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La Repubblica Romana del 1849 (nota anche con la denominazione di
Seconda Repubblica Romana, per non confonderla con quella di epoca
napoleonica) fu uno stato repubblicano sorto in Italia durante il
Risorgimento a seguito di una rivolta interna che nei territori
dello Stato pontificio estromise Papa Pio IX dai suoi poteri
temporali. Fu governata da un triumvirato composto da Carlo
Armellini, Giuseppe Mazzini ed Aurelio Saffi.
La piccola repubblica, nata nel febbraio 1849 a seguito dei grandi
moti del 1848, che coinvolsero tutta Europa, ebbe come
quest'ultimi vita breve (5 mesi, dal 9 febbraio al 4 luglio) a
causa dell'intervento militare della Francia di Napoleone III, che
per convenienza politica ristabilì l'ordinamento
pontificio, in deroga ad un articolo della costituzione francese.
Tuttavia quella della repubblica romana fu un'esperienza
significativa nella storia dell'unificazione italiana (che
rappresentava l'obiettivo della Repubblica), vide l'incontro e il
confronto di molte figure di primo piano del Risorgimento accorse
da tutta la Penisola, fra cui Giuseppe Garibaldi e Goffredo
Mameli. In quei pochi mesi Roma passò dalla condizione di
stato tra i più arretrati d'Europa a banco di prova di
nuove idee democratiche, ispirate principalmente al
mazzinianesimo, fondando la sua vita politica e civile su principi
(quali, in primis, il suffragio universale maschile; il suffragio
femminile in realtà non era vietato dalla Costituzione, ma
le donne ne restarono escluse per consuetudine; l'abolizione della
pena di morte e la libertà di culto), che sarebbero
diventate realtà in Europa solo un secolo dopo.
Storia
Antefatti
Moti rivoluzionari e costituzioni
Le vicende che portarono alla proclamazione della Repubblica Romana ebbero inizio nel gennaio 1848, quando giunse notizia dell'insurrezione di Palermo contro i Borboni di Napoli, insurrezione scoppiata il 12. Seguì una rivoluzione a Napoli, il 27, che costrinse, due giorni dopo, Ferdinando II a promettere la Costituzione, promulgata l'11 febbraio. Lo stesso 11 febbraio Leopoldo II di Toscana, cugino primo dell'imperatore in carica Ferdinando I d'Austria, concesse la Costituzione, nella generale approvazione dei suoi sudditi.
Dopodiché gli eventi si susseguirono incalzanti: il 22-24
febbraio la rivoluzione a Parigi si trasformò
nell'instaurazione della Seconda Repubblica; il 4 marzo Carlo
Alberto concesse ai suoi sudditi lo Statuto Albertino; il 14 marzo
Pio IX concesse lo statuto; il 13 marzo ci fu un'insurrezione a
Vienna che portò alla caduta di Metternich; il 17 marzo una
grande manifestazione popolare a Venezia impose al governatore la
liberazione dei detenuti politici, fra cui Daniele Manin; infine
il 18 marzo iniziarono le Cinque Giornate di Milano.
Le fasi iniziali della prima guerra di indipendenza
La notizia delle Cinque Giornate di Milano causò un vero e proprio sconvolgimento politico nell'intera penisola italiana: il 21 marzo Leopoldo II di Toscana, dichiarò guerra all'Impero Austriaco ed inviò l'esercito al comando del generale Cesare De Laugier verso il Quadrilatero, mentre due giorni dopo Carlo Alberto passò il Ticino e si mise in marcia verso Verona.
Il 24 marzo Pio IX permise la partenza da Roma per Ferrara di un Corpo d'Operazione al comando del generale Giovanni Durando. Si trattava di un ben completo corpo di spedizione, in assetto da campagna, per un totale di 7 500 uomini,[2] seguiti, due giorni dopo, da un corpo di volontari, la Legione dei Volontari Pontifici, formato da uomini provenienti dal centro Italia, affidato al generale Andrea Ferrari. Una forza tutt'altro che trascurabile, se si considera che l'esercito di Carlo Alberto ne contava circa 30 000. E ad essi andavano aggiunti i 7 000 toscani e, quando fossero giunti, i 16 000 napoletani.
Pio IX cambia fronte
Nel frattempo, Pio IX aveva cominciato a sconfessare gli
entusiasmi patriottici dei mesi precedenti. Con l'Allocuzione al
concistoro del 29 aprile 1848 condannò la guerra
all'Austria:
«ai nostri soldati mandati al confine pontificio
raccomandammo soltanto di difendere l'integrità e la
sicurezza dello Stato della Chiesa. Ma se a quel punto alcuni
desideravano che noi assieme con altri popoli e principi d'Italia
prendessimo parte alla guerra contro gli Austriaci... ciò
è lontano dalle Nostre intenzioni e consigli.»
Concludeva invitando gli italiani a
«restare attaccati fermamente ai loro principi, di cui
sperimentarono già la benevolenza e non si lascino mai
staccare dalla debita osservanza verso di loro.»
Egli si trovava, infatti, nell'insostenibile imbarazzo di
combattere una grande potenza cattolica:
«abbiamo saputo altresì che alcuni nemici della
religione cattolica hanno colto da ciò occasione per
infiammare gli animi dei tedeschi alla vendetta e staccarli dalla
Santa Sede … I popoli tedeschi pertanto non dovrebbero nutrire
sdegno verso di Noi se non ci fu possibile frenare l'ardore di
quei nostri sudditi che applaudirono agli avvenimenti
antiaustriaci dell'Italia settentrionale … altri sovrani europei,
che dispongono di eserciti più potenti del nostro non hanno
potuto di recente frenare l'agitazione dei loro popoli.»
Pio IX aveva l'impressione di stare combattendo una guerra la cui
vittoria avrebbe beneficiato solo il Regno di Sardegna.
La guerra dell'esercito romano in Veneto
Entrata in campo dell'esercito romano
Nel frattempo, le truppe di Durando erano entrate nel Veneto
austriaco, a Padova e Vicenza, evacuate da Costantino d'Aspre sin
dallo scoppio delle Cinque Giornate, per portarsi, con giusto
intuito della situazione, a Verona, vera chiave dei possessi
austriaci in Italia, ove si era ricongiunto con Radetzky, reduce
dell'umiliante sconfitta subita a Milano.
Informato dell'allocuzione del 29 aprile, l'esercito pontificio decise di non ubbidire al Papa e rimase a svolgere l'incarico affidatogli: coprire le città libere del Veneto, appoggiandosi alla solida roccaforte di Venezia, governata da Manin.
Esso, tuttavia, non venne mai raggiunto dai notevoli rinforzi
(circa 16 000 uomini) inviati dal Regno delle Due Sicilie, giunti
al Po ed in procinto di entrare in Veneto. Proprio al passaggio
del fiume, infatti, quel corpo di spedizione venne raggiunto
dall'ordine di Ferdinando II di Borbone di rientrare a Napoli:
rifiutarono l'ordine solo il generale Guglielmo Pepe, un vecchio
patriota, insieme all'artiglieria ed al genio (le ‘armi dotte’)
con le quali raggiunse Venezia, ove gli venne affidato il comando
supremo delle truppe. Il Pepe avrebbe offerto un meraviglioso
contributo lungo l'intero corso dell'assedio della città.
Ma non poté, in alcun modo, sostenere Durando.
Le due battaglie di Vicenza
Lasciato solo con circa 10.000 soldati pontifici, oltre ai
volontari veneti, Durando non riuscì ad impedire il
ricongiungimento del corpo d'armata di Nugent, che marciava
dall'Isonzo verso Verona, con Radetzky. Ma respinse bravamente
l'assalto a Vicenza di ritorno di 20.000 austriaci, conclusosi il
24 maggio.
Grandi furono gli elogi, in quei giorni, per i soldati dello Stato
della Chiesa di Durando, che avevano dimostrato un genuino spirito
nazionale, battendosi con valore a difesa di una città
veneta, guidando i volontari veneti.
Ma nulla poterono quando Radetzky, respinto ad occidente
dall'esercito di Carlo Alberto a Goito, rovesciò il fronte
e portò l'intero esercito (circa 40 000 uomini)
direttamente su Vicenza. Durando venne investito il 10 giugno:
ancora una volta i suoi accettarono battaglia e si portarono assai
bene ma dovettero, infine, capitolare. Secondo i patti, l'esercito
di Durando consegnò Vicenza e Treviso e promise di non
combattere gli austriaci per tre mesi. In cambio, venne loro
permesso di evacuare oltre il Po.
