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di Francesco Traniello
Eugenio Pacelli nacque a Roma il 2 marzo 1876 da Filippo e da
Virginia Graziosi. La sua era una famiglia di piccola
nobiltà pontificia, originaria di Acquapendente, distintasi
in vari suoi membri al servizio della Santa Sede. Il padre alla
nascita di Eugenio ricopriva la funzione di avvocato rotale per
assumere nel 1896 quella di avvocato concistoriale. Il cugino di
secondo grado Ernesto ebbe ruoli di prim'ordine
nell'amministrazione dei beni vaticani e fu dal 1903 al 1916
presidente del Banco di Roma. Il fratello maggiore, Francesco,
avvocato rotale, avrebbe poi svolto una parte di rilievo nei
negoziati che prepararono i Patti Lateranensi.
Allievo del collegio Capranica, che lasciò dopo un anno,
nel 1895, per ragioni di salute, seguì il corso di
filosofia all'Università Gregoriana e proseguì gli
studi teologici e poi quelli di diritto all'Apollinare (oggi
Università Lateranense).
Ordinato sacerdote il 2 aprile 1899 da monsignor Cassetta,
vicegerente del Vicariato di Roma, si laureò in teologia
nel 1901 e in diritto nel 1902. Entrato in Curia come
"apprendista" e, dal 1905, minutante della Congregazione degli
Affari Ecclesiastici Straordinari di cui era segretario P.
Gasparri, fu da questi chiamato, nel 1904, a ricoprire la carica
di segretario della commissione per la redazione del Codex iuris
canonici. Le sue competenze giuridiche, manifestate anche nel
breve ma denso studio La personalità giuridica e la
territorialità delle leggi, specialmente nel diritto
canonico. Studio storico-giuridico (Roma 1912), gli valsero
l'insegnamento del diritto nella Pontificia Accademia dei Nobili
Ecclesiastici, centro di formazione dei diplomatici pontifici.
La fiducia di Gasparri e le sue qualità lo imposero come
personalità emergente della diplomazia vaticana: nel 1911
succedette a monsignor Benigni quale sottosegretario della
Congregazione degli Affari Ecclesiastici Straordinari, nel 1912 fu
nominato da Pio X segretario aggiunto e, nel 1914, alla vigilia
della prima guerra mondiale, segretario della stessa
Congregazione. Quando Gasparri fu nominato segretario di Stato dal
neoeletto Benedetto XV, Pacelli conservò la propria carica,
infittendo i rapporti di collaborazione con il suo diretto
superiore in occasione della redazione del libro bianco vaticano
sulla rottura delle relazioni diplomatiche con la Francia avvenuta
nel 1904 e, soprattutto, partecipando in prima persona ai
tentativi della Santa Sede volti, dapprima, a limitare
l'estensione del conflitto all'Italia - in relazione ai quali fu
incaricato nel 1915 di una missione presso l'imperatore
d'Austria-Ungheria - e più tardi a favorirne una soluzione
di compromesso.
In questo quadro, nel maggio 1917 fu nominato da Benedetto XV,
che lo consacrò contestualmente arcivescovo titolare di
Sardi, nunzio pontificio a Monaco di Baviera, dove giunse il 26
maggio. Iniziò allora una nuova e decisiva fase della sua
esistenza, che per molte ragioni lasciò un'impronta
duratura sulla sua personalità e i suoi orientamenti. In
proposito è da notare che la Nunziatura di Monaco fu, dal
1917 al 1920, la sola Nunziatura esistente in tutti i territori
tedeschi, per cui il suo titolare ebbe modo di esercitare un ruolo
di protagonista non solo nelle relazioni della Santa Sede con la
Baviera, ma anche in quelle con il Reich in anni cruciali per la
Germania.
Quando, poi, nell'agosto del 1920, la Santa Sede e il governo,
ormai repubblicano, del Reich tedesco stabilirono - con il
contributo decisivo del nunzio - diretti rapporti diplomatici, a
Pacelli fu affidata anche la nuova Nunziatura di Berlino, pur
continuando a risiedere per qualche tempo nella capitale bavarese.
In secondo luogo, la nunziatura di Pacelli coincise con un
tendenziale spostamento dell'asse diplomatico vaticano
dall'Austria-Ungheria alla Germania, già profilatosi
durante la guerra, e fattosi più marcato in seguito alla
frammentazione dell'Impero asburgico e agli eventi della
rivoluzione bolscevica in Russia: in questo senso Pacelli ebbe
parte di assoluto rilievo nel rappresentare le sorti della
Germania come determinanti per quelle dell'Europa e per il futuro
della Chiesa, non solo tedesca. In terzo luogo, durante la sua
residenza a Monaco, Pacelli assistette personalmente alla
tumultuosa fase rivoluzionaria del 1918-1919, al processo di
edificazione della Repubblica di Weimar e alla prolungata e
drammatica vicenda del trattato di pace con la Germania. Inviato a
Monaco con il compito precipuo di assecondare le iniziative di
pace di Benedetto XV, poi tradotte nel vano appello ai governi
delle potenze belligeranti del 1° agosto 1917, Pacelli si
trovò dunque ad agire in condizioni, con obiettivi e con
interlocutori totalmente diversi dopo il tracollo dell'Impero e la
sconfitta tedesca.
Nel nuovo contesto il nunzio seguì una linea diplomatica
ispirata a criteri di lucido realismo - anche anteposti alle
proprie personali propensioni -, ma ancorata ad alcuni principi
generali che le conferivano una ragguardevole indipendenza dagli
indirizzi prevalenti nello stesso episcopato tedesco. Venutosi a
trovare, nel novembre 1918, nel cuore della rivoluzione socialista
di Monaco, e, dopo l'assassinio di Kurt Eisner, direttamente
investito dalle sommosse che, all'inizio dell'anno successivo,
portarono alla proclamazione della Repubblica consiliare, Pacelli
manifestò sentimenti e giudizi di profondo disgusto nei
confronti di quell'episodio di "tirannia
russo-giudaico-rivoluzionaria" (E. Fattorini, p. 116) e di
"dittatura del proletariato", senza tralasciare d'insistere, nelle
sue relazioni alla Segreteria di Stato, sulla componente ebraica
del bolscevismo dilagante; ma nello stesso tempo addebitò
il movimento consiliare, oltre che alla propaganda comunista,
all'infelicissimo esito della guerra e alla reazione del popolo
contro le antiche classi dominanti, chiamò in causa le
responsabilità delle potenze vincitrici nei confronti della
Germania, "un grande popolo civile", e indicò con fermezza
quale unica efficace risposta all'estremismo delle minoranze
rivoluzionarie la democratizzazione parlamentare del sistema
politico tedesco, basata su di "un'ordinata rappresentanza
popolare scelta indistintamente tra tutte le classi".
Allo stesso modo, nei primi anni Venti, richiamò con
insistenza l'attenzione della Segreteria di Stato sul pericolo di
una saldatura tra i movimenti nazionalisti rivoluzionari, da lui
denominati "bolscevismo nazionale", e il comunismo, alludendo ad
una possibile alleanza militare russo-germanica contro
l'Occidente, e segnalò con allarme la potenziale
capacità di attrazione esercitata dal nazionalismo tedesco,
benché di radici protestanti, sulle masse cattoliche. Per
tali ragioni Pacelli, che intrattenne frequenti contatti con il
leader del Centro, M. Erzberger, a dispetto della sua
impopolarità presso i settori nazionalisti, sostenne nei
suoi dispacci le ragioni della Repubblica, dei governi di
coalizione del Centro cattolico con i socialisti, e della
Costituzione di Weimar: di questa, pur riconoscendone i limiti di
principio, segnalò i lati vantaggiosi per la Chiesa,
attribuendone il merito "allo zelo, all'attività ed
all'impareggiabile organizzazione dei cattolici tedeschi", che si
erano così guadagnati una condizione di "maggiore
libertà che non sotto il passato regime" ed una
legislazione scolastica certamente più favorevole di quella
dell'epoca guglielmina. Più in generale Pacelli ritenne di
poter rilevare nella Germania weimariana un particolare
apprezzamento, sul piano internazionale, dell'"immenso potere
politico-religioso della Chiesa cattolica" (ibid., p. 336).
