Antonio Gramsci
Il Risorgimento
Einaudi, Torino 1949



I. Riforma e Rinascimento

Rinascimento, Risorgimento, Riscossa (Q. XII)

Nel linguaggio storico- politico italiano è da notàre tutta una serie di espressioni, legate strettamente al modo tradizionale di concepire la storia della nazione e della cultura italiana, che è difficile e talvolta impossibile di tradurre nelle lingue straniere. Cosi abbiamo il gruppo «Rinascimento, Rinascita (Rinascenza, francesismo)», termini che sono ormai entrati nel circolo della cultura europea e mondiale, perché, se il fenomeno indicato ebbe il massimo splendore in Italia, non fu però ristretto all'Italia.

Nasce nell'800 il termine «risorgimento» in senso più strettamente nazionale e politico, accompagnato dalle altre espressioni di «riscossa nazionale» e «riscatto nazionale»: tutti esprimono il concetto del ritorno a uno stato di cose già esistito nel passato o di «ripresa» offensiva («riscossa») delle energie nazionali disperse intorno a un nucleo militante e concentrato, o di emancipazione da uno stato di servitù per ritornare alla primitiva autonomia («riscatto»). Sono difficili da tradurre appunto perché strettamente legate alla tradizione letteraria-nazionale di una continuità essenziale della storia svoltasi nella penisola italiana, da Roma all'unità dello Stato moderno, per cui si concepisce la nazione italiana «nata» o «sorta» con Roma, si pensa che la cultura greco-romana sia «rinata», la nazione sia «risorta», ecc. La parola «riscossa» è del linguaggio militare francese, ma poi è stata legata alla nozione di un organismo vivo che cade in letargia e si riscuote, sebbene non si possa negare che le è rimasto un po' del primitivo senso militare.

A questa serie puramente italiana si possono collegare altre espressioni corrispondenti: per es. il termine, di origine francese e indicante un fatto prevalentemente francese, «Restaurazione».

La coppia «formare e riformare», perché, secondo il significato assunto storicamente dalla parola, una cosa «formata» si può continuamente «riformare» senza che tra la formazione e la riforma sia implicito il concetto di una parentesi catastrofica o letargica, ciò che invece è implicito per «rinascimento» e «restaurazione». Si vede da ciò che i cattolici sostengono che la Chiesa romana è stata più volte riformata dall'interno, mentre nel concetto protestante di «Riforma» è implicita l'idea di rinascita e restaurazione del cristianesimo primitivo, soffocato dal romanesimo. Nella cultura laica si parla perciò di Riforma e Controriforma, mentre i cattolici (e specialmente i gesuiti che sono più accurati e conseguenti anche nella terminologia) non vogliono ammettere che il Concilio di Trento abbia solamente reagito al luteranesimo e a tutto il complesso delle tendenze protestantiche, ma sostengono che si sia trattato di una «Riforma cattolica» autonoma, positiva, che si sarebbe verificata in ogni caso. La ricerca della storia di questi termini ha un significato culturale non trascurabile.

II. IL RISORGIMENTO

L'età del Risorgimento (Q. X)

di Adolfo Omodeo (ed. Principato, Messina): questo libro pare sia fallito nel suo complesso. Esso è il rifacimento di un manuale scolastico e del manuale conserva molti caratteri. I fatti (gli event1) sono semplicemente descritti come pure enunciazioni da catalogo, senza nessi di necessità storica. Lo stile del libro è sciatto, spesso irritante; i giudizi sono tendenziosi, talvolta pare che l'Omodeo abbia una quistione personale con certi protagonisti della storia (per es. coi giacobini frances1). Per ciò che si riferisce alla penisola italiana, pare che l'intenzione dell'Omodeo sarebbe dovuta essere quella di mostrare che il Risorgimento è fatto essenzialmente italiano, le cui origini devono trovarsi in Italia e non solo o prevalentemente negli sviluppi europei della Rivoluzione francese e dell'invasione napoleonica. Ma questa intenzione non è attuata in altro modo che nell'iniziare la narrazione dal 1740 invece che dal 1789 o dal 1796 o dal 1815.

Il periodo delle monarchie illuminate non è in Italia un fatto autoctono, e non è «originale» italiano il movimento di pensiero connesso (Giannone e i regalist1). La monarchia illuminata pare possa dirsi la più importante derivazione politica dell'età del mercantilismo, che annunzia i tempi nuovi, la civiltà moderna nazionale; ma in Italia c'è stata un'età del mercantilismo come fenomeno nazionale? Il mercantilismo avrebbe, se organicamente sviluppato, rese ancora più profonde e forse definitive, le divisioni in Stati regionali; lo stato informe e disorganico in cui le diverse parti d'Italia vennero a trovarsi dal punto di vista economico, la non formazione di forti interessi costituiti intorno a un forte sistema mercantilistico-statale permisero o resero più facile l'unificazione del l'età del Risorgimento.

Pare poi che nella conversione del suo lavoro da manuale scolastico a libro di cultura generale col titolo di Età del Risorgimento, l'Omodeo avrebbe dovuto mutarne tutta l'economia (la struttura), riducendo la parte europea e dilatando la parte italiana. Dal punto di vista europeo, l'età è quella della Rivoluzione francese e non del Risorgimento italiano, del liberalismo come concezione generale della vita e come nuova forma di civiltà statale e di cultura, e non solo dell'aspetto «nazionale» del liberalismo. E certo possibile parlare di un'età del Risorgimento, ma allora occorre restringere la prospettiva e mettere a fuoco l'Italia e non l'Europa, svolgendo della storia europea e mondiale solo quei nessi che modificano la struttura generale dei rapporti di forza internazionali che si opponevano alla formazione di un grande Stato unitario nella penisola, mortificando ogni iniziativa in questo senso e soffocandola in sul nascere e svolgendo la trattazione di quelle correnti che invece dal mondo internazionale influivano in Italia, incoraggiandone le forze autonome e locali della stessa natura e rendendole più valide. Esiste cioè un'età del Risorgimento nella storia svoltasi nella penisola italiana, non esiste nella storia dell'Europa come tale: in questa corrisponde l'età della Rivoluzione francese e del liberalismo (come è stata trattata dal Croce, in modo manchevole, perché nel quadro del Croce manca la premessa, la Rivoluzione in Francia e le guerre successive: le derivazioni storiche sono presentate come fatti a sé, autonomi, che hanno in sé le proprie ragioni di essere e non come parte di uno stesso nesso storico, di cui la Rivoluzione francese e le guerre non possono non essere elemento essenziale e necessario).

Cosa significa o può significare il fatto che l'Omodeo inizia la sua narrazione dalla pace di Aquisgrana, che pone termine alla guerra per la successione di Spagna? L'Omodeo non «ragiona», non «giustifica» questo suo criterio metodico, non mostra che esso sia l'espressione di ciò che un determinato nesso storico europeo è nello stesso tempo nesso storico italiano, da inserire necessariamente nello sviluppo della vita nazionale italiana. Ciò invece può e deve essere «dichiarato». La personalità nazionale (come la personalità individuale) è una mera astrazione, se considerata fuori del nesso internazionale (o sociale). La personalità nazionale esprime un «distinto» del complesso internazionale, pertanto è legata ai rapporti internazionali. C'è un periodo di dominio straniero in Italia, per un certo tempo dominio diretto, posteriormente di carattere egemonico (o misto, di dominio diretto e di egemonia). La caduta della penisola sotto la dominazione straniera nel '500 aveva già provocato una reazione: quella di indirizzo nazionale-democratico del Machiavelli che esprimeva nello stesso tempo il rimpianto per la perduta indipendenza in una determinata forma (quella dell'equilibrio interno fra gli Stati italiani sotto l'egemonia della Firenze di Lorenzo il Magnifico) e la volontà iniziale di lottare per riacquistarla in una forma storicamente superiore, come principato assoluto sul tipo della Spagna e della Francia. Nel '700 l'equilibrio europeo, Austria-Francia, entra in una fase nuova per rispetto all'Italia: c'è un indebolimento reciproco delle due grandi potenze e sorge una terza grande potenza, la Prussia. Pertanto, le origini del moto del Risorgimento, cioè del processo di formazione delle condizioni e dei rapporti internazionali che permetteranno all'Italia di riunirsi in nazione e alle forze interne nazionali di svilupparsi ed espandersi, non sono da ricercare in questo o quell'evento concreto registrato sotto una o altra data, ma appunto nello stesso processo storico per cui l'insieme del sistema europeo si trasforma. Questo processo intanto non è indipendente dagli eventi interni della penisola e dalle forze che in essa hanno la sede. Un elemento importante e talvolta decisivo dei sistemi europei era sempre stato il Papato. Nel corso del '700 l'indebolimento della posizione del Papato come potenza europea è addirittura catastrofico. Con la Controriforma, il Papato aveva modificato essenzialmente la struttura della sua potenza: si era alienato le masse popolari, si era fatto fautore di guerre sterminatrici, si era contuso con le classi dominanti in modo irrimediabile. Aveva così perduto la capacità di influire sia direttamente sia indirettamente sui governi attraverso la pressione delle masse popolari fanatiche e fanatizzate: è degno di nota che proprio mentre il Bellarmino elaborava la sua teoria del dominio indiretto della Chiesa, la Chiesa, con la sua concreta attività, distruggeva le condizioni di ogni suo dominio, anche indiretto, staccandosi dalle masse popolari. La politica regalista delle monarchie illuminate è la manifestazione di questo esautoramento della Chiesa come potenza europea e quindi italiana, e inizia anch'essa il Risorgimento, se è vero, come è vero, che il Risorgimento era possibile solo in funzione di un indebolimento del Papato sia come potenza europea che come potenza italiana, cioè come possibile forza che riorganizzasse gli Stati della penisola sotto la sua egemonia. Ma tutti questi sono elementi condizionanti; una dimostrazione, storicamente valida, che già nel '700 si fossero costituite in Italia delle forze che tendessero concretamente a fare della penisola un organismo politico unitario e indipendente non è stata ancora fatta.

Quando incomincia il Risorgimento?

Quando si deve porre l'inizio del movimento storico che ha preso il nome di Risorgimento italiano? Le risposte sono diverse e contraddittorie, ma in generale esse si raggruppano in due serie: 1) di quelli che vogliono sostenere l'origine autonoma del movimento nazionale italiano e addirittura sostengono che la Rivoluzione francese ha falsificato la tradizione italiana e l'ha deviata; 2) e di quelli che sostengono che il movimento nazionale italiano è strettamente dipendente dalla Rivoluzione francese e dalle sue guerre.

La quistione storica è turbata da interferenze sentimentali e politiche e da pregiudizi di ogni genere. E già difficile far capire al senso comune che un'Italia come quella che si è formata nel '70 non era mai esistita prima e non poteva esistere: il senso comune è portato a credere che ciò che oggi esiste sia sempre esistito e che l'Italia sia sempre esistita come nazione unitaria, ma sia stata soffocata da forze estranee, ecc. Numerose ideologie hanno contribuito a rafforzare questa credenza, alimentate dal desiderio di apparire eredi del mondo antico, ecc.; queste ideologie, d'altronde, hanno avuto un ufficio notevole come terreno di organizzazione politica e culturale, ecc.

Mi pare che bisognerebbe analizzare tutto il movimento storico partendo da diversi punti di vista, fino al momento in cui gli elementi essenziali dell'unità nazionale si unificano e diventano una forza sufficiente per raggiungere lo scopo, ciò che mi pare avvenga solo dopo il '48. Questi elementi sono negativi e positivi, nazionali e internazionali. Un elemento abbastanza antico è la coscienza dell'«unità culturale» che è esistita fra gli intellettuali italiani almeno dal 1200 in poi, cioè da quando si è sviluppata una lingua letteraria unificata (il volgare illustre di Dante): ma è questo un elemento senza efficacia diretta sugli avvenimenti storici, sebbene sia il più sfruttato dalla retorica patriottica, né d'altronde esso coincide o è l'espressione di un sentimento nazionale concreto e operante. Altro elemento è la coscienza della necessità dell'indipendenza della penisola italiana dall'influenza straniera, molto meno diffuso del primo, ma certo politicamente più importante e storicamente più fecondo di risultati pratici; ma anche di questo elemento non deve essere esagerata l'importanza e il significato e specialmente la diffusione e la profondità. Questi elementi sono propri di piccole minoranze di grandi intellettuali, e mai si sono manifestati come espressione di una diffusa e compatta coscienza nazionale unitaria.

Condizioni per l'unità nazionale: 1) esistenza di un certo equilibrio delle forze internazionali che fosse la premessa della unità italiana. Ciò si verificò dopo il 1748, dopo cioè la caduta della egemonia francese e l'esclusione assoluta dell'egemonia spagnola e austriaca, ma spari nuovamente dopo il 1815: tuttavia il periodo dal 1748 al 1815 ebbe una grande importanza nella preparazione della unità, o meglio per lo sviluppo degli elementi che dovevano condurre all'unità. Tra gli elementi internazionali occorre considerare la posizione del Papato, la cui forza nell'àmbito italiano era legata alla forza internazionale: il regalismo e il giuseppismo, cioè la prima affermazione liberale e laica dello Stato, sono elementi essenziali per la preparazione dell'unità. Da elemento negativo e passivo, la situazione internazionale diventa elemento attivo dopo la Rivoluzione francese e le guerre napoleoniche, che allargano l'interesse politico e nazionale alla piccola borghesia e ai piccoli intellettuali, che dànno una certa esperienza militare e creano un certo numero di ufficiali italiani. La formula «repubblica una e indivisibile» acquista una certa popolarità e, nonostante tutto, il Partito d'Azione ha origine dalla Rivoluzione francese e dalle sue ripercussioni in Italia; questa formula si adatta in «Stato unico e indivisibile», in monarchia unica e indivisibile o accentrata, ecc.

L'unità nazionale ha avuto un certo sviluppo e non un altro e di questo sviluppo fu motore lo Stato piemontese e la dinastia di Savoia. Occorre perciò vedere quale sia stato lo svolgimento storico in Piemonte dal punto di vista nazionale. Il Piemonte aveva avuto interesse dal 1492 in poi (cioè nel periodo dalle preponderanze straniere) a che ci fosse un certo equilibrio interno fra gli Stati italiani, come premessa dell'indipendenza (cioè del non-influsso dei grandi Stati stranier1); naturalmente lo Stato piemontese avrebbe voluto essere l'egemone in Italia, almeno nell'Italia settentrionale e centrale, ma non riusci; troppo forte era Venezia, ecc.

Lo Stato piemontese diventa motore reale dell'unità dopo il '48, dopo cioè la sconfitta della destra e del centro politico piemontese e l'avvento dei liberali con Cavour. La Destra: Solaro della Margarita, cioè i «nazionalisti piemontesi esclusivisti» o municipalisti (l'espressione «municipalismo» dipende dalla concezione di una unità italiana latente e reale, secondo la retorica patriottica); il Centro: Gioberti e i neoguelfi. Ma i liberali di Cavour non sono dei giacobini nazionali: essi in realtà superano la Destra del Solaro, ma non qualitativamente, perché concepiscono l'unità come allargamento dello stato piemontese e del patrimonio della dinastia, non come movimento nazionale dal basso, ma come conquista regia. Elemento più propriamente nazionale è il Partito d'Azione.

Sarebbe interessante e necessario raccogliere tutte le affermazioni sulla quistione dell'origine del Risorgimento in senso proprio cioè del moto che portò all'unità territoriale e politica dell'Italia, ricordando che molti chiamano Risorgimento anche il risveglio delle forze «indigene» italiane dopo il Mille, cioè il moto che portò ai Comuni e al Rinascimento. Tutte queste quistioni sulle origini hanno la loro ragione per il fatto che l'economia italiana era molto debole, e il capitalismo incipiente: non esisteva una forte e diffusa classe di borghesia economica, ma invece molti intellettuali e piccoli borghesi, ecc. Il problema non era tanto di liberare le forze economiche già sviluppate dalle pastoie giuridiche e politiche antiquate, quanto di creare le condizioni generali perché queste forze economiche potessero nascere e svilupparsi sul modello degli altri paesi. La storia contemporanea offre un modello per comprendere il passato italiano: esiste oggi una coscienza culturale europea ed esiste una serie di manifestazioni di intellettuali e uomini politici che sostengono la necessità di una unione europea: si può anche dire che il processo storico tende a questa unione e che esistono molte forze materiali che solo in questa unione potranno svilupparsi: se fra x anni questa unione sarà realizzata la parola «nazionalismo» avrà lo stesso valore archeologico che l'attuale «municipalismo».

Altro fatto contemporaneo che spiega il passato è la «non-resistenza e non-cooperazione» sostenuta da Gandhi: esse possono far capire le origini dei cristianesimo e le ragioni del suo sviluppo nell'Impero romano. Il tolstoismo aveva le stesse origini nella Russia zarista, ma non divenne una «credenza popolare» come il gan- dhismo: attraverso Tolstoi, anche Gandhi si riallaccia al cristianesimo primitivo, rivive in tutta l'India una forma di cristianesimo primitivo, che il mondo cattolico e protestante non riesce neppure più a capire. Il rapporto tra gandhismo e Impero inglese è simile a quello tra cristianesimo-ellenismo e Impero romano. Paesi di antica civiltà, disarmati e tecnicamente (militarmente) inferiori, dominati da paesi tecnicamente sviluppati (i Romani avevano sviluppato la tecnica governativa e militare), sebbene come numero di abitanti trascurabili.

Che molti uomini che si credono civili siano dominati da pochi uomini ritenuti meno civili ma materialmente invincibili, determina il rapporto cristianesimo primitivo-gandhismo. La coscienza dell'impotenza materiale di una gran massa contro pochi oppressori porta alla esaltazione dei valori puramente spirituali, ecc., alla passività, alla non-resistenza, alla non-cooperazione, che però di fatto è una resistenza diluita e penosa, il materasso contro la pallottola.

Anche i movimenti religiosi popolari del Medioevo, francescanesimo, ecc., rientrano in uno stesso rapporto di impotenza politica delle grandi masse di fronte a oppressori poco numerosi, ma agguerriti e centralizzati: gli «umiliati e offesi» si trincerano nel pacifismo evangelico primitivo, nella nuda «esposizione» della loro «natura umana» disconosciuta e calpestata — nonostante le affermazioni di fraternità in Dio-padre e di uguaglianza, ecc. Nella storia delle eresie medioevali Francesco ha una sua posizione individuale ben distinta: egli non vuole lottare, cioè egli non pensa neppure a una qualsiasi lotta, a differenza degli altri innovatori (Valdo, ecc., e gli stessi francescan1). La sua posizione è ritratta in un aneddoto raccontato dagli antichi testi francescani. «Ad un teologo domenicano che gli chiede come si debba intendere il verbo di Ezechia: " Se non manifesterete all'empio la sua iniquità, io chiederò conto a voi della sua anima ", così risponde Francesco: " Il servo di Dio deve comportarsi nella sua vita e nel suo amore alla virtù così che con la luce del buon esempio e l'unzione della parola riesca di rimprovero a tutti gli empi; e così avverrà, credo, che lo splendore della vita di lui e l'odore della sua buona fama annunzieranno ai tristi la loro iniquità... "» (Cfr. Antonio Vise ardi, Francesco d'Assisi e la legge della povertà evangelica, nella «Nuova Italia» del gennaio 1931).

Le origini del Risorgimento.

Le ricerche sulle origini del moto nazionale del Risorgimento sono quasi sempre viziate dalla tendenziosità politica immediata, non solo da parte degli scrittori italiani, ma anche da parte di quelli stranieri, specialmente francesi (o sotto l'influsso della cultura francese). C'è una «dottrina» francese sulle origini del Risorgimento, secondo la quale la nazione italiana deve la sua fortuna alla Francia, specialmente ai due Napoleoni, e questa dottrina ha anche il suo aspetto polemico-negativo: i nazionalisti monarchici (Bainville) muovono ai due Napoleoni (e alle tendenze democratiche in genere suscitate dalla Rivoluzione) il rimprovero di aver indebolito la posizione relativa della Francia in Europa con la loro politica «nazionalitaria», cioè di essere stati contro la tradizione e gli interessi della nazione francese, rappresentati dalla monarchia e dai partiti di destra (clerical1), sempre antitaliani, e che consisterebbero nell'avere per vicini conglomerati di staterelli, come erano la Germania e l'Italia nel '700.

In Italia le quistioni «tendenziali e tendenziose» poste a questo proposito sono: 1) la tesi democratica francofila, secondo cui il moto è dovuto alla Rivoluzione francese e ne è una derivazione diretta, che ha determinato la tesi opposta; 2) la Rivoluzione francese col suo intervento nella penisola ha interrotto il movimento «veramente» nazionale, tesi che ha un doppio aspetto: a) quello gesuitico (per i quali i sanfedisti erano il solo elemento «nazionale» rispettabile e legittimo), e b) quello moderato che si riferisce piuttosto ai principi riformatori, alle monarchie illuminate. Qualcuno poi aggiunge: c) il movimento riformatore era stato interrotto per il panico suscitato dagli avvenimenti di Francia, quindi l'intervento degli eserciti francesi in Italia non interruppe il movimento indigeno, ma anzi ne rese possibile la ripresa e il compimento. Molti di questi elementi sono svolti in quella letteratura a cui si accenna sotto la rubrica Interpretazioni del Risorgimento italiano, letteratura che se ha un significato nella storia della cultura politica, non ne ha che scarso in quello della storiografia.

