1.1 La formazione ed il clima culturale. 
    
    Adriano Tilgher nasce l'8 gennaio 1887 a Resina, l'odierna Ercolano,
    su "suolo vulcanico", come amava ricordare a chi gli rimproverava il
    carattere irruente e tellurico.Così come per il "suo"
    Leopardi, lo spettacolo di una civiltà andata in rovina sotto
    i colpi di una natura cieca e violenta lo segnerà in
    profondità.[1][1] La sua famiglia è di condizione
    modesta; il padre, vetraio a Capodimonte, di origine tedesca e la
    madre valdostana di origine francese, due culture i cui ambiti
    filosofici, Tilgher privilegerà sempre. Nel 1897 si
    trasferisce a Napoli, città che amerà e che
    immortalerà, nel suo saggio sulla poesia dialettale
    napoletana, nel mondo di inizio secolo fermo in un tipo di
    società ancora sostanzialmente ottocentesca e di cui Tilgher
    ci descrive i contrasti tra i coloriti ambienti popolari e
    l'aleggiante spirito hegeliano, condensati nell'etimologia dei
    termini cafone e begriffo[2][2]. Le prime esperienze formative di
    Adriano Tilgher, avvengono nello stimolante ambiente del liceo G. B.
    Vico, a Napoli. Gli studi , gli incontri e le amicizie di questo
    periodo saranno importanti e durature. Tra i banchi conosce la
    futura moglie, Livia de Paolis, Mario Vinciguerra, che
    diventerà suo cognato, e tra gli altri anche Guido De
    Ruggero. Sono di questo periodo le letture e le passioni per gli
    autori che incideranno sul suo futuro atteggiamento teorico e lo
    accompagneranno per sempre. Nasce l'amore per Leopardi, la lettura
    di Schopenhauer, il confronto con il pensiero di Kant e Fichte. Sono
    anni difficili. Ma, alle ristrettezze economiche, Tilgher oppone la
    tenacia negli studi e la bramosia nelle letture. A quindici anni
    riesce a pubblicare, con l'aiuto degli amici, una sua recensione al
    saggio di Cesare Lombroso Genio e degenerazione in cui mette in
    relazione, l'uomo di genio, con le predominanti caratteristiche
    irrazionali di personalità in cui si colgono, accanto alla
    eccezionalità, una capacità intuitiva e una
    sensibilità che rasentano la patologia. Scrive di Leopardi e
    Schopenhauer, esaminando il pessimismo comune ai due autori. Sembra
    emergere da queste prime elaborazioni "...l'esaltazione di un
    volontarismo che, da un lato, lo costringe alla riscoperta di
    Nietzsche, di un Nietzsche dionisiaco e ottimistico, dall'altro, gli
    fa subire il fascino delle scienze moderne, con il carico di
    negatività che esse gli imporranno."[3][3] Tutto condito con
    l'entusiasmo che danno le prime scoperte giovanili. 
    
    Il primo decennio del secolo è decisivo per i futuri sviluppi
    della storia civile e culturale italiana. Croce aspira ad essere il
    leader della cultura italiana ed europea. Strumento di questa
    egemonia diviene la Critica, fondata nel 1903, dalle cui pagine,
    Croce si inserisce nel vivo del dibattito dell'epoca, in tutti i
    campi di attività culturale, con un fine essenzialmente
    pratico e pedagogico, sostenuto da un solido sistema teorico. "Croce
    nel campo della cultura compiva una operazione che ha delle analogie
    con l'operazione politica di Giolitti: assorbire i fermenti, le
    inquietudini nuove della società italiana e inalvearle su una
    base pacificamente progressiva"[4][4]. Nello stesso anno, Papini e
    Prezzolini davano vita al Leonardo, Corradini al Regno, Borgese a
    Hermes. "Cio che accomunò provvisoriamente la rivolta della
    rivista napoletana e la scapigliatura dei fiorentini, fu la difesa
    delle dimensioni dell'uomo, della vita spirituale, dell'iniziativa
    umana. Anche se il sottointeso era, fin da allora, profondamente
    diverso, il nemico per il momento era lo stesso: una posizione che
    poggiava su strutture rigide del reale, che lo costringessero in una
    fissità definita per sempre e da sempre…. Certo è che,
    sia Papini che Prezzolini, una cosa avevano chiara fin da principio,
    e cioè che l'uomo è un punto di assoluta
    libertà, ossia rischio totale e possibilità
    infinita."[5][5] Ma Croce già da quel primo numero della
    Critica prendeva le distanze in nome di una funzione moderatrice. "…
    questa rivista non darà quartiere a quelle molte persone
    geniali che, infischiandosi della storia delle idee e dei fatti,
    prendono audacemente a risolvere ardue questioni sulle quali l'uomo
    s'è travagliato per secoli, sicure di afferrarle con un colpo
    sbrigativo della loro asserita genialità." Era l'asserzione
    di un graduale riformismo, rispetto alle ansie rivoluzionarie e
    iconoclaste di molti giovani intellettuali di quel momento. Papini,
    Prezzolini, Vailati, Serra, Corradini, Michelstaedter e molti altri
    si ribellarono, allora, dalle pagine delle riviste fiorentine, a
    quello che era stato il loro maestro, ma che sentivano ormai lontano
    e quasi come un traditore delle aspettative che aveva saputo
    alimentare. Si avvertiva intensamente la sensazione di una crisi
    profonda che riguardava tutto il modo di intendere l'uomo e di
    indagare la sua umanità attraverso la filosofia, "…il
    pensiero umano era giunto a un limite, e non si poteva continuare
    per la solita strada."[6][6] Furono anni decisivi per la formazione
    di molti dei protagonisti delle vicende degli anni successivi in
    cui, tutti questi sommovimenti premonitori, sarebbero stati
    centrifugati dal precipitare della crisi nella catastrofe della
    guerra. Riportiamo ancora il pensiero di Garin che, pur ravvisando
    negli interpreti di questa stagione i vizi palesi di un
    dilettantismo, di una retorica vuota e a tratti violenta, di una
    irresolutezza che si tramutava in disinvoltura nel passare di volta
    in volta da un atteggiamento teorico nel suo opposto, tutto
    ciò unito ai facili equivoci che provocò l'esaltazione
    dell'attivismo irrazionalistico, tuttavia conclude "In realtà
    in quella lotta contro un intellettualismo vuoto, in quel senso
    esasperato d'insoddisfazione di fronte alle troppo facili
    sistemazioni della realtà, in quel sentimento tragico della
    vita, in quella rivolta contro un troppo facile e superficiale
    ottimismo, si esprimevano forse le esigenze più profonde
    della nostra età."[7][7] Il conflitto è anche
    generazionale. I giovani mostravano tutti i segni della crisi,
    dell'inquietudine, di una società italiana in mutamento , in
    cui emergevano forti contraddizioni. Le nuove generazioni erano
    insofferenti a ogni egemonia ed estremamente permeabili a
    suggestioni provenienti dagli ambienti e culture più diverse.
    In un'Italia che sembrava solida, chiusa nella continuità con
    la tradizione risorgimentale, covavano i germi di un disagio
    profondo. La ribellione all'ottimismo crociano, spesso dava vita a
    tentativi infecondi e destinati al fallimento, ma "…bisogna tener
    presente che tutte queste operazioni culturali furono tentativi di
    sprovincializzare la vita italiana…"[8][8]. 
    
    Il giovanissimo Tilgher vive immerso nell'atmosfera di quegli anni.
    Affronta con passione la lettura di testi letterari e filosofici che
    può attingere di prima mano avendo conoscenza del francese e
    dell'inglese, oltre che del tedesco. La lettura di Fichte e
    Schopenhauer rimarrà, per lui, fondamentale.[9][9] "E' in
    questo clima che si esprime il volontarismo di Adriano Tilgher e la
    concezione sua attivistica dell'esistenza e della storia. E' in
    questa esplosione di tensioni, nel paradosso di un idealismo che si
    colora di irrazionale, che prende consistenza il suo modo di
    intendere l'arte come fuga mundi, come immediata posizione di
    oggetto e soggetto."[10][10] Dopo gli studi classici al liceo G. B.
    Vico, si laurea in Giurisprudenza nel 1909, con una tesi di
    filosofia del diritto. Negli anni dell'università, il suo
    professore di filosofia del diritto lo fa conoscere a Croce. Il
    maestro, apprezza a tal punto la precoce eccezionalità del
    giovane Tilgher, che gli affida, sotto la sua super visione, una
    serie di traduzioni per la casa editrice Laterza. I frutti
    più importanti di questa collaborazione furono la traduzione
    della Dottrina della scienza di Fichte, uscita nel 1910, e le
    traduzioni del Discorso sul metodo e meditazioni filosofiche di
    Cartesio nel 1912. Già a partire da questo periodo il
    rapporto comincia a deteriorarsi. I motivi sono insieme ideali,
    teorici ma anche, se non soprattutto di natura caratteriale. Tilgher
    ha più volte prospettato al maestro la sua vocazione per una
    ricerca filosofico teoretica, Croce lo scoraggia e lo spinge verso
    studi storici.[11][11] Una serie di lettere che Croce invia a
    Giovanni Laterza, testimoniano il venire meno della fiducia
    nell'allievo e una certa insofferenza. A partire dal 1914 Tilgher si
    allontana progressivamente da Croce, guardando come nuovo
    riferimento a Gentile, ma l'insegnamento crociano gli sarà
    sempre presente sia pure come bersaglio critico. I primi tentativi
    di approdare ad una visione personale ed originale hanno come campo
    di prova le teorie estetiche, "…nella prospettiva di un ripensamento
    dell'estetica di Croce."[12][12] 
    
    E' Croce, quindi, il primo maestro di Tilgher, ma sarà presto
    ripudiato. Come molti altri allievi di Croce, anche Tilgher
    intraprese la via tortuosa e difficile della autonomia speculativa
    ma, sempre, tenne presente il magistero crociano che, ha insinuato
    qualcuno, tese a emulare. La storia del fondamentale rapporto con
    Croce e Gentile investe tutta l'attività filosofica di
    Tilgher che si erge a vero terzo protagonista della cultura italiana
    del tempo. Antagonista di entrambi, della loro egemonia, assume toni
    spesso aspri che rivelano la commistione di rancori personali e
    ragioni strettamente teoriche. Eppure l'aria di famiglia rimane.
    Tilgher non riuscì mai ad emanciparsi totalmente dalla figura
    di Croce e, per quanto riguarda l'altro, la evidente consonanza
    teorica , più volte anche violentemente negata[13][13], fece
    parlare di Tilgher come del 'fratellastro' di Gentile. Senza lo
    sfondo culturale di Croce e Gentile certe sue enunciazioni
    perderebbero sicuramente di significato. 
    
