Argomenti di cultura

Materiale ideologico (Q. 3)
Criteri metodologici (Q. 14)
Come studiare la storia? (Q. 14)
Giustificazione dell'autobiografia (Q. 14)
L'importanza dei particolari (Q. 14)
«Razionalismo». Concetto romantico dell'innovatore (Q. 14)
L'autodidatta (Q. 14)
Oratoria, conversazione, cultura (Q. 16)
Logica formale e mentalità scientifica (Q. 17)
Filosofia della prassi ed «economismo storico» (Q. 17)
Bergson, il materialismo positivistico, il pragmatismo (Q. 1)
Le innovazioni nel diritto processuale e la filosofia della prassi (Q. 16)
II razzismo, Gobineau e le origini storiche della filosofia della prassi (Q. 17)
Giorgio Sorel (Q. 17)
[Chi è il legislatore?] (Q. 2)
Individualismo e individualità (coscienza della responsabilità individuale) o personalità (Q. 9)
II machiavellismo di Stenterello (Q. 9)
Stenterello pensa specialmente all'avvenire (Q. 9)
Cesare e il cesarismo (Q. 17)
II movimento e il fine (Q. 16)
II male minore o il meno peggio (Q. 16)
Discussioni prolisse, spaccare il pelo in quattro, ecc. (Q. 16)
Angherie (Q. 16)
L'enfiteusi (Q. 2)
I contadini italiani (Q. 2)
I) Sul predicatore cattolico (Q. 8)
[Qualità militari] (Q. 8)
Le discussioni sulla guerra futura (Q. 17)
Vedere l'articolo del generale Orlando Freri (Q. 17)
Lo «Stellone d'Italia» (Q. 2)
[Il popolo romano e la cultura liberale] (Q. 14)
Testimonianze (Q. 7)
La burocrazia (Q. 8)
Personalità del mondo economico-nazionaie (Q. 14)
[Le rivendicazioni dell'italiano meschino] (Q. 17)
Le statue viventi di Cuneo (Q. 8)
Naturale, contro natura, artificiale, ecc. (Q. 16)
La crisi dell'«Occidente» (Q. 1)
Oriente-Occidente (Q. 5)
Eurasiatismo (Q. 2)
Le grandi potenze mondiali (Q. 14)
La funzione mondiale di Londra (Q. 16)
Disraeli (Q. 17)
Kipling (Q. 3)
«Augur» (Q. 2)
Le colonie (Q. 8)
I negri d'America (Q. 8)
Le quistioni navali (Q. 6)
[L'India] (Q. 5)
Elementi di vita politica francese (Q. 9)
Bizantinismo francese (Q. 10)
L'ossicino di Cuvier (Q. 14)
Gli intellettuali francesi e la loro attuale funzione cosmopolita (Q. 2)
Originalità e ordine intellettuale (Q. 11)
Tempo (Q. 16)
La cultura come espressione della società (Q. 9)
Buon senso e senso comune (Q. 8)
II Manzoni fa distinzione (Q. Il)
Filosofi-letterati e filosofi-scienziati (Q. Il)
Freud e l'uomo collettivo (Q. 15)
Freud e freudismo (Q. 1)
Si può dire che (Q. 17)
II Pantheon siciliano di San Domenico (Q. 5)
Sicilia (Q. 5)
Max Nordau (Q. 16)
Del ragionare per medie statistiche (Q. 26)
Impressioni di prigionia (Q. 1)
La metafora dell'ostetrica e quella di Michelangelo (Q. 7)
La «nuova» Scienza. G. A. Borgese e Michele Ardan (Q. 11)
Gerrymandering (Q. 3)
L'«equazione personale» (Q. 26)
Un giudizio di Manzoni su Victor Hugo (Q. 2)
Apologo del ceppo e delle frasche secche (Q. 1)
[Cattivi politici] (Q. 1)
Frate Vedremo (Q. 3)
Le pilori de la vertu (Q. 3)

Materiale ideologico.

Uno studio di come è organizzata di fatto la struttura ideologica di una classe dominante: cioè l'organizzazione materiale intesa a mantenere, a difendere e a sviluppare il «fronte» teorico o ideologico. La parte più ragguardevole e più dinamica di esso è la stampa in generale: case editrici (che hanno implicito ed esplicito un programma e si appoggiano a una determinata corrente), giornali politici, riviste di ogni genere, scientifiche, letterarie, filologiche, di divulgazione, ecc., periodici vari fino ai bollettini parrocchiali. Sarebbe mastodontico un tale studio, se fatto su scala nazionale: perciò, si potrebbe fare per una città o per una serie di città una serie di studi. Un capocronista di quotidiano dovrebbe avere questo studio come traccia generale per il suo lavoro, anzi dovrebbe rifarselo per conto proprio: quanti bellissimi capicro-naca si potrebbero scrivere sull'argomento!

La stampa è la parte più dinamica di questa struttura ideologica, ma non la sola: tutto ciò che influisce o può influire sull'opinione pubblica direttamente o indirettamente le appartiene: le biblioteche, le scuole, i circoli e clubs di vario genere, fino all'architettura, alla disposizione delle vie e ai nomi di queste. Non si spiegherebbe la posizione conservata dalla Chiesa nella società moderna, se non si conoscessero gli sforzi diuturni e pazienti che essa fa per sviluppare continuamente la sua particolare sezione di questa struttura materiale dell'ideologia. Un tale studio, fatto seriamente, avrebbe una certa importanza: oltre a dare un modello storico vivente di una tale struttura, abituerebbe a un calcolo più cauto ed esatto delle forze agenti nella società. Cosa si può contrapporre, da parte di una classe innovatrice, a questo complesso formidabile di trincee e fortificazioni della classe dominante? Lo spirito di scissione, cioè il progressivo acquisto della coscienza della propria personalità storica, spirito di scissione che deve tendere ad allargarsi dalla classe protagonista alle classi alleate potenziali: tutto ciò domanda un complesso lavoro ideologico, la prima condizione del quale è l'esatta conoscenza del campo da svuotare del suo elemento di massa umana.

Criteri metodologici.

Una manifestazione tipica del dilettantismo intellettuale (e dell'attività intellettuale dei dilettanti) è questa: che nel trattare una quistione si tende a esporre tutto quello che si sa e non solo ciò che è necessario e importante di un argomento. Si coglie ogni occasione per fare sfoggio dei propri imparaticci, di tutti gli sbrendoli e nastri del proprio bazar; ogni piccolo fatterello è elevato a momento mondiale per poter dare corso alla propria concezione mondiale ecc. Avviene poi che, siccome si vuol essere originali e non ripetere le cose già dette, ogni altra volta si deve sostenere un gran mutamento nei «fattori» fondamentali del quadro e quindi si cade in stupidaggini d'ogni genere.

Come studiare la storia?

Ho letto l'osservazione dello storico inglese Seeley, il quale faceva notare che, a suo tempo, la storia dell'indipendenza americana attirò meno attenzione della battaglia di Trafalgar, degli amori di Nelson, degli episodi della vita di Napoleone, ecc. Eppure da quei fatti dovevano uscire conseguenze di grande portata per la storia mondiale: l'esistenza degli Stati Uniti come potenza mondiale non è certo piccola cosa nello svolgersi degli avvenimenti degli ultimi anni. Come fare dunque nello studiare la storia? Ci si dovrebbe fermare sui fatti che sono fecondi di conseguenze? Ma nel momento in cui tali fatti nascono come si fa a sapere della loro fecondità avvenire? La quistione è realmente irrisolvibile. Nella affermazione del Seeley si trova implicita la rivendicazione di una storia obbiettiva, in cui l'obbiettività è concepita come nesso di causa ed effetto. Ma quanti fatti non solo sfuggono, ma sono trascurati dagli storici e dall'interesse dei lettori, che obbiettivamente sono importanti? La lettura dei libri dello Wells sulla storia mondiale richiama a questa trascuratezza e dimenticanza. In realtà, ci ha finora interessato la storia europea e abbiamo chiamato «storia mondiale» quella europea con le sue dipendenze non europee. Perché la storia c'interessa per ragioni «politiche», non oggettive, sia pure nel senso di scientifiche. Forse oggi questi interessi diventano più vasti con la filosofia della praxis, in quanto ci convinciamo che solo la conoscenza di tutto un processo storico ci può render conto del presente e dare una certa verosimiglianza che le nostre previsioni politiche siano concrete. Ma non è da illudersi neanche su questo argomento. Se in Russia c'è molto interesse per le quistioni orientali, questo interesse nasce dalla posizione geopolitica della Russia e non da influssi culturali più universali e scientifici. Devo dire la verità: tanta gente non conosce la storia d'Italia anche in quanto essa spiega il presente, che mi pare necessario far conoscere questa prima di ogni altra. Però un'associazione di politica estera che studiasse a fondo le quistioni anche della Cocincina e dell'Annam non mi dispiacerebbe intellettualmente: ma quanti ci si interesserebbero?

Giustificazione dell'autobiografia.

Una delle giustificazioni può essere questa: aiutare altri a svilupparsi secondo certi modi e verso certi sbocchi. Spesso le autobiografie sono un atto di orgoglio: si crede che la propria vita sia degna di essere narrata perché «originale», diversa dalle altre, perché la propria personalità è originale, diversa dalle altre, ecc. L'autobiografia può essere concepita «politicamente». Si sa che la propria vita è simile a quella di mille altre vite, ma che per un «caso» essa ha avuto uno sbocco che le altre mille non potevano avere e non ebbero di fatto. Raccontando si crea questa possibilità, si suggerisce il processo, si indica lo sbocco. L'autobiografia sostituisce quindi il «saggio politico» o «filosofico»: si descrive in atto ciò che altrimenti si deduce logicamente. È certo che l'autobiografia ha un grande valore storico, in quanto mostra la vita in atto e non solo come dovrebbe essere secondo le leggi scritte o i principi morali dominanti.

L'importanza dei particolari è tanto più grande quanto più in un paese la realtà effettuale è diversa dalle apparenze, i fatti dalle parole, il popolo che fa, dagli intellettuali che interpretano questi fatti. Osservazione già fatta1 del come in certi paesi le costituzioni siano modificate dalle leggi, le leggi dai regolamenti e l'applicazione dei regolamenti dalla loro parola scritta. Chi esegue la «legge» (il regolamento) è arruolato in un certo strato sociale, di un certo livello di cultura, selezionato attraverso un certo stipendio, ecc. La legge è questo esecutore, è il modo in cui viene eseguita, specialmente perché non esistono organi di controllo e di sanzione. Ora, solo attraverso l'autobiografia si vede il meccanismo in atto, nella sua funzione effettuale che molto spesso non corrisponde per nulla alla legge scritta. Eppure la storia, nelle sue linee generali, si fa sulla legge scritta: quando poi nascono fatti nuovi che rovesciano la situazione, si pongono delle domande vane, o per lo meno manca il documento del come si è preparato il mutamento «molecolarmente», finché è esploso nel mutamento. Certi paesi sono specialmente «ipocriti», cioè in certi paesi ciò che si vede e ciò che non si vede (perché non si vuol vedere, e perché volta per volta ciò che si vede sembra eccezione o «pittoresco») è specialmente in contrasto: proprio in questi paesi non abbondano i memorialisti oppure le autobiografie sono «stilizzate», strettamente personali e individuali.

«Razionalismo».

Concetto romantico dell'innovatore. Secondo questo concetto è innovatore chi vuole distruggere tutto l'esistente, senza curarsi di ciò che avverrà poi, poiché, già si sa, metafisicamente, ogni distruzione è creazione, anzi non si distrugge che ciò che si sostituisce ricreando. A questo concetto romantico si accompagna un concetto (razionale) o «illuministico». Si pensa che tutto ciò che esiste è una «trappola» dei forti contro i deboli, dei furbi contro i poveri di spirito. Il pericolo viene dal fatto che «illuministicamente» le parole sono prese alla lettera, materialmente. La filosofia della prassi contro questo modo di concepire. La verità è questa, invece: che ogni cosa che esiste è «razionale», cioè ha avuto o ha una funzione utile. Che ciò che esiste sia esistito, cioè abbia avuto la sua ragion d'essere in quanto «conforme» al modo di vita, di pensare, di operare, della classe dirigente, non significa che sia divenuto «irrazionale» perché la classe dominante è stata privata del potere e della sua forza di dare impulso a tutta la società. Una verità che si dimentica è questa: che ciò che esiste ha avuto la sua ragione d'esistere, è servito, è stato razionale, ha «facilitato» lo sviluppo storico e la vita. Che a un certo punto ciò non sia avvenuto più, che da modi di progresso certe forme di vita siano divenute un inciampo e un ostacolo, è vero, ma non è vero «su tutta l'area»: è vero dove è vero, cioè nelle forme più alte di vita, in quelle decisive, in quelle che segnano la punta del progresso, ecc. Ma la vita non si sviluppa omogeneamente, si sviluppa invece per avanzate parziali, di punta, si sviluppa per cosi dire per crescenza «piramidale». Dunque, di ogni modo di vita occorre studiare la storia, cioè l'originaria «razionalità» e poi, riconosciuta questa, porsi la domanda, se in ogni singolo caso questa razionalità esista ancora, in quanto esistono ancora le condizioni su cui la razionalità si basava. Il fatto, invece, a cui non si bada è questo: che i modi di vita appaiono a chi li vive come assoluti, «come naturali», cosi come si dice, e che è già una grandissima cosa il mostrarne la «storicità», il dimostrare che essi sono giustificati in quanto esistono certe condizioni, ma mutate queste non sono più giustificati, ma «irrazionali». La discussione pertanto contro certi modi di vita e di operare assume un carattere odioso, persecutorio, diventa un fatto di «intelligenza» o «stupidaggine», ecc. Intellettualismo, illuminismo puro, contro cui occorre combattere incessantemente.

Se ne deduce: 1) che ogni fatto è stato «razionale»; 2) che esso è da combattere in quanto non è più razionale, cioè non è più conforme al fine ma si trascina per la vischiosità dell'abitudine; 3) che non bisogna credere che, poiché un modo di vivere, di operare o di pensare è diventato «irrazionale» in un ambiente dato, sia diventato irrazionale da per tutto e per tutti e che solo la malvagità o la stupidaggine lo facciano ancora vivere; 4) che però il fatto che un modo di vivere, di pensare, di vivere e di operare, sia diventato irrazionale in qualche posto abbia una grandissima importanza, è vero, e occorre metterlo in luce in tutti i modi: cosi si modifica inizialmente il costume, introducendo un modo di pensare storicistico, che faciliterà i mutamenti di fatto appena le condizioni saranno mutate, che cioè renderà meno «vischioso» il costume abitudinario. Un altro punto da fissare è questo: che un modo di vivere, di operare, di pensare si sia introdotto in tutta la società perché proprio della classe dirigente, non significa di per sé che sia irrazionale e da rigettare. Se si osserva da vicino si vede: che in ogni fatto esistono due aspetti: uno «razionale» cioè conforme al fine o economico, e uno di «moda», che è un determinato modo di essere del primo aspetto razionale. Portare le scarpe è razionale, ma la determinata foggia di scarpe sarà dovuta alla moda. Portare il colletto è razionale, perché permette di cambiare spesso quella parte dell'indumento «camicia» che più facilmente si sporca, ma la foggia del colletto dipenderà dalla moda, ecc. Si vede insomma che la classe dirigente «inventando» una utilità nuova, più economica o più conforme alle condizioni date o al fine dato, ha nello stesso tempo dato una «sua» particolare forma all'invenzione, all'utilità nuova. È modo di pensare da muli bendati confondere l'utilità permanente (in quanto lo è) con la moda. Invece compito del moralista e del creatore di costumi è quello di analizzare i modi di essere e di vivere, e di criticarli, sceverando il permanente, l'utile, il razionale, il conforme al fine (in quanto sussiste il fine), dall'accidentale, dallo snobistico, dallo scimmiesco, ecc. Sulla base del «razionale», può essere utile creare una «moda» originale, cioè una forma nuova che interessi.

Che il modo di pensare notato non sia giusto si vede dal fatto che esso ha dei limiti: per esempio nessuno (a meno che sia matto) predicherà di non insegnare più a leggere e a scrivere, perché il leggere e lo scrivere è certamente stato introdotto dalla classe dirigente, perché la scrittura serve a diffondere certa letteratura o a scrivere le lettere di ricatto o i rapporti delle spie.

