IL CONCETTO DI LAVORO NELLA CIVILTA’ FAUSTIANA

Pasquale Lucio Losavio

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   4.1 L’Homo faber: il contesto storico.

     Homo faber viene pubblicato nel 1929, ben otto anni dopo le analisi della Crisi mondiale e di Relativisti contemporanei, il clima storico e culturale è decisamente mutato. Tilgher ne viene influenzato nel suo atteggiamento teorico. Rimane fedele alla sua costante attenzione al mutare degli avvenimenti, coerente con la sua visione dello stretto legame tra vita e filosofia per cui, restando fermi alcuni motivi legati all’essenza, quasi genetica, del pensatore, tutto il resto si modella sul perenne e irrazionale fluire della Vita e della Storia.

     La stretta operata dal regime fascista sulla libertà di espressione dopo l’attentato a Mussolini, la chiusura del Mondo di Giovanni Amendola e, infine, le misure di pubblica sicurezza cui Tilgher viene sottoposto, fanno si che il suo atteggiamento si faccia formalmente prudente. Insieme a tutto ciò, si acuì, in lui, la consapevolezza che, ormai, le visioni della Crisi mondiale, cioè l’imminenza inevitabile del crollo della società borghese, si allontanavano. Nasce in lui la convinzione che le spinte disgregatrici possano essere convogliate nell’ambito di una società modernizzata e tecnicizzata che allontani da sé la prospettiva di una fine imminente.

     La valutazione sul futuro della società capitalistica si fa meno catastrofica. Gli anni in cui maturano le analisi di Homo faber, vedono la stabilizzazione del regime ( sono gli anni del Concordato con la Chiesa ) e l’aprirsi di un vivace dibattito sulla possibilità di una svolta modernizzatrice del Fascismo. Si spiegano così i giudizi positivi, di Tilgher, sui nuovi processi di razionalizzazione del lavoro o, per esempio, sui contenuti della Carta del Lavoro fascista considerata superiore alla legislazione sociale del bolscevismo.

     E’ una parentesi ottimistica nella prevalente cupezza delle visioni tilgheriane, un atto di fiducia nella razionalità dei processi in atto nella società. La fiducia che questi processi potessero frenare la disgregazione della Civiltà capitalistica, risolvendo in unità i conflitti sociali.

     In Homo faber, Tilgher intende analizzare come il concetto di lavoro si è trasformato lungo i secoli sino ad arrivare al concetto di lavoro proprio della Civiltà capitalistico-faustiana che, impregnando di sé tutti gli ambiti, la definisce fin nella sua animità. Il concetto di lavoro viene sentito come il motore interno, il fulcro ideale, attraverso il quale si può penetrare nell’anima stessa di una determinata Civiltà.

     Il problema della ‘santità’ del lavoro era poco sentito, all’epoca, come concetto filosofico, interessava poco i filosofi, mentre era stato approfondito dai sociologi e dagli studiosi di economia, attenti ai processi di razionalizzazione del lavoro e, in special modo, alla nuova organizzazione del lavoro all’interno delle fabbriche. Da questo punto di vista, possianmo considerare, ad esempio, che le analisi di Homo faber, anticipano, da una prospettiva filosofica, le stesse analisi che il Gramsci dei Quaderni, più tardi, affronterà in Americanismo e fordismo.

   4.2 Le matrici filosofiche: Bergson, Fichte, Marx.


     Homo faber è sicuramente il libro di Tilgher più conosciuto all’estero. Già dallo stesso titolo dell’opera è chiara la matrice bergsoniana della concezione di Tilgher. Homo faber è un concetto chiave dell’évolution créatrice ( 1907 ) di Bergson che opera la distinzione tra uomo e animale proprio sulla base della capacità, dell’uomo, di atti intelligenti che si trasformano in capacità di fabbricare oggetti, utensili, che poi adopera nell’attività fabrile.

   Tilgher celebra il pensiero di Bergson, indicandolo come il teorico della civiltà industriale e ponendo uno stetto legame tra l’élan vital bergsoniano e l’impulso umano alla costruzione tecnica.

     “L’umile strumento produttivo, la macchina…diventa qualcosa attraverso cui l’evoluzione creatrice perpetua il suo sforzo incessante di creazione…E’ rinuncindo all’istinto, allo strumento organico, è buttandosi a fabbricare strumentri artificiali che la vita attraverso l’uomo assicura la perennità dello slancio vitale che era andato ad impantanarsi nelle sabbie dell’istinto e preserva e perpetua la libertà. Nel pensiero di Bergson, dunque la tecnica industriale dell’uomo è la continuazione, nel senso più rigoroso della parola, dello slancio vitale che ha creato i mondi…Nessun filosofo ha mai posto più in alto, ha più degnamente celebrato il lavoro produttivo dell’uomo. Nessuno prima di lui aveva detto con tanta chiarezza che è in quanto fabbro che l’uomo celebra la sua divinità. E’ grazie a Bergson che homo faber diventa homo sapiens.”

