Jacques Rivière

 

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Scrittore francese (Bordeaux 1886 - Parigi 1925).

Legato alla Nouvelle revue française (della quale avrebbe assunto la direzione nel 1919), vi pubblicò dal 1909 saggi di notevole acume critico su scrittori, pittori e musicisti, poi raccolti in Études (1911; trad. it. 1945). Alla sua lunga prigionia in Germania durante la guerra ispirò L'Allemand. Souvenirs et réflexions d'un prisonnier de guerre (1918); in seguito tentò la via del romanzo con Aimée (1922; trad. it. 1959), lucido scavo dell'animo femminile, e con l'incompiuto Florence (post., 1935).

Ma l'influenza di R. sulla cultura francese dell'epoca è legata al suo ruolo di guida e organizzatore, capace di conciliare le istanze della cultura d'avanguardia con l'eredità della tradizione, e al suo talento di elegante saggista, sensibile indagatore delle inquietudini morali.

Molti dei suoi saggi apparvero postumi (Quelques progrès dans l'étude du coeur humain. Freud et Proust, 1926; Moralisme et littérature, 1932; Nouvelles études, 1947).

Testimonianze preziose sulla sua personalità e sul travaglio spirituale che lo portò ad avvicinarsi alla fede cattolica sono emerse dalla pubblicazione delle note di diario (À la trace de Dieu, 1925; Carnet de guerre, 1929) e dei carteggi: con P. Claudel (Correspondance 1907-1914, 1926); con Alain-Fournier, del quale R. aveva sposato la sorella (Correspondance 1905-1914, 4 voll., 1926-28); con M. Proust (Correspondance 1914-1922, 1955).

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Critico letterario e editore della NRF dal 1919 al 1925, anno della sua morte, Rivière fu uno dei primi a riconoscere e sostenere il genio di Proust e a metterne in rilievo, al di là di una frivolezza di facciata del suo libro, il rigore della struttura.

Nel febbraio del 1914, mentre si dà da fare per il rientro di Proust presso Gallimard, Proust gli scrive la sua gioia d'aver trovato

"un lettore che capisce che il [suo] libro è un'opera dogmatica e una costruzione".
 

La lettera a Rivière

Questa lettera del 1914 inviata a Jacques Rivière, critico letterario ed editore della NRF è molto importante perché in essa Proust esplicita le finalità profonde della sua opera letteraria (della quale, nel momento in cui scrive, i lettori conoscono solo  Du côté de chez Swann) e la strategia complessiva di tutta la  Recherche.

Questa lettera mostra ancora una volta quanto sia importante che la  Recherche venga letta per intero e quanto qualunque giudizio formulato sulla base di una lettura soltanto parziale di essa possa risultare fuorviante.

Boulevard Haussmann 102
(Venerdi 6 febbraio 1914)

Signore,

finalmente un lettore che intuisce che il mio libro è un'opera dogmatica e strutturata. E che gioia per me che siate voi quello.
(...)
Come artista, ho trovato più onesto e delicato non rivelare, non proclamare che quel che mi prefiggevo era la ricerca della verità, e in che cosa essa consisteva per me.
A tal punto detesto le opere ideologiche nelle quali la narrazione è un continuo tradimento delle intenzioni dell'autore, che ho preferito non dire nulla. E' solo alla fine del libro, e dopo aver comprese le lezioni della vita, che il mio pensiero si paleserà. Quella che esprimo alla fine del primo volume, in quella parentesi del Bois de Boulogne che ho messo lì come semplice paravento per terminare e chiudere un libro che per motivi pratici non poteva superare le cinquecento pagine, è il contrario della conclusione. E' una tappa, che si presenta come soggettiva e dilettantesca, sulla via che porta ad una conclusione del tutto soggettiva e convinta. Inferirne che il mio atteggiamento mentale è uno scetticismo disincantato, sarebbe esattamente come se uno spettatore, vedendo alla fine del primo atto del Parsifal che il personaggio non capisce niente della cerimonia ed è cacciato da Gunremanz, supponesse che Wagner ha voluto dire che la semplicità di cuore non porta da nessuna parte.