Prima invasione austriaca delle Legazioni
Poi venne la serie di scontri passati alla storia come la
battaglia di Custoza, il 23-25 luglio. Di lì Carlo Alberto
cominciò una veloce, ma ordinata, ritirata verso l'Adda e
Milano. Giunto in Milano, il re di Sardegna combatté, il 4
agosto la battaglia al termine della quale si risolse a chiedere
l'armistizio. I preliminari vennero sottoscritti il 5, il
definitivo il 9, a Vigevano. Gli austriaci non avevano, tuttavia,
atteso tanto per aggredire lo Stato della Chiesa: dopo una prima
incursione, probabilmente con fini di saccheggio, respinta dagli
abitanti di Sermide, non appena Carlo Alberto di Savoia si mise in
marcia per Milano, Radetzky inviò il generale Franz Ludwig
Welden e passò il Po verso Ferrara a partire dal 28 luglio
(mentre Franz Joachim Liechtenstein marciava su Modena e Parma,
per reinsediare i deposti duchi). Dopo un'avanzata che si
segnalò per saccheggi e predazioni Welden occupò
Ferrara e si presentò alle porte di Bologna. Qui, il
podestà Cesare Bianchetti cercò un accomodamento, ma
avvenne un incidente e Welden ne approfittò per ordinare
l'ingresso in città. Al che la popolazione insorse e, il 9
agosto, Welden ripiegò verso il Po.
La dura reazione di Pio IX
In effetti Welden agiva senz'alcuna autorizzazione da parte del governo papale e, anzi, Pio IX aveva protestato energicamente: scrisse di "invasione austriaca" e smentì "altamente ... le parole del signor maresciallo Welden … dichiarando che la condotta del signor Welden stesso è tenuta da Sua Santità come ostile alla Santa Sede ed a Nostro Signore". Tutto ciò considerato, quindi, i bolognesi si comportarono da fedeli sudditi di Pio IX e, infatti, ricevettero il plauso del ministro degli interni del governo papale, il conte Fabbri, che in un proclama ai Romani, parlò di "tracotanza dell'insolente straniero", "eroica difesa", "attentato allo Stato della Chiesa".
Crisi politica a Roma e fuga di Pio IX
Ricadute sul governo papale
Nel frattempo, a Roma e in tutto lo Stato della Chiesa, Pio IX
aveva cominciato a risentire di una crescente opposizione
politica, dovuta all'allocuzione del 29 aprile: a segnare il
tragico distacco del Papato dalla causa nazionale non poteva certo
bastare il generico richiamo alla "desiderata pace e concordia".
Già nei giorni successivi, a Roma la Guardia Civica aveva
occupato Castel Sant'Angelo e le porte della città. Mentre
giungevano al capo di governo, cardinale Giacomo Antonelli, le
rimostranze dei governi sardo, toscano, dei rappresentanti di
Sicilia, Lombardia e Venezia.
Seguivano le dimissioni di ben sette ministri (fra cui Marco Minghetti) ed un proclama papale del 1º maggio, in cui, richiamate le passate "dimostrazioni d'affetto" e le riforme, il pontefice ribadiva che "Noi siamo alieni dal dichiarare una guerra, ma nel tempo stesso Ci protestiamo incapaci di frenare l'ardore di quella parte di sudditi che sono animati dallo stesso spirito di nazionalità degli altri Italiani". Pio IX invitava i sudditi ad essere "obbedienti a chi li governa". Il corpo di spedizione veniva descritto come "figli e sudditi che già si trovano senza nostro volere esposti alle vicende della guerra".
Dopodiché, il 3 maggio Pio IX compiva un estremo tentativo di raddrizzare la situazione: affidando l'incarico per un nuovo governo al conte Terenzio Mamiani e scrivendo una lettera privata a Ferdinando I d'Austria, contenente l'invito a rinunciare al Lombardo-Veneto.
I governi Mamiani e Fabbri
Da Ferdinando I non giunse risposta; Mamiani (dopo aver inaugurato il parlamento romano il 5 giugno), diede a sua volta le dimissioni (12 luglio) per dissenso rispetto alla linea strettamente neutralista del pontefice, esattamente come il predecessore Minghetti.
Il 2 agosto Mamiani venne sostituito da Odoardo Fabbri. Il nuovo
governo inviò nelle Legazioni Luigi Carlo Farini,
segretario generale al Ministero dell'Interno. Giunto il 2
settembre, Farini si adoperò per ripristinare l'ordine
pubblico, gravemente turbato dai postumi della fallita invasione
di Welden. Tuttavia, ciò costrinse il ministero alle
dimissioni, rassegnate il 16 settembre.
Il governo di Pellegrino Rossi
Pio IX tentò, allora, l'ultima carta, e sostituì
Fabbri con il conte Pellegrino Rossi, già ambasciatore di
Luigi Filippo di Francia, rimasto a Roma dopo la rivoluzione del
febbraio 1848. Rossi si mostrò attento alle istanze
patriottiche, decretando sussidi e pensioni ai feriti e alle
vedove di guerra e chiamò a dirigere il dicastero della
Guerra il generale Carlo Zucchi, già generale di Eugenio di
Beauharnais e patriota risorgimentale, con il risultato di
alienargli i favori della Curia e degli ambienti conservatori,
minacciati nei loro privilegi feudali, senza neppure convincere i
rivoluzionari delle sue buone intenzioni.
Cause della debolezza del governo Rossi
La questione che dominava la politica italiana, tuttavia, era direttamente legata alla prevista ripresa delle ostilità fra il Regno di Sardegna e l'Impero Austriaco. Vigeva, infatti, l'armistizio di Salasco, ma i due contendenti principali (Carlo Alberto e Radetzky) sapevano che avrebbe avuto breve durata. Il governo sabaudo e i patrioti risorgimentali, cercarono, quindi, di profittare della tregua per allineare quante più forze possibili. Persa ogni illusione rispetto a Ferdinando II delle Due Sicilie, la questione fondamentale riguardò l'atteggiamento di Firenze e Roma.
Nel Granducato le cose si erano ormai chiarite a favore della causa nazionale quando Leopoldo II, dopo aver licenziato i governi moderati di Ridolfi (il 17 agosto) e Capponi (il 9 ottobre), conferì, il 27 ottobre, l'incarico al democratico Giuseppe Montanelli. Egli prese Guerrazzi come ministro degli Interni ed inaugurò una politica ultrademocratica, ovvero, nella terminologia politica dell'epoca, volta all'unione con gli altri stati italiani ed alla ripresa congiunta della guerra all'Austria.
Nei confronti della causa nazionale, erano annoverati tra i
maggiori oppositori Pio IX e Pellegrino Rossi. Quest'ultimo non
negava l'esigenza della rigenerazione nazionale, ma riprendeva, in
pratica, il programma moderato, spazzato via in marzo dalle cinque
giornate di Milano. Nei termini del dibattito dell'epoca, Rossi si
diceva sostenitore di una "Lega di prìncipi", mentre
eminenti personalità del cattolicesimo nazionale, Antonio
Rosmini e Vincenzo Gioberti miravano ad una confederazione.
Ciò voleva dire affermare la piena autonomia dello Stato
della Chiesa e negare ogni sostegno a Carlo Alberto e Lepoldo II,
nel caso di un'eventuale ripresa della guerra all'esercito di
Radetzky.
La crisi politica del Papato
Il 15 novembre riaprì il Parlamento e Pellegrino Rossi
venne accoltellato a morte da un gruppo di cui faceva parte un
figlio del capopopolo democratico Ciceruacchio. In serata lo
stesso Ciceruacchio, insieme a Carlo Luciano Buonaparte, principe
di Canino[3] inscenò sotto il Palazzo del Quirinale, una
tumultuosa manifestazione, per chiedere "un ministro democratico,
la costituente italiana e la guerra all'Austria". La folla
portò anche un cannone, che puntò contro il palazzo:
si venne allo scontro a fuoco con la Guardia Svizzera Pontificia
al termine del quale restò ucciso un monsignore addetto ai
Sacri Palazzi. Pio IX convocò il corpo diplomatico e
affermò: "Accettare le condizioni [della folla] sarebbe per
me abdicare ed io non ne ho il diritto "[4]; dichiarò
davanti al corpo diplomatico che agiva sotto costrizione e che
considerava nulle tutte le concessioni che avrebbe fatto.