     E’ certamente una visione unilaterale del pensiero di Bergson. Lo stesso Bergson avvertirà in seguito i pericoli insiti in una visione così celebrativa del lavoro fabrile. Anche Hannah Arendt rileva, nel suo Vita activa, il nesso stretto tra la scuola bergsoniana e il pensiero di Tilgher, il quale “…sottolinea il carattere centrale dell’idea del lavoro, chiave della nuova concezione e immagine della vita.”

     Bergson concepisce la tecnica come “…motore ultimo della storia…” e in ciò è in accordo con Marx ma , la sua filosofia, va ancora oltre in quanto “la sua filosofia della tecnica supera i confini della filosofia della storia, diventa un capitolo della storia della Vita e dell’Universo.” Raggiungendo così “…le profonde intuizioni dei grandi maestri della Rinascenza italiana: Marsilio Ficino e Giordano Bruno e dei mistici ebraici.”

     Il capitolo in cui sono inserite queste considerazioni, Il concetto di lavoro nella filosofia del secolo XIX, è teso a dimostrare che “da Kant al Pragmatismo e a Bergson la curva di sviluppo della filosofia dello spirito tende sempre più alla concezione dello spirito come produttività, come fattività, come demiurgicità, e alla concezione di questa come fabbrilità, come lavoro industriale.”

     “Il mondo, la natura, rimanda alla Conoscenza: afferma l’idealismo kantiano e postkantiano. La Conoscienza rimanda alla Volontà e alla Vita: affermano con sempre maggiore coscienza le correnti irrazionalistiche e vitalistiche dell’ultimo mezzo secolo di speculazione. Il mondo è in quanto lo spirito lo conosce. Lo spirito conosce in quanto conoscere è funzione ineliminabile e necessaria del volere, del vivere. E vivere è sempre, in vario modo, realizzarsi come unità attraverso il caos della molteplicità, è sempre imporre un ordine al disordine, senso all’insensato, è sempre sforzo tensione fattività demiurgicità, in una parola: lavoro.”

     Antesignano di questa concezione demiurgica è senz’altro Fichte. Un autore certamente vicino alle concezioni tilgheriane e da lui approfonditamente studiato. La tensione che arde nell’uomo moderno di dominare la natura, senza che mai questa tensione si plachi in una calma contemplazione, ma sia sempre una febbre di attività che si svolge all’infinito con un Io che deve ridurre alla disciplina il non-io, che sempre gli si pone contro, è sicuramente di derivazione fichteana. Tilgher accomuna in questa concezione anche Marx come il lettore più coerente dell’ ‘idealismo soggettivo fichteano’.

     “Secondo Marx, che in ciò è fedele discepolo della Dottrina della scienza di Fichte, lo spirito umano è una forza o potenza inizialmente vaga indeterminata incosciente, che acquista coscienza determinazione concretezza solo a patto di avvertire in sé, sotto forma di urto e di arresto, un limite che le impedisca di espandersi liberamente. Il limite, in quanto avvertito e sentito come tale, trasforma quella forza vaga diffusa indeterminata in bisogno acuto e pungente, in cocente insoddisfazione, e perciò stesso la spinge ad urtare contro il limite, a cercare di rimuoverlo e annullarlo. Il limite, l’oggetto, ha così doppia funzione: da una parte arresta, dall’altra stimola l’attività…Esso è, insieme, negazione e condizione dell’attività.”

     “Così, in questa concezione di Marx il lavoro assurge ad importanza demiurgica. Filosofare è agire, è produrre, è lavorare. Conoscere il mondo è trasformare il mondo. Il vero filosofo è il lavoratore. In questo senso Marx disse che il proletariato rivoluzionario era il legittimo erede della filosofia classica tedesca.”

     E’ su questa visione di ‘demiurgicità’, che presuppone sempre una materia su cui operare ed è quindi differente del concetto di ‘creazione’, si fonda la ‘visione moderna della vita’ che Tilgher intende avvalorare con il suo Homo faber.

 
   4.3 Il concetto di lavoro nella storia.

     Fedele alla sua visione della intima diversità tra mondo antico e mondo contemporaneo, ‘la visione moderna della vita’ è in netto contrasto con la visione che, del lavoro, ha la civiltà classica.