Personalmente partecipe delle ragioni del federalismo bavarese,
il nunzio dispiegò tuttavia una ferma azione frenante nei
confronti dei movimenti separatisti serpeggianti nelle aree
tedesche di confine a maggioranza cattolica, adoperandosi
costantemente, in accordo con Gasparri, a favore della
salvaguardia dell'unità statale della Germania. Su questa
stessa linea non mancò di segnalare come le condizioni da
lui ritenute eccessivamente punitive, sul piano territoriale,
economico e militare, della pace di Versailles fossero, da un
lato, fomentatrici di bolscevismo e, dall'altro, originassero una
spinta di "una gran parte della borghesia verso quei partiti, che
erano stati prima i più energici propugnatori della
politica di guerra" (ibid., p. 350). Al punto di convergenza di
queste diverse linee fu posto da Pacelli un obiettivo
concordatario, che consentisse di consolidare la situazione di
favore in cui si era trovata, per le ragioni anzidette, la Chiesa
cattolica in Germania, accrescendone altresì i legami con
la Santa Sede. Senza escludere iniziative che miravano alla
stipulazione di un concordato con il Reich, Pacelli puntò
principalmente sulla maggiore disponibilità del governo di
Monaco, con il quale condusse dal 1920 un negoziato diretto,
concluso positivamente il 29 marzo 1924 con la firma del
concordato con la Baviera, corrispondente alle richieste della
Chiesa specialmente in materia scolastica.
Nei successivi anni di nunziatura, ormai trasferitosi a Berlino,
Pacelli intrecciò trattative - definitivamente interrotte
nel 1928 - con l'ambasciatore e con il commissario agli Esteri
dell'URSS, Krestinski e Ciãerin, volte a migliorare, nei
limiti del possibile, la situazione della Chiesa cattolica in quel
paese, secondo una linea di tendenziale flessibilità. Pose
inoltre le basi di due altri concordati, con la Prussia, firmato
il 14 giugno 1929, e con il Baden giunto a conclusione il 12
ottobre 1932, dopo la sua partenza dalla Germania: restarono
invece interrotti, per l'impossibilità di pervenire ad un
accordo sulle questioni scolastiche, i negoziati per il concordato
con il Reich, sebbene se ne fossero predisposte varie bozze
provvisorie.
Rientrato a Roma per ricevere la porpora cardinalizia, che gli fu
attribuita da Pio XI nel Concistoro del 16 dicembre 1929, il 9
febbraio 1930 fu inaspettatamente chiamato a succedere a Gasparri
alla Segreteria di Stato vaticana. La nomina, dovuta probabilmente
alla volontà di Pio XI di avere un collaboratore meno
indipendente di Gasparri, avveniva a un anno dalla firma dei Patti
Lateranensi, e collocava Pacelli in posizione preminente al fianco
del pontefice, alla vigilia di un decennio contrassegnato dal
precipitare della crisi economica mondiale, dall'emergenza
totalitaria e dallo sconvolgimento dell'ordine internazionale.
Pacelli mutò sostanzialmente lo stile e la prassi della
Segreteria di Stato, accentrando su di sé un'immensa mole
di lavoro, dilatando gli orizzonti dell'ufficio a cui era
preposto, e avvalendosi di collaboratori di grandi qualità,
come A. Ottaviani, D. Tardini, succeduto a Ottaviani nel 1935
quale sostituto della Segreteria di Stato e divenuto nel 1937
segretario agli Affari Ecclesiastici Straordinari, e G.B. Montini,
dal 1937 succeduto a Tardini nella carica di sostituto.
Ancorché non sia agevole, allo stato attuale della
documentazione disponibile, sceverare l'opera di Pacelli come
segretario di Stato da quella del pontefice Pio XI, va però
considerato che il ruolo della Segreteria di Stato vaticana
risultò, all'epoca di Pacelli, oggettivamente enfatizzato
sia dal precipitoso mutamento degli equilibri internazionali sia
dal sovvertimento in senso autoritario e/o totalitario di molti
Stati europei a maggioranza o con forti minoranze cattoliche
(come, dopo l'Italia, l'Austria, la Germania, la Polonia, la
Spagna), di cui furono in varia misura partecipi le Chiese locali
attraversate da forti pulsioni nazionalistiche e anticomuniste,
con il coinvolgimento indiretto, ma tendenzialmente improntato a
maggior cautela, della Santa Sede.
In questa fase di radicali trasformazioni politico-istituzionali,
che provocarono, nei Paesi anzidetti, il tracollo dei sistemi di
garanzie costituzionali (peraltro tradizionalmente giudicati
insufficienti e precari dalla Chiesa, in quanto applicazioni di
principi liberali) e la dissoluzione dei partiti cattolici
(considerati generalmente dai vertici ecclesiastici come strumenti
subordinati alla realizzazione di ordinamenti pubblici più
favorevoli o direttamente ispirati a istanze confessionali), la
Santa Sede venne a svolgere un ruolo crescente di intermediazione
tra le Chiese locali e gli Stati di appartenenza. Nell'assecondare
questa linea di sviluppo, la Segreteria di Stato guidata da
Pacelli non si attenne soltanto ad un prevalente criterio di
distinzione tra gli aspetti ideologici dei nuovi regimi e la sfera
dei rapporti istituzionali, ancorandosi al principio del non
intervento in materia di "forme di governo"; ma si propose anche
il duplice obiettivo di imprimere, ove possibile, più
marcate coloriture confessionali agli Stati contraenti, ovvero di
assicurare condizioni di relativa autonomia delle Chiese nazionali
nei confronti di regimi politici tendenti alla subordinazione
totalitaria delle istituzioni religiose. In questo quadro si
colloca l'ulteriore sviluppo della linea concordataria realizzato
da Pacelli e culminato nei due concordati con l'Austria e con il
Reich tedesco del 1933.
Quest'ultimo, sollecitato dal vicecancelliere von Papen a due
mesi dall'avvento di Hitler al potere, fu negoziato personalmente
dal segretario di Stato affiancato da monsignor L. Kaas,
già presidente della Zentrumspartei, e firmato il 20 luglio
da Pacelli e von Papen, all'indomani dell'autoscioglimento del
partito cattolico tedesco. Il suo testo prevedeva una serie di
garanzie e di riconoscimenti nei riguardi dell'associazionismo e
delle scuole cattoliche tedesche e, per converso, in analogia con
il concordato italiano, il divieto fatto agli ecclesiastici di
iscriversi e militare in partiti politici. Stipulato in condizioni
eccezionali e in tempi molto brevi, anche per le pressioni
dell'episcopato germanico, il concordato col Reich rifletteva i
timori, condivisi da Pacelli, circa la natura totalitaria e
pervasiva del nuovo regime, e dunque l'intento di ancorare ad un
atto di validità internazionale la salvaguardia delle
prerogative della Chiesa in Germania. Contribuì d'altro
canto a consolidare le propensioni positive di ampi settori del
cattolicesimo tedesco nei confronti del "nuovo ordine", sebbene,
appena all'indomani della firma, il governo del Reich adottasse
provvedimenti in aperto conflitto con il testo concordatario.
Ciò aprì un lungo contenzioso diplomatico con la
Santa Sede destinato a trasferirsi, per iniziativa di papa Pio XI,
su quello più apertamente dottrinale: sino alla
pubblicazione, il 14 marzo 1937, dell'enciclica Mit brennender
Sorge. La sua tormentata stesura, preceduta da una consultazione
promossa da Pacelli con una delegazione dell'episcopato tedesco, e
abbozzata originariamente dal cardinale di Monaco M. von
Faulhaber, fu seguita personalmente dal segretario di Stato con la
collaborazione dei gesuiti tedeschi R. Leiber ed A. Bea, e di
monsignor Kaas. Pur riflettendo la preoccupazione di evitare una
rottura frontale con il governo di Hitler e di preservare il
concordato del 1933, l'enciclica conteneva un'aperta condanna di
aspetti essenziali della dottrina nazionalsocialista - come il
razzismo - secondo la linea intransigente adottata da Pio XI, e
precedette di pochi giorni la pubblicazione della Divini
Redemptoris (19 marzo) contro il comunismo ateo.
Diffusa in Germania valicando la rete di controllo della polizia,
e letta in quasi tutte le chiese tedesche il 21 marzo, la Mit
brennender Sorge venne accolta dai capi nazisti come un atto di
guerra. Aspetto non marginale dell'opera di Pacelli come
segretario di Stato furono le sue numerose missioni in Paesi
europei e americani, di carattere ufficiale o privato, segno delle
dimensioni planetarie assunte dalla Chiesa di Roma e delle
conseguenti proiezioni extraeuropee della diplomazia vaticana.
