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VII.
IL TEATRO DI LUIGI PIRANDELLO
1. La Natura: vivere senza sentirsi vivere.
2. L'Uomo: vivere e sentirsi vivere.
3. Dualismo di Vita e Forma.
4. Distacco del pensiero dalle Forme: umorismo e cerebralità.
5. L'antitesi, legge dell'arte pirandelliana.
6. Attualità dell'arte pirandelliana.
7. Ineluttabilità delle Forme: Il fu Mattia Pascal.
8. La saggezza pratica della Vita: Corrado Selmi de I vecchi e i
giovani.
9. Affermazione della Vita nella sua assoluta nudità:
Vitangelo Moscarda di Uno nessuno centomila.
10. La rinunzia alla Vita: don Cosmo Laurentano de I vecchi e i
giovani; la signora Ponza di Così è (se vi pare).
11. Paura, tedio, pietà della vita.
12. Vedersi vivere: lo specchio paralizzatore.
13. Distruzione del carattere: l'individuo, caos di forze
contraddittorie.
14. Uno nessuno centomila: incomunicabilità degl'individui.
15. Essere è apparire: Cosi è (se vi pare).
16. Abisso tra passato e presente: Ma non è una cosa seria.
17. Presente che si sente passato: Lumie di Sicilia; Il fu Mattia
Pascal; Enrico IV, tragedia della vita che non potè vivere.
18. Il dramma pirandelliano: urto della Vita e della Maschera.
19. Opposizione dell'individuo e della costruzione che ne han fatto
gli altri: Sei personaggi in cerca di autore; Tutto per bene; Come
prima, meglio di prima; Capiddazzu paga tuttu.
20. Distruzione della maschera costruitasi dall'individuo: Il
berretto a sonagli; Enrico IV; Vestire gli ignudi; La vita che ti
diedi.
21. Accettazione di una maschera imposta a forza: La patente.
22. Maschera volontariamente assunta dall'individuo: Il giuoco delle
parti.
23. Insurrezione della vita contro la maschera: L'uomo la bestia e
la virtù; Il piacere dell'onestà; Come prima, meglio
di prima; Ma non è una cosa seria.
24. Trionfo dell'irrazionale: L'innesto; Pensaci, Giacomino!
25. Moralità immanentistica del mondo pirandelliano. Donne
pirandelliane.
26. Il pensiero pensante, centro del dramma pirandelliano.
27. Antiintellettualismo pirandelliano: i piani della realtà.
28. I drammi della dialettica: La ragione degli altri.
29. Sei personaggi in cerca di autore.
30. Difetti del teatro pirandelliano. Lo stile.
31. Progresso dell'arte pirandelliana. Conclusione.
1. – Che cosa, secondo Pirandello, distingue l'uomo dagli altri
esseri della natura? Questo, e questo soltanto: che l'uomo vive e si
sente vivere, e gli altri esseri della natura, invece, vivono
soltanto, vivono puramente e semplicemente. L'albero, ad esempio,
vive tutto profondato nel suo senso vitale; la sua esistenza fa
tutt'uno col lento ed oscuro succedersi in esso delle affezioni
vitali; il sole la luna il vento la terra sono intorno ad esso, ma
esso nulla ne vede, nulla ne sa: li avverte, sì, ma solo in
quanto si traducono in stati del suo essere, dai quali non si
distingue. Nulla sapendo di altro, l'albero nulla sa di sè
come distinto da altro. La vita fluisce in esso inconscia e muta,
tutta d'un getto.
2. – Ma nell'uomo, anche più incolto e rozzo, la vita si
scinde in due: all'uomo anche più incolto e rozzo è
essenziale di essere e di sapere di essere, di vivere e di sapere di
vivere. Nell'uomo dalla vita si è distaccato e le si è
contrapposto il sentimento della vita, dice Pirandello: la
coscienza, la riflessione, il pensiero, direi io, in termini
filosoficamente più esatti. In questo distacco, con
l'illusione che ne deriva di assumere come realtà
obbiettivamente esistente fuori dell'uomo questo interno sentimento
della vita mutabile e vario, la causa prima dell'infelicità
umana. Prima, non ultima, che una volta staccatosi dalla vita, il
sentimento della vita, o coscienza che dir si voglia, tende,
passando attraverso il filtro del cervello, a raffreddarsi,
chiarificarsi, idealizzarsi e da sentimento particolare contingente
mutabile effimero a cristallizzarsi in idea astratta generale (Cfr.
L'Umorismo, 2a ed., pagine 168 sgg.).
3. – Elevatosi per via dell'astrazione logica a seconda potenza di
sè, divenuto pensiero riflesso, il sentimento della vita
tende a chiuder la vita in limiti fissi e precisi, a farla scorrere
tra argini prestabiliti, a colarla in forme rigide immobili date una
volta per tutte: i concetti e gl'ideali del nostro spirito, le
convenzioni, costumi, tradizioni, abitudini, leggi della
società. Si determina così un dualismo fondamentale:
da una parte, il flusso della Vita cieca muta oscura eternamente
instabile e irrequieta, eternamente rinnovantesi di momento in
momento; dall'altra, un mondo di Forme cristallizzate, un sistema di
costruzioni, che tentano di arginare e di comprimere in sè
quel flusso in eterno gorgogliante. «Ogni cosa, ogni oggetto,
ogni vita porta con sè la pena della sua forma, la pena
d'esser così e di non poter più essere altrimenti,
finchè non crollano in cenere» (cfr. la novella
Candelora). «Ogni forma è la morte. Noi tutti siamo
esseri presi in trappola, staccati dal flusso che non s'arresta mai,
e fissati per la morte» (cfr. la novella La trappola).
4. – I più degli uomini vivono profondati in quelle forme
fisse e immobili, nemmeno lontanamente sospettando che sotto di esse
un oceano tenebroso e furente si agiti e ribolla. Ma in alcuni
quella medesima strana e misteriosa attività che, come il
fulmine la nube, ha scisso in due la vita, il pensiero, si stacca
dalle forme in cui si è rappreso il caldo flusso di questa e
le percepisce per quello che realmente sono: costruzioni puramente
provvisorie effimere contingenti labili fragili, sotto le quali
ondeggia e rimugghia il fiotto della vita com'è in sè,
fuori di ogni umana illusione e costruzione. In colui nel quale
questa liberazione dalle forme della vita si è prodotta, ogni
umana costruzione suscita un sentimento di contrasto, che gliela fa
crollare sotto gli occhi. In questo crollo è alcunchè
di comico e di doloroso insieme: di comico, in quanto, crollando,
essa svela l'intima nullità delle costruzioni umane; di
doloroso, in quanto, fragile com'era, essa era pure per l'uomo un
riparo contro la pazza bufera della vita. In questo intimo miscuglio
di riso e di pianto, di comico e di triste, è l'umorismo,
quale Pirandello lo sente e definisce. «Io vedo come un
labirinto, dove per tante vie diverse, opposte, intricate, l'anima
nostra si aggira, senza più trovar modo di uscirne. E vedo in
questo labirinto un'erma che da una faccia ride, e piange
dall'altra, ride anzi da una faccia del pianto della faccia
opposta» (cfr. Erma bifronte, pref.). In quanto l'umorismo
è lo stato d'animo di colui nel quale il pensiero giunto alla
coscienza di sè ha spezzato gli argini dei concetti e delle
costruzioni e si è spenzolato sull'abisso della vita a
guardarne ribollire il flusso incoerente e contraddittorio, esso
è uno stato d'animo essenzialmente cerebrale. Umorismo e
cerebralità: tutta l'arte di Pirandello è chiusa in
queste parole.
5. – L'antitesi è perciò la legge fondamentale di
quest'arte. L'inversione dei comuni ordinari abituali rapporti della
vita trionfa sovrana. Fra le commedie, Pensaci, Giacomino! svolge il
motivo del marito, che riconduce a viva forza presso la moglie colui
che egli sa essere il giovane amante di lei; L'uomo, la bestia e la
virtù, al contrario, il motivo dell'amante che riconduce a
viva forza il marito nel talamo coniugale; Ma non è una cosa
seria, il motivo del matrimonio antidoto contro il pericolo del
matrimonio; e fra le novelle, Da sè, il motivo del morto che
se ne va con le sue gambe al cimitero godendo di tante cose di cui
nè vivi nè morti si accorgono e godono; Nenè e
Ninì, il motivo di due orfanelli che sono la causa della
rovina di tutta una serie di patrigni e matrigne; Canta l'epistola,
il motivo di un duello mortale causato dall'estirpazione di un filo
d'erba; Il dovere del medico, il motivo del medico che per alto
senso di dovere lascia che il malato affidatogli muoia dissanguato;
Prima notte, il motivo di due coniugi che la passano piangendo sulle
tombe l'una del fidanzato, l'altro della prima moglie; L'illustre
estinto, il motivo di un illustre estinto sepolto di notte e di
nascosto come un cane mentre al suo posto un ignoto riceve onori
regali, e basta, che non si finirebbe più di esemplificare.
6. – Dualismo della Vita e della Forma o Costruzione;
necessità per la Vita di calarsi in una Forma ed
impossibilità di esaurirvisi: ecco il motivo fondamentale che
sottostà a tutta l'opera di Pirandello e le conferisce una
ferrea unità e organicità di visione.
Ciò basta da solo a far comprendere di quanta freschissima
attualità sia l'opera di questo nostro scrittore. Tutta la
filosofia moderna da Kant in poi sorge sulla base di questa
intuizione profonda del dualismo tra la Vita, che è
spontaneità assoluta, attività creatrice, slancio
perenne di libertà, creazione continua del nuovo e del
diverso, e le Forme o costruzioni o schemi che tendono a rinserrarla
in sè, schemi che la Vita, di volta in volta, urtandovi
contro, infrange dissolve fluidifica per passare più lontano,
creatrice infaticata e perenne. Tutta la storia della filosofia
moderna non è che la storia dell'approfondirsi del
conquistarsi del chiarificarsi a sè medesima di questa
intuizione fondamentale. Agli occhi di un artista che di questa
intuizione viva – è il caso di Pirandello – la realtà
appare nella sua stessa radice profondamente drammatica, e l'essenza
del dramma è nella lotta fra la primigenia nudità
della Vita e gli abiti o maschere di cui gli uomini pretendono, e
debbono necessariamente pretendere, di rivestirla. La vita nuda,
Maschere nude. I titoli stessi delle opere sono altamente
significativi.
7. – Godere della Vita nella sua nudità e libertà
infinita, al di fuori di tutte le forme e costruzioni in cui la
società, la storia e gli eventi di ciascuna particolare
esistenza ne hanno incanalato il corso, non si può. Lo
tentò Mattia Pascal, che, facendosi passar per morto e
cambiando nome e connotati, credette di poter cominciare una vita
nuova, tutta ebrezza di libertà sconfinata. Egli
imparò a sue spese che, tagliandosi fuori da tutte le forme e
costruzioni sociali, non gli era più concesso se non di
assistere da spettatore e forestiero alla vita degli altri, senza
più possibilità di mescolarsi ad essa e di goderne
nella sua pienezza. Straniatosi dalle forme della Vita, questa non
gli si concesse più che superficialmente, dal di fuori. E
quando, cedendo al suo richiamo, egli s'illuse di poter ridiscendere
nel fiume della Vita e farsi riavvolgere tutto dalle sue onde, quel
fiume lo respinse da sè, ed egli, ancora a sue spese,
imparò che non è possibile far da vivo e da morto
insieme, onde, disperato, si decise a risuscitare. Troppo tardi per
risedersi al banchetto dell'esistenza, in tempo solo per vedervi
sedere gli altri (cfr. il romanzo Il fu Mattia Pascal). Straniarsi
dalle forme della Vita è possibile, sì, certo, ma solo
a patto di rinunciare a vivere.
