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"l'impegno", a. XVIII, n. 2, agosto 1998
© Istituto per la storia della Resistenza e della
società contemporanea nelle province di Biella e Vercelli.
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"Torinesità" intellettuale
Parlare di Gramsci, e in particolare del Gramsci teorico della
politica, appare oggi assai difficile. Soprattutto a sinistra. Dopo
il 1989, infatti, qualunque interpretazione del suo pensiero
politico rischia di essere fuorviante, e di prestarsi a
fraintendimenti. Mi spiego meglio. Per un verso, la fine dell'Unione
Sovietica e l'eclisse del comunismo in tutto il mondo paiono
travolgere tutti coloro che invece al fiorire di quella stagione
hanno dato un contributo di grande rilievo. Travolgere o
stravolgere: si pensi alle tesi di Alleanza nazionale, che a Fiuggi
ha riconosciuto Gramsci fra i "padri della patria". Tuttavia, per il
verso contrario, è sempre doloroso tagliare (o comunque fare
seriamente i conti con) le proprie radici ideali, vieppiù se
il corso del mondo non ha affatto messo a tacere le ragioni di una
scelta che dà priorità al valore dell'eguaglianza, pur
avendo dimostrato essere finora non solo inadeguate ma anche funeste
le sue realizzazioni storiche. Operazione forse ancora più
dolorosa se il personaggio in questione ha una statura umana e
morale che va al di là della sua appartenenza ideologica: la
figura di Gramsci rimane senza dubbio fra quelle da additare alle
giovani generazioni quale esempio di coerenza intellettuale e di
coraggio personale.
Salvare opportunamente questi valori dall'oblio non deve però
significare, a mio avviso, proporre una lettura del pensiero
politico gramsciano forzatamente attualizzata o prona alle
"esigenze" della politica pratica: vale a dire, non deve indurre a
dare del comunista Gramsci (questo almeno credevamo tutti che fosse)
un'immagine a tutti i costi accattivante o, come si suole dire,
"politicamente più presentabile", magari facendolo avvicinare
quanto più è possibile al liberalsocialismo di autori
come Rosselli e Gobetti, per limitarci ai più noti fra coloro
che in Italia hanno contribuito ad un filone di pensiero che ha
radici e diffusione europee fin dalla prima metà del secolo
scorso1.
Questi autori - così come gli altri cui verrà fatto di
accennare, Croce ed Einaudi soprattutto - respirano con Gramsci la
stessa aria di "torinesità" o "piemontesità"
intellettuale e morale (al di là del puro dato storico od
anagrafico), nel senso che Marcello Veneziani dà a questo
termine: mentalità illuministica e cosmopolita, che considera
come fondatrici del mondo moderno la rivoluzione francese e la
rivoluzione industriale, e ragiona a partire dalle loro
conseguenze2. Fra alcuni di loro vi fu poi ben più che questa
condivisione di mentalità, vi furono anche convergenze
politiche e programmatiche che andarono oltre la comune matrice
antifascista: tuttavia non su questi aspetti - in parte ovvi, in
parte materia di approfondimento storiografico che compete ad altri
- vorrei soffermarmi. Nella prospettiva della filosofia politica, la
pointe è se un avvicinamento di Gramsci al liberalsocialismo
sia teoricamente plausibile o meno. Allora il nocciolo della
questione diventa definire che cosa sia il liberalsocialismo, e
prima ancora il liberalismo e il socialismo. A questo punto
sarà possibile, prendendo in esame la concezione gramsciana
della politica, valutare se essa risponda o meno a quali dei
caratteri definienti di queste ideologie politiche.
Il liberalismo
Innanzitutto, che cos'è il liberalismo? Risponde, in un
recente tentativo di chiarimento teorico, Michelangelo Bovero: "Il
liberalismo è una dottrina politica, o un'ideologia, il cui
scopo eminente ed identificante, in tutte le sue molteplici
versioni, è quello di limitare il potere politico nei
confronti delle sfere di libertà individuale; la democrazia
è una forma di governo il cui carattere essenziale e
distintivo, in tutte le sue differenti concezioni, è quello
di distribuire il potere politico tra il maggior numero dei suoi
destinatari. Dovrebbe esser chiaro per chiunque che si può
(voler) limitare il potere senza distribuirlo, e reciprocamente si
può (voler) distribuire il potere senza limitarlo:
cioè, che è logicamente possibile essere liberali
senza essere democratici (qual era, ad esempio, Kant), come essere
democratici senza essere liberali (qual era, ad esempio,
Rousseau)"3.
La definizione appare chiara e rigorosa. Ma allora, ci si potrebbe
chiedere, perché l'aggettivo "liberale" si usa, come si
è già visto, in tanti sensi diversi? Ciò
potrebbe dipendere semplicemente dall'uso improprio o troppo
disinvolto del lessico politico, ed in parte certamente è
così. Ma se una parte della spiegazione consistesse nel fatto
che da tempo, o addirittura pressoché ab origine, si
contendono il vessillo del liberalismo teorie politiche diverse non
solo in quanto specie dello stesso genere, ma anche in quanto
appartenenti a generi distinti?
Al proposito, Friedrich von Hayek distingue fra liberalismo
evoluzionistico di matrice economica (e anglosassone) e liberalismo
artificialistico di matrice giuridica (e continentale)4. Il primo
considera la mano invisibile del mercato e le sue leggi come il
migliore punto di equilibrio raggiunto (e raggiungibile?) nella
storia della convivenza umana, e come tale richiede idealmente alla
politica di limitarsi a garantire la sicurezza delle transazioni
economiche, il secondo sviluppa il diritto naturale moderno (la
dottrina dei diritti dell'uomo) nel costituzionalismo, ovvero
trasformandone i postulati in norme fondamentali del diritto
positivo così da limitare efficacemente il legislatore e,
più in generale, l'onnipotenza della politica (e, in
prospettiva, del mercato medesimo). Per Hayek solo il primo è
liberalismo autentico, e la distinzione continentale e soprattutto
crociana (a noi così familiare) fra liberismo economico e
liberalismo politico è non solo inapplicabile al modello
inglese, ma sostanzialmente fuorviante. I due aspetti del
liberalismo sono come il recto e il verso di una moneta: sono
inseparabili. Liberalismo significherebbe dunque: una concezione
individualistica dell'universo sociale, legata al presupposto
fondamentale dell'ordine spontaneo scaturente da azioni individuali
utilitaristicamente intese (ciascuno è il miglior giudice del
proprio interesse: da qui l'apologia del mercato come miglior punto
d'equilibrio collettivo spontaneamente raggiunto fra gli interessi
degli individui); apologia della libertà negativa: la
libertà è assenza di impedimenti od ostacoli
all'azione; in particolare, l'individuo è tanto più
libero quanto più è limitata la legislazione dello
Stato, che appunto esaurisce idealmente il suo compito nella
protezione della libertà negativa degli individui5.
