www.treccani.it
Uomo politico (Reggio nell'Emilia 1859 -
ivi 1930). Socialista di orientamento riformista, svolse
un'intensa attività di organizzatore sindacale e
contribuì allo sviluppo del movimento cooperativo della sua
città. Instancabile propagandista politico, nel 1886
fondò il periodico La Giustizia. Difesa degli sfruttati, di
cui fu direttore fino alla chiusura (1925). Deputato dal 1890, fu
tra i fondatori del Partito dei lavoratori italiani (1892), poi
PSI (1895), al quale aderì fino al 1922, quando, con F.
Turati e G. Matteotti, fondò il PSU. Durante il fascismo si
ritirò dalla vita politica assumendo un atteggiamento di
passiva attesa.
*
www.camilloprampolini.it
Cenni biografici tratti dall’opera di Giovanni Zibordi:
"Saggio sulla storia del movimento operaio in Italia: Camillo
Prampolini e i lavoratori reggiani" (Bari - Laterza, 1930)
Camillo Prampolini nacque a Reggio Emilia il 27 aprile 1859, di
famiglia abbastanza agiata e molto civile. Il padre era impiegato
municipale; la madre veniva da una casata facoltosa. Più
alto del livello economico era quello morale e intellettuale.
Gente di principi rigidamente conservatori, ma per convinzione e
non per interesse; fervidamente patrioti…
Pur vivendo in una famiglia molto religiosa (nota di L.B.), a
circa 13 anni già dubitava delle verità religiose.
Col crescere della ragione, gli calava la fede, continuando
però nelle pratiche di culto, per non dar dolore ai suoi e
per non urtarsi con loro… A 17 anni, in politica non aveva ancora
idee definite, ma piuttosto dei sentimenti o delle abitudini
mentali, seguiva le tradizioni famigliari, era monarchico e
conservatore per forza d’inerzia…Questa la posizione dello spirito
suo quando, giovine di 18 anni, va all’Università di Roma,
nella qual città aveva parenti presso i quali viveva
ospite, di principi religiosi e conservatori rigidissimi… Si
preparava in lui, senza che egli l’avvertisse, una elaborazione
interiore. Quella concezione così assoluta, così
statica della società, che gli era apparsa sino ad allora
perfetta, ordinata in modo definitivo, come un edificio millenario
posto su incrollabili colonne, si scuote. Ha una conoscenza, da
principio assai vaga, delle idee di Darwin.… Ciò che lo
aveva colpito come una rivelazione che avea scosso
irreparabilmente la sua fede conservatrice, era stata, nel 1879,
una proposizione, enunciata dal Filimusi-Guelfi, che il diritto di
proprietà escludeva il diritto al lavoro. Ciò
significava dunque, che chi non possedeva, poteva anche esser
destinato a morir di fame! E questo era l’ “ordine” nel quale egli
fino ad allora aveva così ciecamente creduto? Tale il primo
germe, messogli nell’animo, che maturerà poco più
tardi.
Frattanto, a Bologna, durante il terzo corso di università,
fa il servizio militare come volontario d’un anno in fanteria.
Fisicamente quella vita gli piaceva e gli giovava;
disciplinarmente, la sopportava con uno spirito in cui già
albeggiavano concetti di collettività, ed eran già
saldi dei principi egualitari, e d’antiprivilegio….Non ebbe mai
una punizione, e alternava alle occupazioni militari letture
febbrili di libri nuovi a quei tempi, come i romanzi di
Zolà, e di libri vecchi…come la Bibbia, che(cosa da notare)
lo interessava moltissimo….Ma la passione allo studio, o almeno la
curiosità che lo spinge alla ricerca e alla lettura di
libri di scienze sociali, si acuisce nel quarto anno di
università, in quell’ambiente di Bologna di allora, dove il
Sergi insegnava sociologia (e Prampolini era uno dei pochi
frequentatori del corso) e Enrico ferri, giovanissimo docente,
divulgava Lombroso e Ardigò….Giunto il tempo di fare la
tesi di laurea, egli si sente maturato nella mente un insieme di
concetti attorno al punto a lui fondamentale, rimastogli come in
chiodo fisso nella testa: la teoria del diritto di
proprietà che nega il diritto al lavoro, udita
all’Università di Roma dal Filomusi-Guelfi. Su di essa la
sua mente, la sua anima aveva meditato e lavorato in quegli anni
di “incubazione socialista”. Quella teoria, svolta dal Filomusi,
era quella dei filosofi ed economisti borghesi. Il diritto al
lavoro non esiste, perché negherebbe, se ammesso, il
diritto di proprietà. Questo diritto di proprietà
è un vero jus utendi et abutendi,. Se il proprietario
avesse l’obbligo di dar lavoro , non sarebbe più
proprietario. E’ quel che il Beccaria chiamò “terribile e
forse non necessario diritto”. Generalmente i conservatori non
hanno coscienza della terribilità di questo diritto e della
sua ingiustizia; o anche se l’hanno, affermano la necessità
di esso, per la esistenza dell’ordine sociale. Ma è chiaro
che questo iniquo “diritto” fondamentale è quello da cui
sgorgano tutte le altre iniquità. Dunque, bisogna abolire
la proprietà privata! Il sillogismo dei conservatori era
questo: “il diritto di proprietà è la base della
società civile. Senza di esso non vi è
società possibile, non vi è ordine”. Ma ammettere il
diritto al lavoro significherebbe negare il diritto di
proprietà: dunque il diritto al lavoro non è
ammissibile; non esiste, né potrà esistere mai”.
Il sillogismo del giovine - che già da tempo andava
sviluppandosi in lui, e che sarà il nucleo della sua tesi
di laurea - procede in senso inverso. “Poiché negar il
diritto al lavoro significa negare il diritto alla vita pei non
possidenti, ciò repugna a quel sentimento della giustizia
che ebbe le sue maggiori manifestazioni nel movimento e nei
principii del Cristianesimo, e in quelli della Rivoluzione
francese, e che diventa sempre più vivo e diffuso nella
coscienza dei popoli moderni. Dunque il diritto di
proprietà è inumano ed iniquo, contrasta con gli
interessi e con la volontà delle masse, e perciò
deve fatalmente cadere”.
A questo punto si fa strada nel suo pensiero il concetto
spenceriano della società come organismo. Nessuna forma di
società può reggersi, se tra il suo assetto
generale, e la forma dei vari elementi che la compongono, non vi
è una corrispondenza e una reciproca armonia…
E’ in questo momento che la febbre della nuova fede, che era stata
in incubazione per circa due anni, divampa. Egli ne è
invaso e inebriato, e come trasformato. Per preparare la sua tesi
di laurea, ricercò le opere degli economisti borghesi
più in voga, e particolarmente degli scrittori che verso la
metà dell’Ottocento erano scesi in campo contro il diritto
al lavoro, al tempo del famoso esperimento degli ateliers
nationaux in Francia. Essi sostenevano, e dimostravano, che
ammettere tale diritto equivaleva a negare il diritto di
proprietà. Ed era vero! Ma - ecco il bivio al quale la sua
coscienza giovanile si trovò e si decise - egli scelse
senza esitare, fra i due diritti: e optò per il lavoro. La
sua tesi di laurea (1881) fu - com’egli lo definisce - un centone
di più che 100 fitte pagine di protocollo, in cui
cominciando… da Adamo, sosteneva che nessun assetto sociale
può esistere quando urta violentemente contro il “senso di
giustizia” dei suoi componenti: onde la società moderna
perdeva la sua ragion d’essere ed era fatalmente destinata a
tramontare, precisamente perché fondandosi sulla
proprietà privata e quindi negando il diritto al lavoro -
cioè il diritto alla vita - ai nullatenenti, essa diveniva
ogni giorno più incompatibile con quei sensi di
equità che la civiltà odierna suscita e diffonde,
mercé i rapporti che crea tra gli uomini, in mezzo alle
moltitudini…Una posizione morale, dunque, assai più che
intellettuale e dottrinale, fu la prima fase della sua
conversione; posizione lontana per origine e per natura dal
marxismo: al quale egli arrivò interamente solo circa i
1886. Ma gli restò sempre (ed è il perno della sua
concezione e della sua opera) insieme coi caratteri etici del suo
socialismo, la convinzione che uno dei più potenti
propulsori del movimento di emancipazione sia nel ricercare,
suscitare, potenziare la coscienza e il sentimento della
“giustizia”. La questione del diritto al lavoro fu come l’apertura
di una finestra su tutto il panorama della iniquità del
sistema capitalistico…
Il socialismo era per lui, in quegli inizi, un’idea molto vaga,
indeterminata; era la “realizzazione della giustizia”: la
libertà, la fratellanza. L’eguaglianza, effettive,
trasportate dalla carta dei “principii”, alla vita. Non rifiutava
egli questi grandi principii come menzogne, solo perché non
erano in atto: pensava che essi fossero giusti in se stessi, ma
che si trattava di tradurli in realtà…
Vi è quindi in Lui, fondamentalmente, l’anima del
“banditore di verità”, piuttosto che l’organizzatore e
agitatore di forze politiche.