8. – Accettare le Forme o costruzioni in cui è stata
costretta la Vita, parteciparvi, credervi, viverle, sentirle e,
nondimeno, non cristallizzarsi in una sola o in un sistema solo di
esse, bensì conservare all'anima tanto di fusione o di
fluidità da permetterle di passare di forma in forma,
calandosi successivamente in tante senza rapprendersi
definitivamente in nessuna, senza aver paura delle impurità
che nel suo correre e fluire continuo essa inevitabilmente si porta
appresso e di cui il suo stesso correre e fluire continuo la libera
e purifica: in ciò la saggezza pratica della vita. Saggezza
che vale quel che può valere e che è ben lungi
dall'assicurare la perfetta felicità: potendo sempre trovarsi
una forma che sbarri così saldamente il corso dell'anima in
fusione che quella non riesca a scioglierla col suo calore e rimanga
definitivamente soffocata in essa. È il caso di Corrado Selmi
de I vecchi e i giovani, in cui Pirandello ha incarnato questo
ideale di attiva e fresca saggezza della vita, obbligato a
suicidarsi il giorno che vengono alla luce azioni che, non per lui
che le ha fatte e che ne era redento dalla freschezza di vita che
portava in sè e dal bene che, malgrado e attraverso quelle
azioni stesse, spandeva attorno a sè, ma per la
società che le guarda dal di fuori, appaiono turpi e
disonorevoli.
9. – Ma l'idea di pratica saggezza della vita che Corrado Selmi
incarna non è realizzabile che da un animo il quale abbia in
sè la forza di passare di forma in forma, senza nè
imprigionarsi in una sola di esse, nè perdere nel passaggio
la forza dell'illusione vitale; da un animo, quindi, che sappia
realizzare in sè un equilibrio tra Vita e Forma e fermarcisi
contento. Ma a chi viva sino in fondo l'intuizione pirandelliana che
ogni Forma è sempre definizione, limitazione, determinazione
e perciò stesso negazione della Vita (omnis determinatio
negatio) non rimangono logicamente che due sole vie aperte: o (come
Vitangelo Moscarda di Uno nessuno centomila) tentare di vivere la
Vita in tutta la sua assoluta primigenia nudità, al di
là di tutte le forme e costruzioni, puntualizzandosi in un
effimero vibratile fuggitivo presente, vivendo il tempo istante per
istante, senza nemmeno pensarlo, che pensarlo è costruirlo,
dargli forma e, dunque, limitarlo e soffocarlo (intuizionismo
bergsoniano in azione, in cui alla durata pura è sostituito
il presente puro, puntuale e intemporale): e questo è un
ideale di vita realizzabile al limite, cioè praticamente
irrealizzabile; ovvero,
10. – Scoperta insieme la provvisorietà delle Forme, la
pratica impossibilità di farne a meno,
l'ineluttabilità di dovere un giorno o l'altro pagare il fio
della Forma di cui la Vita si è rivestita o lasciata
rivestire, rinunciare alla Vita: è il caso di don Cosmo
Laurentano de I vecchi e i giovani. «Una sola cosa è
triste, cari miei: aver capito il giuoco! Dico il giuoco di questo
demoniaccio beffardo, che ciascuno di noi ha dentro e che si spassa
a rappresentarci di fuori, come realtà, ciò che, poco
dopo, egli stesso ci scopre come una nostra illusione, deridendoci
degli affanni che per essa ci siamo dati, e deridendoci anche... del
non averci saputo illudere, poichè fuori di queste illusioni
non c'è più altra realtà... E dunque non vi
lagnate! Affannatevi e tormentatevi, senza pensare che tutto questo
non conclude. Se non conclude, è segno che non deve
concludere, e che è vano dunque cercare una conclusione.
Bisogna vivere, cioè illudersi; lasciar giocare in noi il
demoniaccio beffardo, finchè non si sarà stancato; e
pensare che tutto questo passerà... passerà...»
(I vecchi e i giovani, II, p. 272). Così don Cosmo
Laurentano, filosofo solitario «dal cui aspetto spirava quello
stesso sentimento che spira dalle cose che assistono impassibili
alla fugacità delle vicende umane» (p. 271) confortava
i profughi politici rifugiatisi nella sua villa. Rinuncia alla vita
che può benissimo conciliarsi con un'esistenza operosa e
attiva, quando attraverso la rinuncia l'animo si spogli di ogni
attaccamento alla sua forma individuale, e, annientato in sè
il principio d'individuazione, radice dell'egoismo e del peccato,
viva tutto e solo per gli altri, e per sè non sia nulla:
è l'ideale realizzato dalla signora Ponza in Cosi è
(se vi pare).
11. – A chi si sporga a spiare sul gorgo smisurato dove la Vita
freme e ribolle nella sua nudità, a chi imposto di tacere
alle voci delle finzioni sociali, nel silenzio che improvvisamente
gli si è allargato dentro si chini ad ascoltare il gorgoglio
di quella corrente misteriosa che scorre sotto i ponti delle nostre
costruzioni concettuali, la Vita appare priva di scopo e di
significato, mistero che impaura. La natura gli appare come da una
lontananza infinita, attonita e spettrale, quasi assorta in un suo
triste sogno perenne, popolato di voci e di visioni di cui nulla
assolutamente l'uomo sa nè sospetta, indifferente e ignara
della vana febbre dei piccoli esseri brulicanti alla sua superficie.
Chi pel fatto stesso di averla totalizzata così dinanzi a
sè, di essersela proposta come problema e di averne cercato
la soluzione, si è staccato dalla Vita non può
più provare per essa altro sentimento che di tedio infinito,
di angoscia sottile e profonda. Come a Tommasino Unzio della novella
Canta l'epistola, la Vita gli fa paura e pietà insieme. La
tenerezza infinita pei bambini che a Pirandello, scrittore di solito
secco netto puntuto, ha fatto scrivere pagine e scene (in Pensaci,
Giacomino!, in La ragione degli altri) di squisita dolcezza e
soavità, ha radice nella pietà cocente per la Vita che
comincia e che, ignara e sorridente, va incontro alle più
atroci torture, alle disillusioni più amare. In quelle parole
dolci e soavi trema un singhiozzo represso di pietà per gli
altri e per sè stesso.
12. – Guai a chi, sia pure per poco, si distacchi dalla Vita! Ai
suoi occhi dilegua di colpo l'aspetto quotidiano banale bonario che
l'abitudine ha prestato alle cose e alle persone con le quali si
trova in rapporto: esse gli appaiono lontane estranee misteriose; il
loro esserci o non esserci, il loro essere così o così
gli si presenta come inesplicabile enigma. Egli si sente oppresso
dall'attonita immobilità delle cose che lo circondano, dei
luoghi dove risiede. Se uno specchio gli rimanda la sua immagine,
gli sembra quella di un estraneo che si diverta a contraffarne i
gesti e le mosse, e (come Silia nel Giuoco delle Parti, Fulvia in
Come prima meglio di prima, Lando Laurentano ne I vecchi e i
giovani, Vitangelo Moscarda in Uno nessuno centomila) stupore e
sgomento lo coglie che il suo corpo debba essere proprio fatto
così e non altrimenti, con queste e queste
particolarità fisiche, e finisce per provarne sdegno e nausea
come di una infrangibile prigione. Egli sente lo sgomento delle
necessità cieche che non si possono mutare: la prigione del
tempo; il nascere ora e non prima e non poi; il nome e il corpo che
gli è dato; la catena delle cause; il seme gettato senza
volerlo e il suo venire al mondo da quel seme; frutto involontario,
legato a quel ramo, espresso da quelle radici. Egli sente nausea per
la sua professione, per la sua condizione, per la forma che ha dato
alla sua vita, non sa capacitarsi che quell'uomo così e
così vestito, che fa quelle tali e tali cose, sia proprio
lui, non sa spiegarsi perchè le faccia. Parla, gesticola, si
commuove, si esalta, smania, e di colpo si vede con gli occhi di un
estraneo in quel suo parlare commuoversi gesticolare, e per
ciò stesso la fiamma vitale che lo agitava dentro
illanguidisce e si spegne: ed egli allora o tace o con rabbia, per
sopperire a quel calore vitale che si sente mancare, seguita a fare
a freddo ciò che faceva prima, per stordirsi, per non vedersi
più (Enrico IV nel dramma omonimo, Marco Mauri in Come prima,
meglio di prima) o (come Marco Mauri) dalla più accesa
esaltazione precipita d'un subito nel tono del più bonario e
confidenziale discorso. Gli è che tra vivere e vedersi vivere
c'è opposizione come tra vita e morte: «chi vive,
quando vive, non si vede: vive... Se uno può vedere la
propria vita, è segno che non la vive più: la subisce,
la trascina. Come una cosa morta, la trascina. Perchè ogni
forma è una morte. Pochissimi lo sanno; i più, quasi
tutti, lottano, s'affannano per farsi, come dicono, uno stato, per
raggiungere una forma; raggiuntala, credono d'aver conquistato la
loro vita, e cominciano invece a morire. Non lo sanno, perchè
non si vedono; perchè non riescono a staccarsi più da
quella forma moribonda che hanno raggiunta; non si conoscono per
morti e credono d'esser vivi. Solo si conosce chi riesca a veder la
forma che si è data o che gli altri gli hanno data, la
fortuna, i casi, le condizioni in cui ciascuno è nato. Ma se
possiamo vederla, questa forma, è segno che la nostra vita
non è più in essa: perchè se fosse, noi non la
vedremmo: la vivremmo questa forma, senza vederla, e morremmo ogni
giorno di più in essa, che è già per sè
una morte, senza conoscerla. Possiamo dunque vedere e conoscere
soltanto ciò che di noi è morto. Conoscersi è
morire» (cfr. la novella La carriola).
13. – In questa intuizione del mondo e della Vita non c'è
più posto pel concetto del carattere, che è a base
della letteratura psicologica contemporanea, come cioè
qualcosa di compatto e di omogeneo realizzantesi nel tempo
attraverso stati psichici potenzialmente in blocco in esso contenuti
e da esso svolgentisi sopra un unico piano, quasi acqua che
sgorgando da una fonte si spanda sopra una superficie ben livellata.
L'individuo appare composito e multiforme come mostro mitologico
(cfr. ciò che nel Giuoco delle parti, atto I, Leone dice a
Guido parlando di sua moglie Silia).
Quella che noi crediamo la stabile personalità di un
individuo non è che una fra le indefinite personalità
di lui che provvisoriamente è riuscita ad avere il
sopravvento sulle altre che o sono state e non sono più o
potrebbero essere e non sono ancora, ma che sotto di essa
sonnecchiano, sempre pronte a rivoltarsi, a rompere il giogo, ad
affiorare alla luce. Nell'intimo di ogni umana creatura cova un caos
informe e contraddittorio: e il tema di gran parte della produzione
pirandelliana è dato dalle apparizioni dagli scarti dagli
urti dalle irruzioni dagli scoppi dalle esplosioni improvvise di
queste personalità latenti contro la personalità
provvisoriamente dominante. La vita psicologica che in altri
scrittori si svolge secondo un processo lento uniforme graduale e
che, se anche entra nel dramma e nel contrasto, non è in
sè stessa, essenzialmente, naturalmente, dramma e contrasto,
in Pirandello ha per legge di procedere attraverso sussulti schianti
balzi lacerazioni continue.
14. – Molteplice e contraddittorio in sè stesso, l'individuo
entra nella molteplicità e nella contraddizione anche nei
rapporti che sostiene con gli altri individui. Anche per questi egli
non è uno, è tanti, tanti, questo e quello e
quell'altro all'infinito, così come se lo costruiscono e
nell'atto stesso di costruirselo i singoli individui con i quali
esso entra in rapporto. L'individuo, uno per se, è centomila
per gli altri, il che vuol dire che agli occhi di questi, egli come
egli, è nessuno. La signora Eva Morli è una per suo
marito, gaia spensierata folle, e un'altra per il suo amante,
silenziosa raccolta massaia (La signora Morli uno e due).
