Antonio Gramsci
Il Risorgimento
Einaudi, Torino 1949
I. Riforma e
Rinascimento
Rinascimento, Risorgimento, Riscossa (Q. XII)
Nel linguaggio storico- politico italiano è da notàre
tutta una serie di espressioni, legate strettamente al modo
tradizionale di concepire la storia della nazione e della cultura
italiana, che è difficile e talvolta impossibile di tradurre
nelle lingue straniere. Cosi abbiamo il gruppo «Rinascimento,
Rinascita (Rinascenza, francesismo)», termini che sono ormai
entrati nel circolo della cultura europea e mondiale, perché,
se il fenomeno indicato ebbe il massimo splendore in Italia, non fu
però ristretto all'Italia.
Nasce nell'800 il termine «risorgimento» in senso
più strettamente nazionale e politico, accompagnato dalle
altre espressioni di «riscossa nazionale» e
«riscatto nazionale»: tutti esprimono il concetto del
ritorno a uno stato di cose già esistito nel passato o di
«ripresa» offensiva («riscossa») delle
energie nazionali disperse intorno a un nucleo militante e
concentrato, o di emancipazione da uno stato di servitù per
ritornare alla primitiva autonomia («riscatto»). Sono
difficili da tradurre appunto perché strettamente legate alla
tradizione letteraria-nazionale di una continuità essenziale
della storia svoltasi nella penisola italiana, da Roma
all'unità dello Stato moderno, per cui si concepisce la
nazione italiana «nata» o «sorta» con Roma,
si pensa che la cultura greco-romana sia «rinata», la
nazione sia «risorta», ecc. La parola
«riscossa» è del linguaggio militare francese, ma
poi è stata legata alla nozione di un organismo vivo che cade
in letargia e si riscuote, sebbene non si possa negare che le
è rimasto un po' del primitivo senso militare.
A questa serie puramente italiana si possono collegare altre
espressioni corrispondenti: per es. il termine, di origine francese
e indicante un fatto prevalentemente francese,
«Restaurazione».
La coppia «formare e riformare», perché, secondo
il significato assunto storicamente dalla parola, una cosa
«formata» si può continuamente
«riformare» senza che tra la formazione e la riforma sia
implicito il concetto di una parentesi catastrofica o letargica,
ciò che invece è implicito per
«rinascimento» e «restaurazione». Si vede da
ciò che i cattolici sostengono che la Chiesa romana è
stata più volte riformata dall'interno, mentre nel concetto
protestante di «Riforma» è implicita l'idea di
rinascita e restaurazione del cristianesimo primitivo, soffocato dal
romanesimo. Nella cultura laica si parla perciò di Riforma e
Controriforma, mentre i cattolici (e specialmente i gesuiti che sono
più accurati e conseguenti anche nella terminologia) non
vogliono ammettere che il Concilio di Trento abbia solamente reagito
al luteranesimo e a tutto il complesso delle tendenze
protestantiche, ma sostengono che si sia trattato di una
«Riforma cattolica» autonoma, positiva, che si sarebbe
verificata in ogni caso. La ricerca della storia di questi termini
ha un significato culturale non trascurabile.
II. IL RISORGIMENTO
L'età del Risorgimento (Q. X)
di Adolfo Omodeo (ed. Principato, Messina): questo libro pare sia
fallito nel suo complesso. Esso è il rifacimento di un
manuale scolastico e del manuale conserva molti caratteri. I fatti
(gli event1) sono semplicemente descritti come pure enunciazioni da
catalogo, senza nessi di necessità storica. Lo stile del
libro è sciatto, spesso irritante; i giudizi sono
tendenziosi, talvolta pare che l'Omodeo abbia una quistione
personale con certi protagonisti della storia (per es. coi giacobini
frances1). Per ciò che si riferisce alla penisola italiana,
pare che l'intenzione dell'Omodeo sarebbe dovuta essere quella di
mostrare che il Risorgimento è fatto essenzialmente italiano,
le cui origini devono trovarsi in Italia e non solo o
prevalentemente negli sviluppi europei della Rivoluzione francese e
dell'invasione napoleonica. Ma questa intenzione non è
attuata in altro modo che nell'iniziare la narrazione dal 1740
invece che dal 1789 o dal 1796 o dal 1815.
Il periodo delle monarchie illuminate non è in Italia un
fatto autoctono, e non è «originale» italiano il
movimento di pensiero connesso (Giannone e i regalist1). La
monarchia illuminata pare possa dirsi la più importante
derivazione politica dell'età del mercantilismo, che annunzia
i tempi nuovi, la civiltà moderna nazionale; ma in Italia
c'è stata un'età del mercantilismo come fenomeno
nazionale? Il mercantilismo avrebbe, se organicamente sviluppato,
rese ancora più profonde e forse definitive, le divisioni in
Stati regionali; lo stato informe e disorganico in cui le diverse
parti d'Italia vennero a trovarsi dal punto di vista economico, la
non formazione di forti interessi costituiti intorno a un forte
sistema mercantilistico-statale permisero o resero più facile
l'unificazione del l'età del Risorgimento.
Pare poi che nella conversione del suo lavoro da manuale scolastico
a libro di cultura generale col titolo di Età del
Risorgimento, l'Omodeo avrebbe dovuto mutarne tutta l'economia (la
struttura), riducendo la parte europea e dilatando la parte
italiana. Dal punto di vista europeo, l'età è quella
della Rivoluzione francese e non del Risorgimento italiano, del
liberalismo come concezione generale della vita e come nuova forma
di civiltà statale e di cultura, e non solo dell'aspetto
«nazionale» del liberalismo. E certo possibile parlare
di un'età del Risorgimento, ma allora occorre restringere la
prospettiva e mettere a fuoco l'Italia e non l'Europa, svolgendo
della storia europea e mondiale solo quei nessi che modificano la
struttura generale dei rapporti di forza internazionali che si
opponevano alla formazione di un grande Stato unitario nella
penisola, mortificando ogni iniziativa in questo senso e
soffocandola in sul nascere e svolgendo la trattazione di quelle
correnti che invece dal mondo internazionale influivano in Italia,
incoraggiandone le forze autonome e locali della stessa natura e
rendendole più valide. Esiste cioè un'età del
Risorgimento nella storia svoltasi nella penisola italiana, non
esiste nella storia dell'Europa come tale: in questa corrisponde
l'età della Rivoluzione francese e del liberalismo (come
è stata trattata dal Croce, in modo manchevole, perché
nel quadro del Croce manca la premessa, la Rivoluzione in Francia e
le guerre successive: le derivazioni storiche sono presentate come
fatti a sé, autonomi, che hanno in sé le proprie
ragioni di essere e non come parte di uno stesso nesso storico, di
cui la Rivoluzione francese e le guerre non possono non essere
elemento essenziale e necessario).
Cosa significa o può significare il fatto che l'Omodeo inizia
la sua narrazione dalla pace di Aquisgrana, che pone termine alla
guerra per la successione di Spagna? L'Omodeo non
«ragiona», non «giustifica» questo suo
criterio metodico, non mostra che esso sia l'espressione di
ciò che un determinato nesso storico europeo è nello
stesso tempo nesso storico italiano, da inserire necessariamente
nello sviluppo della vita nazionale italiana. Ciò invece
può e deve essere «dichiarato». La
personalità nazionale (come la personalità
individuale) è una mera astrazione, se considerata fuori del
nesso internazionale (o sociale). La personalità nazionale
esprime un «distinto» del complesso internazionale,
pertanto è legata ai rapporti internazionali. C'è un
periodo di dominio straniero in Italia, per un certo tempo dominio
diretto, posteriormente di carattere egemonico (o misto, di dominio
diretto e di egemonia). La caduta della penisola sotto la
dominazione straniera nel '500 aveva già provocato una
reazione: quella di indirizzo nazionale-democratico del Machiavelli
che esprimeva nello stesso tempo il rimpianto per la perduta
indipendenza in una determinata forma (quella dell'equilibrio
interno fra gli Stati italiani sotto l'egemonia della Firenze di
Lorenzo il Magnifico) e la volontà iniziale di lottare per
riacquistarla in una forma storicamente superiore, come principato
assoluto sul tipo della Spagna e della Francia. Nel '700
l'equilibrio europeo, Austria-Francia, entra in una fase nuova per
rispetto all'Italia: c'è un indebolimento reciproco delle due
grandi potenze e sorge una terza grande potenza, la Prussia.
Pertanto, le origini del moto del Risorgimento, cioè del
processo di formazione delle condizioni e dei rapporti
internazionali che permetteranno all'Italia di riunirsi in nazione e
alle forze interne nazionali di svilupparsi ed espandersi, non sono
da ricercare in questo o quell'evento concreto registrato sotto una
o altra data, ma appunto nello stesso processo storico per cui
l'insieme del sistema europeo si trasforma. Questo processo intanto
non è indipendente dagli eventi interni della penisola e
dalle forze che in essa hanno la sede. Un elemento importante e
talvolta decisivo dei sistemi europei era sempre stato il Papato.
Nel corso del '700 l'indebolimento della posizione del Papato come
potenza europea è addirittura catastrofico. Con la
Controriforma, il Papato aveva modificato essenzialmente la
struttura della sua potenza: si era alienato le masse popolari, si
era fatto fautore di guerre sterminatrici, si era contuso con le
classi dominanti in modo irrimediabile. Aveva così perduto la
capacità di influire sia direttamente sia indirettamente sui
governi attraverso la pressione delle masse popolari fanatiche e
fanatizzate: è degno di nota che proprio mentre il Bellarmino
elaborava la sua teoria del dominio indiretto della Chiesa, la
Chiesa, con la sua concreta attività, distruggeva le
condizioni di ogni suo dominio, anche indiretto, staccandosi dalle
masse popolari. La politica regalista delle monarchie illuminate
è la manifestazione di questo esautoramento della Chiesa come
potenza europea e quindi italiana, e inizia anch'essa il
Risorgimento, se è vero, come è vero, che il
Risorgimento era possibile solo in funzione di un indebolimento del
Papato sia come potenza europea che come potenza italiana,
cioè come possibile forza che riorganizzasse gli Stati della
penisola sotto la sua egemonia. Ma tutti questi sono elementi
condizionanti; una dimostrazione, storicamente valida, che
già nel '700 si fossero costituite in Italia delle forze che
tendessero concretamente a fare della penisola un organismo politico
unitario e indipendente non è stata ancora fatta.
Quando incomincia il Risorgimento?
Quando si deve porre l'inizio del movimento storico che ha preso il
nome di Risorgimento italiano? Le risposte sono diverse e
contraddittorie, ma in generale esse si raggruppano in due serie: 1)
di quelli che vogliono sostenere l'origine autonoma del movimento
nazionale italiano e addirittura sostengono che la Rivoluzione
francese ha falsificato la tradizione italiana e l'ha deviata; 2) e
di quelli che sostengono che il movimento nazionale italiano
è strettamente dipendente dalla Rivoluzione francese e dalle
sue guerre.
La quistione storica è turbata da interferenze sentimentali e
politiche e da pregiudizi di ogni genere. E già difficile far
capire al senso comune che un'Italia come quella che si è
formata nel '70 non era mai esistita prima e non poteva esistere: il
senso comune è portato a credere che ciò che oggi
esiste sia sempre esistito e che l'Italia sia sempre esistita come
nazione unitaria, ma sia stata soffocata da forze estranee, ecc.
Numerose ideologie hanno contribuito a rafforzare questa credenza,
alimentate dal desiderio di apparire eredi del mondo antico, ecc.;
queste ideologie, d'altronde, hanno avuto un ufficio notevole come
terreno di organizzazione politica e culturale, ecc.
Mi pare che bisognerebbe analizzare tutto il movimento storico
partendo da diversi punti di vista, fino al momento in cui gli
elementi essenziali dell'unità nazionale si unificano e
diventano una forza sufficiente per raggiungere lo scopo, ciò
che mi pare avvenga solo dopo il '48. Questi elementi sono negativi
e positivi, nazionali e internazionali. Un elemento abbastanza
antico è la coscienza dell'«unità
culturale» che è esistita fra gli intellettuali
italiani almeno dal 1200 in poi, cioè da quando si è
sviluppata una lingua letteraria unificata (il volgare illustre di
Dante): ma è questo un elemento senza efficacia diretta sugli
avvenimenti storici, sebbene sia il più sfruttato dalla
retorica patriottica, né d'altronde esso coincide o è
l'espressione di un sentimento nazionale concreto e operante. Altro
elemento è la coscienza della necessità
dell'indipendenza della penisola italiana dall'influenza straniera,
molto meno diffuso del primo, ma certo politicamente più
importante e storicamente più fecondo di risultati pratici;
ma anche di questo elemento non deve essere esagerata l'importanza e
il significato e specialmente la diffusione e la profondità.
Questi elementi sono propri di piccole minoranze di grandi
intellettuali, e mai si sono manifestati come espressione di una
diffusa e compatta coscienza nazionale unitaria.
Condizioni per l'unità nazionale: 1) esistenza di un certo
equilibrio delle forze internazionali che fosse la premessa della
unità italiana. Ciò si verificò dopo il 1748,
dopo cioè la caduta della egemonia francese e l'esclusione
assoluta dell'egemonia spagnola e austriaca, ma spari nuovamente
dopo il 1815: tuttavia il periodo dal 1748 al 1815 ebbe una grande
importanza nella preparazione della unità, o meglio per lo
sviluppo degli elementi che dovevano condurre all'unità. Tra
gli elementi internazionali occorre considerare la posizione del
Papato, la cui forza nell'àmbito italiano era legata alla
forza internazionale: il regalismo e il giuseppismo, cioè la
prima affermazione liberale e laica dello Stato, sono elementi
essenziali per la preparazione dell'unità. Da elemento
negativo e passivo, la situazione internazionale diventa elemento
attivo dopo la Rivoluzione francese e le guerre napoleoniche, che
allargano l'interesse politico e nazionale alla piccola borghesia e
ai piccoli intellettuali, che dànno una certa esperienza
militare e creano un certo numero di ufficiali italiani. La formula
«repubblica una e indivisibile» acquista una certa
popolarità e, nonostante tutto, il Partito d'Azione ha
origine dalla Rivoluzione francese e dalle sue ripercussioni in
Italia; questa formula si adatta in «Stato unico e
indivisibile», in monarchia unica e indivisibile o accentrata,
ecc.
L'unità nazionale ha avuto un certo sviluppo e non un altro e
di questo sviluppo fu motore lo Stato piemontese e la dinastia di
Savoia. Occorre perciò vedere quale sia stato lo svolgimento
storico in Piemonte dal punto di vista nazionale. Il Piemonte aveva
avuto interesse dal 1492 in poi (cioè nel periodo dalle
preponderanze straniere) a che ci fosse un certo equilibrio interno
fra gli Stati italiani, come premessa dell'indipendenza (cioè
del non-influsso dei grandi Stati stranier1); naturalmente lo Stato
piemontese avrebbe voluto essere l'egemone in Italia, almeno
nell'Italia settentrionale e centrale, ma non riusci; troppo forte
era Venezia, ecc.
Lo Stato piemontese diventa motore reale dell'unità dopo il
'48, dopo cioè la sconfitta della destra e del centro
politico piemontese e l'avvento dei liberali con Cavour. La Destra:
Solaro della Margarita, cioè i «nazionalisti piemontesi
esclusivisti» o municipalisti (l'espressione
«municipalismo» dipende dalla concezione di una
unità italiana latente e reale, secondo la retorica
patriottica); il Centro: Gioberti e i neoguelfi. Ma i liberali di
Cavour non sono dei giacobini nazionali: essi in realtà
superano la Destra del Solaro, ma non qualitativamente,
perché concepiscono l'unità come allargamento dello
stato piemontese e del patrimonio della dinastia, non come movimento
nazionale dal basso, ma come conquista regia. Elemento più
propriamente nazionale è il Partito d'Azione.
Sarebbe interessante e necessario raccogliere tutte le affermazioni
sulla quistione dell'origine del Risorgimento in senso proprio
cioè del moto che portò all'unità territoriale
e politica dell'Italia, ricordando che molti chiamano Risorgimento
anche il risveglio delle forze «indigene» italiane dopo
il Mille, cioè il moto che portò ai Comuni e al
Rinascimento. Tutte queste quistioni sulle origini hanno la loro
ragione per il fatto che l'economia italiana era molto debole, e il
capitalismo incipiente: non esisteva una forte e diffusa classe di
borghesia economica, ma invece molti intellettuali e piccoli
borghesi, ecc. Il problema non era tanto di liberare le forze
economiche già sviluppate dalle pastoie giuridiche e
politiche antiquate, quanto di creare le condizioni generali
perché queste forze economiche potessero nascere e
svilupparsi sul modello degli altri paesi. La storia contemporanea
offre un modello per comprendere il passato italiano: esiste oggi
una coscienza culturale europea ed esiste una serie di
manifestazioni di intellettuali e uomini politici che sostengono la
necessità di una unione europea: si può anche dire che
il processo storico tende a questa unione e che esistono molte forze
materiali che solo in questa unione potranno svilupparsi: se fra x
anni questa unione sarà realizzata la parola
«nazionalismo» avrà lo stesso valore archeologico
che l'attuale «municipalismo».
Altro fatto contemporaneo che spiega il passato è la
«non-resistenza e non-cooperazione» sostenuta da Gandhi:
esse possono far capire le origini dei cristianesimo e le ragioni
del suo sviluppo nell'Impero romano. Il tolstoismo aveva le stesse
origini nella Russia zarista, ma non divenne una «credenza
popolare» come il gan- dhismo: attraverso Tolstoi, anche
Gandhi si riallaccia al cristianesimo primitivo, rivive in tutta
l'India una forma di cristianesimo primitivo, che il mondo cattolico
e protestante non riesce neppure più a capire. Il rapporto
tra gandhismo e Impero inglese è simile a quello tra
cristianesimo-ellenismo e Impero romano. Paesi di antica
civiltà, disarmati e tecnicamente (militarmente) inferiori,
dominati da paesi tecnicamente sviluppati (i Romani avevano
sviluppato la tecnica governativa e militare), sebbene come numero
di abitanti trascurabili.
Che molti uomini che si credono civili siano dominati da pochi
uomini ritenuti meno civili ma materialmente invincibili, determina
il rapporto cristianesimo primitivo-gandhismo. La coscienza
dell'impotenza materiale di una gran massa contro pochi oppressori
porta alla esaltazione dei valori puramente spirituali, ecc., alla
passività, alla non-resistenza, alla non-cooperazione, che
però di fatto è una resistenza diluita e penosa, il
materasso contro la pallottola.
Anche i movimenti religiosi popolari del Medioevo, francescanesimo,
ecc., rientrano in uno stesso rapporto di impotenza politica delle
grandi masse di fronte a oppressori poco numerosi, ma agguerriti e
centralizzati: gli «umiliati e offesi» si trincerano nel
pacifismo evangelico primitivo, nella nuda «esposizione»
della loro «natura umana» disconosciuta e calpestata —
nonostante le affermazioni di fraternità in Dio-padre e di
uguaglianza, ecc. Nella storia delle eresie medioevali Francesco ha
una sua posizione individuale ben distinta: egli non vuole lottare,
cioè egli non pensa neppure a una qualsiasi lotta, a
differenza degli altri innovatori (Valdo, ecc., e gli stessi
francescan1). La sua posizione è ritratta in un aneddoto
raccontato dagli antichi testi francescani. «Ad un teologo
domenicano che gli chiede come si debba intendere il verbo di
Ezechia: " Se non manifesterete all'empio la sua iniquità, io
chiederò conto a voi della sua anima ", così risponde
Francesco: " Il servo di Dio deve comportarsi nella sua vita e nel
suo amore alla virtù così che con la luce del buon
esempio e l'unzione della parola riesca di rimprovero a tutti gli
empi; e così avverrà, credo, che lo splendore della
vita di lui e l'odore della sua buona fama annunzieranno ai tristi
la loro iniquità... "» (Cfr. Antonio Vise ardi,
Francesco d'Assisi e la legge della povertà evangelica, nella
«Nuova Italia» del gennaio 1931).
Le origini del Risorgimento.
Le ricerche sulle origini del moto nazionale del Risorgimento sono
quasi sempre viziate dalla tendenziosità politica immediata,
non solo da parte degli scrittori italiani, ma anche da parte di
quelli stranieri, specialmente francesi (o sotto l'influsso della
cultura francese). C'è una «dottrina» francese
sulle origini del Risorgimento, secondo la quale la nazione italiana
deve la sua fortuna alla Francia, specialmente ai due Napoleoni, e
questa dottrina ha anche il suo aspetto polemico-negativo: i
nazionalisti monarchici (Bainville) muovono ai due Napoleoni (e alle
tendenze democratiche in genere suscitate dalla Rivoluzione) il
rimprovero di aver indebolito la posizione relativa della Francia in
Europa con la loro politica «nazionalitaria»,
cioè di essere stati contro la tradizione e gli interessi
della nazione francese, rappresentati dalla monarchia e dai partiti
di destra (clerical1), sempre antitaliani, e che consisterebbero
nell'avere per vicini conglomerati di staterelli, come erano la
Germania e l'Italia nel '700.
In Italia le quistioni «tendenziali e tendenziose» poste
a questo proposito sono: 1) la tesi democratica francofila, secondo
cui il moto è dovuto alla Rivoluzione francese e ne è
una derivazione diretta, che ha determinato la tesi opposta; 2) la
Rivoluzione francese col suo intervento nella penisola ha interrotto
il movimento «veramente» nazionale, tesi che ha un
doppio aspetto: a) quello gesuitico (per i quali i sanfedisti erano
il solo elemento «nazionale» rispettabile e legittimo),
e b) quello moderato che si riferisce piuttosto ai principi
riformatori, alle monarchie illuminate. Qualcuno poi aggiunge: c) il
movimento riformatore era stato interrotto per il panico suscitato
dagli avvenimenti di Francia, quindi l'intervento degli eserciti
francesi in Italia non interruppe il movimento indigeno, ma anzi ne
rese possibile la ripresa e il compimento. Molti di questi elementi
sono svolti in quella letteratura a cui si accenna sotto la rubrica
Interpretazioni del Risorgimento italiano, letteratura che se ha un
significato nella storia della cultura politica, non ne ha che
scarso in quello della storiografia.
