III. Appendice

APPUNTI SULLA STORIA DELLE CLASSI SUBALTERNE

APPUNTI SULLA STORIA DELLE CLASSI SUBALTERNE

Criteri metodici.

L'unità storica delle classi dirigenti avviene nello Stato e la storia di esse è essenzialmente la storia degli Stati e dei gruppi di Stati. Ma non bisogna credere che tale unità sia puramente giuridica e politica, sebbene anche questa forma di unità abbia la sua importanza e non solamente formale: l'unità storica fondamentale, per la sua concretezza, è il risultato dei rapporti organici tra Stato o società politica e «società civile».

Le classi subalterne, per definizione, non sono unificate e non possono unificarsi finché non possono diventare «Stato»: • la loro storia, pertanto, è intrecciata a quella della società civile, è una funzione «disgregata» e discontinua della storia della società civile e, per questo tramite, della storia degli Stati o gruppi di Stati. Bisogna pertanto studiare: x) il formarsi obiettivo dei gruppi sociali subalterni, per lo sviluppo e i rivolgimenti che si verificano nel mondo della produzione economica, la loro diffusione quantitativa e la loro origine da gruppi sociali preesistenti, di cui conservano per un certo tempo la mentalità, l'ideologia e i fini; 2) il loro aderire attivamente o passivamente alle formazioni politiche dominanti, i tentativi di influire sui programmi di queste formazioni per imporre rivendicazioni proprie e le conseguenze che tali tentativi hanno nel determinare processi di decomposizione e di rinnovamento o di neoformazione; 3) la nascita di partiti nuovi dei gruppi dominanti per mantenere il consenso e il controllo dei gruppi subalterni; 4) le formazioni proprie dei gruppi subalterni per rivendicazioni di carattere ristretto e parziale; 5) le nuove formazioni che affermano l'autonomia dei grupp: subalterni ma nei vecchi quadri; 6) le formazioni che affermano l'autonomia integrale, ecc.

La lista di queste fasi può essere ancora precisata con fasi intermedie o con combinazioni di più fasi. Lo storico deve notare e giù stifìcare la linea di sviluppo verso l'autonomia integrale, dalle fasi più primitive, deve notare ogni manifestazione del soreliano «spirito di scissione». Perciò, anche la storia dei partiti dei gruppi subalterni è molto complessa, in quanto deve includere tutte le ripercussioni delle attività di partito, per tutta l'area dei gruppi subalterni nel loro complesso, e sugli atteggiamenti dei gruppi dominanti e deve includere le ripercussioni delle attività ben più efficaci, perché sorrette dallo Stato, dei gruppi dominanti su quelli subalterni e sui loro partiti. Tra i gruppi subalterni uno eserciterà o tenderà ad esercitare una certa egemonia attraverso un partito e ciò occorre fissare studiando gli sviluppi anche di tutti gli altri partiti in quanto includono elementi del gruppo egemone o degli altri gruppi subalterni che subiscono tale egemonia.

Molti cànoni di ricerca storica si possono costruire dall'esame delle forze innovatrici italiane che guidarono il Risorgimento nazionale: queste forze hanno preso il potere, si sono unificate nello Stato moderno italiano, lottando contro determinate altre forze e aiutate da determinati ausiliari o alleati; per diventare Stato dovevano subordinarsi o eliminare le une e avere il consenso attivo o passivo delle altre. Lo studio dello sviluppo di queste forze innovatrici da gruppi subalterni a gruppi dirigenti e dominanti deve pertanto ricercare e identificare le fasi attraverso cui esse hanno acquistato l'autonomia nei confronti dei nemici da abbattere e l'adesione dei gruppi che le hanno aiutate attivamente o passivamente, in quanto tutto questo processo era necessario storicamente perché si unificassero in Stato. Il grado di coscienza storico-politica cui erano giunte progressivamente queste forze innovatrici nelle varie fasi si misura appunto con questi due metri e non solo con quello del suo distacco dalle forze precedentemente dominanti. Di solito si ricorre solo a questo criterio e si ha così una storia unilaterale o talvolta non ci si capisce nulla, come nel caso della storia della penisola dall'èra dei Comuni in poi. La borghesia italiana non seppe unificare intorno a sé il popolo e questa fu la causa delle sue sconfitte e delle interruzioni del suo sviluppo.

Anche nel Risorgimento tale egoismo ristretto impedi una rivoluzione rapida e vigorosa come quella francese. Ecco una delle quistioni più importanti e delle cause di difficoltà più gravi nel fare la storia dei gruppi sociali subalterni e quindi della storia senz'altro (passata) degli Stati.

La storia dei gruppi sociali subalterni è necessariamente disgregata ed episodica. È indubbio che nell'attività storica di questi gruppi c'è la tendenza all'unificazione sia pure su piani provvisori, ma questa tendenza è continuamente spezzata dall'iniziativa dei gruppi dominanti, e pertanto può essere dimostrata solo a ciclo storico compiuto, se esso si conchiude con un successo. I gruppi subalterni subiscono sempre l'iniziativa dei gruppi dominanti, anche quando si ribellano e insorgono: solo la vittoria «permanente» spezza, e non immediatamente, la subordinazione. In realtà, anche quando paiono trionfanti, i gruppi subalterni sono solo in istato di difesa allarmata (questa verità si può dimostrare con la storia della Rivoluzione francese fino al 1830 almeno). Ogni traccia di iniziativa autonoma da parte dei gruppi subalterni dovrebbe perciò essere di valore inestimabile per lo storico integrale; da ciò risulta che una tale storia non può essere trattata che per monografie e che ogni monografia domanda un cumulo molto grande di materiali spesso difficili da raccogliere.

Lo sviluppo storico dei gruppi subalterni nel medioevo e a Roma.

Nel saggio di Ettore Ciccotti Elementi di «verità» e di «certezza» nella tradizione storica romana (contenuto nel volume Confronti storici), sono alcuni accenni allo sviluppo storico delle classi popolari nei Comuni italiani, specialmente degni di attenzione e di trattazione separata. Le guerre reciproche fra i Comuni, e quindi la necessità di reclutare una più vigorosa e abbondante forza militare col lasciare armare il maggior numero, davano la coscienza della loro forza ai popolani e nello stesso tempo ne rinsaldavano le file (cioè funzionarono da eccitanti alla formazione compatta e solidale di gruppo e di partito). I combattenti rimanevano uniti anche in pace, sia per il servizio da prestare, sia, in prosieguo, con crescente solidarietà, per fini di utilità particolare. Si hanno gli statuti delle «Società d'armi», che si costituirono a Bologna, come sembra, verso il 1230 ed emerge il carattere della loro unione e il loro modo di costituzione. Verso la metà del secolo xm le società erano già venti- quattro, distribuite a seconda della contrada ove abitavano i componenti. Oltre al loro ufficio politico di difesa esterna del Comune, avevano il fine di assicurare a ciascun popolano la tutela necessaria contro le aggressioni dei nobili e dei potenti. I capitoli dei loro statuti — per esempio, della Società detta dei Leoni — hanno in rubrica titoli come: De adiutorio dando hominibus diete societatis...; Quod molestati iniuste debeant adiuvari ab hominibus diete societatis. E alle sanzioni civili e sociali si aggiungevano, oltre al giuramento, una sanzione religiosa, con la comune assistenza alla messa e alla celebrazione di uffici divini, mentre altri obblighi comuni, come quelli, comuni alle confraternite pie, di soccorrere i soci poveri, seppellire i defunti, ecc., rendevano sempre più persistente e stretta l'unione. Per le funzioni stesse delle società si formarono poi cariche e consigli. A Bologna, per esempio, quattro o otto «ministeriales» foggiati sugli ordini della Società delle Arti o su quelli più antichi del Comune, che col tempo ebbero valore oltre i termini delle Società e trovarono luogo nella costituzione del Comune. Originariamente, in queste società entrano milites al pari di pedites, nobili e popolani, se anche in minor numero. Ma, a grado a grado i milites, i nobili, tendono ad appartarsene, come a Siena, o, secondo i casi, ne possono essere espulsi, come nel 1270, a Bologna. E a misura che il movimento di emancipazione prende piede, oltrepassando anche i limiti e la forma di queste società, l'elemento popolare chiede ed ottiene la partecipazione alle maggiori cariche pubbliche. Il popolo si costituisce sempre più in vero partito politico e per dare maggiore efficienza e centralizzazione alla sua azione si dà un capo, «il Capitano del popolo» ufficio che pare Siena abbia preso da Pisa e che nel nome come nella funzione, rivela insieme origini e funzioni militari e politiche. Il popolo che già volta a volta, ma sporadicamente, si era armato, si era riunito, si era costituito e aveva preso deliberazioni distinte, si costituisce come un ente a parte, che si dà anche proprie leggi. Campana propria per le sue convocazioni, cum campana Communis non bene audiatur. Entra in contrasto col Podestà a cui contesta il diritto di pubblicar bandi e col quale il Capitano del popolo stipula delle «paci». Quando il popolo non riesce ad ottenere dalle autorità comunali le riforme volute, fa la sua secessione, con l'appoggio di uomini eminenti del Comune e, costituitosi in assemblea indipendente, incomincia a creare magistrature proprie ad immagine di quelle generali del Comune, ad attribuire una giurisdizione al Capitano del popolo, e a deliberare di sua autorità, dando inizio (dal 1255) a tutta un'opera legislativa. (Questi dati sono del Comune di Siena). Il popolo riesce, prima praticamente, e poi anche formalmente, a fare accettare negli statuti generali del Comune disposizioni che prima non legavano se non gli ascritti al «Popolo» e di uso interno. Il popolo giunge quindi a dominare il Comune, soverchiando la precedente classe dominante, come a Siena dopo il 1270, a Bologna con gli Ordinamenti «sacrati» e «sacratissimi», a Firenze con gli «Ordinamenti di giustizia». (Provenzan Salvani a Siena è un nobile che si pone a capo del popolo).

