LETTERA ENCICLICA
QUINQUAGESIMO ANTE ANNO*
AI VENERABILI FRATELLI PATRIARCHI
PRIMATI ARCIVESCOVI VESCOVI
E AGLI ALTRI ORDINARI LOCALI,
NONCHÈ A TUTTI I DILETTI FIGLI CRISTIANI
DEL MONDO CATTOLICO:
IN OCCASIONE DELLA CHIUSURA
DELL'ANNO GIUBILARE.
PIO PP. XI
VENERABILI FRATELLI
SALUTE E APOSTOLICA BENEDIZIONE
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Quando, or sono cinquant’anni, nel fiore dell’età fummo
ordinati sacerdoti nella Basilica Lateranense, madre e centro di
tutte le Chiese — ed in questi giorni specialmente il ricordo Ci
commuove e soavemente Ci conforta — nessuno certamente avrebbe
immaginato, e tanto meno Noi, che per arcano disegno della divina
Provvidenza la Nostra umile persona sarebbe stata elevata a
così alto fastigio, e che quel medesimo tempio sarebbe
diventato un giorno la cattedrale del Nostro Episcopato romano.
A questo proposito, mentre ammiriamo con animo dimesso la somma
degnazione del Signor Nostro Gesù Cristo, Principe dei
Pastori, verso di Noi, non potremo mai abbastanza degnamente
esaltare i grandi benefìci con i quali Egli ha voluto
confortare il suo Vicario in terra, quantunque immeritevole, durante
il corso del suo Pontificato; tanto più che, quasi a
coronamento di questi benefìci, Egli ha voluto che l’anno del
Nostro giubileo sacerdotale fosse rallegrato da molti avvenimenti
lieti e consolanti.
Pertanto affinché quest’anno non trascorresse privo di frutti
salutari — cioè, allo scopo di richiamare i fedeli alla
santità dei costumi e la stessa società ad un
più giusto apprezzamento dei beni spirituali, e conciliare
con questi mezzi la misericordia divina verso la Chiesa militante —
fin dal principio dell’anno, mossi da un sentimento di amore
paterno, indicemmo per tutto l’Orbe cattolico un altro Anno Santo
« extra ordinem » in forma di grande Giubileo.
Ed oggi possiamo dire, che, con la grazia di Dio, le speranze che
Noi riponevamo in questa santa crociata di preghiere, non solo non
vennero deluse, ma anzi sono state pienamente soddisfatte.
Ripensando infatti ai molti attestati di pietà e di
gratitudine filiale, all’incremento che ha avuto la causa cattolica,
ai celebri avvenimenti che si sono potuti compiere durante il corso
di un solo anno, Ci sembra di poter dire ben a ragione che il
benignissimo Iddio, dal quale « deriva ogni cosa ottima e ogni
dono perfetto » [1], ha voluto che questo breve periodo di
tempo apparisse a tutti veramente provvidenziale. Ci piace quindi
oggi, quasi facendo il bilancio di questi dodici mesi, più
diffusamente ricordare i grandi benefìci da Dio derivati al
popolo cristiano, e ciò allo scopo di invitarvi tutti,
Venerabili Fratelli, diletti figli, a ringraziare insieme con Noi
l’Onnipotente, il quale, muovendo gli animi dei mortali con fortezza
e soavità, dirige ai suoi scopi i tempi e gli avvenimenti.
E per cominciare da quelle cose, che appunto perché toccano
più da vicino la Santa Sede e lo stesso governo della Chiesa
affidato, per divina disposizione, al Sommo Pontefice, sembrano
avere maggiore importanza delle altre, crediamo anzitutto opportuno
ricordare alcuni tratti della Nostra prima Enciclica « Ubi
arcano ». In essa Noi uscivamo in questo lamento: «
Appena occorre dire con quanta pena all’amichevole convegno di tanti
Stati vediamo mancare l’Italia, la carissima patria Nostra, il paese
nel quale la mano di Dio, che regge il corso della storia, poneva e
fissava la sede del suo Vicario in terra, in questa Roma che, da
capitale del meraviglioso ma pur ristretto romano impero, veniva
fatta da Lui la capitale del mondo intero, perché sede di una
sovranità divina che, sorpassando ogni confine di nazioni e
di Stati, tutti gli uomini e tutti i popoli abbraccia. Richiedono
però l’origine e la natura divina di tale sovranità,
richiede l’inviolabile diritto delle coscienze di milioni di fedeli
di tutto il mondo, che questa stessa sovranità sacra sia ed
appaia manifestamente indipendente e libera da ogni umana
autorità o legge, sia pure una legge che annunci guarentigie
».
