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di Luca Azzetta*
Il pensiero politico dantesco, così come si manifesta negli
anni della maturità, appare caratterizzato da un’evoluzione
frutto della sua vicenda personale (l’impegno nella politica
comunale a Firenze, l’esperienza drammatica dell’esilio, la
conoscenza diretta delle corti e delle città italiane ecc.) e
di una più ampia riflessione sulla storia (il fallimento
della spedizione di Arrigo VII, il problema della libertà e
della giustizia, le cause della corruzione della società
umana ecc.). Molti e di diversa natura sono i testi in cui esso si
manifesta: dal Convivio alle Epistole (V, VI, VII, XI), dalla
Commedia alla Monarchia che, portata a compimento probabilmente a
Ravenna negli ultimissimi anni di vita, ne rappresenta il punto di
arrivo.
Al centro del pensiero politico di Dante, che ruota intorno al
rapporto tra Chiesa e Impero, il grande tema della filosofia
politica medievale, vi sono due intuizioni fondamentali: la
necessità dell’Impero come istituzione universale e
sovranazionale e l’autonomia del potere imperiale dal potere
ecclesiastico.
L’Impero come istituzione universale
La necessità dell’Impero, istituzione universale e
sovranazionale. Solo l’Imperatore, che tutto possiede ed è
dunque libero dalla cupidigia, è in grado di porsi come
arbitro e di restaurare la pace, l’ordine, la giustizia tra gli
uomini. Strettamente legata a questa convinzione è la
riflessione, maturata a partire da una nuova lettura della Bibbia e
dell’Eneide, della provvidenzialità dell’Impero romano. Si
tratta di un pensiero che compare già nel Convivio (IV iv-v
ecc.) e che, attraversando tutta la Commedia, viene svolto
ampiamente e definitivamente nei primi due libri della Monarchia. Il
disegno di restaurazione imperiale vagheggiato da Dante, pur non
essendo affatto utopico nel secondo decennio del sec. XIV, è
rivolto per argomentazioni e convincimenti tutto al passato. Egli
rifiuta il presente, ritenuto inaccettabile e corrotto, e mitizza il
passato prossimo o remoto (es. Inf. VI 77-82, XVI 73-75; Purg. XIV
97-123, XVI 115-20 e 121-23; Par. XV 97-129 ecc.); immagina un tempo
felice in cui l’Impero e la Chiesa fossero concordi nel guidare
l’umanità al suo duplice destino: la felicità su
questa terra e la beatitudine eterna (es. Purg. XVI 106-08; Par. VI
22-27 ecc.). Da qui derivano le rampogne innumerevoli alle
città e alle corti italiane, lacerate da violenze e dai
particolarismi delle fazioni, da tradimenti e sotterfugi dovuti al
calcolo del tornaconto politico o personale: contro Genova, Inf.
XXXIII 151-57; Arezzo, Purg. XIV 46-48; Pisa, Inf. XXXIII 79-90 e
Purg. XIV 52-54; Siena, Inf. XXIX 121-39; Pistoia, Inf. XXV 10-12; i
casentinesi, Purg. XIV 43-45; Bologna, Inf. XVIII 58-63;
Faenza e Imola, Inf. XXVII 49-51; Ravenna e Cervia, Inf. XXVII
40-42; Forlì, Inf. XXVII 43-45; Rimini, Inf. XXVII 46-48;
Cesena, Inf. XXVII 52-54; i romagnoli, Inf. XXVII 37-39, Purg. XIV
97-126 ecc.
Il potere imperiale e il potere ecclesiastico: la teoria dei “due
soli”
L’autonomia del potere imperiale dal potere ecclesiastico. Questo
pensiero, che non pare ancora acquisito nella coscienza del
poeta all’inizio della Commedia, emerge progressivamente: ora a
partire da riflessioni circoscritte su singole questioni, ora in
invettive di appassionata intensità; trova quindi una prima
espressione lirica al centro del Purgatorio (XVI 97-114), quindi una
compiuta elaborazione teorica nel terzo libro della Monarchia (III
iv e xv). La dualità tra potere temporale e potere religioso,
che implica comunque la reverenza dell’imperatore verso il papa
(Mon. III xv 17), non è risolta da Dante, uomo di fede
profonda e saldissima, nella subordinazione dell’una all’altra, ma
sottoponendo entrambe direttamente a Dio, “qui est omnium
spiritualium et temporalium gubernator” (Mon. III xv 18). Questa
soluzione d’eccezione, della diretta investitura divina
dell’Imperatore, è stata variamente discussa dalla critica
dantesca.
