Francesco d'Assisi, santo (Francesco di Pietro di Bernardone)

 

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di Roberto Rusconi

Nacque ad Assisi, forse il 24 giugno 1182, da Pietro di Bernardone e da Giovanna (il soprannome di Pica della madre è attestato solo da un exemplum tardivo). Venne chiamato a sua volta Giovanni, in assenza del padre: questi, di ritorno da un viaggio in Francia, gli mise il nome di Francesco, con cui egli venne sempre indicato a partire da quel momento. Aveva almeno un fratello di nome Angelo.

La maggior parte delle fonti relative ai primi anni di vita di F. è costituita dalle diverse biografie agiografiche e dalle compilazioni redatte nel corso del secolo XIII. Si tratta di testi che inglobano frammenti di informazione all'interno di una narrazione rivolta principalmente a finalità liturgiche e devozionali. A ciò si aggiunga che, in connessione con il dibattito interno all'Ordine dei frati minori concernente le caratteristiche dell'identità francescana e il ruolo della povertà religiosa, con il trascorrere dei decenni si affermò la tendenza a retrodatare agli anni dell'esistenza di F. determinate problematiche e a filtrare la memoria di quegli avvenimenti alla luce delle esigenze religiose e nel contesto della politica ecclesiastica di un'epoca successiva.

Da ciò deriva la difficoltà a fissare una datazione attendibile degli avvenimenti, qualora non intervenga altra documentazione, dal momento che nelle biografie agiografiche essi vengono collocati, in genere, secondo una cronologia relativa.

Alla fine dell'esistenza, dettando il proprio Testamentum, F. aveva selezionato, al di fuori degli schemi di una puntuale ricostruzione biografica, i momenti salienti della sua vita (che gli agiografi, invece, tenteranno di disporre secondo un assetto narrativo): la conversione alla penitenza, espressa da un diverso rapporto con i lebbrosi; l'abbandono di un'esistenza secolare in un'assoluta fiducia nelle istituzioni della Chiesa romana e soprattutto nei sacerdoti a essa fedeli (in quanto essi consacrano l'eucarestia, nei confronti della quale egli nutrì una particolare devozione); la nascita della prima fraternitas, la scoperta della "forma sancti evangelii" e l'approvazione di una forma vitae da parte del pontefice; la povera comunità dei primordi, formata da chierici e da laici, con i frati che lavoravano per il proprio sostentamento e che eventualmente mendicavano; l'annuncio della pace evangelica.

Nel 1202 (forse nell'estate) F. prese parte, in località Collestrada, allo scontro con i Perugini e con i fuoriusciti assisani i quali, dopo la distruzione della rocca e delle case torri nel 1198, si erano rifugiati nella città vicina a partire dal gennaio 1200.

In seguito alla sconfitta degli armati di Assisi, F. fu condotto prigioniero a Perugia, dove restò per almeno un anno, sino a che, nel novembre 1203, venne sottoscritta una pacificazione tra gli homines populi, cui egli si era aggregato, e i boni homines (i nobili fuorusciti vittoriosi).

Prima della conversione a vita religiosa fu partecipe della cultura e della mentalità del proprio ceto di appartenenza e della propria area di provenienza: una società in cui, tra gli ultimi anni del secolo XII e i primi del XIII, il figlio di un ricco mercante, certo anch'egli mercante, poteva aspirare a divenire miles. La formazione culturale del laico, borghese e mercante, la sua mentalità, la tensione al raggiungimento di ideali cavallereschi e cortesi, compenetrarono profondamente gli anni in cui F. maturò la propria scelta religiosa, vissuta all'inizio - e in parte anche in seguito - come una sorta di aventure nella quale progressivamente viene meno l'ideologia cavalleresca, e permane al contrario la cultura cortese (ne conservano il ricordo, in particolare, la tradizione che faceva capo a frate Leone e un anonimo scritto allegorico, il Sacrum commercium). A un siffatto retroterra rimandano episodi collocati ben oltre la giovinezza e la prima maturità di F.: come il parlare e il cantare in lingua "gallica", l'idioma del canto profano e della letteratura cortese, i cui ricordi emergono allorché, ad esempio, egli si paragona all'"araldo del gran re", oppure assimila se stesso e gli altri frati minori ai cavalieri della tavola rotonda ovvero chiede l'elemosina in quella lingua, durante un pellegrinaggio a Roma.

Secondo Tommaso da Celano, dopo una lunga malattia F. partì da Assisi per la Puglia (nel 1205, fra aprile-maggio e la fine di luglio), al seguito di un miles, allo scopo di essere creato cavaliere a sua volta: una decisione preceduta, nel racconto dell'agiografo, da un sogno in cui gli apparvero delle splendide armi. Nel De inceptione si aggiunge che, arrivato a Spoleto, F. ebbe un colloquio nel dormiveglia e ne venne indotto a rientrare ad Assisi, per mettersi al servizio del Signore. Passò allora per Foligno, dove vendette il proprio cavallo e le ricche vesti e indossò poveri panni.

Al principio del mese di agosto del 1205 la cronologia suggerita dalle biografie agiografiche fa risalire i primi passi di un lungo processo di conversione a vita religiosa. Prima di adottare una condizione di vita solitaria in un'area fitta di istituzioni monastiche, abbandonando le precedenti consuetudini di vita e di comportamento, per gli agiografi F. trascorse un periodo di preghiera e di elemosine ai poveri e alle chiese: determinante è soprattutto l'incontro con un lebbroso, cui egli baciò la mano e da cui ricevette il bacio della pace. In seguito ad esso F. si decise a portare elemosine a un lebbrosario. È esplicito, da parte degli scrittori, il richiamo alle prime frasi del Testamentum di F., laddove egli fa risalire a un mutato atteggiamento nei confronti dei lebbrosi il momento di maturazione della propria conversione.

Nei primi mesi del 1206 il contrasto che ormai lo opponeva al padre, a causa della sua scelta di vita, lo portò a rinunciare pubblicamente all'eredità nelle mani del vescovo di Assisi, Guido II, assumendo, di conseguenza, la condizione canonica di penitente volontario. In tale periodo, secondo il racconto dei primi agiografi, egli si dedicò all'assistenza ai malati nei lebbrosari del contado assisano e, nella medesima area, al restauro materiale di chiese rurali in rovina (in un'epoca in cui appariva assai fervida l'edilizia ecclesiastica, con la costruzione della cattedrale di S. Rufino ad Assisi e del chiostro dell'abbazia benedettina di S. Croce a Sassovivo, presso Foligno).

Tale aspetto della biografia francescana, che interessò almeno la chiesa di S. Damiano subito al di fuori delle mura cittadine, e forse in seguito la chiesetta rurale di S. Maria degli Angeli (la Porziuncola) nella piana sottostante Assisi, viene riproposto nel racconto degli agiografi in un'ottica storico-teologica, al cui interno il restauro materiale di un edificio ecclesiastico in rovina, era figura della reparatio dell'intera Chiesa romana. Lo stesso avviene con il racconto del crocifisso di S. Damiano, che si rivolge a F. per esortarlo a riparare la casa del Signore, e anche con il sogno di Innocenzo III, di un misero religioso il quale impediva il crollo della chiesa papale di S. Giovanni in Laterano (un episodio analogo è riferito anche a s. Domenico di Caleruega nella sua biografia agiografica scritta dal frate domenicano Costantino da Orvieto nel 1246-47).

Attirati dal suo modo di vita, a F. si associarono progressivamente alcuni assisani, dando vita al primo nucleo della fraternità minoritica: di essi le biografie agiografiche si sforzano di indicare i nomi, a cominciare dal miles Bernardo di Quintavalle, annoverandoli in numero di dodici, in chiave sicuramente simbolica. In un passo del Testamentum F. ricorda come, in seno a tale ristretto gruppo, fosse maturata la scelta di vivere in conformità al modello evangelico, attinto in maniera diretta dalle Scritture.

Sulla base del racconto della prima Vita di Tommaso da Celano il momento dell'abbandono della precedente forma di vita penitenziale viene collocato in occasione dell'ascolto di una messa alla Porziuncola (in una data che da taluni si vorrebbe porre fra 1208 e 1209), allorché F. sentì leggere un passo evangelico relativo alla missio apostolorum. Se non si tratta del medesimo episodio, il De inceptione ricorda invece che F., insieme a Bernardo di Quintavalle e a un altro compagno, fece ricorso alla triplice apertura di un evangeliario in una chiesa cittadina, identificata dagli agiografi in S. Nicolò "de plathea" (si può forse riconoscere quel manoscritto in un messale, esemplato fra 1172 e 1228 in uno scriptorium della diocesi di Assisi).