L'autodidatta.

Non si vuole ripetere il solito luogo comune che tutti i dotti sono autodidatti, in quanto l'educazione è autonomia e non impressione dal di fuori. Luogo comune tendenzioso che permette di non organizzare nessun apparato di cultura e di negare ai poveri il tempo da dedicare allo studio, unendo allo scorno la beffa, cioè la dimostrazione teorica che se non sono dotti la colpa è loro poiché ecc. ecc. Ammettiamo dunque che, salvo pochi eroi della cultura (e nessuna politica può fondarsi sull'eroismo), per educarsi è necessario un apparato di cultura, attraverso cui la generazione anziana trasmette alla generazione giovane tutta l'esperienza del passato (di tutte le vecchie generazioni passate), fa acquistar loro determinate inclinazioni e abitudini (anche fisiche e tecniche che si assimilano con la ripetizione) e trasmette arricchito il patrimonio del passato. Ma non di ciò vogliamo parlare. Vogliamo proprio parlare degli autodidatti in senso stretto, cioè di quelli che sacrificano una parte o tutto il tempo che gli altri appartenenti alla loro generazione dedicano ai divertimenti o ad altre occupazioni, per istruirsi ed educarsi, e rispondere alla domanda: oltre alle istituzioni ufficiali esistono attività che soddisfino i bisogni nascenti da queste inclinazioni e come le soddisfano? Ancora: le istituzioni politiche esistenti, in quanto dovrebbero, si pongono questo compito di soddisfare tali bisogni? Mi pare che questo sia un criterio di critica da non buttar via, da non trascurare in ogni modo.

Si può osservare che gli autodidatti in senso stretto sorgono in certi strati sociali a preferenza di altri e si capisce. Parliamo di quelli che hanno a loro disposizione solo la loro buona volontà e disponibilità finanziarie limitatissime, possibilità di spendere molto piccole o quasi nulle. Devono essere trascurati? Non pare, in quanto appunto pare che nascano partiti dedicati proprio a questi elementi, i quali appunto partono dal concetto di aver che fare con simili elementi. Ebbene: se questi elementi sociali esistono, non esistono le forze che cercano di ovviare ai loro bisogni, di elaborare questo materiale. O meglio: tali forze sociali esistono a parole ma non nei fatti, come affermazione ma non come attuazione. D'altronde, non è detto che non esistano forze sociali generiche che di tali bisogni si occupano, anzi fanno il loro unico lavoro, la loro precipua attività con questo risultato: che esse finiscono col contare più di quel che dovrebbero, con l'avere un influsso più grande di quello che «meriterebbero» e spesso addirittura collo «speculare» finanziariamente, su questi bisogni, perché gli autodidatti, nel loro stimolo, se spendono poco singolarmente, finiscono con lo spendere ragguardevolmente come insieme (ragguardevolmente nel senso che permettono con la loro spesa di vivere a parecchie persone). Il movimento di cui si parla (o si parlava) è quello libertario e il suo antistoricismo, la sua retrività, si vede dal carattere dell'autodidattismo, che forma persone «anacronistiche» che pensano con modi antiquati e superati e questi tramandano «vischiosamente».

Dunque: 1) un movimento sorpassato, superato, in quanto soddisfa certi bisogni impellenti, finisce con l'avere un influsso maggiore di quanto storicamente gli spetterebbe; 2) questo movimento tiene arretrato il mondo culturale per le stesse ragioni ecc. Sarebbe da vedere tutta la serie delle ragioni che in Italia per tanto tempo hanno permesso che un movimento arretrato, superato, tenesse più campo di quanto gli spettasse, provocando spesso confusioni e anche catastrofi. D'altronde, bisogna affermare energicamente che in Italia il moto verso la cultura è stato grande, ha provocato sacrifici, che cioè le condizioni obbiettive erano molto favorevoli. Il principio che una forza non vale tanto per la propria «forza intrinseca» quanto per la debolezza degli avversari e delle forze in cui si trova inserita, non è tanto vero come in Italia.

Un altro elemento della forza relativa dei libertari è questo: che essi hanno più spirito di iniziativa individuale, più attività personale. Perché questo avvenga dipende da cause complesse:

1) che hanno maggior soddisfazione personale dal loro lavoro;

2) che sono meno intralciati da impacci burocratici, i quali non dovrebbero esistere per le altre organizzazioni: perché mai l'organizzazione che dovrebbe potenziare l'iniziativa individuale, si dovrebbe mutare in burocrazia, ciò è un impaccio delle forze individuali;

3) (e forse maggiore) che un certo numero di persone vivono nel movimento, ma ci vivono liberamente, cioè non per posti occupati per nomina, ma in quanto la loro attività li rende degni di essi: per mantenere questo posto, cioè per mantenere il loro guadagno, fanno degli sforzi che altrimenti non farebbero.

Oratoria, conversazione, cultura.

Il Macaulay, nel suo saggio sugli Oratori attici (controllare la citazione), attribuisce la facilità di lasciarsi abbagliare da sofismi quasi puerili, propria dei Greci anche più colti, al predominio che nell'educazione e nella vita greca aveva il discorso vivo e parlato. L'abitudine della conversazione e dell'oratoria genera una certa facoltà di trovare con grande prontezza argomenti di una qualche apparenza brillante che chiudono momentaneamente la bocca dell'avversario e lasciano sbalordito l'ascoltatore. Questa osservazione si può trasportare anche ad alcuni fenomeni della vita moderna e alla labilità della base culturale di alcuni gruppi sociali come gli operai di città. Essa spiega in parte la diffidenza dei contadini contro gli intellettuali comizianti: i contadini, che rimuginano a lungo le affermazioni che hanno sentito declamare e dal cui luccicore sono stati momentaneamente colpiti, finiscono, col buon senso che ha ripreso il sopravvento dopo l'emozione suscitata dalle parole trascinanti, col trovarne le deficienze e la superficialità e, quindi, diventano diffidenti per sistema. Un'altra osservazione del Macaulay è da ritenere: egli riferisce una sentenza di Eugenio di Savoia, il quale diceva che più grandi generali erano riusciti quelli che erano stati messi d'un tratto alla testa dell'esercito e quindi nella necessità di pensare alle manovre grandi e complessive. Cioè chi per professione è diventato schiavo delle minuzie si burocratizza, vede l'albero e non più la foresta, il regolamento e non il piano strategico. Tuttavia i grandi capitani sapevano contemperare l'una cosa e l'altra: il controllo del rancio dei soldati e la grande manovra, ecc.

Si può ancora aggiungere che il giornale si avvicina molto all'oratoria e alla conversazione. Gli articoli di giornale sono di solito affrettati, improvvisati, simili, in grandissima parte, per la rapidità dell'ideazione e dell'argomentazione, ai discorsi da comizio. Sono pochi i giornali che hanno redattori specializzati e, d'altronde, anche l'attività di questi è in gran parte improvvisata: la specializzazione serve per improvvisare meglio e più rapidamente. Mancano, specialmente nei giornali italiani, le rassegne periodiche più elaborate e ponderate (per il teatro, per l'economia ecc.), i collaboratori suppliscono solo in parte, e, non avendo un indirizzo unitario, lasciano tracce scarse. La solidità di una cultura può essere perciò misurata in tre gradi principali: a) quella dei lettori di soli giornali; b) quella di chi legge anche riviste non di varietà; e) quella dei lettori di libri, senza tener conto di una grande moltitudine (la maggioranza) che non legge neanche i giornali e si forma qualche opinione assistendo alle riunioni periodiche e dei periodi elettorali, tenute da oratori di livelli diversissimi. Osservazione fatta nel carcere di Milano, dove era in vendita «Il Sole»: la maggioranza dei detenuti, anche politici, leggeva «La Gazzetta dello Sport». Tra circa 2500 detenuti si vendevano al massimo 80 copie del «Sole»; dopo la «Gazzetta dello Sport» le pubblicazioni più lette erano la «Domenica del Corriere» e «Il Corriere dei Piccoli».

È certo che il processo dell'incivilimento intellettuale si è svolto per un periodo lunghissimo specialmente nella forma oratoria e retorica, cioè con nullo o troppo scarso sussidio di scritti: la memoria delle nozioni udite esporre a viva voce era la base di ogni istruzione (e tale rimane ancora in alcuni paesi, per esempio in Abissinia). Una nuova tradizione comincia col-l'Umanesimo, che introduce il «compito scritto» nelle scuole e nell'insegnamento: ma si può dire che già nel Medioevo, con la scolastica, si critichi implicitamente la tradizione della pedagogia fondata sull'oratoria e si cerchi di dare alla facoltà mnemonica uno scheletro più saldo e permanente. Se si riflette, si può osservare che l'importanza data dalla scolastica allo studio della logica formale è di fatto una reazione contro la «faciloneria» dimostrativa dei vecchi metodi di cultura. Gli errori di logica formale sono specialmente comuni nell'argomentazione parlata.

L'arte della stampa ha poi rivoluzionato tutto il mondo culturale, dando alla memoria un sussidio di valore inestimabile e permettendo una estensione dell'attività educatrice inaudita. In questa ricerca è pertanto implicita l'altra, delle modificazioni qualitative oltre che quantitative (estensione di massa) apportate al modo di pensare dallo sviluppo tecnico e strumentale dell'organizzazione culturale.

Anche oggi la comunicazione parlata è un mezzo di diffusione ideologica che ha una rapidità, un'area d'azione e una simultaneità emotiva enormemente più vaste della comunicazione scritta (il teatro, il cinematografo e la radio, con la diffusione di altoparlanti nelle piazze, battono tutte le forme di comunicazione scritta, dal libro, alla rivista, al giornale, al giornale murale), ma in superficie, non in profondità.

Le Accademie e le Università come organizzazioni di cultura e mezzi per diffonderla. Nelle Università la lezione orale e i lavori di seminario e di gabinetto sperimentale, la funzione del grande professore e quella dell'assistente. La funzione dell'assistente professionale e quella degli «anziani di santa Zita» della scuola di Basilio Puoti, di cui parla il De Sanctis, cioè la formazione nella stessa classe di assistenti «volontari», avvenuta per selezione spontanea dovuta agli stessi allievi che aiutano l'insegnante e proseguono le sue lezioni, insegnando praticamente a studiare.

Alcune delle precedenti osservazioni sono state suggerite dalla lettura del Saggio popolare di sociologia [N. Bucharin, La teoria del materialismo storico], che risente appunto di tutte le deficienze della conversazione, della faciloneria argomentativa dell'oratoria, della debole struttura della logica formale. Sarebbe curioso fare su questo libro un'esemplificazione di tutti gli errori logici indicati dagli scolastici, ricordando la giustissima osservazione che anche i modi del pensare sono elementi acquisiti e non innati, il cui giusto impiego (dopo l'acquisizione) corrisponde a una qualifica professionale. Non possederli, non accorgersi di [non] possederli, non porsi il problema di acquistarli attraverso un «tirocinio», equivale alla pretesa di costruire un'automobile sapendo impiegare e avendo a propria disposizione l'officina e gli attrezzi di un fabbro ferraio da villaggio.

Lo studio della «vecchia logica formale» è ormai caduto in discredito e in parte a ragione. Ma il problema di far fare il tirocinio della logica formale come controllo della faciloneria dimostrativa dell'oratoria si ripresenta non appena si pone il problema fondamentale di creare una nuova cultura su una base sociale nuova, che non ha tradizioni come la vecchia classe degli intellettuali. Un blocco intellettuale tradizionale, con la complessità e capillarità delle sue articolazioni, riesce ad assimilare nello svolgimento organico di ogni singolo componente, l'elemento «tirocinio della logica» anche senza bisogno di un tirocinio distinto e individuato (cosi come i ragazzi di famiglie colte imparano a parlare «secondo grammatica» cioè imparano il tipo di lingua delle persone colte anche senza bisogno di particolari e faticosi studi grammaticali, a differenza dei ragazzi di famiglie dove si parla un dialetto e una lingua dialettizzata). Ma neanche ciò avviene senza difficoltà, attriti e perdite secche di energia.

Lo sviluppo delle scuole tecnico-professionali in tutti i gradi post-elementari, ha ripresentato il problema in altre forme. È da ricordare l'affermazione del professore G. Peano che anche nel Politecnico e nelle matematiche superiori risultano meglio preparati gli allievi provenienti dal ginnasio-liceo in confronto a quelli provenienti dagli istituti tecnici. Questa migliore preparazione è data dal complesso insegnamento «umanistico» (storia, letteratura, filosofia), come è più ampiamente dimostrato in altre note (la serie sugli «intellettuali» e il problema scolastico1). Perché la matematica (lo studio della matematica) non può dare gli stessi risultati, se la matematica è cosi vicina alla logica formale da confondersi con essa? Alla stregua del fatto pedagogico se c'è somiglianza, c'è anche una enorme differenza. La matematica si basa essenzialmente sulla serie numerica, cioè su una infinita serie di uguaglianze (1 = 1) che possono essere combinate in modi infiniti. La logica formale tende a far lo stesso, ma solo fino a un certo punto: la sua astrattezza si mantiene solo all'inizio dell'apprendimento, nella formulazione immediata nuda e cruda dei suoi principi, ma si attua concretamente nel discorso stesso in cui la formulazione astratta viene fatta.

Gli esercizi di lingua che si fanno nel ginnasio-liceo fanno apparire dopo un certo tempo che nelle traduzioni latino-italiane, greco-italiane non c'è mai identità nei termini delle lingue poste a confronto, o almeno che tale identità che pare esiste agli inizi dello studio (rosa italiano = rosa latino) va sempre più complicandosi col progredire del «tirocinio», va cioè allontanandosi dallo schema matematico per giungere a un giudizio storico e di gusto, in cui le sfumature, l'espressività «unica e individualizzata» hanno la prevalenza. E non solo ciò avviene nel confronto tra due lingue, ma avviene nello studio della storia di una stessa «lingua», che fa apparire come varii semanticamente lo stesso suono-parola attraverso il tempo e come varii la sua funzione nel periodo (cambiamenti morfologici, sintattici, semantici oltre che fonetici).

Nota. Un'esperienza fatta per dimostrare quanto sia labile l'apprendimento fatto per via «oratoria»: dodici persone di un certo grado elevato di cultura ripetono una all'altra un fatto complesso e poi ognuna scrive ciò che ricorda del fatto sentito: le dodici versioni differiscono dalla narrazione originale (scritta per controllo) spesso in modo sbalorditivo. Questa esperienza, ripetuta, può servire a mostrare come occorra diffidare della memoria non educata con metodi appropriati.

Logica formale e mentalità scientifica.

Per comprendere quanto sia superficiale e fondata su deboli basi la mentalità scientifica moderna (ma forse occorrerà fare distinzione tra paese e paese) basta ricordare la recente polemica sul cosiddetto homo oeconomicus, concetto fondamentale della scienza economica, altrettanto plausibile e necessario quanto tutte le astrazioni su cui si basano le scienze naturali (e anche, sebbene in forma diversa, le scienze storiche o umanistiche). Se fosse ingiustificato, per la sua astrattezza, il concetto distintivo di homo oeconomicus, altrettanto ingiustificato sarebbe il simbolo H20 per l'acqua, dato che nella realtà non esiste nessuna acqua H20 ma un'infinita quantità di «acque» individuali. L'obbiezione nominalista volgare riprenderebbe tutto il suo vigore, ecc.

La mentalità scientifica è debole come fenomeno di cultura popolare, ma è debole anche nel ceto degli scienziati, i quali hanno una mentalità scientifica di gruppo tecnico, cioè comprendono l'astrazione nella loro particolare scienza, ma non come «forma mentale», e ancora: comprendono la loro particolare «astrazione», il loro particolare metodo astrattivo, ma non quello delle altre scienze (mentre è da sostenere che esistono vari tipi di astrazione e che è scientifica quella mentalità che riesce a comprendere tutti i tipi di astrazione e a giustificarli). Il conflitto più grave di «mentalità» è però tra quella delle cosi dette scienze esatte o matematiche, che del resto non sono tutte le scienze naturali, e quelle «umanistiche» o «storiche», cioè quelle che si riferiscono all'attività storica dell'uomo, al suo intervento attivo nel processo vitale dell'universo. (È da analizzare il giudizio di Hegel sull'economia politica e appunto sulla capacità dimostrata dagli economisti di «astrarre» in questo campo).