Dopodiché incaricò il democratico Giuseppe Galletti
di formare un nuovo governo. La scena si ripeté due giorni
più tardi, la sera del 17, quando la stessa folla armata si
ripresentò davanti al Quirinale, chiedendo l'allontanamento
degli Svizzeri. Ancora una volta Pio IX preavvisò il corpo
diplomatico e assecondò le pressioni popolari. Il Papa
nominò mons. Carlo Emanuele Muzzarelli (un alto prelato
sensibile alle istanze liberali) Capo del governo (costituito da 6
ministri).
Roma senza il Papa
La sera del 24 novembre il Papa fuggì da Roma, vestito
come un semplice sacerdote, in carrozza chiusa ed accompagnato da
un suo collaboratore segreto. Raggiunse il conte Spaur,
ambasciatore di Baviera e, la sera del 25, era già al
sicuro nella fortezza di Gaeta. Pio IX si pose sotto la protezione
del Regno delle Due Sicilie. Successivamente richiese l'intervento
delle potenze cattoliche per ristabilire l'ordine nello Stato
Pontificio.
Lo scontro di poteri si acuì: da Gaeta il Papa
nominò una Commissione governativa cui affidava la gestione
temporanea degli affari pubblici, esautorando il governo. A Roma,
dove le istituzioni erano in mano al Circolo popolare, il
Consiglio dei deputati confermò i poteri del governo e
decise di avviare delle trattative con il papa. Il 6 dicembre una
delegazione di consiglieri[5] partì per Gaeta con
l'intenzione di trattare. I consiglieri vennero però
fermati a Portello, sul confine napoletano, dalle truppe
dell'esercito borbonico. I delegati dovettero fare ritorno a Roma.
A Roma il 12 dicembre il Consiglio dei deputati nominò una “provvisoria e suprema Giunta di Stato”[6] cui erano devoluti tutti i poteri di governo. Da Gaeta il 17 dicembre il Papa emise un motu proprio con cui, sostenendo l'avvenuta “usurpazione dei Sovrani poteri”, dichiarava sacrilega la costituzione della Giunta. Il 20 dicembre la Giunta emise un proclama in cui prometteva la convocazione di una Costituente romana.
Il 23 si dimisero i ministri Mamiani, Lunati e Sereni. Furono sostituiti effettuando un rimpasto di governo. Furono chiamati Carlo Armellini, cui fu affidato il dicastero dell'Interno, Federico Galeotti, che assunse quello della Giustizia, e Livio Mariani, cui andò quello delle Finanze. Mons. Muzzarelli, oltre alla presidenza del Consiglio e al ministero dell'Istruzione, prese il portafoglio degli Esteri.
Il 26 la Giunta sciolse le due Camere. Il 29 convocò le
elezioni per il 21-22 gennaio 1849.
Decreto di indizione delle elezioni per l'Assemblea Costituente
(29/12/1848)
È convocata in Roma
un'Assemblea Nazionale, che con pieni poteri rappresenti lo
Stato romano.
L'oggetto della medesima
è di prendere tutte quelle deliberazioni che
giudicherà opportune per determinare i modi di dare un
regolare, compiuto e stabile ordinamento alla cosa pubblica, in
conformità dei voti e delle tendenze di tutta o della
maggior parte della popolazione.
Sono convocati i comizi
per le elezioni del 21 gennaio 1849.
Duecento il numero dei
rappresentanti.
Il voto sarà
diretto e universale.
Gli elettori tutti i cittadini
dello Stato dagli anni ventuno compiuti, che vi risiedono da un
anno e non privati dei diritti civili.
Eleggibili tutti i
medesimi che abbiano compiuto l'età di 25 anni.
Il 5 di febbraio
destinato all'apertura dell'Assemblea.
Il 1º gennaio il Papa emanò un motu proprio con il
quale condannò la convocazione dell'Assemblea Costituente e
comminò la scomunica sia a coloro che avevano emanato il
provvedimento sia a coloro che avessero partecipato alla
consultazione elettorale. Le elezioni si svolsero comunque e
decretarono la vittoria dei radicali. Legittimisti e moderati, le
componenti sociali più sensibili al richiamo del pontefice,
infatti, non si recarono ai seggi.
Vennero eletti 179 Rappresentanti del popolo. Per dare un
carattere nazionale all'Assemblea, si elessero anche cittadini
degli altri Stati italiani. Tra di essi, Giuseppe Garibaldi,
eletto a Macerata, e Giuseppe Mazzini.
Proclamazione della Repubblica
L'assemblea, che aveva come presidente Giuseppe Galletti e
vicepresidenti Aurelio Saffi e Luigi Masi, venne inaugurata il 5
febbraio e votò la proclamazione della repubblica
(contrario il Mamiani). La base della Costituzione della
Repubblica Romana era invece nell'ordine del giorno elaborato da
Quirico Filopanti che l'Assemblea costituente approvò il 9
febbraio 1849 con 118 voti favorevoli, 8 contrari e 12 astenuti.
Fu pubblicato il giorno seguente nei seguenti articoli:
«Decreto fondamentale della Repubblica Romana
Art. 1: Il papato è decaduto di fatto e di diritto dal
governo temporale dello Stato Romano.
Art. 2: Il Pontefice Romano avrà tutte le guarentigie
necessarie per l'indipendenza nell'esercizio della sua
potestà spirituale.
Art. 3: La forma del governo dello Stato Romano sarà la
democrazia pura e prenderà il glorioso nome di Repubblica
Romana.
Art. 4: La Repubblica Romana avrà col resto d'Italia le
relazioni che esige la nazionalità comune.»
(Assemblea Costituente Romana. Roma, 9 febbraio 1849. Un'ora del
mattino. Il Presidente dell'Assemblea G. Galletti.)
Il decreto portava la firme del presidente dell'Assemblea
costituente Giuseppe Galletti e dei segretari Giovanni Pennacchi,
Ariodante Fabretti, Antonio Zambianchi e Quirico Filopanti.
La repressione della rivoluzione siciliana
La medesima crisi politica si produsse anche nel Regno delle Due
Sicilie. Il 15 giugno, ad un mese di distanza dalla
controrivoluzione del 15 maggio, Ferdinando II di Borbone
celebrò nuove elezioni generali. Ma ottenne solo la
rielezione di quasi tutti i deputati del disciolto parlamento. La
questione politica era chiaramente posta: il sovrano desiderava
unicamente reprimere l'insurrezione siciliana, il Parlamento
rispondeva che: "la nostra politica di rigenerazione non
può essere perfetta senza l'indipendenza e la
ricostituzione dell'intera nazionalità italiana”.
Cosicché accadde che, già il 5 settembre, il sovrano
prorogò la riapertura delle camere al 30 novembre ed
inviò Carlo Filangeri, con 24 000 uomini, numerose
artiglierie e la flotta su Messina, che venne duramente
bombardata, presa e saccheggiata il 6-7 settembre (ciò che
guadagnò a Ferdinando II il soprannome di "re bomba"). A
quel punto Ferdinando aveva ripreso saldamente in mano la
situazione: prorogò ulteriormente la riapertura delle
camere al 30 novembre, subì un nuovo voto patriottico ed,
infine, le sciolse per sempre, il 12 marzo 1849. Si erano poste,
così, in pratica tutte le condizioni che avrebbero
prodotto, 11-12 anni più tardi, al collasso del Regno sotto
l'urto di Garibaldi e della sua spedizione dei mille. Ma, per il
momento, Ferdinando era l'unico sovrano ben saldo al potere in
Italia centro-meridionale ed il migliore alleato della
restaurazione austriaca.
Conseguenze della proclamazione della Repubblica Romana
Le conseguenze nel Granducato di Toscana
Giunta a Firenze notizia della Costituente romana, il primo
ministro toscano Montanelli richiese al granduca l'elezione di
trentasette deputati toscani da mandarsi alla Costituente romana.
Fece approvare la proposta dal parlamento, ma la necessaria
controfirma del Granduca non giunse mai in quanto, il 30 gennaio,
questi abbandonò Firenze per Siena, da dove, il 21, salpava
per Gaeta, ove si mise sotto la protezione di Ferdinando II. A
Firenze il 15 venne proclamata la repubblica e, il 27 marzo,
Guerrazzi dittatore.
