Introduzione al pensiero vebleniano

Caterina Marsi


Il Trimestrale. The Lab's Quarterly

Il pensiero sociologico fra il 1800 e il 1900 è stato molto fecondo. Sono numerose le opere di grandi maestri che hanno offerto chiavi di lettura dei profondi cambiamenti che interessano la società dell'epoca. Ma non per tutte si può sostenere quanto affermò C.W. Mills rispetto alle opere vebleniane:

"ci aprono la mente, ci fanno uscire dal chiuso, ci consentono di vedere al di là dell'impostura ufficiale. Soprattutto ci insegnano a capire quale folle base abbia il realismo di quegli spiriti pratici che vorrebbero portarci a una onorevole distruzione.” (1)

E soprattutto esse sono cariche di brillanti intuizioni, disincantate profezie (anche) del nostro tempo.

Nell'antologia di Coser "I maestri del pensiero sociologico" (2) compare anche il nome di Veblen insieme a quello di altri autori ben più noti nel nostro paese quali Weber, Marx, Spencer ed altri. Ma chi era Veblen? E soprattutto perché è così poco conosciuto in Italia?

Thorstein Bunde Veblen nacque negli Stati Uniti nel 1857 da immigrati norvegesi. Si formò e sviluppò la parte più acuta della sua opera nella cosiddetta "età della protesta", quell'epoca in cui gli "industriali predatori", i cosiddetti nuovi ricchi riuscirono a costruire, in pochi anni, un eccezionale sistema capitalistico che sconvolse profondamente la società americana ancora in buona parte agricola e pervasa dallo spirito pionieristico da Far West.

In quegli anni si organizzarono i movimenti di protesta anche all'interno delle fabbriche stesse. Veblen, figlio di agricoltori, osservò come uno scrutatore ribelle e marginale, tali sconvolgimenti e ne trasse le sue (amare) conclusioni.

Si laureò in Filosofia all'Università di Yale, dove la sua mente "imbottita di spirito sardonico" (3) potè apprendere la teorie di Darwin e Spencer. La sua fama di agnostico e le sue maniere poco convenzionali gli resero sempre più difficile l'inserimento post-lauream nel mondo universitario americano. Appassionatosi agli studi economici, riuscì a tenere un corso di economia all'Università di Chicago e a scrivere articoli contro l'impresa capitalistica.

Nel 1899 uscì quella che, a torto o a ragione, è considerata l'opera principale di Veblen: "La teoria della classe agiata". Analizzando il modus vivendi della leisure class, Veblen introdusse il concetto di "emulazione finanziaria" (agiatezza vistosa) quale chiave di lettura della società capitalistica. In poche parole essa significa che il rispetto degli altri si conquista dimostrando loro la nostra capacità di spendere e, quindi, adottando modelli di vita che rivelano un consumo improduttivo del tempo reso possibile dallo sfruttamento del lavoro altrui. Tale agiatezza vistosa è andata man mano trasformandosi in consumo vistoso, in palese spreco di beni non guadagnati.

Nel 1904 uscì il secondo libro di Veblen: "La teoria dell'impresa". Con 25 anni di anticipo, lo studioso americano mise in guardia sulle pericolose conseguenze della gestione affaristica dell'economia, ossia sui rischi di una cieca ed esclusiva ricerca del profitto da parte dei "capitani dell'industria" che avrebbe portato alla creazione di una ricchezza fittizia basata sulle speculazioni finanziarie e sempre meno rispondente alla realtà produttiva. La "proprietà assenteista" preferiva Wall Street alle fabbriche e così facendo rendeva sempre più vulnerabile la società capitalistica sottoponendola a crisi periodiche e costanti dovute al sabotaggio stesso della produzione perpetrato dagli uomini d'affari per mantenere alti i profitti e che creava disoccupazione d'impianti e di manodopera. La crisi del 1929 fece riflettere sulle parole di Veblen. La crisi dei paesi sviluppati dei nostri tempi dovrebbe fare altrettanto.

Negli anni in cui il Vecchio Continente fu scosso dal I° conflitto mondiale, due scritti di Veblen ("La Germania imperiale e la rivoluzione industriale" e "Una inchiesta sulla natura della pace e le condizioni della sua perpetuazione") lo resero noto anche sulla scena internazionale e palesarono il suo impegno per la creazione di un cultura di pace.

Tentò anche una esperienza in un ente governativo (la Food Administration), ma l'acquiescenza e l'inettitudine che caratterizzano qualsiasi burocrazia non potevano essere tollerate da un inquieto come Veblen.