In seguito alla scelta di imitare alla lettera il modello della vita apostolica, F. e gli altri fratres si vestirono con una rozza tunica, cinta da un cordone, e intrapresero a due a due una forma di predicazione itinerante nell'Italia centrale rivolgendo alle popolazioni esortazioni a fare penitenza e inviti alla pacificazione.

La predicazione ad opera di laici non autorizzati incorreva però nelle sanzioni ecclesiastiche, applicate con severità a partire dalla decretale Ad abolendam hereticam pravitatem di Lucio III del 1184, in particolare nei confronti dei poveri di Lione e degli umiliati lombardi. F. e i primi fratres decisero, allora, di recarsi presso la Sede apostolica a Roma nel 1209 (oppure nel 1210), per ottenere un riconoscimento della propria forma di vita religiosa. Fu una scelta autonoma e consapevole, come F. ribadisce nel Testamentum, dal momento che al vescovo di Assisi avrebbe potuto e dovuto rivolgersi una piccola comunità di penitenti volontari (cui si riferisce il De inceptione). L'approvazione canonica dell'ordinario diocesano, peraltro, non avrebbe potuto includere la predicazione itinerante.

Arrivati a Roma in un clima non scevro di sospetti, che neppure l'agiografia francescana riuscì in seguito a occultare, il gruppo di assisani sperimentò la diffidenza della Curia e il reale attendismo nell'atteggiamento di papa Innocenzo III (anche se la presenza a Roma del vescovo di Assisi, Guido II, e il subitaneo intromettersi nella vicenda del cardinale benedettino Giovanni di S. Paolo, menzionati sin dall'inizio dagli agiografi, toglierebbero ogni sapore di ingenuità all'iniziativa).

Il loro viaggio, in effetti, avvenne in un periodo cruciale di quel pontificato. Il papa, che nel 1208 aveva bandito la crociata contro gli albigesi nel Sud della Francia, aveva promosso la riconciliazione con la Chiesa romana, tra 1208 e 1209, di una parte dei poveri di Lione e dei poveri di Lombardia, nel tentativo di contenere il diffondersi di dottrine e gruppi eterodossi.

In quella circostanza gli assisiati avrebbero anche adottato una diversa denominazione, per effetto dell'intervento della Sede apostolica - da "minores pauperes" a "minores fratres" -, se si può prestare fede alla cronaca, redatta a una certa distanza di tempo, dal monaco premostratense Burcardo di Ursperg (che pure aveva soggiornato a Roma in quel volgere di anni).

Un riconoscimento da parte di Innocenzo III, tramandato con sfaccettature assai diverse nei racconti agiografici, produsse esiti innegabili, e di fatto decisivi, a livello istituzionale. Nel Testamentum F. rammenta solamente in qual modo il proposito della prima fraternitas fosse stato avallato di persona dal pontefice. Di un testo scritto, che deve pur essere esistito - alla stregua del propositum conversationis di altri gruppi riconciliatisi con il Papato -, non è rimasta però alcuna traccia documentaria e, fra le svariate ipotesi di ricostruzione, la più verosimile accosta una scomparsa forma vitae (o protoregola) almeno al primo capitolo della posteriore regula non bullata.

Nel racconto del De inceptione l'incontro di F. con Innocenzo III si chiude, al contrario, con la concessione di una regola, ma anche con un'esplicita autorizzazione a predicare che non poteva essere concessa se non determinando la condizione giuridica dei fratres. Una conferma pontificia consentiva loro una predicazione penitenziale itinerante, senza incorrere in sanzioni da parte di F. e degli altri frati ai quali, per intervento del cardinale Giovanni di S. Paolo, sarebbe stata effettuata una tonsura, allo scopo di farli rientrare in una condizione canonicamente approvata e di sottrarli a un'eventuale scomunica.

Negli anni fra il 1209-1210 e il 1215-1216 sono pochi gli avvenimenti della vita di F. da registrare, una volta sfrondato il racconto delle fonti agiografiche, che riferiscono di un primo soggiorno a Rivotorto e di un successivo trasferimento della fraternità in crescita presso la chiesa rurale di S. Maria degli Angeli, dipendente dall'abbazia di S. Benedetto sul monte Subasio. Alcune narrazioni, fatte risalire ai compagni di F., riportano a quegli anni una serie di episodi volti a testimoniarne l'incontaminata esemplarità, privi però di attendibili riferimenti cronologici e biografici, in un contesto progressivamente trasformato dal lievitare del meraviglioso. Con ogni probabilità, in quel periodo F. e gli altri frati andavano percorrendo l'area appenninica con la loro predicazione itinerante di penitenza.

A un F. tonsurato si può legittimamente far risalire il gesto con cui, la domenica delle palme dell'anno 1212, nella notte tra il 18 e il 19 marzo (secondo alcuni il 28 marzo 1211), tagliando davanti all'altare della Porziuncola i capelli a Chiara di Favarone di Offreduccio, appartenente a una famiglia della nobiltà assisana a suo tempo fuoriuscita a Perugia, egli ne sanciva l'ingresso nello stato penitenziale (senza con ciò avere affatto intenzione di dare avvio a un nuovo ordine religioso femminile).

Secondo le testimonianze rese al processo di canonizzazione della santa nel 1253, F. condusse Chiara al monastero di S. Paolo delle Badesse, presso Bastia e non lontano da Assisi, dove ella entrò verosimilmente in veste di conversa. A quello stesso anno viene tradizionalmente fatta risalire una forma vivendi che F. avrebbe dato per scritto a Chiara, il cui tenore è tramandato unicamente da un brano inserito nel capitolo VI della regula clariana approvata nel 1253.

Secondo la prima Vita di Tommaso da Celano, F. tentò ripetutamente di recarsi nei paesi musulmani. Nell'estate del 1212, suggestionato forse da un movimento di pellegrini detto "la crociata dei fanciulli", che tra giugno e settembre dalla Germania aveva raggiunto Genova per dirigersi verso la Terrasanta, egli si imbarcava con l'intenzione di raggiungere la Siria, ma a causa dei venti sbarcava in Dalmazia e di lì rientrava ad Ancona. Un ulteriore tentativo, non riuscito, di spingersi questa volta in Marocco, andrebbe ricollegato al fervore suscitato dalla vittoria di Alfonso di Castiglia nella battaglia di Las Navas de Tolosa, il 16 luglio 1212.

Molti episodi, che gli agiografi e la devozione collocarono in quel volgere di anni, non trovano peraltro adeguato riscontro nella documentazione: la donazione del monte della Verna da parte del conte Orlando di Chiusi nel 1213, menzionata solo in un documento del 1274; un incontro a Roma negli ultimi mesi del 1215 con Domenico di Caleruega, fondatore dei frati predicatori, nel corso del IV concilio del Laterano, al quale non pare F. abbia assistito; la concessione a Perugia, da parte del neoeletto papa Onorio III, nel luglio del 1216, dell'indulgenza plenaria per la chiesa della Porziuncola, da celebrarsi ogni anno il 2 agosto (una tradizione formatasi piuttosto dopo il 1276).

Malgrado l'incerta collocazione istituzionale della fraternità minoritica, il numero di quanti si aggregavano a F. e ai primi frati si accresceva. Al canonico Jacques de Vitry si deve la prima testimonianza coeva su di essi, senza che F. però vi venga nominato. In una lettera inviata da Genova nell'ottobre del 1216, egli riferiva di avere incontrato nei pressi di Perugia, dove era giunto alla metà di luglio, i fratres minores e le sorores minores: dei frati annotava che vivevano in eremi o luoghi posti al di fuori delle città in cui svolgevano il proprio apostolato. Inoltre a quella data essi tenevano una riunione annuale, nel corso della quale si davano delle norme per le quali avrebbero in seguito ricevuto l'approvazione del pontefice (il cui apprezzamento nei loro confronti è rimarcato nel testo).

Alla lettera di Jacques de Vitry corrisponde in parte il racconto del De inceptione, secondo cui F., sin dall'incontro romano con papa Innocenzo III, aveva introdotto la consuetudine di tenere una riunione periodica dei frati due volte l'anno, in corrispondenza della festa della Pentecoste e della ricorrenza di s. Michele Arcangelo (29 settembre). Nella prima occasione si discutevano le norme, che andavano stratificandosi nel corso degli anni, e si decidevano le spedizioni missionarie che nel 1216, secondo Jacques de Vitry, si sarebbero svolte in Italia, dalla Lombardia alla Sicilia.