La richiesta di intervento delle potenze cattoliche
Giunto a Gaeta, Leopoldo II richiese (o, piuttosto, accettò) l'offerta di protezione che gli veniva da suo cugino, l'imperatore d'Austria Francesco Giuseppe. Era stato di poco preceduto dal Segretario di Stato di Pio IX, cardinale Antonelli, il quale, il 18 febbraio, inviò ad Austria, Francia, Regno delle Due Sicilie e Spagna una nota diplomatica: «avendo il Santo Padre esauriti tutti i mezzi che erano in suo potere, spinto dal dovere che ha al cospetto di tutto il mondo cattolico di conservare integro il patrimonio della Chiesa e la sovranità che vi è annessa, così indispensabile a mantenere, come Capo Supremo della Chiesa stessa … si rivolge di nuovo a quelle stesse potenze, e specialmente a quelle cattoliche … nella certezza che vorranno con ogni sollecitudine concorrere … rendendosi così benemerite dell'ordine pubblico e della Religione».
L'uscita di scena del Regno di Sardegna
Lo stesso giorno, Radetzky fece partire da Verona un piccolo corpo
di spedizione di 6 000 uomini, che invasero lo Stato Pontificio.
Ma si limitarono ad occupare Ferrara, in attesa degli eventi. La
repressione della Repubblica Romana e della Repubblica Toscana,
infatti, richiedeva un'ingente spedizione militare che, pendente
il provvisiorio armistizio di Salasco, né Austria né
Regno di Sardegna potevano permettersi di impiegare. Mentre il
Regno delle Due Sicilie era impegnato nella repressione
dell'insurrezione siciliana (Messina venne investita il 6
settembre e saccheggiata il 7) e del Parlamento napoletano.
Occorreva, quindi, che una guerra decidesse, definitivamente,
della supremazia in Lombardia. Il momento venne il 12 marzo,
quando l'inviato di Carlo Alberto comunicò al Radetzky il
recesso dell'Armistizio di Salasco. La guerra si concluse
rapidamente, il 22-23 marzo con la sconfitta piemontese di Novara
e l'armistizio del 24.
A quel punto il nuovo sovrano Vittorio Emanuele II, dovette
concentrarsi sulla caotica situazione politica interna (30 marzo
scioglimento delle camere e nuove elezioni, governo d'Azeglio
1º-5 aprile repressione dei moti di Genova, arresisi il 10,
18 giugno sgombero austriaco da Alessandria, 6 agosto Pace di
Milano). La maggiore conseguenza della sconfitta fu la rinuncia
del Regno sardo piemontese ad ogni influenza in Italia. Almeno
finché l'ordine non fosse ristabilito. E sarebbero occorsi
alcuni anni.
Radetzky ha mano libera
Nelle giornate successive a Novara, Radetzky chiuse anche la
partita con i patrioti lombardi, soffocando sul nascere alcuni
tentativi di ribellione (Como) e soffocandone nel sangue altri
(Brescia). Mentre continuava unicamente l'assedio di Venezia.
L'invasione della Toscana
A regolare la pratica il feldmaresciallo inviò il suo uomo
migliore: il luogotenente-feldmaresciallo Costantino d'Aspre
(reduce dalle brillanti vittorie di Volta Mantovana, Mortara e
Novara), che, all'inizio di aprile, procedette alla rioccupazione
di Parma, con il titolo di "Governatore supremo degli Stati di
Parma". Dopodiché il d'Aspre si presentò sotto
l'Appennino con 18 000 uomini, cento cannoni, genio ed un po'
tutto il necessario ad una vera e propria campagna militare. Il 5
maggio occupava Lucca, il 6 Pisa. Livorno chiuse le porte e venne
bombardata il 10 maggio, assalita, presa e saccheggiata l'11
(fonti contemporanee parlano di 317 fucilazioni ed 800 morti).
Qui la Repubblica del Guerrazzi era stata rovesciata già il
12 aprile dai moderati del municipio di Firenze, i quali aveva
subito richiamato il Granduca e trasferito i propri poteri ad un
suo plenipotenziario, Serristori, tornato a Firenze il 4 maggio.
Ciò nonostante, il 25 maggio d'Aspre entrò in
Firenze, pose la città come in stato d'assedio e sottopose
alla giurisdizione dei tribunali militari austriaci anche il
giudizio dei reati comuni. Leopoldo II rientrò a Firenze
solo il 28, e sancì la occupazione militare austriaca con
apposita convenzione militare, firmata nel 1850.
La seconda invasione delle Legazioni e l'assedio di Ancona
L'occupazione della Toscana era necessaria agli austriaci, non
solo per ragioni dinastiche, ma pure per ribadire la propria
influenza sull'Italia centrale, in vista del prossimo sbarco di un
corpo di spedizione francese, inviato da Napoleone III, non ancora
Imperatore a reprimere la Repubblica Romana guidata dal Mazzini.
Parallelamente all'azione del d'Aspre, infatti, il generale
Wimpffen si presentò dinnanzi a Bologna. Questi aveva due
vantaggi preziosi rispetto a Welden: agivano non più come
invasori, ma “in nome del Papa Re”, e il corpo di spedizione era
formato da ben 16 000 uomini, dal momento che Radetzky non aveva
più necessità di tenere guarnito il confine del
Ticino. L'assalto contro la città, difesa da meno di 4 000
volontari, cominciò l'8 maggio. Wimpffen venne rinforzato
da Karl von Gorzkowski, giunto il 14 maggio da Mantova con truppa
e cannoni d'assedio. Il 15 la città venne bombardata e si
arrese, il 16 maggio.
Wimpffen proseguì allora per la munita piazzaforte di
Ancona, raggiunta il 25 maggio. La città era una
piazzaforte ben munita, guidata dal coraggioso Livio Zambeccari,
ma difesa da appena quattromila soldati, provenienti da varie
regioni d'Italia. L'attacco da terra e da mare cominciò il
27. Il 6 giugno Wimpffen ricevette il parco d'assedio di
Gorzkowski, cinquemila Toscani inviati da Leopoldo II e condotti
dal Liechtenstein. Dopo due settimane di bombardamenti e vari
episodi di eroismo specie da parte del "Drappello della Morte"
composto dai più giovani, il 17 giugno Zambeccari
accettò la proposta di resa avanzata dal Wimpffen, firmata
il 19. Il 21 consegnò la Cittadella ed i forti; i difensori
della città furono salutati dai vincitori con l'onore delle
armi. Per l'assedio del 1849 Ancona fu insignita, una volta
entrata nel Regno d'Italia, della medaglia d'oro. Seguì
un'occupazione durante la quale fu fucilato Antonio Elia, cuore
della resistenza agli austriaci.
La parallela invasione francese
Il triumvirato
Nel frattempo, anche a Roma, alla notizia della disfatta di Novara venne nominato un triumvirato plenipotenziario, composto da Aurelio Saffi, deputato di Forlì, Carlo Armellini, deputato di Roma, e da Giuseppe Mazzini, deputato eletto nei collegi di Ferrara e Roma: era evidente lo sforzo di tenere unite le due principali province dello Stato della Chiesa, come si vede anche dal fatto, ad esempio, che di Forlì era pure il Ministro di Grazia e Giustizia, Giovita Lazzarini, mentre quello delle Finanze, Giacomo Maria Manzoni, era di Lugo di Romagna.
Lo sbarco a Civitavecchia
Nel frattempo, i circa 7 000 uomini del corpo di spedizione
francese, guidati dal generale Oudinot, duca di Reggio, che
stazionavano su dieci navi da guerra salpate da Tolone il 22
aprile al comando del contrammiraglio Tréhouart, sbarcarono
a Civitavecchia il giorno 24.
Per ottenere il consenso allo sbarco, i francesi proclamarono che: "Il governo della Repubblica Francese … dichiara di rispettare il voto delle popolazioni romane … è deciso altresì di non imporre a queste popolazioni alcuna forma di governo che non sia da loro accettato". Nei giorni successivi le rassicurazioni vennero ripetute direttamente all'Assemblea Costituente a Roma.
Esse, tuttavia, dovettero scontrarsi soprattutto con la sorpresa dei romani di fronte all'inattesa comparsa delle truppe francesi. Essa non era stata, infatti, preceduta da alcuna dichiarazione né ultimatum. Si accompagnava, inoltre, all'esplicita richiesta di permettere l'occupazione del Lazio.