I suoi scritti sulla pace sollevarono critiche e sospetti e Veblen finì così per trasferirsi a New York dove diresse la rivista progressista "The Dial". Diversi articoli furono inseriti in un'altra importante opera dal titolo "Gli ingegneri e il sistema dei prezzi" del 1921. Veblen raggiunse in quel periodo la massima celebrità che però fu come un fuoco di paglia.

Cominciarono le difficoltà finanziarie per la redazione di "The Dial" e lo studioso si trasferì alla New School for Social Research, cittadella della cultura progressista. Lì tenne una serie di lezioni sul ruolo sociale dei tecnici, figure che egli contrapponeva ai rapaci quanto inutili uomini d'affari.

La soluzione tecnocratica ai mali della produzione non ebbe però un largo seguito, né Veblen stesso si impegnò a farne qualcosa di più che una mera teoria.

Vedovo della seconda moglie, trascorse gli ultimi anni della sua vita in solitudine, chiuso in un silenzio che denunciava il peso di un'esistenza vissuta nella marginalità e nel dissenso.

Morì nel 1929 poche settimane prima che il mondo conoscesse gli effetti nefasti della gestione affaristica della società che Veblen aveva preannunciato.

Descritto brevemente il personaggio, vediamo adesso di rispondere all'altra domanda che si è posta all'inizio, ossia perché Veblen non è noto nel nostro paese.

Quando morì, il suo pensiero era già conosciuto e apprezzato anche in Europa, soprattutto in Inghilterra e in Germania, mentre dovettero trascorrere altri venti anni prima che cominciasse a diffondersi anche in Italia. Nel 1949 l'editore Einaudi pubblicò la traduzione di Ferrarotti de "La teoria della classe agiata" e da lì si accese il dibattito sulle sue idee. Alcuni giornali dell'epoca ("Il corriere della sera", "l'Unità" ecc.) divulgarono il commento che quell'opera suscitò, ma, leggendo quegli articoli si ha l'impressione che molte delle sue idee non abbiano trovato in questo paese il terreno fertile per essere recepite. Altre volte, invece, si scopre che sono state del tutto fraintese o che chi ha voluto per forza criticarle lo ha fatto con argomenti ridicoli e superficiali (4).

La società italiana del secondo dopoguerra presentava un tessuto sociale ed economico per molti versi più arretrato rispetto a quello degli altri paesi europei e degli Stati Uniti ed è per questo, a nostro avviso, che non si sono create le condizioni per un approfondimento del pensiero di Veblen: certe sue intuizioni sulle conseguenze della speculazione finanziaria, sulla periodicità costante della crisi del capitale, sulla precarietà dell'uomo comune nel mondo lavorativo, sulla generalizzazione dello spreco come modello di vita delle società capitalistiche, erano troppo avanzate per essere recepite pienamente dal mondo culturale italiano di allora.

Negli anni '60 uscirono un'interessante monografia di Vianello sullo studioso americano e alcuni articoli di Ferrarotti.

Di venti anni fa (1981) è una riedizione Rizzoli de "La teoria della classe agiata". Dopo di che si perdono le tracce di Veblen nel nostro paese, proprio quando certe sue intuizioni sono diventate più attuali che mai:

"recuperare oggi la sua opera alla nostra coscienza critica non costituisce, quindi, un gesto di archeologia culturale ma un atto di aggiornamento indispensabile per chi voglia risalire alle origini della crisi che attualmente attraversiamo" (5)

Ma vediamo a questo punto, in che senso la conoscenza del pensiero di Veblen costituisce un aggiornamento indispensabile per capire la crisi della nostra società.

Per fare questo partiamo dall'inizio, da quella che egli definiva la "fase barbarica". A parte il fatto che lo studioso americano non fu mai preciso nel definire il susseguirsi di certi "stadi" della storia dell'umanità. Quello che qui conta è spiegare che è nella suddetta fase "barbarica" che cominciò la distinzione tra una classe improduttiva, esonerata cioè dai lavori meno "onorifici" ed una produttiva che, invece portava la sussistenza ad un livello tale da permettere alla prima di campare senza lavorare.

Questa primitiva discriminazione (dapprima basata solo sul sesso) si è consolidata col passare del tempo e ha portato alla visione dualistica della società in Veblen: da una parte la leisure class, dall'altra la massa uniforme degli uomini comuni.