Un percorso della Commedia sul pensiero di Dante
Poiché dunque i capisaldi del pensiero politico di Dante
maturarono in tempi diversi, lungo l’arco di un quindicennio entro
cui si pone la stesura della Commedia, giova raccogliere alcuni
passi del poema in cui la poesia dell’Alighieri si concentra ora su
questioni di ampio respiro, ora su implicazioni particolari, che
mostrano l’evoluzione e il diverso manifestarsi del suo
convincimento.
Essi, profondamente radicati nel contesto storico e culturale in cui
furono generati, offrono ancora spunti di riflessione utili e per
alcuni versi adeguati al nostro tempo.
Inf. I 49-54, 88-111– La denuncia della
cupidigia, la “lupa” già causa di tanti mali per
l’umanità, e la fiducia di un intervento provvidenziale che
la sconfigga, ricacciandola nell’inferno e portando salvezza alla
“umile Italia”, sono dichiarate per bocca di Virgilio fin
dall’inizio del poema. Se certo è l’annunzio profetico
dell’arrivo di un restauratore della giustizia, resta volutamente
sfuggente l’identità del “Veltro” (per cui, tra molte,
è stata avanzata anche l’identificazione con un imperatore;
vd. Mon. I xi 11-19).
Inf. II 13-33 – All’inizio del viaggio
ultraterreno, il poeta ricorda che l’elezione provvidenziale di Roma
come sede dell’Impero fece sì che Enea, come san Paolo,
visitasse ancora in vita il regno dei morti; Enea infatti “fu de
l’alma Roma e di suo impero / ne l’empireo ciel per padre eletto”.
All’altezza di questi versi, tuttavia, sembra che per Dante il
frutto più significativo dell’Impero romano sia la Roma
cristiana, giacché la città “fu stabilita per lo loco
santo / u’ siede il successor del maggior Piero”.
Inf. XIX 90-117 – Dante, relegando nella bolgia
dei simoniaci Niccolò III, Bonifacio VIII e Clemente V (morto
nell’aprile 1314), inveisce duramente contro l’avarizia dei papi e
condanna la donazione di Costantino (“Ahi, Costantin, di quanto mal
fu matre, / non la tua conversion, ma quella dote / che da te prese
il primo ricco patre”). Essa infatti, benché mossa da pia
intenzione, fu causa del potere temporale del Papato e di confusione
tra i due poteri, dando origine alla corruzione della Chiesa e alla
rovina del mondo (vd. Purg. XXXII 124-29, Par. VI 1-3, XX 55-60,
Mon. III x).
Inf. XXVII 85-120 – La vicenda di Guido da
Montefeltro dà l’occasione a Dante di insistere sulla
decadenza della Chiesa e sulla responsabilità che essa ha nel
fomentare frodi e guerre tra i cristiani. In particolare il poeta
considera l’inefficacia dell’assoluzione del papa, “lo principe d’i
novi Farisei”, concessa preventivamente per opportunità
politica e in assenza di pentimento (per un caso contrario vd. Purg.
III 112-41).
Purg. III 112-41 – L’incontro con re Manfredi
consente a Dante di condannare l’arbitrio del ricorso alla scomunica
per fini politici da parte della Chiesa (vd. anche Par. XVIII
127-29). Se è vero che i morti scomunicati devono attendere
nell’Antipurgatorio trenta volte il tempo vissuto in contumacia
della Chiesa (ciò mostra come il poeta attribuisca grande
rilevanza al provvedimento ecclesiastico), tuttavia per la
“maladizion” non si perde “l’etterno amore”, cioè la
misericordia divina, che sola fa le anime salve (per un caso
contrario vd. Inf. XXVII 85-120).
Purg. VI 76-151 – L’incontro con Sordello da
Goito, compatriota di Virgilio, diventa occasione per Dante per
esecrare l’amara condizione in cui versa l’Italia, “serva”, “di
dolore ostello, / nave sanza nocchiere in gran tempesta, / non donna
di provincie, ma bordello”. Il poeta denuncia la causa delle guerre
e delle lotte che affliggono l’Italia: a renderla “indomita e
selvaggia” è la colpevole inerzia dell’autorità
imperiale (in particolare si tratta di Alberto I d’Austria) che
diserta il “giardin de lo ’mperio” e lascia “la sella vòta”,
così che Roma, sede naturale dell’Impero, piange “vedova e
sola”. L’invettiva del poeta si allarga a tutti coloro, uomini di
Chiesa e signori d’Italia, che ostacolano l’autorità
imperiale e non lasciano “seder Cesare in la sella” (vd. Conv. IV ix
10 e Mon. III xv 9), quindi tocca con sarcasmo Firenze, la
città natale in cui le sofferenze e i dissidi che dilaniano
l’Italia si riflettono con particolare evidenza (per altri attacchi
a Firenze, frequentissimi in tutto il poema, vd. almeno Inf. VI
49-50, 61, 73-75, XV 61-69, 73-78, XVI 73-75, XXVI 1-12; Purg. XI
112-14, XIV 49-51, XXIII 96, XXIV 79-81; Par. IX 127-32 ecc.).