     “I Greci sentiranno il lavoro essenzialmente come pena e dolore: basterebbe a dimostrarlo il fatto che la parola che in greco significa lavoro, ponos, ha la stessa radice della parola latina poena…e per i Greci, invece, esso andava inseparabilmente congiunto ad ogni specie di lavoro materiale.”

     L’atteggiamento di disprezzo e il senso di infelicità legati al lavoro, “…è causa ed effetto insieme dell’istituto della schiavitù.”Ma tutto discende e converge nella generale esperienza e visione del mondo ellenica.

     “Per il Greco ( l’ho dimostrato ne La visione greca della vita ) il mondo esterno delle cose e degli oggetti è divenire senza fine di fenomeni che sorgono e trapassano, nascono e muoiono, si generano e si corrompono, girando continuamente in circolo sopra sé medesimi, senza principio ne fine, in una vicenda incessante, eterna e vana. Salvarsi dall’oceano in perenne tempesta del mondo esteriore e ritirarsi nelle profondità della propria anima, sottratta al cangiamento, assorta in una inalterabile identità: tale l’ideale che il Greco assegna alla vita.”

     Una visione che richiama alla mente l’ ‘eterno ritorno’ nietzscheano in cui sono inutili gli sforzi umani di modificare un mondo che ritorna eternamente uguale e rende inefficacie la ‘demiurgicità’ dello spirito. Stranamente il nome di Nietzsche non appare in Homo faber. Il mondo greco appariva a Tilgher come il regno di un ‘misticismo della calma’, di una saggezza serena, che proprio Nietzsche aveva sconvolto demolendo il mito apollineo dello spirito greco. E del resto anche nel mondo classico, la concezione del lavoro, aveva risvolti ben più complessi di quelli del solo disprezzo e rifiuto.

     Dove il lavoro, pur rimanendo pena e dolore, trova una prima giustificazione è nel mondo ebraico. Il lavoro diventa espiazione sulla Terre del peccato originale. L’ebreo con il lavoro riscatta il peccato dei progenitori, ma è con il riposo del sabato che partecipa del Divino: “Col riposo del sabato l’uomo partecipa all’altissima quiete che seguì i giorni della creazione, e affranca per un po’ sé stesso e le creature, intelligenti e brute, che sono al suo servizio dalla dura legge del lavoro.”

     La prospettiva comunque comincia a cambiare, lo sguardo sul mondo e la vita comincia a mutare.

     “Il mondo così non è semplicemente essere, è dover essere; non è realtà già data e compiuta che si tratta solo di contemplare, è un ideale che deve essere realizzato dallo sforzo dell’uomo; la vita non è eterno ritorno sempre delle medesime cose e dei medesimi eventi, è graduale e continuo processo di restaurazione dell’armonia primigenia distrutta. Il termine di questo processo si proietta alla fantasia ebraica come il Regno di Dio in terra, inteso come restaurazione dell’antica armonia tra giustizia e felicità da attuarsi tutta in una volta e una volta per tutte per divino soprannaturale subitaneo intervento.”

     Da un lato l’attesa escatologica e la febbre messianica distolgono l’attenzione dal lavoro materiale, dall’altro, nella letteratura rabbinica, l’attesa si stempera in una graduale realizzazione del Regno di Dio in Terra, che rivaluta la dignità del lavoro. Tuttavia, il Regno di Dio è ancora il regno dell’ozio beato, dove tutto ci è concesso senza sforzo. E’ il ritorno allo stato originario del Paradiso terrestre.

     Con Gesù, nella veste contraddittoria rispetto all’argomento che ne danno i Vangeli, il lavoro e le ricchezze cessano di essere un male, diventano semplicemente indifferenti.

     “Lavoro e ricchezza sono da Gesù condannati solo in quanto generano preoccupazione delle cose materiali ed effimere, e ne sono generati, e perciò distolgono da Dio e dal Regno, la sola cosa che importi. In sé e per sé. essi sono per Gesù qualcosa di eticamente indifferente, che diventa eticamente negativo sol quando per esso l’uomo si attacca al mondo e dimentica Dio. L’antitesi escatologica tra felicità materiale e valore religioso è così superata.”

     Nel primo Cristianesimo, in cui è ancora viva l’attesa escatologica, il lavoro diviene solo lo strumento con cui si estrinseca l’amore e la carità verso i fratelli. In questo senso è positivo.

     “Nondimeno, nessun valore intrinseco, nessuna autonoma dignità è ancora riconosciuta al lavoro. Se questo ha una qualche nobiltà spirituale, essa gli viene esclusivamente dal fine cui serve come mezzo. Per sé, non ha importanza né valore alcuno.” Naturale in una comunità che, pur vivendo nel mondo terreno, ne attende la fine e non sente alcuno stimolo a migliorare, col lavoro, le proprie condizioni.