In un articolo assai notevole di Gioacchino Volpe, Una scuola per la
storia dell'Italia moderna1, è scritto: «Tutti lo
sanno: per capire il "Risorgimento" non basta spingersi al 1815 e
neppure al 1796, l'anno in cui Napoleone irruppe nella penisola e vi
suscitò la tempesta. Il "Risorgimento", come ripresa di vita
italiana, come formazione di una nuova borghesia, come
consapevolezza crescente di problemi non solo municipali e regionali
ma nazionali, come sensibilità a certe esigenze ideali,
bisogna cercarlo parecchio prima della Rivoluzione: è anche
esso sintomo, uno dei sintomi, di una rivoluzione in marcia, non
solo francese, ma, in certo senso, mondiale. Tutti egualmente sanno
che la storia del Risorgimento non si studia solo coi documenti
italiani, e come fatto solamente italiano, ma nel quadro della vita
europea, trattisi di correnti di cultura, di trasformazioni
economiche, di situazioni internazionali nuove, che sollecitano gli
italiani a nuovi pensieri, a nuove attività, a nuovo assetto
politico». In queste parole del Volpe è riassunto
ciò che sarebbe voluto essere il fine dcirOmodeo nel suo
libro, ma che nell'Omodeo rimane sconnesso ed esteriore. Si ha
l'impressione che sia per il titolo, sia per l'impostazione
cronologica, il libro dell'Omodeo abbia solo voluto rendere un
omaggio «polemico» alla tendenziosità storica e
non alla storia, per ragioni di «concorrenza»
opportunistica poco chiare e in ogni modo poco pregevoli.
Nel '700, mutate le condizioni relative della penisola nel quadro
dei rapporti europei, sia per ciò che riguarda la pressione
egemonica delle grandi potenze che non potevano permettere il
sorgere di uno Stato italiano unitario, sia per ciò che
riguarda la posizione di potenza politica (in Italia) e culturale
(in Europa) del Papato (e tanto meno le grandi potenze europee
potevano permettere uno Stato unificato italiano sotto la supremazia
del Papa, cioè permettere che la funzione culturale della
Chiesa e la sua diplomazia, già abbastanza ingombranti e
limitatrici del potere statale nei paesi cattolici, si rafforzassero
appoggiandosi a un grande Stato territoriale e a un esercito
corrispondente), muta anche l'importanza e il significato della
tradizione letterario-retorica esaltante il passato romano, la
gloria dei Comuni e del Rinascimento, la funzione universale del
Papato italiano. Questa atmosfera culturale italiana era rimasta
fino allora indistinta e generica; essa giovava specialmente al
Papato, formava il terreno ideologico della potenza papale nel
mondo, l'elemento discriminativo per la scelta e l'educazione del
personale ecclesiastico e laico-ecclesiastico, di cui il Papato
aveva bisogno per la sua organizzazione pratico-amministrativa, per
centralizzare l'organismo chiesastico e il suo influsso, per tutto
l'insieme dell'attività politica, filosofica, giuridica,
pubblicistica, culturale che costituiva la macchina per l'esercizio
del potere indiretto, dopo che, nel periodo precedente la Riforma,
era servita all'esercizio del poter dirtto o di quelle funzioni di
potere diretto che potevano concretamente attuarsi nel sistema di
rapporti di forza interni di ogni singolo paese cattolico.
Nel '700 si inizia un processo di distinzione in questa corrente
tradizionale: una parte sempre più coscientemente (per
programma esplicito) si connette con l'istituto del Papato come
espressione di una funzione intellettuale (etico-politica di
egemonia intellettuale e civile) dell'Italia nel mondo e
finirà con l'esprimere il Primato giobertiano (e il
neoguelfismo, attraverso una serie di movimenti più o meno
equivoci, come il sanfedismo e il primo periodo del lamennesismo), e
successivamente con il concretarsi in forma organica, sotto la
direzione immediata dello stesso Vaticano, del movimento di Azione
cattolica, in cui la funzione dell'Italia come nazione è
ridotta al minimo (all'apporto di quella parte del personale
centrale vaticano che è italiano, ma non può mettere
in prima linea, come una volta, il suo essere italiano) e si
sviluppa una parte «laica», anzi in opposizione al
Papato, che cerca rivendicare una funzione di primato italiano e di
missione italiana nel mondo indipendentemente dal Papato. Questa
seconda parte, che non può mai riferirsi a un organismo
ancora così potente come la Chiesa romana e manca pertanto di
un punto unico di centralizzazione, non ha la stessa compattezza,
omogeneità, disciplina dell'altra, ha varie linee spezzate di
sviluppo e si può dire confluisca nel mazzinianismo.
Ciò che è importante storicamente è che nel
'700 questa tradizione cominci a disgregarsi, per meglio
concretarsi, e a muoversi con una ìntima dialettica:
significa che tale tradizione letterario-retorica sta diventando un
fermento politico, il suscitatore e l'organizzatore del terreno
ideologico in cui le forze politiche effettive riusciranno a
determinare lo schieramento, sia pure tumultuario, delle più
grandi masse popolari necessarie per raggiungere certi fini,
riusciranno a mettere in iscacco e lo stesso Vaticano e le altre
forze di reazione esistenti nella penisola accanto al Papato. Che il
movimento liberale sia riuscito a suscitare la forza
cattolico-liberale e a ottenere che lo stesso Pio IX si ponesse, sia
pure per poco, nel terreno del liberalismo (quanto fu sufficiente
per disgregare l'apparato politico ideologico del cattolicismo e
togliergli la fiducia in se stesso) fu il capolavoro politico del
Risorgimento e uno dei punti più importanti di risoluzione
dei vecchi nodi che avevano impedito fino allora di pensare
concretamente alla possibilità di uno Stato unitario
italiano2.
Alberto Pingaud, autore di un libro su Bonaparte, président
de la République italienne e che sta preparando un altro
libro su Le premier Royaume d'Italie (che è già stato
pubblicato quasi tutto sparsamente in diversi periodic1), è
tra quelli che «collocano nel 1814 il punto di partenza e in
Lombardia il focolare del movimento politico che ebbe termine nel
1870 con la presa di Roma». Baldo Peroni, che nella
«Nuova Antologia» del 16 agosto 1932 passa in rassegna
questi scritti ancora sparsi del Pingaud, osserva: «Il nostro
Risorgimento — inteso come risveglio politico — comincia quando
l'amor di patria cessa di essere una vaga aspirazione sentimentale o
un motivo letterario e diventa pensiero consapevole, passione che
tende a tradursi in realtà mediante un'azione che si svolge
con continuità e non s'arresta dinanzi ai più duri
sacrifici. Ora, siffatta trasformazione è già avvenuta
nell'ultimo decennio del Settecento, e non soltanto in Lombardia, ma
anche a Napoli, in Piemonte, in quasi tutte le regioni d'Italia. I
"patrioti" che tra l'89 e il '96 sono mandati in esilio o salgono il
patibolo, hanno cospirato, oltre che per instaurare la repubblica,
anche per dare all'Italia indipendenza e unità; e negli anni
successivi è l'amore dell'indipendenza che ispira e anima
l'attività di tutta la classe politica italiana, sia che
collabori coi francesi e sia che tenti dei moti insurrezionali
allorché appare evidente che Napoleone non vuole concedere la
libertà solennemente promessa». Il Peroni, in ogni
modo, non ritiene che il moto italiano sia da ricercarsi prima del
1789, cioè afferma una dipendenza del Risorgimento dalla
Rivoluzione francese, tesi che non è accettata dalla
storiografia nazionalistica. Tuttavia, appare vero quanto il Peroni
afferma, se si considera il fatto specifico e di importanza
decisiva, del primo aggruppamento di elementi politici che si
svilupperà fino a formare l'insieme dei partiti che saranno i
protagonisti del Risorgimento. Se nel corso dei '700 cominciano ad
apparire e a consolidarsi le condizioni obiettive, internazionali e
nazionali, che fanno dell'unificazione nazionale un còmpito
storicamente concreto (cioè non solo possibile, ma
necessario), è certo che solo dopo 1*89 questo còmpito
diventa consapevole in gruppi di cittadini disposti alla lotta e al
sacrificio. La Rivoluzione francese, cioè, è uno degli
eventi europei che maggiormente operano per approfondire un
movimento già iniziato nelle «cose», rafforzando
le condizioni positive (oggettive e soggettive) del movimento stesso
e funzionando come elemento di aggregazione e centralizzazione delle
forze umane disperse in tutta la penisola e che altrimenti avrebbero
tardato di più a «incentrarsi» e comprendersi tra
loro.
Su questo stesso argomento è da vedere l'articolo di
Gioacchino Volpe, Storici del Risorgimento a congresso,
nell'«Educazione Fascista» del luglio 1932. Il Volpe
informa sul 20° Congresso della Società Nazionale per la
Storia del Risorgimento, tenuto a Roma nel maggio-giugno 1932. La
Storia del Risorgimento fu prima concepita prevalentemente come
«storia del patriottismo italiano». Poi essa
cominciò ad approfondirsi, «ad essere. vista come vita
italiana del secolo xix e quasi dissolta nel quadro di quella vita,
presa tutta in un processo di trasformazione, coordinazione,
unificazione, ideali e vita pratica, cultura e politica, interessi
privati e pubblici». Dal secolo XIX si risali al secolo xvm e
si videro nessi prima nascosti, ecc. Il secolo xvm «fu visto
dall'angolo visuale del Risorgimento, anzi come Risorgimento
anch'esso; con la sua borghesia ormai nazionale: con il suo
liberalismo che investe la vita economica e la vita religiosa e poi
quella politica, e che non è tanto un "principio" quanto una
esigenza di produttori-, con quelle prime concrete aspirazioni ad
"una qualche forma di unità" (Genoves1), per la insufficienza
dei singoli Stati, ormai riconosciuta, a fronteggiare, con la loro
ristretta economia, la invadente economia di paesi tanto più
vasti e forti. Nello stesso secolo, si delineava anche una nuova
situazione internazionale. Entravano cioè nel pieno giuoco
forze politiche europee interessate ad un assetto più
indipendente e coerente e meno staticamente equilibrato della
penisola italiana. Insomma, una "realtà" nuova italiana ed
europea, che dà significato e valore anche al nazionalismo
dei letterati, riemerso dopo il cosmopolitismo dell'età
precedente».
Il Volpe non accenna specificamente al rapporto nazionale e
internazionale rappresentato dalia Chiesa, che anch'essa subisce nel
secolo xvm una radicale trasformazione: lo scioglimento della
Compagnia di Gesù in cui culmina il rafforzarsi dello Stato
laico contro l'ingerenza ecclesiastica, ecc. Si può dire che
oggi, per la storiografia del Risorgimento, dato il nuovo influsso
esercitato dopo il Concordato, il Vaticano è diventato uiia
delle maggiori, se non la maggiore, forze di remora scientifica e di
«maltusianismo» metodico. Precedentemente, accanto a
questa forza, che è stata sempre molto rilevante,
esercitavano una funzione restrittiva dell'orizzonte storico la
monarchia e la paura del separatismo. Molti lavori storici non
furono pubblicati per questa ragione (per es., qualche libro di
storia della Sardegna del barone Manno, l'episodio Bollea durante la
guerra, ecc.). I pubblicisti repubblicani si erano specializzati
nella storia «libelli- stica», sfruttando ogni opera
storica che ricostruisce scientificamente gli avvenimenti dei
Risorgimento: ne consegui una limitazione delle ricerche, un
prolungarsi della storiografia apologetica, la impossibilità
di sfruttare gli archivi, ecc.; insomma, tutta la meschinità
della storiografìa del Risorgimento quando la si paragoni a
quella della Rivoluzione francese. Oggi le preoccupazioni
monarchiche e separatiste si sono andate assottigliando, ma sono
cresciute quelle vaticanesche e clericali. Una gran parte degli
attacchi alla Storia d'Europa del Croce hanno avuto evidentemente
questa origine; così si spiega anche l'interruzione
dell'opera di Francesco Salata, Per la storia diplomatica della
Questione Romana, il cui primo volume è del 1929 ed è
rimasto senza seguito.
Lo studio di Pietro Silva, Il problema italiano nella diplomazia
europea del XVIII secolo, presentato al 20° Congresso della
Società Nazionale per la Storia del Risorgimento, è
così riassunto dal Volpe (nell'articolo citato): «Il
secolo xvm vuol dire influenza di grandi potenze in Italia, ma anche
loro contrasti: e, perciò, progressiva diminuzione del
dominio diretto straniero e sviluppo di due forti organismi statali
a nord e a sud. Col trattato di Aranjuez tra Francia e Spagna, 1752,
e subito dopo, col ravvicinamento Austria-Francia, si inizia una
stasi di quarant'anni per i due regni, pur con molti sforzi di
rompere il cerchio austro-francese, tentando approcci con Prussia,
Inghilterra, Russia. Ma il quarantennio segna anche lo sviluppo di
quelle forze autonome che, con la Rivoluzione e con la rottura del
sistema austro-francese, scenderanno in campo per una soluzione in
senso nazionale e unitario del problema italiano. Ed ecco le riforme
ed i principi riformatori, oggetto, gli ultimi tempi, di molti
studi, per il regno di Napoli e di Sicilia, per la Toscana, Parma e
Piacenza, Lombardia».
Carlo Morandi (Le riforme settecentesche nei risultati della recente
storiografia) ha studiato la posizione delle riforme italiane nel
quadro del riformismo europeo, e il rapporto tra riforme e
Risorgimento. Per il rapporto tra Rivoluzione francese e
Risorgimento il Volpe scrive: «È innegabile che la
Rivoluzione, vuoi come ideologie, vuoi come passioni, vuoi come
forza armata, vuoi come Napoleone, immette elementi nuovi nel flusso
in movimento della vita italiana. Non meno innegabile che l'Italia
del Risorgimento, organismo vivo, assimilando l'assimilabile di quel
che veniva dal di fuori e che, in quanto idee, era un po' anche
rielaborazione altrui di ciò che già si era elaborato
in Italia, reagisce, insieme, ad esso, lo elimina e lo integra, in
ogni modo lo supera. Essa ha tradizioni proprie, mentalità
propria, problemi propri, soluzioni proprie: che son poi la vera e
profonda radice, la vera caratteristica del Risorgimento,
costituiscono la sua sostanziale continuità con l'età
precedente, lo rendono capace alla sua volta di esercitare anche
esso una sua azione su altri paesi: nel modo come tali azioni si
possono, non miracolisticamente ma storicamente, esercitare, entro
il cerchio di popoli vicini e affini».
Queste osservazioni del Volpe non sono sempre esatte: come si
può parlare di «tradizioni, mentalità, problemi,
soluzioni» proprie dell'Italia? O almeno, cosa ciò
significa concretamente? Le tradizioni, le mentalità, i
problemi, le soluzioni erano molteplici, contraddittori, di natura
spesso solo individuale e arbitraria e non erano allora mai visti
unitariamente. Le forze tendenti all'unità erano scarsissime,
disperse, senza nesso tra loro e senza capacità di suscitare
legami reciproci e ciò non solo nel secolo xvih, ma si
può dire fino al 1848. Le forze contrastanti a quelle
unitarie (o meglio tendenzialmente unitarie) erano invece
potentissime, coalizzate, e, specialmente come Chiesa, assorbivano
la maggior parte delle capacità ed energie individuali che
avrebbero potuto costituire un nuovo personale dirigente nazionale,
dando loro invece un indirizzo e un'educazione cosmo-
politico-clericale. I fattori internazionali e specialmente la
Rivoluzione francese, stremando queste forze reazionarie e
logorandole, potenziano per contraccolpo le forze nazionali in se
stesse scarse e insufficienti. È questo il contributo
più importante della Rivoluzione francese, molto difficile da
valutare e definire, ma che si intuisce di peso decisivo nel dare
l'avviata al moto del Risorgimento.
Tra le altre memorie presentate al Congresso è da notare
quella di Giacomo Lumbroso su La reazione popolare contro i Francesi
alla fine del iyoo. Il Lumbroso sostiene che «le masse
popolari, specialmente contadinesche, reagirono non perché
sobillate dai nobili e neppure per amor di quieto vivere (difatti,
impugnarono le armi!) ma, in parte almeno, per un oscuro e confuso
amor patrio o attaccamento alla loro terra, alle loro istituzioni,
alla loro indipendenza (!?): donde il frequente appello al
sentimento nazionale degli Italiani, che fanno i " reazionari ",
già nel 1799» ma la quistione è mal posta
così e piena di equivoci. Intanto non si parla della
«sobillazione» dei preti molto più efficace di
quella dei nobili (che non erano così contrari alle nuove
idee come appare dalla Repubblica partenopea); e poi cosa significa
la parentesi ironica del Volpe secondo il quale pare non si possa
parlare di amore del quieto vivere quando si impugnano le armi? La
contraddizione è solo verbale: «quieto vivere»
è inteso in senso politico di misoneismo e conservatorismo e
non esclude per nulla la difesa armata delle proprie posizioni
sociali. Inoltre la qui- stione dell'atteggiamento delle masse
popolari non può essere impostata indipendentemente da quella
delle classi dirigenti, perché le masse popolari possono
insorgere per ragioni immediate e contingenti contro
«stranieri» invasori in quanto nessuno ha loro insegnato
a conoscere e seguire un indirizzo politico diverso da quello
localistico e ristretto. Le reazioni spontanee (in quanto lo sono)
delle masse popolari possono solo servire a indicare la
«forza» di direzione delle classi alte; in Italia i
liberali-borghesi trascurarono sempre le masse popolari. Il Volpe
avrebbe dovuto a questo punto prendere posizione a proposito di
quella letteratura sul Risorgimento equivoca e unilaterale, di cui
il Lumbroso ha dato lo specimen più caratteristico: chi
è «patriota» o «nazionale» nel senso
del Lumbroso, l'ammiraglio Caracciolo impiccato dagli Inglesi o il
contadino che insorge contro i Francesi? Domenico Cirillo o Fra
Diavolo? E perché la politica filo-inglese e il denaro
inglese devono essere più nazionali delle idee politiche
francesi?
Interpretazioni del Risorgimento.
Esiste una notevole quantità di interpretazioni, le
più disparate, del Risorgimento. La stessa quantità di
esse è un segno caratteristico della letteratura
storico-politica italiana e della situazione degli studi sul
Risorgimento. Perché un evento o un processo di avvenimenti
storici possa dar luogo a un tal genere di letteratura occorre
pensare: che esso sia poco chiaro e giustificato nel suo sviluppo
per la insufficienza delle forze «intime» che pare lo
abbiano prodotto, per la scarsità degli elementi oggettivi
«nazionali» ai quali fare riferimento, per la
inconsistenza e gelati- nosità dell'organismo studiato (e
infatti spesso si è sentito accennare al
«miracolo» del Risorgimento). Né può
giustificare una simile letteratura la scarsezza dei documenti
(difficoltà di ricerche negli archivi, ecc.), poiché,
in tal caso, l'intero corso dello svolgimento potrebbe essere
documento di se stesso: anzi è appunto evidente che la
debolezza organica di un complesso «vertebrato» in
questo corso di svolgimento è la origine di questo sfrenarsi
del «soggettivismo» arbitrario, spesso bizzarro e
strampalato. In generale si può dire che il significato
dell'insieme di queste interpretazioni è di carattere
politico immediato e ideologico e non storico. Anche la loro portata
na zionale è scarsa, sia per la troppa tendenziosità,
sia per l'assenza di ogni apporto costruttivo, sia per il carattere
troppo astratto, spesso bizzarro e romanzato. Si può notare
che tale letteratura fiorisce nei momenti più caratteristici
di crisi politico-sociale, quando il distacco tra governanti e
governati si fa più grave e pare annunziare eventi
catastrofici per la vita nazionale; il panico si diffonde tra certi
gruppi intellettuali più sensibili e si moltiplicano i conati
per determinare una riorganizzazione delle forze politiche
esistenti, per suscitare nuove correnti ideologiche nei logori e
poco consistenti organismi di partito e per esalare sospiri e gemiti
di disperazione e di nero pessimismo.
Una classificazione razionale di questa letteratura sarebbe
necessaria e piena di significato. Per ora si può fissare
provvisoriamente qualche punto di riferimento: 1) un gruppo di
interpretazioni in senso stretto, come può essere quella
contenuta nella Lotta politica in Italia e negli altri scritti di
polemica politico-culturale di Alfredo Oriani, che ne ha determinato
tutta una serie attraverso gli scritti di Mario Missiroli; come
quelle di Piero Gobetti e di Guido Dorso; 2) un gruppo di carattere
più sostanziale e serio, con pretese di serietà e
rigore storiografico, come quelle del Croce, del Solmi, del
Salvatorelli; 3) le interpretazioni di Curzio Malaparte (sull'Italia
Barbara, sulla lotta contro la Riforma protestante, ecc.), di Carlo
Curdo (L'eredità del Risorgimento, Firenze, La Nuova Italia,
1931, p. 114), ecc.
Occorre ricordare gli scritti di F. Montefredini (confrontare il
saggio del Croce in proposito nella Letteratura della nuova Italia)
fra le «bizzarrie» e quelli di Aldo Ferrari (in volumi e
volumetti e in articoli della «Nuova Rivista Storica»,
come bizzarrie e romanzo nel tempo stesso; così il volumetto
di Vincenzo Cardarelli, Parliamo dell'Italia (ed. Vallecchi, 1931).
Un altro gruppo importante è rappresentato da libri come
quello di Gaetano Mosca, Teorica dei governi e governo parlamentare,
pubblicato la prima volta nel 1883 e ristampato nel 1925 (Milano,
Soc. An. Istituto Editoriale Scientifico, in-8°, p. 301), come
il libro di Pasquale Turiello, Governo e governati-, di Leone Carpi,
L'Italia vivente-, di Luigi Zinil, Dei criteri e dei modi di
governo-, di Giorgio Arcoleo, Il Gabinetto nei governi
parlamentari-, di Marco Minghetti, I partiti politici e la ingerenza
loro nella giustizia e nell'amministrazione-, libri di stranieri
come quello del Laveleye, Lettere d'Italia-, del von Löhe, La
nuova Italia e anche del Brächet, L'Italie qu'on voit et
l'Italie qu'on ne voit pas, oltre ad articoli della «Nuova
Antologia» e della «Rassegna Settimanale» (del
Sonnino), di Pasquale Villari, di R. Bonghi, di G. Palma ecc., fino
all'articolo famoso del Sonnino nella «Nuova Antologia»,
Torniamo allo Statuto!