Con il coinvolgimento di F., dunque, era in atto un processo istituzionale, nel cui ambito anche i frati minori adottarono la consuetudine di origine monastica di tenere capitoli periodici, a fini normativi e organizzativi.

A un capitolo celebrato probabilmente alla Porziuncola il 14 maggio 1217, viene fatta risalire dal De inceptione la decisione di inviare i frati minori nelle diverse parti del mondo cristiano, al di fuori dell'Italia. Anche F. si mise in cammino per la Francia, e nel corso del viaggio incontrò per la prima volta a Firenze il cardinale Ugolino dei Conti di Segni, vescovo di Ostia, allora legato papale in Toscana. La spedizione minoritica Oltralpe non venne interrotta, mentre F. fu personalmente dissuaso dal cardinale a proseguire ed esortato, almeno secondo la prima Vita di Tommaso da Celano, a rimanere in Italia per prendersi cura della sorte dei frati (a fronte di difficoltà nei rapporti con la Curia romana, verosimilmente connesse anche con il mancato adeguamento dei frati alle prescrizioni conciliari in materia di nuove forme di vita religiosa).

Le prime spedizioni minoritiche al di fuori dell'Italia si risolsero in un autentico disastro, anche a causa dell'incomprensione linguistica tra i frati e le popolazioni, come ricorda il De inceptione e, con ampi dettagli, la cronaca di frate Giordano da Giano: la maggiore difficoltà era però costituita dall'assenza di un riconoscimento formale da parte dell'autorità ecclesiastica. Proprio le reazioni dell'episcopato francese sembrano avere ulteriormente persuaso la Curia romana a cercare di determinare la condizione istituzionale dei frati: dopo che il capitolo minoritico del 26 maggio 1219 ebbe deciso un'altra ondata di spedizioni al di fuori della penisola italiana, a Rieti l'11 giugno 1219 papa Onorio III sottoscrisse la lettera Cum dilecti filii, indirizzata a tutti i prelati della Chiesa, ad attestare in primo luogo l'ortodossia dei frati minori facendo seguito a una richiesta inoltrata da un prelato, che le biografie agiografiche individueranno nel cardinale Ugolino di Ostia. Per la prima volta in un documento pontificio venivano nominativamente menzionati "frater Franciscus et socii de vita et religione minorum fratrum".

Alla fine del 1219, nei Sermones super Evangelia dominicalia, ultimati a Parigi dal monaco inglese Odo da Cheriton, si riferisce esplicitamente a frate F. una parabola concernente le vicende dei frati e formulata alla stregua di un conte d'ispirazione cavalleresca: un racconto appreso con una certa verosimiglianza per il tramite dei frati minori che per primi erano giunti nell'Europa settentrionale.

A questa data è possibile risalga un primo scontro - che in alternativa si dovrebbe invece datare al capitolo del 1222 - tra F. e una parte dei frati (indicati come sapientes nel racconto della Legenda antiqua, detta Perusina). Essi avrebbero fatto ricorso proprio al cardinale Ugolino di Ostia per indurre F. ad accettare un processo di istituzionalizzazione che, alla luce delle disposizioni conciliari del 1215, avrebbe effettivamente conferito ai minori la configurazione di un Ordine approvato. Secondo il racconto tramandato dalla Legenda antiqua, F. ebbe una reazione assai dura, rifiutando recisamente l'adozione di una regola monastica preesistente e rivendicando l'assoluta originalità dell'ispirazione evangelica della propria forma di vita.

In seguito alle decisioni del capitolo di Pentecoste del 1219, i frati minori si diressero anche nei paesi musulmani: lo stesso F. si imbarcò per l'Egitto nel mese di giugno di quell'anno, insieme a un compagno.

Approdato nel porto di Damietta, durante una tregua nei combattimenti della quinta crociata, F. si recò con il compagno presso il malik al-kamil, di fronte al quale annunciò la fede cristiana nel corso di una disputa con i dotti musulmani (di essa è rimasta una labile traccia anche in fonti arabe). Secondo la Chronique d'Ernoul e il Liber de acquisitione Terrae Sanctae di Bernardo il Tesoriere, che si riferiscono in maniera generica a due chierici, essi sfuggirono alla decapitazione solo per l'intervento personale del sultano (di un'ordalia del fuoco, ad affrontare la quale F. avrebbe invano sfidato i savi dell'Islam, narra solo la testimonianza di fra Illuminato dell'Arce, inserita nella Legenda maior di Bonaventura da Bagnoregio). Durante il soggiorno nel vicino Oriente F. contrasse una grave malattia agli occhi (il tracoma), che andò gradualmente peggiorando dopo il suo rientro in Italia.

A F., spintosi in terra di infedeli anche allo scopo di condurre sino in fondo l'imitazione della vita degli apostoli, non si offrì la possibilità di conseguire il martirio per la fede, come ai cinque frati uccisi in Marocco il 16 genn. 1220. A lui si presentò, al contrario, la necessità di rientrare in Italia in un momento di grave travaglio per tutti i minori.

Nel partire per l'Egitto, secondo la cronaca di Giordano da Giano, in Italia F. aveva lasciato due vicari, Gregorio da Napoli e Matteo da Narni. Durante la sua assenza, i frati si erano egualmente riuniti nel capitolo annuale di Pentecoste, il 17 maggio 1220, e vi avevano adottato in particolare norme relative al digiuno e all'astinenza delle carni. Inoltre sempre più forte si faceva la spinta della gerarchia ecclesiastica verso una regolarizzazione delle istituzioni minoritiche (anche la formazione di un "Ordo pauperum dominarum de Valle Spoleti sive Tuscia" per impulso del cardinale Ugolino di Ostia, a partire dal 1218-1219, poneva il problema dell'assetto delle comunità religiose femminili legate ai frati e del ruolo di questi nei loro confronti). In effetti, a pochi giorni di distanza da quel capitolo, da Viterbo il 29 maggio 1220 papa Onorio III aveva emesso una seconda lettera a favore dei frati, Pro dilectis filiis, indirizzata ai prelati di Francia per attestare l'ortodossia dei minori: in essa F. non è nominato, mentre per ben quattro volte, in un testo assai breve, i frati vengono definiti un Ordine che - come alla fine si precisa - era da includersi tra quelli approvati.

F. rientrò in Italia dall'Egitto nel corso di quell'estate. Nominativamente indirizzata a lui, e agli altri superiori dei frati, fu un'altra lettera di Onorio III, sottoscritta a Orvieto il 22 sett. 1220, Cum secundum consilium: con essa si imponeva la norma dell'anno obbligatorio di prova, prima dell'ingresso definitivo tra i minori, avviando con ciò una loro assimilazione agli istituti fondamentali degli altri Ordini religiosi. Il 29 settembre si riunì il capitolo autunnale dei minori: durante il quale F. si sottrasse a qualsiasi specifica funzione di governo nei confronti dei frati, a capo dei quali venne posto uno dei suoi primi seguaci, Pietro Cattani, a quanto pare un giurista, che rivestì il ruolo di vicario sino alla morte.

Additato dagli agiografi alla stregua di un comportamento esemplare nell'esercizio della virtù dell'umiltà, ricondotto anche alle sue cattive condizioni di salute, di fatto il suo gesto lo sottraeva al diretto coinvolgimento in un'evoluzione istituzionale che portava assai lontano dalla scelta originaria, da lui posta alla base della propria opzione religiosa.

Nell'inverno del 1220-21 si pose in maniera ineludibile il problema di redigere il testo di una regola da sottoporre all'approvazione papale, dopo che F. aveva già ricusato di adeguarsi alle disposizioni che imponevano di adottarne una preesistente. Sino a quella data, in verità, F. e gli altri frati si erano dati di volta in volta norme di organizzazione e direttive di comportamento di fronte a situazioni nuove che si prospettavano loro: con una certa verosimiglianza, discutendole e approvandole nei capitoli minoritici tenuti nel corso degli anni (come emerge dalla Epistola ad ministrum).

A partire dal momento del rientro in Italia, nell'estate del 1220, si addensano gran parte degli scritti di F.: in particolare, a essi fece ricorso per mantenere comunque una funzione di indirizzo nei confronti del numero ormai estremamente dilatato dei frati minori.

Il 30 maggio 1221 si radunò in Assisi il capitolo generale minoritico detto "delle stuoie" nella cronaca di Giordano da Giano, secondo cui ad esso prese parte un numero davvero rilevante di frati: tra i presenti era da annoverare anche il cardinale Raniero Capocci. Morto il 10 marzo 1221 Pietro Cattani, a lui era subentrato nel governo dell'Ordine frate Elia da Assisi.