Anche Norberto Bobbio, pur su posizioni assai distanti da quelle
hayekiane, illustrando il pensiero di Locke, e cercando di spiegare
nel modo più semplice in che cosa consista il liberalismo, lo
definisce così: "La parte più importante della vita
dell'uomo si svolge prima e al di fuori dello stato: le istituzioni
economiche e l'istituto familiare [...] tutta questa parte della
vita dell'uomo che si svolge al di fuori dello stato, non deve
essere soffocata dall'istituzione del potere civile, al quale spetta
a rigore solo il compito cui gli individui hanno rinunciato,
cioè di far da giudice imparziale nelle controversie che
possono sorgere nello svolgersi della vita economica, familiare,
religiosa. Lo stato così concepito non deve preoccuparsi di
rendere più ricchi i suoi cittadini: questo spetta ai
cittadini medesimi nell'osservanza delle leggi naturali che regolano
la vita economica; non deve preoccuparsi di educarli, perché
ciò spetta alla famiglia, né procurar loro la salvezza
eterna, perché spetta alle chiese [...] È inutile
aggiungere che questa configurazione dello stato è quella che
ha dato corpo alla tradizione dello stato liberale, inteso come
stato negativo, come stato-custode, come stato limitato ecc.,
insomma a quella concezione dei rapporti fra individuo e stato che
è stata definita con la formula libertà dallo stato"6.
Nelle vicende della storia moderna e contemporanea, i due modelli
fondamentali di liberalismo, ossia del mercato e dei diritti, si
sono a volte sostenuti a vicenda (contro gli assolutismi e i
totalitarismi), altre volte si sono inevitabilmente scontrati
(là dove con maggiore evidenza il mercato vuol divenire esso
stesso assoluto, riducendo totalmente l'uomo a merce), ma più
spesso si sono ipocritamente ignorati (dalla rivoluzione industriale
alla globalizzazione, passando per il colonialismo). Ciò che
tuttavia qui mi preme riprendere e sottolineare non sono gli
elementi di contrasto e di differenza, né il loro radicamento
in realtà istituzionali storicamente e geograficamente
differenti, ma gli elementi fondamentalmente comuni entro i quali
questi contrasti sono avvenuti; vale a dire, provare a dare una
definizione minima del liberalismo. Il minimo comune denominatore
del liberalismo, in tutte le sue possibili versioni, si può,
a mio avviso, ridurre a questi tre punti: una matrice filosofica
individualistica ed utilitaristica7; la separazione delle sfere
(economica, ideologica e politica) e la limitazione dei poteri dello
Stato nei confronti dei cittadini, cui la divisione dei medesimi in
legislativo, esecutivo, e giudiziario è funzionale; la
neutralizzazione o residualità della politica, nel senso
della sua tendenziale riduzione al compito di protezione ed
imparziale amministrazione della giustizia commutativa, dei
contratti.
Ritengo persin superfluo precisare che, proprio perché si
tratta di una definizione minima, non definisce esaurientemente
nessuna specifica teoria liberale. Tuttavia, l'autore italiano che
più le corrisponde è stato - ben più dello
stesso Croce, che concepisce il liberalismo non tanto come una
dottrina politica quanto come una sorta di religione della
libertà, di forza morale che definisce l'essenza dell'Uomo e
che, sul piano della filosofia della storia, contrasta senza posa la
coazione arbitraria e la brutalità8 - Luigi Einaudi. Una sua
lunga citazione si rivelerà più chiara di ogni mia
parafrasi: "L'uomo liberale, pur prestando omaggio alle buone
intenzioni dell'uomo socialista, conclude che la sua via conduce
assai più sicuramente alla selezione dei capaci, alla
preferenza data a chi guadagna ed al fallimento di chi perde; ed
è garanzia di maggior produzione e di prosperità per
tutti, con innalzamento delle moltitudini, senza distruggere, in
misura dannosa, l'incentivo ai migliori. La soluzione dirigistica
appare agevole e pronta. Partono gli ordini dei capi politici e
debbono essere eseguiti [...]. Se la strada scelta era sbagliata, se
i favoriti, gli aiutati politici non rispondono alle speranze e
quali probabilità vi sono perché la scelta dei
concessionari pubblici sia buona? alla lunga prevalgono i costi
alti, e cioè la produzione scarsa, generatrice di bassi
salari ripartiti non equamente fra le moltitudini che volevansi
innalzare. Il metodo liberale è certamente duro e penoso, ed
è sempre provvisorio, ché le norme poste dalla legge
sono frutto dell'esperienza e debbono essere rivedute ad ogni
esperienza nuova. Esso è oggettivo, imparziale; pone regole
di scelta, non sceglie. Non favorisce nessuno, e fa prevalere quelli
che meglio sanno scegliere la via del successo, entro i limiti dei
vincoli uguali per tutti. È implacabile verso coloro i quali
non osservano le norme poste dalla legge all'operare dei singoli;
non manda al muro o in Siberia i favoriti statali sfortunati; ma
lascia fallire senza remissione coloro che, scegliendosi da
sé, non hanno le qualità necessarie per resistere"9.
