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di Francesco Traniello
      
      Eugenio Pacelli nacque a Roma il 2 marzo 1876 da Filippo e da
      Virginia Graziosi. La sua era una famiglia di piccola
      nobiltà pontificia, originaria di Acquapendente, distintasi
      in vari suoi membri al servizio della Santa Sede. Il padre alla
      nascita di Eugenio ricopriva la funzione di avvocato rotale per
      assumere nel 1896 quella di avvocato concistoriale. Il cugino di
      secondo grado Ernesto ebbe ruoli di prim'ordine
      nell'amministrazione dei beni vaticani e fu dal 1903 al 1916
      presidente del Banco di Roma. Il fratello maggiore, Francesco,
      avvocato rotale, avrebbe poi svolto una parte di rilievo nei
      negoziati che prepararono i Patti Lateranensi. 
    
Allievo del collegio Capranica, che lasciò dopo un anno,
      nel 1895, per ragioni di salute, seguì il corso di
      filosofia all'Università Gregoriana e proseguì gli
      studi teologici e poi quelli di diritto all'Apollinare (oggi
      Università Lateranense). 
    
Ordinato sacerdote il 2 aprile 1899 da monsignor Cassetta,
      vicegerente del Vicariato di Roma, si laureò in teologia
      nel 1901 e in diritto nel 1902. Entrato in Curia come
      "apprendista" e, dal 1905, minutante della Congregazione degli
      Affari Ecclesiastici Straordinari di cui era segretario P.
      Gasparri, fu da questi chiamato, nel 1904, a ricoprire la carica
      di segretario della commissione per la redazione del Codex iuris
      canonici. Le sue competenze giuridiche, manifestate anche nel
      breve ma denso studio La personalità giuridica e la
      territorialità delle leggi, specialmente nel diritto
      canonico. Studio storico-giuridico (Roma 1912), gli valsero
      l'insegnamento del diritto nella Pontificia Accademia dei Nobili
      Ecclesiastici, centro di formazione dei diplomatici pontifici. 
    
La fiducia di Gasparri e le sue qualità lo imposero come
      personalità emergente della diplomazia vaticana: nel 1911
      succedette a monsignor Benigni quale sottosegretario della
      Congregazione degli Affari Ecclesiastici Straordinari, nel 1912 fu
      nominato da Pio X segretario aggiunto e, nel 1914, alla vigilia
      della prima guerra mondiale, segretario della stessa
      Congregazione. Quando Gasparri fu nominato segretario di Stato dal
      neoeletto Benedetto XV, Pacelli conservò la propria carica,
      infittendo i rapporti di collaborazione con il suo diretto
      superiore in occasione della redazione del libro bianco vaticano
      sulla rottura delle relazioni diplomatiche con la Francia avvenuta
      nel 1904 e, soprattutto, partecipando in prima persona ai
      tentativi della Santa Sede volti, dapprima, a limitare
      l'estensione del conflitto all'Italia - in relazione ai quali fu
      incaricato nel 1915 di una missione presso l'imperatore
      d'Austria-Ungheria - e più tardi a favorirne una soluzione
      di compromesso. 
    
In questo quadro, nel maggio 1917 fu nominato da Benedetto XV,
      che lo consacrò contestualmente arcivescovo titolare di
      Sardi, nunzio pontificio a Monaco di Baviera, dove giunse il 26
      maggio. Iniziò allora una nuova e decisiva fase della sua
      esistenza, che per molte ragioni lasciò un'impronta
      duratura sulla sua personalità e i suoi orientamenti. In
      proposito è da notare che la Nunziatura di Monaco fu, dal
      1917 al 1920, la sola Nunziatura esistente in tutti i territori
      tedeschi, per cui il suo titolare ebbe modo di esercitare un ruolo
      di protagonista non solo nelle relazioni della Santa Sede con la
      Baviera, ma anche in quelle con il Reich in anni cruciali per la
      Germania. 
    
Quando, poi, nell'agosto del 1920, la Santa Sede e il governo,
      ormai repubblicano, del Reich tedesco stabilirono - con il
      contributo decisivo del nunzio - diretti rapporti diplomatici, a
      Pacelli fu affidata anche la nuova Nunziatura di Berlino, pur
      continuando a risiedere per qualche tempo nella capitale bavarese.
      In secondo luogo, la nunziatura di Pacelli coincise con un
      tendenziale spostamento dell'asse diplomatico vaticano
      dall'Austria-Ungheria alla Germania, già profilatosi
      durante la guerra, e fattosi più marcato in seguito alla
      frammentazione dell'Impero asburgico e agli eventi della
      rivoluzione bolscevica in Russia: in questo senso Pacelli ebbe
      parte di assoluto rilievo nel rappresentare le sorti della
      Germania come determinanti per quelle dell'Europa e per il futuro
      della Chiesa, non solo tedesca. In terzo luogo, durante la sua
      residenza a Monaco, Pacelli assistette personalmente alla
      tumultuosa fase rivoluzionaria del 1918-1919, al processo di
      edificazione della Repubblica di Weimar e alla prolungata e
      drammatica vicenda del trattato di pace con la Germania. Inviato a
      Monaco con il compito precipuo di assecondare le iniziative di
      pace di Benedetto XV, poi tradotte nel vano appello ai governi
      delle potenze belligeranti del 1° agosto 1917, Pacelli si
      trovò dunque ad agire in condizioni, con obiettivi e con
      interlocutori totalmente diversi dopo il tracollo dell'Impero e la
      sconfitta tedesca.
      
      Nel nuovo contesto il nunzio seguì una linea diplomatica
      ispirata a criteri di lucido realismo - anche anteposti alle
      proprie personali propensioni -, ma ancorata ad alcuni principi
      generali che le conferivano una ragguardevole indipendenza dagli
      indirizzi prevalenti nello stesso episcopato tedesco. Venutosi a
      trovare, nel novembre 1918, nel cuore della rivoluzione socialista
      di Monaco, e, dopo l'assassinio di Kurt Eisner, direttamente
      investito dalle sommosse che, all'inizio dell'anno successivo,
      portarono alla proclamazione della Repubblica consiliare, Pacelli
      manifestò sentimenti e giudizi di profondo disgusto nei
      confronti di quell'episodio di "tirannia
      russo-giudaico-rivoluzionaria" (E. Fattorini, p. 116) e di
      "dittatura del proletariato", senza tralasciare d'insistere, nelle
      sue relazioni alla Segreteria di Stato, sulla componente ebraica
      del bolscevismo dilagante; ma nello stesso tempo addebitò
      il movimento consiliare, oltre che alla propaganda comunista,
      all'infelicissimo esito della guerra e alla reazione del popolo
      contro le antiche classi dominanti, chiamò in causa le
      responsabilità delle potenze vincitrici nei confronti della
      Germania, "un grande popolo civile", e indicò con fermezza
      quale unica efficace risposta all'estremismo delle minoranze
      rivoluzionarie la democratizzazione parlamentare del sistema
      politico tedesco, basata su di "un'ordinata rappresentanza
      popolare scelta indistintamente tra tutte le classi". 
    
Allo stesso modo, nei primi anni Venti, richiamò con
      insistenza l'attenzione della Segreteria di Stato sul pericolo di
      una saldatura tra i movimenti nazionalisti rivoluzionari, da lui
      denominati "bolscevismo nazionale", e il comunismo, alludendo ad
      una possibile alleanza militare russo-germanica contro
      l'Occidente, e segnalò con allarme la potenziale
      capacità di attrazione esercitata dal nazionalismo tedesco,
      benché di radici protestanti, sulle masse cattoliche. Per
      tali ragioni Pacelli, che intrattenne frequenti contatti con il
      leader del Centro, M. Erzberger, a dispetto della sua
      impopolarità presso i settori nazionalisti, sostenne nei
      suoi dispacci le ragioni della Repubblica, dei governi di
      coalizione del Centro cattolico con i socialisti, e della
      Costituzione di Weimar: di questa, pur riconoscendone i limiti di
      principio, segnalò i lati vantaggiosi per la Chiesa,
      attribuendone il merito "allo zelo, all'attività ed
      all'impareggiabile organizzazione dei cattolici tedeschi", che si
      erano così guadagnati una condizione di "maggiore
      libertà che non sotto il passato regime" ed una
      legislazione scolastica certamente più favorevole di quella
      dell'epoca guglielmina. Più in generale Pacelli ritenne di
      poter rilevare nella Germania weimariana un particolare
      apprezzamento, sul piano internazionale, dell'"immenso potere
      politico-religioso della Chiesa cattolica" (ibid., p. 336). 
    
