Camillo Prampolini

 

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Uomo politico (Reggio nell'Emilia 1859 - ivi 1930). Socialista di orientamento riformista, svolse un'intensa attività di organizzatore sindacale e contribuì allo sviluppo del movimento cooperativo della sua città. Instancabile propagandista politico, nel 1886 fondò il periodico La Giustizia. Difesa degli sfruttati, di cui fu direttore fino alla chiusura (1925). Deputato dal 1890, fu tra i fondatori del Partito dei lavoratori italiani (1892), poi PSI (1895), al quale aderì fino al 1922, quando, con F. Turati e G. Matteotti, fondò il PSU. Durante il fascismo si ritirò dalla vita politica assumendo un atteggiamento di passiva attesa.

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Cenni biografici tratti dall’opera di Giovanni Zibordi:

"Saggio sulla storia del movimento operaio in Italia: Camillo Prampolini e i lavoratori reggiani" (Bari - Laterza, 1930)
               
Camillo Prampolini nacque a Reggio Emilia il 27 aprile 1859, di famiglia abbastanza agiata e molto civile. Il padre era impiegato municipale; la madre veniva da una casata facoltosa. Più alto del livello economico era quello morale e intellettuale. Gente di principi rigidamente conservatori, ma per convinzione e non per interesse; fervidamente patrioti…

Pur vivendo in una famiglia molto religiosa (nota di L.B.), a circa 13 anni già dubitava delle verità religiose. Col crescere della ragione, gli calava la fede, continuando però nelle pratiche di culto, per non dar dolore ai suoi e per non urtarsi con loro… A 17 anni, in politica non aveva ancora idee definite, ma piuttosto dei sentimenti o delle abitudini mentali, seguiva le tradizioni famigliari, era monarchico e conservatore per forza d’inerzia…Questa la posizione dello spirito suo quando, giovine di 18 anni, va all’Università di Roma, nella qual città aveva parenti presso i quali viveva ospite, di principi religiosi e conservatori rigidissimi… Si preparava in lui, senza che egli l’avvertisse, una elaborazione interiore. Quella concezione così assoluta, così statica della società, che gli era apparsa sino ad allora perfetta, ordinata in modo definitivo, come un edificio millenario posto su incrollabili colonne, si scuote. Ha una conoscenza, da principio assai vaga, delle idee di Darwin.… Ciò che lo aveva colpito come una rivelazione che avea scosso irreparabilmente la sua fede conservatrice, era stata, nel 1879, una proposizione, enunciata dal Filimusi-Guelfi, che il diritto di proprietà escludeva il diritto al lavoro. Ciò significava dunque, che chi non possedeva, poteva anche esser destinato a morir di fame! E questo era l’ “ordine” nel quale egli fino ad allora aveva così ciecamente creduto? Tale il primo germe, messogli nell’animo, che maturerà poco più tardi.

Frattanto, a Bologna, durante il terzo corso di università, fa il servizio militare come volontario d’un anno in fanteria. Fisicamente quella vita gli piaceva e gli giovava; disciplinarmente, la sopportava con uno spirito in cui già albeggiavano concetti di collettività, ed eran già saldi dei principi egualitari, e d’antiprivilegio….Non ebbe mai una punizione, e alternava alle occupazioni militari letture febbrili di libri nuovi a quei tempi, come i romanzi di Zolà, e di libri vecchi…come la Bibbia, che(cosa da notare) lo interessava moltissimo….Ma la passione allo studio, o almeno la curiosità che lo spinge alla ricerca e alla lettura di libri di scienze sociali, si acuisce nel quarto anno di università, in quell’ambiente di Bologna di allora, dove il Sergi insegnava sociologia (e Prampolini era uno dei pochi frequentatori del corso) e Enrico ferri, giovanissimo docente, divulgava Lombroso e Ardigò….Giunto il tempo di fare la tesi di laurea, egli si sente maturato nella mente un insieme di concetti attorno al punto a lui fondamentale, rimastogli come in chiodo fisso nella testa: la teoria del diritto di proprietà che nega il diritto al lavoro, udita all’Università di Roma dal Filomusi-Guelfi. Su di essa la sua mente, la sua anima aveva meditato e lavorato in quegli anni di “incubazione socialista”. Quella teoria, svolta dal Filomusi, era quella dei filosofi ed economisti borghesi. Il diritto al lavoro non esiste, perché negherebbe, se ammesso, il diritto di proprietà. Questo diritto di proprietà è un vero jus utendi et abutendi,. Se il proprietario avesse l’obbligo di dar lavoro , non sarebbe più proprietario. E’ quel che il Beccaria chiamò “terribile e forse non necessario diritto”. Generalmente i conservatori non hanno coscienza della terribilità di questo diritto e della sua ingiustizia; o anche se l’hanno, affermano la necessità di esso, per la esistenza dell’ordine sociale. Ma è chiaro che questo iniquo “diritto” fondamentale è quello da cui sgorgano tutte le altre iniquità. Dunque, bisogna abolire la proprietà privata! Il sillogismo dei conservatori era questo: “il diritto di proprietà è la base della società civile. Senza di esso non vi è società possibile, non vi è ordine”. Ma ammettere il diritto al lavoro significherebbe negare il diritto di proprietà: dunque il diritto al lavoro non è ammissibile; non esiste, né potrà esistere mai”.

Il sillogismo del giovine - che già da tempo andava sviluppandosi in lui, e che sarà il nucleo della sua tesi di laurea - procede in senso inverso. “Poiché negar il diritto al lavoro significa negare il diritto alla vita pei non possidenti, ciò repugna a quel sentimento della giustizia che ebbe le sue maggiori manifestazioni nel movimento e nei principii del Cristianesimo, e in quelli della Rivoluzione francese, e che diventa sempre più vivo e diffuso nella coscienza dei popoli moderni. Dunque il diritto di proprietà è inumano ed iniquo, contrasta con gli interessi e con la volontà delle masse, e perciò deve fatalmente cadere”.

A questo punto si fa strada nel suo pensiero il concetto spenceriano della società come organismo. Nessuna forma di società può reggersi, se tra il suo assetto generale, e la forma dei vari elementi che la compongono, non vi è una corrispondenza e una reciproca armonia…

E’ in questo momento che la febbre della nuova fede, che era stata in incubazione per circa due anni, divampa. Egli ne è invaso e inebriato, e come trasformato. Per preparare la sua tesi di laurea, ricercò le opere degli economisti borghesi più in voga, e particolarmente degli scrittori che verso la metà dell’Ottocento erano scesi in campo contro il diritto al lavoro, al tempo del famoso esperimento degli ateliers nationaux in Francia. Essi sostenevano, e dimostravano, che ammettere tale diritto equivaleva a negare il diritto di proprietà. Ed era vero! Ma - ecco il bivio al quale la sua coscienza giovanile si trovò e si decise - egli scelse senza esitare, fra i due diritti: e optò per il lavoro. La sua tesi di laurea (1881) fu - com’egli lo definisce - un centone di più che 100 fitte pagine di protocollo, in cui cominciando… da Adamo, sosteneva che nessun assetto sociale può esistere quando urta violentemente contro il “senso di giustizia” dei suoi componenti: onde la società moderna perdeva la sua ragion d’essere ed era fatalmente destinata a tramontare, precisamente perché fondandosi sulla proprietà privata e quindi negando il diritto al lavoro - cioè il diritto alla vita - ai nullatenenti, essa diveniva ogni giorno più incompatibile con quei sensi di equità che la civiltà odierna suscita e diffonde, mercé i rapporti che crea tra gli uomini, in mezzo alle moltitudini…Una posizione morale, dunque, assai più che intellettuale e dottrinale, fu la prima fase della sua conversione; posizione lontana per origine e per natura dal marxismo: al quale egli arrivò interamente solo circa i 1886. Ma gli restò sempre (ed è il perno della sua concezione e della sua opera) insieme coi caratteri etici del suo socialismo, la convinzione che uno dei più potenti propulsori del movimento di emancipazione sia nel ricercare, suscitare, potenziare la coscienza e il sentimento della “giustizia”. La questione del diritto al lavoro fu come l’apertura di una finestra su tutto il panorama della iniquità del sistema capitalistico…

Il socialismo era per lui, in quegli inizi, un’idea molto vaga, indeterminata; era la “realizzazione della giustizia”: la libertà, la fratellanza. L’eguaglianza, effettive, trasportate dalla carta dei “principii”, alla vita. Non rifiutava egli questi grandi principii come menzogne, solo perché non erano in atto: pensava che essi fossero giusti in se stessi, ma che si trattava di tradurli in realtà…

Vi è quindi in Lui, fondamentalmente, l’anima del “banditore di verità”, piuttosto che l’organizzatore e agitatore di forze politiche.

