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Il patto Gentiloni fu un accordo stipulato tra i liberali di Giovanni Giolitti e l'Unione Elettorale Cattolica Italiana (UECI), presieduta da Vincenzo Ottorino Gentiloni (da cui prese il nome), in vista delle elezioni politiche del 1913. L'accordo segnò l'ingresso ufficiale dei cattolici nella vita politica italiana.
Antefatti
Agli inizi del XX secolo, nel mondo cattolico erano ancora in vigore
le dichiarazioni di papa Pio IX sulla "non convenienza" (non
expedit) della partecipazione dei fedeli all'attività
politica. Ma l'ambiente delle associazioni laicali era in costante
movimento. All'interno dell'Opera dei Congressi, la principale
associazione cattolica italiana, divenne egemone il gruppo di don
Romolo Murri, che sosteneva la necessità di preferire
l'accordo tattico con i socialisti piuttosto che appoggiare i
liberali. Nel 1904 papa Pio X intervenne sciogliendo l'associazione
(28 luglio).
Vincenzo Gentiloni, e i cattolici vicini al suo orientamento, si
schieravano invece con la monarchia e con i liberali giolittiani per
fermare l'avanzata socialista, marxista e anarchica. Tale
orientamento, volto a preservare il patrimonio di valori
tradizionali del mondo cattolico, era condiviso anche da Pio X, che
nel decreto Lamentabili sane exitu nel 1907 aveva condannato 65
proposizioni moderniste e subito dopo aveva comminato la "scomunica"
del modernismo nell'enciclica Pascendi dominici gregis.
Nel 1909 Pio X promosse la creazione dell'Unione Elettorale
Cattolica Italiana (UECI), un'associazione laicale con il compito di
guidare i cattolici italiani nella vita politica. Il pontefice pose
Vincenzo Gentiloni alla direzione dell'organismo. Il primo banco di
prova della collaborazione tra UECI e moderati si ebbe in occasione
delle elezioni politiche di quell'anno. Diversi cattolici si
candidarono nelle liste liberali. L'esito fu positivo: furono eletti
21 "deputati cattolici" nelle liste di Giolitti.
Nel 1913 l'esperimento divenne una prassi, sancita dal Patto
Gentiloni.
Il patto
Nel 1912 una riforma elettorale (approvata il 30 giugno) aveva
introdotto il suffragio universale maschile. Il numero di aventi
diritto al voto aumentò notevolmente, passando da circa tre
milioni ad oltre 8.600.000. La riforma elettorale approvata era
stato il prezzo che Giolitti aveva dovuto pagare ai socialisti di
Leonida Bissolati per l'appoggio ottenuto durante la guerra
italo-turca. Molti nuovi elettori erano operai e il PSI riscuoteva
molti consensi nel mondo operaio.
Giolitti, e vari esponenti della classe politica che aveva governato
l'Italia nel suo primo sessantennio di vita, desiderava bloccare
l'avanzata del Partito Socialista. L'esperimento della
collaborazione con i cattolici fu rinnovato. Prese perciò
l'iniziativa di rivolgersi all'Unione Elettorale Cattolica Italiana.
Il partito liberale mise a disposizione una nutrita quantità
di seggi per i candidati cattolici. Da parte sua, Vincenzo Gentiloni
fu incaricato di passare al vaglio i candidati liberali, al fine di
far confluire i voti dei cattolici su quelli di loro che
promettessero di fare propri i valori "irrinunciabili" e,
parallelamente, di negare il proprio sostegno a leggi anticlericali.
Dato il sistema elettorale (uninominale e maggioritario), il vincolo
di appartenenza partitica era molto debole. Per tale ragione il
patto consisteva in un elenco di sette punti considerati
irrinunciabili per ottenere il sostegno degli elettori cattolici.
I sette punti d'impegno, detti anche «Eptalogo», che
ogni candidato doveva sottoscrivere, furono: