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    Musicista (Lucca 1858 - Bruxelles 1924), discendente da un'antica
    famiglia di musicisti (v. voce prec.). Studiò con C. Angeloni
    all'istituto lucchese G. Pacini, poi al conservatorio di Milano con
    A. Bazzini e A. Ponchielli. Ebbe il primo successo teatrale con Le
    Villi (libr. di F. Fontana), opera-ballo d'indole fantastica e
    romantica (1ª rappresentazione, Milano 1884). Seguì
    l'Edgar (libr. di F. Fontana), anch'essa d'indole romantica (Milano
    1889), accolta freddamente. Il più vivo plauso arrise invece
    all'opera successiva, Manon Lescaut (libr. di D. Oliva;
    rappresentata a Torino 1893), che si può dire abbia rivelato
    la personalità artistica di Puccini. Le opere che seguirono,
    ad eccezione di La Bohème (libr. di G. Giacosa e L. Illica;
    Torino 1896) e di Madama Butterfly (libr. di G. Giacosa e L. Illica;
    Milano 1904), accolte dapprima con riserva, ebbero ben presto un
    esito incontrastato e - tranne La rondine (libr. di G. Adami;
    Montecarlo 1917) - entrarono rapidamente nel repertorio dei teatri
    di tutto il mondo. L'ultima opera, Turandot (libr. di R. Simoni e G.
    Adami; Milano 1926), rimasta incompiuta (fu interrotta alla fine
    della scena della morte di Liù) e portata a termine da F.
    Alfano, ebbe lo stesso successo delle altre. Due mesi prima della
    morte P. era stato nominato senatore: fu sepolto nella sua villa di
    Torre del Lago Puccini, ora divenuta museo. 
    
    Il trionfo internazionale di P., dovuto al talento dell'operista,
    alla personalità compositiva e al tipo stesso della sua
    melodia, va considerato nelle condizioni ambientali determinate dal
    pubblico che, nel passaggio tra il sec. 19° e il 20°,
    aspettava il continuatore dei celebri operisti dell'Ottocento e che,
    pur diffidando degli innovatori, si mostrava disposto a evolversi,
    purché guidato, quasi a sua insaputa, da espressioni sia pure
    ardite, ma capaci di commozione immediata. Questo fu compreso da P.,
    il quale non cercò di andare oltre i limiti del suo mondo
    spirituale e si tenne lontano dalla musica strumentale, pur non
    trascurando neanche di questa le esperienze passate e contemporanee.
    Non dimenticò neppure la tradizione dell'Ottocento, ma nel
    segno di un'innata originalità immediatamente comunicativa
    riuscì a realizzare felicemente, grazie al senso del teatro e
    alla sensibilità di cui era dotato, un'opera in musica che,
    dopo quelle di Verdi e di Wagner, conquistò i teatri del
    mondo. 
    
    Con uguale fortuna egli toccò tutti i generi: dal lirico
    (Manon Lescaut, La Bohème) al drammatico e al tragico (Tosca,
    Il tabarro), al mistico (Suor Angelica) e al comico (Gianni
    Schicchi). Ma le sue corde più intime restano quelle liriche;
    dell'idillio, della nostalgia, della piccola vita a due, della
    morte, come quella rappresentata con tanta poesia nel quarto atto de
    La Bohème. Al centro del suo mondo romantico è la
    donna: Mimì, rappresentata nell'atto di grazia di un
    passaggio melanconico sulla terra. Ogni naturalezza di avvenimenti
    portati sulla scena è innalzata a poesia in questa
    umanità della donna pucciniana, nella delicatezza del suo
    accento, nel suo amore e nel suo dolore. L'espressione, la
    comunicazione pucciniana raggiungono i punti più alti nella
    melodia, di inconfondibile fisionomia personale. Questa melodia non
    è guidata dalla parola ma dal concetto di essa, cioè
    dal complesso del testo, o dal momento essenziale di esso, e dal
    sentimento che esprime. Ma assai curato nei riguardi della parola
    è il suo espressivo e personale recitativo melodico. 
    
    Se la soluzione lirica della scena pucciniana si espande in melodia,
    va però osservato come questa melodia nasca e si sviluppi in
    un'aura di raffinata suggestione armonica e strumentale. P. infatti,
    che raramente ricorre a procedimenti contrappuntistici, polifonici,
    fu piuttosto un moderno e raffinato armonista, specialmente
    nell'ultima fase della sua attività, e la sua strumentazione
    vibra anch'essa di una sottile eppure intensa sensibilità
    sonora, tenue e delicata nelle pagine più toccanti, tesa,
    esasperata, imperiosa nelle pagine drammatiche. 
    
    Oltre a quelle citate si ricordano (tra parentesi il librettista e
    la prima rappresentazione) le seguenti opere: Tosca (G. Giacosa e L.
    Illica; Roma 1900); La Fanciulla del West (G. Civinini e C.
    Zangarini; New York 1910); Il tabarro (G. Adami), Suor Angelica (G.
    Forzano), Gianni Schicchi (G. Forzano), queste ultime tre riunite in
    un Trittico (New York 1918). Da segnalare inoltre una Messa
    (1878-80), un Capriccio sinfonico (1883) e l'Inno a Roma (1919).