Questa letteratura è una conseguenza della caduta della
Destra storica, dell'avvento al potere della così detta
Sinistra e delle innovazioni «di fatto» introdotte nel
regime costituzionale per avviarlo a una forma di regime
parlamentare. In gran parte sono lamentele, recriminazioni, giudizi
pessimistici e catastrofici sulla situazione nazionale e a tale
fenomeno accenna il Croce nei primi capitoli della sua Storia
d'Italia dal 1870 al 1915; a questa manifestazione si contrappone la
letteratura degli epigoni del Partito d'Azione (tipico il libro
postumo dell'abate Luigi Anelli, stampato recentemente, con note e
commenti, da Arcangelo Ghisler1) sia in volumi che in opuscoli e in
articoli di rivista, compresi i più recenti pubblicisti del
partito repubblicano.
Si può notare questo nesso tra le varie epoche di fioritura
di tale letteratura pseudo-storica e pseudo-critica: 1) letteratura
dovuta ad elementi conservatori, furiosi per la caduta della Destra
e della «consorteria» (cioè per la diminuita
importanza nella vita statale di certi gruppi di grandi proprietari
terrieri e dell'aristocrazia, che di una sostituzione di classe non
si può parlare), fegatosa, biliosa, acrimoniosa, senza
elementi costruttivi, senza riferimenti storici a una tradizione
qualsiasi, perché nel passato non esiste nessun punto di
riferimento reazionario che possa essere proposto per una
restaurazione con un certo pudore e qualche dignità: nel
passato ci sono i vecchi regimi regionali e le influenze del Papa e
dell'Austria. L'«accusa» fatta al regime parlamentare di
non essere «nazionale» ma copiato da esemplari stranieri
rimane una vuota recriminazione senza costrutto, che nasconde solo
il panico per un anche piccolo intervento delle masse popolari nella
vita dello Stato; il riferimento a una «tradizione»
italiana di governo è necessariamente vaga e astratta
perché una tale tradizione non ha prospettive storicamente
apprezzabili: in tutto il passato non è mai esistita una
unità territoriale-statale italiana, la prospettiva
dell'egemonia papale (propria del Medioevo fino al periodo del
dominio straniero) è già stata travolta col
neoguelfismo, ecc.3
Questa letteratura reazionaria precede quella del gruppo
Oriani-Missiroli, che ha un significato più
popolare-nazionale, e quest'ultima precede quella del gruppo
Gobetti-Dorso, che ha ancora un altro significato più
attuale. In ogni modo, anche queste due nuove ten- denzc mantengono
un carattere astratto e letterario. Uno dei punti più
interessanti trattati da esse è il problema della mancanza di
una Ritorma religiosa in Italia come quella protestante, problema
che è posto in modo meccanico ed esteriore e ripete uno dei
motivi che guidano il Masaryk nei suoi studi di storia russa4.
L'insieme di questa letteratura ha importanza
«documentaria» per i tempi in cui è apparsa. I
libri dei «destri» dipingono la corruzione politica e
morale nel periodo della Sinistra al potere, ma le pubblicazioni
degli epigoni del Partito d'Azione non presentano come migliore il
periodo di governo della Destra. Risulta che non c'è stato
nessun cambiamento essenziale nel passaggio della Destra alla
Sinistra: il marasma in cui si trova il paese non è dovuto al
regime parlamentare (che rende solo pubblico e notorio ciò
che prima rimaneva nascosto o dava luogo a pubblicazioni clandestine
libel- listiche), ma alla debolezza e inconsistenza organica della
classe dirigente e alla grande miseria e arretratezza del paese.
Politicamente la situazione è assurda: a destra stanno i
clericali, il partito del Sillabo, che nega in tronco tutta la
civiltà moderna e boicotta lo Stato legale, non solo
impedendo che si costituisca un vasto partito conservatore ma
mantenendo il paese sotto l'impressione della precarietà e
insicurezza del nuovo Stato unitario; nel centro stanno tutte le
gamme liberali, dai moderati ai repubblicani, sui quali operano
tutti i ricordi degli odi del tempo delle lotte e che si dilaniano
implacabilmente; a sinistra, il paese misero, arretrato, analfabeta
esprime in forma sporadica, discontinua, isterica, una seria di
tendenze sovversive-anarcoidi, senza consistenza e indirizzo
politico concreto, che mantengono uno stato febbrile senza avvenire
costruttivo. Non esistono «partiti economici» ma gruppi
di ideologi déclassés di tutte le classi, galli che
annunziano un sole che mai vuole spuntare.
I libri del gruppo Mosca-Turiello cominciarono a essere rimessi in
voga negli anni precedenti la guerra (si può vedere nella
«Voce» il richiamo continuo al Turiello) e, il libro
giovanile del Mosca fu ristampato nel 1925 con qualche nota
dell'autore per ricordare che si tratta di idee del 1883 e che
l'autore nel '25 non è più d'accordo con lo scrittore
ventiquattrenne del 1883. La ristampa del libro del Mosca è
uno dei tanti episodi dell'incoscienza e del dilettantismo politico
dei liberali nel primo e secondo dopoguerra. Del resto, il libro
è rozzo ineondito, scritto affrettatamente da un giovane che
vuole «distinguersi» nel suo tempo con un atteggiamento
estremista e con parole grosse e spesso triviali in senso
reazionario. I concetti politici del Mosca sono vaghi e ondeggianti,
la sua preparazione filosofica è nulla (e tale è
rimasta in tutta la carriera letteraria del Mosca), i suoi principi
di tecnica politica sono anch'essi vaghi e astratti e hanno
carattere piuttosto giuridico. Il concetto di «classe
politica» la cui affermazione diventerà il centro di
tutti gli scritti di scienza politica del Mosca, è di una
labilità estrema e non è ragionato né
giustificato teoricamente. Tuttavia, il libro del Mosca è
utile come documento. L'autore vuole essere spregiudicato per
programma, non avere peli sulla lingua e così finisce per
mettere in vista molti aspetti della vita italiana del tempo che
altrimenti non avrebbero trovato documentazione. Sulla burocrazia
civile e militare, sulla polizia ecc., il Mosca offre dei quadri
talvolta di maniera, ma con una sostanza di verità (per es.,
sui sottufficiali dell'esercito, sui delegati di pubblica sicurezza
ecc.). Le sue osservazioni sono specialmente valevoli per la
Sicilia, per l'esperienza diretta del Mosca di quell'ambiente. Nel
1925 il Mosca aveva mutato punto di vista e prospettive, il suo
materiale era sorpassato, tuttavia egli ristampò il libro per
vanità letteraria, pensando di immunizzarlo con qualche
noterella palinodica5.
Tutto il lavorio di interpretazione del passato italiano e la serie
di costruzioni ideologiche e di romanzi storici che ne sono derivati
è prevalentemente legato alla «pretesa» di
trovare una unità nazionale, almeno di fatto, in tutto il
periodo da Roma ad oggi (e spesso anche prima di Roma, come nel caso
dei «Pelasgi» del Gioberti e in altri più
recenti). Come è nata questa pretesa, come si è
mantenuta e perché persiste tuttora? È un segno di
forza o di debolezza? E' il riflesso di formazioni sociali nuove,
sicure di sé e che cercano e si creano titoli di
nobiltà nel passato, oppure è invece il riflesso di
una torbida «volontà di credere», un elemento di
fanatismo (e di fanatizzazione) ideologico, che deve appunto
«risanare» le debolezze di struttura e impedire un
temuto tracollo? Quest'ultima pare la giusta interpretazione, unita
al fatto della eccessiva importanza (relativamente alle formazioni
economiche) degli intellettuali, cioè dei piccoli borghesi in
confronto delle classi economiche arretrate e politicamente
incapaci. Realmente l'unità nazionale è sentita come
aleatoria, perché forze «selvagge», non
conosciute con precisione, elementarmente distruttive, si agitano
continuamente alla sua base. La dittatura di ferro degli
intellettuali e di alcuni gruppi urbani con la proprietà
terriera mantiene la sua compattezza solo sovraeccitando i suoi
elementi militanti con questo mito di fatalità storica,
più forte di ogni manchevolezza e di ogni inettitudine
politica e militare. È su questo terreno che all'adesione
organica delle masse popolari-nazionali allo Stato si sostituisce
una selezione di «volontari» della «nazione»
concepita astrattamente. Nessuno ha pensato che appunto il problema
posto dal Machiavelli col proclamare la necessità di
sostituire milizie nazionali ai mercenari avventizi e infidi, non
è risolto finché anche il «volontarismo»
non sarà superato dal fatto «popolare-nazionale»
di massa, poiché il volontarismo è soluzione
intermedia, equivoca, altrettanto pericolosa che il mercenarismo.
Il modo di rappresentare gli avvenimenti storici nelle
interpretazioni ideologiche della formazione italiana si potrebbe
chiamare «storia feticistica»: per essa infatti
diventano protagonisti della storia «personaggi»
astratti e mitologici. Nella Lotta politica dell'Oriani si ha il
più popolare di questi schemi mitologici, quello che ha
partorito una più lunga serie di figli degeneri. Vi troviamo
la Federazione, L'Unità, la Rivoluzione, L'Italia, ecc., ecc.
Nell'Oriani è chiara una delle cause di questo modo di
concepire la storia per figure mitologiche. Il canone critico che
tutto lo sviluppo storico è documento di se stesso, che il
presente illumina e giustifica il passato viene mec- canicizzato ed
esteriorizzato e ridotto a una legge deterministica di
rettilineità e di «unilinearità» (anche
perché l'orizzonte storico viene ristretto ai confini
geografici nazionali e l'evento avulso dal complesso della storia
universale, dal sistema dei rapporti internazionali cui invece
è necessariamente saldato). Il problema di ricercare le
origini storiche di un evento concreto e circostanziato, — la
formazione dello Stato moderno italiano nel secolo xix — viene
trasformato in quello di vedere questo Stato, come Unità o
come Nazione o genericamente come Italia, in tutta la storia
precedente così come il pollo deve esistere nell'uovo
fecondato.
Per la trattazione di questo argomento sono da vedere le
osservazioni critiche di Antonio Labriola negli Scritti vari (pp.
487-90, pp. 317-442 passim e nel primo dei suoi Saggi a pp. 50-52).
Su questo punto è anche da vedere il Croce nella Storia della
Storiografia, II, pp. 227-28 della ia edizione, e in tutta questa
opera lo studio dell'origine «sentimentale e pratica» e
la «critica impossibilità» di una «storia
generale d'Italia». Altre osservazioni connesse a queste sono
quelle di Antonio Labriola a proposito di una storia generale del
cristianesimo, che al Labriola sembrava inconsistente come tutte le
costruzioni storiche che assumono a soggetto «enti»
inesistenti (cfr. Saggi, p. 113).
Una reazione concreta nel senso indicato dal Labriola si può
studiare negli scritti storici (e anche politici) del Salvemini, il
quale non vuol sapere di «guelfi» e
«ghibellini», uno partito della nobiltà e
dell'Impero e l'altro del popolo e del Papato, perché egli
dice di conoscerli solo come «partiti locali»,
combattenti per ragioni affatto locali, che non coincidevano con
quelle del Papato e dell'Impero.
Nella prefazione al suo volume sulla Rivoluzione francese si
può vedere teorizzato questo atteggiamento del Salvemini con
tutte le esagerazioni antistoriche che porta con sé6:
«L'innumerevole varietà degli eventi
rivoluzionari» si suole attribuire in blocco a un ente
«Rivoluzione», invece di «assegnare ciascun fatto
all'individuo o ai gruppi di individui reali, che ne furono
storicamente autori». Ma se la storia si riducesse solo a
questa ricerca, sarebbe ben misera cosa e diventerebbe, tra l'altro,
incomprensibile7.
Scrive Adolfo Omodeo nella «Critica» del 20 luglio 1932,
p. 280: «Ai patrioti [Piero Marconi] offriva la tesi che
allora aveva rimessa in circolazione il Salvemini della storia del
Risorgimento come piccola storia, non sufficientemente irrorata di
sangue; dell'unità, dono più di una propizia fortuna
che meritato acquisto degli italiani; del Risorgimento, opera di
minoranze contro l'apatia della maggioranza. Questa tesi generata
dall'incapacità del materialismo storico di apprezzare in
sé la grandezza morale, senza la statistica empirica delle
bigonce di sangue versato e il computo degli interessi (aveva una
speciosità facile ed era destinata a correre fra tutte le
riviste e i giornali e a far denigrare dagli ignoranti l'opera dura
del Mazzini e del Cavour), questa tesi serviva di base al Marconi
per un'argomentazione moralistica di stile vociano»8.
Ma l'Omodeo stesso, nel suo libro L'età del Risorgimento, non
è riuscito a dare una interpretazione e una ricostruzione che
non sia estrinseca e di parata. Che il Risorgimento sia stato
l'apporto italiano al grande movimento europeo del secolo xix non
significa senz'altro che l'egemonia del movimento fosse in Italia, e
non significa neanche che anche dalla «maggioranza della
minoranza» attiva il movimento stesso non sia stato seguito
con riluttanza e obtorto collo. La grandezza individuale del Cavour
e del Mazzini spicca ancora più grande nella prospettiva
storica come la palma nel deserto. Le osservazioni critiche
dell'Omodeo alla concezione del Risorgimento come «piccola
storia» sono malevole e triviali, né egli riesce a
comprendere come tale concezione sia stata l'unico tentativo un po'
serio di «nazionalizzare» le masse popolari, cioè
di creare un movimento democratico con radici italiane e con
esigenze italiane9. Del resto si può osservare: se la storia
del passato non si può non scrivere con gli interessi e per
gli interessi attuali, la formula critica che bisogna fare la storia
di ciò che il Risorgimento è stato concretamente (se
non significa un richiamo al rispetto e alla completezza della
documentazione) non è insufficiente e troppo ristretta?
Spiegare come il Risorgimento si è fatto concretamente, quali
sono le fasi del processo storico necessario che hanno culminato in
quel determinato evento può essere solo un nuovo modo di
ripresentare la così detta «obiettività»
esterna e meccanica. Si tratta spesso di una rivendicazione
«politica» di chi è soddisfatto e nel processo al
passato vede giustamente un processo al presente, una critica al
presente e un programma per l'avvenire. Il gruppo Croce-Omodeo e C.
sta santificando untuosamente (l'untuosità è
specialmente dell'Omodeo) il periodo liberale; e lo stesso libro
dell'Omodeo, Momenti della vita di guerra, ha questo significato:
mostrare come il periodo giolittiano, tanto «diffamato»,
covasse nel suo intimo un «insuperabile» tesoro di
idealismo e di eroismo. Del resto, queste discussioni, in quanto
sono puramente di metodologia empirica, sono inconcludenti. E se
scrivere storia significa fare storia del presente, è grande
libro di storia quello che nel presente aiuta le forze in isviluppo
a divenire più consapevoli di se stesse e quindi più
concretamente attive e fattive.
Il difetto massimo di tutte queste interpretazioni ideologiche del
Risorgimento consiste in ciò: che esse sono state meramente
ideologiche, cioè che non si rivolgevano a suscitare forze
politiche attuali. Lavori di letterati, di dilettanti, costruzioni
acrobatiche di uomini che volevano fare sfoggio di talento se non
d'intelligenza; oppure rivolte a piccole cricche intellettuali senza
avvenire, oppure scritte per giustificare forze reazionarie in
agguato, imprestando loro intenzioni che non avevano e fini
immaginari e pertanto, piccoli servizi da lacchè
intellettuali (il tipo più compiuto di questi lacchè
è Mario Missiroli) e da mercenari della scienza.
Queste interpretazioni ideologiche della formazione nazionale e
statale italiana sono anche da studiare da un altro punto di vista:
il loro succedersi «acritico», per spinte individuali di
persone più o meno «geniali», è un
documento della primitività dei vecchi partiti politici,
dell'empirismo immediato di ogni azione costruttiva (compresa quello
dello Stato), dell'assenza nella vita italiana di ogni movimento
«vertebrato» che abbia in sé possibilità
di sviluppo permanente e continuo. La mancanza di prospettiva
storica nei programmi di partito, prospettiva costruita
«scientificamente» cioè con serietà
scrupolosa, per basare su tutto il passato i fini da raggiungere
nell'avvenire e da proporre al popolo come una necessità cui
collaborare consapevolmente, ha permesso appunto il fiorire di tanti
romanzi ideologici, che sono in realtà la premessa (il
manifesto) di movimenti politici che sono astrattamente supposti
necessari, ma per suscitare i quali non si fa poi niente di pratico.
È questo un modo di procedere molto utile per facilitare le
«operazioni» di quelle che sono spesso chiamate le
«forze occulte» o «irresponsabili» che hanno
per portavoce i «giornali indipendenti»: esse hanno
bisogno ogni tanto di creare movimenti occasionali di opinione
pubblica, da mantenere accesi fino al raggiungimento di determinati
scopi e da lasciar poi illanguidire e morire. Sono manifestazioni
come «le compagnie di ventura», vere e proprie compagnie
di ventura ideologiche, pronte a servire i gruppi plutocratici o
d'altra natura, spesso appunto fingendo di lottare contro la
plutocrazia, ecc. Organizzatore tipico di tali
«compagnie» è stato Pippo Naldi, discepolo
anch'egli di Oriani e regista di Mario Missiroli e delle sue
improvvisazioni giornalistiche.
Sarebbe utile compilare una bibliografia completa di Mario
Missiroli10. I motivi principali posti in circolazione dal Missiroli
sono: 1) che il Risorgimento è stato una conquista regia e
non un movimento popolare; 2) che il Risorgimento non ha risolto i
problemi dei rapporti tra Stato e Chiesa, motivo che è legato
al primo, poiché «un popolo che non aveva sentito la
libertà religiosa non poteva sentire la libertà
politica. L'ideale dell'indipendenza e della libertà
diventò patrimonio e programma di una minoranza eroica, che
concepì l'unità contro l'acquiescenza delle
moltitudini popolari». La mancanza della Riforma protestante
in Italia spiegherebbe in ultima analisi tutto il Risorgimento e la
storia moderna nazionale. Il Missiroli applica all'Italia il
criterio ermeneutico applicato dal Masaryk alla storia russa
(sebbene il Missiroli abbia detto di accettare la critica di Antonio
Labriola contro il Masaryk storico). Come il Masaryk, Missiroli
(nonostante le sue relazioni con G. Sorel) non comprende che la
«riforma» intellettuale e morale (cioè
«religiosa») di portata popolare nel mondo moderno
c'è stata in due tempi: nel primo tempo con la diffusione dei
principi della Rivoluzione francese, nel secondo tempo con la
diffusione di una serie di concetti ricavati dalla filosofia della
prassi e spesso contaminati con la filosofia dell'illuminismo e poi
dell'evoluzionismo scientifista. Che una tale «riforma»
sia stata diffusa in forme grossolane e sotto torma di opuscoletti
non è istanza valevole contro il suo significato storico: non
è da credere che le masse popolari influenzate dal calvinismo
assorbissero concetti relativamente più elaborati e raffinati
di quelli offerti da questa letteratura di opuscoli: si presenta
invece la quistione dei dirigenti di taie ritorma, della loro
inconsistenza e assenza di carattere forte ed energico.
Né il Missiroli tenta di analizzare il perché la
minoranza che ha cruidato il moto del Risorgimento non sia
«andata al popolo», né
«ideologicamente», assumendo in proprio il programma
democratico che pure giungeva al popolo attraverso le traduzioni dal
francese, né «economicamente» con la riforma
agraria. Ciò che «poteva» avvenire, poiché
il contadiname era quasi tutto il popolo d'allora e la riforma
agraria era un'esigenza fortemente sentita, mentre la Riforma
protestante coincise appunto con una guerra di contadini in Germania
e con conflitti tra nobili e borghesi in Francia, ecc.11.
«L'unità non aveva potuto attuarsi col Papato, di sua
natura universale ed organicamente ostile a tutte le libertà
moderne; ma non era neppure riuscita a trionfare del Papato,
contrapponendo all'idea cattolica un'idea altrettanto universale che
corrispondesse ugualmente alla coscienza individuale e alla
coscienza del mondo rinnovate della Riforma e della
Rivoluzione». Affermazioni astratte e in gran parte prive di
senso. Quale idea universale contrappose al cattolicismo la
Rivoluzione francese? Perché dunque in Francia il moto fu
popolare e in Italia no? La famosa minoranza italiana,
«eroica» per definizione (in questi scrittori,
l'espressione «eroico» ha un significato puramente
«estetico» o retorico e si applica a don Tazzoli come ai
nobili milanesi che strisciarono dinanzi all'imperatore d'Austria,
tanto che fu anche scritto un libro sul Risorgimento come di
rivoluzione «senza eroi», con senso altrettanto
letterario e cartaceo) che condusse il moto unitario, in
realtà si interessava di interessi economici più che
di formule ideali e combatté più per impedire che il
popolo intervenisse nella lotta e la facesse diventare sociale (nel
senso di una riforma agraria) che non contro i nemici
dell'unità. Il Missiroli scrive che il nuovo fattore apparso
nella storia italiana dopo l'unità, il socialismo, è
stato la forma più potente assunta dalla reazione
antiunitaria e antiliberale (ciò che è una
sciocchezza, e non coincide con altri giudizi dello stesso
Missiroli, secondo i quali il socialismo avrebbe immesso nello Stato
le forze popolari prima assenti c indifferent1). Come il Missiroli
stesso scrive: «Il socialismo noli solo non
ringagliardì la passione politica (!?), ma aiutò
potentemente ad estinguerla; fu il partito dei poveri e delle plebi
affamate: le qui- stioni economiche dovevano prendere rapidamente il
sopravvento, i principi politici cedere il campo (!?) agli interessi
materiali»; veniva creata una «remora, lanciando le
masse alle conquiste economiche ed evitando tutte le quistioni
istituzionali». Il socialismo, cioè, fece l'errore
(alla rovescia) della famosa minoranza: questa parlava solo di idee
astratte e di istituzioni politiche, quello trascurò la
politica per la mera economia. E vero che altrove il Missiroli,
proprio per ciò loda i capi riformisti, ecc.; questi motivi
sono di origine orianesca e repubblicana, assunti superficialmente e
senza senso di responsabilità12.