La maggior parte dei problemi di storia romana che il Ciccotti prospetta nello studio già citato (a parte l'accertamento di episodi «personali», come quello di Tanaquilla, ecc.) si riferiscono ad eventi ed istituzioni dei gruppi sociali subalterni (tribuno della plebe, ecc.). Perciò il metodo dell'«analogia» affermato e teorizzato dal Ciccotti può dare qualche risultato «indiziario», perché i gruppi subalterni, mancando di autonomia politica, le loro iniziative «difensive» sono costrette da leggi proprie di necessità, più semplici, più limitate e politicamente più compressive che non siano le leggi di necessità storica che dirigono e condizionano le iniziative della classe domi- , nante. Spesso i gruppi subalterni sono originariamente di altra razza (altra cultura e altra religione) di quelli dominanti e spesso sono un miscuglio di razze diverse, come nel caso degli schiavi. La quistione dell'importanza delle donne nella storia romana è simile a quella dei gruppi subalterni, ma fino a un certo punto; il «maschilismo» può solo in un certo senso essere paragonato a un dominio di classe, esso ha quindi più importanza per la storia dei costumi che per la storia politica e sociale. Di un altro criterio di ricerca occorre tener conto per rendere evidenti i pericoli insiti nel metodo dell'analogia storica come criterio d'interpretazione. Nello Stato antico e i quello medioevale, l'accentramento, sia politico-territoriale, sia sociale (e l'uno non è poi che funzione dell'altro), era minimo. Lo Stato era, in un certo senso, un blocco meccanico di gruppi sociali e spesso di razze diverse: entro la cerchia della compressione politico- militare, che si esercitava in forma acuta solo in certi momenti, i gruppi subalterni avevano una vita propria, a sé, istituzioni proprie, ecc., e talvolta queste istituzioni avevano funzioni statali che facevano dello Stato una federazione di gruppi sociali con funzioni diverse non subordinate, ciò che nei periodi di crisi dava un'evidenza estrema al fenomeno del «doppio governo». L'unico gruppo escluso da ogni vita propria collettiva organizzata era quello degli schiavi (e dei proletari non schiavi) nel mondo classico ed è quello dei proletari e dei servi della gleba e dei coloni nel mondo medioevale. Tuttavia se, per molti aspetti, schiavi antichi e proletari medioevali si trovavano nelle stesse condizioni, la loro situazione non era identica:

il tentativo dei Ciompi non produsse certo l'impressione che avrebbe prodotto un tentativo simile degli schiavi antichi (Spartaco che domanda di essere assunto al governo in collaborazione con la plebe, ecc.). Mentre nel Medioevo era possibile una alleanza tra proletari e popolo e ancor di più l'appoggio dei proletari alla dittatura di un principe, niente di simile nel mondo classico per gli schiavi. Lo Stato moderno sostituisce al blocco meccanico dei gruppi sociali una loro subordinazione all'egemonia attiva del gruppo dirigente e dominante, quindi abolisce alcune autonomie, che però rinascono in altra forma, come partiti, sindacati, associazioni di cultura. Le dittature contemporanee aboliscono legalmente anche queste nuove forme di autonomia e si sforzano di incorporarle nell'attività statale: l'accentramento legale di tutta la vita nazionale nelle mani del gruppo dominante diventa «totalitario».

Gli schiavi a Roma

1) Un'osservazione casuale di Cesare (De Bello Gallico, i, 40, 5) informa del fatto che il nucleo degli schiavi che si rivoltarono con Spartaco era costituito dai prigionieri di guerra Cimbri: questi rivoltosi furono annientati (cfr. Tenney Frank, Storia economica di Roma, trad, it., Vallecchi, p. 153). In questo stesso capitolo del libro del Frank sono da vedere le osservazioni e le congetture sulla diversa sorte delle varie nazionalità di schiavi e sulla loro sopravvivenza probabile in quanto non furono distrutti: o si assimilarono alla popolazione indigena o addirittura la sostituirono.

2) A Roma gli schiavi non potevano essere riconosciuti esteriormente come tali. Quando un senatore propose una volta che agli schiavi fosse dato un abito che li distinguesse, il Senato fu contrario al provvedimento, per timore che gli schiavi divenissero pericolosi qualora potessero rendersi conto del loro grande numero. (Cfr. Seneca, De clem., I, 24 e Tacito, Annal., IV, 27).

In questo episodio sono contenute le ragioni politico-psicologiche che determinano una serie di manifestazioni pubbliche: le processioni religiose, i cortei, le assemblee popolari, le parate di vario genere e anche in parte le elezioni (la partecipazione all'elezione di alcuni gruppi) e i plebisciti.

I club rossi a Parigi

A. G. Bianchi, I clubs rossi duante l'assedio di Parigi, "Nuova Antologia", 1° luglio 1929. Riassume un opuscolo pubblicato nel 1871, di M. G. Molinari, Le clubs rouges pendant le siège de Paris. E' una raccolta di cronache pubblicate prima nel «Journal des Débats» sulle riunioni dei clubs durante l'assedio (forse si tratta dello stesso De Molinari, il noto scrittore liberista e direttore dei «Débats», ma il Bianchi scrive che è «un modesto, ma diligente giornalista»).

L'opuscolo è interessante perché registra tutte le proposte strampalate che venivano fatte dai frequentatori di questi circoli popolari. Perciò sarebbe interessante leggerlo e trarne materiale per sostenere la necessità dell'ordine intellettuale e della «sobrietà» morale nel popolo. Può servire anche per studiare come fino al '70 Parigi sia rimasta sotto l'incanto delle forme politiche create dalla Rivoluzione del 1789, di cui i clubs furono la manifestazione più appariscente, ecc. (non potendo leggere l'opuscolo originale del Molinari, si può ricorrere a questo articolo del Bianchi.)

Volontarismo e masse sociali.

In tutta una serie di quistioni, sia di ricostruzione della storia passata, sia di analisi storico-politica del presente, non si tiene conto di questo elemento: che occorre distinguere e valutare diversamente le imprese e le organizzazioni di volontari, dalle imprese e dalle organizzazioni di blocchi sociali omogenei (è evidente che per volontari non si deve intendere l'élite quando essa è espressione organica della massa sociale, ma del volontario staccato dalla massa per spinta individuale arbitraria e in contrasto spesso con la massa o indifferente per essa).

Questo elemento ha importanza specialmente per l'Italia: 1) per l'apoliticismo e la passività tradizionali nelle grandi masse popolari, che hanno come reazione naturale una relativa facilità al «reclutamento di volontari» ; 2) per la costituzione sociale italiana, uno dei cui elementi è la malsana quantità di borghesi rurali o di tipo rurale, medi e piccoli, da cui si formano molti intellettuali irrequieti e quindi facili «volontari» per ogni iniziativa anche la più bizzarra, che sia vagamente sovversiva (a destra o a sinistra); 3) la massa di salariati rurali e di Lumpenproletariat, che pittorescamente in Italia è chiamato la classe dei «morti di fame». Nell'analisi dei partiti politici italiani si può vedere che essi sono sempre stati di «volontari», in un certo senso di spostati, e mai o quasi mai di blocchi sociali omogenei. Un'eccezione è stata la destra storica cavourriana e quindi la sua superiorità organica e permanente sul così detto Partito d'A zione mazziniano e garibaldino, che è stato il prototipo di tutti i partiti italiani di «massa» successivi, che non furono tali in realtà (cioè non ordinarono gruppi omogenei sociali) ma furono attendamenti zingareschi e nomadi della politica. Si può trovare una sola analisi di tal genere (ma imprecisa e gelatinosa, da un punto di vista solo «statistico-sociologico») nel volume di Roberto Michels su Il proletariato e la borghesia nel movimento socialista italiano, Torino, Bocca, 1908.

La posizione del Gottlieb (=Amadeo (Amadeo Bordiga) [N. d. R.]) fu appunto simile a quella del Partito d'Azione, cioè zingaresca e nomade: l'interesse sindacale era molto superficiale e di origine polemica, non sistematico, non organico e conseguente, non di ricerca di omogeneità sociale, ma paternalistico e formalistico.