Tra la fine del 1934 e l'inizio del 1935 Pacelli intraprese un
lungo viaggio in America Latina come legato pontificio al
congresso eucaristico di Buenos Aires, da dove raggiunse
Montevideo e Rio de Janeiro, incontrando i capi di Stato dei Paesi
visitati. Nell'aprile del 1935 presenziò alle cerimonie di
Lourdes per il giubileo della Redenzione. Nell'ottobre-novembre
del 1936 visitò gli Stati Uniti in forma privata,
incontrando, in compagnia di monsignor F. Spellman, futuro
arcivescovo di New York, decine di vescovi, stabilendo contatti
diretti e durevoli con esponenti del fiorente mondo cattolico
americano e visitando personalmente F.D. Roosevelt, appena
rieletto alla presidenza: è verosimile che sin d'allora si
ponessero le basi di un rapporto più formale tra il governo
degli Stati Uniti, privo di rappresentanza ufficiale in Vaticano,
e la Santa Sede. Nel luglio 1937 Pacelli fu inviato nuovamente in
Francia a Lisieux come legato del papa, già gravemente
ammalato, per la consacrazione della basilica dedicata a s. Teresa
del Bambin Gesù, fermandosi anche a Parigi, dove
incontrò ministri del governo di Fronte popolare, ed
esaltò i particolari legami della Francia con la Chiesa di
Roma. Nel maggio del 1938, appena all'indomani dell'Anschluss -
visto con grave preoccupazione dalla Santa Sede e oggetto di
contrastanti valutazioni tra la Segreteria di Stato e
l'arcivescovo di Vienna, T. Innitzer - Pacelli si recò a
Budapest, in occasione del congresso eucaristico internazionale,
dove incontrò l'ammiraglio Horthy e ribadì il
principio dell'estraneità della Chiesa alla determinazione
delle forme dei governi.
Alla morte di Pio XI il cardinale Pacelli fu chiamato a
succedergli dopo un brevissimo conclave concluso alla terza
votazione, il 2 marzo 1939, primo segretario di Stato asceso al
pontificato dopo quasi tre secoli, con l'appoggio dei cardinali
francesi che lo giudicavano di sentimenti antinazisti, mentre
alcuni cardinali italiani gli avrebbero preferito l'arcivescovo di
Firenze, E. Dalla Costa.
Assunto il nome di Pio XII, sin dai primi giorni del suo
pontificato, con l'ausilio del cardinale L. Maglione, già
nunzio a Parigi e nominato alla Segreteria di Stato, egli rivolse
principalmente la sua opera al tentativo, risultato vano, di
ridurre le tensioni tra la Chiesa e il Terzo Reich, e di evitare,
con accorati appelli e un'intensa, quanto delicata, azione
diplomatica - non escludente, a certe condizioni, un ruolo
mediatorio della Santa Sede in specie nei confronti della
questione polacca -, che la crisi internazionale ormai in atto
precipitasse in una generale conflagrazione bellica. Di fatto,
dallo scoppio del conflitto, preceduto il 24 agosto dall'ultimo
appello pontificio, "Nulla è perduto con la pace. Tutto
può esserlo con la guerra", il problema della guerra
avrebbe improntato sotto ogni aspetto - non solo, cioè,
sotto il profilo pastorale, ma anche sotto quello dottrinale,
diplomatico e istituzionale - tutta la prima parte del pontificato
pacelliano, e si sarebbe proiettato sulla sua fase postbellica.
Ove si prescinda dalla considerazione che P. fu il papa cui
toccò il compito di guidare la Chiesa cattolica nella
più grande catastrofe dell'umanità generatasi nel
cuore dell'Europa cristiana non si può intendere il segno e
il senso del pontificato pacelliano: altro discorso, ben
più complesso e controverso, concerne peraltro una sua
valutazione, o anche una sua raffigurazione d'insieme. In
proposito, è opportuno considerare le grandi linee del
pontificato di P. durante il conflitto sotto profili diversi,
sebbene strettamente connessi.
Da un punto di vista istituzionale, l'esplosione e gli sviluppi
della guerra - estesasi dal giugno 1940 all'Italia, nonostante
svariati tentativi compiuti da P. di preservarne la
non-belligeranza - incisero sul pontificato in modo contrastante.
Mentre incrementarono il processo, già in atto, di
concentrazione delle decisioni nelle mani del papa - anche
formalmente evidenziato dalla scelta di non procedere alla nomina
di un nuovo segretario di Stato alla morte, avvenuta nel 1944, del
cardinale Maglione - resero più difficili e precari i
rapporti di P. con gli episcopati locali, in un'epoca in cui
questi erano chiamati, viceversa, a fronteggiare situazioni di
estrema difficoltà, specie in alcune aree (come in
Germania, o nei territori occupati dalla Germania, esclusi, tra
l'altro, dall'applicazione delle clausole concordatarie).
Sotto l'aspetto diplomatico, la situazione bellica ridusse
sensibilmente i margini d'influenza della Santa Sede nei riguardi
degli Stati belligeranti, producendone un certo isolamento sul
piano internazionale, solo in parte compensato dall'apertura di un
importante canale diretto con il governo degli Stati Uniti
mediante l'invio in Vaticano, dal febbraio del 1940, di un
rappresentante del presidente Roosevelt nella persona di M.
Taylor, le cui missioni proseguirono anche dopo l'ingresso degli
Stati Uniti nel conflitto. Questi fattori, di tale rilevanza, a
giudizio dello stesso pontefice, da limitare la sua
"possibilità di operare efficacemente" e da mettere
addirittura in pericolo l'"indipendenza" del papato, furono
invocati da P. come una delle ragioni della "necessità per
la Santa Sede [...] di chiudersi in un riserbo prudenziale anche
dove sarebbe occorsa un'azione energica" (lettera al vescovo di
Passau, del febbraio 1944, in Actes et documents du
Saint-Siège relatifs à la seconde guerre mondiale,
II, pp. 355 ss.; G. Miccoli, I dilemmi e i silenzi, p. 224); e
comunque ebbero peso notevole nel definire il profilo del
pontificato e nell'imprimergli particolari modulazioni.
Di fatto il passaggio allo stato di guerra e la tipologia di
quella guerra imposta dalla Germania - contrassegnata
dall'annientamento di molte entità statalnazionali europee,
dall'occupazione militare di immensi territori, accompagnata da
eccidi e deportazioni, dalla dispersione di comunità
ecclesiastiche locali, dall'esplosione di conflitti
etnico-religiosi coinvolgenti le Chiese locali, dall'avvio dello
sterminio sistematico degli ebrei e di minoranze etniche - erano
avvenimenti tali da ridurre sensibilmente l'incidenza dei metodi e
degli strumenti tradizionali della diplomazia vaticana, ch'erano
parte integrante della formazione e della personalità di
Pio XII. Inoltre la natura ideologicamente complessa del
conflitto, propiziato dagli accordi tra la Germania
nazionalsocialista e la Russia comunista del 1939, proseguito con
l'alleanza dell'Italia fascista con la Germania di Hitler, e
sfociato nell'alleanza tra l'Unione Sovietica e le democrazie
occidentali, poteva apparire in contraddizione insormontabile con
uno dei principi cardinali cui s'era ispirato P. sin dalla sua
prima enciclica Summi Pontificatus, del 20 ottobre 1939: la
contrapposizione di una "civiltà cristiana" - della quale
la nazione tedesca, in ragione delle sue radici storiche e della
forza della Chiesa tedesca, era considerata dal pontefice parte
integrante - ai sistemi totalitari, elevanti "lo Stato e la
collettività a fine ultimo della vita, a criterio sommo
dell'ordine morale e giuridico".
La convinzione profonda di P., avvertibile in molti documenti e
attestata da molteplici testimonianze, circa un'analoga radicale
pericolosità del nazionalsocialismo e del comunismo, si
accompagnava ad un personale e persistente interesse per le sorti
della Germania, senza escludere l'eventualità di una sua
autoliberazione dal nazionalsocialismo - che indusse il pontefice
sin dall'inizio della guerra a seguire con qualche consenso i
deboli segnali di opposizione militare a Hitler - e nella
prospettiva di un suo pieno reinserimento nella cristianità
europea in funzione di baluardo nei confronti del comunismo
sovietico. Gli atteggiamenti di "riserbo" e di
"imparzialità" tra le parti in conflitto assunti da P. come
norma generale - e fatti anche valere nei confronti delle
pressanti e opposte richieste rivolte al pontefice di conferire
una sanzione religiosa alla guerra contro l'Unione Sovietica, da
un lato, o contro la Germania, dall'altro - corrispondevano dunque
non solo ad una linea tradizionale, già assunta in
occasione della prima guerra mondiale e imposta, tra l'altro, dal
diretto coinvolgimento di popolazioni cattoliche e di Chiese
nazionali su fronti opposti di guerra, ma anche al profilarsi di
una situazione bellica ritenuta densa di incognite e di gravissimi
pericoli per la Chiesa e la cristianità, sia nel caso che
la vittoria finale fosse toccata al regime nazista sia che tra i
vincitori fosse da annoverare il centro propulsore del comunismo.