La società futura, che egli concepiva in rapida evoluzione e di prossimo avvento, era essa pure una nebulosa. Non possiamo dire come sarà: non è lecito né necessario curarne e fissarne le linee particolari. Certo essa sarà fondata su la “proprietà collettiva”, poiché è la proprietà privata che condanna alla miseria e alla morte chi ne è escluso. E sarà basata sulla solidarietà, sul principio morale dell’ ”uno per tutti, tutti per uno”. Questi capisaldi eran chiari in lui. Al concetto della proprietà collettiva egli arrivava per una via etica piuttosto che economica. Non ne vedeva marxisticamente il divenire nelle forme della produzione e del loro svolgersi, ma ne vedeva la necessità morale per assicurare il diritto alla vita a tutti i diseredati.

Unico conforto in quel primo e non breve tumultuar di sentimenti e ansie, era l’assenza assoluta del dubbio, la certezza di aver trovato il vero; derivata non da superbia sicurezza di sé, quanto dal fatto che l’idea socialista non gli si era presentata sotto l’aspetto di una dottrina scientifica, ma di un principio morale di bontà indiscutibile…E questa base della sua fede gli infondeva l’ardore instinguibile che poco più tardi, nel comporsi ordinato delle sue conoscenze e del suo pensiero, e nella espansione della sua personalità di propagandista con gli scritti e con la parola, doveva tradursi in forza comunicativa di incomparabile efficacia. La nuova fede si trasfonde tosto nella vita. Egli si sente tutto preso dal concetto dell’uguaglianza, dal dovere di mettere in pratica le idee che ha abbracciate… Il giovane Prampolini è entrato da questo momento nella battaglia per il suo ideale, e non ne uscirà più…

Giornalisticamente, la sua carriera comincia con Lo Scamiciato, dal 1° gennaio 1882 al 20 gennaio 1884. Continua con La Reggio Nuova - dal 1° gennaio 1885 al 20 gennaio 1886 -, che, quotidiana per qualche tempo e poi lasciata interamente sulle sue spalle, redazionalmente e d amministrativamente, fu da lui mutata nel settimanale La Giustizia che si presenta col nuovo titolo il 29 gennaio 1886. Essa ha per sottotitolo “ Difesa degli sfruttati ”,e per programma la propaganda dei principi socialisti col metodo della lotta di classe. Dal 1882 al 1889 Prampolini fu anche corrispondente del Secolo con un compenso mensile che oscillava tra le 30 e le 50 lire. Da La Giustizia non ritraeva alcun guadagno, il che gli cresceva d’intorno un prestigio morale di inestimabile valore. Dal 1889 al 1896 fu vice-segretario della Camera di Commercio a 90 e poi a 110 lire mensili; indi fu soppresso il posto per mandarlo via. Fu allora che un gruppo di intellettuali, promotore Guglielmo Ferrero, allora poco più che ventenne, e aderenti il Lombroso, il Murri, il De Amicis, ed altri, si strinsero attorno alla Giustizia, di cui apprezzavano l’alto valore sociale e morale, e la misero in grado di stipendiare Prampolini nella stessa misura del compenso datogli dalla Camera di Commercio. I contributi, e la crescente diffusione del giornale, formano nel tempo un capitale di quasi 20.000 lire, che Prampolini, nei primi anni dopo il 1900, costituitisi saldamente il movimento socialista reggiano e l’organizzazione operaia, versa al Partito, affermando che il giornale e il suo patrimonio devono essere il Partito…

In Parlamento la carriera di lui comincia nel 1890, in cui fu eletto a scrutinio di lista, in un’alleanza progressista-radicale-socialista. Nel 1892, a collegio uninominale, è eletto a Guastalla. Rieletto nel 1895, nel 1897 passa a Reggio che lo rielegge ininterrottamente fino al 1924 (salvo la parentesi 1905-1909). La sua attività alla Camera non fu grande, ma in varie occasioni saliente, o per iniziativa sua, o per delega del gruppo, o per designazione dell’Assemblea, in cui aveva conquistato estimazione altissima. Qui ci basta evocare un episodio, che lumeggia un aspetto della sua figura, men noto a molti, che lo immaginano “evangelico" in diverso senso dal vero. Quando, nel 1899, la parte reazionaria tenta violare la Costituzione e il diritto della minoranza con un colpo di maggioranza, e con una votazione illegale, Prampolini, seguito da De Felice, Bissolati, Morgari, impedisce con un atto di forza la violenza, e rovescia le urne.

Nel piccolo, povero centro artigianesco, (Reggio Emilia N.d.C.) , la “ribellione” si tingeva naturalmente di anarchismo, anche in coloro che non ne seguivano ex professo le dottrine. Il maggior convegno dei sovversivi era il botteghino di un liquorista - Angelo Canovi - dove le discussioni duravano da mattina a tarda notte…Come Prampolini si sia trovato tra questi elementi, narra egli stesso:” Quando divenni socialista, gli anarchici e i socialisti erano ancor confusi insieme. Erano gli uni e gli altri degli “umanitari” internazionalisti. Prevalevano i credenti nel miracolo di un’imminente rivoluzione. Né molto diverso ero io, benché più sereno e più evoluzionista, e per istinto avverso alla violenza, pur ritenendo inevitabile e storicamente necessaria la rivoluzione…
In seguito venne sempre meglio chiarendosi in me l’antitesi fra noi e gli anarchici, ma la disputa non si svolgeva in forme aspre…”Ma c’era voluto del tempo prima che arrivassi alla conclusione - per così dire evidente - che proclamai al Congresso di Genova del 1892 (anni di costituzione del Partito Socialista dei Lavoratori Italiani N.d.C.): che gli anarchici e noi, malgrado l’affinità della meta, eravam divisi da metodi così opposti, da essere due diversi Partiti”…

Convien aggiungere che sempre di poi Prampolini, avversando la violenza anarchica, avversò anche - e con lo stesso animo - la violenza reazionaria: e viceversa. Vale a dire che si pose, con apertissimo (e raro) coraggio logico e etico contro il “mezzo violenza”, come antiumano, incivile, utopistico, e infecondo sia a fermare che ad affrettare la Storia, indipendentemente dal fine…E ad ogni periodo di “forca”, e più ancora in occasione del regicidio del 1900, e della reazione del ’98 che l’aveva preparato, e della reazione che lo seguì, Prampolini condusse vigorosamente campagne di propaganda contro gli “anarchici del basso e dell’alto”. Quanto alla situazione reggiana, i residui anarchici andarono disperdendosi parte volgendosi alla concezione schiettamente socialista, parte isolandosi, inattivi e inascoltati…

Quali fossero le condizioni materiali e morali delle classi operaie e campagnole in quei tempi, può dedursi da una tabella delle tariffe conquistate nel 1886 mediante uno sciopero di muratori e braccianti, che fu una novità e fece molta impressione nella città, atterrì e irritò i conservatori, e fu come il primo notevole segno di vita e di lotta delle masse: sciopero al quale i socialisti, con Prampolini alla testa, diedero incitamento e guida. Le mercedi giornaliere dei muratori andavano da un massimo di lire 2,15 pel muratore di prima classe, a un minimo di 90 cent. Per manovale di terza. I braccianti, pei lavori di sterro, percepivano da 1,50 a 1,75; le risaiole, 60 cent. il giorno. Gli orari eran di 13 ore, con due ore di intervallo. In città mancavano le industrie, e un artigianato sempre più misero, un piccolo commercio sempre più anemico, lottavano col bisogno, e si dividevano tra il servile ossequio e attaccamento ai signori, e un vago senso di ribellione. Nelle campagne, non meno delle esiguità delle mercedi, tormentava i lavoratori la scarsità e incertezza dell’occupazione. La borghesia, timida e avara, rifuggiva dal costruire, dal migliorare i terreni, dall’impiegar capitali in opere che non fossero di urgente necessità. Piuttosto che dedicarsi alla conduzione dei fondi, preferiva darli in affitto o a mezzadria o a colonia, con patti di fame per i coltivatori; i quali a lor volta Né potevano né volevano occupare i braccianti. Quali forme primitive di organizzazione vi fossero allora, conviene accennare; soprattutto perché il movimento operaio reggiano sarà più tardi caratterizzato dalla cooperazione, ed è giusto richiamarne la preistoria.