In questo primo volume avete visto la sensazione piacevole che mi procura la madeleine inzuppata nel té - come dico, smetto di sentirmi mortale etc. e non capisco perché. Lo spiegherò solo alla fine del terzo volume. Tutta l'opera è costruita in questa maniera. Se Swann affida così fiduciosamente Odette a Charlus (e sembra ch'io abbia voluto riproporre la banale situazione del marito che si fida dell'amante di sua moglie) è che Charlus, e Swann lo sa, lungi dall'essere l'amante di Odette, è un omosessuale che ha orrore delle donne. Nel terzo volume vedrete anche il motivo profondo della scena delle due ragazze, delle manie di mia zia Léonie ecc.

No, se non avessi convinzioni intellettuali, se cercassi soltanto di ricordare il passato e di duplicare con questi ricordi l'esperienza, non mi prenderei, malato come sono, la briga di scrivere. Ma questa evoluzione del pensiero, non ho voluto analizzarla astrattamente bensì ricrearla, farla vivere.Sono costretto quindi a dipingere gli errori senza ritenermi in dovere di dire che li giudico tali: tanto peggio per me se il lettore crede che li considero verità.

Il malinteso si accentuerà nel secondo volume, spero che si risolverà nell'ultimo. Mi fa molto piacere sentire che almeno fra noi malinteso non c'è stato e vi esprimo, per la gentilezza che avete avuto di dirmelo, la mia viva (sperando che mi consentirete di aggiungere un giorno affettuosissima) gratitudine.

Dopo la morte di Proust Rivière cura, assieme al fratello di questi, Robert, la pubblicazione delle parti della Recherche che il suo autore non aveva avuto il tempo di revisionare e scrive su di lui un bel saggio dal titolo "Quelques progrès dans l'étude d'un coeur humain" .

Il saggio, nel quale stabilisce un parallelo tra Freud e Proust, verrà pubblicato postumo nel 1927. 

da Jacques Rivière, Marcel Proust, 1 marzo 1924

“La mia ammirazione attuale per il nostro autore è ben lontana dall’essere basata su un colpo di fulmine imbecille” - Jacques Rivière"

L'incontro con Proust

“Lessi lo Swann per la prima volta verso la primavera del 1914. Non dimenticherò mai lo sbalordimento, l’emozione profonda in cui fui immediatamente immerso. E’ la seconda parte dell’opera, Un amour de Swann, quella che mi sconvolse più profondamente. Entravo in un nuovo mondo. Avevo la sensazione di vedersi aprire sull’amore una porta che mai nessuno aveva notato e che conduceva a un cielo notturno e magnifico, popolato da una miriade di dolorose piccole stelle”¹

Dopo la lettura dello Swann che tanto lo aveva colpito, Rivière avrebbe voluto incontrare Proust ma non vi riuscì a causa della guerra. In quel periodo Proust frequentava solo gli amici più stretti, Rivière fu fatto prigioniero dai Tedeschi. Ma tra i due iniziò una corrispondenza, e Rivière, senza appunto averlo mai conosciuto di persona, disse che Proust fu sin dalle prime lettere “di una gentilezza squisita”. Finita la guerra, Rivière riprese l’opera di Proust, la cui lettura era stata interrotta dagli eventi, e come scrive, ebbe l’impressione che “la sua giovinezza era cresciuta, era raggiante di grazia e di forze che mi erano prima sfuggite. Compresi di colpo che era la Grande Opera della nostra epoca, e che la sua influenza era immensa”. Presentando Proust nel 1923 a una conferenza, Rivière dichiarò di non possedere alcuna capacità ritrattistica, e di essere dunque incapace di descrivere l’aspetto di Marcel Proust. Ciò non toglie che egli diffidò il pubblico dal costruirsi un’immagine visiva dello scrittore basata sulle fotografie disponibili:

“Vi metto in guardia contro le fotografie, che sono quasi tutte di un’epoca molto anteriore a quella in cui nacque veramente il Proust scrittore, e che danno di lui un’immagine di gran lunga troppo leziosa. Vi era nella sua figura qualcosa di molto più netto e marcato, e nel suo sguardo una fiamma molto più calda e luminosa di quanto non si possa immaginare guardando i ritratti della sua giovinezza.”