    Nel 1910 si trasferisce a Torino dove ha vinto un concorso per
    bibliotecario. Arturo Carlo Jemolo lo ricorda come un 'signore
    giovane' che 'mostrava più dei ventitre o ventiquattro anni
    che aveva', così assorto nella lettura quotidiana dei
    giornali che molto spesso dimenticava di essere per strada e zittiva
    i passanti come se fosse in biblioteca. 
    
    1.2 Le opere, gli autori, gli avvenimenti. 
    
    Il volume Arte, conoscenza e realtà (1911) e il saggio
    Immagine e sentimento nell'opera d'arte, sono testimonianza del
    tentativo di Tilgher di affrontare i problemi estetici da un punto
    di vista nuovo tenendo presenti gli apporti che, in questo periodo,
    attinge e rielabora dagli ambiti culturali più diversi. Si
    dichiara ancora fedele alla matrice idealistica e alla derivazione
    crociana, ma tutto l'impianto teorico è fatto per smentire
    queste premesse. Queste opere di carattere estetico, come più
    tardi la Teoria del pragmatismo trascendentale, rivelano la natura
    delle letture che Tilgher affronta e degli influssi che subisce e
    che risulteranno decisivi per il futuro dela sua elaborazione
    filosofica. In primo luogo l'incontro con la filosofia di Bergson e
    la teoria dell'élan vital. Uno slancio vitale visto come
    immediatezza che però non si traduce in un elogio della forza
    ma, tende a correggere l'irrazionalismo vitalistico con la razionale
    disciplina imposta dalla naturale autoformazione dell'esistenza. Una
    dinamica di Vita e Forme, in cui il sistema razionale tenta di
    fermare lo slancio vitale che tuttavia non riesce a contenere.
    Questa componente vitalistica e soggettivistica della visione
    tilgheriana, marca la differenza con la concezione crociana chiusa
    nella distinzione tra teoria e pratica. "Della natura e della vita
    umane la filosofia di Tilgher mira a carpire il flusso sotterraneo,
    l'attimo fuori del tempo, il senso del bergsoniano slancio vitale,
    nel suo immediato rivelarsi, libero dalle mutevoli e sempre parziali
    regole di un'estetica e di un'etica codificate"[14][14] Le influenze
    evidenti di Simmel, Bergson, Nietzsche si fondono in una visione in
    cui razionale e irrazionale si compenetrano in modo che l'uno non
    prevarichi mai l'altro. 
    
    Nel 1912 viene chiamato alla biblioteca Alessandrina. Sposa la
    compagna di liceo, Livia de Paolis, e si trasferisce definitivamente
    a Roma. Qui comincia una intensa attività pubblicistica che
    lo porterà a collaborare con importanti quotidiani e riviste
    dandogli la fama di attento osservatore e acuto polemista. Scrive su
    Italia nostra, La Cultura, La Nuova Cultura, Rassegna contemporanea
    e la Rivista di filosofia. Nel 1914 è, con Borgese, Guidi,
    Varisco, Vinciguerra, Zottoli e altri, tra i fondatori del
    Conciliatore. Sulla Concordia appare la sua firma in articoli di
    critica letteraria e politico-sociale. E' questo il periodo che lo
    vede idealmente più vicino a Giovanni Gentile. La vicinanza
    si spiega con il rifiuto e la reazione alla tutela teorica di Croce.
    Tilgher vede, in Gentile, il negatore del dualismo crociano di
    conoscere e volere. Proprio nel tentativo di innestare le nuove
    esigenze della filosofia contemporanea, che deduce il conoscere dal
    volere, nel filone dell'idealismo trascendentale, nasce la Teoria
    del Pragmatismo trascendentale (1915) , la raccolta di saggi e
    articoli, che forma la prima sistemazione del suo pensiero.
    Certamente non lo si può considerare un atto di piena
    adesione alla filosofia attualistica. Tilgher, ancora non
    completamente emancipato da Croce, sente il fascino e l'attrazione
    delle teorie di Gentile ma vuole che, il conoscere inteso in senso
    attualistico, trovi un fondamento trascendentale nel dovere. La
    frammentarietà, l'imprecisione del vocabolario,
    l'incongruenza di alcune conclusioni, rispecchiano lo stato
    dell'elaborazione tilgheriana del momento. Del resto è lo
    stesso Tilgher, nella Prefazione alla Teoria, ad avvertire il
    lettore degli scopi e delle intenzioni ma anche dei limiti
    dell'opera, dichiarando che l'autore "…non ha l'assurda pretesa di
    aver detto l'ultima parola in filosofia, né per gli altri,
    né, tanto meno per se stesso."[15][15] Si intravede,
    nell'andamento dei saggi, la progressiva conquista di autocoscienza
    nello sforzo di una volontà che spinge il pensiero sempre
    più in profondità. L'esigenza sentita da Tilgher
    è che l'individuo consegua una piena consapevolezza personale
    e sociale che può essere data solo da un pensiero con un
    solido fondamento etico. La Teoria è il resoconto di questo
    processo insieme filosofico ed esistenziale. E' un'opera di
    apprendistato filosofico scritta da un giovane e che per questo
    viene bene accolta da un lettore giovane che ritrova, nelle pagine
    tilgheriane, la propria stessa ansia di analisi e comprensione. La
    Teoria è l'inizio di un percorso ma, con tutti i suoi limiti,
    contiene, in nuce, tutti i futuri sviluppi della elaborazione
    tilgheriana. 
    
    Gli anni tra il 1917 e il 1919 sono segnati da incontri importanti e
    amicizie che influiranno sul futuro teorico e personale di Tilgher.
    Presentato dal senatore Frassati, comincia a scrivere sulla Stampa.
    In lunghe passeggiate notturne, durante le quali discutono dei temi
    aperti dalla fine della guerra, stringe un legame fraterno con Mario
    Missiroli che lo chiamerà a collaborare al Tempo e al Resto
    del Carlino. In questo periodo, Tilgher approfondisce la critica
    dello storicismo crociano, formulando una teoria della 'storia-caso'
    in opposizione alla 'storia-ragione'. Si forma quel nucleo di temi
    che rimarrà centrale nell'opera di Tilgher fra le due guerre,
    "…la tensione di un profondo rinnovamento, ispirata dalla incertezza
    che deriva alla nuova generazione, forgiata nei massacri del fronte,
    dal crollo del precedente patrimonio di valori."[16][16] Frutto di
    questa elaborazione è il trittico di pubblicazioni del 1921:
    La crisi mondiale e Saggi di marxismo e socialismo, Relativisti
    contemporanei e Voci del tempo. Profili di letterati e filosofi
    contemporanei. Trova qui espressione una vera e propria 'filosofia
    della crisi' tilgheriana. Con la teoria dello 'scetticismo
    storicistico', in cui si fondono in modo originale una filosofia
    della Vita e un nuovo scetticismo che ha acquisito la coscienza
    storica della caducità delle culture e delle civiltà,
    Tilgher si immette nel più ampio dibattito europeo. In quegli
    anni, che preparano l'avvento del fascismo al potere, Tilgher dalle
    pagine della Ronda, dello Spettatore e del Testimonio, non si fa
    coinvolgere nel facile entusiasmo e assume un prudente distacco
    critico rispetto ai turbolenti avvenimenti di quel momento. 
    
    Dal 1922 collabora al Mondo di Giovanni Amendola. Pubblica La
    visione greca della vita e gli Studi sul teatro contemporaneo dove
    raccoglie il materiale frutto di quegli anni di critica drammatica.
    La polemica con Lucio d'Ambra intorno al dibattito aperto sul
    concetto di 'teatro nuovo', la avversione al teatro di Goldoni che
    lo avvicina a Gobetti, e infine il sostegno entusiastico all'opera
    pirandelliana, fanno di Tilgher il protagonista principe della
    critica teatrale italiana. Diventa l'incarnazione stessa del suo
    ideale di critico che, nel rapporto con il pubblico, non ha solo una
    funzione esplicativa ma, soprattutto, educativa e filosofica. 
    