Personalmente partecipe delle ragioni del federalismo bavarese,
      il nunzio dispiegò tuttavia una ferma azione frenante nei
      confronti dei movimenti separatisti serpeggianti nelle aree
      tedesche di confine a maggioranza cattolica, adoperandosi
      costantemente, in accordo con Gasparri, a favore della
      salvaguardia dell'unità statale della Germania. Su questa
      stessa linea non mancò di segnalare come le condizioni da
      lui ritenute eccessivamente punitive, sul piano territoriale,
      economico e militare, della pace di Versailles fossero, da un
      lato, fomentatrici di bolscevismo e, dall'altro, originassero una
      spinta di "una gran parte della borghesia verso quei partiti, che
      erano stati prima i più energici propugnatori della
      politica di guerra" (ibid., p. 350). Al punto di convergenza di
      queste diverse linee fu posto da Pacelli un obiettivo
      concordatario, che consentisse di consolidare la situazione di
      favore in cui si era trovata, per le ragioni anzidette, la Chiesa
      cattolica in Germania, accrescendone altresì i legami con
      la Santa Sede. Senza escludere iniziative che miravano alla
      stipulazione di un concordato con il Reich, Pacelli puntò
      principalmente sulla maggiore disponibilità del governo di
      Monaco, con il quale condusse dal 1920 un negoziato diretto,
      concluso positivamente il 29 marzo 1924 con la firma del
      concordato con la Baviera, corrispondente alle richieste della
      Chiesa specialmente in materia scolastica. 
    
Nei successivi anni di nunziatura, ormai trasferitosi a Berlino,
      Pacelli intrecciò trattative - definitivamente interrotte
      nel 1928 - con l'ambasciatore e con il commissario agli Esteri
      dell'URSS, Krestinski e Ciãerin, volte a migliorare, nei
      limiti del possibile, la situazione della Chiesa cattolica in quel
      paese, secondo una linea di tendenziale flessibilità. Pose
      inoltre le basi di due altri concordati, con la Prussia, firmato
      il 14 giugno 1929, e con il Baden giunto a conclusione il 12
      ottobre 1932, dopo la sua partenza dalla Germania: restarono
      invece interrotti, per l'impossibilità di pervenire ad un
      accordo sulle questioni scolastiche, i negoziati per il concordato
      con il Reich, sebbene se ne fossero predisposte varie bozze
      provvisorie. 
    
Rientrato a Roma per ricevere la porpora cardinalizia, che gli fu
      attribuita da Pio XI nel Concistoro del 16 dicembre 1929, il 9
      febbraio 1930 fu inaspettatamente chiamato a succedere a Gasparri
      alla Segreteria di Stato vaticana. La nomina, dovuta probabilmente
      alla volontà di Pio XI di avere un collaboratore meno
      indipendente di Gasparri, avveniva a un anno dalla firma dei Patti
      Lateranensi, e collocava Pacelli in posizione preminente al fianco
      del pontefice, alla vigilia di un decennio contrassegnato dal
      precipitare della crisi economica mondiale, dall'emergenza
      totalitaria e dallo sconvolgimento dell'ordine internazionale. 
    
Pacelli mutò sostanzialmente lo stile e la prassi della
      Segreteria di Stato, accentrando su di sé un'immensa mole
      di lavoro, dilatando gli orizzonti dell'ufficio a cui era
      preposto, e avvalendosi di collaboratori di grandi qualità,
      come A. Ottaviani, D. Tardini, succeduto a Ottaviani nel 1935
      quale sostituto della Segreteria di Stato e divenuto nel 1937
      segretario agli Affari Ecclesiastici Straordinari, e G.B. Montini,
      dal 1937 succeduto a Tardini nella carica di sostituto.
      Ancorché non sia agevole, allo stato attuale della
      documentazione disponibile, sceverare l'opera di Pacelli come
      segretario di Stato da quella del pontefice Pio XI, va però
      considerato che il ruolo della Segreteria di Stato vaticana
      risultò, all'epoca di Pacelli, oggettivamente enfatizzato
      sia dal precipitoso mutamento degli equilibri internazionali sia
      dal sovvertimento in senso autoritario e/o totalitario di molti
      Stati europei a maggioranza o con forti minoranze cattoliche
      (come, dopo l'Italia, l'Austria, la Germania, la Polonia, la
      Spagna), di cui furono in varia misura partecipi le Chiese locali
      attraversate da forti pulsioni nazionalistiche e anticomuniste,
      con il coinvolgimento indiretto, ma tendenzialmente improntato a
      maggior cautela, della Santa Sede. 
    
In questa fase di radicali trasformazioni politico-istituzionali,
      che provocarono, nei Paesi anzidetti, il tracollo dei sistemi di
      garanzie costituzionali (peraltro tradizionalmente giudicati
      insufficienti e precari dalla Chiesa, in quanto applicazioni di
      principi liberali) e la dissoluzione dei partiti cattolici
      (considerati generalmente dai vertici ecclesiastici come strumenti
      subordinati alla realizzazione di ordinamenti pubblici più
      favorevoli o direttamente ispirati a istanze confessionali), la
      Santa Sede venne a svolgere un ruolo crescente di intermediazione
      tra le Chiese locali e gli Stati di appartenenza. Nell'assecondare
      questa linea di sviluppo, la Segreteria di Stato guidata da
      Pacelli non si attenne soltanto ad un prevalente criterio di
      distinzione tra gli aspetti ideologici dei nuovi regimi e la sfera
      dei rapporti istituzionali, ancorandosi al principio del non
      intervento in materia di "forme di governo"; ma si propose anche
      il duplice obiettivo di imprimere, ove possibile, più
      marcate coloriture confessionali agli Stati contraenti, ovvero di
      assicurare condizioni di relativa autonomia delle Chiese nazionali
      nei confronti di regimi politici tendenti alla subordinazione
      totalitaria delle istituzioni religiose. In questo quadro si
      colloca l'ulteriore sviluppo della linea concordataria realizzato
      da Pacelli e culminato nei due concordati con l'Austria e con il
      Reich tedesco del 1933. 
    
Quest'ultimo, sollecitato dal vicecancelliere von Papen a due
      mesi dall'avvento di Hitler al potere, fu negoziato personalmente
      dal segretario di Stato affiancato da monsignor L. Kaas,
      già presidente della Zentrumspartei, e firmato il 20 luglio
      da Pacelli e von Papen, all'indomani dell'autoscioglimento del
      partito cattolico tedesco. Il suo testo prevedeva una serie di
      garanzie e di riconoscimenti nei riguardi dell'associazionismo e
      delle scuole cattoliche tedesche e, per converso, in analogia con
      il concordato italiano, il divieto fatto agli ecclesiastici di
      iscriversi e militare in partiti politici. Stipulato in condizioni
      eccezionali e in tempi molto brevi, anche per le pressioni
      dell'episcopato germanico, il concordato col Reich rifletteva i
      timori, condivisi da Pacelli, circa la natura totalitaria e
      pervasiva del nuovo regime, e dunque l'intento di ancorare ad un
      atto di validità internazionale la salvaguardia delle
      prerogative della Chiesa in Germania. Contribuì d'altro
      canto a consolidare le propensioni positive di ampi settori del
      cattolicesimo tedesco nei confronti del "nuovo ordine", sebbene,
      appena all'indomani della firma, il governo del Reich adottasse
      provvedimenti in aperto conflitto con il testo concordatario. 
    
Ciò aprì un lungo contenzioso diplomatico con la
      Santa Sede destinato a trasferirsi, per iniziativa di papa Pio XI,
      su quello più apertamente dottrinale: sino alla
      pubblicazione, il 14 marzo 1937, dell'enciclica Mit brennender
      Sorge. La sua tormentata stesura, preceduta da una consultazione
      promossa da Pacelli con una delegazione dell'episcopato tedesco, e
      abbozzata originariamente dal cardinale di Monaco M. von
      Faulhaber, fu seguita personalmente dal segretario di Stato con la
      collaborazione dei gesuiti tedeschi R. Leiber ed A. Bea, e di
      monsignor Kaas. Pur riflettendo la preoccupazione di evitare una
      rottura frontale con il governo di Hitler e di preservare il
      concordato del 1933, l'enciclica conteneva un'aperta condanna di
      aspetti essenziali della dottrina nazionalsocialista - come il
      razzismo - secondo la linea intransigente adottata da Pio XI, e
      precedette di pochi giorni la pubblicazione della Divini
      Redemptoris (19 marzo) contro il comunismo ateo. 
    
Diffusa in Germania valicando la rete di controllo della polizia,
      e letta in quasi tutte le chiese tedesche il 21 marzo, la Mit
      brennender Sorge venne accolta dai capi nazisti come un atto di
      guerra. Aspetto non marginale dell'opera di Pacelli come
      segretario di Stato furono le sue numerose missioni in Paesi
      europei e americani, di carattere ufficiale o privato, segno delle
      dimensioni planetarie assunte dalla Chiesa di Roma e delle
      conseguenti proiezioni extraeuropee della diplomazia vaticana. 
    