La società futura, che egli concepiva in rapida evoluzione
e di prossimo avvento, era essa pure una nebulosa. Non possiamo
dire come sarà: non è lecito né necessario
curarne e fissarne le linee particolari. Certo essa sarà
fondata su la “proprietà collettiva”, poiché
è la proprietà privata che condanna alla miseria e
alla morte chi ne è escluso. E sarà basata sulla
solidarietà, sul principio morale dell’ ”uno per tutti,
tutti per uno”. Questi capisaldi eran chiari in lui. Al concetto
della proprietà collettiva egli arrivava per una via etica
piuttosto che economica. Non ne vedeva marxisticamente il divenire
nelle forme della produzione e del loro svolgersi, ma ne vedeva la
necessità morale per assicurare il diritto alla vita a
tutti i diseredati.
Unico conforto in quel primo e non breve tumultuar di sentimenti e
ansie, era l’assenza assoluta del dubbio, la certezza di aver
trovato il vero; derivata non da superbia sicurezza di sé,
quanto dal fatto che l’idea socialista non gli si era presentata
sotto l’aspetto di una dottrina scientifica, ma di un principio
morale di bontà indiscutibile…E questa base della sua fede
gli infondeva l’ardore instinguibile che poco più tardi,
nel comporsi ordinato delle sue conoscenze e del suo pensiero, e
nella espansione della sua personalità di propagandista con
gli scritti e con la parola, doveva tradursi in forza comunicativa
di incomparabile efficacia. La nuova fede si trasfonde tosto nella
vita. Egli si sente tutto preso dal concetto dell’uguaglianza, dal
dovere di mettere in pratica le idee che ha abbracciate… Il
giovane Prampolini è entrato da questo momento nella
battaglia per il suo ideale, e non ne uscirà più…
Giornalisticamente, la sua carriera comincia con Lo Scamiciato, dal 1° gennaio 1882 al 20 gennaio 1884. Continua con La Reggio Nuova - dal 1° gennaio 1885 al 20 gennaio 1886 -, che, quotidiana per qualche tempo e poi lasciata interamente sulle sue spalle, redazionalmente e d amministrativamente, fu da lui mutata nel settimanale La Giustizia che si presenta col nuovo titolo il 29 gennaio 1886. Essa ha per sottotitolo “ Difesa degli sfruttati ”,e per programma la propaganda dei principi socialisti col metodo della lotta di classe. Dal 1882 al 1889 Prampolini fu anche corrispondente del Secolo con un compenso mensile che oscillava tra le 30 e le 50 lire. Da La Giustizia non ritraeva alcun guadagno, il che gli cresceva d’intorno un prestigio morale di inestimabile valore. Dal 1889 al 1896 fu vice-segretario della Camera di Commercio a 90 e poi a 110 lire mensili; indi fu soppresso il posto per mandarlo via. Fu allora che un gruppo di intellettuali, promotore Guglielmo Ferrero, allora poco più che ventenne, e aderenti il Lombroso, il Murri, il De Amicis, ed altri, si strinsero attorno alla Giustizia, di cui apprezzavano l’alto valore sociale e morale, e la misero in grado di stipendiare Prampolini nella stessa misura del compenso datogli dalla Camera di Commercio. I contributi, e la crescente diffusione del giornale, formano nel tempo un capitale di quasi 20.000 lire, che Prampolini, nei primi anni dopo il 1900, costituitisi saldamente il movimento socialista reggiano e l’organizzazione operaia, versa al Partito, affermando che il giornale e il suo patrimonio devono essere il Partito…
In Parlamento la carriera di lui comincia nel 1890, in cui fu eletto a scrutinio di lista, in un’alleanza progressista-radicale-socialista. Nel 1892, a collegio uninominale, è eletto a Guastalla. Rieletto nel 1895, nel 1897 passa a Reggio che lo rielegge ininterrottamente fino al 1924 (salvo la parentesi 1905-1909). La sua attività alla Camera non fu grande, ma in varie occasioni saliente, o per iniziativa sua, o per delega del gruppo, o per designazione dell’Assemblea, in cui aveva conquistato estimazione altissima. Qui ci basta evocare un episodio, che lumeggia un aspetto della sua figura, men noto a molti, che lo immaginano “evangelico" in diverso senso dal vero. Quando, nel 1899, la parte reazionaria tenta violare la Costituzione e il diritto della minoranza con un colpo di maggioranza, e con una votazione illegale, Prampolini, seguito da De Felice, Bissolati, Morgari, impedisce con un atto di forza la violenza, e rovescia le urne.
Nel piccolo, povero centro artigianesco, (Reggio Emilia N.d.C.) ,
la “ribellione” si tingeva naturalmente di anarchismo, anche in
coloro che non ne seguivano ex professo le dottrine. Il maggior
convegno dei sovversivi era il botteghino di un liquorista -
Angelo Canovi - dove le discussioni duravano da mattina a tarda
notte…Come Prampolini si sia trovato tra questi elementi, narra
egli stesso:” Quando divenni socialista, gli anarchici e i
socialisti erano ancor confusi insieme. Erano gli uni e gli altri
degli “umanitari” internazionalisti. Prevalevano i credenti nel
miracolo di un’imminente rivoluzione. Né molto diverso ero
io, benché più sereno e più evoluzionista, e
per istinto avverso alla violenza, pur ritenendo inevitabile e
storicamente necessaria la rivoluzione…
In seguito venne sempre meglio chiarendosi in me l’antitesi fra
noi e gli anarchici, ma la disputa non si svolgeva in forme
aspre…”Ma c’era voluto del tempo prima che arrivassi alla
conclusione - per così dire evidente - che proclamai al
Congresso di Genova del 1892 (anni di costituzione del Partito
Socialista dei Lavoratori Italiani N.d.C.): che gli anarchici e
noi, malgrado l’affinità della meta, eravam divisi da
metodi così opposti, da essere due diversi Partiti”…
Convien aggiungere che sempre di poi Prampolini, avversando la
violenza anarchica, avversò anche - e con lo stesso animo -
la violenza reazionaria: e viceversa. Vale a dire che si pose, con
apertissimo (e raro) coraggio logico e etico contro il “mezzo
violenza”, come antiumano, incivile, utopistico, e infecondo sia a
fermare che ad affrettare la Storia, indipendentemente dal fine…E
ad ogni periodo di “forca”, e più ancora in occasione del
regicidio del 1900, e della reazione del ’98 che l’aveva
preparato, e della reazione che lo seguì, Prampolini
condusse vigorosamente campagne di propaganda contro gli
“anarchici del basso e dell’alto”. Quanto alla situazione
reggiana, i residui anarchici andarono disperdendosi parte
volgendosi alla concezione schiettamente socialista, parte
isolandosi, inattivi e inascoltati…
Quali fossero le condizioni materiali e morali delle classi
operaie e campagnole in quei tempi, può dedursi da una
tabella delle tariffe conquistate nel 1886 mediante uno sciopero
di muratori e braccianti, che fu una novità e fece molta
impressione nella città, atterrì e irritò i
conservatori, e fu come il primo notevole segno di vita e di lotta
delle masse: sciopero al quale i socialisti, con Prampolini alla
testa, diedero incitamento e guida. Le mercedi giornaliere dei
muratori andavano da un massimo di lire 2,15 pel muratore di prima
classe, a un minimo di 90 cent. Per manovale di terza. I
braccianti, pei lavori di sterro, percepivano da 1,50 a 1,75; le
risaiole, 60 cent. il giorno. Gli orari eran di 13 ore, con due
ore di intervallo. In città mancavano le industrie, e un
artigianato sempre più misero, un piccolo commercio sempre
più anemico, lottavano col bisogno, e si dividevano tra il
servile ossequio e attaccamento ai signori, e un vago senso di
ribellione. Nelle campagne, non meno delle esiguità delle
mercedi, tormentava i lavoratori la scarsità e incertezza
dell’occupazione. La borghesia, timida e avara, rifuggiva dal
costruire, dal migliorare i terreni, dall’impiegar capitali in
opere che non fossero di urgente necessità. Piuttosto che
dedicarsi alla conduzione dei fondi, preferiva darli in affitto o
a mezzadria o a colonia, con patti di fame per i coltivatori; i
quali a lor volta Né potevano né volevano occupare i
braccianti. Quali forme primitive di organizzazione vi fossero
allora, conviene accennare; soprattutto perché il movimento
operaio reggiano sarà più tardi caratterizzato dalla
cooperazione, ed è giusto richiamarne la preistoria.
