo le direttive di
Cadorna le artiglierie medie e pesanti avrebbero dovuto effettuare
un tiro efficace sulle batterie nemiche e sui punti di raccolta
delle fanterie dall'inizio del bombardamento nemico. Capello
interpretò, in sintonia o meno con il volere di Cadorna, per
"inizio del tiro nemico" l'inizio del tiro di distruzione, quello
cioè che iniziò alle ore 6:00;
Le condizioni meteo avverse (nebbia, pioggia
battente al mattino del 24 a valle e nevicate in quota) impedirono
alle prime ed alle seconde linee italiane di scorgere in tempo
l'avanzata delle fanterie nemiche e di conseguenza di ordinare il
tiro controffensivo con i piccoli e medi calibri, mortai e bombarde
divisionali. Bisogna osservare che i tedeschi agirono esplicitamente
con l'intento di fare meno rumore possibile ed in effetti la maggior
parte dei soldati italiani di prima linea vennero catturati senza
sparare. Le testimonianze dei comandanti di batteria divisionali
riportano che il tiro automatico di sbarramento (senza ordine
esplicito) non fu effettuato in quanto non si udirono scariche di
fucilerie o mitraglia dalle prime linee, che in effetti cedettero
immediatamente quasi senza combattere;
Il tiro di preparazione, ma più ancora
quello di distruzione (ore 6:00) nemico fece saltare i collegamenti
telefonici tra i reparti combattenti ed i comandi. Lo stesso
Badoglio riferì che fino a quell'ora erano ancora in funzione
alcune linee telefoniche, mentre alle 8:00 era completamente isolato
nel suo comando. Nel contempo le pessime condizioni meteo impedirono
l'uso dei segnali ottici ed acustici per la comunicazione. Fu
necessario ricorrere in extremis alle staffette, con tutti i ritardi
implicati. Per risolvere questi problemi, il nemico comunicò
più efficacemente mediante razzi luminosi[64]. Badoglio aveva
disposto alle sue artiglierie che l'inizio del tiro controffensivo
sarebbe dovuto iniziare solo dietro suo ordine esplicito, ma al
momento giusto, causa mancanza totale di comunicazioni, non fu in
grado di darlo[32]. Tra l'altro Badoglio, individuato dalle
artiglierie nemiche, spostò varie volte il suo comando
trasmettendo ogni volta la sua nuova posizione, e così gli
operatori tedeschi addetti alle intercettazioni telefoniche furono
in grado di passare sempre le giuste coordinate da colpire
all'artiglieria, che impedì così al capo del XXVII
Corpo d'armata italiano di prendere stabilmente contatto con i suoi
uomini[.
Le conseguenze
L'esodo dei civili friulani e veneti
Una tragedia nella tragedia fu quella dei profughi civili, la cui
vicenda è stata di recente studiata (anche se solo con fonte
di parte italiana). Durante la ritirata, oltre un milione di persone
delle provincie di Udine, Treviso, Belluno, Venezia e Vicenza furono
costrette ad abbandonare le loro case riversandosi nelle strade che
conducevano alla pianura padana spaventati dalla propaganda
ufficiale che gridava ai "turchi alle porte". Nonostante ciò
il trasferimento di questa gente non fu programmato e aiutato (anzi,
i comandi militari imposero di dare priorità alle truppe e ai
mezzi militari, con requisizioni di mezzi civili e divieto di uso
delle strade principali). Molti perirono durante la fuga, ad esempio
a causa della piena dei fiumi che si trovarono ad attraversare lungo
strade secondarie, e solo 270.000 riuscirono a porsi in salvo; gli
altri ne furono impediti o dalla distruzione dei ponti o dal fatto
che vennero semplicemente intercettati dagli austro-tedeschi.
Ci furono atti di vandalismo e la devastazione aumentò anche
a causa dei saccheggi perpetrati dai soldati di von Below, ma
qualche civile seppe reagire e si organizzò in bande armate
con lo scopo di sabotare e disturbare le truppe d'occupazione, dando
vita così alle prime formazioni partigiane italiane. I
profughi vennero sistemati un po' in tutta Italia in maniera
inadatta, causando loro notevoli disagi. Essendo sussidiati venivano
accusati di essere un peso e di rubare il lavoro ai locali.
Particolarmente difficile fu la situazione di chi venne inviato al
sud. Ci furono molti casi di tensione per la mancata assegnazione di
case a questi profughi, costretti a vivere in condizioni sanitarie e
ambientali estreme.
L'arrivo degli aiuti Alleati e la riorganizzazione del Regio
Esercito
Una volta assorbito lo shock conseguente alla ritirata da Caporetto,
gli ambienti politici e militari italiani si adoperarono per
riprendere in mano e stabilizzare la situazione, aiutati anche dagli
anglo-francesi. Il generale Alfredo Dallolio, Ministro delle Armi e
Munizioni, comunicò di essere in grado di rimpiazzare tutte
le munizioni perse entro il 14 novembre, e per dicembre sarebbero
stati pronti anche 500 cannoni, a cui se ne aggiungeranno 800
Alleati[70]. Il cambiamento più importante avvenne al vertice
del Regio Esercito: Cadorna infatti ricevette l'avviso di esonero
l'8 novembre, e il suo posto fu preso da Armando Diaz, assistito da
Gaetano Giardino e Badoglio (le cui colpe di Caporetto non erano
ancora state notate) in qualità di sottocapi di Stato
Maggiore.
Le divisioni francesi inviate in aiuto aumentarono a sei e quelle
inglesi a cinque entro l'8 dicembre 1917 e, sebbene non siano
entrate subito in azione, funsero da riserva permettendo al Regio
Esercito di distogliere le proprie truppe da questo compito.
I tedeschi, assolto il proprio obiettivo di aiutare gli austriaci,
trasferirono metà dei propri cannoni, la 5ª, 12ª e
26ª Divisione al fronte occidentale nei primi di dicembre,
mentre gli italiani si rinforzavano giorno dopo giorno.
Il primo segno di riscossa avvenne per merito della 4ª Armata
del generale Mario Nicolis di Robilant, che, stanziata sul Cadore,
si era ritirata il 31 ottobre con l'ordine di organizzare la difesa
del monte Grappa e di realizzare la saldatura tra le truppe
dell'Altopiano di Asiago e quelle schierate lungo il fiume Piave. La
nuova posizione da difendere a tutti i costi era di vitale
importanza per l'intero esercito, dato che una sua caduta avrebbe
trascinato con sè l'intero fronte, e gli uomini di Robilant
riuscirono a mantenere la posizione.