Occorre distinguere: altro è il volontarismo o garibaldinismo che teorizza se stesso come forma organica di attività storico-politica e si esalta con frasi che non sono altro che una trasposizione del linguaggio del superuomo individuo a un insieme di «superuomini» (esaltazione delle minoranze attive come tali, ecc.); altro è il volontarismo o garibaldinismo concepito come momento iniziale di un periodo organico da preparare e sviluppare, in cui la partecipazione della collettività organica, come blocco sociale, avvenga in modo completo. Le «avanguardie» senza esercito di rincalzo, gli «arditi» senza fanteria e artiglieria, sono anch'esse trasposizioni del linguaggio dell'eroismo retorico; non così le avanguardie e gli arditi come funzioni specializzate di organismi complessi e regolari. Cosi è della concezione delle élites di intellettuali senza massa, ma non degli intellettuali che si sentono legati organicamente a una massa nazionale-popolare. In realtà, si lotta contro queste degenerazioni di falsi eroismi e di pseudo-aristocrazie, stimolando la formazione di blocchi sociali omogenei e compatti, che esprimono un gruppo di intellettuali, di arditi, un'avanguardia loro propria, che reagiscono nel loro blocco per svilupparlo e non solo per perpetuare il loro dominio zingaresco. La boheme parigina del Romanticismo è stata anch'essa alle origini intellettuali di molti modi di pensare odierni che pure pare deridano quei bohémiens.

Messianismo.

Si veda l'articolo di Armando Cavalli, Correnti messianiche dopo il '70, «Nuova Antologia» del 16 novembre 1930. Il Cavalli si è occupato anche altre volte di argomenti simili (vedere i suoi articoli nelle riviste di Gobetti, «Rivoluzione Liberale» e «Ba retti», e altrove), sebbene con molta superficialità. In questo articolo accenna a Davide Lazzaretti, alle Bande di Benevento, ai movimenti repubblicani (Barsanti) e internazionalisti in Romagna e nel Mezzogiorno.

Chiamarli «correnti messianiche» è esagerato, perché si tratta di fatti singoli e isolati, che dimostrano più la «passività» delle grandi masse rurali che non una loro vibrazione per sentirsi attraversate da «correnti». Cosi il Cavalli esagera l'importanza di certe afferma zioni «protestantiche» o «riformatrici in generale» della religione che si verificarono non solo dopo il '70, ma anche prima da parte di R. Bonghi e altri liberali (è noto che prima del '70 la «Perseveranza» credeva di far pressione sul papato con queste minacce di una adesione italiana al protestantesimo) e il suo errore è mostruoso quando pare che voglia porre sullo stesso piano queste affermazioni riformatrici e Davide Lazzaretti. La conclusione è giusta formalmente: dittatura della destra, esclusione dalla vita politica dei partiti repubblicano e clericale; indifferenza del governo per la miseria delle masse agricole.

Il concetto di «ideale» formatosi nelle masse di sinistra; nella sua vacuità formale, serve bene a caratterizzare la situazione: non fini e programmi politici concreti e definiti, ma uno stato d'animo vago e oscillante che trovava il suo appagamento in una vuota for mula e, perché vuota, capace di contenere ogni cosa la più disparata. La parola «ideale» è complementare a quella di «sovversivo»: è la formula utile per fare delle frasi ai piccoli intellettuali che formavano l'organizzazione di sinistra. L\< ideale» è un residuo del maz- zinianismo popolare, in cui si innesta il bakuninismo, e si trascinò fino ai tempi più moderni, mostrando così che una vera direzione politica delle masse non si era formata.

Davide Lazzaretti.

In un articolo pubblicato dalla «Fiera Let teraria» del 26 agosto 1928, Domenico Bulferetti ricorda alcuni elementi della vita e della formazione culturale di Davide Lazzaretti. [Bibliografia: Andrea Verga, Davide Lazzaretti e la pazzia sensoria, Milano, Rechiedei, 1880; Cesare Lombardo, Pazzi e anormali (questo era il costume culturale del tempo: invece di studiare le origini di un avvenimento collettivo, e le ragioni del suo diffondersi, del suo essere collettivo, si isolava il protagonista e ci si limitava a farne la biografia patologica, troppo spesso prendendo le mosse da motivi non accertati o interpretabili in modo diverso: per una élite sociale, gli elementi dei gruppi subalterni hanno sempre alcunché di barbarico e di patologico). Una Storia di Davide Lazzaretti, Projeta di Arcidosso, fu pubblicata a Siena nel 1905 da uno dei più distinti discepoli del Lazzaretti, l'ex frate filippino Filippo Imperiuzzi: altre scritture apologetiche esistono, ma questa, secondo il Bulferetti, è la più notevole]. Ma l'opera «fondamentale» sul Lazzaretti è quella di Giacomo Barzellotti, che nella ia e 2a edizione (presso Zanichelli) era intitolata Davide Lazzaretti, e che fu ampliata e in parte modificata nelle successive edizioni (Treves) col titolo Monte Amiata e il suo Profeta. Il Bulferetti crede che il Barzellotti abbia sostenuto che le cause del movimento lazzarettista sono «tutte particolari e dovute solo allo stato d'animo e di coltura di quella gente là " solo " un po' per naturale amore ai bei luoghi nativi (!) e un po' per suggestione delle teorie di Ippolito Taine». È più ovvio pensare, invece, che il libro del Barzellotti, che ha servito a formare l'opinione pubblica italiana sul Lazzaretti, sia niente altro che una manifestazione di patriottismo letterario (per amor di patria! come si dice) che portava a cercar di nascondere le cause di malessere generale che esistevano in Italia dopo il '70, dando, dei singoli episodi di esplosione di tale malessere, spiegazioni restrittive, individuali, folcloristiche, patologiche, ecc. La stessa cosa è avvenuta più in grande per il «brigantaggio» meridionale e delle isole.

Gli uomini politici non si sono occupati del fatto che l'uccisione del Lazzaretti è stata di una crudeltà feroce e freddamente premeditata (in realtà il Lazzaretti fu fucilato e non ucciso in conflitto: sarebbe interessante conoscere le istruzioni riservate mandate dal governo alle autorità): neanche i repubblicani se ne sono occupati (ricercare e verificare), nonostante che il Lazzaretti sia morto inneggiando alla repubblica (il carattere tendenzialmente repubblicano del movimento, che era tale da poter diffondersi tra i contadini, deve aver specialmente contribuito a determinare la volontà del governo di sterminarne il protagonista); forse per la ragione che nel movimento la tendenzialità repubblicana era bizzarramente mescolata all'elemento religioso e profetico.

Ma appunto questo miscuglio rappresenta la caratteristica principale dell'avvenimento perché dimostra la sua popolarità e spontaneità. È da ritenere inoltre che il movimento lazzarettista sia stato legato al non expedit del Vaticano, e abbia mostrato al governo quale tendenza sovversiva-popolare-elementare poteva nascere tra i contadini in seguito all'astensionismo politico clericale e al fatto che le masse rurali, in assenza di partiti regolari, si cercavano dirigenti locali che emergevano dalla massa stessa, mescolando la religione e il fanatismo all'insieme di rivendicazioni che in forma elementare fermentavano nelle campagne. Altro elemento politico da tener presente è questo: al governo erano andate da due anni le Sinistre, il cui avvento aveva suscitato nel popolo un ribollimento di speranze e di aspettazioni che dovevano essere deluse. Il fatto che al governo fossero le Sinistre può spiegare anche la tiepidezza nel sostenere una lotta per l'uccisione delittuosa di un uomo che poteva essere presentato come un codino, papalino, clericale, ecc.

Nota il Bulferetti che il Barzellotti non fece ricerche sulla formazione della cultura del Lazzaretti, alla quale pure si riferisce. Altrimenti avrebbe visto che anche a Monte Amiata arrivavano allora in gran copia (da dove lo sa il Bulferetti? d'altronde, per chi conosca la vita dei contadini, specialmente di una volta, la «gran copia» non è necessaria, per spiegare l'estensione e la profondità di un movimento) foglietti, opuscoli e libri popolari stampati a Milano. Il Lazzaretti ne era lettore insaziabile e per il suo mestiere di barrocciaio aveva agio di procurarsene.

Davide era nato in Arcidosso il 6 novembre 1834 e aveva esercitato il mestiere paterno fino al 1868, quando, da bestemmiatore si converd e si ritirò a far penitenza in una grotta della Sabina dove «vide» l'ombra di un guerriero che gli «rivelò» di essere il capostipite della sua famiglia, Manfredo Pallavicino, figlio illegittimo di un re di Francia, ecc. Uno studioso danese, il dottor Emilio Ras- mussen, trovò che Manfredo Pallavicino è il protagonista di un romanzo storico di Giuseppe Rovani, intitolato appunto Manfredo Pallavicino. L'intreccio e le avventure del romanzo sono passati tali e quali nella «rivelazione» della grotta e da questa rivelazione si inizia la propaganda religiosa del Lazzaretti. Il Barzellotti aveva creduto invece che il Lazzaretti fosse stato influenzato dalle leggende del '300 (le avventure del re Giannino senese) e la scoperta del Rasmussen lo indusse solo a introdurre nell'ultima edizione del suo libro un vago accenno alle letture del Lazzaretti, senza però accennare al Rasmussen e lasciando intatta la parte del libro dedicata a re Giannino. Tuttavia, il Barzellotti studia il successivo svolgimento dello spirito del Lazzaretti, i suoi viaggi in Francia, e l'influsso che ebbe su di lui il prete milanese Onorio Taramelli, «uomo di fino ingegno e larga coltura», che per aver scritto contro la monarchia era stato arrestato a Milano e poi era fuggito in Francia. Dal Taramelli Davide ebbe l'impulso repubblicano.