Filosofìa della prassi ed «economismo storico».

Confusione tra i due concetti. Tuttavia è da porre il problema: quale importanza ha da attribuirsi all'«economismo» nello sviluppo dei metodi di ricerca storiografica, ammesso che l'economismo non può essere confuso con la filosofia della prassi? Che un gruppo di finanzieri, che hanno interessi in un paese determinato possano guidare la politica di questo paese, attirarvi la guerra o allontanarla da esso, è indubitabile: ma l'accertamento di questo fatto non è «filosofia della prassi», è «economismo storico», cioè è l'affermazione che «immediatamente», come «occasione», i fatti sono stati influenzati da determinati interessi di gruppo ecc. Che «l'odore del petrolio» possa attirar dei guai seri su un paese è anche certo, ecc. ecc. Ma queste affermazioni, controllate, dimostrate, ecc., non sono ancora filosofia della prassi, anzi possono essere accettate e fatte da chi respinge in toto la filosofia della prassi. Si può dire che il fattore economico (inteso nel senso immediato e giudaico dell'economismo storico) non è che uno dei tanti modi con cui si presenta il più profondo processo storico (fattore di razza, religione, ecc.), ma è questo più profondo processo che la filosofia della prassi vuole spiegare ed appunto perciò è una filosofia, una «antropologia», e non un semplice cànone di ricerca storica.

Bergson, il materialismo positivistico, il pragmatismo.

Bergson legato al positivismo: si «ribella» contro il suo «ingenuo» dogmatismo. Il positivismo aveva avuto il merito di ridare alla cultura europea il senso della realtà, esauritosi nelle antiche ideologie razionalistiche, ma poi aveva avuto il torto di chiudere la realtà nella sfera della natura morta e quindi anche di chiudere la ricerca filosofica in una specie di nuova teologia materialistica. La documentazione di questo «torto» è l'opera del Bergson. La critica del Bergson... si è addentrata, sconsacrando idoli dell'assoluto e risolvendoli in forme di contingenza fugace, per tutti i meandri del dogmatismo positivista, ha sottoposto a un terribile esame l'intima struttura delle specie organiche e della personalità umana, e ha infranto tutti gli schemi di quella meccanica staticità in cui il pensiero chiude il perenne fluire della vita e della coscienza.

Affermando il principio dell'eterno fluire e l'origine pratica di ogni sistema concettuale, anche le verità supreme (!) correvano rischio di dissolversi; e qui, in questa fatale tendenza è il limite (!) del bergsonismo. (Estratti da un articolo di Balbino Giuliano riassunto dalla «Fiera Letteraria» del 25 novembre 1928).

Le innovazioni nel diritto processuale e la filosofia della prassi.

L'espressione contenuta nella prefazione alla Critica dell'economia politica (1859): «cosi come non si giudica ciò che un individuo è da ciò che egli sembra a se stesso», può essere riallacciata al rivolgimento avvenuto nel diritto processuale e alle discussioni teoriche in proposito, e che nel 1859 erano relativamente recenti. La vecchia procedura infatti esigeva la confessione dell'imputato (specialmente per i delitti capitali) per emettere la sentenza di condanna: Yhabemus confitentem reum pareva il fastigio di ogni procedimento giudiziario, donde le sollecitazioni, le pressioni morali e i vari gradi di tortura (non come pena, ma come mezzo istruttorio). Nella procedura rinnovata, l'interrogatorio dell'imputato diventa solo un elemento talvolta trascurabile, in ogni caso utile solo per dirigere le ulteriori indagini dell'istruttoria e del processo, tanto che l'imputato non giura e gli viene riconosciuto il diritto di non rispondere, di essere reticente e anche di mentire, mentre il peso massimo è dato alle prove materiali oggettive e alle testimonianze disinteressate (tanto che i funzionari dello Stato non dovrebbero essere considerati testimoni ma solo referendari del pubblico ministero).

È da ricercare se sia già stato fatto un tale riavvicinamento tra il metodo istruttorio per ricostruire la responsabilità penale dei singoli individui e il metodo critico, proprio della filosofia della prassi, di ricostruire la «personalità» oggettiva degli accadimenti storici e del loro svolgimento, e [se sia già stato] esaminato il movimento per la rinnovazione del diritto processuale come un elemento «suggestivo» per la rinnovazione dello studio della storia: il Sorel avrebbe potuto fare l'osservazione, che rientra nel suo stile.

È da osservare come il rinnovamento del diritto processuale, che ebbe una importanza non lieve anche nella sfera politica, determinando un rafforzamento della tendenza alla divisione dei poteri e all'indipendenza della magistratura (quindi alla riorganizzazione generale della struttura dell'apparato governativo) si sia attenuato in molti paesi, riportando in molti casi ai vecchi metodi istruttori e perfino alla tortura: i sistemi della polizia americana, con il terzo grado degli interrogatori, sono abbastanza noti. Cosi ha perduto molto dei suoi caratteri la figura dell'avvocato fiscale, che dovrebbe rappresentare oggettivamente gli interessi della legge e della società legale, i quali sono lesi non solo quando un colpevole rimane impunito ma anche e specialmente se un innocente viene condannato. Pare invece si sia formata la convinzione che il fisco sia un avvocato del diavolo che vuole nell'inferno specialmente gli innocenti per fare le fiche a Dio, e che il fisco debba perciò sempre volere sentenze di condanna.

Il razzismo, Gobineau e le origini storiche della filosofia della prassi.

È da leggere la Vita di Gobineau scritta da Lorenzo Gigli, per vedere se il Gigli è riuscito a ricostruire esattamente la storia delle idee razziste e a inquadrarle nella cornice storica della cultura moderna. Occorre per ciò rifarsi alle tendenze storiografiche della Francia della Restaurazione e di Luigi Filippo (Thierry, Mignet, Guizot) e alla impostazione della storia francese come di una lotta secolare tra l'aristocrazia germanica (franca) e il popolo di origine gallica o gallo-romana. La polemica su tale quistione, come è noto, non rimase ristretta al campo scientifico, ma dilagò nel campo della politica immediata e militante: qualche aristocratico rivendicò il dominio dei nobili come dovuto a un «diritto di conquista» e qualche scrittore democratico sostenne che la Rivoluzione francese e la decapitazione di Luigi XVI non furono altro che un'insurrezione dell'elemento gallico originario contro l'elemento germanico sovrappostosi alla antica nazionalità.

È noto che molti e dei più popolari romanzi di Eugenio Sue (I misteri del popolo, L'ebreo errante, ecc.) drammatizzano questa lotta e che i Misteri del popolo sono intramezzati da lettere del Sue ai lettori (delle dispense) in cui tale lotta è esposta in forma storico-politica come il Sue poteva e sapeva fare. Alla polemica parteciparono giornali e riviste (per es. «La Revue des Deux Mondes» nei primi anni di pubblicazione riassunse la quistione, in forma moderata, contro il fanatismo di qualche nobile che esagerava). La stessa quistione, nella storiografia francese, si ripresentò per i rapporti tra Galli e Romani e sono note le voluminose trattazioni dello Jullian sulla storia della Gallia. E da notare che da tale discussione si originano (almeno parzialmente) due tendenze: 1) quella della filosofia della prassi, che dallo studio dei due strati della popolazione francese come strati di origine nazionale diversa passò allo studio della funzione economico-sociale degli strati medesimi; 2) quella del razzismo e della superiorità della razza germanica, che, da elemento polemico dell'aristocrazia francese per giustificare una restaurazione più radicale, un ritorno integrale alle condizioni del regime prerivoluzionario, divenne, attraverso Gobineau e Chamberlain, un elemento della cultura tedesca (d'importazione francese) con sviluppi nuovi e impensati.

In Italia la quistione non poteva attecchire perché la feudalità d'origine germanica fu distrutta dalle rivoluzioni comunali (eccetto che nel Mezzogiorno e in Sicilia), dando luogo a una nuova aristocrazia d'origine mercantile e autoctona.

Che una tale quistione non sia astratta e libresca, ma abbia potuto diventare un'ideologia politica militante ed efficiente è stato dimostrato dagli avvenimenti tedeschi.

Giorgio Sorel.

Nella «Critica Fascista» del 15 settembre 1933 Gustavo Glaesser riassume il recente libro di Michael Freund {Georges Sorel-Der revolutionàre Konservatismus, Kloster-mann Verlag, Francoforte sul Meno 1932) che mostra quale scempio possa fare un ideologo tedesco di un uomo come Sorel. È da notare che, se pure Sorel possa, per la varietà e incoerenza dei suoi punti di vista, essere impiegato a giustificare i più disparati atteggiamenti pratici, tuttavia è innegabile nel Sorel un punto fondamentale e costante, il suo radicale «liberalismo» (o teoria della spontaneità) che impedisce ogni conseguenza conservatrice delle sue opinioni. Bizzarrie, incongruenze, contraddizioni si trovano nel Sorel sempre e ovunque, ma egli non può essere distaccato da una tendenza costante di radicalismo popolare: il sindacalismo di Sorel non è un indistinto «associazionismo» di «tutti» gli elementi sociali di uno Stato, ma solo di uno di essi, e la sua «violenza» non è la violenza di «chiunque» ma di un solo «elemento» che il pacifismo democratico tendeva a corrompere, ecc. Il punto oscuro nel Sorel è il suo antigiacobinismo e il suo economismo puro; e questo, che è, nel terreno storico francese, da connettersi col ricordo del Terrore e poi della repressione di Galliffet, oltre che con l'avversione ai Bonaparte, è il solo elemento della sua dottrina che può essere distorto e dar luogo a interpretazioni conservatrici.

[Chi è il legislatore?]

Il problema: « Chi è il legislatore ? » in un paese, accennato in altre note1, può ripresentarsi per la definizione «reale», non «scolastica» di altre quistioni. Per esempio: «Cosa è la polizia?» (a questa domanda si è accennato in altre note, trattando della reale funzione dei partiti politici)2. Si sente spesso dire, come se si trattasse di una critica demolitrice della polizia, che il 90% dei reati oggi perseguiti (un gran numero non è perseguito perché o non se ne ha notizia o è impossibile ogni accertamento, ecc.) rimarrebbero impuniti se la polizia non avesse a sua disposizione i confidenti ecc. Ma in realtà, questa specie di critica è inetta. Cosa è la polizia? Certo essa non è solo quella tale organizzazione ufficiale, giuridicamente riconosciuta e abilitata alla funzione pubblica della pubblica sicurezza che di solito si intende. Questo organismo è il nucleo centrale e formalmente responsabile, della «polizia», che è una ben più vasta organizzazione, alla quale direttamente o indirettamente, con legami più o meno precisi e determinati, permanenti o occasionali, ecc., partecipa una gran parte della popolazione di uno Stato. L'analisi di questi rapporti serve a comprendere cosa sia lo «Stato» ben più di molte dissertazioni filosofico-giuridiche.

Individualismo e individualità (coscienza della responsabilità individuale) o personalità.

È da vedere quanto ci sia di giusto nella tendenza contro l'individualismo e quanto di erroneo e pericoloso. Atteggiamento contraddittorio necessariamente. Due aspetti, negativo e positivo, dell'individualismo. Quistio-ne quindi da porre storicamente e non astrattamente, schematicamente. Riforma e Controriforma. La quistione si pone diversamente nei paesi che hanno avuto la Riforma o che sono stati paralizzati dalla Controriforma. L'uomo-collettivo o conformismo imposto e l'uomo-collettivo o conformismo proposto (ma si può chiamare più conformismo, allora?). Coscienza critica non può nascere senza una rottura del conformismo cattolico o autoritario e, quindi, senza un fiorire della individualità: il rapporto tra l'uomo e la realtà deve essere diretto o attraverso una casta sacerdotale (come il rapporto tra uomo e Dio nel cattolicismo? che è poi una metafora del rapporto tra l'uomo e la realtà)? Lotta contro l'individualismo è contro un determinato individualismo, con un determinato contenuto sociale, e precisamente contro l'individualismo economico in un periodo in cui esso è diventato anacronistico e antistorico (non dimenticare però che esso è stato necessario storicamente e fu una fase dello svolgimento progressivo). Che si lotti per distruggere un conformismo autoritario, divenuto retrivo e ingombrante, e attraverso una fase di sviluppo di individualità e personalità critica, si giunga all'uomo-collettivo è una concezione dialettica difficile da comprendere per le mentalità schematiche e astratte. Come è difficile da comprendere che si sostenga che attraverso la distruzione di una macchina statale si giunga a crearne un'altra più forte e complessa, ecc.

Il machiavellismo di Stenterello.

Stenterello è molto più furbo di Machiavelli. Quando Stenterello aderisce a una iniziativa politica, vuol far sapere a tutti di essere molto furbo e che a lui nessuno gliela fa, neanche se stesso. Egli aderisce all'iniziativa, perché è furbo, ma è ancor più furbo perché sa di esserlo e vuol farlo sapere a tutti. Perciò egli spiegherà a tutti che cosa significa «esattamente» l'iniziativa alla quale ha aderito: si tratta, manco a dirlo, di una macchina ben montata, ben conge-gnata, e la sua maggiore astuzia consiste nel fatto che è stata preparata nella persuasione che tutti siano degli imbecilli e si lasceranno intrappolare. Appunto: Stenterello vuol far sapere che non è che lui si lasci intrappolare, lui così furbo; l'accetta perché intrappolerà gli altri, non lui. E siccome fra gli altri qualche furbo c'è, Stenterello a questo ammicca e spiega, e analizza: «Sono dei vostri, veh! noi ci intendiamo. Badate di non credere che io creda... Si tratta di una "machiavellica", siamo intesi?». E Stenterello cosi passa per essere il più furbo dei furbi, il più intelligente degli intelligenti, l'erede diretto e senza cautela di inventario, della tradizione di Machiavelli.

Altro aspetto della quistione: quando si fa la proposta di un'iniziativa politica, Stenterello non si cura di vedere l'importanza della proposta, per accettarla e lavorare a divulgarla, difenderla, sostenerla. Stenterello crede che la sua missione è quella di essere la vestale del sacro fuoco. Riconosce che l'iniziativa non è contro le sacre tavole e cosi crede di aver esaurito la sua parte. Egli sa che siamo circondati di traditori, di deviatori, e sta col fucile spianato per difendere l'altare e il focolare. Applaude e spara, e cosi ha fatto la storia bevendoci sopra un mezzo litro.

(Intorno a questa rubrica, in forma di bozzetti su Stenterello politico, si possono raggruppare altri motivi, come quello della svalutazione dell'avversario fatta per politica, ma che diventa una convinzione e quindi porta alla superficialità e alla sconfitta, ecc.)1.

Stenterello pensa specialmente all'avvenire. Il presente lo preoccupa meno dell'avvenire. Ha un nemico contro cui dovrebbe combattere. Ma perché combattere, se tanto il nemico dovrà necessariamente sparire, travolto dalla fatalità della storia. C'è ben altro da fare che combattere il nemico immediato. Più pericolosi sono i nemici mediati, quelli che insidiano l'eredità di Stenterello, quelli che combattono lo stesso nemico di Stenterello, pretendendo che saranno loro gli eredi. Che pretese son queste? Come si osa dubitare che Stenterello sarà l'erede? Dunque Stenterello non combatte il nemico immediato, ma coloro che pretendono di combattere questo stesso nemico per succedergli. Stenterello è cosi furbo che solo lui comprende che questi sono i veri e soli nemici. La sa lunga, Stenterello!

Cesare e il cesarismo.