Non sono dunque aspetti di un'ideologia liberale propriamente
definita - è bene sottolinearlo - né i diritti di
autonomia democratica, che riguardano la distribuzione la più
ampia possibile del potere politico e non la sua limitazione,
né i cosiddetti diritti sociali, che presuppongono un ampio e
costruttivo intervento dello Stato nella sfera economica, sociale e
formativa. Questi ultimi due aspetti - detto più
semplicemente: la democrazia e il Welfare - possono essere chiamati
in causa, nella prospettiva del liberale, con un solo argomento
plausibile: che senza certe condizioni di sfondo la libertà
negativa o, se si vuole, i diritti civili che dovrebbero tutelare
tutti i cittadini dall'invadenza e dalla prepotenza dello Stato
diventano fittizi. Solo pochi, o comunque non tutti, ne godono
effettivamente: quelli che non hanno alcun mezzo per realizzare le
loro scelte individuali godono di una libertà assolutamente
vuota, inutile. Sono, se si vuole, liberi di non essere liberi, non
potendo che "scegliere" di essere nelle condizioni in cui appunto si
trovano ad essere. Insomma, solo un regime democratico attento alle
condizioni degli svantaggiati (detto altrimenti: capace di evitare
che si formi una classe di emarginati) pare avere le carte in regola
per soddisfare le condizioni implicitamente presupposte dal
liberalismo. Ecco, in fondo, l'idea della liberaldemocrazia e, ove
si sottolineino le questioni della redistribuzione delle risorse,
del liberalsocialismo. Questo pur fondato argomento genera a sua
volta evidenti contraddizioni teoriche, come del resto avviene ogni
volta che si tenta la quadratura del cerchio fra ideologie che
rispondono a valori politici in ultima istanza alternativi, come
appunto sono la libertà e l'eguaglianza (banalmente: la
libertà di intraprendere collide inevitabilmente con ogni
forma di redistribuzione delle risorse in senso egualitario). Siamo
così giunti alla questione del liberalsocialismo, che
però occorre più chiaramente distinguere dal semplice,
o se si preferisce, dal puro liberalismo.
Socialismo e liberalsocialismo
Per arrivare a definire il liberalsocialismo, una volta fissato il
minimo comun denominatore del liberalismo, pare opportuno, come
già si accennava, cercare parimenti di identificare il minimo
comun denominatore dell'ideologia socialista. Per amore di
simmetria, parto anche questa volta da una proposta di definizione
suggerita da Bovero: "Il socialismo potrebbe essere definito come
quella concezione o dottrina politica che riconosce e propone come
valore finale ultimo, e/o come idea regolativa per l'elaborazione di
un sistema di fini, indirizzi e strategie politiche, l'eguaglianza
sociale, o la solidarietà, o anche l'eguaglianza come
condizione della cooperazione e della solidarietà sociale"10.
Provando a riutilizzare i tre elementi della definizione proposta
per il liberalismo, si potrebbe allora dire che per opposizione
definiscono il socialismo: una matrice filosofica altrettanto
utilitaristica, ma che situa nella società e non nel singolo
il soggetto di cui bisogna sopra ogni cosa calcolare
l'utilità, e che quindi fa dell'organismo sociale il
distributore senza appello delle risorse collettivamente prodotte,
ossia "delle quote di benessere" dei suoi membri; la sovrapposizione
delle sfere, attraverso l'affermazione della sostanziale
funzionalità di tutte le dimensioni dell'espressione
individuale e della vita privata alla pubblica utilità
politicamente deliberata e determinata sotto forma di
"volontà generale"; la conseguente centralità o
tendenziale totalità della politica, che neutralizza o rende
comunque residuale la sfera delle libertà negative.
Anche questa definizione - credo sia ovvio - non pretende di
rispondere in maniera egualmente convincente a tutte le versioni del
socialismo che sono state storicamente proposte. Certamente i
diversi socialismi, che sono una famiglia variegata e composita non
meno dei liberalismi11, hanno di volta in volta sottolineato uno o
due dei tre elementi definitori qui proposti, trascurando, almeno
all'apparenza, i rimanenti o il rimanente. La disputa in casa
socialista intorno al primato dell'economia oppure della politica
(inerente al primo elemento) sembra riprodurre, se non altro nella
forma, la distinzione fra liberismo e liberalismo, o fra liberalismo
del mercato e dei diritti; ma potremmo aggiungervi le classiche e
note contrapposizioni teoriche fra riformismo e rivoluzione
(inerenti al secondo elemento), o fra spontaneismo e verticismo
(inerenti al terzo elemento)12. Proseguendo però sulla
falsariga dello schema interpretativo adottato nel paragrafo
precedente a proposito del liberalismo, anche nei riguardi del
socialismo non è difficile scorgere, al di là di tutte
le pur significative varianti e sfumature, una sorta di biforcazione
concettuale: il valore supremo dell'eguaglianza sociale può
essere interpretato come implicante una rigida collettivizzazione
dell'agire dei soggetti, che debbono essere organizzati
gerarchicamente o armonicisticamente per rispondere effettivamente
ed efficacemente allo scopo, o, diversamente, come compatibile con
una misura anche non residuale di libera iniziativa individuale, il
che implica fissare dei limiti all'intervento dirigistico dello
Stato. Chi ammette questa seconda possibilità, è
coerentemente costretto a cercare di argomentare una qualche
plausibile coesistenza e un qualche reciproco intreccio dei due
valori, per molti aspetti opposti, della libertà e
dell'eguaglianza. È la via liberalsocialista o
social-liberale teorizzata in Italia, come si diceva in apertura,
soprattutto da Carlo Rosselli e Piero Gobetti.
Prima di analizzare rapidamente questi due autori - soffermandomi un
poco di più su Gobetti, il cui pensiero mi sembra il
più vicino a quello di Gramsci - ritengo ancora una volta
opportuno stabilire la definizione minima di liberalsocialismo. In
prima battuta, prendo a prestito da Ludolfo Paramio quella che non
è in senso stretto una definizione del liberalsocialismo, ma
una riflessione sulla sua applicazione storica, che ne illustra
però con vigore obiettivi e limiti: "Il risultato è un
crescente ampliamento del concetto di 'diritti di cittadinanza': in
una continua tensione tra la definizione di libertà
individuali irrinunciabili (diritti di) e l'esigenza di uguaglianza
di opportunità per tutti (diritti a), le società
industrializzate hanno via via assunto un nuovo concetto di
cittadinanza. Lo stato deve garantire ai cittadini i mezzi per avere
delle opportunità di vita, ma per farlo non può
oltrepassare certi limiti che determinano gli stessi diritti dei
cittadini. La necessità di generalizzare l'accesso
all'istruzione o all'assistenza sanitaria non giustifica la confisca
dei beni privati, la soppressione delle libertà individuali o
qualsiasi altra violazione dei diritti civili"13.
Riprendendo invece il confronto fra le mie precedenti definizioni di
liberalismo e socialismo, si potrebbe definire, con tutte le cautele
già espresse in precedenza, il liberalsocialismo come quella
ideologia che: pur tenendo ferma la prospettiva dell'utilità
sociale, fissa limiti tanto all'utilitarismo individualistico quanto
a quello collettivistico (od olistico) attraverso il concetto
(variamente declinabile, senza dubbio) dei diritti fondamentali
della persona; pur tenendo ferma la separazione delle sfere, pensa
il costituzionalismo non solo come limite alla politica
(all'onnipotenza della maggioranza) ma anche come limite al mercato
(all'onnipotenza del denaro); pur tenendo fermi i limiti della
politica, ne rivendica una determinante funzione compensativa e
regolativa, orientata alla giustizia distributiva, di contro alla
presunta capacità di autoregolazione dei processi
economico-sociali.