Rivière conferma che vi era in Proust una debolezza, una “mancanza di pugnacità”, una ripugnanza a combattere, a farsi strada per forza, a “cambiare a suo vantaggio l’ordine del mondo o, se si vuole, ad agire” che secondo il critico devono venire sottolineati prima di qualunque altro tratto dell’Autore. Ciò non toglie, scrive Rivière, che Proust fosse “agli antipodi della mollezza e della timidezza”. Ma in generale, vi era in lui “qualcosa di esposto, di abbandonato, di smantellato. Il suo organismo morale non era fatto per la concentrazione, l’affermazione e la conquista. Le cose minime, i più piccoli accidenti della vita prendevano su di lui un ascendente; non li prevedeva mai, né li parava”. Del resto, Proust era malato o secondo le parole di Rivière, “massimamente inadatto alla vita, assolutamente incapace di rispondere alle sue provocazioni”.

“Non si può capire Proust o la sua opera che rappresentandosi la sua imperizia, la sua immensa goffaggine, la sua completa infermità pratica e nello stesso tempo il suo appetito, quella direzione di tutto il suo essere verso le cose, le persone, la vita, la sua continua applicazione a strappar loro qualcosa, a espropriarle di qualcosa.”

Rivière, che in seguito frequentò molto spesso Proust - di cui divenne l’editore, ci dà dell’altro lato di Proust, quello insistente, tenace, determinato, un ritratto curioso e divertente: “Proust era esposto, disarmato, ma esigente. … C’erano molte cose che Proust desiderava, voleva o comunque intendeva ottenere. E aveva per ottenerle un metodo straordinario, del tutto istintivo. Egli prediligeva i percorsi spezzati, quelli che gli consentivano di passare tra tutti gli ostacoli”¹. Rivière racconta che Proust rivelava in questi casi un’energia insospettabile, ancorché rivolta a vantaggio di altri piuttosto che al suo personale: se Proust voleva che Rivière pubblicasse qualcuno dei suoi amici o protetti, ne parlava continuamente e in modo tale da renderli simpatici, e se il talento difettava, gentilmente ma ripetutamente faceva notare a Rivière che la N.R.F. aveva pubblicato anche di peggio. Rivière racconta che di fronte alla sua inflessibilità, Proust passava allora al contrattacco rimproverandogli regolarmente il rifiuto che questi gli aveva opposto. E Proust aveva notoriamente una memoria da elefante.

Ed è proprio questa mancanza di talento pratico che Rivière mette in relazione allo spessore stupefacente del suo libro – “uno spessore miracoloso che non poteva prodursi che per il mezzo, la mediazione di un organismo morale completamente privo di difese. Proprio perché non ha mai combattuto con la vita Proust ha potuto riceverne l’impronta con questa prodigiosa minuzia.”¹

Eppure Rivière considera metro di misura dell’opera proustiana il fatto che essa sia il prodotto “di qualcuno che non si è risparmiato nulla.”¹ Tutte quelle cose alle quali i bambini normalmente si dedicano nell’infanzia, per praticarle o per evitarle, per avvicinarle o per allontanarsene, non furono mai accessibili al bambino malato, nervoso e ipersensibile che Proust fu da sempre; e proprio in quella che definisce “impotenza prima”¹ Rivière coglie il talento proustiano per la registrazione “di tutto ciò che noi superiamo”, e l’appesantimento dovuto alla raccolta “di tutto ciò che noi scartiamo.”¹

“Un’opera di questa natura non poteva nascere che dall’essere esposto e immobile che vi ho descritto all’inizio, da questo ‘battello demolito e condannato a un eterno ormeggio’ che Proust fu già dall’infanzia” - Jacques Rivière¹

Proust era contorto, e aveva un’intelligenza tortuosa:

“La sua intelligenza soffriva di una sorta di mostruosità, che consisteva nel non poter pervenire al presente che percorrendo di nuovo tutta una parte del suo passato. Non sbucava nel presente che attraverso il groviglio, complesso e distinto, dei mille rivoli della sua vita anteriore. Non si produceva in lui quasi nessuna attenuazione dei ricordi ed era proprio questo, evidentemente, a condizionarlo così tanto nella sua vita pratica, perché agire è in primo luogo aver dimenticato”.