Ma (e qui cediamo la parola a Prampolini) “ a prima cooperativa di
consumo con più vasti orizzonti fu quella del Vinsani,
appoggiato poi da Giacomo Maffei, nata nel 1883… Ma la sua
cooperativa, che aveva raggiunto un grande sviluppo aggiungendo
però debiti a debiti, combattuta sempre più
aspramente dagli esercenti, finì miseramente nel 1888…Ma
ciò’ fu utile a far comprendere la grande importanza della
cooperative di consumo, che risorsero più tardi con
più chiari concetti socialisti…La cooperazione di lavoro
ebbe circa in quegli anni origine con la cooperativa muratori
fatta da Luigi Roversi, e prese sviluppo verso il ’90 per le leggi
propugnate dal Maffei, per cui gli enti pubblici dovean dare alle
cooperative i pubblici lavori. Contemporaneamente sorgono Leghe di
resistenza. Siamo già agli albori del Partito socialista
dei Lavoratori Italiani. Ma io, ne La Giustizia, battevo
particolarmente il chiodo per l’organizzazione dei contadini
(mezzadri, affittuari, coloni) e più tardi costituii la
Lega contadini. Ma la Lega , che doveva svolgere soprattutto
azione di resistenza, in pratica si volse alla cooperazione
consorziale per l’acquisto di concimi, sementi, macchine,
diventando la cooperativa contadini, che tuttavia serbò
sempre qualche cosa dell’anima originale, e nel 1920
capeggiò un famoso sciopero di affittuari e mezzadri”…il
suo pensiero, corredato da assidui studi, si andava intanto sempre
meglio orientando e precisando verso il marxismo; e così
nacque il 29 gennaio 1886 la Giustizia, Difesa degli sfruttati…
Solo a 27 anni, nel 1887, … si decise a parlare in pubblico. Le
sue prime conferenze furono in piccoli paesi dei dintorni di
Reggio. Memorabile, per lui, una, a Cadelbosco, in un giorno di
sagra, in cui, tra la folla, vi erano dei borghesi che lo
guardavano come un mentecatto, e delle signore della “buona
società” che nella prima giovinezza egli aveva frequentato,
le quali miravano tra ironiche e scandalizzate il “disertore”.
Più tardi egli ricorda una conferenza a Busto Arsizio, dove
l’avevano invitato i socialisti di Milano, i quali (Turati,
Lazzari, la Kuliscioff, altri dei più in vista) vi
assistettero, riportando un’impressione di ammirato stupore per il
modo affatto nuovo di dirigersi alle masse, con una
elementarità e insieme una nobiltà di oratoria, con
una cura di farsi intendere e una passione così ardente di
convincere, che lo trasfigurava…La costante preoccupazione di una
assoluta semplicità e chiarezza (ciò che qui si dice
dell’oratoria sua, è detto altresì della propaganda
e della polemica scritta)tale che il più modesto potesse
intenderlo, fu la prima ragione di quella sua forza. Guardò
sempre alle moltitudini più diseredate, e parlò per
esse. E tra esse , guardò ai più incolti e chiusi di
mente, come il buon maestro guarda non ai primi, ma agli ultimi
della scuola…
Notevolissima, l’assenza quasi assoluta di similitudini, che
è pur uno dei mezzi, anche onesti, di propaganda.
Prevalenza forte di ragionamento, ma fatto con forme che ne
tolgono la secchezza e ne avvivano l’evidenza; e pervaso, intriso,
circonfuso da un’aura di sentimento, che non si può
esprimere, ma che si può definire, per differenziazione,
dicendo che è l’opposto assoluto del sentimentalismo, quale
inonda così spesso la propaganda anche dei
galantuomini…Quanto al contenuto e alla sostanza, quei suoi
discorsi che certa orgogliosa critica di superuomini raffigurava
come “prediche di un curato di campagna”, erano materiali di
meditazione e di dottrina, rara a trovarsi in molti dei nostri
maggiori e migliori. Pochi uomini avevano studiato con tanta
coscienza la questione sociale, pochi ci avevano riflettuto con
tanto assiduo ardore, e pochi leggono, in genere, tanto come
Prampolini…Dal 1886 in poi, ciò che Turati e Anna
Kuliscioff fecero nella Critica, per diffondere il marxismo tra
gli intellettuali e i politici, egli lo fece per divulgarlo tra le
folle, unendo un rigoroso indirizzo dottrinale a una miracolosa
facoltà di volgarizzazione senza volgarità, di
semplicità senza semplicismo, di accessibilità senza
inganni…Sparse fiducia, non illusione; ... del movimento
socialista reggiano fu il risultato di circostanze complesse;
prima di tutto, la sua autonomia insegnò
incontentabilità, non scoraggiamenti. Avanti, sempre
avanti, sempre più in alto!
La genuinità del movimento socialista reggiano fu il
risultato di circostanze complesse: prima di tutto la sua
autonomia dai “vicini” politici. Molto in Italia il socialismo si
trovò stretto fra vicini di destra e di sinistra, che lo
influenzarono, lo deviarono, lo falsarono, per ragioni di
concorrenza e di opportunismo. I democratici e i repubblicani, gli
anarchici o i rivoluzionari generici, gli diedero un po’ dei loro
colori, lo trassero per sentieri che nn erano i suoi, lo
costrinsero a rallentare o ad affrettare il passo: il passo non
delle “cose”, ma delle parole, dei gesti, delle
esteriorità…La propaganda di Prampolini badò alla
“critica dei soggetti” piuttosto che alla critica dei soprastanti.
Un sistema sociale fondato sull’iniquità ci domina tutti
quanti, e i nostri sentimenti poco si differenziano fra un ceto
sociale e l’altro, e le male volontà dei fortunati han poca
parte nella infelicità dei diseredati. Ma se si vuol
parlare di colpe morali, guardino allora i lavoratori dentro di
sé, prima che inveire contro i potenti. Vi è una
società male ordinata; ed essa poggia proprio su coloro che
ne sono oppressi. Chi fornisce ai dominanti puntelli del loro
potere, i gendarmi e i krumiri, gli elettori e i cortigiani e i
servi, se non il popolo? Esso ha mille attenuanti, d’accordo: la
miseria, l’ignoranza, la tradizione. Ma ciò spiega e
giustifica, non rompe il circolo vizioso. A romperlo, occorre una
visione nuova, e uno sforzo di volontà. Occorre convergere
alla conoscenza e alla redenzione di noi stessi, la più
gran parte di quella energia che si disperde nel recriminare o
nell’imprecare contro gli “oppressori”; suscitando e formando in
noi - anziché cercarla fuori di noi - la forza consapevole
e attiva della ricostruzione sociale.
Il dovere è ben duro da praticare, e da udire, a chi dei
doveri, o degli obblighi ne ha già tanti sul collo, e deve
portarli e adempirli per necessità di vita…Se esso è
prospettato come coincidente con l’interesse della classe -
interesse nobile perché trascende l’io del singolo, e
perciò combaciante a sua volta con l’ideale - allora la
parola e la sua sostanza può essere ascoltata ed accolta, e
farsi feconda.
Il dovere è parola poco corrente, nel linguaggio dei
Partiti proletari. Gli agitatori preferivano la parte critica e
demolitiva, l’attacco ai Governi e allo Stato, le invettive ai
dominanti. I vecchi Partiti di sinistra correvano volentieri il
palio della demagogia giacobina. Il “dovere” pareva antitesi del
“diritto” anziché corrispettivo; pareva deprimente,
rassegnato, anziché formativo della coscienza delle
necessità vitali di una convivenza sociale… E tuttavia il
dovere positivamente inteso, è semplicemente la codicio
sine qua non per cui una classe, che vuol abbattere il dominio di
un’altra, acquista il “diritto” positivo - non l’astratto! - di
surrogarla e di raccoglierne l’eredità. Sarà lo
innalzamento del proprio livello intellettuale, morale, tecnico,
che recherà al proletariato, non il premio del Cielo, ma
l’autorizzazione di fatto a farsi centro dirigente di n ordine
nuovo. Vi è molta gente che concepisce l’avvento del
socialismo in varie forme, rivoluzionarie o gradualiste; ma poca
che pensi al carico di funzioni e di responsabilità che il
proletariato andrà ad assumersi in un ordinamento di cui
esso sia il perno. E a parlarne , si teme di passare per
addormentatori e quietisti.