Leisure class è stato tradotto in italiano come "classe agiata", ma è meglio interpretarlo come classe improduttiva. Veblen la definì anche la "proprietà assenteista", ossia quegli uomini d'affari che manovrano le forze produttive in base all'andamento dei mercati finanziari e senza mettere piede in una fabbrica. Essi perpetrano periodicamente il sabotaggio della produzione, cioè la dirigono (l'accelerano o la rallentano) non in base alle reali esigenze sociali del momento, ma solo in vista della necessità prioritaria di tenere i profitti a livelli mai inferiori a quelli già raggiunti.

Tutto questo, spiegava a ragione Veblen, determinava delle crisi cicliche del capitale che si manifestavano con la disoccupazione di impianti e di manodopera, con la crescente richiesta di "flessibilità" nei confronti dei lavoratori, resi sempre più omogenei dalle esigenze di standardizzazione dei processi produttivi:

"alla popolazione attiva si richiede di essere standardizzata, mobile e intercambiabile in un modo altrettanto impersonale delle materie prime o semi lavorate delle industrie” (6)

Dunque l'uomo comune assomiglia ad una materia prima e come tale è coinvolto negli scambi commerciali nella veste di consumatore e/o lavoratore.

Un uomo sempre più uniformato e spersonalizzato nelle mani dei Business men.

Quando Veblen descrive le masse non lo fa con commiserazione per il loro ineluttabile ruolo passivo, nè prospetta per loro alcun riscatto rivoluzionario (come fece Marx), bensì ne sottolinea il comportamento ossequioso nei confronti della proprietà assenteista (da cui si fanno spennare come oche giulive ), (7)

"finora nessuna maggioranza popolare ha imparato ad affidare delle responsabilità di governo ad individui della sua stessa condizione sociale poiché, nella mentalità popolare, quelle responsabilità non hanno mai cessato di esser prerogativa delle classi benestanti e beneducate” (8)

Questa affermazione di Veblen riconduce al suo ragionamento di base ossia, in poche parole, che la stima degli altri si conquista dimostrando loro la nostra capacità di spendere.

Tale convinzione vebleniana, si badi bene, deve essere considerata fondamentale in questa ottica e non perché può sembrare innovativa e divertente allorché descrive le caratteristiche dell'agiatezza vistosa.

In altre parole, quando Veblen, dipinge la caricatura del nuovo ricco con tutte le sue maniacali accortezze volte a dimostrare la capacità del suo portafoglio, a sbigottire i vicini di casa con passatempi spettacolosi, con mogli vistose e stuoli di lacchè, non si limita a descrivere una macchietta d'altro tempi ma ci offre gli strumenti per interpretare i risvolti psicologici degli effetti del possesso del denaro nella società moderna. Se poi, nel fare questo, sembrò confondere tratti borghesi con quelli della nobiltà, questo non è importante. Quello che conta è imparare il suo metodo di interpretazione di quei tratti per adattarlo, poi, a qualsiasi società, di qualsiasi epoca. E per fare questo basta leggere la sua opera principale.

I simboli dall'agiatezza, è ovvio, cambiano col cambiare delle epoche e delle mode, ma continuano sempre ad esistere in qualsiasi società capitalistica e sono il metro per misurare la stima degli altri, e di conseguenza, la stima di sé. Da prima riservati a pochi, poi sempre più diffusi nel tessuto sociale si trasformano da simboli dell'opulenza a vistosi consumi, a spreco istituzionalizzato di quelle risorse in più che la macchina capitalistica riesce a produrre. Tali risorse, afferma Veblen, non vengono utilizzate per rendere più efficiente la produzione, bensì per essere sprecate nell'assurda corsa all'emulazione finanziaria.

Vianello (9) attribuisce alla critica vebleniana di quei fenomeni della società capitalistica che esorbitano il mero soddisfacimento dei più naturali bisogni, il carattere di una vera e propria fissazione che impedì allo studioso americano di vedere certi aspetti positivi di quei fenomeni stessi che, col tempo, hanno distinto sempre più l'uomo dalle bestie.