Rispetto a questo tentativo di definizione del liberalsocialismo, il
pensiero di Gobetti e di Rosselli (soprattutto dell'ultimo Rosselli,
come ha fatto osservare Nicola Tranfaglia14) potrebbe apparire
improntato a sottolineare eminentemente il secondo termine del
composto, vale a dire il socialismo. E le ragioni, in quel frangente
storico, indubbiamente non mancavano. Di qui, forse, anche la
possibilità di una parziale sovrapposizione e condivisione
con Gramsci per quanto concerne gli strumenti politici e i programmi
d'azione contingenti. Ma non - e mi propongo di chiarirlo meglio nel
paragrafo conclusivo - per quanto riguarda la natura ed i fini della
politica, non, insomma, sul piano teorico ed ideale. Come ho
già detto, vorrei limitarmi a qualche cenno per Rosselli,
concentrando poi le riflessioni conclusive sul confronto fra le
concezioni della politica di Gramsci e Gobetti.
Prendiamo in esame proprio il Rosselli del periodo che va dal 1935
al 1937, anno della sua uccisione, anziché quello più
classico di "Socialismo liberale". Nonostante le frasi forti con cui
nel '35 reagisce alle critiche di Salvemini e in cui prende
chiaramente partito per una radicalizzazione rivoluzionaria della
lotta che per sua natura non può essere rispettosa della
legalità, egli continua a sottolineare la centralità
dell'idea di libertà del singolo, valore ultimo e luogo in
cui cade la differenza dai comunisti: "In fondo il problema che noi
vogliamo affrontare e risolvere è quello di una conciliazione
non esteriore, ma organica, di un'organizzazione socialista della
produzione industriale e semisocialista della produzione agraria,
con nuclei artigianali, tecnici, professionali col rispetto della
libertà e della dignità dell'uomo. La rivoluzione
russa portata in occidente, con tutta l'eredità
dell'occidente"15.
Differenza dal comunismo che viene ribadita in un articolo dell'anno
successivo: "Il socialismo marxista parte dalla massa, dalla
collettività. Il comunismo libertario parte dal singolo
[...]. La rivoluzione deve fare dell'uomo lo strumento, la misura,
il fine"16. Così, nonostante il Rosselli politico si renda
ben conto che l'opposizione al fascismo ha assoluto bisogno di
quella forza non solo materiale ma anche morale che si esprime nel
socialismo e nella sua applicazione storica, il comunismo, il
Rosselli teorico non cessa di considerarli entrambi strumentali al
progetto più alto dell'emancipazione dell'individuo: "Nel
socialismo vediamo la forza animatrice di tutto il movimento operaio
[...]. Nel comunismo la prima storica applicazione del socialismo
[...]. Nel libertarismo l'elemento di utopia, di sogno, di
prepotente, anche se rozza e primitiva, religione della persona"17.
Mi pare dunque che - lo ribadisco: sotto il profilo teorico -
Rosselli, pur nel precipitare degli eventi, non abbia mai
abbandonato la prospettiva originaria espressa in "Socialismo
liberale", prospettiva assai vicina a quella di Gobetti, cui
conviene tornare per approfondire finalmente il confronto con il
pensiero politico di Gramsci.
Prima però di passare al confronto fra Gramsci e Gobetti,
ancora una precisazione risulta necessaria. Salta infatti agli occhi
un'esclusione, quella di Guido Calogero, che potrebbe apparire del
tutto immotivata, avendo egli tanto scritto di liberalsocialismo,
criticando, fra l'altro, le posizioni rosselliane. L'esclusione
è però motivata dai confini stessi di questa analisi.
In altri termini, sono le stesse premesse filosofiche del
liberalsocialismo di Calogero che fanno della sua posizione un
ibrido: egli sembra affondare le sue radici nell' "ideologia
italiana", pur dando frutti che sotto molti aspetti sono tipici
dell' "piemontese" per seguire ancora la suggestiva, sebbene spuria,
dicotomia di Veneziani. L'aggirarsi di Calogero fra neoidealismo,
attualismo e spiritualismo, il suo richiamo insistito al messaggio
evangelico e alla fratellanza intesa come amore cristiano e come
ricerca della via palingenetica che porterà al "con-fondersi"
armonico degli ideali di giustizia e libertà, anziché
ad accettare la natura inevitabile quanto assiologicamente positiva
del loro conflitto nella teoria e nella prassi sociale18, lo
collocano però ai margini di quello spirito laico ed
illuminista che, come si è detto, è il tratto saliente
della cosiddetta "ideologia piemontese".
Per comprendere la distanza di Calogero da questa prospettiva
è sufficiente riprendere dal secondo manifesto sul
liberalsocialismo la sua forse più significativa definizione
del termine: "L'ideale del liberalsocialismo non è che
l'eterno ideale del Vangelo. Esso non è che una forma di
Cristianesimo pratico, di servizio di Dio calato nella
realtà. Chi ama il suo prossimo come se stesso, non
può non lavorare per la giustizia e per la libertà"19.
Pur essendo d'accordo con Calogero che "il liberalsocialismo non
è un monopolio di nessuno"20, credo sia chiara
l'incompatibilità fra la sua definizione e quella che,
peraltro sulla scorta dell'interpretazione prevalente, ho suggerito
poco sopra. In particolare, mi pare del tutto oscurata, nel
liberalsocialismo di Calogero, la dimensione propriamente filosofica
del liberalismo (utilitarista e individualista), che dovrebbe essere
invece fondativa, se non si vuole parlare più propriamente di
una qualche forma di socialismo o di cristianesimo sociale.
Gramsci e Gobetti
Soffermiamoci ora, alla luce delle considerazioni fin qui svolte, su
Gramsci e Gobetti, anche se, ammettendo come ragionevole quanto
sinora detto, credo che ciascuno possa facilmente capire ciò
che, sotto il profilo teorico, li unisce e, soprattutto, ciò
che li divide. In ogni caso, compiamo insieme un segmento di una
possibile rilettura orientata dalle chiavi interpretative che ho
proposto.