Ma (e qui cediamo la parola a Prampolini) “ a prima cooperativa di consumo con più vasti orizzonti fu quella del Vinsani, appoggiato poi da Giacomo Maffei, nata nel 1883… Ma la sua cooperativa, che aveva raggiunto un grande sviluppo aggiungendo però debiti a debiti, combattuta sempre più aspramente dagli esercenti, finì miseramente nel 1888…Ma ciò’ fu utile a far comprendere la grande importanza della cooperative di consumo, che risorsero più tardi con più chiari concetti socialisti…La cooperazione di lavoro ebbe circa in quegli anni origine con la cooperativa muratori fatta da Luigi Roversi, e prese sviluppo verso il ’90 per le leggi propugnate dal Maffei, per cui gli enti pubblici dovean dare alle cooperative i pubblici lavori. Contemporaneamente sorgono Leghe di resistenza. Siamo già agli albori del Partito socialista dei Lavoratori Italiani. Ma io, ne La Giustizia, battevo particolarmente il chiodo per l’organizzazione dei contadini (mezzadri, affittuari, coloni) e più tardi costituii la Lega contadini. Ma la Lega , che doveva svolgere soprattutto azione di resistenza, in pratica si volse alla cooperazione consorziale per l’acquisto di concimi, sementi, macchine, diventando la cooperativa contadini, che tuttavia serbò sempre qualche cosa dell’anima originale, e nel 1920 capeggiò un famoso sciopero di affittuari e mezzadri”…il suo pensiero, corredato da assidui studi, si andava intanto sempre meglio orientando e precisando verso il marxismo; e così nacque il 29 gennaio 1886 la Giustizia, Difesa degli sfruttati…

Solo a 27 anni, nel 1887, … si decise a parlare in pubblico. Le sue prime conferenze furono in piccoli paesi dei dintorni di Reggio. Memorabile, per lui, una, a Cadelbosco, in un giorno di sagra, in cui, tra la folla, vi erano dei borghesi che lo guardavano come un mentecatto, e delle signore della “buona società” che nella prima giovinezza egli aveva frequentato, le quali miravano tra ironiche e scandalizzate il “disertore”. Più tardi egli ricorda una conferenza a Busto Arsizio, dove l’avevano invitato i socialisti di Milano, i quali (Turati, Lazzari, la Kuliscioff, altri dei più in vista) vi assistettero, riportando un’impressione di ammirato stupore per il modo affatto nuovo di dirigersi alle masse, con una elementarità e insieme una nobiltà di oratoria, con una cura di farsi intendere e una passione così ardente di convincere, che lo trasfigurava…La costante preoccupazione di una assoluta semplicità e chiarezza (ciò che qui si dice dell’oratoria sua, è detto altresì della propaganda e della polemica scritta)tale che il più modesto potesse intenderlo, fu la prima ragione di quella sua forza. Guardò sempre alle moltitudini più diseredate, e parlò per esse. E tra esse , guardò ai più incolti e chiusi di mente, come il buon maestro guarda non ai primi, ma agli ultimi della scuola…

Notevolissima, l’assenza quasi assoluta di similitudini, che è pur uno dei mezzi, anche onesti, di propaganda. Prevalenza forte di ragionamento, ma fatto con forme che ne tolgono la secchezza e ne avvivano l’evidenza; e pervaso, intriso, circonfuso da un’aura di sentimento, che non si può esprimere, ma che si può definire, per differenziazione, dicendo che è l’opposto assoluto del sentimentalismo, quale inonda così spesso la propaganda anche dei galantuomini…Quanto al contenuto e alla sostanza, quei suoi discorsi che certa orgogliosa critica di superuomini raffigurava come “prediche di un curato di campagna”, erano materiali di meditazione e di dottrina, rara a trovarsi in molti dei nostri maggiori e migliori. Pochi uomini avevano studiato con tanta coscienza la questione sociale, pochi ci avevano riflettuto con tanto assiduo ardore, e pochi leggono, in genere, tanto come Prampolini…Dal 1886 in poi, ciò che Turati e Anna Kuliscioff fecero nella Critica, per diffondere il marxismo tra gli intellettuali e i politici, egli lo fece per divulgarlo tra le folle, unendo un rigoroso indirizzo dottrinale a una miracolosa facoltà di volgarizzazione senza volgarità, di semplicità senza semplicismo, di accessibilità senza inganni…Sparse fiducia, non illusione; ... del movimento socialista reggiano fu il risultato di circostanze complesse; prima di tutto, la sua autonomia insegnò incontentabilità, non scoraggiamenti. Avanti, sempre avanti, sempre più in alto!

La genuinità del movimento socialista reggiano fu il risultato di circostanze complesse: prima di tutto la sua autonomia dai “vicini” politici. Molto in Italia il socialismo si trovò stretto fra vicini di destra e di sinistra, che lo influenzarono, lo deviarono, lo falsarono, per ragioni di concorrenza e di opportunismo. I democratici e i repubblicani, gli anarchici o i rivoluzionari generici, gli diedero un po’ dei loro colori, lo trassero per sentieri che nn erano i suoi, lo costrinsero a rallentare o ad affrettare il passo: il passo non delle “cose”, ma delle parole, dei gesti, delle esteriorità…La propaganda di Prampolini badò alla “critica dei soggetti” piuttosto che alla critica dei soprastanti. Un sistema sociale fondato sull’iniquità ci domina tutti quanti, e i nostri sentimenti poco si differenziano fra un ceto sociale e l’altro, e le male volontà dei fortunati han poca parte nella infelicità dei diseredati. Ma se si vuol parlare di colpe morali, guardino allora i lavoratori dentro di sé, prima che inveire contro i potenti. Vi è una società male ordinata; ed essa poggia proprio su coloro che ne sono oppressi. Chi fornisce ai dominanti puntelli del loro potere, i gendarmi e i krumiri, gli elettori e i cortigiani e i servi, se non il popolo? Esso ha mille attenuanti, d’accordo: la miseria, l’ignoranza, la tradizione. Ma ciò spiega e giustifica, non rompe il circolo vizioso. A romperlo, occorre una visione nuova, e uno sforzo di volontà. Occorre convergere alla conoscenza e alla redenzione di noi stessi, la più gran parte di quella energia che si disperde nel recriminare o nell’imprecare contro gli “oppressori”; suscitando e formando in noi - anziché cercarla fuori di noi - la forza consapevole e attiva della ricostruzione sociale.

Il dovere è ben duro da praticare, e da udire, a chi dei doveri, o degli obblighi ne ha già tanti sul collo, e deve portarli e adempirli per necessità di vita…Se esso è prospettato come coincidente con l’interesse della classe - interesse nobile perché trascende l’io del singolo, e perciò combaciante a sua volta con l’ideale - allora la parola e la sua sostanza può essere ascoltata ed accolta, e farsi feconda.

Il dovere è parola poco corrente, nel linguaggio dei Partiti proletari. Gli agitatori preferivano la parte critica e demolitiva, l’attacco ai Governi e allo Stato, le invettive ai dominanti. I vecchi Partiti di sinistra correvano volentieri il palio della demagogia giacobina. Il “dovere” pareva antitesi del “diritto” anziché corrispettivo; pareva deprimente, rassegnato, anziché formativo della coscienza delle necessità vitali di una convivenza sociale… E tuttavia il dovere positivamente inteso, è semplicemente la codicio sine qua non per cui una classe, che vuol abbattere il dominio di un’altra, acquista il “diritto” positivo - non l’astratto! - di surrogarla e di raccoglierne l’eredità. Sarà lo innalzamento del proprio livello intellettuale, morale, tecnico, che recherà al proletariato, non il premio del Cielo, ma l’autorizzazione di fatto a farsi centro dirigente di n ordine nuovo. Vi è molta gente che concepisce l’avvento del socialismo in varie forme, rivoluzionarie o gradualiste; ma poca che pensi al carico di funzioni e di responsabilità che il proletariato andrà ad assumersi in un ordinamento di cui esso sia il perno. E a parlarne , si teme di passare per addormentatori e quietisti.