«L'idea che gli altri vedevano in me – dice il protagonista di
Uno nessuno centomila – uno che non ero io quale mi conoscevo; uno
che essi soltanto potevano conoscere guardandomi da fuori con occhi
che non erano i miei e che mi davano un aspetto destinato a restarmi
sempre estraneo, pur essendo in me, pur essendo il mio per loro (un
mio dunque che non era per me!), una vita nella quale, pur essendo
la mia per loro, io non potevo penetrare – quest'idea non mi diede
più requie». Ed egli diviene geloso dell'estraneo che,
credendo di amar lui, sua moglie ama e nelle cui braccia ella si
gode le più soavi dolcezze, prende in odio le costruzioni che
di lui han fatto gli altri e si diverte, con atti che gli altri
giudicano e debbono necessariamente giudicare da matto, a mandarle
in frantumi.
Ogni individuo è il centro di un mondo che egli si è
costruito, popolato di fantocci e fantasmi che a lui soltanto
debbono la vita, di cui egli è il padrone e il creatore,
mondo nel quale gli altri individui entrano non nella realtà
genuina del loro essere, che questa è incomunicabile, chiusa
nel gelo di una solitudine senza scampo, ma nella costruzione che di
essi egli si è fatta, salvo, a sua volta, ad entrare egli
stesso come fantasma nei mondi che han per centro gli altri
individui, a rompersi in tanti fantasmagorici egli quanti sono
questi individui e i mondi che essi si costruiscono. Incomunicabile
nella sua essenza, le costruzioni che di lui si fanno gli altri e
quella che di sè si fa egli medesimo sono perfettamente
equivalenti fra loro, il che non toglie che ognuno tenti d'imporre a
forza agli altri il mondo che ha dentro, come se fosse fuori e che
tutti debbano vederlo a suo modo. Chè non v'è altra
realtà se non quella che noi costruiamo come tale sotto
l'impulso del nostro sentimento, e che perciò è
illusione e apparenza, e varia da individuo a individuo, e nello
stesso individuo secondo il sentimento o l'idea. Ma senza illusioni
non si vive. E per chi vive profondato e immerso nell'illusione
creatagli dal sentimento, quel mondo illusorio è tanto reale
quanto la più massiccia realtà cosiddetta reale. E
appunto perchè il sentimento varia da individuo a individuo e
nello stesso individuo col variar del tempo, varia il mondo
illusorio che su quel sentimento sorge, e tutti questi mondi sono
l'uno accanto all'altro, incomunicabili ed equivalenti.
15. – Per ciascuno quel che gli appare è, nell'atto e nel
modo di apparirgli. Esse est percipi. È il motivo che con
intonazione scherzosa Pirandello svolge in una delle sue più
perfette commedie: Così è (se vi pare). Lo spunto
fondamentale è dato dalla tesi di Baldovino nel Piacere
dell'onestà: «Cartesio, scrutando la nostra coscienza
della realtà, ebbe uno dei più terribili pensieri che
si siano mai affacciati alla mente umana: – che, cioè se i
sogni avessero regolarità, noi non sapremmo più
distinguere il sogno dalla veglia. Hai provato che strano turbamento
se un sogno ti si ripete più volte? – Riesce quasi
impossibile dubitare che non siamo di fronte a una realtà.
Perchè tutta la nostra conoscenza del mondo è sospesa
a questo filo sottilissimo: la re-go-la-ri-tà delle nostre
esperienze» (atto I).
Ora, in base a questo criterio, come giudicare se sia vero
ciò che dice il signor Ponza o se, invece, abbia ragione la
suocera di lui signora Frola? Questa sostiene che il genero
è, o almeno fu, pazzo, poichè crede che la sua attuale
moglie sia una seconda moglie, sposata qualche anno dopo la morte
della prima, figlia della signora Frola. Il signor Ponza invece
sostiene che la pazza è la suocera, la quale crede che la sua
seconda moglie sia la figliuola ancor viva, onde la necessità
nella quale è posto, per alimentare nella povera vecchia
l'illusione che la tiene in vita, d'impedire che le due donne
abbiano rapporti fra loro. Ciascuno dei due parla apparentemente con
piena ragionevolezza e si mostra persuaso della verità di
ciò che dice: il mondo che si è costruito è
regolare e coerente, e in esso tutto si spiega e si concatena. Messi
fronte a fronte questi due mondi incomunicabili e opposti, come
decidere fra loro? La curiosità pettegola e crudele della
cittaduzza provinciale cui la strana avventura ha messo la febbre
addosso e che pur di venire a capo del mistero non dubita
d'infliggere le più atroci torture morali ai due infelici
è rappresentata da Pirandello con perfezione e leggerezza
rare. Ma la curiosità è destinata a rimanere
insoddisfatta: i documenti che potrebbero risolvere l'enigma sono
spariti. Si pensa d'interrogare la signora Ponza, e questa compare
velata e risponde: «La verità: è solo questa:
che io sono, sì, la figlia della signora Frola, – e la
seconda moglie del signor Ponza; sì, e per me nessuna!
nessuna!... Per me, io sono colei che mi si crede!» (atto III,
scena ultima). Se con questa commedia Pirandello (come
grossolanamente dai più s'interpreta) avesse sul serio voluto
dimostrare la verità filosofica del principio essere =
apparire, egli sarebbe andato incontro, oltre che all'obbiezione
già fatta, all'altra che non si può dimostrare una
verità così universale e metafisica con la più
straordinaria combinazione e complicazione di casi e di avventure.
Ma la mirabile commedia non vuole essere che uno scherzo, una presa
in giro del cieco e massiccio dogmatismo dei più, i quali
credono alla verità come ad una cosa già bella e data
fuori dello spirito, di cui a questo non resti che prender atto e
sulla quale, ove sorga qualche dubbio, un certificato di morte
debitamente legalizzato basta a far luce. Di questo massiccio
dogmatismo Pirandello si beffa per bocca di Laudisi, il quale
comprende che anche la scoperta dei documenti non risolverebbe
nulla, quei documenti i protagonisti avendoli annullati in
sè, nell'animo loro. Il centro della commedia non è
già nel contrasto fra la signora Frola e il signor Ponza, che
rimangono e debbono necessariamente rimanere figure ombratili e
misteriose, ma in quello fra i curiosi che vogliono che o l'una o
l'altro abbia torto e danno una caccia disperata al documento che li
cavi dal dubbio e il Laudisi che dà torto e ragione a tutti e
due e prende in giro curiosi (e pubblico). È una farsa
filosofica: e, nel genere, un autentico capolavoro.
16. – Non soltanto nella realtà profonda gl'individui
rimangono incomunicabili come monadi senza porte nè finestre
attraverso le quali commerciare: nell'interno di ciascun individuo
ogni atto di vita è irripetibile e incomunicabile: vivo, e
perciò, per l'individuo che vi si attua, vero e certo
nell'atto in cui si pone in essere, tosto che la Vita è
passata oltre e l'individuo vi ritorna su col pensiero, gli appare
impenetrabile e opaco, freddo e oscuro; egli non vi si ritrova
nè vi si riconosce più, non lo sente più come
suo. È, in forma grottesca, il caso di Memmo Speranza in Ma
non è una cosa seria; di Memmo che s'innamora con
facilità spaventosa, prende fuoco come uno zolfanello,
promette eterna fede e amore eterno, poi, dopo un po', si risveglia
dall'ubbriacatura e si trova fidanzato, agganciato per tutta la vita
a un attimo di vita che ha ormai superato e nel quale non si ritrova
più. Donde dispiaceri, liti, duelli, per isfuggire ai quali e
al pericolo di ripromettersi e riagganciarsi per l'avvenire Memmo
sposa Gasparina, una povera diavola di serva, ammogliato per burla
con la quale non correrà più il rischio di ammogliarsi
sul serio.
Lo stesso motivo, questa volta tragicamente, è sviluppato
nelle novelle Il dovere del medico, Come Cirinciò per un
momento dimenticò d'esser lui, Il gorgo, la quale ultima
novella narra come un tale un giorno, di colpo, diventando per
cinque minuti un altro uomo, che del primo non aveva che l'aspetto
fisico, fu l'amante dell'amica di sua moglie, anch'ella
trasformatasi all'improvviso; poi, subito, entrambi ritornarono ad
essere quelli di prima, senza ricordo, e perciò senza
rimorso, di quanto era accaduto. Innamoratissimo di sua moglie, egli
comincia a pensare che quanto è accaduto a lui potrebbe
benissimo essere accaduto anche a lei, la quale potrebbe chiudere in
sè senza rimorso, e perciò senza traccia e senza
menzogna, un simile segreto, e impazzisce.
E non soltanto un singolo atto di vita può, dopo che lo si
sia vissuto, apparire all'individuo impenetrabile oscuro estraneo,
non suo, ma tutto il passato, tutta la vita che quell'individuo ha
vissuto prima di un certo momento in cui di colpo si è reso
estraneo a se stesso: motivo meravigliosamente svolto nelle novelle
La carriola e Da sè.
17. – Tra presente e passato si spalanca così un insondabile
abisso. Può, al contrario, accadere che il presente, l'atto
di vita che si sentiva e credeva presente, messo di fronte a una
situazione affatto diversa da quella che s'immaginava, avverta di
essere per gli altri, e divenga esso stesso per sè, d'un
tratto, non più presente ma passato, si senta di colpo
rigettare nel freddo regno delle cose che furono.
È il motivo fondamentale di Lumie di Sicilia. Micuccio
Bonavino, suonatore di banda, si parte dal suo paesello siciliano
per recarsi nella città lontana a sposare Teresina, la
fidanzata cui, togliendosi il pane di bocca, egli ha fatto studiar
canto e che non rivede più da anni, ma della quale si
considera sempre promesso. Teresina è diventata una grande
cantante e Micuccio lo sa, ma non per questo, crede, ella si
rifiuterà di sposar lui, povero sonatore di ottavino. Gli
è che per lui Teresina è sempre quella che cantava a
gola spiegata nella soffittuccia della sua casetta, nel paesello
nativo: egli non la sa immaginare che così, per lui essa si
è fermata là. Il giorno in cui la vedrà
com'è diventata, scollata, vestita all'ultima moda,
attorniata da ammiratori, comprenderà e sentirà di
colpo di non essere più per lei che un lontano dimenticato
vergognoso passato: «Mentre io….. là….. sono rimasto…..
col mio ottavino….. nella piazza del paese….. lei….. lei tanta
via….. Ma che! Neanche a pensarci più…..».
È il motivo finale del Fu Mattia Pascal. Anche questi, dopo
due anni dalla sua presunta morte, si decide a risuscitare e a
tornare nel borgo nativo a riprendervi la vita d'un tempo. Se non
che i viventi non l'hanno aspettato e si sono acconciati a vivere
come se egli non ci fosse, e a lui non rimane più che di
essere anche nel suo borgo un forestiere, uno spettatore, un'ombra
che guarda, sorride e passa. Anche per lui è troppo tardi
ormai per vivere.
È il motivo, potenziato questa volta in forma tragica,
dell'Enrico IV.
Primo momento ideale della tragedia.
Un giorno un signore, dal temperamento facile a fissarsi, prende
parte ad una mascherata travestito da Enrico IV di Germania, casca
da cavallo, batte il capo a terra, si rialza pazzo, che crede sul
serio di essere Enrico IV. I parenti lo trasportano in una villa
dove, vestito da Enrico IV, circondato da giovani pagati e
mascherati da feudatari dell'undecimo secolo, egli prosegue nella
sua innocua pazzia. Intorno a lui il fiume del tempo precipita
veloce, tutto travolgendo innanzi a sè: la donna che egli
amava prende marito, ha una figlia, si fa un amante di colui che era
il suo più aborrito rivale, entrambi, e con essi tutti i
compagni della mascherata famosa, godono e soffrono la vita e
divengono a mano a mano grigi e vecchi: egli rimane Enrico IV,
agganciato, inchiodato in quella vibrazione di vita che aveva voluto
vivere per una serata sola. Per una serata sola aveva voluto
concedersi il piacere di una forma così lontana dalla
consueta e normale forma della sua vita: un destino crudele volle
che vi rimanesse intrappolato. Egli è così escluso
dalla Vita: chè nemmeno come Enrico IV veramente vive. Come
Enrico IV egli ha sempre ventisei anni, la maschera da lui assunta
essendo appunto quella dell'imperatore ventiseienne. Nella villa
dov'egli consuma la sua povera vita di folle hanno affisso al muro
un ritratto che lo raffigura com'era vestito in quella sera fatale:
quel ritratto è per lui come una immagine riflessa in uno
specchio, nella quale egli si vede immobilizzato in una giovinezza
perenne, esiliato dalla Vita che diviene, che scorre, che cangia.