La questione, a nostro avviso, è piuttosto un'altra. Ha ragione C.W. Mills, quando nella prefazione a "La teoria della classe agiata", scriveva che il pessimismo di Veblen deriverebbe dal fatto che egli attribuiva alla ricchezza una dimensione fissa perciò se, da una parte, essa si concentrava in poche privilegiate mani che avrebbero provveduto a dilapidarla in vistosi consumi, dall'altra si sarebbe determinato, come conseguenza, un ulteriore immiserimento delle classi inferiori cui non sarebbero rimaste molte energie oltre a quelle necessarie a sopravvivere. Ebbene, rileva C.W. Mills, Veblen non aveva previsto che la ricchezza sarebbe potuta anche crescere favorita da quel progresso della tecnica che egli tanto auspicava, come difatti successe in diversi paesi nel secondo dopoguerra quando si diffusero certi modelli di consumo vistoso anche tra le classi meno facoltose.

Però aveva previsto, è il caso di ribattere, che il ritmo ed il volume della produzione sarebbero sempre stati manovrati dalla "proprietà assenteista" per evitare una sovrapproduzione e tutto quello che ne consegue: in altre parole per evitare la stagnazione degli affari, occorre sempre una certa disoccupazione di impianti e di manodopera. Il progresso della tecnologia produce disoccupazione "strutturale": basta vedere i tassi di disoccupazione attuali per renderci conto che questo ragionamento non fa una piega. Non solo, ma il fatto stesso che Veblen non aveva riconosciuto altri dinamismi oltre a quello economico e tecnologico come ha scritto qualcuno (10), non ci sembra un aspetto riduttivo del suo pensiero, anzi semmai, a nostro avviso, è piuttosto una brillante intuizione.

Circa ottanta anni fa, egli riconosceva il carattere cosmopolita delle tecniche (industriali) in virtù del fatto che già allora nessuna nazione europea ad esempio, era in grado di utilizzare i moderni mezzi tecnologici a scopi industriali senza ricorrere a materiali provenienti da altre nazioni.

Ecco perché lo spirito patriottico e/o la limitazione arbitraria della libertà di scambio contribuiscono ad abbassare il livello di efficienza della comunità e a renderne più difficili le condizioni di vita.

La civiltà moderna ha carattere cosmopolita ed

"È costruita su una scala troppo vasta, ha un carattere troppo complesso e multiforme, richiede la cooperazione di troppi e vari settori di ricerca, di esperienza e d'intuizione per accettare di esser prigioniera dei confini nazionali, se non a prezzo di mutilazioni e di ritardi intollerabili” (11)

Veblen era riuscito a prevedere che il sistema industriale si sarebbe sviluppato verso quello che si può definire un assetto interconnesso che si spinge fino alle parti più remote del sistema (12).

Ogni genere di affare politico, industriale e culturale assume un andamento cosmopolita e, perciò, i suoi risultati interessano tutta la società. Se l'esito sarà una politica belligerante, scriveva Veblen agli inizi del secolo scorso, assisteremo a bancarotte universali e nuove miserie popolari e, soprattutto verrà meno l'indispensabile riserva di pacifiche forze produttive su cui fondare un nuovo decollo culturale e industriale.

Prima di arrivare a capire tutto questo le nazioni industrializzate dovettero fare due guerre mondiali.

Se da una parte, Veblen aveva anticipato la globalizzazione delle tecniche e del sistema industriale, dall'altra aveva anche previsto che tutti gli aspetti dell'industria e della sussistenza stessa sarebbero dipesi sempre più dal crescente dominio del sistema dei prezzi, ossia dal mercato. La globalizzazione dell'economia, insieme alla sua evoluzione tecnologica sono considerate elementi caratterizzanti del capitalismo di questo millennio appena iniziato, nonché causa indiretta di nuova "povertà". Quello che, forse, Veblen non poteva intuire, infatti, è che un mercato globale può portare all'eliminazione del mercato stesso di coloro che producono beni che possono essere realizzati altrove a minor costo. Gli sviluppi imprevisti (non solo dallo studioso americano) della globalizzazione lasciano intravedere spaccature della società tra le classi ricche e povere che, per certi versi, sembrano ricordare la dicotomia vebleniana.

La più azzeccata intuizione dello studioso resta, a nostro avviso, l'aver dichiarato la non - fine del capitalismo (13) che va di pari passo con l'interpretazione in chiave affaristica che egli ne dava. In tale chiave andava letta anche la funzione della pubblicità (al centro dell'interesse dell'uomo d'affari si colloca la vendibilità di un bene e non la sua utilità per chi lo dovrà comprare. La pubblicità, come tecnica di vendita, fa parte di quei criteri che implicano uno sperpero di risorse ed uno ostacolo al libero sviluppo della produzione) e degli studi superiori (si ricordi che in America, già allora molti istituti di istruzione superiore erano finanziati privatamente proprio da quegli uomini d'affari che Veblen esecrava tanto).