    Il 1924 è un anno cruciale nella biografia di Tilgher. Si
    intravedono le prime avvisaglie di quell'ostracismo che la sua
    posizione non allineata alle tesi del regime, gli avrebbe procurato.
    Tilgher era diventato una delle voci più significative e
    ascoltate del tempo, e questo presto gli procurò le
    avversioni e le invidie della cultura di regime. Viene costretto a
    lasciare la biblioteca Alessandrina sotto le pressioni di quelle
    "persecuzioni attualistiche" che facevano capo direttamente a
    Gentile.[17][17] Si accentua la sua polemica anti-attualistica,
    nella quale si affianca a Piero Gobetti, collaborando alla
    Rivoluzione liberale. Del 1925 è anche Lo Spaccio del
    Bestione trionfante una violenta critica e "stroncatura" della
    filosofia e dell'uomo Gentile, "…un libro sotto taluni aspetti
    alquanto infelice, anche se non del tutto infondato nella veste e
    nella sostanza critica."[18][18] Nel 1926 la stretta del regime
    colpiva il giornale il Mondo. Tilgher è costretto al silenzio
    e abbandona la critica drammatica. Si spegne la voce di colui che
    era chiamato il "Mussolini della critica" per i giudizi taglienti e
    definitivi. 
    
    Ancora del 1928 è la pubblicazione di Storia e Antistoria in
    cui giunge a maturazione la sua visione critica dello storicismo e
    che gli procura una decisa censura crociana. Nel 1929 esce Homo
    faber, una analisi storica e filosofica del concetto di lavoro nella
    civiltà occidentale che gli darà un grande riscontro,
    anche a livello internazionale. "Nella personalità di
    Tilgher, nell'aspetto più contrastante del suo carattere,
    vive anche lo stridore di questa antitesi: la evidente simpatia per
    i temi dell'impostazione socialista e marxista, e il richiamo
    costante di una nostalgia classica; il senso di una radicata
    tradizione spirituale dell'uomo, e la carica 'progressista' di certe
    considerazioni sulla tecnica e le scoperte
    d'attualità…"[19][19] Anche se quest'ultima produzione di
    Tilgher non contiene attacchi espliciti al sistema politico e
    culturale del regime, nel 1930, Tilgher viene fatto oggetto di un
    provvedimento di pubblica sicurezza e sorvegliato dalla polizia
    fascista. "Quest'ultimo decennio di vita vede Tilgher tornare alle
    passioni filosofiche e letterarie degli anni giovanili, nella
    esigenza di tutto ripensare. La vicinanza di alcuni amici, tra cui,
    ultimo, Giuseppe Capograssi, gli consente di confortarsi al tepore
    di un'insperata notorietà, con crescenti recensioni dei suoi
    libri, saggi e articoli, in riviste di taglio scientifico, e con
    l'effetto ulteriore di una qualificazione, ancorchè
    indiretta, del suo pensiero, che per la prima volta arriva a lambire
    gli spazi di una cultura universitaria."[20][20] 
    
    1.3 Una coerente irregolarità. 
    
    L'aggettivo "irregolare", con cui lo abbiamo definito, mette in
    evidenza, del pensiero e della figura tilgheriana, proprio quel
    processo di dislocazione, straniamento, contraddizione permanente,
    che è il modo tipico di vivere il proprio tempo da parte di
    questo intellettuale. Risulta estremamente coinvolto ma, nello
    stesso tempo, estraneo e profeticamente volto in avanti rispetto
    agli avvenimenti. Diviene un irregolare di fronte a fenomeni e
    movimenti che, dopo uno stato nascente, si irrigidiscono in sistema.
    La sua scelta è per l'oscura imprevedibilità, la
    tumultuosa irregolarità della Vita, piuttosto che la
    staticità della Forma. Una caratteristica comune alla
    filosofia del Novecento. Un irregolare, dunque, nei confronti di un
    qualsiasi momento della contemporaneità, culturale, storico,
    politico che si fissi, si consolidi. Non dimentichiamo che, per
    primo, ha il merito di riconoscere lo stretto legame che corre tra
    le più tipiche espressioni della cultura italiana del tempo:
    l'attualismo gentiliano, il fascismo, il teatro di Pirandello;
    eppure finirà col prendere, traumaticamente, le distanze da
    tutti e tre, rimanendo in solitudine. Si legge in Relativisti
    contemporanei: "Il Fascismo non è che l'assoluto attivismo
    trapiantato in politica. Questo punto di vista - nuova prova
    dell'unità assoluta di ciascuna Cultura - trova sua
    espressione attuale nell'arte di Luigi Pirandello...".[21][21]
    Quando l'idea diventa ideologia e sistema di verità, quando
    si passa da una fase rivoluzionaria alla fase della legittimazione,
    Tilgher vi si oppone in nome di forme relative e limitate. La sua
    è un'irregolarità coerente, è il frutto di una
    scelta coerente con la dinamica irregolare del suo pensiero e con le
    vicende tumultuose del suo tempo. 
    
    Accostarsi allo studio di una personalità come quella di
    Adriano Tilgher significa dover delineare i caratteri di tutta
    un'epoca, di tutto un periodo, denso di avvenimenti, della storia
    europea e non solo di quella strettamente culturale. E' necessario
    addentrarsi nell'analisi del ruolo che gli intellettuali europei, e
    in particolar modo italiani, seppero esercitare con il recepire o
    meno i segnali di quel clima da 'crisi epocale ' che
    attraversò l'Europa e che sfociò nella tragedia della
    prima, catastrofica, guerra mondiale. La storia intellettuale di
    Adriano Tilgher è segnata in modo traumatico e profondo da
    questi avvenimenti che, comunque, si legano e influiscono sulla
    stagione più feconda della sua attività di studioso,
    poliedrico e atipico, ma fortemente inserito nel suo tempo di cui
    vive, da protagonista, le contraddizioni, le angosce e le
    disillusioni. Gli eventi storici si intrecciano indissolubilmente
    con la sua biografia e ne condizionano fortemente il pensiero nel
    suo farsi e l'evoluzione di questo segna le tappe e le vicende di
    rapporti personali, collaborazioni, amicizie e aspre
    contrapposizioni che influiranno, a loro volta, sulle posizioni
    teoriche e politiche e sulla fortuna personale di Tilgher. In una
    circolarità di vita , storia e pensiero che rimarrà
    sempre il filo rosso della sua vicenda umana. La sua esistenza
    è contrassegnata dall'impegno di intellettuale militante che,
    in consonanza con le più profonde esigenze del suo pensiero,
    cerca, attraverso modi e stili personalissimi, come giornalista,
    saggista, critico letterario e teatrale, filosofo, storico e
    sociologo, di esercitare un ruolo non passivo. 
    
    Gli si deve riconoscere il merito non solo di rispecchiare, in modo
    quanto mai eloquente, lo spirito di un'epoca ma, anche, di avere
    tentato di incidere nel proprio tempo perlomeno attraverso la scelta
    di servirsi di tutti gli strumenti che permettono di arrivare ad un
    pubblico più vasto. Consapevole, in questo, dell'importanza
    sempre più grande e decisiva che nel secolo avranno i mezzi
    di comunicazione di massa, sia come mezzi per la propaganda
    ideologica che come immensa possibilità di orientare
    l'opinione pubblica. Prova ulteriore di questa volontà
    è l'uso di un linguaggio chiaro se pure inconfondibile nello
    stile tagliente, limato dall'esercizio dialettico. E persino
    nell'adozione di una certa dimensione del carattere di stampa dei
    suoi libri, per altro, resi riconoscibili dal vivace arancione della
    copertina degli editori Bardi. 
    
    Tilgher illustra le qualità del filosofo militante, nel
    ritratto di uno dei suoi autori di riferimento, Ortega y Gasset, in
    cui si rispecchia nella, consueta e rivelatrice, opera di
    "tilgherizzazione": "Professore di filosofia nell'Università
    di Madrid, non ha nulla del filosofo tradizionale, ridicolo
    specialista dell'universale, occupato a dar fondo al cosmo in un
    sistema in più volumi. Uomo di cultura svariatissima, egli
    tratta con uguale profondità di storia e di politica, di
    economia e di critica d'arte, ed è egli stesso artista di
    squisita originalità. Non ha mai, credo, scritto un libro nel
    senso classico e tradizionale della parola: i suoi libri non sono
    che raccolte di saggi. E del successo che hanno, gli autori di libri
    che nessuno legge si consolano come possono, poveretti, dandogli del
    giornalista. Il suo procedimento abituale è sempre lo stesso.
    Egli parte da un evento della vita quotidiana, da un fatto di
    cronaca, dal libro del giorno, da qualcosa, insomma, evento
    movimento tendenza moda, che occupa e interessa tutti, non solo
    l'uomo colto ma anche l'uomo della strada, e, a poco a poco, ci
    mostra i fili innumerevoli per cui quel fatto, quel movimento,
    quella tendenza, quella moda, che prima appariva nel suo isolamento
    cosa insignificante, si rilega all'infinito della storia e della
    vita, che si è puntualizzato e concentrato in essa, e la fa
    battere del suo ritmo e palpitare della sua vita." [22][22] Come
    altri hanno rilevato[23][23], si tratta di un vero e proprio
    autoritratto. Tilgher individua non solo un tipo ideale di
    intellettuale, ma delinea anche un metodo di lavoro, di intervento
    nella realtà, che sfrutta ogni occasione, ogni momento che
    sembra frammentario, per intervenire nel dibattito culturale e
    introdurre, per analizzarlo, una delle questioni 'vitali' e
    'centrali' che investono la società contemporanea. Con queste
    premesse, diventa naturale la rinuncia alla sistematicità: il
    problema viene isolato e chirurgicamente scomposto in tutte le sue
    parti e implicazioni, ma mai è possibile inserirlo in un
    tutto che abbia la chiusura di un sistema. E' un metodo di lavoro e,
    nello stesso tempo, un programma, un ideale di intima fusione tra
    Vita e Filosofia a cui Tilgher rimarrà fedele. 
    