Dopo avere poi rinnovato da parte Nostra quelle proteste che i
Nostri Predecessori, dopo l’occupazione dell’Urbe, onde tutelare ed
affermare i diritti e la dignità della Sede Apostolica
avevano successivamente fatto, e dopo aver proclamato
l’impossibilità di restaurare la pace trascurando le ragioni
della giustizia, aggiungevamo: « Spetta a Dio Onnipotente e
misericordioso far sì che suoni finalmente questa lieta ora,
feconda di tanto bene, sia per la restaurazione del Regno di Cristo,
sia per un più giusto riordinamento delle cose d’Italia e di
tutto il mondo; ma tocca agli uomini di buona volontà far
sì che essa non suoni invano … ».
Orbene, questo lietissimo giorno è finalmente spuntato ed
è giunto prima di quanto comunemente si pensava,
giacché le molte e gravi difficoltà, che lo
impedivano, facevano credere quasi a tutti che fosse ancora molto
lontano: è giunto, diciamo, con quelle Convenzioni che il
Romano Pontefice e il Re d’Italia, per mezzo dei loro ministri
plenipotenziari, stipularono nel Palazzo Lateranense — donde presero
il nome — e quindi ratificarono in Vaticano.
In tal modo abbiamo veduto finalmente terminare quell’intollerabile
e ingiusta condizione di cose, in cui si trovava fino allora la Sede
Apostolica, dato che, negata e contrastata con ogni mezzo la
necessità del Principato civile, la continuità di
questo era stata interrotta di fatto in maniera che il Romano
Pontefice non appariva più nella sua legittima indipendenza.
Non è qui il luogo di trattare in particolare le ragioni che
Noi Ci siamo proposti nell’accingerCi a questa grave impresa, nello
svolgere le trattative e nel condurle in porto; più di una
volta infatti e non oscuramente, anzi con parole chiarissime,
abbiamo esposto a quale unico scopo tendessero i Nostri propositi e
i Nostri desideri, e cioè quali beni desiderassimo e
sperassimo ardentemente, mentre, innalzate le Nostre assidue e
fervide preghiere all’Altissimo, portavamo tutte le forze dell’animo
Nostro alla soluzione dell’arduo problema. Questo però
vogliamo, sia pure brevemente, accennare, e cioè che,
assicurata la piena sovranità del Romano Pontefice,
riconosciuti e solennemente sanciti i suoi diritti, e resa in tal
modo all’Italia la pace di Cristo, nelle altre cose Noi Ci mostrammo
paternamente benevoli e condiscendenti fin dove il dovere Ce lo
permetteva. Apparve così anche più chiaramente,
seppure ve ne era bisogno, come Noi, nel rivendicare i sacrosanti
diritti della Sede Apostolica, conforme a quanto avevamo affermato
nella surricordata Enciclica, mai eravamo stati mossi da vana
cupidigia di un regno terreno, ma avevamo sempre avuto «
pensieri di pace e non di afflizione ». Quanto poi al
Concordato, che abbiamo parimenti stipulato e ratificato, come
espressamente proclamammo, così oggi di nuovo affermiamo e
proclamiamo che esso non si deve considerare come una tal quale
garanzia del Trattato con cui si è definita la cosiddetta
Questione Romana, ma sì bene devesi ritenere che ambedue —
Trattato e Concordato — per l’identico principio fondamentale da cui
derivano, formano un insieme talmente inscindibile e inseparabile,
che o tutti e due restano, o ambedue necessariamente vengono meno.
Pertanto, tutti i cattolici del mondo, che tanto si preoccupavano
della libertà del Romano Pontefice, accolsero questo
memorabile avvenimento con un concorde plebiscito che si espresse
ovunque in inni di ringraziamento a Dio e in attestati di
congratulazioni a Noi rivolti. Ma grandissima soprattutto fu la
gioia degli Italiani, alcuni dei quali, dopo la felice composizione
dell’antico dissidio, deposero i vecchi pregiudizi verso la Sede
Apostolica e riconciliarono la loro anima a Dio; e molti altri si
rallegrarono perché non si poteva più ormai dubitare
del loro amore di patria, come si faceva in passato quando i nemici
della Chiesa non volevano credere a questo loro amore, per il fatto
che essi si dichiaravano figli devoti del Pontefice. Tutti poi i
cattolici, italiani e stranieri, compresero che stavano per sorgere
felicemente una nuova era ed un nuovo ordine di cose, soprattutto
perché pensavano che, essendo state quelle convenzioni
concluse nel 75° anno della definizione del dogma
dell’Immacolata Concezione e precisamente firmate nel giorno in cui,
pochi anni dopo, la Vergine Immacolata apparve nella Grotta di
Lourdes, sembravano essere prese sotto il particolare patrocinio
della Madre di Dio; e così pure essendo state ratificate
nella festa del Sacro Cuore di Gesù Cristo pareva quasi che
portassero il contrassegno della sua approvazione. E ciò ben
a ragione; giacché se tutte le cose di comune consenso
pattuite saranno coscienziosamente e con fedeltà portate ad
effetto, come del resto è giusto sperare, non v’è
dubbio che gli accordi stabiliti recheranno il massimo bene alla
causa cattolica, alla patria nostra e a tutta l’umana famiglia.