L'avere intuito che una teoria della situazione economica moderna deve tener conto, prima di tutto, dell'attività affaristica e dei suoi effetti dimostrava, quindi, la consapevolezza vebleniana dell'incontrollabile potere che sta dietro la circolazione dei capitali, circolazione che sarebbe dipesa sempre più dalla logica del mercato finanziario e sempre meno dalla razionalità e dalla concretezza.

Al più tradizionale commercio di beni, si affianca quello di capitali, beni dal carattere più o meno tangibile il cui valore varia in base alla loro "redditività presunta" e fluttua in base alle fluttuazioni dei mercati azionari.

Ciò comporta, tra l'altro, che i capitali, ripartiti in quote immaginarie cambiano più spesso i loro proprietari di quanto non avvenisse, scrive Veblen, prima dell'avvento delle società per azioni.

Se, al quadro da lui tracciato, si aggiunge che la globalizzazione attuale si accompagna alla circolazione sempre più rapida della tecnologia, si ottiene che la smaterializzazione dei capitali è arrivata al punto di ridurre questi ultimi a impulsi magnetici che corrono da una parte all'altra del mondo sulle fibre ottiche.

I
l potere, avverte Veblen, appartiene esclusivamente al "grande capitale" e in questo scenario si poteva prospettare un'unica soluzione (alla quale non sembrò credere più di tanto nemmeno lui): il passaggio della direzione della industria dai finanzieri ai tecnici. Non c'era una terza parte che potesse fare un'offerta plausibile. Ma un "soviet di tecnici", scriveva Veblen, rappresenta, nella migliore delle ipotesi, un'eventualità remota (14)

Ricordiamoci le parole scritte all'inizio: … quegli spiriti pratici che vorrebbero portarci a un onorevole distruzione. Non distruzione creativa, dunque, ma solo distruzione.

La critica di Veblen al capitalismo non passa, dunque, ad una fase realmente costruttiva. Del resto, la sua concezione stessa della vita economica come continuo processo di adattamento, in cui le nuove istituzioni si presentano come correttivi di quelle precedenti, gli impediva di definire un termine finale nella vita economica. Resta il fatto, però, che egli era riuscito a colpire il difetto funzionale del capitalismo.

La crisi in cui versano in vario modo e misura, tutte la società capitalistiche non sembra smentire certi aspetti della critica vebleniana del capitalismo, con l'aggravante, però, che col tempo sembrano esser venuti meno anche gli aspetti razionali della produzione su cui lo studioso contava per sottrarre l'efficienza produttiva del sistema industriale alla deleteria gestione di esso da parte degli interessi finanziari.

Riflettiamo. Se anche solo una parte di questa crisi è dovuta al prevalere dell'inefficienza sull'istinto di operosità e a una generalizzazione dei modelli di vita della classe agiata che ha fatto dello sciupio vistoso un comportamento diffuso tra le masse occidentali, ebbene allora c'è motivo di credere che l'opera di Veblen meriti di essere letta anche adesso.


Note

NOTA (1) (C.W. Mills, prefazione a T.Veblen, La teoria della classe agiata, Einaudi, Torino 1981 p.XXV.)"

NOTA (2) (Il Mulino, Bologna 1983)

NOTA (3) (L. A. Coser, op.cit., pag.38)

NOTA (4) (si veda l'articolo di B. Croce).

NOTA (5) G. Corsini, Veblen: un ribelle americano, in "paese sera libri", (02/12/1969).

NOTA (6) (T. Veblen, "La teoria della impresa", ed. cit. p.251)"

NOTA (7) si veda "La Germania imperiale" in Veblen, Opere, ediz. Cit. p.400.

NOTA (8) (“Un’inchiesta sulla natura della pace…” in T.Veblen Opere, Ediz.cit., p.875/876)

NOTA (9) (op.cit. p.279)

NOTA (10) (V.L. Del Grosso Destreri - introduzione a T. Veblen; "La teoria dell'impresa", ediz. cit. p.37

NOTA (11) (Un'inchiesta sulla natura della pace…. , in T. Veblen, Opere, ediz. Cit. p.662)"

NOTA (12) v. T. Veblen, "La teoria dell'impresa", ediz. cit. p.200).

NOTA (13) ("tutto si può dire del capitalismo, meno che non funzioni" - M. Vianello, op. cit. , p.247)

NOTA (14) v. "La teoria dell' impresa", edit. cit. p.281