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Partito politico italiano, fondato nel 1892 e sciolto nel 1994.
Già all’inizio degli anni Ottanta dell’Ottocento il movimento
operaio italiano cominciò a dotarsi di organizzazioni
politiche, dal Partito socialista rivoluzionario di Romagna di
A. Costa al Partito operaio italiano di C. Lazzari. Sulla base
di quest’ultima esperienza, e più ancora della Lega
socialista milanese di F. Turati, a Genova, nell’ag. 1892, venne
fondato il Partito dei lavoratori italiani, che l’anno successivo
inglobò anche il Partito socialista rivoluzionario, assumendo
prima il nome di Partito socialista dei lavoratori italiani, e poi
(1895) quello di Partito socialista italiano.
Il PSI dalla fondazione alla Resistenza.
Fin dalla nascita, dunque, il PSI riunì al suo interno
diverse componenti politico-culturali, da quella riformista con
agganci al marxismo di Turati al rivoluzionarismo di A. Costa, ai
prosecutori delle tradizioni anarchiche e repubblicane, dalle quali
ultime ereditò una certa venatura anticlericale; l’adesione
al marxismo e l’attenzione al dibattito teorico, peraltro, furono
piuttosto superficiali, nonostante il lavoro svolto in tal senso da
Antonio Labriola. Il partito si sviluppò rapidamente,
radicandosi in particolare nel Centro-Nord e conquistando le
posizioni più forti non tanto nelle grandi città o nel
proletariato industriale, quanto in provincia, nella Pianura padana
e tra le masse contadine che andavano organizzandosi in leghe e
cooperative. Sul piano politico generale, sotto la guida della
corrente riformista di Turati (1900-12), il PSI si ritrovò
spesso alleato delle altre forze della sinistra
«estrema» sul piano parlamentare, ossia radicali e
repubblicani, diventando anche un interlocutore del governo Giolitti
(1902-04), nel quadro del tentativo dello statista liberale di
integrare il movimento operaio.
Contro questa tendenza si aggregarono le correnti di sinistra
interne al partito, quella intransigente di Lazzari ed E. Ferri e
quella sindacalista-rivoluzionaria di Arturo Labriola, le quali col
Congresso di Bologna del 1904 assunsero la direzione del partito,
rendendolo parte attiva nel primo sciopero generale della storia
italiana (sett. 1904).
Poco dopo, mentre il movimento sindacale si organizzava nella
Confederazione generale del lavoro (CGDL), i riformisti
riconquistavano la guida del partito, determinando la fuoriuscita
dei sindacalisti rivoluzionari dal PSI (1907), mentre avanzava la
corrente di I. Bonomi e L. Bissolati, mirante alla trasformazione
del partito in una forza di tipo laburista.
Tuttavia la guerra di Libia, dal chiaro impianto colonialista, alla
quale Bonomi e Bissolati guardavano con favore, mentre la sinistra
di A. Bordiga sviluppava un’intensa propaganda antimilitarista,
determinò l’espulsione dal PSI dei primi (che fondarono il
Partito socialista riformista italiano) e la vittoria della corrente
massimalista, nella quale emergeva B. Mussolini, mentre nuovo
segretario del partito divenne lo stesso Lazzari (Congresso di
Reggio Emilia, 1912).
Lo scoppio della Prima guerra mondiale rimescolò ancora le
carte: Mussolini passò nelle file del cosiddetto
«interventismo rivoluzionario», e pertanto fu
dimissionato da direttore dell’Avanti! e poi espulso dal partito;
Bonomi e Bissolati, ma anche personalità come C. Battisti e
G. Salvemini, si schierarono con l’«interventismo
democratico»; mentre il PSI prese una posizione pacifista e
neutralista, attestandosi sulla linea del «non aderire
né sabotare». Tale linea si rivelò tuttavia
inadeguata, poiché da un lato non frenò le accuse del
fronte nazionalista che vedeva i socialisti come
«disertori» e «sabotatori» dello sforzo
bellico, dall’altro non consentì al partito di porsi alla
testa dei moti rivoluzionari che la stessa guerra favorì
(insurrezione di Torino, ag. 1917).