Tra la fine del 1934 e l'inizio del 1935 Pacelli intraprese un
      lungo viaggio in America Latina come legato pontificio al
      congresso eucaristico di Buenos Aires, da dove raggiunse
      Montevideo e Rio de Janeiro, incontrando i capi di Stato dei Paesi
      visitati. Nell'aprile del 1935 presenziò alle cerimonie di
      Lourdes per il giubileo della Redenzione. Nell'ottobre-novembre
      del 1936 visitò gli Stati Uniti in forma privata,
      incontrando, in compagnia di monsignor F. Spellman, futuro
      arcivescovo di New York, decine di vescovi, stabilendo contatti
      diretti e durevoli con esponenti del fiorente mondo cattolico
      americano e visitando personalmente F.D. Roosevelt, appena
      rieletto alla presidenza: è verosimile che sin d'allora si
      ponessero le basi di un rapporto più formale tra il governo
      degli Stati Uniti, privo di rappresentanza ufficiale in Vaticano,
      e la Santa Sede. Nel luglio 1937 Pacelli fu inviato nuovamente in
      Francia a Lisieux come legato del papa, già gravemente
      ammalato, per la consacrazione della basilica dedicata a s. Teresa
      del Bambin Gesù, fermandosi anche a Parigi, dove
      incontrò ministri del governo di Fronte popolare, ed
      esaltò i particolari legami della Francia con la Chiesa di
      Roma. Nel maggio del 1938, appena all'indomani dell'Anschluss -
      visto con grave preoccupazione dalla Santa Sede e oggetto di
      contrastanti valutazioni tra la Segreteria di Stato e
      l'arcivescovo di Vienna, T. Innitzer - Pacelli si recò a
      Budapest, in occasione del congresso eucaristico internazionale,
      dove incontrò l'ammiraglio Horthy e ribadì il
      principio dell'estraneità della Chiesa alla determinazione
      delle forme dei governi.
      
      Alla morte di Pio XI il cardinale Pacelli fu chiamato a
      succedergli dopo un brevissimo conclave concluso alla terza
      votazione, il 2 marzo 1939, primo segretario di Stato asceso al
      pontificato dopo quasi tre secoli, con l'appoggio dei cardinali
      francesi che lo giudicavano di sentimenti antinazisti, mentre
      alcuni cardinali italiani gli avrebbero preferito l'arcivescovo di
      Firenze, E. Dalla Costa. 
    
Assunto il nome di Pio XII, sin dai primi giorni del suo
      pontificato, con l'ausilio del cardinale L. Maglione, già
      nunzio a Parigi e nominato alla Segreteria di Stato, egli rivolse
      principalmente la sua opera al tentativo, risultato vano, di
      ridurre le tensioni tra la Chiesa e il Terzo Reich, e di evitare,
      con accorati appelli e un'intensa, quanto delicata, azione
      diplomatica - non escludente, a certe condizioni, un ruolo
      mediatorio della Santa Sede in specie nei confronti della
      questione polacca -, che la crisi internazionale ormai in atto
      precipitasse in una generale conflagrazione bellica. Di fatto,
      dallo scoppio del conflitto, preceduto il 24 agosto dall'ultimo
      appello pontificio, "Nulla è perduto con la pace. Tutto
      può esserlo con la guerra", il problema della guerra
      avrebbe improntato sotto ogni aspetto - non solo, cioè,
      sotto il profilo pastorale, ma anche sotto quello dottrinale,
      diplomatico e istituzionale - tutta la prima parte del pontificato
      pacelliano, e si sarebbe proiettato sulla sua fase postbellica.
      Ove si prescinda dalla considerazione che P. fu il papa cui
      toccò il compito di guidare la Chiesa cattolica nella
      più grande catastrofe dell'umanità generatasi nel
      cuore dell'Europa cristiana non si può intendere il segno e
      il senso del pontificato pacelliano: altro discorso, ben
      più complesso e controverso, concerne peraltro una sua
      valutazione, o anche una sua raffigurazione d'insieme. In
      proposito, è opportuno considerare le grandi linee del
      pontificato di P. durante il conflitto sotto profili diversi,
      sebbene strettamente connessi. 
    
Da un punto di vista istituzionale, l'esplosione e gli sviluppi
      della guerra - estesasi dal giugno 1940 all'Italia, nonostante
      svariati tentativi compiuti da P. di preservarne la
      non-belligeranza - incisero sul pontificato in modo contrastante.
      Mentre incrementarono il processo, già in atto, di
      concentrazione delle decisioni nelle mani del papa - anche
      formalmente evidenziato dalla scelta di non procedere alla nomina
      di un nuovo segretario di Stato alla morte, avvenuta nel 1944, del
      cardinale Maglione - resero più difficili e precari i
      rapporti di P. con gli episcopati locali, in un'epoca in cui
      questi erano chiamati, viceversa, a fronteggiare situazioni di
      estrema difficoltà, specie in alcune aree (come in
      Germania, o nei territori occupati dalla Germania, esclusi, tra
      l'altro, dall'applicazione delle clausole concordatarie). 
    
Sotto l'aspetto diplomatico, la situazione bellica ridusse
      sensibilmente i margini d'influenza della Santa Sede nei riguardi
      degli Stati belligeranti, producendone un certo isolamento sul
      piano internazionale, solo in parte compensato dall'apertura di un
      importante canale diretto con il governo degli Stati Uniti
      mediante l'invio in Vaticano, dal febbraio del 1940, di un
      rappresentante del presidente Roosevelt nella persona di M.
      Taylor, le cui missioni proseguirono anche dopo l'ingresso degli
      Stati Uniti nel conflitto. Questi fattori, di tale rilevanza, a
      giudizio dello stesso pontefice, da limitare la sua
      "possibilità di operare efficacemente" e da mettere
      addirittura in pericolo l'"indipendenza" del papato, furono
      invocati da P. come una delle ragioni della "necessità per
      la Santa Sede [...] di chiudersi in un riserbo prudenziale anche
      dove sarebbe occorsa un'azione energica" (lettera al vescovo di
      Passau, del febbraio 1944, in Actes et documents du
      Saint-Siège relatifs à la seconde guerre mondiale,
      II, pp. 355 ss.; G. Miccoli, I dilemmi e i silenzi, p. 224); e
      comunque ebbero peso notevole nel definire il profilo del
      pontificato e nell'imprimergli particolari modulazioni. 
    
Di fatto il passaggio allo stato di guerra e la tipologia di
      quella guerra imposta dalla Germania - contrassegnata
      dall'annientamento di molte entità statalnazionali europee,
      dall'occupazione militare di immensi territori, accompagnata da
      eccidi e deportazioni, dalla dispersione di comunità
      ecclesiastiche locali, dall'esplosione di conflitti
      etnico-religiosi coinvolgenti le Chiese locali, dall'avvio dello
      sterminio sistematico degli ebrei e di minoranze etniche - erano
      avvenimenti tali da ridurre sensibilmente l'incidenza dei metodi e
      degli strumenti tradizionali della diplomazia vaticana, ch'erano
      parte integrante della formazione e della personalità di
      Pio XII. Inoltre la natura ideologicamente complessa del
      conflitto, propiziato dagli accordi tra la Germania
      nazionalsocialista e la Russia comunista del 1939, proseguito con
      l'alleanza dell'Italia fascista con la Germania di Hitler, e
      sfociato nell'alleanza tra l'Unione Sovietica e le democrazie
      occidentali, poteva apparire in contraddizione insormontabile con
      uno dei principi cardinali cui s'era ispirato P. sin dalla sua
      prima enciclica Summi Pontificatus, del 20 ottobre 1939: la
      contrapposizione di una "civiltà cristiana" - della quale
      la nazione tedesca, in ragione delle sue radici storiche e della
      forza della Chiesa tedesca, era considerata dal pontefice parte
      integrante - ai sistemi totalitari, elevanti "lo Stato e la
      collettività a fine ultimo della vita, a criterio sommo
      dell'ordine morale e giuridico". 
    
La convinzione profonda di P., avvertibile in molti documenti e
      attestata da molteplici testimonianze, circa un'analoga radicale
      pericolosità del nazionalsocialismo e del comunismo, si
      accompagnava ad un personale e persistente interesse per le sorti
      della Germania, senza escludere l'eventualità di una sua
      autoliberazione dal nazionalsocialismo - che indusse il pontefice
      sin dall'inizio della guerra a seguire con qualche consenso i
      deboli segnali di opposizione militare a Hitler - e nella
      prospettiva di un suo pieno reinserimento nella cristianità
      europea in funzione di baluardo nei confronti del comunismo
      sovietico. Gli atteggiamenti di "riserbo" e di
      "imparzialità" tra le parti in conflitto assunti da P. come
      norma generale - e fatti anche valere nei confronti delle
      pressanti e opposte richieste rivolte al pontefice di conferire
      una sanzione religiosa alla guerra contro l'Unione Sovietica, da
      un lato, o contro la Germania, dall'altro - corrispondevano dunque
      non solo ad una linea tradizionale, già assunta in
      occasione della prima guerra mondiale e imposta, tra l'altro, dal
      diretto coinvolgimento di popolazioni cattoliche e di Chiese
      nazionali su fronti opposti di guerra, ma anche al profilarsi di
      una situazione bellica ritenuta densa di incognite e di gravissimi
      pericoli per la Chiesa e la cristianità, sia nel caso che
      la vittoria finale fosse toccata al regime nazista sia che tra i
      vincitori fosse da annoverare il centro propulsore del comunismo.
      