Secondo momento ideale della tragedia.
Dodici anni passano. Un giorno il mascherato rinviene dal suo triste
sogno: la Vita per tanti anni immobilizzata nel gelo della follia
ricomincia a scorrere in lui. Via quegli abiti, basta con quella
carnovalata, giù nella Vita, nella Vita piena e vera!... A
far che? In che mondo si troverà? In un mondo non più
suo, che egli non riconoscerà più, dove la gente ha
camminato tanto e tanto che, per quanto corra, egli non
riuscirà mai a raggiungerla. Al banchetto dell'esistenza non
c'è più posto per lui: tutto consumato, tutto
sparecchiato! Non gli resta più che proseguire
coscientemente, volontariamente, freddamente, quella finzione che
per tanti anni egli aveva vissuto come realtà, continuare a
rappresentare, con la coscienza di rappresentarla, la parte che,
senza chiedergliene permesso, il destino gli aveva imposto di
rappresentare. Del resto, tutti gli uomini non rappresentano forse
una parte nella vita? Egli la rappresenterà con la coscienza
di rappresentarla, e sarà questa la sua vendetta sulla Vita
che ha voluto escluderlo da sè: obbligare, egli, il creduto
pazzo, tutti coloro che vanno a visitarlo a mascherarsi, rigirarseli
come tanti pagliacci, e in questa triste carnevalata della vita
rappresentare almeno la parte dell'imperatore. La Vita lo ha
beffato? Ed egli befferà a sua volta la Vita! Per dodici anni
è rimasto inchiodato a una forma di Vita che doveva essere
effimera, ed ora è troppo tardi per vivere la Vita che per la
prima volta si fa? Ebbene, egli si farà cittadino di quel
vitreo regno dell'immobile, del già fatto, del già
divenuto in cui era stato involontariamente proiettato. Tristi i
casi, orrenda la vita di Enrico IV, ma almeno già definita,
conchiusa, determinata in tutti i suoi particolari, congelata
nell'immobilità eterna del passato che è quel che
è e più non muta, e che perciò non può
più dare sorpresa alcuna, in eterno sottratta alla febbre
della Vita che per la prima volta si fa.
Terzo momento ideale della tragedia: dal dualismo così
esasperato di Vita e Forma scoppia la folgore. Sono vent'anni che
prima involontariamente, poi volontariamente il mascherato è
immobilizzato in Enrico IV ventiseienne. E a un tratto ecco che
sotto forma dei compagni di allora che vengono a fargli visita la
Vita, la sua stessa vita, gli si mostra com'è ora, dopo venti
anni che sono trascorsi. Primo urto della immobile Forma e della
Vita che cangia, che scorre. E guardando in volto i visitatori il
mascherato ha la sensazione vivente dei venti anni che sono passati
e che egli non ha vissuto. E, nondimeno, ha ancora la forza di
proseguire nella finzione, e si concede la gioia feroce di
rigirarseli come vuole, gl'incoscienti venuti a farglieli toccar con
mano i venti anni che essi e non lui si sono goduti. Ma rimasto con
i quattro che gli fanno da consiglieri scoppia e butta all'aria la
maschera. Vuole riassumerla ancora. Non può. È stato
tradito, il trucco è scoperto. Con incoscienza maggiore
ancora della prima, i visitatori gli strappano la maschera dal
volto, vogliono ricondurlo con sè, in una vita che non
può più essere la sua, ma la loro soltanto. E intanto
eccola lì quella vita sotto i suoi occhi: la donna che egli
amò, con i suoi capelli tinti e i suoi quarant'anni; la
figlia di lei, vivente ritratto della madre, parata come lei in
quella famosa sera di carnevale; e tra l'una e l'altra i venti anni
del suo esilio. È il tempo che per lui non è scorso
reso visibile sotto i suoi occhi. Ed egli si butta addosso alla
giovinetta per afferrarla e trarla seco: di lì soltanto
può cominciare veramente a vivere, che per vent'anni egli
è rimasto fermo lì, dove vent'anni prima era Matilde e
dove è ora sua figlia Frida. Lo trattengono ed egli,
infuriando, uccide chi, dopo avergli rubato la madre, vorrebbe ora
sottrargli la figlia. E allora non gli resta più che
immobilizzarsi per sempre nella maschera di Enrico IV. Uscito dalla
sua parte, rientrato per un attimo nella Vita vera e reale, ne
è immediatamente espulso. La lotta tra la Vita e la Forma si
chiude con la sconfitta decisiva della Vita.
La bellezza dell'Enrico IV è nella estrema semplicità
quasi casalinga del linguaggio, rotto spezzato frastagliato, e la
risonanza cosmica di quello che i personaggi dicono. Essi parlano
ansiosi convulsi, senza scegliere le parole, e dietro di loro
vediamo erigersi gli spettri metafisici della Vita e della Forma,
prender corpo sulla scena le categorie del nostro intelletto,
sentiamo gemere il tormento ineffabile di una vita cui fu impedito
di vivere, percepiamo quasi sensibilmente il tacito infinito andar
del tempo e della Vita. E l'architettura della tragedia è
tale che i momenti ideali del suo sviluppo, da noi lentamente
analizzati e che si stendono per la durata di vent'anni, ci passano
sotto gli occhi in un succedersi incalzante e vertiginoso di scene,
legate da una logica potente e profonda. Enrico IV: tragedia della
Vita che non potè vivere, strangolata da una Forma che doveva
essere effimera e che, invece, l'ingoiò in sè, senza
scampo.
18. – La tragedia di Enrico IV è la tragedia della Vita in
forma esemplare, tale appunto essendo la tragedia della Vita per
Pirandello: doversi necessariamente dare Forma e non potersene
contentare, chè sempre, presto o tardi, la Vita paga il fio
della Forma che si è data o lasciata dare. Il centro del
dramma pirandelliano è qui: in questo scontrarsi della Vita
con la Forma in cui l'individuo l'ha incanalata o in cui per lui
l'hanno incanalata gli altri. Pirandello sceglie i suoi personaggi
nel comune materiale della Vita, il meno eroico, il più
consuetudinario e ordinario possibile: impiegati professionisti
professori commercianti borghesucci. Li sceglie, cioè, nella
classe in cui è più viva la preoccupazione delle
regole delle convenienze delle forme delle finzioni delle apparenze
delle maschere sociali. Dà loro un corpo sgraziato o
infelice, con qualche particolarità del viso o del corpo o
qualche tic repugnante o antipatico o curioso. Li colloca negli
ambienti più banali e piccolo-borghesi che si possano
immaginare. E, attraverso una preparazione lenta minuziosa secca
arida ingrata, fatta di battute in apparenza disordinate e confuse,
ma dalle quali a poco a poco, per una serie di accenni più o
meno indiretti, s'incomincia a delinear la vicenda, li conduce al
momento in cui tra la loro spontaneità vitale e la maschera
che o si erano volontariamente posta o si erano lasciata porre sul
volto si determina una opposizione violenta, o quando, affacciandosi
come in uno specchio nella costruzione che gli altri si sono fatta
di loro, non vi si riconoscono e delirano di dolore e di orrore al
dirsi: questo son io! Allora quei personaggi che ci si erano
presentati compassati duri legnosi stecchiti come burattini
perchè colati in uno stampo prestabilito ridono e piangono e
singhiozzano fremebondi e convulsi: vivono stavolta, vivono in un
pieno abbandono alla loro spontaneità, sdegnosi o dimentichi
della maschera che si erano posta o lasciata porre sul volto. E se
anche alla fine se la rimettono in viso, è solo per
nascondere sotto di essa il loro cupo tormento. Tutto il teatro
pirandelliano, al quale aspira e nel quale culmina tutta la vasta
opera di questo scrittore, non è che la variazione
all'infinito di questo tema fondamentale. I rapporti consueti e
normali della vita sono negati. Al loro posto, altri e diversi e
capovolti rapporti. E quanto i rapporti ordinari sono, o
appariscono, per l'abitudine, piani agevoli verosimili, tanto i
rapporti che vi si sostituiscono sono, o appaiono, inverosimili
artificiali complicati barocchi tenuti su a stento ed a forza.
19. – Opposizione dell'individuo e del concetto o costruzione che se
ne sono fatta gli altri. È il dramma del Padre nei Sei
personaggi in cerca di autore. Gli eventi della vita vollero che la
Figliastra lo sorprendesse in una casa equivoca, in un atto in cui,
secondo i normali rapporti dell'esistenza, essa non avrebbe mai
dovuto nè potuto vederlo: in tutta la sua miseria di povera
carne umana insoddisfatta. Ora, per la Figliastra egli è
rimasto lì, agganciato, inchiodato per l'eternità a
quell'attimo di vita. Ed invano egli protesta che no, che è
ingiusto giudicarlo da quell'atto solo, come se egli fosse tutto in
esso, assommato e totalizzato in esso, senza residui! La fanciulla
non sa vederlo che come lo vide nella casa infame, inchiodato in
eterno a quell'attimo di vita, come una statua in eterno irrigidita
nel gesto che l'artista le ha dato: «lei intende la perfidia
di questa ragazza? M'ha sorpreso in un luogo, in un atto, dove e
come non doveva conoscermi, come io non potevo essere per lei, e mi
vuol dare una realtà, quale io non potevo mai aspettarmi che
dovessi assumere per lei, in un momento fugace, vergognoso, della
mia vita!» (atto I).
È il dramma del consigliere di stato Martino Lori (in Tutto
per bene), vedovo inconsolabile che da sedici anni si reca ogni
giorno al camposanto a piangere la sua cara Silvia scomparsa, e
intanto la figlia Palma gli cresce più che alle sue affidata
alle cure dell'amico Salvo Manfroni, che l'ama e la tratta come
figlia, le fa la dote e le trova un ottimo partito: premure che Lori
si spiega, oltre che con la sincera amicizia di Manfroni per lui,
anche col desiderio di farsi perdonare l'appropriazione indebita da
lui commessa delle idee contenute in un manoscritto inedito del
padre di Silvia, grande scienziato morto precocemente. Se non che un
bel giorno, per un banalissimo caso, tutta questa costruzione crolla
e Martino Lori si trova di colpo dinanzi alla costruzione che di lui
si erano fatta gli altri: che, cioè, egli fosse stato un
marito compiacente, che, per far carriera, avesse finto d'ignorare
che Silvia era amante di Salvo e che Palma è figlia di costui
e, mortagli la moglie, avesse proseguito a freddo la commedia del
vedovo inconsolabile. E rispecchiandosi nel concetto che di lui
avevano gli altri Lori rabbrividisce di nausea e di orrore:
«Mi avete creduto capace di questo? fino al punto d'andar
lì ogni giorno [al cimitero] a rappresentare quella
commedia?... Ma che essere vile sono io dunque stato per voi?»
Vile e inabile, perchè ciò che per lui era sentimento
sincero per gli altri era commedia ch'egli rappresentava, e
rappresentava male: male, perchè il disgraziato non sapeva di
rappresentarla. Tutto il suo mondo gli crolla dalle fondamenta:
«Tutto rovesciato; sottosopra. Sì. Il mondo che ti si
ripresenta tutt'a un tratto nuovo, come non ti eri mai neppur
sognato di poterlo vedere. Apro gli occhi adesso!» (atto III).