In questo quadro venne a collocarsi lo speciale e crescente
rilievo assunto dai rapporti tra la Santa Sede e gli Stati Uniti
(e la Chiesa cattolica americana), nonostante il netto dissenso
vaticano sul principio della resa incondizionata proclamato dagli
Alleati a Casablanca nel gennaio 1943, e sulla reale portata delle
promesse di Stalin in materia di libertà religiosa. Ma
neppure vanno trascurati i fattori di natura soggettiva e
culturale che rendevano P. alieno da specifici atti e interventi
pubblici suscettibili di essere interpretati come sostegno ad uno
dei due schieramenti politico-militari. Pur nella consapevolezza
dei costi, presenti e futuri, di siffatta attitudine al riserbo,
essi furono da P. considerati preferibili alle conseguenze -
ritenute dirompenti per l'unità della Chiesa, e per
l'autorità del papato come "padre di tutti i fedeli" - di
un sospetto di corresponsabilità della Santa Sede nella
sconfitta di una delle parti.
Nella cornice del più ampio atteggiamento pontificio, un
punto controverso sin dall'epoca bellica fu l'ostilità da
parte di P. a valicare il confine degli appelli e delle generali
riprovazioni contro gli orrori della guerra e la loro illimitata
estensione alle popolazioni civili o degli interventi riservati o
delle parole di solidarietà verso i perseguitati - come il
riferimento, contenuto nel radiomessaggio natalizio del 1942,
"alle centinaia di migliaia di persone le quali, senza veruna
colpa propria, talora solo per ragioni di nazionalità o di
stirpe, sono destinate alla morte o ad un progressivo deperimento"
-, per spingersi a compiere specifici atti di pubblica condanna e
a pronunciare esplicite denunce di responsabilità, a
proposito degli eccidi di massa perpetrati durante il conflitto e,
in modo particolare, dello sterminio degli ebrei, sul quale la
Santa Sede dispose di precoci ed autorevoli, sebbene parziali,
informazioni.
Non meno controverso fu, allora e in seguito, l'argomento
enunciato da P. - ed espressione di un suo autentico dramma di
coscienza - per convalidare questa particolare forma di riserbo:
cioè la necessità di evitare peggiori mali ("ad
maiora mala vitanda") a carico delle vittime. Già nel
maggio del 1940, ricevendo il 13 l'ambasciatore italiano D.
Alfieri, che gli portava la protesta di Mussolini per il
telegramma di solidarietà inviato dal pontefice ai sovrani
del Belgio, del Lussemburgo e dell'Olanda in occasione
dell'invasione tedesca di quei Paesi neutrali, P. aveva detto, a
proposito della situazione della Polonia occupata, "Noi dovremmo
dire parole di fuoco contro simili [orribili] cose e solo ci
trattiene dal farlo il sapere che renderemmo la condizione di
quegli infelici, se parlassimo, ancora più dura" (Actes et
documents du Saint-Siège relatifs à la seconde
guerre mondiale, I, p. 455). Un'idea ribadita anche dopo la fine
della guerra, allorché P. affermò di aver inteso
evitare "anche quando i fatti l'avrebbero giustificato, questa o
quella espressione di tal natura da produrre più male che
bene, soprattutto alle popolazioni innocenti curve sotto la ferula
dell'oppressore" (allocuzione al corpo diplomatico, del 25
febbraio 1946).
Alla percezione acuta dei limiti opposti dalla guerra
all'incidenza della Santa Sede sui comportamenti degli Stati
coinvolti nel conflitto e in parte anche su quelli delle Chiese e
delle comunità cattoliche nazionali fecero riscontro, in
P., uno sviluppo significativo del magistero pontificio e un
assiduo incoraggiamento ad opere e organismi caritativi e
assistenziali facenti capo, direttamente, o indirettamente, alla
Santa Sede, e giunti a svolgere funzioni di grande portata
umanitaria in cospetto degli innumerevoli problemi che la guerra
totale veniva ponendo incessantemente alle popolazioni civili,
agli internati, ai prigionieri, ai profughi. Si trattò di
due aspetti che contribuirono in misura rilevante ad aumentare il
prestigio morale del papato, costituendolo - anche in relazione al
tracollo degli apparati statali prodotti dagli eventi bellici, dal
manifestarsi delle guerre civili e di liberazione, dalle invasioni
militari - come uno dei grandi protagonisti del dopoguerra.
Nel quadro del magistero di P. in periodo bellico un posto
particolare occuparono i suoi interventi sulle matrici della
guerra, sull'ordine internazionale e interno degli Stati, sui
compiti dei credenti nell'ordine postbellico. Già
nell'enciclica Summi Pontificatus le cause originarie del
conflitto erano ricondotte non alla responsabilità di una
delle parti, ma all'abbandono di un ordine fondato sulla legge
morale e sulla Rivelazione, al distacco dei popoli
"dall'unità di dottrina e di fede, di costumi e di morale
una volta promossa dall'opera indefessa e benefica della Chiesa",
alle concezioni esaltatrici del potere illimitato e sovrastante
degli Stati e delle collettività sugli individui, alla
"corsa sfrenata verso l'espansionismo". Nel successivo messaggio
natalizio del 1939, che inaugurò un genere di interventi
radiofonici destinati a suscitare notevole risonanza, il pontefice
enunciava per la prima volta le condizioni per il ristabilimento
di una pace giusta: il diritto alla vita e all'indipendenza delle
nazioni grandi e piccole; il disarmo pratico e spirituale; la
creazione di istituzioni internazionali più efficaci di
quelle del passato; l'attenzione alle legittime richieste delle
nazioni e delle minoranze etniche anche mediante un'"equa, saggia
e concorde revisione dei trattati", la commisurazione delle leggi
internazionali alle "sante e incrollabili norme del diritto
divino", alla giustizia morale e alla legge dell'amore. Il tema
delle condizioni etiche e giuridiche di un nuovo ordine
internazionale, radicato in un ordine naturale ed oggettivo di
giustizia voluto da Dio, che non avrebbe potuto ricalcare quello
prebellico, venne ancora sviluppato nei messaggi di Natale del
1940 e del 1941, con un insistito richiamo al posto che sarebbe
toccato agli "uomini animati dalla fede in un Dio personale" nella
costruzione della società futura.
Tra la fine del 1942 e il 1944, mentre la guerra perveniva al suo
punto di svolta, gli interventi dottrinali del papa si
polarizzarono sulle questioni attinenti l'ordine interno delle
nazioni e il ruolo della Chiesa e dei credenti nella costruzione
della società postbellica. Il fulcro intorno al quale
ruotarono tali messaggi pontifici era il richiamo agli
imprescindibili fondamenti morali della vita associata e dei
relativi ordinamenti, contrapposti alle concezioni positivistiche,
utilitarie o soggettivistiche della legge, e l'affermazione
dell'eminente compito pedagogico della Chiesa come interprete
dell'ordine naturale e depositaria della Rivelazione che lo aveva
convalidato e perfezionato.
Gli aspetti che maggiormente connotavano questa fase del magistero
pacelliano erano dati dai richiami alla persona come centro etico
della vita sociale, fine e non mezzo delle strutture permanenti
della socialità, la famiglia, la proprietà privata e
lo Stato; e una tendenziale revisione della tradizionale dottrina
affermante l'estraneità della Chiesa alle "forme di
governo", messa in discussione dallo scontro con i sistemi
politici totalitari. Il radiomessaggio natalizio del 1942,
anticipato in molti suoi punti da quello del 1° giugno 1941
per il cinquantenario della Rerum Novarum, toccava in particolare
il tema della riforma sociale come risposta all'immane tragedia
della guerra, compito di una "crociata spirituale" affidata "ai
migliori e più eletti membri della cristianità", e
richiedente un deciso passaggio all'azione finalizzata alla
"ricostruzione di ciò che sorgerà e deve sorgere a
bene della società".
A caposaldo del nuovo ordine erano posti: lo sviluppo di "forme
sociali in cui sia resa possibile e garantita una piena
responsabilità personale"; la difesa dell'unità
sociale e specialmente della famiglia, contro le concezioni
identificanti il popolo con un insieme di individui senza radici o
una massa amorfa oggetto di incontrastato dominio; i diritti dei
lavoratori (salario giusto e familiare, diffusione della
proprietà, elevazione culturale); la reintegrazione di un
ordinamento giuridico in grado di difendere il cittadino anche
dalle prevaricazioni del potere politico; la concezione cristiana
dello Stato incompatibile con la sua identificazione con una
classe o una razza. Nel rinnovare la condanna del socialismo
materialista, P. denunciava altresì i "meccanismi" che
nella società capitalistica ostavano agli sforzi delle
classi operaie per migliorare le proprie condizioni; e affidava
alle norme giuridiche il compito di una loro tutela contro "una
dipendenza e servitù economica incompatibile con i diritti
della persona".