    
In questo quadro venne a collocarsi lo speciale e crescente
      rilievo assunto dai rapporti tra la Santa Sede e gli Stati Uniti
      (e la Chiesa cattolica americana), nonostante il netto dissenso
      vaticano sul principio della resa incondizionata proclamato dagli
      Alleati a Casablanca nel gennaio 1943, e sulla reale portata delle
      promesse di Stalin in materia di libertà religiosa. Ma
      neppure vanno trascurati i fattori di natura soggettiva e
      culturale che rendevano P. alieno da specifici atti e interventi
      pubblici suscettibili di essere interpretati come sostegno ad uno
      dei due schieramenti politico-militari. Pur nella consapevolezza
      dei costi, presenti e futuri, di siffatta attitudine al riserbo,
      essi furono da P. considerati preferibili alle conseguenze -
      ritenute dirompenti per l'unità della Chiesa, e per
      l'autorità del papato come "padre di tutti i fedeli" - di
      un sospetto di corresponsabilità della Santa Sede nella
      sconfitta di una delle parti. 
    
Nella cornice del più ampio atteggiamento pontificio, un
      punto controverso sin dall'epoca bellica fu l'ostilità da
      parte di P. a valicare il confine degli appelli e delle generali
      riprovazioni contro gli orrori della guerra e la loro illimitata
      estensione alle popolazioni civili o degli interventi riservati o
      delle parole di solidarietà verso i perseguitati - come il
      riferimento, contenuto nel radiomessaggio natalizio del 1942,
      "alle centinaia di migliaia di persone le quali, senza veruna
      colpa propria, talora solo per ragioni di nazionalità o di
      stirpe, sono destinate alla morte o ad un progressivo deperimento"
      -, per spingersi a compiere specifici atti di pubblica condanna e
      a pronunciare esplicite denunce di responsabilità, a
      proposito degli eccidi di massa perpetrati durante il conflitto e,
      in modo particolare, dello sterminio degli ebrei, sul quale la
      Santa Sede dispose di precoci ed autorevoli, sebbene parziali,
      informazioni. 
    
Non meno controverso fu, allora e in seguito, l'argomento
      enunciato da P. - ed espressione di un suo autentico dramma di
      coscienza - per convalidare questa particolare forma di riserbo:
      cioè la necessità di evitare peggiori mali ("ad
      maiora mala vitanda") a carico delle vittime. Già nel
      maggio del 1940, ricevendo il 13 l'ambasciatore italiano D.
      Alfieri, che gli portava la protesta di Mussolini per il
      telegramma di solidarietà inviato dal pontefice ai sovrani
      del Belgio, del Lussemburgo e dell'Olanda in occasione
      dell'invasione tedesca di quei Paesi neutrali, P. aveva detto, a
      proposito della situazione della Polonia occupata, "Noi dovremmo
      dire parole di fuoco contro simili [orribili] cose e solo ci
      trattiene dal farlo il sapere che renderemmo la condizione di
      quegli infelici, se parlassimo, ancora più dura" (Actes et
      documents du Saint-Siège relatifs à la seconde
      guerre mondiale, I, p. 455). Un'idea ribadita anche dopo la fine
      della guerra, allorché P. affermò di aver inteso
      evitare "anche quando i fatti l'avrebbero giustificato, questa o
      quella espressione di tal natura da produrre più male che
      bene, soprattutto alle popolazioni innocenti curve sotto la ferula
      dell'oppressore" (allocuzione al corpo diplomatico, del 25
      febbraio 1946). 
    
Alla percezione acuta dei limiti opposti dalla guerra
      all'incidenza della Santa Sede sui comportamenti degli Stati
      coinvolti nel conflitto e in parte anche su quelli delle Chiese e
      delle comunità cattoliche nazionali fecero riscontro, in
      P., uno sviluppo significativo del magistero pontificio e un
      assiduo incoraggiamento ad opere e organismi caritativi e
      assistenziali facenti capo, direttamente, o indirettamente, alla
      Santa Sede, e giunti a svolgere funzioni di grande portata
      umanitaria in cospetto degli innumerevoli problemi che la guerra
      totale veniva ponendo incessantemente alle popolazioni civili,
      agli internati, ai prigionieri, ai profughi. Si trattò di
      due aspetti che contribuirono in misura rilevante ad aumentare il
      prestigio morale del papato, costituendolo - anche in relazione al
      tracollo degli apparati statali prodotti dagli eventi bellici, dal
      manifestarsi delle guerre civili e di liberazione, dalle invasioni
      militari - come uno dei grandi protagonisti del dopoguerra. 
    
Nel quadro del magistero di P. in periodo bellico un posto
      particolare occuparono i suoi interventi sulle matrici della
      guerra, sull'ordine internazionale e interno degli Stati, sui
      compiti dei credenti nell'ordine postbellico. Già
      nell'enciclica Summi Pontificatus le cause originarie del
      conflitto erano ricondotte non alla responsabilità di una
      delle parti, ma all'abbandono di un ordine fondato sulla legge
      morale e sulla Rivelazione, al distacco dei popoli
      "dall'unità di dottrina e di fede, di costumi e di morale
      una volta promossa dall'opera indefessa e benefica della Chiesa",
      alle concezioni esaltatrici del potere illimitato e sovrastante
      degli Stati e delle collettività sugli individui, alla
      "corsa sfrenata verso l'espansionismo". Nel successivo messaggio
      natalizio del 1939, che inaugurò un genere di interventi
      radiofonici destinati a suscitare notevole risonanza, il pontefice
      enunciava per la prima volta le condizioni per il ristabilimento
      di una pace giusta: il diritto alla vita e all'indipendenza delle
      nazioni grandi e piccole; il disarmo pratico e spirituale; la
      creazione di istituzioni internazionali più efficaci di
      quelle del passato; l'attenzione alle legittime richieste delle
      nazioni e delle minoranze etniche anche mediante un'"equa, saggia
      e concorde revisione dei trattati", la commisurazione delle leggi
      internazionali alle "sante e incrollabili norme del diritto
      divino", alla giustizia morale e alla legge dell'amore. Il tema
      delle condizioni etiche e giuridiche di un nuovo ordine
      internazionale, radicato in un ordine naturale ed oggettivo di
      giustizia voluto da Dio, che non avrebbe potuto ricalcare quello
      prebellico, venne ancora sviluppato nei messaggi di Natale del
      1940 e del 1941, con un insistito richiamo al posto che sarebbe
      toccato agli "uomini animati dalla fede in un Dio personale" nella
      costruzione della società futura. 
    
Tra la fine del 1942 e il 1944, mentre la guerra perveniva al suo
      punto di svolta, gli interventi dottrinali del papa si
      polarizzarono sulle questioni attinenti l'ordine interno delle
      nazioni e il ruolo della Chiesa e dei credenti nella costruzione
      della società postbellica. Il fulcro intorno al quale
      ruotarono tali messaggi pontifici era il richiamo agli
      imprescindibili fondamenti morali della vita associata e dei
      relativi ordinamenti, contrapposti alle concezioni positivistiche,
      utilitarie o soggettivistiche della legge, e l'affermazione
      dell'eminente compito pedagogico della Chiesa come interprete
      dell'ordine naturale e depositaria della Rivelazione che lo aveva
      convalidato e perfezionato.
      
      Gli aspetti che maggiormente connotavano questa fase del magistero
      pacelliano erano dati dai richiami alla persona come centro etico
      della vita sociale, fine e non mezzo delle strutture permanenti
      della socialità, la famiglia, la proprietà privata e
      lo Stato; e una tendenziale revisione della tradizionale dottrina
      affermante l'estraneità della Chiesa alle "forme di
      governo", messa in discussione dallo scontro con i sistemi
      politici totalitari. Il radiomessaggio natalizio del 1942,
      anticipato in molti suoi punti da quello del 1° giugno 1941
      per il cinquantenario della Rerum Novarum, toccava in particolare
      il tema della riforma sociale come risposta all'immane tragedia
      della guerra, compito di una "crociata spirituale" affidata "ai
      migliori e più eletti membri della cristianità", e
      richiedente un deciso passaggio all'azione finalizzata alla
      "ricostruzione di ciò che sorgerà e deve sorgere a
      bene della società". 
    
A caposaldo del nuovo ordine erano posti: lo sviluppo di "forme
      sociali in cui sia resa possibile e garantita una piena
      responsabilità personale"; la difesa dell'unità
      sociale e specialmente della famiglia, contro le concezioni
      identificanti il popolo con un insieme di individui senza radici o
      una massa amorfa oggetto di incontrastato dominio; i diritti dei
      lavoratori (salario giusto e familiare, diffusione della
      proprietà, elevazione culturale); la reintegrazione di un
      ordinamento giuridico in grado di difendere il cittadino anche
      dalle prevaricazioni del potere politico; la concezione cristiana
      dello Stato incompatibile con la sua identificazione con una
      classe o una razza. Nel rinnovare la condanna del socialismo
      materialista, P. denunciava altresì i "meccanismi" che
      nella società capitalistica ostavano agli sforzi delle
      classi operaie per migliorare le proprie condizioni; e affidava
      alle norme giuridiche il compito di una loro tutela contro "una
      dipendenza e servitù economica incompatibile con i diritti
      della persona". 
    
