Antonio Gramsci

Quaderni del carcere

da www.gramscisource.org

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Indice Quaderni

Quaderno 1  (§ 1-158)
Quaderno 2  (§ 1-150)
Quaderno 3  (§ 1-166)
Quaderno 4  (§ 1-95)
Quaderno 5  (§ 1-161)
Quaderno 6  (§ 1-211)
Quaderno 7  (§ 1-108)
Quaderno 8  (§ 1-245)
Quaderno 9  (§ 1-142)
Quaderno 10  (§ 1-61)
Quaderno 10b  (§ 1-12)
Quaderno 11  (§ 1-70)
Quaderno 12  (§ 1-3)
Quaderno 13  (§ 1-40)
Quaderno 14  (§1-80)
Quaderno 15  (§ 1-76)
Quaderno 16  (§ 1-30)
Quaderno 17  (§ 1-53)
Quaderno 18  (§1-3)
Quaderno 19  (§1-58)
Quaderno 20  (§ 1-4)
Quaderno 21  (§ 1-15)
Quaderno 22  (§ 1-16)
Quaderno 23  (§ 1-59)
Quaderno 24  (§ 1-9)
Quaderno 25  (§ 1-8)
Quaderno 26  (§ 1-11)
Quaderno 27  (§ 1-2)
Quaderno 28  (§ 1-18)
Quaderno 29  (§ 1-8)

QUADERNO 1

(8 febbraio 1929)


Note e appunti

Argomenti principali:

1) Teoria della storia e della storiografia.

2) Sviluppo della borghesia italiana fino al 1870.

3) Formazione dei gruppi intellettuali italiani: svolgimento, atteggiamenti.

4) La letteratura popolare dei «romanzi d’appendice» e le ragioni della sua persistente fortuna.

5) Cavalcante Cavalcanti: la sua posizione nella struttura e nell’arte della Divina Commedia.

6) Origini e svolgimento dell’Azione Cattolica in Italia e in Europa.

7) Il concetto di folklore.

8) Esperienze della vita in carcere.

9) La «quistione meridionale» e la quistione delle isole.

10) Osservazioni sulla popolazione italiana: sua composizione, funzione dell’emigrazione.

11) Americanismo e fordismo.

12) La quistione della lingua in Italia: Manzoni e G. I. Ascoli.

13) Il «senso comune» (cfr 7).

14) Riviste tipo: teorica, critico‑storica, di cultura generale (divulgazione).

15) Neo‑grammatici e neo‑linguisti («questa tavola rotonda è quadrata»).

16) I nipotini di padre Bresciani.

Q1 §1 Sulla povertà, il cattolicismo e il papato. Ricordare la risposta data da un operaio cattolico francese all’autore di un libretto su Ouvriers et Patrons, memoria premiata nel 1906 dall’Accademia di scienze morali e politiche di Parigi. La risposta rispondeva in modo epigrammatico all’obbiezione mossagli che, secondo l’affermazione di Gesù Cristo, ci devono essere sempre ricchi e poveri: «vuol dire che lasceremo almeno due poveri, perché Gesù Cristo non abbia ad aver torto». Questa quistione generale dovrebbe essere esaminata in tutta la tradizione e la dottrina della Chiesa Cattolica.

Affermazioni principali fatte nelle encicliche degli ultimi papi, cioè di quelli più importanti da quando la quistione ha assunto una importanza storica: 1° La proprietà privata, specialmente quella «fondiaria», è un «diritto naturale», che non si può violare neanche con forti imposte (da questa affermazione sono derivati i programmi delle tendenze «democratiche cristiane», per la distribuzione delle terre, con indennità, ai contadini poveri e le loro dottrine finanziarie); 2° I poveri devono contentarsi della loro sorte, poiché le distinzioni di classe e la distribuzione della ricchezza sono disposizioni di dio, e sarebbe empio cercare di eliminarle; 3° L’elemosina è un dovere cristiano e implica l’esistenza della povertà; 4° La quistione sociale è anzitutto morale e religiosa, non economica, e dev’essere risolta con la carità cristiana e con i dettami della moralità e il giudizio della religione. (Vedi Codice sociale e Sillabo).

Q1 §2 Faccia a faccia col nemico, di Luigi Galleani, stampato negli Stati Uniti (Boston?) verso il 1910 dalle «Cronache Sovversive». È uno zibaldone compilatorio sui processi degli individualisti (Ravachol, Henry ecc.), poco utile in generale. Qualche osservazione:

A Livorno nel suo discorso, Abbo ripeté l’introduzione della dichiarazione di principii di Etievant, riportata in appendice nel libro: la frase, che suscitò l’ilarità generale, sulla «linguistica», è presa letteralmente; Abbo conosceva a memoria la prima parte della dichiarazione, certamente. Può servire, questo rilievo, per far notare come si facevano la cultura questi uomini e come questa specie di letteratura sia diffusa e popolare.

In tutte le dichiarazioni degli imputati, risulta che uno dei motivi fondamentali delle loro azioni è il «diritto al benessere» che ritengono un diritto naturale (i francesi, s’intende, che occupano la maggior parte del libro). Da vari imputati è ripetuta la frase che «un’orgia dei signori consuma ciò che basterebbe a mille famiglie operaie». Non c’è neanche un accenno ai rapporti di produzione. La dichiarazione di Etievant, riportata integralmente in appendice, è tipica, perché cerca di costruire un sistema giustificativo degli individualisti d’azione; naturalmente, le stesse giustificazioni sono valide per tutti, per i giudici, per i giurati, per il carnefice: ogni elemento sociale è chiuso nella rete delle sue sensazioni, come un porco in una botte di ferro e non può evaderne; l’individualista lancia la «marmitta», il giudice condanna, il carnefice taglia la testa. Non c’è uscita. È un volontarismo che per giustificarsi moralmente nega se stesso in modo tragicomico. L’analisi di questa dichiarazione mostra come queste «azioni» individuali erano il portato di uno sconcerto morale della società francese che dal ’70 arriva fino al dreyfusismo, nel quale trova il suo sfogo collettivo.

A proposito dell’Henry c’è nel volume riportata la lettera di un certo Galtey (mi pare, ma bisognerebbe verificare) a proposito dell’amore represso di Henry per sua moglie. Questa donna, saputo che Henry era stato innamorato di lei (pare che non se ne fosse accorta) dichiara a un giornalista che se avesse saputo, si sarebbe data, forse. Il marito, nella lettera, dichiara di non trovar nulla da dire sulle dichiarazioni della moglie e spiega: se un uomo non è riuscito a incarnare il sogno romantico della sua donna sul cavaliere azzurro (o qualcosa di simile), peggio per lui; deve ammettere che un altro lo sostituisca. È tipico questo miscuglio di cavalieri azzurri e di razionalismo materialistico.

Nella sua dichiarazione al processo di Lione del 1894 (vedi) Kropotkin afferma con certezza che entro dieci anni ci sarà lo sconvolgimento finale: il tono di sicurezza è notevole.

Q1 §3 Rapporti tra Stato e Chiesa. Il «Vorwärts» del 14 giugno 1929 in un articolo a proposito del Concordato tra la Città del Vaticano e la Prussia scrive che «Roma ha ritenuto fosse decaduta (la legislazione precedente che già costituiva di fatto un concordato) in seguito ai cambiamenti politici intervenuti in Germania». Questo potrebbe essere un precedente molto importante e da ricordare.

Q1 §4 Diritto naturale e cattolicismo. Gli attuali polemisti contro il diritto naturale si guardano bene dal ricordare che esso è parte integrante del cattolicismo e della sua dottrina. Sarebbe interessante una ricerca che dimostrasse lo stretto rapporto tra la religione e gli «immortali principii». I cattolici stessi ammettono questi rapporti quando affermano che con la rivoluzione francese è cominciata una «eresia», riconoscono cioè che si tratta della scissione dottrinale di una stessa mentalità e concezione generale. Si potrebbe dire, pertanto, che non i principii della rivoluzione francese superano la religione, ma le dottrine che superano questi principii, cioè le dottrine della forza contrapposte al diritto naturale.

Q1 §5 Rapporti tra Stato e Chiesa. Nella «Vossische Zeitung» del 18 giugno 1929 Hoepker‑Aschoff, ministro democratico delle finanze di Prussia, poneva così la questione, rilevata più su dal «Vorwärts»: «Egualmente non è possibile disconoscere la fondatezza della tesi di Roma che, in presenza dei molti cambiamenti politici e territoriali avvenuti, richiedeva che gli accordi venissero adattati alle nuove circostanze». Nello stesso articolo l’Hoepker‑Aschoff ricorda che lo Stato prussiano «aveva sempre sostenuto che gli accordi del 1821 erano ancora in vigore». (E il periodo del Kulturkampf?).

Q1 §6 «Per lodare un libro non è affatto necessario di aprirlo; ma, se si è deciso di criticarlo, è sempre prudente leggerlo. Almeno sinché l’autore è vivo... ». Rivarol.

Q1 §7 Margherita Sarfatti e le «giostre». Nella recensione di Goffredo Bellonci del Palazzone di Margherita Sarfatti «Italia letteraria», 23 giugno 29 si legge: «verissima quella timidezza della vergine che si ferma pudica innanzi al letto matrimoniale mentre pur sente che “esso è benigno e accogliente per le future giostre”». Questo pudore che sente con le espressioni tecniche dei novellieri licenziosi è impagabile: avrà sentito anche le future «molte miglia» e il suo «pelliccione» ben scosso.

Q1 §8 Generazione vecchia e nuova. La vecchia generazione degli intellettuali ha fallito, ma ha avuto una giovinezza Papini, Prezzolini, Soffici ecc.). La generazione dei giovani attuali non ha neanche questa età delle brillanti promesse: asini brutti anche da piccoletti (Titta Rosa, Angioletti, Malaparte ecc.).

Q1 §9 Soffici. Un cafone senza ingenuità e spontaneità.

Q1 §10 Su Machiavelli. Si suole troppo considerare Machiavelli come il «politico in generale» buono per tutti i tempi: ecco già un errore di politica. Machiavelli legato al suo tempo: 1) lotte interne nella repubblica fiorentina; 2) lotte tra gli stati italiani per un equilibrio reciproco; 3) lotte degli stati italiani per equilibrio europeo.

Su Machiavelli opera l’esempio della Francia e della Spagna che hanno raggiunto una forte unità statale. Fa un «paragone ellittico» come direbbe il Croce e desume le regole per un forte stato in generale e italiano in particolare. Machiavelli è uomo tutto della sua epoca e la sua arte politica rappresenta la filosofia del tempo che tende alla monarchia nazionale assoluta, la forma che può permettere uno sviluppo e un’organizzazione borghese. In Machiavelli si trova in nuce la separazione dei poteri e il parlamentarismo; la sua «ferocia» è contro i residui del feudalismo, non contro le classi progressive; il principe deve porre fine all’anarchia feudale e ciò fa il Valentino in Romagna, appoggiandosi sulle classi produttive, contadini e mercanti. Dato il carattere militare del capo dello stato, come si richiede in un periodo di lotta per la formazione e il consolidamento del potere, l’indicazione di classe contenuta nell’Arte della guerra si deve intendere per la struttura generale statale: se i borghesi della città vogliono porre fine al disordine interno e all’anarchia esterna, devono appoggiarsi sui contadini come massa, costituendo una forza armata sicura e fedele.

Si può dire che questa concezione essenzialmente politica è così dominante nel Machiavelli che gli fa commettere gli errori di carattere militare: egli pensa specialmente alla fanteria, le cui masse possono essere arruolate con un’azione politica, e perciò misconosce il valore dell’artiglieria. Insomma deve essere considerato come un politico che deve occuparsi di arte militare in quanto ciò è necessario per la sua costruzione politica, ma lo fa in modo unilaterale, perché non lì è il centro del suo pensiero.

Q1 §11 Dell’originalità nella scienza. Einaudi: «Una teoria non va attribuita a chi la intuì, o per incidente la enunciò o espose un principio da cui poteva essere dedotta o raccontò slegatamente le diverse nozioni, le quali aspiravano ad essere ricomposte in unità». Manca la parte positiva accennata in seguito nella frase: «in quale altro libro fu assunto come oggetto “voluto” di “particolare” trattato la seguente proposizione, ecc.?» Il Croce: «Altro è metter fuori un’osservazione incidentale, che si lascia poi cadere senza svolgerla, ed altro stabilire un principio di cui si sono scorte le feconde conseguenze; altro enunciare un pensiero generico ed astratto ed altro pensarlo realmente e in concreto; altro, finalmente, inventare, ed altro ripetere di seconda o di terza mano». L’enunziazione dell’Einaudi è molto difettosa e piena di curiose improprietà linguistiche, ma è derivata dal Croce (Einaudi, «Riforma Sociale», 1929, p. 277; Croce, Mat. storicoIV, p. 26).

Q1 §12 Giovanni Papini. Il «pio autore» della «Civiltà Cattolica».

Q1 §13 Alfredo Panzini. Scrive F. Palazzi nell’«Italia che scrive» (Giugno 1929) a proposito di I giorni del sole e del grano: «soprattutto si occupa e si preoccupa della vita campestre come può occuparsene un padrone che vuol essere tranquillo sulle doti lavorative delle bestie da lavoro che possiede, sia di quelle quadrupedi, sia di quelle bipedi e che a veder un campo coltivato, pensa subito se il raccolto sarà quale spera». Panzini negriero, insomma.

Q1 §14 Fortunato Rizzi  ossia dell’italiano meschino. Louis Reynaud, che deve essere un discepolo di Maurras, ha scritto un libro: Le Romantisme (Les origines anglo‑germaniques. Influences étrangères et traditions nationales. Le réveil du génie français), Paris, Colin, per esporre diffusamente e dimostrare una tesi propria del nazionalismo integrale: che il romanticismo è contrario al genio francese ed è un’importazione straniera, germanica e anglo‑tedesca. In questa proposizione, per Maurras e indubbiamente anche per il Reynaud, l’Italia è e deve essere con la Francia, e anzi in generale le nazioni cattoliche, il cattolicismo, sono solidali contro le nazioni protestanti, il latinismo contro il germanesimo. Il romanticismo è una infezione d’origine germanica, infezione per la latinità, per la Francia, che ne è stata la grande vittima: nei suoi paesi originari, Inghilterra e Germania, il romanticismo sarà o è stato senza conseguenze, ma in Francia esso è diventato lo spirito delle rivoluzioni successive dal 1789 in poi, ha distrutto o devastato la tradizione ecc. ecc.

Ora ecco come il prof. Fortunato Rizzi, autore di un libro a quanto pare mediocrissimo (non fa maraviglia, a giudicare dal modo come egli tratta le correnti di pensiero e di sentimenti) sul 500, vede il libro del Reynaud in un articolo (Il Romanticismo francese e l’Italia) pubblicato nei «Libri del giorno» del giugno 1929. Il Rizzi ignora l’«antefatto», ignora che il libro del Reynaud è più politico che letterario, ignora le proposizioni del nazionalismo integrale di Maurras nel campo della cultura e va a cercare con la sua lucernina di meschino italiano le traccie dell’Italia nel libro. Perbacco! l’Italia non c’è, l’Italia dunque è negletta, è misconosciuta! «È veramente singolare il silenzio quasi assoluto per quanto si riferisce all’Italia. Si direbbe che per lui (il Reynaud) l’Italia non esista né sia mai esistita: eppure se la deve esser trovata innanzi agli occhi ogni momento». Il Reynaud ricorda che il 600 nella civiltà europea è francese. E il Rizzi: «Ci voleva proprio uno sforzo eroico a notare, almeno di passaggio, di quanto la Francia del 600 sia debitrice all’Italia del 500? Ma l’Italia non esiste per i nostri buoni fratelli d’oltralpe». Che malinconia!

Il Reynaud scrive: «les anglais, puis les allemands, nous communiquent leur superstition de l’antique». E il Rizzi: «Oh guarda donde viene alla Francia l’adorazione degli antichi! Dall’Inghilterra e dalla Germania! E il Rinascimento italiano con la sua maravigliosa potenza di diffusione in Europa e, sì proprio, anche in Francia? Cancellato dalla storia... ». Altri esempi sono altrettanto divertenti. «stentata o inconscia indifferenza o ignoranza nei riguardi dell’Italia» che, secondo il Rizzi, non aggiunge valore all’opera ma anzi «per certi rispetti la attenua grandemente e sminuisce». Conclusione: «ma noi che siamo i figli primogeniti o, meglio (secondo il pensiero del Balbo) unigeniti di Roma, noi siamo dei signori di razza e non facciamo le piccole vendette ecc. ecc.» e quindi riconosce che l’opera del Reynaud è ordinata, acuta, dotta, lucidissima ecc. ecc.

Ridere o piangere. Ricordo questo episodio: parlando di un Tizio, un articolista ricordava che un antenato dell’eroe era ricordato da Dante nella Divina Commedia, «questo libro d’oro della nobiltà italiana». Era ricordato infatti, ma in una bolgia dell’Inferno: non importa per l’italiano meschino, che non si accorge, per la sua mania di grandezza da nobiluomo decaduto che il Reynaud, non parlando dell’Italia nel suo libro, le ha voluto fare il più grande omaggio, dal suo punto di vista. Ma al Rizzi importa che il Manzoni sia stato solo ricordato in una rella a piè di pagina!

Q1 §15 Delle università italiane. Perché non esercitano nel paese quell’influsso di regolatrici della vita culturale che esercitano in altri paesi?

Uno dei motivi deve ricercarsi in ciò che nelle università il contatto tra insegnanti e studenti non è organizzato. Il professore insegna dalla cattedra alla massa degli ascoltatori, cioè svolge la sua lezione, e se ne va. Solo nel periodo della laurea avviene che lo studente si avvicini al professore, gli chieda un tema e consigli specifici sul metodo della ricerca scientifica. Per la massa degli studenti i corsi non sono altro che una serie di conferenze, ascoltate con maggiore o minore attenzione, tutte o solo una parte: lo studente si affida alle dispense, all’opera che il docente stesso ha scritto sull’argomento o alla bibliografia che ha indicato.

Un maggiore contatto esiste tra i singoli insegnanti e singoli studenti che vogliono specializzarsi su una determinata disciplina: questo contatto si forma, per lo più, casualmente ed ha una importanza enorme per la continuità accademica e per la fortuna delle varie discipline. Si forma, per esempio, per cause religiose, politiche, di amicizia famigliare.

Uno studente diventa assiduo di un professore, che lo incontra in biblioteca, lo invita a casa, gli consiglia libri da leggere e ricerche da tentare. Ogni insegnante tende a formare una sua «scuola», ha suoi determinati punti di vista (chiamati «teorie») su determinate parti della sua scienza, che vorrebbe veder sostenuti da «suoi seguaci o discepoli». Ogni professore vuole che dalla sua università, in concorrenza con le altre, escano giovani «distinti» che portino contributi «seri» alla sua scienza. Perciò nella stessa facoltà c’è concorrenza tra professori di materie affini per contendersi certi giovani che si siano già distinti con una recensione o un articoletto o in discussioni scolastiche (dove se ne fanno). Il professore allora guida veramente il suo allievo; gli indica un tema, lo consiglia nello svolgimento, gli facilita le ricerche, con le sue conversazioni assidue accelera la sua formazione scientifica, gli fa pubblicare i primi saggi nelle riviste specializzate, lo mette in rapporto con altri specialisti e lo accaparra definitivamente.

Questo costume, salvo casi sporadici di camorra, è benefico, perché integra la funzione delle università. Dovrebbe, da fatto personale, di iniziativa personale, diventare funzione organica: non so fino a che punto, ma mi pare che i seminari di tipo tedesco, rappresentino questa funzione o cerchino di svolgerla. Intorno a certi professori c’è ressa di procaccianti, che sperano raggiungere più facilmente una cattedra universitaria. Molti giovani invece, che vengono dai licei di provincia specialmente, sono spaesati e nell’ambiente sociale universitario e nell’ambiente di studio. I primi sei mesi del corso servono per orientarsi sul carattere specifico degli studi universitari e la timidezza nei rapporti personali è immancabile tra docente e discepolo. Nei seminari ciò non si verificherebbe o almeno non nella stessa misura.

In ogni modo, questa struttura generale della vita universitaria non crea, già all’università, alcuna gerarchia intellettuale permanente tra professori e massa di studenti; dopo l’università anche quei pochi legami si sciolgono e nel paese manca ogni struttura culturale che si impernii sull’università. Ciò ha costituito uno degli elementi della fortuna della diade Croce‑Gentile, prima della guerra, nel costituire un gran centro di vita intellettuale nazionale; tra l’altro essi lottavano anche contro l’insufficienza della vita universitaria e la mediocrità scientifica e pedagogica (talvolta anche morale) degli insegnanti ufficiali.

Q1 §16 Ignobile pigiama. Bruno Barilli in un articolo della «Nuova Antologia» (16 giugno 1929) chiama l’uniforme del bagno penale «quella specie di ignobile pijama». Ma forse già molti modi di vedere e di pensare a proposito delle cose carcerarie sono andati mutando. Quando ero nel carcere di Milano ho letto nella «Domenica del Corriere» una «Cartolina del pubblico» che press’a poco diceva: «In treno due si incontrano e uno dice che è stato 20 anni in carcere. – “Certo per ragioni politiche” dice l’altro». Ma la punta epigrammatica non è in questa risposta, come potrebbe apparire nel riferimento. Dalla «cartolina» appare che l’essere stato in carcere non desta più repulsione, perché si può esservi stati per ragioni politiche. E le «cartoline del pubblico» sono uno dei documenti più tipici del senso comune popolare italiano. E Barilli è perfino al di sotto (di) questo senso comune: filisteo per i filistei classici della «Domenica del Corriere».

Q1 §17 Riccardo Balsamo-Crivelli. A proposito di «Cartoline del Pubblico» della «Domenica del Corriere» è da notare questo inciso del signor Domenico Claps («L’Italia che scrive», giugno 1929) in un articolo su Riccardo Balsamo‑Crivelli (che nel titolo e nel sommario è confuso con Gustavo!): «chi gliel’avrebbe detto che questo libro (Cammina... cammina...) si sarebbe adottato come testo di lingua all’Università di Francoforte?», Ahilui! una volta che prima della guerra all’Università di Strasburgo adoperavano come testo di lingua le «Cartoline del Pubblico»! Naturalmente per Università bisogna intendere solo il seminario di filologia romanza, chi sceglie non è il professore ma solo il lettore d’italiano che può essere un semplice studente universitario italiano e per «testo di lingua» bisogna intendere il testo che dia agli studenti tedeschi un modello della lingua parlata dalla media degli italiani e non della lingua letteraria o artistica. La scelta delle «Cartoline del Pubblico» è pertanto molto assennata e il signor Domenico Claps è anch’egli un «italiano meschino» al quale il Balsamo‑Crivelli dovrebbe mandare i padrini.

Q1 §18 L’errore di Maurras.  sul partito monarchico francese. Il partito monarchico in regime repubblicano, come il partito repubblicano in regime monarchico e il partito nazionalista in regime di soggezione nazionale, non può non essere un partito sui generis: deve essere, cioè, se vuole ottenere un successo relativamente rapido, la centrale di una federazione di partiti, più che un partito caratterizzato in tutti i punti particolari del suo programma di governo. Il partito di un sistema generale di governo e non di un governo particolare. (Un posto a parte in questa stessa serie, però, spetta ai partiti confessionali, come il Centro tedesco e i diversi partiti popolari ‑ cristiano‑sociali). Ogni partito si fonda su una classe e il partito monarchico si fonda in Francia su i residui della vecchia nobiltà terriera e su una piccola parte di intellettuali.

Su che sperano i monarchici per diventare capaci di prendere il potere e restaurare la monarchia? Sperano sul collasso del regime parlamentare‑borghese e sulla incapacità di qualsiasi altra forza organizzata esistente ad essere il nucleo politico di una dittatura militare prevedibile o da loro stessi preordinata. Le loro forze sociali di classe in nessun modo potrebbero altrimenti giungere al potere. In attesa, il centro dirigente svolge questa attività: 1) azione organizzatrice politico‑militare (militare nel senso di partito), per raggruppare nel modo più efficace possibile la angusta base sociale su cui storicamente s’appoggia il movimento. Essendo questa base costituita di elementi in generale più scelti per intelligenza, cultura ricchezza, pratica di amministrazione ecc. che in qualsiasi altro, è possibile avere un partito‑movimento notevole, imponente persino, ma che si esaurisce in se stesso, che non ha cioè, riserve da buttare nella lotta in una crisi risolutiva. È notevole dunque solo nei periodi normali, quando gli elementi attivi si contano solo a decine di migliaia, ma diventerà insignificante (numericamente) nei momenti di crisi, quando gli attivi si potranno contare a centinaia di migliaia e forse a milioni (Continua).

Q1 §19 Notizie sui rapporti tra ebrei e cristiani nel Risorgimento. Nel 1921 l’editore Bocca ha raccolto in tre volumi, con prefazione di un D. Parodi, una serie di Confessioni e professioni di fede di Letterati, Filosofi, Uomini politici, ecc., apparse precedentemente nel «Coenobium» di Bignami, come risposta a un quistionario sul sentimento religioso e i suoi diversi rapporti. La raccolta può essere interessante per chi voglia studiare le correnti di opinione verso la fine del secolo scorso e il principio dell’attuale, sebbene difettosa per molti aspetti. Raffaele Ottolenghi, invece di attenersi al quistionario, fa, secondo il suo carattere, una scorribanda lirico‑sentimentale nei suoi ricordi di «ebreo» piemontese. Estraggo dal suo scritto qualche notizia sulla situazione degli ebrei nel periodo del Risorgimento.

Un ebreo, veterano di Napoleone, ritornò al suo paese con una donna francese: il vescovo, saputo che la donna era cristiana, contro la sua volontà, la fece portar via dai gendarmi. Il vescovo si impadroniva dei fanciulli ebrei che avessero minacciato di farsi cristiani durante qualche lite coi genitori. (Il Brofferio registrò questi fatti nella sua storia).

Dopo il 15 gli ebrei cacciati dalle Università e quindi dalle professioni liberali.

Nel 1799 durante l’invasione austro‑russa, pogrom di ebrei; ad Acqui solo l’intervento del vescovo riesce a salvare il bisavolo dell’Ottolenghi dai fucili della folla. Ricorda un pogrom a Siena, dove ebrei furono mandati al rogo e il vescovo rifiutò di intervenire.

Nel 1848 il padre dell’Ottolenghi tornò ad Acqui da Torino, vestito da Guardia Nazionale; irritazione dei reazionari; fu sparsa la voce del sacrifizio rituale di un bambino da parte dell’Ottolenghi padre; campane a stormo; venuta dei villani dalla campagna per saccheggiare il Ghetto. Il vescovo si rifiutò di intervenire; l’Ottolenghi fu salvato dal sindaco, con un arresto simulato fino all’arrivo delle truppe. I reazionari e i clericali volevano fare apparire le innovazioni liberali del 48 come una «invenzione» degli ebrei. (La storia del fanciullo Mortara).

Q1 §20 Salvator Gotta. Oremus sugli altari e flatulenze in sacrestia.

Q1 §21 Nel 1° volume delle Confessioni e professioni di fede già citate sono contenute le risposte dei seguenti letterati ecc. italiani: Angiolo Silvio Novaro, prof. Alfredo Poggi, prof. Enrico Catellani, Raffaele Ottolenghi, prof. Bernardino Varisco, Augusto Agabiti, prof. A. Renda, Vittore Marchi, direttore del giornale «Dio e Popolo», Ugo Janni, pastore valdese, A. Paolo Nunzio, Pietro Ridolfi Bolognesi, Nicola Toscano Stanziale, direttore della «Rassegna Critica», Dott. Giuseppe Gasco, Luigi Di Mattia, Ugo Perucci, maestro elementare, prof. Casimiro Tosini, direttore di Scuola Normale, Adolfo Artioli, prof. Giuseppe Morando, direttore della «Rivista Rosminiana», preside del Liceo Ginnasio di Voghera, prof. Alberto Friscia, Vittorio Nardi, Luigi Marrocco, pubblicista, G. B. Penne, Guido Piccardi, Renato Bruni, prof. Giuseppe Rensi.

Q1 §22 Nel 2° volume delle Confessioni e professioni di fede sono contenute le risposte dei seguenti italiani: Del Greco Francesco, prof., direttore di Manicomio, Alessandro Bonucci, prof. Università, Francesco Cosentini, prof. Università, Luigi Pera, medico, Filippo Abignente, direttore del «Carattere», Giampiero Turati, Bruno Franchi, redattore‑capo della «Scuola Positiva di Diritto Criminale», Manfredi Siotto‑Pintor, prof. Università, Enrico Caporali, prof., Giovanni Lanzalone, direttore della rivista «Arte e Morale», Leonardo Gatto Roissard, tenente degli Alpini, Pietro Raveggi, pubblicista, Widar Cesarini‑Sforza, Leopoldo De Angelis, prof. Giovanni Predieri, Orazio Bacci, Giuseppe Benetti, pubblicista, prof. G. Capra‑Cordova, Costanza Palazzo, Pietro Romano, Giulio Carvaglio, Leone Luzzatto, Adolfo Faggi, prof. Università, Ercole Quadrelli, Carlo‑Francesco Gabba, senatore, prof. Università, Dott. Ernesto Lattes, pubblicista, Settimio Corti, prof. di filosofia, B. Villanova D’Ardenghi, pubblicista (Bruno Brunelli), Paolo Calvino, pastore evangelico, Giuseppe Lipparini, prof., Prof. Oreste Ferrini, Luigi Rossi Casè, prof., Prof. Antioco Zucca, Vittoria Fabrizi de’ Biani, Guido Falorsi, prof., Prof. Benedetto De Luca, pubblicista, Giacomo Levi Minzi (bibliofilo marciano), prof. Alessandro Arrò, Bice Sacchi, prof. Ferdinando Belloni‑Filippi, Nella Doria Cambon, prof. Romeo Manzoni.

Q1 §23 Nel volume 3° delle Confessioni e professioni di fede: Romolo Murri, Giovanni Vidari, prof. Università, Luigi Ambrosi, prof. Università, Salvatore Farina, Angelo Flavio Guidi, pubblicista, Conte Alessandro D’Aquino, Baldassarre Labanca, prof. di Storia del Cristianesimo all’Università, Giannino Antona‑Traversi, autore drammatico, Mario Pilo, prof., Alessandro Sacchi, prof. Università, Angelo De Gubernatis, Giuseppe Sergi, prof. Università, Adolfo Zerboglio, prof. Università, Vittorio Benini, prof., Paolo Arcari, Andrea Lo Forte Randi, Arnaldo Cervesato, Giuseppe Cimbali, prof. Università, Alfredo Melani, architetto, Giovanni Preziosi, Silvio Adrasto Barbi, prof., Massimo Bontempelli, Achille Monti, prof. Università, Velleda Benetti, studentessa, Achille Loria, Francesco Pietropaolo, prof., Amilcare Lauria, prof., Eugenio Bermani, scrittore, Ugo Fortini Del Giglio, Luigi Puccio, avv., Maria Nono Villari, scrittrice, Gian Pietro Lucini, Angelo Valdarnini, prof. Università, Teresina Bontempi, ispettrice degli asili d’infanzia nel Canton Ticino, Luigi Antonio Villari, Guido Podrecca, Alfredo Panzini, Amedeo Massari, avv., Giuseppe Barone, prof., Giulio Caprin, Gabriele Morelli, avv., Riccardo Gradassi‑Luzi, Torquato Zucchelli, tenente colonnello onorario (sic), Ricciotto Canudo, Felice Momigliano, prof., Attilio Begey, Antonino Anile, prof. Università, Enrico Morselli, prof. Università, Francesco Di Gennaro, Ezio Maria Gray, Roberto Ardigò, Arturo Graf, Pio Viazzi. Innocenzo Cappa, duca Colonna di Cesarò, P. Villari, Antonio Cippico, Alessandro Groppali, prof. Università, Angelo Marzorati, Italo Pizzi, Angelo Crespi, E. A. Marescotti, F. Belloni‑Filippi, prof. Università, Francesco Porro, astronomo, Fortunato Rizzi, prof.

Q1 §24 I nipotini del padre Bresciani. Esame di una parte cospicua della letteratura narrativa italiana, specialmente di questo ultimo decennio. La preistoria del Brescianesimo moderno: 1°) Antonio Beltramelli, con Gli Uomini Rossi, Il Cavalier Mostardo ecc.; 2°) Polifilo (Luca Beltrami), con le diverse storie su Casale Olona; 3°) la letteratura abbastanza vasta, più tecnicamente di «sagrestia», in generale poco conosciuta e studiata, nella quale il carattere propagandistico è apertamente confessato.

A mezza strada tra la letteratura di sagrestia e il Brescianesimo laico sono i romanzi di Giuseppe Molteni, dei quali conosco solo l’Ateo. L’aberrazione morale di questo libro è tipica: in esso si riflette lo scandalo Don Riva ‑ suor Fumagalli. L’autore giunge fino ad affermare che appunto data la sua qualità di prete, legato al voto di castità, bisogna compatire Don Riva (che ha violentato e contagiato una trentina di bambine) e crede che a questo massacro possa essere contrapposto, come moralmente equivalente, il volgare adulterio di un socialista ateo. Il Molteni è un uomo molto noto nel mondo clericale: è stato critico letterario e articolista di tutta una serie di quotidiani e di periodici cattolici.

Il Brescianesimo laico assume una certa importanza nel dopoguerra e va sempre più diventando la «scuola» letteraria preminente e ufficiale.

Ugo Ojetti, Mio figlio ferroviere. Caratteristiche generali della letteratura di Ojetti. Suoi diversi atteggiamenti ideologici. Scritti su Ojetti di Giovanni Ansaldo nelle riviste dove l’Ansaldo collaborava. Ma la manifestazione più tipica di Ugo Ojetti è la sua lettera aperta al padre Rosa, pubblicata nel «Pègaso» e riprodotta nella «Civiltà Cattolica» col commento del padre Rosa. L’Ojetti dopo l’annunzio della avvenuta conciliazione tra Stato e Chiesa non solo era persuaso che ormai tutte le manifestazioni intellettuali italiane sarebbero state controllate secondo uno stretto conformismo cattolico e clericale, ma si era già adattato a questa idea, e si rivolgeva al padre Rosa con uno stile untuosamente adulatorio delle benemerenze culturali della Compagnia di Gesù per impetrare una «giusta» libertà artistica. Non si può dire, alla luce degli avvenimenti posteriori (discorsi del capo del governo) se sia più abbietta la prostrazione dell’Ojetti o più comica la sicura baldanza del padre Rosa, che in ogni caso dava una lezione di carattere all’Ojetti, al modo dei gesuiti, già si intende. Il caso Ojetti è stato tipico da più punti di vista: ma la codardia intellettuale dell’uomo eccelle su tutto.

Alfredo Panzini – già nella preistoria con qualche brano della Lanterna di Diogene (l’episodio del livido acciaro per esempio)–, Il padrone sono me, Il mondo è rotondo e quasi tutti i libri dell’ultimo decennio. Sul recente I giorni dei sole e del grano vedi giudizio di F. Palazzi già annotato. Nella Vita di Cavour un accenno al padre Bresciani veramente strabiliante. Tutta la letteratura pseudo‑storica del Panzini è da riesaminare dal punto di vista del Brescianesimo laico. Episodio Croce‑Panzini, riferito recentemente nella «Critica», è un caso di gesuitismo personale, oltre che letterario.

Salvator Gotta nel suo «Ciclo dei Vela» deve ricadere specificamente nel Brescianesimo, oltre che genericamente in tutta la sua produzione.

Margherita Sarfatti e il Palazzone. Cfr nota precedente sulle sue «giostre». Su questo punto ci sarebbe da spassarsi assai: ricordare l’episodio leggendario di Dante e la prostituta di Rimini (?) riportato nella raccolta Papini (Carabba) di leggende e aneddoti su Dante; per dire che di «giostre» può parlar l’uomo, non la donna; ricordare l’espressione di Chesterton nella Nuova Gerusalemme sulla chiave e la serratura a proposito della lotta dei sessi: per dire che il «punto di vista» della chiave non può essere quello della serratura. Ricordare che G. Bellonci, il «fine» intenditore di cose artistiche e che civetta volentieri con l’erudizione preziosa (a buon mercato) per fare spicco tra il giornalistume, trova naturale che la vergine Fiorella pensi alle giostre.

Mario Sobrero, Pietro e Paolo, può rientrare nel quadro generale per il chiaroscuro.

Francesco Perri, Gli emigranti. Questo Perri non è poi il Paolo Albatrelli dei Conquistatori? Tener conto in ogni modo anche dei Conquistatori. Gli Emigranti: la caratteristica più appariscente è la rozzezza, ma una rozzezza non da principiante ingenuo, che in tal caso potrebbe essere il grezzo non elaborato che però lo può diventare, ma una rozzezza opaca, materiale, non da primitivo ma da decadente. Romanzo verista (vedi articolo del Perri nella «Fiera Letteraria»); ma può esistere «verismo» non storicista? Il verismo stesso è una continuazione del vecchio romanzo storico nell’ambiente dello storicismo moderno (del secolo XIX). Negli Emigranti non c’è accenno alcuno cronologico. È questa una cosa casuale? Non pare. Due riferimenti generici: il fenomeno dell’emigrazione meridionale che ha avuto un decorso storico e un tentativo di invasione delle terre signorili usurpate che anch’esso può essere fatto rientrare in un’epoca determinata.

Storicamente il fenomeno emigratorio ha creato un’ideologia (il mito dell’America), come ad una ideologia è legato il fenomeno dei tentativi sporadici ma endemici di invasioni di terre prima della guerra (tutt’altro è il movimento del ’19‑’20, che è generalizzato, e che ha una organizzazione implicita nel combattentismo meridionale). Negli Emigranti l’uno e l’altro fenomeno si riflettono in modo rozzo, brutale, senza preparazione né generica né specifica, in modo meccanico. È evidente che il Perri conosce l’ambiente popolare contadino: calabrese non immediatamente, per esperienza sentimentale e psicologica diretta, ma per il tramite dei vecchi clichés regionalistici (se egli è l’Albatrelli occorre tener conto delle sue origini politiche). Il fatto dell’occupazione delle terre a Pandure nasce da intellettuali, su una base giuridica, e si termina nel nulla, come se non avesse sfiorato neppure le abitudini di un villaggio patriarcale. Puro meccanismo. Così l’emigrazione. Questo villaggio di Pandure, con la famiglia di Rocco Blefasi, è (per dirla con una frase di Leonida Rèpaci)) un parafulmine di tutti i guai.

Insistenza su errori di parole, è tipica nel brescianismo. Le «macchiette» (il Galeoto, ecc.) pietose. La mancanza di storicità è «ricercata» per poter mettere in un sacco alla rinfusa tutti i motivi folkloristici generici, che in realtà sono molto ben distinti nel tempo, oltre che nello spazio.

Leonida Rèpaci), L’ultimo Cireneo. Si può vedere come la ficelle è stata intrecciata.

Umberto Fracchia. Non ho letto nulla: mi pare che in
ci sono elementi che rientrano in questo quadro. Nella intelaiatura generale occupano il primo piano Ojetti‑Beltramelli‑Panzini. Il carattere gesuitesco è in essi più appariscente e più importante è il posto che essi occupano nella valutazione più corrente (oltre che per un certo riconoscimento ufficiale: Beltramelli e Panzini nell’Accademia). Vedere libri di divulgazione critica (tipico deve essere il recente libro di Camillo Pellizzi). (Continua).

Q1 §25 Achille Loria. A proposito di Achille Loria bisogna ricordare i principali documenti in cui si trovano le principali «stranezze»:

Sull’influenza sociale dell’aeroplano, nella «Rassegna Contemporanea» diretta dal Colonna di Cesarò e da (Vincenzo) Picardi del 1912: in questo articolo si incontra la teoria sull’emancipazione operaia dalla coercizione della fabbrica per mezzo degli svolazzamenti sugli aeroplani unti di vischio. Tutto l’articolo è un monumento mostruoso di insulsaggini e stoltezze: la caduta del credito fiduciario, lo sfrenarsi delle birbonate sessuali (adulteri, seduzioni), l’ammazzamento sistematico dei portinai per le cadute dei cannocchiali, la teoria del grado di moralità secondo l’altezza al livello del mare, con la proposta pratica di rigenerare i delinquenti costruendo le prigioni sui monti o addirittura su immensi aeroplani che stiano sempre ad alta quota ecc.

2° La conferenza tenuta a Torino durante la guerra e pubblicata nella Nuova Antologia (del 1916 o 1917) dove l’unico «documento concreto» sul Dolore universale (deve essere anche questo il titolo della conferenza) riportato era la nota di ciò che costa la «claque» agli attori di teatro (da una statistica fissata dal Reina) e dove si trova questo ragionamento: «la natura provvida ha creato l’antidoto contro questo avvelenamento universale del dolore, dando ai poverelli che sono costretti a pernottare all’aria aperta una pelle più spessa».

3° L’articolo pubblicato nel «Palvese» di Trieste verso il 1910 o 1911 riguardante la scienza del linguaggio e intitolato press’a poco: Perché i bergamaschi triplicano e i veneziani scempiano. Questo articolo era stato inviato dal Loria al Comitato organizzato a Trieste per le onoranze ad Attilio Hortis in occasione del cinquantenario della sua attività letteraria e che doveva mettere insieme una Miscellanea in onore del festeggiato (uscita infatti in quel torno di tempo). Il Comitato non poteva pubblicare l’articolo per la sua insulsaggine, ma non voleva neppure mancare di riguardi al Loria che era un esponente illustre della scienza italiana: se la cavò, scrivendo al Loria che la Miscellanea era ormai completa e che il suo articolo era stato passato al (settimanale) letterario il «Palvese». L’articolo espone un aspetto (quello linguistico) della teoria loriana sull’influenza dell’altimetria sulla civiltà: i montanari, moralmente più puri, sono fisicamente più robusti e «triplicano» le consonanti, la gente di pianura (guai poi se sta al livello del mare come i veneziani) invece, oltre che moralmente depravata, è anche fisicamente degenerata e «scempia» le consonanti.

4° La prefazione alla 1ª edizione del Corso di Economia Politica importante anche perché vi si trova la istoria del suo «ritrovamento» del materialismo storico: vi si espone la teoria della connessione tra «misticismo» e «sifilide».

5° Lo scritto nella Riforma Sociale del Settembre‑Ottobre 1929: Documenti ulteriori a suffragio dell’economismo storico. Questi cinque documenti sono i più vistosi che io ricordo, ma la quistione è interessante appunto perché nel Loria non si tratta di qualche caso di obnubilamento dell’intelligenza occasionale, sia pure con ricadute. Si tratta di un filone, di una continuità sistematica, che accompagna tutta la sua carriera letteraria. Non si può neanche negare che il Loria sia uomo d’un certo ingegno e che abbia del giudizio. In tutta una serie di articoli le «stranezze» appaiono qua e là, e anche di un certo tipo, legate cioè a determinati modi di pensiero. Per esempio si è vista la «teoria» altimetrica apparire nella quistione dell’aeroplano e in quella «linguistica». Così in un articoletto pubblicato nella «Proda» (o «Prora», usciva a Torino durante la guerra, diretto da un certo Cipri‑Romanò, un giornalettucolo un po’ losco, certamente di bassissima speculazione ai margini della guerra e dell’antidisfattismo) si dividevano i protagonisti della guerra in mistici (gl’imperi centrali) e positivisti (Clemenceau e Lloyd George): ricchi di elementi sono la poesia Al mio bastone pubblicata nella Nuova Antologia (durante la guerra) e l’articolo sull’epistolario di Marx (pure nella «Nuova Antologia»).

La «leziosità letteraria» notata dal Croce in Loria è un elemento secondario del suo squilibrio, ma che ha una certa importanza in quanto si manifesta continuamente. Un altro elemento è la pretesa all’«originalità» intellettuale a tutti i costi. Un certo opportunismo di bassa estrazione non manca spesso: ricordo due articoli pubblicati a distanza breve, uno nella «Gazzetta del Popolo» (ultra reazionaria), l’altro nel «Tempo» di Pippo Naldi (nittiano), sullo stesso argomento (la Russia) e con un’immagine del Macaulay che nell’uno era usata in un senso e nell’altro nel senso opposto.

A proposito dell’osservazione di Croce sui «servi a spasso» e sulla loro importanza nella sociologia loriana, ricordare un capocronaca della «Gazzetta del Popolo» del ’19 o ’20 in cui si parla degli intellettuali come di quelli che tengono dritta la «scala d’oro» sulla quale sale il popolo, con avvertimenti al popolo di tenersi buoni questi intellettuali ecc.

Loria non è un caso teratologico individuale: è l’esemplare più compiuto e finito di una serie di rappresentanti di un certo strato intellettuale di un certo periodo; in generale degli intellettuali positivisti che si occupano della quistione operaia e che più o meno credono di approfondire, o correggere, o superare il Marxismo. Enrico Ferri – Arturo Labriola – lo stesso Turati potrebbero dare una messe di osservazioni e di aneddoti.

In Luzzatti, in un altro campo sarebbe da mietere.

Ma non bisogna dimenticare Guglielmo Ferrero e Corrado Barbagallo. Nel Barbagallo forse la manifestazione è più occasionale che negli altri: pure il suo scritto sul capitalismo antico pubblicato nella «Nuova Rivista Storica» del 1929 è estremamente sintomatico (con la postilla un po’ comica che segue al successivo articolo del Sanna). In generale dunque il Lorismo è un carattere di certa produzione letteraria e scientifica del nostro paese (molti documenti di esso si trovano nella «Critica» di Croce, nella «Voce» di Prezzolini, nell’«Unità» di Salvemini) connesso alla scarsa organizzazione della cultura e quindi alla mancanza di controllo e di critica.

Q1 §26 L’ossicino di Cuvier. Osservazione legata alla nota precedente. Il caso Lumbroso. Da un ossicino di topo si ricostruiva talvolta un serpente di mare.

Q1 §27 Postumi del basso romanticismo? La tendenza della sociologia di sinistra in Italia a occuparsi della criminalità. Legata al fatto che a tale corrente avevano aderito Lombroso e altri che parevano allora la suprema espressione della scienza? O un postumo del basso romanticismo del 48 (Sue ecc.)? O legato al fatto che in Italia impressionava questi uomini la grande quantità di reati di sangue ed essi credevano di non poter procedere oltre senza aver spiegato «scientificamente» questo fenomeno?

Q1 §28 Diritto naturale. Vedi le due noticine precedenti a p. 2 e a p. 3 bis. Nella polemica presente contro il diritto naturale non bisogna cercare una intenzione scientifica qualunque. Si tratta di esercitazioni giornalistiche non molto brillanti, che si propongono lo scopo propagandistico di distruggere certi stati d’animo molto diffusi e che sono ritenuti pericolosi.

A questo proposito vedere l’opuscolo del Tilgher su «Storia e Antistoria», dal quale apparirebbe che mai come oggi la mentalità illuministica da cui è nata la teoria del diritto naturale è diffusa. L’opuscolo del Tilgher, a suo modo, è una riprova di tale diffusione, perché il Tilgher cerca con esso di farsi un posticino al nuovo sole. Mi pare che chi studi con una certa profondità (se si astrae dal linguaggio sforzato) le contraddizioni psicologiche che nascono sul terreno dello storicismo, come concezione generale della vita e dell’azione, sia Filippo Burzio. Per lo meno la sua affermazione: «essere sopra alle passioni e ai sentimenti pur provandoli» mi pare ricca di molte conseguenze. Infatti questo è il nodo della quistione dello «storicismo» che il Tilgher non sfiora neppure: «come si possa essere critici e uomini d’azione nello stesso tempo, in modo non solo che l’uno aspetto non indebolisca l’altro, ma anzi lo convalidi». Il Tilgher scinde molto meccanicamente i due aspetti di ogni personalità umana (dato che non esiste e non è mai esistito un uomo tutto critico e uno tutto passionale) invece di cercare di determinare come in diversi periodi storici i due aspetti si combinino in modo che nel mondo della cultura prevalga una corrente o l’altra. (L’opuscolo del Tilgher lo dovrò ancora rivedere).

Q1 §29 Il sarcasmo come espressione di transizione negli storicisti. In un articolo di Bonaventura Tecchi Il Demiurgo di Burzio («Italia letteraria», 20 ottobre 1929) da cui è preso lo spunto succitato del Burzio, si accenna spesso all’elemento «ironia» come caratteristico di questa posizione. «Ironia» è giusto per la letteratura, per indicare il distacco dell’artista dal contenuto sentimentale della sua creazione: ma nel caso dell’azione storica, l’elemento «ironia» sarebbe appunto troppo letterario (basterebbe dire semplicemente «letterario») e indicherebbe una forma di distacco connessa piuttosto allo scetticismo più o meno dilettantesco (dovuto a disillusione, a stanchezza o anche a «superominismo»). Invece in questo caso (cioè dell’azione storica) l’elemento caratteristico è il «sarcasmo» e in una sua certa forma, cioè «appassionato». In Marx troviamo l’espressione più alta anche esteticamente, del «sarcasmo appassionato». Da distinguere da altre forme, in cui il contenuto è opposto a quello di Marx. Di fronte alle «illusioni» popolari (credenza nella giustizia, nell’uguaglianza, nella fraternità, cioè negli elementi della «religione dell’umanità») Marx si esprime con «sarcasmo» appassionatamente «positivo», cioè si capisce che egli non vuol dileggiare il sentimento più intimo di quelle «illusioni» ma la loro forma contingente legata a un determinato mondo «perituro», il loro puzzo di cadavere, per così dire, che trapela dal belletto. C’è invece il sarcasmo di «destra», che raramente è appassionato, ma è sempre «negativo», puramente distruttivo, non solo della «forma» contingente, ma del contenuto «umano» di quei sentimenti. (A proposito di questo «umano» vedi in Marx stesso quale significato occorre dargli, specialmente la Sacra Famiglia). Marx cerca di dare a certe aspirazioni una forma nuova (quindi cerca di rinnovare anche queste aspirazioni) non di distruggerle: il sarcasmo di destra cerca di distruggere invece proprio il contenuto di queste aspirazioni, e in fondo l’attacco alla loro forma non è che un espediente «didattico».

Questa nota sul «sarcasmo» dovrebbe poi analizzare alcune manifestazioni di esso: c’è stata una manifestazione «meccanica», pappagallesca (o che è diventata tale per l’«abuso») che ha dato luogo anche a una specie di cifra o gergo e che potrebbe dar luogo a osservazioni piccanti (per es. quando le parole «civiltà» o «civile» sono sempre accompagnate dall’aggettivo «sedicente» può nascere il dubbio che si creda nell’esistenza di una «civiltà» astratta, esemplare, o almeno ci si comporta come se si credesse, cioè si ottiene proprio il risultato opposto a quello che probabilmente si voleva ottenere); e c’è da analizzare la sua significazione in Marx, di una espressione transitoria, che cerca di porre il distacco dalle vecchie concezioni in attesa che le nuove concezioni, con la loro saldezza acquistata attraverso lo sviluppo storico, dominino fino ad acquistare la forza delle «convinzioni popolari». Queste nuove concezioni esistono già in chi adopera il «sarcasmo», ma nella fase ancora «polemica»; se fossero espresse «senza sarcasmo» sarebbero una «utopia» perché solo individuali o di piccoli gruppi. D’altronde lo stesso «storicismo» non può concepirle come esprimibili in questa forma apodittica o predicatoria; lo «storicismo» crea un «gusto» nuovo e un linguaggio nuovo. Il «sarcasmo» diventa il componente di tutte queste esigenze, che possono apparire come contradittorie. Ma il suo elemento essenziale è sempre la «passionalità».

Da questo punto di vista occorre esaminare le ultime affermazioni del Croce nella sua prefazione del 1917 al Materialismo Storico a proposito della «maga Alcina».

Ricordare l’articolo di L. Einaudi nella «Riforma Sociale», su questa prefazione del Croce, per discutere l’importanza culturale del Marx nella rinascita della storiografia economica.

Q1 §30 Orano e Loria. Nella precedente nota su Loria ho dimenticato di ricordare le «stranezze» di Paolo Orano. Ne ricordo ora due: l’articolo «Ad metalla» nel volume Altorilievi (ed. Puccini, Milano), tipicamente «loriano», e il suo volumetto sulla Sardegna (credo sia uno dei primi libri dell’Orano) dove parla del «liquido ambiente». Nei medaglioni ci deve essere, se ben ricordo, da spulciare parecchio e così in tutte le altre pubblicazioni.

Q1 §31 Lettere del Sorel al Croce. Nelle lettere del Sorel al Croce si può spigolare più di un elemento sul «lorismo» o «lorianismo». Per esempio, il fatto che nella tesi di laurea di Arturo Labriola si scrive come se si credesse che il Capitale di Marx è stato elaborato sull’esperienza economica francese e non su quella inglese.

Q1 §32 Loria e Lumbroso. Alberto Lumbroso è da collocare nella serie loriana ma da un altro punto di vista e in un altro campo. Si potrebbe fare una introduzione generale che servirebbe appunto a dimostrare come Loria non sia una eccezione unica, ma si tratti in gran parte di un fatto generale di cultura, che poi si è «tumefatto» nel campo della «sociologia». In questa parte appunto possono dare elementi la «Critica», la «Voce» e l’«Unità». (Ricordare per esempio «la casa dei parti» di Tomaso Sillani, la «gomma di Vallombrosa» di Filippo Carli, del quale è anche notevole l’articolo della «Perseveranza» sul prossimo ritorno trionfale della navigazione a vela; la letteratura economica dei protezionisti vecchia covata è piena di molte preziosità del genere, di cui un ricordo può rintracciarsi negli scritti del Belluzzo sulle possibili ricchezze nascoste nelle montagne italiane). Tutti questi elementi piuttosto generici del «lorianismo» potrebbero servire per «agrémenter» l’esposizione. Così si potrebbe ricordare come limite «assurdo», perché sconfina nel caso clinico (tecnicamente clinico), la candidatura del Lenzi al IV collegio di Torino, con l’«aereo cigno» e con la proposta di radere le montagne italiane, ingombranti, per trasportarne il materiale in Libia e fertilizzare così il deserto di sabbia.

Il caso del Lumbroso è molto interessante, perché suo padre era un erudito di gran marca (Giacomo Lumbroso: ma la metodologia dell’erudizione non si trasmette per generazione e neppure per il contatto intellettuale anche il più assiduo, a quanto pare.

C’è da domandarsi, nel caso Lumbroso, come i suoi due ponderosi volumi sulle Origini Diplomatiche e politiche della guerra abbiano potuto essere accolti nella Collezione Gatti. Qui la responsabilità del sistema è evidente. Così per Loria e la «Riforma Sociale» e per Luzzatti e il «Corriere della Sera» (a proposito di Luzzatti ricordare il caso del «fioretto» di S. Francesco pubblicato come inedito dal «Corriere della Sera» del 1913 — mi pare —, con un commento economico spassosissimo, proprio dal Luzzatti che aveva poco prima pubblicato un’edizione dei Fioretti nella Collezione Notari; il così detto «inedito» era una variante inviata al Luzzatti dal Sabatier. Del Luzzatti famose le frasi, tra le quali «Lo sa il tonno» in un articoletto del «Corriere» che poi ha dato lo spunto al libro del Bacchelli).

Q1 §33 Freud. La diffusione della psicologia freudiana pare che dia come risultato la nascita di una letteratura tipo 700; al «selvaggio», in una forma moderna, si sostituisce il tipo freudiano. La lotta contro l’ordine giuridico viene fatta attraverso l’analisi psicologica freudiana. Questo è un aspetto della quistione, a quanto pare. Non ho potuto studiare le teorie di Freud e non conosco l’altro tipo di letteratura così detta «freudiana» Proust‑Svevo‑Joyce.

Q1 §34 Il Pragmatismo americano. Si potrebbe dire del pragmatismo americano (James), ciò che Engels ha detto dell’agnosticismo inglese? (Mi pare nella prefazione inglese al Passaggio dall’Utopia alla Scienza).

Q1 §35 Riviste tipo. Teorica: «storiografia» specialmente. Molto unitaria, quindi pochi collaboratori «principali», cioè che scrivano il corpo principale di ogni fascicolo. Il tipo più corrente non può essere che quello medio, di una rivista legata all’attualità e i cui articoli siano di tipo divulgativo, espositivo. L’esperienza ha insegnato che anche in questo tipo occorre una certa omogeneità, o per lo meno una forte organizzazione interna redazionale che fissi molto chiaramente (e per iscritto) il terreno comune di lavoro.

Il primo tipo può essere dato dalla «Critica» di B. Croce + la «Politica» di Coppola.

Il secondo tipo dalla «Voce» di Prezzolini prima e seconda maniera + «Unità» di Salvemini.

Un terzo tipo molto interessante si può ricavare dai numeri meglio riusciti del «Leonardo» di L. Russo + «L’Italia che scrive» del Formiggini.

Un’organizzazione unitaria di cultura che organizzasse i tre tipi con una casa editrice di collezioni «librarie» connesse alle riviste, darebbe soddisfazione alle esigenze di quella massa di pubblico che è più attiva intellettualmente e che più importa far pensare e trasformare.

Q1 §36 Lorianismo. Ricordare il libro del prof. Alberto Magnaghi sui geografi spropositanti: questo libro è un modello del genere.

Non ricordo il titolo esatto né il nome dell’editore. Credo che non fosse stato Messo in commercio.

Ricordare il primo volume (ediz. Lumachi o Ferr. Gonnelli) sulla Cultura Italiana di Papini e Prezzolini.

Q1 §37 Turati e il lorianismo. Il discorso sulle «salariate dell’amore» mi pare da connettere al lorianismo. Di Turati si possono raccogliere alcuni tratti di «cattivo gusto» sul genere di «lecca, popol sovrano, lecca ma ascolta».

Q1 §38 Riviste tipo. Terzo tipo. Critico‑ storico‑bibliografico.

Esami analitici di libri, per lettori che non possono, in generale, leggere i libri stessi.

Uno studioso che esamina un fenomeno storico per costruire un lavoro sintetico, deve compiere tutta una serie di operazioni preliminari, che solo in piccola parte, in ultima analisi, risultano utilizzabili. Questo lavoro è utilizzabile invece per questo tipo di rivista, dedicata a un tipo determinato di lettore, al quale occorre, oltre all’opera sintetica, presentare l’attività analitica prelirninare nel suo complesso. Il lettore comune non ha e non può avere un abito «scientifico» che solo viene dato dal lavoro specializzato: occorre perciò aiutarlo con una attività letteraria opportuna. Non basta dargli dei «concetti» storici; la loro concretezza gli sfugge: occorre dargli serie intiere di fatti specifici, molto individualizzati. Un movimento storico complesso si scompone nel tempo e nello spazio da una parte e in piani diversi (problemi speciali) dall’altro, anch’essi scomponibili nel tempo e nello spazio. Un esempio: l’Azione Cattolica.

Essa ha avuto sempre una direttiva centrale e centralizzata, ma anche una grande varietà di atteggiamenti regionali nei diversi tempi. L’Azione Cattolica nata specificatamente dopo il ’48 era molto diversa da quella attuale riorganizzata da Pio XI. La posizione dell’A. C. subito dopo il ’48 può essere caratterizzata con la stessa osservazione che uno storico ha fatto a proposito di Luigi XVIII: Luigi XVIII non riusciva a persuadersi che nella Francia dopo il 1815 la monarchia dovesse avere un partito politico specifico per sostenersi. Tutti i ragionamenti fatti dagli storici cattolici per spiegare la nascita dell’A. C. e i tentativi per riallacciare questa nuova formazione a movimenti e attività precedenti, sono fallacissimi.

Dopo il ’48 in tutta Europa (in Italia la crisi finale assume la forma specifica di fallimento del neoguelfismo) è superata vittoriosamente per il liberalismo (inteso come concezione della vita oltre che come azione politica positiva) la lotta con la concezione «religiosa» della vita. Prima si formavano dei partiti contro la religione, più o meno effimeri; ora la religione «deve» avere un partito suo, non può più parlare (altro che ufficialmente, perché non confesserà mai questo stato di cose) come se sentisse ancora di essere la premessa necessaria, universale di ogni modo di pensare e di agire. Molti oggi non riescono più neanche a persuadersi che così potesse essere una volta.

Per dare un’idea di questo fatto si potrebbe dare questo modello: — oggi nessuno pensa sul serio a fondare un partito contro il suicidio (è possibile che esista in qualche parte qualche associazione contro il suicidio, ma è un’altra cosa), perché non esiste un partito che cerchi persuadere gli uomini che bisogna suicidarsi in massa (sebbene siano apparsi singoli individui e anche piccoli gruppi che hanno sostenuto forme simili di nichilismo radicale, pare in Ispagna); la «vita» è la premessa necessaria di ogni manifestazione di vita evidentemente.

La religione ha avuto una funzione simile e se ne trovano abbondanti tracce nel linguaggio e nei modi di pensare dei contadini: cristiano e uomo significa la stessa cosa («Non sono cristiano» «E allora cosa sei, un animale? »): i coatti dicono: «cristiani e coatti» (in principio ad Ustica mi maravigliavo perché all’arrivo del vaporetto qualche coatto diceva: «sono tutti cristiani, non ci sono che cristiani, non c’è neanche un cristiano»: in carcere invece si dice più comunemente «borghesi e detenuti» o scherzosamente «borghesi e soldati» sebbene i meridionali dicano anche «cristiani e detenuti»), sarebbe interessante studiare tutta la serie di passaggi semantici per cui nel francese da «cristiano» si è venuti a «crétin» (donde il «cretino» italiano) e addirittura a «grédin»; il fenomeno deve essere simile a quello per cui «villano» da «uomo di campagna» ha finito col significare «screanzato» e addirittura «mascalzone», cioè il nome «cristiano» usato dai contadini per indicare se stessi come «uomini» si è, nella forma più popolare, staccato da «cristiano» in senso religioso e ha avuto la stessa sorte di «manant». Forse anche il russo «krestianin», «contadino» ha la stessa origine mentre «cristiano» religioso, forma più colta, ha mantenuto l’aspirazione del χ greco.

Forse a questa concezione è legato anche il fatto (bisogna poi vedere se è vero) che molti contadini russi, che non conoscevano personalmente gli ebrei, credevano che gli ebrei avessero la coda o altro attributo animalesco.

L’esame storico del movimento dell’A. C. può dar luogo, analiticamente, a diverse serie di ricerche e di studi.

I Congressi Nazionali. Come sono preparati dalla stampa centrale e locale. Il materiale ufficiale preparatorio: relazioni ufficiali e d’opposizione.

L’Azione Cattolica è stata sempre un organismo complesso, anche prima della costituzione della Confederazione bianca del Lavoro e del Partito Popolare, il quale non può non essere considerato parte politicamente integrante dell’A. C. anche se ufficialmente ne era separato. La stessa complessità si verificava e si verifica anche nel campo internazionale: l’A. C. ufficialmente si accentra nella persona del Papa, che è centro internazionale per eccellenza, ma di fatto esiste più di un ufficio che funziona da centro internazionale più esplicitamente politico, come l’Ufficio di Malines che ha compilato il Codice Sociale o come un ufficio di Friburgo per l’azione sindacale (verificare).

Svolgimento dei Congressi. — Ciò che viene messo all’ordine del giorno e ciò che viene omesso per evitare dissensi radicali. — L’ordine del giorno dovrebbe risultare dai problemi concreti che nello spazio tra un Congresso e l’altro si sono imposti alla soluzione, oltre che dai punti generali dottrinari intorno ai quali si formano le correnti e le frazioni. Su quale base vengono scelte o rinnovate in parte le direzioni? Sulla base di una tendenza generica alla quale si dà una fiducia generica, oppure dopo che il Congresso stesso ha fissato un indirizzo concreto e preciso di attività? La democrazia interna di un movimento (il grado più o meno grande di democrazia interna, cioè di partecipazione della base del P. alle decisioni e alla fissazione del programma) si può misurare e giudicare anche e forse specialmente a questa stregua. — Altro elemento importante è la composizione sociale dei Congressi, degli oratori e della direzione eletta, in rapporto alla composizione sociale del P. — I giovani e i loro rapporti con gli adulti. I Congressi si occupano del movimento giovanile che dovrebbe essere la fonte maggiore per il reclutamento e la migliore scuola per il P. stesso? — Che influenza hanno sui congressi di P. le organizzazioni subordinate al P. (o che dovrebbero essere subordinate): il gruppo parlamentare o gli organizzatori sindacali ecc.? Viene fatta organicamente. una posizione speciale nei congressi ai deputati e agli organizzatori sindacali?

Q1 §39 Répaci. I nipotini del padre Bresciani. Nella sua novella (autobiografica) Crepuscolo («Fiera Letteraria» 3 marzo 1929) scrive: «A quell’epoca io già schieravo dentro di me, fortificandole ogni giorno sulle ime radici dell’istinto, quelle belle qualità che più tardi, negli anni a venire, avrebbero fatto di me una centrale di guai: l’amore dei vinti, degli offesi, degli umili, lo sprezzo del pericolo per la giusta causa, l’indipendenza del carattere che palesa la rettitudine, l’orgoglio matto che braveggia persino sulle rovine, ecc. ecc. ».

Q1 §40 La «formula» di Léon Blum. Le pouvoir est tentant. Mais seule l’opposition est confortable.

Q1 §41 Lorianismo.— Luzzatti. Ricordare l’episodio alla Camera dei Deputati o al Senato nel 1911 o 12, quando fu proposta una cattedra speciale all’Università di Roma di «filosofia della storia» per Guglielmo Ferrero. Il ministro Credaro, mi pare in risposta al Croce (quindi al Senato) che aveva parlato contro la cattedra, fra l’altro giustificò la «filosofia della storia» con l’importanza che i filosofi avevano avuto nello svolgimento della storia (sic), esempio... Cicerone. Luzzatti assentì gravemente: «È vero, è vero!»

Q1 §42 I nipotini di padre Bresciani. — Curzio Malaparte ‑ Kurt Erich Suckert. Lo sfoggio del nome straniero nel periodo del dopoguerra. — Sua appartenenza all’organizzazione italiana di Guglielmo Lucidi che arieggiava alla «Clarté» francese e al «Controllo democratico» inglese e pubblicava la «Rivista (o Rassegna) Internazionale»; nella collezione di questa rivista pubblica La rivolta dei santi maledetti poi «brescianescamente» corretta nella edizione successiva e, credo, ritirata dal commercio in un terzo periodo.

A proposito dell’«esibizione» del nome straniero notare una corrente generale degli «intellettuali» italiani «moralizzatori» che era portata a ritenere che all’«estero» la gente era più «onesta» che in Italia, oltre che più «capace», più «intelligente» ecc. Questa «esteromania» assumeva forme noiose e talvolta rivoltanti, come in Graziadei, ma era abbastanza generalizzata e dava luogo a una «posa» snobistica: ricordate il breve colloquio con Prezzolini a Roma nel 24 e la sua affermazione sconsolata: «Avrei dovuto procurare a tempo ai miei figli la nazionalità inglese» o qualcosa di simile. Questo stato di animo non è stato caratteristico solo di alcuni ceti intellettuali italiani: è stato abbastanza diffuso, in certe epoche, anche in Russia, per esempio. Si confonde tutto il popolo con certi strati corrotti della piccola borghesia, molto numerosi specialmente nei paesi agricoli poco sviluppati, che possono essere paragonati, al lumpen‑proletariat delle città industriali (nella maffia siciliana e nella camorra meridionale abbondano questi tipi): si cade nel pessimismo perché le «prediche» moralizzatrici lasciano il tempo che trovano e si arriva a una conclusione implicita di «inferiorità» di un intero popolo, per cui non c’è niente da fare.

Q1 §43 Riviste tipo. Terzo tipo — critico‑storico‑bibliografico —. Nell’esame dei partiti: — fissare lo svolgimento che hanno avuto nel tempo e nello spazio i problemi concreti più importanti — Quistione sindacale — Rapporti tra il partito e i sindacati — Quistione agraria — ecc. ecc. Ogni quistione due aspetti: come è stata trattata teoricamente e come è stata affrontata praticamente.

Un’altra rubrica è quella della stampa, nei suoi diversi aspetti: stampa quotidiana, stampa periodica, opuscoli.

Il gruppo parlamentare. Trattando di una determinata attività parlamentare bisogna tener presenti alcuni criteri di ricerca e di giudizio: quando un deputato di un partito di massa parla in parlamento, ci possono essere tre versioni del suo discorso: 1° la versione degli atti parlamentari, che di solito è riveduta e corretta e spesso edulcorata post festum; 2° la versione dell’organo ufficiale del partito al quale il deputato appartiene: essa è combinata dal deputato d’accordo col corrispondente del giornale in modo da non urtare certe suscettibilità della maggioranza ufficiale del partito e non creare ostacoli prematuri a determinate combinazioni in corso; 3° la versione dei giornali di altri partiti o dei così detti organi della pubblica opinione (giornali a grande diffusione), che è fatta dal deputato d’accordo coi rispettivi corrispondenti in modo da favorire determinate combinazioni in corso: questi giornali mutano da periodo a periodo e secondo i mutamenti delle rispettive direzioni politiche.

Lo stesso criterio può essere esteso al campo sindacale, a proposito dell’interpretazione da dare a determinati movimenti concreti e anche all’indirizzo generale dell’organizzazione sindacale data. Esempi promemoria: la «Stampa», il «Resto del Carlino», il «Tempo» (di Naldi) hanno servito da casse di risonanza e da strumento di combinazioni politiche tanto ai socialisti che ai popolari. Un discorso parlamentare socialista o popolare era presentato sotto un certo aspetto da uno di questi giornali per il suo pubblico, mentre era presentato sotto un altro aspetto dagli organi socialisti o popolari. I giornali popolari tacevano addirittura per il loro pubblico certe affermazioni dei loro deputati che tendevano a rendere possibile un avvicinamento ai socialisti, ecc. ecc. — Da questo punto di vista è indispensabile tener conto delle interviste date dai deputati ad altri giornali e degli articoli pubblicati in altri giornali. — L’omogeneità politica di un partito può essere saggiata anche con questo criterio: quali indirizzi sono favoriti dai membri di questi partiti nella loro collaborazione a giornali di altri partiti o di «opinione pubblica» così detti: il dissidio interno si manifesta talvolta solo così, i dissidenti scrivono articoli in altri giornali, firmati e non firmati, dànno interviste, suggeriscono motivi polemici, non smentiscono le opinioni loro attribuite, ecc. ecc.

Nelle riviste di questo tipo sono indispensabili alcune rubriche: — un dizionario enciclopedico politico‑scientifico‑filosofico. In questo senso: in ogni numero sono pubblicate una o più piccole monografie di carattere enciclopedico su concetti politici, filosofici, scientifici che ricorrono spesso nei giornali e nelle riviste e che la media dei lettori difficilmente afferra o addirittura travisa. In realtà ogni movimento politico crea un suo linguaggio, cioè partecipa allo sviluppo generale di una determinata lingua, introducendo termini nuovi, arricchendo di nuovo contenuto termini già in uso, creando metafore, servendosi di nomi storici per facilitare la comprensione e il giudizio su determinate situazioni politiche attuali, ecc. ecc. Le trattazioni devono essere veramente pratiche, cioè devono riallacciarsi a bisogni realmente sentiti ed essere, per la forma d’esposizione, adeguate alla media dei lettori. Possibilmente i compilatori devono essere informati degli errori più diffusi risalendo alle fonti stesse degli errori, cioè alla pubblicazione di paccotiglia scientifica tipo «Biblioteca popolare Sonzogno» o dizionari (Melzi, Premoli ecc.) o enciclopedie popolari più diffuse. Queste trattazioni non devono presentarsi già in forma organica (per es. ordine alfabetico o di materia) né secondo un’economia prefissata di spazio come se già una pubblicazione complessiva fosse in vista, ma invece devono essere messe in rapporto con altre pubblicazioni di quella o di altre riviste collegate che hanno trattato questo o quell’argomento: l’ampiezza della trattazione deve essere determinata volta per volta non dall’importanza intrinseca dell’argomento, ma dall’interesse immediato (ciò sia detto solo in generale): insomma non deve presentarsi come un libro pubblicato a puntate, ma come una rubrica interessante di per sé, volta per volta, dalla quale magari potrà scaturire un libro.

Legata alla precedente è la rubrica delle biografie, non in quanto il nome del biografato entra nel dizionario enciclopedico per un determinato concetto politico, ma in quanto tutta la vita di un uomo può interessare la cultura generale di un certo strato sociale. Per esempio, può darsi che nel dizionario enciclopedico si debba parlare di lord Carson per accennare alla crisi del regime parlamentare già prima della guerra mondiale e proprio in Inghilterra, nel paese dove il regime parlamentare era più efficiente; ciò non vorrà dire che si debba fare la biografia di lord Carson. A una persona di media cultura interessano due soli dati biografici: 1° lord Carson nel 1914 prese le armi nell’Ulster per opporsi all’applicazione della legge sull’Home Rule irlandese, approvata dal Parlamento che «può far tutto eccetto che un uomo diventi donna»; 2° lord Carson non solo non fu punito ma divenne ministro poco dopo, allo scoppio della guerra. — Invece di un altro interessa tutta la biografia, quindi rubrica separata.

Un’altra rubrica può essere quella delle autobiografie politiche‑intellettuali. Se fatte bene esse possono essere del massimo interesse giornalistico e di grande efficacia formativa. Sincerità, semplicità. Come uno supera il suo ambiente, attraverso quali impulsi esterni e quali crisi di pensiero e di sentimento. (Poche, ma buone). Un’altra rubrica, fondamentale questa: l’esame storico‑bibliografico delle situazioni regionali. Molti vorrebbero studiare le situazioni locali, che interessano molto, ma non sanno come fare, da dove incominciare: non conoscono il materiale bibliografico, non sanno fare ricerche nelle biblioteche, ecc. Si tratta dunque di dare l’ordito generale di un problema concreto o di un tema scientifico, indicando i libri che l’hanno trattato, gli articoli delle riviste specializzate ecc., in forma di rassegne bibliografico‑critiche, con speciale diffusione per le pubblicazioni poco comuni o in lingue straniere. Ciò può essere fatto per le regioni, da diversi punti di vista, per problemi generali di cultura ecc. ecc.

Uno spoglio sistematico di giornali e riviste per la parte che interessa le rubriche principali (fondamentali) — Sola citazione di autori, titoli, dati con brevi cenni di tendenza (ogni numero) — Recensioni dei libri. Due tipi di recensione. Informativo‑critico: si suppone che il lettore non possa leggere il libro, ma che sia interessante per lui conoscerne il contenuto generale. — Teorico‑critico: si suppone che il lettore debba leggere il libro e allora non si riassume, ma si trattano criticamente le obbiezioni che gli si devono muovere o si svolge qualche parte che vi è sacrificata ecc. Questo secondo tipo di recensione è più adatto per l’altro tipo di rivista («Critica» ‑ «Politica»).

Uno spoglio critico‑bibliografico della produzione letteraria degli autori fondamentali per la teoria generale. Uno spoglio simile per gli autori italiani, o per le traduzioni italiane di autori stranieri; questo spoglio deve essere molto minuto e circostanziato, perché occorre tener presente che attraverso questo lavoro e questa elaborazione si può solo raggiungere la fonte autentica di tutta una serie di concezioni erronee che circolano incontrollate. Occorre tener presente che in ogni regione, specialmente in Italia, data la ricchissima varietà di tradizioni locali, esistono gruppi e gruppetti caratterizzati da motivi ideologici e psicologici propri; «ogni paese ha o ha avuto il suo santo locale, quindi il suo culto e la sua cappella». La elaborazione unitaria di una coscienza collettiva domanda condizioni e iniziative molteplici. La diffusione da un centro omogeneo di un modo di pensare e di operare omogeneo è la condizione principale, ma non deve essere e non può essere la sola. Un errore molto diffuso consiste nel pensare che ogni strato sociale elabori la sua coscienza e la sua cultura allo stesso modo, con gli stessi metodi, cioè i metodi degli intellettuali di professione.

Anche l’intellettuale è un «professionista» che ha le sue «macchine» specializzate e il suo «tirocinio», che ha un suo sistema Taylor. È illusorio attribuire a tutti questa capacità «acquisita» e non innata. È illusorio pensare che una «idea chiara» opportunamente diffusa si inserisca nelle diverse coscienze con gli stessi effetti «organizzatori» di chiarezza diffusa. È un errore «illuministico». La capacità dell’intellettuale di professione di combinare abilmente l’induzione e la deduzione, di generalizzare, di dedurre, di trasportare da una sfera a un’altra un criterio di discriminazione, adattandolo alle nuove condizioni, ecc. è una «specialità», non è un dato del «senso comune». Ecco dunque che non basta la premessa della «diffusione organica da un centro omogeneo di un modo di pensare e di operare omogeneo». Lo stesso raggio luminoso passa per prismi diversi e dà rifrazioni di luce diverse: se si vuole la stessa rifrazione occorre tutta una serie di rettificazioni dei singoli prismi. La «ripetizione» paziente e sistematica è il principio metodico fondamentale. Ma la ripetizione non meccanica, materiale: l’adattamento di ogni principio alle diverse peculiarità, il presentarlo e ripresentarlo in tutti i suoi aspetti positivi e nelle sue negazioni tradizionali, organizzando sempre ogni aspetto parziale nella totalità. Trovare la reale identità sotto l’apparente differenziazione e contraddizione e trovare la sostanziale diversità sotto l’apparente identità, ecco la più essenziale qualità del critico delle idee e dello storico dello sviluppo sociale. Il lavoro educativo‑formativo che un centro omogeneo di cultura svolge, l’elaborazione di una coscienza critica che esso promuove e favorisce su una determinata base storica che contenga le premesse materiali a questa elaborazione, non può limitarsi alla semplice enunciazione teorica di principi «chiari» di metodo; questa sarebbe pura azione «illuministica». Il lavoro necessario è complesso e deve essere articolato e graduato: ci deve essere la deduzione e l’induzione combinate, l’identificazione e la distinzione, la dimostrazione positiva e la distruzione del vecchio. Ma non in astratto, in concreto: sulla base del reale. Ma come sapere quali sono gli errori radicati o più generalmente diffusi? Evidentemente è impossibile una «statistica» dei modi di pensare e delle singole opinioni individuali, che dia un quadro organico e sistematico: non rimane che la revisione della letteratura più diffusa e più popolare combinata con lo studio e la critica delle correnti ideologiche precedenti, ognuna delle quali «può» aver lasciato un sedimento, variamente combinatosi con quelli precedenti e susseguenti.

In questo stesso ordine di osservazioni si inserisce un criterio più generale: i mutamenti nei modi di pensare, nelle credenze, nelle opinioni, non avvengono per «esplosioni» rapide e generalizzate, avvengono per lo più per «combinazioni successive» secondo «formule» disparatissime. L’illusione «esplosiva» nasce da assenza di spirito critico. Come non si è passati, nei metodi di trazione, dalla diligenza a trazione animale, agli espressi moderni elettrici, ma si è passati attraverso una serie di «combinazioni intermedie» che in parte ancora sussistono (come la trazione animale su rotaie ecc. ecc.) e come avviene che il materiale ferroviario invecchiato negli Stati Uniti viene ancora utilizzato per molti anni in Cina e vi rappresenta un progresso tecnico — così nella sfera della cultura i diversi strati ideologici si combinano variamente e ciò che è diventato «ferravecchio» nella città è ancora «utensile» in provincia. Nella sfera della coltura anzi, le esplosioni» sono ancora meno frequenti e meno intense che nella sfera della tecnica.

Si confonde l’esplosione «di passioni» politiche accumulate in un periodo di trasformazioni tecniche alle quali non corrispondono adeguate nuove forme di organizzazione giuridica con le sostituzioni di nuove forme di cultura alle vecchie.

L’accenno al fatto che talvolta ciò che è diventato «ferravecchio» in città è ancora «utensile» in provincia può essere utilmente svolto. I rapporti tra popolazione urbana e popolazione rurale non sono sempre gli stessi. Bisogna determinare i «tipi» di urbano e di rurale. Si verifica il paradosso che il tipo rurale sia più progressivo del tipo urbano. Una città «industriale» è sempre più progressiva della campagna che ne dipende. Ma in Italia non tutte le città sono «industriali» e sono meno ancora le città «tipicamente» industriali. Le «cento» città italiane. In Italia l’urbanesimo non è solo e nemmeno «specialmente» un fenomeno industriale. La più grande città italiana, Napoli, non è una città industriale. Tuttavia anche in queste città esistono nuclei di popolazione tipicamente urbana. Ma qual è la loro posizione relativa? Essi sono sommersi, premuti, schiacciati dall’altra parte che è rurale, di tipo rurale, ed è la grandissima maggioranza. Le città del «silenzio». In questo tipo di città esiste una unità «urbana» ideologica contro la campagna: c’è ancora l’odio e il disprezzo contro il «villano»: per reciproca c’è un’avversione «generica» della campagna contro la città. Questo fenomeno generale, che poi è molto complesso e si presenta in forme talvolta apparentemente contraddittorie, sarebbe da studiare nel corso del Risorgimento. Esempio tipico di apparenti contraddizioni è l’episodio della Repubblica partenopea del 1799: la campagna ha schiacciato la città con le orde del cardinal Ruffo, perché la città aveva completamente trascurato la campagna. Nel Risorgimento si verifica già embrionalmente il rapporto storico tra Nord e Sud come un rapporto simile a quello di una grande città a una grande campagna: essendo questo rapporto non gia quello organico normale di provincia e capitale industriale, ma assumendo l’aspetto di un vasto territorio, si accentuano le colorazioni di contrasto nazionale. Ciò che nel Risorgimento è specialmente notevole è il fatto che nelle crisi politiche il Sud ha l’iniziativa: 1799 Napoli — 20‑21 Palermo — 47 Messina, 47‑48 Napoli e Sicilia.

Altro fatto notevole è l’aspetto particolare che assume il movimento nell’Italia centrale, come una via di mezzo tra Nord e Sud: il periodo delle iniziative popolari (relativamente) va dal 1815 al 48 e culmina nella Repubblica Romana (le Romagne e la Lunigiana bisogna sempre congiungerle al Centro). Queste peculiarità hanno un riscontro anche in seguito: i fatti del giugno 1914 hanno avuto una forma particolare nel Centro (Romagna e Marche). La crisi del 94 in Sicilia e Lunigiana, col contraccolpo a Milano nel 98; 1919 nel Mezzogiorno e 1920 nel Settentrione. Questo relativo sincronismo mostra l’esistenza di una struttura economico‑politica omogenea (relativamente) da una parte e mostra come nei periodi di crisi, sia la parte più debole, periferica, a reagire per la prima.

La relazione di città e campagna tra Nord e Sud può essere studiata nelle diverse forme di cultura. Benedetto Croce e Giustino Fortunato sono a capo, nell’inizio di questo secolo, di un movimento culturale che si contrappone al movimento culturale del Nord (futurismo). È notevole il fatto che la Sicilia si stacca dal Mezzogiorno per molti rispetti: Crispi è l’uomo dell’industria settentrionale; Pirandello nelle linee generali è più vicino al futurismo; Gentile ed il suo idealismo attuale sono anch’essi più vicini al movimento futurista, inteso in senso largo, come opposizione al classicismo tradizionale, come forma di un «romanticismo» contemporaneo. Diversa struttura elle classi intellettuali: — nel mezzogiorno domina ancora il tipo del «curiale» o del paglietta, che pone a contatto la massa contadina con quella dei proprietari fondiari e con l’apparato statale; — nel Nord domina il tipo del «tecnico» d’officina che serve di collegamento tra la massa operaia e la classe capitalistica; il collegamento tra massa operaia e Stato era dato dagli organizzatori sindacali e dai partiti politici, cioè da un ceto intellettuale completamente nuovo (l’attuale corporativismo, con la sua conseguenza della diffusione su scala nazionale di questo tipo sociale, in modo più sistematico e conseguente che non avesse potuto fare il vecchio sindacalismo, e in un certo senso uno strumento di unità morale e politica.

Questo rapporto città‑campagna è visibile nei programmi politici effettuati prima del fascismo: il programma Giolitti o dei liberali democratici è questo: — creare nel Nord un blocco «urbano» (capitalisti‑operai) che dia la base allo stato protezionista per rafforzare l’industria settentrionale, cui il Mezzogiorno è mercato di vendita semicoloniale; il Mezzogiorno è «curato» con due sistemi di misure: 1) sistema poliziesco (repressione implacabile di ogni movimento di massa, stragi periodiche di contadini); nella commemorazione di Giolitti «Spectator» della Nuova Antologia si maraviglia che Giolitti si sia sempre strenuamente opposto ad ogni diffusione del socialismo nel Mezzogiorno, mentre la cosa è naturale e ovvia, poiché un protezionismo operaio (riformismo, cooperative, lavori pubblici) è solo possibile se parziale, cioè perché ogni privilegio presuppone dei sacrificati; 2) misure politiche: favori personali al ceto dei paglietta o pennaioli (impieghi pubblici, permesso di saccheggio delle pubbliche amministrazioni, legislazione ecclesiastica meno rigida che nel Nord ecc. ecc.), cioè incorporamento a «titolo personale» degli elementi più attivi meridionali nelle classi dirigenti, con particolari privilegi «giudiziari», impiegatizi ecc., in modo che lo strato che avrebbe potuto organizzare il malcontento meridionale diventava uno strumento della politica settentrionale, un suo accessorio «poliziesco»; il malcontento non poteva così assumere aspetto politico e le sue manifestazioni esprimendosi solo in modo caotico e tumultuario diventavano «sfera» della «polizia». A questo fenomeno di corruzione aderivano sia pure passivamente e indirettamente anche uomini egregi come il Croce e il Fortunato per il feticismo dell’«Unità» (episodio Fortunato‑Salvemini a proposito dell’«Unità» raccontato da Prezzolini nella prima edizione della Cultura italiana)4.

Non bisogna dimenticare questo fattore politico‑morale della campagna di intimidazione che si faceva contro ogni anche obbiettivissima constatazione di motivi di contrasto tra Nord e Sud. Ricordare: conclusione dell’inchiesta Pais‑Serra sulla Sardegna dopo la crisi 94‑98, l’accusa fatta da Crispi ai fasci siciliani di essere venduti agli Inglesi (trattato di Bisacquino) ecc.; specialmente tra gli intellettuali siciliani esiste questa forma di esasperazione unitaria (conseguenza della popolarità regionale di Crispi) che anche recentemente si è manifestata in attacco Natoli contro Croce per gli accenni nella Storia d’Italia (cfr risposta di Croce nella «Critica»).

Il programma Giolitti fu «turbato» da due «fattori»: l’affermarsi degli intransigenti nel partito socialista con Mussolini e il loro civettare coi meridionalisti (libero scambio, elezioni di Molfetta ecc.), che distruggeva il blocco «urbano» e l’introduzione del suffragio universale che allargava in modo impressionante la base parlamentare nel Mezzogiorno e rendeva difficile la corruzione individuale (troppi da corrompere!). Giolitti muta «partenaire»: al blocco «urbano» sostituisce il patto Gentiloni o meglio lo rafforza per impedirne il completo crollo, cioè, in definitiva un blocco tra gli industriali settentrionali e i rurali della campagna «organica e normale» (forze elettorali cattoliche specialmente nel Nord e nel Centro), con estensione degli effetti anche nel Sud nella misura immediatamente sufficiente per «rettificare» utilmente gli effetti dell’allargamento della massa elettorale.

L’altro programma è quello che si può chiamare del «Corriere della Sera» o di Albertini e può essere fatto coincidere con una alleanza degli industriali settentrionali (con a capo i tessili, cotonieri, setaioli libero scambisti) coi rurali meridionali (blocco rurale): il «Corriere» ha sostenuto Salvemini a Molfetta (campagna Ojetti), ha sostenuto il ministero Salandra, ha sostenuto il ministero Nitti, cioè i primi due ministeri formati da meridionali (i siciliani sono da considerarsi a parte).

Il suffragio universale già nel 1913 aveva suscitato i primi accenni di quel fenomeno che avrà la massima espressione nel 19‑20‑21 in conseguenza dell’esperienza politica‑organizzativa acquistata dalle masse contadine durante la guerra, cioè la rottura relativa del blocco rurale meridionale e il distacco dei contadini guidati da una parte degli intellettuali (ufficiali in guerra) dai grandi proprietari: si ha il sardismo, il partito riformista siciliano (gruppo Bonomi con 22 deputati siciliani) e il «rinnovamento» nell’Italia meridionale con tentativi di partiti regionali d’azione (rivista «Volontà» col Torraca, «Popolo romano» ecc.). In questi movimenti l’importanza della massa contadina è graduata dalla Sardegna, al Mezzogiorno, alla Sicilia a seconda della forza organizzata e della pressione esercitata ideologicamente dai grandi proprietari, che hanno in Sicilia un massimo di organizzazione e hanno invece una importanza relativamente piccola in Sardegna. Altrettanto graduata è l’indipendenza relativa dei rispettivi intellettuali.

Per intellettuali occorre intendere non solo quei ceti comunemente intesi con questa denominazione, ma in generale tutta la massa sociale che esercita funzioni organizzative in senso lato, sia nel campo della produzione, sia nel campo della cultura, sia nel campo amministrativo‑politico: corrispondono ai sott’ufficiali e agli ufficiali subalterni nell’esercito (e anche a una parte degli ufficiali superiori con esclusione degli stati maggiori nel senso più ristretto della parola).

Per analizzare le funzioni sociali degli intellettuali occorre ricercare ed esaminare il loro atteggiamento psicologico verso le grandi classi che essi mettono a contatto nei diversi campi: hanno atteggiamento «paternalistico» verso le classi strumentali? o «credono» di esserne una espressione organica? hanno «servile» verso le classi dirigenti o si credono essi stessi dirigenti, parte integrante delle classi dirigenti?

Nella storia del Risorgimento il così detto Partito d'Azione aveva un atteggiamento «paternalistico», perciò non è riuscito che in misura minima a mettere le grandi masse a contatto con lo stato. Il così detto «trasformismo» è legato a questo fatto: il Partito d'Azione viene incorporato molecolarmente dai moderati e le masse vengono decapitate, non assorbite nell’ambito del nuovo stato.

Dal rapporto «città‑campagna» deve muovere l’esame delle forze motrici fondamentali della storia italiana e dei punti programmatici da cui occorre studiare l’indirizzo del Partito d’Azione nel Risorgimento: 1° la forza urbana settentrionale; 2° la forza rurale meridionale; 3° la forza rurale settentrionale‑centrale; 4°-5° la forza rurale della Sicilia e della Sardegna.

Restando ferma la posizione di «locomotiva» della prima forza, occorre studiare le diverse combinazioni «più utili» per formare un «treno» che progredisca il più speditamente nella storia. La prima forza incomincia con l’avere i problemi «propri», di organizzazione, di articolazione per omogeneità, di direzione politica e militare; ma rimane fissato che, già «meccanicamente», se questa forza ha raggiunto un certo grado di unità e di combattività, essa esercita una funzione direttiva «indiretta».

Nei diversi periodi del Risorgimento appare che il porsi di questa forza in posizione di intransigenza e di lotta contro il dominio straniero determina un’esaltazione delle forze progressive meridionali; da ciò il sincronismo relativo, ma non la simultaneità nei movimenti del 20‑21, del 31, del 48; si realizza nel 59‑60 un sincronismo in senso inverso, cioè il Nord inizia, il Centro aderisce pacificamente o quasi e nel Sud lo Stato borbonico crolla per la spinta dei garibaldini, relativamente debole: questo avviene perché il P. d’A. (Garibaldi) interviene, dopo che i moderati (Cavour) avevano organizzato il Nord e il Centro; non è cioè la stessa direzione politica e militare (moderati ‑ Stato sardo o P. d’A.) che organizza la simultaneità relativa ma la collaborazione (meccanica) delle due direzioni che si integrano felicemente.

La prima forza si deve poi porre il problema di organizzare intorno a sé le forze urbane delle altre sezioni nazionali. Questo problema è il più difficile: esso si presenta irto di contraddizioni e di motivi che scatenano ondate di passioni. Ma la sua soluzione, appunto per questo, era il punto cruciale. Le forze urbane sono socialmente omogenee, quindi devono trovarsi in una posizione di perfetta eguaglianza. Teoricamente questo è vero, ma storicamente la quistione si pone altrimenti: le forze urbane del Nord sono nettamente alla testa della loro sezione nazionale, mentre per le forze urbane del Sud questo non si verifica perlomeno in egual misura. Le forze urbane del Nord dovevano quindi far capire a quelle del Sud che la loro funzione direttiva non poteva non consistere che nell’assicurare la direzione del Nord verso il Sud nel rapporto generale di città‑campagna, cioè la funzione direttiva delle forze urbane del Sud non poteva esser altro che una «funzione» della più vasta funzione direttiva del Nord. La contraddizione più dolorosa nasceva da questo ordine di fatti: la forza urbana del Sud non poteva essere considerata come qualcosa a sé, indipendente da quelle del Nord; porre la quistione così avrebbe significato affermare pregiudizialmente un insanabile dissidio «nazionale», dissidio tanto grave che neanche la soluzione federalistica avrebbe potuto comporre; si sarebbe trattato di nazioni diverse, tra le quali poteva realizzarsi solo un’alleanza diplomatico‑militare contro il comune nemico, l’Austria (l’unica «comunità» e solidarietà, insomma, sarebbe consistita solo nell’avere un «comune» nemico).

Ora, in realtà, esistevano solo alcuni aspetti della quistione nazionale, ma non «tutti» gli aspetti e neanche quelli più essenziali. L’aspetto più grave era la debole posizione delle forze urbane meridionali in rapporto alle forze rurali, rapporto sfavorevole che si manifestava talvolta in una vera e propria soggezione della città alla campagna. Il collegamento tra forze urbane del Nord e del Sud, doveva aiutare queste a rendersi autonome, ad acquistare coscienza della loro funzione storica dirigente in modo «concreto» e non puramente teorico e astratto, suggerendo loro le soluzioni da dare ai vasti problemi regionali. Era naturale che si trovassero opposizioni nel Sud; il compito più grave spettava però alle forze urbane del Nord che non solo dovevano convincere i loro «fratelli» del Sud, ma dovevano incominciare col convincere se stesse di questa complessità di sistema politico: praticamente cioè la quistione consisteva nell’esistenza di un forte centro di direzione politica, al quale necessariamente avrebbero dovuto collaborare forti e popolari individualità meridionali e delle isole. Il problema, dunque, di creare una unità Nord‑Sud è strettamente legato e in gran parte assorbito nel problema di creare una coesione tra tutte le forze urbane nazionali. (Il ragionamento su esposto vale infatti per le tre sezioni meridionali, Napoletano, Sicilia, Sardegna). La forza rurale settentrionale‑centrale pone una serie di problemi che la forza urbana del Nord deve porsi per il rapporto regionale città‑campagna. Bisognava distinguere in essa due sezioni: quella laica e quella clericale. La forza clericale aveva il suo peso massimo nel Lombardo‑Veneto, quella laica nel Piemonte, «peso massimo», con interferenze marginali più o meno vaste non solo tra Piemonte e Lombardo‑Veneto, ma tra queste due regioni‑tipo e le altre settentrionali e centrali e in minore misura anche meridionali e insulari. Risolvendo bene questi rapporti immediati le forze urbane settentrionali avrebbero dato un ritmo a tutte le quistioni simili su scala nazionale.

Su questo problema il Partito d'Azione fallì completamente. Non si può dire fallisse il partito moderato perché esso voleva soldati nell’esercito piemontese e non eserciti garibaldini troppo grandi. Perché il Partito d’Azione non pose in tutta la sua vastità il problema agrario? Che non lo ponessero i moderati era naturale: l’impostazione data dai moderati al problema nazionale domandava un blocco di tutte le forze di destra, comprese le classi dei grandi proprietari terrieri. La minaccia fatta dall’Austria di risolvere la quistione agraria a favore dei contadini, minaccia seguita dai fatti in Galizia contro i latifondisti polacchi, non solo gettò lo scompiglio tra gli interessati, determinando tutte le oscillazioni dell’aristocrazia, per esempio (fatti di Milano del febbraio 53 e atto di omaggio delle più illustri famiglie milanesi a Francesco Giuseppe proprio alla vigilia delle impiccagioni di Belfiore) ma paralizzò il Partito d’Azione. Mazzini, dopo il febbraio 53, pur con qualche accenno, non seppe poi decidersi (vedi Epistolario di quel periodo). Condotta dei garibaldini in Sicilia nel 60: schiacciamento implacabile dei movimenti dei contadini insorti contro i baroni mano a mano che Garibaldi avanzava — opera repressiva di Nino Bixio —. Nelle relle di uno dei mille di G. C. Abba elementi per dimostrare che la quistione agraria era la molla per far entrare in moto le grandi masse — ricordare discorsi dell’Abba col frate che va incontro ai garibaldini subito dopo lo sbarco a Marsala — In alcune novelle di G. Verga elementi pittoreschi di queste sommosse i contadine — formazione della Guardia Nazionale per soffocare questi moti col terrore e le fucilazioni in massa (questo lato della spedizione dei Mille non è stato ancora studiato).

La non impostazione della quistione agraria portava alla quasi impossibilità di risolvere la quistione del clericalismo e dell’atteggiamento del Papa. Sotto questo riguardo i moderati furono molto più arditi del Partito d'Azione: è vero che essi non distribuirono i beni ecclesiastici fra i contadini, ma se ne servirono per creare un ceto nuovo di grandi e medi proprietari legato alla nuova situazione politica, ma almeno non esitarono a mettere le mani sulle congregazioni. Il P. d’A. era invece paralizzato dalle velleità mazziniane di una riforma religiosa che non solo non toccava le grandi masse, ma le rendeva passibili di una sobillazione contro i nuovi eretici. L’esempio della Francia era lì a dimostrare che i giacobini, che erano riusciti a schiantare i girondini sulla quistione agraria e non solo a impedire la coalizione rurale contro Parigi ma a moltiplicare nelle provincie i loro aderenti, furono invece danneggiati dai tentativi di Robespierre di instaurare una riforma religiosa.

Bisognerebbe studiare minutamente la politica agraria della Repubblica Romana e il vero carattere della missione repressiva data da Mazzini a Felice Orsini nelle Romagne e nelle Marche: in questo periodo e fino al 70 sotto il nome di brigantaggio si intendeva per lo più il movimento dei contadini per impadronirsi delle terre. (Cercare specialmente nella Corrispondenza e negli articoli di giornali i giudizi di Marx e di Engels sulla quistione agraria in Italia dal 48 al 60).

Q1 §44 Direzione politica di classe prima e dopo l’andata al governo. Tutto il problema delle varie correnti politiche del Risorgimento, dei loro rapporti reciproci e dei loro rapporti con le forze omogenee o subordinate delle varie sezioni (o settori) storiche del territorio nazionale si riduce a questo fondamentale: che i moderati rappresentavano una classe relativamente omogenea, per cui la direzione subì oscillazioni relativamente limitate, mentre il Partito d'Azione non si appoggiava specificamente a nessuna classe storica e le oscillazioni che subivano i suoi organi dirigenti in ultima analisi si componevano secondo gli interessi dei moderati: cioè storicamente il Partito d'Azione fu guidato dai moderati (l’affermazione di Vittorio Emanuele II di «avere in tasca», o qualcosa di simile, il Partito d'Azione è esatta, e non solo per i suoi contatti personali con Garibaldi; il Partito d’Azione storicamente fu guidato da Cavour e da Vittorio Emanuele II).

Il criterio storico‑politico su cui bisogna fondare le proprie ricerche è questo: che una classe è dominante in due modi, è cioè «dirigente» e «dominante». È dirigente delle classi alleate, è dominante delle classi avversarie. Perciò una classe già prima di andare al potere può essere «dirigente» (e deve esserlo): quando è al potere diventa dominante ma continua ad essere anche «dirigente». I moderati continuarono a dirigere il Partito d'Azione anche dopo il 70 e il «trasformismo» è l’espressione politica di questa azione di direzione; tutta la politica italiana dal 70 ad oggi è caratterizzata dal «trasformismo», cioè dall’elaborazione di una classe dirigente nei quadri fissati dai moderati dopo il 48, con l’assorbimento degli elementi attivi sorti dalle classi alleate e anche da quelle nemiche. La direzione politica diventa un aspetto del dominio, in quanto l’assorbimento delle élites delle classi nemiche porta alla decapitazione di queste e alla loro impotenza. Ci può e ci deve essere una «egemonia politica» anche prima della andata al Governo e non bisogna contare solo sul potere e sulla forza materiale che esso dà per esercitare la direzione o egemonia politica.

Dalla politica dei moderati appare chiara questa verità ed è la soluzione di questo problema che ha reso possibile il Risorgimento nelle forme e nei limiti in cui esso si è effettuato di rivoluzione senza rivoluzione o di rivoluzione passiva secondo l’espressione di V. Cuoco. In quali forme i moderati riuscirono a stabilire l’apparato della loro direzione politica? In forme che si possono chiamare «liberali» cioè attraverso l’iniziativa individuale, «privata» (non per un programma «ufficiale» di partito, secondo un piano elaborato e costituito precedentemente all’azione pratica e organizzativa). Ciò era «normale», data la struttura e la funzione delle clagsi rappresentate dai moderati, delle quali i moderati erano il ceto dirigente, gli «intellettuali» in senso organico. Per il Partito d'Azione il problema si poneva in altro modo e diversi sistemi avrebbero dovuto essere applicati. I moderati erano «intellettuali», «condensati» già naturalmente dall’organicità dei loro rapporti con le classi di cui erano l’espressione (per tutta una serie di essi si realizzava l’identità di rappresentato e rappresentante, di espresso e di espressivo, cioè gli intellettuali moderati erano una avanguardia reale, organica delle classi alte perché essi stessi appartenevano economicamente alle classi alte: erano intellettuali e organizzatori politici e insieme capi di azienda, grandi proprietari‑amministratori terrieri, imprenditori commerciali e industriali, ecc.). Data questa «condensazione» o concentrazione organica, i moderati esercitavano una potente attrazione, in modo «spontaneo», su tutta la massa d’intellettuali esistenti nel paese allo stato «diffuso», «molecolare», per le necessità, sia pure elementarmente soddisfatte, della istruzione pubblica e dell’amministrazione. Si rivela qui la verità di un criterio di ricerca storico‑politico: non esiste una classe indipendente di intellettuali, ma ogni classe ha i suoi intellettuali; però gli intellettuali della classe storicamente progressiva esercitano un tale potere di attrazione, che finiscono, in ultima analisi, col subordinarsi gli intellettuali delle altre classi e col creare l’ambiente di una solidarietà di tutti gli intellettuali con legami di carattere psicologico (vanità ecc.) e spesso di casta (tecnico‑giuridici, corporativi).

Questo fenomeno si verifica «spontaneamente» nei periodi in cui quella determinata classe è realmente progressiva, cioè fa avanzare l’intera società, soddisfacendo alle sue esigenze esistenziali non solo, ma ampliando continuamente i suoi quadri per una continua presa di possesso di nuove sfere di attività industriale‑produttiva. Quando la classe dominante ha esaurito la sua funzione, il blocco ideologico tende a sgretolarsi e allora alla «spontaneità» succede la «costrizione» in forme sempre meno larvate e indirette, fino alle misure vere e proprie di polizia e ai colpi di Stato.

Il Partito d'Azione non poteva avere questo potere di attrazione ed anzi egli stesso era attratto, sia per l’atmosfera di intimidazione che lo rendeva esitante ad accogliere nel suo programma determinate rivendicazioni popolari, sia perché alcuni dei suoi uomini maggiori (Garibaldi, per es.) erano, sia pure saltuariamente («oscillazioni») in rapporto personale di subordinazione coi capi dei moderati. Perché il P. d’A. diventasse una forza autonoma e, in ultima analisi, per lo meno riuscisse a imprimere al moto del Risorgimento un carattere più marcatamente popolare e democratico (più in là non poteva andare date le premesse fondamentali del moto stesso) avrebbe dovuto contrapporre all’azione «empirica» dei moderati (che era empirica solo per modo di dire) un programma organico di governo che abbracciasse le rivendicazioni essenziali delle masse popolari, in primo luogo dei contadini. All’attrazione «spontanea» esercitata dai moderati, doveva cioè contrapporre un’attrazione «organizzata», secondo un piano.

Come esempio tipico di attrazione spontanea dei moderati bisogna ricordare il fatto della nascita del movimento «cattolico‑liberale», che tanto impressionò il papato e in parte riuscì a paralizzarlo e a demoralizzarlo, cacciandolo in una posizione più destra di quella che avrebbe potuto occupare e quindi parzialmente isolandolo; il papato ha appreso la lezione e ha saputo perciò manovrare magnificamente nei tempi più recenti. Il modernismo prima e il popolarismo poi sono fenomeni simili a quello dei «cattolico‑liberali» del Risorgimento: essi sono in gran parte dovuti al potere di attrazione «spontanea» esercitata dal movimento operaio moderno. Il papato (sotto Pio X) ha colpito il modernismo come tendenza riformatrice della religione, ma ha sviluppato il popolarismo, cioè la base economica del modernismo, e oggi, con Pio XI, fa di ciò il fulcro della sua politica mondiale.

Intanto il Partito d'Azione avrebbe dovuto avere un programma di governo, ciò che sempre gli mancò. Esso in sostanza fu sempre, più di tutto, un movimento di agitazione e propaganda dei moderati. I dissidi e i conflitti interni del Partito d'Azione, gli odi tremendi che Mazzini suscitò contro di sé da parte dei più cospicui uomini d’azione (Garibaldi stesso, Felice Orsini ecc.) sono dovuti a questa mancanza di direzione politica. Le polemiche interne sono in gran parte altrettanto astratte della predicazione di Mazzini, ma da esse si possono trarre utili indicazioni storiche (valgano per tutti gli scritti del Pisacane, che d’altronde commise errori militari gravissimi, come l’opposizione alla dittatura militare di Garibaldi nella Repubblica Romana). Il Partito d'Azione segue la tradizione «retorica» della letteratura italiana. Confonde l’unità culturale con l’unità politica e territoriale. Confronto tra giacobini e Partito d’Azione: i giacobini lottarono strenuamente per assicurare il legame tra città e campagna; furono sconfitti perché dovettero soffocare le velleità di classe degli operai; il loro continuatore è Napoleone e sono oggi i radico‑socialisti francesi.

Nella letteratura politica francese questa necessità del legame tra città e campagna era vivissima: ricordare i Misteri del Popolo di Eugenio Sue, diffusissimi anche in Italia intorno al 1850 (il Fogazzaro nel Piccolo Mondo Antico ricorda che F. Maironi riceveva clandestinamente dalla Svizzera i Misteri del Popolo che a Vienna furono bruciati dal carnefice, credo) e che insistono con particolare costanza sulla necessità di legare i contadini alla città; il Sue è il romanziere della tradizione giacobina e un antenato di Herriot e di Daladier da tanti punti di vista (leggenda napoleonica in Ebreo Errante, anticlericalismo in tutti i libri ma specialmente nell’Ebreo Errante, riformismo piccolo‑borghese nei Misteri di Parigi ecc. ecc.).

Il Partito d'Azione era implicitamente antifrancese per l’ideologia mazziniana (cfr in «Critica» l’articolo dell’Omodeo Primato francese e iniziativa italiana, anno 1929, p. 223); ma aveva nella storia italiana la tradizione a cui collegarsi. La storia dei Comuni è ricca di esperienza in proposito: la borghesia nascente cerca alleati nei contadini contro l’Impero e contro il proprio feudalismo locale (è vero che la quistione è resa più complessa dalla lotta tra borghesia e nobiltà terriera per contendersi la mano d’opera: i borghesi hanno bisogno di mano d’opera ed essa può esser data solo dalle classi rurali; ma i nobili vogliono legati al suolo i contadini; fuga dei contadini in città, dove i nobili non possono catturarli. In ogni modo, anche in diversa situazione, appare nell’epoca dei Comuni la funzione direttiva della città che approfondisce la lotta interna delle campagne e se ne serve come strumento politico‑militare per abbattere il feudalismo). Ma il più classico maestro di politica per le classi dirigenti italiane, il Machiavelli, aveva anch’esso posto il problema, naturalmente nei termini e con le preoccupazioni del tempo: nelle scritture militari del Machiavelli è vista abbastanza bene la necessità di legarsi i contadini per avere una milizia nazionale che elimini le compagnie di ventura.

Pisacane, credo, deve proprio essere legato a questa corrente del Machiavelli; anche per Pisacane il problema delle soddisfazioni da dare alle rivendicazioni popolari è visto prevalentemente dal punto di vista militare. A proposito di Pisacane deve essere analizzata la contraddizione della sua concezione militare: il Pisacane, principe napoletano, era riuscito a impossessarsi di alcune concezioni militari derivate dall’esperienza della rivoluzione francese e delle campagne di Napoleone, e che a Napoli furono trapiantate durante i regni di Giuseppe Bonaparte e di Gioacchino Murat, ma specialmente per l’esperienza viva degli ufficiali napoletani che avevano militato con Napoleone (vedi in Nuova Antologia nella commemorazione di Cadorna l’importanza che ha avuto questa esperienza militare napoletana, attraverso il Pianell, nell’organizzazione del nuovo esercito italiano): egli cioè comprese che senza una politica democratica non si possono avere eserciti nazionali a coscrizione obbligatoria; ma è inspiegabile la sua avversione contro la strategia di Garibaldi e la sua diffidenza di Garibaldi; egli ha verso Garibaldi la stessa attitudine sprezzante che avevano i vecchi stati maggiori contro Napoleone.