Ci dicono gli avversari politici: ” Voi socialisti predicate i diritti alle masse; non parlate mai dei loro doveri”. E s’è spesso citato come eccezione tanto più encomiabile quanto più rara, Prampolini. Or è verissimo che egli parlò sempre di doveri. Ma quali doveri? E verso chi? Generalmente chi rimprovera i socialisti di non aver parlato di doveri, intende o sottintende, doveri di servire con sottomissione, di non pensare a ribellarsi, di portar rassegnatamente il giogo della sorte.

Ma Prampolini non ha mai insegnato questi doveri. Anzi egli pose come primo tra i doveri del lavoratore, quello di unirsi coi propri fratelli di fatica e di miseria, per migliorare il proprio stato, per raggiungere la giustizia sociale. Il dovere di essere ribelle è il primo dell’oppresso. Ma ribelle in che senso e in che modo? Non certo nel senso e nel modo individualistico, con l’atto o col sentimento ” personale” di odio o di violenza contro il padrone. Bensì ribelle con l’organizzazione, con l’azione collettiva di classe, con i mezzi che l’unione e la solidarietà offrono al proletariato.

Altri doveri ancora egli inculcò ai lavoratori, d’ordine contingente, come quello di eseguire lealmente il patto verso il datore di lavoro, ma poi osserva con correttezza le clausole del contratto, così come ne esige la osservanza da parte del padrone. E, al disopra di questi, instillò i doveri di onestà privata, di buon costume famigliare, contrastando fermamente quelle teorie di un eccessivo determinismo, secondo le quali, siccome vive in condizioni di strettezze e di abbiezione, e circondato dai mali esempi dei ricchi, può dispensarsi dal cominciare in sé lo sforzo del suo miglioramento morale, rimandando tutto ciò… a quando sarà venuto il regno della giustizia, e l’agiatezza gli consentirà di essere più morale, più civile, di aver sentimenti più elevati. No. Egli non interpretò così piattamente il “determinismo”, ma fece leva sulla volontà, sul senso di coscienza del lavoratore, ridestandola, potenziandola, facendogli intendere che aspettare il socialismo per “ essere socialisti” con l’animo, era un vicolo cieco, un circolo chiuso che occorreva spezzare “cominciando” in sé stessi una vita nuova; e che ciò era il mezzo per affrettare l’auspicato avvenire.

Ma al di là di questa educazione morale, vi fu sempre nella sua propaganda una predicazione di doveri, che sarebbe stata ben sgradita ai borghesi, se ne avessero avvertita la vera essenza e portata. Essi erano assai contenti, e legittimamente contenti, quando Prampolini diceva all’ operaio muratore o falegname: “ Fatti pagar bene, ma lavora bene e con coscienza, perché il tuo padrone ha diritto che tu adempia lealmente il tuo dovere”. Ma sarebbero stati meno contenti se avessero notato e questa predica morale, estesa poi alla categoria e alla classe, significava:” Lavorate con abilità e con coscienza, addestratevi a “produrre” bene, in modo da emanciparvi dal padrone, in modo da “organizzare” il lavoro e la produzione tra voi stessi operai, senza bisogno del padron di bottega, del capo mastro del cantiere”. Questo è il dovere della “classe”, che, se vuole eliminare il privato capitalista deve abilitarsi a sostituirlo nella sua funzione sociale, deve mettersi in grado di dimostrare alla collettività che il “privato” non è più necessario, perché l’organizzazione ne adempie l’ufficio di organizzare la produzione e il lavoro, di fabbricar le case a chi ha bisogno di case, di costruire le macchine per gli opifici, di coltivar la terra per fornire a tutti le cose occorrenti alla vita.

E qui, tutta la parte tecnica - della preparazione professionale, delle conoscenze inerenti ai vari mestieri - vi era tutta una parte morale nuova. Voi operai, che vi dolete giustamente del padrone, del suo egoismo, della sua avidità di lucro, siete certi di essere senza egoismi e senza avidità? Emancipati dall’esoso gioco del padrone, siete sicuri di saper vivere liberi ed eguali in fraterna concordia, senza che alcuno voglia soverchiar l’altro, senza che alcuno cerchi di esimersi dai comuni doveri, sfruttando il compagno; senza che l'invidia, la vanità, la maledetta passione di star di sopra, di comandare, di prepotere, rompa le unioni di lavoratori, e faccia sogghignar di gioia i vinti borghesi, pronti a mostrare che essi avevan ragione, perché il lavoratore non sa vivere senza la sferza del padrone, e non sa fare per coscienza ciò che da secoli ha fatto per bisogno e per timore?

Diceva Prampolini che “la miseria nasce non dalla malvagità dei capitalisti, ma dalla cattiva organizzazione della società, dalla proprietà privata. Perciò noi predichiamo non l’odio alle persone né alla classe dei ricchi, ma la urgente necessità di una riforma sociale, che a base dell’umano consorzio ponga la proprietà collettiva”… Non sono malvagi i ricchi, e i buoni, i “giusti”, i poveri. Non sono due razze distinte e diverse, una piena di vizi, l’altra ricca di virtù, come insegnava una vecchia demagogia derivata dai tempi della Rivoluzione francese, che aveva abbattute le caste chiuse. Se il povere sale al posto del ricco, fa anche lui come il ricco, e peggio. Vedete i pidocchi rifatti, i nuovi ricchi, i pescicani di guerra, come sono avidi ed esosi e inumani! Non è che vi san due piani, nell’uno tutti i buoni, nell’altro tutti i perversi; e meno ancora so tratta (come intende talora il semplicismo delle folle) di capovolgere i due piani, di fare una sorta di permuta di appartamenti nell’edificio sociale: i poveri al piano nobile, a godersela, i ricchi in soffitta, a espiare i loro torti. Si tratta di abolire i due piani, e farne uno solo, su la base del lavoro legge di vita per tutti, e senza proprietà privata, che dà agli uni il modo di vivere sul lavoro degli altri…Una esposizione del problema sociale assai più larga che non sia il consueto contrasto tra capitale e lavoro, animò sempre la propaganda prampoliniana. Homo hominis lupus, è il motto della società capitalistica. Non solo il padrone sfrutta il lavoratore, ma ogni uomo, in quanto lo possa e quanto ne abbia l’occasione, inferisce contro il suo simile. Chiunque abbia in pugno, per un momento, o ordinariamente, il coltello pel manico, l’adopera per iugulare ed opprimere l’altro, o la società. E’ un vasto e reciproco cannibalismo, che si impernia sulla proprietà privata, e sul “diritto” che ciascuno ha, di abusare dei beni che stabilmente o provvisoriamente possiede, per farseli pagar cari da chi ne ha bisogno.

La questione sociale presentata in tal modo, acquista un valore reale e morale infinitamente più esteso e più alto, che non quando è limitata alla sola antitesi del capitale e del lavoro…

Prevalendo la tesi dell’appoggio esterno al governo Giolitti, fu incaricato Prampolini di esporre le ragioni alla Camera. Ed egli, in un ampio e memorabile discorso, pronunciato in una seduta solenne, dichiarava la posizione del Gruppo socialista, ed esordiva così:” Io parlo contro il ministero Sonnino…”. Il discorso incatenò, soggiogò ben presto l’Assemblea. Egli parlava di questo diritto nuovo delle plebi più obliate e spregiate, che se l’eran guadagnato con le loro fatiche, e conquistato talora col sangue. Dimostrava la iniquità e l’utopia dei feudatari terrieri, che sognavano le repressioni feroci, e accusavano per giustificarle, la massa di violenza. “ Violenza, eccessi, odio, - egli - diceva - ce n’è su entrambe le rive; e il dovere degli uomini più civili e più veggenti, da una parte e dall’altra, è di contenere questa lotta di classe, fatale, necessaria, benefica, entro i limiti di un tanto di “umanità” e di legalità, spogliandola di inutili odii, di rappresaglie feroci, incanalandola e disciplinandola nelle grandi correnti dell’organizzazione, libera e responsabile; togliendole i caratteri gretti di un urto privato fra ricchi e poveri, e ponendola nella sua luce storica di un vasto contrasto di interessi collettivi, di un conflitto di classi, generato da un sistema. ”Per parte mia - egli esclamava - io l’ho sempre fatto, in lunghi anni di propaganda! Lo facciano gli altri, per parte loro. Tagliamo le unghie alla bestia umana, che è in tutte le classi”.