Sull'argomento P. ritornò nel discorso di Pentecoste (13
      giugno) del 1943, rivolto a venticinquemila operai radunati in
      piazza S. Pietro, e incentrato sull'esigenza di "raddrizzamenti e
      di miglioramenti" della struttura sociale, ma pure sulla
      contrapposizione tra una riforma prodotta dall'"evoluzione
      concorde" e, invece, la via rivoluzionaria, fra l'abolizione e la
      diffusione della proprietà, fra una funzione sociale del
      capitale e l'assoggettamento del popolo alla forza oppressiva del
      "capitalismo di Stato". Nel radiomessaggio del settembre 1944,
      "Per la civiltà cristiana", fecero spicco il richiamo al
      comune patrimonio di valori trasmessi all'Europa dal pensiero
      cristiano quale condizione originaria e imprescindibile
      dell'"opera gigantesca della restaurazione della vita sociale,
      economica e internazionale", e la precisazione che la
      fedeltà a quel patrimonio "e la sua strenua difesa contro
      le correnti atee e anticristiane" non potevano essere sacrificate
      "a nessun vantaggio provvisorio, a nessuna mutevole combinazione"
      (nel luglio P. aveva per la prima volta espresso la propria
      riprovazione per il movimento italiano dei cattolici-comunisti,
      "figli carissimi [...] che si mostrano ignari o dimentichi dei
      più aperti insegnamenti della Chiesa").
    
 Il radiomessaggio natalizio del 1944, sui problemi della
      democrazia, trasmesso quando la vittoria degli Alleati non era
      più in dubbio, richiamava il dovere della Chiesa, in quanto
      custode delle condizioni etiche della vita associata, di
      esprimersi anche sugli ordinamenti politici, pur senza perseguire
      fini di natura politica. La parola della Chiesa era, secondo P.,
      tanto più opportuna in quanto i sistemi democratici,
      rispondenti all'esigenza di opporsi "ai monopoli di un potere
      dittatoriale, insindacabile", necessitavano di un'ispirazione
      morale che non poteva essere conferita se non "alla luce della
      sana ragione, e segnatamente della fede cristiana", per non
      trasformarsi in regimi di massa perniciosi per la dignità e
      la libertà dell'uomo. Le sorti della democrazia venivano
      riposte nelle mani di "una eletta schiera di uomini di solida
      convinzione cristiana", e una parte essenziale del suo compimento
      affidato "alla religione di Cristo e alla Chiesa". In maniera
      più esplicita che nei documenti risalenti all'inizio della
      guerra, il messaggio natalizio del 1944 fissava una connessione
      intrinseca tra la tragedia bellica e la natura del potere
      totalitario, oppugnatore del diritto del cittadino a "esprimere il
      proprio parere sui doveri e i sacrifici che gli vengono imposti",
      a "non essere costretto ad ubbidire senza venire ascoltato". Senza
      identificare i valori della democrazia nelle sue forme
      istituzionali, P. richiamava tuttavia la responsabilità
      preminente del popolo, partecipe alla vita della comunità
      politica, nel difendere e promuovere un ordine naturale di
      giustizia che, riverberandosi sul piano internazionale, avrebbe
      anche reso impraticabile l'uso e la teoria della guerra come modo
      di risolvere i conflitti tra le nazioni. In questo senso il magistero pacelliano conferiva un'implicita
      rilevanza politica alle ragioni etiche e religiose
      dell'antitotalitarismo, disegnando i tratti di una democrazia
      ispirata ai principi costitutivi della "civiltà cristiana"
      come unica adeguata risposta all'emergenza totalitaria. 
    
I contenuti del magistero pontificio in epoca bellica non
      rappresentarono soltanto un articolato complesso dottrinale, che
      rielaborava, sulla scorta di recenti sviluppi della "metafisica
      sociale" e del diritto naturale d'impianto tomistico, aspetti
      qualificanti del precedente magistero, da Leone XIII a Pio XI, ma
      disegnavano un progetto storico che intendeva proiettarsi nella
      realtà del dopoguerra e, sulle rovine di un "mondo antico"
      andato in frantumi, collocare in posizione eminente la Chiesa
      cattolica come maestra ed educatrice degli uomini e dei popoli
      (allocuzione per il Concistoro del 20 febbraio 1946, "Potenza e
      influsso della Chiesa per la verace restaurazione del mondo"). 
    
Alle difficoltà incontrate nei rapporti con i governi e
      con gli Stati belligeranti fece riscontro l'impulso dato da P. a
      un rapporto diretto (in occasione per esempio dei pellegrinaggi e
      dei grandi raduni in piazza S. Pietro, iniziati nel corso del
      conflitto), o veicolato dai mezzi di comunicazione (la radio, il
      cinema e, più tardi, la televisione), con il popolo dei
      fedeli: un rapporto che aveva natura insieme carismatica e
      istituzionale. Esso rifletteva l'interpretazione pacelliana della
      propria missione apostolica di pastore della Chiesa universale, e
      trovava le sue radici nei lineamenti di un'ecclesiologia definita
      nei suoi aspetti essenziali nell'enciclica Mystici Corporis, del
      29 giugno 1943: dove i fermenti teologici, emersi tra le due
      guerre principalmente in area francese o tedesca, che si erano
      focalizzati sulla definizione della Chiesa come "corpo mistico",
      erano stati ricondotti e inseriti in un più tradizionale
      quadro istituzionale e gerarchico, imperniato sul vicario di
      Cristo, supremo garante dell'unità disciplinare e
      dottrinale della Chiesa "corpo sociale di Cristo", e sua guida
      indefettibile nelle tribolazioni del presente e del futuro. 
    
La ridefinizione pacelliana del carisma pontificio in rapporto
      alla Chiesa universale e al mondo contemporaneo trovò un
      suo punto di forza e di convalida nella grande rilevanza assunta
      dalla figura e dall'opera di P. nel contesto italiano dopo il
      crollo del regime fascista e durante l'occupazione tedesca, e
      nella sua esaltazione della particolare missione di Roma come
      centro della Chiesa e dell'ecumene cristiano. 
    
Nell'Italia invasa e lacerata del 1943 P. si dedicò con
      speciale sollecitudine al tentativo di rendere effettivo lo status
      di Roma città aperta, preservandola dalle distruzioni,
      dagli scontri militari, dagli atti di terrorismo - riprovati come
      atti inconsulti e occasioni di rappresaglie -, manifestando la
      propria personale partecipazione ai lutti cittadini in occasione
      dei bombardamenti aerei dell'estate, e provvedendo ad estendere le
      iniziative di aiuto morale e materiale alle popolazioni. Nella
      fase dell'occupazione tedesca, il papa mantenne un atteggiamento
      di fermezza di fronte alle minacce rivolte alla sua persona, e
      incoraggiò l'attivazione di una rete di protezione e di
      accoglienza dei perseguitati per ragioni politiche o razziali in
      istituti e luoghi ecclesiastici, compresa la Città del
      Vaticano, ma non fino al punto da metterne a repentaglio
      l'inviolabilità ed astenendosi da interventi pubblici nei
      confronti delle autorità militari di occupazione, anche in
      presenza di atti efferati, come la razzia e la deportazione degli
      ebrei romani dell'ottobre 1943. 
    
Il sentimento popolare che Roma fosse stata salvata dal papa si
      espresse all'indomani della liberazione, nel giugno del 1944,
      quando una massa di cittadini si riversò in piazza S.
      Pietro a salutare P. quale unico autentico "defensor civitatis".
      Lo speciale legame instauratosi tra il papa e la sua città
      era, in certo modo, la prefigurazione del ruolo che P. assegnava
      alla Chiesa nel mondo postbellico, e della centralità di
      Roma - "la Città universale, la Città caput mundi,
      l'Urbs per eccellenza, la Città di cui tutti sono
      cittadini, la Città sede del Vicario di Cristo, verso il
      quale si volgono gli sguardi di tutto il mondo cattolico"
      (allocuzione al Sacro Collegio in occasione del Natale 1945) -
      come punto d'irradiazione della missione religiosa e insieme
      civile nella quale il pontefice manifestamente si identificava. 
    