Sull'argomento P. ritornò nel discorso di Pentecoste (13
giugno) del 1943, rivolto a venticinquemila operai radunati in
piazza S. Pietro, e incentrato sull'esigenza di "raddrizzamenti e
di miglioramenti" della struttura sociale, ma pure sulla
contrapposizione tra una riforma prodotta dall'"evoluzione
concorde" e, invece, la via rivoluzionaria, fra l'abolizione e la
diffusione della proprietà, fra una funzione sociale del
capitale e l'assoggettamento del popolo alla forza oppressiva del
"capitalismo di Stato". Nel radiomessaggio del settembre 1944,
"Per la civiltà cristiana", fecero spicco il richiamo al
comune patrimonio di valori trasmessi all'Europa dal pensiero
cristiano quale condizione originaria e imprescindibile
dell'"opera gigantesca della restaurazione della vita sociale,
economica e internazionale", e la precisazione che la
fedeltà a quel patrimonio "e la sua strenua difesa contro
le correnti atee e anticristiane" non potevano essere sacrificate
"a nessun vantaggio provvisorio, a nessuna mutevole combinazione"
(nel luglio P. aveva per la prima volta espresso la propria
riprovazione per il movimento italiano dei cattolici-comunisti,
"figli carissimi [...] che si mostrano ignari o dimentichi dei
più aperti insegnamenti della Chiesa").
Il radiomessaggio natalizio del 1944, sui problemi della
democrazia, trasmesso quando la vittoria degli Alleati non era
più in dubbio, richiamava il dovere della Chiesa, in quanto
custode delle condizioni etiche della vita associata, di
esprimersi anche sugli ordinamenti politici, pur senza perseguire
fini di natura politica. La parola della Chiesa era, secondo P.,
tanto più opportuna in quanto i sistemi democratici,
rispondenti all'esigenza di opporsi "ai monopoli di un potere
dittatoriale, insindacabile", necessitavano di un'ispirazione
morale che non poteva essere conferita se non "alla luce della
sana ragione, e segnatamente della fede cristiana", per non
trasformarsi in regimi di massa perniciosi per la dignità e
la libertà dell'uomo. Le sorti della democrazia venivano
riposte nelle mani di "una eletta schiera di uomini di solida
convinzione cristiana", e una parte essenziale del suo compimento
affidato "alla religione di Cristo e alla Chiesa". In maniera
più esplicita che nei documenti risalenti all'inizio della
guerra, il messaggio natalizio del 1944 fissava una connessione
intrinseca tra la tragedia bellica e la natura del potere
totalitario, oppugnatore del diritto del cittadino a "esprimere il
proprio parere sui doveri e i sacrifici che gli vengono imposti",
a "non essere costretto ad ubbidire senza venire ascoltato". Senza
identificare i valori della democrazia nelle sue forme
istituzionali, P. richiamava tuttavia la responsabilità
preminente del popolo, partecipe alla vita della comunità
politica, nel difendere e promuovere un ordine naturale di
giustizia che, riverberandosi sul piano internazionale, avrebbe
anche reso impraticabile l'uso e la teoria della guerra come modo
di risolvere i conflitti tra le nazioni. In questo senso il magistero pacelliano conferiva un'implicita
rilevanza politica alle ragioni etiche e religiose
dell'antitotalitarismo, disegnando i tratti di una democrazia
ispirata ai principi costitutivi della "civiltà cristiana"
come unica adeguata risposta all'emergenza totalitaria.
I contenuti del magistero pontificio in epoca bellica non
rappresentarono soltanto un articolato complesso dottrinale, che
rielaborava, sulla scorta di recenti sviluppi della "metafisica
sociale" e del diritto naturale d'impianto tomistico, aspetti
qualificanti del precedente magistero, da Leone XIII a Pio XI, ma
disegnavano un progetto storico che intendeva proiettarsi nella
realtà del dopoguerra e, sulle rovine di un "mondo antico"
andato in frantumi, collocare in posizione eminente la Chiesa
cattolica come maestra ed educatrice degli uomini e dei popoli
(allocuzione per il Concistoro del 20 febbraio 1946, "Potenza e
influsso della Chiesa per la verace restaurazione del mondo").
Alle difficoltà incontrate nei rapporti con i governi e
con gli Stati belligeranti fece riscontro l'impulso dato da P. a
un rapporto diretto (in occasione per esempio dei pellegrinaggi e
dei grandi raduni in piazza S. Pietro, iniziati nel corso del
conflitto), o veicolato dai mezzi di comunicazione (la radio, il
cinema e, più tardi, la televisione), con il popolo dei
fedeli: un rapporto che aveva natura insieme carismatica e
istituzionale. Esso rifletteva l'interpretazione pacelliana della
propria missione apostolica di pastore della Chiesa universale, e
trovava le sue radici nei lineamenti di un'ecclesiologia definita
nei suoi aspetti essenziali nell'enciclica Mystici Corporis, del
29 giugno 1943: dove i fermenti teologici, emersi tra le due
guerre principalmente in area francese o tedesca, che si erano
focalizzati sulla definizione della Chiesa come "corpo mistico",
erano stati ricondotti e inseriti in un più tradizionale
quadro istituzionale e gerarchico, imperniato sul vicario di
Cristo, supremo garante dell'unità disciplinare e
dottrinale della Chiesa "corpo sociale di Cristo", e sua guida
indefettibile nelle tribolazioni del presente e del futuro.
La ridefinizione pacelliana del carisma pontificio in rapporto
alla Chiesa universale e al mondo contemporaneo trovò un
suo punto di forza e di convalida nella grande rilevanza assunta
dalla figura e dall'opera di P. nel contesto italiano dopo il
crollo del regime fascista e durante l'occupazione tedesca, e
nella sua esaltazione della particolare missione di Roma come
centro della Chiesa e dell'ecumene cristiano.
Nell'Italia invasa e lacerata del 1943 P. si dedicò con
speciale sollecitudine al tentativo di rendere effettivo lo status
di Roma città aperta, preservandola dalle distruzioni,
dagli scontri militari, dagli atti di terrorismo - riprovati come
atti inconsulti e occasioni di rappresaglie -, manifestando la
propria personale partecipazione ai lutti cittadini in occasione
dei bombardamenti aerei dell'estate, e provvedendo ad estendere le
iniziative di aiuto morale e materiale alle popolazioni. Nella
fase dell'occupazione tedesca, il papa mantenne un atteggiamento
di fermezza di fronte alle minacce rivolte alla sua persona, e
incoraggiò l'attivazione di una rete di protezione e di
accoglienza dei perseguitati per ragioni politiche o razziali in
istituti e luoghi ecclesiastici, compresa la Città del
Vaticano, ma non fino al punto da metterne a repentaglio
l'inviolabilità ed astenendosi da interventi pubblici nei
confronti delle autorità militari di occupazione, anche in
presenza di atti efferati, come la razzia e la deportazione degli
ebrei romani dell'ottobre 1943.
Il sentimento popolare che Roma fosse stata salvata dal papa si
espresse all'indomani della liberazione, nel giugno del 1944,
quando una massa di cittadini si riversò in piazza S.
Pietro a salutare P. quale unico autentico "defensor civitatis".
Lo speciale legame instauratosi tra il papa e la sua città
era, in certo modo, la prefigurazione del ruolo che P. assegnava
alla Chiesa nel mondo postbellico, e della centralità di
Roma - "la Città universale, la Città caput mundi,
l'Urbs per eccellenza, la Città di cui tutti sono
cittadini, la Città sede del Vicario di Cristo, verso il
quale si volgono gli sguardi di tutto il mondo cattolico"
(allocuzione al Sacro Collegio in occasione del Natale 1945) -
come punto d'irradiazione della missione religiosa e insieme
civile nella quale il pontefice manifestamente si identificava.
La personalità di P. aveva raggiunto, alla fine della
guerra, un grado elevato di autorevolezza su scala internazionale.