La teoria del cesarismo, che oggi predomina (cfr. il discorso di Emilio Bodrero, L'umanità di Giulio Cesare, nella «Nuova Antologia» del 16 settembre 1933) è stata immessa nel linguaggio politico da Napoleone III, il quale non fu certo un grande storico o filosofo o teorico della politica. È certo che nella storia romana la figura di Cesare non è caratterizzata solo o principalmente dal «cesarismo» in questo senso stretto. Lo sviluppo storico di cui Cesare fu l'espressione assume nella «penisola italica», ossia a Roma, la forma del «cesarismo» ma ha come quadro l'intero territorio imperiale e in realtà consiste nella «snazionalizzazione» dell'Italia e nella sua subordinazione agli interessi dell'impero. Né, come dice il Bodrero, Cesare trasformò Roma da stato-città in capitale dell'impero, tesi assurda e antistorica: la capitale dell'impero era dove risiedeva l'imperatore, un punto mobile; la cristallizzazione di una capitale portò alla scissione, all'emergere di Costantinopoli, di Milano, ecc. Roma divenne una città cosmopolita, e l'Italia intera divenne centro di una cosmopoli. E da fare un paragone tra Catilina e Cesare: Catilina era più «italiano» di Cesare e la sua rivoluzione forse avrebbe, con un'altra classe al potere, conservato all'Italia la funzione egemonica del periodo repubblicano. Con Cesare la rivoluzione non è più soluzione di una lotta tra classi italiche, ma di tutto l'impero, o almeno di classi con funzioni principalmente imperiali (militari, burocrati, banchieri, appaltatori ecc.). Inoltre Cesare, con la conquista della Gallia aveva squilibrato il quadro dell'impero: l'Occidente cominciò con Cesare a lottare con l'Oriente. Ciò si vede nelle lotte tra Antonio e Ottaviano e continuerà fino alla scissione della Chiesa, su cui ebbe influenza il tentativo di Carlo Magno di restaurare l'impero, cosi come la fondazione del potere temporale del papato romano. Dal punto di vista della cultura è interessante l'attuale mito di «Cesare» che non ha nessuna base nella storia, cosi come nessuna base aveva nel Settecento l'esaltazione della repubblica romana come di una istituzione democratica e popolare, ecc.

Il movimento e il fine.

È possibile mantenere vivo ed efficiente un movimento senza la prospettiva di fini immediati e mediati? L'affermazione del Bernstein secondo cui il movimento è tutto e il fine è nulla, sotto l'apparenza di una interpretazione «ortodossa» della dialettica, nasconde una concezione meccanicistica della vita e del movimento storico: le forze umane sono considerate come passive e non consapevoli, come un elemento non dissimile dalle cose materiali, e il concetto di evoluzione volgare, nel senso naturalistico, viene sostituito al concetto di svolgimento e di sviluppo. Ciò è tanto più interessante da notare in quanto il Bernstein ha preso le sue armi nell'arsenale del revisionismo idealistico (dimenticando le Glosse a Feuerbach), che avrebbe dovuto portarlo invece a valutare l'intervento degli uomini (attivi, e quindi perseguenti certi fini immediati e mediati) come decisivo nello svolgimento storico (s'intende, nelle condizioni date).

Ma, se si analizza più a fondo, si vede che nel Bernstein e nei suoi seguaci l'intervento umano non è escluso del tutto, almeno implicitamente (ciò che sarebbe troppo scemo), ma è ammesso solo in modo unilaterale, perché è ammesso come «tesi», ma è escluso come «antitesi»; esso, ritenuto efficiente come tesi, ossia nel momento della resistenza e della conservazione, è rigettato come antitesi ossia come iniziativa e spinta progressiva antagonista. Possono esistere «fini» per la resistenza e la conservazione (le stesse «resistenza e conservazione» sono fini che domandano una organizzazione speciale civile e militare, il controllo attivo dell'avversario, l'intervento tempestivo per impedire che l'avversario si rafforzi troppo, ecc.), non per il progresso e l'iniziativa innovatrice. Non si tratta di altro che di una sofistica teorizzazione della passività, di un modo «astuto» (nel senso delle «astuzie della provvidenza» vichiane), con cui la «tesi» interviene per debilitare P«antitesi», poiché proprio l'antitesi, (che presuppone il risveglio di forze latenti e addormentate da spronare arditamente) ha bisogno di prospettarsi dei fini, immediati e mediati, per rafforzare il suo movimento superatore. Senza la prospettiva di fini concreti, non può esistere movimento del tutto.

Il male minore o il meno peggio (da appaiare con l'altra formula scriteriata del «tanto peggio tanto meglio»).

Si potrebbe trattare in forma di apologo (ricordare il detto popolare che «peggio non è mai morto»). Il concetto di «male minore» o di «meno peggio» è dei più relativi. Un male è sempre minore di uno susseguente maggiore e un pericolo è sempre minore di un altro susseguente possibile maggiore. Ogni male diventa minore in confronto di un altro che si prospetta maggiore e cosi all'infinito. La formula del male minore, del meno peggio non è altro dunque, che la forma che assume il processo di adattamento a un movimento storicamente regressivo, movimento di cui una forza audacemente efficiente guida lo svolgimento, mentre le forze antagonistiche (o meglio, i capi di esse) sono decise a capitolare progressivamente, a piccole tappe e non di un solo colpo (ciò che avrebbe ben altro significato, per l'effetto psicologico condensato, e potrebbe far nascere una forza concorrente attiva a quella che passivamente si adatta alla «fatalità», o rafforzarla se già esiste). Poiché è giusto il principio metodico che i paesi più avanzati (nel movimento progressivo o regressivo) sono l'immagine anticipata degli altri paesi dove lo stesso svolgimento è agli inizi, la comparazione è corretta in questo campo, per ciò che può servire (servirà però sempre dal punto di vista educativo).

Discussioni prolisse, spaccare il pelo in quattro, ecc.

È atteggiamento da intellettuale quello di prendere a noia le discussioni troppo lunghe, che si sbriciolano analiticamente nei più minuti particolari e non vogliono finire se non quando tra i disputanti si è giunti a un accordo perfetto su tutto il piano di attrito o per lo meno le opinioni in contrasto si sono affrontate totalmente. L'intellettuale professionale crede sufficiente un accordo sommario sui principi generali, sulle linee direttrici fondamentali, perché presuppone che il lavorio individuale di riflessione porterà necessariamente all'accordo sulle «minuzie»; perciò nelle discussioni tra intellettuali si procede spesso per rapidi accenni: si tasta, per cosi dire, la formazione culturale reciproca, il «linguaggio» reciproco, e fatta la constatazione che ci si trova su un terreno comune, con un comune linguaggio, con modi comuni di ragionare, si procede oltre speditamente. Ma la quistione essenziale consiste appunto in ciò, che le discussioni non avvengono fra intellettuali professionali, ma anzi occorre creare preventivamente un terreno comune culturale, un comune linguaggio, comuni modi di ragionare tra persone che non sono intellettuali professionali, che non hanno ancora acquisito l'abito e la disciplina mentale necessari per connettere rapidamente concetti apparentemente disparati, come viceversa per analizzare rapidamente, scomporre, intuire, scoprire differenze essenziali tra concetti apparentemente simili.

È stato già accennato, in altro paragrafo1, all'intima debolezza della formazione parlata della cultura e agli inconvenienti della conversazione o dialogo rispetto allo scritto: tuttavia, quelle osservazioni, giuste in sé, devono essere integrate con queste su esposte, cioè con la coscienza della necessità, per diffondere organicamente una nuova forma culturale, della parola parlata, della discussione minuziosa e «pedantesca». Giusto contemperamento della parola parlata e di quella scritta. Tutto ciò si osservi nei rapporti tra intellettuali professionali e non intellettuali formati, che poi è il caso di ogni grado di scuola, dall'elementare all'universitaria.

Il non tecnico del lavoro intellettuale, nel suo lavoro «personale» sui libri, intoppa in difficoltà che lo arrestano e spesso gli impediscono di andare oltre, perché egli è incapace di risolverle subito, ciò che invece è possibile nelle discussioni a voce immediatamente. Si osserva, a parte la malafede, come si dilunghino le discussioni per iscritto per questa ragione normale: che una incomprensione domanda dilucidazioni e nel corso della polemica si moltiplicano le difficoltà di capirsi e di doversi spiegare.

Angherie.

Il termine è ancora impiegato in Sicilia per indicare certe prestazioni obbligatorie alle quali è tenuto il lavoratore agricolo nei suoi rapporti contrattuali col proprietario o ga-bellotto o subaffittuario da cui ha ottenuto una terra a cosi detta mezzadria (e che non è altro che un contratto di partecipazione o di semplice affitto con pagamento in natura, fissato nella metà, o anche più, del raccolto, oltre le prestazioni speciali o «angherie»). Il termine è ancora quello dei tempi feudali, da cui è derivato nel linguaggio comune, il significato deteriore di «vessazione», che però non sembra abbia ancora in Sicilia, dove è ritenuto normale costume.

Per ciò che riguarda la Toscana, culla della mezzadria (confrontare gli studi recenti in proposito fatti per impulso dell'Accademia dei Georgofili), è da citare il brano di un articolo di F. Guicciardini (nella «Nuova Antologia» del 16 aprile 1907, Le recenti agitazioni agrarie in Toscana e i doveri della proprietà): «Fra i patti accessori del patto colonico, non accenno ai patti che chiamerò angarici, in quanto costituiscono oneri del colono, che non hanno per corrispettivo alcun vantaggio speciale: tali sarebbero i bucati gratuiti, la tiratura dell'acqua, la segatura di legna e fascinotti per le stufe del padrone, il contributo in grasce a favore del guardiano, la somministrazione di paglia e fieno per la scuderia di fattoria, e in generale tutte le somministrazioni gratuite in favore del padrone. Io non potrei affermare se questi patti siano ultimi resti del regime feudale sopravvissuti alla distruzione dei castelli e alla liberazione dei coloni, oppure se siano incrostazioni formatesi per abuso dei padroni e ignavia dei coloni, in tempi più vicini a noi sul tronco genuino del contratto». Secondo il Guicciardini, queste prestazioni sono sparite pressoché ovunque (nel 1907), il che è dubbio anche per la Toscana. Ma, oltre a queste angherie, occorre ricordarne altre come il diritto del padrone di chiudere i coloni in casa a una certa ora della sera, l'obbligo di domandare il permesso per fidanzarsi e fare all'amore, ecc., che pare siano stati ristabiliti in molte regioni (Toscana, Umbria), dopo che erano stati aboliti in seguito ai moti agrari del primo decennio del secolo, moti diretti dai sindacalisti.

L'enfiteusi.

Il proprietario si chiama direttario, il possessore utilista. Praticamente l'enfiteusi è un affitto che abbia il carattere speciale di essere perpetuo, con la cessione di ogni diritto inerente alla vera proprietà ma col diritto di fare riacquistare il dominio del fondo, nel caso di mancato pagamento del cànone (o censo o livello — prestazioni perpetue). (Teoricamente la figura del proprietario si sdoppia). Il contratto di enfiteusi è più frequente nel meridionale e nel ferrarese: nelle altre regioni è scarsamente applicato. È legato, mi pare, al bracciantato elementare, o meglio al contadino senza terra, che prende in enfiteusi dei piccoli appezzamenti per impiegarvi le giornate in cui non ha lavoro o perché di morta stagione o in rapporto alla monocultura: l'enfiteuta, cosi, introduce grandi migliorie e dissoda terreni impervi o enormemente sassosi; poiché è disoccupato, non calcola il lavoro presente nella speranza di un utile futuro, data la scarsità dei cànoni per le terre quasi sterili. Il lavoro del contadino spesso è tale che il capitale-lavoro impiegato pagherebbe due o tre volte l'appezzamento. Tuttavia, se, per qualsiasi ragione, Putilista non paga il cànone, perde tutto.

Dato il carattere di prestazione perpetua, il contratto dovrebbe essere scrupolosamente osservato e lo Stato non dovrebbe intervenire mai. Invece nel 1925 fu accordato ai proprietari l'aumento di un quinto delle corrisposte dei cànoni. Nel giugno del 1929 i senatori Garofalo, Libertini, Marcello, Amero d'Aste ebbero la faccia tosta di presentare un progetto di legge in cui si aumentavano ancora i cànoni nonostante la rivalutazione della lira: il progetto non fu preso in considerazione, ma rimane come segno dei tempi, come prova dell'offensiva generale dei proprietari contro i contadini.

I contadini italiani.

Problemi contadini: malaria, brigantaggio, terre incolte, pellagra, analfabetismo, emigrazione. (Nel Risorgimento questi problemi furono trattati? come? da chi?). Nel periodo del Risorgimento alcuni di questi malanni raggiungono il grado massimo di gravità: il Risorgimento coincide con un periodo di grande depressione economica in larghe regioni italiane, che viene aumentata dal sommovimento politico. La pellagra apparve in Italia nel corso del Settecento, e andò sempre più aggravandosi nel secolo successivo: ricerche sulla pellagra di medici ed economisti. (Quali le cause della pellagra e della cattiva nutrizione dei contadini che ne è l'origine?). Confrontare il libro di Luigi Messedaglia: // mais e la vita rurale italiana (Piacenza, Ed. Federazione dei Consorzi agrari, 1927). Questo libro del Messedaglia [è] necessario per lo studio della quistione agraria italiana, come il libro del Jacini e quelli di Celso Ulpiani.

I) Sul predicatore cattolico.

La Controriforma elaborò un tipo di predicatore che si trova descritto nel De predicatore Verbi Dei, Parigi, 1585. Alcuni canoni: 1°) sia la predicazione intonata all'uditorio: diversa quindi per un pubblico di campagnoli ed uno di cittadini, per nobili e plebei, ecc.; 2°) il predicatore non deve indulgere alla eloquenza esteriore, non alla soverchia raffinatezza della forma; 3°) non si addentri in quistioni troppo sottili e non faccia sfoggio di dottrina; 4°) non riferisca gli argomenti degli eretici dinanzi alla moltitudine inesperta, ecc. Il tipo del predicatore elaborato dalla Controriforma lo si può trovare modernamente nel giornalista cattolico, poiché in realtà i giornalisti sono una varietà culturale del predicatore e dell'oratore. Il punto 4° è specialmente interessante e serve a capire perché il più delle volte le polemiche coi giornali cattolici siano sterili di risultati: essi non solo non riportano gli «argomenti degli eretici», ma anche nel combatterli indirettamente, li storcono e li sfigurano, perché non vogliono che i lettori inesperti riescano a ricostruirli dalla polemica stessa. Spesso addirittura 1'«eresia» è lasciata senza obbiezio ne, perché si ritiene minor male lasciarla circolare in un dato ambiente piuttosto che, combattendola, farla conoscere agli ambienti non ancora infetti.

II) Apostati e loro sistemi sleali di polemica.

I cattolici si lamentano spesso, e con ragione, che gli apostati dal cattolicismo si servono degli argomenti degli eretici tacendone le confutazioni, ma presentandoli, agli inesperti, come novità originali non confutate. Nei seminari questi argomenti sono appunto esposti, analizzati, confutati nei corsi di apologetica: il prete spretato, con insigne slealtà intellettuale, ripresenta al pubblico quegli argomenti come suoi originali, come inconfutati e inconfutabili, ecc.

[Qualità militari.]

Una frase del generale Gazzera nel discorso al Parlamento come ministro della Guerra (22 aprile 1932: confronta giornali del 23): «L'ardimento nasce dalla passione, la sagacia dall'intelletto, l'equilibrio dal sapere». Si potrebbe commentare, cercando, ciò che è specialmente interessante, di vedere come ardimento, sagacia ed equilibrio da doti personali diventano, attraverso l'organizzazione dell'esercito, qualità collettive di un insieme organico e articolato di ufficiali, sottufficiali, caporali e soldati, poiché nell'azione tutte e quattro le gradazioni hanno vita propria intensa e insieme formano una collettività organica.

Le discussioni sulla guerra futura.

Guerra totale, importanza dell'aviazione, delle piccole armate professionali, in confronto ai grandi eserciti di leva, ecc. Questi argomenti sono importanti in sé e per sé e meritevoli di studio e di considerazione. La letteratura in proposito deve essere ormai imponente in tutti i paesi (vedo citato un volume: Rocco Morretta, Come sarà la guerra di domani?, Milano, Casa Ed. G. Agnelli, 1932, pp. 368, L. 18). Ma c'è un aspetto della quistione che pare anch'esso degno di considerazione: tutte queste dispute sulla guerra futura ipotetica sono il terreno di una «guerra» reale attuale: le vecchie strutture militari (stati maggiori, ecc.) sono modificate per l'intervento, nell'equilibrio tra le vecchie armi, dell'aviazione e dei suoi ufficiali. Si sa che le vecchie strutture militari rappresentavano una determinata politica conservativa-reazio-naria di vecchio stile, difficile da vincere e da eliminare. Per parecchi governi attuali, l'aviazione, le discussioni sull'importanza dell'aviazione, sul modo come devono essere stabiliti i piani strategici di una guerra futura ecc., sono l'occasione per eliminare molecolarmente le vecchie personalità militari, legate a un vecchio costume politico e che potrebbero organizzare dei colpi di Stato, ecc. Perciò l'importanza dell'aviazione è duplice: tecnico-militare e politico-immediata.