La bandiera di Davide era rossa con la scritta: «La Repubblica e il regno di Dio». Nella processione del 18 agosto 1878, in cui Davide fu ucciso, egli domandò ai suoi fedeli se volevano la repubblica. Al si fragoroso, egli rispose: «La repubblica incomincia da oggi in poi nel mondo; ma non sarà quella del '48: sarà il regno di Dio, la legge del Diritto succeduta a quella di Grazia».

Nella risposta di Davide ci sono alcuni elementi interessanti, che devono essere collegati alle sue reminiscenze delle parole del Taramelli: il voler distinguersi dal '48 che in Toscana non aveva lasciato buon ricordo tra i contadini, la distinzione tra diritto e grazia.

Il dramma del Lazzaretti deve essere riannodato alle «imprese» delle così dette Bande di Benevento, che sono quasi simultanee: i preti e i contadini coinvolti nel processo di Malatesta pensavano in modo molto analogo a quello dei lazzarettisti, come risulta dai resoconti giudiziari (cfr. per es. il libro di Nitti sul Socialismo Cattolico, dove giustamente si accenna alle Bande di Benevento: vedere se accenni al Lazzaretti). In ogni modo, il dramma del Lazzaretti è stato Hnora veduto solo dal punto di vista dell'impressionismo letterario, mentre meriterebbe un'analisi politico-storica.

Giuseppe Fadni, nell'«Illustrazione Toscana» (cfr. il «Marzocco» del 31 gennaio 1932), richiama l'attenzione sulle attuali sopravvivenze del lazzarettismo. Si credeva che, dopo l'esecuzione di Davide da parte dei carabinieri, ogni traccia di lazzarettismo si fosse per sempre dispersa anche nelle pendici dell'Armata grossetano. Invece i lazzarettisti o cristiani giurisdavidici, come amano chiamarsi, continuano a vivere: raccolti per lo più nel villaggio arcidossino di Zancona, con qualche proselite sparso nelle borgate adiacenti, trassero dalla guerra mondiale nuovo alimento per stringersi sempre più fra loro nella memoria del Lazzaretti, che, secondo i seguaci, aveva tutto previsto, dalla guerra mondiale a Caporetto, dalla vittoria del popolo latino alla nascita della Società delle Nazioni. Di quando in quando, quei fedeli si fanno vivi fuor del loro piccolo cerchio con opuscoli di propaganda, indirizzandoli ai «fratelli del popolo latino», e in essi raccolgono qualcuno dei tanti scritti, anche poetici, lasciati inediti dal Maestro e che i seguaci custodiscono gelosamente.

Ma che cosa vogliono i cristiani giurisdavidici? A chi non è ancora tocco dalla grazia di poter penetrare nel segreto del linguaggio dei Sand non è facile comprendere la sostanza della loro dottrina La quale è un miscuglio di dottrine- religiose d'altri tempi, con una buona dose di massime socialistoidi e con accenni generici alla redenzione morale dell'uomo, redenzione che non potrà attuarsi se non col pieno rinnovamento dello spirito e della gerarchia della Chiesa cattolica. L'articolo XXIV, che chiude il «Simbolo dello Spirito Santo», costituente come il Credo dei lazzarettisti, dichiara che «il nostro istitutore Davide Lazzaretti, l'Unto del Signore, giudicato e condannato dalla Curia Romana, è realmente il Cristo, Duce e Giudice nella vera e viva figura della seconda venuta di nostro Signore Gesù Cristo sul mondo, come figlio dell'uomo venuto a portare compimento alla Redenzione copiosa su tutto il genere umano in virtù della terza legge divina del Diritto e Riforma generale dello Spirito Santo, la quale deve riunire tutti gli uomini alla fede di Cristo in seno alla Cattolica Chiesa in un sol punto e in una sola legge in conferma delle divine promesse».

Parve per un momento, nel dopoguerra, che i lazzarettisti si incanalassero «per una via pericolosa», ma seppero ritrarsene a tempo e dettero piena adesione ai vincitori. Non certo per le sue divergenze con la Chiesa cattolica — «la setta dell'Idolatria papale» — ma per la tenacia con cui essi difendono il Maçstro e la Riforma, il Fatini ritiene degno di attenzione e di studio il fenomeno religioso amiatino.

G. Pascoli e Davide Lazzaretti.

Nella Nota per gli alunni che precede l'antologia Sul limitare, il Pascoli, accennando alla pubblicazione di Giacomo Barzellotti sul Lazzaretti, così scrive: «Io ho sentito dalla lettura del libro elevarsi il mio pensiero all'avvenire così dubbioso della nostra civiltà. Il secolo è finito; che ci porterà il secolo ventesimo? La pace tra i popoli, la pace tra le classi, la pace nella coscienza? o la lotta e la guerra? Ebbene, codesto barrocciaio commosso da un nuovo impulso di fede viva, che cade nel suo sangue, e cotesto pensatore [il Barzellotti], coscienza e mente dei nostri tempi, che lo studia, lo narra, lo compiange, mi sembrano come un simbolo: l'umanità sapiente che piange e ammonisce, col petto alto e col capo chino, tra la sicurezza del suo pensiero e la pietà del suo sentimento, sull'altra umanità, su quella che delira e muore». Questo brano interessa: i) per il pensiero politico del Pascoli nel 1899-900; 2) per mostrare l'efficacia ideologica della morte del Lazzaretti; 3) per vedere quali rapporti il Pascoli voleva tra gli intellettuali e il popolo.

De Amicis.

Del De Amicis sono da vedere la raccolta di discorsi Speranze e Glorie e il volume su Lotte Civili. La sua attività letteraria e di oratore in questo senso va dal '90 al '900 ed è da vedere per ricercare l'atteggiamento di certe correnti intellettuali del tempo in confronto della politica statale. Si può vedere quali erano i motivi dominanti, le preoccupazioni morali e gli interessi di queste correnti. Del resto, non si tratta di una corrente unica. Sebbene si debba parlare di un socialnazionalismo o socialpatriottismo nel De Amicis, è evidente la sua differenza dal Pascoli, per esempio: il De Amicis era contro la politica africanista, il Pascoli invece era un colonialista di programma.

Intellettuali.

Da un articolo di Alfredo Panzini (Biancofiore, nel «Corriere della Sera» del 2 dicembre 1931) su Severino Ferrari e il suo poemetto Il Mago: «Al pari di molti figli della piccola borghesia, specie quelli che frequentavano l'università, si era sentimentalmente accostato al fonte battesimale di Bakunin più forse che di Carlo Marx. I giovani, nell'entrare della vita, domandano un battesimo; e di Giuseppe Mazzini rimaneva la tomba e il gran fulgore della tomba, ma la parola del grande apostolo non bastava più alle nuove generazioni». Da che il Panzini trae che i giovani, ecc., si accostassero più al Bakunin, ecc.? Forse semplicemente dai ricordi personali di università (Severino Ferrari era nato nel 1856; Il Mago fu pubblicato nel 1884), sebbene il Panzini abbia frequentato l'università di Bologna molti anni dopo il Ferrari.

Giovanni Pascoli.

Sulle tendenze politiche di Giovanni Pascoli (il Pascoli da giovane fu incarcerato come membro dell'Internazionale) che ebbero pubblicamente il massimo di ripercussione al tempo della guerra libica col discorso La grande proletaria si è mossa (Pubblicato nel giornale "La Tribunale" del 27 novembre 1911 [N. d. R.]) e che sono da connettere con le dottrine di Enrico Corradini, in cui il concetto di «proletario» dalle classi è trasportato alle nazioni (quistione della «proprietà nazionale» legata con l'emigrazione; ma si osserva che la povertà di un paese è relativa ed è l’«industria» dell'uomo [classe dirigente] che riesce a dare a una nazione una posizione nel mondo e nella divisione internazionale del lavoro; l'emigrazione è una conseguenza della incapacità della classe dirigente a dar lavoro alla popolazione e non della povertà nazionale: esempio dell'Olanda, della Danimarca, ecc., quistioni relative si capisce), sono interessanti le Lettere inedite di Giovanni Pascoli a Luigi Mercatelli, pubblicate da G. Zuppone-Strani nella «Nuova Antologia» del 16 ottobre 1927. (Il Mercatelli era corrispondente della «Tribuna» dall'Eritrea; tientrò al giornale nel 1896; nel '97 andò in Africa con F. Martini, nel '99 fu direttore della «Tribuna» con Federico Fabbri; nel 1903 fu console generale allo Zanzibar, nel 1904 governatore del Benadir).