La disonorevole pretesa era accompagnata, infine, da una spiegazione ancor più umiliante: i messi dell'Oudinot dichiaravano che l'occupazione serviva a "mantenere la sua (della Francia) legittima influenza". In termini più espliciti a "impedire l'intervento dell'Austria, della Spagna e di Napoli". Si trattava di un'affermazione figlia della più dura realpolitik, la quale sottintendeva la considerazione che ai sudditi di Pio IX, non restasse che l'alternativa fra Vienna e Parigi. Il che, nelle condizioni date, era probabilmente esatto. Ma aveva il grave difetto di non tenere in alcun conto il nuovo sentimento patriottico italiano, così forte in quel 1848-49 e già gravemente ferito dalla sconfitte di Custoza e Novara. Un sentimento assai popolare anche a Roma e la cui forza era ben chiara ai democratici dell'Assemblea Costituente e del triumvirato. Molti di essi, infine, sapevano di dover temere, in caso di insuccesso, la vendetta del partito di Pio IX.
In definitiva, le avare profferte di Oudinot erano inaccettabili e come tali vennero respinte.
Chiaramente, la spedizione francese soffriva di una pessima comprensione della situazione politica italiana. Ciò fu confermato dalle disposizioni del ministro degli Esteri francese Édouard Drouyn de Lhuys a Oudinot di marciare, il 28 aprile, con circa 6 000 uomini e senza cannoni su Roma. Il generale ebbe l'avventatezza di proclamarlo ai propri soldati: "non troveremo nemici … ci considereranno come liberatori". In effetti un simile doppio gioco sarebbe risultato inaspettato. Anche l'art. V del Preambolo della Costituzione repubblicana francese del 4 novembre 1848 allora in vigore, recitava: "... Essa (la Repubblica Francese) rispetta le nazionalità estere, come intende far rispettare la propria; non imprende alcuna guerra a fini di conquista, e non adopera mai le sue forze contro la libertà d'alcun popolo". Un intervento militare francese per riportare sul trono di Roma il papa era pertanto illegale, come riconoscevano già allora anche alcuni parlamentari francesi non compromessi con gli interessi del futuro Imperatore francese.
Lo sbarco a Porto d'Anzio dei Bersaglieri lombardi
Il 27 aprile giunsero in porto a Civitavecchia due battelli, il
"Colombo" ed il "Giulio II", salpati da Chiavari. Essi
trasportavano 600 bersaglieri della disciolta 'Divisione Lombarda'
dell'esercito sardo: tale divisione era stata costituita nel corso
della campagna del 1848 con reclute e volontari provenienti dalle
province liberate del Lombardo-Veneto. Rimasta inquadrata
nell'armata di Carlo Alberto dopo l'Armistizio di Salasco, la
divisione non partecipò alla battaglia di Novara a causa di
un'errata decisione del suo comandante, il generale Ramorino;
dopodiché venne assegnata al Fanti e trasferita in Liguria,
ove diede ad intendere di voler supportare i rivoltosi nel corso
della repressione di Genova. Le conseguenze furono pari alle
attese: Ramorino venne fucilato, Fanti allontanato dall'esercito
(ingiustamente e per alcuni anni), la divisione sciolta. Questo
rese liberi quelli che volevano combattere (peraltro
impossibilitati a rientrare nel Lombardo-Veneto) di andare ove
ancora ci si batteva.
I 600 bersaglieri rappresentavano una forza significativa, in
quanto la loro composizione sostanzialmente rispecchiava quelle
già sperimentata nella 'Divisione Lombarda', probabilmente
grazie alla particolare personalità del loro comandante,
Luciano Manara.
Giunti a Civitavecchia, essi furono sorpresi dalla presenza delle truppe francesi di Oudinot, che cercò di impedirne lo sbarco. Dopodiché, insicuro della città appena occupata e certo di chiudere la partita entro pochi giorni, preferì temporeggiare, permettendo di farli proseguire per Porto d'Anzio, dove sbarcarono il 27 aprile, in cambio dell'impegno di Manara a non combattere prima del 4 maggio.
Giunsero, così, a Roma, il 28, con marcia forzata, ove avrebbero offerto un contributo assai significativo alla difesa della Repubblica.
Il fallito assalto francese a Roma del 30 aprile
Roma era difesa da circa 10 000 soldati della Repubblica (l'altra metà dei 20 000 che componevano l'esercito era dislocata in altre zone del Lazio). Le truppe erano suddivise in quattro brigate: la prima, comandata da Garibaldi, presidiava il Gianicolo tra Porta Portese e Porta San Pancrazio, la seconda, agli ordini del colonnello Luigi Masi stazionava sulle mura tra porta Angelica e porta Cavalleggeri, la terza, con i dragoni del colonnello Savini controllava le mura della riva sinistra del Tevere mentre la quarta, al comando del colonnello Galletti, rappresentava un reparto di riserva dislocato tra la Chiese Nuove e largo Argentina. L'attacco francese giunse il 30 aprile e il corpo di spedizione si presentò di fronte a Porta Cavalleggeri e Porta Angelica con 5 000 soldati. Il contingente di Oudinot venne preso a cannonate e a fucilate e fu ignominiosamente respinto dai militi della Guardia Civica mobilizzata, denominata anche Guardia Nazionale per l'aggiunta dei Corpi Civici provenienti da altre città degli Stati Romani, comandata da Ignazio Palazzi che aveva ricevuto il compito di difendere le Mura Vaticane. Nei combattimenti, durati sino a sera, tuttavia si distinse principalmente Garibaldi, il quale, uscito quando i francesi stavano già per desistere, da Porta San Pancrazio (sul Gianicolo) con il Battaglione Universitario Romano e con la sua Legione Italiana, con un attacco alla baionetta sorprese alle spalle gli assedianti in ritirata a Villa Doria-Pamphili, provocandone la rotta. In serata Oudinot ordinò la ritirata su Civitavecchia, lasciando dietro di sé oltre 500 morti e 365 prigionieri.
La giornata del 30 aprile
Al termine della giornata, la Repubblica aveva ottenuto un trionfo: oltre ad aver mostrato l'attaccamento della popolazione e dell'esercito, aveva voluto dimostrata la pretestuosità degli argomenti di coloro che giustificavano la repressione dell'Italia come un'operazione di polizia contro le "tirannidi giacobine". E ciò oltre un mese dopo Novara, la battaglia dove la causa italiana aveva perso ogni speranza di successo. In tal senso, la giornata del 28 aprile fu davvero molto importante e può essere considerata come una delle date fondamentali della storia d'Italia. In secondo luogo, l'intervento francese si configurava una non provocata invasione volta al restauro del governo assolutistico del potere temporale. Ciò che non mancò di provocare feroci reazioni nella politica parigina.
I repubblicani non sfruttano le opportunità
Tali risultati erano talmente importanti da consigliare Mazzini,
dato il totale isolamento della Repubblica Romana che non era
stata riconosciuta da alcuna potenza internazionale, di impedire a
Garibaldi di inseguire e umiliare i fuggitivi, compiendone la
possibile strage, e a indurlo inoltre a liberare i numerosi
prigionieri e a non comandare un assalto, pure possibile, a
Civitavecchia in vista di un possibile accomodamento
politico-diplomatico con la Repubblica francese. Tali scelte
furono in seguito molto criticate, alla luce del successivo
indurirsi della posizione francese. E certamente pesò un
generale pregiudizio favorevole alla patria di Napoleone I e della
grande rivoluzione. Tuttavia esso contribuì fortemente ad
abbellire l'immagine della Repubblica e della causa italiana in
Europa; inoltre occorre sottolineare che il massacro dei fuggitivi
dell'Oudinot avrebbe avuto l'unico risultato di provocare una
durissima reazione francese e di invogliare Radetzky ad accelerare
l'invasione dello Stato della Chiesa, che già attentamente
pianificava, offrendogli l'occasione di espellere i francesi dalla
penisola per molti anni (gli eventi del 1859 avrebbero dimostrato
l'esattezza di tale calcolo).
Tregua di fatto con la Francia
Verificate le intenzioni del Mazzini, Oudinot
contraccambiò, mandando libero un battaglione di
bersaglieri che aveva catturato a Civitavecchia, e il padre Ugo
Bassi mentre impartiva l'estrema unzione ad un ferito francese.