Il moto politico che condusse all'unificazione nazionale e alla
formazione dello Stato italiano deve necessariamente sboccare nel
nazionalismo e nell'imperialismo militaristico? Si può
sostenere che questo sbocco è anacronistico e antistorico
(cioè artificioso e di non lungo respiro); esso è
realmente contro tutte le tradizioni italiane, romane prima,
cattoliche poi. Le tradizioni sono cosmopolitiche. Che il moto
politico dovesse reagire contro le tradizioni e dar luogo a un
nazionalismo da intellettuali può essere spiegato, ma non si
tratta di una reazione organico-popolare. D'altronde, anche nel
Risorgimento, Mazzini e Gioberti cercano di innestare il moto
nazionale nella tradizione cosmopolitica, di creare il mito di una
missione dell'Italia rinata in una nuova Cosmopoli europea e
mondiale, ma si tratta di un mito verbale e retorico, fondato sul
passato e non sulle condizioni del presente, già formate o in
processo di sviluppo (tali miti sono sempre stati un fermento di
tutta la storia italiana, anche la più recente, da Q. Sella a
Enrico Corradini a D'Annunzio). Perché un evento si è
prodotto nel passato non significa che debba riprodursi nel presente
e nell'avvenire; le condizioni di una espansione militare nel
presente e nell'avvenire non esistono e non pare siano in processo
di formazione. L'espansione moderna è di ordine
finanziario-capita- listico. Nel presente Italiano l'elemento
«uomo» o è l’«uomo-capitale» o
è l’«uomo-lavoro». L'espansione italiana
può essere solo dell'uomo-lavoro, e l'intellettuale che
rappresenta l'uomo-lavoro non è quello tradizionale, gonfio
di retorica e di ricordi cartacei del passato. Il cosmopolitismo
italiano tradizionale dovrebbe diventare un cosmopolitismo di tipo
moderno, cioè tale da assicurare le condizioni migliori di
sviluppo all'uomo-lavoro italiano, in qualsiasi parte del mondo egli
si trovi. Non il cittadino del mondo in quanto civis romanus o in
quanto cattolico, ma in quanto produttore di civiltà.
Perciò si può sostenere che la tradizione italiana si
continua dialetticamente nel popolo lavoratore e nei suoi
intellettuali, non nel cittadino tradizionale e nell'intellettuale
tradizionale. Il popolo italiano è quel popolo che
«nazionalmente» è più interessato a una
moderna forma di cosmopolitismo. Non solo l'operaio, ma il contadino
e specialmente il contadino meridionale. Collaborare a ricostruire
il mondo economicamente in modo unitario è nella tradizione
del popolo italiano e della storia italiana, non per dominarlo
egemonicamente e appropriarsi il frutto del lavoro altrui, ma per
esistere e svilupparsi appunto come popolo italiano: si può
dimostrare che Cesare è all'origine di questa tradizione. Il
nazionalismo di marca francese è una escrescenza
anacronistica nella storia italiana, proprio di gente che ha la
testa volta all'indietro come i dannati danteschi. La
«missione» del popolo italiano è nella ripresa
del cosmopolitismo romano e medioevale, ma nella sua forma
più moderna e avanzata. Sia pure nazione proletaria, come
voleva il Pascoli; proletaria come nazione perché è
stato l'esercito di riserva dei capitalisti stranieri, perché
ha dato maestranze a tutto il mondo insieme ai popoli slavi. Appunto
perciò deve inserirsi nel fronte moderno di lotta per
riorganizzare il mondo anche non italiano, che ha contribuito a
creare col suo lavoro, ecc. ecc.
Il problema della direzione politica nella formazione e nello
sviluppo della nazione e dello Stato moderno in Italia.
Tutto il problema della connessione tra le varie correnti politiche
del Risorgimento, cioè dei loro rapporti reciproci e dei loro
rapporti con i gruppi sociali omogenei o subordinati esistenti nelle
varie sezioni (o settor1) storiche del territorio nazionale si
riduce a questo dato di fatto fondamentale; i moderati
rappresentavano un gruppo sociale relativa mente omogeneo, per cui
la loro direzione subi oscillazioni relativamente limitate (e in
ogni caso secondo una linea di sviluppo organicamente progressivo),
mentre il così detto Partito d'Azione non si appoggiava
specificamente a nessuna classe storica e le oscillazioni subite dai
suoi organi dirigenti in ultima analisi si componevano secondo gli
interessi dei moderati; cioè storicamente il Partito d'Azione
fu guidato dai moderati: l'affermazione attribuita a Vittorio
Emanuele II di «avere in tasca» il Partito d'Azione o
qualcosa di simile è praticamente esatta e non solo per i
contatti personali del Re con Garibaldi, ma perché di fatto
il Partito d'Azione fu diretto «indirettamente» da
Cavour e dal Re.
Il criterio metodologico su cui occorre fondare il proprio
esame è questo: che la supremazia di un gruppo sociale si
manifesta in due modi, come «dominio» e come
«direzione intellettuale e morale». Un gruppo sociale
è dominante dei gruppi avversari che tende a
«liquidare» o a sottomettere anche con la forza armata
ed è dirigente dei gruppi affini e alleati. Un gruppo sociale
può e anzi deve essere dirigente già prima di
conquistare il potere governativo (è questa una delle
condizioni principali per la stessa conquista del potere); dopo,
quando esercita il potere e anche se lo tiene fortemente in pugno,
diventa dominante ma deve continuare ad essere anche
«dirigente». I moderati continuarono a dirigere il
Partito d'Azione anche dopo il 1870 e il 1876; e il così
detto «trasformismo» non è stato che
l'espressione parlamentare di questa azione egemonica intellettuale,
morale e politica. Si può anzi dire che tutta la vita statale
italiana dal 1848 in poi è caratterizzata dal trasformismo,
cioè dalla elaborazione di una sempre più larga classe
dirigente nei quadri fissati dai moderati dopo il 1848 e la caduta
delle utopie neoguelfe e federalistiche, con l'assorbimento graduale
ma continuo e ottenuto con metodi, diversi nella loro efficacia,
degli elementi attivi sorti dai gruppi alleati e anche da quelli
avversari e che parevano irreconciliabilmente nemici. In questo
senso la direzione politica è diventata un aspetto della
funzione di dominio, in quanto l'assorbimento delle élites
dei gruppi nemici porta alla decapitazione di questi e al loro
annichilamento per un periodo spesso molto lungo. Dalla politica dei
moderati appare chiaro che ci può e ci deve essere una
attività egemonica anche prima dell'andata al potere e che
non bisogna contare solo sulla forza materiale che il potere
dà per esercitare una direzione efficace: appunto la
brillante soluzione di questi problemi ha reso possibile il
Risorgimento nelle forme e nei limiti in cui esso si è
effettuato, senza «terrore», come
«rivoluzione» senza «rivoluzione», ossia
come rivoluzione passiva» per impiegare un'espressione del
Cuoco in un senso un po' diverso da quello che il Cuoco vuole dire.
In quali torme e con quali mezzi i moderati riuscirono a stabilire
l'apparato (il meccanismo) della loro egemonia intellettuale, morale
e politica? In forme e con mezzi che si possono chiamare
«liberali», cioè attraverso l'iniziativa
individuale, «molecolare», «privata»
(cioè non per un programma di partito elaborato e costituito
secondo un piano precedentemente all'azione pratica e
organizzativa). D'altronde, ciò era «normale»,
date la struttura e la funzione dei gruppi sociali rappresentati dai
moderati, dei quali i moderati erano il ceto dirigente, gli
intellettuali in senso organico.
Per il Partito d'Azione il problema si poneva in modo diverso e
diversi sistemi organizzativi avrebbero dovuto essere impiegati. I
moderati erano intellettuali «condensati» già
naturalmente dall'organicità dei loro rapporti con i gruppi
sociali di cui erano l'espressione (per tutta una serie di essi si
realizzava l'identità di rappresentato e rappresentante,
cioè i moderati erano un'avanguardia reale, organica delle
classi alte, perché essi stessi appartenevano economicamente
alle classi alte: erano intellettuali e organizzatori politici e
insieme capi d'azienda, grandi agricoltori o amministratori di
tenute, imprenditori commerciali e industriali, ecc.). Data questa
condensazione o concentrazione organica, i moderati esercitavano una
potente attrazione, in modo «spontaneo», su tutta la
massa d'intellettuali d'ogni grado esistenti nella penisola allo
stato «diffuso», «molecolare», per le
necessità, sia pure elementarmente soddisfatte, della
istruzione e dell'amministrazione. Si rileva qui la consistenza
metodologica di un criterio di ricerca storico-politica: non esiste
una classe indipendente di intellettuali, ma ogni gruppo sociale ha
un proprio ceto di intellettuali o tende a formarselo; però
gli intellettuali della classe storicamente (e realisticamente)
progressiva, nelle condizioni date, esercitano un tale potere
d'attrazione che finiscono, in ultima analisi, col subordinarsi gli
intellettuali degli altri gruppi sociali e quindi col creare un
sistema di solidarietà fra tutti gli intellettuali con
legami, di ordine psicologico (vanità, ecc.) e spesso di
casta (tecnico- giuridici, corporativi, ecc.). Questo fatto si
verifica «spontaneamente» nei periodi storici in cui il
gruppo sociale dato è realmente progressivo, cioè fa
avanzare realmente l'intera società, soddisfacendo non solo
alle sue esigenze esistenziali, ma ampliando continuamente i propri
quadri per la continua presa di possesso di nuove sfere
d'attività economico-produttiva. Appena il gruppo sociale
dominante ha esaurito la sua funzione, il blocco ideologico tende a
sgretolarsi e allora alla «spontaneità»
può sostituirsi la «costrizione» in forme sempre
meno larvate e indirette, fino alle misure vere e proprie di polizia
e ai colpi di Stato.
Il Partito d'Azione non solo non poteva avere — data la sua natura —
un simile potere di attrazione, ma era esso stesso attratto e
influenzato, sia per l'atmosfera di intimidazione (panico di un '93
terroristico rinforzato dagli avvenimenti francesi del '48-49) che
lo rendeva esitante ad accogliere nel suo programma determinate
rivendicazioni popolari (per es. la riforma agraria), sia
perché alcune delle sue maggiori personalità
(Garibald1) erano, sia pure saltuariamente (oscillazion1), in
rapporto personale di subordinazione coi capi dei moderati.
Perché il Partito d'Azione fosse diventato una forza autonoma
e, in ultima analisi, fosse riuscito per lo meno a imprimere al moto
del Risorgimento un carattere più marcatamente popolare e
democratico (più in là non poteva forse giungere date
le premesse fondamentali del moto stesso), avrebbe dovuto
contrapporre all'attività «empirica» dei moderati
(che era empirica solo per modo di dire poiché corrispondeva
perfettamente al fine) un programma organico di governo che
riflettesse le rivendicazioni essenziali delle masse popolari, in
primo luogo dei contadini: all'attrazione «spontanea»
esercitata dai moderati avrebbe dovuto contrapporre una resistenza e
una controffensiva «organizzate» secondo un piano.
Come esempio tipico di attrazione spontanea dei moderati è da
ricordare il formarsi e lo sviluppo del movimento «cattolico
liberale», che tanto impressionò il Papato e in parte
riuscì a paralizzarne le mosse, demoralizzandolo, in un primo
tempo spingendo troppo a sinistra — con le manifestazioni
liberaleggianti di Pio IX — e in un secondo tempo cacciandolo in una
posizione più destra di quella che avrebbe potuto occupare e
in definitiva determinandone l'isolamento nella penisola e in
Europa. Il Papato ha dimostrato successivamente di aver appreso la
lezione e ha saputo nei tempi più recenti manovrare
brillantemente: il modernismo prima e il popolarismo poi sono
movimenti simili a quello cattolico liberale del Risorgimento,
dovuti in gran parte al potere di attrazione spontanea esercitata
dallo storicismo moderno degli intellettuali laici delle classi alte
da una parte e dall'altra dal movimento pratico della filosofia
della prassi. Il Papato ha colpito il modernismo come tendenza
riformatrice della
Chiesa e della religione cattolica, ma ha sviluppato il popolarismo;
cioè la base economico-sociale del modernismo e oggi con Pio
XI fa di esso il fulcro della sua politica mondiale.
Invece il Partito d'Azione mancò addirittura di un programma
concreto di governo. Esso, in sostanza, fu sempre, più che
altro, un organismo di agitazione e propaganda al servizio dei
moderati. I dissidi e i conflitti interni del Partito d'Azione, gli
odi tremendi che Mazzini suscitò contro la sua persona e la
sua attività da parte dei più gagliardi uomini
d'azione (Garibaldi, Felice Orsini, ecc.), furono determinati dalla
mancanza di una ferma direzione politica. Le polemiche interne
furono in gran parte tanto astratte quanto lo era la predicazione
del Mazzini, ma da esse si possono trarre utili indicazioni storiche
(e valgano per tutti gli scritti del Pisacane, che d'altronde
commise errori politici e militari irreparabili, come l'opposizione
alla dittatura militare di Garibaldi nella Repubblica Romana). Il
Partito d'Azione era imbevuto della tradizionale retorica della
letteratura italiana: confondeva l'unità culturale esistente
nella penisola — limitata però a uno strato molto sottile
della popolazione e inquinata dal cosmopolitismo vaticano — con
l'unità politica e territoriale delle grandi masse popolari
che erano estranee a quella tradizione culturale e se ne
infischiavano dato che ne conoscessero l'esistenza stessa.
Ancora oggi i monarchici (Bainville e C.) «rimproverano»
retrospettivamente ai due Napoleoni di aver creato il mito
«nazionalitario» e di aver contribuito a farlo
realizzare in Germania e in Italia, abbassando così la
statura relativa della Francia, che «dovrebbe» essere
circondata da un pulviscolo di staterelli tipo Svizzera per essere
«sicura».
Ora, proprio sulla parola d'ordine di «indipendenza e
unità», senza tener conto del concreto contenuto
politico di tali formule generiche, i moderati dopo il '48 formarono
il blocco nazionale sotto la loro egemonia, influenzando i due capi
supremi del Partito d'Azione, Mazzini e Garibaldi, in diversa forma
e misura. Come i moderati fossero riusciti nel loro intento di
deviare l'attenzione dal nocciolo alla buccia dimostra, tra le tante
altre, questa espressione del Guerrazzi in una lettera a uno
studente siciliano 18: «Sia che vuolsi — o dispotismo o
repubblica o che altro — non cerchiamo di dividerci; con questo
cardine, caschi il mondo, ritroveremo la via.» Del resto,
tutta l'operosità di Mazzini è stata concretamente
riassunta nella continua e permanente predicazione
dell'unità.
A proposito del giacobinismo e del Partito d'Azione un elemento da
porre in primo piano è questo: che i giacobini conquistarono
con la lotta senza quartiere la loro funzione di partito dirigente,
essi in realtà si «imposero» alla borghesia
francese, conducendola in una posizione molto più avanzata di
quella che i nuclei borghesi primitivamente più forti
avrebbero voluto spontaneamente occupare e anche molto più
avanzata di quella che le premesse storiche dovevano consentire, e
per ciò i colpi di ritorno e la funzione di Napoleone I.
Questo tratto, caratteristico del giacobinismo (ma prima anche di
Cromwell e delle «teste rotonde») e quindi di tutta la
grande Rivoluzione, del forzare la situazione (apparentemente) e del
creare fatti compiuti irreparabili, cacciando avanti i borghesi a
calci nel sedere da parte di un gruppo di uomini estremamente
energici e risoluti, può essere così schematizzato: il
terzo stato era il meno omogeneo degli stati; aveva una élite
intellettuale molto disparata e un gruppo economicamente molto
avanzato ma politicamente moderato. Lo sviluppo degli avvenimenti
segue un processo dei più interessanti. I rappresentanti del
terzo stato inizialmente pongono solo le quistioni che interessano i
componenti fisici attuali del gruppo sociale, i loro interessi
«corporativi» immediati (corporativi nel senso
tradizionale, di immediati ed egoistici in senso gretto di una
determinata categoria): i precursori della Rivoluzione sono infatti
dei riformatori moderati, che fanno la voce grossa ma in
realtà domandano ben poco. A mano a mano si viene
selezionando una nuova élite che non si interessa unicamente
di riforme «corporative» ma tende a concepire la
borghesia come il gruppo egemone di tutte le forze popolari e questa
selezione avviene per l'azione di due fattori: la resistenza delle
vecchie forze sociali e la minaccia internazionale. Le vecchie forze
non vogliono cedere nulla e se cedono qualche cosa lo fanno con la
volontà di guadagnare tempo e preparare una controffensiva.
Il terzo stato sarebbe caduto in questi «tranelli»
successivi senza l'azione energica dei giacobini, che si oppongono
ad ogni sosta «intermedia» del processo rivoluzionario e
mandano alla ghigliottina non solo gli elementi della vecchia
società dura a morire, ma anche i rivoluzionari di ieri, oggi
diventati reazionari. I giacobini, pertanto, furono il solo partito
della rivoluzione in atto, in quanto non solo essi rappresentavano i
bisogni e le aspirazioni immediate delle persone fisiche attuali che
costituivano la borghesia francese, ma rappresentavano il movimento
rivoluzionario ne! suo insieme, come sviluppo storico integrale,
perché rappresentavano i bisogni anche futuri e, di nuovo,
non solo di quelle determinate persone fisiche, ma di tutti i gruppi
nazionali che dovevano essere assimilati al gruppo fondamentale
esistente.
Occorre insistere, contro una corrente tendenziosa, e in fondo
antistorica, che i giacobini furono dei realisti alla Machiavelli e
non degli astrattisti. Essi erano persuasi dell'assoluta
verità delle formule sull'uguaglianza, la fraternità,
la libertà e, ciò che importa di più, di tale
verità erano persuase le grandi masse popolari che i
giacobini suscitavano e portavano alla lotta. Il linguaggio dei
giacobini, la loro ideologia, i loro metodi d'azione riflettevano
perfettamente le esigenze dell'epoca, anche se «oggi»,
in una diversa situazione e dopo più di un secolo di
elaborazione culturale, possono parere «astrattisti» e
«frenetici». Naturalmente le riflettevano secondo la
tradizione culturale francese e di ciò è una prova
l'analisi che del linguaggio giacobino si ha nella Sacra Famiglia e
l'ammissione di Hegel che pone come paralleli e reciprocamente
traducibili il linguaggio giuridico- politico dei giacobini e i
concetti della filosofia classica tedesca, alla quale invece oggi si
riconosce il massimo di concretezza e che ha originato lo storicismo
moderno. La prima esigenza era quella di annientare le forze
avversarie o almeno ridurle all'impotenza per rendere impossibile
una controrivoluzione; la seconda esigenza era quella di allargare i
quadri della borghesia come tale e di porla a capo di tutte le forze
nazionali, identificando gli interessi e le esigenze comuni a tutte
le forze nazionali, per mettere in moto queste forze e condurle alla
lotta ottenendo due risultati: a) di opporre un bersaglio più
largo ai colpi degli avversari, cioè di creare un rapporto
politico- militare favorevole alla rivoluzione; b) di togliere agli
avversari ogni zona di passività in cui fosse possibile
arruolare eserciti vandeani. Senza la politica agraria dei
giacobini, Parigi avrebbe avuto la Vandea già alle sue porte.
La resistenza della Vandea propriamente detta è legata alla
quistione nazionale inasprita nelle popolazioni bretoni e in
generale allogene dalla formula della «repubblica una e
indivisibile» e dalla politica di accentramento
burocratico-militare, alle quali i giacobini non potevano rinunziare
senza suicidarsi. I girondini cercarono di far leva sul federalismo
per schiacciare Parigi giacobina, ma le truppe provinciali condotte
a Parigi passarono ai rivoluzionari. Eccetto alcune zone
periferiche, dove la distinzione nazionale (e lin guistica) era
grandissima, la quistione agraria ebbe il sopravvento sulle
aspirazioni all'autonomia locale: la Francia rurale accettò
l'egemonia di Parigi, cioè comprese che per distruggere
definitivamente il vecchio regime doveva far blocco con gli elementi
più avanzati del terzo stato e non con i moderati girondini.
Se è vero che i giacobini «forzarono» la mano,
è anche vero che ciò avvenne sempre nel senso dello
sviluppo storico reale, perché non solo essi organizzarono un
governo borghese, cioè fecero della borghesia la classe
dominante, ma fecero di più, crearono lo Stato borghese,
fecero della borghesia la classe nazionale dirigente, egemone,
cioè dettero allo Stato nuovo una base permanente, crearono
la compatta nazione moderna francese.
Che, nonostante tutto, i giacobini siano sempre rimasti sul terreno
della borghesia, è dimostrato dagli avvenimenti che segnarono
la loro fine come partito di formazione troppo determinata e
irrigidita e la morte di Robespierre: essi non vollero riconoscere
agli operai il diritto di coalizione, mantenendo la legge Le
Chapelier, e come conseguenza dovettero promulgare la legge del
maximum. Spezzarono così il blocco urbano di Parigi: le loro
forze d'assalto, che si raggruppavano nel Comune, si dispersero
deluse, e il Termidoro ebbe il sopravvento. La Rivoluzione aveva
trovato i limiti più larghi di classe; la politica delle
alleanze e della rivoluzione permanente aveva finito col porre
quistioni nuove che allora non potevano essere risolte, aveva
scatenato forze elementari che solo una dittatura militare sarebbe
riuscita a contenere.