Pertanto, dopo avere illustrato questo fausto avvenimento più
diffusamente per la sua singolare importanza, crediamo che sia
opportuno aggiungere almeno brevemente che per disposizione della
divina Provvidenza abbiamo pure, durante quest’anno, potuto
stipulare e ratificare con altre Nazioni altre convenzioni e
trattati, che, mentre provvedono alla libertà della Chiesa,
allo stesso tempo conferiscono non poco al bene degli Stati
medesimi. Infatti, oltre la convenzione pattuita con la Repubblica
del Portogallo (la quale consiste nello stabilire i confini e le
prerogative della Diocesi di Meliapor) siamo venuti alla conclusione
di un Concordato prima con la Romania, poi con la Prussia, in modo
da evitare per l’avvenire ogni ragione di conflitto, ed in modo
altresì da far convergere ambedue le potestà, civile e
religiosa, in mutuo accordo verso il maggior bene del popolo
cristiano. Certamente nella trattazione di queste convenzioni
concordatarie non mancarono molte e gravi difficoltà, per il
fatto che si trattava di stabilire secondo legge il regime della
Chiesa Cattolica presso popoli in maggioranza acattolici; tuttavia
riconosciamo volentieri che per superare queste difficoltà le
pubbliche autorità di quelle Nazioni prestarono
volonterosamente la loro opera. Se dunque, giunti al termine
dell’anno, rivolgiamo all’intorno il Nostro sguardo, Ci rallegriamo
sommamente nel vedere che molte Nazioni hanno già stretto,
con una pubblica convenzione, relazioni di amicizia con questa Sede
Apostolica, oppure si accingono alla trattazione o al rinnovo di un
Concordato. E mentre proviamo profondo dolore al pensare che nelle
vaste regioni dell’Europa Orientale ancor oggi infierisce la
più terribile guerra non solo contro la Religione cristiana,
ma altresì contro ogni diritto divino ed umano, Ci sentiamo
d’altra parte grandemente confortati per il fatto che l’orribile
persecuzione inflitta al clero e al popolo cattolico del Messico
sembra ormai placata, in maniera da far fin da ora in qualche modo
sperare che la sospirata pace non sarà molto lontana.
Né minor diletto e consolazione Ci ha recato il vedere che,
durante il corso di questo fausto anno giubilare, la Chiesa
Orientale ha voluto mostrare ancora più stretti i vincoli di
attaccamento con la Sede Apostolica, prendendo questa occasione per
darCi aperta e pubblica testimonianza del suo ardente amore per
l’unità della Chiesa; e in far ciò, i Nostri figli
della Chiesa Orientale Ci hanno certamente voluto rendere un tributo
di gratitudine, giacché Noi, dietro l’esempio dei Nostri
Predecessori, abbiamo sempre nutrito per i popoli orientali grande
benevolenza e carità. Ci hanno infatti inviato lettere piene
di affetto e di venerazione, ed hanno manifestato con attestati
pubblici e solenni la loro gioia e i loro rallegramenti; i
Patriarchi ed i Vescovi di quelle Chiese, o personalmente o per
mezzo di loro rappresentanti, si sono recati a farCi visita per
testimoniare più chiaramente, anche a nome del gregge loro
affidato, l’amore verso il supremo Pastore delle anime. Seguendo
l’esempio dei Vescovi Armeni, che lo scorso anno tennero in Roma il
loro convegno per discutere qui, presso la Cattedra di Pietro, circa
gli opportuni provvedimenti con cui mitigare i mali che affliggono
la loro Nazione, poco tempo fa i Vescovi Ruteni, che mai tutti
insieme erano convenuti a Roma, hanno deciso di tenere le loro
adunanze qui presso di Noi, quasi per dimostrare con la stessa
scelta del luogo e del tempo, l’affettuoso attaccamento dell’intera
Chiesa Rutena verso il Successore del Principe degli Apostoli. E il
risultato delle loro adunanze fu veramente tale da soddisfare
pienamente le Nostre speranze. Infatti trattarono in esse di
questioni importantissime, sottoponendo a Noi, come si conviene, le
loro deliberazioni; e cioè del corso degli studi per il
giovane clero, dell’istituzione di Seminari Minori, dell’istruzione
catechistica del popolo da svolgersi in un certo periodo di anni,
del modo di concorrere alla codificazione del Diritto Canonico
Orientale, e nei mezzi opportuni per promuovere fra i loro fedeli
l’Azione Cattolica secondo le Nostre direttive; ed in tutte queste
cose riconosciamo che essi non potevano prendere determinazioni
più salutari per il loro clero e per il loro popolo.