    Non gli pesa la riduttiva qualifica di 'giornalista' che, i suoi
    detrattori e certo mondo accademico, gli affibbiano. Niente è
    più alieno da lui, schopenhauerianamente, dell'ambizione a
    titoli e cariche accademiche. Egli stesso definiva il proprio lavoro
    come quello di semplice 'cronista' di un'epoca, che si lascia
    trascinare dal flusso caotico della storia, mantenendo, tuttavia,
    una "stabilità interiore" che è l'unico momento di
    "...un assoluto, comunque, stretto nei limiti dell'orizzonte storico
    e terreno"[24][24]. La sua attività di giornalista, svoltasi
    sui maggiori quotidiani dell'epoca (la Stampa, il Resto del Carlino,
    il Mondo, ecc.), rivela le caratteristiche fondamentali sia del suo
    temperamento che del suo atteggiamento teorico. L'amore per la
    polemica, il saper penetrare nel vivo delle questioni scontrandosi
    duramente con tesi consolidate, il gusto per le posizioni
    inconciliabili, in un andamento diadico che rifiuta una sintesi
    qualsiasi, "indizio sicuro - questo - di distacco dallo
    storicismo"[25][25], è il tipico atteggiamento delle
    età rivoluzionarie "... in cui differenze e asimmetrie non
    bruciano più nell'impazienza delle sintesi..."[26][26].
    Testimonianze della matrice dialettica della sua impostazione, sono
    le accese diatribe che lo videro protagonista sul futuro del teatro
    italiano e sul ruolo che doveva avervi il critico (per un periodo
    divenne il critico più ascoltato e autorevole d'Italia) che,
    per lui, avrebbe dovuto essere un vero e proprio "suggeritore
    filosofico" dell'artista. 
    
    Notissime le sue battaglie, prolungatesi dal 1916 al 1922, sul
    teatro del "grottesco" con Lucio D'Ambra e poi la stagione della
    scoperta del teatro di Pirandello, un incontro mai sereno e segnato
    da contrasti evidenti, sulla cui interpretazione si scontra con,
    l'altrettanto autorevole, Silvio D'Amico. Il teatro, per lui che
    dà importanza centrale ad una visione estetica della vita,
    diventa il rivelatore della crisi della società borghese e
    del tramonto della sua ideologia. In questo i personaggi
    pirandelliani gli sembrano emblematici della fase storica. Al teatro
    assegna una funzione educativa e filosofica. Silvio Cumpeta, nella
    sua opera su Tilgher, afferma che "Se fosse stato un pacifico
    studioso, o anche un filosofo di massimi problemi, sarebbe difficile
    - benché non impossibile - collegarlo strettamente a casi e
    vicende politiche e di costume; ... certe sue opere sono così
    contingenti, così legate all'aria del momento, che la
    distinzione tra pratico e teoretico in un discorso su di lui
    è senza significato."[27][27] Liliana Scalero, la studiosa
    sua discepola e curatrice delle opere postume, mette in luce, nella
    prefazione al Diario Politico[28][28], la natura dialettica del
    procedere tilgheriano. Il suo pensiero prende coscienza e si fa nei
    contrasti, nelle contrapposizioni, fichtianamente contro un
    ostacolo, un limite. Sente sempre il bisogno di avere chiaro
    l'interlocutore con cui battersi, per questo la sua filosofia ha
    essenzialmente e complessivamente, una valenza politica e morale.
    "C'è pensiero, nel senso proprio della parola, soltanto
    là dove c'è dialettica, cioè conflitto di
    opinioni diverse: nell'attrito reciproco le opposte opinioni perdono
    ciascuna la sua unilateralità, ognuna si apre a ciò
    che ha d'innegabile l'opinione opposta, perciò stesso esse si
    irrobustiscono, sono meglio in grado di resistere a ulteriori
    assalti."[29][29] 
    
    Lo rivela chiaramente la presa di posizione nei riguardi del famoso
    libello di Benda, Il Tradimento dei Chierici[30][30], recensito con
    diverso orientamento, anche da Croce. Tilgher non condivide un
    modello di intellettuale che considera totalmente anacronistico, che
    non è più adatto al ritmo di una società in
    evoluzione vertiginosa, a cui il progresso tecnico ed economico pone
    scenari inediti ed ineludibili. Per lui è necessario prendere
    posizione, sporcarsi le mani, legare il proprio destino, la propria
    esistenza al vortice irrazionale, casuale, della Vita e della Storia
    che, pessimisticamente profetizzando, non si muove verso un futuro
    certo e migliore. 
    
    1.4 Tilgher e la crisi. 
    
    E' il tema del Tramonto dell'Occidente di Oswald Spengler, di cui
    Tilgher fu il primo divulgatore in Italia e che diventerà uno
    dei suoi più cari 'compagni di strada '. Nel clima del
    dopoguerra, che Tilgher definiva di "interguerra", presago che le
    contraddizioni che avevano scatenato il primo conflitto mondiale
    restavano irrisolte e si erano acuite e avrebbero portato
    inevitabilmente a nuove catastrofiche esplosioni, avviene la
    scoperta e l'adesione alla visione spengleriana dello sviluppo delle
    civiltà intese come organismi soggetti alla legge biologica
    di un inesorabile declino. La coscienza della crisi e il crollo
    della fiducia in una Ragione universale che governi una Storia in
    perenne evoluzione verso il meglio in un progresso inarrestabile, si
    incontrano inevitabilmente con la prospettiva spengleriana. E dove
    la suggestione di questa tesi ha il sopravvento, Tilgher avverte il
    senso della fine, dell'epilogo e del crollo definitivo della
    civiltà europea. Tilgher può essere considerato il
    'sismografo' di quel vero e proprio 'terremoto delle coscienze ' che
    si avvertì dopo la fine del conflitto. Le voci più
    alte e autorevoli si interrogarono sul destino dell'Europa e
    dell'Occidente: Husserl, Valery, Huizinga, Mann, Toynbee, Ortega y
    Gasset, Musil, Svevo, Freud, tutti fanno parte della vasta schiera
    dei 'filosofi e letterati della crisi '. 
    
    Merito di Tilgher è essersi inserito in questo vasto
    movimento e aver diffuso, in contrasto con un mondo filosofico e
    accademico italiano non troppo recettivo o chiuso nel suo
    neoidealismo, le correnti e le figure più vive della cultura
    europea, di essersi fatto portavoce delle filosofie più
    feconde e gravide di un potenziale praticamente illimitato di
    suggestioni.[31][31] Sono indissolubilmente legati, da una parte, il
    "cronista" della crisi, che intuisce e da conto delle trasformazioni
    dell'arte, della società, della cultura che ha davanti, e,
    dall'altra il "filosofo" della crisi, che fa assumere al momento
    storico il valore paradigmatico di condizione umana. Eugenio Garin,
    nelle sue Cronache di filosofia italiana, giudica in modo
    inequivocabilmente negativo la tentazione, di questi interpreti
    della crisi, di universalizzare una situazione di fatto a cui si
    accompagna l'incapacità cronica a trovare soluzioni. "Si
    accorgevano che erano ormai cadute le antiche strutture del mondo,
    di cui la critica aveva svelato, al posto di una creduta
    obbiettività, la genesi storica, umana. Sentivano, d'altra
    parte, che nuove soluzioni ancora mancavano, o erano solo pensate,
    non reali. Ma invece di cogliere il limite di una situazione per
    integrarla, prorompevano in lacrime. Scoperto che il pensiero
    critico aveva dimostrato l'umanità, e quindi la
    relatività dei valori, piangevano sugli ancoraggi
    perduti."[32][32] Con quella di Garin concorda l'analisi di Silvio
    Cumpeta, che afferma "Quando Tilgher nei suoi più densi anni
    - dal 1918 al 1926 - pensava che tutto ormai, valori e uomini,
    andava alla deriva del relativismo integrale, dello scetticismo
    assoluto, dell'attivismo convulso, prendeva con violenza certi
    aspetti di una crisi etico-politico-economica, impossibili a
    comprendersi se non fossero stati inseriti in un concreto processo
    dello Stato e della società italiani, e li elevava a simboli
    metafisici della crisi."[33][33] 
    