     La Chiesa, con il suo progressivo incarnarsi nel mondo, con l’allontanarsi della spinta escatologica, si pone con maggiore urgenza il problema del lavoro. Sono Agostino e Benedetto che danno una prima sistemazione del problema. L’esempio che si addita è il lavoro dei monaci nei chiostri. Il lavoro è visto come mezzo di purificazione e di carità e non deve mai superare i bisogni della semplice sussistenza. Ma ancora il lavoro non è un valore a sé stante, è sempre relegato in un ambito subordinato rispetto alla nuda contemplazione delle cose divine. “Perciò ogni profondo impulso a legarsi alla terra e a mutarne l’aspetto col lavoro è stroncato alla radice.” Il fine dell’uomo non è mutare la faccia a questo mondo perché egli partecipa di un mondo, il Divino, già compiuto e perfetto.

     Per la sintesi scolastica di Tommaso, il lavoro diventa necessità di natura ed unica fonte legittima della proprietà e del guadagno. La mobilità sociale viene esclusa. le corporazioni e i ceti sono come fissati in gerarchia dalla legge divina. Le cattedrali offrono, nelle loro raffigurazioni, esempi del lavoro quotidiano che acquista un valore nel senso di una fatica religiosamente sentita e sopportata. L’usura è condannata, ma non l’uso industrioso del danaro  che non è ne bene ne male. Il giudizio morale dipende dal suo uso.

     “Lavoro, dunque, sì, ma solo nei limiti della legge di natura che è legge divina.E dinanzi a questa legge il lavoro non assurge mai alla dignità di fine autonomo, resta semplice mezzo subordinato allo scopo che è la vita, così come questa non assurge mai alla dignità di fine in sé ma resta semplice mezzo subordinato al vero scopo che è l’aldilà. Il lavoro fine a sé stesso, il lavoro pel il lavoro è un concetto che la Chiesa ripudia per la stessa logica interiore per cui respinge il concetto della vita fine a sé stessa.”

     “Fu il Protestantesimo ad operare nel concetto di lavoro quella profonda rivoluzione spirituale in forza della quale esso è giunto ad essere il concetto base e chiave della visione moderna del mondo e della vita.”

     Il lavoro, per Lutero, è servizio divino e la parola tedesca beruf diviene sinonimo di vocazione, acquistando valore religioso. “Se l’attività, ogni attività, in quanto tale, è divina, cade ogni ragione di differenza tra servizio divino e lavoro quotidiano, tra culto e professione. Il principio della giustificazione per la sola fede negando il valore delle opere buone in quanto tali permette che le energie si volgano tutte al mondo della materia.”

     La rivoluzione viene portata avanti da Calvino. Il concetto di predestinazione, invece di condannare l’uomo all’inazione, lo stimola angosciosamente a verificare nella vita terrena, attraverso i frutti del proprio lavoro incessante, le scelte imperscrutabili di un Dio da cui lo divide un abisso.

     “L’individuo è fronte a fronte con l’imperscrutabile maestà dell’onnipotenza divina, in una solitudine sacra e infinita: nel terribile silenzio che gli si è fatto intorno egli non ode più che la voce della sua coscienza che gli parla della sua elezione, della sua responsabilità illimitata, dell’obbligo che gli incombe di servire Dio e di manifestarne in terra la gloria.”

     “Si sprigiona così un attivismo duro, volontario, teso, che ignora effusioni sentimentali, slanci del cuore, estasi mistiche, tumulti passionali. L’individuo assogetta sé e il mondo, cose e persone, a un’implacabile disciplina volitiva e razionale perché dal mondo negato e spezzato nella sua immediatezza e plasmato secondo la volontà e i piani della comunità degli eletti splenda la gloria della divina maestà. Il calvinista agisce sul mondo delle creature, ma senza nessun amore per la creatura in quanto tale. Questa è per lui mezzo e non fine, strumento e non meta, e vale solo pel fine sacro cui è assogettata. Il calvinista è nel mondo e agisce sul mondo, in vista non già del mondo, ma del sopramondo: egli è un aceta mondano.”

     Tilgher, aderendo qui alle note tesi di Weber e Troeltsch, afferma che, con il Calvinismo, si plasma un nuovo tipo umano, l’uomo della Civiltà capitalistica. “…è il lavoro metodico, disciplinato, razionale, uniforme, perciò specializzato. Scegliersi una professione ed esercitarla con tutta coscienza è dovere religioso. Il Calvinismo getta così le basi della tremenda disciplina della fabbrica moderna ( ben diversa dalla molle disciplina dell’artigianato ), tutta fondata sulla divisione del lavoro.”