In quella circostanza venne decisa una nuova spedizione in Germania, ma soprattutto si discusse il testo di una regola da sottoporre alla Curia romana per l'approvazione. Si trattava di uno scritto di notevole ampiezza - ben 23 capitoli -, indicato dalle fonti come regula prima (o sine bulla) e detto comunemente regula non bullata (cioè non approvata da una lettera pontificia con bolla pendente). La sua complessa stratificazione rifletteva l'evoluzione storica dell'Ordine dei frati minori, a partire dalla forma vitae confermata da Innocenzo III. Nella redazione di quel testo F. venne coadiuvato, in particolare, dal frate tedesco Cesario da Spira, rientrato con lui dal Levante: un chierico che ebbe il compito di inserire nello scritto le opportune citazioni bibliche.

Nella redazione sottoposta alla Curia romana la regola minoritica - che rifletteva le caratteristiche di una fraternità composta, sin dal principio e sul medesimo piano, da laici e da chierici, e solo progressivamente trasformatasi in un Ordine religioso - non venne però approvata: sia per la sua stesura, troppo ampia, sia per il suo carattere scarsamente giuridico. Ebbe di conseguenza inizio un processo di revisione, del quale si possono trovare forse tracce in taluni testi frammentari.

In quel periodo - secondo gli episodi riferiti in maniera più o meno esplicita dagli agiografi che vi conferirono con il passare del tempo un tenore assai drammatico - si ebbero notevoli tensioni tra F., i frati e la gerarchia ecclesiastica. Di esse tracce innegabili possono essere rintracciate nel testo medesimo della regula non bullata: in particolare negli interventi personali di F., marcati dall'utilizzo di forme verbali alla prima persona singolare, oscillanti fra l'esortazione e l'ordine, il più delle volte in relazione a problemi che non rientrarono in seguito nelle prescrizioni della regola approvata. Nella parte finale, F., peraltro, fece inserire una formulazione perentoria, di osservare la regola e di non modificarla in nulla, con termini che in seguito marcheranno anche gli inserti da lui voluti e ottenuti nel testo della regola approvata e verranno riutilizzati nel Testamentum.

Assai vicina al dettato degli ultimi capitoli della regula non bullata appare una lettera di F. indicata come Epistola ad fideles: indirizzata nella versione più ampia "universis christianis religiosis", rappresenta un testo scritto appunto in fase di redazione della regola; è pertanto da escludere una destinazione a penitenti minoritici, uomini e donne, dei quali una tradizione agiografica senza fondamento ha preteso che F. fosse iniziatore e legislatore, nell'anno in cui venne approvato da papa Onorio III, il 16 dic. 1221, il Memoriale propositi dell'Ordine della penitenza. In toni che l'hanno fatto definire in parte della tradizione manoscritta un "opusculum commonitorium et exhortatorium", questo testo esprime una forte preoccupazione di F. per la loro "catholicitas": una preservazione dell'ortodossia che non deve far pensare a finalità antiereticali in senso stretto.

Al medesimo periodo risale verosimilmente anche una Epistola ad ministrum, indirizzata da F. a frate Elia in vista di un capitolo minoritico di Pentecoste, nel quale si sarebbe dovuto prendere in esame il problema dei capitoli della regula non bullata, relativi alla penitenza, all'ammonizione e alla correzione dei frati (che avrebbero assunto una forma più marcatamente giuridica in un unico capitolo della regola approvata). Mentre nella prima parte della lettera il lessico e l'intonazione richiamano il biglietto autografo di F. a frate Leone, la parte restante contiene uno specifico testo normativo a documentare in maniera pregnante la prassi secondo la quale prendeva forma la legislazione minoritica.

A una predica tenuta da F. a Bologna, sulla piazza antistante il palazzo comunale, il 15 ag. 1222 assistette una folla enorme di persone che si accalcavano per toccare colui il quale ormai godeva di fama di santità (tra essi anche Federico Visconti, in seguito arcivescovo di Pisa). Era presente anche un chierico di Spalato, Tommaso, allora studente di diritto allo Studium felsineo e poi arcivescovo della città dalmata, e autore di una Historia pontificum Salonitanorum et Spalatensium. In un testo svincolato dal quadro di riferimento delle biografie agiografiche, egli annotava con esattezza che F. non predicava alla stregua dei modelli codificati per i chierici nelle artes praedicandi, ma si rivolgeva ai fedeli "ad modum concionantis": utilizzando cioè un modulo espressivo caratteristico nella pratica oratoria nei regimi dell'Italia comunale, da lui appreso evidentemente durante la propria formazione di giovane laico. Nel racconto del cronista si trova un'ulteriore conferma del fatto che finalità di quelle prediche di F. era indurre alla pace le fazioni cittadine. La verosimiglianza di tali annotazioni trova riscontro in alcuni episodi narrati nelle biografie agiografiche, il cui comune denominatore è costituito dalla rilevazione che F. non predicava in accordo con le modalità della retorica ecclesiastica del tempo e che faceva, invece, ampio ricorso ad una gestualità alla quale era stato acculturato.

Dopo il ritorno dal Levante la prima Vita di Tommaso da Celano colloca l'episodio di F. che predica agli uccelli, a Bevagna, nella valle spoletana, e poi ad Alviano, fra Orte e Orvieto, richiamato dagli agiografi all'evidente scopo di conferire una legittimazione soprannaturale alla predicazione francescana (e di conseguenza largamente riutilizzato nell'iconografia). Un siffatto comportamento da parte di F. rientrava all'interno di un atteggiamento, personale e religioso, nei confronti della creazione e trovò compiuta espressione e sostanziale chiarimento delle sottostanti motivazioni teologiche nel Cantico di frate Sole (ben diverso fu l'orientamento della letteratura agiografica, nella quale lo sviluppo andò piuttosto nella direzione del prodigio, ad esempio nell'episodio del lupo di Gubbio, narrato in un exemplum e poi negli Actus beati Francisci e nei Fioretti). La scelta di predicare agli uccelli, da parte di F., in altre circostanze poteva comportare anche una chiave polemica, come emerge da una tradizione estranea all'agiografia minoritica e connessa al resoconto di una predica tenuta a Roma, inserito nella cronaca redatta da due monaci benedettini di Saint Albans, Roger di Wendover e Matthew Paris.

Il 23 nov. 1223, veniva datata nel palazzo del Laterano la lettera pontificia Solet annuere di papa Onorio III, con la quale era approvata formalmente la regola minoritica (indicata dalle fonti come regula secunda e comunemente detta regula bullata), assai probabilmente discussa in precedenza da un capitolo dell'Ordine: certo l'11 giugno e forse anche il 29 settembre di quell'anno si erano tenute le abituali riunioni dei frati. La lettera papale era indirizzata nominativamente a F. e agli altri frati dell'Ordine dei minori (nel brano inseritovi alla fine F., al contrario, parla ancora di fraternitas). Dal punto di vista meramente formale, il testo si presentava come una concessione pontificia, in cui era accolta una richiesta dei frati e, con decisa forzatura sul piano giuridico, vi si indicava la regola come già approvata al tempo di papa Innocenzo III e quindi semplicemente confermata da papa Onorio III.

Si trattava di un testo assai più breve di quello della regula non bullata, annoverando esso solo i dodici capitoli che potevano agevolmente rientrare nello spazio di una pergamena (attualmente conservata in un reliquiario presso il Sacro Convento di Assisi). Evidente frutto della rielaborazione di un testo in antecedenza discusso dai capitoli minoritici, la regola approvata risentiva della formalizzazione giuridica conferitagli da diversi apporti.

Il dettato della regula bullata è profondamente diverso, in punti numerosi e spesso assai qualificanti, dalle prescrizioni tramandate dal precedente progetto di regola, anche perché vi si assumeva per oggetto una realtà alquanto diversa. Nel corso degli anni la primitiva fraternitas minoritica, formata da uno sparuto gruppo di assisani, si era progressivamente trasformata di fatto in un Ordine religioso, anche in connessione con un massiccio afflusso di chierici: i frati minori, ormai diffusi in tutta la società occidentale, non potevano affatto essere governati al di fuori di un adeguato assetto istituzionale, al cui interno era assai difficile mantenere una prassi ispirata ad un'imitazione letterale della vita apostolica in forme marcatamente pauperistiche.

Il ruolo di F. nella redazione della regola recepita dalla Curia papale è segnalato, in maniera inequivocabile, dai frequenti passi inseritivi, che iniziano con una precisa forma verbale alla prima persona singolare: difformi dall'usuale dettato normativo, impersonale, a indicare i punti sui quali egli fu in grado di imporre energicamente i propri convincimenti.