Informato degli avvenimenti, Luigi Napoleone, presidente della
Repubblica francese, non mostrò alcuna esitazione:
già il 7 maggio accolse per iscritto tutte le richieste di
rinforzo avanzate dall'Oudinot, e il 9, a Tolone, si imbarcava in
tutta fretta, un nuovo ambasciatore plenipotenziario, il barone di
Lesseps, con l'incarico di pattuire una tregua d'armi. Si tratta
di due reazioni prese rapidissimamente, se si considerano i tempi
necessari per le comunicazioni da Roma a Parigi. Tanta fretta era
giustificata dall'approssimarsi delle elezioni legislative
francesi, fissate per il 13 maggio: la restaurazione del Papa Re
costituiva uno dei principali temi del dibattito e la maggioranza
del corpo votante era senz'altro a favore dell'integrale
restaurazione del potere di Pio IX. Né v'era in Italia
alcuna potenza capace di opporvisi. Mentre l'Inghilterra anglicana
giocava, come di consueto nell'Ottocento italiano (nonostante
quanto da molti sostenuto) un ruolo assai più defilato: la
questione italiana non rappresentava certo una priorità per
Londra.
Se v'era ancora qualche dubbio, esso fu spazzato via dall'esito
delle elezioni, che diedero ai candidati monarchici e moderati una
maggioranza di 450 seggi su 750, relegando i democratici (come il
Ledru-Rollin) ad un ruolo di puri spettatori.
L'invasione napoletana
Oltre che dalle necessità elettorali, Luigi Napoleone (ed
il presidente del consiglio Barrot) era spinto alla massima
celerità anche dalla concorrenza delle altre potenze
desiderose di esercitare la loro influenza sulla penisola italiana
(e nel cuore del Pontefice): in particolare, come abbiamo visto,
il Wimpffen aveva assediato Bologna fra l'8 ed il 16 maggio. E si
accingeva a marciare su Ancona. Già nel 1831, a seguito
dell'intervento austriaco in Romagna la Francia della Monarchia di
Luglio aveva inviato un corpo di spedizione ad occupare Ancona, al
fine di riaffermare il droit de regarde di Parigi sugli affari
italiani. E il nipote di Napoleone il Grande non poteva certamente
essere da meno del re borghese Luigi Filippo.
La parallela invasione napoletana e spagnola
Esisteva, inoltre, un secondo concorrente: Ferdinando II, re delle
Due Sicilie. Nei mesi precedenti egli era stato alle prese con
l'insurrezione siciliana (che proprio in quei giorni andava
spegnendosi, con l'avanzata del generale Filangieri sino a
Bagheria, il 5 maggio, e la capitolazione di Palermo, il 14
maggio) e con la repressione delle libertà costituzionali a
Napoli (le camere vennero sciolte una prima volta il 14 giugno
1848 e poi ancora il 12 marzo 1849, dopodiché venne
restaurato il potere assoluto del sovrano). La repressione delle
due opposizioni stava, tuttavia, perfezionandosi e il re di Napoli
poteva contare sull'indubbio prestigio che gli derivava
dall'ospitare (sin dal 25 novembre 1848) Pio IX nella munitissima
fortezza di Gaeta. Ferdinando, decise di tentare l'avventura ed
inviò ad invadere la Repubblica Romana il generale
Winspeare, alla testa di un corpo di spedizione forte di 8 500
uomini, con cinquantadue cannoni e cavalleria.
La battaglia di Palestrina
Si fece loro incontro Garibaldi, con 2 300 uomini ben motivati, che condusse il 9 maggio fuori Palestrina. Qui si scontrò con l'avanguardia napoletane del generale Ferdinando Lanza che avanzava sulla cittadina. Garibaldi che tra le sue forze contava anche il battaglione bersaglieri lombardi, al comando di Luciano Manara, contrattaccarono e costrinsero Lanza alla ritirata. La vittoria fu comunque parziale poiché il grosso dell'esercito borbonico non era stato impegnato in battaglia.
La battaglia di Terracina
Alcuni giorni più tardi, il 16 maggio, il nuovo comandante
dell'esercito romano, il generale Roselli (che era affiancato dal
Pisacane, quale suo capo di Stato Maggiore) mosse i suoi 10 000
uomini verso i quartieri del Lanza su Velletri ed Albano. Qui il
Lanza era stato nel frattempo raggiunto da Ferdinando II in
persona e, messo di fronte ad una nuova battaglia, preferì
ordinare ai suoi 16 000 soldati di ripiegare verso Terracina.
Garibaldi pensò di impedirlo e, il 19, con appena 2 000
uomini tentò un avventato assalto. La sproporzione di forza
era eccessiva e venne respinto dai Borbonici, che completarono il
proprio ripiegamento.
Il corpo di spedizione spagnolo
Nei giorni successivi si presentò il quarto nemico: un
corpo di spedizione spagnolo di discrete dimensioni (9 000 uomini)
che, giunto a Gaeta verso la fine di maggio, venne passato in
rivista e benedetto da Pio IX, il 29 maggio, ed uscì da
Gaeta per Terracina.
Tregua di diritto con la Francia
Si comprende bene, quindi, perché Mazzini tenesse particolarmente ad esplorare ogni possibile compromesso con la Francia, non foss'altro che per guadagnare tempo.
La missione diplomatica del Lesseps
L'occasione gli venne il 15, quando giunse a Roma il
plenipotenziario di Lesseps, col quale venne subito pattuita una
tregua d'armi di 20 giorni. Dopodiché Mazzini e Lesseps
presero a negoziare per un accordo duraturo. Si accordarono e, il
31 sottoscrissero un testo di trattato che val la pena di
riportare integralmente:
« Art. 1. L'appoggio della Francia è assicurato alle
popolazioni degli Stati romani. Esse considerano l'armata francese
come un'armata amica che viene a concorrere alla difesa del loro
territorio.
Art. 2. D'accordo col governo romano e senza per nulla ingerire
nell'amministrazione del paese, l'armata francese prenderà
gli accantonamenti esterni, convenevoli per la difesa del paese
che per la salubrità delle truppe. Le comunicazioni saranno
libere.
Art. 3. La Repubblica francese garantisce contro ogni invasione
straniera il territorio occupato dalle sue truppe.
Art. 4. Resta inteso che la presente convenzione dovrà
essere sottomessa alla ratifica del governo della Repubblica
francese.
Art. 5. In nessun caso gli effetti della presente convenzione
potranno cessare che 15 giorni dopo la comunicazione ufficiale
della non ratifica. »
L'abortito trattato del 31 maggio
Come si vede, entrambe le parti avevano ben negoziato: Mazzini aveva ottenuto ciò che più gli importava: l'impegno alla non-ingerenza negli affari interni della Repubblica Romana. Oltre, naturalmente, ad un impegno alla difesa del Lazio di fronte alle truppe austriache, napoletane (casomai Ferdinando II avesse voluto ritentare l'impresa) e spagnole. Ma si trattava di una concessione scontata, dal momento che il primario interesse francese nell'operazione era proprio "mantenere la sua [della Francia] legittima influenza", cosa che Mazzini ben volentieri (per il momento) accettava. L'ultima clausola, infine, assicurava un ulteriore prolungamento della tregua di almeno 15 giorni: assai preziosi, nelle circostanze date. Ugualmente soddisfatto dovette dirsi il Lesseps, il quale otteneva la sanzione alla permanenza del corpo di spedizione che, anzi, diveniva una “armata amica”.
Prudente richiamo dei volontari in Roma
Nell'attesa della ratifica, ed a scanso di incomprensioni,
tuttavia, il 27 Roselli prese la saggia decisione di richiamare a
Roma le colonne dei volontari. Questi, dopo la battaglia del 19,
avevano proseguito verso sud: Garibaldi era entrato in Rocca
d'Arce, Manara il 24 in Frosinone ed il 25 in Ripi. In effetti,
ritiratisi i Napoletani, la resistenza era costituita unicamente
da bande contadine, affrettatamente organizzate dal generale
Zucchi (l'ultimo ministro della guerra di Pio IX).
Conseguentemente, il comandante generale Roselli era rientrato in
Roma, per effettuare i possibili preparativi sul fronte
principale.
Garibaldi e Manara rientrarono in Roma, il 1º giugno. Appena
in tempo.