Situato al vertice di una Chiesa ch'era uscita dalla guerra, in
Europa, come uno dei pochi organismi istituzionali e territoriali
ancora saldi, guardata da molti come arca di salvezza e di
conciliazione e percorsa da fermenti di rinnovamento, il papa fu
considerato interlocutore privilegiato dai governanti occidentali:
il premier britannico W. Churchill lo volle incontrare
personalmente durante la sua visita a Roma nell'agosto del 1944,
mentre s'infittivano le relazioni della Santa Sede
coll'amministrazione degli Stati Uniti, anche in seguito ai
crescenti allarmi ecclesiastici circa il profilarsi, in Italia, di
una situazione favorevole al comunismo e in vista dell'erogazione
di aiuti americani alle popolazioni. La voce di P. era ascoltata
da grandi masse di fedeli sparse nei più diversi Paesi e
influenzava aree d'opinione non appartenenti al mondo cattolico. I
partiti politici a base cattolica, ricostituiti durante o appena
dopo la guerra in molti Stati europei, guardavano al magistero
pontificio come ad un punto di riferimento ideale, sebbene quel
magistero non avesse vincolato i credenti ad un'unica
identità politica, ma si fosse limitato a sancire
l'incompatibilità tra l'appartenenza alla Chiesa e la
militanza o la collaborazione con movimenti e partiti professanti
dottrine atee e materialiste. In realtà, il progetto di P.
sulla collocazione e il ruolo della Chiesa, guidata dal suo capo e
maestro, nel nuovo ordine postbellico, trovava il suo fulcro in
un'idea di "civiltà cristiana" che trascendeva la sfera
politica, e lasciava anzi trapelare un fondamentale pessimismo del
pontefice nei confronti degli strumenti politici in sé
considerati.
I principali interventi di P. nell'immediato dopoguerra furono
tesi a convalidare le ragioni degli orientamenti assunti durante
il conflitto - anche per contrastare pesanti accuse e gravi
insinuazioni fatte circolare nei suoi confronti, non senza il
ricorso alla pubblicazione di documenti falsi - ma, soprattutto,
furono rivolti a ribadire il concetto dell'intimo rapporto tra la
guerra e il "totalitarismo dello Stato forte", ultimo frutto di
"un umanesimo secolarizzato" che aveva prodotto "la negazione e il
disprezzo del pensiero e dei principi cristiani" (allocuzione al
Sacro Collegio per il Natale 1945). La lettura, in certo modo,
apocalittica della guerra, punto terminale e rivelatore di un
cammino di allontanamento dalla verità cristiana e dalle
radici della civiltà che il cristianesimo aveva permeato,
costituiva il presupposto del pensiero di P. nei riguardi della
rinnovata vocazione della Chiesa ad influire "sul fondamento,
sulla struttura e sulla dinamica della società umana".
Nell'allocuzione pronunciata il 20 febbraio 1946 in occasione
dell'imposizione della berretta a trentadue nuovi cardinali - di
cui solo quattro italiani, e comprendenti numerosi vescovi
americani, tre tedeschi, un cinese, un ungherese, un polacco, un
armeno - nominati nel primo Concistoro del suo pontificato (il
secondo e ultimo si tenne nel gennaio 1953), P. volle rimarcare
non solo la dimensione realmente universale della Chiesa, ma
insistette sulla sua particolare e specialissima natura
societaria, che la rendeva incomparabile ad ogni altra
società umana, perché rivolta al "cuore dell'uomo" e
da qui dilatantesi "su tutta la durata della vita, su tutti i
campi dell'attività di ciascuno", non "infeudata" ad alcun
gruppo etnico o sociale, né "impietrita" in un momento
della sua storia, fonte inesauribile di educazione della persona
umana, promotrice del principio di responsabilità e di
sussidiarietà, per il quale "ciò che gli uomini
singoli possono fare da sé e con le proprie forze non deve
essere loro tolto e rimesso alla comunità", "figura e forma
della società umana", base delle sue "due colonne
principali", la famiglia e lo Stato. Al punto di sutura tra la
Chiesa e il mondo risultava così posto l'uomo cristiano,
definito dal suo essere membro visibile della Chiesa e formato ai
suoi insegnamenti.
Nell'immagine dell'"ecclesia docens" venivano a convergere le due
cifre dominanti del magistero di P.: il primato
dell'autorità gerarchica imperniata sul pontefice, e il
dovere del credente, innestato nel corpo vivente di Cristo e
docile alla parola del suo vicario, di agire come fermento di
cristianizzazione della società e dei mondi circostanti. Il
senso di una rinnovata missione della Chiesa rivolta
all'edificazione di un ordine di valori qualitativamente diverso
da quello ch'era precipitato nella guerra, implicava da un lato,
nella visione di P., una rigorosa delimitazione disciplinare e
dottrinale dell'ortodossia che toccava all'autorità
ecclesiastica custodire e difendere, e si riverberava, dall'altro,
nelle relazioni tra la Chiesa e la struttura bipolare del mondo
quale si veniva configurando nell'immediato dopoguerra.
Per questo secondo aspetto, l'immagine pacelliana della
realtà postbellica come dominata da una "lotta titanica fra
i due spiriti opposti che si disputano il mondo" (radiomessaggio
natalizio del 1947), da una scelta tra la volontà di
appoggiarsi "sulla salda roccia del cristianesimo, sul
riconoscimento di un Dio personale, sulla credenza nella
dignità personale e dell'eterno destino dell'uomo" oppure
la volontà di rimettersi nelle mani dell'"impassibile
onnipotenza di uno Stato materialista, senza ideale ultraterreno,
senza religione e senza Dio" (discorso di P. alla vigilia delle
elezioni del giugno 1946 in Italia e in Francia), poteva
costituire, a un primo sguardo, una legittimazione religiosa della
contrapposizione tra "mondo occidentale" e "mondo comunista" e un
alto grado di identificazione della Chiesa con le sorti e la causa
dell'Occidente: come tale fu largamente utilizzata dalla
propaganda politica. In realtà P. richiamò con
frequenza il concetto dell'irriducibilità della Chiesa e
della sua dottrina alla pura dimensione ideologica, anche
all'ideologia dell'Occidente, insistendo invece, con accenti
agostiniani, sulla natura apocalittica dello scontro in atto tra i
due "spiriti", di Cristo e dell'Anticristo.
In questo senso P. intese preservare, sul piano dei principi, un
ruolo autonomo della Chiesa, nell'ottica di una fondamentale
autosufficienza e compiutezza dottrinale del cattolicesimo, e
configurare un rapporto dialettico con il "mondo occidentale" come
quella delle due parti che conservava "consapevolmente o no" le
tracce di un originario ordine cristiano iscritto nei suoi
ordinamenti e nella sua cultura, sforzandosi "ancora in larga
misura", nonostante i suoi errori, di conservare i dettati del
diritto naturale. Le resistenze di P. a schierare la Chiesa come
parte integrante del blocco occidentale o atlantico, riflettevano
anche, sul piano culturale, una fondamentale idiosincrasia nei
confronti del modello di vita americano; e avevano come risvolto
un'attenzione particolare per le sorti dell'Europa, alla cui
rinascita, nel segno della propria missione, "cristianamente
ispirata", libera dai "germi venefici dell'ateismo e della
rivolta" e da "malsani influssi stranieri", il radiomessaggio
natalizio del 1947 attribuiva un ruolo determinante per il
mantenimento della pace. Ad esso seguirono, negli anni, vari
pronunciamenti papali a favore dell'unificazione dell'Europa, da
compiersi in nome e per mezzo delle sue radici cristiane, sino
all'approvazione dei trattati di Roma del 1957.
L'autonomia della Chiesa nei confronti del "mondo occidentale"
rispondeva pure all'esigenza di preservare e rinnovare la sua
presenza nelle aree mondiali interessate ai processi di
decolonizzazione, senza che fosse coinvolta in maniera
irreparabile nelle ondate antioccidentali che vi si
accompagnavano. In tal senso P. incoraggiò la tendenza alla
trasformazione delle Chiese missionarie in Chiese autoctone,
proclamandone la opportunità nelle encicliche Evangelii
praecones, del 1951, e Fidei donum del 1957 - senza tacere dei
pericoli che incombevano sulla loro ancora precaria esistenza - e
non mancò poi di pronunciarsi, a certe condizioni, per il
diritto all'indipendenza dei popoli colonizzati. Il fattore,
tuttavia, che conferì i tratti più marcati al
pontificato di P. negli anni del dopoguerra fu senza dubbio la
percezione del comunismo come grande nemico della Chiesa e suprema
minaccia della "civiltà cristiana".