Purg. XVI 97-114 – Marco Lombardo, spiegando a
Dante come agisca l’arbitrio libero dell’uomo, individua la
responsabilità della corruzione sociale e civile nella
debolezza dell’Impero. Tuttavia, assumendo una prospettiva ben
diversa da quella di Purg. VI 76-151, attribuisce la colpa di tale
vacanza all’autorità papale che, con ingerenza soffocante,
“ha spento” l’autorità imperiale. La causa della corruzione
che lacera la società civile è dunque individuata con
precisione nel tralignamento del Papato che, dichiarata
ingiustamente e illegittimamente la vacatio imperii, ha avocato a
sé gli uffici propri del potere imperiale (“è giunta
la spada / col pasturale”). Alla corruzione del presente Marco
Lombardo contrappone il tempo in cui “soleva Roma, che ’l buon mondo
feo, / due soli aver, che l’una e l’altra strada / facean vedere, e
del mondo e di Deo”. Dante supera così la metafora consueta,
a cui pure era ricorso (Epist. V 30 e VI 8), che indicava nel sole
il Papato e nella luna l’Impero, cioè un astro minore
rispetto al primo. Ora egli approda alla nuova metafora dei “due
soli”, due guide che devono condurre l’umanità su due diverse
strade: “e del mondo e di Deo”. Tale immagine sarà
argomentata nel terzo libro del trattato politico, ove si dimostra
come l’autorità dell’Impero dipenda direttamente da Dio (Mon.
III iv e xv).
Purg. XXXII 109-60, XXXIII 31-51 – Gli ultimi
canti del Purgatorio descrivono un’imponente processione mistica che
Dante vede sfilare nel Paradiso terrestre. Al centro di essa
è un carro tirato da un grifone: simbolo della Chiesa e di
Cristo, suo fondamento. Così Dante, con richiami biblici e
ricostruzioni storiche, con simboli e allegorie, con esposizioni
dottrinali e annunci profetici, disegna le vicende fondamentali che
hanno segnato la storia della Chiesa: le persecuzioni patite nei
primi secoli sotto l’Impero romano, le eresie, la donazione di
Costantino “offerta / forse con intenzion sana e benigna” ma da cui
derivò un male enorme, fino al pericolo portato da un
terribile drago. In seguito a questi eventi la Chiesa, “edificio
santo”, si trasforma mostruosamente e la curia romana, “puttana
sciolta” avida di beni, appare asservita a un gigante sospettoso e
crudele per l’ira (Filippo il Bello e, più generalmente, la
casa reale di Francia; vd. Purg. XX 82-96). Terminata la processione
allegorica, la voce di Beatrice si alza in una profezia ardua e
visionaria, con cui il poeta esprime la certezza fiduciosa che Dio
non tarderà a punire i responsabili della corruzione della
Chiesa. Profetizza così che l’aquila imperiale non
resterà a lungo senza erede, e annuncia l’avvento di un
enigmatico “cinquecento diece e cinque” che ucciderà la
“puttana” e “quel gigante che con lei delinque”.
Par. VI 1-111 – Quasi tutto il canto è
dedicato alla celebrazione della storia provvidenziale di Roma,
evocata nelle parole dell’imperatore Giustiniano. L’epica
celebrazione, in cui l’Impero romano trova la sua continuità
storica e ideale nell’Impero di Carlo Magno, principia con il
ricordo della malaugurata donazione di Costantino e si chiude con il
biasimo rivolto ai Guelfi e ai Ghibellini: ai primi perché si
oppongono al “sacrosanto segno” imperiale, ai secondi perché
se ne appropriano per interessi di parte, disgiungendolo così
dalla giustizia e dall’universalità che gli sono proprie.
Par. IX 127-42 – In una invettiva che unisce nel
biasimo Firenze, patria del “maledetto” fiorino, e la Chiesa
sconvolta dalla cupidigia, Folchetto da Marsiglia condanna con forza
“il papa e ’ cardinali” che hanno abbandonato la meditazione delle
scritture, e dunque la sequela di Cristo (“l’Evangelio e i dottor
magni / son derelitti”), per studiare solo i testi del diritto
canonico, i “Decretali” (vd. Epist. XI 16). Una profezia
indeterminata ribadisce la fiducia che Dio non tarderà a
liberare i luoghi sacri di Roma dalla profanazione (“l’avoltero”)
degli ecclesiastici corrotti.