Nelle elezioni del 1919, col nuovo sistema elettorale proporzionale,
il PSI balzò al 32,3%, diventando la maggiore forza
politica italiana e superando ben presto (1920) i 200.000
iscritti.
Il Congresso di Bologna (1919) vedeva intanto la vittoria dei
massimalisti di G.M. Serrati e l’adesione del partito alla terza
Internazionale. Tuttavia anche nel corso del «biennio
rosso» e dell’occupazione delle fabbriche torinesi – in cui
pure un ruolo centrale ebbero la sezione torinese del partito e il
gruppo dell’Ordine nuovo, promotore del movimento dei Consigli di
fabbrica – il PSI non riuscì a guidare il movimento verso uno
sbocco rivoluzionario, giocando anzi, assieme alla CGDL, un ruolo
frenante nello sviluppo delle lotte. Tale esperienza, assieme alla
spinta dell’esempio della Rivoluzione d’ottobre in Russia e al
rifiuto del gruppo dirigente del partito di espellere i riformisti
come chiedeva il Comintern, determinò al Congresso di Livorno
(genn. 1921) la fuoriuscita della frazione comunista, che diede vita
al Partito comunista d’Italia (Partito comunista italiano).
Frattanto lo squadrismo fascista colpiva in modo sempre più
diffuso sedi e uomini del partito, che pure si illuse di poter
siglare un «patto di pacificazione» (ag. 1921) di cui
però i fascisti non tennero alcun conto; lo stesso sciopero
generale legalitario (ag. 1922) si trasformò in un boomerang,
e di lì a poco la marcia su Roma portava i fascisti al
potere, guidati da quello stesso Mussolini che nel PSI aveva mosso i
primi passi.
Nello stesso ott. 1922 intanto l’ala riformista veniva espulsa dal
partito e costituiva il Partito socialista unitario (PSU); il
tentativo di avviare un processo di fusione coi comunisti, promosso
da Serrati, veniva intanto contrastato dalla maggioranza del PSI,
che infine espelleva la corrente terzinternazionalista, che di
lì a poco confluì nel PCD’I. Il delitto Matteotti
apriva intanto una grave crisi per il fascismo, ma ancora una volta
le esitazioni delle forze antifasciste e dello stesso PSI, riunite
nell’anti-Parlamento sull’Aventino, determinarono un’ondata di
riflusso, cui seguì il consolidarsi del regime fascista.
Anche il PSI venne dunque sciolto, e nonostante significativi
segnali di resistenza come l’esperienza della rivista Quarto stato
(fondata da P. Nenni e C. Rosselli), una buona parte dei suoi
militanti e l’intero gruppo dirigente scelsero la via dell’esilio.
A Parigi i socialisti diedero vita con altre forze alla
Concentrazione antifascista (1927), e nel 1930 PSI e PSU, sotto la
spinta di Nenni e Saragat, si unificarono, mentre un’ala guidata da
Angelica Balabanoff costituiva il Partito socialista massimalista.
In Italia, intanto, emergevano esperienze interessanti come quella
del Centro interno socialista, promosso da R. Morandi. Un accordo
col movimento di Giustizia e libertà , siglato nel 1931,
delegò tuttavia a GL l’iniziativa socialista in Italia, ma
l’intesa durò appena tre anni.
Nel 1934 il PSI riapriva il dialogo coi comunisti, e in agosto
siglava quel patto d’unità d’azione che anticipò la
svolta dei fronti popolari . L’impegno comune nella guerra civile
spagnola rafforzò l’istanza unitaria, sebbene il Patto
Molotov-Ribbentrop (1939) riaprisse il conflitto tra le forze
operaie. L’attacco nazista all’URSS riunificò infine il
fronte antifascista.
Nel genn. 1943 il gruppo milanese di L. Basso dava vita al Movimento
di unità proletaria (MUP), che in agosto confluì nel
Partito socialista di Nenni, il quale assunse transitoriamente il
nome di Partito socialista italiano di unità proletaria
(PSIUP).