La saldatura avvenuta tra l'ideologia comunista, la potenza
militare e imperiale dell'Unione Sovietica dilagata sin nel cuore
dell'Europa e la proliferazione e il crescente consenso raccolto
dai movimenti comunisti nell'area occidentale, dava corpo a una
situazione che si presentava, dal punto di vista della Santa Sede,
in termini più gravi di quanto gli allarmati timori
già espressi durante il conflitto avessero lasciato
supporre. Molti fatti inducevano a pensare che, a partire
dall'Unione Sovietica per giungere alle "repubbliche popolari" in
fase di edificazione nei Paesi dell'Est europeo - in alcuni dei
quali, come in Polonia, in Ungheria, in Cecoslovacchia, in Croazia
e Slovenia il cattolicesimo aveva profonde radici -, s'intendesse
smantellare la struttura delle Chiese locali annientandone
l'esistenza, incominciando col separarle da Roma. In Ucraina e in
Romania le comunità cattoliche uniati - cioè di rito
orientale ma unite a Roma - furono forzatamente incorporate nelle
locali Chiese ortodosse.
Nel 1947-1949 la tensione tra autorità ecclesiastiche e
autorità politiche era precipitata in forme persecutorie,
che avevano portato all'arresto e alla condanna - realizzata con
procedimenti di tipo staliniano - del primate ungherese J.
Mindszenty, alla limitazione della libertà dell'arcivescovo
di Praga, J. Beran, all'imprigionamento di molti vescovi e di
centinaia di preti cattolici in Romania, in Iugoslavia (tra cui
l'arcivescovo di Zagabria, A. Stepinac), in Albania, in Lituania.
In Cecoslovacchia e altrove si erano costituite associazioni di
cattolici integrate nei sistemi comunisti. In Cina, poco dopo la
proclamazione della Repubblica popolare nel 1949, sorgerà
una Chiesa cattolica patriottica cinese, autonoma da Roma. L'unica
parziale eccezione di un quadro in cui il tessuto della vita
ecclesiastica e religiosa subiva lacerazioni che potevano apparire
irreparabili era costituita dalla Polonia, dove il primate S.
Wyszy´nski pervenne nel 1949 ad un compromesso con il
governo, accolto da Roma con aperta freddezza. Mentre sul piano
delle relazioni diplomatiche la Santa Sede aveva tentato di tenere
aperto almeno qualche canale con gli Stati dell'Est, sul piano
dottrinale e disciplinare la via imboccata da P. fu quella
dell'intransigenza. Per diretto intervento pontificio il
Sant'Uffizio promulgò il 15 luglio 1949 una solenne
dichiarazione che comminava la scomunica ai fedeli che
professassero e propagandassero la dottrina del "comunismo
materialista e anticristiano", ed escludeva dai sacramenti i
cattolici iscritti ai partiti comunisti, o che li appoggiassero o
facessero propaganda per le loro idee o collaborassero e
leggessero la loro stampa.
Ma la dichiarazione del Sant'Uffizio, giunta quando la situazione
delle Chiese dell'Est europeo stava precipitando, fu l'ultimo atto
di un processo che aveva confermato antiche e mai dismesse
convinzioni di P., e convalidato la sua determinazione a
sollecitare in Occidente - soprattutto laddove il comunismo e le
sue organizzazioni mostravano maggiore forza di penetrazione - la
mobilitazione dei fedeli, quelli in particolare raccolti nelle
associazioni confessionali; e lo aveva indotto non solo a ribadire
la riprovazione pontificia nei confronti dei cattolici che
aderissero a partiti o movimenti d'ispirazione comunista, ma anche
a manifestare, in maniera via via più aperta,
l'ostilità pontificia per ogni sorta di organizzazione che
comprendesse cattolici e comunisti, per esempio in campo
sindacale, e l'avversione a governi che comprendessero i partiti
comunisti, o che, a giudizio del pontefice, non mostrassero
sufficiente energia nel contrastare il comunismo e nel sostenere
le ragioni e i diritti della Chiesa.
Sotto quest'ultimo profilo la linea intransigente di P., sebbene
moderata da taluni dei suoi più stretti collaboratori come
Montini - che tuttavia nel 1954 fu allontanato da Roma per essere
nominato arcivescovo di Milano - produceva una crescente influenza
dei settori più conservatori della Curia - quelli che
volgevano il loro sguardo alla Spagna franchista, pervenuta nel
1953 alla stipula di un concordato con la Santa Sede - e ai gruppi
più integralisti del mondo cattolico; aprì tensioni
crescenti nelle fila dell'associazionismo confessionale;
alimentò incomprensioni tra il papa e taluni leaders
politici di intemerata fede cattolica, come A. De Gasperi.
L'immagine o il modello di Chiesa cui s'ispirava P. rifletteva
una visione a sfondo apocalittico del mondo contemporaneo, e
tendeva a tradurre la missione salvifica ad essa connaturata, resa
più attuale e pregnante dalla catastrofe bellica, in un
potere direttivo, esteso e capillare, del vertice pontificio nei
confronti di un corpo ecclesiastico pensato come proteso a
metterne in atto gli indirizzi in ogni campo e momento della vita
personale, familiare e collettiva. Ne conseguiva, sul piano
dottrinale o politico, una sensibile riduzione dei margini di
autonomia dei mondi cattolici, nel momento stesso in cui se ne
esigeva la mobilitazione e l'impegno.
L'ideale pacelliano di una Chiesa costituita da "immense falangi
di apostoli", nei quali l'intensità della vita e della
pratica religiosa personale e di gruppo si connetteva strettamente
a un'intima e rigorosa adesione ai dettati del magistero
gerarchico, in particolar modo pontificio, dovette tuttavia
misurarsi sia con i processi di secolarizzazione dei costumi e
degli stili di vita indotti dalle trasformazioni sociali e
culturali del dopoguerra, sia, e soprattutto, con fenomeni di
rinnovamento, da tempo emergenti, nel campo della teologia, della
vita religiosa e liturgica, della pratica pastorale, sollecitati
dai contesti sempre più differenziati nei quali le Chiese
locali e gruppi diversi di clero e di fedeli si trovavano inseriti
o miravano a inserirsi. P. prese atto, in parte, di tali fenomeni,
ponendosi nei loro confronti come suprema istanza di unificazione
e di legittimazione, ma nello stesso tempo ne delimitò, sul
piano dottrinale e pratico, il carattere innovativo,
sottoponendoli al controllo ecclesiastico, che assunse forme
particolarmente rigide in area italiana.
Così nel campo dell'apostolato laicale, principalmente ma
non esclusivamente espresso dall'Azione Cattolica, il papa fu
prodigo di incoraggiamenti e di direttive, che sanzionavano
mediante l'approvazione pontificia un'articolazione di forme
associative e di metodologie pastorali più estesa che
nell'epoca di Pio XI, ma badando sempre a rimarcare che si
trattava di un'azione subordinata alla gerarchia o al più
di una "speciale e diretta collaborazione con l'apostolato
gerarchico della Chiesa", come recitavano gli Statuti del 1946
dell'Azione Cattolica italiana. Anche il modello dell'apostolato
di ambiente, promosso nel contesto belga e francese dalla
Gioventù Operaia Cattolica (JOC) di J. Cardijn, fu
tollerato a condizione di avere l'approvazione dell'episcopato
locale. Diversa accoglienza fu riservata al più radicale
esperimento pastorale messo in atto dai preti operai nel quadro
della Mission de Paris, incoraggiati da alcuni vescovi francesi,
come E. Suhard, M. Feltin e A. Liénart: dopo lunghe
incertezze P. intervenne direttamente nel 1954 per richiamare i
preti operai al rispetto delle regole imposte dalla consacrazione
e dal ruolo sacerdotale e all'obbligo di non confondere l'azione
missionaria con l'opera sindacale o politica - che li aveva resi
contigui in alcuni casi al movimento comunista -, bloccandone di
fatto l'attività.
L'insistenza di P. nella preservazione della specifica e
tradizionale identità, anche esteriore e visibile, del
prete cattolico, confermata nell'esortazione apostolica Menti
nostrae del 1950, non escludeva tuttavia reiterati atti pontifici
volti all'aggiornamento della formazione seminariale e ad una
ridefinizione della personalità dei sacerdoti. Le diverse
linee di tendenza che s'intrecciarono, durante il pontificato di
P., a proposito delle forme e dei metodi pastorali che
riguardassero l'apostolato sacerdotale o la più vasta e
composita area dell'apostolato laicale, erano rivelatrici di un
più complesso e multiforme dibattito teologico, alimentato
da scuole e da gruppi disparati, presente e vivace nella Chiesa
fin dagli anni Trenta e ripreso con forza nel dopoguerra. Mosso
dall'intento di ricondurre ad un'unità di fondo e di
riportare nel solco di una consolidata tradizione teologica tali
fermenti, P. incrementò gli interventi magisteriali volti a
delimitare i confini entro i quali quel rinnovamento dottrinale
era considerato legittimo.