Saggiamo insomma, ripensando alle definizioni date di liberalismo,
socialismo e liberalsocialismo, la congruenza o incongruenza di tali
definizioni con la visione del mondo di Gramsci e Gobetti,
rileggendo alcuni luoghi ben noti. Anche qui, con una precisazione
iniziale. Ciò che conta veramente - vale a dire: la pietra di
paragone efficace, il criterio decisivo - è la distanza dei
nostri due autori dalla prima delle ideologie qui definite, il
liberalismo. È insomma la presenza o meno di qualche elemento
di liberalismo che consentirà o meno di sottrarre Gramsci ad
una lettura tutta interna all'ideologia socialista e comunista;
perché mi pare che la sua corrispondenza complessiva a questa
ideologia non possa neppure essere messa in discussione. In modo
analogo, si tratta di valutare se la qualità o la natura del
"liberalismo" di Gobetti - anch'essa indiscutibilmente particolare,
originale - sia tale o meno da consentire di ascriverlo comunque al
casato dei liberalismi, sia pure nel ramo cadetto del
liberalsocialismo. Ancora una volta: non dal punto di vista della
storia del pensiero politico, le cui acquisizioni al riguardo non
pretendo di sottoporre a revisione, ma da quello della filosofia
politica, in cui le ascrizioni dipendono dal soddisfare del tutto,
in parte o per nulla definizioni.
Si può allora definire la visione del mondo gramsciana o
gobettiana un utilitarismo individualistico, che considera come gli
elementi, gli atomi della riflessione, gli individui, in quanto
attori razionali motivati dallo scopo di ricercare ciò che
considerano bene e fuggire quanto ritengono per loro un male
(strategicamente o cooperativamente ora non interessa)? O una
qualche teoria della separazione delle sfere, dei limiti della
politica e dello stato minimo? Per Gramsci potrebbe forse bastare
questa citazione: "L'impostazione del movimento del libero scambio
si basa su un errore teorico di cui non è difficile
identificare l'origine pratica: sulla distinzione cioè tra
società politica e società civile, che da distinzione
metodica viene fatta diventare ed è presentata come
distinzione organica. Così si afferma che l'attività
economica è propria della società civile e che lo
stato non deve intervenire nella sua regolamentazione. Ma siccome
nella realtà effettuale società civile e stato si
identificano, è da fissare che anche il liberismo è
una 'regolamentazione' di carattere statale, introdotto e mantenuto
per via legislativa e coercitiva: è un fatto di
volontà consapevole dei propri fini e non l'espressione
spontanea, automatica del fatto economico"21.
Ritenendo solo metodologica la distinzione fra società e
Stato, si esce immediatamente e senza appello dall'alveo di
qualsiasi liberalismo. Così come leggendo la storia
attraverso l'analisi dei reali rapporti di forza fra entità
organiche, anziché come ordine spontaneo emergente da azioni
individuali (Smith) o come progressiva affermazione dei diritti
universali dell'uomo (Kant): la storia mostra per Gramsci
innanzitutto "un rapporto di forze sociali strettamente legato alla
struttura, obbiettivo, indipendente dalla volontà degli
uomini, che può essere misurata coi sistemi delle scienze
esatte o fisiche. Sulla base del grado di sviluppo delle forze
materiali di produzione si hanno i raggruppamenti sociali, ognuno
dei quali rappresenta una funzione e ha una posizione data nella
produzione stessa. Questo rapporto è quello che è, una
realtà ribelle: nessuno può modificare il numero delle
aziende e dei suoi addetti, il numero delle città con la data
popolazione urbana ecc."22.
In Gramsci, in tutta evidenza, le forze che muovono la storia, e
attraverso cui la si può comprendere e spiegare come
propedeutica all'arte politica, sono forze collettive ed organiche,
espressioni di bisogni sociali, in un'intepretazione del
materialismo storico che deve sfuggire tanto alle lusinghe di una
forma di determinismo per cui tutte le trasformazioni o rivoluzioni
sociali avvengono secondo leggi meccaniche (ciò che lo stesso
Gramsci definisce economicismo, in quanto risente dell'approccio
metodologico dell'economia politica liberista) quanto allo slancio
del volontarismo (dell'azione individuale, eroica, di commistioni
fra giacobinismo e romanticismo): nella fase più propriamente
politica "le ideologie germinate precedentemente diventano
'partito', vengono a confronto ed entrano in lotta fino a che una
sola di esse o almeno una sola combinazione di esse tende a
prevalere, a imporsi, a diffondersi su tutta l'area sociale,
determinando oltre che l'unicità dei fini economici e
politici, anche l'unità intellettuale e morale, ponendo tutte
le quistioni intorno a cui ferve la lotta non sul piano corporativo
ma su un piano 'universale' e creando così l'egemonia di un
gruppo sociale fondamentale su una serie di gruppi subordinati"23.
Il partito politico, come tutti sappiamo, è il moderno
principe, un soggetto collettivo che deve aggregare e portare al
livello del conflitto politico le istanze di un blocco sociale
quando esse sono divenute storicamente mature: "Il moderno principe,
il mito-principe non può essere una persona reale, un
individuo concreto, può essere solo un organismo; un elemento
di società complesso nel quale già abbia inizio il
concretarsi di una volontà collettiva riconosciuta e
affermatasi parzialmente nell'azione. Questo organismo è
già dato dallo sviluppo storico ed è il partito
politico, la prima cellula in cui si riassumono dei germi di una
volontà collettiva che tendono a diventare universali e
totali"24. L'aggettivo totale ritorna poco oltre, quando fra i
compiti del partito viene ad esservi anche quello di promuovere "una
forma superiore e totale di civiltà moderna"25. Così
il partito che conquista lo Stato conferisce a quest'ultimo compiti
eminentemente etici. È la questione del "conformismo sociale"
o dell' "uomo collettivo", da forgiare attraverso il diritto. Scrive
al proposito Gramsci: "Compito educativo e formativo dello stato,
che ha sempre il fine di creare nuovi e più alti tipi di
civiltà, di adeguare la 'civiltà' e la moralità
delle più vaste masse popolari alle necessità del
continuo sviluppo dell'apparato economico di produzione, quindi di
elaborare anche fisicamente dei nuovi tipi d'umanità"26.