In un articolo assai notevole di Gioacchino Volpe, Una scuola per la storia dell'Italia moderna1, è scritto: «Tutti lo sanno: per capire il "Risorgimento" non basta spingersi al 1815 e neppure al 1796, l'anno in cui Napoleone irruppe nella penisola e vi suscitò la tempesta. Il "Risorgimento", come ripresa di vita italiana, come formazione di una nuova borghesia, come consapevolezza crescente di problemi non solo municipali e regionali ma nazionali, come sensibilità a certe esigenze ideali, bisogna cercarlo parecchio prima della Rivoluzione: è anche esso sintomo, uno dei sintomi, di una rivoluzione in marcia, non solo francese, ma, in certo senso, mondiale. Tutti egualmente sanno che la storia del Risorgimento non si studia solo coi documenti italiani, e come fatto solamente italiano, ma nel quadro della vita europea, trattisi di correnti di cultura, di trasformazioni economiche, di situazioni internazionali nuove, che sollecitano gli italiani a nuovi pensieri, a nuove attività, a nuovo assetto politico». In queste parole del Volpe è riassunto ciò che sarebbe voluto essere il fine dcirOmodeo nel suo libro, ma che nell'Omodeo rimane sconnesso ed esteriore. Si ha l'impressione che sia per il titolo, sia per l'impostazione cronologica, il libro dell'Omodeo abbia solo voluto rendere un omaggio «polemico» alla tendenziosità storica e non alla storia, per ragioni di «concorrenza» opportunistica poco chiare e in ogni modo poco pregevoli.

Nel '700, mutate le condizioni relative della penisola nel quadro dei rapporti europei, sia per ciò che riguarda la pressione egemonica delle grandi potenze che non potevano permettere il sorgere di uno Stato italiano unitario, sia per ciò che riguarda la posizione di potenza politica (in Italia) e culturale (in Europa) del Papato (e tanto meno le grandi potenze europee potevano permettere uno Stato unificato italiano sotto la supremazia del Papa, cioè permettere che la funzione culturale della Chiesa e la sua diplomazia, già abbastanza ingombranti e limitatrici del potere statale nei paesi cattolici, si rafforzassero appoggiandosi a un grande Stato territoriale e a un esercito corrispondente), muta anche l'importanza e il significato della tradizione letterario-retorica esaltante il passato romano, la gloria dei Comuni e del Rinascimento, la funzione universale del Papato italiano. Questa atmosfera culturale italiana era rimasta fino allora indistinta e generica; essa giovava specialmente al Papato, formava il terreno ideologico della potenza papale nel mondo, l'elemento discriminativo per la scelta e l'educazione del personale ecclesiastico e laico-ecclesiastico, di cui il Papato aveva bisogno per la sua organizzazione pratico-amministrativa, per centralizzare l'organismo chiesastico e il suo influsso, per tutto l'insieme dell'attività politica, filosofica, giuridica, pubblicistica, culturale che costituiva la macchina per l'esercizio del potere indiretto, dopo che, nel periodo precedente la Riforma, era servita all'esercizio del poter dirtto o di quelle funzioni di potere diretto che potevano concretamente attuarsi nel sistema di rapporti di forza interni di ogni singolo paese cattolico.

Nel '700 si inizia un processo di distinzione in questa corrente tradizionale: una parte sempre più coscientemente (per programma esplicito) si connette con l'istituto del Papato come espressione di una funzione intellettuale (etico-politica di egemonia intellettuale e civile) dell'Italia nel mondo e finirà con l'esprimere il Primato giobertiano (e il neoguelfismo, attraverso una serie di movimenti più o meno equivoci, come il sanfedismo e il primo periodo del lamennesismo), e successivamente con il concretarsi in forma organica, sotto la direzione immediata dello stesso Vaticano, del movimento di Azione cattolica, in cui la funzione dell'Italia come nazione è ridotta al minimo (all'apporto di quella parte del personale centrale vaticano che è italiano, ma non può mettere in prima linea, come una volta, il suo essere italiano) e si sviluppa una parte «laica», anzi in opposizione al Papato, che cerca rivendicare una funzione di primato italiano e di missione italiana nel mondo indipendentemente dal Papato. Questa seconda parte, che non può mai riferirsi a un organismo ancora così potente come la Chiesa romana e manca pertanto di un punto unico di centralizzazione, non ha la stessa compattezza, omogeneità, disciplina dell'altra, ha varie linee spezzate di sviluppo e si può dire confluisca nel mazzinianismo.

Ciò che è importante storicamente è che nel '700 questa tradizione cominci a disgregarsi, per meglio concretarsi, e a muoversi con una ìntima dialettica: significa che tale tradizione letterario-retorica sta diventando un fermento politico, il suscitatore e l'organizzatore del terreno ideologico in cui le forze politiche effettive riusciranno a determinare lo schieramento, sia pure tumultuario, delle più grandi masse popolari necessarie per raggiungere certi fini, riusciranno a mettere in iscacco e lo stesso Vaticano e le altre forze di reazione esistenti nella penisola accanto al Papato. Che il movimento liberale sia riuscito a suscitare la forza cattolico-liberale e a ottenere che lo stesso Pio IX si ponesse, sia pure per poco, nel terreno del liberalismo (quanto fu sufficiente per disgregare l'apparato politico ideologico del cattolicismo e togliergli la fiducia in se stesso) fu il capolavoro politico del Risorgimento e uno dei punti più importanti di risoluzione dei vecchi nodi che avevano impedito fino allora di pensare concretamente alla possibilità di uno Stato unitario italiano2.

Alberto Pingaud, autore di un libro su Bonaparte, président de la République italienne e che sta preparando un altro libro su Le premier Royaume d'Italie (che è già stato pubblicato quasi tutto sparsamente in diversi periodic1), è tra quelli che «collocano nel 1814 il punto di partenza e in Lombardia il focolare del movimento politico che ebbe termine nel 1870 con la presa di Roma». Baldo Peroni, che nella «Nuova Antologia» del 16 agosto 1932 passa in rassegna questi scritti ancora sparsi del Pingaud, osserva: «Il nostro Risorgimento — inteso come risveglio politico — comincia quando l'amor di patria cessa di essere una vaga aspirazione sentimentale o un motivo letterario e diventa pensiero consapevole, passione che tende a tradursi in realtà mediante un'azione che si svolge con continuità e non s'arresta dinanzi ai più duri sacrifici. Ora, siffatta trasformazione è già avvenuta nell'ultimo decennio del Settecento, e non soltanto in Lombardia, ma anche a Napoli, in Piemonte, in quasi tutte le regioni d'Italia. I "patrioti" che tra l'89 e il '96 sono mandati in esilio o salgono il patibolo, hanno cospirato, oltre che per instaurare la repubblica, anche per dare all'Italia indipendenza e unità; e negli anni successivi è l'amore dell'indipendenza che ispira e anima l'attività di tutta la classe politica italiana, sia che collabori coi francesi e sia che tenti dei moti insurrezionali allorché appare evidente che Napoleone non vuole concedere la libertà solennemente promessa». Il Peroni, in ogni modo, non ritiene che il moto italiano sia da ricercarsi prima del 1789, cioè afferma una dipendenza del Risorgimento dalla Rivoluzione francese, tesi che non è accettata dalla storiografia nazionalistica. Tuttavia, appare vero quanto il Peroni afferma, se si considera il fatto specifico e di importanza decisiva, del primo aggruppamento di elementi politici che si svilupperà fino a formare l'insieme dei partiti che saranno i protagonisti del Risorgimento. Se nel corso dei '700 cominciano ad apparire e a consolidarsi le condizioni obiettive, internazionali e nazionali, che fanno dell'unificazione nazionale un còmpito storicamente concreto (cioè non solo possibile, ma necessario), è certo che solo dopo 1*89 questo còmpito diventa consapevole in gruppi di cittadini disposti alla lotta e al sacrificio. La Rivoluzione francese, cioè, è uno degli eventi europei che maggiormente operano per approfondire un movimento già iniziato nelle «cose», rafforzando le condizioni positive (oggettive e soggettive) del movimento stesso e funzionando come elemento di aggregazione e centralizzazione delle forze umane disperse in tutta la penisola e che altrimenti avrebbero tardato di più a «incentrarsi» e comprendersi tra loro.

Su questo stesso argomento è da vedere l'articolo di Gioacchino Volpe, Storici del Risorgimento a congresso, nell'«Educazione Fascista» del luglio 1932. Il Volpe informa sul 20° Congresso della Società Nazionale per la Storia del Risorgimento, tenuto a Roma nel maggio-giugno 1932. La Storia del Risorgimento fu prima concepita prevalentemente come «storia del patriottismo italiano». Poi essa cominciò ad approfondirsi, «ad essere. vista come vita italiana del secolo xix e quasi dissolta nel quadro di quella vita, presa tutta in un processo di trasformazione, coordinazione, unificazione, ideali e vita pratica, cultura e politica, interessi privati e pubblici». Dal secolo XIX si risali al secolo xvm e si videro nessi prima nascosti, ecc. Il secolo xvm «fu visto dall'angolo visuale del Risorgimento, anzi come Risorgimento anch'esso; con la sua borghesia ormai nazionale: con il suo liberalismo che investe la vita economica e la vita religiosa e poi quella politica, e che non è tanto un "principio" quanto una esigenza di produttori-, con quelle prime concrete aspirazioni ad "una qualche forma di unità" (Genoves1), per la insufficienza dei singoli Stati, ormai riconosciuta, a fronteggiare, con la loro ristretta economia, la invadente economia di paesi tanto più vasti e forti. Nello stesso secolo, si delineava anche una nuova situazione internazionale. Entravano cioè nel pieno giuoco forze politiche europee interessate ad un assetto più indipendente e coerente e meno staticamente equilibrato della penisola italiana. Insomma, una "realtà" nuova italiana ed europea, che dà significato e valore anche al nazionalismo dei letterati, riemerso dopo il cosmopolitismo dell'età precedente».

Il Volpe non accenna specificamente al rapporto nazionale e internazionale rappresentato dalia Chiesa, che anch'essa subisce nel secolo xvm una radicale trasformazione: lo scioglimento della Compagnia di Gesù in cui culmina il rafforzarsi dello Stato laico contro l'ingerenza ecclesiastica, ecc. Si può dire che oggi, per la storiografia del Risorgimento, dato il nuovo influsso esercitato dopo il Concordato, il Vaticano è diventato uiia delle maggiori, se non la maggiore, forze di remora scientifica e di «maltusianismo» metodico. Precedentemente, accanto a questa forza, che è stata sempre molto rilevante, esercitavano una funzione restrittiva dell'orizzonte storico la monarchia e la paura del separatismo. Molti lavori storici non furono pubblicati per questa ragione (per es., qualche libro di storia della Sardegna del barone Manno, l'episodio Bollea durante la guerra, ecc.). I pubblicisti repubblicani si erano specializzati nella storia «libelli- stica», sfruttando ogni opera storica che ricostruisce scientificamente gli avvenimenti dei Risorgimento: ne consegui una limitazione delle ricerche, un prolungarsi della storiografia apologetica, la impossibilità di sfruttare gli archivi, ecc.; insomma, tutta la meschinità della storiografìa del Risorgimento quando la si paragoni a quella della Rivoluzione francese. Oggi le preoccupazioni monarchiche e separatiste si sono andate assottigliando, ma sono cresciute quelle vaticanesche e clericali. Una gran parte degli attacchi alla Storia d'Europa del Croce hanno avuto evidentemente questa origine; così si spiega anche l'interruzione dell'opera di Francesco Salata, Per la storia diplomatica della Questione Romana, il cui primo volume è del 1929 ed è rimasto senza seguito.

Lo studio di Pietro Silva, Il problema italiano nella diplomazia europea del XVIII secolo, presentato al 20° Congresso della Società Nazionale per la Storia del Risorgimento, è così riassunto dal Volpe (nell'articolo citato): «Il secolo xvm vuol dire influenza di grandi potenze in Italia, ma anche loro contrasti: e, perciò, progressiva diminuzione del dominio diretto straniero e sviluppo di due forti organismi statali a nord e a sud. Col trattato di Aranjuez tra Francia e Spagna, 1752, e subito dopo, col ravvicinamento Austria-Francia, si inizia una stasi di quarant'anni per i due regni, pur con molti sforzi di rompere il cerchio austro-francese, tentando approcci con Prussia, Inghilterra, Russia. Ma il quarantennio segna anche lo sviluppo di quelle forze autonome che, con la Rivoluzione e con la rottura del sistema austro-francese, scenderanno in campo per una soluzione in senso nazionale e unitario del problema italiano. Ed ecco le riforme ed i principi riformatori, oggetto, gli ultimi tempi, di molti studi, per il regno di Napoli e di Sicilia, per la Toscana, Parma e Piacenza, Lombardia».

Carlo Morandi (Le riforme settecentesche nei risultati della recente storiografia) ha studiato la posizione delle riforme italiane nel quadro del riformismo europeo, e il rapporto tra riforme e Risorgimento. Per il rapporto tra Rivoluzione francese e Risorgimento il Volpe scrive: «È innegabile che la Rivoluzione, vuoi come ideologie, vuoi come passioni, vuoi come forza armata, vuoi come Napoleone, immette elementi nuovi nel flusso in movimento della vita italiana. Non meno innegabile che l'Italia del Risorgimento, organismo vivo, assimilando l'assimilabile di quel che veniva dal di fuori e che, in quanto idee, era un po' anche rielaborazione altrui di ciò che già si era elaborato in Italia, reagisce, insieme, ad esso, lo elimina e lo integra, in ogni modo lo supera. Essa ha tradizioni proprie, mentalità propria, problemi propri, soluzioni proprie: che son poi la vera e profonda radice, la vera caratteristica del Risorgimento, costituiscono la sua sostanziale continuità con l'età precedente, lo rendono capace alla sua volta di esercitare anche esso una sua azione su altri paesi: nel modo come tali azioni si possono, non miracolisticamente ma storicamente, esercitare, entro il cerchio di popoli vicini e affini».

Queste osservazioni del Volpe non sono sempre esatte: come si può parlare di «tradizioni, mentalità, problemi, soluzioni» proprie dell'Italia? O almeno, cosa ciò significa concretamente? Le tradizioni, le mentalità, i problemi, le soluzioni erano molteplici, contraddittori, di natura spesso solo individuale e arbitraria e non erano allora mai visti unitariamente. Le forze tendenti all'unità erano scarsissime, disperse, senza nesso tra loro e senza capacità di suscitare legami reciproci e ciò non solo nel secolo xvih, ma si può dire fino al 1848. Le forze contrastanti a quelle unitarie (o meglio tendenzialmente unitarie) erano invece potentissime, coalizzate, e, specialmente come Chiesa, assorbivano la maggior parte delle capacità ed energie individuali che avrebbero potuto costituire un nuovo personale dirigente nazionale, dando loro invece un indirizzo e un'educazione cosmo- politico-clericale. I fattori internazionali e specialmente la Rivoluzione francese, stremando queste forze reazionarie e logorandole, potenziano per contraccolpo le forze nazionali in se stesse scarse e insufficienti. È questo il contributo più importante della Rivoluzione francese, molto difficile da valutare e definire, ma che si intuisce di peso decisivo nel dare l'avviata al moto del Risorgimento.

Tra le altre memorie presentate al Congresso è da notare quella di Giacomo Lumbroso su La reazione popolare contro i Francesi alla fine del iyoo. Il Lumbroso sostiene che «le masse popolari, specialmente contadinesche, reagirono non perché sobillate dai nobili e neppure per amor di quieto vivere (difatti, impugnarono le armi!) ma, in parte almeno, per un oscuro e confuso amor patrio o attaccamento alla loro terra, alle loro istituzioni, alla loro indipendenza (!?): donde il frequente appello al sentimento nazionale degli Italiani, che fanno i " reazionari ", già nel 1799» ma la quistione è mal posta così e piena di equivoci. Intanto non si parla della «sobillazione» dei preti molto più efficace di quella dei nobili (che non erano così contrari alle nuove idee come appare dalla Repubblica partenopea); e poi cosa significa la parentesi ironica del Volpe secondo il quale pare non si possa parlare di amore del quieto vivere quando si impugnano le armi? La contraddizione è solo verbale: «quieto vivere» è inteso in senso politico di misoneismo e conservatorismo e non esclude per nulla la difesa armata delle proprie posizioni sociali. Inoltre la qui- stione dell'atteggiamento delle masse popolari non può essere impostata indipendentemente da quella delle classi dirigenti, perché le masse popolari possono insorgere per ragioni immediate e contingenti contro «stranieri» invasori in quanto nessuno ha loro insegnato a conoscere e seguire un indirizzo politico diverso da quello localistico e ristretto. Le reazioni spontanee (in quanto lo sono) delle masse popolari possono solo servire a indicare la «forza» di direzione delle classi alte; in Italia i liberali-borghesi trascurarono sempre le masse popolari. Il Volpe avrebbe dovuto a questo punto prendere posizione a proposito di quella letteratura sul Risorgimento equivoca e unilaterale, di cui il Lumbroso ha dato lo specimen più caratteristico: chi è «patriota» o «nazionale» nel senso del Lumbroso, l'ammiraglio Caracciolo impiccato dagli Inglesi o il contadino che insorge contro i Francesi? Domenico Cirillo o Fra Diavolo? E perché la politica filo-inglese e il denaro inglese devono essere più nazionali delle idee politiche francesi?

Interpretazioni del Risorgimento.

Esiste una notevole quantità di interpretazioni, le più disparate, del Risorgimento. La stessa quantità di esse è un segno caratteristico della letteratura storico-politica italiana e della situazione degli studi sul Risorgimento. Perché un evento o un processo di avvenimenti storici possa dar luogo a un tal genere di letteratura occorre pensare: che esso sia poco chiaro e giustificato nel suo sviluppo per la insufficienza delle forze «intime» che pare lo abbiano prodotto, per la scarsità degli elementi oggettivi «nazionali» ai quali fare riferimento, per la inconsistenza e gelati- nosità dell'organismo studiato (e infatti spesso si è sentito accennare al «miracolo» del Risorgimento). Né può giustificare una simile letteratura la scarsezza dei documenti (difficoltà di ricerche negli archivi, ecc.), poiché, in tal caso, l'intero corso dello svolgimento potrebbe essere documento di se stesso: anzi è appunto evidente che la debolezza organica di un complesso «vertebrato» in questo corso di svolgimento è la origine di questo sfrenarsi del «soggettivismo» arbitrario, spesso bizzarro e strampalato. In generale si può dire che il significato dell'insieme di queste interpretazioni è di carattere politico immediato e ideologico e non storico. Anche la loro portata na zionale è scarsa, sia per la troppa tendenziosità, sia per l'assenza di ogni apporto costruttivo, sia per il carattere troppo astratto, spesso bizzarro e romanzato. Si può notare che tale letteratura fiorisce nei momenti più caratteristici di crisi politico-sociale, quando il distacco tra governanti e governati si fa più grave e pare annunziare eventi catastrofici per la vita nazionale; il panico si diffonde tra certi gruppi intellettuali più sensibili e si moltiplicano i conati per determinare una riorganizzazione delle forze politiche esistenti, per suscitare nuove correnti ideologiche nei logori e poco consistenti organismi di partito e per esalare sospiri e gemiti di disperazione e di nero pessimismo.

Una classificazione razionale di questa letteratura sarebbe necessaria e piena di significato. Per ora si può fissare provvisoriamente qualche punto di riferimento: 1) un gruppo di interpretazioni in senso stretto, come può essere quella contenuta nella Lotta politica in Italia e negli altri scritti di polemica politico-culturale di Alfredo Oriani, che ne ha determinato tutta una serie attraverso gli scritti di Mario Missiroli; come quelle di Piero Gobetti e di Guido Dorso; 2) un gruppo di carattere più sostanziale e serio, con pretese di serietà e rigore storiografico, come quelle del Croce, del Solmi, del Salvatorelli; 3) le interpretazioni di Curzio Malaparte (sull'Italia Barbara, sulla lotta contro la Riforma protestante, ecc.), di Carlo Curdo (L'eredità del Risorgimento, Firenze, La Nuova Italia, 1931, p. 114), ecc.

Occorre ricordare gli scritti di F. Montefredini (confrontare il saggio del Croce in proposito nella Letteratura della nuova Italia) fra le «bizzarrie» e quelli di Aldo Ferrari (in volumi e volumetti e in articoli della «Nuova Rivista Storica», come bizzarrie e romanzo nel tempo stesso; così il volumetto di Vincenzo Cardarelli, Parliamo dell'Italia (ed. Vallecchi, 1931). Un altro gruppo importante è rappresentato da libri come quello di Gaetano Mosca, Teorica dei governi e governo parlamentare, pubblicato la prima volta nel 1883 e ristampato nel 1925 (Milano, Soc. An. Istituto Editoriale Scientifico, in-8°, p. 301), come il libro di Pasquale Turiello, Governo e governati-, di Leone Carpi, L'Italia vivente-, di Luigi Zinil, Dei criteri e dei modi di governo-, di Giorgio Arcoleo, Il Gabinetto nei governi parlamentari-, di Marco Minghetti, I partiti politici e la ingerenza loro nella giustizia e nell'amministrazione-, libri di stranieri come quello del Laveleye, Lettere d'Italia-, del von Löhe, La nuova Italia e anche del Brächet, L'Italie qu'on voit et l'Italie qu'on ne voit pas, oltre ad articoli della «Nuova Antologia» e della «Rassegna Settimanale» (del Sonnino), di Pasquale Villari, di R. Bonghi, di G. Palma ecc., fino all'articolo famoso del Sonnino nella «Nuova Antologia», Torniamo allo Statuto!