I socialisti intanto partecipavano alla Resistenza in primo luogo
attraverso le Brigate Matteotti; al tempo stesso furono tra i
promotori del Comitato di liberazione nazionale, sorto all’indomani
dell’8 settembre 1943. Benché meno forte del Partito
comunista, il PSI riuscì comunque a porsi fin dalla sua
nascita come uno dei tre partiti di massa del Paese. Nell’aprile
1944 aveva circa 30.000 iscritti, ma nell’estate del 1945,
all’indomani della Liberazione, era già giunto a 500.000.
Il PSI nell’Italia repubblicana.
Nel 1946 il PSIUP contava 860.000 iscritti, e alle elezioni per
l’Assemblea costituente risultò il primo partito della
sinistra, ottenendo il 20,7% dei voti. Tuttavia, nel genn. 1947, al
Congresso di Roma, esso subì la scissione della componente
socialdemocratica di Saragat, ostile alla politica unitaria coi
comunisti, la quale diede vita al Partito socialista dei lavoratori
italiani, poi Partito socialista democratico italiano , mentre la
parte maggioritaria dei socialisti, guidata da Nenni, ridava al
partito il nome di PSI, aggregando peraltro settori e uomini
significativi del Partito d’azione , ormai disciolto, da E. Lussu
a F. De Martino, da R. Lombardi a V. Foa.
Il PSI si presentò da subito molto meno omogeneo rispetto al
PCI, sia in termini sociali (accanto ai lavoratori salariati
comprendeva ampi settori di ceto medio impiegatizio), sia sul piano
politico, avendo ereditato la tradizionale divisione in correnti.
Nenni aveva comunque una sostanziale leadership, mantenendo una
posizione centrista, unitaria verso il PCI ma non favorevole alla
fusione; «fusionisti» erano invece esponenti come
Morandi e Luzzatto, mentre un’altra componente di sinistra (di
ascendenza libertaria e luxemburghiana) faceva capo a Basso; infine,
anche dopo la scissione di Palazzo Barberini, rimaneva nel partito
un’ala destra di impostazione socialdemocratica, guidata da G.
Romita, parte della quale uscì dal PSI nel 1949.
L’alleanza col PCI nel Fronte democratico popolare alle elezioni del
1948 aveva intanto ottenuto solo il 31% dei voti. Iniziava dunque
anche per il PSI un periodo di opposizione rispetto ai governi
centristi fondati sulla DC. Nello stesso 1949 Nenni tornava
segretario, avendo come suo vice Morandi e giovandosi della
collaborazione di quest’ultimo soprattutto nel lavoro di
organizzazione del partito come forza di massa, radicata nei
territori e nei luoghi di lavoro.
Dopo che già il Congresso di Torino (1955) aveva posto il
tema del dialogo coi cattolici, gli eventi del 1956 (20°
Congresso del PCUS, intervento militare sovietico a Budapest)
accelerarono il processo. L’incontro di Pralognan (ag. 1956) tra
Nenni e Saragat segnò il riavvicinamento alla
socialdemocrazia, mentre il PSI rompeva il patto d’unità
d’azione col PCI che durava dal 1934. Il Congresso di Venezia (1957)
pose quindi le basi per una collaborazione con la DC, mentre lo
stesso Nenni assumeva la guida della corrente
«autonomista» (1958). I fatti del luglio 1960 resero
intanto evidente la necessità della «apertura a
sinistra». Nel febbr. 1962 il PSI dava quindi il suo appoggio
al governo Fanfani, forte di un programma che prevedeva la
nazionalizzazione dell’energia elettrica e l’istituzione della
scuola media unica. Iniziava così la stagione del
centrosinistra, che divenne «centrosinistra organico»
nel 1963 con l’entrata dei socialisti nel governo Moro, di cui lo
stesso Nenni fu vicepresidente. Tale scelta costò però
al PSI una nuova scissione, quella della sinistra di Basso, Foa,
Vecchietti e Valori, la quale diede vita al Partito socialista
italiano di unità proletaria , schierandosi
all’opposizione col PCI.