     Ancora, nel Calvinismo, il concetto di lavoro si confonde col sentimento religioso. La definitiva laicizzazione del lavoro avviene gradualmente attraverso i mutamenti filosofici e di mentalità che dal Rinascimento in poi porteranno “l’ascesi mondana del Calvinismo…a trasformarsi in misticismo attivistico razionalistico laico.”


   4.4 La tecnica, le macchine, l’operaio.

     Il concetto di lavoro tende sempre più ad impregnare di sé tutto il ‘mondo della vita’ della società moderna. E si laicizza sempre più sotto la spinta dell’inarrestabile sviluppo della tecnica, che viene vista in un modo del tutto nuovo: la sua è una applicazione sistematica a tutti gli ambiti della vita. La scienza, mano a mano che progredisce e si lega all’esperienza, interroga la materia quasi torturandola per obbligarla a rispondere alle sue domande.

     Lo sviluppo della tecnica e delle macchine porta con sé un cambio radicale di prospettiva. Come il denaro, investito in attività produttive, procura altro denaro da investire ancora, in un ciclo di autoriproduzione, così

     “La macchina…genera sé medesima. Nella macchina di oggi rivivono capitalizzate e fuse come momenti ideali, negate nella loro indipendenza, ma assorbite come elementi, le macchine del passato. Si potrebbe raffigurare lo sviluppo della tecnica negli ultimi quattro secoli come un immenso ininterrotto processo di autogenerazione di una macchina mostruosa, che più avanza negli anni e più prontamente e tirannicamente comanda al tempo e allo spazio. A questo processo di sviluppo, a differenza di quello degli organismi naturali, non si possono prescrivere confini. Virtualmente, al limite, il raggio d’azione della macchina si estende all’universo. Triturare la materia del mondo, ridurla fluida e plastica, violentabile in tutte le guise secondo gli scopi umani, tale è il fine-limite della macchina. L’uomo appare a sé stesso artefice di una capacità demiurgica illimitata, che va man mano sostituendo alla natura naturata una natura opera e fattura sua, una natura di laboratorio. Egli ottiene gli stessi prodotti della natura, ma con processi diversi, e ai prodotti della natura ne aggiunge infiniti altri che in natura non sono, alla natura naturale sovrapponendo così a poco a poco un’altra natura di origine e destinazione umane.”

     Abbiamo voluto riportare questo lungo passo tilgheriano, oltre come esempio della sempre suggestiva sua prosa, perché emblematico di una stato d’animo e della particolare ambiguità del suo sentire. Sembra affascinato e rapito dal vorticoso ed inarrestabile progresso tecnologico ma, nello stesso tempo, si avverte il timore, lo sgomento di un uomo che vede, profeticamente, i pericoli di uno sviluppo che violenti la natura, la torturi e crei un mondo artificiale forse non più controllabile.

     “Da questa esperienza sgorga e su di esse reinfluisce intensificandole e accelerandole l’ideologia del Progresso illimitato per mezzo della scienza e della tecnica, concetto, questo, affatto ignoto al mondo antico e medievale. E nel primo fiammeggiare delle speranze l’uomo non concepisce limiti alla sua capacità demiurgica, al Progresso: non v’è cosa che egli non creda di poter conquistare, non v’è nemico che egli non speri di poter atterrare, il tempo lo spazio la povertà la malattia la vecchiaia e la morte stessa. Le invenzioni tecniche susseguendosi incessantemente, e l’una rendendo inutile quella precedente nello stesso tempo che la contiene in sé come momento superato, lo spirito d’immobilità riceve un colpo motale. L’uomo cessa di pensare il mondo sotto la categoria statica dell’Essere, dell’Essenza, della Cosa, si abitua a pensarlo dinamicamente, come travolto nel turbine di un divenire incessante.”

     Queste le categorie filosofiche della Civiltà moderna che vengono incarnate da un uomo di tipo nuovo: l’imprenditore. La cellula vivente della Civiltà faustiana diventa l’impresa che vive solo per espandersi indefinitamente.