Ripresa delle ostilità francesi
Denuncia del trattato
Mazzini e Lesseps, infatti, avevano fatto i conti senza l'oste:
sulla scorta del risultato elettorale, infatti, Luigi Napoleone
era ormai ben deciso ad ottenere il massimo risultato ed a
consolidare il proprio potere lavando l'onta della sconfitta del
30 aprile. Egli, quindi, il 29 maggio inviò due lettere:
una all'Oudinot, comandandogli di procedere con l'assedio della
città e una al povero Lesseps, con il quale gli ingiungeva
di considerare esaurita la sua missione e di rientrare in Francia
(dove diede le dimissioni dal servizio diplomatico).
Cosicché, non appena informato degli accordi del 31 maggio,
il generale poté rinnegare l'operato del plenipotenziario e
darne conseguente comunicazione ai propri ufficiali.
Ciò consentì all'Oudinot di mettere insieme 30 000 uomini ed un possente parco d'assedio. Dopodiché, denunciò la tregua ed annunziò la ripresa dei combattimenti, a decorrere dal 4 giugno.
Dirottamento del corpo di spedizione spagnolo
Un buon indizio della determinazione con cui Luigi Napoleone
impose i suoi obiettivi, viene dal destino del corpo di spedizione
spagnolo di Fernández da Córdoba che, nel frattempo,
si era presentato dinnanzi a Terracina. Ove non incontrò,
come forse si aspettavano, l'esercito di Roselli, poiché
esso era stato, nel frattempo, ritirato su Roma, in vista di
temuti mutamenti nelle intenzioni dell'Oudinot. Da qui, tuttavia,
gli spagnoli non proseguirono su Roma, ma fecero una deviazione,
portandosi in Umbria (rimasta sguarnita, ma non occupata dagli
austriaci). Evidentemente, Parigi non gradiva la loro presenza
nella prossima battaglia, che doveva essere esclusivamente
francese.
Dichiarazione di ripresa delle ostilità
Il 1º giugno Oudinot comunicò a Roselli la ripresa
delle ostilità, fissata (come usava allora) al 4 giugno.
Ai soldati sconfitti il 30 aprile, si erano aggiunti altri 24 000
soldati, per un totale di 30 000 uomini e circa 75 cannoni:
un'enormità, se si considera che l'intera prima fase della
Prima guerra di indipendenza era stata condotta da Carlo Alberto
di Savoia con, appunto, 30 000 soldati. Essi vennero organizzati
in tre divisioni, al comando dei generali d'Angely, Louis de
Rostolan e Philippe-Antoine Gueswiller.
Ma alla straordinaria preponderanza numerica, Oudinot aggiunse la
frode: pur essendosi impegnato per la data del 4 in una lettera da
lui firmata e pervenuta a Roselli, fece muovere le truppe con un
giorno di anticipo, la mattina del 3: evidentemente, Luigi
Napoleone non avrebbe ammesso altre sconfitte.
L'assedio di Roma
Il 31 maggio, il generale francese Oudinot rinnegò un
trattato di alleanza negoziato da Lesseps ed annunciò la
ripresa delle ostilità: egli ora disponeva di 30 000
soldati ed un possente parco d'assedio.
Roma venne assaltata all'alba del 3 giugno. Il primo obiettivo era
la conquista del Gianicolo, monte sopra Trastevere dal quale si
dominava la città. Esso venne parzialmente conquistato solo
dopo una sanguinosa battaglia, nella quale si distinsero
particolarmente i volontari reduci dalla prima guerra di
indipendenza, guidati da Garibaldi.
Seguirono molti giorni di bombardamento, durati sino al 20.
Quella notte i francesi presero un tratto dei bastioni di
Trastevere. Il governo della Repubblica Romana guidato da Mazzini
rifiutò, ancora una volta, di arrendersi, e Oudinot riprese
con più veemenza il bombardamento: al contrario del
precedente, però, esso venne rivolto direttamente sulla
città volti ad indurre Roma alla resa. Nel frattempo, le
truppe francesi erano riuscite ad oltrepassare il Tevere presso
Ponte Milvio, nonostante l'eroica resistenza del Battaglione
Universitario Romano. Molti furono gli studenti romani caduti
nelle giornate di giugno, compresi i Fratelli Archibugi.
Dopo altri sei giorni di cannonate, il 26, venne comandato un
nuovo assalto al caposaldo dei difensori sul Gianicolo, la Villa
del Vascello, bravamente respinto da Medici ed i suoi volontari.
Il 30 Oudinot comandò un assalto generale e si
impossessò di tutti i capisaldi fuori le mura aureliane.
Sul Gianicolo si combatté l'ultima battaglia della storia
della Repubblica Romana. Il generale Garibaldi difese il Vascello
ed i volontari attaccarono i francesi alla baionetta, ci saranno 3
000 italiani fra morti e feriti. Caddero circa 2 000 francesi, ma
la battaglia per gli italiani era comunque perduta.
La resa
A mezzogiorno del 1º luglio fu stipulata una breve tregua per raccogliere i morti e i feriti. All'Assemblea Costituente Mazzini dichiarò che l'alternativa era tra capitolazione totale e battaglia in città (con conseguenti distruzioni e saccheggi). Dopo la battaglia del 30 giugno era giunto Garibaldi, che confermò che oramai era impossibile continuare a resistere. Durante un discorso all'Assemblea Costituente, Garibaldi aveva proposto la ritirata da Roma e aveva detto "Dovunque saremo, colà sarà Roma."
Una breve ma importante polemica
Vi fu anche spazio per un poco di polemica, con il generale che sosteneva l'errore era stato non aver nominato un dittatore, come da lui precedentamente proposto. Tale discussione non ebbe alcuna conseguenza, almeno per altri dodici anni. Ma non fu priva di significato, in quanto: (i) essa segnò la formale rottura fra Garibaldi ed il suo antico maestro, (ii) perché Garibaldi se ne ricordò bene ed alla prima occasione utile, nel 1860 a Palermo, non mancò di proclamarsi “dittatore”.
Condizioni di resa: l'uscita dei volontari di Garibaldi
Preso atto di questo, si trattava di valutare se esistessero
alternative alla pura e semplice capitolazione. Tenuto conto delle
forti perdite subite dell'Oudinot e, soprattutto, della
circostanza che la consegna della città, non essendo
scontata, doveva pur poter essere pagata qualche prezzo. Della
circostanza si disse subito sicuro il Mazzini, spalleggiato, in
questo, da Garibaldi. Si trattava di trattare una "uscita dalla
città", con quante forze combattenti avessero voluto
seguire. Verso quella parte degli Stati della Chiesa non occupati
dalle truppe francesi. Lo scopo sarebbe stato "portare
l'insurrezione nelle province".
A tal fine, la mattina del 2 luglio Garibaldi tenne, in piazza
San Pietro, il famosissimo discorso: "io esco da Roma: chi vuol
continuare la guerra contro lo straniero, venga con me … non
prometto paghe, non ozi molli. Acqua e pane quando se ne
avrà". Diede appuntamento per le 18.00 in piazza San
Giovanni, trovò circa 4 000 armati con ottocento cavalli e
un cannone e, alle 20.00, uscì dalla città.
Cominciò così una lunga marcia, passata attraverso
l'Umbria e proseguita verso la Val di Chiana ed Arezzo. Lungo il
percorso Garibaldi vede venire meno la speranza di sollevare le
province e decise di tentare di raggiungere Venezia assediata.
L'assedio di Roma
Il suo immediato oppositore, generale d'Aspre, che si trovava
comandante delle truppe di occupazione in Toscana e dell'esercito
toscano, in via di riorganizzazione dedicò alla caccia dei
forse 2 000 superstiti della colonna un'armata di circa 25 000
fanti, 30 cannoni e 500 cavalli finché non costrinse
Garibaldi a trovare rifugio, il 31 luglio nella neutrale
Repubblica di San Marino. Da qui Garibaldi tentò l'ultima
marcia, scendendo a Cesenatico, ove catturò una flottiglia
di battelli da pesca e si imbarcò per Venezia. Intercettati
dalla flotta austriaca i fuggitivi si dispersero: molti fuggitivi,
fra i quali Basilio Bellotti, Ciceruacchio con il figlio Lorenzo,
appena tredicenne, Ugo Bassi e Giovanni Livraghi, vennero
catturati e fucilati dagli austriaci, che occupavano la Romagna.
Durante la fuga, favorita dall'aiuto della popolazione locale
Garibaldi vide morire la moglie Anita ma, assistito da
innumerevoli partigiani e patrioti da Comacchio, attraverso
Forlì, Prato e la Maremma giunse nei pressi di Follonica.