Ci dicono gli avversari politici: ” Voi socialisti predicate i
diritti alle masse; non parlate mai dei loro doveri”. E s’è
spesso citato come eccezione tanto più encomiabile quanto
più rara, Prampolini. Or è verissimo che egli
parlò sempre di doveri. Ma quali doveri? E verso chi?
Generalmente chi rimprovera i socialisti di non aver parlato di
doveri, intende o sottintende, doveri di servire con
sottomissione, di non pensare a ribellarsi, di portar
rassegnatamente il giogo della sorte.
Ma Prampolini non ha mai insegnato questi doveri. Anzi egli pose
come primo tra i doveri del lavoratore, quello di unirsi coi
propri fratelli di fatica e di miseria, per migliorare il proprio
stato, per raggiungere la giustizia sociale. Il dovere di essere
ribelle è il primo dell’oppresso. Ma ribelle in che senso e
in che modo? Non certo nel senso e nel modo individualistico, con
l’atto o col sentimento ” personale” di odio o di violenza contro
il padrone. Bensì ribelle con l’organizzazione, con
l’azione collettiva di classe, con i mezzi che l’unione e la
solidarietà offrono al proletariato.
Altri doveri ancora egli inculcò ai lavoratori, d’ordine
contingente, come quello di eseguire lealmente il patto verso il
datore di lavoro, ma poi osserva con correttezza le clausole del
contratto, così come ne esige la osservanza da parte del
padrone. E, al disopra di questi, instillò i doveri di
onestà privata, di buon costume famigliare, contrastando
fermamente quelle teorie di un eccessivo determinismo, secondo le
quali, siccome vive in condizioni di strettezze e di abbiezione, e
circondato dai mali esempi dei ricchi, può dispensarsi dal
cominciare in sé lo sforzo del suo miglioramento morale,
rimandando tutto ciò… a quando sarà venuto il regno
della giustizia, e l’agiatezza gli consentirà di essere
più morale, più civile, di aver sentimenti
più elevati. No. Egli non interpretò così
piattamente il “determinismo”, ma fece leva sulla volontà,
sul senso di coscienza del lavoratore, ridestandola,
potenziandola, facendogli intendere che aspettare il socialismo
per “ essere socialisti” con l’animo, era un vicolo cieco, un
circolo chiuso che occorreva spezzare “cominciando” in sé
stessi una vita nuova; e che ciò era il mezzo per
affrettare l’auspicato avvenire.
Ma al di là di questa educazione morale, vi fu sempre nella
sua propaganda una predicazione di doveri, che sarebbe stata ben
sgradita ai borghesi, se ne avessero avvertita la vera essenza e
portata. Essi erano assai contenti, e legittimamente contenti,
quando Prampolini diceva all’ operaio muratore o falegname: “
Fatti pagar bene, ma lavora bene e con coscienza, perché il
tuo padrone ha diritto che tu adempia lealmente il tuo dovere”. Ma
sarebbero stati meno contenti se avessero notato e questa predica
morale, estesa poi alla categoria e alla classe, significava:”
Lavorate con abilità e con coscienza, addestratevi a
“produrre” bene, in modo da emanciparvi dal padrone, in modo da
“organizzare” il lavoro e la produzione tra voi stessi operai,
senza bisogno del padron di bottega, del capo mastro del
cantiere”. Questo è il dovere della “classe”, che, se vuole
eliminare il privato capitalista deve abilitarsi a sostituirlo
nella sua funzione sociale, deve mettersi in grado di dimostrare
alla collettività che il “privato” non è più
necessario, perché l’organizzazione ne adempie l’ufficio di
organizzare la produzione e il lavoro, di fabbricar le case a chi
ha bisogno di case, di costruire le macchine per gli opifici, di
coltivar la terra per fornire a tutti le cose occorrenti alla
vita.
E qui, tutta la parte tecnica - della preparazione professionale,
delle conoscenze inerenti ai vari mestieri - vi era tutta una
parte morale nuova. Voi operai, che vi dolete giustamente del
padrone, del suo egoismo, della sua avidità di lucro, siete
certi di essere senza egoismi e senza avidità? Emancipati
dall’esoso gioco del padrone, siete sicuri di saper vivere liberi
ed eguali in fraterna concordia, senza che alcuno voglia
soverchiar l’altro, senza che alcuno cerchi di esimersi dai comuni
doveri, sfruttando il compagno; senza che l'invidia, la
vanità, la maledetta passione di star di sopra, di
comandare, di prepotere, rompa le unioni di lavoratori, e faccia
sogghignar di gioia i vinti borghesi, pronti a mostrare che essi
avevan ragione, perché il lavoratore non sa vivere senza la
sferza del padrone, e non sa fare per coscienza ciò che da
secoli ha fatto per bisogno e per timore?
Diceva Prampolini che “la miseria nasce non dalla
malvagità dei capitalisti, ma dalla cattiva organizzazione
della società, dalla proprietà privata.
Perciò noi predichiamo non l’odio alle persone né
alla classe dei ricchi, ma la urgente necessità di una
riforma sociale, che a base dell’umano consorzio ponga la
proprietà collettiva”… Non sono malvagi i ricchi, e i
buoni, i “giusti”, i poveri. Non sono due razze distinte e
diverse, una piena di vizi, l’altra ricca di virtù, come
insegnava una vecchia demagogia derivata dai tempi della
Rivoluzione francese, che aveva abbattute le caste chiuse. Se il
povere sale al posto del ricco, fa anche lui come il ricco, e
peggio. Vedete i pidocchi rifatti, i nuovi ricchi, i pescicani di
guerra, come sono avidi ed esosi e inumani! Non è che vi
san due piani, nell’uno tutti i buoni, nell’altro tutti i
perversi; e meno ancora so tratta (come intende talora il
semplicismo delle folle) di capovolgere i due piani, di fare una
sorta di permuta di appartamenti nell’edificio sociale: i poveri
al piano nobile, a godersela, i ricchi in soffitta, a espiare i
loro torti. Si tratta di abolire i due piani, e farne uno solo, su
la base del lavoro legge di vita per tutti, e senza
proprietà privata, che dà agli uni il modo di vivere
sul lavoro degli altri…Una esposizione del problema sociale assai
più larga che non sia il consueto contrasto tra capitale e
lavoro, animò sempre la propaganda prampoliniana. Homo
hominis lupus, è il motto della società
capitalistica. Non solo il padrone sfrutta il lavoratore, ma ogni
uomo, in quanto lo possa e quanto ne abbia l’occasione, inferisce
contro il suo simile. Chiunque abbia in pugno, per un momento, o
ordinariamente, il coltello pel manico, l’adopera per iugulare ed
opprimere l’altro, o la società. E’ un vasto e reciproco
cannibalismo, che si impernia sulla proprietà privata, e
sul “diritto” che ciascuno ha, di abusare dei beni che stabilmente
o provvisoriamente possiede, per farseli pagar cari da chi ne ha
bisogno.
La questione sociale presentata in tal modo, acquista un valore
reale e morale infinitamente più esteso e più alto,
che non quando è limitata alla sola antitesi del capitale e
del lavoro…
Prevalendo la tesi dell’appoggio esterno al governo Giolitti, fu
incaricato Prampolini di esporre le ragioni alla Camera. Ed egli,
in un ampio e memorabile discorso, pronunciato in una seduta
solenne, dichiarava la posizione del Gruppo socialista, ed
esordiva così:” Io parlo contro il ministero Sonnino…”. Il
discorso incatenò, soggiogò ben presto l’Assemblea.