Questa letteratura è una conseguenza della caduta della Destra storica, dell'avvento al potere della così detta Sinistra e delle innovazioni «di fatto» introdotte nel regime costituzionale per avviarlo a una forma di regime parlamentare. In gran parte sono lamentele, recriminazioni, giudizi pessimistici e catastrofici sulla situazione nazionale e a tale fenomeno accenna il Croce nei primi capitoli della sua Storia d'Italia dal 1870 al 1915; a questa manifestazione si contrappone la letteratura degli epigoni del Partito d'Azione (tipico il libro postumo dell'abate Luigi Anelli, stampato recentemente, con note e commenti, da Arcangelo Ghisler1) sia in volumi che in opuscoli e in articoli di rivista, compresi i più recenti pubblicisti del partito repubblicano.

Si può notare questo nesso tra le varie epoche di fioritura di tale letteratura pseudo-storica e pseudo-critica: 1) letteratura dovuta ad elementi conservatori, furiosi per la caduta della Destra e della «consorteria» (cioè per la diminuita importanza nella vita statale di certi gruppi di grandi proprietari terrieri e dell'aristocrazia, che di una sostituzione di classe non si può parlare), fegatosa, biliosa, acrimoniosa, senza elementi costruttivi, senza riferimenti storici a una tradizione qualsiasi, perché nel passato non esiste nessun punto di riferimento reazionario che possa essere proposto per una restaurazione con un certo pudore e qualche dignità: nel passato ci sono i vecchi regimi regionali e le influenze del Papa e dell'Austria. L'«accusa» fatta al regime parlamentare di non essere «nazionale» ma copiato da esemplari stranieri rimane una vuota recriminazione senza costrutto, che nasconde solo il panico per un anche piccolo intervento delle masse popolari nella vita dello Stato; il riferimento a una «tradizione» italiana di governo è necessariamente vaga e astratta perché una tale tradizione non ha prospettive storicamente apprezzabili: in tutto il passato non è mai esistita una unità territoriale-statale italiana, la prospettiva dell'egemonia papale (propria del Medioevo fino al periodo del dominio straniero) è già stata travolta col neoguelfismo, ecc.3

Questa letteratura reazionaria precede quella del gruppo Oriani-Missiroli, che ha un significato più popolare-nazionale, e quest'ultima precede quella del gruppo Gobetti-Dorso, che ha ancora un altro significato più attuale. In ogni modo, anche queste due nuove ten- denzc mantengono un carattere astratto e letterario. Uno dei punti più interessanti trattati da esse è il problema della mancanza di una Ritorma religiosa in Italia come quella protestante, problema che è posto in modo meccanico ed esteriore e ripete uno dei motivi che guidano il Masaryk nei suoi studi di storia russa4.

L'insieme di questa letteratura ha importanza «documentaria» per i tempi in cui è apparsa. I libri dei «destri» dipingono la corruzione politica e morale nel periodo della Sinistra al potere, ma le pubblicazioni degli epigoni del Partito d'Azione non presentano come migliore il periodo di governo della Destra. Risulta che non c'è stato nessun cambiamento essenziale nel passaggio della Destra alla Sinistra: il marasma in cui si trova il paese non è dovuto al regime parlamentare (che rende solo pubblico e notorio ciò che prima rimaneva nascosto o dava luogo a pubblicazioni clandestine libel- listiche), ma alla debolezza e inconsistenza organica della classe dirigente e alla grande miseria e arretratezza del paese. Politicamente la situazione è assurda: a destra stanno i clericali, il partito del Sillabo, che nega in tronco tutta la civiltà moderna e boicotta lo Stato legale, non solo impedendo che si costituisca un vasto partito conservatore ma mantenendo il paese sotto l'impressione della precarietà e insicurezza del nuovo Stato unitario; nel centro stanno tutte le gamme liberali, dai moderati ai repubblicani, sui quali operano tutti i ricordi degli odi del tempo delle lotte e che si dilaniano implacabilmente; a sinistra, il paese misero, arretrato, analfabeta esprime in forma sporadica, discontinua, isterica, una seria di tendenze sovversive-anarcoidi, senza consistenza e indirizzo politico concreto, che mantengono uno stato febbrile senza avvenire costruttivo. Non esistono «partiti economici» ma gruppi di ideologi déclassés di tutte le classi, galli che annunziano un sole che mai vuole spuntare.

I libri del gruppo Mosca-Turiello cominciarono a essere rimessi in voga negli anni precedenti la guerra (si può vedere nella «Voce» il richiamo continuo al Turiello) e, il libro giovanile del Mosca fu ristampato nel 1925 con qualche nota dell'autore per ricordare che si tratta di idee del 1883 e che l'autore nel '25 non è più d'accordo con lo scrittore ventiquattrenne del 1883. La ristampa del libro del Mosca è uno dei tanti episodi dell'incoscienza e del dilettantismo politico dei liberali nel primo e secondo dopoguerra. Del resto, il libro è rozzo ineondito, scritto affrettatamente da un giovane che vuole «distinguersi» nel suo tempo con un atteggiamento estremista e con parole grosse e spesso triviali in senso reazionario. I concetti politici del Mosca sono vaghi e ondeggianti, la sua preparazione filosofica è nulla (e tale è rimasta in tutta la carriera letteraria del Mosca), i suoi principi di tecnica politica sono anch'essi vaghi e astratti e hanno carattere piuttosto giuridico. Il concetto di «classe politica» la cui affermazione diventerà il centro di tutti gli scritti di scienza politica del Mosca, è di una labilità estrema e non è ragionato né giustificato teoricamente. Tuttavia, il libro del Mosca è utile come documento. L'autore vuole essere spregiudicato per programma, non avere peli sulla lingua e così finisce per mettere in vista molti aspetti della vita italiana del tempo che altrimenti non avrebbero trovato documentazione. Sulla burocrazia civile e militare, sulla polizia ecc., il Mosca offre dei quadri talvolta di maniera, ma con una sostanza di verità (per es., sui sottufficiali dell'esercito, sui delegati di pubblica sicurezza ecc.). Le sue osservazioni sono specialmente valevoli per la Sicilia, per l'esperienza diretta del Mosca di quell'ambiente. Nel 1925 il Mosca aveva mutato punto di vista e prospettive, il suo materiale era sorpassato, tuttavia egli ristampò il libro per vanità letteraria, pensando di immunizzarlo con qualche noterella palinodica5.

Tutto il lavorio di interpretazione del passato italiano e la serie di costruzioni ideologiche e di romanzi storici che ne sono derivati è prevalentemente legato alla «pretesa» di trovare una unità nazionale, almeno di fatto, in tutto il periodo da Roma ad oggi (e spesso anche prima di Roma, come nel caso dei «Pelasgi» del Gioberti e in altri più recenti). Come è nata questa pretesa, come si è mantenuta e perché persiste tuttora? È un segno di forza o di debolezza? E' il riflesso di formazioni sociali nuove, sicure di sé e che cercano e si creano titoli di nobiltà nel passato, oppure è invece il riflesso di una torbida «volontà di credere», un elemento di fanatismo (e di fanatizzazione) ideologico, che deve appunto «risanare» le debolezze di struttura e impedire un temuto tracollo? Quest'ultima pare la giusta interpretazione, unita al fatto della eccessiva importanza (relativamente alle formazioni economiche) degli intellettuali, cioè dei piccoli borghesi in confronto delle classi economiche arretrate e politicamente incapaci. Realmente l'unità nazionale è sentita come aleatoria, perché forze «selvagge», non conosciute con precisione, elementarmente distruttive, si agitano continuamente alla sua base. La dittatura di ferro degli intellettuali e di alcuni gruppi urbani con la proprietà terriera mantiene la sua compattezza solo sovraeccitando i suoi elementi militanti con questo mito di fatalità storica, più forte di ogni manchevolezza e di ogni inettitudine politica e militare. È su questo terreno che all'adesione organica delle masse popolari-nazionali allo Stato si sostituisce una selezione di «volontari» della «nazione» concepita astrattamente. Nessuno ha pensato che appunto il problema posto dal Machiavelli col proclamare la necessità di sostituire milizie nazionali ai mercenari avventizi e infidi, non è risolto finché anche il «volontarismo» non sarà superato dal fatto «popolare-nazionale» di massa, poiché il volontarismo è soluzione intermedia, equivoca, altrettanto pericolosa che il mercenarismo.

Il modo di rappresentare gli avvenimenti storici nelle interpretazioni ideologiche della formazione italiana si potrebbe chiamare «storia feticistica»: per essa infatti diventano protagonisti della storia «personaggi» astratti e mitologici. Nella Lotta politica dell'Oriani si ha il più popolare di questi schemi mitologici, quello che ha partorito una più lunga serie di figli degeneri. Vi troviamo la Federazione, L'Unità, la Rivoluzione, L'Italia, ecc., ecc. Nell'Oriani è chiara una delle cause di questo modo di concepire la storia per figure mitologiche. Il canone critico che tutto lo sviluppo storico è documento di se stesso, che il presente illumina e giustifica il passato viene mec- canicizzato ed esteriorizzato e ridotto a una legge deterministica di rettilineità e di «unilinearità» (anche perché l'orizzonte storico viene ristretto ai confini geografici nazionali e l'evento avulso dal complesso della storia universale, dal sistema dei rapporti internazionali cui invece è necessariamente saldato). Il problema di ricercare le origini storiche di un evento concreto e circostanziato, — la formazione dello Stato moderno italiano nel secolo xix — viene trasformato in quello di vedere questo Stato, come Unità o come Nazione o genericamente come Italia, in tutta la storia precedente così come il pollo deve esistere nell'uovo fecondato.

Per la trattazione di questo argomento sono da vedere le osservazioni critiche di Antonio Labriola negli Scritti vari (pp. 487-90, pp. 317-442 passim e nel primo dei suoi Saggi a pp. 50-52). Su questo punto è anche da vedere il Croce nella Storia della Storiografia, II, pp. 227-28 della ia edizione, e in tutta questa opera lo studio dell'origine «sentimentale e pratica» e la «critica impossibilità» di una «storia generale d'Italia». Altre osservazioni connesse a queste sono quelle di Antonio Labriola a proposito di una storia generale del cristianesimo, che al Labriola sembrava inconsistente come tutte le costruzioni storiche che assumono a soggetto «enti» inesistenti (cfr. Saggi, p. 113).

Una reazione concreta nel senso indicato dal Labriola si può studiare negli scritti storici (e anche politici) del Salvemini, il quale non vuol sapere di «guelfi» e «ghibellini», uno partito della nobiltà e dell'Impero e l'altro del popolo e del Papato, perché egli dice di conoscerli solo come «partiti locali», combattenti per ragioni affatto locali, che non coincidevano con quelle del Papato e dell'Impero.

Nella prefazione al suo volume sulla Rivoluzione francese si può vedere teorizzato questo atteggiamento del Salvemini con tutte le esagerazioni antistoriche che porta con sé6: «L'innumerevole varietà degli eventi rivoluzionari» si suole attribuire in blocco a un ente «Rivoluzione», invece di «assegnare ciascun fatto all'individuo o ai gruppi di individui reali, che ne furono storicamente autori». Ma se la storia si riducesse solo a questa ricerca, sarebbe ben misera cosa e diventerebbe, tra l'altro, incomprensibile7.

Scrive Adolfo Omodeo nella «Critica» del 20 luglio 1932, p. 280: «Ai patrioti [Piero Marconi] offriva la tesi che allora aveva rimessa in circolazione il Salvemini della storia del Risorgimento come piccola storia, non sufficientemente irrorata di sangue; dell'unità, dono più di una propizia fortuna che meritato acquisto degli italiani; del Risorgimento, opera di minoranze contro l'apatia della maggioranza. Questa tesi generata dall'incapacità del materialismo storico di apprezzare in sé la grandezza morale, senza la statistica empirica delle bigonce di sangue versato e il computo degli interessi (aveva una speciosità facile ed era destinata a correre fra tutte le riviste e i giornali e a far denigrare dagli ignoranti l'opera dura del Mazzini e del Cavour), questa tesi serviva di base al Marconi per un'argomentazione moralistica di stile vociano»8.

Ma l'Omodeo stesso, nel suo libro L'età del Risorgimento, non è riuscito a dare una interpretazione e una ricostruzione che non sia estrinseca e di parata. Che il Risorgimento sia stato l'apporto italiano al grande movimento europeo del secolo xix non significa senz'altro che l'egemonia del movimento fosse in Italia, e non significa neanche che anche dalla «maggioranza della minoranza» attiva il movimento stesso non sia stato seguito con riluttanza e obtorto collo. La grandezza individuale del Cavour e del Mazzini spicca ancora più grande nella prospettiva storica come la palma nel deserto. Le osservazioni critiche dell'Omodeo alla concezione del Risorgimento come «piccola storia» sono malevole e triviali, né egli riesce a comprendere come tale concezione sia stata l'unico tentativo un po' serio di «nazionalizzare» le masse popolari, cioè di creare un movimento democratico con radici italiane e con esigenze italiane9. Del resto si può osservare: se la storia del passato non si può non scrivere con gli interessi e per gli interessi attuali, la formula critica che bisogna fare la storia di ciò che il Risorgimento è stato concretamente (se non significa un richiamo al rispetto e alla completezza della documentazione) non è insufficiente e troppo ristretta? Spiegare come il Risorgimento si è fatto concretamente, quali sono le fasi del processo storico necessario che hanno culminato in quel determinato evento può essere solo un nuovo modo di ripresentare la così detta «obiettività» esterna e meccanica. Si tratta spesso di una rivendicazione «politica» di chi è soddisfatto e nel processo al passato vede giustamente un processo al presente, una critica al presente e un programma per l'avvenire. Il gruppo Croce-Omodeo e C. sta santificando untuosamente (l'untuosità è specialmente dell'Omodeo) il periodo liberale; e lo stesso libro dell'Omodeo, Momenti della vita di guerra, ha questo significato: mostrare come il periodo giolittiano, tanto «diffamato», covasse nel suo intimo un «insuperabile» tesoro di idealismo e di eroismo. Del resto, queste discussioni, in quanto sono puramente di metodologia empirica, sono inconcludenti. E se scrivere storia significa fare storia del presente, è grande libro di storia quello che nel presente aiuta le forze in isviluppo a divenire più consapevoli di se stesse e quindi più concretamente attive e fattive.

Il difetto massimo di tutte queste interpretazioni ideologiche del Risorgimento consiste in ciò: che esse sono state meramente ideologiche, cioè che non si rivolgevano a suscitare forze politiche attuali. Lavori di letterati, di dilettanti, costruzioni acrobatiche di uomini che volevano fare sfoggio di talento se non d'intelligenza; oppure rivolte a piccole cricche intellettuali senza avvenire, oppure scritte per giustificare forze reazionarie in agguato, imprestando loro intenzioni che non avevano e fini immaginari e pertanto, piccoli servizi da lacchè intellettuali (il tipo più compiuto di questi lacchè è Mario Missiroli) e da mercenari della scienza.

Queste interpretazioni ideologiche della formazione nazionale e statale italiana sono anche da studiare da un altro punto di vista: il loro succedersi «acritico», per spinte individuali di persone più o meno «geniali», è un documento della primitività dei vecchi partiti politici, dell'empirismo immediato di ogni azione costruttiva (compresa quello dello Stato), dell'assenza nella vita italiana di ogni movimento «vertebrato» che abbia in sé possibilità di sviluppo permanente e continuo. La mancanza di prospettiva storica nei programmi di partito, prospettiva costruita «scientificamente» cioè con serietà scrupolosa, per basare su tutto il passato i fini da raggiungere nell'avvenire e da proporre al popolo come una necessità cui collaborare consapevolmente, ha permesso appunto il fiorire di tanti romanzi ideologici, che sono in realtà la premessa (il manifesto) di movimenti politici che sono astrattamente supposti necessari, ma per suscitare i quali non si fa poi niente di pratico. È questo un modo di procedere molto utile per facilitare le «operazioni» di quelle che sono spesso chiamate le «forze occulte» o «irresponsabili» che hanno per portavoce i «giornali indipendenti»: esse hanno bisogno ogni tanto di creare movimenti occasionali di opinione pubblica, da mantenere accesi fino al raggiungimento di determinati scopi e da lasciar poi illanguidire e morire. Sono manifestazioni come «le compagnie di ventura», vere e proprie compagnie di ventura ideologiche, pronte a servire i gruppi plutocratici o d'altra natura, spesso appunto fingendo di lottare contro la plutocrazia, ecc. Organizzatore tipico di tali «compagnie» è stato Pippo Naldi, discepolo anch'egli di Oriani e regista di Mario Missiroli e delle sue improvvisazioni giornalistiche.

Sarebbe utile compilare una bibliografia completa di Mario Missiroli10. I motivi principali posti in circolazione dal Missiroli sono: 1) che il Risorgimento è stato una conquista regia e non un movimento popolare; 2) che il Risorgimento non ha risolto i problemi dei rapporti tra Stato e Chiesa, motivo che è legato al primo, poiché «un popolo che non aveva sentito la libertà religiosa non poteva sentire la libertà politica. L'ideale dell'indipendenza e della libertà diventò patrimonio e programma di una minoranza eroica, che concepì l'unità contro l'acquiescenza delle moltitudini popolari». La mancanza della Riforma protestante in Italia spiegherebbe in ultima analisi tutto il Risorgimento e la storia moderna nazionale. Il Missiroli applica all'Italia il criterio ermeneutico applicato dal Masaryk alla storia russa (sebbene il Missiroli abbia detto di accettare la critica di Antonio Labriola contro il Masaryk storico). Come il Masaryk, Missiroli (nonostante le sue relazioni con G. Sorel) non comprende che la «riforma» intellettuale e morale (cioè «religiosa») di portata popolare nel mondo moderno c'è stata in due tempi: nel primo tempo con la diffusione dei principi della Rivoluzione francese, nel secondo tempo con la diffusione di una serie di concetti ricavati dalla filosofia della prassi e spesso contaminati con la filosofia dell'illuminismo e poi dell'evoluzionismo scientifista. Che una tale «riforma» sia stata diffusa in forme grossolane e sotto torma di opuscoletti non è istanza valevole contro il suo significato storico: non è da credere che le masse popolari influenzate dal calvinismo assorbissero concetti relativamente più elaborati e raffinati di quelli offerti da questa letteratura di opuscoli: si presenta invece la quistione dei dirigenti di taie ritorma, della loro inconsistenza e assenza di carattere forte ed energico.

Né il Missiroli tenta di analizzare il perché la minoranza che ha cruidato il moto del Risorgimento non sia «andata al popolo», né «ideologicamente», assumendo in proprio il programma democratico che pure giungeva al popolo attraverso le traduzioni dal francese, né «economicamente» con la riforma agraria. Ciò che «poteva» avvenire, poiché il contadiname era quasi tutto il popolo d'allora e la riforma agraria era un'esigenza fortemente sentita, mentre la Riforma protestante coincise appunto con una guerra di contadini in Germania e con conflitti tra nobili e borghesi in Francia, ecc.11. «L'unità non aveva potuto attuarsi col Papato, di sua natura universale ed organicamente ostile a tutte le libertà moderne; ma non era neppure riuscita a trionfare del Papato, contrapponendo all'idea cattolica un'idea altrettanto universale che corrispondesse ugualmente alla coscienza individuale e alla coscienza del mondo rinnovate della Riforma e della Rivoluzione». Affermazioni astratte e in gran parte prive di senso. Quale idea universale contrappose al cattolicismo la Rivoluzione francese? Perché dunque in Francia il moto fu popolare e in Italia no? La famosa minoranza italiana, «eroica» per definizione (in questi scrittori, l'espressione «eroico» ha un significato puramente «estetico» o retorico e si applica a don Tazzoli come ai nobili milanesi che strisciarono dinanzi all'imperatore d'Austria, tanto che fu anche scritto un libro sul Risorgimento come di rivoluzione «senza eroi», con senso altrettanto letterario e cartaceo) che condusse il moto unitario, in realtà si interessava di interessi economici più che di formule ideali e combatté più per impedire che il popolo intervenisse nella lotta e la facesse diventare sociale (nel senso di una riforma agraria) che non contro i nemici dell'unità. Il Missiroli scrive che il nuovo fattore apparso nella storia italiana dopo l'unità, il socialismo, è stato la forma più potente assunta dalla reazione antiunitaria e antiliberale (ciò che è una sciocchezza, e non coincide con altri giudizi dello stesso Missiroli, secondo i quali il socialismo avrebbe immesso nello Stato le forze popolari prima assenti c indifferent1). Come il Missiroli stesso scrive: «Il socialismo noli solo non ringagliardì la passione politica (!?), ma aiutò potentemente ad estinguerla; fu il partito dei poveri e delle plebi affamate: le qui- stioni economiche dovevano prendere rapidamente il sopravvento, i principi politici cedere il campo (!?) agli interessi materiali»; veniva creata una «remora, lanciando le masse alle conquiste economiche ed evitando tutte le quistioni istituzionali». Il socialismo, cioè, fece l'errore (alla rovescia) della famosa minoranza: questa parlava solo di idee astratte e di istituzioni politiche, quello trascurò la politica per la mera economia. E vero che altrove il Missiroli, proprio per ciò loda i capi riformisti, ecc.; questi motivi sono di origine orianesca e repubblicana, assunti superficialmente e senza senso di responsabilità12.