Nulla di più estraneo alla dottrina liberale, che attribuisce
alla sfera separata della società civile il compito della
formazione e dell'educazione. E nulla di più lontano dal
liberalismo di qualsivoglia natura l'idea organica ed olistica,
unitaria, totalizzante se non totalitaria, della vita sociale: il
liberalismo nasce comunque da una prospettiva individualistica,
atomistica, meccanicistica, pluralistica della società,
immaginata appunto come una somma o associazione di individui che,
al di fuori dei loro obblighi contrattuali, perseguono i loro fini
concependosi come reciprocamente estranei.
La stessa conflittualità che nelle pagine gramsciane emerge
come valore, e che a certe condizioni è un elemento
appartenente all'ideologia liberale, va compresa e ricondotta al
piano dei rapporti di forza fra entità organiche, fra classi
sociali, non della libera concorrenza o competizione fra individui
che in essa si migliorano e danno al contempo i migliori frutti per
la società. Più in generale, si potrebbe osservare
come l'elogio del conflitto sic et simpliciter non sembra essere
elemento identificante di nessuna ideologia politica: in tale
generico elogio convergono infatti, ad esempio, anche le posizioni
della destra che si richiama al darwinismo sociale e alla visione
etologica della politica.
Tornando a Gramsci, l'antagonismo politico è letto,
attraverso Clausewitz e le categorie della strategia militare, come
conquista del potere politico: "Lo scrittore italiano di cose
militari generale De Cristoforis nel suo libro 'Che cosa sia la
guerra' dice che 'per distruzione dell'esercito nemico' (fine
strategico) non si intende 'la morte dei soldati, ma lo scioglimento
del loro legame come massa organica'. La formula è felice e
può essere usata anche nella terminologia politica. Si tratta
di identificare quale sia nella vita politica il legame organico
essenziale, che non può consistere solo nei rapporti
giuridici (libertà di associazione e riunione, ecc., con la
sequela dei partiti e dei sindacati ecc.) ma si radica nei
più profondi rapporti economici, cioè nella funzione
sociale del mondo produttivo (forme di proprietà e di
direzione ecc.)"27.
Lo scopo ultimo è la vittoria, ovvero la conquista del
potere, dello Stato inteso come capacità di dirigere
l'economia: tutto il resto, in primo luogo i diritti civili e
politici, è chiaramente sovrastrutturale. Per un liberale,
invece, la competizione appartiene alla sfera dell'economia dove si
muovono individui uti singuli: lo Stato non è terreno di
conquista, ma una sorta di agenzia che deve limitarsi,
nell'interesse di tutti, ad impedire che la concorrenza sia sleale e
che si trasformi (appunto!) in conflitto armato. Così, che vi
sia qualche tratto anche genericamente liberale nelle fondamentali
categorie politiche gramsciane resta, a mio avviso, indimostrabile.
Un'analisi simile si potrebbe condurre anche usando come pietra di
paragone la democrazia (intendendo per democrazia la democrazia
rappresentativa, che Gramsci definirebbe borghese): l'esito non
differirebbe.
Neppure a Gobetti si possono del tutto propriamente ascrivere le tre
caratteristiche che considero definienti il liberalismo. Anche qui,
l'elemento di fondo che può superficialmente condividere con
il liberalismo è l'elogio del conflitto contrapposto ad un
modo di fare politica farisaico e controriformistico che Gobetti
giudica tipicamente italiano. Non solo di Giolitti. Anche della
sinistra italiana espressa dal socialismo turatiano: "La logica di
Turati conduce al collaborazionismo: il suo riformismo non assume
responsabilità di governo per pura timidezza; la logica
marxista voleva invece una violenta azione popolare. Privo di un
deciso interessamento delle masse [il socialismo turatiano]
rinunciò al principio educativo che era implicito
nell'intento rivoluzionario, si ripiegò nella molle rinuncia
utilitaristica, insegnò al popolo l'egoismo, il ricatto, la
ricerca delle concessioni"28.
Lo statalismo, l'elefantiasi burocratica, il trasformismo curiale,
l'assistenzialismo bigotto ecc. sono aspetti più di critica
morale alla degenerazione di un costume pubblico che di critica da
una prospettiva teorica ben definita (quella liberale, appunto) ad
un sistema economico-politico, quale ad esempio può esser
considerata quella di un Einaudi: la rivoluzione liberale di Gobetti
appare come una sorta di ritorno ai principi, di richiesta di un
rinnovamento morale della nazione, e in particolare della sua classe
dirigente. Una sorta di ideale lotta di liberazione da quello che
veniva giudicato il carattere dominante della nazione (la torbida
miscela di perbenismo, gesuitismo e corruzione) piuttosto che una
forma di liberalismo, è ciò che soprattutto pare
esservi negli scritti gobettiani.
Questo nobile conflitto si esprime in una lotta politica i cui
attori sono precipuamente attori sociali, non singoli individui. Il
socialismo vero, che porterebbe a sua volta a compimento il
liberalismo, viene definito come "il simbolo in nome del quale
combatte da anni innumerevoli il popolo per la sua redenzione;
è la più attiva delle idee che abbiano operato nella
realtà come impulso all'autonomia; è una dei
più grandi fattori di liberazione e di liberalismo nel mondo
moderno"29. Dunque, nonostante la nota avversione gobettiana per
l'esito della rivoluzione d'ottobre (che ha prodotto appunto
statalismo e conformismo), la sua prospettiva pare essere quella,
assolutamente estranea ad un liberale, della lotta di classe. La
classe operaia (Gobetti pensa in particolare alla classe operaia
torinese) è immaginata come quella forza in grado di portare
una ventata di novità, e di rigore morale, nella asfittica e
trasformistica politica italiana incarnata dal giolittismo: "Il
fatto gigantesco è che il popolo (quello che era il fantasma
di Mazzini) chiede il potere. Il popolo diventa lo stato. Nessun
pregiudizio del nostro passato ci può impedire la visione del
miracolo. Questo non avrebbero fatto i liberali, questo non possono
fare i marxisti. Il movimento operaio è un'affermazione che
ha trasceso tutte le premesse. È il primo movimento laico
d'Italia. È la libertà che s'instaura"30.