Egli parlava di questo diritto nuovo delle plebi più
obliate e spregiate, che se l’eran guadagnato con le loro fatiche,
e conquistato talora col sangue. Dimostrava la iniquità e
l’utopia dei feudatari terrieri, che sognavano le repressioni
feroci, e accusavano per giustificarle, la massa di violenza. “
Violenza, eccessi, odio, - egli - diceva - ce n’è su
entrambe le rive; e il dovere degli uomini più civili e
più veggenti, da una parte e dall’altra, è di
contenere questa lotta di classe, fatale, necessaria, benefica,
entro i limiti di un tanto di “umanità” e di
legalità, spogliandola di inutili odii, di rappresaglie
feroci, incanalandola e disciplinandola nelle grandi correnti
dell’organizzazione, libera e responsabile; togliendole i
caratteri gretti di un urto privato fra ricchi e poveri, e
ponendola nella sua luce storica di un vasto contrasto di
interessi collettivi, di un conflitto di classi, generato da un
sistema. ”Per parte mia - egli esclamava - io l’ho sempre fatto,
in lunghi anni di propaganda! Lo facciano gli altri, per parte
loro. Tagliamo le unghie alla bestia umana, che è in tutte
le classi”.
Il vecchio presidente Biancheri, che più del contesto del
discorso di Prampolini, rigorosamente classista, aveva afferrato
quegli accenti umani e l’inesprimibile nobiltà di passione
che li animava, non seppe trattenere la commozione, e disse
qualche parola. Prampolini credendo che volesse interromperlo, e
non comprendendone il perché, si fermò stupito, in
atto interrogativo. E il Biancheri, con le lacrime agli occhi,
riprese: ”No, no, Continui, apostolo di pace, in questi nobili
concetti, che onorano lei, l’assemblea e il Paese!”. La scena di
commozione che ne seguì, in un contagio di sentimenti,
sinceri in quell’istante, in cui in tutti era venuto a galla il
meglio dell’anima, non si può descrivere. Un applauso
immenso ed unanime risuonò nell’aula del Parlamento…
Cessata l’interminabile acclamazione di tutta la Camera,
Prampolini ripiglia la parola dicendo:” Le parole del nostro
Presidente hanno fatto passare un alito di bontà sugli
animi nostri. Domani la ferrea legge degli interessi di classe ci
porrà nuovamente gli uni contro gli altri. Rimanga almeno
il ricordo di quest’istante come auspicio di una maggior
civiltà nella lotta…”
Da quell’episodio in poi, l’epiteto do “apostolo di pace” fu
ripetuto più volte, e da parti e con significati diversi e
del tutto erronei…falsandone l’animo e l’azione.
Apostolo di guerra, per la giustizia, e non di pace, egli fu
sempre: di guerra - o di lotta - per quanto è possibile
civile; fautore ed artefice della forza dei lavoratori per la loro
lotta; la qual forza, quanto più è grande, rende men
necessaria la violenza. Predicatore di tolleranza e di
libertà per tutte le idee, contro i vecchi abiti della
prepotenza e del dogma, educatore insieme che agitatore, delle
moltitudini operaie, a sensi di umanità necessari sempre, e
indispensabili a vivere nel socialismo; divulgatore di quei
principii rigidamente marxisti e nel medesimo tempo educativi, che
spersonalizzano la lotta di classe, e la riconducono alle sue
fonti e alle sue foci, alla sua magnifica “fatalità”
storica, a confronto della quale le misere violenze e gli stolti
odii dei piccoli uomini sono vana e infeconda fatica, capace solo
di accrescere la infelicità, non di creare o distruggere la
storia…
Tali a grandi linee i caratteri della propaganda pranpoliniana,
che fu detta “evangelica”, talora a lode, talora a scherno maligno
o lievemente benevolo, talora a biasimo e a condanna…
Ma Torniamo a noi… Le masse del reggiano, che con la guida e lo
spirito di quella propaganda avevano costruito tante opere
socialiste, che se dovunque si fosse fatto altrettanto, la
mèta sarebbe stata vicina…Per quanto riguarda l’aspetto
religioso, Prampolini suddivise il problema in due parti.
Lasciò Dio in cielo, combattè i preti in quanto
fossero puntello dei padroni, combattè la Chiesa nelle sue
superstizioni assurde ed astute, che servono a tener ciechi gli
appressi; ma avversando i preti come “anticristiani”, e
contrapponendo alla Chiesa il Vangelo, e l’ipotesi stessa della
Chiesa, di un Dio giusto e Buono. E del resto cavò fuori
dal cristianesimo tutta la sua essenza etica di fraternità,
di solidarietà, per risvegliare negli spiriti delle masse
le scintille di una fede predicata da secoli, ma non praticata
mai, e collegarle ai principii e più ancora al fatto del
socialismo, nel quale soltanto la legge di Cristo potrà
avere la sua piena e sincera attuazione… Lasciò pertanto
perdere le disquisizioni teologiche astratte, lasciò che
ognuno risolvesse secondo coscienza lo “affare privato” delle sue
personali credenze, e insistette sempre più ardentemente a
dimostrare che i soli che applicassero veramente i principii di
Cristo quali erano nella purezza delle origini, erano coloro che
lottavano per redimere gli schiavi moderni, per eguagliare gli
uomini, per innalzare gli oppressi. Coloro invece che
parteggiavano per i potenti della terra, e i poveri stessi che non
cercavano di riscattarsi, erano gli anticristiani…I concetti di
“tutta la teoria religiosa di Prampolini N.d C.), furono raccolti
nel 1897 in quella famosa “Predica di Natale”, che ebbe vasta
diffusione anche fuori della provincia di Reggio, e fu pure
tradotta all’estero.
Nel 1901 una nuova scomunica (dopo quella inflitta, nel 1882, a Lo
Scamiciato. N.d.C) colpiva il giornale di Prampolini, “La
Giustizia”; e lo colpiva nel mezzo di una trionfale polemica coi
preti circa l’essenza cristiana dell’idea socialista; polemica che
aveva avuto una espressione clamorosa in un grandioso
contraddittorio, nel maggior teatro di Reggio, tra Prampolini, e
tre sacerdoti dotti e battaglieri: don Gurco di Modena, don
Filiberto Mariani di Bologna e don Romolo Murri. Ma questa
scomunica, in luogo a diradare i lettori come nel 1882, li
moltiplicava, dimostrando la bontà della tattica seguita da
Prampolini. Che se la parola “tattica” potesse far credere che si
trattasse solo di un espediente di propaganda, di un opportunismo
più astuto che sincero, convien ripetere che anche qui, in
lui, coincideva l’abilità con la verità: raro
connubio in cui sta il segreto dell’onesto e durevole successo.
Era in lui veramente il convincimento che, non tanto nella figura
e nella vita di Cristo - così difficile da ricostruire e da
definire nelle sue vare interpretazioni; non tanto nei passi del
Vangelo, che ciascuno sceglie ed adopera alle tesi più
diverse, cercandovi quel che gli giova, dalla ribellione alla
rassegnazione, dalla violenta condanna del privilegio,
all’acquiescenza supina, quanto nel complesso di quel movimento di
spiriti che lungo i secoli lasciò le sue stratificazioni
nell’animo delle moltitudini, vi sia un patrimonio ed
un’eredità di valori etici che sarebbe vano ignorare e
disconoscere, e stolto non usare per innestarvi nuovi ideali.
Da ciò nacque principalmente la leggenda del suo
“evangelismo”, quasi che la sua propaganda coincidesse con la
religiosità cattolica, o cristiana…mentre era esattamente
il contrario, una religiosità opposta, nello spirito e
nelle deduzioni, a quella dei preti, benché resuscitasse il
nucleo umano e sociale del primitivo insegnamento di Cristo.
Religiosa sì, quando si appoggiava su una tradizione
“religiosa”, per trarla a sbocchi tutti diversi dai consueti; e
“religiosa” assai più, in quanto si prefiggeva di
instillare un’ideale morale, un senso di dovere, una aspirazione
superiore della vita, ben oltre le sole conquiste materiali.
Religiosa per il suo contenuto morale, etico; ma senza nulla di
teologico e di mistico, e senza nulla di quietismo, di rinuncia,
di mitezza rassegnata…
Tutto ciò era necessario chiarire, per determinare
esattamente il cosìddetto “evangelismo” della propaganda di
Camillo Prampolini…
Quante volte fu posto il problema se il movimento
socialista-proletario reggiano fosse riformista o rivoluzionario,
e se, nei Congressi e nelle dispute di Partito dovesse logicamente
schierarsi a sinistra piuttosto che a destra?…Diceva Prampolini,
anzitutto, che la intransigenza era questione di tattica, e non di
principio; onde doveva esser lasciata, luogo per luogo, caso per
caso, al giudizio dei socialisti…(al di là dei deliberati
Congressuali. N.d.C.).