È il dramma di Fulvia in Come prima, meglio di prima: di
Fulvia che, corrotta e viziata dal marito Silvio, fugge di casa,
precipita nella più vile abbiezione, infine, nauseata di
fango, tenta suicidarsi. Accorso al suo letto di morente il marito
quasi senza volerlo la salva (egli è un grande chirurgo);
guarita, la rende madre e se la riporta in casa per un certo tra
rimorso del male fattole e desiderio sensuale delle antiche
ebbrezze. Ma poichè alla figlia Livia, ormai grande, si
è detto che la mamma, una santa, è morta, Fulvia
passerà come seconda moglie di Silvio. E Fulvia, che la nuova
maternità ha purificato e redento, rispecchiandosi nel
concetto che di lei si è fatto Livia vi si vede come una
volgare avventuriera esperta nelle arti della seduzione più
scaltra, che ha usurpato il posto tenuto dalla mamma di Livia, la
santa, troppo presto scomparsa. E il fantasma di Fulvia la santa
quale Livia se lo è costruito si erige contro la Fulvia di
carne e d'ossa a sbarrarle la porta del cuore di sua figlia»
Contro questa immagine di lei che Livia si è creata, ombra,
menzogna divenuta realtà, Fulvia sente un odio tremendo, che
uccide in lei ogni senso di maternità per Livia. Livia le
appar figlia non di lei, ma della morta: sua figlia vera sarà
solo la nascitura. «Io per lei [Livia] sono questa e non posso
essere sua madre. Sono arrivata al punto di crederci io stessa! Mi
pare, mi pare veramente figlia di quell'altra... L'ombra, divenuta
realtà! E che realtà! Ha ucciso in me, veramente, il
mio istinto materno per lei! Ora più che mai, che lo risento
in me vivo per un'altra» (atto II). Perciò quando nel
suo cieco odio contro di colei che crede un'intrusa Livia offende la
creaturina, Fulvia non sa resistere alla voluttà di
precipitare nel fango l'idolo di Livia e grida alla fanciulla che la
santa di cui si crede figlia era una donnaccia, lei stessa,
l'aborrita e disprezzata Fulvia. E parte di casa portando seco la
neonata, la sola ormai che ella senta come figlia.
È il motivo, svolto in forma scherzosa, della commedia nella
commedia (in Capiddazzu paga tuttu) che don Nzulu rappresenta,
mettendo sotto gli occhi di ciascuno dei parenti ed amici la
maschera corrispondente («A unu a unu vi fazzu 'a parti di
tutti! Vi mettu comu un specchiu davanti!»: atto III, scena
I): al riconoscersi, ciascuno frigge e protesta; pure ci si ritrova,
e, alla fine, pel ballo mascherato finisce per rivestirsi della
maschera che gli spetta.
20. – Guai a distruggere la maschera che l'individuo si è
posta volontariamente sul viso, la parte che si è assegnata
nell'esistenza! Ciampa (nel Berretto a sonagli) si è
costruito la maschera di marito rispettabile: in cuor suo sa
benissimo di non esserlo e che la moglie è l'amante del
padrone e che egli lascia fare per debolezza e attaccamento
invincibile a quella donna che l'ha stregato, ma tutte le apparenze
essendo salve egli esige che gli altri rispettino in lui la maschera
che si è messa sul volto. Credendolo consenziente e per
sfogare un suo folle impeto di gelosia, la moglie del suo padrone,
Beatrice, fa sorprendere gli amanti. La flagranza non è
constatata, ma ormai il guaio è fatto: tutti diranno che
Ciampa è un marito ingannato. Beatrice ha strappato dal suo
volto la maschera di cui egli si rivestiva, dicendo a tutti senza il
menomo riguardo ciò che di lui pensava ella sola. E allora
delle due l'una: o Ciampa, per quanto orrore gli faccia il sangue,
ucciderà gli adulteri (in una circostanza simile il
protagonista della novella La verità uccide la moglie),
oppure, se è vero quanto gli si dice, che, cioè, lo
scandalo fu per una pazzia, si dia la prova che l'accusatrice
è pazza e la s'interni in un manicomio. Non c'è altra
via per salvare il pupo che egli si è costruito e che vuole
rispettato. «A quattr'occhi non è contento nessuno
della sua parte: ognuno, ponendosi davanti il proprio pupo, gli
tirerebbe magari uno sputo in faccia. Ma dagli altri, no; dagli
altri lo vuol rispettato» (atto I, scena IV). E Beatrice, cui
davvero la prospettiva del manicomio sta per far perdere la ragione,
è obbligata a partire per la casa di salute. La tragedia
è così evitata.
Scoppia invece quando (nell'Enrico IV) la marchesa Matilde Spina e
altri ancora strappano dal volto del Grande Mascherato la maschera
di Enrico IV di cui seguitava volontariamente, coscientemente, a
rivestirsi, per le ragioni innanzi dette, e gli gridano che è
guarito, che finge, e vorrebbero portarselo via, farlo rientrare
nella Vita, in una vita che non è più, non può
più essere la sua.
È anche la tragedia di Ersilia Drei, protagonista di Vestire
gli ignudi. Ridotta all'ultimo estremo della miseria umana, si
avvelena. Trasportata morente all'ospedale, ella la cui vita non ha
mai potuto consistere in nulla, non ha mai potuto ricoprirsi di una
veste di figura che non le fosse subito lacerata dai tanti cani che
sempre le saltavano addosso, che non le fosse imbrattata da tutte le
miserie più basse e vili, se ne vuole comporre una bellina
per la morte, e inventa una storiella che attiri sul suo cadavere il
compianto di tutti. Ma la salvano a forza, la Vita la riprende, le
lacera la nobile maschera, la bella veste che si era composta, la
rivela nella sua deforme nudità. E ad Ersilia non resta
più che darsi un'altra volta (la buona, questa) la morte per
acquistarsi il diritto di esser creduta quando affermava che, se
mentì, non fu per vivere ma per morire.
È la tragedia di Anna, protagonista de La vita che ti diedi.
Separata per molti anni dal figlio, ella se ne è composta
un'immagine, una forma, che ha viva e presente nel cuore, e che non
dubita faccia tutt'uno con la concreta ed effettuale realtà
di lui. E la Vita una prima volta urta ed assale quella forma: al
ritorno del figlio, Anna può constatare come quasi nulla di
comune siavi tra lui e l'immagine che ella ne aveva serbato. Ed ecco
il figlio le muore d'improvviso: secondo urto della Vita contro la
Forma. Anna si rifiuta di accettarne la morte: egli seguiterà
a vivere per lei di quella stessa vita di cui viveva quando ne era
lontano, e che così poco coincideva con la vita che allora
era di lui. La morte ha distrutto il corpo del figlio, ma questo non
era già da anni un estraneo per lei? Suo figlio
comincerà veramente a morire per Anna il giorno in cui (terzo
urto della Vita contro la Forma) la sua amata, Lucia, viene a sapere
della sua scomparsa, e tutta si scioglie in lagrime disperate: in
quell'onda di pianto Anna sente svanire la saldezza della
costruzione che ella si era fatta. La catastrofe è completa
quando Lucia le confessa di essere stata resa madre da suo figlio:
questi, quale Anna lo ricorda, quale lo voleva sottrarre alla morte,
vivrà ormai, non più nell'immagine che ne ha sua
madre, ma nel bambino che nascerà da Lucia; madre non
sarà più Anna, ma Lucia. Anna aveva preteso sottrarre
una forma al flusso della Vita che sempre si rinnova; e la Vita,
immobilizzata un momento, tosto riprende il suo vano interminato
fluire, dissolvendo e fluidificando la forma rigida in cui si era
preteso arrestarla.
21. – Qualche volta la maschera che l'individuo porta sul viso
è la società che gliel'ha imposta a viva forza, e
invano il disgraziato si è ribellato e ha chiesto
pietà: alla fine, ha dovuto chinare la testa e striderci.
È il caso di Chiarchiaro nella Patente. Il poveruomo al quale
han fatto la fama di iettatore in principio ha protestato, si
è rivoltato, ha chiesto misericordia: infine, sfuggito,
isolato come un lebbroso, giunto all'estremo della miseria e della
disperazione, non ha altro scampo che accettare la parte con tanta
spietata ferocia impostagli. Egli eserciterà con atroce gioia
la professione di iettatore, ricattando la gente col terrore della
sua infausta potenza. E forse ce l'ha davvero questa potenza:
«perchè ho accumulato tanta bile e tanto odio, io,
contro tutta questa schifosa umanità, che veramente credo,
signor giudice, d'aver qua, in questi occhi, la potenza di far
crollare dalle fondamenta un'intera città!»
22. – Ma qualche volta è l'individuo stesso che
volontariamente, consciamente, a freddo si è scelta ed
assegnata la parte: così Enrico IV, quando, rinsavito, si
accorge della passata follia e decide di continuarla a freddo;
così Leone Gala, nel Giuoco delle parti. In Leone Gala la
ragione ha vinto lo istinto, la passione, il sentimento; egli si
è vuotato della vita e la guarda svolgersi in se stesso e
negli altri, di cui prevede – e pel fatto stesso di prevederli ne
toglie loro il gusto – gli atti e i movimenti: suo solo piacere
è di vedere sè e gli altri vivere. Ma per non perdere
l'equilibrio e andare per terra egli caso per caso si afferra a un
pernio, si assegna una parte, e non si muove di là: è
così, volutamente, il fantoccio di sè stesso. Nei
riguardi di sua moglie Silia, da cui vive separato, egli si è
assegnato la parte di marito di fronte alla legge, e basta. Silia
è il suo opposto: pazza amorale e sensuale, istinto bruto e
irragionevole, odia Leone, ne ha l'incubo, se ne sente oppressa e
paralizzata, ne desidera la morte. Per fargli del male ella,
d'accordo con l'amante Guido, lo pone in condizione di sfidare un
gentiluomo da cui ha subito un grave affronto. Egli sfida,
poichè non altri che il marito potrebbe sfidare, lascia che
l'amante, che gli fa da padrino, fissi condizioni terribili nella
speranza che, non sapendo battersi contro l'avversario schermidore
espertissimo, egli ci lascerà la pelle, ma, giunta l'ora di
battersi, rifiuta, e lascia che al suo posto vada, come vuole la
regola cavalleresca, il suo secondo, l'amante. La parte di lui
è di sfidare: quella dell'amante, di battersi. Giuoco delle
parti. E nel duello l'amante è ucciso.
23. – Ma o alla lunga o immediatamente contro le costruzioni
concettuali in cui l'individuo si è rinserrato
volontariamente, contro la parte che si è assegnata, contro
la maschera che si è posta sul viso insorge la
spontaneità dell'istinto vitale.
L'insurrezione della Vita contro la Forma può essere
immediata. È il motivo dell'apologo L'uomo, la bestia e la
virtù, in cui tutta la visione pirandelliana della vita
appare marionettisticamente e grottescamente deformata.
Perrella è un capitano di lungo corso, che per non dare un
fratellino al figlio unico che ha avuto dalla legittima consorte,
ogni volta che, dopo tre o quattro mesi di navigazione, tocca terra
e si reca a casa, prende il più piccolo pretesto per andare
in bestia, chiudersi in camera e l'indomani filare insalutato
ospite, senza aver adempiuto ai doveri di marito. La storia dura da
tre anni. Il professore del figlio di Perrella, Paolino, commosso
dalle immeritate sofferenze della signora, le si è offerto
consolatore. La conseguenza è che fra sette mesi la signora
darà un fratellino a Nonò. È, dunque,
necessario, per evitare uno scandalo, che durante le ventiquattr'ore
in cui il capitano sarà a casa egli sia per sua moglie marito
non solo di nome, ma anche di fatto. Perciò, munito di un
pasticcio afrodisiaco, Paolino si reca a casa di Perrella ad
assistere all'arrivo della bestia e ad attendere gli eventi. Per
affrettare i quali egli obbliga la signora Perrella a scollarsi, a
darsi del carminio sulle labbra, del belletto sulle guance, nella
speranza che gli ostentati vezzi di lei facciano colpo sul capitano.