Il moto politico che condusse all'unificazione nazionale e alla formazione dello Stato italiano deve necessariamente sboccare nel nazionalismo e nell'imperialismo militaristico? Si può sostenere che questo sbocco è anacronistico e antistorico (cioè artificioso e di non lungo respiro); esso è realmente contro tutte le tradizioni italiane, romane prima, cattoliche poi. Le tradizioni sono cosmopolitiche. Che il moto politico dovesse reagire contro le tradizioni e dar luogo a un nazionalismo da intellettuali può essere spiegato, ma non si tratta di una reazione organico-popolare. D'altronde, anche nel Risorgimento, Mazzini e Gioberti cercano di innestare il moto nazionale nella tradizione cosmopolitica, di creare il mito di una missione dell'Italia rinata in una nuova Cosmopoli europea e mondiale, ma si tratta di un mito verbale e retorico, fondato sul passato e non sulle condizioni del presente, già formate o in processo di sviluppo (tali miti sono sempre stati un fermento di tutta la storia italiana, anche la più recente, da Q. Sella a Enrico Corradini a D'Annunzio). Perché un evento si è prodotto nel passato non significa che debba riprodursi nel presente e nell'avvenire; le condizioni di una espansione militare nel presente e nell'avvenire non esistono e non pare siano in processo di formazione. L'espansione moderna è di ordine finanziario-capita- listico. Nel presente Italiano l'elemento «uomo» o è l’«uomo-capitale» o è l’«uomo-lavoro». L'espansione italiana può essere solo dell'uomo-lavoro, e l'intellettuale che rappresenta l'uomo-lavoro non è quello tradizionale, gonfio di retorica e di ricordi cartacei del passato. Il cosmopolitismo italiano tradizionale dovrebbe diventare un cosmopolitismo di tipo moderno, cioè tale da assicurare le condizioni migliori di sviluppo all'uomo-lavoro italiano, in qualsiasi parte del mondo egli si trovi. Non il cittadino del mondo in quanto civis romanus o in quanto cattolico, ma in quanto produttore di civiltà. Perciò si può sostenere che la tradizione italiana si continua dialetticamente nel popolo lavoratore e nei suoi intellettuali, non nel cittadino tradizionale e nell'intellettuale tradizionale. Il popolo italiano è quel popolo che «nazionalmente» è più interessato a una moderna forma di cosmopolitismo. Non solo l'operaio, ma il contadino e specialmente il contadino meridionale. Collaborare a ricostruire il mondo economicamente in modo unitario è nella tradizione del popolo italiano e della storia italiana, non per dominarlo egemonicamente e appropriarsi il frutto del lavoro altrui, ma per esistere e svilupparsi appunto come popolo italiano: si può dimostrare che Cesare è all'origine di questa tradizione. Il nazionalismo di marca francese è una escrescenza anacronistica nella storia italiana, proprio di gente che ha la testa volta all'indietro come i dannati danteschi. La «missione» del popolo italiano è nella ripresa del cosmopolitismo romano e medioevale, ma nella sua forma più moderna e avanzata. Sia pure nazione proletaria, come voleva il Pascoli; proletaria come nazione perché è stato l'esercito di riserva dei capitalisti stranieri, perché ha dato maestranze a tutto il mondo insieme ai popoli slavi. Appunto perciò deve inserirsi nel fronte moderno di lotta per riorganizzare il mondo anche non italiano, che ha contribuito a creare col suo lavoro, ecc. ecc.

 Il problema della direzione politica nella formazione e nello sviluppo della nazione e dello Stato moderno in Italia.

Tutto il problema della connessione tra le varie correnti politiche del Risorgimento, cioè dei loro rapporti reciproci e dei loro rapporti con i gruppi sociali omogenei o subordinati esistenti nelle varie sezioni (o settor1) storiche del territorio nazionale si riduce a questo dato di fatto fondamentale; i moderati rappresentavano un gruppo sociale relativa mente omogeneo, per cui la loro direzione subi oscillazioni relativamente limitate (e in ogni caso secondo una linea di sviluppo organicamente progressivo), mentre il così detto Partito d'Azione non si appoggiava specificamente a nessuna classe storica e le oscillazioni subite dai suoi organi dirigenti in ultima analisi si componevano secondo gli interessi dei moderati; cioè storicamente il Partito d'Azione fu guidato dai moderati: l'affermazione attribuita a Vittorio Emanuele II di «avere in tasca» il Partito d'Azione o qualcosa di simile è praticamente esatta e non solo per i contatti personali del Re con Garibaldi, ma perché di fatto il Partito d'Azione fu diretto «indirettamente» da Cavour e dal Re.
 Il criterio metodologico su cui occorre fondare il proprio esame è questo: che la supremazia di un gruppo sociale si manifesta in due modi, come «dominio» e come «direzione intellettuale e morale». Un gruppo sociale è dominante dei gruppi avversari che tende a «liquidare» o a sottomettere anche con la forza armata ed è dirigente dei gruppi affini e alleati. Un gruppo sociale può e anzi deve essere dirigente già prima di conquistare il potere governativo (è questa una delle condizioni principali per la stessa conquista del potere); dopo, quando esercita il potere e anche se lo tiene fortemente in pugno, diventa dominante ma deve continuare ad essere anche «dirigente». I moderati continuarono a dirigere il Partito d'Azione anche dopo il 1870 e il 1876; e il così detto «trasformismo» non è stato che l'espressione parlamentare di questa azione egemonica intellettuale, morale e politica. Si può anzi dire che tutta la vita statale italiana dal 1848 in poi è caratterizzata dal trasformismo, cioè dalla elaborazione di una sempre più larga classe dirigente nei quadri fissati dai moderati dopo il 1848 e la caduta delle utopie neoguelfe e federalistiche, con l'assorbimento graduale ma continuo e ottenuto con metodi, diversi nella loro efficacia, degli elementi attivi sorti dai gruppi alleati e anche da quelli avversari e che parevano irreconciliabilmente nemici. In questo senso la direzione politica è diventata un aspetto della funzione di dominio, in quanto l'assorbimento delle élites dei gruppi nemici porta alla decapitazione di questi e al loro annichilamento per un periodo spesso molto lungo. Dalla politica dei moderati appare chiaro che ci può e ci deve essere una attività egemonica anche prima dell'andata al potere e che non bisogna contare solo sulla forza materiale che il potere dà per esercitare una direzione efficace: appunto la brillante soluzione di questi problemi ha reso possibile il Risorgimento nelle forme e nei limiti in cui esso si è effettuato, senza «terrore», come «rivoluzione» senza «rivoluzione», ossia come rivoluzione passiva» per impiegare un'espressione del Cuoco in un senso un po' diverso da quello che il Cuoco vuole dire.

In quali torme e con quali mezzi i moderati riuscirono a stabilire l'apparato (il meccanismo) della loro egemonia intellettuale, morale e politica? In forme e con mezzi che si possono chiamare «liberali», cioè attraverso l'iniziativa individuale, «molecolare», «privata» (cioè non per un programma di partito elaborato e costituito secondo un piano precedentemente all'azione pratica e organizzativa). D'altronde, ciò era «normale», date la struttura e la funzione dei gruppi sociali rappresentati dai moderati, dei quali i moderati erano il ceto dirigente, gli intellettuali in senso organico.

Per il Partito d'Azione il problema si poneva in modo diverso e diversi sistemi organizzativi avrebbero dovuto essere impiegati. I moderati erano intellettuali «condensati» già naturalmente dall'organicità dei loro rapporti con i gruppi sociali di cui erano l'espressione (per tutta una serie di essi si realizzava l'identità di rappresentato e rappresentante, cioè i moderati erano un'avanguardia reale, organica delle classi alte, perché essi stessi appartenevano economicamente alle classi alte: erano intellettuali e organizzatori politici e insieme capi d'azienda, grandi agricoltori o amministratori di tenute, imprenditori commerciali e industriali, ecc.). Data questa condensazione o concentrazione organica, i moderati esercitavano una potente attrazione, in modo «spontaneo», su tutta la massa d'intellettuali d'ogni grado esistenti nella penisola allo stato «diffuso», «molecolare», per le necessità, sia pure elementarmente soddisfatte, della istruzione e dell'amministrazione. Si rileva qui la consistenza metodologica di un criterio di ricerca storico-politica: non esiste una classe indipendente di intellettuali, ma ogni gruppo sociale ha un proprio ceto di intellettuali o tende a formarselo; però gli intellettuali della classe storicamente (e realisticamente) progressiva, nelle condizioni date, esercitano un tale potere d'attrazione che finiscono, in ultima analisi, col subordinarsi gli intellettuali degli altri gruppi sociali e quindi col creare un sistema di solidarietà fra tutti gli intellettuali con legami, di ordine psicologico (vanità, ecc.) e spesso di casta (tecnico- giuridici, corporativi, ecc.). Questo fatto si verifica «spontaneamente» nei periodi storici in cui il gruppo sociale dato è realmente progressivo, cioè fa avanzare realmente l'intera società, soddisfacendo non solo alle sue esigenze esistenziali, ma ampliando continuamente i propri quadri per la continua presa di possesso di nuove sfere d'attività economico-produttiva. Appena il gruppo sociale dominante ha esaurito la sua funzione, il blocco ideologico tende a sgretolarsi e allora alla «spontaneità» può sostituirsi la «costrizione» in forme sempre meno larvate e indirette, fino alle misure vere e proprie di polizia e ai colpi di Stato.

Il Partito d'Azione non solo non poteva avere — data la sua natura — un simile potere di attrazione, ma era esso stesso attratto e influenzato, sia per l'atmosfera di intimidazione (panico di un '93 terroristico rinforzato dagli avvenimenti francesi del '48-49) che lo rendeva esitante ad accogliere nel suo programma determinate rivendicazioni popolari (per es. la riforma agraria), sia perché alcune delle sue maggiori personalità (Garibald1) erano, sia pure saltuariamente (oscillazion1), in rapporto personale di subordinazione coi capi dei moderati. Perché il Partito d'Azione fosse diventato una forza autonoma e, in ultima analisi, fosse riuscito per lo meno a imprimere al moto del Risorgimento un carattere più marcatamente popolare e democratico (più in là non poteva forse giungere date le premesse fondamentali del moto stesso), avrebbe dovuto contrapporre all'attività «empirica» dei moderati (che era empirica solo per modo di dire poiché corrispondeva perfettamente al fine) un programma organico di governo che riflettesse le rivendicazioni essenziali delle masse popolari, in primo luogo dei contadini: all'attrazione «spontanea» esercitata dai moderati avrebbe dovuto contrapporre una resistenza e una controffensiva «organizzate» secondo un piano.

Come esempio tipico di attrazione spontanea dei moderati è da ricordare il formarsi e lo sviluppo del movimento «cattolico liberale», che tanto impressionò il Papato e in parte riuscì a paralizzarne le mosse, demoralizzandolo, in un primo tempo spingendo troppo a sinistra — con le manifestazioni liberaleggianti di Pio IX — e in un secondo tempo cacciandolo in una posizione più destra di quella che avrebbe potuto occupare e in definitiva determinandone l'isolamento nella penisola e in Europa. Il Papato ha dimostrato successivamente di aver appreso la lezione e ha saputo nei tempi più recenti manovrare brillantemente: il modernismo prima e il popolarismo poi sono movimenti simili a quello cattolico liberale del Risorgimento, dovuti in gran parte al potere di attrazione spontanea esercitata dallo storicismo moderno degli intellettuali laici delle classi alte da una parte e dall'altra dal movimento pratico della filosofia della prassi. Il Papato ha colpito il modernismo come tendenza riformatrice della

Chiesa e della religione cattolica, ma ha sviluppato il popolarismo; cioè la base economico-sociale del modernismo e oggi con Pio XI fa di esso il fulcro della sua politica mondiale.

Invece il Partito d'Azione mancò addirittura di un programma concreto di governo. Esso, in sostanza, fu sempre, più che altro, un organismo di agitazione e propaganda al servizio dei moderati. I dissidi e i conflitti interni del Partito d'Azione, gli odi tremendi che Mazzini suscitò contro la sua persona e la sua attività da parte dei più gagliardi uomini d'azione (Garibaldi, Felice Orsini, ecc.), furono determinati dalla mancanza di una ferma direzione politica. Le polemiche interne furono in gran parte tanto astratte quanto lo era la predicazione del Mazzini, ma da esse si possono trarre utili indicazioni storiche (e valgano per tutti gli scritti del Pisacane, che d'altronde commise errori politici e militari irreparabili, come l'opposizione alla dittatura militare di Garibaldi nella Repubblica Romana). Il Partito d'Azione era imbevuto della tradizionale retorica della letteratura italiana: confondeva l'unità culturale esistente nella penisola — limitata però a uno strato molto sottile della popolazione e inquinata dal cosmopolitismo vaticano — con l'unità politica e territoriale delle grandi masse popolari che erano estranee a quella tradizione culturale e se ne infischiavano dato che ne conoscessero l'esistenza stessa.

Ancora oggi i monarchici (Bainville e C.) «rimproverano» retrospettivamente ai due Napoleoni di aver creato il mito «nazionalitario» e di aver contribuito a farlo realizzare in Germania e in Italia, abbassando così la statura relativa della Francia, che «dovrebbe» essere circondata da un pulviscolo di staterelli tipo Svizzera per essere «sicura».

Ora, proprio sulla parola d'ordine di «indipendenza e unità», senza tener conto del concreto contenuto politico di tali formule generiche, i moderati dopo il '48 formarono il blocco nazionale sotto la loro egemonia, influenzando i due capi supremi del Partito d'Azione, Mazzini e Garibaldi, in diversa forma e misura. Come i moderati fossero riusciti nel loro intento di deviare l'attenzione dal nocciolo alla buccia dimostra, tra le tante altre, questa espressione del Guerrazzi in una lettera a uno studente siciliano 18: «Sia che vuolsi — o dispotismo o repubblica o che altro — non cerchiamo di dividerci; con questo cardine, caschi il mondo, ritroveremo la via.» Del resto, tutta l'operosità di Mazzini è stata concretamente riassunta nella continua e permanente predicazione dell'unità.

A proposito del giacobinismo e del Partito d'Azione un elemento da porre in primo piano è questo: che i giacobini conquistarono con la lotta senza quartiere la loro funzione di partito dirigente, essi in realtà si «imposero» alla borghesia francese, conducendola in una posizione molto più avanzata di quella che i nuclei borghesi primitivamente più forti avrebbero voluto spontaneamente occupare e anche molto più avanzata di quella che le premesse storiche dovevano consentire, e per ciò i colpi di ritorno e la funzione di Napoleone I. Questo tratto, caratteristico del giacobinismo (ma prima anche di Cromwell e delle «teste rotonde») e quindi di tutta la grande Rivoluzione, del forzare la situazione (apparentemente) e del creare fatti compiuti irreparabili, cacciando avanti i borghesi a calci nel sedere da parte di un gruppo di uomini estremamente energici e risoluti, può essere così schematizzato: il terzo stato era il meno omogeneo degli stati; aveva una élite intellettuale molto disparata e un gruppo economicamente molto avanzato ma politicamente moderato. Lo sviluppo degli avvenimenti segue un processo dei più interessanti. I rappresentanti del terzo stato inizialmente pongono solo le quistioni che interessano i componenti fisici attuali del gruppo sociale, i loro interessi «corporativi» immediati (corporativi nel senso tradizionale, di immediati ed egoistici in senso gretto di una determinata categoria): i precursori della Rivoluzione sono infatti dei riformatori moderati, che fanno la voce grossa ma in realtà domandano ben poco. A mano a mano si viene selezionando una nuova élite che non si interessa unicamente di riforme «corporative» ma tende a concepire la borghesia come il gruppo egemone di tutte le forze popolari e questa selezione avviene per l'azione di due fattori: la resistenza delle vecchie forze sociali e la minaccia internazionale. Le vecchie forze non vogliono cedere nulla e se cedono qualche cosa lo fanno con la volontà di guadagnare tempo e preparare una controffensiva. Il terzo stato sarebbe caduto in questi «tranelli» successivi senza l'azione energica dei giacobini, che si oppongono ad ogni sosta «intermedia» del processo rivoluzionario e mandano alla ghigliottina non solo gli elementi della vecchia società dura a morire, ma anche i rivoluzionari di ieri, oggi diventati reazionari. I giacobini, pertanto, furono il solo partito della rivoluzione in atto, in quanto non solo essi rappresentavano i bisogni e le aspirazioni immediate delle persone fisiche attuali che costituivano la borghesia francese, ma rappresentavano il movimento rivoluzionario ne! suo insieme, come sviluppo storico integrale, perché rappresentavano i bisogni anche futuri e, di nuovo, non solo di quelle determinate persone fisiche, ma di tutti i gruppi nazionali che dovevano essere assimilati al gruppo fondamentale esistente.

Occorre insistere, contro una corrente tendenziosa, e in fondo antistorica, che i giacobini furono dei realisti alla Machiavelli e non degli astrattisti. Essi erano persuasi dell'assoluta verità delle formule sull'uguaglianza, la fraternità, la libertà e, ciò che importa di più, di tale verità erano persuase le grandi masse popolari che i giacobini suscitavano e portavano alla lotta. Il linguaggio dei giacobini, la loro ideologia, i loro metodi d'azione riflettevano perfettamente le esigenze dell'epoca, anche se «oggi», in una diversa situazione e dopo più di un secolo di elaborazione culturale, possono parere «astrattisti» e «frenetici». Naturalmente le riflettevano secondo la tradizione culturale francese e di ciò è una prova l'analisi che del linguaggio giacobino si ha nella Sacra Famiglia e l'ammissione di Hegel che pone come paralleli e reciprocamente traducibili il linguaggio giuridico- politico dei giacobini e i concetti della filosofia classica tedesca, alla quale invece oggi si riconosce il massimo di concretezza e che ha originato lo storicismo moderno. La prima esigenza era quella di annientare le forze avversarie o almeno ridurle all'impotenza per rendere impossibile una controrivoluzione; la seconda esigenza era quella di allargare i quadri della borghesia come tale e di porla a capo di tutte le forze nazionali, identificando gli interessi e le esigenze comuni a tutte le forze nazionali, per mettere in moto queste forze e condurle alla lotta ottenendo due risultati: a) di opporre un bersaglio più largo ai colpi degli avversari, cioè di creare un rapporto politico- militare favorevole alla rivoluzione; b) di togliere agli avversari ogni zona di passività in cui fosse possibile arruolare eserciti vandeani. Senza la politica agraria dei giacobini, Parigi avrebbe avuto la Vandea già alle sue porte. La resistenza della Vandea propriamente detta è legata alla quistione nazionale inasprita nelle popolazioni bretoni e in generale allogene dalla formula della «repubblica una e indivisibile» e dalla politica di accentramento burocratico-militare, alle quali i giacobini non potevano rinunziare senza suicidarsi. I girondini cercarono di far leva sul federalismo per schiacciare Parigi giacobina, ma le truppe provinciali condotte a Parigi passarono ai rivoluzionari. Eccetto alcune zone periferiche, dove la distinzione nazionale (e lin guistica) era grandissima, la quistione agraria ebbe il sopravvento sulle aspirazioni all'autonomia locale: la Francia rurale accettò l'egemonia di Parigi, cioè comprese che per distruggere definitivamente il vecchio regime doveva far blocco con gli elementi più avanzati del terzo stato e non con i moderati girondini. Se è vero che i giacobini «forzarono» la mano, è anche vero che ciò avvenne sempre nel senso dello sviluppo storico reale, perché non solo essi organizzarono un governo borghese, cioè fecero della borghesia la classe dominante, ma fecero di più, crearono lo Stato borghese, fecero della borghesia la classe nazionale dirigente, egemone, cioè dettero allo Stato nuovo una base permanente, crearono la compatta nazione moderna francese.

Che, nonostante tutto, i giacobini siano sempre rimasti sul terreno della borghesia, è dimostrato dagli avvenimenti che segnarono la loro fine come partito di formazione troppo determinata e irrigidita e la morte di Robespierre: essi non vollero riconoscere agli operai il diritto di coalizione, mantenendo la legge Le Chapelier, e come conseguenza dovettero promulgare la legge del maximum. Spezzarono così il blocco urbano di Parigi: le loro forze d'assalto, che si raggruppavano nel Comune, si dispersero deluse, e il Termidoro ebbe il sopravvento. La Rivoluzione aveva trovato i limiti più larghi di classe; la politica delle alleanze e della rivoluzione permanente aveva finito col porre quistioni nuove che allora non potevano essere risolte, aveva scatenato forze elementari che solo una dittatura militare sarebbe riuscita a contenere.