L’individualità che più occorre studiare per questi problemi del Risorgimento è Giuseppe Ferrari, non tanto nelle sue opere così dette maggiori, veri zibaldoni farraginosi e confusi, quanto nei suoi opuscoli d’occasione e nelle sue lettere. Però il Ferrari era in gran parte fuori della realtà concreta italiana; egli si era troppo francesizzato. Certe volte sembra più acuto di quanto realmente fosse, solo perché adattava all’Italia gli schemi francesi, i quali rappresentavano una situazione ben più avanzata di quella italiana. Il Ferrari, si può dire, si trovava, nei rapporti con l’Italia, nella posizione di un «postero»: era, in un certo senso, il suo, un «senno del poi». Il politico invece deve essere un realizzatore «effettuale e attuale»; egli non riusciva a costruire l’anello tra la situazione italiana e quella francese più avanzata, ma era proprio quest’anello che importava saldare per passare a quello successivo. Il Ferrari non seppe tradurre il «francese» in «italiano», perciò la sua acutezza stessa diventava un inciampo, creava nuove sette e scolette, ma non incideva nel movimento reale.

Per molti aspetti appare che la differenza tra molti uomini del Partito d'Azione e i moderati era più di «temperamento» che politica. La parola «giacobini» ha finito con l’assumere due significati: uno è il significato proprio, storicamente caratterizzato: un deterininato partito della Rivoluzione francese, che concepiva la rivoluzione in un determinato modo, con un determinato programma, sulla base di determinate forze sociali e che esplicò la sua azione di partito e di governo con una determinata azione metodica caratterizzata da una estrema energia e risolutezza dipendenti dalla credenza fanatica nella bontà e di quel programma e di quel metodo. Nel linguaggio politico i due aspetti del giacobinismo furono scissi e si chiamò giacobino l’uomo politico energico e risoluto perché fanaticamente persuaso delle virtù taumaturgiche delle sue idee. Crispi è «giacobino» solo in questo senso. Per il suo programma egli è un moderato puro e semplice. La sua «ossessione» giacobina è l’unità politico‑territoriale del paese. Questo principio è sempre la sua bussola d’orientamento, non solo nel periodo del Risorgimento ma anche nel periodo successivo del suo governo. Uomo fortemente passionale, egli odia i moderati come persone; egli vede nei moderati uomini dell’ultima ora, eroi della sesta giornata, gente che avrebbe fatto la pace coi vecchi regimi se questi fossero diventati costituzionali, gente, come i moderati toscani, che si erano aggrappati alla giacca del granduca per non farlo scappare: egli si fidava poco di una unità fatta da non unitari. Perciò si lega alla monarchia che egli sente sarà assolutamente unitaria per interessi dinastici e abbraccia il principio‑fatto dell’egemonia piemontese con una energia e una foga che non avevano gli stessi politici piemontesi.

Cavour aveva avvertito di non trattare il Mezzogiorno con gli stati d’assedio, e Crispi invece subito stabilisce lo stato d’assedio in Sicilia per il movimento dei Fasci: accusa i dirigenti dei Fasci di tramare con l’Inghilterra per il distacco della Sicilia (trattato di Bisacquino). Si lega strettamente coi latifondisti siciliani perché la classe più unitaria per paura delle rivendicazioni contadine, nello stesso tempo in cui la sua politica generale tende a rafforzare l’industrialismo settentrionale con la guerra di tariffe contro la Francia e col protezionismo doganale. Egli non esita a gettare tutto il Mezzogiorno in una crisi commerciale paurosa pur di rafforzare l’industria che può dare al paese una vera indipendenza e allargare la classe dominante: è la politica di fabbricare il fabbricante. Il governo dei moderati dal 61 al 76 aveva solo e timidamente creato le condizioni esterne di uno sviluppo economico — sistemazione dell’apparato statale, strade, ferrovie, telegrafi — e sanato le finanze oberate dai debiti del Risorgimento; il governo della Sinistra cercò di rimediare all’odio suscitato nel popolo dal fiscalismo della Destra, ma non riuscì ad altro che a questo, ad essere una valvola di sicurezza; era la politica della destra con uomini e frasi di sinistra. Crispi invece dette un reale colpo in avanti alla società italiana, fu il vero uomo della nuova borghesia. La sua figura è diminuita dalla sproporzione tra i fatti e le parole, tra le repressioni e l’oggetto da reprimere, tra lo strumento e il colpo vibrato: maneggiava una colubrina arrugginita come fosse un moderno pezzo d’artiglieria. Anche la sua politica d’espansione coloniale è legata alla sua ossessione unitaria. In questo seppe comprendere l’innocenza politica del Mezzogiorno; il contadino meridionale voleva la terra; Crispi non gliela voleva dare in Italia stessa, non voleva fare del «giacobinismo economico»; gli prospettò il miraggio delle terre coloniali da sfruttare. L’imperialismo di Crispi è un imperialismo rettorico passionale, senza base economico‑finanziaria. L’Europa capitalistica, ricca di capitali, li esportava negli imperi coloniali che andò allora creando. Ma l’Italia non solo non aveva capitali da esportare, ma doveva ricorrere al capitale straniero per i suoi stessi strettissimi bisogni. Mancava una base reale all’imperialismo italiano, e alla base reale fu sostituita la «passionalità»: imperialismo‑castello in aria, avversato dagli stessi capitalisti che avrebbero più volentieri visto impiegate in Italia le somme ingenti spese in Africa. Ma nel Mezzogiorno Crispi fu popolare per il miraggio della terra.

Crispi ha dato una forte impronta agli intellettuali siciliani, specialmente, ha creato quel fanatismo «unitario» che ha determinato una permanente atmosfera di sospetto contro tutto ciò che può arieggiare a separatismo. Ciò naturalmente non ha impedito che nel 1920 i latifondisti siciliani si riunissero a Palermo e pronunziassero un vero ultimatum contro il governo minacciando la separazione, come non impedisce che parecchi di questi latifondisti continuino a mantenere la cittadinanza spagnola e facciano intervenire il governo spagnolo (caso del duca di Bivona) per tutelare i loro interessi compromessi dall’agitazione dei contadini. L’atteggiamento delle classi meridionali dal 19 al 26 serve a mettere in luce alcune debolezze della politica «ossessionatamente» unitaria di Crispi e a mettere in rilievo alcune correzioni (poche in realtà, perché da questo punto di vista Giolitti si mantenne nel solco di Crispi) apportatevi da Giolitti.

L’episodio dei latifondisti siciliani del 1920 non è isolato e di esso potrebbe darsi altra interpretazione, per i precedenti delle alte classi lombarde che in qualche occasione minacciarono di «far da sé» (trovare i riscontri e i documenti) se non trovasse una interpretazione autentica nelle campagne, fatte dal «Mattino» dal 19 al 26 (fino alla espulsione dei fratelli Scarfoglio), che sarebbe semplicistico ritenere completamente campate in aria, cioè non legate in qualche modo a correnti di opinione pubblica e a stati d’animo rimasti sotterranei, latenti, potenziali per l’atmosfera d’intimidazione formata dall’«unitarismo ossessionato». Il «Mattino» a due riprese sostenne questa tesi: «che il Mezzogiorno è entrato a far parte dello Stato unitario su una base contrattuale, lo Statuto Albertino, ma che (implicitamente) continua a conservare la sua personalità e che ha il diritto di uscire dall’unità se la base contrattuale viene, in qualsiasi modo, meno, se cioè la costituzione è mutata». Questa tesi fu sostenuta nel 19‑20 contro un mutamento costituzionale di sinistra, nel 24‑25‑26 contro un mutamento costituzionale di destra. Bisogna tener presente il carattere del «Mattino» che fu organo crispino con Edoardo Scarfoglio (amicizia di Scarfoglio con Carducci), africanista ecc. e che mantenne sempre un atteggiamento espansionista e colonialista, dando il tono all’ideologia meridionale creata dalla fame di terra e dall’emigrazione verso la colonizzazione imperialista. Del «Mattino» occorre ricordare anche la violentissima campagna contro il Nord a proposito della manomissione da parte dei tessili lombardi delle industrie cotoniere meridionali e dei tentativi di trasportarne le macchine in Lombardia sotto veste di ferro vecchio. In questa campagna (del 1923) il «Mattino» giunse fino a fare una esaltazione dei Borboni e della loro politica economica. Ricordare inoltre la commemorazione fatta dal «Mattino» di Maria Sofia nel 1925 che destò molto scandalo.

È certo che in questo atteggiamento del «Mattino» occorre apportare alcune correzioni metodiche: il carattere «avventuroso» dei fratelli Scarfoglio, la loro venalità (ricordare che Maria Sofia cercava sempre d’intervenire nella politica interna italiana per spirito di vendetta se non con la speranza di restaurare il regno di Napoli: ricordare il trafiletto di Salvemini nell’«Unità» del 14 o 15 contro Malatesta per i fatti del giugno 1914 che si insinuava potessero essere stati patrocinati dallo Stato Maggiore austriaco per il tramite di Zita di Borbone e l’episodio ricordato da Benedetto Croce in Uomini e cose della vecchia Italia sui legami tra Malatesta e Maria Sofia per far evadere un anarchico che aveva fatto un attentato e sul passo diplomatico fatto dal governo italiano presso il governo francese per queste attività di Maria Sofia: — ricordare gli aneddoti della signora [...] che nel 1919 frequentò Maria Sofia per farle il <ritratto> [Nel ms alcune parole cancellate, non leggibili; l’integrazione redazionale è ripresa dal testo C.]), il loro dilettantismo politico e ideologico, ma occorre pur ricordare che il «Mattino» era il giornale più diffuso del Mezzogiorno e che i fratelli Scarfoglio erano dei giornalisti nati, cioè possedevano quell’intuizione rapida e «simpatica» delle correnti passionali popolari che rende possibile la diffusione della stampa gialla.

Un altro elemento per saggiare la portata reale della politica «unitaria ossessionata» di Crispi è il complesso di sentimenti creatosi nel settentrione per riguardo al mezzogiorno. La «miseria» del Mezzogiorno era inspiegabile «storicamente» per le masse popolari del Nord: queste non capivano che l’unità non era stata creata su una base di eguaglianza, ma come egemonia del Nord sul Sud nel rapporto territoriale città‑campagna, cioè che il Nord era una «piovra» che si arricchiva alle spese del Sud, che l’incremento industriale era dipendente dall’impoverimento dell’agricoltura meridionale. Esse invece pensavano che se il Mezzogiorno non progrediva dopo essere stato liberato dagli impacci che allo sviluppo moderno opponeva il borbonismo, ciò significava che le cause della miseria non erano esterne ma interne; poiché d’altronde era radicata la persuasione della grande ricchezza naturale del terreno, non rimaneva che una spiegazione, l’incapacità organica degli uomini, la loro barbarie, la loro inferiorità biologica.

Queste opinioni già diffuse (il lazzaronismo napoletano era una leggenda di vecchia data) furono consolidate e teorizzate addirittura dai sociologhi del positivismo (Niceforo, Ferri, Orano ecc.) assumendo la forza delle «verità scientifiche» in un tempo di superstizione della scienza. Si ebbe così una polemica Nord‑Sud sulle razze e sulle superiorità e inferiorità del Settentrione e del Mezzogiorno (libri di Colajanni in difesa del Mezzogiorno e collezione della «Rivista Popolare»). Intanto rimase nel Nord la credenza della «palla di piombo» che il Mezzogiorno rappresenterebbe per l’Italia, la persuasione dei più grandi progressi che la civiltà moderna industriale del Nord avrebbe fatto senza questa «palla di pionibo» ecc. ecc. Nei principi del secolo c’è una forte reazione meridionale anche su questo terreno. Congresso Sardo del 1911 sotto la presidenza del generale Rugiu, nel quale si calcola quanti milioni sono stati estorti alla Sardegna nei primi 50 anni di unità a favore del continente. Campagne di Salvemini culminate nella fondazione dell’«Unità», ma condotte già nella «Voce» (numero unico della «Voce» sulla «Quistione meridionale» pubblicato anche in opuscolo).

In questo secolo si realizza un certo blocco «intellettuale» che ha a capo B. Croce e Giustino Fortunato e che si dirama in tutta Italia; in ogni rivistina di giovani, che abbiano tendenze liberali‑democratiche e in generale si propongano di svecchiare la cultura italiana, in tutti i campi, dell’arte, della letteratura, della politica, appare non solo l’influenza del Croce e del Fortunato, ma la loro collaborazione: esempio tipico la «Voce» e l’«Unità», ma si vede anche nella «Patria» di Bologna, nell’«Azione Liberale» di Milano, nei «borelliani» ecc.. Appare anche nel «Corriere della Sera» e finisce nel dopoguerra, date le nuove situazioni, con l’apparire nella «Stampa» (attraverso Cosmo, Salvatorelli, Ambrosini) e nel giolittismo, con l’assunzione di Croce nell’ultimo governo Giolitti.

Di questo movimento, oggi, vien data una interpretazione tendenziosa anche da G. Prezzolini che ne fu una tipica incarnazione; ma rimane la prima edizione della Cultura italiana di Prezzolini, del 1923, con le sue «omissioni», come documento autentico. Questo movimento giunge fino al Gobetti e alle sue iniziative di cultura e trova in lui il suo punto di risoluzione. Gobetti rappresenta il punto d’approdo di questo movimento e la fine del blocco, cioè l’origine della sua dissoluzione. La polemica di Giovanni Ansaldo contro Guido Dorso è il documento più espressivo di questa dissoluzione, anche per una certa comicità di atteggiamenti gladiatori di intimidazione dell’«unitarismo ossessionato». Da questo complesso di avvenimenti e di spunti polemici deriva un criterio per ricercare la diversa «saggezza» delle diverse correnti che si contesero la direzione politica e ideologica del Partito d’Azione: il collegamento delle diverse classi rurali che si realizza in un blocco attraverso i diversi ceti intellettuali può essere dissolto per addivenire a una nuova formazione (passaggio dal borbonesimo al regime liberale nazionale nell’Italia meridionale) solo se si fa forza in due direzioni: sui contadini di base accettandone le rivendicazioni e facendo di esse parte integrante del nuovo programma di governo e sugli intellettuali insistendo sui motivi che più li possono interessare. Il rapporto tra queste due azioni è dialettico: se i contadini si muovono, gli intellettuali incominciano a oscillare e reciprocamente se un gruppo di intellettuali si pone sulla nuova base, essi finiscono col trasportare con sé frazioni di massa sempre più importanti.

Si può dire, data la dispersione e l’isolamento della popolazione rurale e la difficoltà quindi di concentrarli in forti organizzazioni, che conviene iniziare il lavoro politico dagli intellettuali, ma in generale è il rapporto dialettico tra le due azioni che occorre tener presente. Si può dire anche che partiti contadini nel senso proprio della parola è quasi impossibile crearne: il partito nei contadini si realizza in generale come forte corrente di opinioni, non in forme schematiche; ma l’esistenza anche di uno scheletro di partito è di immensa utilità, sia per una certa selezione di uomini, sia per controllare gli intellettuali e impedire che gli «interessi di casta» li trasportino impercettibilmente in altro terreno.

Questo criterio deve essere tenuto presente nello studio di Giuseppe Ferrari che fu lo specialista inascoltato in questioni agrarie del Partito d'Azione. In Giuseppe Ferrari bisogna anche studiare bene il suo atteggiamento verso il bracciantato agricolo, cioè i contadini senza terra, sui quali egli fonda una parte cospicua delle sue ideologie per cui egli è ancora ricercato e studiato da determinate correnti moderne (opere del Ferrari ristampate dal Monanni con prefazione di Luigi Fabbri). Occorre riconoscere che il problema del bracciantato è difficilissimo e rende arduo anche oggi il trovarne una soluzione. In generale occorre tener presenti questi criteri: i braccianti sono anche oggi ed erano tanto più nel periodo del Risorgimento, dei semplici contadini senza terra, non degli operai di una industria agricola sviluppata con capitale concentrato. La loro psicologia perciò è, salvo eccezioni, la stessa del colono e del piccolo proprietario. (Bisognerebbe rivedere la polemica tra i senatori Bassini e Tanari nel «Resto del Carlino» e nella «Perseveranza» della fine del 17 o del 18 a proposito della realizzazione della formula «la terra ai contadini» lanciata durante la guerra: il Tanari era pro, il Bassini contro sulla base della sua esperienza di grande industriale agricolo, di proprietario di aziende agricole in cui la divisione del lavoro era già talmente progredita da rendere indivisibile la terra per la sparizione del contadino‑artigiano e l’emergere dell’operaio). In una forma acuta la quistione si poneva non tanto nel Mezzogiorno, dove il carattere artigianesco del lavoro contadino è troppo evidente, ma nella valle padana dove esso è più velato.

Anche in tempi recenti però l’esistenza del bracciantato padano era dovuta in parte a cause extraeconomiche: 1° sovrappopolazione che non trovava lo sbocco nell’emigrazione come nel Sud ed era artificialmente mantenuta con la politica dei lavori pubblici; 2° volontà dei proprietari che non volevano consolidare in un’unica classe né di braccianti né di mezzadri la popolazione rurale e quindi alternavano alla mezzadria la conduzione a economia, servendosi di questa alternanza anche per selezionare un gruppo di mezzadri privilegiati che fossero i loro alleati politici (in ogni congresso di agrari della regione padana si discute sempre se convenga meglio la mezzadria o la conduzione diretta, e traspare la motivazione politica della scelta che vien fatta). Il problema del bracciantato padano appariva nel Risorgimento sotto la forma di fenomeno pauroso di pauperismo. Così è visto da Tullio Martello nella sua Storia dell’Internazionale del 1871‑72, lavoro che occorre tener presente perché riflette ancora le passioni politiche e le preoccupazioni sociali del periodo precedente.

La posizione del Ferrari poi è indebolita dal suo «federalismo», che specialmente in lui, vivente in Francia, appariva ancor più come il riflesso degli interessi nazionali e statali francesi. Ricordare Proudhon e i suoi pamphlets contro l’unità italiana, combattuta dal punto di vista confessato dell’interesse statale francese e della democrazia: tutte le correnti principali della politica francese erano contro l’unità italiana. Ancora oggi i monarchici (Bainville, ecc.) fanno la lotta contro il principio nazionalitario dei due Napoleoni che avrebbe portato all’unificazione della Germania e dell’Italia, abbassando così la statura relativa della Francia.

È proprio sulle parole d’ordine di «unità e indipendenza» senza tener conto del concreto contenuto politico che i moderati formarono il blocco nazionale sotto la loro egemonia. Come fossero riusciti nell’intento lo dimostra anche questa espressione di Guerrazzi in una lettera a uno studente siciliano (pubblicata nell’«Archivio Storico Siciliano» da Eugenio de Carlo — carteggio di F. D. Guerrazzi col notaio Francesco Paolo Sardofontana di Riella, riassunto nel «Marzocco» del 24 novembre 1929): «Sia che vuolsi — o dispotismo, o repubblica o che altro, — non cerchiamo di dividerci; con questo cardine, caschi il mondo, ritroveremo la via»; ma di questi esempi se ne potrebbero citare a migliaia e tutta l’operosità di Mazzini è stata concretamente riassunta nella propaganda per l’unità. (Naturalmente i moderati dopo il 48, quando furono riorganizzati da Cavour intorno al Piemonte).

A proposito del giacobinismo e del Partito d'Azione un elemento da ricordare è che i giacobini conquistarono con la lotta la loro funzione di partito dirigente: essi si imposero alla borghesia francese, conducendola su una posizione molto più avanzata di quella che la borghesia avrebbe voluto «spontaneamente» e anche molto più avanzata di quella che le premesse storiche dovevano consentire, e perciò i colpi di ritorno e la funzione di Napoleone. Questo tratto, caratteristico del giacobinismo e quindi di tutta la Rivoluzione Francese, del forzare la situazione (apparentemente) e del creare fatti compiuti irreparabili, cacciando avanti la classe borghese a calci nel sedere, da parte di un gruppo di uomini estremamente energici e risoluti può essere «schematizzato» così: il terzo stato era il meno omogeneo degli stati; la borghesia ne costituiva la parte più avanzata culturalmente ed economicamente; lo sviluppo degli avvenimenti francesi mostra lo sviluppo politico di questa parte, che inizialmente pone le questioni che solo interessano i suoi componenti fisici attuali, i suoi interessi «corporativi» immediati (corporativi in un senso speciale, di immediati ed egoistici di un determinato gruppo ristretto sociale); i precursori della rivoluzione sono dei riformisti moderati, che fanno la voce grossa ma in realtà domandano ben poco. Questa parte avanzata perde a mano a mano i suoi caratteri «corporativi» e diventa classe egemone per l’azione di due fattori: la resistenza delle vecchie classi e l’attività politica dei giacobini.

Le vecchie classi non vogliono cedere nulla e se cedono qualche cosa lo fanno con l’intenzione di guadagnare tempo e preparare la controffensiva; la borghesia sarebbe caduta in questi «tranelli» successivi senza l’azione energica dei giacobini, che si oppongono ad ogni arresto intermedio e mandano alla ghigliottina non solo i rappresentanti delle vecchie classi, ma anche i rivoluzionari di ieri oggi diventati reazionari. I giacobini dunque rappresentano il solo partito della rivoluzione, in quanto essi non solo vedono gli interessi immediati delle persone fisiche attuali che costituiscono la borghesia francese, ma vedono gli interessi anche di domani e non di quelle sole determinate persone fisiche, ma degli altri strati sociali del terzo stato che domani diventeranno borghesi, perché essi sono persuasi dell’égalité e della fraternité. Bisogna ricordare che i giacobini non erano astrattisti, anche se il loro linguaggio «oggi» in una nuova situazione e dopo più di un secolo di elaborazione storica, sembra «astrattista». Il linguaggio dei giacobini, la loro ideologia, rifletteva perfettamente i bisogni dell’epoca, secondo le tradizioni e la cultura francese (cfr nella Sacra Famiglia l’analisi di Marx da cui risulta che la fraseologia giacobina corrispondeva perfettamente ai formulari della filosofia classica tedesca, alla quale oggi si riconosce maggiore concretezza e che ha dato origine allo storicismo moderno): 1° bisogno: annientare la classe avversaria o almeno ridurla all’impotenza; creare l’impossibilità di una controrivoluzione; 2° allargare gli interessi di classe della borghesia, trovando gli interessi comuni tra essa e gli altri strati del terzo stato, mettere in moto questi strati, condurli alla lotta, ottenendo due risultati: 1° di opporre un bersaglio più largo ai colpi della classe avversa, cioè di creare un rapporto militare favorevole alla rivoluzione; 2° di togliere alla classe avversa ogni zona di passività in cui essa avrebbe certamente creato eserciti vandeani (senza la politica agraria dei giacobini Parigi sarebbe stata circondata dalla Vandea fino alle sue porte: la resistenza della Vandea propriamente detta è legata alla quistione nazionale determinata tra i Brettoni dalla formula della «repubblica una e indivisibile», alla quale i giacobini non potevano rinunziare pena il suicidio: i girondini cercarono di far leva sul federalismo per schiacciare i giacobini, ma le truppe provinciali condotte a Parigi passarono ai giacobini: eccetto la Brettagna e altre piccole zone periferiche, la quistione agraria si presentava scissa dalla quistione nazionale, come si vede in questo e altri episodi militari: la provincia accettava l’egemonia di Parigi, cioè i rurali comprendevano che i loro interessi erano legati a quelli della borghesia). I giacobini dunque forzarono la mano, ma sempre nel senso dello sviluppo storico reale, perché essi fondarono non solo lo Stato borghese, fecero della borghesia la classe «dominante», ma fecero di più (in un certo senso), fecero della borghesia la classe dirigente, egemone, cioè dettero allo Stato una base permanente.

Che i giacobini siano sempre rimasti sul terreno di classe, è dimostrato dagli avvenimenti che segnarono la loro fine e la morte di Robespierre: essi non vollero riconoscere agli operai il diritto di coalizione (legge Chapelier e [sue conseguenze nella legge del «maximum»]) e così spezzarono il blocco urbano di Parigi; le loro forze d’assalto, che si riunivano nel Comune, si dispersero, deluse, e il Termidoro ebbe il sopravvento: la rivoluzione aveva trovato i suoi limiti di classe: la politica degli «alleati» aveva fatto sviluppare quistioni nuove che allora non potevano essere risolte.

Nel Partito d'Azione non troviamo questo spirito giacobino, questa volontà di diventare «partito dirigente». Occorre tener conto delle differenze: in Italia la lotta si presentava come lotta contro i vecchi trattati e contro la Potenza straniera, l’Austria, che li rappresentava e li sosteneva in Italia con le armi, occupando il Lombardo‑Veneto ed esercitando un controllo sul resto del territorio. Anche in Francia il problema si presentò, almeno in un certo senso, perché ad un certo punto la lotta interna divenne lotta nazionale combattuta alla frontiera, ma i giacobini seppero trarne elementi di maggior energia: essi compresero bene che per vincere il nemico esterno dovevano schiacciare all’interno i suoi alleati e non esitarono a compiere le stragi di settembre. In Italia questo legame che pur esisteva, esplicito ed implicito, tra l’Austria e una parte almeno delle alte classi nobiliari e terriere, non fu denunziato dal Partito d’Azione o almeno non fu denunziato con la dovuta energia: in ogni modo non divenne elemento politico attivo. Si trasformò, curiosamente, in una quistione di maggiore o minore dignità patriottica e dette poi luogo a uno strascico di polemiche acrimoniose, ma sterili fino al 98 (cfr articoli di «Rerum Scriptor» nella «Critica Sociale» e il libro di Bonfadini Cinquant’anni di patriottismo).

Ricordare a questo proposito la quistione dei «costituti» di Federico Confalonieri; il Bonfadini nel suo libro su citato afferma che i «costituti» si trovano nell’Archivio di Stato di Milano; mi pare accenni a 80 fascicoli; altri hanno sempre negato che i «costituti» esistessero in Italia e così spiegavano la non pubblicazione; in un articolo sul «Corriere della Sera» del senatore Salata, incaricato dal Governo di far ricerche negli Archivi di Vienna sulla storia italiana, si diceva, verso il 24 o 25, che i «costituti» erano stati da lui trovati. Ricordare il fatto che in un certo periodo la «Civiltà Cattolica» sfidò i liberali a pubblicarli, affermando che essi, conosciuti, avrebbero nientedimeno fatto saltare in aria la unità italiana. Il fatto notevole nella quistione Confalonieri consiste in questo: che a differenza di altri patriotti graziati dall’Austria, il Confalonieri, che pure era un rimarchevole uomo di Stato, si ritirò dalla vita politica attiva e mantenne, dopo la sua liberazione, un contegno molto riservato. Tutta la quistione del Confalonieri è da esaminare, insieme con l’atteggiamento tenuto al processo da lui e dai suoi compagni, anche su un esame più approfondito delle memorie scritte dai singoli, quando le scrissero: per le polemiche che suscitò, interessanti le memorie del francese Alessandro Andryane in parte piccolissima pubblicate da Rosolino Guastalla in una edizione Barbera, che, mi pare, se attaccò il Pallavicino per la sua debolezza, tributa invece molto rispetto al Confalonieri.

A proposito delle difese fatte anche recentemente dell’atteggiamento tenuto dall’aristocrazia lombarda verso l’Austria, specialmente dopo l’insurrezione del febbraio 53 e durante il viceregno di Massimiliano, ricordare che Alessandro Luzio, la cui opera storica è completamente tendenziosa, giunge fino a legittimare i fedeli servizi pretati all’Austria dal Salvotti e C.; altro che spirito giacobino!.

La punta comica nella quistione è data da Alfredo Panzini che, nella Vita di Cavour, fa tutta una variazione altrettanto leziosa quanto stucchevole e gesuitica sulla «pelle di tigre» esposta da una finestra aristocratica durante una visita a Milano di Francesco Giuseppe!!.

Da tutti questi punti di vista devono essere considerate le concezioni di Missiroli, Gobetti, Dorso, ecc. sul Risorgimento italiano come «conquista regia».

Se in Italia non sorse un partito giacobino, ci devono essere le ragioni da ricercare nel campo economico, cioè nella relativa debolezza della borghesia italiana, e nella temperatura storica diversa dell’Europa. Il limite trovato dai giacobini, nella loro politica di forzato risveglio delle energie popolari francesi da alleare alla borghesia, con la legge Chapelier e la legge sul «maximum»Aggiunto a margine in epoca posteriore., si presentava nel 48 come uno «spettro» già minaccioso, sapientemente agitato dall’Austria e dai vecchi governi, ma anche da Cavour (oltre che dal Papa). La borghesia non poteva più estendere la sua egemonia su i vasti strati che poté abbracciare in Francia, è vero, ma l’azione sui contadini era sempre possibile. Differenza tra Francia, Germania e Italia nel processo di presa del potere della borghesia (e Inghilterra). In Francia abbiamo il fenomeno completo, la maggior ricchezza di elementi politici. In Germania il fenomeno rassomiglia per alcuni aspetti a quello italiano, per altri a quello inglese. In Germania il 48 fallisce per la poca concentrazione borghese (la parola d’ordine di tipo giacobino fu data nel 48 tedesco da Marx: «rivoluzione in permanenza») e perché la quistione è intrecciata con quella nazionale; le guerre del 64, del 66 e del 70 risolvono la quistione nazionale e la quistione di classe in un tipo intermedio: la borghesia ottiene il governo economico‑industriale, ma le vecchie classi feudali rimangono come ceto governativo con ampi privilegi di casta nell’esercito, nell’amministrazione statale e sulla terra; ma almeno in Germania queste vecchie classi, se conservano tanta importanza e mantengono tanti privilegi, esercitano una funzione, sono gli «intellettuali» della borghesia, con un determinato temperamento dato dall’origine di classe e dalla tradizione. In Inghilterra, dove la Rivoluzione borghese si è svolta prima che in Francia, abbiamo lo stesso fenomeno che in Germania di fusione tra il vecchio e il nuovo, nonostante l’estrema energia dei «giacobini» inglesi, cioè le «teste rotonde» di Cronwell: la vecchia aristocrazia rimane come ceto governativo, con certi privilegi, diventa anch’essa il ceto intellettuale della borghesia inglese (vedi in proposito le osservazioni di Engels nella prefazione inglese, mi pare, a Utopia e Scienza, che occorre ricordare per questa ricerca sugli intellettuali e le loro funzioni storiche di classe).

La spiegazione data da Antonio Labriola sulla permanenza al potere in Germania degli Junker e del kaiserismo nonostante il grande sviluppo capitalistico adombra la giusta spiegazione: il rapporto di classe creatosi per lo sviluppo industriale col raggiungimento del limite dell’egemonia borghese e col rovesciamento delle situazioni di classi progressive, induce la borghesia a non lottare a fondo contro il vecchio mondo, ma a lasciarne sussistere quella parte di facciata che serva a velare il suo dominio.

Questo diverso manifestarsi dello stesso fenomeno nei diversi paesi è da legare ai diversi rapporti non solo interni, ma anche internazionali (i fattori internazionali di solito sono sottovalutati in queste ricerche). Lo spirito giacobino, audace, temerario, è certamente legato all’egemonia esercitata dalla Francia per tanto tempo. Le guerre di Napoleone, invece, con l’enorme distruzione di uomini, tra i più forti e avventurosi, indeboliscono non solo le energie francesi, ma anche quelle delle altre nazioni, sebbene diano anche formidabili lezioni di energia nuova.

I fattori internazionali sono stati certo fortissimi nel determinare la linea del Risorgimento. Essi poi sono stati ancora più esagerati dal partito moderato (Cavour) a scopo di partito: è notevole il fatto, a questo proposito, di Cavour che teme come il fuoco l’iniziativa garibaldina prima della spedizione di Quarto per le complicazioni internazionali che può creare e poi è spinto egli stesso dall’entusiasmo creato dai mille nell’opinione pubblica europea fino a vedere come fattibile una nuova guerra all’Austria. Esisteva dunque in Cavour una certa deformazione professionale del diplomatico, che lo portava a vedere «troppe» difficoltà e lo induceva a una esagerazione cospirativa e a prodigi, che sono in gran parte funamboleschi, di sottigliezza e di intrigo. In ogni caso egli fece bene la sua parte di uomo di partito; che poi questo partito rappresentasse la nazione, anche solo nel senso della più vasta estensione della comunità di interessi della borghesia con altre classi, è un’altra quistione.

A proposito della parola d’ordine «giacobina» lanciata da Marx alla Germania del 48‑49 è da osservare la sua complicata fortuna. Ripresa, sistematizzata, elaborata, intellettualizzata dal gruppo Parvus-Bronstein [Trotzky ndc], si manifestò inerte e inefficace nel 1905 e in seguito: era una cosa astratta, da gabinetto scientifico. La corrente che la avversò in questa sua manifestazione intellettualizzata, invece, senza usarla «di proposito» la impiegò di fatto nella sua forma storica, concreta, vivente, adatta al tempo e al luogo, come scaturiente da tutti i pori della società che occorreva trasformare, di alleanza tra due classi con l’egemonia della classe urbana.

Nell’un caso, temperamento giacobino senza il contenuto politico adeguato, tipo Crispi; nel secondo caso temperamento e contenuto giacobino secondo i nuovi rapporti storici, e non secondo un’etichetta intellettualistica.

Q1 §45 Intellettuali siciliani. Rivalità fra Palermo e Catania per contendersi il primato intellettuale dell’isola. — Catania chiamata l’Atene siciliana, anzi la «sicula Atene». —

Celebrità di Catania: Domenico Tempio, poeta licenzioso, la cui attività viene dopo il terremoto del 1693 che distrusse Catania (Antonio Prestinenza collega il tono licenzioso del poeta al fatto del terremoto: morte — vita — distruzione — fecondità). — Vincenzo Bellini, contrapposto al Tempio per la sua melanconia romantica.

Mario Rapisardi è la gloria moderna di Catania. Garibaldi gli scrive: «All’avanguardia del progresso noi vi seguiremo» e Victor Hugo: «Vous êtes un précurseur». — Rapisardi‑Garibaldi‑Victor Hugo. — Polemica Carducci‑Rapisardi. — Rapisardi‑De Felice (il primo maggio De Felice conduceva il corteo sotto il portone di Rapisardi). — Popolarismo socialista mescolato col culto superstizioso di Sant’Agata: quando Rapisardi in punto di morte si volle che rientrasse nella Chiesa: «Tal visse Argante e tal morì qual visse» disse Rapisardi. — Accanto al Rapisardi: Verga, Capuana, De Roberto, che però non considerati «sicilianissimi», anche perché legati alle correnti continentali e amici del Carducci. — Catania e l’Abruzzo nella letteratura italiana dell’ottocento.

Q1 §46 Moderati e gli intellettuali. I moderati dovevano avere il sopravvento tra gli intellettuali. Mazzini e Gioberti. Gioberti offriva agli intellettuali una filosofia che sembrava nazionale e originale, tale da porre l’Italia allo stesso livello delle nazioni più progredite e dare nuova dignità al «pensiero» italiano; Mazzini dava solo degli aforismi e degli accenni filosofici che a molti intellettuali, specialmente meridionali, dovevano sembrare vuote chiacchiere (il Galiani aveva «sfottuto» quel modo di pensare e di scrivere). Quistione della scuola. Attività dei moderati per introdurre il principio pedagogico dell’«insegnamento reciproco» (Confalonieri, Capponi ecc.); movimento di Ferrante Aporti e degli asili, legato anche al pauperismo. Era il solo movimento concreto contro la scuola «gesuitica» e non poteva non avere efficacia non solo fra i laici, ai quali dava una personalità propria, ma anche nel clero liberaleggiante e antigesuitico (ostilità contro Ferrante Aporti ecc.; il ricovero e l’educazione dell’infanzia abbandonata era un monopolio del clericalismo e queste iniziative spezzavano il monopolio).

Queste attività scolastiche del Risorgimento di carattere liberale o liberaleggiante hanno una grande importanza per afferrare il meccanismo dell’egemonia dei moderati sugli intellettuali. L’attività scolastica, in tutti i suoi gradi, ha un’importanza enorme, anche economica, per gli intellettuali di tutti i gradi; l’aveva allora anche maggiore, data la ristrettezza dei quadri sociali e le scarse strade aperte all’iniziativa degli intellettuali (oggi: giornalismo, movimento di partiti ecc. hanno allargato moltissimo i quadri intellettuali).

L’egemonia di un centro direttivo sugli intellettuali ha queste due linee strategiche: «una concezione generale della vita», una filosofia (Gioberti), che dia agli aderenti una «dignità» da contrapporre alle ideologie dominanti come principio di lotta; un programma scolastico che interessi e dia una attività propria nel loro campo tecnico a quella frazione degli intellettuali che è la più omogenea e la più numerosa (insegnanti, dai maestri ai professori d’Università).

I Congressi degli scienziati che si ripeterono nel Risorgimento ebbero una doppia efficacia: 1° riunire gli intellettuali del grado più elevato, moltiplicando così la loro influenza; 2° ottenere una più rapida concentrazione degli intellettuali dei gradi più bassi, che sono portati normalmente a seguire gli universitari, i grandi scienziati per spirito di casta.

Lo studio delle Riviste enciclopediche e specializzate dà un altro aspetto di questa egemonia. Un partito come quello moderato offriva alla massa degli intellettuali tutte le soddisfazioni per le esigenze generali che possono essere offerte da un governo (da un partito al governo) attraverso i servizi statali (per questa funzione di partito «di governo» servì ottimamente dopo il 48 lo Stato piemontese che accolse gli intellettuali esuli e mostrò in modello ciò che sarebbe stato il futuro Stato unitario).

Q1 §47 Hegel e l’associazionismo. La dottrina di Hegel sui partiti e le associazioni come trama «privata» dello Stato. Essa derivò storicamente dalle esperienze politiche della Rivoluzione francese e doveva servire a dare una maggiore concretezza al costituzionalismo. Governo col consenso dei governati, ma col consenso organizzato, non generico e vago quale si afferma nell’istante delle elezioni: lo Stato ha e domanda il consenso, ma anche «educa» questo consenso con le associazioni politiche e sindacali, che però sono organismi privati, lasciati all’iniziativa privata della classe dirigente. Hegel, in un certo senso supera già, così, il puro costituzionalismo e teorizza lo Stato parlamentare col suo regime dei partiti. La sua concezione dell’associazione non può essere che ancora vaga e primitiva, tra il politico e l’economico, secondo l’esperienza storica del tempo, che era molto ristretta e dava un solo esempio compiuto di organizzazione, quello «corporativo» (politica innestata nell’economia).

Marx non poteva avere esperienze storiche superiori a quelle di Hegel (almeno molto superiori), ma aveva il senso delle masse, per la sua attività giornalistica e agitatoria. Il concetto di Marx dell’organizzazione rimane ancora impigliato tra questi elementi: organizzazione di mestiere, clubs giacobini, cospirazioni segrete di piccoli gruppi, organizzazione giornalistica. La Rivoluzione francese offre due tipi prevalenti: i clubs, che sono organizzazioni non rigide, tipo «comizio popolare», centralizzate da singole individualità politiche, ognuna delle quali ha il suo giornale, con cui tiene desta l’attenzione e l’interesse di una determinata clientela sfumata ai margini, che poi sostiene le tesi del giornale nelle riunioni del club. È certo che in mezzo agli assidui dei clubs dovevano esistere aggruppamenti ristretti e selezionati di gente che si conosceva reciprocamente, che si riuniva a parte e preparava l’atmosfera delle riunioni per sostenere l’una o l’altra corrente secondo i momenti e anche secondo gli interessi concreti in gioco. Le cospirazioni segrete, che poi ebbero tanta diffusione in Italia prima del 48, dovettero svilupparsi dopo il Termidoro in Francia, tra i seguaci di seconda linea del giacobinismo, con molte difficoltà nel periodo napoleonico per l’occhiuto controllo della polizia, con più facilità dal 15 al 30 sotto la Restaurazione, che fu abbastanza liberale alla base e non aveva certe preoccupazioni. In questo periodo dal 15 al 30 dovette avvenire la differenziazione del campo politico popolare, che appare già notevole nelle «gloriose giornate» del 1830, in cui affiorano le formazioni venutesi costituendo nel quindicennio precedente. Dopo il 30 e fino al 48 questo processo di differenziazione si perfeziona e dà dei tipi abbastanza compiuti con Blanqui e con Filippo Buonarroti.

È difficile che Hegel potesse conoscere da vicino queste esperienze storiche, che invece erano più vivaci in Marx (su questa serie di fatti vedere come primo materiale le pubblicazioni di Paul Louis e il Dizionario politico di Maurice Block; per la Rivoluzione francese specialmente Aulard; vedere anche le  dell’Andler al Manifesto; per l’Italia il libro del Luzio sulla Massoneria e il Risorgimento, molto tendenzioso).

Q1 §48 Il giacobismo a rovescio di Carlo Maurras (seguito al Q1 § di p. 8 bis). Lo sviluppo del giacobinismo (di contenuto) ha trovato la sua perfezione formale nel regime parlamentare, che realizza nel periodo più ricco di energie «private» nella società l’egemonia della classe urbana su tutta la popolazione, nella forma hegeliana di governo col consenso permanentemente organizzato (coll’organizzazione lasciata all’iniziativa privata, quindi di carattere morale o etico, perché consenso «volontario», in un modo o nell’altro). Il «limite» trovato dai giacobini con la legge Chapelier o il maximum viene superato e allargato attraverso un processo complesso, teorico‑pratico (giuridico‑politico = economico), per cui si riottiene il consenso politico (si mantiene l’egemonia) allargando e approfondendo la base economica con lo sviluppo industriale e commerciale fino alla epoca dell’imperialismo e alla guerra mondiale. In questo processo si alternano insurrezioni e repressioni, allargamenti e restrizioni del suffragio politico, libertà di associazione e restrizione o annullamento di questa libertà, libertà nel campo sindacale ma non nel campo politico, forme diverse del suffragio, di lista o per piccola circoscrizione, proporzionale o individuale, con le varie combinazioni che ne risultano, il sistema di una camera o delle due camere, coi vari modi di scelta per ognuna (camera vitalizia ed ereditaria, o solamente vitalizia, elettiva anch’essa, ma non come la camera bassa, ecc.), col vario equilibrio dei poteri, per cui la magistratura è un potere o un ordine, indipendente o controllato e diretto dal governo, con le diverse attribuzioni del capo dello Stato, col diverso equilibrio interno degli organismi territoriali (centralismo o decentramento, minori o maggiori poteri dei prefetti, dei Consigli provinciali, dei comuni); con un diverso equilibrio tra forze armate di leva e corpi armati professionali (polizia, gendarmeria); con la dipendenza di questi corpi professionali dall’uno o dall’altro potere statale (dalla magistratura, dal ministro dell’interno o da quello della guerra); con la maggiore o minore parte lasciata alla consuetudine o alla legge scritta, per cui si sviluppano delle forme consuetudinarie che possono essere abolite in virtù della legge scritta; con il distacco reale più o meno grande tra i regolamenti e le leggi fondamentali, con l’uso più o meno grande di decreti legge che si sovrappongono alla legislazione ordinaria e la modificano in certe occasioni, forzando la «pazienza» del parlamento. A questo processo contribuiscono i teorici‑filosofi, i pubblicisti, i partiti politici ecc. per la parte formale e i movimenti di massa per la parte sostanziale, con azioni e reazioni reciproche, con iniziative «preventive» prima che un fenomeno si manifesti pericolosamente e con repressioni quando le prevenzioni sono mancate o sono state tardive o inefficaci. L’esercizio «normale» dell’egemonia nel terreno divenuto classico del regime parlamentare, è caratterizzato da una combinazione della forza e del consenso che si equilibrano, senza che la forza soverchi di troppo il consenso, anzi appaia appoggiata dal consenso della maggioranza espresso dai così detti organi dell’opinione pubblica (i quali perciò, in certe situazioni, vengono moltiplicati artificiosamente). Tra il consenso e la forza sta la corruzione‑frode (che è caratteristica di certe situazioni di difficile esercizio della funzione egemonica presentando l’impiego della forza troppi pericoli), cioè lo snervamento e la paralisi procurati all’antagonista o agli antagonisti con l’accaparrarne i dirigenti, copertamente in via normale, apertamente in caso di pericolo prospettato per gettare lo scompiglio e il disordine nelle file antagoniste.

Nel periodo del dopoguerra, l’apparato egemonico si screpola e l’esercizio dell’egemonia diventa sempre più difficile. Il fenomeno viene presentato e trattato con vari nomi e sotto vari aspetti. I più comuni sono: «crisi del principio di autorità» — «dissoluzione del regime parlamentare». Naturalmente del fenomeno si descrivono solo le manifestazioni centrali, nel terreno parlamentare e governativo, e si spiegano col fallimento del «principio» parlamentare, del «principio» democratico ecc., non però del «principio» d’autorità (questo fallimento viene proclamato da altri). Praticamente questa crisi si manifesta nella sempre crescente difficoltà di formare dei governi e nella sempre crescente instabilità dei governi stessi ed ha la sua origine immediata nella moltiplicazione dei partiti parlamentari e nelle crisi interne permanenti di ognuno di questi partiti (cioè si verifica nell’interno di ogni partito ciò che si verifica nell’intero parlamento: difficoltà di governo). Le forme di questo fenomeno sono anche, in una certa misura, di corruzione e dissoluzione morale: ogni gruppetto interno di partito crede di avere la ricetta per arrestare l’indebolimento dell’intero partito e ricorre a ogni mezzo per averne la direzione o almeno per partecipare alla direzione così come nel parlamento il partito crede di essere il solo a dover formare il governo per salvare il paese o almeno, per dare l’appoggio al governo, di doverci partecipare il più largamente possibile; quindi contrattazioni cavillose e minuziose che non possono non essere personalistiche in modo da apparire scandalose. Forse nella realtà, la corruzione è minore di quanto si creda. Che gli interessati a che la crisi si risolva dal loro punto di vista, fingano di credere che si tratti della «corruzione» e «dissoluzione» di un «principio», potrebbe anche essere giustificato: ognuno può essere il giudice migliore nella scelta delle armi ideologiche che sono più appropriate ai fini che vuol raggiungere e la demagogia può essere ritenuta arma eccellente. Ma la cosa diventa comica quando il demagogo non sa di esserlo, quando cioè si opera praticamente come se si creda realmente che l’abito è il monaco, che il berretto è il cervello. Machiavelli e Stenterello. La crisi in Francia. Sua grande lentezza. I partiti francesi. Essi erano molto numerosi anche prima del 14. La loro molteplicità formale dipende dalla ricchezza di avvenimenti politici in Francia dal 1789 all’Affare Dreyfus. Ognuno di questi avvenimenti ha lasciato sedimenti e strascichi che si sono consolidati in partiti; ma le differenze essendo molto meno importanti delle coincidenze, in realtà ha regnato in parlamento il regime dei due partiti: liberali‑democratici (varie gamme del radicalesimo) e conservatori. La molteplicità dei partiti è stata utile nel passato: ha permesso una vasta opera di selezione e ha creato un gran numero di uomini di governo. Così ogni movimento dell’opinione pubblica trovava un immediato riflesso e una composizione. L’egemonia borghese è molto forte e ha molte riserve. Gli intellettuali sono molto concentrati (Accademia, Università, grandi giornali e riviste di Parigi) e quantunque numerosissimi, molto disciplinati ai centri di cultura. La burocrazia militare e civile ha una grande tradizione e ha raggiunto una grande omogeneità. La debolezza interna più pericolosa nell’apparato statale (militare e civile) era data dal clericalismo alleato ai monarchici. Ma la massa popolare, se pure cattolica, non era clericale. Nell’affare Dreyfus è culminata la lotta per paralizzare l’influenza clericale‑monarchica nell’apparato statale e per dare all’elemento laico la netta prevalenza. La guerra non ha indebolito, ma rafforzato l’egemonia; non si è avuto tempo di pensare: il paese è entrato in guerra e quasi subito il suo territorio è stato invaso. Il passaggio dalla vecchia disciplina alla nuova non ha domandato una crisi troppo grande: i vecchi quadri militari erano vasti abbastanza e abbastanza elastici: gli ufficiali subalterni e i sottufficiali erano forse i più scelti del mondo, i meglio allenati.

Confronto con altri paesi. La quistione degli arditi. La crisi dei quadri, il gran numero degli ufficiali di complemento. Gli arditi in altri paesi hanno rappresentato un nuovo esercito di volontari, una selezione militare, che ebbe una funzione tattica primordiale. Il contatto col nemico fu ricercato solo attraverso gli arditi, che formarono come un velo tra il nemico e l’esercito di leva (come le stecche di un busto). La fanteria francese formata in maggioranza di coltivatori diretti, cioè di uomini con una certa riserva muscolare e nervosa che rese più difficile il collasso fisico procurato dalla vita di trincea (il consumo medio di un francese è di circa 1 500 000 calorie all’anno, mentre quello italiano è di meno che un milione); in Francia il bracciantato è minimo (il contadino senza terra è servo di fattoria, cioè vive la stessa vita dei padroni e non conosce l’inedia della disoccupazione neanche stagionale, il vero bracciantato non arriva a un milione di persone); inoltre il vitto in trincea era migliore che in altri paesi e il passato democratico, ricco di lotte, aveva creato il cittadino, nel doppio senso, che l’uomo del popolo si sentiva qualche cosa, non solo, ma era ritenuto qualche cosa dai superiori, cioè non era sfottuto e bistrattato per bazzecole. Non si formarono così quei sedimenti di rabbia avvelenata e sorniona che si formarono altrove. Le lotte interne dopo l’armistizio mancarono perciò di grande asprezza e, specialmente, non si verificò l’inaudita oscillazione delle classi rurali. La crisi parlamentare francese indica che c’è un malessere diffuso nel paese, ma questo malessere non ha avuto sinora un carattere radicale, non ha posto in gioco quistioni «intangibili». C’è stato un allargamento della base industriale, e quindi un accresciuto urbanesimo. Masse di rurali si sono riversate in città, ma non perché ci fosse in campagna disoccupazione o fame insoddisfatta di terra; perché in città si sta meglio, ci sono più soddisfazioni (il prezzo della terra è basso e molte terre buone sono abbandonate agli italiani). La crisi parlamentare riflette (finora) piuttosto uno spostamento di masse normale (non dovuto a crisi economica), con una ricerca di nuovi equilibri di partito e un malessere vago, premonitore di una grande crisi. La stessa sensibilità dell’organismo politico porta a esagerare i sintomi del malessere. Si tratta per ora di una lotta per la divisione dei carichi statali e dei benefici statali, più che altro. Perciò crisi dei partiti medi e del partito radicale in primo luogo, che rappresenta le città medie e piccole e i contadini più avanzati. Le forze politiche si preparano alle grandi lotte future e cercano un miglior assestamento. Le forze extrastatali fanno sentire più sensibilmente il loro peso e impongono i loro uomini in modo più brutale.

Maurras grida già allo sfacelo e si prepara alla presa del potere. Maurras passa per un grande uomo di stato e per un grandissimo realista. In realtà egli è solo un giacobino alla rovescia. I giacobini usavano un certo linguaggio, seguivano una certa ideologia; nel loro tempo quel linguaggio e quella ideologia erano ultra‑realistici perché ottennero di far marciare le forze necessarie per ottenere i fini della rivoluzione e dettero alla classe rivoluzionaria il potere. Furono poi staccati dal tempo e dal luogo e ridotti in formule: erano una cosa diversa, uno spettro, delle parole vane e inerti. Il comico è che Maurras a quelle formule ne contrappose delle altre, in un sistema logico‑letterario formalmente impeccabile, ma del più puro illuminismo. Maurras rappresenta il più puro campione dello «stupido secolo XIX» la concentrazione di tutte le banalità massoniche rovesciate meccanicamente: la sua relativa popolarità viene appunto da questo, che il suo metodo piace perché è proprio quello della ragione ragionante da cui è sorto l’enciclopedismo, l’illuminismo e tutta la cultura massonica francese. Gli illuministi avevano creato il mito del selvaggio o che so io, Maurras crea il mito del passato monarchico francese; solo che questo mito è stato «storia» e le deformazioni intellettualistiche di esso possono essere troppo facilmente corrette.

La formula fondamentale di Maurras è «politique d’abord», ma egli è il primo a non osservarla. Prima della politica per lui c’è sempre l’«astrazione politica», l’accoglimento integrale di un programma «ideologico» minuziosissimo, che prevede tutti i particolari, come nelle utopie, che domanda una determinata concezione non della storia, ma della storia di Francia e d’Europa, cioè una determinata ermeneutica.

Léon Daudet ha scritto che la grande forza dell’Action Française è stata la incrollabile omogeneità e unità del suo gruppo dirigente. Sempre d’accordo, sempre solidali politicamente e ideologicamente.

Certo questa è una forza. Ma di carattere settario e massonico, non di grande partito di governo. Il linguaggio politico è diventato un gergo, si è formata un’atmosfera da conventicola: a forza di ripetere sempre le stesse formule, di maneggiare gli stessi schemi mentali irrigiditi, si finisce, è vero, col pensare allo stesso modo, perché si finisce col non pensar più. Maurras a Parigi e Daudet a Bruxelles pronunziano la stessa frase, senza accordo, sullo stesso avvenimento, ma l’accordo c’era già prima: erano già due macchinette di frasi montate da 20 anni per dire le stesse frasi nello stesso momento.

Il gruppo di Maurras si è formato per «cooptazione»: in principio c’era Maurras col suo verbo, poi si unì Vaugeois, poi Daudet, poi Pujo, ecc. ecc. Quando si staccò Valois fu una catastrofe di polemiche e di accuse. Dal punto di vista di tipo d’organizzazione l’Action Française è molto interessante. La sua forza è costituita di questi elementi: che i suoi elementi di base sono tipi sociali selezionati intellettualmente, nobili, intellettuali, ex‑ufficiali, studenti, gente cioè che è portata a ripetere pappagallescamente le formule di Maurras e anzi a trarne profitto «snobistico»; in una repubblica può essere segno di distinzione l’essere monarchici, in una democrazia parlamentare l’essere reazionar conseguenti; che sono ricchi, così che possono dare tanti fondi da permettere molteplici iniziative che danno l’apparenza di una certa vitalità e attività; la ricchezza di mezzi e la posizione sociale degli aderenti palesi ed occulti permette al giornale e al centro politico di avere una massa di informazioni e di documenti riservati che danno al giornale il mezzo delle polemiche personali: nel passato, ma in parte anche ora, il Vaticano doveva essere una fonte di primo ordine (il Vaticano, come centro, la Segreteria di Stato e l’alto clero francese; molte campagne devono essere a chiave o a mezza chiave: una parte di vero che fa capire che si sa tutto o allusioni furbesche comprensibili dagli interessati). A queste campagne il giornale dà un doppio significato: galvanizzare i propri aderenti sfoggiando conoscenza delle più segrete cose, ciò che dà l’impressione di gran forza d’organizzazione e di capacità, e paralizzare gli avversari, con la minaccia di disonorarli, per fare di alcuni dei fautori segreti.

La concezione pratica che si può ricavare da tutta l’attività dell’Action Française è questa: il regime parlamentare repubblicano si dissolverà ineluttabilmente perché esso è un «monstrum» storico che non corrisponde alle leggi «naturali» della società francese fissate da Maurras. I nazionalisti integrali devono: 1° appartarsi dalla vita reale della politica francese, non riconoscendone la legalità (astensionismo, ecc.), combattendola in blocco; 2° creare un antigoverno, sempre pronto a insediarsi «nei palazzi tradizionali», per un colpo di mano; questo antigoverno si presenta già oggi con tutti gli uffici embrionali, che corrispondono alle grandi attività nazionali. Furono fatti molti strappi a questo rigore: nel 19 furono presentate delle candidature; nelle altre elezioni l’Action Française appoggiò i candidati di destra che accettavano alcuni suoi principii marginali (significa che tra Maurras e gli altri l’accordo non era perfetto). Per uscire dall’isolamento fu progettata la pubblicazione di un grande giornale d’informazione, ma finora non pare che se ne sia fatto nulla (esiste solo la «Revue Universelle» che compie questo ufficio nel campo delle riviste). La recente polemica col Vaticano ha rotto il solo legame che l’Action Frariffise avesse con larghe masse, legame anch’esso piuttosto aleatorio. Il suffragio universale introdotto dalla Repubblica ha portato già da tempo in Francia al fatto che le masse cattoliche politicamente aderiscono ai partiti del centro e di sinistra, sebbene questi partiti siano anticlericali. La formula che la religione è una «quistione privata» si è radicata come forma popolare della separazione della Chiesa dallo Stato. Di più il complesso di associazioni che costituiscono l’Azione Cattolica francese è in mano alla aristocrazia terriera (il generale Castelnau), senza che il basso clero eserciti quella funzione di guida spirituale‑sociale che esercitava in Italia (settentrionale specialmente). Il contadino francese rassomiglia piuttosto al nostro contadino meridionale, che volentieri dice: «il prete è prete sull’altare, ma fuori è un uomo come tutti gli altri» (se non peggio). L’Action Française attraverso lo strato dirigente cattolico pensava di dominare tutto l’apparecchio di massa del cattolicismo francese. Certo c’era molta illusione in ciò, ma tuttavia doveva esserci una parte di verità, perché il legame religioso, rilassato in tempi normali, diventa più vigoroso e assorbente in epoche di grande crisi politico‑morale, quando l’avvenire appare pieno di nubi tempestose. In realtà anche questa riserva possibile è svanita per Maurras. La politica del Vaticano non vuole più «astenersi» dagli affari interni francesi; ma il Vaticano è più realista di Maurras e concepisce meglio il motto «politique d’abord». Finché il contadino cattolico dovrà scegliere tra Herriot e un hobereau, sceglierà Herriot: bisogna creare il tipo politico del «radicale cattolico», cioè del «popolare», bisogna accettare la Repubblica e la democrazia e su questo terreno organizzare le masse facendo sparire (superando) il dissidio tra religione e politica, facendo del prete non solo la guida spirituale (nel campo individuale‑privato) ma anche la guida sociale nel campo politico‑economico.

La sconfitta di Maurras è certa: è la sua concezione che è falsa per troppa perfezione logica. Del resto la sconfitta era sentita da Maurras proprio all’inizio della crisi col Vaticano, che coincise con la crisi parlamentare francese del 25. Quando i ministeri si succedevano a rotazione, l’Action Française pubblicò di essere pronta a prendere il potere. Fu pubblicato un articolo in cui si giunge fino ad invitare Caillaux a collaborare, Caillaux per il quale si annunziava sempre il plotone di esecuzione. L’episodio è classico: la politica irrigidita e razionalistica tipo Maurras, dell’astensionismo aprioristico, delle leggi naturali siderali che reggono la società è condannata al marasma, al crollo, all’abdicazione al momento risolutivo. Allora si vede che le grandi masse di energia non si riversano nei serbatoi creati artificialmente, ma seguono le vie della storia, si spostano secondo i partiti che sono stati sempre attivi. A parte la stoltezza di credere che nel 25 potesse avvenire il crollo della Repubblica per la crisi parlamentare (l’intellettualismo porta a queste allucinazioni monomaniache), ci fu un crollo morale, se non di Maurras, che sarà anche rimasto nel suo stato di illuminazione apocalittica, del suo gruppo, che si senti isolato e fece appello a Caillaux.

Q1 §49 Il «centralismo organico» e le dottrine di Maurras. Il «centralismo organico» ha come principio la «cooptazione» intorno a un «possessore della verità», a un «illuminato dalla ragione» che ha trovato le leggi «naturali» ecc. (Le leggi della meccanica e della matematica funzionano da motore intellettuale; la metafora sta invece del pensiero storico). Collegato col Maurrasismo.

Q1 §50 Un documento dell’Amma per la quistione Nord-Sud. Pubblicato dai giornali torinesi del settembre 1920. È una circolare dell’Amma credo del 1916 in cui si ordina alle industrie dipendenti di non assumere operai che siano nati sotto Firenze.

Cfr con la politica seguita da Agnelli‑Gualino specialmente nel 1925‑26 di far venire a Torino circa 25 000 siciliani da immettere nell’industria (case‑caserme, disciplina interna ecc.). Fallimento dell’emigrazione e moltiplicazione dei reati commessi nelle campagne vicine da questi siciliani che fuggivano le fabbriche: cronache vistose nei giornali che non allentarono certo la credenza che i siciliani sono briganti.

La quistione speciale Piemonte‑Sicilia è legata all’intervento delle truppe piemontesi in Sicilia contro il così detto brigantaggio dal 60 al 70. I soldati piemontesi riportarono la convinzione nei loro paesi della barbarie siciliana e, viceversa, i siciliani si persuasero della ferocia piemontese. La letteratura amena (ma anche quella militare) contribuì a rafforzare questi stati d’animo (cfr la novella di De Amicis sul soldato a cui viene mozzata la lingua dai briganti): nella letteratura siciliana si è più equanimi, perché si descrive anche la ferocia siciliana (una novella di Pirandello: i briganti che giocano alle bocce coi teschi). Ricordare il libro, mi pare di un certo D’Adamo (cfr «Unità» al tempo della guerra libica) nel quale si dice che siciliani e piemontesi devono far la pace, poiché la ferocia degli uni compensa quella degli altri.

A proposito della letteratura amena su Nord‑Sud ricordare Caccia grossa di Giulio Bechi: caccia grossa vuol dire «caccia agli uomini». Giulio Bechi ebbe qualche mese di fortezza; ma non per aver operato in Sardegna come in terra di conquista, ma per essersi messo in una situazione per cui dei signori sardi l’avevano sfidato a duello; la sfida dei sardi, poi, fu fatta non perché il Bechi aveva fatto della Sardegna una jungla, ma perché aveva scritto che le donne sarde non sono belle.

Ricordare un libriccino di ricordi di un ufficiale ligure (stampato in una cittadina ligure, Oneglia o Porto Maurizio) che fu in Sardegna nei fatti del 1906, dove i sardi sono detti «scimmie» o qualcosa di simile e si parla del «genio della specie» che agita l’autore alla vista delle donne.

Q1 §51 Clero come intellettuali. Ricerca sui diversi atteggiamenti del clero nel Risorgimento, in dipendenza delle nuove correnti religiose‑ecclesiastiche. Giobertismo, rosminianismo. Episodio più caratteristico del giansenismo. A proposito della dottrina della grazia e della sua conversione in motivo di energia industriale, e dell’obbiezione che lo Jemolo fa alla tesi giusta dell’Anzilotti (da dove l’Anzilotti l’aveva presa?) cfr in Kurt Kaser, Riforma e Controriforma, a proposito della dottrina della grazia nel calvinismo, e il libro del Philip dove sono citati documenti attuali di questa conversione. In questi fatti è contenuta la documentazione del processo dissolutivo della religiosità americana: il calvinismo diventa una religione laica, quella del Rotary Club, così come il teismo degli illuministi era la religione della massoneria europea, ma senza l’apparato simbolico e comico della massoneria e con questa differenza, che la religione del Rotary non può diventare universale: essa è propria di un’aristocrazia eletta (popolo eletto, classe eletta) che ha avuto e continua ad avere successi; un principio di selezione, non di generalizzazione, di un misticismo ingenuo e primitivo proprio di chi non pensa ma opera come gli industriali americani, che può avere in sé i germi di una dissoluzione anche molto rapida (la storia della dottrina della grazia può essere interessante per vedere il diverso accomodarsi del cattolicesimo e del cristianesimo alle diverse epoche storiche e ai diversi paesi).

Fatti americani riportati dal Philip da cui risulta che il clero di tutte le chiese, in certe occasioni, ha funzionato da pubblica opinione in assenza di un partito medio e di una stampa di tale partito.

Q1 §52 Origine sociale del clero. L’origine sociale del clero ha importanza per giudicare della sua influenza politica: nel Nord il clero è di origine popolare (artigiani e contadini), nel Sud è più legato ai «galantuomini» e alla classe alta. Nel Sud e nelle isole il clero o individualmente o come rappresentante della chiesa, ha voli proprietà terriere e si presta all’usura. Appare al contadino spesso, oltre che come guida spirituale, come proprietario che pesa sugli affitti («gli interessi della chiesa») e come usuraio che ha a sua disposizione le armi spirituali oltre che le temporali. Perciò i contadini meridionali vogliono preti del paese (perché conosciuti, meno aspri, e perché la loro famiglia, offrendo un certo bersaglio, entra come elemento di conciliazione) e qualche volta rivendicano i diritti elettorali dei parrocchiani. Episodi in Sardegna di tali rivendicazioni. (Ricordare articolo di Gennaro Avolio nel numero unico della «Voce» su clero meridionale, dove si accenna al fatto che i preti meridionali fanno apertamente vita coniugale con una donna e hanno rivendicato il diritto di prender moglie). La distribuzione territoriale del Partito Popolare mostra la maggiore o minore influenza del clero, e la sua attività sociale. Nel Mezzogiorno In epoca posteriore queste parole erano collocate tra parentesi e lo stesso G. annotava in interlinea: «no». (occorre tener presente oltre a ciò, il peso delle diverse frazioni: nel Sud Napoli, ecc.) prevaleva la destra, cioè il vecchio clericalismo. conservatore. Ricordare episodio delle elezioni ad Oristano nel 1913.

Q1 §53 Maurrasianesimo e sindacalismo. Nella concezione di Maurras ci sono molti tratti simili a certe teorie catastrofiche formali di certo sindacalismo o economismo. È avvenuta parecchie volte questa trasposizione nel campo politico e parlamentare di concezioni nate sul terreno economico e sindacale. Ogni astensionismo politico si basa su questa concezione (astensionismo politico in generale, non solo parlamentare). Meccanicamente avverrà il crollo dell’avversario se, con metodo intransigente, lo si boicotterà nel campo governativo (sciopero economico, sciopero o inattività politica). L’esempio classico italiano è quello dei clericali dopo il 70. In realtà poi, dopo il 90 il non expedit fu temperato fino al patto Gentiloni. La fondazione del P. P. segnò il rigetto totale di questo meccanicismo catastrofico. Il suffragio universale rovesciò questo piano: esso infatti già diede i sintomi di nuove formazioni legate all’interesse dei contadini di entrare attivamente nella vita dello Stato.

Q1 §54 La battaglia dello Jütland. La trattazione di questa battaglia fatta da Winston Churchill nelle sue memorie di guerra. È notevole come il piano e la direzione strategica della battaglia da parte del comando inglese e di quello tedesco siano in contrasto colla raffigurazione tradizionale dei due popoli. Il comando inglese aveva centralizzato «organicamente» il piano nella nave ammiraglia: le altre unità dovevano «attendere ordini» volta per volta. L’ammiraglio tedesco invece aveva spiegato a tutti i comandi subalterni il piano strategico generale, e aveva lasciato alle unità quella certa libertà di manovra che le circostanze potevano richiedere. La flotta tedesca manovrò molto bene. La flotta inglese corse molti rischi, nonostante la sua superiorità, e non poté conseguire fini strategici positivi, perché a un certo punto, l’ammiraglio perdette le comunicazioni con le unità combattenti e queste commisero errori su errori. Rivedere il libro di Churchill.

Q1 §55 Riviste tipo. Una rivista tipo è l’«Osservatore» del Gozzi, cioè il tipo di rivista moralisteggiante del settecento (tipo perfetto in Inghilterra con l’Addison): essa ebbe una certa importanza per diffondere una nuova concezione della vita, servendo di anello di passaggio per la piccola gente, tra la religione e la civiltà moderna. Oggi il tipo si conserva specialmente nel campo ecclesiastico. (Ma anche l’«Asino» e il «Seme» rientravano in questo tipo).

Q1 §56 Apologo del ceppo e delle frasche secche. Le frasche secche sono indispensabili per far bruciare il ceppo, non in sé e per sé. Solo il ceppo, bruciando, modifica l’ambiente freddo in caldo. Arditi — artiglieria e fanteria. Queste rimangono sempre le regine.

Q1 §57 Reazioni del Nord alle pregiudiziali antimeridionali. 1° Episodio del 1914 a Torino: proposta a Salvemini di candidatura: la città del Nord elegge il deputato per la campagna del Sud. Rifiuto, ma partecipazione di Salvemini alla elezione come oratore. 2° Episodio Giovane Sardegna del 19 con annessi e connessi. 3° Brigata Sassari nel 17 e nel 19. 4° Cooperativa Agnelli nel 20 (suo significato «morale» dopo il settembre; motivazione del rifiuto). 5° Episodio del 21 a Reggio Emilia (di questo Zibordi si guarda bene dal parlarne nel suo opuscolo su Prampolini).

Sono questi fatti che colpirono Gobetti e quindi provocarono atmosfera del libro di Dorso. (B. S.: agnelli e conigli. Miniere‑Ferrovie).

Q1 §58 Emigrazione e movimenti intellettuali. Funzione dell’emigrazione nel provocare nuove correnti e nuovi raggruppamenti intellettuali. Emigrazione e Libia. Discorso di Ferri alla Camera nel 1911 dopo il suo ritorno dall’America (la lotta di classe non spiega l’emigrazione). Passaggio di un gruppo di sindacalisti al partito nazionalista. Concetto di nazione proletaria in Enrico Corradini. Discorso di Pascoli La grande proletaria si è mossa. Sindacalisti-nazionalisti di origine meridionale: Forges Davanzati ‑ Maraviglia. In generale molti sindacalisti intellettuali d’origine meridionale. Loro passaggio episodico nelle città industriali (il ciclonismo): loro più stabile fortuna nelle regioni agricole, dal Novarese alla valle padana e alle Puglie. Movimenti agrari del decennio 1900-10. La statistica dà in quel periodo un aumento del 50% dei braccianti, a scapito specialmente della categoria degli obbligati‑schiavandari (statistica del 1911: cfr prospetto dato dalla «Riforma sociale»). Nella valle del Po ai sindacalisti succedono i riformisti più piatti, eccetto che a Parma e in vari altri centri dove il sindacalismo si unisce al movimento repubblicano formando l’Unione del Lavoro dopo scissione del 14‑15. Il passaggio di tanti contadini al bracciantato è legato al movimento della cosidetta «Democrazia cristiana» («l’Azione» di Cacciaguerra usciva a Cesena) e al modernismo: simpatie di questi movimenti per il sindacalismo.

Bologna è il centro intellettuale di questi movimenti ideologici legati alla popolazione rurale: il tipo originale di giornale che è stato sempre il «Resto del Carlino» non si potrebbe altrimenti spiegare (Missiroli‑Sorel ecc.).

Oriani e le classi della Romagna: il Romagnolo come tipo originale italiano (molti tipi originali: Giulietti ecc.) di passaggio tra Nord e Sud.

Q1 §59 Ugo Ojetti. Ricercare il giudizio datone dal Carducci.

Q1 §60 Papini, Cristo, Giulio Cesare. Papini nel 1912‑13 scrisse in «Lacerba» l’articolo Gesù peccatore, sofistica raccolta di aneddoti e di sforzate ipotesi tratte dagli Evangeli apocrifi; per questo articolo pareva dovesse subire un’azione giudiziaria con grande suo spavento (sostenne come plausibile e probabile l’ipotesi di rapporti tra Gesù e Giovanni). Nel suo articolo su Cristo romano (nel volume Gli operai della vigna) sostiene, con gli stessi procedimenti critici e la stessa «vigoria» intellettuale, che Cesare è un precursore del Cristo, fatto nascere a Roma dalla Provvidenza. Se farà ancora un passo in avanti, usando dei procedimenti loriani, giungerà alla conclusione di rapporti necessari tra il cristianesimo e l’inversione.

Q1 §61 Americanismo. L’americanismo può essere una fase intermedia dell’attuale crisi storica? La concentrazione plutocratica può determinare una nuova fase dell’industrialismo europeo sul modello dell’industria americana? Il tentativo probabilmente sarà fatto (razionalizzazione, sistema Bedaux, taylorismo ecc.). Ma può riuscire? L’Europa reagisce, contrapponendo alla «vergine» America le sue tradizioni di cultura. Questa reazione è interessante non perché una così detta tradizione di cultura possa impedire una rivoluzione nell’organizzazione industriale, ma perché essa è la reazione della «situazione» europea alla «situazione» americana. In realtà, l’americanismo, nella sua forma più compiuta, domanda una condizione preliminare: «la razionalizzazione della popolazione», cioè che non esistano classi numerose senza una funzione nel mondo della produzione, cioè classi assolutamente parassitarie. La «tradizione» europea è proprio invece caratterizzata dall’esistenza di queste classi, create da questi elementi sociali: l’amministrazione statale, il clero e gli intellettuali, la proprietà terriera, il commercio. Questi elementi, quanto più vecchia è la storia di un paese, tanto più hanno lasciato durante i secoli delle sedimentazioni di gente fannullona, che vive della «pensione» lasciata dagli «avi». Una statistica di questi elementi sociali è difficilissima, perché molto difficile è trovare la «voce» che li possa abbracciare. L’esistenza di determinate forme di vita dà degli indizi.

Il numero rilevante di grandi e medi agglomerati urbani senza industria è uno di questi indizi, forse il più importante. Il così detto «mistero di Napoli». Ricordare le osservazioni fatte da Goethe su Napoli e le «consolanti» conclusioni di Giustino Fortunato (opuscolo pubblicato recentemente dalla «Biblioteca editrice» di Rieti nella collana «Quaderni Critici» di Domenico Petrini; recensione di Einaudi nella «Riforma Sociale» dello scritto del Fortunato quando uscì la prima volta, forse nel 1912). Goethe aveva ragione nel rigettare la leggenda del «lazzaronismo» organico dei napoletani e nel notare che essi invece sono molto attivi e industriosi. La quistione consiste però nel vedere quale risultato effettivo abbia questa industriosità: essa non è produttiva, e non è rivolta a soddisfare le esigenze di classi produttive. Napoli è una città dove i proprietari terrieri del Mezzogiorno spendono la rendita agraria: intorno a decine di migliaia di queste famiglie di proprietari, di più o meno importanza economica, con la loro corte di servi e di lacché immediati, si costituisce una buona parte della città, con le sue industrie artigianesche, i suoi mestieri ambulanti, lo sminuzzamento incredibile dell’offerta immediata di merci o servizi agli sfaccendati che circolano nelle strade. Un’altra parte importante è costituita dal commercio all’ingrosso e dal transito. L’industria «produttiva» è una parte relativamente piccola. Questa struttura di Napoli (sarebbe molto utile avere dei dati precisi) spiega molta parte della storia di Napoli città.

Il fatto di Napoli si ripete per Palermo e per tutta una serie di città medie e anche piccole, non solo del Mezzogiorno e delle isole, ma anche dell’Italia centrale (Toscana, Umbria, Roma) e persino di quella settentrionale (Bologna, in parte, Parma, Ferrara ecc.). (Quando un cavallo caca, cento passeri fanno il pasto).

Media e piccola proprietà terriera in mano non a contadini coltivatori, ma a borghesi della cittaduzza o del borgo che la danno a mezzadria primitiva (cioè affitto in natura) o in enfiteusi. Questo volume enorme di piccola o media borghesia di «pensionati» e «redditieri» ha creato nella letteratura economica italiana la figura mostruosa del «produttore di risparmio» così detto, cioè di una classe numerosa di «usurai» che dal lavoro primitivo di un numero determinato di contadini trae non solo il proprio sostentamento, ma ancora riesce a risparmiare.

Le pensioni di Stato: uomini relativamente giovani e ben portanti che dopo 25 anni di impiego statale (qualche volta a 45 anni e con buonissima salute) non fanno più nulla, ma vivacchiano con le 500-600‑700 lire di pensione. In una famiglia si fa un prete che diventa canonico: il lavoro manuale diventa «vergognoso». Tutt’al più il commercio. La composizione della popolazione italiana è stata già resa «malsana» dall’emigrazione e dalla scarsa occupazione delle donne nei lavori produttivi. Il rapporto tra popolazione «potenzialmente» attiva e quella passiva è uno dei più sfavorevoli (vedere studio del Mortara nelle Prospettive Economiche del 1922 e forse ricerche successive): esso è ancora più sfavorevole se si tiene conto: 1) delle malattie endemiche (malaria ecc.) che diminuiscono la forza produttiva; 2) della denutrizione cronica di molti strati inferiori contadineschi (come risulta dalle ricerche di Mario Camis nella «Riforma Sociale» del 1926 — primo o secondo fascicolo —, le cui medie nazionali dovrebbero essere scomposte per medie di classi; ma la media nazionale raggiunge appena lo standard fissato dalla scienza e quindi è ovvia la conclusione di una denutrizione cronica di certi strati. Nella discussione al Senato del bilancio preventivo per le finanze del 1929‑30 l’on. Mussolini riconobbe che in alcune regioni la popolazione vive intere stagioni di sole erbe: vedere); 3) della disoccupazione endemica di alcune regioni agrarie che non risulta dai censimenti; 4) di questa massa di popolazione assolutamente parassitaria (volissima), che per i suoi servizi domanda l’occupazione di altra ingente popolazione; e di quella semiparassitaria, che cioè moltiplica in modo anormale (dato un certo tipo di società) determinate attività, come il commercio.

Questa situazione non si presenta solo in Italia; in misura notevole si presenta in tutta Europa, più in quella meridionale, sempre meno verso il Nord. (In India e in Cina deve essere ancor più anormale che in Italia e ciò spiega il ristagno della storia).

L’America senza «tradizione», ma anche senza questa cappa di piombo: questa una delle ragioni della formidabile accumulazione di capitali, nonostante i salari relativamente migliori di quelli europei. La non esistenza di queste sedimentazioni vischiose delle fasi storiche passate ha permesso una base sana all’industria e specialmente al commercio e permette sempre più la riduzione dei trasporti e del commercio a una reale attività subalterna della produzione, coll’assorbimento di questa attività da parte dell’industria stessa (vedi Ford e quali «risparmi» abbia fatto sui trasporti e sul commercio assorbendoli). Questa «razionalizzazione» preliminare delle condizioni generali della produzione, già esistente o facilitata dalla storia, ha permesso di razionalizzare la produzione, combinando la forza (— distruzione del sindacalismo —) con la persuasione (— salari e altri benefizi —); per collocare tutta la vita del paese sulla base dell’industria. L’egemonia nasce dalla fabbrica e non ha bisogno di tanti intermediari politici e ideologici. Le «masse» di Romier sono l’espressione di questo nuovo tipo di società, in cui la «struttura» domina più immediatamente le soprastrutture e queste sono razionalizzate (semplificate e diminuite di numero). Rotary Club e Massoneria (il Rotary è una massoneria senza i piccoli borghesi). Rotary — America = Massoneria — Europa. YMCA — America = gesuiti — Europa.

Tentativi dell’YMCA in Italia: episodio Agnelli — tentativi di Agnelli verso l’«Ordine Nuovo» che sosteneva un suo «americanismo». In America c’è l’elaborazione forzata di un nuovo tipo umano: ma la fase è solo iniziale e perciò (apparentemente) idillica. È ancora la fase dell’adattamento psico‑fisico alla nuova struttura industriale, non si è verificata ancora (se non sporadicamente, forse) alcuna fioritura «superstrutturale», quindi non è ancora stata posta la quistione fondamentale dell’egemonia: la lotta avviene con armi prese dall’arsenale europeo e ancora imbastardito, quindi appaiono e sono «reazionarie».

La lotta che c’è stata in America (descritta dal Philip) è ancora per la proprietà del mestiere, contro la «libertà industriale», cioè come quella che si è avuta in Europa nel secolo XVIII, sebbene in altre condizioni. L’assenza della fase europea segnata come tipo dalla Rivoluzione francese, in America, ha lasciato gli operai ancora grezzi.

In Italia abbiamo avuto un inizio di fanfara fordistica (esaltazione della grande città — la grande Milano ecc. — il capitalismo è ancora ai suoi inizi ecc., con messa in programma di piani urbanistici grandiosi: vedi «Riforma Sociale» — articoli di Schiavi).

Conversione al ruralismo e all’illuministica depressione delle città: esaltazione dell’artigianato e del patriarcalismo, accenni di «proprietà del mestiere» e di lotta contro la «libertà industriale» (vedi accenno fatto criticamente da U. Ricci in lettera ai «Nuovi Studi»): in ogni caso non «mentalità» americanistica.

Il libro del De Man è legato a questa quistione. È una reazione alle due forze storiche maggiori del mondo.

Q1 §62 Quistione sessuale. Ossessione della quistione sessuale. «Pericoli» di questa ossessione. Tutti i «progettisti» risolvono la quistione sessuale. Notare come nelle «utopie» la quistione sessuale abbia larghissima parte, spesso prevalente (l’osservazione di Croce che le soluzioni del Campanella nella Città del Sole non possono spiegarsi coi bisogni sessuali dei contadini calabresi). Gli istinti sessuali sono quelli che hanno subito la maggiore «repressione» da parte della società in sviluppo. Il loro «regolamento» sembra il più «innaturale», quindi più frequenti in questo campo i richiami alla «natura». La letteratura «freudistica» ha creato un nuovo tipo di «selvaggio» settecentesco sulla base «sessuale» (inclusi i rapporti tra padri e figli).

Distacco tra città e campagna. In campagna avvengono i reati sessuali più mostruosi e più numerosi. Nell’inchiesta parlamentare sul Mezzogiorno si dice che in Abruzzo e Basilicata (maggiore patriarcalismo e maggiore fanatismo religioso) si ha l’incesto nel 30% delle famiglie. In campagna molto diffuso il bestialismo.

La sessualità come funzione riproduttiva e come «sport»: ideale estetico femminile da riproduttrice a ninnolo; ma non è solo in città che la sessualità è diventata uno «sport»; i proverbi popolari — l’uomo è cacciatore, la donna è tentatrice; chi non ha di meglio, va a letto con la moglie — mostrano la diffusione dello «sport». La funzione «economica» della riproduzione non è solo legata al mondo economico produttivo, è anche interna; «il bastone della vecchiaia» mostra la coscienza istintiva del bisogno «economico» che ci sia un certo rapporto tra giovani e vecchi, tra lavoratori attivi e parte passiva della popolazione; lo spettacolo di come sono bistrattati nei villaggi i vecchi e le vecchie senza figliolanza spinge le coppie a desiderare figli; i vecchi senza figli sono trattati come i «bastardi».

I progressi dell’igiene pubblica che hanno elevato le medie della vita umana pongono sempre più la quistione sessuale come una «quistione economica» a sé stante, che pone dei problemi coordinati del tipo di superstruttura. L’aumento della media della vita in Francia, con la scarsa natalità, e con la ricchezza naturale del paese, pone già un aspetto di problema nazionale: le generazioni vecchie vanno mettendosi in un rapporto anormale con le generazioni giovani della stessa stirpe, e le generazioni lavoratrici si impinguano di masse straniere immigrate che modificano la base: si verifica, già come in America, una certa divisione del lavoro (mestieri qualificati per gli indigeni, oltre alle funzioni direttive e organizzative, e mestieri non qualificati per gli immigrati). Lo stesso rapporto si pone in ogni paese tra la città, a bassa natalità, e la campagna prolifica, ponendo un problema economico abbastanza grave: la vita industriale domanda un apprendissaggio in generale, un adattamento psico‑fisico a condizioni di lavoro, di nutrizione, di abitazione ecc. che non sono «naturali»: i caratteri urbani acquisiti si tramandano per ereditarietà. La bassa natalità domanda una continua spesa di apprendissaggio e porta con sé un continuo mutarsi della composizione sociale‑politica delle città, ponendo quindi anche un problema di egemonia.

La quistione più importante è la salvaguardia della personalità femminile: finché la donna non abbia veramente raggiunto una indipendenza di fronte all’uomo, la quistione sessuale sarà ricca di caratteri morbosi e bisognerà esser cauti nel trattarla e nel trarre conclusioni legislative. L’abolizione della prostituzione legale porterà con sé già molte difficoltà: oltre allo sfrenamento che succede a ogni crisi di compressione.

Lavoro e sessualità. È interessante come gli industriali americani si interessino delle relazioni sessuali dei loro dipendenti: la mentalità puritana vela però una necessità evidente: non può esserci lavoro intenso produttivo senza una regolamentazione dell’istinto sessuale.

Q1 §63 Lorianismo e Graziadei. Vedi in Croce (Materialismo storico ecc.) nota su Graziadei e il Paese di Cuccagna. Vedi nel libro di Graziadei Sindacati e salari del 1929 la alquanto comica risposta al Croce dopo quasi trent’anni. Questa risposta al Croce, alquanto gesuitica oltre che alquanto comica, è stata determinata indubbiamente dall’articolo pubblicato nel 1926 nell’«Unter dem Banner des Marxismus» su Prezzo e sovraprezzo, articolo che cominciava proprio con la citazione della nota crociana. Sarebbe interessante ricercare nelle produzioni di Graziadei i possibili accenni al Croce: non ha veramente mai risposto, neppure indirettamente? Eppure la pizzicata era forte! In ogni modo, l’«ossequio» all’autorità scientifica del Croce espresso con tanta unzione, dopo trent’anni, è veramente comico. Il motivo del Paese di Cuccagna rintracciato dal Croce in Graziadei è inoltre interessante perché colpisce una sotterranea corrente di romanticismo popolare creata dal «culto della scienza» dalla «religione del progresso» e dall’ottimismo generale del secolo XIX. In questo senso è da vedere se non sia legittima la reazione del Marx che con la «legge tendenziale della caduta del saggio del profitto» e col «catastrofismo» gettava molta acqua sul fuoco: è da vedere anche quanto queste correnti ottimistiche abbiano impedito una analisi più accurata delle proposizioni di Marx.

Queste osservazioni riconducono alla quistione della «utilità» o meno di tutte le  sul lorianismo. A parte il fatto di un «giudizio» spassionato sull’opera complessiva di Loria e della «ingiustizia» di mettere solo in rilievo le manifestazioni strampalate del suo ingegno, che può essere discusso a sé, rimane per giustificare queste notazioni una serie di ragioni. Gli autodidatti sono specialmente portati, per l’assenza in loro di un abito scientifico e crltico, a fantasticare di paesi di Cuccagna e di facili soluzioni di ogni problema. Come reagire? La soluzione migliore sarebbe la scuola, ma è una soluzione di lunga attesa, specialmente per grandi masse di uomini. Bisogna dunque colpire, per intanto, la «fantasia» con dei tipi di ilotismo intellettuale, che creino l’avversione per il disordine intellettuale (e il senso del ridicolo). Questa avversione è ancora poco, ma è già qualcosa per instaurare un ordine intellettuale indispensabile. Come mezzo pedagogico è molto importante.

Ricordare episodi tipici: l’Interplanetaria del 16‑17 di Rab.; episodio del «moto perpetuo» nel 25, mi pare; tipi del 19‑20: quistione degli affitti (Pozzoni di Como ecc.). La mancanza di sobrietà e di ordine intellettuale porta anche al disordine morale. La quistione sessuale porta, con le sue fantasticherie, molti disordini: poca partecipazione delle donne alla vita collettiva, attrazione di farfalloni postribolari verso iniziative serie ecc. (Ricordare episodio narrato da Cecilia De Tourmay: potrebbe essere vero, perché è verosimile: ho sentito dire che a Napoli, quando c’erano riunioni femminili, si precipitavano subito i liberoamoristi coi loro opuscoli neomaltusiani ecc.). Tutti i più ridicoli fantasticatori si precipitano sui movimenti nuovi, per spacciare le loro fanfaluche di geni finallora incompresi, gettando lo scredito. Ogni collasso porta con sé disordine intellettuale e morale. Bisogna creare gente sobria, paziente, che non disperi dinanzi ai peggiori orrori e non si esalti a ogni sciocchezza. Pessimismo dell’intelligenza, ottimismo della volontà.

Q1 §64 Lorianismo e G. Ferrero. Ricordare gli spropositi contenuti nella prima edizione delle sue storie: la misura lineare itineraria persiana confusa con  una regina di cui si fa la biografia ecc.

Q1 §65 Riviste tipo: «Osservatore» del Gozzi. A questo tipo appartengono anche, nelle forme moderne, le riviste umoristiche, che, a loro modo, vorrebbero essere di critica del costume. Le pubblicazioni tipo «Cri de Paris», «Fantasio», «Charivari». Per alcuni aspetti rientrano in questo tipo i così detti «elzeviri» o «corsivi» dei giornali quotidiani.

La «Frusta letteraria» del Baretti fu una forma intermedia: bibliografia universale, critica del contenuto, con tendenze moralizzatrici (critica dei costumi, dei modi di vedere, dei punti di vista). «Lacerba» di Papini, per la parte non «artistica», era anch’essa di questo tipo, a tendenze «satanistiche» (Gesù Peccatore, Viva il maiale, Contro la famiglia ecc. di Papini; Giornale di Bordo di Soffici; Elogio della prostituzione ecc. di Tavolato). Questo tipo generale appartiene alla sfera del «buon senso» o «senso comune»: cerca di modificare l’opinione media di una certa società, criticando, suggerendo, correggendo, svecchiando, introducendo nuovi «luoghi comuni». Se sono ben scritte, con «verve», con un certo distacco, ma tuttavia con interesse per l’opinione media, esse possono avere grande diffusione ed esercitare una funzione importantissima. Non devono avere nessuna «mutria», né scientifica, né moralisteggiante, non devono essere «filistee» e accademiche, insomma, né apparire fanatiche o soverchiamente partigiane: devono porsi nel campo stesso del «senso comune» distaccandosene quel tanto che permette il sorriso canzonatorio, ma non il disprezzo o la superiorità altezzosa.

«La Pietra», motto dantesco dalle rime della Pietra: «così nel mio parlar voglio esser aspro». «La Compagnia della Pietra». Ogni strato sociale ha il suo «senso comune» che è in fondo la concezione della vita e la motale più diffusa. Ogni corrente filosofica lascia una sedimentazione di «senso comune»: è questo il documento della sua effettualità storica. Il senso comune non è qualcosa di irrigidito e immobile, ma si trasforma continuamente, arricchendosi di nozioni scientifiche e opinioni filosofiche entrate nel costume. Il «senso comune» è il folklore della «filosofia» e sta di mezzo tra il «folklore» vero e proprio (cioè come è inteso) e la filosofia, la scienza, l’economia degli scienziati. Il «senso comune» crea il futuro folklore, cioè una fase più o meno irrigidita di un certo tempo e luogo. (Occorrerebbe fissare bene questi concetti, ripensandoli a fondo).

Q1 §66 Colonie italiane. Nel «Diritto Ecclesiastico» diretto, fra gli altri, dal prof. Cesare Badii dell’Università di Roma e da Amedeo Giannini, consigliere di Stato, del marzo‑aprile 1929, è pubblicato un articolo dell’avv. prof. Arnaldo Cicchitti: La S. Sede nelle Colonie italiane dopo il Concordato con il Regno, nel quale due volte, a p. 138 e a p. 139, si pone l’Albania fra le colonie italiane. L’autore rimanda (in materia, se sia applicabile alla religione cattolica apostolica romana il trattamento nelle Colonie concesso agli altri culti) a suoi studi pubblicati nella «Rivista di diritto pubblico» 1928 (pp. 126‑31) e 1929 (pp. 141‑57) e nella «Rivista delle Colonie Italiane» 1929: sarebbe interessante vedere se anche in questi l’Albania è considerata colonia.

Q1 §67 A proposito del matrimonio religioso con validità civile è interessante notare che da alcuni estratti della succitata rivista mi pare risulti che il Diritto Canonico e il Tribunale della Sacra Rota concedono lo scioglimento del matrimonio (se non ci sono figli) con abbastanza larghezza, purché si abbiano amici compiacenti che testimonino e i due coniugi siano concordi (oltre ai quattrini da spendere). Ne risulterà una situazione di favore per i cattolici.

Q1 §68 La quistione sessuale e la Chiesa cattolica. Elementi dottrinari. Il canone 1013 dice: «Matrimonii finis primarius est procreatio atque educatio prolis; secundarius mutuum adiutorium et remedium concupiscentiae». I giuristi discutono sull’«essenza» del matrimonio cattolico, distinguendo fra fine primario e oggetto (primario?): fine è la procreazione, oggetto la copula. Il matrimonio rende «morale» la copula attraverso il mutuo consenso dei coniugi; mutuo consenso espresso senza condizioni limitative. Il paragone con altri contratti (per es. di compravendita) non regge, perché il fine del matrimonio è nel matrimonio in se stesso: il paragone reggerebbe se il marito o la moglie acquistasse diritti di schiavitù sull’altro, cioè potesse disporne come di un bene (ciò che avviene, in parte, per la non riconosciuta uguaglianza giuridica dell’uomo e della donna; in ogni caso non per la persona fisica).

Il canone 1015 indica ciò che «consuma» il contratto matrimoniale: è l’atto «quo coniuges fiunt una caro»: «Matrimonium baptizatorum validum dicitur ratum, si nondum consummatione completum est; ratum et consummatum si inter coniuges locum habuerit coniugalis actus, ad quem natura sua ordinatur contractus matrimonialis et quo coniuges fiunt una caro». Il significato di «una caro» è assunto da una frase di Cristo, che la ripete dal Genesi: «Non legistis quia fecit hominem ab initio, masculum et feminam fecit eos et dixit: propterea dimittet homo patrem suum et matrem, et adhaerebit uxori suae et erunt duo in carne una? Itaque jam non sunt duo, sed una caro. Qued ergo Deus coniunxit, homo non separet» (Matteo, XIX, 4‑7). Cioè essa è la copula, non il figlio (che non può essere disgiunto, perché materialmente uno). Il Genesi (II, 21-24) dice: «Dixitque Adam: haec vocabitur virago, quoniam de viro sumpta est. Quamobrem relinquet homo patrem suum et matrem et adhaerebit uxori suae et erunt duo in carne una». (Sarebbe da vedere se questi elementi possono essere interpretati come giustificanti l’indissolubilità del matrimonio, per cui sono stati rivolti, come contributo della religione cristiana all’introduzione della monogamia, o non significassero in origine solo l’unione sessuale, cioè si contrapponessero alle tendenze «pessimistiche» della «purità» con l’astensione sessuale. Insomma si riferirebbero ai sessi in generale, che sono indissolubili e non a Pietro, Paolo, Giovanni uniti con Caterina, Maria, Serafina). Canone 1082 Q1 § 2° «Consensus matrimonialis est actus voluntatis quo utraque pars tradit et acceptat ius in corpus, perpetuum et exclusivum, in ordine ad actus per se aptos ad prolis generationem».

Il Q1 § 1° dello stesso dice: «Ut matrimonialis consensus haberi possit, necesse est ut contrabentes saltem non ignorent matrimonium esse societatem permanentem inter virum et mulierem ad filios procreandos» (dovrebbe giustificare e anzi imporre l’educazione sessuale, perché il presumere che si sappia praticamente significa solo che si è certi che l’ambiente compie questa educazione: è cioè una semplice ipocrisia e si finisce col preferire le nozioni saltuarie e «morbose» alle nozioni «metodiche» e educative). In qualche parte esiste esistevaVariante interlineare. la convivenza sessuale di prova e solo dopo la fecondazione avviene avvenivaa il matrimonio (per esempio in piccoli paesi come Zuri, Soddi, ecc. dell’ex circondario di Oristano): era un costume ritenuto moralissimo e che non sollevava obbiezioni, perché non aveva determinato abusi, né da parte delle famiglie né da parte del clero: in quei paesi anche matrimoni molto precoci; fatto legato al regime della proprietà sminuzzata, che domanda più di un lavoratore, ma non permette lavoro salariato. Can. 1013 Q1 § 2°: «essentiales matrimonii proprietates sunt untas ac indissolubilitas, quae in matrimonio christiano peculiarem obtinent firmitatem ratione sacramenti» ». Genesi (1, 27‑28):

«Masculum et feminam creavit eos, benedixitque illis Deus et ait: Crescite et multiplicamini et replete terram».

Q1 §69 Il premio Nobel. Filippo Crispolti ha raccontato in un numero del «Momento» del giugno 1928 (della prima quindicina) che quando nel 1906 si pensò in Svezia di conferire il premio Nobel a Giosuè Carducci, nacque il dubbio che un simile premio al cantore di Satana potesse suscitare scandalo tra i cattolici: chiesero informazioni al Crispolti che le dette per lettera e in un colloquio col ministro svedese a Roma, De Bildt. Le informazioni furono favorevoli. Così il premio Nobel al Carducci sarebbe stato dato da Filippo Crispolti.

Q1 §70 «Impressioni di prigionia» di Jacques Rivière, pubblicate nella «Nouvelle Revue Française» nel terzo anniversario della morte dell’autore (ne riporta alcuni estratti «La Fiera Letteraria» del 1° aprile 1928).

Dopo una perquisizione nella cella: gli hanno tolto fiammiferi, carta da scrivere e un libro: le conversazioni di Goethe con Eckermann, e delle provviste alimentari non permesse. «Penso a tutto ciò di cui mi hanno derubato: sono umiliato, pieno di vergogna, orribilmente spogliato. Conto i giorni che mi restano da «tirare» e, benché tutta la mia volontà sia tesa in questo senso, non sono più così sicuro di arrivare sino in fondo. Questa lenta miseria logora più che le grandi prove. ... Ho l’impressione che dai quattro punti cardinali si possa venirmi addosso, entrare in questa cella, entrare in me, in ogni momento, strapparmi ciò che ancora mi rimane e lasciarmi in un angolo, una volta di più, come una cosa che più non serve, depredato, violato. Non conosco nulla di più deprimente che questa attesa del male che si può ricevere, unita alla totale impotenza di sottrarsi ad esso. ... Con gradazioni e sfumature tutti conoscono questa stretta al cuore, questa profonda mancanza di sicurezza interiore, questo senso di essere incessantemente esposto senza difesa a tutti gli accidenti, dal piccolo fastidio di alcuni giorni di prigione alla morte inclusa. Non vi è rifugio: non scampo, non tregua soprattutto. Non rimane altro che offrire il dorso, che rimpicciolirsi quanto è possibile. ... Una vera timidità generale s’era impadronita di me, la mia immaginazione non mi presentava più il possibile con quella vivacità che gli conferisce in anticipo l’aspetto di realtà: in me era inaridita l’iniziativa. Credo che mi sarei trovato davanti alle più belle occasioni di fuga senza saperne approfittare; mi sarebbe mancato quel non so che, che aiuta a colmare l’intervallo fra ciò che si vede e ciò che si vuol fare, fra le circostanze e l’atto che ne rende padroni; non avrei più avuto fede nella mia buona sorte: la paura mi avrebbe fermato».

Il pianto in carcere: gli altri sentono se il pianto è «meccanico» o «angoscioso». Reazione diversa quando qualcuno grida: «Voglio morire». Collera e sdegno o semplice chiasso. Si sente che tutti sono angosciati quando il pianto è sincero. Pianto dei più giovani. L’idea della morte si presenta per la prima volta (si diventa vecchi d’un colpo).

Q1 §71 Il padre Gioacchino Ventura. Libro di Anna Cristofoli: Il pensiero religioso di Padre Gioacchino Ventura, Milano, Soc. Ed. «Vita e pensiero», 1927, in 8°, pp. 158. Recensione in «Fiera Letteraria» del 15 gennaio 1928 di Guido Zadei, molto severa. Il Ventura, frate siciliano, avrebbe subito l’influenza del Bonald, del Lamennais, del De Maistre. Lo Zadei cita un volume del Rastoul, Le Père Ventura, Parigi, 1906, in 16°, pp. 189. (Clero e intellettuali). (L’influenza del Lamennais).

Q1 §72 I nipotini di padre Bresciani. Arte cattolica. Lo scrittore Edoardo Fenu in un articolo Domande su un’arte cattolica pubblicato sull’«Avvenire d’Italia» e riassunto nella «Fiera Letteraria» del 15 gennaio 1928 rimprovera a «quasi tutti gli scrittori cattolici» il tono apologetico. «Ora la difesa (!) della fede deve scaturire dai fatti, dal processo critico (!) e naturale del racconto, deve cioè essere, manzonianamente il «sugo» dell’arte stessa. È evidente (!) che uno scrittore cattolico per davvero, non andrà mai a battere la fronte contro le pareti opache dell’eresia, morale o religiosa. Un cattolico per il solo fatto di essere tale, è già investito di quello spirito semplice e profondo che, trasfondendosi nelle pagine di un racconto o di una poesia, farà della sua (!) un’arte schietta, serena, nient’affatto pedante. È dunque (!) perfettamente inutile intrattenersi a ogni svolto di pagina a fare capire che lo scrittore ha una strada da farci percorrere, ha una luce per illuminarci. L’arte cattolica dovrà (!) mettersi in grado di essere essa medesima quella strada e quella luce, senza smarrirsi nella fungaia degli inutili predicozzi e degli oziosi avvertimenti». (In letteratura «... se ne togli pochi nomi, Papini, Giuliotti, e in certo senso anche Manacorda, il bilancio è pressoché fallimentare. Scuole?... ne verbum quidem. Scrittori? Sì; a voler essere di manica larga si potrebbe tirar fuori qualche nome, ma quanto fiato per trarlo cogli argani! A meno che non si voglia patentare per cattolico il Gotta, o dar la qualifica di romanziere al Gennari, o battere un applauso a quella caterva innumere di profumati e agghindati scrittori e scrittrici per «signorine» »).

Molte contraddizioni e improprietà: ma la conclusione è giusta: la religione è sterilità per l’arte, almeno nei religiosi. Cioè non esistono più «anime semplici e sincere» che siano artisti. Il fatto è già antico: risale al Concilio di Trento e alla Controriforma. «Scrivere» era pericoloso, specialmente di cose e sentimenti religiosi. La chiesa da quel tempo ha usato un doppio metro: essere «cattolici» è diventato cosa facilissima e difficilissima nello stesso tempo. È cosa facilissima per il popolo al quale non si domanda che di credere genericamente e di avere ossequio per la chiesa. Nessuna lotta reale contro le superstizioni pagane, contro le deviazioni ecc. In realtà tra un contadino cattolico, uno protestante e uno ortodosso non c’è differenza «religiosa», c’è solo differenza «ecclesiastica». È difficilissimo invece essere intellettuale attivo «cattolico» e artista «cattolico» (romanziere specialmente e anche poeta), perché si domanda un tale corredo di nozioni su encicliche, controencicliche, brevi, lettere apostoliche ecc. e le deviazioni storiche dall’indirizzo chiesastico sono state tante e così sottili che cadere nell’eresia o nella mezza eresia o in un quarto di eresia è facilissimo. Il sentimento religioso schietto è stato disseccato: occorre essere dottrinari per scrivere «ortodossamente». Perciò nell’arte la religione non è più un sentimento, è solo un motivo, uno spunto. E la letteratura cattolica può avere solo padri Bresciani, non più S. Franceschi o Passavanti o Tommaso da Kempis. Può essere «milizia», propaganda, agitazione, non più ingenua effusione di sentimenti. O non è cattolica: vedi la sorte di Fogazzaro.

Q1 §73 La letteratura italiana moderna del Crémieux. La«Fiera Letteraria» del 15 gennaio 1928 riassume un articolo di G. Bellonci, sul «Giornale d’Italia» abbastanza scemo e spropositante. Il Crémieux sostiene che in Italia manca una lingua moderna, ciò che è giusto in un senso molto preciso: 1°) che non esiste una classe colta italiana unitaria, che parli e scriva una lingua «viva» unitaria; 2°) che tra la classe colta e il popolo c’è una grande distanza: la lingua del popolo è ancora il dialetto, col sussidio di un gergo italianizzante che è in gran parte il dialetto tradotto meccanicamente. Esiste un forte influsso dei vari dialetti nella lingua scritta, perché anche la classe colta parla la lingua in certi momenti e il dialetto nella parlata famigliare, cioè in quella più viva e più aderente alla realtà immediata. Così la lingua è sempre un po’ fossilizzata e paludata e quando vuol essere famigliare, si frange in tanti riflessi dialettali. Oltre il tono del discorso (il cursus del periodo) che caratterizza le regioni, c’è anche il lessico, la morfologia e specialmente la sintassi. Il Manzoni «sciacquò» in Arno il suo tesoro lessicale, meno la morfologia, e quasi nulla la sintassi, che è più connaturata allo stile e quindi alla coltura personale artistica. Anche in Francia ciò si verifica tra Parigi e la Provenza, ma in misura minore; in un confronto tra A. Daudet e Zola è stato trovato che Daudet non conosce quasi più il passato remoto etimologico, sostituito dall’imperfetto, ciò che non si verifica in Zola che in misura minima.

Il Bellonci scrive: «Sino al cinquecento le forme linguistiche scendono dall’alto, dal seicento in poi salgono dal basso». Sproposito madornale, per superficialità. Proprio fino al 500 Firenze esercita l’egemonia culturale, perché esercita un’egemonia economica (papa Bonifacio VIII diceva che i fiorentini erano il quinto elemento della terra) e c’è uno sviluppo dal basso, dal popolo alle persone colte. Dopo la decadenza di Firenze, l’italiano è la lingua di una casta chiusa, senza contatto con una parlata storica. Non è questa forse la quistione posta dal Manzoni, di ritornare all’egemonia fiorentina e ribattuta dall’Ascoli che, storicista, non crede alle egemonie linguistiche per decreto legge, senza la struttura economico‑culturale?

La domanda del Bellonci: «Negherebbe forse, il Crémieux, che esista (che sia esistita, vorrà dire) una lingua greca perché vi hanno da essa varietà doriche, joniche, eoliche? » è veramente comica e mostra come egli non abbia capito il Crémieux.

Q1 §74 Stracittà e strapaese. Elementi presi dalla «Fiera Letteraria» del 15 gennaio 1928. Di Papini: «La città non crea, ma consuma. Com’è l’emporio dove affluiscono i beni strappati ai campi e alle miniere, così vi accorrono le anime più fresche delle province e le idee dei grandi solitari. La città è come un rogo che illumina perché brucia ciò che fu creato lontano da lei e talvolta contro di lei. Tutte le città sono sterili. Vi nascono in proporzione pochi figlioli e quasi mai di genio. Nelle città si gode, ma non si crea, si ama ma non si genera, si consuma ma non si produce». Tutto l’altro è ancor più settecentesco.

Nello stesso numero della «Fiera Letteraria» si trovano questi altri accenni: «Il nostro arrosto strapaesano si presenta con questi caratteri: avversione decisa a tutte quelle forme di civiltà che non si confacciano alla nostra o che guastino, non essendo digeribili, le doti classiche degli italiani; poi: tutela del senso universale del paese, che è, per dirla alla spiccia, il rapporto naturale e immanente fra l’individuo e la sua terra; infine, esaltazione delle caratteristiche nostrane, in ogni campo e attività della vita, e cioè: fondamento cattolico, senso religioso del mondo, semplicità e sobrietà fondamentali, aderenza alla realtà, dominio della fantasia, equilibrio fra spirito e materia»; e quest’altro di Francesco Meriano (pubblicato nell’«Assalto»): «Nel campo filosofico, io credo di trovare invece una vera e propria antitesi: che è l’antitesi, vecchia di oltre cento anni e sempre vestita di nuovi aspetti, tra il volontarismo il pragmatismo l’attivismo identificabile nella stracittà e l’illuminismo il razionalismo lo storicismo identificabile nello strapaese».

Q1 §75 Intellettuali siciliani. È interessante il gruppo del «Ciclope» di Palermo. Mignosi, Pignato, Sciortino ecc. Relazioni di questo gruppo con Piero Gobetti.

Q1 §76 La crisi dell’«Occidente». La «Fiera Letteraria» del 29 luglio 1928 riporta alcuni brani di un articolo di Filippo Burzio sulla «Stampa». Si parla oggi dell’Occidente come qualche secolo addietro si parlava della «Cristianità». È esistita una prima unità dell’Occidente, quella cristiano‑cattolica medioevale; un primo scisma, o crisi, la Riforma con le guerre di religione. Dopo la Riforma, dopo due secoli, o quasi, di guerre di religione, si realizzò di fatto, in Occidente, una seconda unità, di altra indole, permeando di sé profondamente tutta la vita europea e culminando nei secoli XVIII e XIX: né le resistenze che incontrò la infirmarono, più che le eresie medioevali non abbiano infirmata la prima. È questa nuova unità che è in crisi (il Burzio è in polemica implicita coi cattolici, i quali vorrebbero appropriarsi la «cura» della crisi, come se questa si verificasse nel loro terreno ed essi ne fossero gli antagonisti reali, mentre sono i rottami o i fossili di una unità storica già definitivamente superata). Essa poggia su tre piloni: lo spirito critico, lo spirito scientifico, lo spirito capitalistico (forse sarebbe meglio dire «industriale»). I due ultimi sono saldi (se «capitalismo» = «industrialismo» sì), il primo invece non lo è più, e perciò le élites spirituali di Occidente soffronono di squilibrio e di disarmonia fra la coscienza critica e l’azione (sarebbe sempre la crisi dello «storicismo» per l’opposizione tra «sentimento», «passione» e coscienza critica). Come sostegno al fare, come aiuto al vivere, l’imperativo filosofico è grigio e vuoto quanto il solidarismo scientifico. In questo vuoto l’anima boccheggia e ne sa qualche cosa l’ispirazione poetica, che si è andata facendo sempre più tetra o febbrile. Quasi nessun giorno interiore al nostro tempo è lieto (ma questa crisi non è piuttosto legata alla caduta del mito del progresso indefinito e all’ottimismo che ne dipendeva, cioè a una forma di religione, piuttosto che alla crisi dello storicismo e della coscienza critica? In realtà la «coscienza critica» era ristretta a una piccola cerchia, egemonica, sì, ma ristretta; l’«apparato di governo» spirituale si è spezzato, e c’è crisi, ma essa è anche di diffusione, ciò che porterà a una nuova «egemonia» più sicura e stabile). Dobbiamo salvare l’Occidente integrale; tutta la conoscenza, con tutta l’azione. L’uomo ha voluto navigare, e ha navigato; ha voluto volare, ed ha volato; da tanti secoli che pensa Dio, non dovrà servire a niente? Albeggia, emerge, dalla creatura la mentalità del creatore. Se non si può scegliere tra i vari modi di vita, perché specializzarsi vorrebbe dire mutilarsi, non rimane che fare tutto. Se l’antica religione sembri esausta, non rimane che ringiovanirla. Universalità, interiorità, magicità. Se Dio si cela, resta il demiurgo. Uomo dell’Occidente hic res tua agitur. (Notare come da poli opposti, B. Croce e F. Burzio resistono alla ondata della nuova «religiosità» antistoricistica).