Vedere l'articolo del generale Orlando Freri (L'agguerrimento delle nuove generazioni, nella «Gerarchia» dell'agosto 1933), che è interessante tanto più in quanto è stato pubblicato quasi simultaneamente alle dimissioni del generale Gazzera dal ministero della Guerra e alla crociera Balbo in stormo da Roma a Chicago. L'articolo del Freri pone la quistione del «piccolo esercito» di pace, come esercito di «graduati e specialisti» da crearsi in relazione allo svolgimento della milizia volontaria e per ragioni di bilancio (cioè, in rapporto alle necessità moderne di un attrezzamento meccanico vasto e costoso che non può essere soddisfatto con un esercito di pace numeroso, ecc.).

Lo «Stellone d'Italia».

Come è nato questo modo di dire sullo «stellone» che è entrato a far parte dell'ideologia patriottica e nazionale italiana? Il 27 novembre 1871, il giorno in cui Vittorio Emanuele II inaugurò a Roma il Parlamento, fu visto di pieno giorno il pianeta Venere, che di solito (poiché Venere è un pianeta interno all'orbita della Terra) non si può vedere che al mattino prima del nascere del Sole o alla sera dopo il tramonto. Se poi certe condizioni atmosferiche favoriscono la visibilità del pianeta, non è raro il caso che esso possa vedersi anche dopo che il sole è spuntato e anche prima che sia tramontato, ciò che appunto avvenne il 27 novembre 1871. Il fatto è ricordato nel modo più preciso da Giuseppe Manfroni, allora commissario di Borgo, che, nelle sue Memorie, scrive: «Il più grande avvenimento del mese di novembre è stata la inaugurazione della nuova sessione del Parlamento, avvenuta il 27 con un discorso pronunziato dal re... non è mancato il miracolo; in pieno giorno si vedeva brillare sul Quirinale una stella lucentissima: Venere, dicono gli astronomi; ma il popolo diceva che la stella d'Italia illuminava il trionfo delle idee unitarie». La visibilità di Venere in pieno giorno pare sia fenomeno raro, non rarissimo, già osservato dagli antichi e nel Medioevo. Nel dicembre 1797 quando Napoleone tornò trionfalmente a Parigi dopo la guerra italiana si vide il pianeta di giorno e il popolo diceva che era la stella di Napoleone.

[Il popolo romano e la cultura liberale.]

Spesso, in queste note, è stato fatto riferimento alla Scoperta dell'America del Pascarella, come documento di una determinata corrente di cultura folcloristico-popolare. Si potrebbe addirittura studiare non solo la Scoperta, ma anche gli altri componimenti del Pascarella da questo punto di vista, cioè di come il popolino romano aveva assimilato ed esprimeva la cultura liberale-democratica sviluppatasi in Italia durante il Risorgimento. È inutile ricordare come a Roma questa assimilazione ed espressione abbia dei caratteri peculiari, non solo per la vivacità del popolo romano, ma specialmente perché la cultura liberale-democratica aveva specialmente un contenuto anticlericale e a Roma, per la vicinanza del Vaticano e per tutta la tradizione passata, questa cultura non poteva non avere un'espressione tipica. (Sarà da vedere la letteratura cronistica sugli avvenimenti romani nel periodo '70-'80 che sono ricchi di episodi popolareschi; vedere per esempio gli Annali di Pietro Vigo; la polemica Cavallotti-Chauvet; anche il Libro di Don Chisciotte dello Scarfoglio, e altra letteratura, specialmente giornalistica, del tempo).

Testimonianze.

Di Luigi Volpicelli, Per la nuova storiografia italiana («La Fiera Letteraria», 29 gennaio 1928): «Il primo quarto di secolo non è stato infecondo d'opere e di ricerche per gli studi storici; in complesso anzi, molti passi in avanti sono stati fatti sulla storiografia del secolo scorso. Rinnovata totalmente dal materialismo storico, l'indagine contemporanea è riuscita a battere nuove e più congrue vie e a rendersi sempre più esigente e complessa». Ma il Volpicelli non ha coscienza esatta di ciò che scrive; infatti, dopo aver parlato di questa funzione del materialismo storico nel primo quarto di secolo, critica la storiografia dell'Ottocento (in modo molto vago e superficiale) e continua: «Mi sono soffermato a lungo su tale argomento (la storiografia dell'Ottocento) per dare un'idea precisa (!) al lettore del passo gigantesco compiuto dalla storiografia contemporanea. Le conseguenze, infatti, sono state enormi (— conseguenze di che?); il rinnovamento, addirittura totale.

Sono stati distrutti gli esteriori limiti fissati dalle varie metodologie che esaurivano l'indagine storica in una formale ricerca filologica o diplomatica; sono state di lungo tratto oltrepassate le tendenze economico-giuridiche del principio di secolo, le lusinghe del materialismo storico, le astrazioni e gli apriorismi di certi ideologi, più romanzieri che storici». Cosi, il materialismo storico, che inizialmente è il rinnovatore della storiografia, diventa ad un tratto, sotto forma di «lusinga», una vittima del rinnovamento, da becchino della storiografia ottocentesca, diventa parte dell'Ottocento seppellita col suo tutto. Il Volpicelli dovrebbe studiare un po' di logica formale.

La burocrazia.

Mi pare che, dal punto di vista economico-sociale, il problema della burocrazia e dei funzionari occorra considerarlo in un quadro molto più vasto: nel quadro della «passività» sociale, passività relativa, e intesa dal punto di vista dell'attività produttiva di beni materiali. Cioè dal punto di vista di quei particolari beni o valori che gli economisti liberali chiamano «servizi». In una determinata società, qual è la distribuzione della popolazione per rispetto alle «merci» e per rispetto ai «servizi»? (E s'intende «merci» in senso ristretto di «merci» materiali, di beni fisicamente consumabili come «spazio e volume»). È certo che quanto più è estesa la parte «servizi», tanto più una società è male organizzata. Uno dei fini della «razionalizzazione» è certo quello di restringere al mero necessario la sfera dei servizi. Il parassitismo si sviluppa specialmente in questa sfera. Il commercio e la distribuzione in generale appartengono a questa sfera. La disoccupazione «produttiva» determina «inflazione» di servizi (moltiplicazione del piccolo commercio).

Personalità del mondo economico-nazionale. Sono meno conosciute e apprezzate di quanto talvolta meriterebbero. Una loro classificazione: 1) scienziati, scrittori, giornalisti, la cui attività è prevalentemente teorica: che influiscono nella pratica, ma come «educatori» e teorici; 2) pratici, ma che danno molta attività come «pubblicisti» o «relatori» o «conferenzieri» (esempio Alberto Pirelli, Teodoro Mayer, Gino Olivetti); 3) pratici, di valore indiscusso e solido (esempio Agnelli, Crespi, Silvestri, ecc.), noti al pubblico; 4) pratici che si tengono nell'ombra, quantunque la loro attività sia molto grande (esempio, Marsaglia); 5) pratici demi-monde (un esempio tipico era quel ragioniere Panzarasa della società a catena Italgas); 6) esperti statali, specialisti della burocrazia statale per le dogane, le aziende autonome, il commercio internazionale, ecc.; 7) banchieri speculatori, ecc. Si dovrebbero esaminare queste personalità «pratiche» per ogni attività industriale, tecnica, finanziaria, ecc. E anche «politico-parlamentare» (compilatori e relatori per i bilanci e per le leggi economiche finanziarie al Senato e alla Camera) e «tecnici» (tipo ing. Omodeo). La raccolta delle pubblicazioni periodiche del «Rotary» italiano, le pubblicazioni ufficiali delle confederazioni industriali e padronali potrebbero dare un certo materiale: cosi le pubblicazioni del Credito Italiano sulle società anonime.

[Le rivendicazioni dell'italiano meschino.]

Francesco Savorgnan di Brazzà ha raccolto in volume (Da Leonardo a Marconi, Hoepli, Milano, 1933, pp. VIII-368, L. 15) una serie di suoi articoli che rivendicano a «individualità» italiane una serie di invenzioni e scoperte (termometro, barometro, dinamo, galvanoplastica, igrometro, telefono, paracadute, ecc.), che pare siano state spesso «usurpate» da stranieri. In altra nota1 fu fatto notare come una tale «rivendicazione» sia da «italiano meschino», che in realtà riduce l'Italia alla funzione della Cina, dove come è noto, è stato inventato «tutto». La nota riguardava anche Cristoforo Colombo e la scoperta dell'America ed era connessa a una serie di osservazioni sul fatto che nel Quattrocento gli italiani perdettero lo spirito di intrapresa (come collettività), mentre singoli italiani «intraprendenti» se vollero affermarsi, dovettero porsi al servizio di Stati stranieri o di capitalisti stranieri.

Le statue viventi di Cuneo.

Uno degli aneddoti cuneesi più graziosi: per la visita di Vittorio Emanuele II, l'amministrazione della città raccolse dai dintorni i giovani fisicamente più prestanti, che, ingessati a dovere, furono collocati, prima della sfilata reale, su piedistalli in pose da statue antiche. Nello stesso tempo tutti i gozzuti furono rinchiusi nelle cantine. Al passaggio del re, le «statue» si disposero in ordine, dando l'impressione di un grande spettacolo di bellezza e di arte, ma dalle cantine le voci squarciate dei gozzuti fecero sentire una nota stonata: «Siamo noi i Cuneesi, Cuneo siamo noi» ecc. I villaggi di Potemkin non sono dunque solo una privativa della vecchia Russia feudale e burocratica e interi periodi storici possono essere chiamati dei villaggi di Potemkin.

Naturale, contro natura, artificiale, ecc.

Cosa significa dire che una certa azione, un certo modo di vivere, un certo atteggiamento o costume sono «naturali» o che essi invece sono «contro natura»? Ognuno, nel suo intimo, crede di sapere esattamente cosa ciò significhi, ma se si domanda una risposta esplicita e motivata, si vede che la cosa non è poi cosi facile come poteva sembrare. Occorre intanto fissare che non si può parlare di «natura» come di alcunché di fisso, immutabile e oggettivo. Ci si accorge che quasi sempre «naturale» significa «giusto e normale» secondo la nostra attuale coscienza storica; ma i più non hanno coscienza di questa attualità determinata storicamente e ritengono il loro modo di pensare eterno e immutabile.

Si osserva presso alcuni gruppi fanatici della «naturalità» questa opinione: azioni che alla nostra coscienza appaiono «contro natura» sono per essi «naturali» perché compiute dagli animali, e non sono gli animali «gli esseri più naturali del mondo»? Questa opinione si sente espressa in certi ambienti frequentemente a proposito soprattutto di questioni connesse ai rapporti sessuali. Per esempio: perché l'incesto sarebbe «contro natura», se esso è diffuso nella «natura»? Intanto anche tali affermazioni sugli animali non sempre sono esatte, perché le osservazioni sono fatte su animali addomesticati dall'uomo per il suo utile e costretti a una forma di vita che per gli anima li stessi non è «naturale», ma è conforme ai fini dell'uomo. Ma se fosse anche vero che certi atti si verificano tra gli animali, che significato avrebbe ciò per l'uomo? Perché dovrebbe deri varne una norma di condotta? La «natura» dell'uomo è l'insieme dei rapporti sociali che determina una coscienza storica mente definita; questa coscienza solo può indicare ciò che è «naturale» o «contro natura». Inoltre: l'insieme dei rapporti sociali è contraddittorio in ogni momento ed è in continuo svolgimento, sicché la «natura» dell'uomo non è qualcosa di omogeneo per tutti gli uomini in tutti i tempi.

Si sente dire spesso che una certa abitudine è diventata una «seconda natura»; ma la «prima natura» sarà stata proprio la «prima»? In questo modo di esprimersi del senso comune non è implicito l'accenno alla storicità della «natura umana»?

Constatato che, essendo contraddittorio l'insieme dei rapporti sociali non può non essere contraddittoria la coscienza degli uomini, si pone il problema del come si manifesti tale contraddizione e del come possa essere progressivamente ottenuta l'unificazione: si manifesta nell'intero corpo sociale, con l'esistenza di coscienze storiche di gruppo (con la esistenza di stratificazioni corrispondenti a diverse fasi dello sviluppo storico della civiltà e con antitesi nei gruppi che corrispondono a uno stesso livello storico) e si manifesta negli individui singoli come riflesso di una tale disgregazione «verticale e orizzontale». Nei gruppi subalterni, per l'assenza di autonomia nell'iniziativa storica, la disgregazione è più grave e più forte la lotta per liberarsi dai principi imposti e non proposti nel conseguimento di una coscienza storica autonoma: i punti di riferimento in tale lotta sono disparati e uno di essi, quello appunto che consiste nella «naturalità», nel porre come esemplare la «natura», ottiene molta fortuna perché pare ovvio e semplice. Come invece dovrebbe formarsi questa coscienza storica proposta autonomamente? Come ognuno dovrebbe scegliere e combinare gli elementi per la costituzione di una tale coscienza autonoma? Ogni elemento «imposto» sarà da ripudiarsi a priori? Sarà da ripudiare come imposto, ma non in se stesso, cioè occorrerà dargli una nuova forma che sia propria del gruppo dato.

Che l'istruzione sia obbligatoria non significa infatti che sia da ripudiare e neppure che non possa essere giustificata, con nuovi argomenti, una nuova forma di obbligatorietà: occorre fare «libertà» di ciò che è «necessario», ma perciò occorre riconoscere una necessità «obbiettiva», cioè che sia obbiettiva precipuamente per il gruppo in parola. Bisogna perciò riferirsi ai rapporti tecnici di produzione, a un determinato tipo di civiltà economica che per essere sviluppato domanda un determinato modo di vivere, determinate regole di condotta, un certo costume. Occorre persuadersi che non solo è «oggettivo» e necessario un certo attrezzo, ma anche un certo modo di comportarsi, una certa educazione, un certo modo di convivenza, ecc.; in questa oggettività e necessità storica (che peraltro non è ovvia, ma ha bisogno di chi la riconosca criticamente e se ne faccia sostenitore in modo completo e quasi «capillare») si può basare l'«universalità» del principio morale, anzi, non è mai esistita altra universalità che questa oggettiva necessità della tecnica civile, anche se interpretata con ideologie trascendenti o trascendentali e presentata volta per volta nel modo più efficace storicamente perché si raggiungesse lo scopo voluto.

Una concezione come quella su esposta pare condurre a una forma di relativismo e, quindi, di scetticismo morale. Si osserva che altrettanto si può dire di tutte le concezioni fin qui elaborate dalla filosofia, la cui imperatività categorica e oggettiva è stata sempre passibile di essere ridotta, dalla «cattiva volontà», a forme di relativismo e di scetticismo. Perché la concezione religiosa potesse almeno apparire assoluta e oggettivamente universale, sarebbe necessario che essa si presentasse monolitica, per lo meno intellettualmente uniforme in tutti i credenti, ciò che è molto lontano dalla realtà (differenza di scuola, sètte, tendenze e differenze di classe: semplici e colti, ecc.): da ciò la funzione del Papa come maestro infallibile.

Lo stesso si può dire dell'imperativo categorico di Kant: «Opera come vorresti operassero tutti gli uomini nelle stesse circostanze». È evidente che ognuno può pensare, bona fide, che tutti dovrebbero operare come lui, anche quando compie azioni che invece sono repugnanti a coscienze più sviluppate o di civiltà diversa. Un marito geloso che ammazza la moglie infedele pensa che tutti i mariti dovrebbero ammazzare le mogli infedeli, ecc. Si può osservare che non esiste delinquente il quale non giustifichi intimamente il reato commesso, per scellerato che possa essere; e pertanto non sono senza una certa convinzione di buona fede le proteste di innocenza di tanti condannati; in realtà ognuno di questi conosce esattamente le circostanze oggettive e soggettive in cui ha commesso il reato e da questa conoscenza, che spesso non può trasmettere razionalmente agli altri, trae la convinzione di essere «giustificato»; solo se muta il suo modo di concepire la vita, giunge a un giudizio diverso, cosa che spesso avviene e spiega molti suicidi. La formula kantiana, analizzata realisticamente, non supera qualsiasi ambiente dato, con tutte le sue superstizioni morali e i suoi costumi barbarici; è statica, è una vuota forma che può essere riempita da qualsiasi contenuto storico attuale e anacronistico (con le sue contraddizioni, naturalmente, per cui ciò che è verità di là dai Pirenei, è bugia di qua dai Pirenei). La formula kantiana, sembra superiore perché gli intellettuali la riempiono del loro particolare modo di vivere e di operare e si può ammettere che talvolta certi gruppi di intellettuali siano più progrediti e civili del loro ambiente.