     “Così, sotto la doppia pressione della necessità economica e tecnica, si accende nell’imprenditore moderno una divorante furia di attività, una febbre di lavoro, la quale non ha più altro scopo che sé stessa, e che considera sé stessa non già come mezzo per la conquista della ricchezza, per il raggiungimento del lusso e del piacere, ma come fine a sé medesima. Da questa visuale psichica imprenditore ed impresa fanno tutt’uno e la vera ricompensa che l’imprenditore chiede al suo lavoro è nel ritmo di vita sempre più intenso e vorace di cui palpita e vibra l’impresa, è nello slancio vitale sempre più gagliardo e potente che porta l’impresa a crescere nello spazio e nel tempo, è nella volontà di potenza sempre più aspra e più dura, grazie alla quale l’impresa vive e dura e combatte e vince.”[28][228]

     Con immagini sorprendentemente simili, anche Oswald Spengler, ritrarrà, nel suo L’uomo e la tecnica, il vorticoso evolversi della tecnica e il suo significato per la civiltà faustiana. Anche per lui, i nuovi eroi di questa civiltà sono gli imprenditori dotati per natura dell’istinto predatorio.

     “Si tratta ancora una volta di autentici predatori…Questa volontà di potenza se ne infischia di tutti i limiti spaziali e temporali: essa ha come scopo specifico l’illimitato e l’infinito, sottomette intere parti della terra, avvolge il globo intero con le forme del suo traffico e del suo sistema d’informazioni, per poi trasformarlo con la forza della sua energia pratica e con la mostruosità dei suoi procedimenti tecnici.”

     “E queste conseguenze sono mostruose. Il piccolo gruppo dei dirigenti nati, degli imprenditori e degli inventori, costringe la natura a fornire un lavoro che viene misurato in milioni e miliardi di cavalli vapore, e rispetto al quale il quantum di forza corporale umana non significa più nulla. Non si comprendono certo i misteri della natura meglio di prima, ma prende ora il sopravvento l’ipotesi operativa, che non è ‘vera’, ma soltanto adatta allo scopo, e con il cui aiuto si costringe la natura a obbedire a un comando umano che si esprime tramite una leggerissima pressione su un pulsante o su una leva.”

     Il libro di Spengler è del 1931, e la consonanza di temi e l’analogia del sentire è evidente. Tilgher aveva letto e studiato in modo approfondito lo Spengler del Tramonto e rivendicava anche lì la primogenitura di talune visioni. Sia in Spengler che in Tilgher, la considerazione della tecnica come un destino inevitabile che bisogna accettare, si coniuga con la certezza del declino inesorabile della civiltà faustiana. Le conclusioni, però, si tingono di sfumature diverse. Come afferma Gennaro Sasso, la visione tilgheriana è meno accentuatamente deterministica di quella di Spengler, si colora di una attesa fiduciosa, di una fede speranzosa nella capacità del sistema capitalistico di autocorreggersi, autoemendarsi e sfuggire al suo destino.

     Tra le pieghe mostruose della tecnica e il destino crudele in cui, la società capitalistica, relega la maggior parte dell’umanità, tra le miserie in cui sono costrette a vivere masse sterminate di uomini, Tilgher intravede, ad esempio, per l’operaio, un futuro più degno e vivibile in cui parte della sua vita potrà essere destinata ai bisogni spirituali.

     “Soprattutto per l’operaio il problema è di una impressionante gravità. La macchina, e la divisione del lavoro che dalla macchina è inseparabile, hanno meccanizzato spersonalizzato anonimizzato il lavoro dell’operaio. La creatività è oggi tutta nella macchina e del suo inventore. L’operaio è ridotto a schiavo della ruota, a servo della puleggia. Persa ogni spiritualità creatrice, la sua attività si riduce alla ciclica ripetizione sempre dei medesimi gesti, sempre degli stessi movimenti, da attività spirituale si è oscurata in abitudine, si è degradata in meccanismo. L’operaio è stato espulso dal regno dello spirito e relegato nel muto regno della natura.”

     “…l’evoluzione della civiltà capitalistica, se da una parte tende sempre più a fare dell’operaio una ruota, dall’altra, con l’accorciamento della giornata di lavoro, con la frequenza dei giorni festivi, con gli alti salari, con l’abbondanza del credito al lavoratore, con l’incoraggiamento al consumo, tende a rendere sempre più facile all’operaio tornato a casa di partecipare alla vita dello spirito e alla cultura in un grado ignoto alle antecedenti civiltà.”

     Del 1932 è Il lavoratore di Ernst Junger, altro cantore disincantato della civiltà della tecnica, il cui unico dominatore è l’operaio, il nuovo tipo umano forgiato nelle ‘tempeste d’acciaio’ della guerra, e irreggimentato dalla ferrea disciplina della fabbrica.

     Tilgher, dal canto suo, cosi ne sintetizza le caratteristiche: “La macchina non concedendogli un istante di distrazione, lo forza alla disciplina, all’auto-controllo, alla temperanza; abituandolo a sentire il suo lavoro personale accordato al ritmo di una grande officina, sviluppa in lui il senso dell’organizzazione e della solidarietà, lo avvezza alla responsabilità e al comando: crea, così, nell’operaio, almeno le basi di una più alta spiritualità.”