    L'Italia di quegli anni vive il fenomeno delle avanguardie e il
    fiorire di numerosissime riviste, spesso dalla durata effimera e
    dalla vita travagliata, che videro Tilgher attivissimo animatore e
    collaboratore[34][34] insieme agli altri protagonisti di quella
    "generazione dell'Esodo", esodo dallo storicismo e dall'egemonia
    crociana e idealistica, che allora affilavano le armi della loro
    critica e che presero, in seguito, strade diverse che li portarono
    agli approdi più contrastanti. Sono alcuni di quei filosofi
    che Tilgher raccoglie nella sua Antologia dei filosofi italiani del
    dopoguerra che, in modo forse 'confuso', vedeva riuniti "...quelli
    nella cui opera si è riflesso il tormento intellettuale e
    morale del dopoguerra europeo..."[35][35] e non poteva certamente
    includere i seguaci dell'idealismo, in quanto "...l'Idealismo
    storicistico italiano è, in modo tipico, filosofia
    dell'anteguerra."[36][36]. E' un mondo spirituale tramontato con la
    guerra mondiale, "è l'ideologia del Progresso scritta in
    linguaggio hegeliano invece che in linguaggio positivistico. E' la
    filosofia tipica dell'Ottocento"[37][37]. Nelle Cronache di
    filosofia italiana, il giudizio di Garin su questi filosofi, pur non
    sottovalutandone l'inquietudine e l'acume nella critica dello
    storicismo, è netto: "Gli scettici e i relativisti, ... si
    esauriscono nel 'denunciare' la crisi, nel piangere sulla crisi, nel
    dissertare intorno alla crisi"[38][38]. Garin li considera i 'figli
    degeneri ' delle stesse dottrine che criticano. Dopo aver demolito i
    valori assoluti e le verità definitive, non sapevano uscire
    dallo sterile momento negativo e intravedere "... le soluzioni
    positive che se ne potevano trarre"[39][39]. Nella stessa Antologia,
    quasi alla fine della Prefazione che si prega di leggere, troviamo
    un invito all'azione, proprio perché "... nulla esclude che
    la vita - per forza propria o per soprannaturale intervento: qui
    essi differiscono - possa un giorno attuarsi in forme del tutto
    nuove e infinitamente superiori a quelle in cui si è
    già attuata, in forme che non siano il semplice miglioramento
    e arricchimento di queste, ma rompano con esse toto coelo. Un nuovo
    cielo, una nuova terra, una vita nuova possono apparire. La cosa non
    è logicamente impossibile. e se non lo è, può
    essere oggetto di fede e di speranza. E fede e speranza possono
    divenire le molle di un'azione adeguata"[40][40]. 
    
    Questo è il cammino che Tilgher indica alla "generazione
    dell'Esodo" per l'approdo ad una mai certa 'terra promessa'. Nella
    Lettera a Ferrero, del 13 gennaio 1922, parzialmente pubblicata nei
    Relativisti contemporanei, paragona le teorie storicistiche alla
    "terraferma" di una "modesta isoletta" che ora sembra sicura, ma
    basta che il fiume si ingrossi, il fiume della Vita, inarrestabile,
    e l'isoletta sprofonderà perché la "tempesta si va
    facendo sempre più alta e tremenda ed io non vedo riva a cui
    riparare né zattera su cui avventurarmi". La metafora nautica
    rende la situazione di chi ha rifiutato l'approdo dello storicismo e
    deve cavarsela in mare aperto. Non c'è approdo ad una
    qualsiasi Oggettività che non sia negazione
    dell'attività dello spirito[41][41]. 
    
    Tuttavia, scorrendo i titoli della bibliografia tilgheriana, si
    intravede, ad una lettura più attenta, il filo rosso di un
    percorso filosofico ed esistenziale da cui traspare l'intima
    coerenza di una vita spesa nella ricerca di un punto d'appoggio, di
    una solida terraferma da cui pronunciarsi sulla storia e sull'uomo.
    La sua mai sopita attenzione alla grecità (si veda La visione
    greca della vita) è testimonianza di una nostalgica ricerca
    di un mondo perduto, in cui l'esistenza era scandita dall'andare
    circolare del tempo e in cui tutto veniva interpretato,
    vichianamente, alla luce del mito. Una lettura che, più che
    di Nietzsche, risente dell'influenza di una mai dimenticata origine
    magno greca.[42][42] Questo itinerario Tilgher testimoniò con
    la sua stessa esistenza. L'impegno della sua vita, fu quello di
    cercare di rimanere nell'ambito di un'ascesi completamente laica e
    di uno stile di vita orientato e qualificato in senso etico e
    morale. Ernesto Buonaiuti, l'amico con cui condivise vent'anni di
    vita e di traversie teoriche e politiche,ricorda che Tilgher soleva
    affermare che la grandezza di un filosofo è tutta nel vivere,
    fino in fondo alla loro possibile conseguenzialità, i
    presupposti del proprio sistema. Di fronte ad un mondo che crolla
    dinanzi ai suoi occhi, l'ultima parola di Tilgher, pessimisticamente
    rassegnata, può essere riassunta nella conclusione della sua
    lettera di risposta a Guglielmo Ferrero, "Quanto a me, io sto a
    guardare, cercando di fissarne come posso qualche tratto, il dramma
    ideale di cui tutti siamo gli attori e gli spettatori, sforzandomi
    di comprenderlo e di abbracciarlo in tutta la sua grandiosa
    bellezza. Posizione di storico, se pure non freddo ed apata, ma
    commosso e palpitante. Quanto a credere di poterlo arrestare non ci
    penso neppure. Come ben disse Mario Missiroli, nella prefazione del
    mio libricino: Accade e più ancora accadrà quello che
    è inevitabile."[43][43] 
    
    Gennaro Sasso[44][44] rileva che la categoria fondamentale del
    pensiero di Tilgher, sia pure con le evidenti contraddizioni tra le
    varie fasi del suo sviluppo, non è, a differenza che nello
    Spengler del Tramonto, la rigida necessità, la anagkh, ma,
    piuttosto, Tilgher si appella alle infinite possibilità e
    aperture che la Vita, sia pure nella sua "...caotica e
    contraddittoria, incoerente e scissa, fluida e plastica, ribollente
    e vulcanica..."[45][45] tragica e drammatica imprevedibilità,
    concede. Tilgher "... proprio contro una forma di anagkh si
    rivolgeva: contro la anagkh del progresso"[46][46] che disconoscendo
    nella Storia la presenza del male, vede nella storia lo sviluppo del
    Divino. Una visione che impedì ai suoi seguaci di riconoscere
    per tempo le avvisaglie dei tempi tragici che si stavano avvicinando
    e di comprenderne, poi, la reale portata. Difendendo sè
    stesso e i suoi dall'accusa di inerte pessimismo, spronava a
    comprendere la 'rivoluzione' che era avvenuta con la fine della
    guerra. E' l' analisi tilgheriana della "crisi mondiale",
    raffigurata in un limpido affresco. La sua chiara visione dei
    problemi irrisolti dal conflitto in ambito politico e sociale,
    dell'equilibrio rotto tra gli stati europei, della mistificazione
    delle reali cause e finalità della guerra e, infine, la
    consapevolezza che le tensioni derivanti da una sconfitta sentita
    come ingiusta e umiliante, avrebbero portato una nuova catastrofe in
    tempi brevi. Tutto in un clima da imminente "Finis Europae". 
    
    Tilgher analizza, inoltre, le forze in campo nella società
    capitalistica e il ruolo che avrebbero potuto avere i partiti
    socialisti. Sulla spinta delle speranze accese dalla rivoluzione del
    '17, avvia una generale rilettura del marxismo. La "crisi mondiale"
    consente che vengano alla ribalta forze nuove mentre, su quella che
    egli , già nel '19, chiama "l'Italia del Fascio",
    s'addensavano le ombre del tramonto. Con "Fascio", Tilgher indica
    una coalizione eterogenea di forze , demomassoniche, nazionaliste,
    astrattiste e dannunziane, che avevano voluto la guerra ma che la
    guerra aveva spazzato via. Le nuove forze che emergono sono estranee
    "...a una vittoria che premia ancora una volta minoranze esigue,
    astratte, privilegiate e impopolari"[47][47]. Queste minoranze
    Tilgher denomina "fascismo democratico" quando ancora sono lontane
    le prospettive del fascismo mussoliniano. Dalla tragedia della
    guerra e dal ribollire del dopoguerra, si fanno avanti come
    protagoniste le masse, forze naturalmente rivoluzionarie, della cui
    irrazionalità lo storicismo non sa dare una spiegazione, una
    risposta adeguata al vortice del puro movimento in cui il fine e la
    fine sono celati. 
    
    1.5 Tilgher e il Fascismo. 
    
    Nella Crisi mondiale, il fascismo viene interpretato in modo
    acutamente originale. Lo annota Renzo De Felice che rileva per la
    prima volta, nell'analisi di Tilgher, un filone che verrà
    "ripreso e sviluppato"[48][48]. Tilgher vede il fascismo come un
    fenomeno tipico piccolo - borghese. La classe media è quella
    che più ha risentito della guerra, pur essendone stata la
    più accanita sostenitrice. Stretta nella morsa dei nuovi
    arricchiti che hanno sfruttato l'economia di guerra, da una parte, e
    del proletariato che esce anche esso più forte politicamente
    dalla guerra, dall'altra, la classe media guarda entrambi con
    rancore, ritenendoli responsabili del proprio depauperamento e
    "questo loro stato d'animo spiega il furore antisocialista degli
    arditi e dei fasci di combattimento, i componenti dei quali
    appartengono quasi tutti alle classi medie"[49][49]. 
    