Egli difendeva non la tattica transigente piuttosto che la
intransigente, ma la libertà della tattica, necessaria per
la varietà infinita degli ambienti nel nostro Paese…
Questioni di metodi e di tattiche, litigi sull’appoggio o meno a
un governo, dispute sulle alleanze o l’intransigenza, tutto
ciò che divise e spesso paralizzò l’esistenza e
l’opera del socialismo italiano, a Reggio parevano pure
disquisizioni teoriche che valevan meno di una solida Lega o di
una buona Cooperativa …
Rivoluzionario? Lo era nell’azione quotidiana. Sindacalista? Chi
più del socialismo reggiano poteva vantar sindacati?
Integralista? Dove meglio s’era usata ogni forma di lotta, con
giusta contemperanza? E perché allora si schierava col
riformismo politico? Perché questo propugnava
libertà di tattica; e perché in questo Prampolini
vedeva quella valutazione positiva dell’azione proletaria
anziché della formula e il buon cammino percorso giorno per
giorno…
Perciò per molti anni portò ai Congressi nazionali
il voto compatto dei propri cento e più Circoli politici, e
talvolta la parola di qualche organizzatore e operaio, stancandosi
di quelle interminabili elucubrazioni in cui quasi tutti gli
oratori venivano a discutere sul come si doveva camminare, e
pochissimi riferivano sul come si era camminato; e ciascuno
portava la sua ricetta, e pretendeva generalizzare il suo caso, e
pochi recavan contributo di esperienze e di fatti…
Allora, non è la tattica in sé ,che importa, ma
l’opera di classe. La quale è essa, che, mentre immunizza
dalle contaminazioni e da contagi, dà la bussola alle
tattiche stesse. Per essa, si può allearsi o non allearsi,
esser ministeriali o antiministeriali, transigere in questioni di
forma, mescolarsi e rasentare il pericolo, uscendo puri e levando
immacolata la bandiera socialista…
Molta transigenza e molta intransigenza vi fu sempre nel movimento
socialista reggiano, che poco conosceva e curava i formalismi, e
la disciplina fatta di esteriorità; poco valutava certe
manifestazioni superficiali, e più badava alla sostanza
classista della sua azione. Scarse le dispute dottrinarie e le
logomachie sul futuro, ma una salda concordia d’animi nascente da
una effettiva concordia di opere, e consapevole omogeneità
di movimenti, nella multiformità dell’azione, per una vera
coscienza di masse formatasi con metodo sperimentale, concretatasi
intorno ad interessi vivi e presenti, non in contrasto con
l’ideale futuro, ma riferiti, collegati, coordinati ad esso….
Il movimento socialista reggiano fu sempre combattuto dai
borghesi, con varia fortuna ma con eguale accanimento;… Non solo i
clericali e i vecchi moderati conservatori, ma quelli che di
solito sono i “democratici”, gli furono contro, per l’azione
cooperativa e per lo sviluppo di aziende municipalizzate che
ledevano gli interessi dei ceti sociali del piccolo e medio
commercio…
Della “intransigenza” politica e morale di Camillo Prampolini, e
dell’intransigenza del socialismo reggiano, fu indubbio segno che
un simile uomo, giunto ai gradi altissimi nella estimazione
pubblica nazionale, non soltanto del suo Partito, ma della Camera
(fu membro del Comitato dei cinque per l’inchiesta Nasi; gli fu
offerto di partecipare alla Commissione d’inchiesta per le spese
militari; fu designato per Vice – Presidente della Camera; Fu
sempre membro della Giunta per le elezioni) serbò nella
vita locale della sua piccola città, ove non smise mai di
operare e di scrivere, benché l’ambiente fosse provinciale
e dove, specialmente nell’avanzar dell’età, gli uomini
divenuti illustri passano nell’ olimpo delle figure “superiori ai
partiti” cui tutti fanno più o meno aperto e sincero
omaggio come ad una gloria cittadina…
Egli, viceversa, fu sempre odiato da colore che “dovevano”
odiarlo, anche se dentro di sé erano costretti a stimarlo;
egli ebbe sempre avversari coloro che egli combatteva come
esponenti dei nemici della classe lavoratrice. La sua milizia fu
sempre fervida a un modo, la sua intima solidarietà e
corresponsabilità col movimento fu sempre intera.
Circondato d’amore vivissimo da parte dei lavoratori e di molti
cittadini simpatizzanti per il socialismo, egli non ebbe mai - non
poté avere ! - degli ammiratori ed elettori personali, che
separassero lui dalla sua fede e dalla sua opera politica…La sua
dottrina e la eloquenza erano nel socialismo e pel socialismo; la
sua personalità era “una”, privata e politica,
intellettuale, morale e socialista, inscindibilmente.
Quasi dovunque, in Italia, per vicende d’uomini e di casi singoli,
si ebbero dei “ focolai rossi”, che vissero un’età d’oro e
poi si spensero o languirono, indi rinacquero in altra forma e con
altre persone, o si trasportavano altrove legando la propria sorte
a quella degli individui più eminenti, o variando indirizzo
secondo il vento delle tendenze. Anche se si riaccesero vigorosi,
quanto sperpero di energie e di tempo in questo fare, disfare,
rifare; quanto cammino inutile in questo muovere a zig zag, quanta
dispersione di forze nel ricostruire la fiducia delle masse,
illuse e deluse; quella fiducia che è sì mirabile
elemento di successo, e che inevitabilmente vien meno quando un
movimento s’arresta, un uomo s’allontana o tradisce, una tattica
fallisce…
Nel reggiano il fuoco arse sempre inestinguibile sul focolare;
fiamma consistente, senza vampate improvvise, senza girandole
pirotecniche e fuochi artificiali, ma continua. E si
camminò diritto non perdendo tempo in tornare indietro e in
rifar la strada; con passo cauto, misurato, calcolato ma
ininterrotto…
A questa continuità valse immensamente la presenza di
Camillo Prampolini, che, assurto a rinomanza e ad uffici
nazionali, non abbandonò mai la sua Reggio, come ,
viceversa, molti fecero che, saliti in fama, si trasferirono in
centri maggiori, lasciando un movimento locale il quale, per esser
troppo immedesimato con la loro persona, si sfasciò quando
mancò io capo…
Grande elemento di forza e di fortuna fu la felice maniera dei
rapporti sempre esistiti fra Circoli politici ed Organizzazioni
economiche…Nel reggiano, Circoli e Associazioni economiche
vivevano in contiguità (a differenza di altre parti del
Paese ove o vi furono innaturali fusioni o si crearono le
condizioni politiche per scontri ed incomprensioni tra il Circolo
politico – considerato l’anima, lo spirito, il cervello del
movimento…- e l’Organizzazione economica, ritenuta quale vile
materia, ventre molle del movimento preoccupato soltanto a
garantire aumenti salariali…-), con divisione di funzioni e di
compiti, senza fusioni forzate e reciproci antagonismi. I
lavoratori più coscienti e più ferventi si
inscrivevano nel Circolo politico, la maggioranza meno portata
allo studio e alla milizia politica era nelle Leghe e nelle
Cooperative; ma tutto il movimento era ispirato da un’anima
medesima, e ogni passo avanti del proletariato sulla via delle sue
rivendicazioni materiali era nella direttiva e per la mèta
del socialismo, cioè della emancipazione totale del lavoro,
e della ricostruzione radicale del mondo sociale, politico e
morale. Ogni conquista anche piccola, ogni lotta anche
contingente, era illuminata dall’obiettivo futuro, era indirizzata
a quel fine, era presentata come un passo verso quella
mèta. Non vi erano due strade, una per i più veloci
e una per i più tardi, ma una strada sola che alcuni
percorrevano con più chiara e completa visione del futuro,
e altri con più modesta percezione del bene immediato; ma
ogni passo era su quella strada, ogni moto era quel fine. E quando
l’immediato paresse pregiudicare il futuro, quando la
realtà materiale compromettesse l’ideale, l’anima politica
illustrava e additava la via, senza urti e conflitti, ma con la
persuasione e la ragione, che insegna ed eleva.
Aggiungiamo che il movimento operaio stesso, guidato da uomini
animati da piena convinzione della finalità massima,
fungeva da freno – in ragion della sua vastità e
complessità - alle eventuali deviazioni di particolari
interessi o appetiti di categoria. Quando veramente è tutta
la classe lavoratrice che si muove, è ben raro che non
abbia essa in sé stessa la visione universale del moto e
del fine, e l’antidoto spontaneo alle degenerazioni dei ristretti
egoismi.