 
   4.5 La “visione moderna della vita”.

     In verità, per Tilgher, chi incarna la nuova visione della vita, la religione del lavoro, l’uomo demiurgo plasmatore, col suo lavoro, della materia, è l’imprenditore. E’ un Tilgher che si esprime, come sottolinea Antimo Negri, in una terminologia fichteano-marxiana. Così Tilgher definisce la sua ‘visione moderna della vita’.

     “Consciamente od inconsciamente, l’uomo estende all’universo e proietta su un piano cosmico le esperienze fatte nelle officine ove l’attività industriale va trasformando la materia del mondo. L’industria spinge più lontano il limite che la materia oppone allo sforzo dell’uomo, ma quel limite, respinto, risorge, e lo sforzo dell’uomo, reso più forte dalla precedente vittoria, si applica di nuovo a respingerlo ancora più lontano, e così all’infinito. Per l’attività industriale la materia è un limite mobile che, sì, incessantemente risorge, ma per essere indefinitamente respinto sempre più lungi: è, insieme, il colpo d’arresto allo sforzo dell’uomo e il punto fermo appoggiandosi al quale esso può far presa sul mondo. La visione moderna della vita proietta su un piano metafisico questo schema dell’attività industriale. Per l’uomo moderno lo spirito è essenzialmente attività ( sforzo, volontà, azione, prassi ), che ha per destinazione, non già di specchiare passivamente il mondo e di darne un duplicato ideale, ma di costituirlo come mondo ( cioè come cosmo, come regolare ordinanza di cose e di oggetti ) traendolo da un’amorfa molteplicità, da un plastico e fluido caos, che lo spirito trova, sì, in sé, ma non come posto da sé, dal quale non può mai del tutto affrancarsi, ma sul quale può indefinitamente agire, traducendovi sempre più adeguatamente l’ordine ideale che interiormente gli splende.”

     Negri avverte che, questa concezione demiurgica, che sposta sempre più in avanti il limite e non esaurisce mai l’essere nel conoscere-volere dell’homo faber o dell’homo tecnologicus, “presuppone, contro la legge dell’entropia, l’inesauribilità delle risorse naturali.” Ciò apre problemi e scenari elusi da Tilgher. Per lui, l’homo faber si realizza come attività infinita, come infinita libertà. “Al limite ideale l’uomo è padrone del mondo, è suprema potenza, è Dio.”

     Il personaggio simbolo di quest’ ‘uomo nuovo’ è Faust.

     “Faust ha cercato la felicità dappertutto: l’ha trovata solo quando, vecchio, lavora al prosciugamento di una palude su cui nuove genti un dì vivranno in operosità feconda. Nella contemplazione di questo futuro risultato del suo lavoro egli si gode beato, e all’attimo che passa grida: Fermati, sei bello! Muore, e Mefistofele va per prenderne l’anima, ma perde la scommessa, chè in quel momento Faust gustava un piacere che era del futuro e non del presente. La civiltà del lavoro è veramente, di necessità, tutta protesa verso un futuro di cui l’uomo è l’artefice e il creatore.”

     La descrizione che Tilgher ci dà delle trasformazioni che la Terra, dominata e plasmata dalla volontà dell’uomo faustiano, subisce, è ottimisticamente ingenua e risente di una partecipata enfasi nel descrivere le conquiste del capitalismo.

     “Sotto la spinta degli stati d’animo, di cui il moderno concetto di lavoro è la proiezione ideale, la terra ha cambiato faccia. Continenti interi sono stati ammessi alla civiltà capitalistica e mirabilmente sfruttati nelle ancora intatte risorse; città fondate a migliaia; rimutate dalle fondamenta le antiche; in modo prodigioso accresciuta la produzione agricola e industriale e intensificato il traffico commerciale; quintuplicata la popolazione del mondo e mirabilmente avvicinata nel tempo e nello spazio grazie allo sviluppo inauditamente sorprendente dei mezzi di comunicazione; diffusa la cultura e l’igiene; a dismisura accresciuta la disponibilità individuale e collettiva delle cose utili e necessarie alla vita; rese di uso comune e poco men che vili cose che fino a qualche secolo fa erano lusso di privilegiati; unificato a un grado altissimo il modo di vivere e di sentire; abbassate le barriere fra città e campagna; fatto veramente dell’uomo il cittadino della Terra finalmente, come per miracolo, unificata.”

     La fiducia ottimistica che pervade le descrizioni di Tilgher, sottintende la speranza che la civiltà capitalistico-faustiana abbia la capacità di autoemendarsi, di far sì che il superamento di quel limite che si pone davanti all’infinito, possa trasformarsi nel superamento anche dei suoi limiti interni.