Benché le cose di cui abbiamo fin qui parlato sembrino di
maggiore importanza e attirino più facilmente l’attenzione e
l’ammirazione del pubblico, tuttavia pensiamo che non conferiscano
meno al bene della Chiesa quelle opere e istituzioni che il Signore,
quasi per colmare la Nostra letizia, Ci ha permesso, dandocene i
mezzi, o di condurre a termine o almeno di cominciare durante
quest’anno. E infatti, oltre le molte case canoniche fatte costruire
in varie parrocchie per provvedere ad un più decoroso
disimpegno dell’ufficio parrocchiale, ed oltre i Collegi
Internazionali, che per i loro giovani alunni hanno edificato le
Congregazioni religiose dei Servi di Maria e di San Francesco di
Paola — Collegi che già si sono inaugurati ed hanno aperto i
corsi scolastici — è certo che i Collegi fondati qui in Roma
per la formazione culturale e religiosa del giovane clero in questo
breve spazio di tempo sono stati tanti, che appena altrettanti si
sarebbero potuti veder sorgere in un lungo periodo di anni: tali
sono il nuovo Collegio di Propaganda Fide, quello Lombardo, quello
Russo e quello per la Nazione Cecoslovacca, già finiti e
completamente arredati. E non vogliamo tralasciare di accennare
né alla nuova sede del Seminario Etiopico, che abbiamo voluto
appositamente fosse edificata qui presso il Vaticano — né
agli altri due di cui già si è posta la prima pietra —
cioè al Collegio Ruteno e al Brasiliano — né infine
alla nuova sede del Seminario Romano Vaticano, di cui saranno
prossimamente iniziati i lavori. E a proposito di queste numerose e
crescenti istituzioni, le quali tanto da vicino interessano la
salvezza delle anime, che Cristo Redentore ha procurato con la
effusione del suo sangue, Noi abbiamo la più grande fiducia
che, col divino aiuto, esse otterranno questo salutare risultato, e
cioè che avremo schiere più addestrate e più
numerose di leviti per l’evangelizzazione dei popoli. E parimenti
non v’è dubbio che questi nuovi leviti, i quali qui nel
centro dell’orbe cattolico vengono educati alla purezza della
dottrina di Cristo e si esercitano all’acquisto delle virtù
sacerdotali, un giorno, divenuti sacerdoti e tornati ai loro paesi,
si adopereranno validamente a rendere ancora più stretti i
vincoli d’unione dei loro concittadini con la Sede Apostolica,
oppure, se questi sono separati dalla Chiesa di Roma, a richiamarli
a poco a poco all’antica unione con essa o, se ancora si trovano
involti nelle tenebre e nell’ombra di morte, procureranno con ogni
sforzo di recare loro la luce dell’evangelica verità,
allargando sempre più i confini del regno di Cristo. E
veramente la speranza di questi lieti frutti è per Noi di
tanto conforto, che non possiamo abbastanza esaltare Colui che Ci ha
dato tanta consolazione e Ci ha concesso di portare a compimento
queste grandi cose per il bene della Chiesa.
Vogliamo poi anche, Venerabili Fratelli e diletti figli, ricordare
insieme a voi altri avvenimenti, che per divina disposizione hanno
reso quest’anno ancor più memorabile; abbiamo detto per
divina disposizione, giacché niente può avvenire a
caso, essendo tutte queste cose da Dio ordinate e regolate.
Poiché infatti gli uomini, per la loro stessa natura, al
compiersi di certi periodi di anni più volentieri si
soffermano a ricordare benefìci già da Dio destinati
alla cristiana società, e ne traggono incitamento a
proseguire con alacrità maggiore la via intrapresa,
così è avvenuto che i fedeli durante questi dodici
mesi hanno preso tutte le occasioni di quel genere che loro si
presentarono per indirizzare l’espressione della loro gratitudine e
del loro amore verso Iddio Ottimo Massimo e verso il Padre comune in
queste particolari circostanze. E da parte Nostra, per ricambiare
con paterno animo tali attestati di filiale pietà, volemmo
essere presenti a queste solenni celebrazioni e renderle ancor
più splendide, inviando a questo scopo le Nostre Lettere e i
Nostri Legati.