Così ecco Paolino, tutto franchezza e lealtà aperta e
brutale, obbligato dalle necessità della vita non solo a
nascondere la realtà di ciò che egli è per la
signora Perrella, ma, a dirittura, ad architettare egli,
l'appassionato amante di lei, tutto un diabolico piano per
ricondurre quell'ignobile bestia del marito nel talamo coniugale. Il
povero Paolino non poteva mettersi sul volto maschera più
discordante dai lineamenti che il buon Dio gli diede, ed è
perciò che freme, urla, digrigna i denti, in un parossismo di
furore che è sempre lì lì per scoppiare e
mandar tutto all'aria. La discordanza della maschera dal volto
è resa maggiore dal fatto che nemmeno per un momento Paolino
guarda al suo caso con gli occhi di un uomo normale, come
cioè a un imbroglio seccante, ma, tutto sommato, assai
ridicolo e divertente. No! Egli è convinto di vivere in un
nodo tragico di eventi: per lui la signora Perrella non è una
signora come tante che, trascurata dal marito, si è trovato
un consolatore e ora cerca di riparare alla meglio alle conseguenze
del malpasso: è una santa; egli, Paolino, non è un
amante come tanti, che, fatto il male, ha paura delle conseguenze e
cerca di nascondere a sè ed altrui la sua vigliaccheria sotto
la maschera della difesa dell'onore della sua amante: è un
martire, e l'artificio che egli mette in opera per introdurre
Perrella a fare il dover suo di marito è testimonianza
sublime dell'amor suo. Per sè, Paolino vive una tragedia dove
l'Autore non vede che una farsa, e perciò si divincola,
rugge, smania: smanie ridicole e che pure non fanno ridere, in
quanto in Paolino Pirandello sbeffeggia tutta l'umanità che
sempre, anche quando crede di essere eroina di tragedia, è
protagonista di una lamentevole farsa. Perciò in questo
apologo (il nome è significativo) il riso cela una sofferenza
profonda, un'amarezza invincibile, che gli toglie ogni dolcezza e
serenità. Ma, ed è qui la manchevolezza del lavoro,
dopo il primo atto appena qualche accenno fugace rimanda ad un
significato universalmente umano al di là della vicenda
boccaccevole e ci ricorda che si tratta di un apologo e non di una
semplice pochade. Nel secondo e terz'atto, ridotto tutto l'interesse
dell'azione a sapere se la bestia mangerà o no il pasticcio e
se questo farà o no effetto, l'apologo si trasforma in
pochade.
L'insurrezione della Vita contro la Forma in cui la si è
costretta può non essere immediata. Allo scopo di sottrarsi a
una vita di dissipazione e traviamenti e di crearsi una situazione
tale che (marito di una signora per bene) egli sia obbligato da essa
a vivere onestamente, Baldovino, protagonista del Piacere
dell'onestà, sposa Agata che Fabio ha reso madre e che non
può sposare perchè ammogliato. Ma pone bene le mani
avanti: onesto lui, onesti tutti! Agata e Fabio continuino pure ad
amarsi, se vogliono, ma rispettino rigidamente lui, non lui
Baldovino, ma lui onesto marito di una signora per bene, salvino
scrupolosamente le apparenze non solo di fronte agli altri, ma di
fronte a lui stesso. Così, se cattiva azione ci sarà,
non la farà lui, la faranno loro. In tal modo Baldovino si
costruisce una onestà perfetta, e vive non più come
uomo, ma come forma artificiale e costruita di onestà.
L'onestà di Baldovino ha come effetto immediato
l'onestà anche formale di Agata: non volendo ingannarlo, essa
interrompe ogni rapporto con Fabio. Ella non potrà più
essere di Fabio se prima Baldovino non lasci la casa. Fabio ordisce
una rete per indurre Baldovino a commettere un furto: allora egli lo
svergognerà e caccerà di casa. Ma Baldovino che ha
scoperto il raggiro accetta di passare per ladro e di andarsene a
patto che a rubare non sia lui, ma Fabio. In un secondo momento,
invece, è proprio lui che spontaneamente si mette in
condizione di passare da ladro: egli si è accorto di amare
Agata, e quest'amore, ponendolo dinanzi a lei uomo contro donna, e
non più maschera di marito contro maschera di moglie, gli fa
comprendere la necessità di partire. L'amore uccide in lui la
maschera del marito. Ma Agata che anch'ella l'ama lo seguirà
anche come ladro. Allora egli rimane. La forma dell'onestà ha
ucciso in Agata l'amante e creato in lei la moglie, sul serio e non
da burla. La Vita ha incenerito la Forma in cui la si era costretta
e ne ha creato una nuova e superiore.
In Come prima meglio di prima la Forma che è incenerita è, invece, proprio quella superiore e più pura. Fulvia, alla lunga, non regge più alla innaturale finzione che si è imposta, butta all'aria la maschera di onesta moglie di suo marito, e ritorna in compagnia del folle Marco Mauri alla eslege randagia vita di prima.
Memmo Speranza, l'eroe di Ma non è una cosa seria, per
difendersi dal pericolo di ammogliarsi sul serio si ammoglia per
burla con Gasparina. Come matrimonio, il suo non è serio:
è serio come rimedio preventivo contro il matrimonio. La
povera Gasparina accetta queste nozze strampalate e perchè
non contrae obblighi di sorta e perchè non ha niente da
perdere e perchè ha bisogno di un po' di respiro nella vita
d'inferno che ha fatto finora. Tutti e due ragionano. Si assegnano
una parte. Trionfo della logica. Ma la Vita si burla della logica.
Nella villetta che Memmo le ha regalato Gasparina si riposa, si
rinfranca, rifiorisce. Essa s'innamora di Memmo e l'amore sveglia in
lei il senso della dignità. Ella non può più
continuare una parte sì fatta che Memmo si accorga di lei
solo per maledirla, quando, cioè, essa funziona da
impedimento a un matrimonio sul serio. Offre perciò a Memmo
di restituirgli la libertà annullando il matrimonio che non
fu mai consumato. Ma al vederla giovane e bella, al saperla pura,
Memmo se ne innamora anche lui, e il matrimonio per burla diventa
matrimonio sul serio. Trionfo della spontaneità vitale, della
follia, dell'irrazionale.
24. – Irrazionale che, si badi bene, appare come tale solo in
confronto a ciò che si è soliti chiamare ragione. In
sè, è ragione, è logica anch'esso. Ciò
che chiamiamo ragione non è che una delle tante forme, delle
tante ragioni possibili, che ha, certo, diritto di vivere e di
affermarsi anch'essa, ma ha torto quando vuole negare la
possibilità e il diritto di altre forme, di altre ragioni.
Alcune commedie di Pirandello sono la dimostrazione vivente di
questa logica dell'irrazionale: L'innesto, ad esempio.
Sposi da sette anni, Laura e Giorgio si amano con dedizione
incondizionata di tutto il loro essere. Ma nessun figlio è
venuto ad allietarne l'unione: Laura, quindi, non è per
Giorgio la madre delle sue creature, ma solo la donna violentemente
desiderata ed amata. Perciò il giorno in cui Laura è
vittima della violenza di un bruto, Giorgio sente il suo amore
colpito nella radice stessa dell'essere suo. Laura è stata di
un altro: un altro ha posseduto quel corpo che doveva essere il
tesoro e la delizia dei suoi baci. Dell'oltraggio Laura, certo, non
ha colpa: la sventura che si è abbattuta su lei la fa degna
di compassione; ma, per l'appunto, il dolore di Giorgio è
reso più vivo dal dovere della pietà che gli è
imposto. L'esserci stata l'offesa più brutale senza colpa
ferisce non l'onore, ma l'amore, e tanto più quanto maggiore
è l'obbligo fatto all'amore di avere pietà. È
irragionevole ma è logico. È la logica dell'amore. Ma
questa stessa logica poi vuole che quando Giorgio che sta per
fuggire si vede comparir dinanzi Laura muta e dolente, piangendo
l'accolga fra le braccia, in un impeto di amore che la comune
sventura rende più intimo e dolce, più profondo e, pur
nella terribile amarezza, soave. Li troviamo qualche mese dopo in
una villa dove, dopo la bufera, han nascosto la rinnovata primavera
del loro amore. Un vecchio giardiniere spiega a Laura come abbia
luogo l'innesto delle piante. Perchè la pianta innestata
butti frutto è necessario che abbia subìto l'innesto
quando era in succhio, quando, cioè, come donna innamorata,
desiderava ed invocava il frutto, che con le sole sue forze non
poteva dare. E Laura che avverte in sè i primi fremiti di una
nuova vita, che con certezza quasi assoluta le viene dal suo
violentatore, applica a sè stessa quanto il giardiniere le ha
detto. Che importa donde il germe sia venuto, se quel germe in tanto
essa l'ha assorbito e fatto suo in quanto tutto il suo essere era
amore, e se amore c'era non era che per Giorgio? Se figlio
nascerà, esso sarà perciò di Giorgio.
Irragionevolezza, follia, lo riconosce Laura stessa, quando Giorgio,
che ragiona dal punto di vista della logica comune, esige la
distruzione del germe, ma follia che la solleva, la esalta, e che
nel suo gorgo generoso finisce per travolgere Giorgio medesimo.
«E dunque, che vuoi di più, se credi nel mio amore? In
me non c'è più altro! Non senti?» E Giorgio:
«Sì, Sì...» (atto III, scena ultima).
Ancora una volta, la logica dell'irrazionale trionfa.
E trionfa nel modo più strepitoso per opera del professor
Toti, vecchio insegnante secondario, protagonista di Pensaci,
Giacomino! Questi prende moglie per far dispetto al governo che lo
ha sempre tenuto a stecchetto e che così egli
obbligherà dopo la sua morte a pagare la pensione alla
vedova. Giovane, così la pensione sarà pagata
più a lungo. La moglie giovane lo tradirà? Egli
accetta in anticipo i tradimenti coniugali: ciò gli
assicurerà la pace in famiglia. Del resto, il tradito non
sarà lui, professor Agostino Toti, che alla giovane moglie
farà solo da padre e da benefattore, ma il marito che, in
realtà, per sè, egli non sarà. Costruzione dal
punto di vista della logica comune assurda folle irrazionale, in
sè coerente armoniosa e, dunque, razionalissima. E di fatti
Toti sposa Lillina già resa madre da Giacomino. Questi
seguita ad esserne l'amante, Toti lo sa, fa da padre ai due giovani,
da nonno al bimbo che di fronte alla legge passa per suo,
costituisce a Giacomino una buona posizione. Il vecchio professore
che non le ha gustate mai prova così nella tarda età
le dolcezze della famiglia. La gente ride e si scandalizza: egli se
ne infischia. E quando Giacomino, non sentendosi più la forza
di durare in una situazione così paradossale, abbandona
Lillina e il piccino e si fidanza per tornare nell'ordine e mettere
su casa propria, egli con le più tenere preghiere e le
più violente minaccie l'obbliga a tornare alla povera Lillina
che tanto lo ama. La logica dell'irrazionale tocca il suo culmine in
questo straordinario lavoro in cui si vede un marito forzare
l'amante della moglie a tornare alla donna abbandonata e, quel che
è più, aver ragione di agire così. Mai la
relatività delle costruzioni umane, l'esistenza di un diritto
e di una ragione che di fronte al comune diritto e alla comune
ragione appaiono, e debbono apparire, assurdo e follia era stata
sostenuta con violenza più acerba, più aperta,
più lucidamente logica.
25. – Appunto perchè nella visione pirandelliana del mondo
non vi è una ragione, una logica, un diritto, ma tanti quanti
sono gl'individui, e per lo stesso individuo tanti quanti ne crea
nelle sue infinite variazioni il sentimento, ciascun personaggio dal
suo particolare punto di vista ha ragione, e manca un punto di vista
unico e più alto dal quale giudicare tutti gli altri.
Così in definitiva Pirandello non giudica e non assolve o
condanna nessuno dei suoi personaggi: meglio, il suo giudizio
è implicito nella rappresentazione che egli fa di loro e
delle conseguenze dei loro atti. Morale rigidamente immanentista la
sua, con assoluta eliminazione di ogni riferimento a norme
trascendenti. Per ciascuno, il giudizio è dato implicitamente
dai frutti delle sue azioni. Così, ad esempio, non una volta
sola una parola di condanna esce dalle labbra di Pirandello sul
conto di una delle tante donne da lui messe in iscena e che quasi
tutte, personificazioni come sono dell'istinto cieco e sfrenato al
di qua della ragione e del pensiero, appaiono creature nevrasteniche
isteriche pazze amorali incoscienti, ebre di sensuale
cerebralità e che, dopo essersene saziate, ne provano nausea
e orrore, con improvvise nostalgie di purezza e di maternità.