Il vecchio presidente Biancheri, che più del contesto del discorso di Prampolini, rigorosamente classista, aveva afferrato quegli accenti umani e l’inesprimibile nobiltà di passione che li animava, non seppe trattenere la commozione, e disse qualche parola. Prampolini credendo che volesse interromperlo, e non comprendendone il perché, si fermò stupito, in atto interrogativo. E il Biancheri, con le lacrime agli occhi, riprese: ”No, no, Continui, apostolo di pace, in questi nobili concetti, che onorano lei, l’assemblea e il Paese!”. La scena di commozione che ne seguì, in un contagio di sentimenti, sinceri in quell’istante, in cui in tutti era venuto a galla il meglio dell’anima, non si può descrivere. Un applauso immenso ed unanime risuonò nell’aula del Parlamento…

Cessata l’interminabile acclamazione di tutta la Camera, Prampolini ripiglia la parola dicendo:” Le parole del nostro Presidente hanno fatto passare un alito di bontà sugli animi nostri. Domani la ferrea legge degli interessi di classe ci porrà nuovamente gli uni contro gli altri. Rimanga almeno il ricordo di quest’istante come auspicio di una maggior civiltà nella lotta…”

Da quell’episodio in poi, l’epiteto do “apostolo di pace” fu ripetuto più volte, e da parti e con significati diversi e del tutto erronei…falsandone l’animo e l’azione.

Apostolo di guerra, per la giustizia, e non di pace, egli fu sempre: di guerra - o di lotta - per quanto è possibile civile; fautore ed artefice della forza dei lavoratori per la loro lotta; la qual forza, quanto più è grande, rende men necessaria la violenza. Predicatore di tolleranza e di libertà per tutte le idee, contro i vecchi abiti della prepotenza e del dogma, educatore insieme che agitatore, delle moltitudini operaie, a sensi di umanità necessari sempre, e indispensabili a vivere nel socialismo; divulgatore di quei principii rigidamente marxisti e nel medesimo tempo educativi, che spersonalizzano la lotta di classe, e la riconducono alle sue fonti e alle sue foci, alla sua magnifica “fatalità” storica, a confronto della quale le misere violenze e gli stolti odii dei piccoli uomini sono vana e infeconda fatica, capace solo di accrescere la infelicità, non di creare o distruggere la storia…

Tali a grandi linee i caratteri della propaganda pranpoliniana, che fu detta “evangelica”, talora a lode, talora a scherno maligno o lievemente benevolo, talora a biasimo e a condanna…

Ma Torniamo a noi… Le masse del reggiano, che con la guida e lo spirito di quella propaganda avevano costruito tante opere socialiste, che se dovunque si fosse fatto altrettanto, la mèta sarebbe stata vicina…Per quanto riguarda l’aspetto religioso, Prampolini suddivise il problema in due parti. Lasciò Dio in cielo, combattè i preti in quanto fossero puntello dei padroni, combattè la Chiesa nelle sue superstizioni assurde ed astute, che servono a tener ciechi gli appressi; ma avversando i preti come “anticristiani”, e contrapponendo alla Chiesa il Vangelo, e l’ipotesi stessa della Chiesa, di un Dio giusto e Buono. E del resto cavò fuori dal cristianesimo tutta la sua essenza etica di fraternità, di solidarietà, per risvegliare negli spiriti delle masse le scintille di una fede predicata da secoli, ma non praticata mai, e collegarle ai principii e più ancora al fatto del socialismo, nel quale soltanto la legge di Cristo potrà avere la sua piena e sincera attuazione… Lasciò pertanto perdere le disquisizioni teologiche astratte, lasciò che ognuno risolvesse secondo coscienza lo “affare privato” delle sue personali credenze, e insistette sempre più ardentemente a dimostrare che i soli che applicassero veramente i principii di Cristo quali erano nella purezza delle origini, erano coloro che lottavano per redimere gli schiavi moderni, per eguagliare gli uomini, per innalzare gli oppressi. Coloro invece che parteggiavano per i potenti della terra, e i poveri stessi che non cercavano di riscattarsi, erano gli anticristiani…I concetti di “tutta la teoria religiosa di Prampolini N.d C.), furono raccolti nel 1897 in quella famosa “Predica di Natale”, che ebbe vasta diffusione anche fuori della provincia di Reggio, e fu pure tradotta all’estero.

Nel 1901 una nuova scomunica (dopo quella inflitta, nel 1882, a Lo Scamiciato. N.d.C) colpiva il giornale di Prampolini, “La Giustizia”; e lo colpiva nel mezzo di una trionfale polemica coi preti circa l’essenza cristiana dell’idea socialista; polemica che aveva avuto una espressione clamorosa in un grandioso contraddittorio, nel maggior teatro di Reggio, tra Prampolini, e tre sacerdoti dotti e battaglieri: don Gurco di Modena, don Filiberto Mariani di Bologna e don Romolo Murri. Ma questa scomunica, in luogo a diradare i lettori come nel 1882, li moltiplicava, dimostrando la bontà della tattica seguita da Prampolini. Che se la parola “tattica” potesse far credere che si trattasse solo di un espediente di propaganda, di un opportunismo più astuto che sincero, convien ripetere che anche qui, in lui, coincideva l’abilità con la verità: raro connubio in cui sta il segreto dell’onesto e durevole successo. Era in lui veramente il convincimento che, non tanto nella figura e nella vita di Cristo - così difficile da ricostruire e da definire nelle sue vare interpretazioni; non tanto nei passi del Vangelo, che ciascuno sceglie ed adopera alle tesi più diverse, cercandovi quel che gli giova, dalla ribellione alla rassegnazione, dalla violenta condanna del privilegio, all’acquiescenza supina, quanto nel complesso di quel movimento di spiriti che lungo i secoli lasciò le sue stratificazioni nell’animo delle moltitudini, vi sia un patrimonio ed un’eredità di valori etici che sarebbe vano ignorare e disconoscere, e stolto non usare per innestarvi nuovi ideali.

Da ciò nacque principalmente la leggenda del suo “evangelismo”, quasi che la sua propaganda coincidesse con la religiosità cattolica, o cristiana…mentre era esattamente il contrario, una religiosità opposta, nello spirito e nelle deduzioni, a quella dei preti, benché resuscitasse il nucleo umano e sociale del primitivo insegnamento di Cristo.

Religiosa sì, quando si appoggiava su una tradizione “religiosa”, per trarla a sbocchi tutti diversi dai consueti; e “religiosa” assai più, in quanto si prefiggeva di instillare un’ideale morale, un senso di dovere, una aspirazione superiore della vita, ben oltre le sole conquiste materiali. Religiosa per il suo contenuto morale, etico; ma senza nulla di teologico e di mistico, e senza nulla di quietismo, di rinuncia, di mitezza rassegnata…

Tutto ciò era necessario chiarire, per determinare esattamente il cosìddetto “evangelismo” della propaganda di Camillo Prampolini…

Quante volte fu posto il problema se il movimento socialista-proletario reggiano fosse riformista o rivoluzionario, e se, nei Congressi e nelle dispute di Partito dovesse logicamente schierarsi a sinistra piuttosto che a destra?…Diceva Prampolini, anzitutto, che la intransigenza era questione di tattica, e non di principio; onde doveva esser lasciata, luogo per luogo, caso per caso, al giudizio dei socialisti…(al di là dei deliberati Congressuali. N.d.C.).