A questo fondamentale criterio si ispirarono, oltre alla
ricordata enciclica di argomento ecclesiologico Mystici Corporis,
l'enciclica Divino afflante Spiritu del 1943, che accoglieva
talune delle istanze avanzate dalla moderna critica biblica
nell'approccio e nell'interpretazione delle Scritture, e
l'enciclica Mediator Dei, del 1947, che stabiliva una più
stretta connessione tra l'ecclesiologia del corpo mistico e la
liturgia cattolica, sanzionando, con cautela, il principio di una
più diretta partecipazione dei fedeli agli atti di culto;
cui fecero seguito nei successivi anni varie puntuali riforme
liturgiche (celebrazione della messa vespertina, attenuazione del
digiuno eucaristico, riti della Settimana santa).
Con l'avanzare degli anni i toni e i contenuti del magistero di
P. si fecero più rigidi, in concomitanza con un ricorso
più frequente ai poteri disciplinari. Così
l'enciclica Humani generis, dell'agosto 1950, poneva limiti severi
alla ricerca teologica, denunciando la diffusione di una
mentalità relativistica e soggettivistica, paragonabile a
quella modernista, e richiamando lo stretto dovere dei teologi di
attenersi alle interpretazioni autentiche della Chiesa e ai
confini stabiliti dal magistero per la difesa della dottrina
cattolica. Venivano colpiti dall'intervento pontificio gli
esponenti di punta della teologia cattolica, raccolti sotto la
generica definizione di "nouvelle théologie". Alcuni di
loro videro sottoposte a censura ecclesiastica le proprie opere.
Anche nel campo della dottrina morale, con riguardo particolare
alla sfera della morale sessuale e familiare - cui P. venne
dedicando una crescente attenzione, determinata dai profondi
mutamenti di costume e di comportamenti in atto nel mondo
occidentale - la linea del magistero pacelliano fu connotata dalla
riaffermazione di dottrine tradizionali, riguardo ad esempio il
rapporto tra matrimonio e procreazione o il ruolo della donna
nella famiglia e nella società o la limitazione ai metodi
"naturali" nel controllo delle nascite, che non escludeva una
considerazione positiva dei processi di modernizzazione sociale, a
condizione che si sviluppassero entro i limiti della morale
naturale interpretata e trasmessa dalla Chiesa.
La prospettiva pacelliana di un popolo cristiano sollecito a
conformarsi al magistero della Chiesa e a mobilitarsi in comunione
di spirito e d'intenti con il suo capo, figura e vicario di
Cristo, trovò uno dei suoi momenti di maggiore
intensità nel giubileo celebrato nel 1950 e indetto in nome
e con il programma di un "grande ritorno" a Dio e alla sua Chiesa
di tutti coloro che ne erano lontani (non esclusi i cristiani
separati da Roma): una sorta di crociata dei tempi moderni,
divulgata e amplificata dai mezzi di comunicazione, da stuoli di
predicatori, tra i quali si segnalò la figura del gesuita
R. Lombardi, dai movimenti di massa dell'Azione Cattolica, in
specie la Gioventù cattolica di L. Gedda, da un imponente
afflusso di pellegrini a Roma, e accompagnata da atti pontifici di
grande portata. Tra questi, oltre alla pubblicazione, il 12
agosto, dell'enciclica Humani generis, la proclamazione del dogma
dell'Assunzione della Vergine, alla presenza di
seicentosessantadue vescovi e di mezzo milione di fedeli, con la
bolla pontificia Munificentissimus Deus, del 1° novembre. La
definizione del nuovo dogma costituì il punto apicale di
sviluppo di una linea mariana che dette una particolare impronta a
tutto il pontificato pacelliano, tanto sul piano della
pietà personale di P., quanto sul piano pastorale,
liturgico e della devozione popolare.
Già in epoca bellica, e precisamente il 31 ottobre 1942,
il pontefice aveva solennemente consacrato l'umanità intera
al Cuore Immacolato di Maria; nuovi impulsi al culto della Vergine
sarebbero poi venuti dall'istituzione del primo anno mariano
(1954) - in coincidenza con il centenario del dogma
dell'Immacolata Concezione - e della festa di Maria Regina,
accostabile, per taluni aspetti, alla festa di Cristo Re
introdotta da Pio XI. La connotazione mariana del cattolicesimo,
che da più di un secolo aveva conosciuto continue e
clamorose manifestazioni, raggiunse così la sua acme,
rinfocolando la mai sopita ostilità delle Chiese
protestanti, ma suscitando anche reazioni critiche in settori non
marginali della teologia cattolica, sensibili alle esigenze del
dialogo ecumenico. Il risalto dato da P. alla devozione e al culto
della Vergine, così come l'esaltazione del primato di
Pietro - il ritrovamento della tomba del santo sotto la basilica
vaticana fu annunciato solennemente a chiusura dell'anno giubilare
- e dei suoi successori, trovarono un puntuale riscontro nella
scelta dei modelli di santità privilegiati da P.: dalla
canonizzazione di Maria Goretti annunciata proprio in occasione
dell'Anno santo, alla beatificazione, nel 1951, seguita dalla
canonizzazione, proclamata nel 1954, di Pio X. Restò invece
irrealizzato il progetto, studiato per impulso pontificio da
un'apposita commissione cardinalizia, di far coincidere con l'Anno
santo lo svolgimento di un concilio ecumenico.
La celebrazione dell'anno giubilare, punteggiato di riti
penitenziali e di folle osannanti, segnò, sotto molti
profili, l'acme del pontificato di P., personalmente poco aduso a
condividere superficiali entusiasmi. Nel febbraio del 1952 egli
lanciò un nuovo appello per dare inizio, partendo da Roma,
ad un movimento "per un mondo migliore", rivolto a scuotere i
credenti da un "funesto letargo", poiché "tutto un mondo"
attendeva ancora di essere rifatto dalle fondamenta. L'appello
trovò nuovamente larga eco nella predicazione di padre
Lombardi, e tra le fila dell'Azione Cattolica, ora presieduta da
L. Gedda. Ma cadde in un'atmosfera religiosa e civile già
in fase di mutamento, come dimostrarono gli aperti, sebbene
circoscritti, dissensi sorti ai vertici della stessa Azione
Cattolica italiana. Anche il ricambio, il rinnovamento e
l'internazionalizzazione degli organi del governo centrale della
Chiesa entrarono in fase di stallo, sicché un numero via
via più ristretto di collaboratori sempre più
anziani, ciascuno dei quali rivestito di molteplici incarichi,
affiancò un pontefice colpito, nel 1954, da grave malattia,
ma non disposto ad abbandonare o ad attenuare il suo ruolo di
fulcro attivo della struttura e dell'attività della Santa
Sede. La partenza di Montini da Roma per Milano accentuò a
sua volta l'effetto di sbilanciamento negli apparati di Curia a
favore di un gruppo di cardinali e di personalità vaticane
di orientamenti più conservatori, ai quali venne più
tardi attribuita la definizione di "partito romano".
Ma, in linea più generale, parve aprirsi uno iato tra la
percezione di P. della realtà della Chiesa e del mondo,
pervasa da un senso tragico e sacrale della storia, e il
profilarsi irruente, nel mondo occidentale, di una società
del benessere, percorsa da una silenziosa rivoluzione di
mentalità, di costumi e di valori, oltre che da imponenti
dinamiche di trasformazione sociale. La figura del "bianco Padre",
cui si rivolgevano folle acclamanti, del "Pastor Angelicus",
celebrato anche in produzioni cinematografiche di maniera,
trascorse, in realtà, l'ultimo scorcio del suo pontificato
in una situazione di crescente solitudine, che da un lato accrebbe
i tratti ieratici della sua personalità, e, dall'altro,
dette maggior risalto al fondo di pessimismo, poco fidente
nell'opera degli uomini, proprio della sua indole. I giorni
estremi di un pontefice collocato sul crinale di due epoche,
chiamato a reggere la barca di s. Pietro in una delle fasi
più turbinose della sua storia, si consumarono in un clima
di esaltazione miracolistica, veicolata dai mezzi di
comunicazione, e di sfruttamento pubblicitario della sua immagine
(e, dopo la morte, delle sue spoglie mortali), che erano in totale
ed insanabile contrasto con le ragioni effettive della sua statura
di grande, quanto discusso, pontefice.
La sua morte sopravvenne nella residenza pontificia di
Castelgandolfo il 9 ottobre 1958.