Tali interventi si articolavano a diversi livelli. Si andava dall'ammonizione - nel riprodurre in più punti l'ideale della minoritas come orizzonte specifico dell'esperienza religiosa dei frati, sia pure in chiave ascetica e morale (passando per un toccante elogio della povertà) - all'ordine fermo e reciso, formulato facendo ricorso agli stessi termini adottati nella regula non bullata e nel Testamentum, a non ricevere denaro, a obbedire ai superiori, a occuparsi di religiose e di monache solo a determinate condizioni. In quest'ultimo caso era particolarmente vistosa la difformità con le esortazioni contenute nel corrispondente capitolo della regula non bullata, a fronte di un processo di incorporazione delle comunità femminili di ispirazione minoritica all'interno dell'Ordine monastico istituito alcuni anni prima da Ugolino di Ostia: si apriva di conseguenza la strada alla nomina dei frati a visitatori monastici, dal caso isolato del monastero di S. Salvatore di Colpersito nelle Marche, perfezionatosi già il 24 dic. 1223, alla nomina di un visitatore delle monache di quell'Ordine nella persona di frate Pacifico, a ciò designato dal cardinale sin dagli inizi del 1226.

Alla fine della regola approvata si collocava l'ingiunzione di F. a richiedere, per obbedienza, alla Chiesa di Roma la designazione di un cardinale protettore, con una formula del tutto analoga a quella inserita al termine della regula non bullata. Quest'ultima indicazione attesta, innanzitutto, che a F., di certo preoccupato per la sorte dell'Ordine minoritico, interessava sancire in una nuova figura istituzionale il rapporto di stretta collaborazione con Ugolino di Ostia, intensificatosi dopo il proprio rientro dal Levante e nel corso del faticoso processo di elaborazione e di approvazione della regola (come ricorderà in maniera esplicita il cardinale stesso, divenuto papa Gregorio IX, nella lettera Quo elongati indirizzata da Anagni il 28 sett. 1230 al ministro generale e ai ministri provinciali dei minori).

Anche se al proprio rientro dal Levante F. si era sottratto a funzioni di governo nei riguardi dei frati, la sua presenza carismatica aveva continuato a farsi sentire, come attestano, al di là dell'accumularsi di episodi esemplari nelle narrazioni agiografiche, i suoi interventi nel processo di redazione del testo della regola. Nel periodo successivo all'approvazione definitiva della regola minoritica egli accentuò un itinerario personale di sequela Christi che lo portò sempre più al margine del nuovo Ordine.

Tematiche cristologiche ricorrono in maniera sempre più accentuata negli scritti francescani che possano essere attendibilmente datati a quegli anni. Allora si collocano anche episodi i quali riflettono un itinerario in cui si ripercorrono le tappe dell'esistenza terrena del Cristo. Nella notte di Natale di quel medesimo 1223 a Greccio (sulle alture sovrastanti la piana reatina, dove F. aveva trascorso lunghi periodi di isolamento, nel periodo delle estenuanti trattative con la Curia in vista dell'approvazione della regola), nel corso della celebrazione liturgica, egli, nella propria veste di diacono, cantò il brano del Vangelo del giorno - secondo la prima Vita di Tommaso da Celano - e a uno degli astanti, che ascoltavano le fervide parole con cui F. poi si rivolse loro, apparve Gesù bambino nella mangiatoia ivi allestita.

F. si ritrasse in ulteriore isolamento rispetto all'Ordine, accompagnato da un ristretto numero di frati, alcuni dei quali avevano fatto parte della fraternità primitiva (si tratta di quei socii ai quali, più tardi, si farà risalire la memoria di una serie di episodi non inclusi nelle biografie agiografiche ufficiali).

A tale epoca potrebbe essere fatto risalire uno scritto denominato in taluni codici De religiosa habitatione in eremitoriis (con notevole forzatura indicato usualmente come regula pro eremitoriis data): non tanto un antico frammento normativo, non inserito nelle regole, quanto un testo posteriore all'approvazione papale della regola e analogo ad altre Admonitiones (al termine delle quali è tràdito nella maggior parte dei codici). In realtà, una forma di vita solitaria era marginalmente prevista nella regula non bullata, laddove non erano date però indicazioni particolari né di comportamento né di organizzazione, dal momento che non erano esistite specifiche norme volte a reggere comunità minoritiche caratterizzate da un originario assetto eremitico (sul quale invece si accumulano devote tradizioni nell'agiografia francescana). Di una siffatta forma di vita, al contrario, non si faceva cenno adeguato nella regola approvata.

Dopo il capitolo del 2 giugno 1224, e prima del capitolo del 29 settembre, F. si ritirò con frate Leone sul monte della Verna, nei pressi di Arezzo, per celebrarvi un periodo di ritiro e di digiuno - una quaresima extraliturgica - in onore di s. Michele Arcangelo.

Nessuna fonte ha tramandato una versione degli avvenimenti sulla Verna, per lui più simile al monte degli Ulivi che al Calvario, che possa essere fatta risalire in maniera affatto diretta a F.: vale a dire, se egli abbia mai riconosciuto, in modo esplicito, nelle piaghe del proprio corpo (alle mani, ai piedi e al costato), le ferite che fecero di lui un alter Christus nella devozione propagandata dai frati dopo la sua morte. A fronte di un accumularsi di episodi cristomimetici ad opera degli agiografi, si pone l'annotazione di frate Leone sulla chartula autografa di F. (attualmente conservata in un reliquiario presso il Sacro Convento di Assisi), in cui si menzionano la visione di un serafino che gli parlò e l'"impressio stigmatum" nel suo corpo.

Nel mese di settembre del 1224 F. scrisse di propria mano, sul recto di quella medesima cedola di pergamena, le cosiddette Laudes Dei altissimi in cui uno dei motivi principali è la tribolazione dell'anima, alla quale soccorre solo la misericordia divina. Composte in un latino sostanzialmente corretto sul piano lessicale e grammaticale, esse rientravano nel novero di numerosi testi latini attribuiti a F., con caratteristiche analoghe: centoni di passi concatenati, con riprese e con amplificazioni, ricavati da brani liturgici e da versetti biblici (desunti innanzitutto dalla recita quotidiana del suo breviario, nel quale i brani del Salterio erano stati riportati nella redazione romana).

È di fatto impossibile determinare in maniera plausibile i tempi e i luoghi della composizione di ognuno di questi testi che erano in origine privi dei titoli assegnati loro nelle rubriche dalla tradizione manoscritta: memorizzabili, e quindi trasmissibili anche oralmente, erano esposti di conseguenza a rimaneggiamenti e a devote attribuzioni. Espunte talune preghiere, o almeno la redazione pervenutane, come ad esempio nel caso della Oratio ante Crucifixum, a F. si può attribuire una Salutatio beatae Virginis (altre due preghiere si trovano al termine della Epistola toti ordini missa e nel cap. XXIII della regula non bullata), ma anche testi come la Exhortatio ad laudem Dei (che una testimonianza tardiva voleva autografa), le Laudes ad omnes horas dicendas e l'Officium Passionis, e brani biblici commentati, come nella Expositio in Pater noster e nella Salutatio virtutum.

Probabilmente dopo l'approvazione della regola nel 1223, F. si dovrebbe essere procurato un codice membranaceo portatile, esemplato in una minuta scrittura gotica da un cappellano della Curia papale dopo il 1216, dove erano contenuti un breviario e un evangeliario. Una nota di frate Leone, apposta sul verso della prima carta allorché questi lo consegnò alla badessa del protomonastero di Assisi (dove è ancora conservato), attesta che F. se ne serviva per la recita dell'ufficio prevista nella regola; peraltro, anche nella regula non bullata si considerava il possesso di libri liturgici alla stregua di un comportamento che non infrangesse l'osservanza della povertà minoritica: nella tradizione di memorie che facevano capo a frate Leone, invece, a tale possesso veniva ricollegata una forte contrarietà di Francesco.

A richiesta di frate Leone, in un momento successivo, ma sempre durante il soggiorno sulla Verna, F. vergò sul verso della chartula una formula di benedizione, desunta dal libro biblico dei Numeri, trasformandola - con l'aggiunta di un'altra formula - in una sorta di breve, con funzioni apotropaiche, e tracciandovi un "tau" (il cui uso, a guisa di sottoscrizione, è comprovato dalla copia dall'originale di una versione della Epistola ad clericos, eseguita nel monastero benedettino di Subiaco, oltre che dalle asserzioni negli scritti di Tommaso da Celano).