Egli difendeva non la tattica transigente piuttosto che la intransigente, ma la libertà della tattica, necessaria per la varietà infinita degli ambienti nel nostro Paese…

Questioni di metodi e di tattiche, litigi sull’appoggio o meno a un governo, dispute sulle alleanze o l’intransigenza, tutto ciò che divise e spesso paralizzò l’esistenza e l’opera del socialismo italiano, a Reggio parevano pure disquisizioni teoriche che valevan meno di una solida Lega o di una buona Cooperativa …

Rivoluzionario? Lo era nell’azione quotidiana. Sindacalista? Chi più del socialismo reggiano poteva vantar sindacati? Integralista? Dove meglio s’era usata ogni forma di lotta, con giusta contemperanza? E perché allora si schierava col riformismo politico? Perché questo propugnava libertà di tattica; e perché in questo Prampolini vedeva quella valutazione positiva dell’azione proletaria anziché della formula e il buon cammino percorso giorno per giorno…

Perciò per molti anni portò ai Congressi nazionali il voto compatto dei propri cento e più Circoli politici, e talvolta la parola di qualche organizzatore e operaio, stancandosi di quelle interminabili elucubrazioni in cui quasi tutti gli oratori venivano a discutere sul come si doveva camminare, e pochissimi riferivano sul come si era camminato; e ciascuno portava la sua ricetta, e pretendeva generalizzare il suo caso, e pochi recavan contributo di esperienze e di fatti…

Allora, non è la tattica in sé ,che importa, ma l’opera di classe. La quale è essa, che, mentre immunizza dalle contaminazioni e da contagi, dà la bussola alle tattiche stesse. Per essa, si può allearsi o non allearsi, esser ministeriali o antiministeriali, transigere in questioni di forma, mescolarsi e rasentare il pericolo, uscendo puri e levando immacolata la bandiera socialista…

Molta transigenza e molta intransigenza vi fu sempre nel movimento socialista reggiano, che poco conosceva e curava i formalismi, e la disciplina fatta di esteriorità; poco valutava certe manifestazioni superficiali, e più badava alla sostanza classista della sua azione. Scarse le dispute dottrinarie e le logomachie sul futuro, ma una salda concordia d’animi nascente da una effettiva concordia di opere, e consapevole omogeneità di movimenti, nella multiformità dell’azione, per una vera coscienza di masse formatasi con metodo sperimentale, concretatasi intorno ad interessi vivi e presenti, non in contrasto con l’ideale futuro, ma riferiti, collegati, coordinati ad esso….

Il movimento socialista reggiano fu sempre combattuto dai borghesi, con varia fortuna ma con eguale accanimento;… Non solo i clericali e i vecchi moderati conservatori, ma quelli che di solito sono i “democratici”, gli furono contro, per l’azione cooperativa e per lo sviluppo di aziende municipalizzate che ledevano gli interessi dei ceti sociali del piccolo e medio commercio…

Della “intransigenza” politica e morale di Camillo Prampolini, e dell’intransigenza del socialismo reggiano, fu indubbio segno che un simile uomo, giunto ai gradi altissimi nella estimazione pubblica nazionale, non soltanto del suo Partito, ma della Camera (fu membro del Comitato dei cinque per l’inchiesta Nasi; gli fu offerto di partecipare alla Commissione d’inchiesta per le spese militari; fu designato per Vice – Presidente della Camera; Fu sempre membro della Giunta per le elezioni) serbò nella vita locale della sua piccola città, ove non smise mai di operare e di scrivere, benché l’ambiente fosse provinciale e dove, specialmente nell’avanzar dell’età, gli uomini divenuti illustri passano nell’ olimpo delle figure “superiori ai partiti” cui tutti fanno più o meno aperto e sincero omaggio come ad una gloria cittadina…

Egli, viceversa, fu sempre odiato da colore che “dovevano” odiarlo, anche se dentro di sé erano costretti a stimarlo; egli ebbe sempre avversari coloro che egli combatteva come esponenti dei nemici della classe lavoratrice. La sua milizia fu sempre fervida a un modo, la sua intima solidarietà e corresponsabilità col movimento fu sempre intera. Circondato d’amore vivissimo da parte dei lavoratori e di molti cittadini simpatizzanti per il socialismo, egli non ebbe mai - non poté avere ! - degli ammiratori ed elettori personali, che separassero lui dalla sua fede e dalla sua opera politica…La sua dottrina e la eloquenza erano nel socialismo e pel socialismo; la sua personalità era “una”, privata e politica, intellettuale, morale e socialista, inscindibilmente.

Quasi dovunque, in Italia, per vicende d’uomini e di casi singoli, si ebbero dei “ focolai rossi”, che vissero un’età d’oro e poi si spensero o languirono, indi rinacquero in altra forma e con altre persone, o si trasportavano altrove legando la propria sorte a quella degli individui più eminenti, o variando indirizzo secondo il vento delle tendenze. Anche se si riaccesero vigorosi, quanto sperpero di energie e di tempo in questo fare, disfare, rifare; quanto cammino inutile in questo muovere a zig zag, quanta dispersione di forze nel ricostruire la fiducia delle masse, illuse e deluse; quella fiducia che è sì mirabile elemento di successo, e che inevitabilmente vien meno quando un movimento s’arresta, un uomo s’allontana o tradisce, una tattica fallisce…

Nel reggiano il fuoco arse sempre inestinguibile sul focolare; fiamma consistente, senza vampate improvvise, senza girandole pirotecniche e fuochi artificiali, ma continua. E si camminò diritto non perdendo tempo in tornare indietro e in rifar la strada; con passo cauto, misurato, calcolato ma ininterrotto…

A questa continuità valse immensamente la presenza di Camillo Prampolini, che, assurto a rinomanza e ad uffici nazionali, non abbandonò mai la sua Reggio, come , viceversa, molti fecero che, saliti in fama, si trasferirono in centri maggiori, lasciando un movimento locale il quale, per esser troppo immedesimato con la loro persona, si sfasciò quando mancò io capo…

Grande elemento di forza e di fortuna fu la felice maniera dei rapporti sempre esistiti fra Circoli politici ed Organizzazioni economiche…Nel reggiano, Circoli e Associazioni economiche vivevano in contiguità (a differenza di altre parti del Paese ove o vi furono innaturali fusioni o si crearono le condizioni politiche per scontri ed incomprensioni tra il Circolo politico – considerato l’anima, lo spirito, il cervello del movimento…- e l’Organizzazione economica, ritenuta quale vile materia, ventre molle del movimento preoccupato soltanto a garantire aumenti salariali…-), con divisione di funzioni e di compiti, senza fusioni forzate e reciproci antagonismi. I lavoratori più coscienti e più ferventi si inscrivevano nel Circolo politico, la maggioranza meno portata allo studio e alla milizia politica era nelle Leghe e nelle Cooperative; ma tutto il movimento era ispirato da un’anima medesima, e ogni passo avanti del proletariato sulla via delle sue rivendicazioni materiali era nella direttiva e per la mèta del socialismo, cioè della emancipazione totale del lavoro, e della ricostruzione radicale del mondo sociale, politico e morale. Ogni conquista anche piccola, ogni lotta anche contingente, era illuminata dall’obiettivo futuro, era indirizzata a quel fine, era presentata come un passo verso quella mèta. Non vi erano due strade, una per i più veloci e una per i più tardi, ma una strada sola che alcuni percorrevano con più chiara e completa visione del futuro, e altri con più modesta percezione del bene immediato; ma ogni passo era su quella strada, ogni moto era quel fine. E quando l’immediato paresse pregiudicare il futuro, quando la realtà materiale compromettesse l’ideale, l’anima politica illustrava e additava la via, senza urti e conflitti, ma con la persuasione e la ragione, che insegna ed eleva.

Aggiungiamo che il movimento operaio stesso, guidato da uomini animati da piena convinzione della finalità massima, fungeva da freno – in ragion della sua vastità e complessità - alle eventuali deviazioni di particolari interessi o appetiti di categoria. Quando veramente è tutta la classe lavoratrice che si muove, è ben raro che non abbia essa in sé stessa la visione universale del moto e del fine, e l’antidoto spontaneo alle degenerazioni dei ristretti egoismi.