Così questa Apostolica Sede non poteva non favorire la
insigne famiglia del Padre e Legislatore San Benedetto, mentre essa
si preparava a commemorare il secolo decimo quarto dalla fondazione
dell’Archicenobio Cassinese « principale palestra della regola
monastica » [2] e tanto benemerito e da sì lungo tempo
verso la stessa Santa Sede non meno che verso la umana
civiltà. E ciò dicendo e ripetendo, diciamo cosa non
soltanto conosciutissima dai dotti e dagli eruditi, ma divulgata
oggi anche in mezzo al popolo che si è ormai formato di tali
meriti un giusto concetto. Infatti, non solamente al popolo, in
particolare nella nostra Italia, si suole ripetere in esempi la
massima del santissimo Patriarca, « ora et labora », ma
non v’è chi ignori che i monaci dell’Archicenobio, e con essi
tutti gli altri della famiglia di San Benedetto, promossero le belle
arti e trasmisero in perpetuo alla posterità i monumenti
della umana non meno che della divina sapienza, e inviarono
predicatori del Vangelo in regioni anche lontanissime con tale
vantaggio della Fede cristiana e della civiltà che il Nostro
Predecessore Pio X, di felice memoria, volendo brevemente sì,
ma efficacemente insieme esprimere i meriti acquistatisi dal
monastero Cassinese, poté dire con giusta ragione « che
i suoi fasti sono in gran parte la storia stessa della Chiesa Romana
» [3]. Per la qual cosa non è da meravigliarsi se, in
occasione delle feste celebrate nella vetustissima Arciabbazia,
tanti visitatori da ogni parte facessero a gara per salire a quel
sacro monte e venerarvi le memorie del Santo Padre Benedetto e
purificare con la penitenza le anime loro.
Alquanto meno lontano nella storia della Chiesa è
l’avvenimento celebrato a Stoccolma, città capitale della
Svezia, con insolito splendore per quanto era concesso, dato il
numero dei cattolici: la venuta di Sant’Ansgario, che mille e cento
anni or sono approdò nella Svezia, dopo avere con
instancabile zelo evangelizzato la Danimarca.
Fu celebrato un triduo solenne; vi assistevano, rappresentanti, se
così può dirsi, di quattordici nazioni diverse, due
Cardinali, alcuni Vescovi e Abbati dell’Ordine di San Benedetto e
più di mille fedeli; vi furono tenuti discorsi sulle opere
compiute da Ansgario e sul suo mirabile apostolato secondo le
più recenti ricerche: vi furono lette, fra il comune plauso,
le lettere che avevamo mandate con la Nostra benedizione; tutti i
convenuti furono ricevuti con grande onore nella stessa sede
municipale di Stoccolma; a Noi e al Re di Svezia furono inviati
messaggi con ossequi ed auguri. E questa commemorazione centenaria
non deve parere di poca importanza, se si pensa che fino a settanta
anni addietro le cose procedevano nella Svezia così contrarie
alla religione Cattolica che il passaggio alla Chiesa Romana era
ancora punito con l’esilio e con la perdita dello stesso diritto di
eredità. A tale proposito giova qui ricordare che in quei
paesi, recentemente, abbracciarono la religione cattolica diversi
fra donne e uomini dei più colti, e in Islanda, che dipende
dalla Danimarca, quest’anno medesimo l’E.mo Cardinale Prefetto della
Congregazione di Propaganda Fide felicemente dedicò la nuova
Chiesa Cattedrale. Pertanto fra i benefìci divini di
quest’anno annoveriamo pure la lieta speranza da Noi nutrita che,
auspice Sant’Ansgario, da qui innanzi molto più copiosa
sarà la messe che raccoglieranno i Vicari Apostolici, i
sacerdoti, i religiosi dell’uno e dell’altro sesso che spargono i
loro sudori in quella sì ampia parte della vigna del Signore.
Come poi avevamo inviato a Montecassino, quale nostro
rappresentante, un Eminentissimo Cardinale che assistesse alle
solennità ivi celebrate, così anche ordinammo che un
Nostro legato « a latere », scelto pure nel Sacro
Collegio, si recasse in Francia dove si commemorava l’anniversario
cinque volte secolare del giorno in cui Giovanna d’Arco, vergine
santissima e tanto benemerita della sua nazione, era entrata
trionfalmente nella città d’Orléans. E perché
la memoria e il ricordo di tale trionfo riuscissero a tutti i
cittadini più graditi e ai cattolici più fruttuosi,
dovette certamente giovare la quasi presenza Nostra nella persona
del legato.
Credemmo pure dovere del Nostro ufficio intervenire per mezzo del
Nostro Nunzio Apostolico alle feste con cui i sudditi della
repubblica Cecoslovacca celebrarono il secondo centenario della
canonizzazione di San Giovanni Nepomuceno e specialmente il
millenario dalla morte di San Venceslao, inclito duca di Boemia e
Patrono celeste della stessa Repubblica, ucciso per mano del
fratello. Come poi abbiamo detto nella recente Allocuzione
Concistoriale, apprendemmo con grande letizia che alle feste
celebrate in onore del Martire Venceslao presero parte non solamente
cittadini e forestieri in grandissimo numero, ma gli uomini stessi
del Governo e i principali della Repubblica. Ora di un così
comune fervore di animi come non dovevamo Noi rallegrarCi? Infatti
ai pubblici sconvolgimenti che, dopo cessata la guerra immane,
avevano condotto ad estremo pericolo l’unità e l’azione
cattolica, susseguivano in quei giorni una grande pace e
serenità, ed una tale condizione di vita pubblica sembrava
incominciata, quale, al sopraggiungere delle feste, Noi avevamo
supplicato da Dio che di fatto incominciasse, e col patrocinio e
intercessione di San Venceslao si mantenesse in avvenire. Oh! se gli
eventi rispondessero a questi Nostri desideri! perché non
v’è chi non intenda quanto gioverebbe alla vera
prosperità di quella nazione l’opera concorde delle due
potestà, ecclesiastica e civile.