Ci sarebbero numerose altre citazioni, non meno esplicite: ma queste
credo siano sufficienti per definire almeno molto sui generis il
liberalismo di Gobetti. Certo, nel suo pensiero sono forti i
richiami all'antistatalismo e alle autonomie: ma questo appare
piuttosto un tratto bolscevico o, come lo ha definito Marco Revelli,
"liberalbolscevico"31. Si potrebbe però osservare che -
ancora più chiaramente di Rosselli (che pure insiste sulla
forte personalità come tratto saliente dell' "uomo nuovo") e
a differenza di Gramsci - Gobetti non si pone in termini
organicistici ed olistici la questione della socialità del
singolo, sottolineandone al contrario gli spiccati elementi di
individuale responsabilità morale e civile. E qui sta, in
ultimo, il "liberalismo" gobettiano, nonché appunto la
differenza essenziale rispetto a Gramsci. Tuttavia anche Gobetti
rimane esterno alla prospettiva filosofica del liberalismo proprio
perché sovradimensiona la caratteristica della
responsabilità individuale, dandole l'impronta della
religione del laico. Se Gramsci esalta il collettivo, Gobetti, pur
consapevole del valore e talvolta della necessità della lotta
di classe, esalta il singolo. Infatti, là dove egli giudica
gli individui, e soprattutto gli uomini politici, la sua prospettiva
è etica ed eroica: richiama certi sprezzanti giudizi di
Machiavelli sulla viltà di certi tiranni, decisi e crudeli
solo con i loro inferiori o i loro pari. Scrive provocatoriamente
Gobetti: "A tutta la massa di assenti c'è da preferire gli
intolleranti, gli uomini feroci di parte, pervasi di odio che non
cessa. Questi prendono posizione, non sfuggono la lotta. Ed è
più umana la malvagità che la vigliaccheria"32. Questa
dimensione etica, questa esigenza di virtù politica, questo
richiamo ad un aristocratico concetto dell'onore è
esplicitamente contrapposto, in più luoghi, proprio a tutte
le forme di pensiero utilitario, bollate appunto come forme di
opportunismo. Anche qui, è notevole la distanza
dall'antropologia liberale, in cui si è appunto consumata la
trasformazione del concetto aristocratico repubblicano di onore
(militare e civile) in quello più prosaicamente laico e
borghese di onestà come legalità. La stessa
argomentazione mi sembra potrebbe valere, poco più poco meno,
a proposito del "liberalismo" di Rosselli. Anche per lui la
"dignità dell'uomo" sembra dover consistere nella grandezza
morale e nell'impegno civile, piuttosto che nelle mediocri e
domestiche virtù del borghese.
I
n conclusione, anche Gobetti e Rosselli restano estranei al nucleo
più autentico del liberalismo33, e in quella temperie
politica e culturale forse non poteva essere diversamente. Non
bisogna dimenticare che in Italia lo Stato cosiddetto liberale aveva
aperto le porte al fascismo, né, più in generale, che
la prospettiva liberale pareva allora completamente oscurata dallo
scontro fra le forme di totalitarismo affacciatesi sulla scena
politica europea. Pensare allora che ci volessero personalità
di grande spessore morale per resistere e un giorno ricostruire
appare del tutto comprensibile. D'altronde, il pensiero di Gramsci,
Gobetti e Rosselli condivide il destino di giovani vite
prematuramente concluse, che non hanno potuto contribuire alla
stagione del "dopo il diluvio". E dire quali vie teoriche avrebbero
battuto sotto la sollecitazione di sfide nuove e diverse sarebbe
scivolare incautamente sul piano delle profezie.
Ciò che si può dire è che invece oggi teniamo
in gran conto, almeno a parole, la lezione del liberalismo senza
eroismo: e se pensiamo al liberalismo nella prospettiva dei diritti,
credo facciamo bene. A partire da questa prospettiva mi pare si
possano trovare risposte a quelle che furono le istanze e le
esigenze ideali più alte del socialismo e del
liberalsocialismo. Ma se occorre sfuggire alla retorica
dell'attualizzazione, questo non significa necessariamente ripensare
a Gramsci, Gobetti e Rosselli solo per rivolger loro un omaggio in
occasioni celebrative. Vi è almeno un punto su cui ritengo
che il loro lascito sia del tutto attuale: la concezione della
politica come dimensione per sua natura conflittuale e come livello
da cui la convivenza civile non dovrebbe neppure oggi
fisiologicamente prescindere. La politica dovrebbe rimanere il
livello al quale si confrontano, senza trascenderne l'ambito e i
mezzi, le grandi istanze economiche, sociali, morali, intellettuali,
talvolta radicalmente e ineliminabilmente diverse, presenti in una
società. In una parola, la politica è il livello in
cui si misurano e si scontrano, pur entro la cornice costituzionale,
i progetti alternativi di società in essa esistenti.
Eliminare questo conflitto rimandando la competizione al mercato e
riducendo la politica ad amministrazione significherebbe riavviare
le nostre società verso l'omologazione culturale e, sotto le
rassicuranti vesti della "democrazia" mediatica e maggioritaria,
verso più o meno larvate forme di plebiscitarismo e di
paternalismo tecnocratico. Di qui le ragioni di una nuova resistenza
intellettuale e morale dell' "ideologia piemontese": contro la nuova
improvvida alleanza - nuova e forse paradossale, ma non più
di tanto: si pensi al fascismo sostenuto dagli industriali non meno
che dagli agrari - del mercato globale (dell'ideologia neoliberista
della globalizzazione) con la proteiforme e sempre rinascente
"ideologia italiana".
Note
* Il presente saggio sarà anche pubblicato, per i tipi della
Rosenberg&Sellier, in un volume collettaneo di studi gramsciani.
1 Per una sua breve storia rimando a Norberto Bobbio, Tradizione ed
eredità del liberalsocialismo, in Michelangelo Bovero -
Virgilio Mura - Franco Sbarberi (a cura di), I dilemmi del
liberalsocialismo, Roma, Nis, 1994.
2 Prendo semplicemente spunto dalla intrigante (quanto per molti
aspetti asimmetrica) dicotomia di Veneziani rovesciandone, credo sia
ovvio, il valore assiologico. I termini in cui la espone il
libellista più noto della destra sono i seguenti: "I grandi
referenti storici dell'ideologia italiana espressa dal fascismo sono
la romanità, il cattolicesimo e il rinascimento, tre
espressioni politiche, religiose ed artistiche nate nel cuore del
Mediterraneo [...]. I grandi referenti storici dell'ideologia
piemontese sono invece le rivoluzioni nate nel Nord: la rivoluzione
protestante e puritana, la rivoluzione industriale, le rivoluzioni
francese e americana [...]. L'ideologia italiana si pone come un
tentativo di elevare in senso etico e religioso la politica sulle
basi di uno spiritualismo politico e nazionale. L'ideologia
piemontese esprime invece l'istanza di laicizzazione e di
razionalizzazione assoluta della politica" (La rivoluzione
conservatrice in Italia, Milano, Sugarco, 1994, pp. 7273).