    Il capitolo dei rapporti di Tilgher con il regime fascista è
    tra i più controversi e, come auspicato, "occorrerebbe un
    studio specifico"[50][50]. In questa vicenda tormentata, viene
    coinvolta sia la sua attività di filosofo che quella di
    giornalista e critico, vendette personali e episodi
    incresciosi[51][51] resero amari i suoi ultimi anni di vita. Subito
    dopo la pubblicazione e il successo editoriale di Relativisti
    contemporanei, sul Popolo d'Italia del 22 novembre 1921, esce una
    entusiastica recensione di Mussolini dal titolo Relativismo e
    fascismo. Per Mussolini "il Fascismo è stato un movimento
    super - relativista, perché non ha mai cercato di dare una
    veste definitiva ai suoi complessi e potenti stati d'animo, ma ha
    proceduto per intuizioni frammentarie". Del resto le tesi di Tilgher
    non potevano non incontrarsi con la prassi e l'ideologia del
    nascente fascismo: "E' l'azione per l'azione, è l'azione fine
    a sé stessa, in tutta l'infinità, ma anche in tutto il
    vuoto, della sua natura. E poiché un'azione senza un
    contenuto qualsiasi è un assurdo, ed un contenuto positivo
    qui è impossibile, così all'azione non rimane che
    proporsene uno negativo: il rovesciamento dell'ordine di cose
    esistente. Annientare ciò che esiste è il solo scopo
    che può proporsi un'azione che non volendo che se stessa non
    vuole dissolversi corrosa dalla sua intima nullità. Sotto
    questo punto di vista il Relativismo non solo prepara la
    rivoluzione, è esso stesso essenzialmente
    rivoluzionario"[52][52] Al di là degli esiti nichilistici, il
    Relativismo prepara l'azione rivoluzionaria sgombrando il campo dal
    mito di una Storia intesa come progresso capitalizzantesi, una
    storia riformisticamente intesa. L'individuo così viene
    liberato dal dominio della Ragione storicistica, non gli rimane che
    "... voler agire che solo per agire, per strapparsi in qualche modo
    con l'azione dalla disperazione di un mondo maledetto che non
    consente più nemmeno la fuga nei deserti"[53][53]. "Il
    Fascismo non è che l'assoluto attivismo trapiantato nel
    terreno della politica"[54][54]. Non meraviglia che il libro di
    Tilgher, anche tempo dopo la sua caduta in disgrazia, facesse bella
    mostra di sè sulla scrivania del Duce. 
    
    Con queste premesse appare naturale accostare la figura di Tilgher
    al fascismo o perlomeno che "... ambiguo risultasse, negli anni, o
    in alcuni degli anni, che videro l'affermazione del fascismo, il suo
    atteggiamento politico"[55][55]. Per Eugenio Garin, che considera
    Tilgher un pensatore incoerente e di corto respiro, "... Tilgher non
    si limitò a rovesciare malamente la prospettiva crociana
    nella dialettica storia - antistoria, attribuendo ogni valore vitale
    all'antistoria, ma trovò il modo di fare in sordina la sua
    brava apologia del fascismo"[56][56]. Tilgher intravede nel fascismo
    un modo nuovo di usare la storia, il fascismo crea e seleziona il
    suo passato in maniera da averne giustificazione: è
    l'antistoria che crea la storia. Ironia della sorte, sono proprio i
    fascisti ad usare, praticamente, il detto crociano che la storia
    è sempre contemporanea. Di diverso avviso sulla posizione di
    Tilgher rispetto al regime, è uno degli studiosi che, nel
    1988, partecipa a uno dei due convegni tenutisi in occasione del
    centenario della nascita del filosofo napoletano e in cui si
    è data una complessiva lettura rivalutativa. Giano Accame
    afferma decisamente che Tilgher appartiene all'antifascismo. A
    suffragare questo giudizio vi sono, per lui, innumerevoli fatti.
    Oltre alle vicende persecutorie e l'ostracismo che subì dal
    regime, è da ricordare che Tilgher firmò il manifesto
    degli intellettuali antifascisti di Croce; non chiese mai
    l'iscrizione al partito; collaborò, fino alla traumatica
    chiusura del '26, con il Mondo di Giovanni Amendola;
    precedentemente, dal '22 al '25, fu in stretto contatto col circolo
    torinese di Gobetti, collaborando alla Rivoluzione Liberale e a Il
    Quarto stato di Carlo Rosselli. Quindi Accame può affermare,
    riferendosi al Garin, che "da quanto ho premesso mi sembra risulti
    con molta chiarezza che l'accusa come tale è
    infondata"[57][57] . 
    
    Neppure possiamo includere Tilgher in quella che Furio Jesi ha
    definito "cultura di destra".[58][58] Molto lontana appare, l'opera
    e la personalità tilgheriane, dall'irrazionalismo di
    personaggi come Julius Evola.[59][59] Nel '24 Pirandello aderisce al
    fascismo, è la fine del sodalizio con Tilgher. La
    collaborazione era stata lunga e vantaggiosa per entrambi. Tilgher,
    rispetto a Croce, rivaluta la figura dell'uomo artista, pone
    l'attenzione non solo sulle opere e la loro artisticità e
    liricità, ma anche alla persona dell'artista che, inserita
    nel suo tempo, ne diventa interprete. L'autore va sempre unito
    all'opera nel giudizio critico, l'uomo-artista è la massima
    espressione della Weltanshauung del suo tempo. L'autosufficienza
    dell'opera d'arte non significa mai, per Tilgher, negarne la
    storicità, ma solo mettere l'accento sul momento unico della
    creazione artistica che, tuttavia, continua ad esprimere ciò
    che l'artista vive dei problemi posti dal suo tempo. Anzi l'artista
    ne è l'interprete privilegiato. La sua sensibilità gli
    permette di cogliere e di essere in sintonia con il movimento
    più intimo della Vita e della Storia del suo tempo. E' capace
    di cogliere in anticipo la direzione che il flusso caotico e
    irrazionale della vita sta per imboccare. Tutta la storia della
    interpretazione tilgheriana di Pirandello è fondata su questo
    assunto. Pirandello, più di ogni altro , ha saputo
    rappresentare, con i suoi personaggi, il paesaggio desolante della
    crisi. La crisi di un mondo, quello borghese ottocentesco, fondato
    su una immagine di sé e della società che la crisi
    della razionalità ottimistica e di un insieme di valori
    tenuti insieme dall'ipocrisia collettiva, fatalmente smaschera nella
    loro verità. "L'arte di Pirandello, contemporanea non solo
    cronologicamente ma anche idealmente della grande rivoluzione
    spiritualistica e idealistica avvenuta in Italia e in Europa ai
    primi del secolo, trasporta nell'arte quell'antiintellettualismo,
    quell'antirazionalismo, quell'antilogicismo che riempie di sé
    tutta la filosofia contemporanea e che oggi culmina nel
    Relativismo."[60][60] "Quando poi si pensi che nel dramma di
    Pirandello il punto nodale e cruciale è il minuto
    irrevocabile e solenne in cui le costruzioni e formazioni
    convenzionali, gli argini sociali cadono come foglie secche e l'uomo
    si trova faccia a faccia col nudo volto, con l'informe abisso della
    Vita…"[61][61] "…il problema artistico è, dunque, niente
    altro che il nuovo senso della vita che cerca la sua espressione ed
    individuazione artistica."[62][62] Tilgher lo scopritore di
    Pirandello, colui che aveva dato al suo teatro lo spessore di una
    filosofia, la dialettica Vita - Forma, in cui si rivelava il fondo
    irrazionale dei personaggi pirandelliani, abbandona, dunque, per
    sempre la critica teatrale. Diventa da quel momento un personaggio
    scomodo. I suoi articoli vengono sempre più spesso rifiutati,
    Tilgher sente l'umiliazione di non poter vivere del proprio lavoro,
    è ossessionato dalla paura dell'isolamento e di essere
    costretto a rifugiarsi all'estero. Nel marzo del '28 "si
    rivolgerà a Mussolini e ne riceverà quell'accredito
    che gli avrebbe permesso di tornare a scrivere"[63][63]. 
    
    1.6 La morale e le ultime riflessioni politiche. 
    
    In questi anni, intorno al 1930, la riflessione di Tilgher giunge ad
    un punto di svolta.. Comincia ad affiorare l'ansiosa ricerca di
    punti solidi a cui cercare di ancorare il suo pensiero. Gli anni
    della crisi e quelle esperienze insieme sconvolgenti ed
    entusiasmanti, cominciano ad essere lontani. Sono gli anni in cui il
    fascismo si consolida al potere e ottiene il consenso più
    ampio. Il concordato con la Chiesa, oltre ad accrescere la
    leggittimità del regime, è cruciale anche dal punto di
    vista della politica culturale del fascismo. Il rapporto tra
    fascismo e attualismo entra in crisi e vengono favorite concezioni
    improntate ad un rinnovato realismo, di cui si fa portavoce, nei
    congressi della Società filosofica italiana, l'Orestano.
    Gentile viene attaccato come portatore di una filosofia estranea
    alle radici nazionali che ,invece, vengono individuate in una
    filosofia spiritualistica e realistica. Tilgher, in questo fervore
    antiattualista, non rinnega mai la sua origine idealistica e, anzi,
    sente il bisogno di ripubblicare parzialmente la giovanile Teoria
    con il titolo di Saggi di etica e filosofia del diritto, una
    operazione tanto più significativa "…perché indica
    l'impegno a superare la anche potente descrizione della crisi,
    rifacendosi ad alcuni concetti etici che aveva enunciati in
    gioventù."[64][64] "Dall'Estetica in poi, passando attraverso
    la Filosofia delle morali, Tilgher riuscì a conquistare
    un'etica di sopportazione e di triste e dolorosa calma, che
    può sintetizzarsi in un : è così, e
    sopportiamo."[65][65] L'ossequio al regime rimase formale, ma il suo
    atteggiamento si farà più prudente e il suo animo
    inclina alla rassegnazione. 
    