Mirabile poi Ci è parso il modo col quale i figli a Noi
carissimi d’Inghilterra, di Scozia e d’Irlanda, a nessuno secondi
nell’attaccamento fervido alla propria fede e nell’ardore della
pietà, hanno fatto onore al cinquantesimo anno del Nostro
sacerdozio. Con un apparato quanto mai splendido e un concorso, che
ha dell’incredibile, di popolo venuto da ogni parte, si è
commemorato il compimento di un secolo da che i cattolici, che in
altri tempi erano perseguitati e ferocemente maltrattati e che ancor
più tardi, in tempi un poco migliori, rimasero esclusi dai
diritti civili, finalmente per pubblico riconoscimento, rientrarono
in quei diritti e riebbero la libertà di professare la
propria religione. E con molto piacere abbiamo visto che gl’Inglesi,
gli Scozzesi e gl’Irlandesi hanno celebrato tali solennità,
non come se, col ricordare antichi fatti, accusassero qualcuno delle
passate ingiustizie, ma studiando piuttosto come dirigere la
libertà ricuperata, prima in parte e poi in più ampia
misura, sia nell’osservanza più fedele e nella più
larga dilatazione della legge di Cristo, sia nel bene della pubblica
cosa, naturalmente con la debita sottomissione al potere civile.
Né fu una sola la causa che Ci indusse a voler per Noi una
parte non piccola nella celebrazione centenaria dell’evento;
poiché se è sempre conveniente che il Vicario di
Gesù Cristo si associ alla letizia santa dei figli, molto
più ciò lo era in questa congiuntura, ricorrendo la
memoria del termine finalmente posto alle pene che i generosi e
nobilissimi avi di quei cattolici avevano con costanza e valore
sostenute per la difesa della propria fede e della loro unione alla
Chiesa Romana. Anzi, per bontà di Dio Ci toccò in
sorte di accrescere la letizia dei Nostri figli d’Inghilterra, di
Scozia e d’Irlanda con solennità rispondenti a quelle da essi
celebrate. Infatti, dopo avere con rigore esaminato ogni cosa
conforme alle regole, inserimmo, non è molto, nell’albo dei
Beati quella valorosa schiera di uomini che nella ricordata lunga
persecuzione contro i cattolici avevano qui combattuto, non in uno
stesso tempo, ma per la stessa causa di Cristo e della Chiesa, e
ciò in virtù di quella medesima autorità
Pontificia, per difendere la quale essi avevano incontrato
l’illustre martirio. E così avvenne che il cinquantesimo anno
del Nostro sacerdozio, a cui erano già stati di tanto
ornamento gli onori decretati al beato martire Cosma da Carbognano,
Armeno zelantissimo dell’unità ecclesiastica sino allo
spargimento del sangue, s’affrettasse al suo termine ancor
più adorno per la riconosciuta palma del martirio a
così numerose vittime e per il culto ad esse tributato.
Che una forza e una virtù perenne dello Spirito Santo
s’insinuino e scorrano per le vene, diciamo così, della
Chiesa, appare manifesto dalla stessa compiuta vittoria di questi
martiri. Ma non fu ciò chiaro anche quando nel mese di giugno
proponemmo al culto e all’imitazione dei fedeli altri eroi di
santità?
Basta poi appena accennare a quanta moltitudine di cittadini e di
forestieri hanno venerato con Noi, nella maestà della
Basilica Vaticana, i recentemente beatificati: cioè Claudio
de la Colombière, quell’illustre figlio della Compagnia di
Gesù, che Gesù stesso non solo chiamò «
servo fedele » e lo destinò consigliere di Margherita
Maria Alacoque, ma anche gli affidò l’incarico di propagare
il culto verso il suo Cuore in mezzo al popolo cristiano; Teresa
Margherita Redi, Carmelitana, di famiglia Fiorentina e fiore di
gioventù e d’innocenza; Francesco Maria da Camporosso, quel
religioso Cappuccino, il quale, può dirsi del tempo nostro,
avendo per quaranta anni fatto l’ufficio di questuante, con
l’esempio della sua vita intemerata, con consigli pieni di una
celeste prudenza e con esortazioni soavissime alla santità,
parve sia al popolo sia agli ottimati così somigliante a San
Francesco d’Assisi che i Genovesi, dopo averlo amato e onorato vivo,
anche morto l’hanno fatto segno sin qui di grato ricordo e di
venerazione. In qual modo potremmo poi descrivere la consolazione di
cui fummo inondati, quando, dopo aver ascritto Giovanni Bosco tra i
beati, lo venerammo pubblicamente nella medesima Basilica Vaticana?