In una lettera da Barga, del 30 ottobre 1899, il Pascoli scrive: «Io mi sento socialista, profondamente socialista, ma socialista dell'umanità, non d'una classe. E col mio socialismo, per quanto abbracci tutd i popoli, sento che non contrasta il desiderio e l'aspirazione dell'espansione coloniale. Oh! io avrei voluto che della colonizzazione italiana si fosse messo alla testa il baldo e giovane partito sociale; ma, ahimè, esso fu reso decrepito dai suoi teorici». (Vedere nell'opera poetica del Pascoli e nelle antologie scolastiche il riflesso di questa sua concezione).

In una lettera da Messina, dell'8 giugno 1900, si accenna alla sua collaborazione alla «Tribuna»: «Oh ! potessi io setdmanalmente o bimensilmente pubblicare le mie Conversazioni coi giovami Nel discorso che feci l'altrieri, e che ti mando purgato dai mold idiod errori di stampa, è un cenno di ciò che io reputo la mia missione: introdurre il pensiero della patria e della nazione e della razza nel cieco e gelido socialismo di Marx».

In una lettera da Barga del 2 luglio 1900, annunzia una rubrica che vorrebbe scrivere nella «Tribuna», intitolata Nell'avvenire, di cui presto manderà il proemio: «La rubrica conterrebbe articoli di ogni sorta, diretti a quelli che ora sono tra fanciulli e adolescenti, che contemplerebbero le questioni presentì alla luce dell'avvenire». Il primo articolo proemiale, dopo una breve dichiarazione mia, di rinunzia formale e solenne alla «vita attiva» [cioè, vuol dire, a diventare deputato] tratterebbe questo argomento. «I giovani, quelli almeno che sono veramente giovani, hanno in sé qualcosa d'eroico. Quelli, di qualche tempo fa, si sentivano spinti all'eroismo patriottico, quelli d'ora all'eroismo, diciamo, socialistico. Però in fondo al loro cuore è un dissidio profondo. Sentendo la difesa d'Amba Alagi, anche quelli, che avevano fatto dedizione dei loro sentimenti eroici all'idea umanitaria, provarono una scossa... Ebbene, bisogna conciliare questo dissidio che travaglia (io lo so, io lo sento) il cuore della gioventù, ecc.»

Più oltre scrive: «E non parlerei mica sempre di simili questioni: parlerei d'arte e di letteratura e di scienza e di morale, cercando sem- pre di sradicare i pregiudizi e di porre in faccia alla moda YEwig e di contro all'oggi, l'ieri e il domani»; senza accorgersi dell'intima contraddizione in cui egli stesso si dibatteva, dato che del YEwig avesse una concezione giusta.

In una lettera da Barga del 12 agosto 1900 accenna a un suo scritto Nel carcere di Ginevra a proposito di Luccheni, che la «Tribuna» non pubblicò e che il Pascoli pubblicò dopo (non ricordo questo scritto). In una lettera dell'11 dicembre da Messina, firmata «G. P. socialista, patriota messo all'indice dai giornali polidci, cioè finanziari d'Italia», parla della sua collaborazione a un giornale locale e pare che abbia iniziato la pubblicazione pensata come rubrica permanente della «Tribuna», ma che questa non volle pubblicare12. In una lettera senza data, ma che lo Zuppone-Strani dice scritta da Barga sul finire del 1902 o nella prima metà del 1903, è scritto: «Eppure il poeta ti ama là, ti vede là, ti sogna là, eppure il patriota e l'umano ("socialista" non mi conviene più essere chiamato e chiamarmi) si esalta nel saperti investito d'una altissima missione di utile e onore italico e di civiltà. Ti chiamavo " negriero " e tu vai a distruggere i negrieri» (il Pascoli chiamava scherzosamente il Mer- catelli (( ras», «negriero», ecc.). E più oltre: «Perché a rifuggire dal socialismo politico dei nostri giorni aiuta me non solo l'orrore al dispotismo della folla o del numero dei più, ma specialmente la necessità che io riconosco e idoleggio, d'una grande politica coloniale».

La «Nuova Antologia» del Ie dicembre 1927 pubblica un articolo inedito del Pascoli, mandato nel 1897 alla «Tribuna» e non pubblicato, perché al Mercatelli sembrò «troppo ardito per l'indole del giornale e troppo compromettente per l'autore». L'articolo era intitolato Allecto (la Erinni dell'odio implacabile e della vendetta interminabile) e prendeva lo spunto da un telegramma del ministro francese Méline ai Lorenesi. Per il Pascoli, la Francia e la Russia avrebbero fatto la guerra alla Germania (quindi alla Triplice, quindi all'Italia) «tra poco o tra molto, ma certo». Il Pascoli si rivolge alle madri. C'è un «profeta», un «dolce e fiero profeta ammantato di una tunica rossa: gira per il mondo, tra i popoli eletti e le genti, predicando un suo vangelo di pace. In suo nome girano e parlano migliaia di apostoli, dei quali tutti stupiscono e ammirano, perché ognuno li ode parlare nella lingua sua. Essi hanno convertito il cuore stupidamente feroce degli uomini». Questi uomini «dicono ai sinistri trombettieri della distruzione: No: non vogliamo: non potrete!» Ma «d'or innanzi ci saranno nella proprietà e in genere nella convivenza sociale alcune modificazioni». Che direbbero le madri?, ecc. «Questo profeta voleva essere il Marxismo. Voleva e certo vorrebbe ancora, ma non può. Non è riuscito. L'atroce guerra che si minaccia, che è il delitto più enorme, ecc., non può essere più stornata dal Marxismo. Essa con tante vite e tanti tesori e tante idealità travolgerà anche questa scuola, questo sistema, che si mostrò impotente. Per colpa sua? Io non sono mosso da avversione a tale scuola e sistema; ma non posso fare a meno di riconoscere che gli è mancato l'afflato: l'impeto, le lingue di fuoco. Ha voluto essere una scuola, e doveva essere una religione. Doveva parlare più d'amore, e meno di plus valore, più di sacrifizio che di lotta, più d'umanità che di classi. Doveva diffondersi equabilmente da per tutto; doveva aver di mira tutti i popoli, anche quelli più guardati dalle forche o dai principi dell'89. Mi spiego».

Secondo il Pascoli «la Germania, e però la Triplice, ha, rispetto alla Francia e alla Russia, un elemento di debolezza: il socialismo». Il Pascoli «teme» che si sia ottenuto nel cuore degli operai tedeschi e italiani di far germinare l'amore universale al posto dell'atavismo belluino e bellicoso. Italiani e tedeschi sarebbero diventati agnelli, mentre francesi e russi sarebbero rimasti leoni e tigri.

«Ma il marxismo parlerà prima dello squillo. Che dirà? Sentiremo. Saranno, credo, parole degne del gran momento. Serviranno, spero, a rimediare ai danni che involontariamente esso ha recato o è per recare alle nazioni che l'hanno accolto. Faranno, anzi, come da nuovo fermento ideale, che valga a compensare l'impeto bestiale, negli animi nostri. Oh! specialmente l'Italia lo merita! Non è essa la nazione povera, il proletario tra i popoli? Per l'Italia ci dica una parola animosa. Dove non è la traccia ciclopica del lavoro italiano? Quali ferrovie non furono costruite e qerali monti non furono forati e quali istmi non furono aperti, nella massima parte, da braccia italiane? E il loro lavoro non arricchì né loro né la nostra nazione, poiché era al servizio del capitale straniero. Noi abbiamo esportato ed esportiamo lavoratori, importammo ed importiamo capitalisti. Fuori e dentro noi arricchiamo gli altri, rimanendo poveri noi. E quelli che arricchimmo, ci spregiano e ci chiamano pitocchi. Io non so dar la ragione di questo fatto, ma così è. So però che nel fatto non è peccato nostro d'indolenza o d'altro. Come si può chiamare indolente il popolo più faticante e industrioso e parco del mondo? Io dico che è una ingiustizia». Attacca la Francia, «la sorella padrona» e conclude: >( O patria grande di lavoratori e d'eroi! Poiché lo vogliono, poiché anche la tua povertà fa ombra e la tua umiltà fa dispetto, accetta, quando che sia, la sfida, e combatti disperatamente».

Il Pascoli aspirava a diventare il leader del popolo italiano, ma — come egli stesso dice in una lettera al Mercatelli, citata in una nota precedente — il carattere «eroico» delle nuove generazioni si rivolge al «socialismo», come quello delle generazioni precedenti si era rivolto alla quistione nazionale: perciò il suo temperamento lo porta a farsi banditore di un socialismo nazionale che gli sembra all'altezza dei tempi. Egli è il creatore del concetto di nazione proletaria e di altri concetti svolti poi da E. Corradini e dai nazionalisti di origine sindacalista: questo concetto in lui era molto antico. Egli si illudeva che questa sua ideologia, sarebbe stata favorita dalle classi dirigenti: ma la «Tribuna», nonostante la stretta amicizia del Pascoli col Mercatelli, non gli dà le sue colonne e la sua autorità. È interessante questo dissidio nello spirito pascoliano; voler essere poeta epico e aedo popolare, mentre il suo temperamento era piuttosto «intimista». Di qui anche un dissidio artistico che si manifesta nello sforzo, nel- l'anfanamento, nella retorica, nella bruttezza di molti componimenti, in una falsa ingenuità che diventa vera puerilità.