Q1 §77 Clero e intellettuali. Numero commemorativo di «Vita e Pensiero» per il 25° anniversario della morte di Leone XIII. Utile l’articolo di padre Gemelli su «Leone XIII e il movimento intellettuale». Papa Leone è legato, nel campo intellettuale, alla rinnovazione della filosofia cristiana, all’indirizzo negli studi sociali, all’impulso dato agli studi biblici. Tomista, l’idea ispiratrice di Leone XIII fu questa: «ricondurre il mondo ad una dottrina fondamentale grazie alla quale l’intelligenza sia resa di nuovo capace di indicare all’uomo la verità che egli deve riconoscere e ciò non solo preparando la via alla fede, ma dando all’uomo il mezzo di orientarsi in modo sicuro su tutti i problemi della vita. Leone XIII presentava così al popolo cristiano una filosofia, la dottrina scolastica, non come un quadro del sapere, stretto, immobile ed esclusivo, ma come un organismo di pensiero vivo, suscettibile di arricchirsi del pensiero di tutti i dottori e di tutti i padri, capace di armonizzare la speculazione della teologia razionale con i dati della scienza positiva, condizione per stimolare e armonizzare la ragione e la fede; la scienza profana e la sacra; la filosofia e la teologia; il reale e l’ideale; il passato e le scoperte dell’avvenire, l’orazione e l’azione, la vita interiore e la vita sociale, i doveri dell’individuo e della società; i doveri verso Dio e verso l’uomo».

Leone XIII ha rinnovato completamente l’Azione Cattolica. Ricordare che l’enciclica Rerum Novarum è quasi simultanea al Congresso di Genova, cioè al passaggio del movimento operaio italiano dal primitivismo a una fase realistica e concreta, sebbene ancora confusa e indistinta. La neo scolastica ha permesso l’alleanza del cattolicesimo col positivismo (Comte, da cui Maurras). Nell’Azione Cattolica si è usciti dal puro astensionismo meccanico di dopo il 70 e si è iniziata una attività reale che portò allo scioglimento del 98.

Q1 §78 Bergson, il materialismo positivistico, il pragmatismo. Bergson legato al positivismo; si «ribella» contro il suo «ingenuo» dogmatismo. Il positivismo aveva avuto il merito di ridare alla cultura europea il senso della realtà esauritosi nelle antiche ideologie razionalistiche, ma poi aveva avuto il torto di chiudere la realtà nella sfera della natura morta e quindi anche di chiudere la ricerca filosofica in una specie di nuova teologia materialistica. La documentazione di questo «torto» è l’opera del Bergson. La critica del Bergson... si è addentrata, sconsacrando idoli dell’assoluto e risolvendoli in forme di contingenza fugace, per tutti i meandri del dogmatismo positivista, ha sottoposto ad un terribile esame l’intima struttura delle specie organiche e della personalità umana, ed ha infranto tutti gli schemi di quella meccanica staticità in cui il pensiero chiude il perenne fluire della vita e della coscienza.

Affermando il principio dell’eterno fluire e l’origine pratica di ogni sistema concettuale, anche le verità supreme (!) correvano rischio di dissolversi; e qui, in questa fatale tendenza è il limite (!) del Bergsonismo. (Estratti da un articolo di Balbino Giuliano riassunto dalla «Fiera Letteraria» del 25 novembre 1928).

Q1 §79 Italo Chittaro, La capacità di comando, Casa Ed. De Alberti, Rorna. Da una recensione di V. Varanini nella «Fiera Letteraria» del 4 novembre 1928, appare che in questo libro sono contenuti spunti molto interessanti. Necessità degli studi storici per la preparazione professionale degli ufficiali. Per comandare non basta il semplice buon senso: questo, se mai, è frutto di profondo sapere e di lungo esercizio. La capacità di comando è specialmente importante per la fanteria: se altrove si diventa specialisti di compiti particolari, nella fanteria si diventa specialisti nel comando, cioè del compito d’insieme: quindi necessità che tutti gli ufficiali destinati a gradi elevati abbiano tenuto comandi di fanteria. Infine considera la necessità della formazione di uno Stato Maggiore numeroso, valido, popolare alle truppe. — Libro da leggere.

Q1 §80 Il pubblico e la letteratura italiana. «Per una ragione o per l’altra si può dire che gli scrittori italiani non abbiano più pubblico. ... Un pubblico infatti vuol dire un insieme di persone, non soltanto che compra dei libri, ma soprattutto che ammira degli uomini. Una letteratura non può fiorire che in un clima d’ammirazione e l’ammirazione non è come si potrebbe credere, il compenso, ma lo stimolo del lavoro. ... Il pubblico che ammira, che ammira davvero, di cuore, con gioia, il pubblico che ha la felicità di ammirare (niente è più deleterio dell’ammirazione convenzionale) è il più grande animatore di una letteratura. Da molti segni si capisce ahimè che il pubblico sta abbandonando gli scrittori italiani». Leo Ferrero nel «Lavoro» («Fiera Letteraria» del 28 ottobre 1928).

L’ammirazione sarebbe la forma del contatto tra la nazione e i suoi scrittori. Oggi manca questo contatto, cioè la letteratura non è nazionale, perché non è popolare. Paradosso del tempo attuale. E non c’è gerarchia nella letteratura cioè manca ogni personalità eminente. Quistione del perché e di come una letteratura sia popolare. La «bellezza» non basta: ci vuole un contenuto «umano e morale» che sia l’espressione elaborata e compiuta delle aspirazioni del pubblico.

Cioè la letteratura deve essere insieme elemento attuale di cultura (civiltà) e opera d’arte (di bellezza). Altrimenti alla letteratura d’arte viene preferita la letteratura d’appendice, che, a modo suo, è un elemento di cultura, degradata se si vuole, ma attuale.

Q1 §81 Nino Daniele, D’Annunzio politico, San Paulo, 1928. Libro da leggere.

Q1 §82 I nipotini di padre Bresciani. Maddalena Santoro, L’amore ai forti. Romanzo. Bemporad, 1928.

Q1 §83 Piero Pieri, Il regno di Napoli dal luglio 1799 al marzo 1806, Napoli, Ricciardi, 1928, pp. 330, L. 25 (utile per comprendere meglio la Repubblica Partenopea attraverso la politica dei Borboni nel breve periodo della restaurazione) .

Q1 §84 Giovanni Maioli, Il fondatore della Società Nazionale, Soc. Naz. per la Storia del Risorgimento, Roma, 1928 (contiene 22 lettere di Giorgio Pallavicino e di Felice Foresti, sul periodo 1856‑58, quando il Pallavicino, presidente della Società Nazionale di cui era segretario il La Farina, lavorava a creare il blocco liberale sui due capisaldi «opinione italiana» — «esercito sardo». Una espressione del Pallavicino: «il rivoluzionario italiano, uomo fortissimo sul campo dell’azione, è troppo spesso un fanciullo in quello del pensiero»).

Notare che nell’attuale storiografia del Risorgimento, che è tendenziosissima a modo suo, si dà come «acuto realismo politico» tutto ciò che coincide col programma piemontese dei moderati: è un giudizio del senno di poi abbastanza ingenuo e poco acuto e corrisponde poi alla concezione dei «Gesta dei per Allobrogos» riverniciata e spolverata di concetti moderni.

Q1 §85 Giuseppe Solitro, Due famigerati gazzettieri dell’Austria (Luigi Mazzoldi, Pietro Perego), Padova, Draghi, 1927, L. 15. (Nella recensione pubblicata dalla «Fiera Letteraria» del 16 dicembre 1928, Guido Zadei scrive di possedere del materiale inedito e non sfruttato sul Mazzoldi e di una curiosa polemica in cui Filippo Ugoni accusa il Mazzoldi di propaganda comunista).

Q1 §86 Giovanni Crocioni, Problemi fondamentali del Folklore, Bologna, Zanichelli, 1928.

Q1 §87 Gentile e la filosofia della politica italiana. Articolo di Gentile pubblicato dallo «Spectator» del 3 novembre 1928 e ristampato su «Educazione fascista». «Filosofia che non si pensa, ma che si fa, e perciò si enuncia ed afferma non con le formule ma con l’azione». Ogni Stato ha «due» filosofie: quella che si enuncia per formule ed è una semplice arte di governo, e quella che si afferma con l’azione ed è la filosofia reale, cioè la storia. Il problema è di vedere in che misura queste due filosofie coincidono o divergono. La formula gentiliana in realtà non è che la camuffatura sofistica della «filosofia politica» più nota col nome di opportunismo ed empirismo. Se Bouvard e Pécuchet avessero conosciuto Gentile, avrebbero trovato nella sua filosofia la giusta interpretazione della loro attività rinnovatrice e rivoluzionaria (nel senso non corrotto della parola, come oggi si dice).

Q1 §88 Gioberti. Nella prefazione alle Letture del Risorgimento, il Carducci scrive: «Staccatosi dalla Giovane Italia nel 1834 tornò a quello che il Santarosa voleva e chiamava cospirazione letteraria ed egli la fece con certa sua filosofia battagliera, che molto alta portava la tradizione italiana, finché uscì nell’agone col Primato e predicando la lega dei principi riformatori, capo il pontefice, attrasse le anime timorose e gli ingegni timorosi, attrasse e rapi il giovane clero, che alla sua volta traevasi dietro il popolo credente anche della campagna». Altrove il Carducci scrive: «... l’abate italiano riformista e mezzo giacobino col Parini, soprannuotato col Cesarotti e col Barbieri alla Rivoluzione, che s’era fatto col Di Breme banditore di romanticismo e soffiatore nel carbonarismo del 21, che aveva intinto col Gioberti nelle cospirazioni e bandito il Primato d’ltalia e il Rinnovamento, che aveva col Rosmini additato le piaghe della Chiesa, che aveva coll’Andreoli e col Tazzoli salito il patibolo... ».

Q1 §89 Folklore. Il Giovanni Crocioni nel volume Problemi fondamentali del Folklore, Bologna, Zanichelli, 1928 critica come confusa e imprecisa la ripartizione del materiale folkloristico data dal Pitré nel 1897 nella premessa alla Bibliografia delle Tradizioni popolari e propone una ripartizione sua in quattro sezioni: arte, letteratura, scienza, morale del popolo. Anche questa divisione è criticata come imprecisa, mal definita e troppo lata. Il Ciampini (Raffaele) nella «Fiera Letteraria» del 30 dicembre 1928, domanda: «È essa scientifica? Come per es. farvi rientrare le superstizioni? E che vuol dire una morale del popolo? Come studiarla scientificamente? E perché, allora, non parlare anche di una religione di popolo?». Il folklore, mi pare, è stato finora studiato (in realtà finora è stato solo raccolto materiale grezzo) come elemento «pittoresco». Bisognerebbe studiarlo come «concezione del mondo» di determinati strati della società, che non sono toccati dalle correnti moderne di pensiero. Concezione del mondo non solo non elaborata e sistemizzata, perché il popolo per definizione non può far ciò, ma molteplice, nel senso che è una giustapposizione meccanica di parecchie concezioni del mondo, se addirittura non è un museo di frammenti di tutte le concezioni del mondo e della vita che si sono succedute nella storia. Anche il pensiero e la scienza moderna danno elementi al folklore, in quanto certe affermazioni scientifiche e certe opinioni, avulse dal loro complesso, cadono nel dominio popolare e sono «arrangiate» nel mosaico della tradizione (la Scoperta dell’America di Pascarella mostra come le nozioni diffuse dai manuali delle scuole elementari su Cristoforo Colombo e su altri personaggi siano assimilate bizzarramente). Il folklore può esser capito solo come riflesso delle condizioni di vita del popolo, sebbene spesso esso si prolunghi anche quando le condizioni siano modificate in combinazioni bizzarre.

Certo esiste una «religione di popolo» specialmente nei paesi cattolici e ortodossi (molto meno nei protestanti). La morale di popolo è il costume ed è strettamente legata, come la superstizione, alle sue credenze reali religiose: esistono degli imperativi, che sono molto più forti e tenaci che non quelli della morale kantiana.

Il Ciampini trova molto giusta la necessità sostenuta dal Crocioni che il folklore sia insegnato nelle scuole dove si preparavano i futuri insegnanti, ma poi nega che possa porsi la quistione della utilità del folklore (vorrà dire dello studio del folklore). Per lui il folklore (lo studio del folklore, cioè) è fine a se stesso o ha la sola utilità di offrire a un popolo gli elementi per una più profonda conoscenza di se stesso. Studiare le superstizioni per sradicarle, sarebbe per lui come se il folklore uccidesse se stesso, mentre la scienza non è che conoscenza disinteressata, fine a se stessa!!! Ma allora perché insegnate il folklore nelle scuole che preparano gli insegnanti? Per accrescere la cultura disinteressata dei maestri? Lo Stato ha una sua concezione della vita e cerca di diffonderla: è un suo compito e un suo dovere. Questa diffusione non avviene su una tabula rasa; entra in concorrenza e si urta per es. col folklore e «deve» superarlo. Conoscere il folklore significa per l’insegnante conoscere quali altre concezioni lavorano alla formazione intellettuale e morale delle generazioni giovani. Solo che bisognerebbe mutare lo spirito delle ricerche folkloristiche oltre che approfondirle: il folklore non deve essere concepito come una bizzarria, una stranezza, una cosa ridicola, una cosa tutt’al più pittoresca: ma deve essere concepito come una cosa molto seria e da prendere sul serio. Solo così l’insegnamento sarà più efficace e più formativo della cultura delle grandi masse popolari e sparirà il distacco tra cultura moderna e cultura popolare o folklore. Un lavoro di questo genere, in profondità, corrisponderebbe intellettualmente a ciò che è stata la Riforma nei paesi protestanti.

Q1 §90 La Voce e Prezzolini. L’articolo in cui Prezzolini difende la «Voce» e «rivendica di pieno diritto un posto per essa nella preparazione dell’Italia contemporanea» è citato nella «Fiera Letteraria» del 24 febbraio 1929 e quindi deve essere stato pubblicato nel «Lavoro fascista» di qualche giorno prima (nei dieci giorni tra il 14 e il 24 febbraio). L’articolo è stato provocato da una serie di articoletti della «Tribuna» contro Papini, nel quale, per il suo studio Su questa letteratura (pubblicato nel primo numero del «Pègaso») si scoprivano tracce del vecchio «protestantesimo» della «Voce». Lo scrittore della «Tribuna» ex nazionalista della prima «Idea Nazionale» non riusciva ancora a dimenticare i vecchi rancori contro la «Voce», mentre Prezzolini non ebbe il coraggio di sostenere la sua posizione d’allora. Su questo argomento Prezzolini pubblicò anche una lettera nel «Davide» che usciva irregolarmente a Torino nel 25‑26 diretto da Gorgerino. Bisogna poi ricordare il suo libro sulla Cultura Italiana del 23 e il suo volume sul «Fascismo» (in francese). Se Prezzolini avesse coraggio civile potrebbe ricordare che la sua «Voce» ha certamente molto influito su alcuni elementi socialisti ed è stata un elemento di revisionismo. Sua collaborazione e di Papini, nonché di molti vociani, al primo «Popolo d’Italia».

Q1 §91 Strapaese. Mino Maccari nella «Stampa» del 4 maggio 1929 scrive: «Quando Strapaese si oppone alle importazioni modernistiche, la sua opposizione vuol salvare il diritto di selezionarle al fine di impedire che i contatti nocivi, confondendosi con quelli che possono esser benefici, corrompano l’integrità della natura e del carattere proprii alla civiltà italiana, quintessenziata nei secoli, ed oggi anelante a una sintesi unificatrice».

Q1 §92 Sull’americanismo ha scritto un articolo Eugenio Giovannetti («Pègaso», maggio 1929, Federico Taylor e l’americanismo). Tra l’altro scrive (estratti dati dall’«Italia Letteraria» del 19 maggio): «L’energia letteraria, astratta, nutrita di retorica generalizzante, non è insomma oggi più in grado di capire l’energia tecnica, sempre più individuale ed acuta, tessuto originalissimo di volontà singolare e d’educazione specializzata. La letteratura energetica è ancora al suo Prometeo scatenato, immagine troppo comoda. L’eroe della civiltà tecnica non è uno scatenato: è un silenzioso che sa portare pei cieli la sua ferrea catena. Non è un ignorante che si goda l’aria: è uno studioso nel più bel senso classico, perché studium significava «punta viva». Mentre la civiltà tecnica o meccanistica, come volete chiamarla, elabora in silenzio questo suo tipo d’eroe incisivo, il culto letterario dell’energia non crea che un gaglioffo aereo, un acchiappanuvole scalmanato» .

È curioso che all’americanismo non si cerchi di applicare la formuletta di Gentile della «filosofia che non si enunzia in formule ma si afferma nell’azione»; è curioso e istruttivo, perché se la formula ha un valore è proprio l’americanismo che può rivendicarlo. Quando si parla dell’americanismo, invece, si trova che esso è meccanicistico, rozzo, brutale, cioè «pura azione» e gli si contrappone la tradizione ecc. Ma questa tradizione ecc. perché non viene assunta anche come base filosofica, come filosofia enunciata in formule per quei movimenti per i quali invece la «filosofia è affermata nell’azione»? Questa contraddizione può spiegare molte cose: differenza tra azione reale, che modifica essenzialmente la realtà esterna (e quindi anche la cultura reale) ed è l’americanismo, e gladiatorismo gaglioffo che si autoproclama azione e modifica solo il vocabolario non le cose, il gesto esterno non l’uomo interiore. La prima crea un avvenire che è intrinseco alla sua attività obbiettiva, e che spesso è ignorato. Il secondo crea dei fantocci perfezionati, secondo un figurino prefissato, che cadranno nel nulla appena tagliati i fili che danno loro l’apparenza del moto e della vita.

Q1 §93 I nipotini di padre Bresciani. Tommaso Gallarati Scotti, Storie dell’Amor Sacro e dell’Amor Profano. Ricordare la novella in cui si parla del falso corpo della santa portato dall’Oriente dai Crociati e le considerazioni sbalorditive dello Scotti. Dopo il frate Cipolla del Boccaccio... (Ricordare La reliquia di Eça de Queiroz tradotto dal L. Siciliani in una collezione di Rocco Carabba diretto dal Borgese: in essa è un riflesso della novella del Boccaccio). I bollandisti sono rispettabili, perché almeno hanno estirpato qualche radice di superstizione (sebbene le loro ricerche rimangano chiuse in un cerchio molto ristretto e servano più che altro per gli intellettuali, per far vedere agli intellettuali che il cattolicismo combatte le superstizioni) ma l’estetismo folkloristico dello Scotti è rivoltante. Ricordare il dialogo riportato da W. Steed tra un protestante e un Cardinale a proposito di san Gennaro e la nota di Croce su una sua conversazione con un prete napoletano su san Gennaro a proposito di una lettera di Sorel. La figura dello Scotti entra di scorcio fra i nipotini di padre Bresciani. Come appendice o complemento parallelo.

Q1 §94 Proudhon, Jahier e Raimondi. Nell’«Italia Letteraria» del 21 luglio 1929 Giuseppe Raimondi scrive: «... mi parla di Proudhon, della sua grandezza e della sua modestia, dell’influenza che le sue idee hanno esercitato nel mondo moderno, dell’importanza che queste idee hanno assunto in un mondo retto dal lavoro socialmente organizzato, in un mondo dove la coscienza degli uomini si va sempre più evolvendo e perfezionando in nome del lavoro e dei suoi interessi. Proudhon ha fatto un mito, umano e vivente, di questi poveri interessi. In me l’ammirazione per Proudhon è piuttosto sentimentale, d’istinto, come un affetto e un rispetto che io ho ereditato, che mi sono stati trasmessi nascendo. In Jahier è tutta d’intelletto, derivata dallo studio, perciò profondissima». Questo Raimondi è un discreto poseur con la sua «ammirazione ereditata». Più oltre rò un brano di un altro suo articolo, che fa spiccare ancor di più questa posa.

Q1 §95 Adriano Tilgher, Homo faber. Storia del concetto del lavoro nella civiltà occidentale, Roma, Libreria di Scienza e Lettere, 1929, L. 15.

Q1 §96 Adelchi Baratono ha scritto nel II fascicolo di «Glossa perenne» un articolo sul Novecentismo che deve essere ricchissimo di spunti «sfottendi». Tra l’altro: «L’arte e la letteratura di un tempo non può e non dev’essere (!) che quella corrispondente alla vita e al gusto del tempo, e tutte le deplorazioni, come non servirebbero a mutarne l’ispirazione e la forma, così sarebbero anche contrarie a ogni criterio storico e quindi giusto di giudicare». Ma la vita e il gusto di un tempo sono qualcosa di monolitico? E allora la «corrispondenza» come può verificarsi? Il Risorgimento era «corrisposto» dal Berchet o dal padre Bresciani? La deplorazione lamentosa e moralistica sarebbe certamente scema, ma si può fare la critica senza deplorare. De Sanctis era un partigiano deciso della rivoluzione nazionale, tuttavia seppe criticare il Guerrazzi e non solo il Bresciani. L’agnosticismo del Baratono non è altro che vigliaccheria morale e civile. (Egli riconosce impossibile, per difetto di obbiettività e universalità, il giudizio di merito sui contemporanei).

Q1 §97 Salvadori, Valli e il lorianismo. Valli e la sua interpretazione «cospiratoria» e massonica del Dolce Stil nuovo (col precedente di D. G. Rossetti e del Pascoli) e Giulio Salvadori che nei Promessi Sposi scopre il dramma di Enrichetta (Lucia) oppressa da Condorcet, Donna Giulia e il Manzoni stesso (Don Rodrigo, l’Innominato ecc.) appartengono a una branca del Lorianesimo. (Di Giulio Salvadori e della sua interpretazione vedi un articolo in «Arte e Vita» del giugno 1920 e il libro postumo Enrichetta Manzoni ‑ Blondel e il Natale del 33, Treves, 1929).

Q1 §98 Lello Gangemi, Il problema della durata del lavoro, Firenze, Vallecchi, 1929, L. 25. (Dalla breve recensione di Luigi Perla in «Italia Letteraria» del 18 agosto 1929 si ricava: il problema della durata del lavoro, passato in seconda linea dopo il miglioramento delle condizioni economiche seguito al periodo di depressione che ebbe inizio nel 1921, è ritornato ora in discussione per la crisi economica attuale. Esame della legislazione vigente in materia nei vari paesi, ponendo in luce la difficoltà di una regolamentazione uniforme. Il problema e la convenzione di Washington. Dal punto di vista dell’organizzazione scientifica del lavoro. Le pretenzioni teoriche e sociali, che hanno dominato il problema, si sono dimostrate inapplicabili nella pratica azione legislativa. Di contro alle ideologie che vorrebbero abolire le ingiustizie sociali e finiscono invece col moltiplicarle e renderle più gravi, la pratica ha confermato come la semplice riduzione delle ore lavorative non possa, da sola (!), raggiungere l’intento di una maggiore produttività e di maggiori vantaggi (!) per il lavoratore. Resta invece dimostrata la utilità di determinate un limite dello sforzo lavorativo; ma questo limite non deve essere imposto in base a ideologie astratte, ma deve risultare dalla razionale coordinazione di concetti (!) fisiologici, economici ed etici).

Q1 §99 Un famoso parabolano arruffone è Antonio Bruers, uno dei tanti tappi di sughero che salgono sulle creste melmose dei bassifondi agitati. Nel «Lavoro fascista» del 23 agosto 1929 egli dà per probabile l’affermarsi in Italia di una filosofia, «la quale, pur non rinunciando a nessuno dei valori concreti dell’idealismo, è in grado di comprendere, nella sua pienezza filosofica e sociale, l’esigenza religiosa. Questa filosofia è lo spiritualismo, dottrina sintetica (!), la quale non esclude l’immanenza, ma conferisce il primato logico (!) alla trascendenza, riconosce praticamente (!) il dualismo e quindi conferisce al determinismo, alla natura, un valore che si concilia con le esigenze dello sperimentalismo». Questa dottrina corrisponderebbe al «genio prevalente della stirpe italica» di cui il Bruers, nonostante il nome esotico, sarebbe naturalmente il coronamento storico, spirituale, immanente, trascendente, ideale, determinato, pratico e sperimentale nonché religioso.

Q1 §100 Goffredo Bellonci, Pagine e idee, Edizione Sapientia, Roma. Pare che sia una specie di storia della letteratura italiana originalmente sovvertita dal luogo comune. Questo Bellonci è proprio una macchietta del giornalismo letterario; un Bouvard delle idee e della politica, una vittima di Mario Missiroli che era già una vittima di Oriani e di Sorel.

Q1 §101 Piedigrotta. In un articolo sul «Lavoro» (8 settembre 1929) Adriano Tilgher scrive che la poesia dialettale napoletana e quindi in gran parte la fortuna delle canzoni di Piedigrotta è in fiera crisi. Se ne sarebbero essicate le due grandi fonti: realismo e sentimentalismo. «Il mutamento di sentimenti e di gusti è stato così rapido e sconvolgente, così vorticoso e subitaneo, ed è ancora così lontano dall’essersi cristallizzato in qualcosa di stabile e di duraturo che i poeti dialettali che si avventurano su quelle sabbie mobili per tentare di portarle alla durezza e alla chiarezza della forma sono condannati a sparirvi dentro senza rimedio».

La crisi di Piedigrotta è veramente un segno dei tempi. La teorizzazione di Strapaese ha ucciso strapaese (in realtà si voleva fissare un figurino tendenzioso di strapaese assai ammuffito e scimunito). E poi l’epoca moderna non è espansiva, è repressiva. Non si ride più di cuore: si sogghigna e si fa dell’arguzia meccanica tipo Campanile. La fonte di Piedigrotta non si è essicata, è stata essicata perché era diventata «ufficiale» e i canzonieri erano diventati funzionari (vedi Libero Bovio) (e cfr l’apologo francese del becco funzionario).

Q1 §102 «La Fiera letteraria» divenuta poi «L’Italia letteraria» è stata sempre, ma sta diventando sempre più un sacco di patate. Ha due direttori, ma è come se non ne avesse nessuno e un segretario esaminasse la posta in arrivo, tirando a sorte gli articoli da pubblicare. Il curioso è che i due direttori, Malaparte e Angioletti, non scrivono nel loro giornale ma preferiscono altre vetrine. Le colonne della redazione devono essere Titta Rosa ed Enrico Falqui, e dei due il più comico è quest’ultimo che compila la Rassegna della Stampa, saltabeccando a destra e a sinistra, senza bussola e senza idee. Titta Rosa è più ponteficale e si dà arie da grande pontefice disincantato anche quando scrive delle baggianate. L’Angioletti pare abbastanza ritrosetto a lanciarsi in alto mare: non ha l’improntitudine di Malaparte. È interessante notare come l’«Italia letteraria» non si arrischi a dare giudizi propri e aspetti che abbiano parlato prima i cani grossi. Così è avvenuto per gl’Indifferenti di Moravia, ma cosa più grave per il Malagigi di Nino Savarese, libro veramente saporoso, che fu recensito solo quando entrò in terna per il premio dei trenta, mentre non era stato notato nelle pagine della «Nuova Antologia». Le contraddizioni di questo gruppo di graffiacarte sono veramente spassose, ma non vale la pena di notarle. Ricordano i Bandar Log del Libro della Jungla: «noi faremo, noi creeremo», ecc. ecc.

Q1 §103 Confederazione Generale Fascista dell’Industria italiana, Lo sviluppo dell’Industria Italiana, Litografia del Genio Civile, Roma, 1929, L. 100 (78 tavole in policromia, che passano in rassegna l’industria italiana dal 1876 al 1928). Indispensabile.

Q1 §104 Jean Barois. Riceve i sacramenti della religione prima di morire. La moglie trova poi tra le sue carte il testamento, redatto negli anni della maturità intellettuale. Vi si trova: «per tema che la vecchiaia e le malattie mi indeboliscano a tal segno da farmi temere la morte e da indurmi a cercare le consolazioni della religione, redigo oggi nella pienezza delle mie facoltà e del mio equilibrio intellettuale, il mio testamento. Non credo all’anima sostanziale e immortale. So che la mia personalità è un agglomerato di atomi la cui disgregazione comporta la morte totale. Credo al determinismo universale... ». Il testamento è gettato nel fuoco. Ricercare.

Q1 §105 La filosofia americana. Studiare la posizione di Josiah Royce nel quadro della concezione americana della vita. Quale importanza e quale funzione ha avuto l’hegelismo in questa concezione? Può il pensiero moderno diffondersi in America, superando l’empirismo‑pragmatismo, senza una fase hegeliana?

Q1 §106 La concezione religiosa di Maurras. La «Rivista d’Italia» del 15 gennaio 1927 riassume un articolo di J. Vialatoux pubblicato nella «Chronique Sociale de France» di qualche settimana prima. Il Vialatoux respinge la tesi sostenuta da Jacques Maritain in Une opinion sur Charles Maurras et le devoir des catholiques (Paris, Plon, 1926) che tra la filosofia e la morale pagane di Maurras da una parte e la sua politica dall’altra non vi sia che un rapporto contingente, di modo che se si prende la dottrina politica, astraendo dalla filosofia, si può andare incontro a qualche pericolo, come in ogni movimento umano, ma non v’ha nulla di condannabile. Per il Vialatoux, giustamente, la dottrina politica scaturisce (o per lo meno è inscindibilmente collegata — G.) dalla concezione pagana del mondo (su questo paganesimo bisognerebbe distinguere e chiarire, tra la veste letteraria, estrinseca, in cui consiste questo così detto paganesimo di Maurras e il nocciolo essenziale che è poi un positivismo naturalistico, preso da Comte e mediatamente dal sansimonismo, ciò che col paganesimo entra solo per la nomenclatura gergale della chiesa). La città è fine ultimo dell’uomo: realizza l’ordine umano con le sole forze della natura. Maurras è definibile per i suoi odii ancor più che per i suoi amori. Odia il cristianesimo primitivo (la concezione del mondo degli Evangeli, dei primi apologisti ecc., il cristianesimo fino all’editto di Milano, insomma, che credeva la venuta di Cristo annunziare la fine del mondo e determinava perciò la dissoluzione dell’ordine politico romano in una anarchia morale corrosiva di ogni valore civile e statale) che per lui è una concezione giudaica.

In questo senso Maurras vuole scristianizzare la società moderna. Per Maurras la chiesa cattolica è stata e sarà sempre più lo strumento di questa scristianizzazione. Egli distingue tra cristianesimo e cattolicismo ed esalta quest’ultimo come la reazione dell’ordine romano all’anarchia giudaica. Il culto cattolico, le sue devozioni superstiziose, le sue feste, le sue pompe, le sue solennità, la sua liturgia, le sue immagini, le sue formule, i suoi riti sacramentali, la sua gerarchia imponente, sono come un incantesimo salutare per domare l’anarchia cristiana, per immunizzare il veleno giudaico del cristianesimo autentico. Secondo il Vialatoux il nazionalismo dell’Action Française non è che un episodio della storia religiosa del nostro tempo. (Bisognerebbe aggiungere che l’odio di Maurras contro tutto ciò che sa di protestante ed è di origine anglotedesca ‑ romanticismo, Rivoluzione francese, capitalismo — non è che un aspetto di questo odio del cristianesimo primitivo; bisognerebbe inoltre cercare in Augusto Comte le origini della sua attitudine verso il cattolicismo, che non è indipendente dalla rinascita libresca del tomismo e dell’aristotelismo).

Q1 §107 Filippo Meda, Statisti cattolici, Alberto Morano, Napoli. Sono sei biografie: di Daniele ’O Connel, García Moreno, Luigi Windthorst, Augusto Bernaert, Giorgio Hertling, Antonio Maura. Esponenti del conservatorismo clericale (clerico‑moderati italiani), cioè della preistoria del moderno popolarismo cattolico. È indispensabile per ricostruire lo sviluppo storico dell’Azione Cattolica. La biografia di García Moreno (Venezuela, mi pare) è anche interessante per comprendere alcuni aspetti delle lotte ideologiche dell’ex‑America spagnola e portoghese, dove ancora si attraversa un periodo di Kulturkampf primitivo, dove cioè lo Stato moderno deve ancora lottare contro il passato clericale e feudale. È interessante notare questa contraddizione che esiste nell’America del Sud tra il mondo moderno delle grandi città commerciali della costa e il primitivismo dell’interno, contraddizione che si prolunga per l’esistenza di grandi masse di aborigeni da un lato e di immigrati europei dall’altro più difficilmente assimilabili che nell’America del Nord: il gesuitismo è un progresso in confronto dell’idolatria, ma è un inciampo per lo sviluppo della civiltà moderna rappresentata dalle grandi città costiere: esso serve come mezzo di governo per mantenere al potere le piccole oligarchie tradizionali, che perciò non fanno che una lotta blanda e molle. La massoneria e la Chiesa positivistica sono le ideologie e le religioni laiche della piccola borghesia urbana, alle quali aderisce in gran parte il così detto sindacalismo anarchico che dello scientifismo anticlericale fa il suo pascolo intellettuale. (Problema del risveglio alla vita politica e nazionale delle masse aborigene: nel Messico qualcosa di simile è avvenuto per impulso di Obregon e Calles?)

Q1 §108 Sul Risorgimento. Pubblicazioni di Augusto Sandonà, che dopo l’armistizio ha fatto ricerche negli archivi viennesi per studiare la documentazione austriaca ufficiale.

Q1 §109 Confidenti e agenti provocatori dell’Austria. I confidenti che agivano all’estero e che dipendevano dalla Cancelleria di Stato di Vienna, non dovevano fare gli agenti provocatori; ciò risulta dalle precise istruzioni del principe di Metternich che, in un dispaccio segreto dell’8 febbraio 1844 indirizzato al conte Apponyi ambasciatore d’Austria a Parigi, così si esprimeva in merito al servizio che prestava nella capitale francese il famigerato Attilio Partesotti: «Il grande fine che il Governo imperiale si propone non è di trovare dei colpevoli né di provocare delle imprese criminali... Partesotti deve di conseguenza considerarsi come un osservatore attento e fedele ed evitare con cura di essere agente provocatore» (Staatskanzlei). Così scrive Augusto Sandonà nello studio Il preludio delle cinque giornate di Milano ‑ Nuovi documenti, pubblicato nella «Rivista d’Italia» (ho letto solo la prima puntata nel numero del 15 gennaio 1927) a proposito dell’accusa lanciata dal dott. Carlo Casati (Nuove Rivelazioni sui fatti di Milano nel 1847‑48, Milano, Hoepli, 1885) e dall’«Archivio triennale delle cose d’Italia» (vol. I, Capolago, Tip. Elvetica, 1850) al barone Carlo Torresani, direttore generale della polizia di Milano dal 1822 al 48, di aver organizzato un servizio di agenti provocatori che inscenassero i tumulti. È da osservare però che, nonostante le disposizioni del Metternich, gli agenti provocatori potevano operare ugualmente per necessità delle polizie locali e anche per necessità personale degli «osservatori» stessi.

Q1 §110 Contraddizioni dei moderati prima del 48. La lega doganale, promossa da Cesare Balbo e stretta a Torino il 3 novembre 1847 dai tre rappresentanti del Piemonte, della Toscana e dello Stato romano, doveva preludere alla costituzione della Confederazione politica che poi fu disdetta dallo stesso Balbo, facendo così abortire anche la Lega doganale. La Confederazione era desiderata dagli Stati minori italiani: i piemontesi reazionari, tra cui Balbo, credendo assicurata l’espansione territoriale del Piemonte, non volevano pregiudicarla con legami che l’avrebbero ostacolata (il Balbo nelle Speranze d’Italia aveva sostenuto che la Confederazione era impossibile finché una parte d’Italia fosse stata in mano agli stranieri) e disdissero la Confederazione dicendo che le leghe si stringono prima o dopo la guerra (la Confederazione fu respinta nel 48 nei primi mesi — cercare). Gioberti con altri vedevano nella confederazione politica e doganale stretta anche durante la guerra la necessaria premessa per rendere possibile il motto «l’Italia farà da sé».

Questo episodio è della massima importanza, con quello dei volontari e della Costituente, per mostrare come il movimento del 48 fallì per gl’intrighi dei reazionari, che poi furono i moderati del periodo successivo. Essi non seppero dare né una direzione politica, né tanto meno una direzione militare alla rivoluzione prima del 48.

Q1 §111 Di Augusto Sandonà. 1°) Contributo alla storia dei processi del 21 e dello Spielberg, Torino, Bocca, 1911; 2°) L’idea unitaria ed i partiti politici alla vigilia del 1848, «Rivista d’Italia», giugno 1914; 3°) Il Regno lombardo‑veneto. La costituzione e l’amministrazione, Milano, Cogliati, 1912.

Q1 §112 Padre Facchinei. Nella «Rivista d’Italia» del 15 gennaio 1927 è pubblicato un articolo di Adolfo Zerboglio intitolato Il ritorno di padre Facchinei, autore di un libello contro Cesare Beccaria  ed osservazioni sul libro intitolato «Dei delitti e delle pene» pubblicato verso il 1761. Dai brani riportati dallo Zerboglio (p. 27 della rivista) appare che il Facchinei conosceva già la parola «socialisti»: «Domando ai più pregiudicati socialisti: se un uomo trovandosi nella sua primitiva libertà, e prima di essere entrato in qualche società, domando, dico, se un uomo libero abbia diritto di uccidere un altr’uomo, che gli volesse in qualunque maniera levar la vita? Io sono sicuro che tutti i socialisti per questa volta mi risponderanno di sì». Ma cosa significava allora questa parola? Nel Dizionario politico di Maurizio Block la parola «socialisme» è assegnata a un’epoca molto più tarda, verso il 1830, se ben ricordo.

Q1 §113 Rivoluzione nel diritto penale e nella procedura penale e materialismo storico. La espressione di Marx nella prefazione alla Critica dell’Economia politica (del 1859) «così come non si giudica ciò che un individuo è da ciò che egli sembra a se stesso» può essere riallacciata al rivolgimento avvenuto nella procedura penale e alle discussioni teoriche in proposito, allora relativamente recenti. Infatti la vecchia procedura richiedeva la confessione dell’imputato (specialmente per i delitti capitali) per emettere la sentenza di condanna, donde la tortura. Nella nuova procedura l’interrogatorio dell’imputato è solo un elemento, talvolta trascurabile, del processo (non si domanda il giuramento, si riconosce che l’imputato può mentire o essere reticente) mentre il primo posto è preso dalle prove materiali e testimoniali. Ricercare se qualcuno ha rilevato questa coincidenza dei due fenomeni e ha studiato il movimento per la rinnovazione del diritto processuale e penale come un elemento suggestivo dell’innovazione portata da Marx nello studio della storia (Sorel potrebbe aver fatto l’osservazione, perché rientra nel suo stile).

Q1 §114 Risorgimento. Direzione Politica e militare. Nello studio della direzione politica e militare impressa al movimento nazionale prima e dopo il 48 occorre fare alcune preventive osservazioni di metodo e di nomenclatura. Per direzione militare non deve intendersi solo la direzione militare in senso stretto, tecnico, cioè come riferentesi alla strategia e alla tattica dell’esercito piemontese, o delle truppe garibaldine o delle varie milizie improvvisate nelle sollevazioni locali (5 giornate di Milano, difesa di Venezia, difesa della Repubblica Romana, insurrezione di Palermo nel 48 ecc.). Deve intendersi invece in senso molto più largo e più strettamente aderente alla direzione politica vera e propria. Il problema era di espellere dall’Italia una potenza straniera, che aveva uno dei più grandi eserciti dell’Europa d’allora e che aveva inoltre non pochi e deboli aderenti nell’Italia stessa, persino nel Piemonte. Il problema militare era pertanto questo: «come riuscire a mobilitare una forza che fosse in grado di espellere dall’Italia l’esercito austriaco e di impedire che potesse ritornare con una controffensiva, dato che l’espulsione violenta avrebbe messo in pericolo l’Impero e quindi ne avrebbe galvanizzato tutte le forze vitali per una rivincita».

Le soluzioni date teoricamente furono parecchie, tutte contraddittorie. «L’Italia farà da sé». Questa fu la parola d’ordine del 48. Ma volle dire la sconfitta. La politica ambigua, incerta, timida dei partiti di destra piemontesi fu la cagione principale della sconfitta: essi furono d’una astuzia meschina. Essi furono la causa del ritirarsi degli eserciti degli altri stati italiani, napoletani e romani, per aver troppo presto mostrato di volere l’espansione piemontese e non la confederazione italiana: essi non favorivano i volontari: essi, insomma, volevano che soli armati vittoriosi fossero i generali piemontesi. L’assenza di una politica popolare fu disastrosa: i contadini lombardi e veneti arruolati dall’Austria furono lo strumento per soffocare la rivoluzione di Vienna. Essi non vedevano nessun rapporto tra la rivoluzione di Vienna e quella dei loro paesi: il movimento lombardo‑veneto era una cosa dei signori e degli studenti come il movimento viennese. Mentre il partito nazionale italiano avrebbe dovuto, con la sua politica rivoluzionaria, portare o aiutare la disgregazione dell’Impero austriaco, con la sua inerzia ottenne che i reggimenti italiani fossero uno dei migliori puntelli della reazione austriaca. Eppure questo avrebbe dovuto essere il suo fine strategico: non distruggere il nemico e occuparne il territorio, che sarebbe stato fine irraggiungibile e utopistico, ma disgregarlo all’interno e aiutare i liberali austriaci ad andare al potere per mutare la struttura interna dell’impero in federalistica, o almeno per crearvi uno stato prolungato di lotte interne fra le varie nazionalità (lo stesso errore fu commesso da Sonnino durante la guerra mondiale, anche contro il parere di Cadorna: Sonnino non voleva la distruzione dell’Impero absburgico e si rifiutò a ogni politica di nazionalità; anche dopo Caporetto, questa politica fu fatta maltusianamente e non dette i rapidi risultati che avrebbe potuto dare).

Però dopo aver affermato «l’Italia farà da sé» si cercò dopo la sconfitta di avere l’aiuto francese, proprio quando al governo in Francia erano andati i reazionari, nemici di uno Stato italiano forte.

La direzione militare è dunque una quistione più vasta della direzione dell’esercito vero e proprio, della determinazione del piano strategico che questo esercito deve svolgere: essa riguarda la mobilitazione di forze popolari che insorgano alle spalle del nemico e ne intralcino il movimento, essa tende a creare masse ausiliarie e di riserva, da cui si possono trarre nuovi eserciti e che diano all’esercito «tecnico» l’atmosfera di entusiasmo e di ardore. La politica popolare non fu fatta neanche dopo il 48: si cercò l’aiuto della Francia e con l’alleanza francese si equilibrò la forza austriaca. La politica della destra piemontese ritardò l’unità d’Italia di 20 anni.

Q1 §115 A proposito della minaccia continua che il governo viennese faceva ai nobili del Lombardo‑Veneto di promulgare una legislazione agraria favorevole ai contadini (cosa che fu fatta nella Galizia contro i signori polacchi a favore dei contadini ruteni), sono interessanti alcuni particolari contenuti in un articolo della «Pologne littéraire» riassunto nel «Marzocco» del 1° dicembre 1929. Il giornale polacco, ricercando le cause storiche dello spirito militare dei polacchi, per cui si trovano volontari polacchi in tutte le guerre e le guerriglie, in tutte le insurrezioni e in tutte le rivoluzioni del secolo scorso, risale a questo fatto: il 13 luglio 1792 «una nazione che contava 9 milioni di abitanti, che aveva 70 000 soldati sotto le armi, fu conquistata senza essere stata vinta».

Il 3 maggio 1791 era stata proclamata una costituzione il cui spirito largamente democratico poteva divenire un pericolo per i vicini, il re di Prussia, l’imperatore d’Austria e lo zar di Russia, e che aveva parecchi punti di contatto con la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino votata dalla Costituente francese nell’agosto del 1789. La Polonia fu conquistata colla piena connivenza dei nobili polacchi, i quali, più previdenti dei loro fratelli di Francia, non avevano atteso l’applicazione della carta costituzionale per provocare l’intervento straniero. Costoro preferirono vendere la nazione al nemico piuttosto che cedere la benché minima parte delle terre ai contadini. Preferirono cadere in servitù essi medesimi, anziché concedere la libertà al popolo. Secondo l’autore dell’articolo, Z. St. Klingsland, i 70 000 soldati presero la via dell’esilio e si diressero verso la Francia, ciò che è per lo meno esagerato. Ma il nocciolo degli avvenimenti è veramente istruttivo e spiega molta parte degli avvenimenti fino al 48 anche in Italia.

È interessante il fatto che un giornale polacco fatto per l’estero preferisca far risalire la spartizione polacca del 92 al tradimento dei nobili piuttosto che alla debolezza militare della Polonia, nonostante che la nobiltà abbia ancora in Polonia una funzione molto importante. Forse episodio della lotta di Pilsudsky contro Witos. Strano «punto d’onore» nazionale. Darwin, mi pare nel suo Viaggio intorno al mondo di un naturalista racconta qualcosa di simile per la Spagna: gli spagnoli sostenevano che una sconfitta della flotta alleata franco-spagnola era stata causata dalla loro slealtà, perché se avessero combattuto davvero, gli spagnoli non avrebbero potuto essere stati vinti. Meglio sleali e traditori che senza «spirito militare invincibile».

Q1 §116 Intellettuali italiani. Confronto tra la concentrazione culturale francese, che si riassume nell’«Istituto di Francia» e la non coordinazione italiana. Riviste di cultura francesi e italiane (tipo Nuova Antologia ‑ «Revue des deux mondes»). Giornali quotidiani italiani molto meglio fatti che i francesi: essi compiono due funzioni — quella di informazione e di direzione politica generale e la funzione di cultura politica, letteraria, artistica, scientifica che non ha un suo organo proprio diffuso (la piccola rivista per la media cultura). In Francia anzi anche la prima funzione si è distinta in due serie di quotidiani: quelli di informazione e quelli di opinione che a loro volta sono dipendenti da partiti direttamente, oppure hanno una apparenza di imparzialità («Action Française» ‑ «Temps» ‑ «Débats»).

In Italia, per l’assenza di partiti organizzati e centralizzati, non si può prescindere dai giornali: sono i giornali, raggruppati a serie, che costituiscono i veri partiti. Per esempio, nel dopoguerra, Giolitti aveva una serie di giornali che rappresentavano le varie correnti o frazioni del partito liberale democratico: la «Stampa» a Torino, che cercava d’influire sugli operai e aveva saltuariamente spiccate tendenze riformistiche (nella «Stampa» tutte le posizioni erano saltuarie, intermittenti, a seconda che Giolitti era o non era al potere ecc.); la «Tribuna» a Roma che era legata alla burocrazia e all’industria protezionista (mentre la «Stampa» era piuttosto liberista — quando Giolitti non era al potere con maggiore accentuazione); il «Mattino» a Napoli legato alle cricche meridionali giolittiane, con altri organi minori (la «Stampa» per certa collaborazione e servizi d’informazione era alla testa di un trust giornalistico di cui facevano parte specialmente il «Mattino», la «Nazione» e anche il «Resto del Carlino»).

Il «Corriere della Sera» formava una corrente a sé, che cercava di essere in Italia ciò che è il «Times» in Inghilterra, custode dei valori nazionali al di sopra delle singole correnti. Di fatto era legato all’industria lombarda d’esportazione tessile (e gomma), e perciò più permanentemente liberista: nel dopoguerra il «Corriere» era alla destra del Nittismo (dopo aver sostenuto Salandra). Il Nittismo aveva anch’esso una serie di giornali: il «Corriere» a destra, il «Carlino» al centro destra, il «Mondo» al centro sinistra, il «Paese» alla sinistra. Il Nittismo aveva due aspetti: plutocratico, legato all’industria protetta e di sinistra. Una posizione a parte occupava il «Giornale d’Italia», legato all’industria protetta e ai grandi proprietari terrieri dell’Emilia, del Centro e del Mezzogiorno. È interessante notare che i grandi giornali che rappresentavano la tradizione del Partito d'Azione — «Secolo» a Milano, «Gazzetta del Popolo» a Torino, «Messaggero» a Roma, «Roma» a Napoli — ebbero dal 21 al 25 un atteggiamento diverso dalla «Stampa», dal «Corriere», dal «Giornale d’Italia» ‑ «Tribuna», dal «Mattino» e anche dal «Resto del Carlino».

Il «Corriere» fu sempre antigiolittiano, come ho spiegato in una precedente nota. Anche al tempo della guerra libica, il «Corriere» si tenne neutrale fino a pochi giorni prima della dichiarazione di guerra, quando pubblicò l’articolo di Andrea Torre, rumoroso e pieno di strafalcioni.

Il Nittismo era ancora una formazione politica in fieri: ma Nitti mancava di alcune doti essenziali dell’uomo di Stato, era troppo pauroso fisicamente e troppo poco deciso: egli era però molto furbo, ma è questa una qualità subalterna. La creazione della Guardia Regia è il solo atto politico importante di Nitti: Nitti voleva creare un parlamentarismo di tipo francese (è da notare come Giolitti cercasse sempre le crisi extraparlamentari: Giolitti con questo «trucco» voleva mantenere formalmente intatto il diritto regio di nominare i ministri all’infuori o almeno a latere del Parlamento; in ogni caso impedire che il governo fosse troppo legato o esclusivamente legato al Parlamento), ma si poneva il problema delle forze armate e di un possibile colpo di Stato. Poiché i carabinieri dipendevano disciplinarmente e politicamente dal Ministero della Guerra, cioè dallo Stato Maggiore (anche se finanziariamente dal ministero degli interni), Nitti creò la Guardia Regia, come forza armata dipendente dal Parlamento, come contrappeso contro ogni velleità di colpo di Stato.

Per uno strano paradosso la Guardia Regia, che era un completo esercito professionale, cioè di tipo reazionario, doveva avere una funzione democratica, come forza armata della rappresentanza nazionale contro i possibili tentativi delle forze irresponsabili e reazionarie. È da notare la occulta lotta svoltasi nel 1922 tra nazionalisti e democratici intorno ai carabinieri e alla guardia regia. I liberali sotto la maschera di Facta volevano ridurre il corpo dei carabinieri o incorporarne una gran parte (il 50%) nella guardia regia. I nazionalisti reagiscono e al Senato il generale Giardino parla contro la Guardia Regia, e ne fa sciogliere la cavalleria (ricordare la comica e miserevole difesa che di questa cavalleria fece il «Paese»: il prestigio del cavallo, ecc. ecc.).

Le direttive di Nitti erano molto confuse: nel 1918, quand’era ministro del Tesoro, fece una campagna oratoria sostenendo la industrializzazione accelerata dell’Italia, e sballando grosse fanfaluche sulle ricchezze minerarie di ferro e carbone del paese (il ferro era quello di Cogne, il carbone era la lignite toscana: il Nitti giunse a sostenere che l’Italia poteva esportare questi minerali, dopo aver soddisfatto una sua industria decuplicata; cfr a questo proposito l’Italia in rissa di F. Ciccotti). Sostenne, prima dell’armistizio, la polizza ai combattenti, di 1000 lire, acquistando la simpatia dei contadini. Significato dell’amnistia ai disertori (italiani all’estero che non avrebbero più mandato rimesse, di cui la Banca di Sconto aveva il quasi monopolio). Discorso di Nitti sulla impossibilità tecnica della rivoluzione in Italia, che produsse un effetto folgorante nel partito socialista (cfr il discorso di Nitti con la lettera aperta di Serrati del novembre o dicembre 1920). La Guardia Regia era per il 90% di meridionali. Programma di Nitti dei bacini montani nell’Italia meridionale che produsse tanto entusiasmo.

La morte del generale Ameglio, suicidatosi dopo un pubblico alterco col generale Tettoni, incaricato di una ispezione amministrativa sulla gestione della Cirenaica (Ameglio era il generalissimo della Guardia Regia). La morte di Ameglio, per la sua tragicità, deve essere collegata al suicidio del generale Pollio nel 1914 (Pollio aveva, nel 19 12, al momento del rinnovo della Triplice, firmato la convenzione militare‑navale con la Germania che entrava in vigore il 6 agosto 1914: mi pare che proprio in base a questa convenzione l’Emden e il Göschen poterono rifugiarsi nel porto di Messina: cfr in proposito le pubblicazioni di Rerum Scriptor nella «Rivista delle Nazioni Latine» e nell’«Unità» del 17‑18, che io riassunsi nel «Grido del Popolo»). Nelle sue memorie Salandra accenna alla morte «repentina» di Pollio (non scrive che fu suicidio): il famoso «Memorandum» di Cadorna, che Salandra dichiara di non aver conosciuto, deve rispecchiare le vedute dello Stato Maggiore sotto la gestione Pollio e in dipendenza della Convenzione del 1912; la dichiarazione di Salandra di non averlo conosciuto è estremamente importante e piena di significati sulla politica italiana e sulla reale situazione dell’elemento parlamentare nelgoverno.

Nello studio dei giornali come funzionanti da partito politico occorre tener conto di singoli individui e della loro attività. Mario Missiroli è uno di questi. Ma i due tipi più interessanti sono Pippo Naldi e Francesco Ciccotti. Naldi ha cominciato come giovane liberale borelliano — collaboratore di piccole riviste liberali — direttore del «Resto del Carlino» e del «Tempo»: è stato un agente importantissimo di Giolitti e di Nitti; legato ai fratelli Perrone e certamente ad altri grossi affaristi; durante la guerra la sua attività è delle più misteriose. L’attività di Ciccotti è delle più complesse e difficili, sebbene il suo valore personale sia mediocre. Durante la guerra ebbe atteggiamenti disparati: fu sempre un agente di Nitti o per qualche tempo anche di Giolitti? A Torino nel 16‑17 era assolutamente disfattista; egli invitava all’azione immediata. Se si può parlare di responsabilità individuali per i fatti dell’agosto 17, Ciccotti avrebbe dovuto ritenersi il più responsabile: invece fu appena interrogato dal giudice istruttore e non si procedette contro di lui. Ricordo la sua conferenza del 16 o del 17, dopo la quale furono arrestati un centinaio di giovani e adulti accusati di aver gridato «Evviva l’Austria! ». Non credo che il grido sia stato emesso da nessuno, ma dopo la conferenza di Ciccotti non sarebbe stato strano che qualcuno avesse anche emesso questo grido.

Ciccotti cominciò la sua conferenza dicendo che i socialisti erano responsabili di una grave colpa: aver affermato che la guerra era capitalistica. Secondo Ciccotti questo significava nobilitare la guerra. Egli allora, con una sottigliezza rimarchevole nell’abilità di suscitare i sentimenti popolari elementari, sviluppò un romanzo d’appendice a forti tinte che cominciava su per giù così: — la sera tale si riunirono al caffè Faraglino Vincenzo Morello (Rastignac), il senatore Artom e un terzo che non ricordo ecc. ecc.; la guerra era dovuta alla congiura di questi tre e ai denari di Barrère. — Ricordo d’aver visto alcuni operai che conoscevo come gente calmissima e temperata coi capelli rizzati in testa, frenetici, uscire dalla sala, dopo la perorazione, in uno stato di eccitazione incredibile.

Il giorno dopo la «Stampa» pubblicava un articolo non firmato, scritto da Ciccotti, in cui si sosteneva la necessità del blocco tra Giolitti e gli operai in tempo prima che l’apparecchio statale cadesse completamente nelle mani dei pugliesi di Salandra. Qualche giorno dopo la «Giustizia» di Reggio Emilia pubblicava il resoconto di una conferenza di Ciccotti a Reggio, dove aveva esaltato il prampolinismo ecc. Ricordo che mostrai questo giornale ad alcuni «rigidi» i quali erano infatuati di Ciccotti e volevano si sostenesse (certo per istigazione del Ciccotti stesso) una campagna per dare l’«Avanti! » a Ciccotti.

Nessuno ha studiato ancora a fondo i fatti di Torino dell’agosto 17. È certissimo che i fatti furono spontanei e dovuti alla mancanza di pane prolungata, che negli ultimi dieci giorni prima dei fatti, aveva determinato la mancanza assoluta di ogni cibo popolare (riso, polenta, patate, legumi ecc.). Ma la quistione è appunto questa: come spiegare questa assoluta deficienza di vettovaglie? (Assoluta: nella casa dove abitavo io si erano saltati tre pasti di fila, dopo un mese in cui i pasti saltati erano andati crescendo, ed era una casa del centro). Il prefetto Verdinois nell’autodifesa pubblicata nel 1925, non dà ragguagli sufficienti; il ministro Orlando richiamò solo amministrativamente il Verdinois e nel discorso alla Camera se la cavò male anch’egli; intanto non fu fatta nessuna inchiesta. Il Verdinois accusa gli operai, ma la sua accusa è una cosa inetta: egli dice che i fatti non avevano come causa la mancanza di pane perché continuarono anche quando fu dato in vendita il pane fatto con la farina dei depositi militari. La «Gazzetta del Popolo» però, già da 20 giorni, prevedeva gravi fatti per la mancanza di pane e avvertiva quotidianamente di provvedere a tempo: naturalmente cambiò tono dopo e parlò solo di denaro straniero. Come fu lasciato mancare il pane a una città, la cui provincia è scarsamente coltivata a grano e che era diventata una grande officina di guerra, con una popolazione accresciuta di più di 100 000 lavoratori per le munizioni?

Io ho avuto la convinzione che la mancanza di pane non fu casuale, ma dovuta al sabotaggio della burocrazia giolittiana, e in parte all’inettitudine di Canepa, che né aveva la capacità per il suo ufficio, né era in grado di padroneggiare la burocrazia dipendente dal suo commissariato. I giolittiani erano di un fanatismo tedescofilo incredibile: essi sapevano che Giolitti non poteva andare ancora al potere, ma volevano creare un anello intermedio, Nitti o Orlando, e rovesciare Boselli; il meccanismo funzionò tardi, quando Orlando era già al potere, ma il fatto era stato preparato per far cadere il governo Boselli su una pozza di sangue torinese.

Perché fu scelta Torino? Perché era quasi tutta neutralista, perché Torino aveva scioperato nel 15, ma specialmente perché i fatti avevano importanza specialmente a Torino. Ciccotti fu il principale agente di questo affare; egli andava troppo spesso a Torino e non sempre per far conferenze agli operai, ma anche per parlare con quei della «Stampa». Non credo che i giolittiani fossero in collegamento con la Germania: ciò non era indispensabile. Il loro livore era tale per i fatti di Roma del 15 e perché pensavano che l’egemonia piemontese sarebbe stata fortemente scossa o addirittura spezzata, che essi erano capaci di tutto: il processo di Portogruaro contro Frassati e l’affare del colonnello Gamba mostrano solo che questa gente aveva perduto ogni controllo. Bisogna aver visto la soddisfazione con cui i redattori della «Stampa», dopo Caporetto, parlavano del panico che regnava a Milano nei dirigenti e della decisione del «Corriere» di trasportar via tutto il suo impianto, per comprendere di che potevano essere capaci: indubbiamente i giolittiani avevano avuto paura di una dittatura militare che li mettesse al muro; essi parlavano di una congiura Cadorna‑Albertini per fare un colpo di Stato: la loro smania di giungere a un accordo coi socialisti era incredibile.

Ciccotti durante la guerra servì di tramite per pubblicare nell’«Avanti! » articoli del Controllo Democratico inglese (gli articoli li riceveva la signora Chiaraviglio). Ricordo il racconto di Serrati del suo incontro a Londra con una signora che lo voleva ringraziare a nome del Comitato e la meraviglia del povero uomo, che fra questi intrighi non sapeva che decisioni prendere. Altro aneddoto raccontato da Serrati: l’articolo di Ciccotti contro la Commerciale lasciato passare, l’articolo contro la Sconto censurato; il commento di Ciccotti a un discorso di Nitti prima censurato, poi permesso dopo telefonata di Ciccotti che si richiamava a (una) promessa di Nitti e non pubblicato da Serrati ecc. Ma l’episodio più interessante è quello dei gesuiti che attraverso Ciccotti cercavano di far cessare la campagna per i SS. Martiri: — cosa avranno dato in cambio i gesuiti a Ciccotti? Ma nonostantetutto Ciccotti non venne espulso, perché bisognava dargli l’indennità giornalistica. Un altro di questi tipi è stato Carlo Bazzi.

Q1 §117 Direzione politica e militare nel Risorgimento. La incertezza politica, le continue oscillazioni tra dispotismo e costituzionalismo ebbero i loro effetti anche sull’esercito piemontese. Si può dire che quanto più un esercito è numeroso, cioè quanto più profonde masse della popolazione vi sono incorporate, tanto più cresce l’importanza della direzione politica su quella meramente tecnica‑militare. La combattività dell’esercito piemontese era altissima al principio della campagna del 48: i destri credettero che questa combattività fosse espressione di un puro «spirito militare» astratto e si dettero ad intrigare per restringere le libertà popolari. Il morale dell’esercito decadde. La polemica sulla «fatal Novara» è tutta qui. A Novara l’esercito non volle combattere, perciò fu sconfitto. I destri accusarono i sinistri d’aver portato la politica nell’esercito, d’averlo disgregato. Ma in realtà l’esercito si accorge di un mutamento di direzione politica, senza bisogno dei disgregatori, da una molteplicità di piccoli fatti, che uno per uno sembrano trascurabili ma nell’insieme formano una nuova atmosfera asfissiante: quindi la causa non è che di chi ha mutato la direzione politica, senza prevederne le conseguenze militari, cioè ha sostituito una cattiva politica a una precedente buona, conforme al fine. Il problema è legato al concetto di opportuno e di conforme al fine: se gli uomini fossero macchine, il concetto di conforme al fine sarebbe semplice. Ma gli uomini non sono uno strumento materiale che si può usare nei limiti della sua coesione meccanica e fisica: nel «conforme al fine» occorre perciò includere sempre la distinzione «secondo lo strumento dato». Se con una mazza di legno si batte un chiodo con la stessa energia con cui si batterebbe con un martello d’acciaio, è il chiodo che penetra nel legno invece di conficcarsi nel muro. Con un esercito di mercenari professionisti, la direzione politica è minima (sebbene esista anche in questo caso in qualche modo): con un esercito nazionale di leva il problema muta; nelle guerre di posizione fatte da grandi masse che solo con grandi riserve di forze morali possono resistere al grande logorio muscolare, nervoso, psichico, solo con un’abilissima direzione politica, che tenga conto delle aspirazioni più profonde delle masse, si impedisce la disgregazione e lo sfacelo.

La direzione militare deve essere sempre subordinata alla direzione politica, ossia i comandi dell’esercito devono essere l’espressione militare di una determinata politica. Naturalmente può darsi il caso che gli uomini politici non valgano nulla, mentre nell’esercito ci siano dei capi che alla capacità militare congiungono la capacità politica. Questo è il caso di Cesare e di Napoleone; ma in Napoleone s’è visto come il mutamento di politica, coordinato alla presunzione di avere uno strumento militare astrattamente militare, abbia portato alla sua rovina: cioè anche in questi esempi di direzione politica e militare unite in una stessa persona, la politica era superiore alla direzione militare. I libri di Cesare, ma specialmente il De bello civili, sono un classico esempio di esposizione di una sapiente combinazione di politica e arte militare: i soldati vedevano in Cesare non solo un grande capo militare, ma anche un grande capo politico.

Ricordare che Bismarck sosteneva la supremazia del politico sul militare, mentre Guglielmo II, secondo quanto riferisce Ludwig, annotò rabbiosamente un giornale in cui o l’opinione di Bismarck era riportata o si esprimeva un’opinione simile. Così i tedeschi vinsero brillantemente quasi tutte le battaglie, ma perdettero la guerra.

Q1 §118 Il problema dei volontari nel Risorgimento. C’è una tendenza a supervalutare l’apporto delle classi popolari al Risorgimento, insistendo specialmente sul fenomeno del volontariato (vedi articolo del Rota nella «Nuova Rivista Storica» per es.). A parte il fatto che da questi articoli appare che i volontari erano mal visti dalle autorità piemontesi, ciò che appunto conferma la cattiva direzione politico‑militare, è in ogni modo da osservare che c’è supervalutazione. Ma questo problema del volontariato pone più in luce la deficienza della direzione politico‑militare. Il governo piemontese poteva arruolare obbligatoriamente soldati nel suo territorio statale, in rapporto alla sua popolazione, come l’Austria poteva farlo nel suo territorio e in rapporto alla sua popolazione enormemente più grandi: una guerra a fondo in questi termini, sarebbe sempre stata disastrosa per il Piemonte dopo un certo tempo. Posto il principio che l’«Italia fa da sé» bisognava o accettare la Confederazione tra eguali con gli altri Stati italiani, o proporsi l’unità politica territoriale su una tale base politica popolare che le masse fossero insorte contro gli altri governi e avessero costituito eserciti volontari che fossero accorsi accanto ai piemontesi. Ma appunto qui è la quistione: che non si può pretendere entusiasmo, spirito di sacrifizio ecc. su un programma astratto e per fiducia generica in un governo lontano. Questo è stato il dramma del 48, ma non si può inveire contro il popolo: la responsabilità è dei moderati e forse più ancora del Partito d’Azione, cioè in fondo della scarsissima efficienza della classe dirigente.

Q1 §119 La demagogia. Le osservazioni fatte sulla deficienza di direzione politico‑militare nel Risorgimento potrebbero essere ribattute con un argomento molto comune e molto frusto: «quegli uomini non furono demagoghi, non fecero della demagogia». Bisogna intendersi sulla parola e sul concetto di demagogia. Quegli uomini effettivamente non seppero guidare il popolo, non seppero destarne l’entusiasmo e la passione, se si intende demagogia nel suo significato primordiale. Ma essi raggiunsero il fine che si proponevano? Bisogna vedere: essi si proponevano di creare lo Stato moderno in Italia e non ci riuscirono, si proponevano di creare una classe dirigente diffusa ed energica e non ci riuscirono, di avvicinare il popolo allo Stato e non ci riuscirono. La meschina vita politica dal 70 al 900, il ribellismo elementare ed endemico delle classi popolari, la creazione stentata e meschina di un ceto dirigente scettico e poltrone sono la conseguenza di quella deficienza. In realtà poi gli uomini del Risorgimento furono dei grandissimi demagoghi: essi fecero del popolo‑nazione uno strumento, degradandolo, e in ciò consiste la massima demagogia, nel senso peggiorativo che la parola ha assunto in bocca dei partiti di destra, in polemica coi partiti di sinistra, sebbene siano i partiti di destra ad aver sempre esercitato la peggiore demagogia.

Q1 § 120. «Credetemi, non abbiate paura né dei bricconi né dei malvagi. Abbiate paura dell’onesto uomo che s’inganna; egli è in buona fede verso se stesso, crede il bene e tutti si fidano di lui; ma, sfortunatamente, s’inganna circa i mezzi di procurare il bene agli uomini». Questo spunto dell’abate Galiani era rivolto contro i «filosofi» del 700, contro i giacobini futuri, ma si attaglia a tutti i cattivi politici così detti in buona fede.

Q1 §121 Novara 1849. Nel febbraio 1849 Silvio Spaventa visitò a Pisa il D’Azeglio e di questo colloquio fa ricordo in uno scritto politico composto nell’ergastolo nel 1856: «Un uomo di Stato piemontese dei più illustri diceva a me un mese innanzi: noi non possiamo vincere, ma combatteremo di nuovo: la nostra sconfitta sarà la sconfitta di quel partito che oggi ci risospinge alla guerra; e tra una sconfitta e una guerra civile noi scegliamo la prima: essa ci darà la pace interna e la libertà e l’indipendenza del Piemonte, che non può darci l’altra. Le previsioni di quel saggio (!) uomo si avverarono. La battaglia di Novara fu perduta per la causa dell’indipendenza e guadagnata per la libertà del Piemonte. E Carlo Alberto fece, secondo me, il sacrifizio della sua corona più a questa che a quella». (Cfr Silvio Spaventa, Dal 1848 al 1861. Lettere, scritti, documenti, pubblicati da B. Croce, 2a ed., p. 58 nota).

Q1 §122 Spunti e stimoli. Il Macaulay attribuisce la facilità di farsi abbagliare da sofismi quasi puerili propria dei Greci anche più colti alla gran predominanza del discorso vivo e parlato nell’educazione e vita greca. L’abitudine della conversazione genera una certa facoltà di trovare con gran prontezza argomenti di qualche apparenza che chiudono momentaneamente la bocca all’avversario. Questa osservazione si può farla anche per alcune classi della vita moderna, come constatazioni di una debolezza (operai) e di causa di diffidenza (contadini, i quali rimuginando ciò che hanno sentito declamare e che li ha colpiti momentaneamente per il luccicare e trovandone le deficienze e la superficialità, finiscono con l’essere diffidenti per sistema).

Riferisce il Macaulay una sentenza di Eugenio di Savoia, il quale diceva che più grandi generali erano riusciti quegli che erano stati messi d’un tratto alla testa dell’esercito e nella necessità del pensare alle manovre grandi e complessive (chi è troppo minuzioso per professione, si burocratizza: vede l’albero e non più la foresta, il regolamento e non più la strategia). A proposito della prima osservazione si può aggiungere: che il giornale si avvicina molto alla conversazione, gli articoli di giornale sono in generale affrettati, improvvisati, simili in grandissima parte, per la rapidità dell’ideazione, ai discorsi da riunione. Sono pochi i giornali che hanno redattori specializzati e anche l’attività di questi è in gran parte improvvisata: la specializzazione serve di solito per improvvisare meglio e più rapidamente. Mancano nei giornali italiani le rassegne periodiche più ponderate e studiate (teatro, per esempio, politica economica ecc.; i collaboratori suppliscono solo in parte e poi non sempre sono di uno stesso indirizzo). Perciò la solidità di cultura può essere misurata in tre gradi: 1°, lettori di soli giornali; 2°, lettori di riviste; 3°, lettori di libri; senza tener conto di una grande moltitudine che non legge neanche i giornali e si forma le convinzioni attraverso la pura conversazione sporadica con individui del suo stesso livello generale che però leggono i giornali, e di quella che si forma le convinzioni assistendo a riunioni periodiche e nei periodi elettorali tenute da oratori di livelli diversissimi. Questa svogliatezza mi ha colpito specialmente a Milano, dove in carcere era permesso il «Sole»; tuttavia un certo numero, anche di politici, leggeva piuttosto la «Gazzetta dello Sport»; tra 2500 inquisiti, si vendevano al massimo 80 copie del «Sole»; più letti la «Gazzetta dello Sport», la «Domenica del Corriere», il «Corriere dei Piccoli».

Q1 §123 Cercare l’origine storica esatta di alcuni principi della pedagogia moderna: la scuola attiva ossia la collaborazione amichevole tra maestro e alunno; la scuola all’aperto; la necessità di lasciar libero, sotto il vigile ma non appariscente controllo del maestro, lo sviluppo delle facoltà spontanee dello scolaro.

La Svizzera ha dato un grande contributo alla pedagogia moderna (Pestalozzi ecc.), per la tradizione ginevrina di Rousseau; in realtà questa pedagogia è una forma confusa di filosofia connessa a una serie di regole empiriche. Non si è tenuto conto che le idee di Rousseau sono una reazione violenta alla scuola e ai metodi pedagogici dei gesuiti e in quanto tale rappresentano un progresso: ma si è poi formata una specie di chiesa che ha paralizzato gli studi pedagogici e ha dato luogo a delle curiose involuzioni (nelle dottrine di Gentile e del Lombardo‑Radice). La «spontaneità» è una di queste involuzioni: si immagina quasi che nel bambino il cervello sia come un gomitolo che il maestro aiuta a sgomitolare. In realtà ogni generazione educa la nuova generazione, cioè la forma, e l’educazione è una lotta contro gli istinti legati alle funzioni biologiche elementari, una lotta contro la natura, per dominarla e creare l’uomo «attuale» alla sua epoca. Non si tiene conto che il bambino da quando incomincia a «vedere e a toccare», forse da pochi giorni dopo la nascita, accumula sensazioni e immagini, che si moltiplicano e diventano complesse con l’apprendimento del linguaggio. La «spontaneità» se analizzata diventa sempre più problematica. Inoltre la «scuola», cioè l’attività educativa diretta, è solo una frazione della vita dell’alunno, che entra in contatto sia con la società umana sia con la societas rerum e si forma criteri da queste fonti «extrascolastiche» molto più importanti di quanto comunemente si creda. La scuola unica, intellettuale e manuale, ha anche questo vantaggio, che pone contemporaneamente il bambino a contatto con la storia umana e con la storia delle «cose» sotto il controllo del maestro.

Q1 §124 I futuristi. Un gruppo di scolaretti che sono scappati da un collegio di gesuiti, hanno fatto un po’ di baccano nel bosco vicino e sono stati ricondotti sotto la ferula dalla guardia campestre.

Q1 §125 1919. Articoli della «Stampa» contro i tecnici d’officina e clamorose pubblicazioni degli stipendi più alti. Bisognerebbe vedere se a Genova, la stampa degli armatori, fece la stessa campagna contro gli stati maggiori quando essi entrarono in agitazione e furono aiutati dagli equipaggi.

Q1 §126 1922. Articoli del senatore Raffaele Garofalo, alto magistrato di Cassazione, sull’«Epoca» di Roma a proposito della dipendenza della magistratura dal potere esecutivo e della giustizia amministrata con le circolari. Ma è specialmente interessante l’ordine di ragioni con cui il Garofalo sosteneva la necessità immediata di rendere indipendente la magistratura.

Q1 §127 La quistione dei giovani. Esistono molte «quistioni» dei giovani. Due mi sembrano specialmente importanti: 1°) La generazione «anziana» compie sempre l’educazione dei «giovani»; ci sarà conflitto, discordia ecc. ma si tratta di fenomeni superficiali, inerenti a ogni opera educativa e di raffrenamento, almeno che non si tratti di interferenze di classe, cioè i «giovani» (o una parte cospicua di essi) della classe dirigente (intesa nel senso più largo, non solo economico, ma politico‑morale) si ribellano e passano alla classe progressiva che è diventata storicamente capace di prendere il potere: ma in questo caso si tratta di «giovani» che dalla direzione degli «anziani» di una classe passano alla direzione degli «anziani» di un’altra classe: in ogni caso rimane la subordinazione reale dei «giovani» agli «anziani» come generazione, pur con le differenze di temperamento e di vivacità su ricordate; 2°) Quando il fenomeno assume un carattere cosidetto «nazionale», cioè non appare apertamente l’interferenza di classe, allora la quistione si complica e diventa caotica. I «giovani» sono in istato di ribellione permanente, perché persistono le cause profonde di essa, senza che ne sia permessa l’analisi, la critica e il superamento (non concettuale e astratto, ma storico e reale); gli «anziani» dominano di fatto, ma... «après moi le déluge», non riescono a educare i giovani, a prepararli alla successione. Perché? Ciò significa che esistono tutte le condizioni perché gli «anziani» di un’altra classe debbano dirigere questi giovani, senza che possano farlo per ragioni estrinseche di compressione politico‑militare. La lotta, di cui si sono soffocate le espressioni esterne normali, si attacca come una cancrena dissolvente alla struttura della vecchia classe, debilitandola e imputridendola: assume forme morbose, di misticismo, di sensualismo, di indifferenza morale, di degenerazioni patologiche psichiche e fisiche ecc. La vecchia struttura non contiene e non riesce a dare soddisfazione alle esigenze nuove: la disoccupazione permanente o semipermanente dei così detti intellettuali è uno dei fenomeni tipici di questa insufficienza, che assume carattere aspro per i più giovani, in quanto non lascia «orizzonti aperti». D’altronde questa situazione porta ai «quadri chiusi» di carattere feudale‑militare, cioè inacerbisce essa stessa i problemi che non sa risolvere.

Q1 §128 Religione come principio e clero come classe-ordine feudale. Quando si esalta la funzione che la chiesa ha avuto nel medio evo a favore delle classi inferiori, si dimentica semplicemente una cosa: che tale funzione non era legata alla chiesa come esponente di un principio religioso-morale, ma alla chiesa come organizzazione di interessi economici molto concreti, che doveva lottare contro altri ordini che avrebbero voluto diminuire la sua importanza. Questa funzione fu dunque subordinata e incidentale: ma il contadino non era meno taglieggiato dalla chiesa che dai signori feudali. Si può forse dire questo: che la «chiesa» come comunità dei fedeli conservò e sviluppò determinati principi politico‑morali in opposizione alla chiesa come organizzazione clericale, fino alla Rivoluzione francese i cui principii sono propri della comunità dei fedeli contro il clero ordine feudale alleato al re e ai nobili: perciò molti cattolici considerano la Rivoluzione francese come uno scisma e un’eresia, cioè una rottura tra pastore e gregge, dello stesso tipo della Riforma, ma storicamente più matura, perché avvenuta sul terreno del laicismo: non preti contro preti, ma fedeli‑infedeli contro preti. Il vero punto di rottura tra democrazia e Chiesa è da porre però nella Controriforma, quando la Chiesa ebbe bisogno del braccio secolare (in grande stile) contro i luterani e abdicò alla sua funzione democraticaAggiunto in epoca posteriore..

Q1 §129 Il più diffuso luogo comune a proposito del Risorgimento è quello di ripetere in vari modi che tale rivolgimento storico si poté operare per merito delle sole classi colte. Dove sia il merito è difficile capire. Merito di una classe colta perché sua funzione storica è quella di dirigere le masse popolari: se la classe colta non è riuscita a compiere la sua funzione, non deve certo parlarsi di merito ma di demerito, cioè di immaturità e debolezza intima.

Q1 §130 Italia reale e Italia legale. La formula escogitata dai clericali dopo il 70 per indicare il disagio politico nazionale: contraddizione tra Italia legale e Italia reale. A Torino uscì fino a qualche anno avanti la guerra un quotidiano (poi settimanale) «L’Italia reale», diretto dall’avv. Scala e organo del più nero clericalismo. Come sorse la formula, da chi fu escogitata e quale giustificazione teorico‑politico‑morale ne fu data? Occorre farne la ricerca («Civiltà Cattolica», primi numeri della stessa «Italia reale» di Torino ecc.). Essa in generale è felice, perché esisteva un distacco netto tra lo Stato (legalità) e la società civile (realtà), ma questa società civile era tutta e solamente nel «clericalismo»? Intanto questa stessa società civile era qualcosa di informe e caotico e tale rimase per molti decenni; quindi fu possibile allo Stato dominarla, superando volta a volta le contraddizioni che si presentavano in forma sporadica, localistica, senza nesso nazionale. Il clericalismo non era dunque neanche esso l’espressione di questa società civile, perché non riuscì ad organizzarla nazionalmente, quantunque esso fosse una forte e compatta (formalmente) organizzazione nazionale. Intanto questa organizzazione non era politicamente omogenea ed aveva paura delle stesse masse che dominava in un certo senso. La formula del «non expedit» fu la espressione di questa paura ed incertezza; il boicottaggio parlamentare, che si presentava come un atteggiamento aspramente intransigente, era in realtà espressione del più piatto opportunismo. L’esperienza politica, specialmente francese, aveva dimostrato che il suffragio universale e il plebiscito a base larghissima poteva essere un apparato favorevolissimo alle tendenze reazionarie clericali (vedi a questo proposito le ingenue osservazioni di Jacques Bainville nella sua Storia della Francia che implicitamente rimprovera al legittimismo di non avere avuto fiducia nel suffragio universale, come invece aveva fatto Napoleone III); ma il clericalismo sentiva di non essere l’espressione reale della «società civile» italiana e che un successo sarebbe stato effimero e avrebbe determinato l’attacco frontale delle forze nuove evitato nel 1870. Esperienza del suffragio allargato nel 1882 e reazione crispina. Tuttavia l’atteggiamento clericale di mantenere statico il dissidio tra Stato e società civile era obbiettivamente «sovversivo» e una nuova organizzazione espressa dalle forze maturanti in questa società poteva giovarsene come campo di manovra per attaccare lo Stato; perciò la reazione statale nel 98 abbatté insieme e socialismo e clericalismo, giudicandoli giustamente ugualmente «sovversivi» e obbiettivamente alleati. Di ciò si accorse anche il Vaticano, e quindi da questo momento comincia la sua nuova politica, l’abbandono reale del «non expedit» anche nel campo parlamentare (il comune era tradizionalmente considerato società civile e non Stato). Ciò permette l’introduzione del suffragio universale, il patto Gentiloni e quindi la fondazione del Partito Popolare nel 1919. La quistione permane (di Italia reale e legale) ma su un piano più elevato politico e storico, e perciò episodi del 24‑26 fino a soppressione di tutti i partiti, con l’affermazione di una raggiunta identità tra reale e legale, perché la «società civile» in tutte le sue forme dominata da una sola organizzazione statale — di partito.

Q1 §131 Bainville e il suffragio universale in Francia. L’affermazione di Bainville sul suffragio universale che poteva (e potrebbe servire) anche al legittimismo come servì a Napoleone III, è ingenua, perché basata su un ingenuo e astrattamente scemo sociologismo. Il suffragio universale è considerato come uno schema sociologico, astratto dal tempo e dallo spazio. Nella realtà della storia francese ci sono stati diversi «suffragi universali» secondo che mutarono storicamente i rapporti economico‑politici. Le crisi del «suffragio universale» in Francia sono determinate dai rapporti tra Parigi e la provincia. Parigi vuole il suffragio universale nel 48, ma esso esprime un Parlamento reazionario‑clericale che permette a Napoleone III di fare la sua carriera. Nel 71 Parigi ha fatto un gran passo in avanti perché si ribella all’Assemblea nazionale formata dal suffragio universale, cioè implicitamente Parigi «capisce» che tra progresso e suffragio universale «può» esserci conflitto, ma questa esperienza storica, di valore inestimabile, è perduta immediatamente, perché i portatori di essa vengono fisicamente soppressi: non c’è sviluppo normale quindi. Il suffragio universale e la democrazia coincidono sempre più con l’affermarsi del partito radicale francese e la lotta anticlericale: Parigi perde la sua unità rivoluzionaria (il sindacalismo è l’espressione di questo stato di cose: l’astensionismo elettorale e l’economismo puro sono l’apparenza «intransigente» di questa abdicazione di Parigi al suo ruolo di testa rivoluzionaria della Francia, sono cioè anch’essi piatto opportunismo, il postumo del salasso del 1871) e la sua «democrazia» rivoluzionaria si scinde in classi: piccolo borghesi radicali e operai di fabbrica formalmente intransigenti, in realtà legati al radicalismo‑socialismo che unifica su un piano intermedio città e campagna. Dopo la guerra riprende lo sviluppo, ma esso è ancora incerto.

Q1 §132 L’idealismo attuale e il nesso ideologia‑filosofia. L’idealismo attuale fa coincidere ideologia e filosofia (ciò significa in ultima analisi l’unità da esso postulata fra reale e ideale, tra pratica e teoria ecc.), cioè è una degradazione della filosofia tradizionale rispetto all’altezza cui l’aveva portata il Croce con le sue «distinzioni». Questa degradazione è visibilissima negli sviluppi che l’idealismo attuale mostra nei discepoli del Gentile: i «Nuovi Studi» diretti da Ugo Spirito e A. Volpicelli sono il documento più vistoso che io conosca di questo fenomeno. L’unità di ideologia e filosofia, quando avviene in questo modo riporta a una nuova forma di sociologismo, né storia né filosofia cioè, ma un insieme di schemi astratti sorretti da una fraseologia tediosa e pappagallesca. La resistenza del Croce a questa tendenza è veramente «eroica»: il Croce, secondo me, ha viva la coscienza che tutti i movimenti di pensiero moderni portano a una rivalutazione trionfale del materialismo storico, cioè al capovolgimento della posizione tradizionale del problema filosofico e alla morte della filosofia intesa nel modo tradizionale. Egli resiste con tutte le sue forze a questa pressione della realtà storica, con una intelligenza eccezionale dei pericoli e dei mezzi dialettici di ovviarli. Perciò lo studio dei suoi scritti dal 19 ad oggi è del maggior valore: la preoccupazione del Croce nasce con la guerra mondiale e con la sua affermazione che essa è la «guerra del materialismo storico». La sua posizione «au dessus», in un certo senso, è già indice di tale preoccupazione ed è un allarme (nella guerra «ideologia e filosofia» entrarono in frenetico connubio). Anche certi suoi atteggiamenti recentissimi (verso il libro del De Man, libro Zibordi ecc.) non possono spiegarsi altrimenti perché molto in contraddizione con sue posizioni «ideologiche» (pratiche) di prima della guerra.

Q1 §133 Arte militare e arte politica. Ancora degli arditi. I rapporti che esistettero nel 17‑18 tra le formazioni di arditi e l’esercito nel suo complesso possono portare ed hanno portato già i dirigenti politici ad erronee impostazioni di piani di lotta. Si dimentica: 1°) che gli arditi sono semplici formazioni tattiche e presuppongono sì un esercito poco efficiente, ma non completamente inerte: perché se la disciplina e lo spirito militare si sono allentati fino a consigliare una nuova disposizione tattica, essi esistono ancora in una certa misura, cui appunto corrisponde la nuova formazione tattica; altrimenti ci sarebbe stata, senz’altro, la disfatta e la fuga; 2°) che non bisogna considerare l’arditismo come un segno della combattività generale della massa militare, ma viceversa, come un segno della sua passività e della sua relativa demoralizzazione.

Ciò sia detto mantenendo implicito il criterio generale che i paragoni tra l’arte militare e la politica sono sempre da stabilire cum grano salis, cioè solo come stimoli al pensiero e come termini semplificativi ad absurdum: infatti nella milizia politica manca la sanzione penale implacabile per chi sbaglia o non obbedisce esattamente, manca il giudizio marziale, oltre al fatto che lo schieramento politico non è neanche lontanamente paragonabile allo schieramento militare. Nella lotta politica oltre alla guerra di movimento e alla guerra d’assedio o di posizione, esistono altre forme. Il vero arditismo, cioè l’arditismo moderno, è proprio della guerra di posizione, così come si è rivelata nel 14‑18. Anche la guerra di movimento e la guerra d’assedio dei periodi precedenti avevano i loro arditi, in un certo senso: la cavalleria leggera e pesante, i bersaglieri ecc., le armi celeri in generale avevano in parte una funzione di arditi; così nell’arte di organizzare le pattuglie era contenuto il germe dell’arditismo moderno. Nella guerra d’assedio più che nella guerra di movimento era contenuto questo germe: servizio di pattuglie più estese e specialmente arte di organizzare sortite improvvise e improvvisi assalti con elementi scelti.

Un altro elemento da tener presente è questo: che nella lotta politica non bisogna scimiottare i metodi di lotta delle classi dominanti, senza cadere in facili imboscate. Nelle lotte attuali questo fenomeno si verifica spesso: una organizzazione statale indebolita è come un esercito infiacchito: entrano in campo gli arditi, cioè le organizzazioni armate private, che hanno due compiti: usare l’illegalità, mentre lo Stato sembra rimanere nella legalità, come mezzo di riorganizzare lo Stato stesso. Credere che alla attività privata illegale si possa contrapporre un’altra attività simile, cioè combattere l’arditismo con l’arditismo è una cosa sciocca; vuol dire credere che lo Stato rimanga eternamente inerte, ciò che non avviene mai, a parte le altre condizioni diverse. Il carattere di classe porta a una differenza fondamentale: una classe che deve lavorare ogni giorno a orario fisso non può avere organizzazioni d’assalto permanenti e specializzate, come una classe che ha ampie disponibilità finanziarie e non è legata, in tutti i suoi membri, a un lavoro fisso. In qualsiasi ora del giorno e della notte, queste organizzazioni, divenute professionali, possono vibrare colpi decisivi e cogliere alla sprovvista. La tattica degli arditi non può avere dunque per certe classi la stessa importanza che per altre; a certe classi è necessaria, perché propria, la guerra di movimento e di manovra, che nel caso della lotta politica, può combinare un utile e forse indispensabile uso della tattica da arditi. Ma fissarsi nel modello militare è da sciocchi: la politica deve, anche qui, essere superiore alla parte militare e solo la politica crea la possibilità della manovra e del movimento.

Da tutto ciò che si è detto risulta che nel fenomeno dell’arditismo militare, occorre distinguere tra funzione tecnica di arma speciale legata alla moderna guerra di posizione e funzione politico‑militare: come funzione di arma speciale l’arditismo si è avuto in tutti gli eserciti della guerra mondiale; come funzione politico‑militare si è avuta nei paesi politicamente non omogenei e indeboliti, quindi aventi come espressione un esercito nazionale poco combattivo e uno stato maggiore burocratizzato e fossilizzato nella carriera.

Q1 §134 Lotta politica e guerra militare. Nella guerra militare, raggiunto il fine strategico, distruzione dell’esercito nemico e occupazione del suo territorio, si ha la pace. È inoltre da osservare che perché la guerra finisca, basta che il fine strategico sia raggiunto solo potenzialmente: basta cioè che non ci sia dubbio che un esercito non può più combattere e che l’esercito vittorioso «può» occupare il territorio nemico. La lotta politica è enormemente più complessa: in un certo senso può essere paragonata alle guerre coloniali o alle vecchie guerre di conquista, quando cioè l’esercito vittorioso occupa o si propone di occupare stabilmente tutto o una parte del territorio conquistato. Allora l’esercito vinto viene disarmato e disperso, ma la lotta continua nel terreno politico e di «preparazione» » militare. Così la lotta politica dell’India contro gli Inglesi (e in una certa misura della Germania contro la Francia o dell’Ungheria contro la Piccola Intesa) conosce tre forme di guerre: di movimento, di posizione e sotterranea. La resistenza passiva di Gandhi è una guerra di posizione, che diventa guerra di movimento in certi momenti e in altri guerra sotterranea: il boicottaggio è guerra di posizione, gli scioperi sono guerra di movimento, la preparazione clandestina di armi e di elementi combattivi d’assalto è guerra sotterranea. C’è una forma di arditismo, ma essa è impiegata con molta ponderazione. Se gli Inglesi avessero la convinzione che si prepara un grande movimento insurrezionale destinato ad annientare l’attuale loro superiorità strategica (che consiste in un certo senso nella loro possibilità di manovrare per linee interne e di concentrare le loro forze nel punto «sporadicamente» più pericoloso) col soffocamento di massa, cioè costringendoli a diluire le forze in un teatro bellico divenuto simultaneamente generale, ad essi converrebbe provocare l’uscita prematura delle forze combattenti indiane per identificarle e decapitare il movimento generale. Così alla Francia converrebbe che la destra nazionalista tedesca fosse coinvolta in un colpo di stato avventuroso, che costringerebbe l’organizzazione militare illegale sospettata a manifestarsi prematuramente, permettendo un intervento, tempestivo dal punto di vista francese. Ecco che in queste forme di lotta miste, a carattere militare fondamentale e a carattere politico preponderante (ma ogni lotta politica ha sempre un sostrato militare), l’impiego degli arditi domanda uno sviluppo tattico originale, alla concezione del quale l’esperienza di guerra può dare solo uno stimolo, non un modello.

Una trattazione a parte deve avere la quistione dei «comitagi» balcanici, che sono legati a particolari condizioni dell’ambiente fisico‑geografico regionale, alla formazione delle classi rurali e anche all’efficienza reale dei governi. Così è delle bande irlandesi, la cui forma di guerra e di organizzazione era legata alla struttura sociale irlandese. I cornitagi, gli irlandesi, e le altre forme di guerra da partigiani devono essere staccate dalla quistione dell’arditismo, sebbene paiano avere con esso punti di contatto. Queste forme di lotta sono proprie di minoranze deboli ma esasperate contro maggioranze bene organizzate: mentre l’arditismo moderno presuppone una grande riserva, immobilizzata per varie ragioni, ma potenzialmente efficiente, che lo sostiene e lo alimenta con apporti individuali.

Q1 §135 Americanismo. L’articolo di Carlo Pagni A proposito di un tentativo di teoria pura del corporativismo («Riforma Sociale», settembre‑ottobre 1929) esamina il volume di N. Massimo Fovel Economia e corporativismo (Ferrara, S.A.T.E., 1929) e accenna a un altro scritto dello stesso Rendita e salario nello Stato Sindacale (Roma, 1928), ma non si accorge che il Fovel in questi scritti fa del «corporativismo» la premessa all’introduzione in Italia dei sistemi industriali americani. Sarebbe interessante sapere se il Fovel scrive «estraendo dal suo cervello» o ha dietro di sé (praticamente, non solo teoricamente) delle forze economiche che lo sorreggono e lo spingono. La figura del Fovel è interessante per più rispetti; in un certo senso rientra nella galleria del tipo Ciccotti‑Naldi‑Bazzi‑Preziosi ecc., ma è più complessa.

Il Fovel, che io sappia, ha cominciato come «radicale», prima della guerra: egli voleva ringiovanire il movimento radicale tradizionale, civettando un po’ coi repubblicani specialmente federalisti o regionalisti («Critica Politica» di Oliviero Zuccarini). Durante la guerra doveva essere giolittiano. Nel 1919 entra nel P.S. a Bologna, ma non scrive mai nell’«Avanti! ». Nel 19 (o nel 18 ancora?) lo conobbi a Torino molto di sfuggita. Gli industriali torinesi avevano acquistato la vecchia e malfamata «Gazzetta di Torino» per farne un loro organo. Ebbi l’impressione che il Fovel aspirasse a diventare il direttore della nuova combinazione; certo egli era in contatto con gli ambienti industriali. Invece direttore fu chiamato Tomaso Borelli, giovane liberale, al quale successe Italo Minunni dell’«Idea Nazionale» (la «Gazzetta di Torino» diventò il «Paese», ma non attecchì e fu soppressa). Nel 19 il Fovel mi scrisse una lettera curiosa, in cui diceva che «sentiva il dovere» di collaborare all’«Ordine Nuovo» settimanale; gli risposi fissando i limiti della sua possibile collaborazione, molto freddamente e seccamente e non ne ebbi più notizia.

Il Fovel passò alla banda Passigli‑Gardenghi‑Martelli, che aveva fatto dei «Lavoratore» di Trieste un centro d’affari assai lucroso e che doveva avere dei contatti con l’ambiente industriale torinese. È notevole a questo proposito il tentativo di Passigli di trasportarmi a Trieste, come redattore del «Lavoratore», la cui amministrazione avrebbe gestito anche l’O.N. conservandone io la direzione (Passigli venne a Torino per parlarmi e sottoscrisse 100 lire per l’O.N.): io rifiutai e non volli neanche essere collaboratore del «Lavoratore». Nel 21 negli uffici del «Lavoratore» furono trovate delle carte appartenenti a Fovel e a Gardenghi, da cui appariva che essi giocavano in borsa sui valori tessili e, durante lo sciopero dei tessili veneti guidato dai sindacalisti di Nicola Vecchi, dirigevano il giornale secondo gli interessi del loro gioco. Dopo Livorno non so cosa abbia fatto il Fovel. Nel 25 salta fuori ancora nell’«Avanti! » di Nenni e Gardenghi e imposta la campagna per i prestiti americani, subito sfruttata dalla «Gazzetta del Popolo» legata all’ing. Ponti della S.I.P. Nel 25‑26 il Fovel collaborò spesso alla «Voce Repubblicana». Oggi sostiene il «corporativismo» come premessa all’americanizzazione e scrive nel «Corriere Padano» di Ferrara.

Ciò che mi pare interessante nella tesi del Fovel è la sua concezione della corporazione come di un blocco industriale‑produttivo autonomo, destinato a risolvere in senso moderno il problema dell’apparato economico in senso accentuatamente capitalistico, contro gli elementi parassitari della società che prelevano una troppo grossa taglia sul plusvalore, contro i così detti «produttori di risparmio». La produzione del risparmio dovrebbe dunque essere funzione dello stesso blocco produttivo, attraverso un accrescimento della produzione a costo decrescente, attraverso la creazione di una più grande massa di plusvalore, che permetta più alti salari e quindi un più capace mercato interno e un risparmio operaio e più alti profitti e quindi una maggiore capitalizzazione diretta nel seno stesso delle aziende e non atraverso l’intermediario dei «produttori di risparmio» che in realtà sono divoratori di plusvalore. Il Pagni ha ragione quando dice che non si tratta di una nuova economia politica ma di una nuova politica economica; le sue obbiezioni pertanto, concretamente, non sono altro che la constatazione dell’ambiente arretrato italiano per un simile rivolgimento economico.

L’errore del Fovel consiste nel non tener conto della funzione economica dello Stato in Italia e del fatto che il regime corporativo ha avuto origini di polizia economica, non di rivoluzione economica. Gli operai italiani non si sono mai opposti neppure passivamente alle innovazioni industriali tendenti a una diminuzione dei costi, alla razionalizzazione del lavoro, all’introduzione di meccanismi più perfetti e di più perfette organizzazioni del complesso aziendale; tutt’altro. Ciò è avvenuto in America e ha portato alla liquidazione dei sindacati liberi e alla loro sostituzione con un sistema di isolate (fra loro) organizzazioni di azienda. Un’analisi accurata della storia italiana prima del 22, che non si lasciasse allucinare dal carnevale esterno, ma sapesse cogliere i motivi profondi del movimento, dovrebbe giungere alla conclusione che proprio gli operai furono i portatori delle nuove esigenze industriali e a modo loro le affermarono strenuamente: si può dire anche che alcuni industriali si accorsero di ciò e cercarono di servirsene (tentativi di Agnelli di assorbire nel complesso Fiat l’O.N. e la sua scuola).

Ma a parte queste considerazioni, si presenta la quistione: ormai le corporazioni esistono, esse creano le condizioni in cui le innovazioni industriali possono essere introdotte su larga scala, perché gli operai né possono opporsi a ciò, né possono lottare per essere essi stessi i portatori di questo rivolgimento. La quistione è essenziale, è l’hic Rhodus della situazione italiana: dunque le corporazioni diventeranno la forma di questo rivolgimento per una di quelle «astuzie della provvidenza» che fa sì che gli uomini senza volerlo ubbidiscano agli imperativi della storia. Il punto essenziale è qui: può ciò avvenire? Si è portati necessariamente a negarlo. La condizione suddetta è una delle condizioni, non la sola condizione e neanche la più importante; è solo la più importante delle condizioni immediate.

L’americanizzazione richiede un ambiente dato, una data conformazione sociale e un certo tipo di Stato. Lo Stato è lo Stato liberale, non nel senso del liberalismo doganale, ma nel senso più essenziale della libera iniziativa e dell’individualismo economico, giunto con mezzi spontanei, per lo stesso sviluppo storico, al regime dei monopoli. La sparizione dei redditieri in Italia è una condizione del rivolgimento industriale, non una conseguenza: la politica econornico‑finanziaria dello Stato è la molla di questa sparizione: ammortamento del debito pubblico, nominatività dei titoli, tassazione diretta e non indiretta. Non pare che questa sia la direzione attuale della politica o stia per diventarlo. Anzi. Lo Stato va aumentando i redditicri e creando dei quadri chiusi sociali. In realtà finora il regime corporativo ha funzionato per sostenere posizioni pericolanti di classi medie, non per eliminare queste e sta diventando, per gli interessi costituiti che crea, una macchina di conservazione dell’esistente così com’è e non una molla di propulsione. Perché? Perché il regime corporativo è in dipendenza della disoccupazione e non dell’occupazione: difende agli occupati un certo minimo di vita, che se fosse libera la concorrenza crollerebbe anch’esso, provocando gravi rivolgimenti sociali. Benissimo: ma il regime corporativo, nato in dipendenza di questa situazione delicatissima, di cui bisogna mantener l’equilibrio essenziale a tutti i costi, per evitare un’immane catastrofe potrebbe procedere a tappe piccolissime, insensibili, che modifichino la struttura sociale senza scosse repentine: anche il bambino meglio e più solidamente fasciato si sviluppa normalmente. Ed ecco perché occorrerebbe sapere se il Fovel è la voce di un individuo singolo o l’esponente di forze economiche che cercano la loro via. In ogni caso il processo sarebbe lunghissimo e nuove difficoltà, nuovi interessi che nel frattempo si costituiranno, faranno opposizione tenace al suo sviluppo regolare.

Q1 §136 Novecentismo di Bontempelli. Il manifesto del «900» di Bontempelli è l’articolo di Prezzolini Viva l’artificio! pubblicato nel 1915 e ristampato a p. 51 della raccolta di articoli del Prezzolini Mi pare... (Fiume, Edizioni Delta, 1925). Una quantità di spunti contenuti in quest’articolo sono stati svolti e illanguiditi dal Bontempelli, perché divenuti meccanici. La sua commedia Nostra Dea del 1925 è una meccanica estensione delle parole di Prezzolini riportate a pagina 56. È notevole che l’articolo di Prezzolini è molto goffo e pedantesco; risente dello sforzo fatto dall’autore dopo l’esperienza di «Lacerba» per diventare più leggero e brioso; ciò che potrebbe essere espresso in un epigramma viene masticato e rimasticato con molte smorfie tediose. Bontempelli imita la goffaggine moltiplicandola. Un epigramma in Prezzolini diventa un articolo, in Bontempelli un volume.

Q1 §137 Novecentisti e strapaesani. Barocco e Arcadia adattati ai tempi moderni.

Q1 §138 Risorgimento. Se è vero che la vita concreta degli Stati è fondamentalmente vita internazionale, è anche vero che la vita degli Stati italiani fino al 1870 e cioè la «storia italiana» è più «storia internazionale» che storia «nazionale».

Q1 §139 Azione Cattolica. Può farsi un qualsiasi paragone tra l’Azione Cattolica e le istituzioni come i terziari francescani? Credo di no, quantunque sia bene accennarvi introduttivamente, per meglio definire i caratteri dell’A.C. stessa. Certo la creazione dei terziari è molto interessante ed ha un carattere democratico; essa illumina meglio il carattere del francescanesimo, come ritorno alla chiesa primitiva, comunità di fedeli e non solo del clero come era venuta sempre più diventando. Perciò sarebbe bene studiare la fortuna di questa iniziativa, che non è stata grande, perché il francescanesimo non divenne tutta la religione, come era nell’intenzione di Francesco, ma si ridusse a uno dei tanti ordini esistenti. L’A.C. segna l’inizio di un’epoca nuova nella storia della religione cattolica: quando essa da concezione totalitaria del mondo, diventa solo una parte e deve avere un partito. I diversi ordini religiosi rappresentano la reazione della chiesa (comunità dei fedeli o comunità del clero), dal basso o dall’alto, contro la disgregazione della concezione (eresie, scismi ecc.): l’A.C. rappresenta la reazione contro l’apostasia di masse intiere, cioè contro il superamento di massa della concezione religiosa del mondo. Non è più la Chiesa che fissa il terreno e i mezzi della lotta; deve accettare il terreno impostole dal di fuori e servirsi di armi tolte dall’arsenale dei suoi avversari (l’organizzazione di massa). La Chiesa è sulla difensiva, cioè, ha perduto l’autonomia dei movimenti e delle iniziative, non è più una potenza ideologica mondiale, ma solo una forza subalterna.

Q1 §140 La costituzione spagnola del 12 nel Risorgimento. Perché fu così popolare? Bisognerebbe confrontarla con le altre costituzioni promulgate nel 48. Certo era molto liberale, specialmente nel fissare le prerogative del parlamento e dei parlamentari.

Q1 §141 Americanismo. Dal Trastullo di Strapaese di Mino Maccari (Firenze, Vallecchi, 1928).

Per un ciondolo luccicante / Il tuo paese non regalare: / Il forestiero è trafficante / Dargli retta non è affare / Se tu fossi esperto e scaltro / Ogni mistura terresti discosta: / Chi ci guadagna è sempre quell’altro / Che la tua roba un mondo costa / Val più un rutto del tuo pievano / Che l’America e la sua boria: Dietro l’ultimo italiano / C’è cento secoli di storia / ... Tabarino e ciarlestone / Ti fanno dare in ciampanelle / O Italiano ridatti al trescone / Torna a mangiare il centopelle / Italiano torna alle zolle / Non ti fidar delle mode di Francia / Bada a mangiar pane e cipolle / E terrai a dovere la pancia.

Il Maccari, però, è andato a fare il redattore capo della «Stampa» di Torino, a mangiar cipolle nel centro più stracittadino e industriale d’Italia.

Q1 § 142. Giuseppe Prezzolini e gli intellettuali. Il Codice della vita italiana (Editrice la S. A. «La Voce» di Firenze, 1921) conchiude il periodo prezzoliniano originario, di scrittore moralista sempre in campagna per rinnovare e ammodernare la cultura italiana. Dopo egli entra in crisi, con alti e bassi curiosissimi, fino a imbrancarsi nella corrente tradizionale e a lodare ciò che aveva vituperato.

Una fase di questa crisi è rappresentata dalla lettera del 1923 a P. Gobetti Per una società degli Apoti, ripubblicata nel volumetto Mi pare... (Fiume, Edizioni Delta, 1925). Sente che la sua posizione di «spettatore» è «un po’, un pochino, vigliacca». «Non sarebbe nostro dovere di prender parte? Non c’è qualche cosa di uggioso, di antipatico, di mesto, nello spettacolo di questi giovani ... che stanno (quasi tutti) fuori della lotta, guardando i combattenti e domandandosi soltanto come si danno i colpi e perché e per come?». Trova la soluzione, comoda: «Il nostro compito, la nostra utilità, per il momento presente ed anche ... per le contese stesse che ora dividono e operano, per il travaglio stesso nel quale si prepara il mondo di domani, non può essere che quello al quale ci siamo messi e cioè di chiarire delle idee, di far risaltare dei valori, di salvare, sopra le lotte, un patrimonio ideale, perché possa tornare a dare frutti nei tempi futuri». Il suo modo di vedere la situazione è strabiliante: «Il momento che si traversa è talmente credulo, fanatico, partigiano, che un fermento di critica, un elemento di pensiero, un nucleo di gente che guardi sopra agli interessi, non può che fare del bene. Non vediamo tanti dei migliori accecati? Oggi tutto è accettato dalle folle: il documento falso, la leggenda grossolana, la superstizione primitiva vengono ricevute senza esame, a occhi chiusi, e proposte come rimedio materiale e spirituale. E quanti dei capi hanno per aperto programma la schiavitù dello spirito come rimedio agli stanchi, come rifugio ai disperati, come sanatutto ai politici, come calmante agli esasperati. Noi potremmo chiamarci la congregazione degli Apoti, di “coloro che non le bevono”, tanto non solo l’abitudine ma la generale volontà di berle è evidente e manifesta ovunque».

Un’affermazione digesuitismo sofistico singolare: «Ci vuole che una minoranza, adatta a ciò, si sacrifichi se occorre e rinunzi a molti successi esterni, sacrifichi anche il desiderio di sacrifizio e di eroismo, non dirò per andare proprio contro corrente, ma stabilendo un punto solido, dal quale il movimento in avanti riprenderà», ecc. ecc.

Differenze tra Prezzolini e Gobetti: vedere se questa lettera ha avuto risposta e come.

Q1 §143 Qualità e quantità. Nel mondo della produzione significa nient’altro che buon mercato e alto prezzo, cioè soddisfazione o no dei bisogni elementari delle classi popolari ed elevazione o depressione del loro tenore di vita. Tutto il resto è romanzo ideologico d’appendice. In un’azienda‑nazione dove esiste molta mano d’opera e poche materie prime, il grido: «Qualità» significa solo voler impiegare molto lavoro su poca materia, cioè voler specializzarsi per un mercato di lusso. Ma è possibile ciò? 1°) Dove esiste molta materia prima sono possibili i due sistemi, qualitativo e quantitativo, mentre non c’è reciproca per i paesi poveri; 2°) La produzione quantitativa può essere anche qualitativa, cioè fare la concorrenza all’industria puramente qualitativa tra quella parte della classe consumatrice di oggetti «distinti» che non è tradizionalista perché di nuova formazione; 3°) Quale industria procurerà gli oggetti di consumo delle classi povere? Si formerà una situazione di divisione internazionale del lavoro?

Si tratta insomma di una formula da letterati perdigiorno, e di politici demagogici che nascondono la testa per non vedere la realtà. La qualità dovrebbe attribuirsi agli uomini e non alle cose. E la qualità umana si eleva nella misura in cui l’uomo soddisfa un maggior numero di bisogni e se ne rende quindi indipendente. Il caro prezzo del pane, dovuto al fatto di voler mantenere legata a determinate attività una maggior quantità di uomini, porta alla denutrizione. La politica della qualità determina sempre il suo opposto: quantità squalificata.