Da qui si imbarcò per la Liguria, parte del Regno di
Sardegna, ove poté mettersi in salvo.
Forme della resa
Stabilito questo, restava da trovare un modo di cessare le
ostilità che salvasse la dignità e la
personalità giuridica della Repubblica. Tra le condizioni
chieste dall'Oudinot, infatti, non v'era la rinuncia della
Assemblea Costituente alla avvenuta proclamazione della
repubblica. Pio IX, d'altra parte, non l'aveva mai riconosciuta e,
dunque, non era necessario ottenerne alcuna concessione, diversa
dalla mera resa militare.
Si poteva, quindi, arrendersi senza rinunciare, formalmente, alla
repubblica: convenuto lo scopo, vennero adottate le forme
più acconce:
L'Assemblea Costituente approvò un decreto di resa,
aggiungendo però che "L'Assemblea Costituente Romana …
resta al suo posto". Tanto che approvò la nuova
costituzione, che venne letta, dal balcone del Palazzo del
Campidoglio, nel pomeriggio del giorno successivo, dal generale
Galletti. Dopodiché, in serata, si presentò un
battaglione di cacciatori francesi, che invitò l'Assemblea
a sgombrare. Questa approvò all'unanimità la
celeberrima protesta: " in faccia all'Italia, alla Francia e al
mondo civile, contro la violenta invasione delle armi francesi
nella sua residenza, avvenuta oggi 4 luglio 1849 alle ore sette
pomeridiane".
Mazzini e con lui l'intero triumvirato, non sottoscrisse alcuna resa e diede le dimissioni, per evitare l'inevitabile visita all'Oudinot. Questa venne compiuta dal nuovo triumvirato, nella serata del 1º: ascoltatene le proposte, esse vengono rifiutate e ci si limitò a permettere l'ingresso dei francesi in città, senza accettare alcuna formale capitolazione.
La Repubblica Romana dunque, non cessava formalmente di esistere
e (non avendo il Pontefice, negli anni successivi provveduto ad
alcuna nuova elezione) poteva continuare a vantare la propria
legittimazione popolare.
Dettaglio di non secondaria importanza, se si considera, ad
esempio, che Garibaldi non mancò di giustificare le future
operazioni su Roma (nel 1862, sino all'Aspromonte e nel 1867, sino
a Mentana) come la semplice continuazione degli obblighi di
restaurazione della Repubblica Romana, ancorché sconfitta
in quel 1849.
L'ingresso dei francesi
I francesi entrarono il giorno successivo: verso mezzogiorno occuparono Trastevere, Castel Sant'Angelo, il Pincio e Porta del Popolo; Oudinot venne solo in serata, con 12 000 soldati e pubblicò un comunicato in cui divideva la popolazione fra "veri amici della libertà" e "pochi faziosi e traviati", definiti, inoltre, "una fazione straniera" (mentre lui rappresentava "una nazione amica delle popolazioni romane"), addirittura "responsabile di un'empia guerra". E proclamava la legge marziale, eleggendo Governatore di Roma Rostolan, generale di divisione, coadiuvato da Sauvan, generale di brigata.
Ultimo vessillo della rivoluzione del 1848 resisteva, indomita ma assediata, solo la città-fortezza di Venezia.
A Brescia, il 9-10 luglio, il governatore militare austriaco
Julius Jacob Haynau festeggiò l'avvenimento della caduta di
Roma, facendo impiccare sulla pubblica piazza dodici dei
centocinquanta prigionieri catturati nel corso della repressione
delle dieci giornate.
Lettera di Mazzini ai Romani
5 luglio 1849
Romani!
La forza brutale ha sottomesso la vostra città; ma non mutato o scemato i vostri diritti. La repubblica romana vive eterna, inviolabile nel suffragio dei liberi che la proclamarono, nella adesione spontanea di tutti gli elementi dello Stato, nella fede dei popoli che hanno ammirato la lunga nostra difesa, nel sangue dei martiri che caddero sotto le nostre mura per essa. Tradiscano a posta loro gl'invasori le loro solenne promesse. Dio non tradisce le sue. Durate costanti e fedeli al voto dell'anima vostra, nella prova alla quale Ei vuole che per poco voi soggiacciate; e non diffidate dell'avvenire. Brevi sono i sogni della violenza, e infallibile il trionfo d'un popolo che spera, combatte e soffre per la Giustizia e per la santissima Libertà.
Voi deste luminosa testimonianza di coraggio militare; sappiate darla di coraggio civile ...
Dai municipii esca ripetuta con fermezza tranquilla d'accento la dichiarazione ch'essi aderiscono volontari alla forma repubblicana e all'abolizione del governo temporale del Papa; e che riterranno illegale qualunque governo s'impianti senza l'approvazione liberamente data dal popolo; poi occorrendo si sciolgano. ... Per le vie, nei teatri, in ogni luogo di convegno, sorga un grido: Fuori il governo dei preti! Libero Voto! ...
I vostri padri, o Romani, furon grandi non tanto perché sapevano vincere, quanto perché non disperavano nei rovesci.
In nome di Dio e del popolo siate grande come i vostri padri. Oggi come allora, e più che allora, avete un mondo, il mondo italiano in custodia.
La vostra Assemblea non è spenta, è dispersa. I vostri Triumviri, sospesa per forza di cose la loro pubblica azione, vegliano a scegliere a norma della vostra condotta, il momento opportuno per riconvocarla.
Dopo la capitolazione della Repubblica, Roma vide più movimenti indipendentistici tra le sue mura, fino al 20 settembre 1870, quando i bersaglieri attraverso la breccia di Porta Pia fecero il loro ingresso in città. Mazzini, in quel momento, si trovava in carcere a Gaeta per aver fatto propaganda repubblicana e aver tenuto vivo l'ideale di Roma capitale.
Pio IX torna a Roma
Il Papa fece ritorno a Roma il 12 aprile 1850 ed abrogò la Costituzione concessa nel marzo di due anni prima. Ai militari che parteciparono alle operazioni venne assegnata la medaglia commemorativa della restaurazione dell'autorità pontificia.
Importanza sociale della Repubblica Romana
«Il regime democratico ha per regola l'eguaglianza, la
libertà, la fraternità. Non riconosce titoli di
nobiltà, né privilegi di nascita o casta.»
(II Principio fondamentale della Costituzione della Repubblica
Romana (1849))
« La Repubblica riguarda tutti i popoli come fratelli:
rispetta ogni nazionalità: propugna l'italiana. »
(IV Principio fondamentale della Costituzione della Repubblica
Romana (1849))
« Il Capo della Chiesa Cattolica avrà dalla
Repubblica tutte le guarentigie necessarie per l'esercizio
indipendente del potere spirituale. »
(VIII Principio fondamentale della Costituzione della Repubblica
Romana (1849))
La Repubblica Romana promulgò nel 1849 la Costituzione, la
più democratica in Europa a quei tempi, in cui convergevano
gli ideali liberali e mazziniani, e superò anche la mai
applicata Costituzione francese del 1793. La legge e la
Costituzione proponevano:
- la libertà di culto (anche se ufficialmente parziale: i
cittadini potevano essere solo cattolici o ebrei, mentre agli
stranieri era concessa qualunque religione, anche se vi furono
aderenti non confessionali, come lo stesso Mazzini, e anche atei
dichiarati come Garibaldi),
- la laicità dello Stato
- l'abolizione della pena di morte e della tortura (fu il secondo
Stato del mondo, dopo il Granducato di Toscana, ad abolire de jure
la pena capitale nella sua Costituzione).
- l'abolizione della censura
- la libertà di opinione
- l'istituzione del matrimonio civile
- il suffragio universale maschile (anche se ufficialmente non
vietò il voto alle donne)
- l'abolizione della confisca dei beni
- l'abrogazione della norma pontificia che escludeva le donne e i loro
discendenti dalla successione familiare
- la riforma agraria e diritto alla casa, tramite la requisizione dei
beni ecclesiastici
- la divisione dei poteri
- l'abolizione della leva obbligatoria
Bisognò attendere più di un secolo perché
queste riforme, cancellate poi dalla reazione pontificia,
diventassero realtà in tutta Europa. La Costituzione della
Repubblica Italiana si richiama alla Costituzione della Repubblica
Romana. C'è da notare che la maggior parte delle
Costituzioni moderne degli Stati occidentali usa questo Statuto
come base di partenza.