Nel Partito d'Azione non si trova niente che rassomigli a questo
indirizzo giacobino, a questa inflessibile volontà di
diventare il partito dirigente. Certo occorre tener conto delle
differenze: in Italia la lotta si presenta come lotta contro i
vecchi trattati e l'ordine internazionale vigente e contro una
potenza straniera, l'Austria, che li rappresentava e li sosteneva in
Italia, occupando una parte della penisola e controllando il resto.
Anche in Francia questo problema si presentò, almeno in un
certo senso, perché ad un certo punto la lotta interna
divenne lotta nazionale combattuta alla frontiera, ma ciò
avvenne dopo che tutto il territorio era conquistato alla
rivoluzione e i giacobini seppero dalla minaccia esterna trarne
elementi per una maggiore energia all'interno: essi compresero bene
che per vincere il nemico esterno dovevano schiacciare all'interno i
suoi alleati e non esitarono a compiere i massacri di settembre. In
Italia questo legame che pur esisteva, esplicito ed implicito, tra
l'Austria e una parte almeno degli intellettuali, dei nobili e dei
proprietari terrieri, non fu denunziato dal Partito d'Azione, o
almeno non fu denunziato con la dovuta energia e nel modo
praticamente più efficace, non divenne elemento politico
attivo. Si trasformò «curiosamente» in una
quistione di maggiore o minore dignità patriottica e dette
poi luogo a uno strascico di polemiche acrimoniose e sterili fin
dopo il 1898 A proposito delle difese fatte anche recentemente
dell'atteggiamento tenuto dall'aristocrazia lombarda verso
l'Austria, specialmente dopo il tentativo insurrezionale di Milano
del febbraio 1853 e durante il viceregno di Massimiliano, è
da ricordare che Alessandro Luzio, la cui opera storica è
sempre tendenziosa e acrimoniosa contro i democratici, giunge fino a
legittimare i fedeli servizi resi all'Austria dal Salvotti: altro
che spirito giacobino! La nota comica in argomento è data da
Alfredo Panzini, che, nella Vita di Cavour, fa tutta una variazione
altrettanto leziosa quanto stomachevole e gesuitica su una
«pelle di tigre» esposta da una finestra aristocratica
durante una visita a Milano di Francesco Giuseppe19.
Da tutti questi punti di vista devono essere considerate le
concezioni di Missiroli, Gobetti, Dorso, ecc., sul Risorgimento
italiano come «conquista regia».
Se in Italia non si formò un partito giacobino ci sono le sue
ragioni da ricercare nel campo economico, cioè nella relativa
debolezza della borghesia italiana e nel clima storico diverso
dell'Europa dopo il 1815. Il limite trovato dai giacobini, nella
loro politica di forzato risveglio delle energie popolari francesi
da alleare alla borghesia, con la legge Le Chapelier e quella sul
maximum, si presentava nel '48 come uno «spettro»
già minaccioso, sapientemente utilizzato dall'Austria, dai
vecchi governi e anche dal Cavour (oltre che dal Papa). La borghesia
non poteva (forse) più estendere la sua egemonia sui vasti
strati popolari che invece potè abbracciare in Francia (non
poteva per ragioni soggettive, non oggettive), ma l'azione sui
contadini era certamente sempre possibile.
Differenze tra la Francia, la Germania e l'Italia nel processo di
presa del potere da parte della borghesia (e Inghilterra). In
Francia si ha il processo più ricco di sviluppi e di elementi
politici attivi e positivi. In Germania, il processo si svolge per
alcuni aspetti in modi che rassomigliano a quelli italiani, per
altri a quelli inglesi. In Germania il movimento del '48 fallisce
per la scarsa concentrazione borghese (la parola d'ordine di tipo
giacobino fu data dall'Estrema Sinistra democratica:
«rivoluzione in permanenza») e perché la
quistione del rinnovamento statale è intrecciata con la
quistione nazionale; le guerre del '64, del '66 e del '70 risolvono
insieme la quistione nazionale e quella di classe in un tipo
intermedio: la borghesia ottiene il governo economico-industriale,
ma le vecchie classi feudali rimangono come ceto governativo dello
Stato politico con ampi privilegi corporativi nell'esercito,
nell'amministrazione e sulla terra: ma almeno, se queste vecchie
classi conservano in Germania tanta importanza e godono di tanti
privilegi, esse esercitano una funzione nazionale, diventano gli
«intellettuali» della borghesia, con un determinato
temperamento dato dall'origine di casta e dalla tradizione. In
Inghilterra, dove la rivoluzione borghese si è svolta prima
che in Francia, abbiamo un fenomeno simile a quello tedesco di
fusione tra il vecchio e il nuovo, nonostante l'estrema energia dei
«giacobini» inglesi, cioè le «teste
rotonde» di Cromwell; la vecchia aristocrazia rimane come ceto
governativo, con certi privilegi, diventa anch'essa il ceto
intellettuale della borghesia inglese (del resto l'aristocrazia
inglese è a quadri aperti e si rinnova continuamente con
elementi provenienti dagli intellettuali e dalla borghesia)20. La
spiegazione data da Antonio Labriola sulla permanenza al potere in
Germania dei Junker e del kaiserismo nonostante il grande sviluppo
capitalistico, adombra la giusta spiegazione: il rapporto di classi
creato dallo sviluppo industriale col raggiungimento del limite
dell'egemonia borghese e il rovesciamento della posizione delle
classi progressive, ha indotto la borghesia a non lottare a fondo
contro il vecchio regime, ma a lasciarne sussistere una parte della
facciata dietro cui velare il proprio dominio reale.
Questa differenza di processo nel manifestarsi dello stesso sviluppo
storico nei diversi paesi è da legare non solo alle diverse
combinazioni dei rapporti interni alla vita delle diverse nazioni,
ma anche ai diversi rapporti internazionali (i rapporti
internazionali sono di solito sottovalutati in questo ordine di
ricerche). Lo spirito giacobino, audace, temerario, è
certamente legato all'egemonia esercitata così a lungo dalla
Francia in Europa, oltre che all'esistenza di un centro urbano come
Parigi e all'accentramento conseguito in Francia per opera della
monarchia assoluta. Le guerre di Napoleone, invece, con l'enorme
distruzione di uomini, tra i più audaci e intraprendenti,
hanno indebolito non solo l'energia politica militante francese, ma
anche quella delle altre nazioni, sebbene intellettualmente siano
state così feconde per la rinnovazione dell'Europa.
I rapporti internazionali hanno certo avuto una grande
importanza nel determinare la linea di sviluppo del Risorgimento
italiano, ma essi sono stati esagerati dal partito moderato e da
Cavour a scopo di partito. È notevole, a questo proposito, il
fatto di Cavour che teme come il fuoco l'iniziativa garibaldina
prima della spedizione di Quarto e del passaggio dello Stretto, per
le complicazioni internazionali che poteva creare e poi è
spinto egli stesso dall'entusiasmo creato dai Mille nell'opinione
europea fino a vedere come fattibile una immediata nuova guerra
contro l'Austria. Esisteva in Cavour una certa deformazione
professionale del diplomatico, che lo portava a vedere
«troppe» difficoltà e lo induceva a esagerazioni
«cospirative» e a prodigi, che sono in buona parte
funamboleschi, di sottigliezza e di intrigo. In ogni caso il Cavour
operò egregiamente come uomo di partito: che poi il suo
partito rappresentasse i più profondi e duraturi interessi
nazionali, anche solo nel senso della più vasta estensione da
dare alla comunità di esigenze della borghesia con la massa
popolare, è un'altra quistione21.
Nell'esame della direzione politica e militare impressa al moto
nazionale prima e dopo il '48 occorre fare alcune preventive
osservazioni di metodo e di nomenclatura. Per direzione militare non
deve intendersi solo la direzione militare in senso stretto,
tecnico, cioè con riferimento alla strategia e alla tattica
dell'esercito piemontese, o delle truppe garibaldine o delle varie
milizie improvvisate nelle insurrezioni locali (Cinque giornate di
Milano, difesa di Venezia, difesa della Repubblica Romana,
insurrezione di Palermo nel '48, ecc., ecc.); deve intendersi invece
in senso molto più largo e più aderente alla direzione
politica vera e propria. Il problema essenziale che si imponeva dal
punto di vista militare era quello di espellere dalla penisola una
potenza straniera, l'Austria, che disponeva di uno dei più
grandi eserciti dell'Europa d'allora e che aveva inoltre non pochi e
deboli aderenti nella penisola stessa, persino nel Piemonte.
Pertanto, il problema militare era questo: come riuscire a
mobilitare una forza insurrezionale che fosse in grado di espellere
dalla penisola l'esercito austriaco non solo, ma anche di impedire
che esso potesse ritornare con una controffensiva, dato che
l'espulsione violenta avrebbe messo in pericolo la compagine
dell'Impero e quindi ne avrebbe galvanizzato tutte le forze di
coesione per una rivincita.
Le soluzioni che del problema furono presentate astrattamente erano
parecchie, tutte contraddittorie e inefficienti. «L'Italia
farà da sé» fu la parola d'ordine piemontese del
'48, ma volle dire la sconfitta disastrosa. La politica incerta,
ambigua, timida e nello stesso tempo avventata dei partiti di destra
piemontesi fu la cagione principale della sconfitta; essi furono di
una astuzia meschina, essi furono la causa del ritirarsi degli
eserciti degli altri Stati italiani, napoletani e romani, per aver
troppo presto mostrato di volere l'espansione piemontese e non una
confederazione italiana; essi non favorirono, ma osteggiarono, il
movimento dei volontari, essi, insomma, volevano che solo armati
vittoriosi fossero i generali piemontesi, inetti al comando di una
guerra tanto difficile. L'assenza di una politica popolare fu
disastrosa: i contadini lombardi e veneti arruolati dall'Austria
furono uno degli strumenti più efficaci per soffocare la
rivoluzione di Vienna e quindi anche italiana; per i contadini il
moto del Lombardo-Veneto era una cosa di signori e di studenti come
il moto viennese. Mentre i partiti nazionali italiani avrebbero
dovuto, con la loro politica, determinare o aiutare il disgregamento
dell'impero austriaco, con la loro inerzia ottennero che i
reggimenti italiani fossero uno dei migliori puntelli della reazione
austriaca. Nella lotta tra il Piemonte e l'Austria il fine
strategico non poteva essere quello di distruggere l'esercito
austriaco e occupare il territorio del nemico che sarebbe stato fine
irraggiungibile e utopistico, ma poteva essere quello di disgregare
la compagine interna austriaca e aiutare i liberali ad andare al
potere stabilmente per mutare la struttura politica dell'impero in
federalistica o almeno per crearvi uno stato prolungato di lotte
interne che desse respiro alle forze nazionali italiane e
permettesse loro di concentrarsi politicamente e militarmente22.
Dopo aver iniziato la guerra col motto «l'Italia farà
da sé», dopo la sconfitta, quando tutta l'impresa era
compromessa, si cercò di avere l'aiuto francese, proprio
quando, anche per effetto del rinvigorimento austriaco, al governo
di Francia erano andati i reazionari, nemici di uno Stato italiano
unitario e forte e anche di una espansione piemontese: la Francia
non volle dare al Piemonte neanche un generale provetto e si ricorse
al polacco Chrzarnowsky.
La direzione militare era una quistione più vasta della
direzione dell'esercito e della determinazione del piano strategico
che l'esercito doveva eseguire; essa comprendeva in più la
mobilitazione politico- insurrezionale di forze popolari che fossero
insorte alle spalle del nemico e ne avessero intralciato i movimenti
e i servizi logistici, la creazione di masse ausiliarie e di riserva
da cui trarre nuovi reggimenti e che dessero all'esercito
«tecnico» l'atmosfera di entusiasmo e di ardore.
La politica popolare non fu fatta neanche dopo il '49; anzi sugli
avvenimenti del '49 si cavillò stoltamente per intimidire le
tendenze democratiche: la politica nazionale di destra si
impegnò nel secondo periodo del Risorgimento nella ricerca
dell'aiuto della Francia bonapartista e con l'alleanza francese si
equilibrò la forza austriaca. La politica della Destra nel
'48 ritardò l'unificazione della penisola di alcuni decenni.
Le incertezze nella direzione politico-militare, le continue
oscillazioni tra dispotismo e costituzionalismo ebbero i loro
contraccolpi disastrosi anche nell'esercito piemontese. Si
può affermare che quanto più un esercito è
numeroso, in senso assoluto, come massa reclutata, o in senso
relativo, come proporzione di uomini reclutati sulla popolazione
totale, tanto più aumenta l'importanza della direzione
politica su quella meramente tecnico-militare. La
combattività dell'esercito piemontese era altissima
all'inizio della campagna del '48: i destri credettero che tale
combattività fosse espressione di un puro spirito militare e
dinastico astratto, e cominciarono a intrigare per restringere le
libertà popolari e smorzare le aspettative in un avvenire
democratico. Il «morale» dell'esercito decadde. La
polemica sulla «fatai Novara» è tutta qui. A
Novara l'esercito non volle combattere, perciò fu sconfitto.
I «destri» accusarono i democratici di aver portato la
politica nell'esercito e di averlo disgregato: accusa inetta,
perché il costituzionalismo appunto
«nazionalizzava» l'esercito, ne faceva un elemento della
politica generale e con ciò lo rafforzava militarmente. Tanto
più inetta l'accusa, in quanto l'esercito si accorge di un
mutamento di direzione politica, senza bisogno di
«disgregatori», da una molteplicità di piccoli
cambiamenti, ognuno dei quali può parere insignificante e
trascurabile, ma che nell'insieme formano una nuova atmosfera
asfissiante. Responsabili della disgregazione sono pertanto quelli
che hanno mutato la direzione politica, senza prevederne le
conseguenze militari, hanno cioè sostituito una cattiva
politica a quella precedente che era buona, perché conforme
al fine. L'esercito è anche uno «strumento» per
un fine determinato, ma esso è costituito di uomini pensanti
e non di automi che si possono impiegare nei limiti della loro
coesione meccanica e fisica. Se si può e si deve, anche in
questo caso, parlare di opportuno e di conforme al fine, occorre
però includere anche la distinzione: secondo la natura dello
strumento dato. Se si batte un chiodo con una mazza di legno con lo
stesso vigore^on cui si batterebbe con un martello d'acciaio, il
chiodo penetra nella mazza invece che nella parete. La direzione
politica giusta è necessaria anche con un esercito di
mercenari professionisti (anche nelle compagnie di ventura c'era un
minimo di direzione poli- tìca, oltre a quella
tecnico-militare); tanto più è necessaria con un
esercito nazionale di leva. La quistione diventa ancora più
complessa e difficile nelle guerre di posizione, fatte da masse
enormi che solo con grandi riserve di forze morali possono resistere
al grande logorio muscolare, nervoso, psichico: solo un'abilissima
direzione politica, che sappia tener conto delle aspirazioni e dei
sentimenti più profondi delle masse umane ne impedisce la
disgregazione e lo sfacelo.
La direzione militare deve essere sempre subordinata alla dire zione
politica, ossia il piano strategico deve essere l'espressione
militare di una determinata politica generale. Naturalmente
può darsi che in una condizione data, gli uomini politici
siano inetti, mentre nell'e sercito ci siano dei capi che alla
capacità militare congiungano la capacità politica:
è il caso di Cesare e di Napoleone. Ma in Napoleone si
è visto come il mutamento di politica, coordinato alla
presunzione di avere uno strumento militare astrattamente militare,
abbia portato alla sua rovina: anche nei casi in cui la direzione
politica e quella militare si trovano unite nella stessa persona;
è il momento politico che deve prevalere su quello militare.
I Commentari di Cesare sono un classico esempio di esposizione di
una sapiente combinazione di arte politica e arte militare: i
soldati vedevano in Cesare non solo un grande capo militare ma
specialmente il loro capo politico, il capo della democrazia.
È da ricordare come Bismarck, sulle traccia del Clausewitz,
sosteneva la supremazia del momento politico su quello militare,
mentre Guglielmo II, come riferisce Ludwig, annotò
rabbiosamente un giornale in cui l'opinione del Bismarck era
riportata: così i Tedeschi vinsero brillantemente quasi tutte
le battaglie, ma perdettero la guerra.
Esiste una certa tendenza a sopravvalutare l'apporto delle classi
popolari al Risorgimento, insistendo specialmente sul fenomeno del
volontariato. Le cose più serie e ponderate in proposito sono
state scritte da Ettore Rota nella «Nuova Rivista
Storica» del 1928-29. A parte l'osservazione fatta in altra
nota sul significato da dare ai volontari, è da rilevare che
gli scritti stessi del Rota mostrano come i volontari fossero mal
visti e sabotati dalle autorità piemontesi, ciò che
appunto conferma la cattiva direzione politico-militare. Il governo
piemontese poteva arruolare obbligatoriamente soldati nel suo
territorio statale, in rapporto alla popolazione, come l'Austria
poteva fare nel suo e in rapporto a una popolazione enormemente
più grande: una guerra a fondo, in questi termini, sarebbe
sempre stata disastrosa per il Piemonte dopo un certo tempo. Posto
il principio che «Italia fa da sé» bisognava o
accettare subito la confederazione con gli altri Stati italiani o
proporsi l'unità politica territoriale su una tale base
radicalmente popolare che le masse fossero state indotte a insorgere
contro gli altri governi, e avessero costituito eserciti volontari
che fossero accorsi accanto ai Piemontesi. Ma appunto qui stava la
quistione: le tendenze di destra piemontesi o non volevano
ausiliari, pensando di poter vincere gli Austriaci con le sole forze
regolari piemontesi (e non si capisce come potessero avere una tale
presunzione), o avrebbero voluto essere aiutati a titolo gratuito (e
anche qui non si capisce come politici seri potessero pretendere un
tale assurdo): nella realtà non si può pretendere
entusiasmo, spirito di sacrificio, ecc., senza una contropartita
neppure dai propri sudditi di uno Stato; tanto meno si può
pretenderla da cittadini estranei allo Stato su un programma
generico e astratto e per una fiducia cieca in un governo lontano.
Questo è stato il dramma del '48-'49, ma non è certo
giusto deprezzare perciò il popolo italiano; la
responsabilità del disastro è da attribuire sia ai
moderati, sia al Partito d'Azione, cioè, in ultima analisi,
alla immaturità e alla scarsissima efficienza delle classi
dirigenti.
Le osservazioni fatte sulla deficienza di direzione
politico-militare nel Risorgimento potrebbero essere ribattute con
un argomento molto triviale e frusto: «quegli uomini non
furono demagoghi, non fecero della demagogia». Un'altra
trivialità molto diffusa per parare il giudizio negativo
sulla capacità direttiva dei capi del moto nazionale è
quella di ripetere in vari modi e forme che il moto nazionale si
potè operare per merito delle sole classi colte. Dove sia il
merito è difficile capire. Merito di una classe colta,
perché sua funzione storica, è quello di dirigere le
masse popolari e svilupparne gli elementi progressivi; se la classe
colta non è stata capace di adempiere alla sua funzione, non
deve parlarsi di merito, ma di demerito, cioè di
immaturità e debolezza intima. Cosi occorre intendersi sulla
parola e sul concetto di demagogia. Quegli uomini effettivamente non
seppero guidare il popolo, non seppero destarne l'entusiasmo e la
passione se si intende demagogia nel suo significato primordiale.
Raggiunsero essi almeno il fine che si proponevano? Essi dicevano di
proporsi la creazione dello Stato moderno in Italia e produssero un
qualcosa di bastardo; si propojjpvano di suscitare una classe
dirigente diffusa ed energica e non c^riuscirono, di inserire il
popolo nel quadro statale e non ci riuscirono. La meschina vita
politica dal '70 al '900, il ribellismo elementare ed endemico delle
classi popolari, l'esistenza gretta e stentata di un ceto dirigente
scettico e poltrone sono la conseguenza di quella deficienza: e ne
è conseguenza la posizione internazionale del nuovo Stato,
privo di effettiva autonomia perché minato all'interno dal
Papato e dalla passività malevola delle grandi masse. In
realtà poi i destri del Risorgimento furono dei grandi
demagoghi: essi fecero del popolo-nazione uno strumento, un oggetto,
degradandolo e in ciò consiste la massima e più
spregevole demagogia, proprio nel senso che il termine ha assunto in
bocca ai partiti di destra in polemica con quei di sinistra, sebbene
siano i partiti di destra ad avere sempre esercitato la peggiore
demagogia e ad aver fatto spesso appello alla feccia popolare (come
Napoleone III in Francia).
Dal rapporto città-campagna deve muovere l'esame delle
forze motrici fondamentali della storia italiana e dei punti
programmatici da cui occorre studiare e giudicare l'indirizzo del
Partito d'Azione nel Risorgimento. Schematicamente si può
avere questo quadro: 1) la forza urbana settentrionale; 2) la forza
rurale meridionale; 3) la forza rurale settentrionale-centrale; 4)
la forza rurale della Sicilia e 5) della Sardegna. Restando ferma la
funzione di «locomotiva» della prima forza, occorre
esaminare le diverse combinazioni «più utili»
atte a costruire un «treno» che avanzi il più
speditamente nella storia. Intanto la prima forza comincia con
l'avere dei problemi propri, interni, di organizzazione, di
articolazione per omogeneità, di direzione politico-militare
(egemonia piemontese, rapporti tra Milano e Torino, ecc.); ma rimane
fissato che, già «meccanicamente», se tale forza
ha raggiunto un certo grado di unità e di
combattività, essa esercita una funzione direttiva
«indiretta» sulle altre. Nei diversi periodi del
Risorgimento appare che il porsi di questa forza in una posizione di
intransigenza e di lotta contro il dominio straniero, determina
un'esaltazione delle forze progressive meridionali: da ciò il
sincronismo relativo, ma non la simultaneità, nei movimenti
del '20-21, del '31, del '48. Nel '59-60 questo
«meccanismo» storico-poli- tico agisce con tutto il
rendimento possibile poiché il Nord inizia la lotta, il
Centro aderisce pacificamente o quasi e nel Sud lo Stato borbonico
crolla sotto la spinta dei garibaldini, spinta relativamente debole.