Q1 §144 Auguste Boullier, L’île de Sardaigne. Description, Histoire, Statistique, Mœurs, État social, Paris, E. Dentu, 1865. Il Boullier fu in Sardegna quando si parlava di una sua cessione alla Francia. Scrisse anche un altro volume, Le Dialecte et les Chants Populaires de la Sardaigne. Il libro è ormai senza valore. È interessante per alcuni aspetti. Il Boullier cerca di spiegare le cause delle difficoltà che si presentarono in Sardegna contro la sparizione dei relitti feudali (beni collettivi ecc.), ciò che ringalluzziva i sostenitori dell’antico regime. Naturalmente il Boullier, che si pone da un puro punto di vista ideologico, non capisce niente della quistione. Vi sono ricordati inoltre alcuni elementi interessanti i rapporti internazionali della Sardegna e la sua importanza nel Mediterraneo: per es. la insistenza di Nelson perché il governo inglese comprasse la Sardegna dal re (di Piemonte) dietro un canone di 500 000 sterline annue. Secondo Nelson la Sardegna strategicamente è superiore a Malta; inoltre potrebbe diventare economicamente redditizia sotto una gestione inglese, mentre Malta economicamente sarà sempre passiva.

Q1 §145 Il talento. Hofmannsthal rivolse a Strauss queste parole, a proposito dei detrattori del musicista: «Abbiamo buona volontà, serietà, coerenza, il che val di più del malaugurato talento, di cui è fornito ogni briccone». (Ricordato da L. Beltrami in un articolo sullo scultore Quadrelli nel «Marzocco» del 2 marzo 1930).

Q1 §146 Nella recensione fatta da A. De Pietri Tonelli nella «Rivista di politica economica» (febbraio 1930) del libro di Anthony M. Ludovici, Woman. A vindication (2a ed., 1929, Londra) si dice: «Quando le cose vanno male nella struttura sociale di una nazione, a cagione della decadenza nelle capacità fondamentali dei suoi uomini, afferma l’autore, due distinte tendenze sembrano sempre rendersi rilevabili: la prima è quella di interpretare cambiamenti, che sono puramente e semplicemente segni della decadenza e della rovina di vecchie e sane istituzioni, come sintomi di progresso; la seconda, dovuta alla giustificata perdita di confidenza nella classe governante, è di dare a ciascuno, abbia o ho le qualità volute, la sicurezza di essere indicato per fare uno sforzo al fine di aggiustare le cose». L’autore fa del femminismo un’espressione di questa seconda tendenza (ciò che è errato, perché l’affermazione di essere una cosa non è la prova che lo si sia: il femminismo ha cause più vaste e profonde). L’autore domanda una rinascita del «maschilismo».

Q1 §147 «In mille circostanze della mia vita ho dato a conoscere essere veramente il priore della confraternita di San Simpliciano». V. Monti.

Q1 §148 Lorianismo. A proposito delle teorie altimetriche del Loria si potrebbe ricordare, per ridere, che Aristotele trovava che «le acropoli sono opportune per i governi oligarchici e tirannici, le pianure ai governi democratici».

Q1 §149 Nord e Sud. La egemonia del Nord sarebbe stata «normale» e storicamente benefica, se l’industrialismo avesse avuto la capacità di ampliare con un certo ritmo i suoi quadri per incorporare sempre nuove zone economiche assimilate. Sarebbe allora stata questa egemonia l’espressione di una lotta tra il vecchio e il nuovo, tra il progressivo e l’arretrato, tra il più produttivo e il meno produttivo; si sarebbe avuta una rivoluzione economica di carattere nazionale (e di ampiezza nazionale), anche se il suo motore fosse stato temporaneamente e funzionalmente regionale. Tutte le forze economiche sarebbero state stimolate e al contrasto sarebbe successa una superiore unità. Ma invece non fu così. L’egemonia si presentò come permanente; il contrasto si presentò come una condizione storica necessaria per un tempo indeterminato e quindi apparentemente «perpetua» per l’esistenza di una industria settentrionale.

Emigrazione. Si fa il confronto tra Italia e Germania. È vero che lo sviluppo industriale provocò, in un primo tempo, una forte emigrazione in Germania, ma in un secondo tempo non solo la fece cessare, ma ne riassorbì una parte e determinò una notevole immigrazione. Ciò sia detto per un puro confronto meccanico dei due fenomeni emigratori italiano e tedesco: che se il confronto viene approfondito, allora appaiono altre differenze essenziali. In Germania l’industrialismo produsse in un primo tempo esuberanza di «quadri industriali» stessi, e furono questi che emigrarono, in condizioni economiche ben determinate: emigrò un certo capitale umano già qualificato e dotato, insieme con una certa scorta di capitale finanziario. L’emigrazione tedesca era il riflesso di una certa esuberanza di energia attiva capitalistica che fecondava economie di altri paesi più arretrati, o dello stesso livello, ma scarso di uomini e di quadri direttivi. In Italia il fenomeno fu più elementare e passivo e ciò che è fondamentale non ebbe un punto di risoluzione, ma continua anche oggi. Anche se praticamente l’emigrazione è diminuita e ha cambiato di qualità, ciò che importa notare è che tale fatto non è funzione di un assorbimento delle forze rimaste in ampliati quadri industriali, con un tenore di vita conguagliatosi con quello dei paesi «normali». È un portato della crisi mondiale, cioè dell’esistenza in tutti i paesi industriali di armate di riserva nazionali superiori al normale economico. La funzione italiana di produttrice di riserva operaia per tutto il mondo è finita non perché l’Italia abbia normalizzato il suo equilibrio demografico, ma perché tutto il mondo ha sconcertato il proprio.

Intellettuali e operai. Altra differenza fondamentale è questa: l’emigrazione tedesca fu organica, cioè insieme alla massa lavoratrice emigrarono elementi organizzativi industriali. In Italia emigrò solo massa lavoratrice prevalentemente ancora informe sia industrialmente, sia intellettualmente. Gli elementi corrispondenti intellettuali rimasero e anch’essi informi, cioè non modificati per nulla dall’industrialismo e dalla sua civiltà; si produsse una formidabile disoccupazione di intellettuali, che provocò tutta una serie di fenomeni di corruzione e di decomposizione politica e morale, con riflessi economici non trascurabili. Lo stesso apparato statale, in tutte le sue manifestazioni, ne fu intaccato assumendo un particolare carattere. Così i contrasti si invelenivano anziché sparire e ognuna di queste manifestazioni contribuiva ad approfondire i contrasti.

Q1 §150 La concezione dello Stato secondo la produttività funzione delle classi sociali. Il libro di R. Ciasca sulle Origini del programma nazionale può dare ampi materiali per svolgere questo argomento. Per le classi produttive (borghesia capitalistica e proletariato moderno) lo Stato non è concepibile che come forma concreta di un determinato mondo economico, di un determinato sistema di produzione. Conquista del potere e affermazione di un nuovo mondo produttivo sono inscindibili: la propaganda per l’una è anche propaganda per l’altra: in realtà solo in questa coincidenza risiede la origine unitaria della classe dominante che è economica e politica insieme. Invece quando la spinta al progresso non è strettamente legata a uno sviluppo economico locale, ma è riflesso dello sviluppo internazionale che manda alla periferia le sue correnti ideologiche nate sulla base dello sviluppo produttivo dei paesi più progrediti, allora la classe portatrice delle nuove idee è la classe degli intellettuali e la concezione dello Stato muta d’aspetto. Lo Stato è concepito come una cosa a sé, come un assoluto razionale. Si può dire questo: essendo lo Stato la cornice concreta di un mondo produttivo, ed essendo gli intellettuali l’elemento sociale che si identifica meglio col personale governativo, è proprio della funzione degli intellettuali porre lo Stato come un assoluto: così è concepita come assoluta la loro funzione storica, è razionalizzata la loro esistenza. Questo motivo è basilare dell’idealismo filosofico ed è legato alla formazione degli Stati moderni in Europa come «reazione - superamento nazionale» della Rivoluzione francese e del napoleonismo rivoluzione passivaAggiunto a margine in epoca posteriore.. Si può osservare: che alcuni criteri di valutazione storica e culturale devono essere capovolti. 1°) Le correnti italiane che vengono «bollate» di razionalismo francese e di «illuminismo» sono invece proprio le più aderenti alla realtà empirica italiana, in quanto concepiscono lo Stato come forma concreta di uno sviluppo economico italiano. A ugual contenuto conviene uguale forma politica. 2°) Invece sono proprio «giacobine» le correnti che appaiono più autoctone, in quanto pare sviluppino una corrente tradizionale italiana. Questa corrente è «italiana», perché essendo stata per molti secoli la «cultura» l’unica manifestazione italiana nazionale, ciò che è sviluppo di questa manifestazione tradizionale più antica pare più autoctono. Ma è una illusione storica. Ma dove era la base materiale di questa cultura italiana? Essa non era in Italia. Questa «cultura italiana» è la continuazione del «cosmopolitismo» medioevale legato alla Chiesa e all’Impero, concepiti universali. L’Italia ha una concentrazione intellettuale «internazionale», accoglie ed elabora teoricamente i riflessi della più soda e autoctona vita del mondo non italiano. Gli intellettuali italiani sono «cosmopoliti», non nazionali; anche Machiavelli nel Principe riflette la Francia, la Spagna ecc. col loro travaglio per la unificazione nazionale, più che l’Italia. Ecco perché io chiamerei veri «giacobini» i rappresentanti di questa corrente: essi veramente vogliono applicare all’Italia uno schema intellettuale razionale, elaborato sull’esperienza altrui e non sull’esperienza nazionale. La quistione è molto complessa ed irta di apparenti contraddizioni, e perciò occorre esaminarla ancora profondamente su una base storica. In ogni modo gli intellettuali meridionali nel Risorgimento appaiono con chiarezza essere questi studiosi del «puro» Stato, dello Stato in sé. E ogni volta che gli intellettuali appaiono «dirigere», la concezione dello Stato in sé riappare con tutto il corteo «reazionario» che di solito la accompagna.

Q1 §151 Rapporto storico tra lo Stato moderno francese nato dalla Rivoluzione e gli altri Stati moderni europei. La quistione è di sommo interesse, purché non sia risolta secondo schemi astratti sociologici. Essa storicamente risulta da questi elementi: 1°) Esplosione rivoluzionaria in Francia; 2°) Opposizione europea alla rivoluzione francese e alla sua espansione per i «meati» di classe; 3°) Guerre rivoluzionarie della Francia con la Repubblica e con Napoleone e costituzione di una egemonia francese con tendenza a uno Stato universale; 4°) Riscosse nazionali contro Pegernonia francese e nascita di Stati moderni europei per ondate successive, ma non per esplosioni rivoluzionarie come quella originaria francese. Le «ondate successive» sono date da una combinazione di lotte sociali di classi e di guerre nazionali, con prevalenza di queste ultime. La «Restaurazione» è il periodo più interessante da questo punto di vista: essa è la forma politica in cui la lotta delle Classi trova quadri elastici che permettono alla borghesia di giungere al potere senza rotture clamorose, senza l’apparato terroristico francese. Le vecchie classi sono degradate da «dirigenti» a «governative», ma non eliminate né tanto meno fisicamente soppresse; da classi diventano «caste» con caratteri psicologici determinati, non più con funzioni economiche prevalenti. Questo «modello» della formazione degli Stati moderni può ripetersi? È da escludere, per lo meno in quanto alla ampiezza e per quanto riguarda i grandi Stati. Ma la quistione è di somma importanza, perché il modello francese‑europeo ha creato una mentalità.

Altra quistione importante legata alla suddetta è quella dell’ufficio che hanno creduto di avere gli intellettuali in questa fermentazione politica covata dalla Restaurazione. La filosofia classica tedesca è la filosofia di questa epoca ed è quella che vivifica i movimenti liberali nazionali del 48 fino al 70. A questo proposito vedere la riduzione che fa Marx della formula francese «liberté, fraternité, égalité» con i concetti filosofici tedeschi (Sacra famiglia). Questa riduzione mi pare teoricamente importantissima: è da porre accanto a ciò che ho scritto sulla Concezione dello Stato secondo la produttività (funzione) delle classi sociali (p. 95 bis). Ciò che è «politica» per la classe produttiva diventa «razionalità» per la classe intellettuale.

Ciò che è strano è che dei marxisti ritengano superiore la «razionalità» alla «politica», la astrazione ideologica alla concretezza economica. Su questa base di rapporti storici è da spiegare l’idealismo filosofico moderno.

Q1 §152 Marx ed Hegel. Nello studio dello hegelismo di Marx occorre ricordare (dato specialmente il carattere eminentemente pratico‑critico del Marx) che Marx partecipò alla vita universitaria tedesca poco dopo la morte di Hegel, quando doveva essere vivissimo il ricordo dell’insegnamento «orale» di Hegel e delle discussioni appassionate, con riferimento alla storia concreta, che tale insegnamento certamente suscitòA cominciare da: «partecipò alla vita universitaria tedesca», fino a: «tale insegnamento certamente suscitò», il testo sostituisce alcune righe cancellate a penna e rese illegibili dallo stesso G., nelle quali, cioè, la concretezza storica del pensiero di Hegel doveva risultare molto più evidente di quanto risulti dagli scritti sistematici. Alcune affermazioni di Marx mi pare siano da ritenere specialmente legate a questa vivacità «conservativa»: per esempio l’affermazione che Hegel «fa camminare gli uomini con la testa in giù». Hegel si serve veramente di questa immagine parlando della Rivoluzione francese; egli scrive che in un certo momento della Rivoluzione francese (quando fu organizzata la nuova struttura statale), «pareva» che il mondo camminasse sulla testa o qualcosa di simile (cfr). Mi pare che il Croce si domandi cercare il punto di dove Marx abbia preso questa immagine: essa è certamente in un libro di Hegel (forse la Filosofia del Diritto: non ricordo), ma mi pare che per l’insistenza con cui Marx ci ritorna (mi pare che Marx ripeta l’immagine: vedere) mi pare che essa sia stata in un certo momento oggetto di conversazione: essa veramente sembra scaturita da una conversazione tanto è fresca, spontanea, poco «libresca».

Q1 §153 Conversazione e cultura (vedi a p. 80 la nota: Spunti e stimoli). L’osservazione del Macaulay è contenuta nel suo saggio sugli Oratori attici (vedere, per riferire con esattezza, se del caso). L’osservazione può essere ancora svolta. È certo che la cultura per un grande periodo si è svolta specialmente nella forma oratoria o retorica, cioè con nullo o scarso sussidio di scritti e altri mezzi didattici o di studio in generale. Una nuova tradizione comincia nel Medio Evo, coi conventi e con le scuole regolari. La scolastica rappresenta il punto più importante di questa tradizione. Se si osserva bene, lo studio fatto dalla scolastica della logica formale è appunto anche una reazione contro il «facilonismo» dimostrativo dei vecchi metodi di cultura. Gli errori logici sono specialmente comuni nell’argomentazione parlata. L’arte della stampa ha poi rivoluzionato tutto il mondo culturale. In questa ricerca è implicita dunque l’altra delle modificazioni qualitative oltre che quantitative (estensione di massa) apportate al modo di pensare dallo sviluppo tecnico dell’organizzazione culturale. Anche oggi ideologicamente il teatro e il cinematografo hanno una rapidità e area d’azione enormemente più vasta del libro (il teatro e il cinematografo si possono paragonare al giornale e alle riviste) ma in superficie, non in profondità. Le accademie e le Università come mezzi e organizzazioni di cultura. Nelle Università la lezione orale e il seminario. Il professore e l’assistente; l’assistente professionale e gli «anziani di Santa Zita» della scuola del Puoti di cui parla il De Sanctis, cioè la formazione nella stessa classe di un’«avanguardia» », di una selezione spontanea di allievi che aiuti l’insegnante e prosegua le sue lezioni, insegnando praticamente a studiare.

Queste osservazioni mi sono state suggerite dal Materialismo storico di Bukharin1 che risente di tutte le deficienze della conversazione. Sarebbe curioso fare una esemplificazione di tutti i passi che corrispondono agli errori logici indicati dagli scolastici, ricordando la giustissima osservazione di Engels che anche i «modi» del pensare sono elementi acquisiti e non innati, il cui possesso corrisponde a una qualifica professionale. Non possederli, non accorgersi di non possederli, non porsi il problema di acquistarli attraverso un apprendissaggio equivale a voler costruire un’automobile sapendo impiegare e avendo a propria disposizione l’officina e gli strumenti di fabbro ferraio da villaggio.

Lo studio della «vecchia logica formale» è ormai caduto in discredito e in parte a ragione. Ma il problema di far fare l’apprendissaggio della logica si ripresenta se si pone il problema di creare una nuova cultura su una base sociale nuova, che non ha tradizioni, come la vecchia classe degli intellettuali. Un «blocco intellettuale» tradizionale, con la complessità delle sue articolazioni, riesce ad assimilare nello svolgimento organico di una scienza l’elemento «apprendista» anche senza bisogno di sottoporlo al tirocinio formale. Ma neanche ciò avviene senza difficoltà e senza perdite. Lo sviluppo delle scuole tecniche professionali in tutti i gradi post‑elementari, ha ripresentato il problema. Ricordare l’affermazione del prof. Peano che anche nel Politecnico e nelle matematiche risultavano meglio preparati gli allievi provenienti dal ginnasio‑liceo in confronto con quelli provenienti dalle scuole‑istituti tecnici. Questa migliore preparazione era data dal complesso insegnamento «umanistico» (storia, letteratura, filosofia). Perché la matematica non può dare gli stessi risultati?

È stata avvicinata la matematica alla logica. Pure c’è una enorme differenza. La matematica si basa essenzialmente sulla serie numerica, cioè su un’infinita serie di eguaglianze (1 = 1) che possono essere combinate in modi teoricamente infiniti. La logica formale «tende» a far lo stesso, ma fino a un certo punto. La sua astrattezza si mantiene solo nell’inizio dell’apprendimento, nella sua formulazione immediata nuda e cruda, ma si attua concretamente nel discorso stesso in cui questa stessa formulazione astratta si compie. Gli esercizi di lingua che si fanno nel ginnasio liceo fanno vedere questo: nelle traduzioni latino‑italiano, greco‑italiano, non c’è mai identità fra le due lingue, o almeno questa identità che pare esista agli inizi dello studio (rosa = rosa) va sempre più complicandosi col progredire dell’apprendimento, va cioè allontanandosi dallo schema matematico per giungere a quello storico e psicologico in cui le sfumature, l’espressività «unica e individuale» ha la prevalenza. E non solo ciò avviene nel confronto tra due lingue, ma avviene nello studio della storia della stessa «lingua», cioè nelle variazioni «semantiche» dello stesso suono‑parola attraverso il tempo e delle sue cambiate funzioni nel periodo. (Cambiamenti di suoni, di morfologia, di sintassi, di semantica). (Questa serie di osservazioni deve essere continuata e messa in rapporto con precedenti ).

Q1 §154 Clero e intellettuali. Esiste uno studio organico sulla storia del clero come «classe‑casta»? Mi pare che sarebbe indispensabile, come avviamento e condizione di tutto il rimanente studio sulla funzione della religione nello sviluppo storico ed intellettuale dell’umanità. La precisa situazione giuridica e di fatto della chiesa e del clero nei vari periodi e paesi, le sue condizioni e funzioni economiche, i dirigenti e con lo Stato ecc. ecc.

Q1 §155 Marx ed Hegel (cfr p. 97). Antonio Labriola nello scritto Da un secolo all’altro: «Gli è proprio quel codino di Hegel che disse come quegli uomini (della Convenzione) avessero per primi, dopo Anassagora, tentato di capovolgere la nozione del mondo, poggiando questo su la ragione» (cfr A. Labriola, Da un secolo all’altro, ediz. Dal Pane, p. 45).

Q1 §156 Passato e presente. Come il presente sia una critica del passato, oltre che e perché un suo «superamento». Ma il passato è perciò da gettar via? È da gettar via ciò che il presente ha criticato «intrinsecamente» e quella parte di noi stessi che a ciò corrisponde. Cosa significa ciò? Che noi dobbiamo aver coscienza esatta di questa critica reale e darle un’espressione non solo teorica, ma politica. Cioè dobbiamo essere più aderenti al presente, che noi stessi abbiamo contribuito a creare, avendo coscienza del passato e del suo continuarsi (e rivivere).

Q1 §157 Croce e gli intellettuali. Che importanza ha avuto il suo libro sulla Storia d’Italia dal 71 al 1915? È interessante osservare lo spostamento del Croce dalla posizione «critica» a quella «attiva» libro di Bonomi su Bissolati. il libro di Zibordi su Prampolini. La traduzione di Schiavi del libro del De Man. Il libro del De Man serve di ponticello.

È interessante però la lettera di Orazio Raimondo riportata dal Castellano nel suo libro Introduzione allo studio delle opere di Benedetto Croce. Dimostra che anche prima, l’influenza del Croce si era fatta sentire per meati che rimanevano incontrollati: proprio Raimondo, massone e vero massone, cioè imbevuto dell’ideologia massonica fino alle ossa, e democratico; nella sua difesa della (Tiepolo?) c’è tutto il teismo massonico in forma chiara ed evidente.

Q1 §158 «Animalità» e industrialismo. L’industrialismo è una continua vittoria sull’animalità dell’uomo, un processo ininterrotto e doloroso di soggiogamento degli istinti a nuove e rigide abitudini di ordine, di esattezza, di precisione. C’è una meccanizzazione o l’aspetto di una meccanizzazione. Ma ogni nuovo modo di vivere, nel periodo in cui si impone e lotta contro il vecchio, non appare una meccanizzazione? Ciò avviene perché finora i mutamenti sono avvenuti per coercizione brutale, cioè per imposizione di una classe su un’altra. La selezione degli uomini adatti al nuovo tipo di civiltà, cioè al nuovo tipo di lavoro è avvenuta con inaudita brutalità, gettando nell’inferno delle sottoclassi i deboli, i refrattari. Ci sono state delle crisi. Ma chi era coinvolto in questa crisi? Non le masse lavoratrici, ma le classi medie che avevano sentito anch’esse la pressione ma indirettamente, per il loro stesso sistema di vita e di lavoro. Le crisi di libertinismo sono state numerose: ogni epoca storica ne ha una. Per ottenere un nuovo adattamento al nuovo lavoro, si esercita una pressione su tutta l’area sociale, si sviluppa una ideologia puritana che dà l’esterna forma di persuasione e di consenso all’intrinseca coercizione brutale. Ottenuto in una certa misura il risultato, la pressione si spezza (storicamente questa rottura si verifica in modi diversissimi, come è naturale, perché la pressione ha assunto forme originali, spesso personali, si è identificata con movimenti di religiosità, ha creato un proprio apparato che si è impersonato in determinati strati o caste, ha preso il nome da un re ecc.) e avviene la crisi di libertinismo (crisi francese dopo la morte di Luigi XIV per esempio), che però non tocca che superficialmente le masse lavoratrici o le tocca sentimentalmente perché deprava le loro donne; queste masse hanno infatti già acquisito i nuovi sistemi di vita e rimangono sottoposte alla pressione per le necessità elementari di vita.

Il dopoguerra ha avuto una crisi simile, forse la più vasta che si sia mai vista nella storia; ma la pressione era stata esercitata non per imporre una nuova forma di lavoro, ma per le necessità di guerra. La vita di trincea è stata l’oggetto principale della pressione. Si sono scatenati specialmente gli istinti sessuali, repressi per tanti anni in grandi masse di giovani dei due sessi e resi formidabili dalla sparizione di tanti maschi e da uno squilibrio dei sessi. Le istituzioni legate alla riproduzione sono state scosse: matrimonio, famiglia ecc. ed è nata una nuova forma di «illuminismo» in queste quistioni. La crisi è resa più forte dal contrasto tra questo contraccolpo della guerra e le necessità del nuovo metodo di lavoro che si va imponendo (taylorismo, razionalizzazione). Il lavoro domanda una rigida disciplina degli istinti sessuali, cioè un rafforzamento della «famiglia» in senso largo (non di questa o quella forma storica), della regolamentazione e stabilità dei rapporti sessuali.

In questa questione il fattore ideologico più depravante è l’illuminismo, la concezione «libertaria» legata alle classi non manualmente produttive. Fattore che diventa grave se in uno Stato le classi lavoratrici non subiscono più la pressione violenta di un’altra classe, se la nuova abitudine di lavoro deve essere acquisita solo per via di persuasione e di convinzione. Si forma una situazione a doppio fondo, tra l’ideologia «verbale» che riconosce le nuove necessità e la pratica «animalesca» che impedisce ai corpi fisici di realmente acquistare le nuove abitudini. Si forma cioè una situazione di grande ipocrisia sociale totalitaria. Perché totalitaria? In altre situazioni, la massa lavoratrice è costretta a osservare la virtù: chi la predica, non la osserva, pur rendendole omaggio verbale: l’ipocrisia è di classe, non totale; è una forma transitoria, perché scoppierà in una crisi di libertinismo, ma quando già le masse avranno assimilato la «virtù» in abitudini acquisite. In questo secondo caso, invece, non esistendo il dualismo di classe, la «virtù» viene affermata, ma non osservata né per convinzione né per coercizione: non vi sarà pertanto acquisizione di nuove abitudini, necessarie per il nuovo sistema di lavoro. È una crisi in «permanenza» che solo la coercizione può troncare, una coercizione di nuovo tipo, perché, essendoci una sola classe, sarà autodisciplina (Alfieri che si fa legare alla sedia!) In ogni caso, il nemico da combattere è l’illuminismo. E se non si crea l’autodisciplina, nascerà una qualche forma di bonapartismo, o ci sarà un’invasione straniera, cioè si creerà la condizione di una coazione esterna che faccia cessare d’autorità la crisi.

QUADERNO 2

MISCELLANEA I

Q2 §1 Vittorio Giglio, Milizie ed eserciti d’Italia, in 8°, 404 pp., illustr., L. 80, C. E. Ceschina (Dall’epoca romana alle milizie comunali, all’esercito piemontese, alla M.V.S.N.). Cercare come mai nel 48 in Piemonte non esistesse nessun capo militare e sia stato necessario ricorrere a un generale polacco. Nel Quattrocento‑Cinquecento e anche dopo, buonissimi capitani (condottieri, ecc.), sviluppo notevole della tattica e strategia, eppure impossibilità di creare esercito nazionale, per il distacco tra il popolo e le classi alte.

Q2 §2 Italo Raulich, Storia del Risorgimento politico d’Italia, Zanichelli, cinque volumi, vol. IV, marzo‑novembre 1848, L. 32; vol. V, 1849, L. 36.

Q2 §3 Giorgio Macaulay Trevelyan, Daniele Manin e la rivoluzione veneziana del 48. Con pref. di P. Orsi, Zanichelli, L. 35.

Q2 §4 Dal rapporto letto dall’ing. Giacinto Motta all’Assemblea ordinaria del 27 marzo 1927 della «Edison»: – L’industria della produzione e distribuzione dell’energia elettrica alla fine del 1926 ha preso decisamente la testa nell’attività industriale italiana. Secondo le statistiche della Confederazione Bancaria, il capitale delle anonime esercenti l’industria elettrica ammontava alla fine del 26 a 6260 milioni, mentre quello delle industrie meccaniche, metallurgiche, ed affini, che nella statistica seguono immediatamente, ammontava a 4 757 000 000. Una statistica più completa dell’Unione Nazionale Industrie Elettriche (Uniel), considera i dati di 1785 aziende private e 340 enti pubblici e tenendo conto anche delle obbligazioni propriamente dette, indica l’ammontare degli investimenti al settembre 1926 in 7857 milioni di lire, corrispondenti a circa 2650 milioni lire oro.

Mancano le statistiche dei debiti, però, e solo si può ritenere che mentre nel 23‑24‑25, le società elettriche preferivano gli aumenti di capitale, dallo scorcio del 25 in poi ricorsero ai mutui, specialmente in dollari, per una cifra che si aggira sul miliardo di lire carta; perciò nonostante minore incremento del capitale, si mantenne lo stesso ritmo di accrescimento negli impianti.

Produzione e consumo dell’energia: cifre non attendibili. Statistiche ufficiali per esercizi 23‑24‑25, per il consumo: da 6488 a 7049 e 7355 milioni Kwh; ma doppioni nelle denunce, quindi inferiore circa 25%. Statistica dell’Uniel su dati riferentisi in grandissima parte al 25 e in piccola parte al 26: 6212 milioni Kwh. Il gruppo Edison rappresenta il 30% dell’attività complessiva.

Utili: investimenti ingentissimi, con giro d’affari modesto. Utili annuali minori di 1/5 e 1/6 delle somme che bisogna annualmente investire. Industria sempre affamata di danaro, controindicata per gli Enti pubblici i quali soffrono di penuria di mezzi quanto maggiore ritmo di sviluppo. (Condizioni di monopolio. Ricordare interpellanze di Aldo Finzi).

Q2 §5 Angiolo Gambaro, Riforma religiosa nel Carteggio inedito di Raffaello Lambruschini, 2 voll., G. B. Paravia, 1926. Recenti opere di studiosi della preparazione spirituale del Risorgimento: Ruffini, Gentile, Anzilotti, Luzio. Raccogliere bibliografia in proposito. Il Lambruschini legato da relazioni personali con molti protagonisti (liberali moderati) del Risorgimento, esercitando un’influenza che il Gambaro sostiene di prim’ordine, finora quasi ignorata (pour cause!). Il Gambaro mette in rilievo il tormento intimo che l’associazione, nello stesso problema, dei termini politici e religiosi suscitò in quella generazione, in una parte della quale prevalse la visione politica, in altra la religiosa. Lambruschini espressione principale di questo secondo gruppo. Gambaro sostiene che Lambruschini non sansimoniano, non lamennaisiano, non giansenista, ma perfettamente ortodosso; i suoi accusatori spiriti malevoli o incapaci di comprendere. Concezione evangelica della religione, in cui affiora il principio della libertà interiore concorde con l’autorità. Precorse e superò con maggiore audacia ed estensione ideale il blando riformismo del Rosmini e mirò a sanare un quadruplice ordine di piaghe da lui stesso così riassunte (Vol. I Gamb. p. CXCIX): «1) moltiplicare, sminuzzare, materializzare il culto esterno, e trascurare il sentimento; 2) falsare il concetto morale e il concetto delle relazioni nostre con Dio; 3) soggiogare le coscienze, annullare la libertà, per abuso dell’autorità sacerdotale; 4) sostituire alla fede ragionevole una stupida credulità». (Cenni dalla Nuova Antologia del 16 aprile 1927).

(In queste riesumazioni non si tiene abbastanza conto, per valutare l’importanza storica e l’influsso di questi «eroi» del Risorgimento, che la loro opera si esaurì quasi completamente nei carteggi privati e rimase clandestina).

Q2 §6 Articolo «Problemi finanziari» firmato Verax (Tittoni) nella «Nuova Antologia» del 1° giugno 1927. Nella «Nuova Antologia» del 1925 (16 maggio), Tittoni aveva pubblicato un articolo, I problemi finanziari dell’ora, nel quale trattava questi punti: equilibrio del bilancio; economie; perequazione del sistema tributario; mania spendereccia e tassatrice degli enti locali; circolazione monetaria e suoi problemi: deflazione; stabilizzazione; debiti interalleati; regime bancario; ordinamento delle società anonime; difesa del risparmio nazionale.

Equilibrio del bilancio raggiunto; le confusioni, sperequazioni e duplicazioni del sistema tributario eliminate con la riforma De Stefani; i debiti interalleati regolati dal Volpi, il quale ha preso provvedimento per la rapida liquidazione della sezione autonoma del Consorzio valori, per l’unificazione dell’emissione, per il trasferimento delle operazioni di cambio all’Istituto dei cambi sotto il patronato della Banca d’Italia, per la vigilanza in difesa del risparmio nazionale: discorso di Pesaro per la politica monetaria.

Nuovi problemi, attuali: consolidamento del pareggio del bilancio; freno alle crescenti spese; sano impiego delle eccedenze di bilancio; condizioni della tesoreria; necessità di un ammortamento graduale e continuativo del debito pubblico; i prestiti esteri e il miglioramento dei cambi; la difesa della riforma tributaria da iniziate deviazioni; eliminazione di ogni inutile fiscalismo.

L’esercizio 25‑26 chiuso con un avanzo di competenza di 2268 milioni ridotto con due regi decreti a 468 milioni. Ma occorre esaminare l’esercizio 25-26 considerando 1) le maggiori spese sopravvenute durante l’esercizio; 2) quelle deliberate dopo chiuso l’esercizio, ma attribuite a questo; 3) rapporti tra le risultanze del bilancio di competenza ed il conto di cassa; 4) i conti fuori bilancio. Durante l’esercizio 25‑26 furono deliberate maggiori spese, oltre quelle preventivate in bilancio, per 3605 milioni e, chiuso l’esercizio, con due regi decreti (ricordati) furono deliberate 1800 milioni di nuove spese, addebitate all’esercizio stesso mediante iscrizione nel bilancio delle finanze di un capitolo aggiunto. Senza tener conto del movimento dei capitali e delle spese per le PP. e TT. che dal bilancio generale sono state trasferite in quello speciale dell’azienda autonoma, e detratti 247 milioni di economie realizzate durante l’esercizio, si ha, malgrado la diminuzione delle spese residuali della guerra, un aumento di 4158 milioni di spesa sui 17 217 preventivati (aumento del 24%). Ma anche le entrate, preventivate in 17 394 milioni, salirono a 21 043 milioni, e perciò avanzo di 468 milioni.

È necessario un più rigoroso e completo accertamento delle spese, i risultati dell’esercizio devono allontanarsi il meno possibile dalle previsioni, altrimenti il bilancio preventivo diverrebbe inutile, e per una ragione psicologica (!), perché l’annunzio di grandi avanzi incita alle spese. Un insigne economista, R. C. Adams, è giunto a dire che preferisce un bilancio presentato con un lievissimo disavanzo a quello presentato con un eccessivo avanzo poiché il primo incita alle economie, il secondo sospinge alle prodigalità («e a imporre nuove tasse se successivamente l’avanzo è in pericolo sul nuovo piano di spese»; A. G.). Questi avanzi sono fondati su incrementi di entrate che non sono necessariamente continuativi. L’avanzo di un bilancio di competenza può non coincidere con una cassa egualmente florida. «Perciò a situazioni di bilancio eccellenti possono corrispondere situazioni di cassa richiedenti provvedimenti eccezionali come quelli adottati dal Governo Nazionale nello scorso autunno». Politica di economie. Se non riduzione delle spese, desiderabile almeno freno alle nuove spese.

Bilancio italiano non è un conto di fatto, di tipo inglese, che registra incassi e spese effettivamente avvenuti, ma un conto di diritto, di tipo francese, comprendente da una parte le entrate accertate e scadute, da un’altra parte le spese ordinate, liquidate ed impegnate nei modi prescritti dalla legge. Il bilancio di competenza, a quelli che non sanno leggerlo, non dà una chiara visione della situazione finanziaria del paese. L’inconveniente maggiore del bilancio di competenza è nel fatto che nessun esercizio si esaurisce in sé; esso lascia sempre dei residui attivi e passivi, in modo che alla gestione del bilancio proprio dell’esercizio si aggiunge quella dei residui attivi e passivi dei precedenti esercizi che la cassa va a sopportare. Ne deriva pertanto che aumentando le spese di competenza si è normalmente avuto un aumento di residui, specialmente di residui passivi che malamente si contrappongono agli attivi e la maturazione dei quali può depauperare la cassa al di là del prevedibile. I residui passivi mal si contrappongono agli attivi perché questi, dati i nostri congegni di esazione, non possono essere e non sono di un ammontare ragguardevole per la parte effettiva, la sola che costituisce una vera entrata, giacché i residui attivi per movimenti di capitale rappresentano prestiti da contrarsi o da collocarsi. Costituirebbe quindi un grave errore il valutare alla stessa stregua i residui attivi e passivi circa la possibilità di trasformarsi rispettivamente in incassi e pagamenti.

A questo si aggiunge una consuetudine che ormai comincia a trovare larga applicazione: l’art. 154 del regolamento per l’amministrazione del patrimonio e per la contabilità di Stato stabilisce che in nessun caso si possa iscrivere fra i residui degli anni decorsi alcuna somma in entrata o in spesa che non sia stata compresa fra la competenza degli esercizi anteriori; ma purtroppo la parola della legge non vieta che per lo stesso esercizio si cancelli la iscrizione di un capitolo per aumentarne un altro: così è, ad esempio, quando tra i residui passivi si trova iscritta una somma che presumibilmente non sarà spesa e che non traducendosi quindi in un pagamento sarebbe passata in economia, e viceversa si viene ad aumentare un altro capitolo di spesa, sempre dei residui, e, s’intende, dello stesso esercizio, spesa che sarà realmente effettuata e si tradurrà in un pagamento. Così la contabilità è salva, l’ammontare di residui passivi non viene aumentato, ma le condizioni della cassa vengono peggiorate. La gestione dei residui, e in special modo il saldo dei residui, va tenuto in seria considerazione, tanto più che esso è in continuo aumento, ed infatti la differenza passiva dei residui era al 30 giugno 1926 di 10 513 milioni contro 9442 milioni al 30 giugno 1925.

Francia, Belgio, Italia. I tre paesi, dopo aver assicurato l’equilibrio del bilancio, dovettero fronteggiare una crisi di Tesoreria; il deficit, cioè, non era scomparso, ma passando dal bilancio alla tesoreria si era semplicemente spostato. Si è dovuto correre ai ripari procurando di eliminare anzitutto il pericolo del debito fluttuante, divenuto enorme dopo la guerra, poiché le Tesorerie si trasformarono di fatto in Banche di deposito. («Questo è un paragone capzioso: non si trasformarono per nulla in Banche di deposito, ma commisero una truffa in grande stile, perché le somme incassate furono spese come entrate ordinarie di bilancio, senza che i futuri bilanci potessero prevedersi talmente incrementabili da assicurare la restituzione delle somme alla data fissata: si rastrellò il risparmio diffuso, sotto la pressione del pericolo nazionale, per esonerare da aggravi la ricchezza imponibile; fu una decimazione larvata del capitale, ma di quello delle classi medie, per no n decimare apertamente e realmente il capitale delle classi alte dei maggiori detentori di ricchezza: il confronto tra paesi latini e paesi anglosassoni mette più in rilievo questa truffa colossale, che si è risolta in parte con l’inflazione e in parte con colpi di Stato»).

Il primo progetto di stabilizzazione del franco belga del ministro Jansens fallì in gran parte per aver omesso la sistemazione preventiva del debito fluttuante. La Francia provvide al debito fluttuante con la creazione di una cassa autonoma di consolidamento ed ammortamento. A questa cassa furono destinati i proventi di alcune tasse e quelli della gestione dei tabacchi, in tutto 3700 milioni di franchi all’anno. Il pagamento di queste tasse può farsi con titoli di Stato, che vengono annullati: colla diminuzione dei titoli diminuisce l’interesse e la differenza disponibile va ad aumentare il fondo di ammortamento. Per un emendamento al progetto primitivo del governo l’ammortamento fu esteso a tutto il debito pubblico («cioè fu prolungata l’esistenza presumibile della Cassa»). Così in Francia si ottenne non solo di arrestare la ressa dei rimborsi, ma si ottennero nuove sottoscrizioni: il Tesoro fu rinsanguato; coi mezzi ordinari di Tesoreria poté procurarsi 14 miliardi, di cui 9 furono rimborsati alla Banca di Francia e 5 per acquisto di divise estere. Belgio: si procedette ad una conversione semicoattiva. Ai portatori dei buoni fu posta l’alternativa: o consentire il cambio dei buoni con azioni della società nazionale delle ferrovie belghe costituite dallo Stato, o farli stampigliare. I buoni dati in cambio delle azioni ferroviarie, i 3/4, furono distrutti; gli altri furono convertiti in nuovi buoni coll’interesse ridotto dal 7 al 5% e col rimborso subordinato non a scadenza fissa ma alle disponibilità avvenire del bilancio.

Italia: conversione obbligatoria dei buoni del Tesoro in titoli del debito consolidato, con un premio ai portatori che ha aumentato il debito pubblico di circa 3 miliardi. «Non è il caso di discutere teoricamente quest’operazione che in fatto era inevitabile». Un recentissimo comunicato ai giornali, illustrando il conto del Tesoro a fine marzo, segnala l’esistenza di un fondo di cassa, al 31 marzo (1927) di 2311 milioni. La cifra «lascia fredda una parte dell’opinione pubblica, la quale non riesce a vedere come sì floride condizioni di cassa e di bilancio si concilino con la recente necessità di assai drastici provvedimenti, che investirono una parte cospicua della popolazione e toccarono a fondo molte private economie». La cassa del Tesoro può presentare un’apparente floridezza ed una reale penuria. Ciò rilevò già la Commissione di finanza del Senato, il cui relatore, on. Mayer, nella sua relazione sugli stati di previsione del Ministero delle Finanze e del Bilancio dell’entrata pel 1926‑27, constatava che, mentre dai conti mensili del Tesoro risultavano disponibilità cospicue di cassa (al 31 marzo 1926 quasi 4 miliardi) risultava anche l’aumento dei debiti pubblici per oltre 1800 milioni. Ciò avviene perché il fondo di cassa esposto nella accennata cifra di 2311 milioni non rappresenta tutto danaro di cui il Tesoro possa effettivamente disporre come contante. Così nei 2311 milioni è inclusa la somma di 1554 milioni attribuita alle «contabilità speciali» le quali comprendono numerose assegnazioni fatte ad enti come: fondo per il culto, monte pensioni insegnanti elementari, cassa di previdenza degli enti locali, ospedali riuniti di Roma ecc., epperò rappresentano somme erogate dall’Erario o destinate a pagamenti preveduti dall’amministrazione, e quindi vincolate.

Più significativa è la cifra denotante l’ammontare del fondo di cassa presso la Tesoreria provinciale, vale a dire del fondo cui attingonsi i mezzi per la massima parte dei pagamenti nel Regno; certamente sarebbe un errore considerare questo soltanto, perché il Tesoro ha altre disponibilità liquide, presso la Tesoreria centrale, e fra esse dovrebbero avere una certa importanza quelle in divisa presso i suoi corrispondenti esteri, ma il fondo di dotazione rappresenta sempre la condizione fondamentale delle disponibilità di cassa del Tesoro per fronteggiare i suoi bisogni correnti.

Nulla può essere più eloquente della differenza fra il così detto «fondo generale di cassa» del Tesoro e la situazione del «fondo di dotazione» dello Stato per l’esercizio della Tesoreria provinciale presso la Banca d’Italia, cioè del vero e proprio conto corrente del Tesoro presso l’Istituto di Emissione:

Quaderno 2 Tabella 1

Come si vede, al 31 ottobre e al 30 novembre, cioè prima degli incassi ottenuti con l’emissione del Prestito del Littorio, il detto conto corrente si presentava in deficit, per cui la Banca dovette provvedere a pagamenti del Tesoro con propri biglietti. Nel conto dei debiti della Tesoreria richiama l’attenzione l’ammontare di vaglia del Tesoro nel 1925-1926 in 71 349 milioni per rimborsi e 70 498 milioni per incassi. Queste enormi cifre richiederebbero qualche chiarimento affinché il pubblico potesse rendersi ragione delle operazioni che rappresentavano. Ad esso intanto una cosa appare evidente e cioè che la politica di Tesoreria ha preso il sopravvento su quella di bilancio i cui risultati sono subordinati a quelli della prima.

Bisogna dunque provvedere a rinforzare la cassa del Tesoro (la Francia e il Belgio l’hanno già fatto). Come? Non ricorrendo ad antecipazioni da parte della Banca d’Italia che non potrebbe fornirle che mediante restrizioni del credito al commercio o mediante l’inflazione. Non mediante emissioni di Buoni del Tesoro, perché sarebbe impossibile dopo il recente consolidamento. Non mediante nuovo prestito consolidato. Il debito pubblico va diminuito, non aumentato, è poi recente il consolidamento e prestito del Littorio. Bisogna invece rifornire la cassa mediante le eccedenze di bilancio, nelle quali, se non ci saranno gravi perturbazioni dei cambi e se faremo una politica di economie, potremo continuare a contare. («Ma in realtà avanzi reali di bilancio non ce ne sono mai stati, come risulta dall’esposizione precedente, ma solo spostamenti contabili e mascherature di deficit attraverso i residui passivi, il debito pubblico aumentato surretiziamente e il ricorso a partite incontrollabili, senza contare l’assorbimento dei bilanci locali, tutti deficitari in misura spaventevole.

Bisognerebbe fissare con esattezza cos’è l’avanzo di bilancio effettivo, anche dopo aver fissato una quota ragionevole per rafforzare il tesoro e per ammortare il debito pubblico: è quello che, oltre a tutto ciò, permette di diminuire le imposte effettivamente, e di migliorare le condizioni del personale; diminuire specialmente le imposte indirette che pesano di più sulla parte più povera della popolazione, cioè che permettono un più elevato tenore di vita»). Con decreto regio 3 dicembre 1926 fu elevata a 4/5 la quota dell’avanzo di bilancio da destinare ad opere inerenti alla ricostruzione economica e alla difesa militare della nazione già fissato in 3/4 dal R. D. del 5 giugno. Nessuno ha contestato le ragioni impellenti (!) che indussero il governo a prendere questo provvedimento eccezionalissimo, che è contrario alla dottrina finanziaria di tutti gli economisti senza distinzioni di scuole e che non trova riscontro nella pratica finanziaria di nessun altro paese. Non dovrebbe diventare una consuetudine: il Direttore Generale della Banca d’Italia nella relazione all’assemblea degli azionisti del 27 l’ha «denunziata cautamente come una tendenza nuova di far pesare sugli avanzi passati spese riguardanti l’avvenire».

Il relatore della Giunta del Bilancio della Camera dei Deputati, Olivetti, parlando sul disegno di legge per la conversione in legge del R. D. 3 dicembre 1926 fece l’obbiezione che, come ai disavanzi registrati dall’esercizio 1911‑12 a quello 23‑24 si era fatto fronte con mezzi di tesoreria e accensioni di debito, così bisognerebbe devolvere integralmente alla riduzione dei debiti prebellici gli avanzi registrati dal 24‑25 in poi; inoltre l’avanzo potrebbe essere assegnato a dare maggiore elasticità alla Tesoreria. Però date le gravi ragioni contingenti, la Giunta concludeva per l’approvazione, augurandosi un futuro graduale ammortamento del debito pubblico. (A parole tutti sostengono questa necessità ma non se ne fa niente lo stesso). (Il senato fin dal 1920 domandò sempre: prudente riduzione della circolazione, rigorose economie, sosta nell’indebitamento ed inizio del pagamento dei debiti, vigile attenzione alla cassa del Tesoro, alleviamento delle imposte).

Necessità di chiarezza nei conti finanziari. Il denaro deve trovarsi non solo sui conti, ma nelle casse dello Stato. «Occorre studiare a fondo la quistione delle operazioni fuori bilancio le quali costituiscono una minaccia permanente a danno dei risultati attivi del bilancio. Ed invero più che una minaccia noi avemmo il danno effettivo nel periodo dall’agosto al novembre 1926 come lo dimostra il progressivo impoverimento, durante quei mesi, della cassa».

Le operazioni finanziarie sono quelle che si fondano sul credito pubblico ed hanno effetto sul patrimonio dello Stato: l’emissione di un prestito, il rimborso di obbligazioni rientrano propriamente fra queste. Esse dovrebbero far parte delle operazioni di bilancio e direttamente essere contabilizzate fra le spese e le entrate, fra gli incassi e i pagamenti in conto bilancio. Le operazioni di Tesoreria propriamente dette riguardano invece i provvedimenti che servono ai bisogni immediati della cassa e perciò comprenderebbero l’emissione di buoni del Tesoro ordinari. Tra queste operazioni sono anche operazioni fuori bilancio, almeno temporaneamente, mentre non dovrebbero essere tali in una situazione normale. Ora le operazioni fuori bilancio tendono ad eliminare gli effetti della gestione di bilancio assorbendone le eccedenze attive. L’azienda del Portafoglio ha un significato così delicato che delle principali operazioni si redige processo verbale (art. 534 del regolamento di contabilità). Il Contabile del Portafoglio è tenuto a rendere ogni anno il conto giudiziale. La gestione del Contabile del Portafoglio dà luogo a profitti e perdite. Dal l’luglio 1917 al 30 giugno 1925 non fu presentato conto giudiziale e con R. decreto‑legge 7 maggio 1925 fu concesso di potere eseguire un sol conto giudiziale per gli otto esercizi finanziari precedenti riguardanti la guerra. Il Governo deve attenersi alla pratica del conto giudiziale e restringere l’azienda del portafoglio alle sue proprie specifiche funzioni.

Ammortamento del debito pubblico. L’Inghilterra, gli Stati Uniti, l’Olanda da più di un secolo compiono ammortamenti. Hamilton pel primo dimostrò nel 1814 che un vero ammortamento non può farsi che mediante l’eccedenza delle entrate sulle spese e pose il principio che la creazione di un debito deve essere accompagnata dal piano della sua graduale estinzione. Dal 19 al 24 l’Inghilterra diminuì il suo debito di 650 milioni di sterline, cioè l’intiero debito prebellico. Il debito può essere ammortizzato: 1°, con una cassa speciale; 2°, con le eccedenze di bilancio; 3°, con lo stanziamento di una somma fissa. Si danno le cifre degli ammortamenti stanziati in bilancio e degli avanzi di bilancio dal 21 al 26‑27. È notevole e significativo il fatto che se è vero che nel 26‑27 c’è stato un deficit di 36 694 000 sterline, però in quell’esercizio furono stanziate in bilancio per ammortamento 60 000 000 di sterline, cifra superiore e di molto a quelle degli anni precedenti: 25 000 000 nel 21‑22, 24 000 000 nel 22‑23, 40 000 000 nel 23‑24, 45 000 000 nel 24‑25, 50 000 000 nel 25‑26 (con deficit di 14 000 000). C’è una flessione di bilancio che comincia dal 24‑25: nel 26‑27 il deficit di 36 milioni è ottenuto aumentando lo stanziamento fisso per propaganda contro i minatori, cioè si aumenta la quota di bilancio a favore dei capitalisti a danno della classe operaia.

Per la storia della finanza inglese ricordare che alla fine del XVIII secolo fu adottato da Pitt il meccanismo del sinking fund – fondo di ammortamento – di Price, che poi fu dovuto abbandonare. Hamilton. Fino al 1857 l’eccedenza del bilancio fu destinata di preferenza ad alleviare l’imposta. In seguito l’ammortamento regolare del debito fu ripreso e costituì la base fondamentale delle finanze britanniche. Sospeso durante la guerra fu ripreso dopo l’armistizio. Per andamento del bilancio ricordare le cifre dedicate all’ammortamento dal 21 in poi – prese dal Financial Statements. Prima cifra = ammortamenti stanziati in bilancio; seconda cifra = l’avanzo ulteriore impiegato pure all’ammortamento: 21‑22: 25 010 000 e 45 693 000; 22‑23: 24 711 000 e 101 516 000; 23‑24: 40 000 000 e 48 329 000; 24‑25: 45 000 000 e 3 659 000; 25‑26: 50 000 000, deficit 114 milioni 38 000; 26‑27: 60 000 000, deficit 36 694 000. Il calcolo dell’avanzo reale dà queste cifre: 70 703 000; 126 milioni 227 000; 88 329 000; 48 659 000; 35 962 000; 23 milioni 306 000: c’è una flessione di bilancio, ma non un deficit reale.

La Commissione d’inchiesta per lo studio dei debiti pubblici, presieduta da Lord Colwyn, in una sua recente relazione conchiude raccomandando di intensificare l’ammortamento portando il fondo da 75 a 100 milioni di sterline l’anno. Si capisce benissimo il significato politico di questa proposta, data la crisi industriale inglese: si vuole evitare ogni intervento efficace dello Stato, ponendo tutte le larghe possibilità di bilancio nelle mani dei privati, i quali poi, probabilmente, invece di investire nell’industria nazionale in crisi questi enormi capitali, li investiranno all’estero mentre lo Stato potrebbe riorganizzare, con questi fondi, le industrie fondamentali a favore degli operai.

Negli Stati Uniti il sistema di amministrazione è fondato sulla conversione dei debiti consolidati in debiti redimibili con riduzione degli interessi.

In Francia, la Cassa costituzionalmente autonoma e indipendente dal Tesoro, per diffidenza verso il Tesoro, che potrebbe mettere le mani sui fondi di ammortamento se si trovasse all’asciutto.

Nel Belgio il ministro Francqui aumentò il fondo di ammortamento.

Italia. Con R. D. 3 marzo 1926 fu costituita una Cassa per l’ammortamento del debito inglese e americano. Ma non è stata fissata una somma annua fissa ed intangibile, secondo il sistema inglese (senza pregiudizio degli avanzi di bilancio, che dopo aver provveduto alle esigenze della cassa e a temperare certi fiscalismi esagerati, dovrebbero essere destinati all’amministrazione. 500 milioni annui sono già stanziati per la graduale riduzione del debito verso la Banca d’Italia per i biglietti anticipati allo Stato; i 90 milioni di dollari del prestito Morgan passati alla Banca d’Italia hanno diminuito di 2 miliardi e mezzo il debito della circolazione per conto dello Stato: coi 500 milioni stanziati l’intero debito sarà estinto in 8 anni (questo debito fu estinto quando la riserva aurea della Banca d’Italia fu valutata secondo la stabilizzazione della lira col passaggio allo Stato della plusvalenza). Nell’ultimo conto del Tesoro il debito consolidato apparisce al 31 marzo 1927 in circa 44 miliardi e mezzo, cui vanno aggiunti circa 23 miliardi e mezzo provenienti dall’operazione dei Buoni del Tesoro e circa 3 miliardi e mezzo del prestito del Littorio; circa 71 miliardi e mezzo, nei quali la parte relativa al periodo prebellico concorre per circa 10 miliardi; e ciò senza dire né dei debiti redimibili inscritti nel gran Libro del Debito Pubblico per 3784 milioni, dei quali la metà relativi alla guerra, né dei buoni poliennali che formano una massa di 7 miliardi e 1/3; né degli altri debiti, quasi tutti redimibili, gestiti dal Debito Pubblico; né del debito per circolazione bancaria, che è ancora di 4229 Milioni (estinto in seguito come detto sopra). Trascurando i debiti redimibili, pei quali è in regolare corso l’estinzione graduale e lasciando da parte i buoni (!), poliennali, rimane il debito perpetuo.

Benefizi dell’ammortamento del debito: 1°, allevia il bilancio, se pure in misura modesta; 2°, rialza il credito dello Stato; 3°, rende possibile ottenere un nuovo prestito in circostanze gravi e imprevedute; 4°, rende possibili future conversioni; 5°, mette a disposizione della produzione le somme ammortate, creando nuovi cespiti di entrata; 6°, tiene alta la quotazione dei titoli di Stato.

Sir Felix Schuster sostenne innanzi alla Commissione d’inchiesta dei debiti pubblici che anche ed anzi specialmente nei momenti più difficili della pubblica finanza l’ammortamento del debito deve essere mantenuto perché costituisce il miglior modo di salvare il credito dello Stato ed impedisce il crollo dei suoi titoli. Ridurre il debito vuol dire rivalutare il consolidato («perciò l’impostare una volta tanto una somma per ridurre il debito pubblico, cioè la mancanza di stanziamenti fissi e intangibili, si riduce ad essere un vero e proprio agiotaggio: lo Stato compra i suoi titoli non per estinguerli gradatamente ma come operazione di borsa che ne faccia elevare la quotazione, magari per emetterne subito degli altri», A. G.). L’ammortamento deve essere necessariamente lento e moderato per non determinare bruschi spostamenti di capitale.

Prestiti americani. Da prima tali prestiti non erano assecondati. Sistemati i debiti di guerra con l’America e l’Inghilterra, la direttiva del Tesoro è mutata, con questo nuovo elemento essenziale, che il più delle volte l’alea dei cambi per i rimborsi anziché dagli Enti contrattanti il debito viene assunto dallo Stato, il che imprime agli occhi dei prestatori uno speciale carattere a tutta l’operazione. Questa garanzia va giudicata in relazione all’accentramento del controllo dei cambi prima presso il Tesoro, ed ora, molto opportunamente, presso l’Istituto dei cambi. Debiti per industria, opportuni. Debiti ai Comuni pericolosi, perché si spende e non si saprà come restituire. La contrazione di debiti all’estero è sottoposta al consenso del governo.

Imposte. 12 577 milioni d’imposte nell’esercizio 1922-1923. 16 417 milioni nell’esercizio 25‑26 con un aumento in tre anni di 3840 milioni. Inoltre nel 1925 le imposte locali erano previste in 4947 milioni, sicché carico annuale di 22 miliardi, cioè un onere superiore a quelli di tutti gli Stati europei e americani. Stati Uniti, diminuite le imposte in quattro anni, di 2 milioni di dollari. Inghilterra diminuite le imposte. In Italia, almeno non aumento e cessazione di terrore fiscale. Così nei Comuni, che affetti da manìa spendereccia e tassatrice. Mantenere le basi fondamentali della riforma tributaria unificatrice, semplificatrice e perequatrice De Stefani. Già si sono avute deviazioni da questa riforma. La nuova imposta complementare sul reddito aveva il pregio di aver ripudiato il sistema di accertamento indiziario. Ma la nuova imposta sul celibato, che varia secondo il reddito, dà luogo a un nuovo accertamento a base indiziaria, invece di essere basata sul reddito accertato agli effetti della complementare. Così si hanno due accertamenti del reddito che conducono a risultati diversi, e poiché il contrasto non è ammissibile, finisce col prevalere per ambedue la procedura indiziaria. Scopo della imposta complementare sul reddito con partecipazione degli enti locali al provento era di eliminare tutte le forme imperfette e sperequate di tasse locali sul reddito quali la tassa di famiglia e il valore locativo.

Un tentativo per l’istituzione di una strana tassa sul reddito consumato fu sventato (sic) per l’opportuno intervento del Senato. Poiché l’imposta complementare sul reddito doveva eliminare le tasse di famiglia e sul valore locativo quando fossero pagate insieme ad essa, per evitare una doppia tassazione sullo stesso reddito, era giusto che continuassero a pagarle coloro che non erano stati iscritti sui ruoli della complementare perché in questo caso non esisteva duplicato. Invece si lasciò ai Comuni facoltà o di continuare ad applicare la tassa di famiglia a coloro che non erano inscritti ai ruoli della complementare, ovvero applicare la tassa sul valore locativo anche a quelli che pagavano la complementare. Quasi tutti i Comuni hanno scelto quest’ultima e così siamo tornati alla doppia tassazione. Inoltre.

Gli agenti del fisco hanno sostenuto e la Commissione centrale delle imposte dirette ha sanzionato che i vecchi accertamenti della tassa di famiglia, di cui tutti avevano riconosciuto le sperequazioni, possono essere presi a base dell’accertamento per l’mposta della complementare sul reddito. Invece di essere soppressa, cioè, ha preso il sopravvento. Certo la complementare ha dato un gettito inferiore allo sperato, ma perché il gettito delle imposte nuove è sempre nel primo anno inferiore a quello che dovrebbe essere, e perché per tre anni la complementare risente delle volissime riduzioni che sono state accordate a chi ha riscattato la tassa sul patrimonio. Contro il fiscalismo. Nella seduta del Senato del 14 giugno 26 il relatore del bilancio on. Mayer, disse: «Penso che sia necessaria una completa riforma del nostro sistema tributario che data dal 1862, dei nostri sistemi di accertamento, dei nostri antiquati e deficienti regolamenti, in modo da ottenere che i cittadini non debbano considerare il rappresentante dell’Erario come un implacabile nemico». Nella fine dell’articolo si accenna addirittura a Necker, che cercò liberare la Francia dall’«impôt», cioè dalla corvée, dalla taille ecc., modernamente «vessazione fiscale», e si augura al ministro delle Finanze di emulare Necker. (Questo articolo di Tittoni deve essere considerato come l’esposizione dei desiderata della borghesia al governo dopo gli avvenimenti del novembre 1926; il linguaggio è molto cauto e involuto, ma la sostanza è molto forte. La critica risulta specialmente dal paragone tra quanto hanno fatto negli altri paesi e in Italia).

Nel fascicolo seguente della Nuova Antologia del 16 giugno1927, Alberto De Stefani, al quale Tittoni aveva in nota attribuito di preconizzare una politica di maggiori imposte e di più rigoroso regime fiscale, pubblica una lettera in cui si dichiara invece d’accordo col Tittoni e avversario della politica che gli viene attribuita. Dichiara di voler solo la rigida obbedienza alle leggi tributarie, cioè la lotta contro le evasioni fiscali. Tra le altre citazioni che fa per dimostrare l’accordo con Tittoni, è interessante questa dal «Corriere della Sera» del 28 novembre 26: «È naturale, per esempio, che l’aumento delle tariffe doganali, e così pure dei dazi interni, possa annullare la politica monetaria... È desiderabile: ... che non si influisca attraverso la finanza di Stato e la finanza locale, o in altro modo, a fare aumentare i costi di produzione». Per mitigare l’aliquota domanda: 1°, una maggiore universalità (!) nell’applicazione dei tributi (giustizia distributiva); 2°, minore evasione di quella oggi esistente, documentata dai ruoli dei contribuenti, di cui è stata interrotta la pubblicazione; 3°, economie nella spesa. Criterio generale: diminuire la pressione finanziaria nominale proporzionatamente alla rivalutazione monetaria, per non rendere più onerosa la pressione finanziaria reale.

Q2 §7 Articoli di Luzzatti nella Nuova Antologia che potrebbero essere interessanti: La tutela del lavoro nelle fabbriche (febbraio 1876); Il socialismo e le quistioni sociali dinanzi ai Parlamenti d’Europa (gennaio e febbraio 1883); Schulze‑Delitzsch (maggio 1883); I recenti scioperi del Belgio (aprile 1886); Le diverse tendenze sociali degli operai italiani (ottobre 1888); Il Risorgimento dell’internazionale (dicembre 1888); La pace sociale all’Esposizione di Parigi (dicembre 1889 ‑ gennaio 1890); Le classi dirigenti e gli operai in Inghilterra. A proposito della lotta di classe (novembre 1892); La partecipazione degli operai ai profitti dell’azienda industriale (16 maggio 1899); Le riforme sociali (1° novembre 1908); La cooperazione russa (1° luglio 1919); Gli ordinamenti tecnici delle industrie in relazione all’obbligo internazionale delle 8 ore di lavoro (1° marzo 1922).

Nella Nuova Antologia del 16 aprile 1927 è data la lista completa degli articoli pubblicati dal Luzzatti nella rivista: sono molti quelli sulla cooperazione, la previdenza, ecc. Probabilmente esiste qualche libro su questa attività del Luzzatti di cui occorre tener conto in un quadro completo del movimento operaio italiano.

Q2 §8 Un giudizio di Manzoni su Victor Hugo. «Il Manzoni mi diceva che Victor Hugo con quel suo libro sopra Napoleone rassomigliasse a uno che si creda gran suonatore d’organi e si metta a suonare, ma gli manchi chi gli tenga il mantice». R. Bonghi, I fatti miei e i miei pensieri, «Nuova Antologia», 16 aprile 27.

Q2 §9 I filosofi e la Rivoluzione francese. Nello stesso zibaldone il Bonghi scrive di aver letto un articolo di Carlo Louandre nella «Revue des deux mondes» in cui si parla di un giornale (diario) di Barbier allora pubblicato, che riguarda la società francese dal 1718 al 1762. Il Bonghi ne trae la conclusione che la società francese di Luigi XV era peggiore per ogni parte di quella che seguì la rivoluzione. Superstizione religiosa in forme morbose, mentre l’incredulità cresceva nell’ombra. Il Louandre dimostra che i «filosofi» dettero la teoria di una pratica già fatta, non la fecero.

Q2 §10 Un gondoliere veneziano faceva delle grandi sberrettate a un patrizio e dei piccoli saluti alle chiese. Un patrizio gli domandò perché facesse così e il gondoliere: Perché coi santi non si cogliona. (Bonghi, ibidem).

Q2 §11 Manzoni e Rosmini su Napoleone III. «A lui (Manzoni) che questo Luigi Napoleone non sia un miracolo, né altro la crisi presente di Francia che una fermata nella Rivoluzione di Francia. Il Rosmini invece ne fa un braccio della Provvidenza, un inviato di Dio; il che riconosce alla sua moralità e Religione; e spera assai, assai. Io sto col Manzoni». (Bonghi, ibidem).

Q2 §12 La marina mercantile italiana. Estratti dall’articolo La nostra marina transatlantica di L. Fontana Russo, nella «Nuova Antologia» del 16 aprile 1927.

Le perdite complessive della marina mercantile italiana per sottomarini e sequestri durante la guerra salirono a 872 341 tonn. lorde (238 piroscafi per 769 450 tonn. e 395 velieri per 10 891), cioè il 49% dell’intera flotta, mentre le perdite inglesi furono del 41% e le francesi del 46% («ciò nonostante la più tarda entrata in guerra, e la ritardata dichiarazione di guerra alla Germania»; A. G.: come spiegare questa percentuale così alta?) Inoltre altri 9 piroscafi per 57 440 tonn. affondarono per disgraziati accidenti dovuti allo speciale regime imposto alla navigazione (incagli per sfuggire ad attacchi di sommergibili, collisioni nella navigazione in convoglio ecc.) («quanto fu la percentuale di questi casi nelle altre marine», A. G.; la risposta interessa per giudicare nostra organizzazione e capacità dei comandi; inoltre interessante sapere l’età di questi piroscafi, per vedere come era esposta la vita dei nostri marinai). Il danno finanziario (navi e carico) fu di L. 2 202 733 047, così ripartito: naviglio da pesca L. 4 391 706; velieri L. 59 792 591; piroscafi di bandiera nazionale L. 1 595 467 786; piroscafi di bandiera estera noleggiati dall’Italia (216 piroscafi affondati, 2 danneggiati: L. 543 080 964). (Evidentemente questi piroscafi esteri non sono calcolati nel tonnellaggio precedente e anche in questo caso sarebbe interessante sapete se essi furono affondati essendo guidati da personale italiano: inoltre se le altre nazioni subirono perdite dello stesso genere).

Il totale dei carichi perduti fu di 1 271 252 tonn. I rifornimenti italiani durante la guerra furono: 49 mil. di tonn. da Gibilterra e 2 milioni dal Mediterraneo e da Suez. Le perdite subite durante la guerra furono riparate subito. Il naviglio mondiale perduto durante la guerra fu di 12 804 902 tonn. (piroscafi e velieri), cioè il 27 % del tonnellaggio complessivo. Nel 1913 la marina mondiale era di 43 079 000 tonn.; nel 1919 era di 48 milioni, nel 2 1 di 58 841 000, nel 26 di 62 671 000. I cantieri, dal 13 al 19, dopo aver colmato le perdite, accrebbero di 4 milioni il tonnellaggio. Le navi impostate furono continuate dopo l’armistizio: così si spiega che, nel 19, le navi varate raggiunsero i 7 milioni di tonnellate («ciò spiega la crisi dei noli del dopoguerra, in cui coincise un naviglio anormale con una caduta del commercio»).

Italia. Il 31 dicembre 1914 il nostro naviglio (piroscafi superiori a 250 tonn. lorde) era di 644 piroscafi per tonn.

D. W. C. 1 958 838; le perdite al 31 dicembre 1921 furono: piroscafi 354, per tonn. 1 270 348. Della vecchia flotta rimanevano 290 piroscafi, per tonn. 688 496. Fino al 31 dicembre 1921 furono costruiti 122 piroscafi per tonn. D. W. C. 698 979 e comprati all’estero 143 per 845 049, furono ricuperati dalla Regia Marina 60 per 131 725 e incorporati dalla Venezia Giulia 210 per 763 945, cioè l’aumento complessivo fu di 535 per 2 437 698, portando la flotta complessiva a 856 per 3 297 987. Alla fine del 1926 l’Italia aveva costruito inoltre 33 navi per 239 776 tonn. lorde. Le motonavi tendono ad aumentare in confronto dei piroscafi. Le 763 945 tonn. provenienti dalla Venezia Giulia furono il risultato di negoziati al Congresso della Pace con l’Inghilterra, la Francia e la Jugoslavia.

Le perdite della marina di linea (piroscafi per viaggiatori) furono meno gravi che per la flotta da carico e perciò non prontamente riparate. Così, nel dopoguerra si ebbe naviglio da carico eccessivo e di linea manchevole. Disarmo e caduta di noli per quello, richiesta e rialzo di noli per questo. Avvenne così specializzazione delle compagnie: alcune si dedicarono al carico, altre alla linea, alienando la propria flotta di carico e specializzandosi («teoricamente la specializzazione è un progresso, perché porta a minor costo: ma in caso di crisi di uno o altro ramo, la specializzazione porta al fallimento, perché non esiste più il compenso reciproco»; A. G.). Alla flotta di linea si pose un problema fondamentale: navi per emigranti o navi per viaggiatori di classe? Le maggiori compagnie si decisero nel senso di dare maggior peso ai piroscafi di lusso. Crisi dell’emigrazione per restrizioni legislative. Così si ebbe sviluppo di grandi piroscafi di lusso, per i quali non c’è limitazione di spazio e di comfort dati i noli alti.

Tendenza verso il grande tonnellaggio. Per legge economica del rendimento crescente. L’aumento della lunghezza, altezza, larghezza porta ad un aumento più che proporzionale della portata utile, cioè dello spazio dedito al carico. Cresce pure, più che proporzionalmente alla spesa di costruzione e d’esercizio, il rendimento dell’armatore. La velocità invece deve essere moderata, per essere economica (non può oltrepassare per ora i 24 nodi). Altra è la questione per la marina di guerra, i cui scopi sono bellici, non di carattere economico. Le macchine marine capaci di imprimere grandi velocità sono insaziabili divoratrici di combustibile. La velocità segue la legge dei rendimenti decrescenti, all’opposto di quella che regola la portata delle navi. Venti anni fa velocità di 11 nodi, costo orario 295 lire, 13 nodi 370 lire 21 nodi 1800 lire. Al criterio dei viaggi brevi si sostituì quello dei viaggi comodi («oggi la radio, e specialmente l’aeroplano per chi ha veramente fretta, compensano la relativa scarsa velocità delle navi di lusso; con la radio si può sempre mantenersi in comunicazione e non interrompere gli affari; con l’aeroplano si ottengono due effetti: 1°, percorrere in poche ore spazi relativamente brevi – Parigi‑Londra, ecc. – con sicurezza; 2°, i transatlantici trasportano anche aeroplani e giunti a una distanza dal capolinea che dà sicurezza di traversata, permettono ai più frettolosi di abbreviare il viaggio»; A. G.). Alla velocità di 23 nodi si è giunti sia trasformando le macchine motrici, sia adottando nuovo combustibile. La turbina sostituì le macchine alternative: il motore Diesel tende a sostituire la turbina. Il combustibile liquido sostituisce il carbone. Notevole risparmio che permise una nuova velocità economica (23 nodi).

Nuove e vecchie costruzioni. Una nave nuova, che rappresenti un forte progresso, svaluta subito, automaticamente, tutte le precedenti. Il vecchio naviglio deve essere radiato, trasformato se possibile, o adibito ad altri trasporti. Le vecchie navi rendono poco o nulla (anche se in parte ammortizzate), se non sono addirittura passive. Perciò, dati i continui progressi tecnici, gli attuali transatlantici devono atrunortizzare il capitale in poco meno d’un decennio. («Ed ecco perché nel valutare l’efficienza reale delle varie flotte nazionali, oltre al numero delle unità e alla somma complessiva delle tonnellate bisogna badare all’età del naviglio; ciò spiega anche come il rendimento di flotte inferiori per tonnellaggio sia superiore a quello di flotte che statisticamente sono più elevate: oltre al fatto dei maggiori rischi – assicurazioni – e pericoli per le vite umane rappresentati dalle vecchie navi»).

Q2 §13 Eugenio Di Carlo, Un carteggio inedito del P. L. Taparelli D’Azeglio coi fratelli Massimo e Roberto, Anonirna Romana Editoriale, Roma, 1926, L. 16,50.

Libro importante. Prospero Taparelli D’Azeglio, fratello di Massimo e di Roberto, nato a Torino il 24 ottobre 1793, entrò nella Compagnia di Gesù nel 1814 col nome di Luigi. Accanito oppositore del liberalismo, difensore dei diritti della chiesa e del potere cattolico contro il potere laicale nei suoi libri e nella «Civiltà Cattolica». Propugnò il tomismo, quando questa filosofia non godeva molte simpatie tra i gesuiti. Prima giobertiano, avversario dopo il Gesuita moderno; sostenitore della necessità di un avvicinamento e di un accordo tra liberali moderati e cattolicismo, contro il liberalismo che voleva la separazione della Chiesa dallo Stato: per il potere temporale. Il Di Carlo lo difende dall’accusa di austriacantismo e di nemico della libertà. Oltre la prefazione del Di Carlo, 44 lettere dal 21 al 62, in cui trattati i temi del giorno.

(Mi pare che anche in questo libro ci sia la tendenza a riabilitare i nemici del Risorgimento, con la scusa della «cornice dei tempi». Ma qual era questa «cornice», la reazione o il Risorgimento?).

Q2 §14 Amy A. Bernardy, Forme e colori di vita regionale italiana. Piemonte, Vol. I, Zanichelli, Bologna, L. 20. (Fare bibliografie di tutte le collezioni che si occupano della vita regionale e che abbiano un certo valore. Bibliografia legata alla quistione del folklore).

Q2 §15 Gli Albanesi d’Italia. Quando fu occupata Scutari dopo le guerre balcaniche, l’Italia vi mandò un battaglione e in esso fu incorporato un certo numero di soldati albanesi d’Italia. Siccome parlavano l’albanese, solo con la pronunzia un po’ diversa, furono accolti cordialmente. (Da un articolo molto scemo di Vico Mantegazza nella Nuova Antologia del 1° maggio 1927 Sulle vie dell’Oriente).

Q2 §16 Francesco Tommasini, Politica mondiale e politica europea, Nuova Antologia, 1° maggio ‑ 16 maggio 1927.

Egemonia politica dell’Europa prima della guerra mondiale. Il Tommasini dice che la politica mondiale è stata diretta dall’Europa fino alla guerra mondiale, dalla battaglia di Maratona (490 a. C.). (Però fino a poco tempo fa non esisteva il «mondo» e non esisteva una politica mondiale; d’altronde la civiltà cinese e quella indiana hanno pur contato qualcosa). All’inizio del secolo esistevano tre potenze mondiali europee, mondiali per l’estensione dei loro territori, per la loro potenza economica e finanziaria, per la possibilità di imprimere alla loro attività una direzione assolutamente autonoma, di cui tutte le altre potenze, grandi e minori, dovevano subire l’influsso: Inghilterra, Russia, Germania. (Il Tommasini non considera la Francia come potenza mondiale!) Inghilterra: aveva battuto tre grandi potenze coloniali (Spagna, Paesi Bassi, Francia) e asservito la quarta (Portogallo), aveva vinto le guerre napoleoniche ed era stata per un secolo arbitra del mondo intero. Two powers standard. Punti strategici mondiali nelle sue mani (Gibilterra, Malta, Suez, Aden, isole Bahrein, Singapore, Hong‑Kong). Industrie, commercio, finanze. Russia: minacciava India, tendeva a Costantinopoli. Grande esercito. Germania: attività intellettuale, concorrenza industriale all’Inghilterra, grande esercito, flotta minacciosa per il two powers standard.

Formazione della potenza degli Stati Uniti. Indipendenza nel 1783, riconosciuta dall’Inghilterra col trattato di Versailles: comprendevano allora 13 Stati, di cui 10 di originaria colonizzazione britannica e 3 (New‑York, New Jersey e Delaware) ceduti dai Paesi Bassi all’Inghilterra nel 1667, con circa 2 milioni di Km2 ma la parte effettivamente popolata era solo quella sulla costa orientale dell’Atlanti co. Secondo il censimento del 1790, la popolazione non arrivava a 4 milioni, compresi 700 000 schiavi. Su quello stesso territorio nel 1920 esistevano 20 Stati con 71 milioni di abitanti. Allora gli Stati Uniti confinavano a Nord col Canadà, che la Francia aveva ceduto all’Inghilterra nel 1763, dopo la guerra dei 7 anni; ad Ovest con la Luisiana, colonia francese che fu comperata nel 1803 per 15 milioni di dollari (territorio di 1 750 000 Km2) così che tutto il bacino del Mississipì si trovò in suo dominio e il confine cadde sul fiume Sabine colla colonia spagnola del Messico. A Sud colla Florida spagnola che fu acquistata nel 1819.

Il Messico, che allora era il doppio dell’attuale, insorse nel 1810 contro la Spagna e nel 1821 fece riconoscere la sua indipendenza col trattato di Cordova. Da quel momento gli Stati Uniti iniziarono una politica intesa ad accaparrarsi il Messico: l’Inghilterra sosteneva l’imperatore Yturbide, gli Stati Uniti favorirono un movimento repubblicano che trionfò nel 1823. Intervento francese in Spagna. Opposizione dell’Inghilterra e degli Stati Uniti alla politica della Santa Alleanza di aiutare la Spagna a riconquistare le colonie americane. Da ciò è determinato il messaggio del Presidente Monroe al Congresso (2 dicembre 1823) in cui enunciata la teoria famosa. Si domanda di non intervenire contro le ex‑colonie che hanno proclamato la loro indipendenza, che l’hanno mantenuta e che è stata riconosciuta dagli Stati Uniti, i quali non potrebbero rimanere indifferenti spettatori di un simile intervento qualunque forma fosse per assumere.

Nel 1835 il Texas (690 mila Km2) si dichiarò indipendente dal Messico e dopo un decennio si unì agli Stati Uniti. Guerra fra Stati Uniti e Messico. Col trattato di Guadalupa Hidalgo (1848) il Messico dovette cedere il territorio costituente gli attuali Stati della California, dell’Arizona, del Nevada, dell’Utah e del Nuovo Messico (circa 1 700 000 Km2). Gli Stati Uniti arrivarono così sulla costa del Pacifico, che fu occupata poi fino alla frontiera del Canadà, e raggiunsero le dimensioni attuali.

Dal 60 al 65 guerra di secessione: Francia e Inghilterra incoraggiarono il movimento separatista del Sud e Napoleone III cercò di approfittare della crisi per rafforzare il Messico con Massimiliano. Gli Stati Uniti, finita la guerra civile, ricordarono la dottrina di Monroe a Parigi, esigendo il ritiro delle truppe francesi dal Messico. Nel 1867 acquisto dell’Alaska. L’espansione degli Stati Uniti come grande potenza mondiale, comincia alla fine dell’800.

Problemi principali americani: 1°, regolamento dell’emigrazione per assicurare una maggiore omogeneità della popolazione (veramente questo problema si pose dopo la guerra ed è legato, oltre che alla quistione nazionale, anche e specialmente alla rivoluzione industriale); 2°, egemonia sul mar Caraibico e sulle Antille; 3°, dominio sull’America Centrale, specialmente sulle regioni dei canali; 4°, espansione nell’Estremo Oriente.

Guerra mondiale. Imperi centrali bloccati: l’Intesa padrona dei mari: gli S. U. rifornirono l’Intesa, sfruttando tutte le buone occasioni che si offrivano. Il costo colossale della guerra, i profondi turbamenti della produzione europea (la rivoluzione russa), hanno fatto degli Stati Uniti gli arbitri della finanza mondiale. Quindi la loro affermazione politica.

Inghilterra e Stati Uniti dopo la guerra. L’Inghilterra è uscita dalla guerra come trionfatrice. La Germania privata della flotta e delle colonie. La Russia, che poteva ridiventare rivale, ridotta a fattore secondario per almeno qualche decennio (questa opinione è discutibile molto: forse gli inglesi avrebbero preferito come rivale la Russia zarista, anche vittoriosa, all’attuale Russia, che non solo influisce sulla politica imperiale, ma anche sulla politica interna inglese). Ha acquistato circa altri 10 milioni di Km2 di possedimenti con circa 35 milioni di abitanti. Tuttavia l’Inghilterra ha dovuto riconoscere tacitamente la supremazia degli Stati Uniti, e ciò sia per ragioni economiche sia per la trasformazione dell’Impero. La ricchezza degli Stati Uniti che si calcolava in 925 miliardi di franchi oro nel 1912, era salita nel 1922 a 1600 miliardi. La marina mercantile: 7 928 688 tonn. nel 1914, 12 500 000 nel 1919. Le esportazioni: 1913, 15 miliardi franchi oro; nel 1919, 37 miliardi e 1/2, ridiscendendo a circa 24 miliardi nel 1924‑25. Importazioni: 10 miliardi circa nel 1913, 16 nel 191, 19 nel 1924‑25.

La ricchezza della Gran Bretagna nel decennio 1912‑22 è salita solo da 387 a 445 miliardi di franchi oro. Marina mercantile: 1912, 13 850 000 tonn.; 1922, 11 800 000. Esportazioni: 1913, 15 miliardi circa di franchi oro; 1919, 17 miliardi; 1924, 20 miliardi. Importazioni: 1913, 19 miliardi; 1919, 281/2 miliardi circa; 1924, 271/2 miliardi. Debito pubblico: 31 marzo 1915: 1162 milioni di sterline; 1919: 7481 milioni; 1929: 8482 milioni; all’attivo vi erano, dopo la guerra, crediti per prestiti a Potenze alleate, colonie e domìni, nuovi Stati dell’Europa orientale ecc., che nel 1919 ascendevano a 2541 milioni di sterline e nel 1924 a 2162. Ma non erano di sicura riscossione integrale. Per es. il debito italiano era nel 1924 di 553 e nel 1925 di 584 mil. di sterline, ma con l’accordo del 27 gennaio 1926 l’Italia pagherà in 62 anni solo 276 750 000 sterline interessi compresi. Nel 1922 l’Inghilterra invece consolidò il suo debito verso gli Stati Uniti in 4600 milioni di dollari, rimborsabili in 62 anni con interesse del 3 % fino al 1932 e del 3 1/2% in seguito.

Impero inglese. Da Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda è diventato l’«Unione britannica di Nazioni» (British Commonwealth of Nations). Tendenze particolarisfiche. Canadà, Australia e Nuova Zelanda in una posizione intermedia tra Inghilterra e Stati Uniti. Rapporti tra Stati Uniti e Canadà sempre più intimi. Canadà speciale ministro plenipotenziario a Washington. Se urto serio tra Stati Uniti e Inghilterra l’Impero inglese si sgretolerebbe.

Wilson. Politica mondiale di Wilson. Suo contrasto con le forze politiche preponderanti negli Stati Uniti. Fallimento della sua politica mondiale. Warren G. Harding diventa presidente il 4 marzo 1921. Colla sua nota del 4 aprile seguente Harding, a proposito della quistione dell’isola di Yap, precisa che gli Stati Uniti non intendono intervenire nei rapporti fra gli Alleati e la Germania, né chiedere la revisione del trattato di Versailles, ma mantenere tutti i diritti che le derivano dal suo intervento nella guerra. Questi principii furono svolti nel messaggio del 12 aprile e condussero alla conferenza di Washington che durò dal 12 novembre 1921 al 6 febbraio 1922 e si occupò della Cina, dell’equilibrio nei mari dell’Estremo Oriente e della limitazione degli armamenti navali.

Popolazione degli Stati Uniti. Sua composizione nazionale data dall’immigrazione. Politica governativa. Nel 1882 proibito l’accesso agli operai cinesi. Col Giappone furono dapprima usati certi riguardi, ma nel 1907 col così detto Gentlemen’s agreement Root‑Takahira l’immigrazione giapponese, senza essere respinta come tale, fu grandemente ostacolata mediante clausole circa la cultura, le condizioni igieniche e la fortuna degli immigranti. Ma il gran mutamento della politica d’immigrazione è avvenuto dopo la guerra: la legge 19 maggio 1921, rimasta in vigore fino al 1° luglio 1924, stabilì che la quota annua d’immigrazione di ogni singola nazione dovesse limitarsi al 3% dei cittadini americani della rispettiva nazione, secondo il censimento del 1910. (Successive modifiche). L’immigrazione gialla definitivamente esclusa.

Gli Stati Uniti nel Mar Caraibico. Guerra ispano‑americana. Col trattato di pace di Parigi (10 dicembre 1898) la Spagna rinunciò a ogni suo diritto su Cuba e cedette agli Stati Uniti Porto Rico e le altre sue isole minori. L’isola di Cuba, che domina l’entrata del golfo del Messico, doveva essere indipendente e si promulgò una costituzione il 12 febbraio 1901; ma gli Stati Uniti, per riconoscere l’indipendenza e ritirare le truppe, si fecero garantire il diritto d’intervento. Col trattato di reciprocità del 2 luglio 1903 gli Stati Uniti ottennero vantaggi commerciali e l’affitto come base navale della baia di Guantanamo.

Gli Stati Uniti intervennero nel 1914 ad Haiti: il 16 settembre 1915 un accordo dette il diritto agli Stati Uniti di avere a Port‑au‑Prince un loro alto commissario da cui dipende l’amministrazione delle dogane. La repubblica di San Domingo fu posta sotto il controllo finanziario americano nel 1907 e durante la guerra vi furono sbarcate truppe, ritirate nel 1924. Nel 1917 gli Stati Uniti comprarono dalla Danimarca l’arcipelago delle Vergini. Così gli Stati Uniti dominano il golfo di Messico e il Mare Caraibico.

Gli Stati Uniti e l’America Centrale. Canale di Panama e altri possibili canali. La repubblica di Panama si è impegnata col trattato di Washington del 15 dicembre 1926 a dividere le sorti degli Stati Uniti in caso di guerra. Il trattato non ancora ratificato perché incompatibile con lo Statuto della Società delle Nazioni di cui il Panama fa parte, ma la ratifica non necessaria. Quistione del Nicaragua.

La Cina. L’America nel 1899 proclamò la politica dell’integrità territoriale cinese e della porta aperta. Nel 1908, con lo scambio di  Root‑Takahira, Stati Uniti e Giappone rinnovarono dichiarazioni solenni sull’integrità e l’indipendenza politica della Cina. Dopo l’accettazione da parte della Cina delle così dette «ventun domande» del Giappone (ultimatum 1915) gli Stati Uniti dichiarano ( del 13 maggio 1915 a Pekino e Tokio) che non riconoscevano gli accordi conclusi. Alla Conferenza di Washington gli Stati Uniti ottennero che le potenze europee e il Giappone rinunziassero a buona parte dei vantaggi speciali e dei privilegi che si erano assicurati. Il Giappone si impegnò a sgombrare il Kiau‑Ceu. Solo in Manciuria il Giappone mantenne la sua posizione. Fin dal 1908 gli Stati Uniti avevano rinunziato alle indennità loro spettanti dopo la rivolta dei boxers e avevano adibito le somme relative a scopi culturali in Cina. Nel 1917 la Cina sospese i pagamenti. Accordi: Giappone e Inghilterra hanno rinunziato come gli Stati Uniti; la Francia si è servita dei fondi per risarcire i danneggiati del fallimento della Banca industriale di Cina: Italia e Belgio hanno consentito a consacrare a scopi culturali circa i 4/5 delle somme ancora dovute.

Estremo Oriente. Possessi degli Stati Uniti: le Filippine e l’isola di Guam (Marianne); le Hawai; l’isola di Tutuila nel gruppo della Samoa. Prima del trattato di Washington la situazione nell’Estremo Oriente era dominata dall’alleanza anglo‑giapponese, conclusa col trattato difensivo di Londra del 30 gennaio 1902, basato sull’indipendenza della Cina e della Corea, con prevalenza di interessi inglesi in Cina e giapponesi in Corea; dopo la disfatta russa, fu sostituito dal trattato del 12 agosto 1905: l’integrità della Cina ribadita e l’eguaglianza economica e commerciale di tutti gli stranieri, i contraenti si garantivano reciprocamente i loro diritti territoriali e i loro interessi speciali nell’Asia Orientale e in India: supremazia giapponese in Corea e diritto dell’Inghilterra di difendere l’India nelle regioni cinesi vicine, cioè il Tibet. Questa alleanza vista di malocchio da Stati Uniti. Attriti durante la guerra. Nella seduta del 10 dicembre 1921 della Conferenza di Washington lord Balfour annunziò la fine dell’alleanza, sostituita col trattato 13 dicembre 1921 con cui la Francia, l’Inghilterra, gli Stati Uniti e il Giappone si impegnano per dieci anni: 1°, a rispettare i loro possedimenti e domìni insulari nel Pacifico e a deferire ad una Conferenza degli Stati stessi le controversie che potessero sorgere fra alcuni di loro circa il Pacifico e i possedimenti e domìni in quistione; 2°, a concertarsi nel caso di attitudine aggressiva di altra potenza. Il trattato si limita ai possedimenti insulari e per ciò che riguarda il Giappone si applica a Karafuto (Sakhalin meridionale) a Formosa e alle Pescadores, ma non alla Corea e a Porto Arthur. Una separata dichiarazione specifica che il trattato si applica anche alle isole sotto mandato nel Pacifico, ma che ciò non implica il consenso ai mandati da parte degli Stati Uniti. La reciproca garanzia dello statu quo ha speciale importanza per le Filippine, poiché impedisce al Giappone di fomentarvi il malcontento degli indigeni.

Nel trattato per la limitazione degli armamenti navali c’è una disposizione importantissima (art. 19) con cui Francia, Inghilterra, Stati Uniti, Giappone, si impegnano fino al 31 dicembre 1936 di mantenere lo statu quo per ciò che riguarda le fortificazioni e le basi navali nei possedimenti e domìni situati ad oriente del meridiano 110 di Greenwich, che passa per l’isola di Hainan. Il Giappone è sacrificato, perché ha le mani legate anche per i piccoli arcipelaghi vicini alle grandi isole metropolitane. L’Inghilterra può fortificare Singapore e gli Stati Uniti le Hawai, dominando così entrambi gli accessi al Pacifico. Limitazione delle navi di linea. Ottenimento della parità navale tra Stati Uniti e Inghilterra.

Egemonia degli Stati Uniti. Il Tommasini prevede alleanza tra Stati Uniti e Inghilterra e che dall’Asia partirà la riscossa contro di essa per una coalizione che può comprendere la Cina, il Giappone e la Russia col concorso tecnico-industriale della Germania. Egli si basa ancora sulla prima fase del movimento nazionalista cinese.

Q2 §17 Guido Bustico, Gioachino Murat nelle memorie inedite del generale Rossetti, Nuova Antologia, fascicoli del 16 maggio e 1° giugno e 16 giugno 1927.

Il generale Giuseppe Rossetti, piemontese di nascita, francese di elezione, fu prima ufficiale superiore dell’esercito francese e poi dell’esercito napoletano di Murat. Scrisse quattro grossi volumi di ricordi, rimasti inediti, in francese, dal 20 dicembre 1796 al 6 novembre 1836, ricchi di notizie politiche riguardanti l’Italia e la Francia. Il Bustico ne assicura la serenità ed imparzialità e ne estrae notizie sulla «nuova politica» di Murat dopo la battaglia di Lipsia (avvicinamento all’Austria), sulla missione data a un certo G. Grassi nel marzo 1815 di recarsi nell’alta Italia e vedere quali appoggi avrebbe avuto un’iniziativa di Murat per l’indipendenza italiana, e sulla fuga di Murat da Napoli fino alla sua fucilazione.

Q2 §18 Una politica di pace europea, di Argus, «Nuova Antologia», 1° giugno 1927. Parla delle frequenti visite in Inghilterra di uomini politici e letterati tedeschi. Questi intellettuali tedeschi, interrogati, dichiarano che ogni qualvolta riescono a prendere contatto con influenti personalità anglosassoni viene loro posto questo problema: «Qual è l’atteggiamento della Germania di fronte alla Russia?» e soggiungono con disperazione (!): «Ma noi non possiamo prendere parte nelle controversie tra Londra e Mosca!» Al fondo della concezione britannica della politica estera sta la convinzione che il conflitto con la Russia non solo è inevitabile ma è già impegnato, benché sotto forme strane e insolite che lo rendono invisibile agli occhi della grande massa nazionale. Articolo ultra‑anglofilo (nello stesso periodo ricordo un articolo di Manfredi Gravina nel «Corriere della Sera» di una anglofilia così scandalosa da maravigliare: si predicava la subordinazione dichiarata dell’Italia all’Inghilterra): gli Inglesi vogliono la pace, ma hanno dimostrato di saper fare la guerra. Sono sentimentali e altruisti: pensano agli interessi europei; se Chamberlain non ha rotto con la Russia è perché ciò poteva nuocere a altri Stati in condizioni meno favorevoli dell’Inghilterra ecc.

Politica inglese di intesa con la Francia è la base, ma il governo inglese può favorire anche altri Stati: l’Inghilterra vuol essere amica di tutti. Quindi avvicinamento all’Italia e alla Polonia. In Inghilterra un certo numero di persone non favorevoli al regime italiano. Ma la politica inglese lealmente amica e sarà tale anche mutando regime, anche perché la politica italiana è coraggiosa, ecc. ecc.

Q2 §19 Articolo di Roger Labonne nel «Correspondant» del 10 gennaio 1927 su Italia e Asia Minore. L’Italia si interessa per la prima volta nel 1900 dell’Asia Minore invia una serie di missioni che studiano l’Anatolia meridionale, stabilisce ad Adalia un vice‑console, delle scuole, un ospedale, sovvenziona le linee di navigazione che portano la sua bandiera lungo il litorale. S’interessa soprattutto di Smirne, del cui porto fa il centro della sua influenza nel Levante. Gli articoli 8 e 9 del Patto di Londra dicono: «L’Italia riceverà l’intera sovranità del Dodecanneso. In caso di divisione totale o parziale della Turchia, essa otterrà la regione mediterranea che avvicina la provincia di Adalia e che ha già fatto (!) una convenzione coll’Inghilterra». A San Giovanni di Moriana l’Italia precisa nuovamente la sua richiesta (21 aprile 1917).

Venizelos, approfittando della partenza di Orlando e Sonnino da Parigi, spinse gli alleati ad assegnare Smirne alla Grecia. Il 1° gennaio 1926, nel discorso di Milano, Mussolini dice: «Bisogna aver fede nella Rivoluzione, che avrà nel 1926 il suo anno napoleonico». Nel 26 non si produsse nulla di veramente notevole, ma per due volte si fu alla vigilia di avvenimenti serii. Cessione di Mossul all’Irak (cioè agli inglesi). La Turchia cedette davanti all’imminenza di un intervento italiano, dopo di aver invano domandato il concorso militare di Mosca in caso di conflitto sul Meandro e sul Tigri. I giornali londinesi confessano ingenuamente che il successo di Mossul è dovuto alla pressione italiana, ma il governo inglese non si preoccupa troppo dell’Italia. Nel gioco anatolico l’Italia ha perduto nel 1926 le sue due carte migliori: con l’accordo di Mossul e con la caduta di Pangalos.

Q2 §20 Per i rapporti tra il Centro tedesco e il Vaticano e quindi per studiare concretamente la politica tradizionale del Vaticano nei vari paesi e le forme che essa assume è interessantissimo un articolo di André Lavedan nella «Revue Hebdomadaire» riassunto nella «Rivista d’Italia» del 15 marzo 1927. Leone XIII domandava al Centro di votare a favore della legge sul settennato di Bismarck, avendo avuto assicurazioni che ciò avrebbe portato a una soddisfacente modificazione delle leggi politico‑ecclesiastiche. Frankestein e Windthorst non vollero uniformarsi all’invito del Vaticano. Del Centro solo 7 votarono la legge: 83 si astennero.

Q2 §21 L’Etiopia d’oggi (articolo della «Rivista d’Italia» firmato tre stelle). L’Etiopia è il solo Stato indigeno indipendente in un’Africa ormai tutta europea (oltre la Liberia). Menelik è stato il fondatore della moderna unità etiopica: i nazionalisti abissini si richiamano a Menelik, il «grande e buono imperatore». Degli elementi che hanno contribuito ad assicurare l’indipendenza dell’Etiopia due sono evidenti: la struttura geografica del paese e la gelosia fra le potenze. La struttura geografica fa dell’Etiopia un immenso campo trincerato naturale, espugnabile solo con forze smisurate e sacrifizi non proporzionati alle scarse risorse economiche che il paese può offrire all’eventuale conquistatore. Lo Scioa, che ha creato l’unità abissina, è a sua volta una fortezza nel campo trincerato e tutto lo guarda e lo domina. Nell’ultimo trentennio è stato creato un esercito imperiale, distinto dai piccoli eserciti dei ras e ad essi superiore tecnicamente; la creazione dell’esercito nazionale è dovuta a Menelik.

Già prima della morte di Menelik (1913) la Corte, dato lo sfacelo intellettuale del vecchio imperatore, aveva proclamato (14 aprile 1910) imperatore Ligg Jasu, figlio di una figlia di Menelik, e di ras Mikael. Alla morte di Menelik (11 dicembre 1913) le lotte si scatenarono: Zeoditù, altra figlia di Menelik, e ras Tafari, figlio di ras Makonnen, si coalizzarono e riuscirono ad avere un imponente numero di partigiani. Tafari aveva con sé i giovani. Ras Mikael, tutore di Ligg Jasu minorenne, fu incapace di imporsi alle fazioni e di assicurare l’ordine pubblico come risultò in occasione dell’assalto del 17 maggio 1916 alla Legazione d’Italia. La guerra europea salvò l’Abissinia da un intervento straniero e dette la possibilità all’Abissinia di superare la crisi da sé. Zeoditù e Tafari si unirono per detronizzare Ligg Lasu e dividersi il potere, Zeoditù come imperatrice nominale, l’altro quale erede al trono e reggente (27 settembre 1916). Tafari, appoggiato dai capi militari, ha saputo con energia e scaltrezza ridurre all’obbedienza il paese. Ma il condominio con Zeoditù offrì spesso il destro a intrighi di palazzo non sempre innocui. (Alla fine del 26 o principio del 27) sparirono quasi contemporaneamente il ministro della guerra, fitaurari Hapte Gheorghes e il capo della Cheesa, abuna Mattheos.

La morte dell’abuna ha scatenato la quistione della chiesa nazionale. La chiesa etiopica riconosceva la suprema autorità del patriarca copto di Alessandria che nominava all’alto ufficio di abuna un egiziano (Mattheos era egiziano). Il nazionalismo etiopico vuole un abuna abissino. L’abuna ha in Abissima una grandissima importanza (più che l’arcivescovo‑primate delle Gallie in Francia) e il fatto che sia straniero presenta dei pericoli, nonostante che la sua autorità sia corretta e in un certo senso controllata dall’echegheh indigeno dal quale dipendono direttamente i numerosi ordini monastici.

La parte presa da Mattheos nel colpo di Stato del 27 settembre 1912 a favore di Tafari ha mostrato ciò che potrebbe avvenire. (Quando l’articolo veniva pubblicato il patriarca d’Alessandria resisteva ancora alla pretesa abissina: vedere il seguito della quistione). (L’Abissinia ha una capitale religiosa: Aksum). Tafari ha cercato di imprimere un ritmo nuovo alla politica estera abissina. Menelik aveva cercato di limitare la schiavitù e di introdurre l’istruzione obbligatoria, avviando lo Stato verso forme moderne, ma si teneva in un’attitudine di dissidente isolamento. Tafari invece ha cercato di partecipare alla vita europea e si è fatto ammettere nella Lega delle Nazioni, impegnandosi formalmente a estirpare nel più breve termine possibile la schiavitù. E infatti emanò un bando che imponeva la graduale liberazione degli schiavi, ma finora senza risultato. Gli schiavisti molto forti. (D’altronde l’Etiopia ancora feudale).

Convenzione di Londra del 13 dicembre 1906 fra Italia, Francia, Inghilterra, con cui i tre confinanti si impegnarono: a rispettare lo statu quo politico e territoriale dell’Etiopia; a mantenere, in caso di contese o mutamenti interni, la più stretta neutralità, astenendosi da ogni intervento negli affari interni del paese; qualora lo statu quo fosse turbato, a cercare di mantenere l’integrità dell’Etiopia, tutelando in ogni caso i rispettivi interessi: per l’Inghilterra il bacino del Nilo e la regolarizzazione delle acque di quel fiume e dei suoi affluenti; per l’Italia l’hinterland dei suoi possedimenti dell’Eritrea e della Somalia e l’unione territoriale tra essi ad ovest di Addis Abeba; per la Francia l’hinterland di Gibuti e la zona necessaria per la costruzione e il traffico della ferrovia Gibuti ‑ Addis Abeba. Le tre potenze si impegnavano di aiutarsi scambievolmente per la protezione dei loro rispettivi interessi.

L’accordo fu concepito in pieno «giro di valzer» dell’Italia con le potenze occidentali, e cioè in pieno sviluppo di quel vasto programma di intese mediterranee (l’accordo di Londra era stato conchiuso in massima il 6 luglio, tre mesi dopo Algesiras) che fu troncato un paio d’anni dopo sotto il ricatto (!) dello stato maggiore austriaco. Così alla politica di cooperazione succedette una lotta a colpi di spillo: la sola a guadagnarci fu la Francia che poté prolungare la ferrovia fino ad Addis Abeba (la diplomazia sostiene che l’accordo di Londra fu sottoposto preventivamente a Menelik e firmato solo quand’egli ebbe dato il nulla osta ai ministri delle tre potenze accreditati presso di lui, cosicché le stipulazioni dell’accordo sarebbero anche concessioni implicitamente (!) promesse dall’Abissinia qualcosa come la situazione del famoso trattato di Uccialli, ancora peggiorato).

Dopo la guerra europea, durante le trattative per i compensi coloniali fissati dal patto di Londra, l’Italia propose di ravvivare l’accordo del 1906, volendo risolvere il problema del congiungimento ferroviario tra l’Eritrea e la Somalia. Ma Londra e Parigi rifiutarono. La Francia non aveva nulla da chiedere all’Abissinia dopo la ferrovia Gibuti ‑ Addis Abeba; l’Inghilterra credeva di ottenere tutto senza unirsi all’Italia. Ma l’Inghilterra fece poi l’accordo del 1925 (due  scambiate tra Mussolini e l’ambasciatore inglese a Roma il 14 e il 20 dicembre 1925). Per esso: l’Italia si impegna ad appoggiare l’Inghilterra nei suoi tentativi per ottenere dall’Etiopia la concessione di lavori di sbarramento al Lago Tana, nella zona che nel 1906 era riservata all’influenza italiana e la concessione di un’autostrada fra il Sudan e il Tana; l’Inghilterra ad appoggiare l’Italia per ottenere la costruzione e l’esercizio di una ferrovia tra l’Eritrea e la Somalia italiana ad ovest di Addis Abeba; l’Inghilterra riconosce all’Italia l’influenza esclusiva (!) nella zona occidentale dell’Etiopia e in tutto il territorio destinato ad essere attraversato dalla ferrovia, con l’impegno da parte dell’Italia di non compiere in quella zona, sulle sorgenti del Nilo Azzurro e del Nilo Bianco e dei loro affluenti, alcuna opera che possa sensibilmente modificare il loro afflusso nel fiume principale. La Francia sollevò gran rumore su questo accordo, presentato come una minaccia dell’indipendenza abissina. La campagna francese ebbe gravi ripercussioni sul nazionalismo etiopico. Ras Tafari ha creato due tipografie per la stampa in lingua amarica: sviluppo di letteratura nazionalista incoraggiato da Tafari: xenofobia. Il Giappone è il modello del nazionalismo abissino.

L’articolo della «Rivista d’Italia» riporta brani di articoli e opuscoli: uno studente che è stato educato in America scrive: «Impariamo fortemente, apprendiamo molto, perché non vengano gli stranieri a governarci! ... Dobbiamo studiare più che possiamo, perché, se non studiamo, la nostra patria è finita». La Francia desta meno sospetti ad Addis Abeba, perché dopo Fascioda, Gibuti ha per essa solo l’importanza di uno scalo sulla via dell’Indocina. Inoltre, la ferrovia Gibuti ‑ Addis Abeba, che serve tutto il traffico esterno dell’Etiopia, dà alla Francia un monopolio che essa vorrebbe conservare: la Francia può quindi fare una politica di apparente disinteressamento. Ma Ras Tafari vuol far progredire l’Etiopia e quindi è favorevole ad altre ferrovie, opere idrauliche ecc.

Esiste ancora tra l’Etiopia e l’Italia una piccola quistione a proposito dei confini tra Etiopia e Somalia. Quando dopo la convenzione di Addis Abeba del 16 maggio 1908 fu definita la frontiera, la missione Citerni eseguì il tracciato sul terreno per quel che riguardava il Benadir. Si lasciò da parte la frontiera del sultanato di Obbia che non presentava urgenza data la speciale situazione di quel protettorato. Ma oggi Obbia è occupata dalle armi italiane e bisognerà fissare il tracciato del confine con l’Etiopia.

Q2 §22 Stefano Jacini, Un conservatore rurale della nuova Italia. Due volumi di complessive 600 pagine con indice dei nomi. Bari, Laterza.

È la biografia di Stefano Jacini senior scritta da suo nipote. Lo Jacini ha utilizzato l’archivio domestico, ricco fra l’altro di un epistolario in molta parte inedito. Chiarisce e completa periodi ed episodi della storia 1850‑1890. Lo Jacini non fu personalità di prima linea, ma ebbe un carattere proprio. Ebbe una parte non trascurabile nell’opera di unificazione economica della nazione (unificazione ferroviaria, valico del Gottardo, inchiesta agraria). Sostenitore di un partito conservatore nazionale (clericale) (lo Jacini agricoltore e filatore di seta). Non prese parte al movimento del 48. («Aveva una cultura internazionale fatta in molti viaggi, ciò che gli diede una visione europea della rivoluzione del 48, visione che lo trattenne dal prendervi parte attiva quando scoppiò in Italia»: così su per giù scrive Filippo Meda). Insomma lo Jacini seguì l’atteggiamento della sua classe che era reazionaria ed austriacante.

Sotto il governo di Massimiliano, collaborò. Si occupò di quistioni tecniche ed economiche. Fautore di Cavour, cioè dell’indipendenza senza rivoluzione. Fu attaccato quando era ministro con Cavour, per il suo passato prima del 59 e difeso dal Cattaneo.

Nel gennaio 1870 uscì il suo libro Sulle condizioni della cosa pubblica in Italia dove appare la tesi di un’Italia reale diversa e dissenziente dall’Italia legale (formula poi usata dai clericali): contro il Parlamento che voleva ridotto alle grandi quistioni della difesa dello Stato, della politica estera, della finanza centrale; decentramento regionale; suffragio universale indiretto col voto agli analfabeti (cioè potere agli agrari).

Nel 1879 pubblica I conservatori e la evoluzione naturale dei partiti politici in Italia. lmmagina l’equilibrio politico così: estrema sinistra, repubblicani; estrema destra, clericali intransigenti (egli pensava a un prossimo abbandono dell’astensionismo); nel mezzo, due partiti di governo, uno decisamente conservatore nazionale, l’altro liberale‑monarchico progressivo.

Contro Crispi e la megalomania politica. (Emanuele Greppi, Gaetano Negri, Giuseppe Colombo accettavano il suo pensiero: moderati lombardi). Lo Jacini offre un esemplare compiuto di una classe, gli agrari settentrionali: la sua attività politica e letteraria è interessante perché da essa hanno tratto spunto e motivi movimenti posteriori (Partito Popolare, ecc.). (Contrario nel 71 al trasferimento della capitale a Roma).

Q2 §23 Eurasiatismo. Il movimento si svolge intorno al giornale Nakanune, che tende alla revisione dell’atteggiamento assunto dagli intellettuali emigrati: è cominciato nel 1921. La prima tesi dell’eurasiatismo è che la Russia è più asiatica che occidentale. La Russia deve mettersi alla testa dell’Asia nella lotta contro il predominio europeo. La seconda tesi è che il bolscevismo è stato un avvenimento decisivo per la storia della Russia: ha «attivato» il popolo russo ed ha giovato all’autorità e all’influenza mondiale della Russia con la nuova ideologia che ha diffuso. Gli Eurasiatici non sono bolscevichi ma sono nemici della democrazia e del parlamentarismo occidentale. Essi si atteggiano spesso a fascisti russi, come amici di uno Stato forte in cui la disciplina, l’autorità, la gerarchia abbiano a dominare sulla massa. Sono partigiani di una dittatura e salutano l’ordine statale vigente nella Russia dei Soviet per quanto essi vagheggino di sosostituire l’ideologia nazionale a quella proletaria. L’ortodossia è per loro l’espressione tipica del carattere popolare russo; essa è il cristianesimo dell’anima eurasiatica.

Q2 §24 Politica mondiale e politica europea. Non sono una stessa cosa. Un duello tra Berlino e Parigi o tra Parigi e Roma non fa del vincitore il padrone del mondo. L’Europa ha perduto la sua importanza e la politica mondiale dipende da Londra, Washington, Mosca, Tokyo più che dal continente.