L'argomento del pericolo di relativismo e scetticismo non è dunque valido. Il problema da porre è un altro: questa data concezione morale ha in sé i caratteri di una certa durata? oppure è mutevole ogni giorno o dà luogo, nello stesso gruppo, alla formulazione della teoria della doppia verità? Inoltre: sulla sua base può costituirsi una élite che guidi le moltitudini, le educhi e sia capace di essere «esemplare»? Risolti questi punti affermativamente, la concezione è giustificata e valida.

Ma ci sarà un periodo di rilassatezza, anzi di libertinaggio e di dissolvimento morale. Ciò è tutt'altro che escluso, ma non è neppure esso argomento valido. Periodi di dissoluzione morale si sono spesso verificati nella storia, pur mantenendo il suo predominio la stessa concezione morale generale, e hanno avuto origine da cause reali concrete, e non dalle concezioni morali: essi molto spesso indicano che una concezione è invecchiata, si è disgregata, è diventata pura ipocrisia formalistica, ma tenta di mantenersi in auge coercitivamente, costringendo la società a una vita doppia; all'ipocrisia e alla doppiezza appunto reagiscono in forme esagerate i periodi di libertinaggio e di dissolvimento che annunziano quasi sempre che una nuova concezione si va formando.

Il pericolo di non vivacità morale è invece rappresentato dalla teoria fatalistica di quei gruppi che condividono la concezione della «naturalità» secondo la «natura» dei bruti e per cui tutto è giustificato dall'ambiente sociale. Ogni senso di responsabilità individuale si viene cosi a ottundere e ogni responsabilità singola è annegata in una astratta e irreperibile responsabilità sociale. Se questo concetto fosse vero, il mondo e la storia sarebbero sempre immobili. Se, infatti, l'individuo, per cambiare, ha bisogno che tutta la società si sia cambiata prima di lui, meccanicamente, per chissà quale forza extraumana, nessun cambiamento avverrebbe mai. La storia invece è una continua lotta di individui e di gruppi per cambiare ciò che esiste in ogni momento dato, ma perché la lotta sia efficiente questi individui e gruppi dovranno sentirsi superiori all'esistente, educatori della società, ecc. L'ambiente quindi non giustifiea ma solo «spiega» il comportamento degli individui, e specialmente di quelli storicamente più passivi. La «spiegazione» servirà talvolta a rendere indulgenti verso i singoli e darà materiale per l'educazione, ma non deve mai diventare «giustificazione» senza condurre necessariamente a una delle forme più ipocrite e rivoltanti di conservatorismo e di «retrivismo».

Al concetto di «naturale» si contrappone quello di «artificiale», di «convenzionale». Ma cosa significa «artificiale» e «convenzionale» quando è riferito ai fenomeni di massa? Significa semplicemente «storico», acquisito attraverso lo svolgimento storico, e inutilmente si cerca di dare un senso deteriore alla cosa, perché essa è penetrata anche nella coscienza comune con l'espressione di «seconda natura». Si potrà quindi parlare di artificio e di convenzionalità con riferimento a idiosincrasie personali, non a fenomeni di massa già in atto. Viaggiare in ferrovia è «artificiale», ma non certo come darsi il belletto alla faccia.

Secondo gli accenni fatti nei paragrafi precedenti, come positività si pone il problema di chi dovrà decidere che una determinata condotta morale è la più conforme a un determinato stadio di sviluppo delle forze produttive. Certo, non si può parlare di creare un «papa» speciale o un ufficio competente. Le forze dirigenti nasceranno per il fatto stesso che il modo di pensare sarà indirizzato in questo senso realistico e nasceranno dallo stesso urto dei pareri discordi, senza «convenzionalità» e «artificio», ma «naturalmente».

La crisi dell'«Occidente».

La «Fiera Letteraria» del 29 luglio 1928 riporta alcuni brani di un articolo di Filippo Burzio sulla «Stampa». Si parla oggi dell'Occidente come qualche secolo addietro si parlava della «Cristianità». È esistita una prima unità dell'Occidente, quella cristiano-cattolica medioevale; un primo scisma, o crisi, la Riforma con le guerre di religione. Dopo la Riforma, dopo due secoli o quasi, di guerre di religione, si realizzò di fatto, in Occidente, una seconda unità, di altra indole, permeando di sé profondamente tutta la vita europea e culminando nei secoli XVIII e XIX: né le resistenze che incontrò la infirmarono, più che le eresie medioevali non abbiano infirmata la prima. È questa nuova unità che è in crisi (il Burzio è in polemica implicita coi cattolici, i quali vorrebbero appropriarsi la «cura» della crisi, come se questa si verificasse nel loro terreno ed essi ne fossero gli antagonisti reali, mentre sono i rottami o i fossili di una unità storica già definitivamente superata). Essa poggia su tre piloni: lo spirito critico, lo spirito scientifico, lo spirito capitalistico (forse sarebbe meglio dire «industriale»). I due ultimi sono saldi (se «capitalismo» = «industrialismo», si), il primo, invece, non lo è più, e perciò le elites spirituali di Occidente soffrono di squilibrio e di disarmonia fra la coscienza critica e l'azione (sarebbe sempre la crisi dello «storicismo» per l'opposizione tra «sentimento», «passione» e coscienza critica).

Come sostegno al fare, come aiuto al vivere, l'imperativo filosofico è grigio e vuoto quanto il solidarismo scientifico. In questo vuoto l'anima boccheggia e ne sa qualche cosa l'ispirazione poetica, che si è andata facendo sempre più tetra o febbrile. Quasi nessun giorno interiore al nostro tempo è lieto (ma questa crisi non è piuttosto legata alla caduta del mito del progresso indefinito e all'ottimismo che ne dipendeva, cioè a una forma di religione, piuttosto che alla crisi dello storicismo e della coscienza critica? In realtà la «coscienza critica» era ristretta a una piccola cerchia, egemonica, si, ma ristretta; l'«apparato di governo» spirituale si è spezzato, e c'è crisi, ma essa è anche di diffusione, ciò che porterà a una nuova «egemonia» più sicura e stabile). Dobbiamo salvare l'Occidente integrale; tutta la conoscenza, con tutta l'azione. L'uomo ha voluto navigare, e ha navigato; ha voluto volare, ed ha volato; da tanti secoli che pensa Dio, non dovrà servire a niente? Albeggia, emerge, dalla creatura la mentalità del creatore. Se non si può scegliere tra i vari modi di vita, perché specializzarsi vorrebbe dire mutilarsi, non rimane che fare tutto. Se l'antica religione sembri esausta, non rimane che ringiovanirla. Universalità, interiorità, magicità. Se Dio si cela, resta il demiurgo. Uomo dell'Occidente hic res tua agitar. (Notare come da poli opposti, B. Croce e F. Burzio resistono alla ondata della nuova «religiosità» antistoricistica).

Oriente-Occidente.

In una conferenza, pubblicata nel volume L'energie spirituelle, (Parigi, 1920), Bergson cerca di risolvere il problema: che cosa sarebbe avvenuto se l'umanità avesse rivolto il proprio interesse e la propria indagine ai problemi della vita interiore anziché a quelli del mondo materiale. Il regno del mistero sarebbe stato la materia e non più lo spirito, egli dice.

Questa conferenza bisognerà leggerla. In realtà «umanità» significa Occidente, perché l'Oriente si è proprio fermato alla fase dell'indagine rivolta solo al mondo interiore. La quistione sarebbe questa, da porre in base allo studio della conferenza di Bergson: se non è proprio lo studio della materia — e cioè il grande sviluppo delle scienze intese come teoria e come applicazione industriale — che ha fatto nascere il punto di vista che lo spirito sia un «mistero», in quanto ha impresso al pensiero un ritmo accelerato di movimento, facendo pensare a ciò che potrà essere «l'avvenire dello spirito» (problema che non si pone quando la storia è stagnante) e facendo quindi vedere lo spirito come una entità misteriosa che si rivela un po' capricciosamente, ecc.

Eurasiatismo.

Il movimento si svolge intorno al giornale «Nakanune», che tende alla revisione dell'atteggiamento assunto dagli intellettuali emigrati: è cominciato nel 1921. La prima tesi dell'eurasiatismo è che la Russia è più asiatica che occidentale. La Russia deve mettersi alla testa dell'Asia nella lotta contro il predominio europeo. La seconda tesi è che il bolscevismo è stato un avvenimento decisivo per la storia della Russia: ha «attivato» il popolo russo e ha giovato all'autorità e all'influenza mondiale della Russia con la nuova ideologia che ha diffuso. Gli eurasiatici non sono bolscevichi, ma sono nemici della democrazia e del parlamentarismo occidentale. Essi si atteggiano spesso a fascisti russi, come amici di uno Stato forte in cui la disciplina, l'autorità, la gerarchia abbiano a dominare sulla massa. Sono partigiani di una dittatura e salutano l'ordine statale vigente nella Russia dei Soviet per quanto essi vagheggino di sostituire l'ideologia nazionale a quella proletaria. L'ortodossia è per loro l'espressione tipica del carattere popolare russo; essa è il cristianesimo dell'anima eurasiatica.

Le grandi potenze mondiali.

Una ricostruzione storico-critica dei regimi politici degli Stati che hanno una funzione decisiva nella vita mondiale. Il punto più interessante pare debba essere questo: come la costituzione scritta si adatti (sia adattata) al variare delle congiunture politiche, specialmente a quelle sfavorevoli alle classi dominanti. È quindi necessaria l'esposizione obbiettiva e analitica della costituzione e di tutte le leggi organiche, ma questa descrizione deve essere fatta sul modello di quella che si ha della Costituzione spagnola del 1812 nel volume sulla Quistione d'Oriente (ed. italiana; nell'ed. francese nell'VIII volume degli Scritti politici), ma è specialmente necessaria una analisi critica delle forze costitutive politiche dei diversi Stati, forze che devono essere viste in una sufficiente prospettiva storica. Cosi lo studio del regime presidenziale americano (USA) con la sua unità tra capo del governo e capo dello Stato è difficile da comprendere per un medio europeo moderno: eppure esso è simile al regime delle repubbliche comunali medioevali italiane (fase economico-corporativa dello Stato). In ogni costituzione sono da vedere i punti che permettono il passaggio legale dal regime costituzionale-parlamentare a quello dittatoriale: esempio l'art. 48 della Costituzione di Weimar, che tanta importanza ha avuto nella recente storia tedesca. Nella Costituzione francese (il cui sviluppo è del massimo interesse) la figura del presidente della Repubblica ha possibilità di sviluppi di cui ancora non è stato necessario servirsi, ma che non è escluso siano impiegati (ricordare i tentativi di Mac-Mahon e quello recente di Millerand). Ancora è da vedere in che rapporto con la costituzione sono altre leggi organiche (ricordare per l'Italia la funzione che in certe occasioni ha avuto la legge comunale e provinciale e quella di pubblica sicurezza).

Si può dire in generale che le costituzioni sono più che altro «testi educativi» ideologici, e che la «reale» costituzione è in altri documenti legislativi (ma specialmente nel rapporto effettivo delle forze sociali nel momento politico-militare). Uno studio serio di questi argomenti, fatto con prospettiva storica e con metodi critici, può essere uno dei mezzi più efficaci per combattere l'astrattismo meccanicistico e il fatalismo deterministico. Come bibliografia si può accennare da una parte agli studi di geopolitica, per la descrizione delle forze costitutive economico-sociali e delle loro possibilità di sviluppo e dall'altra a libri come quello del Bryce sulle democrazie moderne. Ma per ogni paese è necessaria una bibliografia specializzata sulla storia generale, sulla storia costituzionale, sulla storia dei partiti politici, ecc. (il Giappone e gli Stati Uniti mi paiono gli argomenti più fecondi di educazione e di allargamento degli orizzonti culturali). La storia dei partiti e delle correnti politiche non può andar disgiunta dalla storia dei gruppi e delle tendenze religiose.

Proprio gli USA e il Giappone offrono un terreno d'esame eccezionale per comprendere l'interdipendenza tra i gruppi religiosi e quelli politici, cioè per comprendere come ogni ostacolo legale o di violenza privata allo sviluppo spontaneo delle tendenze politiche e al loro organizzarsi in partito determina un moltiplicarsi di sette religiose. Da questo punto di vista la storia politico-religiosa degli USA può essere paragonata a quella della Russia zarista (con la differenza, importante, che nella Russia zarista se mancava la libertà politica legale, mancava anche la libertà religiosa e, quindi, il settarismo religioso assumeva forme morbose ed eccezionali). Negli USA legalmente e di fatto non manca la libertà religiosa (entro certi limiti, come ricorda il processo contro il darwinismo), e se, legalmente (entro certi limiti), non manca la libertà politica, essa manca di fatto per la pressione economica e anche per l'aperta violenza privata. Da questo punto di vista assume importanza l'esame critico della organizzazione giudiziaria e di polizia, che lasciano impunite e spalleggiano le violenze private rivolte a impedire la formazione di altri partiti oltre quello repubblicano e democratico. Anche il nascere di nuove sette religiose è quasi sempre sollecitato e finanziato da gruppi economici, per canalizzare gli effetti della compressione culturale-politica. Le enormi somme destinate in America all'attività religiosa hanno un fine ben preciso politico-culturale. Nei paesi cattolici, dato il centralismo gerarchico vaticanesco, la creazione di nuovi ordini religiosi (che sostituisce la creazione settaria dei paesi protestanti) non è più sufficiente allo scopo (lo fu prima della Riforma), e si ricorre a soluzioni di carattere locale: nuovi santi, nuovi miracoli, campagne missionarie, ecc.

Si può ricordare, per esempio, che, nel 1911-12, al tentativo nell'Italia meridionale di formare politicamente i contadini attraverso una campagna per il libero scambio (contro gli zuccherieri specialmente, dato che lo zucchero è merce popolare legata all'alimentazione dei bambini, degli ammalati, dei vecchi) si rispose con una campagna missionaria tendente a suscitare il fanatismo superstizioso popolare, talvolta anche in forma violenta (cosi almeno in Sardegna). Che fosse legata alla campagna per il libero scambio appare dal fatto che contemporaneamente, nei così detti «Misteri» (settimanale popolarissimo, tirato a milioni di copie) si invitava a pregare per i «poveri zuccherieri» attaccati «cainamente» dai «massoni», ecc.

La funzione mondiale di Londra.

Come si è costituita storicamente la funzione economica mondiale di Londra? Tentativi americani e francesi per sostituire Londra. La funzione di Londra è un aspetto dell'egemonia economica inglese, che continua anche dopo che l'industria e il commercio inglesi hanno perduto la posizione precedente. Quanto rende alla borghesia inglese la funzione di Londra? In alcuni scritti dell'Einaudi di anteguerra vi sono larghi accenni su questo argomento. Il libro di Mario Borsa su Londra. Il libro di Angelo Crespi sull'impero inglese. Il libro di Guido De Ruggiero.