Sovrabbondanze proustiane

Nell’Hommage Rivière così descrisse la posizione di Proust rispetto ai sentimenti: “Proust si immerge prima interamente, profondamente, nella sensazione e nel sentimento. Dall’infanzia sentire consuma tutte le sue forze, tranne una: l’intelligenza.” Rivière prosegue descrivendolo come un prigioniero delle sue stesse emozioni, quasi sopraffatto dalla loro quantità ma tuttavia capace di trascenderle, non proponendosi altro compito che quello dell’ispezione: “Il momento in cui il bambino riflette sulle sue sensazioni, ne rifiuta alcune per poterne utilizzare altre, per lui non viene mai. Nessuno sforzo di aggiustamento, o di economia; … Nella spessa foresta dei suoi giorni e delle sue notti egli non taglia alcuna fronda né cerca di costruirsi un altro rifugio. Egli resterà allo scoperto fino al suo ultimo giorno, fino al letto di ferro dell’appartamento in cui morrà, ancora affacciato alle sue sensazioni”.
   
Queste sono, tra le tante, le parole che Maurice Barrès dedica a Proust nell’Hommage della N.R.F.: “Egli era il più amabile giovanotto, una fonte meravigliosa di complimenti e di lazzi, con un’estrema abbondanza di parole un po’ oscure e una sottigliezza prodigiosa di sfumature. Si sarebbe creduto che si ingarbugliasse in una moltitudine di precauzioni e di ‘pentimenti’, ma al contrario egli costruiva il suo registro, e si esercitava (a sua insaputa) ad acquisire i mezzi atti a tradurre l’incredibile sovrabbondanza delle sue registrazioni.”

Precognizione

Tra maggio e luglio del 1913, cioè quattro mesi prima della pubblicazione dello Swann da Grasset, Rivière pubblicò nella N.R.F. un articolo intitolato “Il romanzo d’avventura” in cui preconizzava l’avvento di un libro molto simile alla Recherche. Quando lo Swann apparve, l’incontro fu fatale: l’opera che Rivière aveva aspettato per tutta la vita era finalmente stata pubblicata.

“Sarà un’opera lunga, e un’opera in cui ci si attarda … Bisogna rassegnarsi; il romanzo che aspettiamo non avrà quella bella composizione rettilinea, quell’incatenamento armonioso, quella semplicità di racconto che sono stati sin qui le virtù del romanzo francese. … Abbiamo bisogno di un romanzo grosso come Monte-Cristo, stampato su carta brutta e con le pagine annerite dall’alto al basso da caratteri serratissimi”

Lo stile di Proust

Jacques Rivière fu uno dei primi estimatori di Proust, e senza dubbio il primo in assoluto a rilevare che tra Freud e Proust vi erano parallelismi significativi. Rivière fu amico personale, editore, critico, mentore, confidente di Proust - ma più che di Proust stesso, Rivière fu in primo luogo un adoratore della Recherche.

“Amavo Proust teneramente, e credo che egli nutrisse per me dell’affetto; ma né in lui, né in me, l’amicizia contemplò mai l’illusione, né ci obbligò mai a immaginarci l’un l’altro diversi da ciò che eravamo”
Jacques Rivière, Marcel Proust et l’esprit positif: ses idées sur l’amour, 24 gennaio 1923

Rivière, che come scrive Thierry Laget “edificò una liturgia proustiana”, ebbe nei confronti dello stile di Proust e della sua opera un rapporto di adorazione oscillante tra la folgorazione emotiva ed estetica, e una attenuata ma persistente riserva morale, forse dovuta al fatto che Rivière morì nel 1925, cioè due anni prima che fosse pubblicato Le Temps retrouvé. Nel 1918, dopo aver letto di Proust solo lo Swann, Rivière scrisse: “Io so che se Proust non dirige le sue facoltà straordinarie su dei soggetti buoni, può facilmente cadere nel raffinato e nel tedioso. Ma domina comunque la speranza, quella di vederlo cambiare direzione: e la prospettiva che ciò mi fa intravedere è di una qualità così unica da farmi battere il cuore” (L’Évolution du roman après le Symbolisme, 27 marzo 1918)

Gaëtan Picon scrive che l’opera di Proust fu per Rivière una “beatitudine gelosa”. E come accadde a Virginia Woolf, benché su altri toni, ancora una volta il confronto con il talento visionario e sublime di Marcel Proust era complesso:
    