Nel Partito d'Azione non si trova niente che rassomigli a questo indirizzo giacobino, a questa inflessibile volontà di diventare il partito dirigente. Certo occorre tener conto delle differenze: in Italia la lotta si presenta come lotta contro i vecchi trattati e l'ordine internazionale vigente e contro una potenza straniera, l'Austria, che li rappresentava e li sosteneva in Italia, occupando una parte della penisola e controllando il resto. Anche in Francia questo problema si presentò, almeno in un certo senso, perché ad un certo punto la lotta interna divenne lotta nazionale combattuta alla frontiera, ma ciò avvenne dopo che tutto il territorio era conquistato alla rivoluzione e i giacobini seppero dalla minaccia esterna trarne elementi per una maggiore energia all'interno: essi compresero bene che per vincere il nemico esterno dovevano schiacciare all'interno i suoi alleati e non esitarono a compiere i massacri di settembre. In Italia questo legame che pur esisteva, esplicito ed implicito, tra l'Austria e una parte almeno degli intellettuali, dei nobili e dei proprietari terrieri, non fu denunziato dal Partito d'Azione, o almeno non fu denunziato con la dovuta energia e nel modo praticamente più efficace, non divenne elemento politico attivo. Si trasformò «curiosamente» in una quistione di maggiore o minore dignità patriottica e dette poi luogo a uno strascico di polemiche acrimoniose e sterili fin dopo il 1898 A proposito delle difese fatte anche recentemente dell'atteggiamento tenuto dall'aristocrazia lombarda verso l'Austria, specialmente dopo il tentativo insurrezionale di Milano del febbraio 1853 e durante il viceregno di Massimiliano, è da ricordare che Alessandro Luzio, la cui opera storica è sempre tendenziosa e acrimoniosa contro i democratici, giunge fino a legittimare i fedeli servizi resi all'Austria dal Salvotti: altro che spirito giacobino! La nota comica in argomento è data da Alfredo Panzini, che, nella Vita di Cavour, fa tutta una variazione altrettanto leziosa quanto stomachevole e gesuitica su una «pelle di tigre» esposta da una finestra aristocratica durante una visita a Milano di Francesco Giuseppe19.

Da tutti questi punti di vista devono essere considerate le concezioni di Missiroli, Gobetti, Dorso, ecc., sul Risorgimento italiano come «conquista regia».

Se in Italia non si formò un partito giacobino ci sono le sue ragioni da ricercare nel campo economico, cioè nella relativa debolezza della borghesia italiana e nel clima storico diverso dell'Europa dopo il 1815. Il limite trovato dai giacobini, nella loro politica di forzato risveglio delle energie popolari francesi da alleare alla borghesia, con la legge Le Chapelier e quella sul maximum, si presentava nel '48 come uno «spettro» già minaccioso, sapientemente utilizzato dall'Austria, dai vecchi governi e anche dal Cavour (oltre che dal Papa). La borghesia non poteva (forse) più estendere la sua egemonia sui vasti strati popolari che invece potè abbracciare in Francia (non poteva per ragioni soggettive, non oggettive), ma l'azione sui contadini era certamente sempre possibile.

Differenze tra la Francia, la Germania e l'Italia nel processo di presa del potere da parte della borghesia (e Inghilterra). In Francia si ha il processo più ricco di sviluppi e di elementi politici attivi e positivi. In Germania, il processo si svolge per alcuni aspetti in modi che rassomigliano a quelli italiani, per altri a quelli inglesi. In Germania il movimento del '48 fallisce per la scarsa concentrazione borghese (la parola d'ordine di tipo giacobino fu data dall'Estrema Sinistra democratica: «rivoluzione in permanenza») e perché la quistione del rinnovamento statale è intrecciata con la quistione nazionale; le guerre del '64, del '66 e del '70 risolvono insieme la quistione nazionale e quella di classe in un tipo intermedio: la borghesia ottiene il governo economico-industriale, ma le vecchie classi feudali rimangono come ceto governativo dello Stato politico con ampi privilegi corporativi nell'esercito, nell'amministrazione e sulla terra: ma almeno, se queste vecchie classi conservano in Germania tanta importanza e godono di tanti privilegi, esse esercitano una funzione nazionale, diventano gli «intellettuali» della borghesia, con un determinato temperamento dato dall'origine di casta e dalla tradizione. In Inghilterra, dove la rivoluzione borghese si è svolta prima che in Francia, abbiamo un fenomeno simile a quello tedesco di fusione tra il vecchio e il nuovo, nonostante l'estrema energia dei «giacobini» inglesi, cioè le «teste rotonde» di Cromwell; la vecchia aristocrazia rimane come ceto governativo, con certi privilegi, diventa anch'essa il ceto intellettuale della borghesia inglese (del resto l'aristocrazia inglese è a quadri aperti e si rinnova continuamente con elementi provenienti dagli intellettuali e dalla borghesia)20. La spiegazione data da Antonio Labriola sulla permanenza al potere in Germania dei Junker e del kaiserismo nonostante il grande sviluppo capitalistico, adombra la giusta spiegazione: il rapporto di classi creato dallo sviluppo industriale col raggiungimento del limite dell'egemonia borghese e il rovesciamento della posizione delle classi progressive, ha indotto la borghesia a non lottare a fondo contro il vecchio regime, ma a lasciarne sussistere una parte della facciata dietro cui velare il proprio dominio reale.

Questa differenza di processo nel manifestarsi dello stesso sviluppo storico nei diversi paesi è da legare non solo alle diverse combinazioni dei rapporti interni alla vita delle diverse nazioni, ma anche ai diversi rapporti internazionali (i rapporti internazionali sono di solito sottovalutati in questo ordine di ricerche). Lo spirito giacobino, audace, temerario, è certamente legato all'egemonia esercitata così a lungo dalla Francia in Europa, oltre che all'esistenza di un centro urbano come Parigi e all'accentramento conseguito in Francia per opera della monarchia assoluta. Le guerre di Napoleone, invece, con l'enorme distruzione di uomini, tra i più audaci e intraprendenti, hanno indebolito non solo l'energia politica militante francese, ma anche quella delle altre nazioni, sebbene intellettualmente siano state così feconde per la rinnovazione dell'Europa.

 I rapporti internazionali hanno certo avuto una grande importanza nel determinare la linea di sviluppo del Risorgimento italiano, ma essi sono stati esagerati dal partito moderato e da Cavour a scopo di partito. È notevole, a questo proposito, il fatto di Cavour che teme come il fuoco l'iniziativa garibaldina prima della spedizione di Quarto e del passaggio dello Stretto, per le complicazioni internazionali che poteva creare e poi è spinto egli stesso dall'entusiasmo creato dai Mille nell'opinione europea fino a vedere come fattibile una immediata nuova guerra contro l'Austria. Esisteva in Cavour una certa deformazione professionale del diplomatico, che lo portava a vedere «troppe» difficoltà e lo induceva a esagerazioni «cospirative» e a prodigi, che sono in buona parte funamboleschi, di sottigliezza e di intrigo. In ogni caso il Cavour operò egregiamente come uomo di partito: che poi il suo partito rappresentasse i più profondi e duraturi interessi nazionali, anche solo nel senso della più vasta estensione da dare alla comunità di esigenze della borghesia con la massa popolare, è un'altra quistione21.

Nell'esame della direzione politica e militare impressa al moto nazionale prima e dopo il '48 occorre fare alcune preventive osservazioni di metodo e di nomenclatura. Per direzione militare non deve intendersi solo la direzione militare in senso stretto, tecnico, cioè con riferimento alla strategia e alla tattica dell'esercito piemontese, o delle truppe garibaldine o delle varie milizie improvvisate nelle insurrezioni locali (Cinque giornate di Milano, difesa di Venezia, difesa della Repubblica Romana, insurrezione di Palermo nel '48, ecc., ecc.); deve intendersi invece in senso molto più largo e più aderente alla direzione politica vera e propria. Il problema essenziale che si imponeva dal punto di vista militare era quello di espellere dalla penisola una potenza straniera, l'Austria, che disponeva di uno dei più grandi eserciti dell'Europa d'allora e che aveva inoltre non pochi e deboli aderenti nella penisola stessa, persino nel Piemonte. Pertanto, il problema militare era questo: come riuscire a mobilitare una forza insurrezionale che fosse in grado di espellere dalla penisola l'esercito austriaco non solo, ma anche di impedire che esso potesse ritornare con una controffensiva, dato che l'espulsione violenta avrebbe messo in pericolo la compagine dell'Impero e quindi ne avrebbe galvanizzato tutte le forze di coesione per una rivincita.

Le soluzioni che del problema furono presentate astrattamente erano parecchie, tutte contraddittorie e inefficienti. «L'Italia farà da sé» fu la parola d'ordine piemontese del '48, ma volle dire la sconfitta disastrosa. La politica incerta, ambigua, timida e nello stesso tempo avventata dei partiti di destra piemontesi fu la cagione principale della sconfitta; essi furono di una astuzia meschina, essi furono la causa del ritirarsi degli eserciti degli altri Stati italiani, napoletani e romani, per aver troppo presto mostrato di volere l'espansione piemontese e non una confederazione italiana; essi non favorirono, ma osteggiarono, il movimento dei volontari, essi, insomma, volevano che solo armati vittoriosi fossero i generali piemontesi, inetti al comando di una guerra tanto difficile. L'assenza di una politica popolare fu disastrosa: i contadini lombardi e veneti arruolati dall'Austria furono uno degli strumenti più efficaci per soffocare la rivoluzione di Vienna e quindi anche italiana; per i contadini il moto del Lombardo-Veneto era una cosa di signori e di studenti come il moto viennese. Mentre i partiti nazionali italiani avrebbero dovuto, con la loro politica, determinare o aiutare il disgregamento dell'impero austriaco, con la loro inerzia ottennero che i reggimenti italiani fossero uno dei migliori puntelli della reazione austriaca. Nella lotta tra il Piemonte e l'Austria il fine strategico non poteva essere quello di distruggere l'esercito austriaco e occupare il territorio del nemico che sarebbe stato fine irraggiungibile e utopistico, ma poteva essere quello di disgregare la compagine interna austriaca e aiutare i liberali ad andare al potere stabilmente per mutare la struttura politica dell'impero in federalistica o almeno per crearvi uno stato prolungato di lotte interne che desse respiro alle forze nazionali italiane e permettesse loro di concentrarsi politicamente e militarmente22.

Dopo aver iniziato la guerra col motto «l'Italia farà da sé», dopo la sconfitta, quando tutta l'impresa era compromessa, si cercò di avere l'aiuto francese, proprio quando, anche per effetto del rinvigorimento austriaco, al governo di Francia erano andati i reazionari, nemici di uno Stato italiano unitario e forte e anche di una espansione piemontese: la Francia non volle dare al Piemonte neanche un generale provetto e si ricorse al polacco Chrzarnowsky.

La direzione militare era una quistione più vasta della direzione dell'esercito e della determinazione del piano strategico che l'esercito doveva eseguire; essa comprendeva in più la mobilitazione politico- insurrezionale di forze popolari che fossero insorte alle spalle del nemico e ne avessero intralciato i movimenti e i servizi logistici, la creazione di masse ausiliarie e di riserva da cui trarre nuovi reggimenti e che dessero all'esercito «tecnico» l'atmosfera di entusiasmo e di ardore.

La politica popolare non fu fatta neanche dopo il '49; anzi sugli avvenimenti del '49 si cavillò stoltamente per intimidire le tendenze democratiche: la politica nazionale di destra si impegnò nel secondo periodo del Risorgimento nella ricerca dell'aiuto della Francia bonapartista e con l'alleanza francese si equilibrò la forza austriaca. La politica della Destra nel '48 ritardò l'unificazione della penisola di alcuni decenni.

Le incertezze nella direzione politico-militare, le continue oscillazioni tra dispotismo e costituzionalismo ebbero i loro contraccolpi disastrosi anche nell'esercito piemontese. Si può affermare che quanto più un esercito è numeroso, in senso assoluto, come massa reclutata, o in senso relativo, come proporzione di uomini reclutati sulla popolazione totale, tanto più aumenta l'importanza della direzione politica su quella meramente tecnico-militare. La combattività dell'esercito piemontese era altissima all'inizio della campagna del '48: i destri credettero che tale combattività fosse espressione di un puro spirito militare e dinastico astratto, e cominciarono a intrigare per restringere le libertà popolari e smorzare le aspettative in un avvenire democratico. Il «morale» dell'esercito decadde. La polemica sulla «fatai Novara» è tutta qui. A Novara l'esercito non volle combattere, perciò fu sconfitto. I «destri» accusarono i democratici di aver portato la politica nell'esercito e di averlo disgregato: accusa inetta, perché il costituzionalismo appunto «nazionalizzava» l'esercito, ne faceva un elemento della politica generale e con ciò lo rafforzava militarmente. Tanto più inetta l'accusa, in quanto l'esercito si accorge di un mutamento di direzione politica, senza bisogno di «disgregatori», da una molteplicità di piccoli cambiamenti, ognuno dei quali può parere insignificante e trascurabile, ma che nell'insieme formano una nuova atmosfera asfissiante. Responsabili della disgregazione sono pertanto quelli che hanno mutato la direzione politica, senza prevederne le conseguenze militari, hanno cioè sostituito una cattiva politica a quella precedente che era buona, perché conforme al fine. L'esercito è anche uno «strumento» per un fine determinato, ma esso è costituito di uomini pensanti e non di automi che si possono impiegare nei limiti della loro coesione meccanica e fisica. Se si può e si deve, anche in questo caso, parlare di opportuno e di conforme al fine, occorre però includere anche la distinzione: secondo la natura dello strumento dato. Se si batte un chiodo con una mazza di legno con lo stesso vigore^on cui si batterebbe con un martello d'acciaio, il chiodo penetra nella mazza invece che nella parete. La direzione politica giusta è necessaria anche con un esercito di mercenari professionisti (anche nelle compagnie di ventura c'era un minimo di direzione poli- tìca, oltre a quella tecnico-militare); tanto più è necessaria con un esercito nazionale di leva. La quistione diventa ancora più complessa e difficile nelle guerre di posizione, fatte da masse enormi che solo con grandi riserve di forze morali possono resistere al grande logorio muscolare, nervoso, psichico: solo un'abilissima direzione politica, che sappia tener conto delle aspirazioni e dei sentimenti più profondi delle masse umane ne impedisce la disgregazione e lo sfacelo.

La direzione militare deve essere sempre subordinata alla dire zione politica, ossia il piano strategico deve essere l'espressione militare di una determinata politica generale. Naturalmente può darsi che in una condizione data, gli uomini politici siano inetti, mentre nell'e sercito ci siano dei capi che alla capacità militare congiungano la capacità politica: è il caso di Cesare e di Napoleone. Ma in Napoleone si è visto come il mutamento di politica, coordinato alla presunzione di avere uno strumento militare astrattamente militare, abbia portato alla sua rovina: anche nei casi in cui la direzione politica e quella militare si trovano unite nella stessa persona; è il momento politico che deve prevalere su quello militare. I Commentari di Cesare sono un classico esempio di esposizione di una sapiente combinazione di arte politica e arte militare: i soldati vedevano in Cesare non solo un grande capo militare ma specialmente il loro capo politico, il capo della democrazia. È da ricordare come Bismarck, sulle traccia del Clausewitz, sosteneva la supremazia del momento politico su quello militare, mentre Guglielmo II, come riferisce Ludwig, annotò rabbiosamente un giornale in cui l'opinione del Bismarck era riportata: così i Tedeschi vinsero brillantemente quasi tutte le battaglie, ma perdettero la guerra.

Esiste una certa tendenza a sopravvalutare l'apporto delle classi popolari al Risorgimento, insistendo specialmente sul fenomeno del volontariato. Le cose più serie e ponderate in proposito sono state scritte da Ettore Rota nella «Nuova Rivista Storica» del 1928-29. A parte l'osservazione fatta in altra nota sul significato da dare ai volontari, è da rilevare che gli scritti stessi del Rota mostrano come i volontari fossero mal visti e sabotati dalle autorità piemontesi, ciò che appunto conferma la cattiva direzione politico-militare. Il governo piemontese poteva arruolare obbligatoriamente soldati nel suo territorio statale, in rapporto alla popolazione, come l'Austria poteva fare nel suo e in rapporto a una popolazione enormemente più grande: una guerra a fondo, in questi termini, sarebbe sempre stata disastrosa per il Piemonte dopo un certo tempo. Posto il principio che «Italia fa da sé» bisognava o accettare subito la confederazione con gli altri Stati italiani o proporsi l'unità politica territoriale su una tale base radicalmente popolare che le masse fossero state indotte a insorgere contro gli altri governi, e avessero costituito eserciti volontari che fossero accorsi accanto ai Piemontesi. Ma appunto qui stava la quistione: le tendenze di destra piemontesi o non volevano ausiliari, pensando di poter vincere gli Austriaci con le sole forze regolari piemontesi (e non si capisce come potessero avere una tale presunzione), o avrebbero voluto essere aiutati a titolo gratuito (e anche qui non si capisce come politici seri potessero pretendere un tale assurdo): nella realtà non si può pretendere entusiasmo, spirito di sacrificio, ecc., senza una contropartita neppure dai propri sudditi di uno Stato; tanto meno si può pretenderla da cittadini estranei allo Stato su un programma generico e astratto e per una fiducia cieca in un governo lontano. Questo è stato il dramma del '48-'49, ma non è certo giusto deprezzare perciò il popolo italiano; la responsabilità del disastro è da attribuire sia ai moderati, sia al Partito d'Azione, cioè, in ultima analisi, alla immaturità e alla scarsissima efficienza delle classi dirigenti.

Le osservazioni fatte sulla deficienza di direzione politico-militare nel Risorgimento potrebbero essere ribattute con un argomento molto triviale e frusto: «quegli uomini non furono demagoghi, non fecero della demagogia». Un'altra trivialità molto diffusa per parare il giudizio negativo sulla capacità direttiva dei capi del moto nazionale è quella di ripetere in vari modi e forme che il moto nazionale si potè operare per merito delle sole classi colte. Dove sia il merito è difficile capire. Merito di una classe colta, perché sua funzione storica, è quello di dirigere le masse popolari e svilupparne gli elementi progressivi; se la classe colta non è stata capace di adempiere alla sua funzione, non deve parlarsi di merito, ma di demerito, cioè di immaturità e debolezza intima. Cosi occorre intendersi sulla parola e sul concetto di demagogia. Quegli uomini effettivamente non seppero guidare il popolo, non seppero destarne l'entusiasmo e la passione se si intende demagogia nel suo significato primordiale. Raggiunsero essi almeno il fine che si proponevano? Essi dicevano di proporsi la creazione dello Stato moderno in Italia e produssero un qualcosa di bastardo; si propojjpvano di suscitare una classe dirigente diffusa ed energica e non c^riuscirono, di inserire il popolo nel quadro statale e non ci riuscirono. La meschina vita politica dal '70 al '900, il ribellismo elementare ed endemico delle classi popolari, l'esistenza gretta e stentata di un ceto dirigente scettico e poltrone sono la conseguenza di quella deficienza: e ne è conseguenza la posizione internazionale del nuovo Stato, privo di effettiva autonomia perché minato all'interno dal Papato e dalla passività malevola delle grandi masse. In realtà poi i destri del Risorgimento furono dei grandi demagoghi: essi fecero del popolo-nazione uno strumento, un oggetto, degradandolo e in ciò consiste la massima e più spregevole demagogia, proprio nel senso che il termine ha assunto in bocca ai partiti di destra in polemica con quei di sinistra, sebbene siano i partiti di destra ad avere sempre esercitato la peggiore demagogia e ad aver fatto spesso appello alla feccia popolare (come Napoleone III in Francia).

 Dal rapporto città-campagna deve muovere l'esame delle forze motrici fondamentali della storia italiana e dei punti programmatici da cui occorre studiare e giudicare l'indirizzo del Partito d'Azione nel Risorgimento. Schematicamente si può avere questo quadro: 1) la forza urbana settentrionale; 2) la forza rurale meridionale; 3) la forza rurale settentrionale-centrale; 4) la forza rurale della Sicilia e 5) della Sardegna. Restando ferma la funzione di «locomotiva» della prima forza, occorre esaminare le diverse combinazioni «più utili» atte a costruire un «treno» che avanzi il più speditamente nella storia. Intanto la prima forza comincia con l'avere dei problemi propri, interni, di organizzazione, di articolazione per omogeneità, di direzione politico-militare (egemonia piemontese, rapporti tra Milano e Torino, ecc.); ma rimane fissato che, già «meccanicamente», se tale forza ha raggiunto un certo grado di unità e di combattività, essa esercita una funzione direttiva «indiretta» sulle altre. Nei diversi periodi del Risorgimento appare che il porsi di questa forza in una posizione di intransigenza e di lotta contro il dominio straniero, determina un'esaltazione delle forze progressive meridionali: da ciò il sincronismo relativo, ma non la simultaneità, nei movimenti del '20-21, del '31, del '48. Nel '59-60 questo «meccanismo» storico-poli- tico agisce con tutto il rendimento possibile poiché il Nord inizia la lotta, il Centro aderisce pacificamente o quasi e nel Sud lo Stato borbonico crolla sotto la spinta dei garibaldini, spinta relativamente debole. Questo avviene perché il Partito d'Azione (Garibald1) interviene tempestivamente, dopo che i moderati (Cavour) avevano organizzato il Nord e il Centro; non è cioè la stessa direzione politico- militare (moderati o Partito d'Azione) che organizza la simultaneità relativa, ma la collaborazione (meccanica) delle due direzioni, che si integrano felicemente.