Q2 §25 Il nazionalismo italiano. Primo congresso del Partito Nazionalista (Associazione Nazionalista) a Firenze nel dicembre 1910, con la presidenza di Scipio Sighele: Gualtiero Castellini, Federzoni, Corradini, Paolo Arcari, Bevione, Bodrero, Gray, Rocco, Del Vecchio. Gruppo ancora indistinto, che cercava di cristallizzare intorno ai problemi della politica estera e dell’emigrazione le correnti meno pacchiane del tradizionale patriottismo (è un’osservazione poco fatta che in Italia, accanto al cosmopolitismo e apatriottismo più superficiale è sempre esistito uno sciovinismo frenetico, che si collegava alle glorie romane e delle repubbliche marinaresche e alle fioriture individuali di artisti, letterati, scienziati di fama mondiale. Lo sciovinismo italiano è caratteristico ed ha dei tipi assolutamente suoi: esso era accompagnato da una xenofobia popolaresca anch’essa caratteristica). Il primo nazionalismo comprendeva molti democratici e liberali e anche massoni. Poi il movimento si andò distinguendo e precisando per opera di un piccolo gruppo di intellettuali che saccheggiarono le ideologie e i modi di ragionare secchi, imperiosi, pieni di mutria e di suffisance di Carlo Maurras: Coppola, Forges Davanzati, Federzoni. (Importazione sindacalista nel nazionalismo). In realtà i nazionalisti erano antirredentisti: la loro posizione fondamentale era antifrancese. Subirono l’irredentismo perché non volevano fosse un monopolio dei repubblicani e dei radicali massoni, cioè un’arma dell’influenza francese in Italia.

Teoricamente la politica estera dei nazionalisti non aveva fini precisi: si poneva come una astratta rivendicazione imperiale contro tutti; in realtà voleva sopprimere la francofilia democratica e rendere popolare la alleanza tedesca.

Q2 §26 I giornali tedeschi. Tre grandi concentrazioni giornalistiche: Ullstein, Mosse, Scherl, le due prime democratiche, la terza di destra (stampa di Hugenberg).

La casa Ullstein stampa: la «Vossische Zeitung», per il pubblico colto, di scarsa tiratura (40 000 copie?) ma di importanza europea, diretta da Giorgio Bernhard (passa per essere troppo francofila); la «Morgenpost», il più diffuso giornale di Berlino e forse della Germania (forse 500 000 copie), per la piccola borghesia e gli operai; la «Berliner Allgemeine Zeitung», che si occupa di quistioni cittadine; la «Berliner Illustrierte» (come «La Domenica del Corriere»), diffusissima: la «Berliner Zeitung am Mittag», sensazionale e che trova ogni giorno 100 000 lettori; l’«Uhu», il «Querschnitt» (la traversale) e «Die Koralle», tipo «Lettura»; e altre pubblicazioni di mode, di commercio, di tecnica, ecc. La UlIstein è legata col «Telegraaf» di Amsterdam, l’«Az Est» di Budapest, la «Neue Freie Presse» (a UlIstein si appoggia per le informazioni da Berlino il «Corriere della Sera»).

La casa editrice Rudolph Mosse pubblica il grande quotidiano democratico «Berliner Tageblatt» (300 000 copie), diretto da Teodoro Wolf con 17 supplementi (Beilagen) e con edizioni speciali per l’estero in tedesco, in francese, in inglese, di importanza europea, costoso e difficile per la piccola gente; «Berliner Morgenzeitung», «Berliner Volkszeitung», in istile popolare, ma delle stesse direttive politiche. Alla casa Mosse si appoggia la «Stampa» di Torino.

Casa editrice Scherl: «Lokal Anzeiger», lettura prediletti, dei bottegai e della piccola borghesia fedele alla vecchia Germania imperiale; il «Tag», per un pubblico più scelto; la «Woche», la «Gartenlaube» (il pergolato).

Giornali da destra a sinistra: «Deutsche Zeitung», ultra nazionalista, ma poco diffusa; «Volkischer Beobachter» di Hitler, poco diffuso (20 000). Poco diffusa è anche la «Neue Preussische Zeitung» (10 000) che continua ad esser chiamata «Kreuzzeitung»: è l’organo classico degli Junker (latifondisti prussiani), ex‑ufficiali nobili, monarchici, e assolutisti, rimasti ricchi e solidi perché poggianti sulla proprietà terriera; ma invece tira 100 000 copie la «Deutsche Tageszeitung» organo del Bund der Landwirte (federazione degli agrari) che va in mano dei minori proprietari e dei fattori e contribuisce a mantenere fedele all’antico regime l’opinione pubblica delle campagne.

Tedesco nazionali: il «Tag» (100 000); «Lokal Anzeiger» (180 000); «Schlesische Zeitung»; «Berliner Börsen Zeitung» (giornale finanziario di destra); «Tägliche Rundschau» (30 000) ma importante perché era ufficioso di Streseman; «Deutsche Allgemeine Zeitung» organo dell’industria pesante, anch’esso tedesco‑popolare. Altri giornali tedesco‑popolari, cioè di destra moderata con adesione condizionata all’attuale regime e diffusi tra gli industriali sono: la «Magdeburgische Zeitung», la «Kölnische Zeitung» (52 000), di fama europea per la sua autorità in politica estera, l’«Hannoverschej Kurier», le «Münchner Neueste Nachrichten» (135 000) e le «Leipziger Neueste Nachrichten» (170 000).

Giornali del centro: la «Germania» (10 000), ma diffusissimi sono i giornali cattolici di provincia come la «Kölnische Volkszeitung».

I giornali democratici sono i meglio fatti: «Vossische Zeitung», «Berliner Tageblatt», «Berliner Börsen Courier», «Frankfurter Zeitung». I socialdemocratici hanno un giornale umoristico: «Lachen links» (risa a sinistra).

Q2 §27 Il «Correspondant» del 25 luglio 1927 (vedi «Rivista d’Italia» del 15 luglio 1927: forse c’è errore nelle date, a meno che la «Rivista d’Italia» non sia uscita molto più tardi della sua datazione) in un articolo, La pression italienne, ha scritto: «Il Duce, lo teniamo da fonte eccellente, avrebbe già voluto due volte la guerra dopo il suo avvento al potere: due volte il maresciallo Badoglio avrebbe rifiutato di prenderne la responsabilità ed avrebbe domandato ed ottenuto di attendere fino al 1935 per essere sicuro». Il discorso sull’anno cruciale è del giugno 1927: il «Correspondant» cercherebbe quindi di dare una spiegazione di questa determinazione avvenire. Il «Correspondant» è rivista molto autorevole conservatrice‑cattolica.

Q2 §28 Articolo di Frank Simonds, Vecchi torbidi nei nuovi Balcani, nella «American Review of Reviews». Il Simonds fa un parallelo tra Mussolini e Stresemann, come uomini politici più attivi di Europa. L’uno e l’altro sacrificano allo spirito di opportunismo (forse vuol dire «del momento», ma anche forse si riferisce alla mancanza di prospettive larghe e lontane e quindi di principii). I trattati di Mussolini come quelli di Stresemann non rappresentano una politica permanente. Sono cose fatte al momento per le condizioni contemporanee. E poiché possono intervenire dei fatti atti a precipitare il conflitto, l’uno e l’altro sono egualmente ansiosi di evitare le ostilità acquistando pei rispettivi paesi e per se stessi il necessario prestigio con vittorie diplomatiche incidentali.

Q2 §29 Quintino Sella. (Articolo di Cesare Spellanzon nella «Rivista d’Italia» del 15 luglio 1927).

Quintino Sella è uno dei pochi borghesi, tecnicamente industriali, che partecipano in prima fila alla formazione dello Stato moderno in Italia. Egli si differenzia in modo volissimo dal rimanente personale politico del suo tempo e della sua generazione, per la cultura specializzata (è un grande ingegnere e anche un uomo di scienza); conosce l’inglese e il tedesco oltre che il francese; ha viaggiato molto all’estero e si è tuffato nella vita di altri paesi per conoscerne le abitudini di lavoro e di vita (non ha cioè viaggiato come turista, visitando alberghi e salotti); ha una vasta cultura umanistica oltre che tecnica; è uomo di forti convinzioni morali, anzi di un certo puritanismo, e cerca di mantenersi indipendente dalla corte, che esercitava una funzione degradante sugli uomini al governo (molti uomini di Stato facevano i ruffiani come il D’Azeglio) fino a porsi apertamente contro il re per la sua vita privata e a domandargli decurtazioni di lista civile (si sa quanto la quistione della lista civile e delle oblazioni occasionali avesse importanza nella scelta degli uomini di governo) e a staccarsi dalla così detta destra che era più una cricca di burocrati, generali, proprietari terrieri che un partito politico (vedere meglio questo problema) per avvicinarsi ad altre correnti più progressive (il Sella partecipò al trasformismo che significava tentativo di creare un forte partito borghese all’infuori delle tradizioni personalistiche e settarie delle formazioni del Risorgimento).

Quintino Sella tassatore spietato: il macinato; perché fu scelta questa tassa? Per la facilità di riscossione o perché tra l’odio popolare e il sabotaggio delle classi proprietarie si aveva più paura di questo?

Poca partecipazione al 48 (egli aveva visto a Parigi la caduta della monarchia di luglio). A Milano si trovò in un’assemblea dove si voleva votare un biasimo a Brescia che piemontesizzava: Sella sostenne Brescia e fu fischiato. Apparteneva alla Destra ma fu ministro la prima volta con Rattazzi, capo del centro sinistro (1862), fu avversario del primo ministero Minghetti (63‑64) e col Lanza combatté il ministero Menabrea (68‑69). Deciso per la conquista di Roma. Il Lamarmora nel 1871 scrisse che il Sella «corre sempre, ora in alto ora in basso, un po’ a destra, un po’ a sinistra; non si sa mai da che parte egli sia e sovente non lo sa nemmeno lui».

Nel 1865 si reca alla Reggia a chiedere al re il sacrificio di 3 milioni annui della lista civile per far fronte alle immediate difficoltà di tesoreria. Come industriale, andato al governo, cessa i rapporti di fornitura allo Stato. Nel Parlamento «osa rivolgersi con chiara allusione al re, del quale deplora certe sregolatezze della vita intima, per ammonirlo che il popolo non fa credito ai suoi governanti se essi non danno esempio costante di moralità». Si oppone all’approvazione del disegno di legge per la Regìa dei tabacchi, presentato da un ministero di Destra perché c’era odor di corruzione e di loschi maneggi in quel grosso affare che il ministero Menabrea si accingeva a convalidare. Sella si oppone risolutamente all’alleanza con la Francia nel 70. Il re intrigava per sostituire Lanza con Cialdini; Sella nel Senato rispose con asprezza all’attacco sferrato da Cialdini. (Nato nel 1827, morto nell’84).

Q2 §30 Italia e Yemen nella nuova politica arabica. Articolo di «tre stelle» nella «Rivista d’Italia» del 15 luglio 1927. Trattato di Sana del 2 settembre 1926 tra Italia e Yemen. Lo Yemen è la parte più fertile dell’Arabia (Arabia felice). È stato sempre autonomo di fatto, sotto una dinastia di imam che discende da el‑Usein, secondo figlio dei califfo Alì e di Fatimah, figlia di Maometto. Solo nel 1872 i turchi stabilirono il loro dominio nello Yemen. Nel 1903 insurrezione, che nel 1904 trovò nel nuovo imam Yahyà ibn‑Mohammed Hamid, di 28 anni, il suo capo.

Vinto nel 1905, Yahyà riprese la lotta nel 1911 aiutato dall’Italia che era in guerra con la Turchia e consolidò la sua indipendenza. Nella guerra europea Yahyà parteggiò per la Turchia per opporsi alla politica inglese imperniata sull’ingrandimento dello sceriffo Husein (proclamatosi re dell’Arabia il 6 novembre 1916) e sull’indipendenza dell’Asir. Dopo la pace, tramontato il programma unitario di Husein che abdicò nel 24 e nel 25 fu relegato a Cipro, rimase la quistione dell’Asir. L’Asir è un emirato creato durante la guerra italo- turca. Nell’Asir si era stabilito il famoso santone marocchino Ahmed ibn‑Idris el‑Hasani el‑Idrisi, il cui discendente Mohammed Alì, noto come lo sceicco Idris durante la guerra libica, appoggiato dall’Italia, sollevò le tribù dell’Asir. Riconosciuto emiro indipendente dagli Inglesi nel 1914, Mohammed collaborò con Husein ed ebbe dagli Inglesi la Tihamah con Hodeidah; fece la concessione a una compagnia inglese di giacimenti petroliferi delle isole Farsan. Stretto tra Husein a Nord e Yahyà a Sud, l’emiro si legò nel 1920 al sultano del Negged (Ibn Saud) cedendogli, per averne la protezione, Abha, Muhail e Beni Shahr, cioè la parte estrema dell’Asir settentrionale e assicurandogli uno sbocco sul mar Rosso. I Wahhabiti occuparono quelle terre e se ne servirono per combattere meglio l’Heggias (Husein). Nel 1926 (8 gennaio) i Wahhabiti vittoriosi proclamarono Ibn Saud re dell’Heggias. I Wahhabiti si mostravano i più capaci di unificare l’Arabia; Yahyà con un proclama del 18 giugno 1923 aveva posto la sua candidatura a califfo e a campione della nazione araba. Riuscì con imprese fortunate ad assicurarsi l’effettivo controllo dei numerosi sultanati e tribù del così detto Hadramaut e a restringere volmente l’hinterland di Aden, senza nascondere le sue mire su Aden stessa. Si gettò poi contro l’emiro dell’Asir (che per lui era un usurpatore) e conquistò tutta la parte meridionale sino a Loheyyah e compresa Hodeidah, venendo a contatto coi Wahhabiti che avevano allargato, a richiesta dell’emiro, la loro occupazione dell’Asir. L’emiro dell’Asir si lasciò spingere dall’ex‑senusso ad atti di ostilità verso l’Italia (l’ex‑senusso era ospite alla Mecca di Ibn Saud dopo la sua espulsione da Damasco – dicembre 1924).

Col trattato italo‑yemenita, a Yahyà è riconosciuto il titolo regio e la piena e assoluta indipendenza. Lo Yemen importerà le sue forniture dall’Italia, ecc. (Ibn Saud fece un trattato con l’Inghilterra il 26 dicembre 1915 ed ebbe il possesso non solo del Negged, ma anche di el‑Hasa, el‑Qatif e Giubeil, in cambio del suo disinteressamento per Koweit, el‑Bahrein e Oman che, come è noto, sono sotto il protettorato inglese. In una discussione ai Comuni del 28 novembre 1922 risultò ufficialmente che Ibn Saud percepiva dal governo inglese regolare stipendio. Coi trattati del 1° e 2 novembre 1925, dopo la conquista dello Heggias, Ibn Saud accettò confini molto infelici con l’Irak e la Transgiordania che Husein non aveva voluto accettare, ciò che dimostrò la sua stretta intesa con l’Inghilterra). Il trattato italo‑yemenita fece rumore: si parlò di una alleanza politica e militare segreta; in ogni modo i Wahhabiti non attaccarono lo Yemen (si parlò di attriti italo‑inglesi ecc.). Rivalità tra Ibn Saud e Yahyà: ambedue aspirano a promuovere e dominare l’unità araba.

Wahhabiti: setta musulmana fondata da Abd‑el‑Wahhab che cercò di allargarsi con le armi; ebbe molte vittorie ma fu ricacciata nel deserto dal famoso Mehemet Alì e da suo figlio Ibrahim pascià. Il sultano Abdallah, catturato, fu giustiziato a Costantinopoli (dicembre 1818) e suo figlio Turki a stento riuscì a mantenere uno staterello nel Negged. I Wahhabiti vogliono tornare alla pura lettera del Corano, sfrondando tutte le superstrutture tradizionali (culto dei santi, ricche decorazioni delle moschee, pompe religiose). Appena conquistata la Mecca hanno abbattuto cupole e minareti, distrutto i mausolei di santoni celebri, fra cui quello di Khadigia, la prima moglie di Maometto, ecc. Ibn Saud emanò ordinanze contro il vino e il fumo, per la soppressione del bacio della «pietra nera» e dell’invocazione a Maometto nella formula della professione di fede e nelle preghiere.

Le iniziative puritane dei Wahhabiti sollevarono proteste nel mondo musulmano; i governi di Persia e dell’Egitto fecero rimostranze. Ibn Saud si moderò. Yahyà cerca di speculare su questa reazione religiosa. Yahyà e la maggioranza degli yemeniti seguono il rito zeidita, cioè sono eretici per la maggioranza sunnita degli arabi. La religione è contro di lui, egli cerca di premere perciò sulla nazionalità e sul fatto della sua discendenza dal profeta che gli fa rivendicare la dignità di califfo. (Nel tallero da lui coniato c’è la scritta: «coniato nella sede del califfato a Sana»). La sua regione, essendo delle più fertili dell’Arabia, e la sua posizione geografica gli danno una certa possibilità economica.

Pare che lo Yemen abbia 170 000 Km2 di superficie, con una popolazione tra 1 e 2 milioni. Sull’altipiano la popolazione è araba pura, bianca, sulla costa è prevalentemente negra. C’è un certo apparato amministrativo, scuole embrionali, esercito con leva obbligatoria. Yahyà è intraprendente e di tendenze moderne sebbene geloso della sua indipendenza. Per l’Italia lo Yemen è la pedina per il mondo arabico.

Q2 §31 Niccolò Machiavelli. La «Rivista d’Italia» del 15 giugno 1927 è interamente dedicata al Machiavelli per il IV centenario della sua morte. Eccone l’indice: 1) Charles Benoist, Le Machiavélisme perpétuel; 2) Filippo Meda, Il machiavellismo; 3) Guido Mazzoni, Il Machiavelli drammaturgo; 4) Michele Scherillo, Le prime esperienze politiche del Macbiavelli; 5) Vittorio Cian, Machiavelli e Petrarca; 6) Alfredo Galletti, Niccolò Machiavelli umanista; 7) Francesco Ercole, Il Principe; 8) Antonio Panella, Machiavelli storico; 9) Plinio Carli, Niccolò Machiavelli scrittore; 10) Romolo Caggese, Ciò che è vivo nel pensiero politico di Machiavelli.

L’articolo del Mazzoni è mediocre e prolisso: erudito‑retorico‑divagativo. Mi pare addirittura che, come capita spesso a questo tipo di scrittori, il Mazzoni non abbia ben capito la lettera della commedia e falsifichi il carattere di messer Nicia che non si attendeva un figlio dall’accoppiamento di sua moglie con Callimaco travestito, ma si attendeva solo di avere una moglie resa feconda dalla Mandragola e liberata per l’accoppiamento dalle conseguenze micidiali della pozione. Il genere di scimunitaggine di Messer Nicia è ben circoscritto e rappresentato: egli crede che il non aver figli non dipenda da lui, vecchio, ma dalla moglie giovane ma fredda, e a questa presunta infecondità della moglie vuol mettere riparo non facendola ingravidare da un altro, ma facendosela trasformare da infeconda in feconda. Che si lasci convincere a far accoppiare la moglie con uno che deve morire per liberarla da un presunto male che altrimenti sarebbe causa di allontanamento per lui dalla moglie o di morte per lui, è un elemento comico che si trova in altra forma in novellette popolari dove si vuol dipingere la protervia delle donne che, per dare la sicurezza agli amanti, si fanno possedere addirittura in presenza del marito (questo motivo, in altre forme, c’è anche nel Boccaccio). Nel caso del Machiavelli è la stoltezza del marito che è messa in ridicolo e rappresentata e non la protervia della donna.

L’articolo di Vittorio Cian è anche peggiore di quello del Mazzoni: la rettorica stopposa del Cian prende tutto il campo. Il Machiavelli non deve evidentemente nulla al Petrarca, il cui pensiero politico è embrionale e i cui accenni all’Italia sono puramente letterari. Ma il Cian che vede precursori da per tutto e divinazioni miracolose in ogni frasetta banale distende dieci pagine sull’argomento per non dire che i soliti luoghi comuni dei libri per le scuole medie ed elementari.

Q2 §32 Augur. Collaboratore della Nuova Antologia per quistioni di politica mondiale, specialmente sulla funzione dell’Impero Inglese e sui rapporti tra Inghilterra e Russia. Augur deve essere un fuoruscito russo. La sua collaborazione alla «Nuova Antologia» deve essere indiretta: articoli pubblicati in riviste inglesi e tradotti nella «Nuova Antologia». La sua attività di giornalista ha per scopo di predicare l’isolamento morale della Russia (rottura delle relazioni diplomatiche) e creazione di un fronte unico antirusso come preparazione di una guerra. Legato all’ala destra dei conservatori inglesi nella politica russa, se ne stacca nella politica americana: egli predica stretta unione anglo-americana e insiste perché l’Inghilterra ceda all’America o almeno disarmi le isole che possiede ancora nel mare Caraibico (Bahamas, ecc.). I suoi articoli sono pieni di grande sicumera (derivata forse dalla presunta grande autorità della fonte ispiratrice); egli cerca di trasfondere la certezza che una guerra di sterminio sia inevitabile tra l’Inghilterra e la Russia, guerra in cui la Russia non può che soccombere. I rapporti ufficiali tra i due paesi sono come le ondate superficiali dell’oceano, che vanno e vengono capricciosamente: ma nel profondo c’è la corrente storica potente che porta alla guerra.

Q2 §33 Documenti diplomatici. Un articolo di A. De Bosdari nella «Nuova Antologia» del 1° luglio 1927: I documenti ufficiali britannici sull’origine della guerra (1898-1914).

Il De Bosdari pone la quistione se i documenti tanto tedeschi che inglesi siano effettivamente riprodotti nella loro integrità e senza omissione di nulla che abbia vera importanza per lo svolgimento storico dei fatti. «Per ciò che riguarda le pubblicazioni tedesche, posso, come mio ricordo personale, asserire che essendomi un giorno doluto al Ministero tedesco degli Affari Esteri che fra i documenti pubblicati ne fossero stati inseriti alcuni scioccamente ingiuriosi per l’Italia, specialmente i rapporti dell’Ambasciatore Monts, mi fu risposto che ciò era una circostanza assai dolorosa, ma che quei documenti non si sarebbero potuti sopprimere senza togliere alla pubblicazione il carattere di imparziale documentazione storica». Dopo questo suo ricordo personale, il De Bosdari era pronto a giurare sull’integrità della documentazione tedesca.

Per i documenti inglesi, dopo aver ricordato la buona fede del Governo inglese, di cui non si ha motivo di dubitare, dice che costituiscono una prova abbastanza sicura di autenticità e di completezza, le numerose integrazioni che vi avvengono di documenti che, per motivi politici abbastanza plausibili, erano stati mutilati nei libri blù (ma i libri inglesi sono bianchi, mi pare!) antecedentemente pubblicati. (Veramente altri «motivi politici abbastanza plausibili» possono aver indotto a non pubblicare altri documenti e a non integrarne qualcuno: per es. i documenti dovuti a spionaggio saranno mai pubblicati?)

Il De Bosdari ha una buona osservazione: nota la scarsezza, tanto nei documenti inglesi che in quelli tedeschi, di quei documenti che riguardano le deliberazioni del Governo, le discussioni e le decisioni dei Consigli dei ministri (che non sono «diplomatici» in senso tecnico, ma che sono evidentemente i decisivi). Nota invece la grande abbondanza di telegrammi e rapporti di funzionari diplomatici e consolari, la cui importanza è relativa, perché questi funzionari, nei momenti di crisi, telegrafano a getto continuo (per non essere accusati di negligenza e di distrazione) senza avere il tempo di controllare le proprie notizie e le proprie impressioni. (Questa osservazione nasce da esperienza personale del De Bosdari e può essere una prova di come lavorano i funzionari diplomatici italiani: forse per gli inglesi le cose vanno diversamente).

Q2 §34 Per una politica annonaria razionale e nazionale di Guido Borghesani, nella Nuova Antologia del 1° luglio 1927, è un mediocre articolo, con dati poco sicuri e elaborati primitivamente. Sostiene la tesi generale che in Italia si consuma troppo grano e che perciò oltre alla lotta per avere un miglior raccolto granario dove è tecnicamente più produttiva la semina di questo cereale, si dovrebbe tendere a sostituire il grano con altri cibi. La quistione è però questa, che per es. la Francia, le cui abitudini sono nel mangiare molto simili a quelle dell’Italia, non solo consuma per abitante tanto grano quanto l’Italia, ma consuma molto più di altri cibi fondamentali (zucchero: Francia, kg. 24,5; Italia, kg. 8), (formaggio e burro calcolati in latte: Francia, hl. 3; Italia, hl. 0,8). Il problema del grano in Italia è di miseria, non di soverchio consumo, anche se la tesi generale è giusta, nel senso del grande squilibrio: in Italia il maggior consumo di grano in confronto del granoturco, ecc., è l’unico indice di un certo miglioramento dietetico.

Q2 §35 Francesco Orestano, La Chiesa Cattolica nello Stato Italiano e nel mondo, Nuova Antologia, 16 luglio 1927. Articolo importante nel periodo delle trattative per il Concordato. (Confrontare con polemiche tra «Popolo d’Italia», Gentile, «Osservatore Romano», riprodotte in opuscolo dalla «Civiltà Cattolica»). (La legge delle guarantigie, in quanto avente valore statutario, aveva abrogato l’articolo 1° dello Statuto?).

L’articolo dell’Orestano pare scritto da un gesuita. È favorevole alla concessione di un territorio al Papa e nei limiti del plebiscito del 2 ottobre 1870 (cioè tutta la città Leonina, che mi pare fu appunto esclusa dal plebiscito ufficiale). (L’Orestano scrisse nel 1924 uno studio, Lo Stato e la Chiesa in Italia, Roma, Casa Editrice Optima, e nel 1915 una Quistione Romana ristampata in Verso la nuova Europa, Casa Editrice Optima, 1917).

Q2 §36 Machiavelli. Pasquale Villari, Niccolò Machiavelli e i suoi tempi, a cura di Michele Scherillo, Ed. Hoepli, Milano, 1927, voll. 2, L. 60.

È la ristampa della celebre opera del Villari, con in meno i documenti, che nell’edizione Le Monnier occupavano l’intero terzo volume e parte del secondo. Nell’edizione Scherillo questi documenti sono stati elencati, con cenni sommari sul loro contenuto, in modo che facilmente si può andarli a ricercare nell’edizione Le Monnier).

Q2 §37 L’Unione internazionale dei Soccorsi. Iniziativa di origine italiana. Creata nel 1927 in una Conferenza internazionale alla quale furono invitati anche gli Stati che non fanno parte della Società delle Nazioni (Stati Uniti, U.R.S.S., ecc.). L’Unione coordina l’attività delle organizzazioni di soccorso esistenti, aggiungendovi la partecipazione dei governi. Le calamità considerate sono i disastri e i rivolgimenti dovuti a casi di forza maggiore quando colpiscono popolazioni intere, quando superano i calcoli di un’amministrazione anche previdente, quando hanno un carattere eccezionale. L’aiuto non comporta riparazioni né ricostruzione. Stretta neutralità nazionale, politica, religiosa, ecc.

Q2 §38 Gioviano Pontano. Sua attività politica come affine a quella del Machiavelli. (Cfr M. Scherillo, Origini e svolgimento della letteratura italiana, II, dove sono riportati due memoriali del Pontano sulla situazione italiana nel periodo della calata di Carlo VIII; e Gothein, Il Rinascimento nell’Italia Meridionale, tradotto nella Biblioteca storica del Rinascimento, Firenze, 1915). Il Pontano era membro napoletanizzato. (La religione come strumento di governo. Contro il potere temporale del Papa: doversi «li Stati temporali» governare da «re e principi secolari»).

Q2 §39 La Geopolitica. Già prima della guerra Rodolfo Kjellén, sociologo svedese, cercò di costruire su nuove basi una scienza dello Stato o Politica, partendo dallo studio del territorio organizzato politicamente (sviluppo delle scienze geografiche: geografia fisica, geografia antropica, geopolitica) e della massa di uomini viventi in società in quel territorio (geopolitica e demopolitica). I suoi libri, specialmente i due: Lo Stato come forma di vita e Le grandi Potenze attuali (Die Grossmächte der Gegenwart, del 1912, rielaborato dall’autore, divenne Die Grossmächte und die Weltkrise, pubblicato nel 1921; il Kjellén è morto nel 1922) ebbero grande diffusione in Germania dando luogo a una corrente di studi. Esiste una «Zeitschrift für Geopolitik»; e appaiono opere voluminose di geografia politica (una di esse, Weltpolitisches Handbuch, vuol essere un manuale per gli uomini di Stato) e di geografia economica. In Inghilterra e in America e in Francia.

Q2 §40 Il problema scandinavo e baltico, articolo di A. M. (?) nella Nuova Antologia del 1° agosto 1927. Articolo un po’ balzellante e pieno di fumosità pretenziose ma interessante nel complesso anche perché l’argomento è di solito poco trattato. Unità culturale dei popoli scandinavi molto più intima di quella dei popoli di cultura latina. Esiste un movimento per una Lega interscandinava, che dà luogo a riunioni periodiche e solenni, ma la Lega non può divenire realtà concreta di organismo politico: rimangono i vincoli culturali e di razza da cui il movimento nasce e che da esso sono mantenuti e rinforzati. Le ragioni della impossibilità della Lega sono più sostanziali che non quella del pericolo di una egemonia svedese. La Svezia e la Finlandia hanno interessi diversi della Danimarca e Norvegia. Eliminate le flotte tedesca e russa il Baltico è in certo qual modo neutralizzato, ma tale neutralità è controllata dall’Inghilterra. La Lega creerebbe un’altra situazione di cui l’Inghilterra potrebbe non essere soddisfatta, almeno che la Lega stessa fosse una sua creatura. Così si dica per la Germania (e anche per la Russia, anzi più di tutto per la Russia) restituita a grande potenza.

Danimarca nell’anteguerra gravitava nell’orbita inglese. Oggi ancor più. Ha rinunziato a ogni apparato militare (bisogna vedere se ciò non sia avvenuto per suggerimento inglese, che così può entrare nel Baltico senza violare nessun «piccolo Belgio»). In ogni modo la neutralità disarmata della Danimarca pone il Baltico sotto il controllo inglese, quindi diminuisce la posizione della Germania, che tende a esercitare una influenza nel Nord. La Danimarca, col suo disarmo, ha rinunziato alla sua posizione e funzione internazionale. Paese piccolo borghese.

La Svezia è apatica e quietista, senza volontà di potenza.

La Norvegia sotto influsso inglese, in istato di quasi disarmo, ma in ascesa. Piena di vigore la Finlandia, dotata di un forte sistema statale e di governo. La Svezia paese di grande industria e di alta borghesia con rigida differenziazione di classi (tradizione aristocratica‑militare e conservatrice); riduzione di spese militari e navali; sotto influenza tedesca; il suo prestigio decaduto; avrebbe potuto forse annettersi la Finlandia: invece vide assegnare alla Finlandia le isole Aland, la Gibilterra baltica.

La Finlandia ha assorbito dalla Svezia la cultura occidentale. I suoi interessi permanenti e profondi legati alla Germania. Atteggiamento riservato verso la Polonia. La Polonia vorrebbe costituirsi grande protettrice degli Stati baltici e raggrupparli intorno a sé di fronte alla Russia e alla Germania. (Ma Lituania avversa, Finlandia molto riservata e altri Stati baltici diffidenti e sospettosi). La Russia ha finora sventato queste manovre polacche.

Inghilterra, potenza navale contro blocco tedesco‑russo (l’autore prevede una ripresa della potenza tedesca che organizza la Russia sotto il suo controllo e le si unisce territorialmente): in cui la tradizionale supremazia del mare (inglese) sul continente verrebbe a perdere la sua efficienza data la grandezza territoriale del blocco tedesco‑russo. L’Inghilterra in posizione di difesa, perché satura di territori dominati e la sua flotta diminuita come fattore egemonico. Il blocco russo‑tedesco rappresenterebbe la rivolta anti‑inglese. Verrebbe a formarsi una continuità ininterrotta dal Mar Glaciale al Mediterraneo e dal Reno al Pacifico: la Turchia sarebbe il secondo fattore in sottordine; l’adesione della Bulgaria e dell’Ungheria non sarebbe improbabile in caso di conflitto. (Lituania già congiunge Russia e Germania).

La minaccia dell’Inghilterra di forzare gli stretti danesi (a parte la funzione germanica del canale di Kiel) neutralizzata dai possibili campi di mine che la Germania può disporre ai confini meridionali della Danimarca e della Svezia. La influenza francese nel Nord è irrilevante. La Svezia e la Finlandia rifuggono dall’inimicarsi l’Inghilterra, ma tendono sempre più verso la Germania.

Risorgere del germanesimo. La Germania «potenzialmente» è ancora la più forte nazione continentale. L’unità nazionale è rafforzata; la compagine statale è intatta. Essa oggi si destreggia fra Occidente e Oriente in attesa di riprendere la sua libertà politica di fronte all’Inghilterra che tenta invano di separarla dalla Russia, per avere ragione di entrambe.

La Russia: i concetti dell’autore sulla Russia sono molto superficiali e fumosi. «L’amorfismo russo è incapace di organizzare lo Stato e neppure di concepirlo. Tutti i fondatori di Stato russo furono stranieri o d’origine straniera (Rurik, i Romanoff). La potenza organizzatrice non può essere che la Germania, per ragioni storiche e geografiche e politiche. Non conquista militare ma solo subordinazione economica, politica, culturale. Sarebbe antistorico frazionare la Russia e sottoporla ad esperimenti coloniali, come avrebbero voluto certi teorici della politica. Il popolo russo è mistico, ma non religioso, per eccellenza femmineo e dissolvitore», ecc. ecc. (La quistione è molto meno verbalmente complessa: la Russia è troppo contadina e di un’agricoltura primitiva, per potere con «facilità» organizzare uno Stato moderno: la sua industrializzazione è il processo della sua modernizzazione).

Q2 §41 Niccolò Machiavelli. Articolo di Luigi Cavina nella Nuova Antologia del 16 agosto 1927: Il sogno nazionale di Niccolò Machiavelli in Romagna e il governo di Francesco Guicciardini. L’episodio cui l’articolo si riferisce è interessante, ma il Cavina non ne sa trarre tutte le conseguenze necessarie (l’articolo è di carattere descrittivo‑rettorico). Dopo la battaglia di Pavia e la definitiva sconfitta dei Francesi che assicurava l’egemonia spagnola, i signori italiani entrano in uno stato di panico: il Machiavelli, recatosi a Roma per consegnare personalmente a Clemente VII le Istorie fiorentine che aveva ultimato, propone al papa di creare una milizia nazionale e lo convince a fare un esperimento. Il papa manda il Machiavelli in Romagna presso Francesco Guicciardini che era Presidente della Romagna con un breve in data 6 giugno 1525. Il Machiavelli doveva esporre al Guicciardini il suo progetto e il Guicciardini doveva dare il suo parere. (Il breve del papa deve essere tutto interessante: egli espone lo sconvolgimento in cui si trova l’Italia, così grande da indurre a cercare anche rimedi nuovi e inconsueti e concludeva: «Res magna est, ut iudicamus, et salus est in ea cum status ecclesiastici, tum totius Italiae ac prope universae christianitatis reposita»). Perché l’esperienza in Romagna? I Romagnoli buoni soldati: avevano combattuto con valore e fedeltà per i Veneziani all’Agnadello, quantunque da mercenari. C’era poi stato in Romagna il precedente del Valentino che aveva reclutato tra il popolo buoni soldati.

Il Guicciardini fino dal 1512 aveva scritto che il dare le armi ai cittadini «non è cosa aliena da uno vivere di repubblica e popolare, perché quando vi si dà una giustizia buona e ordinate leggi, quelle arme non si adoperano in pernizie, ma in utilità della patria», e aveva anche lodato l’istituzione dell’ordinanza ideata dal Machiavelli (tentativo del Machiavelli di creare a Firenze la milizia cittadina). Ma il Guicciardini non credeva possibile fare il tentativo in Romagna per le fierissime divisioni di parte che vi dominavano (interessanti i giudizi del Guicciardini sulla Romagna): i ghibellini dopo la vittoria di Pavia sono pronti ad ogni novità; anche se non si danno le armi nascerà qualche subbuglio; non si può dare le armi per opporsi agli imperiali proprio ai fautori degli imperiali. Inoltre la difficoltà è accresciuta dal fatto che lo Stato è ecclesiastico, cioè senza direttive a lunga scadenza, e con facili grazie e impunità, alla più lunga ad ogni nuova elezione di papa. In altro Stato le fazioni si potrebbero domare, non nello Stato della chiesa. Poiché Clemente VII nel suo breve aveva detto che al buon risultato dell’impresa occorrevano non solo ordine e diligenza, ma anche l’impegno e l’amore del popolo, il Guicciardini dice che ciò non può essere perché «la Chiesa in effetto non ci ha amici, né quelli che desidererebbero bene vivere, né per diverse ragioni i faziosi e tristi».

Ma la cosa non ebbe altro seguito, perché il papa lasciò cadere il progetto. (Rimane interessante l’episodio, per dimostrare la volontà del Machiavelli, per i giudizi pratici del Guicciardini, e anche del papa). Non si conoscono le ragioni che il Machiavelli deve aver contrapposto alle osservazioni del Guicciardini, perché questi non ne parla nelle sue lettere, e le lettere del Machiavelli a Roma non si conoscono.

Q2 §42 Quintino Sella. A Teodoro Mommsen che domandò con quale idea universale l’Italia andasse a Roma, Quintino Sella rispose: quella della scienza. (Mommsen diceva che a Roma non si può stare senza un’idea universale. Questo motivo è stato ripreso dal Capo del Governo nel suo discorso sul Concordato alla Camera dei deputati. La risposta del Sella è interessante e appropriata: in quel periodo storico la scienza era la nuova «idea universale», la base della nuova cultura che si andava elaborando. Ma Roma non divenne la città della scienza; sarebbe stato necessario un grande programma industriale, ciò che non fu. La parola d’ordine del Sella è tuttavia notevole per descrivere l’uomo). Tuttavia il Sella non era né un ateo né un positivista che volesse sostituire la scienza alla religione. (Vedere i documenti, scritti o riportati da altri, del Sella stesso).

Q2 §43 Il macinato. Nel discorso tenuto da Alberto De Stefani a Biella per commemorare il centenario della nascita del Sella (riportato nella Nuova Antologia del 16 settembre 1927), si accenna al macinato collegandolo al dazio doganale sul grano (si abolì il balzello sulle farine, ma poco dopo il doganiere lasciò il mulino e andò sul confine a riscuotere la gabella sul grano).

La quistione non è posta bene (è un epigramma, non una critica o un giudizio). Il macinato era insopportabile dai piccoli contadini che consumavano il poco grano prodotto da loro stessi; e la tassa sul macinato era causa di svendite per procurarsi il denaro e occasione di pratiche usuraie pesantissime; bisogna collocare la tassa nel suo tempo, con una economia famigliare molto più diffusa di ora: per il mercato producevano i grandi e medi proprietari; il piccolo contadino (piccolo proprietario o colono parziario) produceva per il proprio consumo e non aveva mai numerario; tutte le imposte erano per lui un dramma catastrofico; per il macinato si aggiungeva l’odiosità immediata. Le rivolte contro la tassa sul macinato, le uccisioni e le bastonature agli esattori non erano certo inspirate dalle agitazioni politiche: erano spontanee.

Q2 §44 Su Quintino Sella, cfr nella Nuova Antologia del 16 settembre 1927: P. Boselli, Roma e Quintino Sella; Alberto De Stefani, Quintino Sella (1827‑1884); Bruno Minoletti, Quintino Sella storico, archeologo e paleografo.

Q2 §45 America e Europa. Madison Grant (scienziato e scrittore di grande fama), presidente della Società biologica di New York, ha scritto un libro Una grande stirpe in pericolo in cui «denuncia» il pericolo di un’invasione «fisica e morale» dell’America da parte degli Europei, ma restringe questo pericolo nell’invasione dei «mediterranei», cioè dei popoli che abitano nei paesi mediterranei. Il Madison Grant sostiene che, fin dal tempo di Atene e di Roma, l’aristocrazia greca e romana era composta di uomini venuti dal Nord e soltanto le classi plebee erano composte di mediterranei. Il progresso morale e intellettuale dell umanità fu dunque dovuto ai «nordici», Per il Grant i mediterranei sono una razza inferiore e la loro immigrazione è un pericolo; essa è peggiore di una conquista armata e va trasformando New York e gran parte degli Stati Uniti in una «cloaca gentium». Questo modo di pensare non è individuale: rispecchia una notevole e predominante corrente di opinione pubblica degli Stati Uniti, la quale pensa che l’influsso esercitato dal nuovo ambiente sulle masse degli emigranti è sempre meno importante dell’influsso che le masse degli emigranti esercitano sul nuovo ambiente e che il carattere essenziale della «miscela delle razze» è nelle prime generazioni un difetto di armonia (unità) fisica e morale nei popoli e nelle generazioni seguenti un lento ma fatale ritorno al tipo dei vari progenitori.

Su questa quistione delle «razze» e delle «stirpi» e della loro boria alcuni popoli europei sono serviti secondo la misura della loro stessa pretesa. Se fosse vero che esistono razze biologicamente superiori, il ragionamento del Madison Grant sarebbe abbastanza verosimile. Storicamente, data la separazione di classe‑casta, quanti romani‑ariani sono sopravvissuti alle guerre e alle invasioni? Ricordare la lettera di Sorel al Michels, «Nuovi Studi di Diritto, Economia e Politica», settembre‑ottobre 1929: «Ho ricevuto il vostro articolo su la “sfera storica di Roma”, le cui tesi sono quasi tutte contrarie a ciò che lunghi studi m’hanno mostrato essere la verità più probabile. Non c’è paese meno romano dell’Italia; l’Italia è stata conquistata dai Romani perché essa era altrettanto anarchica quanto i paesi berberi; essa è rimasta anarchica per tutto il Medio Evo, e la sua propria civiltà è morta quando gli Spagnoli le imposero il loro regime amministrativo; i Piemontesi hanno compiuto l’opera nefasta degli Spagnoli. Il solo paese di lingua latina che possa rivendicare l’eredità romana è la Francia, dove la monarchia si è sforzata di mantenere il potere imperiale. Quanto alla facoltà d’assimilazione dei Romani, si tratta di uno scherzo. I Romani hanno distrutto la nazionalità sopprimendo le aristocrazie». Tutte queste quistioni sono assurde se si vuole fare di esse elementi di una scienza e di una sociologia politica. Rimane solo il materiale per qualche osservazione di carattere secondario che spiega qualche fenomeno di secondo piano.

Q2 §46 Istituzioni internazionali. La Camera di Commercio Internazionale. (Un articolo sul IV Congresso della Camera di Commercio Internazionale tenuto a Stoccolma nel giugno‑luglio 1927 è nella Nuova Antologia del 16 settembre 1927).

Q2 §47 Ada Negri. Articolo di Michele Scherillo nella Nuova Antologia del 16 settembre 1927. Su Ada Negri bisognerebbe fare uno studio storico‑critico. Può chiamarsi, in un periodo della sua vita, «poetessa proletaria» o semplicemente «popolare»? Nel campo della cultura mi pare rappresenti l’ala estrema del romanticismo del 48; il popolo diventa sempre più proletariato, ma è visto ancora sotto la specie di popolo, non per i germi di originale ricostruzione che contiene in sé (ma piuttosto per la caduta che rappresenta da «popolo» a «proletariato»?) (In Stella mattutina, Treves, 1921, la Negri ha narrato i casi della sua vita di bambina e adolescente).

Q2 §48 Costituzione dell’Impero Inglese. Articolo nella «Nuova Antologia» del 16 settembre 1927 di «Junius», Le prospettive dell’Impero Britannico dopo l’ultima conferenza imperiale.

Ricerca di equilibrio tra esigenze di autonomia dei Dominions e esigenze di unità imperiale. (Nel Commonwealth l’Inghilterra porta il peso politico della sua potenza industriale e finanziaria, della sua flotta, delle sue colonie o domini della Corona o stabilimenti d’altro nome – India, Gibilterra, Suez, Malta, Singapore, Hong Kong, ecc. –, della sua esperienza politica, ecc. Elementi di disgregazione dopo la guerra sono stati: la potenza degli Stati Uniti, anglosassoni anch’essi e che esercitano un influsso su certi dominions, e i movimenti nazionali e nazionalistici che sono in parte una reazione al movimento operaio – nei paesi a capitalismo sviluppato – e in parte un movimento contro il capitalismo stimolato dal movimento operaio: India, negri, cinesi, ecc. Gli inglesi trovano una soluzione al problema nazionale per i dominions a capitalismo sviluppato, e questo aspetto è molto interessante: ricordare che Iliic sosteneva appunto che non è impossibile che le quistioni nazionali abbiano una soluzione pacifica anche in regime borghese: esempio classico la separazione pacifica della Norvegia dalla Svezia. Ma gli inglesi sono specialmente colpiti dai movimenti nazionali nei paesi coloniali e semicoloniali: India, negri dell’Africa, ecc.).

La difficoltà maggiore dell’equilibrio tra autonomia e unità si presenta naturalmente nella politica estera. Giacché i Dominions non riconoscono più il Governo di Londra come rappresentante della loro volontà nel campo della politica internazionale, si discusse di creare una nuova entità giuridico‑politica destinata ad indicare ed attuare l’unità dell’Impero: si parlò di costituire un organo di politica estera imperiale. Ma esiste una reale unità «internazionale»? I Dominions attraverso l’Impero partecipano alla politica mondiale, sono potenze mondiali; ma la politica estera dell’Inghilterra, europea e mondiale, è talmente complicata che i Dominions sono riluttanti ad essere trascinati in quistioni che non li interessano direttamente; d’altronde attraverso la politica estera l’Inghilterra potrebbe togliere o limitare ai Dominions qualcuno di quei diritti di indipendenza che hanno conquistato. Per l’Inghilterra stessa questo organo di politica imperiale potrebbe essere ragione di difficoltà, specialmente appunto nella politica estera, in cui si esige prontezza e unità di volere, difficili da realizzare in un organo collettivo rappresentante paesi sparsi in tutto il mondo.

Incidente col Canadà a proposito del trattato di Losanna: il Canadà rifiutò di ratificarlo perché non firmato dai propri rappresentanti. Baldwin lasciò cadere la quistione dell’«organo imperiale» e temporeggiò. Il Governo conservatore riconobbe al Canadà e all’Irlanda il diritto di aver propri rappresentanti a Washington (primo passo verso il diritto attivo e passivo di Legazione ai Domini); all’Australia il diritto di avere a Londra oltre all’Alto Commissario (con mansioni specialmente economiche) un funzionario per il diretto collegamento politico; favorì e incoraggiò la formazione di flotte autonome (flotta australiana, canadese, indiana); base navale di Singapore per la difesa del Pacifico; esposizione di Wembley per valorizzare l’economia dei dominions in Europa; Comitato Economico Imperiale per associare i Dominions all’Inghilterra di fronte alle difficoltà commerciali e industriali, e parziale attuazione del principio preferenziale.

Nella politica estera: il Patto di Locarno fu firmato dall’Inghilterra con la dichiarazione di assumere per sé sola gli impegni in esso contemplati. (Prima vari metodi: per il Trattato di Losanna l’Inghilterra firmò a nome di tutto l’Impero, onde incidente col Canadà; nella Conferenza di Londra per le riparazioni tedesche, nel luglio 1924, intervennero i dominions singoli, con apposite delegazioni, ciò che domandò un meccanismo pesante e complicato, non sempre praticamente applicabile; nel Patto di Sicurezza di Ginevra del 1928, l’Inghilterra si riservò di firmare dopo aver consultato i dominions e averne ottenuta la preventiva approvazione).

La Conferenza Imperiale (del novembre 1926) ha voluto dare una definizione precisa dei membri dell’Impero: essi sono «comunità autonome, uguali in diritto, in nessun modo subordinate l’una all’altra nei rispetti dei loro affari interni ed esteri, sebbene unite da un comune dovere di obbedienza alla Corona e liberamente associate quali membri dell’Impero britannico». Uguaglianza di status non significa uguaglianza di funzioni, e viene espressamente dichiarato che la funzione della politica estera, e della difesa militare e navale incombe principalmente alla Gran Bretagna. Ciò non esclude che determinate mansioni di questi due rami dell’attività statale vengano in parte assunte da qualcuno dei Dominions: flotta australiana e indiana (l’India però non è un Dominion); rappresentanza a Washington dell’Irlanda e del Canadà, ecc. Viene infine stabilito il principio generale che nessun obbligo internazionale incombe su uno qualsiasi dei soci dell’Impero se quest’obbligo non è stato volontariamente riconosciuto e assunto.

È stato fissato il rapporto dei Domini con la Corona, che diviene il vero organo supremo imperiale. I Governatori Generali nei Dominions, essendo puri rappresentanti del Re, non possono avere nel riguardo dei Dominions che l’esatta posizione che ha il re nell’Inghilterra: essi perciò non sono rappresentanti od agenti del governo inglese, le cui comunicazioni coi governi dei Dominions avverranno per altro tramite.

La politica estera inglese non può non subire l’influenza dei Dominions.

Q2 §49 Alessandro Mariani. Di questo bellissimo tipo la «Nuova Antologia» del 1° ottobre 1927 pubblica una scelta d’impressioni e di pensieri (Interpretazioni) da una raccolta che avrebbe dovuto essere pubblicata prossimamente. Sono paragrafi molto pretenziosi e confusi, di scarso valore e teorico e artistico, ma talvolta curiosi per la decisa avversione al luogo comune e al pregiudizio banale (sostituiti da altri luoghi comuni e altre trivialità). Nella sezione «Arte politica», la «Nuova Antologia» riporta tre paragrafi sulle «Tre potenze»: 1°, La Chiesa di Roma; 2°, L’Internazionale Rossa; 3°, L’Internazionale ebraica.

La Chiesa cattolica è «la più possente forza conservatrice governante sotto la specie del divino, salvezza ultima ove la decadenza dei valori mette a repentaglio la struttura sociale». L’Internazionale rossa è «deviazione dell’ideologia cristiana», «è attiva dovunque, ma specialmente ove una società economica abbia preso sviluppo secondo il metro dell’Occidente. Sovvertitrice di valori, è forza rivoluzionaria ed espansiva. Nega l’ordine, l’autorità, la gerarchia in quantoché costituiti, ma obbedisce all’ordine proprio, più ferreo ed imperioso dell’antico per necessità di conquista. Nega il divino, disconosce lo Spirito, ma ad esso inconsciamente ed ineluttabilmente obbedisce affermando un’inesausta sete di giustizia pur sotto il fallace miraggio dell’Utopia. Vuol riconoscere soltanto i valori materiali e gli interessi, ma obbedisce inconsapevolmente ai più profondi impulsi spirituali ed agli istinti che hanno le più profonde radici nell’anima umana. È mistica. È assoluta. È spietata. È religione, è dogma. Altrettanto è pieghevole nella trattazione degli affari quanto intransigente nell’ideologia. Relazione di mezzo a fine. È politica». «Come la Chiesa, è sussidiata dai credenti ed alimentata da un servizio d’informazioni mondiale. L’intelligenza di tutte le nazioni è al suo servizio; tutte le risorse degli innumerevoli insoddisfatti che aguzzano l’ingegno verso la possibilità di un loro migliore domani. Come tutte le società umane ha le sue aristocrazie». «Come la Chiesa dice a tutti i popoli la stessa parola, tradotta in tutte le favelle. Il suo potere eversivo è sotterraneo. Mina la costruzione sociale dalle fondamenta. La sua politica manca di tradizione; non di intelligenza, di abilità, di pieghevolezza, sostenute da una ferma determinazione. Trattare con essa o combatterla può essere avvedutezza o errore, a seconda delle contingenze della politica. Non considerarla o rifiutarsi di considerarla è stoltezza».

Q2 §50 Roberto Cantalupo, La Nuova Eritrea, Nuova Antologia, 1° ottobre 1927. (Funzioni dell’Eritrea: 1) economica: intensificare la sua capacità produttiva e commerciale di esportazione e di importazione, cercando di farne un complemento della Madre Patria e di renderla attiva finanziariamente; 2) politica: dare all’Eritrea una posizione e una funzione tali da rendere possibile un maggior contatto con gli stati arabici della riva asiatica del Mar Rosso, nel restaurare i rapporti economici tra Asmara ed il confinante Ovest etiopico, in modo che l’Eritrea diventi il naturale sbocco al mare delle regioni dell’Abissinia settentrionale e naturale porto di transito delle zone centrali e meridionali della Penisola arabica, dopo che Porto Sudan è diventato sbocco di tutto l’Ovest sudanese e entrepôt dell’Arabia settentrionale) .

Dati del Cantalupo ormai invecchiati. Problemi dell’Etiopia: oltre a lotta d’influenza tra Inghilterra, Italia, Francia, potenze confinanti, quali influssi esercitano o possono esercitare ad Addis Abeba gli Stati Uniti e la Russia. Come unico Stato indigeno libero dell’Africa, l’Etiopia può diventare la chiave di tutta la politica mondiale africana, cioè il punto di collisione delle tre potenze mondiali (Inghilterra, Stati Uniti, Russia). L’Etiopia potrebbe mettersi alla testa di un movimento per l’Africa agli Africani.

Sulla situazione sociale etiopica, in cui la chiesa ha grande importanza per struttura feudale, cfr Alberto Pellera, Lo Stato etiopico e la sua Chiesa, pubblicato a cura della Regia Società Geografica (il Pollera è un funzionario coloniale italiano).

Q2 §51 Giovanni Pascoli. Sulle tendenze politiche di Giovanni Pascoli (il Pascoli da giovane fu incarcerato come membro dell’Internazionale), che ebbero pubblicamente il massimo di ripercussione al tempo della guerra libica col discorso La grande proletaria si è mossa e che sono da connettere con le dottrine di Enrico Corradini, in cui il concetto di «proletario» dalle classi è trasportato alle nazioni (quistione della «proprietà nazionale» legata con l’emigrazione; ma si osserva che la povertà di un paese è relativa ed è l’«industria» dell’uomo – classe dirigente – che riesce a dare a una nazione una posizione nel mondo e nella divisione internazionale del lavoro; l’emigrazione è una conseguenza della incapacità della classe dirigente a dar lavoro alla popolazione e non della povertà nazionale: esempio dell’Olanda, della Danimarca, ecc.; quistioni relative si capisce), sono interessanti le Lettere inedite di Giovanni Pascoli a Luigi Mercatelli, pubblicate da G. Zuppone‑Strani nella Nuova Antologia del 16 ottobre 1927. (Il Mercatelli era corrispondente della «Tribuna» dall’Eritrea; rientrò al giornale nel 1896; nel 97 andò in Africa con F. Martini, nel 99 fu direttore della «Tribuna» con Federico Fabbri; nel 1903 fu Console generale allo Zanzibar, nel 1904 governatore del Benadir).

In una lettera scritta da Barga il 30 ottobre 1899 il Pascoli scrive: «Io mi sento socialista, profondamente socialista, ma socialista dell’umanità, non d’una classe. E col mio socialismo, per quanto abbracci tutti i popoli, sento che non contrasta il desiderio e l’aspirazione dell’espansione coloniale. Oh! io avrei voluto che della colonizzazione italiana si fosse messo alla testa il baldo e giovane partito sociale; ma ahimè esso fu reso decrepito dai suoi teorici». (Vedere nell’opera poetica del Pascoli il riflesso di questa sua concezione e nelle Antologie scolastiche).

In una lettera da Messina, dell’8 giugno 1900, si accenna alla sua collaborazione alla «Tribuna»: «Oh! potessi io settimanalmente o bimensilmente pubblicare le mie “Conversazioni coi giovani”! Nel discorso che feci l’altrieri e che ti mando purgato dai molti idioti errori di stampa, è un cenno di ciò che io reputo la mia missione: introdurre il pensiero della patria e della nazione e della razza nel cieco e gelido socialismo di Marx».

In una lettera da Barga del 2 luglio 1900 annunzia una rubrica che vorrebbe scrivere nella «Tribuna», intitolata «Nell’avvenire», di cui presto manderà il proemio: «La rubrica conterrebbe articoli di ogni sorta, diretti a quelli che ora sono tra fanciulli e adolescenti, che contemplerebbero le quistioni presenti alla luce dell’avvenire. Il primo articolo proemiale, dopo una breve dichiarazione mia, di rinunzia formale e solenne alla “vita attiva” – cioè, vuol dire, a diventare deputato – tratterebbe quest’argomento. “I giovani, quelli almeno che sono veramente giovani, hanno in sé qualcosa d’eroico. Quelli, di qualche tempo fa, si sentivano spinti all’eroismo patriottico, quelli d’ora all’eroismo, diciamo, socialistico. Però in fondo al loro cuore è un dissidio profondo. Sentendo la difesa d’Amba Alagi, anche quelli, che avevano fatto dedizione dei loro sentimenti eroici all’idea umanitaria, provarono una scossa.., Ebbene, bisogna conciliare questo dissidio che travaglia (io lo so, io lo sento) il cuore della gioventù, etc., etc.”».

Più oltre scrive: «E non parlerei mica sempre di simili questioni: parlerei d’arte e di letteratura e di scienza e di inorale, cercando sempre di sradicare i pregiudizi e di porre in faccia alla moda l’Ewig e di contro all’oggi, l’ieri e il domani», senza accorgersi dell’intima contraddizione in cui egli stesso si dibatteva, dato che dell’Ewig avesse una concezione giusta.

In una lettera da Barga del 12 agosto 1900 accenna a un suo scritto, Nel carcere di Ginevra, a proposito di Luccheni, che la «Tribuna» non pubblicò e che il Pascoli pubblicò dopo; non ricordo questo scritto.

In una lettera dell’11 dicembre 1900 da Messina, firmata «Giovanni Pascoli socialista‑patriota messo all’indice dai giornali politici, cioè finanzieri d’Italia», parla della sua collaborazione a un giornale locale e pare che abbia iniziato la pubblicazione pensata come rubriche permanenti della «Tribuna», ma che la «Tribuna» non volle pubblicare. (Vedere la bibliografia del Pascoli. La rubrica «Nell’ o Per l’Avvenire», in una lettera del 14 dicembre 1900, è detta essere stata iniziata nella «Tribuna» da Ojetti),

In una lettera senza data, ma che lo Zuppone‑Strani dice scritta da Barga sul finire del 1902 o nella prima metà del 1903 è scritto: «Eppure il poeta ti ama là, ti vede là, ti sogna là, eppure il patriota e l’“umano” (“socialista” non mi conviene più essere chiamato e chiamarmi) si esalta nel saperti investito d’una altissima missione d’utile o onore italico e di civiltà. Ti chiamavo “negriero”, e tu vai a distruggere i negrieri» (il Pascoli chiamava scherzosamente il Mercatelli «ras», «negriero», ecc.). E più oltre: «Perché a rifuggire dal socialismo politico dei nostri giorni aiuta me non solo l’orrore al dispotismo della folla o del numero dei più, ma specialmente la necessità che io riconosco e idoleggio, d’una grande politica coloniale».

Q2 §52 Giovanni Pascoli. La Nuova Antologia del 1° dicembre 1927 pubblica un articolo inedito del Pascoli, mandato nel 1897 alla «Tribuna» e non pubblicato perché al Mercatelli sembrò «troppo ardito per l’indole del giornale» e «troppo compromettente per l’autore». L’articolo era intitolato Allecto («la Erinni dell’odio implacabile e della vendetta interminabile») e prendeva lo spunto da un telegramma del ministro francese Méline ai Lorenesi. Per il Pascoli la Francia e la Russia avrebbero fatto la guerra alla Germania (quindi alla Triplice, quindi all’Italia) «tra poco o tra molto, ma certo». Il Pascoli si rivolge alle madri. C’è un «profeta»: un «dolce e fiero profeta ammantato d’una tunica rossa gira per il mondo, tra i popoli eletti e le genti, predicando un suo vangelo di pace. In suo nome girano e parlano migliaia d’apostoli, dei quali tutti stupiscono e ammirano, perché ognuno li ode parlare nella lingua sua. Essi hanno convertito il cuore stupidamente feroce degli uomini». Questi uomini «dicono ai sinistri trombettieri della distruzione: “No: non vogliamo: non potrete! ”», ma «d’or innanzi ci saranno nella proprietà e in genere nella convivenza sociale alcune modificazioni». Che direbbero le madri? ecc.

«Questo profeta voleva essere il Marxismo. Voleva e certo vorrebbe ancora; ma non può. Non è riuscito. L’atroce guerra che si minaccia, che è il delitto più enorme... non può essere stornata dal Marxismo. Essa con tante vite e tanti tesori e tante idealità travolgerà anche questa scuola, questo sistema, che si mostrò impotente. Per colpa sua? Io non sono mosso da avversione a tale scuola e sistema; ma non posso fare a meno di riconoscere che gli è mancato l’afflato, l’impeto, le lingue di fuoco. Ha voluto essere una scuola e doveva essere una religione. Doveva parlare più d’amore e meno di plus‑valore, più di sacrifizio che di lotta, più d’umanità che di classi. Doveva diffondersi equabilmente da per tutto; doveva aver di mira tutti i popoli, anche quelli più guardati dalle forche e dai princìpi dell’89... Mi spiego».

Secondo il Pascoli «la Germania, e però la Triplice, ha, rispetto alla Francia e alla Russia, un elemento di debolezza: il socialismo». Il Pascoli «teme» che «si sia ottenuto» nel cuore degli operai tedeschi e italiani di «far germinare... l’amore universale al posto dell’atavismo belluino e bellicoso», Italiani e tedeschi sarebbero diventati agnelli, mentre Francesi e Russi sarebbero rimasti leoni e tigri ecc.

«Ma il Marxismo parlerà prima dello squillo. Che dirà? Sentiremo. Saranno, credo, parole degne del gran momento. Serviranno, spero, a rimediare ai danni che involontariamente esso ha recato o è per recare alle nazioni che l’hanno accolto. Faranno, anzi, come da nuovo fermento ideale, che valga a compensare l’impeto bestiale, negli animi nostri. Oh! specialmente l’Italia lo merita! Non è essa la nazione povera, il proletario tra i popoli? Per l’Italia ci dica una parola animosa. Dove non è la traccia ciclopica del lavoro italiano? Quali ferrovie non furono costruite e quali monti non furono forati e quali istmi non furono aperti, nella massima parte, da braccia italiane? E il loro lavoro non arricchì né loro né la loro nazione, poiché era al servizio del capitale straniero. Noi abbiamo esportato ed esportiamo lavoratori; importammo e importiamo capitalisti. Fuori e dentro noi arricchiamo gli altri, rimanendo poveri noi. E quelli, che arricchimmo, ci spregiano e ci chiamano pitocchi. Io non so dar ragione di questo fatto, ma così è. So però che nel fatto non è peccato nostro d’indolenza o d’altro. Come si può chiamare indolente il popolo più faticante e industrioso e parco del mondo? Io dico che è una ingiustizia». Attacca la Francia, «la sorella padrona», e conclude: «o patria grande di lavoratori e di eroi! poiché lo vogliono, poiché anche la tua povertà fa ombra e la tua umiltà fa dispetto, accetta, quando che sia, la sfida, e combatti disperatamente».

Il Pascoli aspirava a diventate il leader del popolo italiano; ma come egli stesso dice in una lettera al Mercatelli, citata in una nota precedente, il carattere «eroico» delle nuove generazioni si rivolge al «socialismo», come quello delle generazioni precedenti si era rivolto alla quistione nazionale: perciò il suo temperamento lo porta a farsi banditore di un socialismo nazionale che gli sembra all’altezza dei tempi. Egli è il creatore del concetto di nazione proletaria, e di altri concetti poi svolti da E. Corradini e dai nazionalisti di origine sindacalista: questo concetto in lui era molto antico. Egli si illudeva che questa sua ideologia sarebbe stata favorita dalle classi dirigenti: ma la «Tribuna», nonostante la stretta amicizia del Pascoli col Mercatelli, non gli dà le sue colonne e la sua autorità. È interessante questo dissidio nello spirito pascoliano: voler essere poeta epico e aedo popolare mentre il suo temperamento era piuttosto «intimista». Di qui anche un dissidio artistico, che si manifesta nello sforzo, nell’anfanamento, nella retorica, nella bruttezza di molti componimenti, in una falsa ingenuità che diventa vera puerilità. Che il Pascoli tenesse molto a questa sua funzione si vede da un brano di lettera al Mercatelli, in cui dice che sarebbe stato lieto di essere incaricato delle scuole all’estero o delle scuole coloniali, più che di fare il professore di lettere all’Università, per avere agio di fare appunto il profeta della missione d’Italia nel mondo. (Del resto qualcosa di simile, pensò di sé stesso il D’Annunzio: vedi il volume Per l’Italia degli Italiani).


Q2 §53 Giovanni Cena. La figura di Cena deve essere studiata sotto due punti di vista: come scrittore e poeta «popolare» (Cfr Ada Negri) e come uomo attivo nel cercare di creare istituzioni per l’educazione dei contadini (scuole dell’Agro Romano e delle Paludi Pontine, fondate con Angelo e Anna Celli). Il Cena nacque a Montanaro Canavese il 12 gennaio 1870, morì a Roma il 7 dicembre 1917. Nel 1900-1901 fu corrispondente della Nuova Antologia a Parigi e a Londra. Nel 1902 redattore‑capo della rivista fino alla morte. Discepolo di Arturo Graf. (Nei Candidati all’Immortalità di Giulio De Frenzi è pubblicata una lettera autobiografica del Cena). Ricordare l’articolo del Cena Che fare? pubblicato dalla «Voce» nel 1912 (mi pare).

Q2 §54 Olii, petrolii e benzine, di Manfredi Gravina nella «Nuova Antologia» del 16 dicembre 1927 (l’articolo continua nella «Nuova Antologia» del 1° gennaio 1928 ed è interessante per avere un accenno generale al problema del petrolio). L’articolo è un riassunto delle recenti pubblicazioni sul problema del petrolio. Estraggo qualche notizia bibliografica e qualche osservazione: Karl Hoffmann, Oelpolitik und angelsächsischer Imperialismus (Ring‑Verlag, Berlino, 1927) che il Gravina dice lavoro magistrale, un compendio eccellente dei grandi problemi petrolieri del mondo ed indispensabile per chi voglia, sulla scorta di dati precisi, approfondirne lo studio (con la riserva che vede troppo «petrolio» in ogni atto internazionale). Il «Federal Oil Conservation Board» formato in America nel 1924 con la missione di studiare ogni mezzo atto a razionalizzare l’eccessivo sfruttamento del patrimonio petrolifero americano ed assicurargli il massimo e il migliore rendimento (lo Hoffmann definisce questo Ufficio «grandioso ente di preparazione industriale alla eventuale guerra del Pacifico»). In questo Board il senatore Hugues, già ministro degli affari Esteri, rappresenta gli interessi diretti di due Società del gruppo Standard (la «Standard» di New York e la «Vacuum Oil»). Lo «Standard Oil Trust» costituito nel 1882 da John D. Rockefeller dovette adattarsi alle leggi contro i trusts. La «Standard» di New Jersey è considerata tuttora come una vera e propria centrale della attività petrolifera della Casa Rockefeller: essa controlla il 20‑25% della produzione mondiale, il 40‑45% delle raffinerie, il 50‑60% delle condutture dai pozzi alle stazioni di avviamento. Accanto alla Standard e società affiliate sono sorte altre imprese, fra cui da ricordare i così detti Big Independents.

La «Standard» è collegata con il Consorzio Harriman (trasporti ferroviari e marittimi, 8 società di navigazione) e col gruppo bancario Kuhn Loeb & Co. di New York, del quale è a capo Otto Kahn. Nel campo inglese i due gruppi più importanti sono la «Shell Royal‑Dutch» e l’«Anglo-Persian Burmah». Direttore generale della «Shell» è l’olandese sir Henry Deterding. La Shell è asservita all’Impero Inglese nonostante i grandi interessi finanziari e politici dell’Olanda. L’«Anglo‑Persian Burmah» può considerarsi governativa britannica e più specialmente dell’Ammiragliato che vi è rappresentato da tre fiduciari. Presidente dell’«Anglo‑Persian» è sir Charles Greenway, coadiuvato da un consulente tecnico, sir John Cadman, che durante la guerra fu a capo del servizio governativo dei petroli. Greenway, Cadman, Deterding e i fratelli Samuel (fondatori della «Shell» inglese poi fusasi colla «Royal‑Dutch») sono considerati di fatto i dirigenti della politica petroliera inglese.

Q2 §55 L’enfiteusi. Il proprietario si chiama direttario, il possessore utilista. Praticamente l’enfiteusi è un affitto che abbia il carattere speciale di essere perpetuo, con la cessione di ogni diritto inerente alla vera proprietà, ma col diritto di fare riacquistare il dominio del fondo, nel caso di mancato pagamento del canone (o censo o livello – prestazioni perpetue). (Teoricamente la figura del proprietario si sdoppia). Il contratto di enfiteusi è più frequente nel meridionale e nel ferrarese: nelle altre regioni è scarsamente applicato. È legato, mi pare, al bracciantato elementare, o meglio al contadino senza terra, che prende in enfiteusi dei piccoli appezzamenti per impiegarvi le giornate in cui non ha lavoro o perché di morta stagione o in rapporto alla monocultura: l’enfiteuta, così, introduce grandi migliorie e dissoda terreni impervi o enormemente sassosi; poiché è disoccupato, non calcola il lavoro presente nella speranza di un utile futuro, data la scarsità dei canoni per le terre quasi sterili. Il lavoro del contadino spesso è tale che il capitale‑lavoro impiegato pagherebbe due o tre volte l’appezzamento. Tuttavia, se per qualsiasi ragione l’utilista non paga il canone, perde tutto.

Dato il carattere di prestazione perpetua, il contratto dovrebbe essere scrupolosamente osservato e lo Stato non dovrebbe intervenire mai. Invece nel 1925 fu accordato ai proprietari l’aumento di un quinto delle corrisposte dei canoni. Nel giugno del 1929 i senatori Garofalo, Libertini, Marcello, Amero d’Aste ebbero la faccia tosta di presentare un progetto di legge in cui si aumentavano ancora i canoni, nonostante la rivalutazione della lira: il progetto non fu preso in considerazione, ma rimane come segno dei tempi, come prova dell’offensiva generale dei proprietari contro contadini.

Q2 §56 Massimo D’Azeglio. In questi anni molte pubblicazioni apologetiche di Massimo D’Azeglio, specialmente del nominato Marcus De Rubris (vedere quanti titoli il De Rubris ha inventato per il D’Azeglio: il cavaliere della nazione, l’araldo della vigilia, ecc. ecc.). Raccogliere materiali per un capitolo di «fame usurpate».

Nel 1860, il D’Azeglio, governatore di Milano, impedì che fossero mandate armi e munizioni a Garibaldi per l’impresa di Marsala, «sembrandogli poco leale (!) aiutare una insurrezione contro il regno di Napoli, con cui si era in relazioni diplomatiche», come scrive il senatore Mozziotti («Nuova Antologia», 1° marzo 1928, La spedizione garibaldina del «Utile». Cfr Luzio, Il milione di fucili e la spedizione dei Mille nella «Lettura» dell’aprile 1910 e la letteratura su Garibaldi in generale: come Garibaldi giudicò il D’Azeglio? Cfr le Memorie). Poiché il D’Azeglio, in altre occasioni, non fu così attaccato alla «lealtà», il suo atteggiamento deve essere spiegato con l’avversione cieca e settaria al partito d’azione e a Garibaldi. L’atteggiamento del D’Azeglio spiega la politica pavida e ondeggiante di Cavour nel 60: D’Azeglio era un Cavour meno intelligente e meno uomo di Stato, ma politicamente si rassomigliavano: non si trattava tanto per loro di unificare l’Italia, quanto di impedire che operassero i democratici.

Q2 §57 Tendenze contro le città. Ricordare nel libro del Gerbi sulla Politica del 700 l’accenno alle opinioni di Engels sulla nuova disposizione da dare agli agglomerati cittadini industriali, dal Gerbi malamente interpretate (e le opinioni di Ford che il Gerbi anche interpreta male). Questi modi di vedere non sono da confondere con le tendenze «illuministiche» contro la città. Vedere le opinioni di Spengler sulle grandi città, definite «mostruosi crematorii della forza del popolo, di cui essi assorbono e distruggono le energie migliori». Ruralismo, ecc.

Q2 §58 Sulla moda. Un articolo molto interessante e intelligente nella Nuova Antologia del 16 marzo 1928: Formazione e organizzazione della moda di Bruno De Pol. (Il De Pol credo sia un industriale milanese del cuoio). Molti spunti, spiegazione della moda dallo sviluppo economico (lusso non è la moda, la moda nasce col grande sviluppo industriale); spiegazione dell’egemonia francese per la moda femminile e inglese per la maschile; situazione attuale di lotta per ridurre queste egemonie a un «condominio»: attività dell’America e della Germania in questo senso. Conseguenze economiche specialmente per la Francia, ecc.

Q2 §59 Tittoni. Ha certamente avuto sempre molta importanza l’opinione di Tittoni nello stabilire i programmi di politica estera del governo dal 23 in poi: seguire l’attività pratica e letteraria di Tittoni in questi anni. Alla sua raccolta di articoli di politica estera del 1928, Quistioni del giorno, ha fatto precedere una interessante prefazione politica il Capo del Governo. Passato di Tittoni. Sua attività. Giudizi su Tittoni di diplomatici stranieri (vedi i Carnets di Georges Louis, ecc.). Suoi rapporti con Isvolsky. (Libro nero di Marchand).

Tittoni come letterato e la sua fissazione linguaiola, curiosa perché la Nuova Antologia pubblica cose errorose per la lingua, specialmente traduzioni, ecc. Vedi l’articolo Per la verità storica, firmato «Veracissimus», nella Nuova Antologia del 16 marzo ‑ 1° aprile 1928: l’autore (Tittoni) vi parla dei suoi rapporti con Isvolsky, dei suoi rapporti con la stampa francese (Isvolsky in un rapporto pubblicato dal Libro Nero aveva accennato al molto denaro che Tittoni distribuì alla stampa al tempo della guerra libica, ecc.), fa degli accenni interessanti al convegno di Racconigi del 1909. Ricordare il libro di Alberto Lumbroso sulle cause economiche della guerra e i suoi accenni a Tittoni (nell’episodio del Carthage e Manouba accennato dal Lumbroso quanta responsabilità spetta a Tittoni?). Nell’articolo c’è anche un accenno rozzo (da mercante di campagna, direbbe Georges Louis) all’ambasciata attuale russa a Parigi e ai suoi possibili contatti col conte Manzoni. (Perché questo animus particolarmente aggressivo di Tittoni? Ricordare lo scandalo provocato nel 1925 – mi pare –, dal Tittoni come Presidente del Senato e per cui il governo dovette domandare scusa. L’episodio più interessante della vita di Tittoni è la sua permanenza a Napoli come prefetto in un tempo di grandi scandali: nella stampa del tempo si potrà trovare il materiale; forse nella «Propaganda», ecc.).

Q2 §60 Su Emanuele Filiberto, è interessante, scritto con serietà (non agiografico) l’articolo di Pietro Egidi nella «Nuova Antologia» del 16 aprile 1928, Emanuele Filiberto di Savoia. Le capacità militari di Emanuele Filiberto sono delineate con perspicuità: Emanuele Filiberto segna il passaggio dalla strategia degli eserciti di ventura alla nuova strategia che troverà poi i suoi rappresentanti in Federico II e in Napoleone: la grande guerra di movimento per obbiettivi capitali e decisivi. A Cateau Cambrésis riesce a riottenere, per l’aiuto della Spagna, il suo Stato, ma nel trattato è stabilita la «neutralità» del Piemonte, cioè è stabilita l’indipendenza sia da Francia che da Spagna (l’Egidi sostiene che sia stato Emanuele Filiberto a suggerire ai francesi di domandare questa neutralità, per essere in grado di sfuggire alla soggezione spagnola, ma si tratta di ipotesi: in questo caso gli interessi della Francia e quelli del Piemonte coincidevano perfettamente): così si inizia la politica estera moderna dei Savoia di equilibrio tra le due potenze principali dell’Europa. Ma dopo questa pace il Piemonte perde già da allora irreparabilmente alcune terre: Ginevra e le terre intorno al lago di Ginevra.

In una storia bisognerebbe almeno accennare alle varie fasi territoriali attraversate dal Piemonte, da prevalentemente francese a franco‑piemontese, a italiano. (Emanuele Filiberto fu fondamentalmente un generale della Controriforma).

L’Egidi delinea abbastanza perspicuamente anche la politica estera di Emanuele Filiberto, ma non dà che cenni in sufficienti sulla politica interna e specialmente militare, e i pochi cenni sono legati a quei fatti di politica interna che dipendevano strettamente dall’estero, cioè dall’unificazione territoriale dello Stato per le retrocessioni delle terre ancora occupate da francesi e spagnoli dopo Cateau Cambrésis o dagli accordi coi Cantoni Svizzeri per riacquistare qualche elemento delle terre perdute. (Per lo studio su Machiavelli studiare specialmente gli ordinamenti militari di Emanuele Filiberto e la sua politica interna per rispetto all’equilibrio di classi su cui si fondò il principato assoluto dei Savoia).

Q2 §61 Controriforma. Nella Nuova Antologia del 16 aprile 1928 Guido Chialvo pubblica una Istruttione di Emanuele Filiberto a Pierino Belli, suo Cancelliere ed Auditore di guerra, sul «Consiglio di Stato» in data 1° dicembre 1559. Ecco l’inizio di questa Istruttione: «Si come il timor di Dio è principio di sapienza et non c’è maggior morbo né più capital peste nel governo de li stati, che quando gl’huomini che ne hanno la cura non temono Dio, et attribuiscono a la prudenza loro quello che si deve solo riconoscer dalla Divina Provvidenza et Inspiratione, et che da questa empia heresia, come dal fonte di ogni vitio derivano tutte le malvagità et scelleratezze del mondo, et gl’huomini ardiscono violar le divine et humane leggi».

Q2 §62 Giuseppe De Maistre. Nel 1927 fu pubblicato a Firenze dalla Libreria editrice fiorentina il libro del De Maistre sul papa (Il papa, traduzione di Tito Casini). In un articolo della «Nuova Antologia» del 16 aprile 1928 (Guelfismo e nazionalismo di Giuseppe De Maistre) Niccolò Rodolico ricorda come il De Maistre nel 1820, in un tempo di restaurate antiche Monarchie e di rinnovata autorità della Santa Sede, ebbe amareggiato l’ultimo anno di sua vita da indugi e da difficoltà opposti per la dedica e per la stampa della seconda edizione di questo libro (che fu pubblicata a Lione nel 1822 postuma). Il De Maistre desiderava dedicare il libro a Pio VII che aveva per lui grandissima stima, e desiderava pubblicarlo in Piemonte, il cui re egli aveva fedelmente servito durante la Rivoluzione, ma non riuscì.

Secondo il Rodolico la condotta di questi cattolicissimi governanti si spiega con le condizioni dello spirito pubblico dal 19 al 20 in Europa, quando liberali, giansenisti e settari anticlericali si agitavano, e con la paura di provocare nuove e più vivaci polemiche. «Dopo più di un secolo – aggiunge il Rodolico – compare in Italia, e senza provocare polemiche, una buona traduzione del libro Du pape, che può ora serenamente essere esaminato sotto un aspetto politico, collegandolo ad altre manifestazioni del pensiero politico del tempo».

La quistione però è che questa pubblicazione, come altre del genere, non è stata fatta «serenamente», per dare agli studiosi un documento, ma è stata fatta come «polemica attuale». Si tratta di un segno dei tempi. La stessa Libreria editrice fiorentina pubblica tutta una collana di tal genere, dove è apparso il Sillabo e altri fossili del genere, preceduti da introduzioni «attuali» scritte da neocattolici del tipo Papini, Manacorda, ecc.

Allo stesso clima di serra calda è dovuta la ristampa del Memorandum di Solaro della Margarita, lanciato in commercio come «attualità». (A questo proposito occorre ricordare la discussione in Senato tra Ruffini e il capo del governo a proposito dello Statuto e il paragone spiritosissimo di Ruffini col Solaro della Margarita).

Notare queste pubblicazioni che sono tipiche, anche se la loro importanza abbia o possa avere una efficacia trascurabile, distinguendole da quelle puramente «clericali». Ma si pone il problema: perché gli stessi clericali non le hanno stampate prima di ora e preferivano essi stessi che non se ne parlasse? Sarebbe interessante vedere quante ristampe abbia avuto il Sillabo negli ultimi tempi: credo che lo stesso Vaticano preferisse lasciarlo cadere nel dimenticatoio e che dopo Pio X «seccasse» la Cattedra del Sillabo creata da monarchici francesi nelle loro scuole di partito. (Questo argomento di De Maistre, Solaro, Sillabo, ecc., occorre tenerlo presente per un paragrafo della rubrica «Passato e presente».

L’articolo del Rodolico è interessante per ciò che dice sulle opinioni antiaustriache del De Maistre, sulle sue convinzioni che il Piemonte dovesse fare una politica nazionale e non angustamente piemontese, ecc. Dal corso dell’articolo appare che il libro sul papa non fu lasciato stampare in Piemonte perché erano al governo i «piemontesisti» assoluti e nel libro del De Maistre sono esposte opinioni che poi saranno riprese dal Gioberti del Primato, sulla funzione nazionale italiana del Papato.

Sul De Maistre libro del Mandoul, Joseph De Maistre et la politique de la Maison de Savoie, Paris, Alcan. (Questa opposizione al De Maistre, moderatissimo uomo, bisogna studiarla nel suo complesso politico per giungere alla esatta comprensione del nesso storico 1848‑49 e alla spiegazione di Novara: rivedere questo articolo del Rodolico, se del caso, e cercare l’altra letteratura documentaria).

Q2 §63 Italia ed Egitto. Articolo di Romolo Tritonj nella «Nuova Antologia» del 16 aprile 1928, Le Capitolazioni e l’Egitto (che sarebbe un capitolo di un Manuale di quistioni politiche dell’Oriente musulmano di prossima pubblicazione ma che non ho visto annunziato o recensito. Il Tritonj è anche autore di un volume, È giunto il momento di abolire le Capitolazioni in Turchia?, pubblicato a Roma nel 1916, e collabora spesso alla «Nuova Antologia» e alla «Politica» di Coppola. Chi è? È uno dei vecchi nazionalisti? Non ricordo. Mi pare serio e informato: è specialista nelle quistioni del prossimo Oriente. Vedere).

È favorevolissimo alle Capitolazioni, specialmente in Egitto, da un punto di vista europeo e italiano: sostiene la necessità della unità fra gli Stati europei nella quistione, ma prevede che questa unità d’azione non sarà mantenuta per il distacco dell’Inghilterra. Coi 4 punti sull’Egitto già l’Inghilterra tentò di staccarsi dall’Europa affermando di riservarsi la «protezione degli interessi stranieri», clausola non chiara perché sembrava che l’Inghilterra s’arrogasse la protezione, escludendone le altre potenze; ma fu spiegato che alla prossima conferenza sulle Capitolazioni l’Inghilterra parteciperebbe su di un piede di uguaglianza con gli altri Stati capitolari.

L’Inghilterra ha in Egitto una colonia molto esigua (se si tolgono i funzionari britannici nell’Amministrazione egiziana e i militari) e accettando l’abolizione delle Capitolazioni venderebbe la pelle degli altri. Per ingraziarsi i nazionalisti, metterebbe in cattiva luce gli altri europei (questo è il punto delicato che preme agli italiani: essi vorrebbero aver amici i nazionalisti, ma fare la politica della colonia italiana in Egitto lasciando l’odiosità della situazione creata dall’Europa all’Egitto sulle spalle dell’Inghilterra: vedere nelle riviste i giudizi sugli avvenimenti egiziani nel 1929‑30: sono contradditori, impacciati: l’Italia è favorevole alle nazionalità ma... ecc.; la stessa situazione per l’India, ma nell’Egitto gli interessi sono molto forti e le ripercussioni dei giudizi più immediate).

La colonia italiana in Egitto è molto selezionata, cioè è di quel tipo i cui elementi sono giunti già alla terza o quarta generazione passando dall’emigrato proletario all’industriale, commerciante, professionista; mantenuto il carattere nazionale, aumentano la clientela commerciale dell’Italia, ecc. ecc. (sarebbe interessante vedere la composizione sociale della colonia italiana: è però probabile che un ragguardevole numero di emigrati dopo tre o quattro generazioni sia salito di classe sociale: in ogni modo le Capitolazioni dànno unità alla colonia e permettono ai funzionari italiani e ai borghesi di controllare tutta la massa degli emigrati).

Nei paesi del Mediterraneo dove sono abolite le Capitolazioni, l’emigrazione italiana o è cessata, o viene gradualmente eliminata (Turchia) o si trova nelle condizioni della Tunisia, dove si cerca di snazionalizzarla. Abolizione delle Capitolazioni significa snazionalizzazione dell’emigrazione (altra quistione, data dal fatto che l’Italia è potenza esclusivamente mediterranea e ogni mutamento in questo mare la interessa più che ogni altra potenza).

Naturalmente il Tritonj vorrebbe mantenersi amici gli Egiziani con queste sue opinioni e riconosce che «è di capitale importanza per noi essere amici del loro Paese».

Q2 §64 R. Garofalo, Criminalità e amnistia in Italia, Nuova Antologia del 1° maggio 1928. Per la figura del Garofalo.

Q2 §65 Claudio Faina, Foreste, combustibili e carburante nazionale, Nuova Antologia del 1° maggio 1928. Interessante. Dimostra che la selvicultura italiana, se coltivata e sfruttata industrialmente, può aumentare di molto il suo rendimento e dare sottoprodotti numerosi. (In questo articolo del Faina, che è il figlio del senatore Eugenio Faina, relatore dell’inchiesta parlamentare sul Mezzogiorno e che si occupa assiduamente di attività organizzative e propagandistiche di carattere agrario – scuole rurali istituite dal padre nell’Umbria, ecc. –, si accenna a un disboscamento intensivo e irrazionale nella montagna della Sardegna meridionale per vendere carbone alla Spagna. Ricordare questo accenno alla Sardegna).

Q2 §66 La quistione agraria. Nella Nuova Antologia del 16 maggio 1928 è pubblicato un articolo di Nello Toscanelli, Il latifondo, che contiene già nella prima pagina una perla come questa: «Da quando l’arte di scrivere ha permesso agli Italiani di avere una storia (!), l’argomento della divisione delle terre è sempre stato all’ordine del giorno» dei comizi popolari. Infatti, in un paese, nel quale si può viver bene per la maggior parte dell’anno all’aria aperta, il diventar padrone, sia pur di un piccolo appezzamento di terra, rappresenta l’aspirazione segreta del cittadino (!?), convinto di poter trovare le più facili gioie ed una fonte perenne di prodotti nei campi, da lui visti soltanto nel rigoglio primaverile delle mèssi o nell’epoca dell’allegra vendemmia. Ed, in minor grado (!?), la dolce visione della proprietà terriera scuote anche (!) il campagnolo, che pur sa (!) le lentezze e le disillusioni dell’agricoltura». (Questo Nello Toscanelli è un tipo bislacco come Loria).

Secondo il Toscanelli la formula: «La terra ai contadini» fu presentata nel 1913 in un programma elettorale dall’onorevole Aurelio Drago. (Ripresa durante la guerra, nel 1917, da un presidente del Consiglio e divulgata nel «Resto del Carlino» dal senatore Tanari). L’articolo del Toscanelli è una verbosa scorribanda giornalistica senza alcun valore (contro la riforma agraria, naturalmente).

Il Toscanelli, nel suo articolo, aveva accennato molto cortesemente al fatto che nel 1917 il senatore Tanari aveva illustrato la formula «la terra ai contadini», per dire che essa non faceva più paura a nessuno se un noto conservatore come il Tanari e un Presidente del Consiglio (chi è stato? Orlando? o si riferisce a Nitti che diventò più tardi Presidente e allora era ministro del Tesoro?) la propugnavano e illustravano. Ma nel 1928 il Tanari si è fortemente adombrato e ha avuto paura che qualcuno credesse essere egli stato, in un qualsiasi momento, un Ravachol (sic) della proprietà.

 Nella Nuova Antologia del 1° giugno 1928 è pubblicata una Lettera al Direttore della Nuova Antologia in cui il Tanari si giustifica, cercando di spiegare e di attenuare il suo atteggiamento del 1917: «Tengo a dichiarare che in un articolo: La terra ai contadini? (con tanto di punto interrogativo), e successivamente in un mio studio pubblicato Sulla quistione agraria, non intesi illustrare proprio nulla! Ecco invece come stanno le cose. Ero piuttosto (sic) al corrente di ciò che si prometteva in trincea ai contadini, e quando mi accorsi che la divisione della terra diventava programma di dopo guerra (in corsivo dall’autore) mi pare fosse venuto il tempo di convogliarla nei suoi argini; onde difendere al possibile il principio di proprietà, che io ritenevo... (ecc. ecc.). In qual modo raggiungere questo intento? Erano tempi nei quali con il suffragio sempre più allargato, con i Comuni presi d’assalto dal socialismo (nel 1917?!!), nei Consigli Comunali su dieci consiglieri vi erano forse due aniministratori che pagavano tasse (tasse dirette, vuol dire, ma quelle indirette, tra cui il dazio sul grano a beneficio dei vari Tanari?) mentre altri otto, nullatenenti, le mettevano (cioè cercavano di impedire che le amministrazioni, come avrebbero voluto i vari Tanari, vivessero solo con le imposte indirette). Questo numero esiguo di abbienti di fronte ai non abbienti sottostava alla teoria social‑comunista del così detto “carciofo” (la teoria, a dire il vero, è molto più antica, è precisamente la teoria della politica piemontese nell’unificazione italiana e il Tanari commette un delitto di lesa maestà affermando che si tratta di una teoria socialcomunista, e nel 1917, per giunta); metter cioè sempre più tasse a carico di coloro che possedevano e piano piano, foglia per foglia, giungere alla espropriazione. In alcuni Comuni ci si era quasi arrivati (!?). Cosa mi venne in mente allora?... In Francia, pensavo, sopra una popolazione di 40 milioni di abitanti vi erano nell’anteguerra quattro milioni di proprietari: in Italia sopra 35 milioni non eravamo che un milione e mezzo. Evidentemente in pochi, per difendersi con l’aria che tirava in quei tempi! (“in quei tempi” era poi il 1917!) Ed allora azzardai questa idea veramente “rivoluzionaria”: “Se venisse una legge che facilitasse non coattivamente (notate bene), ma liberamente il trapasso della media e grande proprietà assenteista (in corsivo dall’autore) nei coltivatori diretti del suolo, quando risultassero tecnicamente, moralmente e finanziariamente idonei, pagando la terra, si noti bene (in corsivo dall’autore), con obbligazioni garantite in parte dal reddito della nuova proprietà ed in parte dallo Stato, io non sarei stato contrario (come, Dio me lo perdoni, non lo sono neanche ora) ad una simile legge”. Non l’avessi mai detto! Socialisti più evoluti e intelligenti capirono benissimo dove andavo a vulnerarli e me lo dissero. Altri meno onesti tolsero al mio articolo il punto interrogativo; così che da una questione posta dubitativamente ed interrogativa, si passò ad una affermativa. Nell’altro campo dei proprietari, parecchi che non mi avevano letto, o che non capivano nulla, mi considerarono come un vero espropriatore; e così con la migliore intenzione in difesa del principio di proprietà, bersagliato tra i due fuochi di opposti interessi mi convinsi... che avevo ragione! (corsivo dall’autore)».

Questa lettera del senatore G. Tanari è notevole per la sua ipocrisia politica e per le sue reticenze. Occorre notare: che il Tanari si guarda bene dal dare le indicazioni precise dei suoi scritti, che risalgono alla fine del 17 o ai primi del 18, mentre egli, molto abilmente, ma anche con molta rozza slealtà, cerca di far credere del dopo guerra. Ciò che spinse il Tanari a occuparsi della divisione della terra e a sostenerla esplicitamente (naturalmente egli ha ragione quando sostiene che voleva rafforzare la classe dei proprietari, ma non è questa la quistione) fu lo spavento che invase la classe dirigente per le crisi militari del 17 e che la spinse a fare larghe promesse ai soldati contadini (cioè alla stragrande maggioranza dell’esercito). Queste promesse non furono mantenute e oggi il marchese Tanari si «vergogna» di essere stato debole, di avere avuto paura, di avere fatto della demagogia la più scellerata. In ciò consiste l’ipocrisia politica del Tanari e da ciò le sue reticenze e i suoi tentativi di far apparire la sua iniziativa nell’atmosfera del dopoguerra e non in quella del 1917‑18. Bologna era allora zona di guerra e il Tanari scrisse l’articolo nel «Resto del Carlino», cioè nel giornale che, dopo il «Corriere», era il più diffuso in trincea.

Il Tanari esagera nel descrivere la reazione contro di lui dei proprietari. Di fatto avvenne che il suo primo articolo fu discusso molto serenamente dal senatore Bassini, grande proprietario veneto, il quale mosse al Tanari obbiezioni di carattere tecnico («come possono essere divise le aziende agricole industrializzate») non di carattere politico. L’articolo del Tanari, quello del Bassini e la risposta del Tanari (mi pare che ci sia stata una risposta «illustrativa») furono riportati dalla «Perseveranza», giornale moderato e legato agli agrari lombardi, diretto allora o dal conte Arrivabene o da Attilio Fontana, noto agrario. Il rimprovero che i proprietari avranno certamente fatto al Tanari sarà stato quello di averli compromessi pubblicamente di fronte ai soldati‑contadini, di non aver lasciato che solo degli irresponsabili facessero promesse che si sapeva non sarebbero state mantenute. Ed è questo il rimprovero che anche oggi continueranno a fargli, perché comprendono che non tutti hanno dimenticato come le promesse fatte nel momento del pericolo non sono state mantenute. L’episodio merita di essere esaminato e studiato perché molto educativo. (Su questo episodio devo aver scritto una nota in altro posto, senza aver davanti la lettera del Tanari: vedere e raggruppare).

Q2 §67 Nicola Zingarelli, Le idee politiche del Petrarca, «Nuova Antologia», 16 giugno 1928.

Q2 §68 E. De Cillis, Gli aspetti e le soluzioni del problema della colonizzazione agraria in Tripolitania, Nuova Antologia, 16 luglio 1928. Vedere la letteratura in proposito e seguire le pubblicazioni del De Cillis. L’articolo è interessante perché realistico.

Q2 §69 H. Nelson Gay, Mazzini e Antonio Gallenga apostoli dell’Indipendenza italiana in Inghilterra (con nove lettere inedite di Mazzini), Nuova Antologia, 16 luglio 1928. Tratta specialmente della violazione di segreto epistolare compiuta dal governo inglese a danno di Mazzini nel 1844 prima della spedizione dei fratelli Bandiera e del servizio reso dall’Inghilterra ai Borboni, comunicandogli i dati della congiura. I fratelli Bandiera furono arrestati per «merito» del governo inglese o di un mazziniano traditore (Boccheciampe)? Bisogna vedere con maggiore esattezza, perché l’arresto dei Bandiera domandò misure militari e spese così cospicue, che solo una grande autorità nella fonte d’informazione poteva decidere il governo a fare, dato che non dovevano mancare le informazioni infondate da parte di provocatori e speculatori su congiure, iniziative rivoluzionarie, ecc. Perciò bisogna precisare meglio se la responsabilità del governo inglese (lord Aberdeen) fu solo morale (in quanto realmente informò) o anche decisiva e immediata (in quanto senza di essa non ci sarebbe stata la repressione così come avvenne). Il deputato radicale Duncombe, che presentò in Parlamento la petizione di Mazzini, in un discorso affermò: «Se un monumento dovesse essere eretto in memoria di coloro che caddero a Cosenza, come spero sarà fatto, la lapide commemorativa dovrebbe ricordare che essi caddero per la causa della giustizia e della verità, vittime della bassezza e dell’inganno di un Ministro Britannico».

Q2 §70 La Rivoluzione francese e il Risorgimento. Un motivo che ricorre spesso nella letteratura italiana, storica e non storica, è questo espresso da Decio Cortesi in un articolo, Roma centotrent’anni fa (Nuova Antologia, 16 luglio 1928): «È da deplorare che nella pacifica Italia, che s’incamminava verso un miglioramento graduale e senza scotimenti (!!?), le teorie giacobine, figlie di un idealismo pedantesco, che nei nostri cervelli non ha mai allignato, dessero occasione a tante scene di violenze; ed è da deplorare tanto più perché se queste violenze, nella Francia ancora oppressa dagli ultimi avanzi del feudalismo e da un dispotismo regale, potevano, fino ad un certo punto, essere giustificate, in Italia, dai costumi semplici e schiettamente democratici in pratica (!!?), non avevano uguale (ragione) d’essere. I reggitori d’Italia potevano essere chiamati «tiranni» nei sonetti dei letterati, ma chi senza passione prende a considerare il benessere del quale godé il nostro paese nello splendido secolo XVIII non potrà non pensare con qualche rimpianto a tutto quell’insieme di sentimenti e di tradizioni che l’invasione straniera colpì a morte».

L’osservazione potrebbe essere vera se la restaurazione stessa avvenuta dopo il 15 non dimostrasse che anche in Italia la situazione del secolo XVIII era tutt’altro da quella ritenuta. L’errore è di considerare la superficie e non le condizioni reali delle grandi masse popolari. In ogni modo è giusto che senza l’invasione straniera i «patriotti» non avrebbero acquistato quell’importanza e non avrebbero subìto quel relativamente rapido processo di sviluppo che poi ebbero. L’elemento rivoluzionario era scarso e passivo.

Q2 §71 Sui bilanci dello Stato. Vedere i discorsi in Senato dell’on. Federico Ricci, ex Sindaco di Genova. Questi discorsi sono da leggere prima di ogni lavoro sulla storia di questi anni.

Nel discorso del 16 dicembre 1929 sul rendiconto dell’esercizio finanziario 1927‑28 il Ricci osservò:

1) A proposito della Cassa d’ammortamento del debito estero istituito con decreto‑legge 3 marzo 1926 dopo gli accordi di Washington (14 novembre 1925) e di Londra (27 gennaio 1926): che gli avanzi realizzati sulla differenza fra quota pagata dalla Germania e quota pagata dall’Italia all’America e all’Inghilterra viene imprestata alla Tesoreria che a un certo punto dovrà restituirla (si arriverà a miliardi) quando l’Italia dovrà pagare più di quanto riceve. Pericolo che la Tesoreria non possa pagare. L’Italia ha ricevuto dalla Germania pagamenti in natura e in denaro. Non vengono più pubblicati i resoconti dettagliati delle vendite fatte dallo Stato delle merci ricevute dalla Germania, e delle somme realizzate: non si sa se esse sono maggiori o minori di quelle accreditate.

2) A proposito della Cassa d’ammortamento dei debiti interni, istituita con decreto‑legge 5 agosto 1927 per provvedere all’estinzione del Consolidato e degli altri debiti di Stato. Doveva essere dotata cogli avanzi di bilancio, coi proventi degli interessi dei capitali, coi ricuperi per capitale e interesse dei prestiti fatti dallo Stato a certe industrie private, ecc. Dopo il primo anno, tutti i cespiti principali sono mancati, specialmente gli avanzi di bilancio. Essa è accreditata semplicemente per tali somme, sicché nei residui passivi il suo credito è di lire 1728 milioni. Le offerte dei privati nel resoconto ultimo fino al dicembre 1928 sono di 4 800 000 lire, somma molto inferiore a quella pubblicata nei giornali.

3) Polizze di assicurazione per i combattenti, istituite con decreto‑legge 10 dicembre 1917, in ragione di 500 lire per i soldati, 1000 lire per i sottufficiali e 5000 lire per gli ufficiali (è esatto? O non si parlava di 1000 lire per i soldati?) Esse verranno a scadenza nel 1947 o 1948, rappresentando un carico grandissimo per il bilancio (naturalmente gli interessati non hanno avuto quasi nulla e gli accaparratori saranno loro a riscuotere: ecco un argomento interessante). Il Governo con decreto 10 maggio 1923 aveva provvisto alla costituzione di una riserva presso la Cassa depositi e prestiti dando una prima dotazione di 600 milioni e più di 50 milioni annui I 600 milioni però non furono mai versati: sono iscritti fra i residui all’attivo come prestito da contrarre al 3,50% (portato poi al 4,75% con decreto 10 maggio 1925, n. 852) e al passivo come credito della C.D.P. Quanto ai 50 milioni, furono inscritti in bilancio per qualche anno e poi intervenne un decreto ministeriale il quale cancellò per l’anno in corso (1927) e per i successivi quel versamento (Decreto ministeriale 6 ottobre 1927, n. 116 635). «È curioso (!!?) che sia possibile mutare radicalmente la fisionomia del bilancio solennemente (!) approvato dalle Camere, con semplici decreti ministeriali che non compaiono sulla “Gazzetta Ufficiale”, dei quali lo stesso Capo del Governo potrebbe non saper nulla; e lo stesso ministro competente potrebbe averli firmati inavvertitamente»; queste parole del Ricci sono di colore oscuro)

Una osservazione del Ricci: La Cassa di ammortamento del debito interno, ha fatto un «debituccio» di 80 milioni per ammortizzare il Debito Pubblico!!! La Tesoreria, non sapendo dove sbattere la testa, si fece prestare denaro dall’Alto Commissario della Città di Napoli, dal Consorzio del Porto di Genova, ecc. Si fece prestare dalle Casse d’ammortamento del debito estero e di quello interno, facendo loro un trattamento curioso, non pagando cioè gli interessi!, ecc.

Q2 §72 A proposito dei bilanci. Occorre sempre confrontare il bilancio preventivo normale con le aggiunte, correzioni e variazioni che di solito vengono fatte dopo qualche mese; spesso in questo supplemento di bilancio, si annidano delle voci interessanti (per es. nel preventivo le spese segrete degli Esteri erano 1 500 000: nel supplemento ci fu un aumento di 10 000 000). Certo è che il supplemento interessa meno del preventivo ordinario, e perciò suscita meno curiosità e meno indagini: pare sia ordinaria amministrazione. La seconda parte della p. 96 è bianca.

Q2 §73 L’Action Française e il Vaticano. Bibliografia dal Mercure de France del 1° maggio 1928:

1) F. Gay., Comment j’ai défendu le Pape, «La Vie Catholique».

(Riproduzione degli articoli apparsi sulla «Vie Catholique», contro l’Action Française, dal 6 novembre 1926 al 13 agosto 1927).

2) Mermeix, Le Ralliement et l’Action Française, A. Fayard.

(Storia minutissima e documentatissima, ma molto tendenziosa, dell’adesione dei cattolici alla repubblica e delle vicende dell’Action Française, 1871‑ 1927).

3) A. Lugan, L’Action Française, de son origine à nos jours («Études sur les doctrines de l’Action Française», n. 4).

(Rimprovera all’Action Française d’aver perseguitato con la sua rabbia e le sue ingiurie Piou e l’Action libérale, Marc Sangnier e il Sillon, e di essersi associato a tutti coloro che con mezzi talvolta pochissimo onesti, come la delazione, andavano alla caccia del modernismo e del radicalismo fin tra i cardinali e i papi. La politica, presso questi atei e i loro alleati, contava più che la preoccupazione dell’integrità dottrinale; domanda che la religione venga separata da certe avventure che l’hanno compromessa anche troppo; è una notevole esposizione storica).

4) L’Equivoque du laicisme et les élections de 1928, par un Polytechnicien; Librairie du Petit Démocrate.

(Domanda la formazione di un grande partito che abbracci i «clericali» e una frazione del vecchio partito radicale. I cattolici hanno definitivamente ripudiato ogni spirito di predominio e domandano solo il diritto di sacrificarsi come hanno fatto durante la guerra; a tal fine occorre fare certe distinzioni nelle così dette «leggi laiche»).

5) Paul Rémond (vescovo di Clisma), L’heure d’obéir, «La Vie Catholique».

(«La Santa Sede domandava ai cattolici di porsi nel quadro della Costituzione, per meglio realizzare l’una nimità sul terreno puramente cattolico... L’Action Française dichiara che su questo terreno non può ricevere ordini da Roma...»).

Q2 §74 Bibliografia varia:

1) C. Smogorzeriski, Le jeu complexe des Partis en Pologne, «Geebethner et Wolff».

2) Louis Fischer, L’Impérialisme du pétrole, Rieder.

(Esposizione della storia della produzione del petrolio secondo i documenti del Ministero tedesco e del Commissariato russo. Contro Sir Henri Deterding e gli altri re del petrolio).

3) Charles Benoist, Les lois de la Politique française, A. Fayard.

(Tra l’altro: «il francese è guerriero, ma non militare», ha bisogno di essere disciplinato, perciò «il servizio militare di corta durata non è possibile che con quadri solidissimi»).

4) Georges Valois, Basile ou la Politique de la Calomnie, «Valois».

(Contro Maurras e l’Action Française: autobiografico. Storia del «Cercle Proudhon» e dei suoi «Cahiers». Vedere a proposito della partecipazione di Sorel il libro su Sorel di Pierre Lasserre e la corrispondenza Sorel‑Croce. Per la situazione esistente in Francia nel 1925 e per le speranze dei reazionari, «Maurras s’était presque engagé à faire la monarchie pour le fin de 1925». Per la storia lamentevole del movimento di Valois in Francia).

5) Edouard Champion, Le livre aux Etats Unis; lungo articolo nella «Revue des Deux Mondes» del 15 maggio e 1° giugno 1927.

6)  Ottavio Cina, La Commedia Socialista, Bernardo Lux edit., Roma, 1914, pp. VIII‑102, 3° migliaio (?).

Titolo preso dal libro di Yves Guyot, La Comédie Socialiste, Paris, 1897, Charpentier (ma non lo dice).

Questo del Cina è un libercolo molto banale e pedestre, a tipo libellistico. Può essere considerato solo in una bibliografia di questa specie di letteratura ai margini estremi della polemica di quel tempo. Molto generico. Se cita fatti concreti o nomi, commette errori grossolani (cfr a p. 5, a proposito del contrasto Turati-Ferri). Vedi a che titolo lo cita Croce nella bibliografia della sua Storia d’Italia dal 1871 al 1915. Il Cina rimanda, a p. 34, a suoi articoli nell’«Economista d’Italia» del 1910. Fa un esame delle condizioni economiche in quegli anni, molto superficiale e banalmente tendenzioso, naturalmente, e finisce con un appello alla resistenza delle classi borghesi contro gli operai, anche con la violenza. Da questo punto di vista è interessante, come un segno dei tempi. Bisognerebbe vedere chi era (o è) questo signor Cina. Non pare un «nazionalista» nel senso di partito.

Q2 §75 R. Michels, Les Partis politiques e la contrainte sociale, «Mercure de France», 1° maggio 1928, pp. 513-535. «Le parti politique ne saurait être étymologiquement et logiquement qu’une partie de l’ensemble des citoyens, organisée sur le terrain de la politique. Le parti n’est donc qu’une fraction, pars pro toto» (?).

Secondo Max Weber (Wirtschaft und Gesellschaft, Grundriss der Sozialökonomik, III, 2a ediz., Tubinga 1925, pp. 167, 639) ha la sua origine da due specie di cause: sarebbe specialmente una associazione spontanea di propaganda e d’agitazione, che tende al potere per procurare così ai suoi aderenti attivi (militanti) possibilità morali e materiali per realizzare fini oggettivi o vantaggi personali o ancora le due cose insieme. L’orientazione generale dei partiti politici consisterebbe pertanto nel Machtstreben, personale o impersonale. Nel primo caso i partiti personali sarebbero basati sulla protezione accordata a degli inferiori da un uomo potente. Nella storia (?) dei partiti politici i casi di tal genere sono frequenti. Nella vecchia dieta prussiana del 1855, che comprendeva molti gruppi politici, tutti avevano il nome dei loro capi: il solo gruppo che si diede il vero nome fu un gruppo nazionale, quello polacco (cfr Friedrich Naumann, Die politischen Parteien, Berlino, 1910, «Die Hilfe», p. 8).

La storia del movimento operaio dimostra che i socialisti non hanno sprezzato questa tradizione borghese. Spesso i partiti socialisti hanno preso il nome dai loro capi («comme pour faire aveu public de leur assujettissement complet à ces chefs») (!). In Germania, tra il e il 1875, le frazioni socialiste rivale erano i Marxisti e i Lassalliani. In Francia, in un’epoca più recente, le grandi correnti socialiste erano divise in Broussistes, Allemanistes, Blanquistes, Guesdistes e Jaurèssistes. È vero che gli uomini che davano così il nome ai diversi movimenti personificavano il più completamente possibile le idee e le tendenze che ispiravano il partito e li guidarono durante tutta la sua evoluzione (Maurice Charnay, Les Allemanistes, Parigi, Rivière, 1912, p. 25).