La stretta creditizia del 1963 e i fatti del luglio 1964 (durante i
quali Nenni denunciò il «rumore di sciabole» che
giungeva da settori delle forze armate), peraltro, frenarono la
spinta riformatrice del centrosinistra, costringendo il PSI sulla
difensiva. Anche per aumentare la sua forza contrattuale, il partito
avviò dunque un processo di riunificazione col PSDI di
Saragat, che sfociò nella nascita del Partito socialista
unificato (PSU) nell’ott. 1966, con De Martino e Tanassi
cosegretari. Le perduranti divisioni interne e la sconfitta
elettorale del 1968 determinarono però la crisi di tale
progetto, cosicché nell’ott. 1968 il partito riprese il nome
PSI e nel 1969 la componente socialdemocratica ne uscì per
fondare il Partito socialista unitario (poi di nuovo PSDI).
I grandi movimenti di massa del 1968-69 e la crescita anche
elettorale del PCI aprivano intanto la crisi del centrosinistra e
inducevano De Martino ad aprire ai comunisti, lanciando la
prospettiva di «equilibri più avanzati». La
stessa crescita del PCI e la strategia belingueriana del compromesso
storico, pur rivolta a socialisti e cattolici, aprirono però
una fase di difficoltà per il PSI, all’interno del quale la
tradizione autonomista riprese vigore, ravvivata dal timore di
rimanere schiacciati nel dialogo tra i due maggiori partiti (DC e
PCI), cosicché nel 40° Congresso (1976) De Martino
risultò sconfitto di misura, e gli successe B. Craxi.
Quest’ultimo avviò una radicale ridefinizione
dell’identità del partito, prendendo le distanze dal marxismo
e avviando una sorta di competizione a sinistra col PCI, al quale
pure rilanciava la proposta di «alternativa di sinistra»
in contrapposizione al compromesso storico. Nel 1980 la politica di
Craxi virò apertamente verso una nuova alleanza di governo
che escludesse i comunisti, ossia la formula del
«pentapartito», che portò lo stesso leader
socialista alla presidenza del Consiglio (1983-87), carica che egli
gestì con piglio decisionista e senza rinunciare a un duro
scontro con la CGIL a seguito del taglio dei punti di contingenza
nel 1984-85.
Intanto il PSI eliminava dal proprio simbolo la falce e il martello,
ossia i riferimenti simbolici tradizionali del movimento operaio
(1985), giungendo poco dopo al 14,3% dei voti (1987). Le inchieste
di tangentopoli, tuttavia, coinvolgendo esponenti socialisti locali
e nazionali, aprirono una grave crisi nel partito; lo stesso Craxi
ricevette un primo avviso di garanzia nel dic. 1992, dimettendosi da
segretario nel febbr. 1993, sostituito da G. Benvenuto e poi da O.
Del Turco. Nel 1994 il PSI, colpito da una pesante crisi finanziaria
effetto della crisi politica, dovette abbandonare la sede di via del
Corso e sospendere le pubblicazioni dell’Avanti!. Il 47°
Congresso (nov. 1994) decise infine lo scioglimento del partito.
Nacquero quindi due diversi soggetti politici volti a raccogliere
l’eredità del PSI, i Socialisti italiani e il Partito
socialista riformista, cui si aggiunse la Federazione dei laburisti
di V. Spini. Intanto, a seguito della trasformazione del sistema
politico in senso bipolare, la diaspora socialista si divideva tra i
due schieramenti, e diversi ex dirigenti del PSI approdavano a Forza
Italia (nello schieramento di centrodestra) o al Partito democratico
della sinistra. Nel 1998 gli spezzoni del vecchio partito rimasti a
sinistra diedero vita allo SDI (Socialisti e democratici italiani),
con segretario E. Boselli, mentre la parte schierata col
centrodestra, guidata da G. De Michelis, fondava il Nuovo PSI
(2001-09). Dopo l’esperienza della Rosa nel pugno, nel 2007 lo SDI
di Boselli avviò un percorso di ricostituzione di un Partito
socialista unitario che raccogliesse la gran parte della diaspora;
il congresso costitutivo si tenne nel luglio 2008, e nel 2009 il
nuovo partito, con segretario R. Nencini, ha recuperato la
denominazione di PSI.