Che il Pascoli tenesse molto a questa sua funzione si vede da un brano di lettera al Mercatelli, in cui dice che sarebbe stato lieto di essere incaricato delle scuole all'estero o delle scuole coloniali, più che di fare il professore di lettere all'Università, per avere agio di fare appunto il profeta della missione d'Italia nel mondo. (Del resto qualcosa di simile, pensò di se stesso il D'Annunzio: vedi il volume Per l'Italia degli Italiani).

Un documento dell'Amma per la quistione Nord-Sud.

Pubblicato dai giornali torinesi del settembre 1920. È una circolare dell'Anima, credo del 1916, in cui si ordina alle industrie dipendenti di non assumere operai che siano nati sotto Firenze (cfr. con la polidca seguita da Agnelli-Gualino, specialmente nel 1925-26, di far venire a Torino circa 25.000 Siciliani da immettere nell'industria: case- caserme, disciplina interna, ecc.). Fallimento dell'emigrazione e moltiplicazione dei reati commessi nelle campagne vicine da questi siciliani che fuggivano le fabbriche: cronache vistose nei giornali che non allentaronr certo la credenza che i siciliani sono briganti.

La quistione speciale Piemonte-Sicilia è legata all'intervento delle truppe piemontesi in Sicilia contro il così detto brigantaggio dal '60 al '70. I soldati piemontesi riportarono la convinzione nei loro paesi della barbarie siciliana e viceversa, i Siciliani si persuasero della ferocia piemontese. La letteratura amena (ma anche quella militare) contribuì a rafforzare questi stati d'animo (cfr. la novella di De Amicis sul soldato cui viene mozzata la lingua dai briganti); nella letteratura siciliana si è più equanimi, perché si descrive anche la ferocia siciliana (una novella di Pirandello: i briganti che giocano alle bocce coi teschi). Ricordare il libro, mi pare di un certo D'Adamo (cfr. «Unità» al tempo della guerra libica), nel quale si dice che Siciliani e Piemontesi devono far la pace, poiché la ferocia degli uni compensa quella degli altri.

A proposito della letteratura amena su Nord-Sud ricordare Caccia grossa, di Giulio Bechi. «Caccia grossa» vuol dire v caccia agli uomini». Giulio Bechi ebbe qualche mese di fortezza; ma non per aver operato in Sardegna come in terra di conquista, ma per essersi messo in una situazione per cui dei signori sardi l'avevano sfidato a duello; la sfida dei Sardi, poi, fu fatta non perché il Bechi aveva fatto della Sardegna una jungla, ma perché aveva scritto che le donne sarde non sono belle.

Ricordare un libriccino di ricordi di un ufficiale ligure (stampato in una cittadina ligure, Oneglia o Porto Maurizio), che fu in Sardegna nei fatti del 1906, dove i Sardi sono detd «scimmie» o qualcosa di simile e si parla del «genio della specie» che agita l'autore alla vista delle donne.

Reazione del Nord alle pregiudiziali antimeridionali.

Primo episodio del 1914 a Torino: proposta a Salvemini di candidatura: la città del Nord elegge il deputato per la campagna del Sud. Rifiuto, ma partecipazione di Salvemini alla elezione come oratore; episodio Giovane Sardegna del '19 con annessi e connessi; Brigata Sassari nel '17 e nel '19; Cooperativa Agnelli nel '20 (suo significato «morale» dopo il settembre — motivazione del rifiuto). Episodio del '21 a Reggio Emilia (di questo Zibordi si guarda bene dal parlare nel suo opuscolo su Prampolini). (Zibordi, Saggio sulla storia del movimento operaio in Italia. Camillo Prampolini e i lavoratori reggiani, Bari, Laterza, 1930 [N. d. R. ].) Sono questi fatti che colpirono Gobetti e quindi provocarono l'atmosfera del libro di Dorso. [ B.S.: Agnelli e conigli - Miniere - Ferrovie]. (B.S.: Brigata Sassari. Su gli «agnelli» sardi (i quattromila soldati della Brigata Sassari inviati a Torino nel 1919 per reprimere il movimento operaio) ei«conigli» piemontesi, in Lettere dal Carcere (Lett. XXXIV, p. 63): «A Torino ho fatto, nel 1919, una larga inchiesta, perché il Municipio boicottava gli agnelli e i capretti sardi a profitto dei conigli piemontesi: c'erano a Torino circa quattromila pastori e contadini sardi in missione speciale e io volevo illuminarmi su questo argomento. Gli agnelli e i capretti meridionali arrivano qui senza testa, ma c'è una piccola percentuale di commercio locale che fornisce anche la testa» (la guida politica). L'episodio è ricordato da Gramsci in Alcuni temi della questione meridionale, si veda «Rinascita», a. II, n. 2, febbraio 1945. [N. d. R.].)

Nord e Sud.

La egemonia del Nord sarebbe stata «normale» e storicamente benefica, se l'industrialismo avesse avuto la capacità di ampliare con un certo ritmo i suoi quadri per incorporare sempre nuove zone economiche assimilate. Sarebbe allora stata questa egemonia l'espressione di una lotta tra il vecchio e il nuovo, tra il progressivo e l'arretrato, tra il più produttivo e il meno produttivo; si sarebbe avuta una rivoluzione economica di carattere nazionale (e di ampiezza nazionale) anche se il suo motore fosse stato temporaneamente e funzionalmente regionale. Tutte le forze economiche sarebbero state stimolate e al contrasto sarebbe successa una superiore unità. Ma invece non fu così. L'egemonia si presentò come permanente; il contrasto si presentò come una condizione storica necessaria per un tempo indeterminato e quindi apparentemente «perpetua» per l'esistenza di una industria settentrionale.

Emigrazione.

Si fa il confronto tra Italia e Germania. È vero che lo sviluppo industriale provocò, in un primo tempo, una forte emigrazione in Germania, ma in un secondo tempo non solo la fece cessare, ma ne riassorbi una parte e determinò una notevole immigrazione. Ciò sia detto per un puro confronto meccanico dei due fenomeni emigratori italiano e tedesco: che se il confronto viene approfondito, allora appaiono altre differenze essenziali. In Germania l'industrialismo produsse in un primo tempo esuberanza di «quadri industriali» stessi, e furono questi che emigrarono, in condizioni economiche ben determinate: emigrò un certo capitale umano già qualificato e dotato, insieme con una certa scorta di capitale finanziario. L'emigrazione tedesca era il riflesso di una certa esuberanza di energia attiva capitalistica che fecondava economie di altri paesi più arretrati, o dello stesso livello, ma scarso di uomini e di quadri direttivi. In Italia il fenomeno fu più elementare e passivo e, ciò che è fondamentale, non ebbe un punto di risoluzione, ma continua anche oggi. Anche se praticamente l'emigrazione è diminuita e ha cambiato di qualità, ciò che importa notare è che tale fatto non è funzione di un assorbimento delle forze rimaste in ampliati quadri industriali, con un tenore di vita conguagliatosi con quello dei paesi «normali». E un portato della crisi mondiale, cioè dell'esistenza in tutti i paesi industriali di armate di riserva nazionali superiori al normale economico. La funzione italiana di produttrice di riserva operaia per tutto il mondo è finita, non perché l'Italia abbia normalizzato il suo equilibrio demografico, ma perché tutto il mondo ha sconcertato il proprio.

Altra differenza fondamentale è questa: l'emigrazione tedesca fu organica, cioè insieme alla massa lavoratrice emigrarono elementi organizzativi industriali. In Italia emigrò solo massa lavoratrice, prevalentemente ancora informe sia industrialmente, sia intellettualmente. Gli elementi corrispondenti intellettuali rimasero, e anch'essi informi, cioè non modificati per nulla dall'industrialismo e dalla sua civiltà; si produsse una formidabile disoccupazione di intellettuali, che provocò tutta una serie di fenomeni di corruzione e di decomposizione politica e morale, con riflessi economici non trascurabili. Lo stesso apparato statale, in tutte le sue manifestazioni, ne fu intaccato assumendo un particolare carattere. Cosi i contrasti si invelenivano anziché sparire e ognuna di queste manifestazioni contribuiva ad approfondire i contrasti.

La quistione agraria.

Nella «Nuova Antologia» del 16 maggio 1928 è pubblicato un articolo di Nello Toscanelli, Il latifondo, che contiene già nella prima pagina una perla come questa: «Da quando l'arte di scrivere ha permesso agli italiani di avere una storia (!), l'argomento della divisione delle terre è sempre stato all'" ordine del giorno " dei comizi popolari. Infatti, in un paese, nel quale si può viver bene per la maggior parte dell'anno all'aria aperta, il diventar padrone, sia pur di un piccolo appezzamento di terra, rappresenta la aspirazione segreta del cittadino (IP), convinto di poter trovare le più facili gioie e una fonte perenne di prodotti nei campi, da lui visti soltanto nel rigoglio primaverile delle messi o nell'epoca dell'allegra vendemmia. Ed, in minor grado (IP), la dolce visione della proprietà terriera scuote anche (!) il campagnolo, che pur sa (!) le lentezze e le disillusioni dell'agricoltura». (Questo Nello Toscanelli è un tipo bislacco come Loria).