Dall'autografia della chartula assisana e della Epistola ad fratrem Leonem - una minuscola striscia di pergamena scritta sul recto (conservata nel duomo di Spoleto) - emerge l'uso di un tipo di scrittura notarile, diffuso in centri urbani minori dell'Umbria fra XII e XIII secolo, di modesta tradizione culturale: a una cultura grafica appresa da laico corrispondeva, in F., una cultura linguistica latina non mediocre, derivata dalla consuetudine con la Bibbia e con la liturgia (secondo la prima Vita di Tommaso da Celano egli avrebbe appreso a leggere presso la chiesa assisana di S. Giorgio, presumibilmente sul Salterio). La lettera a frate Leone, databile forse dopo la fine del 1223, rientra piuttosto nella consuetudine monastica delle lettere spirituali, anche se la propensione a scrivere di F. ha radici assai complesse.

Nel periodo successivo all'approvazione papale della regola, dunque, si incrementarono gli scritti indirizzati da F. a diversi destinatari, la cui datazione è spesso del tutto congetturale.

Una breve lettera, dal tenore estremamente secco (sempre che ne sia stato tramandato integralmente il testo) venne da lui indirizzata, forse tra la fine del 1223 e gli inizi del 1224, a frate Antonio da Lisbona (in seguito detto da Padova): in essa, richiamandosi al quinto capitolo della regola, concernente il lavoro e la mendicità dei frati, F. precisava quali fossero le priorità della vocazione minoritica, nel momento in cui si autorizzava Antonio a insegnare la teologia ai frati dell'Ordine.

A riflettere in maniera diretta i problemi che si prospettavano a F., anche se è davvero assai difficile determinare in quali anni a partire dal 1220 (né è indispensabile ricollegarsi in maniera troppo stretta alle riunioni capitolari minoritiche ovvero al processo di elaborazione della regola), una serie di detti risalenti ai suoi ultimi anni di vita vennero raccolti dai frati nelle Admonitiones ("verba sacrae admonitionis", come li definisce la rubrica del manoscritto 338 della Biblioteca comunale di Assisi, esemplato presso il Sacro Convento tra la fine del XIII e gli inizi del XIV secolo, a configurare una sorta di autorevole antologia degli scritti francescani). Sviluppate in un testo dove le riflessioni si susseguono - alla stregua di altri scritti francescani e in particolare del Testamentum - con il metodo della concatenazione, nel loro caso è però evidente un intervento di rielaborazione, perlomeno stilistica a ricomporre brani che avevano avuto una genesi anche diversificata (del genere di quella attestata dalla trasmissione dell'episodio "De vera laetitia").

Nell'ultimo biennio di vita si colloca anche la redazione del Cantico di frate Sole (o Cantico delle creature ovvero Laudes creaturarum), in una lingua volgare umbra, marcata decisamente da forme latine di derivazione biblica, desunte dalla liturgia, dalla quale tecnicamente derivava la stessa intitolazione, attribuitagli dagli agiografi e dalla tradizione manoscritta.

Nel racconto della Legenda antiqua la composizione del testo viene disposta secondo una precisa scansione temporale, a partire dall'autunno-inverno 1224-1225 e da un soggiorno di F., malato, presso il monastero di S. Damiano in Assisi: a una parte iniziale, concernente le creature inanimate, sarebbero stati aggiunti alcuni versi, in occasione di un conflitto tra il vescovo e il podestà di Assisi, e altri in prossimità della morte di F. (in ciò riflettendo forse circostanze legate a un'effettiva esecuzione canora). Si tratta comunque di un componimento fortemente unitario, al di là delle circostanze della sua redazione finale (il che svuota di contenuto ogni disputa sul presunto luogo di composizione e sulla connessa cronologia). Ispirato al Benedicite (Daniele III, 52-90) e al Salmo 148, risulta essere in realtà un testo pensato con molta cura, nella corrispondenza fra le parti e nella struttura numerico-simbolica, con un retroterra non esclusivamente biblico-liturgico, ma anche teologico (nell'assorbimento di talune tematiche da parte di F. deve aver contribuito la sua familiarità con chierici divenuti frati).

Il Cantico è redatto in un volgare umbro di impronta prosastica, in membri di uguale estensione, sul modello dei ritmi biblici nella versione latina della Vulgata, con rime e assonanze finali a cadenzarlo in conformità alla prassi curiale del cursus. Era corredato da una notazione musicale, probabilmente una melodia corale gregoriana, purtroppo non conservata dalla tradizione manoscritta del testo (senza che peraltro sia necessario pensare a una composizione e a una trasmissione esclusivamente orali). Rispetto alle altre preghiere paraliturgiche opera di F., l'innovazione, da parte sua, fu costituita dalla redazione in lingua volgare, alla quale non era estranea la dichiarata volontà che il Cantico venisse eseguito anche in seguito.

Dal punto di vista linguistico molto si è discusso soprattutto sul valore da dare all'uso fatto nel testo della preposizione "per" (in effetti non del tutto in piena corrispondenza con quello allora corrente): in verità, se essa intende esprimere una lode rivolta a Dio a causa degli attributi riferiti alle sue creature, il Cantico assume l'ulteriore significato di un'esplicita professione di fede cristiana (almeno se messo a confronto con le credenze dualistiche, a quel tempo professate dagli aderenti alle chiese catare in Italia con le quali, peraltro, non risulta F. polemizzasse direttamente).

All'inverno 1224-1225, oltre alle Laudes creaturarum, la Legenda antiqua faceva risalire anche la composizione da parte di F. di "sancta verba cum cantu" (forse una melodia corale gregoriana), per le monache di S. Damiano di Assisi di cui tramandava il tenore in lingua latina (il testo che inizia con le parole Audite poverelle, tràdito esclusivamente da un manoscritto veronese dal quarto decennio del secolo XIV, ne offre una versione in volgare).

L'attenzione che F. prestava alla comunità religiosa delle damianite è attestata anche da una Ultima voluntas, che egli fece pervenire loro poco prima di morire: tramandata però unicamente in quello stesso capitolo VI della regola redatta da Chiara d'Assisi (approvata da papa Innocenzo IV il 9 ag. 1253), in cui è inserita anche una forma vivendi redatta per loro. Nei due testi sono conservate rispettivamente un'esortazione a perseverare nella sequela Christi e a non abbandonare l'altissima povertà, e la promessa di assistenza da parte di F. e dei frati: ad attestare ulteriormente gli stretti rapporti tra F. e quella comunità di religiose la Legenda antiqua riferisce di una sua benedizione indirizzata loro, sempre al volgere dell'esistenza.

La Epistola toti ordini missa (detta anche ad capitulum) costituisce lo scritto francescano con la più ampia tradizione manoscritta (con l'ovvia eccezione delle regole e del testamento). Indirizzata al ministro generale, quindi a frate Elia, e a tutti gli altri superiori dell'Ordine, venne redatta, in un testo rivisto da un segretario, in un'epoca successiva all'approvazione papale della regola (se non a un'altra lettera di Onorio III, Quia populares tumultus, del 3 dic. 1224). Quella Epistola aveva per destinatari soprattutto i chierici, tra i frati, e consisteva in una strenua esortazione a osservare i punti della regola che a F. parevano più qualificanti: l'invito a conservarne il testo, il contenuto, i toni e l'uso delle forme verbali la inserivano nel novero delle riflessioni che si coagularono poi nel Testamentum. I copisti successivi tentarono di razionalizzarne le circostanze di composizione, rubricandola anche come "epistola sancti Francisci de corpore Christi" a rimarcare il principale argomento in essa trattato. A influenzare in maniera profonda la devozione di F. per l'eucaristia aveva da tempo contribuito la lettera Sane cum olim di papa Onorio III, del 22 nov. 1219, con la quale il pontefice ne aveva energicamente promosso il culto.

Anche la Epistola ad custodes rifletteva il medesimo genere di preoccupazioni: in essa, assai più succintamente, si invitavano i superiori dei frati a far curare la manutenzione degli arredi liturgici e ad assicurare un'adeguata conservazione delle sacre specie. Alla fine vi era un'esortazione a predicare la devozione per l'eucaristia, ma anche a far riprodurre e a conservare il testo della lettera stessa (notevoli dubbi solleva, invece, la genuinità di una sua ulteriore redazione, tramandata solo in una versione in lingua spagnola).

Analogamente incentrata sulla devozione eucaristica era una lettera indirizzata da F. agli altri chierici dell'Ordine, con l'invito a conservarla, la cosiddetta Epistola ad clericos (indicata nella redazione manoscritta anche come "De reverentia corporis Domini et de munditia altaris"): un testo dalle caratteristiche assai simili a quelli raccolti nelle Admonitiones, e che di certo ebbe una circolazione scritta in forma epistolare (temi similari si trovavano anche in una Epistola ad populorum rectores, della cui autenticità e genuinità è perlomeno lecito dubitare).