Forse c’è analogia tra i partiti politici e le sette religiose e gli ordini monastici; Yves Guyot, La Comédie socialiste, Parigi, 1897, Charpentier, p. 111). Ecco dei partiti-tipo, che potrebbero essere chiamati «partis de patronage». Quando il capo esercita un influsso sui suoi aderenti per qualità così eminenti che sembrano soprannaturali a questi ultimi, esso può essere chiamato capo charismatico (, dono di dio, ricompensa; cfr M. Weber, op. cit., p. 140). Questa nota è segnata 4 bis, cioè è stata inserita nelle bozze; non certo per la traduzione di «», ma forse per la citazione del Weber. Il Michels ha fatto molto baccano in Italia per la «sua» trovata del «capo charismatico» che probabilmente occorrerebbe confrontare era già nel Weber; bisognerebbe vedere anche il libro del Michels sulla Sociologia politica del 27: non accenna neanche che una concezione del capo per grazia di dio è già esistita e come!)

Tuttavia questa specie di partito si presenta talvolta in forme più generali. Lo stesso Lassalle, il capo dei Lassalliani, officialmente non era che presidente a vita dell’Allgemeiner Deutscher Arbeiterverein. Egli si compiaceva di vantarsi dinanzi ai suoi fautori dell’idolatria che godeva da parte delle masse deliranti e delle vergini vestite di bianco che gli cantavano dei cori e gli offrivano dei fiori. Questa fede charismatica non era solo frutto di una psicologia esuberante e un po’ megalomane, ma corrispondeva anche a una concezione teorica. Noi dobbiamo – disse agli operai renani esponendo loro le sue idee sull’organizzazione del partito – di tutte le nostre volontà disperse foggiare un martello e metterlo nelle mani d’un uomo la cui intelligenza, il carattere e l’attaccamento ci siano una garanzia che colpisca energicamente (cfr Michels, Les partis politiques, 1914, p. 130; non rimanda all’edizione italiana ampliata e del 24). Era il martello del dittatore. Più tardi le masse domandarono almeno un simulacro di democrazia e di potere collettivo, si formarono gruppi sempre più numerosi di capi che non ammettevano la dittatura di un solo. Jaurès e Bebel sono due tipi di capi charismatici. Bebel, orfano di un sottufficiale di Pomerania, parlava altezzosamente (?) ed era imperativo (Hervé lo chiamò il Kaiser Bebel: cfr Michels, Bedeutende Männer, Lipsia, 1927, p. 29). Jaurès, oratore straordinario, senza uguali, infiammato, romantico e insieme realista, che cercava di sormontare le difficoltà, «seriando» i problemi, per abbatterli a misura che si presentavano. (Cfr Rappoport, Jean Jaurès. L’homme. Le Penseur. Le Socialiste, 2a ed., Parigi, 1916, p. 366). I due grandi capi, amici e nemici, avevano in comune una fede indomita tanto nell’efficacia della loro azione, che nei destini delle legioni delle quali erano i portabandiera. Furono ambedue deificati: Bebel ancor vivo, Jaurès da morto.

Mussolini è un altro esempio di capo partito che ha del veggente e del credente.

Egli, inoltre, non è solo capo unico di un grande partito, ma è anche il capo unico di un grande Stato. Con lui anche la nozione dell’assioma: «il partito sono io», ha avuto, nel senso della responsabilità e del lavoro assiduo, il massimo sviluppo. (Storicamente inesatto. Intanto è proibita la formazione di gruppi e ogni discussione di assemblea, perché esse si erano verificate disastrose. Mussolini si serve dello Stato per dominare il partito e del partito, solo in parte, nei momenti difficili, per dominare lo Stato. Inoltre il cosidetto «charisma», nel senso del Michels, nel mondo moderno coincide sempre con una fase primitiva dei partiti di massa, con la fase in cui la dottrina si presenta alle masse come qualcosa di nebuloso e incoerente, che ha bisogno di un papa infallibile per essere interpretata e adattata alle circostanze; tanto più avviene questo fenomeno, quanto più il partito nasce e si forma non sulla base di una concezione del mondo unitaria e ricca di sviluppi perché espressione di una classe storicamente essenziale e progressiva, ma sulla base di ideologie incoerenti e arruffate, che si nutrono di sentimenti ed emozioni che non hanno raggiunto ancora il punto terminale di dissolvimento, perché le classi (o la classe) di cui è espressione, quantunque in dissoluzione, storicamente, hanno ancora una certa base e si attaccano  alle glorie del passato per farsene scudo contro l’avvenire).

L’esempio che Michels dà come prova della risonanza nelle masse di questa concezione è infantile, per chi conosce la facilità delle folle italiane all’esagerazione sentimentale e all’entusiasmo «emotivo»: una voce su diecimila presenti dinanzi a palazzo Chigi avrebbe gridato: «No, sei tu l’Italia», in un’occasione di commozione obbiettivamente reale della folla fascista. Mussolinia avrebbe poi manifestato l’essenza charismatica del suo carattere nel telegramma inviato a Bologna in cui diceva di essere sicuro, assolutamente sicuro (e certamente lo era, pour cause) che niente di grave poteva capitargli prima d’aver portato a termine la sua missione.

«Nous n’avons pas ici à indiquer les dangers que la conception charismatique peut entraîner» (?). La direzione charismatica porta in sé un dinamismo politico vigorosissimo. Saint‑Simon, nel suo letto di morte, disse ai suoi discepoli di ricordarsi che per fare grandi cose, bisogna essere appassionati. Essere appassionati significa avere il dono di appassionare gli altri. È uno stimolante formidabile. Questo è il vantaggio dei partiti charismatici su gli altri basati su un programma ben definito e sull’interesse di classe. È vero, però, che la durata dei partiti charismatici è spesso regolata dalla durata del loro slancio e dal loro entusiasmo, che talvolta danno una base molto fragile. Perciò vediamo i partiti charismatici portati ad appoggiare i loro valori psicologici (!) sulle organizzazioni più durature degli interessi umani.

Il capo carismatico può appartenere a qualsiasi partito, sia autoritario sia antiautoritario (dato che esistano partiti antiautoritari, come partiti; avviene anzi che i «movimenti» antiautoritari, anarchici, sindacalisti‑anarchici, diventano «partito» perché l’aggruppamento avviene intorno a personalità «irresponsabili» organizzativamente, in un certo senso «carismatiche»).

La classificazione dei partiti del Michels è molto superficiale e sommaria, per caratteri esterni e generici: 1) partiti «carismatici», cioè raggruppamenti intorno a certe personalità, con programmi rudimentali; la base di questi partiti è la fede e l’autorità d’un solo. (Di tali partiti non se n’è mai visti; certe espressioni d’interessi sono in certi momenti rappresentate da certe personalità più o meno eccezionali: in certi momenti di «anarchia permanente» dovuta all’equilibrio statico delle forze in lotta, un uomo rappresenta l’«ordine» cioè la rottura con mezzi eccezionali dell’equilibrio mortale e intorno a lui si raggruppano gli «spauriti», le «pecore idrofobe» della piccola borghesia: ma c’è sempre un programma, sia pure generico, anzi generico appunto perché tende solo a rifare l’esteriore copertura politica a un contenuto sociale che non attraversa una vera crisi costituzionale, ma solo una crisi dovuta al troppo numero di malcontenti, difficili da domare per la loro mera quantità e per la simultanea ma meccanicamente simultanea manifestazione del malcontento su tutta l’area della nazione); 2) partiti che hanno per base interessi di classe, economici e sociali, partiti di operai, contadini o di «petites gens» (poiché) i borghesi non possono da soli formare un partito; 3) partiti politici generati (!) da idee politiche o morali, generali e astratte: quando questa concezione si basa su un dogma più sviluppato ed elaborato fino nei dettagli, si potrebbe parlare di partiti dottrinari, le cui dottrine sarebbero privilegio dei capi: partiti libero scambisti o protezionisti o che proclamano dei diritti di libertà o di giustizia come: «a ciascuno il prodotto del suo lavoro! a ciascuno secondo le sue forze! a ciascuno secondo i suoi bisogni!»

Il Michels trova, meno male, che questa distinzione non può essere netta né completa, perché i partiti «concreti» rappresentano per lo più sfumature intermedie o combinazioni di tutte e tre. A questi tre tipi ne aggiunge altri due: i partiti confessionali e i partiti nazionali (bisognerebbe ancora aggiungere i partiti repubblicani in regime monarchico e i partiti monarchici in regime repubblicano). Secondo il Michels i partiti confessionali più che una Weltanschauung professano una Ueberweltanschauung (che poi è lo stesso). I partiti nazionali professano il principio generale del diritto di ogni popolo e di ogni frazione di popolo alla completa sovranità senza condizioni (teorie di P. S. Mancini). Ma dopo il 48 questi partiti sono spariti, e sono sorti i partiti nazionalisti, senza principi generali perché negano agli altri ecc. (sebbene i partiti nazionalisti non sempre neghino «teoricamente» agli altri popoli ciò che affermano per il proprio: pongono la risoluzione del conflitto nelle armi, quando non partano da concezioni vaghe di missioni nazionali, come poi il Michels dice).

L’articolo è pieno di parole vuote e imprecise. «Il bisogno dell’organizzazione … e le tendenze ineluttabili (!) della psicologia umana, individuale e collettiva, cancellano alla lunga la maggior parte delle distinzioni originarie». (Cosa vuol dire tutto ciò: il tipo «sociologico» non corrisponde al fatto concreto). «Il partito politico come tale ha la sua propria anima (!), indipendente dai programmi e dai regolamenti che si è dato e dai principi eterni di cui è imbevuto». Tendenza all’oligarchia. «Dandosi dei capi, gli stessi operai si creano, con le proprie mani, nuovi padroni, la cui principale arma di dominio consiste nella loro superiorità tecnica e intellettuale, e nell’impossibilità d’un controllo efficace da parte dei loro mandanti». Gli intellettuali hanno una funzione (in questa manifestazione). I partiti socialisti, grazie ai numerosi posti retribuiti e onorifici di cui dispongono, offrono agli operai (a un certo numero di operai, naturalmente!) una possibilità di far carriera, ciò che esercita su di essi una forza di attrazione considerevole (questa forza si esercita, però, più sugli intellettuali).

Complessità progressiva del mestiere politico per cui i capi dei partiti diventano sempre più dei professionisti, che devono avere nozioni sempre più estese, un tatto, una pratica burocratica, e spesso una furberia sempre più vasta. Così i dirigenti si allontanano sempre più dalla massa e si vede la flagrante contraddizione che nei partiti avanzati esiste tra le dichiarazioni e le intenzioni democratiche e la realtà oligarchica (bisogna però osservare che altra è la democrazia di partito e altra la democrazia nello Stato: per conquistare la democrazia nello Stato può essere necessario – anzi è quasi sempre necessario – un partito fortemente accentrato; e poi ancora: le quistioni di democrazia e di oligarchia hanno un significato preciso che è loro dato dalla differenza di classe tra capi e gregari: la quistione diventa politica, acquista un valore reale cioè e non più solo di schematismo sociologico, quando nell’organizzazione c’è scissione di classe: ciò è avvenuto nei sindacati e nei partiti socialdemocratici: se non c’è differenza di classe la quistione diventa puramente tecnica – l’orchestra non crede che il direttore sia un padrone oligarchico – di divisione del lavoro e di educazione, cioè l’accentramento deve tener conto che nei partiti popolari l’educazione e l’«apprendissaggio» politico si verifica in grandissima parte attraverso la partecipazione attiva dei gregari alla vita intellettuale – discussioni – e organizzativa dei partiti. La soluzione del problema, che si complica appunto per il fatto che nei partiti avanzati hanno una grande funzione gli intellettuali, può trovarsi nella formazione tra i capi e le masse di uno strato medio quanto più numeroso è possibile che serva di equilibrio per impedire ai capi di deviare nei momenti di crisi radicale e per elevare sempre più la massa).

Le idee di Michels sui partiti politici sono abbastanza confuse e schematiche, ma sono interessanti come raccolta di materiale grezzo e di osservazioni empiriche e disparate.

Anche gli errori di fatto non sono pochi (il partito bolscevico sarebbe nato dalle idee minoritarie di Blanqui e dalle concezioni, più severe e più diversificate, del movimento sindacalista francese, inspirate da G. Sorel). La bibliografia degli scritti del Michels si può sempre ricostruire dai suoi stessi scritti, perché egli si cita abbondantemente.

La ricerca può incominciare dai libri che ho già. Un’osservazione interessante per il modo di lavorare e di pensare del Michels: le sue scritture sono zeppe di citazioni bibliografiche, in buona parte oziose e ingombranti. Egli appoggia anche i più banali truismi con l’autorità degli scrittori più disparati. Si ha spesso l’impressione che non è il corso del pensiero che determina le citazioni, ma il mucchio di citazioni già pronte che determina il corso del pensiero, dandogli un che di saltellante e improvvisato. Il Michels deve aver costruito un immenso schedario, ma da dilettante, da autodidatta. Può avere una certa importanza sapere chi ha fatto per la prima volta una certa osservazione, tanto più se questa osservazione ha dato uno stimolo a una ricerca o ha fatto progredire in qualsiasi modo una scienza. Ma annotare che il tale o il tal altro ha detto che due e due fanno quattro è per lo meno inetto.

Altre volte le citazioni sono molto addomesticate: il giudizio settario, o, nel caso migliore, epigrammatico, di un polemista, viene assunto come fatto storico o come documento di fatto storico. Quando a p. 514 di questo articolo sul «Mercure de France», egli dice che in Francia la corrente socialista era divisa in Broussisti, Allemanisti, Blanquisti, Guesdisti e Jauressisti per trarne l’osservazione che nei partiti moderni avviene come negli ordini monastici medioevali (benedettini, francescani, ecc.), con la citazione della Comédie socialiste di Yves Guyot, da cui deve aver preso lo spunto, egli non dice che quelle non erano le denominazioni ufficiali dei partiti, ma denominazioni di «comodo» nate dalle polemiche interne, anzi quasi sempre contenevano implicitamente una critica e un rimprovero di deviazione personalistica, critica e rimprovero scambievoli che si irrigidivano poi nell’effettivo uso della denominazione personalistica (per la stessa ragione «corporativa» e «settaria» per cui i «Gueux» si chiamarono anch’essi così). Per questa ragione tutte le considerazioni epigrammatiche del Michels cadono nel superficialismo da salotto reazionario.

La pura descrittività e classificazione esterna della vecchia sociologia positivistica sono un altro carattere essenziale di queste scritture del Michels: egli non ha nessuna metodologia intrinseca ai fatti, nessun punto di vista critico che non sia un amabile scetticismo da salotto o da caffè reazionario che ha sostituito la sbarazzineria altrettanto superficiale del sindacalismo rivoluzionario e del sorellismo.

Rapporti tra Michels e Sorel: lettera di Sorel a Croce in cui accenna alla superficialità di Michels e tentativo meschino del Michels per togliersi di dosso il giudizio del Sorel. Nella lettera al Croce del 30 maggio 1916 («Critica», 20 settembre 1929, p. 357) il Sorel scrive: «Je viens de recevoir une brochure de R. Michels, tirée de Scientia, mai 1916: “La débacle de L’Internatioriale ouvrière et l’avenir”. Je vous prie d’y jeter les yeux; elle me semble prouver que l’auteur n’a jamais rien compris à ce qui est important dans le marxisme. Il nous présente Garibaldi, L. Blanc, Benoit Malon (!!) comme les vrais maîtres de la pensée socialiste…». (L’impressione del Sorel deve essere esatta – io non ho letto questo scritto del Michels – perché essa colpisce in modo più evidente nel libro del Michels sul movimento socialista italiano, Edizioni della «Voce»).

Nei «Nuovi studi di Diritto, Economia e Politica» del settembre‑ottobre 1929, il Michels pubblica cinque letterine inviategli dal Sorel (1a nel 1905,2a nel 1912 3a nel 1917, 4a nel 17, 5a nel 17) di carattere tutt’altro che confidenziale, ma piuttosto di corretta e fredda convenienza, e in una nota (v. p. 291) scrive a proposito del su citato giudizio: «Il Sorel evidentemente non aveva compreso (!) il senso più diretto dell’articolo incriminato, in cui io avevo accusato (!) il marxismo di lasciarsi sfuggire (!) il lato etico del socialismo mazziniano ed altro, e di aver, esagerando il lato meramente economico, portato il socialismo alla rovina. D’altronde, come risulta dalle lettere già pubblicate (quali lettere? quelle pubblicate dal Michels, queste cinque in parola? esse non dicono nulla), lo scatto (in corsivo dal Michels, ma si tratta di ben altro che scatto; per il Sorel si tratta, pare, di conferma di un giudizio già fatto da un pezzo) del Sorel nulla tolse ai buoni rapporti (!) coll’autore di queste righe». In queste  nei «Nuovi Studi», il Michels mi pare tende ad alcuni fini discretamente interessanti e ambigui: a gettare un certo discredito sul Sorel come uomo e come «amico» dell’Italia e a far apparire se stesso come patriotta italiano di vecchia data. Ritorna questo motivo molto equivoco nel Michels (credo di aver notato altrove la sua situazione allo scoppio della guerra). È interessante la letterina di Sorel a Michels del 10 luglio 1912: «Je lis le numéro de la Vallée d’Aoste che vous avez bien voulu m’envoyer. J’y ai remarqué que vous affirmez un droit au séparatisme qui est bien de nature à rendre suspect aux Italiens le maintien de la langue française dans la Vallée d’Aoste», Michels nota che si tratta di un numero unico: «La Vallée d’Aoste pour sa langue française», pubblicato nel maggio 1912 ad Aosta dalla tipografia Margherittaz, sotto gli auspici di un Comitato locale valdostano per la protezione della lingua francese (collaboratori, Michels, Croce, Prezzolini, Graf, ecc.). «Inutile dire che nessuno di questi autori aveva fatta sua, come con soverchia licenza poetica si esprime il Sorel, una qualsiasi tesi separatista». Il Sorel accenna solo al Michels ed io sono portato a credere che egli abbia veramente per lo meno accennato al diritto al separatismo (bisognerebbe controllare nel caso di una presentazione del Michels che sarà necessaria un giorno).

Q2 §76 Gli ufficiali in congedo. Traggo le notizie dal discorso del senatore Libertini tenuto al Senato il 10 giugno 1929. L’Unione Nazionale degli Ufficiali in congedo illimitato (U.N.U.C.I.) è sorta in relazione al R. D. L. 9 dicembre 1926 (n. 2352) convertito in legge il 12 febbraio1928 n. 261: diede frutti molto scarsi, perché, dice il Libertini, «mancava in essa lo spirito necessario a darle vita».

(Questa affermazione è interessante, in quanto per «spirito» si intende precisamente la concessione di benefici materiali, i quali, in questo caso, vengono velati eufemisticamente nell’espressione «giuste aspirazioni della benemerita classe degli ufficiali in congedo, i quali sentivano di avere bene meritato dalla Patria per i servizi da loro prestati nella guerra di redenzione ed intendono perciò esser tenuti nella considerazione che meritano, moralmente e materialmente». Se si fosse trattato di classi popolari, non si sarebbe trattato di «spirito» ma di basse avidità materialistiche, suscitate dalla demagogia, ecc. Questo modo di pretendere «gratuitamente» dalle masse popolari ciò che invece è «pagato» alle altre classi è caratteristico dei dirigenti italiani: se le masse rimangono passive, la colpa non è dell’insipienza dei dirigenti e del loro gretto egoismo, ma dei demagoghi: è poi notevole il modo di ragionare per cui è «materialistico» chi vuole migliorare le proprie condizioni economiche ma non è tale chi non vuole peggiorare sia pure di poco le proprie: si domanda «materialisticamente», si rifiuta «idealisticamente»; chi non ha è gretto, chi ha è altruista perché non dà, ecc.).

Nuova legge del 24 dicembre 1928, n. 3242, che concede benefizi. Il Libertini a questo punto esamina la situazione degli ufficiali in congedo in Jugoslavia e in Francia. In Francia gli ufficiali di riserva, se viaggiano per recarsi alle conferenze ed esercitazioni nelle scuole di perfezionamento fuori residenza, ricevono indennità dai 12 ai 32 franchi giornalieri a seconda della durata dell’assenza; indennità chilometriche di prima classe (tariffa militare) andata e ritorno, ecc. ecc. A partire dal 1° gennaio1925 l’ufficiale di riserva francese riceve 700 franchi a titolo di indennità di prima vestizione; a chi non ha riscosso questa indennità, si dà un vestito gratis.

In Jugoslavia: sono iscritti all’Albo degli ufficiali in congedo ed ex combattenti costituito nel 1922, 18 000 ufficiali di riserva e 35 000 ex combattenti, cioè a dire la quasi totalità degli ufficiali in congedo. In caso di «servizio» per istruzione, ecc., sono vettovagliati, alloggiati e rimborsati delle spese di viaggio.

Ancora a proposito dello «spirito», nel discorso alla Camera il generale Gazzera, sottosegretario alla guerra, ammise che il provvedimento di invitare gli ufficiali in congedo a prestare volontariamente servizio durante il periodo estivo di esercitazioni ha avuto questo risultato: nel 1926 si presentarono 1007 ufficiali, nel 27 206 e nel 28 165!!

(Lo Stato deve curare gli ufficiali in congedo per due fondamentali ordini di ragioni: la prima di carattere tecnico, perché questi ufficiali, che saranno richiamati come tali in caso di mobilitazione, non perdano la qualifica professionale acquistata e la sviluppino anzi coll’apprendimento teorico-pratico delle innovazioni che vengono introdotte nei sistemi tattici e strategici; la seconda di carattere ideologico facilmente comprensibile.

A proposito dello «spirito» e della «materia» le osservazioni non riguardano naturalmente gli ufficiali, ma i dirigenti. Le cifre del Gazzera sono molto interessanti, più ancora se si considera che molti sono gli ufficiali appartenenti alle organizzazioni ufficiali politiche: sono da mettere insieme alle cifre sull’appartenenza alle associazioni di propaganda coloniale citate da Carlo Curcio nella «Critica fascista» del luglio 1930: da tener presente per la rubrica Passato e Presente).

Q2 §77 La politica militare. Leggere attentamente le discussioni specialmente del Senato sui bilanci militari. Si possono trovare molte osservazioni interessanti sulla reale efficienza delle forze armate e per il confronto tra il vecchio e nuovo regime.

Q2 §78 Atlantico‑Pacifico. Funzione dell’Atlantico nella civiltà e nell’economia moderna. Si sposterà questo asse nel Pacifico? Le masse più grandi di popolazione del mondo sono nel Pacifico: se la Cina e l’India diventassero nazioni moderne con grandi masse di produzione industriale, il loro distacco dalla dipendenza europea romperebbe appunto l’equilibrio attuale: trasformazione del continente americano, spostamento dalla riva atlantica alla riva del Pacifico dell’asse della vita americana, ecc. Vedere tutte queste quistioni nei termini economici e politici (traffici, ecc.).

Q2 §79 I contadini italiani. Problemi contadini: malaria, brigantaggio, terre incolte, pellagra, analfabetismo, emigrazione. (Nel Risorgimento questi problemi furono trattati? come? da chi?). Nel periodo del Risorgimento alcuni di questi malanni raggiungono il grado massimo di gravità: il Risorgimento coincide con un periodo di grande depressione economica in larghe regioni italiane, che viene aumentata dal sommovimento politico. La pellagra apparve in Italia nel corso del 700, e andò sempre più aggravandosi nel secolo successivo: ricerche sulla pellagra di medici ed economisti. (Quali le cause della pellagra e della cattiva nutrizione dei contadini che ne è l’origine?). Confrontare il libro di Luigi Messedaglia: Il Mais e la vita rurale italiana (Piacenza, Ed. Federazione dei consorzi agrari, 1927). Questo libro del Messedaglia è necessario per lo studio della quistione agraria italiana, come il libro del Jacini e quelli di Celso Ulpiani.

Q2 §80 Sull’emigrazione italiana. Articolo di Luigi Villari nella Nuova Antologia del 16 febbraio 1928: L’emigrazione italiana vista dagli stranieri. Sull’emigrazione il Villari ha scritto parecchio: vedere. (In questo articolo recensisce alcuni libri americani, inglesi e francesi che parlano dell’emigrazione italiana).

Q2 §81 I volontari nel Risorgimento. Paulo Fambri scrisse un articolo sui volontari nella Nuova Antologia (o «Antologia») del 1867 (?). Nella Nuova Antologia del 1° agosto 1928, L’Archivio inedito di Paulo Fambri (di A. F. Guidi), è riportata una lettera diretta al Fambri del generale C. di Robilant che era direttore della Scuola Superiore di Guerra di Torino (la lettera è del 31 gennaio 1868) in cui si approva la prima parte dell’articolo del Fambri. Il Di Robilant aggiunge che dei 21 000 volontari del 1859 solo la metà o poco più era presente nelle file combattenti (cfr i giudizi di Plon‑Plon contro i volontari in questa stessa guerra del 59).

Q2 §82 Giolitti. Articolo nella Nuova Antologia del 1° agosto 1928 su G. Giolitti di Spectator (che deve essere Mario Missiroli). L’articolo è interessante e bisogna servirsene nel caso di trattazione dello stesso argomento. Giolitti e il movimento operaio e socialista, Giolitti e il dopoguerra, ecc. Molti aspetti della politica di Giolitti sono appena sfiorati: in realtà il nocciolo della sua azione non è toccato, sebbene ci siano accenni che potrebbero far pensare che il Missiroli avrebbe potuto dire di più.

Q2 §83 Francesco Tommasini, La Conferenza panamericana dell’Avana, Nuova Antologia del 16 agosto e 1° settembre 1928. Articolo molto analitico e minuzioso.

Q2 §84 G. E. di Palma Castiglione L’organizzazione internazionale del lavoro e la XI sessione della Conferenza internazionale del lavoro, Nuova Antologia del 16 agosto.

Q2 §85 Daniele Varé, Pagine di un diario in Estremo Oriente, «Nuova Antologia» del 16 settembre, 1° e 16 ottobre 1928. Il Varé è un diplomatico italiano ministro in Cina non so di che grado: ha firmato l’accordo tra il governo italiano e quello di Ciang‑Kai‑Sceck nel 28 o 29. Queste pagine di diario sono disastrose sia letterariamente che da ogni altro punto di vista. Ai diplomatici dovrebbe essere proibita ogni pubblicazione (non solo per ciò che riguarda la politica) senza il placet di un ufficio speciale di revisione costituito di persone intelligenti, perché le loro fesserie extra‑diplomatiche nuocciono al governo tanto quanto quelle diplomatiche e feriscono il prestigio dello Stato che ha dato loro incarichi di rappresentanza.

Q2 §86 Giuseppe Tucci, La religiosità dell’India, Nuova Antologia 16 settembre 1928. Articolo interessante. Critica tutti i luoghi comuni che di solito si ripetono sull’India e sull’«anima» indiana, sul misticismo, ecc. L’India attraversa una crisi spirituale; il nuovo (spirito critico) non è ancora così diffuso da formare un’«opinione pubblica» che si contrapponga al vecchio: superstizione nelle classi popolari, ipocrisie, mancanza di carattere nelle classi superiori così dette colte. In realtà anche in India, le quistioni e gli interessi pratici assorbono l’attenzione pubblica. (È evidente che in India, dato il secolare intorpidimento sociale, e le stratificazioni ossificate della società e data anche, come avviene nei grandi paesi agrari, la grande quantità di intellettuali medii, specialmente ecclesiastici, la crisi durerà molto a lungo e sarà necessaria una grande rivoluzione perché si abbia l’inizio di una soluzione). Molte osservazioni che il Tucci fa a proposito dell’India si potrebbero fare per molti altri paesi e altre religioni. Tenere presente.

Q2 §87 Oscar di Giamberardino, Linee generali della politica marittima dell’Impero britannico, Nuova Antologia, 16 settembre 1928. Utile.

Q2 §88 Ettore Fabietti, Il primo venticinquennio delle Biblioteche popolari milanesi, Nuova Antologia, 1° ottobre 1928. Articolo molto utile per le informazioni che dà sull’origine e lo sviluppo di questa istituzione che è stata la più cospicua iniziativa per la cultura popolare del tempo moderno. L’articolo è abbastanza serio, sebbene il Fabietti abbia dimostrato di non essere lui molto serio: bisognerà riconoscergli tuttavia molte benemerenze e una indiscutibile capacità organizzativa nel campo della cultura operaia in senso democratico. Il Fabietti mette in luce come gli operai fossero i migliori «clienti» delle biblioteche popolari: curavano i libri, non li smarrivano (a differenza delle altre categorie di lettori: studenti, impiegati, professionisti, donne di casa, benestanti (?), ecc.); le letture di «belletristica» rappresentavano una percentuale relativamente bassa, inferiore a quella di altri paesi: operai che proponevano di pagare la metà di libri costosi pur di poterli leggere: operai che davano oblazioni fino di cento lire alle biblioteche popolari; un operaio tintore che è divenuto «scrittore» e traduttore dal francese con le letture e gli studi fatti nelle biblioteche popolari, ma continua a rimanere operaio.

La letteratura delle biblioteche popolari milanesi dovrà essere studiata per avere spunti «reali» sulla cultura popolare: quali libri più letti come categoria e come autori, ecc.; pubblicazioni delle biblioteche popolari, loro carattere, tendenze, ecc. Come mai una tale iniziativa solo a Milano in grande stile? Perché non a Torino o in altre grandi città? Carattere e storia del «riformismo» milanese; Università Popolare, Umanitaria, ecc. Argornento molto interessante ed essenziale.

Q2 §89 I primordi del movimento unitario a Trieste, di Camillo de Franceschi, Nuova Antologia, 1° ottobre 1928. Articolo incoerente e a base retorica. Ci sono però degli accenni all’intervento del «materialismo storico» nella trattazione della quistione nazionale, argomento che sarà interessante studiare concretamente.

Di Angelo Vivante: Socialismo, Nazionalismo, Irredentismo nelle provincie adriatiche orientali, Trieste, 1905; Irredentismo adriatico, Firenze, 1912 (opuscoli della «Voce»?). Del Vivante, che fu uomo molto serio e di molto carattere, furono pubblicati opuscoli dall’editrice «Avanti!» per cura di Mussolini, che difese il Vivante dagli attacchi feroci degli irredentisti e nazionalisti. Alla bibliografia su questo argomento bisogna aggiungere gli articoli di Mussolini sull’«Avanti!» a proposito di Trieste e il suo opuscolo sul Trentino pubblicato dalla «Voce». Articoli furono pubblicati dal «Viandante» di Monicelli, dovuti ad Arturo Labriola, a Francesco Ciccotti e mi pare ad altri (il problema nazionale fu uno dei punti critici per cui una parte degli intellettuali sindacalisti passò al nazionalismo: Monicelli, ecc.). Vedere in quanto il Vivante seguiva l’austro‑marxismo sulla quistione nazionale e in quanto se ne distaccava; vedere le critiche dei russi all’austro‑marxismo sulla quistione nazionale. Speciale forma che assumeva la quistione nazionale a Trieste e in Dalmazia (per gli italiani): articolo di Ludo Hartmann nella «Unità» del 1915 riprodotto nel volumetto sul Risorgimento (ed. Vallecchi): polemiche sulla «Voce» a proposito dell’irredentismo e della quistione nazionale con molti articoli (mi pare uno del Borgese) favorevoli alla tesi «austriaca» (Hartmann).

Q2 §90 La nuova evoluzione dell’Islam, 1) Michelangelo Guidi, 2) Sirdar Ikbal Ali Shah, Nuova Antologia, 1° ottobre 1928. Si tratta di un articolo mediocre del diplomatico afgano anglofilo Ikbal Ali Shah e di una breve nota introduttiva del prof. Michelangelo Guidi. La nota del Guidi pone, senza risolverlo, il problema se l’Islam sia come religione conciliabile con il progresso moderno e se esso sia suscettibile d’evoluzione. Si riferisce a un recente libretto del prof. R. Hartmann, «profondo e diligente studioso tedesco di lingue e civiltà orientali», Die Krisis des Islams, pubblicato dopo un soggiorno ad Angora e che risponde affermativamente alla quistione; e riporta il giudizio espresso dal prof. Kampffmeyer in una recensione pubblicata del libretto dello Hartmann nell’«Oriente Moderno» (agosto 1928) che un breve soggiorno in Anatolia non può essere sufficiente per giudicare su quistioni così vive, ecc., e che troppe delle fonti dell’Hartmann sono di origine letteraria e le apparenze ingannano, in Oriente più che altrove, ecc. Il Guidi (almeno in questa nota) non conclude, ricordando solo che può soccorrerci l’opinione degli orientali stessi (ma non sono essi «apparenza» che inganna, presi uno per uno ecc.?), sebbene all’inizio abbia scritto che sarebbe utopistico pensare che l’Islam possa mantenersi nel suo splendido isolamento e che nell’attesa maturino in esso nuovi formidabili agenti religiosi e la forza insita nella concezione orientale della vita abbia ragione del materialismo occidentale e riconquisti il mondo.

Mi pare che il problema sia molto più semplice di quanto lo si voglia fare apparire, per il fatto che implicitamente si considera il «cristianesimo» come inerente alla civiltà moderna, o almeno non si ha il coraggio di porre la quistione dei rapporti tra cristianesimo e civiltà moderna. Perché l’Islam non potrebbe fare ciò che ha fatto il cristianesimo? Mi pare anzi che l’assenza di una massiccia organizzazione ecclesiastica del tipo cristiano‑cattolico dovrebbe rendere più facile l’adattamento. Se si ammette che la civiltà moderna nella sua manifestazione industriale economico‑politica finirà col trionfare in Oriente (e tutto prova che ciò avviene e che anzi queste discussioni sull’Islam avvengono perché c’è una crisi determinata appunto da questa diffusione di elementi moderni) perché non bisogna concludere che necessariamente l’Islam si evolverà? Potrà rimanere tal quale? No: già non è più quello di prima della guerra. Potrà cadere d’un colpo? Assurdo. Potrà essere sostituito da una religione cristiana? Assurdo pensarlo per le grandi masse. Il Vaticano stesso si accorge come sia contradditorio voler introdurre il cristianesimo nei paesi orientali in cui viene introdotto il capitalismo: gli orientali ne vedono l’antagonismo che nei nostri paesi non si vede perché il cristianesimo si è adattato molecolarmente ed è diventato gesuitismo, cioè una grande ipocrisia sociale: da ciò le difficoltà dell’opera delle missioni e lo scarso valore delle conversioni, d’altra parte molto limitate.

In realtà la difficoltà più tragica per l’Islam è data dal fatto che una società intorpidita da secoli di isolamento e da un regime feudale imputridito (naturalmente i signori feudali non sono materialisti!!) è troppo bruscamente messa a contatto con una civiltà frenetica che è già nella sua fase di dissoluzione. Il Cristianesimo ha impiegato nove secoli a evolversi e ad adattarsi, lo ha fatto a piccole tappe, ecc.: l’Islam è costretto a correre vertiginosamente. Ma in realtà esso reagisce proprio come il cristianesimo: la grande eresia su cui si fonderanno le eresie propriamente dette è il «sentimento nazionale» contro il cosmopolitismo teocratico. Appare poi il motivo del ritorno alle «origini» tale e quale come nel cristianesimo; alla purezza dei primi testi religiosi contrapposta alla corruzione della gerarchia ufficiale: i Wahabiti rappresentano proprio questo e il Sirdar Ikbal Ali Shah spiega con questo principio le riforme di Kemal Pascià in Turchia: non si tratta di «novità» ma di un ritorno all’antico, al puro, ecc. ecc. Questo Sirdar Ikbal Ali Shah mi pare dimostri proprio come tra i mussulmani esista un gesuitismo e una casistica altrettanto sviluppati che nel cattolicismo.

Q2 §91 Giuseppe Gallavresi, Ippolito Taine storico della Rivoluzione francese, «Nuova Antologia», 1° novembre 1928. Cabanis (Giorgio) 1750‑1808, sue teorie materialiste esposte nel libro dedicato allo studio dei rapporti tra le physique et le moral. Il Manzoni ammirava profondamente l’angélique Cabanis e anche quando si convertì continuò ad ammirare questo suo libro. Il Taine discepolo del Cabanis.

Il metodo induttivo e le norme dell’osservazione presi a prestito dalle scienze naturali dovevano portare il Taine, secondo il Gallavresi, alla conclusione che la Rivoluzione francese sia stata una mostruosità, una malattia. «La democrazia egualitaria è una mostruosità alla luce delle leggi della natura; ma il fatto che è stata concepita dall’uomo ed anche realizzata tratto tratto nella storia di taluni popoli deve far riflettere gli spiriti più riluttanti ad accettare un regime pur così convenzionale». (Interessanti questi concetti di «convenzionale», di «artificiale», ecc., applicati a certe manifestazioni storiche: «convenzionale» e «artificiale» sono implicitamente contrapposti a «naturale», cioè a uno schema «conservatore» veramente convenzionale e artificiale perché la realtà lo ha distrutto: in verità i peggiori «scientifisti» sono i reazionari che si proiettano una «evoluzione» di proprio comodo e ammettono l’importanza e l’efficacia dell’intervento della volontà umana fortemente organizzata e concentrata, solo quando è reazionaria, quando tende a restaurare ciò che è stato, come se ciò che è stato ed è stato distrutto non sia altrettanto «ideologico», «astratto», «convenzionale», ecc., di ciò che ancora non è stato effettuato e anzi molto più).

Questa quistione del Taine e della Rivoluzione Francese deve essere studiata perché ha avuto una certa importanza, nella storia della cultura del secolo scorso: confronta i libri di Aulard contro Taine e le pubblicazioni di Augustin Cochin su tutti e due. Questo articolo del Gallavresi è molto superficiale. (Confronta anche il fatto per cui la letteratura pamphletistica che precedette e accompagnò la Rivoluzione Francese sembra stomachevole agli spiriti raffinati: ma la letteratura gesuitica contro la Rivoluzione fu migliore o non fu peggiore? La classe rivoluzionaria intellettualmente è sempre debole da questo punto di vista: essa lotta per farsi una cultura ed esprimere una classe colta consapevole e responsabile: di più, tutti i malcontenti e i falliti delle altre classi si buttano dalla sua parte per rifarsi una posizione. Lo stesso non può dirsi della vecchia classe conservatrice, anzi il contrario: eppure la sua letteratura di propaganda è peggiore e più demagogica, ecc.).

Q2 §92 I problemi dell’automobilismo al Congresso mondiale di Roma, di Ugo Ancona, nella Nuova Antologia del 1° novembre 1928. (Contiene qualche spunto interessante sulla mania delle autostrade dispendiosissime di questi anni e sul «puricellismo»; possono servire per Passato e presente: bisognerebbe fissare quanto nelle spese statali e locali è andato a strade indispensasabili e quanto a strade di lusso.

Q2 §93 Sull’americanismo. Roberto Michels, Cenni sulla vita universitaria negli Stati Uniti, Nuova Antologia, 1° novembre 1928. Qualche spunto interessante,

Q2 §94 Sulla finanza dello Stato. Le riforme del Tesoro, di «Alacer», nella Nuova Antologia del 16 novembre 1928. Integra l’articolo di Tittoni del giugno 27: da tener presente per seguire tutte le varie fasi della lotta sorda che gli elementi conservatori conducono intorno alla politica finanziaria.

Q2 §95 Quistioni interessanti della storia e della politica italiana. Confrontare Il mistero dei «Ricordi diplomatici» di Costantino Nigra di Delfino Orsi nella Nuova Antologia del 16 novembre 1928.

Articolo molto importante, sebbene pieno di particolari sciocchezze – (alcune delle quali dimostrano a che punto di esasperazione bestialmente acritica erano giunti molti borghesi italiani: a p. 148 l’Orsi scrive: «Il 19 ottobre 1904 il conte Nigra era giunto a Torino per recarsi il giorno dopo a Racconigi, dove il Re l’aveva chiamato per averlo testimonio, insieme al Bianchieri, alla rogazione dell’atto di nascita del Principe Ereditario. Da due giorni con un pretesto di sustrato economico, ma in verità coll’intenzione (!!) di turbare l’esultanza della Nazione per il faustissimo evento della Reggia, il partito socialista, messosi come al solito vilmente a rimorchio dei comunisti (!! nel 1904!), aveva proclamato lo sciopero generale in tutta Italia». Come le frasi fatte sostituiscono ogni forma responsabile di pensiero fino a condurre alle sciocchezze più esilaranti! Si potrebbe collocare in rubrica in Passato e Presente) –, perché riguarda uno di quei fatti che rimangono misteriosi: la sparizione dei Ricordi diplomatici del Nigra che l’Orsi ha visto ultimati, corretti, rifiniti e che sarebbero stati preziosissimi per la storia del Risorgimento. Collegare con l’affare Bollea per l’epistolario di M. D’Azeglio, coi costituti Confalonieri, ecc.

Q2 §96 Alfredo Oriani. È interessante una nota di Piero Zama, Alfredo Oriani candidato politico, nella Nuova Antologia del 16 novembre 1928.

Q2 §97 Augur, Il nuovo aspetto dei rapporti tra la Gran Bretagna e gli Stati Uniti d’America, Nuova Antologia del 16 dicembre 1928. (Espone questa ipotesi: che gli Stati Uniti cerchino di diventare la forza politica egemone dell’Impero inglese, cioè conquistino l’impero inglese dall’interno e non dall’esterno con una guerra).

Nello stesso fascicolo della Nuova Antologia vedi anche Oscar di Giamberardino La politica marittima degli Stati Uniti d’America; questo articolo è molto interessante e da tener presente.

Q2 §98 Nino Cortese, L’esercito napoletano e le guerre napoleoniche, Napoli, Ricciardi, 1928, pp. 199, in 8°, L. 12).

Q2 §99 Giuseppe Brindisi, Giuseppe Salvioli, Napoli, Casella, 1928, pp. 142, L. 5 (collezione «Contemporanei».

Il Brindisi è l’editore e il prefattore dell’edizione postuma del Capitalismo antico del Salvioli: vedere se in questo volumetto tratta la quistione dei rapporti tra il Salvioli e il materialismo storico nella forma crociana, ecc. (La prefazione al Capitalismo antico è però mediocre e balzellante). Da una recensione del Tilgher in «Italia che scrive» (settembre 1928) vedo che questo argomento è trattato ampiamente, insieme ad un altro, anch’esso interessante: le concezioni sociali del Salvioli, che lo portavano a una specie di socialismo giuridico di Stato (!?) non senza somiglianza con la legislazione sociale fascista.

Q2 §100 Pietro Silva, Bilanci consuntivi. La Storiografia, nell’«Italia che scrive» del settembre 1928. Interessante nota bibliografica sulle più recenti pubblicazioni storiche italiane. Da tener presente. Deve essere interessante, per le mie particolari ricerche, il volumetto di Arrigo Solmi, L’unità fondamentale della storia italiana (ed. Zanichelli), diretto a rintracciare e ad additare nella storia della penisola una continuità nazionale mai spezzata dai tempi di Roma in poi. Concezione interessante, ma certamente indimostrabile e riflesso indubbio degli attuali bisogni di propaganda.

(Contro questa tesi: Croce e Volpe).

Q2 §101 Albano Sorbelli, Opuscoli, stampe alla macchia e fogli volanti riflettenti il pensiero politico italiano (1830‑35). Saggio di bibliografia storica, Firenze, Leo S. Olschki, 1927, pp. LXXXVIII‑273, L. 70.

Il Sorbelli registra quasi un migliaio di fogli volanti e opuscoli, raggruppati in ordine cronologico e con un cenno del contenuto. Nella prefazione studia le correnti di pensiero di quegli anni, che si raggrupperanno nei partiti più tardi.

Q2 §102 Giuseppe Ferrari, Corso su gli scrittori politici italiani. Nuova edizione completa con prefazione di A. O. Olivetti. 1928, Milano, Monanni, pp. 700, L. 25.

Q2 §103 Adriano Tilgher, Perché l’artista scrive o dipinge, o scolpisce, ecc.?, nell’«Italia che scrive» del febbraio 1929.

Articolo tipico della incongruenza logica e della leggerezza morale del Tilgher, il quale dopo aver «sfottuto» banalmente la teoria del Croce in proposito, alla fine dell’articolo la ripresenta tale e quale come sua, in una forma fantasiosa e immaginifica. Dice il Tilgher che secondo il Croce «l’estrinsecazione fisica … del fantasma artistico ha scopo essenzialmente mnemonico», ecc. Questo argomento è da vedere: cosa significa per il Croce in questo caso «memoria»? Ha un valore puramente personale, individuale, o anche di gruppo? Lo scrittore si preoccupa solo di sé o storicamente è portato a pensare anche agli altri? ecc.

Q2 §104 Recensione del libro del Bonomi sul Bissolati nell’«Italia che scrive» del maggio 1929, di Giuseppe A. Andriulli. (Bisognerebbe poter seguire tutte queste recensioni di simili libri, specialmente se dovute a ex socialisti come l’Andriulli).

Q2 §105 «Mente et Malleo». Organo ufficiale dell’Istituto «M. Fossati», pubblicato a cura dell’Associazione Nazionale Esperti nell’Ordinamento della Produzione, Torino, via Rossini 18, Anno 1°, n. 1, 10 aprile 1929, in 4°, pp. 44‑XVI.

Bollettino tecnico quindicinale, si propone di portare un contributo all’organizzazione scientifica del lavoro od ordinamento razionale della produzione in qualsiasi campo dell’Industria, dell’Agricoltura, del Commercio.

Q2 §106 Risorgimento italiano. I giacobini italiani. Di solito sono trattati assai male nei libri e negli articoli divulgativi e se ne sa anche assai poco. Negli Atti del XIV Congresso nazionale per la storia del Risorgimento Italiano (1927) è pubblicato uno studio di Renato Sòriga, L’idea nazionale e il ceto dei «patrioti» avanti il maggio 1796, che rende noti alcuni documenti estratti dal copialettere di Filippo Buonarroti. Da questo studio si potranno avere dati bibliografici e indicazioni per studiare questo primo periodo del liberalismo italiano.

Q2 §107 Lo «stellone d’Italia». Come è nato questo modo di dire sullo «stellone» che è entrato a far parte dell’ideologia patriottica e nazionale italiana? Il 27 novembre 1871, il giorno in cui Vittorio Emanuele II inaugurò a Roma il Parlamento, fu visto di pieno giorno il pianeta Venere, che di solito (poiché Venere è un pianeta interno all’orbita della terra) non si può vedere che al mattino prima del nascere del sole o alla sera dopo il tramonto. Se poi certe condizioni atmosferiche favoriscono la visibilità del pianeta, non è raro il caso che esso possa vedersi anche dopo che il sole è spuntato ed anche prima che sia tramontato, ciò che appunto avvenne il 27 novembre 1871. Il fatto è ricordato nel modo più preciso da Giuseppe Manfroni, allora commissario di Borgo, che nelle sue Memorie scrive: «Il più grande avvenimento del mese di novembre è stata la inaugurazione della nuova sessione del Parlamento, avvenuta il 27 con un discorso pronunziato dal Re... non è mancato il miracolo; in pieno giorno si vedeva brillare sul Quirinale una stella lucentissima; Venere, dicono gli astronomi; ma il popolo diceva che la stella d’Italia illuminava il trionfo delle idee unitarie». La visibilità di Venere in pieno giorno pare sia fenomeno raro, non rarissimo, già osservato dagli antichi e nel Medio Evo. Nel dicembre 1797 quando Napoleone tornò trionfalmente a Parigi dopo la guerra italiana si vide il pianeta di giorno e il popolo diceva che era la stella di Napoleone.

Q2 §108 Letteratura popolare. Edoardo Perino. Sull’attività editoriale del Perino, che segnò un’epoca a Roma (il Perino stampò letteratura anticlericale a dispense illustrate, cominciando con la Beatrice Cenci di Guerrazzi), cfr il Memoriale di G. De Rossi, che dovrebbe essere stato pubblicato nel 27 o nel 28.

Q2 §109 Gli intellettuali francesi e la loro attuale funzione cosmopolita. La funzione cosmopolita degli intellettuali francesi dal 700 in poi è di carattere assolutamente diverso da quella esercitata dagli italiani precedentemente. Gli intellettuali francesi esprimono e rappresentano esplicitamente un compatto blocco nazionale, di cui sono gli «ambasciatori» culturali, ecc.

Per la situazione attuale dell’egemonia culturale francese confrontare il libro dell’editore Bernardo Grasset, La chose littéraire, Paris, Gallimard, 1929, in cui si parla specialmente dell’organizzazione libraria della produzione culturale francese nel dopo guerra coi nuovi fenomeni tipici dell’epoca presente.

Q2 §110 Cultura popolare. I poeti del popolo siciliano di Filippo Fichera, Isola del Liri, Soc. Tip. A. Macioce e Pisani, 1929. Credo si possano trovare in questo volume indicazioni per identificare l’importanza in Sicilia delle «gare poetiche» o «tenzoni» tenute in pubblico come rappresentazioni teatrali popolari. Che carattere hanno? Da una recensione pubblicata nel «Marzocco» del 1929 pare puramente religioso.

Q2 §111 Risorgimento, Il popolo e il Risorgimento. Nel «Marzocco» del 30 settembre 1928 è riassunto, col titolo La Serenissima meritava di morire?, un opuscolo miscellaneo di Antonio Pilot (Stabil. Grafico U. Bortoli), in cui si estraggono da diari e memorie di veneziani opinioni sulla caduta della Repubblica Veneta.

La responsabilità del patriziato era idea fissa delle classi popolari. L’ultimo doge, Lodovico Manin racconta in certe sue Memorie: «La cosa arrivò al grado che, passando un giorno per una corticella a San Marcuola, una donna, conoscendomi, disse: Almeno venisse la peste, che così moriressimo noi altre, ma morirebbero anche questi ricchi che ci hanno venduti e che sono cagione che moriamo di freddo e di fame». Il vecchio desistette dalla passeggiata e si ritirò. Il Bertucci Balbi‑Valier in un sonetto intitolato I nobili veneti del 1797 non tradirono la Repubblica scrive: «No, no xe vero, i nobili tradio ‑ No ga la patria nel novantasete» (ciò che significa quanto profonda fosse la convinzione e come si cercasse di combatterla).

Q2 §112 Letteratura popolare. Victor Hugo. A proposito di V. Hugo ricordare la sua dimestichezza con Luigi Filippo e quindi il suo atteggiamento monarchico costituzionale nel 48. È interessante notare che, mentre scriveva i Miserabili, scriveva anche le  di Choses vues (pubblicate postume) e che le due scritture non sempre vanno d’accordo. Vedere queste quistioni, perché di solito l’Hugo è considerato uomo d’un blocco solo, ecc. (Nella «Revue des Deux Mondes» del 28 o 29, più probabilmente del 29, ci deve essere un articolo su questo argomento).

Q2 §113 Risorgimento. Il popolo e il Risorgimento. Nella «Lettura» del 1928 Pietro Nurra pubblica il diario inedito di un combattente delle cinque giornate di Milano, il mantovano Giovanni Romani, stabilitosi una prima volta a Milano nel 1838 come cuoco alla Croce d’Oro in contrada delle Asole, poi, dopo aver girato quasi tutta Italia, ritornato a Milano, alla vigilia delle cinque giornate, all’osteria del Porto di Mare in Santo Stefano. Il diario si compone di una specie di taccuino di 199 pagine numerate, delle quali 186 scritte con calligrafia grossolana, e dicitura scorrettissima.

Mi pare molto interessante perché i popolani non sono soliti scrivere di questi diarii, tanto più 80 anni fa. Perciò è da studiare per il suo valore psicologico e storico: forse si trova nel Museo del Risorgimento a Milano: vedere nella «Lettura» se sono dati altri estremi bibliografici.

Q2 §114 Storia politica e storia militare. Nel«Marzocco» del 10 marzo 1929 è riassunto un articolo di Ezio Levi nella «Glossa perenne» sugli Almògavari, interessante per due rispetti. Da un lato gli Almògavari (truppe leggere catalane, addestrate nelle aspre lotte della «reconquista» a combattere contro gli arabi col modo stesso degli arabi, cioè in ordine sparso, senza una disciplina di guerra, ma con impeti, agguati, avventure individuali) segnano l’introduzione in Europa di una nuova tattica, che può essere paragonata a quella degli arditi, sebbene in condizioni diverse. Dall’altro lato essi, secondo alcuni eruditi, segnano l’inizio delle compagnie di ventura.

Un corpo di Almògavari fu mandato in Sicilia dagli Aragonesi per le guerre del Vespro: finisce la guerra, ma parte degli Almògavari si reca in Oriente al servizio del basileus dell’Impero bizantino Andronico. L’altra parte fu arruolata da Roberto d’Angiò per la guerra contro i ghibellini toscani. Poiché gli Almògavari avevano mantelli neri, mentre i fiorentini, in processione o in «cavallata» vestivano il camice bianco crociato e gigliato, da ciò sarebbe nata, secondo Gino Masi, la denominazione di Bianchi e Neri. Certo è che, quando gli Angioini lasciarono Firenze, molti Almògavari rimasero al soldo del Comune, rinnovando d’anno in anno la loro «condotta».

La «compagnia di ventura» nacque così come un mezzo per determinare uno squilibrio del rapporto delle forze politiche a favore della parte più ricca della borghesia, a danno dei ghibellini e del popolo minuto.

Q2 §115 Sul Risorgimento e il Mezzogiorno. I libri di Marc Monnier, Notizie storiche sul brigantaggio nelle province napoletane, da Fra diavolo al 1862, e La Camorra, mysteres de Naples.


Q2 §116 La funzione cosmopolita degli intellettuali italiani . Da un articolo di Nello Tarchiani nel «Marzocco» del 3 aprile 1927: Un dimenticato interprete di Michelangelo (Emilio Ollivier): «Per lui (Michelangelo) non esisteva che l’arte. Papi, principi, repubbliche erano la stessa cosa, purché gli dessero modo di operare; pur di fare, si sarebbe dato al Gran Turco, come una volta minacciò; ed in ciò gli si avvicinava il Cellini». E non solo il Cellini: e Leonardo? Ma perché ciò avvenne? E perché tali caratteri esistettero quasi solo in Italia? Questo è il problema. Vedere nella vita di questi artisti come risalti la loro anazionalità. E nel Machiavelli il nazionalismo era poi così forte da superare l’«amore dell’arte per l’arte»? Una ricerca di questo genere sarebbe molto interessante: il problema dello Stato italiano lo occupava più come «elemento nazionale» o come problema politico interessante in sé e per sé, specialmente data la sua difficoltà e la grande storia passata dell’Italia?

Q2 §117 Funzione cosmopolita degli intellettuali italiani. «Nel 1563, durante la guerra civile contro gli Ugonotti, all’assedio di Orléans, intrapreso dal Duca di Guisa, l’ingegnere militare Bartolomeo Campi di Pesaro, il quale aveva nell’esercito attaccante la carica che ora si direbbe di comandante del Genio, fece fare una grande quantità di sacchetti che, riempiti di terra, furono portati sulle spalle dei soldati nella posizione, ed, in un istante, fabbricati con quelli i ripari, ivi, in attesa del momento di avanzare, si fermarono gli assalitori al coperto dalle offese della piazza». (Enrico Rocchi, Un notevole aspetto delle campagne di Cesare nelle Gallie, «Nuova Antologia», 1° gennaio 1929).

Q2 §118 Sull’Anschluss. Tener presente: 1) la posizione della socialdemocrazia austriaca come è stata espressa da Otto Bauer: favorevoli all’Anschluss ma attendere, per realizzarlo, quando la socialdemocrazia tedesca sia padrona dello Stato tedesco, cioè in definitiva Anschluss socialdemocratico; 2) posizione della Francia: non coincide con quella dell’Italia: la Francia è contro l’unione dell’Austria alla Germania ma spinge l’Austria ad entrare in una Confederazione danubiana: l’Italia è contro l’Anschluss e contro la Confederazione. Se si ponesse il problema come una scelta tra le due soluzioni probabilmente l’Italia preferirebbe l’Anschluss alla Confederazione.

Q2 §119 Il tentativo di riforma religiosa francescana. Quanto rapidamente sia decaduto lo spirito di san Francesco appare dalla Cronaca di fra Salimbene da Parma. Cfr Nuova Antologia del 16 febbraio 1929: Vittorio Marvasi, Frate Salimbene da Parma e la sua Cronaca. La Cronaca è stata tradotta nel 1928 da F. Bernini ed edita da un Carabba di Lanciano. Vedere in quanto il tentativo «laico» di Federico II coincide col francescanesimo: certo dei rapporti ci sono stati e lo stesso Salimbene è ammiratore di Federico, anche scomunicato.

Q2 §120 Sull’America. Nella Nuova Antologia del 16 febbraio 1929 questi articoli: 1) Il trattato di Washington per la limitazione degli armamenti navali e le sue conseguenze, di Ulisse Guadagnini; 2) Il patto Kellogg, di Carlo Schanzer; 3) La dottrina di Monroe, di Antonio Borgoni.

Q2 §121 Cadorna. Spectator (M. Missiroli), Luigi Cadorna, Nuova Antologia del 1° marzo 1929. Osservazioni brillanti, ma superficiali, sulla tradizione politico‑militare della famiglia Cadorna e sulle condizioni di crisi dell’esercito italiano nel periodo in cui Luigi iniziò e compì la sua carriera. Importanza del generale napoletano Pianell nell’infondere uno spirito nuovo nel nuovo esercito nazionale, contro la tradizione burocraticamente francese dello Stato maggiore piemontese, composto di elementi mediocri: ma Pianell era vecchio e la sua eredità è stata più di critica che di costruzione. Importanza della guerra del 70 nel mutare le idee sull’arte militare, fossilizzate sulla base della tradizione francese. Cadorna collabora con Pianell. Si «fossilizza» sull’aspetto tecnico, di organizzazione della guerra, e trascura l’aspetto storico‑sociale.

(Mi pare che questa sia un’accusa esagerata: la colpa non è di Cadorna, ma dei governi che devono essi educare politicamente i militari). Il modello napoleonico non può essere richiamato: Napoleone rappresentava la società civile e il militarismo della Francia, congiungeva in sé le due funzioni di capo del governo e di capo dell’esercito. La classe dominante italiana non ha saputo preparare dei capi militari, ecco tutto. Perché si dovrebbe domandare a Cadorna una grande capacità politica, se non si domanda ai capi politici una corrispondente capacità militare? Certo il capo militare deve avere, per la sua stessa funzione, una capacità politica, ma l’atteggiamento politico verso le masse militari e la politica militare devono essere fissati dal governo sotto la sua responsabilità. Ecco una serie di quistioni molto interessanti da studiare a proposito della guerra fino a Caporetto: c’era identità di vedute tra Governo e Cadorna sulla politica militare, sui fini strategici e sui mezzi generali per raggiungerli e sull’amministrazione politica delle masse militari? Sul primo punto c’era disaccordo tra Cadorna e Sonnino, e Cadorna era miglior politico di Sonnino: Cadorna voleva fare una politica delle nazionalità in Austria, voleva cioè cercare di disgregare l’esercito austriaco, Sonnino si oppose; egli non voleva la distruzione dell’Austria. Sul secondo punto non si hanno elementi: è molto probabile che il governo abbia trascurato di occuparsene, pensando che rientrasse nei poteri discrezionali del capo dell’esercito. Non così avvenne in Francia, dove gli stessi deputati si recavano al fronte e controllavano il trattamento fatto ai soldati: in Italia ciò appariva un’enormità, ecc., e avrà magari dato luogo a qualche inconveniente, ma gli inconvenienti non furono certo della importanza di Caporetto).

«Le deficienze naturali di senso storico e di intuito dei sentimenti delle masse si resero più sensibili per una concezione della vita militare che aveva assorbito alla scuola del Pianell e che s’era intrecciata ad una fede religiosa tendente al misticismo». (Sarebbe più esatto parlare di bigotteria e precisare che sull’influsso del sentimento religioso Cadorna fondava la sua politica verso le masse militari: l’unico coefficente morale del regolamento era infatti affidato ai cappellani militari). Avversione di Cadorna per la vita politica parlamentare, che è incomprensione (ma non lui solo responsabile, bensì anche e specialmente il governo). Non ha partecipato alle guerre d’Africa. Diventa capo dello Stato Maggiore il 27 luglio 1914. Ignoto al gran pubblico, «con un alone di rispetto senza effusione nel ceto dei militari». (L’accenno alla Memoria di Cadorna pubblicata nelle Altre pagine sulla grande guerra è ingenuo e gesuitesco).

Il piano strategico «contemplava due possibilità egualmente ragionevoli: offensiva su la fronte Giulia e difensiva sul Trentino, o viceversa? Egli si attenne alla prima soluzione». (Perché ugualmente ragionevoli? Non era la stessa cosa: l’offensiva vittoriosa nel Trentino portava la guerra in piena tedescheria, cioè avrebbe galvanizzato la resistenza germanica e determinato «subito» lo scontro tra Italiani e Tedeschi di Guglielmo; l’offensiva vittoriosa sulla fronte giulia avrebbe invece portato la guerra nei paesi slavi e, appoggiata a una politica delle nazionalità avrebbe permesso di disgregare l’esercito austriaco. Ma il governo era contrario alla politica delle nazionalità e non voleva urtare la Germania, alla quale non aveva dichiarato la guerra: così la scelta di Cadorna – scelta relativa, come si vede, per l’equivoca posizione verso la Germania – mentre poteva essere politicamente ottima, divenne pessima; le truppe slave videro nella guerra una guerra nazionale di difesa delle loro terre da un invasore straniero e l’esercito austriaco si rinsaldò).

Cadorna era un burocratico della strategia; quando aveva fatto le sue ipotesi «logiche», dava torto alla realtà e si rifiutava di prenderla in considerazione.

Caporetto: dalle Memorie di Cadorna appare che egli era da qualche tempo informato, prima di Caporetto, che il morale delle truppe era infiacchito. (E in questo punto bisogna collocare una sua particolare attività «politica», molto pericolosa: egli non cerca di rendersi conto se occorre mutare qualcosa nel governo politico dell’esercito, se cioè l’infiacchimento morale delle truppe non sia dovuto al comando militare egli non sa esercitare l’autocritica; è persuaso che il fatto dipende dal governo civile, dal modo con cui è governato il paese, e domanda misure reazionarie, domanda repressioni, ecc. Nel paese trapela qualcosa di questa sua attività «politica» e gli articoli della «Stampa» sono l’espressione di una crisi e del paese e dell’esercito. La «Stampa» oggettivamente ha ragione: la situazione è molto simile a quella che ha preceduto la «fatal Novara». Anche in questo caso la responsabilità è del governo, che doveva allora sostituire Cadorna e occuparsi «politicamente» dell’esercito).

Il «mistero» militare di Caporetto. Il Comando supremo era stato avvertito dell’offensiva fino al giorno e l’ora, alla zona, alle forze austro‑tedesche che vi avrebbero partecipato. (Vedere il libro di Aldo Valori sulla guerra italiana). Perché invece ci fu «sorpresa»? L’articolista se la cava con dei luoghi comuni: Cadorna capo militare di secondo grado; critica dei militari italiani che erano appartati dal paese e dalla sua vita reale (il contrasto esercito piemontese ‑ garibaldini continua nel contrasto tra esercito e paese: cioè continua a operare la negatività nazionale del Risorgimento).

Molti luoghi comuni: è poi vero che prima della guerra in Italia l’esercito fosse trascurato? Bisognerebbe dimostrare che la percentuale italiana di spese militari sul bilancio totale sia stata più bassa che negli altri paesi: mi pare invece in Italia fosse più alta di molti paesi. (Ostinato più che volitivo: energia del testardo).

Q2 §122 Giuseppe Paratore, La economia, la finanza, il denaro d’Italia alla fine del 1928, Nuova Antologia, 1° marzo 1929.

Articolo interessante ma troppo rapido e troppo conformista. Da tener presente per ricostruire la situazione del 26 fino alle leggi eccezionali. Il Paratore fa una lista delle principali contraddizioni del dopo guerra: 1) le divisioni territoriali hanno moltiplicato le barriere doganali; 2) ad una complessiva riduzione di capacità di consumo ha risposto dappertutto un aumento di impianti industriali; 3) ad una tendenziale depressione economica, un accentuato spirito di nazionalismo economico (ogni nazione vuole produrre tutto e vuole vendere senza comprare); 4) ad un impoverimento complessivo, una tendenza all’aumento reale delle spese statali; 5) ad una maggiore disoccupazione, una minore emigrazione (nell’anteguerra lasciavano annualmente l’Europa circa 1 300 000 lavoratori, oggi emigrano solo 600‑700 mila uomini); 6) la ricchezza distrutta dalla guerra in parte è stata capitalizzata e dà luogo ad interessi che per molto tempo sono stati pagati con altro debito; 7) un indebitamento verso gli Stati Uniti d’America (per debiti politici e commerciali) che se dovesse dar luogo a reali trasferimenti, metterebbe in pericolo qualunque stabilità monetaria.

Per l’Italia il Paratore nota questi elementi della sua situazione post‑bellica: 1) considerevole diminuzione del suo capitale umano; 2) debito di circa 100 miliardi di lire; 3) volume di debito fluttuante preoccupante; 4) bilancio statale dissestato; 5) ordinamento monetario sconvolto, espresso da una profonda riduzione e da una pericolosa instabilità del valore interno ed esterno della unità di denaro; 6) bilancia commerciale singolarmente passiva, aggravata da un completo disorientamento dei suoi rapporti commerciali con l’estero; 7) molti ordinamenti finanziari riguardanti la pubblica e privata economia logorati.

Q2 §123 La riforma fondiaria cecoslovacca, del padre Veriano Ovecka, nella «Civiltà Cattolica» del 16 febbraio e 16 marzo 1929, pubblicata in opuscolo separato poco dopo. È uno studio molto accurato e ben fatto dal punto di vita degli interessi della Chiesa. La riforma è accettata, e giustificata come dovuta a forza maggiore. (In una ricerca generale sulla quistione agraria questo opuscolo sintetico è da rivedere per fare dei confronti con gli altri tipi di riforma agraria; rumena, per esempio, e trarne qualche indicazione generale metodica. Quistioni di programma).

Q2 §124 Giorgio Mortara, Natalità e urbanesimo in Italia, «Nuova Antologia», 16 giugno ‑ 1° luglio 1929.

Tratta le quistioni più strettamente statistiche, osservando una grande cautela nel dare giudizi, specialmente di portata più immediata. Il numero annuo dei nati vivi in Italia è andato aumentando, attraverso oscillazioni, nel primo quarto di secolo successivo all’unità nazionale (massimo di 1 152 906 nel 1887), ha declinato gradualmente fino a un minimo di 1 042 090 nel 1903, è risalito ad un massimo secondario di 1 144 410 nel 1910 e si è mantenuto negli anni prima della guerra a 1 100 000. Nel 1920 (molte nozze dopo l’armistizio) si ha il massimo assoluto di 1 158 041, che scende rapidamente a 1 054 082 nel 1927, e circa 1 040 000 nel 1928 (territorio antebellico; nei nuovi confini 1 093 054 nel 27, e 1 077 000 nel 28), cifra la più bassa negli ultimi 48 anni. In altri paesi la diminuzione assai maggiore. Diminuzione correlativa nelle morti: da un massimo di 869 992 nel 1880 ad un minimo di 635 788 nel 1912, diminuzione che, dopo il periodo bellico, con 1 240 425 morti nel 18, è ricominciata: nel 1927 solo 611 362 morti, nel 1928 614 mila (vecchi confini; nei nuovi confini, 635 996 morti nel 27 e 639 000 nel 28). Così l’eccedenza dei nati sui morti nel 1928 è stata di 426 000 circa (nuovi confini 438 000) cioè più favorevole che nel 1887, in cui solo 323 914, per l’alta percentuale di morti. Il massimo di eccedenza, 448 mila circa, si è avuto nel quinquennio 1910‑14. (Si può dire, approssimativamente, che in un certo periodo storico, il grado di benessere di un popolo non può desumersi dal numero alto delle nascite, ma piuttosto dalla percentuale dei morti e dall’eccedenza dei nati sui morti: ma anche in questa fase storica incidono delle variabili che devono essere analizzate, infatti, più che di benessere popolare assoluto può parlarsi di migliore organizzazione statale e sociale per l’igiene, ciò che impedisce a una epidemia, per esempio, di diffondersi tra una popolazione a basso livello, decimandola, ma non eleva per nulla questo livello stesso, se non si può dire che lo mantenga addirittura, evitando la sparizione dei più deboli e improduttivi che vivono sul sacrificio degli altri).

Le cifre assolute delle nascite e delle morti danno solo l’incremento assoluto della popolazione. L’intensità dell’incremento è data dal rapporto di questo incremento col numero degli abitanti. Da 39,3 per 1000 abitanti del 1876 la frequenza delle nascite scende a 26 nel 1928, con una diminuzione del 33%; la frequenza delle morti da 34,20/00 nel 1867 scende a 15,6 nel 28, con una diminuzione del 54%. La mortalità comincia a discendere nettamente col quinquennio 1876‑80; la natalità inizia la discesa nel quinquennio 91‑95.

Per gli altri paesi d’Europa, su 1000 abitanti: Gran Bretagna 17 nati ‑ 12,5 morti, Francia 18,2‑16,6, Germania 18,4‑12, Italia 26,9‑15,7, Spagna 28,6‑18,9, Polonia 31,6-17,4, Urss (europea) 44,9‑24,4, Giappone 36,2‑19,2. (I dati si riferiscono, per l’Urss, al 1925, per il Giappone al 1926, per gli altri paesi al 1927).

Per la diminuzione della mortalità il Mortara fissa tre cause principali: progresso dell’igiene, progresso della medicina, progresso del benessere, che riassumono in forma schematica un gran numero di fattori di minore mortalità (un fattore è anche la minore natalità, in quanto le età infantili sono soggette ad alta mortalità). Il fattore preponderante della bassa natalità è la decrescente fecondità di matrimoni, dovuta a volontaria limitazione, inizialmente per previdenza, poi per egoismo. Se il movimento si svolgesse uniformemente in tutto il mondo, non altererebbe le condizioni relative delle varie nazioni, pur avendo effetti gravi per lo spirito d’iniziativa, e potendo essere causa d’inerzia e di regresso morale ed economico. Ma il movimento non è uniforme: vi sono oggi popoli che si accrescono rapidamente mentre altri lentamente, vi saranno domani popoli che cresceranno celermente mentre altri diminuiranno.

Già oggi in Francia l’equilibrio tra nascite e morti è faticosamente mantenuto coll’immigrazione, che determina altri gravi problemi morali e politici: in Francia la situazione è aggravata dalla relativamente alta percentuale di mortalità in confronto dell’Inghilterra e della Germania.

Calcolo regionale per il 1926: Piemonte (proporzione per 1000 abitanti, nati e morti) 17,7‑15,4, Liguria 17,1-13,8, Lombardia 25,1‑17,9, Venezia Tridentina 25,0‑17,5, Venezia Euganea 29,3‑15,3, Venezia Giulia 22,8‑16,1, Emilia 25,0‑15,3, Toscana 22,2‑14,3, Marche 28,0‑15,7, Urribria 28,4‑16,5, Lazio 28,1‑16,3, Abruzzi 32,1‑18,9, Campania 32,0‑18,3, Puglie 34,0‑20,8, Basilicata 36,6-23,1, Calabria 32,5‑17,3, Sicilia 26,7‑15,7, Sardegna 31,7-18,9. Prevalgono i livelli medi, ma con tendenza piuttosto verso il basso che verso l’alto.

Per il Mortara la causa della denatalità è da ricercarsi nella limitazione volontaria. Altri elementi possono contribuirvi saltuariamente, ma sono trascurabili (emigrazione degli uomini). C’è stato un «contagio» della Francia nel Piemonte e in Liguria, dove il fenomeno è più grave (emigraz!one temporanea ha servito di veicolo) e di più lontana origine, ma non si può parlare di contagio «francese» per la Sicilia, che nel Mezzogiorno è un focolaio di denatalità. Non mancano indizi di limitazione volontaria in tutto il Mezzogiorno. Campagna e città: la città ha meno nascite che la campagna. Torino, Genova, Milano, Bologna, Firenze hanno (nel 1926) una media di natalità inferiore a Parigi.

Q2 §125 Lodovico Luciolli, La politica doganale degli Stati Uniti d’America, Nuova Antologia del 16 agosto 1929.

Articolo molto interessante e utile da consultare perché fa un riassunto della storia tariffaria negli Stati Uniti e della funzione particolare che le tariffe doganali hanno sempre avuto nella politica degli Stati Uniti. Sarà interessante una rassegna storica delle varie forme che ha assunto e sta assumendo la politica doganale dei vari paesi, ma specialmente dei più importanti economicamente e politicamente, ciò che in fondo significa dei vari tentativi di organizzare il mercato mondiale e di inserirsi in esso nel modo più favorevole dal punto di vista dell’economia nazionale, o delle industrie essenziali dell’attività economica nazionale.

Una nuova tendenza del nazionalismo economico contemporaneo da seguire è questa: alcuni Stati cercano di ottenere che le loro importazioni da un determinato paese siano «controllate» in blocco con un corrispettivo di «esportazione» ugualmente controllato. Che una tale misura giovi alle nazioni la cui bilancia commerciale (visibile) sia in deficit, è manifesto. Ma come spiegare che un tale principio si incominci ad affermare da parte della Francia, che esporta merci più che non ne importi? Si tratta inizialmente di una politica commerciale rivolta a boicottare le importazioni da un determinato paese, ma da questo inizio può svilupparsi una politica generale da inquadrare in una cornice più ampia e di carattere positivo che può (svilupparsi) in Europa in conseguenza della politica tariffaria americana e per cercare di stabilizzare certe economie nazionali. Cioè: ogni nazione importante può tendere a dare un sostrato economico organizzato alla propria egemonia politica su le nazioni che le sono subordinate. Gli accordi politici regionali potrebbero diventare accordi economici regionali, in cui l’importazione e l’esportazione «concordata» non avverrebbe più tra due soli Stati, ma tra un gruppo di Stati, eliminando molti inconvenienti non piccoli evidentissimi. In questa tendenza mi pare si possa far rientrare la politica di libero scambio interimperiale e di protezionismo verso il non‑Impero del gruppo nuovamente formatosi in Inghilterra intorno a lord Beaverbrook (o nome simile), così come l’intesa agraria di Sinaia poi ampliata a Varsavia.

Questa tendenza politica potrebbe essere la forma moderna di Zollverein che ha portato all’Impero Germanico federale, o dei tentativi di lega doganale fra gli Stati italiani prima del 1848, e più innanzi del mercantilismo settecentesco: e potrebbe diventare la tappa intermedia della Paneuropa di Briand, in quanto essa corrisponde a un’esigenza delle economie nazionali di uscire dai quadri nazionali senza perdere il carattere nazionale.

Il mercato mondiale, secondo questa tendenza, verrebbe ad essere costituito di una serie di mercati non più nazionali ma internazionali (interstatali) che avrebbero organizzato nel loro interno una certa stabilità delle attività economiche essenziali, e che potrebbero entrare in rapporto tra loro sulla base dello stesso sistema. Questo sistema terrebbe più conto della politica che dell’economia nel senso che nel campo economico darebbe più importanza all’industria finita che all’industria pesante. Ciò nel primo stadio dell’organizzazione. Infatti: i tentativi di cartelli internazionali basati sulle materie prime (ferro, carbone, potassa, ecc.) hanno messo di fronte Stati egemonici, come la Francia e la Germania, delle quali né l’una né l’altra può cedere nulla della sua posizione e della sua funzione mondiale. Troppo difficile e troppi ostacoli. Più semplice invece un accordo della Francia e dei suoi Stati vassalli per un mercato economico organizzato sul tipo dell’Impero Inglese, che potrebbe far crollare la posizione della Germania e costringerla a entrare nel sistema, ma sotto l’egemonia francese.

Sono tutte ipotesi molto vaghe ancora, ma da tener presenti per studiare gli sviluppi delle tendenze su accennate.

Q2 §126 Andrea Torre, Il principe di Bülow e la politica mondiale germanica, «Nuova Antologia», 1° dicembre 1929 (scritto in occasione della morte del Bülow e in base al libro dello stesso Bülow, Germania imperiale: è interessante e sobrio).

Q2 §127 Alfonso de Pietri‑Tonelli, Wall Street, «Nuova Antologia» del 1° dicembre 1929 (commenta in termini molto generali la crisi di borsa americana della fine del 29: bisognerà rivederlo per studiare l’organizzazione finanziaria americana).

Q2 §128 Azione Cattolica. Sindacalismo cattolico. Cfr nella «Civiltà Cattolica» del 6 luglio 1929 l’articolo La dottrina sociale cristiana e l’organizzazione internazionale del lavoro (del padre Brucculeri). Vi si parla della sezione riguardante il pensiero sociale della Chiesa, del rapporto fatto da Albert Thomas alla XII sessione della Conferenza Internazionale del Lavoro e pubblicato a Ginevra nel 1929. Il padre Brucculeri è estremamente soddisfatto del Thomas e ne riassume i passi più importanti, riesponendo così il programma sociale cattolico.

Q2 §129 Industrie italiane. Cfr l’articolo I «soffioni» della Maremma Toscana nella «Civiltà Cattolica» del 20 luglio 1929. Come articolo di divulgazione scientifica è fatto molto bene.

Q2 §130 Storie regionali. La Liguria e Genova. Cfr Carlo Mioli, La Consulta dei Mercanti genovesi. Rassegna storica della Camera di Commercio e Industria. 1805‑1927, Genova, 1928. È recensito e riassunto nella «Civiltà Cattolica» del 17 agosto 1929. Deve essere molto interessante e irnportante per la storia economica di Genova nel periodo del Risorgimento e poi nel periodo dell’unità fino alla sostituzione dei Consigli d’Economia alle Camere di Commercio. Il Mioli era il segretario dell’ultima Camera di Commercio. Il libro ha una prefazione dell’avv. Pessagno, addetto all’archivio storico di Genova.

Q2 §131 Azione Cattolica. Il conflitto di Lilla. Nella «Civiltà Cattolica» del 7 settembre 1929 è pubblicato il testo integrale del giudizio pronunziato dalla Sacra Congregazione del Concilio sul conflitto tra industriali e operai cattolici della regione Roubaix‑Tourcoing. Il lodo è contenuto in una lettera in data 5 giugno 1929 del cardinale Sbarretti, Prefetto della Congregazione del Concilio, a mons. Achille Liénart, vescovo di Lilla.

Il documento è importante, perché in parte integra il Codice Sociale e in parte ne amplia il quadro, come per esempio là dove riconosce agli operai e ai sindacati cattolici il diritto di formare un fronte unico anche con gli operai e i sindacati socialisti nelle quistioni economiche. Bisogna tener conto che se il Codice Sociale è un testo cattolico, è però privato o soltanto ufficioso, e in tutto o in parte potrebbe essere sconfessato dal Vaticano. Questo documento invece è ufficiale.

Questo documento è certamente legato al lavorìo del Vaticano in Francia per creare una democrazia politica cattolica e l’ammissione del «fronte unico», anche se passibile di interpretazioni cavillose e restrittive, è una «sfida» all’Action française e un segno di détente coi radicali socialisti e la C.G.T.

Nello stesso fascicolo della «Civiltà Cattolica» è un diffuso e interessante articolo di commento al lodo vaticano. Questo lodo è costituito di due parti organiche: nella prima, composta di 7 brevi tesi accompagnate ognuna di ampie citazioni tolte da documenti pontifici, specialmente di Leone XIII, si dà un riassunto chiaro della dottrina sindacale cattolica; nella seconda si tratta del conflitto specifico in esame, cioè le tesi sono applicate e interpretate nei fatti reali.

Q2 §132 L’Action Française e il Vaticano. Cfr La crisi dell’«Action française» e gli scritti del suo «maestro», nella «Civiltà Cattolica» del 21 settembre 1929. (È un articolo del padre Rosa contro Maurras e la sua «filosofia»).

Q2 §133 Leggenda albanese delle «Zane» e le «Zane» sarde. Nell’articolo Antichi monasteri benedettini in Albania ‑ Nella tradizione e nelle leggende popolari del padre gesuita Fulvio Cordignano, pubblicato nella «Civiltà Cattolica» del 7 dicembre 1929 si legge: «Il «“vakùf” – ciò che è rovina di chiesa o bene che gli appartenga – nell’idea del popolo ha in se stesso una forza misteriosa, quasi magica. Guai a chi tocca quella pianta o introduce fra quelle rovine il gregge, le capre divoratrici di ogni fronda: sarà colto all’improvviso da un malanno; rimarrà storpio, paralitico, mentecatto, come se si fosse imbattuto, in mezzo agli ardori meridiani o durante la notte oscura e piena di perigli, in qualche “Ora” o “Zana”, là dove queste fate invisibili e in perfetto silenzio stanno sedute a una tavola rotonda sull’orlo della via o in mezzo al sentiero». C’è ancora qualche altro accenno nel corso dell’articolo.

Q2 §134 Cattolici, neomaltusianismo, eugenetica. A quanto pare neanche fra i cattolici le idee sono ormai più concordi sul problema del neomaltusianismo e dell’eugenetica. Dalla «Civiltà Cattolica» del 21 dicembre 1929 (Il pensiero sociale cristiano. La decima sessione dell’“Unione di Malines”) risulta: alla fine del settembre 1929 è stata tenuta l’assemblea annuale dell’«Unione Internazionale di studi sociali» che ha sede a Malines, il cui lavoro si concentrò specialmente su questi tre soggetti: lo Stato e le famiglie numerose; il problema della popolazione; il lavoro forzato. Sul problema demografico si verificarono forti differenziazioni: l’avv. Cretinon, «pur seguendo una politica della popolazione che faccia credito alla Provvidenza, fa rilevare che non bisogna rappresentare l’eugenismo come semplicemente materialistico, giacché ha pure intenti intellettuali, estetici e morali». Le conclusioni adottate furono concertate non senza difficoltà dal padre Desbuquois e dal prof. Aznar: i due compilatori erano profondamente divisi. «Mentre il primo propugnava il progresso demografico, l’altro era piuttosto inclinato a consigliar la continenza per timore che le famiglie cattoliche non si condannassero alla decadenza economica a causa della troppa prole».

Q2 §135 Pancristianesimo e propaganda del protestantesimo nell’America Meridionale. Cfr l’articolo

Il protestantesimo negli Stati Uniti e nell’America latina, nella «Civiltà Cattolica» del 1° marzo ‑ 15 marzo ‑ 5 aprile 1930. Studio molto interessante sulle tendenze espansionistiche dei protestanti nord‑americani, sui metodi di organizzazione di questa espansione e sulla reazione cattolica.

È interessante notare che i cattolici trovano nei protestanti americani i soli concorrenti, e spesso vittoriosi, nel campo della propaganda mondiale e ciò nonostante che negli Stati Uniti la religiosità sia molto poca (la maggioranza dei censiti professa di non aver religione): le Chiese protestanti europee non hanno espansività o minima. Altro fatto notevole è questo: dopo che le chiese protestanti sono andate sminuzzandosi, si assiste ora a tentativi di unificazione nel movimento pancristiano. (Non dimenticare però l’Esercito della Salute, di origine e organizzazione inglese).

Q2 §136 Azione Cattolica. Cfr l’articolo La durata del lavoro nella «Civiltà Cattolica» del 15 marzo 1930 (del padre Brucculeri). Difende il principio e la legislazione internazionale sulle 8 ore contro Lello Cangemi e il libro di costui, Il problema della durata del lavoro, Vallecchi, Firenze, pp. 526. L’articolo è interessante; il libro del Cangemi è stroncato molto bene. È interessante che un gesuita sia più «progressista» del Cangemi che è abbastanza noto nella politica economica italiana attuale come discepolo del De Stefani e della sua particolare tendenza nel campo della politica economica.

Q2 §137 Città e campagna. Giuseppe De Michelis, Premesse e contributo allo studio dell’esodo rurale, Nuova Antologia, 16 gennaio 1930. Articolo interessante da molti punti di vista. Il De Michelis pone il problema abbastanza realisticamente. Intanto cos’è l’esodo rurale? Se ne parla da 200 anni e la quistione non è mai stata posta nei termini economici precisi.

(Anche il De Michelis dimentica due elementi fondamentali della quistione: 1) i lamenti per l’esodo rurale hanno una delle loro ragioni negli interessi dei proprietari che vedono elevarsi i salari per la concorrenza delle industrie urbane e per la vita più «legale», meno esposta agli arbitrii ed abusi che sono la trama quotidiana della vita rurale; 2) per l’Italia non accenna all’emigrazione dei contadini che è la forma internazionale dell’esodo rurale verso paesi industriali ed è una critica reale del regime agrario italiano, in quanto il contadino si reca a fare il contadino altrove, migliorando il proprio tenor di vita).

È giusta l’osservazione del De Michelis che l’agricoltura non ha sofferto per l’esodo: 1) perché la popolazione agraria su scala internazionale non è diminuita; 2) perché la produzione non è diminuita, anzi c’è sopraproduzione, corne dimostra la crisi dei prezzi di prodotti agricoli. (Nella passata crisi, quando cioè esse corrispondevano a fasi di prosperità industriale, ciò era vero; oggi, però, che la crisi agraria accompagna la crisi industriale, non si può parlare di soraproduzione, ma di sottoconsumo). Nell’articolo sono citate statistiche che dimostrano la progressiva estensione della superficie coltivata a cereali e più ancora di quella coltivata per prodotti per le industrie (canapa, cotone, ecc.) e all’aumento della produzione. Il problema è osservato da un punto di vista internazionale (per un gruppo di 21 paesi) cioè di divisione internazionale del lavoro. (Dal punto di vista delle singole nazioni il problema può cambiare e in ciò consiste la crisi odierna: essa è una resistenza reazionaria ai nuovi rapporti mondiali, all’intensificarsi dell’importanza del mercato mondiale).

L’articolo cita qualche fonte bibliografica: occorrerà rivederlo. Finisce con un colossale errore: secondo il De Michelis: «La formazione delle città nei tempi remoti non fu che il lento e progressivo distacco del mestiere dall’attività agricola, con cui era prima confuso, per assurgere ad attività distinta. Il progresso dei venturi decenni consisterà, grazie soprattutto all’incremento della forza elettrica, nel riportare il mestiere alla campagna per ricongiungerlo, con forme mutate e con procedimenti perfezionati, al lavoro propriamente agricolo. In questa opera redentrice dell’artigianato rurale l’Italia si appresta ad essere anche una volta antesignana e maestra».

Il De Michelis fa molte confusioni: 1) il ricongiungimento della città alla campagna non può avvenire sulla base dell’artigianato, ma solo sulla base della grande industria razionalizzata e standardizzata. L’utopia «artigianesca» si è basata sull’industria tessile: si pensava che con la verificatasi possibilità di distribuire l’energia elettrica a distanza, sarebbe diventato possibile ridare alla famiglia contadina il telaio meccanico moderno mosso dall’elettricità; ma già oggi un solo operaio fa azionare (pare) fino a 24 telai, ciò che pone nuovi problemi di concorrenza e di capitale ingenti, oltre che di organizzazione generale irrisolvibili dalla famiglia contadina; 2) l’utilizzazione industriale del tempo che il contadino deve rimanere disoccupato (questo è il problema fondamentale dell’agricoltura moderna, che pone il contadino in condizione di inferiorità economica di fronte alla città che «può» lavorare tutto l’anno) può avvenire solo in un’economia secondo un piano, molto sviluppata, che sia in grado di essere indipendente dalle fluttuazioni temporali di vendita che già si verificano e portano alle morte stagioni anche nell’industria; 3) la grande concentrazione dell’industria e la produzione a serie di pezzi intercambiabili permette di trasportare reparti di fabbrica in campagna, decongestionando la grande città e rendendo più igienica la vita industriale. Non l’artigiano tornerà in campagna, ma viceversa l’operaio più moderno e standardizzato.

Q2 §138 America. Nel n. del 16 febbraio 1930 della «Nuova Antologia» sono pubblicati due articoli: Punti di vista sull’America: Spirito e tradizione americana del professor J. P. Rice (il Rice nel 1930 fu designato dall’Italy-America Society di New York a tenere l’annuale ciclo di conferenze stabilito dalla Fondazione Westinghouse per intensificare i rapporti tra l’America e l’Italia); l’articolo vale poco; e La rivoluzione industriale degli Stati Uniti, dell’ing. Pietro Lanino, interessante da questo punto di vista: come un accreditato pubblicista e teorico dell’industria italiana non ha capito nulla del sistema industriale capitalistico americano. (Il Lanino nel 1930 ha scritto anche una serie di articoli sull’industria americana nella «Rivista di politica economica» delle società per azioni). Fin dal primo paragrafo il Lanino afferma che in America è avvenuto «un capovolgimento completo di quelli che sino allora erano stati i criteri economici fondamentali della produzione industriale. La legge della domanda e dell’offerta rinunziata nelle paghe. Il costo di produzione diminuito pure aumentando queste». Non è stato rinunziato nulla: il Lanino non ha compreso che la nuova tecnica basata sulla razionalizzazione e il taylorismo ha creato una nuova e originale qualifica psico‑tecnica e che gli operai di tale qualifica non solo sono pochi, ma sono ancora in divenire, per cui i «predisposti» sono contesi con gli alti salari; ciò conferma la legge dell’«offerta e della domanda» nelle paghe. Se fosse vera la affermazione del Lanino non si spiegherebbe l’alto grado di turnover nel personale addetto, cioè che molti operai rinunzino all’alto salario di certe aziende per salari minori di altre. Cioè non solo gli industriali rinuncerebbero alla legge della domanda e dell’offerta, ma anche gli operai, i quali talvolta rimangono disoccupati rinunziando agli alti salari. Indovinello che il Lanino si è ben guardato dal risolvere. Tutto l’articolo è basato su questa incomprensione iniziale. Che gli industriali americani, primo Ford, abbiano cercato di sostenere che si tratta di una nuova forma di rapporti, non fa maraviglia: essi cercarono di ottenere oltre all’effetto economico degli alti salari, anche degli effetti sociali di egemonia spirituale, e ciò è normale.

Q2 §139 Mario Gianturco, La terza sessione marittima della Conferenza Internazionale del Lavoro, Nuova Antologia, 16 marzo 1930. (Riassume i punti anche delle precedenti riunioni dei marittimi; interessante e utile).

Q2 §140 Giuseppe Frisella Vella, Temi e problemi sulla così detta questione meridionale, con introduzione e bibliografia, in 8°, pp. 56, Palermo, La Luce, Casa Editr. Sicula, L. 6,00.

Q2 §141 Passato e presente. Il consumo del sale. (Cfr Salvatore Majorana, Il monopolio del sale, in «Rivista di Politica Economica», gennaio 1931, p. 38). Nell’esercizio 1928‑29, subito dopo l’aumento del prezzo del sale, il consumo del sale è risultato inferiore di Kg. 1,103 in confronto dell’esercizio precedente, cioè si è ridotto a Kg. 7,133 a testa, mentre il contributo è di L. 4,80 superiore. È stata inoltre cessata la largizione gratuita di sale nei comuni di pellagrosi, con la spiegazione che la pellagra è quasi sparita e che altre attività generali dello Stato lottano contro la pellagra (in generale), (ma i pellagrosi effettivi attuali che sorte hanno avuto?)

Q2 §142 Gaspare Ambrosini, La situazione della Palestina e gli interessi dell’Italia, Nuova Antologia del 16 giugno 1930. (Indicazioni bibliografiche sulla quistione).

Q2 §143 Maria Pasolini Ponti, Intorno all’arte industriale, «Nuova Antologia», 1° luglio 1930.

Q2 §144 Passato e presente. Un articolo interessante per constatare un certo movimento di riabilitazione dei Borboni di Napoli è quello di Giuseppe Nuzzo, La politica estera della monarchia napoletana alla fine del secolo XVIII, nella «Nuova Antologia» del 16 luglio 1930. Articolo insulso storicamente, perché parla di velleità burlesche.

Q2 §145 Luigi Villari, L’agricoltura in Inghilterra, «Nuova Antologia», 1° settembre 1930. Interessante.

Q2 §146 Passato e presente. Emigrazione. Nel Congo Belga sono 1600 immigrati italiani: nel solo Katanga, la zona più ricca del Congo, ve ne sono 942. La maggior parte di questi immigrati italiani è al servizio di Compagnie private in qualità di ingegneri, ragionieri, capomastri, sorveglianti di lavoro. Dei 200 medici che esercitano la professione al Congo per conto dello Stato e di società, i due terzi sono italiani («Corriere della Sera», 15 ottobre 1931).

Q2 §147 Risorgimento italiano. Nella Nuova Antologia del 1° ottobre 1930, Francesco Moroncini, Lettere inedite di Carlo Poerio e di altri ad Antonio Ranieri (1860‑66). Interessante per il periodo storico e per la quistione politica del Mezzogiorno.


Q2 §148 Risorgimento italiano. Vedi nel «Corriere della Sera» del 16 ottobre 1931 l’articolo di Gioacchino Volpe, Quattro anni di governo nel Diario autografo del Re (sul libro di Francesco Salata, Carlo Alberto inedito). Il Volpe è anodino e prudente all’eccesso nei suoi giudizi e nella sua esposizione. Un capitoletto è intitolato «Contro le ingerenze straniere», ma quali sono queste ingerenze? Carlo Alberto è favorevolissimo all’intervento dell’Austria nelle Legazioni; è contro l’ingerenza (?) negli affari interni del Piemonte dell’ambasciatore francese e del ministro inglese che vorrebbero una conferenza a Torino per regolare le faccende dello Stato e della Chiesa: Carlo Alberto preferì l’intervento armato dell’Austria nelle Legazioni piuttosto che fare intervenire le proprie truppe come il Papa desiderava, perché non voleva che i soldati piemontesi si contagiassero di liberalismo o nei Romagnoli nascesse il desiderio di unirsi al Piemonte.

Q2 §149 Politica e comando militare. Confrontare nella «Nuova Antologia» del 16 ottobre e 1° novembre 1930 l’articolo di Saverio Nasalli Rocca La politica tedesca dell’impotenza nella guerra mondiale.

L’articolo, sulla base dell’esperienza tedesca (vincere le battaglie, perdere la guerra) raccoglie materiale per corroborare la tesi che, anche in guerra, è il comando politico che dà la vittoria, comando politico, che deve incorporarsi nel comando militare, creando un nuovo tipo di comando proprio al tempo di guerra. Il Nasalli Rocca si serve specialmente delle memorie e degli altri scritti di von Tirpitz. (Il titolo dell’articolo è anche il titolo di un libro di Tirpitz tradotto in italiano). Scrive il Nasalli Rocca: «... una delle più grandi difficoltà della guerra è rappresentata dalle relazioni fra il comando militare e il Governo: vecchio militare, non esito a riconoscere che le relazioni fra Governo e le Forze Armate corrispondono rispettivamente a quelle che corrono fra la strategia e la tattica. Al Governo la strategia della guerra, alle Forze Armate la tattica: ma come il tattico per raggiungere gli scopi fissatigli ha piena libertà di manovra nei larghi limiti fissatigli dalla strategia, così questo non ha facoltà di invadere il campo del tattico. L’assenteismo e l’invadenza sono i due grandi scogli del comando qualunque nome esso abbia: e il senso della misura è quello che fissa i limiti dell’invadenza».

La formula non mi pare molto esatta: esiste certamente una «strategia militare» che non spetta tecnicamente al governo, ma essa è compresa in una più ampia strategia politica che inquadra quella militare. La quistione può allargarsi: i conflitti tra militari e governanti non sono conflitti tra tecnici e politici, ma tra politici e politici, sono i conflitti tra «due direzioni politiche» che entrano in concorrenza all’inizio di ogni guerra. Le difficoltà del comando unico interalleato durante la guerra non erano di carattere tecnico, ma politico: conflitto di egemonie nazionali.

Q2 §150 Argomenti di cultura. Il problema: «Chi è il legislatore?» in un paese, accennato in altre , può ripresentarsi per la definizione «reale», non «scolastica», di altre quistioni. Per esempio: «Cosa è la polizia?» (a questa domanda si è accennato in altre , trattando della reale funzione dei partiti politici). Si sente spesso dire, come se si trattasse di una critica demolitrice della polizia, che il 90 % dei reati, oggi perseguiti (un gran numero non è perseguito perché o non se ne ha notizia o è impossibile ogni accertamento, ecc.) rimarrebbero impuniti se la polizia non avesse a sua disposizione i confidenti ecc. Ma in realtà, questa specie di critica è inetta. Cosa è la polizia? Certo essa non è solo quella tale organizzazione ufficiale, giuridicamente riconosciuta e abilitata alla funzione pubblica della pubblica sicurezza che di solito si intende. Questo organismo è il nucleo centrale e formalmente responsabile, della «polizia», che è una ben più vasta organizzazione, alla quale, direttamente o indirettamente, con legami più o meno precisi e determinati, permanenti o occasionali, ecc., partecipa una gran parte della popolazione di uno Stato. L’analisi di questi rapporti serve a comprendere cosa sia lo «Stato» ben più di molte dissertazioni filosofico‑giuridiche.

QUADERNO 3

Q3 §1 Gli intellettuali francesi. Nelle «Nouvelles Littéraires» del 12 ottobre 1929 in un articolo Deux époques littéraires et d’angoisse: 1815‑1830 et 1918‑1930, Pierre Mille cita un articolo di André Berge nella «Révue des deux mondes»: L’Esprit de la Littérature moderne, in cui si segnala l’inquietudine delle giovani generazioni letterarie francesi: disillusione, malessere e persino disperazione; non si sa più perché si vive, perché si è sulla terra. Secondo il Mille, questo stato d’animo rassomiglia a quello da cui nacque il romanticismo, con questa differenza che i romantici se ne liberavano con l’effusione letteraria, col lirismo, con le «parole» (ma è poi vero? al romanticismo si accompagnarono anche dei fatti: il 30, il 31, il 48; ci fu l’effusione letteraria, ma non solo questa). Oggi invece le giovani generazioni non credono più alla letteratura, al lirismo, all’effusione verbale, di cui hanno orrore: predomina la noia, il disgusto.

Per il Mille si tratta di questo: non è tanto la guerra che ha cambiato il mondo; si tratta di una rivoluzione sociale: si è formato un «supercapitalismo» che alleato tacitamente alla classe operaia e ai contadini, schiaccia la vecchia borghesia. Il Mille vuol dire che in Francia c’è stato un ulteriore sviluppo industriale e bancario e che la piccola e media borghesia che prima sembravano dominare, sono in crisi: quindi crisi degli intellettuali. La guerra e la rivoluzione russa hanno accelerato il movimento che già esisteva prima dell’agosto 14. Crisi economica delle classi medie che «n’arrivent même pas à concevoir que vingt‑cinq francs ne valent plus que cent sous» e «voudraient que ce soit comme avant»; gli operai che pensano: laggiù, all’est, c’è un paese dove il proletario è dittatore; classi che nel passato erano dirigenti, e ora non dirigono più, che sognano all’Italia fascista. Il Mille scrive che è proprio «opportuno» ciò che domanda Emmanuel Berl nella Mort de la Pensée bourgeoise quando vorrebbe che gli scrittori, borghesi per il 90%, abbiano delle simpatie per quelli che vogliono spossessarli!

Alcuni tratti del quadro mi sembrano esatti e interessanti. La vecchia Francia piccolo‑borghese attraversa una crisi molto profonda, che però è ancora più morale che immediatamente politica.

Q3 §2 Julien Benda. Un suo articolo nelle «Nouvelles Littéraires» del 2 novembre 1929: Comment un écrivain sert‑il l’universel? è un corollario del libro Il tradimento degli intellettuali. Accenna a un’opera recente, Esprit und Geist del Wechssler, in cui si cerca di dimostrare la nazionalità del pensiero e di spiegare che il Geist tedesco è ben diverso dall’Esprit francese; invita i tedeschi a non dimenticare questo particolarismo del loro cervello e tuttavia pensa di lavorare all’unione dei popoli in virtù di un pensiero di André Gide, secondo cui si serve meglio l’interesse generale quanto più si è particolari.

Il Benda ricorda il manifesto dei 54 scrittori francesi pubblicato nel «Figaro» del 19 luglio 1919 Manifeste du parti de l’Intelligence in cui si diceva: «N’est‑ce pas en se nationalisant qu’une littérature prend une signification plus universelle, un intérêt plus humainement général?». Per il Benda è giusto che l’universale si serve meglio quanto più si è particolari. Ma una cosa è essere particolari, altra cosa predicare il particolarismo. Qui è l’equivoco del nazionalismo, che in base a questo equivoco pretende spesso di essere il vero universalista, il vero pacifista. Nazionale, cioè, è diverso da nazionalista. Goethe era «nazionale» tedesco, Stendhal «nazionale» francese, ma né l’uno né l’altro nazionalista. Un’idea non è efficace se non è espressa in qualche modo, artisticamente, cioè particolarmente. Ma uno spirito è particolare in quanto nazionale?

La nazionalità è una particolarità primaria; ma il grande scrittore si particolarizza ancora tra i suoi connazionali e questa seconda «particolarità» non è il prolungamento della prima. Renan, in quanto Renan non è affatto una conseguenza necessaria dello spirito francese; egli è, per rapporto a questo spirito, un evento originale, arbitrario, imprevedibile (come dice Bergson). E tuttavia Renan resta francese, come l’uomo, pur essendo uomo, rimane un mammifero; ma il suo valore, come per l’uomo, è appunto nella sua differenza dal gruppo donde è nato.

Ciò appunto non vogliono i nazionalisti, per i quali il valore dei maestri consiste nella loro somiglianza con lo spirito del loro gruppo, nella loro fedeltà, nella loro puntualità ad esprimere questo spirito (che d’altronde viene definito come lo spirito dei maestria, per cui si finisce sempre con l’aver ragione).

Perché tanti scrittori moderni ci tengono tanto all’«anima nazionale» che dicono di rappresentare? È utile, per chi non ha personalità, decretare che l’essenziale è di essere nazionali. Max Nordau scrive di un tale che esclamò: «Dite che io non sono niente. Ebbene: sono pur qualche cosa: sono un contemporaneo!». Così molti dicono di essere scrittori francesissimi ecc. (in questo modo si costituisce una gerarchia e una organizzazione di fatto e questo è l’essenziale di tutta la quistione: il Benda, come il Croce, esamina la quistione degli intellettuali astraendo dalla situazione di classe degli intellettuali stessi e dalla loro funzione, che si è venuta precisando con l’enorme diffusione del libro e della stampa periodica). Ma se questa posizione è spiegabile per i mediocri, come spiegarla nelle grandi personalità? (forse la spiegazione è coordinata: le grandi personalità dirigono i mediocri e ne partecipano necessariamente certi pregiudizi pratici che non sono di danno alle loro opere).

Wagner (cfr l’Ecce homo di Nietzsche) sapeva ciò che faceva affermando che la sua arte era l’espressione del genio tedesco, invitando così tutta una razza ad applaudire se stessa nelle sue opere.

Ma in molti il Benda vede come ragione del fatto la credenza che lo spirito è buono nella misura in cui adotta una certa maniera collettiva di pensare e cattivo in quanto cerca di individuarsi. Quando Barrès scriveva: «C’est le rôle des maitres de justifier les habitudes et préjugés qui sont ceux de la France, de manière à préparer pour le mieux nos enfants à prendre leur rang dans la procession nationale», egli intendeva appunto che il suo dovere e quello dei pensatori francesi degni di questo nome, era di entrare, anch’essi, in questa processione.

Questa tendenza ha avuto effetti disastrosi nella letteratura (insincerità). In politica: questa tendenza alla distinzione nazionale ha fatto sì che la guerra, invece di essere semplicemente politica, è diventata una guerra di anime nazionali, con i suoi caratteri di profondità passionale e di ferocia.

Il Benda conclude osservando che tutto questo lavorio per mantenere la nazionalizzazione dello spirito significa che lo spirito europeo sta nascendo e che è nel seno dello spirito europeo che l’artista dovrà individualizzarsi se vuol servire l’universale. (La guerra appunto ha dimostrato che questi atteggiamenti nazionalistici non erano casuali o dovuti a cause intellettuali – errori logici ecc. –: essi erano e sono legati a un determinato periodo storico in cui solo l’unione di tutti gli elementi nazionali può essere una condizione di vittoria. La lotta intellettuale, se condotta senza una lotta reale che tenda a capovolgere questa situazione, è sterile. È vero che lo spirito europeo sta nascendo e non solamente europeo, ma appunto ciò inasprisce il carattere nazionale degli intellettuali, specialmente dello strato più elevato).

Q3 §3 Intellettuali tedeschi.

1) Hans Frank, Il diritto è l’ingiustizia. Nove racconti che sono nove esempi per dimostrare che summum jus, summa iniuria. Il Frank non è un giovane che voglia fare dei paradossi: ha cinquant’anni ed è stata pubblicata una antologia di suoi racconti di storia tedesca per le scuole. Uomo di forti convinzioni. Combatte il diritto romano, la dura lex, e non già questa o quest’altra legge inumana e antiquata, ma la stessa nozione di norma giuridica, quella di una giustizia astratta che generalizza e codifica, definisce il delitto e pronunzia la sanzione.

Questo di Hans Frank non è un caso individuale: è il sintomo di uno stato d’animo. Un difensore dell’Occidente potrebbe vedere in ciò la rivolta del «disordine tedesco» contro l’ordine latino, dell’anarchia sentimentale contro la regola dell’intelligenza. Ma gli autori tedeschi l’intendono piuttosto come la restaurazione di un ordine naturale sulle rovine d’un ordine artificioso. Di nuovo l’esame personale si oppone al principio d’autorità, che viene attaccato in tutte le sue forme: dogma religioso, potere monarchico, insegnamento ufficiale, stato militare, legame coniugale, prestigio paterno, e soprattutto la giustizia che protegge queste istituzioni caduche, che non è che coercizione, compressione, deformazione arbitraria della vita pubblica e della natura umana.

L’uomo è infelice e cattivo finché è incatenato dalla legge, dal costume, dalle idee ricevute. Bisogna liberarlo per salvarlo. La virtù creatrice della distruzione è diventata un articolo di fede.

Stefan Zweig, H. Mann, Remarque, Glaeser, Leonhard Frank...

2) Leonhard Frank, La ragione: l’eroe assassina il suo ex-professore, perché questi gli aveva sfigurato l’anima: l’autore sostiene l’innocenza dell’uccisore.

3) Franz Werfel: in un romanzo sostiene che non l’assassino è colpevole, ma la vittima: non c’è in lui niente del Quincey: c’è un atto morale. Un padre, generale imperioso e brutale, spezza la vita del figlio facendone un soldato senza vocazione: non commette un delitto di lesa umanità? Deve essere immolato come due volte usurpatore: come capo e come padre.

Nasce così il motivo del parricidio e la sua apologia, l’assoluzione di Oreste, non in nome della pietà per la colpa tragica, ma in ragione di un imperativo categorico, di un mostruoso postulato morale.

La teoria di Freud, il complesso di Edipo, l’odio per il padre – padrone, modello, rivale, espressione prima del principio d’autorità – posto nell’ordine delle cose naturali. L’influenza del Freud sulla letteratura tedesca è incalcolabile: essa è alla base di una nuova etica rivoluzionaria (!). Freud ha dato un aspetto nuovo all’eterno conflitto tra padri e figli. L’emancipazione dei figli dalla tutela paterna è la tesi in voga presso i romanzieri attuali. I padri abdicano al loro «patriarcato» e fanno ammenda onorevole dinanzi ai figli il cui senso morale ingenuo è solo capace di spezzare il contratto sociale tirannico e perverso, di abolire le costrizioni di un dovere menzognero (cfr Hauptmann, Michael Kramer, la novella di Jacob Wassermann, Un padre).

4) Wassermann, Der Fall Mauritius: tipico contro la giustizia.

Q3 §4 Emmanuel Berl. Ha scritto un libro Mort de la pensée bourgeoise che pare abbia fatto un certo chiasso. Nel 1929 ha tenuto, a Médan, nella casa di Zola, un discorso in occasione del pellegrinaggio annuale (credo) degli «amici di Zola» (democratici, Jeunesses laïques et républicaines ecc.). «Dopo la morte di Zola e di Jaurès nessuno più sa parlare al popolo del popolo e la nostra “letteratura di esteti” muore per il suo egocentrismo». Zola in letteratura, Jaurès in politica sono stati gli ultimi rappresentanti del popolo. Pierre Hamp parla del popolo, ma i suoi libri sono letti dai letterati. V. Margueritte è letto dal popolo, ma non parla del popolo. Il solo libro francese che continui Zola è il Fuoco di Barbusse, perché la guerra aveva fatto rinascere in Francia una certa fraternità. Oggi il romanzo popolare (cosa intende per romanzo popolare?) si separa sempre più dalla letteratura propriamente detta che è diventata letteratura di esteti. La letteratura, separata dal popolo, deperisce – il proletariato escluso dalla vita spirituale (!) perde la sua dignità (n’est plus fondé en dignité). – (è vero che la letteratura si allontana dal popolo e diventa fenomeno di casta; ma ciò porta a una maggior dignità del popolo; la tradizionale «fraternità» non è stata che l’espressione della bohème letteraria francese, un certo momento della cultura francese intorno al 48 e fino al 70; ha avuto una certa ripresa con Zola).

«Et autour de nous, nous sentons croître cette famine du peuple qui nous interroge sans que nous puissions lui répondre, qui nous presse sans que nous puissions le satisfaire, qui réclame une justification de sa peine sans que nous puissions la lui donner. On dirait que les usines géantes déterminent une zone de silence de laquelle l’ouvrier ne peut plus sortir et où l’intellectuel ne peut plus entrer. Tellement séparés que l’intellectuel, issu du milieu ouvrier, n’en retrouve point l’accès».