Tali Silia del Giuoco delle parti, Beatrice del Berretto a sonagli,
Fulvia di Come prima meglio di prima, la Figliastra dei Sei
personaggi in cerca d'autore, la Donna uccisa del mistero profano
All'uscita, Ersilia di Vestire gli ignudi, tutte piene di odio
contro l'uomo che esse hanno di fronte (rispettivamente Leone,
Ciampa, Silvio, il Padre, l'uomo grasso) e che incarna quanto loro
è direttamente contrario, l'ordine la ragione la riflessione
la calma prudente e ponderata.
26. – Nella visione pirandelliana del mondo alla Vita è
essenziale darsi Forma e insieme non esaurirsi in essa e, nel mondo
umano, creatore della Forma è il pensiero. Così,
mentre in altri artisti la riflessione la coscienza il pensiero
accompagnano sì lo svolgersi degli eventi interiori, ma
dall'esterno, proiettandovi sopra una fredda luce superficiale, onde
il dramma si genera e si consuma esclusivamente entro la sfera
dell'affettività della passionalità del sentimento, e
se anche il pensiero v'interviene non è in esso l'elemento
generatore del dramma, in Pirandello esso s'inserisce di momento in
momento nel divenire psicologico. I suoi personaggi si giustificano
si condannano si criticano si pensano nell'atto stesso di vivere
soffrire tormentarsi, non sentono solo ma ragionano o sragionano sui
loro sentimenti e ragionandovi o sragionandovi sopra li modificano,
li trasferiscono dal piano della mera affettività in un piano
di complessità superiore e più veramente umana, se
l'uomo è non solo sentimento, ma anche e soprattutto
pensiero, e se è vero che ragiona o sragiona soprattutto
quando soffre. Sentimenti, passioni, affetti, sempre il pensiero li
proietta davanti a sè, li colora di sè, li impregna di
sè, ma perciò appunto anch'esso a sua volta si colora
di essi e si riscalda della loro fiamma. Il pensiero qui è
vita e dramma, e si attua passo passo attraverso lacerazioni e
contrasti incessanti. Cerebralità, certo, ma
cerebralità che è dramma tormento passione. Il
pensiero pensante, che è attività spiegantesi
attraverso drammi contrasti lacerazioni continue e incessanti, si
colloca al centro del mondo artistico: con Pirandello la dialettica
si fa poesia.
27. – L'arte di Pirandello, contemporanea non solo cronologicamente
ma anche idealmente della grande rivoluzione spiritualistica e
idealistica avvenuta in Italia e in Europa ai primi del secolo,
trasporta nell'arte quell'antiintellettualismo,
quell'antirazionalismo, quell'antilogicismo che riempie di sè
tutta la filosofia contemporanea e che oggi culmina nel Relativismo.
Antiintellettualistica l'arte di Pirandello non perchè neghi
o ignori il pensiero a tutto beneficio del sentimento della passione
degli affetti, anzi perchè lo installa nel centro stesso del
mondo, potenza viva in lotta con le potenze vive e ribelli della
Vita. Antiintellettualistica, perchè nega che al pensiero
preesista un ordine di verità e di dati già bello e
fatto, già bello e determinato, di cui al pensiero non
rimarrebbe che prender conto, inchinandovisi sommessamente, ma arte
affermatrice del pensiero in quanto è tutta piena del dramma
del pensiero pensante, nuotatore infaticato che rompe le onde
tumultuose dell'oceano della Vita e si sforza e travaglia per
assoggettarle a sè. Il pensiero entra come lievito nella
pasta della Vita e la pone in fermentazione. Perciò la
realtà, che per altri scrittori è compatta omogenea
massiccia come un monolito, alcunchè di rigido e immobile
dato una volta per tutte e tutto in una volta, in Pirandello si
sfalda e si rompe in piani che s'ingranano l'uno nell'altro, l'uno
dall'altro si generano. Reale non è solo ciò che
comunemente si dice tale, ma anche, e allo stesso titolo, tutto
ciò che ci appare, nel calore di un sentimento, come tale: un
sogno profondamente sognato (cfr. la novella La realtà del
sogno), un ricordo (cfr. la novella Piuma) o una fantasticheria
(cfr. le novelle Se..., Rimedio: La Geografia, Il treno ha
fischiato) intensamente vissuti sono per chi li viva reali allo
stesso titolo di questo massiccio mondo di cose e di persone, al
quale soltanto siamo soliti dar nome di reale. Onde ciò che
è reale per uno può non esserlo o esserlo diversamente
per un altro, e quella che era realtà per uno si scolora ai
suoi occhi venuto meno il sentimento che la generava. In forma
scherzosa la novella Il pipistrello narra di uno di questi urti fra
piani diversi di realtà e i guai che ne nascono.
28. – Due commedie di Pirandello, sopra tutte le altre, ci mostrano
in azione questa vivente dialettica dello spirito: La ragione degli
altri e Sei personaggi in cerca di autore. Nella Ragione degli altri
una situazione si è determinata, la logica interna della
quale, di cui il personaggio centrale, Livia, ha la coscienza e il
possesso, sviluppandosi determina lo sviluppo dell'azione e conduce
i personaggi al solo fine ammissibile. Livia, moglie di Leonardo, ha
rotto ogni rapporto col marito da che ha saputo che egli ha
un'amante, Elena, con la quale ha avuto una figlia. L'amante stanca
vorrebbe rimandarle il marito, ed ella è ben disposta a
perdonargli, ma a un sol patto: che Elena le ceda la bambina che ha
avuto da suo marito e che ella alleverà come figlia propria,
con quegli agi che Elena, povera, non può darle. Elena le ha
preso Leonardo marito e glielo restituisce padre, e allora, padre, o
rimanga con lei presso la piccina o ritorni presso la legittima
moglie, ma con la bambina. Riaverlo a metà, marito con lei e
padre con l'altra, no. «Dove sono i figli è la
casa!», e Leonardo da Livia figli non ne ha avuto. «Due
case, no! Io qua e tua figlia là, no!» (atto II).
Questa la situazione, della quale Livia rappresenta e interpreta la
logica interna: il suo sentimento si è elevato al massimo di
razionalità possibile. Intorno ad essa gli altri personaggi
si muovono sopra piani disuguali, ma tutti inferiori a quello su cui
si muove Livia: in essi tutti la passionalità sovrasta la
ragione, in chi più, in chi meno. Ciascuno di essi difende un
suo particolare diritto: Elena, di madre, che vuol rimandare
Leonardo a Livia, ma tenendo per sè la bambina; Guglielmo, di
suocero, che vuole che a ogni modo, con o senza bambina, Leonardo
torni in pace con sua figlia Livia o che costei ritorni alla casa
paterna; Leonardo, di marito di nuovo innamorato di sua moglie e di
padre che a nessun costo vuole rinunciare alla bambina. L'azione
è una dialettica continua, attraverso la quale tutti questi
diritti e ragioni unilaterali vanno a poco a poco acquistando
coscienza della loro unilateralità e smontandosi di fronte al
diritto e alla ragione di Livia, che tutti li contiene e assorbe in
sè come momenti e perciò è superiore a tutti,
essendo interprete del bene della bambina che è il diritto e
la necessità più forte, della bambina cui essa toglie,
sì, la madre, ma gliene dà un'altra egualmente
affettuosa e il padre e in più la ricchezza e il nome.
29. – Nella Ragione degli altri noi vediamo in atto la dialettica
onde una verità o ragione superiore vince le verità o
ragioni inferiori. Nei Sei personaggi in cerca di autore vediamo in
atto la dialettica stessa del formarsi della verità o
dell'illusione, che è lo stesso. In questa mirabile commedia,
nella quale è ripreso e sviluppato un motivo accennato nella
novella La tragedia di un personaggio,1 Pirandello vuol
rappresentare scenicamente il travaglio e il processo attraverso il
quale il tumulto dei fantasmi, germinati dalla fantasia
dell'artista, frementi di vita ma, in un primo tempo, ancora confusi
e tenebrosi, ancora parzialmente caotici ed irrealizzati, aspira a
comporsi in una sintesi perfetta e armoniosa, grazie alla quale
quelle che l'artista non intuì dapprima che come macchie
più o meno distinte di colore si equilibrino in un quadro
ampio, luminoso, ben coordinato.
Si nasce personaggio artistico come si nasce pietra, pianta o
animale, e se la realtà del personaggio è
un'illusione, illusione è anche destinata a scoprirsi ogni
realtà quando sia mutato il sentimento che l'alimentava. Chi
è nato personaggio non solo, dunque, ha tanta vita quanta i
così detti uomini realmente esistenti, ma ne ha di
più, che quelli, trasmutabili per tutte guise, oggi son
questo e domani quello, e passano e muoiono, e il personaggio
artistico, invece, ha una sua vita immarcescibile, fissata per
l'eternità nelle caratteristiche essenziali della sua natura
che non cangiano nè possono cangiar mai. «La natura si
serve dello strumento della fantasia umana per proseguire,
più alta, la sua opera di creazione» (atto I). E, una
volta creato, il personaggio si stacca dal suo autore, vive di vita
propria, ed impone a quello il voler suo, e l'autore deve tenergli
dietro e lasciarlo fare. Un bel giorno sei personaggi, che il loro
autore aveva abbozzato e composto provvisoriamente in una trama
scenica che non svolse nè condusse a termine, si presentano
su un palcoscenico al Direttore di una compagnia a proporre che
permetta loro di rappresentare quel dramma che urge ad essi
prepotente ed incoercibile in seno. Non tutti questi personaggi sono
egualmente realizzati: due, i più importanti (il padre e la
figliastra), sono vicinissimi alla perfetta e compiuta realizzazione
artistica, qualche altro, invece, è poco più che
natura bruta, impressione cieca di vita (la madre), qualche altro
è realizzato liricamente e si ribella ad una realizzazione
drammatica (il figlio). Questi sei personaggi in cerca di autore non
sono tutti, dunque, su uno stesso piano di coscienza: sono la
realizzazione scenica dei piani di coscienza vari su cui si è
fermata in un primo e interrotto travaglio di creazione la fantasia
di un artista. La commedia di Pirandello vorrebbe realizzare
scenicamente il lavorìo di sintesi donde sgorga l'opera
d'arte, il passaggio dalla vita all'arte, dall'impressione
all'intuizione ed all'espressione. Il tumulto dei fantasmi appena
abbozzati e che, pregni di una incoercibile vita, che, data loro
dall'autore, non è più in poter suo di ritirare, che
perciò giocano a sopraffarsi l'un l'altro, ad essere ciascuno
il centro e il nucleo del lavoro, a tirare su sè tutto
l'interesse e la simpatia del direttore, è reso molto bene
attraverso un dialogo rotto affannoso convulso. Pirandello ha
intuito profondamente che qui, in questa eccentricità (nel
senso letterale della parola), in questo cieco precipitarsi a
svolgere sino in fondo ogni motivo ed ogni germe, è tutta
l'essenza della Natura e della Vita, ciò che la distingue
dallo Spirito e dall'Arte, che è coordinazione, sintesi,
disciplina, quindi scelta e sacrificio cosciente.
Ma questo, che dovrebbe essere il motivo centrale della commedia, e
che, effettivamente, la domina per tutto il prim'atto, non trova
sviluppo adeguato nel secondo e nel terzo, nei quali non vediamo
reso scenicamente il passare dei personaggi da un piano inferiore a
uno superiore, non li vediamo procedere dalla confusione all'ordine,
dal caos al cosmo artistico. Chi era natura resta natura, chi era
realizzato solo liricamente resta tale. La commedia non riesce a
venire alla luce. Perchè? Perchè il figlio si ribella
a far la parte in commedia, perchè egli non è nato per
far delle scene. La commedia fallisce, perchè invece di uno
spirito coordinatore i personaggi s'imbattono in un capocomico
qualunque che tenta improvvisarla, e un'opera d'arte non
s'improvvisa: non può essere un capocomico qualunque, senza
alcuna esperienza nè profondità d'artista, che vede
soltanto le così dette esigenze del teatro, a metter su in
poche ore una commedia, che può nascere solo da una
travagliosa elaborazione. Ma questa mi sembra una ragione
particolare, priva di valore universale, che non può
dimostrare e non dimostra nulla. Quale significato universale si
può trarre dal fatto che un mestierante di teatro è
incapace di svolgere in sintesi uno spunto abbozzato e lasciato
lì? di portare sino all'espressione completa personaggi nei
quali la vita infusa non si è espressa ancora?