   4.6 La crisi della “religione del lavoro”.

     Ma Tilgher avverte anche i sintomi di un cambiamento negativo, specie delle mentalità collettive, che preludono ad una possibile degenerazione di quella ‘religione del lavoro’, quella ‘santità del lavoro’, che ha consentito e accompagnato lo sviluppo della civiltà faustiana. I segni maggiori di decadimento si manifestano proprio nella nazione che è diventata il simbolo stesso della forza dello sviluppo tecnologico e capitalistico: l’America.

     Il senso del dovere, il dovere di un lavoro serio e metodico, il senso religioso del lavoro, va trasformandosi in “…una religione del tutto opposta del riposo e del divertimento.” Le mutate condizioni sociali più favorevoli e agiate, favoriscono la nascita di nuovi bisogni, di nuove necessità di sempre maggiore comfort e benessere, nasce una ‘religione del Corpo’ che spezza la rigida molla psichica che alimentava la ‘civiltà del lavoro’. L’uomo contemporaneo non trova più soddisfazione e gioia esclusivamente nel lavoro. La pace del lavoro disciplinato e metodico, lascia il posto ai nuovi bisogni di una vita tormentata.

     La ‘religione del lavoro’ porta in sé il seme contraddittorio della sua fine. Il lavoro, abbiamo visto, dà gioia se implica il superamento di qualcosa di esterno che ci resiste, una natura da vincere. Ma l’uomo avverte in ciò la dipendenza da qualcosa che è esterno a sé. Ora vuole liberarsi da questa dipendenza e cerca qualcosa che lo soddisfi pienamente e abbia solo in sé stesso la sua sorgente.

     “A chi ha realizzato il senso della sua dominatrice natura lo stesso bisogno di lavorare appare fatalmente una servitù, una catena che è d’uopo spezzare. L’anima allora si apre ad altri bisogni, ascende ad altri ideali, s’impenna verso altri sogni…in cui traluca e folgori la sua libertà: l’Arte, il Gioco, il Lusso.”

     L’atto stesso del lavorare, si trasforma nella pura volontà di combattere e vincere, si tramuta in gioco, in sport. Dalla ‘civiltà del Lavoro’ germoglia la ‘civiltà dello Sport’. La parte finale di Homo faber, è appunto dedicata alla analisi filosofica di questi aspetti: lo sport, il gioco, il risparmio, il lusso sono fenomeni che connotano la situazione storica contemporanea.

     Dall’interno stesso della civiltà faustiana si sviluppano le forze e le mentalità che ne minano la base psichica, la propria animità. I concetti fondamentali su cui si è basata questa civiltà si capovolgono nel loro contrario, neutralizzano quell’ansia di attività infinita, incarnata dall’etica del lavoro.

     Illuminanti, a tal proposito, le analisi, di Tilgher, sull’abbandono del concetto di ‘risparmio produttivo’, su cui si fondava e sviluppava la società capitalistica. La guerra, la gioventù della popolazione, che anela a pericolose ed eroiche imprese, “…hanno assai screditato la virtù del risparmio.” Ma è dall’America che viene l’attacco più potente alla pratica del risparmio. “E’ Ford il teorico dell’antirisparmio…Il risparmio – si dice – restringe il consumo e quindi la produzione.”[44][244] Bisogna che si spenda tutto quel che si guadagna, e “…l’industria fa di tutto perché il bisogno si generi dove non c’è, si dilati all’infinito dove c’è.”[45][245]

     L’analisi tilgheriana si chiude, però, ancora una volta, con una pessimistica e lungimirante visione profetica.

     “La verità è che l’industria americana, sorta a mostruosa grandezza a causa della inaudita ricchezza naturale del paese, ha bisogno di generare a tutti i costi la prodigalità e lo sperpero perché sia assorbita l’immensa massa dei beni che rovescia sul mercato interno e su quelli esteri che essa cerca freneticamente di conquistare. E poiché lo sperpero più vero e maggiore è sempre la guerra, verrà un momento in cui questa apparirà come la via più spiccia di consumare i beni che il mercato interno e quelli esteri non sono più capaci di assorbire. Sarò, forse, pessimista. Ma il maggior pericolo alla pace del mondo a me pare proprio questa filosofia dell’Antirisparmio che si viene creando.”

     La sensazione è che un cerchio si chiuda. La parabola del pensiero tilgheriano, cominciata con la fine del primo conflitto mondiale, sfocia nella previsione di una nuova catastrofe che avrebbe arrecato una nuova condizione di profondo disagio e di tragedia.