Questo avviene perché il Partito d'Azione (Garibald1)
interviene tempestivamente, dopo che i moderati (Cavour) avevano
organizzato il Nord e il Centro; non è cioè la stessa
direzione politico- militare (moderati o Partito d'Azione) che
organizza la simultaneità relativa, ma la collaborazione
(meccanica) delle due direzioni, che si integrano felicemente.
La prima forza doveva quindi porsi il problema di organizzare
intorno a sé le forze urbane delle altre sezioni nazionali e
specialmente del Sud. Questo problema era il più difficile,
irto di contraddizioni e di motivi che scatenavano ondate di
passioni (una soluzione burletta di queste contraddizioni fu la
così detta rivoluzione parlamentare del 1876). Ma la sua
soluzione, appunto per questo, era uno dei punti cruciali dello
sviluppo nazionale. Le forze urbane sono socialmente omogenee,
quindi devono trovarsi in una posizione di perfetta uguaglianza.
Ciò era vero teoricamente, ma storicamente la quistione si
poneva diversamente: le forze urbane del Nord erano nettamente alla
testa della loro sezione nazionale, mentre per le forze urbane del
Sud ciò non si verificava, per lo meno in uguale misura. Le
forze urbane del Nord dovevano quindi ottenere da quelle del Sud che
la loro funzione direttiva si limitasse ad assicurare la direzione
del Nord verso il Sud nel rapporto generale di
città-campagna, cioè la funzione direttiva delle forze
urbane del Sud non poteva essere altro che un momento subordinato
della più vasta funzione direttiva del Nord. La
contraddizione più stridente nasceva da questo ordine di
fatti: la forza urbana del Sud non poteva essere considerata come
qualcosa a sé, indipendente da quella del Nord; porre la
quistione così avrebbe significato affermare
pregiudizialmente un insanabile dissidio «nazionale»,
dissidio tanto grave che neanche la soluzione federalistica avrebbe
potuto comporre; si sarebbe affermata l'esistenza di nazioni
diverse, tra le quali avrebbe potuto realizzarsi solo un'alleanza
diplomatico-militare contro il comune nemico, l'Austria (l'unico
elemento di comunità e solidarietà, insomma, sarebbe
consistito solo nell'avere un «comune» nemico). In
realtà, però, esistevano solo alcuni
«aspetti» della quistione nazionale, non
«tutti» gli aspetti e neanche quelli più
essenziali. L'aspetto piti grave era la debole posizione delle forze
urbane meridionali in rapporto alle forze rurali, rapporto
sfavorevole che si manifestava talvolta in una vera e propria
soggezione della città alla campagna. Il collegamento stretto
tra forze urbane del Nord e del Sud, dando alle seconde la forza
rappresentativa del prestigio delle prime, doveva aiutare quelle a
rendersi autonome, ad acquistare coscienza della loro funzione
storica dirigente in modo «concreto» e non puramente
teorico e astratto, suggerendo le soluzioni da dare ai vasti
problemi regionali. Era naturale che si trovassero forti opposizioni
nel Sud all'unità: il compito più grave per risolvere
la situazione spettava in ogni modo alle forze urbane del Nord, che
non solo dovevano convincere i loro «fratelli» del Sud,
ma dovevano incominciare [a convincere] se stesse di questa comples-
sività di sistema politico: praticamente, quindi, la
quistione si poneva nell'esistenza di un forte centro di direzione
politica, al quale necessariamente avrebbero dovuto collaborare
forti e popolari individualità meridionali, e delle isole. Il
problema di creare una unità Nord-Sud era strettamente legato
e in gran parte assorbito nel problema di creare una coesione e una
solidarietà tra tutte le forze urbane nazionali29.
Le forze rurali settentrionali-centrali ponevano alla loro volta una
serie di problemi che la forza urbana del Nord doveva porsi per
stabilire un rapporto normale città-campagna, espellendo le
interferenze e gli influssi di origine estranea allo sviluppo del
nuovo Stato. In queste forze rurali occorreva distinguere due
correnti: quella laica e quella clericale-austriacante. La forza
clericale aveva il suo peso massimo nel Lombardo-Veneto, oltre che
in Toscana e in una parte dello Stato pontificio; quella laica nel
Piemonte, con interferenze più o meno vaste nel resto
d'Italia, oltre che nelle legazioni, specialmente in Romagna, anche
nelle altre sezioni, fino al Mezzogiorno e alle Isole. Risolvendo
bene questi rapporti immediati, le forze urbane settentrionali
avrebbero dato un ritmo a tutte le quistioni simili su scala
nazionale. Su tutta questa serie di problemi complessi il Partito
d'Azione falli completamente: esso si limitò infatti a fare
quistione di principio e di programma essenziale quello che era
semplicemente quistione del terreno politico su cui tali problemi
avrebbero potuto accentrarsi e trovare una soluzione legale: la
quistione della Costituente. Non si può dire che abbia
fallito il partito moderato, che si proponeva l'espansione organica
del Piemonte, voleva soldati per l'esercito piemontese e non
insurrezioni o armate garibaldine troppo vaste.
Perché il Partito d'Azione non pose in tutta la sua
estensione la quistione agraria? Che non la ponessero i moderati era
ovvio: l'impostazione data dai moderati al problema nazionale
domandava un blocco di tutte le forze di destra, comprese le classi
dei grandi proprietari terrieri, intorno al Piemonte come Stato e
come esercito. La minaccia fatta dall'Austria di risolvere la
quistione agraria a favore dei contadini, minaccia che ebbe
effettuazione in Galizia contro i nobili polacchi a favore dei
contadini ruteni, non solo gettò lo scompiglio tra gli
interessati in Italia, determinando tutte le oscillazioni
dell'aristocrazia (fatti di Milano del febbraio '53 e atto di
omaggio delle più illustri famiglie milanesi a Francesco
Giuseppe proprio alla vigilia delle forche di Belfiore), ma
paralizzò lo stesso Partito d'Azione, che in questo terreno
pensava come i moderati e riteneva «nazionali»
l'aristocrazia e i proprietari e non i milioni di contadini. Solo
dopo il febbraio '53 Mazzini ebbe qualche accenno sostanzialmente
democratico (vedi Epistolario di quel periodo), ma non fu capace di
una radicalizzazione decisiva del suo programma astratto. È
da studiare la condotta politica dei garibaldini in Sicilia nel
i860, condotta politica che era dettata da Crispi: i movimenti di
insurrezione dei contadini contro i baroni furono spietatamente
schiacciati e fu creata la Guardia nazionale anticontadina; è
tipica la spedizione repressiva di Nino Bixio nella regione
catanese, dove le insurrezioni furono più violente. Eppure,
anche nelle Noterelle di G. C. Abba ci sono elementi pei dimostrare
che la quistione agraria era la molla per far entrare in moto le
grandi masse: basta ricordare i discorsi dell'Abba col frate che va
incontro ai garibaldini -subito dopo lo sbarco di Marsala. In alcune
novelle di G. Verga ci sono elementi pittoreschi di queste sommosse
contadine, che la Guardia Nazionale soffocò col terrore e con
la fucilazione in massa. Questo aspetto della spedizione dei Mille
non è stato mai studiato e analizzato.
La non-impostazione della quistione agraria portava alla quasi
impossibilità di risolvere la quistione del clericalismo e
dell'atteggiamento antiunitario del Papa. Sotto questo riguardo i
moderati furono molto più arditi del Partito d'Azione:
è vero che essi non distribuirono i beni ecclesiastici fra i
contadini, ma se ne servirono per creare un nuovo ceto di grandi e
di medi proprietari legati alla nuova situazione politica, e non
esitarono a manomettere la proprietà terriera, sia pure solo
quella delle Congregazioni. Il Partito d'Azione, inoltre, era
paralizzato, nella sua azione verso i contadini, dalle
velleità mazziniane di una riforma religiosa, che non solo
non interessava le grandi masse rurali, ma al contrario le rendeva
passibili di una sobillazione contro i nuovi eretici. L'esempio
della Rivoluzione francese era li a dimostrare che i giacobini, che
erano riusciti a schiacciare tutti i partiti di destra fino ai
girondini sul terreno della quistione agraria e non solo a impedire
la coalizione rurale contro Parigi ma a moltiplicare i loro aderenti
nelle province, furono danneggiati dai tentativi di Robespierre di
instaurare una riforma religiosa, che pure aveva, nel processo
storico reale, un significato e una concretezza immediata30.
I moderati e gli intellettuali.
Perché i moderati dovevano avere il sopravvento nella massa
degli intellettuali. Gioberti e Mazzini.
Gioberti offriva agli intellettuali una filosofia che appariva come
originale e nel tempo stesso nazionale, tale da porre l'Italia
almeno allo stesso livello delle nazioni più progredite e
dare una nuova dignità al pensiero italiano. Mazzini invece
offriva solo delle affermazioni nebulose e degli accenni filosofici
che a molti intellettuali, specialmente napoletani, dovevano
apparire come vuote chiacchiere (l'abate Ga- liani aveva insegnato a
sfottere quel modo di pensare e di ragionare).
Quistione della scuola: attività dei moderati per introdurre
il principio pedagogico dell'insegnamento reciproco (Confalonieri,
Capponi, ecc.); movimento di Ferrante Aporti e degli asili, legato
al problema del pauperismo. Nei moderati si affermava il solo
movimento pedagogico concreto opposto alla scuola
«gesuitica»; ciò non poteva non avere efficacia
sia tra i laici, ai quali dava nella scuola una propria
personalità, sia nel clero liberaleggiante e antigesuitico
(ostilità accanita contro Ferrante Aporti, ecc.; il ricovero
e l'educazione dell'infanzia abbandonata era un monopolio clericale
e queste iniziative spezzavano il monopolio). Le attività
scolastiche di carattere liberale o liberaleggiante hanno un gran
significato per afferrare il meccanismo dell'egemonia dei moderati
sugli intellettuali. L'attività scolastica, in tutti i suoi
gradi, ha un'importanza enorme, anche economica, per gli
intellettuali di tutti i gradi: l'aveva allora anche maggiore di
oggi, data la ristrettezza dei quadri sociali e le scarse strade
aperte all'iniziativa dei piccoli borghesi (oggi: giornalismo,
movimento dei partiti, industria, apparato statale estesissimo,
ecc., hanno allargato in modo inaudito le possibilità di
impiego).
L'egemonia di un centro direttivo sugli intellettuali si afferma
attraverso due linee principali: 1) una concezione generale della
vita, una filosofia (Giobert1), che offra agli aderenti una
«dignità» intellettuale che dia un principio di
distinzione e un elemento di lotta contro le vecchie ideologie
dominanti coercitivamente; 2) un programma scolastico, un principio
educativo e pedagogico originale che interessi e dia
un'attività propria, nel loro campo tecnico, a quella
frazione degli intellettuali che è la più omogenea e
la più numerosa (gli insegnanti, dal maestro elementare ai
professori di università).
I congressi degli scienziati che furono organizzati ripetutamente
nel periodo del primo Risorgimento ebbero una doppia efficacia: 1)
riunire gli intellettuali del grado più elevato,
concentrandoli e moltiplicando il loro influsso; 2) ottenere una
più rapida concentrazione e un più deciso orientamento
negli intellettuali dei gradi inferiori, che sono portati
normalmente a seguire gli universitari e i grandi scienziati per
spirito di casta.
Lo studio delle riviste enciclopediche e specializzate dà un
altro aspetto dell'egemonia dei moderati. Un partito come quello dei
moderati offriva alla massa degli intellettuali tutte le
soddisfazioni per le esigenze generali che possono essere offerte da
un governo (da un partito al governo), attraverso i servizi statali.
Per questa funzione di partito italiano di governo, servi
ottimamente dopo il '48-49 lo Stato piemontese, che accolse gli
intellettuali esuli e mostrò in modello ciò che
avrebbe fatto un futuro Stato unificato.
I moderati e gli intellettuali (Q. X)
Momenti di vita intensamente collettiva e unitaria nello sviluppo
nazionale del popolo italiano (Q. X)La Rivoluzione francese e il
Risorgimento (Q. XXIV)
Le sètte nel Risorgimento (1a parte: Q. X - 2a parte: Q.
XXVIII)
Sulla rivoluzione passiva (Q. XXVIII)
Gioberti e il giacobinismo (1a parte: Q. IV – 2aparte: Q. IX – 3a
parte : Q. X - 4* parte: Q. IV)
I moderati toscani (Q. XXVIII)
Stato e Chiesa (Q- II)
Il Partito d'Azione (Q. XXVIII)
Il popolo nel Risorgimento (1a parte: Q. X - 2a parte: Q. XXIV - 3a
parte: Q. XXIV - 4a parte: Q. X - 5a parte: Q. VII - 6a parte: Q.
XXIV - 7a parte: Q. X)
Il nodo storico 1848-49 (Q. X)
Il nodo storico 1848-1849.
Mi pare che gli avvenimenti degli anni 1848-49, data la loro
spontaneità, possano essere considerati come tipici per lo
studio delle forze sociali e politiche della nazione italiana.
Troviamo in quegli anni alcune formazioni fondamentali: i reazionari
moderati, municipalisti, i neoguelfi — democrazia cattolica — e il
Partito d'Azione — democrazia liberale di sinistra borghese
nazionale. Le tre forze sono in lotta tra loro e tutte e tre sono
successivamente sconfitte nel corso di due anni. Dopo la sconfitta
avviene una riorganizzazione delle forze verso destra dopo un
processo interno in ognuno dei gruppi di chiarificazione e
scissione. La sconfitta più grave è quella dei
neoguelfi, che muoiono come democrazia cattolica e si riorganizzano
come elementi sociali borghesi della campagna e della città
insieme ai reazionari costituendo la nuova forza di destra
liberale-conservatrice. Si può istituire un parallelo tra i
neoguelfi e il Partito Popolare, nuovo tentativo di creare una
democrazia cattolica, fallito allo stesso modo e per ragioni simili.
Cosi come il fallimento del Partito d'Azione rassomiglia a quello
del «sovversivismo» del '19-20.
Ricostruire ed analizzare minutamente il succedersi dei governi e
delle combinazioni di partiti (costituzionali e assolutist1) nel
Piemonte dall'inizio del nuovo regime fino al proclama di
Moncalieri, da Solaro della Margarita a Massimo d'Azeglio. Funzione
del Gioberti e del Rattazzi e loro effettivo potere sulla macchina
statale, che era rimasta immutata o quasi dal tempo
dell'assolutismo. Significato del così detto connubio
Cavour-Rattazzi: fu il primo passo della disgregazione democratica?
ma fino a quel punto il Rattazzi poteva dirsi un
liberale-democratico?
Il federalismo di Ferrari-Cattaneo fu l'impostazione politico-sto-
rica delle contraddizioni esistenti tra il Piemonte e la Lombardia.
La Lombardia non voleva essere annessa, come una provincia, al
Piemonte: era più progredita, intellettualmente,
politicamente, economicamente, del Piemonte. Aveva fatto, con forze
e mezzi propri, la sua rivoluzione democratica con le Cinque
giornate: era, forse, più italiana del Piemonte, nel senso
che rappresentava l'Italia meglio del Piemonte. Che il Cattaneo
presentasse il federalismo come immanente in tutta la storia
italiana non è altro che elemento ideologico, mitico, per
rafforzare il programma politico attuale. Perché accusare il
federalismo di aver ritardato il moto nazionale e unitario? Bisogna
ancora insistere sul criterio metodologico che altro è la
storia del Risorgimento e altro l'agiografia delle forze
patriottiche e anzi di una frazione di esse, quelle unitarie. Il
Risorgimento è uno svolgimento storico complesso e
contraddittorio, che risulta integrale da tutti i suoi elementi
antitetici, dai suoi protagonisti e dai suoi antagonisti, dalle loro
lotte, dalle modificazioni reciproche che le lotte stesse
determinano e anche dalla funzione delle forze passive e latenti
come le grandi masse agricole, oltre, naturalmente, la funzione
eminente dei rapporti internazionali.
La lega doganale, promossa da Cesare Balbo e stretta a Torino il 3
novembre J847 dai tre rappresentanti del Piemonte, della Toscana c
dello Stato pontificio, doveva preludere alla costituzione della
Confederazione politica che poi fu disdetta dallo stesso Balbo,
facendo abortire anche la lega doganale. La Confederazione era
desiderata dagli Stati minori italiani; i reazionari piemontesi (fra
cui il Balbo) credendo ormai assicurata l'espansione territoriale
del Piemonte, non volevano pregiudicarla con legami che l'avrebbero
ostacolata (il Balbo nelle Speranze d'Italia aveva sostenuto che la
Confederazione era impossibile finché una parte d'Italia
fosse stata in mano agli stranieri!?) e disdissero la Confederazione
dicendo che le leghe si stringono prima o dopo le guerre (!?): la
Confederazione fu respinta nel '48, nei primi mesi.
Gioberti, con altri, vedevano nella Confederazione politica e
doganale, stretta anche durante la guerra, la necessaria premessa
per rendere possibile l'attuazione del motto «l'Italia
farà da sé». Questa politica infida nei rapporti
della Confederazione, con le altre direttive altrettanto fallaci a
proposito dei volontari e della Costituente, mostra che il moto del
'48 falli per gli intrighi furbescamente meschini dei destri, che
furono i moderati del periodo successivo. Essi non seppero dare un
indirizzo, né politico, né militare, al moto
nazionale.
Nel febbraio 1849 Silvio Spaventa visitò a Pisa il d'Azeglio,
e del colloquio fa ricordo in uno scritto politico composto nel
1856, mentre era all'ergastolo: «Un uomo di Stato piemontese
dei più illustri diceva a me un mese innanzi: noi non
possiamo vincere, ma combatteremo di nuovo: la nostra sconfitta
sarà la sconfitta di quel partito che oggi ci risospinge alla
guerra, e tra una sconfitta e una guerra civile noi scegliamo la
prima: essa ci darà la pace interna e la libertà e
l'indipendenza del Piemonte, che non può darci l'altra. Le
previsioni di quel saggio (!) uomo si avverarono. La battaglia di
Novara fu perduta per la causa dell'indipendenza e guadagnata per la
libertà del Piemonte. E Carlo Alberto fece, secondo me, il
sacrifizio della sua corona più a questa che a
quella»31. È da domandare se si avverarono le
«previsioni», o se fu preparata la sconfitta da uomini
tanto saggi quanto il d'Azeglio.
In un articolo pubblicato nel «Corriere della Sera» del
14 maggio 1934 (Onoranze americane a Filippo Caront1), Antonio Monti
riporta dalle Memorie del Caronti (inedite e possedute dal Museo del
Risorgimento di Milano) questi due episodi: il Caronti, dopo aver
vinto gli Austriaci a Como nel 1848, formò una compagnia di
volontari e andò a Torino per avere le armi. Il ministro
Balbo gli dette questa risposta che il Monti dice
«stupefacente»: «E inutile ormai l'armarsi,
giacché un esercito regolare e forte debellerà il
nemico. Volete forse servirvi delle armi fra voi onde le discordie
fra Comaschi e Milanesi risorgano a danno del buon esito della causa
italiana?» (Non è inutile ricordare che poco prima
della guerra del '48 il Piemonte si era sguarnito di armi per
inviarle in Isvizzera ai cattolici reazionari insorti del
Sonderbund). Sulla «preparazione» della sconfitta di
Novara il Caroni narra che mentre si preparava febbrilmente una
ripresa della lotta armata a Como e si organizzavano volontari,
giunse la notizia dell'armistizio concluso dopo Novara dal generale
Chrzarnowski (il Monti scrive Czarnowsky). Il Caronti
affrontò il generale che disse: «Nous avons conclu un
armistice honorable. — Comment, honorable? — Oui, très
honorable, avec une armée qui ne se bat pas». Il
colloquio è confermato da Gabriele Camozzi.
Ma non importano le parole del generale polacco, che era una festuca
presa nella tormenta, ma l'indirizzo dato alla politica militare dal
governo piemontese, che preferiva la sconfitta a una insurrezione
generale italiana.
La Rivoluzione francese e il Risorgimento.
Un motivo che ricorre spesso nella letteratura italiana, storica e
non storica è questo espresso da Decio Cortesi in un
articolo, Roma centotrent'anni fa («Nuova Antologia», 16
luglio 1928: «È da deplorare che nella pacifica Italia,
che s'incamminava verso un miglioramento graduale e senza scotimenti
(!!?); le teorie giacobine, figlie di un idealismo pedantesco, che
nei nostri cervelli non ha mai allignato, dessero occasione a tante
scene di violenze; ed è da deplorare tanto più
perché, se queste violenze, nella Francia ancora oppressa
dagli ultimi avanzi del feudalismo e da un dispotismo regale,
potevano, fino ad un certo punto, essere giustificate, in Italia,
dai costumi semplici e schiettamente democratici in pratica (!!?),
non avevano uguale (ragione) d'essere. I reggitori d'Italia potevano
essere chiamati " tiranni " nei sonetti dei letterati, ma chi senza
passione prende a considerare il benessere del quale godé il
nostro paese nello splendido secolo xvm non potrà non pensare
con qualche rimpianto a tutto quell'insieme di sentimenti e di
tradizioni che l'invasione straniera colpi a morte».
L'osservazione potrebbe essere vera se la restaurazione stessa
avvenuta dopo il '15 non dimostrasse che anche in Italia la
situazione del secolo XVIII era tutt'altra da quella ritenuta.
L'errore è di considerare la superficie e non le condizioni
reali delle grandi masse popolari. In ogni modo, è giusto che
senza l'invasione straniera i «patrioti» non avrebbero
acquistato quell'importanza e non avrebbero subito quel
relativamente rapido processo di sviluppo che poi ebbero. L'elemento
rivoluzionario era scarso e passivo.
La Repubblica partenopea e le classi rivoluzionarie nel
Risorgimento.