3 Michelangelo Bovero, Quale liberalismo per quale sinistra?, in
"Iride", a. X, n. 22, 1997, p. 476.
4 Cfr. Friederich V. Hayek, Liberalismo, Roma, Ideazione, 1996
(ripubblicazione della voce "Liberalismo" redatta per l'Enciclopedia
del Novecento dell'Istituto dell'Enciclopedia ltaliana).
5 Vale la pena di sottolineare come i neoliberali o neoliberisti che
si riconoscono in queste posizioni non siano per nulla originali,
limitandosi a riproporre con qualche innovazione meramente
terminologica una vecchia ricetta.
6 Il passo si trova nelle dispense universitarie Norberto Bobbio
Michelangelo Bovero, Società e Stato da Hobbes a Marx,
Torino, Clut, 1973, pp. 99100.
7 Si potrebbe subito obiettare che un autore come Kant, considerato
liberale, non è un utilitarista. Ma quante volte fa ricorso
ad argomenti fondati sull'utilità? Si pensi, a titolo di
esempio, alla confutazione del paternalismo: ciascuno sa meglio di
ogni altro in che cosa debba consistere la propria felicità.
8 Scrive Croce in La storiografia meramente politica e il pessimismo
morale del 1948: la libertà è una "forza non
politica", che tuttavia la politica "non può sopprimere mai
radicalmente perché rigermina sempre nuova nel petto
dell'uomo". Riprendo la citazione da Norberto Bobbio, Il nostro
Croce, in Michele Ciliberto - Cesare Vasoli (a cura di), Filosofia e
cultura. Per Eugenio Garin, Roma, Editori Riuniti, 1991, p. 800 (ora
anche in N. Bobbio, Dal fascismo alla democrazia, Milano,
Baldini&Castoldi, 1997, p. 234.
9 Luigi Einaudi, Discorso elementare sulle somiglianze e sulle
dissomiglianze fra liberalismo e socialismo, dispensa IV delle
Prediche inutili, Torino, Einaudi, 1957, p. 220-221. Sulla
discussione fra Croce ed Einaudi cfr. Benedetto Croce - Luigi
Einaudi, Liberismo e liberalismo, Napoli, Ricciardi, 1988.
10 M. Bovero, Liberalismo, socialismo, democrazia. Definizioni
minime e relazioni possibili, in M. Bovero - V. Mura - F. Sbarberi
(a cura di), op. cit., p. 316.
11 Cfr., ad esempio, Sebastiano Maffettone, Fondamenti filosofici
del liberalismo, in Ronald Dworkin - Sebastiano Maffettone, I
fondamenti del liberalismo, Roma-Bari, Laterza, 1996, in particolare
pp. 128133.
12 In questo ginepraio un rimando opportuno mi pare quello alla voce
"Socialismo" redatta da Cesare Pianciola per il Dizionario di
politica, Torino, Utet, 1983, pp. 1.074-1.079.
13 Ludolfo Paramio, Socialismo liberale e marxismo analitico, in M.
Bovero - V. Mura - F. Sbarberi (a cura di), op. cit., p. 333.
14 Cfr. Nicola Tranfaglia, Sul socialismo liberale di Carlo
Rosselli, in M. Bovero - V. Mura - F. Sbarberi (a cura di), op.
cit., in part. pp. 99104. Traggo da questo saggio le tre citazioni
rosselliane successive.
15 Lettera di Carlo Rosselli a Gaetano Salvemini, datata 15 ottobre
1935. Il corsivo è mio.
16 Carlo Rosselli, Catalogna, baluardo della rivoluzione, in
"Giustizia e libertà", 6 novembre 1936.
17 Id, Per l'unificazione politica del proletariato italiano, ivi,
14 maggio 1937.
18 Cfr. anche F. Sbarberi, La sintesi liberalsocialista di Guido
Calogero, in M. Bovero - V. Mura - F. Sbarberi (a cura di), op.
cit., in particolare p. 135.
19 Guido Calogero, Difesa del liberalsocialismo ed altri saggi,
Milano, Marzorati, 1972, p. 226.
20 Idem, p. 6.
21 Antonio Gramsci, Noterelle sulla politica del Machiavelli,
Torino, Einaudi, 1981, p. 103.
22 Idem, pp. 85-86.
23 Idem, p. 87.
24 Idem, p. 6
25 Idem, p. 8.
26 Idem, p. 44.
27 Idem, p 203.
28 Piero Gobetti, Letture sui partiti politici, in "La rivoluzione
liberale", a. I, n. 8, p. 307. Il corsivo è mio.
29 Id, Liberalismo e democrazia, ivi, n. 1, p. 3. Il corsivo
è mio.
30 Id, Discorso tenuto ai collaboratori di "Energie Nove", in Id,
Scritti politici, Torino, Einaudi, 1969, p. 190.
31 Marco Revelli, Gobetti "liberal-comunista"?, in M. Bovero - V.
Mura - F. Sbarberi (a cura di), op. cit., p. 84.
32 P. Gobetti, La nostra fede, in Id, op. cit., p. 87.
33 Ciò potrebbe apparire analogo a quanto sostenuto in
Giuseppe Bedeschi, Piero Gobetti, un liberale inesistente, in "Nuova
storia contemporanea", a. II, n. 1, 1998, dove si traggono
conclusioni sul reale o presunto liberalismo di Gobetti commentando
un giudizio di Gramsci: "Aveva perfettamente ragione Gramsci, dal
suo punto di vista, quando affermava, nel 1926, che Gobetti 'aveva
capito la posizione sociale e storica del proletariato
[naturalmente, l'aveva capita, secondo Gramsci, in un'ottica
marxistaleninista] e non riusciva più a pensare astraendo da
questo elemento'. Ma proprio per questo il pensiero di Gobetti era,
potremmo dire, completamente fuori dal solco del liberalismo" (p.
144). Ma si tratta di una somiglianza solo parziale: Bedeschi tende
a ridurre Gobetti ad una variante insignificante del gramscismo o
del marxismoleninismo, mentre, a mio giudizio, il suo pensiero
è fra le espressioni più alte di un'altra ideologia,
che potremmo definire, con Rosselli, "libertarismo" (cfr. la
citazione di cui alla nota 17).