«La fidélité difficile, écrit Jean Guéhenno. Peut‑étre la fidélité impossible. Le boursier n’établit nullement, comme on pouvait l’espérer, un pont entre le prolétariat et la bourgeoisie. Un bourgeois de plus, et c’est bien. Mais ses frères cessent de le reconnaître. Es ne voient plus en lui un des leurs. Comme le peuple ne participe nullement aux modes d’expression des intellectuels, il faut, ou bien qu’ìl s’oppose à eux, qu’il constitue une sorte de nationalité avec son langage propre, ou bien qu’il n’ait pas de langage du tout et s’enlise dans une sorte de barbarie».

La colpa è degli intellettuali, divenuti conformisti mentre Zola era rivoluzionario (!), raffinati e preziosi nello stile, scrittori di giornali intimi mentre Zola epico. Ma anche il mondo è cambiato. Zola conosceva un popolo che oggi non esiste più, o almeno non ha più la stessa importanza. Alto capitalismo – operaio taylorizzato – sostituisce il vecchio popolo che non si distingueva ancor bene dalla piccola borghesia e che appare in Zola, come in Proudhon, in V. Hugo, nella Sand, in E. Sue. Zola descrive l’industria nascente. Ma se è più difficile il compito dello scrittore, non deve perciò essere trascurato. Quindi ritorno a Zola, ritorno al popolo. «Avec Zola donc ou avec rien, la fraternité ou la mort. Telle est notre devise. Tel notre drame. Et telle notre loi».

Q3 §5 America. È latina l’America centrale e meridionale? E in che consiste questa latinità? Grande frazionamento, che non è casuale. Gli Stati Uniti, concentrati e che attraverso la politica dell’emigrazione cercano non solo di mantenere ma di accrescere questa concentrazione (che è una necessità economica e politica come ha dimostrato la lotta interna tra le varie nazionalità per influire sulla direzione del governo nella politica della guerra, come dimostra l’influenza che l’elemento nazionale ha nell’organizzazione sindacale e politica degli operai ecc.), esercitano un grande peso per mantenere questa disgregazione, alla quale cercano sovrapporre una rete di organizzazioni e movimenti guidati da loro: 1) Unione panamericana (politica statale); 2) Movimento missionario per sostituire il cattolicismo con il protestantesimo; 3) Opposizione della Federazione del Lavoro ad Amsterdam e tentativo di creare una Unione panamericana del lavoro (vedere se esistono anche altri movimenti e iniziative di questo genere); 4) Organizzazione bancaria, industriale, di credito che si estende su tutta l’America. Questo è il primo elemento.

L’America meridionale e centrale è caratterizzata: 1) da un numero ragguardevole di pellirossa, che, sia pure passivamente, esercitano un influsso sullo Stato: sarebbe utile avere informazioni sulla posizione sociale di questi pellirossa, sulla loro importanza economica, sulla partecipazione loro alla proprietà terriera e alla produzione industriale; 2) le razze bianche che dominano nell’America centrale e meridionale non possono riallacciarsi a patrie europee che abbiano una grande funzione economica e storica: Portogallo, Spagna (Italia)Le parentesi sono state aggiunte in un secondo tempo, probabilmente in funzione dubitativa., paragonabile a quella degli Stati Uniti; esse in molti Stati rappresentano una fase semifeudale e gesuitica, per cui si può dire che tutti gli Stati dell’America Centrale e Meridionale (eccettuato l’Argentina, forse) devono attraversare la fase del Kulturkampf e dell’avvento dello Stato moderno laico (la lotta del Messico contro il clericalismo dà un esempio di questa fase). La diffusione della cultura francese è legata a questa fase: si tratta della cultura massonico‑illuministica, che ha dato luogo alle così dette Chiese positivistiche, alle quali partecipano anche molti operai che pur si chiamano sindacalisti anarchici. Apporto delle varie culture: Portogallo, Francia, Spagna, Italia. Quistione del nome: America latina, o iberica, o ispanica? Francesi e italiani usano «latina», portoghesi «iberica», spagnoli «ispanica». Di fatto la maggiore influenza è esercitata dalla Francia; le altre tre nazioni latine hanno influenza scarsa, nonostante la lingua, perché queste nazioni americane (sono) sorte in opposizione a Spagna e Portogallo e tendenti a creare proprio nazionalismo e propria cultura. Influenza italiana, caratterizzata dal carattere sociale dell’emigrazione italiana: d’altra parte in nessun paese americano gli italiani sono la razza egemone.

Un articolo di Lamberti Sorrentino, Latinità dell’America nell’«Italia Letteraria» del 22 dicembre 1929. «Le repubbliche sudamericane sono latine per tre fattori principali: la lingua spagnola, la cultura prevalentemente francese, l’apporto etnico prevalentemente (!) italiano. Quest’ultimo è, dei tre, il fattore più profondo e sostanziale, perché conferisce appunto alla nuova razza che si forma il carattere latino (!); e in apparenza (!) il più fugace, perché alla prima generazione, perdendo quanto esso ha di originale e proprio (è un bell’indovinello, tutt’insieme!), si acclimata spontaneamente (!) nel nuovo ambiente geografico e sociale».

Secondo il Sorrentino c’è un interesse comune tra Spagnuoli, Francesi e Italiani che sia conservata (!) la lingua spagnola, tramite per la formazione di una profonda coscienza latina capace di resistere alle deviazioni (!) che sospingono gli americani del sud verso la confusione (!) e il caos. Il direttore di un periodico letterario ultra‑nazionalista dell’Argentina (il paese più europeo e latino dell’America) ha affermato che l’uomo argentino «fisserà il suo tipo latino‑anglosassone predominante». Il medesimo scrittore che si autodefinisce «argentino al cento per cento» ha detto ancora più esplicitamente: «Quanto ai nordamericani, il cui Paese ci ha dato la base costituzionale e scolastica, è bene dirlo una buona volta, noi ci sentiamo più vicini a loro per educazione, gusti, maniera di vivere, che non agli europei e agli spagnoli afro‑europei, come amano qualificarsi questi ultimi; e non abbiamo mai temuto lo staffile degli Stati Uniti». (Si riferisce alla tendenza spagnola di considerare i Pirenei come una barriera culturale tra l’Europa e il mondo iberico: Spagna, Portogallo, America Centrale e Meridionale e Marocco. Teoria dell’iberismo ‑ ibero‑americanismo –, perfezionamento dell’ispanismo ‑ ispano‑americanismo –). L’iberismo è antilatino: le repubbliche americane dovrebbero solo orientarsi verso Spagna e Portogallo. (Pure esercitazioni da intellettuali e da grandi decaduti che non vogliono persuadersi di contare ormai ben poco). La Spagna fa dei grandi sforzi per riconquistare l’America del Sud in tutti i campi: culturale, commerciale, industriale, artistico. (Ma con quale risultato?). La egemonia culturale della Francia è minacciata dagli anglosassoni: esistono un Istituto Argentino di Cultura Inglese e un Istituto Argentino di Cultura Nordamericana, enti ricchissimi e già vivi: insegnano la lingua inglese con grandi agevolazioni agli alunni il cui numero è in costante aumento e con programmi di scambi universitari e scientifici di sicura attuazione. L’immigrazione italiana e spagnola è stagnante; aumenta l’immigrazione polacca e slava. Il Sorrentino desidererebbe un fronte unico franco‑italo‑iberico per mantenere la cultura latina.

Q3 §6 Cosa pensano i giovani? Nell’«Italia Letteraria» del 22 dicembre 1929 M. Missiroli (Filosofia della Rivoluzione) parla dei lavori che il prof. Giorgio del Vecchio fa fare ai suoi allievi dell’Università di Roma. Nella «Rivista internazionale di filosofia del diritto» uscita nel (novembre) 1929 sono pubblicati sotto il titolo Esercitazioni di filosofia del diritto questi lavori che nel 28‑29 ebbero per tema «la filosofia della Rivoluzione». Nota il Missiroli che la maggioranza di questi giovani è orientata verso le dottrine dello storicismo, sebbene non manchino assertori del tradizionale spiritualismo e anche reminiscenze dell’antico diritto naturale. Nessuna traccia di positivismo e di individualismo: i principî d’autorità gagliardamente affermati.

I brani riportati dal Missiroli sono veramente interessanti e la raccolta potrebbe servire come dimostrazione della crisi intellettuale che, secondo me, non può non sboccare in una ripresa del materialismo storico (gli elementi per dimostrare come il materialismo storico sia penetrato profondamente nella cultura moderna sono abbondanti in questi esercizi).

Q3 §7 Il popolo (ohibò!), il pubblico (ohibò!). I politici d’avventura domandano con cipiglio di chi la sa lunga: «Il popolo! Ma cos’è questo popolo? Ma chi lo conosce? Ma chi l’ha mai definito?» e intanto non fanno che escogitare trucchi e trucchi per avere le maggioranze elettorali (dal 24 al 29 quanti comunicati ci sono stati in Italia per annunziare nuovi ritocchi alla legge elettorale? Quanti progetti presentati e ritirati di nuove leggi elettorali? Il catalogo sarebbe interessante di per sé). Lo stesso dicono i letterati puri: «Un vizio portato dalle idee romantiche è quello di chiamare a giudice il pubblico. Chi è il pubblico? Chi è costui? Questo testone onnisciente, questo gusto squisito, quest’assoluta probità, questa perla dov’è?» (G. Ungaretti, «Resto del Carlino», 23 ottobre 1929). Ma intanto domandano che sia instaurata una protezione contro le traduzioni da lingue straniere e quando vendono mille copie di un libro fanno suonare le campane del loro paese. Il «popolo» però ha dato il titolo a molti importanti giornali, proprio di quelli che oggi domandano «cosa è questo popolo?» proprio nei giornali che si intitolano al popolo.

Q3 §8 I nipotini di padre Bresciani. Il diavolo al Pontelungo di Bacchelli. Il romanzo è stato tradotto in inglese da Orlo Williams e la «Fiera Letteraria» del 27 gennaio 1929 riporta l’introduzione di Williams alla sua traduzione. Lo Williams nota che il Diavolo al Pontelungo è «uno dei pochi romanzi veri, nel senso che noi diciamo romanzo in Inghilterra», ma non nota (sebbene parli dell’altro libro di Bacchelli Lo sa il tonno) che il Bacchelli è uno dei pochi scrittori italiani che si possano chiamare «moralisti» nel senso inglese e francese (ricordare che il Bacchelli è stato collaboratore della «Voce» e anzi in un certo tempo ne ha avuto la direzione in sostituzione di Prezzolini). Lo chiama invece raisonneur, poeta dotto: raisonneur nel senso che troppo spesso interrompe l’azione drammatica con commenti intorno ai moventi delle umane azioni in generale. (Lo sa il tonno è il romanzo tipico di Bacchelli «morale»).

In una lettera allo Williams il Bacchelli dà queste informazioni sul Diavolo: «Nelle linee generali il materiale è storico strettamente, tanto nella prima che nella seconda parte. Sono storici i protagonisti, come Bakùnin, Cafiero, Costa. Nell’intendere l’epoca, le idee e i fatti, ho cercato d’essere storico in senso stretto: rivoluzionarismo cosmopolita, primordi della vita politica del Regno d’Italia, qualità del socialismo italiano agli inizi, psicologia politica del popolo italiano e suo ironico buon senso, suo istintivo e realistico machiavellismo (direi piuttosto guicciardinismo nel senso dell’uomo del Guicciardini di cui parla il De Sanctis) ecc. Le mie fonti sono l’esperienza della vita politica fatta a Bologna, che è la città politicamente più suscettibile e sottile d’Italia (mio padre era uomo politico, deputato liberale conservatore), i ricordi di alcuni fra gli ultimi sopravvissuti dei tempi dell’Internazionale anarchica (ho conosciuto uno che fu compagno e complice di Bakùnin nei fatti di Bologna del 74) e, per i libri, sopra tutto il capitolo del professor Ettore Zoccoli nel suo libro sull’anarchia e i quaderni di Bakùnin che lo storiografo austriaco dell’anarchia, Nettlau, ha ristampato nella sua rarissima biografia stampata in pochi esemplari. Il francese (era svizzero) James Guillaume tratta anch’egli di Bakùnin e Cafiero nell’opera sull’Internazionale, che non conosco, ma dalla quale credo di discostarmi in vari punti importanti. Quest’opera fece parte di una polemica posteriore sulla Baronata di Locarno, della quale non mi sono curato. Tratta di cose meschine e di quistioni di danaro. Credo che Herzen, nelle sue memorie, abbia scritto le parole più giuste e più umane intorno alla personalità variabile, inquieta e confusa di Bakùnin. Marx, come non di rado, fu soltanto caustico e ingiurioso. In conclusione, credo di poterle dire che il libro si fonda sopra una base di concetto sostanzialmente storico. Come e con quale sentimento artistico io abbia saputo svolgere questo materiale europeo e rappresentativo, questo è argomento sul quale il giudicare non spetta a me».

Q3 §9 L’accademia dei Dieci. Vedi articolo di C. Malaparte Una specie di Accademia nella «Fiera Letteraria» del 3 giugno 1928: il «Lavoro d’Italia» avrebbe pagato 150 000 lire il romanzo Lo Zar non è morto scritto in cooperativa dai Dieci. «Per il “Romanzo dei Dieci” i tesserati della Confederazione, in grandissima maggioranza operai, hanno dovuto sborsare ben 150 000 lire. Perché? Per la sorprendente ragione che gli autori son dieci e che fra i Dieci figurano, oltre i nomi del Presidente e del Segretario generale del «Raduno», quelli del Segretario nazionale e di due membri del Direttorio del Sindacato autori e scrittori!... Che cuccagna il sindacalismo intellettuale di Giacomo di Giacomo». Il Malaparte scrive ancora: «Se quei dirigenti, cui si riferisce il nostro discorso, fossero fascisti, non importa se di vecchia o di nuova data, avremmo seguito altra via per denunciare gli sperperi e le camorre: ci saremmo rivolti, cioè, al Segretario del P.N.F. Ma trattandosi di personaggi senza tessera, politicamente poco puliti e mal compromessi alcuni, altri infilatisi nei Sindacati all’ora del pranzo, abbiamo preferito sbrigar le cose senza scandalo (!), con queste quattro parole dette in pubblico». Questo pezzo è impagabile. Nell’articolo c’è poi un attacco vivace contro Bodrero, allora Sottosegretario all’Istruzione Pubblica e contro Fedele, ministro. Nella «Fiera Letteraria» del 17 giugno, il Malaparte, pubblica un secondo articolo Coda di un’Accademia in cui rincara sornionamente la dose contro Bodrero e Fedele. (Fedele aveva mandato una lettera sulla quistione Salgari, che fu il «pezzo forte» del «Sindacato Scrittori» e che fece ridere mezzo mondo).

Q3 §10 Proudhon e i letterati italiani (Raimondi, Jahier). Articolo di Giuseppe Raimondi Rione Bolognina nella «Fiera Letteraria» del 17 giugno 1928: motto di Proudhon: «La pauvreté est bonne, et nous devons la considérer comme le principe de notre allégresse»; spunti autobiografici che culminano in queste frasi: «Come ogni operaio e ogni figlio di operaio, io ho sempre avuto chiaro il senso della divisione delle classi sociali. Io resterò, purtroppo (!), fra quelli che lavorano. Dall’altra parte, ci sono quelli che io posso rispettare, per i quali posso anche provare della sincera gratitudine; ma qualcosa mi impedisce di piangere con loro, e non mi riesce di abbracciarli con spontaneità. O mi mettono soggezione o li disprezzo». «È nei sobborghi che si sono sempre fatte le rivoluzioni e il popolo non è da nessuna parte così giovane, sradicato da ogni tradizione, disposto a seguire un improvviso moto di passione collettivo, come nei sobborghi, che non sono più città e non sono ancora campagna. ... Di qui finirà per nascere una civiltà nuova e una storia che avrà quel senso di rivolta e di riabilitazione secolare proprio dei popoli che solo la morale dell’età moderna ha fatto riconoscere degni. Se ne parlerà come oggi si parla del Risorgimento Italiano e dell’Indipendenza Americana. – L’operaio è di gusti semplici: si istruisce con le dispense settimanali delle Scoperte della Scienza e della Storia delle Crociate: la sua mentalità resterà sempre quella un poco atea e garibaldina dei circoli suburbani e delle Università popolari. … Lasciategli i suoi difetti, risparmiategli le vostre ironie. Il popolo non sa scherzare. La sua modestia è vera, come la sua fiducia nell’avvenire». (Insomma, tra i cento modi di distinguersi e di fare lo snob, c’è anche questo scelto dal Raimondi).

Q3 §11 Americanismo. Pirandello, in una intervista con Corrado Alvaro («Italia letteraria», 14 aprile 1929): «L’americanismo ci sommerge. Credo che un nuovo faro di civiltà si sia acceso laggiù». – «Il denaro che corre il mondo è americano, e dietro al denaro corre il modo di vita e la cultura. Ha una cultura l’America? Ha libri e costumi. I costumi sono la sua nuova letteratura, quella che penetra attraverso le porte più munite e difese. A Berlino lei non sente il distacco tra vecchia e nuova Europa perché la struttura stessa della città non offre resistenze. A Parigi, dove esiste una struttura storica e artistica, dove le testimonianze di una civiltà autoctona sono presenti, l’americanismo stride come il belletto sulla vecchia faccia di una mondana».

Il problema non è se in America esista una nuova civiltà, una nuova cultura, e se queste nuove civiltà e cultura stiano invadendo l’Europa: se il problema dovesse porsi così, la risposta sarebbe facile: no, non esiste ecc., e anzi in America non si fa che rimasticare la vecchia cultura europea. Il problema è questo: se l’America, col peso implacabile della sua produzione economica, costringerà e sta già costringendo l’Europa a un rivolgimento della sua assise economica‑sociale, che sarebbe avvenuto lo stesso ma con ritmo lento e che invece si presenta come un contraccolpo della «prepotenza» americana, se cioè si sta creando una trasformazione delle basi materiali della civiltà, ciò che a lungo andare (e non molto lungo, perché nel periodo attuale tutto è più rapido che nei periodi passati) porterà a un travolgimento della civiltà stessa esistente e alla nascita di una nuova.

Gli elementi di vita che oggi si diffondono sotto l’etichetta americana, sono appena i primi tentativi a tastoni, dovuti, non già all’«ordine» che nasce dalla nuova assise che non si è formata ancora, ma all’iniziativa degli elementi déclassés dagli inizi dell’operare di questa nuova assise. Ciò che oggi si chiama americanismo è in grandissima parte un fenomeno di panico sociale, di dissoluzione, di disperazione dei vecchi strati che dal nuovo ordine saranno appunto schiacciati: sono in gran parte «reazione» incosciente e non ricostruzione: non è dagli strati «condannati» dal nuovo ordine che si può attendere la ricostruzione, ma dalla classe che crea le basi materiali di questo nuovo ordine e deve trovare il sistema di vita per far diventare «libertà» ciò che è oggi «necessità». Questo criterio che le prime reazioni intellettuali e morali allo stabilirsi di un nuovo metodo produttivo sono dovute più ai detriti delle vecchie classi in isfacelo che alle nuove classi il cui destino è legato ai nuovi metodi, mi pare di estrema importanza.

Un’altra quistione è che non si tratta di una nuova civiltà, perché muta i carattere delle classi fondamentali, ma di un prolungamento ed intensificazione della civiltà europea, che ha però assunto determinati caratteri nell’ambiente americano. L’osservazione del Pirandello sulla opposizione che l’americanismo trova a Parigi e sull’accoglienza immediata che trova invece a Berlino, prova appunto la non differenza di qualità, ma di grado. A Berlino le classi medie erano state già rovinate dalla guerra e dall’inflazione e l’industria germanica era di un grado superiore a quella francese. Le classi medie francesi invece non subirono né le crisi (occasionali) come l’inflazione tedesca, né una crisi organica molto più rapida della normale per l’introduzione e la diffusione (improvvisa) di un nuovo metodo di produzione. Perciò è giusto che l’americanismo a Parigi sia come un belletto, una superficiale moda straniera.

Q3 §12 David Lazzaretti. Un articolo di Domenico Bulferetti David Lazzaretti e due milanesi, nella «Fiera Letteraria» del 26 agosto 1928, ricorda alcuni elementi della vita e della formazione di David Lazzaretti; Andrea Verga, David Lazzaretti e la pazzia sensoria (Milano, Rechiedei, 1880); Cesare Lombroso, Pazzi e anormali (questo era il costume del tempo: invece di studiare le origini di un fatto storico, si trovava che il protagonista era un pazzo); una Storia di David Lazzaretti Profeta di Arcidosso fu pubblicata a Siena nel 1905 da uno dei maggiori discepoli del Lazzaretti, l’ex‑frate filippino Filippo Imperiuzzi: altre scritture apologetiche esistono, ma, questa è la più notevole secondo il Bulferetti; libri di Giacomo Barzellotti, 1a e 2a ed. David Lazzaretti presso Zanichelli e Monte Amiata e il suo Profeta (ed. Treves) che è il precedente assai modificato.

Il Bulferetti crede che il Barzellotti abbia sostenuto che le cause del movimento lazzarettista sono «tutte particolari e dovute solo allo stato d’animo e di coltura di quella gente là» solo «un po’ per naturale amore ai bei luoghi nativi (!) e un po’ per suggestione delle teorie di Ippolito Taine».

A me pare che il libro del Barzellotti, che ha formato l’opinione pubblica sul Lazzaretti, sia nient’altro che una manifestazione della tendenza «patriottica» (per amor di patria!) e che portava a cercare di nascondere le cause di malessere generale che esistevano in Italia, dando dei singoli episodi di esplosione di questo malessere spiegazioni restrittive, individuali, patologiche ecc.

Ciò che è avvenuto per il «brigantaggio» meridionale e siciliano è avvenuto per Davide Lazzaretti. I politici non si sono occupati del fatto che la sua uccisione è stata di una crudeltà feroce e freddamente premeditata (sarebbe interessante conoscere le istruzioni mandate dal governo alle autorità locali); neanche i repubblicani se ne sono occupati, nonostante che il Lazzaretti sia morto inneggiando alla repubblica (questo carattere del movimento deve aver specialmente contribuito a determinare la volontà del governo di sterminarlo) e per la ragione forse che nel movimento il repubblicano era legato all’elemento religioso e profetico. Ma questo appunto mi pare sia la caratteristica principale di quell’avvenimento che politicamente era legato al non-expedit del Vaticano e mostrava quale tendenza sovversiva‑popolare elementare poteva nascere dall’astensionismo dei preti. (In ogni caso bisognerebbe ricercare se le opposizioni d’allora presero atteggiamento: bisogna tener conto che il governo era della sinistra appena andata al potere e ciò spiegherebbe anche la tiepidezza nel sostenere una lotta contro il governo per l’uccisione delittuosa di uno che poteva essere presentato come un codino papalino clericale ecc.).

Il Barzellotti, nota il Bulferetti, non fece ricerche sulla formazione di quella cultura cui si riferisce. Avrebbe visto che anche a Monte Amiata arrivavano allora in gran copia (! da dove lo sa il Bulferetti?) foglietti, opuscoli, e libri popolari stampati a Milano. Il Lazzaretti ne era lettore insaziabile e per il suo mestiere di barrocciaio aveva agio di procurarsene.

Davide era nato in Arcidosso il 6 novembre 1834 e aveva esercitato il mestiere paterno fino al 1868, quando, da bestemmiatore si convertì e si ritirò a far penitenza in una grotta della Sabina, dove «vide» l’ombra di un guerriero che gli «rivelò» di essere il capostipite della sua famiglia, Manfredo Pallavicino, figlio illegittimo di un re di Francia ecc. Un danese, il dottor Emilio Rasmussen trovò che Manfredo Pallavicino è il protagonista di un romanzo storico di Giuseppe Rovani intitolato appunto Manfredo Pallavicino. L’intreccio e le avventure del romanzo serio passate tali e quali nella «rivelazione» della grotta e da queste rivelazioni si inizia la propaganda religiosa del Lazzaretti.

Il Barzellotti aveva creduto invece che il Lazzaretti fosse stato influenzato dalle leggende del Trecento (le avventure del re Giannino, senese), e la scoperta del Rasmussen lo indusse solo a introdurre nell’ultima edizione del suo libro un vago accenno alle letture del Lazzaretti, senza però accennare al Rasmussen e lasciando intatta la parte del libro dedicata a re Giannino. Tuttavia il Barzellotti studia il successivo svolgimento dello spirito del Lazzaretti, i suoi viaggi in Francia e l’influenza che ebbe su di lui il prete milanese Onorio Taramelli, uomo di fino ingegno e larga cultura, che per aver scritto contro la monarchia, era stato arrestato a Milano e poi era fuggito in Francia. Dal Taramelli Davide ebbe l’impulso repubblicano. La bandiera di Davide era rossa con la scritta: «La repubblica e il regno di Dio». Nella processione del 18 agosto 1878, in cui David fu ucciso, egli domandò ai suoi fedeli se volevano la repubblica. Al «sì» fragoroso egli rispose: «la repubblica incomincia da oggi in poi nel mondo; ma non sarà quella del ’48; sarà il regno di Dio, la legge del Diritto succeduta a quella di Grazia». (Nella risposta di David ci sono alcuni elementi interessanti, che devono essere collegati alle sue reminiscenze delle parole del Taramelli; il voler distinguersi dal 48 che in Toscana non aveva lasciato buon ricordo tra i contadini, la distinzione tra Diritto e Grazia ecc. Ricordare che qualcosa di simile pensavano i preti e i contadini coinvolti col Malatesta nel processo delle bande di Benevento. In ogni caso, nel caso del Lazzaretti, all’impressionismo letterario, dovrebbe succedere una certa analisi politica).

Q3 §13 I nipotini di padre Bresciani. Alfredo Panzini: La Vita di Cavour. La Vita di Cavour del Panzini è stata pubblicata dall’«Italia Letteraria» nei numeri dal 9 giugno al 13 ottobre 1929. A tutt’oggi (30 maggio 1930) non è stata raccolta in volume. Nell’«Italia letteraria» del 30 giugno è pubblicata col titolo Chiarimento una letterina inviata dal Panzini in data 27 giugno 1929 al direttore del «Resto del Carlino». Il Panzini, con stile molto seccato, si lamenta per un commento molto piccante pubblicato dal giornale bolognese sulle due prime puntate della sua Vita di Cavour, che veniva giudicata «piacevole giocherello» e «cosa leggera». Il Panzini scrive: «Nessuna intenzione scrivere una biografia alla maniera romanzesca francese. Mia intenzione scrivere in stile piacevole e drammatico, tutto però documentato. (Carteggio Nigra‑Cavour)». Altri accenni del Panzini non si capiscono bene; bisognerebbe conoscere il commento del «Resto del Carlino» al quale egli risponde.

L’episodio vale, perché alcuni si sono cominciati ad accorgere che queste scritture del Panzini ormai sono stucchevoli e mostrano la trama: la stupidaggine storica del Panzini è incommensurabile: è, il suo, un puro gioco di parole, che sotto un’ironia di maniera fa credere di contenere chissà quali profondità: in realtà non c’è nulla oltre le parole: è un nuovo stenterellismo che si dà l’aria di machiavellismo. Un’altra puntata diretta al Panzini certamente ho letto nella «Nuova Italia»: si parla di vite di Cavour o di altri scritti come si scriverebbe la vita di Pinocchio.

In realtà non è che lo stile del Panzini sia «piacevole e drammatico»; egli rappresenta la storia come una «piacevolezza»; la sua «drammaticità» consiste nel rappresentare le cose serie come discorsi di farmacia in cui il farmacista è Panzini e il cliente è un altro Panzini.

La Vita di Cavour del Panzini mi servirà per fare una raccolta di luoghi comuni sul Risorgimento (il Panzini è tutto una miniera di luoghi comuni) e per trarne documenti del suo gesuitismo letterario.

Q3 §14 Storia della classe dominante e storia delle classi subalterne. La storia delle classi subalterne è necessariamente disgregata ed episodica: c’è nell’attività di queste classi una tendenza all’unificazione sia pure su piani provvisori, ma essa è la parte meno appariscente e che si dimostra solo a vittoria ottenuta. Le classi subalterne subiscono l’iniziativa della classe dominante, anche quando si ribellano; sono in istato di difesa allarmata. Ogni traccia di iniziativa autonoma è perciò di inestimabile valore. In ogni modo la monografia è la forma più adatta di questa storia, che domanda un cumulo molto grande di materiali parziali.

Q3 §15 Ettore Ciccotti. Il suo volume Confronti storici (Biblioteca della «Nuova Rivista Storica», n. 10, Società editr. Dante Alighieri, 1929, pp. XXXIX‑262) è stato recensito favorevolmente da Guido De Ruggiero nella «Critica» del gennaio 1930 e invece con molte cautele e in fondo sfavorevolmente da Mario de Bernardi nella «Riforma Sociale» (che non ho presente in questo momento). Del libro del Ciccotti ho letto un capitolo (che forse è l’introduzione generale al volume) pubblicato nella «Rivista d’Italia» del 15 giugno e del 15 luglio 1927: Elementi di «verità» e di«certezza» nella tradizione storica romana. Il Ciccotti esamina e combatte una serie di deformazioni professionali della storiografia romana e molte sue osservazioni sono giuste negativamente; è nella parte positiva che incominciano i dubbi e sono necessarie le cautele.

L’errore teorico del Ciccotti mi pare consista nell’errata interpretazione del principio vichiano del «certo» e del «vero»: la storia non può essere che «certezza» o almeno ricerca di «certezza». La conversione del «certo» nel «vero» dà luogo a una costruzione filosofica della storia eterna, ma non alla costruzione della storia «effettuale»: ma la storia non può che essere «effettuale»: la sua «certezza» deve essere prima di tutto «certezza» dei documenti storici (anche se la storia non si esaurisce tutta nei documenti storici). La parte sofistica della metodologia del Ciccotti appare evidente in un caso: egli dice che la storia è dramma; ma ciò non vuol dire che ogni rappresentazione drammatica di un dato periodo storico sia quella «effettuale», anche se viva, artisticamente perfetta ecc. Il sofisma del Ciccotti porta a dare un valore eccessivo alla «belletristica» storica per reazione alla erudizione pedantesca e petulante.

In un esame della attività teorica del Ciccotti bisogna tener conto di questo libro. «Materialismo storico» del Ciccotti molto superficiale: quello del Ferrero e del Barbagallo. Una sociologia molto positivistica; una interpretazione positivistica del Vico. La metodologia del Ciccotti dà luogo appunto alle storie tipo Ferrero e alle «esagerazioni» del Barbagallo: finisce col perdere il concetto di distinzione e della concretezza «individua» e col trovare che «tutto il mondo è paese» e «più tutto cambia e più si rassomiglia».

Q3 §16 Sviluppo politico della classe popolare nel Comune medioevale. Nel citato studio di Ettore Ciccotti (Elementi di»verità» e di «certezza» ecc.) ci sono alcuni accenni allo sviluppo storico della classe popolare dei Comuni specialmente degni di attenzione e di trattazione separata. Le guerre reciproche dei Comuni e quindi la necessità di reclutare una più vigorosa e abbondante forza militare col lasciare armare il maggior numero, davano la coscienza della loro forza ai popolani e ne rinsaldavano insieme le file (cioè funzionarono da eccitanti di formazioni di partito). I combattenti rimanevano uniti anche in pace, sia per il servizio da prestare ma poi, con crescente solidarietà, per fini di utilità particolare. Si hanno gli statuti delle «Società d’armi» che si costituirono a Bologna, come sembra, verso il 1230, ed emerge il carattere della loro unione e il loro modo di costituzione. Verso la metà del secolo XIII erano già ventiquattro, distribuite a seconda della contrada ove abitavano. E oltre al loro ufficio politico di difesa esterna del Comune, avevano il fine di assicurare a ciascun popolano la tutela necessaria a proteggerlo contro le aggressioni dei nobili e dei potenti. Capitoli dei loro statuti – per esempio della Società detta dei Leoni – hanno in rubrica il titolo «De adiutorio dando hominibus dicte societatis»; «Quod molestati iniuste debeant adiuvari ab hominibus dicte societatis». E alle sanzioni civili e sociali si aggiungeva, oltre al giuramento, una sanzione religiosa, con la comune assistenza alla messa ed alla celebrazione di uffici divini; mentre altri obblighi comuni, come quelli, comuni alle confraternite pie, di soccorrere i soci poveri, seppellire i defunti ecc., rendevano sempre più persistente e stretta l’unione. Per le funzioni stesse delle società si formarono poi cariche e consigli – a Bologna, per es., quattro o otto «ministeriales» foggiati sugli ordini della Società delle Arti o su quelli più antichi del Comune – che col tempo ebbero valore oltre i termini delle società e trovarono luogo nella costituzione del Comune.

Originariamente, in queste società entrano milites al pari di pedites, nobili e popolani, se anche in minor numero. Ma, a grado a grado, i milites, i nobili tendono ad appartarsene come a Siena, o, secondo i casi, ne possono essere espulsi, come nel 1270, a Bologna. E a misura che il movimento di emancipazione prende piede, oltrepassando anche i limiti e la forma di queste società, l’elemento popolare chiede e ottiene la partecipazione alle maggiori cariche pubbliche. Il popolo si costituisce sempre più in vero partito politico e per dare maggiore efficienza e centralizzazione alla sua azione si dà un capo, «il Capitano del popolo», ufficio che pare Siena abbia preso da Pisa e che nel nome come nella funzione rivela insieme origini e funzioni militari e politiche. Il popolo che già, volta a volta, ma sporadicamente, si era riunito e si era costituito e aveva prese deliberazioni distinte, si costituisce come un ente a parte, che si dà anche proprie leggi. Campana propria per le sue convocazioni «cum campana Communis non bene audiatur». Entra in contrasto col Podestà a cui contesta il diritto di pubblicar bandi e con cui il Capitano del popolo stipula delle «paci».

Quando il popolo non riesce ad ottenere dalle Autorità comunali le riforme volute, fa la sua secessione, con l’appoggio di uomini eminenti del Comune e, costituitosi in assemblea indipendente, incomincia a creare magistrature proprie ad immagine di quelle generali del Comune, ad attribuire una giurisdizione al Capitano del popolo, e a deliberare di sua autorità, dando inizio (dal 1255) a tutta un’opera legislativa. (Questi dati sono del Comune di Siena). Il popolo riesce, prima praticamente, e poi anche formalmente, a fare accettare negli Statuti generali del Comune disposizioni che prima non legavano se non gli ascritti al «Popolo» e di uso interno. Il popolo giunge quindi a dominare il Comune, soverchiando la precedente classe dominante, come a Siena dopo il 1270, a Bologna con gli Ordinamenti «Sacrati» e «Sacratissimi», a Firenze con gli «Ordinamenti di giustizia». (Provenzan Salvani a Siena è un nobile che si pone a capo del popolo).

Q3 §17 1917. Per le cause che provocarono la terribile crisi nel vettovagliamento di Torino nel luglio‑agosto 1917 è da vedere il volume di R. Bachi, L’alimentazione e la politica annonaria in Italia, nelle «Pubblicazioni della Fondazione Carnegie», Laterza, Bari, e il volume di Umberto Ricci, Il fallimento della politica annonaria, Ed. La Voce, Firenze, 1921.

Q3 §18 Storia delle classi subalterne. La maggior parte dei problemi di storia romana che il Ciccotti prospetta nel suo studio Elementi di «verità» e di «certezza» ecc. (a parte l’accertamento degli episodi «personali», Tanaquilla ecc.) si riferiscono a eventi ed istituzioni delle classi subalterne (tribuno della plebe ecc.). In questo caso il metodo dell’«analogia» affermato e teorizzato dal Ciccotti può dare qualche risultato indiziario, perché la classe subalterna mancando di autonomia politica, le sue iniziative «difensive» sono costrette da leggi proprie di necessità, più complesse e politicamente più compressive che non siano le leggi di necessità storica che dirigono le iniziative della classe dominante. (La quistione dell’importanza delle donne nella storia romana è simile a quella delle classi subalterne, ma fino a un certo punto: il «maschilismo» può solo in un certo senso essere paragonato a un dominio di classe; essa quindi ha più importanza per la storia dei costumi che per la storia politica e sociale).

Un’altra osservazione e importantissima occorre fare sui pericoli insiti nel metodo dell’analogia storica come criterio d’interpretazione: nello Stato antico e in quello medioevale, l’accentramento sia territoriale, sia sociale (e l’uno non è poi che funzione dell’altro) era minimo; in un certo senso lo Stato era una «federazione» di classi: le classi subalterne avevano una vita a sé, istituzioni proprie ecc. e talvolta queste istituzioni avevano funzioni statali: (così il fenomeno del «doppio governo» nei periodi di crisi assumeva un’evidenza estrema).

L’unica classe esclusa da ogni vita propria, era quella degli schiavi nel mondo classico e quella dei proletari nel mondo medioevale. Tuttavia se per molti rispetti schiavi antichi e proletari medioevali si trovavano nelle stesse condizioni, la loro situazione non era identica: il tentativo dei Ciompi non produsse certo l’impressione che avrebbe prodotto un tentativo simile degli schiavi a Roma (Spartaco che domanda di essere assunto al governo coi patrizi ecc.). Mentre nel Medio Evo era possibile un’alleanza tra proletari e popolo e ancor di più, l’appoggio dei proletari alla dittatura di un principe, niente di simile nel mondo classico. Lo Stato moderno abolisce molte autonomie delle classi subalterne, abolisce lo Stato federazione di classi, ma certe forme di vita interna delle classi subalterne rinascono come partito, sindacato, associazione di cultura. La dittatura moderna abolisce anche queste forme di autonomia di classe e si sforza di incorporarle nell’attività statale: cioè l’accentramento di tutta la vita nazionale nelle mani della classe dominante diventa frenetico e assorbente.

Q3 §19 Il problema dei giovani. «I fascisti hanno vissuto troppo la storia contemporanea per avere l’obbligo di conoscere alla perfezione quella passata». Mussolini, prefazione a Gli Accordi del Laterano. Discorsi al Parlamento, Libreria del Littorio, Roma 1929.

Q3 §20 Documenti del tempo. Un documento molto importante e interessante è la Relazione della Commissione d’indagine per la spedizione polare dell’aeronave «Italia», stampato per disposizione del Ministero della Marina nel 1930 a Roma dalla «Rivista Marittima». («Caporetto»).

Q3 §21 La diplomazia italiana prima del 1914. Un documento molto interessante e curioso su questo argomento è il volume di Alessandro De Bosdari, Delle guerre balcaniche, della grande guerra e di alcuni fatti preceduti ad esse, (ed. Mondadori). La Nuova Antologia del 1° settembre 1927 ne riproduce un capitolo: «Lo scoppio della guerra balcanica visto da Sofia», dove si leggono amenità di questo genere: «Non posso negare che la profonda convinzione dell’orientazione austriaca, sicura e permanente guida dello Zar dei Bulgari in tutta la sua politica estera, da me acquisita fin dagli ultimi mesi del 1911, non mi abbia impedito di vederci chiaro nella Lega balcanica e nella imminenza della guerra contro la Turchia. A tanti anni di distanza non so troppo (!) rimproverarmelo perché se non vidi venire un fatto accessorio (?!) e per così dire (!) episodico (!) della politica bulgara, ciò fu unicamente perché vedevo troppo chiara (e lo dice sul serio!) la linea principale. Fu come chi dicesse un fenomeno di presbitismo politico, ed in politica il presbitismo è migliore della miopia, come questa è senza dubbio migliore di quella cecità assoluta di cui debbo dire a mio discarico (!), fecero prova, in quella ed in tante susseguenti occasioni, molti miei colleghi».

Il brano è interessante anche da altri punti di vista, oltre quello particolare del giudizio sulla diplomazia italiana. Il candore ameno porta il De Bosdari a dire manifestamente ciò che altri pensano per giustificare i propri errori e non dicono apertamente in questa forma. Esiste una linea non formata di «fatti accessori» e di «episodi» come dice il De Bosdari? E comprendere una linea non significa riuscire a comprendere e quindi a prevedere e organizzare questa catena di fatti accessori? Chi parla di linea in questo senso, in realtà intende dire una «categoria sociologica», un’«astrazione». Qualche volta indovina? È vero, ma a questo proposito si potrebbe citare il pensiero di Guicciardini sull’«ostinazione».

Q3 §22 Lorianismo. In una nota dedicata ad Alberto Lumbroso ho scritto che questi non ha ereditato dal padre le qualità di studioso sobrio, preciso, disciplinato. Giacomo Lumbroso morto nel 1927 (mi pare) fu uno storico dell’età ellenistica, papirologo, lessicografo della grecità alessandrina. (Cfr l’articolo Giacomo Lumbroso di V. Scialoja, nella «Nuova Antologia» del 16 settembre 1927). È stato anche professore di storia moderna prima di Fedele?.

Q3 §23 Loria. Le sue memorie pubblicate nel 1927 da N. Zanichelli, Bologna, sono intitolate: Ricordi di uno studente settuagenario, L. 10.

Q3 §24 Motivi del Risorgimento. Il separatismo siciliano. Un libro di Luigi Natoli, Rivendicazioni (attraverso le rivoluzioni siciliane del 1848‑1860), Treviso, Cattedra italiana di pubblicità, 1927, L. 14. Il Natoli vuole reagire contro quella tendenza di studi e di studiosi che ancor oggi o per scarsa padronanza delle testimonianze o per residui di antiche prevenzioni politiche, mira a svalutare il contributo della Sicilia alla storia unitaria del Risorgimento. L’autore polemizza specialmente con B. Croce, il quale considera la rivoluzione siciliana del 1848 come un “moto separatista” dannoso alla causa italiana ecc. ecc.». Ciò che è interessante in questa letteratura siciliana, giornalistica o libresca, è specialmente il tono fortemente polemico e irritato.

Ora la questione dovrebbe essere semplice, dal punto di vista storico; il separatismo o c’è stato o non c’è stato o è stato solo tendenziale in una misura da determinarsi secondo il metodo storico, astraendo da ogni valutazione polemica di partito, di corrente o di ideologia. Se il separatismo ci fosse stato non sarebbe storicamente «riprovevole» o «immorale» o «antipatriottico» ma sarebbe stato un evento da spiegare e ricostruire storicamente. Il fatto che continui accanitamente la polemica significa che ci sono «interessi attuali» e non più passati in gioco, cioè significa che queste pubblicazioni stesse proprio dimostrano ciò che vorrebbero negare.

Il Natoli pare sostenga che l’accusa di separatismo gioca sull’equivoco sfruttando il programma federalista che in un primo tempo parve a taluni uomini insigni dell’Isola e alle sue rappresentanze la soluzione più rispondente alle tradizioni politiche locali ecc. In ogni modo il fatto che il programma federalista abbia avuto più forti sostenitori in Sicilia e sia durato più a lungo ha il suo significato.

Q3 §25 La funzione dei cattolici in Italia (Azione Cattolica). Nella Nuova Antologia del 1° novembre 1927, G. Suardi pubblica una nota Quando e come i cattolici poterono partecipare alle elezioni politiche, molto interessante e da ricordare come documento dell’attività e della funzione dell’Azione Cattolica in Italia. Alla fine del settembre 1904, dopo lo sciopero generale, il Suardi fu chiamato telegraficamente a Milano da Tommaso Tittoni, ministro degli Esteri nel Ministero Giolitti (il Tittoni si trovava nella sua villa di Desio al momento dello sciopero e pareva che egli, dato il pericolo che Milano fosse per essere isolata dalla mancanza di comunicazioni, dovesse assumere speciali e personali responsabilità; questo accenno del Suardi mi pare significhi che i reazionari locali avessero già pensato a qualche iniziativa d’accordo con Tittoni). Il Tittoni gli comunicò che il Consiglio dei Ministri aveva deciso di indire subito le elezioni e che bisognava unire tutte le forze liberali e conservatrici nello sforzo per contrastare il passo ai partiti estremi. Il Suardi, esponente liberale di Bergamo, era riuscito in questa città ad accordarsi coi cattolici per le amministrazioni locali: bisognerebbe ottenere lo stesso risultato per le elezioni politiche, persuadendo i cattolici che il non expedit nulla serve al loro partito, nuoce alla religione ed è di grave danno alla patria, lasciando libero il passo al socialismo. Il Suardi accettò l’incarico. A Bergamo ne parlò con l’avvocato Paolo Bonomi e riuscì a convincerlo di andare a Roma, presentarsi al Papa e aggiungere alle insistenze del Bonomelli e di altri autorevoli personaggi perché fosse tolto il non expedit anche quelle dei cattolici bergamaschi.

Pio X prima rifiutò di togliere il non expedit, ma terrorizzato dal Bonomi che gli fece un quadro catastrofico delle conseguenze che avrebbe avuto a Bergamo la rottura tra cattolici e gruppo Suardi «con lenta e grave parola, esclamò: “Fate, fate quello che vi detta la vostra coscienza”. (Bonomi): “Abbiamo ben compreso, Santità? Possiamo interpretare che è un sì?” (Papa): “Fate quello che vi detta la vostra coscienza. Ripeto”». (Subito dopo) il Suardi ebbe un colloquio col cardinale Agliardi (di tendenze liberali) che lo mise al corrente di quanto era avvenuto in Vaticano dopo l’udienza data dal Papa al Bonomi. (L’Agliardi era d’accordo col Bonomelli perché fosse tolto il non expedit). Il giorno dopo questa udienza un giornale ufficioso del Vaticano aveva pubblicato un articolo che smentiva le voci diffuse intorno all’udienza e a novità circa il non expedit decisamente affermando che in tale argomento nulla era mutato. L’Agliardi chiese subito udienza e alle sue domande il papa ripeté la sua formula: «Ho detto (ai bergamaschi) che facessero quello che dettava la loro coscienza». L’Agliardi fece pubblicare un articolo in un giornale romano, dove si affermava che del pensiero del papa per le prossime elezioni politiche erano depositari l’avvocato Bonomi e il professor Rezzara e che a questi dovevano rivolgersi le organizzazioni cattoliche. Così si presentarono candidature cattoliche (Cornaggia a Milano, Cameroni a Treviglio ecc.) e a Bergamo apparvero a sostegno di candidature politiche manifesti di cittadini fino allora astensionisti.

Per il Suardi questo avvenimento segna la fine del non expedit e rappresenta la raggiunta unità morale dell’Italia, ma egli esagera alquanto, sebbene il fatto sia importante per sé.

Q3 §26 America ed Europa. Nel 1927 l’Ufficio internazionale del Lavoro di Ginevra ha pubblicato i risultati di una indagine sui rapporti fra padroni e operai negli Stati Uniti Les rélations industrielles aux États Unis. Secondo Gompers gli scopi finali del sindacalismo americano consisterebbero nell’istituzione progressiva di un controllo paritetico, estendentesi dalla singola officina al complesso dell’industria e coronato da una specie di parlamento organico. (Vedere quale forma assuma nelle parole di Gompers e C. la tendenza degli operai all’autonomia industriale).

Q3 §27 Il Principe Carlo di Rohan. Ha fondato nel 1924 la Federazione delle Unioni Intellettuali e dirige una rivista (Europäische Gespräche?). Gli italiani partecipano a questa federazione: il suo Congresso del 25 è stato tenuto a Milano. L’Unione italiana è presieduta da S. E. l’On. Vittorio Scialoja. Nel 1927 il di Rohan ha pubblicato un libro sulla Russia (Moskau. Ein Skizzenbuch aus Sowietrussland, Verlag G. Braun in Karlsruhe), dove aveva fatto un viaggio. Il libro deve essere interessante data la personalità sociale dell’autore. Egli conclude che la Russia «seinen Weg gefunden hat».

Q3 §28 Riviste tipo. Poiché la rivista tipo «Critica» di Croce e «Politica» di Coppola e Rocco domanda immediatamente un corpo di redattori specializzati, in grado di fornire con una certa periodicità un materiale scientificamente selezionato, essa può essere anticipata con la pubblicazione di un «Annuario». Questo annuario non dovrebbe avere, come è naturale, niente di simile ad un comune «Almanacco» popolare (la cui compilazione è legata qualitativamente al giornale quotidiano, è fatta tenendo di vista il medio lettore del giornale quotidiano); esso non dovrebbe neanche essere un’antologia occasionale di scritti troppo lunghi per essere pubblicati in altro tipo di rivista; dovrebbe invece essere preparato organicamente secondo un piano generale abbracciante parecchi anni (cinque anni, per esempio) in modo da preventivare lo sviluppo di un determinato programma. Potrebbe essere dedicato a un solo argomento o essere diviso in sezioni e trattare una serie di quistioni fondamentali (la costituzione dello Stato, la politica internazionale, la quistione agraria, ecc.). Ogni «Annuario» dovrebbe stare a sé (non dovrebbe avere lavori in continuazione) ed essere fornito di indici analitici, ecc. ecc.

Q3 §29 Il Catalogo dei cataloghi del libro italiano pubblicato dalla Società generale delle Messaggerie italiane di Bologna nel 1926 (mi pare che siano stati pubblicati successivamente dei supplementi) è una pubblicazione da tener presente per le ricerche bibliografiche. Questo repertorio contiene i dati di 65 000 volumi (meno quello dell’editore) classificati in 18 classi e due indici alfabetici, uno degli autori, curatori e traduttori e uno dei soggetti coi relativi richiami alla classe e al numero d’ordine.

Q3 §30 Altra pubblicazione bibliografica da tener presente è il Catalogo metodico degli scritti contenuti nelle Pubblicazioni periodiche italiane e straniere, pubblicato dalla Biblioteca della Camera dei Deputati.

Q3 §31 Riviste tipo. Per una esposizione generale dei tipi principali di riviste ricordare l’attività giornalistica di Carlo Cattaneo: l’«Archivio Triennale» e il «Politecnico». Il «Politecnico» è un tipo di rivista da studiare accuratamente (accanto ad esso la rivista «Scientia» del Rignano).

Su Antonio Labriola: riassunto obbiettivo sistematico delle sue pubblicazioni sul materialismo storico per sostituire i volumi esauriti e che la famiglia non ristampa; questo lavoro sarebbe l’inizio dell’attività per rimettere in circolazione le posizioni filosofiche del Labriola che sono poco conosciute all’infuori di una cerchia ristretta.

Leone Davidovi nelle sue memorie parla di un «dilettantismo» del Labriola: è stupefacente! Non si capisce questo giudizio, che non è giustificato altro che come un riflesso «incosciente» di una tradizione della socialdemocrazia russa e specialmente delle opinioni di Plekhanov. In realtà il Labriola, affermando che la filosofia del marxismo è contenuta nel marxismo stesso, è il solo che abbia cercato di dare una base scientifica al materialismo storico.

La tendenza dominante ha dato luogo a due correnti: 1) a quella, rappresentata dal Plekhanov (cfr I problemi fondamentali del marxismo) che ricade nel materialismo volgare, dopo essersi sforzata di risolvere il problema delle origini del pensiero del Marx senza aver saputo impostare il problema; lo studio della cultura filosofica di Marx (o delle «fonti» della sua filosofia) è certamente necessario, ma come premessa allo studio, ben più importante, della sua propria filosofia, che non si esaurisce nelle «fonti» o nella «cultura» personale. Questo lavoro mostra il metodo positivistico classico seguito dal Plekhanov e la sua scarsa capacità speculativa; 2) questa tendenza ha creato la sua opposta, di collegare il marxismo col kantismo e ha quindi in ultima analisi portato alla conclusione opportunistica espressa da Otto Bauer nel suo recente volumetto Socialismo e Religione che il marxismo può essere «sostenuto» o «integrato» da una qualsiasi filosofia, quindi anche dalla cosidetta «filosofia perenne della religione».

Pongo questa come seconda tendenza, perché essa, col suo agnosticismo, abbraccia tutte le minori tendenze non «materialistiche volgari», fino a quella freudiana del De Man.

Perché il Labriola non ha avuto fortuna nella pubblicistica socialdemocratica?

Si può dire a proposito della filosofia del marxismo ciò che la Luxemburg dice a proposito dell’economia: nel periodo romantico della lotta, dello Sturm und Drang popolare, si appunta tutto l’interesse sulle armi più immediate, sui problemi di tattica politica. Ma dal momento che esiste un nuovo tipo di Stato, nasce concretamente il problema di una nuova civiltà e quindi la necessità di elaborare le concezioni più generali, le armi più raffinate e decisive. Ecco che Labriola deve essere rimesso in circolazione e la sua impostazione del problema filosofico deve essere fatta predominare. Questa è una lotta per la cultura superiore, la parte positiva della lotta per la cultura che si manifesta in forma negativa e polemica con gli a‑ privativi e gli anti‑ (anticlericalismo, ateismo ecc.). Questa è la forma moderna del laicismo tradizionale che è alla base del nuovo tipo di Stato.

La trattazione analitica e sistematica della concezione del Labriola potrebbe essere la sezione filosofica della rivista tipo «Voce» ‑ «Leonardo» («Leonardo») e potrebbe alimentare la rubrica almeno per sei mesi o un anno. Bisognerebbe inoltre compilare una bibliografia «internazionale» sul Labriola («Neue Zeit» ecc.).

Argomenti di cultura. Su Andrea Costa: raccolta dei suoi Proclami e manifesti del primo periodo di attività romagnola: raccolta critica, con annotazioni e commenti storici e politici.

Q3 §32 «Rendre la vie impossible». «Il y a deux façons de tuer: une, que l’on désigne franchement par le verbe tuer; l’autre, celle qui reste sous‑entendue d’habitude derrière cet euphémisme délicat: “rendre la vie impossible”. C’est le mode d’assassinat, lent et obscur, que consomme une foule d’invisibles complices. C’est un “auto‑da‑fé” sans “coroza” et sans flammes, perpétré par une Inquisition sans juge ni sentence...» Eugenio D’Ors, La vie de Goya, éd. Gallimard, p. 41. Altrove la chiama «Inquisizione diffusa».

Q3 §33 Alcune cause d’errore. Un governo, o un uomo politico, o un gruppo sociale applica una disposizione politica od economica. Se ne trae troppo facilmente delle conclusioni generali d’interpretazione della realtà presente e di previsione sullo sviluppo di questa realtà. Non si tiene abbastanza conto del fatto che la disposizione applicata, l’iniziativa promossa ecc. può essere dovuta a un errore di calcolo, e quindi non rappresentare nessuna «concreta attività storica». Nella vita storica come nella vita biologica, accanto ai nati vivi, ci sono gli aborti. Storia e politica sono strettamente unite, sono anzi la stessa cosa, ma pure occorre distinguere nell’apprezzamento dei fatti storici e dei fatti e atti politici.

Nella storia, data la sua larga prospettiva verso il passato e dato che i risultati stessi delle iniziative sono un documento della vitalità storica, si commettono meno errori che nell’apprezzamento dei fatti e degli atti politici in corso. Il grande politico perciò non può che essere «coltissimo», cioè deve «conoscere» il massimo di elementi della vita attuale; conoscerli non «librescamente», come «erudizione» ma in modo «vivente», come sostanza concreta di «intuizione» politica (tuttavia perché in lui diventino sostanza vivente di «intuizione» occorrerà apprenderli anche «librescamente»).

Q3 §34 Passato e presente. L’aspetto della crisi moderna che viene lamentato come «ondata di materialismo» è collegato con ciò che si chiama «crisi di autorità». Se la classe dominante ha perduto il consenso, cioè non è più «dirigente», ma unicamente «dominante», detentrice della pura forza coercitiva, ciò appunto significa che le grandi masse si sono staccate dalle ideologie tradizionali, non credono più a ciò in cui prima credevano ecc. La crisi consiste appunto nel fatto che il vecchio muore e il nuovo non può nascere: in questo interregno si verificano i fenomeni morbosi più svariati.

A questo paragrafo devono essere collegate alcune osservazioni fatte sulla così detta «quistione dei giovani» determinata dalla «crisi di autorità» delle vecchie generazioni dirigenti e dal meccanico impedimento posto a chi potrebbe dirigere di svolgere la sua missione. Il problema è questo: una rottura così grave tra masse popolari e ideologie dominanti come quella che si è verificata nel dopoguerra, può essere «guarita» col puro esercizio della forza che impedisce a nuove ideologie di imporsi? L’interregno, la crisi di cui si impedisce così la soluzione storicamente normale, si risolverà necessariamente a favore di una restaurazione del vecchio? Dato il carattere delle ideologie, ciò è da escludere, ma non in senso assoluto. Intanto la depressione fisica porterà a lungo andare a uno scetticismo diffuso e nascerà una nuova «combinazione» in cui per es. il cattolicismo diventerà ancora di più prettogesuitismo ecc. Anche da questo si può concludere che si formano le condizioni più favorevoli per un’espansione inaudita del materialismo storico. La stessa povertà iniziale che il materialismo storico non può non avere come teoria diffusa di massa, lo renderà più espansivo. La morte delle vecchie ideologie si verifica come scetticismo verso tutte le teorie e le formule generali e applicazione al puro fatto economico (guadagno ecc.) e alla politica non solo realista di fatto (come è sempre) ma cinica nella sua manifestazione immediata (ricordare la storia del Preludio al Machiavelli scritto forse sotto l’influenza del prof. Rensi che in un certo periodo – nel 21 o 22 – esaltò la schiavitù come mezzo moderno di politica economica). Ma questa riduzione all’economia e alla politica significa appunto riduzione delle superstrutture più elevate a quelle più aderenti alla struttura, cioè possibilità e necessità di formazione di una nuova cultura.

Q3 §35 Giuseppe Rensi. Occorre ricercare tutta la sua carriera politico‑intellettuale. È stato collaboratore della «Critica Sociale» (forse è stato anche fuoruscito in Isvizzera dopo il 1894 o 98). Il suo atteggiamento «moralistico» attuale (vedere i suoi articoli sulla «Nuova Rivista Storica») è da porre a confronto con le sue manifestazioni letterarie e giornalistiche del 1921‑22‑23 (articoli nel «Popolo d’Italia»). Ricordare la sua polemica col Gentile sul «Popolo d’Italia» dopo il Congresso dei filosofi tenuto a Milano nel 1926.

Q3 §36 Fatti di cultura. L’episodio Salgari, contrapposto a Giulio Verne, con l’intervento del ministro Fedele, campagne ridevoli nel «Raduno» organo del Sindacato autori e scrittori ecc., è da porre insieme alla rappresentazione della farsa Un’avventura galante ai bagni di Cernobbio data il 13 ottobre 1928 ad Alfonsine per la celebrazione del primo centenario della morte di Vincenzo Monti. Questa farsa pubblicata nel 1858 come complemento editoriale di un lavoro teatrale di Giovanni De Castro, è di un Vincenzo Monti, professore a Como in quel torno di tempo (a una semplice lettura appare l’impossibilità dell’attribuzione al Monti) ma fu «scoperta», attribuita al Monti e rappresentata ad Alfonsine, dinanzi alle autorità, in una festa ufficiale, nel centenario montiano. (Vedere, caso mai, nei giornali del tempo, l’autore della mirabile scoperta e i personaggi ufficiali che la bevettero così grossa).

Q3 §37 I nipotini di padre Bresciani. Pochissimi «scrittori» cattolici in Italia, specialmente nella poesia e nel romanzo. Gallarati Scotti (di cui ho accennato in altra nota un tratto caratteristico delle Storie dell’Amor Sacro e dell’Amor Profano, ma che tuttavia ha una sua dignità). Paolo Arcari (più noto come scrittore di saggi letterari e politici). Luciano Gennari (che ha scritto molto in lingua francese). Non è possibile fare un confronto tra gli scrittori cattolici italiani e quelli francesi (Bourget, Bazin, Mauriac, Bernanos). Il Crispolti ha scritto un romanzo Il Duello, di propaganda. In realtà, il cattolicismo italiano è sterile nel campo letterario come negli altri campi della cultura (cfr Missiroli). (Maria di Borio).

Q3 §38 I nipotini di padre Bresciani. A. Panzini: La vita di Cavour. «Uno scrittore inglese ha chiamato la storia dell’unità d’Italia la più romanzesca storia dei tempi moderni». (Il Panzini oltre a creare luoghi comuni per gli argomenti che tratta, si dà molto daffare per raccogliere tutti i luoghi comuni che sullo stesso argomento sono stati scritti da altri autori, specialmente stranieri: deve avere uno schedario speciale di luoghi comuni, per condire opportunamente tutti i suoi scritti). «Re Vittorio era nato con la spada e senza paura: due terribili baffi, un gran pizzo. Gli piacevano le belle donne e la musica del cannone. Un grande Re!»

Questo luogo comune è da unire all’altro sulla «tradizione» militare del Piemonte e della sua aristocrazia: in realtà in Piemonte è proprio mancata una «tradizione» militare cioè una «continuità» di personale militare di prim’ordine e ciò è apparso nelle guerre del Risorgimento, in cui non si è rivelata nessuna personalità, ma invece sono affiorate molte deficienze interne: in Piemonte c’era una popolazione adatta alle armi, da cui si poteva trarre un buon esercito, e apparvero di tanto in tanto delle capacità militari di primo ordine, come Emanuele Filiberto, Carlo Emanuele ecc. ma mancò appunto una tradizione, una continuità nell’aristocrazia, nell’ufficialità superiore: cfr ciò che avvenne nel 48 quando non si sapeva dove metter la mano per dare un comandante all’esercito e si cascò su di un minchione qualsiasi di polacco. Le qualità guerriere di Vittorio Emanuele II consistettero solo in un certo coraggio personale, che si dovrebbe pensare essere molto raro in Italia se tanto vi si insiste su: è un po’ la stessa quistione del «galantuomismo»: in Italia si dovrebbe pensare che la stragrande maggioranza è di bricconi, se l’essere galantuomini viene elevato a titolo di distinzione. A proposito di Vittorio Emanuele II ricordare un aneddoto riferito da Ferdinando Martini nel suo libro postumo di memorie: racconta, su per giù (vedere) che Vittorio Emanuele dopo la presa di Roma disse che gli dispiaceva non ci fosse più nulla da «piè» (pigliare) e ciò a chi raccontava l’aneddoto pareva dimostrare che non ci fosse stato re più conquistatore di Vittorio Emanuele.

Si potrebbe dare dell’aneddoto tante altre spiegazioni, e non molto brillanti. Ricordare epistolario di M. D’Azeglio pubblicato dal Bollea nel «Bollettino storico subalpino»; quistioni tra Vittorio Emanuele e Quintino Sella.

Ciò che mi ha sempre stupito è che si insista tanto nelle pubblicazioni tendenti a rendere popolare la figura di Vittorio Emanuele sugli aneddoti galanti in cui alti funzionari e ufficiali andavano nelle famiglie a convincere i genitori di lasciar andare delle ragazze nel letto del re, per quattrini. A pensarci bene è stupefacente che queste cose siano pubblicate credendo di rafforzare l’amore popolare. «... il Piemonte... ha una tradizione guerriera, ha una nobiltà guerriera...». Si potrebbe osservare che Napoleone III, data la «tradizione guerriera» della sua famiglia, si occupò di scienza militare e scrisse libri che pare non fossero troppo malvagi per i suoi tempi. «Le donne? Già, le donne. Su tale argomento egli (Cavour) andava molto d’accordo col suo re, benché anche in questo ci fosse qualche differenza. Re Vittorio era di molta buona bocca come avrebbe potuto attestare la bella Rosina, che fu poi contessa di Mirafiori» e giù di questo tono fino a ricordare che i propositi galanti del re alla corte delle Tuglierì (sic) furono così audaci «che tutte le dame ne rimasero amabilmente atterrite. Quel forte, magnifico Re montanaro!». «Cavour era assai più raffinato. Cavallereschi però tutti e due e, oserei dire, romantici (!!!)». «Massimo d’Azeglio... da quel gentiluomo delicato che era...».

L’accenno del Panzini di cui parlo a p. 10 come di cosa che non si può comprendere senza aver letto il commento del «Resto del Carlino» si capisce, dopo aver riletto la seconda puntata della Vita di Cavour («Italia letteraria» del 16 giugno): questo brano: «Non ha bisogno di assumere atteggiamenti specifici. Ma in certi momenti doveva apparire meraviglioso e terribile. L’aspetto della grandezza umana è tale da indurre negli altri ubbidienza e terrore, e questa è dittatura più forte che non quella di assumere molti portafogli nei ministeri». È incredibile come una tale frase sia potuta sfuggire al Panzini ed è naturale che il «Resto del Carlino» l’abbia beccato: il Panzini nella sua lettera scrive: «Quanto a certe puntate contro la dittatura, forse fu errore fidarmi nella conoscenza storica del lettore. Cavour, nel 1859, domandò i poteri dittatori assumendo diversi portafogli, fra i quali quello della guerra, con molto scandalo della allora quasi vergine costituzionalità. Non questa materiale forma di dittatura indusse ad obbedienza, ma la dittatura dell’umana grandezza di Cavour».

«... la guerra d’Oriente, una cosa piuttosto complicata, che per chiarezza di discorso si omette». (Si afferma che Cavour è un grandissimo politico, ecc. ma l’affermazione non diventa mai rappresentazione storica concreta: per «chiarezza del discorso si omette». Il significato della spedizione nella Crimea e della capacità politica di Cavour nell’averla voluta, è omesso per «chiarezza»). Il profilo di Napoleone III è impagabile di sguaiataggine, ma non si spiega perché Napoleone abbia collaborato con Cavour. Bisognerebbe citare troppo e in fondo ne vale poco la pena. Se dovessi scrivere sull’argomento bisognerebbe però rivedere il libro (se sarà pubblicato) o l’annata della «Italia letteraria».

«Al Museo napoleonico in Roma c’è un prezioso pugnale con una lama che può passare il cuore» (non è un pugnale comune, a quanto pare!). «Può questo pugnale servire per documento? Di pugnali io non ho esperienza, ma sentii dire quello essere il pugnale carbonaro che si affidava a chi entrava nella setta tenebrosa ecc.». (Il Panzini deve sempre essere stato ossessionato dai pugnali: ricordare la «livida lama» della Lanterna di Diogene. Deve essersi trovato in Romagna per caso in qualche torbido e aver visto qualche paia d’occhi guatarlo biecamente: onde le «livide lame» che possono passare il cuore ecc.).

«E chi volesse vedere come la setta carbonara assumesse l’aspetto di Belzebù, legga il romanzo L’Ebreo di Verona di Antonio Bresciani, e si divertirà (! sic) un mondo, anche perché, a dispetto di quel che ne dicono i moderni, quel padre gesuita fu un potente narratore». (Questo brano si potrebbe porre come motto al saggio sui nipotini di padre Bresciani: è nella puntata terza della Vita di Cavour nell’«Italia letteraria» del 23 giugno 1929).

Tutta la Vita di Cavour è una beffa della storia. Se le vite romanzate sono la forma attuale della letteratura amena tipo Alessandro Dumas, Panzini è il nuovo Ponson du Terrail. Panzini vuole così ostentatamente mostrare di «saperla lunga» sul modo di procedere degli uomini, di essere un così furbissimo realista, che viene la voglia, a leggerlo, di rifugiarsi in Condorcet o in Bernardino di Saint‑Pierre, che almeno non sono così filistei. Nessun nesso storico è ricostruito nel fuoco di una personalità; la storia è un seguito di storielle divertenti senza nesso né di personalità né di altre forze sociali: è veramente una nuova forma digesuitismo, molto più accentuata di quanto io stesso avessi creduto leggendo la Vita a puntate. Si potrebbero contrapporre al luogo comune della «nobiltà guerriera e non da anticamera» i giudizi che poi si danno volta per volta sui singoli generali: La Marmora, Della Rocca, talvolta con parole di scherno incosciente. «Della Rocca è un guerriero. A Custoza, 1866, non brillerà per troppo valore, ma è un ostinato guerriero e perciò tien duro coi bollettini». (È proprio una frase da giornale umoristico tipo «Asino». Della Rocca non voleva mandare più i bollettini dello Stato Maggiore a Cavour che ne aveva notato la cattiva compilazione letteraria, alla quale collaborava il re). (Altre allusioni del genere per La Marmora e per Cialdini – anche se Cialdini non fu piemontese –, e non è detto un nome di generale piemontese che abbia brillato: altro accenno a Persano).

Non si capisce proprio cosa Panzini abbia voluto scrivere con questa Vita di Cavour; una vita di Cavour non è certamente: né una biografia di Cavour‑uomo, né una ricostruzione di Cavour politico; in verità dal libro di Panzini Cavour esce molto malconcio e molto diminuito: la sua figura non ha nessun rilievo concreto, eccetto che nelle giaculatorie che Panzini di tanto in tanto ripete: eroe, superbo, genio ecc. Ma queste giaculatorie non essendo giustificate (e perciò sono giaculatorie) sembrano talvolta prese di bavero, se non si capisse che la misura che Panzini adopera per giudicare l’eroismo, la grandezza, il genio ecc. è la sua propria misura, della genialità, grandezza, eroismo ecc. del sig. Panzini Alfredo. Ancora bisogna dire che il Panzini esagera nel trovare il dito di dio, il fato, la provvidenza in tanti avvenimenti: è, in fondo, la concezione dello stellone con parole da tragedia greca o da padre gesuita, ma che non perciò diventa meno triviale e banale. Lo stesso insistere troppo sull’elemento «provvidenziale» significa diminuire la funzione dello sforzo italiano, che pure ebbe una sua parte. Cosa significa poi in questo caso questa miracolosità della rivoluzione italiana? Significa che tra l’elemento nazionale e quello internazionale dell’evento, è l’internazionale che ha contato di più. È questo il caso? Bisognerebbe dirlo e forse la grandezza di Cavour sarebbe messa ben più in rilievo e la sua funzione personale, il suo «eroismo» apparirebbe ben più da esaltare. Ma il Panzini vuol dare colpi a molte botti con molti cerchi e non ne raccappezza qualcosa di sensato: né egli sa cosa sia una rivoluzione e quali siano i rivoluzionari. Tutti furono grandi e furono rivoluzionari ecc. ecc.

Nell’«Italia letteraria» del 2 giugno 1929 è pubblicata un’intervista di Antonio Bruers col Panzini: Come e perché Alfredo Panzini ha scritto una «Vita di Cavour»; vi si dice che egli stesso Bruers (pare che sia il Bruers che ha tradotto il Cavour di Paléologue) ha indotto Panzini a scrivere il libro, «in modo che il pubblico potesse avere finalmente un “Cavour” italiano, dopo averne avuto uno tedesco, uno inglese e uno francese». Il Panzini dice nell’intervista che la sua Vita «non è una monografia nel senso storico‑scientifico della parola; è un profilo destinato non ai dotti, agli “specialisti”, ma al vasto pubblico». Il Panzini crede che ci siano delle parti originali nel suo libro e precisamente il fatto di aver dato importanza all’attentato di Orsini per spiegare l’atteggiamento di Napoleone III: secondo il Panzini Napoleone III sarebbe stato inscritto da giovane alla Carboneria, «la quale vincolò con impegno d’onore il futuro sovrano della Francia»: Orsini, mandatario della Carboneria avrebbe ricordato a Napoleone il suo impegno e quindi ecc. (proprio un romanzo alla Ponson du Terrail: Orsini doveva essersi dimenticato della Carboneria al tempo dell’attentato già da molti anni e le sue repressioni del 48 nelle Marche erano proprio contro dei vecchi carbonari). Le ragioni dell’indulgenza di Napoleone verso Orsini (o per meglio dire alcuni suoi atteggiamenti personali, perché in ogni modo Orsini fu ghigliottinato) si spiegano forse banalmente con la paura del complice sfuggito e che poteva ritentare la prova: certo anche la grande serietà di Orsini, che non era un qualunque scalmanato, dovette imporsi. Il Panzini poi dimentica che c’era stata la guerra di Crimea e l’orientamento generale di Napoleone pro‑italiano tanto che l’attentato di Orsini sembrò spezzare la trama già ordita. Tutta la «ipotesi» del Panzini si basa poi sul famoso pugnale, che non è detto fosse della carboneria. È proprio un romanzo alla Ponson.

Q3 §39 Passato e presente. Il problema della capitale: Roma ‑ Milano. Funzione e posizione delle più grandi città: Torino ‑ Trieste ‑ Genova ‑ Bologna ‑ Firenze ‑ Napoli ‑ Palermo ‑ Bari ‑ Ancona ecc. Nella statistica industriale del 1927 e nelle pubblicazioni che ne hanno esposto i risultati, esiste una divisione di questi dati per città e per centri industriali in generale?. (L’industria tessile presenta zone industriali senza grandi città, come biellese, comasco, vicentino, ecc.). Rilievo sociale e politico della città italiana.

Questo problema è coordinato a quello delle «cento città», cioè della agglomerazione in borghi (città) della borghesia rurale, e della agglomerazione in borgate contadine di grandi masse di braccianti agricoli e di contadini senza terra dove esiste il latifondo estensivo (Puglie, Sicilia). È collegato anche al problema di quale gruppo sociale eserciti la direzione politica e intellettuale sulle grandi masse, direzione di primo grado e di secondo grado (gli intellettuali esercitano spesso una direzione di secondo grado, poiché essi stessi sono sotto l’influsso dei grandi proprietari terrieri e questi a loro volta, direttamente e indirettamente, in modo parziale o in modo totale, sono diretti dalla grande borghesia, specialmente finanziaria).

Q3 §40 Riforma e Rinascimento. Le osservazioni sparsamente fatte sulla diversa portata storica della Riforma protestante e del Rinascimento italiano, della Rivoluzione francese e del Risorgimento (la Riforma sta al Rinascimento come la Rivoluzione francese al Risorgimento) possono essere raccolte in un saggio unico con un titolo che potrebbe essere anche «Riforma e Rinascimento» e che potrebbe prendere lo spunto dalle pubblicazioni avvenute dal 20 al 25 intorno appunto a questo argomento: «della necessità che in Italia abbia luogo una riforma intellettuale e morale» legata alla critica del Risorgimento come «conquista regia» e non movimento popolare per opera di Gobetti, Missiroli e Dorso. (Ricordare l’articolo di Ansaldo nel «Lavoro» di Genova contro Dorso e contro me). Perché in questo periodo si pose questo problema? Esso scaturiva dagli avvenimenti… (Episodio comico: articoli di Mazzali in «Conscientia» di Gangale in cui si ricorreva ad Engels). Precedente storico nel saggio di Masaryk sulla Russia (nel 1925 tradotto in italiano dal Lo Gatto): il Masaryk poneva la debolezza politica del popolo russo nel fatto che in Russia non c’era stata la Riforma religiosa.

Q3 §41 I nipotini di padre Bresciani. Sarebbe certo ingiusto volere che ogni anno o anche ogni dieci anni la letteratura di un paese abbia un Promessi Sposi, o un Sepolcri ecc. ecc. Ma appunto perciò la critica che si può fare di queste epoche è una critica di «cultura», una critica di «tendenza». È vero che in certi periodi le quistioni pratiche assorbono tutte le intelligenze per la loro risoluzione (in un certo senso, tutte le forze umane vengono concentrate nel lavoro strutturale e non ancora si può parlare di superstrutture: gli americani addirittura, secondo ciò che scrive il Cambon nella prefazione alla traduzione francese dell’autobiografia di Ford, hanno creato da ciò una teoria) sicché sarebbe «poesia» cioè «creazione» solo quella economico‑pratica: ma di ciò si tratta appunto: che ci sia una creazione, in ogni caso, e d’altronde si potrebbe domandare come mai questa opera «creativa» economico‑pratica, in quanto esalta le forze vitali, le energie, le volontà, gli entusiasmi, non assuma anche forme letterarie che la celebrino. In verità ciò non avviene: le forze non sono espansive, ma puramente repressive e si badi, puramente e totalmente repressive, non solo della parte avversa, ciò che sarebbe naturale, ma della propria parte, ciò che appunto è tipico e dà a queste forze il carattere repressivo. Ogni innovazione è repressiva per i suoi avversari, ma scatena forze latenti nella società, le potenzia, le esalta, è quindi espansiva. Le restaurazioni sono universalmente repressive: creano appunto i «padri Bresciani», la letteratura allapadre Bresciani. La psicologia che ha preceduto queste innovazioni è il «panico», la paura comica di forze demoniache che non si comprendono e non si possono controllare. Il ricordo di questo «panico» perdura per lungo tempo e dirige le volontà e i sentimenti: la libertà creatrice è sparita, rimane l’astio, lo spirito di vendetta, l’accecamento balordo. Tutto diventa pratico, inconsciamente, tutto è «propaganda», è polemica, è negazione, ma in forma meschina, ristretta, gesuitica appunto.

Quando si giudica uno scrittore e si conosce solo il suo primo libro, il giudizio terrà conto dell’«età», perché giudizio di cultura: un frutto acerbo di un giovane, è un bozzacchione se di un vecchio.

Q3 §42 Passato e presente. La favola del castoro (il castoro, inseguito dai cacciatori che vogliono strappargli i testicoli da cui si estraggono dei medicinali, per salvar la vita, si strappa da se stesso i testicoli). Perché non c’è stata difesa? Scarso senso della dignità umana e della dignità politica dei partiti: ma questi elementi non sono dei dati naturali, delle deficienze proprie di un popolo in modo permanentemente caratteristico. Sono dei «fatti storici» che si spiegano con la storia passata e con le condizioni sociali presenti. Contraddizioni apparenti: dominava una concezione fatalistica e meccanica della storia (Firenze 1917, accusa di bergsonismo) e però si verificavano atteggiamenti di un volontarismo formalistico sguaiato e triviale: per es. il progetto di costituire nel 1920 un Consiglio urbano a Bologna coi soli elementi delle organizzazioni, cioè di sostituire a un organismo storico radicato nelle masse, come la Camera del Lavoro, un organismo puramente astratto e libresco. C’era almeno il fine politico di dare una egemonia all’elemento urbano, che con la costituzione del Consiglio veniva ad avere un centro proprio, dato che la Camera del Lavoro era provinciale? Questa intenzione mancava assolutamente e d’altronde il progetto non fu realizzato.

Il discorso di Treves sull’«espiazione»: questo discorso mi pare fondamentale per capire la confusione politica e il dilettantismo polemico dei leaders. Dietro a queste schermaglie c’è la paura delle responsabilità concrete, dietro a questa paura la nessuna unione con la classe rappresentata, la nessuna comprensione dei suoi bisogni fondamentali, delle sue aspirazioni, delle sue energie latenti: partito paternalistico, di piccoli borghesi che fanno le mosche cocchiere. Perché non difesa? L’idea della psicosi di guerra e che un paese civile non può «permettere» che si verifichino certe scene selvagge. Queste generalità erano anch’esse mascherature di altri motivi più profondi (d’altronde erano in contraddizione con l’affermazione ripetuta ogni volta dopo un eccidio: l’abbiamo sempre detto noi che la classe dominante è reazionaria), che sempre si incentrano nel distacco dalla classe, cioè nelle «due classi»: non si riesce a capire ciò che avverrà se la reazione trionfa, perché non si vive la lotta reale ma solo la lotta come «principio libresco».

Altra contraddizione intorno al volontarismo: se si è contro il volontarismo si dovrebbe apprezzare la «spontaneità». Invece no: ciò che era «spontaneo» era cosa inferiore, non degna di considerazione, non degna neppure di essere analizzata. In realtà, lo «spontaneo» era la prova più schiacciante dell’inettitudine del partito, perché dimostrava la scissione tra i programmi sonori e i fatti miserabili. Ma intanto i fatti «spontanei» avvenivano (1919‑1920), ledevano interessi, disturbavano posizioni acquisite, suscitavano odi terribili anche in gente pacifica, facevano uscire dalla passività strati sociali stagnanti nella putredine: creavano, appunto per la loro spontaneità e per il fatto che erano sconfessati, il «panico» generico, la «grande paura» che non potevano non concentrare le forze repressive spietate nel soffocarli.

Un documento eccezionale di questo distacco tra rappresentati e rappresentanti è costituito dal così detto patto di alleanza tra Confederazione e Partito, che può essere paragonato a un Concordato fra Stato e Chiesa. Il partito, che è in embrione una struttura statale, non può ammettere nessuna divisione dei suoi poteri politici, non può ammettere che una parte dei suoi membri si pongano come aventi eguaglianza di diritto, come alleati del «tutto», così come uno Stato non può ammettere che una parte dei suoi sudditi, oltre le leggi generali, facciano con lo Stato cui appartengono, e attraverso una potenza straniera, un contratto speciale di convivenza con lo Stato stesso. L’ammissione di una tale situazione implica la subordinazione di fatto e di diritto dello Stato e del Partito alla cosidetta «maggioranza» dei rappresentati, in realtà a un gruppo che si pone come antistato e antipartito e che finisce con l’esercitare indirettamente il potere. Nel caso del patto d’alleanza apparve chiaro che il potere non apparteneva al partito.

Al patto d’alleanza corrispondevano gli strani legami tra partito e gruppo parlamentare, anch’essi d’alleanza e di parità di diritto. Questo sistema di rapporti faceva sì che concretamente il partito non esistesse come organismo indipendente, ma solo come elemento costitutivo di un organismo più complesso che aveva tutti i caratteri di un partito del lavoro, discentrato, senza volontà unitaria ecc. Dunque i sindacati devono essere subordinati al partito? Porre così la quistione sarebbe errato. La quistione deve essere impostata così: ogni membro del partito, qualsiasi posizione o carica occupi, è sempre un membro del partito ed è subordinato alla sua direzione. Non ci può essere subordinazione tra sindacato e partito, se il sindacato ha spontaneamente scelto come suo dirigente un membro del partito: significa che il sindacato accetta liberamente le direttive del partito e quindi ne accetta liberamente (anzi ne desidera) il controllo sui suoi funzionari.

Questa quistione non fu impostata giustamente nel 1919, quantunque esistesse un grande precedente istruttivo, quello del giugno 1914: perché in realtà non esisteva una politica delle frazioni, cioè una politica del partito.

Q3 §43 Passato e presente. Un episodio piuttosto oscuro, per non dire losco, è costituito dai rapporti dei riformisti con la plutocrazia: la «Critica Sociale» amministrata da Bemporad, cioè dalla Banca Commerciale (Bemporad era anche l’editore dei libri politici di Nitti), l’entrata dell’ingegnere Omodeo nel circolo di Turati, il discorso di Turati Rifare l’Italia! sulla base dell’industria elettrica e dei bacini montani, discorso suggerito e forse scritto in collaborazione con l’Omodeo.

Q3 §44 Passato e presente. A questo saggio appartengono le osservazioni altrove scritte sui tipi «strani» che circolavano nel partito e nel movimento operaio: Ciccotti-Scozzese, Gatto‑Roissard ecc. Nessuna politica interna di partito, nessuna politica organizzativa, nessun controllo sugli uomini. Però abbondante demagogia contro gli interventisti anche se stati interventisti da giovanissimi. La mozione per cui si stabiliva che gli interventisti non potevano essere ammessi nel partito fu solo un mezzo di ricatto e di intimidazione individuale e una affermazione demagogica. Infatti non impedì a Nenni di essere ammesso nonostante il suo losco passato (così a Francesco Leonida Rèpaci)), mentre servì a falsificare la posizione politica del partito che non doveva fare dell’antinterventismo il perno della sua attività e a scatenare odio e persecuzioni personali contro determinate categorie piccolo borghesi. (Leonida Rèpaci) diventò corrispondente del giornale da Torino come Nenni ne diventò redattore, quindi non si tratta di gente entrata di straforo).

Il discorso dell’«espiazione» di Treves e la fissazione dell’interventismo sono strettamente legati: è la politica di evitare il problema fondamentale, il problema del potere, e di deviare l’attenzione e le passioni delle masse su obiettivi secondari, di nascondere ipocritamente la responsabilità storico‑politica della classe dominante, riversando le ire popolari sugli strumenti materiali e spesso inconsapevoli della politica della classe dominante: continuava, in fondo, una politica giolittiana. A questa stessa tendenza appartiene l’articolo Carabinieri reali di Italo Toscani: il cane che morde il sasso e non la mano che lo lancia. Il Toscani è finito poi scrittore cattolico di destra nel «Corriere d’Italia». Era evidente che la guerra, con l’enorme sconvolgimento economico e psicologico che aveva determinato specialmente tra i piccoli intellettuali e i piccoli borghesi, avrebbe radicalizzati questi strati. Il partito se li rese nemici gratis, invece di renderseli alleati, cioè li ributtò verso la classe dominante.

Funzione della guerra negli altri paesi per selezionare i capi del movimento operaio e per determinare la precipitazione delle tendenze di destra. In Italia questa funzione non fu svolta dalla guerra (giolittismo), ma avvenne posteriormente in modo ben più catastrofico e con fenomeni di tradimento in massa e di diserzione quali non si erano visti in nessun altro paese.

Q3 §45 Passato e presente. La debolezza teorica, la nessuna stratificazione e continuità storica della tendenza di sinistra, sono state una delle cause della catastrofe. Per indicare il livello culturale si può citare il fatto di Abbo al Congresso di Livorno: quando manca un’attività culturale del partito, i singoli si fanno la cultura come possono e aiutando il vago del concetto di sovversivo, avviene appunto che un Abbo impari a memoria le scempiaggini di un individualista.

Q3 §46 Passato e presente. Il concetto prettamente italiano di «sovversivo» può essere spiegato così: una posizione negativa e non positiva di classe: il «popolo» sente che ha dei nemici e li individua solo empiricamente nei così detti signori (nel concetto di «signore» c’è molto della vecchia avversione della campagna per la città, e il vestito è un elemento fondamentale di distinzione: c’è anche l’avversione contro la burocrazia, in cui si vede unicamente lo Stato: il contadino – anche il medio proprietario – odia il «funzionario» non lo Stato, che non capisce, e per lui è questo il «signore» anche se economicamente il contadino gli è superiore, onde l’apparente contraddizione per cui per il contadino il signore è spesso un «morto di fame»).

Questo odio «generico» è ancora di tipo «semifeudale», non moderno, e non può essere portato come documento di coscienza di classe: ne è appena il primo barlume, è solo, appunto, la posizione negativa e polemica elementare: non solo non si ha coscienza esatta della propria personalità storica, ma non si ha neanche coscienza della personalità storica e dei limiti precisi del proprio avversario. (Le classi inferiori, essendo storicamente sulla difensiva, non possono acquistare coscienza di sé che per negazioni, attraverso la coscienza della personalità e dei limiti di classe dell’avversario: ma appunto questo processo è ancora crepuscolare, almeno su scala nazionale).

Un altro elemento per comprendere il concetto di «sovversivo» è quello dello strato noto con l’espressione tipica dei «morti di fame». I «morti di fame» non sono uno strato omogeneo, e si possono commettere gravi errori nella loro identificazione astratta. Nel villaggio e nei piccoli centri urbani di certe regioni agricole esistono due strati distinti di «morti di fame»: uno è quello dei «giornalieri agricoli», l’altro quello dei piccoli intellettuali. Questi giornalieri non hanno come caratteristica fondamentale la loro situazione economica, ma la loro condizione intellettuale‑morale: essi sono ubbriaconi, incapaci di laboriosità continuata e senza spirito di risparmio e quindi spesso biologicamente tarati o per denutrizione cronica o per mezza idiozia e scimunitaggine. Il contadino tipico di queste regioni è il piccolo proprietario o il mezzadro primitivo (che paga l’affitto con la metà, il terzo o anche i due terzi del raccolto secondo la fertilità e la posizione del fondo), che possiede qualche strumento di lavoro, il giogo di buoi e la casetta che spesso si è fabbricato egli stesso nelle giornate non lavorative, e che si è procurato il capitale necessario o con qualche anno di emigrazione, o andando a lavorare in «miniera», o con qualche anno di servizio nei carabinieri ecc., o facendo qualche anno il domestico di un grande proprietario, cioè «industriandosi» e risparmiando. Il «giornaliero» invece non ha saputo o voluto industriarsi e non possiede nulla, è un «morto di fame», perché il lavoro a giornata è scarso e saltuario: è un semimendicante, che vive di ripieghi e rasenta la malavita rurale.

Il «morto di fame» piccolo borghese è originato dalla borghesia rurale, la proprietà si spezzetta in famiglie numerose e finisce con l’essere liquidata, ma gli elementi della classe non vogliono lavorare manualmente: così si forma uno strato famelico di aspiranti a piccoli impieghi municipali, di scrivani, di commissionari, ecc. ecc. Questo strato è un elemento perturbatore nella vita delle campagne, sempre avido di cambiamenti (elezioni ecc.) e dà il «sovversivo» locale e poiché è abbastanza diffuso, ha una certa importanza: esso si allea specialmente alla borghesia rurale contro i contadini, organizzando ai suoi servizi anche i «giornalieri morti di fame». In ogni regione esistono questi strati, che hanno propaggini anche nelle città, dove confluiscono con la malavita professionale e con la malavita fluttuante. Molti piccoli impiegati delle città derivano socialmente da questi strati e ne conservano la psicologia arrogante del nobile decaduto, del proprietario che è costretto a penare col lavoro. Il «sovversivismo» di questi strati ha due facce: verso sinistra e verso destra, ma il volto sinistro è un mezzo di ricatto: essi vanno sempre a destra nei momenti decisivi e il loro «coraggio» disperato preferisce sempre avere i carabinieri come alleati.

Un altro elemento da esaminare è il così detto «internazionalismo» del popolo italiano. Esso è correlativo al concetto di «sovversivismo». Si tratta in realtà di un vago «cosmopolitismo» legato a elementi storici ben precisabili: al cosmopolitismo e universalismo medioevale e cattolico, che aveva la sua sede in Italia e che si è conservato per l’assenza di una «storia politica e nazionale» italiana. Scarso spirito nazionale e statale in senso moderno. Altrove ho notato che è però esistito ed esiste un particolare sciovinismo italiano, più diffuso di quanto non pare. Le due osservazioni non sono contradditorie: in Italia l’unità politica, territoriale, nazionale ha una scarsa tradizione (o forse nessuna tradizione), perché prima del 1870 l’Italia non è mai stata un corpo unito e anche il nome Italia, che al tempo dei Romani indicava l’Italia meridionale e centrale fino alla Magra e al Rubicone, nel Medioevo perdette terreno di fronte al nome Longobardia (vedere lo studio di C. Cipolla sul nome «Italia» pubblicato negli Atti dell’Accademia di Torino). L’Italia ebbe e conservò però una tradizione culturale che non risale all’antichità classica, ma al periodo dal Trecento al Seicento e che fu ricollegata all’età classica dall’Umanesimo e dal Rinascimento. Questa unità culturale fu la base molto debole invero del Risorgimento e dell’unità per accentrare intorno alla borghesia gli strati più attivi e intelligenti della popolazione, ed è ancora il sostrato del nazionalismo popolare: per l’assenza in questo sentimento dell’elemento politico‑militare e politico‑economico, cioè degli elementi che sono alla base della psicologia nazionalista francese o tedesca o americana, avviene che molti così detti «sovversivi» e «internazionalisti» siano «sciovinisti» in questo senso, senza credere di essere in contraddizione.

Ciò che è da notarsi, per capire la virulenza che assume talvolta questo sciovinismo culturale, è questo: che in Italia una maggior fioritura scientifica, artistica, letteraria ha coinciso col periodo di decadenza politica, militare, statale (Cinquecento‑Seicento). (Spiegare questo fenomeno: cultura aulica, cortigiana, cioè quando la borghesia dei comuni era in decadenza, e la ricchezza da produttiva era diventata usuraria, con concentrazioni di «lusso», preludio alla completa decadenza economica).

I concetti di rivoluzionario e di internazionalista, nel senso moderno della parola, sono correlativi al concetto preciso di Stato e di classe: scarsa comprensione dello Stato significa scarsa coscienza di classe (comprensione dello Stato esiste non solo quando lo si difende, ma anche quando lo si attacca per rovesciarlo), quindi scarsa efficienza dei partiti ecc. Bande zingaresche, nomadismo politico non sono fatti pericolosi e così non erano pericolosi il sovversivismo e l’internazionalismo italiano.

Tutte queste osservazioni non possono essere, naturalmente, categoriche e assolute: esse servono a tentare di descrivere certi aspetti di una situazione, per valutate meglio l’attività svolta per modificarla (o la non attività, cioè la non comprensione dei propri compiti) e per dare maggior risalto ai gruppi che da questa situazione emergevano per averla capita e modificata nel loro ambito. il «sovversivismo» popolare è correlativo al «sovversivismo» dall’alto, cioè al non essere mai esistito un «dominio della legge», ma solo una politica di arbitrii e di cricca personale o di gruppo.

Q3 §47 La scienza della politica e i positivisti. La politica non è che una determinata «fenomenologia» della delinquenza, è la «delinquenza settaria»: questo mi pare il succo del libro di Scipio Sighele, Morale privata e Morale politica, Nuova edizione de La delinquenza settaria riveduta ed aumentata dall’autore, Milano, Treves, 1913 (con in appendice riprodotto l’opuscolo Contro il parlamentarismo). Può servire come «fonte» per vedere come i positivisti intendevano la «politica», sebbene sia superficiale, prolisso e sconnesso. La bibliografia è compilata senza metodo, senza precisione e senza necessità (se un autore è citato nel libro per un’affermazione incidentale, nella bibliografia è riportato il libro da cui è presa la citazione). Il libro può servire come elemento per comprendere i rapporti che sono esistiti nel decennio 1890‑1900 tra gli intellettuali socialisti e i positivisti della scuola lombrosiana, ossessionati dal problema della criminalità, tanto da farne una concezione del mondo o quasi (cadevano in una strana forma di «moralismo» astratto, poiché il bene e il male era qualcosa di trascendente e di dogmatico, che in concreto coincideva con la morale del «popolo», del «senso comune»). Il libro del Sighele deve essere stato recensito da Guglielmo Ferrero, perché nella bibliografia è citato un articolo del Ferrero Morale individuale e morale politica nella «Riforma Sociale», anno I, n. XI‑XII. Libro di Ferri: Socialismo e criminalità; di Turati: Il delitto e la questione sociale. Vedere bibliografia di Lombroso, Ferri, Garofalo (antisocialista), Ferrero, e altri da ricercare.

L’opuscolo contro il parlamentarismo è anch’esso superficialissimo e senza sugo: può essere citato come una curiosità dati i tempi in cui fu scritto: è tutto imperniato sul concetto che le grandi assemblee, i collegi sono organismi tecnicamente inferiori al comando unico o di pochi, come se questa fosse la quistione principale. E pensare che il Sighele era un democratico e che appunto per ciò si staccò a un certo punto dal movimento nazionalista. In ogni caso forse è da collegare questo opuscolo del Sighele alle concezioni «organiche» del Comte.

Q3 §48 Passato e presente. Spontaneità e direzione consapevole. Dell’espressione «spontaneità» si possono dare diverse definizioni, perché il fenomeno cui essa si riferisce è multilaterale. Intanto occorre rilevare che non esiste nella storia la «pura» spontaneità: essa coinciderebbe con la «pura» meccanicità. Nel movimento «più spontaneo» gli elementi di «direzione consapevole» sono semplicemente incontrollabili, non hanno lasciato documento accertabile. Si può dire che l’elemento della spontaneità è perciò caratteristico della «storia delle classi subalterne» e anzi degli elementi più marginali e periferici di queste classi, che non hanno raggiunto la coscienza della classe «per sé» e che perciò non sospettano neanche che la loro storia possa avere una qualsiasi importanza e che abbia un qualsiasi valore lasciarne tracce documentarie.

Esiste dunque una «molteplicità» di elementi di «direzione consapevole» in questi movimenti, ma nessuno di essi è predominante, o sorpassa il livello della «scienza popolare» di un determinato strato sociale, del «senso comune» ossia della concezione del mondo tradizionale di quel determinato strato.

È appunto questo l’elemento che il De Man, empiricamente, contrappone al marxismo, senza accorgersi (apparentemente) di cadere nella stessa posizione di coloro che avendo descritto il folklore, la stregoneria ecc. e avendo dimostrato che questi modi di vedere hanno una radice storicamente gagliarda e sono abbarbicati tenacemente alla psicologia di determinati strati popolari, credesse di aver «superato» la scienza moderna e prendesse come «scienza moderna» gli articolucci dei giornali scientifici per il popolo e le pubblicazioni a dispense; è questo un vero caso di teratologia intellettuale, di cui si hanno altri esempi: gli ammiratori del folklore appunto, che ne sostengono la conservazione, gli «stregonisti» legati al Maeterlinck che ritengono si debba riprendere il filo dell’alchimia e della stregoneria, strappato dalla violenza, per rimettere la scienza su un binario più fecondo di scoperte ecc. Tuttavia il De Man ha un merito incidentale: dimostra la necessità di studiare ed elaborare gli elementi della psicologia popolare, storicamente e non sociologicamente, attivamente (cioè per trasformarli, educandoli, in una mentalità moderna) e non descrittivamente come egli fa; ma questa necessità era per lo meno implicita (forse anche esplicitamente dichiarata) nella dottrina di Iliˇc, cosa che il De Man ignora completamente.

Che in ogni movimento «spontaneo» ci sia un elemento primitivo di direzione consapevole, di disciplina, è dimostrato indirettamente dal fatto che esistono delle correnti e dei gruppi che sostengono la spontaneità come metodo. A questo proposito occorre fare una distinzione tra elementi puramente «ideologici», ed elementi d’azione pratica, tra studiosi che sostengono la spontaneità come «metodo» immanente ed obbiettivo del divenire storico e politicanti che la sostengono come metodo «politico». Nei primi si tratta di una concezione errata, nei secondi si tratta di una contraddizione immediata e meschina che lascia vedete l’origine pratica evidente, cioè la volontà immediata di sostituire una determinata direzione a un’altra. Anche negli studiosi l’errore ha un’origine pratica, ma non immediata come nei secondi. L’apoliticismo dei sindacalisti francesi dell’anteguerra conteneva ambedue questi elementi: era un errore teorico e una contraddizione (c’era l’elemento «soreliano» e l’elemento della concorrenza tra la tendenza politica anarchico‑sindacalista e la corrente socialistica). Essa era ancora la conseguenza dei terribili fatti parigini del 71: la continuazione, con metodi nuovi e con una brillante teoria, della passività trentennale (1870‑1900) degli operai francesi. La lotta puramente «economica» non era fatta per dispiacere alla classe dominante, tutt’altro. Così dicasi del movimento catalano, che se «dispiaceva» alla classe dominante spagnola, era solo per il fatto che obbiettivamente rafforzava il separatismo repubblicano catalano, dando luogo a un vero e proprio blocco industriale repubblicano contro i latifondisti, la piccola borghesia e l’esercito monarchici.

Il movimento torinese fu accusato contemporaneamente di essere «spontaneista» e «volontarista» o bergsoniano (!). L’accusa contradditoria, analizzata, mostra la fecondità e la giustezza della direzione impressagli. Questa direzione non era «astratta», non consisteva nel ripetere meccanicamente delle formule scientifiche o teoriche: non confondeva la politica, l’azione reale con la disquisizione teoretica; essa si applicava ad uomini reali, formatisi in determinati rapporti storici, con determinati sentimenti, modi di vedere, frammenti di concezioni del mondo ecc., che risultavano dalle combinazioni «spontanee» di un dato ambiente di produzione materiale, con il «casuale» agglomerarsi in esso di elementi sociali disparati. Questo elemento di «spontaneità» non fu trascurato e tanto meno disprezzato: fu educato, fu indirizzato, fu purificato da tutto ciò che di estraneo poteva inquinarlo, per renderlo omogeneo, ma in modo vivente, storicamente efficiente, con la teoria moderna. Si parlava dagli stessi dirigenti di «spontaneità» del movimento; era giusto che se ne parlasse: questa affermazione era uno stimolante, un energetico, un elemento di unificazione in profondità, era più di tutto la negazione che si trattasse di qualcosa di arbitrario, di avventuroso, di artefatto e non di storicamente necessario. Dava alla massa una coscienza «teoretica», di creatrice di valori storici ed istituzionali, di fondatrice di Stati.

Questa unità della «spontaneità» e della «direzione consapevole», ossia della «disciplina» è appunto la azione politica reale delle classi subalterne, in quanto politica di massa e non semplice avventura di gruppi che si richiamano alla massa. Si presenta una quistione teorica fondamentale, a questo proposito: la teoria moderna può essere in opposizione con i sentimenti «spontanei» delle masse? («spontanei» nel senso che non dovuti a un’attività educatrice sistematica da parte di un gruppo dirigente già consapevole, ma formatosi attraverso l’esperienza quotidiana illuminata dal «senso comune» cioè dalla concezione tradizionale popolare del mondo, quello che molto pedestremente si chiama «istinto» e non è anch’esso che un’acquisizione storica primitiva ed elementare). Non può essere in opposizione: tra di essi c’è differenza «quantitativa», di grado, non di qualità: deve essere possibile una «riduzione», per così dire, reciproca, un passaggio dagli uni all’altra e viceversa. (Ricordare che E. Kant ci teneva a che le sue teorie filosofiche fossero d’accordo col senso comune; la stessa posizione si verifica nel Croce: ricordare l’affermazione di Marx nella Sacra famiglia che le formule della politica francese della Rivoluzione si riducono ai principii della filosofia classica tedesca).

Trascurare e peggio disprezzare i movimenti così detti «spontanei», cioè rinunziare a dar loro una direzione consapevole, ad elevarli ad un piano superiore inserendoli nella politica, può avere spesso conseguenze molto serie e gravi. Avviene quasi sempre che a un movimento «spontaneo» delle classi subalterne si accompagna un movimento reazionario della destra della classe dominante, per motivi concomitanti: una crisi economica, per esempio, determina malcontento nelle classi subalterne e movimenti spontanei di massa da una parte, e dall’altra determina complotti dei gruppi reazionari che approfittano dell’indebolimento obbiettivo del governo per tentare dei colpi di Stato. Tra le cause efficienti di questi colpi di Stato è da porre la rinunzia dei gruppi responsabili a dare una direzione consapevole ai moti spontanei e a farli diventare quindi un fattore politico positivo. Esempio dei Vespri siciliani e discussioni degli storici per accertare se si trattò di movimento spontaneo o di movimento concertato: mi pare che i due elementi si siano combinati nei Vespri siciliani, la insurrezione spontanea del popolo siciliano contro i provenzali, estesasi rapidamente tanto da dare l’impressione della simultaneità e quindi del concerto esistente, per l’oppressione diventata ormai intollerabile su tutta l’area nazionale, e l’elemento consapevole di varia importanza ed efficienza, con il prevalere della congiura di Giovanni da Procida con gli Aragonesi. Altri esempi si possono trarre da tutte le rivoluzioni passate in cui le classi subalterne erano parecchie, e gerarchizzate dalla posizione economica e dall’omogeneità. I movimenti «spontanei» degli strati popolari più vasti rendono possibile l’avvento al potere della classe subalterna più progredita per l’indebolimento obbiettivo dello Stato. Questo è ancora un esempio «progressivo», ma sono, nel mondo moderno, più frequenti gli esempi regressivi.

La concezione storico‑politica scolastica e accademica, per cui è reale e degno solo quel moto che è consapevole al cento per cento e che anzi è determinato da un piano minutamente tracciato in antecedenza o che corrisponde (ciò che è lo stesso) alla teoria astratta. Ma la realtà è ricca delle combinazioni più bizzarre ed è il teorico che deve in questa bizzarria rintracciare la riprova della sua teoria, «tradurre» in linguaggio teorico gli elementi della vita storica, e non viceversa la realtà presentarsi secondo lo schema astratto. Questo non avverrà mai e quindi questa concezione non è che una espressione di passività. (Leonardo sapeva trovare il numero in tutte le manifestazioni della vita cosmica, anche quando gli occhi profani non vedevano che arbitrio e disordine).

Q3 §49 Argomenti di cultura. Materiale ideologico. Uno studio di come è organizzata di fatto la struttura ideologica di una classe dominante: cioè l’organizzazione materiale intesa a mantenere, a difendere e a sviluppare il «fronte» teorico o ideologico. La parte più ragguardevole e più dinamica di esso è la stampa in generale: case editrici (che hanno implicito ed esplicito un programma e si appoggiano a una determinata corrente), giornali politici, riviste di ogni genere, scientifiche, letterarie, filologiche, di divulgazione ecc., periodici vari fino ai bollettini parrocchiali. Sarebbe mastodontico un tale studio se fatto su scala nazionale: perciò si potrebbe fare per una città o per una serie di città una serie di studi. Un capocronista di quotidiano dovrebbe avere questo studio come traccia generale per il suo lavoro, anzi dovrebbe rifarselo per conto proprio: quanti bellissimi capicronaca si potrebbero scrivere sull’argomento!

La stampa è la parte più dinamica di questa struttura ideologica, ma non la sola: tutto ciò che influisce o può influire sull’opinione pubblica direttamente o indirettamente le appartiene: le biblioteche, le scuole, i circoli e clubs di vario genere, fino all’architettura, alla disposizione delle vie e ai nomi di queste. Non si spiegherebbe la posizione conservata dalla Chiesa nella società moderna, se non si conoscessero gli sforzi diuturni e pazienti che essa fa per sviluppare continuamente la sua particolare sezione di questa struttura materiale dell’ideologia. Un tale studio, fatto seriamente, avrebbe una certa importanza: oltre a dare un modello storico vivente di una tale struttura, abituerebbe a un calcolo più cauto ed esatto delle forze agenti nella società. Cosa si può contrapporre, da parte di una classe innovatrice, a questo complesso formidabile di trincee e fortificazioni della classe dominante? Lo spirito di scissione, cioè il progressivo acquisto della coscienza della propria personalità storica, spirito di scissione che deve tendere ad allargarsi dalla classe protagonista alle classi alleate potenziali: tutto ciò domanda un complesso lavoro ideologico, la prima condizione del quale è l’esatta conoscenza del campo da svuotare del suo elemento di massa umana.

Q3 §50 Concordato. Il padre L. Taparelli nel suo libro Esame critico degli ordini rappresentativi così definisce i concordati: «... sono convenzioni fra due autorità governanti una medesima nazione cattolica». Quando si stabilisce una convenzione, hanno per lo meno uguale importanza giuridica le interpretazioni della convenzione stessa che ne danno le due parti.

Q3 §51 Passato e presente. Inizio del 18 brumaio di Luigi Napoleone: il detto di Hegel che nella storia ogni fatto si ripete due volte: correzione di Marx che la prima volta il fatto si verifica come tragedia, la seconda volta come farsa. Questo concetto era già stato adombrato nel Contributo alla critica della filosofia del diritto: «Gli dei greci, tragicamente feriti a morte una prima volta nel Prometeo incatenato di Eschilo, subirono una seconda morte, la morte comica, nei dialoghi di Luciano. Perché questo cammino della storia? Affinché l’umanità si separi con gioia dal suo passato». («E questo gioioso destino storico noi lo rivendichiamo per le potenze politiche della Germania», ecc.).

Q3 §52 Le pilori de la vertu. Potrebbe diventare una bellissima rubrica di cronaca (o anche di terza pagina), se fatta con garbo, con arguzia e con leggero tocco di mano. Ricollegarla alle dottrine «criminaliste» esposte da Eugenio Sue nei Misteri di Parigi, per cui alla giustizia punitiva e a tutte le sue espressioni concrete si contrappone, per completarla, una giustizia rimuneratrice. «Juste en face de l’échafaud se dresse un pavois où monte le grand homme de bien. C’est le pilori de la vertu». (Cfr La Sacra Famiglia).

Q3 §53 Passato e presente. Influsso del romanticismo francese d’appendice. Tante volte mi sono riferito a questa «fonte di cultura» per spiegare certe manifestazioni intellettuali subalterne (ricordare l’uomo dei cessi inglesi e carielli meccanici). La tesi potrebbe essere svolta con una certa compiutezza e con riferimenti più larghi. Le «proposizioni» economico‑sociali di Eugenio Sue sono legate a certe tendenze del Saint‑Simonismo, cui si collegano anche le teorie sullo Stato organico e il positivismo filosofico. il Saint‑Simonismo ha avuto una sua diffusione popolare anche in Italia, direttamente (esistono pubblicazioni in proposito che dovranno essere consultate) e indirettamente attraverso i romanzi popolari che raccoglievano opinioni più o meno legate al Saint‑Simonismo, attraverso Louis Blanc ecc. come i romanzi di Eugenio Sue.

Ciò serve anche a mostrare come la situazione politica e intellettuale del paese era così arretrata che si ponevano gli stessi problemi che nella Francia del 48 e che i rappresentanti di questi problemi erano elementi sociali molto somiglianti a quelli francesi d’allora: bohème – piccoli intellettuali venuti dalla provincia ecc. (cfr sempre la Sacra famiglia nei capitoli «Révélation des mystères d’Economie politique»). Il principe Rodolfo è nuovamente assunto a regolatore della società, ma è un principe Rodolfo venuto dal popolo, quindi ancor più romantico (Nel ms seguono due parole rese illeggibili da G.), (d’altronde non si sa se nel tempo dei tempi non ci sia una casa principesca nel suo pedigree).

Q3 §54 Emilio Bodrero. Ramo aristocratico o nazionalistico del lorianismo. Il Bodrero è professore di università, credo di materia filosofica, sebbene non sia per nulla filosofo e neppure filologo o erudito della filosofia. Apparteneva al gruppo ardigoiano. Sottosegretario all’istruzione pubblica con Fedele, cioè in una gestione della Minerva che è stata molto criticata dagli stessi elementi più spregiudicati del partito al potere. Il Bodrero è, specificamente, autore di una circolare in cui si afferma che l’educazione religiosa è il coronamento dell’istruzione pubblica, che ha servito ai clericali per muovere all’assedio sistematico dell’organismo scolastico e che è diventata per i loro pubblicisti, l’argomentazione polemica decisiva (esposizione nell’opuscolo di Ignotus, il quale però deve ipocritamente tacere che la stessa affermazione è nel concordato).