Giacché richiamando la cara memoria di quegli anni nei quali,
all’alba del sacerdozio, godemmo della sapiente conversazione di
tanto uomo, ammiravamo la misericordia di Dio veramente «
mirabile nei Santi suoi » per aver opposto il beato
così a lungo e così provvidenzialmente ad uomini
settari e nefasti, tutti intesi a scalzare la religione cristiana e
a deprimere con accuse e contumelie la suprema autorità del
Romano Pontefice. Egli infatti, che da giovinetto era solito
convocare altri della sua età per pregare insieme e per
ammaestrarli negli elementi della dottrina cristiana, dopo che
divenne sacerdote prese a rivolgere tutti i suoi pensieri e
sollecitudini alla salvezza della gioventù che più era
esposta agli inganni dei malvagi; ad attrarre a sé i giovani,
tenendoli lontani dai pericoli, istruendoli nei precetti della legge
evangelica e formandoli alla integrità dei costumi; ad
associarsi compagni per ampliare tanta opera e ciò con
sì lieto successo, da procacciare alla Chiesa una nuova e
foltissima schiera di militi di Cristo; a fondare collegi ed
officine per istruire i giovani negli studi e nelle arti fra noi e
all’estero; e infine a mandare gran numero di missionari a propagare
tra gl’infedeli il regno di Cristo. Ripensando Noi a queste cose
durante quella visita alla basilica di San Pietro, non solo
riflettevamo con quali opportuni aiuti il Signore, specialmente
nelle avversità, sia solito soccorrere e rinvigorire la sua
Chiesa, ma anche Ci veniva in mente come per una speciale
provvidenza dell’Autore di tutti i beni fosse avvenuto che il primo
a cui decretammo gli onori celesti, dopo che avevamo concluso il
patto della desideratissima pace con il Regno d’Italia, fosse
Giovanni Bosco, il quale, deplorando fortemente i violati diritti
della Sede Apostolica, più volte si era adoperato
perché, reintegrati tali diritti, si componesse
amichevolmente il dolorosissimo dissidio per il quale l’Italia era
stata strappata al paterno amplesso del Pontefice.
Ed ora, Venerabili Fratelli e figli carissimi, dobbiamo pure
accennare qualche cosa dello stragrande numero di cattolici che,
pellegrini, vennero a Roma nel corso dell’anno, benché quasi
non vi sia ragione di chiamarli pellegrini o stranieri,
poiché nessuno può considerarsi estraneo nella casa
del Padre comune. Avemmo davvero innanzi agli occhi uno spettacolo a
Noi graditissimo per vari titoli. Infatti, proprio il consenso di
tante nazioni, pur fra loro divise per indole, sentimenti, costumi,
nella stessa fede e nella stessa venerazione al supremo Pastore
delle anime, non proclamava pubblicamente e apertamente
l’unità e l’universalità, che il divino Fondatore
volle impresse nella sua Chiesa, come note a lei proprie? Ma si
può dire che in alcuni tempi dell’anno non sorse giorno in
cui Roma non vedesse affluire e piamente visitare i suoi più
illustri templi, schiere di fedeli accorsi dalle diocesi d’Italia,
dalle altre nazioni di Europa e persino dalle regioni separate dalla
quasi infinita distesa dell’Oceano. Né si deve tacere che i
cittadini di Roma, i quali sono più vicini al Romano
Pontefice, loro Vescovo, non si lasciarono vincere dai pellegrini e
dagli stranieri in questa gara, come nelle frequenti processioni per
la visita delle Basiliche, al fine di acquistare il giubileo offerto
al mondo cattolico. Di questi figli della Nostra diocesi convenne
così grande numero, il primo dicembre, nella basilica di San
Pietro, per ottenervi il perdono giubilare, che forse Noi non
vedemmo mai tanto gremito il vastissimo tempio.