Nel secondo e terz'atto il motivo dominante della commedia
s'intreccia con l'altro della deformazione che la vita vissuta
subisce passando attraverso lo specchio dell'arte (motivo che
ritorna nel primo atto di Vestire gli ignudi). Nel secondo atto
entra di nuovo in azione lo specchio malefico che rimanda
all'individuo la propria immagine, nella quale egli non si ritrova
nè si riconosce: vedendo infatti ripetere da attori, tutti e
solo preoccupati della verità scenica da realizzare, i gesti
da loro fatti e le parole da loro dette nell'impeto di una
irrefrenabile passione, i personaggi non si riconoscono più,
sono disorientati e ridono o si disperano. Lo specchio, in questo
caso, è l'arte scenica (ma quanto si dice di questa si
può dire dell'arte in generale), riflettendosi nella quale la
vita vissuta nel senso comune della parola, la vita dell'interesse e
della passione, appare a se stessa deformata e falsata. Ma
indugiandosi con ampiezza a svolgere questo motivo Pirandello non si
accorge che così, inconsciamente, dei personaggi, che,
ricordiamoci bene, sono fantasmi artistici più o meno
realizzati, fa degli esseri reali, li trasferisce dal piano della
fantasia sul piano della vita vissuta, e così introduce un
dualismo che vizia intimamente la commedia.
Ma v'è un terzo motivo ancora che, anch'esso, interferisce
con gli altri due aumentando la confusione. Dei sei personaggi in
cerca d'autore ognuno sa di già ciò che accadrà
a sè stesso ed a tutti gli altri: essi hanno la visione
totale del loro destino. Ogni qualvolta, ad esempio, il padre e la
figliastra si collocano a un certo punto della storia e tentano di
là di riprenderne il filo, è presente alla scena la
madre che sa già come andrà a finire, e che dalla sua
prescienza è indotta a non assistere passiva al corso
dell'azione, ma ad implorare che le sia risparmiato l'orrendo
spettacolo che sta per aver luogo. Così considerazioni
sentimentali possono insorgere a tentar di turbare la necessaria
architettura di un'opera d'arte, che ha la sua logica interiore, che
è quella che è e non può lasciarsi deviare da
riguardi al tenero cuore degli spettatori. Ma questo motivo andava
svolto più profondamente e messo in maggior rilievo. Si
aggiunga che il terzo atto, in fondo, non fa che piétiner sur
la place del secondo e che la fine della commedia è
assolutamente assurda: è una fine qualsiasi, messa lì
per chiudere comunque l'opera e far calare il sipario.
Ma nonostante questi errori di costruzione la commedia resta il
più forte tentativo fatto finora in Europa di realizzare
scenicamente un processo tutto interiore di stati d'animo, di
scomporre e proiettare sulla scena i piani e le fasi varie di un
fluente e continuo processo di coscienza. Tentativo già fatto
da altri in Italia, ma non mai con la violenza, l'audacia e la
vastità di ambizioni che ci si manifestano in questa
commedia. Il dramma che i sei personaggi portano in sè e che
non hanno espresso ancora (ne abbiamo visto il nucleo a § 19)
è tipicamente pirandelliano. Gli accenni che ce ne giungono,
pur rotti confusi incoordinati come sono e debbono necessariamente
essere, essendo ancor vita e non arte, sono quanto di più
intenso, potente, veramente tragico si può immaginare.
30. – I pericoli ai quali un teatro simile va esposto sono insiti
nella sua stessa natura e si riassumono in una parola sola:
cerebralità, e questa volta nel senso di arida escogitazione
intellettualistica. Certo, è innegabile che i personaggi
pirandelliani si somiglian tutti come due gocce d'acqua: più
che personaggi vari, essi appaiono come un solo e medesimo
personaggio collocato in situazioni sempre diverse e sempre
identiche. Certo, il progresso dell'arte pirandelliana è nel
senso non già di arricchimento, ma di approfondimento sempre
maggiore di una e medesima visione del mondo. Come tutta l'opera di
Pirandello aspira al teatro, così tutto il teatro di lui
aspira a un'opera perfetta che totalmente esprima l'intuizione
pirandelliana della vita: piramide aspirante a una punta che risolva
e comprenda in sè tutto ciò che è al disotto di
lei. Spesso il dramma è lo stentato e grigio rivestimento
scenico di una riflessione astratta o della trovata di una
situazione, che ha preceduto e si è sostituita alla visione
drammatica: le figure appaiono scarne e scheletrite, immobilizzate
in una smorfia, congelate in una mania che è il rivestimento
legnoso di una riflessione, di un tema. Il valore artistico si
rifugia tutto nei particolari di qualche scena. Le parole
circoscritte nel loro comune significato sono smorte e senza
irradiazione fantastica. Lo schema è di solito una strana
preparazione pittoresca in cui s'inquadra la riflessione astratta di
una verità psicologica o metafisica.
Ma nelle commedie nate da una viva e potente visione drammatica,
alla quale la riflessione astratta è coeva e non antecedente
(poniamo tra queste in primo luogo l'Enrico IV; i Sei personaggi in
cerca di autore; Il berretto a sonagli; Così è [se vi
pare] e qualche linea più giù Il piacere
dell'onestà; Pensaci, Giacomino!; L'innesto; Come prima,
meglio di prima; Vestire gli ignudi) ciò che vi è di
ligneo e di scheletrito è imposto dalla peculiarità
stessa dell'intuizione drammatica pirandelliana, ma sotto quel gelo
e quella morte si sente fremere cupa sorda sotterranea la vita che
alla fine prorompe, gemere uno spasimo rappreso che alla fine si
scioglie in lagrime. Rimanendo sempre estremamente semplice (la
più sobria e nuda, la più lontana dall'equilibrio
letterario, la più veramente parlata che si sia mai sentita
sui nostri palcoscenici), la lingua di questi drammi è agile
arguta mobile ricca di sugo scoppiante d'intima vitalità; il
dialogo stringato, minuto, senza sviluppi ornamentali, con immagini
immediate e aderenti, mirabilmente si piega a seguire le
sinuosità del divenire psicologico.
31. – E tutta l'arte di questo grande scrittore ci sembra presa in
un magnifico movimento ascensionale. Ci sembra che egli vada man
mano liberandosi da quello che nei primi lavori teatrali ci sembrava
il suo difetto maggiore: lo «squilibrio tra la contingente
particolarità e picciolezza dei risultati e la
grandiosità metafisica delle pretensioni con cui Pirandello
si muove all'opera» (Voci del tempo, p. 86). Squilibrio tra la
grandiosità metafisica delle intenzioni e la vicenda che
avrebbe dovuto scenicamente esprimerle e realizzarle: vicenda agita
da povere piccole miserevoli creature piccolo-borghesi, abitanti in
sperdute cittaduzze di provincia, pensionanti di piccole pensioni,
frequentatori di circoletti paesani, respiranti un'atmosfera grigia,
cupa, avvilita. Come, ad esempio, vedere incarnato il dramma
universale del conoscersi = morire nella storia della cortigiana
Fulvia che, dopo molti anni vissuti lontano dal marito
nell'abbiezione più vergognosa, ritorna in casa e si
contempla nel concetto che di lei si è fatto la figlia Livia,
la quale non sa nè può sapere di avere in lei la
madre; o nella storia del consigliere di Stato Martino Lori, che
dopo sedici anni d'incredibile dabbenaggine si accorge che nè
moglie nè figlia furono mai sue? Straziante il dolore
dell'infelice nel terz'atto di Tutto per bene, ma per parteciparvi
bisogna ammettere in lui una cecità assolutamente incredibile
o, per lo meno, più unica che rara, che ce lo rende subito
lontano e quasi estraneo. Certo, anche in questi primi drammi,
quando il significato che Pirandello vuole spremere dalla vicenda e
la vicenda stessa riescono a comporsi in armonico equilibrio si
hanno degli autentici capolavori, come il Berretto a sonagli. Dove
questo equilibrio non è raggiunto, la bellezza si rifugia nei
particolari di qualche scena o personaggio, per lo più nelle
scene finali, quando la maschera salta per aria e il volto dolente
appare libero alla luce. Ma nei Sei personaggi e in Enrico IV lo
slancio metafisico spezza gli angusti e meschini quadri di cui una
volta si contentava, si dà libero gioco in vicende di
più ampio respiro. Il dramma pulsa di vita più fresca
e possente, il tormento metafisico che gli è sotto si
conquista più adeguata espressione. I motivi sono sempre
quelli, ma la tragedia si svolge in atmosfera più alta e
più pura. E Pirandello non ha detto ancora la sua ultima
parola. Ci sembra che egli vada ora sempre più acquistando
coscienza di quello che è il suo originale nucleo drammatico.
Un primo progresso l'artista siciliano compiè quando,
superata la fase della novella paesana, regionale, naturalista alla
Verga e quella, posteriore, della novella scettica, ironica, a
trovata, e passato dalla novellistica e dal romanzo al teatro,
riuscì a stringere in rapporto drammatico quei motivi che
nella sua anteriore produzione novellistica e romanzesca giacevano
l'uno accanto all'altro senza rapporto sostanziale fra loro, quasi
materie esplosive cui mancasse la scintilla per levarsi in fiamma.
Nella produzione anteriore al Fu Mattia Pascal la sintesi umoristica
(dello speciale umorismo pirandelliano) non è ancora
veramente conquistata. Pirandello tenta raggiungere l'effetto
artistico attraverso la forma narrativa drammatica pessimista, alla
Verga, ma la negazione dell'intelletto gl'impedisce di aderire con
tutta l'anima ai travagli e alle ambasce delle sue creature. Egli
vorrebbe farci vivere come dramma ciò che già nel suo
animo è superato in una specie di filosofico e l'assegnato
umorismo. In questa fase della sua arte il sentimento e la
riflessione sono giustapposti più che fusi e si disturbano a
vicenda. Questo stato d'animo trova la più felice espressione
nel Fu Mattia Pascal, in cui il dolore è superato in una
rassegnata accettazione di esso nella convinzione della sua assoluta
inutilità. Dopo questo romanzo, l'arte di Pirandello si
sviluppa nel senso di rendere sempre più intima la sintesi
dei due elementi che le sono a fondamento, sì che la
riflessione si generi a un parto col sentimento, quasi ombra che
questo proietta. L'angoscia viva va sempre più eliminando da
sè ogni felicità ironica, ogni indifferenza espressiva
e sfumatura intermedia, ed esprimendosi in forme sempre più
scarne nude convulse. È allora che nasce come intima esigenza
creativa il dramma pirandelliano. Un secondo progresso l'artista ora
va compiendo nel senso di stringere sempre più da vicino
l'espressione di quello che è il suo autentico nucleo
drammatico in tutta la sua purezza e in tutta la sua metafisica
universalità. I progressi fatti finora ci sono promessa
sicura del capolavoro che non può mancare, in cui
l'intuizione pirandelliana della vita conquisterà ed
esprimerà pienamente tutta sè stessa.
Per ora tanto è certo: che con Pirandello per la prima volta
la letteratura italiana scopre che lo spirito non è quella
cosa semplice e a due dimensioni che finora aveva creduto, che esso
è una voragine di cui lo sguardo non tocca il fondo, una
inesplorata regione risonante di strane voci, percorsa a volo da
fantasmagoriche visioni, popolata di mostri sconosciuti, dove la
verità e l'errore, la realtà e la finzione, la veglia
e il sogno, il bene e il male lottano in un groviglio confuso, nella
penombra del mistero.