La personalità di P. aveva raggiunto, alla fine della
      guerra, un grado elevato di autorevolezza su scala internazionale.
      Situato al vertice di una Chiesa ch'era uscita dalla guerra, in
      Europa, come uno dei pochi organismi istituzionali e territoriali
      ancora saldi, guardata da molti come arca di salvezza e di
      conciliazione e percorsa da fermenti di rinnovamento, il papa fu
      considerato interlocutore privilegiato dai governanti occidentali:
      il premier britannico W. Churchill lo volle incontrare
      personalmente durante la sua visita a Roma nell'agosto del 1944,
      mentre s'infittivano le relazioni della Santa Sede
      coll'amministrazione degli Stati Uniti, anche in seguito ai
      crescenti allarmi ecclesiastici circa il profilarsi, in Italia, di
      una situazione favorevole al comunismo e in vista dell'erogazione
      di aiuti americani alle popolazioni. La voce di P. era ascoltata
      da grandi masse di fedeli sparse nei più diversi Paesi e
      influenzava aree d'opinione non appartenenti al mondo cattolico. I
      partiti politici a base cattolica, ricostituiti durante o appena
      dopo la guerra in molti Stati europei, guardavano al magistero
      pontificio come ad un punto di riferimento ideale, sebbene quel
      magistero non avesse vincolato i credenti ad un'unica
      identità politica, ma si fosse limitato a sancire
      l'incompatibilità tra l'appartenenza alla Chiesa e la
      militanza o la collaborazione con movimenti e partiti professanti
      dottrine atee e materialiste. In realtà, il progetto di P.
      sulla collocazione e il ruolo della Chiesa, guidata dal suo capo e
      maestro, nel nuovo ordine postbellico, trovava il suo fulcro in
      un'idea di "civiltà cristiana" che trascendeva la sfera
      politica, e lasciava anzi trapelare un fondamentale pessimismo del
      pontefice nei confronti degli strumenti politici in sé
      considerati.
      
      I principali interventi di P. nell'immediato dopoguerra furono
      tesi a convalidare le ragioni degli orientamenti assunti durante
      il conflitto - anche per contrastare pesanti accuse e gravi
      insinuazioni fatte circolare nei suoi confronti, non senza il
      ricorso alla pubblicazione di documenti falsi - ma, soprattutto,
      furono rivolti a ribadire il concetto dell'intimo rapporto tra la
      guerra e il "totalitarismo dello Stato forte", ultimo frutto di
      "un umanesimo secolarizzato" che aveva prodotto "la negazione e il
      disprezzo del pensiero e dei principi cristiani" (allocuzione al
      Sacro Collegio per il Natale 1945). La lettura, in certo modo,
      apocalittica della guerra, punto terminale e rivelatore di un
      cammino di allontanamento dalla verità cristiana e dalle
      radici della civiltà che il cristianesimo aveva permeato,
      costituiva il presupposto del pensiero di P. nei riguardi della
      rinnovata vocazione della Chiesa ad influire "sul fondamento,
      sulla struttura e sulla dinamica della società umana". 
    
Nell'allocuzione pronunciata il 20 febbraio 1946 in occasione
      dell'imposizione della berretta a trentadue nuovi cardinali - di
      cui solo quattro italiani, e comprendenti numerosi vescovi
      americani, tre tedeschi, un cinese, un ungherese, un polacco, un
      armeno - nominati nel primo Concistoro del suo pontificato (il
      secondo e ultimo si tenne nel gennaio 1953), P. volle rimarcare
      non solo la dimensione realmente universale della Chiesa, ma
      insistette sulla sua particolare e specialissima natura
      societaria, che la rendeva incomparabile ad ogni altra
      società umana, perché rivolta al "cuore dell'uomo" e
      da qui dilatantesi "su tutta la durata della vita, su tutti i
      campi dell'attività di ciascuno", non "infeudata" ad alcun
      gruppo etnico o sociale, né "impietrita" in un momento
      della sua storia, fonte inesauribile di educazione della persona
      umana, promotrice del principio di responsabilità e di
      sussidiarietà, per il quale "ciò che gli uomini
      singoli possono fare da sé e con le proprie forze non deve
      essere loro tolto e rimesso alla comunità", "figura e forma
      della società umana", base delle sue "due colonne
      principali", la famiglia e lo Stato. Al punto di sutura tra la
      Chiesa e il mondo risultava così posto l'uomo cristiano,
      definito dal suo essere membro visibile della Chiesa e formato ai
      suoi insegnamenti. 
    
Nell'immagine dell'"ecclesia docens" venivano a convergere le due
      cifre dominanti del magistero di P.: il primato
      dell'autorità gerarchica imperniata sul pontefice, e il
      dovere del credente, innestato nel corpo vivente di Cristo e
      docile alla parola del suo vicario, di agire come fermento di
      cristianizzazione della società e dei mondi circostanti. Il
      senso di una rinnovata missione della Chiesa rivolta
      all'edificazione di un ordine di valori qualitativamente diverso
      da quello ch'era precipitato nella guerra, implicava da un lato,
      nella visione di P., una rigorosa delimitazione disciplinare e
      dottrinale dell'ortodossia che toccava all'autorità
      ecclesiastica custodire e difendere, e si riverberava, dall'altro,
      nelle relazioni tra la Chiesa e la struttura bipolare del mondo
      quale si veniva configurando nell'immediato dopoguerra. 
    
Per questo secondo aspetto, l'immagine pacelliana della
      realtà postbellica come dominata da una "lotta titanica fra
      i due spiriti opposti che si disputano il mondo" (radiomessaggio
      natalizio del 1947), da una scelta tra la volontà di
      appoggiarsi "sulla salda roccia del cristianesimo, sul
      riconoscimento di un Dio personale, sulla credenza nella
      dignità personale e dell'eterno destino dell'uomo" oppure
      la volontà di rimettersi nelle mani dell'"impassibile
      onnipotenza di uno Stato materialista, senza ideale ultraterreno,
      senza religione e senza Dio" (discorso di P. alla vigilia delle
      elezioni del giugno 1946 in Italia e in Francia), poteva
      costituire, a un primo sguardo, una legittimazione religiosa della
      contrapposizione tra "mondo occidentale" e "mondo comunista" e un
      alto grado di identificazione della Chiesa con le sorti e la causa
      dell'Occidente: come tale fu largamente utilizzata dalla
      propaganda politica. In realtà P. richiamò con
      frequenza il concetto dell'irriducibilità della Chiesa e
      della sua dottrina alla pura dimensione ideologica, anche
      all'ideologia dell'Occidente, insistendo invece, con accenti
      agostiniani, sulla natura apocalittica dello scontro in atto tra i
      due "spiriti", di Cristo e dell'Anticristo. 
    
In questo senso P. intese preservare, sul piano dei principi, un
      ruolo autonomo della Chiesa, nell'ottica di una fondamentale
      autosufficienza e compiutezza dottrinale del cattolicesimo, e
      configurare un rapporto dialettico con il "mondo occidentale" come
      quella delle due parti che conservava "consapevolmente o no" le
      tracce di un originario ordine cristiano iscritto nei suoi
      ordinamenti e nella sua cultura, sforzandosi "ancora in larga
      misura", nonostante i suoi errori, di conservare i dettati del
      diritto naturale. Le resistenze di P. a schierare la Chiesa come
      parte integrante del blocco occidentale o atlantico, riflettevano
      anche, sul piano culturale, una fondamentale idiosincrasia nei
      confronti del modello di vita americano; e avevano come risvolto
      un'attenzione particolare per le sorti dell'Europa, alla cui
      rinascita, nel segno della propria missione, "cristianamente
      ispirata", libera dai "germi venefici dell'ateismo e della
      rivolta" e da "malsani influssi stranieri", il radiomessaggio
      natalizio del 1947 attribuiva un ruolo determinante per il
      mantenimento della pace. Ad esso seguirono, negli anni, vari
      pronunciamenti papali a favore dell'unificazione dell'Europa, da
      compiersi in nome e per mezzo delle sue radici cristiane, sino
      all'approvazione dei trattati di Roma del 1957. 
    
L'autonomia della Chiesa nei confronti del "mondo occidentale"
      rispondeva pure all'esigenza di preservare e rinnovare la sua
      presenza nelle aree mondiali interessate ai processi di
      decolonizzazione, senza che fosse coinvolta in maniera
      irreparabile nelle ondate antioccidentali che vi si
      accompagnavano. In tal senso P. incoraggiò la tendenza alla
      trasformazione delle Chiese missionarie in Chiese autoctone,
      proclamandone la opportunità nelle encicliche Evangelii
      praecones, del 1951, e Fidei donum del 1957 - senza tacere dei
      pericoli che incombevano sulla loro ancora precaria esistenza - e
      non mancò poi di pronunciarsi, a certe condizioni, per il
      diritto all'indipendenza dei popoli colonizzati. Il fattore,
      tuttavia, che conferì i tratti più marcati al
      pontificato di P. negli anni del dopoguerra fu senza dubbio la
      percezione del comunismo come grande nemico della Chiesa e suprema
      minaccia della "civiltà cristiana". 
    