“Il sentimento più vivo che mi provoca la lettura di Marcel Proust è forse la disperazione. Mai così violentemente come spogliando il suo libro io maledico il destino che mi ha fatto scrittore. … non la perfezione di questa opera mi opprime; essa non mi appare per nulla un legame più stretto di quello che io sono capace di stringere con il Bello in sé, con la sovrana armonia. Io vedo le sue scorrettezze, le sue insufficienze, persino le sue mostruosità. Ma essa è talmente più vera di quanto io saprò mai rendere le mie! Vi è in essa un non so che di talmente più concreto, di talmente più prossimo alle cose, di talmente più identico ai sentimenti, di tutto ciò che io potrei provare a dire; tutto ciò che farò dopo sembrerà sempre canzone”
Jacques Rivière, Le Roman de Monsieur Marcel Proust, luglio 1919-gennaio 1920

L’assenza di dinamismo è una delle critiche che Rivière indirizzò a Proust, anche se immediatamente ne trovò una giustificazione come in questa lettera a Claudel: “Non sono stato meno disturbato di voi dalla completa assenza di dinamismo che rivela quest’opera che pure ammiro tanto. Vi è in essa, è certo, un difetto quasi tragico e al quale fatico molto ad abituarmi. Sono però giunto alla conclusione che questo è la condizione stessa delle scoperte straordinarie che ha fatto Proust nella coscienza umana. La volontà, ancorché indirizzata al bene, è una fonte di interferenza per la visione interiore” (Correspondance Claudel-Rivière)

Il giudizio che Rivière dà complessivamente dell’opera proustiana è dunque lontanissimo dal contenere quelle accuse di amoralità che all’Autore erano state mosse da molte parti, soprattutto dopo che con grande scandalo del milieu letterario Le jeunes filles en fleurs aveva vinto, nel 1919, il Prix Goncourt.

Ciò non toglie che pur avendolo difeso per anni a spada tratta, e aver innalzato alla sua morte quello che Thierry Laget definirà “un mausoleo a Proust” con l’edizione degli Hommage della Nouvelle Revue Française, alcune riserve resistano, verso Proust, nel giudizio che di lui dà Rivière:

“La grande insufficienza di Proust consiste nell’aver ignorato, o negato, tutto ciò che un essere vivente - in quanto vive - compie senza sosta  per costruire se stesso, o per riunificarsi”
Jacques Rivière, Ramon Fernandez, Moralisme et litterature

Jean Schlumberger scrisse a Isabelle Rivière nel 1928, dopo aver letto il testo delle conferenze del Vieux-Colombier, che in Rivière aveva notato, verso Proust, “lo splendore del culto addolcirsi di qualche ombra. Non dubito che a poco a poco Jacques si fosse accorto di ciò che vi era di incompatibile tra la sua nobiltà e una segreta debolezza proustiana” (Correspondance Rivière-Schlumberger)

Nel 1919 Rivière scrisse: “Lo stile. Impossibile contestarne la goffaggine. Essa corrisponde a ciò che difetta in Proust di volontà. (Ma era forse necessario ch’egli ne difettasse per diventare soggetto e vittima di tanti sentimenti)”. (Jacques Rivière, Le Roman de Monsieur Marcel Proust)

Ma Proust era in cerca della verità, della sua in primo luogo e di un vero universale, patrimonio di tutti gli uomini – e un intelletto sofisticato come quello di Rivière non poteva restarvi indifferente: “Io credo che … tutta la recherche du temps perdu sia nata dal bisogno di afferrare, di possedere l’inafferrabile e di eternizzarlo riconducendolo a qualcosa nell’ordine della verità. … Non potremo mai capirne nulla … se non ci rappresentiamo incessantemente questo spirito che cerca, che desidera…”

Thierry Laget scrive che “Rivière avrebbe potuto vivere fino a cent’anni: forse avrebbe finito per stufarsi di Proust, ma mai senza dubbio a causa di ciò che “vi era di incompatibile tra la sua nobiltà e una segreta debolezza proustiana” – perché questa debolezza egli l’aveva già denunciata nel 1919, ed essa non gli impedì comunque di gioire della Recherche. Gli sarebbe stato sufficiente vivere fino al 1927, data di pubblicazione del Temps retrouvé, per capire che né Proust, né il narratore del suo romanzo erano deboli, e che al contrario essi erano stati i soli della loro epoca a possedere la volontà di decifrare il libro interiore dei segni sconosciuti”. (Thierry Laget, Cahiers Marcel Proust, #13)
     
“Comprendersi e comprendere l’uomo sono le sole occupazioni che abbiano senso in questa vita”
Jacques Rivière, Marcel Proust, 1 dicembre 1922