L'argomento è stato in parte trattato dal presidente della Westminster Bank nel discorso tenuto nell'assemblea sociale del 1929: l'oratore ha accennato ai lamenti fatti perché gli sforzi per conservare la posizione di Londra come centro finanziario internazionale impongono sacrifizi eccessivi all'industria e al commercio, ma ha osservato che il mercato finanziario di Londra produce un reddito che contribuisce in larga misura a saldare il deficit della bilancia dei pagamenti. Da una inchiesta fatta dal Ministero del Commercio risulta che nel 1928 questo contributo fu di 65 milioni di sterline, nel '27 di 63 milioni, nel '26 di 60 milioni; questa attività deve considerarsi perciò come una fra le maggiori industrie «esportatrici» inglesi. Va tenuto conto della parte importante che spetta a Londra nell'esportazione di capitali, che frutta un reddito annuo di 285 milioni di sterline e che facilita l'esportazione di merci inglesi perché gli investimenti aumentano la capacità d'acquisto dei mercati esteri. L'esportatore inglese trova poi nel meccanismo che la finanza internazionale s'è creato a Londra, facilitazioni bancarie, cambiali, ecc. superiori a quelle esistenti in qualsiasi altro paese. È evidente, dunque, che i sacrifizi fatti per conservare a Londra la sua supremazia nel campo della finanza internazionale sono ampiamente giustificati dai vantaggi che ne derivano, ma per conservare questa supremazia si credeva essenziale che il sistema monetario inglese avesse per base il libero movimento dell'oro; si credeva che ogni misura che intralciasse questa libertà andrebbe a danno di Londra come centro internazionale per il denaro a vista. I depositi esteri fatti a Londra a questo titolo rappresentavano somme notevolissime messe a disposizione di quella piazza. Si pensava che se questi fondi avessero cessato di affluire, il tasso del denaro sarebbe forse più stabile ma sarebbe indubbiamente più alto.

Cosa è avvenuto dopo il crollo della sterlina di tutti questi punti di vista? (Sarebbe interessante vedere quali termini del linguaggio commerciale sono diventati internazionali per questa funzione di Londra, termini che ricorrono spesso non solo nella stampa tecnica, ma anche nei giornali e nella stampa periodica politica generale).

Disraeli.

Perché Disraeli comprese, meglio di ogni altro capo di governo inglese, le necessità imperiali? Si può fare un paragone tra Disraeli e Cesare. Ma Disraeli non riusci a impostare il problema della trasformazione dell'impero britannico e non ebbe continuatori: l'inglesismo ha impedito la fusione in una sola classe imperiale unificata dei gruppi nazionali che necessariamente si andavano formando in tutte le terre dell'impero. È evidente che l'impero inglese non poteva fondarsi sotto un'impalcatura burocratico-militare, come avvenne per quello romano: fecondità del programma di un «Parlamento imperiale» pensato da Disraeli. Ma questo Parlamento imperiale avrebbe dovuto legiferare anche per l'Inghilterra, cosa assurda per un inglese: solo un semita spregiudicato come Disraeli poteva essere l'espressione dell'imperialismo organico inglese. Fenomeni storici analoghi moderni.

Kipling.

Potrebbe, l'opera di Kipling, servire per criticare una certa società, che pretenda di essere qualcosa senza avere elaborato in sé la morale civica corrispondente, anzi avendo un modo di essere contraddittorio coi fini che verbalmente si pone. D'altronde la morale di Kipling è imperialista solo in quanto è legata strettamente a una ben determinata realtà storica: ma si possono estrarre da essa immagini di potente immediatezza per ogni gruppo sociale che lotti per la potenza politica. La «capacità di bruciar dentro di sé il proprio fumo stando a bocca chiusa», ha un valore non solo per gli imperialisti inglesi, ecc.

«Augur».

Collaboratore della «Nuova Antologia» per quistioni di politica mondiale, specialmente sulla funzione dell'l'impero inglese e sui rapporti tra Inghilterra e Russia. Augur deve essere un fuoruscito russo. La sua collaborazione alla «Nuova Antologia» deve essere indiretta: articoli pubblicati in riviste inglesi e tradotti nella «Nuova Antologia». La sua attività di giornalista ha per scopo di predicare l'isolamento morale della Russia (rottura delle relazioni diplomatiche) e creazione di un fronte unico antirusso come preparazione di una guerra. Legato all'ala destra dei conservatori inglesi nella politica russa, se ne stacca nella politica americana: egli predica stretta unione anglo-americana e insiste perché l'Inghilterra ceda all'America o almeno disarmi le isole che possiede ancora nel Mare Caraibico (Bahamas, ecc.). I suoi articoli sono pieni di grande sicumera (derivata forse dalla presunta grande autorità della fonte ispiratrice); egli cerca di trasfondere la certezza che una guerra di sterminio sia inevitabile tra l'Inghilterra e la Russia, guerra in cui la Russia non può che soccombere. I rapporti ufficiali tra i due paesi sono come le ondate superficiali dell'oceano, che vanno e vengono capricciosamente: ma nel profondo c'è la corrente storica potente che porta alla guerra.

Le colonie.

Studiare se e in che misura le colonie hanno servito per il popolamento, nel senso che il colonialismo sia legato all'esuberanza demografica delle nazioni colonizzatrici. Certo sono andati più inglesi negli Stati Uniti dopo il distacco che quando gli Stati Uniti [erano] colonia inglese ecc.: più inglesi negli Stati Uniti indipendenti che nelle colonie inglesi, ecc. Le colonie hanno permesso un'espansione delle forze produttive e quindi hanno assorbito l'esuberanza demografica di una serie di paesi, ma non c'è stato in ciò influsso del fattore «dominio diretto». L'emigrazione segue leggi proprie, di carattere economico, cioè si avviano correnti migratorie nei vari paesi secondo i bisogni di varie specie di mano d'opera o di elementi tecnici dei paesi stessi. Uno Stato è colonizzatore non in quanto prolifico, ma in quanto ricco di capitale da collocare fuori dei propri confini, ecc. Cosi vedere in quali paesi si sono dirette le correnti migratorie degli Stati senza colonie e quali di questi paesi «potevano» diventare loro colonie (astrattamente). L'enorme maggioranza delle emigrazioni tedesca, italiana, giapponese verso paesi non «colonizzabili».

I negri d'America.

Corrispondenza da New York di Beniamino De Ritis nel «Corriere della Sera» del 18 febbraio 1932 (Colonie a contanti?). Tendenze americane di abbinare il problema dei debiti europei con le necessità politico-strategiche degli Stati Uniti nel Mar dei Caraibi: domanda di cessione dei possedimenti europei nelle Antille e anche di colonie africane. L'economista Stephen Leacok ha pubblicato nel «Herald Tribune» un articolo, dove scrive che la cessione del Congo sarebbe sufficiente a pagare l'intero debito di guerra: «Un gran sogno diverrebbe realtà. Sei generazioni fa, gli indigeni del Congo vennero in America trasportati come schiavi. Sono passate sei generazioni di storia, di lavoro, di lacrime e ora milioni di lavoratori educati alle arti e alle scienze dell'uomo bianco, potrebbero tornare alla terra da cui partirono schiavi i loro antenati e potrebbero tornarvi liberi e civilizzati. Tutto questo non richiede altro che una nuova sistemazione delle riparazioni e dei debiti sulla base di compensi territoriali».

Le quistioni navali.

Differenza tra gli armamenti terrestri e quelli marittimi: quelli marittimi sono difficilmente nascondigli; ci possono essere fabbriche d'armi e munizioni segrete, non ci possono essere cantieri segreti né incrociatori fabbricati in segreto. La «visibilità», la possibilità di calcolare tutto il potenziale navale, fa nascere le quistioni di prestigio, cioè trova la sua massima espressione nella flotta di guerra, quindi le lotte per la parità tra due potenze. Esempio classico: Inghilterra e Stati Uniti. In ultima analisi la base della flotta, come di tutto l'apparato militare, è posta nella potenzialità produttiva e in quella finanziaria dei vari paesi, ma le quistioni vengono poste su basi «razionalistiche». L'Inghilterra mette in vista la sua posizione insulare e la necessità vitale per lei di mantenere permanentemente i collegamenti con i domini per l'approvvigionamento della sua popolazione, mentre l'America è un continente che basta a se stesso, ha due oceani uniti dal Canale di Panama, ecc. Ma perché uno Stato dovrebbe rinunziare alle sue superiorità strategiche geografiche, se queste gli danno condizioni favorevoli per l'egemonia mondiale? Perché l'Inghilterra dovrebbe avere una certa egemonia su una serie di paesi, basata su certe sue tradizionali condizioni favorevoli di superiorità, se gli Stati Uniti possono essere superiori all'Inghilterra e assorbirla con tutto l'impero, se possibile? Non c'è nessuna «razionalità» in queste cose, ma solo quistioni di forza, e la figura del sor Panerà che vuole infilzare l'avversario acquiescente è ridicola in tutti i casi.

[L'India.]

Gabriele Gabrielli, India ribelle, nella «Nuova Antologia» del 1° agosto 1929. (Questo signor G. G. è specializzato per scrivere note e articoli sulla «Nuova Antologia» e, probabilmente, in qualche giornale quotidiano, contro l'attività dell'I-spolcom1. Si serve del materiale che pubblica a Ginevra l'Entente contre la T. I.2, specialmente nel suo «Bollettino mensile» e ha delle simpatie generiche col movimento per la difesa dell'Occidente di Henri Massis: simpatie generiche perché mentre per il Massis l'egemone dell'unione latino-cattolica non può essere che la Francia, per il Gabbrielli invece deve essere l'Italia; a proposito del Massis e della difesa dell'Occidente è da ricordare che il padre Rosa nella risposta a Ugo Ojetti vi accenna in modo molto brusco; il Rosa vi vede un pericolo di deviazione o una deviazione bell'e buona dall'ortodossia romana).

4.675.000 kmq, 319 milioni di abitanti, 247 milioni di abitanti nelle quindici enormi province amministrate direttamente dal governo inglese che occupano la metà del territorio; l'altra metà è ripartita fra circa 700 Stati tributari. Cinque religioni principali, un'infinità di sette, 150 fra lingue e dialetti; caste; analfabetismo dominante; 80% della popolazione contadini; schiavitù della donna, pauperismo, carestie endemiche. Durante la guerra 985.000 indiani mobilitati.

Rapporti tra Gandhi e Tolstoi nel periodo 1908-1910 (confronta Romain Rolland, Tolstoi et Gandhi, nella rivista «Europe», 1928, nel numero unico tolstoiano). Tutto l'articolo è interessante in mancanza di altre informazioni.

Elementi di vita politica francese.

I monarchici hanno costruito la dottrina storico-politica (che cercano di rendere popolare) secondo la quale l'Impero e la Repubblica hanno significato finora l'invasione del territorio nazionale francese. Due invasioni connesse con la politica di Napoleone I (del 1814 e del 1815), una con la politica di Napoleone III (1870-71) e una con quella della Terza Repubblica (1914), danno il materiale di agitazione. I repubblicani si servono anch'essi degli stessi materiali, ma naturalmente il loro punto di vista non è quello dei monarchici, che può sembrare persino disfattista, in quanto pone le cause dell'invasione nelle istituzioni francesi e non invece, come i repubblicani sostengono, nei nemici ereditari della Francia, in prima linea la Prussia (più che la Germania; e questa distinzione ha importanza perché dipende dalla politica francese tendente a isolare la Prussia e a fare alleati della Francia la Baviera e i Tedeschi meridionali, compresi gli Austriaci). Questo modo di porre la quistio-ne dinanzi alle masse popolari da parte di tutte le varie tendenze del nazionalismo è tutt'altro che privo di efficacia. Ma è storicamente esatto? Quante volte la Germania è stata invasa dai Francesi? (Bisognerebbe contare tra le invasioni francesi anche l'occupazione della Ruhr del 1923). E quante volte l'Italia è stata invasa dai Francesi? E quante volte la Francia è stata invasa dagli Inglesi, ecc.? (Le invasioni inglesi: la lotta della nazione francese per espellere l'invasore e liberare il territorio ha formato la nazione francese prima della Rivoluzione; è scontata dal punto di vista del patriottismo e del nazionalismo, sebbene il motivo antingle-se, a causa delle guerre della Rivoluzione e di Napoleone, si sia trascinato, specialmente nella letteratura per i giovani — Verne ecc. — fin nell'epoca della Terza Repubblica e non sia completamente morto). Ma dopo il 1870 il mito nazionalistico del pericolo prussiano ha assorbito tutta o quasi l'attenzione dei propagandisti di destra e ha creato l'atmosfera di politica estera che soffoca la Francia.

Bizantinismo francese.

La tradizione culturale francese, che presenta i concetti sotto forma di azione politica, in cui speculazione e pratica si sviluppano in un solo nodo storico comprensivo, parrebbe esemplare. Ma questa cultura è rapidamente degenerata dopo gli avvenimenti della grande Rivoluzione, è diventata una nuova Bisanzio culturale. Gli elementi di tale degenerazione, d'altronde, erano già presenti e attivi anche durante lo svolgersi del grande dramma rivoluzionario, negli stessi giacobini che lo impersonarono con maggiore energia e compiutezza. La cultura francese non è «panpolitica», come noi oggi intendiamo, ma giuridica. La forma francese non è quella attiva e sintetica dell'uomo o lottatore politico, ma quella del giurista sistematico di astrazioni formali; la politica francese è specialmente elaborazione di forme giuridiche. Il Francese non ha una mentalità dialettica e concretamente rivoluzionaria, neanche quando opera come rivoluzionario: la sua intenzione è «conservatrice» sempre, perché la sua intenzione è di dare una forma perfetta e stabile alle innovazioni che attua. Nell'innovare pensa già a conservare, a imbalsamare l'innovazione in un codice.

L'ossicino di Cuvier.

II principio di Cuvier, della correlazione tra le singole parti organiche di un corpo, per cui da una particella di esso (purché integra in sé) si può ricostruire l'intero corpo (tuttavia è da rivedere bene la dottrina di Cuvier, per esporre con esattezza il suo pensiero), è certo da inserire nella tradizione del pensiero francese, nella «logica» francese ed è da connettere col principio dell'animale-macchina. Non importa vedere se nella biologia il principio possa dirsi ancora valido in tutto; ciò non pare possibile (per esempio è da ricordare l'ornitorinco, nella cui struttura non c'è «logica» ecc.); è da esaminare se il principio della correlazione sia utile, esatto e fecondo nella sociologia, oltre la metafora. Pare da rispondere nettamente di si. Ma occorre intendersi: per la storia passata, il principio della correlazione (come quello dell'analogia) non può sostituire il documento, cioè non può dare altro che storia ipotetica, verosimile ma ipotetica. Ma diverso è il caso dell'azione politica e del principio di correlazione (come quello d'analogia), applicato al prevedibile, alla costruzione di ipotesi possibili e di prospettive. Si è appunto nel campo dell'ipotesi e si tratta di vedere quale ipotesi sia più verosimile e più feconda di convinzioni e di educazione. È certo che, quando si applica il principio di correlazione agli atti di un individuo o anche di un gruppo, c'è sempre il rischio di cadere nell'arbitrio: gli individui e anche i gruppi non operano sempre «logicamente», «coerentemente», «consequenziariamente», ecc.; ma è sempre utile partire dalla premessa che cosi operino.

[Cosi] posta la premessa dell'«irrazionalità» dei motivi di azione, non serve a nulla; può solo avere una portata polemica per poter dire come gli scolastici: ex absurdo sequitur quodlibet. Invece la premessa della razionalità e quindi della «correlazione» o dell'analogia ha una portata educativa in quanto può servire ad «aprir gli occhi agli ingenui» e anche a persuadere il «preopinante», se è in buona fede e sbaglia per «ignoranza», ecc.

Gli intellettuali francesi e la loro attuale funzione cosmopolita.

La funzione cosmopolita degli intellettuali francesi dal 700 in poi è di carattere assolutamente diverso da quella esercitata dagli italiani precedentemente. Gli intellettuali francesi esprimono e rappresentano esplicitamente un compatto blocco nazionale, di cui sono gli «ambasciatori» culturali, ecc.

Per la situazione attuale dell'egemonia culturale francese confronta il libro dell'editore Bernard Grasset, La chose litté-raire, Gallimard, Paris, 1929, in cui si parla specialmente dell'organizzazione libraria della produzione culturale francese nel dopoguerra coi nuovi fenomeni tipici dell'epoca presente.

Originalità e ordine intellettuale.

Una massima di Vauvenargues: «E più facile dire cose nuove che metter d'accordo quelle che sono già state dette». Si può analizzare questa massima nei suoi elementi. E più difficile instaurare un ordine intellettuale collettivo che inventare arbitrariamente dei principi nuovi e originali. Necessità di un ordine intellettuale, accanto all'ordine morale, e all'ordine... pubblico. Per creare un ordine intellettuale, necessità di un «linguaggio comune» (contro neolali-smo intellettuale e bohemismo). Originalità «razionale»; anche il filisteo è un originale, cosi come lo scapigliato. Nella pretesa dell'originalità c'è molta vanità e individualismo, e poco spirito creatore ecc.