E ad essi tutti, che supplicavano in folla di venire a Noi, ben
volentieri accondiscendendo, molto fummo allietati della loro
presenza; le parecchie migliaia di uomini, e specialmente di
giovani, che ammettemmo, gli uni dopo gli altri, prestarono orecchio
alle Nostre parole con tale attenzione e, per così dire,
impeto di affetto, manifestarono l’amore ardentissimo, che a Noi li
portava, con tali grida di plauso, che Noi tenemmo per certo di
avere realmente ottenuto quanto Ci eravamo proposto nell’indire un
nuovo anno santo. Infatti, come in principio notammo, non ad altro
miravamo Noi, che ad aprire felicemente la via ad una più
profonda emendazione dei costumi privati e pubblici, risvegliando a
maggior fervore la fede e la pietà nel popolo cristiano,
poiché, secondo la sentenza del Nostro predecessore Leone
XIII di f.m., «Quanto più gli individui cresceranno
nella perfezione, tanto maggiore onestà e virtù
dovrà necessariamente risplendere nei pubblici costumi e
nella vita sociale ». Orbene, quanti splendidi esempi di
pietà e di virtù non vedemmo dati nel corso dell’anno,
con la nobile gara sorta ovunque tra i fedeli per attingere le
ricchezze, che durano eterne, dal sacro deposito a Noi affidato e da
Noi aperto con paterna generosità, mentre pure intorno non
mancava chi faceva mostra di leggerezza e di cupidigia dei beni
terreni? Tutti costoro, e primi quelli che, sebbene potessero
più facilmente valersi in patria dei mezzi di salvezza loro
offerti, preferirono invece sopportare gl’incomodi e le spese del
viaggio, non proclamavano essi col fatto che vi sono dei beni
superiori assai a questi beni vani e passeggeri del mondo e
più degni di un’anima immortale, all’acquisto dei quali
dobbiamo perciò tendere con più intenso desiderio? A
questa consolazione se ne aggiunse un’altra: cioè, dai quasi
quotidiani Nostri colloqui con tanta moltitudine di figli potemmo
constatare che essi molto generosamente oggi si adoperano con ogni
mezzo per consolidare il regno di Cristo nelle nazioni cattoliche o
per introdurlo tra i popoli ignari della dottrina e della
civiltà nostra. Ne seguirono in quest’anno nuovi incrementi
dell’azione cattolica, diretta ad aiutare e sostenere l’apostolato
del clero, e si ebbero più abbondanti offerte per l’opera dei
missionari: e qui diamo ogni lode alla pia liberalità di
coloro che, a ricordo di questo Nostro fausto giubileo, offrirono a
Noi in gran copia suppellettile varia e vasi e ornamenti sacri ad
uso delle Missioni.
Infine, il desiderio che manifestammo nell’esordire, Venerabili
Fratelli e figli carissimi, ve lo ripetiamo nel terminare la Nostra
lettera: cioè che insieme con Noi ringraziate assai Iddio,
perché, avendoCi concesso tanto lungo decorso di vita
sacerdotale, Ci sostenne con efficacissimi aiuti e Ci sollevò
con ogni genere di conforti, specialmente in quest’anno. Ma, dopo
avere attribuito a Dio, come è giusto, un così grande
cumulo di benefìci ringraziamo vivamente anche coloro che
Egli adoperò, nella sua benigna provvidenza, quali strumenti
per colmarCi di tanti favori: diciamo i capi di governo, che
manifestarono la loro deferente benevolenza verso di noi,
regalandoCi doni preziosi e rendendo più facile la venuta a
Noi dei loro concittadini; diciamo tutta la grande famiglia dei
cattolici, che l’offerta indulgenza plenaria lucrarono sia in patria
sia in Roma, dando splendide testimonianze della loro fede e
pietà non solo al Padre comune, ma anche a tutti gli altri
fedeli. E questi frutti di virtù, come potrebbero venire meno
ed affievolirsi con il passare del tempo? Ché anzi, mentre
supplichiamo a tale scopo il divino Fondatore e reggitore del genere
umano, speriamo che, mitigati dalla cristiana carità
dappertutto i dissidi dei partiti e regolati secondo i precetti
evangelici i costumi privati e pubblici, i cittadini conserveranno
intatta tale concordia tra di loro e con la potestà civile, e
si mostreranno allo sguardo di tutti ornati di tali virtù da
compiere felicemente il corso del terreno pellegrinaggio alla patria
celeste.
Quanti da varie parti e più volte Ci pregarono nei mesi
scorsi di prolungare alquanto la letizia di tali frutti spirituali,
chiesero una cosa che non si suole normalmente concedere, ma che
siamo spinti a consentire, indotti dalla Nostra sollecitudine per il
bene comune e dal desiderio di manifestare più ampiamente la
Nostra gratitudine. Perciò, con la Nostra autorità
apostolica proroghiamo, nonostante qualunque cosa in contrario, a
tutto il mese di giugno del prossimo anno 1930, quello stesso
pienissimo perdono dei peccati, da lucrarsi alle stesse condizioni,
che largimmo il 6 gennaio, indicendo un secondo anno santo «
extra ordinem » con la Costituzione Apostolica «
Auspicantibus Nobis ».
Frattanto, auspice di quella pace che Gesù Cristo nascendo
portò agli uomini, ed insieme quale testimone della paterna
Nostra benevolenza, a voi, Venerabili Fratelli e figli carissimi,
impartiamo di cuore l’Apostolica Benedizione.
Dato a Roma, presso San Pietro, il 23 dicembre 1929, anno ottavo del
Nostro Pontificato.
PIUS PP. XI