    Sono gli anni della ricerca morale. Tilgher individua, convinto
    della relatività delle morali, stili di vita che cerchino di
    "fornire nell'aldiquà ciò che il tramonto del
    Cristianesimo non permette più di cercare
    nell'aldilà"[66][66]. Le preoccupazioni etiche sono sempre
    state al centro della riflessione tilgheriana. Anche negli anni in
    cui lo travolge il turbine della crisi, nelle sue analisi, in
    controluce, traspare la necessità di un ancoraggio morale che
    dia un senso, sia pure provvisorio e relativo, allo scorrere
    irrazionale e caotico della vita. Il ruolo di 'cronista' e
    'filosofo' della crisi, non lo esime, nei momenti più calmi e
    rassegnati della sua riflessione, di anelare ad un mondo in cui ,
    ancora, si possa fare appello ad un assoluto. In questa sua
    attenzione al problema morale si rivolge allo studio, più che
    dei processi individuali, dei riflessi morali delle condotte
    sociali. Nella società contemporanea, i comportamenti delle
    masse e della folla indifferenziate, offrono un nuovo campo di
    indagine per comprendere l'azione sociale dei protagonisti della
    società 'faustiana'.[67][67] Tilgher è qui più
    sociologo che moralista. Nella sua analisi della "civiltà
    faustiana", già presente nella Crisi mondiale, ma ampiamente
    sviluppata in Homo faber, libro che lo segnala all'attenzione
    europea[68][68], si sofferma sul "concetto di lavoro" inteso come la
    forza vitale che, nel senso di un romantico streben, muove in modo
    incessante lo sviluppo della civiltà capitalistica e della
    tecnica. Del destino di questa civiltà e in generale della
    fase della "civilizzazione", Tilgher ha una visione più
    ottimistica che si allontana dal rigido determinismo spengleriano. 
    
    Si occupa, invece, pienamente di riflessione morale con l'opera del
    1937 Filosofia delle morali. Abbiamo già accennato al clima
    politico e culturale determinatosi dopo il 1930: il consolidarsi del
    regime coincide con la crisi dell'attualismo e lo svilupparsi di
    indirizzi realisti e spiritualisti. Ma si sente, anche, l'esigenza,
    in conflitto con le istanze antiindividualistiche del Fascismo, di
    occuparsi più a fondo delle caratteristiche esistenziali
    dell'uomo. "Intorno al '30 Ernesto Grassi e Carlini fecero conoscere
    Heidegger, e il Banfi e il Lombardi riproposero lo studio di
    Kierkegaard."[69][69] Anche Tilgher, pur rimanendo fedele alle sue
    impostazioni, sente il bisogno di una indagine più accurata
    sulla natura dell'uomo. Il lavoro più significativo che
    esprime questa esigenza è, appunto, la Filosofia delle
    morali, uno studio delle forze, le forme, gli stili della vita
    morale, in cui, Tilgher, afferma la relatività e
    pluralità degli atteggiamenti morali e l'impossibilità
    di ricondurre la vita morale ad un principio unico. Una funzione
    moralizzatrice assegna anche alla politica. La visione dell'uomo
    come individualità indefinibile dotato di
    problematicità e possibilità infinite, il 'vivente
    senza natura'; il rifiuto della fissità e identità a
    favore della multiformità e dinamismo della vita; il dissidio
    tra Vita e Forma, tra Pensiero e Reale, tra essere e dover-essere,
    sono i presupposti teorici da cui Tilgher parte per avvicinarsi allo
    studio dei processi dell'azione politica. La filosofia deve legarsi
    all'azione politica. La figura dell'Eroe in cui si esalta la
    funzione dell'atto creatore, fonte della decisione politica,
    è emblematica di questa visione. 
    
    Tilgher, sulla scorta del suo relativismo e pluralismo
    irrazionalistico, si avvicina al Liberalismo, fondandolo su queste
    basi. "Il Liberalismo è tollerante perché nel suo
    fondo è scettico, meglio: relativista, cioè nega che
    ci siano uomini in possesso esclusivo di verità assolute,
    ammette che la verità non è possesso esclusivo di
    nessuno, ma che tutti ne afferrano un qualche lembo."[70][70] "…ed
    inoltre egli ha fatto sua la teoria di Goethe della vita "che
    può essere corretta", e anche quella dei liberali. Il
    liberalismo è teoria aperta, che permette di volta in volta
    la correzione dell'errore, in virtù di quella continua
    vigilanza morale ch'egli consiglia nelle penetranti analisi del suo
    Diario politico, e della cui mancanza egli accusa appunto le moderne
    democrazie."[71][71] 
    
    Nel Diario politico, negli ultimi anni della sua vita, viene
    annotando quasi quotidianamente, con un tono sempre più
    amaro, pessimistico e demolitore, le riflessioni che, la situazione
    sua personale e quella politica dell'Italia, gli dettavano. La sua
    concezione pluralista della società si ergeva in contrasto
    con la realtà di un regime pienamente monistico e
    totalitario. Un regime in cui il gioco delle diverse opinioni viene
    eliminato a favore del discorso unico, il discorso retorico,
    l'enfasi, l'amore del gesto e della frase che copre il vuoto di
    dialettica interna e cerca di coartare il consenso usando tutti i
    mezzi e artifici della persuasione. Affida al Diario politico le
    ultime visioni profetiche, pronosticando gli esiti nefasti del
    conflitto appena cominciato per l'Italia, attirandosi così,
    negli ambienti di regime, la fama di jettatore. In queste
    giornaliere riflessioni, ci consegna il suo testamento politico.
    Come abbiamo visto emerge la visione di un Liberalismo fondato su
    basi relativiste e scettiche. Non essendo attingibile la
    Verità, l'Assoluto, la dinamica politica si fonda sulla
    libertà dei singoli, portatori di verità parziali che,
    avendo coscienza di ciò, si danno come regola la Tolleranza,
    unico principio che Tilgher reputa degno di essere difeso con la
    forza, il solo che giustifichi una guerra. Lo Stato disegnato da
    Tilgher è uno Stato leggero, certamente democratico, in cui
    vige un'ampia autonomia. Questo si legge tra le righe della critica,
    predominante, della dolorosa situazione presente. La condanna del
    Leviatano del totalitarismo si leva severa dalle pagine del Diario
    politico , e con essa si auspica la fine dei despoti, nelle cui
    vivide descrizioni, si poteva intravedere la figura del Tiranno
    nostrano. Nella Prefazione al Diario politico, Liliana Scalero, ci
    imforma dell'intenzione di Tilgher di scrivere un libro su
    Macchiavelli in cui affidava proprio alla politica un compito
    moralizzatore. La politica poteva trarre l'uomo, naturalmente
    cattivo e violento, a concetti universali. Quindi anche Tilgher,
    come Macchiavelli descrittore di una situazione negativa e infelice,
    ripone, infine, una speranza nell'attesa ansiosa di una soluzione in
    cui la politica , nuovamente, sia congiunta alla morale. 
    
    Il 3 novembre 1941 Adriano Tilgher moriva in una clinica romana. 
    
    Tra i vecchi amici e i giovani discepoli che assistevano alla
    cerimonia funebre, il solo Ernesto Buonaiuti prese la parola per
    ricordare il "fratello scomparso". Tutti conservarono però
    l'impressione che "... quella cerimonia...insieme con l'uomo portava
    a sepoltura un intero mondo e la sua cultura"[72][72]. Sulla sua
    bara fu deposta l'ultima sua opera: il Casualismo critico.[73][73]
    E' il destino di pensatori forse non a torto considerati minori,
    restare all'ombra di personalità più forti e di
    più ampio spessore teorico. Non si giustifica, però,
    l'oblio in cui è stato tenuto Adriano Tilgher. Egli ha
    rappresentato in modo emblematico i fermenti più vivi e
    l'essenza propria di un'epoca. Ha diffuso in Italia le voci
    più significative della cultura europea, spesso
    fraintendendole o sopravvalutandone alcune, ma svolgendo un compito
    insostituibile e prezioso. Crediamo non ci si possa esimere, in sede
    storica, dal fare i conti con l'eretico Tilgher. 
    