La prima forza doveva quindi porsi il problema di organizzare intorno a sé le forze urbane delle altre sezioni nazionali e specialmente del Sud. Questo problema era il più difficile, irto di contraddizioni e di motivi che scatenavano ondate di passioni (una soluzione burletta di queste contraddizioni fu la così detta rivoluzione parlamentare del 1876). Ma la sua soluzione, appunto per questo, era uno dei punti cruciali dello sviluppo nazionale. Le forze urbane sono socialmente omogenee, quindi devono trovarsi in una posizione di perfetta uguaglianza. Ciò era vero teoricamente, ma storicamente la quistione si poneva diversamente: le forze urbane del Nord erano nettamente alla testa della loro sezione nazionale, mentre per le forze urbane del Sud ciò non si verificava, per lo meno in uguale misura. Le forze urbane del Nord dovevano quindi ottenere da quelle del Sud che la loro funzione direttiva si limitasse ad assicurare la direzione del Nord verso il Sud nel rapporto generale di città-campagna, cioè la funzione direttiva delle forze urbane del Sud non poteva essere altro che un momento subordinato della più vasta funzione direttiva del Nord. La contraddizione più stridente nasceva da questo ordine di fatti: la forza urbana del Sud non poteva essere considerata come qualcosa a sé, indipendente da quella del Nord; porre la quistione così avrebbe significato affermare pregiudizialmente un insanabile dissidio «nazionale», dissidio tanto grave che neanche la soluzione federalistica avrebbe potuto comporre; si sarebbe affermata l'esistenza di nazioni diverse, tra le quali avrebbe potuto realizzarsi solo un'alleanza diplomatico-militare contro il comune nemico, l'Austria (l'unico elemento di comunità e solidarietà, insomma, sarebbe consistito solo nell'avere un «comune» nemico). In realtà, però, esistevano solo alcuni «aspetti» della quistione nazionale, non «tutti» gli aspetti e neanche quelli più essenziali. L'aspetto piti grave era la debole posizione delle forze urbane meridionali in rapporto alle forze rurali, rapporto sfavorevole che si manifestava talvolta in una vera e propria soggezione della città alla campagna. Il collegamento stretto tra forze urbane del Nord e del Sud, dando alle seconde la forza rappresentativa del prestigio delle prime, doveva aiutare quelle a rendersi autonome, ad acquistare coscienza della loro funzione storica dirigente in modo «concreto» e non puramente teorico e astratto, suggerendo le soluzioni da dare ai vasti problemi regionali. Era naturale che si trovassero forti opposizioni nel Sud all'unità: il compito più grave per risolvere la situazione spettava in ogni modo alle forze urbane del Nord, che non solo dovevano convincere i loro «fratelli» del Sud, ma dovevano incominciare [a convincere] se stesse di questa comples- sività di sistema politico: praticamente, quindi, la quistione si poneva nell'esistenza di un forte centro di direzione politica, al quale necessariamente avrebbero dovuto collaborare forti e popolari individualità meridionali, e delle isole. Il problema di creare una unità Nord-Sud era strettamente legato e in gran parte assorbito nel problema di creare una coesione e una solidarietà tra tutte le forze urbane nazionali29.

Le forze rurali settentrionali-centrali ponevano alla loro volta una serie di problemi che la forza urbana del Nord doveva porsi per stabilire un rapporto normale città-campagna, espellendo le interferenze e gli influssi di origine estranea allo sviluppo del nuovo Stato. In queste forze rurali occorreva distinguere due correnti: quella laica e quella clericale-austriacante. La forza clericale aveva il suo peso massimo nel Lombardo-Veneto, oltre che in Toscana e in una parte dello Stato pontificio; quella laica nel Piemonte, con interferenze più o meno vaste nel resto d'Italia, oltre che nelle legazioni, specialmente in Romagna, anche nelle altre sezioni, fino al Mezzogiorno e alle Isole. Risolvendo bene questi rapporti immediati, le forze urbane settentrionali avrebbero dato un ritmo a tutte le quistioni simili su scala nazionale. Su tutta questa serie di problemi complessi il Partito d'Azione falli completamente: esso si limitò infatti a fare quistione di principio e di programma essenziale quello che era semplicemente quistione del terreno politico su cui tali problemi avrebbero potuto accentrarsi e trovare una soluzione legale: la quistione della Costituente. Non si può dire che abbia fallito il partito moderato, che si proponeva l'espansione organica del Piemonte, voleva soldati per l'esercito piemontese e non insurrezioni o armate garibaldine troppo vaste.

Perché il Partito d'Azione non pose in tutta la sua estensione la quistione agraria? Che non la ponessero i moderati era ovvio: l'impostazione data dai moderati al problema nazionale domandava un blocco di tutte le forze di destra, comprese le classi dei grandi proprietari terrieri, intorno al Piemonte come Stato e come esercito. La minaccia fatta dall'Austria di risolvere la quistione agraria a favore dei contadini, minaccia che ebbe effettuazione in Galizia contro i nobili polacchi a favore dei contadini ruteni, non solo gettò lo scompiglio tra gli interessati in Italia, determinando tutte le oscillazioni dell'aristocrazia (fatti di Milano del febbraio '53 e atto di omaggio delle più illustri famiglie milanesi a Francesco Giuseppe proprio alla vigilia delle forche di Belfiore), ma paralizzò lo stesso Partito d'Azione, che in questo terreno pensava come i moderati e riteneva «nazionali» l'aristocrazia e i proprietari e non i milioni di contadini. Solo dopo il febbraio '53 Mazzini ebbe qualche accenno sostanzialmente democratico (vedi Epistolario di quel periodo), ma non fu capace di una radicalizzazione decisiva del suo programma astratto. È da studiare la condotta politica dei garibaldini in Sicilia nel i860, condotta politica che era dettata da Crispi: i movimenti di insurrezione dei contadini contro i baroni furono spietatamente schiacciati e fu creata la Guardia nazionale anticontadina; è tipica la spedizione repressiva di Nino Bixio nella regione catanese, dove le insurrezioni furono più violente. Eppure, anche nelle Noterelle di G. C. Abba ci sono elementi pei dimostrare che la quistione agraria era la molla per far entrare in moto le grandi masse: basta ricordare i discorsi dell'Abba col frate che va incontro ai garibaldini -subito dopo lo sbarco di Marsala. In alcune novelle di G. Verga ci sono elementi pittoreschi di queste sommosse contadine, che la Guardia Nazionale soffocò col terrore e con la fucilazione in massa. Questo aspetto della spedizione dei Mille non è stato mai studiato e analizzato.

La non-impostazione della quistione agraria portava alla quasi impossibilità di risolvere la quistione del clericalismo e dell'atteggiamento antiunitario del Papa. Sotto questo riguardo i moderati furono molto più arditi del Partito d'Azione: è vero che essi non distribuirono i beni ecclesiastici fra i contadini, ma se ne servirono per creare un nuovo ceto di grandi e di medi proprietari legati alla nuova situazione politica, e non esitarono a manomettere la proprietà terriera, sia pure solo quella delle Congregazioni. Il Partito d'Azione, inoltre, era paralizzato, nella sua azione verso i contadini, dalle velleità mazziniane di una riforma religiosa, che non solo non interessava le grandi masse rurali, ma al contrario le rendeva passibili di una sobillazione contro i nuovi eretici. L'esempio della Rivoluzione francese era li a dimostrare che i giacobini, che erano riusciti a schiacciare tutti i partiti di destra fino ai girondini sul terreno della quistione agraria e non solo a impedire la coalizione rurale contro Parigi ma a moltiplicare i loro aderenti nelle province, furono danneggiati dai tentativi di Robespierre di instaurare una riforma religiosa, che pure aveva, nel processo storico reale, un significato e una concretezza immediata30.

I moderati e gli intellettuali.

Perché i moderati dovevano avere il sopravvento nella massa degli intellettuali. Gioberti e Mazzini.

Gioberti offriva agli intellettuali una filosofia che appariva come originale e nel tempo stesso nazionale, tale da porre l'Italia almeno allo stesso livello delle nazioni più progredite e dare una nuova dignità al pensiero italiano. Mazzini invece offriva solo delle affermazioni nebulose e degli accenni filosofici che a molti intellettuali, specialmente napoletani, dovevano apparire come vuote chiacchiere (l'abate Ga- liani aveva insegnato a sfottere quel modo di pensare e di ragionare).

Quistione della scuola: attività dei moderati per introdurre il principio pedagogico dell'insegnamento reciproco (Confalonieri, Capponi, ecc.); movimento di Ferrante Aporti e degli asili, legato al problema del pauperismo. Nei moderati si affermava il solo movimento pedagogico concreto opposto alla scuola «gesuitica»; ciò non poteva non avere efficacia sia tra i laici, ai quali dava nella scuola una propria personalità, sia nel clero liberaleggiante e antigesuitico (ostilità accanita contro Ferrante Aporti, ecc.; il ricovero e l'educazione dell'infanzia abbandonata era un monopolio clericale e queste iniziative spezzavano il monopolio). Le attività scolastiche di carattere liberale o liberaleggiante hanno un gran significato per afferrare il meccanismo dell'egemonia dei moderati sugli intellettuali. L'attività scolastica, in tutti i suoi gradi, ha un'importanza enorme, anche economica, per gli intellettuali di tutti i gradi: l'aveva allora anche maggiore di oggi, data la ristrettezza dei quadri sociali e le scarse strade aperte all'iniziativa dei piccoli borghesi (oggi: giornalismo, movimento dei partiti, industria, apparato statale estesissimo, ecc., hanno allargato in modo inaudito le possibilità di impiego).

L'egemonia di un centro direttivo sugli intellettuali si afferma attraverso due linee principali: 1) una concezione generale della vita, una filosofia (Giobert1), che offra agli aderenti una «dignità» intellettuale che dia un principio di distinzione e un elemento di lotta contro le vecchie ideologie dominanti coercitivamente; 2) un programma scolastico, un principio educativo e pedagogico originale che interessi e dia un'attività propria, nel loro campo tecnico, a quella frazione degli intellettuali che è la più omogenea e la più numerosa (gli insegnanti, dal maestro elementare ai professori di università).

I congressi degli scienziati che furono organizzati ripetutamente nel periodo del primo Risorgimento ebbero una doppia efficacia: 1) riunire gli intellettuali del grado più elevato, concentrandoli e moltiplicando il loro influsso; 2) ottenere una più rapida concentrazione e un più deciso orientamento negli intellettuali dei gradi inferiori, che sono portati normalmente a seguire gli universitari e i grandi scienziati per spirito di casta.

Lo studio delle riviste enciclopediche e specializzate dà un altro aspetto dell'egemonia dei moderati. Un partito come quello dei moderati offriva alla massa degli intellettuali tutte le soddisfazioni per le esigenze generali che possono essere offerte da un governo (da un partito al governo), attraverso i servizi statali. Per questa funzione di partito italiano di governo, servi ottimamente dopo il '48-49 lo Stato piemontese, che accolse gli intellettuali esuli e mostrò in modello ciò che avrebbe fatto un futuro Stato unificato.


I moderati e gli intellettuali (Q. X)

Momenti di vita intensamente collettiva e unitaria nello sviluppo nazionale del popolo italiano (Q. X)La Rivoluzione francese e il Risorgimento (Q. XXIV)

Le sètte nel Risorgimento (1a parte: Q. X - 2a parte: Q. XXVIII)

Sulla rivoluzione passiva (Q. XXVIII)

Gioberti e il giacobinismo (1a parte: Q. IV – 2aparte: Q. IX – 3a parte : Q. X - 4* parte: Q. IV)

I moderati toscani (Q. XXVIII)

Stato e Chiesa (Q- II)

Il Partito d'Azione (Q. XXVIII)

Il popolo nel Risorgimento (1a parte: Q. X - 2a parte: Q. XXIV - 3a parte: Q. XXIV - 4a parte: Q. X - 5a parte: Q. VII - 6a parte: Q. XXIV - 7a parte: Q. X)

Il nodo storico 1848-49 (Q. X)

 Il nodo storico 1848-1849.

Mi pare che gli avvenimenti degli anni 1848-49, data la loro spontaneità, possano essere considerati come tipici per lo studio delle forze sociali e politiche della nazione italiana. Troviamo in quegli anni alcune formazioni fondamentali: i reazionari moderati, municipalisti, i neoguelfi — democrazia cattolica — e il Partito d'Azione — democrazia liberale di sinistra borghese nazionale. Le tre forze sono in lotta tra loro e tutte e tre sono successivamente sconfitte nel corso di due anni. Dopo la sconfitta avviene una riorganizzazione delle forze verso destra dopo un processo interno in ognuno dei gruppi di chiarificazione e scissione. La sconfitta più grave è quella dei neoguelfi, che muoiono come democrazia cattolica e si riorganizzano come elementi sociali borghesi della campagna e della città insieme ai reazionari costituendo la nuova forza di destra liberale-conservatrice. Si può istituire un parallelo tra i neoguelfi e il Partito Popolare, nuovo tentativo di creare una democrazia cattolica, fallito allo stesso modo e per ragioni simili. Cosi come il fallimento del Partito d'Azione rassomiglia a quello del «sovversivismo» del '19-20.

Ricostruire ed analizzare minutamente il succedersi dei governi e delle combinazioni di partiti (costituzionali e assolutist1) nel Piemonte dall'inizio del nuovo regime fino al proclama di Moncalieri, da Solaro della Margarita a Massimo d'Azeglio. Funzione del Gioberti e del Rattazzi e loro effettivo potere sulla macchina statale, che era rimasta immutata o quasi dal tempo dell'assolutismo. Significato del così detto connubio Cavour-Rattazzi: fu il primo passo della disgregazione democratica? ma fino a quel punto il Rattazzi poteva dirsi un liberale-democratico?

Il federalismo di Ferrari-Cattaneo fu l'impostazione politico-sto- rica delle contraddizioni esistenti tra il Piemonte e la Lombardia. La Lombardia non voleva essere annessa, come una provincia, al Piemonte: era più progredita, intellettualmente, politicamente, economicamente, del Piemonte. Aveva fatto, con forze e mezzi propri, la sua rivoluzione democratica con le Cinque giornate: era, forse, più italiana del Piemonte, nel senso che rappresentava l'Italia meglio del Piemonte. Che il Cattaneo presentasse il federalismo come immanente in tutta la storia italiana non è altro che elemento ideologico, mitico, per rafforzare il programma politico attuale. Perché accusare il federalismo di aver ritardato il moto nazionale e unitario? Bisogna ancora insistere sul criterio metodologico che altro è la storia del Risorgimento e altro l'agiografia delle forze patriottiche e anzi di una frazione di esse, quelle unitarie. Il Risorgimento è uno svolgimento storico complesso e contraddittorio, che risulta integrale da tutti i suoi elementi antitetici, dai suoi protagonisti e dai suoi antagonisti, dalle loro lotte, dalle modificazioni reciproche che le lotte stesse determinano e anche dalla funzione delle forze passive e latenti come le grandi masse agricole, oltre, naturalmente, la funzione eminente dei rapporti internazionali.

La lega doganale, promossa da Cesare Balbo e stretta a Torino il 3 novembre J847 dai tre rappresentanti del Piemonte, della Toscana c dello Stato pontificio, doveva preludere alla costituzione della Confederazione politica che poi fu disdetta dallo stesso Balbo, facendo abortire anche la lega doganale. La Confederazione era desiderata dagli Stati minori italiani; i reazionari piemontesi (fra cui il Balbo) credendo ormai assicurata l'espansione territoriale del Piemonte, non volevano pregiudicarla con legami che l'avrebbero ostacolata (il Balbo nelle Speranze d'Italia aveva sostenuto che la Confederazione era impossibile finché una parte d'Italia fosse stata in mano agli stranieri!?) e disdissero la Confederazione dicendo che le leghe si stringono prima o dopo le guerre (!?): la Confederazione fu respinta nel '48, nei primi mesi.

Gioberti, con altri, vedevano nella Confederazione politica e doganale, stretta anche durante la guerra, la necessaria premessa per rendere possibile l'attuazione del motto «l'Italia farà da sé». Questa politica infida nei rapporti della Confederazione, con le altre direttive altrettanto fallaci a proposito dei volontari e della Costituente, mostra che il moto del '48 falli per gli intrighi furbescamente meschini dei destri, che furono i moderati del periodo successivo. Essi non seppero dare un indirizzo, né politico, né militare, al moto nazionale.

Nel febbraio 1849 Silvio Spaventa visitò a Pisa il d'Azeglio, e del colloquio fa ricordo in uno scritto politico composto nel 1856, mentre era all'ergastolo: «Un uomo di Stato piemontese dei più illustri diceva a me un mese innanzi: noi non possiamo vincere, ma combatteremo di nuovo: la nostra sconfitta sarà la sconfitta di quel partito che oggi ci risospinge alla guerra, e tra una sconfitta e una guerra civile noi scegliamo la prima: essa ci darà la pace interna e la libertà e l'indipendenza del Piemonte, che non può darci l'altra. Le previsioni di quel saggio (!) uomo si avverarono. La battaglia di Novara fu perduta per la causa dell'indipendenza e guadagnata per la libertà del Piemonte. E Carlo Alberto fece, secondo me, il sacrifizio della sua corona più a questa che a quella»31. È da domandare se si avverarono le «previsioni», o se fu preparata la sconfitta da uomini tanto saggi quanto il d'Azeglio.

In un articolo pubblicato nel «Corriere della Sera» del 14 maggio 1934 (Onoranze americane a Filippo Caront1), Antonio Monti riporta dalle Memorie del Caronti (inedite e possedute dal Museo del Risorgimento di Milano) questi due episodi: il Caronti, dopo aver vinto gli Austriaci a Como nel 1848, formò una compagnia di volontari e andò a Torino per avere le armi. Il ministro Balbo gli dette questa risposta che il Monti dice «stupefacente»: «E inutile ormai l'armarsi, giacché un esercito regolare e forte debellerà il nemico. Volete forse servirvi delle armi fra voi onde le discordie fra Comaschi e Milanesi risorgano a danno del buon esito della causa italiana?» (Non è inutile ricordare che poco prima della guerra del '48 il Piemonte si era sguarnito di armi per inviarle in Isvizzera ai cattolici reazionari insorti del Sonderbund). Sulla «preparazione» della sconfitta di Novara il Caroni narra che mentre si preparava febbrilmente una ripresa della lotta armata a Como e si organizzavano volontari, giunse la notizia dell'armistizio concluso dopo Novara dal generale Chrzarnowski (il Monti scrive Czarnowsky). Il Caronti affrontò il generale che disse: «Nous avons conclu un armistice honorable. — Comment, honorable? — Oui, très honorable, avec une armée qui ne se bat pas». Il colloquio è confermato da Gabriele Camozzi.

Ma non importano le parole del generale polacco, che era una festuca presa nella tormenta, ma l'indirizzo dato alla politica militare dal governo piemontese, che preferiva la sconfitta a una insurrezione generale italiana.

 La Rivoluzione francese e il Risorgimento.

Un motivo che ricorre spesso nella letteratura italiana, storica e non storica è questo espresso da Decio Cortesi in un articolo, Roma centotrent'anni fa («Nuova Antologia», 16 luglio 1928: «È da deplorare che nella pacifica Italia, che s'incamminava verso un miglioramento graduale e senza scotimenti (!!?); le teorie giacobine, figlie di un idealismo pedantesco, che nei nostri cervelli non ha mai allignato, dessero occasione a tante scene di violenze; ed è da deplorare tanto più perché, se queste violenze, nella Francia ancora oppressa dagli ultimi avanzi del feudalismo e da un dispotismo regale, potevano, fino ad un certo punto, essere giustificate, in Italia, dai costumi semplici e schiettamente democratici in pratica (!!?), non avevano uguale (ragione) d'essere. I reggitori d'Italia potevano essere chiamati " tiranni " nei sonetti dei letterati, ma chi senza passione prende a considerare il benessere del quale godé il nostro paese nello splendido secolo xvm non potrà non pensare con qualche rimpianto a tutto quell'insieme di sentimenti e di tradizioni che l'invasione straniera colpi a morte».

L'osservazione potrebbe essere vera se la restaurazione stessa avvenuta dopo il '15 non dimostrasse che anche in Italia la situazione del secolo XVIII era tutt'altra da quella ritenuta. L'errore è di considerare la superficie e non le condizioni reali delle grandi masse popolari. In ogni modo, è giusto che senza l'invasione straniera i «patrioti» non avrebbero acquistato quell'importanza e non avrebbero subito quel relativamente rapido processo di sviluppo che poi ebbero. L'elemento rivoluzionario era scarso e passivo.

La Repubblica partenopea e le classi rivoluzionarie nel Risorgimento.