Nella concezione, nella propaganda, e nell’opera di Prampolini e
de’ suoi collaboratori, il “minimo” era un incessante se pur lenta
attuazione del “massimo”; Questa faccenda del programma massimo e
del programma minimo fu sempre assai poco chiara nella mente di
molti…
“Massimo” e “Minimo” si realizzano di conserva, mercé
un’opera di demolizione, di penetrazione, e di ricostruzione,
unitaria, inscindibile e organica.
In realtà, “massimo” e “minimo”, via e mèta, son
differenziazioni capziose, o espedienti di propaganda. A chi
possiede la concezione sintetica del divenire socialista, tutto
è in armonia, tutto è su un immenso piano acclive
che ascende, ininterrottamente, verso le cime…
Dagli inizi, quel che fu poi il grandioso edificio
social-proletario crebbe senza stolti dualismi tra spirito e
materia, fra idealità e interessi, che, è danno dei
Partiti di massa, se non sanno risolverlo con unità di
visione. Prampolini portò alle folle la “parola” che fu
detta evangelica, il “verbo”: ma volle che il “verbo” si facesse
carne, e fece leva sui sentimenti e su interessi, fuor da quello
strano pregiudizio che par ritenere vergognosi i giusti e onesti
interessi, e nobili solo i sentimenti, come se questi potessero
vivere in aria, avulsi dalla realtà! Nulla in lui di tale
metafisica, bugiarda quando non è scema; ma sana e aperta
contemperanza di realismo e di idealità. La meta è
altissima, nobilissima, ma noi la attuiamo ogni giorno, ad ogni
passo; e via e mèta si fondono nell’azione guidata dalla
fede…
Nulla è minimo e nulla è massimo; è una
concezione e uno sviluppo progressivo, e il massimo si realizza
ogni giorno attraverso il minimo…
La tradizione, avvezza a considerare quasi unicamente il risorgere
di un Paese o di una classe attraverso le elites, non avverte di
solito che la redenzione delle grandi masse, postulato e premessa,
a un tempo, del socialismo, non può avvenire per forme e
virtù d’eccezione, ma per lungo e vasto esercizio di
qualità medie, diffuse in largo campo, estese ai molti, non
eroi, ma uomini; e che tuttavia, la salda e continua disciplina di
quelle umili virtù, può vacar, nell’ora del bisogno,
dalla folla degli uomini, il manipolo degli eroi; può
anche, da ciascun uomo, trarre una scintilla d’eroe.
Prampolini intendeva il socialismo come la redenzione dei
lavoratori - ma non di coloro soltanto che oggi sono i lavoratori,
ma di tutti coloro che via via lo diventano; come il riordinamento
sociale verso la mèta collettivista, attraverso una
continua crescente organizzazione degli sfruttati d’ogni campo e
d’ogni specie, contro le forme monopolistiche, parassitarie,
depredatrici. Non dunque collaborazione col “nemico”, ma
aggregazione, attrazione di tutti coloro che non han motivo di non
esserci amici; espansione, non isolamento; transigenza, non
transazione…E poi non è affatto vero (come afferma certo
determinismo semplicista) che la gente segua sempre il suo
interesse. Essa segue spesso quello che crede il suo interesse: il
che è profondamente diverso. Il proletariato stesso, che
per sue condizioni di vita dovrebbe sentire con pronto intuito il
suo interesse, quanto è tardo e miope a vederlo e quanto
è a volte ignavo a difenderlo!…
Il marxismo aveva visto prevalentemente l’antitesi e la lotta tra
captale e lavoro, tra padrone e salariato, tra chi ha solo le
braccia da vendere, e ha urgenza di venderle, per mangiare, e chi
deve comprarle, ma senza fretta (e fino a un certo punto); e si
occupò meno di tutta quell’altra vastissima antitesi fra
chi ha prodotti da vendere, ma non ne ha urgente bisogno, e chi
deve senza ritardo comprarli giorno per giorno, se vuol vivere: la
lotta nel campo del consumo, accanto a quella del lavoro. Il
socialismo reggiano volse la sua attenzione e la sua opera anche a
questo lato della lotta di classe; onde una propaganda assai
complessa e irradiante, e l’azione cooperativa.
La funzione di organizzare la produzione e distribuire le merci
è importantissima ed è necessarissima. Ciò
che il socialismo contesta è che essa sia svolta dai
“borghesi” capitalisti e che questi, profittando del monopolio
privato e del bisogno del pubblico se ne appropri un compenso
eccessivo…Ciò che non è necessario non è
già la funzione, ma il fatto che essa sia compiuta da
privati speculatori anziché dalla collettività o da
gruppi di essa, attraverso aziende collettive: cooperative,
aziende municipali, enti di consumo, consorzi, ecc.
Per assumere tali funzioni, in concorrenza o in sostituzione del
privato, occorre però “far meglio di lui”. Il parassita, lo
sfruttatore, il borghese capitalista – in teoria – può
praticamente affermare che egli è pur necessario, se altre
forme di attività non lo surroghino con vantaggio del
pubblico, o dopo breve infelice esperimento falliscano per
inabilità, deficienze tecniche e morali, scarsa coscienza
dei dirigenti o partecipi. Non basta combattere: bisogna
sostituire. Non basta abbattere: bisogna superare…
Per quanto riguarda i campagnoli che seguono la nostra bandiera,
sono genericamente dei contadini, ma non sono “i contadini” (se
non in piccola parte) che nel reggiano portano tale denominazione.
Essi sono braccianti, dei piccolissimi proprietari, dei
giornalieri o cameranti; mentre i “contadini”,
quelli ricchi, hanno sempre seguito il partito dei padroni e
specialmente dei preti…
Portando la lotta al di là del duello tra padroni e
salariati, ma allargandola al conflitto fra speculatori del
commercio e consumatori, il cammino si fa vasto…Il socialismo,
allora, non è, in via contingente solo la battaglia per una
giusta mercede, ma uno sforzo di molti cittadini, dissanguati
dalla speculazione, che difendono non solo il loro lavoro, ma il
prezzo dei beni commerciali da acquistare. Larghissime zone
sociali, alle quali pochi pensavano: come se, deciso il duello tra
i due gruppi, padroni e salariati (la intransigenza puritana,
attenendosi alla lettera di Marx, escludeva gli artigiani, e
sospettava fortemente degli stipendiati…) quella gran massa di
mezzo dovesse acconciarsi senza dir verbo ai nuovi ordinamenti.
Eppure quelle zone sociali hanno un peso formidabile e a certe ore
decisivo, a seconda si spostino a destra o a sinistra, e il loro
spostarsi è determinato in parte da sentimenti e in parte
da interessi precisi…
Il proletariato socialista nazionale ebbe torto di non tenere
adeguato conto dell’esistenza di questa gente di mezzo, non tanto
nel senso utilitaristico elettorale di accaparrarsi i voti dei
ceti medi, quanto nel senso, pratico e avveniristico insieme, di
riflettere che quella gente è quella che forse più
di ogni altra esige che i rinnovatori sappiano far funzionare la
società; non abbattere solo, ma ricostruire; e assumersi le
responsabilità del trapasso in modo che i servizi non
subiscano interruzioni.
E’ a questa gente soprattutto che il proletariato deve dimostrare
di esser capace di amministrare ex novo la società. E’ essa
la maggioranza, neutra più che positiva ma indispensabile a
chi voglia governare, che convien dimostrare – per va di prove
pratiche più che di belle parole – che un nuovo assetto
sociale le darà un onesto benessere e le assicurerà
tranquillità di vita, quanto e meglio del sistema
capitalistico.
E’ forse “borghese” un movimento socialista, se riesce a dar la
prova, anche al di là dei lavoratori manuali, che esso
è in grado di fornire le cose necessarie al pubblico e di
sostituirsi felicemente alla classe finora dominante, nella
gestione della società? A noi non pare; pare anzi che quel
movimento socialista (quello reggiano N.d.C) abbia raggiunto un
potere di irradiazione grandissimo, se fa paura ai pochi autentici
parassiti, e non fa paura anzi inspira simpatia a sempre
più numerosi elementi, che non hanno una ragione al mondo
di temerlo.