    Note
    
    [1][1] Dedicò al poeta e filosofo di Recanati una Filosofia
    di Leopardi che, spesso dimenticata, è una vera e propria
    rivelazione della natura del pensiero tilgheriano in un'opera di
    intima identificazione. Tanto che, Augusto Del Noce, può
    parlare, a proposito di Tilgher e di Rensi, di "leopardismo
    filosofico". 
    [2][2] Così venivano chiamati, in special modo nell'ambiente
    degli affittacamere napoletani, gli studenti che erano soliti
    vociare e, spesso, litigare in nome dell' hegeliano begriff. 
    [3][3] LAMI, Introduzione a Adriano Tilgher, Giuffrè, Milano,
    1990, p. 50. 
    [4][4] CUMPETA, Adriano Tilgher, Edizioni di Filosofia, Torino,
    1960, p. 11. 
    [5][5] GARIN, Cronache di filosofia italiana, Laterza, Bari, 1959,
    p. 25. 
    [6][6] Ivi, p. 27. 
    [7][7] Ivi, pp. 35 – 36. 
    [8][8] CUMPETA, Adriano Tilgher, cit., p. 13. 
    [9][9] E' uno dei pochi esempi, insieme a Banfi, di formazione
    filosofica tedesca, in Italia. 
    [10][10] LAMI, Introduzione, cit., p.105. 
    [11][11] In una lettera indirizzata a Gentile, Croce afferma di aver
    consigliato Tilgher, "con tanta insistenza di lasciare le
    disquisizioni teoriche e accingersi a qualche monografia storica,
    che da allora prese ad odiarmi, e non cessa neppure ora di segregare
    veleno contro di me." In Lettere a Giovanni Gentile, Milano, 1981,
    p. 591. 
    [12][12] LAMI, cit., p. 93. 
    [13][13] Dedicò alla filosofia di Gentile un libello, Lo
    spaccio del bestione trionfante, che, pur contenendo valide
    argomentazioni teoriche sulla natura dell'attualismo, gli nocque
    molto per la inutile violenza della polemica e la palese
    infondatezza di certe accuse. 
    [14][14] LAMI, Introduzione, cit., p. 98. 
    [15][15] TILGHER, Teoria del Pragmatismo Trascendentale, Bocca,
    Torino,1915, p. V. 
    [16][16] LAMI, Introduzione, cit., p. 11. 
    [17][17] Gian Franco Lami nella Introduzione a Adriano Tilgher,
    riporta in nota la ricostruzione della vicenda, rendendo noto il
    contenuto delle lettere che Gentile, allora Ministro dell'Educazione
    Popolare, indirizza, il 19 febbraio 1924, al direttore delle
    biblioteche universitarie, sollevando Tilgher dall'incarico alla
    Alessandrina e assegnandolo alla Vittorio Emanuele, pregando
    però di sorvegliarlo nell'orario e nel lavoro, considerandolo
    sotto esperimento. Tilgher ferito nell'orgoglio e nel prestigio
    darà le dimissioni. Cfr. LAMI, Introduzione, cit., p.28.
    [18][18] LAMI, Introduzione, cit., p. 30. 
    [19][19] Ivi, p. 24. 
    [20][20] Ivi., p. 35. 
    [21][21] TILGHER A., Relativisti contemporanei, Libreria di Scienze
    e Lettere, Roma, 1923, p. 76 - 77. 
    [22][22] TILGHER A., Filosofi e Moralisti del Novecento, Libreria di
    Scienze e Lettere, Roma, 1932-X, pp. 135-136. 
    [23][23] MERCADANTE F., Adriano Tilgher: l'esodo dallo storicismo
    nell'orizzonte della crisi mondiale e il magistero di un irregolare,
    in Adriano Tilgher. Manifestazioni del Centenario. Atti a cura di
    LAMI G.F., Giuffrè, Milano, 1992, p. 313. 
    [24][24] LAMI G.F., Il ruolo di Adriano Tilgher nel pensiero
    contemporaneo, in Adriano Tilgher. Manifestazioni del Centenario.
    Atti a cura di LAMI G.F., Giuffrè, Milano, 1992, p. 41. 
    [25][25] MERCADANTE F., Adriano Tilgher: l'esodo dallo storicismo,
    cit., p. 317. 
    [26][26] Ibidem. 
    [27][27] CUMPETA S., Adriano Tilgher, ed. di Filosofia, Torino,
    1960, p. 8 - 9. 
    [28][28] TILGHER A., Diario Politico 1937-1941, a cura di Liliana
    Scalero, Atlantica, Roma, 1946. 
    [29][29] Ivi, p. 114. 
    [30][30] TILGHER A., Julien Benda e il problema del "Tradimento dei
    Chierici", Libreria di Scienze e Lettere del dott. Bardi, Roma,
    1930. [31][31] Augusto Del Noce, pur individuando il limite di
    Tilgher nel non aver riconosciuto le conseguenze estreme del
    relativismo e della sua critica dell'attualismo, lo accosta a
    Heidegger: "Se non ci fosse questo limite, ci troveremmo innanzi a
    Heidegger, non a Tilgher." Confr. DEL NOCE A., Un interprete della
    cultura italiana tra le due guerre, in Adriano Tilgher.
    Manifestazioni del Centenario. Atti a cura di LAMI, op. cit., p.62.
    
    [32][32] GARIN E., Cronache di filosofia italiana, cit., p. 428. 
    [33][33] CUMPETA, Adriano Tilgher, cit., p. 10. 
    [34][34] Sono veramente tante le riviste che, in quel periodo, si
    avvalsero della firma di Tilgher; ne ricordiamo alcune: oltre al
    "Commento" di Roma, fa parte della redazione di "Italia nostra";
    collabora alla "Cultura", alla "Rivista di filosofia"; fonda con
    Borgese, Varisco, Vinciguerra e altri il "Conciliatore", questo
    prima della guerra. A guerra terminata, già trasferitosi a
    Roma, collabora alla "Ronda", allo "Spettatore", alla "Nuova
    Antologia" e a molte altre almeno fino a che nel '26 subisce
    l'ostracismo del regime e viene costretto al silenzio. [35][35]
    TILGHER A., Antologia dei filosofi italiani del dopoguerra Guanda,
    Modena, 1937, p. 13. 
    [36][36] Ivi, p.14. 
    [37][37] Ivi, p.14. 
    [38][38] GARIN, Cronache di filosofia italiana, cit., p. 428. 
    [39][39] Ivi, p. 429. [
    40][40] TILGHER, Antologia cit. p. 16. 
    [41][41] TILGHER, Relativisti contemporanei, cit., p. 102. 
    [42][42] Così nella Lettera a Guglielmo Ferrero alla pag. 101
    di Relativisti contemporanei: "Se Ella volesse stare veramente al
    sicuro, se volesse poggiare davvero i piedi sulla terraferma, sa
    cosa dovrebbe fare? Dovrebbe fare un salto indietro, non di cinque o
    di sei, ma di venti secoli almeno e rifugiarsi sul terreno della
    civiltà greca. Là sì che davvero verità,
    bontà, giustizia, bellezza sono realtà esistenti in
    sé, al di fuori dello spirito, prima e indipendentemente
    dall'attività sua, e di cui allo spirito non resta che
    prendere atto e inchinarsi sommessamente. Là, sì, che
    davvero troverà quella oggettività di cui va in cerca,
    e che, finché resta sul terreno della filosofia idealistica
    del secolo XIX, non troverà mai." 
    [43][43] TILGHER, Relativisti contemporanei, cit., p. 103. 
    [44][44] SASSO G., Tramonto di un mito. L'idea di "progresso" fra
    Ottocento e Novecento, Il Mulino, Bologna, 1984. 
    [45][45] TILGHER, Antologia cit. p. 16. 
    [46][46] SASSO, Tramonto di un mito cit. p. 39. 
    [47][47] MERCADANTE, Adriano Tilgher: l'esodo dallo storicismo cit.
    p.318. 
    [48][48] DE FELICE R., Le interpretazioni del fascismo, Laterza,
    Bari, 1996, p. 180. 
    [49][49] TILGHER A., La Crisi Mondiale, Zanichelli, Bologna, 1921,
    p. 180. 
    [50][50] SASSO, cit., n. 50, p. 37. 
    [51][51] Tilgher viene più volte aggredito e insultato da
    facinorosi fascisti. E' costretto a dimettersi, nel '24, dalla
    Biblioteca Alessandrina, su pressione di Gentile. Nel '30 viene
    colpito da un provvedimento di pubblica sicurezza e la sua casa
    viene sorvegliata e lui stesso pedinato. Gli procura profonda
    sofferenza la carcerazione e il confino del cognato, Mario
    Vinciguerra. 
    [52][52] TILGHER, Relativisti contemporanei, cit. p. 91. 
    [53][53] Ivi, p. 90. [54][54] Ivi, p. 66. 
    [55][55] SASSO, cit., p. 36 - 37. 
    [56][56] GARIN, Cronache, cit., p. 288. 
    [57][57] ACCAME G., Adriano Tilgher oltre il discrimine tra destra e
    sinistra, Manifestazioni del Centenario, cit., p.267. 
    [58][58] JESI F., Cultura di destra, Garzanti, Milano, 1979. 
    [59][59] I due, in verità, si conoscono e stimano.
    Collaborano strettamente, dal '24 al '28, alle pagine della rivista
    Idealismo realisticofondata da Vittore Marchi, per lo più
    tesi a definire la propria particolare religiosità. 
    [60][60] TILGHER A., Il teatro di Luigi Pirandello in Figure,
    momenti, problemi del teatro moderno, Boni, Bologna, 1994, p. 52. 
    [61][61] TILGHER A., Il teatro italiano dopo Pirandello, ivi, p.
    141.
    [62][62] TILGHER, Vecchio teatro e teatro vecchio, ivi, p. 271. 
    [63][63] LAMI, Introduzione, cit., p.240. 
    [64][64] CUMPETA, cit., p. 38. 
    [65][65] Ivi, p.47. 
    [66][66] LAMI, Introduzione, cit., p. 291. 
    [67][67] In Homo faber, Tilgher si occupa di fenomeni come il gioco,
    il risparmio, il lusso e della passione sportiva che interpreta come
    un surrogato, a uso e consumo delle masse, dell'attività
    fabrile. 
    [68][68] Viene citato anche da Hannah Arendt in Vita activa, Milano,
    1964, p. 369 e 376. 
    [69][69] CUMPETA, Tilgher, cit., p. 51. 
    [70][70] TILGHER, Diario politico, cit., p. 4. 
    [71][71] SCALERO L., Pluralità di temi nella filosofia di
    Adriano Tilgher in Adriano Tilgher. L'uomo, il pensiero, i luoghi,
    l'attualità a cura di LILIANA SCALERO, Cedam, Padova, 1962,
    p. 10. 
    [72][72] LAMI, Introduzione, cit., p. 203. 
    [73][73] TILGHER A., Il casualismo critico, Bardi, Roma, 1941. Il
    cui capitolo dedicato al Tempo ricevette l'elogio del vecchio
    Bergson.