La saldatura avvenuta tra l'ideologia comunista, la potenza
      militare e imperiale dell'Unione Sovietica dilagata sin nel cuore
      dell'Europa e la proliferazione e il crescente consenso raccolto
      dai movimenti comunisti nell'area occidentale, dava corpo a una
      situazione che si presentava, dal punto di vista della Santa Sede,
      in termini più gravi di quanto gli allarmati timori
      già espressi durante il conflitto avessero lasciato
      supporre. Molti fatti inducevano a pensare che, a partire
      dall'Unione Sovietica per giungere alle "repubbliche popolari" in
      fase di edificazione nei Paesi dell'Est europeo - in alcuni dei
      quali, come in Polonia, in Ungheria, in Cecoslovacchia, in Croazia
      e Slovenia il cattolicesimo aveva profonde radici -, s'intendesse
      smantellare la struttura delle Chiese locali annientandone
      l'esistenza, incominciando col separarle da Roma. In Ucraina e in
      Romania le comunità cattoliche uniati - cioè di rito
      orientale ma unite a Roma - furono forzatamente incorporate nelle
      locali Chiese ortodosse. 
    
Nel 1947-1949 la tensione tra autorità ecclesiastiche e
      autorità politiche era precipitata in forme persecutorie,
      che avevano portato all'arresto e alla condanna - realizzata con
      procedimenti di tipo staliniano - del primate ungherese J.
      Mindszenty, alla limitazione della libertà dell'arcivescovo
      di Praga, J. Beran, all'imprigionamento di molti vescovi e di
      centinaia di preti cattolici in Romania, in Iugoslavia (tra cui
      l'arcivescovo di Zagabria, A. Stepinac), in Albania, in Lituania.
      In Cecoslovacchia e altrove si erano costituite associazioni di
      cattolici integrate nei sistemi comunisti. In Cina, poco dopo la
      proclamazione della Repubblica popolare nel 1949, sorgerà
      una Chiesa cattolica patriottica cinese, autonoma da Roma. L'unica
      parziale eccezione di un quadro in cui il tessuto della vita
      ecclesiastica e religiosa subiva lacerazioni che potevano apparire
      irreparabili era costituita dalla Polonia, dove il primate S.
      Wyszy´nski pervenne nel 1949 ad un compromesso con il
      governo, accolto da Roma con aperta freddezza. Mentre sul piano
      delle relazioni diplomatiche la Santa Sede aveva tentato di tenere
      aperto almeno qualche canale con gli Stati dell'Est, sul piano
      dottrinale e disciplinare la via imboccata da P. fu quella
      dell'intransigenza. Per diretto intervento pontificio il
      Sant'Uffizio promulgò il 15 luglio 1949 una solenne
      dichiarazione che comminava la scomunica ai fedeli che
      professassero e propagandassero la dottrina del "comunismo
      materialista e anticristiano", ed escludeva dai sacramenti i
      cattolici iscritti ai partiti comunisti, o che li appoggiassero o
      facessero propaganda per le loro idee o collaborassero e
      leggessero la loro stampa. 
    
Ma la dichiarazione del Sant'Uffizio, giunta quando la situazione
      delle Chiese dell'Est europeo stava precipitando, fu l'ultimo atto
      di un processo che aveva confermato antiche e mai dismesse
      convinzioni di P., e convalidato la sua determinazione a
      sollecitare in Occidente - soprattutto laddove il comunismo e le
      sue organizzazioni mostravano maggiore forza di penetrazione - la
      mobilitazione dei fedeli, quelli in particolare raccolti nelle
      associazioni confessionali; e lo aveva indotto non solo a ribadire
      la riprovazione pontificia nei confronti dei cattolici che
      aderissero a partiti o movimenti d'ispirazione comunista, ma anche
      a manifestare, in maniera via via più aperta,
      l'ostilità pontificia per ogni sorta di organizzazione che
      comprendesse cattolici e comunisti, per esempio in campo
      sindacale, e l'avversione a governi che comprendessero i partiti
      comunisti, o che, a giudizio del pontefice, non mostrassero
      sufficiente energia nel contrastare il comunismo e nel sostenere
      le ragioni e i diritti della Chiesa. 
    
Sotto quest'ultimo profilo la linea intransigente di P., sebbene
      moderata da taluni dei suoi più stretti collaboratori come
      Montini - che tuttavia nel 1954 fu allontanato da Roma per essere
      nominato arcivescovo di Milano - produceva una crescente influenza
      dei settori più conservatori della Curia - quelli che
      volgevano il loro sguardo alla Spagna franchista, pervenuta nel
      1953 alla stipula di un concordato con la Santa Sede - e ai gruppi
      più integralisti del mondo cattolico; aprì tensioni
      crescenti nelle fila dell'associazionismo confessionale;
      alimentò incomprensioni tra il papa e taluni leaders
      politici di intemerata fede cattolica, come A. De Gasperi. 
    
L'immagine o il modello di Chiesa cui s'ispirava P. rifletteva
      una visione a sfondo apocalittico del mondo contemporaneo, e
      tendeva a tradurre la missione salvifica ad essa connaturata, resa
      più attuale e pregnante dalla catastrofe bellica, in un
      potere direttivo, esteso e capillare, del vertice pontificio nei
      confronti di un corpo ecclesiastico pensato come proteso a
      metterne in atto gli indirizzi in ogni campo e momento della vita
      personale, familiare e collettiva. Ne conseguiva, sul piano
      dottrinale o politico, una sensibile riduzione dei margini di
      autonomia dei mondi cattolici, nel momento stesso in cui se ne
      esigeva la mobilitazione e l'impegno. 
    
L'ideale pacelliano di una Chiesa costituita da "immense falangi
      di apostoli", nei quali l'intensità della vita e della
      pratica religiosa personale e di gruppo si connetteva strettamente
      a un'intima e rigorosa adesione ai dettati del magistero
      gerarchico, in particolar modo pontificio, dovette tuttavia
      misurarsi sia con i processi di secolarizzazione dei costumi e
      degli stili di vita indotti dalle trasformazioni sociali e
      culturali del dopoguerra, sia, e soprattutto, con fenomeni di
      rinnovamento, da tempo emergenti, nel campo della teologia, della
      vita religiosa e liturgica, della pratica pastorale, sollecitati
      dai contesti sempre più differenziati nei quali le Chiese
      locali e gruppi diversi di clero e di fedeli si trovavano inseriti
      o miravano a inserirsi. P. prese atto, in parte, di tali fenomeni,
      ponendosi nei loro confronti come suprema istanza di unificazione
      e di legittimazione, ma nello stesso tempo ne delimitò, sul
      piano dottrinale e pratico, il carattere innovativo,
      sottoponendoli al controllo ecclesiastico, che assunse forme
      particolarmente rigide in area italiana. 
    
Così nel campo dell'apostolato laicale, principalmente ma
      non esclusivamente espresso dall'Azione Cattolica, il papa fu
      prodigo di incoraggiamenti e di direttive, che sanzionavano
      mediante l'approvazione pontificia un'articolazione di forme
      associative e di metodologie pastorali più estesa che
      nell'epoca di Pio XI, ma badando sempre a rimarcare che si
      trattava di un'azione subordinata alla gerarchia o al più
      di una "speciale e diretta collaborazione con l'apostolato
      gerarchico della Chiesa", come recitavano gli Statuti del 1946
      dell'Azione Cattolica italiana. Anche il modello dell'apostolato
      di ambiente, promosso nel contesto belga e francese dalla
      Gioventù Operaia Cattolica (JOC) di J. Cardijn, fu
      tollerato a condizione di avere l'approvazione dell'episcopato
      locale. Diversa accoglienza fu riservata al più radicale
      esperimento pastorale messo in atto dai preti operai nel quadro
      della Mission de Paris, incoraggiati da alcuni vescovi francesi,
      come E. Suhard, M. Feltin e A. Liénart: dopo lunghe
      incertezze P. intervenne direttamente nel 1954 per richiamare i
      preti operai al rispetto delle regole imposte dalla consacrazione
      e dal ruolo sacerdotale e all'obbligo di non confondere l'azione
      missionaria con l'opera sindacale o politica - che li aveva resi
      contigui in alcuni casi al movimento comunista -, bloccandone di
      fatto l'attività. 
    
L'insistenza di P. nella preservazione della specifica e
      tradizionale identità, anche esteriore e visibile, del
      prete cattolico, confermata nell'esortazione apostolica Menti
      nostrae del 1950, non escludeva tuttavia reiterati atti pontifici
      volti all'aggiornamento della formazione seminariale e ad una
      ridefinizione della personalità dei sacerdoti. Le diverse
      linee di tendenza che s'intrecciarono, durante il pontificato di
      P., a proposito delle forme e dei metodi pastorali che
      riguardassero l'apostolato sacerdotale o la più vasta e
      composita area dell'apostolato laicale, erano rivelatrici di un
      più complesso e multiforme dibattito teologico, alimentato
      da scuole e da gruppi disparati, presente e vivace nella Chiesa
      fin dagli anni Trenta e ripreso con forza nel dopoguerra. Mosso
      dall'intento di ricondurre ad un'unità di fondo e di
      riportare nel solco di una consolidata tradizione teologica tali
      fermenti, P. incrementò gli interventi magisteriali volti a
      delimitare i confini entro i quali quel rinnovamento dottrinale
      era considerato legittimo. 
    