Secondo il Toscanelli la formula «La terra ai contadini» fu presentata nel 1913 in un programma elettorale dall'on. Aurelio Drago, ripresa durante la guerra (nel 1917) da un presidente del Consiglio e divulgata nel «Resto del Carlino» dal senatore Tanari. L'articolo del Toscanelli è una verbosa scorribanda giornalistica senza alcun valore. Contro la riforma agraria, naturalmente.

Il Toscanelli, nel suo articolo aveva accennato molto cortesemente al fatto che nel 1917 il senatore Tanari aveva illustrato la formula «La terra ai contadini», per dire che essa non faceva più paura a nessuno, se un noto conservatore come il Tanari e un presidente del Consiglio (chi è stato? Orlando? o si riferisce a Nitti che diventò più tardi presidente e allora era ministro del Tesoro?) la propugnavano e illustravano.

Ma nel 1928 il Tanari si è fortemente adombrato e ha avuto paura che qualcuno credesse essere egli stato, in un qualsiasi momento, un Ravachol (sic) della proprietà. Nella «Nuova Antologia» del i° giugno 1928 è pubblicata una Lettera al Direttore della «Nuova Antologia», in cui il Tanari si giustifica, cercando di spiegare e di attenuare il suo atteggiamento del 1917: «Tengo a dichiarare che in un articolo: La terra ai contadini? (con tanto di punto interrogativo), e successivamente in un mio studio pubblicato Sulla questione agraria, non intesi illustrare proprio nulla! Ecco invece come stanno le cose. Ero piuttosto (sic) al corrente di ciò che si prometteva in trincea ai contadini, e quando mi accorsi che la divisione della terra diventava programma di dopoguerra [in corsivo dall'autore] mi parve fosse venuto il tempo di convogliarla nei suoi argini; onde difendere al possibile il principio di proprietà che io ritenevo, come ritengo, ecc. In qual modo raggiungere questo intento? Erano tempi nei quali con il suffragio sempre più allargato, con i Comuni presi d'assalto dal socialismo (nel 1917?!!), nei Consigli comunali su dieci consiglieri vi erano forse due amministratori che pagavano tasse [tasse dirette, vuol dire, ma quelle indirette, tra cui il dazio sul grano a beneficio dei vari Tanari?] mentre altri otto, nullatenenti, le mettevano [cioè cercavano di impedire che le amministrazioni, come avrebbero voluto i vari Tanari, vivessero solo con le imposte indirette]. Questo numero esiguo di abbienti di fronte ai non abbienti sottostava alla teoria social- comunista del così detto " carciofo " [la teoria, a dire il vero, è molto più antica, è precisamente la teoria della politica piemontese nell'unificazione italiana e il Tanari commette un delitto di lesa maestà affermando che si tratta di una teoria socialcomunista e nel 1917, per giunta]; metter cioè sempre più tasse a carico di coloro che possedevano, e piano piano, foglia per foglia, giungere alla espropriazione. In alcuni Comuni ci si era quasi arrivati (!?). Cosa mi venne in mente allora}... In Francia, pensavo, sopra una popolazione di 40 milioni di abitanti vi erano nell'anteguerra 4 milioni di proprietari: in Italia sopra 35 milioni non eravamo che un milione e mezzo. Evidentemente in pochi, per difendersi con l'aria che tirava in quei tempi! ["In quei tempi" era poi il 1917]. Ed allora azzardai questa idea veramente " rivoluzionaria ": " Se venisse una legge che facilitasse non coattivamente (notate bene), ma liberamente il trapasso della media e grande proprietà assenteista [in corsivo dall'autore] nei coltivatori diretti del suolo, quando risultassero tecnicamente, moralmente e finanziariamente idonei, pagando la terra, si noti bene, [in corsivo dall'a.] con obbligazioni garantite in parte dal reddito della nuova proprietà ed in parte dallo Stato, io non sarei stato contrario (come, Dio me lo perdoni, non lo sono neanche ora) ad una simile legge ". Non l'avessi mai detto! Socialisti più evoluti e intelligenti capirono benissimo dove andavo a vulnerarli e me lo dissero. Altri meno onesti tolsero al mio articolo il punto interrogativo; così che da una quistione posta dubitativamente ed interrogativa, si passò ad una affermativa. Nell'altro campo dei proprietari, parecchi che non mi avevano letto, o che non capivano nulla, mi considerarono come un vero espropriatore; e così con la migliore intenzione in difesa del principio di proprietà, bersagliato tra i due fuochi di opposti interessi mi convinsi che avevo ragione! [cors, dell'a.]».

Questa lettera del sen. G. Tanari è notevole per la sua ipocrisia politica e per le sue reticenze. Occorre notare: che il Tanari si guarda bene dal dare le indicazioni precise dei suoi scritti, che risalgono alla fine del '17 o ai primi del '18, mentre egli, molto abilmente, ma anche con molta rozza slealtà, cerca di far credere del dopoguerra. Ciò che spinse il Tanari a occuparsi della divisione della terra e a sostenerla esplicitamente (naturalmente egli ha ragione quando sostiene che voleva rafforzare la classe dei proprietari, ma non è questa la quistione) fu lo spavento che invase la classe dirigente per le crisi militari del '17 e che la spinse a fare larghe promesse ai sol- dati-contadini (cioè alla stragrande maggioranza dell'esercito). Queste promesse non furono mantenute e oggi il marchese Tanari si «vergogna» di essere stato debole, di avere avuto paura, di aver fatto della demagogia la più scellerata. In ciò consiste l'ipocrisia politica del Tanari e da ciò le sue reticenze e i suoi tentativi di far apparire la sua iniziativa nell'atmosfera del dopoguerra e non in quella del 1917-18. Bologna era allora zona di guerra; e il Tanari scrisse l'articolo nel «Resto del Carlino», cioè nel giornale che, dopo il «Corriere della Sera» era il più diffuso in trincea. Il Tanari esagera nel descrivere la reazione contro di lui dei proprietari. Di fatto avvenne che il suo primo articolo fu discusso molto serenamente dal sen. Bas sini, grande proprietario veneto, il quale mosse al Tanari obiezioni di carattere tecnico («come possono essere divise le aziende agricole industrializzate») non di carattere politico. L'articolo del Tanari, quello del Bassini e la risposta del Tanari (mi pare che ci sia stata una risposta «illustrativa») furono riportati dalla «Perseveranza», giornale moderato e legato agli agrari lombardi, diretto allora o dal conte Arrivabene o da Attilio Fontana, noto agrario. Il rimprovero che i proprietari avranno certamente fatto al Tanari sarà stato quello di averli compromessi pubblicamente di fronte ai soldati-contadini, di non aver lasciato che solo degli irresponsabili facessero promesse che si sapeva non sarebbero state mantenute. Ed è questo il rimprovero che anche oggi continueranno a fargli, perché comprendono che non tutti hanno dimenticato come le promesse fatte nel momento del pericolo non sono state mantenute. L'episodio merita di essere esaminato e studiato perché molto educativo.

Emigrazione e movimenti intellettuali.

Funzione dell'emigrazione nel provocare nuove correnti e nuovi raggruppamenti intellettuali. Emigrazione e Libia. Discorso di Ferri alla Camera nel 1911, dopo il suo ritorno dall'America (la lotta di classe non spiega l'emigrazione). Passaggio di un gruppo di sindacalisti al partito nazionalista. Concetto di nazione proletaria in Enrico Corradini. Discorso di Pascoli La grande proletaria si è mossa. Sindacalisti-nazionalisti di origine meridionale: Forges-Davanzati, Maraviglia. In generale molti sindacalisti sono intellettuali d'origine meridionale. Loro passaggio episodico nelle città industriali (il ciclonismo): loro più stabile fortuna nelle regioni agricole, dal Novarese alla valle Padana e alle Puglie. Movimenti agrari del decennio 1900-1910.

La statistica dà in quel periodo un aumento del 50% dei braccianti, a scapito specialmente della categoria degli obbligati-schiavan- dari (statistica del 1911 ; cfr. prospetto dato dalla «Riforma sociale»).

Nella Valle del Po, ai sindacalisti succedono 1 riformisti più piatti, eccetto che a Parma e in vari altri centri, dove il sindacalismo si unisce al movimento repubblicano, formando l'Unione del Lavoro dopo la scissione del '14-15. Il passaggio di tanti contadini al bracciantato è legato al movimento della così detta Democrazia cristiana (L'«A zione» di Cacciaguerra usciva a Cesena) e al modernismo: simpatie di questi movimenti per il sindacalismo.

Bologna è il centro intellettuale di quesd movimenti ideologici legati alla popolazione rurale: il tipo originale di giornale che è stato sempre «Il Resto del Carlino» non si potrebbe altrimenti spiegare (Missiroli, Sorel, ecc.).

Oriani e le classi della Romagna: il Romagnolo come tipo originale italiano (molti tipi originali: Giulietd, ecc.) di passaggio tra Nord e Sud.