Articolo del Bodrero Itaca Italia nella «Gerarchia» del giugno 1930: stupefacente. Per il Bodrero l’Odissea è «il poema della controrivoluzione», un parallelo tra il dopo guerra troiano ‑greco e il dopoguerra 19‑20 degno di un nuovo Bertoldo. I Proci sono... gli imboscati. Penelope è... la democrazia liberale. Il fatto che i Proci saccheggiano la dispensa di Ulisse, ne stuprano le ancelle e cercano di prendergli la moglie è una... rivoluzione. Ulisse è il... combattentismo. I Feaci sono l’Olanda o la Spagna neutrali che si arricchiscono sui sacrifizi altrui ecc. Ci sono poi delle proposizioni di metodo filologico: chi ha fatto la guerra e ha conosciuto il dopoguerra non può sostenere con sicurezza che l’Iliade e l’Odissea sono di un solo autore e sono unitarie in tutta la loro struttura (anche questa è una variazione della teoria della voce del sangue come origine e mezzo della conoscenza). Si potrebbe osservare, comicamente, che proprio Ulisse è il tipo del renitente alla leva e del simulatore di pazzia!.

Q3 §55 Passato e presente. Otto Kahn. Suo viaggio in Europa nel 1924. Sue dichiarazioni a proposito del regime italiano e di quello inglese di Mac Donald. Analoghe dichiarazioni di Paul Warburg (Otto Kahn e Paul Warburg appartengono ambedue alla grande firma americana Kuhn-Loeb et C°.), di Judge Gary, dei delegati della Camera di Commercio americana e di altri grandi finanzieri. Simpatie della grande finanza internazionale per il regime inglese e italiano. Come si spiega nel quadro dell’espansionismo mondiale degli Stati Uniti. La sicurezza dei capitali americani all’estero: intanto non azioni ma obbligazioni. Altre garanzie non puramente commerciali ma politiche per il trattato sui debiti concluso da Volpi (vedere atti parlamentari, perché nei giornali certe «minuzie» non furono pubblicate) e per il prestito Morgan. Atteggiamento di Caillaux e della Francia verso i debiti e il perché del rifiuto di Caillaux di concludere l’accordo. Tuttavia anche Caillaux rappresenta la grande finanza, ma francese, che tende anch’essa all’egemonia o per lo meno a una certa posizione di superiorità (in ogni caso non vuole essere subordinata). Il libro di Caillaux, Dove va la Francia? Dove va l’Europa?, in cui è esposto chiaramente il programma politico‑sociale della grande finanza e si spiega la simpatia per il laburismo. Somiglianze reali tra regime politico degli Stati Uniti e dell’Italia, notato anche in altra nota.

Q3 §56 La concezione del centralismo organico e la casta sacerdotale. Se l’elemento costitutivo di un organismo è posto in un sistema dottrinario rigidamente e rigorosamente formulato, si ha un tipo di direzione castale e sacerdotale. Ma esiste ancora la «garanzia» dell’immutabilità? Non esiste. Le formule verranno recitate a memoria senza mutar sillaba e virgola, ma l’attività reale sarà un’altra. Non bisogna concepire l’«ideologia», la dottrina come qualcosa di artificiale e sovrapposto meccanicamente (come un vestito sulla pelle, e non come la pelle che è organicamente prodotta dall’intero organismo biologico animale), ma storicamente, come una lotta incessante. Il centralismo organico immagina di poter fabbricare un organismo una volta per sempre, già perfetto obbiettivamente. Illusione che può essere disastrosa, perché fa affogare un movimento in un pantano di dispute personali accademiche. (Tre elementi: dottrina, composizione «fisica» della società di un determinato personale storicamente determinato, movimento reale storico. Il primo e il secondo elemento cadono sotto il controllo della volontà associata e deliberante. Il terzo elemento reagisce continuamente sugli altri due e determina la lotta incessante, teorica e pratica, per elevare l’organismo a coscienze collettive sempre più elevate e raffinate). Feticismo costituzionalistico. (Storia delle Costituzioni approvate durante la Rivoluzione francese: la Costituzione votata nel 93 dalla Convenzione fu deposta in un’arca di cedro nei locali dell’assemblea, e l’applicazione ne fu sospesa fino alla fine della guerra: anche la Costituzione più radicale poteva essere sfruttata dai nemici della Rivoluzione e perciò era necessaria la dittatura, cioè un potere non limitato da leggi fisse e scritte).

Q3 § 57. I nipotini di padre Bresciani. Papini. Notare come gli scrittori della  «Civiltà Cattolica» se lo tengono diletto e lo vezzeggiano e lo coccolano e lo difendono da ogni accusa di poca ortodossia. Frasi di Papini, desunte dal suo libro di S. Agostino e che mostrano la tendenza al secentismo (i gesuiti furono rappresentanti spiccati del secentismo): «quando si dibatteva per uscire dalle cantine dell’orgoglio a respirare l’aria divina dell’assoluto», «salire dal letamaio alle stelle» ecc. È evidente che Papini si è convertito non al cristianesimo, né al cattolicismo, ma propriamente al gesuitismo. (Si può dire che il gesuitismo è la fase più recente del cristianesimo cattolico).

Q3 §58 Riviste tipo. Tipo «Voce» ‑ «Leonardo». Composta da saggi originali. Reagire contro l’abitudine di riempire le riviste con traduzioni. Se collaborazione di stranieri, collaborazione originale. Ma le traduzioni di saggi scritti da stranieri hanno la loro importanza culturale, per reagire contro il provincialismo e la meschineria. Supplementi di sole traduzioni: ogni due mesi fascicoli dello stesso formato della rivista‑tipo, con altro titolo, (Supplemento ecc.) e numerazione di pagine indipendente, che contengano una scelta critico‑informativa delle pubblicazioni teoriche straniere. (Tipo «Rassegna delle riviste estere» stampata per qualche tempo dal Ministero degli Esteri).

Q3 §59 Passato e presente. L’influsso intellettuale della Francia. Ci siamo veramente liberati o lavoriamo effettivamente per liberarci dall’influsso francese? A me pare, in un certo senso, che l’influsso francese sia andato aumentando in questi ultimi anni e che esso andrà sempre più aumentando. Nell’epoca precedente, l’influsso francese giungeva in Italia disorganicamente come un fermento che metteva in ebollizione una materia ancora amorfa e primitiva: le conseguenze erano, in un certo senso, originali. Anche se la spinta al movimento era esterna, la direzione del movimento era originale, perché risultava da una componente delle forze indigene risvegliate. Ora invece, si cerca di limitare o addirittura di annullare questo influsso «disorganico», che si esercitava spontaneamente e casualmente, ma l’influsso francese è stato trasportato nel sistema stesso, nel centro delle forze motrici che vorrebbero appunto limitare e annullare. La Francia è diventata un modello negativo, ma siccome questo modello negativo è una mera apparenza, un fantoccio dell’argomentazione polemica, la Francia reale è il modello positivo. La stessa «romanità» in quanto ha qualcosa di efficiente, diventa un modello francese, poiché, come giustamente osserva il Sorel (lettere al Michels pubblicate nei «Nuovi Studi di Politica Economia Diritto»), la tradizione statale di Roma si è conservata specialmente nel centralismo monarchico francese e nello spirito nazionale statale del popolo francese. Si potrebbero trovare curiose prove linguistiche di questa imitazione: i marescialli dopo la guerra, il titolo di direttore della Banca d’Italia cambiato in governatore ecc. C’è nella lotta Francia‑Italia sottintesa una grande ammirazione per la Francia e per la sua struttura reale e da questa lotta nasce un influsso reale enormemente più grande di quello del periodo precedente. (Nazionalismo italiano copiato da nazionalismo francese ecc.: era la traccia, ben più importante che il mimetismo democratico, che questo influsso reale era già nato nel periodo precedente).

Q3 §60 Passato e presente. I morti di fame e la malavita professionale. Bohème, scapigliatura, leggera ecc. Nel libro La Scapigliatura milanese (M)lano, «Famiglia Meneghina» editrice, 1930, 16°, pp. 267, L. 15,00) Pietro Madini tenta una ricostruzione dell’ambiente generale di questo movimento letterario (antecedenti e derivazioni), compresi i rappresentanti delle scapigliature popolari, come la «Compagnia della Teppa» (verso il 1817), ritenuta una propaggine un po’ guasta della Carboneria, sciolta dall’Austria quando questa cominciò a temere l’azione patriottica del Bichinkommer. La Teppa è diventata oggi sinonimo di malavita, anzi di una speciale malavita, ma questa derivazione non è senza significato per comprendere l’atteggiamento della vecchia «Compagnia».

Ciò che Victor Hugo nell’Uomo che ride dice delle spavalderie che commettevano i giovani aristocratici inglesi era una forma di «teppa»; essa ha una traccia da per tutto, in un certo periodo storico (moscardini, Santa Vehme ecc.), ma si è conservata più a lungo in Italia; ricordare l’episodio di Terlizzi riportato dal giornale di Rerum Scriptor nel 12 o 13. Anche le così dette «burle» che tanta materia danno ai novellieri del Trecento‑Cinquecento rientrano in questo quadro: i giovani di una classe disoccupata economicamente e politicamente diventano «teppisti».

Q3 §61 Lotta di generazioni. Il fatto che la generazione anziana non riesca a guidare la generazione più giovane è in parte anche l’espressione della crisi dell’istituto famigliare e della nuova situazione dell’elemento femminile nella società. L’educazione dei figli è affidata sempre più allo Stato o a iniziative scolastiche private e ciò determina un impoverimento «sentimentale» per rispetto al passato e una meccanizzazione della vita. Il più grave è che la generazione anziana rinunzia al suo compito educativo in determinate situazioni, sulla base di teorie mal comprese o applicate in situazioni diverse da quelle di cui erano l’espressione. Si cade anche in forme statolatriche: in realtà ogni elemento sociale omogeneo è «Stato», rappresenta lo Stato, in quanto aderisce al suo programma: altrimenti si confonde lo Stato con la burocrazia statale. Ogni cittadino è «funzionario» se è attivo nella vita sociale nella direzione tracciata dallo Stato‑governo, ed è tanto più «funzionario» quanto più aderisce al programma statale e lo elabora intelligentemente.

Q3 §62 Passato e presente. L’influsso intellettuale della Francia. La fortuna, incredibile, del superficialissimo libro di Léon Daudet sullo «stupido secolo XIX»; la formula dello stupido secolo è diventata una vera giaculatoria che si ripete a casaccio, senza capirne la portata. Nel sistema ideologico dei monarchici francesi questa formula è comprensibile e giustificata: essi creano o vogliono creare il mito dell’ancien régime (sol nel passato è il vero, sol nel passato è il bello) e programmaticamente deprezzano tutta la «parentesi» tra il 1789 e il domani della restaurazione, tra l’altro anche la formazione dell’unità statale italiana. Ma per gli italiani che significato ha questa formula? Vogliono restaurare le condizioni di prima del Risorgimento? Il secolo XIX è stupido perché esso ha espresso le forze che hanno unificato l’Italia?

Ideologia di sotterfugi: c’è una corrente, molto stupida nelle sue manifestazioni, che realmente cerca di riabilitare gli antichi regimi, specialmente quello borbonico, e ciò proprio con spirito apologetico (parallelamente agli studi storici che cercano di ricostruire obbiettivamente i fatti). Ma in tutte queste espressioni mi pare sia l’imbarazzo di chi vorrebbe avere una tradizione e non può averla (una tradizione rumorosa, come potrebbe essere quella francese di Luigi XIV o di Napoleone) o è costretto a risalire troppi secoli, e nella reale tradizione del paese vede contenuta troppa quantità di argomenti polemici negativi. Appunto per questo la fortuna della frase di Daudet è un tipico esempio di sudditanza alle correnti intellettuali francesi.

La quistione, però, ha un aspetto generale molto interessante: quale deve essere l’atteggiamento di un gruppo politico innovatore verso il passato, specialmente verso il passato più prossimo? Naturalmente deve essere un atteggiamento essenzialmente «politico», determinato dalle necessità pratiche, ma la quistione consiste precisamente nella determinazione dei «limiti» di un tale atteggiamento. Una politica realistica non deve solo tener presente il successo immediato (per determinati gruppi politici, però, il successo immediato è tutto: si tratta dei movimenti puramente repressivi, per i quali si tratta specialmente di dare un gran colpo ai nemici immediati, di terrorizzare i gregari di questi e quindi acquistare il respiro necessario per riorganizzare e rafforzare con istituzioni appropriate la macchina repressiva dello Stato), ma anche salvaguardare e creare le condizioni necessarie per l’attività avvenire e tra queste condizioni è l’educazione popolare. Questo è il punto. L’atteggiamento sarà tanto più «imparziale», cioè storicamente «obbiettivo», quanto più elevato sarà il livello culturale e sviluppato lo spirito critico, il senso delle distinzioni. Si condanna in blocco il passato quando non si riesce a differenziarsene, o almeno le differenziazioni sono di carattere secondario e si esauriscono quindi nell’entusiasmo declamatorio. È certo d’altronde che nel passato si può trovare tutto quello che si vuole, manipolando le prospettive e l’ordine delle grandezze e dei valori.

Il secolo XIX ha voluto dire nell’ordine politico sistema rappresentativo e parlamentare. È vero che in Italia questo sistema è stato importato meccanicamente? Esso è stato ottenuto con una lotta, alla quale le grandi masse della popolazione non sono state chiamate a partecipare: esso si è adattato a queste condizioni assumendo forme bene specificate, italiane, inconfondibili con quelle degli altri paesi. La tradizione italiana perciò presenta diversi filoni: quello della resistenza accanita, quello della lotta, quello dell’accomodantismo e dello spirito di combinazione (che è la tradizione ufficiale). Ogni gruppo può richiamarsi a uno di questi filoni tradizionali, distinguendo tra fatti reali e ideologie, tra lotte effettive e lotte verbali ecc. ecc.; può anche sostenere di iniziare una nuova tradizione, di cui nel passato si trovano solo elementi molecolari, non già organizzati, e mettere in valore questi elementi, che per lo stesso loro carattere non sono compromettenti, cioè non possono dar luogo a una elaborazione ideologica organica che si contrapponga all’attuale, ecc.

Q3 §63 I nipotini di padre Bresciani. Letteratura popolare. Nota nella «Critica Fascista» del 1° agosto 1930 in cui si lamenta che due grandi quotidiani, uno di Roma e l’altro di Napoli, iniziano la pubblicazione in appendice di questi romanzi: Il Conte di Montecristo e Giuseppe Balsamo di A. Dumas, il Calvario di una madre di Paolo Fontenay. Scrive la «Critica»: «L’ottocento francese è stato senza dubbio un periodo aureo per il romanzo d’appendice, ma debbono avere un ben scarso concetto dei propri lettori quei giornali che ristampano romanzi di un secolo fa, come se il gusto, l’interesse, l’esperienza letteraria non fossero per niente mutate da allora ad ora. Non solo, ma ... perché non tener conto che esiste, malgrado le opinioni contrarie, un romanzo moderno italiano? E pensare che questa gente è pronta a spargere lacrime d’inchiostro sulla infelice sorte delle patrie lettere». La «Critica» confonde due quistioni: quella della letteratura artistica (così detta) e quella della letteratura popolare (poiché così si pone la quistione nella storia della cultura, sebbene evidentemente nulla impedisca, in teoria, che esista o possa esistere una letteratura popolare artistica: essa si verificherà quando ci sarà una identità di classe tra «popolo» e scrittori e artisti, cioè quando i sentimenti popolari saranno vissuti come propri dagli artisti; ma allora tutto sarà cambiato, cioè si potrà parlare di letteratura popolare solo per metafora) e non si pone il terzo problema del perché non esista una letteratura popolare artistica. I giornali non si propongono di diffondere le belle lettere: sono organismi politico‑finanziari. Il romanzo d’appendice è un mezzo per diffondersi tra le classi popolari, ciò che significa successo politico e successo commerciale. Il giornale cerca perciò il romanzo, il tipo di romanzo, che piace al popolo, che farà certamente comprare il foglio continuativamente. L’uomo del popolo compra un solo giornale, quando lo compra: la sua scelta non è puramente personale, ma di gruppo famigliare: le donne pesano molto nella scelta e insistono per il bel romanzo interessante (ciò non significa che anche gli uomini non leggano il romanzo, ma il peso maggiore è nelle donne): da ciò deriva il fatto che i giornali puramente politici o d’opinione non hanno potuto mai avere una diffusione grande: essi sono comprati dagli scapoli, uomini e donne che si interessano fortemente della politica e da un numero mediocre di famiglie, che pure non sono dell’opinione generale del giornale che leggono. (Ricordare alcuni giornali popolari che pubblicavano fino a tre romanzi d’appendice, come il «Secolo» di un certo periodo). Perché i giornali italiani del 1930, se vogliono diffondersi, devono pubblicare in appendice i romanzi d’appendice di un secolo fa? E anche i romanzi d’appendice di un determinato tipo? E perché non esiste in Italia una letteratura «nazionale» del genere?

Osservare il fatto che in molte lingue «nazionale» e «popolare» sono quasi sinonimi (in russo, in tedesco «volkisch» ha quasi un significato ancora più intimo, di razza, nelle lingue slave in genere; in francese ha il significato stesso, ma già più elaborato politicamente, legato cioè al concetto di «sovranità»; sovranità nazionale e sovranità popolare hanno valore uguale o l’hanno avuto). In Italia gli intellettuali sono lontani dal popolo, cioè dalla «nazione» e sono legati a una tradizione di casta, che non è mai stata rotta da un forte movimento politico popolare o nazionale, tradizione «libresca» e astratta.

Cfr gli articoli di Umberto Fracchia nell’«Italia Letteraria» del luglio 1930 e la Lettera a Umberto Fracchia sulla critica di Ugo Ojetti nel «Pègaso» dell’agosto 1930. I lamenti del Fracchia sono dello stesso tipo di quelli della «Critica Fascista». La letteratura «nazionale» così detta «artistica» non è popolare in Italia. Di chi la colpa? Del pubblico che non legge? Della critica che non sa presentare ed esaltare al pubblico i valori letterari? Dei giornali che invece di pubblicare in appendice il «romanzo moderno italiano» pubblicano il vecchio Conte di Montecristo? Ma perché il pubblico non legge in Italia mentre legge in altri paesi? Ed è poi vero che non legga? Non sarebbe più esatto dire: perché il pubblico italiano legge la letteratura straniera, popolare e non popolare, e non legge invece quella italiana? Lo stesso Fracchia non ha pubblicato degli ultimatum agli editori che pubblicano (e quindi vendono relativamente) opere straniere, minacciando provvedimenti governativi? E questi provvedimenti non ci sono stati in parte per opera di Michele Bianchi, sottosegretario agli interni? Cosa significa il fatto che gli italiani leggono a preferenza gli scrittori stranieri? Che esso subisce l’egemonia degli intellettuali stranieri, che esso si sente legato più agli intellettuali stranieri che a quelli nazionali: che non esiste in Italia un blocco nazionale intellettuale e morale. Gli intellettuali non escono dal popolo, non ne conoscono i bisogni, le aspirazioni, i sentimenti diffusi, ma sono qualcosa di staccato, di campato in aria, una casta cioè. La quistione deve essere estesa a tutta la cultura popolare o nazionale e non al solo romanzo o alla sola letteratura: il teatro, la letteratura scientifica in generale (scienze propriamente dette, storia ecc.): perché non ci sono in Italia dei tipi di scrittori come Flammarion? la letteratura divulgativa in generale francese. Tradotti, questi libri stranieri, sono letti e ricercati. Dunque tutta la classe colta, con la sua attività intellettuale è staccata dal popolo, dalla nazione, non perché il «popolo nazione» non abbia dimostrato e non dimostri di interessarsi a queste attività intellettuali in tutti i suoi gradi, dai più infimi (romanzacci d’appendice) ai più elevati, tanto vero che ricerca i libri stranieri, ma perché l’elemento intellettuale indigeno è più straniero degli stranieri di fronte a questo popolo‑nazione. La quistione non è d’oggi: essa si è posta fin dalla fondazione dello Stato italiano: il libro di R. Bonghi ne è documento. Anche la quistione della lingua posta dal Manzoni riflette questo problema, il problema dell’unità morale della nazione e dello Stato, ricercato nell’unità della lingua. Ma la lingua è strumento esterno e non necessario esclusivamente dell’unità: in ogni caso è effetto e non causa. Scritti di F. Martini sul teatro: tutta una letteratura.

In Italia è mancato il libro popolare, romanzo o d’altro genere. Nella poesia dei tipi come Béranger e tutti i chansonniers popolari francesi. Tuttavia ce ne sono stati, individualmente, e hanno avuto fortuna. Guerrazzi ha avuto fortuna e i suoi libri hanno continuato ad essere pubblicati fino a poco tempo fa. Carolina Invernizio è stata letta, sebbene fosse a un livello più basso dei Ponson e dei Montépin. Mastriani è stato letto. (Ricordo un articolo di Papini sulla Invernizio pubblicato nel «Resto del Carlino» durante la guerra, mi pare, verso il 1916: non so se ristampato in qualche raccolta‑libro. Mi pare che il Papini scrivesse qualcosa di interessante su questa onesta gallina della letteratura, appunto notando come la Invernizio si facesse leggere dal popolo. Si potrà vedere in qualche bibliografia di Papini la data di questo articolo o altre indicazioni: forse nella bibliografia pubblicata nel saggio del Palmieri). Il popolo legge o si interessa in altro modo alla produzione letteraria. Diffusione dei Reali di Francia e del Guerrin Meschino specialmente nell’Italia meridionale e nelle montagne. I Maggi in Toscana: gli argomenti trattati dai Maggi sono tratti dai libri e dalle novelle di carattere popolare: la Pia dei Tolomei ecc. (deve esistere qualche pubblicazione sui Maggi e una registrazione approssimativa degli argomenti che trattano).

I laici hanno fallito nella soddisfazione dei bisogni intellettuali del popolo: io credo proprio per non avere rappresentato una cultura laica, per non aver saputo creare un nuovo umanesimo, adatto ai bisogni del mondo moderno, per aver rappresentato un mondo astratto, meschino, troppo individuale ed egoista. La letteratura popolare francese che, per esempio, è diffusa anche in Italia, rappresenta in maggiore o minor grado, in modo più o meno simpatico, questo «nuovo umanesimo», questo laicismo. Guerrazzi lo rappresentava, il Mastriani ecc.

Ma se i laici hanno fallito, i cattolici non hanno avuto miglior successo. Pare che i libri ameni cattolici siano molto letti, perché hanno discrete tirature: ma il più delle volte si tratta di oggetti che vengono regalati nelle cerimonie e che non vengono letti che per castigo o per disperazione. Colpisce il fatto che nel campo del romanzo o delle narrazioni avventurose i cattolici non abbiano avuto una maggiore letteratura e una maggiore fortuna: eppure essi avrebbero una sorgente inesauribile nei viaggi e nelle vite avventurose dei missionari. Ma anche nel periodo di maggior espansione del romanzo geografico d’avventura, la letteratura cattolica in argomento è stata meschina: i libri di Ugo Mioni (credo padre gesuita) e le vicende del cardinal Massaja in Abissinia devono essere i più fortunati. Anche nella letteratura scientifica i cattolici non hanno gran che (letteratura scientifica popolare), nonostante abbiano avuto grandi astronomi come il padre Secchi (gesuita) e l’astronomia sia la scienza che più interessa il popolo. Questa letteratura cattolica è troppo impregnata di apologetica gesuitica e stucca per la sua meschinità. Questa poca fortuna della letteratura popolare cattolica indica come ci sia ormai una rottura profonda tra la religione e il popolo, che si trova in uno stato miserrimo di indifferentismo e di assenza di vita spirituale: la religione è solo una superstizione, ma non è stata sostituita da una nuova moralità laica e umanistica per l’impotenza degli intellettuali laici (la religione non è stata né sostituita, né intimamente trasformata e nazionalizzata come in altri paesi, come in America lo stessogesuitismo: l’Italia è ancora, come popolo, nelle condizioni generali create dalla Controriforma).

(La religione si è combinata col folklore pagano ed è rimasta a questo stadio. Cfr  sul folklore).

Q3 §64 I nipotini di padre Bresciani. Mario Puccini, Cola o Ritratto dell’Italiano, Casa Editrice Vecchioni, Aquila, 1927. Cola è un contadino toscano, territoriale durante la guerra, con cui il Puccini vorrebbe rappresentare il «vecchio italiano» ecc.

... «il carattere di Cola, ... senza reazioni ma senza entusiasmi, capace di fare il proprio dovere e anche di compiere qualche atto di valore ma per obbedienza e per necessità e con un tenero rispetto per la propria pelle, persuaso sì e no della necessità della guerra ma senza nessun sospetto di valori eroici ... il tipo di una coscienza, se non completamente sorda, certo passiva alle esigenze ideali, tra la bacchettona e pigra, resistente a guardare oltre gli “ordini del governo” e oltre le modeste funzioni della vita individuale, contento in una parola dell’esistenza di pianura senza ambizione delle alte cime». (Dalla recensione pubblicata nella «Nuova Antologia» del 16 marzo 1928, p. 270).

Q3 §65 Massimo Lelj, Il Risorgimento dello spirito italiano (1725‑1861), L’«Esame», Edizioni di Storia Moderna, Milano 1928, L. 15,00. (Cosa è?)

Q3 §66 Lorianesimo e secentismo. Paolo Orano. Un articolo di P. Orano su Ibsen sulla « Nuova Antologia» del 1° aprile 1928. Un aforisma pregnante di vacuità: «L’autentico (! cioè il corrispettivo rinforzato del tanto screditato “vero”) sforzo moderno dell’arte drammatica è consistito nel risolvere scenicamente (!) gli assurdi (!) della vita consapevole (!). Fuori di ciò il teatro può essere un bellissimo gioco consolatore (!), un amabile passatempo, non altro». Altro aforisma come sopra: «Con lui e per lui (Ibsen) abbiamo incominciato a credere all’eternità dell’attimo, perché l’attimo è pensiero, ed al valore assoluto della personalità individuale, che è agente e giudice fuor del tempo e dello spazio, oltre i rimorsi temporali e il nulla spaziale, momento e durata inattingibili al criterio della scienza e della religione» .

Q3 §67 Gerrymandering. (Non so cosa significa mandering). Gerry, un americano, che avrebbe applicato per primo il trucco elettorale di raggruppare arbitrariamente le circoscrizioni per avere maggioranze fittizie. (Questo trucco si verifica specialmente nei collegi uninominali, costituiti in modo che pochi elettori bastano per eleggere i deputati di destra, mentre ne occorrono enormemente di più per eleggere un deputato di sinistra: cfr le elezioni francesi del 1928 e confronta il numero di voti e gli eletti del partito Marin e quelli del gruppo Cachin. Questo trucco si applica poi nei plebisciti per le quistioni nazionali, estendendo a zone più ampie di quella dove una minoranza è omogenea la circoscrizione ecc.). (Vedere chi era Gerry ecc.).

Q3 §68 Americanismo. Ricordare il libro di Guglielmo Ferrero Fra i due mondi: quanti dei luoghi comuni del Ferrero sono entrati in circolazione a proposito dell’America e continuano a essere spesi senza ricordate il conio e la zecca? (Quantità contro qualità, per esempio). Fra i due mondi è di prima della guerra, ma anche dopo il Ferrero ha insistito su questi tasti. Vedere.

Sull’americanismo vedi articolo L’America nella letteratura francese del 1927 di Étienne Fournol nella «Nuova Antologia» del 1° aprile 1928, comodo perché vi si possono trovare registrati i luoghi comuni più marchiani sull’argomento. Parla del libro di Siegfried e di quello del Romier (Qui sera le maître?) e accenna a un libro di Andrea Tardieu (Devant l’obstacle: l’Amérique et nous, Parigi, Librairie Emil Paul) e a due libri di Luc Durtain, un romanzo Hollywood dépassé e una raccolta di novelle Quarantième étage, editi dalla N.R.F. e che paiono interessanti.

A proposito del prof. Siegfried si noti questa sua contraddizione: a pag. 350 del suo libro Les États‑Unis d’aujourd’hui egli ha riconosciuto nella vita americana «l’aspetto d’una società realmente collettivistica, voluto dalle classi elette e accettato allegramente (sic) dalla moltitudine», e poi scrive la prefazione del libro del Philip sul movimento operaio americano e lo loda, sebbene non vi si dimostri precisamente questa «allegria» e che in America non ci sia lotta di classe, anzi vi si dimostra l’esistenza della più sfrenata e feroce lotta di una parte contro l’altra. Lo stesso confronto si dovrebbe fare tra il libro del Romier e quello del Philip. Perché dunque è stato accettato così facilmente in Europa (ed è stato diffuso così abilmente) questo cliché degli Stati Uniti senza lotta di classi, ecc. ecc.? Si combatte l’americanismo per i suoi elementi sovversivi della stagnante società europea, ma si crea il cliché dell’omogeneità sociale americana per uso di propaganda e come premessa ideologica di leggi eccezionali.

Q3 §69 Utopie e romanzi filosofici e loro rapporti con lo sviluppo della critica politica, ma specialmente con le aspirazioni più elementari e profonde delle moltitudini. Studiare se c’è un ritmo nell’apparizione di questi prodotti letterari: coincidono con determinati periodi, con i sintomi di profonde mutazioni storiche? Compilare un elenco i questi lavori, utopie propriamente dette, romanzi filosofici, libri che attribuiscono a paesi lontani e sconosciuti ma esistenti determinate usanze e istituzioni che si vogliono contrapporre a quelle del proprio paese. L’Utopia di T. Moro, la Nuova Atlantide di Bacone, l’Isola dei Piaceri e la Salento di Fénelon (ma anche il Telemaco), i Viaggi di Gulliver dello Swift ecc.

Q3 §70 Frate Vedremo. Questa espressione è usata da Giuseppe De Maistre in una Memoria del 6 luglio 1814 (scritta da Pietroburgo dove era ambasciatore) e pubblicata nelle (Œuvres complètes, Lione 1886, tome 1° Correspondance diplomatique. Egli scrive a proposito della politica piemontese: «Notre système, timide, neutre, suspensif, tâtonnant, est mortel dans cet état des choses... Il faut avoir l’œil bien ouvert et prendre garde à l’ennemi des grands coups, lequel s’appelle Frère‑Vedremo». (Un paragrafo su «Frate Vedremo» nella rubrica «Passato e presente»).

Q3 §71 Utopie e romanzi filosofici. In un articolo di Giuseppe Gabrieli su Federico Cesi linceo nella «Nuova Antologia» del 1° agosto 1930 si stabilisce un nesso storico‑ideologico tra la ControRiforma (che contrappone all’individualismo, acuito dall’Umanesimo e sbrigliato dal Protestantesimo, lo spirito romano di collegialità, di disciplina, di corporazione, di gerarchia per la ricostruzione della società), le Accademie (come quella dei Lincei tentata dal Cesi, cioè il lavoro collegiale degli scienziati, di tipo ben diverso da quello dei centri universitari, rimasti medioevali nei metodi e nelle forme), e le idee e le audacie delle grandi teorie, delle riforme palingenetiche o utopistiche ricostruzioni dell’umana convivenza (la Città del Sole, la Nuova Atlantide ecc.).

Mi pare che ci sia troppo di stiracchiato in questo nesso e bisogna invece vedere se queste iniziative non siano l’unica forma in cui la «modernità» poteva vivere nell’ambiente della Controriforma: la Controriforma, come tutte le Restaurazioni, non poté non essere che un compromesso e una combinazione sostanziale, se non formale, tra il vecchio e il nuovo, ecc. (Bisogna però tener conto delle scoperte scientifiche del tempo e dello spirito «scientifista» che si diffuse: di un certo «razionalismo» avant la lettre ecc.).

Q3 §72 Rubriche scientifiche. Il tipo del giornale quotidiano in Italia è determinato dall’insieme delle condizioni culturali del paese: mancanza di letteratura di divulgazione, scarsità di riviste popolari di divulgazione. Il lettore del giornale vuole trovare perciò nel suo foglio riflessi tutti gli aspetti della complessa vita sociale di una nazione moderna. È notevole il fatto che il giornale italiano, relativamente meglio fatto di quello di altri paesi, abbia sempre trascurato l’informazione scientifica, mentre aveva un corpo notevole di giornalisti‑economisti (Einaudi, Cabiati, ecc.) e di giornalisti‑letterati o di cultura generale (Borgese, Cecchi, Ojetti, Bellonci, ecc.). Anche nelle riviste importanti (come la «Nuova Antologia» e la «Rivista d’Italia») la rubrica scientifica era molto inferiore alle altre (il Bertarelli, il Dott. Ry formano un’eccezione relativa). Non ho mai visto la rivista di filosofia scientifica l’«Arduo» che si pubblicava a Bologna diretta da Sebastiano Timpanaro (Mario Pant).

Tuttavia l’informazione scientifica dovrebbe essere integrante di un giornale quotidiano in Italia, sia come notiziario scientifico‑tecnologico, sia come esposizione critica delle ipotesi e opinioni scientifiche più importanti (la parte igienica dovrebbe costituire una rubrica a parte nella rubrica generale scientifica). Un giornale popolare, più che gli altri dovrebbe avere questa sezione, per controllare e dirigere l’apprendimento dei suoi lettori e «sprovincializzare» le nozioni correnti. Difficoltà di avere specialisti che sappiano scrivere popolarmente. Si potrebbe fare lo spoglio sistematico delle riviste generali e di cultura professionale, gli atti delle Accademie e le pubblicazioni straniere e compilare estratti e riassunti in appendici speciali o nella terza pagina (come sezione speciale), scegliendo accuratamente e con intelligenza il materiale.

Q3 §73 I nipotini di padre Bresciani. Luigi Capuana. Da un articolo di Luigi Tonelli Il carattere e l’opera di Luigi Capuana nella Nuova Antologia del 1° maggio 1928: «Re Bracalone (romanzo fiabesco: il secolo XX è creato, per forza d’incanto, nello spazio di brevi giorni, nei tempi di “c’era una volta”; ma dopo averne fatta l’amara esperienza, il re lo distrugge, preferendo ritornare ai tempi primitivi) c’interessa anche sotto il riguardo ideologico; ché, in un periodo d’infatuazione (!) internazionalista socialistoide, ebbe il coraggio di bollare a fuoco (!) “le sciocche sentimentalità della pace universale, del disarmo e le non meno sciocche sentimentalità dell’uguaglianza economica e della comunità dei beni” ed esprimere l’urgenza di “tagliar corto alle agitazioni che han già creato uno Stato dentro lo Stato, un governo irresponsabile” ed affermare la necessità di una coscienza nazionale: “Ci fa difetto la dignità nazionale; bisogna creare il nobile orgoglio di essa, spingerlo fino all’eccesso. È l’unico caso in cui l’eccesso non guasta”». Il Tonelli è sciocco, ma il Capuana non scherza anche lui col suo frasario da giornaletto di provincia: bisognerebbe poi vedere cosa vale la sua ideologia del «C’era una volta» e del patriarcalismo primitivo.

Del Capuana occorrerà ricordate il teatro dialettale e le sue opinioni sulla lingua nel teatro a proposito della quistione della lingua nella letteratura italiana. Alcune commedie del Capuana (come Giacinta, Malìa, Il Cavalier Pedagna) furono scritte originariamente in italiano e poi voltate in dialetto: solo in dialetto ebbero grande successo. Il Tonelli, che non capisce nulla, scrive che il Capuana fu indotto alla forma dialettale nel teatro «non soltanto dalla convinzione che “bisogna passare pei teatri dialettali, se si vuole davvero arrivare al teatro nazionale italiano” ..., ma anche e soprattutto dal carattere particolare delle sue creazioni drammatiche: le quali sono squisitamente dialettali, e nel dialetto trovano la loro più naturale e schietta espressione». Ma cosa poi significa «creazioni squisitamente dialettali»? Il fatto è spiegato col fatto stesso, cioè non è spiegato. Vedere nel teatro di Pirandello le commedie in italiano e quelle in dialetto. La lingua non ha «storicità» di massa, non è un fatto nazionale. Liolà in italiano non vale nulla sebbene Il fu Mattia Pascal da cui è tratta sia abbastanza interessante.

Nel teatro in italiano, l’autore non si mette all’unisono col pubblico, non ha la prospettiva della storicità della lingua quando i personaggi vogliono essere «concretamente» italiani. Perché in Italia ci sono due lingue: l’italiano e il dialetto regionale e nella vita famigliare si adopera il dialetto: l’italiano, in gran parte, è un esperanto, cioè una lingua parziale ecc.

Quando si afferma la grande ricchezza espressiva dell’italiano si cade in un equivoco: si confonde la ricchezza espressiva registrata nel vocabolario o contenuta inerte nella letteratura stampata, con la ricchezza individuale che si può spendere individualmente. Quest’ultima conta, specialmente in certi casi: per misurare il grado di unità linguistica nazionale, per esempio, che non è dato dal vocabolario ma dalla vivente parlata del popolo.

Nel dialogo teatrale è evidente l’importanza di questo elemento: il dialogo dal palcoscenico deve suggerire immagini viventi, in tutta la loro concretezza storica, invece suggerisce, in gran parte, immagini libresche. Le parole della parlata famigliare si riproducono nell’ascoltatore come ricordo di parole lette nei libri o nei giornali e ricercate nel vocabolario, come sarebbe il francese in teatro ascoltato da uno che il francese ha imparato sui libri senza maestro: la parola è ossificata, senza articolazioni di sfumature, senza la comprensione del suo significato esatto che è dato da tutto il periodo ecc. Si ha l’impressione di essere goffi, o che goffi siano gli altri. Si osservi nell’italiano parlato quanti errori di pronunzia fa l’uomo del popolo: profùgo, rosèo, ecc., ciò che significa che le parole italiane le ha lette, non sentite e non sentite ripetutamente, cioè collocate in periodi diversi, ognuno dei quali abbia fatto brillare una sfaccettatura di quel poliedro che è ogni parola.

Q3 §74 Giulio Bertoni e la linguistica. Bisognerebbe scrivere una stroncatura del Bertoni come linguista, per gli atteggiamenti assunti ultimamente col suo scritto nel Manualetto di linguistica e nel volumetto pubblicato dal Petrini (vedi brano pubblicato dalla «Nuova Italia» dell’agosto 1930). Mi pare si possa dimostrare che il Bertoni né è riuscito a dare una teoria generale delle innovazioni portate dal Bartoli nella linguistica, né è riuscito a capire in che consistano queste innovazioni e quale sia la loro importanza pratica e teorica.

Del resto nell’articolo pubblicato qualche anno fa nel «Leonardo» sugli studi linguistici in Italia egli non distingue per nulla il Bartoli dalla comune schiera e anzi per il gioco dei chiaroscuri lo mette in seconda linea, a differenza del Casella che nel recente articolo sul «Marzocco» a proposito della Miscellanea Ascoli, pone in rilievo l’originalità del Bartoli: nell’articolo bertoniano del «Leonardo» è da rilevare come il Campus appaia addirittura superiore al Bartoli, quando i suoi studi sulle velari ario europee non sono che piccoli saggi in cui si applica puramente e semplicemente il metodo generale del Bartoli e furono dovuti ai suggerimenti del Bartoli stesso; è il Bartoli che disinteressatamente ha messo in valore il Campus e ha sempre cercato di metterlo in prima linea: il Bertoni, forse non senza accademica malizia, in un articolo come quello del «Leonardo» in cui occorreva quasi contare le parole dedicate a ogni studioso, per dare una giusta prospettiva, ha combinato le cose in modo che il Bartoli è messo in un cantuccio. Errore del Bartoli di aver collaborato col Bertoni nella compilazione del Manualetto, e dico errore e responsabilità scientifica. Il Bartoli è apprezzato per i suoi lavori concreti: lasciando scrivere al Bertoni la parte teorica induce in errore gli studenti e li spinge su una falsa strada: in questo caso la modestia e il disinteresse diventano una colpa.

D’altronde il Bertoni, se non ha capito il Bartoli, non ha nemmeno capito l’estetica del Croce, nel senso che dall’estetica crociana non ha saputo derivare dei canoni di ricerca e di costruzione della scienza del linguaggio, ma non ha fatto che parafrasare, esaltare, liricizzare delle impressioni: si tratta di un positivista sostanziale che si sdilinquisce di fronte all’idealismo perché questo è più di moda e permette di fare della retorica. Fa meraviglia che il Croce abbia lodato il Manualetto, senza vedere e far notare le incongruenze del Bertoni: mi pare che il Croce abbia più di tutto voluto prender atto benevolmente che in questo ramo degli studi, dove il positivismo trionfa, si cerchi di iniziare una via nuova nel senso idealistico. A me pare che tra il metodo del Bartoli e il crocismo non ci sia nessun rapporto di dipendenza immediata: il rapporto è con lo storicismo in generale, non con una particolare forma di storicismo. L’innovazione del Bartoli è appunto questa, che della linguistica, concepita grettamente come scienza naturale, ha fatto una scienza storica, le cui radici sono da cercare «nello spazio e nel tempo» e non nell’apparato vocale fisiologicamente inteso.

Bisognerebbe stroncare il Bertoni non solo in questo campo: la sua figura di studioso mi è sempre stata ripugnante intellettualmente: c’è in essa qualcosa di falso, di non sincero nel senso letterale della parola; oltre alla prolissità e alla mancanza di «prospettiva» nei valori storici e letterari.

Nella «linguistica» è crociano il Vossler, ma che rapporto esiste tra il Bartoli e il Vossler e tra il Vossler e quella che si chiama comunemente «linguistica»? Ricordare a questo proposito l’articolo del Croce Questa tavola rotonda è quadrata (nei Problemi di Estetica) dalla cui critica bisogna prendere le mosse per stabilire i concetti esatti in questa quistione.

Q3 §75 Utopie e romanzi filosofici. Articolo di Ezio Chiòrboli su Anton Francesco Doni nella Nuova Antologia del 1° maggio 1928: profilo interessante del Doni, pubblicista del Cinquecento, spiritoso, caustico, di spiriti moderni. Il Doni si occupò di infiniti problemi di ogni genere, precorrendo molte innovazioni scientifiche: scrittore popolarissimo. Materialista: accenna all’importanza dell’angolo facciale e ai segni specifici della delinquenza due secoli prima del Camper e due secoli e mezzo prima del Lavater e del Gall parlò delle funzioni dell’intelletto e delle parti del cervello a esse deputate.

Scrisse una utopia nel Mondo pazzo o savio – «immaginosa ricostruzione sociale che si pinge di molte delle iridescenze e delle ansie onde s’è arroventato il socialismo odierno» – che forse tolse dalla Utopia di Tommaso Moro. Conobbe l’Utopia: la pubblicò egli stesso nella volgarizzazione del Lando. «Pure l’immaginazione non è più la medesima, come la medesima non è di Platone nella Repubblica né d’altri quali si fossero, oscuri o ignoti; ché egli se la compì, se la rimutò, se la rifoggiò a sua posta, sì che n’ha già avvivata un’altra, sua, proprio sua, della quale tanto è preso che e nei Marmi e via via in più opere e opuscoli esce or in questo e or in quel particolare, in questo o in quel sentimento». Per la bibliografia del Doni cfr l’edizione dei Marmi curata dal Chiòrboli negli «Scrittori d’Italia» del Laterza.

Q3 §76 La quistione della lingua e le classi intellettuali italiane. Per lo sviluppo del concetto che l’Italia realizza il paradosso di un paese giovanissimo e vecchissimo nello stesso tempo (come Lao‑Tse che nasce a 80 anni).

I rapporti tra gli intellettuali e il popolo‑nazione studiati sotto l’aspetto della lingua scritta dagli intellettuali e usata nei loro rapporti e sotto l’aspetto della funzione avuta dagli intellettuali italiani nella Cosmopoli medioevale per il fatto che il Papato aveva sede in Italia (l’uso del latino come lingua dotta è legato al cosmopolitismo cattolico).

Latino letterario e latino volgare. Dal latino volgare si sviluppano i dialetti neolatini non solo in Italia ma in tutta l’area europea romanizzata: il latino letterario si cristallizza nel latino dei dotti, degli intellettuali, il così detto mediolatino (cfr articolo di Filippo Ermini sulla «Nuova Antologia» del 16 maggio 1928), che non può essere in nessun modo paragonato a una lingua parlata, nazionale, storicamente vivente, quantunque non sia neppure da confondersi con un gergo o con una lingua artificiale come l’esperanto. In ogni modo c’è una frattura tra il popolo e gli intellettuali, tra il popolo e la cultura. (Anche) i libri religiosi sono scritti in mediolatino, sicché anche le discussioni religiose sfuggono al popolo, quantunque la religione sia l’elemento culturale prevalente: della religione il popolo vede i riti e sente le prediche esortative, ma non può seguire le discussioni e gli sviluppi ideologici che sono monopolio di una casta.

I volgari sono scritti quando il popolo riprende importanza: il giuramento di Strasburgo (dopo la battaglia di Fontaneto tra i successori di Carlomagno) è rimasto perché i soldati non potevano giurare in una lingua sconosciuta, senza togliere validità al giuramento. Anche in Italia le prime tracce di volgare sono giuramenti o attestazioni di testimoni del popolo per stabilire la proprietà dei fondi di convento (Montecassino).

In ogni modo si può dire che in Italia dal 600 d. C., quando si può presumere che il popolo non comprendesse più il latino dei dotti, fino al 1250, quando incomincia la fioritura del volgare, cioè per più di 600 anni, il popolo non comprendesse i libri e non potesse partecipare al mondo della cultura. Il fiorire dei Comuni dà sviluppo ai volgari e l’egemonia intellettuale di Firenze dà una unità al volgare, cioè crea un volgare illustre. Ma cos’è questo volgare illustre? È il fiorentino elaborato dagli intellettuali della vecchia tradizione: è il fiorentino di vocabolario e anche di fonetica, ma è un latino di sintassi. D’altronde la vittoria del volgare sul latino non era facile: i dotti italiani, eccettuati i poeti e gli artisti in generale, scrivevano per l’Europa cristiana e non per l’Italia, erano una concentrazione di intellettuali cosmopoliti e non nazionali.

La caduta dei Comuni e l’avvento del principato, la creazione di una casta di governo staccata dal popolo, cristallizza questo volgare, allo stesso modo che si era cristallizzato il latino letterario. L’italiano è di nuovo una lingua scritta e non parlata, dei dotti e non della nazione. Ci sono in Italia due lingue dotte, il latino e l’italiano, e questo finisce con l’avere il sopravvento, e col trionfare completamente nel secolo XIX col distacco degli intellettuali laici da quelli ecclesiastici (gli ecclesiastici continuano anche oggi a scrivere libri in latino, ma oggi anche il Vaticano usa sempre più l’italiano quando tratta di cose italiane e così finirà col fare per gli altri paesi, coerentemente alla sua attuale politica delle nazionalità).

In ogni modo mi pare sia da fissare questo punto: che la cristallizzazione del volgare illustre non può essere staccata dalla tradizione del mediolatino e rappresenta un fenomeno analogo. Dopo una breve parentesi (libertà comunali) in cui c’è una fioritura di intellettuali usciti dalle classi popolari (borghesi) c’è un riassorbimento della funzione intellettuale nella casta tradizionale, in cui i singoli elementi sono di origine popolare, ma in cui prevale in essi il carattere di casta sull’origine. Non è cioè tutto uno strato della popolazione che arrivando al potere crea i suoi intellettuali (ciò è avvenuto nel Trecento) ma è un organismo tradizionalmente selezionato che assimila nei suoi quadri singoli individui (l’esempio tipico di ciò è dato dall’organizzazione ecclesiastica).

Di altri elementi occorre tener conto in un’analisi compiuta e credo che per molte quistioni la retorica nazionale del secolo scorso e i pregiudizi da essa incarnati non abbiano neanche spinto a fare le ricerche preliminari. Così: quale fu l’area esatta della diffusione del toscano? A Venezia, per esempio, secondo me, fu introdotto già l’italiano elaborato dai dotti sullo schema latino e non ebbe mai entratura il fiorentino originario, nel senso che i mercanti fiorentini non fecero sentire la viva voce fiorentina come a Roma e a Napoli, per esempio: la lingua di governo continuò a essere il veneziano. Così per altri centri (Genova, credo). Una storia della lingua italiana non esiste ancora in questo senso: la grammatica storica non è ancora ciò, anzi. Per la lingua francese esistono di queste storie (quella del Brunot – e del Littré – mi pare sia del tipo che io penso, ma non ricordo). Mi pare che, intesa la lingua come elemento della cultura e quindi della storia generale e come manifestazione precipita della «nazionalità» e «popolarità» degli intellettuali, questo studio non sia ozioso e puramente erudito.

Nel suo articolo, interessante come informazione dell’importanza che ha assunto lo studio del mediolatino (questa espressione, che dovrebbe significare latino medioevale, credo, mi pare abbastanza impropria e possibile causa di errori tra i non specialisti) e a cui potrò rifarmi per una prima bibliografia, oltre che ad altri scritti dell’Ermini che è un mediolatinista, l’Ermini afferma che in base alle ricerche, «alla teoria dei due mondi separati, del latino, che è in mano dei soli dotti e si spegne, e del neolatino, che sorge e s’avviva, bisogna sostituire la teoria dell’unità latina e della continuità perenne della tradizione classica». Ciò può significare solo che la nuova cultura neolatina sentiva fortemente gli influssi della precedente cultura, non che ci sia stata una unità «popolare‑nazionale» di cultura.

Ma forse per l’Ermini mediolatino ha proprio il significato letterale, del latino che sta in mezzo tra quello classico e quello umanistico, che indubbiamente segna un ritorno al classico, mentre il mediolatino ha caratteri propri, inconfondibili: l’Ermini fa incominciare il mediolatino verso la metà del secolo IV, quando avviene l’alleanza tra la cultura (!) classica e la religione cristiana, quando «una nobile pleiade di scrittori, uscendo dalle scuole di retorica e di poetica, sente vivo il desiderio di congiungere la fede nuova alla bellezza (!) antica e così dar vita alla prima poesia cristiana». (Mi pare giusto far risalire il mediolatino al primo rigoglio di letteratura cristiana latina, ma il modo di esporne la genesi mi pare vago e arbitrario – cfr la storia della letteratura latina del Marchesi per questo punto –).

Il mediolatino sarebbe quindi compreso tra la metà del sec. IV e la fine del secolo XIV, tra l’inizio dell’ispirazione cristiana e il diffondersi dell’umanesimo. Questi mille anni sono dall’Ermini suddivisi così: prima età delle origini, dalla morte di Costantino alla caduta dell’Impero d’Occidente (337‑476); seconda età, della letteratura barbarica, dal 476 al 799, cioè fino alla restaurazione dell’impero per opera di Carlo Magno, vero tempo di transizione nel continuo e progressivo latinizzarsi dei barbari (esagerato: del formarsi uno strato di intellettuali germanici che scrivono in latino); una terza età: del Risorgimento carolino, dal 799 all’888, alla morte di Carlo il Grosso; una quarta, della letteratura feudale, dall’888 al 1000, fino al pontificato di Silvestro II, quando il feudalesimo, lenta trasformazione di ordinamenti preesistenti, apre un’era nuova; una quinta, della letteratura scolastica, che corre sino alla fine del secolo XII, quando il sapere si raccoglie nelle grandi scuole e il pensiero e il metodo filosofico feconda tutte le scienze, e una sesta, della letteratura erudita, dal principio del XIII al termine del XIV e che accenna già alla decadenza.

Q3 §77 Il clero, la proprietà ecclesiastica e le forme affini di proprietà terriera o mobiliare. Il clero come tipo di stratificazione sociale deve essere tenuto sempre presente nell’analizzare la composizione delle classi possidenti e dirigenti. Il liberalismo nazionale ha distrutto in una serie di paesi la proprietà ecclesiastica, ma è stato impotente a impedire che tipi affini si riformassero e ancora più parassitari, perché i rappresentanti di esso non svolgevano e non svolgono neppure quelle funzioni sociali che svolgeva il clero: beneficenza, cultura popolare, assistenza pubblica ecc. Il costo di questi servizi era certamente enorme, tuttavia essi non erano completamente passivi. Le nuove stratificazioni sono ancor più passive, perché non si può dire che sia normale una funzione di questo genere: per effettuare un risparmio di 1000 lire l’anno una famiglia di «produttori di risparmio» ne consuma 10 000 costringendo alla denutrizione una decina di famiglie di contadini ai quali estorce la rendita fondiaria e altri profitti usurari. Sarebbe da vedere se queste 11 000 lire immesse nella terra non permetterebbero un’accumulazione maggiore di risparmio, oltre all’elevato tenore di vita nei contadini e quindi a un loro sviluppo intellettuale e produttivo‑tecnico.

In che misura negli Stati Uniti si sta formando una proprietà ecclesiastica propriamente detta, oltre alla formazione di proprietà del tipo ecclesiastico? e ciò nonostante le nuove forme di risparmio e di accumulazione rese possibili dalla nuova struttura industriale.

Q3 §78 I nipotini di padre Bresciani. I romanzi popolari d’appendice. Diversità di questi romanzi: tipo Victor Hugo ‑ Sue (Miserabili‑Misteri di Parigi) a carattere spiccatamente ideologico‑politico di tendenza democratica, legato alle ideologie quarantottesche; il tipo sentimentale‑popolare (Richebourg‑Decourcelle, ecc.); il puro intrigo con contenuto ideologico conservatore (Montépin). Il romanzo storico. Dumas ‑ Ponson du Terrail ecc. Il romanzo poliziesco col suo pendant (Lecocq ‑ Rocambole ‑ Sherlock Holmes ‑ Arsenio Lupin). Il romanzo misterioso (fantasmi ecc. ‑ Radcliffe ecc.). il romanzo scientifico d’avventura o semplicemente d’intrigo (Verne‑Boussenard).

Ognuna di queste categorie ha molte varietà, secondo i paesi (in America il romanzo d’avventura è il romanzo dei pionieri ecc.). Si può vedere come nella produzione d’insieme di un paese sia implicito un sentimento nazionale, ma non retorico, abilmente insinuato nel racconto (nel Verne e nei francesi il sentimento antinglese, legato alla perdita delle colonie e al bruciore per le sconfitte marittime ecc.).

In Italia nessuno di questi tipi ha avuto dei rappresentanti di qualche valore (non valore letterario, ma valore commerciale, di invenzione, di costruzione pratica di intrighi macchinosi ma elaborati con una certa razionalità). Neanche il romanzo poliziesco, che è diventato internazionale, ha dei rappresentanti in Italia.

Il curioso è che molti romanzi, specialmente storici, hanno preso l’argomento in Italia. Così Venezia, col suo Consiglio dei dieci, con la sua organizzazione tribunalizia‑poliziesca, ha dato e continua a dare argomento di romanzi popolari. Lo stesso si dica per i briganti, se ne togli i libercoli popolari pietosissimi.

L’ultimo tipo di libro popolare è la Vita romanzata, che in ogni modo rappresenta un qualcosa di superiore al Dumas: anche questa letteratura non ha in Italia rappresentanti (il Mazzucchelli? Non ho letto nulla), o almeno non sono paragonabili per numero, fecondità, e anche dati di piacevolezza letteraria ai francesi, ai tedeschi, agli inglesi. Il letterato italiano non scriverebbe una biografia romanzata di Masaniello o di Cola di Rienzo senza inzepparla di stucchevoli pezze d’appoggio retoriche, perché non si creda... non si pensi... ecc. ecc. Così avverrà che queste vite saranno scritte da stranieri (vedi Bianca Capello). È vero che in questi ultimi tempi sono state iniziate molte collane biografiche, ma si tratta di libri che stanno alle vite romanzate come la Monaca di Monza sta al Conte di Montecristo. È sempre il vecchio schema biografico che può trovare qualche migliaio di lettori nel caso migliore, ma non diventare popolare.

È da notare che alcuni tipi di questo romanzo popolare hanno il tipo corrispondente nel teatro e nel cinematografo. Nel teatro devo aver notato altrove come il Niccodemi abbia saputo trovare spunti popolari: Scampolo, l’Aigrette, la Volata ecc., onde il suo grande successo. Anche il Forzano deve aver dato qualcosa del genere, nel campo storico: episodi della Rivoluzione francese, ecc. ma con più pedanteria e provincialismo. In questo reparto del teatro si potrebbe notare come Ibsen, in alcuni drammi, come Casa di bambola piaccia molto al pubblico popolare in quanto i sentimenti rappresentati e la tendenza trovano risonanza nella psicologia popolare: cosa dovrebbe essere poi il così detto teatro di idee se non questo, la rappresentazione di passioni legate ai costumi moderni con soluzioni che rappresentano lo sviluppo storico ecc. solo che queste passioni e queste soluzioni devono essere rappresentate e non essere una tesi, un discorso di propaganda, cioè l’autore deve vivere nel mondo reale moderno e non assorbire sentimenti libreschi.

Q3 §79 La quistione della lingua. Ettore Veo, in un articolo della Nuova Antologia, del 16 giugno 1928, Roma nei suoi fogli dialettali, nota come il romanesco rimanesse a lungo costretto nell’ambito del volgo, schiacciato dal latino. «Ma già in movimenti rivoluzionari il volgo, come succede, cerca di passare – o lo si fa passare – in primo piano». Il Sacco di Roma trova scrittori in dialetto, ma specialmente la Rivoluzione francese. (Di qui comincia di fatto la fortuna «scritta» del romanesco e la fioritura dialettale che culmina nel periodo liberale di Pio IX fino alla caduta della Repubblica Romana). Nel 47‑49 il dialetto è arma dei liberali, dopo il 70 dei clericali.

Q3 §80 Il particolare chauvinisme italiano trova una sua manifestazione nella letteratura che rivendica le invenzioni, le scoperte scientifiche. Parlo dello «spirito» con cui queste rivendicazioni sono fatte, non del fenomeno in sé: non si tratta, insomma, di contributi... alla storia della tecnica e della scienza, ma di «pezzi» giornalistici di colore sciovinistico. Penso che molte rivendicazioni sono... oziose, nel senso che non basta aver avuto uno spunto, ma occorre saperne trarre tutte le conseguenze e applicazioni pratiche. Altrimenti si arriverebbe alla conclusione che non è stato mai inventato nulla, perché... i cinesi conoscevano già tutto. Per molte rivendicazioni questi specialisti (come il Savorgnan di Brazzà) di glorie nazionali non s’accorgono di far fare all’Italia la funzione della Cina.

A questo spunto si può riunire tutta la letteratura sulla patria di Cristoforo Colombo. A me pare che si tratti di una letteratura completamente inutile e oziosa. La quistione dovrebbe essere posta così: perché nessuno Stato italiano aiutò Cristoforo Colombo o perché Colombo non si rivolse a nessuno Stato italiano? In che consiste dunque l’elemento «nazionale» della scoperta dell’America? La nascita di Cristoforo Colombo in un punto dell’Europa piuttosto che in un altro ha un valore episodico e casuale, poiché egli stesso non si sentiva legato a uno Stato italiano. La quistione, secondo me, dovrebbe essere definita storicamente fissando che l’Italia ebbe per molti secoli una funzione internazionale‑europea. Gli intellettuali e gli specialisti italiani erano cosmopoliti e non italiani, non nazionali. Uomini di Stato, capitani, ammiragli, scienziati, navigatori italiani non avevano un carattere nazionale ma cosmopolita. Non so perché questo debba diminuire la loro grandezza o menomare la storia italiana, che è stata quello che è stata e non la fantasia dei poeti o la retorica dei declamatori: avere una funzione europea, ecco il carattere del «genio» italiano dal Quattrocento alla rivoluzione francese.

Q3 §81 Federico Confalonieri. Per capire l’impressione penosa che produceva tra gli esuli italiani l’atteggiamento di inerzia del Confalonieri durante la sua dimora all’estero dopo la liberazione dallo Spielberg occorre tener presente un brano della lettera scritta da Mazzini a Filippo Ugoni il 15 novembre 38 e pubblicata da Ugo Da Como nella «Nuova Antologia» del 16 giugno 1928 (Lettera inedita di Giuseppe Mazzini): «Mi sorprende che Confalonieri rientri. Quando tu mi parli della guerra che susciterebbe nel mio cuore il pensiero di mia madre, di mio padre, della sorella che mi rimane, dici il vero; ma Confalonieri da che affetto prepotente è egli richiamato in Italia? dopo la morte di Teresa sua moglie? Non capisco la vita se non consacrata al dovere, o all’amore ch’è anch’esso un dovere. Intendo, senza approvare o disapprovare, l’individuo che rinunzia alla lotta pel vero e pel bene a fronte della felicità o infelicità di persone care e sacre; non intendo chi vi rinunzia per vivere, come si dice, quieto; otto o dieci anni di vita d’individualismo, di sensazioni che passano e non producono cosa alcuna per altri, conchiusi dalla morte, mi paiono cosa spregevole per chi non ha credenza di vita futura, più che spregevole rea forse per chi ne ha. Confalonieri, solo, in età già inoltrata, senza forti doveri che lo leghino a una famiglia di esseri amati, dovrebbe, secondo me, aver tutto a noia fuorché la idea di contribuire all’emancipazione del suo paese e alla crociata contro l’Austria».

Il Da Como nella sua introduzione‑commento alla lettera del Mazzini, così scrive: «E per questo è pure nella nostra lettera un accorato pensiero per Federico Confalonieri. Egli era passato da Londra, un anno prima, diretto in Francia: Mazzini aveva saputo che era mesto e silenzioso, ma i patimenti, secondo lui, non dovevano mutare il fondo dell’anima. Lo seguiva con trepidazione perché voleva che fosse sempre un’alta diritta figura, un esempio. Pensava che se egli stesso fosse uscito dallo Spielberg, trovandosi un deserto d’intorno, non avrebbe ad altro inteso che al modo di ritentare qualche cosa a prò dell’antica idea e finirvi. Non voleva che supplicasse, che volesse e ottenesse il ritorno chi aveva sofferto quindici anni senza avvilirsi, senza indizi di cangiamento. Voleva che fosse sempre un nuovo Farinata degli Uberti, come lo raffigurò Gabriele Rosa, affettuoso e costante esaltatore, sino all’ultimo, del suo compagno di prigionia». Il Da Como è completamente fuori strada e le parole del Mazzini, altro che accorate, sono aspre e dure. L’agiografia impedisce di vedere la storia.

(Nell’epistolario del Mazzini ci sono altri accenni al Confalonieri? E nelle lettere di altri esuli? Il giudizio reale bisogna appunto cercarlo in queste lettere private, perché difficilmente i fuorusciti avranno in scritti dedicati al pubblico voluto gettare ombre sul Confalonieri. Un’altra ricerca interessante è da farsi negli scritti degli agenti provocatori dell’Austria).

Q3 §82 Cultura storica italiana e francese. La cultura storica e la cultura generale francese ha potuto svilupparsi e diventare «popolare‑nazionale» per la stessa complessità e varietà della storia politica francese negli ultimi 150 anni. La tendenza dinastica si è dissolta per il succedersi di tre dinastie antagoniste tra loro in modo radicale: legittimista, liberale‑conservatrice, militare‑plebiscitaria e per il succedersi di governi repubblicani anch’essi differenziati fortemente: il giacobino, il radicale socialista e l’attuale. È impossibile una «agiografia» nazionale unilineare: ogni tentativo di questo genere appare subito settario, sforzato, utopistico, antinazionale perché è costretto a tagliare via o a sottovalutare pagine incancellabili della storia nazionale (vedi l’attuale tendenza Maurras e la misera storia di Francia del Bainville). Per questa ragione il protagonista della storia francese è diventato l’elemento permanente di queste variazioni politiche, il popolo‑nazione; quindi un tipo di nazionalismo politico e culturale che sfugge ai limiti dei partiti propriamente nazionalistici e che impregna tutta la cultura, quindi una dipendenza e un collegamento stretto tra popolo‑nazione e intellettuali.

Niente di simile in Italia, in cui nel passato occorre ricercare col lanternino il sentimento nazionale, facendo distinzioni, interpretando, tacendo ecc., in cui se si esalta Ferrucci occorre spiegare Maramaldo, se si esalta Firenze occorre giustificare Clemente VII e il papato, se si esalta Milano e la Lega occorre spiegare Como e le città favorevoli al Barbarossa, se si esalta Venezia occorre spiegare Giulio II ecc. Il preconcetto che l’Italia sia sempre stata una nazione complica tutta la storia e domanda acrobazie intellettuali antistoriche. Perciò nella storia del secolo XIX non ci poteva essere unità nazionale, mancando l’elemento permanente, il popolo‑nazione. La tendenza dinastica da una parte doveva prevalere dato l’apporto che le dava l’apparato statale e le tendenze politiche più opposte non potevano avere un minimo comune di obbiettività: la storia era propaganda politica, tendeva a creare l’unità nazionale, cioè la nazione, dall’esterno contro la tradizione, basandosi sulla letteratura, era un voler essere, non un dover essere perché esistono già le condizioni di fatto. Per questa loro stessa posizione, gli intellettuali dovevano distinguersi dal popolo, mettersene fuori, creare tra di loro o rafforzare lo spirito di casta, e nel loro fondo diffidare del popolo, sentirlo estraneo, averne paura, perché in realtà era qualcosa di sconosciuto, una misteriosa idra dalle innumerevoli teste.

Mi pareva che attualmente ci fosse qualche condizione per superare questo stato di cose, ma essa non è stata sfruttata a dovere e la retorica ha ripreso il sopravvento (l’atteggiamento incerto nell’interpretare Caporetto offre un esempio di questo attuale stato di cose, così la polemica sul Risorgimento e ultimamente sul Concordato). Non bisogna negare che molti passi in avanti sono stati compiuti in tutti i sensi, però: sarebbe un cadere in una retorica opposta. Anzi, specialmente prima della guerra, molti movimenti intellettuali erano rivolti a svecchiare e sretorizzare la cultura e ad avvicinarla al popolo, cioè a nazionalizzarla. (Nazione-popolo e nazione‑retorica si potrebbero dire le due tendenze).

(Su questo ultimo argomento cfr Volpe, L’Italia in cammino, dove molte inesattezze di fatto e di proporzioni e dove si osserva il nascere di una nuova retorica; il libro di Croce, La Storia d’Italia, dove difetti di altro genere ma non meno pericolosi, perché la storia viene vanificata nell’astrazione dei concetti; e i libri di Prezzolini sulla cultura italiana).

Q3 §83 Passato e presente. Scuola di giornalismo di Ermanno Amicucci, nella «Nuova Antologia» del 10 luglio 1928. Credo che l’articolo sia poi stato raccolto con altri in un volume.

L’articolo è interessante per le informazioni e gli spunti che dà. La quistione in Italia è più complessa di quanto non paia leggendo l’Amicucci e io credo che i risultati delle iniziative scolastiche non saranno molto grandi. Ma il principio di insegnare il giornalismo e di non lasciare che il giornalista si formi da sé attraverso la pratica è vitale e si andrà sempre più imponendo, a mano a mano che il giornalismo diventa un’industria complessa e un organismo più responsabile.

La quistione in Italia trova i suoi limiti nel fatto che non esistono grandi concentrazioni giornalistiche, per il decentramento della vita nazionale, e che i giornali sono pochi. Il personale giornalistico è scarso e quindi si alimenta normalmente attraverso le sue stesse gradazioni di importanza: i giornali meno importanti servono da scuola per i giornali più importanti e reciprocamente. Un redattore di secondo ordine del «Corriere» diventa direttore o redattore capo di un giornale di provincia; un redattore di primo ordine di un giornale di provincia diventa redattore di secondo ordine di un grande giornale ecc. Non esistono in Italia centri come Parigi, Londra, Berlino ecc., che accolgono migliaia di giornalisti, costituenti una vera categoria professionale economicamente importante, e le retribuzioni in Italia, come media, sono molto basse: in Germania poi il numero dei giornali che si pubblicano in tutto il paese è imponente e alla concentrazione di Berlino corrisponde un’ampia stratificazione nazionale.

Mi pare che, per certi tipi di giornale, il problema deve essere risolto nella stessa redazione, trasformando le riunioni periodiche redazionali in scuola organica di giornalismo, ad assistere alle cui lezioni dovrebbero essere invitati estranei: giovani e studenti, fino ad assumere il carattere di vere scuole politico‑giornalistiche, con lezioni generali (di storia, di economia, di diritto costituzionale ecc.) affidati a estranei competenti ma che sappiano investirsi dei bisogni del giornale. Ogni redattore del giornale, fino ai reporters, dovrebbe essere messo in grado di fare tutte le parti del giornale, così come, subito, ogni redattore dovrebbe diventare un reporter, cioè dare tutta la sua vita al giornale, ecc.

Q3 §84 La morte di Vittorio Emanuele II. In una lettera di Guido Baccelli a Paulo Fambri, del 12 agosto (forse 1880, manca l’anno e 1880 è un’ipotesi del Guidi) pubblicata da Angelo Flavio Guidi (L’Archivio inedito di Paulo Fambri, «Nuova Antologia» del 16 giugno 1928) è scritto: «Il cuore di tutta Italia sanguina ancora al ricordo della morte del glorioso Vittorio Emanuele: quella immensa sciagura però poteva essere cento volte più grande se non si fossero guadagnate colla aspirazione dell’ossigeno parecchie ore di vita». (Seguono puntini, dell’editore Guidi, perché completano tutta la riga, non sono cioè i soliti puntini di sospensione). Cosa significa?

Q3 §85 Arturo Graf. Se occorrerà di scrivere di Giovanni Cena e del suo programma sociale, bisognerà ricordare il Graf e la sua crisi spirituale che lo riportò alla religione o per lo meno al teismo. (Cfr O. M. Barbano, Per una fede, Da lettere inedite di Arturo Graf, nella Nuova Antologia del 16 luglio 1928. Il Barbano era un allievo e amico del Graf e pubblica i brani delle lettere dal Graf scrittegli intorno alla sua crisi e al suo volumetto Per una fede che ebbe ripercussioni scarse all’infuori dei famigliari). In queste lettere sono interessanti alcuni accenni ai rapporti tra il Graf e il modernismo (conosciuto attraverso la rivista «Il Rinnovamento») per cui si potrebbe forse dire che la crisi del Graf è legata alla crisi generale del tempo, manifestatasi in certi gruppi intellettuali, scontenti della «scienza», ma scontenti anche della religione ufficiale.

Q3 §86 Lorianismo. Alfredo Trombetti. Per molti aspetti può esser fatto rientrare nel lorianismo, sempre con l’avvertenza che ciò non significa un giudizio complessivo su tutta la sua opera ma un semplice giudizio di squilibrio tra la «logicità» e il contenuto concreto dei suoi studi. Il Trombetti era un formidabile poliglotta, ma non è un glottologo, o almeno il suo glottologismo non si identificava con il suo poliglottismo: la conoscenza materiale di innumerevoli lingue gli prende la mano sul metodo scientifico.

Inoltre egli era un illuminato: la teoria della monogenesi del linguaggio era la prova della monogenesi dell’umanità, con Adamo ed Eva a capostipiti. Perciò i cattolici lo applaudirono ed egli diventò popolare, cioè fu «legato» alla sua teoria da un punto d’onore non scientifico ma ideologico. Negli ultimi tempi ebbe riconoscimenti ufficiali e fu esaltato dai giornali quotidiani come una gloria nazionale, specialmente per l’annunzio dato a un Congresso Internazionale di Linguistica (dell’Aja, ai primi del 28) della decifrazione dell’Etrusco. Mi pare però che l’Etrusco continui a essere indecifrato come prima e che tutto si riduca a un ennesimo tentativo fallito.

Nella Nuova Antologia del 16 luglio 1928, è pubblicato un articolo di Pericle Ducati, Il Primo Congresso Internazionale Etrusco 27 aprile ‑ 3 maggio 1928 in cui si parla in modo molto strano, ma up to date, della «scoperta» del Trombetti. A p. 199 si parla di «conseguita decifrazione» dell’etrusco, «mercè soprattutto gli sforzi di un Italiano, di Alfredo Trombetti». A p. 204 la «conseguita decifrazione» è invece ridotta a «un passo gigantesco nella interpretazione dell’etrusco». La tesi del Trombetti è questa, già fissata da lui nel Convegno Nazionale Etrusco del 1926: l’etrusco è una lingua intermedia, insieme ad altri idiomi dell’Asia Minore e pre‑ellenici, tra il gruppo caucasico e il gruppo arioeuropeo con maggiori affinità con quest’ultimo; perciò il lemnio, quale appare dalle due iscrizioni della stele famosa, e l’etrusco quasi s’identificano. Questa tesi rientra nel sistema generale del Trombetti che presuppone provata la monogenesi e quindi ha una base molto fragile. E ancora, presuppone certa l’origine transmarina degli Etruschi, mentre questa opinione, se è la più diffusa, non è universale: Gaetano De Sanctis e Luigi Pareti sostengono invece l’origine transalpina e non sono due studiosi da disprezzare.

Al Congresso Internazionale Etrusco il Trombetti è passato alla più precisa determinazione della grammatica ed alla ermeneutica dei testi, saggio del suo libro La lingua etrusca uscito poco dopo. Ebbe grande successo. Contraddittori, non tra gli stranieri, nota il Ducati, ma tra i nazionali, pur «garbatamente e facendo onore alla eccezionale valentia del Trombetti». «Un giovane ed ormai valoroso glottologo, Giacomo Devoto, si è preoccupato del metodo, ché il rigore del metodo gli è sembrato intaccato dalle investigazioni e dai risultati del Trombetti». Qui il Ducati fa una serie di considerazioni veramente strabilianti sul metodo della glottologia e contro il Devoto, concludendo: «Guardiamo pertanto ai risultati del Trombetti e non sottilizziamo». Si è visto poi cosa voleva dire non sottilizzare.

Nelle scienze in generale il metodo è la cosa più importante: in certe scienze poi, che necessariamente devono basarsi su un corredo ristretto di dati positivi, ristretto e non omogeneo, le quistioni di metodo sono ancor più importanti, se non sono addirittura tutto. Non è difficile con un po’ di fantasia costruire ipotesi su ipotesi e dare un’apparenza brillante di logicità a una dottrina: ma la critica di queste ipotesi rovescia tutto il castello di carta e trova il vuoto sotto il brillante.

Ha il Trombetti trovato un nuovo metodo? Questa è la quistione. Questo nuovo metodo fa progredire la scienza più del vecchio, interpreta meglio ecc.? Niente di tutto ciò. Anche qui appare come il nazionalismo introduca deviazioni dannose nella valutazione scientifica e quindi nelle condizioni pratiche del lavoro scientifico. Il Bartoli ha trovato un nuovo metodo, ma esso non può far chiasso interpretando l’etrusco: il Trombetti invece afferma di aver decifrato l’etrusco, quindi risolto uno dei più grandi e appassionanti enigmi della storia: applausi, popolarità, aiuti economici ecc. Il Ducati ripete, approvando, ciò che gli disse al Congresso un glottologo «assai egregio»: «il Trombetti è un’eccezione: si eleva egli assai al disopra di noi e ciò che a noi non sembra lecito di tentare, a lui è possibile di compiere», e aggiunge le opinioni molto profonde del paleontologo Ugo Antonielli. Per l’Antonielli il Trombetti è un: «gigante buono che addita una diritta e sicura via». E se, come argutamente (!) aggiunge lo stesso Antonielli, il nostro italianissimo Trombetti, «per la supina sensibilità di taluni, si fosse chiamato Von Trombetting ovvero Trombetty...»

Poiché la quistione si poneva così, bisogna convenire che il Devoto e gli altri oppositori furono degli eroi e che c’è qualcosa di sano nella scienza italiana. Il Ducati appoggia questa tendenza nazionalistica nella scienza, senza accorgersi delle contraddizioni in cui cade: se il Trombetti additasse una via diritta e sicura, avrebbe appunto rinnovato o sviluppato e perfezionato il metodo e allora sarebbe lecito tentare a tutti gli studiosi ciò che egli ha fatto. O l’uno o l’altro: o il Trombetti è al di sopra della scienza per sue particolari doti di intuizione o addita una via per tutti. «Caso curioso! Tra i glottologi raccolti a Firenze il Trombetti ha raccolto il plauso più incondizionato tra gli stranieri». E allora perché il Ducati riporta il «Von Trombetting»? O non indica ciò piuttosto che la glottologia italiana è più seria e progredita di quella straniera? Può capitare proprio questo bel caso al nazionalismo scientifico: di non accorgersi delle vere «glorie» nazionali e di essere proprio esso, lo schiavo, il supino servo degli stranieri!

Q3 §87 Per la formazione delle classi intellettuali italiane nell’alto Medioevo bisogna tener conto oltre che della lingua (quistione del Mediolatino) anche e specialmente del diritto. Caduta del diritto romano dopo le invasioni barbariche e sua riduzione a diritto personale e consuetudinario in confronto del diritto longobardo; emersione del diritto canonico che da diritto particolare, di gruppo, assurge a diritto statale; rinascita del diritto romano e sua espansione per mezzo delle Università. Questi fenomeni non avvengono di colpo e simultaneamente ma sono legati allo sviluppo storico generale (fusione dei barbari con le popolazioni locali ecc.). Lo sviluppo del diritto canonico e l’importanza che esso assume nell’economia giuridica delle nuove formazioni statali, il formarsi della mentalità imperiale‑cosmopolita medioevale, lo sviluppo del diritto romano adattato e interpretato per le nuove forme di vita danno luogo al nascere e allo stratificarsi degli intellettuali italiani cosmopoliti.

C’è un periodo, quello dell’egemonia del diritto germanico, in cui però il legame tra il vecchio e il nuovo rimane quasi unicamente la lingua, il Mediolatino. Il problema di questa interruzione ha interessato la scienza e cosa importante ha interessato anche intellettuali come il Manzoni (vedi suoi scritti sui rapporti tra romani e longobardi a proposito dell’Adelchi): cioè ha interessato nel principio del secolo XIX quelli che si preoccupavano della continuità della tradizione italiana dall’antica Roma in poi per costituire la nuova coscienza nazionale.

Sull’argomento generale dell’oscuramento del diritto romano e sua rinascita e dell’emergere del diritto canonico cfr I «due diritti» e il loro odierno insegnamento in Italia di Francesco Brandileone (Nuova Antologia del 16 luglio 1928) per avere alcune idee generali, ma vedere, naturalmente le grandi storie del diritto.

Schema estratto dal saggio del Brandileone:

Nelle scuole dell’Impero Romano a Roma, a Costantinopoli, a Berito, si insegnava solo il diritto romano nelle due positiones di jus publicum e di jus privatum; nel jus publicum era compreso il jus sacrum pagano, finché il paganesimo fu religione tanto dei sudditi che dello Stato. Comparso il Cristianesimo e ordinatosi, nei secoli delle persecuzioni e delle tolleranze, come società a sé, diversa dalla società politica, esso dié luogo a un jus sacrum nuovo. Dopo che il Cristianesimo fu prima riconosciuto e poi elevato dallo Stato a fede unica dell’Impero, il nuovo jus sacrum ebbe bensì appoggi e riconoscimenti da parte del legislatore laico, ma non fu però considerato come l’antico. Poiché il Cristianesimo si era separato dalla vita sociale politica, si era staccato anche dal jus publicum e le scuole non si occupavano del suo ordinamento; il nuovo jus sacrum formò la speciale occupazione delle scuole tutte proprie della società religiosa (questo fatto è molto importante nella storia dello Stato romano ed è ricco di gravi conseguenze, perché inizia un dualismo di potestà che avrà lo sviluppo nel Medio Evo: ma il Brandileone non lo spiega: lo pone come una conseguenza logica dell’originario distacco del Cristianesimo dalla società politica. Benissimo, ma perché diventato il Cristianesimo religione dello Stato come lo era stato il paganesimo, non si ricostituì l’unità formale politico‑religiosa? Questo è il problema).

Durante i secoli dell’alto Medio Evo il nuovo jus sacrum, detto anche jus canonicum o jus ecclesiasticum e il jus romanum furono insegnati in scuole diverse e in scuole di diversa importanza numerica, di diffusione, di attività. Speciali scuole romanistiche, sia che continuassero le antiche scuole sia che fossero sorte allora, in Occidente, si incontrano solo in Italia; se anche fuori d’Italia vi furono le Scholae liberalium artium e se in esse (così come nelle corrispondenti italiane) si impartirono nozioni elementari di diritto laico, specialmente romano, l’attività spiegata fu povera cosa come è attestato dalla scarsa, frammentaria, intermittente e di solito maldestra produzione da esse uscita e giunta sino a noi. Invece le scuole ecclesiastiche, dedicate allo studio e all’insegnamento dei dogmi della fede e insieme del diritto canonico, furono una vera moltitudine, né solo in Italia, ma in tutti i paesi diventati cristiani e cattolici. Ogni monastero e ogni chiesa cattedrale di qualche importanza ebbe la propria scuola: testimonianza di questa attività la ricchezza di collezioni canoniche senza interruzione dal vi all’XI secolo, in Italia, in Africa, Spagna, Francia, Germania, Inghilterra, Irlanda. La spiegazione di questo rigoglio del diritto canonico in confronto di quello romano è legata al fatto che mentre il diritto romano, in quanto continuava a ricevere applicazione in Occidente e in Italia, era degradato a diritto personale, ciò non avveniva per il canonico.

Per il diritto romano, l’essere diventato diritto personale volle dire essere messo in una posizione inferiore a quella spettante alle leggi popolari o Volksrechte, vigenti nel territorio dell’Impero d’Occidente, la cui conservazione e modificazione spettavano non già al potere sovrano, regio o imperiale, o per lo meno non ad esso solo, ma anche e principalmente alle assemblee dei popoli ai quali appartenevano. Invece i sudditi romani dei regni germanici, e poi dell’Impero, non furono considerati come un’unità a sé, ma come singoli individui, e quindi non ebbero una particolare assemblea, autorizzata a manifestare la sua volontà collettiva circa la conservazione e modificazione del proprio diritto nazionale. Sicché fu ridotto il diritto romano a un puro diritto consuetudinario.

Nell’Italia longobarda principi e istituti romani furono accettati dai vincitori ma la posizione del diritto romano non mutò.

La rinnovazione dell’Impero con Carlo Magno non tolse il diritto romano dalla sua posizione d’inferiorità: essa fu migliorata, ma solo tardi e per il concorso di altre cause: in complesso continuò in Italia a rimanere diritto personale fino al secolo XI. Le nuove leggi fatte dai nuovi imperatori, fino a tutto il secolo XI, non furono aggiunte al Corpus giustinianeo, ma all’Editto longobardo, e quindi non furono riguardate come diritto generale obbligatorio per tutti, ma come diritto personale proprio dei viventi a legge longobarda.

Per il diritto canonico invece la riduzione a diritto personale non avvenne, essendo il diritto di una società diversa e distinta dalla società politica, l’appartenenza alla quale non era basata sulla nazionalità: esso possedeva nei concilii e nei papi il suo proprio potere legislativo. Esso però aveva una sfera di obbligatorietà ristretta. Diventa obbligatorio o perché viene accettato spontaneamente o perché fu accolto fra le leggi dello Stato.

La posizione del diritto romano si venne modificando radicalmente in Italia a mano a mano che dopo l’avvento degli Ottoni l’impero fu concepito più chiaramente ed esplicitamente come la continuazione dell’antico. Fu la scuola pavese che si rese interprete di un tal fatto e proclamò la legge romana omnium generalis, preparando l’ambiente in cui poté sorgere e fiorire la scuola di Bologna e gli imperatori svevi riguardarono il Corpus giustinianeo come il codice loro, al quale fecero delle aggiunte. Questo riaffermarsi del diritto romano non è dovuto a fattori personali: esso è legato al rifiorire dopo il mille della vita economica, dell’industria, del commercio, del traffico marittimo. Il diritto germanico non si prestava a regolare giuridicamente la nuova materia e i nuovi rapporti.

Anche il diritto canonico subisce dopo il mille un cambiamento.

Coi Carolingi alleati al papato viene concepita la monarchia universale abbracciante tutta l’umanità, diretta concordemente dall’Imperatore nel temporale e dal Papa nello spirituale. Ma questa concezione non poteva delimitare a priori il campo soggetto a ciascuna potestà e lasciava all’Imperatore una larga via d’intervento nelle faccende ecclesiastiche. Quando i fini dell’Impero, già sotto gli stessi Carolingi e poi sempre più in seguito, si mostrarono discordanti da quelli della Chiesa e lo Stato mostrò di tendere all’assorbimento della gerarchia ecclesiastica nello Stato, incominciò la lotta che si chiuse al principio del secolo XII colla vittoria del Papato. Fu proclamata la primazia dello spirituale (sole-luna) e la Chiesa riacquistò la libertà della sua azione legislativa ecc. ecc. Questa concezione teocratica fu combattuta teoricamente e praticamente, ma tuttavia essa, nella sua forma genuina o attenuata, rimase dominatrice per secoli e secoli. Così si ebbero due tribunali, il sacramentale e il non sacramentale, e così i due diritti furono accoppiati, utrumque ius, ecc.

Q3 §88 La ricerca della formazione storica degli intellettuali italiani porta così a risalire fino ai tempi dell’Impero romano, quando l’Italia, per avere nel suo territorio Roma, diventa il crogiolo delle classi colte di tutti i territori imperiali. Il personale dirigente diventa sempre più imperiale e sempre meno latino, diventa cosmopolita: anche gli imperatori non sono latini ecc.

C’è dunque una linea unitaria nello sviluppo delle classi intellettuali italiane (operanti nel territorio italiano) ma questa linea di sviluppo è tutt’altro che nazionale: il fatto porta a uno squilibrio interno nella composizione della popolazione che vive in Italia ecc.

Il problema di ciò che sono gli intellettuali può essere mostrato in tutta la sua complessità attraverso questa ricerca.

Q3 §89 Lorianismo. A questa corrente occorre collegare la famosa controversia sui libri perduti di Tito Livio che sarebbero stati ritrovati a Napoli qualche anno fa da un professore che acquistò così qualche istante di celebrità forse non desiderata. Secondo me le cause di questo scandaloso episodio sono da ricercare negli intrighi del prof. Francesco Ribezzo e nella abulia del professore in parola di cui non ricordo il nome. Questo professore pubblicava una rivista, il prof. Ribezzo un’altra rivista concorrente, ambedue inutili o quasi (ho visto la rivista del Ribezzo per molti anni e ho conosciuto il Ribezzo per quello che vale): i due si contendevano una cattedra all’Università di Napoli. Fu il Ribezzo a pubblicare nella sua rivista l’annunzio della scoperta fatta (!) dal collega, che così si trovò fatto centro della curiosità dei giornali e del pubblico e fu liquidato scientificamente e moralmente. Il Ribezzo non ha nessuna capacità scientifica: quando lo conobbi io, nel 1910‑11 aveva dimenticato il greco e il latino quasi completamente ed era uno «specialista» di linguistica comparata arioeuropea. Questa sua ignoranza risaltava così manifesta che il Ribezzo ebbe frequenti conflitti violenti con gli allievi. Al Liceo di Palermo fu implicato nello scandalo dell’uccisione di un professore da parte di uno studente (mi pare nel 1908 o nel 1909). Mandato a Cagliari in punizione entrò in conflitto con gli studenti, conflitto che nel 1912 diventò acuto, con polemiche nei giornali, minacce di morte al Ribezzo ecc. che fu dovuto trasferire a Napoli. Il Ribezzo doveva essere fortemente sostenuto dalla camorra universitaria napoletana (Cocchia e C.). Partecipò al concorso per la cattedra di glottologia dell’Università di Torino: poiché fu nominato il Bartoli, fece una pubblicazione ridevole ecc.

Q3 §90 Storia delle classi subalterne (cfr  a pp. 10 e 12). La unificazione storica delle classi dirigenti è nello Stato e la loro storia è essenzialmente la storia degli Stati e dei gruppi di Stati. Questa unità deve essere concreta, quindi il risultato dei rapporti tra Stato e «società civile». Per le classi subalterne l’unificazione non avviene: la loro storia è intrecciata a quella della «società civile», è una frazione disgregata di essa. Bisogna studiare: 1) il formarsi obbiettivo per lo sviluppo e i rivolgimenti, avvenuti nel mondo economico, la loro diffusione quantitativa e l’origine da altre classi precedenti; 2) il loro aderire alle formazioni politiche dominanti passivamente o attivamente, cioè tentando di influire sui programmi di queste formazioni con rivendicazioni proprie; 3) nascita di partiti nuovi della classe dominante per mantenere il controllo delle classi subalterne; 4) formazioni proprie delle classi subalterne di carattere ristretto e parziale; 5) formazioni politiche che affermano l’autonomia di esse ma nel quadro vecchio; 6) formazioni politiche che affermano l’autonomia integrale, ecc. La lista di queste fasi può essere ancora precisata con fasi intermedie o con combinazioni di più fasi. Lo storico nota la linea di sviluppo verso l’autonomia integrale, dalle fasi più primitive. Perciò, anche la storia di un Partito di queste classi è molto complessa, in quanto deve includere tutte le ripercussioni della sua attività per tutta l’area delle classi subalterne nel loro complesso: tra queste una eserciterà già una egemonia, e ciò occorre fissare studiando gli sviluppi anche di tutti gli altri partiti in quanto includono elementi di questa classe egemone o delle altre classi subalterne che subiscono questa egemonia.

Un canone di ricerca storica si potrebbe costruire studiando la storia della borghesia in questo modo (queste osservazioni si collegano alle  sul Risorgimento): la borghesia ha preso il potere lottando contro determinate forze sociali aiutata da determinate altre forze; per unificarsi nello Stato doveva eliminare le une e avere il consenso attivo o passivo delle altre. Lo studio del suo sviluppo di classe subalterna deve dunque ricercare le fasi attraverso cui ha conquistato un’autonomia in confronto dei nemici futuri da abbattere e ha conquistato l’adesione di quelle forze che l’hanno aiutata attivamente o passivamente in quanto senza questa adesione non avrebbe potuto unificarsi nello Stato. Il grado di coscienza cui era arrivata la borghesia nelle varie fasi si misura appunto con questi due metri e non solo con quello del suo distacco dalla classe che la dominava; di solito appunto si ricorre solo a questo e si ha una storia unilaterale o talvolta non si capisce nulla, come nel caso della storia italiana dai Comuni in poi: la borghesia italiana non seppe unificare il popolo, ecco una causa delle sue sconfitte e delle interruzioni del suo sviluppo: anche nel Risorgimento questo «egoismo» ristretto impedì una rivoluzione rapida e vigorosa come quella francese.

Ecco una delle quistioni più importanti e delle cause di difficoltà nel fare la storia delle classi subalterne.


Q3 §91 I nipotini di Padre Bresciani. La fiera del libro. Poiché il popolo non va al libro, il libro andrà al popolo. Questa iniziativa è dovuta alla «Fiera Letteraria» e al suo direttore d’allora, Umberto Fracchia, che la lanciò e attuò nel 1927 a Milano. L’iniziativa in sé non è cattiva e può dare qualche piccolo risultato. La questione però rimane sempre la stessa: che il libro deve diventare intimamente nazionale‑popolare per andare al popolo e non solo andare al popolo «materialmente» con le bancarelle e gli strilloni ecc.

Q3 §92 Federico Confalonieri. Il Confalonieri prima di andare allo Spielberg e dopo la liberazione prima di andare nel carcere di Gradisca per essere poi deportato, andò a Vienna. Vedere se anche in questo secondo soggiorno a Vienna, fatto per ragioni di salute, ebbe contatti con uomini politici austriaci.

Q3 §93 Giovanni Cena. Sull’attività svolta dal Cena per le scuole dei contadini dell’Agro Romano cfr le pubblicazioni di Alessandro Marcucci.

Q3 §94 I nipotini di padre Bresciani. Polifilo (Luca Beltrami). Per rintracciare gli scritti brescianeschi del Beltrami (I popolari di Casate Olona ecc. pubblicati nel «Romanzo Mensile», nella «Lettura», ecc.) vedere la Bibliografia degli scritti di Luca Beltrami dal marzo 1881 al marzo 1930, curata da Fortunato Pintor, bibliotecario onorario del Senato, e con prefazione di Guido Mazzoni. Da un cenno bibliografico pubblicato nel «Marzocco» dell’11 maggio 1930 appare che gli scritti sull’ipotetico «Casate Olona» del Beltrami sono stati ben trentacinque (io ne ho letto solo tre o quattro). Il Beltrami ha postillato questa sua Bibliografia e a proposito di «Casate Olona» il «Marzocco» scrive: «... la bibliografia dei trentacinque scritti sull’ipotetico “Casate Olona” gli suggerisce l’idea di ricomporre in unità quelle sue dichiarazioni proposte e polemiche d’indole politicosociale che, male intonate a un regime democratico‑parlamentare, sotto un certo aspetto debbono considerarsi un’anticipazione di cui altri – non il Beltrami – avrebbe potuto menar vanto di antiveggente precursore (!?)». Poiché anche il «Marzocco» si abbandona a queste scurrilità sarebbe interessante ricordare l’atteggiamento assunto dal foglio fiorentino a proposito della fucilazione di F. Ferrer.

Q3 §95 I nipotini di padre Bresciani. Romanzi d’appendice e teatro popolare (dramma da arena, drammone da arena ecc.). (Perché si chiama, precisamente, d’arena, il dramma popolare? Dal fatto delle Arene popolari come l’Arena del Sole di Bologna? Vedere ciò che scrisse Edoardo Boutet sugli spettacoli per le lavandaie che la Compagnia Stabile di Roma diretta dal Boutet dava all’Arena del Sole di Bologna il lunedì – giorno delle lavandaie –. Questo capitolo dei ricordi teatrali del Boutet lo lessi nel «Viandante» di Monicelli, che usciva a Milano nel 1908‑9.

Nel «Marzocco» del 17 novembre 1929 è pubblicata una nota di Gaio (Adolfo Orvieto) molto significativa: «Danton», il melodramma e il «romanzo nella vita». Comincia così: «Una Compagnia drammatica di recente “formazione” che ha messo insieme un repertorio di grandi spettacoli popolari – dal Conte di Montecristo alle Due Orfanelle – con la speranza legittima di richiamare un po’ di gente a teatro, ha visto i suoi voti esauditi – a Firenze – con un novissimo dramma di autore ungherese e di soggetto franco‑rivoluzionario: Danton». Il dramma è di De Pekar ed è «pura favola patetica con particolari fantastici di estrema libertà» (– per es. Robespierre e Saint‑Just assistono al processo di Danton e altercano con lui ecc. –). «Ma è favola, tagliata alla brava, che si vale dei vecchi metodi infallibili del teatro popolare, senza pericolose deviazioni modernistiche. Tutto è elementare, limitato, di taglio netto. Le tinte fortissime e i clamori si alternano alle opportune smorzature e il pubblico respira e consente. Mostra di appassionarsi e si diverte. Che sia questa la strada migliore per riportarlo al teatro di prosa?»

La conclusione dell’Orvieto è significativa. Così nel 1929 per aver pubblico a teatro bisogna rappresentare il Conte di Monte Cristo e le Due Orfanelle e nel 1930 per far leggere i giornali bisogna pubblicare in appendice il Conte di Monte Cristo e Giuseppe Balsamo.

Q3 §96 I nipotini di padre Bresciani. Romanzi popolari. Ricerche statistiche: quanti romanzi italiani hanno pubblicato i periodici popolari più diffusi? Il «Romanzo Mensile», la «Domenica del Corriere», la «Tribuna Illustrata», il «Mattino Illustrato»? La «Domenica del Corriere» forse nessuno in tutta la sua vita (32° anno nel 1930) su circa 80 o 90 romanzi che avrà pubblicato. Credo che la «Tribuna Illustrata» ne abbia pubblicato qualcuno: ma occorre notare che la «Tribuna Illustrata» è enormemente meno popolare della «Domenica» e ha un tipo suo di romanzo. Sarebbe poi interessante vedere la nazionalità degli autori e il tipo dei romanzi d’avventura pubblicati. Il «Romanzo Mensile» e la «Domenica» pubblicano molti romanzi inglesi e di tipo poliziesco (hanno pubblicato Sherlok Holmes) ma anche tedeschi, ungheresi (la baronessa Orczy, che mi pare ungherese, è diventata molto popolare e i suoi romanzi sulla Rivoluzione francese hanno avuto varie edizioni nel «Romanzo Mensile» che pure deve avere una tiratura rispettabile – mi pare sia giunto a 25 000 esemplari) e persino australiani (di Guido Boothby che ha avuto pure diverse edizioni). Così nel «Romanzo Mensile» e nella «Domenica» deve prevalere il tipo d’avventura poliziesca. Sarebbe interessante sapere chi al «Corriere» era incaricato di scegliere questi romanzi e da quali criteri partiva.

Il «Mattino Illustrato», sebbene esca a Napoli, pubblica romanzi di tipo «Domenica», ciò che significa che c’è un gusto diffuso. Relativamente e forse anche in modo assoluto l’amministrazione del «Corriere della Sera» è la maggiore diffonditrice di questi romanzi popolari: ne pubblica almeno 15 all’anno e con tirature altissime. Deve venire poi la Casa Sonzogno (forse qualche anno fa la Sonzogno pubblicava molto di più che il «Corriere»). Un confronto nel tempo dell’attività editoriale della Sonzogno darebbe un quadro delle variazioni avvenute nel gusto del pubblico popolare: sarebbe interessante farlo, ma di una certa difficoltà, perché la Sonzogno non pubblica l’anno di stampa e non numera il più delle volte le edizioni. Uno studio dei Cataloghi darebbe forse dei risultati. Il confronto tra il catalogo di 40 anni o 50 anni fa e quello odierno sarebbe già interessante: tutto il romanzo lacrimoso‑sentimentale deve essere caduto nel dimenticatoio eccetto qualche «capolavoro» del genere che deve resistere ancora (come la Capinera del mulino mi pare del Richebourg). Così è interessante seguire le pubblicazioni di questi romanzi a dispense.

Un certo numero di romanzi popolari italiani devono aver pubblicato il Perino e recentemente il Nerbini, tutti a fondo anticlericale, dipendenti dal guerrazzismo. Anche una lista delle case editrici di questa merce sarebbe interessante.

Q3 §97 Il Concordato. Allegata alla legge delle Guarantigie fu una disposizione in cui si fissava che se nei prossimi 5 anni dopo la promulgazione della legge stessa il Vaticano rifiutava di accettare l’indennità stabilita, il diritto all’indennità sarebbe venuto a cadere. Appare invece che nei bilanci fino al 1928 era sempre impostata la voce dell’indennità al Papa: come mai? fu forse modificata la disposizione del 1871 allegata alle Guarantigie e quando e per quali ragioni? La quistione è molto importante.

Q3 §98 Spartaco. Una osservazione casuale di Cesare (Bell. Gall., I, 40,5) rivela il fatto che i prigionieri di guerra cimbri furono il nucleo della rivolta di schiavi sotto Spartaco. Questi rivoltosi furono annientati. (Cfr Tenney Frank, Storia economica di Roma, trad. it., Ed. Vallecchi, p. 153). (Vedi nel Frank, in questo stesso capitolo, le osservazioni e le congetture sulla diversa sorte delle varie nazionalità di schiavi e sulla loro sopravvivenza probabile in quanto furono distrutti o si assimilarono alla popolazione indigena o addirittura la sostituirono).

99 La legge del numero (base psicologica delle manifestazioni pubbliche: processioni, assemblee popolari ecc.). A Roma gli schiavi non potevano essere riconosciuti come tali. Quando un senatore propose una volta che agli schiavi fosse dato un abito che li distinguesse, il Senato fu contrario al provvedimento, per timore che gli schiavi divenissero pericolosi qualora potessero rendersi conto del loro grande numero. Seneca, De clem., I, 24. Cfr Tacito, Annali, 4, 27.

Q3 §100 I nipotini di padre Bresciani. Letteratura popolare. La collezione «Tolle et lege» della Casa ed. «Pia Società S. Paolo» Alba-Roma, su 111 numeri del 1928 ne aveva 65 di libri scritti dal gesuita Ugo Mioni. Eppure non devono essere tutti i libri di questo scrittore, che d’altronde non ha scritto solo romanzi d’avventura o di apologetica cristiana: ha scritto anche un grosso trattato di «Missionologia» per esempio.

Q3 §101 I nipotini di padre Bresciani. Carattere antipopolare o apopolare‑nazionale della letteratura italiana. Vedere se su tale argomento ha scritto qualche letterato moderno. Qualcosa deve aver scritto Adriano Tilgher e anche Gino Saviotti. Del Saviotti trovo citato nell’«Italia letteraria» del 24 agosto 1930 questo brano da un articolo sul Parini pubblicato nell’«Ambrosiano» del 15 agosto: «Buon Parini, si capisce perché avete sollevato la poesia italiana, ai vostri tempi. Le avete dato la serietà che le mancava, avete trasfuso nelle sue aride vene il vostro buon sangue popolano. Vi sieno rese grazie anche in questo giorno dopo centotrentun’anni dalla vostra morte. Ci vorrebbe un altro uomo come voi, oggi, nella nostra cosidetta poesia!».

Q3 §102 Passato e presente. Scuola di giornalismo (cfr pp. 48 bis ‑ 49). Il numero dei giornalisti italiani. Nelle «Notizie sindacali» pubblicate dall’«Italia Letteraria» del 24 agosto 1930 si riportano i dati di un censimento eseguito dalla Segreteria del Sindacato Nazionale dei giornalisti: al 30 giugno, 1960 giornalisti inscritti dei quali 800 inscritti al partito fascista, così ripartiti: Sindacato di Bari 30 e 26; Bologna 108 e 10; Firenze 108 e 43; Genova 113 e 39; Milano 348 e 143; Napoli 106 e 45; Palermo 50 e 17; Roma 716 e 259; Torino 144 e 59; Trieste 90 e 62; Venezia 147 e 59.

Q3 §103 Il Risorgimento e le classi rivoluzionarie. Nell’edizione Laterza delle «Memorie storiche dei regno di Napoli dal 1790 al 1815» di Francesco Pignatelli Principe di Strongoli (Nino Cortese, Memorie di un generale della Repubblica e dell’Impero, 2 voll. in 8° di pp. 136‑CCCCXXV, 312, L. 60), il Cortese premette un’introduzione, «Stato e ideali politici nell’Italia meridionale nel settecento e l’esperienza di una rivoluzione», in cui affronta il problema: come mai, nel Mezzogiorno d’Italia, la nobiltà apparisca dalla parte dei rivoluzionari e sia poi ferocemente perseguitata dalla reazione, mentre in Francia nobiltà e monarchia sono unite davanti al pericolo rivoluzionario. Il Cortese risale ai tempi di Carlo di Borbone per trovare il punto di contatto tra la concezione degli innovatori aristocratici e quella dei borghesi; per i primi la libertà e le necessarie riforme devono essere garantite soprattutto da un parlamento aristocratico, mentre sono disposti ad accettare la collaborazione dei migliori della borghesia; per questa il controllo deve essere esercitato e la garanzia della libertà affidata all’aristocrazia dell’intelligenza, del sapere, della capacità ecc. da qualsiasi parte venga. Per ambedue lo Stato deve essere governato dal re, circondato, illuminato e controllato da una aristocrazia. Nel 1799, dopo la fuga del re, si ha prima il tentativo di una repubblica aristocratica da parte dei nobili e poi quello degli innovatori borghesi nella successiva repubblica napoletana.

Mi pare che i fatti napoletani non possano essere contrapposti a quelli francesi: anche in Francia ci fu una rottura fra nobili e monarchia e un’alleanza tra monarchia, nobili e alta borghesia. Solo che in Francia la rivoluzione ebbe la forza motrice anche nelle classi popolari che le impedirono di fermarsi ai primi stadi, ciò che mancò invece nell’Italia meridionale e successivamente in tutto il Risorgimento. Il libro del Cortese è da vedere.

Q3 §104 Letteratura popolare. Antologia degli scrittori operai americani pubblicata nel 1930 dalle edizioni Les Revues (Poèmes d’ouvriers américains traduits par N. Guterman e P. Morhange, 9 franchi: hanno avuto molto successo nella critica francese come si vede dagli estratti pubblicati nel prospetto dell’editore).

Nel 1925 alle «Editions Aujourd’hui» è stata pubblicata una Anthologie des écrivains ouvriers raccolta da Gaston Depresle, con prefazione di Barbusse: doveva essere in due volumi, ma è stato pubblicato solo il primo volume. (Pubblica scritti, tra gli altri, di Marguerite Andoux, Pierre Hamp ecc.).

La Librairie Valois – place du Panthéon (V°) 7 – ha pubblicato nel 1930: Henry Poulaille, Nouvel âge littéraire, nel cui prospetto di pubblicità sono elencati i nomi di Charles Louis Philippe, Carlo Peguy, Giorgio Sorel, L. et M. Bonneff, Marcel Martinet, Carlo Vildrac ecc. (Non appare se sia un’antologia o una raccolta di articoli critici del Poulaille: pubblicata da Valois, con nomi tipici come Sorel ecc.).

Q3 §105 Lorianesimo. Le noccioline americane e il petrolio. In una nota sul lorianesimo ho accennato alla proposta di un colonnello di coltivare ad arachidi 50 000 Km2 per avere il fabbisogno italiano in olii combustibili. Si tratta del colonnello del Genio navale ingegnere Barberis, che ne parlò in una comunicazione Il Combustibile liquido e il suo avvenire al Congresso delle Scienze tenuto in Perugia nell’ottobre 1927. (Cfr Manfredi Gravina, Olii, petroli e benzina, nella «Nuova Antologia» del 1° gennaio 1928, nota a p. 71).

Q3 §106 Il Prof. H. de Vries de Heekelingen insegna(va?) paleografia e diplomatica nella Università cattolica di Nimega (Olanda). Ha fondato a Losanna nel 1927 il Centro Internazionale di Studi sul Fascismo. Ha collaborato alla «Critica fascista». (Sull’organizzazione di questo Centro cfr le notizie pubblicate nella Nuova Antologia del 16 gennaio 1928). Il Centro fa un servizio di informazione per chiunque su ogni argomento che possa avere rapporto col fascismo.

Q3 §107 Le classi sociali nel Risorgimento. Vedere il volume di Niccolò Rodolico, Il popolo agli inizi del Risorgimento, Firenze, Le Monnier, 8°, pp. 312. Nello statuto della Società Esperia fondata dai fratelli Bandiera si diceva: «Non si facciano, se non con sommo riguardo, affiliazioni tra la plebe, perché dessa quasi sempre per natura è imprudente e per bisogno corrotta. È da rivolgersi a preferenza ai ricchi, ai forti e ai dotti, negligendo i poveri, i deboli, gli ignoranti». Bisogna raccogliere tutte le osservazioni che nel primo periodo del Risorgimento (prima del 48) si riferiscono a questo argomento e vedere donde è originata questa diffidenza: processi del 21 in Piemonte, differenza nell’atteggiamento dei soldati e degli ufficiali – i soldati o tradirono o si mostrarono molto deboli nell’istruzione dei processi –. Atteggiamento di Mazzini prima del 1853 e dopo: vedere le sue istruzioni a Crispi per la fondazione di sezioni del Partito d'Azione in Portogallo, con la raccomandazione di mettere operai nei Comitati.

Q3 §108 L’equazione personale. I calcoli dei movimenti stellari Sono turbati da quella che gli scienziati chiamano l’«equazione personale» che bisogna correggere. Vedere esattamente come si calcola questo errore e come esso si verifica e con quali criteri. In ogni modo la nozione di «equazione personale» può essere utile anche in altri campi.

Q3 §109 I nipotini di Padre Bresciani. Italo Svevo e i letterati italiani. Italo Svevo fu «rivelato» da James Joyce. Commemorando lo Svevo la «Fiera Letteraria» sostenne che prima di questa rivelazione c’era stata la «scoperta» italiana: «In questi giorni parte della stampa italiana ha ripetuto l’errore della “scoperta francese”; anche i maggiori giornali par che ignorino ciò che pure è stato detto e ripetuto a tempo debito. È dunque necessario scrivere ancora una volta che gli italiani colti furono per i primi informati dell’opera dello Svevo; e che per merito di Eugenio Montale, il quale ne scrisse sulle riviste l’“Esame” e il “Quindicinale”, lo scrittore triestino ebbe in Italia il primo e legittimo riconoscimento. Con ciò non si vuol togliere agli stranieri nulla di quanto spetta loro; soltanto, ci par giusto che nessuna ombra offuschi la sincerità e, diciamo pure, la fierezza (!!) del nostro omaggio all’amico scomparso» («Fiera Letteraria» del 23 settembre 1928 – lo Svevo morì il 15 settembre – in un articoletto editoriale introduttivo a un articolo del Montale, Ultimo addio, e a uno di Giovanni Comisso, Colloquio).

Questa prosetta untuosa e gesuitesca è in contraddizione con ciò che afferma Carlo Linati, nella «Nuova Antologia» del 1° febbraio 1928 (Italo Svevo, romanziere). Il Linati scrive: «Due anni fa, trovandomi a prender parte alla serata di un club