Nella concezione, nella propaganda, e nell’opera di Prampolini e de’ suoi collaboratori, il “minimo” era un incessante se pur lenta attuazione del “massimo”; Questa faccenda del programma massimo e del programma minimo fu sempre assai poco chiara nella mente di molti…

“Massimo” e “Minimo” si realizzano di conserva, mercé un’opera di demolizione, di penetrazione, e di ricostruzione, unitaria, inscindibile e organica.

In realtà, “massimo” e “minimo”, via e mèta, son differenziazioni capziose, o espedienti di propaganda. A chi possiede la concezione sintetica del divenire socialista, tutto è in armonia, tutto è su un immenso piano acclive che ascende, ininterrottamente, verso le cime…

Dagli inizi, quel che fu poi il grandioso edificio social-proletario crebbe senza stolti dualismi tra spirito e materia, fra idealità e interessi, che, è danno dei Partiti di massa, se non sanno risolverlo con unità di visione. Prampolini portò alle folle la “parola” che fu detta evangelica, il “verbo”: ma volle che il “verbo” si facesse carne, e fece leva sui sentimenti e su interessi, fuor da quello strano pregiudizio che par ritenere vergognosi i giusti e onesti interessi, e nobili solo i sentimenti, come se questi potessero vivere in aria, avulsi dalla realtà! Nulla in lui di tale metafisica, bugiarda quando non è scema; ma sana e aperta contemperanza di realismo e di idealità. La meta è altissima, nobilissima, ma noi la attuiamo ogni giorno, ad ogni passo; e via e mèta si fondono nell’azione guidata dalla fede…

Nulla è minimo e nulla è massimo; è una concezione e uno sviluppo progressivo, e il massimo si realizza ogni giorno attraverso il minimo…

La tradizione, avvezza a considerare quasi unicamente il risorgere di un Paese o di una classe attraverso le elites, non avverte di solito che la redenzione delle grandi masse, postulato e premessa, a un tempo, del socialismo, non può avvenire per forme e virtù d’eccezione, ma per lungo e vasto esercizio di qualità medie, diffuse in largo campo, estese ai molti, non eroi, ma uomini; e che tuttavia, la salda e continua disciplina di quelle umili virtù, può vacar, nell’ora del bisogno, dalla folla degli uomini, il manipolo degli eroi; può anche, da ciascun uomo, trarre una scintilla d’eroe.

Prampolini intendeva il socialismo come la redenzione dei lavoratori - ma non di coloro soltanto che oggi sono i lavoratori, ma di tutti coloro che via via lo diventano; come il riordinamento sociale verso la mèta collettivista, attraverso una continua crescente organizzazione degli sfruttati d’ogni campo e d’ogni specie, contro le forme monopolistiche, parassitarie, depredatrici. Non dunque collaborazione col “nemico”, ma aggregazione, attrazione di tutti coloro che non han motivo di non esserci amici; espansione, non isolamento; transigenza, non transazione…E poi non è affatto vero (come afferma certo determinismo semplicista) che la gente segua sempre il suo interesse. Essa segue spesso quello che crede il suo interesse: il che è profondamente diverso. Il proletariato stesso, che per sue condizioni di vita dovrebbe sentire con pronto intuito il suo interesse, quanto è tardo e miope a vederlo e quanto è a volte ignavo a difenderlo!…

Il marxismo aveva visto prevalentemente l’antitesi e la lotta tra captale e lavoro, tra padrone e salariato, tra chi ha solo le braccia da vendere, e ha urgenza di venderle, per mangiare, e chi deve comprarle, ma senza fretta (e fino a un certo punto); e si occupò meno di tutta quell’altra vastissima antitesi fra chi ha prodotti da vendere, ma non ne ha urgente bisogno, e chi deve senza ritardo comprarli giorno per giorno, se vuol vivere: la lotta nel campo del consumo, accanto a quella del lavoro. Il socialismo reggiano volse la sua attenzione e la sua opera anche a questo lato della lotta di classe; onde una propaganda assai complessa e irradiante, e l’azione cooperativa.

La funzione di organizzare la produzione e distribuire le merci è importantissima ed è necessarissima. Ciò che il socialismo contesta è che essa sia svolta dai “borghesi” capitalisti e che questi, profittando del monopolio privato e del bisogno del pubblico se ne appropri un compenso eccessivo…Ciò che non è necessario non è già la funzione, ma il fatto che essa sia compiuta da privati speculatori anziché dalla collettività o da gruppi di essa, attraverso aziende collettive: cooperative, aziende municipali, enti di consumo, consorzi, ecc.

Per assumere tali funzioni, in concorrenza o in sostituzione del privato, occorre però “far meglio di lui”. Il parassita, lo sfruttatore, il borghese capitalista – in teoria – può praticamente affermare che egli è pur necessario, se altre forme di attività non lo surroghino con vantaggio del pubblico, o dopo breve infelice esperimento falliscano per inabilità, deficienze tecniche e morali, scarsa coscienza dei dirigenti o partecipi. Non basta combattere: bisogna sostituire. Non basta abbattere: bisogna superare…

Per quanto riguarda i campagnoli che seguono la nostra bandiera, sono genericamente dei contadini, ma non sono “i contadini” (se non in piccola parte) che nel reggiano portano tale denominazione. Essi sono braccianti, dei piccolissimi proprietari, dei giornalieri o cameranti; mentre i “contadini”,

quelli ricchi, hanno sempre seguito il partito dei padroni e specialmente dei preti…

Portando la lotta al di là del duello tra padroni e salariati, ma allargandola al conflitto fra speculatori del commercio e consumatori, il cammino si fa vasto…Il socialismo, allora, non è, in via contingente solo la battaglia per una giusta mercede, ma uno sforzo di molti cittadini, dissanguati dalla speculazione, che difendono non solo il loro lavoro, ma il prezzo dei beni commerciali da acquistare. Larghissime zone sociali, alle quali pochi pensavano: come se, deciso il duello tra i due gruppi, padroni e salariati (la intransigenza puritana, attenendosi alla lettera di Marx, escludeva gli artigiani, e sospettava fortemente degli stipendiati…) quella gran massa di mezzo dovesse acconciarsi senza dir verbo ai nuovi ordinamenti.

Eppure quelle zone sociali hanno un peso formidabile e a certe ore decisivo, a seconda si spostino a destra o a sinistra, e il loro spostarsi è determinato in parte da sentimenti e in parte da interessi precisi…

Il proletariato socialista nazionale ebbe torto di non tenere adeguato conto dell’esistenza di questa gente di mezzo, non tanto nel senso utilitaristico elettorale di accaparrarsi i voti dei ceti medi, quanto nel senso, pratico e avveniristico insieme, di riflettere che quella gente è quella che forse più di ogni altra esige che i rinnovatori sappiano far funzionare la società; non abbattere solo, ma ricostruire; e assumersi le responsabilità del trapasso in modo che i servizi non subiscano interruzioni.

E’ a questa gente soprattutto che il proletariato deve dimostrare di esser capace di amministrare ex novo la società. E’ essa la maggioranza, neutra più che positiva ma indispensabile a chi voglia governare, che convien dimostrare – per va di prove pratiche più che di belle parole – che un nuovo assetto sociale le darà un onesto benessere e le assicurerà tranquillità di vita, quanto e meglio del sistema capitalistico.

E’ forse “borghese” un movimento socialista, se riesce a dar la prova, anche al di là dei lavoratori manuali, che esso è in grado di fornire le cose necessarie al pubblico e di sostituirsi felicemente alla classe finora dominante, nella gestione della società? A noi non pare; pare anzi che quel movimento socialista (quello reggiano N.d.C) abbia raggiunto un potere di irradiazione grandissimo, se fa paura ai pochi autentici parassiti, e non fa paura anzi inspira simpatia a sempre più numerosi elementi, che non hanno una ragione al mondo di temerlo.