Il Partito socialista e la nascita del principe Umberto.

Confrontare Il mistero dei «Ricordi diplomatici» di Costantino Nigra di Delfino Orsi, nella «Nuova Antologia» del 16 novembre 1928.

Articolo molto importante, sebbene pieno di particolari sciocchezze, alcune delle quali dimostrano a che punto di esasperazione bestialmente acritica erano giunti molti borghesi italiani: a p. 148 l'Orsi scrive: «Il 19 ottobre 1904, il conte Nigra era giunto a Torino per recarsi il giorno dopo a Racconigi, dove il re l'aveva chiamato per averlo testimone, insieme al Biancheri, alla rogazione dell'atto di nascita del Principe Ereditario. Da due giorni con un pretesto di su- strato economico, ma in verità coll'intenzione (!!) di turbare l'esultanza della Nazione per il faustissimo evento della Reggia, il Partito socialista messosi come al solito vilmente a rimorchio dei comunisti (Il nel 1904!), aveva proclamato lo sciopero generale in tutta Italia». Come le frasi fatte sostituiscono ogni forma responsabile di pensiero fino a condurre alle sciocchezze più esilaranti!

L'articolo è importante perché riguarda uno di questi fatti che rimangono misteriosi; la sparizione dei Ricordi diplomatici del Nigra che l'Orsi ha visto ultimati, corretti, rifiniti e che sarebbero stati preziosissimi per la storia del Risorgimento. (Collegare con l'affare Bollea per l'epistolario di M. d'Azeglio, coi Costituti Confalonieri, ecc.).

La tendenza democratica gallicistica. L'elemento di lotta di razza innestato nella lotta di classe in Francia dal Thierry ha avuto importanza e quale, in Francia, nel determinare la sfumatura nazionalistica dei movimenti delle classi subalterne? Il «gallicismo» operaio di Proudhon sarebbe da studiare, come espressione più compiuta della tendenza democratico-gallicistica, rappresentata dai romanzi popolari di Eugenio Sue.

La Bohême. Carlo Baudelaire.

Confrontare Charles Baudelaire, Les Fleurs du Mal et autres poèmes, texte intégral précédé d'une étude inédite d'Henri de Régnier («La Renaissance du Livre», Paris, s.d.). Nello studio del de Régnier (a pp. 14-15, a contare dalle pagine stampate, perché nel testo della prefazione non c'è numerazione) si ricorda che il Baudelaire partecipò attivamente ai fatd del febbraio e del giugno 1848. «Fait étrange de contagion révolutionnaire, dans cette cervelle si méticuleusement lucide», scrive il de Régnier. Il Baudelaire, con Champfleury, fondò un giornale repubblicano in cui scrisse articoli violenti. Diresse poi un giornale locale a Châteauroux. «Cette double campagne typographique (sic) et la part qu'il prit au mouvement populaire suffirent, il faut le dire, à guérir ce qu'il appela plus tard sa "folie" et que, dans Mon cœur mis à nu, il cherche à s'expliquer à lui-même quand il écrit: "Mon ivresse de 1848. De quelle nature était cette ivresse? Goût de la vengeance, plaisir naturel da la démolition. Ivresse littéraire. Souvenirs de lectures ". Crise bizarre qui transforma cet aristocrate d'idées et de goût qu'était foncièrement Baudelaire en un énergumène que nous décrit dans ses notes son camarade Le Valvasseur et dont les mains " sentaient la poudre ", proclamant l'apothéose de la banqueroute sociale; crise bizarre d'où il rapporta une horreur sincère de la démocratie mais qui était peut-être aussi un premier avertissement physiologique, ecc.» e un primo sintomo della nevrastenia del Baudelaire (ma perché non il contrario? Cioè perché la malattia del Baudelaire non avrebbe invece determinato il suo distacco dal movimento popolare? ecc.) In ogni caso vedere se questi scritti politici del Baudelaire sono stati studiati e raccolti.

Laburismo inglese.

L'arcivescovo di Canterbury, primate della Chiesa anglicana, e il laburismo. Durante le elezioni inglesi del 1931 il candidato laburista W. T. Collyer affermò in una riunione che l'arcivescovo di Canterbury era uno dei sottoscrittori per il fondo del Labour Party. Fu domandato all'arcivescovo se l'affermazione era esatta e il suo segretario rispose: «L'arcivescovo mi incarica di dire che egli è stato membro sottoscrittore del Labour Party dal 1919 al 1925 o '26, quando egli trovò che un crescente disagio col movimento e con lo spirito e l'umore del partito rendeva impossibile la continuazione di una tale affiliazione (membership)» (cfr. «The Manchester Guardian Weekly» del 30 ottobre 1931, p. 357).

Le Utopie e i così detti «romanzi filosofici».

Controriforma e Utopie: desiderio di ricostruire la civiltà europea secondo un piano razionale. Altra origine e forse la più frequente: modo di esporre un pensiero eterodosso, non conformista e ciò specialmente prima della Rivoluzione francese. Dalle Utopie sarebbe derivata quindi la moda di attribuire a popoli stranieri le istituzioni che si desidererebbero nel proprio paese, o di far la critica delle supposte istituzioni di un popolo straniero per criticare quelle del proprio paese. Cosi dalle Utopie sarebbe nata anche la moda di esaltare i popoli primitivi, selvaggi (il buon selvaggio) presunti esseri più vicini alla natura. (Ciò si ripeterebbe nell'esaltazione del «contadino», idealizzato, da parte dei movimenti populisti).

Tutta questa letteratura ha avuto non piccola importanza nella storia della diffusione delle opinioni politiche sociali fra determinate masse e quindi nella storia della cultura. Si potrebbe osservare che questa letteratura politica «romanzata» reagisce alla letteratura «cavalleresca» in decadenza (Don Chisciotte, Orlando Furioso, Utopia di Tommaso Moro, Città del Sole) e indica quindi il passaggio dall'esaltazione di un tipo sociale feudale all'esaltazione delle masse popolari genericamente, con tutti i loro bisogni elementari (nutrirsi, vestirsi, ripararsi, riprodursi) ai quali si cerca di dare razionalmente una soddisfazione.

Si trascura nello studio di questi scritti di tener conto delle impressioni profonde che dovevano lasciare, spesso per generazioni, le grandi carestie e le grandi pestilenze, che decimavano e stremavano ie grandi masse popolari. Questi disastri elementari, accanto ai fenomeni di morbosità religiosa, cioè di passività rassegnata, destavano anche sentimenti critici «elementari», quindi spinte a una certa attività che appunto trovavano la loro espressione in questa letteratura utopistica, anche parecchie generazioni dopo che i disastri erano avvenuti, ecc.

I così detti «romanzi filosofici» sono stati studiati per la storia dello sviluppo della critica politica, ma un aspetto dei più interessanti da vedere è il loro riflettere inconsapevolmente le aspirazioni più quali si fossero, oscuri o ignoti; che egli se la compi, se la rimutò, se la rifoggiò a sua posta, si che n'ha già avvivata un'altra, sua, proprio sua, della quale tanto è preso che è nei Marmi e via via in più opere e opuscoli esce or in questo e or in quel particolare, in questo o in quel sentimento».

Per la bibliografìa del Doni confrontare l'edizione dei Marmi curata dal Chiorboli negli «Scrittori d'Italia» del Laterza e l'antologia del Doni pubblicata nelle «Più belle Pagine» del Treves.

La Tempesta di Shakespeare (l'opposizione di Calibano e Prospero, ecc.; carattere utopistico dei discorsi di Gonzalo). Confrontare Achille Loria, Pensieri e soggetti economici in Shakespeare, nella «Nuova Antologia» del 1° agosto 1928, che può essere utilizzato come prima scelta dei brani shakespeariani di carattere politico-sociale e come documento indiretto del modo di pensare dei popolani del tempo. A proposito della Tempesta sono da vedere il Caliban e l'Eau de Jouvence del Renan.

Cosa pensano i giovani?

Nell'«Italia Letteraria» del 22 dicembre 1929 M. Missiroli (Filosofia della Rivoluzione) parla dei lavori che il prof. Giorgio Del Vecchio fa fare ai suoi allievi dell'Università di Roma. Nella «Rivista Internazionale di Filosofìa del Diritto» uscita nel novembre 1929 sono pubblicati sotto il titolo Esercitazioni di filosofia del diritto questi lavori che nel '28-29 ebbero per tema «la filosofìa della Rivoluzione». Nota il Missiroli che la maggioranza di questi giovani è orientata verso le dottrine dello storicismo, sebbene non manchino assertori del tradizionale spiritualismo e anche reminiscenze dell'antico diritto naturale. Nessuna traccia di positivismo e di individualismo: i principi d'autorità gagliardamente affermati. I brani riportati dal Missiroli sono veramente interessanti e la raccolta potrebbe servire come dimostrazione della crisi intellettuale che, secondo me, non può non sboccare in una ripresa del materialismo storico. (Gli elementi per dimostrare come il materialismo storico sia penetrato profondamente nella cultura moderna sono abbondanti in questi esercizi).