Tempo.

In molte lingue straniere la parola «tempo», introdotta dall'italiano attraverso il linguaggio musicale, ha assunto un significato proprio, generale ma non perciò meno determinato, che la parola italiana «tempo» per la sua genericità non può esprimere (né si potrebbe dire «tempo in senso musicale o come s'intende nel linguaggio musicale» perché darebbe luogo a equivoci). Occorre pertanto tradurre in italiano la parola italiana «tempo»: «velocità del ritmo» pare sia la traduzione più esatta, e che del resto corrisponde al significato che la parola ha nella musica, e solamente «ritmo» quando la parola «tempo» è aggettivata: «ritmo accelerato» (o tempo accelerato), «ritmo rallentato», ecc. Altre volte «velocità del ritmo» è usata in senso ellittico per «misura della velocità del ritmo».

La cultura come espressione della società.

Un'affermazione del Baldensperger, che i gruppi umani «creano le glorie secondo le necessità e non secondo i meriti», è giusta e va meditata. Essa può estendersi anche oltre il campo letterario.

Buon senso e senso comune.

I rappresentanti del «buon senso» sono l'«uomo della strada», il «francese medio» diventato l'«uomo medio», monsieur Tout-le-monde. Nella commedia borghese sono specialmente da ricercare i rappresentanti del buon senso.

Il Manzoni fa distinzione tra senso comune e buon senso (nei Promessi Sposi, cap. XXXII sulla peste e sugli untori). Parlando del fatto che c'era pur qualcuno che non credeva agli untori, ma non poteva sostenere la sua opinione contro l'opinione volgare diffusa, scrive: «Si vede che era uno sfogo segreto della verità, una confidenza domestica; il buon senso c'era; ma se ne stava nascosto, per paura del senso comune».

Filosofi-letterati e filosofi-scienziati.

Ha un qualsiasi valore il fatto che un filosofo abbia preso le mosse da una esperienza scientifica o da una esperienza «letteraria»? Cioè quale filosofia è più «realistica»: quella che muove dalle scienze «esatte» o quella che muove dalla «letteratura» cioè dall'osservazione dell'uomo in quanto intellettualmente attivo e non solo «parte meccanica della natura»?

Freud e l'uomo collettivo.

Il nucleo più sano e immediatamente accettabile del freudismo è l'esigenza dello studio dei contraccolpi morbosi che ha ogni costruzione di «uomo collettivo», di ogni «conformismo sociale», di ogni livello di civiltà, specialmente in quelle classi, che «fanaticamente» fanno del nuovo tipo umano da raggiungere una «religione», una mistica, ecc. E da vedere se il freudismo necessariamente non dovesse conchiudere il periodo liberale, che appunto è caratterizzato da una maggiore responsabilità (e senso di tale responsabilità) di gruppi selezionati nella costruzione di «religioni» non autoritarie, spontanee, libertarie, ecc. Un soldato di coscrizione non sentirà per le possibili uccisioni commesse in guerra lo stesso grado di rimorso che un volontario, ecc. (dirà: mi è stato comandato, non potevo fare diversamente, ecc.). Lo stesso si può notare per le diverse classi: le classi subalterne hanno meno «rimorsi» morali, perché ciò che fanno non le riguarda che in senso lato ecc. Perciò il freudismo è più una «scienza» da applicare alle classi superiori e si potrebbe dire, parafrasando Bourget (o un epigramma su Bourget), che l'«inconscio» incomincia solo dopo tante decine di migliaia di lire di rendita. Anche la religione è meno fortemente sentita come causa di rimorsi dalle classi popolari, che forse non sono troppo aliene dal credere che in ogni caso anche Gesù Cristo è stato crocifisso per i peccati dei ricchi. Si pone il problema se sia possibile creare un «conformismo», un uomo collettivo senza scatenare una certa misura di fanatismo, senza creare dei tabù, criticamente, insomma, come coscienza di necessità liberamente accettata perché «praticamente» riconosciuta tale, per un calcolo di mezzi e fini da adeguare, ecc.

Freud e freudismo.

La diffusione della psicologia freudiana pare che dia come risultato la nascita di una letteratura tipo Settecento; al «selvaggio», in una forma moderna, si sostituisce il tipo freudiano. La lotta contro l'ordine giuridico viene fatta attraverso l'analisi psicologica freudiana. Questo è un aspetto della quistione, a quanto pare. Non ho potuto studiare le teorie di Freud e non conosco altro tipo di letteratura cosi detta «freudiana»: Proust, Svevo, Joyce.

Si può dire che la libido del Freud è lo sviluppo «medico» della «volontà» di Schopenhauer? Qualche contatto tra Freud e Schopenhauer mi pare si possa identificare.

Il Pantheon siciliano di San Domenico.

È a Palermo, nella chiesa di San Domenico. Ci sono le tombe, fra gli altri, di Cri-spi, di Rosolino Pilo, del gen. Giacinto Carini. Non credo che esista qualcosa di simile nelle altre regioni, oltre il Pantheon di Roma e Santa Croce di Firenze. Sarebbe interessante avere la lista completa e ragionata di tutti i sepolti nel Pantheon siciliano: è interessante la scelta del nome Pantheon, proprio nell'uso moderno di una capitale nazionale. (A Parigi quando incominciò a esser adoperato il nome di Pantheon?) (Dopo la Rivoluzione: si trattava di una chiesa destinata a Santa Genoveffa, patrona di Parigi; la Rivoluzione le dette il nome di Panthéon e la destinò a ricevere le ceneri dei grandi francesi; sotto la Restaurazione fu ridotto a chiesa; sotto Luigi Filippo, a tempio della Gloria; sotto Napoleone III, a chiesa. Con la Terza Repubblica ritornò alla sua funzione di Pantheon nazionale). Il nome di Pantheon modernamente è, quindi, legato al movimento della nazionalità.

Sicilia.

Negli «Studi verghiani», diretti da Lina Perrone, è stato pubblicato (nei primi numeri) un saggio di Giuseppe Bottai su Giovanni Verga politico, le cui conclusioni generali mi sembrano esatte: cioè, nonostante qualche apparenza superficiale, il Verga non fu mai né socialista, né democratico, ma «Crispino» in senso largo (il «Crispino» lo metto io, perché nel brano del Bottai da me letto perché pubblicato nelll'«Italia Letteraria» del 13 ottobre 1929, non c'è questo accenno): in Sicilia gli intellettuali si dividono in due classi generali: crispini-unitaristi, e separatisti-democratici, separatisti tendenziali, si capisce. Durante il processo Nasi, articolo del Verga nel giornale «Sicilia» del 1° novembre 1907, «in cui si dimostrava la falsità della tesi tendente a sostenere che la rivoluzione siciliana del '48 fu d'indipendenza e non di unitarietà» (è da notare che nel 1907 era necessario combattere questa tesi). Nel 1920, un certo Enrico Messineo fondò (o voleva fondare?) un giornale «La Sicilia Nuova», «che intendeva propugnare l'autonomia siciliana»; invitò il Verga a collaborare e il Verga gli scrisse: «Sono italiano innanzi tutto, e perciò non autonomista». (Questo episodio del giornale del Messineo dev'essere accerta-to).

Max Nordau.

Grande diffusione dei libri di Max Nordau, in Italia, negli strati più colti del popolo e della piccola borghesia urbana. Le menzogne convenzionali della nostra civiltà e Degenerazione erano giunte (nel 1921-1923) rispettivamente all'ottava e alla quinta edizione, nella pubblicazione regolare dei Fratelli Bocca di Torino; ma questi libri passarono nel dopoguerra nelle mani degli editori tipo Madella e Barion e furono lanciati dai venditori ambulanti a prezzi bassissimi in quantità molto notevole. Hanno cosi contribuito a introdurre nell'ideologia popolare (senso comune) una certa serie di credenze e di «cànoni critici» o pregiudizi che appaiono come la più squisita espressione dell'intellettualità raffinata e dell'alta cultura, cosi come esse vengono concepite dal popolo, per il quale Max Nordau è un grande pensatore e scienziato.

Del ragionare per medie statistiche.

Del ragionare e specialmente del «pensare» per medie statistiche. In questo caso è utile ricordare la barzelletta secondo la quale, se Tizio fa due pasti al giorno e Caio nessuno, «statisticamente» Tizio e Caio fanno «in media» un pasto al giorno ciascuno. La deformazione di pensiero originata dalla statistica è molto più diffusa di quanto non si creda. Generalizzazione astratta, senza una continua ripresa di contatto con la realtà concreta. Ricordare come un partito austriaco, che aveva due suoi soci in un sindacato, scrisse che la sua influenza nel sindacato era cresciuta del 50% perché un terzo socio si aggiunse ai primi due.

Impressioni di prigionia, di Jacques Rivière, pubblicate nella «Nouvelle Revue Francaise» nel terzo anniversario della morte dell'autore (ne riporta alcuni estratti «La Fiera Letteraria» del 1° aprile 1928). Dopo una perquisizione nella cella: gli hanno tolto fiammiferi, carta da scrivere, un libro: Le conversazioni di Goethe con Eckermann, e delle provviste alimentari non permesse. «Penso a tutto ciò di cui mi hanno derubato: sono umiliato, pieno di vergogna, orribilmente spogliato. Conto i giorni che mi restano da "tirare" e, benché tutta la mia volontà sia tesa in questo senso, non sono più cosi sicuro di arrivare sino in fondo. Questa lenta miseria logora più che le grandi prove. Ho l'impressione che dai quattro punti cardinali si possa venirmi addosso, entrare in questa cella, entrare in me, in ogni momento, strapparmi ciò che ancora mi rimane e lasciarmi in un angolo, una volta di più, come una cosa che più non serve, depredato, violato. Non conosco nulla di più deprimente che questa attesa del male che si può ricevere, unita alla totale impotenza di sottrarsi ad esso. Con gradazioni e sfumature tutti conoscono questa stretta al cuore, questa profonda mancanza di sicurezza interiore, questo senso di essere incessantemente esposto senza difesa a tutti gli accidenti, dal piccolo fastidio di alcuni giorni di prigione alla morte inclusa. Non vi è rifugio: non scampo, non tregua soprattutto. Non rimane altro che offrire il dorso, che rimpicciolirsi quanto è possibile. Una vera timidità generale s'era impadronita di me, la mia immaginazione non mi presentava più il possibile con quella vivacità che gli conferisce in anticipo l'aspetto di realtà: in me era inaridita l'iniziativa. Credo che mi sarei trovato davanti alle più belle occasioni di fuga senza saperne approfittare; mi sarebbe mancato quel non so che, che aiuta a colmare l'intervallo fra ciò che si vede e ciò che si vuol fare, fra le circostanze e l'atto che ne rende padroni; non avrei più avuto fede nella mia buona sorte: la paura mi avrebbe fermato».

Il pianto in carcere: gli altri sentono se il pianto è «meccanico» o «angoscioso». Reazione diversa quando qualcuno grida: «Voglio morire». Collera e sdegno o semplice chiasso. Si sente che tutti sono angosciati quando il pianto è sincero. Pianto dei più giovani. L'idea della morte si presenta per la prima volta (si diventa vecchi d'un colpo).

La metafora dell'ostetrica e quella di Michelangelo.

La metafora dell'ostetrica che aiuta, coi ferri, il neonato a nascere dall'alvo materno e il principio espresso da Michelangelo nei versi: «Non ha l'ottimo artista alcun concetto — che un marmo solo in sé non circoscriva — col suo soverchio e solo a quello arriva — la mano che obbedisce all'intelletto». Togliere il soverchio di marmo che nasconde la figura concepita dall'artista a gran colpi di martello sul blocco corrisponde all'operazione dell'ostetrica che trae alla luce il neonato squarciando il seno materno.

La «nuova» Scienza G. A. Borgese e Michele Ardan.

Nel romanzo di Jules Verne, Dalla terra alla luna, Michele Ardan, nel suo discorso programmatico dice liricamente che «lo spazio non esiste, perché gli astri sono talmente vicini gli uni agli altri che si può pensare l'universo come un tutto solido, le cui reciproche distanze possono paragonarsi alle distanze esistenti fra le molecole del metallo più compatto come l'oro o il platino». Il Borgese, sulle tracce di Eddington, ha capovolto il ragionamento del Verne e sostiene che la «materia solida» non esiste, perché il vuoto nell'atomo è tale che un corpo umano, ridotto alle parti solide, diverrebbe un corpuscolo visibile solo al microscopio. È la «fantasia» di Verne applicata alla scienza degli scienziati e non più a quella dei ragazzi. (Il Verne immagina che nel momento in cui l'Ardan espone la sua tesi, Maston, una delle figu-rette con cui rende arguti i suoi libri, nel gridare con entusiasmo: «Si, le distanze non esistono!» stia per cadere e provare cosi, sulla sua pelle, se le distanze esistono o no).

Gerrymandering.

(Non so cosa significa mandering). Gerry, un americano, che avrebbe applicato per primo il trucco elettorale di raggruppare arbitrariamente le circoscrizioni per avere maggioranze fittizie. (Questo trucco si verifica specialmente nei collegi uninominali, costituiti in modo che pochi elettori bastano per eleggere i deputati di destra, mentre ne occorrono enormemente di più per eleggere un deputato di sinistra: confronta le elezioni francesi del 1928 e confronta il numero di voti e gli eletti del partito Marin e quelli del gruppo Cachin. Questo trucco si applica poi nei plebisciti per le quistioni nazionali, estendendo la circoscrizione a zone più ampie di quella dove una minoranza è omogenea ecc.). (Vedere chi era Gerry, ecc.).

L'«equazione personale».

I calcoli dei movimenti stellari sono turbati da quella che gli scienziati chiamano Inequazione personale», per cui sono necessari controlli e rettifiche. Vedere esattamente come si identifica questa causa di errore, con quali criteri e come viene apportata la rettifica. In ogni modo, la nozione di «equazione personale» può essere impiegata utilmente anche in altri campi oltre che nell'astronomia.

Un giudizio di Manzoni su Victor Hugo.

«Il Manzoni mi diceva che Victor Hugo con quel suo libro sopra Napoleone rassomigliasse a uno che si creda gran suonatore d'organi e si metta a suonare, ma gli manchi chi gli tenga il mantice». Ruggero Bonghi, I fatti miei e i miei pensieri, «Nuova Antologia», 16 aprile '27.

[Cattivi politici.]

«Credetemi, non abbiate paura né dei bricconi né dei malvagi. Abbiate paura dell'onesto uomo che si inganna; egli è in buona fede verso se stesso, crede il bene e tutti si fidano di lui; ma, sfortunatamente, s'inganna circa i mezzi di procurare il bene agli uomini». Questo spunto dell'abate Ga-liani era rivolto contro i «filosofi» del Settecento, contro i giacobini futuri, ma si attaglia a tutti i cattivi politici cosi detti in buona fede.

Frate Vedremo.

Questa espressione è usata da Giuseppe de Maistre in una Memoria del 6 luglio 1814 (scritta da Pietroburgo dove era ambasciatore) e pubblicata nelle Oeuvres complètes, Lione, 1886, tome I, Correspondance diplomatique. Egli scrive a proposito della politica piemontese: «Notre système, timide, neutre, suspensif, tâtonnant, est mortel dans cet état des choses... Il faut avoir l'oeil bien ouvert et prendre garde a l'ennemi des grands coups, lequel s'appelle Frère - Vedremo». (Un paragrafo su «Frate Vedremo» nella rubrica «Passato e Presente»).

Le pilori de la vertu.

Potrebbe diventare una bellissima rubrica di cronaca (o anche di terza pagina), se fatta con garbo, con arguzia e con leggero tocco di mano. Ricollegarla alle dottrine «criminaliste» esposte da Eugenio Sue nei Misteri di Parigi, per cui alla giustizia punitiva e a tutte le sue espressioni concrete si contrappone, per completarla, una giustizia rimu-neratrice. «Juste enface de l'échafaud se dresse un pavois où monte le grand homme de bien. C'est le pilori de la vertu» (cfr. La Sacra Famiglia).