Nell'edizione Laterza delle Memorie storiche del regno di Napoli dal 1J90 al 1815 di Francesco Pignatelli Principe di Strangoli 2, il Cortese pubblica un saggio Stato e ideali politici nell'Italia meridionale nel Settecento e l'esperienza di una rivoluzione, in cui si pone il problema: come mai, nel Mezzogiorno d'Italia, la nobiltà apparisca dalla parte dei rivoluzionari e sia poi ferocemente perseguitata dalla reazione, mentre in Francia nobiltà e monarchia sono unite davanti al pericolo rivoluzionario. Il Cortese risale ai tempi di Carlo [di] Borbone per trovare il punto di contatto tra la concezione degli innovatori aristocratici e quella dei borghesi: per i primi la libertà e le necessarie riforme devono essere garantite soprattutto da un parlamento aristocratico, mentre sono disposti ad accettare la collaborazione dei migliori della borghesia; per questa il controllo deve essere esercitato e la garanzia della libertà affidata all'aristocrazia dell'intelligenza, del sapere, della capacità, ecc., da qualsiasi parte venga. Per ambedue lo Stato deve essere governato dal re, circondato, illuminato, e controllato da un'aristocrazia. Nel 1799, dopo la fuga del re, si ha prima il tentativo di una repubblica aristocratica da parte dei nobili e poi quella degli innovatori borghesi nella successiva repubblica napoletana.

Pare che gli eventi napoletani non possano essere contrapposti a quelli francesi; anche in Francia ci fu un tentativo di alleanza tra monarchia, nobili e alta borghesia dopo un inizio di rottura tra nobili e monarchia. In Francia però la Rivoluzione ebbe la forza motrice anche nelle classi popolari che le impedirono di fermarsi ai primi stadi, ciò che mancò invece nell'Italia meridionale e successivamente in tutto il Risorgimento. Occorre inoltre tener presente che il movimento napoletano avvenne dopo quello francese, quando la monarchia era sotto l'incubo del Terrore francese e vedeva un nemico in chiunque parteggiasse per le idee innovatrici, fosse nobile o borghese. Il libro del Cortese è da vedere.

Confrontare: Antonio Manes, Un cardinale condottiero. Fabrizio Ruffo e la Repubblica partenopea, Aquila, Vecchioni, 1930. Il Manes cerca di «riabilitare» il cardinale Ruffo addossando la responsabilità delle repressioni e degli spergiuri sul Borbone e sul Nelson. Pare che il Manes non sappia orientarsi bene per fissare le divisioni politiche e sociali nel Napoletano; ora parla di taglio netto tra nobiltà e clero da una parte e popolo dall'altra; ora il taglio sparisce e si vedono nobili e clero nelle due parti. A un certo punto dice che il Ruffo «assume un carattere tutt'affatto nazionale, se può essere usata questa parola di colore troppo moderno e contemporaneo» e allora dovrebbe concludere che non erano nazionali i patriotti sterminati dalle bande sanfedistiche3.

 Le sètte nel Risorgimento.

Confrontare Pellegrino Nicolli, La Carboneria in Italia, Vicenza, Edizioni Cristofori, 1931. Il Nicolli cerca di distinguere nella Carboneria le diverse correnti, che spesso la componevano e di dare un quadro delle diverse sètte che pullularono in Italia nella prima parte del secolo XIX. Da una recensione del libro del Nicolli, pubblicata nel «Marzocco» del 25 ottobre 1931, si estrae questo brano: «È un groviglio di nomi strani, di emblemi, di riti, di cui si ignorano il più delle volte le origini; un confuso mescolarsi di propositi disparati, che variano non soltanto da società a società, ma nella stessa società, la quale, secondo i tempi e le circostanze, muta metodi e programmi. Dal vago sentimento nazionale si arriva alle aberrazioni del comunismo e, per converso, si hanno sètte che, ispirandosi agli stessi sistemi dei rivoluzionari, assumono la difesa del trono e dell'altare. Sembra che rivoluzione e reazione abbiano bisogno di battersi in un campo chiuso, dove non penetra occhio profano, tramando congiure al lume di fiaccole fumose e maneggiando pugnali. Un filo che ci guidi in mezzo a questo labirinto non c'è ed è vano chiederlo al Nicolli, che pure ha fatto del suo meglio per trovarlo. Si tenga anche soltanto presente la Carboneria, che è in un certo modo il gran fiume nel quale convogliano tutte le altre società segrete». Il Nicolli si è proposto di «raccogliere sinteticamente quanto da valenti storici è stato finora scritto» sulle società segrete nel Risorgimento.

Si può osservare: 1) che la molteplicità delle sètte, dei programmi e dei metodi, oltre all'essere dovuto al carattere clandestino del movimento settario, è certamente dovuto anche alla primitività del movimento stesso — cioè all'assenza di tradizioni forti e radicate — e quindi all'assenza di un organismo «centrale» saldo e con indirizzo fermo; 2) la molteplicità può sembrare più «morbosa» di quanto fosse realmente per la soverchia pedanteria erudita del ricercatore: in ogni tempo, esistono movimenti «settari» bizzarri e curiosi, ai quali non si bada neanche, in maggior misura di quanto non si supponga comunemente.

Articolo di A. Luzio, Le origini della Carboneria, nel «Corriere della Sera» del 7 febbraio 1932. Il Luzio parla di due libri di Eugenio Lennhoff, f.: gerarca della Massoneria austriaca (del Lennhoff ha parlato spesso lo scrittore di quistioni massoniche della «Civiltà Cattolica»): Die Freimaurer e Politische Geheimbünde (Casa ed. Amalthea, Vienna).

Il Luzio incomincia col notare gli errori di lingua italiana contenuti nelle citazioni politiche del Lennhoff e altri errori più gravi (Mazzini confuso col gran maestro Mazzoni, p. 204 dei Freimaurer, e quindi fatto diventare gran maestro; ma si tratta di errore storico o di errore di stampa?). Come recensione del Lennhoff, l'articolo del Luzio non vale nulla. Per le origini della Carboneria: opere dell'Alberti sulle assemblee costituzionali italiane e sulla rivoluzione napoletana del 1820, edite dai Lincei; studi del Soriga, «Risorgimento italiano» gennaio-marzo 1928, e articolo del Soriga sulla Carboneria nell'Enciclopédia Treccani (vol. Vili), libro del Luzio sulla Massoneria. In questo articolo il Luzio riporta dalle memorie inedite del generale Rossetti (di cui parla Guido Bustico nella «Nuova Antologia» del 1927) un rapporto del Rossetti stesso a Gioacchino Murat (del giugno 1814) in cui si parla dei primi tempi della Carboneria, che sarebbe stata conosciutissima in Francia, soprattutto nella Franca Contea, e a cui il Rossetti si sarebbe affiliato nel 1802, essendo di stanza a Gray. (Ma sono cose vaghe e che si perdono nella notte dei tempi, fra i fondatori della Carboneria sarebbe stato Francesco I, ecc.). Secondo il Rossetti, la Carboneria nel reame di Napoli avrebbe cominciato a propagarsi nella provincia di Avellino nel 1811, estendendosi solo verso la metà del 1812.

 Sulla rivoluzione passiva.

Protagonisti i «fatti» per così dire e non gli «uomini individuali». Come sotto un determinato involucro politico necessariamente si modificano i rapporti sociali fondamentali e nuove forze effettive politiche sorgono e si sviluppano che influiscono indirettamente, con la pressione lenta ma incoercibile, sulle forze ufficiali che esse stesse si modificano senza accorgersene o quasi.

Accanto ai concetti di rivoluzione passiva, di rivoluzione-restau razione, ecc., porre questa affermazione di Giuseppe Ferrari (io novembre 1864 in Parlamento): «Noi siamo il governo più libero che abbia mai avuto l'Italia da cinquecento anni; se io esco da questo Parlamento, io cesso di appartenere alla rivoluzione ordinata, legale, ufficiale».

A proposito della minaccia continua che il governo austriaco faceva ai nobili del Lombardo-Veneto

di promulgare una legislazione agraria favorevole ai contadini (minaccia non vana, perché già attuata in Galizia contro l'aristocrazia polacca), sono interessanti alcuni spunti di storia della Polonia contenuti in un articolo della «Pologne Littéraire», riassunto dal «Marzocco» del i° dicembre 1929- Il giornale polacco, ricercando le «cause storiche» dello spirito militare dei Polacchi, per cui si trovano volontari polacchi in tutte le guerre e le guerriglie, in tutte le insurrezioni e in tutte le rivoluzioni del secolo scorso, risale a questo fatto: il 13 luglio 1792 «una nazione che contava 9 milioni di abitanti, che aveva 70.000 soldati sotto le armi, fu conquistata senza essere stata vinta». Il 3 maggio 1791 era stata proclamata una costituzione il cui spirito largamente democratico poteva divenire un pericolo per i vicini — il re di russia, l'imperatore d'Austria, e lo zar di Russia — e che aveva parecchi punti di contatto con la Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino votata dalla Costituente francese nell'agosto 1789. «La Polonia fu conquistata con la piena connivenza dei nobili polacchi, i quali, più previdenti dei loro confratelli di Francia, non avevano atteso l'applicazione della carta costituzionale per provocare l'intervento straniero. Costoro preferirono vendere la nazione al nemico piuttosto che cedere la benché minima parte delle terre ai contadini. Preferirono cadere in servitù essi medesimi, anziché concedere la libertà al popolo». Secondo l'autore dell'articolo, Z. St. Klingsland, i 70.000 soldati presero la via dell'esilio e si diressero verso la Francia: ciò che è per lo meno esagerato. Il nocciolo degli avvenimenti polacchi è tuttavia altamente istruttivo e spiega molta parte degli avvenimenti fino al 1859 anche in Italia.

Ê da rilevare il fatto che una pubblicazione polacca scritta in francese per la propaganda all'estero (così almeno pare) spieghi la spartizione della Polonia del 1792 specialmente col tradimento dei nobili piuttosto che con la debolezza militare polacca, nonostante che la nobiltà abbia ancora in Polonia una funzione molto rilevante e Pilsudsky si sia ben guardato anche lui dal procedere a una radicale riforma agraria. Strano «punto d'onore» nazionale. Darwin, nel Viaggio di un naturalista intorno al mondo, racconta un episo dio simile per la Spagna: i suoi interlocutori sostenevano che una sconfitta della flotta alleata franco-spagnola era stata dovuta alla slealtà degli spagnoli, i quali se avessero combattuto davvero, non avrebbero potuto essere stati vinti. Meglio sleali e traditori che «senza spirito militare invincibile».

 Gioberti e il giacobinismo.

Atteggiamento del Gioberti verso il giacobinismo prima e dopo il '48. Dopo il '48, nel Rinnovamento, non solo non c'è accenno al panico che il '93 aveva diffuso nella prima metà del secolo, ma anzi il Gioberti mostra chiaramente di avere simpatie per i giacobini (egli giustifica lo sterminio dei girondini e la lotta su due fronti dei giacobini: contro gli stranieri invasori e contro i reazionari interni, anche se, molto temperatamente, accenna ai metodi giacobini che potevano essere più dolci, ecc.). Questo atteggiamento del Gioberti verso il giacobinismo francese dopo il '48 è da notare come fatto culturale molto importante; si giustifica con gli eccessi della reazione dopo il '48, che portavano a comprendere meglio e a giustificare la selvaggia energia del giacobinismo francese.

Ma, oltre a questo tratto, è da notare che nel Rinnovamento il Gioberti si manifesta un vero e proprio giacobino, almeno teoricamente, e nella situazione data italiana. Gli elementi di questo giacobinismo possono a grandi tratti così riassumersi: 1) nell'affermazione dell'egemonia politica e militare del Piemonte, che dovrebbe, come regione, essere quello che Parigi fu per la Francia: questo punto è molto interessante ed è da studiare nel Gioberti anche prima del '48. Il Gioberti senti l'assenza in Italia di un centro popolare di movimento nazionale rivoluzionario come fu Parigi per la Francia e questa comprensione mostra il realismo politico del Gioberti. Prima del '48, Piemonte-Roma dovevano essere i centri propulsori, per la politica-milizia il primo, per l'ideologia-religione la seconda. Dopo il '48, Roma non ha la stessa importanza, anzi: il Gioberti dice che il movimento deve essere contro il Papato. 2) Il Gioberti, sia pure vagamente, ha ii concetto del «popolare-nazionale» giacobino dell'egemonia politica, cioè dell'alleanza tra borghesi-intel- lettuali (ingegno) e il popolo; ciò in economia (e le idee di Gioberti in economia sono vaghe ma interessanti) e nella letteratura (cultura), in cui le idee sono più distinte e concrete perché in questo campo c'è meno da compromettersi. Nel Rinnovamento (parte II, capitolo Degli scrittori scrive: «... Una letteratura non può essere nazionale se non è popolare; perché se bene sia di pochi di crearla, universale dee esserne l'uso e il godimento. Oltre che, dovendo ella esprimere le idee e gli affetti comuni e trarre in luce quei sensi che giacciono occulti e confusi nel cuore delle moltitudini, i suoi cultori debbono non solo mirare al bene del popolo, ma ritrarre del suo spirito; tanto che questo viene ad essere non solo il fine, ma in un certo modo eziandio il principio delle lettere civili. E vedesi col fatto che esse non salgono al colmo della perfezione e dell'efficacia se non quando s'incorporano e fanno, come dire, una cosa colla nazione, ecc.»11.

In ogni modo che l'assenza di un «giacobinismo italiano» fosse sentita, appare dal Gioberti. E il Gioberti è da studiare da questo punto di vista. Ancora: è da notare come il Gioberti sia nel Primato che nel Rinnovamento si mostri uno stratega del movimento nazionale, e non solamente un tattico. Il suo realismo lo porta ai compromessi, ma sempre nella cerchia del piano strategico generale. La debolezza del Gioberti come uomo di Stato è da cercare nel fatto che egli fu sempre esule, non conosceva quindi gli uomini che doveva maneggiare e dirigere e non aveva amici fedeli (cioè un partito): quanto più egli fu stratega, tanto più doveva appoggiarsi su forze reali e queste non conosceva e non poteva dominare e dirigere. Così occorre studiare il Gioberti per analizzare quello che in altre note è indicato come «nodo storico del '48-49» e il Risorgimento in generale, ma il punto culturale più importante mi pare sia questo di «Gioberti giacobino», giacobino teorico, s'intende, perché in pratica egli non ebbe modo di applicare le sue dottrine.

L'ultimo paragrafo di un lungo articolo della «Civiltà Cattolica» (2 marzo, 16 marzo 1929), Il Padre Saverio Bettinelli e l'abate Vincenzo Gioberti, può essere interessante come spunto. Sempre in polemica col Gioberti, la «Civiltà Cattolica» ancora una volta dice di voler smentire l'affermazione che i gesuiti del secolo xix siano stati avversari dell'Italia e anzi cospiranti coli'Austria. Secondo la «Civiltà Cattolica»: «Cominciando da Pio IX fino al più semplice prete di contado, l'unità italiana non era avversata da nessuno. Si potrebbe anche dimostrare perentoriamente che all'invito di Pio IX, nel 1848, per una lega italiana e per l'unione politica dell'Italia, chi si oppose fu il solo ministero piemontese. Il clero italiano, e ciò è da porsi fuori di ogni dubbio per chi non voglia negare la luce meridiana, non si oppose all'unità ma la voleva in modo diverso in quanto all'esecuzione. Questa era l'idea di Pio IX, dell'alta gerarchia dei cardinali e dello stesso antico partito conservatore piemontese, capitanato dal conte Solaro della Margarita».

Difende specificatamente i gesuiti dall'accusa di antiunitarismo e austriacantismo contro un articolo di Antonio Bruers pubblicato nella «Stirpe» dell'agosto 1928; il Bruers recensisce sfavorevolmente il libro del prof. U. A. Padovani della Università del S. C., Vincenzo Gioberti e il Cattolicismo, Milano, Soc. Ed. «Vita e Pensiero», 1927, che appunto deve polemizzare col Gioberti per il suo antigesuitismo. Scrive la «Civiltà Cattolica»: «In sentenza definitiva, accertiamo che i gesuiti, come Pio IX, e tutto in generale il clero italiano e l'intero partito conservatore laicale che non era poco, non combatterono mai l'unità in se stessa, ma l'unità violenta come si andava praticando, ossia il modo di attuare, quell'unità che era nel desiderio comune. Oh, che non si può amare la patria se non alla stregua altrui?»

Ricorda poi che «a far porre nell'Indice dei libri proibiti le opere del Gioberti, fu lo stesso re Carlo Alberto», e nota gesuite- scamente: «dunque il re Carlo Alberto avrebbe condannato la politica del Gioberti, cioè la propria»!; ma probabilmente nel momento in cui Carlo Alberto domandava i rigori della Chiesa contro Gioberti, la sua politica era quella di Solaro della Margarita. In ogni modo, è bellissimo il fatto paradossale che oggi i gesuiti possano mettere nel sacco questi scrittorelli tipo Bruers.

Nella prefazione alle Letture del Risorgimento il Carducci scrive: «Staccatosi dalla Giovine Italia nel 1834, tornò a quello che il San- tarosa voleva e chiamava " cospirazione letteraria " ed egli la fece con certa sua filosofia battagliera, che molto alta portava la tradizione italiana, finché usci nell'agone col Primato e predicando la lega dei principi riformatori, capo il pontefice, attrasse le anime timorose e gli ingegni timorosi, attrasse a sé il giovane clero, che alla sua volta traevasi dietro il popolo credente anche delle campagne». In altro punto il Carducci scrive: «...L'abate italiano riformista e mezzo giacobino col Parini, soprannotato col Cesarotti e col Barbieri alla rivoluzione, che s'era fatto col Di Breme banditore di romanticismo e soffiatore nel carbonarismo del '21, che aveva intinto col Gioberti nelle cospirazioni e bandito il Primato d'Italia e il Rinnovamento, che aveva col Rosmini additato le piaghe della Chiesa, che aveva coll'Andreoli e col Tazzoli salito il patibolo...»

 Politica e diplomazia.

Cavour, aneddoto riportato da Ferdinando Martini, Confessioni e ricordi, 1859-1892 (ed. Treves, 1928), pp. 150- 151: per Crispi, il Cavour non doveva essere considerato come un elemento di prima linea nella storia del Risorgimento, ma solo Vittorio Emanuele, Garibaldi e Mazzini. «Il Cavour? Che cosa fece il Cavour? Niente altro che diplomatizzare la rivoluzione...» Il Martini annota: «Non osai dirlo, ma pensai: "E scusate se è poco!"» Mi pare che il Crispi e il Martini seguano due ordini diversi di pensieri. Il Crispi intende riferirsi agli elementi attivi, ai «creatori» del movimento nazionale-rivoluzione, cioè ai politici propriamente detti. Pertanto la diplomazia è per lui attività subalterna e subordinata: il diplomatico non crea nuovi nessi storici, ma lavora a fare sanzionare quelli che il politico ha creato: Talleyrand non può essere paragonato con Napoleone.

In realtà, il Crispi ha torto, ma non per ciò che il Martini crede. Il Cavour non fu solo un diplomatico, ma anzi essenzialmente un politico «creatore», solo che il suo modo di «creare» non era da rivoluzionario, ma da conservatore: e in ultima analisi non il programma di Mazzini e di Garibaldi, ma quello di Cavour trionfò, né si capisce come il Crispi ponga accanto Vittorio Emanuele a Mazzini e Garibaldi; Vittorio Emanuele sta con Cavour, e attraverso Vittorio Emanuele Cavour domina Garibaldi e anche Mazzini. È certo che Crispi non avrebbe potuto riconoscere giusta questa analisi per «l'affetto che l'intelletto lega»; la sua passione settaria era ancora viva, come rimase viva sempre in lui, pur nelle mutazioni radicali delle sue posizioni politiche. D'altronde, neanche il Martini avrebbe mai ammesso (almeno in pubblico) che Cavour sia stato essenzialmente un «pompiere», o si potrebbe dire «un termidoriano preventivo», poiché né in Mazzini né in Garibaldi né in Crispi stesso c'era la stoffa dei giacobini del Comitato di Salute pubblica. Come ho notato altrove, Crispi era un temperamento giacobino, non un «giacobino politico-economico», cioè non aveva un programma il cui contenuto potesse essere paragonato a quello dei giacobini e neppure la loro feroce intransigenza.

D'altronde: c'erano in Italia alcune delle condizioni necessarie per un movimento come quello dei giacobini francesi? La Francia da molti secoli era una nazione egemonica: la sua autonomia internazionale era molto ampia. Per l'Italia niente di simile: essa non aveva nessuna autonomia internazionale. In tali speciali condizioni si capisce che la diplomazia fosse concretamente superiore alla politica creativa, fosse la «sola politica creativa». Il problema non era di suscitare una nazione che avesse il primato in Europa e nel mondo, o uno Stato unitario che strappasse alla Francia l'iniziativa civile, ma di rappezzare uno Stato unitario purchessia. I grandi programmi di Gioberti e di Mazzini dovevano cedere al realismo politico e all'empirismo di Cavour. Questa assenza di «autonomia internazionale» è la ragione che spiega molta storia italiana e non solo delle classi borghesi. Si spiega anche così il perché di molte vittorie diplomatiche italiane, nonostante la debolezza relativa politico-militare: non è la diplomazia italiana che vince come tale, ma si tratta di abilità nel saper trarre partito dall'equilibrio delle forze internazionali: è un'abilità subalterna, tuttavia fruttuosa. Non si è forti per sé, ma nessun sistema internazionale sarebbe il più forte senza l'Italia.