Ma queste larghe zone sociali sono da tenere in conto per un più alto motivo etico-pratico, che Prampolini sempre sentì in modo particolare: non è né giusto, né possibile, tenere il dominio senza l’adesione della maggioranza. L’elite, anche se ha in sé un diritto del tutto astratto non può imporsi alla gente contro sua voglia. Conquistare dunque le adesioni, i consensi di quelle larghe zone medie, era necessario, e dovea farsi soprattutto attraverso l’azione delle cooperative di consumo e di lavoro, quali campi sperimentali e dimostrativi della idoneità tecnica e morale della classe lavoratrice di sostituire la borghesia nella distribuzione delle merci; quali embrioni della società futura, quali prove che essa poteva reggersi anche senza l’imprenditore e commerciante privato.

A questo principi giuridico-morale del “diritto della maggioranza”, corrisponde un concetto pratico. Se la maggioranza della società non aderisce al socialismo, se non sa o non vuole concorrere ad attuarlo e a farlo vivere, la rivoluzione non è né effettiva né durevole. Si avrà “un governo di socialisti”, non “ il socialismo”. Si toglieranno i latifondi ai signori della terra, ma i contadini si spartiranno i poderi, e si avrà un individualismo di artigiani del suolo, non il collettivismo. Logicamente, da questo concetto della maggioranza discende il ripudio della violenza come mezzo di conquista (non di difesa del diritto acquisito, che in tal caso non è violenza, ma esercizio di un dovere). O il socialismo ha la forza del numero e della coscienza, e la violenza è superflua, e la sua forza finirà per vincere anche la violenza controrivoluzionaria; o il socialismo non ha questa forza, e la violenza è insufficiente,- oltreché eticamente ingiusta – a instaurare durevolmente il socialismo…

Grandiosa costruzione (quella del socialismo reggiano N.d.C), a più piani e a più corpi di fabbricato, ma unica nello spirito e nell’indirizzo, e strettamente coordinata nella vita; edificio economico, politico, amministrativo, connesso e armonico; e l’economico suddiviso nella resistenza e nella cooperazione, e la cooperazione in consumo, lavoro, ed agricola. Le vittorie elettorali, sentite nella loro importanza politica, e nel loro valore materiale, poiché le pubbliche Amministrazioni conquistate dai socialisti, riconoscono per programma i diritti delle organizzazioni operaie, come le associazioni operaie valutano il significato della conquista politica dei Comuni al di là dei loro contingenti interessi materiali e locali…

La vastità del movimento operaio reggiano portava la “classe” a identificarsi con la “collettività”…

I Deputati socialisti del reggiano rappresentavano veramente, come vuole lo Statuto, la Nazione, e non i singoli collegi. E le lotte parlamentari per la concessione di opere pubbliche – come quella, accanitissima, per la linea Reggio-Ciano costruita e poi condotta dalle Cooperative – significavano un vero urto di classe, e di principii, implicavano la questione sociale nei suoi termini fondamentali.

L’impostazione del problema, la propaganda e l’agitazione polemica che si svolgeva in tali occasioni, era profondamente " massima”; poneva il conflitto tra il diritto privato e il diritto delle masse, fra speculazione individuale e organizzazione dei lavoratori, nella sua luce superiore. Si prospettava alla collettività dei cittadini, alla opinione pubblica - che in fondo erano proprio loro i veri depredati, insieme coi proletari braccianti e artigiani- la questione; si svelava, si denudava, nei suoi reconditi aspetti, il duello tra capitalisti, che si vantavano indispensabili per compire le opere pubbliche, e operai organizzati, che si erano conquistato il diritto di avere direttamente dai poteri pubblici l’appalto dei lavori, con la raggiunta capacità di eseguirli, e di eseguirli meglio dei privati speculatori. Interesse, diritto, dovere confluivano in una visione sociale e morale…

Tutto questo edificio si è costruito lentamente, progressivamente, per dilatazioni e per inserzioni successive, quasi senza interruzioni e senza regressi. Ad esso Camillo Prampolini partecipò, combattente e guida, animatore e moderatore, ispiratore e maestro, giornalista, propagandista, deputato, pubblico amministratore della sua città – unendo virtù di insegnamento dottrinale e ideale, all’opra pratica di costruttore e di esperto. Lungi dall’essere accentratore ed invadente, era pur sempre pronto ad accettare i pesi che gli venivano imposti dal Partito…

I problemi politici o gli amministrativi, la cooperazione e le lotte della resistenza, trovavano in lui non “l generico” che dà l’adesione e l’incitamento di massima, ma il condottiero e il pratico che conosce di ciascun ramo le questioni, e che tutte le sviscera e le avvalora in una concezione unica e molteplice, minima e universale.

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da http://www.camilloprampolini.it/pensiero.html

Il pensiero di C. Prampolini

 Camillo Prampolini non si avvicinò al socialismo prima dei 20 anni. Anzi, in seguito egli stesso ammise (ne "La Giustizia", 6/03/1887), di aver relegato i socialisti nella poco lusinghiera categoria di "radicanaglia". Le prime coordinate culturali e intellettuali vennero infuse nell'adolescente Prampolini dall'affetto e dalla stima per i genitori. Dal padre, ragioniere del Comune di Reggio Emilia, assimilò tendenze liberal-conservatrici, dalla madre una religiosità intrisa di attenzione alle questioni sociali, che, presto affievolitasi, sarebbe poi riaffiorata nel socialismo "evangelico" della Predica di Natale.

La vicenda personale di Prampolini intersecò per la prima volta la storia del pensiero socialista nel 1879, a Roma, dove Camillo frequentava la facoltà di Giurisprudenza dell'Università "La Sapienza".  Durante una lezione di filosofia del diritto, tra un cumulo di concetti un po' fumosi, l'argomentazione dei quali seguiva a stento, il giovane Prampolini sentì parlare per la prima volta di diritto al lavoro. Nell'estate dello stesso anno si tuffò nella lettura dei testi di economia politica, per trovare spiegazione del fatto che accanto al diritto del lavoro la società moderna non tributasse un riconoscimento al diritto al lavoro.

Prampolini intraprese allora il percorso di revisione dei propri convincimenti che lo fece infine approdare ad idee socialiste. Il positivismo lo accompagnò lungo questo percorso molto più di Marx, alla cui dottrina poteva avvicinarsi solo tramite le traduzioni in francese e l'impegno di anarchici italiani come Carlo Cafiero, che nel 1879 diede alle stampe il suo riassunto del primo volume del "Capitale", e Pietro Gori, che nel 1883 curò un'edizione del "Manifesto".

Dall'evoluzionismo sociale e dall'approccio organicista di Herbert Spencer Prampolini mutuò la convinzione che la società tendesse a modificarsi per stabilire un'armonia tra le sue componenti; ma all'evoluzione Prampolini attribuiva anche connotati etici, che lo portavano ad approcciare il concetto di collettivismo su posizioni vicine al socialismo utopista e non al determinismo marxista.

Prampolini prospettava una radicale trasformazione degli assetti sociali esistenti, ma prevalsero in lui criteri gradualisti, i quali lo avvicinavano alla socialdemocrazia tedesca di Kautsky e Bernstein. Il carattere riformista dell'orientamento prampoliniano costituì il punto di rottura con gli anarchici, che nei primi anni dell'attività politica del giovane Camillo ancora si distinguevano a malapena dai socialisti. 

Il carisma quasi profetico riconosciuto a Camillo Prampolini trasse linfa anche dal suo richiamo alla predicazione e al messaggio di giustizia di Cristo, che venivano opposti al formalismo religioso di chi permetteva il perpetrarsi di enormi iniquità sociali. Prampolini si rivolgeva ai contadini, ai braccianti e agli operai invocandone l'unione e la solidarietà reciproca, esortandoli a creare organizzazioni collettive. Proprio sul terreno della promozione dell'associazionismo di carattere mutualistico e cooperativo si verificarono le principali convergenze con culture politiche diverse, in particolare quella repubblicana, che rifiutava la lotta di classe.

Prampolini tenne sempre a sottolineare come quest'ultimo concetto dovesse essere declinato nel senso di un'opposizione ad un sistema economico, ad una forma organizzativa della società, e mai come odio e violenza nei confronti delle persone, negando così che si potesse attribuire la responsabilità delle ingiustizie sociali alla malvagità di interi ceti. La sperimentazione di forme alternative di organizzazione del sistema produttivo si concretizzò proprio nella diffusione e nell'applicazione delle idee cooperativiste da parte di Prampolini.