Nell'edizione Laterza delle Memorie storiche del regno di Napoli dal
1J90 al 1815 di Francesco Pignatelli Principe di Strangoli 2, il
Cortese pubblica un saggio Stato e ideali politici nell'Italia
meridionale nel Settecento e l'esperienza di una rivoluzione, in cui
si pone il problema: come mai, nel Mezzogiorno d'Italia, la
nobiltà apparisca dalla parte dei rivoluzionari e sia poi
ferocemente perseguitata dalla reazione, mentre in Francia
nobiltà e monarchia sono unite davanti al pericolo
rivoluzionario. Il Cortese risale ai tempi di Carlo [di] Borbone per
trovare il punto di contatto tra la concezione degli innovatori
aristocratici e quella dei borghesi: per i primi la libertà e
le necessarie riforme devono essere garantite soprattutto da un
parlamento aristocratico, mentre sono disposti ad accettare la
collaborazione dei migliori della borghesia; per questa il controllo
deve essere esercitato e la garanzia della libertà affidata
all'aristocrazia dell'intelligenza, del sapere, della
capacità, ecc., da qualsiasi parte venga. Per ambedue lo
Stato deve essere governato dal re, circondato, illuminato, e
controllato da un'aristocrazia. Nel 1799, dopo la fuga del re, si ha
prima il tentativo di una repubblica aristocratica da parte dei
nobili e poi quella degli innovatori borghesi nella successiva
repubblica napoletana.
Pare che gli eventi napoletani non possano essere contrapposti a
quelli francesi; anche in Francia ci fu un tentativo di alleanza tra
monarchia, nobili e alta borghesia dopo un inizio di rottura tra
nobili e monarchia. In Francia però la Rivoluzione ebbe la
forza motrice anche nelle classi popolari che le impedirono di
fermarsi ai primi stadi, ciò che mancò invece
nell'Italia meridionale e successivamente in tutto il Risorgimento.
Occorre inoltre tener presente che il movimento napoletano avvenne
dopo quello francese, quando la monarchia era sotto l'incubo del
Terrore francese e vedeva un nemico in chiunque parteggiasse per le
idee innovatrici, fosse nobile o borghese. Il libro del Cortese
è da vedere.
Confrontare: Antonio Manes, Un cardinale condottiero. Fabrizio Ruffo
e la Repubblica partenopea, Aquila, Vecchioni, 1930. Il Manes cerca
di «riabilitare» il cardinale Ruffo addossando la
responsabilità delle repressioni e degli spergiuri sul
Borbone e sul Nelson. Pare che il Manes non sappia orientarsi bene
per fissare le divisioni politiche e sociali nel Napoletano; ora
parla di taglio netto tra nobiltà e clero da una parte e
popolo dall'altra; ora il taglio sparisce e si vedono nobili e clero
nelle due parti. A un certo punto dice che il Ruffo «assume un
carattere tutt'affatto nazionale, se può essere usata questa
parola di colore troppo moderno e contemporaneo» e allora
dovrebbe concludere che non erano nazionali i patriotti sterminati
dalle bande sanfedistiche3.
Le sètte nel Risorgimento.
Confrontare Pellegrino Nicolli, La Carboneria in Italia, Vicenza,
Edizioni Cristofori, 1931. Il Nicolli cerca di distinguere nella
Carboneria le diverse correnti, che spesso la componevano e di dare
un quadro delle diverse sètte che pullularono in Italia nella
prima parte del secolo XIX. Da una recensione del libro del Nicolli,
pubblicata nel «Marzocco» del 25 ottobre 1931, si estrae
questo brano: «È un groviglio di nomi strani, di
emblemi, di riti, di cui si ignorano il più delle volte le
origini; un confuso mescolarsi di propositi disparati, che variano
non soltanto da società a società, ma nella stessa
società, la quale, secondo i tempi e le circostanze, muta
metodi e programmi. Dal vago sentimento nazionale si arriva alle
aberrazioni del comunismo e, per converso, si hanno sètte
che, ispirandosi agli stessi sistemi dei rivoluzionari, assumono la
difesa del trono e dell'altare. Sembra che rivoluzione e reazione
abbiano bisogno di battersi in un campo chiuso, dove non penetra
occhio profano, tramando congiure al lume di fiaccole fumose e
maneggiando pugnali. Un filo che ci guidi in mezzo a questo
labirinto non c'è ed è vano chiederlo al Nicolli, che
pure ha fatto del suo meglio per trovarlo. Si tenga anche soltanto
presente la Carboneria, che è in un certo modo il gran fiume
nel quale convogliano tutte le altre società segrete».
Il Nicolli si è proposto di «raccogliere sinteticamente
quanto da valenti storici è stato finora scritto» sulle
società segrete nel Risorgimento.
Si può osservare: 1) che la molteplicità delle
sètte, dei programmi e dei metodi, oltre all'essere dovuto al
carattere clandestino del movimento settario, è certamente
dovuto anche alla primitività del movimento stesso —
cioè all'assenza di tradizioni forti e radicate — e quindi
all'assenza di un organismo «centrale» saldo e con
indirizzo fermo; 2) la molteplicità può sembrare
più «morbosa» di quanto fosse realmente per la
soverchia pedanteria erudita del ricercatore: in ogni tempo,
esistono movimenti «settari» bizzarri e curiosi, ai
quali non si bada neanche, in maggior misura di quanto non si
supponga comunemente.
Articolo di A. Luzio, Le origini della Carboneria, nel
«Corriere della Sera» del 7 febbraio 1932. Il Luzio
parla di due libri di Eugenio Lennhoff, f.: gerarca della Massoneria
austriaca (del Lennhoff ha parlato spesso lo scrittore di quistioni
massoniche della «Civiltà Cattolica»): Die
Freimaurer e Politische Geheimbünde (Casa ed. Amalthea,
Vienna).
Il Luzio incomincia col notare gli errori di lingua italiana
contenuti nelle citazioni politiche del Lennhoff e altri errori
più gravi (Mazzini confuso col gran maestro Mazzoni, p. 204
dei Freimaurer, e quindi fatto diventare gran maestro; ma si tratta
di errore storico o di errore di stampa?). Come recensione del
Lennhoff, l'articolo del Luzio non vale nulla. Per le origini della
Carboneria: opere dell'Alberti sulle assemblee costituzionali
italiane e sulla rivoluzione napoletana del 1820, edite dai Lincei;
studi del Soriga, «Risorgimento italiano» gennaio-marzo
1928, e articolo del Soriga sulla Carboneria
nell'Enciclopédia Treccani (vol. Vili), libro del Luzio sulla
Massoneria. In questo articolo il Luzio riporta dalle memorie
inedite del generale Rossetti (di cui parla Guido Bustico nella
«Nuova Antologia» del 1927) un rapporto del Rossetti
stesso a Gioacchino Murat (del giugno 1814) in cui si parla dei
primi tempi della Carboneria, che sarebbe stata conosciutissima in
Francia, soprattutto nella Franca Contea, e a cui il Rossetti si
sarebbe affiliato nel 1802, essendo di stanza a Gray. (Ma sono cose
vaghe e che si perdono nella notte dei tempi, fra i fondatori della
Carboneria sarebbe stato Francesco I, ecc.). Secondo il Rossetti, la
Carboneria nel reame di Napoli avrebbe cominciato a propagarsi nella
provincia di Avellino nel 1811, estendendosi solo verso la
metà del 1812.
Sulla rivoluzione passiva.
Protagonisti i «fatti» per così dire e non gli
«uomini individuali». Come sotto un determinato
involucro politico necessariamente si modificano i rapporti sociali
fondamentali e nuove forze effettive politiche sorgono e si
sviluppano che influiscono indirettamente, con la pressione lenta ma
incoercibile, sulle forze ufficiali che esse stesse si modificano
senza accorgersene o quasi.
Accanto ai concetti di rivoluzione passiva, di rivoluzione-restau
razione, ecc., porre questa affermazione di Giuseppe Ferrari (io
novembre 1864 in Parlamento): «Noi siamo il governo più
libero che abbia mai avuto l'Italia da cinquecento anni; se io esco
da questo Parlamento, io cesso di appartenere alla rivoluzione
ordinata, legale, ufficiale».
A proposito della minaccia continua che il governo austriaco faceva
ai nobili del Lombardo-Veneto
di promulgare una legislazione agraria favorevole ai contadini
(minaccia non vana, perché già attuata in Galizia
contro l'aristocrazia polacca), sono interessanti alcuni spunti di
storia della Polonia contenuti in un articolo della «Pologne
Littéraire», riassunto dal «Marzocco» del
i° dicembre 1929- Il giornale polacco, ricercando le
«cause storiche» dello spirito militare dei Polacchi,
per cui si trovano volontari polacchi in tutte le guerre e le
guerriglie, in tutte le insurrezioni e in tutte le rivoluzioni del
secolo scorso, risale a questo fatto: il 13 luglio 1792 «una
nazione che contava 9 milioni di abitanti, che aveva 70.000 soldati
sotto le armi, fu conquistata senza essere stata vinta». Il 3
maggio 1791 era stata proclamata una costituzione il cui spirito
largamente democratico poteva divenire un pericolo per i vicini — il
re di russia, l'imperatore d'Austria, e lo zar di Russia — e che
aveva parecchi punti di contatto con la Dichiarazione dei diritti
dell'uomo e del cittadino votata dalla Costituente francese
nell'agosto 1789. «La Polonia fu conquistata con la piena
connivenza dei nobili polacchi, i quali, più previdenti dei
loro confratelli di Francia, non avevano atteso l'applicazione della
carta costituzionale per provocare l'intervento straniero. Costoro
preferirono vendere la nazione al nemico piuttosto che cedere la
benché minima parte delle terre ai contadini. Preferirono
cadere in servitù essi medesimi, anziché concedere la
libertà al popolo». Secondo l'autore dell'articolo, Z.
St. Klingsland, i 70.000 soldati presero la via dell'esilio e si
diressero verso la Francia: ciò che è per lo meno
esagerato. Il nocciolo degli avvenimenti polacchi è tuttavia
altamente istruttivo e spiega molta parte degli avvenimenti fino al
1859 anche in Italia.
Ê da rilevare il fatto che una pubblicazione polacca scritta
in francese per la propaganda all'estero (così almeno pare)
spieghi la spartizione della Polonia del 1792 specialmente col
tradimento dei nobili piuttosto che con la debolezza militare
polacca, nonostante che la nobiltà abbia ancora in Polonia
una funzione molto rilevante e Pilsudsky si sia ben guardato anche
lui dal procedere a una radicale riforma agraria. Strano
«punto d'onore» nazionale. Darwin, nel Viaggio di un
naturalista intorno al mondo, racconta un episo dio simile per la
Spagna: i suoi interlocutori sostenevano che una sconfitta della
flotta alleata franco-spagnola era stata dovuta alla slealtà
degli spagnoli, i quali se avessero combattuto davvero, non
avrebbero potuto essere stati vinti. Meglio sleali e traditori che
«senza spirito militare invincibile».
Gioberti e il giacobinismo.
Atteggiamento del Gioberti verso il giacobinismo prima e dopo il
'48. Dopo il '48, nel Rinnovamento, non solo non c'è accenno
al panico che il '93 aveva diffuso nella prima metà del
secolo, ma anzi il Gioberti mostra chiaramente di avere simpatie per
i giacobini (egli giustifica lo sterminio dei girondini e la lotta
su due fronti dei giacobini: contro gli stranieri invasori e contro
i reazionari interni, anche se, molto temperatamente, accenna ai
metodi giacobini che potevano essere più dolci, ecc.). Questo
atteggiamento del Gioberti verso il giacobinismo francese dopo il
'48 è da notare come fatto culturale molto importante; si
giustifica con gli eccessi della reazione dopo il '48, che portavano
a comprendere meglio e a giustificare la selvaggia energia del
giacobinismo francese.
Ma, oltre a questo tratto, è da notare che nel Rinnovamento
il Gioberti si manifesta un vero e proprio giacobino, almeno
teoricamente, e nella situazione data italiana. Gli elementi di
questo giacobinismo possono a grandi tratti così riassumersi:
1) nell'affermazione dell'egemonia politica e militare del Piemonte,
che dovrebbe, come regione, essere quello che Parigi fu per la
Francia: questo punto è molto interessante ed è da
studiare nel Gioberti anche prima del '48. Il Gioberti senti
l'assenza in Italia di un centro popolare di movimento nazionale
rivoluzionario come fu Parigi per la Francia e questa comprensione
mostra il realismo politico del Gioberti. Prima del '48,
Piemonte-Roma dovevano essere i centri propulsori, per la
politica-milizia il primo, per l'ideologia-religione la seconda.
Dopo il '48, Roma non ha la stessa importanza, anzi: il Gioberti
dice che il movimento deve essere contro il Papato. 2) Il Gioberti,
sia pure vagamente, ha ii concetto del
«popolare-nazionale» giacobino dell'egemonia politica,
cioè dell'alleanza tra borghesi-intel- lettuali (ingegno) e
il popolo; ciò in economia (e le idee di Gioberti in economia
sono vaghe ma interessanti) e nella letteratura (cultura), in cui le
idee sono più distinte e concrete perché in questo
campo c'è meno da compromettersi. Nel Rinnovamento (parte II,
capitolo Degli scrittori scrive: «... Una letteratura non
può essere nazionale se non è popolare; perché
se bene sia di pochi di crearla, universale dee esserne l'uso e il
godimento. Oltre che, dovendo ella esprimere le idee e gli affetti
comuni e trarre in luce quei sensi che giacciono occulti e confusi
nel cuore delle moltitudini, i suoi cultori debbono non solo mirare
al bene del popolo, ma ritrarre del suo spirito; tanto che questo
viene ad essere non solo il fine, ma in un certo modo eziandio il
principio delle lettere civili. E vedesi col fatto che esse non
salgono al colmo della perfezione e dell'efficacia se non quando
s'incorporano e fanno, come dire, una cosa colla nazione,
ecc.»11.
In ogni modo che l'assenza di un «giacobinismo italiano»
fosse sentita, appare dal Gioberti. E il Gioberti è da
studiare da questo punto di vista. Ancora: è da notare come
il Gioberti sia nel Primato che nel Rinnovamento si mostri uno
stratega del movimento nazionale, e non solamente un tattico. Il suo
realismo lo porta ai compromessi, ma sempre nella cerchia del piano
strategico generale. La debolezza del Gioberti come uomo di Stato
è da cercare nel fatto che egli fu sempre esule, non
conosceva quindi gli uomini che doveva maneggiare e dirigere e non
aveva amici fedeli (cioè un partito): quanto più egli
fu stratega, tanto più doveva appoggiarsi su forze reali e
queste non conosceva e non poteva dominare e dirigere. Così
occorre studiare il Gioberti per analizzare quello che in altre note
è indicato come «nodo storico del '48-49» e il
Risorgimento in generale, ma il punto culturale più
importante mi pare sia questo di «Gioberti giacobino»,
giacobino teorico, s'intende, perché in pratica egli non ebbe
modo di applicare le sue dottrine.
L'ultimo paragrafo di un lungo articolo della «Civiltà
Cattolica» (2 marzo, 16 marzo 1929), Il Padre Saverio
Bettinelli e l'abate Vincenzo Gioberti, può essere
interessante come spunto. Sempre in polemica col Gioberti, la
«Civiltà Cattolica» ancora una volta dice di
voler smentire l'affermazione che i gesuiti del secolo xix siano
stati avversari dell'Italia e anzi cospiranti coli'Austria. Secondo
la «Civiltà Cattolica»: «Cominciando da Pio
IX fino al più semplice prete di contado, l'unità
italiana non era avversata da nessuno. Si potrebbe anche dimostrare
perentoriamente che all'invito di Pio IX, nel 1848, per una lega
italiana e per l'unione politica dell'Italia, chi si oppose fu il
solo ministero piemontese. Il clero italiano, e ciò è
da porsi fuori di ogni dubbio per chi non voglia negare la luce
meridiana, non si oppose all'unità ma la voleva in modo
diverso in quanto all'esecuzione. Questa era l'idea di Pio IX,
dell'alta gerarchia dei cardinali e dello stesso antico partito
conservatore piemontese, capitanato dal conte Solaro della
Margarita».
Difende specificatamente i gesuiti dall'accusa di antiunitarismo e
austriacantismo contro un articolo di Antonio Bruers pubblicato
nella «Stirpe» dell'agosto 1928; il Bruers recensisce
sfavorevolmente il libro del prof. U. A. Padovani della
Università del S. C., Vincenzo Gioberti e il Cattolicismo,
Milano, Soc. Ed. «Vita e Pensiero», 1927, che appunto
deve polemizzare col Gioberti per il suo antigesuitismo. Scrive la
«Civiltà Cattolica»: «In sentenza
definitiva, accertiamo che i gesuiti, come Pio IX, e tutto in
generale il clero italiano e l'intero partito conservatore laicale
che non era poco, non combatterono mai l'unità in se stessa,
ma l'unità violenta come si andava praticando, ossia il modo
di attuare, quell'unità che era nel desiderio comune. Oh, che
non si può amare la patria se non alla stregua altrui?»
Ricorda poi che «a far porre nell'Indice dei libri proibiti le
opere del Gioberti, fu lo stesso re Carlo Alberto», e nota
gesuite- scamente: «dunque il re Carlo Alberto avrebbe
condannato la politica del Gioberti, cioè la propria»!;
ma probabilmente nel momento in cui Carlo Alberto domandava i rigori
della Chiesa contro Gioberti, la sua politica era quella di Solaro
della Margarita. In ogni modo, è bellissimo il fatto
paradossale che oggi i gesuiti possano mettere nel sacco questi
scrittorelli tipo Bruers.
Nella prefazione alle Letture del Risorgimento il Carducci scrive:
«Staccatosi dalla Giovine Italia nel 1834, tornò a
quello che il San- tarosa voleva e chiamava " cospirazione
letteraria " ed egli la fece con certa sua filosofia battagliera,
che molto alta portava la tradizione italiana, finché usci
nell'agone col Primato e predicando la lega dei principi
riformatori, capo il pontefice, attrasse le anime timorose e gli
ingegni timorosi, attrasse a sé il giovane clero, che alla
sua volta traevasi dietro il popolo credente anche delle
campagne». In altro punto il Carducci scrive:
«...L'abate italiano riformista e mezzo giacobino col Parini,
soprannotato col Cesarotti e col Barbieri alla rivoluzione, che
s'era fatto col Di Breme banditore di romanticismo e soffiatore nel
carbonarismo del '21, che aveva intinto col Gioberti nelle
cospirazioni e bandito il Primato d'Italia e il Rinnovamento, che
aveva col Rosmini additato le piaghe della Chiesa, che aveva
coll'Andreoli e col Tazzoli salito il patibolo...»
Politica e diplomazia.
Cavour, aneddoto riportato da Ferdinando Martini, Confessioni e
ricordi, 1859-1892 (ed. Treves, 1928), pp. 150- 151: per Crispi, il
Cavour non doveva essere considerato come un elemento di prima linea
nella storia del Risorgimento, ma solo Vittorio Emanuele, Garibaldi
e Mazzini. «Il Cavour? Che cosa fece il Cavour? Niente altro
che diplomatizzare la rivoluzione...» Il Martini annota:
«Non osai dirlo, ma pensai: "E scusate se è
poco!"» Mi pare che il Crispi e il Martini seguano due ordini
diversi di pensieri. Il Crispi intende riferirsi agli elementi
attivi, ai «creatori» del movimento
nazionale-rivoluzione, cioè ai politici propriamente detti.
Pertanto la diplomazia è per lui attività subalterna e
subordinata: il diplomatico non crea nuovi nessi storici, ma lavora
a fare sanzionare quelli che il politico ha creato: Talleyrand non
può essere paragonato con Napoleone.
In realtà, il Crispi ha torto, ma non per ciò che il
Martini crede. Il Cavour non fu solo un diplomatico, ma anzi
essenzialmente un politico «creatore», solo che il suo
modo di «creare» non era da rivoluzionario, ma da
conservatore: e in ultima analisi non il programma di Mazzini e di
Garibaldi, ma quello di Cavour trionfò, né si capisce
come il Crispi ponga accanto Vittorio Emanuele a Mazzini e
Garibaldi; Vittorio Emanuele sta con Cavour, e attraverso Vittorio
Emanuele Cavour domina Garibaldi e anche Mazzini. È certo che
Crispi non avrebbe potuto riconoscere giusta questa analisi per
«l'affetto che l'intelletto lega»; la sua passione
settaria era ancora viva, come rimase viva sempre in lui, pur nelle
mutazioni radicali delle sue posizioni politiche. D'altronde,
neanche il Martini avrebbe mai ammesso (almeno in pubblico) che
Cavour sia stato essenzialmente un «pompiere», o si
potrebbe dire «un termidoriano preventivo»,
poiché né in Mazzini né in Garibaldi né
in Crispi stesso c'era la stoffa dei giacobini del Comitato di
Salute pubblica. Come ho notato altrove, Crispi era un temperamento
giacobino, non un «giacobino politico-economico»,
cioè non aveva un programma il cui contenuto potesse essere
paragonato a quello dei giacobini e neppure la loro feroce
intransigenza.
D'altronde: c'erano in Italia alcune delle condizioni necessarie per
un movimento come quello dei giacobini francesi? La Francia da molti
secoli era una nazione egemonica: la sua autonomia internazionale
era molto ampia. Per l'Italia niente di simile: essa non aveva
nessuna autonomia internazionale. In tali speciali condizioni si
capisce che la diplomazia fosse concretamente superiore alla
politica creativa, fosse la «sola politica creativa». Il
problema non era di suscitare una nazione che avesse il primato in
Europa e nel mondo, o uno Stato unitario che strappasse alla Francia
l'iniziativa civile, ma di rappezzare uno Stato unitario purchessia.
I grandi programmi di Gioberti e di Mazzini dovevano cedere al
realismo politico e all'empirismo di Cavour. Questa assenza di
«autonomia internazionale» è la ragione che
spiega molta storia italiana e non solo delle classi borghesi. Si
spiega anche così il perché di molte vittorie
diplomatiche italiane, nonostante la debolezza relativa
politico-militare: non è la diplomazia italiana che vince
come tale, ma si tratta di abilità nel saper trarre partito
dall'equilibrio delle forze internazionali: è
un'abilità subalterna, tuttavia fruttuosa. Non si è
forti per sé, ma nessun sistema internazionale sarebbe il
più forte senza l'Italia.
A proposito del giacobinismo di Crispi è anche interessante
il capitolo Guerra di successione dello stesso libro del Martini
(pp. 209-224, specialm. p. 224). Dopo la morte di Depretis, i
settentrionali non volevano la successione di Crispi siciliano.