A proposito del giacobinismo di Crispi è anche interessante il capitolo Guerra di successione dello stesso libro del Martini (pp. 209-224, specialm. p. 224). Dopo la morte di Depretis, i settentrionali non volevano la successione di Crispi siciliano. Già presidente del Consiglio, Crispi si sfoga col Martini, proclama il suo unitarismo, ecc., afferma che non esistono più regionalismi, ecc. Sembra questa una dote positiva di Crispi, mi pare invece giusto il giudizio contrario. La debolezza di Crispi fu appunto di legarsi strettamente al gruppo settentrionale, subendone il ricatto e di avere sistematicamente sacrificato il Meridione, cioè i contadini, cioè di non aver osato, come i giacobini osarono di posporre agli interessi corporativi del piccolo gruppo dirigente immediato, gli interessi storici della classe futura, risvegliandone le energie latenti con una riforma agraria. Anche il Crispi è un termidoriano preventivo, cioè un termidoriano che non prende il potere quando le forze latenti sono state messe in movimento, ma prende il potere per impedire che tali torze si scatenino: «un fogliame» era nella Rivoluzione francese un termidoriano in anticipo, ecc.

Sarà da ricercare attentamente se nel periodo del Risorgimento sia apparso almeno qualche accenno di un programma in cui l'unità della struttura economico-sociale italiana sia stata vista in questo modo concreto: ho l'impressione che stringi, stringi, il solo Cavour ebbe una concezione di tal genere, cioè nel quadro della politica nazionale, pose le classi agrarie meridionali come fattore primario, classi agrarie e non contadini naturalmente, cioè blocco agrario diretto da grandi proprietari e grandi intellettuali. Sarà da studiare perciò il volume speciale dei carteggi cavourriani dedicato alla Qui- stìone meridionale. (Altro da studiare a questo riguardo: Giuseppe Ferrari, prima e dopo il '60; dopo il '60 i discorsi parlamentari sui fatti del Mezzogiorno).

Cosa significa nel libro di Alberto Cappa sul Cavour, l'insistere contìnuamente nell'affermazione che la politica del Cavour rappresenta il «giusto mezzo» ? Perché «giusto» P Forse perché ha trionfato? La «giustezza» della politica del Cavour non può essere teorizzata a priori; non può trattarsi di una «giustezza» razionale, assoluta, ecc. In realtà non si può parlare di una funzione da intermediario in Cavour, ciò che diminuirebbe la sua figura e il suo significato. Cavour segui una sua linea, che trionfò non perché mediasse opposti estremismi, ma perché rappresentava lesola politica giusta dell'epoca, appunto per l'assenza di validi e intelligenti (politicamente) competitori. Nel Cappa il «giusto mezzo» rassomiglia molto al «giusto prezzo», all'«ottimo governo», ecc. In realtà avviene che sfugge poi al Cappa quale sia stata la reale politica cavourriana, la politica indipendente, originale, ecc., qualunque sia il giudizio che di essa si possa dare per i risultati che ha avuto nell'epoca successiva, cioè anche se si debba dire che essa fu molto meno «nazionale» di quanto il Cappa, secondo i figurini ufficiali, vuol far credere, anche se essa fu una lotta vittoriosa contro le forze popolari (senza «giusto mezzo») ciò che contribuì a costituire uno Stato angusto, settario, senza possibilità d'azione internazionale perché sempre minacciato dall'insorgere di forze sovvertitrici elementari, che appunto Cavour non volle «nazionalizzare».

Che il Cavour abbia, come metodo di propaganda politica, assunto una posizione da «giusto mezzo» non ha che un significato secondario. In realtà, le forze storiche cozzano tra loro per il loro pro- gramma «estremo». Che, tra queste forze, una assuma la funzione di «sintesi» superatrice degli opposti estremismi è una necessità dialettica, non un metodo aprioristico. E saper trovare volta per volta il punto di equilibrio progressivo (nel senso del proprio programma) è l'arte del politico, non del giusto mezzo, ma proprio del politico che ha una linea molto precisa e di grande prospettiva per l'avvenire. Il Cappa può essere portato come esempio nell'esposizione della forma italiana del «proudhonismo» giobertiano, dell'antidialettica, dell'opportunismo empirico e di corta vista.

Il peso relativamente preponderante che i fattori internazionali ebbero nello sviluppo del Risorgimento risulta dal particolare realismo del Cavour, che consisteva nel valutare in una misura che sembrava mostruosa al Partito d'Azione l'attività diplomatica. Quando Crispi credendo di diminuire l'importanza di Cavour disse a Ferdinando Martini, che Cavour non aveva fatto altro che «diplomatizzare la rivoluzione» in realtà egli, senza volerlo, riconosceva l'indispensabilità del Cavour. Ma, per Crispi, ammettere che organizzare i rapporti internazionali fosse stato più importante ed essenziale che organizzare i rapporti interni, sarebbe stato impossibile: avrebbe significato ammettere che le forze interne nazionali erano troppo deboli in confronto dei còmpiti da risolvere e che, specialmente, esse si erano mostrate impari alla loro missione e politicamente impreparate e abuliche (abuliche nel terreno della volontà politica concreta e non del giacobinismo formale). Perciò il «realismo di Cavour» è un argomento ancora da trattare, senza pregiudizi e senza retorica.

 Il trasformismo.

Il trasformismo come una delle forme storiche di ciò che è stato già notato sulla «rivoluzione-restaurazione» o «rivoluzione passiva», a proposito del processo di formazione dello Stato moderno in Italia. Il trasformismo come «documento storico reale» della reale natura dei partiti che si presentavano come estremisti nel periodo dell'azione militante (Partito d'Azione). Due periodi di trasformismo: i) dal '60 al '900 trasformismo «molecolare», cioè le singole personalità politiche elaborate dai partiti democratici d'opposizione si incorporano singolarmente nella «classe politica» conservatrice-moderata (caratterizzata dall'avversione a ogni intervento delle masse popolari nella vita statale, a ogni riforma organica che sostituisce un'«egemonia» al crudo «dominio» dittatoriale); 2) dal '900 in poi trasformismo di interi gruppi di estrema che passano al campo moderato (il primo avvenimento è la formazione del partito nazionalista, coi gruppi ex sindacalisti e anarchici, che culmina nella guerra libica in un primo tempo e nell'interventismo in un secondo tempo). Tra i due periodi è da porre il periodo intermedio — I890-'900 — in cui una massa di intellettuali passa nei partiti di sinistra, così detti socialistici, ma in realtà puramente democratici.

Guglielmo Ferrerò nel suo opuscolo Reazione (Torino, Roux edit., 1895) così rappresenta il movimento degli intellettuali italiani degli anni novanta (il brano lo riporto dagli Elementi di scienza politica di G. Mosca, 2a ed., 1923): «C'è sempre un certo numero di individui che hanno bisogno di appassionarsi per qualche cosa di non immediato, di non personale e di lontano; a cui la cerchia dei propri affari, della scienza, dell'arte, non basta per esaurire tutta l'attività dello spirito. Che rimaneva a costoro in Italia se non l'idea socialista? Veniva da lontano, ciò che seduce sempre; era abbastanza complessa ed abbastanza vaga, almeno in certe sue parti, per soddisfare ai bisogni morali così differenti dei molti proseliti; da un lato portava uno spirito vasto di fratellanza e di internazionalismo, che corrisponde ad un reale bisogno moderno; dall'altro era improntata a un metodo scientifico che rassicurava gli spiriti educati alle scuole sperimentali. Dato ciò, nessuna meraviglia che un gran numero di giovani si sia inscritto in un partito dove almeno, se c'era pericolo di incontrare qualche umile uscito dal carcere o qualche modesto repris de justice, non si poteva incontrare nessun panamista, nessun speculatore della politica, nessun appaltatore di patriottismo, nessun membro di quella banda di avventurieri senza coscienza e senza pudore, che, dopo aver fatto l'Italia, l'hanno divorata. La più superficiale osservazione dimostra subito che in Italia non esistono quasi in nessun posto le condizioni economiche e sociali per la formazione di un vero e grande partito socialista; inoltre, un partito socialista dovrebbe trovare logicamente il nerbo delle sue reclute nelle classi operaie, non nella borghesia, come era accaduto in Italia. Ora se un partito socialista si sviluppava in Italia in condizioni si sfavorevoli e in un modo così illogico, si è perché rispondeva più che altro a un bisogno morale di un certo numero di giovani, nauseati di tanta corruzione, bassezza e viltà; e che si sarebbero dati al diavolo pur di sfuggire ai vecchi partiti imputriditi sino nelle midolla delle ossa».

Un punto da vedere è la funzione che ha svolto il Senato in Italia come il terreno per il trasformismo «molecolare». Il Ferrari, nonostante il suo repubblicanesimo federalista, europeo, entra nel Senato, e così tanti altri fino al 1914; ricordare le affermazioni comiche del senatore Pullé, entrato nel Senato con Gerolamo Gatti e altri bissolatiani.

 L'Italia meridionale.

Studiare le origini e le cause della convinzione che esistè nel Mazzini che l'insurrezione nazionale dovesse cominciare o fosse più facile da fare incominciare nell'Italia meridionale (fratelli Bandiera, Pisacane). Pare che tale convincimento fosse anche nel Pisacane, che pure, come scrive Mazzini13 aveva un «concetto strategico della guerra d'insurrezione». Si trattò di un desiderio (contrapporre l'iniziativa popolare meridionale a quella monarchica piemontese?) diventato convinzione o aveva delle origini razionali e positive? E quali potevano essere?

Riallacciare questa convinzione a quella di Bakùnin e dei primi internazionalisti, già prima del '70: ma in Bakunin rispondeva a una concezione politica dell'efficienza sovvertitrice di certe classi sociali. Questo concetto strategico della guerra d'insurrezione nazionale del Pisacane dove occorre ricercarlo? Nei suoi saggi politico-militari, in tutti gli scritti che ci rimangono di lui e in più negli scritti di Mazzini (in tutti gli scritti, ma specialmente nell'Epistolario) e nei vari atteggiamenti pratici del Pisacane.

Uno dei momenti più importanti mi pare debba essere l'avversione di Pisacane a Garibaldi durante la Repubblica Romana. Perché tale avversione? Era Pisacane avverso in linea di principio alla dittatura militare? Oppure l'avversione era di carattere politico-ideologico, cioè era contro il fatto che tale dittatura sarebbe stata meramente militare, con un vago contenuto nazionale, mentre Pisacane voleva alla guerra d'insurrezione dare oltre al contenuto nazionale anzi e specialmente un contenuto sociale? In ogni caso, l'opposizione di Pisacane fu un errore nel caso specifico, perché non si trattava di una dittatura vaga e indeterminata, ma di una dittatura in regime di repubblica già instaurata, con un governo mazziniano in funzione (sarebbe stato un governo di salute pubblica, di carattere più strettamente militare, ma forse appunto i pregiudizi ideologici di avversione alle esperienze della Rivoluzione francese ebbero gran parte nel determinare tale avversione).

Il popolo nel Risorgimento.

1) Vedere il volume di Niccolò Rodolico, Il popolo agli inizi del Risorgimento, Firenze, Le Monnier, in-8°, pp. 312.

2) Nello statuto della società segreta Esperia, fondata dai fratelli Bandiera, si legge: «Non si facciano, se non con sommo riguardo, affiliazioni tra la plebe, perché dessa quasi sempre per natura è imprudente e per bisogno corrotta. È da rivolgersi a preferenza ai ricchi, ai forti, e ai dotti, negligendo i poveri, i deboli, gli ignoranti». Occorre raccogliere tutte le osservazioni che nel primo periodo del Risorgimento (prima del '48) si riferiscono a questo argomento e vedere l'origine di questa differenza. Una causa è da ricercare nei processi che seguirono il tentativo di rivolta militare del '21 in Piemonte e altrove: differenza di atteggiamento tra soldati e ufficiali; i soldati, o tradirono spesso o si mostrarono molto deboli dinanzi ai giudizi nell'istruzione dei processi.

Atteggiamento di Mazzini prima e dopo l'insurrezione del febbraio 1853 a Milano; dopo il 1853 sono da vedere le sue istruzioni a Crispi per la fondazione di sezioni del Partito d'Azione in Portogallo, nelle quali si raccomanda di mettere un operaio in ogni comitato di tre.

Nel «Marzocco» del 30 settembre 1928 è riassunto, col titolo La Serenissima meritava di morire?, un opuscolo miscellaneo di Antonio Pilot (Stabil. Grafico U. Bortoli), in cui si estraggono, da diari e memorie di Veneziani, opinioni sulla caduta della Repubblica Veneta.

La responsabilità del patriziato era idea fissa delle classi popolari. L'ultimo doge, Lodovico Manin racconta in certe sue Memorie: «La cosa arrivò al grado che, passando un giorno per una corti- cella a San Marcuola, una donna conoscendomi, disse: " Almeno venisse la peste che così moriressimo noi altre, ma morirebbero anche questi ricchi che ci hanno venduti e che sono cagione che moriamo di freddo e di fame "». Il vecchio desistette dalla passeggiata e si ritirò. Il Bertucci Balbi-Valier in un sonetto intitolato I nobili veneti del /797 non tradirono la Repubblica, scrive: «No, no xe vero, i nobili tradio - No ga la patria nel novantasete» (ciò che significa quanto profonda fosse la convinzione e come si cercasse di combatterla).

Nella «Lettura» del 1928, Pietro Nurra pubblica il diario inedito di un combattente delle Cinque Giornate di Milano, il mantovano Giovanni Romani, stabilitosi una prima volta a Milano nel 1838 come cuoco alla «Croce d'Oro» in contrada delle Asole, poi, dopo aver girato quasi tutta l'Italia, ritornato a Milano, alla vigilia delle Cinque Giornate, all'osteria del «Porto di Mare» in Santo Stefano. Il diario si compone di una specie di taccuino di 199 pagine numerate, delle quali 186 scritte con calligrafia grossolana, e dicitura scorrettissima.

Mi pare molto interessante perché i popolani non sono solid scrivere di questi diari, tanto più ottant'anni fa. Perciò è da studiare per il suo valore psicologico e storico: forse si trova nel Museo del Risorgimento a Milano.

Confrontare Le più belle pagine di Carlo Bini, raccolte da Dino Provenzal. Giovanni Rabizzani, in uno studio su Lorenzo Sterne in Italia, ricorda il Bini e rileva un notevole contrasto tra i due: lo Sterne più incline alle analisi sentimentali e meno scettico, il Bini più attento ai problemi sociali, tanto che il Rabizzani lo chiama addirittura socialista. In ogni caso è da notare che Livorno fu delle pochissime città che nel 1848-49 vide un profondo movimento popolare, un intervento di masse plebee che ebbe vasta ripercussione in tutta la Toscana e che mosse a spavento i gruppi moderati o conservatori (ricordare le Memorie di G. Giusti). Il Bini è da vedere perciò, accanto al Montanelli, nel quadro del 1849 toscano.

Confrontare nella rivista «Irpinia» (di Avellino) del luglio 1931 (è riassunta nel «Marzocco» del 26 luglio 1931) la lettura di Nicola Valdimiro Testa sugli avvenimenti svoltisi nella provincia di Avellino negli anni 1848-49. La narrazione pare molto interessante per intendere quali fossero i sentimenti popolari e quali correnti di passioni attraversassero le grandi masse, che però non avevano un indirizzo e un programma e si esaurivano in tumulti e atti brutali di violenza disordinata. Partecipazione di alcuni elementi del clero a queste passioni di massa che spiegano l'atteggiamento di alcuni preti verso le così dette «Bande di Benevento». Si verifica la solita confusione tra «comunismo» e «riforma agraria» che il Testa (da ciò che appare nel riassunto del «Marzocco») non sa criticamente presentare (come del resto non sanno fare la maggior parte dei ricercatori di archivio e degli storici). Sarebbe interessante raccogliere la bibliografia di tutte le pubblicazioni come queste per gli anni del Risorgimento.

Paulo Fambri scrisse un articolo sui volontari nella «Nuova Antologia» (o «Antologia») del 1867(?). Nella «Nuova Antologia» del 1° agosto 1928, L'archivio inedito di Paulo Fambri (di A. F. Guidi) è riportata una lettera diretta al Fambri del generale C. di Robilant che era direttore della Scuola superiore di Guerra di Torino (la lettera è del 31 gennaio 1868) in cui si approva la prima parte dell'articolo del Fambri. Il di Robilant aggiunge che dei 21.000 volontari del 1859 solo la metà o poco più era presente nelle file combattenti (cfr. i giudizi di Plon-Plon contro i volontari in questa stessa guerra del '59).

Nel numero del 24 maggio di «Gioventù Fascista» (riportato dal «Corriere della Sera» del 21 maggio 1932), è pubblicato questo messaggio dell'on. Balbo: «Le creazioni originali della storia e della civiltà italiana, dal giorno in cui risorse dal letargo secolare ad oggi, sono dovute al volontariato della giovinezza. La santa canaglia di Garibaldi, l'eroico interventismo del '15, le Camicie Nere della Rivoluzione fascista hanno dato unità e potenza all'Italia, hanno fatto, di un popolo disperso, una nazione. Alle generazioni che oggi si affacciano alla vita sotto il segno del Littorio, il còm- pito di dare al secolo nuovo il nome di Roma».

L'affermazione che l'Italia moderna è stata caratterizzata dal volontariato è giusta (si può aggiungere l'arditismo di guerra), ma occorre notare che il volontariato, pur nel suo pregio storico, che non può essere diminuito, è stato un surrogato dell'intervento popolare, e in questo senso è una soluzione di compromesso con la passività delle masse nazionali. Volontariato-passività, vanno insieme più di quanto si creda. La soluzione col volontariato è una soluzione d'autorità, dall'alto, legittimata formalmente dal consenso, come suol dirsi, dei «migliori». Ma per costruire storia duratura non bastano i «migliori», occorrono le più vaste e numerose energie nazionali-popolari.

 Italia reale e Italia legale.

La formula escogitata dai clericali dopo il '70 per indicare il disagio politico nazionale risultante dalla contraddizione tra la minoranza dei patriotti decisi e attivi e la maggioranza avversa (clericali e legittimisti — passivi e indifferenti). A Torino si pubblicò fino a qualche anno prima della guerra un quotidiano (poi settimanale), diretto da un avv. Scala e intitolato «L'Italia reale», organo del più nero clericalismo.

Come sorse la formula, da chi fu escogitata e quale giustificazione teorico-politico-morale ne fu data? Occorre fare una ricerca nella «Civiltà Cattolica» e nei primi numeri della stessa «Italia reale» di Torino, che negli ultimi tempi si ridusse ad essere un insulso libello di sagrestia. La formula è felice dal punto di vista «demagogico», perché esisteva di fatto ed era fortemente sentito un netto distacco tra lo Stato (legalità formale) e la società civile (realtà di fatto), ma la società civile era tutta e solamente nel «clericalismo» ? Intanto la società civile era qualcosa di informe e di caotico e tale rimase per molti decenni; fu possibile pertanto allo Stato di dominarla, superando volta a volta i conflitti che si manifestavano in forma sporadica, localistica, senza nesso e simultaneità nazionale. Il clericalismo non era quindi neanche esso l'espressione della società civile, perché non riusci a darle un'organizzazione nazionale ed efficiente, nonostante esso fosse un'organizzazione forte e formalmente compatta: non era politicamente omogenea ed aveva paura delle stesse masse che in un certo senso controllava. La formula politica del non expe- dit fu appunto l'espressione di tale paura ed incertezza: il boicottaggio parlamentare, che pareva un atteggiamento aspramente intransigente, in realtà era l'espressione dell'opportunismo più piatto. L'esperienza politica francese aveva dimostrato che il suffragio universale e il plebiscito a base larghissima, in date circostanze, poteva essere un meccanismo favorevolissimo alle tendenze reazionarie e clericali (cfr. a questo proposito le ingenue osservazioni di Jacques Bainville nella sua Storia di Francia, quando rimprovera al legittimismo di non aver avuto fiducia nel suffragio universale, come invece aveva fatto Na- poleonc III); ma il clericalismo italiano sapeva di non essere l'espres sione reale della società civile e che un possibile successo sarebbe stato effimero e avrebbe determinato l'attacco frontale da parte delle energie nazionali nuove, evitato felicemente nel 1870. Esperienza del suffragio allargato nel 1882 e reazione crispino-massonica. Tuttavia, l'atteggiamento clericale di mantenere «statico» il dissidio tra Stato e società civile era obbiettivamente sovversivo; e ogni nuova organizzazione espressa dalle forze che intanto maturavano nella società, poteva servirsene come terreno di manovra per abbattere il regime costituzionale monarchico: perciò la reazione del '98 abbatté insieme e socialismo e clericalismo, giudicandoli giustamente ugualmente «sovversivi» e obbiettivamente alleati. Da questo momento comincia pertanto una nuova polidca vaticanesca, con l'abbandono di fatto del non expedit anche nel campo parlamentare (il Comune era tradizionalmente considerato società civile, e non Stato) e ciò permette l'introduzione del suffragio universale, il patto Gendloni e finalmente la fondazione nel 1919 del Partito Popolare. La quistione dell'esistenza di un'Italia reale e un'Italia legale si ripresenta in altra forma, negli avvenimenti del '24-26, fino alla soppressione di tutti i partiti politici, con l'affermazione dell'essersi ormai raggiunta l'identità tra il reale e il legale, perché la società civile in tutte le sue forme era inquadrata da una sola organizzazione politica di partito e statale.