Ma queste larghe zone sociali sono da tenere in conto per un
più alto motivo etico-pratico, che Prampolini sempre
sentì in modo particolare: non è né giusto,
né possibile, tenere il dominio senza l’adesione della
maggioranza. L’elite, anche se ha in sé un diritto del
tutto astratto non può imporsi alla gente contro sua
voglia. Conquistare dunque le adesioni, i consensi di quelle
larghe zone medie, era necessario, e dovea farsi soprattutto
attraverso l’azione delle cooperative di consumo e di lavoro,
quali campi sperimentali e dimostrativi della idoneità
tecnica e morale della classe lavoratrice di sostituire la
borghesia nella distribuzione delle merci; quali embrioni della
società futura, quali prove che essa poteva reggersi anche
senza l’imprenditore e commerciante privato.
A questo principi giuridico-morale del “diritto della
maggioranza”, corrisponde un concetto pratico. Se la maggioranza
della società non aderisce al socialismo, se non sa o non
vuole concorrere ad attuarlo e a farlo vivere, la rivoluzione non
è né effettiva né durevole. Si avrà
“un governo di socialisti”, non “ il socialismo”. Si toglieranno i
latifondi ai signori della terra, ma i contadini si spartiranno i
poderi, e si avrà un individualismo di artigiani del suolo,
non il collettivismo. Logicamente, da questo concetto della
maggioranza discende il ripudio della violenza come mezzo di
conquista (non di difesa del diritto acquisito, che in tal caso
non è violenza, ma esercizio di un dovere). O il socialismo
ha la forza del numero e della coscienza, e la violenza è
superflua, e la sua forza finirà per vincere anche la
violenza controrivoluzionaria; o il socialismo non ha questa
forza, e la violenza è insufficiente,- oltreché
eticamente ingiusta – a instaurare durevolmente il socialismo…
Grandiosa costruzione (quella del socialismo reggiano N.d.C), a
più piani e a più corpi di fabbricato, ma unica
nello spirito e nell’indirizzo, e strettamente coordinata nella
vita; edificio economico, politico, amministrativo, connesso e
armonico; e l’economico suddiviso nella resistenza e nella
cooperazione, e la cooperazione in consumo, lavoro, ed agricola.
Le vittorie elettorali, sentite nella loro importanza politica, e
nel loro valore materiale, poiché le pubbliche
Amministrazioni conquistate dai socialisti, riconoscono per
programma i diritti delle organizzazioni operaie, come le
associazioni operaie valutano il significato della conquista
politica dei Comuni al di là dei loro contingenti interessi
materiali e locali…
La vastità del movimento operaio reggiano portava la
“classe” a identificarsi con la “collettività”…
I Deputati socialisti del reggiano rappresentavano veramente, come
vuole lo Statuto, la Nazione, e non i singoli collegi. E le lotte
parlamentari per la concessione di opere pubbliche – come quella,
accanitissima, per la linea Reggio-Ciano costruita e poi condotta
dalle Cooperative – significavano un vero urto di classe, e di
principii, implicavano la questione sociale nei suoi termini
fondamentali.
L’impostazione del problema, la propaganda e l’agitazione polemica
che si svolgeva in tali occasioni, era profondamente " massima”;
poneva il conflitto tra il diritto privato e il diritto delle
masse, fra speculazione individuale e organizzazione dei
lavoratori, nella sua luce superiore. Si prospettava alla
collettività dei cittadini, alla opinione pubblica - che in
fondo erano proprio loro i veri depredati, insieme coi proletari
braccianti e artigiani- la questione; si svelava, si denudava, nei
suoi reconditi aspetti, il duello tra capitalisti, che si
vantavano indispensabili per compire le opere pubbliche, e operai
organizzati, che si erano conquistato il diritto di avere
direttamente dai poteri pubblici l’appalto dei lavori, con la
raggiunta capacità di eseguirli, e di eseguirli meglio dei
privati speculatori. Interesse, diritto, dovere confluivano in una
visione sociale e morale…
Tutto questo edificio si è costruito lentamente,
progressivamente, per dilatazioni e per inserzioni successive,
quasi senza interruzioni e senza regressi. Ad esso Camillo
Prampolini partecipò, combattente e guida, animatore e
moderatore, ispiratore e maestro, giornalista, propagandista,
deputato, pubblico amministratore della sua città – unendo
virtù di insegnamento dottrinale e ideale, all’opra pratica
di costruttore e di esperto. Lungi dall’essere accentratore ed
invadente, era pur sempre pronto ad accettare i pesi che gli
venivano imposti dal Partito…
I problemi politici o gli amministrativi, la cooperazione e le
lotte della resistenza, trovavano in lui non “l generico” che
dà l’adesione e l’incitamento di massima, ma il condottiero
e il pratico che conosce di ciascun ramo le questioni, e che tutte
le sviscera e le avvalora in una concezione unica e molteplice,
minima e universale.
*
da http://www.camilloprampolini.it/pensiero.html
Il pensiero di C. Prampolini
Camillo Prampolini non si avvicinò al socialismo
prima dei 20 anni. Anzi, in seguito egli stesso ammise (ne "La
Giustizia", 6/03/1887), di aver relegato i socialisti nella poco
lusinghiera categoria di "radicanaglia". Le prime coordinate
culturali e intellettuali vennero infuse nell'adolescente
Prampolini dall'affetto e dalla stima per i genitori. Dal padre,
ragioniere del Comune di Reggio Emilia, assimilò tendenze
liberal-conservatrici, dalla madre una religiosità intrisa
di attenzione alle questioni sociali, che, presto affievolitasi,
sarebbe poi riaffiorata nel socialismo "evangelico" della Predica
di Natale.
La vicenda personale di Prampolini intersecò per la prima
volta la storia del pensiero socialista nel 1879, a Roma, dove
Camillo frequentava la facoltà di Giurisprudenza
dell'Università "La Sapienza". Durante una lezione di
filosofia del diritto, tra un cumulo di concetti un po' fumosi,
l'argomentazione dei quali seguiva a stento, il giovane Prampolini
sentì parlare per la prima volta di diritto al lavoro.
Nell'estate dello stesso anno si tuffò nella lettura dei
testi di economia politica, per trovare spiegazione del fatto che
accanto al diritto del lavoro la società moderna non
tributasse un riconoscimento al diritto al lavoro.
Prampolini intraprese allora il percorso di revisione dei propri
convincimenti che lo fece infine approdare ad idee socialiste. Il
positivismo lo accompagnò lungo questo percorso molto
più di Marx, alla cui dottrina poteva avvicinarsi solo
tramite le traduzioni in francese e l'impegno di anarchici
italiani come Carlo Cafiero, che nel 1879 diede alle stampe il suo
riassunto del primo volume del "Capitale", e Pietro Gori, che nel
1883 curò un'edizione del "Manifesto".
Dall'evoluzionismo sociale e dall'approccio organicista di
Herbert Spencer Prampolini mutuò la convinzione che la
società tendesse a modificarsi per stabilire un'armonia tra
le sue componenti; ma all'evoluzione Prampolini attribuiva anche
connotati etici, che lo portavano ad approcciare il concetto di
collettivismo su posizioni vicine al socialismo utopista e non al
determinismo marxista.
Prampolini prospettava una radicale trasformazione degli assetti sociali esistenti, ma prevalsero in lui criteri gradualisti, i quali lo avvicinavano alla socialdemocrazia tedesca di Kautsky e Bernstein. Il carattere riformista dell'orientamento prampoliniano costituì il punto di rottura con gli anarchici, che nei primi anni dell'attività politica del giovane Camillo ancora si distinguevano a malapena dai socialisti.
Il carisma quasi profetico riconosciuto a Camillo Prampolini
trasse linfa anche dal suo richiamo alla predicazione e al
messaggio di giustizia di Cristo, che venivano opposti al
formalismo religioso di chi permetteva il perpetrarsi di enormi
iniquità sociali. Prampolini si rivolgeva ai contadini, ai
braccianti e agli operai invocandone l'unione e la
solidarietà reciproca, esortandoli a creare organizzazioni
collettive. Proprio sul terreno della promozione
dell'associazionismo di carattere mutualistico e cooperativo si
verificarono le principali convergenze con culture politiche
diverse, in particolare quella repubblicana, che rifiutava la
lotta di classe.
Prampolini tenne sempre a sottolineare come quest'ultimo concetto
dovesse essere declinato nel senso di un'opposizione ad un sistema
economico, ad una forma organizzativa della società, e mai
come odio e violenza nei confronti delle persone, negando
così che si potesse attribuire la responsabilità
delle ingiustizie sociali alla malvagità di interi ceti. La
sperimentazione di forme alternative di organizzazione del sistema
produttivo si concretizzò proprio nella diffusione e
nell'applicazione delle idee cooperativiste da parte di
Prampolini.