Già presidente del Consiglio, Crispi si sfoga col Martini,
proclama il suo unitarismo, ecc., afferma che non esistono
più regionalismi, ecc. Sembra questa una dote positiva di
Crispi, mi pare invece giusto il giudizio contrario. La debolezza di
Crispi fu appunto di legarsi strettamente al gruppo settentrionale,
subendone il ricatto e di avere sistematicamente sacrificato il
Meridione, cioè i contadini, cioè di non aver osato,
come i giacobini osarono di posporre agli interessi corporativi del
piccolo gruppo dirigente immediato, gli interessi storici della
classe futura, risvegliandone le energie latenti con una riforma
agraria. Anche il Crispi è un termidoriano preventivo,
cioè un termidoriano che non prende il potere quando le forze
latenti sono state messe in movimento, ma prende il potere per
impedire che tali torze si scatenino: «un fogliame» era
nella Rivoluzione francese un termidoriano in anticipo, ecc.
Sarà da ricercare attentamente se nel periodo del
Risorgimento sia apparso almeno qualche accenno di un programma in
cui l'unità della struttura economico-sociale italiana sia
stata vista in questo modo concreto: ho l'impressione che stringi,
stringi, il solo Cavour ebbe una concezione di tal genere,
cioè nel quadro della politica nazionale, pose le classi
agrarie meridionali come fattore primario, classi agrarie e non
contadini naturalmente, cioè blocco agrario diretto da grandi
proprietari e grandi intellettuali. Sarà da studiare
perciò il volume speciale dei carteggi cavourriani dedicato
alla Qui- stìone meridionale. (Altro da studiare a questo
riguardo: Giuseppe Ferrari, prima e dopo il '60; dopo il '60 i
discorsi parlamentari sui fatti del Mezzogiorno).
Cosa significa nel libro di Alberto Cappa sul Cavour, l'insistere
contìnuamente nell'affermazione che la politica del Cavour
rappresenta il «giusto mezzo» ? Perché
«giusto» P Forse perché ha trionfato? La
«giustezza» della politica del Cavour non può
essere teorizzata a priori; non può trattarsi di una
«giustezza» razionale, assoluta, ecc. In realtà
non si può parlare di una funzione da intermediario in
Cavour, ciò che diminuirebbe la sua figura e il suo
significato. Cavour segui una sua linea, che trionfò non
perché mediasse opposti estremismi, ma perché
rappresentava lesola politica giusta dell'epoca, appunto per
l'assenza di validi e intelligenti (politicamente) competitori. Nel
Cappa il «giusto mezzo» rassomiglia molto al
«giusto prezzo», all'«ottimo governo», ecc.
In realtà avviene che sfugge poi al Cappa quale sia stata la
reale politica cavourriana, la politica indipendente, originale,
ecc., qualunque sia il giudizio che di essa si possa dare per i
risultati che ha avuto nell'epoca successiva, cioè anche se
si debba dire che essa fu molto meno «nazionale» di
quanto il Cappa, secondo i figurini ufficiali, vuol far credere,
anche se essa fu una lotta vittoriosa contro le forze popolari
(senza «giusto mezzo») ciò che contribuì a
costituire uno Stato angusto, settario, senza possibilità
d'azione internazionale perché sempre minacciato
dall'insorgere di forze sovvertitrici elementari, che appunto Cavour
non volle «nazionalizzare».
Che il Cavour abbia, come metodo di propaganda politica, assunto una
posizione da «giusto mezzo» non ha che un significato
secondario. In realtà, le forze storiche cozzano tra loro per
il loro pro- gramma «estremo». Che, tra queste forze,
una assuma la funzione di «sintesi» superatrice degli
opposti estremismi è una necessità dialettica, non un
metodo aprioristico. E saper trovare volta per volta il punto di
equilibrio progressivo (nel senso del proprio programma) è
l'arte del politico, non del giusto mezzo, ma proprio del politico
che ha una linea molto precisa e di grande prospettiva per
l'avvenire. Il Cappa può essere portato come esempio
nell'esposizione della forma italiana del «proudhonismo»
giobertiano, dell'antidialettica, dell'opportunismo empirico e di
corta vista.
Il peso relativamente preponderante che i fattori internazionali
ebbero nello sviluppo del Risorgimento risulta dal particolare
realismo del Cavour, che consisteva nel valutare in una misura che
sembrava mostruosa al Partito d'Azione l'attività
diplomatica. Quando Crispi credendo di diminuire l'importanza di
Cavour disse a Ferdinando Martini, che Cavour non aveva fatto altro
che «diplomatizzare la rivoluzione» in realtà
egli, senza volerlo, riconosceva l'indispensabilità del
Cavour. Ma, per Crispi, ammettere che organizzare i rapporti
internazionali fosse stato più importante ed essenziale che
organizzare i rapporti interni, sarebbe stato impossibile: avrebbe
significato ammettere che le forze interne nazionali erano troppo
deboli in confronto dei còmpiti da risolvere e che,
specialmente, esse si erano mostrate impari alla loro missione e
politicamente impreparate e abuliche (abuliche nel terreno della
volontà politica concreta e non del giacobinismo formale).
Perciò il «realismo di Cavour» è un
argomento ancora da trattare, senza pregiudizi e senza retorica.
Il trasformismo.
Il trasformismo come una delle forme storiche di ciò che
è stato già notato sulla
«rivoluzione-restaurazione» o «rivoluzione
passiva», a proposito del processo di formazione dello Stato
moderno in Italia. Il trasformismo come «documento storico
reale» della reale natura dei partiti che si presentavano come
estremisti nel periodo dell'azione militante (Partito d'Azione). Due
periodi di trasformismo: i) dal '60 al '900 trasformismo
«molecolare», cioè le singole personalità
politiche elaborate dai partiti democratici d'opposizione si
incorporano singolarmente nella «classe politica»
conservatrice-moderata (caratterizzata dall'avversione a ogni
intervento delle masse popolari nella vita statale, a ogni riforma
organica che sostituisce un'«egemonia» al crudo
«dominio» dittatoriale); 2) dal '900 in poi trasformismo
di interi gruppi di estrema che passano al campo moderato (il primo
avvenimento è la formazione del partito nazionalista, coi
gruppi ex sindacalisti e anarchici, che culmina nella guerra libica
in un primo tempo e nell'interventismo in un secondo tempo). Tra i
due periodi è da porre il periodo intermedio — I890-'900 — in
cui una massa di intellettuali passa nei partiti di sinistra,
così detti socialistici, ma in realtà puramente
democratici.
Guglielmo Ferrerò nel suo opuscolo Reazione (Torino, Roux
edit., 1895) così rappresenta il movimento degli
intellettuali italiani degli anni novanta (il brano lo riporto dagli
Elementi di scienza politica di G. Mosca, 2a ed., 1923):
«C'è sempre un certo numero di individui che hanno
bisogno di appassionarsi per qualche cosa di non immediato, di non
personale e di lontano; a cui la cerchia dei propri affari, della
scienza, dell'arte, non basta per esaurire tutta l'attività
dello spirito. Che rimaneva a costoro in Italia se non l'idea
socialista? Veniva da lontano, ciò che seduce sempre; era
abbastanza complessa ed abbastanza vaga, almeno in certe sue parti,
per soddisfare ai bisogni morali così differenti dei molti
proseliti; da un lato portava uno spirito vasto di fratellanza e di
internazionalismo, che corrisponde ad un reale bisogno moderno;
dall'altro era improntata a un metodo scientifico che rassicurava
gli spiriti educati alle scuole sperimentali. Dato ciò,
nessuna meraviglia che un gran numero di giovani si sia inscritto in
un partito dove almeno, se c'era pericolo di incontrare qualche
umile uscito dal carcere o qualche modesto repris de justice, non si
poteva incontrare nessun panamista, nessun speculatore della
politica, nessun appaltatore di patriottismo, nessun membro di
quella banda di avventurieri senza coscienza e senza pudore, che,
dopo aver fatto l'Italia, l'hanno divorata. La più
superficiale osservazione dimostra subito che in Italia non esistono
quasi in nessun posto le condizioni economiche e sociali per la
formazione di un vero e grande partito socialista; inoltre, un
partito socialista dovrebbe trovare logicamente il nerbo delle sue
reclute nelle classi operaie, non nella borghesia, come era accaduto
in Italia. Ora se un partito socialista si sviluppava in Italia in
condizioni si sfavorevoli e in un modo così illogico, si
è perché rispondeva più che altro a un bisogno
morale di un certo numero di giovani, nauseati di tanta corruzione,
bassezza e viltà; e che si sarebbero dati al diavolo pur di
sfuggire ai vecchi partiti imputriditi sino nelle midolla delle
ossa».
Un punto da vedere è la funzione che ha svolto il Senato in
Italia come il terreno per il trasformismo «molecolare».
Il Ferrari, nonostante il suo repubblicanesimo federalista, europeo,
entra nel Senato, e così tanti altri fino al 1914; ricordare
le affermazioni comiche del senatore Pullé, entrato nel
Senato con Gerolamo Gatti e altri bissolatiani.
L'Italia meridionale.
Studiare le origini e le cause della convinzione che esistè
nel Mazzini che l'insurrezione nazionale dovesse cominciare o fosse
più facile da fare incominciare nell'Italia meridionale
(fratelli Bandiera, Pisacane). Pare che tale convincimento fosse
anche nel Pisacane, che pure, come scrive Mazzini13 aveva un
«concetto strategico della guerra d'insurrezione». Si
trattò di un desiderio (contrapporre l'iniziativa popolare
meridionale a quella monarchica piemontese?) diventato convinzione o
aveva delle origini razionali e positive? E quali potevano essere?
Riallacciare questa convinzione a quella di Bakùnin e dei
primi internazionalisti, già prima del '70: ma in Bakunin
rispondeva a una concezione politica dell'efficienza sovvertitrice
di certe classi sociali. Questo concetto strategico della guerra
d'insurrezione nazionale del Pisacane dove occorre ricercarlo? Nei
suoi saggi politico-militari, in tutti gli scritti che ci rimangono
di lui e in più negli scritti di Mazzini (in tutti gli
scritti, ma specialmente nell'Epistolario) e nei vari atteggiamenti
pratici del Pisacane.
Uno dei momenti più importanti mi pare debba essere
l'avversione di Pisacane a Garibaldi durante la Repubblica Romana.
Perché tale avversione? Era Pisacane avverso in linea di
principio alla dittatura militare? Oppure l'avversione era di
carattere politico-ideologico, cioè era contro il fatto che
tale dittatura sarebbe stata meramente militare, con un vago
contenuto nazionale, mentre Pisacane voleva alla guerra
d'insurrezione dare oltre al contenuto nazionale anzi e specialmente
un contenuto sociale? In ogni caso, l'opposizione di Pisacane fu un
errore nel caso specifico, perché non si trattava di una
dittatura vaga e indeterminata, ma di una dittatura in regime di
repubblica già instaurata, con un governo mazziniano in
funzione (sarebbe stato un governo di salute pubblica, di carattere
più strettamente militare, ma forse appunto i pregiudizi
ideologici di avversione alle esperienze della Rivoluzione francese
ebbero gran parte nel determinare tale avversione).
Il popolo nel Risorgimento.
1) Vedere il volume di Niccolò Rodolico, Il popolo agli inizi
del Risorgimento, Firenze, Le Monnier, in-8°, pp. 312.
2) Nello statuto della società segreta Esperia, fondata dai
fratelli Bandiera, si legge: «Non si facciano, se non con
sommo riguardo, affiliazioni tra la plebe, perché dessa quasi
sempre per natura è imprudente e per bisogno corrotta.
È da rivolgersi a preferenza ai ricchi, ai forti, e ai dotti,
negligendo i poveri, i deboli, gli ignoranti». Occorre
raccogliere tutte le osservazioni che nel primo periodo del
Risorgimento (prima del '48) si riferiscono a questo argomento e
vedere l'origine di questa differenza. Una causa è da
ricercare nei processi che seguirono il tentativo di rivolta
militare del '21 in Piemonte e altrove: differenza di atteggiamento
tra soldati e ufficiali; i soldati, o tradirono spesso o si
mostrarono molto deboli dinanzi ai giudizi nell'istruzione dei
processi.
Atteggiamento di Mazzini prima e dopo l'insurrezione del febbraio
1853 a Milano; dopo il 1853 sono da vedere le sue istruzioni a
Crispi per la fondazione di sezioni del Partito d'Azione in
Portogallo, nelle quali si raccomanda di mettere un operaio in ogni
comitato di tre.
Nel «Marzocco» del 30 settembre 1928 è riassunto,
col titolo La Serenissima meritava di morire?, un opuscolo
miscellaneo di Antonio Pilot (Stabil. Grafico U. Bortoli), in cui si
estraggono, da diari e memorie di Veneziani, opinioni sulla caduta
della Repubblica Veneta.
La responsabilità del patriziato era idea fissa delle classi
popolari. L'ultimo doge, Lodovico Manin racconta in certe sue
Memorie: «La cosa arrivò al grado che, passando un
giorno per una corti- cella a San Marcuola, una donna conoscendomi,
disse: " Almeno venisse la peste che così moriressimo noi
altre, ma morirebbero anche questi ricchi che ci hanno venduti e che
sono cagione che moriamo di freddo e di fame "». Il vecchio
desistette dalla passeggiata e si ritirò. Il Bertucci
Balbi-Valier in un sonetto intitolato I nobili veneti del /797 non
tradirono la Repubblica, scrive: «No, no xe vero, i nobili
tradio - No ga la patria nel novantasete» (ciò che
significa quanto profonda fosse la convinzione e come si cercasse di
combatterla).
Nella «Lettura» del 1928, Pietro Nurra pubblica il
diario inedito di un combattente delle Cinque Giornate di Milano, il
mantovano Giovanni Romani, stabilitosi una prima volta a Milano nel
1838 come cuoco alla «Croce d'Oro» in contrada delle
Asole, poi, dopo aver girato quasi tutta l'Italia, ritornato a
Milano, alla vigilia delle Cinque Giornate, all'osteria del
«Porto di Mare» in Santo Stefano. Il diario si compone
di una specie di taccuino di 199 pagine numerate, delle quali 186
scritte con calligrafia grossolana, e dicitura scorrettissima.
Mi pare molto interessante perché i popolani non sono solid
scrivere di questi diari, tanto più ottant'anni fa.
Perciò è da studiare per il suo valore psicologico e
storico: forse si trova nel Museo del Risorgimento a Milano.
Confrontare Le più belle pagine di Carlo Bini, raccolte da
Dino Provenzal. Giovanni Rabizzani, in uno studio su Lorenzo Sterne
in Italia, ricorda il Bini e rileva un notevole contrasto tra i due:
lo Sterne più incline alle analisi sentimentali e meno
scettico, il Bini più attento ai problemi sociali, tanto che
il Rabizzani lo chiama addirittura socialista. In ogni caso è
da notare che Livorno fu delle pochissime città che nel
1848-49 vide un profondo movimento popolare, un intervento di masse
plebee che ebbe vasta ripercussione in tutta la Toscana e che mosse
a spavento i gruppi moderati o conservatori (ricordare le Memorie di
G. Giusti). Il Bini è da vedere perciò, accanto al
Montanelli, nel quadro del 1849 toscano.
Confrontare nella rivista «Irpinia» (di Avellino) del
luglio 1931 (è riassunta nel «Marzocco» del 26
luglio 1931) la lettura di Nicola Valdimiro Testa sugli avvenimenti
svoltisi nella provincia di Avellino negli anni 1848-49. La
narrazione pare molto interessante per intendere quali fossero i
sentimenti popolari e quali correnti di passioni attraversassero le
grandi masse, che però non avevano un indirizzo e un
programma e si esaurivano in tumulti e atti brutali di violenza
disordinata. Partecipazione di alcuni elementi del clero a queste
passioni di massa che spiegano l'atteggiamento di alcuni preti verso
le così dette «Bande di Benevento». Si verifica
la solita confusione tra «comunismo» e «riforma
agraria» che il Testa (da ciò che appare nel riassunto
del «Marzocco») non sa criticamente presentare (come del
resto non sanno fare la maggior parte dei ricercatori di archivio e
degli storici). Sarebbe interessante raccogliere la bibliografia di
tutte le pubblicazioni come queste per gli anni del Risorgimento.
Paulo Fambri scrisse un articolo sui volontari nella «Nuova
Antologia» (o «Antologia») del 1867(?). Nella
«Nuova Antologia» del 1° agosto 1928, L'archivio
inedito di Paulo Fambri (di A. F. Guidi) è riportata una
lettera diretta al Fambri del generale C. di Robilant che era
direttore della Scuola superiore di Guerra di Torino (la lettera
è del 31 gennaio 1868) in cui si approva la prima parte
dell'articolo del Fambri. Il di Robilant aggiunge che dei 21.000
volontari del 1859 solo la metà o poco più era
presente nelle file combattenti (cfr. i giudizi di Plon-Plon contro
i volontari in questa stessa guerra del '59).
Nel numero del 24 maggio di «Gioventù Fascista»
(riportato dal «Corriere della Sera» del 21 maggio
1932), è pubblicato questo messaggio dell'on. Balbo:
«Le creazioni originali della storia e della civiltà
italiana, dal giorno in cui risorse dal letargo secolare ad oggi,
sono dovute al volontariato della giovinezza. La santa canaglia di
Garibaldi, l'eroico interventismo del '15, le Camicie Nere della
Rivoluzione fascista hanno dato unità e potenza all'Italia,
hanno fatto, di un popolo disperso, una nazione. Alle generazioni
che oggi si affacciano alla vita sotto il segno del Littorio, il
còm- pito di dare al secolo nuovo il nome di Roma».
L'affermazione che l'Italia moderna è stata caratterizzata
dal volontariato è giusta (si può aggiungere
l'arditismo di guerra), ma occorre notare che il volontariato, pur
nel suo pregio storico, che non può essere diminuito,
è stato un surrogato dell'intervento popolare, e in questo
senso è una soluzione di compromesso con la passività
delle masse nazionali. Volontariato-passività, vanno insieme
più di quanto si creda. La soluzione col volontariato
è una soluzione d'autorità, dall'alto, legittimata
formalmente dal consenso, come suol dirsi, dei
«migliori». Ma per costruire storia duratura non bastano
i «migliori», occorrono le più vaste e numerose
energie nazionali-popolari.
Italia reale e Italia legale.
La formula escogitata dai clericali dopo il '70 per indicare il
disagio politico nazionale risultante dalla contraddizione tra la
minoranza dei patriotti decisi e attivi e la maggioranza avversa
(clericali e legittimisti — passivi e indifferenti). A Torino si
pubblicò fino a qualche anno prima della guerra un quotidiano
(poi settimanale), diretto da un avv. Scala e intitolato
«L'Italia reale», organo del più nero
clericalismo.
Come sorse la formula, da chi fu escogitata e quale giustificazione
teorico-politico-morale ne fu data? Occorre fare una ricerca nella
«Civiltà Cattolica» e nei primi numeri della
stessa «Italia reale» di Torino, che negli ultimi tempi
si ridusse ad essere un insulso libello di sagrestia. La formula
è felice dal punto di vista «demagogico»,
perché esisteva di fatto ed era fortemente sentito un netto
distacco tra lo Stato (legalità formale) e la società
civile (realtà di fatto), ma la società civile era
tutta e solamente nel «clericalismo» ? Intanto la
società civile era qualcosa di informe e di caotico e tale
rimase per molti decenni; fu possibile pertanto allo Stato di
dominarla, superando volta a volta i conflitti che si manifestavano
in forma sporadica, localistica, senza nesso e simultaneità
nazionale. Il clericalismo non era quindi neanche esso l'espressione
della società civile, perché non riusci a darle
un'organizzazione nazionale ed efficiente, nonostante esso fosse
un'organizzazione forte e formalmente compatta: non era
politicamente omogenea ed aveva paura delle stesse masse che in un
certo senso controllava. La formula politica del non expe- dit fu
appunto l'espressione di tale paura ed incertezza: il boicottaggio
parlamentare, che pareva un atteggiamento aspramente intransigente,
in realtà era l'espressione dell'opportunismo più
piatto. L'esperienza politica francese aveva dimostrato che il
suffragio universale e il plebiscito a base larghissima, in date
circostanze, poteva essere un meccanismo favorevolissimo alle
tendenze reazionarie e clericali (cfr. a questo proposito le ingenue
osservazioni di Jacques Bainville nella sua Storia di Francia,
quando rimprovera al legittimismo di non aver avuto fiducia nel
suffragio universale, come invece aveva fatto Na- poleonc III); ma
il clericalismo italiano sapeva di non essere l'espres sione reale
della società civile e che un possibile successo sarebbe
stato effimero e avrebbe determinato l'attacco frontale da parte
delle energie nazionali nuove, evitato felicemente nel 1870.
Esperienza del suffragio allargato nel 1882 e reazione
crispino-massonica. Tuttavia, l'atteggiamento clericale di mantenere
«statico» il dissidio tra Stato e società civile
era obbiettivamente sovversivo; e ogni nuova organizzazione espressa
dalle forze che intanto maturavano nella società, poteva
servirsene come terreno di manovra per abbattere il regime
costituzionale monarchico: perciò la reazione del '98
abbatté insieme e socialismo e clericalismo, giudicandoli
giustamente ugualmente «sovversivi» e obbiettivamente
alleati. Da questo momento comincia pertanto una nuova polidca
vaticanesca, con l'abbandono di fatto del non expedit anche nel
campo parlamentare (il Comune era tradizionalmente considerato
società civile, e non Stato) e ciò permette
l'introduzione del suffragio universale, il patto Gendloni e
finalmente la fondazione nel 1919 del Partito Popolare. La quistione
dell'esistenza di un'Italia reale e un'Italia legale si ripresenta
in altra forma, negli avvenimenti del '24-26, fino alla soppressione
di tutti i partiti politici, con l'affermazione dell'essersi ormai
raggiunta l'identità tra il reale e il legale, perché
la società civile in tutte le sue forme era inquadrata da una
sola organizzazione politica di partito e statale.