Par. XVI 58-63 – Cacciaguida, avo del poeta,
rievocando le principali famiglie dell’antica Firenze attribuisce la
responsabilità delle lotte intestine e delle discordie di
Firenze alla corruzione degli alti ecclesiastici, “la gente ch’al
mondo più traligna”. La Chiesa infatti si comporta da
matrigna, da “novera”, verso l’Imperatore, mentre avrebbe dovuto
essere “come madre a suo figlio benigna”.
Par. XVII 46-69 – Cacciaguida, profetizzando
l’esilio del poeta che dovrà soffrire solitudini e
umiliazioni, dichiara che le sventure del poeta si tramano nella
curia pontificia, “là dove Cristo tutto dì si merca”.
Così la vicenda singolare del poeta, vittima degli odi tra
fazioni e della cupidigia della Chiesa, è inserita nel
più ampio panorama politico a lui contemporaneo.
Par. XX 55-60 – Un’aquila fulgida, costituita
dagli spiriti del cielo di Giove, invita Dante a fissare il suo
occhio, formato dalle anime somme. Tra loro è ricordato
Costantino la cui “buona intenzion” (“pia intentio” in Mon. II xi 8)
produsse “mal frutto”, giacché dalla donazione deriva “che
sia ’l mondo... distrutto”. Essa, infatti, fu interpretata come
rinunzia alla giurisdizione imperiale su Roma e sull’intero
Occidente in favore della Chiesa, che abbandonò la purezza e
la povertà delle origini cadendo preda della cupidigia (vd.
Par. XII 88-90, XVIII 118-36 e XXII 88-96).
Par. XXVII 19-27, 37-63 – San Pietro condanna con
estrema violenza la corruzione del Papato che, con Bonifacio VIII,
ha reso Roma, luogo del suo martirio, “cloaca / del sangue e della
puzza”. L’indegnità morale del papa è tale che Pietro
lo indica come colui “ch’usurpa in terra il luogo mio, / il luogo
mio, il luogo mio che vaca / ne la presenza del Figliuol di Dio”.
L’aspra rampogna si allarga poi a colpire tutta la Chiesa, in cui
dominano l’avarizia, la faziosità (cioè il tradimento
del suo fondamento cattolico, della sua missione universale di
salvezza), la cupidigia che spinge a combattere altri cristiani per
brama di potere, la vendita di privilegi e benefici, al punto che
gli ecclesiastici sono “in vesta di pastor lupi rapaci” (vd. Inf.
XXVII 85-93). L’invettiva termina con l’annuncio di un intervento
della "alta provedenza” nella storia, da parte di quel Dio “che con
Scipio / difese a Roma la gloria del mondo”. Benché i termini
della profezia restino vaghi, il riferimento esplicito a Scipione,
che salvò il futuro Impero romano da Annibale, fa intendere
che il soccorso divino auspicato da Dante giungerà ancora una
volta per mezzo dell’autorità imperiale, la sola che nel
pensiero politico del poeta possa restaurare l’ordine e la giustizia
sulla terra.
Par. XXVII 121-48 – Le parole di Beatrice, con
cui il canto si chiude, si aprono improvvisamente a un’apostrofe
contro la cupidigia che affonda, sommerge gli uomini, incapaci di
alzare lo sguardo. La corruzione dell’umanità è
così diffusa che solo nei bambini si trovano “fede e
innocenza”. La causa di ciò, ancora una volta, è
indicata nel fatto che “ ’n terra non è chi governi; / onde
si svia l’umana famiglia”, a motivo della corruzione della Chiesa e
della conseguente vacanza dell’Impero, appena denunciata da san
Pietro (vd. Purg. XVI 85-114; Mon. III xv 9-10).
Par. XXX 133-48 – A indicare quanto la
riflessione sulla politica e sulla storia fosse cara al cuore di
Dante basterebbe considerare come le ultime parole che Beatrice
rivolge al poeta, giunto ormai al centro dell’Empireo, descrivano il
“gran seggio” destinato ad accogliere l’anima di Arrigo VII, in cui
Dante tiene fissi gli occhi. In questo momento supremo Beatrice
ribadisce come la “cieca cupidigia” abbia ammaliato
l’umanità, e come la Chiesa (qui papa Clemente V) si
opporrà all’impresa di Arrigo VII in Italia. Le sue parole si
chiudono drammaticamente con la profezia della condanna all’inferno
di Clemente V, che raggiungerà tra i simoniaci papa Bonifacio
VIII.
*Dottore di ricerca. Studia in particolare la tradizione dell'opera
di Dante e gli antichi commenti alla Commedia, i volgarizzamenti
trecenteschi di area fiorentina, la loro tradizione e diffusione nei
secoli XIV e XV.