Nelle biografie agiografiche il periodo che va dalla metà del 1225 ai primi mesi del 1226 è caratterizzato soprattutto dalle traversie che, a causa della malattia agli occhi, F. subì, nell'inutile tentativo di essere curato, soprattutto a Rieti, dove allora soggiornava la Curia papale.

All'incirca sei mesi prima della morte, vale a dire nell'aprile-maggio del 1226, mentre si trovava a Siena, F. patì un improvviso peggioramento delle proprie condizioni generali di salute e, secondo la Legenda antiqua e lo Speculum perfectionis, avrebbe fatto chiamare frate Benedetto "de Piratro" e gli avrebbe dettato una benedizione per tutti i frati e un sommario testamento, il cui tenore è stato però conservato solo nelle compilazioni agiografiche.

Non è peraltro necessario pensare a una pluralità di testamenti, dettati ripetutamente nell'ultima fase dell'esistenza, anche se F. dovette ribadire a più riprese, a voce, ai socii che lo assistevano, la propria fedeltà ai motivi ispiratori di una scelta di vita religiosa (rimane comunque aperta la possibilità di eventuali stesure, a precedere la redazione di quello dettato ad Assisi prima della morte).

Il Testamentum beati Francisci venne espressamente da lui definito, nel testo stesso, una "recordatio, admonitio, exhortatio et meum testamentum", che egli lasciava ai frati per favorire una migliore osservanza della regola approvata da Onorio III tre anni prima: escludendo, in modo esplicito, che potesse venire inteso alla stregua di un'altra regola.

Se nella prima parte dello scritto F. scandiva i momenti della propria esistenza, sulla base di episodi ben selezionati (nel cui novero non aveva rilevanza tanto la successione cronologica, quanto l'indicazione dei momenti qualificanti delle proprie scelte di vita), nella seconda parte del Testamentum egli esprimeva le sue preoccupazioni più profonde, non avendo di mira tanto le prescrizioni della regola approvata da Onorio III, come parrebbe suggerire il continuo richiamo a situazioni diversamente codificate nella regula non bullata, quanto le numerose lettere pontificie concernenti i frati minori emanate sin dalla fine del 1223 a ratificare un assetto istituzionale dell'Ordine in una direzione della quale F. era ben consapevole. Tracce di una presa di posizione in merito si trovano nel Testamentum, in talune dure affermazioni sulla povertà delle abitazioni dei frati e delle loro chiese e sulla precarietà del loro possesso: se nella lettera di Onorio III, Devotionis vestre, indirizzata da Anagni il 31 marzo 1222 (e reiterata il 5 aprile) a F. e agli altri frati minori, l'ipotesi che essi possedessero chiese per celebrarvi i divini uffici era puramente eventuale, nella lettera Quia populares tumultus, che dal Laterano il medesimo pontefice indirizzò il 3 dic. 1224 all'Ordine dei frati minori, si dava per scontato che essi ne possedessero e si estendeva loro un privilegio liturgico, concesso in via ordinaria agli altri Ordini religiosi (anzi, per almeno tre volte fra l'agosto e il settembre del 1225, papa Onorio III dovette ribadirne il contenuto in lettere indirizzate a diversi prelati francesi).

Un siffatto moltiplicarsi di lettere pontificie a favore dei frati, dopo l'approvazione della regola, venne aspramente deplorato da F. nel Testamentum, allorché vi si ordinava, con una formula perentoria già presente nella regola stessa, di non richiederne in alcun modo la concessione: anzi, talune espressioni del testo richiamavano in modo particolare tre lettere papali, inviate fra l'ottobre del 1225 e il marzo del 1226, e concernenti i frati minori e i frati predicatori i quali si recavano in missione nel Marocco.

Prima della benedizione finale, che F. impartiva a tutti i suoi frati, egli inserì una ferma prescrizione alla gerarchia dell'Ordine, a non modificare questo testo, a osservarlo insieme alla regola e a leggerlo con essa, a non volerne chiosare le disposizioni letterali. Alla disputa sul valore da assegnargli papa Gregorio IX volle assai presto mettere fine, su richiesta di una delegazione di frati, con la lettera Quo elongati del 28 sett. 1230 nella quale, oltre a chiarire l'interpretazione di alcuni punti controversi della regola minoritica, egli affermò con decisione che il Testamentum non aveva alcun valore giuridico per i frati.

Dopo aver soggiornato in diverse località (individuate a partire dalla prima Vita di Tommaso da Celano), quando le sue condizioni si aggravarono in maniera definitiva, F. venne trasferito presso la chiesa della Porziuncola, dove morì nella notte fra il 3 e il 4 ott. 1226. Il giorno seguente il suo corpo venne trasportato, con una sosta lungo il percorso presso il monastero di S. Damiano, nella chiesa di S. Giorgio, eretta all'interno delle mura cittadine (nel luogo dove in seguito fu edificata la basilica intitolata a S. Chiara d'Assisi).

A frate Elia, allora a capo dell'Ordine dei frati minori, è attribuito da tempo il testo di una lettera indirizzata a frate Gregorio da Napoli, Ministro della provincia minoritica di Francia, in cui egli prospettava in maniera esplicita, per la prima volta, l'assimilazione delle piaghe sul cadavere di F. con le ferite di Cristo crocifisso. F. fu ufficialmente ascritto nel novero dei santi universali della Chiesa con la lettera Mira circa nos di papa Gregorio IX, datata a Perugia il 19 luglio 1228, al termine di un processo di canonizzazione dai ritmi insolitamente accelerati, condotto fra Assisi e Perugia nel periodo compreso fra il 10 giugno e il 16 luglio di quell'anno (i cui atti, peraltro, non ci sono pervenuti; una parziale traccia ne è rimasta nei miracoli elencati alla fine della prima Vita di Tommaso da Celano). La solenne canonizzazione ebbe luogo in Assisi il 16 luglio 1228, verosimilmente nell'area antistante la chiesa di S. Giorgio. Dopo l'inizio dei lavori di costruzione della grande basilica intitolata a F., le sue spoglie vennero fatte tumulare da frate Elia nell'area sottostante l'altare maggiore della chiesa inferiore, il 25 maggio 1230.

Scritti. Gli scritti francescani appaiono di natura alquanto diversa. Vi sono gli autografi, soprattutto la chartula assisana, contenente le Laudes Dei altissimi, la benedizione a frate Leone e il biglietto a frate Leone. Altri testi vennero probabilmente riportati dalla sua viva voce, e in parte rielaborati sul piano dello stile, come ad esempio i verba sacrae admonitionis. In prevalenza, però, F. si avvalse di un frate, che facesse da segretario-scrivano, per dettargli i propri testi ed eventualmente farli redigere in un corretto latino.

Tracce della dettatura da parte di F., in volgare umbro e almeno in parte in latino, si trovano in numerosi testi, caratterizzati dalla persistenza della paratassi e dell'uso di specifiche forme verbali: indenni da qualsiasi forma di rielaborazione, tali elementi sono stati integralmente conservati nel Testamentum, per essere stato redatto nel periodo antecedente alla morte.

L'unica traccia dell'effettiva circolazione delle lettere di F. si trova nella copia di una Epistola ad clericos, eseguita sul foglio di guardia di un manoscritto proveniente dal monastero benedettino di Subiaco. Altre lettere sono state conservate unicamente dalla tradizione manoscritta delle raccolte dei testi francescani oppure dalle compilazioni agiografiche: in queste ultime, e nelle cronache, si accenna a ulteriori lettere, anche autografe, andate smarrite (indirizzate, nel caso, al cardinale Ugolino; a Chiara e alle sorores di S. Damiano; al ministro e ai frati di Francia, scritta di sua mano in occasione del capitolo del 1221; a tutte le scuole di Bologna, nel 1222; a Jacopa dei Settesoli, nei giorni immediatamente precedenti la morte).

Più complesso appare, invece, il carattere di scritti francescani da attribuirsi alle regole minoritiche, nel cui processo di redazione egli ebbe comunque una parte di rilievo. Tanto nella prima quanto nella seconda regula, le parti inserite per immediata volontà di F., nell'insieme di norme stratificatesi negli anni e dopo la loro revisione ad opera della Curia romana, sono agevolmente identificabili per l'uso di formule precettive alla prima persona singolare.