A questo fondamentale criterio si ispirarono, oltre alla
      ricordata enciclica di argomento ecclesiologico Mystici Corporis,
      l'enciclica Divino afflante Spiritu del 1943, che accoglieva
      talune delle istanze avanzate dalla moderna critica biblica
      nell'approccio e nell'interpretazione delle Scritture, e
      l'enciclica Mediator Dei, del 1947, che stabiliva una più
      stretta connessione tra l'ecclesiologia del corpo mistico e la
      liturgia cattolica, sanzionando, con cautela, il principio di una
      più diretta partecipazione dei fedeli agli atti di culto;
      cui fecero seguito nei successivi anni varie puntuali riforme
      liturgiche (celebrazione della messa vespertina, attenuazione del
      digiuno eucaristico, riti della Settimana santa). 
    
Con l'avanzare degli anni i toni e i contenuti del magistero di
      P. si fecero più rigidi, in concomitanza con un ricorso
      più frequente ai poteri disciplinari. Così
      l'enciclica Humani generis, dell'agosto 1950, poneva limiti severi
      alla ricerca teologica, denunciando la diffusione di una
      mentalità relativistica e soggettivistica, paragonabile a
      quella modernista, e richiamando lo stretto dovere dei teologi di
      attenersi alle interpretazioni autentiche della Chiesa e ai
      confini stabiliti dal magistero per la difesa della dottrina
      cattolica. Venivano colpiti dall'intervento pontificio gli
      esponenti di punta della teologia cattolica, raccolti sotto la
      generica definizione di "nouvelle théologie". Alcuni di
      loro videro sottoposte a censura ecclesiastica le proprie opere. 
    
Anche nel campo della dottrina morale, con riguardo particolare
      alla sfera della morale sessuale e familiare - cui P. venne
      dedicando una crescente attenzione, determinata dai profondi
      mutamenti di costume e di comportamenti in atto nel mondo
      occidentale - la linea del magistero pacelliano fu connotata dalla
      riaffermazione di dottrine tradizionali, riguardo ad esempio il
      rapporto tra matrimonio e procreazione o il ruolo della donna
      nella famiglia e nella società o la limitazione ai metodi
      "naturali" nel controllo delle nascite, che non escludeva una
      considerazione positiva dei processi di modernizzazione sociale, a
      condizione che si sviluppassero entro i limiti della morale
      naturale interpretata e trasmessa dalla Chiesa. 
    
La prospettiva pacelliana di un popolo cristiano sollecito a
      conformarsi al magistero della Chiesa e a mobilitarsi in comunione
      di spirito e d'intenti con il suo capo, figura e vicario di
      Cristo, trovò uno dei suoi momenti di maggiore
      intensità nel giubileo celebrato nel 1950 e indetto in nome
      e con il programma di un "grande ritorno" a Dio e alla sua Chiesa
      di tutti coloro che ne erano lontani (non esclusi i cristiani
      separati da Roma): una sorta di crociata dei tempi moderni,
      divulgata e amplificata dai mezzi di comunicazione, da stuoli di
      predicatori, tra i quali si segnalò la figura del gesuita
      R. Lombardi, dai movimenti di massa dell'Azione Cattolica, in
      specie la Gioventù cattolica di L. Gedda, da un imponente
      afflusso di pellegrini a Roma, e accompagnata da atti pontifici di
      grande portata. Tra questi, oltre alla pubblicazione, il 12
      agosto, dell'enciclica Humani generis, la proclamazione del dogma
      dell'Assunzione della Vergine, alla presenza di
      seicentosessantadue vescovi e di mezzo milione di fedeli, con la
      bolla pontificia Munificentissimus Deus, del 1° novembre. La
      definizione del nuovo dogma costituì il punto apicale di
      sviluppo di una linea mariana che dette una particolare impronta a
      tutto il pontificato pacelliano, tanto sul piano della
      pietà personale di P., quanto sul piano pastorale,
      liturgico e della devozione popolare. 
    
Già in epoca bellica, e precisamente il 31 ottobre 1942,
      il pontefice aveva solennemente consacrato l'umanità intera
      al Cuore Immacolato di Maria; nuovi impulsi al culto della Vergine
      sarebbero poi venuti dall'istituzione del primo anno mariano
      (1954) - in coincidenza con il centenario del dogma
      dell'Immacolata Concezione - e della festa di Maria Regina,
      accostabile, per taluni aspetti, alla festa di Cristo Re
      introdotta da Pio XI. La connotazione mariana del cattolicesimo,
      che da più di un secolo aveva conosciuto continue e
      clamorose manifestazioni, raggiunse così la sua acme,
      rinfocolando la mai sopita ostilità delle Chiese
      protestanti, ma suscitando anche reazioni critiche in settori non
      marginali della teologia cattolica, sensibili alle esigenze del
      dialogo ecumenico. Il risalto dato da P. alla devozione e al culto
      della Vergine, così come l'esaltazione del primato di
      Pietro - il ritrovamento della tomba del santo sotto la basilica
      vaticana fu annunciato solennemente a chiusura dell'anno giubilare
      - e dei suoi successori, trovarono un puntuale riscontro nella
      scelta dei modelli di santità privilegiati da P.: dalla
      canonizzazione di Maria Goretti annunciata proprio in occasione
      dell'Anno santo, alla beatificazione, nel 1951, seguita dalla
      canonizzazione, proclamata nel 1954, di Pio X. Restò invece
      irrealizzato il progetto, studiato per impulso pontificio da
      un'apposita commissione cardinalizia, di far coincidere con l'Anno
      santo lo svolgimento di un concilio ecumenico. 
    
La celebrazione dell'anno giubilare, punteggiato di riti
      penitenziali e di folle osannanti, segnò, sotto molti
      profili, l'acme del pontificato di P., personalmente poco aduso a
      condividere superficiali entusiasmi. Nel febbraio del 1952 egli
      lanciò un nuovo appello per dare inizio, partendo da Roma,
      ad un movimento "per un mondo migliore", rivolto a scuotere i
      credenti da un "funesto letargo", poiché "tutto un mondo"
      attendeva ancora di essere rifatto dalle fondamenta. L'appello
      trovò nuovamente larga eco nella predicazione di padre
      Lombardi, e tra le fila dell'Azione Cattolica, ora presieduta da
      L. Gedda. Ma cadde in un'atmosfera religiosa e civile già
      in fase di mutamento, come dimostrarono gli aperti, sebbene
      circoscritti, dissensi sorti ai vertici della stessa Azione
      Cattolica italiana. Anche il ricambio, il rinnovamento e
      l'internazionalizzazione degli organi del governo centrale della
      Chiesa entrarono in fase di stallo, sicché un numero via
      via più ristretto di collaboratori sempre più
      anziani, ciascuno dei quali rivestito di molteplici incarichi,
      affiancò un pontefice colpito, nel 1954, da grave malattia,
      ma non disposto ad abbandonare o ad attenuare il suo ruolo di
      fulcro attivo della struttura e dell'attività della Santa
      Sede. La partenza di Montini da Roma per Milano accentuò a
      sua volta l'effetto di sbilanciamento negli apparati di Curia a
      favore di un gruppo di cardinali e di personalità vaticane
      di orientamenti più conservatori, ai quali venne più
      tardi attribuita la definizione di "partito romano". 
    
Ma, in linea più generale, parve aprirsi uno iato tra la
      percezione di P. della realtà della Chiesa e del mondo,
      pervasa da un senso tragico e sacrale della storia, e il
      profilarsi irruente, nel mondo occidentale, di una società
      del benessere, percorsa da una silenziosa rivoluzione di
      mentalità, di costumi e di valori, oltre che da imponenti
      dinamiche di trasformazione sociale. La figura del "bianco Padre",
      cui si rivolgevano folle acclamanti, del "Pastor Angelicus",
      celebrato anche in produzioni cinematografiche di maniera,
      trascorse, in realtà, l'ultimo scorcio del suo pontificato
      in una situazione di crescente solitudine, che da un lato accrebbe
      i tratti ieratici della sua personalità, e, dall'altro,
      dette maggior risalto al fondo di pessimismo, poco fidente
      nell'opera degli uomini, proprio della sua indole. I giorni
      estremi di un pontefice collocato sul crinale di due epoche,
      chiamato a reggere la barca di s. Pietro in una delle fasi
      più turbinose della sua storia, si consumarono in un clima
      di esaltazione miracolistica, veicolata dai mezzi di
      comunicazione, e di sfruttamento pubblicitario della sua immagine
      (e, dopo la morte, delle sue spoglie mortali), che erano in totale
      ed insanabile contrasto con le ragioni effettive della sua statura
      di grande, quanto discusso, pontefice. 
    
La sua morte sopravvenne nella residenza pontificia di
      Castelgandolfo il 9 ottobre 1958.