Fonti agiografiche. L'esigenza di diffondere il culto per il nuovo santo indusse papa Gregorio IX ad affidare a un frate minore, l'abruzzese Tommaso da Celano, la redazione di una leggenda agiografica (Vita beati Francisci, detta comunemente Vita prima), da questo portata a termine nel periodo compreso fra la cerimonia di canonizzazione del luglio 1228 e gli inizi del 1229. Da essa dipese, in maniera assai stretta, una Legenda ad usum chori, redatta dallo stesso Tommaso intorno al 1230, per le necessità liturgiche dei frati. All'incirca negli stessi anni, fra il 1232 e il 1235 il frate minore tedesco Giuliano da Spira aveva versificato un ufficio ritmico del santo, con testi derivati dalla Vita celaniana e da utilizzare per la recita nel breviario minoritico: lo stesso frate a Parigi scrisse anche una Vita sancti Francisci. Una Legenda sancti Francisci versificata del chierico Henri d'Avranches, risalente al 1232-1234, a sua volta aveva per fonte il testo celaniano.

Intorno al 1240-1241 a Perugia un frate minore, di nome Giovanni, socius di frate Egidio da Assisi, ne raccolse le memorie, unitamente a quelle di frate Bernardo da Quintavalle, concernenti in particolare i primordi della religio minoritica (un aspetto rimasto in sottordine nella Vita del celanese), e le organizzò nel De inceptione et actibus illorum fratrum minorum qui fuerunt primi ordinis et socii b. Francisci (pubblicato come opera di un anonimo perugino).

In un periodo di trasformazioni che interessavano anche l'altro Ordine mendicante dei frati predicatori e che mettevano in questione le figure dei rispettivi fondatori (con il connesso emergere di racconti a loro riferiti), il capitolo generale minoritico radunato a Genova nel 1244, sotto il ministro generale Crescenzio da Jesi, promosse una raccolta di memorie relative, in particolare, alle gesta e ai miracoli del santo assisiate. Si discute se una lettera inviata dall'eremo di Greccio, l'11 ag. 1246, dai frati Leone, Rufino e Angelo, abbia costituito la premessa a un perduto florilegio: nella tradizione manoscritta essa viene costantemente premessa al testo denominato Legenda trium sociorum, redatto in ambiente assisano fra il 1246 e 1247, e in larga misura ricalcato sul De inceptione di frate Giovanni da Perugia.

Alle "memorie" di frate Leone - il compagno costantemente vicino a F. negli ultimi anni della vita e responsabile della conservazione di importanti reliquie (oltre agli autografi, il cosiddetto breviario di s. Francesco) - faceva capo una larga parte dei materiali raccolti fra 1246 e 1247 in seguito confluiti, in ampia misura, in un manoscritto prodotto fra 1310 e 1312 presso il Sacro Convento di Assisi (pubblicato a più riprese e con diversi titoli: Legenda antiqua - impropriamente detta Perusina -, Scripta Leonis Rufini et Angeli, Compilatio Assisiensis). Dai medesimi materiali pare dipendere, in ultima analisi, anche un'altra raccolta, databile al 1318 e denominata Speculum perfectionis.

Sulla base delle testimonianze allora radunate, fra 1246 e 1247 frate Tommaso da Celano, a integrazione della propria precedente opera, redasse una nuova leggenda agiografica, da lui definita "memoriale de gestis et verbis sanctissimi patris nostri Francisci" (comunemente indicata come Vita secunda). Ad essa fece seguire una raccolta di "miracula beati Francisci" (usualmente denominata Tractatus de miraculis).

Una collocazione a parte compete al Sacrum commercium sancti Francisci cum domina Paupertate, un'allegoria in chiave cortese della povertà minoritica, datata inverosimilmente in alcuni manoscritti al 1227, e da assegnare con maggiore plausibilità ai decenni centrali del secolo XIII.

Divenuto nel 1257 ministro generale dell'Ordine dei frati minori, dopo essere stato maestro di teologia a Parigi, Bonaventura da Bagnoregio fu incaricato dal capitolo generale, tenuto a Narbona nel 1260, di redigere una nuova legenda a carattere ufficiale, che fu approvata dal capitolo generale di Pisa del 1263. Il capitolo generale dell'Ordine, radunatosi a Parigi nel 1266, peraltro, ordinò di distruggere ogni precedente legenda francescana, allo scopo di diffondere in maniera esclusiva la ricostruzione biografica e agiografica offerta dalla Vita beati Francisci bonaventuriana (detta usualmente Legenda maior, per distinguerla dalla Minor vita o Legenda minor, che egli stesso ricavò dalla precedente, compendiandola ad uso liturgico). Anche se un altro capitolo generale minoritico, adunato a Padova nel 1276, revocò tale drastica disposizione, nei secoli successivi lo scritto bonaventuriano rappresentò un filtro estremamente efficace dell'immagine di F.: abile rielaborazione sul piano religioso e politico-ecclesiastico delle precedenti biografie agiografiche celaniane, condizionò anche la raffigurazione artistica del santo e delle sue storie.

Quanto ai celeberrimi Fioretti, essi sono in verità il frutto del volgarizzamento, ad opera di un anonimo toscano fra 1370 e 1390, della gran parte della raccolta degli Actus beati Francisci et sociorum eius, scritta fra 1327 e 1340 dai frati marchigiani Ugolino Boniscambi da Montegiorgio e Ugolino da Bruniforte. Negli Actus frammenti di memorie a fondamento storico sono calati all'interno di un'atmosfera favolistica e irreale, in cui la narrazione è fortemente condizionata dalle contemporanee polemiche dell'ala radicale dei frati marchigiani nei confronti della dirigenza dell'Ordine francescano.

Nelle compilazioni che si andarono moltiplicando nel corso del secolo XIV confluirono sostanzialmente, oltre ad altri scritti allora attribuiti a F., anche materiali compositi ricavati dal precedente patrimonio agiografico.

Iconografia. In assenza di un'immagine risalente al medesimo F., la sua prima rappresentazione, eseguita ad affresco da un maestro laziale nella cappella di S. Gregorio nel Sacro Speco a Subiaco, riproduceva una figura tradizionale di benedettino, adattata con la sovrapposizione di un cordone minoritico all'abito monastico.

A partire da una perduta tavola cuspidata, eseguita da Bonaventura Berlinghieri forse già nel 1228, il culto per il nuovo santo si diffuse attraverso la tipologia della tavola istoriata: con la figura di F. ritta al centro del dipinto, circondata da riquadri con i prodigi operati in vita e dopo la morte (l'esemplare più antico è una tavola, sottoscritta e datata al 1235 dallo stesso Bonaventura Berlinghieri, per la chiesa del convento di S. Francesco a Pescia). In stretta dipendenza dalle biografie agiografiche ufficiali, redatte da Tommaso da Celano, attraverso tavole istoriate e affreschi si affermano gli elementi caratteristici dell'iconografia francescana medievale: la predica del santo agli uccelli e la stigmatizzazione sulla Verna, episodi che ebbero una vasta fortuna anche nel repertorio miniaturistico, malgrado reiterate obiezioni e l'opposizione di ambienti ecclesiastici. Solo nella tavola di un maestro toscano, eseguita nei primi anni Quaranta del secolo XIII per la chiesa francescana di S. Croce a Firenze, paiono emergere frammenti di altre tradizioni.

Alla diffusione di immagini isolate del santo, dipinte su tavola, ispirate alla descrizione somatica di F. offerta dagli scritti agiografici celaniani, si dedicò invece il pittore Margaritone d'Arezzo (menzionato nel 1262).

Se anche il ciclo di affreschi eseguito nella chiesa inferiore della basilica di S. Francesco in Assisi traeva sempre ispirazione dai medesimi scritti celaniani, l'avvenuta eliminazione dei testi agiografici anteriori alla Legenda maior di Bonaventura da Bagnoregio fece assurgere quest'ultima a esclusiva fonte di ispirazione della committenza per il ciclo con le Storie di san Francesco, eseguito nella chiesa superiore, nel corso dell'ultimo decennio del secolo XIII (come ulteriormente mostrano le didascalie da essa tratte e collocate al di sotto dei singoli riquadri). L'opera divenne, in sostanza, normativa sul piano iconografico per gli artisti successivi.

Solo a partire dalla fine del secolo XIV il repertorio iconografico si allargò a episodi narrati nei Fioretti (ad esempio negli affreschi eseguiti da un maestro senese per il coro della chiesa di S. Francesco a Pienza). La grande fortuna delle immagini di F. nell'arte dell'età della Controriforma e del barocco, infine, traeva un'ispirazione a carattere meramente strumentale dalle fonti medievali, allo scopo di riferire, invece, la figura del santo alle maggiori correnti devozionali di quell'epoca.